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PAOLO VALERA

L'assassinio Notarbartolo

LA CALUNNIA CONTINENTALE

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Luglio 2016

«Credete a me, caro signor Luraschi, se voi siete un giornalista con dei pregiudizi, venuto nella nostra Isola con dei preconcetti, la è finita; io non ho altro da aggiungere.

Ma se siete un giornalista che salta la leggenda e studia l'ambiente per proprio conto, voi ritornerete al vostro giornale un difensore del siciliano, trascinato per le colonne dei giornali come un delinquente nato.

Qualcuno, non ricordo più chi, ha paragonato la Sicilia all'Irlanda e non ha avuto torto. In Irlanda un contadino taglia i garretti al bestiame di un landlord, ed ecco tutta la Grande Bretagna in aria come se si trattasse di un avvenimento inaudito. Il dizionario non ha più sostantivi abbastanza roventi per la paisaneria di quel paese di patate. Gli occhi inglesi non vi vedono più che dei criminali.

Nello stesso giorno in cui imperversano per il Regno Unito le ventate della collera inglese contro il paddy, Jack lo squartatore lasciò in Whitechapel - il quartiere popolare di Londra - la undecima donna colla gola recisa e le cosce insanguinate e a nessuno venne in mente di chiamare la capitale una città di ammazza donne».

«La ragione di questa differenza di giudizi, c'è o signore. In Irlanda nessuno, forse neanche il Sindaco, biasima il malcreato che ha punito le bestie per il padrone, e nessuno, pur conoscendolo, osa denunciarlo per paura di trovarsi in casa i moonlighters - una società segreta di giustizieri agrarii. Mentre in Inghilterra, tutta la gente, dal lord alicorno della strada, avrà maledizioni per l'assassino. Invece di nasconderlo o di proteggerlo col silenzio, o di farsi complice difendendolo, aiuterà la polizia a snidarlo. Ecco la differenza, o signore. In un paese è sentita la ripugnanza per il delitto; in un altro non è sentita che la voluttà per il sangue delle vittime.

Non sono ancora passati otto anni dalla tragedia compiuta nel grande parco di Dublino. C'era alla testa degli Invincibili un consigliere municipale e tutti assieme hanno scannato, in pieno giorno, il viceré d'Irlanda e uno dei suoi segretari, e in tutta l'Isola Verde, esclusa sempre la zona degli orangisti, non si trovò anima viva che abbia avuto il coraggio di levarsi in piedi a gridare che gli assassini erano degli assassini»! «Non mi avete annientato, sapete», gli rispose il marchese di Cadì, con un risolino d'uomo che discute senza mai arrabbiarsi. Passeggiando per il salotto, colle mani nelle tasche dei calzoni, si mise anzi a pregarlo di accettare una tazza di tè.

«Voi siete stato a Bagheria alla ricerca della mafia e dovete essere stanco. Prendiamo un po' di thè, tanto per darci l'illusione di trovarci nell'ambiente di cui parliamo.

Voi avete dimenticato il perché tutto un popolo tace dinanzi il cadavere di un assassinato o il perché tutta una nazione lascia credere di approvare col silenzio le mani che hanno sorpreso e ucciso uomini inermi come quelli che si trovavano nel Parco di Dublino. Ve lo dico io, o signore. Perché quei disgraziati rappresentavano il governo inglese, il dispotismo in Irlanda, la coercizione di tutto un popolo. Fu un delitto politico giustificato dalla crudeltà del landlordismo, giustificato dai patimenti di migliaia di persone in lotta coi loro nemici naturali per un alito di libertà che non ottengono mai.

Voi avete dimenticato che l'Irlanda non è un paese libero e che gl'irlandesi sono alla mercé di conquistatori implacabili. Così siamo noi siciliani, sissignore, noi siamo un'isola conquistata. Noi non facciamo parte della vostra penisola che come contribuenti. Ci avete messo in casa una polizia di malfattori, dei giudici o spietati o corrotti e ci considerate una popolazione di mafiosi.

Volete una prova della siciliofobia dei continentali? Pochi mesi sono la cosiddetta banda Maurina ammazzò un confidente o uno che aveva parlato coi carabinieri. Lo si trovò putrefatto, col ventre divorato dai vermi in una grotta. Era un delitto spaventevole, s'intende. Era, se volete, della vendetta siciliana, una cosa che trovate del resto in tutti i paesi del mondo. Supponete che la banda, composta di latitanti di S. Mauro, sia di venti, di trenta malfattori. Ebbene la stampa continentale parla di noi come di tre milioni e mezzo di briganti! Convenite che neanche i vostri signori giornalisti non sono teneri di noi siciliani.

Pochi giorni dopo, il 24 dicembre 1890 — vedete che mi ricordo anche della data — a Milano, la città che voialtri signori continuate a illustrare come quella che racchiude tutto ciò che vi è in Italia di altamente intellettuale e morale, si commette di giorno, in una via popolosa, diciamo Via rr-i • • • Torino, un assassinio feroce, un assassinio direi quasi siciliano o irlandese, se vi garba. Si è squarciata la gola, tra le dieci e le dieci e mezzo antimeridiane, a certa Ida Carcano, la figliastra dell'orefice al numero 22, mentre si trovava sola in bottega. È stato un audace, un enorme delitto. Guai se fosse stato commesso in Palermo! I giornalisti avrebbero ripreso la mafia per il collo e l'avrebbero annegata nel loro inchiostro velenoso. È stato commesso in Milano, nella capitale morale d'Italia, e non si è tirata in ballo la solita fratellanza dei delinquenti. Gli assassini erano scappati e non si parlò più che della assassinata, della povera Ida che venne accompagnata al cimitero dalla pietà morbosa di 40.000 persone.

Una popolazione forte, credetelo, non avrebbe sciupato tante lagrime e tanto tempo per un fatto di cronaca. Il colpo era stato crudele, lo si doveva registrare e passare oltre. Noi, siciliani, non ci siamo tuttavia soffermati a biasimare o ad accusare. Non abbiamo chiamato i milanesi una massa di assassini. Ci siamo contentati di leggere la notizia con dei brividi, perché ciò è umano. Così si dovrebbe fare sul continente, quando al di qua dello stretto di Messina siamo colpiti da qualche sventura comune a tutti i popoli».

Luraschi prese la tazza e la vuotò di un fiato. Lui pensava che il marchese ragionava bene, come avvocato. L'avvocato non ha scelta. Egli è obbligato dalla professione a difendere Boggia o Verseni. Anzi, l'avvocato, di solito, dà la preferenza alla causa più mostruosa e la sostiene con argomentazioni che più di una volta inducono i giurati ad assolvere dei veri malviventi pericolosi. Ma il suo concetto era arcisano. Il popolo che non dimostra cogli atti e colle parole che è disgustato dal delitto, è un popolo così poco evoluto da meritare di essere chiamato un popolo barbaro.

«Voi pensate a qualche cosa, Luraschi».

«Sì, pensavo che il vostro ragionamento non mi ha convinto. Voi vi occupate del delitto materiale, io mi occupo anche della opinione pubblica. Mi spiego. Se si ammazza la Carcano e la cittadinanza rimane così indifferente da farmi quasi supporre che meritava la fine che ha fatto, io non mi sento più sicuro, io non sono più tranquillo, e il mio pensiero infuria e corre sui cittadini a scuoterli, a domandar loro se non sentono della mia repulsione, del mio disgusto. Così è in Irlanda. Dove voi, marchese, vedete il dispotismo, io vedo la legge, la legge che vuole imporsi, che deve essere suprema, che deve tutelare la vita e la proprietà di tutti. La libertà di accoppare il padrone che esige gli affitti, la libertà di buttarsi sul viceré coi coltelli degl'Invincibili, o la libertà delle donne di Misilmeri, per esempio, di andare per le vie, come nel '66, a gridare: A sei grana la carni d' u surdatu! a otto chidda d' u carrubbinieri! è una libertà che mi fa rifluire il sangue alla testa e mi trasporta in mezzo a dei forsennati, ai selvaggi, alla plebe sitibonda di sangue, alla feccia che io distruggerei a cannonate. Una società come quella del Comune di Artena della provincia di Roma, coi suoi grassatori, coi suoi malandrini, coi suoi criminali nati, mi fa paura, parola d'onore, mi fa paura».

«E a me no, dunque! Ma la paura non mi impedisce né mi deve impedire di rimanere imperturbabile come un giudice istruttore e di andare alla ricerca delle cause della perturbazione o delle anomalie colla tranquillità dello studioso che desidera di trovare la radice del male. Quando il generale Mesentzef cade pugnalato lungo un viale di Pietroburgo io non mi abbandono alla disperazione, ma raccolgo il pugnale e trovo che il nichilismo lo ha punito per essere il capo della terribile polizia segreta di tutta la Russia, per essere il sanguinario della cancelleria dell'impero che ha torturato i prigionieri politici che volevano dare ai loro concittadini una costituzione, una semplice costituzione come hanno gli altri popoli civili, una costituzione per governarsi col suffragio universale e manifestare la volontà del paese, colla parola parlata e stampata. Nella morte di qualche landlord io vedo la fame di tanti parìa della gleba irlandese, io vedo le evizioni strazianti dei coloni impotenti a pagare gli affitti, come nelle tragedie politiche di Phoenix Park, io vedo la tirannia del Castello di Dublino che tratta gli indigeni a fucilate, a tratti di corda e a filate d'anni di servitù penale. Questo io vedo, o signore. Voi inorridite che le nostre povere donne di Misilmeri abbiano sgolato grida selvagge. Ma voi non vi siete ricordato della loro miseria. Voi non vi siete ricordato del momento psicologico in cui scoppiò l'ira delle affamate e non vi siete neppure ricordato che i vostri inglesi, a pochi mesi di distanza, hanno conquistato la Birmania, e massacrato i vinti colle scariche delle mitragliatrici e portate in processione, per le vie di Mandalay, le teste dei capi che avevano voluto difendere la capitale colle armi. La vostra civiltà, o signore, è una civiltà violenta, una civiltà che permette al forte di impoverire il debole, che vive di stragi e si diguazza nel sangue delle sue vittime».

Luraschi ebbe paura. Egli aveva veduto il marchese pronunciare le ultime parole come un ispirato o un uomo che farnetica dietro un ideale senza ritorno. L'idea piccola dei piccoli italiani che vorrebbero sbocconcellare il regno per crearsi una felicità politica insulare. In lui sono sviluppate tutte le rancide sentimentalità irlandesi che conducono alla ribellione politica e all'indifferenza per tutto ciò che è benessere intellettuale ed economico. No, no, egli rimaneva fermo sulla base granitica della società senza delitti collettivi e senza associazioni segrete. Solo lo Stato ha diritto di punire per la sua conservazione e per il bene di tutti. Si alzò calzandosi un guanto giallo come la scorza di un arancio e con un inchino disse addio al marchese, il quale si era riseduto ed era rimasto cogli occhi imbambolati su una tela appesa alla parete che riproduceva suo padre colla bonaca di velluto, il berretto rotondo col risvolto di peli, la carabina in spalla, la cartucciera al ventre, a zonzo per il latifondo circondato da un nugolo di campieri.

E il suo sogno di un'Italia insulare ripopolava il suo cervello. Egli, guardando il genitore che rappresentava il capo della baronia, vedeva una Sicilia libera, autonoma, padrona di sviluppare le sue risorse. Una Sicilia bella, operosa, colma di ricchezze, con un avvenire sempre più lieto per i siciliani. Pieno di tenerezza per tutti, aveva finito per odiare codesti signori continentali che volevano obbligare i siciliani a foggiarsi sul loro modello e che non sapevano pensare all'Isola del Sole senza pensare a un'isola di briganti e di mafiosi.

«Imbecilli»!





























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