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COMMISSIONE D'INCHIESTA SULLA MAFIA

(20 dicembre 1962 - 4 luglio 1976)

https://archiviopiolatorre.camera.it/

Senato della Repubblica - Camera dei Deputati

RELAZIONE DI MINORANZA - NICOSIA


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PARTE PRIMA

(Relazione del deputato NICOSIA)

1 — Il "dopo" Commissione d'inchiesta.

Nel periodo in cui la Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno della mafia in Sicilia conclude i suoi lavori, la cronaca registra una serie impressionante di omicidi di chiarissima impronta mafiosa, con frequenza senza precedenti, quasi tutti eseguiti nei dintorni immediati della città di Palermo, se non nei veri e propri quartieri cittadini.

Tali omicidi che vengono effettuati con una preparazione certamente meticolosa, si può dire scientifica, rivelano una specifica conoscenza di uomini e circostanze, una particolare competenza delle ramificazioni mafiose e presuppongono, comunque, una precisa volontà di comando.

Il dato impressionante di questa ormai lunghissima catena di delitti è offerto dalla freddezza dell’operazione che ci porta a definire inesorabile la decisione presa da questa misteriosa volontà di comando ed a prendere atto della presenza di una nuova oscura forza emergente, la cui potenza si dispiega con chiarissimi segni e senza possibilità di equivoci.

In questa fredda operazione di eliminazione dj elementi mafiosi, o certamente pericolosi per la società, non si vede la vendetta o la punizione inevitabile per la violazione del codice delittuoso o la ritorsione fra cosche rivali, quanto invece l'affermazione strategica e tattica di un nuovissimo tipo di organizzazione capace di penetrare nei luoghi più impensati (vedi uccisione di Angelo La Barbera a Perugia), duttile nei movimenti, rapido nelle conclusioni, incredibile nella fantasia.

Questo nuovissimo tipo di organizzazione sembra non volere ostacoli, diciamo, interni, piuttosto predisporre la sua forza, mediante una vera e propria campagna militare o di polizia, spolverando gli angoli che più interessano e perentoriamente piazzarsi per le ulteriori operazioni.

Lo sviluppo di queste operazioni dovrebbe seguire la vecchia direzione e quindi chiedere ed ottenere copertura politica.

Assisteremo a tanto?

Amaramente bisogna riconoscere che il dopo Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno della mafia in Sicilia, è cominciato subito con pesantissime battute, quasi di esultanza, che fanno presumere linee direttrici delinquenziali che, per il loro tono di aperta sfida, non possono non impensierire la coscienza civile di una società degna di questo nome.

Si può aggiungere, però, che la esperienza vissuta dalla Commissione d’inchiesta dal 1963 ad oggi, può essere veicolo valido, ove lo si voglia, per una riconsiderazione, in termini di maggiore impegno, dell’urgenza di una difesa e di una azione preventiva nei confronti della insopportabile prepotenza mafiosa.

2 — Quale conclusione.

Una relazione di conclusione dei lavori di una Commissione parlamentare d’inchiesta, come quella sul fenomeno della mafia, impone una presa di posizione non soltanto politica ma anche civile e culturale.

L'attesa della opinione pubblica per le risultanze di questa inchiesta, nel corso della quale si è polemizzato vivacemente sulla stampa, in pubblici dibattiti, nelle assemblee politiche, legislative ed amministrative, in aule giudiziarie, finanche alla Corte costituzionale (per non indicare le chiacchiere nelle mille strade siciliane, nei salotti più o meno internazionali, sulle scene di lavori teatrali o cinematografici) è stata, in verità, sollecitata più o meno incautamente; onestamente bisogna ammettere che dodici anni e mezzo di presenza della Commissione parlamentare l'hanno, di per se stessi, sensibilizzata fino ai limiti del cortile, del clamore, addirittura del parossismo del corale.

Ora, è indispensabile, a nostro modesto avviso, che alle esigenze di una valutazione politica siano accoppiate quelle della chiarezza e della obiettività delle risultanze.

Non si possono concludere i lavori della cosiddetta «Antimafia» con una pura e semplice conferma delle convinzioni, erronee o meno, che determinarono la volontà parlamentare di costituire una Commissione d’inchiesta, lasciando inalterato o quasi il quadro di partenza.

Come non si possono concludere questi stessi lavori, che pure hanno visto impegnati uomini di tutto valore, senza riferire sulla obiettività delle indagini, sempre difficili, a volte impossibili.

3  — Buio iniziale.

 Obiettività delle risultanze!

Obiettività delle indagini!

Ecco che la coscienza dei commissari di già si increspa. La verità è che ci si è incamminati con ciascuno che diceva la sua e si conclude con ciascuno che dice — o ripete — la sua. Si conclude, in linea di massima, con le stesse argomentazioni e con gli stessi riferimenti a persone e ad avvenimenti, salvo eccezione, anche importantissima, come si vedrà, con i quali si iniziarono le indagini circa 13 anni fa.

 Sin dalle prime sedute la Commissione affrontò l’argomento di fondo, per il quale il Parlamento aveva legiferato, allora spinto dalla volontà politica di dare al popolo italiano una giustificazione storica e morale del perdurare, e secondo noi del rinascere, di un cosiddetto fenomeno mafioso, soffocato e reso inoffensivo dal 1927 al 1943 dalla azione delle forze coordinate dello Stato unitario nazionale. Ci si chiese, all’inizio dei lavori, cosa fosse la mafia, quali fossero i suoi metodi, come svolgesse la sua azione, quali punti di aggancio preferisse, quali fossero i suoi uomini (ecco: i suoi personaggi), quali le loro posizioni sociali, economiche e politiche.

La molteplicità delle interpretazioni, una certa confusione nelle definizioni, il senso di mistero che la parola stessa offriva, minacciarono di esaltare i compiti della Commissione parlamentare di inchiesta, fino al rischio che fossero valicati i limiti costituzionali dell’articolo 82 e presentare l’inchiesta non diretta alla conoscenza del fenomeno della mafia in Sicilia, ma anzi diretta a processare indiscriminatamente la Sicilia e le sue popolazioni. Il rischio iniziale fu evidente dato che al settanta per. cento i commissari avevano scarsa conoscenza delle cose di Sicilia, forniti di una sostenuta prevenzione mentale nei confronti dell'Isola e dei suoi abitanti (la strage di Ciaculli era ancora calda!) e dii una evidente ignoranza, a volte commovente, del millenario dramma siciliano nella storia del Mediterraneo e di tutta l’Europa e, per semplificare, anche delle vicende del secolo di unità nazionale. I resoconti stenografici delle prime sedute della Commissione sono più che chiari a dimostrazione di ciò. Ma non era diversa la condizione al di fuori della Commissione e dei responsabili del governo nazionale.

L’onorevole Rumor, Ministro dell’interno, nella seduta del 24 luglio 1963, risponde alla seguente domanda del Presidente senatore Pafundi: «. . . ricostruisca lei quelle che, secondo il suo giudizio, possono essere le cause del fenomeno e ci informi poi. . . eccetera». Rumor: «Io penso di non dovermi trattenere, perché scarso sarebbe il mio contributo di informazioni sul fenomeno generale delta mafia e sulle sue origini storiche».

E Vicari, Capo della Polizia: «Desidero a questo proposito fare una precisazione: con d provvedimenti di polizia, con maggiori poteri circa il fermo, non si combatte da mafia: è un elemento per combatterla.

Presidente. Parliamo dei provvedimenti di emergenza.

Vicari, Capo della Polizia. Il problema è a sfondo sociale, e penso e dico ed affermo che solo provvedimenti di carattere sociale potranno risolvere il problema che si trascina da tanto tempo in Sicilia, e potranno dare i risultati, e li daranno, tra una, due, tre generazioni.

Presidente. Speriamo prima.

Vicari, Capo della Polizia. Quando ci sarà maggior benessere, quando vi saranno delle industrie in Sicilia, maggiori comunicazioni si avranno dei risultati positivi».

Al buio iniziale si sopperì con un piano di lavoro ispirato dai dibattiti parlamentari e dalla nutrita letteratura in materia, secondo un metodo d'inchiesta diciamo di tipo induttivo. La strada che si apriva era necessariamente lunga e costringeva la Commissione alla ricerca ed alla acquisizione del materiale documentale necessario, per pervenire a conclusioni nette e precise. Ispirò, nel 1963, la Commissione uno spirito limpido di preferire le risultanze obiettive, legate a circostanze ben precise e determinate, legandole a documenti ed indagini ineccepibili, a quelle interpretative di natura squisitamente politica, destinate non soltanto a riaprire il discorso sulla mafia in prospettiva, ma ad esacerbarlo ed a portarlo sui binari della confusione e della speculazione. Chi scrive suggerì e propose una ricostruzione cronologica dei fatti più importanti e qualificanti degli ultimi (allora 1963) venti anni attribuibili o comunque riferibili alla mafia, non fermandosi neanche dinanzi agli organi pubblici della Regione e dello Stato.

All’entusiasmo dei primi tempi subentrò la graduale rassegnazione, alimentata dalla constatazione della quasi impossibilità di penetrare nelle vischiose fasce del potere pubblico ed in quelle durissime delle stratificazioni sociali. Gli interessi politici contemporanei e contestuali fecero il resto. Pur tuttavia si procedette.

4— Esperienza irripetibile.

È stato convincimento di alcuni commissari di equiparare le conclusioni della Commissione a conclusioni di tipo processuale e cioè: una fase istruttoria dei Comitati o sottocomitati all'uopo delegati o di singoli relatori per argomento; una seconda fase dibattimentale in sede di plenum di Commissione con conseguenti relazioni finali da trasmettere al Parlamento, al quale spetta il giudizio definitivo per le adozioni dei conseguenti provvedimenti legislativi o di quelli da indicare al governo in sede amministrativa.

Certo è che il metodo seguito dalla Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno della mafia in Sicilia, forse senza precedenti, apre la possibilità di una importante discussione sui compiti di una Commissione parlamentare ex-articolo 82 della Carta costituzionale e sul diritto di un organo parlamentare di riferire su alcuni fatti e circostanze e di nascondere altri.

Con nostri interventi in sede di plenum della Commissione, specie in occasione della discussione sulla prima stesura della relazione del Presidente senatore Carraro, abbiamo ripetutamente sollecitato la Commissione ad essere esplicita nell'affermare, per l’importanza che potesse avere presso l’opinione pubblica, di avere fatto tutto il possibile per acquisire ogni elemento valido ai fini delle indagini e dell’inchiesta. La responsabilità storica di dire di avere tentato tutto quanto in suo potere per mettere in luce le cause ed i motivi, che stanno all'origine della mafia e la muovono, sarebbe stato di indubbio valore rapportato a quello altrettanto indubbio che offriva l'esistenza, forse irripetibile, di una Commissione parlamentare d'inchiesta fornita di ampi poteri. Ciò anche perché gli organi pubblici, che pure ci sono stati, che hanno dato scarsa (o nulla) collaborazione venissero indicati per la loro insensibilità allo sforzo che le forze politiche erano state chiamate a sostenere.

È nostro convincimento profondo che la fine dei lavori della Commissione d'inchiesta conclude tutto un periodo di vita politica italiana e le sue conseguenze non possono essere compiutamente valutate oggi; per questa ragione debbono essere denunciate quelle remore e quelle resistenze che la Commissione ha incontrato nel corso lungo della sua attività.

Avremmo, per esempio, desiderato piena luce sul caso Giuliano e Pisciotta, con la pienissima collaborazione del Ministero dell'interno; avremmo desiderato fossero aperte alla Commissione le casse segrete dei documenti legati agli avvenimenti del 1943, dell'armistizio e del trattato di pace, e non attendere quello che potrà giungere con comodo dagli USA o da Londra.

5— Il materiale raccolto.

È appena il caso di sottolineare che la Commissione è espressione del Parlamento, quindi costituita dai rappresentanti dei Gruppi parlamentari, cioè dei partiti politici e destina la relazione conclusiva al Parlamento, quindi alle forze politiche, ai partiti. Tutte le vicende politiche di questi ultimi 13 anni hanno influito in maniera irrimediabile sul corso delle indagini e dunque sulle conclusioni dell'inchiesta, anche se v'è da registrare l'intenzione di buona parte dei commissari di attenersi ai fatti ed alle circostanze della inchiesta senza creare o lasciare ombre sulle cose reali e certe per non cadere nella fantasia o nelle elucubrazioni mentali.

Le valutazioni politiche vanno sempre riferite su dati certi e circostanze reali perché esse abbiano una destinazione culturale. Ora a noi è apparso chiaro che le sole vicende, che hanno accompagnato la vita dei governi di centrosinistra, abbiano determinato dei guasti nei lavori della Commissione fino a bloccarne, se non a deviarne le indagini.

Si può citare l'esempio di altre Commissioni parlamentari d’inchiesta che hanno subito la stessa nefanda influenza e ci si può riferire anche ad inchieste giudiziarie affogate dalle pressioni illecite della forza dei partiti, ma noi riconfermiamo, anche in questa sede, che i partiti politici non possono essere i depositami della onnipotenza che si risolve, infine, in un vero e proprio atto di prevaricazione o di ingiustizia con contorni quasi identici a quelli della organizzazione mafiosa. Va anche detto che la Commissione ha avuto modo di trovarne ned suo seno la volontà di reagire, a volte adeguatamente, a manifeste pressioni di clamoroso insabbiamento della sua attività e malgrado tutto offre oggi un materiale che, anche se diretto in parte agli archivi di Stato e disponibile fra quarantanni, pur tuttavia è materiale di ricerca e di studio. Là dove non hanno saputo o non sanno leggere i politici di oggi, potranno sapere leggere quelli di domani; e se è apprezzabile, certamente, la severità, ad unanimità espressa dalla Commissione, di seppellire per sempre gli anonimi e gli infondati, perché inutili a tutti, storici e ricercatomi compresi, ci è sembrata abnorme la decisione della maggioranza di pervenire al seppellimento, per quaranta anni, dei resoconti stenografici, tranne poche eccezioni, delle sedute di plenum e di quelle innumerevoli dei Comitati e sottocomitati che contengono praticamente la storia stessa della tormentata vicenda della Commissione, con elementi di grande rilievo e spunti di imprevedibile portata. In sostanza, la vera forza della Commissione parlamentare d'inchiesta sul fenomeno della mafia in Sicilia consiste nel materiale raccolto; nella sua possibile esposizione; nella sua seria interpretazione al di là di ogni falsa, dannosa, tendenziosa indicazione.

6— I "tredici anni”.

I tempi sono stati lunghi (1963-1976).

Potevano essere più brevi? Una conclusione era pronta, allestita dal senatore Pafundi, nel febbraio del 1968. Si sapeva che non era completa. Non poteva esserlo. Si disse chiaramente in Commissione ed in Parlamento che si attendevano dall'inchiesta gli elementi di valutazione dei rapporti tra mafia e mondo politico attuale; cioè, la Commissione fu invitata a trasmettere alla nuova Legislatura il suo vero dato caratterizzante.

Fu così che prese il via il secondo tempo, ricco di contrastati impegni, quello della presidenza dell’onorevole Cattanei (ottobre 1968 marzo 1972), interrotto a sua volta dallo scioglimento anticipato delle Camere. Ma è proprio vero che sia stato del tutto negativo il tempo lungo? Senza i tempi lunghi non si sarebbe data risposta ad alcuni interrogativi sorti da sconcertanti fatti, contemporanei all’inchiesta, di cronaca nera e di vita pubblica.

Alcune indagini hanno offerto, ed ancora offrono, malgrado il parere di qualche improvvisatore di divulgazione giornalistica, materia abbondante di critica e di giudizio sulla reale portata del fenomeno mafioso; mutevolissimo, capace di modificare radicalmente metodi ed indirizzi di azione. Per tutti basterebbe citare «la fuga di Leggio» e la «ballata delle bobine d'intercettazione telefonica in Roma». Intanto i tempi lunghi sono la testimonianza almeno di due verità:

a) la natura duttile della composizione della Commissione;

b) il tormento della ricerca della certezza.

Luna e l’altra hanno contribuito vicendevolmente ad aumentare le difficoltà di per se stesse enormi.

Non poco ha contribuito il rinnovo dei componenti la Commissione nelle tre Legislature, salvo pochissime eccezioni, con il conseguente riesame dei metodi di lavoro. A chi guarda bene nella esposizione su «le vicende della Commissione, la sua struttura ed i suoi moduli operativi», compresa nella seconda parte della relazione generale del Presidente senatore Carraro, non può sfuggire la considerazione che in fondo la Commissione parlamentare d'inchiesta sul fenomeno della mafia in Sicilia si è trovata dinanzi a problemi procedurali, giuridici, costituzionali e politici senza precedenti.

Non può essere, infatti,. taciuto che questa è stata una inchiesta alla nostra viva società; non ad una parte di essa, ma all’intera società cui apparteniamo e a cui appartiene il Parlamento che deliberò l’inchiesta.

La Sicilia è parte integrante dello Stato nazionale italiano,  né può ritenersi qualcosa di distaccato, di avulso, di appartato dalla società italiana quella zona che si chiama Sicilia Occidentale. Condurre una inchiesta alla Sicilia Occidentale ha significato condurre l’inchiesta anche allo Stato.

7 — Inchiesta senza precedenti.

Dicevamo, inchiesta senza precedenti, pensiamo, in Italia e nel resto del mondo. Le inchieste pubbliche sono state sempre dirette o ad accertare il grado di funzionamento della Pubblica amministrazione a tutti i livelli, oppure all'accertamento di particolari fatti storici, o di tipo indagativo a sfondo  sociologico.

L'inchiesta sul fenomeno della mafia ha compreso tutte e tre queste distinzioni.

Noi ci chiediamo: è possibile condurre una inchiesta profonda, con serietà ed allo stesso tempo con celerità, alla società cui si appartiene chiamando in causa il comportamento amministrativo e politico di tutti, nessuno escluso, gli organi pubblici: Stato, Regioni, Enti locali? Ed è possibile concludere una inchiesta storica o  sociologica senza subire l'influenza delle dottrine politiche cui si obbedisce? Le risposte vanno da sé e da esse derivano alcuni motivi giustificativi delle difficoltà incontrate nel corso dell’attività della Commissione e quelli della mancata unanimità nelle conclusioni.

È appunto nella assunzione di un preciso dovere civico che riteniamo di prospettare le nostre considerazioni finali limitandole a pochi semplici argomenti da noi ritenuti essenziali alla comprensione dei documenti che la Commissione ha ritenuto di pubblicare, per una più specifica definizione della mafia, il tipo di delinquenza che rappresenta, come tende ad organizzarsi: perché si è formata e sviluppata in una zona particolare e poi estesa via via senza limiti. E diciamo subito che l’indagine di tipo  sociologico non può bastare per la conoscenza di una realtà complessa e carica di storia e di civiltà come quella siciliana.

Cercare a Corleone le strutture sociali per spiegarsi il caso Leggio è semplicemente azzardato: è necessaria una visione più ampia.

Qualcuno ha cercato di costruire una storia parallela della Sicilia e della mafia; a noi sembra eccessivo un simile sforzo: piuttosto può individuarsi un periodo della millenaria storia siciliana caratterizzato dalla presenza massiccia della mafia ed è quello che comincia il 10 luglio 1943 ed ancora non si è concluso.

8. — La mafia da "cosca" a sistema.

La vasta letteratura impegnata nella analisi del fenomeno mafioso non lascia spazio alcuno per avanzare una sia pure timida innovazione dei criteri di interpretazione della parola «mafia». Le ricerche etimologiche pare si siano esaurite,  né noi avanziamo il suggerimento di trovarne la radice nella lingua greca, anziché in quella araba, dato che si perverrebbe sempre alla stessa conclusione di disporre di un concetto e cioè: luogo di riunione lontano dagli abitati od antro cavernoso. Concetto questo che si adatta ad individui certamente poveri, ma forti, robusti, virili staccatisi dalla società o per rivolta contro i potenti di turno o per oscuri motivi di intrigo. Comunque sia, la eccezionale fortuna che la parola «mafia» ha avuto nel mondo, sulla scia degli studi criminologici dell'ultimo Ottocento, ci permette di ritenere che essa ormai serva ad indicare un complesso organizzativo dalle proporzioni di grande delinquenza, che ha saputo trasformarsi da semplice associazione di malfattori a «cosca», in vero e proprio sistema. La «camorra» napoletana o le vecchie «società di ladri inglesi», che non sono scomparse ma sopravanzate dal successo del termine «mafia», testimoniano della evoluzione paurosa che può avere l'industria del delitto.

Soltanto «Cosa nostra» può dare ormai il senso del limite della sezione mediterranea, italiana ed europea della «nuova mafia». Non che sia scomparsa la «cosca»; essa rimane quale struttura organizzativa di base (il gruppo operativo comunale) la quale trova inquadramento in una più ampia consociazione, che raggiunge la dignità di sistema. Il sistema di mafia è stato la caratteristica della organizzazione criminosa dal 1943 in poi, per le chiare e storiche coperture politiche riscontrate, che oggi tende certamente, in fase straordinariamente evolutiva, ad imporre un ordinamento quasi statutario e alla utilizzazione di «cosche» mobili, addirittura volanti.

È da notare che la mafia impiega da qualche anno, con precisione quasi assoluta, la «cosca» mobile proprio per contrastare la nascita e lo sviluppo di qualsiasi forma di «gangsterismo», nocivo disturbatore delle massicce operazioni mafiose.

Il sistema di mafia generalmente aspira ad ottenere il prestigio ed il guadagno illecito, con l'impiego del minimo sforzo delittuoso.

Nel quadro evolutivo descritto nulla cambia nella cosiddetta morale di mafia, anzi si consolidano i principi della disciplina terrificante fra consociati e l’obbligo di una mutua assistenza e solidarietà a qualsiasi costo e senza riserve.

In ultima considerazione, sul «mafioso» e sulle sue qualità si basa la vitalità e la capacità della struttura operativa dell’insieme delle «cosche», che si chiama «mafia». E «mafia» è la organizzazione di associazioni di individui che indirizzano la loro attività sociale a fini di potenza e di ricchezza, conseguiti con il delitto e con l’esercizio illegale del potere.

9 — Organizzazione della sopraffazione.

L'ordinamento sociale contemporaneo suggerisce alla mafia l’adattamento immediato e quindi il ricorso ai mezzi leciti ed illeciti per raggiungere lo scopo, anche limitato nel tempo. Essa delinque, in sostanza, senza limiti di tempo e di ambiente. Prevarica, fino al delitto, la consuetudine sociale ed il pubblico potere e, trasformandosi in un vero e proprio sistema di vita, diventa concezione, pensiero, delinquenza raffinata.

Il «mafioso» per essere tale deve possedere la tendenza ad infrangere il codice penale per tutti i reati da questo contemplati, nessuno escluso. Dal loro coonestarsi viene a configurarsi il quadro dei reati che per la loro complessità assurgono a valore sociale. La «mafia» è dunque più che una associazione a delinquere, un sistema a delinquere. Dal delitto contro la personalità dello Stato, a quello contro l'amministrazione della giustizia, contro il patrimonio e la persona, eccetera tutto rientra nella specifica attività della mafia. La pericolosità sociale configurata nell’articolo 230 del codice penale è rispondente ancora oggi ad una prima individuazione della delinquenza per tendenza. Ed il «mafioso» è un delinquente per tendenza. Ma il «mafioso» non è tale se non viene definito «mafioso». Ora a noi sembra che la Carta costituzionale, tutelando i rapporti civili e politici dei cittadini, garantisca una libertà civile e politica così ampia che non possa facilmente impedirsi il nascere ed il formarsi di entità mafiose («cosche») oltre che negli ambienti economici e sociali, anche, e soprattutto, in quelli politici (partitici in particolare).

Il «dominus loci» di antica memoria mafiosa può tranquillamente rivivere nella maestosa e piramidale costruzione dell'organizzazione dell'abuso di potere e quindi della sopraffazione.

10 — Ombra del potere.

Un solo punto di attacco offerto ad una organizzazione mafiosa determina l’inquinamento generale di tutto un organismo. Basta un partito politico non impermeabile all’azione mafiosa che tutto il sistema politico di uno Stato ne rimane infetto.

In fondo è la logica che guida le sette segrete e le associazioni misteriose. Di che meravigliarsi? Nessuna norma di applicazione dell’articolo 49 della Costituzione è stata varata o semplicemente pensata ed essendo pressocché aleatoria la disciplina dei partiti, questi rimangono i più esposti alla penetrazione mafiosa. C’è da aggiungere che proprio l'affermazione sempre più consistente del potere dei partiti rende questi più congeniali ai sistemi di penetrazione mafiosa: ne diventano il veicolo più comodo. Questo nostro convincimento intende esprimere una presa idi posizione morale e culturale perché le forze politiche, nessuna esclusa, in particolare quelle che sono al Governo o vicine ad esso o che tendono ad avvicinarsi ad esso prendano coscienza di una condizione, purtroppo obiettiva, in cui si trova la società italiana.

Ai partiti politici è connessa la formazione dei corpi elettorali. Basta un ripetuto scambio di favori e protezioni attraverso le basi elettorali che una qualsiasi volontà mafiosa, organizzandosi nell’organizzazione partitica, assurga a forza di potere. Organo emopoietico dell'ordinamento pubblico il partito politico, senza opportune e precise difese, rimane il veicolo più perfetto per rendere mafiosissima tutta l'organizzazione di un paese, di un popolo, di una nazione.

Il sistema di mafia, specie quando lo Stato diventa fragile ed inetto, è capace di penetrare i corpi sociali, le rappresentanze politiche, i centri di potere pubblico o privato, inesorabilmente avanzando per la logica e meccanica esigenza al tempo stesso di espansione e di difesa. Una immagine può essere fatta: la mafia rappresenta l’ordine delinquenziale che si nutre di potere e della vita stessa di una società; è una degenerazione di tipo cancerogeno; si nutre del succo sociale e, provocando la degenerazione del potere, tende alla distruzione del corpo sociale e quindi dello Stato e quindi del diritto e della giustizia.

Ombra del potere, l'ordine mafioso non sarebbe altro che l’immagine speculare, nel suo valore e assetto negativo, dell’ordine sociale e politico di una società.

11. — Mafia 1927.

La mafia piegata da Mori era una mafia che si era venuta sviluppando nei primi 60 anni di unità nazionale e che praticamente era un derivato della progressiva liquidazione dell’ordinamento feudale. L'esplosione mafiosa del primo dopoguerra (1919-1925) ebbe cause diverse, non ultima la crisi politica dello Stato di allora e quello dell'assetto economico e sociale. Mori distrusse la mafia a «cosche tradizionali», limitate nello spazio e dirette alle sopraffazioni locali e settoriali. Il suffragio universale di Giolitti spinse le cosche mafiose a rinnovare tattica e strategia, e dopo il 1920-21 esse cercarono, per naturale attrazione, di avvicinarsi alla cosa pubblica con più incisività. Il periodo fascista interruppe questo processo e, relegando le cosche o in carcere o al confino di polizia, dopo memorabili processi, obiettivamente ne umiliò la tracotanza e le isolò dal vivo corpo sociale italiano. La persistenza nello stesso periodo dell'organizzazione mafiosa in USA, per esempio, conferma il successo italiano nella lotta alla delinquenza organizzata. È inutile in questa sede attardarsi sulle conseguenze dell operazione Mori e sui suoi riflessi nella evoluzione sociale dell'epoca; basta richiamare all'attenzione degli studiosi il fatto che se oggi si può pensare di seguire o meno quella strada, lo si può fare perché quella esperienza è stata vissuta. L'operazione Mori merita di essere considerata con maggiore attenzione e più rigore scientifico e storico, per non cadere in errori gravi o nelle improvvisate condanne.

12. — Mafia 1943.

Gli eccezionali e precipitosi avvenimenti del 1943 diedero l'avvio alla riorganizzazione dei mafiosi, secondo uno schema nuovo, in senso assoluto.

I decreti-legge del 1941-42 e 1943 che sospesero le disposizioni legislative di pubblica sicurezza del 1926, per le necessità belliche, venendosi a trovare la Sicilia in pieno fronte, permisero il rientro dei vecchi capimafia dal confino di polizia ai comuni di origine. In queste località li raggiunse, con una meticolosissima attenzione, la ricerca spionistica americana. Esistono oggi motivi abbondanti per ritenere valida a tutti gli effetti la supposizione di un preciso collegamento tra i vari capicosca americani ed i residui della vecchia mafia. Questo collegamento ebbe successo per la complicità di elementi infedeli del Ministero dell’interno dell'epoca, che solo poteva detenere l'elenco dei mafiosi confinati, e per l’attivismo particolarmente vivace dei residui delle vecchie formazioni partitiche distrutte dal regime fascista. I comitati «Sicilia e libertà» di infausta memoria ne sono la testimonianza. Nessuno storico contemporaneo, per quanto se ne sappia, ha ancora affrontato la vera storia della nascita e dei collegamenti dei comitati «Sicilia e libertà» formatisi nella clandestinità tra il 1942 e il 1943.

Intanto, si può sottolineare che prima ancora della occupazione alleata dell'Isola siciliana i vecchi capimafia furono praticamente elevati a dignità politica di primo ordine; addirittura a dignità politica di «liberatori». È questo il punto di partenza del cammino mafioso di cui la Commissione d’inchiesta è tenuta a rispondere. La dignità politica conquistata dalla mafia è un dato innegabile ed assurge a verità storica di incalcolabile portata. Se le notizie che provengono dagli archivi di oltre Atlantico e di oltre Manica relative alle vicende italiane dal 1942 al 1947-48 saranno ancora più chiare e definite, pieno giudizio potrà essere fatto sulle responsabilità morali e storiche non soltanto dei vincitori della guerra, ma anche di quelle dei politici antifascisti.

Conoscere, finalmente, l'elenco predisposto in allegato all’articolo 16 del trattato di pace del 1947 potrà dare la dimensione della inconcepibile valorizzazione della mafia nella storia contemporanea.

Di che meravigliarsi, allora?

Le garanzie politiche in favore della mafia ebbero precisi riferimenti in tutti i campi della vita siciliana. Piano regolatore di Palermo 1943; commissariati comunali nella Sicilia Occidentale; separatismo e regionalismo; bandito Giuliano; cosche delittuose varie.

Non tutto può essere oggi documentato nel materiale acquisito dalla Commissione, ma la Commissione sa della esistenza negli uffici pubblici 'statali, regionali, comunali delle prove più evidenti della logica che ha guidato l’espansione mafiosa nella vita nazionale italiana.

13. — Palermo.

Fulcro dell’inchiesta è stata la città di Palermo. Come era prevedibile, il fascino della città si è fatto sentire anche nella apprezzabile cupidigia di sapere manifestata dagli osservatori politici e trasferita di peso ai Commissari d'inchiesta.

La città non ha avuto requie ed è stata sottoposta alle pressioni inquisitorie come poche volte nella sua storia millenaria. Ma Palermo è anche la capitale della Regione siciliana. L’inchiesta ha subito il limite di una volontà politica di schiacciante maggioranza: non toccare la Regione!

Ecco un errore ed una remora. Il potere regionale viene garantito da uno spirito autonomistico assurdo, quando si parla di inchiesta. Fatti successivi al periodo di acquisizione dei documenti, oggi a disposizione dell'opinione pubblica, confermano che la Regione siciliana è una istituzione dove i modi di amministrare e di governare sono quelli diretti a demoralizzare il popolo anziché ad esaltarlo.

In una colossale osmosi politico-amministrativa senza precedenti Regione siciliana e Comune di Palermo registrano le più stupefacenti esibizioni del «capriccio di coloro che hanno il potere», del tutto estese nel giro di poco tempo all’intero territorio nazionale.

Basta soffermarsi nel groviglio di disposizioni nazionali, regionali e comunali in materia edilizia, per rendersi conto del terreno fertile per ogni attività delittuosa, (v. Allegato n. 1).

Lo studio profondo della storia di Sicilia ci porta lontano dall'isola e riscopre antiche e insospettabili solidarietà e parentele. Palermo è una città che queste solidarietà e parentele vanta e da secoli. Il suo piano regolatore generale ha compreso nell’arco di appena 20 anni oltre che interessi di piccoli e medi imprenditori locali, vecchie e antiche situazioni patrimoniali di inglesi, francesi, tedeschi, svizzeri, americani. Perno esclusivo di tutte le egemonie mediterranee e mondiali essa ha un substrato etnico eccezionale, unico fra tutte le altre città mediterranee.

Bisogna capire meglio questa città, con la sua opulenza e con la sua miseria, con i suoi entusiasmi e con le sue depressioni, ma soprattutto rivedere con l'occhio del giusto e dell'onesto l’itinerario faticoso di un popolo che prepotentemente vuole vivere ed elevarsi.

Poche e brevi queste considerazioni finali sui lavori conclusivi della Commissione d'inchiesta sul fenomeno della mafia in Sicilia; chi scrive è convinto che quello che oggi nel suo insieme viene presentato all’opinione pubblica italiana e mondiale, dopo tutto, sia più che bastevole per una ampia meditazione.

Il periodo dell’inchiesta, anche per diretta testimonianza, è stato a volte durissimo, ma l'importante è che rimanga la volontà di riscatto della società italiana. Volontà politica soprattutto. Volontà di governo.

Il discorso sulla vecchia mafia continua; su quella di nuova dimensione è appena iniziato. Con amarezza, ma con realismo bisogna prenderne atto.
























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