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Storia dell'insurrezione siciliana: dei successivi avvenimenti per l'indipendenza ed unione d'Italia e dell gloriose gesta di Giuseppe Garibaldi compilata su note e documenti trasmessi dai luoghi ove accadono

Giovanni La Cecilia


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CAPITOLO II

Concessione delle strade ferrate. — Decreto del Dittatore. In favore della società Rubattino. — Trivulzio Pallavicino prodittatore. — Proclama del prodittatore. — Lettera di Pallavicino a Mazzini. — Risposta di Mazzini al prodittatore.

Una delle grandi opere da intraprendere nel regno di Napoli, era certo una grande rete di strade ferrate per mettere in comunicazione le diverse provincia, per animare il commercio, e per affratellare la popolazione di quelle regioni, le quali per mancanza di vie vivevano sconosciute fra loro come popolazioni straniere. Il governo borbonico non erasi messo a quest'opera per due ragioni; una di questa era il non volere aggravare di debiti lo Stato, l'altra il non volere in mezzo ai suoi sudditi la rapida ed immediata comunicazione d'idee e di opinioni.

Errore gravissimo il primo, perché impediva lo sviluppo delle interne ricchezze e privava i popoli della prosperità immensa che poteva loro toccare in sorte avuto riguardo alla fecondità del terreno, alle miniere, ai boschi e tanti altri prodotti di che quel terreno è ricco; errore gravissimo il secondo, perché le idee e le opinioni si propagano sempre, e sovente sformandosi per le distanze riescono più nocive ai governi. In tutta Italia il sistema delle strade ferrate aveva fatto grande progresso. Molte ne aveva il Lombardo-Veneto, quasi compita era la rete del Piemonte, la Toscana aveva fatto in quel ramo quanto aveva potuto fare; solo il Borbone ed il Papa non si determinavano a tanto per erronei calcoli economici e per timori politici.


Era questa una delle ragioni di malcontento nei popoli, i quali non potevano tollerare, che altri Italiani stessero nell'uso delle nuove scoperte, a livello della Francia e dell'Inghilterra, mentre sè stessi vedevano condannati a restare stazionari, senza poter partecipare né ai commodi né ai vantaggi del progresso.

Garibaldi quindi trovò essere occasione molto favorevole questa, di fare nelle provincie napoletane quanto i Borboni non avevano fatto, e affezionare quei popoli alla rivoluzione della quale cominciavano a godere i frutti e i favori. Ma eravi ragione più possente ancora, quella cioè di dar lavoro a tante braccia che la rivoluzione aveva messe nella inazione, e abituare alla fatica la razza scostumata dei lazzaroni usi a marcire nell'ozio, a vivere di elemosina e di viltà e a consumarsi in tutti quei vizii che vengono dall'accidia. Inoltre erano cominciati a manifestarsi segni di reazione, che proveniente da malcontento sarebbe stata impedita se il lavoro e la speranza di guadagnare avesse attirati ad onesto vivere gli sfaccendati di Napoli e delle provincie. Dobbiamo aggiungere ancora, che i banchieri di Livorno, Adami e Lemmi avevano fatte molte pratiche presso il governo del Dittatore, onde determinarlo al decreto di concessione, in vista forse di grandi guadagni che a loro sarebbero venuti da un contratto fatto in tempo di rivoluzione, e con uomini non molto pratici di quelle cose. Cotesto pratiche ebbero il loro effetto; e noi registriamo tutto intero il documento che riguarda le concessioni di quei lavori; perciocché alcuni giorni dopo, quando tutta l'ira del ministero e dei ministeriali si precipitò spietatamente sopra il dottore Bertani, una delle calunnie gittate sopra di lui fu appunto il precipitato atto di concessione.

Ecco il documento di che parliamo.


Regno d'Italia.

VITTORIO EMANUELE RE D'ITALIA

addì ventotto settembre milleottocentosessanta.

«Innanzi a noi Ferdinando Cacace del fu Giosuè, notaio certificatore reale di Napoli, e sottoscritti testimoni son comparsi:

» Il signor colonnello Agostino Bertani del fu Francesco, segretario generale della Dittatura, qual rappresentante del governo dittatoriale nell'Italia meridionale, in virtù di decreto del venticinque settembre corrente anno, domiciliato strada Toledo nel palazzo di Angri;


e i signori cavaliere Pietro Augusto Adami di Davide, di Livorno, ed Adriano Lemmi del fu Fortunato, anche di Livorno, qui di passaggio, tanto nel nome proprio, che quali gerenti la Società anonima sotto la ditta «Società italiana meridionale». Li medesimi sono noti a me notaio e testimonii e ci han data comunicazione di un decreto dittatoriale del tenor seguente:


Italia e Vittorio Emanuele

IL DITTATORE DELL' ITALIA MERIDIONALE.

» Volendo procacciare a queste popolazioni il più pronto, copioso ed utile lavoro, e riparare nel tempo stesso alla dimenticanza nella quale fu fino a qui lasciata la costruzione delle ferrovie, ha giudicato espediente di prendere in immediata considerazione l'offerta della Società rappresentata dai signori cavaliere Pietro Augusto Adami e Adriano Lemmi di Livorno, e presa intima notoria delle morali ed economiche condizioni di essa Società, della sua deliberata intenzione di dare preferenze negl'impieghi e nei lavori a quelli che si potranno presentare come benemeriti veterani dell'esercito liberatore, in forza delle pubbliche esigenze e degli straordinarii suoi poteri, e di precedenti promesse già fatte alla detta Società per le ferrovie di Sicilia in data 27 giugno 1860


Decreta:


» Art. 1.° Le linee ferroviarie che la Società, rappresentata dai signori Pietro Augusto Adami ed Adriano Lemmi di Livorno dee compiere, sono le seguenti:

a) La congiunzione delle ferrovie napoletane a quelle dello Stato Romano, tanto nel versante del Mediterraneo, quanto dell'Adriatico.

b) I lavori di quelle linee di congiunzione collo Stato Romano, che erano già in corso per conto regio, saranno immediatamente ripresi.

e) Le linee da Napoli a Foggia, e da Salerno a Potenza, e quindi nella duplice direzione di Bari e Taranto e di Cosenza e Reggio.

d) Le linee della Sicilia da Messina a Catania e Siracusa e di Catania a Castrogiovanni e Palermo, colle traversali da Palermo a Girgenti e Marsala.

» Art. 2.° Le ferrovie di cui si tratta saranno eseguite per interesse dello Stato e per conto del governo che lo rappresenta.

» Art. 3.° La Società sunominata assume i seguenti incarichi:


a) Di fare il tracciamento sommario di ciascuna delle suddette linee, giusta le norme che saranno convenute col governo.

b) Di compiere i progetti di dettaglio e di stima dei singoli tronchi, fino a che siano dichiarati soddisfacenti da Commissione a tal uopo dal governo delegata.

e) Di eseguire senza eccezione tutte le opere in essi dettagli determinate ai convenuti prezzi di stima e dentro i termini di tempo determinati nei singoli progetti.

d) Di fornire per ciascun tronco tutto il materiale d'esercizio.

e) D'assumere anche l'esercizio dei singoli tronchi qualora al governo piaccia d'intraprendere fino dall'atto dell'approvazione dei progetti, per offerire immediatamente lavoro, le stazioni di Palermo, Messina, Napoli e Reggio.

f) Di costruire le grandi officine di riparazione e costruzione delle macchine, vagoni, ecc.

g) Di condurre lungo le ferrovie tutte le comunicazioni telegrafiche e le officine attinenti.

» Art. 4.° Le larghezze del piano stradale e dei ponti, ridotti, e gallerie; la forma, lunghezza e forza delle ferramenta; le distanze e forza delle dimensioni, e l'interna disposizione tanto delle stazioni, delle case di guardia, e dei magazzini, nonché la forma e forza delle locomotive, e di tutti i rotabili, strumenti e apparati di riparazione e costruzione, si dovranno tenere esattamente uniformi a ciò che si trova già stabilito nelle ferrovie dell'alta Italia, riservandosi il governo il diritto di determinare in tutto ciò se debba preferirsi il sistema adottato dal Piemonte o quello dell'antico Regno Lombardo-Veneto. Lo stesso si dica per ciò che riguarda l'ordinamento dell'esercizio e dell'amministrazione in modo che ad opera compiuta tutto possa offrire un carattere di radicale unità.

» Art. 5.° Il governo liquiderà le somme convenute a mano a mano che le singole sezioni ferroviarie e telegrafiche, e le grandi officine di riparazione e costruzione e le stazioni saranno compiute, consegnate, approvate, deducendosi prima le penali per difetti e ritardi.

» Art. 6.° Il governo farà i pagamenti ai prezzi ricavabili dai corsi delle Borse, in titoli al latore, simili in tutto e per tutto a quelli dei due gran libri del debito pubblico di Napoli e Sicilia.

» Art. 7.° La Società mandataria è tenuta ad aver compiuti i tracciamenti sommarii due mesi dopo che il governo le avrà comunicata, per ciascuno di essi, le relative norme.

» Art. 8.° La Società è tenuta ad aver compiuto i progetti di dettaglio entro mesi due, dal giorno in cui le sarà comunicata l'approvazione delle singole sezioni di tracciamento sommario.


» Art. 9.° La Società è tenuta a compiere le singole sezioni di lavoro entro i termini di tempo stabiliti da'  progetti di dettaglio a contare dal giorno,in cui le verrà comunicata l'approvazione di questi.

» Art. 10.° La Società si obbliga a depositare prima d'incominciare i lavori cinquecentomila lire italiane in effettivo, o in altrettanti titoli dello stesso governo, in garanzia dei lavori, e con diritto di ritirare detto deposito un anno dopo la totale costruzione delle ferrovie.

» Art. 11.° Il governo adotterà un sistema di sorveglianza col mezzo di una commissione, sia per sindacare l'economia della spesa, sia per la buona condotta dei lavori, e nei modi che crederà di suo maggiore interesse nella costruzione.

» Art. 12.° I concessionarii formeranno una Commissione di generale direzione per. l'amministrazione e sorveglianza dei lavori, con la quale si metterà in relazione diretta la Commissione del governo per tutto ciò che riguarda l'intrapresa.

» Art. 13.° Ogni mese la Commissione direttiva dei concessionarii presenterà alla Commissione del governo le note legali dei lavori compiuti per esserne subito rimborsate con le somme ricavate dalla vendita dei titoli, aggiungendo sull'ammontare delle spese effettive una provvisione del cinque e mezzo per cento. Questa provvisione andrà in compenso delle spese che sono a carico esclusivo dei concessionarii, cioè spese dei primitivi studii degli ingegneri a ciò addetti, della montatura di ufficii, viaggio e corrispondenze, la quale provvisione compenserà ancora i concessionarii delle loro fatiche, e sarà prelevata sul costo totale ed effettivo delle ferrovie.

» Art. 14.° La Società in ogni caso di ritardo prenderà il premio, ossia provvisione contenuta nell'articolo precedente, sia in tutto, sia in parte come il governo giudicherà equo.

» Art. 15.° A misura che un tronco di via ferrata potrà essere messo in esercizio ad uso del pubblico, i concessionarii ne faranno legale consegna al governo, il quale curerà nel suo interesse di organizzare il servizio nei modi di sua convenienza, quando non volesse darne l'incarico ai concessionarii medesimi, sotto condizioni da combinare d'accordo e con quel sistema di tariffe che il governo crederà di applicare.

» Art. 16.° I concessionarii avranno sulle linee consegnate il diritto di trasporto gratuito:

a) Dei materiali inservienti alla costruzione delle ferrovie;

b) Della corrispondenza postale del servizio della ferrovia;

e) Del personale addetto ai lavori, alla sorveglianza ed all'amministrazione delle ferrovie.


«Art. 17.° Avranno innoltre l'uso gratuito de'  dispacci elettrici al servizio delle ferrovie.

» Art. 18.° I concessionarii si obbligano ad impiegare nei lavori materiali e di sorveglianza esclusivamente gente del paese, oltre a dar impiego alle persone che verranno raccomandate per servigi resi nell'esercito dittatorio, come nel proemio del presente, salvo le persone particolarmente addette alla direzione.

» Art. 19.° I concessionarii sono obbligati a trovare i capitali,, e perciò esclusivamente incaricati della vendita dei titoli, come all'articolo sesto, a misura che gli richiederanno, e mediante una provvisione bancaria stabilita sino d'ora all'uno e mezzo per cento. Questa provvisione va in compenso dell'obbligo assunto di negoziare i titoli, delle commissioni, senserie, trasporti di denaro, e le altre spese a cui darà luogo la vendita di quei titoli.

» Art. 20.° I concessionarii formeranno una società anonima, che si costituirà sotto il nome di Società Italiana meridionale, la quale dovrà per la vendita dei titoli valersi della Banca David Pietro Adami e Compagni di Livorno, che sarà organo fra la Società costruttrice delle ferrovie ed i banchieri dell'Italia e dell'estero,,che acquisteranno i menzionati titoli. I servizii che la detta Banca renderà alia Socie tà costruttrice non costeranno nulla al governo, essendo compresi nella provvisione di cui all'articolo precedente.

» Art. 21.° Venendo il governo nella determinazione di far pagare i frutti semestrali, ossiano cedole nelle altre città d'Italia e dell'estero, la Banca David Pietro Adami e Compagni di Livorno dovrà pure prestarvisi gratuitamente per quelle cedole che, alle rispettive scadenze, si presentassero al loro Banco, salvo ad intendersi col governo per i fondi,,onde a ciò dare effetto.

» Art. 22.° Ogni legge, decreto, regolamento anteriori che possono essere contrarii al presente, sono revocati.

» Art. 23.° Il segretario generale della Dittatura è incaricato dell'esecuzione del presente decreto. Esso segretario ed i concessionarii formeranno un capitolato conforme pei patti e le condizioni al presente».

Data in Caserta, il dì 25 settembre 1860.


Il generale Dittatore Garibaldi.

Il segretario generale

Col. Agostino Bertani


Questa concessione dai nemici di Garibaldi e di Bertani fu giudicata rovinosa alle finanze; e vi fu chi giunse a considerare quell'atto illegale per la sua stessa immoralità.

Noi non sappiamo in verità scorgere tanta rovina in una concessione che ha il merito singolare di essere stata fatta ad una società italiana, contro il costume del governo sardo e di tutti gli altri piccoli governi italiani che per l'addietro contrattavano sempre con società straniere dando il guadagno a loro e privandone le case bancarie e le società italiane. Egli è duopo confessare che a guarentire la prosperità e la ricchezza interna di un paese, bisogna sempre trovar modo che il governo faccia guadagnare i propri cittadini. Questo non era stato mai fatto dal governo sardo, ed esso scusavasi col dire che non erano in Italia società ricche e potenti da valere a prestar sicurezza in opere gigantesche. Scusa insipiente perciocché se realmente coteste società non esistevano in Italia, toccava al governo il crearle e con agevolazioni e con favori di ogni sorta. L'operato adunque di Garibaldi era da questo punto di vista oltremodo lodevole, esso affidava una grande opera ad una società italiana, e ove anco vi fossero state delle larghezze, eran quelli guadagni che rimanevano in Italia e che presto o tardi, in qualche occasione potevano servire al governo stesso, il quale avrebbe potuto vantare in faccia agli stranieri le grandi risorse del paese.

In appresso vedremo come finalmente lo stesso governo sardo dovette cedere alle esigenze della giustizia e concedere alla società Adami e Lemmi la costruzione delle ferrovie dell'Italia Meridionale.

I nostri lettori ricorderanno come Garibaldi co' suoi mille volontarii partisse da Genova sopra i due vapori il Piemonte ed il Lombardo, appartenenti alla società Rubattino. Era giustizia indennizzare la società la quale fino a quel giorno generosamente non erasi fatta sentire. La voce corsa dopo la partenza di Garibaldi da Genova fu che la spedizione si fosse impadronita a viva forza dei due battelli, e ciò per non implicare la società Rubattino nei delitti di Stato e nei reclami delle leggi e dei diritti internazionali. Ma veramente la società Rubattino. era intesa di tutto, e volontariamente aveva dati i due vapori, certa che le sarebbero stati pagati o da Garibaldi stesso o dalla nazione perché adoperati per causa eminentemente nazionale. Ora che appressavasi il giorno in cui il governo sardo doveva prendere le redini del governo di Napoli, era conveniente che il dittatore prima di ritirarsi dal potere decretasse il pagamento dei due battelli alla predetta società. E Garibaldi adempì scrupolosamente a questo suo dovere il giorno 5 ottobre con un decreto in data di Caserta, col quale ordinò fosse pagata in cartelle del debito pubblico dello Stato la somma di 750 mila franchi, ¾ dalle finanze di Napoli e un ¼ dalle finanze di Sicilia.


Ecco il decreto.

«Considerando ch'è giustizia ed obbligo di riconoscenza nazionale che la società di navigazione a vapore Raffaele Rubattino e compagni di Genova, venga indennizzata dei danai sofferti per la perdita dei due battelli il Lombardo ed il Piemonte, i quali servirono alla prima e fausta spedizione in Sicilia nel maggio ora scorso;

» Considerato quindi il prezzo dei due battelli al 5 maggio passato, desunto da stima fatta due anni prima, per cura della società stessa;

» Considerato il lucro che poteva recare alla società l'esercizio di quei due battelli nei mesi trascorsi;

» Considerato il danno che venne alla società per le angustie in cui trovossi mancandole due de'  migliori battelli suoi nell'esercizio dell'imprese avviate, e degli obblighi contratti;

Considerata la perdita che soffrirono delle loro robe molti marinai del Lombardo, e tutti quelli del Piemonte.

» Sentendo che la nazione deve equamente proporzionare le ricompense, a chi patì per la causa della sua libertà, e che giova si rassodi la confidenza di ogni proprietario ed industriale nelle imprese, per quanto ardite della patria redenzione,

Decreta.

» Art. 1.° Sarà pagata in cartelle del debito pubblico dello Stato una somma corrispondente ad effettivi franchi 750 mila a carico per 3jk parti della finanza di Napoli, t di quella della Sicilia, alla società di navigazione a vapore Raffaele Rubattino e compagno di Genova, in compenso della perdita dei battelli a vapore il Lombardo ed il Piemonte, i quali saranno riparati e conservati in memoria dell'iniziativa del popolo italiano, nella guerra d'indipendenza ed unità nel 1860.

» Art. 2.° Il ministro delle finanze di Napoli e nello stesso dicastero in Sicilia, sono incaricati, per quanto ad ognuno concerne della esecuzione del presente decreto».

Caserta, 5 ottobre 1860.

Il dittatore, Garibaldi.


Il pensiero di conservare in memoria della memorabile spedizione i due vapori il Lombardo ed il Piemonte è degno di Garibaldi, il quale non vanitoso per sè stesso, era sempre altamente superbo di tutto ciò che potesse recare lustro ed onore alla nazione italiana. Ad un governo regolare forse non sarebbe venuto in testa di conservare come fasto di una grande epoca e di un grandissimo avvenimento due vapori,


ma il governo rivoluzionario lo ha pensato e Io ha fatto, e merita lode da quanti non calcolano negli avvenimenti politici i guadagni materiali, ma i fatti dello spirito umano concitato dalle più nobili passioni e dai sentimenti più sublimi di nazionalità e di patria. Fino a quando quei due battelli solcheranno il mare chiunque li vedrà si fermerà a considerarli, sentirà in sè stesso: queste due barche portarono un giorno da Genova a Marsala l'eroe del secolo e i mille prodi che lo seguirono. Esse porvano allora più che mille uomini, la redenzione di 9 milioni d'Italiani, il fulmine distruttore del trono borbonico, e i nobili destini dell'Italia unita.

La storia che parlerà ai più tardi nepoti della prodigiosa spedizione dei milìe, e tramanderà mille nomi immortali ai secoli futuri, parlerà eziandio dei due vapori il Piemonte ed il Lombardo della società Rubattino.

Intanto all'appressarsi del re e dell'esercito ai confini del regno tutte agitavansi le passioni politiche. Il partito di azione vedevasi fuggire il potere di mano, e il piano di spingere avanti i fatti verso Roma e Venezia veniva ad essere distrutto.

Noi parliamo ora di cose affatto misteriose, e che solamente in avvenire saranno portate alla luce.. Non pertanto diremo, che il segretario generale colonnello Bertani essendo al potere e concentrando in sè la politica del partito di azione vedeva di mal occhio l'avvicinarsi delle regie truppe, e avrebbe voluto impedirne l'entrata nel regno. Ma gli fu gioco forza cedere alla imponenza delle circostanze e forse anco alla certezza che l'esercito italiano sarebbe entrato malgrado le opinioni del governo dittatoriale. Richiesto il Bertani dai governatori degli Abruzzi se dovevano o no protestare contro l'entrata dell'esercito, il Bertani rispondeva non conoscere ancora la volontà del dittatore Garibaldi; ma quando il dittatore venne personalmente richiesto, rispose, accogliete i soldati piemontesi come fratelli. La calunnia, arma ordinaria delle anime vili e di quanti servono agli interessi dei partiti, giunse a pubblicare dei pretesi dispacci telegrafici, per mezzo dei quali il Bertani avrebbe ordinato di ricevere a fucilate i Piemontesi se per avventura volessero entrare nel regno di Napoli. Il partito ministeriale comprese che per aprirsi la strada a Napoli e Sicilia, bisognava perseguitare Bertani e costringerlo a ritirarsi dal potere, quindi adoperò tutti i mezzi per farlo cadere nel discredito generale, descrivendolo come fiero repubblicano, perturbatore dell'ordine pubblico, avverso al re e alla monarchia, e che avrebbe trascinata a rovina l'Italia piantando il dualismo, o cospirando per la repubblica.


La guerra ministeriale fu tanto fiera e potente che Bertani dovette soccombere; e Garibaldi trovossi nella necessità di allontanarlo dal potere e di chiamare a prodittatore un uomo che alla meglio avesse conciliate le cose in modo da evitare i mali minaccianti ed a far sì che la causa italiana non naufragasse per passione di partiti.

Garibaldi era da molto tempo amico di Trivulzio Pallavicino, antica vittima delle persecuzioni austriache; a lui scrisse pregandolo ad accettare la prodittatura e a portarsi immantinente Jn Napoli. Pallavicino accettò l'incarico a condizione che il Bertani fosse allontanato, e portossi in Napoli, dove dopo essersi inteso con Garibaldi sulle cose più essenziali venne creato prodittatore con decreto dittatoriale il giorno 3 ottobre 1860. Ecco il decreto:


«Il dittatore, sulla proposta del segretario di Stato all'immediazione, decreta:

» Art. 1.° Il marchese Giorgio Pallavicino Trivulzio è nominato prodittatore in Napoli, invece del maggior generale Sirtori, che se ne dimette volontariamente per attendere alla guerra nazionale.

» Art. 2.° Tutti i ministri e il segretario di Stato sono incaricati dell'esecuzione del presente decreto, il quale sarà inscritto nella collezione degli Atti del governo. » Caserta, 5 ottobre 1860.

Il dittatore

G. Garibaldi.

Il segretario di Stato

F. Crispi.


La nomina di Pallavicino a prodittatore fece varia impressione secondocché varie erano le opinioni verso di lui in tutta Italia. Come liberale nessuno dubitava dei suoi principii e quindi della sua politica nella via della libertà; ma qualche timore sorgeva per le sue precedenti relazioni col governo di Torino. Triulzio Pallavicino era uomo alquanto vano e difficilmente poteva essere appagato nelle sue ambizioni. Il suo martirio sotto l'Austria gli aveva accresciute le pretese in un governo libero italiano, e molti dicevano che si tenesse malcontento del governo sardo, il quale fino allora non lo aveva usato nelle grandi cose di Stato. Realmente il governo di Piemonte verso Pallavicino non aveva fatto che piccole cose, le quali compendiavansi in semplici onori, in decorazioni ed in vuote carezze, insufficienti ad appagare l'ambizione di un uomo che viveva in mezzo ai rivolgimenti politici, pei quali spesso dalla oscurità salgono al potere uomini non conosciuti né rinomati per sagrifici e per opere patrie.


Si temette perciò che Pallavicino malcontento andasse in Napoli a piantare il dualismo italiano e a continuare sotto altra forma la stessa politica di opposizione che avevano adoprata Crispi e Bertani, e che Mordini adoperava ancora in Sicilia. Si disse di più che Triulzio Pallavicino prima di partire da Torino per Napoli non era stato a visitare né il re né Cavour, ciò che si tenne per cattivo segno, giacché ove le sue mire fossero state annessioniste, egli avrebbe dovuto intendersi prima col governo del re per prender da esso le norme e le regole di governare ed affrettare l'annessione delle provincie napoletane al rimanente d'Italia libera.

Le cose però andavano diversamente; perciocché il nuovo prodittatore anzicché fare opposizione al governo aveva pensato rendergli un grande, un immenso servigio affrettando l'annessione, e cavandolo dalle mille difficoltà in cui ritrovavasi. Difatti, comunque suonasse diversa la voce pubblica, Pallavicino prima di partire per Napoli era stato a colloquio col conte di Cavour, e secolui erasi inteso sul da fare per condurre a bene le cose dell'Italia meridionale. Una delle cose stabilite fu di realizzare l'annessione per plebiscito senza convocare le assemblee come il partito di azione desiderava; ma di questo parleremo più avanti. Quanto alle provincie napoletane l'elezione del nuovo prodittatore piacque, si perché erano alquanto messe in sospetto di Bertani e di Crispi, si ancora perché anelavano togliersi alla precarietà ed entrare in una vita normale. In tutti i modi, era una elezione fatta da Garibaldi e questo bastava, tanto grande era la venerazione che verso lui nudriva il popolo di Napoli e delle provincie. Per altro, le novità piacciono ai popoli immaginosi, molto più in momenti di rivoluzione e di guerra, ed il popolo napoletano si compiacque eziandio di questa novita che gli dava un nuovo prodittatore, quindi probabilmente una nuova politica, ed un nuovo andamento nella interna amministrazione.

Come nei precedenti capitoli abbiamo detto, Mazzini trovavasi da alcuni giorni in Napoli, con lui trovavansi molti altri suoi amici, e dello stesso colore politico. La presenza di lui e del suo partito produceva nella popolosa città delle opinioni avanzate e faceva raffreddare in parte l'entusiasmo popolare verso Vittorio Emanuele. La sua casa era frequentata da molti i quali nel nuovo ordine di cose facilmente lasciavansi trascinare a partiti estremi. Egli era perciò di ostacolo non lieve alle opinioni annessioniste e sconcertava, anche non volendolo, l'andamento delle cose. Però siccome dal suo arrivo in Napoli in tutta Italia erasi destato gravissimo risentimento, pensò a rassicurare gli animi con un opuscolo che scrisse e che fece pubblicare col titolo — Nè apostata, né ribelle.


— Quest'opuscolo fu come una protesta fatta da lui in faccia all'Italia e all'Europa con la quale intendeva persuadere a tutti che se da una parte non disertava dalla sua propria bandiera repubblicana, dall'altra non avrebbe mai cospirato contro l'unità italiana che si attuava sotto la monarchia costituzionale di Vittorio Emanuele. Però quanti conoscevano la sua vita difficilmente inducevansi a credere che egli volesse rimanersi inerte in Italia, e tanto più lo temevano, quanto più le sue proteste erano insolite ed assolute. Per altro egli non aveva smesso il suo linguaggio antico, e nella lettera scritta al ministro Farini, e che pubblicammo nel precedente volume aveva detto: che un giorno avrebbe nuovamente cospirato per la repubblica, e che ne avrebbe avvertito il governo stesso.

Il nuovo prodittatore di Napoli non poteva adunque vedere di buon occhio la presenza di Mazzini nella popolosa città, e l'allontanamento di lui certamente gli avrebbe fatto comodo. La difficoltà però stava nel trovare il modo di persuaderlo a lasciar Napoli, tanto più che non gli era permesso vivere in qualsiasi delle altre provincie italiane, e che perciò lasciando Napoli doveva ritornare in esiglio.

È uopo inoltre notare che le provincie meridionali d'Italia avevano qualche simpatia per lui, perciocché dal 1848 in poi il solo che propagasse in quelle provincie le idee liberali era stato Mazzini, e i suoi proclami. e la sua propaganda  avevano tenuto per dodici anni accese le speranze della libertà e preparata la rivoluzione. In questo modo se il popolo non seguiva le sue opinioni politiche, tuttavia mal volentieri avrebbe tollerato la persecuzione contra di lui. Triulzio Pallavicino pensò agire generosamente, e di proprio pugno gli scrisse una lettera pregandolo a fare per l'Italia il sagrifizio di allontanarsi.

Noi pubblichiamo questa lettera la quale di certo sarà uno dei documenti della storia contemporanea.


Al chiaro signor Giuseppe Mazzini.


«L'abnegazione fu sempre la virtù dei generosi. Io vi credo generoso, ed oggi vi offro un'occasione di mostrarvi tale agli occhi dei nostri concittadini. Rappresentante del principio repubblicano, e propugnatore indefesso di questo principio, voi risvegliate dimorando fra noi, le diffidenze del re e de'  suoi ministri. Però la vostra presenza in queste parti, crea imbarazzi al governo e pericoli alla nazione, mettendo a repentaglio quella concordia che torna indispensabile all'avanzamento ed al trionfo della causa italiana. Anche non volendolo, voi ci dividete. Fate dunque atto di pattriottismo allontanandovi da queste provincie.


Agli antichi aggiungete il nuovo sacrificio che vi domanda la patria; e la patria ve ne sarà riconoscente.

» Ve lo ripeto: anche non volendolo, voi ci dividete; e noi abbiamo bisogno di raccogliere in un fascio tutte le forze della nazione. So che le vostre parole suonano concordia, ft non dubito che alle parole corrispondano i fatti. Ma non tutti vi credono: e molti sono coloro che abusano del vostro nome col proposito parricida d'inalzare in Italia un'altra bandiera. L'onestà v'ingiunge dimetter fine ai sospetti degli uni ed ai maneggi degli altri. Mostratevi grande, partendo, e ne avrete lode da tutti i buoni.

» Io mi pregio di dirmi

Napoli, 3 ottobre 1860.

» Vostro devotissimo»

Giorgio Pallavicini».


Porteremo su questa lettera il nostro giudizio. Il dire che la presenza di Mazzini metteva in diffidenza il re ed i suoi ministri non era niente affatto una ragione per cui Mazzini dovesse lasciare l'Italia. Mazzini non stava in Napoli né col permesso del re, né con quello dei ministri i quali ancora non avevan che fare colle provincie meridionali. Mazzini stava in Napoli sotto il governo di Garibaldi, in libere provincie non governate né dal re né dai ministri. Egli vi stava in nome della libertà e come cittadino italiano.

Il pretendere poi il sagrificio di andarsene volontariamente in esiglio era esigenza né giusta né onesta, perciocché amara cosa è abbandonare il sorriso della patria per vivere in terra straniera la vita del cospiratore.

Mazzini non stette in silenzio e dopo tre giorni rispondeva al prodittatore colla seguente lettera:


Al signor Giorgio Pallavicini


» Credo d'essere generoso d'animo, e per questo rispondo alla vostra lettera del 3, con un rifiuto. S'io non dovessi cedere che al primo impulso e alla stanchezza dell'animo, partirei dalla terra ch'io calco, per ridurmi dove la libertà delle opinioni è sacra ad ogni uomo, dove la lealtà dell'onesto non è posta in dubbio, dove chi ha operato e patito pel paese non crede debito suo di dire al fratello che ha egli pure operato e patito: partite.

» Voi non date ragioni della vostra proposta, fuorché l'affermazione, ch'io, anche non volendo divido. Io vi dirò le ragioni del mio rifiuto.


» Io rifiuto perché non mi sento colpevole, né artefice di pericoli al paese, né macchinatore di disegni che possono tornargli funesti, e mi parebbe di confessarmi tale cedendo — perché Italiano in terra italiana riconquistata a libera vita, credo di dover rappresentare e sostenere in me il diritto che ogni italiano ha di vivere nella propria patria quand'ei non ne offende le leggi, e il dovere di non soggiacere a un ostracismo non meritato — perché dopo aver contribuito a educare, per quanto era in me, i popoli d'Italia al sagrificio, mi par tempo di educarlo coll'esempio alla coscienza della dignità umana, troppo sovente violato, e alla massima dimenticata da quei che s'intitolano predicatori di concordia, e moderazione; che non si fonda la propria libertà senza rispettarne l'altrui: — perché mi parebbe, esiliandomi volontario, di far offesa al mio paese, che non può senza disonorarsi agli occhi di tutta Europa, farsi reo di tirannide; al re che non può temere d'un individuo, senza dichiararsi debole e mal fermo nell'amore del sudditi; agli uomini di parte vostra, che non possono irritarsi della presenza di un uomo dichiarato da essi a ogni tanto solo e abbandonato da tutto quanto il paese, senza smentirsi: — perché il desiderio non viene come voi credete, dal paese, dal paese che pensa, lavora e combatte intorno alle insegne di Garibaldi, ma dal ministero torinese, verso il quale non ho debito alcuno, e che io credo funesto all'unità della patria; da faccendieri e gazzettieri senza coscienza d'onore e di moralità nazionale, senza culto fuorché verso il potere esistente, qual ch'esso sia, e ch'io per conseguenza, disprezzo; e dal vulgo dei creduli inoperosi, che giurano, senza altro esame, nella parola d'ogni potente, e ch'io per conseguenza, compiango — finalmente perch'io, scendendo, ebbi dichiarazione, non rivocata finora dal dittatore di queste terre, ch'io era libero in terra di liberi.

» Il più grande idei sacrificii che io potessi mai compiere, l'ho compiuto, quando interrompendo, per l'amore dell'unità e della concordia civile, l'apostolato della mia fede, dichiarai ch'io accettava, non per riverenza ai ministri e ai monarchi, ma alla maggioranza, illusa o no, poco monta, del popolo italiano, la monarchia, presto a cooperare con essa, purché fosse fondatrice dell'unità, e che se mai mi sentissi un giorno vincolato dalla coscienza a risollevare la nostra vecchia bandiera, io lo annunzierei lealmente anzi tratto, e pubblicamente ad amici e nemici. Non posso compirne altro spontaneo.

» Se gli uomini leali, come voi siete, credono alla mia parola, debito loro è d'adoprarsi a convincere, non me, ma gli avversi a me, che la via d'intolleranza per essi calcata è il solo fomite d'anarchia che oggi esiste.


Se non credono ad un uomo che da trent'anni combatte come può per la nazione, che ha insegnato agli accusatori a balbettare il nome d'unità e che non ha mai mentito ad anima viva, tal sia di loro. L'ingratitudine degli uomini non è ragione perch'io debba soggiacere volontariamente alla loro ingiustizia e sancirla. »

Napoli, 6 ottobre 1860.


Questa risposta di Mazzini venne pubblicata dai giornali, e produsse in quanti la lessero profonda impressione. Scritta con molta dignità ed informata a liberi principii, accennava a fatti pur troppo reali, la persecuzione cioè contro un uomo che aveva educata l'Italia a balbettare unità italiana. Tutta quella lettera, nella sua brevità compendia una storia, ed è la storia di trent'anni, nui quali succeduta la giovine Italia alla setta dei Carbonari, il movimento politico italiano era divenuto più determinato e preciso, e dietro alla giovine Italia eran venute la giovine Ungheria, la giovine Polonia, e fino la giovine Europa. L'Italia specialmente dopo il 1848 in mezzo ai saturnali della ristaurazione aveva provato all'Europa, che Mazzini avevala educata a quella. fortezza per la quale unica religione è la patria, e per cui si disprezza eziandio la morte. Nel 1849 i soldati austriaci, barbari sempre e feroci, avevansi tolto l'impegno di purgare lo Stato del pontefice dai liberali, e adempirono a cotesto impegno fucilando quanti cadevan loro fra mani, e sovente quanti per particolare vendetta erano scelleratamente denunziati da una spia pontificia. Da Ancona a Ferrara, in tutte le Marche e nella Romagna non vi fu città, paese o villaggio in cui non venissero fatte delle esecuzioni, e i liberali ad otto e a dieci cadevano tutti i giorni mietuti dalla spada dei carnefici di Vienna. In Ravenna, in Lugo, in Imola giovanetti stimati innocenti dalle stesse autorità del governo papale vennero giustiziati senza processo, ma con la sentenza precipitata ed inappellabile delle corti marziali. Or bene, cotesto vittime cosi prima come nel momento di esecuzione mostrarono coraggio incredibile, fortezza d'animo impareggiabile. Mai s'indussero né a confessarsi, né ad usare degli altri sacramenti; stettero saldi alle prediche dei missionari che nelle prigioni andavano per convertirli. Dalle carceri camminando verso il luogo del supplizio mostravansi indifferenti e lieti, disprezzavano tutti gli apparati di morte e morivano finalmente levando un evviva all'Italia e a Mazzini. Vi fu chi disse che Mazzini aveva insegnato agli Italiani il saper morire. Ei non può negarsi che molta fortezza d'animo gli Italiani avevano tratta dalla parola del grande cospiratore; e noi osiamo dire: che il 1859 non sarebbe stato cosi propizio ai destini d'Italia se Mazzini non avesse preparato il terreno con treni'anni d'incessanti fatiche.


Gravi errori, è vero, aveva commesso; ma cosi gli errori come le verità politiche giovano ai popoli che si educano a libertà e sono una scuola senza la quale la sapienza politica sarebbe impossibile.

La risposta di Mazzini a Pallavicino Trivulzio conteneva adunque delle verità innegabili, e se il primo atto del prodittatore era stato lodevole quanto alla forma, non lo era stato del pari quanto alla sostanza.

Registriamo adesso il proclama del prodittatore ai cittadini delle provincie napolitane.


Cittadini!

«Chiamato dall'eroe che vi redense con una serie di miracoli, io vengo a dividere con voi le fatiche ed i pericoli che accompagnano la grande impresa da noi assunta in pro d'Italia. Incanutito nelle battaglie della libertà, io avrei diritto a quel riposo che suol concedersi al soldato dopo lunga e laboriosa milizia; ma la patria mi chiama, ed io non fui mai sordo all'appello della patria.


» Cittadini!

» In nome del Dittatore, io vi prometto uno splendido avvenire: prometto a queste nobili provincie, regnando Vittorio Emanuele, l'ordine colla libertà. E ciò significa, o cittadini, amministrazione imparziale della giustizia, base d'ogni governo civile; sollecito riordinamento dell'esercito e della flotta; accrescimento e migliore organamento della Guardia nazionale, scuole popolari, strade ferrate, incoraggiamenti di ogni maniera all'agricoltura, al commercio, all'industria, alle arti, alle lettere, ed alla scienza; rispetto alla religione ed a'  suoi ministri ove costoro sieno davvero gli apostoli di Cristo, e non quelli del Borbone.

» Ma, sopratutto, il nuovo governo promuoverà l'unificazione, bisogno supremo d'Italia. Non salverà l'Italia la fiducia nel patrocinio straniero, non la sonora ciancia delle sette impotenti; ma la concordia e le armi italiane. Armiamoci dunque ed uniamoci tutti sotto il vessillo tricolore della croce Sabauda, che tiensi inalberato dal salvatore delle Due Sicilie. Ecco l'orifiamma, ecco il palladio della nazione. Rannodiamoci intorno ad esso, gridando: Viva Garibaldi ! Viva il re galantuomo! Viva l'Italia! — Italia una e indivisibile. — L'Italia degli Italiani. »

Napoli, 6 ottobre 1860.

Il prodittatore

Giorgio Trivulzio Pallavicino.


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