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Fonte:
https://senzasoste.it/ - 15 marzo 2011

150 anni di unità d'Italia: 

furono i livornesi i primi ladri di Stato

Mentre il Sindaco Alessandro Cosimi ed il fido Mario Tredici stanno verificando che i ristoratori livornesi rispondano positivamente all’appello patriottico di colorare di tricolore i piatti serviti il 17 marzo, la nostra redazione è andata a curiosare nelle vicende della nuova Italia nata nel 1861. Sorpresa delle sorprese, apprendiamo (ma come siamo ignoranti) che non sono stati Ciano e Matteoli i primi livornesi a ricoprire incarichi di governo.

 Il primo in assoluto è stato un banchiere (non bancario) diventato Ministro delle Finanze il 23 marzo del 1861, Pietro Bastogi, costretto poi a dimettersi per un intrigo tra interessi privati e soldi dello stato.

Altrettanto sorprendente è stato apprendere delle “fortunate” circostanze per le quali il Bastogi (o meglio la Società italiana per le strade ferrate meridionali di cui era Presidente) divenne concessionario delle ferrovie meridionali. Ma andiamo con ordine. Tutto ha inizio in quegli anni in cui si tramava per fare l’Italia.

I mazziniani erano sparpagliati per ogni dove e tra questi c’era un giovane livornese, Adriano Lemmi, nato a Livorno nel 1822, divenuto poi famoso per essere stato Gran Maestro dell’Ordine massonico dal 1885 al 1896.

Il livornese, conosciuto  come il “banchiere della rivoluzione”, aveva iniziato la sua carriera con un furto ai danni di una signora di Marsiglia.

A quei tempi Lemmi aveva solo 22 anni, ma prometteva bene, Falsificando una lettera di credito della ditta Falconet & C. di Napoli, il livornese diventò amico del medico Boubagne e frequentatore della sua casa.

Il 3 febbraio del 1844, mentre era in casa del medico e si trovava da solo con la moglie, Adriano Lemmi finse di avere un malessere.

La signora, premurosa, andò in cucina per preparare una tisana e fu in quel preciso istante che, il futuro Gran Maestro, rubò una borsa di perle e 300 franchi d’oro. I maligni sostengono che fosse il compenso dovuto per alcune prestazioni, una sorta di Ruby alla rovescia, fatto sta che Adriano Lemmi venne pizzicato dalla polizia in una taverna con ancora addosso la refurtiva.

Il 22 marzo 1844 Lemmi venne condannato ad 1 anno e un giorno di reclusione e 5 anni di alta sorveglianza. Sorveglianza che non impedì al Lemmi di arrivare a Costantinopoli dove conobbe un rabbino polacco che lo ammaliò al punto che, per ingraziarselo, Lemmi decise di aderire alla religione di Mosè, abbandonare il cristianesimo e farsi circoncidere.

Tutto questo avvenne il 14 gennaio del 1846. Due anni dopo, a Londra, Lemmi si iscrive alla massoneria presentato da un inglese amico di Mazzini. L’anno successivo conobbe Kossuth (una sorta di Mazzini ungherese)di cui divenne il segretario.

Rientrato in Italia dall’America nel 1851, Lemmi si dette un gran da fare. Erano gli anni di morti ammazzati eccellenti tra duchi, granduchi e cardinali, e tutti vedevano in qualche modo parteciparvi il livornese ormai nelle grazie di Mazzini.

Tant’è che dopo le varie rivolte più o meno spontanee (a Livorno, presente il Lemmi, il 30 giugno 1857) Mazzini scrive una lettera a Crispi e Garibaldi, di cui si conserva l’autografo, e nella quale riferendosi al livornese dice:«lo soltanto vi dico che mentre altri farebbe suo prò di ogni impresa, egli mira a fondare la Cassa del partito e non la sua». Come dire, signori miei se anche Lemmi guadagnerà qualcosa lo farà per il bene della causa repubblicana. Tutto questo accadeva mentre Garibaldi stava completando la sua spedizione al sud e si stava delineando un business di grande portata, la costruzione delle ferrovie, che attrasse l’interesse dello stesso mitico barone Rothschild (sinonimo per anni di ricchezza sfrenata - da qui il detto livornesissimo .

Nella corsa ad accaparrarsi quella commessa il più lesto di tutti fu un altro banchiere livornese, Pietro Augusto Adami, che si fece ricevere da Garibaldi a Napoli, mentre il Lemmi con tanto di lettera di presentazione di Mazzini, si presentò da Crispi.

Alla fine, per non far torto a nessuno il “Generale Dittatore, Giuseppe Garibaldi”, firma a Caserta, il 25 settembre 1860, un decreto con cui affida la costruzione delle ferrovie alla società Adami e Lemmi.

Un affare che, paragonato ai giorni nostri,  vale 5/6 miliardi di euro. In contropartita i politici del partito d’azione ottengono la possibilità di assumere i tecnici e la mano d’opera che vogliono, oltre all’apertura di numerose testate giornalistiche finanziate dai due livornesi.

L’affare era talmente grosso che subito si mossero critiche all’operato di Garibaldi, definito disinvolto, e sulla stampa si scatena il putiferio.

Intervengono Carlo Poerio e Carlo Cattaneo (tutti nomi noti a Livorno che hanno strade e scuole dedicate) e lo stesso Cavour, in procinto dell’unificazione dell’Italia, si sente in dovere di attaccare i cosidetti “rossi livornesi”.

La questione morale viene sollevata dalla destra e sul giornale torinese (non La Stampa, ma L’Espero) viene accusato Agostino Bertani (segretario e braccio destro di Garibaldi) di aver intascato una tangente da parte dei livornesi di 4 milioni di lire (60 milioni di euro oggi).

Querele e controquerele, fino a che, sotto la mediazione del Cattaneo, il parlamento ratificò il nuovo mandato alla società Adami e Lemmi. Fu allora che intervenne il giornale napoletano “Il Nazionale” (potenza dei media!!! e senza intercettazioni telefoniche) che pubblicò i capitolati del progetto mettendo in mostra che la società dei livornesi, oltre ad aver lucrato un centinaio di milioni di ducati, avrebbe fatto spendere allo stato di più di quanto non previsto dalle cordate francesi interpellate dai Borboni.

Per rispondere allo scandalo i due livornesi finanziarono e fondarono giornali a loro partigiani a Palermo, Napoli, Genova, Firenze e Milano.

Ma lo scandalo era tale che costrinse i due livornesi a cedere alla società francese Delahante le linee pugliesi e calabresi mentre la società livornese confluirà nella nuova compagnia “Vittorio Emanuele” di Charles Lafitte, in qualche modo legato con i Rothschild, per le linee ferroviarie calabro-sicule.

L’insurrezione delle popolazioni siciliane contro il governo di Torino, spaventò i francesi che si ritirarono dall’impresa e tornarono a galla i livornesi ai quali venne concesso di occuparsi della costruzione di 900 km di ferrovia. Solo Lemmi, però, riuscì a resistere alle varie bufere, Adami dovette cedere le quote societarie e ritirarsi a lavorare presso la Regia manifattura tabacchi, il cui appalto (ma guarda un pò) venne dato in regime di monopolio proprio al Lemmi.

Pur in presenza di una accelerazione imposta dal nuovo regno, la vicenda delle ferrovie  stava annaspando, malgrado si spendessero milioni per consulenze, studi e progettazioni di massima.

Un ritorno di interesse dei Rothschild stimolò il nascente capitalismo targato Italia e, con una mossa a dir poco priva di scrupoli, il nostro concittadino Pietro Bastogi si assicurò la concessione delle ferrovie del sud dopo aver costituito la Società italiana per le strade ferrate meridionali con capitale 100 milioni di lire.

La proposta dei Rotschild, arrivata ai responsabili dei Lavori pubblici, avrebbe dovuto essere illustrata in parlamento per essere esaminata e approvata, ma all’ultimo momento, venne tolta dall’ordine del giorno. Era successo che l’allora Ministro delle Finanze, (Bastogi appunto), pur di non far guadagnare il banchiere straniero (e di mettersi in tasca un pò di soldi n.d.r.) si dette da fare per costituire una società della quale facevano parte numerosi parlamentari scelti accuratamente per non dover restare impallinati nella discussione in aula. In questo modo la destra italiana era riuscita a trovare forme di finanziamento illecito.

La sinistra radicale di allora protestò vivacemente e venne deciso di nominare una commissione d’inchiesta. Alla fine tutti concordarono (ma guarda un pò) che “Qualunque voce o sospetto di corruzione esercitata verso uno o più deputati nell'occasione della discussione e votazioni della legge sulle ferrovie meridionali è rimasta pienamente smentita.

Egualmente è eliminato ogni sospetto a carico di quei deputati che pur avendo ingerenza in lavori parlamentari nella stessa occasione accettano di far parte dell'amministrazione della società italiana per le strade ferrate del meridione".

Nessuno andò in galera o venne salvato da leggi ad personam anche se Bastogi e altri parlamentari furono costretti a dimettersi. 20 anni dopo le vicende Crispi scriveva : “Per le ferrovie meridionali si tratta di costruire 3.982 km,spesa preventiva nel 1878,non per tre ma per 6.000 km 1.200 milioni,spesa preventiva nel 1888 non per 6 ma per 3.000 km 1.121 milioni cioè 404.319 Lire a kilometro,ma le ferrovie costruite prima, senza economie erano costate 282.703 lire a km ciò vuol dire mezzo miliardo pagato a Bastogi Balduino e Bombrini... “ Insomma lo stato non ci aveva fatto un bel guadagno ma qualche altro si.

Niente di nuovo sotto il sole, direte voi, ma di questi personaggi (purtroppo livornesi), in questi giorni, stiamo per celebrare il ricordo che a leggere la storiografia ufficiale non si direbbe abbiano fatto male. Ma la storia, quella vera, è altra cosa da quella che scrivono i vincitori, così, tanto per chiudere, vi regaliamo due chicche dei nostri amici.

La prima riguarda Bastogi che come ministro delle finanze ebbe l’incarico di predisporre il “Gran libro del debito pubblico” nel quale far confluire le voci in passivo dei bilanci dei vari stati prima dell’unificazione.

Ebbene il  Ministro si imbatté nel debito contratto dal Granduca di Toscana nei confronti di Bastogi banchiere quando quest’ultimo gli prestò dei soldi per finanziare la repressione dei moti carbonari del 1849.

La morale è che il Bastogi, uomo di governo, firmò gli atti che permisero al Bastogi, banchiere, di recuperare quei soldi che erano serviti per combattere la nascita proprio di quel governo in cui sedeva (veramente un genio !!!!).

Invece del Lemmi, di cui si può vedere l’effige in una statua esposta nella Villa Fabbricotti, si dice che fu il primo a intuire l’importanza di avere a disposizione una loggia segreta tant’è che riunì il fior fiore dell’Italia di allora, politici, banchieri, giornalisti, nella loggia Propaganda 2 (ogni riferimento a cose e persone dei tempi nostri non è per niente casuale).

Il suo credo pare che fosse “Chi è al governo degli stati o è nostro fratello o deve perdere il posto”.

Malgrado la sua capacità di intrallazzare ebbe un forte ridimensionamento dallo scandalo della banca di Roma. Insomma, Livorno non solo è capace di dare vita alla tre giorni di festa per l’unità d’Italia, ma è capace anche di dimenticare gli oscuri personaggi che si sono agitati in quel periodo, anzi, se possibile, li celebra affidandone la memoria a strade, scuole e monumenti.

Nella foto in alto Bastogi, al centro Lemmi

Per Senza Soste, Gino lo storico


Il primo scandalo toscopadano: le ferrovie meridionali di Zenone di Elea




















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