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Controstoria dell'unità d'Italia di Gigi Di Fiore

(pag. 162)


Tutto scomparve con l’arrivo dei garibaldini. Anche la dote personale di Maria Sofìa venne depredata dai nuovi conquistatori. Il ducato valeva al cambio quattro volte la lira piemontese e a Torino la sessione legislativa del 1861 si aprì con un disavanzo di 500 milioni di lire, in gran parte causato dalle continue spese di guerra. Al momento della conquista, il debito pubblico delle Due Sicilie era di 26 milioni di lire contro i 6 del Piemonte.

Naturalmente, con l’annessione i due debiti, così come era avvenuto per tutti gli Stati preunitari, furono riunifìcati. Lo stabilì una legge del agosto 1861. Alla vigilia della spedizione dei Mille, tra fondi pubblici e depositi privati il Banco di Napoli gestiva una somma pari a 33 milioni di ducati, mentre in Sicilia c’erano depositi nelle banche per 30 milioni di ducati.

Una vera manna dal cielo per le disastrate casse piemontesi. Al suo arrivo a Napoli, Garibaldi trovò denaro e bilanci solidi, oltre che un consistente patrimonio personale del re Borbone, che non sarebbe mai stato restituito.

Bastarono le poche settimane di amministrazione dei due governi dittatoriali per provocare lo sfascio. A 27 giorni dalla partenza di Francesco II da Napoli, l’ambasciatore Villamarina scrivendo a Torino parlava di un «disordine spaventoso in tutte le branche dell’amministrazione», citando una concessione ferroviaria rilasciata a cinque persone: Adami, i due fratelli Bertani, Brambilla, Lemmi. Un concessione che valeva ben 800 milioni. Lemmi era iscritto alla Massoneria e i beneficiati bruciarono agguerriti concorrenti, come i Rothschild. Da Torino venne mandato a Napoli, con l’incarico di viceconsole, Francesco Astengo. Era uomo di fiducia di Cavour ed ebbe anche l’incarico di raccogliere informazioni sulla gestione garibaldina. Non tradì il suo mandato e scrisse:


Indescrivibile è lo sperpero che si fa qui di denaro e di roba; furono distribuiti all'Armata di Garibaldi, che non arriva a 20 mila uomini, 60 mila cappotti e un numero proporzionato di coperte; eppure la gran parte dei garibaldini non ha né cappotti né coperte. In un solo mese, si pagarono dalla Tesoreria, oltre alle ordinarie, 750 mila ducati per le spese straordinarie dell’Armata non giustificate, si vuotarono gli arsenali di armi e munizioni, i magazzini di oggetti di vestiario e di buffetterie di cui riboccavano, senza che siasi riusciti a vestire e armare completamente questa gente. Le imposte non sono pagate e, se pagate, si sciupano senza controllo. Dalle province i governatori non solo non mandano denaro, ma anzi ne chiedono.


Un vero caos. Agostino Bertani, nominato segretario della dittatura, riuscì a pagarsi delle cambiali in scadenza con i soldi dei fratelli Rocca di Genova, beneficiari, da azionisti della società Adami, delle concessioni ferroviarie nel Mezzogiorno.

[...]

Era la corsa all’arricchimento, alla spogliazione, approfittando del trapasso e della confusione. Le cose non mutarono molto con i governi luogotenenziali. In un anno, da Torino furono prelevati dalle casse dell’ex Regno delle Due Sicilie oltre 80 milioni di lire. Molti prelievi e pochi investimenti nel Sud limitati a sole 390.62 lire oltre alla concessione di 10 milioni alla Tesoreria di Napoli. Denaro concesso solo sulla carta, mai realmente versato. Un quadro descritto a Cavour da Liborio Romano, che conosceva a fondo Napoli. Alla voracità si aggiungeva la diffidenza e la spocchia verso la città dimostrata da chiunque arrivava da Torino.



Il primo scandalo toscopadano: le ferrovie meridionali di Zenone di Elea




















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