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Antropologia del linguaggio.

La Campania e la lingua Napoletana.

di Sandrino Marra

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8 Febbraio 2014

La Campania nel suo insieme storico dal medioevo all’epoca moderna, ha visto il passaggio di varie etnie che hanno dominato il territorio, influenzando oltremodo usi costumi, e lo stesso linguaggio.

Questa regione ha avuto quale centro politico e spesso anche come capitale di Regno, Napoli. Effettivamente a partire da Federico II Napoli diviene capitale di un regno quello di Napoli, che si estendeva in tutto il meridione d’Italia, quasi millenario, e per l’Italia dal medioevo l’unica realtà unificata nata dopo la caduta dell’Impero Romano d’occidente. Tale realtà ha anche significato una forma di gestione del territorio di carattere feudale protrattosi per un tempo lunghissimo, terminato, almeno dal lato legislativo solo nel 1806. Nel contesto di tenuta dell’unità del Regno, era tale forma, probabilmente l’unica valida e di certo quella che si dimostrò più consona alle situazioni politiche del Regno che si susseguirono nel tempo, con forme di instabilità e di scontri di successione le quali in alcuni periodi minarono l’equilibro sociale ed economico del Regno stesso. Vi è da dire che la denominazione Regno di Napoli è il nome informale con cui è conosciuto l’antico stato italiano che in tale forma esistette dal XIII al XIX secolo ed il cui nome ufficiale era Regno di Sicilia citeriore quello ufficiale Regnum Siciliane citra Pharum e Regno Siciliane ultra Pharum intesi dalla storiografia quali Regno di Napoli il primo, Regno di Trinacria o più semplicemente Regno di Sicilia il secondo. In effetti nel 1302 con la pace di Caltabellotta si sancì la divisione del Regno in due parti, i quali furono riunificati in due vice-reami spagnoli distinti nel XV secolo con la conseguente distinzione storiografica e territoriale tra Regno di Napoli e di Sicilia. L’unificazione definitiva si ebbe solo nel 1816 con il nome di Regno delle Due Sicilie. Napoli come detto divenne la capitale dell’omonimo Regno nel XIII secolo e resterà tale sino al XIX secolo attraversando le molteplici vicissitudini politiche del Regno.

C’è da dire che fino all’unità d’Italia il Regno dal punto di vista giuridico non era suddiviso in province e regioni come oggi, e l’indicazione di regione Campania è un modo per poter intendere un preciso territorio che nel passato ricadeva per questioni economiche nell’area di influenza diretta della capitale, in considerazione poi del fatto che questa per lungo tempo fu la seconda città più popolosa d’Europa. In effetti l’attuale territorio della Regione Campania, in passato concentrava quasi l’intera popolazione nell’area della capitale e delle zone limitrofe e nonostante l’alta produttività agricola dell’area (dovuta alla fertilità dei suoli di origine vulcanica) questa non era sufficiente a sfamare l’elevato numero di residenti (ammontavano ad oltre 400.000 abitanti nel 1600, quando Parigi non giungeva alle 200.000 unità) ed una parte importante dei beni di prima necessità giungevano dall’entroterra e dalle zone più distanti che orientativamente ricadevano nel territorio dell’attuale suddivisione regionale.

Con la nascita del Regno la lingua napoletana acquisisce forma di lingua nazionale e nel 1442 sostituì il latino nei documenti ufficiali e nelle assemblee di corte a Napoli.

Nel XVI secolo fu sostituito dal castigliano quale nuova lingua ufficiale, ad opera di Ferdinando il Cattolico, ma il napoletano rimase in uso nelle udienze regie, negli uffici della diplomazia e dei funzionari pubblici. Tale lingua italica di origine romanza, con il tempo acquis una molteplice serie di variazioni diatopiche parlate nell’Italia meridionale in quei territori che costituivano il regno al di qua del faro di Messina e dove era appunto il napoletano la lingua ufficiale. Per secoli tale lingua fece da ponte tra il parlato del mondo classico e quello moderno in quella evoluzione che diverrà l’italiano, e strutturalmente la si può considerare quale prima forma di volgare italiano. L’importante ritrovamento dei Placiti cassinesi ossia quattro testimonianze registrate tra il 960 ed il 963, sull’appartenenza di alcune terre ai monasteri benedettini di Capua, Sessa Aurunca e Teano che riguardava una lite sui confini di proprietà cassinesi nelle tre cittadine ed un feudatario locale divennero una sorta di conferma di italiano volgare. Il documento che fu una deposizione giurata dinanzi ad un giudice, fu redatto in italiano volgare che voleva essere dotto ed ufficiale ed al contempo considerando che i testimoni erano tutti chierici o notai si presume che l’intento, (conoscendo i testimoni il latino) fu quello di dar modo a tutti i presenti al giudizio di conoscere il contenuto dello stesso. Le formule pronunciate erano queste:

Sao ko kelle terre, per kelle fini que ki contene, trenta anni le possette parte Sancti Benedicti” redatta questa a Capua nel Marzo del 960.

La seconda così recita:“sao cco kelle terre, per kelle fini que tebe mostrai, Pergoaldi foro, que ki contene, et trenta anni le possette” redatto a Sessa Aurunca nel Marzo del 963.

La terza recita: “ Kella terra, per kelle fini que bobe mostrai, sancte Marie è, et trenta anni le posset parte sancte Marie.” Redatto a Teano nell’Ottobre del 963.

La quarta recita: “Sao cco kelle terre, per kelle fini que tebe mostrai, trenta anni le possette sancte Marie”.

Dall’analisi filologica dei testi diverse parole rientrano nella forma linguistica del napoletano in forma alquanto antica dato che si tratta di parole in uso nel napoletano dell’anno 1000 anche se poco è variata la forma da allora. La forma “Sao” dal latino “Sapio” nel napoletano e nei dialetti meridionali trasforma la “Pi” latina in C, e quindi il “sapio” latino diviene “saccio” in napoletano sostituendo la formula “sao” per le varianti delle seguenti influenze linguistiche nella lingua napoletana (Francese, Catalano, Spagnolo senza considerare il greco antico ed il latino). Ancora “tebe” e “bobe” sono residui di dativi dell’uso del napoletano, il “Ko” e la sua variante “cco” denotano un residuo del latino “quod” confluito più tardi nella forma italiana che.

Da qui l’antichità della forma linguistica del napoletano, che come detto affonda poi la sua definitiva forma nel XIII secolo e si protrae ancora oggi. Ma la particolarità poco conosciuta della lingua napoletana, è che questa non ha mai avuto quelle suddivisioni erudite espressive tipiche dell’italiano, che spesso diveniva e diviene comprensibile solo a soggetti di elevata istruzione e cultura, basti pensare all’elaborato linguaggio del mondo accademico o al cosiddetto politichese.

La lingua napoletana era parlata in quello che fu il Regno di Napoli con delle varianti nei territori della Calabria meridionale, e della Puglia meridionale, una lingua molto diversa era ed è parlato in Sicilia con molteplici diversità locali. Considerando che il Regno era esteso territorialmente dall’Abruzzo alla Calabria, la vastità dell’espressione linguistica napoletana toccava una popolazione di 5.000.000 di individui nel momento di massima espansione territoriale che orientativamente ricade intorno al 1832. Il napoletano come espressione linguistica nella forma più conosciuta oggi è parlato in Italia da oltre 11.000.000 di individui e si raggruppa territorialmente in un area che si estende dalla fascia meridionale delle marche al confine con l’Abruzzo, l’Abruzzo compreso, il Molise, la Campania, la Calabria Settentrionale, facendone la seconda lingua, per diffusione parlata in Italia. Ovviamente bisogna tener conto di alcune varianti linguistiche locali, che vanno semplicemente a cambiare il suono di alcune espressioni e lettere, quali la “s” chiusa oppure la “o” chiusa, le quali determinano il cambiamento sonoro di alcune parole, senza cambiare nulla nella sintassi . Altra rilevante particolarità, che è collocabile in un contesto etnico-culturale è l’espressività e semplicità del linguaggio, poiché scevra dai parametri di linguistica erudita, rende semplice e comprensibile la conversazione tra persone provenienti da ceti sociali ed erudità diverse, quasi a voler rendere gli individui eguali in una forma linguistica ed espressiva che finisce per abbattere le disuguaglianze sociali. Fu lingua di popolo, ma fu anche lingua di Re, famoso il proclama di Francesco II Borbone ultimo Re di Napoli che nel suo proclama al popolo in un passaggio disse “Io sono Napolitano; nato tra voi, non ho respirato altra aria, non ho veduti altri paesi, non conosco altro suolo, che il suolo natio. Tutte le mie affezioni sono dentro il Regno: i vostri costumi sono i miei costumi, la vostra lingua la mia lingua….” ed in effetti era questa la lingua parlata a corte, comprensibile da chiunque provenisse dal Regno di Napoli. Da nord a sud, da est ad ovest dei territori prima menzionati, in una realtà territoriale estesa quanto Albania e Grecia messe insieme, comprese di popolazione, la lingua napoletana sostituisce l’italiano in tutte quelle conversazioni non ufficiali, avvicina e riconosce la provenienza degli individui da una eguale cultura e contemporaneamente è portatrice di usi costumi ed abitudini similari, insite nella popolazione di queste terre e riconoscibili dall’espressione linguistica. Buone o cattive abitudini, criticabili o ammirevoli, la lingua ne definisce il contesto culturale di provenienza, e nello stesso tempo è portatrice oltre che di semplificazione espressiva, di una millenaria storia di un Regno che fu la prima espressione di una unità territoriale italiana, definita nella storiografia moderna quale antico stato italiano. Oggi l’ UNESCO la riconosce quale lingua a tutti gli effetti inserendo tale idioma in un contesto legislativo, ma anche riconoscendo la demo-etno-antropologia di un linguaggio parlato da oltre 11.000.000 di individui.



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