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UN’OPERA DI CARLO CATINELLI. CHI ERA COSTUI? di Zenone di Elea

STUDJ SOPRA LA QUESTIONE ITALIANA

DI CARLO CATINELLI

GORIZIA

Dalla tipografia Paternolli

1859

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INTRODUZIONE

CAPITOLO PRIMO

Del contegno degli Italiani dal 1808 al 1814 rimpetto alle imprese d'indipendenza Europea contro Napoleone Bonaparte

CAPITOLO SECONDO

Sopra i principj che guidarono gli Alleati del 1814 e 1815, e il Congresso di Vienna dei detti anni nel riordinamento dell'Italia; e sopra l'opposizione insorta contro di esso

CAPITOLO TERZO

Sull'agitazione italiana, e sui mezzi coi quali è stata prodotta, e si è fatta, fino al giorno d'oggi, durare

CAPITOLO QUARTO

Sulla necessità per l'Europa di porre un line all'agitazione italiana

CAPITOLO QUINTO

Suite pretensioni e ragioni della questione italiana, sui principj dai quali vi si parte, e suite loro conseguenze.

CAPITOLO SESTO

Sopra le relazioni della questione italiana con la ripartizione e con la configurazione geografica, e con la struttura topografica dell'Italia, e sopra le false idee che entro e fuori d'Italia si hanno sulle Alpi.

CAPITOLO SETTIMO

Sulla condotta delle masse italiane nelle guerre, insurrezioni, e ribellioni, che dal 1815 in poi turbarono e interruppero replicatamente la pace d'Italia.

CAPITOLO OTTAVO

Sugli elementi e fattori provvidenziali, che finora hanno determinato i destini d'Italia, e sulla necessità per essa e per l'Europa tutta di studiarli e di conoscerli a fondo, e di tenerne il massimo conto.


AL LETTORE

La Questione Italiana, ancorché un argomento che interessa immensamente non solo l’Italia, e l'Austria e gli Stati limitrofi, ma tutta l'Europa, anzi in più di un riguardo tutto il mondo civilizzato, e, dal 1848 in poi, tutto il mondo cattolico, non è mai finora stata, che io sappia, come sembra che lo richieda la somma sua gravita, istudiata a dovere; cioè tanto nei suoi principj, che nelle sue conseguenze, ragioni, relazioni, e dipendenze; né mai depurata dalle tante illusioni, fantasmagorie e falsità, che vi ottenebrano il vero, e ne rendono il riconoscimento, se non impossibile, difficilissimo. Vi hanno bensì degli scritti, e nel grande numero anche di lodevolissimi, che trattano questa o quella dette molte questioni, nelle quali la questione suddetta si dirama; ma in nessuno di essi la si considera da ogni suo punto di vista, in nessuno si sottopone ad un rigoroso, esauriente, analitico—sintetico esame.

Egli è in conseguenza di questa disgraziatissima trascuranza, che si è prodotta guerra fiera agitazione, avente per iscopo la realizzazione dette pretensioni comprese net la questione italiana, la quale per corso ormai di quaranta quattro anni, non senza essere nell’istesso tempo un fomite di rivoluzioni e di guerre, e non solo uno scandalo, ma anche un’onta per l’Europa, inquieta, tormenta e funesta senza posa l’Italia. Chi non vede essere assolutamente impossibile, che giammai si arrivi a conoscere il modo, ed i mezzi di rimediare tanto male, se prima non se ne istudiano, come si suol dire a fondo le cause, e non si giunge a conoscerle?

Questi miei studj non saprebbero riempire questo vuoto. Nondimeno, lusingandomi che bastino a dimostrare l’urgente necessita di riempirlo, e che, offrendo net loro complesso un programma del da farsi per riuscire nell’intenta, possano provocarne l'attuazione, e coi materiali che porgono, facilitarla, mi fo un dovere di pubblicarli; e cosi, succederà ciò che patrie, li pubblico.

Il mio nome suona italiano; sono pero per nascita, e per sentimento il Lettore non tarderà ad accorgersene — austriaco. Questa circostanza, congiunta con l'altra, che di tutte le pretensioni, che costituiscono la questione italiana, quella, che dalla suindicata agitazione si considera come la principale e più importante è lo strappamento del regno Lombardo—Veneto dall’Austria, potrebbe facilmente farmi supporre passionatamente contro l'Italia preoccupato.

Questa supposizione sarebbe falsissima. Ma ove essa non avesse altro seguito, che d’indurre il Lettore a prescindere dalle mie conclusioni o a rifare del tutto il mio lavoro, lungi dall’esserne dispiacente, ne sarei anzi contentissimo. Sia egli vero con sé stesso non si voglia ingannare; non respinga il disinganno per acerbo e molesto, che esso a prima vista gli appaja; fatto ch’egli avrà; confronti i due scritti. Vi avranno delle differenze; ma quanto ai punti essenziali, appena ne posso dubitare, ci troveremo abbastanza d’accordo.

Gorizia al 1. di Dicembre 1857

L’Autore.

STUDJ SOPRA LA QUESTIONE ITALIANA

INTRODUZIONE

La Questione Italiana comprende nell’attuale sua fase, i seguenti concerti: Avervi negl’Italiani il forte, unanime, ardente volere di riunirsi tutti in un solo ed unico stato e quanto prima fia possibile in uno stato repubblicano democratico. Il confine di questo stato dalla parte del continente dover essere la gran catena centrale delle Alpi: averlo segnato e fissato la stessa natura; vedervisi chiaramente il dito di Dio; appartenere perciò all'Italia senza alcun scemamento, tutto il paese, che si estende dalle cime dei detti monti, sino allo Stretto~di~Messina, e appartenervi egualmente senza eccezione tutte le aggiacenti isole, che sono, ommesse le piccole: la Sicilia, la Sardegna, la Corsica e Malta. Avere l'Italia ad essere in ogni sua parte libera e indipendente da qualunque dominio forastiero. Il volere forte, unanime, ardente di un gran popolo qual è il popolo italiano, giustificarsi e legittimarsi da sé. Reclamare quindi gl’Italiani, e averne il pien diritto: dall’Austria, il regno Lombardo—Veneto, il Tirolo meridionale, e l’Illirio occidentale; dalla Svizzera, il Canton Ticino; dalla Francia, la Corsica; e dall'Inghilterra, Malta. Il presente ordinamento dell’Italia essersi dettato dal congresso di Vienna del 1814 e 1815 senza il consenso dei di lei abitatori; anzi in opposizione ai loro voti, ai loro bisogni, e alle loro convenienze; e in contraddizione alle promesse solennissime che le potenze alleate, le quali abbatterono Napoleone nel 1814, hanno dato a tutti i popoli d’Europa, e quindi anche agi’ Italiani, di rispettarne e proteggerne l’indipendenza. Non essere stato quel dettato, se non un barbare sopruso della forza brutale. E finalmente, che essendosi nel 1848 dimostrata l’assoluta incompatibilità dei governo clericale pontificio, e della presenza del Papa a Roma, con l'unità e colla libertà dell’Italia agognata da ogni vero Italiano, renderai necessario, che il mondo cattolico pensi ad assegnare, ed assegni al santo Padre suo Capo, un altro paese ove trasportarvi e piantarvi la sua Sede.

Tale è la questione italiana, detta anche la santa causa d’Italia, ridotta ai suoi minimi termini. Essa ha Paria, ne convegno, di una amara ironia. Ma formulati senza ambagi, e senza reticenze, questo è il suo vero aspetto; né vi ha il modo di cambiarvi checchessia, senza dipartirsi dal vero. Le pretensioni, che vi si mettono in campo, sono talmente in disaccordo col jure pubblico da secoli in corso nel nostro mondo politico du crederle calate sul nostro, chi sa da qual altro pianeta.

Le conclusioni risultanti dagli studj, che qui mette alla disposizione del pubblico, sono: che le potenze alleate, le quali hanno posto un fine al dominio di Napoleone Bonaparte, erano tante più in pien diritto di riordinare l'Italia, e di riordinarla subordinandone il riordinamento agli interessi generali dell’Europa, ché gli Italiani avevano, sino alla caduta di quel terribile uomo, coadjuvato in ogni modo alla sua esorbitante prepotenza, presa la difesa della sua esecrabile causa, e combattuta la causa dell’indipendenza Europea. Che ciò nonostante, il detto riordinamento dell’Italia ha avuto luogo, con appena qualche eccezione, nel più perfetto accordo con i voli della rispettive popolazioni, e con ogni possibile riguardo ai loro bisogni e alla loro convenienze. che il ricordare, che fanno gli agitatori Italiani, i proclami e manifesti che all'Italia indirizzarono gli Austriaci nel 1809, e nella guerra d’indipendenza in generale le potenze alleate, per indurla ad abbandonare la causa di Napoleone, e abbracciare quelle dell’Europa, è un vero insulto al buon senso. Che l’agitazione contro il suddetto riordinamento è stata prodotta e alimentata da un branco di settari coi mezzi i più riprovevoli. Che l’Austria nella sua attuale posizione, estensione, composizione e possanza, è per l’Europa in generale, e per l’Italia in particolare una vera e assoluta necessità; e che qualora essa un di venisse a mancarvi, vi si riprodurrebbero per l'Italia i tempi infelicissimi, che corsero dal secolo sesto all’undecimo. Che lasciando fare un Italia coi principj e nel senso degli agitatori Italiani, converrebbe disporsi a lasciar mettere a soqquadro e disfare tutta l’Europa. Che il pronunciato giobertiano: essere gli Stati, qualora si compongono di più schiatte, anomalie contro natura, e di una durata effimera, trovasi contradetto da tutta la storia. Che l’asserzione proveniente dalla stessa scuola, essersi l’impresa dell’indipendenza italiana proseguita sempre per tredici secoli senza interrompimento, è parimente priva di ogni fondamento. Che la catena centrale delle Alpi non è mai stata il confine politico dell’Italia; che le Alpi sono in quasi tutta la loro estensione conformate dalla natura in modo a presentare un vallo, non contro la Germania, ma contro l’Italia: e che perciò, quel Ben provvide nature al nostro Stato.

Quando dell'AIpi schermo

Pose fra noi, e la Tedesca rabbia.

se anche sta in poesia, non sta minimamente in verità. Che segnatamente le Alpi—Giulie, le Alpi—Carniche, e le Alpi—Retiche non sono monti italiani, ma rispettivamente, monti illirici, carinziani e tirolesi e, detto in una parola, monti austriaci; che codeste Alpi sono Acropoli con guarnigioni austriache, a cavaliere del paese sottoposto, rinchiuso fra l’Adriatico, il Pò, e il Ticino, vale a dire, del regno Lombardo—Veneto; e quindi. avervi bensì il dito di Dio, ma indicar esso tutto l’opposto di ciò che vi vogliono vedere gli agitatori italiani. Che le specificate Alpi non si sono mai difese contro le genti o gli eserciti, che provenienti dal Nord o dall’Est invasero l’Italia, che i Romani non le difesero in nessun tempo, che non le difesero neppur nelle guerre civili sotto gl’Imperatori; doversi dire lo stesso degl’Italiani, che mai le difesero contro gl’Imperatori di Germania. —Che il vero popolo italiano non ha mai riconosciuta la cosi detta causa d’Italia per sua; che esso non ha mai voluto saperne; che quel nome Causa d’Italia è un nome usurpato. — Che se mai il vero popolo, ossia le masse in Italia si alzassero, si alzerebbero per una causa lor propria, diversa affatto dalla cosi detta causa d’Italia. — Che dato il caso che gl'Italiani un giorno riuscissero a unirsi in un solo stato, vi vorrebbe niente meno che mano ma di ferro qual era quella di Napoleone Bonaparte per ritenerveli uniti. — E finalmente che l’Italia qual ë, è l'opera di cause provvidenziali, le quali se Iddio non le cangia, continueranno a determinante i destini anche per l’avvenire, e non altrimenti che li hanno determinali finora.


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CAPITOLO I

Sul contegno degli Italiani dal 1808 al 1814 rimpetto alle imprese d'indipendenza Europea contro Napoleone Bonaparte.

La condizione degl'Italiani durante la dominazione di Napoleone Bonaparte, oltre all’essere oltre ogni segno dolorosa (1), era in quanto anche sommamente degradante, ché gl’immensi sagrifizj, che esso loro imponeva, non servivano che ad alimentare la sua estrema ambizione, da lui portata ad un eccesso, al quale non la portà mai uomo al mondo, e a tormentare e a mettere in ceppi i popoli, che avevano la disgrazia di esser accessibili alla sua esorbitante prepotenza. Gl'Italiani sentivano profondamente il loro avvilimento, e ne fremevano; non pertanto gli obbedivano, e continuarono a lasciarsi da lui adoperare come istrumenti del suo volere sino alla sua caduta, e a profondere il loro sangue a le loro sostanze nelle guerre che egli, col calpestare i diritti degli altri e col rendersi di giorno in giorno più minaccevole all'indipendenza Europea, provocava. – I nostri «dice un rinomato scrittore, che sarò sovente nell’esercitare, non campeggiavano che sotto marescialli forestieri; e i loro nomi figuravano sempre in seconda fila; oltre che riportavano le imprecazioni dei popoli cui andavano a porre il giogo. È necessario armarsi per divenire nazione; qual vanto il partecipare ai vanti di un genio immortale, cosi ci ripetevano: ma per quanto sia comune l'entusiasmo per quel macello, che s’intitola gloria militare, archi e trofei mal coprivano i tanti sepolcri; l’esercito non guardavasi più con maraviglia, ma con compassione, dacché pareva certa morte il marciar là donde si pochi ritornavano; e il buon senso avvertiva, che i nostri giovani rapiti in sempre più giovane età, e in maggior numero, non militavano pel bene della patria, ma per ambizioni estranee ad essa (2)».

Eppure non mancavano agl’Italiani le occasioni le più favorevoli di emanciparsi. Ma ancorché le fossero occasioni non già momentanee e sfuggevoli, ma tali da potersi cogliere e da servirsene con maturato consiglio e che tutta l’Europa non soggetta a Napoleone li confortasse colle parole e coll’esempio a profittarne, e loro si offrissero, qualora si alzassero, ajuti e soccorsi; essi giammai si mossero, e continuarono a cooperare all'aumento della di lui esorbitante possanza, e a far sotto le di lui bandiere la guerra all’indipendenza europea, e ad opporsi al ripristinamento di quella solidaria garanzia del concerto Europeo denominata equilibrio politico. Napoleone era già stato stanciato dal suo carro trionfale, ché essi, non altrimenti, che se vi fossero ritenuti da catene fatale, abbenché l'odiassero a morte, e oltremodo se ne vergognassero, vi tiravano ancora.

Questo acquietarsi degl’Italieni in una si penosa, pungente e abbietta servitù, nonostante che vi avessero da nna parte i più incalzanti motivi, e dall’altra le più incoraggianti occasioni di liberarsene, vuolsi da taluni attribuire alla speranza, con la quale Napoleone li lusingava, che un di farebbe coll’Italia, ciò che i Romani dopo la prima guerra di Macedonia avevano fatto colla Grecia, e che riunitala tutta, la dichiarerebbe libera e indipendente, e la rilascierebbe a sé stessa. Avendo Napoleone effettivamente riunita in un corpo politico la maggior parte dell’Italia settentrionale, cui aveva dato il nome improprio, ma assai significative di regno d’Italia, gl’Italiani vi videro il divisamento di aggiungervi, a misura che gli avvenimenti gliene offrirebbero i mezzi, il rimanente del continente italico e tutta la penisola. E che esso abbia lasciato di tratto in tratto cadere delle parole in questo senso a Lione, durante la consulta italiana, che vi si tenne nel 1802, e nei suoi viaggi d’Italia, e anche dettato dei discorsi nell’isola di S. Elena può essere, ed è vero (3)

.

Senonché in opposizione a queste prove in parole e in discorsi, vi banno dei fatti, che le annullano intentamente.

Questi fatti sono 1.° la fusione del Piemonte, del Genovesato, dei Ducati di Farina e di Piacenza, della Toscana e di quelle provincie pontificie, che la pace di Tolentino aveva lasciate al Papa, in dipartimenti francesi, incorporando quei paesi italianissimi alla Francia; dichiarandoli per sempre parti integranti dell’Impero francese, e volendo che i Piemontesi, i Genovesi, i Parmigiani, i Piacentini, i Toscani ed i Romani cessassero di essere italiani, e divenissero e si dicessero francesi; e dichiarando Roma la seconda città di Francia. 2.° Che l’erede presuntivo della corona di Francia ebbe a intitolarsi re di Roma (4).

3.° Che Napoleone intraprese grandiosi lavori per rendere sempre più l’Italia accessibile alle armate francesi, aumentando il numero delle strade carreggiabili attraverso le Alpi, ampliandole e riducendole permeabili anche d’inverno ciò che prima non erano; e inoltre, con lo scopo di togliere ogni ostacolo militare, che si potesse opporre alle sue trappe, quando dirette per l’Italia, smantellando tutte le piazze forti del Piemonte colla sola eccezione delle cittadelle di Torino e di Alessandria, e 4.° che esso fece fortificare con grande dispendio. e studio, a modo di campo trincerato, Alessandria qual base della potenza militare francese in Italia (5)

e destinandola in caso che questa dovesse lasciarsi in balia di sé stessa, o abbandonarsi ad un'armata nemica della Francia, a offrire ai Francesi che vi si ripiegassero in aspettazione di soccorsi, e per riprendere a suo tempo l'offensiva e riconquistare il paese, una piazza ove riparare con sicurezza. La fusione con la Francia di una si considerevole parte d’Italia, che poco men che uguagliava in estensione e popolazione il regno italico doveva bastare a convincere ogni intelletto sano, che Napoleone, anzicché essere disposto a emancipare l'Italia, pensava a stringerla sempre più con nodi indissolubili alla Francia, e a subordinare intieramente e per sempre gl’interessi a quelli di questa. E da ciò segue, che per l’Italia, volendo farsi stato libero indipendente, si rendeva innanzi a tutto necessario e indispensabile, alla prima favorevole congiuntura, come, per esempio, che gli eserciti francesi si trovassero impacciati in guerre lontane d’insorgere contro il suo oppressore, di dichiararsi indipendente, e d’ingiungere alle truppe italiane, di staccarsi dall'armata francese nelle cui file combattessero, e di passare nelle file delle armate degli Alleati, che combattessero per l'affrancazione dell’Europa.

Or ecco ciò che l'Italia, ancorché da Napoleone orribilmente malmenata, e ancorché in un estremo avvilimento, e che, come tosto si vedrà, le occasioni di emanciparsi non le mancassero, non ha mai voluto o mai saputo fare. La guerra nella quale Napoleone, spintovi dall’insana e feroce smania di creare dei reami pei suoi fratelli, e per le sue sorelle, s’inviluppò nel 1808 con la Spagna, gli toglieva ed occupava oltre a duecento mila uomini. Egli dovette portarvisi in persona e sarebbe, per quanto gl'Inglesi la soccorressero con genti, armi e con munizioni di guerra, pervenuto a soggiogarla, se l’Austria non avesse fatto mostra di alzarsi a di lei salvamento, e non si fosse anche nella susseguente primavera alzata, e fatto avvanzare un esercito che contava duecento sessantacinque mila soldati, presenti sollo le armi. E che soldati quelli si fossero l’hanno sufficientemente dato a divedere le battaglie campali di Aspern e di Wagram, delle quali vinsero la prima (20 e 21 maggio 1809) abbenché preceduta da una serie di disgrazie, che sarebbero state più che sufficienti a disorgannizzare, dissolvere, e disperdere ogni altra armata. Egli è vero che ne perdettero la seconda, ma oltre che ciò non fu se non a cagione della loro grande numerica inferiorità in ogni arma e particolarmente in artiglieria, è cosa notoria, avervi essi tolti al nemico più cannoni che non gliene rilasciarono, e che questo non ebbe a vantare altri prigionieri, che i feriti rimasti sul luogo ove combatterono (6).

L'Austria aveva inoltre a quell'epoca nella sua Landyvehr composta in gran parte di veterani, e in altra gente armata e organizzata e da potersi immediatamente impiegare alla difesa delle sue frontiere, una riserva di niente meno che duecentomila uomini.

L’Arciduca Giovanni, che nel 180comandava l'armata austriaca in Italia vi fece diramare, nell’entrarvi, un proclama che cosi incominciava: «– Italiani! ascoltate la voce della verità e della ragione. La prima vi dice, che voi siete schiavi della Francia, che consumate solo per lei sostanze e vita. E co sa di fatto che il presente regno d’Italia non è se non un sogno; un nome vano senza realtà. Ma le leve d’uomini, le imposte, le angherie sono cose vere e reali. – L’altra vi dice, che in questo stato di avvilimento voi non potete né essere stimati, né aver pace, né essere Italiani. Volete voi esserlo? Aggiungetevi con pronto animo al possente esercito, che l’imperatore d’Austria generosa mente invia alla volta d'Italia. E sappiate che non è già per ispirito di conquista, che il fa procèdere oltre, ma per difendere sé stesso, e per l'indipendenza d’Europa, minacciata, come lo dimostrano tanti fatti irrepugnabili, di inevitabile servitù. Se Iddio sostiene le virtuose imprese dell’imperator Francesco, e quella dei suoi possenti alleati, l'Italia sarà felice e rispettata in Europa. Il Capo della Chiesa avrà la sua libertà e gli stati suoi; ed una Costituzione fondala sopra la natura delle cose, ed nna vera politica, fa ranno prosperare il suolo italiano, e renderanno inaccessibili le sue frontiere ad ogni straniera signoria. Egli è l’imperatore Francesco il quale vi fa certi d’uno stato si avventuroso ed onorevole. Ben sa l'Europa che la parola di questo principe non è vana, e che è cosi immutabile come essa è pura... Italiani! la verità e la ragione vi dicono che mai non avrete una più favorevole opportunità per trar l'Italia dal giogo che la grava (7)».

Un tal linguaggio doveva togliere agli Italiani ogni dubbio che, alzandosi, ciò che farebbero, lo farebbero per sé, e che una volta sortiti dai ceppi francesi sarebbero liberi e indipendenti, e nel caso di darsi quella forma di governo, che loro fosse più convenuta e più piaciuta. Dall’altro canto per poco che avessero esaminata la situazione di Napoleone e considerate le forze che gli rimanevano dedotte quelle che avevano a combattere in Ispagna e nella Germania, si sarebbero convinti, che vi aveva una decisa preponderanza dalla parte dei suoi avversarj, e che esso non aveva i mezzi di comprimere una insurrezione italiana subito che la si fosse estesa a intiere provincie; e che il felice esito di una tal impresa era immancabile, e ciò a tal segno che su di essa anche una sconfitta che toccasse all’Austria non avrebbe esercitata nessuna sinistra influenza. Il che è tanto vero che, quantunque la guerra in discorso prendesse, dopo essere stata iniziata in Italia con una decisiva vittoria, e nel Tirolo con l’insurrezione dell’intiera sua popolazione montanara, non escluse le donne, la piega più disastrosa, ciononostante lo scopo di essa, cioè il salvamento della Spagna, e la dimostrazione, che l’Europa avea i mezzi ed il modo di resistere a Napoleone, e che il ripristinamento dell’equilibrio politico stava in di lei potere, fu completamente ottenuto. Napoleone dovette abbandonare la guerra di Spagna ai suoi generali, che non seppero condurla, per mettersi alla testa dell’armata destinati ad opporsi ai centosettantacinque mila Austriaci, che condotti dall'Arciduca Carlo eran entrati in Baviera. Le trappe, che gli rimanevano, dedotte quelle che guerreggiavano in Ispagna ammontavano appena a centomila Francesi, e a quarantamila Te des ch i attinenti alla confederazione renana. La sua situazione era quanto mai si può dire critica (8) e non se ne sarebbe cavato, per poco che gli Austriaci avessero evitati gli scontri fortuiti e precipitosi, e accettate sottanto delle battaglie regolari, come furono appunto le battaglie di Aspern e di Wagram, la prima delle quali lo fermò sul Danubio a tal segno, che per riprendere l’offensiva gli convenne prepararvisi sei intiere settimane, e si trovò nella necessita di sguarnire affatto la Dalmazia, e tutta l'Italia sino al Tronto e a Terracina, e in Germania la Sassonia.

Bastava che l'Italia lo volesse, per riuscire a disfarsi del suo oppressore. Gli Inglesi percorrevano da padroni tanto l’Adriatico, che il Mediterraneo, pronti a soccorrere nell’istesso modo, come avevano soccorso la Spagna, ogni paese italiano che avesse inalberata la bandiera d’indipendenza. Nel regno di Napoli stavasi Gioacchino Murat con venti in venticinquemila Napoletani, ma i quali appena bastavano per difendere quel regno contro gli Anglo—Siciliani che per mare lo minacciavano in tutta l’estensione delle sue mille miglia italiane di coste. Il Vice—re con l’armata italo—francese trovavasi in allora sulla riva sinistra del Danubio a più di trenta giornate di marcia dall’Isonzo. Una insurrezione che si fosse prodotta nel Piemonte e nei paesi aggiacenti, o negli Apennini avrebbe avuto due mesi di tempo per ordinarsi, estendersi e consolidarsi. In Mantova, in Peschiera, in Venezia, in Palmanova i presidj erano debolissimi e componevansi in gran parte di riconvalescenti e invalidi. Napoleone non aveva nell’Italia settentrionale tremila uomini di truppe disponibili. Questo è un fatto superiore ad ogni eccezione, comprovato dalché l'insurrezione della Valtellina che pur montava, allorché scoppiò, a otto in novemila uomini, non potè combattersi che con mille duecento uomini di nuova leva, e colla guardia nazionale di Delchio. di Morbegno e di Chiavenna, e che non si potè mai finirla che a pace fatta (9).

L’Italia non si mosse. Gl’Italiani continuarono a far la guerra alla Spagna, e a immolare i loro figli e le loro sostanze al Moloch che dicevasi loro re e imperatore. Dei trentasettemila uomini che forni il regno d’Italia nel 1809 all’armata del Vice—re per la guerra coll'Austria, si perdettero diciassettemila, dei trentamiladuecento Italiani del regno, e dei diecimila Napoletani partiti per la Spagna soli novemila dei primi, e milleottocento dei secondi rividero la loro bella patria (10).

Qual perdita facessero in quella guerra i dipartimenti italo—francesi non so dire, ma non fa certamente minore di quella che toccò ai due regni.

Napoleone fece con l'Austria una pace, che le lasciò la facoltà di rimettersi in forza. Vi hanno che pensano, aver esso allora potuto finirla con l’Austria, e ciò con un semplice «la maison d'Autriche a cessé de régner». Quei signori s’ingannano. Napoleone ha fatto quella pace, perché aveva bisogno di farla, e di farla subito, per la ragione, che l’orizzonte politico per lui di giorno in giorno più si oscurava. I Russi suoi alleati si erano mostrati nella guerra contro l’Austria al massimo segno ritrosi a favorire i suoi piani, e vi avevano in Polonia più nociuto che giovato; egli aveva potuto studiare durante il suo soggiorno nell’Austria lo spirito delle di lei popolazioni, e il loro inalterabile attaccamento alla casa regnante, e aveva compreso che qualunque provincia strappata a quella monarchia doverebbe alla prima guerra con essa un Tirolo; e vi aveano inoltre in tutti i paesi a lui soggetti, nell’Olanda, net Belgio, in Francia, e sino nel suo esercito delle tremende cospirazioni. In Italia l’esasperazione degli animi era giunta al colmo, e non si mancava di dipingerla a Napoleone coi colori i più neri. Ma sopratutto gli dava molto da pensare la Germania, che era un vulcano sul punto di erompere. come l’ho già detto, ma che qui giova ripeterlo, la guerra colla Spagna, coll’Inghilterra, e coll’Austria assorbiva tutte le sue forze, cosicché una insurrezione sia della Germania, sia dell'Italia lo avrebbe trovato intieramente sfornito di truppe per combatterla. La pace coll’Austria rimetteva la preponderanza della sua parte «– Grazie alla pace, scriveva egli a Miollis a Roma, mandandogli nove o dieci mila uomini di rinforzo, ho tempo e trappe disponibili». Se crediamo al signor Thiers, Napoleone nutriva allora il pensiero, che gli animi in Europa avevano sommo bisogno di calma, e che il soddisfarvi rendevasi di giorno in giorno più necessario e più urgente. Pur troppo però fu questo suo pensamento, se pur lo ebbe, di corta durala. Non passarono due anni e mezzo, che esso già metteva il suo mondo in movimento per una guerra colla Russia (11).

Questa guerra si fece, e costò, in poco più di sei mesi nel 1812,1a vita a mezzo milione di soldati, fra quali, senza contare i Napoletani e gl’Italiani dei dipartimenti italo—francesi, ventiseimila del regno d'Italia. Il bollettino il quale annunziava alla Francia, all'Italia e all'Europa questa orrenda catastrofe, unica per la sua enormità nella storia, finirà cosi: — La salute di Sua Maestà non è mai stata migliore. E anche il linguaggio tenuto in quell’incontro dal Vice—re all'Italia fu quanto mai si può dire spietato. — Egli scriveva, dice il signor Cantù al ministro di guerra, si facesse coscrizione per surrogare i morti; «né una parola lasciava cadere su questi; né una 0 ragione o un pretesto adduceva per indurre a nuovi sagrifizj un regno che pur doveva figurare come indipendente. Poi da Napoleone fu spedito a Milano perché tutto riducesse ad armi ed allestisse ottantamila uomini si del regno si dei 0 dipartimenti italo—francesi (12)».

Codesta guerra che era stata nel suo incominciamento una furiosa corrente di popoli, che scaricavasi con una forza irresistibile dall’Occidente sull’Oriente, si trasformò nell’anno susseguente 1813 in una corrente simile e maggiore, e non meno irresistibile, che si scaricò dall’Oriente sull’Occidente. In vano l’Austria fece ogni sforzo per indurre Napoleone a fare all'Europa patti ragionevoli, e ad ammettere e riconoscere l’indipendenza della Germania, se anche non sino al sue antico confine, almeno sino al Reno; e ad ammettere e riconoscere l’indipendenza dell’Olanda, della Spagna e dell'Italia. Non riuscendo nell’intento, entrò essa nella coalizione con duecentomila uomini. La di lei accessione lu la cagione, che gli stati e i popoli da lui dipendenti non dubitarono più del riscatto dell'Europa e non esitarono, a misura che gli alleati avanzavano, di pensare ai propri casi e di congiungersi con essi, e di rinforzarli con i loro soldati, che sino allora avevano combattuto per Napoleone. Cosi fece la Baviera, e per farlo non aspettà neppur l’esito della battaglia di Lipsia, cosi il Wurtemberg, cosi tutta la Confederazione—renana, cosi l’Olanda, cosi il Belgio. La sola Italia, che pur voleva figurare come indipendente non si mosse; essa sola.

La neghittosa, non escì dal fango: non perché non potesse, o non vi fossero i più forti motivi e incentivi di escirne, ma perché non si curò di farlo.

Le ostilità Ira l’armata italo—francese e l’armata austriaca cominciarono il giorno 1agosto contemporaneamente nel Tirolo, sulla Drava e sulla Sava. Il generale Barone Hitler, che comandava gli Austriaci, indirizzò anch’egli agl’Italiani, come aveva fatto nel 180l’arciduca Giovanni, un proclama, col quale, dopo avervi parlato delle generosi intenzioni dei Sovrani alleati in riguardo all’avvenire del loro paese, premesso un quadro delle forze della coalizione, li chiamava ad alzarsi contro Napoleone, — a generale liberazione dell’Europa, e a «cooperazione cogli eserciti, che in loro ajuto accorrevano da ogni banda (13)».

Ecco una guerra che di nuovo presentava, e più che mai, all'Italia l’occasione favorevole, certa e immancabile di farsi stato libero, autonomo, indipendente. Non si può parlar più francamente, di quello che gli Alleati parlarono, in tutto il tempo che essa durò, per mezzo dei loro generali agli Italiani in riguardo ai futuri destini della loro patria; lo che è da dirsi anche delle loro parlate a Napoleone mediante i loro diplomatici sul ripristinamento. dell'equilibrio politico. Le loro intenzioni per rapporto all'Italia erano le più pure, e più disinteressate. Ciò che essi volevano dall’Italia in particolare, era, ripetiamolo, che la si staccasse da Napoleone, e cooperasse all’impresa dell’indipendenza Europea, con che avrebbe cooperato anche alla sua. L’Austria non pensava più, che le altre potenze alleate, ad occuparne qual parte che sia.


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Si, cos’è. Gli Alleati, disponendosi a passare il Reno, e ad entrare in Francia, penetrati dal pericolo che presentava una guerre con Napoleone e colla Francia in Francia, desiderando di assicurarne il più che fosse possibile il buon esito, e anche di possibilmente accelerarne infine, ansiosi perciò d’indurre l’Italia ad abbandonare la causa di Napoleone, ed a sposare quella dell'Europa, non ebbero ribrezzo d’indirizzarsi a Gioachino Murat, re di Napoli, e ad Eugenio Beauharnais Vice—re del regno d’Italia e di offrir loro, pel caso che volessero unirsi ad essi contro Napoleone, e ciò non per altro, che per forzarlo ad una pace ragionevole e rassicurante, di riconoscerli ambidue per re dei detti regni, vale a dire, il primo qual re del regno di Napoli, e il secondo qual re del regno d’Italia. E Murat accettò le offerte, e promise con un trattato firmato coll’Austria il giorno 11 gennajo 1814 l’addimandata accessione alla coalizione, il secondo invece vi si rifiuta. Or egli è innegabile che le trattative col Vice—re riferivansi a tutto il presente regno Lombardo—Veneto, ed essere stata l’Austria la potenza alleata, che le ha iniziate e incamminate. Il che è provato dal fatto, che fu indossando un'uniforme austriaca fornitagli dal generale Hiller, che il principe Thuru—Taxis,

Colonnello bavarese, si presentò nella seconda metà di novembre 1813 al Vice—re presso Verona, per fargli conoscere i desiderj e le offerte degli Alleati, e che fu il Principe Metternich, che dettò le relative istruzioni. Di più egli è ormai provato, che di già in ottobre di quell’anno il sunnominato generale Hiller da una parte, e il re di Baviera dall’altra, fecero intendere al detto Vice—re, che non dipendeva che da lui di essere riconosciuto re d’Italia (14).

Si finisca dunque una volta di ricordare i proclami degli Alleati all’Italia in prova della loro mala fede contro di essa. Che valore hanno e possono avere delle proposte, delle offerte, o delle promesse alle quali non si diede ascolto, o delle quali non compieronsi le condizioni? Se esse ricordano alcunché, ricordano l’estrema servilità ed inettezza del Senato, dei Ministri e dei Generali del regno d’Italia, i quali nulla fecero per tirare il loro paese da una situazione non meno assurda, che dolorosa e umiliante, e lo lasciarono impegnarsi e struggersi per l’ostinazione di Napoleone, di non riconoscere l’indipendenza della Spagna, della Germania, dell’Olanda e dell’Italia in una lotta terribile con tutto il rimanente dell’Europa, che pur voleva con l’indipendenza della Spagna, della Germania e dell’Olanda anche l’indipendenza dell’Italia; Il ricordare quei proclami, e più che altro un insulto alla logica del buon senso.

La guerra che aveva, come si è detto incominciato ai 1di agosto nel Tirolo, sulla Drava e sulla Sava dopo varj scontri e combattimenti sui detti fiumi, nelle Alpi—Giulie e nell’Istria, che per lo più riuscirono sfavorevoli all’armala del Vice—re, videsi trasportata il giorno 6 di ottobre sull'Isonzo, ed in capo ad un mese (8 novembre) sull’Alpon, a mezza strada fra Vicenza e Verona, e sull’Adige, e mediante lo sbarco di un distaccamento sotto gli ordini del generale conte Nugent (15 novembre) alle bocche del Po anche nel Ferrarese. Allo sgombro per parte del Vice—re dell’Illirio e della Croazia contribui non poco, che migliaja di soldati appartenenti alle dette due provincie notoriamente fino al 180austriache e nel detto anno con la pace di Vienna divenute francesi, appena che loro si mostrarono le insegne dell’Austria, corsero a combattere sotto di esse. In gennajo del 1814 giunse nelle Legazioni Gioacchino Murat, con circa ventimila Napoletani, il quale dopo alcune tergiversazioni,convenne col maresciallo conte Bellegarde, stato frattanto surrogato nel comando dell’armata austriaca al barone Hiller, di avvanzare di concerto col generale Nugent, il di cui distaccamento era stato rinforzalo e portalo a una intiera divisione di ottomila uomini, sulla riva destra del Po verso Piacenza, ciò che doveva obbligare il Vice—re, minacciandone il fianco destro e le spalle a stoggiare dall’Adige, e dal Mincio e ad abbandonare la Lombardia come aveva abbandonate successivamente, minacciato di fianco dal Tirolo, le provincie venete. In marzo sbarcò a Livorno il comandante in capo delle forze britanniche nel Mediterraneo e in Sicilia, Lord William Bentinck, con quindicimila uomini parte Inglesi e parte Siciliani e parte Italiani, questi altrimenti ad una legione italiana al servizio inglese, della quale vi avevano due reggimenti in Ispagna (15).

Esso doveva operare nel Genovesato, ove effettivamente opere e, presi d’assalto i forti Richelieu e S. Tecla che coprono Genova a Levante, entrò il giorno 20 aprile nella detta città. Tanto il conte Nugent che il re di Napoli ed il maresciallo conte Bellegarde, e cosi anche Lord William Bentinck indirizzarono, ciascuno per sé, all'Italia dei manifesti, chiamandola a. cooperare alla propria liberazione; però tutti senza alcun rimarchevole successo.

Una riscossa a quell’epoca nel Piemonte, o nel Genovesato, o in Toscana o nelle Legazioni avrebbe immediatamente terminata la guerra d’Italia (16).

Senonché stava scritto che si avesse a poter dire all’Italia con tutta verità, voi non avete fatto nulla per la vostra liberazione. Lo straniero vi ha dovuto far tutto: e non solo che non lo avete ajutato a liberarvi; esso vi è stato assai assurdamente durante tutta quella impresa avversato e combattuto. Vi dovevano cooperare i Napoletani; il loro re vi si era solennemente con un trattato obbligalo. Ma ha poi esso agite da leale e fedele alleato? Non ha egli invece quanto più ha potuto inceppate, e contrarietà le operazioni degli Austriaci con una perfidia senza esempio? (17).

L’arrivo di ventimila Napoletani sulla riva destra del Po come nemici rendevano la situazione dell’armata franco—italiana a lai segno pericolosa, che Napoleone non esitò al primo sentore che ebbe dell’accessione di Gioacchino alla coalizione, credendola sincera, di ordinare al Vice—re di presidiare con i soldati del regno le piazze forti, e col rimanente della sua armata di raggiungerlo in Francia (18).

L’ordine era preciso, ed esso aveva già abbandonata Verona e l’Adige, e disponevasi ad abbandonare anche il Mincio e successivamente tutta l’Alta—Italia, quando Murat gli fece sapere, che i suoi Napoletani non gli farebbero verun male, é che qualora gli si presentasse l’occasione di cacciar gli Austriaci da Verona, e oltre l’Adige, lo facesse, poiché egli non intendeva in verun modo d’impedirglielo. Questo messaggio faceva cessare i motivi dell’ordine che aveva il Vice—re, e questo perciò si credette nel caso non solo di non aver ad eseguirlo, ma di dover prendere l’offensiva e di assalire gli Austriaci, il che esso anche fece con la battaglia sul Mincio (8 febbrajo) ma che egli perdette, e che riusci gloriosissima per l’armata austriaca (19).

E fu in conseguenza di altri simili messaggi, che il Vice—re potè guerreggiare sul Mincio, e nei Ducati di Parma e Piacenza sino ai giorno 16 aprile, nel quale una specie di sommossa prodottassi nel suo campo il giorno prima, lo sforzo a conchiudere coi conte di Bellegarde un armi9lizio, i di cui articoli costituiscono la convenzione, detta dal luogo ove fu firmata di Schiarino—Rizzino.

Questa convenzione come anche quella dei 23 dello stesso mese detta la convenzione di Mantova, che ne fu il complemento, vogliono essere ben chiarite e attentamente considerate, se pur si voglia comprendere e spiegare gli ultimi giorni del regno d’Italia. Il vero è che Eugenio Beauharnais aveva presso gli Alleati in Francia nel re di Baviera suo suocero un possente protettore, e nella ex—imperatrice Giuseppina sua madre in Parigi una possente protettrice. Su di essi fondò egli la speranza, che gli Alleati disporrebbero in suo favore se anche non di una maggiore, almeno di quella parte del regno d’Italia, che è posta fra il Mincio e il Ticino, e nella quale gli Austriaci non erano ancora penetrati; e che per determinarveli basterebbe che a Milano avesse luogo una dimostrazione, la quale facesse supporre che i Lombardi lo bramavano a loro re. Ciò bastò per continuare la guerra con lo scopo di trattenere gli Austriaci sul Mincio sino a che la dimostrazione che stavasi incamminando fosse maturata, e che da Parigi venisse nel merito una decisione. Si sapeva che gli Alleati erano già entrati a Parigi il giorno 31 marzo, che li 3 aprile il senato aveva dichiarato Napoleone decaduto dal trono, che il giorno 4 uno dei corpi della sua armata non gli obbediva più, non pertanto nessuno nel regno pensava a patti, a trattati, ad una capitolazione, e a por fine a quel scialacquo di sangue; ogni giorno si combatteva, cosi al Nure il giorno 13, innanzi Piacenza il giorno 15 di aprile; e si avrebbe continualo a combattere a sostegno di un meschinissimo intrigo, se non si divulgava la notizia dell’abdicazione di Napoleone tanto alla corona di Francia che a quella’ d’Italia firmata il giorno 11 aprile, in seguito alla quale generali, uffiziali e soldati della truppa francese, e italo—francese, che era col Vice—re, unanimi dichiararono che la loro missione presso l’armata del regno d’Italia era finita, che essi nulla più vi avevano da fare, e che volevano partire, e andare a casa loro. Erano venticinque mila uomini, che cosi parlavano, e che parlavano. in un modo a non poter sperare di acquietarli. Non vi fu rimedio; convenne disporsi e lasciarli partire. Ma allora come impedire al maresciallo Bellegarde di passare il Mincio? L'armata del Vice—re contava con i presidj di Mantova, di Peschiera e di Piacenza appena quarantaduemila uomini; partiti che fossero i Francesi, e gli italo—francesi, rimanevano al più sedicimila, e togliendone ottomila per presidiare con essi le piazze, restavano disponibili, per opporsi al passaggio del Mincio da parte del maresciallo che ne aveva per forzarlo più di trenta, tutto al più ottomila.

In questo frangente non rimase al Vice—re altro espediente, che di offrire al maresciallo, pel caso che volesse pel momento sospendere ogni movimento, ed accettare un armistizio, Venezia, Legnago, Palma—nova ed Osoppo, che erano bensì bloccate dagli Austriaci, ma ancora nelle sue mani. Il maresciallo ai quale l’offerta non pote va non riuscire per più d’una ragione gratissima, accettò, e così venne a capo la summenzionata convenzione, nella quale non era neppur detto, che trappe austriache non passassero il Mincio, purché si astenessero di marciare sulla capitale e non facessero uso di altre strade che di quelle di Cremona, e di Brescia (art. 7.°) Tentossi frattanto pel Vice—re la desiderata dimostrazione che non riuscì Vi avevano a Milano tre partiti: 

uno composto «dei nobili, dei preti e del grosso della popolazione, che propendeano per l’Austria»,(20).

un secondo che addimandava per la Lombardia l’indipendenza come la desideravano «Germania e Spagna»,(21).

il quale però doveva esser assai poco numeroso, poiché la petizione contenente questa domanda che fu presentato a Parigi agli Alleati non era firmata che da circa centosettanta individui — Un terzo più debole ancora che s'interessava pel Vice—re. — I partiti, ancorché assai ineguali, si attraversarono e s’imbrogliarono e la dimostrazione si converti in un furioso tumulto popolare nel quale la feccia del popolo prese il dissopra, espose Milano ai più gravi pericoli, e si macchiò di un'atrocità uccidendo Prina ministro di finanza del regno.

Il Vice—re, perduta la speranza di una dimostrazione che lo acclamasse re di Lombardia, passò col maresciallo Bellegarde ad una seconda convenzione colla data di Mantova 23 aprile, ratificata il giorno 24 che, come dissi, divenne il complemento di quelle di Schiarino—Rizzino, la quale rimetteva immediatamente al maresciallo conte Bellegarde Mantova, Peschiera e Piacenza, lo autorizzava a prender possesso a nome degli Alleati mediante un suo plenipotenziario di Milano e della parte del regno nella quale gli Austriaci non erano ancora entrati, e lui a passare il Mincio con l’armata quando volesse, e che gli consegnava l’armata che, partiti i Francesi e gl’Italo—francesi, rimaneva (22).

Il regno d’Italia trovatosi cosi senza un’armata disponibile e sufficiente a difenderlo, e senza patti di alcuna sorta, si diede assieme con tutta l’Alta e la Media—Italia agli Alleati a discrezione. Vi avevano dei patti con Gioacchino Murat, ma divenuti nulli per cagione della sua stealissima condotta. Gli Alleati aveano quindi il diritto di considerare e trattare l'Italia come un paese da essi conquistato con torrenti di sangue nelle battaglie di Dresda, di Kulin, del Katzboch, di Lipzia, di Brienne, di Fère—Champenoise, di Parigi di Talavera, di Vittoria, del Mincio, e di riordinarla a loro talento, subordinandone gl’interessi agli interessi generali d'Europa. Anche la guerra ha i suoi diritti, e guai al mondo, qualora non si volesse annetterli e riconoscerli. Le guerre diverrebbero guerre sterminatrici. Una pace durevole non sarebbe più possibile (23).

Noi esamineremo nel prossimo capitolo, se gli Alleati nel riordinare l'Italia si sono comportati da conquistatori, come erano in diritto di farlo, o come liberatori.


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CAPITOLO II

Sopra i principj che guidarono gli Alleati del 1814 e 1815, e il Congresso di Vienna dei detti anni nel riordinamento dell'Italia; e sopra l’opposizione insorta contro di caso.

Quel vicendevole accordo o concerto Europeo, in seguito al quale nessuno degli Stati che lo compongono può permettersi una lesione dell'indipendenza o di alcun essenziale diritto di qualunque di essi, senza incontrare in qualche parte, o da qualche lato una efficace e reale opposizione e resistenza, e attirarsi una reazione, quindi non senza pericolo e danno per sé stesso, denominato, equilibrio politico: (24)è un bene di un ordine affatto superiore non solo per gli stati di minor rango, ma anche per le grandi potenze, ed in ispezialità per quelle, nelle quali trovasi una riguardevole preponderanza militare. Egli è difficile che questa non induca lo stato che la possiede ad abusarne. Se dessa è tale, che ogni singolo stato per sé tema coll’avversarla di compromettersi, di non esser soccorso dagli altri Stati, e di trovarsi solo implicato in una lotta ineguale nella quale è certo di soccombere, allora accadere che nessuno gli si opporrà (25).

E allora lo stato prepotente si troverà nel caso del quale parla il Montaigne quando dice: — « Concevez l’homme accompagné d’omnipotence, vous l’abysmez; il faut qu’il vous demande par au moine de l’empeshement, et de la resistence (26).

». Chi ha considerato la storia di quel tremendo, che ho dovuto si sovente nominare nel precedente capitolo, e che dovrò nominare più volte anche in questo, si sarà convinto, che la di lui caduta può spiegarsi con le seguenti pochissime parole: gli ha mancato l’empeshement. Fortunato lui, e fortunata la Francia, se l’Europa unanime avesse opposto ai suoi immani disegni la resistenza che loro ha opposta come potenza essenzialmente marittima l’Inghilterra, e come potenza essenzialmente continentale l'Austria. Felice la Russia se i suoi Imperatori incontreranno sempre l'empeshement che ha incontrato nel 1853 l’Imperatore Nicolò, e se prevedendolo, si asterranno dal volerlo rimuovere, e dal combatterlo. Un effettivo equilibrio politico è perciò una delle principali condizioni della prosperità e del vero progresso in Europa.

Gli Alleati che nel 1813 e 1814 facevano la guerra all’esorbitante preponderanza di Napoleone onde ridurla a dei termini convenevoli, cioè, che cessasse di minacciare l’indipendenza e la quiete Europea, comprendevano, che anche qualora fossero riusciti nel loro divisamento, come poi vi riuscirono, la loro opera sarebbe rimasta imperfetta ed essi si sarebbero esposti ed essere tacciati d’imprevidenti ed improvidi, se non prendevano delle misure per impedire il ritorno di tempi cosi sciagurati, come quelli ai quali volevano porte un fine, e che queste misure non potevano consistere in altro se non nell'istabilire in Europa su basi solide, un vivo, spontaneo, operativo equilibrio politico. Essi in tutto l’anno 1813 e nell’anno susseguente ripetutamente dichiararono, che la loro guerra non aveva altro scopo, che il ristabilimento di quella solidaria garanzia dell’indipendenza Europea detta equilibrio politico. Il loro linguaggio è stato sempre lo stesso tanto innanzi, che dopo le battaglie di Llutzen e di Bautzen, e come nelle trattative che s’incamminarono a Praga innanzi l’accessione dell'Austria alla coalizione, e innanzi che la sorte di quella guerra si decidesse nella battaglia di Lipsia, come a Francfort, quando essa era già decisa, e che non vi aveva più in Francese sulla riva destra del Reno, né sulla riva sinistra dell’Adige, se non nelle piazze forti; e come a Châtillon, quando il teatro della guerra si forniva dalla Francia stessa, e si combatteva fra la Senna e la Marna. « Les puissances alliées dicevan essi nella famosa dichiarazione di Francfort del 1.° di dicembre 1813,— ne font point la guerre à la France, mais à celte prépondérance qui, pour le malheur de l’Europe, et de la France, l’empereur Napoléon a trop longtems exercée hors des limites de son empire Elles veulent un état de paix qui par une sage répartition des forces, par un juste équilibré préserve désormais les peuples des calamités sans nombre, qui depuis vingt ans ont pesé sur l’Europe».

Senonché l’equilibrio politico, se ha ad essere, non una pura ombra, ma una realità, esige che vi abbia una potenza sufficientemente per la sua forza e attitudine guerriera imponente, che per la sua posizione e composizione si senta chiamata, e in dovere, ogni qual volta si renda necessario un intervento, di farsi base e centra del movimento, di darne il segnale e prendervi l’iniziativa, e che lo faccia col sentimento e nella persuasione di non far altro che il suo dovere e di adempiere, ciò facendo, una missione provvidenziale.

Questa potenza vi ha; essa esiste nell’Austria. Questa si è messa in ogni occorrenza alla testa della resistenza che ha salvata la Cristianità dalla preponderanza e dal furore dei Sultani di Costantinopoli, che si sono spezzati due volle, innanzi alle mura di Vienna. Ed è dessa, che due volle nel primo decennio di questo secolo, ancorché abbandonala dagli altri stati, o non soccorsa convenevolmente ed a tempo, ha attraversato dei disegni di Napoleone, che guai all’Europa, se egli tosse riuscilo ad attuarli; cioè la sua impresa contro l’Inghilterra nel 1805 (27); e quella contro la Spagna nel 1808 e 1809; ed è dessa che nel 1813 ha impedito Napoleone [(28)] di cogliere il frutto delle battaglie da lui viole di Lillzen e di Baulzen di sopra menzionate, ha rinforzala la coalizione, che gli faceva la guerra, e l’ha messa in istato di continuarla con forze decisamente superiori e sempre crescenti, e finalmente di atterrarlo.

Era mai possibile che gli Alleati non riconoscessero nella storia dell'Austria [(29)].

e nelle or accennate di lei prestazioni pel corso di secoli, e in ispecialità in quelle dei primi tre lustri del secolo presente, la di lei qualificazione a servir all’equilibrio politico di centro e di base, e di potenza antesignana, e non pensassero a reintegrarla e a ripararla dalle perdite in territorio e in popolazione, che aveva sofferte nelle sue guerre per l’indipendenza d'Europa; e che appena seppero che il principe Eugenio Beauharnais Vice—re considerava il regno d’Italia, non come uno stato per sé e con interessi proprj, ma come una dipendenza della Francia, a reintegrarla col presente regno Lombardo—Veneto? Ciò era impossibile, e di fatti furono essi unanimi in questo riguardo già al congresso di Châtillon, ove fu deciso in generale il riordinamento di tutta l’alta, e di tutta la media Italia, dimanieraché il congresso di Vienna non ebbe ad occuparsi di altro paese italiano, che del regno di Napoli. Se alcunché restava in riguardo all'Italia a definirsi al congresso, ciò era in riguardo al detto regno. Gli Alleati avevano deciso già a Parigi anche tutto ciò che risguardava la ricostruzione del regno Sardo, la quale per altro andò soggetta a non poche difficoltà, e collisioni d’interessi, mentre non vi fu nessuna nella reintegrazione dell'Austria mediante il regno Lombardo—Veneto, e che essa si potè fare col suffragio delle popolazioni tanto venete che lombarde, e in riguardo a queste ultime col suffragio anche della popolazione milanese, verità di fatto, che ora mi fo a chiarire e a dimostrare.

Si hanno sul tumulto di Milano del giorno 20 aprile 1814 un buon numero di relazioni, delle quali ne ho io tre innanzi a me, che sono l’una del Maroncelli, nelle sue addizioni all’opera:

Le mie prigioni del Pellico; l’ultra del Gualterio, che si legge nel secondo volume delle sue memorie storiche intitolate:

Gli ultimi rivolgimenti italiani, e la terza del sig. Cantù. Della prima vi ha un riassunto dello stesso autore, che dice: «Il conte Ghisleri consigliere aulico di Francesco I era venuto a Milano e si teneva celato presso una illustre famiglia, benaffetta agli Austriaci. Cola ei vedeva gli antichi Fedeloni dell’Alta Casa, e colà fu statuito il massacro di Prina, nel giorno in cui il senato ripulsando il principe Eugenio, avrebbe nominato sovrano se stesso. I congiurati (tutti ricchi proprietarj Lombardi) per ottenere l’intento assunsero di chiamare i contadini delle rispettive loro campagne, i quali sarebbero entrati in città senza armi, e per varie porte come se fossero venuti al mercato, e poscia nel palazzo N. N. si sarebbero muniti di bastoni, sassi e anche di qualche arma. Quando il senato sarebbe stato unito, questa ciurma irromperebbe, e chiederebbe a grandi urla il ministro Prina, onde consacrarlo all’universale vendetta, come autore e consigliere della troppa gravezza delle gabelle.

«Lo scopo dei congiurati era di eccitare una sommossa popolare per impedire l’impaurito Senato di andare a partito; perocché quando non fosse stato nominato Eugenio, quando il Senato stesso non si fosse creato Reggenza indipendente, i Fedeloni dell’Alta Casa avrebbero gridato Francesco! e la conquista lombarda sarebbe stata (se non più facile) almeno più pronta.

«Questa scelleratezza doveva manifestarsi alla luce del giorno pei suoi effetti, ma chi l’aveva macchinata adoperò ogni sforzo perché se ne ignorassero gli autori: ai bisogno se ne sarebbe versata l’imputazione su chi tenea la parte dell'indipendenza italiana. Calunnia atroce, poscia accreditata con si felice ipocrisia, che scrittori anche egregi l’accolsero qual dimostrata verità. Il di venne, le montagne del Comasco, quelle che circondavano il Lago—Maggiore, le pianure della parte opposta, vomitarono a torrenti i littorani e terrieri loro, truci, minacciosi, e forse chiedendosi l’un l’altro: qual è il delitto che si vuol comperare da noi».

Distinguendo in questa tirata ciò che vi ha di chiaro, e di positivo dal rimanente, che è un tessuto di assurdità, che salta all’occhio, esso si riduce ai seguenti fatti: 1.° che l’imputazione di quella scelleratezza erasi versata su chi tenea la parte dell’indipendenza italiana. 2.° Che scrittori anche egregi accolsero la detta imputazione come una verità, anzi come una verità dimostrata. 3.° Che le montagne e le pianure del Comasco, e dei distretti posti al Nord di Milano vomitarono il loro popolo a torrenti su Milano. — Che risulta da questi tre fatti? Risulta che nella giornata del 20 aprile 1814 si volle fare e si fece a Milano in favore dell’Austria una possente dimostrazione; e che di ciò ne conviene anche il Maroncelli scrittore all’Austria ostilissimo; che però questa dimostrazione è stata attraversata e contaminata da un tumulte popolare non scevro da atti abominevoli, e fin atroci; che vi hanno degli scrittori, e anche degli scrittori egregi che di questo tumulte incolpano chi tenea la parte dell’indipendenza italiana, mentre il Maroncelli ne incolpa i Fedeloni dell’Alta Casa. E che risulta da tutta la relazione? Risulta che Milano alla caduta del regno d’Italia era ben contenta di non essere più francese, che non voleva saperne d’indipendenza, e voleva divenir austriaca. (30).

La relazione del Gualterio è lo scritto di uno che parla

non per ver dire

Ma sol per odio d’altrui, e per disprezzo,

Na sol per odio d'altrui, e per disprezzo è un tessuto di vero e di falso, un continuo travaglio di oscurar il primo, e d’indur il lettore a far buon viso al secondo. Egli si dà l’aria di voler spiegare la caduta del regno d’Italia; ma s’inganna già ed è intieramente fuori di strada in riguardo al punto, che più importa di ben conoscere per comprenderla, cioè suite stato dell’esercito, che egli suppone ancora il giorno 20 aprile un esercito da far paura agli Alleati, e a indurli se non volevan esser scacciati da Parigi a fare a modo del conte Confalonieri; quando esso esercito dopo partiti i Francesi e gl’Italo—Francesi, compresi i presidj di Mantova, di Peschiera e di Piacenza; non ammontava che a sedici, e anzi stando alle cifre del Vice—re nella sua lettera a Napoleone del giorno 18 febbrajo, che a dodicimila, e dedotti, i presidj, nel primo caso non era se non un esercito di soli otto, e nel secondo di soli quattromila uomini di trappa disponibile. L’autore è affatto all’oscuro dell’imperché delle convenzioni di Schiarino—Rizzino e di Mantova; esso non sa che il Vice—re, importandogli, che il maresciallo conte di Bellegarde, sapendo che esso Vice—re non aveva più armata da opporgli, non passasse il Mincio, comperò la di lui formata colla rimessa di Venezia, di Legnago, di Palmanova, e di Osoppo; non sa che Murat, sentita l’abdicazione di Napoleone, aveva tutto ed un tratto fatto giudizio, e avrebbe desiderato di aver a vantare una leale, e vigorosa cooperazione con gli Austriaci, e che appena saputala, si dispose a ricondurre i suoi Napoletani nel regno; non sa che la convenzione di Mantova del 23, ratificata il 24 fu fatta 1.° perché Milano voleva essere austriaca, 2.° perché il Vice—re non aveva trappe per correre su Milano e castigarla di non averlo voluto a re; e meno ancora per correre su Milano, e, mentre vi correva, per arrestare il maresciallo sul Mincio, il quale aveva un ponte su quel fiume già il giorno 8 febbrajo. Il buon Signor Gualterio ha bensì sentilo a parlare delle due convenzioni del 16 e del 23, non come egli dice del 26 aprile, ma tutto induce a credere che non le ha mai lette; di fatti esse, che pur sono la chiave dell’avvenimento eminentemente storico, ch’egli vuol spiegare, mancano affatto nella raccolta dei suoi documenti, mentre ve ne hanno tanti, che a onore dell’Italia dovevansi condannare a un eterno oblio.

Or che dice la relazione Gualterio [(31)] in riguardo a ciò che era avvenuto a Milano il giorno 20 aprile 1814? Seconde quella relazione, Milano era a tal segno austriaco, che per guarirnelo, per farlo rinsavire e ridivenire italiano, si avrebbe dovuto marciarvi coll’esercito, poiché forse, la cittadinanza, che pagava o schiamazzava non sarebbe stata del pari pronta a combattere. Senonché l’esercito del regno d’Italia il giorno 26 aprile nel quale esso voleva marciar su Milano per cavarvi il ruzzo austriaco dalle teste milanesi, non esisteva più, se non nelle guarnigioni di Mantova, di Peschiera e di Piacenza; esso era allora un esercito di soli dodici in sedicimila uomini, fra quali vi avevano parecchie migliaja di Modenesi, Bolognesi e Romagnoli che vi tenevano, appresso a poco, lo stesso linguaggio, che vi avevano tenuto otto giorni prima i venticinque mila tra Francesi, e Italo—Francesi, che già avevano abbandonato il Vice—re per ritornarsene in Francia, o nei dipartimenti italo—francesi, ed erano già arrivati in Piemonte, meno la metà circa, che cammin facendo si era sbandata. Ma se è vero che l'esercito sdegnato voleva marciar su Milano, non prova anche questo che nella detta città, non già soltanto un partito, ma una grande maggioranza della popolazione, cioè la cittadinanza milanese erasi dichiarata per l'Austria? Concludiamo adunque che ambidue le completate relazioni, una come l’altra, ci dicono lo stesso in riguardo alla questione che qui ci occupa, cioè che la dimostrazione di Milano del giorno 20 aprile 1814 è stata una dimostrazione in favore dell’Austria.

E che dice nel proposito la terza relazione, quella del signor Cantù? L'insigne storico parla e ragiona cosi: «Per verità, il Vice—re appoggiato dal re di Baviera suo suocero, e dall'imperatrice Giuseppina sua madre aveva molto fondamento di speranze, e brogliava per ottenere indirizzi dai reggimenti italiani, e perché il Senato italico lo cercasse re Quest'idea sorrideva a molti perché la sospirata indipendenza otterrebbesi senza mutar che il capo, senza quei cambiamenti, che tornano sempre di noja, di spesa di titubanza. Ma troppe avversioni ave va eccitate Napoleone, troppe Eugenio stesso colle maniere soldatesche, con conculcare le piccole ambizioni e i sentimenti, col condiscendere a indegni favoriti. Fin nell'esercito, unica rappresentanza della nazione, unico fondamento ragionevole delle speranze, Eugenio era contrariata da molti ufiziali, fra’ quali e fra cospiratori otteneva preferenza Murat... Nobili, preti, e il grosso della popolazione propendevano per l’Austria, rimpiangendola come sempre si suole i governi caduti; sicché anche allora ai partiti mancava quel segno supremo d'intelletto politico, il saper sottomettere gl’interessi, le idee, le passioni particolari a quelle che sono comuni a tutti; non badar a ciò che ciascuno preferirebbe, ma a ciò che vogliono tutti; anzi l’uno tacciava l’altro di vile, di traditore, di venduto allo straniero; intitolavasi aristocrazia il richiamare gli Austriaci, servilità il favorire ad Eugenio. Ma quel ch’è degno di riflessione, in uno stato di cose che tutto—di ci vien ancora citato con ammirazione, nessuno si trovò, che si chiarisse pronto a sostenerlo; e quelle migliaja d’impiegati senza convinzioni, plaudenti fin ché trattavasi di ciancie, e di feste, s’acquetavano nella persuasione, che anche sotto nuovi padroni sarebbero cancellieri, secretarj, consiglieri (32)».

In questo discorso, che avrebbe anch’esso, come il discorso Gualterio, a spiegare la caduta del regno d’Italia, ma che non la spiega, dovendosi essa, non a quelle meschinità nelle quali essi si perdono, ma alla grande circostanza, che il regno non ha saputo o on ha voluto svellersi da Napoleone, non ha in nulla cooperato alla liberazione dell’Europa, e l’ha invece, sino alla di lui caduta, combattuta, cosicché era ben giusto che ne dividesse la sorte; in questo discorso dico, l’autore ci fa sapere che: nobili preti e il grosso della popolazione propendeano per l'Austria. Questo fatto del quale il Lettore è già stato, e con le medesime parole da me avvertito, non ha nulla di congetturare; esso è un fatto, una cosa reale.

L’aggiunt a che l’autore vi fa, cioè, che l’Austria rimpiangevasi, come sempre si suole rimpiangere i governi caduti, non toglie nulla al valore e alla forza della testimonianza; il fatto resta fatto; tutt’all'oposto, essa la corrobora assai, col non lasciar alcun dubbio, che se lo scrittore avesse potato dire con verità: nobili, preti, e il grosso della popolazione erano all’Austria in sonno grado aversi, l'avrebbe dette, e ciò probabilmente senza aggiunta alcuna, o con una, che ne dinotasse la ragionevolezza. Ma i nobili, i preti e il grosso detta popolazione di Milano, e detta Lombardie sono Milano e la Lombardie. Egli è quindi cosa di fatto, confermata anche dal signor Cantù, anch’egli autore all’Austria ostilissimo, che il giorno 20 aprile 1814 Milano voleva divenir austriaco. E cosi credo di aver annunciato un fatto vero, comprovato mediante provo superiori ad ogni eccezione, dicendo, che la reintegrazione dell’Austria mediante il regno Lombardo—Veneto non andò soggetta a veruna difficoltà, non diede luogo a veruna collisione d’interessi, e potè farsi non solo senza far violenta ai desiderj, e ai sentimenti detta rispettive popolazioni, ma che anzi si fece col suffragio di esse, non eccettuato quella detta popolazione milanese.

Del resto egli è certo, che gli alleati al congresso di Vienna avrebbero reintegrata l’Austria col regno Lombardo—Veneto nel caso nel quale erano di dover subordinare e fin sacrificare gli interessi particolari dei paesi liberati dal giogo di Napoleone, se non si poteva tare a meno e altrimenti, agli interessi generali dell’Europa, anche qualora essi nelle rispettive popolazioni avessero ravvisata quella stragrande avversione contro la detta potenza, che si pronunciò nei Genovesi contro il Piemonte. Essi già allora prevedevano, e ne avevano i più chiari indizj, che l’Italia diverrebbe il zimbello delle selle rivoluzionarie fattesi arditissime in vista della mitezza dei sovrani subentrati in Italia a Napoleone, e ai di lui vice—gerenti. Essi comprendevano la necessità di mettere a guardia di quel paese, nel quale per lo più i buoni ed i savj si ritirano dagli affari, e la ispezialità dagli affari politici, e lasciano che i ribaldi e gli insensati se ne impadroniscano, una grande potenza qual è l'Austria. E che di tali riflessi si facessero al congresso di Vienna in riguardo all’Italia, lo dice neo un Austriaco, ma un Diplomatico prussiano, il Signor Schòll, scrittore meritamente per la sua esattezza e imparzialità celebrato, che cosi paria nella sua Histoire abrégée des Traités de paix da me già un’altra volta, cioè nel precedente capitolo, citata; «Dopo la Germania, cosi egli, meritava sopratutto l’Italia di fissare al congresso l'attenzione dei Sovrani. Questo bel paese era stato devastato e sconvolto in più di una maniera. Una frazione tanto più da temersi, che si nascondeva sotte l’ombra del mistero, non aveva perduta la speranza di far trionfare quelle massime antisociali, le quali proclamate in nome della libertà, e della eguaglianza, formavano un tempo la dottrina degl’iniziati, della quale non si lasciava travedere ai profani se non quella parte per la quale si era fabbricata la parola: liberalismo. Niente scoraggiava più i progetti del dette partito quanta il riporvi stabilmente la Casa d’Austria.» (Tomo XI. p. 7.) Non mancavano al congresso degli uomini di Stato, che già allora vedevano ridestarsi nella diplomazia piemontese quella irrequieta fame di paesi, che l’ha tormentata in ogni tempo. E si conoscevano benissimo già allora le trame e le mene di Gioacchino Murat, e quelle di alcuni signori Lombardi che andavano a Napoli a offerirgli reggimenti intieri di veterani Italiani disposti e pronti a conquistargli l'Italia.

Nell’istesso modo e senza veruna collisione d'interesse e col suffragio delle rispettive popolazioni, nel quale passò il regno Lombardo—Veneto al ramo maggiore della Casa d’Austria, passò Toscana al secondo, al quale apparteneva sino al 1798, e Modena al terzo, qual erede della Casa d'Este. I Ducati di Parma e di Piacenza si ebbe, in conseguenza dal secondo articolo dell’abdicazione di Napoleone, Maria Luigia, non senza le più energiche, però infruttuose proteste per parte della Spagna, in favore di Carlo Luigi, del terzo ramo dei suoi Borboni, al quale coll’aspettativa dei suddetti ducati fu data Lucca; disposizioni delle quali le rispettive popolazioni mostraronsi pienamente soddisfatte.

Mi resta a parlare della ricostruzione del regno delle due Sicilie, e del regno Sardo. Il regno al di qua del Faro, il regno di Napoli, con l’aggiunta di. un territorio da togliersi allo Stato del Papa, sarebbe rimasto, in seguilo al trattato degli 11 gennajo 1814 firmato, però in nome degli Alleati, dall’Austria, a Gioacchino Mural, per poco ch’egli avesse corrisposto a’ suoi obblighi e doveri come Alleato nella guerra contra Napoleone. Essendosi, mediante le più imparziali indagini incamminate dagli Alleati e segnatamente dall’Inghilterra, reso chiaro e manifeste, avervi egli invece, con la più sleale perfidia, e riprovevole condotta in ogni modo mancato (33): gli Alleati intendevano di spogliarnelo, ed è certo che tardi o a buon’ora ne lo avrebbero spogliato. Tutti sanno com’egli, nella speranza d’una cooperazione per parte degl’Italiani accelerasse l’evento con la guerra da esso mossa in marzo ed aprile 1815 all'Austria; e com’egli dopo la battaglia di Tolentjno vi perdesse tutto il suo esercito, e si trovasse nella necessità di abbandonare il regno ai Borboni, che vi erano desideratissimi, e che non tardarono ad arrivarvi, e prenderne possesso, e che vi furono accolti con grande e sincera gioja.

Di tutti gli anzidetti Stati o paesi non ve ne ha uno, al quale si abbia fatto nel riordinamento dell'Italia qual si sia anche minima violenza; esso si è ovunque effettuato col completo consenso delle popolazioni. Non temo di essere ragionevolmente contraddetto se dico, che qualora, sia nel regno di Napoli, o negli Stati del Papa, o io Toscana, o nel Modenese o nel Parmigiano si fosse dimandato al popolo se voleva o non voleva riavere il suo antico principe, e nelle provincie già venete, ma dal 1798 sino al 1800 e nelle provincie Lombarde dal 1706 sino al 1796 austriache, se voleva o non voleva ritornare sotto l’Austria, e si fossero aperti dei libri da inscrivervi il si o il no; i libri del si, sarebbersi riempiti di firme, mentre quelli del no sarebbero rimasti poco men che vuoti. I paesi repubblicani avevano governi aristocratici che nessuno ridimandava. Io mi sono trovato nei mesi di febbrajo e marzo 1814 ripetutamente a Napoli, a Roma, a Firenze, a Bologna, a Verona, a Modena, a Livorno; aveva l’ordine, ovunque arrivava, d’informarmi dei desiderj delle popolazioni in riguardo al loro politico riordinamento; ordine al quale mi era facile dl obbedire, perché indossava un’uniforme inglese, e che ovunque smontava una folla di curiosi, fra i quali vi avevano sempre anche delle persone colte che dimandavano di parlarmi, mi si avvicinava. A Napoli si voleva i Borboni, a Roma, a Spoleto, a Foligno, a Perugia, a Bologna, il Papa; a Firenze l’Arciduca—Granduca Ferdinando; a Modena l’Arciduca Francesco, l’erede della Casa d’Esto; a Verona l’Imperatore Francesco.

Il giorno dopo la più volte da ne menzionata sommossa di Milano, cioè il 21 aprile 1814 mi trovava a Novi sulla strada da Genova a Milano; ivi fui nel caso di passare più di un’ora con un barone Trecchi milanese che veniva da Milano, e andava come deputato del partito Confalonieri a Genova, per vedere d’indurre Lord William Bentinck ad occupare coi suoi Inglesi Milano, neutre la convenzione di Schiarino—Rissino fermava gli Austriaci sul Mincio. Il suo discorso era un continuo lamento intersperso di tratto in tratto di epiteti i più ingiuriosi contro i suoi concittadini, e contro i Lombardi in generale, ch'ei diceva tutti, per pregiudizi retrogradi, ciecamente e stolidamente austriacanti. — Vi ebbero al congresso di Vienna lunghi contrasti e dibattimenti per la Valtellina, però non già fra l'Austria e la Svizzera, né fra l'Austria e la Valtellina, ma fra la Valtellina e i Grigioni, che non vollero riceverla nella loro lega ai patti che essa loro chiedeva (34).

Si vorrebbe far creder che la detta provincia mostrasse una grande ritrosia a divenir austriaca. Ciò è fatto. — E cosi credo di aver reso chiaro e manifeste, essorai l’Italia, eccettuato il regno Sardo, del quale tosto si parlerà, riordinata col pieno consenso delle sue popolazioni, e ciò, ancorché esse non avessero altri riguardi a reclamare, che quelli ohe impose ai vincitore cristiano la cristiana civiltà.

Gli Alleati conoscendo i voti della grande maggioranza del vero popolo italiano, su di che non vi avea e non vi poteva avere il minimo dubbio, e volendo essere conseguenti, e umani, ohe avevano essi, da fare trattandosi di riordinare l’Italia? Avevan essi a chiamar assieme i Savj d’Italia, o a dir loro, venite qui, fate l’Italia? Napoleone chiedeva venti anni per ristabilirla. Quanti ne avrebbero voluto a una Costituente italiana per mettersi d’accordo sui principj, sulle massime, sulle ferme del nuovo Stato? Che avrebbe essa fatto? Quanti Italiani sarebbero stati del di tal operato contenti? E quarto avrebbe durato la sua opera? l’Europa aveva bisogno di pace e di una pace pronta. Se mai fu il caso di dire, «vox populi, vox Dei», ciò fu ad frangente, nel quale trovavansi gli Alleati in riguardo all’Italia. Qui l'opera doveva essere istantanea, qui conveniva improvvisare, e improvvisare l’ordine, la tranquillità, e la pace, cioè il «bonum potissimum», come la chiama Dante (35).

Il partito da prendersi doveva essere sopratutto pratico. Essi diedero ascolto a quella voce, e vi obbedirono. Essi restituirono all'Italia i suoi antichi principi, e vi misero a guardia della pace e dell’ordine l’Austria. Il riordinamento si trovò fatto: e cosa fatta, quando fatta sotto tali auspiqj, capo ha. Tutti quei principi, tutti i loro governi, e segnatamente il governo austriaco erano pieni di ottima volontà, circospetti, e cauti, operosi, o zelantissimi. Fortunata l'Italia se i buoni vi avessero messo tanto fervore nell'ajutarla, quanto i malvagi ne misero nel frastornarla, e por loro, con la più esecrabile malvagità, ogni sorta d'inciampi. Essi ne avrebbero sanate le piaghe, e l’avrebbero portata al colmo della prosperità; e non vi ha strada di vero progresso che non sarebbesi battuta e percorsa.


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So bene, dirsi che, anche ammettendo, che il riordinamento dell'Italia a riguardo ai governi nazionali indigeni fosse, se non l'ottimo assoluto, pure il meglio che si poteva fore, rimane sempre vero, che lo staccare dell'Italia il regno Lombardo—Veneto, per aggrandirne uno stato forastiero è stato un crudele smembramento di essa, ed essere tutt'altro che un atto conveniente a chi si diceva liberatore, e proclamava la guerra che faceva a Napoleone, qual guerra d'indipendenza europea. E so che si dice, che l’essere austriaco è pel detto regno una sostanziale grande disgrazia; e che «essendogli tolto quello fra gli ordini politici che anche solo procura tutti gli altri buoni necessari, e quello senza cui tutti gli altri buoni sono nulli, e si perdono (36) vale a dire, senza un governo indigeno, esso non saprebbe essere felice e prosperoso.

Dedicherò in seguito un intero capitolo all'esame di questo «pronunciato assiomatico» della Scuola politica piemontese; per ora devo limitarmi a dirlo un concetto contradetto dalla storia di tutti i tempi, e falso sotto ogni aspetto, e contentarmi di osservare che se mai un scrittore tedesco, si avvisasse di dire che l’Alsazia, provincia non meno tedesca che la Sassonia, debba, perché sotto un governo non tedesco o per essa forastiero, essere necessariamente infelice, e dovervisi rendete ogni buono impossibile, non solo ogni Francese ma anche ogni Tedesco, e in particolare ogni Tedesco dell'Alsazia si metterebbe a ridere. 2.° Non poter essere una disgrazia l'appartenere ad uno stato qual è l'Austria, ove la religione, la morale, la giustizia; la civiltà cristiana, l'industria, le arti e le scienze in ogni modo e con incessante cura e studio si coltivano, e proteggono; ed il quale, ciò che è un soggetto della massima considerazione, occupa nel Concerto Europeo il posto più eminente, e ha la sublime provvidenziale missione di essere il principal sostegno e garante dell’equilibrio politico Europeo, e quello cui incombe in principalità il mantenimento della pace fra le maggiori potenze, e l'impedire, assieme con te Confederazione Germanica e 1a Prussia, che l’Oriente non si rovesci addosso all’Occidente, e viceversa. L’appartenere ad un tale Stato non può mai essere una disgrazia, anzi non saprebbe non essere un sommo onore, dirò sino una vera gloria, e tale da andarne superbe.

La ricostruzione del regno Sardo è la sola parte del riordinamento politico dell’Italia dettato dagli Alleati col rispettivo atto del congresso di Vienna, che abbia dato luogo a lamenti e proteste. Gli Alleati volevano, che le Alpi divenissero una barriera intransitabile alla Francia. Essi avevano per l’Alta—Italia, e per l’Italia in generale, quella stessa benevole intenzione di risparmiarle l’avere a servire di campo di battaglia a delle guerre forastiere, che l'Europa aveva dato a divedere per essa anche altre volte, già nei trattati di pace di Torino (1696), e di Utrecht (1713). Essi pensavano, che la difesa della detta barriera sarebbe meglio assicurata confidandola non ai soli Piemontesi, ma ai Piemontesi e ai Genovesi. Genova per sé stessa non può esercitare veruna influenza sulla difesa delle Alpi, ma ba per il Piemonte un grande valore in quanto che essa nel caso che ai Francesi riesca di valicare le Alpi con grandi forze, fornisce all’esercito piemontese, e al re di Sardegna una specie di tête—de—pont sul Mediterraneo ; e quello per l’Europa di estendere in ogni caso l’equilibrio politico delle potenze continentali, sino al dette mare, e quello delle potenze marittime sino al Po e sino alle Alpi. Gl’lnglesi nel 1815 vedevano in essa, in caso di bisogno, le linee di Torres—Vedras; e credo che Genova le valga, perché presentano un vaste campo trincerato, fortissimo, abbastanza esteso per contenere qualunque più grossa armata, mentre può difendersi con poche migliaja di uomini.

Ma i Genovesi mostravano contro l'aggregazione della loro città e del loro paese al Piemonte, una indicibile ripugnanza, che aveva per fondamento un odio inveterato, rinforzato da una certa mortificazione di aver a cessare di essere Stato, per divenir l’appendice di un altre, che non avea che una storia, comparativamente alla sua, assai recente, e anche quella, più che 8 di fatti e di gesta, di raggiri e di doppiezze politiche. Essi rammentavano i loro possedimenti sul mar Nero e quello della Corsica, e le loro guerre con Venezia, e il loro Cristoforo Colombo. L’intensità del loro odio pel Piemonte, che io son ben lontano dal credere giustificato, era tale, che rendeva problematico, se la riunione di Genova col regno Sardo agirebbe come un elemento di forza o di debolezza. Le loro querimonie e proteste furono abbastanza clamorose per farsi udire in tutta l'Europa. Essi portarono la loro causa innanzi al congresso di Vienna, e la difesero col più grande ardore; e trovarono anche il modo di portarla innanzi alla camera dei Comuni d’Inghilterra, però senza veruna notevole conseguenza né in quello né in questa. Il ministro degli affari esteri Lord Castlereagh interpellato nella tornata dei 20 marzo 1815 sulla questione genovese, nella quale sembrava compromesso l’onore nazionale, per essersi da Lord William Bentinck concesso a Genova di ordinarsi sino ad una decisione degli Alleati in forma di repubblica, diede la seguente risposta:

«L ' intento nostro disse egli, è stato di stabilire un sistema sotto al quale i popoli potessero vivere in pace tra loro; però non resuscitare i periti, il cui ristabilimento ponesse in nuovi pericoli l’Europa. L’Italia che fece ella per iscuotere il giogo francese? perciò non poteva essere considerata, che come paese conquistato; bisognò cederla all’Austria, affinché questa rimanesse strettamente unita a noi. — La riunione di Genova al Piemonte vuol essere considerata innanzi a tutto dal punto di vista della sicurezza militare dell’Italia. Partendo del detto punto fu adottato il principio, che tutta la frontiera occidentale dell’Italia, dalla Svizzera al mare, fosse rimessa nelle mani di un solo principe... Gli Alleati hanno fatto, la guerra non per preservare un stato solo, ma per guarentire l'Europa intiera dal servaggio, e per proteggerla contro il ritorno di nuovi pericoli. Egli è perciò che non si poteva aver verun riguardo per le antipatie dei Genovesi. I pregiudizi dei popoli non meritano riflesso, che nel caso che non si oppongono ad un caso prestabilito. Gli Alleati si erano col trattato di Parigi obbligati a consolidare la sicurezza dell’Europa: questa sicurezza generale ci imponeva il dovere di far violenza ai sentimenti dei Genovesi. Genova per la sua situazione è uno dei punti più importanti dell'Italia settentrionale. Sarebbe stato impolitico di confidarne la difesa a uno stato commerziante, che da gran tempo aveva perduta la sua indipendenza. Egli era necessario d'innalzare una forte barriera tra la Francia e l'Italia coll’ingrandimento del Piemonte (37)».

Questo discorso fece gran senso su tutto quell’illustre consesso, e su tutta l’Inghilterra. lo mi vi trovava in quel tempo, e me ne ricordo benissimo. Esso mise un fine agli inconsiderati giudizj, che anche ivi portavansi senza cognizione di causa sul riordinamento dell’Italia. La domanda da Lord Castlereagh slanciata: che cosa facesse, e avesse fatto l'Italia per riscuotere il giogo francese? fu riconosciuta generalmente come assai stringente; e siccome non vi aveva altra. risposta qualora rimanevasi entro i limiti del vero, se non che essa, non solo non vi aveva fatto nulla, ma che si era lasciata adoperare sino alla caduta del suo oppressore, ancorché le fossero state aperte più vie e ripetutamente, per sottrarglisi, a combattere l’impresa della indipendenza Europea, ed anzi sino allo scioglimento dell’esercito italico, e con ciò a ribadirsi le proprie catene: cosi trovavasi la conclusione, essere dessa perciò caduta nella categoria di un paese conquistato, e che gli Alleati erano nel pien diritto di considerarla, e di trattarla come tale, giusta e incontestabile. Lord Castlereagh disse anche, in quell'occasione, menzionando l’Austria, che si dovette darle l’Italia, affinché rimanesse strettamente unita alla coalizione. Il nobile Lord usò la parola Italia, in luogo di regno Lombardo—Veneto. Quanto all’aver dovuto darle quel regno per tenerla strettamente unita alla coalizione, egli è un fatto, del quale ho già avuto occasione di parlare, ma che qui giova ricordarlo di nuovo, che l’Austria ancora in novembre 1813, dopo che Napoleone era rientrato in Francia, avrebbe ben volontieri veduto Eugenio Beauharnais cingersi la corona ferrea, e sarebbe stata la prima potenza della coalizione a salutarlo re italico. L’Austria ha mostrato, dal principio alla fine della coalizione, la più grande moderazione e sommo disinteresse, suddicché il più volte già da me citato imparzialissimo istorico del congresso di Vienna, il prussiano Signor Schoell le spende non piccola lode.

I Genovesi, veduta la loro causa perduta, e persuasi che acquistavano nel re Vittorio Emmanuele un ottimo Sovrano, che li tratterebbe come figli, si rassegnarono. Tutta l’alta e la media Italia davano ovunque i più chiari e manifesti segni di sentirsi sollevati da una crudele e abbietta schiavitù. I Principi vi furono dappertutto ricevuti con le più affettuose dimostrazioni. Il regno di Napoli al quale non era rimasta nascosta la sleale e riprovevole condotta del suo re Gioacchino Murat si trovava in una situazione precaria, che non mancava d’inspirarvi i più serj timori, desiderava di sortirne, e dica pure il generale Colletta ciò che vuole, sospirava, ho avuto più volte l’occasione di convincermene, il ritorno dei Borboni dalla Sicilia. E quando nell’anno susseguente con la caduta di Gioacchino essi vi ritornarono, Napoli se ne mostrò oltre ogni modo ed oltre ogni dire contenta. L'Italia nel 1815 era ridivenuta, quanto alla tranquillità, la pace, l’amor del lavoro, la giocondità, ciò che essa era innanzi la venuta dei Francesi. Il riordinamento vi si presentava come un risorgimento. Tutti i governi erano pieni di buona volontà, e facevano a gara tutto ciò che le circostanze loro permettevano per rimediare ai mali esistenti, e per incamminare il miglior avvenire possibile.

In tutto ciò il governo austriaco nel regno Lombardo—Veneto, ancorché forastiero, non si rimaneva indietro di verun governo indigeno nò in riguardo al buon volere, né in riguardo all'esecuzione e al saper fare. Ecco come ne parla un esimio giureconsulto e uomo di Stato Piemontese, il conte Ferdinando Dal Pozzo : « Francesco I riassumendo dopo la caduta di Napoleone il governo delle provincie italiane non si condusse né da conquistatore, né da scimunito, despota, ma da savio Sovrano... Il governo austriaco nel regno Lombardo—Veneto rispettava fino, allo scrupolo ogni maniera di diritti acquistati sotte il governo allora cessato».

E egli cosi descrive vivere a Milano durante i primi anni dopo il 1815. «Prima del 1820 mi sovviene di avere di quando in quando visitato Milano, e l'impressione che me ne restò si fu che praticamente si godeva di molta libertà; e l’azione della polizia appena si sentiva. I forastieri andavano e venivano senza essere assoggettati a tanti scrutinj ed esami; i Milanesi si riunivano, come e quando volevano, in varj casini, in varie camere riservate, nei caffè; insomma la vita vi era gioconda e libera quanto mai dir si possa; quando mi era forza ritornare alla trista e formalissima Torino, io traeva un lungo sospiro, né mai restava di ripensare a Milano. La stampa per certo non era libera in Lombardia; ma non vi poteva essere una più indulgente censura. lo stesso ne provai ben ripetutamente gli effetti (38)».

Ma sentiamo sullo stesso argomento anche un Bresciano, che assolutamente non vuol saperne dell'Austria, che l’abborisce con tutto il suo cuore, e con tutta la sua anima, ma il quale se gli si dimanda lo imperché, di questo suo essere tanto astioso contro quella potenza, confessa, che avrebbe anzi ogni ragione di encomiarla, e che la encomierà se la ripassa le Alpi, ma che al di qua non può fare a meno di odiarla a morte. «— Noi cosi il nostro Autore, si lodiamo il suo magistrato integerrimo nella giustizia, la sua organizzazione colossale, la sua milizia disciplinata, l'uffizialità istrutta, gl’impiegati manierosi, e affabili: ma non sono della nostra famiglia... Diciamo anche che, trattandosi di confronti, noi preferiamo il governo Austriaco al governo Francese; perchè più leale, più costante, più fermo nelle sue ordinazioni: ma non è governo nostro... Diciamo ancora, che negli Italiani dominati dall'Austria, gli studj sono più promossi, e più universalizzati, che in qualunque altro Stato della nostra penisola; ma non sono gli studj della nostra famiglia... ma adopera tutte le arti per attrarsi gli affetti e le simpatie dell’Italia, mostrandosi miglior governo, di quanti altri ne avesse, e più naturali, e più patriotici (39)». 

— E ben conviene, che già nei primordj l’organizzazione del regno Lombardo—Veneto il governo austriaco vi fosse realmente eccellente e appropriato al paese e al popolo, se un giudice a tal segno competente come lo era il prefato conte. Dal Pozzo cosi ne parla. «Io credo di essere fondatissimo nello conchiudere, che il Piemonte non debba essere ingojato dall'austriaca monarchie, sebbene questa, a mio giudizio, è in oggi per molti rispetti si saviamente retta, che non posso a meno di desiderare che, anche per l’interna amministrazione del Piemonte, gli esempj e i consigli dell’Austria abbiano una salutifera influenza. Fosse essa staia veramente esercitata nel 1814, e il cambiamento di governo in Piemonte si fosse operato in quel modo che nella Lombardia venne ordinato ed eseguito! (40)».

Farci certamente torto alla perspicacia del mio Lettore, se volessi rilevare la forza di queste testimonianze. Osserverò invece in generale, che le popolazioni tanto lombarde che venete, rendevano piena giustizia al governo di Francesco. Il popolo disponevasi a godere in pace r doni dei quali la provvidenza gli fu si generosa, e!i avrebbe goduti, se non fosse che basta un sol nomo per turbare la pace di migliaja, e che basta una sola idea falsa per mettere sotto—sopra qualunque anche vastissimo paese. I settari che sotto Napoleone non avrebbero osato aprir bocca senza incontrare, chi loro la chiudesse per sempre, vedendo subentrato al regno dell’abominevole, feroce, pagano «oderint dum metuant» un regno mitissimo e paterno, sortirono dai loro covi e calcolando sull'impunità, si fecero sfacciatamente arditi, insolenti e sprezzanti, e si diedero a fare opposizione e poi a cospirare contro l’Austria; e a tal uopo a collegarsi con i settari del rimanente dell'alta Italia, e con quelli degli Stati del Papa e della Toscana. Essi sostenevano, che ogni dominio forastiero, qualunque ne fosse la provenienza e la tendenza, era «eo ipso», perché forastiero illegittimo; e che ogni guerra, che gli si farebbe, sarebbe una guerra giusta e santa; e che lo stesso era il caso, anche di ogni dominio e governo indigeno e nazionale, che non ammettesse quegli ordini liberali che si denominano costituzioni.

La setta lombarda, che così parlava, era quella stessa congrega, che nel mese di aprile 1814 aveva inviato a Parigi il conte Confalonieri a dimandare agli Alleati, per la Lombardia, indipendenza come Spagna e Germania. Essa non contava che qualche centinajo di individui, non era quindi che un partito, e un partito debolissimo, non aveva nessun mandate, era un puro fantasma, che sé stessa diceva la Lombardia, il regno Lombardo—Venete, anzi tutta l’alta Italia; e che davasi l’aria di essere una specie di potenza, che disponeva di migliaja di soldati del fu esercito italico. Essendo generalmente noto, quanto Gioacchino Murat avesse a temere dal congresso di Vienna, correvano i di lei corrifei a Napoli per indurlo ad inalberare la bandiera dell’indipendenza italiana, a sortire dal regno e ad assalire gli Austriaci promettendogli monti e mari. Chi gli diceva d’aver assoldati due, chi fin dodici reggimenti per la libertà italiana; chi, che la già armata del regno italico sarebbe venuta tutta incontro ai di lui Napoletani, appena le ostilità contro l’Austria fossero incominciate (41).

Frattanto ecco Napoleone partirai dall’isola d’Elba sbarcare il 1.° di marzo con appena mille uomini suite coste di Provenza, internerai nella Francia, ingrossarsi cammin facendo con tutte le trappe che spedivansi per combatterlo, e il giorno 20 del dette mese entrare trionfante in Parigi. Gioacchino informato del splendido successo dell’impresa di Napoleone non dubita più del successo di quella, alla quale secondo lui, e secondo quanto gli dicevano i Lombardi, che gli si mandavano, chiamavalo il bel paese; entra in campagna verso la metà del mese di marzo, incontra gli Austriaci il giorno 30 dello stesso mese presso Cesena, e le ostilità incominciano. Egli progredisce sino a Modena, ma poi avendo veduto, che nessuna delle promesse che gli si eran fatte compivansi, prese le mosse per ritornare nel regno. Assale a Tolentino una delle colonne con le quali gli Austriaci lo inseguivano. Ma è respinto con grave perdita. Il suo esercito si disordina, e in gran parte si sbanda. Esso abbandona il 20 maggio il reame. La guerra era in meno di due mesi terminata.

Gioacchino è stato per quella impresa tacciato di s0mma leggerezza. Ma il vero è, che volendo restare ciò che era, non gli rimaneva altro partito, che d’indurre il più d’Italiani, che gli fosse possibile, a sposare la sua causa, mentre egli sposerebbe la loro. Or siccome degl’Italiani, che dicevansi il fu regno italico, e l’Alta—Italia, ai quali egli credeva di dover prestar fede, venivano da sé ad offrirsegli, l’accettare la loro offerta e il tentare la sorte era cosa tanto più naturale, che aveva ogni motivo di aspettarsi che Napoleone darebbe solo abbastanza che fare agli Alleati, e non poco anche all’Austria. Gioacchino Murat è perciò scusabile. Diremo noi lo stesso anche di quegl’Italiani che a forza di menzognere lusinghe lo spinsero al partito che prese? No certamente. Essi non potevano non prevedere che qualunque passo contro il riordinamento dell'Italia provocherebbe una guerra Europea. La Santa Alleanza, se anche non esisteva di nome, di fatti esisteva già allora. Ciò essendo, come potevan essi esporre il loro paese, la loro patria, a sostegno d’idee e di pretensioni né ammesse, né ammissibili nel giure pubblico Europeo, a nuovi dolori, tormenti e strazj.

Esaminerò nel capitolo che segue come, e con quali mezzi l’opposizione contro il riordinamento dettato dal Congresso di Vienna è stata convertita in una permanente agitazione rivoluzionaria, e come, e con quai mezzi si continua ad alimentarla. Ma prima mi sia permesso di riepilogare le conclusioni risultanti dagli esami e studj finora fatti.

Nel primo capitolo si è veduta l’Italia nella tristissima situazione di rimettersi colle convenzioni di Schiarino—Rizzino e di Mantova, senza patti di alcuna sorta, alla discrezione degli Alleati allora a Parigi, i quali l’ebbero nella loro guerre per l'indipendenza europea, abbenché le avessero ripetutamente offerto l’occasione di emanciparsi, sino allora nelle file del loro a vv ersario. In questo si è dimostrato, che gli Alleati, la guerre dei quali ebbe il doppio scopo di liberare l’Europa dal servaggio nel quale era caduta, e d’impedire, che tempi cosi infelici come i passati si rinnovassero, usarono bensì nel riordinamento dell’Italia del diritto, che loro dava la guerra, di subordinarla agli interessi Europei, e che in vista della necessità di ristabilire in Europa un equilibrio politico e di rassicurarne gli effetti, rimisero all’Austria il presente regno Lombardo—Veneto, sul quale essa aveva anche dei diritti particolari, e al Piemonte Genova colle sue due riviere: ma che il detto riordinamento ebbe luogo in generale e segnatamente per rapporte al detto regno col pien suffragio delle rispettive popolazioni. — Che però ciononostante una minime frazione, non la millesima parte degli Italiani protestà in nome di tutta l'Italia contro di esso, volendo illegittimo ogni dominio forestiero, illegittimo tutto il riordinamento.


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CAPITOLO III

Sull’agitazione italiana, e sui mezzi coi quali è stata prodotta, e si è fatta sino al giorno d'oggi durare.

L’Italia aveva nel 1814, dopo tanti anni d'incassanti terribili guerre, soprattutto bisogno di ordine, di quiete e di pace. Più vi si riflette e più si rimane convinti, che nella condizione nella quale essa in allora si trovava, da nessuno si poteva al prefatto bisogno provvedere, se non dagl’Alleati; e che ogni ordinamento autonomo vi si sarebbe, all’atto pratico, mostrato inneseguibile. La violenta opposizione insorta contra di esso, fa perciò, indipendentemente dalla di lei trasformazione in agitazione, cospirazione e ribellione, un( 4) opera in ogni caso affatto fuor di tempo, e inconsiderata. Ma che dire poi dell’irreflessione e leggerezza, con la quale questa qualunque siasi opposizione si è fatta? della meschinità, insufficienza, immoralità dei mezzi che vi si sono impiegati? — E se almeno il non successo e l'esito disastroso del primo tentativo avesse insegnato a far meglio! Ma no. Il vero è, che l’uomo pell’ordinario tiene assai poco conto delle lezioni che gli dà la propria esperienza per quanto esse possano essere, come lo furono nel caso in discorso, severe e dolorose, e mono ancora di quelle dell’esperienza altrui, e dei tempi passati. Il partito sovversivo si è costituito subito dopo la guerra del 1815 in tutta l’Italia in leghe e congreghe agitatrici rivoluzionarie, e non ha cessato di tenere nei suoi ulteriori tentativi contro l’esistente ordine politico la stessa strada, che tenue nel 1815, procedendo con gli stessi metodi, e usando gli stessi mezzi che aveva usati nei detto anno. Il di lui manuale divenne e rimase sempre il proclama di Gioacchino Murat agli Italiani messo in corso da Rimini il giorno 30 marzo 1815; che perciò si merita in sommo grado la nostra attenzione. Esso è dei seguente tenore:

«Italiani! L’ora è venuta che debbono compiersi gli alti vostri destini. La provvidenza vi chiama in fine ad essere una nazione indipendente. Dalle Alpi allo stretto di Sicilia odasi un grido solo l’indipendenza d’Italia! Ed a qual titolo popoli stranieri pretendono togliervi questa indipendenza, primo diritto e primo bene d’ogni popolo? A qual titolo signoreggiano essi le vostre più belle contrade? A qual titolo s'appropriano le vostre ricchezze per trasportarle in regioni ove non nacquero? A qual titolo finalmente vi strappano i figli, destinandoli a servire, a languire, a morire lungi dalle tombe degli avi.

« Invano adunque natura levò per voi le barriere delle Alpi? Vi cinse invano di barriere in sormontabili ancora la differenza dei linguaggi e dei costumi, l’invincibile antipatia dei caratteri? No, no: sgombri dal suolo italico ogni dominio straniero! Padroni una volta del mondo espiaste questa gloria perigliosa con venti secoli d'oppressioni e di stragi. Sia oggi vostra gloria di non avere più padroni. Ogni nazione deve contenersi nei limiti che le diè natura. Mari, e monti inaccessibili, ec coi limiti vostri. Non aspirate mai ad oltrepassarli, ma respingetene lo straniero che li ha violati, se non si affretta di tornare ne’ suoi. Ottantamila Italiani degli Stati di Napoli marciano comandati dal loro re, e giurarono di non domandare riposo, se non dopo la liberazione d’Italia. È già provato che sanno essi mantenere quanto giurarono. Italiani delle altre contrade, secondate il magnanimo disegno!. Torni all'arme deposte chi le usò tra voi, e si addestri ad usarle la gioventù, inesperta.

«Sorga un si nobile sforzo chi ha cuore ingenuo, e secondando una libera voce parti in nome della patria ad ogni petto veramente italiano. Tutta insomma, si spieghi ed in tutte le forme l’energia nazionale. Trattasi di decidere, se l'Italia dovrà essere libera, o piegare ancora per secoli la fronte umiliata al servaggio.

«La lotta sia decisa: e ben vedremo assicurata lungamente la prosperità duna patria bella, che, lacera ancora ed insanguinata, eccita tante gare straniere. Gli uomini illuminati d’ogni contrada, le nazioni intere degne d’un governo liberale, i sovrani che si distinguono per grandezza di carattere godranno della vostra impresa, ed applaudiranno al vostro trionfo. Potrebbe ella non applaudirvi l’Inghilterra, quel modello di reggimento costituzionale, quel popolo libero, che si reca a gloria di combattere, e di profondere i suoi tesori per l’indipendenza delle nazioni?

«Italiani! voi foste lunga stagione sorpresi di chiamarci invano: voi ci tacciaste forse ancora di inazione; allorché i vostri voti ci suonarono d’ogn’intorno. Ma il tempo opportuno non era peranco venuto, non per anco aveva io fatto prova della perfidia de’ vostri nemici: e fu d’uopo che l'esperienza smentisse le bugiarde promesse di cui v’eran si prodighi i vostri antichi dominatori nel riapparire fra voi.

«Sperienza pronta e fatale! Ne appello a voi, bravi e infelici Italiani di Milano, di Bologna, di Torino, di Venezia, di Brescia, di Modena, di Reggio e di altrettante illustri ed oppresse regioni. Quanti prodi guerrieri e patrioti virtuosi svelti dal paese natio! quanti gementi tra ceppi! quante vittime ed estorsioni, ed umiliazioni inaudite! Italiani, riparo a tanti mali, stringetevi in salda unione, ed un governo di vostra scelta, una rappresentanza nazionale, una Costituzione degna del secolo e di voi, garantiscano la vostra libertà e proprietà interna, tostoché il vostro coraggio avrà garantita la vostra indipendenza.

«Io chiamo intorno a me tutti i bravi per com battere. lo chiamo del pari quanti hanno profondamente meditato sugli interessi della lor patria, affine di preparare e disporre la Costituzione, e le leggi che reggano oggimai la felice Italia, la indipendente Italia.

Rimini, 30 Marzo 1815.

GIOACCHINO NAPOLEONE

per copia conforme

MILLET DI VILLENEUVE

In questo proclama già si rinvengono, con la sola eccezione della secolarizzazione degli Stati pontificj, le pretensioni, che costituiscono la questione italiana, cioè: riunione, indipendenza e reggimento costituzionale. E vi hanno anche i principali argomenti, coi quali le si difendono, e che sono l. ( e) essere ogni dominio forastiero illegittimo, perché forastiero; principio mai ancora stato ammesso nel mondo politico, né mai ammissibile, senza che ne segna doversi disfare tutti i grandi Stati d'Europa; 2.° aver la natura stessa ordinata e decretata la riunione, l'inseparabilità e l’indipendenza d’Italia, escludendone lo straniero coi mari e con le Alpi che la circondano; concetto anche questo falsissimo, perché il mare anzi facilita l’accesso ad un paese, se pur non ha coste scogliose che rendono l’avvicinarvisi pericoloso, e l’approdarvi impossibile: pericolo e difficoltà che le coste italiche non presentano che comparativamente in pochi siti; e quanto alle Alpi, perché la loro conformazione ne fa, in ispezialità di quelle poste fra l’Allemagna e l’italia, tutt’altro che una barriere insormontabile allo straniero (42).

E s’incontra pur anche in cotesto proclama già tutta spiegata quella tattica rivoluzionaria con la quale si é prodotta la fanatica agitazione per l'attuazione delle dette pretensioni; agitazione che ha replicatamente sconvolta da capo a fondo l’italia, che l'ha precipitata più volle in un abisso di disastri, e che sempre ancora minaccia, alla prima congiuntura che apparisca propizia a ulteriori tentativi di riscosse d’insurrezioni e di guerre, di precipitarvela di nuovo e di sprofondarvela più che mai. Cosi la tattica delle calunnie contro i governi italiani; e non meno contro i governi indigeni, che contro il governo austriaco del regno Lombardo—Veneto. Non vi ha scritto agitatore che non ne sia pieno—zeppo. L'iniziativa in questo ramo dell’arte di agitare è dovuta a Gioacchino Murat — E lo stesso è il caso, ancorché in un minor grado, delle false relazioni con le quali gli agitatori si sono sempre a vicenda ingannati in riguardo alle rispettive forze disponibili per l’impresa d’indipendenza italiana. I settarj dell’Italia settentrionale dicevano a quelli dell’Italia di mezzo, e dell’Italia meridionale, che nelle loro contrade tutto era apparecchiato, tutto pronto a sollevarsi ai primi segni che si avrebbero di una insurrezione del loro paese, ancorché gli apparecchiatisi non fossero che essi stessi. Un simile linguaggio tenevasi dai settarj dell’Italia meridionale a quelli dell’Italia di mezzo e dell’Italia settentrionale (43).

Questa reciprocità di menzognere illusioni ebbe già luogo fra la congrega lombarda e Gioacchino. Quella mentiva a questo tutto un esercito, che al suo approssimarsi al Po doveva raggiungerlo e rinforzarlo. Questo, se anche non mentiva nell’istesso modo alla detta congrega e all’Italia alla quale in generale indirizzava quel suo proclama, non esitava ad abbandonarsi alla più esorbitante esagerazione, raddoppiando, e più che raddoppiando la forza dell’armata con da quale intendeva di assalire l’Austria, dicendola ammontare a ottantamila uomini, quando non ne contava neppur la metà.

Finalmente, e questo è il punto più importante: abbenché il grido: l’italia farà da sé, fosse assai sovente suite labbra degli agitatori, non portante misero essi sempre il massimo impegno a far credere, che pel caso che pur essa non vi bastasse, vi avea ogni ragione di contare suite simpatie detta Francia e dell’Inghilterra; inganno che certamente è stato, come in seguito si vedrà, di, tutti quelli che l’agitazione a saputo mettere in opera, il più efficace, e che te ha servito e le serve qual ancora di speranza. Anche in questo riguardo il primo a far uso di questa leva agitatoria è stato quel disgraziato re. Già esso vantava le simpatie, per l’impresa da lui capitanata, della Francia e dell’Inghilterra, quantunque non vi avesse alcun anche minimo fondamento. Egli aveva ogni ragione di aspettarsi, che segnatamente l’Inghilterra non tarderebbe un momento, al primo sentore che essa avesse della, di lui mossa contro l’Austria, di fargli dalla Sicilia, per mare e per terra, la più aspra guerra. Non pertanto dimanda esso nel detto suo proclama. «Potrebbe l’Inghilterra, quel modello di reggimento costituzionale, quel popolo libero, che si reca a gloria di combattere, e di profondare i suoi tesori pell’indipendenza delle nazioni, non applaudire all'impresa d’indipendenza italiana?» — E cosi è chiaro, che l’agitazione italiana è stata dai suoi primordj alimentata e tenuta viva coi mezzi più abbietti, con assurde lusinghe, con turpi e schifose falsità, e con ogni sorta d’inganni, non esclusi i più riprovevoli.

Diffatti l’agitazione non è mai riuscita a far presa sul vero popolo italiano. Il di lui buon senso, uno dei doni più preziosi dei quali la natura gli fu si generosa, ha sempre resi vani tutti i di lei sforzi per sedurlo e per impadronirsene, ed ha respinte con disgusto e riprovazione tutte le di lei insinuazioni. La di lei propaganda non ha mai avuto altro campo di azione se non, quanto allo persone adulte, le sale dei settari, e le accademie letterarie; e quanto alla gioventù, le università, ed i convitti. Il vero popolo ha sempre veduto nei di lei capi gente o annellante di potere, o tormentata dall’«auri sacra famés» o degli Erostrati, i quali, purché il loro nome passi ai posteri, non sentono verun ribrezzo di mettere la loro bella patria a fuoco e a sangue. — Eppure, dirassi, l’Italia non pertanto continua ad agitarsi, ed a soffrire di essere agitata. Si, ciò è innegabile, ma è certo, che l’agitazione dopo gli avvenimenti del 1848 e 1849 sarebbe cessata, se in quegli anni non la fosse passata nelle mani del governo sardo, e se un avvenimento del tutto estraneo all’Italia, la questione o per meglio dire la guerra d’Oriente non gli avesse fornito l’occasione e il modo di tenerla in piedi, e di prolungarne la turpe vita. Mi spiego.

L’anno 1848 produsse, dalla seconda metà di febbrajo in poi, per qualche mese, diversi avvenimenti rivoluzionarj, ai quali gli agitatori italiani non ebbero nessuna, o tutto al più pochissima parte. Fu la rivoluzione di Parigi del 24 febbrajo, che eccitò la rivoluzione di Vienna, e fa questa, e l’idea che l’Austria sfasciavasi, che incoraggiò la insurrezione di Milano e di Venezia, e determinò Carlo Alberto alla guerra contro l’Austria, che si credeva agonizzante e spirante. Né questo, né gli agitatori lombardo—veneti avrebbero mai osato ricorrere alle armi contro di essa senza questa supposizione. Dirò di più che la caduta di Venezia, che fu il colpo che solo potè dare a quel la guerra un carattere serio, fu egualmente l'opera di una circostanza estranea affatto all'agitazione italiana. L’impresa di forzar l’Austria ad abbandonar il regno Lombardo—Veneto col Tirolo meridionale e col versante occidentale delle Alpi—Giulie era giunta al punto di divenir un fatto compiuto, quando l'edifizio crollò., Il modo come questo crollamento si fece, fu tale, che non si potè non riconoscervi un ultimatum della Provvidenza, la quale nei suoi misteriosi fini volle lasciar arrivar le cose ad un estremo, ad un maximum di probabilità di successo, per render l'impressione del non—successo, tanto più profonda e durevole. E certamente non furono pochi quelli fra i sedotti, che non agitavano ma agitavansi, i quali, comprendendone il significato, chinarono la testa, rassegnaronsi, ed acquietaronsi. Accadde anche che quelli fra gli agitatori che nel trambusto della sommossa, dell'insurrezione e della guerra riuscirono ad impadronirsi degli affari, facessero prova di tanta innettezza, che si screditarono affatto, che il dar loro ascolto si considerasse qual balordaggine o sciocchezza. L’agitazione era dopo il 1848 in tutta l’Italia avvilita e sfinita. Cosi nel regno di Napoli, cosi negli Stati pontificj, cosi in Toscana, cosi nel regno Lombardo—Veneto, cosi fin nel Piemonte.

Ma sebbene gli agitatori rivoluzionarj italiani, stante il totale discredito, nel quale erano caduti presso i loro connazionali, si vedessero condannati all’innazione non è per questo, che rinunciassero ai loro piani e non pensassero a ricominciare le loro operazioni alla prima favorevole congiuntura, che in Italia e nell'Europa si presentasse di ricominciarle con probabilità di successo. Forzati in seguito alle vicende del 1848 e del 1849, e al ristabilimento dell’ordine nei rispettivi paesi di emigrare, ripararono alcuni di essi in Inghilterra, altri nella Svizzera, ma la maggior parte cercò rifugio in Piemonte e lo trovò. Nel governo sardo avveravasi allora, e si avvera sempre ancora il detto di Emmanuele—Filiberto di Savoia, chi riceve l’ingiuria sovente la dimentica, chi la fa, giammai. Esso non sapeva e non sa perdonare all’Austria di non essersi da lui lasciala strappare il regno Lombardo—Veneto, e di avere, con grande di lei gloria, e con non piccolo di lui scorno, respinti due volte i di lui assalti. Tutto astio contro la detta potenza, riceveva quei rifuggiti a braccia aperte, e li ospitava come alleati. Essi vedevano nel di lui ministero una spezie di Direttorio, che aveva ai suoi comandi un esercito, attorno al quale l'insurrezione italiana potasse, nel caso di una nuova riscossa, ordinarsi. Quel governo dal suo canto ravvisava nei suoi ospiti degli alleati, che un di lo ajuterebbero a vendicarsi dei ricevuti affronti, ad attuare l’agognata fusione del regno Lombardo—Veneto, dei Ducati di Modena e di Farina e delle Marche e delle Legazioni col Piemonte, ed a impadronirsi dell’egemonia sul rimanente dell’Italia. Trascorsero cosi tre intieri anni, quando insorse la Questione d’Oriente, la quale eccitò non solo nei rivoluzionarj italiani, ma anche nei rivoluzionarj francesi ed inglesi le più sanguigne speranze di una vastissima tremenda guerra Europea. Né tardarono essi ad accordarsi nell’inasprire mediante la loro stampa a tal segno le parti contendenti, che poterono impedire la pacifica soluzione della il summenzionata questione. La guerra che si volle avere si ebbe; tuttavia non come desideravasi, nel centro dell'Europa, ma alle di lei estremità, da prima nei Principati Danubiani, e poi nella Crimea, però sempre ancora fiera abbastanza per consumare delle centinaja di migliaja di uomini.

Alla detta guerra, per la quale notoriamente si allearono la Francia e l'Inghilterra in soccorso della Porta contro la Russia, si associò con un trattato di alleanza, che porta la data di Torino e dei 12 gennajo 1855, anche il governo Sardo—Piemontese per quindicimila uomini, che di fatti sbarcarono verso la fine di aprile in Crimea nel porto di Balaclava. La di lui accessione ad una si formidabile coalizione, e l’invio dei summenzionati quindicimila uomini nella Crimea, fece nei fasti dell’agitazione italiana epoca. La guerra alla quale esso prendeva parte era affatto estranea ad ogni interesse sardo—piemontese, e ad ogni interesse italiano. Siccome la questione d'Oriente involgeva una causa di nazionalità, vale a dire la causa greca, cosi il prendervi parte era pel governo sardo—piemontese evidentemente una completa rinegazione della sua fede politica. Esso aveva già nel 184fornito con la guerra contro l’Austria, malgrado l’opposizione di tutto il vero popolo piemontese, la prova la più convincente, e ora la dava per la seconda volta, che i governi costituzionali sanno essere assoluti e dispotici come nessun sovrano cristiano, sia pur quanto mai si voglia persuaso di non essere responsabile dei suoi dettati se non a quello da cui deriva ogni autorità su questa terra, e alla propria coscienza, oserebbe oggigiorno essere. Tutto ciò non ha per altro impedito che quei quindicimila uomini, che il ministero sardo—piemontese rimetteva alla detta coalizione, si considerassero dagli agitatori, o almeno si volessero far apparire, come una caparra, che doveva assicurare al di lui governo, in ogni guerra che gli venisse la voglia nella sua irrequietezza rivoluzionaria di provocare, una potente cordiale assistenza. Né mancò certamente quell’alleanza, e particolarmente il vedere, allorché si trattò nel 1856 al congresso di Parigi la pace fra le potenze che avevano preso parte alla guerra d’Oriente, sedersi e prender posto fra li rappresentanti delle grandi potenze Europee anche due Plenipotenziarj sardo —piemontesi, di fare sull’Italia un grandissimo senso, e di riprodurre in migliaja di teste il riscaldo, che era stato dagli avvenimenti del 1848, e 184 raffreddato.

Importa, nessuno certamente io negherà, assai per la pace d’Italia, di conoscere bene e a fondo la politica della Francia e dell’Inghilterra in riguardo alle pretensioni che costituiscono la questione italiana e in ispezialità in riguardo a quella di staccare dall’Austria il regno Lombardo—Veneto, questione non tanto italiana quanto eminentemente Europea. Questa conoscenza ha per l’Italia e per tutta l’Europa la più grande importanza. Vediamo, cortese Lettore, di arrivarvi. La via è un pò lunga, ma piana, e senza ingombri di veruna sorta.

Lo scopo del congresso di Parigi era uno solo, quello cioè di porre definitivamente fine alla guerra d’Oriente con una pace solida e durevole. Egli è un fatto, che i Plenipotenziarj della Russia, della Prussia, dell’Austria e della Porta non avevano altri poteri che relativamente alla suddetta pace, e che gli articoli della pace furono in dieciotto sedute discussi e formulati, e il trattato firmato il 30 marzo, senza che si parlasse di altro, che di cose relative alla pace. Se non che i Plenipotenziarj sardi, conte di Cavour, e marche8e Villamarina consegnarono il giorno 27 marzo al Primo—plenipotenziario francese conte Walewski, e al Primo—plenipotenziario inglese conte di Clarendon, tre giorni prima che si passasse alla sottoscrizione della pace, una nota verbale, che il Lettore troverà fra le note e documenti annessi a questo capitolo la quale tratta di cose relative all’Italia; ma è certo che di cose italiane non si è parlato se non nella seduta ventesimaseconda che ebbe luogo soltanto il giorno 8 aprile. Nella summenzionata nota è detto in sostanza: che il governo clericale pontificio era un governo incapace di tener le suo popolazioni ordinate, e di preservarle dall’anarchia; che ciò rendeva necessaria la presenza di truppe forestiero francesi e austriache; che uno stato che aveva bisogno di truppe forestiere per tenersi in piedi era una anomalia; che l’occupazione forestiera, spezialmente quella delle Legazioni per parte degli Austriaci, produceva una situazione incompatibile col l'equilibrio politico; che la debolezza del governo pontificio forniva all’Austria un pretesto per farvi da padrona; che per rimediarvi conveniva secolarizzare quegli Stati, e se non tutti, almeno le Legazioni.


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Non fermiamoci a commentare questa nota, e limitiamoci a dirla in molti punti anche di fatto, e sino in molti punti istorici, sui quali si hanno delle relazioni superiori ad ogni eccezione, lontanissima dal vero; e a osservare, che mentre sino alla metà del 1848 i rivoluzionarj italiani non vedevano altro ostacolo alla loro opera, se non l’Austria; dalla detta epoca in poi ne riconoscono due; l’Austria e il Papato. La revoluzione italiana dico il Montanelli, ex—Presidente del consiglio dei ministri, ed ex—Triumviro del governo provvisorio toscano nel 184se non sia il Papa che la faccia, come avevamo creduto possibile gridando capo—popolo Pio IX, convien si faccia contro di lui, e conseguentemente contro gl’interessi Europei, che gli mantengono signoria in Italia (44).

Il nostro scopo è qui di conoscere sino a qual segno la politica delle due potenze occidentali si accorda con quelle del governo e del ministero sardo—piemontese o ne differisce. Sentiamo ora le due parlate.

Il conte Walewski prese le sue mosse dallo stato anomalo del regno Ellenico, che per non degenerare in anarchia richiedeva un presidio forastiero; disse che la Francia e l'Inghilterra che la fornivano, non desideravano altro, che di ritirarlo, appena lo si potesse fare senza detrimento del detto regno. E ciò detto osservò che pur troppo anche lo stato Pontificio presentava la stessa situazione e condizione anomale, e la stessa complicazione come il regno Ellenico.

«La necessità cito le sue parole di non lasciar gli Stati pontificj in balte dell’anarchia ha determinato la Francia, come anche l’Austria, a condiscendere alla richiesta della Santa Sede, e ad occupare con truppe francesi Roma, e con truppe austriache le Legazioni. La Francia ha avuto un doppio motivo di deferir senza esitanza a quanto le si chiedeva, in primo luogo come potenza cattolica, ed in secondo come potenza Europea, 11 titolo di figlio primogenito della Chiesa, del quale il Sovrano della Francia si gloria, faceva all'Imperatore un dovere di prestar assistenza e sostegno al Sovrano Pontefice. La tranquillità degli Stati romani dalla quale dipende quella di tutta l’Italia si connette troppo da vicino col mantenimento dell'ordine in Europa onde la Francia non abbia un particolar interesse a contribuirvi con tutti i mezzi che sono in suo potere».

Aggiunge poi il conte, che egli non disconosce quel tanto che vi ha di anomalo nella situazione di una potenza, che per non cadere, ha bisogno di essere sostenuta da truppe forastiere; e dichiara, osservando che anche l’Austria trovasi in riguardo alle di lei trappe dell’istesso parere che la Francia era non solo pronta a ritirare lo sue, ma che non desiderava altro che il momento di poterlo fare senza compromettere la tranquillità interna del paese, e l'autorità del governo pontificio, alla prosperità del quale l’augusto suo Sovrano l'Imperatore non tralascierà in verun tempo di prendere il più vivo interesse. E proseguendo a parlare degli Stati pontificj, disse, doversi desiderare nell’interesse dell’equilibrio Europeo che il governo pontificio si consolidi e si faccia sufficientemente forte all’uopo, che le truppe francesi ed austriache possano sgombrare senza inconveniente i di lui Stati; che egli crede che un voto espresso in questo senso (vale a dire in riguardo alla necessità di consolidanti e di non aver bisogno di truppe forestiere) avrebbe 1approvazione di tutte le potenze rappresentate al Congresso.

Il di più della parlata del conte Walewski risguardò l'irrequietezza rivoluzionaria nel regno di Napoli. Egli chiedeva in termini general, se non fosse a desiderarsi che taluno dei governi della penisola italica avvicinasse a sé con degli atti ben intesi di clemenza gli spiriti traviati e non pervertiti, e con ciò mettesse un termine ad un sistema in contraddizione coi proprio scopo, e che invece di colpire i nemici dell'ordine, tendeva a render deboli i governi, e a rinforzare la demagogia. Il conte fini relativamente a Napoli col dire, che a suo parere sarebbe rendere un segnalato servigio non meno al detto governo, che alla causa dell’ordine nella penisola, se esso venisse illuminato sulla falsa strada da lui presa; e che degli avvertimenti, concepiti nel prefatto senso, provenienti dalle Potenze rappresentate al Congresso non potrebbero non venir ben accolte.

Ore si dimanda se il conte Walewski poteva più chiaramente e più francamente negare alla nota sardo— piemontese, ancorché non la menzionasse, ogni e qualunque assenso e consenso? 11 di lui discorso, che per rapporta al luogo ove è stato tenuto, fu un solenne manifesta destinato a far conoscere all'Italia, all’Europa e al mondo intiero la politica della Francia relativamente alle cose d’Italia, doveva necessariamente distruggere nei Plenipotenziarj sardo—piemontesi, e nel partito agitatore ricoveratosi in Piemonte fin l’ultima speranza di cangiar il status quo, politico e territoriale dell’Italia. Considerando con la dovuta attenzione i termini usati dal conte Walewski, lo si vede impegnato a togliere ogni dubbio sulle intenzioni della Francia in riguardo all’Italia, e sul partito da esso preso di non permettervi, anziché di favorirvi, riscosse, e insurrezioni contro i governi italiani La Francia vedeva nell'irrequietezza rivoluzionaria italiana un fomite di sconvolgimenti politici e di guerra non solo per l’Italia ma per l’Europa intiera, e dichiarava di non voler tollerare nulla che minacciasse la pace Europea, e di credersi in dovere di usar d’ogni mezzo che stava in suo potere per impedire tutto ciò che la potrebbe turbare. Quanta al Papato, lungi dall’aderire alle insinuazioni dei detti Plenipotenziarj, il conta ne fa in nome della Francia non meno che del figlio primogenito della Chiesa, un vero 9 guai a chi osa toccarmi.

Il conte di Cavour credette non pertanto di poter dire alla Camera dei deputati piemontesi al suo ritorno dal Congresso: che l'accoglienza fatta alla sua nota 0 verbale consegnata alla Francia e all'Inghilterra era stata accolta molto favorevolmente. Che l’Inghilterra non esitò a dare alla proposta che essa conteneva 0 la più completa adesione, e che la Francia, abbenché stimasse a proposito di far un ampia riserva 0 all'effettuazione della medesima ne aveva per altro 0 anch’essa ammesso il principio. Dio buono! che camera di deputati poteva esser quella alla quale un ministro osava tener un discorso tanto lontano dal vero! Quanto all’Inghilterra, il di lei Primo—plenipotenziario conte di Clarendon non si è mostrato meno del Primo—plenipotenziario francese avverso all'agitazione rivoluzionaria italiana. Vi ha però una notevole differenza fra le due parlate, la quale consiste nel che il Plenipotenziario inglese ha accentuata la sua con molta maggior forza ed energia, che non il Plenipotenziario francese, evidentemente nell’intenzione di distruggere l’opinione diffusasi in Europa, il come e il perché è qui indifferente, che l’Inghilterra fomentava negl’Italiani lo spirito rivoluzionario. Il conte di Clarendon, dopo aver anch’esso come il conte Walewski parlato del presidio anglo—francese, che aveavi in Atene; disse che col giorno 30 marzo 1856 erasi iniziata un'era novella, un'era di pace; averla cosi denominata l'Imperatore Napoleone III alla presentazione del trattato da essi firmato. Ma che volendo essere conseguenti conveniva non tralasciar nulla di ciò, che si richiedeva, per render la pace, che si era fatta, solida, e durevole; che il Congresso, che ivi rappresentava le prime potenze dell’Europa mancherebbe ai suoi doveri qualora consacrasse col suo silenzio delle situazioni nocevoli all’equilibrio politico, e che mettono in pericolo la pace in nno dei paesi più interessanti dell’Europa, vale a dire in Italia. Ecco anche il Plenipotenziario inglese, che non ha in vista altro se non in primo luogo l’attuale stato dell’equilibrio politico e, in secondo, la pace; la pace in Europa in generale, e la pace nel bel paese in particolare; dunque niente riferibile al promovervi riscosse, o modificazioni territoriali, che attendevano i deputati piemontesi dalla diplomatica operosità dei Plenipotenziarj sardo—piemontesi al Congresso di Parigi.

Il conte di Clarendon, ciò è vero, fece sua la proposta contenuta nella nota verbale sardo—piemontese, di secolarizzare, se non tutto lo Stato pontificio, per lo meno le Legazioni. Ma la fece egli sua nel senso, nell’intendimento, e nello scopo dei di lei autori? La fece egli sua per appiccare il fuoco all'Italia centrale che non avrebbe mancato di estendersi anche all’Italia settentrionale, e all’Italia tutta intiera? Egli se ne incaricò perché ciò non ripugnava alla sua situazione di acattolico e di acattolico anglicano elevato dalla sua più tenera età nei pregiudizj contro il Papato; e perché supponeva l’irrequietezza rivoluzionaria che regnava o si diceva regnare nello Stato pontificio, nna necessaria conseguenza di mal governo: mentre se realmente malgoverno vi avea, l'irrequietezza rivoluzionaria poteva benissimo esserne non l’effetto, ma la causa; ciò che era anche il caso, come lo testifica non un prelato romano, ma il personaggio più competente, più autorevole, che in una tal causa potesse chiamarsi a dar esalto conto del vero stato della questione romana, il conte di Reyneval ambasciatore al tempo del congresso per la Francia presso la Santa Sede (45).

Il Plenipotenziario inglese s’ingannava sulla genesi del male, e perciò necessariamente anche sui mezzi di rimediarvi; ma il suo scopo era decisamente ed essenzialmente conservativo, e tutt’altro che quello degli autori della proposta. Il ragionamento del conte di Clarendon era logico e giustissimo; egli diceva: Per togliere la necessità dei presidj forastieri convien togliere innanzi tutto i giusti motivi di malcontento, senza di ciò si renderà indispensabile un permanente sistema poco onorevole pei governi e affliggente pei popoli. Secondo lui l'amministrazione negli Stati romani andava incontro a degli inconvenienti, dai quali potevano nascere dei pericoli, che il congresso aveva il diritto, se mai poteva, di allontanare; il negligere!!, aggiungeva egli, era un operare nel senso della rivoluzione, che tutti i governi condannano, e vogliono impedire. E, come contro il governo pontificio, cosi mostravasi egli preoccupato anche contro il governo di Napoli, e istessamente perché, come in seguito è stato dimostrato, non ben informato (46).

Per altro la sua politica è sempre rimasta quella della pace. Ciò che noi vogliamo, diceva egli, è che la pace non sia disturbata. Or pace non vi ha, ove non vi ha giustizia. Noi dobbiamo perciò far arrivare al Re di Napoli un voto del congresso per una correzione del suo sistema governativo; voto che non saprebbe restar senza effetto, e chiedergli un'amnistia a favore delle persone che per delitti politici vi sono state condannate o vi sono detenute senza processo. Egli poteva non esser ben informato, e certamente si ingannava nel considerare l'agitazione italiana come un effetto quando essa era una causa. Ma qui finisce ogni eccezione che si possa Tare con ragione e fondamento al suo discorso, che ebbe in tutto e per tutto una tendenza conservativa e antirivoluzionaria.

Conchiudiamo dunque che la politica della Francia e dell'Inghilterra professata al congresso di Parigi nella ventesimaseconda tornala il giorno 8 aprile 1856 relativamente all'Italia è stata una politica diametralmente opposta e quella dell’agitazione rivoluzionaria che ha per iscopo di strappare all'Austria il regno Lombardo—Veneto, e la fusione di tutta l’Italia in un solo stato, e in generale di rivoluzionaria; e che l’idea con la quale si alimenta dal ministero sardo—piemontese oggidì l’agitazione italiana, cioè che ad una sua richiesta si alzerebbero in suo ajuto e a suo sostegno la Francia e l’Inghilterra, non ha maggior fondamento di quella che metteva in campo nel suo manifesto di Rimini Gioacchino Murat; cosicché la storia dell'agitazione italiana può riassumersi nelle seguenti pochissime parole: essa è sempre stata tenuta viva e alimentata, e tutt’ora si alimenta con i mezzi i più riprovevoli, e con delle speranze immaginarie e delle fantasmagorie. Sedutosi il conte di Clarendon, prese la parola il conte Orloff Primo—plenipotenziario per la Russia per dire di non avere né istruzioni né poteri che lo autorizzassero a prendere parte a quella discussione, e che doveva astenersene. Lo stesso disse anche il conte Buol Primo—plenipotenziario per l'Austria. Il barone di Manteuffel Primo—plenipotenziario per la Prussia mancava egualmente d’istruzioni e di poteri, pure fece comprendere che il passo relativamente a Napoli gli pareva più atto a far del male che del bene. Il conte di Cavour dichiarò su di ciò che non intendeva contestare a dei Plenipotenziarj, che mancavano delle relative autorizzazioni, il diritto di astenersi dal prender parte ad una discussione. Egli si contentà di chiedere, che quel tanto che erasi detto in riguardo alle cose d'Italia si prendesse a protocollo, ciò che il congresso accordò. La discussione non ebbe quindi verun risultato diretto. Essa fu non di meno un evento della massima importanza per l'Italia, perché tolse ogni dubbio che i mille Piemontesi che miseramente perirono nella Crimea, e gli ottanta milioni che aveva costale quella spedizione, non avevan fruttato al Piemonte se non l’onore che il conte di Cavour e il marchese Villamarina suoi rappresentanti potessero sedere assieme con dei rappresentanti della Porta ad un congresso delle cinque grandi potenze Europee, e del resto tolta ogni speranza all’agitazione italiana, che l’Europa si lascierebbe turbare la sua pace con dei tentativi di attuare quelle di lei pretensioni che costituiscono la questione italiana (47).

Nella prossima tornata che fu la ventesimaterza, ed ebbe luogo il 13 aprile, si parlò di nuovo di cose italiane, ma soltanto a modo di dilucidazione. Il giorno 16 aprile il conte di Cavour e il marchese Villamarina rimisero al conte Walewski e al conte di Clarendon una seconda nota sulle cose d’Italia, nella quale le solite arti degli agitatori italiani sono portate all’ultimo eccesso; ragione per la quale ho creduto di doverla mettere per intiero sotto gli occhi del Lettore e di aggiungervi anche quella del conte Buol a riscontro di essa, e dei discorsi tenutisi nella camera dei Deputali piemontesi al ritorno del conte di Cavour dal congresso di Parigi. Essa contiene diversi punti, dei quali dovremo nel corso di questi studj seriamente occuparci.

Nel seguente capitolo verremo, cosi credo, alla conclusione: richiedere la pace e la sicurezza dell’Europa, che essa consideri e tratti la questione italiana non altrimenti che ha considerata e trattata la questione d’Oriente; cioè come una questione eminentemente Europea; ed essere della più grande importanza di porre un fine all'agitazione italiana, che minaccia di disturbare in sommo grado l'azione dell’equilibrio politico in ogni guerra dell’Oriente con l’Occidente, o della Francia congiunta con la Russia contro il rimanente dell’Europa.

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Note verbale remise par es plénipotentiaires sardes aux ministres de France et d'Angleterre le 27 mars 1856.

Dans un moment où les glorieux efforts des Puissances occidentales tendent à assurer à l'Europe les bienfaits de la paix, l'état déplorable des provinces soumises au gouvernement du saint—siège et surtout des Légations, réclame l'attention toute particulière du gouvernement de Sa Majesté Britannique et de Sa Majesté l'Empereur des Français.

Les Légations sont occupées par les troupes autrichiennes depuis 1849. L'état de siège et la loi martiale y sont en vigueur depuis cette époque sans interruption. Le gouvernement pontifical n'y existe que de nom, puisque au—dessus de ses légats un général autrichien prend le titre et exerce les fondions de gouverneur civil et militaire.

Rien ne fait présager que cet état de choses puisse finir, puisque le gouvernement pontifical, tel qu'il se trouve est convaincu de son impuissance à conserver l'ordre public comme au premier jour de sa restauration, et l'Autriche ne demande rien de mieux que de rendre son occupation permanente. volta donc les faits tels qu'ils se présentent; situation déplorable, et qui empire toujours, d'un pays noblement doué et dans lequel abondent les éléments conservateurs: impuissance du souverain légitime à le gouverner, danger permanent de désordre et anarchie dans le centre de l'Italie; extension de la domination autrichienne dans la Péninsule bien au delà de ce que les traités de 1815 lui ont accordé.

Les Légations, avant la révolution française, étaient sous la haute souveraineté du Pape; mais elles jouissaient de privilèges et de franchises qui les rendaient, au moins dans l'administration intérieure, presque indépendantes. Cependant la domination cléricale y était dès lors tellement antipathique, que les armées françaises y forent reçues en 1796 avec enthousiasme.

Détachées du saint—siège par le traité de Tolentino, ces provinces firent partie de la république, puis du royaume italien jusqu’en 1814. Le genie organisateur de Napoléon changea comme per enchastement leur aspect. Les lois, les institution, l'administration française y développèrent en peu d'années le bien—être et la civilisation.

Aussi, dans ces provinces, toutes les traditions, tontes les sympathies se rattachent à cette période. Le gouvernement de Napoléon est le seul qui ait survécu dans le souvenir non—seulement des classes éclairées, mais du peuple. Son souvenir rappelle une justice impartiale, une administration forte, un état enfin de prospérité, de richesse et de grandeur militaire.

Au congrès de Vienne on hésita longtemps à replacer les Légations sous le gouvernement du Pape. Les hommes d’État qui y siégeaient, quoique préoccupés de la pensée de rétablir partout l'ancien ordre de choses, sentaient cependant qu'on laisserait de cette manière un foyer de désordre au milieu de l'Italie. La difficultà dans le choix du souverain auquel on donnerait ces provinces et les rivalités qui éclatèrent pour leur possessions firent pencher la balance en faveur du Pape, et le cardinal Consalvi obtint, mais seulement après la bataille de Waterloo, celte concession inespérée.


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Le gouvernement pontifical, à sa restauration, ne tint aucun compte du progrès des idées et des profonds changements que le régime français avait introduits dans cette partie de ses États. Dès lors une tutte entre le gouvernement et le peuple était inévitable. Les Légations ont été en proie a une agitation plus an moins cachée, mais qui, a chaque opportunité, éclatait en révolutions. Trois fois l'Autriche intervint avec ses armées pour rétablir l’autorité du Pape, constamment méconnue par ses sujets.

La France répondit à la seconde intervention autrichienne par l'occupation d'Ancone, à la troisième par la prise de Rome. Toutes les fois que la brance s'est trouvée en présence de tels événements, elle a senti la nécessité de mettre une fin à cet état de choses, qui est un scandale pour l’Europe et un immense obstacle à la pacification de l'Italie.

Le Mémorandum de 1831 constatait l'état déplorable du pays, la nécessité et l'urgence des réformes administratives. Les correspondances diplomatiques de Gaëte ed de Portici portent l'empreinte du même sentiment. Les réformes que Pie IX lui—même avait initiées en 1846 étaient le fruit de son long séjour à Imola, où il avait pu juger par ses propres veux des effets du régime déplorable imposé à ces provinces.

Malheureusement les conseils des puissances et la bonne volonté du Pape sont venus se briser contre les obstacles que l'organisation cléricale oppose à toute espèce d'innovation. S'il y a un fait qui résulte clairement de histoire de ces dernières années, c'est la difficulté, disons mieux, l’impossibilité d'une réforme complète du gouvernement pontifical, qui réponde aux besoins du temps et aux vœux raisonnables des populations.

L'empereur Napoléon III, avec ce coup d’œil juste et ferme qui le Caractérise avait parfaitement saisi et nettement indiqué dans sa lettre an colonel Ney la solution du problème: sécularisation, code Napoléon.

Mais il est évident que la cour de Rome tuttera jusqu'au dernier moment, et avec toutes ses ressources, contre exécution de ces deux projets. On conçoit qu' elle puisse se prêter en apparence à l’acceptation de réformes civiles et même politique, sauf à les rendre illusoires dans la pratique mais elle comprend trop bien que la sécularisation et le code Napoléon introduits a Rome même, là où l'édifice de sa puissance temporelle repose, le saperaient à sa base et le feraient crouler en lui enlevant ses appuis principaux; les privées cléricaux et le droit canon. Cependant si l'on ne peut espérer d'introduire une véritable réforme dans le centre même où les rouages de l’autorité temporelle sont tellement confondus avec ceux du pouvoir spirituel qu'on ne saurait les séparer complètement sans courir le risque de les briser, ne podrait—on pas au moins l'obtenir dans une partie qui supporte avec moins de résignation le joug clérical, qui est un foyer permanent de trobles et d'anarchie, qui fournit le prétexte à l'occupation permanente des Autrichiens, suscite des complications diplomatiques et trouble l’équilibre Européen? Nous croyons qu'on le peut, mais à condition de séparer de Rome, au moins administrativement, celte partie de l'État. On formerait ainsi des Légations une principauté apostolique sous la haute domination du Pape, mais régie par ses propres lois, avant ses tribunaux, ses finances et son armée. Nous croyons qu'en rattachant cette nouvelle organisation autant que possible aux traitions du règne napoléonien, on serait sûr d'obtenir tout de suite un effet moral très—considerable, et on aurait fait un grand pas pour ramener le calme parmi ces populations.

Sans nous flatter qu'une combinaison de ce genre puisse durer éternellement, nous sommes d'avis néanmoins qu'elle pourrait suffire pour longtemps au but qu'on se propose: pacifier ces provinces et donner une satisfaction légitime aux besoins des peuples; par cela même assurer le gouvernement temporel du saint—siège sans la nécessité d'une occupation étrangère permanente. Elle aurait en outre l'avantage de rendre une grande et bienfaisante influence aux puissances alliées dans le cœur de l'Italie.

Nous allons indiquer sommairement les points substantiels du projet, ainsi que le moyen de le réaliser.

1.° Les provinces de l’État romain situées entre le Po l'Adriatique et les Apennins (depuis la province d'Ancóne jusqu'à celle de Ferrare), tout en restant soumises à la haute domination du Saint—Siège, seraient complètement sécularisées et organisées sous le rapport administratif judiciaire, militaire et financier, d'une manière tout à fait séparée et indépendante du reste de l’État. Cependant les relations diplomatiques et religieuses resteraient exclusivement du domaine de la cour de Rome.

2.° L’organisation territoriale ed administrative de cette principauté apostolique serait établie conformément à ce qui existait sous le règne de Napoléon l. jusqu'à l'an 1814. Le code Napoléon y serait promulgué, sauf les modifications nécessaires dans les titres qui regardent les relations entre l'Église et l’État.

3.° Un vicaire pontifical laïque gouvernerait ces provinces avec des ministres et un conseil d'État. La position du vicaire, nommé par le Pape, serait garantie par la durée de ses fonctions, qui devrait être au moins de dix ans. Les ministres, les conseillers d'État et tous les employés, indistinctement seraient nommés par le vicaire pontifical. Leur pouvoir législatif et exécutif ne saurait jamais s'étendre aux matières religieuses, ni aux matières mixtes qui serraient préalablement déterminées, ni enfin à rien de ce qui touche aux relations politiques internationales.

4.° Ces provinces devraient concourir dans une juste proportion au maintien de la cour de Rome et au service de la dette publique actuellement existante.

5.° Une troupe indigène serait immédiatement organisée au moyen de la conscription militaire.

6.° Outre les conseils communaux et provinciaux, il y aurait un conseil général pour l'examen et le rôle du budget.

Maintenant, si on veut considérer les moyens d'exécution, on verra qu'ils ne présentent pas autant de difficultés qu'on serait tentà de le supposer au premier coup d'œil. D'abord celte idée d'une séparation administrative des Légations n'est pas nouvelle à Rome. Elle a été plusieurs fois mise eu avant par la diplomatie, et même prônée par quelques membres du sacré collège, quoique dans des limites beaucoup plus restreintes que celles qui sont nécessaires pour en faire une œuvre sérieuse et durable.

La volonté irrévocable des Puissances et leur délibération de faire cesser sans délai l’occupation étrangère, seraient les deux motifs qui détermineraient la cour de Rome à accepter ce plan, qui, au fond, respecte son pouvoir temporel et laisse intacte l'organisation actuelle au centre et dans la plus grande partie de ses États. Mais une fois le principe admis, il faut que l’exécution du projet soit confiée à un haut commissaire nommé par les Puissances. Il est de toute clarté que si cette tâche était abandonnée au gouvernement pontifical, il trouverait dans son système traditionnel les moyens de n'en venir jamais à bout et de fausser entièrement l'esprit de la nouvelle institution.

Or, on ne peut se dissimuler que, si l'occupation étrangère devait cesser sans que ces réformes fussent franchement exécutées et sans qu'une force publique fût établie, il y aurait tout lieu de craindre le renouvellement prochain de troubles et d'agitations politiques, suivi bientôt du retour des armées autrichiennes. Un tel événement serait d'autant plus regrettable que les effets sembleraient condamner d'avance tout essai d'amélioration.

Ce n'est donc qu'aux conditions ci—dessus énoncées que nous concevons la cessation de l'occupation étrangère, qui pourra s’opérer ainsi:

Le gouvernement pontifical a maintenant deux régiments suisses et deux régiments indigènes, en somme huit mille homes environ. Cette troupe est suffisante pour le maintien de l'ordre dans Rome et dans les provinces qui ne sont pas comprises dans la séparation administrative dont ou vient de parler. La nouvelle troupe indigène, qu'on organiserait au moyen de la conscription dans les provinces sécularisées, en assurerait la tranquillité. Les Français pourraient quitter Rome, les Autrichiens les Légations. Cependant les troupes Françaises, en rentrant chez elles par la voie de terre, devraient dans leur passage demeurer d'une maniéré temporaire dans les provinces détachées. Elles y resteraient pour un temps fixé d'avance et strictement nécessaire à la formation de la nouvelle troupe indigène, qui s'organiserait avec leur concours.

Note adressée au comte Walewski ed à Lord Clarendon le 16 avril 1856.

Les soussignés plénipotentiaires de Sa Majestà le Roi de Sardaigne, pleins de confiance dans les sentiments de justice des gouvernements de France et d'Angleterre, et dans l'amitié qu'ils professent pour le Piémont, n'ont cessé d'espérer depuis l'ouverture des conférences, que le congrès de Paris ne se séparerait pas sans avoir pris en sérieuse considération l'état de l'Italie, et avisé aux moyens d'y porter remède en rétablissant l'équilibre politique, troublé par l'occupation d'une grande partie des provinces de la Péninsule par des troupes étrangères.

Sûrs du concours de leurs alliés, ils répugnaient croire qu'aucune des autres Puissances, après avoir témoigné un intérêt si vif et généreux pour le sort des chrétiens d'Orient appartenant aux races slave et grecque, refuserait de s'occuper des peuples de race latine, encore plus malheureux parce—que, à raison du degré de civilisation avancée qu'ils ont atteint, ils sentent plus vivement les conséquences d'un mauvais gouvernement.

Cet espoir a été déçu. Malgré le bon vouloir de l'Angleterre et de la France, malgré leurs efforts bienveillants, la persistance de l'Autriche à exiger que les discussions du congrès demeurassent strictement circonscrites dans la sphère de questions qui avait été tracée avant sa réunion, est cause que cette assemblée, sur la quelle les veux de toute l’Europe sont tournés, va se dissoudre, non—seulement sans qu'il ait apportà le moindre adoucissement aux maux de l’Italie, mais sans avoir fait briller au delà des Alpes un éclair d'espérance dans l'avenir, propre à calmer les esprits, et à leur faire supporter avec résignation le présent.

La position spéciale occupée par l'Autriche dans le sein du congrès rendait peut—être inévitable ce résultat déplorable. Les plénipotentiaires sardes sont forcés de le reconnaître. Aussi, sans adresser le moindre reproche à leurs alliés, ils croient de leur devoir d'appeler leur sérieuse attention sur la conséquence fâcheuse qu'il peut avoir pour l’Europe, pour l'Italie et spécialement pour la Sardaigne.

Il serait superflu de tracer ici un tableau exact de l’Italie. Ce qui se passe dans ces contrées depuis bien des années est trop notoire. Le système de compression et de réaction violente inauguré en 1848 et 1849, que justifiaient peut—être à son origine les troubles révolutionnaires qui venaient d'être comprimés, dure sans le moindre adoucissement; on peut même dire que, sauf quelques exceptions, il est pratiqué avec un redoublement de rigueur. Jamais les prisons et les bagnes n'ont été plus remplis de condamnés pour cause politique; jamais h police n'a été plus tracassière, ni l’état de siège plus durement appliqué. Ce qui se passe à Parme ne le prouve que trop.

De tels moyens de gouvernement doivent nécessairement maintenir les populations dans un état d'irritation constante et de fermentation révolutionnaire.

Tel est l'étal de l’Italie depuis sept ans.

Toutefois dans ces dernier temps l'agitation populaire paraissait s'être calmée. Les Italiens, voyant un des princes nationaux coalisé avec les grandes puissances occidentales pour faire triompher les principes du droit et de la justice et améliorer te sort de leurs coreligionnaires en Orient, conçurent l'espoir que la paix ne se ferait pas sans qu'un soulagement Eût apportà à leurs maux. Cet espoir les rendit calmes et résignés. Mais lorsqu'ils connaîtront le résultat négatif du congrès de Paris; lorsqu’ils sauront que l'Autriche, malgré les bons offices et l'intervention bienveillante de la France et de l'Angleterre, s’est refusée à toute discussion; qu'elle n'a pas même voulu se prêter à l’examen des moyens propres à porter remède à un si triste état de choses, il n'est pas douteux que l'irritation assoupie se réveillera parmi eux plus violente que jamais. Convaincus de n'avoir plus rien h attendre de la diplomatie et des efforts des Puissances qui s'intéressent & leur sort, ils se rejetteront avec une ardeur méridionale dans les rangs du parti révolutionnaire et subversif, et l'Italie redeviendra un fover ardent de conspirations et de désordres, qu'on comprimera peut—être par un redoublement de rigueur, mais que la moindre commotion Européenne fera éclater de la manière la plus violente. Un état de choses aussi fâcheux, s'il mérite de fixer l'attention des gouvernements de la France et de l'Angleterre, intéressés également au maintien de l'ordre et au développement ré gulier de la civilisation, doit naturellement occuper an plus haut degré le gouvernement du Roi de Sardaigne. Le réveil des passions révolutionnaires dans tontes les contrées qui entourent le Piémont, par l'effet des causes de nature à exciter les plus vives sympathies populaires, l’expose à des dangers d’une excessive gravité qui peuvent compromettre cette politique ferme et modérée qui a eu de si heureux résultats à l'intérieur et lui a valu la sympathie et t’estime de l’Europe éclairée.

Mais ce n'est par là le seul danger qui menace la Sardaigne Un plus grand encore est la conséquence des moyens que l'Autriche emploie pour comprimer la fermentation révolutionnaire en Italie. Appelée par les souverains des petits États de l’Italie, impuissants à contenir le mécontentement de leurs sujets, cette Puissance occupe militairement la plus grande partie de la vallée du Po et de l'Italie centrale, et son influence se fait sentir d’une manière irrésistible sur les pays mêmes où elle n’a pas de soldats. Appuyées d'un coté à Fer rare et à Bologne, ses troupes s’étendent jusqu’à Ancône, le long de l'Adriatique, devenue en quelque sorte un lac autrichien; de l’autre, maîtresse de Plaisance, que, contrairement à l'esprit sinon à la lettre des traités de Vienne, elle travaille à transformer en place de premier ordre, elle a garnison à Parme et se dispose à déployer ses forces tout le long de la frontière sarde du Po au sommet des Apennins.

Ces occupations permanentes par l'Autriche de territoires qui ne lui appartiennent pas la rendent la maîtresse absolue de presque toute l'Italie, détruisent l'équilibre établi par le traité de Vienne, et sont une menace continuelle pour le Piémont.

Cerné eu quelque sorte de toute part par les Autrichiens, voyant se développer sur la frontière orientale, complètement ouverte, les forces d’une puissance qu’il sait ne pas être animée de sentiments bienveillants à son égard, ce pays est tenu dans un état constant d'appréhension qui l’oblige à demeurer armé et à des mesures défensives excessivement onéreuses pour ses finances, obérées déjà par suite des événements de 1848 et 1849 et de la guerre à la quelle il vient de participer.

Les faits que les soussignées viennent d'exposer suffisent pour faire apprécier les dangers de la position où le gouvernement du Roi de Sardaigne se trouve placé.

Troublé à l'intérieur par l’action des passions révolutionnaires suscitées tout autour de lui par un système de compression violente et par l’occupation étrangère, menacé par l'extension de puissance de l’Autriche, il peut d’un moment à l'autre être forcé par une inévitable nécessité à adopter des mesures extrêmes dont il est impossible de calculer les conséquences.

Les soussignés ne doutent pas qu'un tel état de choses n’excite la sollicitude des gouvernements d'Angleterre et de France, non—seulement à cause de l'amitié sincère et de la sympathie réelle que ces Puissances professent pour le souverain qui, seul entre tous, dans le moment où le succès était le plus incertain, s'est déclaré ouvertement en leur faveur, mais surtout parce qu'il constitue un véritable danger pour l’Europe.

La Sardaigne est le seul État de l'Italie qui ait pu élever une barrière infranchissable à l'esprit révolutionnaire et demeurer en même temps indépendant de l'Autriche, c'est le seule contre—poids à son influence envahissante.


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Si la Sardaigne succombait épuisée de force, abandonnée de ses alliés; si elle aussi était contrainte de subir la domination autrichienne, alors la conquête de l'Italie par cette puissance serait achevée. Et l'Autriche après avoir obtenu sans qu'il lui coûtât le moindre sacrifice l'immense bienfait de la liberté de h navigation du Danube et de la neutralisation de la mer Noire, acquerrait une influence prépondérante en Occident.

C'est ce que la France et l'Angleterre ne sauraient vouloir, c'est ce qu'elles ne permettront jamais.

Aussi les soussignés sont convaincus que les cabinets de Londres et de Paris prenant en sérieuse considération l'état de l'Italie, aviseront de concert avec la Sardaigne aux moyens d'y porter un remède efficace Paris, ce 16 april 1856.

Signés: C. CAVOUR.

DE VILLAMARINA.

Dépêche adressée aux missions impériales, auprès des cours de Florence, Rome, Naples et Modène en date de Vienne le 18 mai 1855.

L es interpellations adressées à M. le président du conseil de Sa Majestà Sarde au sujet du traité de paix signé & Paris le 30 mars dernier, ont donné lieu dans les chambres piémontaises à des discussions qui ont sans doute attiré la sérieuse attention du gouvernement... tout comme elles ont fixé la notre.

Dans le cours de ces débats, le comte Cavour a déclaré que les plénipotentiaires de l'Autriche et de la Sardaigne au congrès de Paris s'étaient séparés avec la conviction intime que les deux pays étaient plus éloignés que jamais de tomber d'accord sur leur politique, et que les principes soutenus par l'un et l'autre gouvernement étaient inconciliables.

Après avoir pris connaissance des explications données par lo comte Cavour au parlement piémontais, nous ne pouvons, je l'avoue, que souscrire à l'opinion qu'il a émise sur l'infranchissable distance qui vous sépare de lui sur le terrain des principes politiques. Parmi, les pièces justificatives que le président du conseil a soumises À l'appréciation des chambres, la note présentée, sous la date du 16 avril dernier par les plénipotentiaires piémontais aux chefs des cabinets de Paris et de Londres, nous a semblé particulièrement digne d'observation. Réduite à sa plus simple expression cette pièce n'est qu'un plaidoyer des plus passionnés contre l'Autriche. Le système de compression et de réaction violente inauguré en 1848 et 184doit nécessairement, affirme le comte Cavour, maintenir les populations dans un état d'irritation constante et de fermentation révolutionnaire; et les moyens employés par l'Autriche pour comprimer cette fermentation, les occupations permanentes de territoires qui ne lui appartiennent pas, détruisent, selon le président du conseil, l’équilibre établi par le traité de Vienne, et sont une menace continuelle pour le Piémont.

Les dangers crées pour la Sardaigne par l’extension de puissance de l'Autriche sont, aux veux du comte Cavour, si flagrants qu' ils pourraient d'un moment à l'autre forcer le Piémont à adopter des mesures extrêmes, dont il est impossible de calculer les conséquences. C'est ainsi que les appréhensions qu'inspire au chef du cabinet sarde l'attitude de l'Autriche en Italie, lui servent de prétexte pour lancer contre nous une menace à peine déguisée, et que rien i assurément n'a provoquée.

L'Autriche, pour sa part ne saurait d'aucune façon admettre la mission attribuée par le comte Cavour à la cour de Sardaigne de élever la voix au nom de l'Italie. Il y a dans cette presqu'île différents gouvernements complètement indépendants l'un de l'autre, et reconnus comme tels par le droit public de l’Europe, qui, en revanche, ignore entièrement l'espèce de protectorat auquel le cabinet de Turin semble aspirer à leur égard. Quant à nous, nous savons respecter l'indépendance des divers gouvernements établis dans la Péninsule, et nous croyons leur offrir une nouvelle preuve de ce respect en faisant en cette occasion franchement appel à leur jugement impartial.

Il ne nous démentiront pas, nous en sommes persuadés, lorsque nous posons en fait que le comte Cavour eût été beaucoup plus près de la vérité en intervertissant le raisonnement dont il a fait usage. A l'entendre, il n'y a que la présence prolongée de troupes auxiliaires dans quelques États italiens, qui entretient dans les esprits le mécontentement et la fermentation. Né serait—il pas infiniment plus juste de dire que la continuation de l'occupation n'est rendue nécessaire que par les machinations incessantes du parti subversif, et que rien n'est pins fait pour encourager ses coupables espérances et pour sur— exciter les passions ardentes, que le langage incendiaire dont à naguère retenti l'enceinte du parlement piémontais?

Le comte Cavour a établi que la Sardaigne, jalouse de l’indépendance d’autres gouvernements, n'admet point qu'une Puissance quelconque puisse avoir le droit d'intervenir dans on autre État, en eût—elle été franchement requise par celui—ci. Pousser le respect de l'indépendance d'autres gouvernements au point de leur contester le droit d'appeler à leur secours, dans l'intérêt de leur conservation, une Puissance amie, c'est là une théorie à laquelle l'Autriche a constamment refusé son adhésion. Les principes professés par l'Autriche en pareille matière sont trop connus pour que nous sentions le besoin de les exposer de nouveau. C'est dans l'exercice d'un droit de souveraineté incontestable, que l’Empereur et ses augustes prédécesseurs ont plus d'une fois prêté des secours armés a des voisins qui les avaient réclamés contre des ennemis extérieurs ou intérieurs. Ce droit, l'Autriche entend le maintenir et se réserver la faculté d'en faire éventuellement usage. Est—il permis, du reste, à qui que ce soit, d'avoir des doutes sur les intentions qui ont présidé aux interventions aux quelles l'Autriche s'est prêtée à différentes époques en Italie, lorsque l'histoire est là pour démontrer qu'en agissant ainsi, nous n'avons jamais poursuivi des vues intéressés, et que nos troupes se sont sur—le champ retirées dès que l’autorité légitime déclarait pouvoir maintenir l'ordre public sans secours étrangers? Il en sera toujours de même. Tout comme nos troupes ont quitté la Toscane a peine l'ordre légal s'y trouvait suffisamment consolidé, elles seront prêles à évacuer les États pontificaux dès que leur gouvernement n'en aura plus besoin pour se défendre contre 1rs attaques du parti révolutionnaire. Loin de nous, au reste, de prétendre exclure du nombre des moyens propres à faciliter ce résultat, de sages réformes intérieures que nous n'avons dis continué de conseiller au gouvernement de la Péninsule, dans les limites d'une saine pratique et avec tous les égards dus à la dignité et à l'indépendance d'États au sujet desquels nous ne reconnaissons pas au cabinet de Turin le droit de s'ériger en censeur privilégié. Mais nous sommes persuadés, d'un autre coté, que les démolisseurs ne cesseront de dresser leurs machines de guerre contre l'existence des gouvernements réguliers en Italie aussi long temps qu'il y aura des pays qui leur accorderont appui et protection, et des hommes d'État qui ne craignent point de faire indirectement appel aux passions et aux tendances destructives. En résumé, loin de nous laisser détourner de notre ligne de conduite par une sortie inqualifiable, qui, nous voulons bien l'admettre, a été amenée surtout par le besoin d'un triomphe parlementaire, nous attendrons de pied ferme les événements persuadés que l'attitude des gouvernements italiens, qui ont été comme nous l'objet des attaques du comte Cavour, ne différera pas de la notre. Prêts à applaudir a toute reforme bien entendue, à encourager toute amélioration utile émanée de la volonté libre et éclairée des gouvernements italiens, à leur offrir notre appui moral et notre concours empressé pour le développement de leurs ressources et de leur prospérité, l'Autriche est aussi fermement décidée à user de tout son pouvoir pour repousser toute agression injuste de quel côté qu'elle vienne, et pour concourir à faire avorter, partout où s'étend sa sphère d'action, les tentatives des artisans de troubles et fauteurs de l'anarchie.

Je vous charge, Monsieur, de donner communication de cette dépêche à M et de me rendre compte des explications que vous en obtiendrez en retour.

Signé BUOL.


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CAPITOLO IV

Sulla necessità per l'Europa di porre una fine all’agitazione italiana.

Vi hanno nella storia della questione dOriente la quale, ciò sia detto per parentesi, ha una grande analogia con la questione italiana, e nel modo come essa è stata considerata, trattata e sciolta, due gravi ommissioni o reticenze, che sono 1.° l’azione perturbatrice, che ha esercitato sullo sviluppo e sulla soluzione della detta questione, sotto l’egemonia sardo—piemontese, l’agitazione italiana, e 2 la parte che ha avuto l'Austria all'esito della guerra d’Oriente. Egli è della massima importanza in riguardo alla questione italiana di riempiere questi vuoti, e di chiarire i prefatti due punti. Se non m’inganno, chiariti che essi fossero, non resterebbe verun dubbio, essere del dovere e del decoro delle grandi potenze Europee di porre una fine alla detta agitazione e alla detta egemonia, che assieme costituiscono nell’Europa un’anomalia, che vi mette l’intiero suo diritto pubblico in forse.

Chiunque abbia seguito con attenzione nelle di lei fasi la questione d'Oriente si sarà convinto, che nessuna delle cinque grandi potenze Europee, e la Russia non più delle altre, vole va la guerra, e che quanto all’Impero turco, esso non solo non poteva volerla o desiderarla, ma aveva ogni motivo di sommamente temerla. Eppure è stato esso che l’ha iniziata e che vi ha strascinato sec|o, per quanto i rispettivi gabinetti vi ripugnassero, la Francia e l’Inghilterra. Si vuole, essere stato Lord Strafford de Redcliffe, l'ambasciatore in quel tempo inglese a Costantinopoli, l’autore principale della consulta, la quale spinse la Porta a rigettar la nota viennese, che conteneva un aggiustamento già accettato dalla Russia, e a dichiarare a questa il giorno 4 ottobre 1853 la guerra senza minimamente curarsi di ciò, che facevasi altrove nel di lei interesse e a di loi protezione da tutte le grandi potenze Europee. Egli è però certo che quel diplomatico fece tutto ciò contro gli ordini, le istruzioni e le intenzioni del suo ministero, e che senza i rivoluzionarj, i quali dopo la guerra del 1849, e poi ai primo sentore delle differenze insorte fra la Russie e la Porta ripararono a stormi nella Turchia, e vi fanatizzarono il popolo musulmano, Lord Redcliffe non avrebbe trovato le menti e gli animi disposti a cedere ai suoi impulsi (48).

Ed è d’altronde innegabile che, se la Francia e l'Inghilterra non si unirono alle duo potenze allemane, all'Austria e alla Prussia per forzare la Porta ad accettare le proposte contenute nella nota viennese, e invece si associarono a questa nella guerra che già ardeva contro la Russia, ciò proveniva unicamente dal che anch'esse avevano un pubblico dalla stampa rivoluzionaria fanatizzato, e perché neppure esse trovavansi in istato di signoreggiar la loro situazione, che le precipitò a loro dispetto in una guerra, della quale, come il seguito l’ha provato, non conoscevano né il peso né la portata, e senza che sapessero né come la si dovesse condurre, né come la si potrebbe finire. L’Austria, la Prussia e la Confederazione Germanica non cedettero alla pressione rivoluzionaria; ma la prima si trovò allacciala alla Russia da relazioni dalle quali non seppe o non potè sciogliersi, e che la indussero a prendere il peggior partito di tutti, quello cioè di non prenderne nessuno, e d rinunciare in un certo modo, per quanto il momento fosse critico per l'Europa e per la Germania, alle funzioni di grande potenza Europea, e questo mal esempio seguendo, fece lo stesso anche la Confederazione Germanica.

L’Austria invece, ancorché la sua situazione fosse senza confronto la più complicata e la più minacciala di tutte, fece, grazie al profondo seno politico, e all’imperturbabile dominio di sé stesso del suo nobile, generoso e cavalleresco giovine Imperatore: qualità queste da fare il più grande onore a qualunque più mature uomo di Stato, rimpetto all'Europa in riguardo alla questione d’Oriente il suo dovere di mediatrice con in una mano l’olivo, e nell’altra la spada, e lo fece ancorché non potesse non provare il massimo ribrezzo di associarsi ad una causa la quale, per quanto la fosse conservativa, ed eminentemente Europea, era però divenuta, con lo scopo più abbominevole, la causa anche dei rivoluzionari in generale e dei rivoluzionari italiani in particolare, ai quali ultimi nulla stava nella questione d’Oriente più a cuore, che di dar altrove tanta occupazione all’Austria, che dovesse abbandonare il regno Lombardo—Veneto a sé stesso onde, appena lo si vedesse senza sufficiente presidio, invaderlo, farlo insorgere e fonderlo, come nel 1848, col Piemonte. Essa fece il suo dovere, ancorché l’agitazione italiana e l’altitudine sempre ostilissima del regno Sardo—piemontese divertissero una considerevole parte delle sue forze e indebolissero la sua azione. Senza questo incidente appena puossi dubitare che essa avrebbe impedita la guerra d’Oriente, la quale, se non avesse fatto altro male, ha fatto quello immenso di sconcertare da capo a fondo il concerto Europeo, e di mettere l’Europa nella dura necessità di cercar a combinare nuovi accordi e concerti politici. La storia ha intieramente trasandata, sia per non conoscerla sia per cortigianeria verso i rivoluzionarj, la perturbazione che ha sofferto il corso e lo sviluppo naturale della questione d’Oriente per parte dell’agitazione italiana, e del regno Sardo—piemontese, coi sospendere, paralizzare ed indebolire l’azione mediatrice dell’Austria. Or si dimanda, se non sia necessario d’impedire simili perturbazioni, e di prevenirle per non aver poi a combatterle, quando si potrebbe non esser più a tempo di farlo. Discutiamo queste domande, e rispondiamoci.

Ho qualificate nella introduzione di questo capitolo l'agitazione italiana e l’egemonia sardo—piemontese anomalie che mettono tutto il diritto pubblico Europeo in questione. Nella tornata degli 8| aprile del Congresso di Parigi 1856, che è quella nella quale si è parlato di cose italiane, e stato fatto replicatamente uso della parola anomalo. Anomalo è stato detto il regno Elleno; anomalo lo Stato pontificio. La parola vi si è sempre usala nel significato, che uno Stato anomalo è una spezie di scandalo politico, che il concerto Europeo è in dovere al più presto fia possibile di togliere. — Ma quale Stato saprebbe essere più anomalo, più uno scandalo politico di quello il quale si crea la missione di prestar soccorso ad ogni ribellione che accade in uno Stato limitrofo, ancorché si ritrovi con esso lui sul piede di una profonda pace; che si credo chiamalo a censurare, discreditare, calunniare i governi suoi connazionali; di aizzarvi contro con accuse falsissime le potenze occidentali; che riproduce in sé l’uomo del Vangelo colla trave nell’occhio, della quale non si accorge, mentre vede la pa gliuccia nell’occhio del suo prossimo, e ne mena il più gran rumore: uno Stato ove non solo colla stampa più infame, ma fin dalla tribuna si predica... Ma basta! Si! non vi ha oggidì in Europa stato più anomalo, più perturbatore della di lei pace e sicurezza del regno Sardo—piemontese. l'Europa, dacché è cristiana, non ha presentato niente di si anomalo nei suoi stati. Eppure il concerto Europeo lo soffre!! (49).

Allorché nel 1854 le potenze occidentali si preparavano a soccorrere la Porta nella di lei guerra colla Russia, il regno Elleno, il fatto è certo, mandava segretamente uffiziali e soldati in soccorso dei Cristiani insorti contra i Turchi nell’Epiro, nella Tessaglia e nella Macedonia. L’impero turco non apparteneva ancora al concerto Europeo; non aveva ancora data veruna fondata speranza, che rimedierebbe radicalmente alla deplorabile condizione dei suoi sudditi cristiani; esso aveva rigettata la nota viennese; quelle genti erano realmente infelicissime; la loro sorte era sotto ogni aspetto deplorabile; dessa non era per nulla la commedia con la maschera della tragedia dell’infelicità italiana; esse vantavano i più giusti titoli alle simpatie dell’Europa, la quale sino allora aveva sempre considerate le insurrezioni greche come legittime (50).

Il regno Elleno era nna recente creazione delle potenze occidentali di concerto con la Russia. L’iniziativa vi aveva preso non la Russia ma, durante il ministero Canning in luglio del 1827, l'Inghilterra. Fu nna flotta anglo—francese—russa, che il giorno 20 ottobre dello stesso anno distrusse, a difesa e protezione dei Greci, nel porto di Navarino la flotta turco—egizia; fu un esercito francese che tolse o fini di togliere la Morea alla Porta; e furono la Francia, l’Inghilterra e la Russia che nella conferenza di Londra dei 22 marzo 182si accordarono a staccar dall’Impero turco quel complesso di continente di penisole e d’isole che costituiscono oggidì il detto regno il quale evidentemente non potè aver verun altro scopo, se pur n’ebbe uno, che di servire ai futuri tentativi di emancipazione della penisola greca, di base e di appoggio.

Ciò non ostante, a fronte di tutto ciò, appena alzò all'annunzio della summenzionata insurrezione la Porta il grido: Ajuto, soccorso che gli Alleati affrettaronsi di sbarcare con tre mila uomini Ira Francesi e Inglesi al Pireo, (25 maggio 1854) occuparono Atene; e intimarono, a rigor di termine, a spada tratta al Re Ottone di cangiar il suo ministero, e di richiamare senza remora, immediatamente, gli Uffiziali e soldati della sua truppa, che eransi messi alla testa o nelle file degli insorgenti. — Ora se il tentativo di quei Cristiani di emanciparsi da un governo decisamente barbare e tirannico, era ribellione e se non era lecito di proteggerlo e di soccorrerlo ad uno stato, che non poteva aver altra destinazione che, come ho detto poco fa, di servire ad ogni siffatto tentativo di base e di appoggio: perché non sarebbe ribellione una insurrezione lombardo—veneta contro l’impero austriaco? perché non sarà un delitto di leso—diritto—pubblico il promoverla con delle speranze e anche delle promesse di soccorrerla? Vi risponde il Martens: «C’est sans doute se déclarer l’ennemi du genre humain que de tacher à exciter les peuples à la révolté en leur promettant secours (51).

» l'altitudine del regno Sardo—piemontese rimpetto all'Austria é non solo un delitto di leso—diritto—pubblico, ma un delitto di lesa—umanità. In chi sta la colpa della tragedia di Brescia? In Haynau? qual confusione d’idee!!

Dacché si tengono congressi non vi ha esempio che la conservazione di une Stato e la sua integrità divenisse l’oggetto di tante cure e cautele, di quanto divenne l'Impero turco al congresso di Parigi del 1856. Il settimo articolo del trattato di pace dei 30 marzo del detto anno dice:

«Leurs Majestés (L’imperatore dei Francesi, l’imperatore d’Austria, la Regina d’Inghilterra, il Re di Prussia, l’Imperatore di tutte le Russie, e il Re di Sardegna) — déclarent la sublime Porte admise à participer aux avantages du droit public et du concert Européen. Leurs Majestés s’engagent, chacune de son coté à respecter l’indépendance et l’intégrité territoriale de l’Empire Ottoman, garantissent en commun la stricte observation de cet engagement, et considéreront en conséquence, tout acte de nature à y porter atteinte comme une question d’intérêt général».

E l'ottavo: «— S’il survenait, entre la sublime Porte, et 1une ou plusieurs des autres Puissances signataires, un dissentiment qui menaçait le maintien de leurs relations, la Sublime Porte et chacune de ces Puissances, avant de recourir à l'emploi de la force, mettront les autres Parties contractantes en mesure de provenir cette extrémité par leur action médiatrice».

Chi non crederebbe che ciò avesse dovuto bastare a tranquillizzare il congresso in riguardo alla sicurezza e all'integrità dell’Impero turco, il quale trovavasi in seguito al detto trattato posto sotto la guarentigia di tutte le cinque grandi potenze Europee non esclusa la Russia, e per soprappiù che direbbe Napoleone, il quale non si dava pace al vedere fra i rappresentanti delle grandi potenze Europee che lo accompagnavano nel suo viaggio all'isola d’Elba, anche il rappresentante della Prussia la quale pur conta per tre Sardegna? anche sotto quella della Sardegna. Ma no, quei due articoli furono dalla Francia, dall’Inghilterra e dall’Austria giudicati insufficienti, e queste tre potenze si unirono separatamente in un’alleanza di garanzia del trattato dei 30 marzo, e segnarono il famoso trattato dei 15 aprile concepito nei seguenti termini:

«— Sa Majestà l'Empereur des Français, Sa Majestà l’Empereur d’Autriche et Sa Majestà la Reine du Royaume Uni de la Grande—Bretagne et d’Irlande voulant régler entre elles l’action combinée qu’entrenerait, de leur part, toute infraction aux stipulations de la paix de Paris, ont nommée à cet effet, pour leurs Plénipotentiaires, savoir; le comte Colonna Walewski, le comte Boul—Schauenstein et le baron de Hübner, le comte de Clarendon et le baron Cowley, lesquels sont convenus des articles suivants:

«Article 1. — Les hautes Parties contractantes garantissent solidairement entre elles l’indépendance et l’intégrité de l’Empire Ottoman, consacrées par le traité conclu à Paris le 30 mars 1856.

«Article 2. — Toute infraction aux stipulations du dit traité sera considérée, par les Puissances signataires du présent traité, comme «casus belli». Elles s’entendront avec la Sublime Porte sur les mesures devenons nécessaires, et détermineront sans retard, l’emploi à faire de leurs forces militaires et navales.

«Articles 3. — Le présent traité sera ratifié, et les ratifications en seront échangées dans l’espace de quinze jours, ou plus—tôt s’il est possible. En foi de quoi etc. Fait à Paris le 15.° jour du mois d’avril 1856».

Questo trattato dei 15 aprile fu uno degli avvenimenti relativamente alla questione d’Oriente che più diedero a pensare al pubblico politico, e vi hanno sul di lui significato e sulla di lui portata le più svariate interpretazioni. Per comprenderne il senso e spiegarne il bisogno, convien ricorrere alla storia della guerra d’Oriente, e indagarvela parte ch’ebbe l’Austria nella di lei decisione in favore della causa Europea, ciocché non si tarderà a fare. Pur credo di esser già ora autorizzato a osservare, che tutte queste garanzie a protezione dell’Impero turco non saprebbero assicurarlo, e rimarranno illusorie, sino a tanto che uno stato limitrofo con le sue macchinazioni potrà fare nna guerra, se anche Borda, però continua alla potenza che producendosi il casus belli» avrebbe la prima a correre alle armi, e a misurarsi col gigante, contro del quale si crede di dover prender tante cautele. come potrebbe l’Austria invilupparsi in una guerra colla Russia o altra potenza, che il trattato di pace dei 30 mono 1856 e quello di garanzia dei 15 aprile del detto anno le imporrebbero, finché sta in balia di uno Stato, che è il flagello di sé stesso e degli Stati italiani i quali hanno la disgrazia di averlo per vicino, di paralizzarne, collegandosi con l'agitazione italiana, l’azione? Non si parti di equilibrio politico finché si lascerà durare una siffatta anomalie.

Su questa azione perturbatrice che esercita sul1equilibrio politico Europeo l’agitazione italiana sotte l'egemonia sardo—piemontese, ci resta non poco ancora a dire; lo diremo più tardi; per ora ricorriamo alla storia della guerra d’Oriente, onde indagare la parte che si ebbe l’Austria nella di lei decisione. Tre sono i momenti dei quali dobbiamo occuparci. Il 1. è la condizione dell’Impero turco nei primordii della guerra relativamente ai suoi cristiani di rito greco, ai Serbi, ai Montenegrini, e agli Elleni, il 2.° Io sgombro per parte dell’armata russa dei Principali danubiani, e la loro occupazione per parte di un corpo d’armata austriaco; il 3. la diversione effettuata dall’Austria in vantaggio della guerra nella Crimea.

I. La guerra fra la Porta e la Russia era appena incominciata, che si rendeva ad ogni intelletto sano e riflessivo chiaro e manifesto, che la prima vi si era lanciata a occhi chiusi senza vederne i pericoli. Le popolazioni cristiane di rito greco di lei suddite, una volta venute a conoscere, ciò che era inevitabile, la cagione e il motivo delle differenze insorte fra la Porta e la Russia, e che vi si trattava di un patronato che desse a questa un titolo legale di migliorar la loro infelicissima sorte, e di alleggerir loro il peso della schiavitù sotto alla quale gemevano, e di porti nel caso di poter esser liberamente cristiani, le dette popolazioni, dico, dovevano necessariamente vedere nello Czar il loro liberatore e disporsi ad insorgere contro i Turchi subito che seppero, che un’armata russa si avvicinava al Danubio. Per quelle genti il riconoscimento per parte del Sultano del patronato voluto dalla Russia era la cosa più indifferente del mondo. Il male che poteva fare quel patronato, se ammesso formalmente, lo fece già l’annuncio di essere stato addimandato. Appena si seppe che la guerra era dichiarala, ché una incredibile irrequietezza s'impadronì dei cristiani di rito greco in tutta la Turchia; cercavano armi e munizioni, prendevano delle misure per mettere le loro famiglie in salvo.

Contro questo pericolo, che trattandosi di cinque milioni di sudditi, i quali insorgendo non avevano nulla a perdere e tutto a guadagnare, e avrebbero resa ogni difesa sia dei Danubio sia del Balcan impossibile, era un pericolo estremo; la Porta non prese che delle messe misure, se pur ne prese. l’interno dell’Impero fu poco men che affatto sguarnito di trappe. Si occupò fortificò Kalafat sulla sinistra del Danubio in faccia a Widdino per impedire ai Russi di venire a contatto coi Serbi, e si addunarono, a difesa di quella specie di testa di ponte e di quella piazza, fra i 25 ai 30 mila uomini. Senonché vi si impiegarono anche le trop pe che guardavano l’alta Bulgaria, provincia, fuorché nelle città, tutta cristiana, contro i Serbi, i quali preparavansi ad entrarvi, ed a sollevarla. La guerra prese nella piccola Valacchia e sul Danubio un andamento per la Porta vantaggioso in quanto, che essa diede a divedere non solo molto valore nella truppa, ma anche molte intelligenza nei capi e particolarmente nel Generalissimo dell’esercito turco, Omer Pashà; ma essa non cangiò nulla nella condizione dell’Impero relativamente e quel pericolo che era il maggiore fra tutti quelli che allora lo minacciavano, e non allontanava in verun modo la spada di Damocle che pendeva da un filo tenuissimo sovra di esso. A che giovavano delle misure per tener i Russi lontani dai Serin, se non se ne prendevano anche per tener i Serbi lontani dai Russi?

Il pericolo grande ed estremo per sé stesso di una sollevazione generale dei Cristiani diveniva irreparabile per la circostanza, che nei Serbi e nei Montenegrini loro correligionarj sudditi vassalli ma emancipali, e negli Elleni loro correligionarj anch’essi, ma affatto indipendenti, il partito russe era divenuto incoercible, e del tutto predominante. La Servia non ba che un milione di abitanti, ma ogni uomo capace di portar le armi vi è soldato, e soldato dalla sua infanzia. Il numero dei coscritti per la milizia ammontava a cento mila uomini, ripartiti in quattro distretti militari; tutte quella gente era completamente armata o provveduta anche di uffiziali; e già se ne estraevano 50 mila uomini per metterli sul piede di guerra e già vi avea un corpo di osservazione sul Timoc, e un altro sulla strada di Nissa. Il governo già disponevasi ad abbandonare con le casse, col tesoro con le cancellerie Belgrado. La guerra era imminente. — Chi l’impedì, chi vi si oppose? Chi fermà quel popolo di guerrieri? — Lo fermò l’Austria che il giorno 6 febbrajo 1855 gl’intimò nel modo più solenne categorico che ogni atto ostile che esso si permettesse contro l’Impero turco, sarebbe per essa il segnale di passare con un corpo di armata la Sava. Diffatti già ne adunava uno nella Womodina, e già i suoi reggimenti detti di frontiere «Grànzrégimenters» stavano in pronto per passare quel fiume al primo cenno, che loro venisse dato. — E come i Serbi, cosi erano i Montenegrini sul punto di entrare nell’Erzegovina di sollevarvi i Cristiani; essi erano appena sortiti per mezzo dell’Austria da una guerra colla Porta, che li minacciava di un totale esterminio a patti moderati. Cionondimeno la difficoltà di fermarli non fu minore di quelle che vi volle per fermare i Serbi. Alcune poche parole che loro aveva indirizzate il loro Principe forai a questo 6 mila volontarj, che giurarono di seguirlo in quella guerra santa, come essi la chiamavano. L’Austria raddoppiò e triplice i presidj di Ragusa e di Cattaro; si armarono anche i Turchi nella Bosnia e nell’Albania. Alla fine si acquietarono, e rimasero a casa; ma non si sarebbero acquietati, se non si fossero acquietati i Serbi.


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Per comprendere e misurare tutta la portata dell’intervento austriaco in favore della Porta, o per dir meglio della causa Europea, che qui si è considerato, basta pensare a ciò che avvenne nell’Epiro e nella Tessaglia, ove una mano di Elleni riuscirono a far insorgere l’intiera popolazione cristiana in pochissimi giorni, e a forzar la popolazione turca a ricoverarsi nelle città o nei luoghi fortificati. Costantinopoli ne fu spaventata. L’occupazione di Atene per parte dei Francesi e degl’Inglesi non ebbe luogo se non li 25 maggio 1854, tre mesi e mezzo dopo la protesta intimala dall’Austria alla Servia; prova la più convincente, che neppur le potenze alleate conoscevano appieno la condizione più che critica nella quale trovavasi l’Impero turco in riguardo ai suoi cristiani, e che neppur esse avevano nna chiara idea dei pericoli che quella guerra accompagnavano. Non si sa cosa pensare e mena ancora casa dire, quando si leggono i lamenti del maresciallo Saint—Arnaud contro l'inazione dell’Austria, e si considerò il timore che le dimostrazioni armate di essa lungo tutta la frontiera austriaco—turca dalle Bocche di Cattaro a Belgrado cagionavano a Londra e a Parigi, fossero dei patti preliminari predisponenti per una spartizione dalla Turchia fra l'Austria e la Russie. L’insurrezione nelle suddette due provincie, vedendo la sua causa avversata da quelle due potentissime nazioni, che nel 1827 avevano rivalizzato con la Russia di simpatia per essa, e sopratutto, che in Servia ed il Montenegro non si moveano, si sbandò, non senza aver dato nei diversi scontri che essa ebbe coi—Turchi grandi prove di coraggio. Fortunato chi potè salvar sé e la sua famiglia in luoghi remoti nei monti e nei boschi, il tutto fu un deplorabile grande disastro, che avrebbe potuto e dovuto prevenirsi ed impedirsi. — Non devo tralasciar di ricordare la circostanza importantissima die, pervenuta all’esercito di Omer—Pashà la notizia della sollevazione dell’Epiro e della Tessaglia, i soldati turchi di quelle provincie abbandonarono a migliaja le loro bandiere per correre in ajuto dei loro confratelli che si difendevano alla meglio che potevano contro i Cristiani, dimodoché qualora la sollevazione nell’interno si fosse estesa anche alla Bulgaria, e alla Rutelia e a tutte le provincie confinanti con la Servia e col Montenegro, l’esercito turco, che sotto Omer—Pashà difendeva il Danubio, avrebbe cessato di esistere. La questione d’Oriente sarebbesi allora sciolta non dagli Alleati, ma dai sollevati; l’Impero turco sarebbe divenuto una provincia rossa. Per rimediare al male di una tale soluzione della questione che avrebbe messo l’Europa in una peggior condizione che non era quella nella quale la si trovava dal 1810 al 1812, si sarebbe resa necessaria una guerra su di una scala due o tre volte maggiore di quella che fece Napoleone alla Spagna. Egli è l’imperatore d'Austria, Francesco—Giuseppe che sprezzando i clamori dei rivoluzionarj e del volgo politico, ha risparmiato una siffatta guerra all’Europa. La frontiera austriaco—turca dalle Bocche di Cattaro sino a Belgrado misura 110 leghe geografiche di 15 al grado; l’Austria vi avea durante la guerra d’Oriente più di 80 mila uomini. Le spese di quell’intervento furono immense.

Di tutti i fatti che hanno avuto luogo per la soluzione della questione d’Oriente, il più grave, il più decisivo, ancorché la sua importanza fosse puramente negativa, fu quello del quale ora si è parlato. Esso spiega e giustifica da sé solo il trattalo di garanzia dei 15 aprile 1856. La storia lo ha appena accennato e la di lui portata è rimasta del tutto inosservata (52).

II. L’imperatore Niccolò aveva prestato all’Austria nella guerra ungherese del 184un grandioso, validissimo, decisivo, magnanimo soccorso, pel quale il di lei Imperatore e con esso ogni vero Austriaco gli professava la più viva gratitudine e si credeva in debito di professargliela. Ma la gratitudine, qualunque ne sia il grado e l'intensità, non saprebbe mai obbligare alla dimenticanza dei propri doveri né ad una bassa connivenza o adesione; la gratitudine dell’Austria verso la Russia non poteva e non doveva farle mettere da canto lo funzioni ed i doveri di potenza Europea e della sua missione in riguardo all'equilibrio politico. il soccorso prestatole non poteva divenire un debito da scontarsi con degli atti che compromettevano la dignità, il decoro e la sicurezza della Monarchie. Ciò che aveva fatto la Russie per l'Austria nel 1849, l'Austria l’avere fatto nel 1813 dopo la battaglia di Baulzen per la Russia, e per la Prussia, nel 1809 per la Spagna, e nel 1805 per l'Inghilterra. La Russia non fece nel 1849 se non che il suo dovere come grande potenza Europea, e non altro se non ciò che le doveva dettare, e che certamente le dettò il proprio interesse. Il disordinamento dell’Europa non poteva mai esserle indifferente.

Partendo da questi riflessi, l'Austria, la quale ebbe l’opportunità di convincersi, che la Russia tentava, basandolo suite disposizioni delle popolazioni cristiane di rito greco suddite della Porta e su quella dei Serbi, dei Montenegrini e degli Elleni, un gran colpo, si sarebbe già in novembre del 1853 associata alle due potenze occidentali, se non avesse dovuto impiegare oltre a quelle truppe che erano postate rimpetto al confine turco, anche un’armata a guardia del suo regno Lombardo—Veneto. Senza questo inciampo, poste alla di lei azione politica, l'Austria avrebbe fatto già in dicembre 1853 ciò che fece in dicembre 1854. La Russia a quel tempo si sarebbe contentata, che l'Austria facesse aperta professione di neutralità. Questa rispose sempre, che nella di lei qualità di grande potenza Europea non poteva rimanersi neutrale ogni qualvolta vedesse l’equilibrio politico minacciato, come lo minacciava l’occupazione per parte della Russia dei principati danubiani, e la guerra che essa faceva alla Porta sul Danubio; e fu al tempo che le fu fatto l'ultimo messaggio per averla se non alleata almeno neutrale, che essa intimò alla Servia il surriferito «ultimatum» del 6 febbrajo, il quale produsse sul gabinetto di Pietroburgo l’effetto di una grande battaglia perduta, che lo indusse e forzò a rinunciare al suo piano di guerra, ad abbandonare la piccola Vallacchia, e a trasportare la guerra dall’alto al basso Danubio.

Ma i Serbi, se anche stavansi quieti, non per questo avevano deposte le armi, né sciolto il loro esercito, che tenevano adunato sotto il pretesto di difender la loro neutralità. L’Austria aveva alla fine di febbrajo 1854 nella sola Woiwodina rimpetto ad essi 50 mila uomini ad un epoca che le potenze occidentali non avevano ancora neppur dichiarata alla Russia la guerra. Le popolazioni cristiane dell’Impero turco non cessavano, finché l’armata russa guerreggiava nei principati e sui Danubio, d’ispirare i più serj timori; dall’altro canto l’Austria non poteva veder con occhio tranquillo e indifferente ai confini della Transilvania, che pochi anni prima era stata messa dai rivoluzionarj tutta sottosopra, l'armata di Omer—Pasha ripiena di rinnegati e di elementi sovversivi ostili ad ogni ordine. Gli Alleati, la Porta e l’Austria ed anche la Prussia come potenza allemana cui stava a cuore, se non altro, la libertà del Danubio, avevano tutte più o mono un interesse d’indurre l’Imperatore Niccolò a ritirare le sue trappe dai Principati. Né ciò poteva esser per lui un sagrifizio, giacché, stante la circostanza che il nemico era padrone dei mare, la guerra sul Danubio contro le fortezze che vi avevano, non prometteva verun successo.

Non erano per altro questi i soli motivi, che facessero desiderare che l’armata russa abbandonasse i Principati. Si era d’accordo a Londra, a Parigi, a Vienna e a Costantinopoli, che per raggiungere il grande scopo di quella guerra, che doveva essere ed era di togliere all’azione enormemente preponderante della Russia sull’Impero turco parte della sua forza, e produrvi una spezie di equilibrio, conveniva impadronirsi di Sebastopoli, e distruggervi non solo la flotta che vi avea, e che era il terrore di Costantinopoli e della Turchia, ma anche tutti gli stabilimenti marittimi. Se non che non si poteva pensar alla spedizione nella Crimea finché i Rossi minacciavano, standosi nei Principal il cuore dell'Impero turco; e che non si avevano i mezzi di fare contemporaneamente l’uno e l’altro. Qui conveniva incominciare col proseguire la guerra nei Principali, la quale diveniva per gli Alleati, che avrebbero dovuto allontanarsi dalle loro flotte, una guerra, indipendentemente dall’insalubrità del paese, ardua al massimo segno, e dedicarvi un anno. Ma che sarebbe frattanto divenuta la Crimea, che Sebastopoli?

In seguito a questi riflessi, la Francia, l’Inghilterra e la Prussia concertarono con l’Austria una convenzione tra questa e la Porta in termina tali, che la Russia ne tirasse la conclusione di dover abbandonare i Principali, se pur non voleva che l’Austria accedesse definitivamente alla coalizione che già sussisteva contro di essa. La Porta aderì al progetto, e la convenzione fu segnata il giorno 14 giugne a Costantinopoli e ratificata il giorno 80 dello stesso mese a Vienna. In essa è detto:

«— Che l’Austria, riconoscendo che l’esistenza dell’Impero turco negli attuali suoi limiti era necessaria al mantenimento dell’equilibrio politico fra gli stati Europei, e che segnatamente lo sgombro dei Principati danubiani era usa condizione essenziale della dette di lui integrità s’impegna (s’engage) di esaurire tutti i mezzi in via di negoziazione diplomatica ed altri per ottenere lo sgombro dei Principati danubiani dall'armata straniera, che li occupa, e d’impiegare pur anche in caso di bisogno il numero necessario di truppe per raggiungere il detto scopo (53)».

I limiti entro i quali devo tenermi non mi permettono di dare la storia di queste trattative, né di quelle incamminate dall’Austria con la Prussia e con la Confederazione germanica, per essere soccorsa dalle due potenze, in caso che la Russia si rivolgesse col nerbo delle sue forze contro di essa; per noi basta il fatto che la Russia alla fine abbandonò i Principati, e che l’Austria li occupò con forze sufficienti per difenderli; che i timori che ispiravano i Cristiani dell’Impero turco, e i Serbi, e i Montenegrini cessarono; che la spedizione nella Crimea potè farsi e si fece, ma che non la si sarebbe potuto fare se non un anno più tardi, se pur vi si arrivava a tempo, se l’Austria non s’incaricava dello sgombramento, dell’occupazione e della difesa dei Principati; e finalmente, che con la detta occupazione divenne disponibile per la spedizione della Crimea non solo l'armata inglese e francese, ma anche parte dell’armata turca, poiché vi aveano nella detta penisola, alla fine d'aprile 1855, 40000 Turchi, e molto di più nell’Asia, ove senza i soccorsi che vi vennero dal Danubio l’esercito turco appena sarebbe stato nel caso di tener la campagna. La Storia ha bensì parlato dell’occupazione dei Principati danubiani per parte dell’Austria e le ha anche assegnato qualche importanza; ma non ne ha riconosciuto tutta la portata né tutto il suo merito che consistette nell'accelerare almeno di un anno la pace.

L’Austria non fece mai un mistero della sua politica, relativamente alla questione d’Oriente coll’Imperatore Niccolò. La di lei condotta non fu mai ambigua. Essa aveva nei primi mesi del 1854, innanzi che le Potenze occidentali dichiarassero la guerra alla Russia, 80 mila uomini sotto le armi pronti ad agire per la causa Europea. Fu essa, non si saprebbe troppo dirlo, che fermo l’impulso che dovevasi dare dai Serbi, dai Montenegrini e dagli Elleni ad una generale insurrezione dei Cristiani sudditi della Porta. Non fermò quello che vi diedero nell’Epiro e nella Tessaglia gli Elleni, perché non fu a portata di farlo. Quella insurrezione, se l’Austria non l’avesse impedita, avrebbe Ira s porta la in un pajo di mesi la guerra dalle rive del Danubio ai sobborghi di Costantinopoli. l’Imperatore Niccolò non poteva disfarsi dell’idea, che l’Austria dopo il 184non potesse aver altra politica che h sua. Una delle domande, che il conte Orloff fece in gennajo 1854 al gabinetto di Vienna, era il libera passaggio di un corpo di truppe russe per la Servia (54).

Pur troppo volle esso proseguire la sua guerra sul Danubio, alla quale egli dava, il più che fosse possibile, il carattere di una guerra di emancipazione politica e religiosa. Non fu che la convenzione dei 14 giugno con la Porta che finalmente lo disingannò; non fu se non allora che quel Monarca si persuase, aver l'Austria definitivamente adottata una politica indipendente, in opposizione alla sua. Né tardò esso ad adunare delle truppe ai confini della Polonia. L’Austria fece lo stesso ai confini della Galizia e della Bucovina. Negli ultimi mesi del 1854 vi aveano 100 mila Russi, e 100 mila Austriaci in quei paesi in guardia gli uni contro gli altri.

Ma anche l’agitazione italiana e il ministero Sardo—piemontese non volevano credere, che l’Austria potesse slegarsi dalla Russia, e stavano sempre ancora attendendo con ansietà una guerra, nella quale fossero da una parte le Potenze occidentali coll’Impero turco e dell’altra la Russia con l’Austria, quando a loro grande sconforto comparve la convenzione dei 14 giugno che dissipò le loro speranze. Ma l’Imperatore dei Francesi che rendeva piena giustizia alla politica canta e circospetta dell’Austria dichiarò che esso non permetterebbe in verun caso che la pace d'Italia venisse turbata (55).

Questa dichiarazione spianò la via al trattato di alleanza dell'Austria con la Francia e con l'Inghilterra dei 2 dicembre 1854, lo scopo del quale era non già di |aggiungere materiali all'incendio, quanto di arrivare al più presto che fosse possibile ad una solida e durevole pace. Questo trattato portà più grande abbattimento e la disperazione nel campo dell'agitazione italiana, e nel Ministero Sardo—piemontese. Ma ecco porgersi l'occasione di ravvivare gli animi. L’Inghilterra cercava, come altrove è stato detto, soldati per la guerra nella Crimea, ed aveva la massima difficoltà di trovarne. Il Ministero sardo—piemontese gliene offri un quindici mila coi patio che la Sardegna venisse accettata qual quarta potenza nell’alleanza francese—inglese—turca, che faceva la guerra alla Russia; ciocché gli fu accordato col trattato dei gennajo 1855. L’agitazione italiana ne tripudiò. Essa già vedeva alla prima guerra, che la farebbe all'Austria, accorrere ambedue le Potenze occidentali, per terra e per mare e ajutarla e finirla una volta coll'abborrito Tedesco. Il Ministero Sardo—piemontese tentò, appena firmato il surriferito trattato di alleanza, d'indurre le due potenze ad interporsi presso l’Austria, acciò essa levasse il sequestro che aveva messo sui beni degli emigrati lombardi, domanda che però non ottenne verun ascolto. Il detto trattato che costò al regno Sardo—piemontese 80 milioni di franchi oltre ad un migliajo e più di ottimi soldati, che ebbero miserabilmente a morire, con l’eccezione di un centinajo poco più, negli ospitali di Balaclava e di Costantinopoli, non fruttò al detto regno se non se l’onore, certamente grande, di aver anch’esso due rappresentanti al congresso di Parigi (56).

Il Presidente del detto Ministero volendd0scuare d’essersi immischiato con si poco frotte nella guerra d'Oriente, disse nella Camara dei Deputati Sardo—piemontesi le memorande parole: «che ciò si era fatto nella speranza che quella guerra prenderebbe delle dimensioni molto maggiori di quelle che aveva prese, motivo certamente mai ancora messo in campo da verun Stato cristiano per giustificare una guerra (57)».

I Russi ch’ebbero nella prima settimana di agosto l’ordine dal loro Imperatore di abbandonare diffinitivamente ambidue i Principati danubiani, ne sortirono e ripassarono il Pruth. L’occupazione dei detti Principati per parte degli Austriaci ebbe luogo per qualche tempo assieme coll’esercito turco. Questo passò poi la parte nella Crimea, in parte nell’Asia dimodoché 1occapazione dei Principati per parte dell’Austria valse agli Alleati nella Crimea un rinforzo di 40 mila Turchi, e all’armata turca nell’Asia, che ne aveva il più grande bisogno, un rinforzo ancora maggiore.

III. Siamo al terzo momento della guerra d’Oriente, alla guerra che gli Alleati fecero nella Crimea. La spedizione nella dette penisola trasportava la guerra degli Alleati ad una delle estremità della Russie, quindi alla massima distanza dal centro della sua possanza; permetteva agli Alleati la cooperazione delle loro flotte; faciliterà loro in sommo grado l’approvvigionamento delle loro armate, e l’arrivo dei soccorsi; riduceva la guerra ad nna delle sue forme più semplici, ad un assedio e alla di lui protezione contro l'armata nemica che tenterebbe di farlo levare; aveva un campo di battaglia per la sua conformazione topografica facilissimo a rendersi inespugnabile, e che inchiude due porti di mare ambidue anch’essi facili a fortificarsi a convertirai in piazze darmi, ove in caso di non perduta battaglia potersi rimbarcare, oppure aspettarvi rinforzi per ricominciare le operazioni. Ciò nondimeno fu ivi la guerra una lotta dal principio alla fine dubbia ed incerta. La detta guerra può per noi riassumersi nei seguenti fatti: 1.° che i Russi furono sempre in tutte le battaglie, che vi si sono date, in una decisa numerica inferiorità, 2.° che nulladimeno gli Alleati avrebbero, se le loro trappe non avessero fatto mostra di un valore più che eroico, avuto nei combattimenti più importanti e più decisivi la peggio, se i Russi avessero avuto un quaranta in cinquanta mila uomini di più; 3. che questi quaranta in cinquanta mila uomini di più si avrebbero avuti, se non fossero stati ritenuti dagli Austriaci ai confini della Polonia, e quindi 4.° che senza l’Austria la spedizione della Crimea né si sarebbe potuto fare, né, se la si faceva, avrebbe avuto il successo che ebbe.

Gli Alleati sbarcarono senza opposizione sullo coste della Crimea a mezza strada fra Eupatoria e Sebastopoli il giorno 14 settembre con 30000 Francesi, 22000 Inglesi e 7000 Turchi, in tutto 59000 uomini. La flotta componevasi di 34 vascelli di linea e 50 altri bastimenti a vapore e 80 bastimenti di trasporto. Gli Alleati marciando verso Sebastopoli incontrarono il giorno 20 settembre, postata sul piccolo fiume detto l’Alma, occupando un altipiano che rapidamente discende verso quel fiumicello, un’armata di n on più che 35000 Russi, con 84 cannoni, sotto gli ordini del Principe Mentschikoff. La di lei posizione era fortissima contro un attacco di fronte, ma le ale non erano protette da verun ostacolo naturale. Difatti i Francesi ne assalirono l’ala sinistre con due intiere divisioni. La battaglia fu nondimeno contrastata durante quattro ore e più, ma andò finalmente perduta per i Russi. Gli Inglesi che assalirono la posizione di fronte fecero una perdita considerevole, tra morti e feriti 2000 uomini, e non fu di poco neppur quella dei Francesi, tra morti e feriti 1300.

Or questa battaglia, se attentamente considerata, non lascia verun dubbio, che i Russi malgrado la loro numerica inferiorità l’avrebbero guadagnata, e si sarebbero se non altro mantenuti nella posizione che occupavano, se il Principe Mentschikoff loro Generale avesse preso le misure, che la conformazione del campo di battaglia dettava. Fra la sua ala sinistra e il mare vi avea uno spazio di circa 4000 metri che a lui sembrava inaccessibile, e che rimase poco men che affatto sguarnito di truppe. Una intiera divisione francese con la sua artiglieria vi era non solo ascesa, ma già in piena marcia contro il suo fianco sinistro, ché egli sempre ancora si ostinava a non crederlo. Dieci mila uomini di più avrebbero bastato a rimediare a quel fatto, e ad impedirne le conseguenze.


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L’armata russa perdette Ira morti e feriti 4600 uomini ma nessun pezzo di artiglieria, e fece la sua ritirata con molto ordine. Gli Alleati, quantunque vi avessero ancora due ore di giorno, non la seguirono; passarono la notte sul campo di battaglia da essi conquistato, e vi si trattennero il giorno 21 e 22. Ai 23 si rimisero in marcia, girarono attorno Sebastopoli, e si trovarono fra l’armata russa e la piazza. Questa era quindi isolata. Ma non si fermarono, e continuarono la loro marcia sino a Balaclava e si postarono al Sud di Sebastopoli fra la Tsernaja e il mare. La loro marcia che durò quattro giorni fu stentatissima, ma senza essere minimamente dal nemico molestata. Questo parve scomparso del tutto, e aver abbandonata la penisola. Sebastopoli non aveva altre fortificazioni che una cinta di muro. Le opere che servirono a difenderla erano ancora da costruirsi. La guarnigione consisterà in quattro battaglioni di linea e in 20 mila marinai destinati al servizio dell’artiglieria, ed ai lavori di fortificazione. l’isolamento della piazza doveva esser il capo principale dell’impresa. Esso era col spontaneo allontanamento dell’armala rossa divenuto un fatto compiuto. Bastava fermarsi all’Est di Sebastopoli, e trincerarvisi. Ma gli Alleati si accinsero a quell’impresa senta forte sufficienti. Essi da sé riaprirono il passo all’armata russe, che non conterà che 30000 uomini presenti sotte le armi. L’impresa, che con forte sufficienti sarebbe stata facilissima, divenne difficilissima e piena di pericoli.

L’armata degli Alleati fu portate nella seconda metà di ottobre mediante un rinforzo di 18000 Francesi ad un effettivo di 72000 uomini. l’armata rossa ricevette il giorno 22 da Odessa una divisione d’infanteria forte tutt’al più di 10000 uomini. Il Principe Mentschikoff la lasciò riposare tre soli giorni, e già il giorno 25 ottobre se ne servi, aggiungendovi alcuni battaglioni d’infanteria e due reggimenti di cavalleria, per dare la battaglia di Balaclava. I Rossi riuscirono in essa a scacciar i Turchi da alcuni posti fortificati, e a malmenare terribilmente una brigata di cavalleria leggera inglese, che per on fatale malinteso fu mandata ad un vero macello; ma senza verun notevole risultamento. Frattanto arrivarono altre due divisioni d’infanteria, ambedue da Odessa. I Rossi avevano alla fine di ottobre 63000, gli Alleati 72000 uomini; quelli 20, questi 35 in 40 mila marinai. Il giorno 5 novembre ebbe luogo la battaglia d’Inkermann, la quale ha relativamente al nostro oggetto un particolar interesse.

Anche questa battaglia è di quei fatti storici che parlano, e si rettificano da sé. Nelle trincee e batterie di assedio stavano in guardia 25 mila Francesi. A destra era postata su di una linea nella direzione dal Nord al Sud che ripiegavasi alle due estremità in modo da formare un Z, l’armata degli Alleati occupando uno spazio di 12000 metri. I Turchi guardavano Balaclava alla estremità meridionale della detta posizione. Tanto questi che i Francesi avevano per maggior precauzione elevati nello spazio da essi occupalo dei trinceramenti; non cosi gl’Inglesi che occupavano l’estremità settentrionale prossima a Sebastopoli. Il piano di battaglia dei Rossi fa di assalire gl’Inglesi che ivi non avevano che dodicimila nomini, con forze molto superiori, e nell’istesso tempo di minacciare il centro e l’ala destra ove erano i Francesi, per tenerli fermi al loro posto, e impedir loro di soccorrere gl’lnglesi. Cinquemila uomini furono destinati a piombare sulle trincee e sulle batterie di assedio. I Russi che assalirono gl’lnglesi erano ripartiti in due colonne: una, la destra, sorti da Sebastopoli, l’altra venne da lnkermann; quella a destra doveva aggirare la loro ala sinistra e assalire di fronte, di fianco e alle spalle, l’altra era destinata ad assalire di fronte la loro ala destra. Ma la colonna destra non si estese quanto faceva d’uopo a dritta, e le due colonne per mancanza di spazio s’intralciarono. Ciò per altro non impedì, che gl’Inglesi si trovassero dai primi momenti nella più critica situazione. Essi combatterono come leoni, con un coraggio superiore ad ogni elogio, ma sarebbero, per poco che i Francesi avessero indugiato ad arrivare, stati dai Russi schiacciati. corpo di truppe, che doveva minacciare l’ala destra e il centro, era troppo debole, e pare anche che si fermasse in una troppo grande distanza per non dare ai generali francesi a divedere che il di lui incarico si limitava ad una semplice dimostrazione. Questi perciò non si Iasciarono trattenere un sol istante dal correre in ajuto degli Inglesi. I Russi, avanzando, esponevano il loro fianco sinistro, sul quale i Francesi si scagliarono al passo di corsa e lo investirono. Gl’Inglesi, che non avevano cessato di combattere, si riordinarono e ripresero l’offensiva. I Russi assaliti di fronte e di fianco dovettero fermarsi e poi cedere, e finalmente indietreggiare. Essi perdettero la battaglia, ma non l’avrebbero perduta, se avessero avuto venti in trenta mila uomini di più, vale a dire, se ad una pure dimostrazione contro il centro, avessero potuto sostituire un attacco risoluto, che avesse fermalo i Francesi al loro posto. Lo stesso e da dirsi dei cinquemila Russi che assalirono le trincee e le batterie dell’assedio. Essi incontrarono una grande resistenza, perdettero molta gente, e bastò una sola brigala francese per respingerli. Invece di cinque vi volevano per lo meno quindici mila uomini.

Donde proveniva questa insufficienza di forze? Quale n'era la causa o la ragione? Si porrebbe dire che ai Russi, a cagione delle grandi distanze mancasse il tempo di portarvi un maggior numero di soldati. Ma il vero è, che inferiorità numerica si rintraccia anche alla fine di aprile dell'anno susseguente, adunque sei mesi dopo l’arrivo degli Alleati nella dette penisola. A quell'epoca aveano i Russi a Sebastopoli 35000, nei contorni di esso 70000, al Nord di Eupatoria 15000, in tutto non più di 120,000 uomini, mentre l’armata degli Alleati si componeva di 76009. Francesi, 25000 Inglesi, 15000 Piemontesi, e 40000 Turchi, che sommavano 155000 uomini; sicché 35000 più dei Russi (58).

Né questa inferiorità numerica ha mai nell’armata russa cessato. I Francesi ricevettero nella seconda metà di maggio altri 22000 uomini fra i quali l’intiera divisione della guardia imperiale. Le grandi distanze, ciò è chiaro, non spiegano il caso in questione; esso doveva necessariamente provenire da altre cagioni.

La cagione, se non la sola, la principale della detta inferiorità fu, secondo quanto ne dissero in allora i giornali, e ne fu detto anche nella camera dei Pari d'Inghilterra da uno dei Ministri, la seguente armata russa aveva fatto nella guerra sul Danubio e nella basse Valacchia, paese estremamente malsano e nei tanti fatti d’armi, e in ispezialità nell'assedio di Silistria perdite immense. L’imperatore Niccolò per ripararvi ordinò una leva generale in tutto l’Impero, che fu eseguita col massimo rigore, e la quale forai parecchie centinaja di migliaja di reclute, che in grandi trasporti dovevano raggiungere i corpi d’armata per i quali erano destinate. Ma questi trasporti ebbero la disgrazia di venir colli durante la marcia da un freddo il più straordinario anche per la Russia; cosicché molti di quei giovani soldati vi perirono, molti anzi la maggior parte divennero inabili al servizio, non pochi disertarono. pochissimi arrivarono ai rispettivi loro reggimenti. Si direbbe che la Provvidenza non ha voluto che la causa Europea soggiacesse l’anno 1855 nella questione coll’Oriente, come non ha voluto che la soggiacesse nel 1813 nella questione coll’Occidente, e che la impiegasse la stessa spada sterminatrice contro la prepotenza russa, che fu da essa impiegata contro la prepotenza francese. Anche questo gran fatto è stato appena rimarcato dalla Storia sebbene sia anch’esso una delle principali condizioni dalle quali dipendette l’esito della guerra d’Oriente. Che sarebbe avvenuto, se nel 1855 i Russi fossero comparsi sul teatro della guerra con duecentomila uomini di più? Non si osa pensarvi.

Comunque ciò sia, resta va però sempre ancora l’armata che la Russia aveva nella Polonia contra l’Austria, la quale avrebbe certamente più che bastato, qualora avesse potuto porterai nella Crimea a rendere la continuazione dell’assedio di Sebastopoli impossibile. Ma essa non osò perder di vista l’armata austriaca. che stava in Galizia e nella Bucovina; non si mosse, e Sebastopoli cadde. E cosi è chiaro che l’Austria indirettamente, ma non per questo mono efficacemente, né meno essenzialmente, ha cooperato alla presa di Sebastopoli, è ciò con due elementi, uno positivo, vale a dire con le trappe di Omer—Paschà, che essa coll'occupare e presidiare i Principati rese disponibili per la Crimea, e uno negativo, col ritenere un’armata lontana da essa, che altrimenti si sarebbe aggiunta a quella che difendeva la detta piazza, e l’avrebbe raddoppiala.

Riepiloghiamo i fatti risguardanti la questione d’Oriente dalla Storia posti in non cale, che qui si sono da noi rintracciati, e vediamo ciò che essi insegnano. I fatti ridotti ai loro minimi termini sono, 1.° che senza l'Austria la guerra d’Oriente non solo non avrebbe impedita la caduta dell’Impero turco, ma l’avrebbe, col provocarvi l'insurrezione dei di lui Cristiani, accagionata ed accelerata; 2.° che qualora l’Austria non avesse occupati e presidiali i Principati danubiani, la spedizione della Crimea non avrebbe potuto aver luogo se non nella seconda metà dell’anno 1855; e l’armata di Omer—Pashà non sarebbe divenuta disponibile per altri teatri della guerra, cioè per la Crimea e per l’Asia; 3.° che senza l’Austria l’armata russa, ch’era in Polonia si sarebbe portata nella Crimea, e avrebbe resa la continuazione dell’assedio di Sebastopoli impossibile.

E che inseguano questi fatti? C’insegnano, che l’Austria come è stata alla fine del passato e nei primi Ire lustri del presente secolo una necessità nelle guerre condotte nell’interesse dell’equilibrio politico contro la Francia, la è stata anche una necessità nella guerra condotta nella stesso interesse ultimamente contro la Russia. Senza l’Austria l’Impero turco cadeva, la guerra prendeva un altro andamento, ad un altro carattere, ed aveva nu altro esito. Ciò che ha fatto l’Austria nissun’altra Potenza era nella situazione e nel caso di farlo e, come nelle precedenti, cosi,anche in questa guerra è dessa che ne ha portalo il maggior carico, e vi ba corso i maggiori pericoli. La pace dei 30 marzo 1856 ha, ciò non è da negarsi, ammegliorato essenzialmente e dirò sino radicalmente la condizione dell’Impero turco rimpetto alla Russia. Ma ha essa ammegliorato nel detto riguardo anche egualmente la condizione dell’Europa? Chi garantirà quella pace, chi è a portata, chi è in istato di garantirla? Basta gettare l’occhio su di nna caria geografica dell’Impero turco per convincersi che una vera, effettiva garanzia della pace dei 30 marzo non la saprebbe fornire che l’Austria. Ed ecco spiegato e giustificato il surriferito trattato del 15 aprile 1856. La Russia minaccia ancora come pel passato i Principati; non è che l'Austria che sia nel caso, se anche non d’impedirle l’entrarvi, di contrastarle il possesso; e non è che dessa che possa frapporsi fra i Russi e i Serbi, e impedirne la coalizione la quale, come è stato l'eventualità più pericolosa della guerra passata, lo sarà egualmente in ogni guerra che la Russia farà d’ora innanzi all’Impero turco. Se le potenze occidentali volevano che il detto trattato di pace avesse il suo effetto e divenisse una verità ed un fatto, ben conveniva che si rivolgessero all’Austria, e la inducessero ad associarsi ad esse.

Ma sarà poi l’Austria in istato di compiere gli obblighi che quel trattato le impone? Che farà il regno Sardo—piemontese, che l’agitazione italiana sotto la di lui egemonia, quando vedranno l’Austria impegnato in nna guerra con una potenza qual è la Russia, è nella necessità di postare cinquantamila uomini rim petto alla Servia altri venti in trentamila lungo la frontiere turco—dalmata e rimpetto ai Montenegro, una armata più forte ancora nella Transilvania, ed un’altra nella Galizia? La guerre dei 1848 e cosi quella del 184hanno richiesto, per potersi finirà, come le si sono finite, oltre a cento mila uomini. L’Austria non oserà mai, finché durano le mene rivoluzionarie in Italia, aver un minor numero di truppe nel regno Lombardo—veneto, e nelle vicine provincie a guardia di esso. L’agitazione Italiana, che sino al 1848 non era che una sconnessa associazione di settarj, è divenuta sotto l’egemonia del regno Sardo—piemontese una potenza rivoluzionaria che non vive che di speranze nefande. Questa potenza, se l’Europa vuol essere preparata all'avvenire che la minaccia, deve abbattersi; questo fomite di sconvolgimenti politici di ribellioni e di guerre deve farsi cessare.

La guerra con la Russie è stata vinta. Ma quanti fatti non hanno dovuto commettersi dai di lei generali, quanti di quelli commessi d’altra parte rimanersi inosservati e senza conseguenza, quante eventualità fuori di ogni calcolo prodursi, per vincerla? La Russie aveva già nel 1856 una popolazione di 70 milioni con un annuo aumento del 13 per mille, la quale perciò sarà nel 1866 per lo mono di 80, nel 1876 per lo meno di 90, e nei 1886 per lo meno di 100 milioni. Già la prossima generazione avrà in Europa innanzi a sé un Impero russo più potente di molto, che non lo avrebbe la presente, quand’anche lo si fosso accresciuto di tutta la Turchia Europea. Non vi ha paese in Europa ove le strade ferrate siano tanto facili ad eseguirsi, e ove esse costino meno che nella Russia. Non passeranno dieci anni, che essa sarà in ogni direzione, e da nna estremità all'altra traversata da tali strade, e avrà le distanze ridotte in tempo ad un terzo di ciò che esse sono presentemente — La posizione sporgente e centrale della Polonia russa minaccia contemporaneamente la Prussia e l’Austria, e le disgiunge. I quattro stati limitrofi della Russia, h Svezia, la Prussia, l’Austria e la Turchia Europea hanno bensì assieme una popolazione di 75 milioni. Ma qual differenza per rapporto ad unità di volere e di azione? Si aggiunga pure anche la Confederazione germanica con una popolazione di diecisette milioni. Quale speranza di resistere ad una potenza colossale come la Russia, se il principale dei detti Stati, l’Austria e paralizzato da un nemico alle spalle, che non riconosce trattati, e col quale non si può venire ad una vera pace? Le potenze occidentali non rimarranno, giova sperarlo, spettatrici indifferenti alla lolla. Ma giungeranno esse a tempo? Provveduta una volta la Russia di strade ferrate, le sue invasioni saranno un mare che, rotti i suoi argini, irrompe furioso, irresistibile. Fra le condizioni dalle quali dipenderà la possibilità di ritenere la Russia nei suoi limiti, o di respingerla ogni qualvolta ne sortisse, sarà sempre una delle principali, che la pace d’Italia non sia turbata. Questa verità si è dovuto riconoscere già nel 1854. Assicurata che sarebbe la pace d’Italia e represso in generale lo spirito rivoluzionario «l’entente cordiale» degli Stati limitrofi della Russia, e in ispezialità quella delle due potenze alemanne, dell’Austria e della Prussia sostenute dal rimanente della Confederazione germanica, costituirebbe un argine fortissimo fra l’Oriente e l’Occidente che sarebbe tanto per l’uno che per l'altro quel empeschement, tanto necessario particolarmente agli Stati preponderanti per non subissarsi nel sopruso della loro esorbitante possanza, del quale si è parlato nell’introduzione del secondo capitolo di questi Studj.

Concludiamo. L’Europa abbisogna di un’Austria forte, possente, la di cui azione sia libera ed intiera. Una tal Austria non può aversi senza che si ponga fine all’agitazione che dal 1814 in poi tormenta e funesta l’Italia, e che non è che una spezie di trastullo, un passatempo dei di lei agitatori.


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CAPITOLO V

Sulle pretensioni e ragioni della questione italiana, sui principj dai quali vi si parte, e sulle loro conseguenze.

Dopo di avere nei precedenti capitoli considerata e studiata la questione italiana nelle sue relazioni col riordinamento dell'Italia dettato dagli Alleati nel 1814, e coll’equilibrio politico Europeo, passo ora a considerarla e a studiarla nelle di lei pretensioni e ragioni, nei principj dai quali vi si parte, e nelle conseguenze di questi. Sarà un travaglio più che uno studio, e che potrebbe inoltre sembrar soverchio. E valga il vero, se il detto riordinamento è stato dettato da chi era non solo in diritto, ma anche in dovere di dettarlo; se esso si rendeva in vista delle circostanze urgentissimo; se non vi avea il modo di fare altrimenti; se lo si è dettato col suffragio, meno una sola, di tutte le popolazioni italiane; se i governi subentrati a quello di Napoleone, e in ispecialità il governo del1Austria nel regno Lombardo—Veneto, si diedero ogni pena immaginabile e desiderabile di rimediare al male che trovarono, e d’incamminare un avvenire prosperoso; se questi governi nonostante dell’iniqua non meno che insensata opposizione che loro si è fatta, riuscirono nel loro magnanimo intento; se in generale nel riordinamento dell'Italia, contro del quale la questione italiana è diretta, si sono adempite tutte le condizioni che consacrano un fatto compiuto; e finalmente se cotesta sciagurata questione, coll’agitazione rivoluzionaria cui serve di pretesto, intralcia e paralizza l’azione dell’equilibrio politico, il di cui ristabilimento costò fiumi di sangue; se tutto ciò è nell’ordine dei fatti, come lo è incontrastabilmente: che vuolsi dippiù per dirla una causa pessima e per altamente riprovarla? — Ma parli pure anche l’altra parle. Ascoltiamola.

La questione italiana non è che un ramo di quella questione più che Europea, nella quale si tratta di cambiar in generale il presente ordine sociale, civile, e politico, morale e religioso dei mondo. Io mi guarderò di entrare in questo labirinto, ove mi perderei. Il mio scopo in questo capitolo è semplicemente d'indagare, se l'Italia della questione italiana è fattibile, e se i principj dai quali vi si parte sono compatibili col presente ordine politico Europeo, cioè, se per riuscire a far l’Italia a modo dei rivoluzionari italiani non si dovesse disfare l’Europa. — Di che si tratta adunque nella questione italiana? A che, e a quanto montano le pretensioni che vi si mettono in campo? — Vi si tratta di unire tutti i paesi italiani, non eccettuati quelli che in seguito ai trattati di pace e ad altre transazioni politiche fanno parte di altri Stati, in uno stato indipendente, libero, autonomo, costituito in modo a divenire, se non immediatamente, col tempo, repubblica democratica. A questa unione di tutti i paesi italiani si pretende di aver un diritto superiore ad ogni eccezione, in conseguenza del principio di nazionalità, divenuto, cosi dicesi, una delle categoriche esigenze dell’attuale civiltà. E si vuole avanzare col confine di questa Italia, se anche non vi bastano i paesi italiani, sino alle Alpi ed entro ad esse; e ciò in conseguenza del principio dei limiti na turali;sino ai quali ogni grande stato ha il diritto, potendolo fare, di estendersi, in modo, che i detti monti gli servano di barriere miliare insormontabile contro gli Stati limitrofi. Si vuol fare un’Italia, che abbia i mezzi, e sia nei caso di difendere da sé la sua indipendenza politica, e la sua integrità territoriale contro qualunque potenza, e contro qualunque coalizione; e possa figurerà nel Concerto Europeo come Stato di primo rango e occuparvi il posto, ed esercitarvi l’influenza, che le compete nella sua qualità di grande nazione; si vuol far un’Italia che serva al mondo di Stato modello.

Vi ha già ora un’Italia indipendente, la quale supera in popolazione e in reddito finanziario di molto la Prussia, che porrebbe senza verun impedimento mettere a profitto i doni intellettuali e materiali di cui la natura le fu tanto generosa, gloriarsi di essere il centra del Mondo Cattolico, e di non avere in Europa paese o nazione che le contrasti il primato nelle belle—arti, e la sorpassi nelle scienze, e che sotto l’egida del Concerto—Europeo, e dell’equilibrio politico potrebbe farsi il paese antesignano della vera, della cristiana civiltà, e di ogni vero progresso. — Ciò non ci contenta, mi si risponde: Noi vogliamo unirci in uno Stato, che comprenda tutto.

«il bel paese

«Ch'Àppennia parte e ’l mar circonda e l'Alpe»

e tutte le aggiacenti isole, e il quale possa rivalizzare, anche come potenza, con qualunque altro Stato d’Europa.

Ma buon Dio, perché tardar tanto con questo concetto, e con questa impresa? Perché aspettar che l'Europa sia fatta, e che convenga — giacché come si vedrà nel corso del presente e del prossimo capitolo non vi vuole nu ha di meno — disfarla per far quella Italia che si dimanda e si pretende? Perché non farla nel 1813 e 1814 quando tutte lo potenze europee coalizzate contro Napoleone vi offrivano la loro cooperazione? Se l’Italia in allora si faceva coll’appoggio dell’Austria, come a quel tempo si è fatta la Spagna con l’ajuto dell’Inghilterra e del Portogallo, l’Europa avrebbe ordinato un equilibrio politico con altri elementi ed altre combinazioni. Ma non volerne allora sapere, e venire post festum a dar leggi al inondo, e volerlo sconvolgere; questa è una esorbitanza che ha dell’incredibile, e che non si sa con che termini qualificare (59).

Unendovi tutti i paesi italiani, il nuovo Stato comprenderebbe, primariamente, l’Italia già ora indipendente, vale a dire: il regno delle Due—Sicilie, gli Stati pontificj, la Toscana, i Ducati di Modena e di Parma, e il regno Sardo—Piemontese; però questo, senza la Savoia e il contado di Nizza, e meno le valli abitate da gente francese, ancorché situate sul versante orientale delle Alpi, che separano il Delfinato e la Savoia dall’Italia, le quali sono: le valli dei Valdesi ossia di Luserna, Perosa e San—Martino, e quelle di Pragelas, d’Oulx, dell’alta Novalese e d’Aosta. Vi hanno in queste valli, oltre alla fortezza di Fenestrelles e al forte d’Exilles, i quatro principali passi, che dalla Francia conducono attraverso le Alpi nel Piemonte e in Italia, che sono: il Moat—Génèvre, il Mont—Cenis, il piccolo e il grande San—Bernardo. Ma attenendosi al principio di nazionalità, non c’è rimedio, convien rinunciarvi. Se l’Italia si crede in diritto di reclamare dall’Austria il regno Lombardo—Veneto come paese italiano; perché non avrà la Francia quello di reclamare la Savoia, il contado di Nizza e le valli e i passi, surriferiti, come paesi francesi? (60)

I paesi poi i quali oltre agli or citati vanno, perché anch’essi italiani, aggiunti allo Stato Italia, ancorché facciano parte di altri Stati, sono a) il regno Lombardo Veneto col Tirolo—italiano, il qual ultimo finisce, rimontando l’Adige, a Mezzo Lombardo, circa otto miglia italiane più insù di Trento; e la parte friulana dell’Illirico posta fra l’Isonzo e Palmanuova. b ) Il cantone svizzero Ticino, e la valle di Poschiavo, che fa parte del canton svizzero Grigioni. Il canton Ticino era una provincia milanese sino ai tempi degli ultimi Visconti, vi si parla l’italiano, occupa 48 miglia italiane della catena centrale delle Alpi, ove vi hanno due dei più frequentati passi pei quali si discende dalla Svizzera in Lombardia, il San—Gottardo e il San—Bernardino, e avanza, in forma di triangolo, ad una distanza di 50 miglia dal primo dei suddetti passi sino a tre quarti d’ora di cammino da Conio, La valle di Poschiavo misura dal monte Bernina sino a Tirano ove sbocca nella Valtellina circa 13 miglia, non occupa nella catena centrale delle Alpi se non uno spazio di 4 miglia, ma è il cammino più breve dai Tirolo tedesco e dalla sua capitale a Milano, c ) La Corsica che è isola italiana, era genovese dalla fine del secolo. decimoterzo sino al 1768, d ) Malta isola italiana anch'essa, che appartenne sino al 1530 alla Sicilia, della quale la staccò Carlo I per darla all’ordine di S. Giovanni di Gerusalemme.

Mi si dirà, che nel programma per fare l'Italia, non si parla di altro paese italiano, che sia da aggiungersi all’Italia, ancorché faccia parte di un altro Stato, se non del regno Lombardo—Veneto e del Tirolo italiano. Ma questo silenzio, se non è una prudente reticenza per non far ridere gli Svizzeri, i Francesi e gli Inglesi, sarebbe la più grande assurdità del mondo. come fare delle Alpi una barriera insormontabile, lasciandovi due vuoti; uno di 48 miglia italiano con due delle, come ho detto, più frequentate porte per le quali dalla Svizzera si discende in Italia;; l’altro meno spazioso di essi, ma non pertanto di somma importanza anch'esso, poiché offre la comunicazione più breve con la valle dell’Inn, e col Tirolo settentrionale? E se il principio di nazionalità dà all'Italia il diritto di togliere all'Austria col regno Lombardo—Veneto un ottavo della di lei popolazione, come non le darebbe anche quella di togliere alla Svizzera col canton Ticino e con la valle di Poschiavo un ventesimo della sua? Nell’istesso modo poi che all'Italia, volendo divenir padrona delle Alpi si rende indispensabile il canton Ticino, e la valle di Poschiavo, nell’istesso modo sono ad essa necessarie per divenir padrona del mare, come tosto si dirà più dettagliatamente, le isole di Corsica e di Malta. L’importanza di questi possedimenti marittimi per le due potenze occidentali non sta, ne convengo, in proporzione colle rispettive popolazioni, ma certamente non saprebbesi mettere a confronto con quella del regno Lombardo—Veneto pell’Austria, trattandosi che questa potenza, come altrove, e più volle si è detto, è garante in principalità dell’equilibrio politico Europeo in generale, e in conseguenza del trattato di Parigi dei 15 Aprile 1856 garante bensì assieme con la Francia e l’Inghilterra, ma relativamente alla sua posizione in particolare dei risultamenti ottenuti con la guerra d’Oriente.

Né l’Italia quand’anche comprendesse

«tutti i bei paesi la dove ’l sì suona»,

giungerebbe ancora ad internarsi con essi nelle Alpi tanto quanto vi vorrebbe, per servirsene come barriera contro gli Stati limitrofi. Con essi non si giunge neppure sino alla catena centrale. Ho già detto, e qui lo devo dire di nuovo, ohe in seguito al principio di nazionalità il Mont—Génèvre, il Mont—Cénis, il piccolo e il grande San—Bernardo con la Savoia e col contado di Nizza vanno aggiunti alla Francia; ho avvertito altresì che il Tirolo italiano non giunge se non poco oltre Trento, e che l'Illirico italiano finisce già all’Isonzo. Aggiungo al già detto, che il rimanente del Tirolo meridionale sino al punto culminante fra Trento e Insbruck, vale a dire sino al Brenner è tedesco austriaco, e che tutto il versante occidentale delle Alpi—Giulie è illirico, ossia slavo austriaco. E perciò per arrivare fino alla catena centrale delle Alpi, i paesi italiani non bastano, non sono sufficienti, dimodoché è giuocoforza aggiungervi anche dei paesi francesi, dei paesi tedesco—svizzeri, dei paesi tedesco—austriaci, e dei paesi illirici ossia slavo—austriaci, e quindi rinunciare affatto al principio di nazionalità. Né basta per fare delle Alpi una barriere, quale se ne ha bisogno l’avanzare col confine italiano sino alla loro catena centrale; convien oltrepassarlo. Niente di più erroneo che l’idea che comunemente si ha di questi monti. Si vuol crederli una spezie di cinta murata elevata dalla nature, a difesa dell’Italia contro lo Straniero. La loro struttura e conformazione topografica ne fa tutt’ altro, ne fa una serie di vaste fortissimo cittadelle le quali signoreggiano i sottoposti paesi in ogni direzione e tanto l’Italia Settentrionale che la Francia, la Svizzera e l’Austria; del che parlerà più a lungo e dettagliatamente nel prossimo capitolo. Dico ora, e in seguito ne darò la dimostrazione logica e storica, che per tirar un partito dallo Alpi in favore dell’Italia convien occuparle tutte; e non solo la di lei catena centrale sino alla cresta, che divenendo comune ad ambi i paesi limitrofi perderebbe l’attitudine pell’uso al quale avrebbe a servirà; che fa d’uopo occupare anche le sue diramazioni in tutta la loro estensione; e che il confine dell’Italia verso il Nord, il Nord—Est il Nord—Ovest è l’antico limes Imperii, d’Augusto; cioè verso l’Austria il Danubio, e verso la Germania centrale dal Lago di Costanza sino a Basilea il Reno. Per far l’Italia non basta adunque né il principio di nazionalità, né quello dei limiti naturali. Qui vi vuole un principio di una molto maggior portata, qui devesi dire, che ad una grande nazione qual’è la nazione —italiana è permesso tutto ciò che la può, e che ogni di lei volere si giustifica e legittima da sé; qui conviene alla prima grande guerra Europea passare senza remora il Po e il Ticino e poi le Alpi, e piantare la—bandiera tricolore italiana sulle torri di Auguste, di Monaco, di Vienna e di Buda.

E ancora l’opera non sarebbe fatta che a metà. L’indipendenza italiana andò perduta, dacché l’Italia perdette il dominio delle Alpi e quello dei mari circostanti. L’uno non le è meno necessario dell’altro. Essa non ebbe meno a soffrire dalla parte del mare, che dalla parte di terra. Roma dopo la caduta dell’Impero d’Occidente fu presa e saccheggiata la primo volta dai Goti, i quali entrarono in Italia attraversando le Alpi—Giulie, ma la seconda dai Vandali, che vi vennero per mare dall’Africa. Senza Io Straniero, senza i Carlovinghi, gli Ottoni, e i Normanni, l’Italia avrebbe avuto la sorte, che ebbe la Sicilia, ed anche la penisola Iberica, e sarebbe divenuta Saracena; e senza Ferdinando il Cattolico, senza Carlo V, e senza Filippo II, vale a dire senza gli Spagnuoli sarebbe divenuta turca. La nuova Italia sarà perchè nella necessità di farsi grande potenza marittima, ciò che dovrebbe riuscirle meno difficile che di farsi gran potenza continentale. Nessun paese in Europa ha l'attitudine, lo ha detto Napoleone (61).

di farsi grande per mare, come l'ha l’Italia. Le si contano, prescindendo dalle isole, 1560 miglia italiane, eguali a 390 grandi miglia geografiche, di coste; il doppio di quanto misurano, senza quelle della Corsica, le coste della Francia. E perchè dovrà l'Italia rendersi padrona di tutte le isole che signoreggiano il Mediterraneo, il Jonio, e l’Adriatico; e non solo della Corsica e di Malta, come si è detto poco fa, in riguardo che esse sono ambidue isole italiane della Sicilia e della Sardegna non occorre parlare come ché senz’altro facente parte di Stati Italiani—ma anche delle Isole Jonie, che sono la chiave dell'Adriatico; e finalmente anche della Dalmazia e dell’Istria paesi soliti a fornire alle squadre veneziane la maggior parte dei marinai che formavano gli equipaggi. Napoleone, nel progetto di pace che fece presentare al Congresso di Chatillon, rinuncia, pel regno d’Italia che doveva passare al Principe Eugenio Beauharnais, alle provincie venete sino all’Adige, ma gli riserva però il possesso delle Isole Jonie, e non parla detta Dalmazia, abbenché ammetta Ragusa come città libera—tanta importanza metteva esso a conservare a suo figlio addottivo quelle isole e la Dalmazia.

Queste sono le pretensioni territoriali, che avrebbersi ad attuare per fare l'Italia; vi si tratterebbe di niente me no che di riconstruire, quanto all’estensione, poco meno che il regno di Teodorico il Grande. L’Italia avrebbe a farsi Stato conquistatore cioè «l'état malfaisant» del quale si parla nei trattati di diritto pubblico Europeo, e contro del quale l'Europa sarebbe chiamata per poter vivere in pace a sollevarsi come un sol uomo.(62)

Vediamo ora ciò che si richiede per far dell'Italia una repubblica democratica. I partiti rivoluzionarj italiani, ancorché d’accordo relativamente alla forma finale dello Stato Italia, la quale è per tutti la repubblica, sono dal 1840 in poi, e tuttora divisi relativamente al modo, ai mezzi, e al tempo di raggiungerlo. Il partito cosi dello moderato si contenterebbe per ora, che i principali italiani restassero quanto ai loro territorj come sono, purché adottassero costituzioni foggiate sul taglio della costituzione sardo—piemontese; che i Principi regnassero, ma si astenessero dai governare; che gli Stati—pontifici fossero secolarizzali; che il Sommo—Pontefice non avesse altro uffizio che quello di Capo del Mondo Cattolico, ma nessuna ingerenza nel governo secolare, e, ciò s’intende da sè, che la stampa fosse dappertutto assolutamente libera. Non vi ha dubbio che i principi ridotti ad una abietta inazione si chiarirebbero in breve tanti principi l’annulla, si considererebbero come costosissime superfluità, e diverrebbero esosi alle masse; e che la strada alla democrazia si troverebbe in quanto spianata e' aperta, che queste si guadagnerebbero per la causa italiana, ciò che non si è ancora ottenuto. Né tarderebbesi negli Stati pontificj, qualora secolarizzati, a rinnovare le scene del 1848 e ad obbligare il Sommo—Pontefice ad abbandonare la Città eterna, e a trasportar la sua sede fuori d'Italia; che è un voto ardentissimo di tutti i partiti rivoluzionarj, i quali tutti vedono, come ho già avvertilo nel precedente capitolo, nel Papato un non minor ostacolo all’impresa italiana che nell’Austria.(63)

Ma il partito puritano democratico del Mazzini e consorti non ammette mezzi—termini e tergiversazioni, e intende alla prima favorevole congiuntura che presenterà l’Europa, di sollevare i popoli contro i loro Principi, contro il Papa e contro l’Austria, e di proclamare senza ambagi la repubblica una e indivisibile. La Giovine—Italia ha in ogni tempo riconosciuto che l’impresa di rivoluzionare e democratizzare l’italia non era fattibile, se non si poteva disporre delle masse; e perciò non tralasciò di allettarle ed adescarle col prospetto, che si tratta non di fare una rivoluzione in favore delle classi privileggiate, ma di capovolgere per le masse la condizione sociale e civile dell’Italia e dell’Europa. «Il nostro scopo», diceva essa nei suoi giornali — «non è la libertà pei grandi e pei ricchi, per la nobiltà e per gli avvocati; non è di porre in luogo di un re un altro re, in luogo di un governo di preti uno di banchieri o di rie chi possidenti; non è un mero cangiamento politico, ma un completo morale e sociale rivolgimento».(64)

Tale è la questione italiana nelle sue conseguenze, e in quelle delle pretensioni, che la costituiscono, per qualunque intelletto sano, che la considera ed istudia con quella attenzione e serietà che la di lei immensa gravita si richiede. Per fare l’Italia converrebbe disfare l’Europa, o per dir meglio, che la si disfacesse da sé, e porgesse all’agitazione italiana, e al regno Sardo—Piemontese l'opportunità di tirar partito, di una guerra generale Europea, nella quale per esempio si avventassero la Francia e la Russia sulla Germania, sulla Prussia, sull’Austria, sulla Porta mentre l’Inghilterra avesse ancora a combattere la ribellione delle Indie; e di profittare dell’occasione di strappare all’Austria non solo il regno Lombardo Veneto, ma anche il Tirolo, anche l'Illirico, e in generale d’impadronirsi delle Alpi austriaco e svizzero in tutta la loro estensione, come pure dell’Istria e della Dalmazia, e in generale di dare pieno e libero corso all’impresa italiana. Ma chi può ai nostri giorni esser cosi poco esperto delle cose del mondo politico, di' non prevedere, che nella guerra tremenda che si produrrebbe, la parte del Leone non toccherebbe per certo alla nazione men numerosa, men unita, meno abituata a grandi o lunghe guerre, esigenti non solo valore, ma anche gran pratica bellica, grande perseveranza e rassegnazione; di quella, la quale alla prima sciagura che le toccasse griderebbe al tradimento, o si sbanderebbe? E si prescinda puro dalla ben seria circostanza, che non si oserebbe armare le masse campagnuole, che, più importerebbe e sarebbe necessario di armare, senza incorrere nel pericolo, che esse, in ogni tempo piene di livore contro la classe cittadina dei possidenti, non si abbandonassero ad una guerra fratricida. La Francia poi si piglierebbe in conseguenza del principio di nazionalità la Savoia, e il contado di Nizza come fu sul punto di pigliarsi l'una e l'altro nel 1848; piglierebbesi per la stessa ragione i passi, che dal Delfinato e dalla Savoia conducono in Italia, e se mai varcasse le Alpi non vi ha dubbio che la si ricorderebbe di essere stato il Piemonte, Genova e l’arma parti integranti dell’Impero francese, e che la vi si pianterebbe stabilmente. L’Austria farebbe il suo dovere, e la sua armata darebbe come nel 1848 e 184e come sempre l'esempio rarissimo di accoppiare col più grande valore anche la più grande disciplina, obbedienza e unità di volere. (65)


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Che se la provvidenza volesse che l'Austria si sfasciasse, non vi ha dubbio che la si sfascierebbe, ma che ne risulterebbe per l’Italia? Ne risulterebbe che questa in voce di trovarsi in contatto o se si vuole alle prese con l’Austria, la quale quand’anche fosse tentata di abbandonarsi ad un qualche sopresso della sua preponderanza militare, non lo saprebbe, e non oserebbe farlo, perché certa, che abbandonandovisi, si darebbe, l'ho già detto, ma qui sono nel caso di doverlo ripetere, nelle trombe da tutti i quattro lati della terra, si troverebbe in contatto e alle prese con la Russia. Conchiudo, che guai all'Italia, se l’Europa divenisse preda di quella conflagrazione tanto desiderata e con tanta ansietà aspettata dall’agitazione italiana, e dal regno Sardo—Piemontese. L’incendio non tarderebbe a raggiungere i di lei tetti, e trovandovi, perché pur troppo in Italia in tai momenti le personalità più capaci si celano e svaniscono, meno altitudine ed energia ad estinguerlo, infurierebbe più a lungo e con maggior rovina che altrove.

Noi abbiamo veduto, che per fare l'Italia conveniva implicarsi in guerre terribili con gli stati limitrofi e in riguardo al Papato con tutto il Mondo— Cattolico, che come nel 1848 accorrerebbe sempre tutto con alla testa non solo l'Austria ma anche la Francia. Or si dimanda quale sia l’«αναγχγ» la nécessité, o come la chiamano i Francesi la «force des choses», per inabissarsi in una impresa cosi gigantesca, anzi cosi titanica, cosi disperata, come sarebbe, e come lo è la detta impresa; e se vi ha, se non una sicurezza, almeno una grande, e se non una grande almeno una qualche probabilità, che dall'inferno che si vuol suscitare e produrre, risulti per l’Italia alcunché di buono, alcun vero bene? Finora se un paese insorgeva contro il suo Principe e in generale contro il suo governo, vi aveva un chiaro manifesta perché; vi aveva un motivo, una causa e se un paese insorgeva, ciò voleva dire, che la grande maggiorità della nazione, il vero popolo, non quei soli che non hanno nulla da fare, si faceva giustizia da sé; finora s’insorgeva contro la tirannia, l'oppressione, l'ingiustizia, specialmente se vi si aggiungeva la fame. In Italia non vi ha avuto in veruna delle sue insurrezioni, non in quella di Napoli del 1820, non nella piemontese del 1821, non nella romagnuola del 1831, non nella lombardo—veneta del 1848 niente affatto di tale. Il generale Colletta testimonianza certamente non sospetta di parzialità pei Borboni di Napoli, avendo a parlare nella sua «Storia del Reame di Napoli» della insurrezione napoletana del 1820, cosi vi introduce il suo lettore. — Nel 1815, ritornato al trono Ferdinando IV sostenne o mutò leggermente gli ordini del decennio; per lo ché vi erano, come innanzi, codici eguali, finanza grave ma comune, amministrazione civile rigida, ma sapiente e poi per leggi, come che offese talvolta; la polizia senza arbitrio, il potere giudiziario indipendente; i ministri del re, e gli amministratori delle rendite nazionali soggetti a pubblico sindacalo; e finalmente decurionali, consigli di provincia, cancellerie, tutte congreghe di cittadini e magistrati attendenti al bene comune; le quali leggi e statuti componevano una quasi libera costituzione dello Stato. I governanti erano benigni, la Finanza ricca, s’imprendevano lavori di pietà ed utilità pubblica, prosperava lo Stato; felice il presente, felicissimo si mostrava l’avvenire. Napoli era tra’ regni d’Europa meglio governati, e che più larga parte serbasse del patrimonio delle idee nuovo. Erasi versato a pro suo tanto sangue!»

« Da che dunque, continua il generale Colletta— «nascevano le contumacie dei soggetti, i tumulti, le ribellioni? Che mancava alle speranze pubbliche? — La persuasione del popolo. L’avevano distrutta le atrocità del 99, gli infingimenti del Quinquennio, la storia del re, le pratiche del ministero, la incapacità di governo; fioriva il corpo sociale, e (maraviglia a dirsi) il capo inaridiva. Credendo che le buoni leggi decadessero, e la monarchia moderata volgesse all’assoluta, i liberali temevano della persona, i possidenti dei nuovi acquisti, lo stimolo alla rivoluzione non era il mal essere, ma il sospetto». (66).

—Ma cosa è il sospetto? Il sospetto è un idea, che può essere vera ma che può essere anche falsa, che nel caso in discorso era in più riguardi falsissima, e particolare ad un limitatissimo numero di persone. L'insurrezione napoletana del 1820 mancò quindi, per confessione dello stesso generale Colletta interramento di ogni vero stimolo incentivo, o motivo. Per quanto deplorabile e sommamente deplorabile fosse il carattere della reazione prodottosi in Napoli nel 1797, la ricordanza n’era nelle masse intieramente svanita. I Borboni ritornarono a Napoli desideratissimi.

E come l'insurrezione napoletana del 1820 cosi furono, la piemontese del 1821, la romagnuola del 1831, e la lombardo—veneta del 1848, senza alcun vero perché. Mi limiterò per bisogno di brevità, e avendo a parlare in uno dei susseguenti capitoli circostanziatamente di tutte le insurrezioni italiane in riguardo alla nessuna parte che vi prose il vero popolo, mi limiterò dico per ora, a provare questo mio asserto relativamente all'insurrezione lombardo—veneta del 1848. Sentiamo sulla condizione dell’Italia negli anni prossimi al 1848 la Giovine—Italia. Essa, nell’opera già da me non ha guari citata: «L’Italia nelle sue relazioni colla moderna civiltà fa, nel capitolo dal quale tolgo il passo, che sto per citare, la corte alla Francia, e passando poi a parlare dell’Austria dice: — Ogni progresso nel campo degli interessi, delle idee, delle istituzioni politiche, che ha fatto l’Italia negli ultimi cinquanta anni (l'opera e scritta nel 1847) la deve essa quasi esclusivamente allo spirito, e alle idee della rivoluzione francese, e alle invasioni di Napoleone. Io vado più oltre ancora; convinto che la verità di qualunque spezie la sia, non saprebbe nuocere alla causa della mia patria, sostengo che il regno Lombardo—Veneto sollo l’Austria non ha in verun modo peggioralo. Egli è avveralo dai più illuminali patrioti del dello regno, che se anche il loro paese, dacché è austriaco, non ha fatto grandi né morali né intellettuali progressi, non cessa però di esser vero, che non è rimasto indietro di nessuno dagli Stati indigenti. Anzi è riconosciuto da tutti, che certe influenze retrograde, le quali pesano gravemente sulla vita intellettuale del popolo negli Stati indigeni, sono affatto estranee agli Stati austriaci. E quanto agli ordini materiali e amministrativi del paese, nessuno certamente vorrà dire in tal riguardo il regno Lombardo Veneto inferiore agli Stati del Papa, alla Toscana o al regno di Napoli. Ciò non di meno mi è d’uopo confessare francamente, che sarei più contento di vedere la Lombardia infelicissima sotto un governo indigeno, che bastantemente felice sotto il giogo straniero. (67)

Che governo lodevolissimo non doveva essere il governo austriaco se nemmeno una congrega come quella della Giovine Italia non vi trovava nulla da biasimare, e si vedeva forzata a dirne del bene; e quantunque ne dicesse il meno possibile, ne diceva però sempre molto e assai, già coll’anteporlo pel buono, che vi avea, ad ogni governo indigeno. Quanto al preferire una condizione infelicissima del regno Lombardo Veneto sotto un governo indigeno ad una felice sotto un governo straniero, qui si dimanda se anche il popolo lombardo—veneto, avendone la scelta, preferirebbe un pessimo governo purché fosse italiano, ad un mitissimo e paterno, ma straniero?

E si ascolti sullo stesso argomento in riguardo al regno Lombardo—Veneto anche il Signor Cantù che nella sua Storia degli Italiani ne parla distesamente. — «In Italia», dice il nostro Storico, «imputavasi l'Austria d’ogni male. E chi non vuole i fischi del volgo ricco e dotto; forza è ne dica ogni vitupero, chiami vile il suo esercito, i capi suoi non vogliosi che di opprimere, il governo non intento che a smunger il paese, e immolarne gli interessi ai transa lpini». — Il Signor Cantù biasima dunque questi giudizj, li trova ingiusti, e dall’Austria non meritati e, frapposti alcuni riflessi eterogenei al nostro oggetto, prosegue nel modo seguente: «— Se un governo possa essere buono quantunque non nazionale, della cui resoluzione i dati stanno nei volumi precedenti: donde anche il comprendere, perché tutt’altro che odiati fossero nella Lombardia austriaca Maria—Teresa, Giuseppe II, Leopoldo II quando, ai popoli non regalavasi la libertà politica, ma si lasciavano le libertà naturali; quando i migliori ingegni si offri vano sostegni, Iodatori, difensori del trono, e lo coadjuvavano a concentrar in sé i poteri dapprima sparpagliati fra autorità paesane. La rivoluzione ruppe quell’accordo». — Il Signor Cantù dice il vero. Sennonché il governo di Francesco I in Lombardia e nella Venezia non avrebbe differito in nulla, quanto a bontà e saviezza da quello dei suoi antecessori, qualora anch’esso vi avesse trovato degli uomini veramente amanti del loro paese, i quali gli si fossero avvicinati con rette intenzioni. Ma il giorno 20 aprile 1814 aveva spaventati i buoni, i quali atterriti lasciarono il nuovo governo alle prese con il partito che voleva, in verità un po’ tardi, indipendenza come Spagna e Germania, al quale importava, che il governo austriaco fosse inabile a far del bene, e non sapesse fare che del male. «— Che cosa fanno gl’Italiani in generale dice il conte Ferdinando Dai Pozzo, già più volte in questi miei studj citato parlando dei Lombardi — che cosa fanno per viemmaggiormente nazionalizzare questo Sovrano, (Francesco I) per cattivarlo, allettarlo, disporlo in somma a venire a risiedere in Italia, e farne almeno una sede alter nata con Vienna, a tentar il gran colpo di rendere la Germania gelosa, ed eventualmente dipendente dall’Italia, come l'Italia è ora dipendente dalla Germania? Fanno tutto il rovescio. Insultano, deridono, tramano, irritano, allontanano, e renderebbero tiranno, se tiranno potesse essere, il fior della probità sul trono (cosi io francamente il chiamo) l’Imperator Francesco». (68)

Uno degli inganni predominanti nella questione italiana è stato ed è, l'ho già detto, che vi s’inverte il nesso causale, e si considera lo spirito rivoluzionario che si è prodotto nel vulgo ricco e dallo italiano, come l'opera di un mal governo, mentre, se un mal governo vi ha, desso non è che la necessaria conseguenza, l'opera, l’effetto del detto spirito, delle complicazioni, delle misure vessatorie e di rigore, dei dispendj e dello stato di guerra che esso crea e cagiona. Si vuol guadagnare le masse, e queste non si guadagnano se non si mettono i governi net caso di rendersi loro gravosi, odiosi o esosi, o tutto assieme. In queste pochissime parole sta tutto il segreto della lattica rivoluzionaria.

Sono un po' sortito di strada, ci rientro. Ecco secondo il nostro autore la condizione del regno Lombardo—Veneto negli anni che banno preparata la ribellione del 1848. «— Fu costituita, come rappresentante del paese, una Congregazione Centrale, eletta popolarmente, nominata e stipendiata dal Sovrano, convocata a beneplacito del governatore per dar voto consultivo sopra le materie che a volontà esso proponeva al loro esame». — Senonché, qualora trovandosi questa rappresentanza del paese insufficiente al bisogno, alcune persone ben intenzionale avessero, con maturato consiglio esteso una memoria che avesse dimostrata la necessità di una rappresentanza con attribuzioni più larghe, più positive, e si fossero presentate all’Imperator Francesco, il sovrano più accessibile, più disposto ad ascoltare con imperturbabile benignità e pazienza i suoi sudditi che si potesse desiderare, le avrebbe non solo ascoltate, ma, se quanto dimandavano era motivato, si sarebbe fatto presso i suoi ministri loro fervido avvocato, e per poco che vi avessero messo la perseveranza che in simili casi vi vuole, sarebbero nel loro intento riuscite. La centesima parte' dell’ardore che i partiti rivoluzionarj hanno messo in Italia ad impedirvi il bene e a fare il male, avrebbe bastato agli uomini «bonæ voluntatis», che in Italia non mancarono mai a dare alle cose italiane un tutt’ altro andamento.

«Resta va in piedi, cosi continua il Signor Cantù il mirabile sistema comunale, derivato dagli antichi municipj, e sopravvissuto alle rovine rivoluzionarie, e felicemente combinato col censimento, talché bastò a mantenere la vita, e favoriva il prosperamente del pinguissimo paese. L’amministrazione, ridotta a mera burocrazia camminava regolare e robusta, co me in paese da gran tempo avvanzato; pronta e incorrotta la giustizia, qualvolta non vi si complicassero titoli di Stato, a norma di un codice compilato colle intenzioni moderne, e in molte parti migliore del napoleonico, più mite nelle pene, più espanso nell’eguaglianza; ma escludendo ogni pubblicità, metteva l’idea di arbitrio invece delle garanzie che la società è in diritto di chiedere in torno ai membri che le sono strappati (69).

«Un’eletta d’ingegni acquistava a Milano il titolo di Atene italica: ché se il governo né li favoriva né li conosceva, la stampa v’era men inceppata che altrove, sebbene contro censori o ignoranti o maligni bisognasse spesso reclamar a Vienna, donde le decisioni venivano assai meno ignobili, ma cosi lente da equivalere a un divieto. Pure in questo regno si producevano e ristampavano opere, nel resto d'Italia proibite; e attivissimo correva il commercio di libri forestieri: i congressi scientifici, spauracchio altrove, qui furono accolti ben tre volte: l’istruzione vi era animata, o almeno diffuse le scuole fin ne’ minimi villaggi; se quelle di mutuo insegnamento si proscrissero perché servite di velo ai Carbonari, si ammisero gli asili dell’infanzia quand’erano tutt’ altrove proibiti; e il loro introduttore, mal visto a Torino, otteneva onori e decorazioni in Lombardia».

«Esclusa quell’educazione de’ claustrali che si diceva l’arsenico degli altri paesi, quand’anche i Gesuiti qui presero stanza furono sottomessi alle autorità, né esercitarono ingerenza a fronte di un clero illuminato, e di vescovi assennati. Non frati o pochissimi, non eccezione di fori, non intrighi di sacristia; il partito religioso era rappresentate nel l’idea da eminenti ingegni, nelle azioni da una società che, fra le beffe e la denigrazione compiva una beneficenza stupendamente grandiosa. Le prime associazioni per strade ferrate si formarono qua sin dal 1837, e non fu colpa del governo se si svamparono in risse e municipali battibugli. Qua fiorentissime le casse di risparmio qua imprese sociali per le diligenze, per assicurazioni contro gl’incendj, per filature del cotone e del lino. Molteplici e ben sistemate le strade, e poetiche quelle lungo le delizie del lago di Como e traverso alle sublimità dello Stelvio e dello Spluga: con dispendio assai maggiore le comunità compivano una rete di comunicazioni; si profondea per regolare i laghi e i fiumi che l’improvido divellamento delle foreste rende più sempre gonfi e rovinosi. A Venezia dal 1816 al 41 in sole opere stradali interne si spese meglio di sej milioni»...

«Lo straniero che fosse calato in Lombardie, credendo, sopra i giornali e le odi, vedervi braccia scarnate nel mietere solo a vantaggio dello straniero sire, e sbandito il riso, e signor dei cuori il so spetto, stupiva a trovare su quest’opima campagna i coltivatori agiati e conscj della propria dignità, i braccianti o non più miserabili che altrove, o solo per colpa dell’indigena avidità; Milano nuotar nella pinguedine e nel lusso; i suoi negozianti pareggiare in destrezza i più famosi, in credito i più ricchi; fra principali commerci figurarvi quello de’ teatranti, e agli spettacoli d’un teatro de’ primi in Europa affollarsi un mondo elegantissimo, come a’ suoi corsi uno sfarzo di carrozze, che si elegante non hanno Vienna e Parigi».

«Noi siamo a troppa pezza da quelli che ogni prosperità o sfortuna deducono dalla politica, e crediamo v’abbia mezzi di felicità più efficaci che non i governativi; ma certamente il Lombardo—Veneto avrebbe potuto farsi esempio di savia amministrazione agli altri d’Italia, se si fossero conciliate le inevitabili sofferenze d'una provincia colla dignità di chi v’è sottomesso, lasciando svilupparsi quel l’attività delle corporazioni, dei Comuni, delle Provincie che dispensa l'amministrazione centrale dall’intervento impacciante e dalle cure minute, e non sottrae né ricchezza al fisco dei dominanti, né ai dominati la compiacenza di sentirai cittadini».

Tale era h condizione del regno Lombardo—Veneto all’epoca che s’incamminava l'anno 1848 la guerra santa, come il Signor Cantù chiama la ribellione di Milano, e la guerra di Carlo Alberto, nel capitolo CXCII della sua Storia. Vi aveva una generale agiatezza, vi avea incorrotta giustizia, un codice civile superiore al Napoleonico, un codice criminale mitissimo, e non solo il «panis et justitia» ma anche il «panis et circenses»; vi avevano scuole sin nei più minuti villaggi, e poi tutti gl’istituti scientifici quanto in qualsisia altro, nella civiltà e nella scienza più avvanzato paese del mondo; vi aveano Accademie, la stampa vi era men severa che in qualunque altra parte d’Italia, vi avea un clero illuminato, un episcopato assennato. Il Signor Cantù ammette, che il Lombardo—Veneto avrebbe potuto benissimo farsi esempio di savia amministrazione agli altri Stati d'Italia, se si fossero lasciate svilupparsi certe attività delle corporazioni, dei Comuni, delle Provincie. Il vero è che il detto regno avrebbe ottenuto da Francesco I tutto quello che mai avesse saputo ragionevolmente dimandare, se non vi fosse divenuto affare di moda imperativa il cospirare, e — se, chi non diceva dell’Austria ogni vitupero, chiamava vile il suo esercito, e cosi via, via, non vi si fosse attirato i fischi del vulgo ricco e dotto. Dirò dippiù e sono certo di non dire se non il vero, che anche a fronte di queste ed altre tali ribalderie non vi avea e non vi ha nell’amministrazione lombardo—veneto—austriaca inconveniente, difetto, o vizio che se alcuni buoni si fossero interessati a volerli rimovere, mettendovi dell’insistenza, e della perseveranza non vi fossero riusciti. Disgraziatamente i buoni in Italia che non mancano di quel coraggio che vi vuole in una battaglia, mancano di coraggio politico. I tristi ne hanno il monopolio. Il nostro autore aggiunge, al finora da me citato, una serie di accuso, ma, per non dir altro, cosi insignificanti e frivole, che ho creduto a proposito di relegarle, accompagnate da qualche mia osservazione nelle note. (70)

Io conchiudo adunque che nulla aveavi nel Lombardo—Veneto e in generale in Italia da spingervi il popolo, cioè le masse a degli atti ai quali non avrebbe potuto spingerle, se non una situazione moralmente e fisicamente crudele. In fatti le masse, come a suo luogo e tempo estesamente dirò, non vollero mai sapere di rivoluzione. Esse trovaronsi più volte, più mesi di seguito in balia di sé stesse e più volte anche sotto il pieno incontrastato dominio dei rivoluzionarj, e non pertanto il grande senno, del quale la Provvidenza le ha provviste, le salvò. Anche nei ricchi e nei dotti il vulgo fischiante si trovò sempre minore di quel che si crede comunemente: ulteriore prova che quella «force des choses», che qui si ricerca, non esistette mai. E quindi mi credo sufficientemente autorizzato a dire: che la questione italiana si trova, quanto all’ordine dei fatti, intieramente senza alcun appoggio, senza veruna ammissibile ragione. Vediamo ora qual appoggio, e qual fondamento essa abbia nell’ordine delle idee e dei principj.

L’uomo, come si legge nel libro che non erra, non vive nel solo pane, bensì nel complesso dei dettami del suo Creatore, e perciò anche in quelli che si annunciano nelle opere provvidenziali. (71).

Il principio di nazionalità, dal quale si vuol derivare il diritto di unire nello Stato Italia tutti i paesi italiani senza alcuna eccezione, e perciò anche quelli che fanno parte di altri Stati, sarebbe desso mai uno di questi dettami? Se ciò fosse, il partito da prendersi non saprebbe esser dubbio, qui converrebbe obbedire, sconvolgere l’Europa, poiché non la è fatta secondo il detto principio, e farla da nuovo. Il quesito è perciò gravissimo. e noi non possiamo dispensarci dal metterci nel caso di rispondervi il più che sia possibile adequatamente e a tal uopo d’incamminare le seguenti ricerche: 1. Il principio di nazionalità è desso mai entrato nella formazione degli Stati qual necessario elemento fattivo? È il detto principio, come tale, ammesso nel diritto pubblico europeo? 2. È desso veramente, come lo si decanta, una delle condizioni del progresso, della civiltà, e del ben essere dell'umanità? 3. Quali sarebbero le conseguenze dell’ammissione del detto principio per la condizione sociale, civile e politica dell’Europa?


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Il vero è che gli Stati europei comprendono tutti più o meno diverse nazionalità, le quali tutte riconoscono nello Stato, al quale appartengono, la loro patria, e in essa l’oggetto di una illimitata sommissione e affezione. Cicerone ha detto: «Patrie omnes omnium charitates complectitur». I detti Stati, particolarmente i maggiori, sono tutti l’opera del tempo, dei secoli, di intrecciati avvenimenti, di azioni e reazioni di guerre aspre e lunghe; però anche di conventirmi, capitolazioni, e in un grado rilevante di matrimonj fra le famiglie regnanti; donde il notissimo:

«Bel la gerunt alii, tu felix Austria nube.»

insomma essi sono l’opera della Storia, cioè della Provvidenza, la quale vi ha distribuiti i popoli senza alcun riguardo alla loro origine, provenienza, schiatta, e lingua; ossia al principio di nazionalità; e vi ha assegnati i paesi senza fermarsi innanzi a fiumi, a mari o a monti, dunque senza alcun riguardo al principio dei limiti naturali. La Storia dell’antichità è in questo merito la stessa, che quella del medio evo, e dei secoli a noi più vicini, e di quella del Congresso di Vienna. Chi crede che gli Stati siano fatture delle nazioni, s’inganna a partito. Bensì sono per le più gli Stati che hanno fatte le nazioni, vale a dire, che le diverse nazionalità, vivendo sotto lo stesso governo, con l'uniformità delle leggi e se non con altro con i reciproci bisogni e ajuti, col contatto, col commercio, con h comunanza delle guerre, si fondono le une nelle altre, e formano un popolo solo, una nazione, parlante, ancorché in diversi dialetti, la stessa lingua. È Roma che ha latinizzati e romanizzali i popoli della penisola traversata dagli Appennini: gli Etruschi, gli Umbri, i Greci della Magna Grecia, i Lucani, i Bruttii, venutivi gli uni dal Nord, gli altri dall’Est, e dall’Ovest; gli uni per terra, gli altri per mare; e che ha latinizzati e romanizzati più tardi i popoli dell'Italia settentrionale: i Boi, i Liguri gl’Insubri, i Veneti; e più tardi quelli delle Gallie, e della Spagna.

Allorché coll’irruzione dei Barbari l’Impero d’Occidente crollò sotto i loro colpi, l’Italia, e con essa le Gallie, le Spagne, l'Africa parvero perdute. Senonché, come osserva il Muratori parlando di quell’epoca, «i Latini e i Greci chiamavano Barbaro chiunque non era della loro nazione; ci sono stati» cosi prosegue quell’esimio annalista e scrittore «dei Barbari più buoni, prudenti e puliti, che gli stessi Latini e Greci». (72) Quelle genti avevano dei capi di un merito distintissimo, mentre i Romani ossia Italiani ne mancavano intieramente. Stilicone, ancorché Barbaro fu sul punto di salvare l’Impero. Odoacre anch’esso un Barbaro riusci coi suoi Eruli e Rugi a riordinare l’Italia, e a farne uno Stato, il quale per poco che vi avessero cooperato gl’Indigeni, si sarebbe consolidato e avrebbe durato. Pare che esso, per rendersi più forte nell’interno si trovasse nelle necessità di sguarnire le Alpi e tirarne i Rugi che vi abitavano e le guardavano. Vennero dalla Pannonia gli Ostrogoti, popolo guerriero, peraltro di ottima indole, fresco di corpo e di animo, senza vizj, con molte pregievoli qualità, che trovate le Alpi—Giulie indifese, scesero in Italia, e condotti da Teodorico, detto in seguito meritamente il Grande, vinto Odoacre, la conquistarono tutta, vi aggiunsero le Alpi nella loro totalità, e anche la Dalmazia, e sino una parte dell'attuale Francia. Teodorico comprese perfettamente che la sicurezza dei suo regno richiedeva una marina, che lo rendesse padrone dell’Adriatico e del Mediterraneo, e non tardò a crearsela. Il regno di Teodorico era un composto di varie nazionalità, che si sarebbero col tempo infallantemente italianizzate tutte. Ma ciò non stava nei decreti di Chi dispone ove l’uomo propone. Vi avea anche allora in Italia una frazione di gente corrotta, viziosa che faceva opposizione, che intralciava in ogni modo, e con ogni mezzo le operazioni del governo, perché forastiero.(73)

Piena di un insensato e stolido orgoglio sprezzava lo Straniero, che la Provvidenza dava all'Italia per rigenerarla. come oggidì, si agitava, tramava, cospirava, chiamavansi altri forastieri a liberar il paese (74).

Si pervenne ad avvelenare gli ultimi anni di quel grande e magnanimo Re, che divenne fiero, intollerante — egli era arriano — contro i Cattolici, ed anche a incrudelire contro di essi. Morto lui dopo trentatre anni di un regno glorioso, l’Italia divenne il teatro di una terribile guerra tra Greci chiamativi dagli Italiani, e tra Goti. Questi, dopo una lotta eroica di quasi trenta anni, vi soccombettero. L’Italia non potè più riconstruirsi. Le conquiste di Teodorico, che ne facevano un tutto intiero, andarono per essa perdute. Gli Italiani, ancorché componessero quanto alla lingua una sola nazionalità, non ebbero più il modo di unirsi, e di formare uno Stato. Per farlo conveniva sopratutto accordarsi con chi era padrone delle Alpi, unirvisi. Unendovisi si sarebbe prodotto uno Stato come era quello di Teodorico composto di parti eterogenee, di popolazioni italiane, alemanne, franche, borghignone, elvetiche, slave, ma che, come già dissi, col tempo si sarebbero italianizzate. Gli Ottoni, i Federighi, uomini di gran polso, avrebbero rifatta l’Italia. La rabbia del partito ghibellino [guelfo] contro il Tedesco, rese l’unione colla Germania, e tanto più la fusione con essa, dalla quale dipendeva la fattibilità di una Italia—Stato, impossibile. Invano sdegnavansi, crucciavansi l’Alighieri ed altri uomini insigni, i quali comprendevano. che l’âncora della salute per l’Italia era la di lei unione coll’impero germanico. La Storia d'Italia dai tempi di Teodorico in poi fornisce la prova la più convincente, che la nazionalità non è l’elemento fattivo degli Stati. Il Signor Cantù dice nella sua Storia degli Italiani parlando dei tempi di Rudolfo di Habsburgo: «di unità, di patria estesa non si aveva concetto, a dire Italiani era poco diverso dal dire oggidì Europei.»

La Spagna, la Francia, l'Inghilterra, la Germania, in generale tutto il rimanente dell’Europa furono in riguardo all'ordinarsi, se non altrimenti in forma di confederazioni, in grandi Stati, molto meno disgraziate, che l'Italia. Non è a dirsi che il riordinarsi, l'unirai non richiedesse dappertutto molto tempo, e non vi fossero dei grandi ostacoli da superarsi. In tutti i detti paesi le nazionalità erano varie, e formavano degli Stati per sé. Ma sentirono il bisogno di congiungersi e una volta, sia in seguilo o delle guerre, o mediante capitolazioni o convenzioni congiunte, videro nello stato al quale appartenevano, la loro patria, l'amarono, e ne fecero l'oggetto di ogni loro affezione, che per lo più si trovò in qualche modo personificato nel loro Sovrano. La Francia come Stato non data che dai tempi dei Valois. (75).

Fino allora vi aveano dei Bretonni, dei Normanni, dei Picardi, dei Borghignoni, dei Guasconi, dei Provenzali, tutti popoli di provenienza e schiatta diversa. Fu lo Stato Francia che ne fece dei Francesi. La Spagna nella presente sua estensione è di una data più recente ancora. Essa non conta che dai tempi di Ferdinando il Cattolico, e d’Isabella di Castiglia.

Sono dessi che unirono col loro matrimonio i regni d’Arragona e di Castiglia, e poi quelli di Navarra e di Granata che conquistarono, in uno Stato, nello Stato Spagna; e le diverse nazionalità di tutti quei regni in una nazione, nella Spagnuola. Anche nella Spagna i Catalani sono di un’altra origine e provenienza che gli Andalusi, e gli Arragonesi, e i Galliziani di un’altra che gli abitanti del regno di Murcia o dell’Estramadura. ché, se nella penisola iberica sono ancora rimaste due nazionalità distinte, la spagnuola, e la portoghese; ciò avvenne, perché i due regni Spagna e Portogallo, uniti sotto Filippo II, più tardi si separarono. E anche la presente nazionalità alemanna è un risultato dello Stato federativo Germania, e non già la di lui causa efficiente. È lo Stato Germania, ohe con grandissimo stento conquistò il paese oltre l’Elba e l’Oder abitato da popolazioni slave pagane e, guadagnatele al Cristianesimo, le germanizzò. (76)

La Prussia fu germanizzata dall’Ordine teutonico, il quale, se le circostanze gli fossero state più a lungo propizie, avrebbe assieme con l’Ordine degli Ensiferi estesa la Germania lungo il Baltico sino alla Neva. (77).

E questa è più o meno anche la Storia della nazionalità Inglese, della nazionalità Danese, della nazionalità Svedese, Russa, Polacca. Se qualche nazionalità resistette, come per esempio la nazionalità Irlandese all’azione uniformante dello Stato al quale apparteneva e appartiene, la causa è da cercarsi in parte nella conformazione insulare del paese e nel di lei isolamento, in parte nell’aver avuto sino alla fine del passato secolo un governo proprio ancorché dipendente dall’Inghilterra, in parte pur anche in altre circostanze. La nazionalità Maggiara si conservò poco men che intatta, perché il regno d’Ungheria era uno Stato distinto dall’Austria, e piuttosto un Alleato che parte di essa.

Ed ora riepilogando il discorso, e conchiudendo dico: che il principio di nazionalità non è mai stato, né nell'antichità, né in altri tempi un elemento fattivo, una causa efficiente degli Stati, i quali per 1ordinario si composero di più nazionalità, le quali hanno finito per compenetrarsi, per fonderai una nell’altra, e per divenire una nazione in quanto che parlava, abbenché in diversi dialetti, la medesima lingua, e la scriveva nel dialetto più colto. E perciò più si studia la Storia, e più e meglio si arriva a conoscere che sono gli Stati che generano le nazioni, e quindi, che è agli Stati che convien rilasciare il processo generativo di esse.

Relativamente alla dimanda se il principio di nazionalità, e i diritti che si vorrebbero derivarne sieno ammessi nei diritto delle genti e nel jure pubblico Europeo, posso dire con certezza, che né in Ugo Grozio, né nei suoi commentatori, né nel Valtel, né nel Martens se ne trova la minima traccia; e che non se ne parlò in veruno dei Congressi che si sono tenuti in Europa per mettere fine alle guerre che vi ebbero luogo pel corso di due secoli e più, da quello che seg né la pace di Westfalia (1648) sino a quello di Parigi del 1856. La nazionalità della popolazione di un paese non ha fornito in nessun di essi un titolo sia per chiederlo o per negarlo. Nel Congresso di Vienna si ebbe molto a parlare sul conto della Polonia; ma sempre soltanto relativamente al bisogno che vi avea, che il Ducato di Varsavia non passasse tutto alla Russia, e nello scopo d'impedire che questa potenza si desse sulla Germania, e in particolare sulla Prussia la posizione militare sporgente e minaccevole che coll’aggregazione di quel Ducato al suo Impero si è data; e non mai in riguardo alla ripristinazione della nazionalità polacca. (78)

Nelle conferenze per la pace con la Francia dopo la guerra del 1815, le Potenze alleate sembravano da principio determinata a toglierle tutta la prima linea delle di lei fortezze contro il Belgio, e contro la Germania, delle quali la maggior parte era già caduta celle loro mani; e in ispezialità chiedevansi dalla Confederazione Germanica, dall’Austria e dalla Prussia l’Alsazia e la Bassa—Lorena. (79).

Ma questa dimanda, alla quale alla fine si rinunzie, motivavasi, non col principio di nazionalità; le due provincie chiedevansi non perché tedesche, ma unicamente e semplicemente perché esse con le piazze di Strasburgo e di Landau, che vi hanno, forniscono alla Francia in una guerra sul Reno straordinarj vantaggi strategie! in confronto della Prussia e dell’Austria.

Del reste come potevasi al Congresso di Vienna dal Concerto Europeo, composte come era e come è di Stati a più nazionalità, ammettere un principio che condanna si manifestamente questa pluralità? Ciò sarebbe stato un suicidio. Gli Scrittori che con tanta severità banno censurato, per non aver date retta al principio di nazionalità, il Congresso di Vienna, avrebbero tenuto, volendo esser giusti, per poco che avessero avvertito alla detta circostanza, un tutt’altro linguaggio. come poteva e potrebbe ammettere il dette principio l’Inghilterra, per tacere delle Indie—orientali, del Canada, di Gibilterra, di Malta, rimpetto all’Irlanda? come la Francia rimpetto all’Alsazia, alla Bassa—Lorena alla Corsica, all’Algeria? la Prussia rimpetto alla provincia polacca di Posen? la Russia rimpetto alla Finlandia, e ai paesi situati lungo il Baltico dalla Neva al Niemen? l'Austria rimpetto alla Galizia, all'Ungheria, al regno Lombardo—Veneto? E sono, nell’istesso caso che le grandi Potenze, anche alcuni Stati minori, come per esempio la Svizzera con una popolazione mista tedesca, francese e italiana; e come il regno Sardo—Piemontese con una popolazione italiana francese, il quale regno ha nella sua Sardegna un'isola distante dalla terraferma 160 miglia italiane, la quale appartenne pel corso di più secoli alla Spagna, e ove si parla un linguaggio, che non è più italiano, che lo è il catalano o il provenzale.

L’italia rivoluzionaria ebbe nel 1848, finché ai trattò di costituzioni libere, in un grado non indifferente le simpatie della nazione inglese solita a vedere in esse la panacea per ogni malattia dei popoli; ed ebbe anche quella della Francia; ma quando la si vide,con Carlo Alberto alla testa, farsi conquistatrice, vilipenderà gli esistenti trattati, e giustificare l'impresa col principio, che le nazionalità hanno il diritto di sollevarsi contro i governi forastieri, le simpatie svanirono. «Parve magnanimo quel grido dell’Italia farà da sé ci dice il signor Cantù e pure il più dannoso sbaglio de sommovitori fu sempre il credere potesse ella operare senza il concerto Europeo; giacché non basta aver ragione ma bisogna averla a tempo». — Mi scusi l’esimio Scrittore se dico che quella parola: l’italia farà da sé fu una pura frase, giacché non si mancò di chiedere e sollecitar ajuti, e che lo sbaglio consistette nel credere, che il concerto Europeo presterebbe ai sommovitori la mono per disordinare ciò che esso aveva ordinato, e a violare gli esistenti trattati da esso sanciti e sanzionati. — «Ora è doloroso e istruttivo continua il nostro autore il confessare come le nazioni dalla nostra rivoluzione ritraessero le simpatie, che universali aveano concedute ai primi movimenti. I Francesi del governo parlavano di carpirsi la Savoia non solo, ma e il contado di Nizza, i Francesi avversi al governo tentarono invadere e ammutinar la Savoia: men tre improperj ci erano lanciati dalle loro tribune,, conforti non ci venivano, se non da pochi, che vo levano carezzar il vulgo fraseggiando la disapprovazione: la dieta tedesca attarantata di libertà, pure giudicò micidiale alla Gcrmania lo staccare il Veneto dall’Austria; il demagogo Kossut prometteva ducento mila Ungheresi per reprimere l’Italia: a Radetzky accoreano studenti delle università austriache, crocciati opposti ai nostri: da Inghilterra avemmo benevolenze, arringhe, libri; ma combattenti, prestiti, doni? Quegli stessi ministri che a suon di mano gridavano: viva Italia, a noi dicevano all'orecchio: rassegnatevi e sommettetevi: e ai padroni, Uccide teli pure che n’avete diritto. E appena la cacciata del Papa ne offri un pretesto, sorse gara fra tutti gli stranieri nello spegnere questi incendj. (80)»

Fatto è che l’Europa simpatizzando con degli atti come la guerra di Carlo Alberto, la quale fu un carpire e un ammutinare, come sarebbe stata l’occupazione per parte dei Francesi della Savoia, e l’eccitar i di lei abitanti a sollevarsi, non sarebbe se non segnare la sentenza della propria dissoluzione, e del suo sfasciamento. Essa perciò, finché Iddio non vorrà perderla, e per perderla non la renderà demente, non cesserà di protestare contro il principio di nazionalità e di respingerlo in ogni occasione, come ha fatto innanzi al 1848, e nel detto anno, e sino al giorno d’oggi. E valga il vero, che fu il soccorso prestato dalla Russia all'Austria nella disgraziatissima guerra d’Ungheria, se non una solennissima grandiosa protesta contro il detto supposto e preteso diritto? E che, se bene e attentamente la si considera, la guerra di Oriente? E che in particolare e segnatamente l'occupazione a modo di guerra nel 1854, per parte di ambedue le grandi Potenze occidentali, della Francia e dell'Inghilterra della capitale del regno Elleno di Attene; occupazione che si ebbe l'approvazione di tutta l’Europa non—russa. Questi interventi non furono se non solenni proteste contro il principio di nazionalità, e contro il supposto preteso diritto di staccarsi da uno Stato ove si parla un altro linguaggio. — Conchiudiamo adunque che l’Europa non ha mai ammesso il detto principio, e che non lo può ammettere.

II. Vediamo non portante i motivi che dai rivoluzionarj ci danno per chiederne l’ammissione. I rivoluzionari in generale si annunciano come riformatori e come dei quasi—profetti. Il mondo, dicono essi, non va come dovrebbe andare, non va secondo gli ordinamenti di Dio. Esso si è allontanato di troppo da suoi principj, e se ne allontana di giorno in giorno di più ed ha il più grande bisogno di nna radicale riforma, e di esservi, al più presto che sia possibile, ricondotto. Noi ne abbiamo la missione; noi siamo gli Eletti per attuarla, abbiate, popoli! fede in noi; lasciateci Tare, ajutateci cordialmente, seguiteci. Non temete; sarete contenti, ogni vostra aspettazione sarà sorpassata di assai. Il male sta nello sperperamento delle nazionalità operato dai congressi politici, e in ispezialità dal congresso di Vienna. Il rimedio sta nella unione di esse in stati—nazione. Già capirete, il vostro buon senso ve lo dirà, che qui fa d'uopo di disfare il malfatto edifizio, e rifarlo secondo le istruzioni e le regole che ci sono date «ab alto»; non temete vi ripetiamo. Gli Stati—nazione dovranno costituirsi in forma di repubblica democratica—socialista. Il mondo diverrà una mensa largamente imbandita, alla quale ci assiederemo tutti senza distinzione, e tutti egualmente lieti, gaudenti, e satolli. L’unione in Stati—nazione costituiti a repubblica democratica—socialista è la «conditio sine qua non» di quell’illimitato incessante progresso, pel quale l’uomo e destinato. Senza tali Stati il mondo, credetemi finirà per imbrutire.(81)

A questo, e a ogni altro discorso, che faccia dipendere la civiltà e il progresso dell'umanità dall’omogeneità delle popolazioni componenti gli Stati, e dalla forma repubblicana democratica—socialista di questo Stato—nazione, risponde già e categoricamente il Cristianesimo; il quale respinge e condanna come pagano, antisociale e sovversivo il principio di nazionalità preso nel senso nel quale lo si prende nella questione italiana. Esso c’ insegna, che ogni legittima potestà e una emanazione della Divinità, e vuole che le si obbedisca senza distinzione sia dessa nazionale o non nazionale; e che i popoli si considerino come popoli fratelli, e come tali si amino vicendevolmente e si ajutino e soccorrino nei loro bisogni. Uno dei maggiori passi che facesse l’umanità nella via della vera civiltà, e del vero progresso sociale e morale, è appunto questa fratellanza dei popoli. «SpogIiatevi scriveva il grande Apostolo e Civilizzatore delle genti San Paolo ai suoi Colossesi: spogliatevi dell’uomo vecchio, e vestitevi dell’uomo nuovo, dove non vi è né il Greco né l’Ebreo, né il Barbare, ma solo Cristo». (82)

Ed ecco invece i nostri moderni maestri del progresso, che vorrebbero indurci a spogliarci dell’uomo nuovo, ed a vestirci dell’uomo di diecinove secoli fa.


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E rispondo al detto discorso pur anche la genesi degli Stati e delle nazioni, che in questo capitolo come meglio si è potuto e saputo, si è investigata; e il fatto, che una reale omogeneità di schiatta, e di provenienza non si saprebbe rintracciare in nessuna delle attuali grandi nazioni di razza latina; non nella nazione spagnuola, non nella nazione francese, e non nella nazione italiana; anzi neppure nella nazione alemanna, e appena, se pure, nella nazione slava. L’omogeneità, che le suddette nazioni di schiatta latina presentano, non è che apparente, derivando soltanto dalla comunanza del linguaggio. Or questa omogeneità che non ha altro fondamento che la detta comunanza, quale particolare e speziale influenza saprebbe e potrebbe essa esercitare sugli elementi fattivi della civiltà e del progresso, s’intende della vera civiltà, della civiltà cristiana, e del vero del morale religioso intellettuale progresso? Nessuna, decisamente evidentemente nessuna. Quali mezzi generativi di civiltà, quali mezzi d’istruzione, e d'insegnamento scientifico ed altro sono necessariamente ed esclusivamente inerenti ad uno Stato come per esempio lo Stato Spagna e lo Stato Napoli, nei quali non si parla se non un solo linguaggio, e quali sono necessariamente esclusi da uno Stato ove se ne parlano parecchi, come per esempio nell’Austria? Qui non vi ha differenza veruna. Egli è chiaro che uno Stato qual’è quest’ultimo, con paesi tedeschi, e con paesi italiani, dovrebbe essere al fatto di tutto quel tanto di buono, di vero, e di bello che vi ha, e si fa in Italia e in Germania; e che esso dovrebbe poter servire di veicolo a questa di ogni civiltà e progresso italiano, e all'Italia di ogni civiltà è progresso alemanno. — Facendosi le stesse dimande che qui si sono faite in riguardo alla dipendenza della civiltà e del progresso dalla omogeneità della nazionalità, in riguardo alla detta dipendenza dalla forma monarchica o repubblicana di uno Stato, si arriverebbe agli stessi resultamenti; ma il soggetto è estraneo all’argomento che qui ci occupa. Conchiudiamo adunque, che la dipendenza della civiltà e del progresso dall’omogeneità della nazionalità è una dipendenza puramente immaginaria e chimerica che non si merita verun riflesso.

Proseguiamo le nostre ricerche. Fra gli scrittori che hanno trattato la questione italiana occupano il primo posto due Piemontesi, il conte Cesare Balbo a cagione del suo libro intitolato: le Speranze d’Italia; e l'abate Vincenzo Gioberti a cagione di diverse opere relative alla detta questione, una più voluminosa dell’altra da lui pubblicate dal 1843 al 1847, e di un'opera postuma pubblicata nel 1851 col titolo: il Rinnovamento civile d’Italia; che è quella che ha per noi il maggior interesse. Noi potiamo tanto meno dispenserà di dedicar alcune pagine alle suaccennate opere, che facendovisi uso senza alcun riguardo al vero di ogni argomento, qualora sembri favorevole allo scopo, forniscono con ciò una ulteriore ancorché indiretta prova, che la causa che vi si difende è una cattiva per non dir pessima causa.

Il conte Balbo esordisce nel primo capitolo dello Speranze d’Italia, il quale è inteso a dimostrare, che l'attuale ordinamento politico dell’Italia non è buono, perché uno dei paesi italiani, il regno Lombardo—Veneto fa parte di uno Stato non italiano, vale a dire dell’Austria, come segue: «— Io parto dal fatto, che l'Italia non è politicamente ben ordinata, posciaché ella non gode tutt’intiera di quello che è primo ed essenziale tra gli ordini politici, quello che anche solo procaccia tutti gli altri buoni necessarj, quello senza cui tutti gli altri buoni sono nulli o si per dono, la indipendenza nazionale. Se tal fosse fra’ miei leggitori a cui l’arguzia del distinguere, o qualunque altro più o men sicuro motivo persuadesse che l'Italia ha questa indipendenza po litica; ovvero che senza averla ella possa essere e dirsi ben ordinata, tant’è ch’ei non continui. Questo scritto s’appoggia tutto sulla incontestabilità, e sull’importanza di quel fatto; non si rivolge se non a coloro che prendendo la parola d’indipendenza nel senso comune, accettato dentro e fuori, credono che una gran parte d’Italia non l'ha, e che una nazione di cui gran parte non l'ha, non è né può dirsi politicamente ben ordinata. E continuando dunque con questi osserverà soprabbondantemente, che la dipendenza di una provincia nostra dallo straniero (del regno Lombardo—Veneto dall'Austria), non solamente distrugge ogni bontà, ogni dignità dell’ordinamento in quella provincia; ma guasta, fa men degni gli ordini dell’altre provincie; non lascia compiutamente indipendenti nemmeno i veri Stati, i principati italiani. Gli esempi di ciò sarebbero facili a darsi, e molteplici; ma forse nojosi ed odiosi. Ed io me ne rimetto, a tutti gli Italiani, e più ai più informati, a quelli che san più su ne’ segreti e nelle pratiche dei nostri governi. Niuno di essi negherà che nei disegni, nei fatti, sovente nelle massime talor nelle minime azioni governative, si senta sia grave sia più grave che qualunque altra potenza straniera, quella che signoreggia una provincia italiana. Non parlo di forme e nemmeno di trattati; i quali so che riconoscono le nostre indipendenze. Ma non son eglino altri trattati che le infermino? E dove non sien questi, non è egli il fatto, l’abito, la prepotenza inevitabile nelle discussioni tra più e men forti?...»

«Né voglio entrare nell'altra trista e lunga enumerazione di quegli impedimenti a’ nostri commercii, alle nostre industrie, alle nostre arti, alle nostre lettere, a tutte le operosità anche privale, che vengono dalla dipendenza diretta d’una gran pro vincia, della indiretta de' principati d’Italia. Non è peggior impegno che volere spiegare a chi non vuole intendere, o a chi intende e non conviene; e chi intende ed è sincero sa molto bene che nelle nazioni come negli uomini non suolo esser compiuta operosità, senza compiuta indipendenza. Non darò dei danni della dipendenza se non un esempio. Il Papa è Papa». —E qui vengono i danni della dipendenza del Sommo Pontefice sull’Austria, la quale lo impedisce di fare il suo uffizio. Il rimanente non ha per noi verun interesse. (83)

Questo discorso del conte Balbo è assai rimarchevole già per la singolar dialettica, che vi s’impiega. L’autore vuol provare che l’italia non è politicamente bene ordinata. Questo è il suo punto d’arrivo «l'id quod est demonstrandum» esso invece ne fa il suo punto di partenza. Il sillogismo è il seguente. Qualunque paese che non gode tutto, assolutamente tutto, della sua indipendenza, è tutto, non eccettuato quel tanto di sé, che è indipendente, mal ordinato, e reso incapace di godersi alcun bene. Or l’Italia non gode tutta della sua indipendenza perché il regno Lombardo—Veneto è austriaco; ergo è tutta, non eccettuata quella parte di sé, che è indipendente, male ordinata e resa incapace di godersi alcun bene... Qui incombeva all’autore di provare il maggiore, vale a dire, che qualunque paese che non gode tutto assolutamente tutto della sua indipendenza è tutto, non accettato quel tanto che è indipendente, male ordinato e reso incapace di godersi alcun bene. Invece egli non ne fa parola. Un tal ragionamento è già formalmente vizioso. Non vi ha adolescente, il quale, purché avesse fatto regolarmente il suo corso di logica, sentendolo o leggendolo non vi avesse apposto il suo «nego majorem». L’autore si occupa esclusivamente del minore sul quale aveva già detto che «una gran parte d’Italia», vale a dire il regno Lombardo—Veneto, non ha l’indipendenza; e si affatica a dimostrare che l’Austria coll’aversi il regno Lombardo—Veneto è all’Italia un peso immenso, una spezie d’incubo che vi impedi sce ogni operosità intellettuale e materiale; incolpazione come tosto si dirà falsissima; cosicché il sillogismo è vizioso e falso anche, per servirmi dei termine della scuola, giacché qui siamo all’abbicci, materialmente.

È già erroneo e in opposizione alle massime e dottrine fondamentali e al linguaggio del diritto pubblico europeo il considerare e il dire il regno Lombardo—Veneto dipendente dallo straniero, perché facente parte di uno Stato ove la maggiorità non parla la lingua del detto regno, ma un’altra. Qui le parole, dipendenza e indipendenza sono fuor di proposito. Il regno Lombardo—Veneto fa parte di uno Stato che è tutto indipendente da ogni altro Stato, e quindi indipendente anch'esso. Vi ha fra le molte stranezze di cotesto discorso anche quella, che la dipendenza del regno Lombardo—Veneto vi distrugge ogni dignità del suo ordinamento. Se ciò vuol dire, che pei detto regno, l’appartenere all’Austria è un’onta, rispondo con quanto ho già detto altrove, che l'appartenenza ad uno Stato e fame parte con doveri e diritti comuni, il quale secondo lo stesso autore è la salvaguardia e il palladio d’Europa (capo IX, p. 150 della seconda edizione di Capolago) è il massimo del decoro; come l’appartenere ad uno Stato che non dà pace, che non rispetta trattati, che vorrebbe veder l’Europa in fiamme, che si fa l’oggetto delle imprecazioni di ogni ben pensante, non può non essere per un paese il maximum della degradazione. Se si pensa che il regno Lombardo—Veneto ba per confine coi principati italiani, con l’eccezione di una frazione del Mantovano, il Po, il Ticino e il Lago Maggiore, dunque una frontiera ben definita e precisata, si comprenderà, che le relazioni di vicinato dell’Austria con l’Italia sono tuttociò che fra gli Stati limitrofi si può desiderare. Il concerto Europeo, inteso nel 1814 e 1815 ad assicurare all’Europa il più che fosse possibile la pace, assegnò all’Austria il regno Lombardo—Veneto, la quale lo toise a Napoleone con una guerra gloriosa che le costà non poco sangue, a garanzia e protezione degl’interessi Europei; e glielo avrebbe assegnato anche nel caso che i Lombardo—Veneti, come pur fecero, non avessero desiderata e dimandato di esserle aggiunti. L’Austria non si permise nessun sopruso della sua missione. Essa accorse e passò il Po, o il Ticino in soccorso dei principali quando da essi chiamata, mai altrimenti. Gl’inciampi che avrebbero a derivare all’operosità intellettuale e materiale degli Italiani dalla presenza dell’Austria nel regno Lombardo—Veneto sono una fatuità. Nessuno nella Germania considera la presenza dell’Austria nelle di lei provincie tedesche come un inciampo all'operosità intellettuale e materiale alemanna.

Quanto alle relazioni politiche fra l’Austria e l’Italia il conte Balbo è tutt’altro che ben informalo. Il vero è, che le corti di Napoli, di Roma, di Torino, e sino quella di Firenze, ancorché il Granduca fosse fratello dell’Imperatore Francesco, erano appena ristabilite nelle loro sedi, che si abbandonarono all'idea, che l’Austria, comecché la potenza la quale aveva in provincialità cooperato alla loro restaurazione, e che coll’aggregazione al di lei impero del regno Lombardo—Veneta erasi in qualche modo fatta Stato italiano, assumerebbe su tutta l’Italia una spezie di supremazia. Da ciò nacque non tanto nei principi, quanto nei loro ministri una gelosia portata sino all’assurdo. Ogni di lei desiderio, ogni domanda eccitava sospetti e timori, che crebbero sempre più quando videro che il governo austriaco forastiero era più italiano che il loro (84).

, e che esso per la regolarità del suo andamento, per la mitezza delle sue leggi, per la incorrotta sua giustizia; pel contegno e la disciplina della sua milizia non lasciava nulla a desiderare. Né fu altro che la bontà del governo, che spinse i settarj a dar principio alle trame e alle cospirazioni, e a correre a Napoli per eccitar Gioacchino Murat a sortire dal regno. Non c’è tempo da perdere, dicevasi: questi barbari la sanno lunga, si guadagnano di giorno in giorno più il popolo e le masse. L’esercitare una qualunque influenza sulle corti con la gelosia che rodeva il cuore dei ministri sarebbe stata impossibile, se anche si avesse voluto esercitarla. L’Imperatore Francesco, principe di un raro giudizio e grande esperienza, nato italiano, educato e cresciuto a Firenze, era italiano, e amava svisceratamente l’Italia; rideva della guerra, che gli facevan le corti italiane, volle che assolutamente si evitasse tutto ciò che potesse dar loro ombra; o diceva alle persone del suo seguilo, vedrete che non tarderanno ad aver bisogno di noi, e che non mancheranno di chiamarci in ajuto.

Il conte Balbo ha dedicato. oltre il primo anche il settimo capitolo delle sue Speranze d'Italia, intitolato: «Breve Storia dell’impresa d’indipendenza (italiana), proseguita sempre, non compiuta mai per tredici secoli», ad una indiretta dimostrazione del diritto derivante dal preteso principio di nazionalità, che avrebbero tutti i paesi italiani di unirsi e di affrancarsi da ogni dominio forastiero. Egli ha voluto vedere in un’impresa che dura già tredici secoli una incessante protesta contro ogni dominio forastiero. Si vede che il conte Balbo era bensì un «nero Cherubino» ma senza esser «loico» (85).

Un impresa proseguita sempre pel corso di tredici secoli senza mai poterla compiere, anzi avendo sempre a ricominciare, prova da sé, che in essa non vi ha senso comune, e che Iddio non la vuole. Questa è la sola ragionevole conseguenza e l’unico insegnamento da dedurne. —Ma vi ha qui il dippiù, che lo stesso conte ci sa dire nel suo, «Sommario della Storia d'Italia»: non avere gl’Italiani mai saputo elevarsi all’altezza di una tal impresa, e ciò neppure nel medio evo nelle loro guerre contro gl'imperatori di Germania. Per provare che questa breve storia dell’impresa d'indipendenza italiana non è che una lunga fa vola, non fa bisogno che di ricorrere al detto Sommario, ove replicatamente, quasi in ognuno dei libri nei quali è ripartito, il conte ci rivela il tristo caso, che gl’Italiani non sentirono mai il bisogno di unirsi e di affrancarsi; accompagnando sempre le sue rivelazioni

« con lamenti

«Che suonan come guai, ma son sospiri».

egli ci dice, che nelle leghe e confederazioni italiane — «mancarono sempre le due parole, e nella mente dei segnatarj le due idee: unità e indipendenza—libro VI. c. II. e aveva già detto nel libro V. c. 10. Nella storia come nella realità non è peggior dolore che d’avere a lodare il governo degli stranieri. Ma prima di tutto la verità. Le città che siamo per vedere talvolta liberate, talvolta liberarsi non furono mai pienamente libere, nemmeno di nome, nemmeno nelle loro pretensioni, sempre riconobbero la supremazia dell’imperatore straniero, e la riconobbero molti Papi, e i più dei principi».

E perciò il conte Balbo non che provare la necessità di ammettere il principio di nazionalità nel diritto pubblico Europeo ci fornisce nell'Italia, e coll’Italia, la prova più incontrastabile che mai si possa desiderare, che il principio di nazionalità è un pensiero n u ovo nuovissimo, improvvisato dagli agitatori italiani qual pretesto, e qual leva rivoluzionaria, che figurerebbe assai malamente nel diritto pubblico Europeo.

Ci rimane in riguardo all'oggetto che qui ci occupa di sentire anche l’abate Gioberti. Secondo questo scrittore, che fu a suo tempo la cima degli agitatori italiani, non si saprebbe far troppo presto non solo ad ammettere il principio di nazionalità, ma a disfare quanto prima l'Europa e riordinarla a norma di esso. Quella buon’anima di un profeta—filosofo, non rifuggiva dall’idea di una conflagrazione generale Europea per attuare il detto principio. Questo nuovo Erostrato a mille doppj non esita a farci sapere: «— Che il rinnovamento civile dell’Europa (come egli verrebbe incamminarlo) non potrà sottrarsi alla necessità di demolire prima di edificare; e però invece di aver aspetto di riforma, avrà piuttosto quello di rivoluziooe. Dovrà tuttavia guardarsi da ogni eccesso, perché la distruzione se non è necessaria, è piena di pericoli, anzi è pregna di regressi e di danni certissimi (86)» Egli ha trovato che Nazione e Stato sono tutt’uno, che gli Stati a più nazionalità sono Stati viziosi, che contengono in sé il germe della loro dissoluzione e morte. E avverte inoltre, che con tali stati l’equilibrio politico é una chimera; che essi, composti come sono di parti eterogenee che vicendevolmente si paralizzano o si respingono devono necessariamente render il tutto debole e impotente a lottare con uno stato cosi enormemente preponderante, e cosi pieno di vita come la Russia (87).

A questi pronunciati assiomatici rispondo: essere assurdo il dire che gli Stati Europei non sono secondo natura, se consta, e se la storia e là, la quale ci dice, che nessuno di essi è l'opera di una qualche Costituente, bensì ciascuno quella del tempo, dei secoli,. della Provvidenza, ossia della natura; che vi ha, come è già stato rimarcato in questo stesso capitolo, distribuiti i popoli senza distinzione di schiatta di origine e di provenienza, e i paesi senza lasciarsi fermare da fiumi, da mari e da monti. Egli ci vorrebbe far credere «che già la costituzione primogenia dell’uomo abbia, nei figli di Noè, introdotto le distinzioni nazionali seconde le nazioni, le genti, e le lingue;, che sono i tre elementi fattivi delle nazionalità, come tosto la schiatta umana fu abbastanza moltiplicata; e che lo facesse con tale aggiustatezza, che uno stato moderno non potrebbe meglio, tanto che questa di visione fu da gran lunga più civile e sapiente della viennese (88).

». Tutto ciò è contraddetto e dichiarato falso dalla Storia. Quale Stato era più un aggregato di popoli diversi che lo Stato Roma? Eppure durò esso in Occidente a contare non più in là che da Giulio Cesare che vi aggiunse le Gallie, sino a Odoacre che vi pose un fine, oltre a cinque, e nell’Oriente oltre a quattordici secoli. Quante volte non si trovò esso, già sotto la repubblica, e poi sotto gl’imperatori, implicalo in guerre civili con tutte le sue legioni impegnate a sostenere i pretendenti alla dittatura o all’impero, eppure non si sciolse?

E che prove di solidità non diede l'Austria ancorché composta di diverse nazionalità alla morte di Carlo VI, quando una delle più possenti coalizioni che mai si videro, si dispose a sbranarla. La monarchia sorti dalla lotta gloriosa e più consolidata che mai. Le si carpi la Slesia, e il Novarese. Ma non vi ebbe alcuna delle di lei nazionalità, che non fosse diposta e pronta a qualunque sagrifizio per salvarla, qual Austriaco non si ricorda quel magnanimo grido degli Ungheresi: «Moriamur pro rege nostro Maria—Theresia?»(89).

Né vi ha più ragione e giudizio nell’ascrivere come fa il nostro autore alla pluralità delle schiatte negli Stati Europei, se l’equilibrio politico talvolta va cilla, o va anche perduto. Quale Stato si è più prestato all'equilibrio politico contro la preponderanza francese dai 1792 sino al 1814, che l'Austria con le tante e si diverse suo nazionalità? E quale meno della Spagna e della Prussia, che già nel 1795 abbandonarono la causa dell’Europa, e segnarono la pace di Basilea, ancorché la prima non contenga che una, e la seconda che due nazionalità. Egli è quindi chiaro e manifeste che anche nell’abate Gioberti il principio di nazionalità non era che un pretesto revoluzionario, e una leva per disfare l’Europa. —

III. Ora che abbiamo potalo convincersi, essere la dipendenza, che si allega della civiltà, del progresso, della prosperità e della stabilità degli Stati, dai principio di nazionalità una dipendenza supposta e mentita, e lo stesso essere il caso di quella dell’equilibrio politico dai detto principio, facciamoci a soddisfare all’ultima parte del nostro assunto in questo capitolo, cioè allo sviluppo e alla considerazione delle conseguenze che avrebbe il principio di nazionalità sulla condizione politica dell’Europa, attuandovelo nel senso che esso ha nette questione italiana; vale a dire, che ogni paese abbia a staccarsi da uno Stato ove non si parla il suo linguaggio e ad unirsi a quello ove lo si parla. Qui vogliamo supporre l’Europa in seguito ad un generale conquasso disfatta, e nell’aspettazione di essere riordinata secondo il principio di nazionalità, riunendo le genti secondo le schiatte, cioè, secondo le lingue, in tante Nazioni—Stato. Suppongasi dunque che alla voce: popoli alzatevi, separatevi dai popoli di altra schiatta che la vostra, e che non parla il vostro linguaggio, e unitevi a di quelle, che lo parlano, la separazione si faccia all’istante e non incontri verun ostacolo. Or si dimanda, che Stati ne sortirebbero? a quanto monterebbero le rispettive loro popolazioni? e quali ne sarebbero i confini; se regolari o non regolari, se suscettibili o no di difesa? Le risposte non sono difficili né dubbie. L’Italia comporrebbesi, come già si è detto nelle prime pagine di questo capitolo, dei principati italiani già ora indipendenti, ai quali verrebbe aggiunto: il regno Lombardo—Veneto col Tirolo italiano; il canton Ticino, e la valle di Poschiavo; la Corsica e Malta. La sua popolazione sarebbe di circa 26 milioni. Il di lei confine s’internerebbe più o meno nelle valli subalpine, ma non raggiungerebbe che per brevi tratti la catena centrale delle Alpi. I passi, pei quali le si traversano, rimarrebbero tutti, senza eccezione, alle nazionalità limitrofe; in modo che la si troverebbe senza una frontiera suscettibile di difesa, e aperta ad ogni invasione straniera, sia per terra o per mare. — La Francia perderebbe l’Alsazia e la Bassa—Lorena, ma acquisterebbe il contado di Nizza, la Savoia, la Svizzera francese, il Belgio francese, e le isole poste rimpetto alla Normandia. La sua popolazione oltrepasserebbe i 40 milioni; i suoi confini sarebbero per la maggior parte irregolarissimi, però non tanto a suo svantaggio, che a svantaggio dell'Italia e della Germania. Tutti i passi nelle Alpi occidentali sarebbero ad essa. — La Svizzera cesserebbe di essere; e cosi anche l’Austria. — La Germania comprenderebbe la Svizzera tedesca, l’Austria tedesca, l’Alsazia, e la Bassa—Lorena, il Belgio di schiatta alemanna, l’Olanda, la Danimarca, e le provincie alemanne—russe situate lungo il Baltico; la sua popolazione sommerebbe per lo meno a 50 milioni; il suo confine sarebbe da ogni lato irregolarissimo. — La Russia acquisterebbe tutta la Polonia, e inoltre tutti i paesi slavi dell’Austria, e dell’Impero turco, estenderebbesi dal mare Glaciale sino al mare Jonio, e dalla China sino al Isonzo; e occuperebbe con l’Illirio l'Istria, ed anche la Dalmazia inclusivamente a Ragusi. La sua popolazione depasserebbe i 90 milioni, e non tarderebbe, stanle che vi ha un annuo aumento assai considerevole, a depassarne anche i 100. — L’Inghilterra spezzerebbesi in due Stati, dei quali uno con 1milioni d’Inglesi, e l’altro con 10 milioni d’Irlandesi Scozzesi e Gallesi. I due Stati, occupando due isole, sarebbero separati dal continente, ma non avrebbero neppur essi, uno con l’altro, se non un confine ora sporgente ora rientrante, e quindi assai irregolare. —La Spagna unita ai Portogallo avrebbe una popolazione di 20 milioni, e sarebbe il solo Stato Europeo che avrebbe dei limiti naturali. — La Svezia con la Norvegia; l’Ungheria con la Transilvania coi soli comitati maggiari; la Grecia con l'Epiro e la Tessaglia sarebbero Stati di secondo e terzo ordine.

Il continente Europeo sarebbe perciò ripartito in cinque Nazioni—Stato che sono, Spagna, Francia, Italia, Germania e Russia. L’Italia con una popolazione di 26 milioni ripartita su di un continente, su di una lunga e stretta penisola, e su tre isole, con interessi diversi troverebbesi a contatto con la Francia, la Germania, e la Russia; tre Stati compatti, ai quali essa fornirebbe il campo per le loro guerre e battaglia, come l’offri per lo passato ai Franchi, ai Greci, ai Saraceni, ai Francesi, agli Spagnuoli, e ai Tedeschi, senza avere un sistema di difesa, e senza i mezzi e il modo di darselo. E come l’Italia, sarebbe tutta l’Europa con delle frontiere intralciate e disordinate, e nella necessità di ordinarsi di nuovo secondo il principio dei limiti naturali; occupando i frapposti paesi senza alcun riguardo a schiatta e a linguaggio; e cosi ritornando agli Stati a più nazionalità, i quali con la più riprovevole spensieratezza e malignità si sarebbero demoliti. Non si osa pensare alla situazione e condizione nelle quali l’Europa troverebbesi. Tale si mostra il principio di nazionalità nelle sue conseguenze. E per ciò, il dire: gli Stati a più nazionalità sono Stati contro natura, è, nell’ordine politico, non meno un’orrenda bestemmia, che il dire: la proprietà è un furto, lo è, nell’ordine sociale.

Quanto all’altro dei due principj dai quali si parte nella questione italiana, quello dei limiti naturali, il caso è rarissimo che lo si possa mettere d’accordo coi principio di nazionalità. In generale anch'esso è un fomite di violenze e di guerre, e quindi anch’esso un principio ostilissimo alla pece del mondo (90).

Che risulta dagli studj esposti. in questo capitolo? Risulta che le pretensioni della questione italiana sono ingiuste, incongruenti, senza alcun ragionevole fondamentali principj dai quali vi si parte assolutamente inammissibili, e nel massimo grado riprovevoli; ché il regno Lombardo—Veneto è un’aggiunta fatta all’Austria dagli avvenimenti, dalla Storia, dalla Provvidenza; che esso, facendo parte della potenza Europea coi è imposte in principalità il mantenimento della pace e del1’ equilibrio politico dell'Europa, non ha nulla che invidiare, relativamente alla sua condizione economica, civile e politica, e a decoro e dignità di situazione, a qualsisia altro paese italiano, anzi a qualsisia altro paese Europeo.


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CAPITOLO VI

Sopra le relazioni della questione italiana con la ripartizione

e con la configurazione geografica, e con la struttura topografica dell'Italia, e sopra le false idee che entro e fuori d'Italia si hanno sulle Alpi.

Mi è occorso più volle nell’esposizione di questi studj di avvertire, che le Alpi, sino alla di cui catena centrale la nuova Italia avrebbe ad estendersi, non sono monti italiani; e vi ho dello già nell’introduzione, che la della catena non è mai stata il confine politico dell’Italia; che le Alpi sono in quasi tutta la loro estensione conformate dalla natura in modo a presentare un vallo, non contro la Germania, ma contro l'Italia; che perciò quel

«Ben provvide natura al nostro Stato,

Quando delle Alpi schermo

Pose fra noi, e la Tedesca rabbia»;

del buon Petrarca, può stare in poesia, ma non sta minimamente in verità; ché segnatamente le Alpi Giulie, le Alpi Carniche, e le Alpi Retiche sono rispettivamente monti illirici, carinziani e tirolesi, e, detto in una parola, monti austriaci; che coteste Alpi sono tante vaste Acropoli, con guarnigioni austriache, a cavaliere del paese sottoposto rinchiuso fra l'Adriatico, il Po, e il Ticino, vale a dire, dei regno Lombardo—Veneto; e quindi avervi bensì il dito di Dio, ma indicar esso t utt’altro che ciò che vi vogliono vedere gli agitatori italiani; che le or specificale Alpi non si sono mai difese contro le genti e le armate, le quali provenienti dal Nord e dall’Est invasero l’Italia; che i Romani non le difesero in verun tempo; che non le difesero neppure nelle guerre civili sotto gl’Imperatori; doversj dire lo stesso degli Italiani, che mai le difesero contro gl’Imperatori di Germania.

Egli è ormai tempo di dare in riguardo a tutti questi asserti le dovute spiegazioni e dilucidazioni, e di dimostrare, essere dessi dei fatti, in parte tali, che basta aver occhi che vedono, per ammetterli; in parte fatti istorici riconosciuti e ricevuti come fatti da ogni uomo colto, che sia stato nel caso di fare degli studj regolari. Queste spiegazioni e dilucidazioni sono il principal tema del presente capitolo. Però vi premetto alcuni avvertimenti geografici, e topografici, che dànno a dividere, aver la stessa natura messo nella ripartizione configurazione, e struttura dell’Italia dei signifîcantissimi irremovibili ostacoli alla di lei unità politica; e alla fine conchiudo, che l’Italia nella presente sua forma e condizione politica è ciò che la sua ripartizione e configurazione geografica e la sua struttura topografica, e la storia, la natura, la Provvidenza l’hanno fatta; e quindi che la di lei politica dovrebbe essere di considerarsi come parte dall'Europa, di mettere i suoi interessi il più che fosse possibile in armonia con gl’interessi politici Europei; di farsi ricevere come membro nel Concerto Europeo, e di cooperare con esso in generale e in particolare coll’Austria a mantenere in Europa la pace e l’equilibrio politico: né avervi per essa altro modo di essere ciò che Dio vuole che la sia, e di farsi il paese antesignano nella cristiana civiltà, e in ogni vero progresso, che sembra lavora di lei missione.

I. La Spagna col Portogallo è penisola; la Francia è continente; la Gran—Bretagna isola; l'Irlanda isola istessamente; la Germania continente; la Svezia con la Norvegia penisola; la Russia continente. —Cosa è l’Italia? L’Italia è continente nell’Italia—Settentrionale; penisola nell’Italia—Centrale, e nell’Italia—Meridionale; e isola nella Sicilia, nella Sardegna, e nella Corsica. L’Italia non ha perciò nulla di ciò che costituisce l’unità sostanziale di un paese; vi manca niente meno che l'elemento unitario geografico. Questa mancanza dell'unità geografica non saprebbe non essere un impedimento perenne, incessante, irremovibile, assoluto alla di lei unità politica. Come possono queste tre divisioni geografiche non costituire tre diversi paesi, con diversi bisogni, e quindi con diversi interessi? Qui vi ha una forza irremovibile, indistruttibile, potentissima di disunione, che una Roma, che un Teodorico poterono comprimere la quale però non mancò appena che la mano che la teneva compressa ne fu ritirata, di rialzarsi, e di farsi viva. Questa sostanziale mancanza di unità nelle parti con le quali si vuol fare la nuova Italia è da sé sola più che sufficiente a impedire l’unione italiana e a rendervi impossibile ogni spontaneità. Per rimovere un tal ostacolo vi vorrebbe un Alessandro, un Giulio Cesare, un Napoleone; e vi vorrebbe il Senato e il popolo romano acciò l'opera si consolidasse.

Un ulteriore egualmente irremovibile impedimento all'unione italiana risulta dalla stessa configurazione geografica dell’Italia. La costa bagnata dall’Adriatico partendo dal Timavo, dopo aggirato lo sbocco dell’Isonzo e Grado, si avvicina a Venezia nella direzione dal Nord—Est al Sud—Ovest; e, raggiunto il lido innanzi alla detta città, cangia bruscamente di direzione, e prende quella dal Nord—Ovest al Sud—Est. E lo stesso è il caso con la costa bagnata dal Mediterraneo: La sua direzione da Nizza sino a Genova è dal Sud—Ovest al Nord—Est. A Genova cangia anch’essa di direzione, e si rivolge egualmente dal Nord—Ovest al Sud—Est. Cosi si produce la penisola italiana, la quale si spartisce alla sua estremità in due, e si allunga nella penisola orientale sino al capo di Leuca 117, e nell’occidentale sino al Capo delle Armi 128 miglia geografiche di 15 al grado, distanza non minore di quella dal confine belgio—francese ai Pirenei; e ciò su di una larghezza alla base di 38; fra Viareggio e Ravenna di 23; fra il Monte Argentaro e Ancona di 33 e fra lo sbocco dal Garigliano e quello del Trigno nel regno di Napoli, di sole 18 miglia. Napoleone vedeva in questa configurazione la principal cagione del suo spezzamento (morcellement) in più principati e repubbliche indipendenti. «La sua lunghezza cosi dettava egli a chi scriveva nell’isola di St. Elena le sue memorie, è fuori di proporzione con la sua lunghezza. L'Italia avrebbe dovuto finire al monte Vellino, vale a dire all’altezza di Roma, e tutte il territorio compreso y fra il dette monte e il mar Jonio con la Sicilia riporsi fra la Sardegna, la Corsica, Genova e la, Toscane. Non è se non cosi prosegue egli che potevasi ottenere un centre a portata di tutta la, circonferenza; cosi solamente poteva avervi unili di clima, e unità d’interessi locali. Ma le Ire grandi isole da un lato, la di cui superficie importa un terzo della superficie di tutta l’Italia, e dall’altro quella, parte della penisola che forma il regno di Napoli sono, in riguardo ai bisogni ed interessi locali e al clima, paesi stranieri per la valle del Po (91)».

Napoleone tratta anche la questione italiana relativamente al centre e alla capitale che avrebbero a darsi all'Italia unita tutta intiera, continente, penisola e isole in un solo e unico Stato. Egli non parla che di Venezia e di Roma, come se la questione fosse circoscritta alla scelta fra le due città; e dice che molti propendono per la prima, perché il maggior bi«sogno detta nuova Italia sarà sempre quello di farsi potenza marittima; e perché la di lei posizione la rende inespugnabile, e ne fa l'emporio del commercio col Levante, e con la Germania. Il suo discorso però non lascia verun dubbio, che egli dava la preferenza a Roma, la quale, ciò non può negarsi, è per certo un punto molto più centrale che non Venezia. Ma il vero è che un paese composto come l’Italia di un lungo e relativamente stretto continente, di una lunga e relativamente stretta penisola, alla di cui estremità si aggiunge la maggiore delle sue isole, mentre le altro duo sorgono dai mezzo del Mediterraneo separate dalla terra—ferma non da un stretto canale, ma da un spazioso mare, abbisogna per lo meno di tre centri, e di tre capitali; di un centro e di una capitale pel suo continente che potrebbe essere Milano, e meglio ancora Verona; di un centro e di una capitale per la sua penisola e per la Sicilia che potrebbe essere Roma, e di un centro e di una capitale per la Sardegna e la Corsica che potrebbe essere Sassari.

E osta all'unione italiana anche un terzo, e quello certamente gravissimo impedimento: il quale è l’elemento topografico. Mentre l’elemento geografico divide l’italia in tre grandi ripartizioni, suddivide l'elemento topografico già il di lei Continente per lo meno in sei diversi paesi, dei quali ciascheduno fu durante dei secoli Stato per sé, col suo centro e la sua capitale, e sostenne guerre e ha la sua propria storia; e non tanto suddivide quanto sminuzza anche la Penisola, e fa poco men che lo stesso anche con lo tre isole con la Sicilia, la Sardegna e la Corsica.

L’Italia Settentrionale è bensì una gran conca circondata al Nord, all’Ovest, e al Sud da monti, e p. oi dal mare. Ma considerandola con attenzione non si tarda a ravvisare nel Piemonte, circoscritto come esso è dalle Alpi, dagli Appennini, dalla Scrivia, dal Ticino e dal Lago Maggiore, un paese, che ha la sua propria circonferenza, e tutto l’occorrevole per farne uno Stato da sé. Ed un tal paese è anche il versante meridionale degli Appennini, la cosi detta Riviera di Genova, la quale è un lungo e stretto litorale, ma che ha la sua capitale sul mare, ed ebbe in questo una forza vitale che ha bastato a farne una potenza marittima capace di lottare in lunghe e terribili guerre con Venezia, in quei tempi la prima potenza marittima dell’Europa. Ed un paese per sé è anche la riva destra del Po, e un simile anche la riva sinistra; i quali ambidue si suddivisero e restarono suddivisi durante dei secoli in più Stati; cosi la riva destra nello Stato di Parma e di Piacenza, e in quello di Ferrara; e la riva sinistra nello Stato di Milano è in quello di Venezia.

Quanto alla Penisola non temo di essere contraddetto se dico, che difficilmente vi ha in tutta l’Europa un paese cosi sminuzzato come questa ripartizione dell’Italia. Non sono che pochi anni che si ha detta Toscana, e degli Stati pontificj una carta topografica tale da poter su di essa istudiarne la struttura e la conformazione. Istudiandola si vede che le acque e il fuoco sotterraneo vi devono aver infuriato in un modo straordinario. La catena centrale degli Appennini vi si vede in più siti non solo dalle acque corrosa, ma solcata dalla cima al fondo, e vi si trovano innumerevoli crateri di vulcani estinti.

Ho già avvertito che la linea di distacco della penisola dal continente è quella che congiunge Genova con Venezia. Questa linea passa per Brescello, rimane sulla destra del Po sino a Ostiglia, passa ivi questo re dei fiumi italiani, traversa alcune miglia italiane al Sud di Legnago l’Adige e finisce a Venezia. E perciò non tutta la conca del Po appartiene al continente italiano, nna parte che comprende il Padovano meridionale, il Polesine e le Legazioni fanno parte della Penisola. Egli è Vero peraltro che comunemente si risguarda qual confine della Penisola la catena centrale degli Appennini, che aggira alla loro origine il Serchio, l’Ombrone, il Sieve, l’Arno, e il Tevere, e le due di lei diramazioni ambidue non men alte, né men aspre di essa, che partono, una dall’Alpe di Mammio nel Modenese e raggiunge il Mediterraneo fra Pietra—Santa o Massa, e l’altra dal Monte maggiore al Nord di Borgo—San—Sepolcro e raggiunge l’Adriatico a poca distanza di Rimini; il quale confine coincide in gran parte con quello che ebbe la Penisola dal tempo che la divenne tutta romana, sino ai tempi di Auguste. Al Monte maggiore all’origine del Tevere, al Nord di Borgo—San—Sepolcro la catena centrale si ripiega nella direzione della Penisola, vi entra, e la riparte in due versanti in modo che il versante orientale che scarica le sue acque nell’Adriatico rimane sino al Tortore, influente dell’Adriatico, e sino al monte Gargano nel regno di Napoli, più stretto di molto dell'occidentale. Esso ivi non solo si allarga ma anche si appiana.

Gli Appennini della Penisola italica sono stati detti somiglianti ad una spina dorsale. Ma questa immagine farebbe supporre, che essi sono una catena montana continua, dai due lati della quale partono le diramazioni in direzioni ad essa perpendicolari, e senza deviarne traversano i due versanti sino al mare. Ma il caso è molto diverso. La catena centrale degli Appennini della Penisola non è tale sé non relativamente al versante orientale, giacché la raggiunge la Sibilla e vi si annoda senza minimamente diramarsi nel versante occidentale; e perché partono dalla grande giogaja toscana per la Penisola diverse catene montane, e non essa sola, le quali tutte con più d men lunghi giri raggiungono il detto monte, vi si annodano e negli intervalli si collegano. Il sistema montano ossia corografico della Penisola è quindi un graticolato di monti e di colli con dei vasti bacini suddivisi in una infinità di conche e di valli un di chiuse, il quale perciò non ha e non può avere veruna somiglianza con una spina dorsale. Ma le acque che in quei bacini, e in quelle conche e valli chiuse stagnavano ebbero col tempo, se pure non venne in loro soccorso qualche possentissima corrente marittima, il modo e le forze di solcare le pareti dei loro serragli e di erompere da essi, e di scaricarsi nei due mari laterali, e alcune anche nel mar Jonio, cioè nel golfo di Taranto. Le catene di questo graticolato esistono ancora, ancorché rotte e spezzate, e esistono le sue anella e le sue maglie, vale a dire i bacini, le conche e le valli che i monti intrecciandosi chiudevano. Il sistema idrografico prodottosi col vuotarsi dei laghi non ha se non modificato il primitive sistema corografico, e ne ha, coi fiumi e torrenti, e cogli alvei che essi si sono scavati anzicché diminuita, rinforzata l’azione frastagliante e diversificante.

Egli è in forza della azione congiunta e combinata dei detti due sistemi, che l'elemento topografico ha segnato con una particolar precisione nella Penisola, come in veruna altra parte dell’Europa e come neppure nell’Italia continentale, le ripartizioni territoriali. Le provincie che compongono il regno di Napoli potrebbero essere tanti Principati o Repubbliche, come 28 fa un di la maggior parte di esse. Li due Abruzzi orientali sono paesi non meno segregati dall’Abruzzo occidentale, e da ogni altra provincia e parte del regno di Napoli mediante il Pizzo di Sevo, il Morone, e la Majella, monti di 7 sino a 9000 piedi di elevazione sopra il livello del mare, che la Savoia dal Piemonte mediante il Tabor il Rochemelon, il Jouvet, il Mont—Blanc. E se anche il grado della segregazione è nelle altre provincie napoletane molto minore che quelle degli Abruzzi, non pertanto è desso per quanto in questi ultimi tempi siansi ammigliorate e aumentate le comunicazioni sempre ancora rilevantissimo. Né e altrimenti caso colla Toscana, e con gli Stati—Pontifici. La Toscana si trovò divisa per dei secoli fra quattro repubbliche indipendenti l’una dall’altra senza alcun nesso reciproco politico. Contemporaneamente non vi avea negli attuali Stati Pontificj città di qualche importanza che non avesse il suo proprio governo. Questo spezzamento politico non era che una naturale conseguenza dello spezzamento topografico. —Avrei ancora a parlare dell’Italia isola. Ma tanto la Sicilia che la Sardegna e la Corsica hanno la medesima struttura topografica che la Penisola; il sistema corografico è in tutte le Ire Italie un graticolato di monti che le acque hanno solcato e spezzato. D’altronde la condizione d’isola è anche essa una condizione topografica.

Or come sperare di far un’Italia con elementi tanto ostili alla di lei unione? La Storia degli Italiani non si saprebbe comprendere e meno ancora spiegare senza ricorrere alla mancanza dell’unità geografica, alla mancanza di un centro, e all’azione del suo elemento topografico. «Nessuna nazione parla il conte Balbo, al quale di tratto in tratto scappa la verità chiara e luminosa per quanto la sua smania di far grande il suo Piemonte l'inceppasse—Nessuna nazione fu riunita in un corpo, men sovente che l’italiana. L’Italia anteriore a’ Romani fu divisa tra Tirreni, Liguri, Ombroni, Fenici, Pelasgi, Greci, Galli e forse altre genti concorsero nella nostra penisola occidentale rispetto al mondo d’allora a quel modo che si con corse poi nell’America moderna, e concorre ora nell’Oceania. — I Romani riunirono si la penisola a poco a poco, ma posero a ciò non meno tempo che a conquistare l’intiero mondo lor noto; la conquista de' Salassi fu l’ultima fatta da Augusto prima di chiudere il tempio di Giano, prima di fermare i limiti a lasciar come arcano d’imperio il non oltre passarli. Ei non fu dunque, se non insieme con tutte un mondo, che l’Italia rimase riunita sotto l'imperio. E cosi poi di nuovo, insieme con molte altre provincie, sotto Teodorico, per una trentina d’anni. E quindi, se si voglia parlare d'un regno d’Italia propriamente detto, dell’Italia riunita in sé senza altre appendici, non se ne troverà in tutta la storia se non un esempio intermediario fra la di struzione dell’imperio e Teodorico, un periodo di tredici o quattordici anni sotto Odoacre. Dopo Odoacre l’Italia si ridivise tra Goti e Greci: i Greci la riunirono per altri dieci anni; ma come provincia di lor imperio lontano. Poi fu divisa fra Greci Longobardi; poi tra Longobardi Beneventani, Franchi e Greci; poi tra Beneventani, Imperatori Franchi, Borgognoni, Tedeschi o Italiani, Saraceni e Papi, poi tra Sassoni, Beneventani, Saraceni e Papi, poi variamente ad ogni anno, ad ogni mese, tra Imperatori, Papi, Comuni Guelfi, Comuni Ghibellini, Normanni, Angioini, Aragonesi; poi tra Francia ed Austria e Stati come poterono indipendenti; poi Spagna e Stati; poi Francia, e residui di Stati; ed ora Austria e Stati. Io non so per vero dire qual possa dirai sogno politico, se non dicasi questo: d’un ordina mento, che non ha nella storia patria, se non un esempio di quattordici anni, e che non sarebbe se non restaurazione di un regno barbaro di mille quattrocento anni fa. — Ma si potrebbe fare ciò che non si fece mai, diranno gl’immaginosi. — E risponderanno,—cosi continua il conte,—coloro che per parlar di cose future vogliono partire almeno da fatti presenti: Torino, Milano, Firenze, Roma, Napoli, Parma e Modena sono sette città capitali al di d’oggi (senza contar Lucca destinata a riunirsi con Toscana); in sei di quelle regnano sei principi; ed uomini, città e stati non diminuiscono di condizione mai se non per forza, non mai per accordo, di buon volere, né per uno scopo eventuale. Sogno è sperar da una sola città capitale, che voglia ridursi a provinciale; maggior sogno che sei si riducano sott’una; sogno massimo che s’accordino le sei a scegliere quell’una. — E tanto più che ciò non è desiderabile, né per le sei sceglienti, né per l’una prescelta, né per la nazione intiera. Si grida in tutta l’Europa (bene o male non ira porta) si grida ora quasi unanimemente dappertutto contro alle grandi capitali, contro a ciò che si chiama centralizzazione do’ governi, degli interessi, delle ricchezze, contro alla spogliazione delle provincie. E chi ha setto capitali si ridurrebbe a spogliarne sei a vantaggio di una? Lo sperarlo sarebbe non più sogno ma pazzia; sarebbe un voler fare coll’opinione ciò che è più contrario all’opinione presente; ciò è impossibile quanto evitabile, evita bile quant’è impossibile; e diciam la parola vera, puerilità, sogno tutt’al più da scolaruzzi di rettorica, da poeti dozzinali, da politici di bottega.»


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«E poi;—è sempre il conte Balbo che parla— e poi quando non fosse sogno per tutte queste ragioni, tal rimarrebbe per quest’una. Che diventerebbe il Papa in un regno d’Italia? Re esso? Ma ciò non è possibile, non si sogna da nessuno. Suddito? Ma allora si, ch'ei sarebbe dipendente; e non solo, co me al peggior tempo del medio evo, suddito dubbioso del monarca universale, ma suddito certo d’un re particolare. Ciò non sarebbe tollerato dalle al tre nazioni cattoliche; non sarebbe dalle stesse accattoliche; ciò andrebbe contro a tutti gl’interessi, tutti i destini della Cristianità; ciò non sarebbe tollerato da una parte della nazione stessa italiana, che nol tollerò nel medio evo. E v’ha chi dice che non fu male, e chi, che no fu bene. Io dico che ad ogni modo ciò fu, ciò sarebbe in simili occasioni; ondeché il tentarlo o solamente proporlo sarebbe dividere e non riunire la nazione nostra, sarebbe quindi non migliorare ma peggiorare le nostre condizioni. — Ed io mi vergogno d’aver fatto un altro capitolo inutile»(92).

Cosi pensava l’autore «Delle speranze d’Italia» relativamente all'unione di tutti gli Stati e di tutti i paesi italiani in uno Stato. Le due obbiezioni da esso mosse contro il concetto in discorso sono, la prima grave, la seconda gravissima, e da sé sola bastevole a indurre ogni buon cattolico, e anzi ogni ben pensante, e in ispezialità ogni ben pensante Italiano a rinunciare ad una idea la di cui attuazione non saprebbe non riuscire dolorosa in sommo grado e provocante per tutto il mondo Cattolico, e altresì divenire un addizionale principio di disunione pell’Italia. Ma tutto ciò non toglie che il sunto della Storia degli Italiani, qui dal conte Balbo fornitoci, abbia ben poca relazione, se pur ne ha, con esse. La detta storia deve necessariamente suggerire per primo la dimanda: quale è la causa di questa continua incessante divergenza e opposizione? Da essa risulta non solo che non si è potuto fare l’Italia e unirla se non per pochissimo tempo, ma anche che non si è potuto farla che col mezzo dello straniero. Qui si dimanda quale è, o quali sono gli ostacoli che si sono in ogni tempo cosi decisamente opposti all’unione dei paesi italiani in un solo Stato?

E una risposta a cotesta dimanda ci suggerisce lo stesso conte Balbo, col ricordare come ei fa le tante e si diverse schiatte che nei primi tempi hanno popolato la Penisola, la quale era pel mondo d’allora infatti una spezia di Nuovo Mondo. «L’Italia anteriore a’ Romani dice il summenzionato conte e giova il ripeterlo fu divisa Ira Tirreni, Liguri, Ombroni, Fenici, Pelasgi, Greci, Galli e forse altre genti , concorse nella nostra penisola, occidentale rispetto al mondo d’allora, a quel modo che si concorse poi nell’America moderna, e si concorre ora nell’0ceania». — Egli è innegabile, che la diversità dell’indole, del temperamento e del carattere fra i popoli italiani è immensa. Il Napoletano non è meno in tutti questi riguardi estraneo al Siciliano che a questo sia stato in altri tempi il Saraceno, il Normanno, il Francese, l’Arragonese, e lo Spagnuolo in generale. E come il Napoletano è estraneo al Siciliano, cosi, e nell’istesso grado, è il Siciliano estraneo al Napoletano, e questo al Romano, e il Romano pi Bolognese e il Bolognese al Romano: e il Corso al Genovese e viceversa. E tutto ciò col dippiù che sovente queste genti parlano dialetti tanto lontani uno dall’altro, quanto lo è l’italiano scritto dal Francese o dallo Spagnuolo. Il dialetto friulano si avvicina assai più al provenzale francese e al catalano che al veneziano. E perciò se mai si è potuto dire di una nazionalità c he non—ha altro nesso, altro fondamento —men che la comunanza del linguaggio scritto, lo si può dire della nazionalità italiana. Non si saprebbe dunque non ammettere nel numero degli elementi ostili all'unione italiana anche l’elemento etnografico e anch’esso qual elemento provvidenziale. Senonché Roma lo ha superato, e che lo si è superato nella maggior parte degli Stati prodottisi coi frammenti dell’Impero d'Occidente, e tanto in Francia che nella Spagna, e che lo si è superato anche nell’Allemagna in riguardo alle popolazioni slave che si sono germanizzate. L’elemento etnografico non basta a spiegare la storia degli Italiani. Per spiegarlo egli è giuoco forza ricorrere in provincialità all’ostilità dell'elemento geografico e dell’elemento topografico. Napoleone ha detto in un modo indiretto ma chiarissimo, che per fare l’italia nel senso della questione italiana converrebbe innanzi tutto avere il modo di trasportare H regno di Napoli con la Sicilia nello spazio che trovasi fra la Sardegna, la Corsica, la Riviera di Levante genovese e le coste della Toscana. Le sue parole già di sovracitate in italiano sono in francese le seguenti: «Si l’Italie eût été bornée par le mont—Velino, c’est a dire à peu près à la hauteur de Rome, et que toute la partie du terrain comprise entre le Mont—Velino et la met d’Jonie, y comprise la Sicile, eût été jettée entre là Sardaigne, la Corse, Gênes et la Toscane, elle eût en unité de rivières de climat et d’intérêts lo eaux.» Quale è il senso di queste autorevolissine parole? Il senso n'è, che l'Italia manca affatto dell’unità geografica, che vi sono tre Italie, un’Italia continente, un’Italia penisola, e un’Italia isola, e che per unire i paesi italiani nell’ordine politico in uno Stato converrebbe innanzi a tutto unirli in un solo paese nell’ordine geografico, e in particolare nell’ordine topografico.

Conchiudiamo che all’unione delle tre Italie in un’Italia si oppongono ostacoli insormontabili, irremovibili, provvidenziali, e perciò superiori alle forze di noi deboli mortali. La natura ha fatto delle tre Italie tre paesi distinti, e ha assegnato a ciascuna di esse i limiti con una precisione che non saprebbe essere maggiore. Non vi è Stato Europeo con limiti naturali più pronunciati di quelli che circoscrivono la Penisola italiana verso e contro il Continente dal quale la si stacca avanzando fra i due mari che la costeggiano. E se anche la Sicilia possa considerarsi come il di lei prolungamento, giacché non vi ha frammezzo se non. nno stretto canale, ciò non è certamente il caso della Corsica e tanto meno della Sardegna. Infatti una unione spontanea dei paesi italiani in una Italia, non ha mai avuto luogo. Se mai un’Italia si è fatta, la fu l'opera di guerre secolari e dello straniero. Gli stessi Romani erano un popolo straniero rimpetto ai popoli che per fare l'Italia dovettero combattersi, soggiogarsi, o cacciarsi da prima oltre gli Appennini e in seguito oltre le Alpi, e sino oltre al Danubio se pure non si distrussero. (93)

II. Chiarita come credo l'azione dell’elemento geografico e quella dell’elemento topografico in riguardo all’unione dei diversi paesi italiani in uno, vale a dire in riguardo al fare l’Italia: passo ora a chiarire, la detta azione relativamente all’indipendenza dell'Italia da farsi e al difenderla contro lo Straniero. La dimanda è: in qual grado la natura abbia muniti i paesi, coi quali si ha da fare l’Italia, contro le invasioni forastiere? e in qual grado ciò siasi fatto contro le invasioni marittime, e in qual grado contro le invasioni continentali? Potrò essere breve nel rispondere alla prima di queste dimande, la quale in qualche modo, ma soltanto di passaggio, è stata se non trattata però menzionata già nel precedente capitolo: non cosi con la seconda, che si dirama in diverse questioni secondarie, delle quali ciascuna vuol essere a parte considerata e discussa.

Non temo di essere da verun giudice competente contraddetto dicendo: non avervi per chi è padrone del mare e ha i mezzi di trasporto, né più larga, né più comoda, né più breve, né più sicura via per una guerra d’invasione, che il mare. L’Italia è sotto questo rapporta, in riguardo all'estensione e alla qualificazione delle sue coste in complesso assai accessibili, il paese più esposto alle invasioni forastiere che vi abbia in tutta l’Europa. Essa non ba oggidì nulla a temere dal lato delle Alpi. Il congresso di Vienna ha messo il massimo impegno a impedire ogni guerra forastiera nell’Italia settentrionale ed è appunto per tenervela lontana che esso ha non solo ristabilito ma anche ingrandito il regno Sardo—Piemontese, cui fu affidata la guardia delle Alpi occidentali e forniti i mezzi per riedificarvi le fortezze e i forti che li chiudevano, ma che i Francesi avevano atterrati. Il detto congresso ristabilì e reintegrò anche la Svizzera e volle che le fossero restituiti tutti i distretti francesi che le erano stati tolti e incorporati alla Francia e ciò a fine d’impedire a questa l’accesso per la Valle del Rodano al gran San Bernardo e al Sempione. Quanto all'Austria, essa è bensì la padrona delle Alpi retiche, carniche e giulie nell’istesso modo che il regno Sardo—Piemontese lo è delle Alpi marittime e poi delle Alpi graje, pennine e lepontine, vale a dire che le appartengono ambidue i versanti; ma il vero è, che essa non saprebbe, se anche gliene venisse il destro, abusare della sua situazione, par la ragione che ciò che si perdonerebbe ad 2ogni altra potenza di primo rango non si perdonerebbe all’Austria appunto perché la potenza cui incombe in principalità il mantenimento della pace europea. Lo scandalo sarebbe tale, che tutto il mondo politico insorgerebbe e proromperebbe in rimproveri, e chiamerebbe il concerto Europeo a opporsele. Ripetiamolo: gl’Italiani non hanno nulla a temere dal lato delle Alpi.

Dal lato dei mare il caso è tutt’altro. Le coste dell’Adriatico sono, se anche nell’interno lagune o maremme, lungo il mare arenose e solcate da dei fiumi e fiumicelli che ivi sboccano, i quali sono tutti da considerarsi come piccoli porti favorevoli ad uno sbarco. Da Rimini in poi le spiaggie arenose alternano con delle coste più o meno montuose od anche scogliose; ma le prime hanno anche ivi nei fiumi che le traversano, dei piccoli porti, e sono tutte di un accesso facile, col dippiù che a poca distanza dai lidi i legni di guerra trovano un fondo che porge un ancoraggio sicurissimo. Lo stesso è da dirai del golfo di Taranto fra le due penisole minori nelle quali si dirama la penisola italica. Le coste napoletane bagnate dal Mediterraneo sono montuose senza interruzione sino al Sele, ma neppur ivi mancano i sili per prendervi terra. Allo sbocco del detto fiume, come anche a quello del Volturno, e del Garigliano, il paese si apre e presenta delle spiaggie vastissime. Le coste dello Stato pontificio sono da Terracina alla Magra una spiaggia interrotta soltanto da qualche promontorio. Le coste genovesi sono in generale come quelle delle Calabrie nel regno di Napoli, non per altro senza avere nel golfo detta Spezia uno dei più belli, più sicuri e più vasti porti del mondo. «La Liguria volta al mare» dice Davide Bertolotti nel suo interessantissimo viaggio della Liguria marittima, assisa in sul lido del mare non ha da Antibo al golfo della Spezia, porti naturali veramente degni di questo nome, ma soltanto alcune stazioni marittime, e luoghi proprj per dar fondo più o meno al riparo dei venti. Ma in ricompensa quelll’ampio golfo con le sue sicurissime cale proferisce fido ricovero a dieci grandi armate navali. Le stazioni marittime, prosiegue egli, sono: La rada di Villafranca spaziosa e mezzanamente sicura. Pericoloso n’è l’ingresso col mare turbalo. Il piccolo porto di Monaco non alto alle grosse navi. La rada degli Ospedaletti fra la Bordighiera e San Remo. La rada di Laigueglia, e di Alassio, la migliore tra Nizza e Vado. La rada di Vado, l’ottima e la più sicura della spiaggia Ligustica dalla foce del Varo al golfo della Spezia. Portofino, ricetto dei basti menti che vengono da Levante, o non osano superare il Capo di Monte per timore della burrasca. Oltrecciò i tanti Promontorj che s’alzano e sporgono sopra il mare lungo le due Riviere, fanno altrettanti seni laterali che porgono asilo ai navigli contro la furia dei venti. In questi seni giacciono i più popolosi villaggi; ognuno dei quali ha una piccola rada, ed una spiaggia a sufficienza sicura, ove ancorare i suoi legni mercantili, e ove tirarli fuori dell'acqua e metterli in salvo sopra l’arena del lido»(94).

Mi è parso dover citare questa descrizione delle coste genovesi perché a parte dei nomi la quadra perfettamente per i piccoli porti anche alle coste montuose del regno di Napoli.

E merita poi inoltre una particolar attenzione la circostanza, che un’armata che sbarchi, sia nella penisola sia nelle isole vi trova ovunque delle posizioni fortissimo, ove essa con poco e facile lavoro ha il modo di farsi forte, e darsi una base per lo ulteriori operazioni, e per internarsi nel paese con sicurezza e nel caso di non—successo per ripiegarsi sul mare senza correre pericolo di esservi rovesciata. La maggior parte dei Promontori della Toscana forniscono tali stazioni militari. Il monte Argentaro con Telamone fu sotto il nome degli Stati dei Presidj pel corso di più di due secoli alla Spagna uno stabilimento militare inespugnabile, una spezie di Gibilterra, ma con nna senza confronto maggior azione offensiva, con la quale teneva in soggezione tutta la parte superiore della Penisola. Ed è da far gran conto, pel caso di uno sbarco sulle Coste d’Italia con delle forze considerevoli,e coll’intenzione di prendervi piede, anche delle tante città marittime che vi s’incontrano lungo le spiaggie, le quali hanno tutte il loro porto di mare, e se non naturale, artefatto, e possono cosi come sono, con le alle e valide loro mura resistere, se anche non ad un regolare assedio, ad un colpo di mano.

Egli è evidente che la natura non ha fatto nulla per la sicurezza dell'Italia contro le invasioni marittime. Tutto vi è in questo riguardo da farsi e anzi da crearsi. Né il da farsi è piccola cosa, dovendo esso consistere a divenire potenza marittima di primissimo rango, a convertire i mari aggiacenti in laghi italiani, a cacciarne lo straniero, a impadronirsi dell’Istria, della Dalmazia, delle Isole Jonie, di Malta, della Corsica, e a non soffrire alcuno stabilimento navale in tutta la loro circonferenza. L’Italia volendo rassicurarsi dalla parte del mare deve pensare a fare con Tolone ciò che si è fatto a sicurezza dell’Impero turco nel 1855 con Sebastopoli. Fu da Tolone che nel 1793 salpò la flotta la quale entrò senza una previa dichiarazione di guerra nel porto di Napoli, e gettata l'ancora vi dettò al governo napoletano un trattato che preparò all’Haïfa la sorte che le toccò nel 1796. E fu a Tolone che si allestì la spedizione la quale sotto il comando di Bonaparte nel 1798 s'impadronì di Malta, e poi dell’Egitto in mezzo alla più profonda pace.

III. Eccomi finalmente nel caso di dare le da me promesse spiegazioni e dilucidazioni suite Alpi e in ispezialità sulla loro catena centrale, sino alla quale l'Italia da farsi avrebbe ad estendersi, onde servirsene qual barriera insormontabile contro gli Stati limitrofi, vale a dire, contro la Francia, la Svizzera e l’Austria, e in generale contro l'Europa continentale. Io non posso dubitare che le dette spiegazioni e dilucidazioni convinceranno il Lettore, ché cosi come la nuova Italia per non aver nulla a temere dell’Europa marittima sarebbe nella necessità d’impadronirsi dei mari aggiacenti e di farne dei laghi italiani, cosi per non aver nulla a temere dell’Europa continentale la sarebbe formata d’impadronirsi delle Alpi in tutta la loro estensione, cioè della Svizzera, del Tirolo, del Salisburghese e in generale della Germania e dell’Austria sino al Danubio, e s’intende da sé anche del Delfinato e della Savoia.

Egli è un grande e madornale errore il credere che i monti siano quanto più alti e più aspri tanto più facili a difendersi. Monti che si elevano oltre a mille tese di Francia, cioè sei mila piedi sopra il livello del mare non possono guardarsi con posti stabili se non in forti o fortezze con caserme nelle quali il soldato trovi protezione contro le intemperie delle stagioni: contro il freddo, contro la neve, e contro il vento, il qual ultimo sovente infuria nelle Alpi terribilmente. Ad una tale elevazione il soldato, se non ha tetto che lo protegga, è esposto a dei patimenti dei quali chi non li ha provati, non sa farsene un’idea. La catena centrale delle Alpi occidentali a cominciare dal Col di Tenda il quale conta 960 tese di Francia di elevazione va, a misura che la si allontana dal mare, sempre più elevandosi. Essa ha all'origine del Tinea oltre a 1500 lese di elevazione sopra il livello del mare. I passi più frequentati che dalla Francia o dalla Savoia o della Svizzera conducono in Italia, il Col dell’Argentera, il Mont—Génèvre, il Mont—Cénis, il piccolo e il grande San Bernardo hanno tutti al loro punto culminante oltre a 1000 tese di elevazione, e sono tutti non difendibili se non col mezzo di costruzioni fortificatorie. Né questi sono i soli passaggi pei quali si entra dalla Francia e dalla Savoia e dalla Svizzera nel Piemonte. Il numero n’è considerevolissimo. Per quanto essi siano malagevoli, il nemico trova il modo di accomodarseli. Vi avrebbe quindi la necessità di occuparli e di presidiarli tutti, e tutti come ho detto in modo che il presidio vi si trovi riparato. I Francesi avevano nell'inverno del 179al 1800 sul Mont—Cenis 1400 uomini con 16 cannoni, vi si eran fatti fortissimi e dati comodi quartieri. Ciò nonostante gli Austriaci li assalirono con non più di 1000 uomini, li fecero tutti prigionieri, e s’impadronirono del posto senza la perdita di un sol uomo. Fatto è, che il comandante del posto, a cagione di un intensissimo freddo sopravvenutovi, credette di dover ritirare le sue truppe da tutte le opere di difesa ove il soldato trovavasi allo scoperto. Egli espose bensì alcune vedette, ma la prima nella quale gli Austriaci s'imbatterono era tutta intirizzita dal freddo, e più morta che viva, non fece fuoco; e la seconda sparò, ma gli Austriaci erano giù padroni delle Caserme che vi aveano.

Simili casi sono nella difesa di monti, quali sono le Alpi occidentali, inevitabili. Aggiungasi che il versante esterno non solo nelle Alpi che separano il Piemonte dalla Francia e dalla Savoja, ma in tutta la catena centrale, è per lo più senza confronto più accessibile, che il versante interno, ciò che deriva in parte dallo essere le valli subalpine italiane molto più basse che le valli subalpine nei paesi limitrofi, e perciò la salita sino alle sommità, molto maggiori da quelle che da queste. E deriva poi anche dall’essere il versante esterno, men erto, meno scosceso, e meno scoglioso che l'interno. Svantaggio immenso, il quale inverte il carattere che si vuol attribuire alle Alpi, e che fa di un vallo inespugnabile che avrebbe ad essere rivolto contro la Francia, la Svizzera e l’Austria, un vallo rivolto invece contro il Piemonte, contro la Lombardia, e contro le provincie venete, come ho detto, questo svantaggio è comune a tutta la catena centrale delle Alpi, ma è rilevantissima in ispezialità nelle Alpi carniche e giulie, che avrebbero a difendere l’italia contro l’Austria. Le prime sono dall’origine della Piave sino a quella della Pontebbana, tratto che misura oltre a trenta miglia italiane, un vero muraglione naturale di 200 in 300 tese di altezza, mentre verso la Carinzia vi ba sino al Gail un piano inclinato permeabile quanto alla sua poca pendenza in ogni direzione con le artiglierie. E di tali muraglioni se ne incontrano nelle Alpi Giulie ad ogni passo. Il tratto dai forte eretto sul Predil è sino al Terglou, e poi sino al Kim e al Vochu affatto intransitabile.

I Francesi difendono le loro Alpi combinando delle misure fortificatorie con delle misure strategiche. Essi si astengono dall’occuparne le sommità, e i passi che vi hanno. L’occupazione summenzionata del Mont—Cénis aveva uno scopo offensivo, e Napoleone, allora da poco ritornato dall’Egitto, vi vedeva una delle porte per entrare in Italia, e voleva assicurarsene malgrado il pericolo che vi avea di perdere il distaccamento che v’impiegava. Essi si fanno forti nelle valli, che dalla Savoja conducono a Briançon, e da questa piazza nel Delfinato e nella Provenza, con dei campi trincerati difensibili con poca gente, bastevoli per altro ad arrestare il nemico, e ad obbligarlo, volendo internarsi di più nel paese, ad attaccarli. Non mancano poi di assicurarsi il modo e i mezzi di prevenire il nemico, e di trovarvisi al di lui arrivo già postati. Egli è questo il sistema col quale il maresciallo di Berwick difese il Delfinato e la Savoja negli ultimi anni della guerra per la successione di Spagna cioè dal 1709 sino al 1712 contro forze assai superiori col più gran successo.


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Ma le valli subalpine del Piemonte e in generale le valli subalpine italiane non forniscono il modo di accorrere da una estremità della linea di difesa all’altra; Les navette che faceva il maresciallo di Berwick per opporsi a Vittorio Emanuele e al conte Thaun nelle suddette campagne, non si saprebbero farsi dagli Italiani per opporsi ad una invasione francese, o svizzera, o austriaca. Le valli subalpine italiane sono, con l’eccezione della Valtellina, tutte, più o meno perpendicolari alla catena centrale. Un’armata che vi entri non ha il modo di sortirne lateralmente. Alle sortite laterali si oppongono monti poco men elevati che la catena centrale. Gli Alleati non avevano nella campagna del 1793 e 1794 altro modo di difendere le Alpi contro i Francesi che quello che seguirono; e le avrebbero difese se avessero potuto conservarsi sul versante occidentale delle Alpi marittime, vale a dire se Saorgio, come dovevasi e potevasi, si fosse difeso. Per difendere le Alpi occidentali contro la Francia converrebbe che Briançon fosse piemontese. Briançon è il punto centrale dal quale i Francesi, nell’istesso tempo che difendono il loro Delfinato e la Savoja, che sogliono, in ogni loro guerra col Re di Sardegna, occupare, minacciano tutti i passi a cominciare da quello di Argentera sino al piccolo San—Bernardo, che sono, dal primo all’ultimo, assai difficili a guardarsi e a difendersi, e i quali tutti si richiedono, che vi si impedisca il più che sia possibile 1accesso sul versante esterno, come lo si è impedito in riguardo al Mont—Cénis coi forti di Esseillon, che chiudono, fra Modane e Lanstebonrg nella Morienna della Savoia, la valle dell’Arc.

Sennonché la detta fortezza, punto bensì per le surriferite ragioni eminentemente strategico, ma che trovandosi da ogni parte circondato da considerevoli montagne dovette comporsi di otto fra forti e fortini staccati dal corpo delle piazze, i più distanti dei quali mal resisterebbero a un assedio regolare attuato coi mezzi onde ivi dispone la Francia, anderebbe probabilmente in una guerra con questa potenza già nei primi mesi perduta, come si perdettero, quasi in ogni guerra con essa, lo fortezze che vi aveano nella Savoia. Essa sarebbe tanto più difficile a conservarsi al Piemonte, che la Francia ha ivi pei movimenti laterali ancora una strada, cioè quella che partendo da le Monetier raggiunge per Ville—Vallouise la valle della Durance; mentre l’armata, cui incomberebbe la difesa delle Alpi per conto del Piemonte, per moversi lateralmente, e per portarsi da una estremità della linea di difesa all’altra, si troverebbe nella necessità, anche possedendo Briançon, di postarsi nel piano, e ciò ad una troppo grande distanza della detta linea per poterne soccorrere i posti che vi si dovrebbero presidiare.

Tutto ciò ponderato, si rende chiaro, che l’armata incaricata della difesa delle Alpi occidentali deve trovarci in istato non solo di difendere la Savoia qual una delle cittadelle delle dette Alpi cioè delle Alpi Graje, ma anche d’impadronirsi dell’Alto—Delfinato, qual cittadella dalle Alpi Cozzie, e di farvisi forte e di mantenervisi. Affare certamente tutt’altro che facile. Chiunque vorrà difendere le Alpi occidentali altrove che nel contado di Nizza, nel Delfinato e nella Savoia, sarà sempre tardi o a buon ora forzato a rinunciare alla difesa dei passi, a concentrerà le sue forze fra Mondovi, Torino, e Ivrea, ad accorrere allo sbocco delle valli per le quali l'armata nemica discenderà, e a venir ivi con essa a una battaglia, che perdendosi, metterà il Piemonte alla discrezione del vincitore non altrimenti che lo metteva nel 1796 la battaglia di Mondovì.

E quando mai hanno le Alpi occidentali bastalo a fermarvi i popoli e gli eserciti transalpini che per esse vollero discendere in Italia? Un Uffiziale gradualo piemontese indotto dal discredito nel quale la difesa dello Alpi occidentali era caduta dopo il cattivo esito, che ebbero pel Piemonte i tentativi che se ne sono fatti Belle campagne del 1794, 95 e 96, evidentemente nello scopo di provare che le Alpi occidentali sono realmente una valida barriera contro la Francia, ricorse alla Storia. Egli prese le sue mosse dalla prima discesa in Italia dei Galli, la quale ebbe luogo ai tempi di Tarquinio Prisco, sei secoli e più innanzi l'era volgare, e trovò che sino all'anno 1800 i passaggi tentati ammontano a 66, però che soli di essi ne furono respinti. Ma fatto è che di questi casi non riuscili la maggior parte sono abbagli presi dall’autore, e gli altri non sono se non parziali irruzioni respinte, e non già difese effettuatesi con una guerra guerreggiata, della quale, e non di altra qui si discorre (95).

Il primo e finora unico caso di una tal guerra ebbe luogo nelle Alpi nelle campagne del 1793, e 1794. Nel 1793 i Francesi trovavansi pel corso di più mesi rimpetto al Piemonte, in conseguenza dell’insurrezione di Lione, di Marsiglia, di Tolone e della maggior part e della Provenza contro il governo dei Giacobini, e nella circostanza che la maggior parte della loro armata delle Alpi fu impiegala a comprimerla, nelle Alpi ovunque debolissimi; ma riuscirono inquietando incessantemente i posti degli Alleati, ed allarmandoli ogni notte, a far credere di esser anzi di molto i più forti. Scopertosi il vero, gli Alleati presero l'offensiva, e tentarono di riconquistare la Savoia. Ma furono in breve obbligati ad indietreggiare. Gli svantaggi di situazione si resero in questa guerra più manifesta che mai. Ritornate le truppe che aveano cooperato alla riduzione di quelle città ai rispettivi corpi, e ricevuti dei considerevoli rinforzi, i Francesi assalirono nella primavera del 1794 nell'istesso tempo ambedue le estremità detta linea di difesa, il piccolo San Bernerdo li 24, e Saorgio li 28 aprile, e contemporaneamente ne aggirarono con un corpo d’armata che prese Ventimiglia ancorché genovese, l’ala sinistra. I monti erano ancora coperti di neve; i Soldati su di essi esposti ai maggiori disagi. Il Col di Tenda fa superato e preso dai Francesi due giorni dopo la caduta di Saorgio. La truppa che ebbe a difendere quel passo fece prova di molto valore. Ma vi infuriava un tempo terribile che agghiacciava chi aspettava il nemico, e invece incalzava e spingeva innanzi chi assaliva. Il giorno 11 di maggio si rese anche il forte di Mirabocco in una delle valli dei Valdesi. B giorno 15 dello stesso mese cadde in potere dei Francesi il Mont—Cénis, e qualche giorno più tardi anche il Mont—Génèvre. Nella seconda metà di maggio non vi avea più alcun posto sulla sommità delle Alpi ove non sventolasse la bandiera a tre colori. Non può negarsi che in gran parte il cattivo esito di quella difesa fosse una conseguenza dell'imperdonabile abbandono di Saorgio e del piccolo San—Bernardo, e voglio credere che l’armata degli Alleati avrebbe potuto distribuirsi e impiegarsi meglio; ma accadde anche al San Bernardo come nel 1800 al Mont—Cénis, che la truppa pel gran freddo non si trovava nei posti che dovevansi difendere; ed accadde pur anche, come già è stato detto, che i Francesi erano postali in modo che minacciavano contemporaneamente tutta la linea di difesa, mentre gli Alleati non sapevano da qual parte rivolgersi e non osavano internarsi in veruna di quelle valli nel timore che l’operazione nemica non fosse che una finta per allontanarli dal punto, che n’era il vero oggetto. Ed è a tal segno vero che i Francesi dovevano, se anche non esclusivamente, in principalità i loro successi ai vantaggi strategici che loro porgeva la configurazione di qual monti e di quelle valli, che essi quantunque si credessero sufficientemente forti per impadronirsi della catena centrale di quelle Alpi, pensarono di non esserlo abbastanza per discendere nel piano. Essi si fermarono nelle posizioni conquistate, e ciò ancorché l’esercito piemontese si trovasse disanimato e disordinalo in sommo grado, che in Torino o nelle maggiori città del Piemonte il partito rivoluzionario fosse assai numeroso, e che non avevano ad aspettarsi altra seria resistenza che dagli Austriaci, che ciò è vero, eransi frattanto assai ingrossati.

Proseguendo nella presente disamina cioè: se la catena centrale delle Alpi è un vallo contro i paesi limitrofi, e contro lo Straniero, o contro l'Italia; osserverà in riguardo a quelle Alpi che avrebbero a difendere il Piemonte e la Lombardia contro la Svizzera; che anche i passi pei quali si discende da questa nei detti paesi, hanno come i passi delle Alpi occidentali più di 1000 tese di Francia di elevazione, e quindi una elevazione troppo grande per potersi presidiare e difendersi altrimenti che con dei forti nei quali il soldato si trovi riparato contro il freddo e contro il vento; che anch'essi sono da una estremità all'altra, dal gran San—Bernardo allo Stelvio contemporaneamente minacciati per effetto della configurazione e connessione geografica dei monti e delle valli del versante settentrionale; che anche il San—Gottardo volendo servirsene a difesa dell’Italia si richiede che vi s’impedisca l’accesso dal canto della Svizzera con la chiusura della valle che vi sta dinanzi, cioè della valle della Reuss; che anche il San—Gottardo e istessamente il San—Bernardo, il Sempione, il San—Bernardino, lo Spluga è cosi tutti quei passi sino al confine tirolese sono rivolti contro l’Italia, e non contra la Svizzera. Gli Italiani per avere nelle Alpi svizzere nna barriere insormontabile allo Straniero saranno sempre nella necessità d’impadronirsi non solo del San—Gottardo, ma anche delle aggiacenti valli e anche dei monti ad esse sovrastanti; vale a dire delle Alpi Bernesi, e Grigione. Cosi, come per la difesa delle Alpi occidentali si rende necessario il possesso dell’Alto—Delfinato, cosi, è per le stesse ragioni strategiche, si rende necessario per la difesa delle Alpi settentrionali il possesso della Svizzera. Finché questa non sia italiana, il possesso delle sommità delle Alpi non conterrà per nulla nella difesa della Val d’Aosta, dell’Alto—Novarese, e della Lombarde; e si dovrà sempre, per respingere una invasione dalla Svizzere, ricorrere, come si ricorse a’ tempi dei Visconti, degli Sforza, di Francesco I di Francia, e nel 1800, ad una battaglia sia sulla destra o sulla sinistre riva del Ticino o sull’una o l’altra riva del Po. Il Lettore stadj le eccellenti carte topografiche che vi hanno della Svizzera, del Piemonte, e del regno Lombardo—Veneto, e studj la Storia della Svizzera, e sono certo che sarà anche lui del mio parere.

E a peggior partito ancora si troveranno gl’Italiani colle Alpi in riguardo alle Alpi tirolesi, carinziane, e illiriche. Tutti quei monti formano un complesso, che essi non saranno in istato di difendere senza esser padroni di tutte le Alpi sino alle ultime loro diramazioni, sino al Kalenberg, e sino al Danubio. Il maresciallo Marmont rammenta relativamente al conto da farsi delle summenzionate Alpi per l’Italia una nota di Napoleone, che nel suo riassunto dichiara ogni tentativo di difendere contro l’Austria quelle provincie in sommo grado periglioso per l’armata che vi. fosse impiegata. Napoleone avrebbe voluto postarsi sull’Isonzo e difenderlo, avervi una piazza che ne dominasse ambedue le rive e inoltre che si chiudessero con dei forti le strade di Villacco a Osoppo, e di Villacco a Gorizia, ma che vi si abbandonasse ogni pensiero di una guerra offensive. Nella detta nota prescrive egli che assolutamente non vi abbia oltre al detto fiume verun stabilimento militare, non arsenali, non magazzeni, in generale che nulla osti all’evacuazione e all’abbandono di quei paesi entro il termine di quattro giorni. Le provincie illiriche, dicesi in quella nota, sono da considerarsi come un complemento del Friuli, considerandolo altrimenti si si espone ai maggiori disastri (96).

Il Vice—re nella campagna d’Italia del 1813 non si attenne a queste istruzioni, certamente in ogni lor parte degne di chi le dettava, e la aprì con una guerra offensiva, che aveva per iscopo d’impedire agli Austriaci ogni contatto col Tirolo, e colla Croazia, e di allontanarli dalla Drava, e dalla Sava. L’idea per sé stessa era conseguente, e volendo esser veri, non può negarsi che il Vice—re ne incamminasse l'attuazione con molta intelligenza. Ma gli Austriaci lo invilupparono in una rete di distaccamenti, che furono da essi condotti e diretti con un accordo in quel modo di guerra assai raro, veramente sorprendente. Essi raggiunsero il Tirolo e la Croazia, e la campagna andò per lui perduta. I Tirolesi e i Croati videro appena le insegno austriache, che corsero ad esse e le seguirono. Il Vice—re dopo vari scontri, nei quali per lo più ebbe la peggio, perduti i passi che dalla Drava conducono alla Sava si vide nella necessità di abbandonare Villacco e un pò più tardi anche Tarvis, ancorché quivi vi avesse un campo trincierato, e finalmente di ripassare le Alpi. Il vero è che le Alpi Giulie in connessione con le Alpi—Carniche e Retiche, cioè con le Alpi carinziane e tirolesi, forniscono all’armata che per esse si dispone a discendere in Italia il modo di minacciare contemporaneamente tutti i passi che vi hanno dall'Isonzo e dalla Pontebba sino all’Adige, ed ai quali si arriva non già come ai passi nelle Alpi occidentali e nelle Alpi svizzere per delle erte salite, ma per degli alti—piani poco men alti di essi e, seguendo le due valli parallele la valle della Drava, e la valle del Gail, assai comodamente alla sommità detta catena centrale, cioè all'alto di Toblach, il quale è bensì, il punto culminante ma quasi piano delle Alpi all'origine della Drava e della Rienz (97).

Il Vice—re al di cui fianco destro non si dava dai distaccamenti nemici che gli avevano tolto la Croazia e l’Istria pace né riposo, ripassò il giorno 5 ottobre sul ponte presso Gorizia l'Isonzo, e si dispose, contando sul campo trincerato di Tarvis, ove era rimasta tutta la sua ala sinistra, a difendere il detto fiume. Egli s’immagina va di aver il grosso della armata austriaca contro di sé, mentre non. vi aveva che una sola brigata. Il grosso della detta armata erasi postato rimpetto a Tarvis, che esso assalì e anche prese il giorno 8, ancorché vi si fossero profusi pel corso di più settimane i lavori di fortificazione. Gli Austriaci, ormai padroni di quel poste centrale e padroni delle valli del Gaii e della Drava, si rivolsero per queste valli verso il Tirolo, discesero però con una brigata pel passo di Santa—Croce, e per Ampezzo nel Cadorino e in val di Piave, e, senza lasciarsi arrestare da un distaccamento franco—italiano che vi accorse per fermarli, passando per Belluno e Feltre entrarono per Primolano nel Canal di Brenta, e trovaronsi il giorno 24 a Bassano; un giorno dopo che il Vice—re in seguito alle mosse degli Austriaci abbandonò l'Isonzo e successivamente senza fermarsi tutte le provincie ex—venete fra il detto fiume e l’Adige, ben contenta quando arrivò il giorno 2 di novembre a Vicenza di non trovarvi il nemico (98).

Egli stesso descrisse un giorno durante il congresso di Vienna ad un generale Austriaco, al barone Welden la critica situazione, nella quale in quei giorni si trovava, colle seguenti parole: «Se gli Austriaci si fossero postati prima di me sulla Brenta, o a Vicenza, sarei stato costretto di gettarmi in Venezia, o di accettare fra la Piave e la Brenta, sotto circostanze a me assai svantaggiose, una battaglia alla quale non mi attendeva e per la quale non era in verun modo preparato. Né mi trovava poco impacciato col mio materiale di guerra, che non avrei potuto strascinar meco se non a stento e lentamente y sulle sfondate strade di Treviso, Padova, e Legnago dietro l’Adige. Non ebbi il respiro libero se non quando la mia ala sinistra aveva respinto il distaccamento austriaco, che era comparso a Bassano entro al Canal di Brenta. Allora soltanto, a Vicenza, riebbi il mio sonno (99)».

Ma una siffatta situazione aspetta in ogni guerra guerreggiata nelle Alpi Illiriche l’armata proveniente dall’Italia. L’ha detto con altre parole, come poco fà si è da me avvertito; e ciò, per essersi egli stesso trovato nel 1797 in una simile situazione, Napoleone. Fra i miracoli che dovettero farsi acciò egli divenisse ciò che in seguito divenne, non fu uno dei meno grandi quello, che mentre egli si era avventurato nelle gole della Carinzia e della Stiria—superiore, e che delle valanghe di genti precipitavano da tutti i monti austriaci, e particolarmente da quelli del Tirolo, dell’Illirio e della Croazia per chiudergli ogni uscita, si venne a Leoben a patti e ad un armistizio, e si segnarono i preliminari di un trattato di pace li 18 aprile, che arrestarono a mezza costa, e lo salvarono. Ecco ciò che gli faceva dettare quelle istruzioni e altresì quel pronostico pei caso che i suoi generali, o i suoi successori non vi dessero retta, o le dimenticassero. La situazione di Pietro il grande e dei suoi Russi sul Pruth era un nulla in confronto di quella del generale Bonaparte e dei suoi Francesi a Leoben. Egli ne parla in una sua relazione al Direttorio esecutivo della Repubblica francese, che porta la data dei 1aprile del suddetto anno 1797, nei seguenti termini:

«D’ailleurs nous ne devons pas nous dissimuler que, quoique noire position militaire soit brillante, nous n’avons point dicté les conditions (du traité); la cour avait évacué Vienne; le prince Charles et son armée se repliaient sur celle du Rhin; le peuple de la Hongrie et de toutes les parties des Etats héréditaires se levait en masse, et même dans ce moment—ci, leur tête est déjà sur nos flancs, le Rhin n’était pas passé; l'Empereur n’attendait que ce moment pour quitter Vienne, et se porter à la tête de son armée. S’ils eussent fait la bêtise de m’attendre, je les aurais battus; mais ils se seraient toujours repliés devant nous, se seraient réunis à une partie de leurs forces du Rhin, et m’auraient accablé; alors la retraite de venait difficile, et in parte de l'armée d'Italie pouvait entrainer celle de la Republique». (100).

—Napoleone, tutt’altro che esagerare, resta in questo quadro della sua situazione molto al dissotto del vero. Alla testa delle truppe austriache nell’lllirio e nella Croazia durante il tempo che l’armata francese avvanzava dalla valle della Drava in quella della Muhr, stavasi un generale malaticcio, che paralizzava quelle popolazioni le quali non dimandavano che un condottiere per gettarsi addosso agli invasori. Gli fu però sostituito nei primi giorni di aprile un militare del più gran merito, un Tenente—Colonnello Kasimir che in pochi giorni ebbe adunati attorno a sé 4000, in capo ad una settimana oltre a 8000 soldati, a’ quali si aggiungevano, a misura che spingevasi innanzi, migliaja di montanari armali come meglio avevan potuto. Egli non tardò ad impadronirsi di Fiume e poi di Trieste ove entrò trionfante, ed era già giunto a poca distanza di Gorizia per correre su Tarvis, quando si vide intimare l'armistizio, e gli venne ordine e sopra ordine di ripiegarsi e posterai dietro la linea di demarcazione fissala a Leoben. I due in tre mila Francesi che trovavansi dispersi fra Vilacco, Lubiana, Gorizia e Trieste, presi da un terrore panico sembravano impazziti. Frattanto avevano i Tirolesi disfalli i Francesi che dall’Italia aveano rimontato l'Adige sino a Bressanone. L’insurrezione generale erasi estesa anche alle provincie venete. La perdita dell’armata di Bonaparte era inevitabile (101).


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IV. Se Roma riusci non per tanto ad impadronirsi delle Alpi, e ciò non solo sino alla catena centrale, ma sino al Danubio, e se potè tenersele soggette pel corso di più secoli, non si si dimentichi, che ciò accadde quando essa era già padrona poco men che di tutto il mondo allora conosciuto; e non si dimentichi il modo col quale quella conquista si è compiuta, né a quali immani misure si abbia avuto ricorso per assicurarla e consolidarla. I Romani non perdettero mai di vista i monti dai quali erano discesi quei popoli che dopo la battaglia sull’Allia entrarono irresistibili in Roma e la metterono a fuoco e a sangue. Ma non erano già i monti, erano le genti che vi abitavano e in particolare quelle, che vi aveano al di là di esse che davano loro immensamente a pensare. Non era per farne una barriere che agognavano il possesso delle Alpi; ciò che loro stava a cuore era di allontanare i popoli che vi abitavano, di vederle da essi sgombrate, e di estendere il loro Stato sino al Reno e al Danubio.

Un movimento nei popoli elvetici porse a Giulio Cesare l’occasione d’immischiarsi negli affari delle Gallie in modo, che in seguito a nove anni di guerre intraprese e incominciate sotto il manto di proteggerle contro i detti popoli e contro i Germani, e poi contro la preponderante ora dell’uno, ora dell’altro Stato indigeno, le si trovarono tutte suddite di Roma, come in seguito ad un simile immischiamento, si vide ridotta un giorno suddita di essa, la Grecia. L’ingrandimento dai Romani anelato, erasi cosi, se anche non sino al Danubio, sino al Reno effettuato. Il compimento dell'opera era riservato al figlio adottivo di Giulio Cesare, a Ottaviano, che l’iniziò con la conquista del versante orientale delle Alpi—Giulie; il versante occidentale era romano già da più di un secolo e mezzo, 35 anni innanzi l'era volgare, e con quella della Pannonia. Egli entrò in questa senza che i di lui abitanti gli avessero dato il minimo motivo di muover loro guerra, unicamente, perché ad ogni costo si voleva raggiungere il Danubio, con che aggiravansi le Alpi a Levante come con la conquista delle Gallie, e dell’Elvezia, le si erano aggirate a Ponente. (102)

La sorte dei popoli alpini sembrava ormai decisa: nondimeno passarono ancora venti anni, che il nerbo di essi, li Reti, i quali abitavano nell’odierno Tirolo, si stavano ancora indomiti e minaccevoli sui loro monti. Ottaviano frattanto, divenuto Imperatore col nome di Augusto, v’impiegò, per strapparneli, due formidabili eserciti, che diede a guidare a Druso e a Tiberio suoi figliastri, e inoltre diversi distaccamenti che vi accorsero dalla Pannonia. Una tal riunione di forze contro un paese, che difficilmente contava allora una popolazione di trecento mila abitanti di ogni sesso e di ogni età, era nei fasti di Roma affatto nuova; e prova che quella impresa presentava nello spirito marziale di quella gente, e nella forza dei siti le maggiori difficoltà, e straordinarj pericoli. I Reti furono vinti, e il Danubio venne raggiunto e dichiarato «limes imperii» e rinforzalo con innumerevoli castelli, forti, e campi—chiusi. «Siccome dice Dione Cassio, la nazione dei Reti era relativamente assai numerosa, e credevasi che di nuovo tentata avrebbe la sorte della guerra, perciò Druso e Tiberio menarono via da quella regione la più gran parte della gioventù, e la più robusta, lasciando solamente un tal numero di abitanti, che bastava alla cultura dei campi, e non avesse sufficiente forza per ribellarsi». (103).

L’ingrandimento dello Stato romano con lo Gallie, l’Elvezia, la Pannonia e le Alpi, nel quale s’impiegarono 43 anni, si effettuò dai Romani mentre erano all'apogeo della loro potenza, e si richiese in riguardo ai popoli alpini uno sviluppo di forze il più straordinario.

Auguste sembrava, almeno nei suoi discorsi, amare sinceramente la pace e volerla. Noi vediamo tuttavia i sunnominati suoi figliastri Druso e Tiberio occupati a sottomettere anche la Germania transrenana e transdanubiana, percorrerla in ogni direzione, e sino all’Elba, e non solo portarvi la guerra, ma anche la discordia fra i popoli di quelle regioni e aizzarvi gli uni contro gli altri. La Pannonia si sarebbe latinizzata, ma «Roma vi mandava, invece di pastori che vi avessero cura delle di lei greggie, dei lupi che le divoravano.» Tiberio era sul punto di entrare nel paese dei Marcomanni, del popolo più, possente, che allora contasse la Germania, quando i Pannonj, gl’lllirici e i Dalmati repentinamente insorsero contro i loro padroni, lo obbligarono a desistere da quell’impresa, e a rivolgersi contro di essi. Questa insurrezione prese taii dimensioni e tanta consistenza, che l’Impero si trovò in un manifesto, grandissimo pericolo. Augusto, ancorché cresciuto nelle rivoluzioni e nello guerre di ogni spezie, ne fu non poco spaventato, e annunciò al Senato che, qualora non si prendessero adeguate misure, e s’impiegassero sufficienti mezzi per comprimerla, Roma potrebbe vedere i sollevati in dieci giorni alle sue porte. Vi vollero per ricondurre quelle genti all’obbedienza niente meno che 15 legioni, e un egual numero di trappe ausiliarie. L’Italia non vi avrebbe minimamente bastato, vi volle, per non soggiacere a quella fierissima tempesta, la cooperazione di tutto il mondo romano. Le Alpi non vi furono di nessun ajuto.

Che ha fatto adunque la natura a sicurezza dell'Italia contro le invasioni forestiere? Che ha fatto a di lei sicurezza dal lato del mare, che dal lato del continente? Conoscendo l’importanza e la gravità dell’argomento ho messo nello studiarlo la più grande diligenza e circospezione. Dopo tutto ciò mi credo pienamente autorizzato a dire, che essa non vi fece nulla; nulla in riguardo alla prima delle prefatte dimande e molto meno che nulla in riguardo alla seconda. Non vi ha paese più aperto a chi vi voglia entrare per mare che l’Italia —continente e l’Italia —penisola dalla foce del Varo alla foce del Timavo, e che l'Italia—isola su tutte le di lei coste. Per coprirsi da quel lato le converrebbe farsi potenza marittima di primissimo rango. Dai lato del continente In natura le ha imposto nelle Alpi una serie di fortissimo e inespugnabili cittadelle, con presidj, (come l’ho detto più volte di passaggio, riservandomi. ciò che tosto farò, di parlarne a suo tempo e luogo circostanziatamente,) francesi, tedesco—svizzeri, tedeschi, e illirico—austriaci, e quindi meno che nulla. Da questo lato lo straniero è già sulle porte per le quali si entra, e anzi già sui gradini pei quali si discende in Italia. Per coprirvisi converrehbe che l’Italia avesse i mezzi d’impadronirsi delle dette cittadelle, vale a dire, che fosse l’italia dei tempi di Augusto. Or ciò non essendo, che ne segue? Quale è il significato provvidenziale di coteste cittadelle? Quale quello degli innumerevoli, lunghissimi tratti di spiaggie, che invitano l’invasore a sbarcarvi?

Il significato provvidenziale di cotesto ordinamento della natura non saprebbe esser altro, se non che l’italia non è ordinata, fosse dessa anche riunita nel senso delle pretensioni italiane, in un solo stato, in modo da poter fare da sé; che per poter fare da sé le converrebbe esser lo Stato Roma qual era ai tempi di Augusto, ciò che essa non è, né può sperare di divenire, e che perciò la è nella necessità di derivare la sua sicurezza e indipendenza dall’equilibrio politico Europeo e dagli esistenti e vigenti trattati. L’italia adunque consideri sé stessa qual parte integrante dell’Europa, subordini le sue idee, speranze, e pretensioni agli interessi generali del tutto, nei quali sono compresi anche i suoi, si faccia membre del concerto Europeo, prenda parte attiva alle di lui imprese pel mantenimento della pace e dei trattati, e nessuno oserà attentare alla di lei sicurezza, né alla di lei dignità. Se dessa è accessibile da ogni lato alle offese, la e accessibile anche da ogni lato a' soccorsi, i quali non le mancheranno mai, qualora non si renda schiava di un branco, volendo usare il termine più mite, di forsennati.

V. Augusto, in possesso delle Alpi dall’Isara e dal Rodano al Danubio, e dal Lago di Costanza al Quarnero, che ne ha esso fatto? Le ha esso aggiunte tutte o in parte alla sua Italia, o ripartite in diverse provincie? Le ha esso sistemate a difesa chiudendone i passi, murandone le città? Che ne hanno fatto i suoi successori? Hanno mai servito le Alpi di baluardo contro le irruzioni e le invasioni dei Barbari?

Rispondo in primo luogo all’ultima di queste domande, e dico, certo di non dire se non il vero, che la catena centrale delle Alpi non ha mai in verun tempo costituito il limite politico dell’Italia. S’inganna l'autore della Storia degli Italiani quando dice in una delle prime pagine di essa, che: «il vocabolo Italia indicava già all’età degli Scipioni l’intiera penisola, cioè l’intiera Italia sino alle Alpi, terminando all’Oriento all’Arsia verso l’Illirio, e al Varo verso Occidente».

Fu soltanto a’ tempi di Augusto che ebbe luogo la fusione dell’Italia—continente, vale a dire della Gallia cisalpina, della Liguria, e della Venezia, con l’Italia penisola. Il detto Autore usa egli stesso parlando dell’Italia—continente nella settima nota al capo XX, nella quale vi dà la serie dei governatori dei detti paesi, da Cesare sino ad Augusto, il vocabolo «Gallia—cisalpina». La summenzionata fusione fu voluta e decretata da Augusto violentando l’elemento etnografico nell’istesso grado che lo violentarono i decreti coi quali ai nostri tempi fu ordinata la fusione del Piemonte di Genova, di Parma, della Toscana e dello Stato del Papa con la Francia. I popoli vi erano per schiatta, per provenienza e per linguaggio diversissimi; Roma, come si legge in Dione Cassio fu presa da un immenso spavento, quando seppe che Giulio Cesare aveva passato il Rubicone, e vi veniva con un’armata che quasi tutta componevasi di Galli—cisalpini, di Veneti e di lllirici, e che perciò da essa consideravasi come un'armata di Barbari. (104)

Comunque ciò sia, fatto è che nessuno degli scrittori antichi che ci hanno lasciate delle descrizioni dell'Italia, qual essa era ai tempi degli Imperatori romani, le di per confine la catena centrale delle Alpi. Strabone che scriveva la sua geografia ai tempi di Tiberio nel 20.° anno circa dell'era volgare, scrittore esalto e giudizioso, assegna all’Italia per confine non le sommità, ma le radici delle Alpi.

«Alle radici delle Alpi, dice egli, è il principio di quella regione, che ora chiamasi Italia; perocchè gli antichi dissero Italia soltanto l’Enotria, dallo Stretto della Sicilia sino al Golfo di Tarante, e al Possidionate; ma prevalse poscia quel nome, estendendosi sino alle radici delle Alpi, come la Ligustica che va lungo il mare dai confini tirreni al fiume Varo» ~ E aggiunge in seguito: «Considerando poi le singole parti diremo, che le radici delle Alpi corrono per una linea curva e sinuosa colla concavità rivolta all’Italia, e le estremità danno volta da un lato fino all'Ocra, ed al fondo del golfo adriatico, dall’altro verso la spiaggia ligustica sino a Genova, emporio dei Liguri dove i monti Appennini si congiungono con le Alpi (105).

Plinio il vecchio non precisa nella sua descrizione d’Italia il confine di essa, ma tanto vi si rende chiaro, che Auguste nell’assegnarle i paesi che la costituirono non ebbe il minimo riguardo alla sommità delle Alpi. Erodiano scrittore del 3° secolo parlando di Emona, l’odierna Lubiana la dice la prima città d’Italia, ciò che dà a divedere che allora questa estendevasi per lo meno sino alla Sava. Ai tempi di Diocleziano e di Costantino ebbero luogo nuove ripartizioni dell’Impero con nuove circoscrizioni dell’Italia, nelle quali la catena centrale delle Alpi non entrò per nulla, come non entrò neppure in quella che ebbe l'Italia da Teodorico il grande. Nel medio evo spettavano all'Impero germanico non solo le sommità delle Alpi ma anche le valli subalpine. Più tardi ogni idea di confine stabile fra l’Italia e i paesi limitrofi svanì. Se la pace di Ryswick fissò qual limite fra la Francia e il Piemonte la sommità delle Alpi, ciò fa e si fece non già sul riflesso che il limite fra i due paesi dovesse segnarsi da quelle sommità, ma unicamente per escludere nell'interesse dell’equilibrio politico la Francia dall’Italia. Nelle altro Alpi il confine fra la Svizzera e la Lombardie e fra l'Austria e la repubblica di Venezia fu regolato senza alcun riguardo alla catena centrale. Non solo la maggior parte della valle dell’Adige, ma anche la Val—Sugana, percorsa dalla Brenta e cosi alla loro origine le valli del Cismon, del Cordevole, del Boite e della Fella: influente il primo dalla Brenta, il secondo ed il terso della Piave e l’ultimo del Tagliamento; e tutte le Alpi—Giulie erano austriache. — Conchiudiamo che la pretensione di far finire l’Italia alle sommità delle Alpi manca assolutamente di ogni fondamento storico.

E si arriva perlustrando la storia alla stessa conclusione anche in riguardo alla pretensione di servirai delle Alpi come barriera e come baluardo dell’Italia. Auguste riparti i paesi alpini da lui conquistati in diverse provincie, e li ordinò a modo romano; ma non pensò mai a sistemarli a difesa dell’Italia. Questa difesa erasi sino ai suoi tempi appoggiata ad una serie di colonie che vi aveano ai piedi delle Alpi, come Aquileja all'estremità orientale, Eporedia (Ivrea) all'estremità occidentale, e Como ed altre frammezzo. Egli vi sostituì il Reno e il Danubio e alcune colonie fra le quali divenne celebre l’odierna Augusta. Le Alpi gli erano più che altro un ingombro che gli rendeva l’accesso alle Gallie, alla Germania cisdanubiana e alla Pannonia difficile. Nonché chiudervi i passi, vi apri quanto più potè in ogni direzione delle strade. Da alcuni versi di Orazio in lode di Druso si raccoglie che i Vindelici, i Genauni, i Breuni, popoli dell'odierno Tirolo, si erano rinforzati con delle rocche (arces), ma che Druso a misura che se ne impadroniva le faceva atterrare (106): prova, cosi parmi, evidente che vi si pensava a tutt’ altro che a fare delle Alpi una fortezza. Tiberio congiunse il sistema di difesa danubiano col sistema di difesa renano mediante un vallo che partiva dal Danubio in vicinanza di Ratisbona e raggiungeva il Reno non lungi da Colonia (107).

E questo sistema di difesa, limitato, come si vede, alla difesa dei detti fiumi e dell’or accennato vallo, durò sino a Teodorico il grande. Non si crederebbe, ma è un fatto comprovato e innegabile, che le Alpi non si disposero mai a difesa, neppure allorché i popoli settentrionali e orientali ingrossatisi, poterono più volte, superato che ebbero il Danubio, giungere, rimontando l’Eno o la Muhr o la Drava o la Sava, alle Alpi, passade e discenderne e arrivare o per la valle dell’Adige innanzi a Verona, o per quella dell’odierno Vipacco influente dell’Isonzo innanzi ad Aquileja, e poi anche internarsi e avvanzare sino al Pò. come nessuno degli Imperatori romani, fra’ quali pur ve n’ebbero diversi dotati di tutte le qualità che costituiscono un gran reggente, non comprendesse la necessità di convertire le Alpi nella loro totalità, ciò che loro sarebbe stato facilissimo, in un baluardo dell’Italia, è uno di quei fenomeni storici, che non si spiegano se non coll’«Iddio non lo volle». I detti Imperatori pensavano che il solo modo di provvedere da quel lato alla sicurezza dell’Impero e dell’Italia era di allontanarne i popoli, che vi abitavano, il più che fosse possibile. Passato che essi ebbero il Danubio, vollero passare anche l'Elba e, raggiunta questa, la passarono egualmente e avanzarono sino alla Oder e sino alla Vistola, e all'Oriente sino nella Dacia, l’odierna Moldavia; ciò che non servi ad altro che ad accumulare in quelle regioni gli elementi, i quali un giorno dovevano abbattere lo stato, che essi inconsideratamente andavano sempre più ingrandendo. Di uno stabile sistema di difesa delle Alpi, la di cui esecuzione, giova il ripeterlo, sarebbe stata loro facilissima, e il quale avrebbe cangiato i destini del Mondo e dell'Italia, non vi ha nella Storia degli Imperatori romani il più piccolo indizio: io almeno non vi ho trovato alcuno. Tentativi maturati per difendere le Alpi non vi ebbero che due: l'uno nell’anno 388, e il secondo nel 394 dell'era volgare, ambidue contro Teodosio, e ambidue con esito infelicissimo (108).

Né i Goti, né gli Unni, né i Longobardi, né i Franchi, né gli Avari, né i Magyari, né gli Slavi trovarono mai chi loro nelle Alpi si opponesse con forze sufficienti. Se mai si riusci a fermarli, ciò fu allo sbocco delle valli subalpine, o sul piano. Se mai l'invasore fu respinto, ciò fu con una battaglia data in Lombardia o nella Venezia.

Si vuole, che ciò che in riguardo ad uno stabile sistema di difesa delle Alpi non si è fatto dagli Imperatori romani, siasi fatto da Teodorico il grande. Questa notizia è cavata dalle Storie gotiche di Procopio di Cesarea (Libro II. c. 28) ove si legge: Nelle Alpi, a confine tra Galli e Liguri, nomate Cozzie hannovi presso dei Romani molte castella abitate dai Goti uomini forti e numerosi colla prole e colle donne loro, e mtinite di guarigione. Belisario udendo che pensavano arrendersi, vi mandò uno dei suoi per nome Tommaso, con altri pochi all'uopo di riceverli a patti confermali da giuramento. Costoro pervenuti alle Alpi, Sisige comandante i presidj a guardia di quel tratto di paese accolseli in uno dei mentovati guardinghi, non pago di acconsentire alla sua dedizione fu eziandio agli altri stimolo perché si dessero ai Romani (109).

— Or egli è evidente, che lo stabilimento del quale qui si parla non fu se non parziale e limitato a quel particolar tratto di paese, e non già un sistema generale di difesa come lo suppongono Flavio Biondo ed altri. Si menzionano costruzioni fortificatorie eseguitesi nel Trentino per ordine di Teodorico anche nelle lettere di Cassiodoro; ma il vero si è che non vi si tratta che di qualche castello, e della fondazione di una città senza che si dica a qual scopo essa avesse a servire. E perciò mi credo autorizzato a sostenere, che neppur quel gran re ha mai sistemato le Alpi a difesa, e quindi che esse sino all’anno della sua morte (526 dell’é. v.) non servirono all’Italia di barriere, e non le poterono servire, giacché sempre rimaste aperte. Egli è più che probabile che Teodorico non vedesse pericoli d’invasione per la sua Italia se non dal lato del mare. Diffatti esso creò nna formidabile marina. Ma deve all'incontro non aver temuto nulla dalla parte dei monti, e averti perciò lasciati come li trovò.

Accadde poi che, subito dopo morto Teodorico, gli agitatori italiani d’allora, che dorante il di lui regno cospiravano e tramavano per attirare i Greci bizantini in Italia, riuscirono nel loro intente, ve li attirarono, vi attizzarono una guerra fierissima, che la devastò pei corso di 20 anni, la copri di rovine, vi iniziò secoli di barbarie, e le fece perdere il dominio sui mari e sui monti che la circondano. l’Italia di Teodorico fu disfatta. Le Alpi cessarono di essere monti italiani, l’italia non fu più Stato, e il nome Italia non significò, se non un numero di paesi contermini, peraltro senza alcun nesso politico. Gli elementi anti—unitarj che le sono proprj, non essendo più da una sufficiente forza repressi, la spezzarono e la sminuzzarono all’infinito. Di una difesa dell’Italia contro lo Straniero non vi fu pii, né vi potè essere? questione. I Saraceni e i Greci per mare, i Longobardi, i Franchi, i Borgognoni, i Tedeschi, gli Slavi ed i Magyari per terra, vi entravano ogni qualvolta volevano. Gl’Italiani stessi stracciavansi l’un l’altro con una rabbia che sorpassa ogni credenza. Se vi si produceva una tregua, era dessa l'opera di qualche Imperatore di Germania. Le Alpi occidentali erano nei medio evo in parte alla Francia, in parte alla Savoia, principato francese relativamente al linguaggio, ma feudatario dell’Impero—germanico e in ogni caso straniero anch’esso. Le Alpi settentrionali e orientali erano decisamente tutte tedesche o illiriche. Se vi s’impediva una invasione, era lo Straniero che se no doveva ringraziare.


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Questo stato di cose durò sino ai tempi di Carlo l'Imperatore di Germania, Re di Spagna e delle Due—Sicilie, e Duca di Milano, e perciò Principe predominante in Italia e in istato di dettarvi la pace e di escluderne le guerre, ciò che egli anche fece. E fa desso che protesse l’italia per mare centro il Turco divenuto padrone di Costantinopoli o potenza marittima e continentale di primo rango, mentre suo fratello Ferdinando I ch’ebbe l’Ungheria e 1Austria e con questa Illirio e le Alpi—Giulie, la protesse contro le irruzioni e devastazioni turche per terra. Nel primo decennio del secolo passato appartenevano le Alpi occidentali per intiero alla Francia che occupava tutta la Savoia e poco non che tutto il Piemonte. Torino difendevasi in principalità dal Conte Daun, generale tedesco, che vi aveva cinque battaglioni di Austriaci. La difesa fu eroica, ma stava per divenir per mancanza di polvere impossibile, quando un’armata, con l’eccezione di pochi squadroni piemontesi, tutta tedesca, guidata dal Principe Eugenio, vi diede e vinse la battaglia di Torino (7 Soit. 1706), rigettò i Francesi oltre le Alpi, e rimise il Duca di Savoia, Vittorio Amadeo in possesso dei suoi Stati cisalpini. Questo gran Principe, che alla pace. riebbe anche la Savoia, si diede ogni pena per mettere le sue Alpi in istato da potersi difendere senza soccorsi forastieri. Ma non vi riusci. Già nel 1747 le avrebbero i Francesi superate se non si difendeva il Col dell’Assiette, ove 4 battaglioni austriaci, 3 battaglioni svizzeri e soli 3 battaglioni indigeni della Savoia e del Piemonte fermarono e respinsero un’armata formidabile francese, che entrala pel Mont—Génèvre marciava, evitando Exiles e Fenestrelles, a dirittura su Torino. Nella guerra della rivoluzione andò la Savoia perduta in giorni, e si sarebbe egualmente senza i soccorsi dell’Austria perdute, se non in giorni, in mesi nel 1793 le Alpi, come le si perdettero malgrado i di lei soccorsi nel 1794, subito che la Francia ebbe compresse le insurrezioni nel proprio paese, che la impedivano di assalirle con forse sufficienti.

Questa è la storia genuina delle Alpi da’ tempi di Augusto sino ai tempi nostri. I Romani non ne tirarono nissun partito, e non ne tentarono la difesa che appena verso là fine del 4° secolo due volte e ogni volta, come si è dello, con un esito infelicissimo. Gli Italiani non le difesero mai, e non trovaronsi mai neppure nella situazione di difenderle, perché già dal sesto secolo in poi esse non sono monti italiani, ma monti francesi, tedeschi e illirici.

VI. Ma è poi vero che le Alpi sono monti non già italiani, ma francesi, tedeschi e illirici? Trattandosi di un fatto chiaro e manifesto per sé, la risposta a questa interpellazione potrebbe farsi dicendo: avvicinatevi ad esse, salitevi, e troverete che per lo più già nelle valli sottoposte non si parla se non il francese, il tedesco o l’illirico, e che se si eccettua il tratto delle Alpi marittime dal meridiano di Vado ove le Alpi si annodano agli Appennini, nel quale tutti due i versanti sono abitati da gente italiana, il rimanente, à esclusivamente abitato da gente o francese, o tedesca o illirica. E se non volete salirvi, ricorrete alla Geografia che vi hanno, e ne caverete la risposta. E potrei anche rimettere il Lettore al precedente capitolo in questi miei studj nel quale ho fatto vedere che, qualora si voglia estendere lo stato—Italia sino alla sommità delle Alpi, cioè sino alla catena centrale, convien rinunciare ai principio di nazionalità. Ma essendomi proposto di fare in modo che ognuno di questi capitoli formi tin tutto e possa stare da sé, risponderà nel merito come se non ne avessi ancora parlato.

S’inganna chi non vede nelle Alpi se non una catena di monti e ne fa un vallo rivolto contro lo Straniero, una circonvallazione. Esse sono non una catena, ma una regione montana che si rialza non solo, coi suoi monti, ma anche con le sue valli, e con la sua base sopra il livello del mare molto di più che non Bi rialzano i paesi limitrofi. Questa regione alpina misura almeno 2500 miglia quadrate geografiche eguali a 40000 miglia quadrate italiane, e traversa il nostro continente dal Rodano (Avignone) al Danubio (Vienna) nella direzione Sud—Ovest al Nord—Est, spin gendosi con le sue estremità sino al mare Mediterraneo alla foce del Varo, e sino al Quarnero dell’Adriatico. Il suo sistema corografico era in origine come quello degli Appennini nella penisola italica, un graticolato o un reticolato di monti, che intralacciavansi e formavano delle valli—chiuse le quali furono dalle acque in esse stagnanti coll'andar del tempo dischiuse. Egli è in questo modo che vi si è formato il presente partiacque e la catena centrale delle Alpi con i due suoi versanti. Di questi l’esterno è un piano che va gradatamente ascendendo verso la sommità, mentre l'altro è per dei lunghissimi tratti una parete più che altro. Le diramazioni sul primo sono per lo più parallele alla catena centrale, le valli vi si allungano, i fiumi vi si ingrossano assai, e hanno, come le valli, poca pendenza, mentre dal caste dell’Italia le diramazioni sembrano dei contrafforti fatti per impedirne già da lontano l’accesso, e per assicurare, a chi ne discende lo sbocco nel piano. E vuole anche essere avvertito che la catena centrale è nelle Alpi marittime e nelle Alpi Cozzie sino al monte Tabor, al triplice confine della Francia, della Savoia e del Piemonte una montagne a cresta, mentre nella sua continuazione la si allarga e si compose in gran parte di alti—piani, i quali, perché contano 1500 sino a 2000 tese di Francia di elevazione sopra il livello del mare, sono sempre coperti di neve e di ghiaccio. Vi hanno però anche dei tratti nella detta catena ove la si restringe, ma le Alpi—Giulie a cominciare dal punto culminante fra Idria e Lubiana sino al monte Maggiore ove raggiungono il Quarnero, si allargano dalle 4 sino alle 10 e più miglia geografiche di 15 al grado, mentre le si abbassano nei passi nei quali le si traversata portandosi dall’Isonzo, da Trieste e dall’Istria nella valle della Sava, sino a sole 325 tese di elevazione sul mare.

Questa regione montana, che sorge al Nord, al Nord—Ovest e al Nord—Est dell’Italia continente d tutta, fuorché all’estremità meridionale delle Alpi marittime, ove la è italiana, paese francese, tedesco, o illirico. Essa è paese francese nei dipartimenti francesi delle Basse—e delle Alte—Alpi, nella Savoja, e in alcuni distretti Svizzeri; paese tedesco nella Svizzera tedesca, nel Tirolo, nel Salisburgbese, nell’Alta-Baviera, nella parte cis—danubiana dell’arciducato d’Austria, nella Stiria o nella Carinzia; e paese illirico nella Caraiola, nel Goriziano, nell’Istria e nella Croazia. Il confine dell’or indicata e specificata regione montana, ossia delle Alpi, verso l’Italia, è segnato con la massima precisione dai passi pei quali, venendo dalla Francia, dalla Svizzera, e dall’Austria, si discende in Italia, e vi si entra. Or tutti questi passi, se si eccettua il Col di Tenda, sono paese non—italiano: il Col de l'Argentière, il Mont—Génèvre, il Mont—Cenis, il piccolo e il grande San—Bernardo sono paese francese; il Simplon, il San—Gottardo, lo Spluga, lo Stelvio, il Col di Reschen all’origine dell’Adige, il Brenner, cioè il punto culminante ira Innsbruck e Trento, il Col di Toblach, ossia il ponte culminante fra la valle detta Drava e quella della Rieaz, il Kreutzberg all'origine della Rienz e del Boite, il Col di Seifhitz all'origine detta Fella; tutti questi passi sono paese tedesco; il Prédit, il più settentrionale dei passi pei quali si traversano le Alpi—Giulie, e poi il Col di Trenta all’origine dell'Isonzo, e detta Sava meridionale, il passo di Petroberda all'origine detta Bazha, il Col di Mraule, di Nova—Ostitz, di Rospote, tutti passi con meno di 400 tese di Francia di elevazione, che conducono dalla valle della Soura influente detta Sava, in quella dell’Iderza influente dell’Isonzo, il Col di Viharsche, punto culminante fra Lubiana e Idria, il Col di Postoina, ossia Adelsberg punto culminante fra Trieste e Lubiana; e istessamente tutti i passi più meridionali, pei quali si sorte, traversando le Alpi, dalle valli della Gurk e della Culpa, o si discende nell'Istria marittima al mare Adriatico e al Quarnero, sono paese illirico.

E sono non—italiane per lo meno alla loro origine in gran parte anche le valli sub—alpine. Le valli dei Valdesi, quelle cedute da Luigi XIV nel 1713 a Vittorio Amadeo di Savoja, il Novalese, o la valle d’Aosta, sono paese francese; ia valle di Formazza, dalla quale si monta al Simplon, è alla sua origine, come lo indicano i nomi dei suoi villaggi e borghi, e quelli dei suoi monti e dei suoi passi: Unterstadt, Undermallen, Trutwald, Grimserpass, Aufdermarkt, Thalerhorn, paese tedesco. Più della metà delle valli subalpine del Piemonte sono alla loro origine, e la Val d’Aosta tutta, paese francese. Le valli sub—alpine svizzere sono italiane; quelle del Tirolo sono all’incontro sino a poca distanza di Trento 12 miglia geografiche di 15 al grado dal Brenner, paese tedesco. l’Adige non diviene fiume italiano se non dopo un corso di 14 miglia geografiche. Per comprendere sin a qual punto le valli subalpine tirolesi, irrigate e percorse dall’Alto—Adige, dall’Eisack e dalla Rienz, sono paese tedesco, basta sapere, che sono la patria di Andrea Hoffer, e che rivaleggiarono col Tirolo settentrionale e col Vorarlberg nei sagrifizj, che fece quel paese nella lotta con Napoleone nel 1809. La popolazione tedesca del Tirolo meridionale, posta qual antiguardo della sommità delle Alpi tedesche da quel lato, ammonta a più di 250 mila individui di ogni sesso ed età. Le valli sub—alpine nel Bellunese e nel Friuli occidentale sono italiane; ma che giova! la natura ha qui in una estensione di 12 miglia geografiche scavato a’ piedi della sommità delle Alpi una fossa profonda oltre alle 300 tese, mentre le ha rese, verso il Nord, accessibilissime. Le valli sub—alpine del Friuli orientale sono, se anche non tutte, pur per la maggior parte valli non—italiane. La valle della Fella è dal Colle di Seifnilz sino alla Pontebba, l’antico confine austro—veneto, tutta tedesca; la valle della Resia, che sbocca nella Fella—inferiore a poca distanza della di lei unione col Tagliamento è Julia stava. E sono stava alla loro origine e sino a poca distanza di Cividale e del piano anche le valli del Nalisone e del Judri; cosicché vi hanno nel Friuli, cioè nella Delegazione di Udine, la più orientale delle provincie lombardo—venete, oltre a 26 mila Slavi. l’lllirio senza la Carinzia la quale è quasi tutta tedesca, conta sino alla Culpa e sino al Quarnero una popolazione stava di più di 1 milione. E cosi come vi ha nel Tirolo meridionale a’ piedi delle Alpi—Retiche un antiguardo di 250 mila Tedeschi, cosi ve ne ha uno a' piedi delle Alpi—Giulie, di 150 in 200 mila Slavi dei quali, 26 mila appartenenti ai regno Lombardo—Veneto, e 28 mila appartenenti all'lllirio, sulla destra dell’Isonzo.

A torto adunque usano gl’ltaliani, parlando delle Alpi, dirle casa nostra. Vi montino, le visitino, e si convinceranno di essere non in casa propria, ma in casa altrui. Il titolo che essi vantano per dirle casa nostra non è in verun modo ammissibile. Vi ha nelle Alpi un ordinamento provvidenziale, chiaro, manifeste ed innegabile, ma il quale ha un senso del tutte diverse da quello che gli agitatori italiani hanno l’ardimento, falsandolo, di supporvi. Le sommità delle Alpi sono nel loro complesso, diciamolo pure per la decima volta che non si saprebbe abbastanza ripeterlo, un vallo non contro lo Straniero ma contro l’Italia continente, un vallo che collega una serie di cittadelle poste a cavaliere dell’Italia—continente. tutte questo cittadelle sonosi dalla storia, cioè dalla Provvidenza, affidate e date a guardarsi allo Straniero, Le une, le più importanti, all’Austria, le altre alla Svizzera, le occidentali alla Savoja e alla Francia, non all’Italia; non al Piemonte, Le Alpi marittimo sono una continuazione non tanto delle Alpi quanto degli Appennini, dei quali ne hanno, sotto ogni rapporte, il carattere. Se le Alpi occidentali sono state nel secolo passato talvolta difese, lo furono col soccorso dell’Austria. Le si sarebbero difese anche nel 1796, se la difesa non si fosse tutta devoluta sul soccorso, e se l’armata piemontese non si fosse tenuta ad una tale distanza dai Francesi, che questi poterono nelle loro operazioni contro gli Austriaci considerarla come non esistente. Il congresso di Vienna pensava col far forte il Piemonte di escludere dall’Italia la guerra per sempre. Il congresso s’ingannò. Lord William Bentinck, che a quell’epoca comandava le forze britanniche che vi aveano in Sicilia e nell'Italia, lo previde, e lo disse ad alla voce e replicatamente. Esso si accorse che nella corte piemontese, non nel Re, principe venerando, e neppure nei suoi Savoini, ma nei suoi Piemontesi, vi avea una farne di paesi, e. un desiderio d'ingrandimento e di farsi potenza di primo rango, che si avvicinava ad un delirio. Pur troppo fu una voce che si perdette nel deserto.

Questo è quel tanto, che mi restava a dire suite Alpi relativamente ai titoli che si mettono in campo per rapporto ad esse nella questione italiana. Io non ho potuto fare a meno di avvertire, che le Alpi sono per l’Italia di un molto maggior momento, che comunemente non si crede, e di trattarne la questione in connessione con quella dell’unione delle tre Italie in una Italia e in uno Stato. Senza tutte le Alpi e senza i mari aggiacenti e le isole che vi hanno. e senza le coste e le Isole dalmatiche, l’italia della questione italiana non è fattibile. Vi vuole per fare quest’Italia, oltre questi mari, questo isole e queste coste tutta la regione montana denominata le Alpi. Non basta avvanzare coi confini d’Italia sino alla sommità delle Alpi, non basta piantare il vessillo italiano sui San Gottardo, sui Brenner, sui Predil esulta rocca di Postoina ossia di Adelsberg, convien piantarlo sui Rodano, sul Reno e sui Danubio. La natura ha negato all’Italia conte dai lato del mare cosi anche dai lato del continente ogni difesa. Tutto è da farsi in ambi i riguardi. Il fare un’Italia indipendente nel senso della questione italiana, un’Italia indipendente dall’Austria, sarebbe certamente un’impresa ardua e difficile, ma non basterebbe, giacché fa d'uopo farla indipendente dall’Europa e tanto dall’Europa marittima che dall’Europa continentale. Io non nego che le Alpi possano convertirai in un inespugnabile baluardo dell’Italia, ma sostengo che convien conquistarle tutte e fare con esse cerne fecero i Romani, cacciarne gli attuali abitanti, e, ciò che essi non fecero, sistemarle a difesa. E convien poi in ogni case essere, cioè farsi, padroni del mare. Riassumo quanto ho detto in questo capitolo dicendo che per fare un’Italia indipendente nel senso della questione italiana deve rinnovarsi il regno di Teodorico il grande.

Il seguente capitolo è dedicato all’indagine;fiia a qual segno la vera Italia, il vero popolo italiano abbia fatta sua la questione e la causa così detta italiana. Fra’ principj ai quali si ricorre nella questione italiana, e vi si considerano come pronunciati assiomatici, vi ha anche quello che il volere, qualora unanime spiegato, ardente di une grande nazione qual è la nazione italiana, si giustifica e legittima da sé; e che ad essa è lecito e permesso di volere tutto ciò che la può. Ma che sarebbe del mondo politico qualora queste principio vi fosse ammesso? Sarebbe il caso della guerra di tutti contro tutti. Il detto principio è quindi da rigettarsi come non ammissibile; seppure non se ne volesse fare un privilegio esclusivo degli Italiani già altrove da me ricordato e citato, e che qui ci conviene, a risparmio di molte parole, ricordare e citare di nuovo: «quod licet Jovi non licet bovi»: —Fossero anche tutti gli Italiani d'accordo intorno alla questione italiana, l’avesse anche fatta sua la vera Italia, cioè il vero popolo italiano, ciò non cangerebbe nulla relativamente al fondo, al valore, al merito della causa che vi si tratta. Ma sarebbe tutt’altro se la vera Italia, il vero di lei popolo non l’avesse mai riconosciuta per sua, e l’avesse anzi sempre rigettata. La questione in un tal caso cesserebbe di essere una questione italiana; e non sarebbe che una abominevole fantasmagoria, e dovrebbe dirsi: la questione Balbo, la questione Gioberti, la questione Mazzini; non mai la questione italiana.

Or cosi giudicavasi la questione Italiana un tempo dagli stessi agitatori italiani ed in particolare dallo stesso Mazzini, e ciò a tal segno, che esso dichiara di non voler più parlare dell’Italia, qualora le masse non vi fossero decise e pronte ad emanciparsi. « La seule manière», dice egli, «de poser nettement la question italienne, la sente qui puisse en amener la solution, semble être celle—ci. Sont—ce les élémens d’émancipation qui manquent en Italie? ou bien est ce une, impulsion convenable donnée à ces mouvemens? Est ce parmi les chefs on dans les masses que nous devons chercher les causes qui. ont fait échouer jusqu’ à présent tous les mouvements, révolutionnaires? De la réponse a ces questions. dépend la destinée, de l’Italie. S’il —fautre jetter sur le peuple les fautes commises, résignons nous à notre sort, ne parlons pas de l’Italie et attendons patiemment son amélioration du progrès de l’Europe entière, ou comme l’œuvre lente d’un grand nombre d’années, de plusieurs siècles peut être. Mais s'il faut attribuer ces fautes aux chefs du peuple, nous devons le proclamer hardiment, nous devons justifier la nation italienne, la relever dans sa propre estime, avoir confiance en elle, et l’ex horter à ne pas se lasser de la lutte; car la victoire est enfin certaine. — Or pour moi la question est depuis long—temps résolu; sans cela, je ne parlerai jamais de l'Italie. La raison pourquoi ma patrie est encore dans l'esclavage, ce n'est pas l'absence des élémens d’émancipation; mais c’est que les élémens n’ont pas été bien mis en ouevre. Là comme partout ailleurs, et plus que partout ailleurs les masses sont prêtes: les chefs seuls ont manqué jusqu'à présent. Le jour où l’on verra paraître, le jour on le hasard ou leurs actes placeront à la tête de l’insurrection des hommes qui comprennent l’Italie, l'Italie sera libre (110)».

Basta leggere l’articolo del Mazzini, dal quale ho tolto questa sua dichiarazione, con quella attenzione, che comanda la gravità del soggetto, per non dubitare che l’autore di essa aveva ogni ragione d’imporsi per sempre sull’Italia silenzio, vale, a dire che il vero popolo italiano era rimasto affatto estraneo a tutte le sommosse, insurrezioni e ribellioni, che dal 1814 in poi avevano avuto luogo in Italia, e che esso non vi aveva preso parte, perché aveva bisogno di pace, e che la rivoluzione gli era un oggetto di abominazione. Tutto ciò che l’autore sa addurre a discolpa del vero popolo italiano in riguardo al non aver esso preso parte alle mosse rivoluzionarie consiste nel dire che' il loro cattivo esito derivava non da una mancanza di coraggio, ma dal che non vi ebbero capi abili per capita narle. Egli probabilmente ebbe in vista certi discorsi sconsiderati, che si erano tenuti sul conto degli Italiani in ispezialità nella camera dei Deputati francesi ove si era dette: «Les Italiens ne se battent pas». In prova, che nel cuore degli Italiani non era spento l'antico valore, cita egli non già la battaglia di Borodino, o di Malo—Jarostawetz, (1812) ma la riscossa genovese contro gli Austriaci nel 1746, e il coraggio col quale i Lazzaroni di Napoli combatterono nel 179contro i Francesi.

Siamo perfettamente d’accordo e più che d’accordo, che le imprese rivoluzionarie che ebbero luogo in Italia dal 1814 in poi sino a quel giorno (1839) erano avvertite per tutt’altro che per mancanza di coraggio; e lo siamo egualmente, che il modo come esse si condussero prova che le persone di talento se ne tennero quanto più poterono lontane. Non dirò la sola, ma pur nna delle principali cause del non successo delle dette imprese fu, che per quanto i rivoluzionarj andassero sangue e latte per guadagnare alla loro causa il vero popolo italiano, non vi riuscirono, e che il di lui buon senso, il maggiore dei doni dei quali la natura gli fu si generosa, gli fece sempre veder chiaro nelle loro abominevoli mene, e sempre nella rivoluzione quella belva:

«Ch'ave natura si malvaggia e ria,

«Che mai non empie la bramosa voglia

«E dopo ‘l pasto ha più fame che pria.»

Esso non solo non vi prese parte, ma le avversò, invece si mostrò non solo non a vv erso agli Austriaci, ma li ebbe ovunque, nel regno di Napoli, negli Stati romani, nella Toscana, nel Modenese, nel regno Lombardo—Veneto, che vuolsi dippiù, nel 1849 fin a Novara per suoi liberatori, e come tali non mancò quanto più potè di ajutarli. — Fra le cagioni che alimentarono fin al giorno d’oggi l’agitazione italiana, non è l’ultima, che nell’estero l’opinione pubblica è relativamente alle di lei cause, e alla di lei estensione affatto traviata. Non è la sola Austria, è l’Austria e l’Italia assieme, che hanno fatto avvertire le mene dei sovvertitori e degli Erostrati italiani. Ecco in due parole la conclusione alla quale, se non m’inganno, si arriva nel seguente capitolo.


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CAPITOLO VII

Sulla condotta delle masse italiane nelle guerre, insurrezioni,

o ribellioni, che dal 1815 in poi turbarono e interruppero replicatamente la pace d’Italia. Sopra i principj che guidarono

Le guerre, insurrezioni, e ribellioni, che dal 1815 in poi turbarono e interruppero replicatamente la pace d'Italia con lo scopo di cangiarne l'ordinamento politico attuale, si sono tutte fatte e consumate senza che vi abbiano preso parte le masse, le quali come vedremo non solo non vi hanno in verun modo cooperato, ma le hanno, se non sempre, in più di un caso avversate. Questa condotta delle masse italiane è tanto più rimarcabile, che il partito rivoluzionario ha fatto ogni sforzo fattibile, e messo in campo falsità, inganni, e calunnie senza alcun riguardo e senza fine per rendere loro odiosi i rispettivi governi e aizzarle in ispezialità contro l’Austria, qual principal ostacolo ai di lui nefandi disegni. – Non prova questo fatto 1.° che nella questione italiana non vi ha nulla di veramente nationale, e non essere dessa se non il ritrovato di una fazione; e 2che l’oppressione sotto la quale, al dire degli agitatori, l’Italia si trova gemente e fremente, e che secondo essi legittima e giustifica ogni impresa diretta a porvi un fine, è una mera impostura? Ma siccome potrebbe esser vero, che la qui contemplata condotta delle masse italiane fosse dovuta a delle circostanze particolari come per esempio, alla mancanza di capi abili e capaci di condurle, facciamoci a chiarire e sciogliere questi dubbj comecché chiariti e sciolti che essi siano, è chiarita, e sciolta anche la questione italiana; e con ciò confermati i risultamenti degli studj esposti nei precedenti capitoli.

I tentativi di cangiare in Italia l’attuale ordine politico sono: a ) La guerra che nel 1815 mosse all’Austria Gioacchino Murat in seguito alla fuga di Napoleone dall’Elba, e detta di lui rioccupazione del trono di Francia. b ) Le insurrezioni militari, di Napoli nel 1820, e del Piemonte nel 1821; opera la prima delle sette, però almeno in apparenza senza verun scopo italiano, e soltanto per darsi una costituzione; la seconda, opera della giovane aristocrazia piemontese smaniosa d’ingrandimento territoriale collegatasi con le congreghe settarie milanesi. c ) L’insurrezione dei due Ducati, o delle Legazioni e Marche pontifizie nel 1831, opera della capo—setta rivoluzionaria di Francia sulla speranza che il governo francese di luglio fosse per sostenere il da esso prodamato principio di non—intervento; e d ) la ribellione contro l’Austria delle città del Lombardo—Veneto in seguito alla rivoluzione di Vienna nel 1848; opera del partito rivoluzionario italiano; e la guerra che in soccorso dei ribelli lombardo—veneti, e con la speranza di aggiungere al suo regno Sardo—Piemontese, il Regno Lombardo—Veneto mosse Carlo Alberto, e riprese l’anno seguente contro l’Austria. I paesi italiani si trovavano avere nel 1815 con appena qualche eccezione non altri governi che quelli che essi stessi avevano desiderati e addimandali; e i quali gareggiavano col governo austriaco del regno Lombardo—Veneto di buon volere e di operosità per sanare le piaghe inflitte ai loro popoli dalle tremonde guerre nelle quali strascinavali, o facevali stra scinare Napoleone. L’Italia aveva soprattutto bisogno di pace, bisogno che essa sentiva vivamente e profondamente, e che si manifestava dappertutto e in ogni maniera. Ma stava scritto che questo bene per eccellenza non le sarebbe concesso. Le setto con principj repubblicani anti—religiosi e socialisti formatesi già dorante l'impero di Napoleone e contro di esso, ma tenute con lo spavento che loro incuteva il di lui codice criminale contro i delitti di alto—tradimento e di fellonia in scacco e obbligate a occultarsi e tenersi nascoste, accortesi dall’indole mite e paterno dei nuovi governi uscirono dalle loro tane baldanzose e sfrenate, e senza indugio diedero principio alle trame, alle seduzioni e alle cospirazioni rivoluzionarie contro l’ordine esistente, e si collegarono fra di loro e con Gioacchino Murat, del quale trovavaasi già dall’anno precedente in strettissime relazioni. Contemporaneamente tramavasi e cospiravasi anche in Francia contro i Borboni, e si trattava con Napoleone allora confinalo all’Isola d’Elba, il quale effettivamente ne partiva negli ultimi giorni di febbrajo, sbarcava sulle coste di Provenza, e il giorno 20 marzo, portatovi come in trionfo dall’armata che era stata spedita per fermarlo e combatterlo, già trovavasi a Parigi. Gioacchino incoraggiato dal successo ch’ebbe l’impresa di Napoleone, prestando più che mai credenza alle promesse che gli facevano i rivoluzionarj italiani, e segnatamente i rivoluzionarj lombardi, non dubitando che le popolazioni italiane lo riceverebbero come i Francesi avevano ricevuto Napoleone, varcava li 22 marzo i confini del suo regno, e entrava con 85 mila uomini ripartiti in due colonne negli Stati del Papa; delle quali l'una composta delle guardie (5400 uomini) prendere la via attraverso la comarca di Roma e passando per Tivoli, Foligno, e Arezzo si porta va in Toscana, e avanzava sino a Firenze, ove giungeva, senza che le fosse opposta veruna resistenza, il giorno 7 aprile, mentre l'altra composta di quattro legioni (29600 uomini) prendeva la via per le Marche e le Legazioni, e passando per Ancona, Rimini, Bologna entrava il giorno 4 dello stesso mese, dopo un fiero combattimento al ponte sul Panaro nel Modenese e in Modena.

L’armata di Gioacchino aveva fatto prova nella guerra dell'anno precedente 1814 contro l'armata condotta dai Vice—re, ogni qualvolta le era stato permesso di agire senza riserva, di molto coraggio, e di molta attitudine guerriera; era bastantemente fornita di uffiziali e anche di generali sperimentati, e poteva benissimo servire di base ad una guerra nazionale contro l’Austria del genere di quella che avevano fatta gli Spagnuoli dal 1808 al 1813 a Napoleone (111).

Gioacchino, ancorché non fosse come lo aveva detto il suo generale Carascosa in un proclama all'Italia nella campagna del 1814 il primo capitano del secolo, era per altro una tremenda spada, e aveva tutte le qualità che richiedevansi per condurre un’impresa come era quella alla quale esso accingevasi. Né questa andò fallita per sua colpa, o per colpa della sua armata. Prima di varcare il confine del suo regno emanava egli il giorno 13 marzo un editto, che doveva servire ad addormentare per qualche settimana l’Austria e gli Alleati (112).

Ma giunto a Rimini il giorno 30 del detto mese si smascherò, e pubblicò l’editto da me già nel terzo capitolo di questi Studj (pag. 74) prodotto, nel quale sono formulate le pretensioni costituenti la questione italiana con tutta la loro esorbitanza, con una franchezza che non fu superata neppure nel 1848. Egli ne attendeva un completo successo, e non dubitava di vedere in pochi giorni raddoppiato il numero delle sue truppe e tutta l’Italia in rivoluzione.

Tutto ciò non era che un sogno. Uffiziali della fu armata del Vice—re venivano in gran numero ad offrire i loro servigj, ma senza soldati Le popolazioni ricevevano i sedicenti loro liberatori con evidenti segni che l’impresa da esse consideravasi come un attentato contro la quiete e la pace d'Italia. Bologna fu la sola città degli Stati pontifici, ove il partito rivoluzionario, incitalo da quello stesso Pellegrino Rossi che nel 1848 cadde come ministre di Pio IX sotto il pugnale repubblicano, osò mostrarsi aderente a Mural Modena non si ristette, nei sei giorni che vi stanziarono i Napoletani, di abbandonarsi a delle dimostrazioni di attaccamento e di devozione verso il suo Duca Francesco IV, che aveano aspetto di un vero fanatismo. Nella Toscana appena si venne a conoscer che le truppe napoletane che vi aveano ammontavano a soli cinquemila soldati, che le popolazioni, tanto quelle della città che quelle del contado si disposero ad ajutare gli Austriaci, che sotto il comando del generale conte Nugent si erano ripiegati a Pistoja, a cacciarneli. Non si cessava di spargere le notizie più allarmanti. Ora vedevasi la grande flotta inglese con un grande seguito di bastimenti da trasporto sul punto di gettar l’Ancora nel porto e nella rada di Livorno; ora discendeva una divisione di Austriaci dagli Appenini per Pontremoli destinata a ricondurre il Papa a Roma; ora rinforzavasi il conte di Nugent con due reggimenti d’infanteria ungherese, e con un reggimento di ussarj. Né vi mancavan le satire, le canzoni, le caricature. (113).

( ) In questo mezzo arriva a Modena, per parte del generale delle forze di terra britanniche a Genova e nella Sicilia Lord William Bentinck, la disdetta dell’armistizio con l’Inghilterra in termini i più minaccevoli.

Gioacchino e i suoi generali viddero che trovavansi sull’orlo di un abisso dal quale per non esservi precipitati conveniva allontanarsi senza remora. Lo sdegno contro gl’Italiani da' quali dicevansi perfidamente traditi sfogavasi senza ritegno. L’impresa fu abbandonata, già incalzavano gli Austriaci che avevano varcato il Po. La ritirata fu ordinata e doveva farsi in due colonne, cioè con la maggior parte dell'armata per la strada della Toscana che da Bologna conduce a Firenze, e per Arezzo, Foligno, Tivoli nel regno; e soltanto con un forte distaccamento, che proteggerebbe sgombro delle Marche ove erano i feriti e i depositi di guerra, sulla Emilia sino a Rimini, e poi lungo mare per Ancona e Ascoli negli Abruzzi. Senonehè Firenze era già il giorno 15 abbandonata. Questo abbandono di quella capitale e con essa della diretta più breve comunicazione co’ suoi Stati opera non tanto degli Austriaci quanto dei Toscani, fu un colpo terribile per Gioacchino, e incontrastabilmente la principal cagione del disastroso fine ch( 7) ebbe per lui quella campagne. Egli si trovò nella necessità di percorrere per rientrare nei suoi Stati un arco immenso su di una strada che negli Abbruzzi si faceva pessima, mentre gli Austriaci ne percorrevano l'arco su delle strade che nulla lasciavano a desiderare. La sua armala abbandonava Bologna e dirigevasi tutta unita su Rimini il giorno 16. Gli Austriaci la seguirono con soli 15 mila uomini; 10 in 11 mila sotto il comando del generale Bianchi furono già il giorno 17 messi in marcia per Firenze e per Foligno; il conte Nugent ebbe ordine di correre su Roma. Ai suo distaccamento si aggiunsero 2 mila Toscani, che si comportarono in ogni occasione e sotto ogni rapporte egregiamente.

Questa ripartizione dell'armata austriaca in tre colonne le quali operavano alla distanza una dall’altra di sei, sette e fin otto marcie, con frammezzo riguardevoli monti e fiumi, sarebbe stata in ogni altro genere di guerra assurda; mentre invece la era, in vista delle particolari circostanze della situazione, giudiziosissima. Non è da negarsi che la colonna della sinistra e quella di mezzo, correvano il pericolo di essere assalite separatamente una dopo l’altra da forze molto superiori. Ma tanto il generale Neipperg, che il generale Bianchi vi erano preparati. D’altronde la truppa era eccellente, il paese porgeva ad ogni passo fortissime posizioni, nelle quali chi aveva a difenderle di piè fermo, si trovava in grande vantaggio su chi le attaccava. Oltrediché, le popolazioni essendo nel grado che lo erano favorevoli agli Austriaci, e ostili ai Napoletani, si poteva essere certi, che le comunicazioni fra le colonne operanti non verrebbero interrotte, che si avrebbero notizie a tempo di ogni movimento nemico, e che si troverebbero dapertutto viveri, e mezzi di trasporto. E anche Gioacchino giudicava quella ripartizione un fatto, che gli porgeva l’occasione di volgere quella ritirata a suo profitto. Diffatti esso si rianimò, le sue speranze si riaccesero, e nonché accelerare il passo, si fermò per dar campo alla colonna del generale Bianchi di allontanarsi in modo a non essere più a portata di soccorrere la colonna che gli teneva dietro. Ma Frimont ne penetrò i disegni e prese delle misure che le sventarono, e decisero Gioacchino ad assalire la colonna di mezzo; e ciò anche per aprirsi la comunicazione diretta e più breve per Foligno e Terni e per Rieti coll’Abruzzo occidentale e con l’Aquila di lui capitale, e per Tivoli e Frascati con la Terra di Lavoro e con Napoli.

Ma il colpo andò intieramente fallito. Bianchi lo attese nella fortissimo posizione di Tolentino, lo respinse con grave perdita, e ne scompaginò l’esercito, che contava 16 mila uomini, mentre egli ne aveva appena 11 (114).

I Napoletani avevano nella battaglia di Tolentino combattuto con molto coraggio. «I soldati di Murat» dice il ragguaglio del detto memorabilissimo fatto d’armi che si legge nella «Ôsterreichische militürische Zeitschrift Anno 1819 fasc. 8 pag. 140, hanno quest’oggi (2 maggio 1815) combattuto con molto valore. I loro cacciatori fecero prova di molta abilità. Si videro molti uffiziali precorrere i loro soldati ed animarli colla voce e coll’esempio». Vi aveva a poca distanza dal campo di battaglia la posizione di Macerata la quale offriva a Gioacchino gli stessi, se non maggiori vantaggi, che quella di Tolentino aveva offerto al generale Bianchi. E il re disponevnsi a fermarvi le sue legioni a riordinarle e a postarle; «quando» dice il generale Colletta «vide in lontananza due corrieri frettolosi. Gli aspettò, e seppe che gl’inviava l'uno dagli Abruzzi il generale Montigny, l’altro da Napoli il ministro della guerra, portatori di lettere da consegnare nelle sue mani. Montigny riferiva le sventure di Abruzzo, preso da 12 mila Tedeschi, datasi l’Aquila, ceduta a patti la cittadella, sciolte le milizie civili, commossi i popoli per la parte dei Borboni, voltato de' magi strati lo zelo ed il giuramento, elui con pochi respinto a Popoli. Riferiva il ministro la comparsa del nemico sul Liri, lo sbigottimento de’ popoli, i tumulti di alcuni paesi della Calabria. — Alle quali nuove Gioacchino smarri il senno; e credendo il regno vicino a perdersi, stabili di accorrere al maggior pericolo, e con improvvido ma suo consiglio ritirar l'esercito nelle proprie terre. Il re dispose la ritirata (115)

Dalle parole del generale Colletta, le quali qualificano il consiglio di ritirarsi nelle proprie terre d’improvvido, si porrebbe arguire, che vi si avessero i mezzi e il modo di protrarre nelle Marche la guerra contro l’Austria, e in ispezialità di dar loro il giorno seguente una seconda battaglia nella posizione di Macerata. Ma chiunque legge la pittura che esso stesso fa dello stato nel quale li 3 alla fine della giornata si trovava l’esercito napoletano, si convincerà del contrario. Aggiungasi che il conte di Neipperg trovavasi con 13 in 14 mila uomini la notte dei 3 ai 4 a Jesi, distante da Macerata soltanto circa 17 miglia italiane, e a portata di congiungersi col generale Bianchi al più tardi alle 10 antemeridiane del giorno 4, e di assalire l’ala destra del re di fianco e alle spalle. Avvi del reste come tosto si vedrà, un indizio certissimo, che il re all’arrivo del corriere speditogli dai generale Montigny già sapeva l’entrata degli Austriaci da Terni per Rieti, Civiltà—ducale e Antrodoco nell'Abruzzo occidentale, e che non solo l’Aquila, la capitale di quella provincia, ma anche Popoli, la chiave della strada sulla quale per la valle del Pescara esso intendeva di rientrare nel regno, era minacciata e nel più grande pericolo; e che conveniva al più presto portarvi un corpo di trappe in istato di difendere quel posto e di mantenervisi. La necessità di sortire col suo esercito dalle Marche gli era già allora chiara o manifesta. Ma la battaglia era troppo inoltrata per poterle fermare. Egli sperava di vincerla e la continuò. Il pensiero che in lui sapendo quanto il partilo borbonico nel suo regno era numeroso e possente, doveva essere prevalente, era, d’impedire agli Austriaci di porvi il piede. La ritirata fu appena incamminata che la si disordinò, e si converti in una fuga, e in seguito nella maggior parte dei fuggiaschi in una deserzione, e in un ritorno alle loro case. Ma la cagione n’era, non la ritirata per sé stessa, ma perché si sapeva, e si credeva, che tutto il regno dichiaravasi per i Borboni, e che gli Austriaci ricevevansi dappertutto come liberatori. Io non pretendo ce le disposizioni per la ritirala fossero tutto giudiziose, e quali avrebbero dovuto essere, ma sostengo, che la ritirata era dal complesso delle circostanze imperiosamente e categoricamente comandata.

Lo operazioni del conte Nugent, che tanto contribuirono al felice finimento di quella guerra, e tanto accelerarono, sono le seguenti. Egli marciava con 4500 uomini, dei quali più della metà erano Toscani (116) su Roma, e trovavasi già a Viterbo sulla strada sanese-romana, quando ebbe l’ordine di congiungersi con la colonna di mezzo ossia Bianchi, ch’era a Foligno. Parti subito, come deve farsi in ogni esercito ben regolato, ma rimostrò contro l’ordine ricevuto; ed essendosi trovata la sua rimostrazione giusta, potè fermarsi a Terni e rivolgersi col grosso delle sue genti verso l’alma Città, per di là entrare nel regno, e frattanto spinse giorno 30 aprile già da Terni un distaccamento di 910 uomini con 120 cavalli per Rieti, per Civita-Ducale e Antrodocco sull’Abruzzo occidentale. Egli è questo distaccamento come ho detto di soli 910 uomini in tutto, comandato da un maggiore (barone Fletté) che il generale Montigny nel suo messaggio al re disse un corpo di 12 mila nomini. Il detto maggiore sicuro di essere ricevuto dapertutto a braccia aperte, staccò da Rieti un tenente con 83 uomini nella valle del Terano, con l’ordine di avanzare il più presto che gli fosse possibile nella valle del Lire. Egli stesso era il 1.° di maggio a Civita—Ducale, sbaragliava una truppa napoletana di molto più numerosa della sua che gli opponeva il generale Montignv, e marciava, senza che nessuno lo fermasse al strettissimo passo di Antrodocco, sull’Aquila, e ne prendeva la cittadella, ancorché fosse stata a sufficienza presidiata e messa in istato di difesa. Egli era nella sua marcia accompagna da migliaja di paesani. Fa in vista di & queste dimostrazioni degli abitanti che si rese quel forte.

Il generale Montigny che vedeva nella truppa del maggiore Fletté una vanguardia, alla quale teneva dietro, cosi gli si diceva, un corpo di trappe considerevolissimo, si ripiegò il giorno 4 su Popoli, e il giorno seguente, abbandonata questa città su Chieti nella valle del Pescara. Fletté, animato, rassicurato, e fatto arditissimo dall’accoglienza che gli si faceva, occupò, ancorché non gli restassero più se non un 300 uomini, Popoli, e fece sembiante di volervi prender piede, a in caso che i Napoletani ritornassero di difenderlo. Il conte Nugent dal suo canto avanzava da Roma su tutte le strade che conducono nel regno, e vi entrava.

«Pochi soldati di Nugent» dice il generale Colletta, «campeggiavano tutta la frontiera dall’Aquila a Fondi. Il generale Manhes con la quarta legione (5 mila soldati) difendeva la frontiera del Liri. Avuta notizia sul finire di Aprile, che il nemico, per la valle del Sacco» – era il suddetto tenente con gli 83 uomini del distaccamento Fletté – «avanzava verso il regno, condusse ai 2 maggio la sua schiera a Ceprano (città pontificia): E Perché alcuni sbirri del Papa, chiuse la porte, tirarono poche archibugiate contro i nostri, la città fu maltrattata, messe a sacco molte case, e tre più grandi e più belle bracciate, asprezze del Manhes. Quelle squadre divise in due brigate occuparono Veruli e Fresanone e a’ 6, sapute le sventure di Tolentino». - Queste si seppero già durante il giorno 4, e doveva dirsi: in seguito che non solo la valle del Liri ma anche quella dell'alto 6arigliano era tutta sollevata – «furono sollecitamente ritratte a Ceperano, e di poi senza respira, bruciando i ponti a Roccasecca, Arce, Isola, e San—Germano, abbandonato il corso del Liri, o parte del Garigliano; linea difensiva del regno, che andò perduta senza aver visto il nemico (117)

Montignv riprese il giorno 6 l'offensiva con 5 mila uomini, e attaccò Popoli. Egli aveva ricevuto tutta nna brigata, la brigata Minutillo, che dall’interno era arrivata a Fermo, 13 in 14 miglia italiano al Sud—Est di Macerata, ed era sul punto il giorno 3, durante la battaglia di Tolentino, di porsi in marcia per raggiungere Formata, quando ricevette l’ordine dal re di ritornare per la valle del Pescara nell’Abruzzo, di porsi sotto gli ordini del generale Montigny, e di riprendere ad ogni costo Popoli, qualora fosse occupato dal nemico. Non è egli quest’ordine, che deve essersi spedito a Fermo già la mattina del 3, un chiarissimo indizio, anzi una prova incontrastabile, che il re era ai 3, e ciò per tempo, in cognizione dell’entrata degli Austriaci all'Aquila?


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Questo soccorso arrivò troppo tardi. Vi avea per la brigata Minutillo una via di molto più breve, che quella che le fu prescritta, cioè: la strada da Fermo per Mont’Olmo a Ascoli, e da questa città per la valle del Tronto, per Arquata e Amatrice all’Aquila. La detta brigata sarebbe arrivata in vicinanza dell’Aquila già il giorno 5, e quindi alle spalle del distaccamento Fletté. Ma il re deve aver temuto, che nna qualche squadra austriaca vi fosse entrata anche nella valle del Tronto, o ne avesse fatto insorgere gli abitanti. E in qualche modo non si sarebbe ingannato, giacché il detto maggiore non aveva perduto di vista quella valle, e vi avea inviato un 30 Toscani, i quali presidiarono il castello di Arquata. Comunque ciò sia, Fletté sorti bensì da Popoli e lo abbandonò, ma continuò coll’ajuto degli abitanti, che se anche non combattevano, facevano un chiasso tremendo, a dare molto da pensare e da fare al suo avversario; lo tratteneva tre giorni, gli faceva perdere del tempo, e lo dava al generale Eckhard, che parti va con 5 mila Austriaci il giorno 5 da Monte—Milone, e attraversava i controforti orientali della Sibilla su dei sentieri appena transitabili, di entrare dopo 4 giorni di una marcia che avrebbe scoraggiato ogni altra truppa, li all'Aquila, e di tirarlo da una situazione che diveniva di giorno in giorno anzi di ora in ora più critica. Il re si mostrò assai malcontento del Montigny, ma a torto; questo fece molto è assai col ritogliere agli Austriaci Popoli a fronte di una generale sollevazione della provincia.

La guerra con Gioacchino Murat trovossi in capo a due mesi finita con la perdita per esso del suo regno. Napoli, mentre l’armata austriaca era in seguito alla convenzione di Casa Lanza dei 20 maggio, in marcia per portarvisi, correva, ancorché vi avessero nel suo porto diversi navi di linea inglesi, il più grande pericolo di divenir preda della sua plebaglia, alla quale si erano associate migliaja di soldati napoletani fuggiaschi. La fu salvata dalla cavalleria austriaca, la quale chiamatavi in ajuto accorse a briglia sciolta ed ebbe a darvi quasi direi una battaglia. Ma parli pur ancora una volta il generale Colletta. «Non più re» dice questo, «non reggente, non reggenza; la plebe accresciuta de’ fuggitivi di Capua, che, sperando pre da arrivarono a torme nella città; i prigioni di Na poli tumultuosi, e le porte delle carceri non ancora abbattute ma scosse; la guardia di sicurezza già stanca; gli Inglesi pochi (n’erano discesi dalle loro navi trecento), i disordini maggiori; e ciò che accresceva pericolo, vicina la notte: si era sul punto che la plebaglia prevalesse, quando, esortati da messi e da lettere della municipalità, giunsero al declinare del giorno alcuni squadroni austriaci, che unili alle guardie urbane, girando per la città e gastigando quegli che avessero armi o segni di ribelli, soppressero i tumulti, e le inique speranze. Fu cosi grande ma necessario il rigore, che cento, almeno, di quell’infimo volgo perirono; ed altri mille, feriti, andarono agli ospedali o si nascosero (118)».

Quest’ultimo atto, al quale fu chiamata l’armata austriaca nella guerra d’Italia del 1815, prova, qual fosse la fiducia che ponevano, in generale, gl’Italiani nell’ordine e nella disciplina che la distinguevano fra tutte le armate d’Europa.

Or che ci dicono e che c’insegnano questi fatti relativamente ai soggetto del presente capitolo, cioè in riguardo alla condotta delle masse italiane nelle guerre, insurrezioni, e ribellioni, che dal 1815 in poi turbarono e interruppero replicatamente la pace d’Italia? Che ci dicono essi in particolare relativamente alla guerra del 1815? In quale dei due campi trovavasi, durante la detta guerra, l’Italia? Trovavasi essa nel campo austriaco, o nel campo napoletano? Nel campo ove difendevasi il riordinamento datole in conformità ai di lei voti e desiderj dagli Alleati dopo aver abbattuto Napoleone e spezzate le di lei catene, o in quello ove il detto riordinamento s’impugnava? Per quale dei duo eserciti erano in quella guerra le simpatie del popolo italiano, cioè delle masse? Per quale quello dell'Inghilterra, della Germania, della Russia, dei Paesi—Bassi, della Spagna, e della stessa Francia, vale a dire della Francia non napoleonica, non rivoluzionaria, della Francia che aveva bisogno di pace e la voleva? Quale delle due armate potè vantarsi di essere stata soccorsa dagli abitanti de’ paesi nei quali guerreggiavasi?

La risposta a tutte queste, e quant’ altre simili domande si facessero, non saprebbe esser dubbia. Nessun popolo si mosse per l’armata napoletana, neppur quello di Bologna, ancorché i settarj riuscissero a carpirle qualche segno di adesione, men Ire la popolazione campagnuola della Toscana era sul punto di alzarsi in massa, e di accerchiare la legione napoletana delle guardie, qualora non avesse, in vista del pericolo, sgombrato il paese; e mentre un cenno per parte dei generali austriaci Bianchi a Neipperg sarebbe stato sufficiente a sollevare le Marche ed in ispezialità la provincia pontificia di Ascoli e la valle del Tronto alle spalle dell’armata di Gioacchino, come la sola apparizione dei distaccamenti del conte Nugent bastò a far insorgere tutta la frontiera napoletana da una estremità all'altra. — Né si dica che il partito rivoluzionario, come pretende il Mazzini, mancasse di capi, giacché vi aveva nell’armata di Gioacchino il battaglione Negri, composto per lo più di uffiziali del fu esercito italico, che avrebbe fornito quanti valorosissimi e sperimentatissimi capi—banda mai si fossero dimandati, se mai le bande da condursi vi fossero state. — E perciò qui si risponde: che la vera Italia, l’Italia del popolo, l’Italia delle masse trovossi, durante la guerra che fece Gioacchino Murat nel 1815 all’Austria, nel campo austriaco, per quanto si facesse pompa nel campo del detto re dei verbi: unione, libertà, affrancazione dell’Italia; dichiarando con un fatto chiaro e manifesto, e parlante da sé: che la questione italiana non era se non una abominevole menzogna.

II. Di tutte le insurrezioni, ribellioni e rivoluzioni, le quali sono il suggetto degli studj esposti in questo capitolo, nessuna ha più l'aspetto di essere stata dettata da un deciso, unanime, irresistibile volere nazionale, che la rivoluzione napoletana del 1820. Essa fornisce inoltre tutta una serie di fatti comprovanti, che nelle popolazioni italiane, anzi che avervi una disposizione ad unirsi in una sola Italia, vi ha invece un ingenito, istintivo, indistruttibile spirito di vicendevole ripulsione; e che l’unione delle tre Italie in una sola non sarà mai spontanea, non saprà mai farsi da sé; e se mai si farà, sarà sempre l’opera dello straniero; ragioni per le quali, non la si saprebbe troppo, da chi vuol porsi in istato di giudicare la questione italiana con cognizione di causa, studiare.

Consideriamola innanzi a tutto dal punto di vista generale. Già da secoli le armate, cosi almeno nell’Europa civilizzata, aveano cessato di dar la legge ai loro paesi, e di farvi e disfarvi i re e gli imperatori; ed erano divenute il fermo sostegno dei governi stabiliti e legittimi. Il giuramento militare era sacro, il violarlo un delitto orrendo, e nell’istesso tempo anche turpe, che avviliva e disonorava. Dal 1815 in poi si è prodotta in questo riguardo una nuova era. Dal detto anno sino al 1821 vi ebbero nientemeno che quattro ribellioni militari. Il mal esempio fu dato dall’armata francese, che in aprile del 1815 passò dalle file di Luigi XVIII in quelle di Napoleone Bonaparte, allora reduce dall’Elba; la prima ad imitarlo fu l'armata spagnuola che in marzo 1819 abbandonò il suo re, e si diede al partito rivoluzionario democratico; la seconda, l’armata napoletana, la quale in luglio 1820 si fece carbonara; e la terza la piemontese, peraltro non tutta, la quale insorse per collegarsi coi settarj lombardi e per rivoluzionare l’italia.

La ribellione dell’armata francese è stata severamente punita con la battaglia di Waterloo e con le di lei conseguenze; le altre tre ebbero luogo in un tempo nel quale i sovrani di Russie, Austria e Prussia si erano obbligati col trattato detto la Santa—Alleanza ad opporsi con ogni mezzo legittimo che stasse in loro potere alle mene rivoluzionarie, e in generale a tutto ciò che potesse interrompere la pace Europea, e infrangere i trattati del 1814 e del 1815 che la ga rantivano. Il più minimo riflesso doveva persuadere le selle rivoluzionarie, che il successo dei loro sforzi, qualunque esso si fosse, non sarebbe se non di poca durata. Il negare alla Santa Alleanza, detta cosi perché realmente santo n’era lo scopo, alla quale accedettero, coll’approvarla in massima, anche il re di Francia e il principe reggente d'Inghilterra poi Giorgio IV, il diritto di opporsi a tutto ciò che minacciasse d’interrompere la pace che aveva costato ai popoli dei sovrani segnatari tanto sangue e in generale tanti e si immensi sagrifizj, è tale fatuità, che non si può rispondervi altrimenti che con una alzata e voltata di spalle. Qui vi era il diritto unito alla forza, e la forza unita al diritto, e dirò di più, unita anche al dovere. Le imprese rivoluzionarie erano perciò, sino a che restà nel suo pien vigore la detta alleanza, alti in ogni caso imprudentissimi, e insensatissimi; e quando si pensa al bene che impedivano, e al male che cagionavano, si può dirle abominevoli immanità e vero sceleraggini. E di quanto non accresceva la necessità e l’urgenza di combatterle, la circostanza, che le dette rivoluzioni erano state iniziate e incamminale da ribellioni militari, vale a dire, da scandali del genere più contaggioso che vi abbia.

Si dirà forse, che la rivoluzione napoletana era dal governo di Ferdinando IV provocata. Cosi è stato detto e ridetto le mille volle; ma è falsissimo. «Il regno delle due Sicilie contava all'epoca che vi scoppiò la rivoluzione, tra i regni d’Europa meglio governati; vi era felice il presente, felicissimo si mostrava l’avvenire; i governanti erano benigni, la finanza ricca» (pag. 157). È il generale Colletta ostilissimo ai Borboni che cosi ne parla. — Sir William A—Court, l’ambasciatore, che a Napoli aveva in allora l'Inghilterra, personaggio grave, onorevolissimo, stimato da tutti, scriveva al suo governo sui casi di Napoli: «Neppur un’ombra di biasimo s'avventurarono (i rivoluzionarj) a gittare al governo esistente; non altro promisero al popolo che la diminuzione del prezzo del sale. Mai non erasi avuto governo più paterno e liberale: maggior severità e meno confidenza sarebbero riuscite altro. Spirito di setta, e l’inaudita diserzione di un esercito ben pagato, ben vestito, e di nulla mancante, causarono la rovina d’un governo veramente popolare. Temo non si riesca a scene di carnificina e confusione universale. La costituzione è la parola d’ordine; ma in fatti è il trionfo del giacobinismo; la guerra dei poveri contro la proprietà (119).». — Conchiudiamo che la suddetta supposizione è del tutto infondata.

Quanto alla particolarità della rivoluzione napoletana. esse sono in riguardo al mio assunto le seguenti. Li 2 luglio del 1820 di gran mattino due sotto—tenenti, di nome l'uno Morelli, e l’altro Silvati, e centoventisei tra soldati e bassi—uffiziali di cavalleria disertano dai loro quartieri di Nola, città posta 13 miglia italiane all’Est di Napoli, e s’incamminano verso Avellino, capoluogo della provincia Principato Ulteriore. Erano accompagnati da circa venti settarj—carbonari aventi alla testa un prete, settario—carbonaro anch’esso, di nome Menichini. Si marciava su Avellino per unirsi ivi ad altri settarj—carbonari giorni innanzi sbanditi da Salerno e riparati colà, ove la sella era numerosa e potente. Strada facendo gridavasi: viva Dio, il re, la costituzione. Il Morelli si fermò in quel giorno a mezza—strada fra Nola e Avellino, insinuò però il suo arrivo e la sua impresa alle autorità civili e militari dell'ultima delle due città, e si affrettò di spedire dei messi in ogni direzione nelle limitrofe provincie, i quali annunziarono che Napoli si era sollevato, volendo e chiedendo un governo costituzionale, e che lullo il regno faceva e chiedeva lo stesso. La notizia di una sollevazione generale chiedente un governo costituzionale si sparse in tutto il regno con la celerità del lampo. Tutti vi credono, i settari schiamazzano, ognuno, per timore di questi, si affretta di mostrarsene contento; nessuno vi vuole essere l’ultimo, e creduto e trattato qual oppositore e avversario del nuovo ordine. Le truppe che s’inviano contro le truppe ribellanti a queste si uniscono e fanno seco causa comune. Il tutto non fu se non un contemporaneo inganno, nel quale incappavasi tanto più facilmente, che la notizia, ovunque giungeva, cagionava uno strepitoso tripudio, un bacano, un carnevale; situazione nella quale ben pochi Napoletani rimangono padroni di sé stessi. Il reame pareva invaso da un furor bachico.

Il re, quantunque principe di grande esperienza e capacità, dotato di molta penetrazione, e tutt’altro che pusillanime, fu preso dall'idea, che quel movimento cosi universale, cosi fortemente pronunciato fosse l’espressione di un vero bisogno che voleva essere contentato; si credette in dovere di concedere ciò che gli si chiedeva, cioè una costituzione, e la concedette di buona voglia e di buona fede; di ciò vi hanno i più certi e più sicuri indizj, e col sentimento di uniformarvisi. Cotesta costituzione era peraltro ancora da concepirsi, da discutersi, e da redigersi. Taluno dei settari ricordò avervi delle costituzioni già bell’e fatte, e tale fra le altri essere la costituzione spagnuola, che secondo lui avea il pregio di non essere infetta dallo spirito aristocratico. Non se ne avea, ciò sia detto per parantesi, in tutto Napoli un solo esemplare per poterla ristampare e diramare. Nessuno ne conosceva il contenuto. Questa circostanza non ne impedì la dimanda, la concessione e la proclamazione. Il re la concedette e la giurò con la più grande solennità e con segni indubitabili che intendeva attivarla.

Frattanto la rivoluzione era già passata dalla fase di un semplice rivolgimento in quella di un totale sfasciamento. I soldati abbandonavano a centinaja i loro corpi, e correvano alle loro case; ciò, che dell’armata rimaneva, presentava delle anomalie, e per dir meglio delle mostruosità inaudite. Il soldato per esempio era come tale subordinato a’ suoi capi e uffiziali, ma era nello stesso tempo anche settario—carbonaro, e, come tale, aveva un rango a parte, un rango di anzianità, che datava dal tempo della sua ammissione nella relativa vendita, e che lo metteva al disopra dello stesso suo colonnello, se questo vi apparteneva, e vi era entrato più tardi. — Il primo pensiero che si affacciò nell’ordinamento delle provincie e segnatamente in quello dei due Principati, della Basilicata, e della Capitanata, fu di formare governi da sé, con leggi, ed istituzioni proprie: cosicché i primi sintomi della vita nuova del regno furono i soliti sintomi di disunione politica, e di spezzamento territoriale. Nell'istesso giorno, che il re giurava la conceduta costituzione spagnuola, Palermo, notoriamente la capitale della Sicilia, secondata dalla propria provincia, e da quella di Girgenti, si alza contro Napoli, e vuole e proclama la separazione di quell’isola dal regno al di quà del Faro. — Piacque di dar alla rivoluzione napoletana il vanto di non aver costato una stilla di sangue. Questo vanto non è meritato. Se ne sparse non molto, ciò è vero, sul continente, ma pur se ne sparse, e se ne sarebbe sparso molto di più, se i settarj avessero incontrato della resistenza. Ma quanto non se ne sparse in Sicilia? Ecco la pittura che fa il generale Colletta della condizione di quell’isola: «Bruttavano», dice egli, «la Giunta Sovrana palermitana le turpitudini dell’anarchia; violente nelle città, violente nelle campagne, spoglio dei paesi contrarj, ed in ogni loco uccisioni e rapine; non fu salvo il banco dove era in deposito il danaro pubblico e privato; non furono salve le biblioteche, le case di scienza e di pietà; cose umane e divine la stessa furia distruggeva. La Carboneria, lungo tempo divisa per lo meno in tante società quante erano le provincie, si strinse in una sotto proprio reggimento col nome di assemblea generale, che componevasi dei legati delle società provinciale L’assemblea generale aveva un vasto edifizio nella città, sue leggi, sua finanza, suoi magistrati, ed un presidente. Ell’era si potente che spesso richiesta soccorreva il governo, come fu al richiamo dei disertori, all'esecuzione dei tributi fiscali, alla leva delle milizie, ed altri bisogni dello Stato. Erano soccorsi e pericoli». — Era molto di più, era uno «Status in Statu», ciò che era anche la Polizia, in ispezialità quella della capitale. Le turpitudini alle quali il governo doveva discendere, per ritenere un’ombra di autorità e conservarne se non altro le apparente di essa, fanno ribrezzo. — Ma le maggiori e più serie apprensioni ispirava il parlamento. Eletti i deputati, e adunatisi, non si crederebbe di quali e quante inezie essi si occupassero, e come sprecassero il loro tempo. Parlandosi un d da uno di loro delle riforme, delle quali abbisognava la costituzione spagnuola per divenir applicabile ad un regno tanto in ogni fisico morale, sociale e politico riguardo diverso dalla Spagna, quando gli scappò accidentalmente il dubbio: se quel consesso era un'assemblea costituita o costituente. Appena intesero le due parole che abbandonato ogni pensiero della riforma della quale si trattava, si diede principio ad una discussione la più tumultuosa, e interminabile a schiarimento del suddetto dubbio. «Passavano» dice il generale Colletta «i giorni senza nulla decidere; il re, la casa, i ministri, gli onesti sentivano spavento, ricordando la costituente di Francia, la convenzione, l’atroce (regicida) giudizio; i primi fatti della cruenta rivoluzione francese (120).

». Non dà questa condotta del Parlamento napoletano una misura del tempo che avrebbe messo una costituente italiana, alla quale gli Alleati avessero nel 1814 e 1815 ricorso per riordinare l’Italia, e un saggio della piega che gli affari d’Italia vi avrebbero presa? Or si domanda se l’Austria, se gli Stati italiani, se la Santa—Alleanza potevano rimaner indifferenti spettatrici di una si crudele situazione di quel regno, e se non solo i riguardi politici ma anche i riguardi di umanità non facevano loro un dovere di porvi un fine, e di repristinarvi il felice passato, e rimettervi in corso il felicissimo avvenire, che la rivoluzione impediva? La Santa—Alleanza fece prova tanto rimpetto alla rivoluzione napoletana che alla rivoluzione spagnuola di una rara moderazione e circospezione, che le faceva, pensando alla forza che aveva in mano, grande onore, e chiariva le calunnie con le quali volevasi discreditarla, e far la credere una cospirazione contro la libertà dei popoli in generale, e contro l’indipendenza degli Stati di secondo e terzo ordine in particolare. Essa tenne diverse riunioni in diverse forme a Carlsbad, a Troppau e in ultimo a Lubiana, ove furono invitati anche i principi italiani, in particolare il re di Napoli, che vi si portò. Il congresso dichiarò che non riconosceva il nuovo governo napoletano e non lo soffrirebbe (121).


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I rivoluzionarj si diedero ogni pena di far credere, che l'Inghilterra avesse al congresso di Lubiana decisamente o francamente disapprovato il principio dell’intervento, e sostenuto quello del lasciar i popoli faro ciò che vogliono, e ciò che loro pare e piace. L’attitudine dell'Inghilterra a quell’unione potè sembrare un’opposizione, ma fu un bene e non un male in quanto, che la forza, per non divenir malefica, abbisogna di ritegno che ne rallenti il corso, e obblighi chi la possiede e la maneggia alla moderazione. Milord Castlereagh cosi si esprime nel dispaccio circolare da lui indirizzato durante il congresso di Lubiana a tutti gli agenti diplomatici inglesi residenti alle diverse corti Europee, che porta la data dei 1gennajo 1821, in riguardo alle disposizioni prese dal detto Congresso relativamente alla rivoluzione di Napoli:

«Bien qu'aucun gouvernement ne peut être plus disposé à maintenir le droit de tout État d’intervenir, lorsque sa secourité et les intérêts essentiels sont menacés d’une manière sérieuse par les événements intérieurs d’un autre État, il regarde cependant l’admission, de ce droit comme ne pouvant être justifiée que par la plus urgente nécessité et devant être limitée et régularisée par cette nécessité(122)».

I limiti assegnati agli interventi politici dal ministro inglese sono giustissimi, ma non differivano in nulla da quelli, che vi mettevano le tre potenze segnatarie della Santa Alleanza. come negare, che la condizione di quel reame minacciava la pace di tutto il rimanente dell’Italia, e quindi anche quella del regno Lombardo—Veneto, e indirettamente la pace di tutta l'Europa? qual intelletto sano poteva non vedervi un fomite di ribellione e di rivoluzioni, che le potenze Europee erano in sommo grado interessate, in dovere, e in pien diritto di combattere? come potevano esse sopportare rivoluzioni iniziate da armate spergiure? L’intervento contro Napoli non ebbe luogo se non dopo mesi di discussioni sulla di lui legittimità, convenienza e necessità. Se mai la forza si mostrò sommessa al diritto e docile, ciò fu al congresso di Troppau, e a quello di Lubiana. L'intervento concertato dalle tre potenze segnatarie non fu attuato se non dopo avervi ottenuto il formate consenso, e l'approvazione della Francia, e se non il formate però il tacilo consenso dell'Inghilterra. Tanto è certo che nessuno degli ambasciatori e ministri dei diversi gabinetti Europei, residenti a Napoli disapprovava, e imprecava più francamente, come disopra ho dato a conoscere, la rivoluzione napoletana, che l'ambasciatore inglese Sir William A’Court.

La decisione del Congresso portava che il governo rivoluzionario avesse a cessare, e il re Ferdinando a riprendere l'autorità, che aveva innanzi li 2 luglio 1820; e che qualora l'attuale governo non si dimettesse, e non accettasse la proposta, l'Austria come la più vicina delle tre potenze segnatarie della Santa Alleanza, e come la più interessata, avesse senza remora ad attuarla e ciò armata manu, mentre la Russia posterebbe un esercito di riserva, in aspettazione degli avvenimenti, nella Gallizia. E siccome il Parlamento non si arrese all'intimazione, cosi convenne per parte dell’attuale governo prepararsi a respingere la sovrastante invasione.

E valga il vero, i preparativi erano certamente benissimo intesi. E non vi ha dubbio che la guerra sarebbe riuscita per l’Austria ardua e lunga, se il popolo napoletano, tirando partito dell'elemento topografico tanto ad una guerra di bande favorevole, vi avesse cooperato; ciò che indubitatamente avrebbe fatto, se l’impresa fosse stata una impresa nazionale. Il popolo spinto dal terrore che gli metteva la carboneria fece bensì sembiante di prender parte alla difesa delle frontiere e vi corse: ma poi tutto ad un tratto, si sbandò in modo, che, sono sicuro di non esagerare e di non dire se non la pura verità, dicendo, che gli Austriaci non perdettero in tutta quella guerra un sol uomo oltre a quelli che caddero nello scontro che vi ebbe fra una loro brigala (Geppert), e l'ala destra dell’esercito napoletano; scontro col quale la guerra, in quel giorno incominciata, fu anche in quel giorno terminata.

Il nostro solito autore nelle cose di Napoli ci dà di quella guerra, il seguente ragguaglio: «Ogni schiera, dice egli, lietamente partiva pel campo. Al tempo stesso alcuni battaglioni delle milizie civili si erano mossi dalla provincia, e pareva che abbisognasse freno, non stimolo alla volontà, e che i militi (una spezie di Landwehr) soperchiassero il richiesto numero; alcuni giovanetti a’ quali erano gravi le armi ordinarie, ne presero di più alte alla debole età, e lieti marciavano; alcune donne, sorelle e madri, alcuni padri o zii, non abili per vecchiezza o per sesso a trattar le armi, indossando i fardelli scemavano ai militi le fatiche. Ma questo che pareva zelo di patria, era in gran parte timore dei Carbonari, i quali in ogni comunità per salvar sé stessi dai travagli della guerra, minacciando e forzando i più placidi cittadini, gli spingevano alla frontiera».

Non tardò a presentarsi il giorno del cimento. «Il generale Guglielmo Pepe, che ebbe gran parte nella rivolta dell’armata, assaltò il giorno 7 marzo Rieti, ove i Tedeschi ordinati a difesa lo respinsero. Le milizie civili, nuove alla guerra, trepidarono, fuggirono, strascinarono coll’impeto, e coll’esempio qualche compagnia dei vecchi soldati; si ruppero gli ordini, si udirono le voci di tradimento e salvarsi chi può, scomparve il campo... Le due legioni di Ascoli e Tagliacozzo, ignorando la cominciata guerra, stavano ferme nei campi: ma dopo il terzo di, avvisate dai grido pubblico, ritiraronsi frettolosamente, e i soldati udendo i tristi casi, e vedendo i segni della fuga trepidando fuggirono... E cosi ogni schiera fuggendo, restarono gli Abruzzi vuoti di difensori. - Miserando spettacolo! gettate le armi e le insegne; le macchine di guerra, fatte inciampo al fuggire, rovesciate, spezzate; gli argini, le trincee, opere di molte menti e di molte braccia aperte, abbandonate; ogni ordine scomposto, esercito poco innanzi spaventoso al nemico, oggi volto in ludibrio. I Tedeschi temendo agguati nella inattesa fuga si tennero più vigilanti nei campi; ma rassicurati dalla solitudine della frontiera, il giorno 10 avanzarono sopra Antrodocco, e, benché trovassero la città spopolata, i fortini e i cannoni abbandonali e giacenti, pur lentamente, procederono, e non si affacciarono sopra i monti dell’Aquila prima del 14. Stava la fortezza (cittadella) spalancata e deserta: la comunità spedi ambasciatori e doni al vincitore, la città fu occupata Cosi negli Abruzzi». — E come si disordinò quella parte dell’esercito che combatté a Rieti, si disordinò anche l’altra che avrebbe dovuto difendere il Liri in prima, e il Garigliano in seconda linea. Le sole guardie restarono unite, ma saputosi da esse, che all’armata austriaca era giunto il re da Lubiana, dichiararono che non combatterebbero contro i Tedeschi di lui Alleati. I militi, che rappresentavano in questa guerra le masse, vidersi in ultimo rivolgere le armi contro quei soldati che mostravansi disposti di combattere pel nuovo ordine, uccisero parecchi uffiziali, scaricarono le loro armi sui proprj generali, e sino sullo stesso generale supremo Carascosa.

La rivoluzione napoletana trovossi spenta in capo a due settimane di guerra. L’armata austriaca da sé sola vi avrebbe avuto da fare qualche anno. La spense l’Austria assieme coi Napoletani. Il giorno 23 la di lei armata entrava in Napoli preceduta dalla guardia reale. Le masse avevano preso parte alla sommossa come ad un tripudio, perché non ne comprendevano il significato. Venutene in cognizione e intesolo, cedettero per qualche tempo al terrore che inspirava la Carboneria, e ricorsero allo spediente di associarvisi. Questa, dal gran numero dei suoi socj impacciata nella sua azione rivoluzionaria, non fu più dessa. Avvicinatisi gli Austriaci, le masse li salutarono come liberatori e come gli alleati del loro re. Il nuovo Stato si trovò senza esercito e senza le masse, sicché senza alcun sostegno, e precipitò. Si era dato ad intendere agli Alleati, e in ispecialità agli Austriaci, che finita la guerra coll'esercito comincerebbe la guerra con le masse, e co’ suoi orrori, come accadde nell’invasione francese nell’inverno 1798—1799. Ecco la ragione perché il barone Frimont generale in capo dell’armata austriaca che attuava le decisioni del Congresso di Lubiana, impiegò, per avanzare dopo lo scontro di Rieti negli Abruzzi, tre intiere giornate. Vi entrò ed occupò l’Aquila quando vi fu chiamato dalle masse.

III. La rivoluzione di Napoli era già morta, e gli Austriaci sul punto di entrare nella capitale del regno, quando vi giunse la nuova della rivoluzione piemontese; iniziata anch’essa da una ribellione militare. Le due rivoluzioni, la napoletana e la piemontese hanno un carattere essenzialmente e totalmente diverso. La prima aveva tutta l’apparenza di essere l’espressione di un volere nazionale unanime, di abbracciare tutta la popolazione, tutte le classi, le aristocrazie e le democrazie, le città e le campagne; la sembrava piena di vita e di forza, era chiassosa, ma non professava odj, non mentiva protesti, non agognava conquiste, non voleva guerra; era una rivoluzione puramente e meramente napoletana, il che è tanto vero che il nuovo governo non accettò mai l’adesione al regno di Pontecorvo e di Benevento territorj pontificj, inchiusi nel reame. Non cosi la rivoluzione piemontese; essa non fu mai altro che una ribellione militare e anzi una ribellione soltanto parziale dell’esercito piemontese, che con gran stento riusci a rinforzarsi con degli studenti, e con la plebaglia di alcune città, e che fu sempre esecrata e maledetta dal vero popolo tanto della città che delle campagne. Essa non contò mai nelle sue file 10 mila soldati; nonpertanto si diceva essa una rivoluziono italiana e dichiarava la guerra all’Austria, potenza di primo rango da sé, e alleata della Russia, della Prussia, e della Francia; la qual ultima non più che l'Austria poteva soffrire un governo rivoluzionario in un paese limitrofo. La rivoluzione piemontese fu perciò una rivoluzione assurda, ciò che non era la rivoluzione napoletana (123)

Questa, scoppiata il 2 luglio 1820 e oppressa definitivamente li 23 marzo durò mesi; la piemontese scoppiata il 10 marzo 1821 non durò se non 4 settimane e 2 giorni. Per terminare la prima la Santa—Alleanza approntava due armate, una austriaca, quella stessa che attuò l'intervento, e l’altra russa di riserva, che sarebbe avanzata qualora le masse napoletane avessero preso parte alla difesa del nuovo governo: per terminare la rivoluzione piemontese bastarono invece due fogli di caria, firmati da Carlo—Felice, fratello e successore dell’ottimo e veneratissimo re Vittorio—Emanuele che la rivoluzione indusse ad abdicare, e a ritirarsi a Nizza.

Ho avvertito parlando della rivoluzione napoletana, che non la era in verun modo provocata. Lo stesso può, e deve dirsi anche della rivoluzione piemontese: Il sullodato re Vittorio—Emanuele non viveva che pel suo popolo; ed era da questo amato ed adorato; e sino i Genovesi gli rendevano giustizia e lo benedivano. Il paese trovavasi nello stato più prosperoso: l’agricoltura, l'industria, il commercio, le arti, le scienze, gli studj fiorenti, la religione protetta, i buoni costumi tutelati, ogni vero progresso possibilmente promosso, la giustizia incorrotta, il governo entro e fuori stimato. Che non pertanto vi fossero anche delle parti men buone, che vi si rendessero necessarie delle riforme, che qua e là vi avesse qualche massima governativa erronea, chi lo negherebbe? Ma qual è lo Stato ove tutto sia perfetto. Che se anche una riforma vi si fosse resa necessaria e fosse stata anche urgente, ciò che non era minimamente il caso, una rivoluzione, ed in ispezialità una rivoluzione iniziata da una ribellione militare non era certamente la via, né più breve, né più facile, né più sicura di arrivarvi. Aggiungerò sapendolo di certo (124), che l’animo paterno, generoso e coscienzioso di quel re non avrebbe esitato un istante a dare al suo popolo una qualunque anche liberalissima costituzione, se non ne lo avesse ritenuto il convincimento, che con essa non avrebbe fatto altro che far dipendere la sorte e la felicità del regno affidatogli dalla Provvidenza da una congrega d’imbroglioni ingordi di cariche e di situazioni lucrose, e di gente vogliosa di far a qualunque costo parlare di sé. Né l'Austria, né tutta la Santa Alleanza assieme ve l’avrebbe impedito. Egli era bensì di un carattere mitissimo, e fin umile, ma nell’istesso tempo gelosissimo della sua dignità, e della sua indipendenza come re. Se l'Austria si fosse arrogata una supremazia sul suo Piemonte, o si fosse opposta ad una qualunque siasi sua deliberazione o concessione, egli sarebbe ricorso alla Santa Alleanza, e questa non avrebbe mancato, non è da dubitarne, d’interporvi il suo «veto».

I settari lombardi non ebbero nessuna parte nulla rivoluzione napoletana. Essi vi erano dopo il 1815 disprezzatissimi; nessun Napoletano avrebbe prestato la minima fede alle loro offerte e promesso. Ma n’ebbero moltissima parte nella rivoluzione piemontese. I primi sintomi rivoluzionarj di questa apparirono nella scolaresca di Torino già in gennajo 1821. Ma il re mostrò fermezza, e lo scoppio della rivoluzione fu sospeso sino ai 10 di marzo, nel qual giorno si ribellò la maggior parte della guarnigione di Alessandria. In questa città convennero il giorno 11 le truppe spergiure da diversi luoghi, e si compose una giunta del regno d’Italia, che diede principio alla sua operosità col proclamare la guerra all’Austria. Pretesto alla ribellione era il bisogno di liberare il re dalla dipendenza dell’Austria, e di sottrarlo alle violenze che questa potenza gli usava. Né giovò che il re con apposito manifesto, da me già altrove riportato; (pag. 205 nota 26) vi dasse una solenne smentita. I ribelli per quanto il pretesto fosse assurdo continuarono a servirsene. Il giorno 12 si ribellò anche la guarnigione della cittadella di Torino. Vi ebbe un momento, che il re era per ascendere a cavallo, e presentarsi a’ suoi soldati. Né fu distolto dalla notizia datagli dal suo ministro di polizia: che non eran soltanto pochi ribaldi, bensì tutta la nazione in aperta ribellione: e che 30 mila armati del contado movevansi contro la capitale. Il re a quella notizia, che però era falsissima, ebbe il cuor spezzato, e il giorno 13 abdicò, nominando, trovandosi il suo legittimo successore Carlo—Felice assente a Modena, a reggente, Carlo—Alberto principe di Carignano (125)

Ma Carlo—Felice riceveva per la via di Parma le notizie le più rassicuranti sulla disposizione del popolo del contado e delle masse in generale, e sapeva che il movimento ora un movimento settario, e nient’altro, e che il vero popolo era anche a Torino e sino in Alessandria contrarissimo alla rivoluzione. Egli indirizzò quindi a’ suoi Piemontesi il proclama colla data 16 marzo 1821, che il Lettore troverà fra le note (126) il quale sconcertò affatto i rivoluzionarj, e ordinò contemporaneamente al reggente di partire con le truppe rimaste fedeli per Novara, e congiungerle con quelle che vi comandava il generale conte Sallier de Latour, ordine al quale il principe obbedi nella notte del 21 ai 22. Ai 16, nello stesso giorno nel quale Carlo—Felice faceva diramare mediante i Carabinieri reali, i quali da per tutto eran rimasti fedeli ai loro giuramento, quel suo manifesto, nel quale spiegava con tanta franchezza le sue intenzioni e la sua politica, comparvero a Torino dei congiurati milanesi, promettendo, come avevano promesso a Gioacchino Murat, monti e mari. Venite, passate il Ticino, dicevano essi ai Piemontesi, e questi rispondevano: alzatevi voi, e non dubitate che ci alzeremo anche noi. Da soli, replicavano i Milanesi non bastiamo, né voi, senza di noi, bastate a difendervi.

I Milanesi non si mossero. La rivoluzione piemontese sarebbe finita già ai 17 marzo, se non vi avesse avuto a Torino un conte Mocenigo ministro residente russo, che lusingava i ribelli con la speranza d'indurre Carlo—Felice, per mezzo dell’imperatore Alessandro a patti. Ma il nuovo re interruppe quelle mene col suo secondo manifesto dei 3 aprile 1821 (127)

I ribelli tentarono di attirare a sé le truppe che erano a Novara. Essi erano 2750 uomini a piedi e 1080 a cavallo. Ricevuti dai loro compatrioti a colpi di cannone, e assaliti da pochi Austriaci, che sulla richiesta di Carlo—Felice ave van passato il Ticino, si sbandarono. Il giorno 10 il conte Latour entrava in Torino. Un distaccamento di Austriaci che marciò su Alessandria vi trovò la porta della cittadella spalancata, e vi entrò.

Uno scrittore, che fu testimonio oculare della rivoluzione piemontese, parla dell’avversione, che essa aveva suscitata nelle popolazioni, e della gioja che queste provarono quando la videro terminata, nel modo seguente: « Les peuples ont prouvé, en Piémont comme à Naples, leur indifférence pour les changemens qui se faisaient en leur nom. Tout le Piémont se réjouit du retour de l’ordre et de la justice, et retrouve sous le gouvernement de son Roi le bonheur qui en avait été banni. Les troupes royales étaient à peine rentrées, que nous vîmes la confiance renaître, le commerce reprendre son activité; les rues de la ville, auparavant dé sertes, fréquentées de nouveau. Métamorphosé aussi prompte qu’elle fut remarquable. Pendant les 30 jours, Turin offrait le spectacle d’une ville, affligée de quelque grande calamité; les promenades étaient désertes, le voilures ne sortaient plus, les habitans avaient fait place à des agitateurs à figures sinistres, les cafés, vides de leurs habitués, n’entendaient plus que des déclamations incendiaires; et si les jours de la révolution n’eussent été abrégés, nous aurions vu de grands malheurs. Au brait d’un tambour, d’un passage de soldats, les marchands, l’oreille au guet fermaient leurs boutiques; et lorsque les etudians fédérés revinrent d’Alexandrie, en chapeaux ronds, en habits bourgeois, et le fusil sur l’epaule, toutes les portes des maisons se fermèrent; accueil peu flatteur pour ces héros de la patrie (128).

» — Ogni ulteriore commento su questa pittura si rende superfluo. — Conchiudiamo che quel movimento detto la rivoluzione piemontese fu tutt’ altro che un movimento nazionale e vi si vide, dal vero popolo, in tutta l’estensione, che lo meritava, esecrato. (129)

IV. La rivoluzione, abbenché vinta e compressa nel regno di Napoli e nel Piemonte, rimaneva, non senza grave pericolo per la. Francia e l’Italia, tuttora vittoriosa e trionfante in Ispagna. I profughi rivoluzionari italiani, francesi, tedeschi e polacchi collegatisi nella Svizzera, in Francia e in Inghilterra, e fattisi centro dirigente di tutte le Sette in Europa, divennero una formidabile potenza Europea. Essi riuscirono a incamminare dei moti rivoluzionari fra’ Greci sudditi della Porta, i quali moti non tardarono a guadagnarsi le simpatie russe, e quelle del liberalismo Europeo. I Sovrani alleati adunaronsi di nuovo a congresso in ottobre del 1822 in Verona, ove convennero, oltre i due imperatori d’Austria e di Russia e il re di Prussia, anche i re di Napoli e di Sardegna, il Granduca di Toscana, la duchessa regnante di Parma, il duca di Modena, nonché i rappresentanti del Sommo—Pontefice, e quelli di Francia e d'Inghilterra; fra’ quali ultimi vi avea anche il duca di Wellington. La Francia ottenne d’intervenire negli affari di Spagna. Infatti un esercito francese entrò nella penisola, e la traversò dalla Bidassoa a Cadice senza incontrare per parte del popolo spagnuolo la minima opposizione; prova la più parlante e incontrastabile, che anche la rivoluzione spagnuola era stata una impresa settaria e null’altro, e che anch’essa non ebbe nulla di spontaneo e di nazionale. I sovrani italiani partirono dai Congresso rassicurali, che ogni qualvolta avessero bisogno di soccorso contro i rivoluzionari, l’Austria, su di una loro richiesta, glielo porgerebbe (130).


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Al congresso di Verona si sarebbe invano cercata «l'entente cordiale» che sussisteva fra gli Alleati negli anteriori Congressi di Aquisgrana, di Troppau, e, nonostante l’opposizione dell’Inghilterra al principio d’intervento, la quale era più formate che reale, anche in quello di Lubiana. Ad essa subentrarono le solite gelosie e diffidenze politiche. I ministri inglesi favorivano in ogni modo il distacco dell’America spagnuola dalla madre patria, e tenevano innanzi alla camera dei Comuni dei discorsi, come se l’Inghilterra fosse disposta a farsi capo dei malcontenti e dei rivoluzionari in ambidue gli emisferi (131).

Morto l’imperatore Alessandro (1 dic. 1825), la Russia, la Francia, e l’Inghilterra sposarono, senza riserva apertamente la causa dei Greci, e fondarono il regno ellenico. Ogni idea di equilibrio politico era sparita. La Russia, messo da canto qualunque riguardo, invase nel 182la Turchia, e avanzò con uno da suoi eserciti in Europa sino a Adrianopoli, e con un altro in Asia sino a Kars; e si sarebbe impadronita di Costantinopoli, se l’Austria e la Prussia non avessero scosso la Francia e l’Inghilterra dal letargo nel quale trovavansi. Nel 1830 divenne la Francia di nuovo preda di una rivoluzione, che obbligò il suo re, Carlo X, di discendere dal trono, al quale sali Luigi—Filippo duca di Orléans, del ramo cadetto dei Borboni di Francia.

Con la prefatta rivoluzione francese entrò l’agitazione rivoluzionaria italiana nel detto anno in una nuova fase. Il governo di Luigi—Filippo annunziava, qual uno dei dogmi fondamentali della sua politica internazionale, il principio di non intervento, cioè che ogni Stato avesse il diritto di darsi quegli ordinamenti politici, che ad esso e al suo popolo più convenissero, e che verun altro Stato avesse il diritto di opporvisi, fosse anche il caso, che la di lui sicurezza e tranquillità ne soffrisse. Né vi mancava la minaccia, che la Francia sosterebbe il detto principio, qualora lo si ledesse, con le armi.

Egli è chiaro che con questa dichiarazione cessava il timore che inspirava ai rivoluzionari italiani l’Austria, e che in essi potè e dovette prodursi la speranza, anzi la certezza, che l’Austria non avrebbe, per soccorrere il Papa, il re di Napoli, o il re di Sardegna, voluto invilupparsi da sé sola in una guerra con una potenza qual era divenuta dopo 15 anni di pace, la Francia; e dico da sé sola, giacché anche l'Inghilterra, la sua antica alleata nelle guerre con la rivoluzione francese e con Napoleone, professerà il principio di non—intervento; che fra la Russia e l’Austria regnavano dei serj dissapori a cagione della politica seguita da questa nell’ultima guerra russo—turca; e che l’Austria si trovava anche con la Prussia, a cagione dell'egemonia sulla confederazione germanica su di un piede tutt’altro che amichevole. I rivoluzionari italiani potevano perciò dire al popolo e alle masse italiane per la prima volta con un qualche fondamento di verità: la congiuntura si è ormai fatta favorevolissima alla vostra emancipazione dal giogo clericale e in generale da’ vostri principi—padroni. Alzatevi, non temete. L'Austria si trova in un completo isolamento politico. L’intervenire nei vostri affari le è interdetto. Peraltro astenetevi dal provocarla. tutto all’opposto accarezzatela. Fatte fatto il possibile per addormentarla. L’ora di assalirla e cacciarla oltre le Alpi non ha ancora suonato, ma tardi o a buon ora suonerà. I rivoluzionari potevano tanto più sperare di essere questa volta dal popolo e dalle masse ascoltati, che a forza di spargere contro i governi italiani e segnatamente contro il governo pontifizio delle calunnie, e denigrarli a più potere, e con una impudenza e audacia, che hanno dell’incredibile, erano riusciti a traviare totalmente l'opinione pubblica, e sino i gabinetti, nella Francia e nell'Inghilterra (132).

Ancorché il piano dei rivoluzionari per una nuova riscossa fosse da prima assai ristretto, e non abbracciasse che le Legazioni e le Marche, nondimeno, venuti essi all'alto pratico, vi compresero anche i Ducati di Parma e di Modena, e anche Roma con la sua comarca, ancorché il primo dei detti Ducati avesse per sua Duchessa regnante una Arciduchessa d’Austria figlia dell’imperatore Francesco I, e il secondo per suo Duca Francesco IV Arciduca d’Austria; e quantunque Roma fosse la capitale non tanto dello Stato pontifizio, quanto del mondo cattolico. Il segnale per insorgere fu dato nella notte dai 3 ai 4 febbrajo da un Ciro Menotti a Modena, che era uomo danaroso, ed aveva adunalo attorno a sé una banda di facinorosi, di contrabbandieri, e simile gente. Ma non un Modenese si alzò per esso. Il colpo, stante la straordinaria intrepidezza del Duca, la fedeltà della sua truppa, e la filiale devozione dei suoi Modenesi andò intieramente fallito. E per le stesse ragioni fatti esso anche a Roma. A Parma, a Bologna e in generale nelle città delle Legazioni e delle Marche, la rivoluzione, i settarj essendovi assai numerosi e la truppa infedele, ottenne il suo intento; ciò che fece, che il duca di Modena come anche la duchessa di Parma dovettero abbandonare le loro capitali, passare il Po, e ricovrarsi nel regno Lombardo—Veneto. Il popolo del contado resistette ovunque a tutte le seduzioni.

I due Ducati rimasero per lo spazio di un mese e alcuni giorni, e le Legazioni e le Marche, una e anche due. settimane di più, in balia del governo rivoluzionario. Il comandante in capo delle forze austriache nel regno Lombardo—Veneto barone Frimont mancava d’istruzioni pel caso avvenuto, e non osò senza un ordine del suo imperatore passare il confine. Il gabinetto austriaco si ricordò che gli Stati italiani, se avevano bisogno di soccorso contro: rivoluzionarj, dovevano, stando alle decisioni del congresso di Verona, chiederlo all'Austria formalmente. A Vienna si sapeva, che questa rivoluzione come quella di Napoli del 1820, e l’altra del Piemonte del 1821 non era, se non che pria rivoluzione settaria, che nulla aveva di nazionale; che il popolo del contado tutto, e nelle città tutta la gente onesta la riprovava e la esecrava; né vi si era dimenticato l’effetto che contro la. rivoluzione piemontese, avevano prodotto i due manifesti lanciatevi da Carlo—Felice; non vi si ignorava che le truppe estensi si erano condotte egregiamente: le si credevano anche. più numerose che non erano, giacché contavano circa 800 uomini, non più. In seguito a tutti questi riflessi vi si avrebbe voluto, che il duca da sé solo rimettesse l’ordine nei suoi Stati. Il duca di Modena e la duchessa di Parma, dovettero perciò portarsi in persona dall’imperatore, e ricordargli l’impegno, assuntosi si generosamente al congresso di Verona rimpetto ai principi italiani, di soccorrerli in caso di un movimento rivoluzionario.

L ’ addimandato soccorso fu dopo qualche tergiversazione accordato. Ma in che, in quante truppe, in che armata consistette esso? Esso consistette in un battaglione d’infanteria e in un squadrone di ussari per la duchessa di Parma (in tutta circa 800 uomini), e in una brigata d’infanteria e un reggimento a cavallo, ussari,circa 5000 uomini in tutto, pel duca di Modena. I primi, partiti da Piacenza bastarono, appena mostratisi, a decidere le alcune centinaja di ribelli piacentini e parmigiani a sbandarsi; i secondi, ai quali unironsi in antiguardo gli Estensi, partiti da Mantova, iscambiarono alcune fucilate coi ribelli modenesi, e entrarono il giorno marzo, col duca Francesco alla testa in Modena. Il generale Zucchi, reggiano, dell’esercito italico disertore dell’armata austriaca, preso con quella sua gente la via di Bologna. Ma tale era lo spavento che incuteva quella sua masnada; che la detta città gli chiuse le porte (133).

Gli storici italiani, che ricordano quel savio partito preso dal governo bolognese, vorrebbero farlo credere dettato da una stretta e coscienziosa osservazione del principio di non-intervento.

In questo mezzo inviava anche il Somme—Pontefice Gregorio XVI corriere sopra corriere al suo nunzio a Vienna, ingiungendogli di farvi presente la triste situazione della Chiesa per La quale la Casa d'Austria aveva pel corso di tanti secoli professato una inalterabile filiale devozione, e la necessità nella quale la si trovava di essere soccorsa contro un branco di ribaldi, fattisi sfacciatamente audaci, nella supposizione aver l’Austria aderito al principio di non—intervento dettato dal nuovo governo di Francia. E che l’Austria sembrasse ai rivoluzionari dagli schiamazzi della tribuna e della stampa dei Francesi atterrita, non vi ha punto di dubbio. Sennonché a Vienna si sapeva benissimo che Luigi—Filippo sul suo trono, che era tuttora malfermo e vacillante, tremava, e sentiva in sommo grado il bisogno, per assodarlo, di vivere in pace con tutta l’Europa, e in riguardo alle potenze continentali di vivere in pace in ispezialità con l’Austria. Le minacciose scappate parlamentarie di qualche deputato francese facevano pochissimo senso, se pur uno ne facevano, su delle personalità di tanto maturato senno nei grandi affari del mondo quali erano l’imperatore Francesco, e il suo ministro degli affari esteri Principe Metternich. L’imperatore ordinò, che la brigata comandata dal generale Geppert, lo stesso che aveva rotto e fugato i Napoletani il giorno 7 aprile 1821 a Rieti, avesse, dopo compita la ristaurazione del duca di Modena, a passare il Panaro, ad entrare negli Stati Ponteficj e a ristabilirvi il governo del Papa; ciò che anche si fece. Il giorno 23 marzo 1831 gli Austriaci entrarono in Bologna accolti come liberatori. Le truppe che si erano date alla giunta rivoluzionaria di Bologna, con quelle che la potè con grande stento entrarono in Bologna accolti come liberatori. Le truppe che si erano date alla giunta rivoluzionaria di Bologna con quello, che questa aveva con grande stento e pericolo raccozzate, ammontavano a circa 7000 uomini.

Ne prese il comando il suaccennate generale Zucchi. Il giorno 25 marzo ebbe luogo alle porte di Rimini uno scontro, che costò agli Austriaci un 20 Ussari Ira morti e feriti. Il giorno 27 Zucchi già s’imbarcava con un buon numero dei subi per Corfù, ma fu da una squadriglia austriaca intercettato e fatto prigioniero. L’intervento non ebbe a durare che una settimana.

Se mai rimanesse al Lettore sulla natura, e mille cagioni delle insurrezioni, ribellioni, e rivoluzioni italiane dei nostri tempi, dopo quel tanto che se n’è detto nell’esposizione di questi Studj, ancora qualche dubbio: i seguenti fatti e riflessi sul movimento rivoluzionario italiano del 1831 che qui ci ha occupati, basteranno, cosi credo, a chiarirlo e a dissiparlo. I due ducati di Parma e di Modena hanno assieme una popolazione di oltre a un milione, con, per lo meno, due cento mila uomini atti alle armi. Eppure in tutta questa massa di gente non si sono trovati per dir molto che due mila che impugnassero le armi in difesa della rivoluzione. Il Tirolo tedesco non conta in popolazione neppur per uno dei due Ducati, eppure ebbe esso il modo di lottare e a lungo con un Napoleone. Vi hanno da Bologna a Ancona 120, e da Ancona al Tronto ulteriori 40 miglia italiane, equivalenti tutte assieme a 40 miglia geografiche di 60 al grado. Il paese percorso dalla brigata Geppert ha una popolazione coraggiosa, fiera, capace di farsi terribile, di poco meno di due milioni, e perciò cinque volte maggiore di quella del Tirolo tedesco. Né certamente vi ha paese più fatto per una guerra di bande; né alcuno che abbia in proporzione della sua estensione territoriale un si grande numero di città murate, e murate cosi solidamente, come le Legazioni e le Marche romane. Bologna conta 71 mila abitanti, Ravenna 50, Perugia 41, Ancona 40, Ferrara 39, Forlì 36, Pesaro, Fano, Macerata, Ferino, Gubbio ciascuna 19, Spoleto 18, Rimini 15, Urbino 13, Camerino 11 mila. Fra queste città ve ne hanno diverse che i suoi abitanti potevano in una o tutt’al più due settimane mettere in istato, se anche non di sostenere un assedio regolare, pur di resistere ad un colpo di mano. Il governo rivoluzionario di Bologna non ha mancato di alzar il grido con quella maggior forza che potè: Italiani! all'armi! Chi ha un facile, una spada, una falce, la prenda e venga con noi. Il vero popolo, la gente onesta né nel contado, né nelle città, non si mosse. Presentaronsi bensì alcune centinaja di campagnuoli chiedenti armi polvere e piombo, ma la giunta di Bologna, vedutili, comprese, che quelle, armi, quella polvere, e quel piombo avrebbero servito a tutt’altro che a proteggere il nuovo Stato contro un intervento, e rimandò quella gente con buone e belle parole, ma con le mani vuote, là donde era venula. La truppa del Zucchi componevasi tutta o di soldati pontificj spergiuri, che avevan tradito il loro Sovrano, o di uomini facinorosi che aveva attirato sotto la bandiera tricolore la speranza di far del bottino.

Non è peraltro che quella truppa, tale quale e quanta la era, non avesse bastato, qualora una parte di essa fosse stata ripartita in bande, ad accerchiare la brigata Geppert, a inquietarla giorno e notte, e a forzarla di fermarsi, se non fra Bologna e Rimini, per certo fra Rimini e Sinigaglia. Ma il vero è, che né il popolo delle città né quello del contado vedeva di buon occhio quelle bande; le città murale chiudevano loro le porte, nei villaggi si si armava alla meglio che si poteva, e si suonava, per tenerle lontane, senza interruzione a stormo; e qualora ciò non giovava si ricorreva alle armi (134).

La brigata Geppert restà durante tutta quella spedizione unita, e non ebbe distaccamenti di alcuna sorte a tutela del suo fianco destro. Nessuno mai la inquietò, né nelle sue marcie, né nei suo campo. Essa non perdette un uomo fuorché negli scontri della sua vanguardia con la retroguardia del nemico. In Ispagna nella guerra contro Napoleone un Francese che si fosse allontanato dalla sua truppa o fosse rimasto in una marcia indietro per stanchezza, era pell’ordinario perduto. Non vi avea corriere, che non avesse la sua scorta, la quale rare volte ammontava a meno di due in tre cento uomini a cavallo. Gli uffiziali e corrieri austriaci viaggiavano per le Legazioni e per le Marche come avrebbero viaggiato nel loro proprio paese.

Egli è tempo di far punto. La rivoluzione delle Legazioni e delle Marche pontificie nel 1831 fu in fondo anch’essa nna rivoluzione militare. Senza l’appoggio delle truppe pontificie, che lasciaronsi, per colpa dei loro uffiziali, sedurre dai settarj, il vero popolo avrebbe contenuto i settarj dappertutto, come li contenne a Roma, ancorché questi vi si fossero rinforzali con migliaja di avventurieri e settarj forastieri. Paralizzata l’azione della truppa ribelle e spergiura col mezzo dell'intervento austriaco, i rivoluzionarj indigeni e forastieri presero la fuga. Egli è quindi chiaro e manifeste che anche nel moto rivoluzionario che nel 1831 si produsse nel Parmigiano, nel Modenese e negli Stati Pontificj, il vero popolo non solo respinse ogni solidarietà, e sino ogni relazione con la causa rivoluzionaria, ma non tralasciò di avversarla e di combatterla con tutti i mezzi che stavano in suo potere, e ciò in ogni occasione che gli si apri di poterlo fare. L'intervento austriaco fu più di nome che di fatto.

V. «Cessati» dice il signor Luigi Carlo Farini nella sua storia dello Stato Romano dall'anno 1815 al 1850, «per l’intervento austriaco i deboli moti del,l'Italia Centrale, la diplomazia alla quale stava a cuore, di prevenire nuove perturbazioni nello Stato Romano, e allontanare ogni causa di guerra, si fe ce sollecita di consigliare temperamenti di riforma alla Corte romana. Il cardinale Bernetti, il pro segretario di Stato, aveva fatto securtà ai popoli di tanta bene che pomposamente appellava il nuovo regno di Gregorio XIV: un’era novella; ma in realtà non si vedeva in qual parte il governo si innovasse e migliorasse, e vedevasi il partito clericale pertinace nelle vecchie idee, vedevasi il Sanfedismo infuriare nelle Romagne. Un Baratelli commissario per Austria lo aizzava; alcuni famosi par rochi di Faenza, un Badini che fu poi monsignore, un Bertoni ed altri di quella e di altre città furiosa mente agitavano la minutaglia contro i liberali; non vedevansi segni né di riforma né d’ordine, né di pace. Per la qual cosa i ministri stranieri ai quali tardava che lo Stato Romano venisse a termini di quiete durevole, si accordarono nel consigliare e nel proporre alla Corte di Roma quella maniera di componimento che reputavano acconcia; ed alli 10 |del mese di maggio 1831 presentarono il Memorandum che io qui reco, volgendolo in italiana favella (135)».

A me sembra superfluo il produrre cotesto Memorandum, giacché Pio IX fece non solo quanta con esso chiedevasi a Gregorio XVI, ma due e tre volte tanta, e che, come ognuno sa, l'esito. ne fu infelicissimo. i profughi italiani erano riusciti a traviare sul co nto della questione italiana l'opinione pubblica in tutta l’Europa. Né potè costare loro gran fatica —di riuscirvi in riguardo alla questione—romana nei paesi acattolici, in ispezialità nell’Inghilterra, e nella parte protestante della —Germania. Le Corti non conoscevano il vero stato delle cose italiane, non lo conosceva neppure l’Austria. Lo scopo delle rivoluzioni italiane non fu mai, e non lo è neppur ora, di venire a delle riforme. Il loro scopo fu ed è la rivoluzione, qual mezzo di abbattere ciò che esiste. Ciò che ai voleva e ciò che si vuole è la repubblica democratica—socialista, si vuole la repubblica una ed indivisibile che comprenda ed abbracci tutte tre le Italie. Io non dice che il governo pontificio non abbisognasse di riforme. qual è il governo che non ne abbisogna, quale quello che non si trovi nella necessità di rivedere di tempo in tempo i suoi ordinamenti governativi e amministrativi, e di metterli a livello colle esigenze del secolo e della civiltà? Ma di tanto sono certo, che nel 1831 il vero popolo nelle Stato del Papa non vi doveva star male e doveva anzi starvi bene, e dico ciò perché in allora non solo non dava segni di essere del suo governo malcontento, ma tutto all’opposto, gli si mostrava devotissime; e che d’altronde se ciò non fosse state, l'intervento austriaco di quell’anno che non consistette che in una specie di passeggiata son poche migliaia di soldati, i quali vi furono accolti dapertutto, nel contado, e dalla gente —onesta anche nelle città, con giubilo e come liberatori, avrebbe dovuto consistere in una guerra non meno fiera, né meno lunga che quella che Napoleone ebbe a sostenere dal 1808 sino al 1814, e ciò senza aver potuto terminarla, in Spagna; e che invece di poche migliaja di soldati si avrebbe dovuto impiegarvi tutto un esercito. Non si dica «Les Italiens ne se battent pas» né che che gli Italiani mancano di capi; l’uno e l’altro è egualmente falsissimo.

L’immischiamento della diplomazia negli affari interni del governo pontificio fu la causa involontaria, ma principale, che lo Stato Romano non riebbe più sino al giorno d’oggi la pace. Quell’alto presumeva, che al governo del Papa, perché clericale, dovesse di necessità mancare il senno, la scienza, l’esperienza, e la volontà di ben governare,confondeva le cause del male col di lei operato ed effetto, e il di lei operato ed effetto, con la causa; supponeva all'agitazione e all’irrequietezza rivoluzionaria delle ragioni e dei motivi che non aveva, e diede al male una consistenza e una vitalità che da sé solo non avrebbe mai acquistato. Il governo pontificio si trovava rimpetto ai rivoluzionarj in una situazione tanto più difficile che Stato limitrofo, la Toscana, in seguito ad un accecamento che non si saprebbe spiegare, si era fatto il centro dell’agitazione italiana, e prestava ricovero e quasi protezione ad ogni ribaldo romano, purché si dasse l'aria di essere un rivoluzionario. Non vi banno pagine nella storia più umilianti pell’umanità che quelle le quali raccontano le gesta dei rivoluzionarj italiani fra’ quali veggonsi figurare come antesignani diverse notabilità piemontesi, nei tre lustri che occupò la Santa Sede Gregorio XVI. Non vi ha mezzo per abbominevole che esso fosse, al quale coloro non ricorressero senza alcuna sorta di vergogna, se lo credevano favorevole ai loro divisamenti (136).


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Gregorio XVI mori il giorno 5 di giugno del 1846, e già in capo a due settimane il sacro Collegio gli aveva sostituito in successore cardinale Mastai—Ferretti vescovo d’Imola, che assunse il nome di Pio IX. Esso parve prescelto dalla Provvidenza per aprire gli occhi all’Italia, e al mondo sul vero carattere della questione che si arroga il nome di italiana e non è se non una questione di Settarj e come questione italiana una menzogna, un fantasma evocato «ab inferis».

Il nuovo Papa andò con le concessioni e le riforme sino agli ultimi limiti che i suoi sacri doveri come Capo della Chiesa vi imponevano; amnistiò tutti i condannati per reali politici, istituì rappresentanze municipali e provinciali, sottopose il governo ad un pubblico sindacato, lo tolse in gran parte dalle mani del clero, e lo affidò a dei secolari, ridusse la censura preventiva dei libri a dei termini da dirla cessata affatto, permise che le popolazioni cittadina si armassero. Dippiù non poteva fare. Le sue concessioni che mostravansi spontanee, franche, sincere, furono ricevute dai buoni con la fede che le fossero ispirazioni provvidenziali, dai tristi con degli applausi che si avvicinavano ad un baccanale e avevano l’aspetto di una idolatria; tuttociò con lo scopo di guadagnarvi il popolo e strascinarlo, col clero alla testa, nella corrente rivoluzionaria. Nel ché quanto al popolo delle città e segnatamente a quello di Roma non riuscirono che troppo.

Giunte le cose a questi termini accadde ciò che doveva accadere. I rivoluzionarj gettata la maschera si fanno padroni della situazione, parlano, aizzano i popoli, incoraggiano i tristi, tutto ciò in nome del Papa, che ha un bel protestare contro le loro enormezze, esortare all’ubbidienza verso le autorità legittime, e alla concordia, e dichiararsi il padre comune di tutti i Cattolici. Gli urti del fanatismo convertitosi in delirio soverchiano la sua voce. La rivoluzione prende un carattere e un’estensione spaventevole. I sovrani d’Italia, coll’eccezione del giovine duca di Modena, che non volle mai promettere ciò che sapeva di non poter mantenere, diedero delle costituzioni; il re di Sardegna, Carlo—Alberto adescato dalla speranza di farsi re della nuova Italia, si collega con la rivoluzione, e se ne fa la spada. Tutta l’Italia va sottosopra. In quel mezzo, insorge Parigi. Luigi—Filippo abbandona la Francia, che si fa repubblica. La Germania si scompone anch'essa; si scompone anche l’Austria; si solleva Vienna, si solleva l'Ungheria. I rivoluzionarj italiani non dubitano, esser venuto il momento di cacciare gli Austriaci oltre le Alpi. Milano, e Venezia e con esse tutte le città lombardo—venete si ribellano. Carlo—Alberto passa il Ticino. Gli Austriaci, verso la fine di marzo e nei primi giorni di aprile del 1848, veggonsi confinali fra le loro quattro fortezze; fra Mantova; Peschiera, Legnago, e Verona, ove Carlo—Alberto li assale, ma è respinto. Gli Austriaci ripassano il Mincio, l'Oglio, l’Adda; il giorno di agosto sono di nuovo in Milano. Subentra un armistizio. Carlo—Alberto ripassa il Ticino. In tutto il regno Lombardo—Veneto sventola, con la sola eccezione di Venezia, la bandiera austriaca, a Modena l’estense, a Parma quella dei Borboni. Anche l’Italia meridionale è riordinata; non cosi l'Italia centrale, cioè lo Stato Remano e la Toscana. Ambidue, il. Sommo» Pontefice e il Granduca di Toscana dovettero abbandonare i loro Stati; Frattanto denunzia Carlo—Alberto ai 12marzo 1849 l’armistizio. La guerra fra l'Austria e—il regno Sardo—Piemontese rincomincia; termina per altro in mono di una settimana, con la battaglia di Novara. Gli Austriaci passano a comprimervi le rivoluzioni nelle Toscana, nelle Legazioni, e nelle Marche. I Francesi assediano e prendono Roma; Venezia cade; il maresciallo Conte Radetzky vi tiene il suo ingresso il 30 agosto 1849. —Or si dimanda: qual parte abbia preso il vero populo alla ribellione nel regno Lombardo—Veneto? quale nelle guerre che fece Carlo— Alberto in nome dell’Italia all'Austria? quale contro la spedizione austriaca nella Toscana, e nella Romagna?

La risposta a queste tre questioni può essere una e brevissima, e farsi con le seguenti parole. Il vero popolo non vi prese nessuna parte in favore della rivoluzione; se ne prese una, la prese in favore degli Austriaci. Ma spieghiamoci. In Italia nel secolo decimosesto riassumevasi la politica da seguirsi nei paesi soggetti, qualora irrequieti, non solo a Napoli e a Milano, che erano possedimenti spagnuoli, ma anche a Firenze, nelle seguenti parole: «A città di parte, leva armi, mozza capi, e fa cittadelle (137).

». Questa medesima politica fu anche quella, che con grande insistenza insinuava e inculcava Napoleone a suo fratello Giuseppe in riguardo al regno di Napoli e alla Spagna, e alla quale ricorse egli stesso nell'ultimo dei due paesi; al che tutto ho avuto già più volte l’occasione di avvertire. L'Austria però non volle mai e in verun modo saperne di tali misure; e a mio debole parere con ragione: essa non ricorse ad altre precauzioni che a cautele di polizia, espediente anch 'esso, se non tanto brutto, è di più del tutto insufficiente. bi fosse dessa almen preparata ad una guerra di barricate, ed in generale, ad una guerra con dei ribelli, guerra sui generis,, che ha i suoi principj, e le sue regole come ogni altra, che vuol quindi esser studiata. La ribellione di Milano proruppe; i rivoluzionarj vi si erano preparati da gran tempo, conoscevano ogni viottolo, ogni passaggio da una contrada all’altra, ogni nascondiglio. Niente di tale avea luogo dal canto degli Austriaci. Prescindendo dal fatto che il vice—re ed il governatore eraao assorti, che nel vice—governatore si era fissata l’opinione, che nulla vi avea a temere, e che con la concessione della costituzione, e con le riforme solennemente dal governo di Sua Maestà promesse, il pubblico era pienamente appagato, mi limite ad osservare: che lo stesso esimio maresciallo conte Radetzky era bensì invecchiato nell’arte di dirigere una battaglia campale nella qualità di capo dello Stato—Maggiore, come quella di Aspérn, di Wagram, di Lipsia, di Brienne, di Parigi, ma era ancora a fare il suo noviziato in una battaglia contro le barricate e i tetti di una capitale ribellante.

Tutto ciò non toglie, che l’esito il quale ebbe la ribellione di Milano fosse un vero miracolo, e che lo si riguardasse qual miracolo dagli stessi Milanesi. La detta ribellione fu iniziata con un proditorio immane ed infame massacro di una truppa austriaca postala a guardia del palazzo governiale. Appena se ne sparse con grande sollecitudine la nuova per la città dai capi ribelli dirigenti, che i Milanesi si attesero, che i soldati di Radetzky vorranno vendicare la morte dei loro compagni e confratelli, irromperanno in Milano furibondi e non perdoneranno a sesso né a età. Tutte le case si chiudono, le porte si rinforzano il più che si può, «pavor arma ministrat»; si corre sui tetti e vi si fa provvigione di tegole. Già a qualche campanile si suona a stormo; non dura molto e tutto le campane in tutta la città suonano egualmente. Non tarda la plebaglia a gettarsi suite strade, si dà mano a delle barricate; da tutte te finestre piovono mobiglie, sedie, canapé, tavolini, tavole, armadj, lettiere, per costruirle. Tutto 1e strade, in ispezialità le strade maestro si trovano in un subito serrate, e intransitabili. Il massacro. al palazzo governiale aveva avuto luogo verso le 11 antimeridiane. Ma il Maresciallo non venne a saperlo che a mezzogiorno, «e alle 3 pomeridiane solamente», dice un testimonio oculare, un Milanese non sospetto, «cominciarono le truppe della guarnigione a farsi vedere con armi e bagaglio, cioè in movimento decisivo e minaccioso di guerra. Che se al primo indizio della catastrofe i nostri nemici avessero agito con energia, non saprei qual esito poteva avere il nostro esordio insurrezionale. Frattanto le barricate erano cresciute in numero e consistenza (138).

La guerra delle sei [cinque] giornate non consistette per parte degli Austriaci in altro che nell’avanzare nelle strade maestro, con due, tre, quattro compagnie, rare volte con qualche pezzo di artiglieria, o dei razzi incendiarj, e più rare volle ancora con un intiero battaglione di fanteria, e con della cavalleria; essi avevano l’ordine di assalire le barricate che vi aveano, di abbatterle e di disfarle; ciò facevasi con molta intrepidezza sotto una pioggia di tegole, accompagnala dallo scarico di qualche fucile. Era ben rare che i ribelli li aspettassero; questi, appena vedevanli avvicinarsi, urlando scampavano, e portavansi altrove. L’opera degli Austriaci era evidentemente un fare dei buchi nell’acqua, che da sé si racchiudono appena la mano che li fa si ritira. Anche una guerra come questa ha i suoi principj e le sue regole; anche a questa si deve dare una base, e una certa larghezza; anche in questa è necessità di non lasciar nulla su’ suoi fianchi e alle spalle.

Il numero dei Milanesi che presero parte alle fazioni guerresche della ribellione era piccolissimo; e non erano numerosi neppure i forastieri; e tutti assieme certamente di molto inferiori agli Austriaci: «Il fatto è fatto» dice un poeta «e non si può disfare». Se ciò nonostante il maresciallo Radetzky fini per andarsene, la cagione è da cercarsi in tutt’ altro, che nelle loro gesta, per quanto le si abbiano in prosa e in verso decantate. Agli Austriaci non costa mai fatica il dire: il nemico ci ha opposto oggi una resistenza eroica; oppure egli ci ha assaliti con una bravura ammirabile. Nelle loro relazioni, parlando dalla ribellione di Milano convengono, che i capi dirigenti vi hanno fatto prova di grande e straordinaria maestria per simili imprese; ma che del resto, i ribelli non vi hanno fatto altro, che fuggire, urlare, suonare a stormo, se colti prostrarsi a terra e chiedere, con le mani giunte, pietà, e misericordia. Che nelle centinaja e migliaja di persone che vi presero parte, fra’ quali il maggior numero vi fu strascinato suo malgrado, vi fosse un qualche procento di uomini coraggiosi s'intende da sé, ma che questo procento dovesse essere e fosse un minimum, ce lo dà a conoscere a chiare note e con parole franche anche il sovraccitato Milanese, vecchio militare uomo del mestiere e perciò giudice competente, ostilissimo agli Austriaci, ma in complesso veritiero: «Il giorno 21», dice egli, «il comitato di pubblica sicurezza ordinava una fazione armata per la sera. Chi ne aveva l'incombenza», — io suppongo che fosse lo stesso autore —, «riuniva perciò nella piazza dei Mercati circa duecento uomini, forniti parte d'arma da fuoco, e parte d’arma bianca. Sembravano corsieri anelanti alla corsa, non si poteva tenerli, era per essi l'indugiare un tormento, tutti gridavano: vogliam batterci. —Date le opportuni disposizioni, muove la colonna tragittando verso piazza del Duomo. Si odono diversi colpi di fucile. Il condottiero, ignaro della causa, affretta i passi, arriva premuroso ed ansante sulla detta piazza, si trova seguito da sette od otto individui. Quegli spari erano stati fatti per solennizzare la gran bandiera italiana esposta alla guglia maggiore del Duomo. Se qualcuno di quei duecento leggesse queste parole ne arrossirà, io spero, ma non avrà certamente il coraggio di darmi una smentita (139).» —

Eccomi nella possibilità di esprimere il suindicato procento con una cifra precisa. Supposto che quei sette o otto bravi, non si fossero, continuando ad avanzare, ridotti a quattro su due, il numero dei Milanesi disposti a misurarsi cogli Austriaci non era evidentemente se non il 3 ½ tutt’al più il 4 per cento, ciò che fa il 35, tutt’al più il 40 per mille, e quindi su dieci mille 335, tutt’al più 400. Né l’autore si arresta ad un caso unico e particolare, egli lo generalizza. «Io, dice l'autore, non posso ritornare col pensiero a quell’epoca di gloria, senza ricordarmi di aver veduto in pratica il proverbio: tutte le strade conducono a Roma. Sia detto ad onore dei bravi, che mentre questi correvano ove ferveva il pericolo, ove il bisogno li chiamava, molti altri armati sino ai denti, andavano invece verso la parte opposta. Quando si gridava di portarsi sopra un tal punto, e taluni venivano avvertiti che sbagliavano la via, rispondevano che appunto vi si conducevano per quella strada. Né doveva stupirsi quando si pensa che gli uomini non sono tutti eguali, e fra tanti animosi», (volendo essere conseguente doveva l’autore dire fra tanti codardi, giacché nella suddescritta colonna ve ne aveva per lo meno il 96 p. c.) «poteva essere qualche codardo» (doveva dirsi qualche animoso, cioè il 3 e ½ tutt'al più il 4 p. c.) «senza togliere o diminuire il merito» (era da dirsi il demerito) «dei primi.»

Il capitolo del quale ho citato questi passi finisce come segue: «Anche gli eroi della sesta giornata, mi pare ohe meritano un posto nelle mie povere considerazioni. Ognuno comprenderà che trattasi di commemorare quei tali che invisibili durante lo cinque giornate si presentarono baldanzosi ed armati di tutto punto, onde far bella mo stra di sé, e fruire una parte della gloria comune senza averla meritata... Comunque fossero le vicende non si può negare che risulta assai ridicolo il veder il numero degli armigeri sensibilmente aumentato dopo aver cessato il trambusto... Tanto per nulla ommettere devo ancora osservare, che col crescere strabocchevole degli uomini armati, crebbero contemporaneamente nel vestire le mode, ossia i costumi dei bravi del medio evo, nonché le soldatesche millanterie, per cui ne nacque fra gli stessi, Milanesi la sentenza, che, se tutti quelli che dissero di aver ucciso avessero detto il vero, neppur , uno dei nostri nemici se ne sarebbe andato. Allora sentenza generale in Milano dopo le cinque giornate» — vi ho già avvertito ma giova ripeterla — «la quale dimostra evidentemente in poche parole l’opinione e la persuasione dei cittadini relativamente alla cacciata degli Austriaci si fu: che nessun altro che Iddio, poteva aver operato quel vero miracolo (140)».

Che ci dicono, che c’insegnano, in riguardo al nostro tema, questi fatti? Ci dicono che la ribellione perpetratasi a Milano nei giorni 18, 19, 20, 21 e 22 marzo 1848, fu un alto premeditato, istudiato, predisposto e inizialo dai rivoluzionari; ma che il popolo milanese non che avervi avuto parte premeditata, vi fu involto, o per dir meglio strascinalo e precipitato suo malgrado, che si ebbe il modo di eccitarlo alla ribellione contemporaneamente in tutti i rioni della città, cogli urli spaventevoli della plebaglia prezzolala che vi percorreva le piazze e le strade, col suonare a stormo nell’istesso tempo in tutta la città, ma sopratutto con la paura prodottasi, che il Soldato austriaco divenuto furibondo in vista dei suoi compagni d’armi trucidali infamemente nel palazzo governiale e in diversi posti ove si riusci a sorprenderli proditoriamente, si abbandonasse senza ritegno a tutti gli orrori della guerra. Fu a queste arti più che abominevoli che il popolo milanese soggiacque. La ribellione può quindi in qualche modo scusarsi, e in ogni caso spiegarsi e comprendersi. Se mai una ribellione non fu minimamente dal suo governo provocata dessa fu la ribellione milanese. Per parte dei rivoluzionari fu questa una delle solite loro scelleraggini non scevra della solita sconsideratezza. Coloro non ebbero ribrezzo di compromettere la sorte, le sostanze, la vita, e l’onore di migliaja e migliaja di famiglie, sotto circostanze che non istavano in verun modo in loro potere, e che essi non avevano minimamente il modo di dominare. Tanto era la loro impresa azzardata, che per quanto alcune delle loro speranze si avverassero, la sarebbe nondimeno abortita, se Carlo—Alberto non si decideva, calpestando quegli stessi trattati ai quali il regno Sardo—Piemontese doveva la sua ristaurazione e il suo ingrandimento, a collegarsi con la rivoluzione, e a passare, qual nemico dell’Austria, il Ticino Seguendo l’esempio di Milano, ribellaronsi anche Como, Bergamo, Brescia e Cremona; e si sarebbero ribellate anche Lodi e Crema, se non avessero incontrato nei rispettivi presidj e nei loro comandanti una imponente resistenza. il mal—volere concentravasi dappertutto in uno, relativamente all'intera popolazione, piccolo numero di congiurati. Alla ribellione di alcune delle or mentovate città si associò pur troppo anche la deserzione, se non di tutta, della maggior parte della truppa italo-austriaca: opera anch’essa di una abbominevole seduzione, la quale riusci ai rivoluzionarj molto più malagevole che comunemente non si suppone e non si crede. La deserzione non fu tanto un abbandono delle bandiere quanto un ritorno a casa. Il numero dei soldati che passarono nelle file dei rivoluzionari fu relativamente piccolissimo. La mattina della sesta giornata, era il giorno 23 di marzo, il maresciallo conte Radetzky, sulla notizia che Carlo—Alberto era in piena marcia verso la frontiere del regno Lombardo —Veneto, prese il partilo di abbandonare la Lombardia, di ripiegarsi con tutta la sua truppa sul Mincio, e di postarsi fra il detto fiume e l'Adige nel quadrato formate dalle quattro fortezze, Mantova, Peschiere, Verona, e Legnago. Coll’eccezione di un pazzo tentativo, al quale si lasciò indurre la grossa terra di Melegnano, di chiudergli il passo, la ritirata si fece con grande ordine e senza contraste di alcuna sorta. Le comuni accorrevano con viveri, prestavano mezzi di trasporto, riparavano le strade, raccomodavano i ponti. I Milanesi venuti a conoscere la partenza degli Austriaci non credevano ai loro proprj occhi. Nessun di essi osò neppur da lontano avvicinarsi alla retroguardia del maresciallo.

Durante le cinque giornate il contado lungo il Ticino aveva dato a divedere di altamente riprovarle. I generali austriaci che vi comandavano le truppe ivi postale in osservazione di ciò che facevasi oltre al Ticino, ne trovarono le popolazioni avverse affatto alla rivoluzione; ciò che era il caso in generale di tutto il contado lombarde. D signor Cantù dandone conte nella sua Storia degli Italiani al Capitolo CXC11 intitolato: «Guerra Santa Conquassi», cosi parla della poca anzi nessuna disposizione della gente di campagne lombarde per la guerra da lui – Iddio gli perdoni l’orrenda bestemmia – detta santa: «La vittoria era assai meno facile che il trionfo. Sull’orme del nemico fuggente si cacciarono alquanti, di coraggio risoluto e intelligente; e deh come parevan belli que’ giovani, che alfine avevano qualcosa da fare! come nei loro atti sfavillava eroico. incitato; romanzesco il sentimento! Altrettanto deforme e scomposto era l’esercito austriaco, lacero, tutto mota e sangue, famelico, con un impotente anelito di vendetta, e temendo da ogni siepe un assalto, su ogni ponte una rovina, in ogni villaggio barricate e tegole; che se davanti a quello, scompigliato da tante deserzioni, dall’insolita guerra delle strade, dalla privazione di riposo, dalla incertezza degli avvenimenti viennesi, si fossero abbattute le piante, recise le vie, diffuse le acque, lanciata la morte, qual ritornava di là dai monti? Ma Radetzky ebbe ad avvedersi ben presto che il popolo non prendeva parte a quell'insurrezione; i campagnuoli non secondarono l’impulso delle città; né la bassa rispose alla risolutezza dell’alta Lombardia, sicché egli, neppur mai attaccato, potè giungere al Mincio, e dentro il formidabile quadro formato dai monti, dal mare, dall’Adige colle fortezze di Verona e di Legnago, dal Mincio con quelle di Peschiera e di Mantova, rincorare le truppe, attenderne di nuove, e prepararsi (141)».

La ribellione di Venezia fu anch’essa come quella di Milano un'impresa estranea affatto al vero popolo veneziano, premeditata predisposta e incamminata da congiurati provenienti da altri paesi italiani, che non presentava veruna probabilità di riuscita, ed era quindi azzardatissima anch’essa, che si aveva i mezzi, il modo, e il tempo di prevenire e d’impedire, e che si sarebbe formata e compressa, se ambedue le autorità, la militare non meno che la civile, non fossero state colte da una fulminante intellettuale e morale paralisi. L'occasione vi forni col giubilo e col tripudio che vi occasionò l'annuncio delle magnanime larghissime concessioni di liberalismo, che l’imperatore Ferdinando faceva in quei giorni ai suoi popoli; incominciò con degli assembramenti chiassosi piazzali e stradali, fu però in breve iniziata dalla truppa di mare, che non aveva che troppi uffiziali stati socj dei Bandiera, invasi dagli stessi principj, e in balia delle medesime tendenze, nonché dagli operai dell’Arsenale, i quali ultimi si lordarono col sangue di un eccellente Uffiziale, del Colonnello Marinovich, comandante del detto stabilimento, che trucidarono con una ferocia più che barbara.


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Il presidio di Venezia componevasi di tre battaglioni di truppa levala nelle provincie venete, di due battaglioni di leva tedesca (Kinsky), e di un battaglione di Croati, (Peterwardeiner). Si diffidava di quei soldati italiani; secondo me a torlo; i granatieri italiani che il maresciallo aveva d'intorno a sé, non mancarono al loro giuramento. Il supremo direttorio militare aveva destinato ancora tutto un reggimento tedesco (Fürsterwerlher) per Venezia, ma che fu ritenuto a Trieste dal generale che vi comandava, il quale vi temeva un qualche movimento rivoluzionario se anche non nella popolazione fedelissima triestina, nella popolazione forastiera che vi è non poco numerosa. Senza questo arbitrio insolito affatto nell’armata austriaca, Venezia non cadeva. Il maresciallo Marmont che in allora trovavasi a Venezia ebbe a dire più volle che un solo battaglione di Kinsky, se, invece di tenerlo allacciato nella caserma, si fosse postato sotto le procurative della piazza di San—Marco, avrebbe più che bastato a tener in freno la marmaglia, che vi rappresentava tutto il popolo veneziano. E un uffiziale inglese di un alto grado testimonio oculare di quella giornata mi diceva le stesse cose con quasi le stesse parole. Non vi ha popolo, già per quella sua ammirabile, genuina, e vera civilizzazione che gli è propria e particolare, più meritevole di ogni possibile riguardo, che il popolo veneziano. Ma neppur a Venezia tutta la popolazione è popolo veneziano, e anche a Venezia la popolazione ha la sua feccia. La ribellione di Venezia fu fatta con la truppa della marina, con dei forastieri, e con la feccia del popolo.

Le conseguenze a danno dell’Austria della ribellione di Venezia furono di una portata molto maggiore, che non quelle della ribellione di Milano. Con essa, prescindendo dal molto danaro che trovavasi nelle casse pubbliche, cadde in potere dei ribelli un immenso materiale di guerra, e cadde anche con un parco di artiglieria e venti mila fucili, la fortezza di Palma—Nuova ed anche il forte di Osoppo con una grande quantità di polvere. Senza la ribellione di Venezia, la crociata che si forni alla guerra contro l’Austria dall’Italia centrale, non avrebbe mai passato il Pò. Ai primi di Aprile trovavasi tutto il regno Lombardo—Veneto, con l’eccezione del paese fra il Mincio e l’Adige in balia della ribellione. Ma la popolazione in generale imprecava la rivoluzione, che interrompeva la di lei pace e l’involgeva in una guerra, che non aveva altro scopo che di mettere l’Italia sotto—sopra, e di disordinarla da capo a fondo. I rivoluzionari lombardi sapendo che essi in confronto del popolo, il quale aveva bisogno di vivere in pace, e detestava la guerra, eran pochissimi, e non sostenevansi che a forza di menzogne e di fantasmagorie, erano pieni di sospetti, e si vedevano da ogni parte minacciati. Si biasima il nuovo governo lombardo per non aver lirato partito «del cinquanta mila uomini che si trovavano in Lombardia fra i 28 e i 38 anni, i quali avevano militalo nell’armata austriaca, e di non averti chiamati istantaneamente alle armi». Sta a vedere, se avessero obbedito alla chiamata, e se nel caso che si fosse riuscilo a riporre loro le armi nelle mani, non si fossero rivolti contro gli autori di quel conquasso. E lo si biasima quel governo anche per «aver rejetti dall’onor militare i tremila trecento soldati, che erano desertati dagli Austriaci, e coperti di quel sospetto che invita a tradire (142).

».( ) Essi furono rejetti, perché dicevansi imbrattati della pece austriaca, e perché vedevansi quei soldati italiani, che erano rimasti fedeli all’Austria, secondi in valore in ardore e slancio militare a nessuna altra truppa dell’armata austriaca; come anche perché il maresciallo Radetzky affidava la guardia della sua persona e del suo quartier generale con non minor fiducie ai suoi granatieri italiani, che ai suoi granatieri tedeschi o ungheresi.

La Lombardia non prestà nessun ajuto a Carlo-Alberto, e le provincie venete nessuno alla crociata dell’Italia centrale. Quella mostrò freddezza e ripugnanza di prender parte a quella guerra, queste l'avversarono quanto più poterono. Io parlo della gente del contado. Guai se l’Austria avesse lasciato fare le popolazioni campagnuole. Il capo di un villaggio nella provincie del Friuli ebbe a dirmi nel 1848, alcuni giorni dopo che gli Austriaci erano rientrati a Udine «che l’Imperatore ci lasci fare, e ben sapremo noi drizzar le gambe a quei... di Signori, che vorrebbero morderlo». Non oso pensare alla sorte che avrebbe toccata all’Italia, se l’Austria avesse anch’essa adottato il principio all'ordine del giorno nel campo rivoluzionario: che ogni mezzo é lecito qualora serve allo scopo. — Allorché Carlo—Alberto ebbe abbandonalo il Mincio, il comitato di difesa di Milano con un suo decreto del 1.° agosto bandì la leva in massa degli anni 18 ai 40, e chiamò tutti sulla linea dell’Adda, e si quelli muniti di fucili, si gli altri che non essendolo, dovevano portare con sé zappe, scuri, badili per i lavori di fortificazione di quella linea, per la difesa della quale furono anche richiamate le truppe mobilizzate comandate dal generale Zucchi, e le bande capitanate dal generale Garibaldi (143)

Ma niente di tutto ciò fu fatto. Nessuno vi si lasciò vedere. L’autore del libro: Reminiscenze di un Veterano della guerra italiana negli anni 1848 e 1849, ci sa dire – è il generale Schònhals, personaggio che poteva saperlo, e che se non l’avesse saputo non l’avrebbe detto: – « aver l’armata austriaca nel 1848 avuto a combattere con tutti, le schiatta italiana, la sola schiatta lombarda eccettuata (144)

» Non si creda, che la cagione di ciò stasse nel governo rivoluzionario lombardo; la cagione istava nel che la rivoluzione non era se non cosa della classe che non avea nulla da fare, e della plebaglia; e che ogni altra, ed in ispezialità la classe campagnuola l’abborriva; col dippiù che anche quei signorini lombardi, che l'amavano, non amavano molto la guerra, e se ne tenevano il più che potevano lontani. Mentre il Piemonte aizzato dal Gioberti si disponeva nel 184a ripigliare la guerra, vi aveano migliaja di di giovani Lombardi in Toscana, sui quali si legge la seguente relazione del capo—rivoluzionario fiorentino Giuseppe Giusti. «Le figure che passeggiano queste lastre mettono ribrezzo e terrore. Figuratevi ragazzacci con pistole e stiletti alla cintola, vestiti a mille colori, parlanti un linguaggio turpe, provocante, rifiutandosi di pagare osti e vetturini, violando il domicilio del popolo minute, per commettere stupri e rapine; insomma un principio di casa del diavolo. Mentre i campi lombardi sono insanguinati, con che cuore si può vedere una gioventù numerosa di quel paese a vagabondare?... Sono qui da cinque mesi a gridar guerra, e imperversare, e volger il paese sotto—sopra; viene la guerra, e non si muovono, come se non toccasse loro (145)».

Il governo rivoluzionario di Venezia fece mostra di molto maggior senno ed energia che il governo rivoluzionario di Milano; non ricorse neppur esso ai soldati dall’Austria congedati, né a quelli che ne avevano abbandonate le bandiere; esso si lusingò di riuscire col mezzo della classe oziosa, e particolarmente per mezzo del clero ad aizzare contro l’Austria la gente del contado, ed in ispezialità le popolazioni subalpine nel Friuli, nel Bellunese nell’Alto—Trevigiano, e nei Sette—Comuni cimbrici—vicentini, e gli abitanti delle Lagune dalla foce dell'Isonzo a quella della Piave. Esso non dubitava che una leva in massa nelle suddette contrade basterebbe col soccorso di alcune migliaja di crociati delle altre provincie venete che le si unirebbero, a fermare quel!’ armata, qualunque essa si fosse, che l’Austria nello stato agonizzante nel quale la si supponeva, saprebbe mettere assieme per soccorrere e rinforzare il maresciallo Radetzky. Non vi ha dubbio, che nelle suddette provincie venete l'elemento topografico si prestava a maraviglia per una guerra di bande. A Venezia si sperava che segnatamente l’Alto—Friuli diverrebbe un’Alta—Catalogna, il Basso, una Vandea, e Udine, la Capitale, un’altra Saragozza. E sembra che Carlo—Alberto dividesse con Venezia le stesse speranze.

Ne queste erano del tutto infondate; giacché il partito rivoluzionario si era dato e continuava a darsi ogni pena di eccitar gravi timori sui ritorno degli Au striaci; dicendoli rabbiosi e non respirando se non vendetta con saccheggi e massacri. E siccome la plebaglia di Udine si era abbandonata ad oltraggi di ogni sorta verso alcune partite di soldati austriaci, che provenienti dall’interno, dirette per l’italia, entravano nei sobborghi nei giorni del gran trambusto senza sapere che là città erasi ribellata; cosi questo timore era in qualche modo motivato e naturale. E si era altresì sparsa la voce, che l’Austria non aveva altra truppa disponibile se non i suoi Croati descritti come barbari peggiori dei Turchi. Un saccheggio. dicevano gli aizzapopoli agli Udinesi è il meno che vi aspetta; sicché mettetevi in istato di difendervi, e quando vengono difendetevi e respingeteli, e ammazzatene il più che potete. Questa è la sola via di sottrarvi agli orrori di una guerra che vi si farà fiera e terribile. — Infatti Udine erasi disposta ad una vigorosa difesa non solo delle sue mura, ma anche delle sue strade e delle sue piazze, delle sue case e dei suoi palaggi. E vi ha ogni apparenza e probabilità, che se il generale che ebbe a combatterla non vi si fosse mostralo se anche con in una mano la spada, con nell’altra l’olivo, e so esso non avesse avuto la previdenza di lasciarvi ai tristi un'uscita, gli Udinesi avrebbero fatto nel 1848 non meno di ciò che fecero nel 184i Bresciani, appunto perché compromessisi al massimo segno, rinchiusi entro alle loro mura, senza scampo, credevansi nel caso di dover vincere o morire. — Palma—Nuova, fortezza regolare di nove bastioni, con ravelini, e un sistema di lunette minate aggiuntovi da Napoleone, aveva un presidio troppo debole – erano 1600 Crociati, con centoventi artiglieri piemontesi — per difendersi contro un assedio formate, ma sufficiente contro un colpo di mano. Vi comandava quello stesso generale Zucchi che nel 1831 capitanava la truppa dei rivoluzionari, ed era stato catturato nel suo tragitto da Ancona a Corfù. Condannato a morte da una corte marziale, l’imperatore Francesco I l’aveva graziato, e viveva a Palma piuttosto come confinato che come prigioniero. Nonpertanto accettò egli il comando della piazza. — Anche Osoppo piccolo ma inaccessibile forte erasi messo in istato di difesa. — Il comitato di guerra friulano credette a proposito di fortificare anche la Pontebba al confine della Carinzia, ancorché paese non—murato, e vi postò da 2 mila crociati. Altro, a difesa della provincia, che io sappia, non si fece. Né ebbe luogo veruna distribuzione di armi, ancorché si fossero trovati a Palma come ho già avuto l'occasione di avvertire, 20 mila fucili. I signori, come tosto si dirà, avevano troppa ragione di non affidarle né alla gente del contado, né alla plebaglia.

Dal suo canto l’Austria non era rimasta oziosa. Essa erasi affrettata di mandar alquanti battaglioni di rinforzo nel Tirolo italiano, ove i rivoluzionarj avevano nella classe oziosa trovato molto ascolto, e di chiamare alle armi i bravi Tirolesi del Wintschgan, del Pusterthal, e dell’alto e basso Innlhal. Ma le truppe destinate a levare il maresciallo Radetzky dalle angustie nelle quali si trovava, e a metterlo in istato di strappare il regno Lombardo—Veneto alla rivoluzione e a Carlo—Alberto di lei alleato, dovevansi adunare al più presto nella forza di oltre a 20 mila uomini sull’Isonzo. L’adunamento e la formazione di questo corpo d’armata denominato il primo corpo di riserva, come anche il comando su di esso, e la direzione e condotta dell’impresa, fu dall’Imperatore. affidata all'allora generale d’Artiglieria, l'attuale maresciallo conte Nugent; lo stesso generale, che ho avuto si sovente l’occasione di menzionare parlando delle guerre del 1813, 1814 e 1815.

Le grandi distanze che alcuni reggimenti assegnati al corpo d’armata che sull’Isonzo stavasi formando avevano a percorrere ne ritardava di troppo l’arrivo.

Il conte Nugent dopo aversi procurate delle esatte e sicure informazioni sullo stato della ribellione e le forze dei ribelli; certo che non lo aspettava né un corpo di truppe regolari se non oltre la Piave, né una leva in massa, né una guerra di bande, e tutto al più una guerra con qualche città murata, e segnatamente con la città di Udine, e che Pahna—Nuova ed Osoppo potevano senza grandi difficoltà bloccarsi: prese il partilo di tentare frattanto la sommissione e la riconquista del Friuli, provincia di 440 mila abitanti, e nella quale univansi le due principali comunicazioni fra il regno Lombardo—Veneto e l’Austria. Egli, partendo da Gorizia e contorni, passò il confine il giorno 17 aprile con circa 14 mila uomini. Contemporaneamente ne fece discendere 1500, provenienti direttamente dalla Carinzia per Tarvis e per la valle della Fella contro la Fontebba; e ne diresse altri 400, partili dalla Sava per la valle dell’lderza e pei monti posti fra l'Isonzo e il Natisone, contro Cividale.

La Pontebba oppose qualche resistenza; vi ebbero un Tenente—Colonnello ed alcuni soldati feriti, e due o tre di questi morti. I Crociati e Volontari che vi si erano annidati si erano dati a credere, che I primo mostrarsi degli Austriaci, le popolazioni di quei monti e di quelle valli accorrerebbero all'istante con quelle armi che venissero loro alle mani in loro ajuto. Ma s’ingannarono. Con l’eccezione di qualche contrabbandiere o scappato dalle prigioni, e in generale di qualche malvivente, nessuno si mosse; sudiché quelle bande forastiere, indispettite, al primo colpo di cannone che si tirò contro un’immensa barricata che avevano eretta sul ponte pel quale si entra in quel paese, se ne andarono senza più fermarsi, ancorché la valle della Fella presenti diverse strettissime gole. La guerra in quelle valli e in quei monti fu in poche ore finita. Parle del distaccamento servi al blocco di Osoppo, il rimanente servi a presidiar il castello e la città di Udine. — Il distaccamento diretto su Cividale, erano Croati, giunto senza alcun notevole ostacolo in vicinanza di quella città, vi trovò dei Cividalesi, i quali in nome dei loro concittadini fecero conoscere all'Uffiziale che li capitaneggiava, che la loro città aveva sempre avuti cari i soldati dell’Imperatore, ma che in quei momenti di gravissimi disordini li vedeva più volentieri che mai. Che vi entrasse, che lui e i suoi vi sarebbero i benvenuti, e i bentrattati. E cosi fu. Il vero è, che le popolazioni slave di quei contorni, al sentire che Udine si ribellava, si erano, alla meglio che avevano potuto, non però senza grande spavento dei signori, armate. Fosse quel spavento fondato o no, tanto è un fatto, che la deputazione cividalese, la quale nel giorno stesso dell’arrivo di quel distaccamento, cioè li 23 aprile fu a Udine ad inchinare il conte Nugent, e a farvi un atto di sommissione e di devozione, lo pregò con grande insistenza di lasciar in Cividale quella truppa. Il generale rispose a quei Signori, che egli si fidava intieramente di essi, che li sapeva devotissimi alla Casa d’Austria, che non vi era alcun bisogno. Ma i deputati soggiunsero, che le popolazioni slave del loro territorio si erano armate, che ciò ispirava loro i più serj timori, e sino quello di un saccheggio. Il generale replicò, che sentiva ciò con sommo rincrescimento, che quella truppa aveva già ricevuto un’altra destinazione, che pel momento non era in stato di rimediarvi, che darebbe però relativamente al caso degli ordini; e li congedò confortandoli a stare di buon animo, a non temere, giacché egli vedeva nella grande maggioranza della popolazione in tutta la provincia una decisa volontà di rientrare nell’ordine (146).

Udine tenue fermo tre giorni. Il conte Nugent non tardò, appena postatosi col suo corpo d’armata rimpetto alla città, di inviarle, come è in tai casi l’uso di guerra, un parlamentario, che fu il suo primo ajutante conte Crenneville, per rimostrarle la convenevolezza e la necessità di sottomettersi. Ma uno dei caporibelli forastiero, vedendolo avvicinarsi, gli fece tirare varj colpi di cannone. Era il solito modo dei rivoluzionarj per spingere le popolazioni in delle situazioni disperale. Si stette tutto il giorno aspettando che la città dasse qualche spiegazione su di un procedere cosi irregolare e brutale. Ma essa non era padrona di sé, e vi regnava un vero terrorismo. Si attese sino verso sera, e allora, fatte avanzare le truppe con le loro batterie, ebbe luogo una spezie di bombardamento con dei razzi e delle granate, che fece più strepito che danno, e dopo due o tre ore, fattolo cessare, il generale incaricò lo stesso suo capo dello stato—maggiore, il tenente—colonnello barone Smola, di porterai come parlamentario in Udine, e di farle conoscere a quali pericoli, ostinandosi a resistere e perseverando nella ribellione, la si esponeva. Ma per quanto questo uffiziale si dasse, coi soliti ed usuali segnali, a conoscere come parlamentario, lo si lascia bensì avvicinare alla porta, ma poi gli si lancia un colpo a mitraglia che coglie lui e il suo cavallo, stende lui semimorto a terra, e gli ammazza 1uffiziale che lo accompagnava. Era sempre la stessa orridissima tattica, e proveniva come nel primo caso da uno dei capo—ribelli forastieri. — Infatti gli Udinesi si mostrarono addoloratissimi ed indignatissimi per quella violazione di una delle leggi più sacre della guerra, rispettata sino. dalle genti più selvaggie. L’uffiziale, fu raccolto, portalo in città in una delle case vicine, ove gli si prestarono tutti gli ajuti e tutta l'assistenza che la sua situazione richiedeva. Né lardarono alcuno delle primarie notabilità udinesi a visitarlo per condolersi secolui dell’avvenuto, e per discolparne la città; alle quali il tenente—colonnello ricordatosi la sua missione, la esegui in mezzo ai suoi terribili patimenti, disse a quei signori ciò che loro aveva a dire, e si fece da essi ascoltare.

I volontari—crociati forastieri, accortisi che la città si disponeva a trattare, avrebbero voluto alzare la voce, ma furono fatti tacere. Essi allora proposero una sortita in massa, ciò che non era se non un pretesto per poter dire: ebbene voi non volete battervi, noi vi abbandoniamo. Né tardarono coloro ad andarsene. La città, ridivenuta padrona di sé stessa, capitolò. L’indomani 23 aprile, era la festa di Pasqua, gli Austriaci vi entrarono. Il loro ingresso, io mi vi trovai presente, sembrava più che altro un ritorno dall'annuale campo di esercizio militare. Da un lato come dall’altro tutto pareva dimenticato. Vedendo, poche ore dopo la rioccupazione, condurre dei cannoni di grosso calibro al castello, gli Udinesi mostraronsi un momento turbali. Ma non fu difficile di far loro comprendere, che quella misura era intesa non ad altro che a prevenire il bisogno di servirai contro dei tristi del cannone; e che era, non per sparare, ma per non sparare su Udine, che se ne presidiava il castello, e lo si armava di cannoni.

Fatto in Udine ciò che vi era da farsi; presidiato il castello e fornito di viveri, presidiata e ordinata la città, prese le necessarie misure per la sussistenza delle truppe, e incamminato e rassicurato il blocco di Osoppo, il conte Nugent si volse per Campoformio e per Codroipo verso il Tagliamento, ove giunse il giorno 27, e trovato il ponte su quel torrentone che dai ribelli erasi in una lunghezza di più di 150 tese distratte, fattolo ristabilire, lo passò il giorno 28. Il ristabilimento del detto ponte si dovette in gran parte agli ajuti che vi prestò il paese con una spontaneità e alacrità senza ese mpio. Il Tagliamento era, per la molte pioggia caduta, o pei disgelo delle nevi, in uno stato poco men che di piena massima. Sembrava un rapidissimo Danubio. Cento ribelli avrebbero bastato per ritardarvi otto giorni il passaggio e impedirvi il ristabilimento del ponte. Ma non uno vi si lasciò vedere. I Crociati sortiti da Udine si divisero. Gli uni, corsero nella valle del Tagliamento, e da essa nel Cadore; gli altri passarono il detto fiume a Pinzano, poi la Livenza a Sacile, e si postarono nei monti al Nord di Geneda e di Seravalle. Il giorno 30 era il conte Nugent padrone di Sacile e di tutti i ponti sulla Livenza. Con ciò la riconquista del Friuli dalle Alpi al mare, con la sola eccezione di Palma—Nuova e di Osoppo, era un fatto compiuto, che aveva costalo appena 10 morti con 30 feriti, fra i quali ultimi vi aveano però un tenente—colon nello, e un maggiore. Anche Palma—Nuova si rase ai 24 di giugno. Osoppo resistette sino ai 9 di ottobre. Dalla poca e quasi nessuna resistenza che oppose il Friuli, il quale ha come già dissi, una popolazione di 440 mille abitanti, si rende chiaro, che la ribellione vi avea certamente pochissimi aderenti. La parte Nord—Ovest del Friuli, la valle del Tagliamento e i distretti montani detti Tramonti, ancorché in contatto col Cadore, si rifiutarono costantemente a prender, sia direttamente o indirettamente, parte alla guerra sostenuta, come a suo luogo si dirà, durante alcune settimane da un qualche migliaja di Crociati.


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VI. Li 3 maggio era la vanguardia del conte Nugent giunta alla Piave sulla strada da Conegliano a Treviso. Il bel ponte—detto della Priula non vi era più; il nemico vi aveva messo il fuoco; quel fiume era anch’esso come il Tagliamento, in stato di piena poco men che massima. La riva destra, arginata come la sinistra, vedevasi occupata da numerose bande italiane venute d'0ltre—Pò, e da truppe pontificie regolari d'infanteria e cavalleria, ben fornite di artiglieria. La Piave ivi non ha sinuosità che forniscano i mezzi di forzarvi il passaggio. I pontoni che si avevano non bastavano, e non erano qualificali per un fiume con una corrente rotta, ondulosa, e rapidissima, qual è quella della Piave, quando è gonfia come era in allora. Il passaggio di questo fiume era quindi ivi una impossibilità; o non vi avea altro partito da prendersi se non quello di gettarsi nel Bellunese, e di passera la Piave, o sul ponte di legno a Capo di Ponte, o sul ponte di pietra presso Belluno. Vi aveva, una volta che si fosse padroni di Belluno e poi di Feltre, il modo di sboccare sul piano Trevigiano, fra la Piave e la Brenta, o rimpetto a Monte—Belluno, o rimpetto a Bassano, e, se ciò non potevasi fare, di portarsi da Feltre per Premolano nella Val—Sugana, di rimontarla sino a Caldonazzo e da Caldonazzo di portarsi nella Val dell’Adige e per essa di discender a Verona. L’impresa del conte Nugent era entrata in un nuovo stadio.

Tutto ormai dipendeva dalla condotta dei Crociati, che eransi postali sui monti al Nord di Conegliano, di Ceneda e di Sacile, e in ispezialità poi dalla condotta delle popolazioni montane Bellunesi,e se queste si associeranno ai primi e li ajuteranno nella loro guerra, o se ve li avverseranno. Nel primo caso egli è difficile di dire ciò che sarebbe avvenuto, nel secondo oltre che l’unione del corpo di riserva con l’armata dei maresciallo era assicurata, l’impresa affidala al conte Nugent prendeva un tutt’altro carattere, e diveniva ciò che un celeberrimo Francese chiamava «le commencement de la fin»: essa diveniva la vera iniziativa della riconquista del regno Lombardo—Veneto; ciò che essa anche divenne, e ciò che fu. Il nemico, ciò non è da dubitarsi, comprendeva tutta l’importanza che vi avea a guadagnare per la ribellione i montanari bellunesi. Né fu per sua colpa, se non riusci, col mettere in corso la voce di esservi completamente riuscito, e di aver tutta la montagna per sé, a dissuadere il conte Nugent dall’entrare in quei monti. Questi venne tuttavia a sapere il vero, prese peraltro ciò nonostante le sue misure in modo, che qualora le notizie che riceveva nel merito dagli anti—rivoluzionarj, che certamente ve ne. avevano e in molto maggior numero che i rivoluzionarj, non si avverassero, potesse arrestare le sue mosse senza ulteriori conseguenze. Egli col grosso del suo corpo d’armata e con la sua artiglieria si tenne fermo a Conegliano, e sembrava lambiccarsi il cervello per dar di fronte contro chi guardava la Piave sul piano, e per passar quel fiume fra Nervese e Cima—d’Olmo. Il giorno 3 maggio fece egli avanzare la brigata Culoz sulla strada di Allemagna verso Belluno, coll’ordine, qualora fosse possibile, di snidare quei Crociati dai monti che aveva alle spalle e sul fianco destro, e fiancheggiarla a sinistre mediante qualtro compagnie di Croati, capitaneggiate da un uffiziale di grandissimo merito, dal maggiore barone Geramb, le quali la notte dai 3 ai 4 marciarono per Corbanese nella Val di Mareno e poi pel Canal di San—Poido giunsero alla Piave. A Conegliano si diceva e lo si credeva che quel movimento non aveva altro scopo che d'indurre gli Italiani ad allontanarsi dalla Piave—Bassa. E quanto a quei Croati, i pochi tristi che vi aveano s’immaginavano che quei montanari li lascierebbero internarsi, e poi li sterminerebbero.

Ma fatto è che quei Croati tutt’all’oposto erano il giorno 5 sani ed allegri già a Belluno. Essi dovunque arrivarono furono accolti con giubilo, trovarono tavola imbandita, e poi guide, notizie, gente che raccomodava e allargava loro i sentieri. Al loro giungere in quei monti se ne diffuse tosto la notizia del loro arrivo con delle grida che di distanza in distanza raccolte ripetevansi, e vi cagionò un generale movimento, che sparse fra i Crociati, designati da quei montanari a cagione delle loro foggie e dei loro modi con le parole quei Mostri, lo spavento. I Bellunesi come prima videro da lontano quei Croati spedirono loro incontro, come avevano fatto qualche settimana prima i Cividalesi, una deputazione, che dichiarò al loro comandante, che sarebbe nella loro città accolto e ricevuto con giubilo; e che i tristi, accortisi di essere pochissimi, se n’erano andati. Il paese era. in balia di una fiera anarchie e nel massimo disordine. Quei Soldati erano appena schierati sulla piazza, che vi era anche ripristinata la pace.

La brigata Culoz aveva trovato i Crociati postali in siti cosi forti, ohe dopo di aver perduto tra morti e feriti 10 in 12 uomini ritornò a Seravalle. Rimessasi in marcia il giorno susseguente, cioè il giorno 4, si venne, mentre la si disponeva ad attaccare, a dirle, che il nemico si ritirava, e anzi fuggiva. Riunijasi la truppa nell’ordine di marcia, ciò che a cagione delle località incontrò qualche difficoltà e richiese del tempo, si giunse con essa un pò tardi a Cima-di-Fadalto, ove si passò la notte, e si ebbe notizia del cordiale ricevimento che toccò alla colonne Geramb, e dei di lei successi. Discendendo la mattine del giorno seguente verso Capo—di—Ponte, si viddero accorrere dei giovani, che da lontano si davano a conoscere apportatori di qualche buona novella. Avvicinatisi ansanti dissero, che si vedeva dalle cime dei loro monti chiaramente un buon numero di soldati dell’imperatore passera il ponte di Belluno, ed entrare in quella città, che con essi erano anche molti Bellunesi i quali eransi veduti andar loro incontro; sembrare, che siano quegli stessi soldati comparai inaspettatamente il giorno innanzi nel canal di San Poldo. — Il generale, al quale la nuova, per quanto ne fosse e se ne mostrasse contento, non riusciva in verun modo inaspettata, dati i necessari ordini alla sua brigata, fattosi da quei giovani mostrare la via più breve per portarsi a Belluno, con tre ulani e un suo ajutante vi si mise in cammino, e in meno di un ora arrivava anch’egli pel ponte di pietra nella detta città; ove trovò tutto in ordine, tutto quieto, come se nulla di straordinario vi fosse avvenuto. I Croati avevano già fatto il loro pranzo, e il loro maggiore si offri da sé, di avanzare con essi, lasciandoli riposare ancora qualche poco, verso Feltre sino al Cordevole; ove giunse ancora innanzi a sera senza incontrare un nemico, e senza aver a scaricare un fucile. Egli vi era appena arrivato, e aveva appena postate le suo avvisaglie, che vennero in gran fretta dei campagnuoli avvertirlo, che nel vicino villaggio, sulla riva opposta, era da poco giunto un uffiziale del Papa, il quale nulla sapeva, che vi aveano, a un miglio dal paese ove era, dei soldati dell’imperatore. Quell’uffiziale era il capitanio Quintini, dello stato—maggiore, inviato nei Bellunese e nel Feltrino dal generale Durando, per sapere ciò che vi si era fatto, e si faceva. Non passò una mezza ora che esso trovavasi in potere del dello maggiore, il quale sotto scorta lo mandò a Belluno. Registre questa particolarità, perché la mi sembra particolarmente qualificata a dare un’idea delle disposizioni alla ribellio11 e ostilissime di quella gente. (147)

I Crociati, passata la Piave e incendiato il ponte a Capo—di—Ponte, sarebbero corsi a Belluno, che offre all'Est, sul torrente Ardo, una fortissima posizione; ma saputolo dagli Austriaci occupato, presero la strada d’Allemagna e si volsero verso il Cadore. La brigata Culoz dovette discendere, lasciando indietro la sua artiglieria e i suoi carri di munizione, per arrivare al ponte di Belluno, lungo la riva sinistra della Piave senza che vi avesse una strada, anzi senza che vi avesse neppur un viottolo; cosicché le convenne attraversare con grande stento i boschetti, le vigne e i torrentelli incassati, che vi hanno. Essa giunse a Belluno spossatissima. Non si tardò peraltro un momento ad aprirvi una strada, che forni una ulteriore prova del contento, che quella buona e brava gente provava al veder ritornato l’ordine e la pace, e in mezzo ad essi gli Austriaci. Il loro concorso a centinaja, subito che ne viddero il bisogno, fece che si potè dar principio all'opera nell’istesso tempo su almeno venti diversi punti. Verso sera vi aveva già una strada carreggiabile; e appena giorno, la brigata riebbe i suoi cannoni e i suoi carri di munizione.

Il giorno 6 il generale Culoz entrava in Feltre. Il conte Nugent stavasi sempre ancora col grosso delle sue truppe a Conegliano. A Feltre come a Belluno i tristi che vi facevano i terroristi, quando si trattò di menar le mani, si accorsero di essere assai pochi, e se ne andarono verso Primolano, attirando a sé tutti i pessimi del paese e dei paesi vicini. Il generale, più per tenere in occhio quella nuova crociala, che per produrvi ciò che, come tosto si dirà, ne risultò, fece partire alla volta del vicino ponte sul Cismone, sul quale passa la strada da Feltre per Primolano e pel canal di Brenta a Bassano, un tenente (Magdeburg) con 30 soldati. Questo uffiziale non aveva ancora fatto 3 miglia di strada, e già lo precorre la voce, che il corpo d’armata del conte Nugent s’incammina verso Primolano, e si porta, non pel canal di Piave su Castelfranco, ma pel canal di Brenta su Bassano. L’allarme si propaga, arriva a Bassano, e da Bassano a Pederoba, allo sbocco del canal di Piave, ove la notte dai 6 ai 7 stavasi il generale Durando comandante in capo delle truppe italiane venute d’Oltre—Po raccolte nelle provincie venete. Simili notizie allarmanti erano divenute l’espediente, al quale le popolazioni nei Friuli, nel Bellunese, nel Feltrino, e nel Trevigiano ricorrevano per tener lontani i Mostri; o se li avevano in casa, per indurli ad andarsene.

Il generale Durando era il giorno 6 a Quero con 4 mila uomini, dei quali 3400 svizzeri, e il rimanente italiani. Rimpetto a Cornuda, ove incomincia, per chi viene da Feltre, il piano trevigiano, sulle alture di Montebelluna, stavasi l'altro generale degli Italiani, Ferrari, con 11500 uomini. Quero è distante da Feltre miglia 7j, da Pederoba miglia 3, e da Montebelluna, cioè dalle alture ove stavasi il generale. Ferrari, miglia 9. A Quero apprese il generale Durando l'entrata degli Austriaci a Belluno e a Feltre, e l’accoglienza che loro erasi fatta in tutto il paese da essi percorso, ed in ispezialità nei monti sulla sinistra della Piave. Queste nuove portarono la costernazione al detto generale, e cosi anche, qualche ora più tardi, al generale Ferrari; e fecero poi sulle loro truppe, alle quali non poteronsi celare, una terribile impressione, che in un subito le disordinò, e vi distrusse ogni disciplina, e subordinazione, e vi seminò la diffidenza contro i loro uffiziali e generali, dicendosi orribilmente ingannale e tradite. Quella gente, se si eccettuano gli Svizzeri, aveva cessalo da un momento all'altro di essere una truppa, ed era divenuta un’orda disordinata, un numerus non exercitus e peggio; il che tutto era intieramente l'opera delle masse bellunesi e feltrine, dalle quali doveva quella truppa riceversi a braccia aperte, e ricevevasi invece con un non—celato disdegno. Il generale Durando si ripiegò il giorno 7 su Pederoba, ove pernottò, e ove ebbe la notizia, sparsasi nel modo suindicato, che il conte Nugent marciava su Bassano, e vi discendeva pel canal di Brenta. Egli sapeva che quegli Austriaci, i quali erano entrati il giorno 15 a Feltre non sommavano che a poco più di 2 mila uomini; e ne arguiva che il conte Nugent contava di tenerlo a bada con quelle poche truppe che da Feltre entravano nel canal di Piave, e sfilerebbe col grosso del suo corpo d’armata per Primolano a Bassano. lo seguito a ciò, corse egli coi suoi 4 mila uomini a Bassano, credendo di veder arrivare quanto prima, seppure non vi era già arrivato, il conte Nugent; e non vedendolo arrivare fece avanzare verso Primolano uno dei suoi reggimenti svizzeri.

Il giorno 8 giungeva a Feltre la brigata Schwarzenberg. Quel tenente che aveva avuto l’ordine con 30 uomini di portarsi sul Cismon, giovane, un pò inesperto, ma di gran coraggio, non si curò nulla affatto dei molti armati che raggiungeva per strada, e si spinse in mezzo ad essi. Questi lo circondano e lo obbligano a gettarsi in una casa isolata, ove, secondato dai suoi bravi soldati, si difende con grande valore, e vi si mantiene. Conosciutasi a Feltre la sua situazione, il principe Felice Schwarzenberg mette all’istante in manda 4 compagnie per tirarnelo. Gli abitanti del paese pel quale le dette quattro compagnie di fanti s'incamminano, ne fanno subito 4 battaglioni e vi aggiungono ancore 6 pezzi di artiglieria, e li dicono la vanguardia del corpo d’armata del generale Nugent, il quale, secondo essi, la segue a poche miglia di distanza. Il tenente che volevasi salvare, si salva da sé. Le quattro compagnie ritornano a Feltre, e si ricongiungono con la loro brigata. Ma quei montanari e quei valigiani non rinunziano a farne uno spauracchio pei loro odiatissimi ospiti. La voce per strada ingrossandosi arriva agli Svizzeri postati a Primolano, i quali non dubitano, che il conte Nugent è, con 10 mila uomini per io meno, a poche miglia dal posto che occupano. Essi se ne vanno a Bassano e vi arrivano nel tempo che il generale Durando, che n’era partito la mattina, marciava in soccorso del generale Ferrari.(148)

Il generale Culoz discese il giorno 7 a Quero, e vi si fermò per aspettare, che il conte Nugent arrivasse a Feltre, e vi si trovasse con le due brigate le quali erano rimaste a Conegliano, a portata, qualora gl’Italiani lo attaccassero, di soccorrerlo. La brigata Schwarzenberg trovavasi bensì la notte dai 6 ai 7 a Cima—di—Fadalto, fra Seravalle e Capo—di—Ponte. Ma il conte Nugent era la mattina dei 7 ancora a Conegliano, e vi avea anche tutta la brigata Supplicalz. Il conte Nugent era quindi come si vede, rimasto intieramente padrone della situazione sino al dopopranzo del 6, e in qualche modo sino alla mattina del 7, e aveva sino allora tenuti stretti nelle sue mani i suoi dardi senza lanciarli; né li lanciò se non quando fu sicuro di cogliere con essi nel segno. — Il generale Culoz lasciata il giorno 8 la sua brigata a Quero, ne parti, suonava appunto mezzo giorno, con sole 2 compagnie del reggimento arciduca Carlo (296 uomini), 50 ulani e una batteria di razzi, per esplorare le ultime tre miglia del canal di Piave dal villaggio di Fener a quello di Pederoba. Giunto nel secondo dei detti villaggi, gli ulani che lo precedevano gli annunciano che vedevasi venire verso di essi una grossa colonna nemica composta d’infanteria e di cavalleria.

Il generale Culoz aveva tanta fiducia in quel pugno di gente che aveva seco, che prese il partito di mantenersi in quel posto, il quale in fatti era la vera porta d’ingresso nel canal di Piave; spedi l’ordine alla sua brigala di raggiungerlo al più presto che fosse possibile, e si preparò alla lotta. Né tardò il suo avversario ad accalcarlo, ma fu respinto; ritornò e fu respinto una seconda volta. Il combattimento continuò, ma da lontano. lu quel mezzo cominciarono a mostrarsi i soccorsi. Il generale Ferrari si ripiegò e ritornò nel suo campo. Gli Austriaci lo seguirono prima sino a Onigo, e poi sino a Cornuda. Essi ebbero 3 morti e 17 feriti.

Il generale Ferrari, di ritorno nel campo di Montebelluna trovò la sua piccola armata per la caduta di Fellre e di Belluno tumultuante in un modo spaventevole; malediva la guerra, insultava i suoi uffiziali. La truppa, che aveva combattuto sotto ai suoi ordini a Pederoba, non si era condotta male. Il generale ne poteva essere e n’era contento. Anch'egli sapeva che il suo avversario era debolissimo e avrebbe perciò voluto assalirlo il giorno seguente; ma temeva, che i suoi Italiani, anzi che secondarlo, se ne andassero. Non si perdette però di coraggio, cercò di calmarli, infine li assicurò, che gli Austriaci che stavano loro innanzi erano pochissimi, e che sarebbe un’onta eterna per essi, se trovandosi almeno cinque contro uno, non li schiacciassero. Egli spedi ancora in quella notte al generale Durando a Bassano un uffiziale, annunciandogli, che l'indomani maggio verrebbe cogli Austriaci alle mani, e sollecitandolo a portarsi con la sua truppa in di lui ajuto. Durando promise nella sua risposta che verrebbe. Il generale Culoz dal suo canto aveva dato atto sua brigata gli ordini più precisi, pei caso che fosse attaccata, di difendere ad ogni costo la posizione, ed era partito per Feltre collo scopo di abboccarsi col suo generale in capo, che sapeva di trovarvelo.

La mattina del gl'Italiani condotti dal generale Ferrari discendevano verso le della mattina in diverse colonne con sufficiente ordine dalle alture di Montebelluna verso Cornuda; si svilupparono su due linee e una riserva, ed avvanzando con un grido generale avanti, avanti giunsero coi loro tirailleurs sino alla portata del cannone austriaco, ove si fermarono senza che si potesse farli avanzare, con l’eccezione però della cavalleria, che avanzò, ma che fu respinta con perdita. Frattanto ritornava il generale Culoz, giungeva verso mezzo giorno un battaglione di rinforzo, e verso le 3 anche il generale in capo con la brigata Schwarzenber—g.

Il generale Durando era in quella mattina, partito da Bassano per Pederoba, come aveva promesso nella sua risposta al generale Ferrari. Se non che giunto a mezza strada fra Crespano e Possagno a 6 miglia da Pederoba, ricevette da Bassano la nuova, che finalmente la venuta del conte Nugent ’in quelle parti avveravasi; che gli Svizzeri per non aver a combattere con un nemico di tanto superiore, erano ritornati da Primolano a Bassano; che l’arrivo del conte Nugent vi era imminente. Il dello generale volse su di ciò le spalle alla Piave, e si mise in marcia di nuovo verso Bassano. Il generale conte Nugent riceveva l'avviso certo e in un modo da non dubitarne, della marcia del generale Durando, al momento che entrava in Onigo, ciò che lo obbligò a prender le necessarie misure, quando giungesse, di respingerlo. Il generale Ferrari ebbe la prudenza di non aspettare che i soccorsi i quali andavano arrivando agli Austriaci e vedevansi arrivar da lontano, giungessero tutti, per battere la ritirata. Esso si ritirò senza essere inseguito, e potè effettuarla senza grande perdita, lasciando sul campo di battaglia un 30 morti e circa 150 feriti. Il conte Nugent non volle inseguirlo tanto perché non poteva supporre che frattanto il generale Durando ritornava a Bassano, e che gli supponeva, e aveva ogni ragione di supporgli, oltre ai 3400 Svizzeri anche almeno due reggimenti di truppa di linea pontificia; ma anche, e in principalità, perché per esso il punto essenziale era l'annodamento di tutte le brigate del suo corpo d'armata, delle quali, due, una vi era arrivata dall’interno da poco, erano ancora oltre la Piave, senza che vi avesse ancora un ponte. Ma ancorché la truppa del generale Ferrari potesse, perché non inseguita, riguadagnare sufficientemente in ordine il campo di Montebelluna d’onde era partita, appena vi era dessa rientrata, che se ne impadronì nuovamente la furia dell’indisciplina. Non meno di due mila Volontari se n’andarono, abbandonandosi ai più gravi eccessi, e spandendo ovunque arrivavano lo spavento ed il terrore (149).

Il generale Nugeut partendo da Conegliano aveva dato alla truppa rimasta sulla sinistra della Piave l’ordine di stare attenta all’arrivo dei suoi a Pederoba e a Onigo, e che vedutili sboccare, apparisse un fuoco vivissimo di artiglieria alla Priulla, o anche più sotto, contro la riva opposta. Per uno di quegli accidenti che si sovente sconcertano in guerra i migliori piani, la vanguardia era 24 ore e più in quei contorni, e non vi si era tiralo ancora un colpo di cannone. Già passavano, la Piave, guadandola con grande pericolo quattro ulani apportatori al generale che comandava la truppa rimasta sulla sinistra di quel fiume, dell’ordine di eseguire quanto gli era stato ingiunto, quando l’artiglieria, erano le 5 pomeridiane, cominciò a tuonare. La riva destra si trovò in meno di mezz’ora dai suoi pochi difensori abbandonata. Ma il fiume era ancora a tal segno in trattabile e indomabile, che nonostante che si avessero. tutti i materiali che vi si richiedevano, e in abbondanza, e nonostante la somma abilità della truppa tecnica, vi vollero 15 ore d'immensi sforzi per avervi un ponte transitabile anche per l'artiglieria; ciò che fornì una ulteriore e quella tanto più convincente prova, che la fu una prova pratica; che un passaggio della Piave in presenza del nemico era in quella stagione una impossibilità.

Li 10 disponevasi il generale conte Nugent ad attaccare il nemico nella posizione di Montebelluna, quando si ebbe la notizia, che la era stata affatto e nel massimo disordine sgomberata, e che il generale Ferrari aveva raccolte le sue truppe dietro Treviso, e dietro il Sile (150).


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Per compiere l’annodamento del suo corpo d'armala, il generale conte Nugent si avvicinò da Falzè il giorno 11 con le tre brigate che aveva seco, alle altre due che erano addossate alla Piave. Mentre questo ravvicinameuto effettuavasi, il generale Ferrari si avvisò di assalire le dette due brigate con tutte quelle fra le 9ue truppe che mostravansi disposte a seguirlo. L’esito però ne fu infelicissimo. Il giorno 11 contava il corpo d’armata del conte Nugent, come già ho avvertito, 18356 combattenti, senza gli artiglieri; e si trovava nel caso o di rinforzare l'armala del maresciallo conte Radetzky, per la quale era in origine destinato, o di completare la riconquista si felicemente iniziata e già tanto inoltrata delle provincie venete poste fra l’Isonzo e la Brenta.

Dai fatti qui esposti tanto credo si renda chiaro ed evidente, che nel 1848 nelle provincie venete traversate col suo corpo d’armata dal generale conte Nugent, ancorché le fossero in istato di ribellione, il partito rivoluzionario era quasi nullo, e che il detto generale ebbe nel vero popolo veneto un vero alleato. Io sarò certamente l'ultimo a disconoscere la lode che il conte Nugent in quella sua campagna di appena quattro settimane si è meritata. Esso si fece, innanzi a tutto, una chiara idea della situazione nella quale andava a mettersi. Conosciutala, se ne impadronì, e la padroneggiò sino quando ammalatosi, o per dir meglio consuntosi nelle prolungate incessanti cure e fatiche, ebbe a rimettere il comando della sua truppa al tenente—maresciallo conte Thum—Valsassina, militare anch’esso di un merito distintissimo e degno di succedergli. Io voglio anche ammettere che la sua personalità, coll’inerente carattere blando ma fermo, abbia saputo rinfrancare i buoni, e contenere i cattivi; e che quel suo corpo d’armala avesse generali, uffiziali e soldati che nulla lasciavano a desiderare. Tutto ciò era molto; ma non avrebbe bastato. I due generali che gli furono opposti, il generale Durando e il generale Ferrari erano ambidue uomini di vaglia. Se nonché non conoscevano la loro situazione, e vi s’ingannavano. La loro piccola armata oltre che aveva nei Ire mila Svizzeri un validissimo appoggio, se anche conteneva del ferraccio, non mancava di contenere anche del buon ferro, e anche dell’argento e sino dell'oro. Ma lo spirito rivoluzionario è lo spirito del disordine; o il disordine in una armata guasta tutto. La situazione dei detti generali era una corrente che li strascinava ora qua ora là come voleva. Ma di ciò quale e chi n'era la causa? La causa n’era che il vero popolo vi avversava quella guerra. E se la loro armata invece di disciplinarsi divenne da un momento all'altro intrattabile, il movente ne fu la scoperta, che la causa, per la quale, la avrebbe avuto a combattere, era una menzogna, e che, se la si diceva ingannata e tradita, non lo diceva senza ragione (151).

Non ho finito ancora, restandomi a dire alcune poche parole sui dimenarsi che fecero alcune bande di armali, dai 3 di maggio sino alla metà di giugno nel Cadore, nella valle del Cordevole, nel Canal di Brenta, e nei distretti di Ennego e di Primolano. Una parte dei Crociati che avevano abbandonato Udine, dopo passalo il Tagliamento e la Livenza, postaronsi, come già è stato avvertilo, al Nord di Ceneda a cavallo della strada cosi detta d’Allemagne, e vi si mantennero il giorno 3 contro un primo tentativo che si fece per parte degli Austriaci di sloggiarneli. E non vi ha dubbio, che se coloro avessero trovato negli abitanti un qualche appoggio, e non fossero invece stati da essi ricevuti come perturbatori della loro pace, e come gente che veniva a fare in mezzo ad essi una spezie di guerresco carnevale, avrebbero dato al conte Nugent non poco da fare. Ma quei montanari non li volevano; essi quindi incalzati dagli. Austriaci passarono in fretta a Capo—di—Ponte la Piave. Prevenuti dai Croati del barone Geramb a Belluno, andarono a postarsi, inseguiti da un distaccamento che vi fù mandato già il giorno 5 o la mattina dei 6 da Belluno, e che prese loro un cannone, fra Longarone e il Cadore. Ma già l’indomani furono raggiunti da un numeroso stuolo di altri Crociali, in parte provenienti com’essi da Udine, ma i quali invece di passare il Tagliamento lo avevano rimontato sino alla sua origine, in parte provenienti dalla Pontebba; e crebbero a più di due mila armati. Gli Austriaci si rinforzarono anch’essi. Se non che tutte le valli subalpine venete, e in ispezialità la Val—di—Piave, come l’ho già più volte detto, sono tanto facili a difendersi contro chi vi ascende, che difficili contro chi vi discende. Vi ebbero nell’ultima settimana di maggio fin quattro battaglioni di Austriaci impiegali a snidarli da quei monti. Ma le posizioni dei Crociati erano da quel lato inabbordabili. Convenne andar a prendere la volta sino all'origine del Tagliamento. Il generale Welden vi inviò un battaglione di Sluini pel canal di San—Stefano, il quale con un altro battaglione al quale si uni, diretto dal capitanio Ramming dello stato maggiore, uffiziale pratichissimo del paese, riusci a guadagnare la Piave superiormente al Cadore. I due battaglioni, venendo dall'alto, e discendendo al basso, posero a quella guerra un fine in un pajo di giorni con la perdita di 1 morto e 4 feriti. — Ma costò maggior fatica, o tempo, o soldati il terminarla nella valle del Cordevole e nel distretto di Ennego, subito che si ebbe il modo di penetrarvi pei monti e per le valli tirolesi. In quelle bande vi avea della gente di tutti i paesi veneti, e sino di tutti gli stati limitrofi. La perdita che vi fecero gli Austriaci nell’or menzionata guerra dagli 8 maggio sino ai di giugno, ammontò a 30 morti, e 150 feriti.

Il maresciallo conte Radetzky urgeva, che le truppe raccolte sulla Piave gli fossero in conformità alla loro primitiva destinazione, quanto prima condotte e rimesse. Ciò fece abbandonare ogni altro pensiero. Il giorno 18 maggio furono esse, poco prima dei tramonto del sole nonostante un pessimo tempo, dal tenente—maresciallo conte Thurn messe in marcia sulla Postumia per Castelfranco e per Verona. Vi aveano 62 miglia italiane da farsi; cioè sino alla Brenta 26, altre 10 sino a Vicenza, ulteriori 15 sino a San Bonifazio, e altre 10 sino a Verona. Trattandosi di una marcia di quattro giorni attraverso un paese per un considerevole tratto tutto frastaglialo di fiumicelli incassati o arginali, e da fossi e canali irrigatorj, e occupato dal nemico, la qual marcia poteva perciò convertirai in una guerra di qualche settimana, cosi vi si rese necessaria una requisizione, preparazione, e distribuzione di vettovaglie, e una requisizione di carri altellati; ciò che richiese del tempo, e avvertì tutte le popolazioni all'intorno, che si trattava di portarsi sull’Adige. Si sparse la voce che si attaccherebbe Treviso; ma non vi si credette. Eppure nessuno corse ad avvertire il generale Durando della partenza degli Austriaci, e della strada da essi presa, il quale perciò restà all'oscuro di tutto. Sarebbe mai occorso nulle di tale, se quella gente fesse stata avversa agli Austriaci, e non tutto all’opposto avversa e ostilissima a chi faceva loro quella guerra iniqua e abominevole? Dippiù gli Austriaci giunsero a Castelfranco, il tempo si era abbonaccialo, alle 7 della mattina, e avevano ancora miglia da percorrere di pieno giorno attraverso un paese popolatissimo per giungere al ponte sulla Brenta, già da giorni predisposto ad essere al loro avvicinarsi abbrucciato. Eppure nessuno avvertì la guardia, che vi aveva, del loro arrivo. La vanguardia austriaca, giunta a Cittadella, spinse la sua cavalleria di gran galoppo per Fontaniva verso la Brenta, che s'impadronì del ponte tuttora intanto senza che il nemico avesse il tempo di prendere le armi e di raccogliersi. Torno a dimandare, se poteva mai accadere nulla di tale, per poco che gli abitanti fossero stati favorevoli a quella guerra e non l’avessero anzi imprecata? Era superato un grande ostacolo. La Brenta era grossissima; e gli Austriaci, se vi avessero trovalo il ponte abbrucciato, si sarebbero trovati nella stessa situazione come si trovarono alla Piave, quando si viddero senza ponte per passarla. Ma restava sempre ancora l’ostacolo maggiore; restava a traversare il paese dalla Brenta ai monti Lessini e ai monti Berici, e ad aggirare, per esso, Vicenza, che sapevasi presidiata e messa a difesa; paese, che poche ore di lavoro avrebbero bastato, qualora la sua popolazione vi si fosse lasciata adoperare, a renderlo col taglio, delle strade, con la rovina dei ponti, e con la formata delle acque, impermeabile. E poche centinaja d’insorgenti sarebbero stati sufficienti ad arrestarvi gli Austriaci, e a fornire al generale Durando il tempo di accorrervi, e di respingerli definitivamente. Ma nulla di tale era fattibile stante le disposizioni di quei campagnuoli, ostilissime ad ogni sua impresa che vi avesse prolungata la guerra. Il dello generale si chiamò contento di poter sostenersi a Vicenza. Uno dei suoi corpi franchi composto di Francesi, e di altri soldati di ventura, si scagliò sugli ultimi Austriaci, quando sortivano da quel mal—passo e riguadagnavano, all’Olmo, la strada maestra. Ma ebbe a pentirsene. Il giorno 22 il conte Thurn era col suo corpo d’armata a San Bonifazio, e aveva la sua vanguardia a Caldiero, a poche miglia distante da Verona. L’unione con l’armata del maresciallo conte Radetzky era fatta, e questa ormai in istato di passar dalla difensiva nell’offensiva.

Le ulteriori operazioni per la riconquista dello provincie venete consistettero durante il mese di giugno, nella presa di Vicenza il giorno 11, e che fruttò anche la convenzione con la quale il generale Durando si obbligò di ripassare il Pò con tutte le sue truppe, e di astenersi da ogni ostilità con esse contro l’Austria nei tre prossimi mesi; poi il giorno 13 la rioccupazione di Padova e di tutta la Terra—ferma sino al Pò; poi la presa di Treviso, che dopo un bombardamento si rese il giorno 15 al generale barone Welden, e quella di Palma, che capitolò il giorno 24. Nel seguente mese di luglio ebbe luogo il giorno 25 la battaglia di Custozza, e già il giorno 6 di agosto entrava il maresciallo conte Radetzky in Milano. La riconquista del regno Lombardo—Veneto era, con la sola eccezione di Venezia e di Osoppo, terminata. Il Polesine, il Padovano, il Vicentino fornirono alla guerra del 1848, assieme, tre o quattro battaglioni di volontari. Vicenza fu difesa due volte, la prima con successo, non cosi la seconda; però in ambidue i casi non già dai suoi cittadini, ma sempre da gente, se anche italiana, né lombarda, né veneta. E lo stesso è da dirai anche della difesa di Treviso, e lo stesso di quella di Venezia. Se vi ebbe Qualche eccezione la fu cosi poco rilevante, da non meritarsi che se ne parti.

Riassumiamoci. La guerra, che ebbe a sostenere l'Austria nel 1848 per riconquistare il regno Lombardo—Veneto, ancorché iniziata da una ribellione, non ebbe niente di nazionale. Essa fu bensì una guerra dell'Austria con degli Italiani, ma tutt’altro che una guerra dell'Austria co’ suoi Lombardi, e co’ suoi Veneti. Né essa vi ebbe mai a combattere una insurrezione. I ribelli erano ovunque cosi pochi, che all'avvicinarsi degli Austriaci, guardandosi l’un l'altro, contandosi e valutandosi, se ne andavano altrove, imprecando la mancanza di patriottismo dei loro concittadini, come essi ne chiamavano il buon senso, e la fede dovuta al legittimo sovrano, che d’altronde nel regno Lombardo—Veneto non aveva mai cessato di essere il governo più mite e più paterno del mondo (152).

Tanto in riguardo alla guerra del 1848 nel regno Lombardo—Veneto. Mi resta ancora a ricordare un episodio accaduto fuori del detto regno, che volontieri passerei sotto silenzio, se esso non gettasse gran lume sulla natura, e la tendenza, delle insurrezioni italiane, che sono rare volte altro che insurrezioni di gente facinorosa. Il caso è questo. Nel tempo che il maresciallo conte Radetzky rientrava in Milano e Carlo—Alberto ripassava il Ticino, una brigata austriaca riconduceva il Duca di Modena Francesco V. nei suoi Stati. La marcia di quella brigata che aveva alla testa il detto Duca, fu un continuo commovente trionfo (153).

In quegli stessi giorni passò il Pò con una brigata austriaca, ed entrò nelle Legazioni anche il generale Welden, e marciò su Bologna, che era divenuta contro ogni di lei volere un rifugio di banditi, e il centro di tutte le loro trame contro le truppe austriache, che bloccavano Venezia. La città era da coloro 0 dalla propria plebaglia orrendamente terrorizzata, ed era ben contenta dell’avvicinarsi e dell’arrivo degli Austriaci. Si è menato gran rumore per quella invasione degli Stati pontificj. Ma Dio buono! se fu permesso e lecito a delle truppe di quegli Stati di passare il Pò, di far sua la causa dei ribelli del regno Lombardo—Veneto, e d'incominciarvi con la Casa d’Austria la guerra la più ingiusta del mondo: perché aveva ad essere un delitto, se gli Austriaci passavano il Pò per far loro la causa del vero popolo, cioè della gente onesta nelle Legazioni, la quale si vedeva oppressa e terrorizzata dai rivoluzionarj tanto proprj che forastieri, e abbandonata dal suo governo, al quale nessuno obbediva? Il vero popolo bolognese desiderava, e ardentemente, la venuta degli Austriaci. In fatti appena la si seppe, che una gran parte di quella pessima gente sorti dalla città, e si sparse nei villaggi vicini.

Il generale Welden arrivava innanzi Bologna il giorno 6 agosto; vi occupa senza opposizione una o due porte, e incomincia le trattative. Egli espone ad una deputazione municipale, che Bologna alimentava contro il suo corpo d’armata una guerra sorda, ma non per questo meno pregiudicevole alla causa austriaca, e favorevole ai ribelli annichiatisi in Venezia, che da lui non si poteva in verun modo tollerare. — Gli si dà ragione, si promette di rimediarvi; e le due parti si separano contente l’una dell’altra, e si continua a trattare. Ma giunge frattanto un messaggio del maresciallo conte Radetzky che disapprova quella passata del Pò, ed ordina al barone Welden di ripassarlo. Questo come era ben naturale si dispone immediatamente ad obbedire, prende alcune misure per la sussistenza della sua truppa, ne rimette il giorno 7 comando al tenente—maresciallo conte Perglas, e gl’ingiunge di rimettersi con esse, il giorno 8, in marcia; e parte. Il conte Perglas prendeva nel detto giorno le opportune disposizioni per effettuare ciò che gli era stato ingiunto, quando sente suonare a stormo, di tratto in tratto anche qualche colpo di fucile e gli si viene a dire: che alcuni dei suoi uffiziali, i quali eransi addentrati nella città per vederla, e alcuni dei suoi soldati, ai quali era stato permesso di entrarvi per farvi delle provigioni, vi erano stati dai popolaccio insultati coi modi più oltraggiosi, e alcuni anche gravemente feriti. Né si tardò a tirare dalle vicine case sulle guardie delle porte Galliera e San—Felice, e dalle mura sulle truppe che in vicinanza vi stavano a campo.

Il generale conte Perglas con ragione geloso dell’onore dell'armi austriache credette, di dover respingere questi insulti, e chiedere per essi, e pell’assassinio dei suoi uffiziali e dei suoi soldati la dovuta riparazione; e fece entrare in Bologna alcune centinaja di soldati parte a piedi parte a cavallo, con un uffiziale incaricalo a dimandar conto dell’avvenuto. Questo non aveva ancora fatto duecento passi, che si vide venire incontro dei carabinieri pontificj con la bandiera bianca, i quali gli dichiararono, che all'istante si porterebbe presso del generale una deputazione municipale a discolpare la città degli attentati dei quali esso lagnavasi, e a promettere, in nome di questa, ogni soddisfazione che pel momento stasse in di lei potere; sulla quale dichiarazione l’uffiziale non esitò un momento a indietreggiare e a farne al suo generale la relazione. Ma la città era di nuovo in balia dei rivoluzionarj e dei facinorosi, che affluivano dai contorni ove si erano all’arrivo del barone Welden intannati. Il generale aspettava, ma invano l'annunciatagli deputazione; quando tutt’ad un tratto si senti ad ogni campanile di nuovo suonare a stormo, o si assalirono i presidj delle porte; procedere che determinò il generale Perglas a far appuntar verso la città varj obizzi che aveva, e a lanciarvi un cento granate. Alle della sera dello stesso giorno 8 agosto, il generale si mosse, come ne aveva l’ordine, da Bologna verso il Pò.

Questa è la genuina storia di un avvenimento, che non fu altro che una serie di attentati da sgherani, e che non saprebbe se non che far onta agli autori di essi. Non per tanto vorrebbero gli scrittori della storia degli Italiani del 1848 farne un argomento per una nuova Iliade o Gerusalemme liberala. Sentiamone ora le conseguenze, come ce le racconta uno dei capi—agitatori italiani, e perciò scrittore certamente non sospetto di quell'avvenimento. Egli le annebbia il più che gli è possibile, e le colorisce a suo modo, ma il vero vi si scopre e si fa largo da sé. Sentiamolo dunque:

«Dopo i casi dell’8 agosto la nobile Bologna era venuta in termine di grande afflizione. I cittadini ed i popolani onorali, i quali avevano prese le armi nel giorno della battaglia, cessalo il pericolo di nuovi assalti, le avevano posate; ma in armi era rimasta potente e prepotente la moltitudine, per mezzo alla quale erano paltonieri usi a contrabbandi, a rapine, ad ogni profligata opera proni. A pre testo di salvare la patria, cotestoro avevano incettate le armi per le case de’ cittadini, le avevano nel tumulto tolte alla Guardia Civica, avevano tratte fuori da lor caverne quelle con cui solevano misfare. A pretesto di difendere la patria da nuovi assalti incettavano legname, pigliavano le paghe come sol dati e come lavoratori, le pigliavano doppie e triple, perché a quegli acerbi e spiritati visi pericoloso era riguardare e rispondere del no. Entrarono a Bologna legioni di Guardie Civiche volontarj, entrarono turbe di gente senza nome, lirate quelle da generosi sensi, queste da cupidità Le legioni delle Guardie Civiche romagnuole, cessato il pericolo, tornarono alle case loro, ma restarono i corpi franchi, che si andavano ingrossando delle reliquie di quelli che dopo i disastri dell’esercito sardo, lasciavano l'Alta Italia per condursi a Venezia, o scendere in Toscana e nello Stato Romano a procaccio di faccende. Alla indisciplina della sciolta plebe bolognese s’aggiunse cosi l’indisciplina degli armati venuti di fuori, e Bologna parve deserta de' suoi cittadini e popolata da tribù nomade vario vestite, e vario—armate, e da una tribù semi—ignuda e scalza, che del popolo bolognese profanava l’onorato nome e la dignità... La gloria dell’8 agosto forniva mirabile occasione a celebrare la potenza del popolo; lo stato di Bologna dava mate ria a sperimento. Precipitaronsi a Bologna capi, oratori, soldati di ventura, e riscaldarono il sangue, la bile, la cupidigia, la vendetta delle turbe armate: fomentarono tutti i rumori, tutte le indiscipline, tutte le anarchie...

«La ciurmaglia maestra di rapine che era stata scatenata, e che sentivasi rialzala e nobilitala dal nome del popolo, in mezzo al quale versavasi, credè giunto il giorno del regno suo, quel giorno di libertà e d’impero che ne’ scellerati sogni della prigione aveva lungamente sospiralo. Entrò per violenza nelle carceri, e libertà i compagni, predò la casa di un ricco signore (che villeggiava ne’ d’intorni; a’ villici, a’ cittadini impose taglie; rapinò sulle pubbliche vie, rapinò in città; pose le mani nel sangue di un giudice, cercò a morte giudici, uffiziali di polizia, processanti, birri e carcerieri. L'anarchia minacciava distendersi nelle provincie...

«In Settembre i mali erano cresciuti e cresce vano: erano due giorni che gli scherani uccideva no nelle vie e nelle piazze della città ogni lor ne mico, afficiali di governo, tristi e diffamati in verità alcuni, altri onesti. Li uccidevano coi colpi d’archibuso, e se caduti davano segno di vita, ricarica vano le loro anni al cospetto del popolo e de’ sol dati, e le sparavano di nuovo, o li finivano colle coltella; davano loro la caccia come a fiere, entravano nelle case, e li traevano fuori a macello. Un Bianchi ispettor di polizia giaceva in letto ridotto all'agonia per tisichezza polmonare; entrarono, gli furono sopra e lo scannarono, presente la moglie ed i figliuoli; i cadaveri restarono nelle pubbliche vie, spettacolo orribile. Io il vidi, e vidi dur morte, e la scelerata caccia. Il cardinale Amat, che aveva annunciato il suo arrivo, giunse il di appresso, e gli fecero scorta i popolani armati, nel tempo medesimo in cui gli scherani continuavano ad ammazzare. Non vi eran più giudici, non più uffiziali di polizia; chi non era morto, era fuggito o nascosto; la Guardia Civica inerme, rimpiattati i cittadini; i pochi soldati di linea o confusi co’ sol levati, o nulli per animo; i carabinieri ed i dragoni incerti; le legioni di volontarj, i corpi franchi ausilio ai tumulti non all'autorità del Governo. Mandammo a Roma, chiedendo facoltà di mettere Bologna in istato di assedio; ma venne risposto che il Ministero, udilo il parere del Consiglio di Stato, credeva che senza ricorrere a questo mezzo estremo si potesse restaurare l’ordine. Con quelle industrie che si potevano migliori studiavasi via di tirare al Governo i carabinieri, i dragoni, e gli onesti capi popolani; ma si faceva poco profitto. Era voce che il Bellucci stesso avesse data balia di uccidere, come dicevano, le spie; un Masina veniva a noi innanzi proponendo per via di transazione, mandar in bando coloro che erano cercati a morte; gli armali erano nello stesso palazzo di governo, eravamo noi stessi a discrezione loro. Il caso fece d’un tratto ciò che noi con lentezza ed a stento avremmo potuto. Un assassino attentò alla vita d’un carabiniere: i compagni s’accesero nel l’ira, lo inseguirono, lo raggiunsero in chiesa, si profersero ad ogni risoluta opera di repressione, e fu ordinalo che uscissero, arrestassero, disarmassero i masnadieri; i dragoni assecondarono i carabinieri; il giovane Pepoli comandante la Guardia—Civica riunì qualche compagnie; il Bianchetti e gli onorali cittadini del Comitato di Salute—Pubblica si strinsero a noi intorno; chiamammo in fretta gli Svizzeri da Forlì. La popolazione cominciò a rialzare l'animo, a plaudire ai carabinieri, che arrestavano gli assassini. Alcuni corpi franchi, ed i sollevali presero a gridare contro i governanti, vantarsi difensori dei popolo, minacciare assalti al palazzo. I cannoni puntati, gli Svizzeri schierati, i carabinieri risoluti, agghiacciarono le voglie di sollevazione». (154)


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Tale era sino in Bologna città notoriamente delle più riguardevoli d’Italia, nella quale l’agitazione rivoluzionaria non aveva mai cessato di sviluppare una straordinaria. operosità, tale dico, vi era il solo popolo del quale la rivoluzione disponeva. Qualunque altro le era rimasto inaccessibile. E che vi pare Lettor mio del quadro che qui ho creduto dover mettere sotto i vostri occhi? Lo potete voi riguardare senza inorridire? Chi non vi vede i futuri destini d’Italia, se mai, ciò che Dio tenga lontano, venisse fatto alla rivoluzione d’impadronirsene?

VII. L’armata di Carlo Alberto era giunta a Milano nel massimo disordine, malediva quella guerra, ed i promotori e autori di essa; e trovavasi in un tale stato di prostrazione, che i suoi generali e uffiziali disperavano di raggiungere con essa il Ticino. E non vi ha dubbio, che, senza l’armistizio di Milano dei 5 agosto, la si sarebbe sciolta e sbandata. Appena aveva essa Milano dietro di sé, che vi si produsse una fortissima diserzione, la quale dopo passato il Ticino, crebbe a tal segno, che non vi si contavano più neppur 20 mila soldati.

Quanto a Milano, esso stavasi sull’orlo di un abisso simile a quello nel quale pochi giorni più tardi, come si è veduto poco fa, erasi precipitata la città di Bologna. Un numero immenso di facinorosi non solo dei suoi contorni, ma anche dei monti comaschi, della Valtellina, e dei vicini cantoni svizzeri vi si era, con la speranza di farsene padroni, affollata. Fu questo affollamento, e furono le angoscie dei Milanesi, al vederlo prodursi, che i rivoluzionarj non ricorressero al solito espediente di compromettere la città con qualche atto atroce, e di strascinarla suo malgrado in una insurrezione, che fecero abbandonare Milano, a molte e molte migliaja di famiglie il giorno 5, e la notte dal 5 al 6. Gli Scrittori italianissimi attribuiscono questa partenza e spezie di emigrazione al timore, che il soldato austriaco pensasse, una volta entrato in Milano, di vendicare la morte di tanti suoi compagni, in parte proditoriamente uccisi, nelle famoso cinque giornale. Ma ciò è falsissimo (155)

Ciò che mosse il popolo milanese ad abbandonare in quell'incontro, la sua città, era il timore che gl’ispiravano quelle orde di gente armata che col loro aspetto, tratto, e vestito si palesavano qual gente masnadiera e assassina; e perché si aspettava, che i rivoluzionari si servissero di esse per rompere l’armistizio, e riaccendere la guerra.

Milanesi erano tanto lontani dal temere gli Austriaci, che quantunque l’armistizio avesse fissalo qual termine per la loro entrata nella città il mezzodì del giorno 6, il loro podestà Paolo Bassi si portà di gran mattino dal maresciallo pregandolo e supplicandolo, di entrare quanto più presto fosse possibile in Milano, giacché era minacciato di un saccheggio. Rimostranza e richiesta che indusse quel generoso a dar l’ordine di presidiare immediatamente le porte e di affrettarsi di entrarvi, ciò che fece, che l’armata si trovò tutta già alle 10 antimeridiane sul terrapieno che cinge la città, suite di lei piazze, e sulla spianala del castello.

Il maresciallo fu ricevuto da quei Milanesi che avevano osato rimaner la notte dei 5 al 6 in Milano con pochi applausi, ma tanto più cordialmente e riverentemente salutalo dai buoni che vi aveano fra di essi, e che sembravano volergli dire: perdonaci. L’armistizio statogli chiesto da Carlo Alberto non poteva per lui aver altro scopo, che di preservar Milano dal divenir un inferno.

Carlo Alberto aveva ripassalo il Ticino, e non aveva più armata. Il maresciallo conte Radetzky disponevasi a riprendere con la sua animatissima e ordinatissima armata le ostilità, quando, era il giorno agosto, gli si presentò il generale capo dello stato—maggiore piemontese conte Salasco, e gli propose, in nome del suo re, un armistizio di sei settimane, passate le quali starebbe nell'arbitrio delle parti contraenti di denunciarlo, e, dopo otto giorni, di ricominciare la guerra. L’armistizio doveva servire d’iniziamento ad un trattato di pace. Il vero popolo e fin il soldato piemontese era furibondo contro il partito rivoluzionario che si era del Piemonte impadronirlo. Se il maresciallo passava il Ticino, l’Italia guarivasi, salvavasi; quel popolo, che ora religioso, costumato, lenle, colto, con pochi oziosi, si sarebbe strappalo dagli Erostrati che lo terrorizzavano; il re sarebbe risorto dal suo letargo. Ma l’armistizio fu accordalo; purtroppo servi esso non ad iniziare la pace, ma a fornir al regno sardo—piemontese il tempo di divenire, e farsi sistematicamente l’Etat malfaisant che esso è, e che l'Europa con sua eterna onta tollera e fin protegge. Messosi quel regno alla testa della rivoluzione italiana non vi ebbe, nei selle mesi che durò l’armistizio, mezzo turpe e vituperevole, al quale non ricorresse, per mettere l’Italia sotto—sopra onde con essa tentare una seconda volta la conquista del regno Lombardo—Veneto. Ma il vero popolo d’Italia, che seppe resistere a tutte le anteriori seduzioni, non eccettuate quelle che perfidamente si avevano potuto incamminare dalla seconda metà del 1846 sino al 1848 in nome di Pio. IX, resistette anche a quelle, che la rivoluzione in generale e il suo alleato il ministero sardo—piemontese in particolare ebbe durante il detto armistizio tentato. Verità, che i seguenti fatti, ancorché, i limiti, nei quali devo tenermi in questo mio lavoro, me li facciano non tanto esporre e raccontare, quanto semplicemente accennare, metteranno, cosi spero, fuori di dubbio.

Il giorno 12 marzo 184alle 2 pomeridiane denunciavasi, per parte del ministero piemontese, l’armistizio. Il giorno 20, poco dopo il mezzodì, passò Carlo Alberto a piedi il primo il Ticino sul ponte di Magenta. Aveva il capo scoperto, non altrimenti, dice il generale Schonhals, che Goffredo, avanzando verso le mura di Gerusalemme. Lo seguiva tutta la divisione comandala dal suo secondogenito, dal duca di Genova, e con essa avanzò sino al villaggio di Magenta, ove gli abitanti gli fecero una cosi fredda accoglienza, che n’ebbe il cuore agghiacciato. La loro risposta alle sue domande, in riguardo alle truppe austriache che si fossero trovate in quei contorni, e a Milano, era sempre la stessa: Sire non sappiam nulla; dimodoché accade ad esso, in riguardo alle mosse dell'armata del maresciallo, ciò che era accaduto, in riguardo alla marcia delle truppe austriache dalla Piave alla Brenta, al generale Durando, che non vi fu, in tutto Milano, e in tutto il paese percorso in quell’incontro dagli Austriaci, una sola persona, che si fosse data la pena di mettere l’armata sardo—piemontese al fatto di ciò che a quell'ora accadeva, per rapporto alla guerra, oltre il Ticino, ed oltre il Pò. Il maresciallo lasciava Milano il giorno 18, e ne sortiva non per la porta vercellese sulla strada di Torino ma per la porta romana sulla strada che conduce a Lodi, e pernottava a Sant’Angelo a poca distanza dell’Adda; ma si volse il giorno seguente verso Pavia, attorno alla quale aveva adunato la mattina del giorno 20 non meno di 60 battaglioni di fanti, 40 squadroni di soldati a cavallo, e 186 pezzi di artiglieria. I partigiani di Carlo-Alberto ebbero per lo meno due intiere giornate per fargli sapere, che il maresciallo, nonché passare l’Adda ed abbandonargli la Lombardia, disponevasi evidentemente a passare il Ticino, e marciava con tutto il suo esercito su Pavia. Questa circostanza dice, relativamente alle disposizioni favorevoli o avverse all'impresa del detto re della popolazione lombarda, più che non saprebbe dirsi con qualunque lungo discorso; essa doveva bastare a convincerlo, che tutte le abominevoli mene del suo ministero e dei suoi agenti ed emissarj, per indurla ad una cooperazione, erano intieramente abbortite.

La sera dei giorno 20 stava già l’armata austriaca a campo oltre il Ticino; il giorno 21 ebbe luogo lo scontro di Mortara; il giorno 25 si diede la battaglia di Novara, nella quale l'armata sardo—piemontese si trovò verso sera presa di fianco e alle spalle da un corpo d’armala, che, con l'eccezione di qualche battaglione, non aveva ancora combattuto; mentre la si sarebbe assalita di fronte dalla riserva, che non aveva ancora scaricato un fucile, e dal rimanente dell’armata. Aggiungasi che l'infanteria piemontese rientrava in Novara disordinatissima, ricusando ogni obbedienza, e abbandonandosi ad ogni eccesso. Ma l’ho già detto, il maresciallo, pensando, che vi avrebbe avuto non una battaglia ma un macello, fermò la sua armata. La situazione si mostrò a Carlo—Alberto a tal segno disperata, che abdicò. Eransi presentati, appena cessato il fuoco, replicatamente dei parlamentari, che non furono ricevuti; ma poi si diede loro ascolto, le ostilità si sospesero; il maresciallo segnò col nuovo re un armistizio, che permise ad un nemico atterrato cui i trattali sono un nulla, di raccogliere le armi da sé lanciate, per servirsene, alla prima occasione impunemente, contro il troppo generoso suo avversario.

Uno dei corpi d'armala del maresciallo, il quarto, rimase oltre il Ticino nel Novarese; un altro, il secondo, ebbe ordine di presidiare i due Ducati; il primo rientrò con la riserva a Milano; il terzo si mise in marcia per Brescia, della quale, nel tempo che guerreggiavasi sulla destra del Ticino, sugli eccitamenti del governo sardo—piemontese, col solito espediente di commettervi dell'atrocità, la rivoluzione si era impadronita, e l’aveva precipitala in una ribellione forsennata. Il caso di Brescia ridotto a' suoi veri e più semplici termini è il seguente.

Le valli e i monti bresciani abbondarono sempre di gente facinorosa e masnadiera. In allora, parlo del mese di marzo 1849, vi abbondavano non poco anche i coscritti—refrattarj ed i disertori. Un certo Boissava prete, subito che seppe non avervi in Brescia altra truppa che il presidio del castello, si fece capo di quelle bande, e si avvicinò con esse alla detta città, ove il ministero sardo—piemontese aveva un comitato segreto rivoluzionario. Questo, vedute quelle turbe dimenarsi nei contorni, fermare e spogliare corrieri e convogli, colse l’occasione di una multa che si voleva riscuotere dalla città, per spingere la plebaglia bresciana a gettarsi addosso a dei soldati che scortavano dei cari con dei viveri pel castello, a disarmarli, ed imprigionarli; ad arrestare il comandante di piazza, aggiungendovi oltraggi di ogni sorta, e ad assalire i due ospitali militari, dei quali uno fu da essa invaso ed ebbe sino dei soldati massacrati nel loro letto, mentre l’altro, ove erano i convalescenti, la respinse.

«Gettato a questo modo il dado» — dice un scrittore bresciano ostilissimo all’Austria, ma di una grande ingenuità, il quale senza volerlo dissipa molte delle nubi, nelle quali si è involto quel tragico e in sommo grade deplorabile avvenimento «gettato a questo modo il dado, i membri del Comitato secreto fecero di pubblica ragione gli ordini dell’insurrezione avuti dal generale Chrzanowskv, le istruzioni ricevute dal ministero sardo, il prossimo arrivo di due mila fucili, e la nomina del Camozzi a generale dell’insurrezione (156)».

Il comandante del castello ricordò ai ribelli i pericoli e i danni nei quali precipitavano la loro città; il municipio fece, con un coraggio ammirabile e una rara perseveranza, tutto il possibile, per preservare Brescia dall’eccidio che le sovrastava; ma tutto invano. Il cittadino onesto, e in generale quello che aveva qualche cosa da perdere, si affrettò di abbandonare la città con la sua famiglia, e con quel tanto che ne potè tirare, e lasciò, che i rivoluzionarj, ancorché pochissimi, se ne impadronissero, e, con la plebaglia che stipendiarono, la terrorizzassero. Il comandante del castello dopo aver ripetutamente richiamato i ribelli alla sommissione e all'obbedienza, volendo loro dare un saggio del trattamento che alla loro città sovrastava nel caso, che essi pertinaci persistessero nel loro iniquo operare, lanciò il giorno 23, durante due ore, delle bombe, che per altro non fecero verun danno, perché lanciate negli spazi ove non ne potevano fare; ma quella demostrazione non cangiò nulla nel modo di pensare di coloro; e la mattina seguente si aprirono le porte alle masnade del Boissava, e di. altri, che il municipio con varj pretesti avea tenute sino allora lontane dalla città, temendone un saccheggio.

Il giorno 26 soltanto arrivarono da Veruna e da Mantova i primi Austriaci destinati ad agire contro Brescia e a comprimerne la ribellione. Erano comandati dal general—maggiore conte Nugent, nipote del generale d’artiglieria dell’istesso nome, componevansi di 6 compagnie di Rumeni—transilvani, e di 4 compagnie del reggimento Ceccopieri, Italiani, con 30 in 40 cavalleggieri del reggimento Lichtenstein, e con 2 cannoni; distaccamento che tutto assieme non contava che 930 combattenti. Il conte Nugent si postò con esso nel villaggio di Sant’Eufemia a due miglia di Brescia sulla strada di Verona, ove i ribelli ebbero l’ardire di attaccarlo, ma dal quale furono respinti con grave perdita. Il giorno 30 aveva il detto generale sotto ai suoi ordini 4 battaglioni di fanti, 1 squadrone di cavalleria, che assieme non sommavano se non 2300 uomini, e 4 cannoni. Un battaglione era ancora in marcia, e non giunse se non tardi dopo il mezzodì il 1 di aprile. Li 30 marzo arrivò in Santa Eufemia anche il tenente—maresciallo, comandante del 2.° corpo di riserva e del blocco di Venezia, barone Hainau, il quale dettò e prese all’istante le disposizioni per attaccare i ribellanti in Brescia all'indomani, che era il 21 aprile []marzo.

Effettivamente , appena erasi fatto giorno, che la città fu accerchiata con una catena di posti, che ne impedissero ogni comunicazione col paese all'intorno. Il generale Hainau si portò, attraversando i colli che sorgono al Nord—est di Brescia, con un battaglione nel castello, per gettarsi da esso sul centro della città; mentre il conte Nugent assalirebbe la porta di Verona (Torrelunga.) L’attacco su questa porta, contro della quale furono puntati i 4 cannoni che si avevano, fu secondato con una bravura eroica da una partila di 100 reconvalescenti, i quali eransi dall’uno degli ospitali riparati nel castello, e che, condotta da un tenente, rovesciò i ribellanti che tentarono fermarla, e assali i difensori della detta porta alle spalle, mentre il conte Nugent li assaliva di fronte. La. porta fu presa e in meno di due ore anche tutto l'angolo Sud est della città, assieme con la porta di San-Alessandro, ossia di Cremona. Azione vigorosissima, nella quale fu ferito il suddetto generale, che di quella ferita da li a pochi giorni morì, e anche un colonnello con un numero considerevole di uffiziali e di soldati, parte feriti, parte morti. — L’attacco dal castello ebbe meno felici risultati; il battaglione che ne discese, condotto dal tenente—maresciallo Hainau in persona, avanzò sino sulla gran piazza e nelle. strade laterali, ma dovette indietreggiare sino alle ultime case di esse, e contenterai di farvisi forte, e avervi pell'iudomani una spezie di «téte—de—pont». La resistenza aumentava a misura che le turbe bresciane condensavansi nel centre, nei quartier! occidentali e nell’angolo Nord—est della città. Anche il detto battaglione perdette comparativamente, molta gente, e fra gli altri il suo tenente—colonnello, che, ferito, code nelle mani dei ribelli e fu da essi, in un modo più che barbaro, scannato.

Il 1.° di Aprile, ai primi albori del giorno ripigliaronsi dagli Austriaci le ostilità, però con più cautele, maggior circospezione, e più metodicamente, avanzando passo a passo, di casa in casa, e perciò con meno perdite. Verso mezzo—giorno Hainau era già padrone di più di due terzi di Brescia. Alle 4 pomeridiane arrivò il battaglione di Croati che si aspettava, al quale toccò lo sgombro dell’angolo Nord—ovest fra porta San—Giovanni ossia di Milano, e porta Pile ossia Settentrionale. Ma la resistenza aveva verso sera diminuito di assai, e si era fatta fiacca al massimo segno. Alle cinque, l'opera di quella truppa era terminata. Essa non ebbe che qualche ferito. Le bande che vi aveano, si precipitarono dalle mura, e riuscirono per la maggior parte a salvarsi. Il giorno seguente, ossia li 2 aprile giungeva il secondo [terzo] corpo di armata, che nulla trovò più da fare.

Tutto ciò premesso, egli è ora di mio uffizio di rispondere alle solite questioni, che formano il soggetto di questo capitolo. Che guerra fu nei 184la guerra di Brescia? I ribelli di Brescia che gente erano? In che proporzione stanno essi colla popolazione di tutta la provincia, in quale con quella della città? Fu dessa una insurrezione delle masse bresciane? Che fu dessa? Si tratta di cifre; le risposte si faranno da sé, e potranno essere brevissime, e definite. Gli Austriaci che assalirono Brescia, questo è un fatto, erano, compreso il presidio del castello e i riconvalescenti, che vi si erano ricoverati, tutto al più 3200 uomini. Le turbe che loro opposero i rivoluzionarj contavano appena 2500 armati, fra’ quali neppure 500 cittadini bresciani. Brescia abbandonata da’ suoi abitanti, che previdero la sorte alla quale essa soggiacque, di venuta una solitudine, non avrebbe resistito un’ora, se i rivoluzionarj non fossero riusciti a raccogliere le rimanenze dei corpi franchi che avevano guerreggiato nel 1848 ai confini tirolesi, e le bande di disertori, di coscritti—refrattarj, e simili, che assieme giravano nei monti bresciani, bergamaschi, e grigioni, e a introdurveli. Che se costoro fossero stati in maggior numero, non so se il generale barone Hainau non si fosse trovato nella necessità di differire l’attacco sino all’arrivo del secondo corpo d’armala. Essi combatterono in ispezialità il primo giorno da disperati, ebbero più giorni di tempo per prepararsi ad una guerra di strade, di barricate, e di case, e predisporvi la città; come anche per farsi famigliari col fuoco del castello. Se fossero stati in più, vi si sarebbero, sino all'arrivo del secondo corpo d’armata, mantenuti. Or siccome la provincia di Brescia ha una 'popolazione di 340, e la città di 35 mila abitanti, cosi avrebbe fornito la prima supponendo che i suddetti 2500 armali fossero tutti bresciani., meno dell’1, e la città, qualora tutti li di lei 500 combattenti fossero stati suoi cittadini l’1 e ½ per cento; mentre le insurrezioni tirolesi del 180ammontavano dal 30, al 35 e sino al 40, ed in Ispagna nella difesa di Saragozza, e di Girona, sino al 20 e 25 per cento. Il che tutto ben considerato, sono certo di non dire se non il vero dicendo: che anche nella ribellione di Brescia non vi ebbe niente affatto di spontaneo, niente di nazionale, e che anche quella sciagurata città fu nella ribellione, con la solita tattica rivoluzionaria di compromettere con degli atti atroci le popolazioni, strascinata da pochi ribaldi.

VIII. La rotta toccata all’armata sardo—piemontese a Novara il giorno 25 luglio 184fuit segnale per Genova, di ribellarsi contro il Piemonte, e di provarsi staccarsene. Il ministero sardo—piemontese in un caso simile, e qualora, per esempio, le ribellioni da esso ordite durante l’armistizio di Milano in Lombardia avessero avuto il loro pieno effetto, messo in non calle l’armistizio di Novara, si sarebbe affrettato di farle soccorrere dal generale La Marmora, che trovavasi nei Ducati, e di raccozzare lo sperperato suo esercito rimpello agli Austriaci postati nel Novarese, certo che il maresciallo conte Radetzky avrebbe rinunciato ad ogni idea di avanzare contro Torino. Il maresciallo Radetzky invece si ricordò che la rivoluzione padroneggiava e tiranneggiava l’Italia centrale e la disordinava quanto più poteva, e mise la massima sollecitudine a restaurarvi i legittimi governi, impiegandovi tutto il suo secondo corpo d’armala. E dicasi pure che il vero popolo toscano erasi riscosso da sé, eccettuato in Livorno, e aveva, se anche non pienamente, in gran parte al male rimediato (157).

Livorno gemeva sotto l’impero della sua plebe, alla quale si era aggiunto un gran numero di gente raminga avventuriera francese, inglese, svizzera e sino polacca. Il generale barone d’Aspre, comandante del corpo d’armata, prese Livorno di viva forza, ma vi entrò non di meno come un liberatore, che lo strappò dalle mani di un branco di scherani. Egli si rivolse poi verso Firenze. La sua marcia fu, come quella del principe Lichtenstein l'anno precedente nel ducato di Modena, un vero, commovente trionfo. Non vi aveano schiamazzi, ma vi aveano molte lagrime.


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Restavano ancora, oltre Venezia, le Legazioni con Bologna, e le Marche con Ancona, nelle quali la rivoluzione aveva avuto non solo giorni e mesi, ma più di un anno, per consolidarsi, e in ispecialità dopo la fuga del Sommo—Pontefice da Roma, il modo di procedervi nei suoi divisamenti senza alcun ritegno di predisporvi una guerra di bande, e una leva in massa. Mo tutti quei preparativi non servirono ad altro che a render sempre più chiaro, che le popolazioni pontificie in quella provincie erano inaccessibili alle seduzioni rivoluzionarie. Gli Austriaci vi furono ricevuti ovunque, non altrimenti che nel 1831, cioè come liberatori. A comandante di cotesta guerra fu scelto il generale conte Wimpfen, che vi si trovò alla testa di soli 9000 uomini a piedi, 470 a cavallo, e 630 artiglieri. I rivoluzionarj avevano a Bologna 6000 armati, fra’ quali 1860 parte a piedi, parte a cavallo attinenti a dei reggimenti di linea pontificj, e 4140 attinenti alla guardia civica. La città disponevasi già a inviare incontro al conte Wimpfen una deputazione con la proposta di una convenzione, quando vi giunse la notizia di una grande vittoria, che i repubblicani di Roma volevano aver riportata sui Francesi sbarcali a Civitavecchia per rimettere il Papa sul suo trono. Questa notizia cangiò in Bologna affatto la situazione delle cose. Essa rinfrancò i rivoluzionarj, i quali fattisi col mezzo della plebaglia padroni della città, fecero professione di difenderla, accada ciò che vuole, e di conservarla alla nuova repubblica romana, alla quale con essa avrebbero conservate anche le Legazioni e le Marche.

E per alcuni giorni tennero essi anche parole, poiché respinsero una brigata austriaca, che fuori di tempo e isolatamente attaccò porta Galliera, accerchiarono il campo del conte Wimpfen con delle bande armate che ne resero la comunicazione con Modena e con Ferrara malsicura, e obbligarono questo generale a sospendere le sue operazioni sino all’arrivo del generale di cavalleria Gorzkowskv, che lo raggiunse il giorno 14 maggio con un considerevole rinforzo in truppe e in artiglierie. Bologna fu già l'indomani assalita con una grandine di granale e di bombe, che come al solito ridusse i rivoluzionarj ad andarsene. La plebaglia rimasta senza capi potè facilmente ammansirsi; le autorità municipali ripresero il loro uffizio, trattarono, ed ottennero condizioni, che nessun’altra armata, alla quale si fossero assaliti degli uffiziali e dei soldati a tradimento, avrebbe accordate. Gli austriaci occuparono il giorno 16 tre delle più frequentale porte della città, e vi entrarono il giorno 17. Il generale Gorzkowsky ne prese il comando, e ristabilì il governo pontificio. Il generale conte Wimpfen n’era partito con in 10 mila uomini già il giorno 16 per Ancona, nei sobborghi della quale giunse il giorno 24.

Non è da negarsi, che l’impresa alla quale accingevasi questo generale appariva molto diversa dall’intervento del 1831, al quale bastarono pochi battaglioni d’infanteria, con alcuni squadroni di ussari. In Ancona si erano eseguili grandiosi lavori di fortificazione, i quali facevano prevedere un lungo assedio. A Cagli sulla Flaminia, che da Rimini per Fossombrone e pel Furlo conduce a Foligno e a Spoleto, siedeva un Comitato rivoluzionario di guerra, che vi spiegava una grande attività nello spingere col terrorismo le popolazioni, e tanto quelle del contado, che quelle delle città, contro gli Austriaci. Le prime avevano all'avvicinarsi del Tedesco ad alzarsi in massa, ad armarsi alla meglio che loro fosse possibile, a sortire dai loro villaggi, ad accerchiare, tenendosi ad una distanza da non poter ricever danno, le colonne austriache, e ad inquietarle incessantemente, in ispezialità durante la notte; le seconde di chiudere le loro porte e di difendere le loro mura, e nel caso che queste fossero superate, le loro case. numerose bande di volontarj indigeni e forastieri dovevano farsi l’anima di questa guerra e tenerla viva. Urbino, città che la sua località rende fortissimo, fu scelto a centra di questa guerra pel paese fra la Marecchia e l’Esino.

Il tutto però non fu che un sogno, il quale, quando si venne all'alto pratico, svani. Il vero popolo, nelle città come nel contado, non solo si rifiutò ad ogni cooperazione con le dette bande, ma fece tutto ciò che stava in suo potere per tenersele lontane, e per indurle a partire, se si trovavano nel paese. Il buon senso e lo spirito ratio, proprio all'Italiano non corrotto e non pervertito, seppero resistere, come già dissi, ad ogni sorta di tentazioni, e di seduzioni. I rivoluzionarj regnavano col loro terrorismo finché il popolo al rimbombo dei cannoni, e allo scoppio delle granate e delle bombe riscuotevasi; sudicché i rivoluzionarj, consapevoli del loro piccolo numero, abbandonavano il campo di battaglia, e correvano a mettersi in salvo.

Ancona fece come Bologna. Il partito rivoluzionario si mantenne fermo nel potere, ricorrendo per mantenersi ad ogni, anche infamissimo mezzo, ed anche agli assassinj, sino all’arrivo delle artiglierie. Ma appena furono queste giunte, e messe in opera, che il popolo alzò la testa, e menò le mani, e incarcerò il capo rivoluzionario politico, e il capo rivoluzionario militare. Ciò visto, non vi fu uno di quello spietato ed abominevole partito, che non si rifugiasse su qualche legno o francese o inglese. La città, liberatasi in questo modo dai suoi tiranni, capitolò. In Urbino stavasi un Inglese con 600 scherani armati sino ai denti, che parevano disposti a vincere od a morire. Ma avvicinatisi il giorno 14 giugno gli Austriaci, ancorché non fossero che 4 compagnie di fucilieri, e 1 compagnia di cacciatori, la popolazione urbinate prese un'altitudine si minaccevole, che quella gente per quanto l'Inglese (Forbes era il suo nome): si sforzasse di trattenerla, si diede ad una precipitosa fuga, e corse senza fermarsi sino a Foligno. La patria di Raffaele solennizzò la di lei liberazione col suono a festa di tutte le campane, con una brillantissima illuminazione, e il giorno seguente con un Tedeum. E, quanto all’esito, accadde lo stesso anche con una forte banda che tentà annidarsi nei contorni di Macerata-Feltria all’Ovest di Rimini; appena d’essa comparsa, le popolazioni invase spedirono deputazioni sopra deputazioni a Bologna al generale Gorzkowskv per averne della truppa. Questo vi spedi un battaglione di Haugwilz, reggimento di leva bresciana, al quale, coll’ajuto degli abitanti, bastarono due giorni per disperderla. Un battaglione di reclute partito par Firenze giunse a Foligno, passando per Arezzo e Perugia, e facendo 70 e più miglia italiane di strada, senza che gli venisse fatta la benché minima offesa. Il famoso Garibaldi, allorché abbandonata Roma entrò nella Toscana, non trovò città murala che non gli chiudesse le porte, né villaggio che non fosse abbandonato. Le truppe austriache che gli furono opposte e gli diedero la caccia, ricevevano ovunque arrivavano ogni possibile sussidio, e venivano messe al fatto con la massima sollecitudine di ogni suo movimento. Queste operavano in un paese amico e alleato, esso trovavasi in un paese nemico, ed ostilissimo. In somma per quanto vi avessero le più forti ragioni per temere il contrario, egli è certo, che la rivoluzione non ebbe, sia nelle Legazioni sia nelle Marche più partigiani nel 1849, che nel 1831. Le popolazioni pontificie del contado le furono nell’uno e nell’altro anno egualmente avverse. V’ebbero anche nel 1849, ciò non può negarsi né si nega, molti partigiani nelle città fra la parte oziosa delle classi agiate e nella plebaglia, quale pur troppo da per tutto e sempre pronta a vendersi a chiunque ha del danaro per pagarla; ma il numero vi fu, come nel 1831, non altro che una minima frazione della popolazione. Né vi mancavano dei paesi nei quali le popolazioni campagnuole si sarebbero gel la te addosso ai rivoluzionari, e ciò non senza considerare in generale tutti i signori come rivoluzionarj, e li avrebbero per poco che gli Austriaci li avessero lasciati fare, senza pietà sterminati. —La reazione, in ispecialità nei contorni di Fermo e di Ascoli, e nei monti e nelle valli attorno alla Sibilla minacciava di prendere un carattere terribile e fierissimo, e non costò poca fatica il frenarla e l’impedirla. Guai al partito rivoluzionario, se la coscienza degli Austriaci avesse loro permesso di ricorrere alle masse campagnuole e alla plebe della città per porre una volta per sempre fine alla guerra che esso loro faceva. Guai al regno Lombardo Veneto, guai alle Legazioni ed alle Marche, se anche ad essi, come a lui, fosse sembralo lecito e permesso tutto ciò che giova, e che conduce allo scopo.

IX. Mentre il generale Wimpfen procedeva per parte dell’Austria alla restaurazione del governo pontificio nelle Legazioni e nelle Marche, e a strappare le dette provincie alla rivoluzione, il generale Oudinot faceva lo stesso, per parte della Francia, a Roma, dalla quale il Sommo Pontefice aveva dovuto fuggire. I Francesi capitaneggiati dal detto generale incontrarono innanzi questa città, ancorché senza altro riparo che delle semplici mura, una molto maggiore resistenza che gli Austriaci innanzi Bologna, e sino innanzi Ancona, ancorché questa fosse coperta da una fortissima cittadella e da un campo trincierato. Essi giunsero —alle di lei porte il giorno 2 aprile, e non vi entrarono se non li 3 di luglio, con un assedio formale e regolare di due settimane, e impiegandovi non meno di 35 mila nomini. — Or si dimanda, anche per rapporte alla difesa di Roma, come si è dimandato per rapporte alla difesa di Brescia di Bologna di Ancona, se essa fu un alto della popolazione romana, oppure di gente, se anche italiana, o se anche dello Stato-Romano, non romana? La voce correva avvalorata, o ne conviene lo stesso Farini nel suo Stato-Romano che Roma fosse stata difesa da soli stranieri. Egli qualifica questa voce come menzognera. Io la credo bensì una esagerazione, però non dubito, che il numero dei soldati forastieri vi fosse considerevole. Ma atteniamoci pure alle di lui ciffre.

Alla fine di maggio, dice il summenzionato scrittore, l’esercito francese sommava 35 mila uomini con 60 cannoni in parte da campo, in parte d'assedio; quello della Repubblica, con i rinforzi avuti dopo il 30 aprile dalle provincie, 1mila uomini, dei quali regolari mila cinquecento di fanteria, o 800 di cavalleria e 7 mila circa di fanteria irregolare costituita di volontarj e di guardie nazionali, e 1300 circa di soldati di artiglieria. Fra questi soldati erano soli 350 stranieri all'Italia. Gli Italiani non nati nello Stato—Romano erano 1800. Or dato, ancorché non concesso, che queste ciffre fossero le vere, che ne risulta in riguardo alle suddette dimande? Risulta 1.° che lo Stato—Romano il quale conta 3 milioni di abitanti ha fornito alla difesa della sua capitale poco più del p. c. della sua popolazione. I volontarj dello Stato erano 7 mila, fra quali appena mille nativi romani; e quindi siccome Roma conta oltre a 170 mila abitanti cosi ne segue 2. che essa non forni alla sua difesa neppur 1’1 p. c. dei suoi abitanti. Conchiudiamo che, cosi come Brescia, Bologna ed Ancona, istessamente anche Roma è stata difesa non da’ suoi abitanti, ma da gente ad essa straniero se anche italiana, e se anche non forastiera. Roma, qualora fosse stata padrona di sé stessa, avrebbe fatto rimpello ai Francesi come Civita—vecchia, che, sentito l'ordine venuto da Roma di opporsi al loro sbarco, si prese, lo dice il Farini, a gridare pace, pace, si mosse a tumulto, e non volle saperne di guerra. E perciò finiscano una volta i signori Italianissimi di contare, fra le glorie del loro paese si ricco di vere glorie, le difese delle dette città nel 1849, giacché le furono ovunque non altro che l’opera del terrore rivoluzionario. Ecco il quadro che presenta la difesa di Bologna tracciato non da me, ma dal suddetto Farini:

«Ma intanto i popolari avevano tumultuato, abbattute le bandiere bianche, tassato di tradimento il preside del municipio e ricercatolo a morte; vano ogni ammonimento, minaccie di vendetta, furor dei malandrini che l'anno prima ave vano tiranneggiato. Fra il rombo delle artiglierie e lo stormo delle campane, udivi canti e suoni bellicosi, e forsennate grida, e fra la spaventosa luce degli incendj che le bombe qua e là appiccavano, vedevi freneticare la plebe che intrecciava danze intorno all’albero della libertà; e cosi mentre la città era dall’austriaca barbarie fuori travagliata, trepidava dentro pei flagrante pericolo di plebea barbarie. Non più ombra di disciplina ne’ soldati; al Pichi non obbedivano, il Marescotti obbediva ai capi—popolo per conservare qualche autorità; non più freno di legge o di civil costume fra la sciolta plebe (158)».

Simili quadri presentò Brescia, simili Ancona, simili e più orrendi ancora Roma. Volgiamo lo sguardo altrove, volgiamolo su Venezia.

X. L’Austria ha trattalo Venezia sempre dal primo giorno che la fu aggiunta al di lei impero, con i più grandi riguardi, ne ha rispettata sempre la storia, e valutata l’ammirabile civiltà, che la distingue. Egli è col massimo ribrezzo, e ciò non senza aver esauriti tutti i mezzi che stavano in suo potere per risparmiarla, che il maresciallo conte Radetzky le ha fatte l’aspra guerra che le fece. Lo parole che esso le ha replicatamente indirizzate, erano quelle non già di un capitano che aveva spezzata due volte la spada dei rivoluzionarj italiani, ma di un padre a dei figli sconsiderati, desideroso di perdonare e di obbliare. Il Vero popolo veneziano non avrebbe esitato un momento a darvi ascolto. Ma esso non era padrone di sé. Era anche esso terrorizzato da uomini senza viscere, che volevano ad ogni costo immortalizzarsi, e guazzare a spese dei loro concittadini. Un Veneziano, che condanna decisamente le ribellioni, spazialmente qualora, come era il caso di Venezia, improvocate, e dirette contro un governo legittimo, mitissimo e paterne, peraltro scrittore di una rara pacatezza di animo, ci dà il seguente ragguaglio dell’indole e degli atti dei rivoluzionarj che in allora comandavano ai Veneziani.

«Se i sedicenti padri della patria» dice egli, «avessero amato il vero bene di essa, non avrebbero certamente esitato a por riparo ai commessi errori col rientrare nell’ordine; ma essi non volevano che prolungare il più possibile il loro regno, ed adagiati sulle ricchezze che non avevano mai possedute, non avendo niente da perdere, anzi desperare maggior vantaggio da una ulteriore resistenza, sordi alla voce dell'umanità e guardando con tutta indifferenza un popolo sull’orto del precipizio, fecero ogni possibile sforzo per mantenerlo in quell’affascinamento in cui lo avevano fatto miseramente cadere. L’asaemblea dei rappresentanti ispirata dal grande cittadino, che chiama alla mente il 22 marzo nella altra seduta segreta del 2 aprile decretava che Venezia resistere all’austriaco ad ogni costo e che a tal uopo il presidente Manin è investito di poteri illimitati. Da questo sconsigliato decreto, ebbero origine tutti quegli estremi mali, a cui fu sottoposta Venezia, e le cui conseguenze per lunghi anni ancora si avranno a deplorare, ed è ben da stupirsi come un’assemblea abbia potuto lasciarsi abbagliare a tal segno da chi fino allora aveva date si poche caparre d’ingegno e di onestà. Dell’inettezza e slealtà del Governo parlava la gelosia dimostrala del proprio potere che lo faceva guardar biecamente e sfrattare chiunque cominciasse ad acquistare opinion pubblica o popolarità; parlava il costante allontanamento degli onesti ed intelligenti dai pubblici impieghi; parlava l’estrema corruttela introdotta in ogni ramo d’amministrazione; parlava la dilapidazione dell’erario, frullo degli enormi sacrificj dei cittadini; parlava l'assoluta mancanza di provvedimenti onde rendere meno pesante il servigio alle truppe incadaverite dalle febbri, da cui restava colpito ognuno tostochè si avesse presentato sui forti; parlavano quelle promozioni a gradi militari di individui macchiati di ogni sorta di turpitudini, il vero merito negletto, la sfrontatezza e la millanteria innalzata; parlava la guardia nazionale presieduta da inetti aderenti del Governo, trascurata affatto nella sua istruzione, e che si poteva risguardare, non già come la forza armata del popolo, ma come molta del Governo: parlava l’alterigia dei pubblici funzionarj, ognuno dei quali era un despota; parlava un Comitato di vigilanza, che per imbecillità, arbitrii, soperchierie de’ suoi membri era caduto nella generale esecrazione; parlavano le carceri riboccanti di onesti cittadini colà gettati dall’odio personale dei vili proposti; parlava il permesso monopolio dei generi di vittuaria; parlava finalmente il baccante gavazzar della plebaglia e l’insoccorsa inedia del probo cittadino (159).

Tale era la fazione che in Venezia volle la guerra, e la ebbe. E quanto ai fatti che qui dal nostro autore ci si palesano, essi non lasciano verun dubbio, che anche la difesa di Venezia non ebbe niente affatto di spontaneo, e che anch’essa non fu che l’opera del terrorismo rivoluzionario.

Quanto alle forze militari delle quali il governo rivoluzionario Veneziano disponeva, esse erano considerevoli, e ammontavano già in luglio del 1848 a poco meno di 20 mila uomini. «Guardie civiche mobilizzate» cosi leggesi nella Storia dell’assedio di Venezia alla quale qui ricorro, «squadre di veneti crociati e volontarj, civiche legioni pontificie o lombarde, frazioni distaccatesi dall'armata napoletana, studenti, cacciatori, reliquie di corpi distrutti o disfatti, pellegrini, avventurieri d’ogni parte d'Italia, ed anche di Francia, di Svizzera e di Pologna erano in Venezia, o giunsero in quel torno. In breve le forze propriamente venete delle quattro armi, infanteria, cavalleria, artiglieria e genio, formavano un complesso di 13833 uomini; e gli alleati e sussidiarj quello di 6124, per cui il presidio intiero di Venezia e dell’estuario, fuor delle truppe maritime e dell’arsenale, ossia l’esercito di cui si disponeva nei forti, e verso la terraferma, era di 19843 uomini (160)».

Secondo il signor Cantù avrebbe il generale Pepe, napoletano, condotto in Venezia un battaglione di cacciatori e due di volontarj napoletani, uno di lombardi, uno di bolognesi e una balleria di campagna. Se le qui addotte ciffre fossero esatte, avrebbe Venezia fornito alla propria difesa in proporzione della sua popolazione (114 mila anime) un senza confronto magg ior numero di combattenti, che non ne ha fornito Roma alla sua.

Il blocco di Venezia per terra non incominciò se non dopo la resa di Treviso, e dopo la sommissione, di tutto il paese veneto, Osoppo eccettuato, e Fu un’impresa difficilissima. Gli Austriaci occuparono Mestre il giorno 18 giugno 1848, e successivamente tutto l’arco formato dai canali che derivano le acque dolci dalle Lagune, il quale si estende dallo sbocco del Sile sino a quello dell’Adige, e misura oltre a 50 miglia italiane, mentre i Veneziani erano in possesso della di lui corda e lo minacciavano tutto da una estremità all'altra da posti poco distanti e agli Austriaci inaccessibili, spezialmente dalla città, cioè da Venezia, qual centro del sistema di difesa, mediante il ponte di pietra e dal forte, o per dir meglio dalla fortezza di Marghera, che n’è il «tête—de—pont». Il vero è peraltro, che l’esercito di Venezia non tirò verun partito da questa sua vantaggiosissima posizione. Il blocco per mare non potè aver luogo se non dopo la partenza della flotta sarda, e andò anch’esso come quello di terra soggetto a delle grandi difficoltà, tanto per là ristrettezza del naviglio che vi si potè dedicare, che per la moltiplicità dei porti che dovevano guardarsi. E non fu se non un mese dopo la battaglia e l'armistizio di Novara, che vi ebbe principio la guerra attiva con il formate assedio di Marghera, il quale durò dalla notte dei 2 ai 30 di aprile sino a quella dei 25 ai 26 di maggio, nella quale quella piazza fu subitaneamente abbandonata, ancorché vi avesse il modo di cangiarne i difensori, nel caso avessero sofferto perdile considerevoli, o le veglie ed il travaglio li avessero sfiniti.

Con Marghera cadde anche la prossima isola detta di San—Giuliano, l’occupazione della quale ravvicinò gli Austriaci molto alla città, ma sempre non quanto faceva d’uopo per raggiungerla con la loro artiglieria e scuoterne il popolo, e indurlo a liberarsi da’ suoi tiranni. Ma finalmente pur n’ebbero di una molto maggior portata, e che col modo di postarla, potè accrescersi. La notte dei 2ai 30 luglio lanciavansi senza interruzione dalle batterie austriache palle roventi che giungevano sino a poca distanza dalla piazza di San—Marco, e che sparsero lo spavento e la costernazione su più di due terzi della città, che furono dai loro abitanti abbandonati. Alla guerra che ora vi piombava si associò anche il coleca, sicché una specie di peste, ed anche la fame. Ma niente valse ad ammolire il cuore dello spietato dittatore che vi imperava, e che vi disponeva di forze cosi imponenti, che nessuno osava senza correre il pericolo di essere incarcerato lasciarsi scappare neppur un lamento, e tanto meno un grido di opposizione e di resistenza a’ suoi dettami. Nessuno gli prestava più la minima fede, non per tanto continuava egli ad annunciare potentissimi soccorsi, ora dalla Francia, ora dall’Inghilterra, ora dall'Ungheria. Con questi bugiardi pretesti prolungaronsi alla sciagurata città i dolori e gli spasimi sino a che il giorno 18 agosto vi ebbero degli indizj, che nel di lei popolo la pazienza disponevasi a trasformarsi in furore. Manin e i suoi satelliti cominciarono a tremare. Il municipio sorti da’ suoi ceppi, potè definitivamente trattare, e il giorno 24 del detto mese conchiudere. Il giorno seguente sventolavano i colori austriaci di nuovo sulla piazza di San—Marco, e sui forti che cingono Venezia.

Che se qui ricerchiamo, come abbiam fatto in riguardo alla difesa di Brescia di Bologna di Ancona e di Roma, sino a qual segno la difesa di Venezia sia stata una difesa spontanea e nazionale, sono certo, di non dire se non la pura verità, dicendo, che anch'essa non fu se non l’opera di un immane terrorismo, però facilitata in un modo particolare dal di lei elemento topografico, e che anch’essa non ebbe nulla di spontaneo e di nazionale.

La guerra veneziana consumò per sé stessa, ciò è vero, poche vite. I Veneziani non vi ebbero che 210, gli Austriaci inclusivamente a 8 ufficiali che 236 morti, i primi 820, i secondi, inclusivamente a 13 ufficiali, 444 feriti. Ma tanto maggiori furono le perdite da ambe le parti per malattie. La truppa in Venezia si trovò ridotta alla fine a soli 11554 uomini. Nell'armata austriaca la mortalità fu ancora e di molto maggiore. L'artiglieria veneziana fece certamente prova di molto valore tanto nella difesa di Marghera, che nella incessante tolta della batteria sul piazzale della strada ferrala con le batterie austriache che la bersagliavano dall’isola di San—Giuliano. E anche l'infanteria fece in diversi incontri bene. La marina all’incontro si condusse tanto male, che peggio non avrebbe potuto condursi; né altro si poteva aspettare da gente che aveva infamemente calpestalo il suo giuramento. L’autore della storia dell'assedio di Venezia qui da me più volle citalo, cosi finisce il suo opuscolo:

«La resistenza di Venezia dovrà biasimarsi sino a tanto che, a fondamento degli umani giudizj, starà fermo il principio, in qualunque impresa doversi avere un ragionevole intendimento, una probabile riuscita; i dispendj dover essere proporzionali all'utilità probabile e certa da derivarsi dall’impresa. Ed in quanto alle rivoluzioni, non è difficile farne: un momento d’irreflessione, un poco di audacia talvolta possono bastare a compierle, ma compiute che sieno, quali ne sono le conseguenze? Lutto e pentimento. Ma i rivoluzionari vestano pure il cilicio, si coprano pure di cenere; qual pena che si vorranno imporre varrà ad espiare la loro colpa di aver cagionato tanti danni di sostanze e di sangue ai loro concittadini? Ed a quale sacrificio potranno essi assoggettarsi per meritare l’assoluzione dei posteri? Miseri!»

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Noi abbiamo nei procedenti capitoli, cosi mi sembra, potuto e dovuto convincersi cogli studj, che vi si sono esposti, che la questione cosi detta italiana, ha per oggetto e per iscopo una causa pessima, ingiusta, iniqua, sovversiva di ogni ordine, e la quale in fondo non è che un’idea, e un’idea sconsiderata e insensata, un’idea che poggia intieramente sul falso e su principj incompatibili, i quali si contraddicono e vicendevolmente si distruggono, con pretensioni assurde, che non si saprebbero attuare se non in onta agli esistenti trattati, e mettendo sotto—sopra e disfacendo l'Europa. In questo capitolo i fatti che vi si sono contemplati ed istudiati ci dicono e c’insegnano: che la questione, detta italiana, ma affatto impropriamente, e che dal 1815 al 1831 avrebbe dovuto denominarsi la questione carbonara e poi la questione Mazzini, ed in seguito la questione Balbo—Gioberti, e dal 1840 in poi la questione sardo—piemontese, non è, tanto ne’ suoi rapporti generali che ne’ suoi rapporti particolari e speziali, e tanto nei suoi principj che nelle sue conseguenze, altro che un tessuto d'illusioni, d’inganni, di fantasmagorie, di menzogne e di calunnie, nel quale si avverrà in un modo e in un grado superlativo il «mentita est iniquités sibi».

Essi, parlo degli studj che si sono in questo capitolo esposti, ci dicono e c’insegnano 1.° che il vero popolo italiano non ha mai riconosciuta cotesta questione per sua, e che l’ingenito suo buon senso gliel’ha fatta sempre e ovunque con disprezzo respingere; come anche che esso, nelle guerre, ribellioni e insurrezioni, con le quali i rivoluzionarj hanno dal 1815 in poi funestata l’Italia, si è sempre trovato nel campo che loro fece la guerra, cioè in quello dell’ordine, della pace, della legittimità, della fede ai trattati, della verità, e della giustizia. 2.° Che nelle dette ribellioni i sommovitori sono stati sempre e dapertutto una minima frazione della rispettiva popolazione; e che queste vi furono sempre col mezzo di una abominevole tattica, loro malgrado, strascinate, e mediante delle atrocità compromesse, e poste in situazioni a dover farsi loro complici e perseverarvi. 3.° Che fra tutto queste ribellioni non ve ne ha neppur una che fosse motivata, cioè che si fosse dai rispettivi governi con un sopruso del potere, con una malefica e tirannica disposizione, o anche con una ritrosia a fare il bene e a rimediare al male, provvocata. Le riforme dai rivoluzionarj addimandate non furono mai, assolutamente mai, se non maliziosi pretesti i degli agira-cervelli per guadagnare con le loro mene l'opinione pubblica nell’estero, e il suffragio dei gabinetti di Francia, d'Inghilterra, di Prussia e di Russia; come le concessioni che coloro ottennero non furono mai usate, se non come leve e molle rivoluzionarie. 4.° I capi ribellanti non furono mai se non persone divorate dall’empia ambizione d’immortalizzare il loro nome a qualunque costo, e se non altrimenti con l’eccidio della loro patria, o da quella di sovrastare e comandare agli altri, o dal bisogno di occupar posti lucrosi; e i loro partigiani sempre o gente attinente alla feccia della popolazione, vendutasi alla rivoluzione, o oziosi della classe agiata che devono aver qualche cosa da fare «per non impinguar troppo, e acciò in essi non si sviluppi in grassume quello che deve fortificare i muscoli (161)».

Ecco i veri imperché pei quali l’Europa ba du disfarsi, e ad andar tutta sotto—sopra.

Nel seguente capitolo, che sarà l’ultimo, istudieremo i mezzi, se non di porre un fine all’agitazione tanto attiva che passiva italiana, almeno di confinare la prima negli Erostrati, e negli affamati del potere e dell’oro, e la seconda negli incorreggibili.


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CAPITOLO VIII

Sugli elementi o fattori provvidenziali, che finora

banno determinato i destini d’Italia, e sulla necessità,

per essa e per l'Europa tutta di studiarli e di conoscerli a fondo, e di tenerne il massimo conto.

Il dettato: conosci te stesso, tanto inculcato dai Sapienti d’ogni età, e che implica anche l'altro non men commendevole né men necessario: «istudiati», qual mezzo prossimo e immediato di riuscire ad attuare il primo; e cosi quelle gravissime parole di un antico, che in italiano suonano:

«Ad esser tale, qual Iddio ti volle,

Ed il tuo posto nelle umane cose

Apprendi (162)».

risguardano non solo noi singoli mortali come individui, ma anche i popoli, anche gli Stati. L’uomo che non si conosce, che non si è studiato, che è al bujo delle sue forze e della loro portata, e al quale la propria situazione è una terra incognita, si troverà su di una strada, che invece di avvicinarlo alla meta, non cesserà di allontanarnelo. Egli finirà per cadere in qualche abisso. Istessamente, un popolo, o uno Stato non riuscirà mai, senza studiare le sue relazioni e dipendenze, e gli elementi, fattori, agenti, o cause, che si voglia dirti, i quali banno determinato il suo passato, a darsi quell’avvenire che maggiormente e veramente gli conviene; non verrà mai a conoscere la vera sua missione provvidenziale, e se ne darà invece una, che nulla avrà che fare con quella che gli era destinata e riservata. Le conseguenze del darsi una missione falsa sono sempre amare e tormentose. I popoli e gli Stati, che si mettono in un simile caso. Sono, l’ho già detto e qui lo ripeto: il proprio flagello, e il flagello dei loro vicini. — Iddio permette talvolta che un popolo o uno Stato si dia sino una missione satanica, come sarebbe l’incendiare la propria casa, per veder ardere quella dei suoi vicini. Egli è questo uno dei suoi più tremendi modi di castigare la corruzione e depravazione del secolo.

I destini di un popolo, di un paese, o di uno Stato sono il prodotto di varj e di molti e diversi fattori, dei quali taluni durevoli, permanenti, indistruttibili, perciò da dirai, come li dico, provvidenziali, e taluni variabili, accidentali, transitorj: alcuni chiari e manifesti, parlanti ai nostri sensi; ed altri nascosti, reconditi e latenti, che non si palesano se non negli avvenimenti da essi causati, dimodoché conviene indagarli nei ragguagli che di questi si hanno; la quale indagine è poi tutt’altra che facile. — Or se anche talvolta sta nel potere dell’uomo di padroneggiare i detti fattori, e anche, se non di tutti, di alcuni di modificarne, rinforzarne, neutralizzarne, e sino d’invertirne l’azione; il caso è però per l'ordinario tutt’’altro; vedendosi per lo più risultare dall’azione complessiva dei detti fattori, una di quelle situazioni, che i Francesi designano con le parole: «Force des choses» (163) rimpetto alla quale l'uomo riflessivo e prudente si vede forzato, a scanso di mali maggiori, e onde lu situazione non peggiori di assai, e non si converta in un conquasso, o in un abisso, di fermarsi, e talvolta d'indietreggiare. Fortunato lui se lo può fare con una tal quale spontaneità, ed a tempo.

Questi pochi cenni basteranno, cosi mi sembra, per comprendere la necessità che vi la per l’Italia di uno studio esteso, profondo, esauriente dei fattori che ne hanno finora determinati i destini, ossia degli elementi fattivi della di lei storia, fra i quali primeggiano, come l’ho notato nelle prime pagine del sesto capitolo di questi miei studj, l’elemento geografico, l’elemento topografico, e l’elemento etnografico; da me degli elementi provvidenziali, perché il loro principio attivo è indistruttibile, per quanto la loro azione particolare possa nell’azione complessiva di tutti gli agenti, e entro certi limiti e per un maggior o minor spazio di tempo anche dall'uomo, modificarsi, sospendersi o ammortirsi. L’ordine derivante dai summenzionati elementi tende sempre a riprodursi e il:

«Naturam expellas furca, tandem usque recurret.»

non manca mai in riguardo ad essi di tosto o tardi avverarsi.

Ha mai l’Italia istudiati questi elementi? Li hanno mai istudiati per lo meno i di lei Istoriografi, ai quali pur incombeva non solo di ricordare gli avvenimenti patrii, ma anche, onde servissero di lezione ai posteri, di spiegarli, e di addurne le cause efficienti? Se uno di questi devo avervi ben seriamente pensato, quel desso è immancabilmente il Segretario fiorentino Niccolò Machiavelli, tanto per l’acume e la potenza della sua mente, ammiralo ed ammirabile. In fatti ha esso più di una volta e primieramente ne’ suoi Discorsi sopra la Prima Deca di Tito—Livio, e più tardi nelle sue Istorie Fiorentine posata la questione dell'unità e dell’indipendenza d’Italia, indirettamente se si vuole, ma pure nettamente e con molta precisione. Egli vi si addimanda, qual sia la causa, che l’Italia non era come Francia e come Spagna unita, e capace di difendere la sua indipendenza, e di respingere le invasioni dello Straniero. — Non collimano queste dimande con la seguente: Quali sono le cause fattive determinanti dei destini d’’Italia e della sua storia? — La risposta non saprebbe essere se non affermativa, ed io perciò non dubitava, che, per sciogliere il problema, il nostro Segretario avesse riandato tutte le incursioni dei Barbari, e tutti i cangiamenti di dominio che l'Italia ebbe a soffrire da' tempi di Onorio in poi; le quali incursioni ebbero luogo dai 400 sino al 568, dunque per più di un secolo e mezzo, e mentre l'Italia era ancora unita, giacché non la fu spartiti in più Stati se non con la venuta dei Longobardi. — M’ingannava la grande fama di quel Grande, che non pensò, e sarei per dire, che non volle pensare a’ quel tempi, i quali avrebbero troppo chiariti gli ostacoli che si opponevano all’idea della quale era invaso e che egli voleva far valere. I Barbari che s’impadronirono dell'Italia sarebbero stati contentissimi di tenersela unita; il Machiavelli si astenne dall’avvicinarsi a dei tempi, nei quali l'Italia non solo era unita, ma eransi inoltre compile tutte le condizioni esterne della di lei indipendenza, pur troppo senza che ne potessero impedire lo sfasciamento. Ora parli il nostro Segretario, Ascoltiamolo.

«E veramente alcuna provincia non fu mai unita o felice, se ella non viene tutta alla ubbidienza d'una repubblica o d’un principe, come è avvenuto alla Francia è alla Spagna. E la cagione che la Italia non sia in quel medesimo termine, né abbia anch’ella o una repubblica, o un principe che la governi, è solamente la Chiesa; perché avendovi abitalo e tenuto imperio temporale, non è stata si potente né di tal virtù che abbia potuto occupare il restante d’Italia, e farsene principe. E non è stata dall’altra parte si debile, che, per paura di non perdere il dominio delle cose temporali, la non ab bia potuto convocare un potente che la difenda contro a quello, che in Italia fosse diventato troppo potente, come si è veduto anticamente per assai esperienze, quando mediante Carlo Magno, fa ne cacciò i Longobardi, ch'erano già quasi Re di tutta Italia; e quando ne’ tempi nostri ella tolse la potenza ai Veneziani con l’ajuto di Francia, dipoi no cacciò i Francesi con l’ajuto degli Svizzeri. Non, essendo dunque stata la Chiesa, potente da potere occupare l'Italia, né avendo permesso che un altro la occupò è stata cagione che la non è potuta venire sotto un capo, ma è stata sotto più principi e signori da’ quali è nata tanta disunione, e tanta debolezza, che la si è condotta ad essere stata preda, non solo de’ barbari potenti, ma di qualunque l’assalta. Di che noi altri Italiani abbiamo obbligo con la Chiesa, o non con altri (164)».

Cosi scriveva il Machiavelli in un'opera che era destinata a servire di manuale ad un partito che in Firenze covava un cangiamento di governo, una rivoluzione, e la cacciala dei Medici., Questo brano non ha in riguardo all'argomento che n’è il soggetto premesso, cosicché, la sentenza: É veramente alcuna provincia non fu mai unita e felice, se la non viene tutta alla ubbidienza d'una repubblica, o d’un principe, vi si fa apparire come un assioma chiaro e manifesto da sè, e il quale non abbisogna né di una dimostrazione né di essere dilucidata. A prima vista essa crederebbesi identica con la sentenza, con la quale esordiscono le Speranze d’Italia del conte Balbo: «Io parto dal fatto che l’Italia non è politicamente ben ordinata, poscia che ella non gode tutt’intiera di quello, che è primo ed essenziale fra gli ordini politici, quello che anche solo procaccia tutti gli altri buoni necessarj, quello senza cui tutti gli altri buoni son nulli o si perdono, la indipendenza nazionale. — Ma il senso e il significalo, se mal non mi appongo, n’è affatto diverso. Il Machiavelli intende di dire: che volendo fondere diversi paesi in uno Stato, si rende necessario che una repubblica o un principe per amore o per forza li riduca tutti, e li abbia ridotti sotto la sua obbedienza; che da sé i paesi ed i popoli cercano il più che loro fia possibile di isolarsi, e che questa preliminare soggezione e conquista è una indispensabile condizione d'ogni loro prosperità, vale a dire, che senza di ciò non vi ha fra diversi paesi accordo e pace, ma gare, collisioni, lotte, e un reciproco respingersi. Tutto ciò è bastantemente ragionevole; mentre in vece il preteso assioma balbiano è sostanzialmente assurdo. Stando a quest'ultimo l’Alsazia paese tedesco, l'ho già detto, ma qui devo ripeterlo, per essere aggiunto alla Francia non saprebbe prosperare, e sarebbe inoltre un impedimento ad ogni prosperità per tutta la Germania; la Savoja, paese francese aggiunto al Piemonte paese italiano, sarebbe nell’istesso caso come l’Alsazia, e la Francia nell'istesso caso come la Germania; e cosi il canton Tesino paese italiano, perché annesso alla Svizzera non saprebbe essere felice, e non saprebbe esserlo neppur l’Italia. — L’assioma del Machiavelli non ha nulla che ne impedisca l’ammissione, mentre quello del conte Balbo è al di sotto di ogni critica.

Or dimando io: se per unire in uno Stato più paesi, come sonosi uniti quelli che formano Francia e Spagna, era, ed è necessario, che una repubblica o un principe se li sottometta, vale a dire, ne faccia la conquista, che colpa hanno i Pontefici se non si è fatto lo stesso con i paesi coi quali dovevasi fare l'Italia? E se un Pontefice chiamò Carlo Magno in Italia, che infatti si assoggettò la maggior parte di essa e ne fece la conquista, non fu questo il primo passo per compiere la condizione posta dal Machiavelli dell’unione e della fusione in uno stato dei paesi italiani? Dicendo, che la Chiesa perché non a sufficienza potente da occupare e conquistare tutta l'Italia non ha permesso che un altro la occupi e la conquisti, il Machiavelli si mette evidentemente in contraddizione con la chiamala di Carlo Magno in Italia da lui attribuita al Papa allora regnante, Adriano I, e con la conquista dell’Italia per parte del detto Imperatore. Il Machiavelli dunque discolpa egli stesso la Chiesa dall’imputazione da lui messa in campo contro la medesima. E perciò conchiudiamo che il Machiavelli non fa nei suoi Discorsi sopra la Prima Deca di Tito—Livio mostra di aver studiata col suo solito acume le cause della spartizione dell'Italia in più Stati, né quella della di lei nessuna attitudine a respingere le invasioni forastiere.

Ma egli ha trattalo lo stesso argomento, come l’ho dissopra avvertito, però alcuni anni più lardi ed ai tempi di Clemente VII anche nelle sue Istorie fiorentine. Egli vi discorre come segue:

«Seguitando i Papi ora di essere amici dei Longobardi, ora dei Greci, la loro dignità accrescevano. Ma seguita di poi la rovina dell’Imperio Orientale la quale segui in questi tempi sollo Eraclio Imperatore, perché i popoli Slavi, dei quali facemmo disopra menzione assaltarono di nuovo l’Illiria, e quella occupata chiamarono dal nome loro Sclavonia, e le altri parti di quello Imperio furono prima assaltalo dai Persi, dipoi dai Saraceni, i quali sollo Maometto uscirono di Arabia, ed in ultimo dai Turchi, e toltogli la Soria, l'Affrica e l’Egitto, non resta va al Papa per l’impotenza di quello Imperio più comodità di rifuggire a quello nelle sue oppressioni; e dall’altro canto crescendo le forze dei Longobardi, pensò che gli bisognava cerca re nuovi favori, e ricorse in Francia a quei Re. Dimodoché tutte le guerre che a questi tempi furono dai barbari fatte in Italia, furono la maggior parte dai Pontefici causale, e tutti i barbari che quella inondarono, furono il più delle volte da quelli chiamati. Il qual modo di procedere dura ancora in nostri tempi, il che ba tenuto e tiene l'Italia disunita ed inferma... Dico poi che come per venne al Papato Gregorio III, e al regno dei Longobardi Aistolfo, stccome questi contro gli accordi fatti occupò Ravenna e mosse guerra al Papa, Gregorio per le ragioni soprascritte, non confidando nell’imperatore di Costantinopoli per esser debole, né volendo credere alla fede dei Longobardi, che l'avevano molte volte rotta, ricorse in Francia a Pipino II per ajuto che promise mandarlo... Mori dipoi Pipino, e successe nel regno Carlo suo figliuolo... Al Papato era intanto successe Teodoro primo. Costui venne in discordia con Desiderio che era succeduto a Aistolfo, e fu assedialo in Roma da lui, talché, il Papa ricorse per ajuto a Carlo, il quale superate le Alpi assediò Desiderio in Pavia, e prese lui e i figlioli, e gli mandò prigioni in Francia (165).» — In questa guisa fin l’anno 774 il regno dei Longobardi che aveva duralo oltre a due secoli.

Il Machiavelli ripiglia nelle sue Istorie fiorentine le medesime infondate e false accuse contro i Pontefici, ove paria detta venuta in Italia di Carlo d’Angiò principe francese fratello del Re di Francia, chiamato, in suo soccorso contro Manfredi Re di Napoli e di Sicilia da Urbano IV. Secondo lui i Pontefici indotti dai timori che loro inspirava la sempre crescente potenza di quel Re si sarebbero rivolti all'Imperatore Ridolfo per abbatterla. — Ma il fatto è tutt’altro. «Seguitava» dice egli «Manfredi Re di Napoli le inimicizie contro la Chiesa secondo i suoi antenati, e tenea il Papa che si chiamava Urbano IV in continue angustie; tante che il Pontefice per domarlo gli convocò la Crociata contro, e ne andò ad aspettare le genti a Perugia. E parendogli che le genti venissero poche pensò che a vincere Manfredi bisognassero più certi ajuti, e si volse per i favori in Francia e creò Re di Sicilia e di Napoli Carlo d’Angiò. Vinto poi Manfredi e morto, e vinto e morto anche il di lui figlio Corradino, Carlo sali sul trono delle due Sicilie. In questo mezzo stette l'Italia tranquilla, tanto che successe al Pontificato Adriano V. E stando Carlo a Roma, e quella governando per l’uffizio che egli aveva di Senatore, il Papa non poteva sopportare la sua presenza e se n'andò ad abitare a Viterbo, e sollecitava Ridolfo a venire in Italia contro Carlo. E cosi i Pontefici ora per carità della Religione, ora per loro propria ambizione non cessavano di chiamare in Italia umori nuovi, e suscitare nuove guerre; o poiché eglino avevano fatta potente un principe se ne pentivano e cercavano la sua rovina, né permettevano che quella provincia la quale per la loro debolezza non potevano possedere altri la possedesse (166)».

Il Machiavelli ha nelle or citate pagine dato une smentita al detto:

« che cime di giudizio non si avvalla»

Egli non ha istudiato il suo soggetto come, volend0 adeguatamente rispondere alle domande. che, egli si, faceva, avrebbe dovuto istudiarlo. Prescindendo che vi avrebbe tanto da rettificare nei fatti da lui adotti u sostegno delle sue tesi, i quali se rettificati conducono in parte a tutt’altre conclusioni, che non sono quelle, che egli ne ha dedotte su di che voglia il Lettore ricorrere agli annali del Muratori che gli offriranno nei rispettivi anni tutti i mezzi per giungere al vero — anche prescindendo da ciò, non si sa comprendere come un pensatore di tanto acume e di tanta penetrazione non si sia accorto, ch i per decidere per esempio Pepino 6 Carlo Magno a passare le Alpi, e a incominciare una guerra in Italia coi Longobardi non bastava che essi Vi si chiamassero dai Pontefici; e che se quei Re si mossero, ciò fu perché le circostanze erano tali dà essere sicuri del buon esito della guerra, il quale dipendeva dall’ascendente sull’Italia—continente che dava ai Franchi l’essere padroni delle Alpi dalle Alpi—Cozzie sino al Quarnero. Se anche si voglia ammettere, che la situazione precaria dei Pontefici rimpetto ai Longobardi, e il bisogno che essi avevano di essere protetti contro le violenze dei Longobardi inspirassero ai Re Cristianissimi figli primogeniti della Chiesa sentimenti di doverosa devozione per essa, questi sentimenti possono bensì aver accelerala l’impresa, ma non ne furono certamente l’incentivo vero e principale. Quei Re avrebbero già ai tempi di Carlo—Martello tolta l’Italia ai Longobardi ed ai Greci, se loro non avessero dato tanto da fare i Saraceni.

La storia diceva e insegnava al Machiavelli a chiarissime note, che l’Italia non ebbe neppure ai tempi della repubblica romana sia il modo sia i mezzi d’impedire ai Barbari di discendervi; che vi vollero degli sforzi superiori di molto a quelli dei quali essa da sé sola sarebbe stata capace, per ripararsi dai Pirati che ai tempi di Pompeo, di Cicerone e di Giulio—Cesare, non solo ne infestavano le coste, ma rendevano l’interno del paese, fuorché nelle città murate, inabitabile; che Pompeo non ebbe il modo di difenderla contro le legioni di Giulio Cesare reclutata per la maggior parte con gente che a Roma passava per barbare, cioè cisalpine, veneta, e ligure; che Galba non la difese contro Ottone, Ottone non contro Vitellio, Vitellio non contro Vespasiano, e cosi via via sino a Massimo ed Eugenio che non valsero a difenderla contro Teodosio. In tutte queste guerre il pretendente all’Impero che vinse, assaliva l’Italia dal lato delle Alpi e ne discendeva. come non arguire da una tale serie. di fatti la dipendenza provvidenziale dell’Italia da quei monti? come non vedervi il dito di Dio? Ve lo pur vedeva nelle Alpi già Cicerone? (167)

L’Italia dopo che Teodosio ebbe diviso l'Impero Romano fra i suoi due figli, Arcadio e Onorio, non potè più, quando assalivasi dai Barbari, contare come pel passato sui soccorsi di tutto un mondo; anzi frappoco neppur sui soccorsi delle provincie addette alla stessa ripartizione dell’Impero, cioè a quella dell’Impero d’Occidente, che contemporaneamente invadevasi anche nelle Gallie, nella Rezia, nel Norico, nella Pannonia. La restà però unila. Ma, perdute le Alpi e perduto il dominio del mare, non la ebbe più pace né riposo; e isolala, le mance intieramente ogni altitudine a difendersi. I primi ad entrarvi furono in quei tempi i Goti, che vi vennero attraversando le Alpi—Giulio. Essi non solo la percorsero in ogni direzione e da un capo all'altro, ma presero anche Roma o la misero a sacco. (a. 409.) E lo stesso fecero nel 455 i Vandali che vi vennero dall’Africa per mare. Attila che aveva tentato d’impadronirsi nel 451 delle Gallie ma che ne fu respinto, si rivolse l’anno seguente verso l’Italia; vi penetrò, e giunse sino al Po, ove si fermò; ma non solo saccheggiò tutto l’angolo orientale d’Italia, e quasi tutta l’Italia transpadana, ma vi distrusse anche, a cominciare da Aquileja, poco non che tutte le città che vi avevano, e fra le altre anche Verona. E finalmente l'invasero nel 476 gli Eruli ed i Rugi, condottivi da Odoacre, sotto ai colpi dei quali ]’Impero d’Occidente ebbe a crollare senza più poter rilevarsi. Anche allora aveavi il vezzo di ricorrere per spiegare le sciagure d’Italia a delle cause immaginarie ed assurde; anche allora era alla Chiesa, cioè al Cristianesimo, che quei Romani che erano rimasti idolatri, attribuivano la caduta dell’Impero (168).

L’Italia aveva in Odoacre un Re di molta capacità tanto in guerra che in pace. Era desso, ancorché barbaro di provenienza e di nascila, umanissimo; e ancorché ariano, come lo erano gli Eruli e tutte le sue genti, non che dare qualsisia fastidio alla Chiesa cattolica la protesse in ogni occasione. Egli comprese benissimo la dipendenza dell'Italia—penisola dai due mari nei quali la avanza, e cosi quella dell’Italia—continente dalle sovrastanti Alpi; e non mancò di diminuire l'una col far sua la Dalmazia, e l’altra coll’estendere i limiti del regno sino al Danubio, e coll’impadronirsi del Norico. Ma già disponevansi alle di lui spalle in Oriente nella Pannonia o nella Mesia gli Ostrogoti sotto Teodorico loro Re, i quali malcontenti del paese ove stanziavano ne cercavano un migliore e sapevano che lo troverebbero oltre le Alpi, ad assalire l'Italia. Fu in riflesso a questa circostanza e alla necessità di concentrare le sue forze, e di tenerle unite, che Odoacre si decise di abbandonare tutti i suoi possedimenti alpini (169).


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La sua situazione era certamente tanto più critica, che vi avevano nella Gallia Meridionale e nelle Alpi Occidentali dei connazionali degli Ostrogoti, vale a dire i Visigoti, i quali secondo ogni probabilità avrebbero assalita l'Italia—continente all'Occidente, al primo avviso che avrebbero avuto, che i loro confratelli l’assalivano all’Oriente. Egli non portante non si perdette d’animo, si rinforzò nell’Italia coll’attirarvi il più che potè degli abitanti del Norico che doveva essere gente accostumala ed alla alla guerra; e cercò di guadagnarsi i popoli dei paesi, che Teodorico sul suo cammino doveva traversare, e d’indurli a contrastargli il passo.

L’invasione della quale l’Italia era minacciata non tardò ad avverarsi. Teodorico si mise in marcia per avvicinarsi alle Alpi—Giulie e per superarle nella seconda metà del 488; incontrò nel suo cammino una non lieve resistenza per parte dei Gepidi, dei Sarmati e dei Bulgari, dovette valicare lo Alpi nel forte dell’inverno, e non giunse sul Lisonzo, ai piedi del versante occidentale di quei monti, se non lardi nel mese di marzo 489, ove trovò Odoacre che lo aspettava. Si venne ad una battaglia che andò per quest’ultimo perduta; se ne diede in seguito una seconda sull’Adige presso Verona, nella quale Odoacre non fu più fortunato che nella prima, e che valse a Teodorico la detta città. Questo corse poi su Milano, ove, dice il Muratori, trovavasi il miglior nerbo delle forze di Odoacre, ma le quali si diedero per la maggior parte a lui, e ove non pochi accorsero dai paesi vicini e anche da Payra a riconoscerlo per loro Signore. Odoacre col rimanente dei suo esercito, dopo aver munito e presidiato Ravenna e Cremona si mise in marcia per Roma coll'intendimento di farne il perno della guerra. Senonché gli furono chiuse le porte, cosicché gli fu giuoco forza di riguadagnare il Pò, e di rannodare le sue genti attorno a Ravenna. Non può certamente non sorprendere la condotta degli Italiani in quei terribili momenti, giacché pur non si trattava di altro che d’iscambiare un padrone che conoscevano, e che aveva reso degli eminenti servigj alla loro patria, per uno che non conoscevano se non come attinente ad un popolo della stessa schiatta di quello, che nel primo decennio del secolo, aveva percorsa, devastandola, più volle l'Italia, e posta Roma a sacco.

Comunque ciò sia, la condizione di Odoacre contro ogni aspettazione si migliorò, e lo mise in istato di riprendere l’offensiva, ancorché Teodorico ricevesse dai Visigoti dei rinforzi. In quel mezzo discesero i Borgognoni dalle loro Alpi, posero a soqquadro il sottoposto angolo Nordwest dell’Italia—continente, presero Milano, e, dato il guasto con straordinaria ferocità a tutto il paese, ritornarono alle loro case, strascinando seco un immenso numero di prigioni d’ogni sesso e d'ogni età. Odoacre diede a Teodorico il giorno 11 agosto del 490 sull’Adda ancora una battaglia, la quale ebbe per lui un esito non men disastroso delle precedenti. Ricoveratosi a Ravenna, vi si mantenne, dando con le frequenti vigorose sue sortite non poco da fare al suo avversario, finché la fame lo costrinse ad arrendersi, (5 marzo 493.) Teodorico lo trattò da prima con grandi riguardi; ma poi un giorno, ciò che possa avervelo indotto non si sa, l’uccise di sua mano, e ordinò lo sterminio delle di lui genti (170).

Vi hanno poche guerre nelle quali il carattere tragico si trovi più pronunciato che in quella, che Odoacre sostenne contro Teodorico, e contro gli elementi fattivi della storia e dei destini d'Italia. L’Italia—contiente, l'Italia—penisola e. l'Italia—isola, questa almeno in riguardo alla Sicilia, erano unite. Vi mancavano la Sardegna e la Corsica, ma le quali per Odoacre sarebbero state non un ajuto ma un peso. Le tre Italie avevano un Re di gran senno, valoroso, attivo, impegnatissimo ad assicurare al suo regno sa avveniro prosperoso. D di lui esercito, comecché i più grandi disastri non giunsero scoraggiarlo deve essere stato in nulla inferiore agli eserciti degli antichi Romani. Nel regno di Odoacre compivansi tutte le condizioni poste dal Machiavelli ad un regno italiano per difendersi contro le invasioni forastiere. Quali furono le cause della caduta di quello di Odoacre? — Esso cadde perché non si può fare delle Ire Italie un sol fascio e legarle assieme in un modo durevole, e impedirle di staccarsi da sé, e perché Odoacre non ebbe il modo di tenerle assieme. Esso si trovò nella necessità di concentrare le sue Forze nell’Italia—continente, ed ecco che l’Italia—penisola abbandonata a sé stessa, e non a sufficienza presidiala perché troppo distante, si stacca dall’Italia—continente invece di concorrere alla di lui difesa. Odoacre passa il Po per annodarvi il suo esercito; ed ecco che Milano apre le porte e si dà a Teodorico con tutta l’Italia transpadana, contenta di cangiar padrone. Il suo regno cadde perché nessun regno d'Italia può sussistere senza essere padrone delle Alpi in tutta la loro estensione, e senza che l’Adriatico e il Mediterraneo siano laghi italiani.

Il nostro Segretario non si è data la pena d’istudiare la storia del primo regno d’Italia; esso — non l'ha istudiata, e non ha istudiato il gran movimento dei popoli orientali e settentrionali che scompaginò l'Impero Romano e abbatté l’Impero d’Occidente. Egli ha considerato quel diluvio di genti che dall’Asia si rovesciò sull’Europa, come lo scarico di una popolazione sovrabbondante, simile quello ai quale ricorrevano gli antichi Greci quando il paese che abitavano non bastava alla loro sussistenza; mentre esso fu un seguito di emigrazioni di popoli, i quali vicendevolmente urtavansi e spingevansi innanti.

«I popoli» cosi egli «i quali nelle parti settentrionali di là del fiume del Reno o del Danubio abitano, sendo nati in regione generativa o sana, in tanta moltitudine molte volte crescono, che parte di loro sono necessitati abbandonare i terreni patrj, e cercare nuovi paesi per abitare. L’ordine che tengono, quando una di quelle provincie si vuole sgravare di abitatori, è, dividersi in tre parti, compartendo in modo ciascuno, che ogni parte sia di nobili e d'ignobili, di ricchi e poveri ugualmente ripiena. Dipoi quella parle, alla quale la sorte comanda, va a cercare sua fortune, e le due parti sgravate del terzo di loro si rimangono a godere i beni patrj. Queste popolazioni furono quelle, che distrussero l’Imperio Romano, alle quali ne fu data occasione dagli Imperatori, i quali avendo abbando nata Roma, sedia antica dell’Imperio, e ridottisi ad abitare in Costantinopoli, aveano fatta la parte del l’Imperio Occidentale più debole, per essere meno osservata da loro, e più esposte alle rapine dei ministri, e dei nemici di quelli».

La divisione dell’Impero Romano non fece altro che regolare un avvenimento che riproducevasi di tempo in tempo disordinatamente da sé. L’Imperio Romano era uno Stato smisurato. L’Imperio d’Occidente poteva dirsi men forte, non già più debole, dell'Imperio d’Oriente. l’uno e l’altro rimasero sufficientemente e più che sufficientemente forti. E che l'imperio d’Occidente potesse bastare e più che bastare a sé stesso, ha dimostralo col fatto il regno di Teodorico.

Machiavelli ci dà poi la storia della lotta che ebbero a sostenere contro le irruzioni dei barbari i due Imperj dai tempi di Arcadio e di Onorio sino a quelli di Zenone e del suddetto Re, e ne deduce pei suoi Italiani le seguenti certamente gravissime lezioni: «— E veramente se alcuni tempi furono mai miserabili in Italia ed in queste provincie corse dai barbari, furono quelli che da Arcadio ed Onorio infino a Teodorico erano corsi. Perché se si considererà di quanto danno sia cagione ad una repubblica o a un regno variare principe o governo, non per alcuna estrinseca forza, ma solamente per ci vile discordia, dove si vede come le poche variazioni ogni repubblica ed ogni regno, ancora che potentissimo, rovinano, si potrà di poi facilmente immaginare quanto in quei tempi patisse l’Italia e le altre provincie Romane, le quali non solamente variarono il governo e il principe, ma le leggi, i costumi, il modo del vivere, la religione, la lingua, l'abito, i nomi; le quali cose ciascuna per sé, non che tutte assieme, fariano, pensandole, non che vedendole e sopportandole, ogni fermo e costante animo spaventare (171).

Tutto ciò è bello e buono ma non spiega la detta storia che comprende uno spazio di novantatré anni, sicché poco meno di un intiero secolo.

E lo stesso è il caso di quanto si legge nell'introduzione alle di lui Storie fiorentine , sul regno di Teodorico, su quello dei Greci, e su quello dei Longobardi. L’Italia restà unita ancora ottanta anni, e non cominciò ad avere più padroni cd a spezzarsi che sotto ai Longobardi. Il più importante, la spiegazione della caduta dei detti tre regni vi manca affatto. Il Machiavelli non se n’è occupato, o non ce l’ha voluto dare. Vediamo per quanto le debole nostre forze e i limiti entro i quali devonsi questi miei studj tenersi, lo permetteranno, di ripararvi.

Teodorico non ebbe gran fatica a connettere assieme le tre Italie in nno Stato, e in qualche modo a compiere tutte le condizioni per fare dell’Italia uno Stato potentissimo e indipendente quanto mai uno Stato può esserlo in mezzo ad altri Stati. Egli intrattenne il più che gli fu possibile la pace fra gli Stati limitrofi, e professò poi particolari riguardi e una specie di rispetto e di riverenza per l’imperio d’Oriente. Erano sue oltre le tre Italie e la Dalmazia anche le Alpi in tutta la loro estensione; e fu poco men che padrone anche delle Spagne, che egli reggeva come tutore di un suo nipote. Era già l'anno sedicesimo del suo regno, e non aveva ancora una marina. l’avergli Anastasio Imperatore d’Oriente successore di Zenone nel 508 invasa per mare e saccheggiata la Calabria, gli fece comprendere la necessità di darsene una. Egli se la diede, cioè la creò. Pur troppo però se anche ebbe il modo di crearsi un naviglio, non ebbe quello di fare dei suoi Goti dei marinai. Egli morì, dopo aver regnato trentatré anni, non senza che appunto i suoi ultimi giorni non gli fossero amareggiati da sintomi di trame e di, cospirazioni per parte degli Italiani, che lo spinsero a. degli atti i quali non poco macchiarono la sua memoria. Egli ebbe a successore un suo nipote, Atalarico, il quale non contava che selle anni. In sua vece e in suo nome regnava Amalasunta sua madre e tutrice, figlia di Teodorico, donna di gran senno, di un animo virile e coltissima. Atalarico, divenuto per gli stravizzj infermiccio, mari nell’ottavo anno del suo regno, cioè nel 534. Amalasunta si prese a sposo e correggente, Teodato, un di lei cugino, uomo pessimo, che per regnar solo la chiuse in un castello, ove anche la spense. Il regno, m seguito a questa e ad altre vicende che lunghe sarebbero a dirai e per noi fuor dl proposito, si sconcertò. Goti e Italiani cospiravano alla sua caduta e rovina. Giustiniano, Imperatore d'Oriente di allora, vide in quel!’andamento di cose la possibilità di riconquistare all'Impero Romano l'Italia. Egli era riuscito poco fa ad abbattere il regno dei Vandali nell’Africa, e ad impadronirsi non solo di quella provincia, ma anche della Sardegna, della Corsica, e delle isole Baleari. L’impresa, iniziata nella seconda metà di settembre del 535 sotto la condotta di Belisario suo valentissimo generale con soli quindici mila uomini era in dicembre dello stesso anno, sicché in meno di quattro mesi, compila. Con l’Africa e le dette isole ebbe Giustiniano anche il naviglio del regno vandalico, il quale era una formidabile potenza marittima; acquisto, che gli accrebbe di molto i mezzi per la guerra d’Italia che meditava. I Goti invece dimenticando le massime e i principj di Teodorico, avevano negletto del tutto h loro marina. Questa inferiorità fu la causa, se anche non esclusiva e la sola, pur la principale della piega infelicissima che prese dai primi momenti la guerra che loro fece Giustiniano, e la quale, come tosto si vedrà, durò poco meno di venti anni. Il regno di Odoacre cadde perché gli mancava il possesso delle Alpi; quello di Teodorico perché i suoi successori perdettero il dominio dei mari che bagnano le coste italiane.

I ministri di Giustiniano erano avversi all'impresa d’Italia. La Persia dava da sé sola assai da fare all’Impero. E sembra che anche l'Imperatore vi vedesse dei grandi pericoli. Ma pur vi si decise, e fece contemporaneamente assalire la Dalmazia e la Sicilia: questa da Belisario e quella da un altro generale di vaglia, di nome Mundone. I Goti non ebbero né il tempo, né il modo di presidiare convenevolmente la Sicilia; e Belisario la potè sottomettere tutta Dello spazio di quattro mesi. Mundone fu meno fortunato. La Dalmazia non cadde in potere di Giustiniano, se non l'anno seguente, durante il quale Belisario passò in Italia, e dalla Calabria avvanzò sino a Roma, che gli fu abbandonata. Teodato, codardo e vile in un grado sorprendente paralizzava ogni resistenza. I Goti datisi finalmente un altro re in Vitige valoroso capitano della scuola di Teodorico, la guerra cangiò di carattere e divenne una guerra guerreggiata.

La situazione dei Goti rimase nondimeno sempre assai difficile e fin critica in quanto, che i Greci padroni del mare minacciavano il regno da una estremità all’altra, e che il mare apriva loro, purché non si allontanassero dalle coste, ovunque la via ai soccorsi, sia in truppe o in provigioni da bocca. Belisario potè nel terzo anno della guerra da Roma ove era, con soli mille uomini che spedi per mare a Genova, sollevare contro i Goti tutta la Liguria e Milano, e accendere alle spalle di questi una guerra terribile. D’altronde possedeva il detto generale in un grado straordinario la grand’arte di passare secondo le occorrenze dalla guerra offensiva nella guerra difensiva e viceversa, arte la quale in guerra, se anche non la è tutto, è certamente assai. Questa tattica gli sarebbe stata senza il possesso del mare più di una volta impossibile. La lunga resistenza che, opposero i Goti è una prova incontestabile, che qualora essi fossero rimasti padroni dei mari aggiacenti, come lo erano sotto Teodorico, il loro regno si sarebbe sostenuto. A che dovette Totila i suoi successi? Li dovette all’aver esso compresa la necessità, per vincere, di darsi un naviglio, e che egli riusci a darselo, se anche non superiore a quello dei Greci, pur tale che potesse con esso lottare. Misura di una immensa portata, che gli forni i mezzi di riconquistare tutta l’Italia—continente, tutta l’Italia—penisola, e sino tutta l'Italia—isola cioè la Sicilia, la Sardegna e la Corsica. Ma neppur egli non ebbe il tempo di fare dei suoi Goti dei marinai. l’armata dei Greci alla quale Totila, che aveva tutto le virtù di Teodorico senza i suoi difetti in ultimo soggiacque, comecche fu adunata nella Dalmazia, non avrebbe avuto il modo di guadagnare le Lagune di Venezia e per esse di giungere al Pò e a Ravenna, se i Goti fossero stati padroni dell’Adriatico (172).

La guerra fra’ Greci e i Goti era terminata, quando raccoltosi nelle Alpi un esercito, forte di settantacinquemila avventurieri Franchi e Alemanni, datosi da sé due capi, ne discese, e percorse senza alcun ritegno l’Italia sino alle sue estremità meridionali, malmenandola e desolandola nel modo più orribile, e coprendola su tutte il suo cammino di stragi e di rovine. — L’Italia non riebbe la pace se non nel 555. La rimase unita, ma divenne provincia dell’Impero d’Oriente, che poteva bensì difenderla contro le invasioni forastiere marittime, ma non mai contro le invasioni dei Franchi, degli Alemanni e dei Longobardi, i quali dorante la tolta coi Goti impadronitisi delle Alpi, vi si erano postali. Tutte le porte dell’Italia vennero e rimasero in potere dei Barbari.

Il Muratori giunto coi suoi Annali d'Italia alla caduta dei Goti, fa su quell'avvenimento, col quale cangiaronsi i destini d'Italia, e che segnò per essa un'era novella i seguenti riflessi:

«Con questa azione, (la presa di Compsa oggidì Consa nel regno di Napoli; che i Goti difesero durante tutto l’inverno del 554 al 555 contro Narsete) ebbe fine la guerra e il regno dei Goti; regno che era durato circa sessantaquattro anni; regno non usurpato,. perché conquistato con la permissione dell’imperadore, e regno glorioso finché visse il re Teodorico; ma che in fine fu l’estermio d’Italia, non già per colpa dei so li Goti, ma perché chi volle privarli del loro di ritto ed abbatterli, fece loro una si lenta e lunga guerra. Al nominarsi ora i Goti in Italia, si raccapricciano alcuni del volgo, ed anche i mezzo letterati, quasi si parli di Barbari inumani e privi affatto di legge e di gusto. Cosi le fabbriche antiche malfatte si chiamano d'architettura gotica, e gotici i caratteri rozzi di molte stampe fatte sul fine del secolo quintodecimo e sul principio del susseguente. tutti giudizj figliuoli dell’ignoranza. Teodorico e Tolila amendée re di quella nazione, certo non andarono esenti da molti nei, tuttavia tant» fu in essi l’amore della giustizia, la temperanza, l'attenzione nella scella dei ministri ed uffiziali, la continenza, la fede nei contratti, con altre virtù, che potrebbero servir di esemplare pei buon governo dei popoli anche oggidì. Basta leggere le lettere di Cassiodoro, e in fin le storie di Procopio; nemico per altro dei Goti. Né quei regnanti variarono punto i magistrati, le leggi o i costumi dei Romani; ed» è una fanciullagine ciò che taluno immagina del loro pessimo gusto. Lo stesso Giustiniano Augusto ebbe bensì più fortuna che i re goti; ma se è vero almeno per metà, quanto di lui lasciò scritto Procopio, fu di gran lunga superato da essi Goti nella virtù. Credo io nulla dimeno che influisse non poco alla rovina dei Goti, l’esser eglino stati infetti dell’eresia ariana. Perché quantunque lasciassero agi’Italiani libero l’esercizio dell’antica loro religione cattolica e rispettassero i vescovi, il clero e le chiese e neppur castigassero chi della loro nazione passava al cattolicismo, tuttavia nel cuor de’ popoli e massimamente dei Romani stava fitta una segreta avversione contro d’essi, mal sofferendo di essere signoreggiati da una barbara nazione, e tanto. più perché diversa di religione, dopodiché i più bramavano di mutar padrone. Lo mutarono in fatti, ma con pagare ben caro l’adempimento dei loro desiderj, per gl’immensi danni che seco portà una guer ra di tanti anni; e, quel ch’è peggio, perché questa mutazione si tirò dietro la totale rovina dell'Italia da li a pochi anni, con precipitarla in un abisso di miserie,: siccomme vedremo andando innanzi (173)».

Negli Annali d'Italia del Muratori non vi ha secondo fine. L’egregio Scrittore non ha altro pensiero che di arrivare al vero, e di chiarirlo; egli non ha motivi di occultarlo o di falsarlo per servirsene qual puntello di qualche sua idea o opinione, come non è disgraziatamente che troppo il caso, non dirò di tutti; ma certamente dalla maggior parte degli istoriografi, dei nostri giorni e specialmente degli istoriografi italiani. Che gli Eruli e cosi i Goti fossero ariani, mentre i Romani erano cattolici è un fatto, ma l’avversione della quale qui parla il Muratori è una induzione. Qui il nostro esimio annalista si è detto: i Romani e' gli Eruli, i Romani i Goti erano di nna diverse credenza, dunque dovevano odiarsi. — Ma questa induzione è una pura supposizione priva di ogni fondamento. Per quanto cercassi negli autori di quell’epoca non ne ho trovate la minima traccia; mentre vi hanno delle testimonianze autorevolissime (174).

, che la parte maggiore e miglioro degli Italiani rendeva piena giustizia a quei barbari, vedeva m essi della gente in complesso di buona indole, dotata di una mente sana in un corpo sano, che aveva ricondotta e fermata in Italia la pace; che la difendeva contro ulteriori irruzioni; Che le lasciava le sue istituzioni, le sue leggi, le sue costumanze. Essa era infetta di eresia, ciò è vero; —nonpertanto era la Chiesa cattolica più indipendente più libera nella sua azione, e più padrona di sé stessa sotto l’ariano Teodorico a Roma, che non sotto il cattolico Giustiniano a Costantinopoli. qual riverenza non portavano quei barbari ai Vescovi cattolici? E poi, non era l’armata di Belisario e di Narsete composta per lo più di Unni, di Eruli di Longobardi in parte ariani, in parte fin pagani? Che fiducie in un miglior avvenire poteva inspirare una tal armata ragunaticcia di svariatissime genti, collegate non da altro sentimento che dalla speranza di una ricca preda? — Conchiudiamo, che se anche vi avesse avuto un'avversione negli Italiani contro i Goti, sia in conseguenza di una diverse credenza religiosa o di altro (175).

, la composizione dell’armata dei Greci e tutto il di lei contegno, ne doveva paralizzare l’azione.


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Il vero è, che anche allora vi avevano, come ai nostri giorni, i «Sardanapali» delle grandi città, i quali avevano al loro soldo nelle plebaglie una spezie di armata permanente e stabile, che da essi, appena i barbari accorrevano alla frontiere per respingere una invasione, sollevavasi, e mette va la rispettiva città in istato di ribellione. Ma non è men vero che gl’Italiani direttamente non hanno prestato verun ajuto né ai Goti nella guerre contro Odoacre, né ai Greci in quella contro i Goti. Entrambe quelle guerre sono guerre forestiere e non altro. In nessuna di esse apparisce una truppa e tanto meno un’armata Italiana. Le perdite e le battiture che ebbe a soffrire l’Italia nella guerra gotica sorpassano ogni idea; ma né le nne né le altre apportarono alcun durevole vantaggio ai nuovi invasori. Prescindendo dalle migliaja di campagnuoli e dalle intiere popolazioni che perivano negli anni di fame, — il solo Piceno ne perdette nel terzo anno della detta guerra cioè nel 438 cinquanta mila — a che ha servito la ribellione di Milano nell’anno susseguente? Essa non ha servito ad altro, che a forzare i Goti di ricorrere ai Borgognoni, d’indurli, ciò che fu cosa facilissima a discendere dalle Alpi, e a mettere l’infelice città a fuoco e a sangue. Milano ebbe in quell'incontro tutta la popolazione mascolina, non eccettuati i fanciulli, passata per le armi, e le donne condotte, come nel 490, prigioni oltre i monti. La sorte degli Italiani non entrava per nulla nelle viste, e nelle operazioni dei Greci. Questi non avevan per essi il minimo riguardo. Durante l’invasione dei Franchi e degli Alemanni condotti da Leutari e da Buccellino, Narsete rimase in comodi quartieri d’inverno, e non si mosse che dopo che coloro avevano fatto all'Italia tutto il male che mai le si poteva fare. Come, torno io a dimandare, potevan gli Italiani essere propensi a questi sedicentisi loro liberatori? Insomma tenghiamo per fermo e comprovato, che né il regno di Odoacre né quello dei Goti sarebbe caduto, se quello fosse stato padrone delle Alpi, e questo padrone del mare, come era il caso in ambidue i riguardi del regno di Teodorico.

Facciamoci ora ad indagare la causa o le cause della caduta del regno dei Greci. I Goti avevano durante la guerra coi Greci ceduto ai Franchi e ai Borgognoni tutte le Alpi e gran parte dei paesi subalpini attinenti all’Italia continentale. Il Norico era stato col consenso di Giustiniano occupato dai Longobardi. Narsete tolse ai Franchi, se anche non tutti i detti paesi, però la maggior parte di essi. Ma le Alpi, come già è stato avvertito, rimasero in potere dei barbari, ed andarono per l'Italia perdute. La caduta del regno dei Goti fondalo da Teodorico divenne con ciò un avvenimento, che cangiò i destini d’Italia e dell’Europa. Cosi come i Galli Cisalpini e i Veneti, sotto Roma si trasformarono in Italiani ossia Romani, perché sono gli Stati che creano le nazionalità, cosi sarebbersi fatti italiani anche i popoli alpini, e l'Europa avrebbe avuto in una Italia sino al Rodano sino al lago di Costanza, e sino al Danubio il suo centro e il suo stato normativo. Non solo la storia d’Italia, ma quella del mondo sarebbesi fatta del tutto diversa da quella che si fece.

Che c’insegnano in riguardo agli elementi fattivi provvidenziali della storia d’Italia i due secoli, che durò, dopo la caduta del regno dei Goti, la lotta tra Greci e tra’ Longobardi, e che fini con la rovina degli uni e degli altri?. La storia di questa lotta ridotta a' suoi minimi termini è la seguente. I Longobardi, i più feroci di quanti altri barbari invasero l'Italia, ma nell'istesso tempo anche i più. avveduti, ingrossatisi con. una infinità di altri barbari, di Gepidi, di Pannonj di Bulgari, di Sarmati, di Unni, e di Sassoni, i quali ultimi da sé soli contavano ventimila armati, abbandonarono il Norico e la Pannonia ove erano stanziali, il primo giorno di aprile dell’anno 568; calarono, condotti da Alboino loro re per le Alpi—Giulie nell’odierno Friuli e per esso in Italia, e s'impadronirono già m quell’anno, senca incontrare per parte dei Greci veruna opposizione, con l’eccezione delle lagune che vi hanno lungo le caste dell’Adriatico, di tutto il di lei angolo orientale sino a Padova e ai Colli—Euganei, e sino al Mincio. L’anno seguente passarono essi il Pò, s’internarono nella penisola, correndo sino sotto le mura di Roma, e passarono anche il Ticino, avanzarono sino alle Alpi e le valicarono, e assediarono nell’istesso tempo Pasvia, che oppose loro una vigorosa resistenza pel corso di tre anni ed alcuni mesi. — Queste tante imprese condotte contemporaneamente e che dovettero cagionare une spartizione delle forze in più corpi distinti operanti separatamente, furono dal conte Balbo, nella sua Storia d'Italia sotto i barbari, qualificate come atolide, ed anche il Muratori chiama le spedizioni oltre le Alpi, balordaggini. lo invece non vi vedo se non nna prova, che il numero di quei barbari dovette essere sterminato, e non vedo nelle spedizioni oltre le Alpi se non dei tentativi di sloggiarne i Franchi; il che era tutt’altro che una balordaggine. Il conte Balbo suppone ad Alboino non più di 62 mila armati. Ma se già i Sassoni gliene fornivano 20 mila? A mio debole parere dovette quel re disporre per lo meno di 120 mila uomini. E qual ragione havvi di credere quel re uno spensierato, quando tutto all'opposto le sue gesta ne fanno un uomo di guerra compito, se anche id altri riguardi egli apparisca qual uomo feroce sino alla brutalità? fu fondò a quella spartizione di forza vi stava il pensiero dell'approvvigionamento di quell’immensa moltitudine, di non lasciarla esposta al pericolo di morirsi di fame, di ripartirla nel paese a misura che lo si conquistava, è di fissarvela.

Le notizie che si hanno della lotta ira i Longobardi e i Greci sono scarsissime. Ma gli avvenimenti parlano e si chiariscono da sé. Il primo atto di Alboino subito disceso dalle Alpi, fu di ordinare il paese che incontrò, cioè l'attuale Friuli in modo, che il presidio che vi lascïerebbe, tirando partito della forza dei siti, e delle città murate che vi avevano, potesse fermarvi qualunque irruzione di barbari, trattenerla, e fornirgli il tempo di annodare il grosso dei suoi Longobardi, per soccorrerlo, e per respingere definitivamente gli assalitori. Il Friuli divenne una spezie di principato distinto, che aveva là sua capitale, il suo sistema di difesa, le sue milizie, e il suo proprio principe. Esso fu una colonia longobardica, come erano le colonie romane, il quale servi va a presidiare il paese, e a stanziarvi parte dell'immigrazione. Or siccome questa misera era imposta da dei bisogni generali, e dalla necessità di ripararsi dapertutto contro gli assalti sia dei barbari che stavansi suite Alpi, sia dei Greci che eransi ricoverati nelle città meglio munite lungo il mare, cosi accadde che i Longobardi si spartirono in trentasei stabilimenti o Ducati simili al ducato del Friuli. Non lardarono poi essi a rinforzare questo ordinamento con diverse altre misure, alle quali, per dire, il vero, soltanto un popolo ferocissimo e immane come coloro erano, e che facevasi lecito tutto ciò che serviva al suo scopo, poteva ricorrere. Esso spesso spietatamente i potenti, ossia ultimati italiani, e s'impadronì dei loro fondi, che affittò, verso la retribuzione di un terzo del frutto che se ne ricavava, alla classe campagnuola.

Il modo di guerra che nacque da questo ordinamento dei paesi da quei barbari conquistati fu il seguente. Assalivano i Greci o i Franchi uno di cotesti ducati, i Longobardi stanziati in esso riparavano, con il loro avere mobile, con le loro famiglie, e con quanto più di viveri potevano raccogliere, nella. capitale e nelle città murate più forti, e nei siti più inaccessibili, spogliandone il paese tutt’all’intorno quanto più e meglio potevano. L'invasore si trovava presto in lolla con la mancanza di vettovaglie. Non vi aveva rimedio, conveniva fermarsi e decidersi ad assediare una o l’altra di quelle città. Frattanto non solo il re, ma anche gli altri duchi, persuasi che lasciando cadere p. e. il ducato di Benevento presto toccherebbe. la stessa sorte anche al ducato di Spoleto, e cosi di seguito, adunavano le loro genti. Si correva quindi alle armi da un capo all’altro del regno; l'esercito di soccorso raccoglievasi. L’esercito invasore aveva frattanto fatto nell'assedio. e per malattie perdite considerevoli. Il caso era ben raro, che ’esso si trovasse in condizione di aspettare l’esercito dei Longobardi; esso se ne andava; e se non se n’andava era per lo più sconfitto. Questa è all’incirca la guerra con la quale i Longobardi si mantennero per due se. coli in mezzo fra i Francesi e i Greci. (176)

Ma avrebbero essi avuto la possibilità di ridurre la somma delle loro cose a una tal guerra, se là natura stessa non avesse loro con i monti e con i fiumi frastagliata e divisa l’Italia in paesi distinti convertibili in tanti stati capaci di dipendersi un dalo tempo da sé? — No certamente, ed eccoci al terzo elemento fattivo della—storia d’Italia; ecco il mezzo che ebbero i Longobardi di durare due secoli e più fra due stragrandi potenze, delle quali l’una era padrona del mare e l’altra padrona delle Alpi. Senza quella conformazione telluria la storia d’Italia sarebbe stata in tutto quel lungo periodo tutt’altra.

Ed anche i Greci dovettero in Italia la loro salvezza e la durata del loro regno, se anche in principalità al mare, pur (a parte e in gran parte anche all’elemento topografico, ciò alla forza dei siti e alle città murate munitissime che possedevano in prossimità del mare. Essi erano ancora nel decimo anno della calata in Italia dei Longobardi padroni della Sicilia, della Sardegna e della Corsica; di Genova con tutta la Liguria marittima; della maggior parte dell'odierno regno di Napoli; e della maggior parte dell'odierno Stato Romano con Roma e Ravenna. Fu l’elemento. topografico che permise ai Greci di spartire il paese che loro rimaneva in varj Ducati, e di organitzarvi . una guerra difensiva simile a quella dei Longobardi, che dava il tempo ai soccorsi per mare di arrivare, e ai presidj dei ducati di adunarsi e di respingere gli , assalitori. Egli è vero che anteriormente alla pace che riuscì ai Longobardi di conchiudere nel 590 coi Franchi, pace che durò quasi senza interruzione più di un secolo, i Greci a forza di oro riuscirono più volte a far calare in loro ajuto i Franchi dalle Alpi in Italia. Ma questo espediente cessò con quella pace intieramente. Ed è vero altresì che alla difesa della città e dei paesi dei Greci concorressero anche gl’Italiani. Pavia fu certamente difesa in principalità se anche non esclusivamente da’ suoi cittadini; ed è certo che correvano alle armi all’avvicinarsi—dei Longobardi anche i Romani, anche i Ravennati. Ma il caso era lo stesso se non già nel primo certamente nel secondo secolo anche nei paesi dei Longobardi, cosicché in questo guardo si trovavano ambedue le parti nelle medesime circostanze.

Tale è la storia d'Italia dal 568 sino al 750 circa, cioè dall’invasione, o, per dir meglio, immigrazione longobardica, sino all’epoca nella quale i Franchi avendo cacciati i Saraceni oltre i Pirenei, ed essendo passati sotto una nuova dinastia, energica, intraprendente, risoluta, ambiziosa, si rivolsero verso 1’1talia, e che le Alpi ridivennero vive, e si fecero di nuovo sentire all'Italia, ciò che da. gran tempo non era più stato il caso. Con Pipino figlio di Carlo—Martello ricomincia per gl’Italiani in generale, e pei Longobardi in particolare una nuova era. In quel mezzo aveva avuto luogo un grandissimo cambiamento anche coi. Greci, i quali avevano perduto il dominio del mare, e con ciò l'elemento della loro possanza nell’Italia. La Sicilia. la Sardegna e la Corsica erano divenute isole saracene. Senza i Franchi sarebbe divenuta saracena come l’italia—isola anche l’Italia—penisola, e anche se non tutta l'Italia—continente per lo meno la Liguria marittima. Gl’Italiani nella lotta fra i Greci e i Longobardi non si stettero passivi come nella guerra fra Odoacre e Teodorico, e come in quella fra i Greci e i Goti, ma, come poco fà ho avvertito, vi presero parte gli uni coi Greci e gli altri coi Longobardi, cosicché vi cangiarono di carattere e riacquistarono lo spirito guerriero, che gl’împeratori romani avevano in essi spento. Ma da Costantinopoli non venivano se non soldati e per lo più mercenarj e barbari e pochi, e negli ultimi anni pochissimi. Ciò fece che gl’Italiani nei paesi dei Greci rimasero Italiani, mentre in quelli dei Longobardi divennero Longobardi come i Galli—Cisalpini, in meno di un secolo assimilandosi ai loro padroni, divennero Romani ossia latini (177).

Cosi trovossi l’Italia spartita fra due popoli con dialetti modi, costumi, leggi, governi, interessi diversi, che s’intralciavano uno nell’altro. Qui erano dei Longobardi in mezzo ad un possedimento greco, lì un territorio dei Greci in mezzo al paese dei Longobardi. Quindi ovunque, come è il solito in tali casi, le inimicizie e gli odj reciproci. Gl’Italiani di puro sangue avrebbero preferito di passare sotto i Saraceni che di divenire Longobardi (178).

Minacciati da questi ogni giorno di più, abbandonati dai Greci, chiamarono essi in loro ajuto i Franchi, pel qual passo i Pontefici Romani, pi si fecero loro interpreti, e loro oratori. Questi non comprendevano e non prevedevano che troppo, che gl’Italiani nei Francesi invece di protettori si davano dei padroni. Ed è un fatto essersi dessi dato ogni pena, per indurre i Longobardi a starsi in pace per tener i Franchi lontani e oltre le Alpi. Non vi riuscirono. Non sono i Pontefici che hanno fatta la storia d'Italia.

Questi sono gl’insegnamenti che fornisce la storia d’Italia dalla caduta dell'Impero d’Occidente, anzi, dalla divisione dell'Impero Romano sino pi tempi di Carlo Magno, epoca di quasi quattro secoli, qualora la si studia nei di lei elementi fattivi provvidenziali, nella azione complessiva di questi, e pelle modificazioni della detta azione per parte dell’uomo il quale non cessa di esserne il principio vivificante. Una cittadella senza guarnigione è per la città sottoposta come se non la vi fosse; cosi sotto le Alpi senza l’uomo come se si fossero spianate o inabissate; e cosi è il mare, senza un naviglio che lo padroneggi, coma se lo si fosse asciugato.

Non è del mio assunto e non saprebbe esserlo di ripassare, in riguardo ai di lei elementi fattivi. tutto la storia d'Italia. Io volli soltanto dimostrare, che il Macchiavelli ancorché si avesse potuto egli stesso posto la questione: a chi, e a quali cause fosse da ascriversi la sorte che toccò all’Italia, e che la condusse nei termini nei quali la si trovava ai tempi quando egli scriveva il suo Principe, i suoi Discorsi, e le sue Istorie fiorentine, (1513—1525) che il Machiavelli dico non ha istudiata la storia d’Italia in riguardo ai detti elementi. E lo stesso è da dirai anche degli Storici italiani che vennero dopo di lui. Se anche taluno ne parla, lo fa per incidenza e di passaggio. Nessuno vi si ferma. Ecco per esempio ciò che se ne legge nella Storia italiana del Signor Cantù. L’egregio Istorico dopo aver dedicate sette intiere pagine a delle notizie geografiche, geologiche, e geognostiche passa alle seguenti osservazioni, e ai seguenti riflessi:

«Pochi paesi ebbero da natura confini come l’Italia, cosi ben determinati per crescervi una nazione autonome, dagli stranieri separata pei mare, e per le montagne; eppure da quello e da queste le vennero continuamente abitanti, educatori, deva statori, padroni. Polibio un secolo e mezzo avanti Cristo indicava quattro passaggi ne’ monti verso la Gallia: uno per le Alpi Marittime litorali, aperto anticamente da Ercole, e dove fu poi tracciala la via Aurelia; una per le Alpi Cozie, e la piccola Dora, ai Taurini; il terzo pei Salassi della val d’Aosta scendendo il monte di Giove, che ora è il San—Bernardo; il quarto pei letto del Ticino. I Romani poi resero accessibili nelle Alpi Retiche le vallate del. Reno e dell’Adige, e nelle Carniche quelle del Tagliamento e dell’Isonzo; a tacere il litorale adriatico, ove le montagne si chinano sino al mare».

«Lo svilupparsi delle coste per duemila miglia, con tante insenature, e con eccellenti porti, e il riuscire poco discosti del mare anche i paesi dell’interno rendono l’Italia appropriatissima al commercio, e a divenire potenza marittima. Ma la sua lun0 ghezza di sei cento settanta miglia dal capo Rizzuto fin al monte Bianco ch’è la più elevala. cresta 0 d’Europa, sopra una larghezza che varia da venti 0 sino a trecento miglia; e tanti fiumi e valli che 0 la frastagliano, sembrano disporla a rimanere frazionata in piccoli Stati, quale la sua storia ce la 0 mostra, senza quell’unità di governo e di capitale., 0 di cui si compiacciono altre nazioni». — Quivi, come si vede, non isfuggì al nostro autore, che una tale estensione di coste con tante insenature e con eccellenti porti, rendeva appropriata l'Italia al commercio, e a divenire potenza marittima. Ma se non gli sfuggi questa qualificazione al commercio e a divenir potenza marittima, è mai possibile che gli sia sfuggita la dipendenza nella quale questa stragrande estensione delle sue coste metteva e aveva sempre messa l'Italia da chi era padrone dei due mari aggiacenti? Ben vide egli nel frastagliamento dell’Italia un elemento fattivo della di lei storia, ma se ne spiccia con pochissime parole, e si astiene affatto dal parlare della dipendenza dell'Italia—continente dalle Alpi, e da chi ne aveva il dominio; e ciò abbenché ne parli altrove, ma di passaggio, ove discorre del corpo d'armata raccolto dal generale conte Nugent a piedi delle Alpi sull’Isonzo per esser condotto in rinforzo al maresciallo conte Radetzky, e dove dice:

«Quelle Alpi che sgomentano l'immaginazione e. fan bel giuo0 co alla poesia, non furono mai insuperabili ad eserciti forastieri, da Ercole fin adesso, quando Nugent 0 meno per le Carniche ventimila uomini a soccorso 0 di Radetzky (179)».

Egli era certamente cosa ben naturale che lo scrittore di una storia degli Italiani si occupasse pur anche della spiegazione di un fatto di tanta importanza,e ricercasse il perchè quei monti abbenché sgomentino l'immaginazione sono sempre stati superabili. Questa indagine questi studj non sarebbero stati a uno scrittore di tanto polso difficile Egli ciò nonostante non la fece.

Vi ha poi ancora una categoria di Scrittori Italiani dai quali si doveva aspettare uno studio ed esame rigorosissimo ed esauriente degli elementi fattivi dei destini e della storia d’Italia, cioè dai promotori della questione cosi detta italiana, e delle pretensioni che la costituiscono. L'hanno essi fatto? l'ha fatto il conte Balbo nelle sue Speranze d’Italia? L’ha fatto l’abate Gioberti nel suo Rinnovamento civile d’Italia?

Il conte Balbo ha parlato a lungo nel summenzionato sue libre dell'elemento etnografico, è vi ha Veduto un ostacolo insuperabile alla fusione dell'Italia in un solo ed unico Stato. Il Lettore troverà ciò che il detto conte ha saputo dirci in questo proposito per intiero nel capitolo VI. pagina 218 di questi studj. Esso poi rinviene sull’istesso argomento in uno dei seguenti capitoli vale a dire nel quinto, e ivi si legge.

«L’Italia come avverte molto bene il Gioberti, raccoglie da settentrione a mezzodì provincie e popoli quasi cosi diversi tra sé, come sono i popoli più settentrionali e più meridionali d’Europa; ondeché fu e sarà sempre necessario un governo distinto per ciascuna di tutte o quasi tutte queste provincie. E come in Europa rimasero, salvò le brevi eccezioni, quasi sempre distinte quelle sue di visioni di Britannia, Gallia Spagna, Germania, Italia e Grecia; cosi nell’interno della penisola nostra rimasero quasi sempre distinte: la punta meridionale, la valle Tiberina co’ suoi monti e sue maremme, il bel seno( ;) dell’Arno, e l’Italia settentrionale divisa o non divisa in occidentale ed orientale; la Magna—Grecia o Regno di Napoli, il Lazio o Roma, l’Etruria o Toscana, la Liguria o Piemonte, la Insubria o Lombardia, con nomi e suddivisioni varie ma tornanti alle prima rie. Ma ei vi son pure somiglianze in queste varietà; unità in queste divisioni, comunanze di schiatte, di lingua, di costumi, di fortune, di storie, d’interessi e di nome tra queste provincie; è una antica ed incontrastabile Italia. E quanto men sovente queste comunanze si manifestarono in produrre uno stato universale italiano, tanto più sovente elle produssero confederazioni or provinciali or nazionali». —


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Ma la fine di questo discorso, la conclusione, non è ammissibile.(180)

Parziali confederazioni vi ebbero nella penisola innanzi che Roma fosse fondala, è v’ebbero delle parziali sovente contro di essa; ma di una confederazione di tutti i popoli italici contro l’eterna città non vi ha traccia; questo accordo non ha mai avuto luogo neppur nella guerra italica alla testa della quale si era messo Pirro, e che fini con la presa di Tarante nell’anno di Roma 482. La Storia c’ insegna tutto l’opposto di ciò che qui le si fa dire. L’Italia è stata, non soltanto sotto Odoacre, ma anche sotto gli ultimi Imperatori romani, e dopo Odoacre sotto Teodorico e sotto i Greci, unita. La si spezzò in molti piccoli Stati 'distinti con la venuta dei Longobardi; e d’allora innanzi vi ebbero bensì più volte delle confederazioni parziali, e delle leghe; ma una confederazione generale di tutto tre le Italie mai, e neppure una confederazione delle tre isole, o della penisola, o dell'Italia settentrionale. Il conte Balbo se pur ha studiato l’elemento etnografico italiano non l'ha studiato a dovero. Questo è il solo fra gli elementi fattivi dei destini e della storia d’Italia la di cui azione può non solo sospendersi ma anche comprimersi, se anche non distruggersi. In fatti i Romani riuscirono a comprimerlo in poco men che in tutte le loro provincie europee, e particolarmente nell’Italia (181).

Ma risorse con l’immigrazione longobarda, e con lo spezzamento dell’Italia—penisola, e dell’Italia—continente in diversi Stati distinti. L’Italia porge anche dopo la caduta dell'Impero d'Occidente esempj di una fusione per opera del forastiero in un solo ed unico Stato; all'incontro nessuno di una confederazione generale. Gli altri elementi fattivi della storia e dei destini d’Italia si sono dal conte Balbo intieramente trasandati.

L’abate Gioberti ha, come si e da me più volte avvertito (Veg. al cap. V. la nota 1. pag. 193) lanciato una spezie di anatema contro ogni discussione dei suoi cosi detti pronunciati assiomatici: unità, libertà, indipendenza italiana: e quindi anche contro Io studio che qui ci occupa. La necessità di questo studio non può essergli sfuggita; egli non portante non l'ha fatto. Eccone la prova. «Chi oserebbe» dice egli nel Tomo IL pag. 38 del Rinnovamento «ridotta l’Italia una e forte, chiederne lo smembramento, pogniamo che in cuor suo, che per fini privati lo bramasse? E se pur tal follia annidasse in alcuni, chi può credere che sarebbe assentita dall’universale? — Né torna a proposito l'obbiettare le condizioni geografiche, e le usanze, le gare, le invidie, gli interessi municipali. Imperocché non si tratta di dare all'Italia una tale unità che sia viziosa, e di scordi dalla sua natura, o troppo contrasti alle sue abitudini. Le unità fattizie e innaturali non provano e non durano, come quelle che troppo allargano o troppo stringono; tengono più conto dell’apparenza che della sostanza; disgiungono invece di unire, e accrescono le sette invece di spegnerle; quali furono nel medio evo l’unità papale dei guelfi e l’unità imperiale dei ghibellini. Il sistema federativo non è già falso da ogni parte; poiché tanto giova nell’amministrazione quanto nuoce nella politica. L’Italia par destinata a comporre dialetticamente i suoi pregi e vantaggi con quel dell’ordine contrario... La dualità della Toscana e del Lazio, la moltitudine delle città principi, la forma sprolungata della penisola, le consuetudini antiche richieggouo in Italia una certa diffusione; e per contro il vapore, scemando le distanze e ravvicinando gli estremi, facilita una certa uni là, e scioglie l'obbiezione del Bonaparte a questo proposito».

Questo è tutto il frutto che l’abate Gioberti ha tratto dagli lucidissimi additamenti che leggonsi sulla conformazione geografica dell'Italia nelle Memorie dettate da Napoleone nell’isola di Sant’Elena. Delle Alpi e dei mari che con esse circondano le tre Italie parla egli nel seguente brano della succitata sua opera Tomo II pag. 184.

«Italia e Francia appartengono alla famiglia delle popolazioni latine e cattoliche; e nelle prime s'infusero alcune stille di quel sangue celtico e germanico che fu temperato nella se conda dal romano legnaggio e dal baliatico della santa sede. Oltre la contiguità del sito, l'affinità del costume e dell’idioma, corre fra esse similitudine di postura: amendue littoranee a sopraccapo di un mar comune, che più vale a congiungere con le acque che non servono a partirle di verso terra i macigni e le nevi delle Alpi».

Queste poche righe provano, che l’abate Gioberti non si è mai seriamente occupalo delle relazioni politiche fra la Francia e l’Italia derivanti dal mare Mediterraneo qual mare comune, né delle Alpi, che sono monti italiani soltanto alla loro estremità meridionale e ovunque altrove monti o francesi o svizzeri, o austriaci (182).

L’Italia divenuta potenza marittima di primo rango riprodurrebbe nel mediterraneo rimpetto alla Francia il caso di Roma e di Cartagine. La Francia non ammetterà mai una comunanza di possesso del detto mare. Essa la soffre con l'Inghilterra, per ché i preparativi per porvi un fine non sono ancora giunti a maturità e a quel punto da togliere ogni dubbio sul buon esito dell’impresa. E anche l'Inghilterra è interessata, che l’italia non divenghi una potenza marittima da poter, unendosi alla Francia, cooperare a escluderla dal Mediterraneo. Il possesso di questo mare è tanto per la Francia che per l'Inghilterra una questione vitale. Se la Francia riesce a escludere l'Inghilterra dal Mediterraneo, l’Egitto finisce per divenire una provincia francese. Il taglio dell’Istmo di Suez ridurrà le difficoltà per la Francia di accostare le Indie orientali alla metà di quelle che sono stato finora. Il canale dell’Istmo di Suez sarà un canale esclusivamente francese (183).

E perciò mi credo autorizzato di conchiudere, che l’Italia non ha in verun modo studiato i detti elementi fattivi della sua storia e dei suoi destini; e quindi che non la conosce sé stessa, e che la è all’oscuro delle relazioni impostele dalla natura coi paesi limitrofi, e della di lei dipendenza da essi in particolare, e dall’Europa in generale. Donde poi segue che tutti i progetti di un riordinamento, o rinnovamento dell’Italia sono spensieratezze avventuratesi a occhi chiusi, e creando un mondo fantastico ideale senza principj, senza diritti, senza Leggi. L’italia del Congresso di Vienna era nel più perfetto accordo cogli elementi fattivi provvidenziali detta di lei storia e dei di lei destini, soddisfaceva intieramente alle condizioni di una pace solide, durevole, perpetua, che è il «bonum potissimum» pegli uomini «bonae voluntatis». L’ordinamento dell’Italia dettato dal detto congresso oltre ad essere fondate nel diritto che impartisce una guerra qual era quella che l'Europa faceva negli anni 1813, 1814 e 1815 a Napoleone Bonaparte, e oltre al corrispondere poco men che senza eccezione ai voli delle popolazioni italiane, metteva il più perfetto accordo fra gli interessi dell’Europa e quelli dell’Italia, alla qual ultima diede nell’Austria non una padrona, ma una salvaguardia sotto la sorveglianza di tutte le grandi potenze, tutte egualmente garanti della di lei pace e prosperità. Non vi ha vero progresso che dall'ordinamento del congresso di Vienna non fosse all'Italia assicurato. Se esso aggiungeva col regno Lombardo—Veneto un quinto dell’Italia all’Austria, aggiungeva anche l’Austria all'Italia; e l’Italia diveniva parte integrante del concerto Europeo.


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___________ NOTE _____________

1

Per farsi un'idea approssimativa dei patimenti, e dello squallore dell’Italia sotto Napoleone Bonaparte, basta pensare agli immensi mali, che vi dovevano produrre le incessanti terribili sue guerre; all'orribile consumo di uomini e di sostanze; all'estrema miseria nei distretti marittimi e nei porti di mare per la totale mancanza di commercio; all'insufficienza della mano d'opera in ogni genere d'industria e in ispezialità nell'agricoltura; e ciò non solo per le continue leve di soldati, ma anche pel gran numero di coscritti—refrattarj, che nascondevansi nelle lagune, e maremme, nei boschi e nei monti; alla nessuna sicurezza delle strade e dei luoghi appartati, esposti alle aggressioni di quegl'infelici, che la fame convertiva in bestie feroci. — E per farsi un'idea di qual tempra d'animo si fosse il padrone, che gli Italiani servivano, basterà leggere i seguenti brani di lettere confidenziali a Giuseppe Bonaparte suo fratello:

«— Avrei gusto che la canaglia di Napoli a' ammutinasse: in ogni popolo conquistato un’insurrezione i necessaria. Non sento, abbiate fatto saltar le cervelle a un solo lazzarone, eppure essi adoperano lo stilo:... Ho udito con piacere la fucilazione del marchese di Rodio... Mi fa gusto il sapere, che fa incendialo un villaggio, insorto: m'immagino l'avran lasciato saccheggiare dai soldati... Gl'Italiani, e in generale i popoli, se non s’accorgono del padrone, propendono alla rivolta. La giustizia e la forza sono la bontà dei re, che non bisogna confondere colla bontà d’uom privato. Aspetto d'udire quanti beni avete confiscati in Calabria, quanti insorgenti giustiziati. Niente perdono; tale passar per le armi al meno seicento rivoltosi, bruciar le case de’ trenta principali d'ogni villaggio, e distribuire i loro averi all'esercito. Mettete a sacco due o tre delle borgate, che si condussero peggio; servirà d'esempio, e restituirà ai soldati l'allegria e la voglia d'agitare». (Ved. Cesare Cantù. Storia degl’Italiani, Vol. VI. Lib. XVI. c. ISO.)

2

Ces. Cantù lib. XVI. c. 182.

3

Melzi proponeva, cosi Cesare Balbi nel suo libro delle Speranze d'Italia cap. 6., — che l'Italia settentrionale fosse riunita «sotto una sola dizione, ed assentendo fin lì pur Napoleone, proseguì il Melzi a cercare qual casa di principi si potesse chiamare a si bello Stato, e nominò casa Savoia. Sorrise allora malcontento Napoleone. Ed insistendo Melzi a mostrare come ciò converrebbe insieme all’equilibrio d'Italia, ed a quello d'Europa. Ma chi vi parla di equilibrio, riprese vivamente Napoleone. — E Melzi stato alquanto sopra sé: — Or intendo, m'ingannai. Io dove va parlare di preponderante. — Cosi è, or v'apponete, riprese Napoleone».

Nell’opera: Mémoires pour servir à l'histoire de France sous le régné de Napoléon écrits à S( lr) Hélène sous sa dictée, si legge:

«Mais quoique le sud de l'Italie soit par sa situation, séparé du nord, l'Italie est une seule nation; l’unité des mœurs, de lento gage, de littérature doit, dans un avenir plus ou moins éloigné, réunir enfin ses habitans sous un seul gouvernement. Pour to exister, la première condition de cette monarchie sera d'être puissance maritime afin de maintenir la suprématie sur ses îles, e de défendre ses côtes». (Tome I. ch. 4. $. 6.) E nelle sue note al libro:

«Les quatre concordats Napoléon voulait recréer la patrie italienne; réunir les Vénitiens, les Milanais, les Piémontais, les Génois, les Toscans, les Parmesans, les Modenais, les Romains, les, Napolitains, les Siciliens, les Sardes, ~ (tace dei Corsi) dans une seule nation indépendante, bornée par les Alpes, les mers Adriatique, d'Jonie, et Méditerranée; c'était le trophée immortel qu'il élevait ù sa gloire... Mais Napoléon avait bien des obstacles à vaincre! Il avait dit i la consulte de Lyon: Il me faut vingt ans pour rétablir la nation italienne... L’empereur attendait avec impatience la naissance de son second fils, pour le mener à Rome, le couronner roi d'Italie et proclamer l'indépendance de la belle pennisule, sous la régence du prince Eugène...» (Tome IV. p. 215 et 217.)

4

Senatus—consulte du 17 février 1810. — Titre I. «De la réunion des états de Rome à l'empire. 1.° L'état de Rome est réuni à l'empire traçais, et en fait partie intégrante. 2.° Il formera deux départements, le département de Rome, et le dé parlement du Trasimène… 6.° La ville de Rome est la seconde ville de l'empire. 7.° Le prince impérial porte le titre, et reçoit les honneurs de Roi de Rome... 10.° Après avoir été couronnés dans l’église dé Notre—Dame à Paris, les empereurs seront couronnés dans l'église de Saint Pierre de Rome,, avant la dixième année de leur règne. (Mem. ut s. Tome IV, P. 210)».

5

— Enfin Alexandrie, base essentielle de la puissance française en Italie. (M. A. Thiers. Histoire du Cons. et de l'Emp. Tome VII. liv. XXV, p. 25.

6

Mémoires du Maréchal Marmont Duc de Raguse. Tome III. Année 1809. Bataille do Wagram.

7

Veg. Gli ultimi rivolgimenti italiani. Memorie storiche di F. A. Gualtiero con documenti inediti. Vol. 1. p. 221.

8

Gli stessi suoi generali lo giudicavano tale. «— Je me souviens en effet, Sir» — scriveva un dì il maresciallo Davouat a Napoleone, qu'en 180sans les miracles de Votre Majestà h, Ratisbonne notre situation en Allemagne eût été difficile. (Thiers u. s. Tom. XII. liv. XLI1I. p. 407)».

9

Das Heer von Inner—Ôsterreich unter dem E. H. Johann im Kriege von 1809, in Italien, Tvrol, and Ungarn. 6. Kap. p. 299.

10

Ces. Cantù c. s, lib. XVI. r, 182.

11

«Napoléon avait certainement l'esprit beaucoup trop, ouvert, pour ne pas discerner cet état de choses, mais loin de conclure, qu’il fallait se garder de l’agraver par une nouvelle guerre, loin de raisonner comme il avait fait au retour de la campagne de Wagram, alors qu’il avait un moment songé à calmer l’Europe lui donnant la paix, il en conclut que la guerre de Russie était urgente à comprimer bien vite en 1812, comme en 170les soulèvements prêts à éclater. (Thiers ut. a. Tome XIII. liv. XLIII)»

12

C. Cantù lib. XVI. c. 182.

13

Continuerions degli Annali d'Italia di L. A. Muratori. Anno 1813.

14

Veg. nelle memorie del maresciallo Marmont la «Relation de la mission du Prince de la Tour et Taxis, envoyé par les souverains alliés auprès du Prince Eugène, en novembre 1813, faite à Münich le 15 novembre 1836, et adressée à son A. R. Madame la Buchesse de Leuchleoberg, veuve du Prince Eugène». E la: lettre du Roi de Bavière Maximilien—Joseph au Prince Eugène. Nymphenbourg le 8 octobre 1813. —E anche nella Storia degl'Italiani del signor Cantù lib. XVI. c. 182, la lettere di Eugenio Beauharnais a sua sorella Ortensia che conforma questo fatto, e che cosi incomincia:

«Ma bonne soeur... Un parlamentarie autrichien (era come ho detto nel testo un Colonnello bavarese, il Principe Thurn—Taxis, ma in uniforme austriaca) a demandé avec instance à me parler. Il était chargé—de la part du roi de Bavière de me faire les plus belles propositions pour moi—et pour ma famille, et assurait d’avance que les souverains alliés approuvaient que je m'entendisse avec le roi pour m'assurer la couronne d'Italie. La lettera è scritta il 2novembre 1813. L'esimio Storico aggiunge: Nei patti, che proposero a Na poleone gli Alleati a Chatillon v'era, che l'Italia restasse indipendente e data ad Eugenio con le isole Jonie». —Scusi il Signor Cantù, ma è la verità, che niente di tale sta nelle proposte che furono fatte in quel congresso, a Napoleone. Nel «Projet d'un traitè préliminaire entre les hautes jouissances alliées et la France» è detto: «Art. 2. S. M. l'empereur des Français rénonce pour lui et ses succeseurs, à la totalitè des acquisitions, réunions, ed incorporétions de territoire faites par la France depuis le commencement de la guerre de 1792... etc.

«Art. 4. S. M. l'empereur des Français reconnaît formellement, la reconstruction suivante des pyvs limitrophes de la France:

1.° L'Allemagne composée d'états indépendants unis par un lien fédératif; 2 L'Italie divisée en états indépendants, placés entre les possessions autrichiennes en Italie, et la France.

Nel contraprogetto del Duca di Vicenza Coutaincourt: «Projet de traitè définitif entre la France et les alliés», si legge: «Art. 4. S. M. l'empereur des Français, comme roi d'Italie ré nonce i le couronne d'Italie en faveur de son héritier désigné, le prince Eugène Napoléon, et de ses descendants à perpétuité.

«L'Adige formera la limite entre le royaume d'Italie et l’empire d'Autriche.

«Art. 13. Les Îles Joniennes appartiendront en toute souverainetà au royaume d'Italie: (Manuscrit de mil huit cent quinte par le Baron Fain.) « Era dunque Napoleone, che assegnava ad Eugenio il regno d'Italia con le isole Jonie, ma senza le provincie venete, le quali sino all'Adige sarebbersi rimesse all'Austria, non gli Alleati. Il progetto degli Alleati fu presentato al congresso il giorno 17. Febbrajo 1814, il controprogetto quasi un mese più tardi, li 15 marzo.

15

«Vi aveva nell'autunno del 1815 a Palermo al quartier—generale di Lord William Bentinck un continuo venire e andare d’Italiani, che sollecitavano sbarchi di truppe e di armi, ora su questa ora su quelle Costa. Assicuravano che nella penisola non vi aveva che un pensiero, quello di un riscatto dalla tirannia sotto alla quale non gemevano, ma fremevano; avervi migliaja di coscritti—refratterj, che se avessero armi sortirebbero dai loro nascondigli, e libererebbero da sé soli il passe. Milord Bentinck volendo verificare questi ragguagli pensò di tentare uno sbarco suite coste detta Toscana, e vi destinò circa ottocento uomini della legione italiana, detta quale vi avevano due reggimenti in Ispagna, che vi si conducevano tanto in riguardo a coraggio che a disciplina militare egregiamente. La spedizione fu affidata ad un tenente—colonnello che aveva servito in Austria. L'imbarco si fece a Melazzo. La squadra, che la prese a bordo si componeva di due navi da settantaquattro, due fregate ed alcuni legni minori; la comandava Sir Josias Bowlev uno degli uffiziali più distinti della marina inglese. L'istruzione non diceva altro m non: Lo scopo vi è noto. Verificate i ragguagli che ai hanno nulle disposizioni di quelle popolazioni ove sbarcherete. Il giorno 10 dicembre si prese terra a Viareggio, piccolo porto lucchese. Si avevano dei cannoni, ma non i cavalli per condurli. Il paese li fornì. In due ore ai potè porsi in marcia per Lucca; a mezzanotte, dopo due o tre colpi di cannone tirati contro una delle porte della detta città, vi si entrò. La truppa prese posto sulle mura, occupandovi tre bastioni con le cortine frapposte, e vi restà unita. Fattosi giorno, i Lucchesi le facevano buon viso, la lodavano, ma nient'altro. dopo alcune ore ai produsse un grande concorso di paesani; si credette che fossero insorgenti; erano curiosi. Si avevano diverse casse con bei fucili inglesi che loro si offrivano, ringraziavano con bella maniera, ma si guardavano di toccarli. Si venne presto a comprendere che a quella fiera non si farebbero affari.

Ma già la guarnigione di Livorno ai era messa in marcia in cerca dei briganti, come chiamavansi da essa quegl’Italiani, per farne strage. A tal nuova il comandante ritornò subito a Viareggio per rimbarcarsi e correre per mare sa Livorno, che trovavasi senza presidio, e ove vi aveano migliaja di famiglie, che per la total mancanza di commercio lottavano con la più grande miseria. Si stava preparandovisi, quando si vide arrivare il nemico forte di circa millecinquecento uomini con quattro cannoni. Ma non durò molto, che fu posto in fuga e sbaragliato, e che gli si tolsero i suoi cannoni e presero da duecento prigionieri. Si passò poi al rimbarco, e il giorno seguente quegl'Italiani trovavansi di già padroni dei sobborghi di Livorno. La guarnigione non vi era. Ma vi eran venuti duecento in trecento soldati su due briga francesi da Portoferrajo. Non si potevano trovar scale. Livorno era tranquillissima, e cosi anche i suoi sobborghi. Frattanto ritorna la guarnigione, riordinatasi. alla meglio che potè, e con dei rinforzi avuti da Firenze e da Siena, fra quali uno squadrone di Usseri. Ma é di nuovo posta in fuga, con non indifferente perdita in morti, feriti e prigionieri,nel qual incontro due compagnie di quei legionari quasi tutti romagnoli, diedero a divedere di essere soldati a tutta prova. Però Livorno, e cosi i suoi sobborghi rimangono tranquillissimi. Può essere benissimo che non vi si fosse in verun modo preparati. Il comodoro inglese vi volle vedere una totale indifferenza, e un po’ sdegnato, avvertì ch'egli aveva l'ordine, pel caso che non vi si producesse una cooperazione, di ricondurre quella brava gente a Palermo, e la ricondusse. Il comandante della spedizione riferì a Milord Bentinck che i ragguagli che si avevano non erano veri; che quelle popolazioni che aveva vedute sembravano conte ammortite; che vi regnava una grande esacerbazione contro il loro governo, che il pensiero d'insorgere non vi aveva; che ciò non provava che non la si potesse eccitare; che ciò dovrebbe essere l'opera dei Signori; aver dimostrato quei suoi Italiani tanto a Viareggio, che a Livorno, «Che l'antico valore

Nell'Italici cor non è ancor morto».

16

I proclami del Conte Nugent e quello di Lord William Bentinck si trovano nel Vol. I. pag. 223 e 226 degli ultimi rivolgimenti d'Italia del Gualterio; dei manifesti di Gioachino Murat e dei suoi generali vi hanno nella storia degl’Italiani di Cesare Cantù, lib. XVI. c. 182, i seguenti brani: — «Fin quando credei Napoleone combattesse per la pace e felicità della Francia, feci della sua voglia la mia; vistolo in perpetua guerra, per amore de' miei popoli me ne separo. Due bandiere sventolano in Europa: su l'una è scritto religione, morale, giustizia, moderazione, legge, pace, felicità; su l’altra persecuzione, artifizj, violenza, tirannia, lagrime, costernazione in tutte le famiglie. Scegliete». — E ancora più francamente, osserva il Signor Cantù, arringava il suo generale Carascosa da Modena gli abitanti dell'alta Italia; — dopo secoli di «divisione, di debolezza e d'occulte virtù, spunta per noi il desiderato giorno in cui, combattendo per gli stessi interessi, difendendo la stessa patria, non abbiamo che ad unirci intorno al magnanimo, re, al primo capitano del secolo, per esser sicuri d'arrivare di vittoria in vittoria al placido e tranquillo possesso della uni là e dell'indipendenza. Italiani! confondetevi nelle nostre file, abbandonate quelle dei vostri oppressori, e non date all’Europa lo spettacolo lagrimevole d’Italiani del mezzogiorno combattenti con quelli d’oltre il Po, nel momento in cui un appello magnanimo li chiama ugualmente all'onore, alla gloria, alla felicità».

Ivi si legge anche parte di un proclama del Maresciallo Conte Bellegarde, il di cui principio è: — Italiani di tutte le nazioni che «l'ambizione di Napoleone curvò sotto il suo giogo, voi siete l’ultima per cui suonò l’ora della redenzione...»

17

Le seguenti due lettere che si leggono nelle Memorie del Maresciallo Marmont daranno una idea del giuoco al quale Murat giocava come alleato dell'Austria. — Le Prince Eugène à Napoléon. 18 février 1814. «— Le roi s'est toujours refusé à cooperer active ment au mouvement des Autrichiens... J’ai une armée de 36000, hommes dont 24000 Français et 12000 Italiens. Mais de ces 24000 Français plus de la moitié sont nés dans les états de Rome et de Gênes, en Toscane et dans le Piémont, et aucun d'eux, as sûrement n'aurait repassé les Alpes. Les hommes qu'appartiennent aux départements du Léman et du Mont Blanc qui commencent déjà a déserter auraient bientòt suivi cet exemple des Italiens».

«Lettre en chiffres de Napoléon an Prince Eugène. Soissons le 12 mars 1814... Mon fils! je vous envoie copie d'une lettre, fort extraordinaire que je reçois du roi de Naples. Lorsqu’on m’assassine moi et la France, de pareils sentiments sont vraiment une chose inconcevable. Je reçois également la lettre que vous n'écrives avec le projet traité, que le roi vous a envové, Vous sentez, que cette idée est une folie. Cependant envovez un agent auprès de ce traître extraordinaire et faites un traitéavec lui en non non. Né touches au Piémont ni à Gênes, et partagez le reste de l’Italie en deux royaumes. Que ce traitéreste secret, jusqu'à ce qu'on ait chassé les Autrichiens du pyvs, et que vingt quatre heures après sa signature, le roi se déclaré et tombe sur les Autrichiens. Vous pouvez tout faire en ce sens; rien ne doit être épargné dans la situation actuelle pour ajouter à nos efforts les efforts des Napolitains. On fera ensuite ce qu'on voudra, car après une pareille ingratitude, et dans de telles circonstances rien ne lie».

Le Prince Eugène a la Princesse Auguste. Mantoue le 1mars...

«L'Empereur m'envoie en chiffres l'autorisation de m'arranger avec le roi de Naples; cela est trop tard je crois; il y a trois mois que je la demande; mais enfin j'essaverai. Né parlez de cela à personne, car le traité doit être secret».

18

Napoléon au Prince Eugène, 17 Janvier 1814…

«Le Duc 'd'Otranto vous aura mandé que le Roi de Naples se met avec nos ennemis; aussitôt que vous en aurez la nouvelle officielle, il me semble important, que vous gagniez les Alpes avec toute votre armée. Le cas échéant, vous laisserez les Italiens pour la garni son de Mantoue et autres places, avant soin d’amener l'argenterie et les effets précieux de la maison et les caisses».

«Le Duc de Feltre ministre de la guerre au Prince Eugène. Paris Février... L'Empereur me prescrit par une lettre datée de Nugent—sur—Seine le 8 de ce mois, de réitérer à V. A. l'ordre qua sa Majestà lui a donné de se porter sur les Alpes, aussitôt que le roi de Naples aura déclaré la guerre à la France».

19

Veg. la: Bataille du Mincio du 8 Fev. 1814; par le Chev. Vacani, Milan 1857.

20

Ces. Cantù, c. s. lib. XVI c. 182.

21

Ces. Cantù c. s.

22

La storia degl'Italiani del Signor Cesare Cantù alla quale si sovente ho in questo capitolo ricorso, ha tutti î titoli per passare alla posterità; e certamente vi passerà. Importa assai poco, se in altre Storie la malignità e l'ignoranza si danno la mano per falsare la Storia degli ultimi giorni del regno d'Italia; importa molto, se nella prefatta Storia in luogo del vero s'incontra il falso; come è il caso, ove si legge «Tre deputazioni in corso; una del senato, una dell'esercito, una dei collegi elettorali convincevano gli Alleati che non avrebbero a lottare con una volontà nazionale risoluta; sicché col pretesto di reprimere il tumulto, passano il Mincio, che era il confine stipulato, e occupano Milano. — Questa imputazione è falsa e calunniosa. Il Signor Cantù sapeva che dopo la convenzione di Schiarino—Riuino dei 16 aprile ha avuto luogo una seconda, firmata a Mantova dal general maggiore conte Fiquelmont e dal generale di divisione barone Zucchi il giorno 23, ratificata dal maresciallo Bellegarde e dal Principe Bngenio il giorno susseguente. Questa convenzione trascrivo qui per intiero dalla: Histoire abrégée des Traités de paix entre les puissances de l’Europa depuis le paix de Westphalie par Koch continuée par Schoell. Tome X. chap. XLI. Traità de 1814 et 1815, pag. 478». perché rarissime, non avendola neppur il Martens, e perché distrugge non solo quella imputatione, ma mette un Sue anche ad altre falsità messe in campo sella occupations di Milano:

«Les soussignés, après avoir échangé les pleins—pouvoirs reçus a de leurs généraux—en—chef respectifs, considérant l’article 1.° du a traité conclu le 11 avril, entre l'empereur Napoléon et les puisa sauces alliées, par le quel il a renoncé, pour lui, ses héritiers et a successeurs, et tous les membres de se famille tout droit de souveraineté et de propriété sur le royaume d'Italie, sont convenus, sauf la ratification des susdits généraux—en—chef, des articles a suivons:

«Art. I Toutes les places de guerre, forteresses et forts du royaume d’Italie qui ne sont pas encore occupées par les troupes a alliées, seront remises aux troupes autrichiennes le jour fixé par a les plénipotentiaires et sous les formes Axées par la convention du 16 avril.

«Art. 2. S. E. le maréchal Bellegarde enverra un plénipotentiaire à Milan, pour prendre possession, au nom des hautes puissances alliées du territoire non occupé du royaume d’Italie. Toua tes les autorités resteront en place et continueront leurs fonctions.

«Art 3. Les troupes autrichiennes passeront le Mincio à moment ou le maréchal de Bellegarde l’ordonnera: elles continueront leur a marche sur Milan, en laissant un intervalle d'une journée de marche a entre elles, et les colonnes de l'armée française rentrante en France.

«Art. 4. Les troupes italiennes resteront dans leur organisation actuelle jusqu’au moment où les hautes puissances alliées auront décidé de leur sort futur. Eu attendant, elles seront sous a les ordres du feld—maréchal comte de Bellegarde, qui prend possessions, au nom des hautes puissances alliées, de la partie non envahie du royaume d'Italie.

«Art. 5. Jusqu'il ce que le sort du pyvs, dont l'armée autrichienne prend possession, soit décidée, les traitements, pensions et solde des troupes italiennes, des autorités et des emplovés civils et militaires, seront pavés sur le même pied et par les mêmes caisses a qu'elles l'ont été jusqu'au jour de la présente convention.

«Art. 6. Il est permis a chaque officier de quitter le service; a mais il devra s'adresser au autorités compétentes pour obtenir un a congé définitif.

«Art. 7. Un officier général de l'année royale italienne aéra envoyé an quartier général du maréchal de Bellegarde, pour con forer de tort ce qui est relatif au detail du service de ces troupes.

«Art. 8. En cas que la présente convention soit ratifiée, les ratifications seront échangées dans le pins bref délai possible.

«En foi de quoi les soussignés l'ont revêtue de leurs signatures. Mantone le 23 avril 1814.

Le général—major comte de Fiquelmont

Le général de division baron Zucchi.

Ratifié le 24 par le maréchal du Bellegarde et par Eugène Beauharnais.

23

Chi bramasse forai un'idea del modo col quale i Romani trattavano i popoli che non volevano riconoscere i diritti della guerre, vegga lo scritto del Segretario fiorentino: «Del modo di trattare i popoli della Valdichiana ribellati».

24

Veg. F. v. Gentz. Fragmente vus der neuesten Geschichte des politischen Geichgewichte in Europa. Sluttgard et Leipzig 1838. p. 39, ove si trova anche une lucidissima rettificazione delle false idee in corso in riguardo all’equilibrio politico.

25

Niccolò Machiavelli combatte l’opinione di quelli, che partendo della grandezza de' Romani dicevano, che il non avere mai accozzate due potentissime guerre in un medesimo tempo, fu fortuna e non virtù; e aggiunge: «— Talché chi esaminasse la cagione di tal fortuna, la ritroverebbe facilmente; perché egli è cosa certissima che come un principe o un popolo viene in tanta reputazione, che ciascun principe e popolo vicino abbia di per sé paura ad assaltarlo, e ne tema, sempre interventi che ciascuno di essi mai lo assalterà se non necessitato; in modo che è sarà quasi come nella elezione di quel potente far guerra con quale di quelli suoi vicini gli parrà, e gli altri con la sua industrie quietare. I quali parte rispetto alla potenza sua, parte ingannati da quei modi che egli terrà per addormentargli, si quietano facilmente; e gli altri potenti che sono discosto, e che non hanno commercio seco, curano la cosa come lontana, e che non appartenga loro. Nel qual errore stanno tanto che questo incendio venga loro presso, il qual venuto non h anno rimedio a spegnerlo, se non con le forze proprie, le quali dipoi non bastano, sendo colui divenuto potentissimo». (Discorsi supra la prima Deca di Tito Livio, lib. II. c. I.)

26

Essaya. Liv. 111. ch. 7. De l’incommodité de la Grandeur. «C’est pitié, dice quel pensatore, de pouvoir tant, qu'il advienne que toutes choses vous codent».

27

Dalla pace di Vestfalia in poi, non vi ebbe uomo di Stato in Inghilterra, nell'Olanda, in Germania, in Ispagna, in Italia, che non considerasse la Monarchie Austriaca come la base, nazi come era a nima dell’equilibrio politico Europeo. E anche in Francia prevaleva la stessa idea, soltanto che la si esprimeva con altre parole; dicendovisi, che senza l’Austria non vi avea coalizione contro di essa fattibile. Ma chi le crederebbe che sino il conte Cesare Balbo nel suo libro: Delle speranze d'Italia , voglia bensì che l'Austria se ne vada oltre le Alpi, e faccia luogo al suo Piemonte di estendersi sino al Brenner e sino alla Rocca di Adelsberg, ma la vuol accresciuta. «Certo, dice egli, è interesse Italiano, ma è pur universale cristiano che s’accresca l’Austria... perché Austria salva—guardia e palladio d'Europa per il presente, sarà tale molto più per l’avvenire.» (Cap. IX, pag. 150 della 2.( da ) edizione.) E anche recentemente il professore torinese Giovanni Interdonato nel lodatissimo suo scritto: Sull’Apertura e Canalizzazione dell'Istmo di Suez non ha esitalo di riconoscere nell’Austria «la potenza continentale posta al nocciuolo d’Europa, qual centre e perno dell’equilibrio politico». (Veg. l’Istmo di Suez e l’Italia, nell’introduzione all'opera del signor Lesseps tradotta da Ugo Catandri. Torino 1856.) S’intende da sè, pur parmi non fuori di proposito di avvertire che col dire l'Austria base e anima di ogni reale e operativo equilibrio politico, non ai vuol dire, aver essa ad esserne l’unico sostegno. La Prussia e la Germania non sono meno chiamate a tutelarlo e guarentirlo che l’Austria. Col loro concorso l'equilibrio si fa da sé, senza di essi il facile si converte in difficilissimo. Giova sperare che le terribili lezioni che ad ambe hanno fatto gli avvenimenti disastrosi ai quali ha dato luogo la pace di Basilea, (5 aprile 1795) non saranno mai dimenticate. La Confederazione—Germanica farebbe bene di aprire coll'offerta di una generosa somma di danaro un concorso, per un gran quadro che rappresentasse la segnatura di quel trattato; e fatto che fosse, lo facesse appendere nella sala a Francfort nella quale siedono i di lei rappresentanti.

28

Si è creduto molto tempo che la discesa di Napoleone in Inghilterra fosse una pura minaccia. Oggidì non si dubita più che essa era un disegno ben serio, e che aveva per sé la massima probabile di riuscire. Che la nazione inglese vi avrebbe isviluppato un valore eroico non è da mettersi in dubbio. Ma vi aveva dal canto di Napoleone non solo tutte le qualità di un capitano, secondo a nessun altro e neppure ad un Alessandro, e a un Giulio Cesare, ma anche centocinquantamila soldati, i più agguerriti, i più confidenti in sé e nel loro generale, sono certo di non esagerare, che mai il mondo vedesse. Il passaggio del canale che divide la Gran—Bretagna dal continente andava soggetto a grandi pericoli. Ma vi avevano peraltro parecchie congiunture, che dovevano bensì aspettarsi, ma che rendevano il passaggio sicuro. Il signor Thiers esordisce nella Storia del Consolalo e dell’Impero la sua relazione dei preparativi a quella impresa cosi:

« Il forma le projet de franchir le détroit de Calais avec une armée, et de terminer dans Londres même la rivalité de deux nations. On va le voir pendant trois années consécutives appliquant toutes ses fa cultes à celle prodigieuse entreprise, et demeurant calme, confiant, heureux même, tant il était plein d'espérance, en présence d'une, tentative, qui devait le conduire, ou à être le maître absolu du monde ou a s'engloutir lui, son armée sa gloire au fond de l'Océan». Tome (VI. Liv. XVII. p. 368). E la finisce con queste non meno memorabili parole: « L'entreprise de Napoléon n'était donc pas une chimère; elle était parfaitement réalisable, telle qu'il l'avait pre parée. et peut être, aux veux des bon juges, cette entreprise, qui n’a pas eu de résultat, lui fera—t—elle plus d'honneur, que celles qui ont été couronnées du plus éclatant succès. Elle ne fut pas non plus une feinte, comme l'ont imaginé certaines gens, qui veulent chercher des profondeurs où il n'y en a pas: quelques mille lettres des ministres et de l'Empereur ne laissent à cet égard aucune doute. Ce fut une entreprise serieuse poursuivie pendant plusieurs années avec une passion véritable». (Tome V. liv. XXI. p. 467,) E come è certo che cotesta spedizione doveva eseguirsi, e che i giganteschi preparativi per attuarla cagionavano all’Inghilterra le più serie apprensioni, cosi è innegabile essere stata l’Austria che la fece a Napoleone abbandonare. Fra i torti, che il conte di Champagni ministro degli affari esteri di Napoleone, quando questo nel 1808, in vista dei preparativi di guerra dell’Austria, si vide forzato di abbandonare la guerra di Spagna, rinfacciava con molta asprezza ab conte poi principe Metternich allora ambasciatore austriaco a Parigi, il primo era: «que l'Autriche avait sauvé les Anglais en passant l’Inn en 1805, lorsque Napoléon s'apprêtait à franchir le détroit de Calais» e il seconde: «qu’elle venait de les sauver encore une fois en empêchant, Napoléon de les poursuivre en personne jusqu’à la Corogne; qu’elle avait ainsi à deux reprises empêché le triomphe de la France sur sa rivale». — (Thiers Tome X. liv. XXIV. p. 93.

29

Non meno di quanto qui si è prodotto finora a dimostrazione: essere stata l’Austria che ha distolto Napoleone dal tentare la spedizione d'Inghilterra, la quale se gli riusciva lo avrebbe reso «le maître absolu du monde» si potrebbe produrre anche in riguardo alla sua impresa contro la Spagna, e in generale contro la penisola Iberica, da lui effettivamente tentata, e che aborti, perche l’Austria non solo obbligò Napoleone a lasciar gli Inglesi rimbarcarsi, ma anche ad abbandonare la Spagna. Mi limiterò a una sola citazione anch’essa del signor Thiers scrittore certamente tutt’ altro che parziale per l’Austria... « Tels étaient en tout genre les événements, qui s’étaient accomplis pendant cette prompte campagne d’Autriche, (1809) et chacun devine aisément l’effort qu'ils avaient dû produire sur les esprits. L’opinion depuis un an, c’est à dire depuis les affaires d’Espagne, n’avait cessé de s’altérer par la conviction universellement répandue, qu’aprés Tilsit, tout aurait pu finir, et, la paix regner au moins sur le continent sans l’acte imprudent qui avait renversé les Bourbons d’Espagne pour leur substituer les, Bonapartes. La guerre d’Autriche, bien que la cour de Vienne eût pris l’offensive, était rattachée par tout le, monde à celle d’Espagne comme à sa cause certaine et évidente». (Tome XL liv. XXVI. p. 315.) Il che vuol dire, che tutto il mondo riconosceva aver l’Austria intrapresa la guerra nel 180non per sé, ma per salvare la Spagna, ciò che le è anche riuscito.


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Il signor Cantù (Lib. XVI. c. 182) dice parlando dell’assassinio Prina: «Confalonieri ed altri redenti poi dal martirio, certamente comparvero tra le prime file, e poterono scusarsi, non iscolparsi. Altri vollero al solito vedervi l’oro austriaco, e pretesero che un conte Gambarara (uomo né prima né dopo importante) avesse celatamente coi partigiani dell’Austria spinto a quel assassinio». — Questo vedervi al solito l’oro austriaco, meritava di essere qualificato un infame calunnia. — Ecco come il Maroncelli parla di questo solito modo di vedere in tali avvenimenti l’oro austriaco: «Io credo fermamente Casa d’Austria innocente del delitto del Frina, con che Ghisleri per una sua selle omicida, inaugurava gli incunabuli dell'anti—italiano regno Lombardo—Veneto. La credo innocente, perché in generale sceleratezze gratuite e individuali si commettono da odii o da egoismi individuali non da governi; e Prina non aveva promosso l'ira di Casa d'Austria... e perché non premiò Ghisleri di questo né di consimile misfatto».

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Gli ultimi rivolgimenti italiani del Gualterio suppongono un lettore che legge e crede, perché è stampato, e non dimanda mai all'autore donde egli abbia tratto ciò che racconta e pretende. Parlando dell'esercito del Vice—re nel 1813 e 1814 lo dice na esercito... «il quale era anti—austriaco più per l'orgoglio di aver tante volte percosso alle spalle i fuggitivi eserciti austriaci, che per vero sentimento nazionale. Ma se quell'esercito ha tante volle percosso alle spalle i fuggitivi eserciti austriaci, come è accaduto che la guerre incominciata in agosto sulla Drava si trovasse già nella prima metà di novembre trasportela sull’Alpon e sull’Adige? Quale dei due eserciti deve aver mostralo più volle all'altro le spalle, quello che avanzava o quello che si ritirava? Potrei parlare della guerra dell'esercito italiano nell'Istria, ove esso avea in settembre 1813 fin 16 dei suoi battaglioni, e di 800 uomini a cavallo, e che pur non seppe difenderla contro 2 battaglioni austriaci, e uno squadrone di ussari e qualche migliajo d'insorgenti istriani e croati. Parlerò piuttosto della battaglia sul Mincio della quale vi ha una relazione di un eccellente uffiziale dell'esercito Italiano. Il giorno 8 di febbraio 1814 la maggior parte dell'esercito del Vice—re (veg. il precedente capitolo) ripassa il Mincio, vuol ricacciar gli Austriaci oltre l'Adige e riprendere Verona, che esso avea abbandonata pochi giorni prima. S'imbatte in soli quattro battaglioni di granatieri che di poco sorpassavano duemila uomini, e in mille uomini a cavallo, gli quale gli altri con tre o quattro cannoni, la qual truppa per quanto ai volesse forzarla a dar di volta non lo fece, e ansi, appena rinforzate con quattro battaglioni, re s pin s e il Vice—re, e l'obbligò a ripassare il Mincio. (Vacani, Bataille da Mincio.) Gli Austriaci, se mai possono, lodano il nemico col quale hanno combattuto, se anche lo vincono. Cosi fanno gl'Inglesi, cosi i Francesi, cosi i Russi. Vi ha in ciò se non altro della conseguenza. i soli Italiani, e particolarmente i Piemontesi fanno altrimenti.

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Ces. Cantù n. s. Lib. XVI. c. 182.

33

Gioachino Murat non taceva nessun segreto della sua slealtà all'esecuzione del suo trattato coll’Austria, e tutto il suo esercito lo conosceva. Lord William Bentinck ritornando nell'ultima settimana di marzo da Verona, ove aveva avuto una conferenza col conto di Bellegarde, ricevette strada facendo direttamente da Mantova l'avviso, che Murat e il Vice—re erano ia trattative per un riparto d'Italia, e che il primo ai obbligava, appena firmato e ratificato il trattato, d'incominciare le ostilità contro gli Austriaci coll'assalire la divisione del conte Nugent, che stava sotto i suoi ordini. Frattanto era giunto Pio VII sul Taro e poi a Modena, ove dovette fermarsi, perché Murat si opponeva al proseguimento del suo viaggio per Bologna e per le Legazioni. Fu in quell’incontro che Lord William Bentinck dichiarò con un’apposita nota in Bologna a Murat che al minimo ostacolo, che esso mettesse al viaggio di Sua Santità, è istessamente qualora continuasse a mancare ai trattato degli il di gennajo, egli rimbarcherebbe le sue trappe, che erano allora alla Spezia, e con esse assalirebbe Napoli. Fu questa franca dichiarazione che fece fore giudizio a quel re. (Veg. anche «l'Aperçu des événements de Naples tiré des discussions de la dernière séance du Parlament, traduit de l'Anglais». Londres 1815, e nella Histoire etc. del Schoell, Tome XL chap. 41 p. 192. Les attires de Naples.)

34

Schòll u. s. Attires de la Valtelline, p. 105.

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«Cumque inter alla bona hominis potissimum sit, in pace vivere (ut supra dicebatur) et hoc operetur maximo atque potissimo iustitia, charitas maxime justitiam vigorabit, et potior potius». (Dantis Aligherii: de Monarchia lib. I. pag. 34, dell'ed. Fraticelli) E aveva già detto a pag. 14. «Undo manifestum est quod pax universalis est optimum coram quae ad nostram beatitudinem ordinantur. Hinc est quod pastoribus de sursum sonuit, non divitiae, non voluptates, non honores, nec longitudo vitae, non sanitas, non robur, non pulchritudo, sed pax. Inquit enim celestis militia: Gloria in altissimis Deo, et in terra pax hominibus bonne voluntatis. Hinc et pax vobis Salus hominum salutabat. Decebat enim summum Salvatorem, summum. salutationem exprimere. Quem quidam morem servare voluerant Discipuli ejus, et Paulus in salutationibns suis, ut omnibus manifestum esse poiest». (Ibid. p. 16)

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Delle Speranze d’Italia, o. IX. p. 150, della 2° ed. Lugano 1844.

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Per quanto cercassi di avere il discorso di Lord Castlereagh col quale rispose alle interpellazioni che gli furono fatte la sera, dei 20 marzo 1715 nella camera dei Comuni in Inghilterra sulla questione italiana in generale, e sulla questione genovese in particolare, tutto intiero, ed inglese, non mi fu dato di trovarlo, e di averlo. Ciò che ne ho citato, è tolto in riguardo dall’Italia dalla Storia degli Italiani del sig. Cantù, vol VI pag. 460; ciò che risguarda Genova. dal «Traité de Paris du 30 mars 1856 étudié dans ses causes et ses effects par le correspondant diplomatique du Constitutionel»

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Veg. l’opuscolo: «Della felicità che gli Italiani possono e debbono dal governo austriaco procacciarsi del conte Ferdinando. Dal Pozzo già Referendario nel Consiglio di Stato di Napoleone, e primo presidente della Corte imperiale di Genova, cap. XXII. p. 79. e cap. XXIV. p. 117. Il detto conte Dal Pozzo era un personaggio generalmente e da tutti i partiti sommamente rispettalo. Ecco come ne parte il conte Santarosa, nella sua storia della rivoluzione Piemontese del 1821 nella versione Italiana a pag. 74. «La scella del cav. Dal Pozzo fece nascere di grandi speranze, e n’eran pegno la vastità di sua dottrina, e dell'ingegno non solo, ma la fermezza dell’animo, e l’illibato affetto alla libertà della patria».

E sta inoltre nella nota a piè di pagina quanto segue:

«Ferdinando Dal Pozzo aveva sostenute cospicue cariche sotto il governo imperiale, ma ciò che agli occhi dei Piemontesi lo rendeva maggiormente stimabile era il coraggio con cui aveva alzato sua voce nell'interesse della giustizia e della verità dopo il ritorno del re ne’ suoi Stati. I di lui opuscoli sopra diverse ed importanti questioni di giurisprudenza contribuirono moltissimo allo sviluppo dell’opinione nelle classi della società. Del resto il cav. Dal Pozzo non ebbe parte alcuna alla cospirazione piemontese, ma appena la patria reclamò l'opera sua, lo trovò pronto. Le difficoltà, i pericoli, le angustie di nostra posizione non alterarono la sua condotta, egli rimase fedele al suo dovere sino all’ultimo momento». — Aggiungo che il conte Dal Pozzo accettò all’epoca della rivoluzione piemontese nel 1821 dal principe reggente il posto di Ministro dell’interno; ma fu un sacrifizio ch’ei fece di sé al suo paese per preservarlo dall'anarchia. Per altro io non divido con l’illustre uomo di Stato l’opinione che l’Italia, coll’eccezione del Piemonte, avesse a farsi austriaca. Resti essa indipendente come, dal regno Lombardo—Veneto in fuori, la è, ma cerchi, che l’’Austria ne tenga lontana la guerra e le rivoluzioni, e vi mantenga la pace.

39

Carlo Vitalini emigrato Bresciano «L’Ancora d’Italia, ovvero la Verità a tutti». Torino 1851 p. 111.

40

Dal Pozzo. della felicità u. s. c. II. p. 11.

41

16 Carlo Vitalini emigrato Bresciano «L’Ancora d’Italia, ovvero la Verità a tutti». Torino 1851 p. 111.

18 «Decisa appena la guerra, fu composta l’armata attiva. Il governo voleva dirla assai forte per ispavento al nemico, e fidanza all'Italia che pensava di rivoltare: la volle piccola nel fatto, per lasciar truppe nel regno, onde difenderlo dai temuti attacchi dell’Inghilterra e della Sicilia... La forza dell'armata uscendo in campagna era veramente come appresso: Totale 34260 uomini, 4980 cavalli, 56 bocche da fuoco». (Storia della campagna del 1815, opera postuma di Pietro Colletta, p. 27.)

Ed aveva già detto nella p. 25. «Il C... vantavasi di aver assoldato per la libertà italiana dodici reggimenti e di tener pronti dodicimila fucili. Il C... prometteva due reggimenti; ed altri due il C... Infine N. N. assicurava che la già armata del regno itali co sarebbe venuta incontra ai Napoletani, appena le ostilità fossero aperte».

42

Il cortese Lettore voglia non dimenticare, ch’egli non ha innanzi a sé un lavoro finito e compiuto e ciò che ai chiama un libro; ma unicamente degli studj i quali di loro natura devono presentare in ciascuno un tutto, e abbracciare tutte le questioni che vi pi collegano. Ciò ha l’inconveniente che la stessa questione ricomparisce più volte. Volendo possibilmente diminuirlo, e renderlo meno nojoso, dedico ad ognuna di tali questioni, secondo la sua maggior o minor importanza, o un capitolo nel lesto, o un articolo nelle note, e la considero, ove apparisce nella qualità di questione secondaria, come già sciolta .

43

Fra gli scrittori rivoluzionarj italiani non vi ha, a mio parere, nessuno che meriti più di essere studiato da chi vuol mettersi al fatto dell'agitazione italiana che il Professore Montanelli ex—Presidente del consiglio dei ministri, ed ex—Triumviro del governo provvisorio toscano; egli combatté a Curtatone e vi fu ferito; è un nemico accanito contro l'Austria, ma è scrittore di una rara ingenuità. Nelle sue memorie sull’Italia e spezialmente sulla Toscana dal 1814 al 1850 Vol. I cap. VII. intitolato Fratellanze secrete s'incontra a proposito dei reciproci inganni che usavano gli agitatori italiani, acciò in qualche parte s’incominciasse e s’insorgesse, il seguente passo. — «Frattanto Mazzini annunziava all'Europa migliaja di apostoli armati, impazienti di battaglia; e molti fra i capi locali ragguagliato a questi vanti il poverume del personale a loro note, si consolavano figurandosi essere il luogo che conoscevano una eccezione, e la faccenda procederà altrimenti su tutti gli altri luoghi. Ed è sempre cosi in tutte le imprese di cospirazione; sempre la stessa storia delle migliaja di combattenti immaginarj, e dei conti fatti per ciascun paese su quello che sente dire dell'altro. Le cospirazioni messe su, e limoneggiate dai fuorusciti hanno poi questo di peggio; che in esse ë più che celle altre difficile il rinsavire dei capi alla scuola dell'esperienza. I fuorusciti cui prende il mal talento di sovrastare al movimento della patria, e tenerne in mano le redini, si fanno un regno fantastico e partecipano ai fascini, al|e illusioni e alle caponaggini incorregibili dei regnatori; considerano come poste nel loro imperio ogni città, ogni provincia dove hanno due o tre corrispondenti; vantano forze supposte; attirano cogli improvvidi vanti sugli amici di dentro la persecuzione; si fanno piedestallo delle vittime della loro inconsideratezza e dai liberi paesi, in cui vivono sicuri, proclamano ai fratelli in pericolo fecondo il martirio.» (pag. 42)

44

Montanelli u. s. Vol. II. cap. XLIV. p. 424.

45

La nota del conte di Reyneval Ambasciatore di Napoleone 111 presso la Santa Sede indirizzata al conte Walewski è una calma, circostanziata apologia del reggime pontificio in generale, e una confutazione del progetto di secolarizzazione degli Stati pontifici proposta a Parigi del conte di Cavour e dal marchese Villa marina in particolare. Quella nota ha fatto un grandissimo senso in Francia, in Inghilterra e in tutto il mondo politico, e fu un terribile colpo per gli autori del progetto di secolarizzazione, e anche per chi al congresso lo fece suo. Veggasi sulla Questione Romana, e sul dispaccio del conte di Rayneval anche l’opera: Le vittorie della Chiesa del Sacerdote Margotti, cap. VII. pag. 256. La copia che ho io del dette dispaccio non ha data di luogo, ed 6 accompagnati da una critica anonima nella quale l’autore non esita ad oppugnare dei fatti che quell'esimio personaggio doveva conoscere perfettamente, senza pensare che un anonimo già, perché ha voluto celare il suo nome, non può in verun modo competere con un testimonio si autorevole.

46

Veg. L’État de la Question Napolitaine d’après les documents officiels communiqués aux deux chambres du Parlement Britannique par Jules Gondon Paris et Londres.

47

Veg. Le Traité de Paris du 30 mars u. s. Question Italienne. P. 281 et annexes p. 515 et 531.

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48

Veg. relativamente ai rifuggiti che ripararono in Turchia l’opuscolo del conte di Fiquelmont. «Di religiose Seite der orientalischen Frage II. p. 116. (il lato religioso della questione orientale.)».

Sul modo, come a Costantinopoli è stata decisa la questione della guerra malgrado i consigli e in contraddizione ai desiderj e al volere della Francia, dell’Inghilterra, dell’Austria e della Prussia, per impulso dell’ambasciatore inglese presso la Porta, Lord Redcliffe, si legge nello scritto, che in allora si attirò l’attenzione di tutta l'Europa:

«La guerre d'Orient, ses causes e ses conséquences, par un habitant de l'Europa continentale: Ch. II p. 73.» quanto segue: «Le refus de la Turquie d'accéder aux propositions de Vienne avait été assuré d'avance par les soins de Lord Redclife. Dés le mois de juillet l’ambassadeur anglais inspirait au ministère ottoman l'idée de convoquer qu conseil extraordinaire de soixante dignitaires, pour lui soumettre les propositions de la Russie, en lui posant la question dans ces termes: Ces propositions sont elles compatibles avec les intérêts et l’honneur de la Turquie? La réponse devait être négative sous l'influence de l'homme tout—puissant à cette époque dans l'administration de Stamboul, du fanatique Méhémét—Ali, beau—frère du Sultan qui menaçait ouvertement de couper les têtes et fasait trembler, on le sait, le Sultan lui même, en évoquant le fantôme de la religion et le poignard des softas. Cette réponse négative a donc été formulée par un acte public revêtu de la signature de tous les hautes dignitaires de l'empire, en activité de service ou en retraite de tous les pruniers secrétaires des ministères et des chefs, du corps des ulémas; en un mot, des tous les individues dont aurait pu se composer un ministère quelconque. L'ambassadeur anglais avait suggéré cette idée aux Turcs en les assurant que rien ne saurait mieux relever aux veux de populations de l’empire, et surtout y aux veux de l’Europe, la noble et indépendante attitude de la Turquie, et lui attirer sympathie et assistance dans ses demelées avec la Russie. Cet acte a été imprimé avec les signatures des dignitaires susmentionnés et il a été distribué avec profusion dans toute l'étendue de l'empire».

Uno del tutto simile ragguaglio sul modo come si riuscì a far prender alla Porta l'iniziativa di una guerra che poteva, senza il soccorso delle potenze occidentali di venir per essa l'ultima, si legge anche nell'opera recentissima intitolata, «Die Reformen des Osmanischen Reiches mit besonderer Berücksichtigung des Verhaltnisses der Christen des Orients zur tûrkischen Herrschaft von F. Eichmann» il di cui autore pare, in riguardo al soggetto che tratta informatissimo. (Veg. il cap. che Wiener Note. p. 195.)

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La moderazione con la quale il Maresciallo conte Radetzky usò delle sue vittorie nel 1848, e 1849 è unica nel suo genere. La battaglia di Novara, senza di essa avrebbe costato al Piemonte tutta la sua armata, con tutto il di lei materiale. Essa si diede e si sostenne offensive pei corso di cinque ore da soli quindici mila Austriaci contro cinquantamila Piemontesi, finché rinforzati da altri quindici mila misero in completa rota il nemico che si affollò in Novara ove l'infanteria maledicendo gli autori di quella guerra, scioltasi da ogni disciplina, negando a' suoi uffiziali ogni obbedienza, si abbandonò ai maggiori orrori della guerra. Frattanto sopravenuti anche i due corpi, che non avevano ancora combattuto e i granatieri che erano nell'istesso caso, e ai quali il Maresciallo aveva pochi giorni prima promesso che fornirebbe loro l'occasione di far mostra di quanto valessero, i vincitori disponevansi a slanciarsi contro Novara. Duecento bocche da fuoco già in batteria dovevano coadjuvare a portare quell'ultimo colpo. Ma essendosi fatta durante quei preparativi notte, l’umanissimo Generale, pensando all'ardore delle trappe, comprese che invece di una guerra vi avrebbe avuto luogo un macello, e contramandò l'attacco. L’armata piemontese non aveva altra strada per ritirarsi che quella che conduce al Sempione.

La battaglia di Novara è una di quelle, che per un uomo di guerra parlano e si raccontano da sé. Non fu che uno dei quattro corpi nei quali l'armata austriaca era divisa, il secondo, condotto dell’eccellente ma troppo ardimentoso Generale d'Aspre, che la diede, come già dissi, con quindici mila uomini; e di fatti tutta la perdita che vi si fece, la fece il detto secondo corpo; mentre il terzo che si spartì e mise in linea sulle due ale, e fini la battaglia in meno di un'ora, non perdette se non qualche centinajo di uomini, il quarto ancora meno, e la riserva nulla affatto. Gli istorici Piemontesi esaltano molto, e hanno ragione, il coraggio dei cinquantamila dei loro che non si sono lasciati battere da quindicimila Austriaci e che hanno resistito un'ora intiera a trentamila di questi, e non dicono nulla del coraggio del loro nemico. L'ho già detto una volta, ma qui devo ripeterlo; a me pare questo silenzio sul conto del valore dell’avversario, in ispezialità quando si ha la peggio, una grande incongruenza. — lo sono più volte stato testimonio di fatti d’armi nei quali combatterono dei Piemontesi, e ho trovato che certamente il soldato piemontese sa esser valoroso, e l’Uffiziale anche valorosissimo. Tuttavia trattandosi di una impresa come è quella di Cacciare gli Austriaci oltre le Alpi alla quale l’armata piemontese si accinse già due volte e sempre con pessimo successo, non esito a dire che l'armata piemontese non vi basta.

Per accingersi ad una tal impresa vi vogliono, oltre il coraggio, anche altre qualità, che l’armata austriaca possiede in sommo grado, che mancano affatto all'armata piemontese. Per una tal impresa non basta il coraggio di affrontar dei pericoli, vi vuole anche la perseveranza, la sofferenza nei disagi e nelle disgrazie; vi vuole che il soldato conosca e sente il bisogno della disciplina, dell'obbedienza, e dell’ordine. la tutto ciò l’armata austriaca non è seconda a nessun’altra armata del mondo. Il giorno dopo le disastrose battaglie che si diedero nel 1809 nei contorni di Ratisbona, l’armata austriaca aveva appena varcato il Danubio, che la era un’armata bensì mono numerosa, ma niente meno atta alla guerra, che il giorno nel quale cominciarono le ostilità. Un’armata nella quale si producono momenti di prostrazione come quella che il Generale Piemontese Bava ci descrive nella sua relazione delle operazioni militari da lui dirette, non è fatta per una impresa che per finirla si richiede una guerra guerreggiata con i tanti di lei accidenti di almeno tre in quattro anni. «Quale cangiamento improvviso?» dice il detto Generale «Questi soldati. pochi giorni prima cosi coraggiosi, erano divenuti pusillanimi, temevano persino l’ombra del pericolo, né più si riputavano in sicurtà se non allorquando trovavansi riuniti insieme in grandi masse, (cap. VIII pag. 131 e a pag. 133.) Nella mia carriera militare non mi venne mai veduta una tale prostrazione, erano taluni rassegnati a soffrire ogni danno fosse anche la morte senza dolersi, senza far motto, pur che non si trattasse di combattere». — Ma sentasi anche l’autore della «Storia della campagna di Novara nel 1849» sulle scene più che tragiche, che ebbero luogo dopo la battaglia che decise quella guerra nella detta campagna; «Durante quella trista notte (23 al 24 marzo) Novara fu teatro dei più atroci disordini. Già dal giorno 20 e nei seguenti, un numero di soldati, furibondi d’esser condotti alla guerra, eransi resi colpevoli di grandi violenze contro i loro concittadini: e sotto il pretesto che si lasciavano mancare loro i viveri, minacciavano il saccheggio. Durante la battaglia, e soprattutto dopo la sconfitta, la loro esasperazione venne al colmo, e non contenti di rubare, minacciavano di ardere la città e di mettere tutto a ferro e a sangue; tanto era il loro risentimento contro la parte delle popolazioni, ch’eglino accusavano d’aver voluto la guerra, non v’ha dubbio ch’eglino avrebbero dato corpo ai loro sinistri disegni, se invece d'essere a Novara si fossero trovati a Milano. Si durò la più grande fatica a metter fine a quegli abominevoli eccessi; bisogno caricare i saccheggiatori colla cavalleria che molti ne uccise. Le scene medesime si rinnovarono per ire o quattro giorni sul passaggio dell'esercito; e iti particolar modo nei luoghi in cui trovavansi alcuni gruppi di soldati dispersi, contro cui gli abitanti furono costretti a fare giustizia da sé (pag. 113.)».

50

La caduta di Costantinopoli nel 1453, con la quale la penisola greca è stata per cosi dire staccata dall'Europa, e allacciata all’Asia, fu uno dei più terribili colpi che mai si portassero all'umanità, tanto perché essa iniziò secoli d'incursioni, devastazioni, e rapimenti terribili a danno della Cristianità, quanto perché condannò alla barbarie nei Slavi, dei popoli nuovi, che divenuti cristiani possedevano nella vivacità, freschezza e fertilità del loro ingegno non solo il germe, ma anche gli elementi di una civilizzazione, che avrebbe fatto i più rapidi progressi, e si sarebbe diffusa in tutto l'Oriente e internata nell'Asia. Le popolazioni slave possedevano già allora una lingua ricca, precisa, pieghevole, modellata sulla lingua greca; e già allora una letteratura e in ispezialità una poesia che sembrava l'aurora di giorni lucidissimi. Soggiogate dai Turchi, ridotte a non aver se non i due pensieri di rimaner cristiani, e di vivere, dovevano per riuscir nel loro proponimento per cosi dire, annichilarsi innanzi ai loro tiranni, e rendersi loro inosservabili. Quant'anima non doveva avervi in quelle genti per rimaner cristiani a fronte di un incessante martirio, e ad onta che avrebbero potuto, col rinnegare la loro fede, passare all'istante dalla condizione di schiavi, dai Turchi non valutali più del bestiame, a quella di padroni. Vi passò parte della popolazione slava della Bosnia. I figli e i nipoti di quei. rinnegati invasero dai 1470 al 1500 niente meno che cinque volte il Friuli, e lo misero ogni volta a fuoco e a sangue,e vi sarebbero ritornati, se le Alpi—Giulie non fossero divenute austriache. L'Italia non sa ciò che essa deve ai Cristiani sudditi della Porta di razza slavo—serba alla quale appartengono anche i Croati: nome nel dizionario degli Italianissimi per mera crassa ignoranza fatto sinonimo del più rozzo e fiero barbarismo.

Vi ha nella nota sardo—piemontese dei 16 aprile, (v. le note del precedente capitalo a p. 98) il seguente passo: «Sicuri del concorso dei nostri Alleati ci ripugnava di credere che alcuna delle altre potenze dopo aver manifestato un si vivo e si generoso interesse per la sorte dei Cristiani d'Oriente spettante alle razza slava e greca rifiuterebbesi di occuparsi dei popoli di razza latina ancora più infelici, perché, in ragione del grado di civilizzazione avanzata da essi raggiunta, sentano più vivamente le conseguenze di un cattivo governo». — Questo confronta non regge minimamente; il caso non presenta veruna analogie, e ogni induzione che ne ne dedurrebbe, seppure non la si invertirebbe, sarebbe uno sproposito in tagica. Cominciamo per dire, che nella questione d'Oriente si trattava, senza contare i Rumeni i Serviani, che non sono sudditi immediati della Porta e non aono da confondersi con questi di cinquemilioni di Cristani infelicissimi, cui la vita era nel fisico e nel morale un continuo tormento. Un cristiano non solo non vi era padrone della sua roba, ma neppur dei suoi figli e delle sue figlie, che gli si strappavano per fame non di rado l'uso più nefando. Violentati incessantemente nel sentimento morale e religioso, il grado dei suoi patimenti non dipendeva minimamente dal grado della sua civilizzazione, esso dipendeva dal grado della sua religiosità, della quale si sa che la era come la è ancora di una grande intensità, e vivissima; vi si trattava dunque, ripetiamolo, di cinquemilioni di Cristiani realmente e decisamente infelicissimi. — Di che ai tratta invece nella questione Italiana? Si tratta di neppure tante migliaja quanto nell'altra di milioni, e ai tratta non d'infelici ma di malcontenti, che purché non disturbassero la pace pubblica potrebbero fare quello che vogliono; si tratta di gente,

«c he mangia e beve e dorme e veste panni»

a piacere, che ha teatri, caffè, e nei caffè camere di riserva ove se si vuole può fin bestemmiare contro il suo governo per mite e paterno che esso sia; che ha università, licei, accademie, biblioteche, pinacoteche e che so io; che può far stampare ciò che le vien in testa, perché non predichi l'irreligione, la rebilione e l'assassinio; che può esser cristiano ma anche se cosi gli piace turco, o anche peggio; — ma gente la quale vuol assolutamente un altro governo. — E perciò l’unico modo per formulare in riguardo alle due questioni una induzione che non faccia ai pugni col senno comune è il seguente: Se voi, alte Potenze cristiane, non avete provato verun ribrezzo, trattandosi dell'equilibrio politico e della pace d'Europa, per salvar l'Impero turco, di sacrificar cinquemilioni di martiri cristiani; come potete esitare trattandosi egualmente di una questione d'equilibrio politico, della pace d'Europa, e dell’integrità di uno Stato qual è l'Austria che vi è ben altrimenti necessario che l'Impero turco, a render sia in un modo o in un altro in cui alcune migliaja d'individui i quali in gran parte agitano e cospirano per aver qualche cosa da fare.


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51

J. F. Martens. Précis du Droit des Gens. Liv. VII. c. IV. $ 274.

52

Der Krieg gegen Russtand 1853—1856. Militérische Studien von J. M. R. A... k. k. Offizier. (La guerra contro la Russia dal 1853—1856. Studj militari di un i. r. Uffiziale.) L'autore che ha voluto celar il suo nome, ancorché il suo lavoro aia comendevolissimo, è il solo scrittore, per quanto a me consta, che trattandosi della guerra d'Oriente abbia parlato delle misure prese dall’Austria relativamente ai Serbi e ai Montenegrini, per indurli, e in caso di bisogno per costringerli a star quieti. Ma neppur esso si è occupato della portata, e dell'importanza di quelle misure, e dei servigj dall'Austria resi in quell'incontro alla causa Europea.

53

La convenzione fra l'Austria e la Porta relativamente ai Principal danubiani dei 14 giugno 1854 si trova nelle: Verhandlungen und Beschlüsse der deutschen Bundesversammlung in der orientalischen Angelegenheit p. 91—96 in francese e in tedesco.

54

Der Krieg gegen Russiand, c. s. p. 201.

55

Über den Ablauf der orientalischen Angelegenheit un die Mitte des neunzehntea Jabrundertes. Leipzig 1857 p. 32. L'operetta offre degli interessanti materiali sulla questione d( 5) Oriente, e mila di lei soluzione. È anonima.

56

Sull'impegno preso dallImperatore Napoleone III che la pace d'Italia non si turbase drante la guerra d'Oriente vi ha anche nella Storia degli Italiani del Signor Can il seguente passo:

«Poiché le longhe guerre nessun sa dove riescano, i popoli si ridestarono alle speranze; intanto conosceano rotta l'alleanza nordica, ch'era sempre stata lo spauracchio degli ammodernamenti; Francia e Inghilterra, unità temporariamente, non tarderebbero a guastarsi, come nemiche naturali che sono; la conflagrazione di venuta universale, metterebbe di nuovo in problema le sorte del mondo, e batterebbe l'ora dei popoli, che erasi voluto accelerare invano colle congiure e colle rivoluzioni.»

«Queste le illusioni: i fatti erano che l'Imperatore de' Francesi bandiva l'Austria come necessaria, le garantirà l’invio1abilità de' suoi possessi cisalpini in secreto, e a gran voce dichiarava che, dovunque si elevasse la bandiera popolare, fosse all'AIpi o al Tauro, egli e i suoi Alleati l'avrebbero abbattuta; e il fecero col reprimere i Greci, i quali nell’abbassamento della Turchia aveano confidato d'alzarsi. Le speranze illanguidirono allorché invece di strepitar nel cuor dell'Europa, la guerra si confinò nella penisola di Crimea.

«Prevedendo lunga e momentosa la guerra, Francia e Inghilterra cercavano alleati tra i piccoli... aderì con esse il Piemonte obbligandosi di mantenere ventimila uomini in Levante... la spedizione avea trovato contradditori nel Parlamento sardo... Mai più vedeanvi un’opportunità di riparare in Crimea le rotte di Lombardia, di collocare il regno fra le maggiori potenze, d'addestrare sulla Cernaja i soldati che potrebbero poi adoperarsi sul Po: Francia e Inghilterra nojate d'oscillare dell'Austria, contro questa favoriranno il loro alleato, e giacché altrove divise con loro gli stenti e le imprese, nella pace gli concederanno l’ambita Lombardia. «Cosi lusingavansi gli speculativi quando, morto Nicolò, suo figlio Alessandro II affrettò una pace ove nulla egli perdea... Dei vantaggi sperati dal Piemonte non fu nulla, e nonché rimpastare i territorj, si saldarono di nuovo i trattati del 1815.

«Indicibile la scontentezza in Piemonte. I liberali ripeteano: — Nol dicevamo noi che ci esponevamo a pure perdite, per mero vantaggio d’altre potenze? I conservatori numeravano quattromila uomini perduti, e prodi uffiziali, e sessanta milioni in denaro, e tante ansietà e sofferenze, per null'altro se non perché un ministro sardo apponesse la firma ad un trattato Europeo. (Vol. VI. Lib. c. XCIII)

57

Durante la guerra d'Oriente comparvero s di essa due memorie anonime che si atirarono in sommo grado l'attenzione del pubblico, intiolate; De la conduite de la Guerre d'Orient expdition de Crime; mmoire adress au gouvernement de S. M. l'Empereur Napolon III par un Officier gral. Bruxelles. Fvrier 1855. La seconda fu pubblicta in maggio non pi a Bruxelles ma a Ginevra. Ambidue le dette memorie sono evidentemente inspirazioni piemontesi dettate sotto le sconsolanti impressioni che fceva sugli agiatori italiani nel Piemonte. Le triomphe d la politique autrichienne negli affari d'Oriente. Esse sono intese a dimostrare che l'Austria nella soluzione della questione, e nella guerra d'Oriente non stata se non, per dir con una parola ci che l'autore di esse vi dice con mille, una pastoja che l'Imperatore Napoleone III spensieratamente fia messo alla Francia el|gli Alleati nella guerra contro la Russia in generale. Nella seconda delle note sardoPimontesi rimesse del conte Cavor, e dal marchee Villamarina durante il Congresso di Parigi al conte Walewski, e al conte di Clarendon (v. in questi studj la pag. 101) si legge; Et l'Autriche aprs avoir obtenu sans qu il lui cot le moindre sacrifice l'immense bienfait de la libert de la navigation du Danube, et de la neutralisation de la mer Noire, acquerrait une influence sur l'Occident. La medesima osservazione, solamente picircostanziata si trova anche nella seconda delle suddette memorie: Chose trange! Les quatre grandes puissances belligrantes ont toutes galement perdu dans la guerre d'Orient; l'Angleterre est sans soldats, la France est douloureusement prouve, la Russie est fortement menace sur ses frontires mridionales, la Turquie est puis d'hommes et d'argent, l'Autriche seule a gagn cette guerra: elle n'a risqu jusqu' ce jour ni un homme ni an ecu; elle n'a pas fait un sacrifice. (IV. Triomphe de la politique autrichienne p. 24

Nel seguente capitolo è detto: «Le sacrifice que faisait le Piémont était immense. Assurément c'était une touchante preuve de sympatie pour notre cause; c'était en même tems un précieux renfort pour nos armes. L'Empereur ne sut point en tenir compte à cette nation si brave et si dévouée. Il prit ombrage de la nuance de prédilection an profit du gouvernement anglais... et il temoigna an Piémont un mauvais vouloir systématique qui plaça lo ministère Cavour—Rattazzi dans la plus fausse des situations. D'abord l'Empereur refusa d'appuyer à Vienne comme elles devaient l'être les réclamations si légitimés du Piémont au sujet de la séquestration des biens des émigrés lombards, naturalisés sardes; c'était un des premiers avantages qui le cabinet de Turin comptait obtenir on compensation do son sacrifice;... Ce fut pour le Piémont une déception d'autant plus sensible que, simultanément le conflit austro—suisse recevait une solution avantageuse... Le gouvernement piémontais pouvait croire aussi qu'en prenant part à la tutte, il acquérait le droit de débattre a Vienne l’intérêt Européen peur le quel il prenait les armes. Il n’en fut pas même question. — Dans son voyage de Londres, l'Empereur s'expliquant sur le caractère du conflit, applaudissant aux généreux efforts des puissances alliées, n'eut pas un mot d'éloge à l'adresse du Piémont. Ce silence prémédité et systématique eut quelque chose d'humiliant, non pas pour la nation sarde, mais pour les hommes qui l'avaient engagée». (VI. Piémont p. 36—39), e nel VII, «Récapitulation des faits. Si nous récapitulions les fautes qui ont été commisses par l'Empereur, et qu'il aurait pu facilement éviter, nous serions obligés de faire une longue addition, témoignage de l'indécision et de la faiblesse de sa politique. 1.° Préférence générale accordée au système des alliances absolutistes sur le système des alliances avec les nationalité. 2.° Recherche de l'alliance autrichienne, qu'on pourrait intituler: poursuite d'une ombre insaisissable. 3.° Consentement empressé à la conclusion du traité spécial entre l'Autriche et la Turquie. 4.° Abandon du véritable théâtre de la guerre, les principautés danubiennes, point culminant d'où les puissances occidentales devaient diriger la guerre et la diplomatie. 5° Idée de l’expédition de Crimée mise en avant par l'Autriche, et acceptée sans réflexion par les alliés»(p. 39).

Il vero è che Napoleone III non poteva se non a malincuore aderire all'ammissione nell'alleanza contro la Russia di uno Stato, che stante i principj sovversivi che esso professa, non poteva che discreditarla. La Francia avrebbe facilmente potuto fornire quindici mila uomini dippiù, e l'Imperatore li avrebbe volontieri forniti per non trovarsi con un tal alleato. E non fu certamente se non a malincuore che Napoleone III ha ammesso dei Rappresentanti sardo—piemontesi al congresso di Parigi, del che vi ha una prova parlante nel fatto, che il conte Walewski non ha mai, per quanto il Ministero sardo—piemontese ne lo ricercasse; voluto riconoscere formalmente il ricevimento delle due note rimessegli durante il Congresso di Parigi dal conte di Cavour e dal marchese Villamarina, ciò che in Diplomazia equivale ad una assoluta riprovazione del contenuto della nota ricevuta (Veg. « Le Traité de Paris du 30 mars 1856 par le Correspondant diplomatique du Constitutionel chap. XL p. 298».)

Il Ministero Sardo—Piemontese mette un grande impegno a far credere all'Italia di poter in caso di una guerra coll'Austria conterà su dei soccorsi francesi e inglesi. Se esso lo crede s'inganna. Il caso quanto alla Francia è chiaro. Quanto all'Inghilterra, se il conte di Clarendon fece sua la proposta sardo piemontese di secolarizzare se non tutti gli Stati pontificj almeno le Legazioni, fu questo una « courtoisie diplomatique» con la quale l'Inghilterra pagava il debito contratto con l’accettazione dei 15 mila Piemontesi. l'Inghilterra sapeva benissimo i servigi che l’Austria aveva reso alla causa Europea coll’impedire i Serbi e i Montenegrini dallo slanciarsi sull’Impero Turco nei primi mesi del 1854; e che se essa si fosse allora unita alla Russia per una spartizione dell’Impero turco, la spartizione si sarebbe fatta. (V. nel Blue—book la corrispondenza fra il conte di Westmoreland e il conte di Clarendon.)

Gli avvenimenti del 1848 e del 1849 hanno insegnato che il molto: L'Italia farà da sé è da mettersi fuori di calcolo. L'Europa non può volere l’indebolimento dell’Austria, non lo vorrà e non lo tollererà mai, e l’Inghilterra qualora si vedrebbe all’atto pratico meno di ogni altra potenza Europea. L’Italia non presti fede alle millanterie di soccorsi stranieri — chi si avvisò un giorno di dirlo: «Deh fossi tu men bella, o almen più forte»

le direbbe oggidì, se al fatto della di lei vera situazione e condizione:

Deh fossi tu men pronta a dar ascolto

A chi d’ingannarti agogna.

Rimanga l'Italia ciò che Iddio l'ha fatta. Essa non ba bisogno di esser più forte. Nessuna potenza le farà violenza; l’Austria meno di ogni altra. Un’ombra di sopruso che essa si permettesse, basterebbe acciò se ne dasse dai quattro angoli della terra l’allarme. il caso di Ferrera nel 1847, nel quale può avervi avuto un eccesso nelle forma, ma senza che vi avesse alcun diritto leso, l’ha provato a sufficienza. Che l’Austria ringrazi il Cielo, che ne esaurisce la quotidiana preghiera «e non c'indurre in tentazione». Fortunata quella grande Potenza che non osa aver tentazioni d’ingrandimento: come dall’altro canto infelicissimo quello Stato di terzo o secondo ordine che vi si lascia indurre da illusioni, e vi si abbandona.

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Lo stato normale del battaglione d'infanteria nell'esercito russo è di 800, quello dello squadrone di 100 uomini. L'esperienzia insegna che l'effettivo, cioè gli uomini presenti sotto le armi durante una campagne, differisce dal normale per lo meno del 25 per cento. Il capitano Du Casse nel suo «Precis historique des operations militaires en Orient, du mars 1854, à octobre 1855» Paris 1857, mette in conto, nel determinare la forza dell'armata russa nelle battaglie dell'Alma e d'Inkermann i battaglioni a 800, e gli squadroni a 100. Io li abbasso a 600, e a 80 uomini. Le ciffre pel mese di aprile 1855 in ambidue le armate, sono quelle stesse che servirono in base all'Imperatore Napoleone III nel suo piano per la campagna del 1855 nella Crimea. (Veg. l’Expédition de Crimée par le Baron de Bazancourt. Tome II. liv. U. p. 27.)

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Fra le particolarità della questione italiana, non è la meno singolare quella, che i di lei autori o fautori non ne hanno mai sviluppata la portata, contentandosi di prenderla, come si suoi dire all’ingrosso, e rassicurandosi col: cammin facendo la somma si drizza. L'abate Gioberti, lo scrittore di maggior grido fra quanti l'hanno trattata, nel quale l'Italia ammirò un tempo il più grande suo filosofo, poi una spezie di profeta, poi un uomo di Stato di primo rango, nella sua opera postuma intitolata: il Rinnovamento civile d'Italia, ma che avrebbe anche potuto intitolarsi: il Rinnovamento civile d'Europa, si & non solo astenuto da ogni regolare, e metodica disamina di essa, ma ha fin slanciato una spezie di anatema contro quell’Italiano, che la credesse, e ne facesse un argomento da discuterai; e non ne accettasse i tre verbi, unione, libertà e indipendenza a occhi chiusi, con piena fede e credenza politica. Il libro è quanto mai si può dire stucchevole, ma chi vuol istudiare la questione italiana a fondo non può dispensarsi, non voglio dire dal leggerlo tutto, che sarebbe impresa troppo ardue, avendovi nei due volumi niente meno che 1162 pagine in ottavo di minutissimo carattere, ma di farne in qualche modo la conoscenza. I passi tirati dal detto libro che qui da me ai citano, potranno giovar, se non a conoscere l'opera, almeno l'orgoglio, la presunzione, la tracotanza, il gergo e il cinismo di questo capo—scuola piemontese. Al leggere il Rinnovamento dell'abate Gioberti ai sarebbe tentati di dire: «Non fu giammai

«Uomo si vano com'il Piemontese

«Certo non il Francesco si d’assai.»

Ma si avrebbe torto. Chi ha passato nel Piemonte il tempo che si richiede per imparar a conoscere un paese, vi ha per certo trovato u tutt’altro popolo che non lo fanno supporre i suoi scrittori rivoluzionarj, e, mi duole il dirlo, anche i suoi scrittori militari.

«La politica ha i suoi pronunciati assiomatici come la geometria, la fisica, l'astronomia. Tali sono, verbigrazia l'unità, la libertà, l'indipendenza italiana; le quali non si potrebbero da noi discutere senza notta di crimenlese verso la patria. Conciossia, che ogni discussione arguisce di necessità il dubbio, il difetto di evidenza e la possibilità dei dispareri intorno alle cose di cui si disputa. Ora io non credo di essere temerario a dire che chiunque esitasse intorno a un solo dei prefati articoli eziandio per un solo istante, si chiarirebbe indegno di essere italiano, e meriterebbe di venir cacciato fra i barbari e i traditori del paese nativo. — (Nota a pag. 215 del Tom. I. p. 215. c. IX.)

«Questo sia il primo capo di ogni discorso che la nazionalità essendo il bene supremo e la base di tutti gli altri, essa dee ammettersi in ragione di tempo e d'importanza ad ogni altra considerazione. Ora la nazionalità consta di autonomie e di unione; perché senza di questa tu non sei un popolo, ma molti; senza di quella, tu non sei una nazione, ma una greggia serva o vassalla dello straniero. Nell’ordine logico astratto l'autonomia va innanti all'unione, ma nell'ordine logico pratico, una certa unione è necessaria ad acquistare l'indipendenza benché l’unione compila e l’unità abbiano bisogno di questa e la presuppongono. Il Balbo erro a confondere l’unione perfetta coll’imperfetta; e postergando anche questa all'autonomia, fu causa che tutto precipitasse. Ora per conseguire il bene della nazionalità co’ suoi due coefficienti, essendo più che mai necessario l’accordo degli animi e delle forze, si debbono metter da canto quei piati di minor momento che possono scemarle o dividerle. E percià ogni qualvolta avvenga che si possa ripigliare la causa dell’unione (considerata generalmente) e della indipendenza, chiunque sturbi la concordia, mettendo in campo intempestivamente questioni mono importanti’, farà segno di essere un cagnotto dell’Austria, e alla men triste di anteporre agli interessi della patria quelli della sua fazione. (Tomo IL c. XL conclusione pag. 501.)

«Nazionalità, democrazia, repubblica sono dunque tre termini indicanti tre assunti successivi e distinti per modo, che il volerli porre ad un piano, e confonderli insieme è un nuocere a tutti ugualmente. Ma i puritani obiettano e questa metodica, che la monarchia essendosi testé mostrata impotente a creare la nazionalità italica non si dee più far capo ad essa, né merita la nostra fiducia; e che quindi l’Impresa repubblicana dee precorrere, se non altro, come l’unico mezzo che ormai ci soccorra di fornire la democrazia e la nationale. Questo raziocinio acchiude un gran vizio; cioè quello di considerare soltanto la metà della questione. Non si tratta di sapere se sia grande la fiducia possibile a riporsi nel principato civile; ma se sia maggiore di quella che milita per la repubblica. Le condizioni della patria nostra sono tali, che la sua redenzione in ogni modo è difficile, ma si cerca se sia più difficile col regno costituzionale o collo stato di popolo. Ora il problema posto in tal forma non è malagevole a sciogliere, sia che riguardi ai fatti recenti, sia che si abbia l’occhio alla ragione intrinseca delle cose». (Ibid. p. 5O3.)—Valerà questo passo anche a dimostrare, aver io con buon fondamento detto nel testo, che lo scopo ultimo è tanto per i repubblicani che per i cosi detti moderati la repubblica democratica, e che lo Stato monarchico—costituzionale e anche per questi soltanto uno stato transitorio; un ponte per arrivare alla repubblica democratica.

«Il Rinnovamento (civile dell’Europa) pertanto non potrà sottrarsi alla necessità di demolire prima di edificare; e però invece di aver aspetto di riforma avrà piuttosto quello di rivoluzione. Dovrà tuttavia guardarsi da ogni eccesso; perché la distruzione se non è necessaria, è piena di pericoli, anzi è pregna di regressi e di danni certissimi». (Tomo IL c. I. p. 41.) Queste poche righe basteranno all'intelligente Lettore per comprendere, che anche secondo l’ abate Gioberti per fare l’italia converrebbe disfare e demolire l’edifizio millenario Europa.

Quando gli apparati (militari) saranno in piede, la libertà sarà sicura, «perché il Piemonte in armi può difendere i suoi armi contro tutta Europa. Non si avrà più bisogno dell'incerta protezione straniera; e i rettori di Torino non dovranno più atterrire e raccapricciarsi a ogni ondeggiare e sommuoversi dei governi britannici. Sarà sicura la monarchie, rendendosi vieppiù cara ed accetta colle riforme popolari, e mostrandosi pronta coi fornimenti guerreschi ai bisogni di tutta l’Italia».—Ora viene la fatica per guadagnarsi le masse — «La campagne del quarantotto ci svelò un fatto doloroso, ma naturale, cioè, che alcune popolazioni contadine di Lombardia e della Venezia antiponevano il giogo dell'impero al civile dominio del re di Sardegna. Dico naturale, perché i rusticani amano i governi consueti se non sono eccessivamente gravosi, e non abbracciano le idee di nazione, di libertà, di patria, finché rimangono fra le astrattezze». (Tomo II. cap. IV, dell'egemonia piemontese. p. 173.)

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Fra le memorie del generale Bourcel pubblicate a Berlino nel 1801 col titolo: Mémoires militaires sur les frontières de la France du Piémont et de la Savoie, depuis l’embouchure du Var jusqu'au lac de Genève par M. de Bourcet Lieutenant Général etc. pubblicate se non m'inganno dal signor de Bousmard, il celebre autore dell'Essai général de fortification; ve ne ha una, la settima, il di cui titolo è:

«Mémoire sur l'intérêt qu'a la France de réunir à son territoire les vallées démembrées du Briaçonnais, cédées au roi de Sardaigne par le traité d'Utrecht». In questa memoria si legge; «Les vallées du Briançonnais, cédées au roi de Sardaigne par le traité d'Utrecht sont d'une importance majeure pour la France. L'epuisément où elle se y trouvait après 12 ans de guerre, et le besoin pressant de la paix pouvaient seuls faire acquiescer la France à une cession aussi désavantegeuse... Victor Amédée, l'un des plus grands politiques y de son siècle, sentait bien toute l'importance du pays cédé; et se faisait gloire, c'est ainsi qu'il en parlait, de pouvoir placer une sentinelle sur le Mont Génèvre. Il n'est pas difficile de découvrir les raisons qui portaient ce prince à faire tant de cas de sa conquête. Il voyait sa frontière fermée par une chaîne de montagnes dont lui seul avait, pour ainsi dire la clef. L'ennemi parvient—il à la franchir? L’intérieur des vallées est plein de sites excellens pour la défense; on ne peut les forcer qu'avec les plus grands efforts; enfin les places d'Exilles, de Suze et de Fenestrelles devenaient pour lui d'excellens boulevards; des entrepôts assures qui pouvaient faire échouer toutes les entreprises de la France».

«Le roi de Sardaigne régnant ne commit pas moins que son père les prix des vallées conquises; il n'a cessé de faire travailler aux fortifications d'Exilles et de Fenestrelles; l'alliance contractée avec la France en 1733 n'a pas même causé d’interruptions à ces travaux. Mais ai celte alliance est sincère, et si le roi de Sardaigne est devenu réellement l'ami de la France, il ne doit pas trouver mauvais qu’elle revendique un bien, qu’elles s'était engagée à ne jamais aliéner. Eu effet, nue des clauses de la cession do Dauphiné, faite par Humbert Dauphin à Phillipe de Valois, porte que ce roi et ses successeurs ne pourront jamais démembrer aucune partie des états cédés. Le roi de Sardaigne ne peut donc retenir ce pays sans se déclarer l'ennemi de la France; alors c'est une raison pour elle d’insister dans sa demande, et de le contraindre, même par la force, à la restitution; n’ayant plus rien a ménager avec son ennemi». —Ma ammesso che sia il principio di nazionalità, non farà d'uopo alla Francia di ricorrere al trattato del Delfino Umberto con Filippo di Valois per reclamare un paese abitalo da gente francese, e che parla il francese.

L’articolo del trattato di Utrecht, è il 4.°, e dice: «La France cède au duc de Savoie la vallée de Pragélas avec las forts d'Exiiles et de Fenestrelles et les vallées d'Ouix, de Sézane, de Bardonneche et Chateau—Dauphin, et généralement tout ce qui est à l'eau pendante des Alpes du côté du Piémont. Réciproquement le duc de Savoje cède à la France la vallée de Barcelonette et ses dependances. Les sommités des Alpes serviront dorénavant de limite entre la France et le Piémont et le comté de Nice; et le plateau de ces montagnes sera partagé. La moitié qui sera du côté du Dauphiné et de la Provence, appartiendra à la France, et celle du côté du Piémont et de Nice sera au duc de Savoie».

(Hist. abrégée des Traités de paix par Koch et Schòll. Tome 2. e p. 116.)


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Aucune partie de l'Europe», cosi Napoleone nella sua descrizioue dell'Italia «n'est située d'une manière aussi avantageuse que celte péninsule pour devenir une grande puissance maritime, elle a, depuis les bouches du Var jusqu’au détroit de la Sicile, deux cent trente lieues de côtés; du détroit de la Sicile au cap d’Otrante à l'embouchure de l'Isonzo sur l'Adriatique deux cent lieues; les trois îles de Sicile de Corse et de Sardaigne ont cinqcent trente lieues de côtés; l'Italie, compris ses grandes et petites lies, a donc douze cents lieues de côtés; et ne sont pas comprises dans ce calcul celles de la Dalmatie, de l'Istrie, des bouches de Cattaro, des lies Joniennes, qui sous l'empire dépendaient de l'Italie. La France a sur la Méditerranée cent trente lieues de côtés, sur l’Océan quatre cent soixante—dix, en tout sût cents lieues; l'Espagne, compris ses lies, a sur la Méditerranée cinq cents lieues de côtés, et trois cent sur l’Océan; ainsi l'Italie a un tiers de côtés de plus que l'Espagne, et moitié de plus que la France... L'Italie a toutes les résources en bois, chanvre, et généralement tout ce qui est nécessaire aux constructions navales; la Spezia est le plus beau port de l'univers, sa rade est même supérieure à celle de Toulon; sa défense par terre et par mer est facile; les, projets rédigés sons l'empire, dont on avait commencé l’exécution ont prouvé qu’avec des dépenses médiocres les établissements maritimes seraient à l'abri, et renfermés dans une place susceptible de la plus grande resistence... L’Italie peut lever et avoir pour le service de la marine, mémo en la prenant dans une époque de décadence, 120000 matelots; les marins génois, pisans, vénitiens ont été célèbres pendant plusieurs siècles. L'Italie pourrait entre tenir trois a quatre cents bâtiments de guerre, dont 100 a 120 vaisseaux de ligne de 74; son pavillon lutterait avec avantage contre ceux de France, d'Espagne, de Constantinople et des quatre puissances barbares». (Mémoires de Napoléon 2.°ed. Tome I. Guerre d’Italie ch. IV. $ 7. p. 160—163.)

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§ «53. Droit de tous les peuples, contre une nation malfaisante».

«Si donc il était quelque part une nation inquiète et malfaisante, toujours prête é nuire aux autres, i les traverser, i leur susciter des troubles domestiques; il n'est pas douteux que toutes ne fussent en droit de se joindre pour la repousser, pour la châtier, et même pour la mettre i jamais hors d’état de nuire». — E nel § 56. «C’est contre le droit des gens que d'inviter i la révolte des sujets, qui obéissent actuellement à leur souverain, quoiqu'ils se plaignent de son gouvernement. — § 70. Droit de toutes les Nations contre celle qui méprisé ouvertement a la justice: Appliquons encore aux injustices ce que nom avons a dit ci—desus § 53 d'une Nation malfaisante. S’il en était une qui fit a ouvertement profession de fouler aux pieds la justice, méprisant a et violant les droits d'autrui, toutes les fois qu'elle en trouverait a l'occasion, l'intérêt de la société humaine autoriserait toutes les a autres i s'unir pour la réprimer, et la châtier... Si par des maximes constantes, par une conduite soutenne, une Nation se mentre a évidemment dans cette disposition pernicieuse, si aucun droit n'est a sacré pour elle, le salut du genre humain exige qu'elle soit reprimée. Former et soutenir une prétention injuste, c’est faire tort a seulement à celui que cette prétentions intéresse; se moquer en a général de la justice, c'est blesser toute les nations». (Vatlel. Lo Droit des Gens. Tome I. Liv. II. ch. V.)

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Chi vuol farsi una idea della rabbia con la quale i rivoluzionarj italiani nei primi anni dopo il 1848 hanno assalito il papato e il governo pontificio legga nel «Rinnovamento civile d’Italia» il terzo capo del secondo libro intitolato: «Della nuova Roma» - Qui alcune poche righe qual saggio di essa: «La signoria ecclesiastica è uno sgoverno, come direbbe l’Alfieri anzi che un governo, un'altalena fra la tirannide e la licenza, un dispotismo di molti capi, e un’anarchia stabile, e insomma un’oligarchia torbida e scompigliata di proti inabili o corrotti, pessimo dei regimenti. Qual è il paese, in cui gli ordini sieno più crudeli, le leggi più inique, i costumi più trasandati e minore la sicurezza? I ladri e i masnadieri corro no le provincie ecclesiastiche a man salva, e vi sono poco meno padroni di Pio nono. Non ai trova esempio di uno stato cosi in felice né anco elle regioni mezzo barbare e più impartecipi della vite Europea. Roma antica fu meno sventurata della moderna eziandio nello spirare, quando ebbe Simmaco e Boezio; e questa può invidiare a quella lo scettro degli Ostrogoti. Sotto nomi e titoli pomposi ci trovino languor di vecchiaia, un letargo di morte; un sfacelo di corruzione; tanto che se vuoi averne il riscontro, ti è duopo risalire a Bisanzio, come all’esempio di tralignamento e di declivio più memorevole. Diresti che il basso impero trasferito sul Bosforo cristiano da Roma paganica, tornò dall'Oriente ottomano alla prima sede...» (Tomo IL p. 110.)

Non può non recar meraviglia come l’autore non abbia compreso che se la sua dipintura fosse vero mentre invece è falsissima e un ammasso di assurde calunnie, sarebbe una prova che in generale manca agl'ltaliani l'attitudine di governarsi da sé, e che per essi il governo forastiero è un bisogno. Se a Roma, se ad una sceltissima schiera qual è il sacro Collegio manca quest'attitudine, la deve mancare a tutta l’Italia. E perciò con molta ragione dimanda il conte di Rayneval nel sensatissimo suo memorando sulla Questione Romana: Quelles reproches graves peut on adresser à l'administration pontificale, et quelle idée se fait on des hommes qui la composent? Seraient—ils dénués de celte intelligence si richement départie à leur nation? Auraient—ils si peu de senti ment de leur devoir et de leur intérêt, qu'ils missent volontairement obstacle à la prospérité de leur pays? Il ne serait vraiment pas juste de les condamner à l'aveugle et sans se rendre un compte exact de leur conduite.

(Note du comte do Rayneval au comte Walewski sur la question Romaine. Rome 14 Mai 1856.)

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Italien in seinen Beziehungen zur modernes Civilisation. Von L. A. Mazzini. Aus dem Franzòsischen. Leipzig Theodor Tomas 1847 (L'italia nelle sue. relazioni con la civiltà moderna di L. A. Maszini; dal francese Tomo I. sez. IL o. 3. p. 307.) Ho fatto tutto ciò che stava in mio potere per aver quest'opera nell’originale, in francese. In essa vi si parla non altrimenti che se l’autore fosse il capo della Giovine—Italia Giuseppe Mazzini: ma nel titolo sta L. A. non G. Mazzini. Il libro non fanfulla del cinismo che s'incontra negli scritti rivoluzionarj p. e. del Gioberti.

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Il generale Pietro Collette nella sua Storia del Reame di Napoli dal 1734 al 1835 ove parla delle due armate, di quella di Murat, e dell’armata austriaca, che disponevansi ad assalirsi presso Tolentino dice di questa: «La disciplina in tutte quelle schiere (comandate da Bianchi e da Neipperg) ammirabile, l'obbedienza, il sentimento incerto nei capi, ma certo di vittoria nei minori». Questo sentimento non abbandonò mai il soldato austriaco neppure nella campagna d'Italia del 1796. Ad ogni ripresa delle operazioni esso trovossi animato da tanto spirito militare, che non vi fu ostacolo che non fosse da lui superato. Né i suoi sforzi furono vani; se l'esito finale fu sfortunato, la causa ne fu sempre accidentale; egli non perdette né sotto Wurmser né sotto Alvinzy veruna di quelle battaglie se non dopo che le aveva già vinte; ciò che fu il caso anche della battaglia di Marengo sotto Mêlas. Innanzi d'impegnarsi in una guerra con una potenza che ha dei soldati di una tempera tale, convien pensarci più di una volta.

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Collette Storia c. a. Libro VIII. § 51.

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Mazzini c. a. Sez. II. c. 1. pag. 143 del Tomo I.

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Ferdinando dal Pozzo. Della felicità che gli Italiani possono o debbono dal governo austriaco procacciarsi. c. 6. pag. 25.

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Vi hanno in questa esposizione delle ommissioni che non vi dovrebbero avere. Le sentenze nei processi criminali vengono pubblicate sulle piazze e diramate in istampa. Esse sono accompagnate dal racconto del delitto. Agli esami, alla confezione dei protocolli e alla lettura di questi intervengono due assessori tolti dalle classi civili di riconosciuta probità che possono e devono opporsi ad ogni procedure irregolare e sino ad ogni domanda suggestive. Ho sentito dire più volte a dei legali che le cautele, che vi aveano nel codice criminale austriaco in favore dell’imputato, rendevano impossibile che l’innocenza venisse disconosciuta e rimanesse oppressa.

70

Ecco le accuse del signor Cantù: «Qui accentravasi ogni, cosa in Vienna; e non di colpo, siccome dopo una conquista, ma con meditata (!) lentezza. Il sistema dei pesi, misure, monete all’italiana, conservato fra i nostri vicini, fu surrogato dal tedesco», vale e dire dall’austriaco, da quello delle monarchie. Qual altro poteva essere più convenevole ad un paese che faceva parte integrante di essa? – «L’unità dell’impero costringeva e regolar noi colle leggi stesse del Galiziano e del Croato». — Gli stessi legali italiani trovavano le leggi austriache né aspre né rozze, ben si troppo miti pel regno Lombardo—Veneto. Ma, che neppur questa obbiezione fosse fondata lo prova il fatto, che appena trovossi nell'Austria, dopo le tante guerre, la pace ristabilita e consolidata, vi si produsse una notevole diminuzione nei delitti, in modo che il loro numero il quale era ancora nel 1819 di circa 11000, ai trovò ridotto nel 1823 a 9000, il che fa il 18 per cento, ossia poco più [meno] del quinto. E si noti, che gli altri Stati Europei non eccettuati i più civilizzati vi aveva in questo riguardo invece uno spaventevole aumento; il qual fatto diede luogo all’ingenua rimarca di uno scrittore di politica allemano, che per certo quello non poteva essere il peggiore degli Stati nel quale le masse si facevano migliori. (Wilhelm Gòtte. Vorschula der Politik. IV. Absch. Pag. 260.) — «E ci mandavan sino regolamenti sulle acque a un paese che inventò l’irrigazione artifiziale». — Si per certo s’irrigavano dei prati nel Mantovano già ai tempi di Virgilio, come lo prova quel verso: «Claudito jam rivos pueri sat prata biberunt».

Ma s'irrigava in Oriente già ai tempi di Davidde e di Salomone; e si doveva irrigare i campi nella Spagna, come oggidì, già ai tempi di Annibale, se si voleva tirarne del grano per del pane. E si dimandi ai discepoli del Venturoli se il loro maestro certamente grande e cospicuo idraulico, non trovò nella ad apprendere dagli Eytelwein e dai Prony. — «V’aveva, continua il nostro autore, suppremi magistrati, ignari dell'indole, e delle consuetudini: era tolta l’investigazione nationale lui viver pubblico, l’esporre il meglio e implorarlo; silenzio su ogni alto». — Il silenzio vi aveva ma era dettato dalla malignità o dall’inerzia. — (Veg. ciò che a questo proposito dice il conte di Fiquelmont nel suo libre «Lord Palmerston England und der Continent» pag. 64.) «La postura e la conformazione fan questo paese più atto a trafficare cogli esteri che coll'impero; laonde per impedirlo occorreva un esercito di doganieri, spreco dell’erario e depravamento della popolazione, fra cui vivevano oziando e trafficando di connivenza. L’attività comunale impacciavasi dai commissarj; alla Congregazione Centrale mancava voce per esporre domande, o fermezza per volerne la risposta: fu la Chiesa era tenuta servile mediante il sistema giuseppino; sopra informazione della polizia nominavansi i parrochi e i vescovi, ai quali era impedito di comunicare con Roma, e fin di scrivere al proprio gregge se non col visto d'un impiegato provinciale». Il vero è che agli errori governativi o amministrativi i tristi deliziavanzi, e i buoni, commecché il male vi era per lo più soltanto negativo e del genere che qui il signor Cantù ce lo espone, non lo curavano e lasciavano fare.

«Francesco I a Lubiana (nel 1821) aveva detto. — Voglio sudditi obbedienti, non cittadini illuminati: e su tal programma le scuole riducevansi a moltiplicare i mediocri, e mortificare ogni superiorità; l'istruzione popolare limitavasi a quel che basti per tramutare gli istinti insubordinati in una rassegnata obbedienza; la a classica non metteasi in armonia colla situazione di ciascuno, coll'educazione dissipata eppur letteraria, moltiplicando giovani leggeri eppur dogmatici, vanitosi delle piccole cose, puntigliosi della parole smaniati del minore; giornalisti non letterati, impiegati non pensatori. Da Vienna mandavansi i libri di testo, qualche volta i professori; questi eleggeansi per concorso, dove, astenendosi i migliori prevalevano novizj o ciarlatani, non mai superiori alle cattedre». — Niente di più facile che la censura di un sistema di studj, e niente di più difficile che il far in tal materia meglio. Se vi ha un argomento sul quale: quanto teste tanti diversi pareri, quel desso è un buon sistema scolastico. —.

«Le tante parti eccellenti poi, così continua il nostro autore restavano corrotte dalla polizia, arbitra di tutto, e che spegneva il senso più importante ne' popoli, quel della legalità, la persuasione più necessaria ai governanti, quella che operino per indeclinabile giustizia. Una polizia aulica, una vicereale, una del Comune, una del governo, una della presidenza del governo spiavansi a vicenda. A chi dal lungo esilio o dalle inquisitorie prigioni tornasse in società esse dicevano: — A vote sofferto abbastanza; siete ricchi, siate allegri. E ne' divertimenti di cercava tuffar lo memorie; secondavasi la tendenza di sviluppare in grassume quel che avrebbe dovuto fortificare i muscoli; poi accennando al viver morbido, agli scialosi equipaggi, alla prospera agricoltura, diceano all'Europa: Vedete come la Lombardie, nostra serve è beata». —Non vi ba dubbio che tutto questo discorso è nel genere di maldicenza un capo d'opera, e che il signor Cantù vi si mostra gran maestro.

Per altro non nego, che sono anch’io un nemico dichiarato di quel sistema di vigilanza che si chiama polizia, e la credo davvero una schifosa bruttura. Ma non confondiamo neppur qui, come al solito, nelle accuse, che mettono in campo i rivoluzionarj, h causa coll’effetto, e l’effetto con la causa. A chi la colpa di dover ricorrere o delle misure cosi esose? Non vi avevano trame, congiure, cospirazioni? Hanno esse mai cessato? Egli è vero; Napoleone trattandosi di ridurre gli Spagnuoli all'obbedienza, non si appigliò a spie e a cagnotti II suo sistema, da lui si caldamente raccomandato a suo fratello re di Napoli, era più spiccio, e assai semplice. Ma non so se era men brutto, e più umano di quello al quale ricorse l’Austria, ben diverso per altro da quello che lo dice il signor Cantù. In una lettera che Napoleone scrisse li 8 gennajo 180a suo fratello Giuseppe allora a Madrid da Valladolid ove trovavasi, si legge: «J’ai fait arrêter ici douze des plus mauvais sujets, que j'ai fait pendre». — Ed ecco un suo decreto rilasciato alla stessa epoca e nella stessa città:

«Au quartier impérial de Valladolid, le 7 janvier 1809».

«Napoléon, empereur des Français, roi d’Italie, et protecteur de la confédération du Rhin, etc».

«Considérant qu’un soldat de l’armée française a été assassiné dans le couvent des dominicains de Valladolid; que l’assassin,qui était un des domestiques de ce couvent, a été recelé par les moines; nous avons ordonné, et ordonnons ce qui suit:

«Article 1.° Les moines du couvent de Saint—Paul de l’ordre des Dominicains de Valladolid, seront arrêtés, et ils resteront en arrestation jusqu’à ce que l’individu qui a assassiné un soldat français dans leur couvent ait été livré».

«Art. 2. Le dit couvent sera supprimé, et les biens seront confisqués au profit de l’armée, et pour indemniser qui de droit».

Mémoires et correspondance politique et militaire du roi Joseph. Livre III. Espagne 1809. Tome V. p. 319.

Il nostro autore finisce la sua pittura del governo austriaco nel regno Lombardo—Veneto cosi: — «Ma l’uomo non è destinato solo a impinguare e godere, e falliscono ai loro doveri quei che, invece di prepararlo a un avvenire di sempre maggior ragionevolezza e dignità, lo comprimono in modo che non gli rimanga se non l’alternativa di un codardo silenzio nella servitù o di collere maniache nella libertà. Dai non potersi conseguir onori e impieghi se non per consenso della polizia, derivava che da una parte non si stimasse se non chi ne aveva, dall'altra ne rifuggissero i generosi; i migliori ingegni trovavansi perseguitati colle prigioni o nei giornali, e cercavasi coprirli di sprezzo per non dover temerli, ripudiandosi cosi quel tesoro di potenza morale che viene dai con corso delle forze attive, istruite, morali». — (Cantù c. s. Libro XVIII. c. 189.) qual fosse e a quanto montasse cotesto tesoro lo ha chiarito il 1848. La verità è una, e l’errore e la menzogna può moltiplicarsi all'infinito. Vi ha una verità di fatto da opporsi a questo misto di vero esagerato e messo in una falsa luce, e di falso da capo a fondo, ed è, che il vero popolo Lombardo—Veneto era felice, e non solo non si lagnava ma non aveva nessun motivo di lagnarsi; e «malediva il vulgo dei dotti e ricchi fischianti, che per aver qualche cosa da fare e per non impinguare» aveva bisogno di mettere a fuoco e a sangue il natio paese. Vi hanno nella Storia degli Italiani del Signor Cantù non poche bellissime, ma anche non poche bruttissima pagine.

71

Non in solo pane vivit homo, sed in omni verbo quod egreditur de ore Dei . (Deutoronomium c. 8. v. 3.

72

L A. Muratori. Annali d’Italia anno 483.

73

Salvianus Episcopus Massiliensis. De gubernatione Dei Lib. V.

74

Muratori c. s. all'anno 541, ove si legge: «Tale fu il frutto che i poveri Italiani riportarono dopo tanti desiderj di scuotere il giogo dei Goti; disinganno non poche volle succeduto ad altri popoli soliti a lusingarsi col mutar governo e padrone di migliorare i proprj interessi».

75

Storia detta civiltà in Europa di F. P. G. Guizot, traduz. di Ant. Zoncada, lezione XI. p. 286.

76

Der Wetkampf der Deutschen und Slaven seit dem Ende des funften Jahrhunderts nach christlicher Zeitrechnung nach seinem Ursprunge, Verlaufe und nach seinen Folgen dargesteilt von D. M. W. Heffter. Hamburg und Gotha 1847.

77

Die deutsch—russischen Ostseeprovinzen oder Natur—und Vòlkerleben in Kur—Liv—und Estland von I. G. Kohl. 2. Th. 1841.

78

Der Wiener Congress. Geschichtlich dargesteilt von G. Flassan sus dem Franzòsischen von A. L. Iierrmann. 2. und 3. Bach. Seite. 99—156.

79

Vi hanno degli interessanti schiarimenti sulla questione dell’AIsazia e della Bassa—Lorena nell’opera del barone di Gagern: Critick des Vòlkerrechts mit practischer Anwendung auf unsere Zeit. (Leipzig 1840. II. Th. Kap. IV. p. 223.) Tanto è vero che nella questione di togliere le dette due provincie alla Francia non vi entrava per nulla la questione di nazionalità, che nelle conferenze per la pace di Parigi dei 20 novembre 1815 si parte di fare dell'Alsazia un canton svizzero.

80

C. Cantù c. s. Lib. XVIII. 192. p. 819.

81

Mazzini, l'Italia nelle sue relazioni con la civiltà moderna. — Tutta l’opera è scritta in questo senso.

82

Ep. Pauli ad Romanos. c. XIII v. 1—4. Id. ad Colosaenses c. MI. v. 11—13.

83

II Lettore troverà qui quel tanto del primo capitolo delle Speranze d"Italia, che si è da me, credendolo soverchio, ommesso nel testo. Voglia egli leggere dopo le parole: E dove non sien questi, non è egli il fatto, l’abito, la prepotenza inevitabile nelle discussioni tra più e men forti? — «Ma, non che contraddirmi, io credo che questi uomini di governo sorrideranno, e fors'anche si sdegneranno, che facciasi questione di ciò che è difficoltà: scusa loro quotidiana e grande; che non si tanga conto di lor condizione, la quale implica scusa di ciò che non fanno, lode di ciò che riescono a fare, ingiustizia in chiunque li giudica senza tener tal conto. In tutti i paesi, in tutte le età del mondo, noi governati parlammo, giudicammo de' governanti; or tanto più che se ne parla e giudica pubblicamente in molti paesi; e molto più male ne' paesi dove non se ne parla così. Se fosse nna pubblica tribuna in Italia, il primo che vi salisse, vi salirebbe probabilmente ad accusare i nostri governi; ma il secondo a scusarli colla dipendenza, in mezzo a cui essi vivono. Ed ho fede nel senno italiano, che ammessa in generale tale scusa, non si disputerebbe d'altro se non del sapere se sia sufficiente in ogni caso particolare. Finché non è discussione pubblica, è naturale che si passi da molti il segno della critica; è naturale, dico, nel volgo; ma non ne' mediocremente informati e che vogliono esser retti. Questi non banno scusa, di non ammettere, di non cercare essi stessi le scuse altrui».

«Né voglio entrare... un esempio. Il Papa è papa, e sarà papa non solamente durante la preponderanza austriaca presente, ma quand'anche questa s'accrescesse e diventasse usurpazione universale, come furono quelle di Napoleone e di alcuni imperatori del medio evo. Ma finché dura quella preponderanza, finché il papa principe italiano è sotto la dipendenza dell'Austria più che di Francia, Spagna, Portogallo o Baviera, grandi potenze cattoliche, e più che d'Inghilterra, di Prussia, e d'altre potenze non cattoliche, non è dubbio che il papa non può fare il papa cosi bene, come farebbe se avesse nome ed effettività di principe del tutto indipendente; non è dubbio che non può fare il capo spirituale effettivo della Cattolicità, il capo in isperanza dell’intiera Cristianità, cosi felicemente come farebbe se ogni governo cattolico o non cattolico, fosse persuaso della compiuta indipendenza, della probabile imparzialità di tal capo. Certo in ogni caso, quali che sieno i decreti della Provvidenza, ogni buon cattolico tiene il papa per papa: non può essere questione di ciò. Mm può essere: quanti buoni cattolici saranno in tale o tal caso? E posta la questione, se sien probabili più numerosi cattolici nel caso de! papa tenuto per indipendente, o del papa tenuto per indipendente, non parmi che lo scioglimento sia dubbio; ognuno risponderà: certo più nel caso che il papa sia indipendente».

«Ma io mi vergogno di trattenermi in siffatte generalità; d’aver fatto un capitolo quantunque breve sur una proposizione cosi ovvia e in che convengono tutti. Ed io dico che in essa convengono non solamente i governanti che criticano, bene o male, e i governanti ingiustamente o giustamente criticati dei principati italiani, e tanto più i sudditi degli stranieri; ma dico che vi convengono pure gli stessi stranieri signoreggianti, quanti sono fra essi di qualche buona fede, di qualche buon giudizio, e più i più a|ti anche qui. Questi stranieri di alto affare, questi uomini di stato dell'impero austriaco sono nella medesima condizione che quegli uomini di stato Francesi ed Inglesi, i quali continuamente e dalle loro pubbliche tribune professano di attendere agli interessi loro nazionali sopra tutti gli altri, ma che pur mostrano d'intendere molto bene anche quelli dell’altre nazioni, e scusano ed anzi approvano ciascuna di promuovere i proprii. Gli uomini di stato austriaci professano il medesimo, benché non da una pubblica tribuna che non hanno; il professano come possono privatamente; veggono quanto ogni altro, più forse che ogni altro il non buono ordinamento della penisola italiana; ma ministri dello Stato austriaco, tengono primi i loro doveri austriaci, e provvedono al mantenimento della grandezza, della potenza austriaca. B siamo giusti se vogliam essere utili; essi hanno ragione; può esser questione al modo di adempiere tal dovere, non che sia dover loro. Ma insomma anch’essi, a modo loro, convengono pella proposizione troppo ribattuta ormai: che l’ordinamento politico dell’Italia non è buono per l'Italia».

Ciò che qui si dice degli inciampi che ne verrebbero al Papa nel sublime suo uffìzio di Capo della Chiesa Cattolica dalla presenza dell’Austria nel regno Lombardo—Veneto è, per non dir altro, poco rispettoso per la Santa Sede, e pei Sommi Pontefici; i quali da Pio VII sino a Gregorio XVI, che nel tempo che le Speranze d'Italia scrivevansi, regnava, furono notoriamente caratteri fermissimi, e che avrebbero respinto con indignazione ogni ingerenza che non fosse in regola e di diritto, qualunque fosse la potenza che se la facesse lecita. Ciò poi che il conte Balbo ci racconta: che anche degli uomini di Stato austriaco convengono, «che l’ordinamento politico del l'Italia non è buono per l’italia», ha tanto dell’improbabile, che o conveniva, se anche vero, tacerne, o darne i particolari, e metterlo con gli appropriâti mezzi fuori di dubbio.


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Veg. in questi Studj nel capitolo IL p. 61 il giudizio portato sull’organizzazione governativa austriaca del regno Lombardo—Veneto dal conte Dal Pozzo; e la nota 15 del detto capitolo, nel quale si da conto di questo egregio giureconsulto e uomo di Stato piemontese. Vi ha nel di lui libro: Sulla Felicità,... tutto un capitolo il XXII. p. 131, che tratta delle: Pregiudicate opinioni dei liberali italiani contro l'Austria, nel quale l’autore dimostra falsa la taccia che si dava alla detta potenza, di arrogarsi sui principati italiani una influenza che non le competeva; e in prova avverte al di lei contegno nell'intervenzione delle cinque potenze presso Giorgio XVI. per indurlo a delle concessioni verso il liberalismo, alle quali il Santo Padre credeva in coscienza di doversi rifiutare; e adduce in estratto la nota del principe di Metternich a Sir Frédéric Lamb, allora ambasciatore inglese a Vienna dei 18 luglio 1832, nella quale è detto: che il Sommo Pontefice aveva dimostrato la miglior volontà possibile: che già più coso aveva ordinale affine di meglio sistemare il suo governo, benché queste non fossero di piena soddisfazione dei suddetti malcontenti; ma che la reluttanza di questi doveasi per la massima parte imputare allo spirite rivoluzionario che li dominava; che nel resto potevasi bensì dai Sovrani d'Europa dare dei consigli amichevoli alla Santa Sede, ma nello stesso tempo «rispettare si dovea la sua indipendenza, e lasciare il Papa giudice libera o supremo di quanto convenisse di fare ne’ suoi dominii. Tanto il conte Dal Pozzo. Che se rimanesse al Lettore ancora qualche dubbio sulla circospezione e delicatezza con la quale l’Austria usava con la Santa Sede, legga nei Rivolgimenti italiani del Gualterio il documento XC1. (vol I. p. 350 dell’ed. di Firenze) ed esso certamente cesserà. Il conte Dal Pozzo non dice nulle in riguardo alle relazioni politiche fra l’Austria e il regno Sardo—Piemontese, ma non mancano documenti irrefragabili, che esse erano pell’ultimo del tutto tranquillizzanti e soddisfacenti. È noto, che uno dei pretesti dell’insurrezione militare Piemontese del 1821 era la soggezione nella quale, cosi dicevasi, l’Austria teneva il re Sardo Vittorio Emanuele. Quanto ciò fosse lontanissimo dal vero lo dimostra il proclama che dal re in quell’incontro si pubblicò. D Gualterio non può non aver avuto notizia di questo importantissimo documento; non di meno ha esso creduto a proposito di non ammetterlo fra’ documenti dei suoi «Ultimi rivolgimenti italiani». A me sembra di dover riparare a questa ommissione e qui lo si da, come lo si legge nella «Storia della rivoluzione piemontese del 1821» del conte di 8antarosa: documento B. p. 251.

«Le inquietudini che si sono sparse hanno fatto prendere le armi ad alcuni corpi delle nostre trappe. Noi crediamo che basti far conoscere il vero, acciò tutti rientrino nell’ordine. La tranquillità non è punto turbata nella nostra capitale, dove noi siamo colla nostra famiglia e col nostro dilettissimo cugino, il principe di Savoja—Cari guano, che ci ha dato non dubbie prove del costante suo zelo».

«Falso è che l'Austria ci abbia domandato veruna fortezza, ed il licenziamento di una parte delle nostre truppe. Noi siamo anzi assicurati da tutte le principati potenze dell’indipendenza nostra, e della integrità del nostro territorio. Ogni movimento non ordinato da noi sarebbe la sola cagione, che, malgrado del nostro inviolabile volere, potrebbe condurre furie straniere entro i nostri Stati, e produrvi infiniti mali».

«Assicuriamo tutti coloro i quali hanno preso parte nei movimenti finora seguiti, e torneranno tosto alle loro stazioni sotto la nostra obbedienza, che conserveranno i loro impieghi ed onori, e la nostra grazia reale».

Dato in Torino li 10 marzo 1821.

Vittorio Emanuele.

E quali erano le relazioni politiche dell’Austria col regno Sardo—Piemontese sotto Vittorio Emanuele, tali erano desse sotto Carlo Felice suo fratello e tali sotto Carlo Alberto; in riguardo alle quali ultime il conte Solaro della Margherita suo ministro dai primi mesi del 1835 sino in ottobre de] 1847 nel suo interessante memorandum replicatamente insiste a dire, che il suo Re era pienamente il padrone nel suo regno quanto nei loro imperj lo Czar e il Sovrano dell’Austria, dichiarazioni che si rammentano anche dai signor Cantù a proposito di certe minaccie che secondo Lord Palmerston sarebbero state fatte a Carlo Alberto dall’Austria (nota 10 al c. 189 della Storia degli Italiani). E come l’Austria non si arrogava nessuna particolar influenza sulla corte di Roma né su quella di Torino, cosi non se ne arrogava su quella di Napoli e neppur su quella di Firenze, leggendosi nell'or accennata Storia degli Italiani a proposito della prima: « Ferdinando II senza finezze diplomatiche, si tenne indipendente dall’Austria sino a non volere con essa trattato di commercio, né di proprietà libraria»; e a proposito della seconda cioè della corte di Firenze: «L’Austria polea pretendere a una spezie di supremazia parentale ma nel governo nonne aveva alcuna.» (Storia c. s. c. 189). Al che aggiungo, sapendolo io di certo, che essa non ne aveva alcuna neppur sulle corti di Modena e di Parma.

Il Lettore farà probabilmente le maraviglie, che io mi sia fermato si a lungo su questa imputazione di sopruso d’influenza per parta dell’Austria sui Principati italiani. Fatto è, che io metto la massima importanza a dimostrare, che quattro quinti dell'Italia sono niente meno indipendenti dall’Austria, che lo è da essa la Prussia e la Baviera e il rimanente della Germania; e che il quinto, il quale fa parte della monarchia austriaca, vale a dire d'uno Stato indipendente, è indipendente anch’esso; e inoltre, che la presenza dell’Austria in quel quinto non solo non è di alcun danno agli altri quattro quinti, ma anzi è loro, come veicolo di ogni sociale, civile, morale, intellettuale, e materiale progresso germanico, utilissimo, come è nell'istessa qualità ii veicolo di ogni progresso italico, alla Germania. — Si ricordi il cortese Lettore che il mio lavoro i un programma e una raccolta di materiali e che le mie note sono saggi, che potrebbero divenir utili a uno scrittore di professione, ciò che io non sono, il quale s'incarnasse di darci pur una volta una tale soluzione della questione italiana, da non ammettere repliche.

85

Il conte Cesare Balbo ha fatto col suo libro del gran male all'Italia; e perciò sarò scusato, se lo qualifico un nero cherubino; ma un nero cherubino che non era loico. Su questo essere o non essere loico, veg. l'Alighieri Inf. c. XXVII v. 106—123. Il male si fece non tanto dal libro, che dal suo titolo. Gli stessi rivoluzionarj chiamarono quelle speranze, le Speranze di un disperato. (Montanelli. Memorie c. s. Vol 1. c. 13.) Il Mazzini vi vedeva ciò che i Francesi dicono «une mistification» della sua Italia. (L'italia c. s. Vol. I. sez. II. Cap. 3.)

86

Rinnovamento. c. s. Tomo II. c. 1. p. 91.

87

Rinnovamento. c. a. Tomo I. c. VL p. lit.

88

Rinnovamento. c. s. Tomo II. c. I. p. 27.

89

La Storia romana è una continua oppugnazione della tesi giobertiana: non avervi altri Stati secondo natura se non quelli a una sola nazionalità. Lo Stato Roma comprendeva gli ai tempi della seconda guerra puniche una grande diversità di popoli, eppure non si sfasciò e sortì da quella terribile e lunga lotta gloriosa e trionfante. Vennero poi le guerre civili, le quali più di una volta si trovarono accoppiate a delle grandi guerre esterne, come quella fra Mario e Silla contemporanee a quella col potentissimo e tremendo Mitridate. Le Gallie erano appena soggiogate che incominciò la guerra tra Cesare e Pompeo. Eppure esse rimasero tranquille. Vi ebbe durante le guerre tra Ottone e Vitellio, e tra questo e i generali di Vespasiano una forte insurrezione batava sul Basso—Reno, che tentò di penetrare nelle Gallie. Ma queste, come si leggo in Tacito (Hist. Lib. IV. c. 13—38 sul riflesso del poco che vi aveva a guadagnare, e dei grandi pericoli che correvansi di peggiorare la loro sorte, non si mossero. — Né si creda che i Romani impiegassero intiere arma te a presidio delle loro provincie. Il re Agrippa volendo dissuadere il popolo dei Giudei dall’insorgere contro i Romani diceva ad esso: «— Che giova qui mentovare e gli Eniochi, e i Colchi, e la nazione de' Tauri, e quelle del Bosforo, e le genti d'intorno al Ponto, e alla Meotide, gente, che prima neppur conoscevano proprio signore? Stan pur esse soggette presentemente a tremila soldati, e quaranta lunghe navi conservano in pace un mare impraticabile per addietro e salvatico? Quante cose potrebbono dire per la lor libertà la Bitinia, la Cappadocia, i popoli della Panfilia, quei della Licia e della Cilicia? Eppure senza armi pagan tributo. Che potrebbono i Traci, i quali s signori di una provincia, che in largo cinque, e sette giornate si stende in luogo, più montagnosa e più forte ami della vostra, e col suo ghiaccio durissimo ritardante gl'impeti ostili vivono sottomessi a non più di duemila soldati, che stannovi in guarnigione.

Quelli poi, che lor tengono dietro, cioè gl’Illirici abitanti in quell’Istro e per li paesi, che trovansi fino alla Dalmazia non ubbidiscono a essi a due sole legioni romane, e con queste respingono gli urti dei Daci? E i Dalmati stessi, che tanto fecero per la loro libertà, e percià sol sempre vinti 5 perché raccolte novelle forze tornassero a ribellare, oggi non traggono essi i lor giorni in pace s otto una sola legione di Romani? - Ma dura cota è il servire dirà taluno? Quanto più dura ella seppe a’ Greci i quali tuttoché credansi d'avanzare quante genti vivonci sotto il sole, pure ubbidiscono a sei fasci romani; e ad altrettante ancora i Macedoni, che più ragionevolmente di voi dovrebbono desiderare la libertà?» (Veg. La Storia della guerra giudaica di Giuseppe Flavio traduzione dell'Angiolini Lib. U. c. 16).

90

La questione dei limiti degli Stati trovasi discussa t e distesamente trattata nei due opuscoli intitolati, l'uno: «Les limites de la France par Al. Le Masson,, che si pubblicò a Parigi negli ultimi mesi del 1852; e l’altro, anonimo: Les limites de la Belgique; réponse eux limites de la France», con l’epigrafe: «Celui qui se sert de l'épée périra par l'épée», che si stampò nei primi mesi del 1853 a Brusselles. Nel primo si volle dare una smentita a quelle solennissime parole di Napoleooe III: «l'empire c'est la paix», che gli spianarono la via al trono imperiale, e guadagnarono l’opinione pubblica in tutto il mondo civilizzato; e sostituirvi quelle: «l'empire c'est la guerre», le quali non mancarono di spargere l'allarme non solo nei paesi limitrofi della Francia ma in tutta l'Europa. Nel secondo accadde ciò che per lo più suole accadere con ogni eccesso, che nell'oppugnarlo si da nell’eccesso contrario, e si fa vero: «l’abyssus abyssum invocat». Mentre il signor Le Masson avrebbe volute indurre Napoleone III a prescindere dalle paci stipulate, e dare al mondo scandalo di non curarsi degli esistenti trattati, e ad allargare la Francia sino alle Alpi e al Reno, che l'autore considera come i di lei limiti istorici, l'anonimo si da ogni pena di dimostrare all’Europa, che per forzare la Francia a lasciar il mondo In pace, conveniva, non solo toglierle la prima linea delle fortezze che ne difendono la frontiere contro la Germania e il Belgio, come divisavasi di fare nel 1815 dopo la battaglia di Waterloo, ma che faceva d'uopo staccarne oltre l'Alsazia e la Lorena tutti i dipartimenti settentrionali, e ridurla a ciò che essa era innanzi ai tempi di Luigi XI — E qui devo menzionare anche l'opera, ma di una data meno recente quella del Barone di Gagera:, «Critik des Vòlkerrechts mit practischer Anwendung auf unsere Zeit 1840», che sono già stato nel caso di citare in questo stesso capitolo. L'autore che ebbe al congresso di Vienna nel 1814, e alle conferenza di Parigi per la pace dei 20 novembre 1815, come rappresentante della casa d'Oranges, accesso e voce, fu uno dei più fervidi propugnatori dell'idea di restringere la Francia ai limiti che essa aveva ai tempi di Enrico IV. E non vi ha dubbio che questo restringimento era in allora un fatto in qualche modo gà compito; imperciocché le fortezze che volevansi, con l'eccezione di Strasburgo e di due o tre—altre piazze, trovavansi già in potere degli Alleati, e che non vi mancava altro che di farce uno degli articoli detta pace che stavasi trattando. Il Barone di Gagern suppone ia generale alla nazione francese e ai di lei uomini di Stato in particolare nna grande irrequietezza e smania conquistatrice e in prova cita dal VII volume della Storia di Francia sotto Napoleone del signor Bignon pag. 198 il seguente passo:

«— Ce que nous blâmons ici, dans cette idée de Napoléon, ce n'est pas de vouloir abattre la barrière des Pyrénées. En 1808, on n'est plus la question des frontières naturelles. Dés longtems les coalitions Européennes ont obligé la France à les dépasser et à prendre pied chez ses ennemis. Da coté de l'Italie elle a gardé le Piémont. Sur le Rhin, elle est maîtresse à de Kehl, de Cassel et de Wessel. Puisqu'elle a dû, pour sa sûreté, tenir dans ses mains les clefs de l'Italie et de l'Allemagne, pour quoi ne prendrait—elle pas la même précaution ù l'égard du gouvernement espagnol, surtout après que ce gouvernement, qui a voulu se tourner contre elle, n'en a été empêché que par des événements inouïs, sur le renouvellement des quels on ne peut a pas toujours compter».

— Ma l'Europa non perde il giudizio, e non te perderanno neppure gli uomini di Stato francesi. L'Europa del congresso di Vienna ha tutti gli elementi per contenere la Francia nei suoi limiti. Dall'altro canto, la Francia detta pace di Parigi del 1815 ha ritenuto frontiere eccellentemente sistemate a difesa, e guarnite più che a sufficienza di piazze fortissime, per non aver a temere qualunque siasi coalizione, se pure non la si lascia strascinare nella situazione nella quale la si trovò dopo le campagne di Russie, di Germania e di Spagna del 1812 e 1813, e dopo lo battaglia di Waterloo nel 1815. Essa non ha minimamente bisogno «pour sa sûretè» delle chiavi né dell'Italia, né dell'Allemagna, né della Spagna. La Francia nell’attuale suo stato è anch'essa pell'Europa un bisogno. Ma ogni di lei ingrandimento la indurrebbe in tentazioni di abusarne, e forzerebbe le potenze Europee a coalizzarsi contro di esse. Una attenta lettura dei tre scritti qui da me citati convince ogni lettore imparziale della somma importanza pell'Europa di attenersi salda ai trattati del 1814 o del 1815, se pure vuol evitare un totale sconvoglimento.

91

Mémoires pour servir à l’histoire de France dictés par Napoléon. Vol. L chap. IV. 5. 6.

92

C. Balbo. Delle Speranze d’Italia C. IL 4.

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La via Flaminia, che parte da Rimini ed entra presso Fano per la valle del Metauro negli Appennini romani, incontra e traversa la prima e la più orientale delle catene montane delle quali parlo nel testo, a poca distanza al di là di Fossombrone, al Furlo; la seconda che è la più alla e che perciò si considera come la catena centrale fra Cagli e Cantiano; la terza al di là di Nocera; la quarta dire Spoleto. La prima si annoda alla Sibilla, al Castel—Menardo, nna delle di lei cime o sommità orientata e si legava cogli Appennini toscani per mezzo della diramazione di essi sulla quale è posto Urbino. La detta catena trovasi solcata dalla cima al fondo sotte a Fiastra dal Fiastrone che vi ha disgiunto il monte Ragnolo dal monte Fiegni, poi dal Chiente che vi ha disgiunto il monte Favo dal monte Letegge; e più verso il Nord dal Potenza, dal Esino, dal Cesano, dal Candigliano e dal Metauro. Il burrone del Furlo è opera del Candigliano. I monti di questa catena allontanandosi dalla Sibilla che conta più di 1000 tese di elevazione, si abbassano, rapidamente. Il Letegge non ha che 511 tese, e la Torre di Besegna a poca distanza di esso soltanto 398; uni si rialzano fra il Potenza e l’Esino, contandone il monte San—Vicino 761. La seconda delle dette catene si annoda alla Sibilla ai Monte—Rotondo (107t. di el. s. m.) e alla giogaja toscane all’origine del Metauro fra il Monte—Maggioro (686 t.) e il Monte Sant’Antonio (602 t.) Essa è rimasta intiera sino alla Scheggia, ove la si vede solcata dallo Scatino, che vi ha disgiunto il Melette dal Catria (873 t), e poi dal Burano, che vi ha disgiunto il Tenetra dal Petrano, e più oltre verso il Nord dal Certano che vi ha disgiunto il Petrano dal Nerone (683), e finalmente dal Candigliano che ha disgiunto il Nerone dal Mondego. Questa catena si trova rotta in una distanza di soie 14 miglia italiane di 60 al grado quattro volte, e ciò da torrenti che ebbero a farsi strada prima di arrivare ad essa attraverso di una diramazione secondaria della terza catena. Vi aveano ivi nel cantone, ove la seconda catena si aggira attorno all’origine del Candigliano e si volge dal Nord al Sud, per lo meno dieci valli o conche chiuse. La terza catena è una diramazione della seconda, si annoda alla giogaja toscana al monte Fumo al Sud—Est del monte Sant’Antonio, ed è anch’essa più volte solcata dalla cima al fondo, e segnatamente dal Topino con un burrone lungo oltre a 8 miglia italiane, e dal Chiasso con uno di 4 più di tali miglia. La quarta arrestava il Tevere, la Chiana, e l’Arno, è anch’essa una diramazione della seconda, raggiunge la Falterona con un lunghissimo giro, per mezzo del Pratomagno, ed è quella che si dirama fra la Chiana e il mare, e fra l'Amo e la regione vulcanica, la quale si estende dal Trasimeno sino ai confini degli Stati Pontificj col regno di Napoli.

A questo schiarimento topografico credo di dover aggiungere relativamente agli ostacoli insuperabili che si oppongono all’unione delle tre Italie in uno Stato anche il seguente schiarimento storico tolto dagli Annali d'Italia del Muratori da lui desunto dalla cronaca di Ottone Frisingense e posto all’anno 1144, che dimostra sino a qual segno gl'Italiani, in un’epoca nella quale andavano riunendosi da per tutto i frammenti dell’Impero d’Occidente, vicendevolmente si laceravano, e come, se vi avea fra di essi pace, la era l’opera d'invertenti stranieri.

«Abbiamo, dice il prefatto annalista, da Ottone Frisingense (v. Chron. lib. 7. o. 29). giacché convien mendicare dagli scrittori stranieri le cose nostre, che in questi tempi la pazza discordia sguazzava per le città d’Italia. Aspirava cadauna di esse alla superiorità, e pareva a ciascuna troppo ristretto il suo do minio, ne resta va maniera di allargarlo, se non con pelare e soggiogare i vicini. Dura va tuttavia la gara fra i Veneziani e Raven n nati, che vicendevolmente si danneggiavano per terra e per mare. I Veronesi uniti coi Vicentini facevano guerra ai Padovani collegati coi Trevisani; e probabilmente quest’anno fu quello in cui misera a ferra e fuoco le castella e le campagne di Trevigi. Maggiore era l’incendio in Toscana per la guerra che da gran tempo andava ripullulando fra i Pisani e Lucchesi, la quale involse in quell’incendio anche le città circonvicine. Non v’era città libera, che in si fatte turbolenze non facesse delle leghe con altre città per ottenerne ajuto, e queste facilmente v’entravano per non veder crescere di troppo una città confinante colla depressione dell’altro».

«Erano in lega i Lucchesi coi Senesi, i Fiorentini coi Pisani. L'oste dei Fiorentini insieme con Ulrico ossia Ulderico marchese di Toscana, corse sino alle porte di Siena, e ne bruciò i borghi , Trovandosi in tali strettezze i Senesi, ricorsero per ajuto ai Lucchesi, i quali si per sovvenire a quella città collegata, come ancora per sostenere il conte Guido Guerra, che era malmenato dagli stessi Fiorentini, si dichiararono contro a Firenze. All’incontro i Pisani a richiesta dei Fiorentini uscirono in campagna. Un fiero guasto fu dato da essi e dai Fiorentini alle castella e ville del suddetto conte Guido. I Senesi che erano venuti per saccheggiare il contado di Firenze, colti in un' imboscata quasi tutti vi rimasero prigioni. Più rabbiosa riusci la guerra fra i Pisani e Lucchesi. Moltissimi dall’una e dall’altra parte vi lasciaro no la vita; ma innumerabili furono riserbati alle miserie di una lunghissima prigionia. Lo storico suddetto, cioè Ottone vescovo di Frisinga, attesta di averti veduti da li a qualche anno cosi squallidi e macilenti nelle pubbliche carceri, che cavavano le lagrime da chiunque passava per di là: segno che non vi doveva essere cartello di cambio fra loro, e che ebbero la peggio i Lucchesi, né resto ad essi maniera di redimere i suoi. Dagli annali pisani abbiamo che la guerra fra questi due popoli fu per cagione delle due castella di Aginolfo e di Vurno, e d'altre terre che l’una città all’altra aveano occupato. Misero i Pisani a fuoco quasi tutto il territorio di Lucca, presero il cas te Mo dell’isola di Pa tude con trecento cittadini lucchesi, e seguitò poi la guerra anche degli anni parecchi. Per testimonianza ancora del Dandolo crebbe in questi tempi la nemicizia fra i Veneziani e Pisani, e dovunque e’ incontravano per mare, l’una nazione all’altra fece quanti danni ed oltraggi potè. Ma si interpose papa Lucio, e pare che li pacificasse insieme. Erano anche in rotta i Modenesi co’ Bolognesi, perché nell’anno addietro il castello di Savignano per tradimento si era dato agli ultimi. Se noi avessimo le storie di molte altre città d’Italia, forse ne troveremmo la maggior parte in volle in altre guerre per questi tempi. Il re Corrado per conto dell'Italia, era come non vi fosse; e però senza verun freno ogni» città possente insolentiva contro delle altre.» —

Questo stato di cose incominciò dacché gli Italiani dopo la morte di Carlo il Grosso tentarono di darsi governi indigenti. Vi ebbe una tregua ai tempi degli Ottoni, dopo i quali non vi ha dolore né strazio al quale l’Italia non si trovasse abbandonata sino a' tempi di Carlo V. Né qui dice il Giannone nella sua storia civile del regno di Napoli lib. VII c. 3. dopo aver parlato dei tempi dei Berengaij, «sarebbero finiti i travagli della misera ed afflitta Italia, se per ultimo gl’Italiani, spinti dalla tirannia di Berengario, e da miglior consiglio avvertiti, non fossero ricorsi, guidando ogni cosa, il papa, ad un principe potente e glorioso, che, scacciati questi piuttosto tiranni che re, desse tregua a tanti mali. Questo fu il grande Ottone, re di Germania, i cui fatti gloriosi daranno occasione di spesso ricordarlo nel seguente libro di questa istoria. Ecco in che lagrimevole stato giacque l'Italia per più di sessanta anni, da ché, mancato l'imperio nella stirpe maschile di Carlo M., da Francesi fu trasportato negl'Italiani i quali nell'istesso tempo che abborrivano la dominazione degli stranieri, non sapevano pero essi meglio governarsi. Né vi era chi potesse darvi qualche ristoro, se dagli Italiani non si fosse trasportata negli Alemanni in persona del grande Ottone».

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Bartolotti. Viaggio della Liguria marittima. Idrografia. Vol I. pag. 18.

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Leggansi le Mémoires du Maréchal de Berwick écrits par lui même. Paris 1778. Tome II. pag. 62 e seg: e si comprenderà quanto la difesa delle Alpi occidentali sia, contro il Piemonte facile, e invece contro la Francia difficile. Il detto Maresciallo potè con forze assai inferiori arrivare sempre a tempo per chiudere ai suoi avversarj il passo e fermarli innanzi a qualche posizione da non potersi né assalire di fronte né aggirare pei fianchi senza loro grande pericolo. Egli difese non solo il Delfinato, ma anche la Savoja quattro anni di seguito dal 170al 1712 col più grande successo e si trovò nel senso di rimandare al suo re il quinto delle sue truppe come soverchio, e ciò ancorché l’armata nemica austro—piemontese valesse in ogni riguardo quanto la sua, e fosse comandata dal Duca di Savoja Vittorio Amadeo principe di grande capacità militare, valorosissimo ed attivissimo, e dal conte Daun il difensore di Torino e uno dei migliori generali sortiti dalla scuola del Principe—Eugenio S' ingannerebbe chi credesse che il Maresciallo di Berwick creasse la sua linea di difesa; egli la trovò già poco men che bell’e fatta e non ebbe altro da fare che di aprir qualche strada, munir con delle costruzioni fortificatorie qualche posizione, e convertire Briançon in una piazza di guerra, ciò che essa prima non era, e dare con essa al suo sistema di difesa un centro e un nodo.

Vi hanno sulle Alpi occidentali nell’opera già più volte da me citata del generale francese de Bourcet diverse memorie col mezza delle quali, e delle eccellenti carte topografiche che si hanno della Francia e del Piemonte, si possono studiare le Alpi occidentali meglio che mai si potrebbe fare istudiandole sul terreno. Nella detta opera si parla a lungo di Briançon, (pag. 18—26). I Sardo—Piemontesi avrebbero facilmente potuto impadronirsene nel 1815, e probabilmente che sarebbe loro riuscito di tenersela nella pace di Parigi (20 nov. 1815) e di avanzare col confine sino al Pelyoux e al Olan, con che avrebbero rimediato agli svantaggi di quella frontiera e si avrebbero assicurato la difesa della Savoja.

Quanto alla storia delle guerre che hanno avuto luogo durante il secolo passato nelle Alpi occidentali, essa si trova scritta con una tara imparzialilà nel periodico militare austriaco (Ôsterreichische militarische Zeitschrift): e quella delle campagne 1793 —94—95 e 96 anche nel Jomini. Questo generale parla di Saorgio come di un forte che non ammetteva difesa dai lato dei monti. Ma ciò non saprebbesi accordare, stantecché l’Uffiziale che l'abbandonò, ebbe in seguito a sentenza di una corte marziale ad essere fucilato.

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Dei diversi passaggi delle Alpi tra il San—Bernardo e gli Appennini (liguri Considerazioni del conte A. Morelli di Popolo Tenente Colonnello di Cavalleria (piemontese). Torino 1840. Stamperia reale. Secondo Fautore il primo passaggio delle Alpi tentato ma respinto avrebbe avuto luogo soltanto nel 589 dell'era volgare. Fin a quell’epoca vi ebbero, dice il detto conte, 16 passaggi dei quali 8 non avevano incontrata nessuna e 8 una qualche, ma troppo debole opposizione e resistenza. «Nel detto anno 589, avendo l’imperatore bizantino Maurizio di nuovo impegnato Childeberto a far guerra ai Longobardi, questo principe avviò verso Italia un poderoso esercito di Francesi. Autari marciò coraggiosamente al loro incontro, e ne fece, se crediamo a Gregorio di Tours, un’orribile carnificina» (Hardion. Storia Univ.) — Di questo gran fatto darmi si parla da Paolo Diacono nel libro III c. 30 della sua Storia dei Longobardi e anche dal Muratori, che io mette nell’anno 588, dei suoi annali. Ma tanto l'uno che l'altro ci lasciano all'oscuro del luogo ove la detta battaglia si è data. Or trattandosi di una battaglia datasi da due poderosi eserciti, egli è in sommo grado improbabile che la avesse luogo nei monti, cioè nelle Alpi, ove un poderoso esercito non trova lo spazio necessario per svilupparsi. Essa deve essersi data come tutte le grandi battaglie che hanno deciso la sorte dell'Italia nel piano del Piemonte o in Lombardia. Questa battaglia adunque non entra nella categoria delle difese delle Alpi, essa entra nella categorie delle guerre forastiere alle quali Fitalia forniva il campo di battaglia. E cosi diremo che dal primo passaggio delle Alpi effettuatosi circa sei secoli innanzi l’ora volgare sino all'anno 688 di quest'era le Alpi occidentali non furono mai difese.

Il nostro conte Morelli mette il secondo tentativo di passare le Alpi nel 1518. Sarebbero cosi in ogni caso passati altri secoli, durante i quali avrebbero avuto luogo altri 18 passaggi tutti riusciti. Sennonché basta leggere ciò che ne dice lo stesso autore per convincersi che in quell'anno non vi ebbe nelle Alpi guerra; che la si voleva fare, ma che Francesco I ne fu distolto dagli Svizzeri. Il terzo dei passaggi tentati ma respinti e non riusciti è scritto dall’autore al 1522. Ma anche questo è un passaggio abbandonato spontaneamente dai Francesi. Il Muratori che vi si cita, dice che i Francesi avevano in quell’anno passato le Alpi ma che ebbero ordine dal loro re di ripassarle. Nel Denina poi anch’esso dall’autore citato non vi ha neppur cenno di questo passaggio. Il quarto dei passaggi tentato ma respinto è ascritto al 1628, ma esso fu una irruzione e non una guerra. Il quinto è anch’esso tutt’altro che un passaggio. Esso è una guerra di montagne fatta nel 1694 per ordine di Luigi XIV ai Valdesi, i quali opposero una guerra da disperati. Le guerre nelle Alpi occidentali del secolo passato vanno tutte messe nel numero di quelle che vi si condussero col mezzo dello Straniero. Ho già dello e qui lo dico di nuovo che il Col dell'Assiette è stato difeso da 10 battaglioni di fanti fra quali 7 austriaci e svizzeri e soltanto 3 sardo—piemontesi con certamente un buon numero di soldati forniti dalla Savoja, e quindi di Francesi. — Conchiudiamo che le Alpi occidentali si sono qualche rara volta difese nel secolo passato, però sempre coll'aiuto dello Straniero, e mai prima.

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Mémoires du Maréchal Duc de Raguse. Vol. III. Liv. XIV. p. 470.

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Il passo di Toblach all'origine detta Drava nel Tirolo meridionale ha 653, il detto fiume al ponte di Villacco 250 tese di elevazione sul mare. La distanza dei due punti importa tese 70 mila. Il rapporta dell’ascesa è di poco maggiore in vicinanza di Toblach che in vicinanza di Villacco. Il termine medio vi è di 1 su 175. E anche nella valle del Bail l’ascesa è facilissima.

La Valle della Piave presenta da Capo—di—Ponte, ove il fiume cambia direzione e si volge verso Belluno sino all'origine di esso, contro una truppa che vi rimonta per entrare per essa nel Tirolo delle posizioni fortissimo, mentre non ve ne ha nessuna contro di una truppa, che venendo dal Tirolo vi discende per entrare in Italia. Nel 180non più di 200 Austriaci postatisi a Perarolo al Sud di Piave di Cadore, all’unione del Boite con la Piave, riuscirono non solo a fermare, ma anche a respingere con grave di lei perdita tutta una brigata francese, che fini per indietreggiare in gran disordine e gettare i suoi cannoni nel fiume. Il Cadorino servi nel 1848 di rifugio a circa due mila facinorosi, contrabbandieri e simil gente che vi si ridussero dal Friuli, dal Belkmese e dal vicino Tirolo italiano. Essi vi si resero verso l’Italia inaccessibili. Per snidarneli convenne penetrare con due battaglioni nella parte più alla della valle e assalirli dal lato del Tirolo. Tutta quella guerra fu finita in Ire giorni, e ciò con una insignifioantissima perdita. — Nel 1813 il Vice—re aveva nella Val di Piave un distaccamento il quale, qualora avesse avuto a difenderla verso l’Italia, avrebbe bastato a fermarvi qualunque grosso corpo di armata, mentre non bastò a trattennero la brigata austriaca che vi discese pel Kreutzberg neppur un giorno. Questa brigata si componeva di cinque battaglioni d'infanteria e due squadroni di Ussari; e contava meno di 4000 uomini. Arrivata a Capo—di—Ponte si trovava alle spalle della Livenza, posizione facilissima a difendersi, ma che dal Vice—re dovette in gran fretta abbandonarsi, per passare al più presto che gli fosse possibile la Piave. Frattanto la brigata austriaca giunse a Feltre per Belluno, minacciò di sboccare pel Canal di Piave e par Cornuda nel piano trevigiano, e forzò il Vice—re a passare la Brenta. Ma la detta brigata si gettò per Primolano nel Canal di Brenta, e occupò Bassano e il poule che vi ha sa questo fiume. Essa ivi riuscì a farsi credere la vanguardia dell’armata austriaca che da Villacco si era portata nel Tirolo, e diede che Tare pel corso di quattro giorni a tutta l’ala sinistre del Vice—re. Questo per sloggiarnela ebbe a impiegare oltre la guardia, due intiere divisioni d'infanteria e una brigala di cavalleria. (Ôster. milit. Zeitschrift. Jahrgang 1818. 1. Heft p. 23).

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Der Krieg der Ôsterreicher in Italien gegen che Franzosen in den Jahren 1813 et 1814. l'Abschnitt vom k. k. Feldzeugmeister Freiherrn von Welden p. 68.

100

Correspondance de Napolon I publi par ordre de Napolon III. Tome 11. Quartierral Loben 30 germinal an V. (1avril 1797) p. 501 et 502).

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ster. miiitZeitschrift Jahrgang 1837 8. Heft p. 162165. Farei male qualora tralasciasse di avvertire che i redattori del detto periodico, si fecero un supremo dovere nellesposizione dei fatti istorici di attersi alla pi stretta imparzialit. Egli stato dimostrato e riconosciuto che vi si cadde nelleccesso opposto, e che per vanto d'imparzialit accaduto assai spesso che la redazione non ha reso giustizia alla propria armata.

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Dione Cassio. Le istorie romane tradotte da Giovanni Viviani. Tomo 11. Libr. XUX. c. 4. Milano 1823 p. 544. Nell’edizione greco—latina del Reimaro Vol. L Libr. XLIX. c. 36 p. 595. Il prefatto scrittore suppone, che Ottaviano intraprendesse la conquista della Pannonia: «a solo fine di tenere in esercizio i soldati, e di mantenerli colle sostanze altrui, mentre pensa va, che giusto fosse quanto da chi è più potente nelle anni si venisse a decretare contro il più debole». Ma egli è più che probabile, anzi certo, che quell’impresa faceva parte di un gran piano d’ingrandimento dello Stato romano, che trovavasi dettato negli scritti lasciati da Giulio Cesare, da esso in parte colla conquista della Gallia fino al Reno già attuato. Cicerone, in quel suo discorso col quale indusse il Senato romano a prolungare per ulteriori cinque anni a Giulio—Cesare il comando della Gallia cisalpine e con esso anche quello della Gallia transalpine, (De Provinciis consularibus. c. XIV.) suppose, che in seguito alla detta conquista Roma e l’italia non avesse più nulla a temere dai popoli transalpini: La natura, diceva egli a quell’illustre consesso, ci ha dato fin’ora nelle Alpi un riparo contro l’immanità e la moltitudine di quelle genti; ma ora che le Gallie sono a noi, non c’è più nulla a temere; le Alpi hanno cessato di aver per noi un valore, e potrebbero subissare senza alcun nostro danno. Nulla vi ha più oltre alla sommità di quei monti sino all’Oceano, che possa incutere timore all'Italia. «Alpibus Italiam munierat ante satura non sine aliquo divino numine; nam si ille aditus Gallorum immanitati multitudinique patuisset, nunquam haec urbs summo imperio domicilium ac sedem praebuisset. Quae jam licet couse dent. Nihil est enim ultra illam altitudinem montium usque ad Oceanum , quod sit Italiae partinescendum» Ma Cesare , che non per fermarvisi, ma soltanto per tastare quei popoli e per istudiame il paese, aveva due volte passato il Reno, doveva necessariamente esser rimasto persuaso, che il pericolo sussisteva ancora e in fatte la sua grandezza; e che per toglierlo conveniva isolare le Alpi, impadronirsene assalendole da ogni lato, e avvanzare col confine dello Stato fino al Danubio che scorre al Nord di esse. Del detto piano o progetto parlano Plutarco nella vita di Giulio Cesare e Appiano Alessandrino, nelle guerre civili dei Romani. Il primo dice: «Determinava egli pertanto, e già preparavasi di andar coll’esercito contro dei Parti; e come debellati avesse questi, e traversata avesse l'Ircania, girando intorno al mar Caspio ed al Caucaso, invader poscia la Scizia; e dopo aver trascorsi i luoghi confinanti alla Germania, e la Germania stessa, ritornarsi in Italia a traverso dei Celti, e compir cosi questo circolo del dominio, terminato dall’Oceano da ogni banda». (Versione Pompei. Tomo IV. Milano 1824. p. 456.) Vi ha in questo più che gigantesco progetto dell’esagerazione, e del fantastico in sommo grado che non si accorda io verun modo con la mente eminentemente pratica di quel sommo. Ma ridotto alle dimensioni convenevoli esso è in ogni riguardo astrazion fatte dal diritto e dal giusto, al che pur troppo si pensa poco anche ai nostri giorni e in allora meno ancora—esso non è se non quello che si è eseguito da Auguste per avvanzare al Nord, e al Nord—Est dell'Italia col «limes imperii» sino al Danubio. Appiano dice: «che Cesare ideò una spedizione contro dei Geti, e contro dei Parti. Su Geli prevenendoli, per a ché aspra gente, bellicosa e vicina; e su Parti a pigliar la vendetta della perfidie in su Crasso. E già trasmetteva di là dell'Adriatico sedici legioni, e dieci mila cavalli». (Le guerre civili dei Romani. Lib. II. c. CX. Milano. 1830, versione Mastrofin p. 201). — Ma il nome Geli era un nome generale, che comprendeva tutti i popoli postati oltre le Alpi al Nord—Est, e all'Est dell'Italia, e perciò anche i Pannonj, e in questo caso tanto più, che vi è detto «gente vicina». Conchiudiamo che l'invasione della Pannonia condotta da Ottaviano in persona mentre era ancora Triumviro subite dopo finita la guerra di Sicilia col figlio di Pompeo, fa un'impresa maturata, e da ascriversi a dei motivi o incentivi di fatto un altro genere, che non sono quelli ai quali si ascrive da Dio—Cassio. Egli è più che probabile, che già la guerra contro i Japidj s'intraprendesse nel senso delle idee di Giulio Cesare, Teodoro Mommsen, che nella sua Storia romana ha gettato gran lume sui popoli occidentali, settentrionali e orientali dell'ultimo secolo della repubblica romana e in ispezialità dai tempi di Giulio Cesare, pensa, non avervi nessun autorevole fondamento di ammettere i favolosi progetti, che Plutarco suppose a Giulio Cesare, ma ammette che questa potentissima mente volesse dare a Roma anche al Nord—Est una frontiera conio gliel’aveva data al Nord—Ovest. (Ròmische Geschichte V. Buih 11 cap. p. 481 del 3. zo Volume 2. da edizione).

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Dioue Cassio u. s. traduzione Viviani lib. LIV. c. 3. p. 193 nell’ed. del Reimaro lib. LIV. c. 22. p. 752.

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Dione Cassio u. s. lib. LI. c. 1. p. 14. ove si legge: «Ed oltre a ciò richiamandosi alla memoria, ammaestrati dalla esperienza dei mali passali, il furore e la cupidigia di quelli, che invadono le città, ed altri sentendo da questi) quali e qualità crudeltà Mario e Silla avevano commesse, non speravano per parte di Cesare moderazione veruna: ma temevano cose molto maggiori ed assai più atroci, perché i di lui soldati per la più parte e rano Barbari». — (Nell’ed. del Reimaro lib. LIV. c. 8. p. 269.

105

Della Geografia di Strabone lib. V. c. I. versione Ambrosoli vol. III. p. 5. Nell’ed. gr. Iat. del Siebenkees lib. V. c. 5. §. 1.

106

«Perocché Cesare Augusto, dopo aver liberati quei luoghi, (le Alpi) dei ladroni che gl'infestavano, aggiunse a questo bene la cura di aprirvi delle strade, quali almeno le comportava la na tura di quei sili: mentre non sarebbe stato possibile faro da per tutto violenza alla naturale disposizione degli scogli e delle rupi scoscese che in parte sovrastano alla strada, in parte le stanno al disotto, sicché poi chiunque n'esce alcun poco si trova di subito nel pericolo di rovinare in profondi precipizj». Strabone u. s. vol. U. p. 438. dell'ed. Siebenkees lib. IV. c. 6. §. 6.

I versi di Orazio accennati nel testo sono: Vindelici didicere nuper,

Qui Marte posses, Milite nam luo

Drusus Genaunos, inplacidum genus,

Breunosque veloces, et arces

Alpibus impositas tremendis,

Dejecit acer plus vice simplici.

Carm. IV. 14. 9.

107

Germanien unter den Ròmern. Graphisch bearbeitet von Ch. Gottl. Reichard II. Abh. Grànzen p. 7.

108

Si vuole che nelle guerre che Teodosio il grande ebbe a sostenere l'anno 388 contro del tiranno Massimo, e nel 394 contro del tiranno Eugenio, e quello e queste fortificassero i passi nelle Alpi—Giulie pei quali Teodosio doveva passare per discendere in Italie. Che Massimo si mettesse in istato di fermare Teodosio sulla Drava e sulla Sava, e che Emona vi fosse convertita in una piazza di guerra, e di deposito per le vettovaglie, si legge sotto l'anuo388 sulla testimonianza di Orosio (Hist. adversus Paganos lib. VII. c. 35) e su quella di Latino Pacato (Pan. ad Theod.) nel Muratori. Ma il vero è che Emona apri le porte, e non fece veruna resistenza; o che i forti nelle Alpi furono abbandonati; cosicché Massimo, alla vista di un si cattivo esito delle misure da lui prese, impazzì. Il Muratori cita, in prova che anche Eugenio si era fatto forte nelle Alpi con delle costruzioni fortificatorie, Sant’Agostino: De Civitate Dei lib. V. c. 26. Ma questa volta l'esimio annalista si è ingannato. In quell'opera non vi ha nulla che sia riferibile a tali costruzioni. Né parla, ma ambiguamente Orosio, e ne parla anche Claudiano. Comunque ciò sia tanto è certo che anche in queste due guerre i destini dell’Italia e dell’Impero d'Occidente furono decisi col mezzo di battaglie che si diedero non nelle Alpi ma a' piedi di esse.

109

Guerre gotiche di Procopio di Cesarea. Versione italiana. Milano 1838 Tomo III. p. 260.

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Schiarimenti altimetrici e topografici sulle Alpi.

Gli Appennini finiscono e le Alpi incominciano al N. Alto all'Ovest nel parallelo di Vado. L' intiero arco della catena centrale alpina, detta centrale, perché ne costituisce il parti—acqua, e che vi sono comprese le sommità delle Alpi, misura dal detto monte sino al Quarnero 195 m. g. di 15 al grado ossia m. ital. 780. La base del versante degli Appennini liguri ha fra Savona e Genova al M. Meise, e al M. Reisa 3 m. ital. di larghezza, e anche al M. Alto e al M. Calvo non più di 5 m. Ma va poi sempre più allargandosi di modo che al M. Saccarello, ove la catena centrale cangia direzione e si rivolge dal Sud al Nord, ne conta oltre a 16. Il versante settentrionale è ovunque molto più spazioso che il meridionale. La distanza orizzontale dalla Bocchetta a Novi è di 15, e da Loano a Mondovi di 20 m. it. Le sommità vanno verso l’Ovest sempre più innalzandosi; l’Ermetta all’origine dell’Erro ha tese 668 di elevazione, ma il San Giorgio al Nord—Est di Savona soltanto 380, il Settepani però ne conta già 711, il Galle nel paralello di Ormea all’Est 822; il Fronta nel meridiano di San—Remo 1058; il colle di Montenotte all’Est del San—Giorgio tese 359; il colle di Altare pel quale passa la strada che da Savona conduce per la valle della Bormida orientale per Carcare, Cairo, Dego, Spigno, in Piemonte 351; il Colle di Melogno all’Ovest del Settepani pel quale da Finale si arriva a Calizzano sulla Bormida occidentale 478; il Colle di San Bernardo 516, e il Colle di Nava 498 pei quali si discende venendo rispettivamente da Albenga o da Oneglia nella valle del Tanaro a Garesio, o al Ponte di Nava; e finalmente il Colle Tanarello all’origine del Tanaro 1058. Egli è in questi monti che nel 1794, 1795, 1796 e 1800 sono stati decisi i destini dell’Italia, e con essi quelli di una gran parte del Continente Europeo.

Proseguendo nella nostra perlustrazione abbiamo il Col di Tenda con 963 tese di elevazione, la Rocca dell’Abisso con 1437, il M. Clapier con 1524, il Colle della Maddalena o dell’Argentière uno dei principali passi pei quali dall’alta Provenza, e dal Delfinato si entra in Italia, con 1036; il Rioburent con 1728, il M. Viso con 1968; il Col des Traversettes all’origine del Pò con 1456; la sorgente di questo re dei fiumi italiani con 1001; e più oltre il passo dei Mont—Géuèvro con una strada carreggiabile frequentatissima che vuolsi opera di Pompeo, al Nord—Est di Briançon con 1043; il Chaberton con 1558; e il M. Tabor con 1567 tese. Qui la catena centrale diviene esclusivamente tutta Sardo—piemontese e cangia di carattere, ossia di conformazione in quanto, che cessa di essere una montagna a cresta, e diviene un'aggregato di Alti—piani sempre coperti di neve e di ghiaccio. Dal Tabor parte una diramazione che nel meridiano di Saint—Michel della Maurienne entra nel Delfinato col Pelvoux di 2205, e coll’Ollan di 2051 tese.

La catena centrale continuando con varj giri verso il Nord comprende all’Ovest del Mont—Cénis il M. d'Ambin con 1730; il M. Cénia all’Ospizio con 998, al punto culminante con 1077, poi il Rochemelon con 1813, l'Iseran con 2076, il passo del piccolo San Bernardo con 1125, il Mont—Blanc con 2468, il grande San—Bernardo con 1278, il M. Rosa con 2370, il passo del Simplon al punto culminante con 1057, e finalmente il passo dal Gries alforigine della valle di Formazza con 1223 tese di elevazione.

Ma nei monti l'elevazione assoluta ossia sopra il livello del mare esercita bensì una considerevole azione sulla temperatura, sui venti, o sulla vegetazione; ma h loro accessibilità dipende in gran parte non tanto dall'elevazione assoluta quanto dall'elevazione relativa. Nella difesa delle Alpi ligure, e delle Alpi marittime gli Austro—Piemontesi non avevano dal ponte di Nava al Col di Nava se non che 71 tesa di elevazione da superare, mentre che i Francesi i quali partivano da Albenga ne avevano 498. l’ascesa vi era per questi non solo più lunga di assai, ma anche più erta e più faticosa. Le elevazioni relative nelle Alpi occidentali cominciando dal passo dell’Argentière sino al gran San—Bernardo sono di molto maggiori dal canto della Francia e della Savoja. Le valli piemontesi si sprofondano rapidamente. Non cosi le valli Francesi, né quelle della Savoja. Il villaggio di Saint—Veran nel paralello del passo delle Traversettes a 4 m. it. du esso è sul mare tese 1051, mentre il villaggio Crussolo nella valle del Pò alla stessa distanza non ne conta invece che 677. Vi ha qui una differenza di 374 tese. Lanstebourg a piedi del Mont—Cénis è sul mare tese 711, e Susa a' piedi dello stesso monte sul versante orientale soltanto tese 257. Da Lanstebourg al punto culminante del M. Cénis non vi hanno se non tese 3G6, e da Susa invece tese 820. E più o meno è questo il caso con tutti i passi nelle Alpi occidentali e nelle Alpi svizzere. Martigni sul Rodano ha 287, Aosta 303, il grande San—Bernardo, come già si è detto 1278 tese di elevazione sul mare. Le elevazioni relative sono quindi quasi le stesse, nel primo caso 991 e nel secondo 975. Ma la distanza orizzontale di Martigni dal punto culminante del detto passo importa 17, e quella di Aosta solo 8 miglia italiane. Egli è quindi dimostrato dover il versante meridionale essere due volle più erto e più rapido del versante settentrionale, e per chi vi sale da Martigne due volte più accessibile che a chi vi sale da Aosta. - Vi ha dal ponte sulla Saltina sino al punto culminante del Simplon, montandovi dal Rodano, una distanza orizzontale di metri 21600, e invece montandovi dall’Italia dalla galleria d’Isella una simile distanza di metri 23470; ma questa galleria è più bassa del punto culminante metri 1404, mentre il suddetto ponte è più basso di metri 702. Ciò fa che dal Rodano dall’Ovest l’ascesa è nel rapporto di la 16; e invece dall’Italia come 1 a 8. Il San—Gottardo, il monte al quale si annodano tutte le Alpi, e ove hanno la loro origine i! Rodano, la Reuss, il Reno occidentale e il Ticino, ha 1108, Spital dal lato svizzero nella valle di Ursern 761, e Airolo dal lato italiano 64tese di elevazione; ma la distanza orizzontale di Spital dall'Ospizio è di 5, e quella di Airolo di 4 miglia italiane, col dippiù che la discesa dall'Ospizio a Spital è ripartita uniformemente su tutta la lunghezza mentre quella verso Airolo è nelle prime due miglia facile e comoda, e nelle altre due ripidissima. Il San—Bernardino, a! quale si monta venendo da Bellinzona per la valle del Missocco, e dal quale si discende nella valle del Reno occidentale, ha 1097, lo Spluga al quale si monta venendo da Chiavenna per la valle di San Giacomo ha 1085, il Maloggia pel quale si entra venendo dal suddetto paese e rimontando la valle della Mera nella valle dell’Inn, ossia nell’Engadein, 969; il Bernina al quale si monta da Tirano nella Valtellina per Poschiavo e si raggiunge Inn a Samaden, 1043 tese. Per farsi una idea di quanto l'ascesa ai detti passi sia dall'Italia più difficile che dalla Svizzera cioè dal paese dei Grigioni basterà sapere, che il Reno a Chur dopo 37 miglia italiane di corso ha ancora 300, l'Inn a Zernetz a 24 miglia da Maloggia ancora 710; e invece il Ticino presso Bellinzona a 23 miglia dal San—Gottardo sole 123; Chiavenna a 14 miglia dal Maloggia sole 165; l'Inn a Finstermünz a più di 70 miglia dalla sua origine ancora 465, e PA (lige a Meran dopo 40 miglia di corso sole 14tese di elevazione.

La catena centrale delle Alpi, che dal San—Gottardo in poi è, ora tutta Svizzera, ora tutta Lombarda, ora segna il confine dei due paesi, cioè della Svizzera e della Lombardia spinge, all’origine dell'Adda al M. Braglio, una diramazione all’Est, che comprende il passo dello Stelvio, il M. Zébra il più alto dei monti lombardo—veneti, e l’Ortler il più alto dei monti tirolesi; mentre essa volgendosi verso il Nord entra nel paese dei Grigioni e vi rimane sino al N. Ursula, ove raggiunge il Tirolo e gli serve sino al M. Pitzlat di confine con la Svizzera. Al detto monte la si rivolge all’Est, entra nel Tirolo, si abbassa rapidamente e di assai, e come dal Col di Tenda in poi non si è abbassata a verun passo; non tarda però a rialzarsi, e a convertirai in un vasto alto—piano frastagliato in ogni direzione da profonde popolatissime valli, il quale sorge per lo più oltre il limite delle nevi perpetue, e si allunga sino al confine salisburghese e carinziano. Vi hanno dal Glocklburn che è una delle sue estremità occidentali sino al Waitzfeld—Ferner, col quale entra nel salisburghese, 70 miglia ital. su di una larghezza media di 40. Il parti—acqua si ripiega dal con—fine salisburghese da prima sino all'origine della Drava al Sud—Ovest, ma poi sino all'origine della Biens al Sud, da dove sino al passo di Seiltritz avvanza dall'Ovest all'Est.

Le sommità fra lo Splüga e il Braglio sono il Galeggione con 1606, il U. della Disgrazia con 1885, il Braglio con 152tese. Il passo dello Stelvio che, come si è detto, appartiene al ramo secondario conta 1435, il Zebru 1986, l'Ortler 2003, il Tresero più al Sud 1856, il Pilzlat 1427, il Glockthuru 1715, il Similan 1853, il Hoheffirst 1744, il Muttenjoch 1272, il Padavnerkogl 1058, e finalmente all’estremità orientale il Waitzfeld—Ferner 1697 tese. Questi monti a cominciare dal Glockthurn sono tutti nella linea del parti—acqua dell'alto—piano o in prossimità di esso. Bormio nella Valtellina a piedi dello Stelvio all'Adda ha 431; il punto culminante fra l'Adige e FInn a Reschen, all'origine del primo dei detti fiumi a piedi del Pitzlat 715, Pinstermünz, ove si raggiunge venendo da Reschen per Nanders l’Inn, 468 tese di elevazione sul mare. Avendovi da Reschen a Finstermünz 5360; e da Reschen a Glarns 9240 tese di distanza orizzontale, ne nasce, che l'ascesa è qui più difficile e più erta dal Nord che dal Sud. Il passo del Brenner alla posta è sul mare tese 727, ed è anch’esso più accessibile dall’Adige che dall'Inn. I! passo di Toblach che conduce dalla valle detta Riens in quella detta Brava è egualmente accessibile tanto da un lato che dall'altro. Ma questi tre passi cioè il passo di Reschen, quello del Brenner e quello di Toblach sono sotto la salvaguardia dei Tirolesi del Wintschgau e del Pusterftal che valgono più di qualunque fortezza; e l'accesso ai due ultimi è per soprappiù chiuso quasi dhrei ermetrcmente dalla Franzensfeste. Il Tirolo di mezzo aggirato e circoscritto al Nord dallTun, e al Sud dall'Adige, e dall'Avisio, è un paese unico nel suo genere, tanto per la sua struttura topografica, che per la tempra detta sua popolazione. Un esercito poderoso né vi si può sviluppare né nutrire; un semplice corpo d'armata che vi entri come nemico non vi basta per lottare con quelle marziale popolazione. Anche la valle dell'Adige come quella della Piave è difficilissima a chi in una guerra vi rimonta, e invece facilissima a chi vi discende.

Ho già avuto l'occasione di avvertire che la catena delle Alpi dal punto ove la raggiunge, sortendo dal Tirolo, l'italia si abbassa dal lato di questa nella forma di una parete, mentre il suo versante settentrionale, che si scarica nel Gail, ha relativamente pochissima pendenza. 41 passo di Monte—Croce pel quale da Hanthen nel Gailthri si discende nel Canal di San—Pietro e per esso e per Tolmezzo si raggiunge il Tagliamento è sul mare 697, la valle sottoposta 370, il Gail a Mauten 369, la distanza orizzontale da questo al detto passo Misora 9000; e la base del monte appena 500 tese; e perciò neutre l'ascesa dalla valle italiana è di 1 su 1 la discesa verso Mauten non è che di 1 su 27. — Il termine medio delle sommità di queste Alpi, che sono le Alpi carniche come quelle del Tirolo le Rettiche degli antichi, è di circa 1000 tese poco più. Le cime più alte appartengono non alla catena centrale ma alle diramazioni che se ne staccano: cosi l’Antelao di 166tese all’Ovest di Cadore, il Marmarola al Sud-Ovest di Auronzo di 1395, il Nojaruola al Nord di Auronzo di 1259, il Paralba al Nord di Sappada di 1380 tese. — Quanto ai passi pei quali si arriva nella valle della Drava o in quella del Gail dall’Italia, i principali sono; sulla strada di Allemagna rimontando la Piave sino a Cortina d’Ampezzo alla sorgente della Rienz di tese 812, poi pel Kreutzberg all’origine del Padolo altro influente della Piave, di tese 853; pel Monte—Croce suddetto che conduce a Mauten di tese 697, più oltre il passo di Seifnitz ossia di Tarvis, al quale si giunge rimontando il Tagliamento, poi la Fella, e passando per la Pontebba, di sole tese 416. L’accesso dall’Italia al passo di Seifnitz è attualmente difeso dal forte Nalborghetto, che chiude la valle detta Fella. L’ultimo passo oltre al quale incominciano le Alpi—Giulie è il passo di Recolana, ma transitabile appena con bestie da somma. Esso conta circa 480 tese di elevazione, vi si arriva dalla valle della Fella e si giunge per esso al lago di Ruibl.

Il primo monte delle Alpi—Giulie è il M. Canino, di circa 1350 Use di elevazione. Esso è un alto—piano con una superficie di oltre a 8 miglia quadrate italiane, quasi tutto l’anno coperto di neve, e di un difficilissimo accesso. Esso si annoda alle Alpi—Giulie per mezzo del passo Predilpel quale si passa dalla valle dell’Isonzo per Tarvis nella valle della Drava a Villacco che al fiume e 602 tese s. m. Il Predil è chiuso da un forte. Da questo passo in poi la catena centrale è un monte a cresta, intransitabile sino alla sorgenti della Bazha, uno degli influenti dell’Iderza e con essa dell’Isonzo su di un solo sentiero. all'Est del Predil sorge il Hangart di 1372, poi il Terglou il più alto monte dell’Illirio e dello Alpi—Giulie di 1414, il Kim di 1151, il Vochu di 984, il Czernagora ossia Schwarzenberg di 945 tese di elevazione. Vi hanno dal Predil al Terglou 11, da questo al Kim 8, dal Kim al Czernagora miglia italiane. Il Kim è un alto—piano di 5 miglia quadrate ital. di superficie, converti) ile con pochissima spesa in una fortezza inaccessibile a cavaliere della valle dell'Isonzo e di quella della Sava. Per passare da quella in questa non vi ha che il Col di Trenta, all’origine dell’Isonzo, di 811 tese di elevazione; l’accesso al detto colle è di ambi i lati difficilissimo.

Le Alpi—Giulie sono sino al Czernagora monti acuminati e come io chiamo tali monti, monti a cresta. Ma ivi, a poche miglia di distanza, dirigendosi verso l’Est e poi al Sud, si allargano, arrondiscono e abbassano, e assumono l’aspetto piuttosto di colli che di monti. I passi che in questo tratto delle Alpi conducono dalla valle dell’Isonzo per la valle dell'Iderza alla Sava, cominciando dai più settentrionale sono: il Petroberda di tese 414; vi si arriva per la valle della Bazha e vi si discende nella valle di Eisern. Il Dausche Hrib di 516 tese; è posto al Nord di Circhina (Kirchheim), e conduce egualmente nella valle di Eisern. H Col di Mraule di 382 e il Col di Planina di 402 tese. Vi si ascende da Circhina (157 t.) e si discende per Hotaule (207 t.) nella valle di Scherauze (Zeirach). Il Col di Neu —Ostitz di 256 tese; vi si ascende da Zhellin all’unione della Circhina (132 t.). Il Col di Rospote di 365 tese. Vi si grange sa di una strada comoda carreggiabile da Idria (156 t.) Anche questi due passi conducono nella valle di Scherauze. Finalmente il punto culminante fra Idria e Lubiana detto Viharsche, di 41tese, pel quale passa la strada carreggiabile che conduce dalla prima delle dette città alla seconda (160 t.) Queste Alpi sono dai Dausche Hrib sino e inclusivamente al Col di Neu—Ostilz egualmente accessibili da ambi i lati. L'ascesa al Col di Rospote dalla Scherauze e cosi quella al Col di Viharsche da Lubiana è facile: non cosi le salite da Idria, che richiedettero strade che coi molti giri che vi hanno, si prolungano considerevolmente. Questo tratto delle Alpi admette dei tunnel di 1000 e anche di sole 800 tese di lunghezza. I venti che predominano nelle Alpi—Giulie fra Adelsberg e il mare vi sono sconosciuti, le nevi comparativamente poche e rare. Vi hanno dai Col di Mraule al passo di Viharshe circa 13 miglia italiane. L'Iderza e l'Isonzo avevano in vicinanza dell'attuale loro unione evidentemente un corso sotterraneo, e le loro valli erano un dl valli chiuse. Niente sarebbe più facile che di chiudere la valle dell'Iderza con qualche fortificazione di pochissima s pesa. Il caso invece sarebbe tutt’altro qualora si trattasse d'impedire l'accesso a coteste Alpi per la valle della Scherauze.

A Viharsche le Alpi—Giulie cangiano da nuovo intieramente di carattere. Esse qui si trasformano in un aggregato di alti—piani, di valli chiuse, di conche senza altro scolo per le acque che vi si raccolgono, che sotterraneo, e d’informi sprofondamenti di terreno. Il paese che ne risulta manca affatto di un determinato sistema idrografico, ed è ben più ancora che il Tirolo un paese sui generis Esso si estende sino all’Adriatico, e si prolunga attraverso della Croazia sino alle bocche di Cattaro, misurando soltanto nell’Illirio oltre a 2500 miglia quadrate italiane. Per farsene un'idea giusta e adeguata convien percorrerlo, dai Sud, al Nord, e dall’Ovest all’Est con l’eccellente carta topografica pubblicata dallo Stato—Maggiore austriaco e col barometro da viaggio, alla mano. Nessuna descrizione vi saprebbe bastare. Il mio divisamento con quanto sono ora per dirne non è, che di dimostrare la necessità di istudiare le Alpi—Giulie in riguardo alle pretensioni italiane un po( 5) meglio che non le si sono istudiate finora.

Le parti componenti questo vasto paese—alto—piano, in quanto che esso spetta alle Alpi—Giulie, sono: 1.° l’alto—piano che sorge a! Nord di Gorizia largo alle due estremità dieci, e frammezzo tre in quattro miglia italiane, e lungo da Canale sull’Isonzo sino ad Adelsberg sul Poig trenta; il quale, in riguardo alla sua inaccessibilità ed ai boschi che in gran parte lo ricoprono, è una spezie di Montenegro. Tre sono le strade che lo traversano. L’una vi sale da Salcano, villaggio allo sbocco delll’Isonzo nel piano, per Gargaro e per la valle di Chiapovano, la quale è piuttosto un sprofondamento che una valle, e ne discende nella valle della Tribussa, influente dell’Iderza. La seconda parte da Heidenschaft, ed è, sino a Podwelb (Zoll), l'antica strada romana che dall’Isonzo conduceva e conduce tuttora per Loitsch a Nauporto (Oberlavbach) e ad Emona (Lavbach). Quivi se ne stacca, e discende per Schwarzenberg a Idria, piccola ma memorabile città per le sue miniere d’argento vivo. La terza è il prolungamento di cotesta via militare romana. Il punto culminante nella prima conta tese 333, nella seconda 428, e nella terza 439. I rispettivi punti di partenza cioè Salcano 50, Heidenschaft 53; e i punti di arrivo, che sono: l’Iderza alla sua unione con ia Tribussa 107, Idria 156; e Oberlaibach 155; Gorizia sulla piazza Traunick 42, Vippacco all’origine del Hume dello stesso nome 46; Losizza a' piedi detta salita al passo di Prewald 120; il passo di Prewald 323; il punto culminante della strada postale da Gorisia a Lubiana all’Est di Adelsberg 317, quindi 48 tese meno che il passo di Neu—Ostitz nella catena centrale all’Est di Zhellin, ove la Circhina si unisce con l’Iderza, Planina alla Parocchia 238, Loitch alla posta 250, e il paludo di Lubiana 153. I monti dell'altopiano cominciando dall'estremità occidentale al M. Trustais 376; al M. Santo al Nord di Gorizia 350; al M. Sverinz al Sud di Tarnova 406; al Zaven al Sud—Est del detto villaggio 632; al Nanos al Nord di Prewald 665, —nel bosco di Tarnova, al Mersavets 720, e al Mali Gollak 765. La valle del Vippacco e la salita di Prewald sono talvolta rese intransitabili dalla bora che v’ infuria.

2.° L'alto—piano detto il Carso si estende alla sinistra del Vippacco, sino all'Adriatico e sino ai confini dell’Austria. Esso è un paese sassoso, nudo di alberi e di terra fuorché negli sprofondamenti, mancante di arqua, tormentato durante l’inverno sovente pel corso d’intere settimane dalla bora, che vi ostruisce tutte le strade, per poco che esse siansi intagliate in quelle roccie, con la neve che vi solleva e poi depone nei luoghi da essa riparati. La strada ferrata che lo traversa arrivandovi da Trieste conta al viadotto di Nabresina 73, alla stazione prossima a questo manufatto 85, a quella di Sessana 173, a quella di Divazza 222 tese. I suoi punti più alti sono all’orlo verso Vippacco; cosi il Pouchte al Nord di Castagnavixza 220; Terst al Nord—Est di Lippa 328 tese. Nel centro la sommità più alta è il M. Wounig nel meridiano di Trieste al Sud di Pliscavizza, di tese 287. Anche il Carso ha uno sprofondamento che comincia a quattro miglia italiane al Nord—Est di Puino a Jamiano, ai volge verso il Nord e sbocca al Vippacco. Il punto culminante fra Jamiano e il Vippacco ai eleva a 42 tese sopra il livello del mare.

3.° L'or descritto alto—piano si prolunga al Nord—Est, forma in una larghezza di miglia italiane l'istmo del Listria (il Tscitchen—Boden), e si annoda al IL Maggiore, che sorge maestoso a poca distanza del Quarnero, e spinge una sua diramazione fra il lago Ceppich e il detto mare. Sortendo dal detto alto—piano, paese sassoso, arido e senza acque, e internandosi nella penisola, si discende pelle valli, nella quali si fermano il Risano, il Quieto, la Foiba, l'Arsia e le acque del Ceppich; paese con poggi e colli ridenti, coperti di vigne e oliveti, e si entra poi oltre a Montone, Pisino, Lindaro e Pedeaa in un alto—piano che si abbassa a misura che si avvicina al mare, il quale è di poco men sassoso è men arido dell'istmo. La strada ohe da Trieste conduce a Fiume e segna al Nord e al Nord—Est il limite dell’istmo istriano conta tese di elevazione: a Basovizza al Nord di Trieste 197, a Materia alla posta 251, alla chiesetta di San—Primo 286, a quella di San—Paolo 352, a Sappiane alla chiesa 214, a Lippa alla posta 268, alla chiesa di Scanizza 288, alla barriera di San Mattio a quattro miglia di distanza da Fiume 173. I monti più alti dell'istmo nella direzione Sud—Est sono: il Slaunig di 624, ii Schabnig di 509, il Sia di 636, il Velli—Planik di 650, e poi il M. Maggiore di 715, il Sissol al Sud—Est del lago di Ceppich di 426, e il Berdo Verch all’estremità della lingua di terra fra l'Arsia o il Quarnero di 246 tese; nell’Istria di mezzo dal Nord—Ovest al Sud—Est vi ha il M. Maglio di 140, il Serai di 243, il Dragutsch di 256, il Strassevitza di 234; poi nell'Istria occidentale il M, Brusanov al Sud di Pisino di 242, il M. San—Giorgio al Nord di Gimino di 220; e finalmente in vicinanze del mare il M. Carso al Sud della rada di Pirano di 66 e il M. Sant—Angelo al Sud—Est di Parenzo e il M. San—Daniele all'Est di Pola ambidue di 54 tese.

4.° Oltre la strada triestina—fiumana al Nord—Est sino alla Recca s'incontra on paese di colli e di vallicelle più sminuzzate ancora che quelle dell'Istria di mezzo; e oltre la Recca l’alto—piano delle Schneeberg, che si annoda da un lato per Prewald, e dall'altro per Adelsberg all'alto—piano sovrastante. L'alto—piano dello Schneeberg ha per confine al Nord—Est le valli—chiuse di Planina, di Cirknitz e di Laas; oltre alle quali sino alla Sava e alla Kulpa vi ha tutta una vasta rete di alto piani e di valli tuttora chiuse e di altre ohe lo erano on giorno. La è questa una regione per la maggior parte coperta di selve selvaggie aspre e forti. Essa è la cittadella delle Alpi—Giulie come il TscitcheubÂen è la cittadella dell’Istria. Egli torno allo Schneeberg e al M. Maggiore chela campagne del 1813 è stata decisa a favore dell'Austria.

Le cime più alte fra la strada triestina—fiumane e la Recca sono dal N. W. al S. B. il M. Ert di 413, il Karloviz di 393, il Lisais di 480; oltre la Recca: il Jauernig all'Ovest del lago di Cirknitz di 650, il Schneeberg di 865; il Zatrep al Sud del suddieto di 744; e, oltre le valli—chiuse di Planina, di Cirknitz e di Laas, il Krim al Sud del paludo di Lubiana di 568, il Matschke al Sud di Gurk alla punta settentrionale dell’alto—piano fra Langenfeld e Gottschee di 363; il Scheschel fra Alien mark e Tschernembl di 414. Gli alto—piani al Nord—Est del Schneeberg come anche le valli frapposte si allungano per la maggior parte nella direzione dal Nord—Ovest al Sud—Est, serbando un certo paralellogismo; e ciò è il caso anche della Recca e dei monti dell’istmo istriano: La strada—ferrata da Nabresina a Lubiana conta dopo aver traversato il Carso, a Divazza 222, a San Pietro ove entra nella valle del Poig 294, a Adelsberg 300, al punto culminante 309, a Loitsch inferiore 247, al Trauerberg ove raggiunge il paludo di Lubiana 149; a Lubiana 154 tese di elevazione. Il punto culminante sulla strada da Fiume a Carlstadt (la Louisen—strasse) 448; la Kulpa a Brod 104, a Karlstadt 45.

Le ciffre altimetriche qui da me addotte sono dessunte per le Alpi ligure dalla Statistica del dip.° del Montenotte del conte Chabrol, e dal Viaggio marittimo del Bertolotti, per le Alpi marittime dal 1.° volume dell’opera: Le Alpi che cingono l’Italia; per le Alpi Cornue, Graje, Pennine o Leponsie dalle: operations géodetiques et astronomiques pour la mésure d'un arc du parallèle moyen. Milan 1825; dalla Monographie des M. Rosa, del generale barone Welden; dalla Strassenkarte der westlichen Alpen pubblicata dall'Istituto geografico militare austriaco; e dalla caria topografica delle strada del Simplon; e per le Alpi austriache, cioè le rettiche, carniche e giulie, dalle tabelle altimetriche aggiunte alla caria topografica del regno Lombardo—Veneto e a quella dell’lllirio, dello Stato—Maggiore austriaco, e dalle livellazioni effettuatesi all’uopo di determinare la linea per condurre la Strada—ferrata attraverso le Alpi—Giulie. Osserverò finalmente che 1000 tese di Francia fanno 1027,6 klafler viennesi o 194metri, e che il miglio italiano ha klafter 978,58, ovvero 952,26 tese di Francia.


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p> L'infanteria napoletana passava a’ tempi di Carlo I per la miglior infanteria d'Europa. Furono i reggimenti napoletani che nella guerra che il prefatto imperatore ebbe con la lega smalcaldica gli guadagnarono la battaglia di Mühlberg. — p>La cavalleria napoletana che faceva nel 1796 parte dell’armata austriaca contro Bonaparte , diede, durante il breve tempo che il suo re ve la lasciò, in ogni incontro prove di gran valore. — I Lazzari di Napoli sostennero nei primi mesi del 1799 contro i Francesi diversi combattimenti in un modo che avrebbe fatto onore a qualunque truppa regolare. — Le truppe napoletane che Giuseppe Bonaparte, e poi Gioacchino Murat fornirono in diverse epoche alle armate di Napoleone in Spagna in Germania e in Russia aveano nome di valere quanto le migliori dell'armata italica. — Io stesso sono stato testimonio nel 1812 di un combattimento in Catalogna presso Villafranca fra Taragona e il Lobregat, nel quale la cavalleria anglo-sicula rovesciò e ruppe la cavalleria, erano corazzieri, del maresciallo Sachet, che passava per invincibile. Vi aveano quattro squadroni del reggimento Dragoni Val—di—Noto, per lo più veterani napoletani con pochi Siciliani. I Napoletani non superarono gli Inglesi in bravura, ciò che sarebbe stato assai difficile, ma bensì nello slancio e nel maneggio delle armi. Conveniva ferire di punta e nel volto. I prigionieri che essi fecero, e ne fecero molti, erano la maggior parte feriti, e feriti nel volto. — La battaglia di Tolentino andò per Gioacchino perduta, ma non certamente per colpa del soldato napoletano. — 1 molti uffiziali della fu armata del Vice—Re che si sono massi alla disposizione di Gioacchino nella guerra del 1815 non gli si. sarebbero dati, se non fossero stati persuasi che la di lui armata aveva le qualità necessarie e richieste per servire di nodo all’impresa da esso annunziata e proclamai, Non è adunque per mancanza di fiducia nell’armata napoletana e nel suo re, che l’italia nel 1815 non si sollevò contro i suoi principi e contro l'Austria, ma perché lu causa che dicevasi la causa d'Italia non era che una causa settaria, verità di fatto che non si saprebbe troppo ripetere.

112

p>La detta nota, che il suo contenuto rende molto rimarchevole, era del tenore seguente: «Avendo avuto luogo alcuni movimenti di truppe verso le frontiere del regno, nel momento istesso in cui si parlava di un viaggio del Re negli Abruzzi, e forse nelle Marche già da lungo tempo annunziata; alcuni speculatori, degli uomini facili ad allarmarsi, e qualche mal intenzionato si sono abbandonati alle congetture le più assurde, e le hanno diffuse nel pubblico. Da esagerazioni in esagerazioni si è giunto fino a dire che vi era un Ordine del giorno, che annunziava alle truppe la guerra, e un piano d'operazioni militari. Dopo aver supposto che questo ordine del giorno esisteva, si è supposto che ne circolavano alcune copie. Niuno ha potuto dire di averlo letto ma ognuno ha creduto che esso era stato letto da altri, in modo che le false voci si sono accreditate. Noi siamo autorizzati a dichiarare che tutte queste voci sono prive di fondamento, e che il preteso Ordine del giorno, di cui si è tanto parlato non ha giammai esistito. Se qualche scritto di questo genere fosse circolato sarebbe esso. un documenta inventato a capriccio, ed i di cui autori avrebbero incorso tutta il rigore delle leggi. Il Re è in pace con latte le potenze, e se alcune truppe si sono avanzate sulle frontiere, questa misura comandata dalla previdenza non ha nulla che debba fare temere d'alcuna sorta di ostilità. Un avvenimento straordinario può dar luogo a grandi disposizione nei diversi gabinetti di Europa. S. M. ha giudicato necessario di esser pronta a regolare le sue a norme di quelle delle grandi Potenze, e sopra tutto secondo le determinazioni dei Sovrani co? quali ella ha le relazioni più intime.»

«Ecco il solo scopo dei movimenti di truppe che S. M. ha ordinato. Ciò che ella ha fatto non può esser considerato che come nna nuova prova della sua costanza nella sua politica, e degli sforzi che ella sarebbe pronta s fare, se le circostanze lo esigessero per it riposo del suo regno, e dell’Italia». —Questa nota che porta la data dei 13 marzo 1815, e che si legge nelle: Memorie Storiche intorno la vita di S. A. R. Francesco IV Duca di Modena. Compilate dai sacerdote modenese Don Cesare Galvani, vol. II. p. 22. mostra sino a che segno si portava l’impudenza del mentire a pro della causa italiana. Il sommo pontefice Pio VII come si può ben credere non prestò la mini ma credenza a quelle parole, protesta contro il passaggio delle truppe napoletane pei suoi Stati, e parti da Roma. il Pro—Segretario di Stato cardinale Pacca promulgò una notificazione assai rimarchevole che può leggersi nell'or citata opera.

113

p>Il generale Colletta era tutt’altro che ben informato sulla situazione delle guardie napoletane, che sotto gli ordini del generale Livron e del principe Pignatelli Strongoli erano entrate in Toscana. Dopo finita quella guerra, io mi sono trovato più volte a Genova nei caso di sentire i lamenti e le invettive di uno dei due comandanti delle prefatte guardie, del principe Pignatelli Strongoli contro i Toscani, e contro le loro disposizioni ostilissime all'impresa del suo re. Egli assicurava che vi si trattava di niente meno che di rinnovare con la truppa napoletana i Vespri—siciliani, che vi si era Ordita col mezzo del clero, e di alcuni uffiziali toscani una vasta cospirazione fra le masse della campagne, che egli non aveva mancato d'informarne il re, il quale si ostinava a non credervi. E che un capitano Gasparini toscano avesse disposto a insorgere le popolazioni della capipagina da Ruelio all'Incisa trovo notato anche nei periodico militare austriaco dell'anno 1822 fascicolo 7.° p. 59.

114

p>Il generale p>Pietro Colletta avrebbe potuto consultare , allorché scriveva i ragguagli della guerra di Gioacchino Murat in Italia nei 1815, quelli della stessa guerra pubblicati già nel 1819 dagli Austriaci. Non lo fece, e perciò cadde in grandi esagerazioni in riguardo ai numero delle truppe, che essi vi impiegarono, p>e cadde anche in altri abbagli , che, facendo ciò che qui insinuo, avrebbe facilmente evitati. Secondo lui avrebbe la colonna del generale Neipperg contato 16, e quelle del generale Bianchi e del generale Nugent assieme, 30 mila combattenti. Il vero è, che tutto l’esercito austriaco, prescindendo dai Toscani, (2005 a piedi e 200 a cavallo) non ammontavano se non a 29274 combattenti a piedi, e 293a cavallo. La colonna centrale era di soli 10308 uomini a piedi e 1157 a cavallo (ved. l'òster. Zeitschrift Anno 181fas. 8. pag. 122.) Esso generale assegna a Murat nella battaglia di Tolentino 16000 uomini, e a Bianchi lo stesso numero, e fa correre, per conto di questo, altri 4000 il paese fra il mare e Tolentino, cioè fra le due colonne, mentre Bianchi avea seco soltanto 980uomini a piedi, e 933 a cavallo, e mentre i suoi distaccamenti non componevansi se non di 733 uomini.

115

p>Si legge una relazione della battaglia di Tolentino anche nella biografia del generale Bianchi, pubblicata a Vienna in un grosso volume nel 1857 col titolo: Friedrich Freiherr von Bianchi, Duca di Casalanza, k. k. Feldmarschall-lieutenant , con l'epigrafe: «L'histoire doit tout dire, parcequ'elle a pour principal but l'expérience et la leçon des peuples», la quale contiene molte interessantissime particolarità. Dalla detta relazione si ricava, che realmente l'esito della battaglia di Tolentino fu per più ore incerto, e che la vittoria si dovette io gran parte a tre cannoni, co' quali un uffiziale di artiglieria, che non si lasciò spaventare degli ostacoli che sembravano assolutamente insuperabili, ma che egli coi suoi bravi artiglieri riusci a superare, comparve iuaspettatamente per ambedue le armate, ma assai a proposito per gli Austriaci, sul campo di battaglia. La battaglia di Fontenoy, vi è dello, fu decisa da quattro, la nostra da tre cannoni. (pag. 454.) Sull'aver accettata la battaglia malgrado la grande superiorità numerica che vantava l'armata nemica, dice il generale Bianchi: che una «ancorché rapidissima perlustrazione delle località gli aveva dato a conoscere tali vantaggi topografici, che egli potè con la massima fiducia, stante la bontà delle truppe che comandava, aspettare l’attacco». (pag444.)

116

p>La truppa toscana che faceva parte della colonna comandata dal conte Nugent rese in quella breve guerra servigj eminenti. Fra la cavalleria toscana e gli ussari austriaci della colonna del conte Nugent si produsse durante quella guerra una fratellanza che ha del meraviglioso. I distaccamenti a cavallo componevansi di ussari, e di dragoni toscani. Questi non vedevano mai un Ussaro in pericolo senza accorrervi e tirarnelo, e cosi facevano gli Ussari in riguardo ai Toscani. Pare che gli Ussari fossero già a tempi del Segretario fiorentino nella Toscana in fama di gran valore leggendosi in nna delle sue commedie la risposta di una serva:

«La mia padrona ha più fede in voi che l'Ungaro nella sua spada».

Nel succitato giornale anno 1822 fasc. p. 325. vi ha il ragguaglio circostanziato di una carica che fecero 7 ussari e 14 dragoni sulla vanguardia, composta di ulani napoletani, di una colonna che marciava (i aprile su Poggio a Cajano. Vi ebbero due scontri, nel primo cadde l'uffiziale nemico comandante gravemente ferito fra molti ulani morti, il rimanente disordinato fuggi; ma arrivato alla colonna si fermò, e riordinato avanzo una seconda volta, ma fu rovesciato di nuovo, perdette 32 prigionieri, e mise lo spavento nella colonna che seguiva, e che, pensando di aver a fare con forte superiori, rinunziò all'attacco del ponte sull’Arno che voleva occupare. I Toscani erano comandati da un tenente (Mancini) che il Gran—Duca creo Cavaliere dell'ordine di San Stefano; il tutto da un capitano austriaco dello Stato maggiore (Radossiz). Il distaccamento ebbe due morti e cinque feriti. —Ho citalo questo caso, perché il generale Colletta pretenda che i Toscani assai di malincuore seguissero in quella guerra gli Austriaci. Vi ebbero dei Toscani anche nell'assalto del campo di Mignano la notte del 16 al 17 maggio, che fini con la totale sconfitta e la più disordinata fuga del corpo di riserva napoletano. I Toscani vi fecero meraviglie. Se avessero servito cogli Austriaci di malincuore non, ne avrebbero fatte.

117

p>Colletta u. s. lib. VII. c. V. 94.

118

p>Colletta u. s. lib. VII. e V. 99.

119

p>Cantù storia degli Italiani Nota 17 al Capo CLXX11. Vol. VI. pag. 506.

120

Il fin qui detto sulla rivoluzione napoletana desunto poco men che per intiero dalla Storia del generale Colletta, il quale a quell'epoca era ministro della guerra nel nuovo governo. Veg. nel . Lib. IX. i capi II. e III. o veggasi per altro anche nella Storia del Signor Cantù il cap. 183 nel Vol. VI a p. 487—493. L'autore dice: che la rivoluzione di Napoli non sarebbe caduta si di corto, se le fosse ita di pari quella di Piemonte. Io credo ch’egli s'inganna. La rivoluzione del Piemonte non avrebbe fatto ché accellerare le decisioni della Santa Alleanza.

121

p>Quante falsità non si sono messe in campo sul conto degli interventi, coi quali l'Austria ristauro il potere legittimo nel 1821 a Napoli e a Torino? Si vorrebbe farli passare per dei soprusi della forza brutale, e attribuirli alla sola Austria. Se colpa vi avesse, che non vi ha, la sarebbe comune a tutte le grandi potenze Europee non eccettuate la Francia e l’Inghilterra. I sovrani e i loro ministri di quell'epoca erano sulla necessità degli interventi armali contro l'irrequietezza rivoluzionaria che facevasi ogni di più minacciosa tutti d'accordo in massima e nei principj, se anche non tutti parlassero lo stesso linguaggio. Allego a schiarimento di questa importantissima verità una serie di documenti che non riusciranno, cosi spero, discari al Lettore.

Acte de la Sainte Alliance, signé a Paris par l'empereur d'Autriche, l’empereur de Russie, et le roi de Prusse.

Au nom de la très sainte et indivisible Trinité.

LL. MM. l'empereur d'Autriche, le roi de Prusse et l'empereur de toutes les Russies, par suite des grands événemens qui ont signalé en Europe le cours des trois dernières années et principalement des bienfaits qu'il a plu à la divine Providence de répandre sur les États dont les gouvernemens ont placé leur confiance et leur espoir en elle seule, avant acquis la conviction intime qu'il est nécessaire d'asseoir la marche à adopter par les puissances dans leurs rapporte mutuels, sur les vérités sublimes que nous enseigne l’éternelle religion du Dieu sauveur; Déclarent solennellement que le présent acte n'a pour objet que de manifester à la face de l'univers leur détermination inébranlable, de ne prendre pour réglé de leur conduite, soit dans l'administration de leurs États respectifs, soit dans leurs relations politiques avec tout autre gouvernement, que les préceptes de celte religion sainte, préceptes de justice, de charité et de paix, qui, loin d'etre uniquement applicables à la vie privée, doivent au contraire influer directement sur les résolutions des princes et guider toutes leurs démarchés, comme étant le seul moyen de consolider les institutions humaines et de remédier è leurs imperfections.

En conséquence. Leurs Majestés sont convenues des articles suivans: Article I.

Conformément aux paroles des Saintes Écritures, qui ordonnent à tous les hommes de se regarder comme frères, les trois monarques contractas demeureront unis par les lieus d'une fraternité véritable et indissoluble, et, se considérant comme compatriotes, ils se prêteront en toute, occasion et eu tout lieu assistance, aide et secours, se regardant envers leurs sujets et armées comme pères de famille,. ils les dirigeront dans le même esprit de fraternité, dont ils sont animés pour protéger la religion, la paix et la justice.

Article II.

En conséquence, le seul principe en vigueur, soit entre les dits gouvernemens, soit entre leurs sujets, sera celui de se rendre réciproquement service, de se témoigner, par une bienveillance inaltérable, l'affection mutuelle dont ils doivent être animés, de ne se considérer tous que comme membres d'une même nation chrétienne, ces trois princes alliés ne s'envisageant eux mêmes que comme délégués par la Providence pour gouverner trois branches d'une même famille, savoir: l'Autriche, la Prusse et la Russie, confessant ainsi que la nation chrétienne, dont eux et leurs peuples font partie, n'a réellement d'autre souverain que celui a qui seul appartient en propriété la puissance, parce qu'en lui seul se trouvent tous les trésors de l'amour, de la science et de la sagesse infinie, c' est A dire Dieu, notre divin Sauveur Jésus—Christ, le verbe du Très Haut, la Parole de vie. Leurs Majestés recommandent en conséquence avec la plus tendre sollicitude à leur peuples comme unique moyen de jouir de cette paix qui nait de la bonne conscience et qui seule est durable, de se fortifier chaque jour davantage dans les principes et l'exercice des devoirs que le divin Sauveur a enseignés aux hommes.

Article III.

Toutes les puissances qui voudront solennement avouer ces principes sacrés qui ont dicté te présent acte, et reconnaîtront combien il est important au bonheur des nations trop long—terne agitées, que ces vérités exercent désormais sur les destinées humaines toute l'influence qui leur appartient, seront reçues avec autant d'empressement que d'affection Jans cette sainte alliance.

Fait triple et signé a Paris, l'an de grâce 1815 le 14 (26) septembre.

FRANÇOIS, FREDERIC—GUILLAUME, ALEXANDRE.

Manifeste Je l'empereur Je Russie en publiant à Saint Petersbourg l’acte Je la Sainte—Alliance,

Nous Alexandre I., empereur et autocrate de toutes les Russie» savoir faisons; Avant reconnu par l’expérience et des suites funestes pour le monde entier, qu’antérieurement les relations politiques entre les différentes puissances de l’Europe n'ont pas en pour bases les véritables principes sur les quels la sagesse divine a, dans la révélation, fondé la tranquillité et le bien—être des peuples, nous avons conjointement avec LL. MM. l'empereur François I. et le roi de Prusse Fréderic—Guillaume, formé entre nous une alliance à la quelle les autres puissances sont aussi invitées d'accéder. Par cette alliance nous nous engageons mutuellement à adopter dans nos relations, soit entre nous, soit par nos sujets, comme le seul moyen propre à le consolider, le principe puisé dans la parole et la doctrine de notre Sauveur Jesus—Christ, qui a enseigné aux hommes qu'ils devaient vivre comme frères, non dans des dispositions d'inimitié et de vengeance, mais dans un esprit de paix et de charité. Nous prions le Très—Haut d'accorder à nos vœux la bénédiction; puisse cette alliance sacrée entre toutes les puissances s'affermir pour leur bien—être général, et qu'aucune de celles qui sont unies avec toutes les autres n'ait la témérité de s'en détacher.

En conséquence nous joignons ici une copie do cette alliance, et nous ordonnons qu'elle soit publiée dans tous nos États et lue dans les Églises.

Petersbourg le jour de la naissance de notre Sauveur le 25 décembre 1815.

ALEXANDRE.

Lettre du Prince relent de la Grande—Bretagne, adressée sua empereurs d'Autriche Ci de Russie et au roi de Prusse, concernant son adhésion à la Sainte Alliance.

Monsieur mon frère et cousin, l'ai eu l'honneur de recevoir il y a peu de jours, la lettre de V. M. ainsi que la copie du traité signé a Paris le 26 septembre par V. M. et ses augustes alliés. Comme les formes de la constitution britannique, que je suis chargé d'administrer au nom et de la part du roi mon père, ne me permettent point d'accéder formellement à ce traité dans la forme sous la quelle il m'a' été présenté, j'ai recours à la présente lettre pour transmettre aux augustes souverains qui ont signé ce traité mon entière adhésion aux principes qu'ils ont établis, à la déclaration qu' ils ont faite d'adopter les principes divins de la religion chrétienne comme maximes invariables de leur conduite dans toutes leur relations sociales et politiques, et de cimenter l'union qui devrait à jamais subsister parmi toutes les nations chrétiennes. Ce sera toujours l'objet de mes efforts les plus ardents de régler ma conduite, dans la situation où la divine providence a daigné me placer, sur ces maximes sacrées, et de coopérer avec mes augustes alliés i toutes les mesures qui peuvent contribuer à la paix et au bonheur du monde. Je suis avec les sentiments les plus invariables d'amitié et d'affection, monsieur mon frère et cousin, de V. M.

le bon frère et cousin

GEORGES, Prince regent

p>11 Sulla decisione del congresso di Laybach, e sul modo come la fu comunicata al nuovo governo napoletano si legge nella storia del generale Colletta quanto segue: «Gli ambasciatori russo, prussiano e austriaco presentarono le lettere dei loro Sovrani al vicario del re». Dicevano esse: che la rivoluzione di Napoli nelle prime segrete trame come nei mezzi e nel fine offendeva i sistemi politici dell'Europa, minacciava la sicurtà dei governi d'Italia, perturbava la pace universale, nuoceva col fatto e coll’esempio, era incomportabile dai reggitori dei popoli. Ma per operare maturatamente, avendo consultati l'esperienza ed il senno del monarca di Napoli, era stato necessità stabilire che un esercito austriaco in prima linea, ed altro russo in riserva, marciasse sopra quel regno, amichevolmente se ritornava all’antica obbedienza, e da nemici se l'ostinato proponimento persisteva; e che per pace o per guerra vi rimarrebbe temporalmente un esercito tedesco in sicurtà del re, delle leggi, della giustizia. Indi a poco, nel giorno stesso, il ministro di Francia dichiarò al reggente che il suo governo aderiva alle decisioni del congresso di Laybach, ed il ministro inglese, che l'Inghilterra sarebbe neutrale nelle presenti contese (Colletta lib. IX. capo III. 29.) Peraltro anche il ministro inglese ebbe a dichiarare rispondendo ad una nota: « Le gouvernement de S. M. Britannique n'interviendra en aucune façon dans les affaires de ce pays. à moins qu'une telle intervention ne soit rendue indispensable par des insultes personnelles, ou par des périls aux quels la famille royale pourrait—être exposée». Naples 11 février 1821. (Veg. B. de Marient. Guide dipl. 1. 2. ch. IV. p. 329). Conchiudiamo che in fondo tutte le cinque grandi potenze aderivano alle decisioni del Congresso di Laybach. Degli Stati Italiani non occorre parlare. La sola riserva che interposero i ministri sardi iu nome del loro re, fu che l'intervento non avesse ad aver luogo che in seguito ad una formate dimanda dello Stato che si trovasse minacciato dai rivoluzionari o fosse ad nna impresa rivoluzionaria soggiaciuto. Ancora nel 1833 dichiarava il ministro degli affari esteri sardo conte de Latour al barone Barante ministro residente francese alla corte di Torino: « Le roi de Sardaigne regardera comme un acte d’hostilité l'entrée dans ses États, de tout corps de troupes qu'il n'aurait pas appelé». (Guide Dipl. u. s. chap. IV. p. 380.)

Per quanto cercassi non mi fu dato di trovare il dispaccio circolare di Lord Castlereagh, del quale ho dato un brano nel testo, il quale è tolto dall'Histoire du progrès du droit des gens en Europe et en Amérique par Henry Wheaton tome II. p. 200. Quel dispaccio è nei documenti annessi al Congrès de Vienne del signor Capefigue, ma non intiero.

122

Allorch i Francesi, dopo disfatto l'esercito napoletano, col quale il generale ack, di sventurata memoria, era nel 179sortito dal regno od entrato nell'Italia centrale, marciavano su Napoli, e non incontravno truppe che loro si opponessero, il re Ferdinando IV. indirizz al suo popolo le seguenti pochissime parole: Nell'atto che io sto nella capitale del mondo cristiano a ristabilire la santa Chiesa, i Francesi, presso i quali tutto ho fatto per vivere in pace, minacciano di penetrare negli Abruzzi. Correron poderoso esercito ad esterminarli; ma frattanto si armino i popoli, socorrano la religione, difendano il re e padre che cimenta la vita pronto a sacrificarla per conservare a' suoi sudditi gli altari la roba, l'oor delle donne, il viver libero. Ramentino antico valore. Chiunque fuggisse dalle bandiere o dagli attruppamenti a masse, andrebbe punio come ibelle a noi, nemico alla Chiesa e allo Stato. «Fu, continua il nostro generale, quell’editto quanto voce di Dio; i popoli si armano; i preti, i frati, i più potenti delle città e dei villaggi li menano alla guerra; e dove manca superiorità di condizione, il più ardito è capo, i soldati fuggitivi, a quelle viste fatti vergognosi, unisconsi a’ volontari; le partite piccjle in sul nascere, tosto ingrandiscono, e in pochi dl sono masse e moltitudini, le quali, concitate da scambievoli discorsi e dalla speranza di bottino, cominciano le imprese; non hanno regole se non combattere, non hanno scopo fuorché distruggere; secondano il capo, non obbediscono; seguono gli esempi, non i comandi. Le prime opere furono atroci per uccisione di soldati francesi rimasti soli perché infermi o stanchi, e per tradimenti nelle vie o nelle case; calpestando le ragioni di guerra, di umanità e di ospizio. Poco appresero inanimiti da' primi successi, pigliarono la città di Teramo, quindi il ponte fortificato sul Tronto, e, slegati i battelli che lo componevano, impedirono il passaggio ad altre schiere; mentre in Terra di Lavoro torme volontarie adunate a Sessa, correndo il Garigliano, bruciato il ponte di legno, s’impadronirono di quasi tutto le artiglierie di riserva dell’esercito francese, poste a parco sulla sponda; e poi, trasportando il facile, distruggendo il resto, uccidendo le guardie, desertarono quel paese. Le tre colonne (francesi) dell’ala sinistre non più comunicarono tra loro né con l’ala dritta, impedita dai Napoletani, che in vedetta delle strade uccidevano i messi e le piccole mani di soldati.»

«Stupivano i Francesi, stupivamo noi stessi del mutato animo, senza esercito, senza re, senza Mark, uscivano i combattenti come dalla terra, e le schiere francesi, invitte da numerose legioni di soldati, oggi menomavano d'uomini e di ardimento contro nemici quasi non visti.» (Collette u. s. Lib. III. c. III. 37.) — Ecco la guerra che le masse napoletane avrebbero fatto all’Austria nel 1821, se la rivoluzione napoletana fosse stata una rivoluzione del popolo, e non un rivoluzione meramente settaria; ecco la guerra alla quale gli Alleati, falsamente prevenuto sul carattere della detta rivoluzione, si aspettavano, e che induceva il generale in capo austriaco barone Frimont a non entrare negli Abruzzi se non con la massima circospezione.

123

p>La ribellione dell'armata piemontese, che da principio credevasi generale, destò al congresso di Laybach con l'assurda sua baldanza la massima indignazione. L'imperator Alessandro appena la seppe, che spedi ordini sopra ordini alla sua armata di riserva, che aveva già passato il confine, di accellerare quanto più potesse la suo ma:cia verso l'Italia. Il congresso prese occasione della rivoluzione piemontese per pubblicare in nome dei sovrani alleati la seguente dichiarazione, onde far sapere al mondo, che la Santa—Alleanza contro i tentativi dei perturbatori sussisteva ancora in tutta la sua forza.

Déclaration publice au nom des cours d’Autriche, de Prusse et de Russie lors congres de Laybach

L'Europa connaît les motifs de la résolution prise par les souverains alliés d'etouffer les complots et de faire cesser les troubles qui menaçaient l'existence de cette paix générale dont le rétablissement a coûté tant d'efforts et tant de sacrifices.

Au moment même où leur généreuse détermination s'accomplissait dans le royaume de Naples, une rébellion d'un genre plus odieux encore, s'il était possible, éclatait dans le Piémont.

Ni les liens qui, depuis tant de siècles, unissent la maison régnante de Savoie à son peuple, ni les bienfaits d'une administration éclairée sous un prince sage et sous des lois paternelles, ni la triste perspective des maux aux quels la patrie allait être exposée n’ont pu contenir les désirs des pervers.

Le plan d'une subversion générale était tracé. Dans cette vaste combinaison contre le repos des nations, les conspirateurs du Piémont avaient leur rôle assigné. Ils se sont halés de le remplir.

Le trône et l’État ont été trahis, les serments violés, l'honneur militaire méconnu, et l'oubli de tous les devoirs a bientôt amené le fléau de tous les désordres.

Partout le mal a présenté les même caractère, partout un même esprit dirigeait ces funestes révolutions.

Ne pouvant trouver de motif plausible pour le justifier, ni d'appui national pour les soutenir, c'est dans de fausses doctrines que les auteurs de ces bouleversements cherchent une apologie; c'est sur de criminelles associations qu'ils fondent un plus criminel espoir. Pour eux l'empire salutaire des loix est un joug qu’il faut briser. Ils renoncent aux sentiments qu'inspire le véritable amour de la patrie et mettant à la place des devoirs connus les prétextes arbitraires et indéfinis d'un changement universel dans les principes constitutifs de la société, ils préparent au monde des calamités sans fin.

Les souverains alliés avaient reconnu les dangers de celte conspiration dans toute leur étendue, mais ils avaient pénétré en même tems la faiblesse réelle de conspirateurs à travers le voile des apparences, et des déclamations. L'expérience a confirmé ces pressentiments. La résistance que l’autorité légitimé a rencontrée a é:é nulle, et le crime a disparu devant le glaive de la justice.

Ce n’est point à des causes accidentelles, ce n'est pas même aux hommes qui se sont si mal montrés le jour du combat, qu' on doit attribuer la facilité d'un tel succès. Il tient à un principe plus consolant et plus digne de considération.

La Providence a frappé de terreur des consciences aussi coupables, et l'improbation des peuples, dont les artisans des troubles avaient compromis le sort, leur a fait tomber les armes des mains.

Uniquement destinées à combattre et à réprimer la rébellion, les forces alliées, loin de soutenir aucun intérêt exclusif, sont venues au secours des peuples subjugués, et les peuples en ont considéré l'emploi comme un appui en faveur de leur liberté et non comme une attaque contre leur indépendance. Dès lors la guerre a cessé; des lors les États que la révolté avait atteint n' ont plus été que des États amis pour les puissances qui n'avaient jamais désiré que leur tranquillité e leur bien—être.

Au milieu de ces graves conjonctures, et dans une position aussi délicate, les souverains alliés, d'accord avec LL. MM. le roi de Deux—Siciles et le roi de Sardaigne, ont jugé indispensable de prendre les mesures temporaires de précaution indiquées par la prudence et présentées par le salut commun. Les troupes alliées, dont la présence était nécessaire au rétablissement de l’ordre ont été placées sur les points convenables, dans l'unique vue de protéger le libre exercice de l’autorité légitimé et de l'aider à préparer sous celte égide les bienfaits qui doivent effacer la trace de si grands malheurs.

La justice et le désintéressement qui ont présidé aux deliberations des monarques alliés régleront toujours leur politique. A l'avenir, comme par le passé, elle aura toujours pour but la conservation de l’indépendance et des droits de chaque État, tels qu’ils sont reconnus et définis par les traités existants. Le résultat même d’un aussi dangereux mouvement sera encore, sous les auspices de la Providence, le raffermissement de la paix, que les ennemis des peuples s'efforcent de détruire, et la consolidation d'un ordre de choses qui assurera aux nations leur repos et leur prospérité.

Pénétré de ces sentiments les souverains alliés, en fixant un terme aux conférences de Laybach, ont voulu annoncer au monde. les principes qui les ont guidés Ils sont décidés a ne jamais sans écarter, et tous les amis du bien verront et trouveront constamment dans leur union une garantie assurée contre les tentatives des perturbateurs.

C'est dans ce but que LL. MN. II. et RR. ont ordonné à leurs plénipotentiaires de signer el de publier la présente déclaration.

Laybach le 12 avril 1821.

Autriche METTERNICH

le baron do VINCENT.

Prusse KRUSEMARK.

Russie de NESSELRODE

Capo d'ISTRIAS

Pozzo di BORGO.

(Veg. Martens Le Guide diplomatique chap. II)

124

p>Il generale conte Sallier de Latour, personaggio sotto ogni rapporte autorevolissimo, mi diceva un giorno nell'inverno del 1819 a Torino, aver egli sentito più volle Vittorio—Emanuele dichiarare, che egli darebbe ai suoi Stati all'istante una costituzione, se non fosse certo, che i malvaggi ne farebbero un arma per sovvertirvi ogni ordine, e per turbare la pace dei suoi sudditi; che in teoria e al primo aspetto niente aveavi di più spezioso che una costituzione, ma che in pratica la cosa facevasi tutt'altra. Era a questo discorso del conte Latour presentò il vecchio maresciallo suo padre, che si affrettò di prendere la parola, per dire, aver anch'egli sentito dalla bocca di quell'ultimo e magnanimo principe la di cui candidezza d'animo non permetteva dubitare della sincerità dei suoi detti, varie volte discorsi simili. — D'altronde chi non sa, che in quel torno, la maggior parte dei Sovrani d'Europa propendevano a dare ai loro popoli delle costituzioni. Che se essi non le diedero, la cagione ne fu, che già nei primi saggi, che con esse si fecero, si rese chiaro e manifeste, che i rivoluzionarj se ne sarebbero serviti per disordinare di nuovo l'Europa.

125

p>Per comprendere la parte che ebbe il principe di Carignano, poi Carlo Alberto, alla rivoluzione del Piemonte nel 1821, basterà ricorrere alla Storia della detta rivoluzione scritta del conte di Santarosa, ove trovasi tutta una serie di fatti comprovanti la sua reità e complicità, i quali fino ad un certo segno giustificano, e in ogni caso spiegano i rigori usati da Carlo—Felice contro quel principe, e il partito da lui preso, di escluderlo dalla successione al trono sardo-piemontese, e di farla aggiudicare alla sposa del duca di Modena, alla figlia primogenita di Vittorio—Emanuele. Carlo—Felice dovette deporre quel suo pensiero non solo per l’opposizione che vi fecero gli uomini di Stato del Piemonte, ma anche per quella dell'Austria e del di lui ministero, e per quello dell'istesso duca di Modena, il quale ebbe a dire al principe di Metternich: «che l'escludere il principe di Carignano dalla successione, oltre all'essere una violazione dei principi fondamentali del jure pubblico Europeo, e perciò un cattivo esempio, sarebbe anche una sorgente di guerre, poiché esso principe vedendosi escluso dal trono, si metterebbe subito sotto la protezione della Francia o di altra potenza, che sosterrebbe i suoi diritti.» (Veg. su di ciò le Memorie Storiche intorno la vita di S. A. B. Francesco IV. Duca di Modena. (Vol. 111. c. 3. p. 55 — 57.)

Ciononpertanto, ci sono gli Italianissimi, e in ispecialità quella calunnia incarnata del Gualterio, congiurati ud ascrivere ai raggiri del detto Duca Francesco IV di Modena il partito preso da Carlo-Felice di escludere il principe Carignano dalla successione al trono sardo—piemontese. Oltre che si legge nel Memorandum Storico-politico del conte Solaro della Margarita, che fu pel corso di più lustri ministro presidente di Carlo Alberto le seguente dichiarazione «All’idea di diseredare il principe di Carignano era contraria la Corte di Vienna, e intendo indicare il medesimo imperatore Francesco e il principe Metternich; né ciò è un'induzione o una congettura, ma cosa che posso con piena cognizione dell’affare nel modo più positivo asserire. Chiaramente entrambi lo dichiararono a Carlo—Felice; questo depose il suo pensiero, sia per l'opposizione della Corte di Vienna, sia per quella degli uomini di Stato del Piemonte» oltrediciò dico, avvi una voluminosa raccolta di lettere autografe di Carlo—Alberto a Francesco IV scritte dopo di essere divenuto re, nelle quali egli si espande nell’espressione dei più vivi e più caldi sentimenti di riconoscenza, di devozione e di altissima stima, verso di questo. Cosi leggesi in una di coteste lettere:

«Dans toutes les circonstances V. A. B. me donna de si constantes preuves de bienveillance, que nun cœur reconnaissant ne peut les lui rendre que par un attachement illimité. E in un'altra: Je ne puis assez lui dire combien je vé né re ses vertus, combien j'attache de prix à son estime, à son approbation, et à son attachement. E in un'altra: il est impossible de Vous porter un attachement plus vif que le mien, de Vous être plus entièrement dévoue', et de partager plus complètement sur tous les points Votre manière de penser». (Veg. le Memorie u. s. Vol. III. c. 3. p. 57, e anche la Storia degli Italiani del Signor Cantù. Nota 17. al cap. 184. p. 536 del Vol. VI.)

Quella lucidissima mente del conte Solaro della Margarita indirizza agli Italianissimi relativamente all'affare che qui ci ha occupato una dimanda, che se mai non m'oppongo è giustissima e in sommo grado rimarchevole.

«Siete voi, dice egli, conseguenti quando fatte un delitto al duca di Modena di aver, come voi supponete, pensato ad estendere il suo dominio e diventare Re della parte occidentale d'Italia con tutte le speranze unità alla corona di Sardegna, mentre tanto esaltate Carlo—Alberto per questa medesima idea; se questo chiamate magnanimo e glorioso per aver tentato d'estendere dalle Alpi all'Isonzo il Regno, racchiudendovi Modena, Parma, o Piacenza, perché non saziarsi d'improperar al nome di Francesco IV: Egli non avea diritto ai Trono di Sardegna ciò è certo: (a) ma qual diritto, aveva sugli Stati Estensi e sul Lombardo Veneto Carlo Alberto? Il mio sventurato Signore per sua gran disgrazia si lasciò adescare dai rivoluzionarj, ecco il suo merito agli occhi loro: il Duca di Modena non li accarezzò mai, ecco il suo delitto. Questa é la bilancia dei moderni amici d'Italia».

L'or considerata accusa contro il Duca di Modena se anche falsa, poteva esser vera; non aveva nulla che fosse incredibile, e che si passasse con una inerente assurdità a prima vista una calunnia. Vi ha nel capitolo trentesimo settimo dei Rivolgimenti italiani del Gualterio, intitolato: La rivoluzione del 1821 in Piemonte, una accusa contro l’Austria, che nessun intelletto sano saprebbe leggere senza essere tentalo di gettar da sé il libro con dei segni di un sommo disgusto per non dir di un sommo disprezzo. Parlando dei tumulti piazzali del 14 e 15 marzo, che imposero al principe di Carignano reggente la Costituzione spagnuola, avverte l'autore, che] l'Austria anelava di allontanare dal trono sardo—piemontese un principe qual era il principe di Carignano altamente italiano, e che essa aveva in Torino dei partigiani, che dalla rivoluzione piemontese volevano trar profitto per essa. Questo asserto è bensì gratuito, ma non implica nessuna incongruenza: tutto ciò poteva benissimo essere. Tutt'altro è il caso di ciò che segue.

«Infatti cosi prosegue egli, molte persone sospette si aggiravano quel giorno (il 14) sulla piazza Carignano ad. eccitare il popolo ed impedire che non venisse dal principe accettata transazione veruna, e per la sola Costituzione spagnuola insistesse ostinatamente. Gli avvenimenti del giorno appresso provarono chiaramente un fatto allora a molti incredibile, ma non tale in appresso, perché replicato più volle: che cioè quelle sinistre faccie, quei misteriosi provocatori erano agenti dal conte di Binder, ministro d'Austria a Torino... Tutta questa parte del moto di piazza fu opera della setta Carbonaresca e dell'Austria. La prima spingeva le cose all'impazzata, secondo i suoi principj e le sue abitudini, e la seconda non cercava che un pretesto d'intervento... Il giorno appresso (15) la reazione cominciò a mostrarsi. Lo spirito d'insubordinazione seminato nell’esercito germinò amari frutti, e l'Austria non indugiò a trarne profitto. Si viddero infatti numerosi agenti provocatori, quei medesimi che eccitavano il popolo il giorno innanzi gettarsi tra le file delle truppe, ed invitare i soldati alla diserzione, dicendo loro ohe erano liberi dal giuramento... l’identità di siffatti perturbatori in un senso cosi opposto, il 14 e il 15, addita chiaramente a qual padrone servissero. L'Austria aveva compreso fin d'allora essere in Italia molto facile il far cadere le rivoluzioni negli ec cessi e in questi essere la loro morte: quindi cominciò a prov vedere alla propria salute col render utile sé i cervelli più bollenti e la parte più corrotta». (Vol. III. p. 71 e 72 dell'ed. di Firenze.)

Io mi asterrò da ogni ulteriore commentario su questa accusa con la quale l'autore evidentemente si versa il ranno sui proprio capo, e si dà colla zappa nelle proprie gambe. Dirò soltanto che quando mi accinsi al presente mio lavoro aveva divisato di dedicare tutto un capitolo all'analisi di quelle menzogne e calunnie che più hanno servito a traviare l'opinione pubblica sulla cosi detta questione italiana fuori d'Italia, e in ispezialità in Francia, e nell'Inghilterra; traviamento il quale è una delle principali ancorché indirette cagioni, che l’Italia è tuttora si orribilmente malmenata dai partito rivoluzionario. Ma col detto capitolo avrei di troppo allungato questo scritto, che oltrepassa già cosi e di molto e assai i limiti che gli aveva assegnati. Con questa ommissione, ne convengo, si produce in esso un notevolissimo vuoto, al quale pero il Lettore vi potrebbe facilmente ricorrendo alla Storia riparare, giacché per lo più i fatti vi parlano e si rettificano, ad ogni imparziale attento e studioso lettore, da sé.

a) Non posso ammettere quel «certo» per la ragione, che se anche non vi avea nessun diritto nel Duca stesso, ve ne aveva, rimpello a! principe di Carignano nella figlia primogenita di Vittorio Emanuele tua consorte certamente non meno, che nell'attuale regina di Spagna rimpetto all'infante Don Carlos. Francesco IV. non volle saperne di quella successione, poiché il suo diritto non avrebbe bastalo a impedire dissidj e guerre.

126

Primo Manifesto di Carlo - Felice da Modena

NOI CARLO FELICE DI SAVOIA Duca del Genevese etc. etc. Etc

Dichiariamo colla presente, che in virtù dell'alto di abdicazione alla Corona emanato in data del 13 marzo 1821 da S. M. il Re Vittorio Emanuele di Sardegna nostro amatissimo Fratello, e da Esso a Noi comunicalo, abbiamo assunto l'esercizio di tutta l'Autorità, e di tutto il Potere Reale che nelle attuali circostanze a Noi legittimamente compete; ma sospendiamo di assumere il titolo di Re, finché S. M. il Nostro amatissimo Fratello, posto in istato perfettamente libero, ci faccia conoscere essere questa la Sua Volontà.

Dichiariamo inoltre che ben lungi dall’acconsentire a qualunque cambiamento nella forma di Governo preesistente alla detta abdicazione del Re nostro amatissimo fratello, considereremo sempre come Ribelli tutti coloro dei Reali Sudditi, i quali avranno aderito o aderiranno ai sediziosi, ed i quali si saranno arrogati o si arrogheranno di proclamare una Costituzione, oppure di commettere qualunque altra innovazione portante offesa alla pienezza della Reale Autorità, e dichiariamo nullo qualunque alto di Sovrana competenza che possa essere stato fatto o farsi ancora dopo la detta abdicazione del Re nostro amatissimo Fratello quando non emani da Noi sanzionalo espressamente.

Nel tempo istesso animiamo tutti li Reali Sudditi o appartenenti all'armata o di qualunque altra classe essi siano, che si sono conservai fedeli, a perseverare in questi loro sentimenti di fedeltà e di opporsi attivamente al piccolo numero de’ ribelli, ed a stare pronti a qualunque Nostro comando o chiamata per ristabilire l’ordine legittimo, mentre Noi metteremo tutto in opera per portar loro pronto soccorso.

Confidando pienamente nella grazia ed assistenza di Dio, che sempre protegge la causa della giustizia, e persuasi e h e 1 i Augusti Nostri Alleati saranno per venire prontamente con tutte le loro forze al Nostro soccorso, nell'unica generosa intenzione da essi sempre manifestata di sostenere la legittimità dei Troni, la pienezza del Real Potere, e la integrità degli Stati, speriamo di essere in breve tempo in grado di ristabilire l’ordine e la tranquillità, e di premiare quelli che nelle presenti circostanze si saranno resi particolarmente meritevoli della nostra grazia.

Rendiamo nota colla presente a tutti i Reali Sudditi questa Nostra Volontà per norma della loro condotta.

Dato in Modena il di 16 marzo 1821.

Firmalo CARLO FELICE

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Secondo Manifesto di Carlo - Felice da Modena

NOI CARLO FELICE DI SAVOIA Duca del Genevese etc. etc. etc.

Per togliere a chicchessia ogni pretesto d'ignoranza della Nostra Volontà e del modo con cni noi riguardiamo la ribellione accaduta nel Piemonte e nel Ducato di Genova, e per ismentire le false interpretazioni della Nostra Volontà, le quali ebbero luogo lin ora, vogliamo che sia pubblicamente noto quanto segue: 1. Dichiariamo ribelli tutti coloro dei Reali Sudditi, i quali in qualunque modo osarono insorgere contro S. M. il Re Vittorio—Emanuele nostro amatissimo Fratello, e che tentarono d'immutar la forma di Governo dopo la di lui abdicazione. Cosi egualmente chiunque dopo aver avuto cognizione del Nostro Proclama datato da Modena del 16 marzo 1821 ha persistito a favorire il partito dei rivoltosi, o non avrà prestata la dovuto obbedienza ai Governatori generali da Noi istituiti, non che tutta quella parte di truppa reale, la quale seguendo il partito dei sediziosi, si uni ai loro corpi d'armata.

II. Volendo però usare di clemenza verso quelli che possiamo credere ingannati e illusi, accordiamo amnistia ai soldati comuni che rientreranno nel loro dovere; dei bassi uffiziali di detta truppa non otterranno però da Noi grazia che quelli che dopo maturo esame si saranno giustificati; ma gli uffiziali di qualunque grado i quali sordi alle voci del dovere e dell’onore o presero parte alle prime ribellioni delle truppe, o seguirono le bandiere dei ribelli, sono con la presente da Noi dichiarati felloni, e saranno accordate ricompense pecuniarie a chi li consegnerà prigionieri all'armata fedele sotto gli ordini del Nostro Governatore Generale Conte della Torre.

Ordiniamo a tutti i bassi uffiziali e soldati che trovansi all’armata ribelle ad Alessandria, e nella cittadella di Torino, di ritornare alle case loro, e proibiamo ai contingenti di ubbidire qualunque ordine dei ribelli di unirsi alla loro armata.

Dichiariamo che nell'obbedire alla chiamata della Provvidenza col!’ addossarsi il grave peso dell’esercizio della Sovrana Autorità riconosciamo che il nostro primo dovere si è quello di separare alfine i pochi individui ribelli e sediziosi dalla maggiorità dei sudditi fedeli ed attaccati alla Nostra Reale Famiglia; e che in ciò consiste il più gran beneficio che giustamente attendono questi fedeli Reali sudditi, qual unico mezzo di ridonare loro quella felicità e quella quiete di cui mai porrebbero godere stabilmente, finché costoro si troveranno ad essi frammischiati.

Dichiariamo pertanto che per giungere a questo salutar fine (sdegnando ogni trattativa coi felloni) giudichiamo necessario che la parte d'Armata Reale che è rimasta fedele sia sostenuta nella rioccupazione dei paesi sconvolti dalla rivoluzione dalle Armate dei Nostri Augusti Alleati, e perciò abbiamo invocato il loro soccorso, del quale siamo stati da essi assicurati, coll'unico generoso scopo di assisterci nel ristabilimento del legittimo Governo, ovunque la sedizione ha osato sconvolgerlo. Quindi ordiniamo che ogni buon suddito riguardi dette truppe come amiche ed alleate.

Il primo dovere di ogni fedele suddito essendo quello di sottomettersi di vero cuore agli ordini di chi trovandosi il solo da Dio investito del esercizio della Sovrana Autorità, è eziandio il solo da Dio chiamato a giud care i mezzi i più convenienti ad ottenere il vero lor bene, non potremo riguardare come buon suddito chi osasse anche solo mormorare di queste misure che Noi giudichiamo necessarie.

Nostra cura sarà di tutelare li buoni e fedeli Reali Sudditi in modo che soffrano il meno possibile dei pesi inevitabilmente congiunti con misure le quali debbono portare la loro felicità, e che questi pesi principalmente cadano sui felloni, quali autori e rei di tutti i mali dello Stato.

Nel pubblicare a norma della condotta di chiunque questi nostri voleri, dichiariamo che solo colla perfetta sommessione ai medesimi, i Reali Sudditi si possono render degni del Nostro ritorno fra di loro, e frattanto preghiamo Dio che si degni illuminare tutti ad abbracciare quel partito al quale sono chiamali egualmente dal dovere, dall'onore, e della Santa Nostra Religione.

Dato in Modena il di 3 aprile 1821.

CARLO FELICE

I manifesti qui dà me dalle anzidette Memorie Storiche prodotti, dei quali il primo non si legge nel Gualterio se non in francese, e il secondo vi manca affatto, fecero non solo nel Piemonte ma anche a Lubiana al Congresso, una straordinaria impressione. Un linguaggio cosi franco. Cosi fermo, non si era ancora coi rivoluzionarj italiani tenuto. Le parole «ribelli, feloni» non eransi ancora in Italia udite. I Sovranni Alleati pensavano che modi siffatti potessero spingere i rivoluzionarj a degli atti di disperazione. S' ingannavano. Quei due manifesti li atterrarono e schiacciarono. I timorosi, che loro eransi associati perché li temevano, temettero più ancora Carlo—Felice, e se ne staccarono. I buoni ne furono rinfrancati. Il Principe di Carignano abbandonò Torino e si ridasse, con la maggior parte delle truppe che vi erano, a Novara, ove arrivato, fece di pubblica regione la seguente dichiarazione egualmente dal Gualterio ommessa:

CARLO ALBERTO Principe di Carignano.

Allorquando assumessimo le difficili incombenze di Reggente non peraltro il femmo, fuorché per dar prova dell’intiera nostra obbedienza al Re, e del caldo affetto che ci anima pei pubblico bene, il quale non ci permetteva di ricusare le redini dello Stato momentaneamente a noi affidale per non lasciarlo cadere nell'anarchia, peggiore dei mali onde possa una Nazione essere travagliata, ma il primo nostro giuramento solenne fu quello di fedeltà all’amatissimo nostro Re Carlo Felice. — Pegno della nostra fermezza nella giurata fede si è l'esserci tolti dalla Capitale insieme colle trappe che qui precediamo, e il dichiarare ora qui giunti, come apertamente dichiariamo, che, rinunziando dal di d'oggi all’esercizio delle dette funzioni di Principe Reggente, altro ambire non sapremo che di mostrarci il primo sulla Strada dell'onore, e dar cosi a tutti l'esempio della più rispettosa obbedienza ai Sovrani voleri.

Dato in Novara il 23 marzo 1821.

CARLO ALBERTO.

128

I giovani soldati del reggimento Genova che formavano la guarigione della cittadella di Alessandria, spaventati al l'idea di aver a sostenere le fatiche di lungo assedio, eransi sollevati, avean fato foco si loro uffiziali, e non era stato possibile contenerli, che appuntando contro loro due pezzi di cannone. Il comandante trasi determinato ad aprire una porta di soccorso lasciando da quella uscire gli ammutinati. Il forte Ansaldi, cui nulla aveva sgomentato, gi si disponeva a rinchiudersi nella cittadella con la guardia nationale, ma la paura e lo sconforto erano (nei rivolzionarj) universali. Ansaldi si vide costretto a prendere la strada di Genova con quei pochi Soldati che fedeli non vollero abbandonarlo. (Santarosa u. s. p. 131 e 132.)

129

Les rente jours de la Rvolution du Pimont. . . p. 73. Chi poi non volesse credere al qui citato scrittore comecch evidentemente contrario ai Rivoluzionarj creder alla seguente lettera di uno di quegli studeni i quali presero parte al moto rivoluzionario che ebbe luogo ad una delle porte di Torino il giorno 10 marzo:

«Tout était en mouvement, dice quell'adolescente dans l'intérieur de la ville, exceptée la masse des habitans, qui, sans désapprouver notre con a duite estimait pourtant plus conforme à ses intérêts du moment de garder le silence. Quel spectacle douloureux pour nous de voir au pied de la colline des citoyens mus par le seul aiguillon de la curiosité, mais trop indolents pour partager nos sentiments, nos fatigues, notre bonheur et nos peines». (Gualterio Vol. III. c. 37. p. 63.)

130

Europa al congresso di Vienna vedeva e considerava nell'Austria la naturale e principale salvaguardia del riordinamento, della sicurt, e della pace d'Italia. La detta potenza aveva tanto in rileso alla sicurt e tranquillit del suo regno LombardoVeneto, e alle sue, dal jure pubblico Europeo riconosciute relazioni dinastiche con la Toscana e con Modena, il diritto, e, in riguardo a diversi particolari trattati col regn delle Due Sicilie e con quello di Sardegna, il dovere d'intervenire negli afari d'Italia contro le imprese dei rivoluzionarj. L'Inghilterra stessa ammetteva, come incontrastabile, il diritto in ogni Stato d'intervenire, quando la sua sicurezza, e i suoi essenziali e vitali interessi venivano seriamente e immediatamente compromessi dagli avvenimenti interni di alcuno degli stati limitrofi. Poteva mai 1Austria non vedere nella ribellione dei Ducati, delle Legazioni, e delle Marche una minccia e sommi pericoi pel suo regno LombardoVeneto? Eppure atese essa, per soccorrere il Papa il duca di Modena e la duchessa di Parma, di esserne da essi richiesta.

131

Veg. lo scritto: De la Force du Droit, et du Droit de la Force, par E. de Valm ancien dput. (Paris 1850. 2partie. Questions internationales. III. p. 216.)

132

Sono stato lungamente in forse se dovessi o non dovessi ammettere i seguenti due documenti tolti dl Gnalterio Tomo I. docum. 84. e 85. Li ho alla fine ammessi, perch in ispezialit il secondo in gran parte soccorre alla mancanza della quale ho fatto menzione alla fine della nota 15.

Protesta del conte di Sainte—Aulaire ministro di Francia a Roma, contro l'intervento austriaco nelle Romagne in data del 37 marzo 1831

Il sottoscritto ambasciatore di Francia presso la Santa Sede avendo avuto contezza che le truppe austriache sono penetrate nelle terre della Chiesa, ed occupato la città di Bologna, si trova nell'obbligo di dichiarare al gabinetto pontificio, che il governo francese non saprebbe ammettere il principio in virtù del quale si è effettuata questa occupazione, né consentire ad uno stato di cose che, dilatando le armi dell'Austria al di là dei limiti de' suoi proprj dominj, porta un colpo funesto al sistema politico dell'Italia, e distrugge per via di fatto l’indipendenza della Santa Sede. E nell'interesse di tale indipendenza medesima, di cui la Francia si è sempre mostrata gelosa, non meno che del sostegno detta dignità della nazione, che il sottoscritto ha ricevuto l’ordine di protestare, e che egli protesta nella maniera la più solenne contro la occupazione di una parte qualunque degli Stati del Papa per parte di una forza straniera, e contro le conseguenze che ne potrebbero risultare in detrimento della pace, che il governo francese si è applicato fino a questo giorno di conservare con quei mezzi che sono in suo potere. Nel tempo medesimo che egli divide tutte le amarezze delle quali il cuore del romano Pontefice è stato abbeverato fino dai primi giorni del suo regno, il governo di S. M. Cristianissima è convinto, che la via della clemenza e la concessione volontaria delle riforme riconosciute necessarie sulle amministrazioni delle provincie dove la rivolta si è accelerata, dovessero essere de' rimedj più salutari e più soddisfacenti, che l'appoggio pericoloso sempre di una forza materiale straniera. Egli pensa e spera ancora, che questi mezzi saranno presi in considerazione dall’alta saviezza di Sua Santità, come i soli efficaci mezzi per ricondurre gli spiriti ad una sommissione sincera, e per accelerare il termine di una assistenza estranea, che può far nascere si gravi complicazioni.

27 marzo 1831.

Sainte—Aulaire ambasciatore di Francia.

Note diretta dal cardinale Bernetti a S. E. il signor conte di Saint - Aulaire, ambasciatore di Francia presso la Santa Sede, in replica alla Protesta del 27 marzo 1831.

Roma li 28 marzo 1831.

Il sottoscritto cardinale pro—segretario di Stato ha l’onore di accusare il ricevimento della Nota di S. E. in data di jeri, e di accettarla, come era suo stretto dovere. Egli è stato sollecito di porta sottocchio di Sua Santità e di unirvi la più fedele relazione di quanto V. E. ci aveva aggiunto in voce nelle conferenze di cui lo ha favorito. il Santo Padre sensibile a tutto ciò che di obbligante V. E. ha espresso nella Nota in nome di S. N. Cristianissima e nel di lei proprio nome, ha prima di tutto ordinato al sottoscritto di renderle per questo le più vive azioni di grazie; e quindi passando al grave, oggetto della Nota medesima non ha potuto Sua Santità dissimulare la grande sorpresa onde è stata colpita nel leggere la protesta emessa in nome della lodata M. S. contro il generoso soccorso accordato dall’imperatore d'Austria per reprimere una turba di ribelli, che si avvisarono di sconvolger a mano armata il governo pontificio. Nel sentire qualificato questo stesso soccorso implorato, col nome di occupazione, e nell’apprendere che il governo di Francia non credo ammissibile il principio in forza di che il soccorso medesimo è stato accordato, quasiché questo principio e questo soccorso fossero dementi a turbare la pace di Europa; geloso come è il Papa di far conoscere al mondo intero la illibatezza costante delle sue intenzioni e quelle principalmente che possono in qualche modo riferirsi agli interessi dei suoi augusti alleati, non saprebbe come meglio parlare della sua condotta nel caso di cui si tratta, che facendo genuina la storia di quanto ha preceduto la invocazione delle forze austriache. La più semplice esposizione di essa varrà assai meglio di ogni più ingegnosa confutazione, che forse non saprebbe riuscire del tutto inutile ove piacesse di entrare in esame di que' principj e di queste massime che formano il soggetto attuale delle dissenzioni de' gabinetti. Non era ancora Sua Santità assisa sul trono pontificio, che una turba smaniosa di turbolenti insorse in Bologna, collegata co' rivoltosi di Modena per rovesciare la dominazione detta Santa Sede. La prima sua impresa fu quella di rapire con inganno, misto alla più svergognata violenza, l’autorità del pontificio rappresentante. Obbligato questo a partire, si costituirono que’ ribelli in un governo provvisorio: questo sedusse ed inganno la truppa colà stanziata l’assoldò al suo servigio; s'impadronì delle pubbliche casse, e ne dispose a sua volontà; obbligò tutti i cittadini ad armarsi, inalberò la bandiera tricolore, proclamò la libertà, e dichiarandosi nazione e potenza, decretò e proclamò decaduti i papi di diritto e di fatto da ogni dominio in quelle provincie. A questi fatti ne seguirono tanti altri della natura medesima, quanti potea suggerire la rabbia feroce detta più sfrenata licenza. Quei rivoltosi si credettero chiamati a sconvolgere la intera Penisola; e creando e raccogliendo armali in ogni classe del popolo, andarono suite prime in soccorso de' ribelli di Modena; quindi scorrendo come forsennati la Romagna ed il ducato di Urbino e di Pesaro, andarono colla forza e coll'inganno rivoluzionando quelle provincie pacifiche. — Sventuratamente le truppe del Santo Padre quasi tutte abbandonarono le di lui bandiere e popolarono i ranghi dei rivoltosi. Progredirono queste masse fin sotto il forte di Ancona, e questo ancora, dopo breve resistenza cadde in loro potere coll’intiera guarnigione. Fra pochi giorni le Marche e l’Umbria subirono 1a stessa sorte, e quindi in meno di un mese furono i ribelli vicinissimi alla capitale, e coprendola di calunnie e d'insulti gli minacciarono la tranquillità. Essi aveano in questa ancora non pochi compagni; che se non si vide scoppiare qui ancora la rivoluzione, si dee allo immenso amore di questo popolo pel suo principe, e pel di lui regime paterno. La capitale adunque schivò gli orrori dei disastri detta rivolta: ma occupando i ribelli una parte detta provincia e del Patrimonio, rimase al punto che le sole vie di Civitavecchia e Napoli restarono, ma non senza pericolo per le estere corrispondenze. I demagoghi frattanto profondevano con ogni mezzo e per ogni parte scritti quanto assurdi, altrettanto incendiarj e sanguinosi; vantavano in essi efficaci, possenti e generose protezioni; e quindi all'ombra di una imperturbabile sicurezza, non si videro mai ribelli né più audaci, né più schernitori, né violatori più franchi de' più sacri diritti degli uomini e dei governi. De' nomi non ha molto illustri, ora dai consenso di tutta l’Europa proscritti, ma troppo ancora invocati dai turbolenti di ogni paese si mischiarono nella scella tragica della nostra rivoluzione, e si imponeva con essi alle popolazioni.

V. E. non ignora di qual famiglia si parti; ignorerà per altro che un individuo della medesima giunse all’audacia di scrivere direttamente al Santo Padre in tuono insultante e minaccioso: que les forces qui avançaient sur Borne sont invincibles consigliandolo perciò di spogliarsi del suo temporale dominio, e concludendo col dimaudargli una risposta. — In uno stato di cose sotto ogni rapporto così funeste, cosi umiliante, cosi amaro e precursore certo di mali imminenti inevitabili, che far poteva il Santo Padre per salvare la sua persona, che sempre è pronta, ove il bene della Chiesa e dei suoi popoli lo richiedesse, sacrificare? Ma per salvare la Chiesa e i popoli da ulteriori calamità, egli non ascoltò che la sola voce del|a clemenza. Egli assicuro di accorrere volonteroso ai bisogni di tutti, egli profuse beneficenze sui popoli rimastigli fedeli, onde convincere colla prova de' fatti, più che persuadere colle parole. Che più? Egli spedi ai rivoltosi un Legate a latere, onde richiamarli all'ordine ed alla tranquillità coi mezzi della dolcezza, del|a generosità della munificenza. Questo fu proclamato, ed il proclama esprimeva sentimenti paterni e pacifici dell'oltraggiato sovrano. Una tale missione sa bene l’E. V. in qual maniera fu accolta, sa come fu calunniata con pubbliche stampe, sa infine con quali modi atroci fu accettato esso Legato, personaggio che pochi anni addietro avea formate la dilizia di quella stessa provincia da lui con tanta saviezza governata. Al sottoscritto rifugge l’animo di inoltrarsi in un dettaglio di orrori che troppo sconvolgerebbe il cuore ben fatto e sensibile di V. E. Soggiungerò soltanto, per esattezza di storia, che quel personaggio medesimo, il cardinale Benvenuti, fu tolto ultimamente del suo luogo di arresto in Bologna per ordine del disertore Zucchi, conduttore da’ ribelli Modanesi e Reggiani, per condurlo in Ancona esposto a nuovi oltraggi ed a reiterate sofferenze. Insomma, fu tutte inutile quanto opero il Santo Padre tenendo la via della longanimità e della clemenza. Ma poteva essere altrimenti trattandosi con de' ribelli, che tali aveano voluto essere prima di conoscere il loro nuovo sovrano: che non gli aveano avanzate una istanza, che non aveano conosciuto una volontà, un pensiero, un desiderio? Potevano quei sciagurati accettare concessioni mentre pretendevano di dettar leggi? La più ingrata ripulsa, i sarcasmi più amari, le ingiurie e le minaccie più sanguinose fu ciò che i ribelli contrapposero alla bontà, ed alla clemenza del Santo Padre. I proclami che essi distesero, gli scritti che pubblicarono, i fogli loro periodici ne faranno fede immortale alla posterità. Dopo tutto ciò, sia permesso al cardinale scrivente di riportarsi internamente al giudizio di S. M. Cristianissima, perché decida se il Santo Padre ha nulla tralasciato di quello che poteva allontanarlo dalla necessità di implorare quel pronto ed efficace rimedio ai tanti mali che lo circondavano, vale a dire quel soccorso austriaco che ha ottenuto; o se non si è indotto a questo passo dopo di avere esaurito quanto era in poter suo di tentare. D'altronde polea la Santa Sede non ricorrere a questo mezzo unico di salvezza senza mancare alli suoi più sacri doveri di conservare intatti li suoi dominj per trasmetterli, come li ha ricevuti, alli suoi successori; e senza correre pericolo di rimanere mancipio di una mano di faziosi, e cosi perdere coll'esercizio del suo ministero diffuso sul mondo intero, quella libertà e quella indipendenza che tutti i sovrani d'Europa riconoscono necessaria, indispensabile, per le quali esistono le garanzie più solenni ne' stipulati trattati, ove egli avesse trascurato cosi importante dovere di ricorrere spontaneamente, in cosi urgente bisogno, a quelli principalmente che alle sovra esposte considerazioni uniscoD0 quelle che emanano dall'immediato contatto di territorio? Quando dunque V. E. non dubiti della verità de' fatti esposti, e si compiaccia di rappresentarli alla M. S., il sottoscritto non saprebbe temere un solo istante che il Re Luigi Filippo, che l'E. V, che la Francia intera, lungi dal riprovare quel principio in forza del quale S. M. I. R. A. è venuta in soccorso detta Santa Sede e de' suoi dominj medesimi, e lungi infine di prendere interesse di sorte alcuna a favore dei nostri ribelli: approveranno altamente il partito preso dal governo pontificio, converranno che mercé soltanto di tale partito si è conservata lu indipendenza della Santa Sede, ed abbandoneranno al rimorso e all'obbrobrio coloro che altro non respirano se non se allo sconvolgimento di ogni ordine, sovversione di ogni principio, odio alla pace ed alla tranquillità di ogni governo. A questo proposito, il sottoscritto non vuole tacere all'E. V. che il Sunto Padre, coerente sempre a sé stesso nel desiderio di allontanare dalla mente di chicchesia ogni più remota idea di sinistra interpretazione della sua condotta in un affare cosi grave qual è quello di cui si tratta, non ebbe deciso di esporre la penosa sua situazione a S. M. l'Imperator Francesco I, che portò alla cognizione di questo eccellentissimo Corpo diplomatico il passo che faceva, onde ogni individuo di esso fosse al caso di renderne instruita la propria Corte; e nessuno già testimone delle dolorose vicende ha trovato finora riprensione da contrapporgli. Del rimanente il cardinale sottoscritto non vuole terminare la presente nota senza assicurarlo in nome del Santo Padre:

1. Che il soccorso implorato dalla M. S. I. e R. A. non è stato accompagnato da alcun trattato;

2. Che detto soccorso si è ottenuto colla sola espressa condizione per parte della M. S. I. e R. A. che è quella di comprimere la ribellione; ristabilire la tranquillità nei dominj pontificj, e nulla immischiarsi negli affari governativi nel più esteso senso.

3. Che la presenza dell’armata austriaca sarà la più breve possibile in questi Stati.

4. Finalmente, che il Santo Padre, ansioso com( 1) è di procurare alli suoi sudditi ogni possibile e vero bene, affretta con i più fervidi voti la pacificazione dell'attuale tempesta, onde poi assicurarne la calma con tutti quei miglioramenti amministrativi de' quali V. E. sembra far cenno nella ripetuta sua Nota. Egli già si occupa di quest'opera interessante, e, mercé i lumi che si compiace accogliere da ogni parte, spera di compirla colla maggior sollecitudine.

Il cardinale scrivente profitta di questa circostanza per dichiararsi ecc.

_______________

La protesta del conte di Sainte—Aulaire fu una formalità diplomatica, niente altro. La nota, con la quale il pro—segretario cardinale Bernetti vi rispose, valse a Luigi Filippo e al suo ministero a rispondere alle interpellazioni che relativamente all'intervento austriaco surgevano nelle camere francesi; e il detto intervento fu attuato senza alcuna ulteriore obbiezione con poco più di una brigata; e consistette, come è stato detto e ridetto, non in altro che in una marcia di essa, giacché la ribellione si limitava ad una piccola frazione della rispettiva popolazione, e che il vero popolo era alla ribellione avverso ed ostilissimo. Pur troppo né i Francesi né gl'Inglesi vollero mai comprendere che ciò che veramente ostava alla rivoluzione italiana era la circostanza, che le popolazioni pontifizie erano contente e avevano ogni regione di esserlo, e che il malcontento che loro si supponeva era un puro ritrovato dei pochissimi rivoltosi, e le addimandate riforme puri pretesti. I Francesi e gl'Inglesi spiegavano la nessuna resistenza che incontravano gli Austriaci col: « p>Les Italiens ne se battent pas ». Quegli Italiani si sarebbero alzati tutti come un sol uomo, e come nel 1799 si alzarono negli Abbruzzi e più tardi nella Romagna e nella Toscana contro i Francesi, qualora avessero avuto un motivo di farlo.

133

Cant u. s. cap. 184 pag. 524 del 6. Vol.

134

Veg. nel Gualterio Vol. I. i documenti 75, 76, 77, 78, 7e in particolare il documenta 82, cioè l'Editto di Gregorio XVI. del 5 aprile 1831 contro i ribelli, nel quale è detto, oltre molta altro: «Ma se colla sincerità di riconoscenza la più viva, ravvisiamo nell'imperiale reale esercito quelle elette schiere di prodi, alle quali volle Dio riservato il trionfo sopra la perversità dei rivolto si.; gloria sia pure e lode a quegli onorati cittadini, che riunitisi premurosi in Milizia Civica vegliarono indefessi sotto le armi, fra i travagli di servizio il più stretto, alla salvezza della nostra persona ed alla quiete di questa città, Noi osservammo con tenerezza gareggiare in questo generosamente e indistintamente col popolo persone tratte dalla nobiltà più illustre, e da quanto avvi in tutti gli ordini di scelto e di attivo... Ma in cosi decisa fedeltà e in si nobile intendimento emule ebbe il popolo romano le convicine provincie, che dopo essersi disposte alla difesa dei loro territorj, ebbero a gloria d'inviare dei volontarj, i quali lasciali i proprj focolari corsero ad aumentare quella parte preziosa delle nostre truppe, che sotto esperti ed onorati condottieri senti la forza dei giuramenti a noi prestati, e seppe difendere e far rispettare uh suolo sacro alla fedeltà».

135

«Vorremmo pur dilattare con eguali espressioni il cuore sopra tutti gli altri popoli ancora, che Dio affidò al nostro temporale governo. Ma se furono essi strascinati nelle disavventure della rivolta ci è ben nolo che non furono nella massima parte che vittime della coazione e del timore; siccome ben dimostrò la esultanza e la gioja con cui, appena apparve un raggio di prossima liberazione, scosso il giogo umiliante loro imposto dai sediziosi, e sostituito alle insegne della fellonia, il pacifico vessillo del pontificio governo, proclamossi il ritorno a quel padre e sovrano, dal cui senno gli aveva strappati miseramente il delitto di pochi»«.

Promette poi il Santo Padre nello stesso editto provvidenze che migliorino felicemente lo Stato de’ suoi sudditi. Sennonché niente era più contrario ai divisamenti e alle speranze della rivoluzione, che qualunque vero e reale miglioramento governativo e amministrativo che avesse potuto accrescere l’affetto, la devozione e la sommissione nei di lui sudditi. Essa si mise quindi a chiedere riforme, o per dir meglio concessioni che non erano in fondo che licenze, porte e scale per giungere alla repubblica democratica socialista che era l'ultimo e finale suo scopo. In vista di ciò Gregorio XVI. si fermò, e

«Per non perder pietà si fe’ spietato.»

136

Pio IX suo successore si provò a fare ciò che il suo antecessore non aveva osato. Purtroppo riuscirono i rivoluzionarj a corrompere e a guastargli ogni sua opera; e la repubblica si fece. Merita per certo in sommo grado di essere osservato e ricordato che il governo di Francia, cioè il governo di Luigi Filippo previde che il fuoco rivoluzionario il quale accendevasi nel 1846 in Italia si estenderebbe tosto o tardi agli Stati limitrofi; il che già da lì a pochi mesi si avverò, e, anzi prima che altrove, nella Francia, ove l’esistente governo monarchico—costituzionale fu atterrato, per far luogo ad una repubblica che fa sul punto di convertirai in nna anarchie socialiste. Il signor Guizòt ministro degli affari esteri di Luigi—Filippo cosi scriveva li 18 settembre 1847 al barone di Bourgoing incaricato d’affari di Francia a Torino.

«Je vous sais gré de la franchise avec la quelle vous m’avez rendu compte des impressions qui se manifestent autour devans sur notre attitude en Italie, le m'étonne peu de ces impressions Les populations italiennes rêvent pour leur patrie des changements qui ne pourraient s'accomplir que par le remaniement territorial et le bouleversement de l’ordre Européen, c'est à dire par la guerre et les révolutions. Les hommes même modérés n'osent pas combattre ces idées, tout en les regardant comme impraticables, et peut—être les caressent eux—mêmes au fond de leur cœur avec une complaisance que leur raison désavoue, mais ne supprime pas. Plus d'une fois déjà l'Italie a compromis ses plus importants intérêts de progrès et de liberté, en plaçant ainsi les espérances dans une conflagration européenne. Elle les compromettrait encore gravement en rentrant dans cette voie. Le gouvernement du roi se croirait coupable si, par ses démarches, ou par ses paroles, il poussait l'Italie sur une telle pente. E scrivendo al conte Rossi ambasciatore francese a Roma in una lettera confidenziale li 27 settembre dello stesso anno: Il y a, chez le Pape et en Europa des gens, qui veulent qu'il bon lever se tout, qu’ il remette toutes choses en question, au risque de se remettre en question lui—même, comme le souhaitent au fond ceux qui le poussent en ce sens... On dit que nous nous entendons avec l'Autriche, que le Pape ne peut pas compter sur nous dans ses rapports avec l'Autriche. Mensonge que tout cela, mensonge intéressé et calculé du parti stationnaire, qui veut nous décrier par ce que nous ne lui appartenons nullement; et du parti révolutionnaire qui nous attaque parfont parce que nous lui résistons efficacement. Nous sommes en paix et en bonnes relations avec l'Autriche, et nous désirons y rester, parce que les mauvaises relations et la guerre avec l'Autriche, c'est la guerre générale et la révolution en Europe. Nous croyons que le Pape aussi a un grand intérêt à vivre en paix et en bonnes relations avec l’Autriche, parce que c'est une grande puissance catholique en Europe, et une grande puissance en Italie. La guerre avec l’Autriche c'est l'affaiblissement du catholicisme, et le bouleversement de l'Italie. Le Pape ne peut pas en vouloir». (Veg. nel: «Guide diplomatique del Martens, la Correspondance diplomatique sur les affaires d'Italie 1846—1847» Chap. IV. p. 420, e 421…)

137

Fa parte di una risposta che diede Ottaviano de' Medici principale nel governo della Toscana sotto Cosmo I. ad un orator Sanese inviatovi per discolpar Siena dall'aver rotta la capitolazione con la Spagna. Sta nel «Gentiluomo» del Muzio Giustinopolitano. Ven. 1575. Libro IL p. 120.

138

Considerazioni sopra gli avenimenti del 1848. in Lombardia del maggiore Francesco Lorenzini. Tprino 184pag. 24. Lorenzini u. s. p. 30 e 31.

139

Lorenzini u. s. p. 30 e 31.

140

Lorenzini u. s. p. 36.

141

Cantù. Storia degli Italiani cap. CXCIII pag. 734 del Vol. VI.

142

Cantù. U. s. cap. CXCIII. p. 735.

143

Costanzo Ferrari. Marij di Brescia cap. XXIII. Vol. II. p. 157. E’ un romanzo—storico, che contiene degli interessantissimi particolari sulla guerra d'Italia del 1848 e 1849.

144

« Erinnerungen eines österreichischen Veteranen , ossia Reminiscenze di un Veterano austriaco della guerra d'Italia nel 1848 e 1849». Vol. I. pag. 168.

145

Cantù u. s. cap. CXC1I. pag. 768.

146

La gente del contado mostravasi in generale in tutto il Friuli adiratissima contro i Signori, per la guerra attirata sul paese, come essa diceva, per spasso. Ma non era difficile di comprendere che sotto vi stava un malvecchio, un odio inveterato, un astio che cercava l’occasione di sfogarsi. La truppa del conte Nugent non si metteva nelle di lei fermate a campo, senza che dei campagnuoli vi accorressero ad aizzar quanto più potevano il soldato contro le prossime case di campagna dicendole apparterrete a dei nemici dell'Austria. Dovrò ancora parlare di questo spirito ostile ai Signori che del resto s'incontra non solo nel Friuli, ma più o meno, in ogni paese italiano. Se in Italia i Signori non avessero altro argomento per non disordinarla, il detto spirito predominante nella gente del contado vi dovrebbe bastare.

147

Sulla missione di questo uffiziale veggasi: La Relazione succinta delle operazioni del generale Durando nello Stato Veneto di Alassimo Azeglio Milano. 1848. pag. 10.

148

Relazione u. s: pag. 15. L'autore Massimo Azeglio personaggio attinente alla primaria nobiltà piemontese il quale figura fra' principali e più operosi agitatori che si adoperarono a pervertire l’Italia centrale, (Montanelli. Memorie Vol I. cap. XV. pag. 112.) assistete alle marcie e contromarcie del generale Durando come colonnello dello stato maggiore. —Alla mia relazione delle operazioni del conte Nugent ba servilo di base il ragguaglio officiale di esse, pubblicato dagli Austriaci intitolato: « Kriegsbegebenheiten bei der K. Ôsterreichischen Armee im Venezianischen, im Küsteulande, und auf dem adriatischen Meere vom 1. April bis Ende October 1848. Wieu 1851». Ma ho col risultato pur anche la relazione Azeglio.

149

«Lo Stato Romano dall’anno 1815 al 1850»«, di Luigi Carlo «Farini». p>Quest'opera traboccante d'inesattezze, di falsità, e di calunnie, poco meno che gli «Ultimi Rivolgimenti italiani», del Gualteriop>, e che le «Istorie Italiane del 1846 al 1853 del Ranalli» è, per le rivelazioni che di tratto in tratto scappano al poco avveduto e incauto scrittore, ma pur anche per i molti e interessanti documenti che vi si trovano, di una grande importanza per chiunque vuol mettersi in istato di giudicare la questione italiana con cognizione di causa. Di quest'opera p>si erano fatte già nel 1853 tre edizioni , e se ne aveva p>anche una traduzione inglese , che dovevasi ad uno dei prominenti membri del Parlamento inglese, al rappresentante per Oxford, l'onorevolissimo signor W. E. Gladstone: traduzione che ha indotto il «Quarterly Review», notoriamente una delle più accreditate reviste d'Inghilterra a parlarne a lungo in un, sotto ogni rapporto, maestrevole articolo, del quale avvi una traduzione in francese stampata nel 1857 presso Carlo Geibel a Lipsia con una introduzione scritta anch’essa da mano peritissima. I,'articolo inglese come anche la traduzione francese incominciano con dei cenni biografici sull'autore che gli assegnano uno lei primi posti fra gli agira—cervelli italiani, fra' quali citerò i seguenti:

«En 1834 il prit part aux mouvements insurrectionnels en Romagne. Puis il s'échappa à Florence, d'où il dirigea les tenta lives révolutionnaire faites à Rimini en 1845... Il est l'auteur du Manifeste aux puissances Européennes etc». E premessi i detti ed altri cenni l'egregio redattore e con lui il traduttore ci dice: « La réputation de M. Farini toute seule aurait nécessairement attiré notre attention sur une histoire sortie de sa plume; mais quant nous avons vu qu' un homme d’État et un écrivain de l'élévation de H. Gladstone y avait prêté sou temps précieux, et la sanction plus précieuse encore de son nom, notre attention fut singulièrement éveillée. Allors nous nous attendîmes avec assurance à quelque surprenante révélation de faits, — à quelque franc aveu des erremens dans les quels le parti libéral s'était laissé entraîner, — à quelque exposé des arts par les quels ils avaient été pris. Nous espérions quelque déclaration hardie et honnête d'une vérité peu savoureuse, — quelque avertissement solennel que de nobles des seins ne peuvent être réalisés par des moyens indignes, — que les calomnies, les complots, et les assassinats ne profitent jamais à la longue la cause de la liberté, — qu'ils rendent le gouvernement constitutionnel impossible et la réaction terrible, — que les sociétés secrètes démoralisent quelque peu au delà de toutes les oppressions de la tyrannie. —Nous nous attendions à une déclaration que la régénération politique ne peut être assurée que par le progrès moral, et que tenter de l'obtenir en éveillant les plus mauvaises passions des plus mauvaises classes de la société, c'est essayer de guérir une plaie purulente en y appliquant le vitriol. Nous nous croyions être en droit d'attendre quelque chose de celte espèce — mais notre désappointement est complet... Rigoureusement d'accord avec les précédents établis, l'auteur commence par attribuer tous les crimes et tous les malheurs de l'Europe aux traités de 1815». (Veg. la Question Italienne, et les Partis en Angleterre.)

150

Il signor Farini (Stato Romano libro III. c. VII. Vol. II. pog. 130 dell'ed. di Firenze) ricorda un alto di quella gente che non ha in atrocità il suo simile se non nella storia della repubblica Mazzini—romana del 1849. (Veg. Farini, c. s. libro VI. cap. III. vol. III. p. 57 della 3. edizione.)

151

Le relazioni del signor Farini dei fatti darmi di Pederoba il giorno 8, di Cornuda il giorno 9, e di Castretta il giorno 11 maggio, se mai si sono lette dal generale Ferrari non possono non avergli fatto dire più di una volta; oh che bugiardo! Parlando del fatto di Castretta lo storico racconta: «aver i fuggenti levato tal romore, e tal nembo di polvere, che gli Austriaci credendo forse essere assaliti da numerosa cavalleria, volsero le spalle». Fatto è, che i fuggenti non possono aver levato verun nembo di polvere, perché gettate le loro armi e bagagli, e abbandonata la strada maestra, fuggivano attraverso i seminati di quelle campagne. Quante volle, leggendo quelle sue relazioni, non fui al caso di ricordarmi il «risum tenentis»?

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Gli scrittori italiani si sono guardati di ricordare l'immenso senso che fece sulla truppa tanto del Durando, non eccettuati neppure i di lui Svizzeri, quanto del Ferrari, ma in ispezialità Su questa ultima, la condotta dei montanari bellunesi e feltrini verso le bande che si eran cacciate, sperando di trovare un forte appoggio, in mezzo ad essi, e che invece vi si videro abbortite e imprecate. Essi attribuiscono lo scoraggimento ed il disordinamento di quelle genti in principalità all'allocuzione del Santo—Padre del giorno 2aprile 1848. Ha questa allocuzione conoscevasi nei campi degli Italiani già il giorno 5 maggio, e non vi cangiò in nulla il fare baldanzoso di quelle turbe. — Tutt'altro fu il caso allorché vi si seppe che le suddette popolazioni maledivano quella guerra, e sfogavano senza ritegno l’aborrimento che loro inspiravano gli eroi che intraprendevano per liberarle dalla schiavitù che secondo essi le opprimeva. Io stesso ebbi a sentire il giorno 10 a Palzè paese vicino a Montebelluna dei testimonj stati presenti a quelle scene Essi dicevano che vi avevano interi corpi di volontarj che parevano imbestialiti. Diffatti il problema cangiavasi intieramente, e ad una guerra facilissima, e da farsi danzando a cantando, s uh entra va una di carattere essenzialmente e totalmente diverso.

153

La spedizione del conte Nugent ha avuto la disgrazia di essere mal compresa e mal esposta non solo dagli Storici italiani e italianissimi, ma anche dal generale prussiano Wïllisen, il quale ne parla nel suo Libro intitolato: «Der italienische Feldzug des Jahres 1848» alle pag. 139, o 140. (a) Egli dice, che qualora il corpo d'armata del conte Nugent fosse stato compenetrato dell’importanza del suo problema, che secondo lui non era altro, che di raggiungere al più presto l'armata del maresciallo Radetzky, avrebbe lasciato il giorno 20 Udine e facendo anche sole 3 miglia geografiche di 15 al grado al giorno, sarebbe giunto già li 25 a Conegliano e al più tardi coi primi di maggio a Verona; mentre invece arrivo il 1° di maggio soltanto a Pordenone.

Il generale Willisen, come si vede, pensava che non avendovi fra l'Adige e il Lisonzo né truppe piemontesi, né trappe romagnole, il paese in discorso non presentasse veruna difficoltà, e si potesse come in tempo di piena pace traversarlo, e percorrerlo. Egli s'ingannava a partito. Il paese era tutto in balia della rivoluzione, e di numerose bande d'armati. Vi aveva nel. Friuli un generale italiano che aveva servito nell'armata italiana di Napoleone con distinzione; la situazione imponeva al conte Nugent tutt'altri calcoli e fl essi, che non erano quelli del generale Willisen. — Il corpo d'armata arrivava sul Lisonzo alla spicciolata, ed era in gran parte ancora per istrada; arrivato che fosse doveva ordinarsi e fornirsi dell'occorrevole materiale di guerra. Il conte Nugent non perdette un' ora di tempo a passare il confine subito che ebbe assieme la truppa che potesse bastare a combattere la rivoluzione nel Friuli. Egli lo passo il giorno 17 aprile con soli 14 mila uomini, coi quali ebbe a bloccare Pal ma e ad assalire Udine, ove entrò non il giorno 19, ma il giorno 23 del detto mese. Il ponte sul Tagliamento erasi frattanto dai rivoluzionari, direttivi dal generale piemontese La Marmora, in gran parte già abbruciato, e conveniva ristabilirlo; ciò che non era in verun caso, se anche non vi s'incontrasse alcuna opposizione, l'opera di qualche ora, ma bensì se non di una intera settimana, di parecchi giorni. Né potevasi dubitare che come si era abbruciato il ponte sul Tagliamento, si abbrucierebbe anche il ponte sulla Piave alla Priula, e cosi quello sulla Brenta presso Fontaniva. E non si era certi di trovare intatto neppure il ponte, ancorché di pietra, sulla Livenza in Sacile. E dato anche che si fossero superati i detti quattro fiumi, restava sempre ancora a superare il passo fi a i monti Berici e i monti Lessiui, nel quale è posta Vicenza, città per la sua situazione suscettibile ad essere in pochi giorni converti la in una fortezza.

In riflesso a tutto ciò, dovette nel conte Nugent prodursi già al Lisonzo il pensiero giustissimo, che superato il Tagliamento e superata la Livenza vi aveano tre strade per raggiungere l'armata del maresciallo sull'Adige: quella pel piano trevigiano e per Vicenza, e se non per Vicenza e per San—Bonifazio, purché si fosse passata h Brenta, per Schio, e per Roveredo; la seconda per Belluno, per Feltre, per Primolano e per la Valsugana, e poi per h Fulgaria e per Caliano, o per Pergine, e per Trente; e la terza per Capo—di—'Ponte, pel Cadore, e pel Pusterthal, e discendendo poi per la Val dell'Adige a Trente. Giunto il conte Nngent il giorno 30 di Aprile a Sacile, apprende che il ponte sulla Piave alla Priula è distrutto, e ché la Piave è, come sempre in primavera, assai gonfia. Il suo problema divenne allora il seguente: far credere al nemico di voler ad ogni costo aprirsi la prima delle suddette strade, ma impadronirsi al più presto dei ponti sulla Piave a Cepo di Ponte e a Belluno, e assicurarsi delle altre due strade, e in ispecialità di Feltre, che gli riapriva la strada di Vicenza pel canal di Piave e Pederoba, e pel canal di Brenta e per Bassano, e gli assicurava nell’istesso tempo la strada per la Valsugana. Or ecco ciò che dal conte Nugent si è anche fatto.

a) Il generale Willisen fece tutta la campagna del 18.18 cogli Austriaci, e si ebbe e merit0 la stima di tutta l'armata

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Un uffiziale di un reggimento croato (Peterwardeiner) parla, in una spezie di giornale di ciò che il detto reggimento ebbe a fare nella guerra in Italia nel 1848, di quella marcia nel modo seguente:

«Il giorno 5 agosto passammo il Pò a Ostiglia, ai 7 della sera eravamo a Modena, che il nemico aveva poche ore prima senza far la minima resistenza abbandonata. Dal momento che entrammo nel Modenese la nostra marcia somigliò ad una marcia trionfale, giacché la popolazione campagnuola devota con sincero attaccamento al suo cavalleresco Duca ci salutava come suoi liberatori.» E parlando poi delle mene del partito rivoluzionario, il quale si appigliava ad ogni mezzo che potesse giovare ai suoi divisamenti, ed aveva assoldato un miserabile per assassinare il Duca, racconta come quel coraggioso Signore, avesse da sé solo disarmato quel scellerato nell’atto che stava per consumare l'orrendo misfatto... ( Skizze der Ereignisse an der untern Donau in den Jahren 1848 und 184mit besonderer Beziehung auf das Peterwardeiner Régiment. Wien 1852} La testimonianza di un forastiero, di un soldato, che menziona un fatto estranio al suo soggetto, mi parve la testimonianza meno sospetta che in tal caso si possa ci tare. L' opuscolo è d" altronde, ancorché aiionimo, tanto per rapporta allo stile che alla chiareua e alla moderazione, un opuscolo aureo.


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155

Farini. c. s. L. III. c. XIV. pag. 296 dd Vol. IL ed. di Fir. 1853.

156

Cosi è. Milano non temeva per certo vendette da un Radetzky, né da una armata da lui comandata e che non sapeva disobbedirgli, bensì nuovi orrori dai ribaldi, che mesi prima l’avevano strascinato nella ribellione. Il Signor Cantù non dice altro nel proposito se non: «La notte Carlo—Alberto usciva celatamente da Milano: il domani rientravano i Tedeschi in una città muta e vuota d'abitanti, che a migliaja rifuggivano in Piemonte o in Svizzera». Vol. VI. pag. 751. — Ma il generale Schònhalls testimonio oculare, uomo franchissimo, che non l'avrebbe detto se non l'avesse potuto dire, ci dice: II contegno della popolazione rimastavi era affatto (vollkommen) amichevole. Se anche vi aveva qualche tetra fisionomia sulla quale leggevasi chiaramente l'odio e la rabbia che vi covavano, vi aveva un molto maggior numero di volti a noi noti che con mute lagrime di gioja ci rendevano grazie di averli liberati dalla situazione nella quale trovavansi (Vol. II. p. 145 e 146. delle sue Reminiscenze.)

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Costanza Ferrari. Maria da Brescia, c. s. Vol. II. c. XXI. pag. 329.

Non sarà per quanto a me sembra, fuor di proposito di qui dedicare alcuni momenti a considerare le bestemmie lanciate dagli Italianissimi contro l'armata austriaca per gli strazzi ai quali si trovò esposta Brescia nel 1819, allorché i di lei rivoluzionarj eccitati dall’Etat malfaisant dei nostri tempi, la strascinarono in una ribellione che supponevasi dover divenire il segnale di una generale sollevazione delle popolazioni lombarde alle di lei spalle, mentre l'armata piemontese l'avesse assalita di fronte. L'istoria fornisce difficilmente in tutti i suoi annali un disegno più diabolico di quello al quale i rivoluzionarj bresciani si hanno lasciati dal suddetto stato associare.

Prescindendo du tutto quel tanto di giusto, e di vero, che in riguardo ai diritti della guerra che fanno parte del diritto delle genti, si legge in Ugo Grozio e nei suoi commentatorj, e anche nel Vattel e nei pubblicisti più moderni, prescindendo dico da tutto ciò, mi fo a pregare gli Italianissimi di dirmi, qual sarebbe stata la sorte che avrebbe toccata ad una città nel caso di una ribellione, fosse dessa anche lontanissima dai disegni quali erano quelli dei ribelli bresciani, per parte dei Romani e ciò anche qualora capitaneggiati, non già da un Mario o da un Sylla, ma da un Giulio—Cesare, o da un Tito—Vespasiano. — Mi si deve rispondere, che una città che mettevasi in un caso simile, sterminavasi. Egli è per altro vero che né Cesare, né Tito erano Cristiani, e che il Cristianesimo aveva essenzialmente modilicati, e se non cangiati, certamente temperati i diritti detta guerra, come in generale i diritti internazionali, giacché il Cristianesimo proclama la fratellanza dei popoli. — Sia cosi. Mi fo ora a pregare che mi si dica, come Gastone de Foix generale del re Cristianissimo Luigi XII. e principe del sangue, e la sua armata francese nella quale pur vi era il cavalière sans peur et sans reproche trattassero Brescia il giorno 1febbrajo 1512, e i di seguenti, per essersi non già ribellata, che questo non era il caso, ma soltanto sollevata contro il presidio del detto re cristianissimo, e forzatolo senza mortalità di uomini a rinchiudersi nel di lei Castello?

Il de Foix che trovavasi, quando gli venne la notizia di quella sollevazione a Bologna, corse su Brescia con parte del suo esercito, vi arrivò il nono giorno dopo partito da Bologna, e Passa li, era il giorno 1febbrejo 1512, discendendo dal castello con circa 7 mila uomini. La città aveva per sua difesa oltre più migliaja di Bresciani parte cittadini, parte montanari e valigiani, 8 mila soldati veneziani. Gastone de Foix riusci non pertanto ad impadronirsene in poche ore, e ciò con grande strage dei di lei difensori. Cessata questa, incominciò il saccheggio della città, la quale secondo quanto si legge nel Guicciardini (Storia d'Italia lib. X. cap. 4) stette esposta «sette giorni continui all’avarizia, alla libidine, e alla crudeltà militare». Aggiungo dal signor Cantù. (Storia cap. CXXI. pag. 124 del Vol. VI.) «Che fattovi un bottino di tre milioni di scudi, fu l'Avogadro, che era uno dei principati sommovitori, con due figliuoli ed altri generosi inviati al supplizio dei traditori, volendo assisterci il cavalleresco G astone, e ricevendo lode da storici e poeti» — Chi non ricava da queste parole del signor Cantù la prova, che il trattamento terribile, che aveva in quei sette giorni toccato a Brescia, consideravasi dai contemporanei come imposto a quel generale dalla sua situazione, e permesso dai diritti di guerra? — Che se consideriamo p>il saccheggio di Pavia ordinato da Bonaparte il giorno 24 maggio 1796, sicché ai nostri giorni, e che fu attuato sotto i suoi occhi, si troverà che anch'esso non fu da nessuno biasimato. Eppure la resistenza vi fu quasi nulla. — Il caso come lo racconta il detto autore è il seguente: «Pavia era occupata da Aagereau e Busca, tutt’ altro che moderali, i quali dissero, star male in faccia all’albero della libertà la statua di un tiranno; tale giudicando quel monumento di bronzo antico, che non si sa cosa rappresentasse.

E subito la plebe gli fu attorno a ruinarlo, gridando morte agli aristocratici e ai preti. Questi invece pascolavansi della speranza che l'occupazione fosse momentanea, e ad un giorno fisso insorgerebbe Milano, e dal Tirolo tornerebbero i Tedeschi. Due sol dati prigionieri fuggiti si credettero l'avanguardia; si diè nell’armi; le campane delle ventotto chiese toccarono a martello, e barricate e lumi; i soldati che non cadono uccisi hanno appena tempo di ricovrar nel castello, ove non avendo da vivere e da curar i feriti capitolano in numero di quattrocento. Pensate che feste, che trionfi, che accorrer di popolo dalla campagna, che trescare di capitani improvvisati! Ma Bonaparte saputone, accorre, manda a ffuoco e sacco Binasco che resisté; e poiché a Pavia spedi invano l'arcivescovo di Milano persuasore di pace, v'entro a forza e abbandonolla al saccheggio. p>Molti perirono tra cui il vicario di esso arcivescovo; e Bonaparte giurava di voler la testa di cento aristocratici; poi s’accontentò di far passar per l'armi il curato di San—Gerone , il cancelliere di Bereguardo e alcuni altri, colpevoli o no; portare ostaggi sessanta fra nobili e preti; gettar una tassa; contento di atterrire coll’esempio in su quelle prime». (Storia c. s. cap. CLXXV1. pag. 23Q del Vol VI.) Qui come si vede non vi ha una parola di biasimo; qui Bonaparte non è detto un agnello, ma neppur una tigre, né una jena, qui lo si fa figurare come un leone. Carlo Botta parlando dell'or esposto fatto. (Storia d'Italia Lib. VII. an. 1796 pag. 331 del vol II dice: «p>Ordinava Bonaparte il sacco; dava Pavia in preda ai soldati durante 48 ore... Queste erano le primizie della libertà. Al che, se per Bonaparte si rispondesse che il sangue de’ suoi soldati trucidati, e la sicurtà del suo esercito queste esorbitanze necessitavano, nessuno sarà per negare». — L'autore adunque qui ammette senza riserva e riconosce il diritto di ricorrere contro una città ribellante alle esorbitanze alle quali ricorse Bonaparte contro Pavia; e riconosce la necessità nella quale si trova un generale in capo e il dovere che per lui ne segue la sicurtà del suo esercito di usarne. — Egli aggiunge bensì che la sollevazione dei Benaschesi, e dei Pavesi era stata provocata da spoliazioni, insulti, derubamenti, e conchiude: che le enormità messe in opera contro quelle genti, devono in ultima analisi imputarsi alfa vera loro origine, cioè a quelle spoliazioni, e a quegli insulti, e derubamenti; siccome, aggiunge egli, le imputa il sommo Iddio, giusto estimatore, delle opere mortali. — Sentenza giustissima. — fila che ne segue in riguardo alla ribellione di Brescia, e alle di lei conseguenze? A chi la colpa? Esaminiamolo.

Volendo esser giusti nel giudicare il caso di Brescia del 1849, non si dimentichi, che non era ancora passato un anno che la detta città si era ribellata contro l’Austria, e ciò senza alcun motivo, senza che vi avesse avuto luogo qualsisia provocazione, anzi senza che vi avesse neppur un pretesto, se pure non si voglia ammettere, che s’abbia a disfare l’Europa per rannodarla secondo il principio nuovo, gratuito, e falso delle nazionalità; non si dimentichi che la ribellione del 4era la seconda nello spazio di un solo anno, e che questa seconda ribellione era una cospirazione con uno stato limitrofo, ed aveva per iscopo di coadjuvare all’esterminio dell’esercito austriaco, che si sarebbe trovato implicato in una guerra guerreggiata col detto Stato. Una siffatta circostanza avrebbe da sé sola bastato all’armata francese, all'armata inglese e a qualunque armata Europea, per non lasciare in una tale città pietra sopra pietra, né sortire dalle di lui rovine anima vivente; non si dimentichi che le masnade che vi si annidarono opposero per più giorni una ostinate, e per due giorni una disperata resistenza; non si dimentichi sopratutto che ciò nonostante a Brescia nel 4non vi ebbe saccheggio, e né ordinato né acconsentito, né tollerato; non si dimentichi che nel 1513 Brescia non resistette che poche ore, e che ciò nonostante dopo finita la lotta, dopo cessato il bollore del combattere, è stata data di sangue freddo, al più sfrenato saccheggio, e ciò durante sette giorni continui; non si dimentichi finalmente, che nel 1796 Pavia non fece veruna difesa che tal nome si meritasse, e che non pertanto fu data pei corso di due intere giornate a sacco anch'essa.

A fronte di tutte le suddette tanto aggravanti circostanze nulla di tale, torno a dire, ebbe luogo l'anno 4nel caso di Brescia. Il vero è, che tanto il giorno 31 marzo, che il giorno susseguente, (*) ciascuna delle colonne d’attacco era seguita da un apposito distaccamento a uso di riserva e di retroguardia, che aveva inoltre l’incarico dl perlustrare i quartieri sgomberati, raccogliervi tutti i soldati che vi si trovassero, e diriggerli ai loro rispettivi corpi; misura che fu attuata col massimo vigore e rigore, e che si rendeva indispensabile, se pure non si voleva che alla fine i combattenti si trovassero in numero affatto insufficiente al bisogno. Cosi passò la prima giornata.

Durante la nulle dai 31 marzo al 1.° aprile; la truppa prossima al nemico si aspettava ad ogni momento di essere assalita, e non depose un istante le armi. Le case in capo alle strade furono disposte a difesa da dei distaccamenti forniti dalle riserve, i quali del resto nulla vi trovarono da guastare, nulla da saccheggiare, giacché tutto vi era già guastalo dai suoi difensori. Le case erano tutte vuote dei loro soliti abitatori, tutte in sommo grado manomesse. Il giorno 1 aprile la lotta andò dal mezzo giorno in poi di ora in ora declinando, e la resistenza, come già è stato avvertito, era già fiacco e di poco, quando giunse un battaglione di Croati, che la finì. e che per finirla ebbe pochissimo da fare. Cessalo il fuoco non solo che il generale Hainau non sbrigliò la sua truppa, esso tutto all'opposto, si mise con piccola scorta a percorrere le vie, e a richiamare con la tremenda sua voce dalle case i suoi soldati e a riordinarli, e ciò, ancorché già ai primi passi che fece, gli si tirassero due colpi a pochissima distanza, senza coglierlo ciò è vero, ma i quali davano a sufficienza a conoscere, che l'opera non era ancora finita. — Dai che tutto si vede che a Brescia il saccheggio fu fuor di questione. Che se non pertanto in qualche appartalo quartiere il soldato divenuto furibondo si fosse abbandonato agli orrori del saccheggio e anche a degli eccessi e degli orrori maggiori. ciò è possibile, non lo so, non lo posso negare, ma neanche ammettere. Ma di tanto sono certo, che, se alcunché di tale è accaduto, ciò si è fatto in onta degli ordini severissimi elle vi aveano, e da dei soldati che dimenticarono di appartenere ad un' armata, nella quale, accada ciò che vuole, mente di tale è permesso.

Si è fatto al generale Hainau un delitto di lesa—umanità anche perché sapevasi da lui e dalla sua truppa l’esito glorioso e decisivo della battaglia di Novara, e l'esistenza dell'armistizio che vi era seguito. Ma il detto generale sapeva altresì, che se l'incendio di Brescia dilatavasi, né l'armistizio, né una pace, per quanto la potesse essere solenne, avrebbero ritenuto il ministero sardo—piemontese dai soffiarvi entro a più potere e da ogni lato; che la divisione La—Marmora avrebbe passato il Pò, e che Venezia e le Legazioni sarebbero state spinte a prendere l'offensiva. Egli si fece quindi un dovere di soffocarlo e di spegnerlo senza dilazione e a qualunque costo. A mio debole parere meglio fora stato se si fosse, come a Udine, lasciala ni ribelli un' uscila. 1) generale Hainau però credette di dover togliere ai Bresciani ogni speranza di soccorso dal contado. Riflesso, ne convengo, di non piccolo peso.

Conchiudiamo che la colpa dello strazio che ebbe a soffrire Brescia nel 184cade intieramente sugli autori di quella ribellione, che fu una abominevole immune cospirazione tramata col governo sardo-piemontese. Quanto poi ai generale Haynau dirò, che se gli uomini non fossero tanto più ingiusti, quanto più hanno torto o sono più in colpa, i Brcsciani vedrebbero in esso un personaggio, resosi nella sua situazione, della loro patria, pel male che le ha risparmiato, in sommo grado meritevole.

*) Nel testo è detto per sbaglio il giorno 30 marzo e il giorno seguente, deve dirsi il giorno 31 marzo e il 1 giorno di aprile.

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Non è, che i rivoluzionarj della Toscana non facessero l’impossibile per sollevare le masse contro gli Austriaci, che venivano a rimettervi il Gran—Duca, si poco ne conoscevano essi le disposizioni. Rimarchevolissimo è il linguaggio che alle popolazioni tenevasi: «Per ogni città o terra dove» l’aizza—popolo, dirò tosto chi colui fosse «passava, arringava la moltitudine. Il tedesco essere alle porte; minacciare di entrare; svaligerebbe le case; brucierebbe i campi; stuprerebbe le vergini; contaminerebbe le spose; profanerebbe te chiese; fanciulli e madri, giovani e vecchi, ogni cosa metterebbe a ferro e a sangue. Non tratterai ora di liberare dalla loro tirannide fratelli lontani, ma si di difendere le nostre case, i nostri talami, le nostre sepolture, e quanto v’ha di più caro al mondo, la libertà. Levatevi come l’anno innanzi, quando suonò caro il grido di guerra agli Austriaci». (Veg. le Istorie Italiane di Ferdinando Ranalli dal 1846 al 1853 lib. XX. vol. III. pag. 253.) — Questo linguaggio si tenne dal Signor Giuseppe Montanelli, da me in questo mio lavoro più volte menzionato, e che divenne nel 4 in Toscana Presidente del consiglio dei Ministri, Triumviro del governo provvisorio. Egli aveva nel 4 servito contro l'Austria, se non sbaglio, come gregario, nella legione toscana, e s’era come tale trovato al fatto di Curtatone. Se vi avea un Toscano al quale quel linguaggio dovesse apparire infamemente bugiardo, quel desso era certamente cotesto Signor Montanelli. Egli nel summenzionato fatto d'armi era stato ferito. Ma parli egli stesso: «Dal deliquio che mi aveva dato lo uscire abbondante del sangue, mi riebbi in una stanza del mulino al fracasso delle irrompenti orde croate. Due miei commilitoni, Morandini e Colandini avevano sfidata la prigionia per assistermi. Dicono al capitano croato che entra nella stanza: — Fate quel che volete di noi, ma salvate il nostro ferito. — E il capitano (di quelle orde croate) al cuore rispose col cuore, dicendo: — Non temete, siamo tutti cristiani. — E raffrenò la soldatesca infuriata che voleva darci addosso... Levato dalla casa del mulino, una stridula voce di cui sento ancor dentro l’asprezza, diceva: — I feriti da sé — e fui separato dai miei angeli tutelari... — E trovarmi fra soldatacci briachi, che a schermo mi urlavano in faccia il: Viva Pio IX, e in vece del nostri bei tre colori vedere l’odiato giallo e nero, e rappresentarmi la morte in un lercio spedale austriaco, e sentirmi diviso dalla vita dell’Italia sorgente. oh come tetro a' miei sguardi il sole del 2maggio imporporava le torri di Mantova». (Memorie sull'Italia e specialmente sulla Toscana del 1814 al 1850 di Giuseppe Montanelli Ex—Presidente etc. Vol. II. cap. XLI. p. 344.)

Le menzogne che dal signor Montanelli si sono volute dare a bere a' suoi concittadini contro l'esercito austriaco, come se essi non avessero mai veduto o avuto in paese dei di lui soldati, o la Toscana fosse tanto distante dalle Legazioni e dalle Marche che non vi si fosse potuto sapere la di lui ammirabile fin da un generale Colletta e da tanti altri accaniti avversarj dell'Austria i ammirata disciplina nelle guerre contro Murat nel 1815, contro la rivoluzione napoletana nel 1821, e nell’intervento del 1831: quelle menzogna dico gettano molto lume sull’inverecondia con la quale i rivoluzionarj italiani si appigliano ad ogni anche basso e vigliacco mezzo, dal momento che lo trovano conducente al loro scopo. Ordinando in questa bassezza e vigliaccheria nel mentire non mostrano esse, che La civiltà che costoro tanto vantano, non è se non una civiltà bastarda, che anzi che essere civiltà la è una vera e reale barbarie; e che la vera civiltà in Italia si debba cercarla con sicurezza di trovarla nel di lei popolo, ma pur troppo non in quelli che avrebbero a insegnarla con la voce e coll'esempio. — Chi non vede nella surriferita scena descrittaci dallo stesso signor Montanelli da un alto un capitanio croato che vi dovrebbe secondo gli Italianissimi rappresentare la barbarie, e dall’altro un professore di Pisa che vi dovrebbe rappresentare la civiltà, un vero e brutale barbaro nel professore, e un vero fior di civiltà nel Croato?

Consideriamo questa scena da vicino. Premetto l'osservazione, che il soldato assalendo un trinceramento non può far uso delle sue armi, mentre chi lo difende le può usare come gli pare e gli piace. Per quanto i momenti sian brevi essi pur bastano per accender nell’assalitore, che vi si crede leso, uno spirito di vendetta contro chi si trova contro di lui in tanto vantaggio, e quando superali gli ostatoli felicemente giunge nel trinceramento, si crede in diritto di non dar quartiere. Lo stesso accade anche nelle cariche della cavalleria contro C infanteria, se questa non getta le armi, in tempo utile. — Il capitanio croato, dice il professore, al cuore rispose col cuore. — Ma no; il capitano non risponde. I due commilitoni del professore ferito, col dire: fatte quel che volete di noi, ma sul va te questo ferito, dissero delle parole incongruenti, il senso delle quali è: Barbari! con noi fatte come siete soliti di fare, fatteci in pezzi, ma siate umanj con questo eletto. — Il croato non ha il tempo di dare a quei due Toscani la conveniente risposta che sarebbe: noi non siamo barbari, non facciamo la guerra da barbari, se anche i Vostri insulti, e oltraggi, e la vostra baldanza non cessino di provocarla. E poi qual ragione, avrebbevi di essere barbari con due di voi, e non anche col vostro compagno? E poi perché avremo noi a salvare lui solo e non anche voi? — Il Croato invece di rispondere a quel parlare, per non dir altro, confuso, prende lui stesso la parola e dice: «Non temete», — Il primo pensiero che esala quel bell’animo è, di rassicurar e di calmare quella gente, che tenta e trema per la propria vita, e ba ogni motivo di temere e di tremare, e vi aggiunge; siamo tutti cristiani. Non dice siamo cristiani, «siamo tutti cristiani», cioè voi come noi, siamo perciò fratelli, e quindi non avete nulla a tenere. E tosto si mette all'opera e raffrena la soldatesca, come la dice lo stesso professore, infuriata, che voleva dar loro addosso. Infatti nessuno toccò quei Toscani, a' quali si lasciò non solo la vita, ma anche la roba. Il professore di Pisa pero non comprese un acca né a quel parlare del Croato degno certamente del maestro dei maestri della civiltà vera, cioè della civiltà cristiana, né a quell'istantaneo affrenarsi di quegli infuriati soldati; affrenarsi, che avrebbe dovuto sembrargli un vero miracolo. — Sorpreso, che la guerra gli si affacciava come guerra, e non come un passatempo, mancante interamente di quella rassegnazione che caratterizza il vero soldato, divenuto rabbioso, lo inorridisce tutto ciò che sente, gli ai fa nero tutto ciò che vede, e tetro più il sole che in quel giorno, era il 2maggio del 48, al suo tramonto, «imporporava le torri di Mantova». — Ah! signori Italianissimi! deh cessate una volta di essere tanto abbondevoli con la parola barbaro. Non son io il primo che ve lo dice. Maggiori barbari di voi, cui non ripugna d’involgere la vostra patria e i vostri concittadini in un totale, sociale, civile, politico, morale, religioso disordinamento, e nelle tremende sue conseguenze; cui non ripugnerebbe, se ciò stasse in vostro potere, spinti dalle vostre immani passioni di mettere a fuoco e a sangue l'Europa tutta, maggiori barbari di voi, non vi hanno, né vi saprebbero avere.

Devo qui menzionare un fatto di un tutt'altro genere, nu che sta in una immediata relazione con ciò che dico nel testo: cioè, che il riordinamento della Toscana erasi all'arrivo degli Austriaci in gran parte già dallo stesso suo popolo compilo. Lo ricorda la più volte da me citata relazione uffiziale austriaca della campagna del 1848. Ivi è detto, che un ingegnere impiegato alla strada ferrata che congiunge Firenze con Pisa di nome Berghini dispose a parte un treno di vagoni, nei quali si mise con soli 100 uomini armati non di altro che di bastoni; e che arrivato a Pisa sorprese il presidio della prossima porta, lo disarmò, corse poi alla caserma ove vi avean 400 uomini armati, e che disarmatili, abbatté il governo rivoluzionario, e rimise quello del Gran—Duca. (Kriegsbegebenbeiten. Sez. II. Pag. 7.)

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Farini c. s. Lib. VI. cap. VII. vol. IV. pag. 12t. l’autore fa precedere alla da me citata sua descrizione dell'interna situazione di Bologna quella dell'esterno, cioè dello stato delle cose «extra muros». — Spirato, dice egli, il termine della tregua, «l’Austriaco tornò all'assalto, con impeto e copia maggiore d'artiglierie, e di bombe, deviò le acque del canale di Reno, sbrigliò la soldatesca nelle amene ville circostanti e le diede balia di sacco, onde furono tutte contamina te e guaste; le suppellettili spezzate, le vettovaglie predate e gettate al vento, rotte le statue, appiccato il fu oco alla villa Bignami, (era questi il generale della guardia nazionale di Bologna,) e tenuto un manipolo di soldati ad impedire fosse spento l'incendio, che tutto divorò in breve ora». — Il vero è , che anche nelle Legazioni e nelle Marche, e in ispecialità nel Bolognese, oltre ad una grandissima avversione contro la rivoluzione e contro quella guerra, vi avea, nella gente del contado, ciò che, parlando della spedizione del conte Nugent nel Friuli, chiamai un malvecchio, il quale era un odio inveterato, un astio che voleva sfogarsi contro i Signori; e che anche quivi come nel Friuli i campagnuoli aizzavano a più potere il soldato contro le ville dei loro padroni, dicendole appartenenza dei capi—rivoluzionarj, e a dei rabbiosi nemici dell'Austria. Il soldato austriaco inoltre era contro i Bolognesi, che, per aver l'anno innanzi il giorno 8 agosto feriti proditoriamente alcuni uffiziali e soldati entrati di buona fede nella loro città, vantavano una gran vitoria sull’esercito del generale Welden, conte se l'avessero totalmente sconfitto e posto in fuga, era dico addiratissimo. Or, che in tali circostanze si rendesse difficile di ritenerlo dall’abbandonarsi a delle rappresaglie, e che qualche guasto da lui siasi fatto, è possibile. — Ma che i generali austriaci vi sbrigliassero il soldato è certamente una mera calunnia. Il generale Wimpfen era un generale troppo esperimentato, per non sapere quanto nuocerebbe alla spedizione alla quale esso disponevasi, se le popolazioni dei paesi che egli doveva, traversando, pacificare e togliere alla rivoluzione, avessero perduto la fede che avevano nella disciplina austriaca. — Peraltro so, che in parte i guasti che si erano commessi attorno a Bologna derivavano dagli stessi villici, e in ispecialità dalle bande armale, che conte ho nel testo avvertito, vi si aveano, subito dopo l'arrivo degli Austriaci, dai rivoluzionarj contro questi attirate.

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Storia dell’assedio di Venezia, 1848 — 1849. Volume unico. Venezia 1850. pag. 85—87. È un operetta anonima, peraltro pregevolissima.

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Storia. c. s. pag. 44. — Veg. anche la relazione uffiziale austriaca nelle « Kriegsbegebenheiten III. Abschnitt» .

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Fra le Satire di A. Perio Flacco, ancorch tutte ripiene di massime con appena qualche eccezione sanissime ed in sommo grado meritevoli di essere riposte profondamente nella mente e nel cuore, la pi pregiata per comune consenso la terza, la quale s'indirizza a quella giovent della classe agiata, che impoltronisce e intorpidisce nell'ozio, principio di ogni viio, invece d'istudiarsi, e d'istudiare nelle sue cause il bene ed il male, per fuggire questo e frire di quello. Nella detta saira trovasi fra i tanti memorabilissimi versi anche l' seguenti:

«Discite, o miseri, et causas cognoscite rerum;

Quid sumus) et quidnam victuri gignimur; ordo

Quis datas; aut metae qua mollis flexus, et node;

Quis modo argenti; quid fas,optare; quid asper

Utile nummus habet; patriae, charisque propinquis

Quantum elargiri deceat; quem te

Dens esse Iussit, et humana qua parte locatus es in re.

Disce.» (Satyra 111 v. 66—73.)

Questi versi i quali ebbero l'onore di essere citati da Sant’Aostino in uno dei più profondi capitoli detta sua ammiratissima opera: «De Civitate Dei. Lib. Il c. 6.», sono cosi tradotti da Vincenzo Monti nella sua versione delle Satire di quel poeta:

«ll come arcano

Delle cose, infelici, ah conoscete!

L’uomo che sia, perché nasca e perché viva,

D'onde partir, dove piegar dovete;

Qual regola civil, qual si prescriva

Modo all'oro, qual sia désir permesso,

L’util fin dove del danaro arriva; Quanto alla patria dar ti sia concesso,

Quanto ai parenti, ed in qual posto il Nume

Nell'umana repubblica t’ho messo.

Questo impara.»

Il lettore si sarà accorto che qui manca all’atto il «quem te Deus esse jussit», che io, alla meglio che ho saputo, ho tradotto col: «Ad esser tale, qual Iddio ti volle.»

Anche nel Dante si trovano degli insegnamenti che, una volta letti e compresi, non si dimenticano nui più, come per esempio fra qualche migliajo i seguenti:

Siate, Cristiani, a muovervi più gravi; Non siate come penna ad ogni vento,

E non crediate ch’ogni acqua vi lavi.

Avete 'l vecchio e 'l nuovo Testamento,

E ‘l pastor della Chiesa che vi guida

Questo vi basti a vostro salvamento.

Se mala cupidigia altro vi grida, Uomini siate, e non pecore matte.»

(Parad. Canto V v, 73—803 )

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Tra le doti più necessarie all'uomo di stato occupa certamente uno dei primi posti il conoscere nelle situazioni politiche questa «force des choses», e il sapere se esse sono tali da poterle padroneggiare, o se fia necessario di seco accordarsi; se si debba opporsi alla corrente e fermarla ad ogni costo, o imbarcarvisi e limiterai ad evitare gli scogli fra i quali la scorre; e con altre parole, se vi ha ad aver luogo il «submilto mihi res, non me rebus» o l'opposto. Il «necessitati subditi estote» del grande Apostolo delle genti è uno dei principj fondamentali! e dirigenti di ogni sana politica. Senonché la necessità talvolta più apparente che reale. Il saper discernere nelle situazioni politiche la realtà dall'apparenza, e il prendere un partilo con prontezza d'intelligenza e di volontà, non è cosa che di pochissimi. Molli fra i maggiori disastri che hanno afflitto l'umanità sono in ogni tempo e in ispecialità ai nostri giorni derivano dalla mala scelta fra i due partiti; giacché le spessissime volte è o l’orgoglio, o la pusillanimità che la detta. — Vi hanno che richiedono nell'uomo di stato, innanzi a tutt'altro, prontezza nel conoscere e destrezza nell'afferrare le opportunità, e le occasioni. Infelici quei popoli e quei paesi la di cui sorte si fa dipendere da questa specie di caccia. Sono i principj, e il saper attuarli in armonia cogli elementi fattivi provvidenziali detta storia dell'umanità, che costituiscono, non dico esclusivamente, ma in principalità l’uomo di stato. — opportunità e l’occasione sono, dice l’abate Gioberti nel suo Rinnovamento civile d'Italia Tomo II. pag. 435, il riscontro del tempo colle cose da farsi, e quasi un invito all'uomo di operare; il quale, secondandole, accorda l'azione sua concreatrice con quella di Dio, e della natura. — Ma se l'opportunità e l’occasione fossero, come qui ci si insegna, un invito all'uomo di operare, come si potrebbe ascrivere a colpa a quel servo, che trovando lo scrigno del suo padrone aperto e ravvisandovi una borsa piena di zecchini la intascasse e se ne fuggisse? Egli non è che troppo vero, che anche in politica l’occasione fa il ladro. E perciò preghino pur anche gli uomini di stato ed i potenti sulla terra, e in ispezialità i potentissimi di cuore il: «e non indurci in tentazione».

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In questi miei studj mi sono trovato sovente nella necessità di ripetere delle cose già dette. Egli è questo un inconveniente inerente alla natura di siffatti studj. Se si vuole, come qui è il caso, che ciascuno di essi presenti un tutto perse, e ciò non per tanto faccia parte integrante dell'opera non si può fare altrimenti. Voglia il cortese Lettore rileggere la prima notà del capitolo III. pag. 92, ove troverà una spiegazione di questa necessità.

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Niccolò Machiavelli può e deve considerarsi come il maestro di color che satinoin cospirazioni e in rivoluzioni; ed è dalle sue opere politiche e segnatamente dal suo Principe, e dai suoi Discorsi sopra la Prima Deca di Tito Livio, che si sono cavale le massime dirigenti dagli innovatori e revoluzionarj dei nostri giorni in generale, e dagli innovatori e rivoluzionarj italiani in particolare. Il Machiavelli scriveva il suo Principe pei fratello di Leone X, Giuliano de' Medici, al quale supponeva il pensiero di farsi signore d'Italia. Esso vi parte dal principio, che chi vuole lo scopo, debba volere anche i mezzi che vi conducono, nonché afferrarli e impiegarli senza alcuno sia morale o religioso o altro riguardo o ritegno, e fuggire in ogni caso le mezze misure. Questo è il riassunto di quel suo famosissimo opuscolo; e questo è anche in fondo il riassunto dei suoi Discorsi sopra la Prima—Deca di Tito Livio.

In prova che non dico se non il vero, ecco alcuni saggi della politica insegnata dal Machiavelli nelle or menzionate sue opere. Il capitolo è il 18. mo del Principe, ed è intitolato: In che modo i principi debbano osservare la fede. — «Quanto sia laudabile, dice egli, in un principe mantenere la fede e vivere con integrità, e non con astuzia, ciascuno lo intende. Nondimeno si vede per esperienza nei nostri tempi, quelli principi aver fatto gran cose, che della fede hanno tenuto poco conto, e che hanno saputo con l’astuzia aggirare i cervelli degli uomini, ed alla fine hanno superato quelli che si sono fondati in sulla lealtà. Dovete adunque sapere, come sono due generazioni di combattere; l’una con le leggi, l'altra con la forza; quel primo modo è proprio dell’uomo, quel secondo delle bestie; ma perché il primo spesse volle non basta, convien ricorrere al secondo». — Ciò detto insegna l’autore a fare la bestia; cioè a fare ora il lione o ora la volpe, o poi soggiunge: «Non può per tanto on signore prudente, né debbe osservare la fede, quando tale osservanza gli torni contro e che sono spente le cagioni che fa fecero promettere. E se gli uomini fossero tutti buoni, (presto precetto non sarebbe buono; ma perché sono tristi, e non l’osserverebbero a te, tu ancora non hai da osservarlo a loro. Né mai ad un principe mancheranno ragioni legittime di colorare la inosservanza. Di queste se ne potrebbero dare infiniti esempj moderni, e mostrare quante paci, quante promesse; sono state fatte irrite e va ne per la infedeltà dei principi; e quello che ha saputo meglio fissare la volpe è meglio capitato. Ma è necessario questa natura saperla bene colorire, ed essere gran simulatore e dissimulatore, e tanto obbidiscono gli uomini alle necessità presenti, che colui che inganna troverà sempre chi si lascerà ingannare». — Il fine del capitolo è il seguente: «Faccia adunque un principe conto di vincere e mantenere lo stato, i mezzi saranno sempre giudicati onorevoli, e da ciascuno lodati; perché il volgo ne va sempre preso con quello che pare, e con l’evento della cosa; e del mondo non è se non volgo, e i pochi ci banno sfogo, quando gli assai non banni dote appoggiarsi. Alcuno principe dei presenti tempi, quale non è bene nominare, non predica mai altro che pace e fede, e dell’una e dell’altra è inimicissimo, e l’una e l’altra quando ei l’avesse osservata, gli avrebbe più volle tolto e la riputazione e lo stato».

Il saggio che segue è tolto dal 1.° libro dei Discorsi, ed è l’intiero capitolo 26.° intitolato: Un principe nuovo in una città o provincia presa da lui, debbe fare ogni cosa nuota. — «Qualunque diventa principe o di una città o di uno stato, e tanto più quando i fondamenti suoi fossero deboli, e non si volga o per via di regno ( o di;repubblica alla vita civile, il miglior rimedio ch’egli abbia a tenere quel principato, è, sendo egli nuovo in quello stato, —come è, nelle città fare nuovi governi con nuovi nomi, con nuova Autorità, con nuovi uomini, fare i poveri ricchi, come fece David quando ei diventò re: qui esurientes implevit bonis, et divites dimisit manes. Edificare oltre di questo nuove città, disfare delle vecchie, cambiare gli abitatori da un luogo ad un altro, e insomma non lasciare cosa niuna intatta in quella provincie, e che non vi sia né grado, né ordine, né stato, né ricchezza, che chi la tiene non la riconosca da te, e pigliare per sua mira Filippo di Macedonia padre d’Alessandro, il quale con questi modi, di piccolo re diventò principe di Grecia. E chi scrive di lui, dice, che tramutava gli uomini di provincia in provincia, come i mandriani tramutano le mandrie loro. —Sono questi modi crudelissimi e nimici di ogni vivere, non solamente cristiano, ma umano; e debbegli qualunque uomo fuggire, e volere piuttosto vivere privato, che re con tanta rovina degli uomini. Nondimeno colui che non vuole pigliare quella prima via del bene, quando si voglia mantenere, conviene che entri in questo male. Ma gli uomini pigliano certe vie di mezzo, che sono dannosissime; perché non sanno essere né tutti buoni, né tutti cattivi».

Nelle opere politiche del Machiavelli vi hanno delle cose eccellentissime, e ammirabili, che lo dimostrano un ingegno straordinario. Nessuno che siasi data la pena di studiarle, saprebbe negarlo. Ma ciò non toglie che le più essenziali di esse e quelle che formano la sostanza delle dette opere, sono tutto l’opposto. La politica del Machiavelli è le politica della mala fede, alla quale appunto perciò si è dato il nome di Machiavellismo. — Il vero è che vi hanno non un solo, ma più Machiavelli. Nella dedica delle Istorie fiorentine a Clemente VII. dell’edizione romana del Blado apparisce il nostro Segretario fiorentino come il più abietto adulatore che mai vi abbia avuto; nell’opera stessa si mostra egli invece libero scrittore sino al cinismo; nell'Arte della guerra è egli religiosissimo, nelle altre sue opere non di rado peggio che pagano; in una delle sue comedie si trova tuttociò di più licenzioso e di più immorale che vi ha nelle comedie degli antichi; eppure non manca egli con un solo tratto di chiarire tutta la degradazione, che patisce la donna nel di lei pervertimento. (Mandragola. Alto V. scena 5. ta) Ma sentiamo ciò che in riguardo a questa doppiezza dice di 6è, e del suo amico e compare Francesco Vettori egli stesso: «Chi vedesse le nostre lettere, onorando Compare, e vedesse la diversità di queste, si meraviglierebbe essai, perché gli parrebbe ora che noi fossimo uomini gravi, tutti volti a cose grandi, e che ne' petti nostri non potesse cascare alcun pensiero, che non avesse in sé onestà e grandezza. Però dipoi voltando caria gli parrebbe quelli noi medesimi esser leggieri, incostanti, volli a cose vane. E questo modo di procedere se a qualcuno pare sia vituperoso; a me pare laudabile, perché noi imitiamo la natura, che è varia, e chi imita quella non può esser ripreso». (Lettere familiari Lettera XL.) A questa doppiezza di caratteri o—piu che doppiezze non si è pensato nel giudicare il Machiavelli, che io il sappia.

E vi si è trasandata anche la circostanza seguente, che lo assolve innanzi a qualunque giudico di tutto il male che i suoi scritti politici possono aver cagionato nel mondo. Egli non ha inteso di scrivere poi pubblico né il suo Principe, né i suoi Discorsi, né le suo Istorie fiorentine. Infatti esse non si sono pubblicate se non diversi anni dopo la sua morte, che accadde net 1527; cioè i Discorsi neglj ultimi mesi del 1531, e il Principe con altri piccoli scritti e le Istorie fiorentine durante l'anno 1532. D’altronde si sa, che il Machiavelli voleva ben si pubblicare i Discorsi, ma con delle ommissioni e delle correzioni (V. la dedica dei Discorsi nell’edizione di Firenze di Bernardo Giunta a Ottaviano de Medici.) Egli è poi un fatto, che il Principe e i Discorsi del Machiavelli non sono trattati di politica generale, ma istruzioni speziali subordinale ad uno scopo determinalo, che si vuol conseguire in onta ai principj e diritti in ogni modo, con ogni mezzo, e ad ogni costo. Nel Principe s'insegna il da—farsi a Giuliano de Medici fratello di Leone X. qualora voglia divenire signore d'Italia, e il come rendere la sua signoria durevole; e nei Discorsi, il come si fanno e si consolidano gli stati nuovi. — Il Machiavelli era in bisogno d'un impiego che lo mettesse in istato di vivere da signore. «Io non posso stare così, scriveva egli al Vettori, che io non diventi per povertà contennendo; sono avvezzo a spendere, e non posso fare senza spendere». (Lelt. fum. XIV. XXVI. XXIII.) E cosi scriveva egli il Principe nella seconda meta del 1513 in modo da far comprendere, che servirebbe a modo di chi lo impiegasse e lo pagasse. (Veg. nel «Machiavel, son génie et ses erreurs» par F. A. Artaud chap. XLIX. Tome IL p. 439. Il signor Artaud fu uno dei più caldi difensori del Machiavelli.) I Medici non vollero di lui, e allora si rivolse egli nel 1515 ad una congrega di giovani Fiorentini che divisavano disfarsi dei Medici, e scrisse per essi i Discorsi non senza trarne degli emolumenti. (Nardi. Ist. detta città di Fir. Lib. VII.) E scrisse anche le Istorie fiorentine per Clemente VII. allora ancora Cardinale e anch'esse sotto la pressione di esserne pagato. (Let. fam. LX.)

Nicolò Machiavelli nacque nel 1469. Fece alcuni anni di pratica per qualificarsi a degli impieghi pubblici, divenne nel 1498 uno dei cancellieri della repubblica di Firenze, servi con zelo e fedeltà, e con grande intelligenza e giudizio, in ispecialità in legazioni. Le sue informazioni sull’andamento ed esito delle sue missioni sono modelli di chiarezza, e di ragione. Ma perdette all’occasione che i Medici ridivennero padroni di Firenze, il suo impiego (1512); fu nell'anno seguente imprigionato per sospetto di aver preso parte ad una cospirazione contro di essi, ed ebbe in tal incontro a patire la tortura. D'allora in poi visse sino al 1526 da privato, nel qual anno fu impiegato come commissario per Firenze assieme con Francesco Guicciardini lo storico, commissario pel Papa presso Tarmata della Lega italiana. Roma andò in quel tempo a sacco, (6 maggio 1527) e li 16 del detto mese insorse Firenze contro i Medici. — Il Machiavelli mori, come già e stato avvertito, nel 1527 li 22 giugno. I Fiorentini gli hanno eretto nel penultimo decennio del secolo passato in Santa—Croce uno dei loro più magnifici tempj, un grandioso monumento coll'iscrizione.

Tanto Nomini Nullum Par Elogium

Nicolaus Machiavelli.

Oblt. Au. A. P. V. CI3IXXVII.

E Atto Vanucci nel suo Discorso intorno alla vita e alle opere di Donatto Giannotti, lascio scritto «che del Machiavelli debba dirai ciò che quel bizzarro spirito di Benvenuto Cellini diceva di sé, cioè che degli uomini come lui ne è uno per mondo».

166

Machiavelli. Istorie fiorentine Lib. I. Vol. I. pag. 17 e 18; e pag. 37 dell'edizione di Firenze 1813.

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Veg. la nota 12 al capitolo VI. pag. 271. Anche Cicerone, ciò è chiaro, vedeva nelle Alpi un riparo dato all’Italia dalla natura contro le invasioni dei Galli e in generale dei popoli settentrionali. «Alpibus italiam munierat ante natura non fine aliquo divino numine» come vi vedeva il Petrarca, e come vi vedono gli Italianissimi dei nostri giorni. La differenza consiste, che Cicerone sollo la parola Alpes comprendeva non le creste e le cime della catena sparti—acqua, ma il paese alpino in tutta la sua estensione.

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Veg. nelle Istorie di Paolo Orosio contro i pagani la dedica e le ultime pagine del settimo libro; e in Sant'Agostino «De Civitate Dei» il primo libro.

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L' abbandono delle Alpi per parte di Odoacre è uno dei grandi momenti della Storia d'Italia. Veg. le Rivoluzioni d'Italia dell'abate Denina lib. V. c. 1. I maggiori schiarimenti che si hanno su quell’avvenimento si ricavano dalla vita di San Severino di Gugippio, che si trova con degli interessanti commentari nell'opera del D.( rc) Alberto Nui bar: das Ròmische Noricum. Tomo 11. p. 152.

170

Muratori, Annali d'Italia. Anno 493.

171

Machiavelli. Discorsi lib. III. cap. 6. Delle Congiure.

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Si vorrebbe, attenendosi a quanto ne dice Procopio di Cesarea, scrittore contemporaneo e segretario di Belisario, nella sua istoria della guerra gotica, che Narsete aggirasse col suo esercito, raccoltosi nella Dalmazia, l'Adriatico, e arrivasse al Pò per le odierne lagune di Venezia. Ma chi conosce, come le conosco io, quelle località, le quali non erano per certo allora più accessibili che lo sono presentemente, dirà, che una tal marcia era impossibile. Vi ha poi anche la testimonianza di Paolo Diacono, che parlando delle gesta di Alboino dice: Tunc Alboin electam e suis manum direxit, qui Romanis adversum Gothos suffragium ferrent, qui per maris Adriatici sinum in Italiam transvecti, sociatique Romanis, pugnam inierunt cum Gothis». Questi Longobardi facevano parte dell'esercito di Narsete già in Dalmazia. Il dire poi che i Greci mancassero di navi per traversare l'Adriatico è in contraddizione col fatto, che l'anno innanzi (551) i Greci avevano tolto ai Goti poco men che tutta la loro flotta, che consisteva in quarantasette navi lunghe, delle quali si salvarono soltanto undici. «Non erano, dice il Muratori, da mettere in confronto dei Greci bene addottrinati nelle battaglie navali i Goti affatto novizj in quel mestiere». Belisario s'imbarcò nel 545, coi soccorsi per l’Italia che aveva adunati in Dalmazia, a Pola. Tutto induce a credere che Narsete abbia fatto lo stesso.

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Muratori An. d'Italia. A. 555.

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Veg. Nel «Historia Golhorum, Vandalorum, et Langobardorum» di Ugo Grozio i Prolegomeni, e gli Elogi: e in questi ultimi in ispezialità i confronti che fa Salviano Vescovo di Marsiglia dei Goti coi Romani, e dei loro governi «Inter hæc vastantur», dice quel santo Vescovo, «pauperes, viduæ gemunt, orphani procul cantor in tantum, ut multi eorum et non obscuris natalibus editi, et liberaliter instituti ad hostes fugiant, ne persecutionis publicae afflictione moriantur; querentes scilicet apud barbaros Roma nam humanitatem, quia apud Romanos barbaram immanitatem ferre non possunt: et quamvis ab bis ad quos confugiunt discrepent ritu, discrepent lingua, ipso etiam ut ito dicam corporum et induviarum barbaricarum fætore dissentiant, malunt tamen in barbaris pati cultum dissimilem, quant in Romanis injustitiam saevientem. Itaque passim vel ad Golbos, vel ad Baguadas, vel ad alios ubique dominantes barbaros migrant; et commigrasse non paenitet; malunt enim sub specie captivitatis vivere liberi, quam sub specie libertatis esse captivi. (Salvianus Episcopus Massiliensis de gubernalione Dei Lib. V.)

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Nelle «Considérations sur les causes de la grandeur des Romains et de leur decadence» il celeberrimo autore risguarda l'appropriazione di un terzo dei terreni che dimandarono ed ottennero le genti di Odoacre, come il colpo mortale portalo all’Impero d'occidente. Le di lui parole sono:

« Ceux qui gouvernaient en occident ne manquèrent pas de politique; ils jugèrent, qu'il fallait sauver l'Italie, qui était en quelque façon le cœur de l'empire. On lit passer les barbares aux extrémités et on les y plaça. Le dessein était bien conçu, il fut bien exécuté. Ces nations ne demandaient que la subsistance: on leur donnait les plaines; on se réservait les pays montagneux,les passages des rivières; les défilés les places sur les grands fleuves; on gardait la souveraineté. Il y a apparence que ces peuples auraient été forcés de devenir Romains, et la facilité avec la quelle ces destructeurs furent eux mêmes détruits par les Francs, par les Grecs, par les Maures, justifie assez cette pensée. Tout ce systéme fut renversé par une révolution plus fatale que toutes les autres: l’armée d'Italie composée d’étrangers, exigea ce qu’ on avait accordé à des nations plus étrangères encore; elle forma sous Odoacre une aristocratie qui se donna le tiers des terres de l'Italie: et ce fut le coup mortel portà à cet empire». (Chap. XIX.) — Il giudizio di un Montesquieu è, lo so e ne convengo, in sommo grado autorevole e imponente. Ma se si riflette, che in Italia la campagna era in quei tempi ripartita in immensi latifondi, che la popolazione, in ispecialità la popolazione campagnuola, vi era dalle guerre, dalla fame, e dalla peste ridotta ad un minimum; che vi doveano perciò avere e vi aveano grandissime estensioni dt terreni incolli ed abbandonati, si si convince che quella distribuzione di terreni, la quale da quel celeberrimo scrittore vien disegnata, qual colpo mortale portato all’impero d'occidente, era invece una misura salutare, che tendeva a sanare e non ed inasprire le piaghe che ne minacciavano l'esistenza: L'Impero d'occidente ridotto alla sola Italia era un i corpo senza mani o senza piedi. Esso era mutilato. L’Impero d’occidente era già alla sua origine mancante di uno dei suoi principj vitali e di una delle condizioni dalle quali dipendeva la sua durata cioè di una sufficiente marina. Questa mancanza non isfuggi al nostro autore. «La situation de l'empire d'occident fut surtout déplorable. Il n’avait point des forces de mer» (Chap. XIX. alla fine.) Ma gli isfuggi la seconda condizione: il possesso delle Alpi sino al Rodano, sino al lago di Costanza, e sino al Danubio. Volendo spiegare la ceduta dell’Impero d'occidente convien ricercare h cause che fecero ai Romawi abbandonare il «limes imperii»

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Si legga in rigurdo alla speie di guerra difensivaoffensiva dei Longobardi contro i Greci, 'impresa contro il ducato di Benevento codotto dllimperatore Costantino detto Costante, il mod come il detto duato fu soccorso, nel Muratori Annali A. 663. periosa civitas (Rom) nex solum jugum, verum etiam linguam sam domitis gentibus per paem soietatis imposit (Aur. Augustini de Civitae Dei Lib. XIX. A 7.)

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«Imperiosa civitas (Roma) nex solum jugum, verum etiam linguam suam domitis gentibus per pacem societatis imposuit», (Aur. Augustini de Civitate Dei Lib. XIX. A 7.)

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Ecco come il Papa San Gregorio Magno parla del contegno dei Longobardi nei paesi soggetti ai Greci: I Longobardi fecero man bassa sopra il genere umano, già cresciuto in questa terra o guisa di campi ricchi di spesse spiche. Già si veggono spopolate città, fortezze abbattute, chiese incendiate, monasteri d'uomini e di donne abbattuti, intere campagne abbandonate dagli agricoltori, di maniera che la terra resta in solitudine, né v’ha chi la abiti; ed ora osserviamo occupate dalle fiere tanti luoghi che prima contenevano una copi osa moltitudine di persone». (Muratori Annali all'A 578.)

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Cantù. Istoria degli Italiani. Cape CXC1L Vol. VI p. 748.

Il signor Cantù dice nell'or citato passo, che pochi paesi ebbero dalla natura confini cosi ben determinati, come l’Italia. Io ho parlato nel sesto capitolo estesamente di questo erroneo supposto, e qui mi limiterò a dimandare all'egregio storico: di qual Italia egli parti? Se dell’Italia di Roma repubblica, se dell’Italia di Augusto, o di quelle di Costantino, o di quelle di Teodorico, o di quelle di Carlo Magno, o di quella di Napoleone tutte queste Italie ebbero diversi confini. Essendo che le Alpi non sono monti italiani, (Veg; il cap. sesto), cosi i confini dell’Italia—continente sono determinati e segnati dalla radici di esse, e perciò chi dicesse, non avervi paese che abbia confini più indeterminati che la detta Italia—continente s'allontanerebbe per certo molto meno dal vero che in questo riguardo non se n'è allontanato il signor Cantù col suddetto suo pronunciato. E all'incontro quel paese ha confini cosi ben determinati coma la Sicilia, come la Sardegna, e come la Corsica? Eppure si vuote che quelle isole sian anch'esse Italia! Si dirà che la Sicilia, la Sardegna o la Corsica sono Italia perché inchiuse nel Mediterraneo, che è un mare italiano, e perche vi si portano dialetti italiani. Rispondo che il Mediterraneo non è più un mare italiano, che un mare spagnuolo; che anche le Baleari sono inchiuse nel Mediterraneo, e che anche in esse si parla un dialetto latinizzante, non più distante dal linguaggio che si parla a Firenze a Siena o a Roma, che quello che si parla nella Sardegna, a Genova, a Bologna o nel Friuli. Cosicché se reggessero quegli argomenti che fauno della Sicilia della Sardegna e della Corsica isole italiane, sarebbero isole italiane anche le Baleari.

Il vero è che l'Italia non ebbe mai altri confini che quelli che le dettarono i suoi padroni. Fu un decreto del Senato romano che li fissò alla Alagra e al Rubicone; fu un decreto di Augusto che estese l'Italia sino al Vero, sino all'Arsia e alla Sava, e ne escluse le valli subalpine e i laghi dell’Italia—continente quasi per intiero; e fu una serie di decreti di Napoleone che ne scisse il Piemonte, ambedue le Riviere di Genova, il Parmigiano, la Toscana e sino Roma con la sua commarca, e ne fece paese francese.

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Anche Napoleone parla nelle sue Memorie dettate all'isola di SantElena, di una riunione dei Veneziani, dei Milanesi, dei Piemontesi, dei Genovesi, dei Toscani, dei Parmigiani, dei Modenesi, dei Romani, dei Napoletani, dei Siciliani e ommessi i Corsi, dei Sardi, in una nazione indipendente. (Veg. il cap. I. nota 3 pag. 32.) In Napoleone un tl discorso non poteva essere se non una amara ironia. Ma che anche ad esso si afacciasse nellelemento etnografico un elemento antiunitario di grande forza lo dimostra a sufficienza la circostanza, che egli diceva abbisognare per effettuare la detta riunione non meno di venti anni. E merita di essere osservao che nella stessa occasione gli si discopre anche un ulteriore elemento e quello potentissimo antiunitario nella viziosa configurazione geografica dell'Italiapenisola, nella quale col troppo allungarsi in confronta della di lei larghezza si avvera il detto: Chi troppo s'assottiglia si scavezza.

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Fra i fenomeni che porge la Storia di Roma uno dei pi meritevoli di essere studiati e spiegali è il poco tempo che le abbisognò per romanizzare e latinizzare l’Italia—penisola, e poi la Gallia-cisalpina e la Venezia, e successivamente le Spague le Gallie il Norico la Pannonia e sino la Britannia.

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Non raro di trovare negli scritti del Gioberti la pi riprovevole sventatezza nel decidere delle questioni di unimportanza vitale. Ecco un esempio di tali giudizj. Quando, dice egli, gli apparati militari saranno in piedi, la libert sar sicura; perch il Piemonte in armi pu difendere i suoi lari contro tutta lEuropa. (Veg. la nota 1. al V. capitale pag. 195).

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opera pubblicata a Torino nel 1856 col titolo: Apertura e canalizzazione dellTstmo di Suez. Narrazione informativa del signor Ferdinando Lesseps. Traduzione del professore Ugo Calandri, ha una introduzione nella quale il professore Giovanni Interdonao discore a lungo sui vantaggi incommensurabili commerciali e politici elle a preferenza di ogni altro paese Europeo ne caver l'Italia. Egli pensa che questa, in seguito alla suddetta impresa, debba divenire e centro del commercio Europeo, farsi potenza marittima di primo rango, e stando ora colla Francia, ora coll'Inghilterra tener nel suo pugno i destini d'Europa. Ma parli egli stesso.

«Supponete» dice il professore, «che sia canalizzato l'istmo di Suez, e veggiamo qual altro popolo qual altra nazione, sotto questi riguardi (*) possa mai presentarsi in condizioni ugualmente felici come l'Italia. Supponete il commercio dell'America occidentale, e delle regioni australi che traversante, il golfo Arabico, e raccogliendo i prodotti africani si scarichi nel Mediterraneo per spandersi nell'Europa intera: volere o non volere, quella corrente commerciale non viene ad incontrare sulla sua corsa per prime, che l'Italia e la Grecia due nazioni ugualmente navigatrici. Ma la Grecia ba poca vita industriale, ristretta popolazione e scarsezza di comunicazioni colla rimanente Europa: l'Italia all'incontro con una popolazione di 26,000000 di cui più centinaja di migliaja sono uomini di mare, con un litorale che si estende per 3,326 milometri con una marina che sebbene inferiore alla marina inglese per tonnellaggio le si avvicina per numero di legni; l'Italia in comunicazione col nocciuolo dell’Europa, mentre per la diramazione delle sue strade ferrate va ad unirai colla Francia da un lato, e colla Svizzera e Germania dall'altro, scende nel Mediterraneo proprio come un braccio disteso per afferrare e stringere in pugno quanto di commercio e di traffico dovrà sboccare dal canale di Suez. Anche nell’ipotesi che il dominio de' mari continuasse a rimanere nelle mani degli Inglesi, dei Francesi, degli Olandesi ecc., naturalmente tutti questi popoli navigatori verrebbero nelle loro corse ad incontrarsi in qualche porto italiano, e l'Italia sarebbe l’indispensabile luogo di deposito, e l’emporio di tutte quelle mercanzie e i suoi numerosi porti diverrebbero il ricovero d'ogni naviglio, e le alla darebbero stanza e riparo a tutti i commerci del mondo. Se qui si fermasse il beneficio, sarebbe per se stesso un gran che; la vita industriale della Penisola, il valore dei suoi prodotti, il movimento delle sue strade ne sarebbe centuplicato; ma che si fermi, è impossibile. In si felice posizione, lo spirito navigatore e intraprendente dei marinai d'Italia, vistasi aperta un'immensa carriera alle speculazioni marittime, vi si slancerebbe di certo. E come no?...»

«Chi ben riguarda al procedere della prosperità commerciale, aveva de tt o poco prima il professore, di leggeri si accorge. Che le cause ond’essa è caduta in sorte a alcuni popoli in preferenza di altri, passando cosi da una in un’altra nazione, principalmente riduconsi a queste: in prima, l’andazzo del commercio ciò determinato dalla geografica posizione, e dal trovarsi sulla linea del suo naturale corso: in secondo, dall’altitudine industriale, e dalle abitudini maritime del popolo; per terzo, dalla quantità dei prodotti proprii da mettere la mercato, e dei prodotti stranieri; di cui si abbisogna; in ultimo dalla maggiore economia tanto delle costruzioni navali, che delle spese e della vita marittima; in somma, dall’economia della navigazione.»

«Il taglio dell’istmo di Suez non può trovare economicamente ragionevoli ostacoli, deve trovare ajuto e protezione dappertutto. Ma sarebbe l’istesso politicamente? Gl’interessi politici vogliono anteporsi talvolta agli interessi economici. L'Inghilterra come dominatrice delle Indie, non avrebbe a temere per le sue possessioni? L'accresciuta importanza del Mediterraneo non farebbe pericolosa l’importanza della Francia? Dove trovar sicurezza ed equilibrio, dove? Nel risorgimento industriale e marittimo d’Italia. — Il taglio dell’istmo di Suez cambierà le condizioni politiche e l'equilibrio del mondo... Divenuto il Mediterraneo il gran lago del mondo, la Francia come principale nazione di questo mare, cresce in influenza ed in potenza. La marina della Russia nel mar Nero è bruciata; la marina della Turchia sarà ridotta; l’Austria non può, come potenza marittima far contrapeso alla Francia; e l’Inghilterra, lontana per posizione da questo mare, mal potrebbe tenere in misura l'ingrossamento della marina di Francia, che ha tanto naturale predominio nell'Egitto, che ha riconquistata l’influenza morale nel mar Nero, e che tiene ancora un piede al centro d'Italia. Ecco il timore dell'Inghilterra, giusto e naturale se si riguarda l’ordinamento politico e l’artificiale equilibrio creato dal trattalo del 15 e tuttora esistente».

«Per virtù di quei trattati, anzi sin dal tempo in cui l'importanza del Mediterraneo fu stremata se non distrutta dal passaggio del Capo, l’Austria come potenza continentale al nocciuolo d'Europa è stata il centro, il perno dell’equilibrio Europeo. Sotto questo rapporte l’esistenza dell'Austria ha oggi è stata nell’interesse di tutti, perché si è ritenuta nell’interesse dell'equilibrio; rollo l’istmo, questo centro, questo punto non giova più a mantenere l’equilibrio, e dee per necessità di natura spostarsi; l’Austria continentale non può tare equilibrio alla Francia marittima nel Mediterraneo; l’Austria mezzo stava, non può infrenare gli straripamenti dello slavismo russo; la guerra presente (la guerra d’Oriente) non è stata che il preludio, l’annunzio di questo naturale spostamento di centro di equilibrio che cominciava a rivelarsi col crescere dei commerci d’Oriente e del mar Nero, e che diventerebbe evidente dopo il taglio dell’Istmo».

«L’Inghilterra quindi terne di questa impresa; il suo timore è ben fondato, finché dessa non si affida che all'opera artefiziale della diplomazia. Ma lasciamo che l’opera della nature liberamente proceda, e l’equilibrio Europeo, il centro perduto nell’Austria, lo troverà nell'Italia. Il risorgimento industriale e marittimo d’Italia diverrà il punto d'intersezione del nuovo movimento del mondo; e l'Italia ricca e potente servirà all'interesse di tutti meglio, che l'Austria non abbia fatto giammai».

«L'Italia sarà l’avanguardia delle razze latine che fermerà il cammino delle razze orientali, come per tanti secoli potè fermarlo una volta; l’Italia marittima tra la Francia e l’Inghilterra, farà contrappeso all'una e all'altra, e creerà per naturale equilibrio la neutralizzazione del Mediterraneo, ben più interessante al presente della neutralizzazione del mar Nero. Il taglio dell’istmo di Suez fa scendere la civiltà dal Nord verso il mezzogiorno, e il centro dell'oscillazione deve seguire questo abbassamento e scendere anch'esso dall'Austria nella grande penisola dei Mediterraneo. Far dell'Italia il campo delle loro guerre rinascenti ed eterne di armi e di diplomatiche influenze, o far dell'Italia ricca ed industriosa la forza equilibrante del mondo, ecco il problema che il luglio dell’istmo di Suez mette avanti agli uomini di Stato d’Europa. Che essi noi vedessero ancora, non farebbe meraviglia; tanto gli uomini di Stato sono piccoli e mediocri all’età nostra, e tante sono le preoccupazioni del momento, e gli interessi individuali e di famiglia che tarpano le ah alle grandi viste della politica! (pag. XX XXI.)»

Quanto non sono vane le speranze delle quali in questo discorso pasce sé e l’Italia il nostro esimio professore. — Siamo d’accordo che il taglio dell’istmo di Suez congiungerà e in un certo modo ravvicinerà le parti staccato del nostro emisfero, e che ne tirerà un grandissimo vantaggio non solo il di lui commercio, ma in riguardo all'Asia e all'Africa anche la di lui civiltà. E ammetto che esso gioverà non poco anche al commercio degli Stati—Uniti dell'America. Portandosi nelle Indie—orientali cioè a Bombay, pel Capo di Buona—Speranza, vi hanno, partendo da Costantinopoli leghe francesi di 25 al grado 6100, da Malta 5800, da Trieste 5960, da Marsiglia 5650, da Cadice 5200, da Londra 5850, da Pietroburgo 6550, da Nuova—York 6200; per Suez le dette cifre si ridurrebbero alle seguenti; 1800, 2062, 2340, 2374, 2224, 3100, 3700 e 3761. Sicché per Costantinopoli a meno, per Malta e per Trieste e sino per Marsiglia a poco più della metà. Il trasporto che ora Costa per termine medio 120 franchi la tonnellata, costerà passando per Suez soltanto franchi 72, e col costo del transito pel canale soltanto franchi 82. Mentre che un bastimento il quale parte ora da Londra per Bombay non rientra nel Tamigi se non in capo ad un anno; vi rientrerà andandovi e ritornandone per Suez in capo ad otto mesi; e farà in due anni tre viaggi, mentre che oggidì non né fa che due. Siamo su tutto ciò d'accordo, e ammetto anche come incontrastabile, essersi il progetto di canalizzazione bene istudiato, che la spesa dell'attuazione, 180 al più 200 milioni di franchi, non è esorbitante, se si pensa ai vantaggi che si attendono da quell'opera.

Ma i vantaggi del taglio dell'istmo di Suez saranno più mondiali che locali. Egli è un errore madornale il credere che la navigazione per Suez sarà nella necessità di toccare dei porti italiani. L'Italia—penisola e la Sicilia sono intieramente fuori di strada. La navigazione per Costantinopoli, per Odessa e per le bocche del Danubio, e cosi quella per Trieste e per Venezia non hanno nulla che fare coi porti italiani. Una occhiata che si dia ad una buona carte del Mediterraneo e delle sue diramazioni basta per convincersene. Lo stesso è il caso ton la navigazione per lo Stretto di Gibilterra e per l’Atlantico, lo stesso con quella per le coste spagnuole e francesi bagnate dal Mediterraneo, cioè per Alicante, per Barcellona, per Marsiglia. per Tolone e sino per Genova. Il centro e il porto per tutta la navigazione Ovest e Nordovest è Malta. — Essendo che la navigazione per Suez richiederà molto meno tempo che non richiede la navigazione pell’Atlantico, e che la navigazione a vapore non avrà a caricare tanto materiale da fuoco, egli è chiaro e manifesta, che la impiegherà meno legni pel trasporto delle merci, e che il taglio qui contemplato produrrà non un aumento, ma bensì una considerevole diminuzione nelle diverse marine finora impiegate al commercio con le Indie—orientali. Sia pure che il ribasso dei prezzi aumenti il consumo e con ciò la dimanda degli oggetti commerciati; ma siccome questi sono per lo più oggetti di lusso, il rapporta d’aumento non saprà mai pareggiare e tanto meno superare il rapporta di diminuzione. Aggiungasi essere più che probabile, che trattandosi di una navigazione non attraverso l’Atlantico, ma che può aver luogo anche di porta a porta e di costa a costa, vi prenderanno parte da Bombay sino a Suez anche le popolazioni indigene litorane con migliaja di barche di pochissimo costa, e non pertanto della portata di 100 tonnellate l’una. — Il naviglio che ora serve al commercio colle ludico-orientali si verserà, appena sarà aperto il canale di Suez nel Mediterraneo, ciò è certo; l'affluenza sarà però molto maggiore del bisogno, il che farà che fra le diverse marine, le quali finora si dividevano quel commercio, si produrrà non tanto una concorrenza e una lotta, quanta una guerra di vicendevole distruzione, nella quale le più deboli saranno inevitabilmente oppresse, e annichilate. Che sarà allora della marina italiana? Che progressi potrà essa fare? Ripetiamolo, il taglio dell'istmo di Suez produrrà una diminuzione, o giammai un aumento delle marine Europee in generale, e della marina italiana in particolare.

Questi sono i riflessi che si producono in chiunque considera senza preoccupazione il taglio dell'istmo di Suez dal punto di vista commerciale. Considerandolo dal punto di vista politico, esso non si presenta se non come un fomite di guerre atroci interminabili, che costeranno all'Europa fiumi di sangue. Fatto è, che il detto taglio sarebbe una strada promiscua all’Inghilterra e alla Francia. Or egli è impossibile che queste due nazioni, ivi in un si stretto e continuo contatto vi si evitino, non si urtino, non si avventino una sull’altra, che fra di esse non nascano infinite gare, collisioni e conflitti e finalmente una guerra che supererà nelle sue conseguenze tutte quelle che finora hanno avuto luogo fra l’Inghilterra e la Francia. Questa ha dai tempi di Luigi XIV gli occhi rivolti all'Egitto. Egli e notorio che la repubblica francese appena conchiusa e segnata la pace di Campoformio si disponeva ad assalire l’Inghilterra nell’Inghilterra stessa; ma che Napoleone Bonaparte la indusse invece ad impadronirsi dell’Egitto, sostenendo, non avervi per l'Inghilterra colpo più mortale che l'occupazione per parte della Francia del suddetto paese. (*) Questo medesimo pensiero si trova da Napoleone ammesso e sviluppato anche nelle Memorie da lui dettate nell’isola di Sant’Elena (Vol. IV. nota IX. p. 305.) Ciò che si è fatto da Napoleone Bonaparte nel 1798 non senza i maggiori pericoli d’incontrare per strada la flotta inglese allora padrona del Mediterraneo, si farà, con piena sicurezza e senza aver a temere una battaglia di Aboukir, comecché ogni senno politico dell’Europa n'è sfuggito, ed è andato a riporsi ove un di erasi ridotto quello del gran nipote di Carlo Magno, se non oggi o dimani, o il mese futuro, il giorno che Napoleone III dirà: si faccia.

Ma allora a che gioverà quella canalizzazione? È egli mai desiderabile che vi si ponga la mano innanzi che la guerra della Francia con l'Inghilterra pel dominio del Mediterraneo e pell’occupazione o conquista del Egitto sia terminata? Se la guerra fra la Francia e l’Inghilterra incominciata nel 1793, guerra che non aveva né da una parte né dall’altra per scopo verun ingrandimento, durò, con brevi intervalli ventidue anni, quanto dippiù non dovrà durare questa, che sarà un duello «à toute outrance?». Avrà l’italia il modo i mezzi, il tempo di approntare le flotte che avrebbero ad imporre la pace le due potenze belligeranti!? — Che risulta da tutto ciò? Risulta che il taglio dell’istmo di Suez non cangierà in nulla i destini d'Italia. L’attivazione del canale di Suez sarà precaria fin ch’è l’Inghilterra non sia esclusa dai Mediterraneo e dal mar Rosso, e finché la Francia non sarà la padrona, con l’esclusione dell’Inghilterra, dei detti mari. Ma i destini dell’Italia una volta che la Francia sia la sola padrona del Mediterraneo non dipenderanno più se non dalla Francia, e la di lei' relazione con questa potenza sarà non tanto una dipendenza, quanto un vero, deciso, e abbietto servaggio.

(*) Già nel 1672 rimetteva il grande Leibnitz a Luigi XIV una memoria nella quale, onde storaarlo dall'aggredire h Germania e l'Olanda, gli mette va in vista gl'immensi vantaggi che apporterebbe al commercio della Francia la conquista dell’Egitto. (Veg. in riguardo a questa memoria e alla spedizione d'Egitto condotta da Napoleone Bonaparte «l'Histoire de la Révolution française del Signor Thiers» Tome 9. liv. XXVIII verso la fine.

FINE.






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Nicola Zitara mi chiese diverse volte di cercare un testo di Samir Amin in cui is parlava di lui - l'ho sempre cercato ma non non sono mai riuscito a trovarlo in rete. Poi un giorno, per caso, mi imbattei in questo documento della https://www.persee.fr/ e mi resi conto che era sicuramente quello che mi era stato chiesto. Peccato, Nicola ne sarebbe stato molto felice. Lo passai ad alcuni amici, ora metto il link permanente sulle pagine del sito eleaml.org - Buona lettura!

Le développement inégal et la question nationale (Samir Amin)















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