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La rivoluzione napoletana del 1820-1821 tra "nazione napoletana" e "global liberalism" dii Zenone di Elea

STORIA DEGLI ITALIANI PER CESARE CANTÙ 

Prima edizione napoletana eseguita sulla prima torinese

con note del Regio Revisore

Canonico Gaetano Barbati 

VOLUME SESTO

NAPOLI

1859

G IOV . PEDONE LAURIEL

Vico Maiorani p.p.

GIUSEPPE MARGHIERI

13 Str. Nardones p. p.

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CAPITOLO CLXXIII

La restaurazione. Il liberalismo

Rivoluzioni del 1820 e 21. È d unque Italia rimessa sul piede antico, almeno all’intender di coloro c h e nelle paci si appagano della firma dei re, anziché cercare l’unico stabile fondamento, il rassetto delle idee. Le comuni sventure aveano avvertito i re che, separati dai popoli, restavano preda della prima bufera: i popoli da tante sciagurate prove aveano attinto un vivissimo desiderio della quiete, fino ad immolarle non solo gl’impeti sconsiderati, ma anche parte della dignità; sicché la esultanza onde i principi furono accolti dapertutto, non può paragonarsi se non a quella con cui furono dapertutto cacciati nel 1848. Nessun dì loro s’inebriò della vittoria a segno d’accompagnare il ristabilimento colle vendette che la disonorarono quindici anni prima: sentivano d’aver fattalo ed essi e popoli; e in tal caso nulla s’ha meglio a desiderare che la reciproca dimenticanza del passato. Ma nell’improvida loro bontà i principi si davano a credere che ai sudditi non dovessero se non dimenticanza; quindi dopo aver tutti fomentato le idee liberali, e riconosciuta la sovranità dei popoli coll’invitarli a ribellarsi, pretesero ridurli alla passiva obbedienza, ad affidarsi nel cuor loro paterno. E poiché è natura di tutte le reazioni dì spingersi colle speranze più in là che non possano giungere i fatti, non s’accorgeano che il tempo fa ruine cui nessuno può ripristinare, e sciagurato chi vi si ostina invece di profittarne per erigere edilizi nuovi. Se dunque i primi effetti della pace arrisero, se la pace stessa rallentava l’oppressione togliendo o il pretesto o l’occasione degli arbitri, ben presto rivisse l’attività della repressa ma non tolta rivolozione, e apparve quanto cambiati fossero i governanti non meno che i governati. Napoleone, coll’abbattere a voglia i re o tenerseli vassalli, ne offuscò l'aureola; rotta la storia, ruppe anche la patria e la famiglia col render l’uomo cosmopolita, cioè soldato e mero elemento di forza; alla religiosa venerazione pel passato surrogò l’entusiasmo politico, alla fraternità una comunanza d’obbedienza, che mentre annichilava i sudditi, rendeva più facile ad abbattere l’autorità isolata.

Vent’anni di guerra aveano rinvigorito gli ordigni dell’amministrazione, abituato i governi agli arbitri dei tempi eccezionali, quando lo Stato è tutto, nulla l'individuo (1). Quest’assolutezza parve un acquisto, né i principi vollero rinunziarvi nella pace; tutto regolarono per decreti; guardarono come concessione l’esercizio delle più naturali libertà; non viaggiare senza passaporti, non tener armi senza licenza, non istampare senza censura, non istudiare che nelle scuole regie; necessaria la regia approvazione per istituir compagnie, per esercitare la beneficenza, per divertirsi, per le spese e pei magistrati comunali, per l’elezione de’ vescovi e de’ parroci; affidata ogni cosa alle venali cure della parassita turba degl’impiegati; insomma si fecero dipendere dal beneplacito del governo mille atti, di cui prima della rivoluzione godeasi e non prezzavasi la libertà. Lo spirito di famiglia, di corpo, di città, di patria, di religione, insomma quello spirito pubblico che è vita e forza della società, soccombeva all’architettonica simmetria d’un’amministrazione centrale e all’oculatezza della polizia, la quale sempre acquista importanza primaria dopo una rivoluzione, massime se nulla siasi voluto condiscenderle (2).

Dacché i governi vollero concentrata in sé tutta la vita, restò ad essi tutta la responsabilità ; ucciso lo spirito di sagrifizio, tolto il dovere o l’impulso dell’attività individuale, gli uomini non furono che cifre, e il dirigerli un atto di forza; talché non rimase a scegliere che tra una dipendenza cieca o una forsennata anarchia. I governi trovavansi per avversario non un uomo o una classe, ma il libero arbitrio, il quale ricalcitrando da quella meccanica classificazione, obbediva solo in quanto costretto; e così agevolavasi l’opera del despotismo, cioè delle rivoluzioni, dove una piccola minorità o un prepotente o un esercito cambiano le istituzioni d’un popolo per darvene altre non meno dispotiche.

Realmente la libertà, come altrove, così in Italia era antica, e nuovo il despotismo, giacché solo la rivoluzione francese annichilò quei privilegi municipali e provinciali, quelle tradizionali franchigie, che sono la forma del diritto prima di diventar comune (3). I principi accettarono la restaurazione in quanto ripristinava la loro potestà, non in quanto rifletteva ai popoli; e così seguirono le idee rivoluzionarie sia calpestando gli antichi diritti storici de’ sudditi, e con ciò traendo questi a chiederne di nuovi e radicali, sia accettando i doni della vittoria, cioè consacrando la forza, e riducendo il diritto al fatto. la ragione alla riuscita.

Tutti quegl’ordigni gli aveva introdotti Napoleone, e ne ritrasse odio e debolezza; i succeduti facc i ano altrettanto, ascrivendone ad esso la colpa. Ma il popolo diceva: «— Siam servi come prima, paghia m o quanto allora, diamo ancora i nostri figli a marciare nelle guarnigioni o su terre straniere, e non ci restano tampoco il fragor della gloria, il compenso delle apparenze». Perocché le divise militari, l’apparato teatrale delle magistrature, le rassegne, le pompe lasciarono il barbaglio dopo cessa t e le fitt e; e poiché il passaggio della vita militare alla civile è naturalmente prosastico, que’ governi positivi, misurali, paterni sentivano di meschinità a fronte della preceduta carnevalesca splendidezza, della rapidità di eseguire o almeno comandare tante opere pubbliche, incompatibile con amministrazioni ponderate e massaie. Impiegali tolti di posto o sminuiti di grado e di potenza, arrangiavano continue lodi del passato; speculatori cui erano mancate le occasioni d’improvisi guadagni, moltiplicate in tempi turbinosi; militari avvezzi a rapidamente acquistar gradi e sperarne di sempre maggiori, e che coli’ occasione d’uccidere e farsi uccidere vedeansi tolta quella di diventar generali, e che, tutti fede nell'onnipotenza delle armi, si persuadevano che un pugno di veterani d’Austerlilz o di Catalogna basterebbe a sgominare un esercito di costoro che parean nani a confronto del gigante di Marengo e di Jena, ridestavano il cullo di Napoleone, inneggiato non per i beni che recò o rappresentò, ma per izza ai dominanti nuovi, che ne proseriveano i ritratti e il nome.

Perocché Napoleone, mentre in Francia per tiranno, fuori passava per liberale, avendo in fatti diffuso qui alla cheta ciò che per la furia crasi guasto colà, ed operato assai più che i principi del secolo precedente, non limitandosi a riforme amministrative, e dando statuti e leggi fondamentali ch'erano una scuola politica iniziatrice. Il regno d’Italia e quegli altri alla francese eran costati sangue e tesori e servitù, ma realmente aveano surrogato codici metodici e brevi alla farragine di decreti e di pratiche, risultante da molti secoli e da eterogenee dominazioni; la procedura semplificata ed evidente sottraeva ai lacciuoli de’ mozzorecchi e alle ambagi de’ legulei; l’inestricabile varietà dei tributi erasi ristretta in pochi e chiari; pubblico il debito e le ipoteche; garantiti con queste e coll’intavolazione le proprietà e i contratti; distinta la potestà civile dalla militare, l’amministrativa dalla giudiziale; organati i municipi, parificato il diritto di tutti in faccia alla legge. Questi erano benefizi effettivi; e quantunque già fossero qui predisposti e in parte attuati, se ne ascriveva il inerito a que’ governi. Ora molti dei principi ristabiliti credettero vantaggio del popolo il derogarli, per tornare ai vecchi di cui era cessata la ragione, cioè l’abitudine; e coll’astiare il passato più che affidar nell’avvenire, favorirono l’inclinazione ingenita nei popoli di rimpianger l'ordine caduto per l’affaccio del presente.

Mentre abolivasi il buono, conservatasi il peggio. In quello stato violento e di guerra, i principi aveano dismesso que’ primitivi comporti paterni, a fronte di nemici che bisognava combattere, di popoli che aveano esultato ai loro disastri la lebbra napoleonica degli eserciti numerosi non guariva perché non se n’erano lolle le cause; e si continuò a sagrificarvi la quiete, gli affetti, la moralità, le famiglie: in conseguenza bisognò mantenere le imposizioni come in tempo di guerra rotta, eppure deteriorar le finanze, acciocché la forza armata desse ai governi il sentimento di poter ogni cosa senza far mente alle inclinazioni o ai bisogni de’ popoli.

Ma l’operosità, distolta dalla gloria militare, avea preso un indirizzo nuovo, occupandosi di trattali, di miglioramenti, di lotte parlamentari, e insieme dell'industria e del credito pubblico, di statistica e politica; e tornossi a ragionare di diritti e libertà. Gli Stati prima della rivoluzione poggiavano sul privilegio e la gerarchia delle classi, e sull’unione di queste tra loro in modo, che il clero, la nobiltà, le maestranze delle arti, le municipalità, protette da concessioni o da consuetudini, impedivano ai governi d’esser assoluti, e sminuzzavano fra moltissimi corpi l’azione amministrativa. Altrettanta disuguaglianza sussisteva nei beni, alcuni legati indeclinabilmente in manimorte, altri tenuti a certe servitù di livelli e prestazioni, altri ristretti in fedecommessi, godibili non alienabili, che dovevano trasmettersi intatti di generazione in generazione.

Camminando nel solco avito, gli uomini compivano per usanza un infinità di atti, e veneravano tradizionalmente l’autorità, non tanto rassegnandosi, quanto neppur riflettendo al peso di essa: e le abitudini di dipendenza da una parte, di patronato dall’altra tutelavano la società, che aveva l’arbitrio per massima, la libertà per effetto. La rivoluzione richiamò in disputa tutti i principi, tutte le autorità, fin la paterna; e stabilì la naturale indipendenza dell’uomo, che abbandonato agl’impulsi della propria natura, userà tutte le sue forze a procacciarsi il maggior numero di sensazioni piacevoli, il che si chiama felicità (*). A tal uopo egli si elegge de’ governanti, e si rassegna ad esser governalo: ma se coloro riescano d’impaccio all’incremento di tal sua felicità, egli potrà abbatterli; potrà surrogarsi ad essi quando ne invidii la quantità maggiore di sensazioni gradevoli.

Come ciascuno fu dichiarato uguale all’altro in diritti, pretese esserlo in fatti, sicché parvero non sociale necessità ma legale ingiustizia le disuguaglianze inerenti alla convivenza; e ciascuno si arrancò incessantemente a salire, ad acquistare, nessun più rassegnandosi a quel che prima si chiamava il proprio stato. Ma il livellamento è un fatto puramente materiale, mancante delle prime condizioni di cuore e di mente, ed ora che non v’è più classi ma soltanto posizioni, sempre sono incerte, sempre minacciate; ciascuno per mantenersi nella sua o per migliorarla cerca arricchire; quell’arricchire che altre volte era il piacere d’alcuni, ora è fatto passione di tutti.

Lo svincolo dei possessi agevolò le transazioni, crebbe la cura di migliorarli; e i latifondi, testò abbandona t i alla patriarcale negligenza di corporazioni e luoghi pii, furono sminuzzati fra particolari, che s’industriarono a trarne il maggior frutto possibile. Così crebbe la ricchezza, e per essa l'industria, e con esse il desiderio de’ godimenti materiali; tanto più che, revocata in dubbio la vita avvenire, non si accettarono i mali di questa come un’espiazione; e posto per iscopo della vita la felicità, la si volle goder alla presta, fin rinnegando il primo ministro di Dio, il tempo.

Adunque mancanza di principi fissi e universalmente accettali, smania di possessi, di godimenti, di miglioramento materiale, obbedienza violenta alla forza piuttosto che alla legge, erano i nuovi spiriti sociali; e tolte le barriere, distrutta la nobiltà, fiaccato il clero, cresceva il desiderio d’un’intervenzione attiva ed efficace del governo nel proprio paese. Non lo ignoravano i principi, i quali della rivoluzione aveano conosciuta la potenza a segno, di valersi dei dogmi e degli stromenti di essa per abbattere colui che l’aveva infrenata. E avrebbero presunto di rimetter il mondo qual era prima di essa? Le idee morali erano svanite tra quella serie d’astuzie, d’abusi della forza, di perfidie; era mancata la reciproca confidenza, che è la più difficile a restaurarsi; i re non erano più i padri d’una gran famiglia, ma conquistatori e capi d’eserciti; alle loro corone era venuta meno fin la consacrazione della durata, dacché per capriccio o per forza erano state tolte, divise, restituite; dacché essi medesimi voleano riconoscerle soltanto dalla vittoria, che é un fatto non un diritto; tutti si erano prosternati a un soldato per conservarsele; prosternati al popolo per ricuperarle, senza dignità né buona fede; il congresso medesimo avea conculcato il diritto de' popoli, ma insieme sconosciuto quello de’ principi, mutandoli, barattandoli.

Internamente non rimanevano più istituzioni tutrici, storiche, non corpi rappresentativi, ma quell’uguaglianza che lascia libertà degli arbitri: i nobili, mero apparato, non formavano un corpo, difesa e limite al trono, alla cui ombra crescevano; i preti non s’affezionavano a un potere che guardavali con gelosia; i borghesi non poteano rivoltarsi che immediatamente contro il principe; i popoli non s’adagiavano nella quiete, perché d’un nuovo cambiamento erano lusinga t i dai tanti che già aveano veduti. Intanto i governi neppur possedeano il vigore d’un assolutismo confessato, ond’erano costretti a turpe discordanza fra quel che promettevano e quei che lasciavano fare; e come i poteri egoisti, credeano assai il guadagnar tempo.

Quindi i principi si lamentavano di non trovar più que’ sudditi docili del Settecento; i popoli dicevansi traditi nelle promesse, delusi nell'aspettazione; governo e governati non procedeano più di conserva ma a con t rosenso, gli uni attenti a comprimere, gli altri a rialzarsi, e intanto fremere, denigrare, disapprovare. Cessato di credere alla moralità de’ governati, diveniva necessaria la repressione: cessato di credere alla moralità de’ governanti, diveniva necessario un patto, un freno. Si trovò strano che pochi forti dessero assetto a tut t ’Europa, ed uno in ciascun paese facesse le leggi, disponesse delle entrate a vantaggio proprio, non dei più: e vagheggiavasi un meglio che pareva più be l lo quanto meno era determinato. Alcuni principi fuor d’Italia aveano adempiuto le promesse concedendo una costituzione ai loro popoli; costituzione non fondata sulla storia, come la inglese; neppur patto bilaterale fra il regnante e i sudditi, ma donata da essi principi, i quali del passo medesimo poteano ritoglierla. Le più avanzate fra quelle costituzioni portavano l’eguaglianza di tutti in faccia alla legge, libertà della parola e della stampa, più o meno partecipazione de’ rappresentanti del popolo a far le leggi e ad assettare le imposte, inamovibilità de’ giudici, responsabilità dei ministri. Tale l'aveva ottenuta la Francia; e messa come è nel centro dell'Europa, e mirata come il tipo della civiltà, e con una lingua a nessuno ignota, traeva l’attenzione sulle quistioni costituzionali che alla sua tribuna pareva si agitassero in nome di tutto il mondo; e di colà erompeva quella pubblicità che altrove teneasi repressa.

I governi eransi dati aria di mecenati coll’estendere gl’insegnamenti classici; aumentando la folla de’ saputi, che più presuntuosi nelle aspirazioni quanto men alti all’opere, colla parola audace insieme e inesperta sovvertono le indisputabili verità, e tirano l’opinione in balìa di chi meno ha senno di guidarla (4). Aperta che fu l'Italia, affluirono forestieri a venerarne le mine, ammirarne il cielo, goder le bellezze che vi nascono dal bacio immortale dell’arte e della natura,diffondervi il danaro e insieme le idee. Memorabile tra questi fu la principessa di Galles, che menò pompa di libidini principalmente in Romagna e sul lago di Como, poi non voluta ricevere dal marito divenuto re d’Inghilterra, diede origine ad un processo scandaloso, dove i nostri accorreano a testimoniar in difesa di quell’indegna, o perché pagati o perché perseguitata. L’inglese Beyle col nome di Stendhal, seelteio e volteriano ancora, ma già piegato ai concetti romantici e fino al misticismo sentimentale, viaggiò l’Italia panegirista di essa e della passione, legandosi col meglio della società e della letteratura, e carezzandovi l’amore delle novità. Lord B y ron, l’Alcibiade britannico, che non soddisfatto della sua patria, ne esulò volontario, e invece delle assodate libertà di quella, fomentava le avventurose de’ rivoluzionari, venne coll’esempio a sparger gusti strani e falsi sentimenti di raffinato egoismo e voluttuosa misantropia fra i nostri giovani, e contaminare la innocenza, finché diede un nobile scopo alla sua vita andando a combattere per la risorta Grecia (5). Questi e tanti altri ci metteano sott'occhio passioni, sentimenti, atti, lettere, che distoglievano più sempre dalle abitudini nazionali, e invogliavano delle innovazioni, dell’operosità.

Speciali malcontenti aveva l’Italia. Chiamata a novello organismo dalla sua ben distinta postura e dalla religione che qui tiene suo centro, è tratta all’isolamento di ciascuna provincia dalla bellezza di tutte, dalla conformazione geografica, e dal non esservi predominato verun conquistatore, quanto i Franchi nelle Gallie, i Normandi in Inghilt er ra. Non che da ciò le derivasse pregiudizio, l’età sua più splendida fu allorquando nessuna città prevaleva alle altre; e ciascuna, ricca d’ubertà, di commercio, di dottrina, sentiva bastarle intelligenza , coraggio, mezzi per divenir capitale. La nazionalità fermatasi dunque alle frontiere di ciascun dominio: Genova non provava bisogno d’unirsi a Napoli; nulla chiedeva Milano a Firenze; le guerre da Venezia a Romagna, da Toscana a Sicilia non guardavansi come fratricide, nulla più di quelle tra Francia e Borgogna, tra Castiglia ed Aragona.


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Ma come il pressoio connette materie scomposte, così rimpetto al l'oppressione straniera l’Italia senti la sua dignità; lo senti nella lingua, nelle arti, nella letteratura, supremamente nazionale già fin da Dante, e nella quale il nome di lei visse anche quando lo cancellavano le spade e la diplomazia. Tale sentimento però restringevasi nelle classi colte; e queste pure non facea repugnanti alla dominazione forestiera. contro la quale appena trovereste un lamento negli scrittori del secolo passato. Merito della natura dei governi d’allora che, non ancora ossessi dal demone regolamentare, usavano riverenza alle forme storiche, e qualunque fosse il dominio, conservavansi nazionali, moltissima azione lasciando ai rappresentanti de’ municipi e delle province; sicché molti partecipavano in qualche porzione all’autorità, colla nobile compiacenza d’affaticarsi pel proprio paese.

Buonaparte proclamò non saremmo né tedeschi né francesi, ma italiani; poi ci divise, ci barattò, ci vendette; costituì un regno d’Italia. ma sconnettendone importanti porzioni, e col pom o della sciabola foggiandolo alla francese. Al cader suo, dagli Allea t i che aveano trionfato, sperò vita Italia: ma essi la spartirono fra signori, quali antichi, quali nuovi, quali perfino a tempo, e tutti patriarcali. Il governo intermedio aveva cassato le auliche rappresentanze tutorie, sicché non rimase che l’assolutismo amministrativo, infelicità nuova. Le tante dogane in paese sbocconcella t o impacciavano il commercio, e que’ cambi da cui i comodi e la ricchezza. Leggi discusse, giudizi pubblici e di gradi determinati, sicurezza del debito pubblico, moderazione d’imposte, franchezza del pensiero, pubblicità d'amministrazione, larghezza di censura, erano bisogni che il progresso facea sentire tanto più, quanto che se n'era già fatto il saggio. Ma ad ottenerli il maggior ostacolo pareva il governo straniero, che a tutti gli altri sovrastava; e poiché l’Austria avea professato sosterrebbe con ogni sua forza i governi patriarcali d'Italia, in essa concentravasi l avversione dei liberali.

Si aggiunsero fortuite disgrazie; e a Napoli, oltre l’incendio del gran teatro, la peste s’introdusse nella terra di Bari, presto è vero soffocata: la carestia desolò tutta la penisola il 1816 e 17, sicché dagli Apennini calavano i poveri a torme, a guisa di zingari vagando di terra in terra, e rubando o accattando, or in cupo silenzio, or con grida minacciose: e fin nella pingue Lombardia le radici e le erbe eran pascolo disputato. I governi vi opposero provvedimenti dispotici insieme ed insulsi, che aggravavano il male (6); lo temperava la carità, operosissima: ma il tristo nutrimento predispose i corpi a un contagio di petecchie che moltissimi uccise: la Toscana perdette innumere vite, mentre della fame s’imputavano furiosamente i fornai. Intanto i medici o credendole asteniche con Bro w n, o steniche con Rasori, applicavano a quelle malattie rimedi opposti; e tutti in favor proprio allegavano le statistiche, le quali forse non provano se non l'impotenza dell’uomo contro questi flagelli, di cui non è insolito che i popoli dieno colpa al governo, e dicano anche qui, «Oh al tempo de’ Francesi! Oh sotto l’altro governo!»

Di tutti questi elementi formossi quello strano composto che fu nominato liberalismo (*). Che sovrano sia il popolo, in modo che la generalità rimanga sempre autorità suprema, e i magistrati esercitino i poteri soltanto per trasmissione fattane loro dal popolo, il quale può anche priva rn eli, e a cui sono sempre obbligati a render conto; che tal massa collettiva eserciti il potere supremo realmente e direttamente, nel che consiste la democrazia; che il cittadino nell’uso della propria libertà non sia limitato da riflessi al ben pubblico, alla costumatezza, alla fede, ma soltanto dalla libertà altrui, sicché non v’abbia restrizioni nello spartimento dei beni, nell’esercizio de’ mestieri, nel domicilio, nella predicazione di sètte, negli atti comunque scandalosi, nel che consiste la libertà;che in tutte le relazioni pubbliche nessuna diversità di diritti nasca dalle condizioni reali, cioè dai possessi, né dalle professionali o dal ceto e dalla corporazione, nel che consiste l’uguaglianza;che le istituzioni riconosciute ragionevoli dalla maggiorità vengano tosto attuate, senza riflesso a condizioni storiche o morali né a diritti acquisiti, nel che consiste il trionfo della ragione;infine che, abolita la religion dello Stato, non si badi a professione di fede, a culto, a sanzione d’atti civili; son questi postulati che la Rivoluzione erasi proposto di ridurre ad atto, e son i medesimi che il liberalismo caldeggiava. Ma poi, o per illogica transazione o per forza, rispettava le autorità esistenti, le naturali condizioni della vita e gl’interessi materiali; e se alcuni vagheggiavano l’America, tanto prosperante senza re né nobili né clero, i più accont e ntavansi di sollecitare lo sviluppo delle condizioni sociali com’erano. Ne veniva una specie di dottrinale compromesso tra la verità e la menzogna, il quale bisogna ben distinguere dalla vera libertà. che porterebbe il massimo del potere privato col minimo del governativo, il più ampio uso delle facoltà individuali coll’esercizio del diritto universale. La perpetua tutela, l’accettare i magistrati invece di sceglierli, la volontà sottomessa a irragionati comandi, la niuna garanzia dei diritti, l’autorità incondizionata possono conciliarsi colla materiale felicità; non colla dignità d’uomo che ha bisogno d’aver fiducia nel proprio diritto e sicurezza contro l’abusata potestà e contro vessazioni arbitrarie, di poter ritenere o spendere a modo suo il frutto del suo lavoro, di partecipare alle ordinanze dalle quali penderà il suo ben essere, insomma d’un governo intelligente e probo.

Di tal passo, alla consuetudine e alla fede perdute surrogavansi negli animi l'opinione e l'individualità, cioè il vacillamento e l’egoismo; l'assoluta uguaglianza portava alla sovranità del popolo, e per conseguenza alla preponderanza del numero, il che riesce ancora alla superiorità della forza e alla perpetua mobilità; un’immedicabile scontentezza del presente, qualunque esso sia; un attribuir merito all’opposizione, ragionevole o no, dissolvente o restauratrice; un credere all’onnipotenza della parola, scritta o declamata, e che con essa e con decreti si possa cambiar il mondo, nulla riguardando alla storia né alle idee e alle abitudini del popolo; un volere che certe dottrine di pochi, e per lo più negative, vagliano come dogmi, e siano accettale anche dai popolo che non le intende, e per cui non hanno importanza. Come tutti i partiti, questo considerava traditore il pensante che conservasse l’indipendenza morale, e degradava il popolo facendogli maledire o adorare feticci, a volontà degli ambiziosi e de’ viziali, invece di adoprarsi a surrogare la riflessione alla passione.

Da Napoleone aveano imparato i re a ledere i possedimenti privati colle imposte e colle contribuzioni illimitate, e il possedimento più sacro, la nazionalità: i liberali ne appresero a non calcolar mai la possibilità, proporsi un fine senza misurarlo ai mezzi, e scordarsi che nella lotta delle idee contro le cose era soccombuto anche il gigante. Molti erano fior del paese, generosi e d’integra fede: ma come accade, vi si aggregavano i malcontenti di diverso merito e colore; que’ nobili e qualcun del clero che avevano sognato recuperare i vecchi privilegi, e svogliavansi di governi che gli aveano ripristinati soltanto per se; que’ letterati cui lardava l'occasione di metter in piazza le proprie abilità; quei tanti che sentendosi capacità od ambizione per governare, non si vedevano adoperati (7).

Le società secrete, durante l’impero, avevano ritemprato il sentimento nazionale contro l'invasione delle idee e della dominazione forestiera; conservato la memoria e il desiderio di quella libertà che conculcava lo stivale ferralo. I re n’aveano profittato contro i loro nemici: ma le perseguitarono, dacché, cangiando non direzione ma oggetto, si rannodavano contro le nuove oppressioni.

I Carbonari, costituitisi nelle montagne calabresi dominando Marat, si attenevano in gran parte ai riti massonici; se non che in questi proponevasi la vendetta dell’ucciso Iram e i godimenti d’un deismo confacente colla filosofia del secolo passato, mentre la forza melanconica dei Carbonari assumeva di vendicar la morte di Cristo, e ristabilirne il regno. Vi si aggregarono anche magistrati e lo stesso re dopo che ruminò l'indipendenza: e l’esercito di lui nell’ultima incursione lasciò numerose venditenelle Legazioni, donde si diffusero alla Lombardia, e massime a Bologna, Milano, Alessandria. Nel costoro ordinamento, una vendita particolare non comprende più di venti buoni cugini,in relazione fra sé ma isolati dalle altre vendite: i deputati di venti parziali vendite ne formano una centrale, che per via d’un deputato comunica coll’alta vendita; e questa per un emissario riceve gli ordini dalla vendita suprema e da un comitato d’azione. Tal gerarchia favorisce il segreto, la diffusione, i ritrovi, senza togliere l’unità. N u lla scrivere ma partecipar a voce, riconoscersi per mezzo di carte tagliate e delle parole speranzae fede,alternar le sillabe carità,stringendosi la mano fare col pollice il c e la n, erano i segnali e il regolamento, il rivelare i quali ai paganio lo spergiurare punivansi di morte, inflitta di fatto ad alcuni o avversari o disertori. Dovea ciascuno procacciarsi un fucile con baionetta e venticinque cartuccie; versar alla cassa comune una lira per mese, e cinque all’ammissione; giurare di «far trionfare i dogmi di libertà, d’eguaglianza, d’odio alla tirannia; e se non fosse possibile senza combattere, combatter fin alla morte».

Da questo tronco erano usciti moltissimi rami; de’ Protettori repubblicani, degli Adelfi, della Spilla nera, e via là. Più franca l’Ausonia, giurava formar una repubblica italiana, divisa in ventuno Stati, ciascun de’ quali manderebbe un deputato all’assemblea sovrana, di cui uno ogn’anno farebbe posto ad un altro; assemblee provinciali nominerebbero le corti di cassazione, i consigli di dipartimento, distretto e cantone, il capo della guardia nazionale, l’arcivescovo, i superiori de’ seminari e licei; il potere esecutivo affidavasi a un re del mare e un della terra, eletti per ventun anno dall’assemblea sovrana, senza distinzioni ereditarie; imposta progressiva a proporzione dell’agiatezza, il più povero pagando un settimo di sua rendita, il più ricco sei settimi; il papa sarebbe pregalo a divenire patriarca della repubblica, risarcendolo dei possessi temporali toltigli; il collegio de’ cardinali non risederebbe nella repubblica, e se eleggesse un nuovo papa, questo dovrebbe trasferir altrove la sua sede; conservati i soli frati Mendicanti, ma libero l’uscirne chi vuole, e non vi s’ascriva alcuno se non dopo servito come militare.

In questo segretume rimestavano sempre i Buonaparte, e Luciano ebbe il grado supremo di Gran Luce. Nel 1817 giovandosi della fame e d'una malattia del papa, si tentò una sollevazione in Macerata col proposito di ridurre tutta Italia sotto il consolato di un Cesare Gallo d’ Osimo; ma scoperti, e processati da monsignor Pacca, tredici capi ebbero condanna di morte, e grazia dal papa. Anche l’imperatore d’Austria ne processò alquanti del Polesine, e tredici condannò a morte, commutata in carcere.

Le società segrete variavano natura o forma secondo i paesi: e parvero loro opera le turbolenze scoppiate in molte parli; in Inghilterra una congiura per trucidare i ministri; in Germania l’assassinio dei comico Kotzebue per mano dello studente Sand; in Francia quello del duca di Berr y , presunto erede della corona, pel coltello di Louvel; in Russia la rivolta d’un reggimento; e quella che ebbe maggiori conseguenze, l’insurrezione della Grecia contro i Turchi, nella quale si trattava di compiere l’antico volo dell’Europa col riscattar i Cristiani dal giogo musulmano. Molti Greci venivano a studiare nelle università di Padova e Pavia, fra cui Coletti e Capodistria; molti adottarono la nostra lingua, come Foscolo, Mario Pieri, Petrellini, Mustoxidi; e fin dai tempi napoleonici erasi formata in Italia un’eteria o società per ricostruire l’impero greco: lusingata di promesse dall’imperatore, avea disposto armi per tentare dalle Jonie uno sbarco che le popolazioni seconderebbero; ma la caduta del regno d’Italia sparse ogni cosa al vento. Dappoi fidando nella Russia, fu ritessuta un’eteria, frutto della quale fu la sollevazione della Grecia. Benché fosse la croce che l ottava contro la mezzaluna, la civiltà cristiana contro la barbarie musulmana, le potenze sfavorirono quel tentativo sol perché aveva aspetto di rivolta o sentore di liberalismo: ci fu chi fece vituperarlo ne’ suoi giornali, e tenne prigionieri i capi di quella che potè cogliere.

La Carboneria era stata trapiantata in Francia massime dal fiorentino Bonarroti, già apostolo di Baboeuf, e vi abbracciò studenti, negozianti, soldati. Gli ambiziosi e gl’inquieti che vi trescavano, ammantavansi coi nomi di La Fave t te, di Dupont de l’Euro, di più onorevoli; asserivano lor corrispondenti principali Napoleone e Luigi Buonaparte figli del re d’Olanda; e in t endeansi sopratutto coi vecchi e co! nuovi militari. Ma se i cospiratori convenivano nel concetto di distrugger ciò che sussisteva, non bene risolveano che cosa sostituirvi; e chi era fido alla repubblica, chi mirava verso il figlio di Napoleone, chi a Luigi Filippo d’Orleans. Si stabili a Parigi un comitato, che fomentasse le rivoluzioni dapertutto e principalmente in Ispagna e in Italia, fantasticando una lega latina da opporre alla lega nordica, per ridurre l’Europa ad un assetto differente da quello impostole dai trattati del 1815.

I sovrani alleati, accortisi dell'ampliarsi del liberalismo e dell’operosità delle società secrete, si congregarono ad Aquisgrana, e rinserrarono la loro unione non più coi soli intenti evangelici della Santa Alleanza, ma collo scopo espresso d’impedire si stabilissero governi costituzionali, e di coadiuvarsi a reprimere ogni tentata rivoluzione. Allora si tolse a perseguitare non solo gli atti, ma l’opinione, la quale in tali casi trasformasi in sentimento, e il sentimento elevandosi all’entusiasmo, si propaga, offusca il raziocinio, fa ammirar i perseguitati, aborrire chiunque resiste, tremare gl’indifferenti, e gli stessi avversari piegarsi al vento che spira o alla paura. Allora prendono coraggio que’ ribaldi, che di proposito inimicano al popolo il sovrano fomentando i sospetti; per rendersi necessari fingono cospirazioni ove non sono che aspirazioni; e inducono il bisogno di castigar l’opinione o il desiderio di premiare la delazione, di rimovere dai posti i meritevoli, di cercar dalle carceri o dalla gendarmeria una sicurezza che più non s’ha nella docile benevolenza. Quegli che narrò formicolar il paese di Giacobini e Carbonari, è impegnato a mostrarsi veritiero col fiutare e origliare e moltiplicar processi; nei quali l’accusa essendo d'opinione, e quasi impossibile scagionarsi; se non si trova da condannare, se ne imputa la furberia degli accusati, il talento, le relazioni loro.

Con siffatte arti cercavasi e combattevasi la libertà; e frutto immediato n’era uno scontento indeterminato , quel mal umore che è proprio di persone do tat e d’intelligenza e non di genio. E certamente la libertà nobilita l'individuo come la nazione: ma bisogna esserne degni e usarla convenientemente; ed al fanciullo non ancor provisto di ragione, o al mentecatto che la perde, o al vizioso che ne abusa, legalmente vien tolta. Ora fra l’autorità che non conoscendo misura precipita al despotismo, e la libertà che rifiutando ogni freno degenera in licenza, se ponete unicamente la forza per comprimere o per abbattere, arriverete o all’eccesso dell’assolutezza che giustifica le rivoluzioni, o all’abuso delle rivoluzioni che scusa l’assolutezza. Le costituzioni, eh’ erano l'espressione del liberalismo d’allora, eliminavano dalla scienza politica la morale, sistemando il mondo con pure combinazioni d’interessi, nessun uffizio nei rapporti politici riservando alla sincerità, all’onoratezza, tutto riducendo allo spiarsi reciproco e soperchiarsi dei due poteri, contrastatisi anziché cooperanti, fin a dire pazzamente che il re non deve governare, cioè la monarchia riducendo ad istituzione meccanica e giuridica, non già organica ed elica. Cosi destituiti di fondamenti sodi, qual meraviglia se dal 1789 al 1 8 3 0 ben cencinquantadue costituzioni si pubblicarono? Cosa veramente da far ridere!

Perché cessi d’esser necessaria la coazione, il freno dev’essere morale; né altro migliore v’avrebbe che la religione, la quale insegna a chinarsi all’autorità, e insieme l’autorità raffrena. Or la religione avea sofferto tali scosse vuoi nel fondo vuoi nell’esterna attuazione, che tempo, longanimità, prudenza voleasi per rimetterla nei cuori non meno che nell’ordine civile. Intanto, quasi una protesta contro il passato, Pio VII annuendo alle pressanti suppliche d’arcivescovi, vescovi e personaggi altissimi, ripristinò i Gesuiti che, per volontà d’altri altissimi, un suo predecessore aveva aboliti, e che rinascevano gravati dei rancori dell’antica società, non della sua sapienza e robustezza.

L’ arbitrario mescolamento di nazioni, fatto dal congresso di Vienna, riuscì a vantaggio della tolleranza, ponendo il papa in corrispondenza colla Russia. Coll’Olanda, con altri eretici o scismatici, dai quali otteneva miglioramenti pe’ loro sudditi cattolici. Ma fra i cattolici gran fatica gli costò il combinare coll’inveterata disciplina le nuove pretensioni giansenistiche e filosofiche dei principi che, mentre avrebber dovuto consolidare il dogma dell’autorità, lo scassinavano coll'ingelosirsi del papa (8); vantavano come libertà l’abbatter qualche ostacolo che i privilegi clericali mettessero all’onnipotenza amministrativa; il proibirne o sorvegliarne l’istruzione, le adunanze, le comunicazioni col capo supremo; il sottoporre a revisione le encicliche de’ vescovi, le nomine de’ parroci, i brevi di Roma.


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Fin il piissimo Vittorio Emanuele, spinto da consiglieri zelanti dell’indipendenza della civile dall’ecclesiastica giurisdizione, voleva assettar a sua voglia le diocesi, e in quelle di fresco acquistate del Genovesato operare non altrimenti che nelle antiche; poter dare il consenso alla nomina de’ cardinali delle altre Corti, e averne un suo; ricusava come anticaglie l’invio che Roma facea delle fasce pei principi neonati, dello stocco benedetto, della rosa d’oro; non voleva ripristinare la nunziatura; movea lagni che l’Austria condiscendesse troppo col papa, quasi per averlo stromento alle sue ambizioni. Il cardinale Consalvi ministro di Pio VII, avendo conosciuto le Corti e la sventura, inclinava ad annuire fin dove fosse compatibile colla dignità, sebbene lo disapprovassero gli zelanti; e disfacendo il concordato di Buonaparte, ne stipulò un nuovo col Piemonte, circoscrivendo altrimenti le diocesi, sotto i metropoliti di Torino, Genova, Ciamberì, Vercelli; alla Corte risederebbe un nunzio di primo grado, il quale non ne partirà che decorato dalla porpora. Poi in quel regno furono chiamati i Gesuiti ad educare la gioventù; a Pinerolo s’istituirono gli Oblati della Beata Vergine, preti secolari, con vot o speciale d’obbedienza al pontefice; altrove i Sacerdoti della Carità del Rosmini; oltre gli Ordini antichi.

L’Austria, fedele alle tradizioni giuseppine, non solo nella Lombardia nominava i vescovi ed esercitava poteri già competenti a Roma, ma Io voleva anche ne’ nuovi acquisti di Rag u si e Venezia; del che ottenne poi privilegio dal papa.

Allorché Ferdinando assunse il titolo di re del regno delle Due Sicilie,il papa fece riserva degli antichi suoi diritti, ma il re non gli riconobbe che solamente in parte. L’omaggio della chinea che nel 1806 aveva egli giurato pres t are, adesso negò come uno di que’ pesi feudali che nei recenti trattati s’erano aboliti; donde una disputa, esacerbata da molte scritture e dall’aver il papa ricusato cedere per danaro Benevento e Pont ecorvo, reciproco ingombro. Finalmente Consalvi e il ministro Medici in Terracina convennero fosse conceduto al re di nominare alle sedi del suo regno, da cenquarantasette ridotte a novan t adue; non s’inquieterebbero i possessori di beni ecclesiastici; gl'invenduti sarebbero divisi fra i ripristinati conventi, senza guardare di chi fossero prima; i corpi religiosi dipenderanno da’ propri generali; i vescovi, liberi nel pastorale ministero a norma dei canoni, potranno convocar sinodi, visitare le soglie degli apostoli, pubblicare istruzioni su materie ecclesiastiche, intimar preghiere pubbliche o altre pie pratiche; al loro f o ro le cause ecclesiastiche, le matrimoniali, e la censura dottrinale sui libri che s’introducono; la santa sede sopra le rendite de' vescovadi si riservava dodicimila ducati l'anno, da disporre a favore di propri sudditi. Restava in arbitrio di ciascuno l’appellar al papa; ma il re dichiarò, con questo non derogavansi i privilegi del tribunale della monarchia di Sicilia. Non erasi stipulata veruna immunità personale per gli ecclesiastici; ma nel 1 8 3 4 fu convenuto che i vescovi potessero esaminar i processi di quelli condannati a morte, prima di disacrarli.

Questi ed altri concordati essendo parziali, non toglieano le varietà disciplinari; in molti paesi restava colpa pe’ dignitari ecclesiastici il comunicare direttamente con Roma; in nessuno si ripristinarono intere le immunità reali, personali e locali; né illimitato il diritto d’acquisto delle inanimarle; la più parte delle prelature restò di nomina, o almeno di proposizione governativa; erano sorvegliati i possessi ecclesiastici, voluto l’exequaturai decreti di Roma. La Chiesa perdette inoltre gli Ordini militari, e que’ feudi che erano di rinforzo al potere ecclesiastico, mentre al civile recavano debolezza i feudi laici; e nella sola Germania le erano stato tolte duemila leghe quadrate di dominio con tre milioni di sudditi. Il clero, sentendosi indebolito dalla Rivoluzione, s’appoggiò sui re, ai quali sin allora facea contrappeso; e i re quando videro ampliarsi il liberalismo, oltre i modi giuridici e le chiassate de’ giornali e i freni alla stampa , ricorsero alle repressioni morali, e Pio VII condannò le società secrete (Ecclesiam a J. C. ), imputandole d’insinuare l'indifferenza col «lasciare che ciascuno foggi a voglia una religione, pur affettando rispe tt o e mirabile preferenza per la cattolica, e per la persona e la dottrina di Gesù Cristo, che chiamano rettore e gran maestro della società ».

I principi mostravansi ombrosi d’un’autorità nel tempo stesso che sentivano il bisogno di ristaurare. Quando Leone XII proclamò il giubileo, da gran tempo impedito, la bolla fu mal gradita da essi; in Francia non si permise di pubblicarla; l’Austria ne accettò le disposizioni solo in quanto fossero compatibili colle leggi e cogl’interessi dello Stato (9). Al qual giubileo venner a Roma da quattrocentomila pellegrini; a novantaseimila diede tridua ospitalità l’arciconfraternita della Santissima Trinità, de’ qu ali però ventimila sudditi pont ifizi , quarantacinquemila del Napoletano, giacché ai lontani mancava o lo stimolo della fede o la licenza de’ superiori.

Dei misfatti della Rivoluzione accagionandosi le dottrine che la precedettero,ed una filosofia che deve dedur t utto dalla ragione e secondo la ragione, se ne eressero al t re che possiam dire della controrivoluzione, opponendo alla sovranità del popolo la legittimitàossia il potere costituito sovra la propria autorità; al patto sociale, l’unità primitiva dello Stato; la costituzione organica di elementi naturali, alla democrazia astratta e ai meccanici statuti; la conservazione tradizionale, alla smania innovatrice. Insomma ricercavano ciò che si deve mantener del passato, mentre la rivoluzione proclamava ciò che dell’avvenire può desiderarsi; e poiché, invece d’un astratto concetto, guardavano a ciò che fu, alla storia specialmente della propria nazione, assumevano colore distinto secondo i paesi, migliori qualora spirito della storia nazionale riproducessero senz’al t eramento di concetti personali. Questa scuola ebbe an ch’ essa adepti e apostoli, e superiore a tutti Giuseppe de Maistre da Ciamberì, sul quale è dovere di trattenerci, non tanto come savoiardo, che come la più elevata espressione del ritorno del mondo verso le idee religiose e patriarcali.

Combattuto nelle prime guerre del Piemonte, andò a Pietroburgo ambasciatore del suo re, al quale conservò fede anche dopo scoronato. Venuto da paese che diede alla Francia insigni scrittori (10), la sdulcinata lingua rinvigorì facendola parlare d’altro che di passioni, di materia, di tornaconto, con uno stile fatto pittoresco dalla collera, dagli ardimenti del genio, da animatissima convinzione; e diceva essere stile l’alleanza del sentimento col gusto. Il problema fondamentale della filosofia spiega egli col supporre una primitiva rivelazione della parola, e delle idee con essa, offuscata poi dal pecca t o originale.

Il governo visibile della Pro v videnza, l’esistenza del male, l’origine divina dell'autorità regia, l’origine regia di tutti i privilegi nazionali, l'universale fiducia delle nazioni nell’efficacia de’ sacrifizi cruenti per redimere i delitti, dispone egli con logica irrefrenabile in un siste m a teosofico, dove son pareggiati i dogmi della rivelazione cogli acquisti della semplice ragion naturale, e ridotta la scienza a fede. Assimila il mondo a un immenso altare, dove ogni cosa dev’essere immolata in perpetua espiazione del male causato dalla libertà dell'uomo. Che cos’altro rivela la storia se non fra i selvaggi l ’abbrutimento, fra i civili la strage continua? Anche il giusto n’è vittima, perché nella stabilita solidarietà egli sconta pel colpevole, e perché altrimenti occorrerebbe un miracolo ad eccettuarlo, e conseguirebbe quaggiù la sua mercede. E con forza di sentimento e fantasia mostrando dappertutto la mano di Dio e l’ordine provvidenziale , considera la storia terrena come un regno di Dio immediato e visibile: e per rimbalzo contro lo spirito rivoluzionario corre più in là del medio evo, fondando nella sanzione di Dio non solo l’autorità suprema, ma anche la interna condizione sociale e il segregamento delle classi. Di Dio son opera i re, gli Stati, le costituzioni; e quando l’uomo presume stabilirli da sé, necessariamente s’appiglia al peggio, e fa non fabbriche ma ruine. La razza umana è cosi perversa, che vuo l si gagliardamente infrenarla. Fra le costituzioni quella che Dio vuole e la monarchia ereditaria. Necessario elemento di questa è la nobiltà, e Dio stesso la scevera dalle altre classi, e discerne le schiatte. Difendersi contro l’arbitrio e l’ingiustizia, garantirsi un governo legale che promova la felicità de’ sudditi, è ben giusto: ma «il credere a promesse di re è un mettersi a dormire sull'ale d’un molino».

Chi li reprimerà e correggerà? Le baionette, le tribune, le parodie della sovranità popolare? barriere inefficaci! Elevar la plebe sopra i re è un sovvertire la logica; il contrappeso del potere dev’essere in al t o, non in basso. Il papa che nel medio evo tutelava i popoli e fulminava i tiranni, deve anche adesso francheggiar la giustizia e la libertà; a lui si curvino l’intelligenza e le spade, la libertà e i despoti. Alla corruzione dello stato morale pro v veda l’infallibilità della Chiesa, fondata sulla supremazia del romano pontefice; supremazia estesa anche ai vescovi ed ai concili in modo, che né esso decida senza i vescovi, né i vescovi senza di lui.

Con ciò tornava in armonia il sistema papale coll’episcopale, e bersagliò le dottrine giansenistiche e le gallicane, formando della Chiesa una monarchia temperata, giacché il papa è sovrano, ma son necessari altri elementi a compirne la potestà; onde, surrogate la p ace e l’armonia all’antagonismo, può con tutte le sue forze com b attere la filosofia irreligiosa e impolitica. La logica il porta fino all’apoteosi dell’inquisizione, fin alla sistematica crudeltà; per le quali teorie lo esecrano coloro stessi, che poi ne’ tempi e nella necessità trovano giustificazioni al Comitato di salute pubblica che le aveva messe in pratica. E mentendo dissero, e avvezzarono i cialtroni a ripetere epigrammaticamente, ch’ egli santificasse il carnefice perché disse che, nelle società frenate soltanto dalla pena, il carnefice è il gran sacerdote che procura l’espiazione, come le pesti, come la guerra, come gli animali viventi di distruzione. Perocché, come la vendetta, cosi egli fa riversibili la preghiera e l’espiazione; donde i sacrifizi antichi, i supplizi, la redenzione divina.

Tutto ciò espose non con teoremi scientifici, ma con discorso conversevole, e con forza sì traboccante, da lasciar dubbio s’egli sia un sofista o un profeta: certo fu grande in mezzo a tanti mediocri. La rivoluzione, il filosofismo non ebber mai più inesorabile avversario; e mentre quelli adulavano il secolo e l'uomo pure assassinandolo, egli lo sb effeggi a per salvarlo; le nubi da quelli accavalla t e squarcia colle saette; confuta col recriminare, colpisce coll’esagerare e col l'opporre all’affermazione affermazioni imperterrite. Quando più giganteggiava la Rivoluzione francese la conobbe effimera , né possibile una grande repubblica, sovra tutto in Francia, perché non uscita spontaneamente dalla nazione, dai costumi, dalle opinioni; schernì coloro che presumeano guidarla, mentre Dio solo la spingeva in modo d’espiare le colpe della Francia, dei re, della rivoluzione stessa. A Pietroburgo tutelò sempre i suoi re, e predisse la ruina del loro persecutore. Allorché delle sorti italiane si disputava a Parigi, egli si oppose gagliardo all'ingrandir l’Austria col cederle l'alto N ovarese: «— Se ciò si fa, non resta più equilibrio, tutti i principi italiani essendo vassalli dell’Austria, che presto gli assorbirà. Il re di Sardegna è il primo minacciato, perché da gran pezzo l’assogge tt amento dell'Italia non ha nemico più costante di lui: la tempesta giratasi sulla penisola, ivi non si fermerà, e dal mezzogiorno scaglierassi sul settentrione».

E vedendo quel traffico di. popoli, «— Povera Italia (esclamava), in qual abisso va a cadere! È la moneta con cui pagheranno altre compre. Eppure l'unione e separazione forzata delle nazioni non è soltanto un gran delitto, ma una grande assurdità. Facciasi qualunque sforzo per non essere condannati all’uffizio di satelliti» (11). Non stancavasi d’insistere presso Nesselrode perché fosse «data soddisfazione allo spirito italiano»; ma il ministro russo gli rispondeva, questo spirito italiano esser appunto il peggiore ostacolo a un buon assetto dell’Italia. Al Savojardo non restava dunque che lamentarsi all’imperator Alessandro perché non si tenesse conto delle nazioni e dei loro sentimenti, affetti, desideri; che un segretario sopra la carta geografica sconnettesse paesi uni t i per lingua, caratteri, abitudini; e gli uomini si contassero e dividessero per testa come gli armenti.

L’instaurazione del passato egli la voleva piuttosto nelle idee e compiuta; domandava che la Santa Alleanza annichilasse i fatti della Rivoluzione; non riconoscesse la compra de’ beni nazionali «latroneccio il più odioso che abbia deturpato la storia», ma fosser ritolti a quelli che gli avean ottenuti a bassissimo prezzo di carta, e già se iterano rifatti a iosa; non dovendo la compassione riservarsi soltanto a ribaldi, né sol per questi invocare le sante leggi della proprietà. Altre volte scriveva al suo re: «— I o propendo alla libertà di commercio per una ragione teorica ed una di pratica: la prima è ch’io non credo possibile ad una nazione di comperare più che non vende; la seconda, ch’ io non ho mai veduto un governo mischiarsi direttamente del commercio de’ grani e proibirne la tratta, senza produrre caro e fame. Lo stesso è di tutte l'altre mercatante; pro ba bile l'uscita del danaro, e scarseggerà; se il governo lascerà fare, si farà sempre meglio di lui».

Solo a chi giudica gli uomini e le teorie da ciò che ne cianciano la piazza e i giornali sapran di strano questi accordi fra i liberali e i teocratici. Dei quali un altro campione fu Carlo Luigi Haller da Berna, che da protestante resosi nostro, nella Restaurazione della scienza politica (1824) combatté accanito il filosofismo e la rivoluzione, condannando i pubblicisti vantati e i re riformatori, fra cui Maria Teresa, Giuseppe II, Leopoldo granduca; e traverso ai secoli indagava con vasta erudizione e arguta logica i semi delle idee liberali, ripudiando gli acquisti di cui si gloria la moderna civiltà. E poiché l'eguaglianza politica viene dall’eguaglianza civile, patrocinava la nobiltà come prodotto della natura, i privilegi come effetto della naturale giustizia; mentre pareagli tirannia l’uniforme generalità delle leggi. Dalla natura (egli insegna ) nascono gli Stati, ed ella assegna il comando al potente, al debole l’obbedienza, e porge i mezzi per far rispettare la legge come per impedire gli abusi degl’imperanti. Gli Stati primeggiano quanto più poderosi e liberi, e quanto più indipendente il governante, sia un uomo o un corpo. Il diritto de’ principi deriva dal diritto di proprietà; né v’ebbe contratto sociale, bensì una moltitudine di convenzioni particolari, spontanee, varie, non per alienare la libertà individuale, ma per conservarla più pacificamente che si può; onde non deve esservi sovranità e indipendenza del popolo, m a sovranità di quello che per potenza e ricchezza è indipendente; non potestà delegata, ma diritto personale del principe; non mandati e statuti, ma doveri di giustizia e d’amore; non governo delle cose pubbliche, ma amministrazione de’ propri affari; e le leggi non venire dal basso ma dall’alto, siccome in una famiglia, cui in fatto somiglia lo Stato, se non che non ha un potere superiore. Ma anche de’ sudditi il diritto è inviolabile e qui pare che la sua logica gli venga meno,e cada in con t radizione, allorché dice il principe non può intaccarne la libertà e gli averi, né essi devono pagar imposte senza consentirle, non servir in guerra di principe; e quando esso li tiranneggi, possono non solo emigrare, ma resistere armata mano. Ancor più di De Maistre era letto il visconte Bonald perché meno profondo; il quale la religione faceva politica, uffiziale, principesca, mentre il Savoiardo proclamava l’intima unione della Chiesa coll’ordine privato e pubblico, con t utto l’insieme del cuore e dell’ingegno umano, senza connessione colla politica locale o nazionale.


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A queste idee non mancarono fautori anche in Italia, e le propugnarono in iscritto il Cavedoni, Monaldo Leopardi, il principe di Canosa: ma il vulgo che le dottrine personifica, volle incarnarle in una setta che intitolò de’ Sanfedisti, e che doveva sostenere i monarchi e i sacerdoti, come la Carboneria propugnava le costituzioni e il pensare indipendente. E diceasi fosse diffusa per tutta Italia con diverse sembianze: e come avviene ne’ par t iti, non v’è stranezza che non se ne sia raccontata, né ancora il tempo vi portò luce. Credeasene istitutore esso De Maistre, e affiglia t i il duca di Modena, il duca del Genovese, altri principi e prelati, nell’intento di congiungere costituzionalmente Italia tutta so t to l a supremazia del pontefice (12). E fu allora che prima nacque codesto concetto di Neo-Guelfi, deriso dai Liberali come stupida resurrezione d'idee quatriduane, ma venticinque anni più tardi ridest ò come unica speranza d’Italia, da buoni pensatori e da caldi oratori, ai quali un tratto parve che gli eventi desser ragione; ma non prevedevano a quali funeste conseguenze menassero codesti loro malaugurati principi.

Delle costituzioni, la più liberale che siasi veduta fu quella che si diede la Spagna quando respingeva i napoleonici; quella Spagna che dicono infracidi t a dal cattolicismo come l’Italia. Ratificava essa l’antico diritto delle municipalità, a queste affidando la polizia, l’igiene, la tutela delle persone e delle proprietà, l’educazione e la carità pubblica, le strade e gli edifizi comunali, il dazio consumo, il preparare le ordinanze, che sarebbero sottomesse alle assemblee o cortes dalle deputazioni provinciali. Queste sono una specie di municipalità superiore, eletta dai consigli di città, con diritto di proporre le imposte comunali, chiamar l’attenzione superiore sugli abusi di finanza e sugli intacchi alla costituzione. La sovranità risiede nel popolo; distinte le tre podestà; il re fin nel sanzionare le leggi è subordinato alle assemblee, formate di deputati scelti a tre gradi dagli elettori di parro c chia, di distretto, di provincia; fin ai soldati rimane il diritto d’esaminare lo statuto e la giurisdizione.

Ferdinando VII, recuperando il trono spagnuolo, prometteva conservare quella costituzione, poi la abolì; ma l’esercito sollevatosi lo obbligò a proclamarla. Basta esser vissuto dieci anni per sapere quanto nelle opinioni e negli avvenimenti convenga ascrivere all’imitazione: debolezza della natura umana, che alcuni s’ingegnano di nobilitare col supporre che le circostanze medesime maturino il medesimo seme contemporaneamente in diverse contrade. Allora dunque dapertutto scoppiano rivoluzioni militari e costituzionali, né tard ò a venire la volta dell’Italia.

Ferdinando, che già era IV in Napoli e III in Sicilia, e allora s’intitolò I del regno delle Due Sicilie, rimesso in questo dalle armi straniere, prometteva un governo stabile, saggio, religioso; il popolo «sarà sovrano, e il principe depositario delle leggi che detterà la più energica e la più desiderabile delle costituzioni» (*). Oltre che nazionale, egli non trovatasi legato all’Austria per parentele o riversibilità, né per vicinanza; pure strinse alleanza con essa a reciproca difesa, obbligandosi darle venticinquemila uomini in caso di guerra, e non introdur nel governo innovamenti che discordassero dal sistema adottato dall’Austria nelle sue provincie d Italia.

In vent’anni di tante rivoluzioni, nell’avvicendarsi di vincitori e vinti, il paese avea fatto miserabile tesoro di rancori e vendette: pure Ferdinando non veniva anelando sangue, ma aborriva tutto ciò che appartenesse al decennio, fino a non camminare nelle strade aperte da’ Francesi; considerava come occupazione militare un regno si lungo, come ribellione ogni atto di quella; aboliva le cose, o almeno i nomi. Divise il regno continentale in quindici provincie, organandone l'amministrazione di provincia, di distretto, di municipio; l’accademia già Ercolanense poi Reale trasformò in Borbonica, con tre sezioni, d’archeologia, di scienze, di belle arti; fece trattati coi Barbareschi, coll’Inghilterra, la Francia, la Spagna. Nuovi codici compilati a cura del Tommasi ministro, poco mutarono del francese quanto al commercio e alla procedura; il civile tornava indissolubile il matrimonio, e ingagliardiva l’autorità paterna; nel penale si tolsero la pena del marchio e le confische, ma anche i giurati, facendo giudici del processo i giudici dell’accusa; s’introdussero i delitti di lesa maestà divina, e quattro gradazioni nella pena di morte, secondo che il reo mandasi al patibolo vestito di giallo o di nero, calzato o scalzo: pure tutti i cittadini restavano sottoposti alle leggi medesime, alle medesime taglie. Di titoli abbondava la nobiltà, ma non portavano privilegi; né degli antichi bracci e seggi sussisteva più che la memoria; onde il re operava affatto indipendente co’ suoi ministri. L’esercito fissò in sessantamila uomini sotto all’irlandese Nugent, generale a servizio dell’Austria: non guardò a spesa nel fabbricar il tempio votivo di San Francesco di Paola, né il teatro di San Carlo, e ventiquattromila ducati l’anno spendeva in limosine e in arricchir chiese: sistemò gli archivi, e stabilì che delle carte e diplomi si pubblicasse un catalogo, e sopra le memorie raccolte dalla giunta diplomatica si tessesse una storia del regno. Oltre il d eb ito pubblico, pesavano i ventisei milioni di franchi dovuti all’Austria, e i cinque al principe Eugenio; ma vendendo le proprietà dello Stato e de’ pubblici stabilimenti, e obbligando questi a ricever iscrizioni di rendite sul gran libro, legava l’avvenire di essi alle finanze dello Stato; e poiché il ministro Medici ebbe cura che puntualissimi si facessero i pagamenti, rinacque la fiducia.

È noto come, dopo che dalla peste nel XIV secolo fu spopolato un estesissimo paese di Puglia, i re se l’appropriarono col nome di Tavoliere, lasciando che, col pagamento d’una fida,vi pascolassero alla libera gli armenti sotto la guardia di pastori, nomadi e quasi selvaggi, senza legami di casa o di famiglia, e obbedienti a capi propri, anziché al governo. Tra siffatti nella rivoluzione del 1 799 eransi reclutate le bande assassine, poi molte par t i se ne diedero a censo; infine il dominio francese emancipò il Tavoliere, sicché rendeva cinquecentomila ducati, distribuito fra piccoli possessori, i quali per interesse divenivano fautori di quel governo. Ferdinando lo restituì a possesso comune, talché una quantità di spropria t i ne concepirono malevolenza.

Il re, quando stava ricoverato in Sicilia, domandò forti sussidi a quel parlamento per recuperare la terraferma ; e perché i baroni glieli stilicarono, egli, loro malgrado, vendette i beni comunali, o gravò di tasse i contratti. Il parlamento protestò, e il re pose in carcere i capi; ma gl'Inglesi l'obbligarono a dar una costituzione, secondo la quale, la rappresentanza nazionale divideasi in due Camere, che poteano pregar il re a proporre una legge, cui esse non aveano che a discutere; il re, inviolabile, potea sciogliere il parlamento, i cui atti non valevano senza la sanzione di lui; responsali i ministri, piena libertà civile e di stampa e d’opinioni, inamovibili i giudici. La legge elettorale favoriva ai minuti possidenti; dalla rappresentanza restavano esclusi i funzionari pubblici, eccetto i ministri; largo l'ordinamento comunale.

Rinforzatosi nel 1815, il re s’invoglia a recuperare intera la potestà e uniformar l'isola al continente. G li Inglesi più non aveano interesse a favorirvi la libertà; all’Austria sgradiva quest'esempio di governo rappresentativo, sicché la costituzione siciliana fu abolita, allegando che il re non l'avesse giura t a. Ed era così; ma avea spedito a giurarla in suo nome il figlio duca di Calabria, vicario del regno. Istanze e proteste non valsero; carceri ed esigli punirono i reluttanti (13); solo rimase scritto che le cariche non si darebbero che a Siciliani, le cause dei Siciliani si deciderebbero nell’isola, le taglie sarebbero fissate in 1,847,687 oncie, non potendo accrescerle senza consenso del parlamento.

Questo dunque sussisteva di diritto; e Guglielmo A’Court, succeduto al Bentinck come ambasciatore d Inghilterra, congra t ulavasi d’avere con quella parola assicurato la rappresentanza siciliana; Castlereagh felicitava il re d’aver sì bene composte le cose: ma erano parole, senza modo di darvi sostanza. L’amministrazione della Sicilia fu uniformata a quella di qua del Faro, dividendola non più in tre ma in sette valli, di cui erano capi Palermo, Messina, Catania, Girgenti, Siracusa, Trapani, Caltanisetta; abolita la feudalità, accomunatovi il codice napoletano. Era certo un gran miglioramento, m a guasto per avventura dai modi: cessato lo spendio ingente dell’esercito inglese e quel della nobiltà che voleva emulare la Corte, il danaro parve scomparire: se alcuni signori andarono a brigar favori a Napoli, altri sequestraronsi in dispettosa astinenza: e l'invidia contro la nuova capitale prorompea in quell’ultimo ristoro del parlar male sempre e di tutto, e d’ogni danno recar la colpa alla tolta indipendenza.

N é i sudditi di Terraferma s’adagiavano alla ripristinata condizione; i servi di Murat guardavano con disprezzo i servi di Ferdinando, e questi quelli con isdegno; a molti furono ritolti i doni di Gioachino; si ridestarono liti già risolte, si concessero favori contro la legge, mentre contro i patti di Casa Lanza si degradò qualche uffiziale ; si esacerbavano nell’esercito le gelosie fra’ così detti Siciliani, improvidamente distinti con medaglia, e i Mura t isti, ne’ quali sopravivevano l'entusiasmo della gloria e il sentimento del valore italiano; la coscrizione rinnova t a aumentò i briganti, mal frenati da un rigore insolito fin nel decennio (14).

Crescevano dunque i malcontenti e le trame, e la Carboneria nel 1 819 contava seicentoquaran t aduemila adepti: anche persone d’alta levatura, sgomentate dall’impotenza del governo o desiderose di prepararsi una nicchia nelle novità che ormai vedeano sovrastare, le dieder il proprio nome, aggiungendo la forza morale a quella del numero; e sperando che con istituzioni fisse si sottrarrebbe i l paese alle rivoluzioni, che in breve tempo l’aveano sovvertito si spesso, e due volte sottoposto a giogo straniero. Il re, ascoltando solo ad uomini del passato, non volle condiscender in nulla; e il principe di Ca n osa, ministro di polizia, credette bell’artifizio l’opporre ai Carbonari la società segreta de’ Calderari, cospiranti coi famosi Sanfedisti a sostenere il potere assoluto, ma poiché i suoi eccedeano fin ad assassini, egli fu congeda t o con lauti doni, e i Carbonari parvero tutori della vita e della proprietà.

Allora cominciarono nel Regno le persecuzioni contro di questi, ma le prigioni si trasmutavano in vendite; ben presto ai moti di Spagna si scuote anche il nostro paese, parendo che la somiglianza d’indole e l’antica comunanza di dominio chiedessero conformità d’innovazioni; gli applausi dati da tutta Europa a Riego e Quiroga, generali voltatisi contro il proprio re, tentano la disciplina degli eserciti, e fanno parer facile una rivoluzione militare. Era la prima volta che si vedesse un esercito insorgere per la libertà, e l’assolutismo parve ferito nel cuore dacché contro lui si torceva l’unico suo sostegno: i ministri che fin allora aveano inneggiala la felicità de’ sudditi e riso della setta, allora ne ravvisano l’importanza; diffidano de’ buoni soldati, e col sospetto gli esacerbano; conoscono inetti quelli in cui confidano, ma non osano né secondar i desideri, né comprimerli chi a mando i Tedeschi. Fra tali esitanze la setta procede; e a Nola ed Avellino , istigati dal tenente Morelli e dal prete Minichini, alcuni soldati e Carbonari gridano, Viva Pio, il re e la costituzione,e senza violenze né sperpero, ma tra gl’inni e i bicchieri e le danze tutto l'esercito diserta dalla bandiera regia; e il re, «vedendo il voto generale, di piena sua volontà promette dar la costituzione fra otto giorni, e intanto nomina vicario il duca di Calabria».

Come la Spagna avea preferito quella del 1 812, sol perché riconosciuta dalle potenze, cosi ai Napoletani sarebbe stata a scegliere la carta siciliana, già sanziona t a dall’Inghilterra, e che avrebbe prevenuto ogni dissenso coll’isola sorella; ma ai liberali parve assurdo un parlamento fondato sull’aristocrazia, e per seguir la moda proclamarono la costituzione di Spagna, sebbene non se n’avesse tampoco una copia per ristamparla. Allora applausi e feste alla follia; Guglielmo Pepe, gridato generale dell’esercito insorto, entra in città trionfante coi colori carbonari, rosso, nero, turchino, seguilo da migliaia di settari stranissimamente divisa t i e condotti dal Minichini; sfilato sotto al palazzo, si presenta al re, che gli dice: «— Hai reso un gran servigio alla nazione e a me; adopra l’autorità suprema per compier l’opera santa dell’unione del re col popolo: avrei dato la costituzione anche prima, se l’avessi credu t a utile e desiderata; ringrazio Dio d’avere serbato alla mia vecchiezza di fare un tanto bene al mio regno».

Con gran solennità cittadina e religiosa Ferdinando giura la costituzione, e dopo la formola scritta aggiunge spontaneo: «— Dio onnipotente , il cui occhio legge ne’ cuori e nell’avvenire, se presto questo giuramento di mala fede, o se debbo violarlo, lanciate sopra la mia testa i fulmini della vostra vendetta».

Fare una rivoluzione in Italia è tanto facile, quanto difficile il sistemarla. Subito irrompono i mali umori; alcuni non intendono la libertà che alla giacobina; altri vogliono scomporre il paese in una federazione di provincie chi domanda la legge agraria quale gliel’aveano spiegala in collegio; i soldati muratiani pretendono i primi onori; quelli del campo di Montefor te non soffrono esser posposti; tutti voleano esser Carbonari quando ciò portava sicurezza e gradi, e se tt antacinque vendite si eressero nella sola capitale, di cui una contava ventottomila cugini; tutti i militari v’erano ascritti, con gradi che pretendeano conservar nell’esercito; molta gente onesta per far quello che faceano tutti; molte donne, col nome di giardiniere; e accusando, investigando, proponendo impacciavano il governo, che non poteva abbatter le scale per le quali era montato. Così tutto scomponessi, nulla s’instaurava; disordinavansi e governo ed esercito e pubblica sicurezza, e si diffondeano reciproci sospetti.

In Sicilia i Carbonari poche file aveano, sebbene il pisano improvisatore Ses t ini vi fosse andato ad annodarne; odiavasi t utto ciò che fosse napoletano, talché nell’insurrezione di Napoli non si vide che un occasione d’emanciparsi, e alle solennità della santa Rosalia in Palermo si proclama Dio, il re, costituzione e indipendenza da Napoli, ai tre colori unendo il giallo dell’isola; intanto si abbattono gli uffiz i del bollo, del catasto, del registro, delle ipoteche, di tutto ciò c h'era venuto da Napoli; si saccheggia, s’insulta; ai soldati si tolgono i forti e le armi, e trenta sono uccisi, quattrocento feriti, sessantasei cittadini feriti e cinquantatré morti, fra cui il principe Ca t olica capo della guardia civica, poi i principi di Paterno e d’Aci, non meno del Tortorici console de’ pescatori; vien liberato chiunque è in prigione o in galera; l'anarchia gavazza fra quella mescolanza di scarcera t i, contadini, marinai, bonache come là dicono i mascalzoni; gl'impiegati friggono, ogni quest'uomo si trincera in casa e nell’arcivescovado (15), e la giunta pro v visoria in balìa della ciurma armala, delle vendite, dei consoli d’arte, di fra t e Vaglica, non trovavasi né danaro né forza né senno. Intanto i nobili vogliono la costituzione siciliana; i settari la napoletana; onde ai valli di Palermo e Girgenti s’oppongono in arme gli altri e la memore Siracusa e la ricca Messina, e ne nasce guerra non solo civile ma domestica, come ogniqualvolta la piazza prevale al palazzo; dapertutto capi violenti raccolgono bande feroci; Caltanisetta, assali t a dai Palermitani e con molto sangue presa e mandata a macello e vituperio, sgomenta le piccole città , inviperisce le maggiori; tutta l’isola è infetta di sangue; i Palermitani mandano a Napoli a chieder l’indipendenza e re staccato, e avuto il niego gridano Indipendenza o morie, e aggiungono ai quattro colori un nastro con quelle parole e col teschio.


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Napoli, uditi quegli orrori colle esagerazioni dei fuggiaschi, grida morte ai Siciliani; si vuol cacciarli d’impiego, tener ostaggi quanti se ne colgono; a un atto non men giuridico che quello de' Napoletani, si dà il titolo di ribellione, e mandasi un esercito col generale Florestano Pepe per metter l’isola all’obbedienza. Come al solito , fu attribuita a chi non si doveva la ribellione della Sicilia; averla fomentata per contraffare alla napoletana, or volerla rendere irreconciliabile colle armi. I rivoltosi, da Pepe ridotti in Palermo, dove pur fra loro si trucidavano, patteggiano, assicurati d’un parlamento distinto: ma il governo napoletano dichiara viltà questo cedere a fronte di poca bordaglia colpevole, e consentire a città vinta quanto avea chiesto ancora intatta: Messina se ne duole, i Napoletani ne urlano, il parlamento cassa la capitolazione pur lodando Pepe, il quale le lodi e la decorazione ripudiò, e viene spedilo Pietro Colletta a frenar col rigore, cioè ad esacerbare.

Fra tali scogli navigava il governo costituzionale mentre si facevano le elezioni pel parlamento (16), aprendo il quale nella chiesa dello Spirito Santo, il re dichiara «considerar la nazione come una famiglia, di cui conosceva i bisogni e desiderava soddisfare i voti». Ma il parlamento, nel bisogno di secondare gl’impulsi esterni, spinge a novità incondite, disputa se fosse costituito o costituente, mu t a i nomi delle provincie coi classici, e trovasi eliso dall’assemblea generale della Carboneria, composta dei deputati delle vendite provinciali, più gagliarda del governo stesso, il quale dové più volte invocarla per levar milizie, rivocar congedali, arrestare desertori, esigere tributi. Terzo potere sorgeva la guardia nazionale, massime da che vi fu posto a capo Guglielmo Pepe.

In dicerie e decasillabi applaudivasi a una rivoluzione senza sangue né sturbi, ove concordi popolo e re, ove questo non fece che estendere la propria famiglia: ma la setta vincitrice impaccia, decreta infamia o lodi, molesta per atti passati e per opinioni, unica libertà concede il pensare e parlare co m’ essa, unica legge il proprio senno. Quei tanti che sparnazzano coraggio finché il pericolo è remoto, vantavano formato un terribile esercito, disposte fortezze insuperabili, coraggio spartano: ma realmente gli uffiziali, esposti agli attacchi delle congreghe settarie, indignavansi e rompeano la spada: Pasquale Bore l li, direttore della polizia, non osando reprimere, f ingeva secondare; e intanto spargeva terror di congiure e d’assassini per ottener lode d’averli scoperti e prevenuti: e i trionfi e le baruffe distraevano dall’avvisare al crescente pericolo.

Ciascun ministro presentò al parlamento un ragguaglio, donde raccogliamo la statistica di quel tempo. La popolazione sommava a 5,034,000; nati in otto anni 1,872,000, di cui soli 280,000 vaccinati; 45,000 i trovatelli, di cui nove decimi perivano nei primi giorni dell’esposizione. A’ luoghi pii nelle provincie soccorreva l’assegno annuo di 1,080,000 ducati; 438,000 ai ricoveri di malati e poveri della città, fra cui 5100 erano mantenuti nell’Albergo dei poveri: 560,000 ducati destinavansi all’istruzione pubblica, 80,000 al teatro di San Carlo, ove una coppia di ballerini costò 14,000 ducati. L’introito dell’erario val ut avasi 19,580,000 ducati, in cui la Sicilia figurava per soli 2,190,000, assegnatile come qua rt a parte delle spese di diplomazia, guerra, marina; che pel resto teneva conti distinti. Il d eb ito, consolidato nel 1815 in annui ducati 940,000, or ascendevaa 1,420,000; il debito vitalizio a 1,582,000. Dal 168 3 in poi la zecca avea coniato 25,000,000 di ducati in oro, 69,741,000 in argento. 520,000 persone traevano sussistenza direttamente dal mare, sul quale era necessario tener una forza per respingere i Barbareschi, che in altri tempi aveano ridotte deserte le coste, e in conseguenza ingorgati i fiumi e peggiorata l'aria. Si aveano di qua dal Faro 3127 bastimenti da traffico, 1047 barche da pesca; di là 438, con 1431 legni da traffico; e il crescente commercio marittimo porterebbe a decuplicarli. Di 242 navi da guerra non erano a t te al servizio che un vascello, due fregate, una corvetta, tre pacchetti con settantatré legni minori. L’esercito di 40,000 uomini sentivasi la necessità di crescerlo e rifornirlo.

Perocché i liberali di tutta Europa fissavano gli occhi sull’Italia, bollente di speranze; chi offre danari, chi la persona e soldati; si fan prestiti al governo nuovo; s’insegna a difendersi, a far la guerra di bande, se mai l'Austria ponesse ad effetto le cupe minacce che le poteano tornare in capo: ma da nessuna potenza venivano conforti (17), anzi si udì che il principe di Cariati, ambasciatore costituzionale, non fu voluto ricever alla Corte di Vienna, la quale all'Europa dichiarò voler intervenire arma t a mano, ed assicurare ai principi italiani l’integrità e indipendenza de loro Stati. Ferdinando trasmette alle Corti una nota del suo operato; «libero nel suo palazzo, in m ezzo al consiglio composto de’ suoi antichi ministri, aver determinato di soddisfare al voto generale de’ suoi popoli: vorrebbero i gabinetti mettere in problema se i troni siano meglio garantiti dall’arbitrio o dal sistema costituzionale? All’articolo segreto della convenzione coll’Austria nel tempo della restaurazione egli s’attenne fin qua: ora egli re e la nazione erano risoluti a proteggere fin all’estremo l’indipendenza del regno e la costituzione» (18).

L’alleanza perpetua delle quattro Potenze costituiva una specie d'autorità suprema per gli affari internazionali d’Europa, attenta che nessun cambiamento degli Stati attenuasse le istituzioni monarchiche. Or dunque che novità erano minaccia t e in tutte le tre penisole meridionali, i principi allea t i si raccolsero a Troppau. Alessandro czar, che erasi sempre mostrato propenso alla libertà, che in nome di essa guerreggiò nel 1814, che nella pace avversò ai calcoli freddi ed egoistici, c h e fece dare la carta alla Francia, ispirato anche dai ministro Capodistria trovava che i Napoletani erano nel loro diritto, e repugnava dal violentarli. Ma alla politica di sentimento ne opposero una positiva Metternich ministro dell’Austria, e Francesco IV di Modena (19), i quali, mostrandogli in pericolo la pace d’E urop a, e sgomentandolo delle rivoluzioni militari, lo resero ostile alle costituzioni, e persuaso d’esser dalla Previdenza chiamato a difendere la civiltà dal l'anarchia, come già l’avea difesa dal despo t ismo.

A quel congresso pertanto si stabilì il diritto d’intervenire armati negli affari interni di qualunque paese, ogni rivoluzione considerando come attentato contro i governi legittimi. Mettermeli dichiarò all’ambasciatore napoletano, unico scampo pel Regno sarebbe il rimettere lo stato antico; gli uomini meglio pensanti andassero al re, e Io supplicassero d’annullare quanto avea fatto; se occorresse, centomila Austriaci li sosterrebbero nel comprimere la rivolta. Russia e Prussia secondano quel dire: ma l'Inghilterra vedea d’occhio geloso l’intervenimen t o austriaco in un paese che tanto le fa gola; Francia sentiva spegnersi l’influenza che la parentela le dava, onde s'interpose, promettendo che gli Alleati soffrirebbero la rivoluzione, se, invece della spagnuola, si accettasse la costituzione francese. I Napoletani persistettero per la camera unica, la deputazione permanente e la sanzione forzata del re: ma avesser anche ceduto, la loro sorte era decisa, in nulla volendo prescindere i sovrani del Nord. Da questi invitato, Ferdinando chiese al parlamento di andare per «far gradire anche alle potenze estere le modificazioni alla costituzione, che senza detrarre ai diritti della nazione, rimovessero ogni ragione di guerra».

I Carbonari proruppero in tutto il regno per impedire quest'andata, esclamando contro il re che fin allora aveano glorificato; alle proposizioni non si rispondea se non, La costituzione di Spagna o morte; d’ogni parte venivano armi, e d’armi si muniva le reggia. Questa è oppo r tunissimamen t e situata sul mare: in rada stavano la flotta napoletana e legni francesi e inglesi per impedire ogni violenza, sicché il re trovavasi pienamente arbitro della sua volontà: e i giuramenti che, con espansione di sincerità, egli ripet é alla costituzione, e di volere, se non potesse altrimenti, venir a sostenerla in armi a capo del suo popolo, gli ottennero di partire fra benedizioni e speranze, lasciando vicario il figliuolo, al quale scriveva in sensi di padre più che di re.

Trovava egli il congresso trasferito a Lubiana, dov’erano stati invitati i ministri degli Stati italiani per discutere sulle pretensioni dei popoli. Ogni concessione si sapea diverrebbe pretesto a domandar innovazioni, e ogni esempio un motivo d'agitazione negli spiriti (20); una novità introdotta in un paese sarebbesi desiderata in tutti, poi voluta: onde parve più spediente il negar tutto; escludere ogni partecipazione popolare al governo, e ogni confederazione di Stati italiani, che seminerebbe gelosie fra essi; nessun principe d'Italia innovi le forme di governo senz’avvertirne gli altri acciocché provedano alla loro sicurezza; i turbolenti sieno deportati in America; intanto si assalga Napoli senz'aspettare i centomila Russi, che moveano un'altra volta dal Nord per rassettare il freno all'Italia.

Castlereagh, ministro inglese, non vuole s'intervenga a nome di tutti gii Alleati; però lascia libera azione all’Austria (21). La quale pertanto annunzia che. d’accordo con Russia e Prussia, manderà un esercito ad appoggiare il voto de’ buoni Napoletani, che era il ristabilimento dell'ordine primitivo; e se trovasse ostacolo, poco la Russia tarderebbe. Re Ferdinando, cambiato tenore, scrive minac c e eguali; volere svellere un governo imposto con mezzi criminosi, dare stabili istituzioni al regno, ma quali a lui paiano e piacciano; e rimesso nella pienezza de’ suoi diritti, fonderà per l'avvenire la forza e stabilità del proprio governo, conformemente agl’interessi dei due popoli uniti sotto il suo scettro.

Il parlamento ripudia quell’atto, come di re non libero, e accetta la sfida di guerra con quel fragore che sembra coraggio ed è rispetto umano; armansi fino i parenti e amici del re; i veterani tornano volenterosi alle bandiere, che ricordavano recenti vittorie; i giovani vi sono spinti dalle mogli, dalle madri, dall’esempio; cinquantaduemila sono in armi, si restaurano le fortezze, preparansi bande, difendesi il mare; eppur si vieta agli armatori d’uscire dai confini per non parer aggressori. Se poco era mancato perché Mura t riuscisse nella guerra offensiva, quanto più facilmente basteranno ora alla difensiva?

Ma l'esercito costituzionale era nuovo, e scarso di disciplina come avviene nelle rivoluzioni; insufficienti l'armi e i viveri; impacciate le operazioni da l rispetto al confine forestiero, e dalla discrepanza dei due generali Carascosa e Pepe. Il primo mena un corpo sulla strada di Roma fra Gaeta e gli Apennini, donde più probabilmente aspet t avansi gli Austriaci; ma accortosi quanto le parole dis t assero dalla realtà, consiglia di patteggiare cogli Alleati. Pepe, con disordinate e sprovvedute cerne ch’egli supponeva eroi, munisce gli Abruzzi, donde appunto si accostano i nemici, secondati dalla flotta dell'Adriatico , e dietro a loro Ferdinando, ingiungendo ai sudditi d’accogliere gli Austriaci come amici. O per baldanza di far parlare di sé almeno un giorno, o spintovi dai settari di cui era st r omento, Pepe, quantunque tenesse ordine di limitarsi sulla difensiva, e senz’avere né concertato con Carascosa, né prepara t o i rifugi da una sconfitta, fa una punta sopra Rieti, sperandosi secondato dai Papalini: ma un corpo di cavalleria austriaca accorrendo gli rapisce la sua posizione; quando vuole riprenderla è battuto, e i Tedeschi occupano le gole di An t rodoco e Aquila, porte del regno.

È insulto gratuito il trattare da vili le truppe napoletane. Non aveano coraggiosamente combattuto in terra e sul mare a Tolone e in Lombardia ne’ primordi della rivoluzione? se nel 1798 furono sbaragliate, la colpa ricade sul generale Mack, straniero, presuntuoso e troppo fidente in reclute, malgrado gli ammonimenti di Colli e di Parisi. Ritiratosi in fuga l'esercito, cedute le fortezze, il popolo, i lazzaroni teneano testa a Championnet, se i loro capi non gli avessero quietat i. L’assedio di Gaeta e di Civitella del Tronto nel 1806, i briganti delle Calabrie, i tentativi realisti della Sicilia fecero costar caro ai Francesi l’acquisto del Reame; uniti poi ad essi, i Napoletani combatterono con buona sentita in Ispagna e in Russia. Perché sarebbero stati vili soltanto all’Antrodoco? Ben vuolsi avvertire che i sempre mutabili governi avevano ad ogni momento introdotto cangiamenti di disciplina e di tattica; sicché l’esercito, stato alla spagnuola fin al 1780, barcollò poi fra la tattica prussiana e la francese; tornò francese sotto Mura t ; pigliò dell’inglese dopo unitovi il siciliano, sotto lo straniero Nugent ; tirocinio continuo che toglieva vigore, oltre che la gelosia de’ realisti area rimossi molti ufficiali murattiani.

Qui poi erasi creduto che una rivoluzione tutta interna ed unanime non abbisognerebbe d’armi; come il vanto più bello cantavasi il non essere costata una stilla di sangue (22); col restare inermi volessi e mostrar fidanza nella propria causa, e togliere ad altri il pretesto d’intervenire col toglier la paura che s’invadesse il paese altrui, perciò ricusando, non solo di eccitar i vicini Stati, ma neppur l'accettare Benevento e Pontecorvo, insorte contro il dominio papale. Quindi il precipitoso armarsi dopo che il pericolo si manifestò, gli scarsi provvedimenti , le rivalità fra i due capitani, la persuasione dell’inettitudine della proclamata costituzione e dell’inutilità del resistere, comunicatasi dalla moltitudine all’esercito, l’inesperienza d’un governo improvvisato , a fronte d’uno che procedea con fine determina t o e colle spalle munite, bastano a spiegar le rotte, senza ricorrere al solito macchinismo de’ libellisti, tradimento e viltà, apposti anche a nomi onorevoli.

Quel popolo vivo, chiassoso, scarso di bisogni, lieto di starsi contemplando lo splendido cielo e il mare ondeggiante, e che considera libertà il non far nulla, come avrebbe inteso queste metafisiche liberali, che cominciavano con una menzogna, e sospendevano a mezzo le conseguenze? Poi tali scosse di popoli traggono sempre alla superficie la feccia, e questa è la più attuosa; oltre coloro che del nome di libertà funsi un talismano con cui guadagnare e dominare. Nella breve durata, il parlamento avea mostra t o facondissimi oratori, principalmente Poerio, Borelli, Ga l di, e qualche pensatore, come Dragonetti e Niccolini: valenti ministri parvero To mm asi e Ricciardi: proposizioni savie non erano mancate: non si sciupò il danaro pubblico, e più d’uno del governo dovette andarsene pedone, e ricevere le razioni dell’Austria per arrivare ai luoghi ove questa li relegava.

Il parlamento in agonia dirigesi al vecchio re, supplicandolo comparire in mezzo al suo popolo, e svelare le sue intenzioni paterne senza intervenzione di stranieri, acciocché le patrie leggi non rimangano tinte dal sangue de’ nemici o de’ fratelli: ma gl’invasori non si arrestano, ed entrano in Napoli; il parlamento, per l’eloquente voce del Poerio, protesta avanti Dio e gl i uomini per l’indipendenza nazionale e del trono, e contro la violazione del diritto delle genti, e si scioglie.

Pari sorte corse la Sicilia. Soli i Messinesi risolsero sostenersi, e il generale Rossarol, che comandava la guarnigione, prende parte con loro; ma non secondato dalle altre città, egli andossen e combattere in Spagna e morire in Grecia; e Messina cedette. L’occupazione austriaca costò tr e cencinquanta milioni di franchi (23); un milione fu regalato al generale austriaco Frimont col titolo di principe d’Antrodoco a perpetuar una di quelle vittorie di guerra civile, per cui gli antichi non concedevano il trionfo; e con enormi prestiti bisognò coprire le enormi spese.


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Allora cominciansi i processi; e ad una commissione speciale sottoposti quarantatré, principali nel movimento di Monteforte , cioé in un fatto innegabile, ma tollerato dalla posterior adesione del re e della nazione, dopo molti mesi si condannano trenta a morte, tredici ai ferri. Morelli e Si l vati, presi a Ragusi nel fuggire e consegna t i, sono uccisi; agli altri grazia; condannati molti in Sicilia a cagione degli assassini; poi dall’amnistia eccettuati alcuni capi profughi, come Pepe, Carascosa, Russo, Rossarol, Concili, Capecelatro, il prete Minichini; moltissimi andarono esuli, e più sarebbero se il timore avesse vinto tutti quelli che la fama indicava come vittime future. L’esercito fu sciolto, molti uffiziali degrada t i, altri chiusi nelle fortezze austriache; e il re chiese un rinforzo di diecimila Svizzeri, con laute condizioni e con diritto di codice loro proprio. Il pensiero fu messo in quarantena mediante un gravoso dazio sopra le stampe forestiere, dal che fu rovinato il commercio de’ libri, colà fiorentissimo. Canosa, tornato ministro della polizia, l’esercita inesorabile; pubblicamente applica la frusta per mezzo alla città co ll'infando spettacolo dei secoli caduti; empie le prigioni, moltiplica le spie; molti unisconsi in bande, consueto postumo delle rivoluzioni; lo stiletto risponde spesso alle detenzioni e alle condanne; e l'anno corre sanguinoso, quan t ’era stata incruenta la rivoluzione. Ferdinando stabilì che Sicilia e il Napoletano, sotto un solo re, si reggessero separatamente, con imposte, giustizia, finanze, impieghi propri; le leggi e i decreti fossero esaminati da consulte separate in Napoli e Palermo.

La rivoluzione di Napoli non sarebbe caduta sì di corto se le fosse ita di pari quella di Piemonte. A questo paese la caduta dell’impero francese avea restituita l’indipendenza; il nuovo re dichiarava abolita la coscrizione e la tassa sulle successioni; Torino da capo dipartimento tornava capitale d’un regno di quattro milioni e mezzo d’abitanti: qual meraviglia se, quantunque ricevesse il regno da soldati austriaci, la Liguria da Inglesi, fu accol t o con tripudio il re (24), quando da Cagliari passò all’antica reggia, in vestire e contegno modesto che f acea contrasto collo sfarzo del Borghese?

«Non v’è cuore che non serbi memoria soave del 20 maggio 1814: que l popolo s’accalcava dietro al suo principe, la gioventù avida di contemplarne le sembianze, i vecchi servidori e soldati di rivederlo; grida di gioia, spontaneo contento dal volto di ciascuno; nobili, persone medie, popolani, contadini, tutti legava un sol pensiero, a tutti sorrideano le stesse speranze, non più divisioni, non triste memorie; il Piemonte doveva essere una sola famiglia, e Vittorio Emanuele il padre adorato».

Queste parole d’un capo-rivoluzione (25)possono indicare che i Piemontesi erano ancora realisti, come quando l'Alfieri si lamentava che non s’udisse a Torino parlar d’altro che del re.

Beati i principi che sanno profittare di queste dimostrazioni! Vittorio non avea patteggiato co l forte, né s’era avvilito a’ suoi piedi come i gran re, talché tornava incontaminato, e po t ea meglio di qualunque altro operar il bene: ma non che la sventura l’avesse istruito, si conservò re patriarcale, persuaso che il regnante è tutto, ed ogni novi t à un male, e che i popoli devono credere altrettanto; ingannato dai soliti camaleonti,che si misero vecchie decorazioni, abili vecchi e calzoni corti e code, e chiamavansi vittime per divenir sacrificatori, non seppe riconoscere che alcune ruine non si devono più riparare, che vuoisi rispetto ai fatti consumati e ai nuovi interessi. Non punì, non imprigionò, non pose a con f ine; stracciò una lista sportagli di Framassoni e Giacobini: ma ostinandosi a ripristinar il passato, anche dopo cessate e la fiducia reciproca e l’economia d’una volta, abolì tutte le ordinanze emana t e dai Francesi; ripristinò quanto essi aveano disfa tt o, i conventi, la nobiltà, le banalità, le commende, i fidecommessi, le primogeniture, i fori privilegiati, gli uffizi di speziale e di causìdico, le sportale de’ giudici, l’interdizione de’ Protestanti, i distintivi degli Ebrei, le procedure secreta colla tortura e le tanaglie e lo squartare e l’arrotare. Dando vigor retroattivo all’editto 21 maggio 1 814, che ripristinava le antiche Costituzioni del 1770, venivano turbate le persone e le sostanze, cominciando così da una legale ingiustizia; cassati fino i grossi affitti che s’estendessero oltre il 14; sbanditi i Francesi che qui aveano preso stanza dopo il 96; si trattò di chiuder la via del Moncenisio, di abbattere il ponte sul Po, perché opere francesi. Coll’aiuto del conte Cerniti e dell’almanacco 1793 rimettea persone e cose com’erano avanti la rivoluzione; ma a quel suo ritornello d’aver dormito quindici anni, Potemkin segretario dell’ambasciator russo rispose: «— Fortuna che non dormisse anche l’imperatore mio padrone, altrimenti vostra maestà non si svegliava sul trono».

Il non aver servito a Napoleone, che spesso era indizio d’incapacità, diveniva merito ad impieghi, dai quali escludeansi i meglio abili, perché giacobini o fra m assoni: buoni professori dell’università furono cassati, fra cui l’abbate Caluso amico d’Alfieri, il giureconsulto Beineri, il fisico Vassalli Eandi. il botanico Balbis, il chimico Giober t. Fin nell’esercito si richiamarono alle bandiere i coscritti nel 1800, e poiché erano morti o invalidi, si supplì coll’ingaggio; poi si dovette tornar alla coscrizione, pur conservando gli antichi pregiudizi, escludendo l’esperienza di chi conoscea la tattica nuova, sol perché avea servito coi Francesi, e proibendo di portarne le decorazioni meritate, mentre si davano i gradi ai cadetti delle famiglie patrizie. Le ipoteche, le riforme amministrative, la regolata gerarchia di giudizi cessarono: alle provincie s’imposero comandanti militari: ben quindici tribunali duravano in Torino con attribuzioni diverse: i giudici mal pagati, erano costretti a trarre stipendio legale dal l e sportole dei litiganti, illegale dalle lungagne e dalla corruzione.

Abbatteasi il governo napoleonico, ma conservatasi l’istituzione più repugnante ai governi paterni, la polizia, esercitata da un corpo di carabinieri, arbitri della sicurezza di ciascuno, e da uffizi che decidevano in via economica, cioè fuor delle forme giuridiche. Il risparmiare, studio supremo de’ governi antichi, abbandonavasi per moltiplicare impiega t i, superfetazione del sistema nuovo sul vecchio; conservavansi i dispendiosi stati-maggiori, perché d’illustri famiglie; e in conseguenza bisognò stabilire le imposizioni alla francese. Alle gravi disgrazie naturali di carestia e tifo, all’invasione di lupi e di masnadieri, si aggiunse la fama d’enormi malversazioni nel liquidare il debito pubblico, e fu duopo ricorrere a prestiti forzati.

I senati di Torino, Genova, Nizza, Ciamber ì aveano diritto d’interinare gli editti del re, ma sì lasciò cader in dissuetudine: di maniera che al potere assoluto non restava barriera alcuna, e un ministro potè dire: «— Qui vi è soltanto un re che comanda, una nobiltà che lo circonda. una plebe che lo obbedisce. Così coi privilegi antichi toglievansi i diritti nuovi; la legge non era sovrana, potendo il re con un suo biglietto cancellare o sospendere le sentenze; e centinaia di lettere regie circoscrissero contratti, ruppero transazioni, annullarono giudicati, per sottrarre alla ruina la nobiltà impoverita, a’ cortigiani dar dilazioni al pagamento dei debiti, conceder la rescissione di vendite antiche, obbligar ad accettare accomodamenti gravosi. Il conte Gattinara, reggente della cancelleria, nel 1 818 confessò che da questo turpe traffico egli ricavava non men di duemila franchi al mese (26). Avendo il re decretato che la regia autorità non si mescolerebbe più a transazioni private, gli si fece vergogna dell'aver messo limiti alla propria onnipotenza, ed egli revocò l’editto. Maria Teresa, moglie del re, mostravasi dispotica; ed un intendente che sul passaggio riverendola, esprimeva d’esser venuto colle autorità della provincia a inchinarla, essa lo interupe, e «— Dove è il re non avvi altra autorità»; al ministro Valesa che faceale qualche rimostranza sui milioni che mandava in paese estero, disse: «— Il ministro non è che un servitore», ond’egli si dimise.

Di poi si confessò la necessità di migliorare, s’abolì la tortura, si ricomposero l’Università con cattedra d’economia politica e diritto pubblico, l’Accademia delle scienze e la Società agraria, e gli studi sottentrarono alla braveria guerresca: l’istruzione non era sfavorita, sebben nelle scuole si desse piuttosto l’abitudine dell'assiduità meccanica e della sommessione irragionata (27). Plana scandagliava le leggi dello spazio col calcolo e coi telescopi: Grassi e Napione zelavano a disfranciosare il linguaggio: Casalis, Saluzzo, Richeri, Andrioli poetavano, e meglio la Diodata Saluzzo, mentre di Edoardo Calvi divulgavansi versi in dialetto rimasti popolari: Alberto Nola esibiva le sue commedie, che pareano belle interpretate dalla Carlotta Marchionni.

Ma se ciò rivelava il destarsi del pensiero, facea viepiù dolere il vederlo sagrifìcato all’assolutezza del governo e alle pretensioni dell’aristocrazia, che quivi rimaneva qualcosa meglio che un nome, provenendo da origine feudale, cioè da case che erano state sovrane quanto quelle di Savoja e d’aspe tt o militare, separata dal popolo e sprezzandolo, e che fece sua causa la causa della casa regnante, difendendola e ingrandendola col proprio sangue, e perciò privilegiata di dar uffiziali alle truppe e d’altre parzialità, che la faceano astiosa a progressi, in cui vedeva la propria ruina. Rimanea dunque malvista a quella classe media che allora veniva su, e che se ne vendicava co ll'ira e col sarcasmo, neppur riconoscendo che sempre i re ebbero fra i ministri qualche popolano o di nobiltà inferiore, che molti nobili primeggiavano per ingegno e virtù, e che anche ignobili studiosi poteano farsi strada, massime se preti e penetrati nell’Accademia.

I Gesuiti, reputati l’argine più robusto alle idee rivoluzionarie, dovean esser aborri t i o venerati come quelle. Non abbiam rinnegato il senso comune fin al punto di avvoltolarci in quella spazzatura di sacristia, che fu poi tanto rimaneggiata come si suole dei temi triviali, dando opportunità a paro l oni che non richiedono buon senso, e ad una liberalità che non reca verun pericolo. Una società senz’armi, senz’impieghi, senza tampoco una cattedra nell’Università, non potea avere quella tanta efficacia che si asserisce, se non per il credito; affollatissimi i loro collegi; nelle case de' grandi erano i ben accolti, consultati negli affari, interrogali sulle persone da metter negl’impieghi, arbitri insomma dell’opinione legale, quando appunto gli avversava più ostinatamente la plateale. Di chi la colpa?

I piemontesi erano un popolo savio e calmo,sicché li chiamavano gl’Inglesi d’Italia; non chiassi, non risse, silenziosi i convegni ai caffè, contegnosi i passeggi, la conversazione signorile regolata da cerimoniale aulico e con impreteribili esclusioni; pochi i delitti; della morale rispettale almeno le apparenze. Non che fosse aborrita, riverenza ben rara in questi tempi otteneva quella dinastia che non s’era logora t a in vizi, anzi avea cercato la beatificazione di molti suoi membri, e veniva considerata come autrice e t utrice dell’indipendenza della patria, nome che restringevasi al Piemonte.

Il malcontento fermentava negl’impiegati destituiti, negli antichi uffiziali. in quei che credeano saper governare meglio di chi governa, ne’ Buonapartis t i, negli aggrega t i a società segrete, più nei Genovesi, che careggiando le reminiscenze repubblicane dopo dimenticato i mali che le accompagnavano, trovavansi non uniti, ma sottoposti a un altro popolo eminente realista. Fin quando i nobili Piemontesi esultanti e plaudenti corsero a Genova incontro ai reduci reali, i Genovesi non si espressero che col silenzio; molti si ritirarono in campagna, come fecer poi ogniqualvolta il re vi tornava, e ben pochi s’attaccarono alla fortuna del nuovo signore. Mentre la nobiltà ribramava l’antica dominazione, le persone colte stomacavansi d’un assolutismo non palliato dalla gloria; la plebe rimpiangeva i tempi in cui non pagava nulla; e a guarnir la città, non tanto contro i forestieri come contro i cittadini, bisognava tenere più soldati che non ne desse il Genovesato, ed erigere fortezze minacciose.

Re Vittorio Emanuele, si dicesse pure raggira t o dalla moglie, dal confessore, dal confidente, palesava però intenzioni benevole; lasciava poc’a poco so t tentrar le nuove idee e nuove persone; e dopo gli odiati Ceru ll i e Borgarelli, chiamò al ministero il conte Prospero Balbo, onorato per mente e per liberalità secondo i tempi e il ceto, che sebbene impacciato dagli altri ministri e da tutto l’ordinamento burocratico, non osò abdicare, e sperò alle urgenti riforme supplire con palliativi. Già il marchese Sanmarzano n’avea cominciato alcune nell’esercito; il Balbo fece altrettanto nel civile; si preparava un codice nuovo; e secondando la moda, si diè voce che stava in lavoro una costituzione, e se non veniva agli effetti, imputavasene l’Austria, la cui vicinanza impacciava l’indipendenza del regno; l’Austria, potenza preponderante in Italia, spauracchio universale, su cui i governanti versavano anche le colpe proprie: e il vulgo è contento quando trovi una persona, una cosa a cui imputar t utti i mali, cercar tutti i rimedi. E rimedio unico, radicale, infallibile a tutti gli abusi acclamavasi allora la costituzione: questa al Piemonte attirerebbe l’attenzione e i vo t i di chiunque aspira al meglio nazionale, e d’un soffio diroccherebbe l’Austria, reggenlesi solo sul despotismo. Aveano un bel rimostrare i pruden t i che una gran potenza non si dissipa coi soffi: gl’impazienti raddoppiavano d’attività nelle combriccole de’ Carbonari, degli Adel f i, de' Maestri sublimi; e quando scoppiò la rivoluzione di Napoli, più alle menti generose sorrise il desiderio d’emancipare il Piemonte dalla tutela austriaca, e metterlo a capo dell’Italia redenta.

Allora le società secrete abbracciarono moltissimi soldati, più avvocati e professori, e gl’impiegati fin nelle somme magistrature, e non pochi del clero, e tutti gli studenti; poi propagate nelle province, compresero i sindaci ed anche qualcuno de’ parroci, legarono intelligenze colle società lombarde e romagnole. L’antica lealtà savoiarda repugnava dalle congiure; l’onor militare rifuggiva dal calpestare il giuramento di fedeltà: ma si fece intendere che non trattavasi di ribellarsi al re, bensì di salvarla dalla congiura dei preti e dei nobili e dalla servitù austriaca; ripetevansi alcuni molti sfuggiti al re contro l’Austria, la sua compassione pei popoli, esposti, diceano, alle costei brutalità; si spargeva che essa adombrata volesse obbligarlo a ricevere guarnigione tedesca, e concorrere alla spedizione contro di Napoli; anzi, con un matrimonio essa pensasse trarre in un arciduca il Piemonte, a danno di Carlalberto principe di Savoja Carignano.

Questo giovane rampollo del ramo cadetto reale, educato popolarmente a Parigi, erasi mescola t o d’amicizie, di studi, di godimenti, d’intelligenze colla gioventù coeva; e poiché de’ quattro fratelli della Casa regnante nessun lasciava figliuoli maschi, trovossi vicino al trono, e fu messo granmastro d’artiglieria. In quest’arma molti aderivano a’ Carbonari, ed essi gli poser indosso la febbre di divenir il liberatore d’Italia. Il conte Santorre Santarosa spingeva a venire ai fatti, mentre sollevata Napoli, incalorite le menti dalla rivoluzione greca e dalla spagnuola, imbarazzate le potenze; Francia commossa parlava di vessillo tricolore, di costituzione del 1791; la Germania, reciso il nervo austriaco, volea rialzar il liberalismo; Italia esser matura; leverebbesi come un uom solo per acquistare la libertà, l’unità, l’indipendenza. Quando poi gli Austriaci mossero verso Napoli, «certo (diceasi) gli eroi popolari terranno testa lungamente; i monti sono le barriere della libertà, né i briganti furono mai domabili; intanto l’insurrezione in Piemonte si compirà senza ostacoli, Milano seconderà, Romagna e i piccoli Stati non tarderanno, e tutta l’Italia superiore si troverà costituita prima che gl’Imperiali tornino a reprimerla; Francia, se anche non favorisse, non permetterà mai che l’Austria entri armata in paese che confina con essa».


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Si cominciò al solito dalla stampa clandestina, e girò un reclamo, in cui pretendeasi strappare al re la benda postagli da’ suoi cortigiani, dicendogli esausto l’erario, inadequate le providenze, perché il danaro stillato dalla fronte del popolo è prodigato ad impinguare le più alle e più inutili persone dello Stato; perché gli uomini a cui è affidata I economia pubblica, sagrificano all’egoismo personale gl’interessi della patria. «—Maestà! se invece di cumular i poteri in una classe sola, aveste chiamato il consiglio di tutta la nazione, i lumi generali avrebbero riparato a questi mali, né voi avreste il rimorso d’aver condotto a rovina lo Stato. Il vostro governo avversò sempre la dottrina; l’istruzione primaria abbandonata all’ignoranza e all’impotenza de Comuni, è limitata a’ principi d’una lingua inutile alla classe laboriosa; l’educazione media è tiranneggiata dai Gesuiti; gli studi filosofici involti nella ruggine monacale; i legali, disordinati per mancanza di legislazione; l’Università condotta da uomini o inetti o stupidi o maligni, è convertita in un tribunale di correzione e di disciplina. I nostri fratelli italiani ci deridono pel dispregio in cui qui si tengono le lettere; gl’ingegni migliori vanno a cercar un pane altrove,o vivono sprezzati. I favoriti hanno il monopolio dei diritti e dei privilegi, pesando sulla classe industriosa della società. Le provincie dai governatori delle divisioni son rette come paese di nemici. Le amministrazioni civiche e comunali cascano in disordine per l’indolenza, l’incapacità, la discordia dei capi. La religione, in mano dei Gesuiti, è stromento d’ambiziose voglie e di tenebrosi raggiri. La legislazione civile ha l’arbitrio per base, la criminale il carnefice per sostegno. Uno strano ed informe accozzamento di leggi romane, di statuti locali, di costituzioni pace trie, di editti regi, di sentenze senatorie, di consuetudini m unici pali, hanno tolto la bilancia alla giustizia, e lasciata la strada a l despotismo dei tribunali. L’esercito non ha forza morale, perché co m posto d’elementi contrari, di corpi privilegiati, di brigate varie tra loro di dottrine, di lingua, di diritti, comandati da capi promossi non per merito ma per favore. Dei militari una parte è avvilita, perché si vede preclusa la strada ai gradi maggiori. Tutti sono indignati de’ maneggi del vostro governo, il quale medita di trafficare la loro vita col gabinetto d’Austria. No: il nome de’ soldati piemontesi non si confonderà mai col tedesco; essi sono e saranno italiani».

L’11 gennaio 1 821 alquanti studenti dell’Università comparvero al teatro d’Angennes con berretti rossi alla greca. Alcuni arrestati, in onta del privilegio che li sottoponeva al magistrato degli studi, furono messi in fortezza: i condiscepoli irritali, si asserragliano nell’università, a gran voce domandando la scarcerazione de’ colleghi: il reggimento Guardie mandalo a calmarli trova resistenza e fa sangue. Tali manifestazioni sogliono chiamarsi primizie di martiri;e ne rimase una cupa irritazione, esacerbata dall’arrivo dell’austriaco generai Bubna,che fu detto venisse a chiedere d’occupare Alessandria, come garanzia di quiete mentre l’Austria d ifi lava su Napoli.

Se n’incaloriva la faccenda delle società sec rete; ma quale costituzione adottare? la francese, la spagnuola o l'inglese perocché sempre si s t ava all’imitare, anziché fondarsi sulle basi storiche e nazionali. Per risolvere si mandano tre deputati alla vendita suprema di Parigi, alla quale faceano centro i Liberali di Spagna, i Radicali d’Inghilterra, gli Eteri di Grecia, i nostri Carbonari; e vien data la preferenza alla costituzione spagnuola, come scevra d’elementi aristocratici e tutta popolare. Ma il governo, istruitone forse dalla polizia francese, arrestò al ritorno il principe La Cisterna, ed ebbe in mano il bandolo della t rama: vedendovi però partecipi gl’impiegati e i militari, cioè quelli che doveano opporsi, non sapeva o non pot e va impedire; anzi dicesi scomparissero fin esse carte e quelle colte al marchese Priero. Il conte Motta di Lisio e il marchese Sanmarzano, uffiziali sospetti, invita t i a partire da Torino, ricusano, e con Giacinto Collegno, Santarosa, Morozzo, Ansaldi, Bianco, Baronis, Asinari ed altri uffiziali prendono concerto di rivoltare l’esercito, sorprender Alessandria, acclamare Vittorio re costituzionale dell'alta Italia.

I cospiratori non si erano intesi co’ Napoletani, onde non fu né contemporaneo il sollevarsi, né chiaro ed uniforme l’intento; perocché laggiù non eransi rumina t e le loro idee. A Torino poi i preparativi erano impacciati dal tentennare de l principe di Carignano fra la gloria e la fedeltà: ma la rivolta scoppia fra i militari a Possano ed Alessandria, costituendo una giunta della Federazione Italiana; fra il restante esercito corre il grido d’Italia, di francare dall’Austria il re, sicché possa seguire i moti del suo cuore italiano, di porre il popolo nell’onesta libertà di manifestare i propri voti al trono, come i figli a un padre; ma da forsennati prorompono in clamori sediziosi; i sollevati s’accostano a Torino. Quivi gli studenti e alquanti militari col capitano Ferrerò attruppatisi a San Salvario, che allora giaceva un pezzo fuor di città, gridano la costituzione; altri uccidono il colonnello Raimondi che li richiama al dovere; ma non secondati dal popolo, con disastrosa marcia sfilano come vinti verso Alessandria, dove il comandante Des Gene y s, che ricusava arrender la cittadella, fu ucciso.

Dubitando della fedeltà dell’esercito, sbigottito dagl’impiegati che gli esagerano questo movimento di tutta Italia, il re non osa ricorrere alla forza, ma espone lealmente la dichiarazione fatta dai re a Troppau contro ogni novità, mostrando come ne resterebbe compromessa l’indipendenza; e poiché il suo manifesto è strappato, egli non vuole né prometter quel che non è disposto a mantenere, né autorizzare atti che agli stranieri diano pretesto d’invadere il suo caro paese; onde lealmente abdica una corona ch’ egli non potea conservare se non col l a guerra civile (28).

Carignano, da lui nomina t o reggente, esitava a palesar le sue intenzioni, sicché cogli schiamazzi poi colle armi si volle obbligare la municipalità a chiedergli la costituzione. Dal l a cittadella sorpresa gl’insorgenti minacciavano far fuoco sulla città: molti soldati lasciavano le bandiere, considerandosi come sciolti dal giuramento dato al re; l’anarchia sottentrava, quando il Carignano proclamò la costituzione spagnuola: allora gli applausi vanno al cielo, e al nome di Carlalberto si accoppia quello di re d’Italia.

In Lombardia avea preso piede la setta della Federazione italiana, e da un pezzo tramava, raccolta nelle sale de l conte di Gattinara e del conte Federico Confalonieri (29), e mascherata sotto imprese benefiche o progressive, come una distilleria d’aceto di legno a Lezzeno, un battello a vapore sul lago di Pusiano, l’illuminazione a gas, il mutuo insegnamento, un bazar, il giornale del Conciliatore apostolo del romanticismo. Ma l’Austria, avutone f um o, arrestò Silvio Pellico da Saluzzo, giovane educatore in casa Porro, la cui Francesca da Vimini avea fatto sperar all’Italia un secondo Alfieri. Allo sco ppiar della rivoluzione piemontese si rinserrarono le file in mano del conte Confalonieri, principale nella sciagurata insurrezione del 1814, poi ne’ suoi viaggi legatosi co’ primari liberali, e che si mise attorno De Mester e Arese antichi uffiziali napoleonici, Giuseppe Pecchio economista, Pietro Borsieri letterato, i marchesi Giorgio Parr a vicini e Arcona t i, Benigno Bossi, i fratelli Ugoni di Brescia, il cavaliere Pisani di Pavia, il conte Giovanni Arrivabene di Mantova, l’avvoca t o Vismara novarese, Castiglia, altri ed altri. Essi aveano già disposta sulla carta una guardia nazionale, una giunta di governo; neppur l'inno mancava, opera d’un sommo poeta; e appena l’esercito piemontese varcasse il Ticino, insorgerebbero Milano, Brescia, le valli, le campagne, occupando le casse e le fortezze di Peschiera e Rocca d’Anto.

I Lombardi spedirono al Sanmarzano generale deg li insorgenti piemontesi, con numerose firme esortandolo a venire; rimanere in Milano tredicimila fucili dell’antico esercito; facilmente potersi sorprendere il grosso parco in Verona; star pronti trentamila uomini per guardia nazionale. «— Cominciate ad insorger voi», ci diceano i ministri piemontesi; e noi rispondevamo: «— Da soli non bastiamo a vincere; ma senza noi, voi non bastate a difendervi».

Il vero è che Sanmarzano contava appena ducento dragoni e trecento fanti, e se anche potesse aggregarsi i mille uomini del reggimento Cuneo, formava una colonna troppo debole; ma poiché coll'audacia dominansi le rivoluzioni, risolvea tentar l’impresa, massime che gli Austriaci, collo sgomento di chi accampa in terra nemica, avevano ritirato ogni truppa da l Ticino, e il viceré lascia vasi vedere a incassar mobili e vendere vasellame. Ma il ministro piemontese Villamarina disapprovò quella temerità; e il reggente che, come dice il Santarosa, «voleva e non voleva», mandò quel reggimento ad Alessandria. Così la rapidità degli avvenimenti, la inconcepibile mancanza di concerti, la titubanza dei capi, la paura che Torino cessasse d’esser capitale del regno elisero il moto della Lombardia, donde so l pochi giovani corsero in Piemonte ad aggregarsi al battaglione di Minerva.

Intanto l’ambasciadore austriaco, insultato fin ne l suo pala zz o, parte lasciando una nota minacciosa. Il duca del Genovese che, per la rinunzia del fratello diventava re col nome di Carlo Felice, da Modena dichiara ribellione ogni sce m amento della piena autorità reale, e punibile chi non torni all’obbedienza; ed ordina le truppe si concentrino a Novara sotto il generale Latour. Comandi in più severo tono dava a Carlalberto, il quale, anche dopo giurata la costituzione, non s’era risoluto a convocare i collegi elettorali, bandir guerra al l'Austria, entrare in Lombardia. Udita poi la dichiarazione del nuovo re, e che questi aveva invocato l’Austria, crede non dover più rimanere fra gli antichi suoi compagni, e dicendo minacciata la propria vita, e sé incapace di padroneggiar la rivoluzione, fugge all’esercito regio a Novara, e di là pubblica che «altro ambir non saprebbe che di mostrarsi il primo sulla strada dell’onore, e dar così a tutti l’esempio della più rispettosa obbedienza ai sovrani voleri».

Era il 23 marzo, il giorno stesso di un altro proclama ventis e tt’anni dopo.

Quella fuga toglieva agl’insorgenti ogni apparenza di legalità: ma risoluti di non cedere, creano una giunta provvisoria (30); sparpagliano proclami e bugie. Intanto ogni cosa va sossopra; la Savoja si chiarisce pel re; la briga t a che por t a quel nome, ricusa disertare, onde fu dovuta rimandar in patria; i carabinieri in arme si recano all’esercito regio; a Genova il governatore Des Gene y s, che annunziò la defezione di Carlalberto , è assali t o, trascinato per le vie, e a fatica salvato dai generosi che non voleano contaminar con violenze la rivoluzione; i Liberali medesimi discordano, quali caldeggiando la camera unica, quali la duplice, quali unitari, quali federalisti. Santarosa, fatto ministro della guerra, cerca destare il coraggio colle speranze, e collo spargere che gli Austriaci furono disfatti dai Napoletani, e le valli Bresciane insorsero furibonde: ma ecco giungere certezza della disfatta degli Abruzzi, e che centomila Russi sono in marcia; poi addosso ai Liberali movono i Realisti col generale Latour e gli Austriaci col generale Bubna, che in Lombardia aveva, se non alle trame, partecipa t o alle speranze de’ Carbonari; presso Novara succede un’affrontata, e la rivoluzione piemontese è finita.

Carloalberto ricoveratosi a Milano, è dal generale austriaco beffardamente presentato come re d’Italia: Cario Felice a Modena lo tratta come uno scapato, e la lettera di lui getta in viso al suo scudiere: egli si ritira a Firenze a digerire l’obbrobrio, confessare i suoi torti e farne scusa, sol per rispetto alla legittimità appoggiato dall’ambasciadore francese con sentimento di compassione (31).

La società dei Maestri sublimi, raffinamento della Massoneria, e che professava il regicidio, fu dalla Francia trapiantata a Ginevra dal fiorentino Michelangelo Bonarroti, antico adepto di Baboeuf, che v’istituì un congresso italiano per diffonderne i dogmi nel nostro paese. Alessandro Adr y ane, che n’era diacono straordinario, fu spedito qui per rannodare le rotte fila; ma a Milano lasciossi cogliere con tutte le sue carte, le quali diedero a conoscer la trama, senza bisogno che la rivelasse Carloalberto , come si ciancia. Da nove mesi era unito il parapiglia di Piemonte quando si cominciarono i processi contro i Lombardi, parte a Milano, parte a Venezia (32), da una commissione speciale, alla cui testa il tirolese Sa l volti. In quelli l’imputato si trovava all’arbitrio d’un giudice, senza difensori, senz’avere sott'occhio le sue o le altrui deposizioni; durava interi mesi di solitudine ne l carcere fra un esame e l'altro; e qualche volta l’inquirente, fattosi mansueto gli diceva: «— Ecco, ella è interamente nelle mie mani. Qui non siamo in paese di pubblicità compromettente. Confessa ella quel che del resto già noi sappiamo? l’imperatore le fa grazia, ella torna a casa sua onorato. Persiste al niego? sta in me il diffamarla, e spargere che ha tutto rinvesciato, che tradì i compagni, e così torle quel ch’ ella mostra valutare tanto, la pubblica opinione».

Ad arti di si mil genere, piuttosto che a torture fisiche, non tutti resistettero; vi fu uno che, per generosità di salvar un amico, corse a denunziare sé stesso, poi accortosi dell’errore, si finse pazzo, e per mesi sostenne la straziante simulazione; altri credette scagio narsi col provare che aveva dissuaso i Piemontesi dall’invadere la Lombardia; altri ammise di quelle tenui concessioni che conducono ad altre; tanto che si potè raccogliere onde condannare Confalonieri (33). Adr y ane, Castiglia, Parravicini, Tonelli, Maroncelli e molt’altri a Milano, dove furono esposti sulla gogna il 24 gennaio 1824. E già a Venezia la vigilia di Natale, giorno di gratulazioni e feste ecclesiastiche e civili, erasi letta la sentenza d’altri Carbonari, e, cosa insolita a quella stagione, l’accompagnarono tuoni e ruggito del mare sotto un insistente scirocco, onde al domani la città fu invasa dal l'acqua, e tutto il litorale ne patì fin alla Spezia e a Genova. Furono portati allo Spielberg, ove alcuni soccombettero, quali il prete Fortini, il conte Oroboni, il veterano Morelli, il Villa; Maroncelli perdette una gamba; altri poterono uscire ancora a narrar i propri patimenti (34). Ma mentre alcuni gli esagerarono, o posero in evidenza sé stessi, o denigrarono altrui, Silvio Pellico li raccontò senza rancori, senz’arte; e t utto il mondo lesse le sue Prigioni, e la pietà per quei soffrenti partorì esecrazione a quei che così facea soffrire: eppure egli non si tolse mai co ll'estremo supplizio di esercitare il diritto prezioso dei re, il ripiego più nobile dell’homo, la grazia e la riparazione.

Gioja, Romagnosi, Trechi, Mompiani, Laderchi e molt’altri furono rilasciati senza condanna; un solo fu assolto innocente: i quali poi restavano in condizione tristissima, che , mentre la polizia perseverava nell’adocchiarli e turbarli, quasi a giustificarsi dell’averli perseguitati, il pubblico (troppo solito complice degli oppressori) dubitava di loro perché non condannati, accoglieva le sinistre insinuazioni sparse d’altro luogo, finiva per temere e odiare quelli che erano temuti e odiati dal governo.

In Piemonte si fecero censettanta condannati (35), tutti in contomacia, essendosi lasciato partire chi volle; il notaio Garelli e il tenente Laneri furono messi a morte, e in effigie il principe La Cisterna, Caraglio, Collegno, Lisio, Morozzo, Regis, Santarosa; di seicentonovantaquattro uffiziali inquisiti, ducentoventi furon destituiti, e così molti impiegati civili.


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Gli Stati pontifizi erano anch’essi sottominati da società secrete; e istantemente aveano chiesto che le truppe sarde si avvicinassero al confine, ma non ne fu nulla; e quel governo, ripigliata forza, cominciò gli arresti; di quattrocento processati, molti, principalmente per opera del Rusconi legato di Ravenna e del Sanseverino di Forlì, condannò alla pena capitale, che i l papa commutò nella reclusione. Il granduca non credette necessari i processi perché non ebbe paura. Maria Luigia li lasciò fare, e vi furono involti Ferdinando Maestri e Jacopo Sanvitali professori; ma commutò le pene in esiglio.

Sconfitti su tutti i punti, i Liberali rifuggono in Ispagna a versar sangue per uno statuto che aveano bramato alla patria loro; a fiancheggiare una causa che sentiano dover soccombere, ma che era la loro; e a mostrare, colle generose morti, che non erano colpevoli delle fughe di Rieti e di Novara. Altri crociaronsi in aiuto della Grecia, dove a Sfacterìa perì il Santarosa.

Gli Alleati, all’udire l’inaspettato successo, esclamano doverlo attribuire non tanto ad uomini che mal comparvero nel giorno della battaglia, quanto ai terrore onde la Previdenza colpi le ree coscienze»?; e protestando di lor giustizia e disinteresse, annunziano all'Europa d'aver occupato il Piemonte e Napoli, e nella loro unione «una sicurezza contro i tentativi de’ perturba t ori». Insieme partecipano ai loro ministri presso le Corti «essere principio e fine di loro politica il conservare ciò che fu legalmente stabilito, contro una setta che pretende ridurre tutto a una chimerica eguaglianza»; annunziano altamente che «i cambiamenti utili o necessari nella legislazione od amministrazione degli Stati, non devono emanare che dalla libera volontà di quelli che Dio rese responsali del potere» (36).

Così essi pongonsi custodi e dispensieri unici della verità, della giustizia, delle franchigie: e i Liberali ebber servilo agl’interessi dell’Austria, dandole occasione di estendere l'alta vigilanza e quasi l’impero su tutta la penisola, da lei sottratta ai tumulti o al progresso.

Poi a Verona s’adunarono a congresso i re di tu tt’ Europa colla grandezza loro e cogli avanzi di loro miserie; e i diplomatici più vantati dichiararono che resistere alla rivoluzione, prevenirne i disordini, i delitti, le calamità, assodar l’ordine e la pace, dare ai governi legittimi gli aiuti che aveano diritto di chiedere, fu l’unico oggetto degli sforzi dei sovrani; ottenutolo, ritirano i soccorsi che la soia necessità avea potuto provocare e giustificare, felici di lasciar ai principi il vegliare alla sicurezza e tranquillità del popolo, e di togliere al mal talento fin l’ultimo pretesto di cui possa valersi per ispargere dubbi sull'indipendenza dei sovrani d’Italia». In fatto l’Austria si persuase a sgombrare il Piemonte e abbreviar l’occupazione del Napoletano; della Grecia non si ascoltarono tampoco i deputati, benché il papa gli avesse accolti ad Ancona e raccomandati; si convenne dei casi in cui i re si dovrebbero sussidi reciproci; si stabilì soffocar la rivoluzione anche in Ispagna, e l’incarico ne fu commesso all’esercito francese, che tra le grida di Muoia la costituzione. Vira il re assoluto, procedette senza ostacolo un a Siviglia. Il berrettone e lo stocco benedetti, che aveano onorato le vittorie turche di don Giovanni d’Austria, di Sobieski, d’Eugenio di Savoja, furono dal papa spediti al duca d’Angouleme, condottiero di quella vittoria; vittoria ingloriosa, e che trovò ingrati quegli stessi a cui vantaggio erasi compiuta. Carloalberto, combattendo al Trocadero, aveva in f accia ai re lavato la macchia dell’essersi lasciato salutare re d’Italia.

La facile caduta di rivolte militari o di popolari sommosse, mal combinate, scoppiate in circostanze sfavorevoli, soccombute alla forza sistemata, fecero persuasi i re d’esser sicuri, e che ninna reale efficacia possedesse lo spirito liberale, che amavano confondere col rivoluzionario; bastasse affrontarlo per vincerlo, né vincer egli potesse se non chi non ne conosca il debole; e pesarono sull’Italia con una taciturna reazione qual mai non erasi, né più fu prova t a; tanto peggiore quanto non ricreata da verun lampo di speranza.


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NOTE

1

Anche il famigerato principe di Canosa rimproverava ai principi, per idee diverse, questo accentramento, quest'abolizione dell’individuo; e nella esperienza ai re della terra scriveva:— Principi miei, che cosa fate? 11 mondo va tutto in precipizio, il fuoco arde sotto i vostri troni, la cancrena corrompe la società; e voi vi battete le mani sull'anca, applicate qualche cero tt ello inconcludente su piaghe sterminate, e non adottale provvedimenti vigorosi e validi?... Voi per zelo mal inteso et'della sovranità avete levato ai Comuni tutti i loro privilegi, tutti i loro diritti, tutte le loro franchigie e libertà, e avete concentralo nel potere ogni moto e ogni spirito di vita. Con questo avete reso gli uomini stranieri nella propria terra, abitatori e non più cittadini delle loro città ; e dall'abolizione dello spirito patrio è sorto lo spiri t o nazionale. Dici strutti gl’interessi privati di lutti i municipi, avete formato di tutte le volontà una massa sola; ed ora vi trovate insufficienti a reprimere il moto di quella mole terribile e smisurata. Divide et'impera. Voi vi siete dimenticali di questa massima scolpita nel fondamento dei troni: avete preteso regger il mondo con una redine sola, e questa vi si è spezzata nelle mani. Divide et'impera. Dividete popolo da popolo, provincia da provincia, città da città, lasciando ad ognuna i suoi interessi, i suoi statuti, i privilegi suoi, i suoi diritti e le sue franchigie. Fate che i cittadini si persuadono d’essere qualche cosa in casa loro; permettete che il popolo si diverta coi trastulli innocenti de’ maneggi, delle ambizioni e delle gare municipali; fate risorgere lo spirito patrio colla emancipazione dei Comuni; e il fantasma dello spirito nazionale non sarà più il demonio imbriacatore di tutte le menti... »

2

Eppure Napoleone nel 1814 a re Giuseppe scriveva: J'ai toujours reconnu que la p oli ce fait'un mal affreux: elle alarme sans éclairer.

3

Quando la Rivoluzione credeva toglier tanti poteri al re,Mirabeau, nella sua corrispondenza secreta, mostrava a Luigi XVI che anzi li consolidava: — È dunque nulla il non esservi più né parlamento, né paesi di stato, né corpo di clero, di privilegiati, di nobili? Molti regni di governo assoluto non avrebber fatto altrettanto quanto questo sol anno per l'autorità reale».

*

Se questa è la felicità,ah! la infelicità che cosa mai sarà? Solamente una rivoluzione di popolo, un filosofismo insensato, un sensualismo il più sozzo, una libertà rotta ad ogni mal fare e che mena in trionfo l'idolo della prostituzione qual trofeo di sua gloria, poteva in ciò riporre la felicità. Nihil prosperum, nihil felix dici pot est, quod non fortite navit to t ius felicita t is auctor . Son parole del Tullio cristiano, cioè di Lattanzio. (G. B.)

4

Il suddetto Canosa acclamava: «— Un’altra causa principale dello sconquassamento del mondo è la troppa diffusione delle lettere, e quel pizzicare di letteratura che è entrato anche nelle ossa de’ pescivendoli e degli sta l lieri. Al mondo ci vogliono i dottori e i letterati, ma ci vogliono anche i calzolari, i sartori, i fabbri, gli agricoltori e gli artieri r di tutte le sorti; ci vuole una gran massa di gente buona e tranquilla, la quale si contenti di vivere sulla fede altrui, e lasci che il mondo sia guidato coi lumi degli altri, senza pretender di guidarlo coi lumi propri. Per tutta questa gente la letteratura è dannosa, perché solletica quegl'intelletti che la natura ha destinati ad esercitarsi dentro una sfera risi rolla, promove dubbi che la mediocrità delle sue cognizioni non è poi sufficiente a risolvere, accostuma ai delitti dello spirito, i quali rendono insopportabile il lavoro monotono e noioso del corpo, risveglia desideri sproporzionati alla umiltà della condizione, e con rendere il popolo scontento della sua sorte, lo dispone a tentativi di conseguire una sorte diversa. Perciò, invece di favorire smisuratamente l'istruzione e la civiltà, dovete con prudenza imporle qualche confine, e considerare che, se si trovasse un maestro, il quale con una sola lezione potesse render tutti gli uomini dotti come Aristotele, e civili come il maggiordomo del re di Francia, questo maestro bisognerebbe ammazzarlo subito per non vedere distrutta la società. Lasciate i libri e gli studi alle classi distinte, e a qualche ingegno straordinario, che si fa strada a traverso l’oscurità del suo grado; ma procurale che il calzolaro si contenti della lesina, e il rustico del badile, senza andarsi a guastar il cuore e la mente alla sc uo la dell'alfabeto».

5

Fra gli illustri ospiti è a contare la duchessa di Devonshire figlia del conte Spenser, che più volle avea scorsa l'Italia e il resto d'Europa col proposito di riconciliar le due Chiese. Qui fece stampare la quinta Satira di Orazio con grandissimo lusso di caratteri e r d'incisioni, e in molte edizioni sempre di pochissimi esemplari per migliorare or il sesto or la traduzione; l'ultima, eseguita nel 1818 da Bodoni, riuscì un capolavoro con incisioni di Ripenhausen e Caracciolo, riproducendo i luoghi e valendosi delle antichità pompeiane. Fece anche stampar l'Zàieide del Caro (Roma. De Romanis 1819) in censessant a qualtro esemplari mandati a soli principi, con ventidue incisioni nel primo volume e trentotto nel secondo, oltre i ritratti della duchessa, di Virgilio, del Caro; ed è peccato non abbia potuto far altrettanto della Divina Commedia, come divisava. Grande amica della Stael e della Récamier, accogliendo attorno a sé la più splendida società, potè anche far servigi a Roma, sia col chiedere al governo inglese i gessi dei marmi d’Elgin, sia qualche mitigazione pe’ Cattolici d’Irlanda. Mori nel 1806.

6

I fautori del libero scambio asseriscono che nel regno d'Italia erasi posta una tassa sull'esportazione dei grani, onde si coltivarono a preferenza altri generi, e da ciò o venne o peggiorò la carestia del 1817: soggiungono che in questa i grani costavano carissimo nella Sicilia dov’erano le tratte, mentre in Toscana si continuò la libertà, e non mancava fromento indigeno, e Livorno guadagnava dall'affluirne di straniero. Son fatti tu tt’ altro che accertati.

*

E tu vedrai, lettor mio, qui in poche righe raccolta, comunque disposta dall'autore, tutta la infame trama ordita da codesto satannico colosso sacrato alTempieta. Togli dalla società Iddio, i’evangelo, la Chiesa non hai che aggregati di facinorosi ribelli ad ogni legittima autorità: che fanno il loro idolo i vizi più turpi, la miscredenza, la oppressione del simili, la vendetta, il sangue, e quanto di più schifo può ideare Puomo lasciato in balia del suo mal talento. (G. B. )

7

La baronessa di Stael nel 1805 diceva: Il y aura des revolution en Fr anc e jusqu'à ce que chaque François ait'obtenu une place du gouvernement.

8

Se è vero quel che riferisce lo Zobi, voi. v, p. 57, don Neri Corsini soleva ripetere confidenzialmente agli amici: «—I venti vescovi del granducato, se non sono continuamente sorvegliati dal governo, da un momento all'altro, secondo il piacere di Roma, possono rivoltare il paese (parole di un rivoluzionario ). E la sorveglianza conviene che sia continua, circospetta e preventiva, onde evitare scandali e clamori, i quali irritano i devoti che credono e non ragionano, e non sono pochi».

Prjrel l i, primo presidente in Piemonte, a Barbaroux ambasciadore a Roma scriveva: «— Tutto quanto in Roma è oggetto di speranza, dev'esser l o a noi di timore, e dobbiamo astenerci dall'accordato».

9

Artaud, Fila di Leone XIL — C ontra hae c repugnabant'acerrime recens impieta s et'ipsa m e ticulosa saeculi deciminoni politica. N o d ari. Vit a Pii V II.

10

Savoiardi furono il purista Vaug e las, Claudio di Se y ssel istorico di Luigi XII, Ducis, Michaud ecc.

11

Vedi la sua Correspondance inèdite.

12

Un transunto de' processi del 1821. che porla la storia di venlotto società segrete, toccando di quella de' Sanfedisti o Concistoriali dice: «—Di questa parlano continuo I Carbonari pontifizi, e pretendono sia diretta a espellere gli Austriaci, e ristabilire la prcponderauza della corte di Roma. Però di queste intenzioni non seppero mai esibire più accertale notizie; e siccome si trattava di svelare le mosse d'una società segreta o che avrebbe mirato principalmente a combattere il moderno liberal ism o, pare che essi cercassero piuttosto deviar l'attenzione del governo dalle loro combriccole, dirigendola sulle traccie d'una setta, la quale, quand’anche esistesse, non potea meritare seria considerazione ne. Non favoreggiata dallo spirito del tempo, essa non potea fare giammai progressi pericolosi; e non ci è mai avvenuto d’avvertirne l’esis t enza fra noi».

*

E forse l'avrebbe mantenuta una costituzione; ma le libere istituzioni richiedono altra educazione, e la Sicilia ne mancava. Ogni padre prudente che s’avvede nuocere anzi che giovare la sua troppa indulgenza alta famiglia a cui presiede, riassume la sua autorità, e, senza scopilo di dignità, toglie ciò che aveva spontaneamente conceduto. (G. B )

13

Il principe di Castelnuovo, che grandemente si adoprò per ritrarre il re da questo consiglio, quando mori lasciò un grosso lega t o a chi potesse ottenere dal re il ripristino della costituzione siciliana.

14

I l Colletta, dopo raccontato a disteso gli errori del governo napoletano, conchiude che i governanti erano benigni, la finanza ricca; felice il presente, felicissimo si mostrava l'avvenire; Napoli era t ra’ regni d’Europa meglio governali, e che più larga parte serbasse delle idee nuove». Lib. VIII, n. 51.

15

Saccheggiandosi il palazzo di Palermo dov’é la specola, l’as t ronomo Nicolò Cacciatore si oppose alla ciurma che voleva manomettere l'osservatorio; onde «fu trascinato per la città, quasi ignudo, rinchiuso in fondo d'oscura e fredda prigione in compagnia di una ventina d'uomini della massima depravazione. Per miracolo ne usci il giorno seguente». Aut obi o qraf i a.

16

Queste in Sicilia diedero un terzo di nobili, un quarto di preti: a Napoli invece il parlamento riusci di sei nobili, diciannove preti, tredici possidenti, dodici magistrati, altrettanti legisti, otto militari, sei medici, quattro impiega t i adivi e due In ritiro, due negozianti e un cardinale.

17

A’ Court, inviato d’Inghilterra, non avea parole bastanti per disapprovarli: «— Neppur un’ombra di biasimo s’avventurarono a gittare a sul governo esistente; non altro promisero al popolo che la riduzione del prezzo del sale. Mai non erasi avuto governo più paterno e liberale: maggior severità e meno confidenza s a rebber riusciti ad altro... Spirito di setta, e l’in udi t a diserzione di un esercito ben pagato, ben vestito e di nulla mancante, causarono la rovina d'un governo veramente popolare. Temo non si riesca a scene di carnificina e confusione a universale. La costituzione è la parola d’ordine, m i in fatto è il trionfo a del giacobinismo, la guerra dei poveri contro la proprietà».

18

Nota del ministro degli affari esterni delle Due Sicilie alle Corti d’Europa, 1° dicembre 1820.

19

Vedi le sue Memorie, scritte dal Galvani.

20

Memorandum di don Neri Corsini. 20 gennaio 1821.

21

In lettera del 5 gennaio 1821 egli diceva: «—Dopo tutte le dichiarazioni e ritrattazioni del re di Napoli, se io fossi al posto di M ett er nich non vorrei mescolar la mia causa col tessuto di duplicità ond'è composta la vita di S. M.».

22

E su tante micliaja di spade

Una stilla di sangue non v'è.

Rossetti.

23

Nei cinque anni d’occupazione in Sicilia perirono da seimila austriaci per clima, per vino, per vizi. Secondo il Bianchini ( Finanze del retino, in. 791 ). dal 1801 al 27 il regno avea speso in truppe forestiere cinquantasette milioni di ducati. Per le gravi spese nel 1826 si ritenne un decimo sopra lutti i soldi e le uscite. F rimont era comandante generale dell’esercito austriaco in Italia; e morto il 28 dicembre 1851, ebbe a successore il maresciallo Radetzky.

24

Carlo Emanuele IV. abdicato nel 1802, erasi fatto gesuita con voti semplici, continuando a vivere come pi ima in sempre maggior pietà, fino al 6 ottobre 1819. Eragli succeduto il fratello Vittorio Emanuele.

25

Sa nt arosa, H i stoire de la revolution piemontaise, 182 1.

26

Così uno de' più intrepidi adulatori del governo piemontcse, tom. i, p. 509. Vedi meglio Sa nt arosa in generale, e Brofferio con minute particolarità, parte I . c. 7.

27

Bufóni dice dell’università di Genova: «—La lettera era tutto, nulla lo spiri t o. Erasi proposto di formar delle macchine, non degli uomini. L'università parca destinata a estirpare dalla generazione presente ogni indipendenza di spiri t o, ogni dignità, ogni rispetto di sé stesso; e quando passo in rassegna tanti nobili caratteri che sfuggirono a questo di Procuste orrido letto, non so trattenermi dal pe n sare con orgoglio quanto devono esser forti gli elementi morali della natura italiana tanto calunniata, per uscir puri e vigorosi da un'atmosfera così de l eterica». Memorie d'un proscritto.

28

Gualterio dice che quei che chiedevano la costituzione erano assoldati dal conte di Binder ministro d'Austria (i 570); e dipinge come minacciata la vita, non solo del re, ma della sua famiglia che in,quei frangenti non furono tutelate fuorché da Carloalberto » (i. 564). È calunnia al mite popolo piemontese, e ad una rivoluzione quasi incruenta. Il realismo di quei rivoluzionari scoppia fin con entusiasmo in queste parole del Santarosa: «— O notte fatale!... la patria col re non caci deva, ma questa patria era per noi nel re, anzi in Vittorio Emanuele a incarna t a; gloria, successi, trionfi e t utto per noi compendiavasi in quel nome, in quella persona».

29

Luigi Giuseppe Arborio Gattinara di Breme, da famiglia vercellese ricca di prelati e diplomatici, si pose alla diplomazia, fu consigliere di Stato del regno d'Italia e commissario generale delle sussistenze dell’esercito, poi ministro dell'interno e presidente del senato ( 1 754-1828). Luigi suo secondogenito, scolaro dell'abbate Caluso,cappellano del viceré e governatore dei paggi nel regno, pizzicava di letterato, e scrisse Sull'ingiustizia d'alcuni giud i zi letterari in Italia, ed altre cosuccie ( 1 781-1820).

30

Fu ministro dell’interno il conte Ferdinando Del Pozzo, valente giureconsulto, che già in uno scritto pseudonimo avea dimostrato che le ragioni acquistate sotto il governo francese, non potevano abrogarsi; poi profugo, stampò ne l 1 853 Della felicità che gl'italiani possono e devono dal governo austriaco procacciarsi, dove a Carloalberto, divenuto re, dava esortazione d'imitar l'Austria in molte cose, fra cui nel dotare di centomila lire il teatro dell'Opera.

31

Il marchese La Maisonfort, ministro di Francia a Firenze, s’adopr a a scusare Carloalberto, e tenerlo raccomandato al ministro degli affari esteri Pasquier: Les torts qu'on reproche au prince de Carignan, sont presque tous dans ses liaisons en précédence de la révolution. Il ne les nie pas, mais il assure que l'on exagère... Chef d'une espèce d"opposition qui, selon lui, était purement militaire, le prince e ut le malheur de se brouiller ouvertement avec le due de Genevois. Lejeune prince était dono dans une situation, dont ses entourages abusaient quand la révolution a éclaté. Trop jeune pour s'apercevoir que celle rébellion était sans base, il la jugea trop puissante pour ne pas croire de son devoir de se jeter à traversa a fin d'obtenir la confiance et le pouvoir qui seuls pouvaient l'étouffer (Correspondance du 19 juin 1821). E più basso: Arrivé à Novare, où il reçut l'ordre d’abdiquer tout pouvoir et de se rendre en Toscane, quel fut, m'a- t-il dit, son étonnement et son désespoir de ne pouvoir être reçu à Modène, où le roi Charles Felix jeta à la figure du comte Costa, son écuyer, la lettre de soumission qu'il lui port a it E al 22 dicembre : On con tinue de calomnier et d’écourter le prince de Cari g nan de Turin. On irait bien plus loin si la Franco n'avait semblé le couvrir de celle égide, qu'elle offrir a toujours la légitimité. Il m'a pr o mi s patience et condui t e irréprochable.

Quando noi scrivevamo la Storia universale, Cesare Saluzro, granmaestro d'artiglieria ed aio de' figli del re, ci promise documenti importanti sulla rivoluzione del 21: ma quando li reclamammo, non seppe darci che questi carteggiò quali a noi parver tu tt ’altro che nobilitare il re. anzi dir peggio che molte declamazioni de' suoi avversari. Pure furono più tardi pubblicati da' suoi apologisti.

Il nome di Carloalberto, per fatti posteriori, si attirò un culto nazionale, che ancora pregiudica alla verità. Noi, conoscendo la violenza delle circostanze, cercammo sollecitamente ogni suo disgravio diretto; ma dagli apologisti suole travalicarsi questo momento, fin da quello che ne descrisse gli ultimi giorni con un calore d'affetto, tanto più nobile quanto più scevro da speranza, se non da riconoscenza.

32

A Venezia Pellico, Solerà, Romagnosi, Rossi di Cervia che vi mori: a Milano Castiglia, Arrivabene, Parravicini, Confalonleri, Adrvane, Treclii, Mompiani, Visconti.

33

Finita la rivoluzione piemontese, egli scriveva a Ugo Foscolo: «—Siam condotti a tale da chiamar felici gli esuli, e molto più felici quelli che, se divideranno il danno generale che la perversità di quest'epoca ha serbato a tutti gli sforzi cauti e generosi, sono ben lontani dal diti vider la vergogna di quelli che non seppero voler II bene se non i mbecille me nte e fanciullescamente» . Epistolario di Ugo Foscolo, n. 4 42. Avvertito d’in alto a fuggire, il Gonfalonieri non volle: colto in casa, trovò arrugginiti i congegni della botola per cui s'era preparata una fuga. Singolare venerazione professarono per lui quei che gli furono compagni di sventura. Uscito dallo Spielberg nel 1857 per l'amnistia, mori il 1847, e I suoi funerali a Milano furono un de' preludi della nuova rivoluzione.

34

Maroncelli, Frignani, Adrvane, Parravicini ed al t ri pubblicarono la storia dei loro patimenti. Vedi pure Semplice verità opposta alle menzogne di E. Misle y nel suo libello L'Italie sous la domination autrichienne. Quest'opera, scritta in bastardo italiano dal tirolese Zajo tt i. che fu poi nostro processante di Stato nel 1855, asserisce che gli arrestati non furono ottomila, ma settantaquattro. Il Giordani (lettera 25 giugno 1825) chiama il Zajo tt i «vero scrittore, il solo vero ingegno italiano che siasi venduto all'Austria».

35

Fra questi Ansaldi, Rattazzi, Dossena, Bianco, Santarosa, L isio, Collegno, Radice, Ferrerò, Marochetti, Avezzana, Ravina, che la più parte ricomparvero dopo ventott'anni d'esiglio con miglior esito.

36

Dichiarazione a nome delle Corti d'Austria, Prussia e Russia alla chiusa del congresso di Lubiana; Circolare accompagnatoria ai ministri delle Ire Corti. «—In Capefigue (Diplomates européens. Milano 1844. pp. 41 e 42) appare che la Francia non acconsenti all'occupazione del Piemonte se non per brevissimo tempo, car la France ne pourrait souffrir les autrichiens sur les Alpex . Tous ces actes de cabinet, toutes les proclamations qui suivent la tenue d'un congrès, étaient spécialement l’œuvre de M. de Metternich. Le chancelier d’Autriche possédé. .. un goût por... etc . Chateaubriand, nel Congresso di Corona, da lode al cardinale Spina, capo della legazione pontifizia, dell'essersi opposto all'invasione austriaca in Italia.




















Nicola Zitara mi chiese diverse volte di cercare un testo di Samir Amin in cui is parlava di lui - l'ho sempre cercato ma non non sono mai riuscito a trovarlo in rete. Poi un giorno, per caso, mi imbattei in questo documento della https://www.persee.fr/ e mi resi conto che era sicuramente quello che mi era stato chiesto. Peccato, Nicola ne sarebbe stato molto felice. Lo passai ad alcuni amici, ora metto il link permanente sulle pagine del sito eleaml.org - Buona lettura!

Le développement inégal et la question nationale (Samir Amin)










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