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Una analisi delle spinte economiche che portarono alla unificazione del paese. Una prima disamina di quanto abbiano influito queste ricostruzioni storiche nelle scelte economiche del potere politico non ci risulta sia stata fatta se non da Vittorio Daniele e Paolo Malanima. 

La storia economica non è una scienza neutra e risente del clima politico, quanto venne scritto sulle Provincie Napolitane non aveva alcun fondamento serio, si basava su pregiudizi antiborbonici e non su dati economici o statistici.

Per una rilettura della situazione economica al momento della unità rimandiamo ad alcuni lavori pubblicati dalla Banca d'Italia e reperibili online in formato pdf:

Zenone di Elea – 3 Gennaio 2015

IL RISORGIMENTO ITALIANO

RIVISTA STORICA

(Organo della Società nazionale per la storia del Risorgimento italiano)

MEMORIE E DOCUMENTI INEDITI

Milano TORINO Roma

FRATELLI BOCCA EDITORI

Depositario par la Sicilia: Orazio Fiorenza - Palermo

Deposito per Napoli e Provincia:

Società Editrice «Dante Alighieri » (Albrichi. Segati e C.) - Napoli

Italian Book Company - New York.

1913

(se vuoi, scarica il testo in formato ODT o PDF)

IL FATTORE ECONOMICO

NELLA

FORMAZIONE DELL’UNITÀ ITALIANA (1).

Quali forze economiche spingevano l’Italia ad una forma qualunque di unione politica, si concretasse poi come una semplice intesa permanente di diversi Stati, come una federazione, o come uno Stato unitario vero e proprio? In questo campo l’aziono del fattore economico si appalesa ben chiara ed intensa, e la tendenza pressoché generale, anche delle più diverse parti politiche, verso un regime unitario, non troverebbe, senza l’esame di influenze di simile natura, adeguata e chiara spiegazione.

Così, è soltanto la diversa intensità del fattore economico che può spiegare la misura diversa, la diversa energia di questa tendenza nelle varie regioni.

Possiamo affermare che il problema dell’unità, che pel momento consideriamo affatto distinto da quelli della libertà politica e della indipendenza nazionale, fu — economicamente considerato — sovratutto un problema di produzione:

(1) Questa breve monografia è anticipazione di uno scritto assai più completo in materia, di prossima pubblicazione. Vedansi, in argomento, gli altri nostri lavori: Il materialismo storico e il Risorgimento italiano, nei “Rendiconti dell’Istituto Lombardo di Scienze e Lettere vol. XLVI, fase. 5°, pag. 183 e segg.; Il pensiero degli economisti nel periodo del Risorgimento, e Cobden in Italia, estratti dalla  Vita Internazionale Milano, 1912.

che, cioè, per esser più esatti, dal punto di vista economico, le condizioni della produzione agricola, e più specialmente della industriale e commerciale, posero questo problema e ne resero urgente la soluzione.

Non altrimenti, il problema della libertà politica fu posto dalle condizioni economiche della popolazione, e quindi dalla distribuzione della ricchezza: lo dimostreremo in altra parte del lavoro.

Non altrimenti, infine, il problema dell’indipendenza nazionale ebbe una portata nettamente economica, nella necessità di uno sviluppo autonomo della ricchezza del paese e delle sue forze produttive: e anche questo sarà oggetto di altra speciale indagine.

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Dal 1815 al 1860 le condizioni della produzione agricola e manifatturiera in Italia, le condizioni dei commerci subiscono una lenta, ma incessante e profonda trasformazione.

Il 1815 lascia l’Italia, pressoché in tutto le sue parti, un paese agricolo, di coltura spesso estensiva, con poche industrie domestiche, pel consumo locale; il 1860 trova lo stesso paese già avviato abbastanza largamente ad una vita commerciale ampia ed intensa, fornito di tutte, o quasi, le istituzioni che possono facilitare gli scambi ed i trasporti, e preparato ad entrare, con una industria clic ha già fatto le sue prime prove, nel campo della concorrenza internazionale.

Il macchinismo — questa forma caratteristica della industria moderna — ha trovato lo suo primo importanti applicazioni nel nord della penisola: v’ò una produzione industrialo clic anela ad allargare la sua base o ad espandere il suo campo di azione, ed alla quale rimangono ostinatamente chiusi i mercati più vasti e lo migliori opportunità del consumo o dello spacciò.

Infatti, a questa vita nuova, che si veniva svolgendo dai primi o più fecondi germi gettati qua o là, i regimi assoluti, e più specialmente il frazionamento politico e le interno barriere economiche costituiscono il più gravo o diretto ostacolo.

Di qui l'irresistibile tendenza — più precisa ed acuta nelle classi maggiormente interessate e nelle regioni meglio preparate — ad unire politicamente, o almeno a collegare razionalmente questi diversi organismi economici in via di sempre crescente sviluppo.

Mentre si inizia, e prende consistenza ed estensione, la lotta politica fra i novatori e il Governo, continua inavvertita, ma incessante, la lotta economica, la trasformazione di ambiente, che trova quasi sempre una sorda ostilità da parte dei governanti.

Le modificazioni di tale natura — meno chiare dinanzi alla mente dei propagandisti, dei cronisti c degli storici, sopratutto nelle loro conseguenze ulteriori — non sono per questo meno essenziali e sostanziali.

Il periodo nel quale ha inizio il moto pel risorgimento italiano è figlio di quello che immediatamente lo precede — il periodo francese-napoleonico — il quale è, pel nostro soggetto, di particolare, caratteristica importanza.

Dal 1796 al 1815, in quella varietà mutevole di regimi, l’Italia era passata, oltreché nella vita politica, anche nella vita economica {(jrosso modo), da una condizione relativamente statica ad una condizione dinamica.

A una vita economica tranquilla, consuetudinaria, basata su rapporti fissi tra le diverse classi sociali, era succeduta una rapida e tumultaria trasformazione: una trasformazione nell’ordine produttivo e conseguentemente nell’ordine distributivo.

A questo elemento di trasformazione cominciava ad accoppiarsi l’altro, più strettamente tecnico, delle nuove invenzioni ed applicazioni meccaniche, specialmente inglesi, diffuse mano mano sul continente, specie dalla cessazione della guerra in poi.

E noto come la trasformazione dello strumento tecnico sia mezzo necessario alla trasformazione delle forme produttive e degli stessi rapporti sociali.

I germi gettati durante il periodo napoleonico e le novità industriali importate dall’estero, specialmente nel periodo successivo, furono lo due grandi cause che più energicamente condussero a far sentire la insopportabile inferiorità di un regime politico che frazionava il paese in piccoli staterelli patriarcalmente governati.

Sul finire del settecento, già da gran tempo, in Italia, la prosperità industriale e commerciale dei Comuni e del Rinascimento era andata declinando, fino a scomparire del tutto.

I nuovi processi industriali e le nuove vie commerciali non erano stati seguiti da noi; i sistemi vincolisti nelle manifatture, nei corpi d’arti e mestieri, nel regime del commerciò d’esportazione e d’importazione, precludevano ogni possibilità di nuovo sviluppo economico. Alla povertà dell’industria faceva riscontro quella dell’agricoltura, inceppata da mille vincoli giuridici e da tradizioni irrazionali.

Venne il regime francese, e il ritmo lento e sonnacchioso della vita economica, la struttura tradizionalista e patriarcale dei rapporti sociali subirono una scossa profonda. La Restaurazione giunse troppo tardi per ripararvi: l’impulso era già dato: permaneva una parte delle cause che gli avevano conferito vigore.

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Quali furono le caratteristiche principali del regime francese o i suoi effetti sullo sviluppo della produzione in Italia? E anzitutto da osservare che qualunque rapido mutamento di assetto politico — specialmente se seguito a breve distanza da mutamenti nuovi, da ritocchi all’opera iniziata, da completamenti e da modificazioni, con annessioni e distacchi di territorio, riforme costituzionali e civili, guerre, lotte incessanti d’influenza politica, di tariffe doganali, di predominio — genera un senso diffuso d’instabilità, o, come sposta i valori sociali e morali, ne crea di nuovi e ne abbatto di antichi, così sposta ed altera i valori economici.

Qualunque sia l’indirizzo, il senso del movimento, una simile conseguenza ò inevitabile anche nel campo economico.

Ad un gioco corno questo — specialmente so ripetuto (o in Italia, dal Piemonte alla Sicilia, lo fu più volto, dai 1706 al 1815) molta gente perde, molta gente guadagna: è un turbamento, un rimescolio, una trasformazione continua, un mutamento — si direbbe in termini economici — di posizioni iniziali o di posizioni terminali: si annodano o si snodano molti interessi, e durano fatica a trovare un assetto ed un equilibrio, che appena ricomposto è subito turbato.

Viene cosi a galla tutta una nuova parto della popolazione, “la gente nova e i subiti guadagni„, quella parto specialmente che la più aperta intelligenza, la miglior preparazione,

il nessun attacca monto a interessi già consolidati, l’assenza anche di scrupoli, meglio dispongono ad approfittare dello nuovo opportunità: —o il ritorno all’antico, il ripristino di condizioni di fatto e di diritto già oltrepassate e più volte mutate di poi nel corso di pochi anni, costituisce, di fronte a questo nuovo elemento, una impossibilità sociale e morale, non meno che un’impossibilità economica.

Questo, anche considerando prima facie e affatto superficialmente la questione. Ma il regime che s’instaurò in Italia dopo la Rivoluzione francese era più d’ogni altro adatto a produrre questi effetti.

Considerandolo nei suoi tratti comuni, e quindi facendo astrazione dalle diverse forme e dagli inevitabili adattamenti locali, come tendenza, la Rivoluzione e poi il regime napoleonico, che la continuò, sono, in sostanza, a casa loro, un moto egualitario e unitario: qualche volta, coi Giacobini, persino ferocemente unitario. Soppressione dello provincie, creazione di dipartimenti similari o simmetrici, abolizione delle dogane interne, uniformità delle imposte: uno stesso regime per tutta la Francia, per tutta la terra francese, per tutti i Francesi. In Italia, se ne hanno dei riflessi: e molto più energicamente che nel campo politico, nel campo civile ed economico.

Il Carducci, che doveva trovar del resto tante buone ragioni per ammirare e celebrare la rivoluzione francese — ma che, quando ci si metteva, per amor di polemica, ne assestava di potenti, e si ricordava che in guerra “i colpi non si dànno a patti„ — parla del giacobinismo unitario in questi termini: uIl razionalismo giacobino, mova o da Montesquieu o da Rousseau, mira in teorica a rifoggiare la società, senza tener verun conto, anzi con un gran disprezzo, delle cose e dei fatti, della geografia, della etnologia, dell’antropologia, della storia, sur un suo modello rigido e stecchito; tende poi nell’azione, con smaniosa e malaticcia impazienza, e con un feroce odio dei vigori della varietà, ad appianare, a potare, a unificare, a concentrare. Così distrusse i diversi Stati e perseguitò i dialetti; abolì i Parlamenti provinciali e i cappelli a piuma; fece la costituzione e la giubba a coda di rondine; la codificazione e il cappello tondo, il sistema delle imposizioni e la cravatta bianca, la capitale e la burocrazia; diè Napoleone e monsieur (sic) Travet.„ (1).

Il Carducci combatteva la dottrina dell’unità della lingua:

(1) Opere, vol. IV, pagg. 161-162.

ma qui il suo giudizio vorrebbe essere di portata più generale e più larga: ed è caratteristico e vero nel fondo, anche se la tesi abbia un po’ forzato la mano allo scrittore.

Nel campo economico, e più specialmente per quanto riguarda la produzione questa tendenza all’unità e all’uniformità viene a sovrapporsi, anzi a contrapporsi in Italia a quanto di ancien régirne sopravviveva e dominava dappertutto: e se politicamente — per ragioni svariate, che qui non è possibile svolgere, ma in ogni modo, sovratutto, per manco d’indipendenza — la libertà non si ha che di nome, economicamente il nuovo ordine di cose segna un distacco profondo dal regime che lo ha preceduto.

Basterà indicare alcuni tratti, riguardanti specialmente i due maggiori Stati italiani, gratificati l’uno e l’altro di una relativa autonomia — il Regno italico e quello di Napoli: non senza osservare però che le stesse influenze agirono, sia pure in diversa misura, in tutto il territorio della penisola.

Date le diverse condizioni preesistenti, affatto diversi furono il compito dei nuovi regimi e le difficoltà incontrate al nord e al sud d’Italia.

Al nord, per esempio in Lombardia nell’Emilia in Toscana, il regime francese deve distruggere assai meno di Medio Evo di quello non trovasse, ancora vivo e vigoroso e ostinato a non morire, nel Mezzogiorno. Qui la borghesia non era ancora nata; il feudo resisteva; il latifondo predominava; — lassù una proprietà fondiaria già abbastanza suddivisa, un primo spuntare di attività industriali, una istintiva tendenza all’uguaglianza sociale, dei governi o locali affatto o stranieri bensì, ma guidati da elementi locali, avevano largamente preparato il terreno ad un’amministrazione riformatrice, a rapporti economici nuovi.

Lo sforzo dovette nel mezzogiorno dirigersi a trasformare ex novo la società intera; bastò, nel settentrione, sospingere ciò che già si moveva da sò.

E non poteva essere altrimenti, ove si pensi alle tradizioni storiche delle duo diverso parti d’Italia — specchio, a loro volta, delle condizioni geografiche e fisiche.

Il nord non aveva che da riprenderò un cammino, interrotto da una parentesi di oppressione o di spogliazione o da un ristagno di sonnacchiosa inerzia, durati sia puro qualche secolo; il sud, interrogando  le sue storie, non vi avrebbe trovato

alcuna importante tradizione di opere o d’iniziative del terzo Stato, appena allora nascente.

Così nel Regno Italico il regime francese, in fatto di sviluppo economico, fu portato dalla forza delle cose a creare una serie di condizioni che apersero un nuovo mercato di produzione e di consumo.

Come osserva il Pecchio, a proposito del Regno d’Italia (1), il regno, composto di provincie per lo addietro appartenenti a diversi governi, presentava a una popolazione di sei milioni e settecento mila abitanti un ampio mercato libero da barriere doganali. Molti popoli già divisi, chiamati a formare una sola famiglia, trovarono uno smerciò più vasto delle loro ricchezze.

Tutte le vecchie barriere doganali interne vennero tolto.

La legge del 1803 sulla tariffa daziaria metto a profitto “i lumi del secolo„. Essa sanzionò la libertà della circolazione in tutto l’interno, abolì l’antica distinzione tra territorio aperto o Comuni murati, concesse a tutti lo facoltà de’ transiti, che prima del 179G orano monopolio di pochi negozianti, rese chiaro lo disposizioni, facili i metodi di esazione, poche ma efficaci lo cautelo di percezione.

L'esportazione delle manifatture era sottoposta a un diritto insensibile di segno: il commerciò di transito prosperava.

Non soltanto si rimovevano ostacoli; ma alla circolazione si porgeva nuova facilità con nuovi mezzi di comunicazione. Fortissima la spesa per costruzione e manutenzione di strade: o non solo per le nazionali e le internazionali, come ad esempio quella del Sempione, ma anche per lo provinciali e le comunali.

Il sistema fiscale — per quanto penoso per la sua gravezza — non era cattivo: l’amministrazione, sotto la mano ferrea del Prina, funzionava con regolarità burocratica.

E caratteristico dei regimi arretrati e quasi feudali l’enorme numero d’intermediari o la sistematica violazione del canone finanziario che vuole ridotte al minimo lo spese di esazione:  ma nel Regno italico, sebbene la riunione di tutti i prodotti dello imposte dello Stato, de’ Comuni e dei dipartimenti, formasse un introito annuo di quasi centoottanta milioni, le spose di percezione non eccedevano quindici milioni, l’otto e mezzo per cento.

(1) Amministrazione finanziera del Regno d’Italia, Tonno, 1852, passim. La prima edizione è del 1817; la seconda, di Londra, del 1826.

Il sacrificio non era grande anche al confronto della stessa Francia, di tanto più progredita.

Sembra pure che, nonostante qualche esperimento più o meno bene riuscito, le stesse amministrazioni di regìa funzionassero in modo soddisfacente.

L’intervenzionismo in materia economica assumeva forme caratteristiche. Ogni anno con pompa solenne il Ministro dell’interno distribuiva corone e medaglie agli italiani che avessero fatte utili scoperte nell’agricoltura e nelle arti meccaniche, o avessero introdotto nuovi rami d’industria.

Sull’esempio inglese e francese, erano frequenti le piccole esposizioni, i concorsi, i premi; nei licei si insegnavano gli elementi di agricoltura; si fondavano o si completavano le scuole professionali e quelle d’arti e mestieri.

La proprietà industriale cominciava ad assumere una importanza, e quindi a ottenere una disciplina e una protezione, coi brevetti d’invenzione (1).

Altri inciampi al commerciò, altre forme di particolarismo economico, perpetuanti il carattere locale dei mercati, erano le misure, i diversi pesi, le diverse unità monetarie. Come osserva il Pecchio, nella sola estensione del regno d’Italia v’erano undici unità monetarie differenti. Dalle tavole di ragguaglio del 1808 si desume che nel Regno erano in uso più di 180 misure lineari, circa 120 misure superficiali ed altrettante e più misure di capacità. Nelle diversità delle monete il commerciò trovava un incomodo infinito.

Nella costituzione di Lione (1802) si proclamò la uniformità di monete in tutta la repubblica italiana. Il decreto 21 marzo 1806 rese poi comune al 'Regno il sistema decimale per lo misure e il sistema monetario di Francia. Titolo, peso, divisione delle monete, tutto fu preso alla lettera dalla legge francese. Dopo alcuni anni lo stesso sistema venne applicato ai Regno di Napoli e al rimanente dell’Italia incorporata all’Impero. Così da Napoli ad Amburgo dominò l’egual sistema decimale per lo moneto, pesi e misure (2).

Più notevoli, più importanti, in modo da acquisire al paese dei risultati definitivi, furono le conseguenze indirette del nuovo ambiento che si era creato. Indiretto corto, ma spontanee, irresistibili.

(1) Pecchio, op. cit., pag. 116.

(2) Pecchio, op. cit., pagg. 66 o 75.

Fra i privati è una gara, e spesso una necessita, d’introdurre nuove forme di attività agricola e industriale. La conoscenza di consumi dapprima ignoti crea nuovo campo al lavoro e alla produzione: con l’importazione, iniziata in quel periodo, di macchine, tanto industriali che agricole, s’incomincia a provvedere a questo bisogno di maggior produzione e ad iniziare il passaggio dalla patriarcale industria domestica alle forme meccaniche, caratteristiche del moderno capitalismo.

Questo complesso di novità, trapiantate in un terreno già largamente predisposto, dà frutti copiosi e precoci. Alla caduta di Napoleone I, l’Italia del nord è, rispetto alla produzione, un paese che poco ha da invidiare alle regioni meglio progredite di Europa. Per quanto il sistema continentale abbia portato delle artificiali modificazioni, o il regime politico abbia sempre con ogni suo sforzo tenuto di mira l’interesse della Francia, le diverse parti dell’Italia settentrionale hanno già creato fra di loro (e l’Italia col resto dell’Europa centrale) un tessuto connettivo, una rete di interessi che non sarà molto facile di sciògliere.

Quali fossero, in sintesi, i risultati dell’amministrazione francese nel Regno italico, disse egregiamente Stefano Iacini, un autore non sospetto, che scrisse in epoca assai lontana dai fatti, nella quale un calmo giudizio era possibile: “II Regno d’Italia, dice lo Iacini (1), trovò tutti questi germi eccellenti, e, colla sua centralizzata e forte amministrazione, li fece meglio sviluppare: esso diede maggior consistenza al principio dall’uguaglianza civile, dettò leggi di sempre più ammirata semplicità, brevità e precisione, e fece più presto maturare i frutti della libera concorrenza. La proprietà si divise e suddivise, il medio ceto crebbe gigante, il popolo si istruì e trovò da ogni parte nuove fonti di guadagni„.

Ben diverso il punto di partenza, ben maggiori le difficoltà da superare, e quindi ancora arretrato il punto d’arrivo nell’Italia del sud.

Già qualche risultato si era ottenuto col governo degli ultimi Borboni.

(1) La proprietà fondiaria e le popolazioni agricole in Lombardia, Milano, 1857, pagg. 5657. V. analogo giudizio in Corresti, L’Austria e la Lombardia, Italia, 1847, pagg. 1, 122, 156. Molti liberali italiani idealizzavano anche volentieri il regime napoleonico, per contrapporlo all’Austria.

Alla conquista straniera era già succeduto un reame indipendente: il Napoletano non era più terra di conquista: il rivolo d’oro che ogni anno fluiva a Madrid prima, a Vienna poi, rimaneva invece in paese e quivi si spendeva.

Al potere sovrano giovava farsi leva delle aspirazioni e dei dolori delle plebi per accrescere il proprio prestigio e diminuire la autorità e gli abusi dei nobili: e se la Rivoluzione francese non fosse venuta a gettare lo sgomentò nei principi riformatori, anche l’Italia del sud, sia pure con enorme lentezza, si sarebbe avviata, sotto la guida del suo governo, alla propria trasformazione.

Ma, nel complesso, al momento dell’invasione francese, l’organismo medioevale persisteva tuttavia.

L’oppressione feudale strozzava ogni attività delle popolazioni: o grande proprietà incolta e improduttiva, o piccoli appezzamenti, incapaci a provvedere ad una sussistenza non precaria. Il regime agrario restava ancora nelle condizioni primitive; predominava un’economia pastorizia; i paesi dell’interno subivano i danni di un sistema torrenziale di acque, di altipiani sterili, di montagne selvaggio, di vallate malsane, di fondi argilliferi. L’agricoltura non prosperava, perché trovavasi ancora all’infanzia dei metodi di cultura: l’aristocrazia era completamente assenteista, viveva alla capitale e gravava la mano da lontano sui suoi vassalli. Così il Tavoliere di Puglia — ridotto ad uno sterminato pascolo — dovette essere messo in valore con un sistema enfiteutico, preferendo le persone sprovviste di proprietà, i piccoli affittuari, cedendo lotti ai poveri abitanti di Foggia. Abolite le servitù, concesse terre ai locatari di pascoli, si sperava di risollevare l’agricoltura della Puglia.

Il latifondo feudale gravava corno una enorme cappa di piombo sull’agricoltura del regno. Le prestazioni dei lavoratori, i diritti proibitivi, lo servitù di pascolo o caccia, le tasso di mercato, i pedaggi, lo dogano feudali, lo rendite fiscali passato nelle mani di privati, le decime, variabili in genere o quantità, secondo i fondi, prelevate su tutte le derrate, computato secondo l’estensione del suolo, gravanti anello sugli strumenti di produzione; le angurie colpenti lo persone; lo difese o torre sottratto all’uso comune — rappresentavano nei vari aspetti questo dispotismo dei grandi proprietari assenteisti, che sottraevano lo torre ad una circolazione commercialo o ad una produzione indispensabile por un risorgimento sociale dolio provincie.

I “lupi rapaci„ si sono sottratti alle contribuzioni ed avevano abbandonato all’arbitrio dei loro “gabellotti„ i vassalli e i lavoratori, riducendoli ad un’umiliante servitù.

La legge per l’eversione della feudalità del 2 agosto 1806 era una risposta alle sollevazioni dei contadini della provincia, e intendeva salvare i Comuni dalla desolazione e dalle liti perpetue coi baroni. Le giurisdizioni passavano al sovrano; erano aboliti i diritti personali e quelli proibitivi; i corsi di acqua e gli strumenti di lavoro erano dichiarati liberi da tasso; gli affittuari potevan divenire proprietari, riscattando le terre; gli usi civici erano rispettati, in attesa della divisione dei demani; le prestazioni territoriali potevano essere pure riscattate con l’indennizzo ai signori. Era già molto, se consideriamo quale massa d’interessi si legasse alla costituzione feudale, e quale folla di persone campasse a sue spese coi subaffitti, cogli appalti di tasse, cogli uffici signorili, con gli abusi di un sistema secolare. Sono innegabili le difficoltà di riscatto da parte di una popolazione di poveri e quelle di procedura, che dovevano superare gli ostacoli di interessi cosi radicati negli usi e nella costituzione economica del mezzogiorno. Ma la Commissione feudale (11 novembre 1807), incaricata di risolvere lo controversie fra baroni e Comuni, e l’altra istituita por liquidare i diritti proibitivi e di giurisdizione, partendo da una presunzione tutta in favore della libertà delle terre, dal principio che basava soltanto sul possesso lungo e incontestato la legittimità di un feudo e da quello della nessuna prescrizione riguardo ai diritti illegittimi, non poterono che aiutare la denuncia degli abusi feudali ed un movimento di liberazione.

Il governo di Giuseppe Bonaparte e poi di Murat si adoperò a trasformare l’ambiente con la maggiore alacrità.

L’ordinamento amministrativo venne posto sulla base della suddivisione in Provincie, rette da un intendente, e in Distretti, Circondari, Comuni, la cui amministrazione a datare dal 1809 venne sistemata con regolare contabilità. L’istruzione pubblica ebbe nel 1811 una legge organica, che istituiva le scuole primarie gratuite a speso comunali: s’ebbero cosi 3000 scuole con 100. 000 allievi, affidandosi nei piccoli Comuni l’insegnamento ai parroci. Anche per le fanciulle doveva esservi una scuola elementare per ogni Comune; per allora furono 106. Si aprirono quindi collegi in tutte le Provincie, scuole per giovanette, licei; si accrebbe e si modernizzò l’insegnamento secondario con l’aggiunta di nuove discipline scientifiche e morali;

si migliorò l’Università di Napoli; si fondarono scuole agrarie, società d’agricoltura; si favorì insomma ogni genere di studi nel loro vastissimo campo. Si curarono anche i lavori pubblici, di cui il Napoletano aveva assoluto bisogno, spendendo non meno di 800. 000 ducati all’anno, titolo e cifra di spesa pressoché ignoti ai Borboni, in aprire strade, gettare ponti, disseccare laghi e paludi. Fu insomma un risveglio generale, un soffio di civiltà che alitò potente quei pochi anni sulla trascurata regione (1).

Germi qui pure, adunque, di vita nuova: ma, gettati in terreno meno fecondo, in una economia quasi esclusivamente agraria; e quindi di più lenta e faticosa maturazione.

Permane un isolamento secolare dalle altre parti d’Italia: il commerciò, che nelle condizioni del Mezzogiorno d’allora non poteva essere se non marittimo, non ha ancora spostato e rinnovato uomini e cose in misura sufficiente a creare un ambiente che possa dirsi moderno.

Un fatto, che sta in antitesi con quanto si era verificato nel Nord, merita qui di essere notato: la separazione politica tra Sicilia e Napoletano durata tutto il periodo della Rivoluzione, e quindi il diverso corso dei rispettivi interessi, il diverso avviamento dei rispettivi commerci. Mentre al Nord, la Restaurazione separerà quello che era unito, e allontanerà quelle parti che anche sotto governi nominalmente diversi tendevano ad un coordinamento comune, alla creazione di uno stesso tipo economico e sociale, al Sud riunirà ancora le Due Sicilie sotto un governo unico, metterà allo stesso passo chi, nell’agitato quindicennio, aveva percorso tanto diverso cammino.

In sostanza però, le due Sicilie, anche dopo il 1815, rimangono due Stati con amministrazione e con ordinamenti diversi.

(1) Mondaini, I moti politici del 1848 e la Basilicata, Milano, 1902, passim; Rambaud, Naples sous Joseph Bonaparte, Paris, 1911; Anzillotti, recens. del preced., in Voce, 4 gennaio 1912; Santoro, L'Italia nei suoi progetti economici, Roma, 1911, pag. 15 e segg.

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La trasformazione economica iniziatasi sotto il regime francese trovò una potente ragione che l’aiutò a proseguire — entro certi limiti — anche dopo il ritorno degli antichi regimi, e che la fece assidero su risultati obbiettivi e sicuri, in quanto ai fatti accennati si accompagno un altro elemento, più strettamente tecnico: intendiamo alludere alla trasformazione dei mezzi di produzione, all’introduzione delle forme meccaniche, alle prime manifestazioni dell’industria capitalistica.

Tutti gli storici attestano che forse in nessun momento della storia dell’umanità le condizioni materiali della vita sono state modificate così rapidamente: si pretende che, riguardo alla trasformazione dei processi tecnici, siavi più distanza fra quelli in uso ancora nel secolo decimottavo o quelli che dominarono nel successivo, che non fra i processi del secolo decimottavo e le arti e le industrie dell’antichità e del Medio Evo.

Negli ultimi trentanni del secolo decimottavo si abbozza e nei primi del decimonono si svolge, specialmente in Inghilterra ed in Francia, una profonda trasformazione degli sfinimenti di lavoro: dall’utensile alla macchina: una rivoluzione nei processi produttivi delle industrie delle miniere, del cotone, della lana, del ferro, della carta, dei trasporti, dell’illuminazione, dei prodotti chimici, ecc., ecc.

Non si ha perciò una brusca scossa, salvo i periodi di crisi: ma una serie di modificazioni quasi insensibili, spesso inavvertite; e se le invenzioni tecniche risalgono quasi tutte al secolo precedente, i loro effetti pratici, la loro lenta ma incessante e stabile diffusione si verificano invece specialmente dopo il 1814, cessato il turbinoso periodo delle guerre napoleoniche.

Così, l’invenzione delle prime macchine per filare e tessere il cotone è del 1765 circa; verso il 1770 Giacomo Watt inventa la prima macchina a vapore; intorno al 1795 s’incomincia a fabbricare la carta a macchina; il telaio Jacquard è inventato nel 1804; le macchine per filare la lana e il lino entrano in uso verso il 1810; il primo battello a vapore che traversa la Manica è del 1816; nel 1819 il Savannah, in venticinque giorni, viaggiando in parte a vela e in parte a vapore, fa il percorso Nuova York Liverpool;

dalla prima locomotiva di Giorgio Stephenson (1815) al celebre concorso sulla strada ferrata Manchester Liverpool vinto dal Rocket (1829) corrono quattordici anni.

Le cascate d’acqua — come forza motrice industriale — sono in uso sino dalla più remota antichità.

Queste trasformazioni hanno una importanza economico-sociale enorme: è, in una parte notevolissima della produzione, la sostituzione della forza meccanica alla forza muscolare, una diminuzione di costo, un aumento e una diffusione di consumo, un mutamento nella posizione assoluta e relativa delle diverse classi della società. Dall’aumento e dalla crescente importanza del capitale tecnico, dalla specificazione delle funzioni, dalla più perfezionata divisione del lavoro, una nuova società, a poco a poco, quasi inavvertitamente, si viene formando, la quale ha ben pochi tratti comuni con quella che l’ha preceduta — e nella quale le aspirazioni, i bisogni delle masse, le forme di convivenza e di costituzione politica evolvono verso un nuovo tipo.

Anche in Italia, dove più dove meno, si osservava una simile trasformazione. Essa potè iniziarsi dove concorrevano, in numero e misura adeguata, altre condizioni di fatto: nuova prova che nessuno di questi mutamenti è arbitrario, è rimesso alla volontà soggettiva degl’individui. Dell’economia specialmente, lo leggi inflessibili sono più note e sono state meglio approfondite.

Così il voler introdurre, unicamente per spirito d’imitazione e di emulazione, delle forme di produzione tecnicamente possibili, ma economicamente non convenienti, sarebbe stata una pura utopia in quelle parti d’Italia nello quali la mano d’opera si fosse offerta molto a buon prezzo, o affatto impreparata, o che non avessero presentato un mercato sufficientemente ampio per smaltire una più abbondante produzione, o che già non fossero abitate, pur su un morcato più ristretto, da popolazione abbastanza densa per assorbire la maggior quantità di consumi, o nello quali non si trovasse un’agricoltura abbastanza sviluppata e feconda por fornire al compratore i mezzi di acquisto, o comunicazioni sicure o possibilmente rapide o a buon mercato, o leggi o condizioni generali di sicurezza dallo quali l’industria ricevesse incoraggiamento e protezione nel suo libero svolgimento, o tutti quei caratteri geografici, climatologici, ecc., che meglio permettono alla produzione manifatturiera di nascere e prosperare.

La presenza, in maggiore o minore misura, di questi requisiti spiega la diversità di sviluppo che l’industria ha avuto in Italia prima dell’unificazione; — e tutta la storia economica d’Italia dal 1815 al 1860 è la storia della lotta fra le confuse, indistinte aspirazioni delle popolazioni — e specialmente del medio ceto, della “borghesia„ — ad una vita produttiva nella quale il respiro fosse più ampio e il ritmo più intenso e più vibrato — e l’ideale, esso pure non sempre chiaramente perseguito, dei governi, verso il ritorno a forme primitive, patriarcali di economia, quanto meno — dove il ritorno si chiarisce impossibile — la cieca resistenza alle “novità„, la diffidenza ostinata, la remora continua frapposta ai mutamenti, la confusa previsione delle conseguenze politiche e sociali, che una trasformazione dell’ambiente economico avrebbe inevitabilmente portato con se. ' Col crearsi di queste condizioni, quantunque fosse desiderio dei legimi restaurati di limitarne, per quanto possibile, l’influenza, non i poto impedirò che un soffio di vita nuova si diffondesse almeno nelle parti più progredito del paese.

Una ragione finanziaria evidente si imponeva: la cresciuta popolazione, le necessità dell’occupazione militare da parto specialmente dell’Austria rendevano più forti le spese degli Stati: comprimendo, restringendo, arrestando la vita commerciale industriale agricola si sarebbero poi isterilite e inaridite le fonti dei tributi e la capacità contributiva dei cittadini.

Nessuna istituzione umana, del resto, e i governi meno di qualunque altra, può sempre percorrere un corso del tutto rettilineo, senza deviazioni o mutamenti di rotta: — e se è relativamente facile al dispotismo di adottare certi provvedimenti politici, le difficoltà sono talvolta insuperabili quando esso voglia opporsi, di fi onte e in modo assoluto, alle aspirazioni e alle necessità economiche. Di politica strictu sensu non tutti si occupano,  né sempre, né sempre con lo stesso ardore; mentre i bisogni e le convenienze che si attengono alla produzione e alla conservazione della ricchezza e del benessere riguardano tutti i cittadini, senza eccezione e in quasi tutti i momenti della vita.

Ed e per questo che, nel periodo 1815-1860, vediamo nascere tutte o quasi le forme d’industria che l’unità farà poi più largamente fiorire: embrioni, formazioni nuove che attendono il sole della libertà per compiere la loro evoluzione; quasi un disegno schematico,

una serie di linee talvolta punteggiate, che il periodo successivo completerà, arricchirà, colorirà in tutte le sue parti.

Nel 1860 quello che potrebbe chiamarsi il primo impianto è già fatto: resta di farlo funzionare in pieno, economicamente, armonicamente: che ogni produzione trovi il suo mercato, ogni tendenza a consumi nuovi il mezzo di soddisfazione necessario.

Limiteremo ad alcuni cenni molto sommari l’indicazione delle novità più importanti introdotte in questo periodo: e ricorderemo più specialmente quelle forme moderne di capitalizzazione, di conservazione, di circolazione di ricchezze (banche, risparmio, assicurazioni, società industriali, camere di commerciò, ecc. ) la cui presenza in un paese è sintomo infallibile che il capitalismo v’è già entrato almeno in adolescenza.

Le industrie cominciano a vivere, nella loro forma più moderna, precisamente in questo periodo.

Il conte Porro di Milano applicò per primo, nel 1815, il vapore alla filatura dei bozzoli; nel 1816, a Lecco, la Ditta Schmutz introdusse le prime macchine ad acqua per la cardatura e filatura del cotone; il Brembo, a Villa d’Almè, l’Adda, a Cassano, vengono pochi anni dopo utilizzati per la filatura meccanica del lino, con migliaia di fusi; l’Olona, nei distretti di Legnano, Busto, Gallarate, per la filatura del cotone. La tessitura — industria sino allora in massima parte domestica — vede i primi telai meccanici: e mano mano sino al 1859 vengono sorgendo parecchi cotonifici, così da arrivare, in Piemonte e meglio in Lombardia, a gareggiare quasi col Belgio.

Prima del 1830 gli stabilimenti industriali in Italia erano scarsi e mossi — secondo il Colombo — tutti dall’acqua (1). Probabilmente uno dei primi motori a vapore, so non il primo, fu quello applicato nel 1832 alla raffineria di zuccheri Azimonti e Conti di Milano. Ancora nel 1839 lo macchine a vapore in Lombardia si contavano sulle dita. Nel 1838 il barone Tosta fece il primo impianto a vapore por la bonifica di Brondolo su quel di Chioggia con macchine che erano destinate al lago di Garda, e nel 1840 fu fatto funzionare il primo molino a vapore di Bougloux di Livorno, con carbone di Montobamboli.

(1) Il vapore e le mie applicazioni, in  La Vita Italiana nel Risorgimento III Serie, od. 1911, paig. 286,

L’industria dei fiammiferi fosforici, che furono inventati nel 1830, in Italia risale al 1831, primo anno in cui fu fondata una fabbrica ad Empoli.

L’industria della calce si sviluppò, sotto la sua forma più importante, dopo il 1850: quella della calce in zolle nel Monferrato, quella della calce in polvere nella Lombardia.

La cartiera Binda sorge nel 1857; l’attuale Colorificio Italiano, nel 1852; la fabbrica di prodotti chimici Candiani-Girardi, nel 18561858; tutte però con inizi modestissimi, con mozzi molto limitati.

E specialmente la mancanza di carbon fossile, invidiato all’Inghilterra, alla Francia ed al Belgio, che preoccupa i fautori dello sviluppo industriale: e sono intense le speranze di scoprirne miniere anche in Italia, o di surrogarlo con la lignite o la torba.

Con la maggiore importanza acquistata della vita industrialo e commerciale del paese, la ricchezza mobiliare tende a crescere sempre più, o il risparmio e la capitalizzazione si organizzano razionalmente.

Secondo il Ferrerò (1), fra il 1830 e il 1818, gl’impieghi industriali e finanziari essendo pochi, il capitale ristagnava. Erano gli anni in cui a Torino si puntellavano le volte della tesoreria, perché i sacchi di marenghi non le sfondassero; in Lombardia i proprietari di terre mutuavano facilmente al 4 % senza ipoteca, onde prima del ’48 si poterono dissodare molte terre o diffondere pei la Lombardia la cultura del gelso e l’allevamento dei bozzoli; intorno al 1840 Leopoldo II intraprendeva la bonifica della maremma, specialmente per non lasciare inoperosa una grossa somma di danaro che dormiva nelle casse del tesoro.

Questa capitalizzazione abbondante fa sorgere il bisogno di Casse di Risparmio e di Banche — e il risparmio vi affluisce fiduciòso e copioso.

Le Casse di Risparmio, sorte dai Banchi pignoratizi e dai Monti di Pietà, si fondano da principio nel Veneto: il 12 febbraio 1822 nascono le Casse di Venezia, Padova, Rovigo, Udine. Poi si estendono mano mano alla Lombardia, al Piemonte, alla Toscana, allo Stato Pontificio.

(1) Ferrero, La vecchia Italia, in "La Vita italiana nel Risorgimento", II serie, vol. I, ed. 1911, pag. 57.

La Cassa delle Provincie Lombarde, di gran lunga la più importante di tutte, sorge a Milano nel 1823; nel ’27 quella di Torino; nel ’29 quella di Firenze; nel ’36 quella di Roma; nel ’37 quella di Bologna; nel ’38 quella di Spoleto; nel ’39 quelle di Ferrara, Forlì, Ravenna e di Alessandria; nel ’40 quelle di Oneglia, Savona, Pinerolo; nel ’41 quella di Pesaro, ecc. Devesi ricordare fra tali istituti il più che secolare Monte dei Paschi di Siena.

Eccone la distribuzione regionale fino al 1860:

—————————

Regioni 1830. 1840 1850 1860
Piemonte 1 3 6 11
Liguria 1 3 4
Lombardia 1 1 1 3 (1)
Veneto 4 4 4 4
Emilia 1 3 5
Romagna 3 9 13
Toscana 3 3 12 12 (1)
Marche 1 11 22
Umbria 1 6 10
Lazio 1 2 4
Sardegna 3


Totale 9 25 60 91

È anche facile notare come in esse vadano regolarmente crescendo i depositi: massimi nella Lombardia, seguita a notevole distanza dalla Toscana:

(1) Altri assegna 8 causo di risparmio alla Toscana nel 1842; o 27 nel 1860; — alla Lombardia assegna 15 casse di risparmio nel 1860. V. Santoro, L'Italia nei suoi progressi economici dal 1860 al 1910, Roma, 1911, pag. 179. Le Casse di Risparmio richiamano l’attenzione del Mittermayer (Delle condizioni d’Italia, trad. di P. Mugna, Milano-Vienna, 1845), sino dal 1844.

I depositi nelle Casse di Risparmio dalle origini

(in milioni di lire)

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Regioni 1830 1840 1850 1860
Piemonte 0,8 4,9

Liguria 0,5 2,2

Lombardia 4,4 8,4 17,7 85,9
Veneto 1,6 2,5 3,2 3,2
Emilia 1,0 2,9 10,5
Romagne. 0,3 1,4 7,1
Toscana 0,4 5,1 8,5 26,2
Marche 0,6 3,1

Umbria 0,2 1,1

Lazio 4,1 6,7 3,5
Mezzogiorno



Sicilia



Totale 6,3 21,4 42,5 157,7

Mentre, in ogni altra parte d’Italia, le forme tradizionali ed antiquate di credito misto a beneficenza (Monti di Pietà, Monti frumentari, Monti numerari, ecc. ) cedono mano mano il luogo ai veri e propri Istituti di credito — o possono sopravvivere e prosperare di fianco alle vecchie istituzioni, adempiendo a funzione nuova, l’opposto avviene nelle Due Sicilie. 0, a dir meglio, l’opposto si sarebbe dal Governo voluto che avvenisse.

Più di mille Monti frumentari esistevano ancora nel 1860 nel Regno di Napoli; in Sicilia, nel 1812, se n’era voluto istituire uno per Comune. Anche nel Ducato di Modena (Provincia di Reggio) e per ragioni analoghe si avevano 8 Monti frumentari. A Napoli e in tutte le Due Sicilie nessuna Cassa di Risparmio: e ciò spiega a sufficienza le condizioni specialissime del Banco di Napoli, unica istituzione di credito in una vasta regione, nonché il favore eccezionale di quel Regno per la rendita pubblica, che fu sempre, e di molto, al disopra della pari.

Cominciando dal Banco di Napoli la enumerazione degli istituti di credito più importanti in Italia — vero indice delle nuove necessità e delle nuove forme di vita, inutilmente contrastate — abbiamo:

Il Banco di Napoli, fondato nel 1575, che da tempo funzionava come Banca di Stato e come Banca commerciale. Il movimento era di una settantina di milioni di lire in media all’anno, fra anticipazioni e sconti. Le perdite, insignificanti. Non aveva succursali, salvo una a Bari, concessa da Ferdinando II nel 1857.

Due Casse di Corte, istituite a gran fatica per accontentare i Siciliani, il 7 aprile 1843, a Palermo e a Messina (Regio Banco dei Reali Domini al di là del Faro, attuale Banco di Sicilia).

A Roma (oltre molti banchieri privati, che esercitavano quasi esclusivamente il cambio) nel 14 ottobre 1834 si fonda la Banca Romana di sconto; nel 22 febbraio 1851 la Banca di Stato pontificio; nel 1855 la Banca delle Quattro Legazioni.

In Toscana le Banche fioriscono: la Toscana di Credito (Firenze 1816); quella di Livorno (1837); quella di Siena (1842); altre a Pisa, Arezzo e Lucca: fuse poi tutte nella Banca Nazionale Toscana (Decreto 30 settembre 1857).

Nel 13 aprile 1858 sorge una Banca pel Ducato di Parma.

Nel Regno di Sardegna abbiamo la prima Banca istituita in Genova (Regie Patenti 16 marzo 1844) Banca di sconto, di depositi e conti correnti; una seconda a Torino (RR. PP. 16 ottobre 1847): riunite poi nella Banca Nazionale degli Stati Sardi (Legge 9 luglio 1850). Nel 1852 la Banca istituì succursali a Nizza, Vercelli, Alessandria; nel 1854 si fondava una Banca Sarda a Cagliari.

Alcune di queste Banche avevano il privilegio dell’emissione di biglietti; quasi tutte erano fondate da gruppi, più o meno numerosi, di azionisti, che sottoscrivevano il capitale sociale. Invece — ed è caratteristico — i Banchi di Napoli e Sicilia avevano un patrimonio in rendite iscritte sul debito pubblico, ed in boni fondi nascenti da donazioni o dai lucri del Banco, od un capitalo anticipato dal tesoro per la fondazione di una cassa di sconto. Questi banchi ricevevano i danari de’ privati ili conto corrente e facevano lo sconto delle cambiali: non davano biglietti al latore, ma certificati di deposito o fedi di credito, nominativi e girabili: esercitavano anche gli uffici di opera pia, per mezzo della pegnorazione di oggetti metallici o di tessuti.

Con le Casse e con le Banche, perfino nel pigro, arretrato Stato Pontificio, il risparmio o la speculazione privata s’incanalavano e tendevano ad un’utile sistemazione. La nuova società si formava gradatamente nel sono dell’antica.

Procede di pari passo la formazione e lo sviluppo di società commerciali e industriali. Non bastano più le iniziative e i capitali degl’individui: sono le forme collettive, esse pure caratteristiche di una nuova fase di sviluppo economico, che sole rendono possibili alcune grandi imprese, e che accelerano il ritmo della vita finanziaria del paese.

Già nel 1834 le principali società napoletane raggruppavano oltre 21 milioni di lire di capitale; più oltre sorgono la società per la ferrovia Napoli Salerno (1837), per l’illuminazione a gas (1841), per la navigazione a vapore (1846); la Compagnia industriale agronomica napoletana (1857).

Lo inevitabili disillusioni — caratteristiche esse pure del periodo capitalistico — avevano però suscitato reazione e sfiducia; la quale erasi manifestata anche nel Piemonte, dove tra il 1850 e il 1860 erano sorte ben 160 società commerciali e industriali, con meglio che 350 milioni di capitale, ridotte a 98, con 330 milioni, al momento della unificazione del Regno.

Secondo il Correnti (1) la Lombardia aveva, nel 1860, 56 società con quasi 60 milioni di capitalo; la Toscana 73, l’Emilia 39.

Secondo il Galeotti (2), nel 1860, esistevano già in Italia, comprese quello in stralciò, 377 Società industriali in accomandita e anonime, con un capitale di L. 1.351.621.000 come dal seguente quadro statistico.

Numero delle Società industriali, e loro capitale nel 1860.

Totale Nazionali Estere Capitale Lire
Anonima 281 268 13 1.148.849.000
Accomandita 96 91 5 202.772.000
Regno 377 359 18 1.351.621.000

Altro sintomo di forme moderne di vita e di attività economica: il sorgere e il diffondersi di Compagnie d'assicurazione.

(1) Annuario Statistico, vol. II, pag. 541.

(2) La prima legislatura del Regno d’Italia, Firenze, 1866, pag. 202. V. anche per questi dati, L’Italia Economica, Annuari, Milano, 1907 e 1908.

La funzione economica tipica di questi istituti non può compiersi, se non dove e quando la ricchezza mobiliare abbia assunto grande importanza: altrimenti, il risarcimento non terrebbe adeguatamente luogo della ricchezza — per lo più immobiliare — distrutta dal sinistro; se non dove e quando siano sviluppati il risparmio e la previdenza. In special modo, l’assicurazione vita è la conseguenza di una larga capitalizzazione e di un abbondante impiego normale di capitali in titoli pubblici, a reddito fisso. Senza tutti questi presupposti di ambiente, simile attività sarebbe incomprensibile.

In Italia, le società di assicurazione più importanti nascono tutte in questo periodo.

La “Compagnia d’Assicurazione di Milano„ sorge nel 1825; le Generali sorgono a Trieste nel 1831, con una succursale a Venezia; nel 1829 a Venezia la Società dei Veneti Assicuratori: la Paterna — importazione francese — si acclimata fra noi nel 1843 (?). La Società di Mutuo Soccorso contro i danni della Grandine sorge a Milano nel 1857 (20 aprile).

Lo stesso dicasi per altre regioni d’Italia.

Per il Piemonte, nell’anno 1829 fu istituita la Real Mutua, sede in Torino, per assicurazione contro gl’incendi; nel 1833 una Compagnia anonima, a premio fisso, contro i danni degl’incendi e rischi accessori; nel 1840 l’Austro-italica fu autorizzata a compiere in Piemonte operazioni di assicurazione-vita, intanto che il Municipio di Torino, in casi eccezionali, faceva simili operazioni per proprio conto.

Nello Stato Pontificio, una Società di assicurazione fu istituita verso il 1840 in Roma: avrebbe dovuto estendere le sue operazioni in tutto lo Stato, ma effettivamente non foce che scarsi affari nelle provinolo di Ancona, Bologna e Ferrara.

Sorsero in gran numero, a Napoli, le Assicurazioni marittime: Assicurazione per rischi marittimi (1818), Compagnia del commercio di Napoli (1823), Assicurazioni diverse (1826), Associazione e cambi marittimi pel piano di Sorrento (1827), duo Compagnie motosi por rischi marittimi (1827 o 1829), Società a tontina per rischi marittimi (1831). E ancora: Anonima assicuratrice marittima (1847), Piccola compagnia (1848), Anonima id. (1853), la Fonico (1853), Sicurtà marittima (1853), Commerciò marittimo (1854), Marina di Procida (1854), Urania (1855), del Mediterraneo (1855), Stella Polare (1857).

Poche di queste sopravvivevano pel 1860: fra esse, le Assicurazioni diverse, che nel 1856 avevano impiantato anche un servizio di risparmi (1).

Meritano una menzione a parte i Ducati di Parma o di Modena.

A Modena il Duca istituì nel 1841 un’Assicurazione obbligatoria mutua contro i danni dell’incendio; a Parma, con decreto 21 novembre 1849 e Regolamento 31 dicembre dello stesso anno, tutti i proprietari di stabili furono obbligati ad iscriversi ad una apposita Cassa di assicurazione. Il premio si riscuoteva insieme all’imposta fondiaria: l’istituto dipendeva dai Ministri dell’Interno e della Finanza (2).

In questo stesso periodo, sorgono e si ordinano le Camere di commerciò, forma moderna di rappresentanza degl’interessi commerciali, in certo modo succedute alle antiche corporazioni di Arti ed alle Università dei mercanti.

Nel 1860 esistevano 26 Camere di commercio; assai diverse quanto all’origine, al modo di costituzione, alla sfera di attribuzione.

La più antica era quella di Firenze, che ripeteva l’origine sua dalla legge 1° febbraio 1760: un’altra ne era sorta poco dopo a Livorno. Quella di Genova era stata fondata con legge del 28 Pratile, anno XIII; le Camere lombardo erano state istituite, una per capoluogo di provincia, con decreti 21 giugno 1811 e 27 marzo 1812: disciplinate poi dall’Austria con decreto 18 marzo 1850. In questo stesso anno, il 2 aprile, si istituivano le Camere di commerciò di Parma e Piacenza. Nelle provincie expontificie (Roma, Ancona, Bologna, Civitavecchia) vi si era provveduto con successivi decreti 10 novembre 1828 e 31 gennaio 1835; nelle napoletane e siciliane, tra il 1817 e il 1850. A Torino la Camera di commerciò era stata fondata con legge 4 gennaio 1825.

Dal 1808 (16 gennaio e 16 febbraio) Milano e Venezia avevano una Borsa di commerciò ciascuna; dal 1851 Torino e Genova.

(1) V. Santoro, op. cit., pagg. 84, 85, 91, 149, 244, 285.

(2) Santoro, op. cit., pagg. 193 e 203.

*

**

Questi non trascurabili risultati, germi di vita nuova per tutto il paese, si raggiunsero in Italia nonostante i più gravi ostacoli, portati dalla legge, dalla consuetudine, dalle condizioni di ambiente.  Primissimo ostacolo: l’impedimento alla circolazione delle merci, conseguenza delle dogane fra Stato e Stato, ed anche delle dogane nell’interno di ciascuno degli Stati medesimi, come a Napoli e negli Stati della Chiesa.

L’esistenza di queste ultime è caratteristica di una certa fase di sviluppo nella vita economica e specialmente commerciale; la tendenza a toglierle di mezzo è il portato del passaggio ad uno stadio ulteriore.

Così le dogane interne, vigenti, con una molteplicità di diritti locali, in una forma enormemente vessatoria anche in paesi fortemente unitari come la Francia, rendevano l’aspetto economico di questi, prima della rivoluzione, non molto dissimile dall’aspetto economico d’Italia. Furono abolite nel 1790 dalla Costituente.

E un simile movimento non è affatto isolato o limitato alla Francia o all’Italia: anzi è caratteristico dei tempi, perché risponde ad un bisogno generale.

V’erano barriere doganali fra Inghilterra e Irlanda: il movimento per abolirle cominciò nel 1782, finì verso il 1820: ve n’erano fra i diversi Stati di Germania: lo Zollverein, che fu oggetto di agitazione in Germania dal 1815 al 1852, tendeva a stabilirò un’unione doganale che raggruppò in seguito, per aggregazioni successivo, circa 30 milioni di Tedeschi. Fra Polonia e Russia lo barriere doganali furono abolite il 1° gennaio 1851.

Protettiva o spesso proibizionista ora, tradizionalmente, la politica commerciale del Regno di Napoli; quella dello Stato Pontificio; quella del Lombardo-Veneto.

Sotto il Regno italico eccezion fatta dello merci cadenti sotto l’azione del blocco continentale, che aveva scopi puramente politici), il dazio d’entrata sui prodotti esteri aventi similari nello Stato non ora superiore al 10 % ad valorem; la tariffa austriaca portò per massima il dazio d’entrata di quei prodotti al 60 %,

e di molti articoli proibì assolutamente l’importazione ai commercianti (1). Il Piemonte mitigò la sua primitiva politica, rigidamente protettiva, intorno al 1840; nel 1850 furono poi aboliti i diritti differenziali; nel 1851 si conclusero opportuni trattati di commerciò; nel 1856 i grani e le farine furono esenti dal dazio, e si distrusse la dogana esistente fra la terraferma e la Sardegna.

Non altrettanto protezionista il Ducato di Modena, ove però, per avidità di guadagno, gli ultimi Duchi accentravano in loro mani quasi il monopolio di una gran parto del commerciò con l’estero. Non si esitava, in tempi di carestia, a proibire l’esportazione dei grani e dei legnami.

La Toscana soltanto, anche durante la Restaurazione, rimase fedele ad una politica economica liberale.

Nò bastavano gli ostacoli al passaggio delle merci: imperversavano leggi proibitive o limitative anche al movimento delle persone. Sospetti politici, vecchie consuetudini e necessità di polizia rendevano malagevole ogni viaggio nell’interno della penisola.

Anche ciò influiva a mantenere una relativa immobilità economica, in misura superiore a quanto si potrebbe a tutta prima pensare. Il commerciò vive di libertà di movimenti; l’imitazione di foggie, di costumi, di consumi stranieri; l’introduzione di nuove produzioni; la tendenza all’uniformità — sempre relativa — tra paese e paese — sono l’effetto di rapporti personali diretti, di vantaggi constatati de visti.

Nel Mezzogiorno, un viaggio nel resto d’Italia era considerato un lusso, riservato alle persone ricche ed istruite. Il passaggio dalla Lombardia al Piemonte esigeva permessi speciali e complicate formalità; ad ogni passo un doganiere o un poliziotto impacciava il percorso dell’Italia centrale. Tre, quattro passaporti raccomandavano ogni viaggiatore alle cure delle diverse polizie.

Conseguenza inevitabile dello sforzo che la natura delle cose opponeva a questo crescente disagio: l’idealizzazione, quasi la glorificazione del contrabbando, che rappresentava il solo correttivo, e costituiva una forma di resistenza tenace, costante, audace e pericolosa, con la quale la realtà si vendicava e si sovrapponeva alle forme governative arretrate e superate.

(1) Correnti, L’Austria e la Lombardia, cit., pag. 129.

Nel Pontificio si calcolava che il contrabbando nel commerciò d’importazione entrasse almeno per 1/5 e almeno per 1/10 in quello di esportazione.

Soltanto sui coloniali, il ministro Gralli calcolava, intorno al 1850, un contrabbando che raggiungeva la metà dei dazi dovuti: contrabbandava a danno degli Stati della Chiesa, introducendo di notte tempo quantità di mercanzie proibite, persino il Duca di Modena.

(Continua).

Arnaldo Agnelli.

IL FATTORE ECONOMICO

NELLA

FORMAZIONE DELL’UNITÀ ITALIANA (2).

(Continuazione e fine: Vedi Anno VI fas«*. 2», pag. 278).

E noi Lombardo-Veneto, corno anche noi resto d’Italia, i gravi dazi promovevano il contrabbando, il contrabbando rendeva necessario le vessanti controllerie, le visite e perquisizioni domiciliari, le delazioni; incoraggiava o„ la più sfacciata corruzione dei funzionari o l’aperta resistenza armata marni, con la formazione di veri corpi di contrabbandieri, pronti ad ogni sbaraglio.

E viceversa dalle controllerie nascevano le industrie di pretesto, “fantasmi d’industrie — diceva il Correnti (1) — utili unicamente alle esigenze del contrabbando, il quale ne paga i certificati di vendita più che i prodotti; e ciò per celare agli agenti di finanza, sotto l’ombra di quegli acquisti, la provenienza delle merci contrabbandato „.

“Chi può — esclama un autore italiano di quel tempo (2) — in Toscana, Lucca ed altri luoghi, darsi a costose imprese commerciali, se egli sa che sopra tutto impedimenti legali si oppongono al suo commercio? Se un fabbricante di Milano spedisce a Firenze le sue sete, egli ha da passare, su una via di 150 miglia italiane, per otto uffici di dogana       Ci si muove a sdegno se si pensa che non solo ai confini dei singoli Stati, ma anche alle porte delle città, uffici daziari molestano il carrettiere e lo costringono ad ingenti esborsi. Chi va da Bologna a Lucca (un tratto di 123 miglia) devo fermarsi a sette uffici doganali „.

Lo stesso Mazzini, il meno “materialista„ certo fra i preparatori e gli apostoli del Risorgimento in Italia, si rendeva ben conto di questi ostacoli: “Siamo smembrati — scriveva egli sino dal 1844 (3) — in otto Stati, indipendenti l’uno dall’altro, senza alleanza, senza unità di intento, senza contatto reciproco regolare.

(1) L'Austria e la Lombardia, cit., pag. 132. V. anche, sul contrabbando, Mittermaier, op. cit., pagg. 39-40, 58.

(2) Serristori, negli Annali Universali di Statistica,, 1843, marzo, pag. 293; novembre, pag. 191, cit. da Mittermaier, op. cit., pagg. 54 e 56.

(3) Opere, voi. VI, 137-138.

Otto linee doganali, senza numerare gli impedimenti che spettano alla trista amministrazione interna d’ogni Stato, dividono i nostri interessi materiali, inceppano il nostro progresso, ci vietano ogni incremento di manifatture, ogni vasta attività commerciale. Proibizioni o enormi diritti colpiscono l’importazione e l’esportazione. Prodotti industriali o territoriali abbondano in una provincia d’Italia e difettano in un’altra, senza che si possa per noi ristabilir l’equilibrio, vendere o permutare il superfluo. Otto sistemi diversi di monetazione, di pesi e misure, di legislazione civile, commerciale e penale, di ordinamento amministrativo, ci fanno come stranieri gli uni agli altri„.

Questo regime protezionista, e spesso proibizionista affatto, è, nei tempi nostri, del tutto intollerabile in piccoli Stati. Si comprende facilmente che, dove il mercato sia chiuso, ma entro larghi confini, i costi sono di minore sacrificio anche quando si provveda al consumo unicamente con la produzione interna: è difficile — nella zona temperata — che il clima, l’orografia, l’idrografìa, le tradizioni e le potenzialità economiche locali siano per una vasta estensione di terreno e rispetto a milioni e milioni di abitanti, in condizioni affatto uniformi: si riprodurrà, nell’interno dello Stato, quella comparazione dei costi che è base del commercio internazionale: gli Stati Uniti possono essere protezionisti a minor costo della Francia: ma quando la proibizione ed il monopolio si applicano a Stati piccoli, la conseguenza inevitabile è la immobilità dei rapporti; nessun progresso di consumi, nessuna produzione nuova è consentita, quando sono in gioco poche centinaia di migliaia d’abitanti, nella cerchia di poche migliaia di chilometri quadrati: o l'estero dovrebbe fornirò le macchine, le materie primo, la mano d’opera, trapiantando ab imis fundamentis una industria, il tutto per servire ad un piccolo mercato.

E così, la irresistibile o generale tendenza ad allargare i mercati procedo da ragioni ben noto e famigliari agli studiosi di scienze economiche.

Col passaggio dall’industria corporativa all’industria capitalistica moderna, lo scambio o la divisione del lavoro presentano dei vantaggi tanto più cospicui quanto più si allarga il mercato e il campo della produzione.

In un piccolo territorio, con diversità e distanze poco notevoli, con identità, assoluta o quasi, di clima, di costumi, di bisogni,

la divisione del lavoro è vantaggiosa certo; ma lo è assai di più se attuata su un territorio esteso, con tutte le varietà necessarie alla massima specializzazione delle produzioni e ai progressi tecnici più complessi. E sopratutto nelle industrie manifattrici, dove più largamente applicabile e più feconda è la divisione del lavoro, che tale vantaggio si può apprezzare.

Agisce in esse quella che G. B. Say chiamava la lui des débouchés, per la quale — a misura che un mercato si estende — si accresce l’economicità della produzione, poiché i prodotti in generale costano tanto meno quanto più sono fabbricati su larga scala; i servizi sono tanto più economici quanto più spesso ripetuti.

E lo stesso motivo che spinge ad attuare in tante industrie odierne il sistema della grande intrapresa, la quale — dove è veramente adatta — riduce i costi al minimo tasso possibile: “una similitudine tra la guerra e la mercatanzia è questa: che i più grossi battaglioni e i più prassi empori prevalgono sempre sui più sottili! „ (1).

Ora, per quanto bene avviate fossero le iniziative commerciali ed industriali in diverse parti d’Italia, è evidente come la divisione territoriale costituisse un formidabile impedimento ad ulteriori progressi: e ciò perché essa si accompagnava a divisione doganale rigorosa, sino ad essere proibitiva in modo quasi assoluto: erano cinque atmosfere economiche diverse. Si doveva giungere ad un punto massimo, oltre il quale non era possibile procedere.

A spiegare come il bisogno fosse più acutamente sentito, appunto perché una parziale, insufficiente soddisfazione erasi ottenuta, e ciò permetteva di intravvedere la possibilità di ben maggiori risultati, ò bene ricordare che una differenza, di notevolissimo vantaggio dal nostro punto di vista, intercedeva tra l’ordinamento d’Italia prima e dopo la Restaurazione: la morte delle due vecchie repubbliche marinare, Genova e Venezia, e l’unione del territorio rispettivo al Piemonte ed alla Lombardia.

(1) Correnti, Annuario del 1857 cit., pag. 527. — Il Cattaneo dà una larghissima dimostrazione dell’argomento nel suo lavoro su l'Economia politica di Federico List (Opere, vol. V, pagg. 141 e segg. e in più d’un punto, evidentemente, parla a nuora perché suocera intenda. “Se più vasto è il campo di produzione e di smercio, più varia, più graduata, più poderosa, più audace è l’industria. Se si dividesse l’Inghilterra in otto o dieci o più recinti doganali, com’è l’Italia nostra, e si desse pure a ciascuno proporzionata parte del commercio britannico: tutta quella prepotenza industriale rimarrebbe nulladimeno triturata ed esinanita „.

Le due grandi regioni del Nord ebbero così ciascuna un porto sul mare: uno sbocco pei loro prodotti, una comunicazione diretta con l’Atlantico, con l’Oriente.

Però il vantaggio fu molto maggiore pel Piemonte che per la Lombardia; la più opportuna postura geografica di Genova, la sua qualità di Porto franco, la costruzione di ferrovie, le maggiori sollecitudini del Governo, contribuirono splendidamente allo sviluppo della città e della regione; mentre la decadenza della repubblica e il sistema continentale avevano portato un gran colpo a Venezia; e la concorrenza di Trieste, in mille modi favorita dal Governo austriaco, contribuiva a raggiungere questo risultato e ad aggravarne le conseguenze.

Ne’ tempi della libera navigazione il commercio di Venezia si estendeva a tutto l’Oriente, alle coste della Barberia, alla Spagna ed all’America. La guerra marittima che aveva ridotto il commercio al cabottaggio con le coste del regno di Napoli e delle provincie Illiriche, a poche licenze speciali di navigazione, e all’approdo di bastimenti ottomani, aveva comunicato la morte o il languore a molti rami della sua industria.

Ad esempio, nel 1841, nella marina mercantile e nell’industria peschereccia, questo era lo stato rispettivo di Venezia con Chioggia e di Trieste con Rovigno (1):


Bastimenti Grandi Piccoli Barche

di lungo corso incrociatori incrociatori da pesca
Trieste 374 82 174 376
Rovigno 1 203 271 243
Venezia 87 80 23 86
Chioggia 4 164 57 243

Analogo, importante arrotondamento ottenne la Toscana annettendosi nel 1847 il principato di Lucca o Piombino con l’isola d’Elba; e sviluppando sempre più il commercio di Livorno, unico scalo dell’Italia centrale, dichiarata Porto franco.

(1) Mittermaier, op. cit., pag. 62.

Ma i mercati locali rimanevano, generalmente, di meschina importanza: i ducati non conoscevano quasi industrie, ove se ne eccettui quelle delle cave di marmo a Massa e Carrara — frutto di un vero monopolio naturale: lo Stato pontificio languiva: lo Due Sicilie commerciavano più volentieri col resto del mondo che non con l’Italia. “ E una casa la nostra nella quale gli usci, per cui si avrebbe a passare d una in altra camera, sono più gelosamente sbarrati che le porte esteriori „ (1).

Un altro quasi monopolio naturale era quello delle miniere di zolfo in Sicilia: prodotto importante, pel quale da 190 miniere nel 1832 si saliva a quasi 700 nel 18G0 (2): in gran parte a profitto di compagnie francesi e specialmente inglesi.

L’industria della seta si riteneva — e giustamente — la vera vocazione economica dell’Italia.

L’aumento di questa coltivazione in Lombardia sarebbe, secondo il Mittermaier (3), riassunto in queste cifro:

““““““

Produzione nel 1800   1.860.000 libbre da 12 oncie
          nel 1820   3.840.000

          nel 1841   4.710.000


Il valore della produzione complessiva in Italia sarebbe stato di 374.000.000 di lire austriache nel 1841.

Secondo statistiche, congetturali, s’intende, ma non prive di attendibilità, la produzione annuale della seta greggia in tutto il mondo raggiungeva — intorno al 1858 — 1 miliardo e 200 milioni circa, dei quali più di 281 milioni, oltre la quinta parte, alla sola Italia, con grande prevalenza, in questo, dell’Italia superiore, Piemonte, Liguria, Lombardia, Voneto; ma, si osservava sin d’allora (4), non v’ha paese in Europa, meno la Spagna, l’Italia e la Turchia, le cui manifatture seriche non lavorino assai più seta di quella che produce il paese. L’Inghilterra non alimenta gelsi; e la Germania pochissimi,

(1) Coerenti, Annuario del 1857 cit., pag. 528.

(2) Correnti, Annuario del 1857 cit., pagg. 532-533.

(3) Santoro, op. cit., pag. 27.

(4) Op. cit., pag. 61.

mentre le fabbriche inglesi e tedesche lavorano per 240 milioni di franchi in seta. La Francia, che già produce per 140 milioni di sete proprie, ne ricerca per le sue fabbriche oltre 85 milioni; la Svizzera compera per 39 milioni di sete straniere, e la Russia per 17. L’Italia invece, che vende all’Europa per 150 milioni di franchi in seta greggia e torta, ne ricompera poi per 50 milioni in seta lavorata e tessuta.

I trecento milioni circa di lire, che i vari rami dell’ industria serica valevano allora nelle annate ordinarie, all’Italia, costituivano l’articolo più importante del suo bilancio economico: perché, sottratto il valore della copiosa consumazione delle sete all’interno, rimaneva sempre il guadagno netto di un 100 milioni di lire. Dopo le sete gli olii, che si esportavano, in media, pel valore di 40 milioni; la canapa, i formaggi, i pesci e le carni salate, le paste, i cappelli di paglia, le frutta secche, il sale, lo zolfo, i coralli, le corde armoniche, oltre i prodotti prettamente agrari, davano ai commerci italiani qualche sopravanzo da scambiare con le lane, coi cotoni, colle telerie, col ferro, col carbon fossile, coi lavori di vetro e d’acciaio, colle dorerie, colle minuterie, coi libri e colle derrate coloniali, che ci venivano d’oltr’alpi e d’oltre mare. Quello che più aggravava in questo bilancio la parte del dare, erano allora i pannilani, le telerie e il ferro, tre prodotti le cui importazioni eccedevano di oltre 100 milioni il valore delle esportazioni.

L’agricoltura, arte tradizionale all’Italia, era in condizioni assai migliori dell’industria: ad essa inoltre, per ragione della natura dei suoi prodotti, meglio bastavano i mercati locali. La Lombardia, la Toscana e altre regioni ancora, avevano l’onore di studi anche da parte di stranieri, sull’ordinamento fondiario, le forme di coltivazione, le irrigazioni, i contratti agrari; che vi fosse un’industria manifatturiera italiana, nessuno mostrava accorgersi (1).

All’agricoltura si accompagnavano le poche e patriarcali industrie prettamente agricole: insomma, la maggior ricchezza e i più intensi commerci derivavano pur sempre dai prodotti del suolo,

(1) La riprova so no ha in questo: nella “Biblioteca dell’Economista, (serio II vol. Il), il Ferrara ha potuto raccogliere studi riferentisi all’agricoltura italiana dello Iacini, del Capponi, del Ridolfi, del Lambruschini, del Sismondi, del Vernouillet; ma nel successivo volume della stessa serio, tutto dedicato all'industria, nessuna monografia si riferisco all’Italia. Non vi si parla che d’Inghilterra e Francia.

ed era anzi diffusa — per quanto da molti combattuta (1) — l’opinione che l’Italia dovesse far conto esclusivamente sull’agricoltura. Coi disboscamenti, deplorati sino d’allora, si credeva provveder meglio ai bisogni della crescente popolazione; con le bonifiche — memorabili quelle delle maremme toscane, opera continuata per oltre un trentennio, e del lago Fucino, nel Regno di Napoli, iniziata nel 1855 — si investivano cospicui capitali nella terra, e se ne aumentava enormemente il valore.

*

* *

Checchè si facesse per mantenere uniformità di condizioni e di regime, anche economico, tra le diverse parti d’Italia, i diversi effetti di diversi principi colpivano l’attenzione e suscitando lo gare accentuavano il desiderio di novità. V’erano differenze che saltavano agli occhi anche di stranieri osservatori. Non mancava perciò l’elemento psicologico, che finiva di persuadere almeno i più illuminati della necessità di mutare sistema.

Un discorso del Bowring, altro dei cobdeniani, agitatori della lega contro la Cornlaw inglese, pronunciato il 13 aprile 1843 (2), paragona ad esempio la Toscana liberista e gli stati pontifici proibizionisti: w Portate i vostri occhi verso l’Italia: non v’è paese che possa fornire più utili insegnamenti. I suoi piedi sono bagnati dal Mediterraneo, tutti i suoi abitanti hanno una origine comune: ma gli uni senton l’influenza della libertà commerciale, gli altri quella del monopolio.

“Paragonate la situazione della Toscana a quella degli Stati pontifici. In Toscana, tutto presenta l’aspetto d’ima ridente felicità. Il cuore vi si apre alla vista d’una popolazione soddisfatta, d’una moralità elevata, d’un commercio florido e di una popolazione sempre crescente;

(1) Ad es. da Pecchio, Amministrazione finanziera cit., pag. 117; Maestri, Annuario del 1853 cit., pag. 147; Bianchini, Storia delle finanze del Regno di Napoli, Napoli, 1859, pag. 548.

(2) Bastiat, Cobden et la ligue, Paris, 1845, pag. 141).

perché, dopo Leopoldo, essa è stata fedele ai principi posti da questo ammirabile sovrano.

“Passate la frontiera. Entrate negli Stati romani. E lo stesso suolo, lo stesso clima, lo stesso sole radioso e vivificante: sono le stesse forze produttive; gli uomini vi si vantano di più alta origine, e si proclamano con orgoglio i figli dei più illustri eroi che mai abbiano calcato la superficie del globo.

“Ebbene, in quale stato è l’industria di Roma? Potreste voi credere che oggi, sotto il regime protettore, gli uomini scardassano la lana coi piedi nudi, e i molini sono di un uso ben poco diffuso negli Stati del papa infallibile? „.

Così il Maestri (1) fa lo stesso rilievo intorno allo Stato pontificio: dove trova “un suolo fertilissimo, aperto da due mari al commercio di tutto il mondo, un clima vario ed atto alle produzioni delle zone le più diverse; una popolazione alacre e animosa, vogliosissima di sapere: tutto ivi concorre a rendere ancora più dolorose il contrasto della benigna natura cogli ordini incivilissimi che le forze straniere vi mantengono„.

Lo stesso dicasi pel confronto fra la Sicilia e Malta, dove le industrie fiorivano, osserva sempre il Maestri (2), “in senso inverso degli elementi loro naturali lo stesso dicasi — con ben maggiore evidenza — in periodo successivo — pel confronto tra Piemonte e Due Sicilie. Quanto al commercio d quest’ultimo — scriveva il Correnti nel 1856 (3) — non v’era paese in Europa che avesse un commercio estero più languido. u Tutta l’esportazione somma a 43 in 44 milioni di franchi di cui 11 soli milioni con altri paesi d’Italia. L’importazione tocca i 60 milioni, in cui il resto d’Italia non ha che 8 in 9 milioni. Il sistoma daziario divido dunque veramente e stacca Napoli dall’Italia. L’importazione principale è l’inglese che raggiungo i 24 milioni in valore di merci, pagato la maggior parto in danaro. Qual differenza fra questo filo etico di commercio e il movimento commerciale dogli Stati Sardi, elio nel 1853 raggiunse la cifra complessiva di 554 milioni, compresi i transiti, e di 283 milioni por lo vero esportazioni ed importazioni del paese! la quale ultima cifra

(1) Annuario cit., pag. 271.

(2) * Il Nipote del Vesta Verde„, anno V, pagg. 162 a 177.

(3) Ibidem, pag. 285.

prova un’attività commerciale, serbate lo proporzioni, cinque volte maggiore di quella del Regno meridionale Così, nel 1853, alla vigilia degli avvenimenti che dovevano preludere all’unificazione d’Italia, vedasi com’era chiara la coscienza delle principali difficoltà che si frapponevano ad una intensa vita economica in Italia, e delle speranze che, ciò non ostante, sorridevano ai migliori patrioti: “Se diamo un’occhiata alla posizione geografica del nostro paese, bagnato, per sì lungo tratto di coste, da due mari, corso da tanti fiumi, coronato da cinque isole, la Corsica, l’Elba, la Sardegna, la Sicilia e Malta che sono quasi altrettanti avamposti nel mare; se diamo un’occhiata alla sua costituzione geologica, che ne arricchisce i monti di metalli e di marmi, ne degrada le valli in modo da renderle atte ad ogni coltura, e ne distribuisco le acque con tali attitudini da poterne fare tesoro per le irrigazioni, o compenso al difetto dei combustibili con una forza motrice assai più economica sebbene non egualmente equabile; se diamo un pensiero alla passata civiltà che rese fiorenti per commercio e por le industrie Venezia, Pisa, Genova, Firenze, Milano e diede i nomi, gl’indirizzi, lo consuetudini, le leggi ai popoli che ora sono i più commerciali del mondo, noi potremo facilmente rispondere a coloro, i quali vorrebbero fare dell’Italia una nazione, puramente agricola e consumatrice dei prodotti, che in cambio delle sue ricchezze naturali lo apportassero i manifattori stranieri. Ma, d’altro canto, uno sguardo a sette linee doganali che ne attraversano ad ogni passo i confini, al sistema enormemente protettivo che la maggior parte dei suoi governi vi mantiene, al dispotismo forestiero, sacerdotale e regio che v’incatena gli spiriti e vi conserva l’ignoranza, e vi alimenta i dissidi; uno sguardo alle enormi gravezze che dappertutto vi opprimono l’agricoltura, fonte primaria di molte industrie, alla mancanza di strade ferrate che ne congiungano le diverse parti, ed emendino il naturale difetto della sua forma soverchiamente allungata: e finalmente un pensiero alla terribile concorrenza di popoli posti in altre condizioni politiche e civili, sovrabbondanti di capitali e non d’altro bisognosi che di spacci, per ottenere i quali non badano a sacrifici, nè risparmiano secondo l’uopo la violenza, o l'astuzia; e poi si potranno comprendere di leggieri gl’impedimenti che le industrie italiane hanno a vincere, e si potrà così far ragione del molto e del poco che essi possiedono,

e dai continui progressi che le vediamo fare ogni giorno, conghietturare i destini del loro prossimo avvenire „ (1).

*

* *

Anche nello staili quo politico, adunque, un rimedio fondamentale si intravvedeva, si desiderava, si predicava da molte parti, come avviamento a grande progresso economico del paese e stimolo a cose migliori: l’esempio dello Zollverein germanico rincalzava queste speranze: si voleva la più ampia libertà di scambio interno e fra Stato e Stato, si preconizzava una lega doganale (2).

Ma l’idea incontrava due ostacoli, l’uno economico, l’altro politico.

L’ostacolo economico era dato dalla presenza dell’Austria in Italia, e dalla sua posizione prevalente: perchè una politica doganale italiana, mirante cioè a creare un mercato nazionale — per nulla chiuso, ben s’intende, alle produzioni ed ai commerci stranieri, ma raggruppato nelle sue forme più importanti di attività e per la natura delle cose coordinato intorno ad alcuni centri — un mercato nel quale Milano, Genova, Napoli, Ancona, la Sicilia, Torino, Venezia avessero la posizione rispettiva che oggi possiedono — questa politica doganale avrebbe contrastato in modo stridente con la necessità dell’Impero, avrebbe tolto ogni ragiono di essere al regno Lombardo-Veneto come dominio austriaco: lo vedremo anche meglio, parlando della questione di nazionalità e d’indipendenza.

L’ostacolo politico era anche più evidente: la libertà degli scambi interni avrebbe provato l’esistenza di interessi comuni, avrebbe sviluppato a dismisura i rapporti già esistenti, ne avrebbe fatti sorgere di nuovi importantissimi;

(1) Annuario Economico-Statistico dell’Italia per l'anno 1853, Torino, s. d. anonimo, pagg 146-147. È lavoro di Pietro Maestri.

Lo stesse speranze e lagnanze esprimo il Mittermaier, op. cit., pagg. 73, 60 o passim. Altro cifre, da questo autore indicate, non riportiamo anche perché ci sembra dubbia l'esattezza dei dati. Ad es. nel 1827 la Valtellina avrebbe avuto 504 fabbriche di panni, la Lombardia 48 e il Veneto 5261 Sui danni dello divisioni doganali, v. anche Galeotti, op. cit., pagg. 83-84.

(2) Alla lega doganale italiana abbiamo dedicato uno studio apposito, di prossima pubblicazione.

sarebbe stata senz’altro un substrato diretto alla formazione dell’unità statuale: rapporti economici, anche attivissimi, che non possono avere (o molto raramente) effetti di simile natura fra popoli lontani geograficamente o molto diversi tra di loro (si pensi tuttavia alle mal celate aspirazioni inglesi verso la Sicilia) avrebbero agito, nel nostro caso, come una spinta potentissima verso l’unione.

Fu questa la ragione per la quale l’Austria osteggiò sempre la costituzione di una lega doganale che non fosse a suo profitto pressoché esclusivo, cosicché alla vigilia del 1859 ancora sei circoscrizioni doganali dividevano l’Italia (a non contare le barriere interne): la più ampia era l’austro-italica, che accomunava il Lombardo-Veneto e gli Stati estensi con tutto l’Impero austr aco: il ducato di Parma e Piacenza aveva esso pure fatto parte di questa Lega del 9 agosto 1852 ma se ne era staccato sino dal novembre 1857.

Nonostante tutti questi ostacoli, il commercio esterno dell’Italia progrediva anche in quegli anni.

Il movimento generale del commercio italiano anteriore al 1859, nel quale comprendevasi Venezia, Roma, Trieste, Istria, Gorizia e il Trentino, ascendeva a lire 1.480.971.153, di cui lire 800.251.261 rappresentavano la importazione e lire 608.719.892 rappresentavano la esportazione, tenuto conto anche dell’incasso delle dogane interne, che entra in quelle cifre per un quinto almeno. Pure tale movimento attribuiva all’Italia divisa una importanza commerciale immediatamente dopo Inghilterra, Francia e Germania dello Zollverein: in ogni caso, il commercio italiano non era inferiore a quello dell’Austria, e superava la Russia, la Turchia, la Scandinavia (1).

Già nel 1844 il progresso fatto dall’Italia nell’ultimo trentennio appariva al Mittermaier  “gigantesco„ (2).

Ma più confortante sintomo era il fervore di studi e di ricerche con le quali si volevano illustrare le condizioni del paese, fare, per così dire, l’inventario di quanto si possedeva, il bilancio dell’attivo e del passivo.

(1) Galeotti, op. cit., pag. 198; Coerenti, Annuario del 1857 cit., pag. 509.

(2) Op. cit., pag. 226.

Le stesse accademie si svecchiavano, promuovevano studi direttamente intesi alla prosperità sociale; i congressi degli scienziati si preoccupavano di questioni d’indole pratica, e creavano la coscienza di una comunanza d’interessi: erano frequenti ed importanti — relativamente ai tempi — le esposizioni industriali delle diverse regioni.

Si predicava la necessità dell’istruzione popolare e professionale, le scuole tecniche erano accolte, al Nord d’Italia, come una novità utilissima, si voleva sviluppare lo spirito di associazione, avvezzare i capitali alle speculazioni industriali; si raccoglievano le prime società di mutuo soccorso fra operai, si fondavano le prime rudimentali cooperative. Si sentiva vicina, immancabile una grande trasformazione, diremmo quasi, una liquidazione generale anche nel campo economico.

I fatti, lentamente, ma incessantemente svolgendosi, cominciavano a divenire pensiero e coscienza (1).

E la fiducia nell’immancabile avvenire economico e commerciale italiano era in quei tempi immensa.

Scriveva il Correnti nel 1854 (2): “Lasciamone parlare un ufficiale, che non essendo nè al manacchista, nè italiano, ma pretto inglese, potrà parer serio anche tradotto dal Nipote del Vesta Verde. Il Mediterraneo (scrive l’autore del Twelve Months in the Mediterranean), teatro che fu dei più grandi avvenimenti del mondo antico, fra poco, per un nuovo rivolgimento di fortuna, vedrà aggrupparsi d’intorno a sè un’altra volta il nodo dei destini del mondo. Qui, dove l’arte nautica fece le sue prime prove, dove remeggiarono le greche triremi e le galee romane, dove spiegaronsi al vento le vele di Tiro e di Cartagine, dove lottarono cogli austri le navi coperte di Veneti e di Liguri, dove por la prima volta l’Amalfitano sperimentò la bussola, e il Genovese, che doveva scoprir l’America, s’educò a conoscere e a vincere il mare, qui ora le vaporiere da guerra di tutte lo nazioni vanno scandagliando ogni seno più riposto, o quasi cercando dove si combatteranno lo future battaglie di Salaminu o d’Azio. Intanto il commercio, corno fiume che torna all’antico lotto, ritenta lo vie di Monti, di Palmira o di Sidone.

(1) V. per molti particolari Maestri, Annuario cit.; Mittermaier, op. cit.

(2) Il Nipote del Vesta Verde anno VII, 1854, pagg. 74 a 86.

Il vero cammino dell’India è il Mediterraneo. Calcutta non è ormai lontana da Londra che cinquanta giorni; Bombay, quaranta. Si rassodi in Egitto un governo civile, si rassetti la Siria, taglisi l’istmo di Suez, e si migliori la navigazione dell Eufrate; e il Mediterraneo, che è già il cammino dell’India pei passeggieri e pei dispacci, tornerà ad esserlo anche pei commerci.

“E allora — chiudeva il Correnti — bazza a chi tocca. Un mercato diretto di centoventi milioni di consumatori (che a tanto montano i popoli litoranei del Mediterraneo), poi l’incrociamento di tutti i transiti e gli scambi tra la Persia, l’Arabia, le coste orientali dell'Africa, le Indie dall’una parte, e l’Europa e l’America atlantica dall’altra “II Mediterraneo sarà il centro del mondo, come l’Italia è il centro del Mediterraneo; l’Italia, che fin adesso fu, almeno a dotta dei poeti, il giardino del mondo; e potrebbe diventarne l’emporio „.

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* *

Quello che non potè nè la propaganda per la lega doganale, nè la evidente convenienza di questa, ottenne invece una corrente economica irresistibile — determinata essa pure da una trasformazione tecnica di straordinaria importanza — che reagiva vittoriosamente contro le artificiali barriere, e poneva all’Italia il dilemma tragico o di una fatale decadenza in confronto degli altri paesi o di una trasformazione radicale nel suo assetto politico.

Questa rivoluzione nei mezzi di trasporto, che è forse il fatto economicamente più importante nel secolo XIX — ha mutato ad un tempo il motore, il veicolo e la via; ha diminuito enormemente la durata, la spesa ed il rischio del passaggio delle cose e delle persone da luogo a luogo: che è quanto dire ha ridotto in forte misura il costo — economicamente considerato — dei trasporti, e con la mobilità crescente di tutto ha cominciato ad allargare i mercati, a livellare i prezzi e i valori delle terre, ha influito sull’agricoltura, sull’industria, sul movimento della popolazione, più ancora sui commerci...

La ferrovia ha reso possibile un servizio postale di gran lunga più perfetto e più economico; e quando alla posta si è accoppiato il telegrafo elettrico, permettendo l’immediato rapporto anche a fortissime distanze — addirittura da continente a continente — l'unificazione dei mercati fu un fatto compiuto, e l’organismo economico moderno, così vasto, così delicato, così sensibile nelle sue ripercussioni da qualunque parte della periferia al centro e viceversa, si affermò in tutta la sua importanza.

A questa trasformazione non poteva sottrarsi l’Italia, o quella parte d’Italia che era a contatto con la vita del continente europeo; l’opinione pubblica, i periodici scientifici e tecnici, si facevano eco di tali preoccupazioni.

E anche in questo campo, i diversi Stati italiani non potevano non avere una politica ferroviaria: ma anche in questo campo — più tipicamente forse che in qualunque altro — il vincolo strettissimo fra politica ed economia apparve chiaro e perspicuo.

L’Austria tentò inutilmente una politica ferroviaria antinazionale: attizzò le discordie municipali nella famosa contesa per il percorso della Milano-Venezia, se per Bergamo o per Brescia; ritardò la costruzione di linee d’interesse italiano; mirò piuttosto a congiungere il Lombardo-Veneto con Vienna e con le altre provincie dell’Impero.

Giustamente osservava il Correnti esser stato disegno dell’Austria limitare la linea ferrata, austro-italica al solo Lombardo-Veneto, farla essere come un’ultima e perduta diramazione della gran linea austro-tedesca, isolarla violentemente da tutte le altre linee italiane oltre il Po ed il Ticino, correggere in tal modo la geografia e violentare la natura (1).

Sino dal 1846 (2) la mente divinatrice di Cavour, in una larga recensione critica di un libro del Petitti (3), disegnava un vasto programma ferroviario nazionale. Monto divinatrice, in quel momento, assai più nel campo economico che nel politico, nel quale il Cavour si fermava allo idee di Cesare Balbo, o so era grande zelatore d’indipendenza, non credeva affatto nell’unità italiana, corno conquista di prossima effettuazione.

(1) L'Austria e la Lombardia cit., pagg. 18, 123.

(2) * Revue Nouvelle„, tom. VIII, 1° maggio 1846.

(3) Sulle strade ferrate italiane, Torino, 1845.

Il Cavour addita le linee principali da costruire in Italia, tanto nel settentrione quanto nel mezzogiorno: non manca di osservare che se la valle del Po avesse appartenuto ad un solo Stato, se tutti i paesi compresi fra Venezia e Torino avessero riconosciuto uno stesso sovrano, la linea Torino-Milano-Venezia sarebbe stata la principale arteria dell’Italia settentrionale, alla quale verrebbero a riallacciarsi tutte le linee secondarie. Parla dei due possibili percorsi della Milano-Genova (per Vigevano e por Pavia), gli stessi attuati di poi; del triangolo ferroviario di cui i vertici sarebbero stati Torino, Genova, Milano; accenna alla Bologna-Ancona, alla Bologna-Firenze, alla Bologna-Modena-Parma-Torino, alle linee toscane, romane, meridionali; si rende conto degli incoraggiamenti e della buona volontà di qualche governo; della ostile diffidenza, e anche della ostinata contrarietà dei più; traccia insomma le grandi linee di un vero programma ferroviario nazionale, quale doveva maturare ed attuarsi soltanto molti anni più tardi.

Ed enumera con grande precisione i vantaggi economici e morali di queste nuove comunicazioni.

L’agricoltura ne approfitterà pei trasporti dei prodotti, anche di quelli ingombranti, dove non esistono canali; pei trasporti di persone sui diversi mercati e perfino per quelle che ora chiamiamo le migrazioni interne. Lo stabilirsi di un sistema completo di comunicazioni ferroviarie, “diminuendo le spese di trasporto, e principalmente eccitando l’attività e l’energia degli spiriti intraprendenti di cui il paese abbonda, contribuirà potentemente al rapido sviluppo dell’industria in Italia Con minore simpatia riguardava il Cavour quella che ora si chiama l'industria dei forestieri: vantaggio economico che egli riteneva scemato da molti inconvenienti d’indole morale e politica: piuttosto riteneva — anche qui con singolare perspicacia — che la posizione dell’Italia al centro del Mediterraneo, dove “come un immenso promontorio, essa sembra destinata a collegare l’Europa all’Africa, la renderanno, quando le ferrovie la percorreranno in tutta la sua lunghezza, la via più breve e più comoda per l’Oriente Infine: “un sistema di comunicazioni che metterà a contatto delle popolazioni rimaste finora straniere le une alle altre, dovrà contribuire a distruggere le meschine passioni municipali, figlie dell’ignoranza e del pregiudizio„.

E ancora, e meglio, l’opera dei trattati del 1815 sarà lentamente ma irresistibilmente distrutta da questo sviluppo di forze del paese in tutte le sue parti migliori, destinate a far trionfare il principio di nazionalità e d’indipendenza.

Indipendentemente anche da queste nobili aspirazioni, l’esempio di altri paesi e le necessità economiche più evidenti costrinsero anche i più restii ad iniziare un primo periodo di sviluppo delle ferrovie italiane. Nel 1836 era stata concessa la ferrovia da Napoli a Torre Annunziata, e nel 1838 quella da Milano a Monza, ma si trattava di linee mancanti di ogni obbiettivo commerciale. Fu il Regno Sardo, in cui l’Italia a poco a poco formavasi, che cominciò a costruire ferrovie di vera importanza pel traffico. Torino fu tosto collegata col mare, a Genova, da un lato, col Lago Maggiore, ad Arona, dall’altro; nè mancò l’ardimento per concepire la difficile impresa del traforo del Frejus, che solo molti anni più tardi doveva essere portata a compimento.

Nel 1848 non v’era ancora un chilometro di ferrovia; molte difficoltà si opponevano alla costruzione e all’esercizio di strade ferrate che valicando i gioghi dell’Appennino, passassero dall'altipiano subalpino al mare; si erano avute le guerre del ’48, del ’49 e quella di Crimea; le finanze erano tutt’altro che floride. Tuttavia si costrusse ogni anno in Piemonte oltre un centinaio di chilometri di strade ferrate (prima del 1852, 125; nel 1853, 93; nel 1854, 184; nel 1855,147; nel 1856, 144; nel 1857, 118; nel primo semestre del 1858, più di 100).

Alessandria era il nodo di una fitta rete di ferrovie: data la spinta, nessun altro Stato aveva proceduto così alacremente ed animosamente.

Fra il 1840 o il 1850 l’Austria pure aveva concesso i vari tronchi della Milano-Venezia o costruiva a spese dell’Impero la Venezia-Cormons o la Vorona-Mantova per allacciare alla capitale lo provincia soggetto.

Il tronco Milano-Monza (13 km.) si aperse il 18 agosto 1840; il Milano-Troviglio (32 km.) il 17 febbraio 1846.

Comparativamente più rapido fu lo sviluppo dello ferrovie toscano: Livorno-Pisa (19 km., 14 marzo 1844), Pisa-Pontedera (20 km., 19 ottobre 1845), Pontedera-Empoli (26 km., 21 giugno 1847), Firenze-Prato (18 km., 3 febbraio 1848).

I due Stati più restii a fare opera seria od utile in materia di ferrovie erano il Pontificio o lo Due Sicilie.

Un progetto esaminato nel 1846 della linea Roma-Frascati non fu messo in esecuzione che il 12 ottobre 1856; la Roma-Civitavecchia, il 2 luglio 1860; la Roma-Bologna, il 1° luglio 1861; la Roma-Ceprano, l’11 maggio 1863.

Nel Regno di Napoli, in vent’anni, si costruiscono 127 chilometri di ferrovie: la Napoli-Portici, attivata il 3 ottobre 1839, serviva, come la Napoli-Caserta (20 dicembre 1843) a mettere in comunicazione le reggie; i prolungamenti alla fortezza di Capua (26 maggio 1844), alle sedi militari di Nocera (9 maggio 1844) e di Nola (3 giugno 1846) non avevano scopo commerciale. E' un piccolo nodo ferroviario-militare intorno alla capitale.

In Sicilia ed in Sardegna, all’epoca dell'unificazione, neppure un chilometro di ferrovia; nei Ducati era appena iniziata la costruzione di quella che doveva diventare poi la grande linea Piacenza-Bologna (1).

Ecco, quale lo dà il Correnti (2), il quadro delle strade ferrate italiane pel 1858.

 

linee

compiute

che si stanno

costruendo

già

concesse

decretate

Stati Sardi km 931 182 158 300
Prov. Austro-Italiche 452 286 319 29
Toscana 257 184

Stati Romani  17 613 111
Regno di Napoli 100 794 26
Ducati e Romagna   — 280 20

km. 1757 2339 634

(1) V., per queste notizie, Santoro, op. cit., pagg. 75, 139, 173, 191, 239, 275; l'Italia economica, Annuario pel 1908, cit.

(2) Annuario del 1857 cit., pag. 518.

 “Fra dieci anni adunque — concludeva il Correnti — se non intervengono casi che precipitino o rallentino il passo della storia italiana, l’Italia avrà cinquemila chilometri di strade ferrate proporzionalmente poco meno della Francia e alquanto di più dell’Impero austriaco.

I “casi,, auspicati intervennero: gli eventi precipitarono: ma per quanto, nei primi anni dopo l’unità, vi fosse una vera febbre di sviluppo ferroviario, l’Italia non effettuò molto al di là del preventivo: 4306 chilometri di vie ferrate nel 1865, 6176 nel 1870, 7709 nel 1876.

Anche qui le necessità e le limitazioni obbiettive della condiziono economica e finanziaria del paese esercitarono una influenza decisiva.

Arnaldo Agnelli.














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