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La rivoluzione napoletana del 1820-1821 tra "nazione napoletana" e "global liberalism" di Zenone di Elea

STORIE SEGRETE DELLE FAMIGLIE REALI 

MISTERI DELLA VITA INTIMA DEI BORBONI DI FRANCIA, DI SPAGNA, DI NAPOLI E SICILIA,
 E DELLA FAMIGLIA ABSBURGO-LORENA D’AUSTRIA E DI TOSCANA 

PER 

GIOVANNI LA-CECILIA 

VOL.I 

PALERMO

PRESSO SALVATORE DI-MARZO EDITORE

via Toledo num.179

1860

(se vuoi, scarica il testo in formato ODT o PDF)
CAPITOLO XLVII
CAPITOLO XLVIII
CAPITOLO XLIX
CAPITOLO L
CAPITOLO LI
CAPITOLO LII

CAPITOLO XLVII

SOMMARIO

Il governo tentenna — Gli ordini nuovi e gli ordini antichi si confondono — Murat moschettato al Pizzo per trama di Canosa — Biografia del Canosa — Divoto in apparenza, carnefice in realtà — La setta dei Calderari duce Canosa — Orribili disegni — Canosa non è più ministro di polizia — Non potendo far male esce dal regno — Gli scritti di Canosa — li giuramento dei Calderari —Atroci misfatti—Il dito di Dio — Murattisti e Borboniani — La medaglia di fedeltà Ferdinando racchiude in se il mistero della Trinità — Fu trino ed uno, ma spergiuro sempre — Cattive leggi— i Vardarelli grassatori indomabili — Trattato di pace tra i grassatori ed il governo — La pace è violata dal governo — Proditoria strage dei grassatori — Il re  si concorda col papa — Brutti resultamenti del Con-cor-dato — Ferdinando va a Roma a salutare il papa coi cinghiali e con la moglie — La satira di Pasquino — L’ex-re di Spagna si stabilisce a Napoli—Carlo e Ferdinando — L'amore fraterno — Come rispondesse il re  di Napoli all’affetto del germano — Carlo muore e Ferdinando si diverte a caccia —Carlo è sepolto e Ferdinando continua a dilettarsi — Stupore del legato inglese a tanto bestiale egoismo — La paura della morte — L’eremo di Capodimonte — Ferdinando pensa di farsi cappuccino — i gusti diversi di due re  francesi di Borbone — Gli ospiti imperiali — Francesco imperatore e Mettermeli visitano Napoli — Feste e profusioni — La congiura del generale Guglielmo Pepe — Vuol chiappare il re, l’imperatore e Metternich— Perchè fallisse il disegno — Necessità di vegliare alla riparazione delle strade se vuoisi che i principi viaggino — Le brutte bestie ed i papiri d’Ercolano— Ferdinando che non sa di greco e di latino preferisce le bestie che lo somigliano e cede i papiri — Era un contratto di cambio tra la piazza di Londra e quella di Napoli — Sensale del traffico fu l’ambasciatore Accourt — Riforme dei codici, buone e cattive — Governo mite, ma niun bene al paese — Era permesso di vivere e di sperar meglio — Dopo gli orrori della restaurazione del 1799 poteva dirsi che Ferdinando avesse mutato pelo e pelle.

Riordinavasi il regno tra l’oscillare de’ ministri che or all’antico sistema, or a’ nuovi ordini inclinavano, quando udivasi la nuova ad un sol tempo dello sbarco al Pizzo di Gioacchino Murat e della sua crudelissima morte, essendo stato giudicato quale oscuro cospiratore e condannato a morte dagli ufficiali del suo disciolto esercito e fucilalo nel castello nel medesimo giorno. Il principe di Canosa, allora ministro della polizia, tramò gli inganni, onde avere la desiata vittima e sollecitamente col telegrafo la fece immolare, onde impedire o che la pietà o l'intervento degli alleati salvassero quell’infelice più forsennato, che idoneo a conquistarsi il perduto regno.

Era il Canosa per antecedenti di vita tristo e nefando. Repubblicano nel 1799, offerse nel 1805 i suoi servigi alla casa di Borbone, e protestandosi devoto passò in Sicilia e di coli venne spedilo nell'isola di Ponza a regolare le congiure, i perversi disegni e tutte le scellerate mene, che disertarono ed insanguinarono il regno pel corso di dieci anni, dal 1805 al 1815.

Nell'isola di Ponza eravi un ergastolo, in cui detenevansi scellerati facinorosi. Canosa lo dischiuse, e con que’ galeotti e con altri pessimi inviali da Sicilia o attirali da Napoli ordì trame, ribellioni e delittie fu cagione di mille morii o da lui date o dall’avversa parte per vendetta e condanne. Mancò quasi materia al brigantaggio, e nell'anno 1810 Canosa non sazio tornò in Sicilia; ma trovando la corte amareggiala dagli Inglesi, indi a poco vide espulsa la regina, il

R. confinato ed il civile Tegumento rivolto a tale, che per Canosa non era luogo. i servigi di Ponza non altro gli frullarono che la promessa del ministero di polizia qualora piacesse ai cieli di renderò al legittimo

R. il trono di Napoli. Funesta promessa mantenuta nel 1815. Era bel regno la sella de' Calderari (1),che doveva por voti sostenere la monarchia dispotica, opprimere i carbonari, i liberi muratori, i murattiani, i liberali: ed erano calderari uomini malvagi che provienivano dalle disserrale prigioni ne’ tumulti del 1799, dall’anarchia di quell’anno, dal brigantaggio del decennio e dallo galere di Ponza e Pantelleria. molti in quindici anni o ne cimenti o per condanne furono morti, e pur troppo ne lasciò vivi 1ira della fortuna, i quali speravano, col ritorno de’ Borboni, trionfi e potere; ma respinti dalla politica si nascosero.

Di loro si fece capo e Io era il principe di Canosa, che divenuto ministro gli agitò co’ mezzi e nel segreto della setta; accrebbene il numero, distribuì patenti ed armi, diede comandi e consigli, attendeva all’opportunità di prorompere nella città e nella provincia al giorno istesso sulle setto nemiche.

E per avvincere l'animo del re, Canosa doppiamente adultero, sempre ubriaco di vino e di furore, esercitava con pompa tutte le pratiche della cristianità e religioso era tenuto dal Ree dal volgo. Meraviglia era a vederlo in chiesa genuflesso agli altari, mormorare preci e baciare sante reliquie; meraviglia era a vederlo in casa trattare opere inique sotto le immagini del Salvatore e de’ santi, e le sale ripiene di delatori e sicari e di confessori e frati che avevano fama di santità.

Ma tanta ipocrisia non ascose la malvagia trama; perciocché prima del preparato scoppio furti, omicidi, assassini si commettevano; le città di ribaldi, le campagne di grassatori erano ingombre, i carbonari offesi rioffendevano, erano minacciate le autorità, conculcate le leggi, la forza pubblica partecipante a’ delittio inefficace a frenarli. Del quale abisso civile cercate le cagioni e le trovale in Canosa, furono imprigionali gli emissari suoi in provincie, sorpresi i fogli, palesate le trame. più che della sofferta peste il popolo ne bestemmiava; perciocché tutte le avversità egli perdona al destino, nessuna agli uomini. Restava intanto ministro: alcuni consiglieri di stato e grandi della corte, gli ambasciatori d’Austria e di Russia pregavano il Rea discacciarlo, e quegli a stento, per altrui non per proprio consiglio, lo rivocò dal ministero lasciandolo ricco di stipendi. Volle il Canosa partire dal regno, tal uomo essendo che non poteva vivere nella sua patria che da tiranno. i moti civili durarono lungo tempo più lenti, più nascosi, non mai quietati, e i carbonari trionfando della stessa caduta crebbero di numero, di ardire, di forza, e si prepararono in silenzio ad irrompere pel trionfo della patria libertà.

Delle ire feroci che regnavano nelle provincie e della parzialità del restaurato governo citeremo due fatti narrati dal Colletta, vol. II.

«Nelle Piagine, torbido e popoloso villaggio della provincia di Salerno, vivea la famiglia Pugli, amante invero del cessato governo, ma onesta. Alcuni tristi del paese tornati di Sicilia, avidi di sangue e di prede, assaltano un giorno festivo quella casa, che chiamano dei giacobini, la spogliano e incendiano, e legando con funi tutti della famiglia di vario sesso ed età, gli traggono nella piazza. Fanno sollecito apparecchio di aride legna, in gran mole disposte in giro, e vi chiudono nel mezzo non meno di cinque della nemica casa. Accendono le cataste, e quando la fiamma si dilatava rovesciarono le materie sopra quei miseri, che vivi bruciavano, o se alcuno tra le fiamme si apriva un varco, vi era respinto. Quando i lamenti cessarono, indizio di morte, estinguono il fuoco, e fu visto fra le ceneri miserando cumulo di cadaveri in attitudini varie pietose; il prete Pugli aveva le braccia incrociate al petto;la donna per materno zelo, distesi a terra due teneri figliuoli, gli copriva del suo corpo, talché morti si rinvennero, ma non bruciati. Orrendo spettacolo!

I rei che stavano allegri e sicuri nel villaggio, furono imprigionati e condannati a morte dalla commissione militare di Salerno, e subito il difensore viene in Napoli, parla al re, rammenta fatti antichi di quei condannati (atrocità di brigantaggio, ma servigi a' Borboni), dice la distrutta famiglia devota a Murat, nemica del legittimo re, ottiene la implorata grazia e torna frettoloso in Salerno. Ma giustizia di Dio tanti ostacoli oppose al cammino, al parlare col re, al segnare il foglio, che giunse innanzi del rescritto l’ora fatale, ed undici condannati per mano del carnefice furono spenti. Il rene ebbe sdegno; punì alla cieca il presidente del tribunale militare e i comandanti della provincia e della divisione, ancorché suoi devoti.

In Reggio, città della Calabria, fu condannato a morte un tal Ronco malvagissimo, come il dimostra un solo che narrerò dei mille suoi misfatti commessi per molti anni da sbandito e brigante. Aveva moglie che lo seguiva ne’ cimenti del brigantaggio; ella incinse e si sgravò di un bambino, i cui vagiti apportando al padre tedio e periglio, egli crudele, l’uccise battendo l'innocentecapo ad un arbore. Alla quale vista la madre pianse di pietà e di orrore; ed egli, dalle lagrime prendendo sdegno e sospetto, scaricò le armi contro la misera donna e la distese morta sopra il cadavere del bambino; né abbandona già quel luogo, allo alla difesa ed alle rapine; sicché l'infame per molti di mangiai e dorme innanzi a’ corpiguasti ed insepolti del figlio e della moglie. Uomo cosi perverso ebbe dal regrazia di vita, in mercede di altri delitticommessi per le parti de’ Borboni.

Così di giorno in giorno scemavano le speranze concepite del nuovo governo e si desideravano nuovi mutamenti.

Le avversioni fra le due parli dell’esercito (i muratisti ed i borboniani) sempre più crescevano, stando per i secondi l’affetto del ree pei primi la politica del governo; amali gli uni e non pregiali, accarezzali gli altried abborriti, quel doppio infingimento mal si velava. La discordia ebbe un segno da che il rediede nuova medaglia che chiamò d'onorea tutt’i militari che ne’ dieci anni del dominio francese rimasero seco in Sicilia: era di bronzo, in una faccia coll’effigie del re, nell’altra con lo scritto costante attaccamento;una stella a quattro raggi la conteneva, sostenuta da nastro rosso: servì a dividere l’esercito.

Il reFerdinando IV si chiamò I, e quel solo cambiar di numero generò gravi mutamenti nello stato. Il congresso di Vienna riunendo in un regno le Due Sicilie (2), Ferdinando (IV in quello di Napoli, III nell’altro di Sicilia) fu primo nel regno unito, e con questo cambiar di numero il santo e pio recredè che fosse pienamente assolto dallo spergiuro: la costituzione di Sicilia aveva giurato Ferdinando IIInel 1812; quella medesima costituzione aboliva Ferdinando I, e i teologi e il confessore dicevano a sua maestà di riposare in pace con la coscienza, essendo dimostrato che le promesse di Ferdinando III non legassero Ferdinando I, bastando un numero romano mutato nell’istesso re per cancellare quanto aveva operato per l’innanzi: balorde sottigliezze scolastiche, che facevano del i e III Ferdinando un altro incomprensibile mistero dell’uno e trino:iniquità di preti che autorizzavano spergiuri di re.

Ildisgusto dei popoli serpeggiando in vario modo ne’ due regni, divenne indi a poco più grande per nuova legge sul tavoliere di Capitanata o per lo eccidio dei Vardarelli. Si coprivano di spighe quelle terre poco innanzi selvagge, apportando più che sperale ricchezze, allorché nuova legge turbò la santità degli acquisti, disordinò le industrie, pose vincoli alla libertà del possesso, impedì la francazionedelle servitù,-ravvivò le già spente. Avidità finanziera ne fu motivo; e poiché faceva onta il confessarlo, dicendo a pretesto che si voleva giovare alla pastorizia, fu destinata non poca parte di quelle immense terre a pastura vaga e nomade; così distruggendo il più grande benefizio della legge del 1806, quello d’introdurre nel regno l’uso e il bisognode’ pascoli artificiali. Non compete all’istoria l’analisi di una legge economica, e basti il palesare che quella in discorso ricondusse in Capitanata la sterilezza e la povertà. Ora diremo dei Vardarelli.

Gaetano Vardarelli, di servili natali, prima soldato, poi disertore dell’esercito di Murai, ricoverò in Sicilia, e di là per nuovi delitti fuggendo, ritornato nel regno, cercò salvezza, non dal perdono o dal nascondersi, ma combattendo brigante, felice in molti scontri, poi perseguito vivamente volse di nuovo a quell’isola, sperando che i travagli e le fortune del brigantaggio gl’impetrassero scusa degli antichi misfatti; né s’ingannò: lo tornarono alla milizia, divenne sergente nelle guardie e così ricomparve in Napoli nell'anno quindicesimo.

Ma non pago di mediocrefortuna e di posato vivere, cercando il malo ingegno opulenza e cimenti, disertò nell'anno istesso e si diede a scorrere, pubblico ladro, le campagne. Prodigo co’ poveri, avido e feroce co’ ricchi, ebbe compagni due suoi fratelli, tre congiunti, quaranta e più altri malvagi al pari di lui. Capo e tiranno di quella schiera, puniva i fatti con pene asprissime; la codardia, colla morte. tutti montati sopra cavalli, assalire velocemente, velocemente ritirarsi, camminar giorno e notte, apparire quasi al tempo istesso in lontano contrade, erano le arti che li facevano invitti, benché sempre inseguiti e spesso raggiunti da non pochi soldati napoletanie tedeschi. Acquistò Vardarelli tanto nome di valore o di fortuna, che ormai la plebe, scordando le nequizie, lo ammirava, e tanto più ch'ei davasi vanto (e forse Io era) di carbonaro.

Il ministro, sollecito di congedare l'esercito tedesco, era trattenuto dalla fortuna de’ Vardarelli e dal pensiero che una torma di assassini non sarebbe invincibile senza i segreti aiuti della setta, e che la setta vieppiù ardirebbe, avendo mano di armati apertamente ribelli, avventurosi e potenti. Spegnere quei tristi o soggettarli divenne interesse di governo; e poiché non si poteva abbatterli colla forza, si discese a quetarli coi trattali, e da pari a pari stipular atto che qui registriamo, acciò rimanga documento della debolezza del potere legittimo, fonte d’onde derivarono poco appresso altre sventure di maggior momento.

«Art. 1 Sarà concesso perdono ed oblio a’ misfatti de’ Vardarelli e loro seguaci.»

«Art. 2° La comitiva sarò mutata in squadriglia di armigeri.»

(Dicesi tra noi comitiva una banda di grassatori e squadriglia d'armigeri una piccola squadra di genti d'arme stipendiala dal governo a sostegno della pubblica tranquillità.)

«Art. 3° Lo stipendio del capo Gaetano Vardarelli sarà di ducati novanta al mese, di ognuno dei tre sotto-capi di ducati quarantacinque, di ogni armigero di ducati trenta. Sarà pagato anticipatamente ogni mese.»

(Erano paghe da colonnelli e da capitani)

«Art. 1°La suddetta squadriglia giurerà fede al re in mano di regio commissario; quindi obbedirà a’ generali, che comandano nelle provincie, e sarà destinala a perseguitare i pubblici malfattori in qualunque parie del regno.»

«Napoli 6 luglio 1817 »

«Il generale Carascosa.»

I Vardarelli giurarono, e mantenendo i patti spensero i grassatori che scorrevano la Capitanala; ma sospettosi del governo, chiamati a rassegna, si adunavano in aperta campagna; non venivano in città, benché comandali; prendevano alloggiamenti sempre vari, e parte dello stuolo vegliava in armi, mentre l’altra stava in riposo. Ed erano giusti quei sospetti; avvegnaché continui inganni tramava loro il governo, che volea purgare la ignominia di quella pace col tradimento; e difetti, salvi per lungo tempo dalle insidie, vi caddero. Andavano spesso in Ururi, piccolo villaggiodellePuglie, assicurati da numerosi amici e parenti; fra questi trovò il governo chi assumesse il carico di assassinarli. Un giorno la schiera giaceva spensierata sulla piazza, allorché partirono dai vicini edifizimolti colpi di archibugio o vi restarono morti Gaetano, i suoi due fratelli e sei dei maggiori compagni. Fuggirono i restanti sbigottiti. Era tra gli uccisori un tristo di Porlo Cannone, nemico ai Vardarelli, perché ne ebbe giovine sorella presa di forza e stuprala. Questi dopo l’eccidio, corse sopra i cadaveri, bagnò più volte le mani nel sangue di quei miseri, e sporcandone orrendamente il proprio viso coll'alto di lavarlo, si volse al molto popolo colà raccolto, e, ricordala la macchia dell’antica ingiuria, disse, indicandone il viso col dito: l'ho purgata.

Il governo promise vendetta dell’assassinio. Il generale Amato, che comandava nelle Puglie, mandò in cerca dei profughi (che pur Vardarelli onorandosi del nome, si chiamavano) e per lettere accertò elio il misfatto di Ururi sarebbe punito, che il trattato del 6 luglio reggeva intatto, che altro capo eleggessero. Erano trentanovequei tristi; scompigliati, intimiditi, creduli alcuni, altri confidenti, ed in molti serpeva l’ambiziosa speranza di esser primo. Restarono cheti, ma più guardinghi. Una squadra di soldati andò in Ururi; degli amici altri furono imprigionali ed altri fuggiaschi: si ordinò il giudizio, si fece pompa di severità.

Dopo le quali apparenze il generale chiamò a rassegna i Vardarelli nella città di. Foggia, promise di eleggere a voli loro il capo e i sotto-capi della squadriglia; od eglino dopo varie sentenze, si recarono al destinalo loco; fuorché otto contumaci all’invito. Era giorno di festa: la piazza scelta per la rassegna slava ingombra di curiosi, quando vi giunsero i Vardarelli, gridando: viro ilre, ed avendo spiegalo solennissime a modo loro vesti ed arredi. Il generale dal balcone faceva col sorriso cenni di compiacenza; e il colonnello Sivo, disposti in fila quei trentuno, gli rassegnava; e lodando la bellezza ora dell’uomo, ora dei cavallo, Tacca dimando, scriveva note; dall’alto il generale anch’egli con loro conversava; infine il colonnello si recò a lui, e credevasi, per la scelta dei capi: restarono i Vardarelli in piedi, ciascuno innanzi al suo cavallo. Per due ore furono tenuti a rassegna, nel qual tempo lo squadre napoletane avevano di nascosto circondata la piazza, ed attendevano il convenuto segnalo a prorompere.

Levossi il berretto il generalo Amato (era questo il segno), e ad un tratto avanzarono le colonne colle armi in pugno, e gridando: arrendeteci.Si aprono le affollalo genti e s’incalzano; i Vardarelli frettolosamente montano sopra i cavalli; ed allora le prime file dei soldati scaricano le armi, nove dei Vardarelli cadono estinti, due s'aprono un varco e dileguansi; gli altri venti, atterriti, abbandonano i cavalli; fuggono confusamente in un grande e vecchio edilizioch'era alle spalle. La fama del loro coraggio e la disperazione che lo accresceva, ritiene i soldati dallo inseguirli; accerchiano però l’edifizio, spiano, non veggono uomo, né segno di fuga, entrano a folla le guardie, ricercano vanamente ogni loco; stavano maravigliate ed incerte, quando dallo spiraglio di una cava usci colpo che andò a vuoto, un altro soldato che vi si allacciò per altro colpo fu spento: erano i Vardarelli in quella fossa. Vi gettano i soldati in gran copia e per lungo tempo materie accese; non esce da quell’inferno un lamento o sospiro; ma più crescevano il fuoco e il fumo. Si udirono contemporanei due colpi, e poi soppesi che partirono dalle armi dei due fratelli, che dopo {ili estremi abbracciamenti, a vicenda si uccisero: si arrenderono gli altri diciassette, un ultimo si trovò morto ed arso.

Informato il governo, comandò che gli arresi fossero messi in giudizio per aver mancalo alla convenzione del 6 luglio; e però in un giorno del maggio 1818 furono dal tribunale militare giudicati, condannati e posti a morte. Gli altri dicci, ancora fuggiaschi, in vario modo, in vari tempi furono distrutti; si spense affatto quella trista gente, non in buona guerra, dove tante volle Tu vincitrice, ma per tradimenti ed inganni: cosicché nel popolo i nomi loro e le gesta sono ancora raccontale con lode o pietà.1 già imprigionali di Ururi tornarono liberi e premiali. Delle malvagità dei Vardarelli altra ed alla malvagità fu puniti ice; ne venne al governo pubblico vituperio; che non si onesta il tradimento perchè cada su i traditori (Colletta, Storia di Napoli,vol. II.).

In settembre 1817 e gennaio 1818 fu assegnato il pagamento di cinque milioni di franchi al principe Eugenio Beauharnais, in ricompensa dei beni da lui perduti in Italia, nei domini che occupò l'Austrial’anno 1814, per noi servile omaggio ai voleri delta santa alleanza ed all’affetto indiscreto che portava al già viceré l’imperatore Alessandro.

Nell'anno istesso 1818 fu concordata con tutte le corti europee l’abolizione dello albinaggio, nato nell’antichità quando Io straniero era tenuto barbaro e nemico, perciò universale in Europa; oggi, per migliori costumi, universalmente rivocato.

Nel dicembre 1819 si fece trattato col Portogallo, cagione di scandalo e sdegno pubblico. Le galere di pena chiudevano esorbitante numero di condannati, amaro frullo de’ continui sconvolgimenti del regno e della corruttela dei tempi, peso alla finanza, cura e pericolo alla polizia. Fu convenuto dare al Portogallo, per trasportarli a Rio-Janeiro, i condannati a vita, e dipoi gli afflitti di pene a tempo, e perfino coloro che ne avevano tollerato gran parte. i commissari del Portogallo, rifiutando i vecchi, gli storpi, gliinfermi ricercavano la sana gioventù come più valente a’ servili lavori.11 governo vantava di pietà per aver fatti liberi i prigioni, benché in altro emisfero; ma il sociale patto (che pure alcuno ve neha coi delinquenti) riprovava quell’atto, ed un segreto sentimento di umanitàlo rendeva abbominevole: dicevasi che, vietala nel mondo la tratta infame degli schiavi, sì vedevano in Napoli uomini, nati liberi, andare a schiavitù, e, per sordido risparmio, dati in dono.

Altri trattali si fermarono colla Russia, la Sardegna, la Santa Sede, che io non rammemoro, perchè di lieve passaggieromomento, e il desiderio mi spinge a narrare le cagioni e gli effetti del concordato (Colletta, tom. II, pag.214.).

Convennero in Terracinacol cardinale Consalvi, e fermarono il trattalo, del quale sono queste le parti degne di memoria:

Riordinamento delle diocesi; erano i vescovi centotrentadue, poi ridotti per vacanze non provviste a quarantatré, oggi saliti a centonove.

Riconoscimento delle vendite dei beni ecclesiastici, seguite ne’ regni di Ferdinando, Giuseppe e Gioacchino. i beni non ancora venduti restituirsi.

Ristabilimento dei conventi nel maggior numero che si possa, avuto riguardo alla quantità de’ beni restituiti ed alle assegnazioni possibili alla finanza.

Diritto di nuovi acquisti alla chiesa.

Divieto al presente re ed a’ successori di mai disporre de’ possessi ecclesiastici: oggi, vieppiù, dichiarali e riconosciuti sacri, inviolabili.

Annuo pagamento a Roma di ducali dodicimila sopra le rendite dei vescovati napoletani.

Ristabilimento del foro ecclesiastico per le discipline de’ chierici e delle cause (benché fra i laici), che chiamò ecclesiastiche il Tridentino Concilio.

Facoltà di censura ne’ vescovi contro qualunquetrasgredisse le leggi ecclesiastiche ed i sacri canoni.

Libero ai vescovi comunicare co’ popoli, libero corrispondere col papa, concesso ad ognuno ricorrere alla corte romana; i divieti del liceatscribererivocati.

Facoltà pe’ vescovi d’impedire la stampa o la pubblicità de’ libri giudicali contrari alle sacre dottrine.

Dato al reproporre i vescovi, riserbato al pontefice il diritto di scrutinio e consacrazione.

Prescritto il giuramento de' vescovi, ed era:

«Io giuro e prometto sopra i santi evangeli obbedienza e fedeltà alla real maestà. Parimente prometto che io non avrò alcuna adunanza, né conserverò dentro o fuori del regno alcuna sospetta unione che noccia alla pubblica tranquillità. E se tanto nella mia diocesi, che altrove saprò che alcuna cosa si tratti a danno dello stato, la manifesterò a sua maestà (3).Fu questo il concordato del 16 febbraio 1818. Roma avvantaggiò, e della nostra parte il decoro del re, il bene dei popoli, lo sforzo di cento ingegni, i progressi filosofici di cento anni perirono in un giorno per la inerzia di un re e l'ambizione di un suo ministro. Discorriamone gli effetti. Spiacque a’ sapienti per quel che ho detto ed ai luridi cattolici perchè credettero fuggito il momento nel quale la romana curia poteva risalire all'altezza dei tempi di Gregorio VII. Furono riaperti gli oziosi conventi, i già religiosi ripugnano di tornare alle regole conventuali; ma li costringeva fanatismo di pochi ed autorità del governo. Ed il popolo, ridendo di quelle fogge ormai viete rammentava (a vederli camuffati ed austeri) le poco innanzi esercitale disonestà. Numerose missioni uscirono da’ nuovi conventi, con effetto contrario alle speranze; perciocché non ascoltate o derise tornavano.

Un guardiano di frati notò di censura un capitano delle milizie civili, franco e licenzioso nelle pratiche di religione, onesto nelle civili: e poiché non mutò vita ed anche indarno gli fu interdetta la comunione dei fedeli, quel frate, messo a bruno l'altare, in giorno festivo, a voce altissima pronunziò l'anatema. Sia che il capitano avesse amici nel popolo, sia che il tempo degli anatemi fosse passato, i popolani a tumulto minacciarono il guardiano e l’uccidevano se il capitano istesso pregando e minacciando la plebe, noi difendeva. Quegli fu padre Ambrogio di Altavilla, traslocato, in pena di quello scandalo, ad altro convento; il capitano Salali rimastoin impiego e lodato della generosa difesa, il paese Gioinel Cilento l’anno 1819.

«Finalmente (né altro dirò, perchè molte carte riempirei se tutti narrar volessi i mali effetti del concordato) il giuramento de(9)vescovi eccitando sospetti che le cose religiosamente confessate fossero rivelate al governo, i settari, i liberali, i nemici dei potentie i potenti trasandavano la confessione, a detrimento de’ principi e degl’interessi de(1)due sovrani che si concordarono. Intendevano all’adempimento delle stabilite cose il marchese Tornasi per le nostre parti, il vescovo Giustiniani per le parti di Roma; l’uno e l’altro per autorità e per animo assai da meno del tribunale misto, nominato da Carlo nel concordato del 1741. Ildelegato della giurisdizione non fu rifatto; mancò dall’ora innanzi chi vegliasse alle ragioni della corona e dello stato (Colletta, Storia di Napoli,vol. II.).»

Il Reandò a Roma per inchinare il papa, aver onore del concordato e benedizioni; portò seco la moglie (4), piccolo corteggio, nessuna pompa, ma nello stretto numero dei seguaci pur volle Casacciello, buffo napoletano, che sulle scene di Roma non piacque; perciocché il ridere non avendo, come il pianto, immutabile cagione nella natura degli eventi, prende misura dai luoghi e tempi, sì che piangiamo ancora dei mesti casi di Germanico e di Agrippina; ma nessun labbro moverebbero a riso le facezie degli Osci.

E però i motti di Casacciello fastidivano i romani uditori, e fra tanta pubblica noia il solo ridere del regli accrebbe fama di gottazza (Colletta vol. IL).

Ritornò il re, e seco venne il fratello Carlo IV, sovrano per venti anni delle Spagne, e confinato a Roma dopo i rivolgimenti del suo regno, né tornato alla potenza e alle fortune per la caduta del nemico e l'innalzamento del figlio. Era stato in Napoli poco innanzi a diporto, dicevasi che ora venisse a permanenza. i due refratelli davano segni di vicendevole amore; e il pubblico ammirava quella, in cuor dei potenti, rara dolcezza di domestici affetti. Il duca di Calabria, indi a poco andò a Roma, trovò inferma la regina di Spagna, e, vistone il fine, acceleròil ritorno in Napoli.

Al terminare di quell’anno istesso, il remortalmente ammalò; e Carlo gli fece assistenza tenera e zelante. Palpitarono a quel pericolo i Napoletani più accorti, per sospetto che il figlio mutasse in peggio gli ordini civili; giacché tenuto proclive a] male, avverso alle blandizie di governo, intimo amico al Canosa. E dirò cosa non credibile ma vera, i ministri del morente laceravano la fama del successore. Ma quei guari ed ebbe feste sacre e civiche, dove i migliori ingegni rappresentaronol’universale contento con rime e prose in grosso volume raccolte. Il re si diceva grato a quei voli pubblici, i ministri divulgavano che in breve farebbe cosa grata ai liberali; i liberali, fra le mille possibili felicità, fermarono il pensiero e le speranze nella costituzione, quando si udì che Ferdinando avea fatto recidere la coda de’ suoi capelli a segno di documento de’ mutali principi. Qui rammento come ho riferito che la recisione della coda,nel 1799, fu indizio di giacobinismo per la plebaglia, ed argomento a colpa nei giudizi della giunta di stato; cosicché quella moda o vaghezza, che allora generò eccidi e pene, oggi per il taglio delle chiome regie suscitò non contentezza e non riso, ma dolorosi ricordi (Colletta, vol. II).

Poco appresso infermò Carlo IV, e il re n’ebbe avviso frettoloso, stando in Persano a diporto di caccia; ma troppo dedito a que’ piaceri, o confidando nella guarigione, non tornò alla città: Carlo sollecitò il fratello, ne dimandava a circostanti, che per confortare quell’ansietà di morte accertavano il ritorno del re; ma questi, per altre lettere, per altri messi avvisato e fastidito, comandò che non si aprisse un foglio allora giunto e non gli si parlasse del fratello prima della tornata da una caccia pronta per l’indomani e sperata dilettevole dall'abbondanza dei cignali e cervi da uccidere. Si obbedisce al comando. Venuti dalla caccia ed aperto il trattenuto foglio, fu letto esser Carlo agli estremi della vita, e forzare il debole fiato dell’agonia per richiedere del fratello. Disse Ferdinando: a A quest’ora egli è dunque trapassato, io giungerei tardo ed inutile; aspetterò altri avvisi. Subito vennero e recarono che Carlo era morto; e poiché lo arrestarsi a Perdano per diporto faceva pubblico scandalo, il Repassò a Portici. La storia di Spagna dirà di Carlo IV l’indole e i casi; ma spelta a noi rammentare che nacque in Napoli l’anno 1748; che ne parli con Carlo suo padre nel 1759; che nella infanzia fu gradito, perchè lieto e carezzevole, nell’ultimo della vita buon fratello a Ferdinando, buono amico ai cortigiani che seco trasse di Spagna, e buon ospite renella reggia straniera, che mori serenamente nei 19 gennaio 1819.

Si fecero le esequie al sesto dì dopo la morte, serbando le ridevoli cerimonie spagnuole: cosicché da sei giorni era spento il re, ma si fingeva che vivesse, mangiasse, comandasse; chiudendo il cadavere nella tomba, tre volte era chiamato a nome, tre volle scosso e pregato a rispondere, onde paresse che per suo talento si partiva dal mondo, non soffrendo la regale superbia ch'egli cedesse al fato universale. Le spoglie, prima deposte nella chiesa di Santa Chiara, dove Inumo tomba i re di Napoli, furono poi trasportate nella Spagna. Mentre i funerali si celebravano, il reFerdinando andò da Portici a Carditello per nuova caccia; e facendo invitare la sera innanzi per averlo compagno il ministro d’Inghilterra, sir Villiam Accourt, n’ebbe risposta, che pietose auguste cerimonie (tacendo il nome) impedivano di accettare il grazioso invito. E nel dimani, stando l’Accourt in chiesa ad ascoltare le lodi del defunto, il recon altro foglio, nella chiesa diretto, gli diceva che sbrigato dai funerali di Carlo il raggiungesse a Carditello. L’inglese, maravigliando, si recò all’invito, e poi disse che il re fu allegro più che non mai ed avventuroso alla caccia.

Ma nei giorni che succederono senti l’animo agitalo dal timore della morte; perocchévisto spento il fratello, rammentò che i Borboni della sua stirpe i più longevi intorno a settant’anni di vita morirono, ed egli era nel sessantanovesimo. Ricorrendo alla religione, volò un eremo di frati cappuccini, che in breve tempo cretto nel mezzo del bosco di Capodimonteprossimamente alla reggia, ricetterà il re in una delle celle a lui serbala, quando, stanco di regno, si ritiri dal mondo. Quel bosco istesso volea mutare Gioacchino in caccia da corsa e torneo, e poco innanzi Giuseppe in orti ameni e lascivi. Indizio dell’animo dei resono le opere di privato diletto; spesso più dei fatti pubblici composti ad apparenza o a necessità.

Nell’anno 1819 andava in Napoli a diporto ed a pompa l’imperatore d’Austria Francesco i accompagnalo dalla moglie, da una figliuola e dal principe Metternich.Visitarono gli ameni luoghi che circondano la capitale, visitarono Salerno e indi si proponevano col re e con Nugent di passare per le strade interne in Avellino, ed jl ministro della guerra ne avvertiva il generale Pepe, che nelle sue memorie accenna ad un progetto che se fosse riuscito utilissimo all’Italia addiveniva. Ecco coinè parla il Pepe nelle sue memorie (pag.352):

«Mi giunse un dispaccio del ministro della guerra in cui mi prescrisse di riunire pollo spazio di tre giorni in Avellino i militi di quella provincia, che ascendevano p cinquemila, per essere passali in rassegna dal ree dall’imperatore d’Austria. Quei sovrani (diceva il dispaccio) dovevano essere accompagnali dall’imperatrice, dal principe di Metternich, da Medici e dallo stesso ministro della guerra Nugent.

«Prima che avessi terminato di leggere la lettera del ministro divenni febbricitante moralmente e fisicamente. Mi parve di aver sotto gli occhi l’Italia da Trapani all’Alpi. Decisi di arrestare il re, l’imperatore, l'imperatrice, Metternich, Medici e Nugent; di confidarne la custodia a cento ufficiali e sott’ufficiali, militi, tutti gran maestri carbonari, e di farli partire per Melfi nella Basilicata seguiti da mille militi, mentre gli altri quattromila della provincia d’Avellino ed i cinquemila di Capitanata insieme a due battaglioni di linea che trovavansi in Avellino e ad un reggimento di cavalleria stanzialo in Foggia, avrebbero formalo un campo intorno Melfi ben lungi dai due mari. È superfluo ell' io narri quali cose io sperava da tanta cattura; ma non credo vi possa esser lettore il quale non sia persuaso che da essa fossero per risultare conseguenze importantissime ed utili non solo per le Due Sicilie; ma bensì per malia tutta. Il ree l’imperatore erano talmente timidi che avrebbero conceduto ogni cosa...

«Durante i tre giorni che io attesi l’arrivo de’ sovrani non chiusi gli occhi, nò feci partecipe alcuno delle mie intenzioni come cosa rischiosa e affatto inutile, perchè ero sicurissimo che sarei stato ubbidito. i cinquemila militi e due battaglioni di linea erano schierati sulla gran piazza di Avellino e i miei cavalli tenevansi sellati allorché giunse un dispaccio per avvertirmi che il ree l’imperatore non potevano venire a causa del pessimo stato della strada interna da Salerno ad Avellino.

«Così mancò, aggiunge il Pepe, una grande impresa che avrebbe potuto cambiare lo stato d’Italia sin dal 1819. »

Ferdinando prodigò tesori in quella circostanza a Metterniched a’ ministri napoletani. Nominò quello duca di Portella, arricchì questi, o finalmente comprò pella principessa di Partanna segreta sua consorte una villa sul Vomero, che (dice il Colletta, pag.222, vol. Il) vent'anni prima un tal Lutò favorito della regina Carolina d’Austria aveva fabbricata e dicevasi per le segrete lascivie di lei, fu comprata ed ingrandita dal ministro Saliceti, e poi dagli eredi venduta al re che la donò alla moglie chiamandola dal titolo di lei Floridia. Vi aggiunse altre terre, altri edilizie con prodiga mano tutti que’ luoghi abbellì: vi si alimentavano per lussuriante grandezza i gangarou, animali dell'America, per deformità singolari, camminando spesso sulle zampe anteriori, e la coda lunga e ravvolta; e per pattuito prezzo di diciottocosi oscene bestie, furono dati all’Inghilterra altrettanti papiri non ancora svolti dell’Ercolano, trattando quel cambio sir Villiam Accourt migliorò il codice penale nella gradazione delle pene e coll’abolirsi del marchio, barbara pena, e della confisca, iniqua sanzione; ma si crearono delitti di lesa maestà divina e furono puniti aspramente quasi giungesse a Dio l'umana bestemmia e l'offendesse. Si tolsero i piccoli arbitri ai giudici.

II procedimento penale fu peggiorato. L’antica speranza del giurì venne delusa, la facoltà d'imprigionare per mandato di accompagnamento confermata; i giudici dell’accusa lo furono anche del giudizio; i casi portanti a cassazione furono ristretti; la condizione dell'incolpato, già trista, divenne tristissima. Il governo volle abbassare F autorità del magistrato supremo, saldo sostegno di libertà, perchè base della indipendenza delle leggi.

Il codice militare detto statuto comprendeva molti pregi e molti errori delle antiche istituzioni, annoverandosi tra le pene le battiture, e non facendo distinzione alcuna tra’ delitti di diserzione e di violati doveri militari in tempo di guerra ed in tempo di pace.

Il codice civile rimase qual era; ma si abolì il divorzio e fu permesso nelle civili contrattazioni il volontario imprigionamento tenendosi a vile la personale libertà.

Da quanto rapidamente narrammo la restaurazione borboniana procedeva piuttosto r mite in confronto de’ decorsi tempi di cui narrammo le nefandizie e gli orrori; però il governo mostravasi poco intelligente nel dirigere la gran macchina dello stato e spesso l’arbitrio de’ ministri distruggeva ogni bene: eran depresse le industrie, poco esteso il commercio, gravose le tasse, non migliorata l'agricoltura, non curato l'esercito, negletta alquanto la pubblica istruzione, e la sciocca superstizione del retrovando imitatrici le classi povere ed ignoranti non di religione e di morale era feconda; ma di riti e di usanze balorde, che ricordavano le festività del paganesimo e falsavano le coscienze de’ villani e de’ miseri lazzari.

Felice il paese se avesse potuto in questa guisa vegetare sotto la nemica stirpe de’ Borboni; ma altre tempeste si avvicinavano e più nefande vicissitudini dovremo raccontare.


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CAPITOLO XLVIII

SOMMARIO

I Rivelli tornano sulla scena — Ingratitudine di re Ferdinando verso il fratello di (alte — Perversità dei germani Rivolli — Un nuovo matrimonio di Gennaro — È nuovamente tradito dalla consorte — Era nato sotto una costellazione nefasta pei mariti — Un fratello prima, cd ora il figlio Gabriele — Povero Gennaro! — L’avvelenamento — Amore di gemelli — L’uomo è una pessima bestia — Il quadro dal velo nero —Un segreto terribile — Raffaele c Gabriele non erano i figli di Gennaro — La vendetta — Il parricidio fallito — Generosità paterna e le lagrime di una donna — Nuovi disegni di misfatto — Il parricidio consumato — Chi uccide c talvolta ucciso — Due pesi e due misure pei cattivi re c malvagi uomini — i privilegiali della terra lo sono anche in ciclo—1 giudizi — Una donna sfacciata —Le condanne.

Scomparsi dalla scena politica i Rivelli, vi ricomparvero di nuovo; Gennaro per rivedere il suo re, i figli suoi per ispavenlare con tremendi misfatti il paese: quello però usciva dalla reggia cupo e mal soddisfatto del suo germano di latte; questi sapendo che non fosse più favorito dal re ricominciarono le liti, e pei crediti della pingue dote materna s’impossessarono del palazzo del Vallo; mentre il padre loro ritirossi nella città di Campagna, ove era passato a secondi voti con Luigia 0.... anch’essa nobile, avvenente e giovanissima.

Il re, o fosse disgusto di mancalo tiro alla caccia, o sentisse noia dei tanti suoi fedeli che lo importunavano, nel vedere Gennaro Rivelli gridò con burberi modi a lui familiarissimi:

— Che vuoi? Impiego non posso più accordarne ad alcuno. Medici me l’ha proibito col dirmi che io non conoscessi i birbanti, e Medici ha ragione. Dunque puoi andartene come sei venuto: — egli girò le spalle.

Una lagrima di fortissimo dispetto scese sulla gola del compagno di Fra Diavolo; tentò di rispondere, senti un nodo alla strozza, e partìdalla regale dimora bestemmiando l'ingratitudine dei Borboni.

Ritornato in Campagna presso la moglie ne fu malamente accolto; imperocché la sconsigliata avesse impalmato ilrozzo, vecchio e scellerato Rivelli per cupidigia di ricchezze e vanitoso desiderio di brillare alla corte.

Gabriele e Raffaele, i tristi gemelli, ereditando gli odi del defunto sacerdote, scelsero altresì il campo politico opposto al padre loro, si fecero iniziare nella Carboneria e sperarono nei tumulti, chela setta preconizzava di compiere, l'atrocevendetta che meditavano.

Nuove vicende di famiglia affrettarono la catastrofe.

Il Gabriele debole, ma più mite del germano, attirato in Campagna nella casa della matrigna innamorossene, fu corrisposto e disonesti legami avvinsero tra loro la matrigna ed il figliuolo. Raffaele Rivelli aveva spinto il germano a quelle turpitudini, e poi palesandole con gli amici, aggiungeva: è questo il primo alto della nostra vendetta.

Gabriele pazzamente innamorato, la donna scaltramente operando, crescevano per entrambi i desideri di non lasciarsi un istante, e voti sacrileghi e colpevoli speranzealimentavano sulla vicina morte d'un padre e d'un marito! La famiglia Rivelli sembrava che dovesse emulare i miseri fati della stirpe di Tieste e di Alceo, che spaventano leggendosi nelle antiche storie, e fanno inumidire il ciglio se rappresentansi sulle drammatiche scene.

L'amante cedendo all’impeto dei suoi affetti aveva preso stanza nella casa del padre e falla una donazione di quanto possedeva all’amata matrigna: vivevano felici sotto i istesso tetto (se felicità e non rimorso avvi nella colpa), quando Raffaele Rivelli come l'ombra d’un malvagio genio apparve a turbare ogni gioia. Finto ed accorto finse di voler anch’esso accostarsi alpadre, di far lacere gli odi antichi, fu accolto, ma sedendo a mensa, e profittando della consueta abitudine del padre che inebriavasi, lo spinse a raccontare 1' uccisione della propria genitrice e tutti gli altri misfatti che lo scellerato aveva commessi nel periodo del 1799 e ne’ boschi della Calabria, e quando la confessione fu compiuta spense i lumi, rovesciò la mensa, gridò assassino morrai, cd afferralo pel braccio il fratello Gabriele usci dalla casa lasciando tramortita e svenuta la matrigna, che inorridiva del proprio consorte c piangeva il perduto amante.

Partirono i due gemelli pel Vallo, conciossiachéRaffaele spiegando tutta la forza dell’ascendenteche aveva sui Gabriele, lo trasse quasi suo malgrado a seguirlo ed a rinunciare pel momento ai tristi amori della matrigna. Giunti nella loro dimora del Vallo scrissero affettuosa lettera a Gennaro Rivelli e lo invitarono a recarsi nel proprio domicilio, onde finire le vertenze giuridiche e viversene «come devono» in pace i figli col genitore.

Gennaro confidente e sicuro credette ai benevoli sensi de’ figliuoli e partì pel Vallo; ma non appena varcava la soglia della casa, Raffaele faceva un segno e Gabriele lasciava cadere sui padre un grossissimo mortaio di marmo: stramazzava Gennaroferito alla spalla, ma non spento come avevano designato i malvagi figliuoli.

Cominciarono procedure criminali, furono imprigionali i due germani; ma poscia cedendo il Gennaro a’ consigli cd alle lagrime della consorte, che volle ad ogni costo salvare il suo amante, presentava a’ magistrati la discolpa, scusava i figli, diceva che fosse stato azzardo e non colpa l'accidentale caduta del mortaio, e faceva aprire le porte del carcere ai traviati. Gabriele tornava accanto alla matrigna e Raffaele restituitasi nel Vallo. Decorsi però pochi giorni strani sintomi di morbo apparvero nel Gabriele: tremiti convulsi l’assalivano, dolori spasmodici risentiva in tutta la persona e fiamme nello stomaco e vertigini al capo. Chiamarono i medici e questi nulla compresero della strana malattia, ne avvisarono Raffaeleche aveva fama di buon medico, ed egli accorrendo promise al fratello di guarirlo se ritornasse seco nel Vallo. Accettava il Gabriele e partiva; ma quando a poco a poco rimettevasi, il terribile germano gli apparve innanti un mattino col sorriso sulle labbra e freddamente a lui disse:

— Tu donasti ogni tuo avere alla vezzosa matrigna, poco a me importerebbe; ma dei tuoi beni approfittasi il nostro nemico, l’assassino di nostra madre. Tu dimenticasti il giuramento prestato al moribondo zio ed io dimenticai che nascemmo fratelli. Sappi che la tua malattia deriva da veleno, che io ti propinai; e siccome io solo ne conosco la specie, la potenza e gli effetti che deve produrre, io solo posso amministrarli gli antidoti e salvarli. —

Gabriele cacciava il capo nelle coltri e dirottamente piangeva. Lo spavento, l'orrore distruggevano in lui ogni altro sentimento, e Raffaele continuando a sorridere riprendeva:

— Che tu voglia piangere ai piedi della matrigna sta bene; ma a me dinanzi dovresti ricordare d'esser uomo e di agire a norma di un vendicatore lo prometto di guarirti fra pochi giorni e tu annulla la donazione che facesti alla matrigna e giura di nuovo di obbedirmi. Scegli: la tua morte e la tua vita stanno nelle mie mani — e Gabriele sempre lagrimando rispondeva con fiochi accenti:

— Farò quel che tu dici, venga il notaio —

Nel giorno si compirono gli alti e dopo due settimane Gabriele fu libero dal morbo; ma se riacquistato aveva la salute perduti furono per lui gli affetti della matrigna, che oltraggiata dalla rivocata donazione, disprezzava e rifuggiva dall'uomo che aveva amato, ignorando a quali circostanze avesse ceduto l'infelice Gabriele.

Intanto le liti con più vigore tra il padre ed i figliuoli erano spinte a Salerno; le procedure, i libelli, le sentenze tenevano occupati i due gemelli; e comeche le spese cd i viaggi assottigliassero sempre più il loro patrimonio, Raffaele propose al germano cupi e tenebrosi disegni che dovevano a suo avviso troncare ogni piato e ridare ad essi la calma e la ricchezza; ma Gabriele per fiacchezza d'animo respingendo i progetti del fratello, questi per vincere la di lui reticenza ricorse a stranissima fantasmagoria.

A mezzanotte del 14 gennaio 1817 presentossi vicino al letto ove dormiva il germano, e svegliandolo gli ordinò di vestirsi e seguirlo: ubbidì tra la sorpresa e la paura, traversarono parecchie stanze e nella più remota arrivati vide il peritante ed angosciato Gabriele spaventoso apparato. Erano coperte le pareti di panno nero, molti ceri sfolgoravano vivissima luce nei doppieri d'argento. Su d'un tavolo vedevasi un pacco chiuso e garantito da tre neri sigilli e nel centro della parete pendeva un quadro coperto eziandio di velo nero (5). Sul pacco leggevasi l’epigrafe: quando l'odio terso Gennaro Rivelli cominciasse ad affievolirsi nei miei nipoti, ordino ad essi di rompere i sigilli di questo foglio e leggerne il contenuto.

Arrivati nella stanza Raffaele ne sprangava l’uscio e strappava il velo dal quadro, e la faccia pallida e magra del defunto sacerdote Lorenzo Rivelli accresceva i (errori del Gabriele, che fra quei lugubri panneggiamenti a quell'ora iarda della notte, quando la fantasia degli uomini deboli popola la terra di fantasmi e di ombre, credeva di vedere lo spettro dello zio che fieramente lo minacciasse: tramortito, affranto dimandò con fioca voce al germano la causa, la ragione di cosi strano apparecchio, e questi pria gli faceva ripetere l’epigrafe del foglio e poi rotti i sigilli leggeva la seguente dichiarazione dell'estinto:

«Giuro innanzi a Dio e nell’estremo momento di trapassare, che i due gemelli Gabriele e Raffaele Rivelli non furono generati da Gennaro Rivelli; ma da me, che sempre li considerai e considero come miei figliuoli.

«Questa confessione che io fo sul letto di morte servirà per rimuovere ogni ostacolo di filiale dovere che potesse affralire in Gabriele e Raffaele Rivelli il giuramento che a me prestarono di uccidere Gennaro Rivelli per vendetta della madre loro che il barbaro immolava.

«Io muoio nella ferma speranza che i miei figli mi obbediranno, e che la terra sarà purgata dal mostro che ebbe nome Gennaro Rivelli.

«Dalle prigioni di Salerno il 6 aprile 1808

«Sacerdote Lorenzo Rivelli.»

Terminata la lettura Raffaele aggiungeva: — Udisti? noi non siamo i figliuoli dello assassino, del soldato di Ruffo, del facinoroso, del nemico della patria; quei tuoi ritegni di macchiare le tue mani nel sangue del genitore spariscono con questo foglio: noi giurammo allo zio di vendicare la madre nostra, noi giurammo ai carbonari il trionfo della libertà, or sappi che Gennaro Riveli! sterminò i patrioti! nel 1799, ed oggi sterminerebbe noi medesimi so il tiranno di Napoli gliene dasse il segnale. Egli è ascritto (ed io lo so) alla fiera sella dei calderari. —

E l'astuto confondendo le piùsante aspirazioni di patria e di libertà, mescolando i nobilissimi pensieri di redenzione coi malvagi istinti della vendetta, colle scellerate tradizioni dell'incestuoso adulterio, soggiogò, dominò, travolse l’animo di Gabriele e lo trasse all’attentato orribile, che in quella medesima notte decisero di compiere, fissando il luogo, l'ora, i mezzi del terribile dramma che ben presto mandavano ad effetto.

Per consiglio del Raffaele andossene in campagna il Gabriele, e quivi riattaccando le amorose pratiche colla matrigna, parlando di pace e di accomodo col Gennaro, fece sospendere le liti, e più tardi ritornato nel Vallo scriveva al Gennaro di recarsi nella loro casa per terminare ogni dissidio e ritornare a' sentimenti di affetto e di amistà, che legano i figliuoli al padre.

Gennaro confidente o tratto dal suo destino non rammentando la ferita del mortaio che portava sul corpo andò solo nel Vallo: fu accolto con dimostrazioni di tenerezza dai figliuoli e non si accorse che i domestici fossero tutti spariti e silenziosa cd oscura fosse la casa, e che Raffaele dopo averlo affidato alle cure dei Gabriele, che lo condusse nella sala ove apparecchiata vedevasi la mensa, mise fuori il suo cavallo sellato come trovatasi e subito sbarrò l'uscio del cortile e l’altro della casa. .

Si assisero a tavola e festosamente incominciarono a cenare: cadevano le prime ombre della notte al cominciar della cena, e sonava l’ora nona quando Gennaro, giusta il suo costume, continuava a sbevazzare e a procurarsi la solita ebbrezza di ogni di Raffaele lo spiava collo sguardo dell’avvoltoio che sta per islanciarsi sulla preda; Gabriele pallido e disfatto pendeva dal cenno del germano. Pioveva a dirotta: i lampi si alternavano con fragorosissimi tuoni: pareva che la natura istessa turbata e convulsa si sdegnasse contro i delitti degli uomini.

Allo scoppiare d'un fulmine caduto poco lungi dalla casa Raffaele balzava in piedi e sguainato il pugnale «muori assassino» gridava e si avventava al Gennaro, che robusto e feroce e malgrado l’ebbrezza brandiva un coltello da tavola e mettevasi in difesa, allorché Gabriele imitava il fratello e lo attaccava alle spalle, e allora empia lotta incominciava tra il padre ed i figliuoli: agili e destri questi, pesante ed ebbro quello, lo offese trionfavano della difesa: correvano forsennati intorno alla tavola, rovesciavano le credenze, si spegnevano i lumi, e al bagliore dei lampi soltanto continuavano gli uni ad incalzare, l’altro a difendersi; ma inciampando nei mobili e mal reggendosi pel vino cadeva sul suolo, e caduto i due manigoldi gli furon sopra e con trenta pugnalate il finirono.

Orrendo spettacolo apparve al riaccendersi de’ lumi, bruttate di sangue e di vino vedevansi le tovaglie, infrante moltissime mobilie, e su mucchi di rottami giaceva il cadavere di Gennaro Rivelli, dalla faccia minacciosa e terribile qual’era nei giorni che aveva sete di misfatti, allorché seguiva i masnadieri di Fra Diavolo o i crociati di Ruffo.

Raffaele aiutato dal fratello accese un gran fuoco nel cammino, e quivi le biancherie insanguinate e le vesti del Rivelli abbruciarono; poi rialzando la tavola su quella collocarono il cadavere, e colà ove pochi minuti prima compivasi la cena, colà il malvagio uomo ponevasi freddamente coi suoi ferri chirurgici a mettere in pezzi con maestria anatomica le membra dell'ucciso genitore.

Compiuta l’operazione depose in un sacco tutte le sparte membra ed aiutato dal fratello lo portò nel cortile e sollo un abbeveratoio nascondendolo lo copri con calco viva. Tornarono nelle stanze i due scellerati e lavando con diligenza il pavimento ed i mobili, ne fecero sparire ogni traccia di sangue. Si addormentarono tranquilli e si tennero sicuri che occulto rimanesse il loro misfatto. Insensati! sulle colpe le più ascose veglia la Provvidenza e raramente o giammai 1’ umana malizia riesce a sperdere le orme dei crimini: parlano le pietre, le foglie, il gemito dell'aria, le zolle della terra, tutto, quasi diremmo, prende vita cd accusa colui che quale Caino intinse le mani nel sangue del suo simile.

La Provvidenza permise che l’empio Rivelli morisse di ferro e pagasse il fio di tutti i suoi spaventevoli misfatti; ma essa non permise che nonandassero impuniti gli uccisori suoi.

Ilcavallo, che sconsigliatamente aveva abbandonato a se stesso il Raffaele, rifacendo la via tornò solo nella città di Campagna, e destò al suo arrivo i sospetti della mo« glie di Gennaro Rivelli, la quale spedito un messo nel Vallo ai figliuoli n’ebbe per risposta che non avessero visto in niun modo il Gennaro e nulla sapessero del cavallo.

La giustizia su i lamenti della vedova incominciò le procedure; fu perquisita la casa del Vallo, e niuno indizio surse ad accusare i colpevoli, i quali credevansi sicuri nella propria impunità, quando il loquace Gabriele faceva nascere nuovi sospetti negl’inquisitori: loquacità che ripetuta a Raffaele lo decisero a trasportare il sacco col cadavere in un bosco vicino. Lo sciagurato non pensò peraltro a distruggere i frammenti della calce, onde i magistrati ritornando scoprirono in quella le macchie lasciatevi dallo imputridito cadavere, i due fratelli vennero subito imprigionati, e per colmo della loro immoralità confessarono il parricidio, accusandosi reciprocamente e facendo scoprire i mutilati resti del Gennaro Rivelli.

Un solenne giudizio ebbe luogo dinanzi la gran corte criminale di Salerno, ove tutta la tela delle atroci opere di questa riprovala famiglia fu svolta. Una condanna di morte contro i due germani fu pronunziata; ma annullata per difetto di forme dalla corte suprema di giustizia e rinvialo il processo dinanzi alla gran corto criminale di Napoli nel 1819 si svolse nella capitale l’istesso dramma ferale ch'erasi agitalo fra immenso concorso di popolo dinanzi ai giudici di Salerno. A Napoli noi vedemmo i tristi Rivelli con ribrezzo e la impudica vedova di Gennaro palesare pubblicamente i suoi amori e piangere e difendere il Gabriele implorando la clemenza dei magistrati, onde Io assolvessero o a mitissima pena lo condannassero; imperocché fosse convinta che il Gabriele aveva fallito non per pravità di animo, ma per la pressione del perverso germano.

Drammatiche del tutto furono le deposizioni del cicco pastore calabrese, che raccontò i casi della famiglia dal di che Gennaro Rivelli sposossi colla madre dei parricidi, sino a che cadde vittima nel Vallo. Una nuova condanna di morte colpi i due accusati; ma un nuovo vizio di forme ne fece pronunziare l’annullamento, cd essi dovevano comparire innanzi alla corte di Avellino, quando scoppiava la rivoluzione del 1820 e di nuove vicissitudini che racconteremo a suo luogo gli rendeva operatori. I casi della famiglia Rivelli spaventevoli e nuovi negli annali del delitto, s innestarono per quarant’anni alle vicende politiche della patria, e Gennaro lui stesso associalo alla vita intima di Ferdinando Borbone ne corruppe di buon'ora le inclinazioni, i costumi, e svegliò in lui queglì'gnobili istinti che ne fecero un re da trivio, un golfo lazzarone. Rivelli però trovò nell'atroce suo fine la punizione dei suoi misfatti; mentre Ferdinando piò di lui sozzo e colpevole ritornò nella reggia di Napoli e continuò a straziare i popoli e a macchiare di nuovi spergiuri la sua vita. Si direbbe che anche la giustizia divina stabilisca di simili norme e si serva di due pesi e di due misure nello scandagliare e punire le opere degli uomini oscuri e dei potenti re. Direbbesi che sul trono mutisi in virtù la colpa, e che per l'istesso fallo il misero ed abbietto penda sul patibolo ed il principe aggiunga una nuova foglia di lauro alla sua corona.

Fortunati i grandi della terra hanno perfino l’impunità dei delitti; e se Carlo i d’Inghilterra e Luigi XVI di Francia lasciarono il capo sotto la scure popolare in pena di essere stati più fiacchi, che malvagi, quanti scellerati principi vissero e vivono calpestando i diritti più sacri dell’umanità e disertando in nome di un diritto effimero (il diritto divino) le famiglie, le città, le nazioni!Fu questo un decreto della mente divina, che volle gli uomini infelici tulio terra(6), o se ne fece una legge l’ignavia umana?No, errava l'antico filosofo: l’uomo nacque per godere sulla terra; e se i popoli soffrono i propri tiranni, se baciano il piede che gli calpesta, i popoli se lo meritano...


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CAPITOLO XLIX

SOMMARIO

La carboneria estende le sue diramazioni — Soldati e cittadini si Tanno ascrivere alla setta — La carboneria entra nei chiostri dei frati e nei cori dei canonici — Si fonda un governo nel governo — Guglielmo Pepe generale s'intende coi carbonari e introduce la setta nelle milizie civili del regno — Un giudizio imparziale sul generale Pepe—Primi accordi per la rivoluzione — Il campo di Sessa — Il reggimento del colonnello Costa in Calabria — La insurrezione pel giorno del Corpus Domini — Un traditore — Sicurezza ed ignavia del governo — Il denunziante non udito dal re, non dal ministro Medici, svela le trame al prefetto di polizia — Arresti e torture dei capi settari — Ordini ai carbonari d'insorgere — La festa di s. Teobaldo a Nola — Banchetto di militari e di canonici del i luglio 1820 — i soldati giurano d'iniziare la notte la rivoluzione — i canonici promettono aiuti — Alle promesse succedono i fatti — Il 2 di luglio—Le popolazioni si associano agl'insorti —11 colonnello De Concili! gli fa entrare in Avellino capitale del principato esteriore — i preti giovani impugnano le armi, i vecchi cantano inni sacri e suonano le campane — La rivoluzione si estende — Il campo di Monteforte — i ministri trepidano, il Re confida nella Madonna ed è sicuro di vincere i ribelli — Carascosa generale inviato senza truppe contro i rivoltosi — Si negozia — Iattanza dei cortigiani — Il cinque di luglio Carascosa ottiene i chiesti soldati — Si combatte dal generale Nunziante verso Nocera ed è vinto — Le truppe disertano e si uniscono agl'insorti — Preparativi d'insurrezione in Napoli — i generali Pepe e Napoletani fanno disertare tre reggimenti della guarnigione di Napoli — Paure di Ferdinando e del duca di Calabria — Da qual morbo venissero entrambi assaliti — Atto arditissimo del marchese di Piccolellis — La promessa della costituzione pubblicata a stampa — Gioia dei cittadini — Opinione dei lazzari — Si dimanda la costituzione di Spagna — Ferdinando i accorda tutto, ma col proposito di riprender tutto —Dissensioni nel campo degl’insorti — i disegni del general Napoletani — Il general Pepe li combatte—Il traditore Luigi Siniscalchi — i settari non si volgono verso i confini — L'Italia dimenticata — La rivoluzione e già vinta.

Mentre il dramma de' Rivelli svegliava lo emozioni della capitale, i carbonari estendevano i loro lavori, e involgendo in una rete inestricabile il governo, la magistratura e l’esercito, riuscirono a creare una potenza occulta, che dagli Abruzzi alla Sicilia, dalle gole d’Itri al mare Ionio diramavasi e reggeva lo stato quasi secondo i pensamenti della setta. La carboneria dominava nella polizia e quindi mandava a vuoto tutti i provvedimenti che prendeva il suo direttore Francesco Patrizio; la Carboneria si annidava nel coro delle cattedrali fra i molti canonici, aveva ricovero nei conventi e particolarmente tra i cappuccini, disponeva a suo modo delle università, delle scuole militari, de’ licei, ove i giovinetti a gara iniziavano nella setta i professori ed i maestri. A quest'immensa macchina mancava però l’organizzazione militare ed un centro unico di operazione; ma sul finire del 1819 all’uno e all’altro difetto posero fine l’alta magistratura dei carbonari di Salerno ed il tenente generale Guglielmo Pepe. In Salerno si riunirono i delegati delle alto vendite de’ carbonari di tutte le provincie e costituirono il centro, il motore unico di tutte le forze dei settari sparse nelle Due Sicilie: da quella congrega di sommi dignitari della Carboneria si diramavano gli ordini, i cenni, la parola semestrale, che por mezzo delle stabilite comunicazioni di villaggio a villaggio spargevansi colla velocità dell’elettricismo da un capo all’altro del regno di terraferma, e varcando il canale di Messina anche per tutta la Sicilia trovavano un eco.

Guglielmo Pepe preposto ad organizzare le numerose milizie provinciali del Principato ulteriore e delle Puglie, mise ogni suo studio perchè ciascun milite fosse carbonaro, e in questo modo ad un batter di tamburo egli disponeva di circa quaranta migliaia di cittadini armali, equipaggiati e addestrati negli esercizi militari, i quali avevano altresì giurato nella baracca de’ carbonari la morte o la libertà. Comandava in Avellino sotto gli ordini del Pepe un Lorenzo DeConcilii già luogotenente colonnello de’ lancieri della guardia di Murat, e questi per influenze di famiglie, che di Avellino era, e per dovizia di possessi aveva seguito e aderenze moltissime fra gli abitanti del Principato ulteriore.

Guglielmo Pepe, grande di persona, povero d’ingegno, soldato coraggiosissimo, misero capitano, suppliva coll’ardente patriottismo e con una vita di sacrifici consumati per la patria al difetto de’ consigli e della perspicacia politica e militare chel’avara natura gli aveva ricusalo. Giovinetto ancora, servi sotto gli stendardi della repubblica partenopea, e strenuamente combattendo per essa ne riportava onorato ferite: esule, militava pe’ Francesi e combatteva a Marengo. Nelle Spagne comandando le napoletane truppe riportava fama di valoroso soldato, riuscendo pel primo a piantare la bandiera sulle mura di Girona espugnata a viva forza da Francesi eNapoletani. Pugnava nel 1815 con successo al Panaro e ad Occhio Bello; sempre primo alle offese e sempre ultimo nella ritirala. A questi pregi di strenuo guerriero univa un amore ardentissimo per la libertà, volendola perfino strappare al despota Murat congiurando con altri militari suoi commilitoni; ma tutte queste doti, che facevano di Guglielmo Pepe un prode ne’ campi di guerra, un generoso cittadino negli ozi della pace non bastavano, perchè egli presumendo troppo della propria sapienza assumesse un disegno politico, che doveva e poteva mutare le sorti d’Italia e prenderedue volte ilcomando in capo di dueeserciti. Vanitoso, non consultò il suo proprio intelletto, e le due volte senza dubitarsene procurò coi suoi eminenti le più fatali ruine al reame di Napoli ed all’Italia intiera. Il general Pepe è sceso nella tomba, noi lo ammirammo e lo amammo per la costanza nei propositi e la illibatezza della vita; ma la verità storica non c'impedirà di dire, ch’ei fu la causa involontaria delle sventure italiane del 1820 e del 1849, e i fatti lo proveranno.

Costituita la suprema magistratura di Salerno e organizzate le milizie di Avellino o di Puglia si pensò ad iniziare la rivoluzione, a gridare le libertà rappresentative, essendo l’esercito stanco dell'austriaco Nugent preposto dal re a comandarlo, e trovandosi il popolo affaticato dalle tasse e da’ soprusi dal famoso cavalier Medici. Furono presi gli accordi di cominciare il movimento nel campo militare di Sessa, obbligando il re, che quivi soleva assistere agli esercizi delle truppe, di concedere la costituzione. Quei disegni fallirono pel poco accordo tra i cittadini, ed i soldati nell’irrompere, pretendendo gli uni che dovessero cominciare i borghesi, volendo questi che insorgessero i militari; ma se da quel campo non surse l’iniziativa più saldamente si affratellarono i settaricivili coi militari. Nel maggio di quell'anno si sciolsero gli accampamenti e le truppe restituironsi nelle loro stanze ordinarie. Un reggimento doveva transitare per le Calabrie e poi sbarcare a Messina: di quel reggimento era duce ilcolonnello Costa, distinto militare, ottimo cittadino e fervente settario: col Costa furono presi i concerti a Salerno per iniziare il moto nelle Calabriee intanto vennero diramati gli ordini, perchè i settari della capitale secondando l'insurrezione calabrese, facendo impeto sul re alla processione del Corpus Domini, che ricadeva in quell'anno verso i primi di giugno, prenderlo in ostaggio ed obbligarlo a dare la bramata costituzione, un tristo, Niccola Acconciagioco, correva dal reper rivelare (ei diceva) importanti misteri, ma non era ricevuto; saliva più volte le scale del cavaliere Medici, insisteva, pregava onde essere ammesso alla sua udienza, ma dopo esserne respinto più volte ottenne dal ministro breve colloquio; questi però appena udito che si trattasse di rivoluzione e di congiure di carbonari lo licenziò deridendolo e solo per tenerlo a bada gl'impose d'informarne il prefetto di polizia Francesco Giampietro, uomo dirozzi modi, d'animo crudele e dal fanatismo cattolico stranamente dominato: il perverso delatore vide ilprefetto, svelò i segreti della setta, nominò i capi della capitale, accennò al progettodelle Calabrie, ed il prefetto accogliendo le rivelazioni con molta sorpresa, non col sorriso del Medici, cominciò ad operare con zelo ed accorgimento; i capi dei settari di Napoli furono imprigionati e atrocemente martoriati; il telegrafo ordinò che si fermasse ove trovatasi il reggimento del Costa e se potevasi il colonnello s’imprigionasse. Fra gli arrestati in Napoli eranvi due borghesi, un Cencio ed un Raffaele Maiorana, entrambi popolarissimi ed entrambi gran maestri delle vendite dei carbonari plebei, che abitavano ne| popolosi quartieri di Porto e del Pendino: gli stessi quartieri che nel 1799 vomitarono |e orde dei sanfedisti di Ruffo. Questi arresti impedirono lo scoppio della rivoluzione nel giorno designalo; ma non preservarono la monarchia assoluta di cadere più tardi sotto i colpi della scure dei carbonari. La carboneria era fede di popolo, né coll'imprigionare dieci ododici cittadini potevano trattenersi le migliaia dall'operare, ed operarono,

L’alta magistratura di Salerno annunziò a tutte le vendite il tradimento dell'Acconciagioco, ne avverti il generale Pepe ed esortò tutti i settari di affrettare il movimentoe d’insorgere ove meglio credessero e potessero; sarebbero assistili dall’intiera setta. Ricordarono finalmente, che il giuramento imponesse a tutti di salvare i compagni caduti nelle mani della polizia.

Era acquartierato in Nola, città non molto lungi dalla capitale, il reggimento Borbone cavalleria; quasi tutti gli ufficiali nobili o agiati vivevano fra le deliziedi Napoli: rimanevano soli a comandare la truppa due sotto-tenenti, Michele Morelli e Giuseppe Silvati, l’uno di Cosenza nella Calabria, l'altro di civile ed onesta famiglia della metropoli, amenduesettari; ma l’uno, il calabrese, ardilo, manesco e spazzature d’ogni pericolo; l’altro severo, onesto, alquanto religioso e tenacissimo nei suoi propositi.

I sottufficiali del corpo, anch’essi settari, dipendevano ciecamente dal Vincenzo Escobedo e dal Giuseppe Altomare, marescialli d'alloggio capi in quel reggimento, ed erano finalmente carbonari moltissimi dei soldati.

La mattina del i luglio 1820 il canonico Giuseppe Menichini unito coll’altro canonico Francesco Cappuccio da Mirabella visitarono il quartiere della cavalleria, ed invitarono Morelli, Silvati e tutti i sott'ufficiali ad un pranzo settario, celebrandosi in quel giorno la festività del protettore dei carbonari, l’eremita Teobaldo.

Il convito incominciava lietamente, e crescendo fra i vini ed i brindisi l'allegria soldatesca clericale, i due canonici di mente svegliata, facondi ed esaltali proponevano ai militari di esser primi ad innalzare il vessillo tricolore dei carbonari e a chiedere la costituzione degli Spagnuoli del 1812, promettevano di seguirli con parecchie centinaia di settari borghesi, e terminavano dicendo: — Le truppe di Spagna furono le prime a gridare libertà, le napoletane devono imitarle, avendo avuto comuni con esse la gloria dell'armi e la fraternità dei trionfi per circa tre secoli. —Michele Morelli sguainata la sciabola: — Su compagni (disse), ripetiamo il giuramento di morte o di libertà: dimani all’alba il glorioso vessillo dei carbonari sorgerà sulla vetta di Monteforte a spavento della tirannide e a sostegno dei diritti del popolo; — e i sott'ufficiali anch’essi brandendo le armi e i due preti i pugnali giurarono tutti di compiere la notte l’impresa designata.

Suonavano le due ore del riattino,,quando Morelli e Silvati facendo dare fiato alle trombe, risvegliavano i soldati e montando a cavallo uscivano a corsa dal quartiere fra le grida di viva la libertà.Sulla gran piazza di Nola trovarono il canonico Menechini con trenta borghesi armati e facendo sventolare una gran bandiera tricolore: i due drappelli riuniti sommavano a centosessanta uomini, ma decisi tutti d’immolarsi per la patria, ma avendo tutti il cuore di mille; giovani ed ardenti militari e borghesi sapevano che bisognasse scegliere fra il patibolo o il trionfo, e con animo imperterrito s'avviarono verso le cime di Monteforte. Spuntava l’alba, facevapiù chiaro il giorno e i soldati della libertà incontravano, frotte di villici, che colle spose e le figliuole n'andavano al maggior santuario di Nola in pietoso pellegrinaggio, ricorrendo in quel giorno del 2 luglio la festività di Nostra Donna delle Grazie. Gridavano nello scontrare, i pellegrini e nel transitare pei numerosi villaggi che sorgono la Nota ad Avellino, vira Iddio, il Ree la costituzione;e poiché il senso della politica voce non era ben compreso dagli ascoltanti, però per universali speranze i possidenti ti scorgevano minorazione di tributi, i liberali la libertà, i buoni il bene, gli ambiziosi il potere, ognuno il suo meglio, e a qual grido il popolo affascinalo ed entusiasta rispondeva cogli evviva, le milizie civili dei grossi villaggi si univano agl’insorti e il loro stuolo ingrossatasi per via. Giunti a Mercogliano, Morelli sostava e accampavasi militarmente, e scrivendo lettere al tenente-colonnello De Concilii, le quali dicevano che eglino erano primi non soli a promulgare il volo comune di libero governo, aiutasse fini presa, desse gloria eterna al suo nome. Indeciso e perplesso il colonnello esitava: l’amore della patria, il giuramento militare,scarso numero degl’insorti, il terribile rischio dell’impresa, tutto svegliava affetti diversi nel suo animo, tutto produceva un’ interna lotta, allorché vinta ogni esitanza diede il suo nome e la sua opera alla rivoluzione e ne assicurò il successo; imperocché vedessero i popoli un comandante di provincia e non più un oscuro sotto-tenente farsene il capo, il promotore. La notte del 2 De Concilii ebbe segreti colloqui con Morelli, chiamò sotto le armi i battaglioni delle milizie provinciali, e sull'alba del 3 quelle schiere, le poche truppe di linea di Avellino e una folla di carbonari armali mossero ad incontrare Morelli, e tutti insieme riuniti entrarono plaudenti in Avellino tra il suono delle campane e lo sparo dei moschetti. Canlavasi nel duomo un tedeumofficiandovi il vescovo con pochissimi vecchi sacerdoti, trovandosi i giovani, carbonari tutti ed armati fra le file degl’insorti: d*Avellino la colonna avviossi a Monteforle.

Poggia su quella altura un grosso borgo, la strada reale che va nelle Puglie lo traversa in tutta la sua lunghezza, ertissimo è il colle e scoscese cime di monti lo dominano da tutte le parli: quivi surse il primo campo dei liberatori della patria. Si sbarrarono con tronchi d'alberi le vie, ogni casa fu munita di destri bersaglieri, ed il canonico Valentini di Monteforte coi settari del paese rafforzò le schiere degli insorti.

Il re, quando in Napoli giunse la nuova dei fatti di Nola e di Monteforte, andava sopra ricca nave incontro al figlio, il duca di Calabria, che allora venendo di Sicilia entrava nel porto. Si congregarono i ministri e consultarono non del grave affare dello stato, ma del come dirlo all’assoluto signore senza indurgli timori o muoverlo a sdegno; essi più volte ricercati sulle cose del regno e sulla potenza della carboneria gli avevano dato sicurezza dell’amore dei popoli per le virtù del governo e per la felicità che spandeva sul popolo: il cavaliere Medici nei regi consigli avea rappresentala la carboneria come vaghezza o deliriodi poche menti, ed accertato a redevoto (con astuta menzogna), che i missionari pervenivano colla confessione a dissiparla; ma quei sciagurati impostori da necessità vinto il ritegno, stabilirono versolardi del giorno di riferire a Ferdinando quei successi, attenuando il pericolo e promettendo di tenere in pronto i rimedi.

Intanto quelle nuove si spargevano nella capitale e i più arditi studenti stilavano alla spicciolata per Monteforte.Le compagnie scelte dei cacciatori e granatieri della milizia civile si riunivano spontaneamente nei loro quartieri, ed il governo sospettando della fede del reggimento ussari della guardia nazionale, con pretesti lo chiuse nel Castello Nuovo; ma ciò non impedìche due ufficiali n'andassero ai settari (7) per assicurarli, che il reggimento si farebbe largo colla forza per congiungersi coi patriottinell'ora del bisogno. i carbonari della guardia reale deputarono anch’essi il sergente Villascosa onde affermare, che i settari dei reggimenti della guardia si preparavano a far causa comune col popolo. Centro di tanti raggi divenne in quel tempo la casa dell'avvocato Donalo Colletta, uno dei piùantichi e ferventi settari. i carbonari della capitale adunque si preparavano a secondare i moli dei compagni delle provincie; e mentre il restringevasi a consiglio coi ministri, in Napoli e fuori fra la truppa ed i cittadini si prendevano concerti, si spedivano messaggi per compiere la rivoluzione.

Fu deciso dagl’inetti consiglieri del repria d’inviare il general Pepe in Avellino a combattere gli insorti; ma il resospettando della fede del Pepe vi sostituì il generale Carascosa. Prevalevano le arti antiche e neghittose: governare il presente, e il meglio sperare dalla fortuna o dalla stanchezza delle opinioni, usare i ripieghi, e dove giovasse mancamenti ed inganni. Ilgoverno non poteva inviare contro gl’insortistesso Nugent, perchè mal visto dall'esercito e peggio abborrito dal popolo che rammentava le ingiurie patite per opera di stranieri dominatori; non poteva inviare alcuno dei generali di Sicilia, privi di fama militare e spiacenti alle milizie di cui erano maggior nerbo i Murattisti, né intanto si affidava a costoro per sospettarne la fedeltà.

«Misera e spregevole condizione di governo (dice il Colletta, vol. Il, pag.237), cui non bastarono lungo dominio, abbondanti ricchezze, cariche, onori, secolo avaro e corrotto per trarre a se parte dei sudditi; tanto soprastavano gli antichi errori e la presente incapacità.»

Eravi circolo a corte per fare ossequio al duca di Calabria, e vedevansi i cortigiani aver dipinto sul volto gli opposti sentimenti di speranza e di timore: guardavano il padrone e incerti pendevano se dovessero mostrarsi afflitti ed abbattuti o ilari e sereni; e comechè l'ingannato sire a serenità mostrassi inchinalo, sereni apparvero i volti di tutti; e uscendo poi dalla reggia baldanzoso il vilissimo gregge diceva dappertutto: la canaglia del Decennio sarà presto domata.Stolte parole, inani vanti, che rinfocolando le ire di parte potevano in mezzo ad una rivoluzione quasi trionfante produrre tristissimi resultamenti.

Partiva il generale Carascosa la notte del 4, ma senza soldati: spedivano i ministrigenerale Nunziante a Nocera con grossa legione di soldati, mentre il generale Campana con altre truppe moveva verso Salerno. Carascosa prodissimo in guerra, di talenti militari fornito, ondeggiava tra la fede dei giuramenti e il dolore di versare il sangue de' concittadini, tra la causa del popolo e la causa del re: non avendo soldati si determinò a negoziare coi capi degl'insorti, inviando ad essi un Bianchi giudice regio di Mercogliano, e ne informò in pari tempo il re, pregandolo per la gravità del caso, che il ministro Medici o il duca d’Ascoli si recassero presso di lui onde avvisare sui pericoli che correva lo stato e sulle misure che faceva d’uopo di prendere per scongiurarli. Ma tutti negavano l'ufficio; perocché certi del doppio pericolo verso il popolo e verso il re scansavano i maneggi e le cure di stato; «essendo giustasorte de’ reassoluti vedersi affollati d’impertuni partigiani nella prosperità, deserti nelle sventure (Colletta, pag.239, vol. II.).»

L’accorto De Conciliinon respinse i negoziati del generale Carascosa, ma il tenne a bada, intanto allargava la rivoluzione; imperocché un suo foglio faceva levare a tumulto le città, i villaggi e i più piccoli borghi del regno, e come mossi da magico impulso i settari, villici, borghesi e militi civili accorrevano sulle alture di Monteforte. i due Principati e le Puglie avevano già nel 4 luglio proclamata la Costituzione, nel campo di Montefortecontavansi già diecimila insorti (8). La mattina del 4 di luglio il generale Campana marciò da Salerno sopra Avellino con fanti e cavalli: a mezza via scontratosi cogl’insorti combatterono, e questi vincendolo l’obbligarono a retrocedere disordinato alle sue stanze. Ilgenerale Nunziante moveva anch’esso da Nocera e dopo breve cammino i soldatidisertavano a folla e correvano ad unirsi coi compagni di Monteforte.Nunziante ritornava a Nocera, ed ivi il reggimento Principe cavalleria esciva ordinato dai quartieri e collo stendardo tricolore spiegato scacciando il colonnello principe di Tocco si avviava in pieno giorno verso il campo degl'jnsorti. La causa del redeclinava da ogni parte, il molo era divenuto generale, e recava gioia il vedere, come fra tante armi e tanti impeti rimanessero sacre le leggi, serbalo l’ordine, salve le vite, rispettale le proprietà; e perfino repressi gli odi, la rivoluzione convertila in festa pubblica, il volo di tutti concordare in un solo desiderio, esser liberi.

La sera del 5 luglio il generale Carascosa ottenne finalmente i soldati e con essi arrivava in Marigliano, ove stavano a campo i regi e il generale Nugent ministro della guerra. Pensava il Carascosa o che nella notte del 5 al 0 i capi dei ribelli accettassero grosse somme di denaro e passaporti per uscire dal regno, o che la mattina del 6 gli vincerebbe colle armi assaltandoli da ogni parie. Questi pensamenti erano noli al re, il quale con una lettera autografa del 5 di luglio diceva:

«Generale Carascosa. Approvo quanto operaste finora, e questo affare menato a buon fine otterrà tutta la riconoscenza del vostro affezionatissimo Ferdinando (9). »

E questo re, che sanzionava nel luglio 1820 l’operato del generale, lo faceva condannare nel 1824 come complici dei ribelli alla pena di morte ed alla confisca de’ suoi beni!Cosi stavano le cose fra i regi ed i settari la sera del S, quando nuovi fatti seguivano a Napoli. La gioventù, le guardie nazionali ed il popolo vergognando di non aiutare la rivoluzione decisero d’insorgere la mattina del 6: parecchie squadre dipendenti da capi ardentissimi si ordinarono e presero i concerti co’ membri d'un comitato rivoluzionario prcseduto dall’avvocato Colletta: queste squadre dovevano assalire i posti delle milizie, le carceri per liberare i settari detenuti sin dal giugno e la reggia onde costringere colla forza il Borbone a concedere un largo statuto. In quella notte medesima del 15 di luglio il generale Guglielmo Pepe accompagnato dal generale Napoletani si presentava ai quartieri de’ Granili e facilmente decideva i soldati del reggimento dragoni comandali dal colonnello Tupputi e quello di Regina cavalleria colonnello Celentani di seguirlo a Monteforte: a questi cavalieri si accostavano i fanti del reggimento real Napoli comandati dal maggiore Gaston e gli artiglieri d’una batteria di montagna con tutti i loro cannoni. Queste truppe uscirono da Napoli fra le grida di viva la libertà, e seguendo il general Pepe s'incamminarono per remoti sentieri, ma con presti passi verso Monteforte. Il movimento della truppa affrettò il piano de’ congiurati della capitale; in quella notte medesima opinarono con un colpo ardito ottenere dal resenz’altro indugio lo statuto; ed allora cinque settari e il duca di Piccolellis, genero del duca d’Ascoli carissimo al re, andarono negli appartamenti di Ferdinando e dimandarono di parlare all’istante a sua maestà o a qualche grande della corte come ambasciatori del popolo napoletano.

Nella reggia a quell’ora regnava alto spavento: il giorno il reaveva avuto un foglio del suo fedel generale Nunziante, col quale esponendo la diserzione de’ soldati e la ribellione del reggimento Principe, conchiudeva:

«Sire, la costituzione i desiderio universale del vostro popolo, l’opporvisi sarebbe. vano, io prego vostra maestà di concederla;» e triste notizie erano giunte parimenti dalla Calabria e dagli Abruzzi, alle quali unendosi quei gravi casi della notte pei disertati reggimenti, destarono tali e tanti timori nella mala coscienza del re e del duca di Calabria suo figlio, che la fama e testimoni oculari affermarono di avergli visti tremanti ed affetti da un morbo che ne’ codardi ingenera la paura (le mosse di corpo).

All’annunzio degli strani ambasciatori il padre ed il figlio si abbracciarono dolenti e lagrimosi, accorsero i figliuoli, fra i quali il Ferdinando II, biondo giovinetto allora, ma già nelle perfidie del padre e dell’avo istruito, e della scuola dei loioleschi suoi precettori facendo profitto. La duchessa di Floridia, la segreta consorte del re, ed Isabella Borbone, la castamadre di Ferdinando, accorsero anch’esse e co’ loro pianti e lamentazioni rendevano più cupa la scena, più terribile l’aspetto della casa del re, ove sembrava che fosse entrato l’angelo sterminatore per punirli tutti delle antiche e nuove colpe, per disperdere l’improba nidiata di tiranni e di carnefici.

Non avvi stirpe regale in Europa che simile a quella de’ Borboni scenda si basso ne’ pericoli e addivenga crudelissima nella fortuna: sempre ministra d’inganni, sempre fraudolenta e menzognera, sa concedere ed infingersi quando i popoli sono forti; mentre se riesce a domarli ed a fiaccarli trova dolce la vendetta, piacevolissimi gli strazi, gradite le torture e le morti. Ferdinando adunque con umili prieghi induceva il duca d’Ascoli di presentarsi agli ambasciatori e di promettere in suo nome larghissime libertà, statuti, concessioni, ogni cosa insomma, esclamando infine: «Salvami, caro Ascoli, salvami da’ giacobini, assicuragli che delegherò a Francesco liberale più di me i poteri sovrani, ed egli che fu vicario in Sicilia lo sarà po’ due regni. Perfido, goffo, ma scaltro per natura o vecchia esperienza di regno, intravide fin d’allora il canuto monarca un mezzo, una tavola di salute per burlate i Napoletani e fargli scontare co' supplizi la fede che ebbero nelle sue promesse, bugiarde fin da quella notte.

Il duca d’Ascoli presentatasi ai delegati dei sellar!, e questi arditamente dicevano:— Siamo delegati per dire al re non a lei signor duca che la quiete della città non può serbarsi (né si vuole) se sua maestà non concede la bramala costituzione. E settari e soldati e popolo sono in armi, la sella è adunala, tutti attendono per provvedere a’ nostri casi le risposte del re. Si compiaccia di far venire qui tra noi il re— Ascoli si recò nelle stanze e tornò col Borbone, che camminava quasi barcollando e lenendosi una mano al ventre pe’ dolori che lo martoriavano: appena visti i deputati esclamò: a Ilo fatto sempre quello che ha voluto il popolo, sono due anni che aliamo studiando co' ministri lo statuto che io promisi nel 1815 e la mia parola fu sempre sacra; ora desiderate che senza compiere gli studi si dia la costituzione? ebbene io la darò. Ma quando? — replicava il De Piccolellis, e il re: — Presto, — ossia(ed il vecchio volpone colle labbra penzolanti per l'ira fissando il De Piccolellis) fra due ore — diceva. E Piccolellis divenendo più audace, senza dir molto, stendeva la mano al pendaglio dell’oriuolo del duca d’Ascoli, glielo strappava di tasca, e ponendo il quadrante sotto gli occhi del re, aggiungeva: è uri ora del mattino, alle tre sarà pubblicata la promessa di costituzione... —Girale le spalle lasciava il re ed il duca d'Ascoli attoniti e tramortiti per Fallo risoluto, pel dispregio alla maestà regale, e più ancora per la rivoluzione già vicina a prorompere.

Si adunava il consiglio sotto quelle impressioni, i ministri avviliti, quanto già nella sicurezza superbi, pregavano il re che cedesse alla necessità dei tempi, acconsentisse la voluta legge, sperasse ne’ futuri eventi, tutti consiglieri e ministri colle faccesparute, col singhiozzo del tremito interno pregavano, insistevano e maggiormente intimorivano il re, che erasi un momento rinfrancalo sperando negli aiuti divini della Madonna del Carmine e di s. Francesco di Paola, di cui era superstiziosamente divotissimo; ma fra tutti i vigliacchi ministri e consiglieri si distinse per maggiore fiacchezza d'animo il marchese Circello, presidente dei consiglio e ministro per gli affari esteri, vecchissimo, in odio al pubblico, e per grossolane deliziedi vita bramoso di più lungo vivere; egli piangendo disse a Borbone:

«Io amo vostra maestà come padre ama figlio, ascoltate, eseguite il consiglio che viene da labbro fedele, concedete prontamente una costituzione, superate i pericoli di questo istante, che Iddio aiuterà principe religiosissimo ed innocente a ricuperare da popolo reo i diritti della corona.»

Il re si arrese, avvegnaché il pensiero del tradimento col pensiero espresso dal Circello coincidesse, e nell'istante che si prometteva al popolo la costituzione, i ministri ed il monarca fermarono il disegno, il deliberatoproposito di violarla e di rendersi spergiuri con animo determinato.

Nella medesima seduta fu scritto da que' perfidi il seguente manifesto:

«ALLA NAZIONE DEL REGNO DELLE DUE SICILIE»

«Essendosi manifestato il voto generale della nazione del regno delle Due Sicilie di volere un governo costituzionale, di piena nostra volontà consentiamo e pronunciamonel corso di otto giorni di pubblicarnele basi. Sino alla pubblicazione della costituzione leleggi veglianti saranno in vigore.

«Soddisfatto in questo modo al volo pubblico, ordiniamo, che le truppe ritornino a’ loro corpi ed ogni altro allo sue ordinarie occupazioni.

«Napoli,6 luglio 1820

«Ferdinando.»

Spuntava l’alba e l'avvocato Colletta, maggiore delle milizie civili, saputo che nella tipografia reale erasi data opera a stampare la promessa della costituzione accorreva al largo della Carità, e quivi facendo schierare il primo battaglione della milizia, che colàaccampava, disse con estrema commozione: «voi siete cittadini e non più servi: viva la libertà». Ridire l’effettoche produssero queste concitate parole sugli animi infiammabili de’ Napoletani sarebbe opera che si concepisce; ma non trova colori idonei per dipingerli. Scoppiarono come un tuono le grida di viva la libertà, le finestre si schiusero, alle voci della piazza rispondevano quelle de’ cittadini, dalle case, dalle terrazze e da’ tetti le donne gettavano fiori, ciascuno s’insigniva del nastro de’ carbonari, e nelle vie e ne’ trivi quanti s’incontravano sì abbracciavano senza conoscersi: i lazzari stessi prendevano parie al generale tripudio urlando a piena gola: viva la costipazione, ed altri, viva la costrizione; nè essi perchè non sapevano pronunziare la difficile parola potevano considerarsi balordi da ignorare il significalo; imperocché uno di que’ miseri plebei interrogato dal compagno cosa volesse dire costituzione, rispondeva sollecitamente, è la cauzione che dà il re al popolo di ben governare.

Solleciti messi partirono pel campo di Carascosa portando le copie del manifesto a stampa, onde diramarlo fra gl’insorti, e in pari tempo il telegrafo ordino a quel generale, che aveva già formale le colonne d’attacco, di sospendere ogni assalto. A quel contrordine il reggimento real Marsi passò tutto intero cogl’insorti, e parecchie compagnie della medesima guardia reale ne imitarono l’esempio, onde il Carascosa temendo di rimanere generale senza soldati, all’arrivo de’ corrieri levò il campo, inviò i manifesti del re a Monteforte e tornossene a Napoli travaglialo ed afflitto, non essendo stato né francamente realista, né apertamente liberale. Trista situazione che più lardi lo resero per isventure della patria inviso, alla corte ed al popolo.

In quel giorno istesso si vollero scarcerali i settari dalle prigioni conducendoliper le vie come martiri e trionfatori al tempo istesso; e comechè le menti speculative de’ Napoletani si mostrano irrequiete ed esaltale ne’ giorni delle concessioni regali, quanto prostrate e sottomesse in quelli della tirannide, con nuove strida ed altre deputazioni s’impose al re di pubblicare un secondo manifesto, che uscendo dal vago d’una costituzione, promettesse di sancire Io statuto delle cortes spagnuole del 1812, e Ferdinando sempre più incalzalo dalla paura prometteva quel che volevano, piegandosi per meglio ingannare alle disposizioni d’uno statuto, che innalzava il diritto del popolo molto al di sopra di quello del principe, e rendeva questo quasi servo delle cortes e del consiglio di stato.

Per stranezza d’uomini e di tempi il popolo napoletano chiese la costituzione di Spagna, senza che nessuno ne conoscesse una riga, e per leggerla in quel giorno bisognò ricorrere all’ambasciatore di quella nazione onde averne una copia. Sono questi i difetti degli uomini del mezzogiorno, i quali più alla fantasia ed al cuore, che alfin lei le ito ed alla fredda ragione, sogliono sempre cedere e divenire soggetti.

Non minori erano le allegrezze del campo di Monteforte: i settari ed i soldati celebrarono il giorno del 6luglio con spari, luminarie e banchetti. La gioia la più pura presedè a quelle feste, e dalli al 0 di luglio in tutte le provincie insorte non si commisero delitti di sorta alcuna, tanto il sublime pensiero di libertà nobilita gli animi e vi spegno le basse passioni e gli sfrenali impeti d’ogni materiale appetito!.

Ma se tripudiavano i liberali piangeva la reggia, ove sapevasi sul fare della sera, che quarantamila Calabresi movevano verso Napoli, e che dalle Puglie altre migliaia di settari erano accorsi a Monteforte, lasciando con mirabile divisamento di amor pallio i loro fertili campi abbandonali e la mietitura incompiuta. Tanti armali, che minacciavano di giungere nella capitale, accrebbero il trepidare del re; però non mutarono la sua scellerata indole, che voleva ad ogni costo ingannare i popoli confidenti, Si ricorse adunque alle usale frodi, si chiamarono a corte i più influenti sellali, si spedirono lusinghieri messaggi al generale Pepe, di cui conoscevasi la vanità, e, chiamandolo salvatore del regno e della famiglia regale, da lui s'impetrò che facesse retrocedere i Calabresi, e che le sole milizie civili delle Puglie l’accompagnassero con quelle di Salerno e di Avellino nella solenne entrala che doveva fare nella prossima domenica 9 di luglio a grandissima onoranza di lui e delle sue schiere. Questa condiscendenza sull'inizio della rivoluzione iniziò altresì una serie di catastrofi, che terminò coll’invasione del regno. Invano il generale Napoletani, uomo leale, nei primi anni curato di una parrocchia di Nola, indi soldato della repubblica e di Napoleone, notissimo per coraggio e talenti, osservava al Pepe che fosse un errore 1’accordare al Ile che retrocedessero le forze del regno, e maggior colpa dovesse reputarsi l’altra di rendersi a Napoli ad una festa teatrale per scempiala vanità di ricevere applausi e corone, soggiungendo quell’uomo veramente italiano: —

«Voi uccidete, o generale, la nostra rivoluzione nella culla, voi sperdete il gran concetto di lla medesima rivoluzione, che dev’essere italiana e non già napoletana soltanto. In questo momento di generale entusiasmo varchiamo i confini con centomila carbonari e militi, e spingiamo il movimento fino alle Alpi, purgando il nostro paese, che è l’Italia, del governo di preti, di miseri principini e di stranieri. In tutte le provincie della penisola noi troveremo i carbonari per assisterci e i popoli per acclamarci. Non a Napoli, ma sulle rive del Ticino e sulla vetta delle Alpi noi festeggeremo il gran risorgimento italiano e dopo di aver ricostituita la nostra nazionalità. Non vi lusingale, gli Austriaci ci moveranno guerra, e voi dovete al pari di me ricordare i casi del novantanovee della costituzione siciliana e quindi deporre ogni pensiero di trovar lealtà nella casa dei Borboni. La guerra contro l’Austria va iniziala da noi e subilo in questo momento di generale entusiasmo: imperocché raffreddali gli animi e dato luogo alle male arti dei principi da questa guerra (quasi profetizzando), diceva, noi raccoglieremo danni, vergogna, supplizi ed efferate persecuzioni.»

Ma che poteva il consiglio, che valeva la preghiera presso d’un Pope, che fra i difetti della sua natura, veramente calabrese, possedeva in singolar modo quello di essere irremovibile e lestareccio? Si accostava al divisamentodì Pepe un Luigi Siniscalchi, che giudice nella gran corte criminale di Avellino e settario, lasciò i codici e corse nel campo non per amor di patria, ma per segreti accordi col Borbone e per fame d’oro e d’impieghi. Questo perverso, che fu poi prefetto di polizia, portava nella fronte il tradimento, e col suo sguardo losco svelava a quanti non vollero comprenderlo, ch’ei dovesse, sollo sembianza di liberalismo, servire la causa di Ferdinando e preparare i supplizi dei suoi ingannali compagni. Egli quindi secondò Pepe, combatte Napoletani e sedusse coi suoi sofismi gli animi degli altri capi della sella, riuniti a congresso por decidere dell’avvenire d'una così stupenda rivoluzione.

Trionfando l’avviso di Pepe e di Siniscalchi fu ordinato ai settari pugliesi ed ai calabresi di retrocedere, e si convenne che la sera dell’8 luglio tutte le truppe, le milizie civili e molte squadre di settari del campo di Montefortescenderebbero verso Napoli, serenerebbero nel campo di Marte, e la dimane 9 di luglio entrerebbero con grandissima pompa nella capitale e si fermerebbero sulla piazza della reggia per inchinare il Borbone.

Verso la sera designata arrivarono nel campo, ed anche colà il generale Napoletani. tornò ad insistere perchè si rinunziasse alla pazza mostra della dimane e che verso Palla Italia muovessero quelle armi e quelle bandiere; e perchè con aspri modi e con parole ingiuriose verso del Pepe espresse i suoi pensamenti, ne venne con lui a così forte alterco, che entrambi sguainando le spade si precipitarono l’uno contro l’altro, e si sarebbero finiti, se i canonici Cappuccio e Meneghini e molti altri settari non si fossero frapposti e gli avessero per forza separali. Napolitani dominato dalla propria convinzione, che abborriva quella mostra, entrò solo in Napoli quella notte, lasciando al Pepe tutto l’onore di essere chiamato dagli scaltri Borboni il salvatore della loro famiglia.


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CAPITOLO L

SOMMARIO

L’ingresso trionfale dei carbonari — Vanità umana — La rivoluzione tra i Cori e le canzoni — Come sapessero fingere i principi ed il re — L’arringa del general Pepe — La festa è finita e cominciano le trame — La libertà della stampa ingenera moltissimi mali e serve ai disegni della reazione — Nessun cittadino è immune dalle calunnie —Il giuramento di Re Ferdinando — Nuove finzioni —11 duca di Calabria si fa iniziare carbonaro — La sella nei reggimenti disfa la disciplina militare — Moralità dei lazzari nell’essere ascritti alla Carboneria— Scaltrezze del reggente coi ministri — In qual modo il legalo britanno e l’ambasciatore francese giudicassero la rivoluzione del 1820 — Tristizie diplomatiche — Squadre anglo-francesi nella rada di Napoli — Calunnie dei principi stranieri — Il generale Napoletani muore repentinamente — Sospetti di veleno — Congiura per una nuova rivoluzione — La notte del 31 agosto — Proposta d’imprigionare il Re e la famiglia reale — Commissari inviali nelle provincie — La polizia manda a vuoto le trame ed arresta molti capi — Insurrezione dei Siciliani — Le male arti dei Borboni — La Sicilia avversa a Napoli—Crudeltà consumale in Sicilia sui soldati napoletani — Insidie dei governanti per disunire i due popoli.

Sin dall’aurora del 9 di luglio la popolosa Napoli preparavasi alla festa: innumcrabili stuoli di tuttele condizioni, di sesso vario e di ogni età si avviavano da’ più remoti quartieri verso le strade di Foria e largo delle Pigne. La via di Toledo rassomigliava ad un vaghissimo giardino pei fiori che ornavano le finestre e le terrazze; in molti atrii dei palazzi gli studenti delle diverse provincie avevano eretto altari simbolici colle allegorie di ciascuna contrada e su quelle sventolavano i vessilli dei carbonari: presso ogni altare una scella musica rallegrava i cittadini con le melodiosearmonie dell'inno del poeta Rosselli (10).

Verso rollava ora del mattino scendevano dal campo di Marte le schiere, e percorrendo le vie del Reclusorio., degli Studi e di Toledo si avviavano verso il regale palagio. Precedeva lo squadrone di Borbone cavalleria (che poi si disse sacro) con Morelli e Silvati alla lesta: seguivano Meneghini e Cappuccio, i due canonici che furono i primi ad innalzare la bandiera dell'insurrezione: a questi eroi tenevan dietro i loro settari, quindi venivano le altre truppe stanziali unitesi agl’insorti, le milizie di Salerno e di Avellino e numerose frotte di carbonari armali. Ultimo in tanta gloria appariva il general Pepe «che allettando i modi del

R. Gioacchino (Colletta, storia,vol. Il), cercava di sorprendere un'occhiata, un saluto dalle nobili dame dai balconi e rendeva profondissimi inchini alle moltitudini che lo acclamavano.11 popolo però vero e solo distributore di omaggio a cittadino virtù accalcavasi intorno a Silvati e Morelli, e non potendogiugnere fino alla persona per abbracciarli, baciavano il cavallo, baciavano le staffe e i primi restauratori della libertà li proclamavano. Era delirio, era affetto incompreso ed incomprensibile di popolo, che esternava la propria gratitudine a due dei figli suoi: Morelli e Silvati caddero in un altro giorno vittime espiatorie della vendetta borbonica; ma presso a morire ricordando l'ora del popolare trionfo dovettero accettare il loro martirio, che lo straniero infliggeva ed era comune con quell'istesso popolo che tanto gli aveva lodati ed amati.

Arrivate le schiere nel largo di palazzo Pepe ascese nella reggia, e noi lasceremo parlare lui medesimo. «Baciata la mano al principe ed alla principessa (dice il Pepe pag.405 delle sue memorie) non con frasi studiate, ma col linguaggio che viene dal cuore, ecco presso a poco in qual modo mi espressi: — Da quel che scorgete, altezza reale non debbe rimaner dubbio nel vostro animo che la nazione desideri istituzioni largamente libere. L'esempio della Spagna e l' opera di un generale hanno potuto influire sulla prontezza e sul modo della mossa; ma questa in tutti i casi sarebbe avvenuta, dacché fu tentata da' popolani e da' capi dell'esercito anche al tempo di Gioacchino. Sua maestà, voi e tutti i reali, una volta uniti di cuore alla nazione, sarete gl’idoli suoi. Noi tutti delle Due Sicilie, prima di eseguire questa rivoluzione, ben sapevamo ch'essa dispiacerebbe all'Austria, di cui conosciamo le forze e le alleanze. Ma richiamando alla mente, che nel 1806 i Francesi, sebbene aiutati dalle armi e dal credito delle classi agiate, furono sul punto ben due volte di abbandonare il regno, dicemmo ora, clic nobili e popolani, ricchi e poveri, sapienti e ignorami desiderano la cosa stessa, venga lo straniero, nelle Calabrie faremo i nostri ultimi conti. E se contro i collegati, ma ingiusti sforzi dei potenti d’Europa ci avvenissedi cadere, non cadremo inulti, non cadremmo senza quell'ostinatoresistere da cui ridonda non infruttuosa fama agli oppressi. È augurio felice alla nazione l’avere acquistata la libertà, mentre qui approdava l'erede della corona che, secondo gli antichi usi, ha ripreso il titolo di duca di Calabria, titolo che fu si chiaro fra i nostri maggiori. In quanto a me, o principe, affinchéi miei sentimenti siano noli a voi ed a tutti i miei compatriotti, io dichiaro in presenza di questo numeroso consesso che, se sotto qualsiasi ragione o pretesto accettassi la più leggiera ricompensa, concedo fin da questo momento il diritto ad ogni cittadino di avermi qual uomo caduto nel fango. Allorché la nostra patria cesserà d'aver bisogno dei miei servizi, non solo il comando in capo, ma dimetterò altresì ogni militar servizio; poiché la carriera che ho percorso mi avrà frullalo il massimo dei beni, quello di aver contribuito alla rigenerazione della patria comune.

«I ministri ed i generali avvicinavansi intorno al Principe ed a me per ascoltar le mie parole, sicuri che avrei dello ciò che sentivo. Il vicario mi rispose, che era convinto del mio sincero patriottismo e del mio disinteresse; che suo padre ed egli avrebbero riguardata la causa della nazione qual propria causa, e che le felicità e le sventure di quella sarebbero state le felicità e le sventure della famiglia reale. Poi soggiunse, che bisognava andassi dal re, il quale mi attendeva ammalalo nel letto. Entrato col Principe nella camera di sua maestà, mi accostai al letto, e mi accorsi che il Reera ammalalo veramente di febbre, cagionatagli, èdura cosa, ma bisogna dirla, dalla paura. Eppure era nato sotto il cielo de’ cari lazzaroni, coi quali si affiatava da fanciullo; di que’ lazzaroni, che senza capo e senza consiglio, nei tempi di Masaniello o del generale Championnet, combatterono fuori e dentro la città con tanto valore, che non si crederebbe, se non fosse attestato da storici forestieri. A’ piedi del letto del reera la Principessa Partanna sua moglie. E’ mi stesela mano ch’io baciai, dicendogli: «Ora vostra maestà regna sul cuore di tutti.» Egli rispose: «Spero, generale, che ti condurrai con onore. S’immagini un vecchio Re che per mezzo secolo almeno aveva regnato a suo modo, ora ridotto a tremar di paura! Nei cinque ultimi anni, sebbene avverso ad ogni istituzione liberale, crasi mostrato giusto e favorevole ai buoni, e verso di me in particolare non avrebbe potuto esser più benigno, approvando sempre ciò che io faceva, fino a tollerare il dispregio fatto al lenente colonnello Lanzetti, uno de’ giudici di Murat. Io rimasi compunto (11) alle poche parole che profferì, e cercando mostrarmegli grato, presi e baciai di nuovo la sua mano, aggiungendo:

«Sire, èimpossibil cosa che dopo ciò che ho fatto mi crediate leale e d’intenzioni rette, ignorando alcune particolaritàdi mia vita. Fin da’miei primi anni ho credulo, che la terra in cui si nasce non èpatria, finché trovasi priva d'istituzioni e di leggi stabili, e che per ottenerle, far si debbo ogni sforzo a spese della vita e delle proprie affezioni. Gioacchino aveva bontà per me non comune; eppure tre volle cospirai per costringerlo a darci una costituzione. Ciò non tolse che nella campagna del 1815, per sostenerlo sul trono facessi il mio dovere, e piùancora, se mai è permesso ad un soldato di cosi dire.»

Il duca di Calabria, per farmi cosa grata, m'interruppe, dicendo:

«Maestà il generale Pepe se ne andò in Avellino colla brigata di cavalleria, perchè gli dissero che qui sarebbe stato arrestato. »

A ciò risposi: «Altezza reale io mal giustificherei la fidanza di cui mi onora in questo momento sua maestà, se confermassi ciò che vi hanno a torto riferito, lo mi recai in Avellino, perchè volli far opera secondo i miei principi; la mossa dello squadrone di Nola fu un mero incidente, senza del quale pochi giorni dopo, con ordine migliore, sarebbe successo quel ch’è successo; dacché ogni cosa era da me preparata, anzi, ove alcuni miei ordinamenti non fossero stati ritardati, la sollevazione avrebbe avuto luogo negli ultimi giorni di giugno. Affinchésua maestà e vostra altezza leggiate più chiaramente nel mio cuore, aggiungerò, che sono consonissimo in riflettere, che la presente mutazione di cose punto non lede la felicità della famiglia reale; ma, se gl’interessi di questa non avessero potuto conciliarsi con quelli della patria, sappiate che io avrei potuto morir di dolore, ma non mai abbandonare la causa nazionale. Non attribuite questa dichiarazione a mancanza di rispetto per la maestà sua, e per voi altezza reale; ma bensì attribuitela alla mia viva brama che ho di far palese la sincerità del mio cuore nell'ardua situazione in cui mi trovo...»

Ilvicario, prima di lasciarmi partire dalla reggia, volle presentarmi a’ suoi figliuoli: «Date la mano al generale perchè ve la baci. Ed io baciai la mano a que’ bamboli (Memorie di Pepe,cap. XXIX, pag.409.).»

A questa scena raccontata dal Pepo aggiungeremo taluni particolari del grave storico Colletta. Ei dice (pag.250, vol. 11):

«Il re stava disteso sul letto per infermità o infingimento; Pepe avvicinatosi, piegò a terra il ginocchio, baciò la mano che da sessantanni reggeva Io scettro, e sollevatosi, reiterò più modesta voce le cose poco innanzi delle al figlio. E quei rispose: Generale avete reso gran servizio a me ed alla nazione, e però doppiamente ringrazio voi ed i vostriImpiegale il supremo comando dell'esercito a compiere l' opera della cominciata sanla pace, che tanto onorerà i Napoletani. Avrei dato innanzi la costituzione, se me ne fosse stata palesata Futilità o l'universale desiderio, oggi ringrazio l'onnipotente Iddio per aver serbato alla mia vecchiezza di poter fare un gran bene al mio regno.E ciò detto licenziò col cenno gli astanti e porgendo al generale la destra, ma con tal alto che lo invitava a baciarla.11 generale la ribaciò e parli, sollecito di cogliere nelle sale del ministro le dolci primizie della fortuna e del comando.»

La sera di quel giorno vi furono luminarie e pubblici banchetti, i soldati vagarono liberi tutta la notte, i settari delle provincie e i militi prolungarono anch’essi le loro veglie; ma ad onore della rigenerala patria non un delitto, nemmeno un pensiero disonesto turbò la pubblica gioia.

Le illusioni pertanto di quelle mostre e della prima festa costituzionale durarono un giorno: i nemici latenti della libertà, i devoti del re assoluto si misero all’opera tenebrosa ed occulta, che ispirata dalla reggia doveva ben presto estendersi in tutte le classi della società, e corrompere i poco onesti, calunniare la virtù de’ molti, disanimare i più ardili o spargere dappertutto il brutto seme delle diffidenze o dei rancori politici.

Per suggerimenti maligni degli artefici del malfare surse una stampa quotidiana scorretta nelle forme, povera d’idee e velenosa od improba, non rispettando nessuna virtù, non apprezzando alcun sacrifizio: il re, i ministri, gl’impiegati, grandi e piccoli, le donne istesse, tutto veniva aspramente e spesso oscenamente conculcato e vilipeso; non sapremmo ridire quali e quanti opuscoli, libelli e manifesti venissero fuori in istile da trivio in quei primi giorni della libertà della stampa (12).

Dicevano poi i fedeli del re, che sotto il manto di ardente liberalismo eransi camuffali, esser deciso Ferdinando già debole per vecchiezza, sbattuto e stanco di vicende, propenso a’ comodi ed a’ piaceri, di accettare con gioia il sistema costituzionale, che lascia sulle spalle di ministri responsabili il grave peso della felicità pubblica; aggiungevano quegli accorti propalatori di buona fede borboniana, che il duca di Calabria nuovo ai barbari delitti del dispotismo, sempre perseguitato dalla madre Carolina, inciso all’Austria, che a lui preferiva il fratello principe di Salerno marito di Maria Clementina principessa austriaca, né caro al padre, dovesse per proprio utile ed affetto alle idee progressive abbracciare francamente la causa costituzionale. Con questi ed altri infingimenti cominciossi ad assonnare il popolo, perchè credesse nella lealtà de’ Borboni, e non si accingesse a scoprirne le trame e i segreti maneggi, che minacciarono sin da’ primi giorni il risorgimento liberale.

Con siffatti intendimenti il vecchio Ferdinando profittò d'una nuova scena, che a lui forni la prestazione del giuramento allo statuto di Spagna.

Al mezzogiorno del 13 luglio nel tempio del palazzo reale, al cospetto de’ membri della giunta provvisoria di governo, de’ ministri, de’ grandi della corte e di alcuni del popolo, dopo la messa Ferdinando salì sull'altare, stese la mano sicura sul vangelo, e con ferma ed alla voce pronunciò: lo Ferdinando Borbone, per la grazia di Dio e per la costituzione della monarchia napoletana, recol nome di Ferdinando i del regno delle Due Sicilie, giuro in nome di Dio e sopra i santi evangeli, che difenderò e conserverò la costituzione: se operassi contro il mio giuramento e contro qualunque articolo di essa, non dovrò essere ubbidito, ed ogni operazione con cui vi contravvenissi sarà nulla e di nessun valore. Così facendo Iddio mi aiuti e mi protegga; altrimenti me ne dimandi conto e mi punisca.

Ilgiuramento era scritto. Finito di leggerlo, il realzò il capo al cielo, fissò gliocchi alla croce e spontaneo disse: Onnipotente Iddio, che collo sguardo infinito leggi nell'anima e nell’avvenire, se io mentisco o se dovrò mancare al giuramento, tu in questo istante dirigi sul mio capo i fulmini della tua vendetta!! i fulmini non scesero e l’istrionecoronato ribaciò il vangelo e andò a mensa colla soddisfazione di aver burlato Dio ed il popolo napoletano.

Giurarono un dopo l’altro il duca di Calabria e il principe di Salerno, che prostrali al vecchio ree padre e da lui sollevati e benedetti, si abbracciarono lietamente: imperocché le lagrime che si vedevano sugli occhi al primo parevano di allegrezza.

Nell'istessogiorno e nei succedenti continuarono nella città e nel regno le cerimonie del giuramento: giurarono i timidi, i renitenti, gli avversi, le spie, i traditori, giurarono tutti sull’esempio del re, si rassicurarono le coscienze, e perfino Morelli o Silvati, Pepe, Meneghini e De Concilii e i più compromessi nell’impresa si persuasero della lealtà dei principi o il popolo credè veramente che fosse mutato il governo.

Continuando gl'inganni il principe vicario, il noto duca di Calabria, fecesi iniziare alla segreta sella dei carbonari, e pubblicamente questa sua affiliazione fu divulgala tra il popolo per maggiormente crescergli l’affetto e sbandire semprepiù ogni diffidenza. L’iniziatoredel principe vicario fu un monsignor Marcello (13), cameriere segreto del papa, antico e caldissimo settario, di buona fama e non scarso ingegno.

La rappresentazione teatrale del duca di Calabria carbonaro produsse due tristissime conseguenze; tutti contrari o favorevoli alla libertàvollero appartenere alla Carboneria e col numero affievolirono o falsarono io spirito della setta; mentre col permesso del governo si stamparono i catechismi, si divulgarono i misteri e si riuscì a togliere ogni prestigio alla polente associazione. L’avidità del lucro or si mescolò e si venderono i diplomi della sella a denaro contante onde tutelare i più accanii sanfedisti col nome di vecchi carbonari. Il governo, che aveva guadagnato Siniscalchi nominandolo prefetto di polizia, si accinse a corrompere un Giuliani gran maestro dell’alta vendita di Napoli, un Carmine Curzio, scegliendoli entrambi a commissari di polizia ed altri moltissimi dell'istesso conio. più tardi attirò alla sua causa un Pasquale Borelli, dotto nelle scienze, facondo oratore, ma (risto cittadino, e finalmente permise la suprema autoritàmilitare, che ogni reggimento avesse una vendita di carbonari, in cui la sera campeggiando la più perfetta uguaglianza, permettessero a’ soldatidi chieder conio a’ loro capi dello punizioni, che potevano infliggergli il giorno per mancamenti a’ doveri della milizia. Cosi in un sol corpo la disciplina degli eserciti fu distrutta, e i reggimenti divennero un’accozzaglia di uomini che si erodevano tutti uguali e tutti autorizzati ad infrangere ogni ordino di milizie.

I soli lazzari per verace spirito di affetto a que’ nuovi ordini dimandavano di essere ascritti alla carboneria, e appena vi erano aggregali che diventavano onesti, probi, ardimentosi: gl’infelici da tanti secoli spregiali e tenuti in distanzadalle classi culle ed agiate riprendevano la loro dignità nel considerarsi col fatto uguali ai cittadini ed anobili, che avevan fin allora creduli superiori, avevano le armi e in tutto il periodo costituzionale giammai le impiegavano per offendere nemici e rapire l’altrui sostanza: parchi, sobri, si offrivano spontanei a qualunque servizio di pattuglia o di guardia senza chiedere stipendio alcuno, bastava ad essi che fossero meschinamente nudriti; la Carboneria aveva reso morali e patriotti i discendenti di quello stesse turbe fanatiche che tanti delitti avevano commessi per suggerimenti dei preti nel 1799.

Fra i mezzi adoperati dal principe vicario per rendere affannosa la vita de’ ministri costituzionali vi erano quelli di prolungare i consigli fino all'alba, di discuter molto e di concretare quasi mai; mentre i suoi satelliti e gli scrittori prezzolati spargevano ogni calunnia contro di loro e dipingevano sempre il principe vicario piùliberale di quanti vi furono ministri, e furon molti che spesso con queste male arti cambiavansi.

La diplomazia estera veniva anch'essa in aiuto di tante perfidie. L'ambasciatore inglese sir Villiam Accourt aveva scritto al suo governo in un dispaccio del 10 luglio 1820:

«Questi rigeneratori neppure un'ombra di biasimo si avventurarono a gittaresui governo esistente; non altro promisero al popolo che la riduzione del prezzo del sale. Mai non erasi avuto governo più paterno e liberale; maggior severità e meno confidenza sarebbero riusciti ad altro.... spirito di setta, e Chiudila diserzione d'un esercito ben pagalo, ben vestito e di nulla mancante, causarono le rovine d'un governo veramente popolare. Temo non si riesca a scene di carneficinee confusione universale. La costituzione è la parola d'ordine; ma in fatto è il trionfo del giacobinismo, la guerra dei poveri contro la proprietà.»

Non dissimili erano gli avvisi del duca di Narbonne ambasoiadore della corte di Francia; e se i due rappresentanti de' governi costituzionali d'Europa cosi giudicavano una rivoluzione pura d'ogni delittoe che si era svolta sotto i loro sguardi, quali altre calunnie non furono sparse nel mondo dai legati de' sovrani assoluti d'Austria, di Prussiae di Russia? Sarebbe ormai necessario pei popoli che insorgono di considerare come i nemici più perniciosi i rappresentanti delle potenze estere, coloro che calunniano sempre ogni movimento popolare e colla menzogna predispongono i propri governi contro quei mutamenti.

Infatti a Napoli in seguito dei dispacci degli ambasciadori si videro arrivare nella metà d’agosto due formidabili flotte d'Inghilterra e di Francia, che venivano, dissero pubblicamente gli ammiragli, per tutelare la vita del re e della sua famiglia, e tanto era spinto il sospetto che quei principi corressero gravissimi rischi, che ogni sera sino pila mezzanotte i marini della flotta combinala lanciavano ogni quarto d'ora de' razzi, i quali illuminando la città permetteva ad essi salili sulle cime delle antenne di osservare quali cose seguissero.

Le simulazioni del governo, la mala fede dei principi e le avverse dimostrazioni delle potenze estere cominciarono a ingenerare sospetti ne’ più vigilanti carbonari, quando la morte inopinata del generale Napoletani, che si disse accaduta per veleno propinato (14), aggiunse nuovi timori di tradimento. Si pensò quindi di opporre una diga allo straripare della perfida ed occulta reazione.

Nella notte del 31 agosto riunironsi a convegno nelle sale del convento di S. Domenico Soriano centocinquanta gran maestri o delegati delle vendite, onde avvisare sui pericoli che correva la rivoluzione e farla rivivere con maggiore possanza. Intervennero all'adunanza gli uomini i più chiari della carboneria, i popolani influenti e i due sottotenenti iniziatori della rivoluzione, il Morelli ed il Silvati. La dubbia fede del governo non fu messa inforse, non fu impugnala da alcuno, la fiacchezza dei membri dell'alta assemblea e l’essere in gran parte corrotti dal principe vicario divenne convinzione universale, l’avversione manifesta di tutte le potenze d'Europa e particolarmente dell'Austria al regime costituzionale di Napoli divenne una prova di fatto pel contegno delle due armale ancorate nel porlo. L’avvenire della patria quindi giudicandosi pieno di pericoli e minaccioso per la causa della libertà, dopo lunghe ed animate discussioni fu deciso:

1° Si spedissero commissari nelle Calabrie, nei Principati, nelle Puglie e nella Terra di Lavoro, onde i carbonari e le milizie movessero verso Napoli nel più gran numero possibile.

2° Si attirasse la truppa stanziale nell'interesse della patria alla nuova rivoluzione.

3° Si formasse un campo di cinquanta mila uomini sui colli che circondano Napoli e si dimandasse agli ammiragli della flotta anglo-francese la vera causa della loro semi-ostilità verso un paese ove regnava l’ordine e si ubbidiva alle leggi. Gli ambasciatori delle due potenze indicate sarebbero invitati o a riconoscere immediatamente il governo costituzionale di Napoli o in caso di rifiuto riceverebbero i loro passaporti.

4° Altri commissari partirebbero per tutti gli stati d’Italia, onde promuovere in ogni paese la rivoluzione; mentre un esercito di centomila carbonari e militi varcherebbe le frontiere degli Abruzzi, di Ceparano e di Portella, onde aiutare colle armi il risorgimento italiano.

5° Un comitato di pubblica salute composto di cinque membri coi poteri degli efori di Sparta vigilerebbe sulla condotta del re, dei generali, dei ministri sino alla convocazione del parlamento, e in caso di pericolo o di tradimento convocherebbe il popolo per comizi onde avvisare sulle sorti della patria.

Pria di sciogliersi l'assemblea un giovine carbonaro delegato della vendita i figli di Nettunoparlò in questa sentenza:

«Saggi furono gli adottati provvedimenti, e fo voti perchè si compiano ed abbia da essi salute la patria; ma permettete, o cittadini, che una voce quasi adolescente osi ricordare ad uomini di alto senno e di consumata esperienza che i nostri mali hanno una sola origine: che le nostre miserie e i pericoli che ci sovrastano derivano da una sola sorgente, dalla perversità e dalla malafede dei Borboni. La violata capitolazione del 1799, gli spergiuri alla costituzione siciliana., i supplizi, i martiri e l’avversione ad ogni libertà ci rammentano il passato dei Borboni, le loro male opere del presente ci dicono che non mutarono natura o consiglio, e confideremo ad essi il nostro avvenire? No, o cittadini, male si affida colui che lascia comandare la propria famiglia ai Borboni, e nemici nostri sono i Borboni. Io propongo adunque, che alle misure sancite debba promettersi quella di condurre nella rocca di Sant’Elmo il ree tutta la reale famiglia. Una guardia di scelti carbonari l’abbia in custodia, e francamente diciamo ai governi d’Europa, che tutti ci avversano essere decisi di seppellirci sotto le ruine della patria, ma di seppellire con noi i Borboni.»

Fragorosi applausi accolsero le parole del carbonaro; ma la discussione intralciandosi fu deciso di riprenderla in una nuova riunione dell’assemblea, al ritorno dei commissari dello provincie.

La polizia, i ministri ed il principe vicario sapute le determinazioni dell’assemblea ne incarcerarono i membri i più arditi, fra i quali il procuratore generale della provincia di Lecce Domenico Palladini; ne sedussero molti, guadagnarono i capi delle truppe, corruppero i più influenti carbonari delle provincia e i disegni della notte del 31 di agosto 1820 rimasero senza effetto, e la rivoluzione, che soltanto con divisamenti energici poteva salvarsi, continuò ad infiacchirsi e a pericolare, fino a che lo straniero compì Peperà cominciala dai principi e dai traditori.

La rivoluzione di Sicilia, provocala con somma sagacia dal principe vicario e dai suoi agenti, venne ad accrescere in quel tempo gl’imbarazzi dei Napoletani e ad indebolire colla discordia civile le loro forze morali e materiali.

É la Sicilia (lo dobbiamo dire con dolore) per opera iniqua dei governanti interamente avversa e contraria ad ogni bene del popolo napoletano. i Borboni vi reclutarono spesso esecrandi uomini (il Vanni, il Sambuli, lo Speciale ed altri scelleratissimi), di cui servironsi per insanguinare le nostre contrade: due volte (t799 e 1805) la Sicilia accolse i fuggenti Borboni e gli fu larga di ossequi, di sovvenzioni d'uomini e d’oro; e allorché Ferdinando riedeva nell'isola infamato dal supplizio di Caracciolo e macchiato del sangue di quattromila Napoletani, vi era accollo da trionfatore, e il popolo educato agli odi e alle vendette verso i loro compatrioti di terrafermaapplaudiva a lui, a Nelson, ad Emma Lyona e a Carolina, a tutt’i carnefici di Napoli.

Nel 1820 appena udita la rivoluzione di Napoli insursero i Siciliani in nome della loro indipendenza, non contro i Borboni, ma contro gl’impiegati e i militi napoletani, e per primo pegno di affetto verso Napoli cominciarono a scannare, a crocifiggere non pochi soldati napoletani ed a sventrarne le mogli e le figliuole (15). i Borboni avevano raggirali ed istigali i Siciliani a quegli eccidi e sventuratamente essi gli compirono.

Nel 1848 nuovamente affacciarono la quistioned'indipendenza, o gl’infelici nuovamente servirono i disegni dei Borboni, e finirono per essere trucidati e manomessi dall'esercito dei carnefici di Borbone. Miserandi tempi e fraterno discordie noi ricordiamo, onde i due popoli fatto senno una volta si avveggano, che le pazze loro ire servono a consolidare la dominazione e la tirannide borboniana. Non sono i Napoletani la causa dei dolori della Sicilia, né i Siciliani l’origine dello strazio napoletano: sulle due provincie italiane un solo genio tenebroso e nemico vi distruggo il bene, v'ingenera il male, il genio dei Borboni.


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CAPITOLO LI

SOMMARIO

Le notizie di Sicilia commuovono Napoli — i pessimi consigli stanno per provocare rappresaglie — molti Siciliani si ricovrano nella reggia— Disegni di abbruciare il palazzo reale — buoni cittadini intervengono e salvano i Siciliani e la famiglia dei Borboni — Florestano Pepe comprime l’insurrezione siciliana con la forza delle armi e coi miti provvedimenti — generale Colletta succede al Pepe e si mostra severo con gl’indipendenti di Sicilia — L’ambasciatore napoletano a Pietroburgo e Re Ferdinando — L’accorgimento dell’uno superato dalla malizia dell’altro — i re dell’Europa si stringono a congresso— Movimenti di eserciti contro Napoli — Carascosa ministro di guerra apparecchia in due mesi fioritissimo esercito — Come fossero accolti in Napoli gl’italiani delle altre provincie — Chiamata dei vecchi soldati—Accorrono festosi alle bandiere—Dimostrazioni patriottiche delle popolazioni — Fisonomia del parlamento napoletano — i tre partiti — La mediazione della Francia con poco senno respinta — Si voleva sostituire la costituzione francese alla spagnuola — Trame reazionarie — Il messaggio del di 8 dicembre — Carascosa congiura con le truppe e col re per cambiare le basi dello statuto — Errori del parlamento — Si permette al re di andare a Lubiana — Ferdinando scrive a Carascosa per sospendere il movimento — Parole memorabili di questo generale — Partenza di Ferdinando — Le sue lettere subdole e gli atti del congresso di Lubiana — Una lettera del Neri Corsini sui disegni degli alleati e sulla fede del re di Napoli.

I racconti delle crudeltà consumale in Sicilia, ampliale dalla fama in Napoli, produssero tumulti, e ad istigazione di tristi stavano per incominciare efferate rappresaglie, quando lo zelo e l’operosità di chiarissimi cittadini impedirono che la rivoluzione napoletana fin allora pura ed incontaminata riportasse infame macchia di aver messo le mani nel sangue d’innocenti Siciliani (16).

Ma se calmaronsi gli sdegni di Napoli continuarono le insanie de’ Siciliani, insistendo nel fatale pensiero di separarsi dal regno di qua dal Faro, prepararono armi e difese per combattere contro i propri connazionali e persistere nelle loro furiose passioni: queste determinazioni erano segretamente incitate da tristissimi agenti del Borbone, il quale colla divisione di due popoli agevolava allo straniero la via di prostrarli entrambi uno dopo l’altro. Si spedirono truppe in Sicilia per reprimere l’insurrezione. Florestano Pepe, fratello del Guglielmo, e molto più di lui distinto ed apprezzato per l’ingegno ed i talenti militari, venne preposto a quella impresa, e con una divisione di fanti e di cavalli, che non oltrepassava le sette migliaia, vinse i Siciliani in molti scontri, prese di viva forza i sobborghi di Palermo combattendo di casa in casa ed entrò per capitolazione nella metropoli della Sicilia, usando mitezza cogl'insorti e reggendo le truppe napoletane con quell'ordine e disciplina, che distinguono i popoli civili. La convenzione però del 5 ottobre, conchiusa tra il Florestano Pepe ed i Palermitani, non fu mantenuta dal vicario, perché era utile al fabbro d'ogni inganno di alimentare gli odi de’ due popoli. Florestano Pepe fu rivocato come negoziatore di troppo larghi accordi ed a lui fu sostituito il generale Colletta, che avendo fama di severo ed onesto amministratore, riuscì a far lacere le velleità dell'indipendenza de’ Siciliani, a farvi osservare la costituzione di Spagna ed a tener l’isola unita con Napoli, se non che incostanza e debolezza di popoli, come osserva l’istesso generale Colletta nelle sue Storie (pag.271), gli eletti deputati della Sicilia, che dovevano sedere al parlamento napoletano, sapendo l'esercito austriaco sul punto di muovere contro Napoli, e le sorti costituzionali declinanti, ricusarono per vari pretesti l’onorevole ufficio; e però l'opposizione allo stato di Napoli, detta in prima dell’intera Sicilia, poi di due provincie, quindi d’una città, si ridusse a nove persone, per proprio vanto pertinaci e superbe, nel fatto paurose e scaltre peggioravano le cose esterne: le principali corti, la Russia, la Prussia e l’Austria, riprovavano il nuovo stato di Napoli, la Francia non lo riconosceva, taceva l’Inghilterra; e benché la Spagna, la Svizzera, i Paesi-Bassi e la Svezia facessero formale riconoscimento, era poca la sicurtà in confronto del pericolo. Sapevasi che i recontrari si adunavano a congresso in Troppau per consultare delle cose di Napoli; dicevasi che nuovo esercito austriaco fosse sceso dalle Alpi; mentre le navi d'Inghilterra e di Francia sempre più crescevano di numero nel golfo. Il ministro di Napoli residente presso la corte di Russia, il principe di Serra Capriola, scriveva privatamente al re: «Vostra maestà comanda che io giuri per il nuovo stato di Napoli,e qua corre fama che forza di ribellione, non libera volontà, le abbia imposto quel mutamento. Che farò io, cosi avverso a disubbidire a’ suoi comandi, come a nuocere i suoi interessi? Rimetterò a vostra maestà in questo foglio segreto il mio giuramento; affine che Io mostri o lo distrugga secondo a lei giova e piace…»

Il renel consueto infingimento pubblicò la lettera del Serra Capriola e vi aggiunse lodi e gli prodigò onorificenze; ma piùtardi lo condannò a duro esilio.

Il re intanto non a’ soli congressi si attenevano; la Russia avviava poderoso esercito verso l'Alemagna, e la Prussia, benché terza nella riscossa, anch’essa riuniva truppe ed artiglieria. D'altra parte le simpatie de’ popoli erano per Napoli; Francesi, parecchi Prussiani, e perfino i Russi si offrivano campioni della napoletana libertà: il generale Vilson ed un altro inglese offrivano se stessi e quattro reggimenti di volontari; e sebbene tutta Italia chetasse e perdesse il prezioso momento di operare pel comune riscatto, parecchi militari italiani accorrevano in Napoli, ove trovavano non ospitalità di sole parole, ma cittadinanza, soccorsi, stipendi ed impieghi, e di queprodi nostri compatrioti! formavasi il 13° reggimento delle fanterie di linea. Soli i Napoletani e minacciati da tutta l'Europa pensano a difendersi; e se i destini non fossero stati avversi, i generali di nessunafede ed il principe vicario sfacciatamente traditore, si sarebbero al certo difesi, ed ove non fossero riusciti a vincere sarebbero caduti con gloria; avvegnaché nel settembre di quell'anno 1820 erasi già approntalo un fioritissimo esercito di quarantamila fanti e cinquemila cavalli colle artiglierie corrispondenti, e Carascosa ministro della guerra dopo averlo cosi bene ordinato in due mesi dava opera ad accrescerlo chiamando alle bandiere gli antichi soldati di Murat e mobilizzando le milizie provinciali. E ad onore d'Italia lo diciamo, in meno d'una settimana quarantamila vecchi soldati risposero festosi e plaudenti all'invito della patria avviandosi a’ luoghi di deposito designali; mentre i comuni o i privati cittadini contribuivano un assegno mensile alle famiglie de' generosi e si obbligavano solennemente di continuarlo ove cadessero in quella guerra. Miserando destino de’ Napoletani l’esser sempre grandi ne’ sacrifici e sentirsi sempre infamare e calunniare!

I deputati eletti a rappresentare il paese sedevano nel parlamento e costituivano tre partiti, cioè quello dei progressisti forte di numero, fortissimo per aiuti di popolari tribune, ma non fornito di eloquenti oratori; l'altro componevasi d’incuriosi, di timidi inchinevoli al bene, ma taciturni, e potendo più negli scrutini col volo, che alla tribuna colla parola: erano essi che formano sempre nelle assemblee le docili falangi dei centri obbedienti a qualunque ministero.11 terzo partito contava nel suo seno i più illustri oratori del paese; quivi militavano Matteo Galdi, Pasquale Borelli ed il barone Giuseppe Poerio, né minor fama avevano per gli scritti un Nicolai, marchese di Canneto, il Dragonetti e il presidente della gran corte criminale di Lecce, Paolo Melchiorre, antico rappresentante del popolo nel 1799. Le discussioni politiche, le questioni legali ed altro atto di amministrazione o di pubblico reggimento offrirono vasto campo all'ingegno italiano, che l'Europa leggendone i processi verbali delle adunanze mcravigliavasi come in sì coito tempo di vita costituzionale tanto senno a tanta dottrina congiunto fosse surlo in quella estrema regione d’Italia, che pe’ casi del 1799 credevasi barbara ed ignorante. E la corte di Francia ingelosita degli armamenti del settentrione e convinta che maturi fossero i Napoletani per la libertà, proponeva la propria mediazione fra Napoli o le potenze del nord al patto, che si rinunziasse alla costituzione spagnuola e la francese vi venisse sostituita; kma in quel lempo essendo cresciuta la boria di Pepe (dice il Colletta), che fidando nei gridi e rassegne di militi e legionari desiderava la guerra e credeva la pace sventura e vergogna, hsi respinsero le offerte della Francia e si continuò a menare il paese verso lo abisso che doveva inghiottirlo.

Fallitii disegni di Francia nuovi inganni si ordirono dal ree dal vicario. Ferdinando dimandò agl'imperatori di Russia e d’Austria una lettera, colla quale lo invitassero a raggiungerli in Lubiana, ove si sarebbero discussi i punti principali della costituzione napoletana, dovendosi ad ogni patto modificare. Il chiesto messaggio fu tosto spedito dai tre principi, e allora manipolato nella reggia di Napoli un altro messaggio s’inviava al parlamento, col quale il rediceva, che chiamato dai sovrani alleati, quantunque vecchio ed infermo, egli andrebbe a Lubiana nel cuore dell'inverno, per essere mediatore di pace fra i redell'Europa ed il tuo popolo,promettendo solennemente, che avrebbe adoperato ogni mezzo per far consentire i sovrani ad uno statuto sulle seguenti basi:

1. La libertà individuale sarebbe assicurata;

2. Niuna imposizione si sarebbe stabilita senza il consenso della rappresentanza nazionale;

3. Si renderebbe conto di tutte le spese pubbliche;

4. Le leggi sarebbero fatte dal ree dalla rappresentanza nazionale;

5. Il potere giudiziale sarebbe indipendente;

6. i ministri sarebbero responsabili;

7. Una legge avrebbe fissata una lista Civile;

8. La libertà della stampa.

Soggiungeva, che in ogni caso i fatti della rivoluzione di luglio sarebbero tenuti innocenti; e chiudeva il foglio col domandare, che lo accompagnassero al congresso quattro deputati per essere consiglieri e testimoni.

Pubblicato il messaggio altre trame si ordirono nel palazzo fra il generale Carascosa ministro della guerra, il reed il vicario. i reggimenti della guardia reale, un battaglione di zappatori del genio comandato dal fratello di Carascosa, interamente divoti ai Borboni, sotto gli ordini del ministro dovevano agire nel caso che il parlamento respingesse il messaggio. Prometteva il ministro di sperderecolla forza l’assemblea imitando il generale Bonapartee la sua impresa liberticida dell'8 brumajo, e cosi messi in fuga i deputati colle armi riunirne poi buon numero di sedotti o di timidi, perchè avessero sotto la pressione soldatesca accettalo quell'istesso reale messaggio che avevano col pieno esercizio della libera volontà rigettato. La mattina dell'8 dicembre 1820 aprivasi nel parlamento la discussione su quel foglio del regale tradimento, e intanto Carascosa teneva in pronto le armi e le insidie aspettando un cenno del reper irrompere contro là rappresentanza nazionale: spaventevoli scene di tumulti e di sangue si preparavano e forse sarebbero terminate colla distruzione dei Borboni!

Aprivasi la seduta del parlamento fra le accalcate moltitudini delle tribune e gli assembramenti della piazza. Giuseppe Poerio fu il primo ad aprire l’arringo con una magnifica orazione, splendida di forme e di pensieri, ma dannosa e tremenda alla patria pel partilo proposto, cioè di rigettare il messaggio e di permettere al reche partisse per Lubiana. Ed un barone Poerio, che aveva conosciuti i Borboni nei propri casi dei 1799, per essere stato sepolto per essi in una fossa dell'isola di Favignana, osava in un pubblico parlamento di affermare «che fosso leale Ferdinando i che il discendente di san Luigi e di Enrico IV, che il più canuto redell’Europa,, andrebbe in Lubiana per sostenere il dato giuramento, i diritti del suo popolo e la religione della sua coscienza.»

Queste illusioni del Poerio, afforzate con altro discorso eloquente del traditore Porcili e contradette solamente dal dottissimo Nicolai, dominarono le menti dei deputati e delle tribune, e il più pessimo del partito fu volato quasi all'unanimitàdei deputati e fra le acclamazioni della folla.

Il generale Carascosa, che attendeva il cenno del re e che di mezz'ora in mezz’ora riceveva comunicazioni dalla camera, udita la deliberazione, inviava un suo aiutante di campo a re Ferdinando per mettere in movimento le truppe; ma ne aveva in risposta il seguente laconico biglietto: «Generale, sospendete ogni cosa, il parlamento mi autorizza a partire, e cosi trovasi esaudito il più grande dei miei desideri.»

Il ministro non dissimulò il suo dispetto, e richiamando dal suo cuore un'orma di patriottismo, esclamò coi suoi familiari: misera Napoli, noi saremo tutti perduti.Ei sapeva quali fossero i consigli del re e del vicario, e fatalmente per lui e per il paese aiutò più tardi a mandarli ad effetto.

I preparativi del viaggio compì in breve tempo Borbone; e comechè temesse sempre del popolo, de' soldati e fino de’ marinari francesi ed inglesi, doppiò gl’infingimenti e con un nuovo messaggio dichiarò, che sosterrebbe nel congresso le ragioni del suo popolo, i diritti della corona, i suoi giuramenti alla conceduta costituzione di Spagna; e che ove non fosse ascoltato, ritornerebbe assai a tempo in Napoli per difenderlo coll’esercito. Raccomandava finalmente al vicario di non discontinuare dagli armamenti, nè cedere a lusinghe o speranze di pace, prima che i sovrani assentissero al mantenimento della costituzione di Spagna, e ripeteva la dimanda che lo accompagnassero quattro deputati per esser testimoni della sua fede e delle sue parole nel congresso (17).

Risposero i deputati con un indirizzo al messaggio, e nel presentarglielo Rovelli ed altri delegati, il rerispose: «Io vado al congresso por adempire quanto ho giuralo. Lascio con piacere l'amalo figlio alla reggenza del regno. Spero in Dio che Voglia darmi tutta la forza necessaria alle mie intenzioni.»

Scrisse altre lettere alfiglio, non pubbliche, né da re, ma private e da padre, ed il reggente, per maggiormente addormentare il popolo, le rendeva palesi; diceva:

«Benché più volte io ti abbia palesato i miei sensi, ora li scrivo acciò restino piùsaldi nella tua memoria. Del dolore che provo nell’allontanarmi dal regno mi consola il pensiero di provvedere in Laybach alla quiete del miei popoli ed alle ragioni del trono. Ignoro i proponimenti dei sovrani congregali; so i miei che rivelo a te, perchè lu li abbi a comandi regi e precetti paterni. Difenderò nel congresso i fatti del passato luglio, vorrò fermamente per il mio regno la costituzione spagnuola; domanderò la pace. Cosi richiedono la coscienza e l’onore. La mia età, caro figlio, cerca riposo, ed il mio spirito, stanco di vicende, rifugge dall’idea di guerra esterna e di civili discordie. Si abbiano quiete i nostri sudditi, e noi, dopo trentanni di tempeste comuni, afferriamo un porlo. Sebbene io confidi nella giustizia dei sovrani congregati e nella nostra antica amicizia, pur giova il dirti, che in qualunque condizione a Dio piacerà di collocarmi, le mie volontà saran quelle che ho manifestate in questo foglio, salde, immutabili agli sforzi dello altrui potere o lusinga. Scolpisci, o figlio, questi detti nel cuore, e siano la nonna della reggenza, la guida delle tueazioni. Io ti benedico e ti abbraccio.»


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CAPITOLO LII

SOMMARIO

L'urto notturno delle due navi —.Ferdinando va a Baia col vascello il Vendicatore — i grandi dello stato vanno a visitarlo, ed egli continua a fingere — Lealtà del duca d’Ascoli in qual modo ricompensata da Borbone — Decisioni del congresso di Lubiani con l’assentimento di Ferdinando — La forza distruggerà la costituzione — Lo spergiuro del re è consumato Gli Austriaci sotto gli ordini di Frimont arrivano alla frontiera — Errori del generale Pepe — Tradimento degli altri generali — L’esercito si sbranca — Gli Austriaci entrano in Napoli — Reazione — i carbonari frustati pubblicamente — Canosa di nuovo ministro di polizia—Trame dei sanfedisti sventate dagli Austriaci — Canosa esiliato per ordine di Frimont — Processi e supplizi — Ferdinando non risparmia neppure il generale Carascosa — É condannato a morte in contumacia — Nuove insidie contro i liberali — Il bey di Tunisi più umano di Borbone — Il congresso di Verona —Viaggio di Ferdinando — Da Verona va a Vienna —Altri supplizi —I pubblici giuochi —Il confessore del re ed il biscazziere — Le messe di mille ducati — Avidità d'un chiercuto — Il re molto più onesto del confessore Morte di Ferdinando — Da chi fosse assistito negli ultimi momenti.

Dopo queste simulazioni e proteste s'imbarcò la mattina del 14 dicembre sul vascello inglese il Vendicatore;ma la notte scontratosi con una fregata seguirono danni reciproci fra i due navigli, e questa rientrò a Napoli per ripararsi e il Vendicatore andò a Baia, ove i principi e le deputazioni di tutte le classi della città si recarono a condolersi col repel corso pericolo, e fu visto con meraviglia come il maligno ingannatore anche sul vascello inglese portasse all'occhiello del vestito il nastro tricolore de' carbonari. Un fatto più grave narreremo.

Il duca d'Ascoli compagno da trent’anni del rene' ruvidi piaceri della caccia, nelle dissolutezze degli amori e nelle regie fortune, educato alle sventure, fedelissimo, andò anch'egli per visitarlo a Baia, e dopo essersi rallegrato seco lui per aver schivalo ogni danno dal pericolò della notte, aggiunse:

«Spesso è un bene accanto al male; senza questo accidente non avrei potuto parlare a vostra maestà, quando non è indiscreto il richiedere. Ella parte, noi restiamo smarriti, senza comando e senza esempio.»

E quegli rispose: «Duca d’Ascoli, farei scusa ad ogni altro della dimanda, ma non a te che da fanciullezza mi conosci. Dopo il giuramento, le pròmesso, le patite tempeste, la grave età, il bisogno di vivere riposato, come vuoi credere ch’io voglia guerra co’ miei popoli, e nuovi travagli, nuovo vicende? Io vado al congresso intercessore di pace; pregherò. la otterrò, tornerò grato a’ miei sudditi. Voi che qui restate, manterrete la quiete interna, e se avverso destino lo vuole vi apparecchierete alla guerra.»

Il duca d’Ascoli onesto e leale scoppiava in pianto commosso da quei detti, che credè sinceri, e prendendogli la mano gliela baciava con entusiasmo esclamando:— Evviva vostra maestà, che onora i principi e la monarchia. — Funesta pianto, fatale commozione; perciocché il resospettandolo propenso a libertà e tornando da Laybach e stando ancora a Roma decretò l’esiglio del suo vecchio amico, e scrisse al vicario, che preferirebbe piuttosto di non rientrare a Napoli, che più incontrarsi nella vita col duca d’Ascoli, ed il misero vecchio accorosseno tanto che ne mori di doglia. Questo fatto solo basterebbe a definire la tremenda natura di Ferdinando I.

Nel congresso di Laybach il reassentendo si decisero i destini di Napoli. Un esercito austriaco, che sarebbe seguito in caso di sconfitta da' Prussiani e da’ Russi, moveva contro Napoli a punire la colpa della rivoluziono napoletana, che «non prodotta da povertà o disperazione, non compagna di delitti, non cagione di danni, lasciando illese le proprietà, la civiltà, lereligioni, era solamente un bene scevro di mali, una libertà nuova, bella, facile, innocente (Colletta, pag.273, vol. II).»

Avanzarono gli Austriaci guidali dal generale Frimont. Quali cose seguissero negli Abruzzi, sul Volturno e fra le gole d'itri diremo in,poche sentenze. Tradirono i generali Carascosa, Filangieri ed Ambrosio la causa della patria, tumultuarono i soldati, si ribellarono le guardie reali, s’infranse la disciplina, e le divisioni accampate a Mignano e Fondi e presso Itri si mutarono in una ciurmaglia di sciagurati, che senza vedere il nemico, sedotti da occulte mene, si dispersero per ogni parte. Il general Pepe, perduto ogni senso politico e militare, invece di attendere il nemico nelle forti posizioni degli Abruzzi scese nella pianura colle milizie provinciali ad attaccarlo senza cavalleria e senza cannoni; eppure que’ militi borghesi sostennero per piùore una lotta disuguale; ma finalmente oppressi dal numero e dalle ordinanze degli Austriaci si ritirarono confusi e disordinati. Il generale Pepe continuando ne’ suoi errori e sospettando ch’ei fosse la vittima espiatoria della rivoluzione e de’ traditi suoi colleghi pensò a salvarsi, o dagli Abruzzi prese lena a Barcellona nelle Spagne,.

Entrarono gli Austriaci, e il principevicario allegro ed ilare fregandosi le mani ripeteva a’ suoi familiari: — Oh bella la partita che nel pericoloso giuoco io vinsi.— Tornò Ferdinando, accigliato, pieno d’ira e di vendette, e seco condusse l’atroce Canosa, che nominò di nuovo ministro di polizia. Cominciarono i processi, furono destituiti in massa impiegati civili e militari, che non erano stati operatori di rivoluzione, ma solamente eransi mostrati propensi al nuovo reggimento: non vi rimase famiglia che non piangesse un congiunto, un amico o sepolto nelle prigioni o fuggente in terra straniera.

Il Canosa infuriando faceva martoriare i detenuti ed a spettacolo della plebe due carbonari fece pubblicamente frustare nudi per le vie di Napoli, e spingendo oltre i suoi efferati propositi rianimò la setta de' calderari, distribuì ad essi i soliti diplomi coll'emblema del pecoro, e accarezzando di nuovo il disegno di massacrare in una sola notte i liberali della capitale e del regno si videro nel giugno del 1821 sulle porle de’ palazzi o delle case nere e rosse strisce, che significavano per la sella morti, arsioni e saccheggi. E già Napoli sarebbe andata in fiamme e condotta all'ultimo eccidio della discordia civile, quando l’avvocato Chirigone Clercon ne avvertiva il generale Frimont, e questi presentatasi al ree gli proponeva o di far partire fra due ore dal regno il ministro Canosa, o che egli adunando l’esercito varcherebbe la frontiera, non potendo esporre le sue truppe ai rischi d’un generale sollevamento del paese e a’ disegni di cosi barbara congiura.

Ferdinando spaventato sbandì nuovamente Canosa, che ricovrossi presso un altro tiranno, Francesco IV duca di Modena, ove continuò ad insanire colle gazzette e colle congiure de’ sanfedisti delle Romagna e del ducato (18).

Allontanato il Canosa passarono i pericoli d’un generale macello, non allentarono le persecuzioni e gli strazi d’ogni ceto di persone: partito uno scellerato ne sursero cento e si videro con vergogna i magistrali più oscuri insozzarsi in quel fango: i Brundesini, i De Girolami diressero non da magistrati, ma da birri e carnefici lo istruzioni del processo, e poscia i dibattimenti di meglio che duecento accusali dellarivoluzione di Monteforte, tutti ufficiali delle truppe, che prima proclamarono la libertà.Sevizie, inganni, violazione della difesa, tutto fu messo in opera, e finalmente trenta de’ principali capi de’ reggimenti vennero condannati all’ultimo supplizio e tutti gli altri puniti di galera e di ergastolo. Ferdinando commutò la pena di morte in quella di trent’anni di ferri per ventotto de’ condannati, e volle che i due soli sotto-tenenti Morelli e Silvati portassero la testa 3ul palco. Morirono que’ due prodi come avevano vissuto da eroi, e il Morelli particolarmente da fiero ed indomito calabrese respinse i cosi detti conforti della religione, ripetendo ai preti che lo circondavano — a che mi vantate la giustizia del vostro Dio? Se egli esistesse o fosse giusto dovrebbe cominciare dall’incenerire con un fulmine il respergiuro!

Caddero le due teste, il cadavere di Morelli perchè impenitente fu geliate In una fossa di calce viva nel secondo cortile della prigione di San Francesco, e della rivoluzione napoletana non rimasero, che le pagine della storia, le quali per altro non servirono che per rammentare a' Napoletani nel 1848 quale fosse stata semprela fede de’ Borboni.

A’ brutti mancamenti del re successero le tristizie del papa, che non solo aveva dichiaralo Ferdinando sciolto dal giuramento, ma ingiungeva a' confessori in una solenne enciclica di rivelare il segreto del tribunale di penitenza, ove le madri, le sorelle, le figliuole accusassero 1 loro congiunti di appartenere a’ carbonari, o se i penitenti medesimi lo dichiarassero, e in questa guisa la polizia scandagliò le coscienze e si valse d’un sacramento per compiere piùferoci vendette.

Terminato il processo dei rei presenti il governo diè mano a quello degli asserii e scelse pe’ primi Pepe, Meneghini, Cappuccio, Russo ed altri; ma con stupore dell’universale vi aggiunse quell’istesso generale Carascosa cosi devoto a’ Borbotti e primo fra i macchinatori dello scioglimento delle truppe. Furono tutti condannati a morte, e por maggior dispregio dei codici a tutti con un pretesto furono confiscali i beni. La reazione forsennata non rispettava piùalcuno, non osservava nessuna legge, l’arbitrio sfrenato, polente, iniquo tutti i cittadini faceva uguali e tutti gli perseguitava.

«Era tanto il numero de’ Napoletani proscritti o fuggiti; che se ne trovavano in Italia, in Germania, in Francia, in Ispagna, in Inghilterra, in America, nelle città bar-bare di Egitto, di Grecia; la più parte miseri, vivendo per fatiche di braccia o di mente; nessuno disceso a’ delitti e alle bassezze, che in età corrotta più giovano i nessuno ascritto ad infami bandiere contro i Greci. Si videro casi miserevoli: figliuoli orbali di padre inpaesi stranieri abbandonati; padri orbati di figli morti di stento; un’intera famiglia (madre, moglie, cinque giovani figli) naufragata; altri cacciati da ogni città, con moglie inferma, in istagiooe nemica, indossando due bambini e reggendo il terzo per mano andare per la ventura cercando ricovero e pane) altri gettarsi volontario nel Tevere e morire. Tutti infelici per la tristizia de’ Borboni (Colletta, pag.329, vol. II.).»

Spedita la causa di Montefortee le altre per i tumulti di Messina, Palermo, Laurenzana, Calvello, e quella di Giampietro ed altre cause minori, sfogale cento vendette o della legge o dello sdegno, versalo tanto sangue di cittadini e tanto pianto, non però Si mitigava l’acerbità dei castighi. Furono condannati a morte in contumacia e poco appresso dichiarati nemici pubblici nove fuggitivi, primi de' quali i generali Carascosa e Pepe. Fu intimato per editto a settecento e più cittadini di andar volontari alle prigioni, per essere giudicali secondo le leggi, ovvero uscir dal regno con passaporti liberi, senza indizio di pena: aggiungendo promesse di benignità agli obbedienti, minacce a’ ritrosi. Erano costoro rei o timidi che stavano sospettosi ed armati nelle campagne, non entravano nelle città, mutavano le stanze, sempre liberi, ma di pericolosa libertà. Dopo l'editto, ehi secondo il proprio senno restò più guardigno nei boschi, chi fidando all'innocenza si presentò per il giudizio, e cinquecentosessanta chiesero di partire. Ebbero i passaporti promessi; e, stabilito il cammino ed il tempo, andò ciascuno nel prefisso giorno al confine del regno. Ma, impediti da ministri pontifici, si adunarono nella piccola città di Fondiove il seguente giorno i commessi della polizia e le genti d'arme li accerchiarono e condussero, prima nella fortezza di Gaeta, poi nelle prigioni della città. La polizia fu lieta e superba del riuscito inganno: parecchi de’ traditi furono giudicati e mandati alla pena, altri ottennero passare a Tunisi (19) o in Algeri, regni barbari e soli in questa età civile che dessero coi tese rifugio ai fuoruscili; il maggior numero, non giudicato o espulso restò in carcere, materia sofferente della tirannide, poi balestrala in mille guise dagli uomini e dal caso (Colletta, storte, ibidem.).

Chiamato il rea novello congresso in Verona, si destarono nel regno le speranze di miglior governo, conforti rinascenti di popolo afflitto spesso delusi. Il rein breve tempo si apprestò alla partenza e si mosse. Usciva dalla reggia quando il Vesuvio vomitava torrenti di fuoco, abbuiava il cielo per cenere, scuoteva intorno la terra, orrori e pericoli meno spaventevoli a noi, come frequenti. Giunse a Verona con sontuosa pompa, essendo genio dei Borboni magnificarsi per le ricche apparenze. In Napoli null’altro sapevasi del congresso fuorché uffici scambievoli e riverenti, feste, cerimonie, diletti. Qualche cosa di stato si conobbe al cominciar dell'anno 23 per la pubblicala circolare del congresso agli ambasciatori di tre potentati, russo, prussiano, austriaco.Diceva che, a richiesta del redi Piemonte, uscivano da quello stato i presidi austriaci, ed a richiesta del redi Napoli minoravano (da quarantaduemila a trentamila) nelle Due Sicilie. Parlando della Grecia, e biasimando la ribellione di quelle genti all’impero legittimo dei turchi, palesava che la Santa Alleanza avrebbe invialo eserciti a sostegno della legittimità ottomana, se l'imperatore delle Russie non avesse preso impegno di conciliare gli interessi dell'umanità e dei troni.

Trattava infine della Spagna, e adombrando la vicina guerra, diceva, che si richiamerebbero gli ambasciatori da quello stato sconvolto.

Sciolto il congresso di Verona, il redi Napoli andò a Vienna. L'età grave di lui, la stagione invernale (era il dicembre), l’allontanamento da’ piaceri della caccia e dell'impero, il viver privato, deposte le usanze di lunga vita, accreditavano il sospetto ch'egli lasciasse il freno del governo al figlio duca di Calabria, per rinunzia stabilita nel congresso, le quali pubbliche speranze presto caddero col suo ritorno in Napoli. Ma è cosa certa, sebbene oscura, che nel congresso fu trattato di quella rinunzia e della separazione dei due regni della Sicilia per disegni dell'Austria, contraddettidalla Francia, fallati per voto dell'Inghilterra. Tornato il rein Napoli, si fecero nella città luminarie e feste, in corto circoli ed arringhe, sdegnandosi il mondo alla eccessiva adulazione de’ soggetti ed all’alterezza del rein tanta pubblica miseria, colla coscienza dei comuni fatti. Il principe Ruffo e il generale Clary, poco innanzi nominati ministri, furono dimessi, non meritevoli della presente sventura, nè della fortuna precedente, il cavalier Medici ritornò nella sincera grazia del re, che gli accrebbe onori e potere.

Cessate nell'assenza del re le condanne di morte, il popolo si rinfrancava dal terrore, quando poco dopo il ritorno furonogiustiziati cinque carbonari, che nel 1820 usciti di taverna ubriachi, traversando fugacemente in carrozza la città detta Cava, sventolarono le insegne della sella, e gridarono voci di libertà; ma infeconde di tumulti o delitti. Al tempo stesso rinvigorirono tutte le specie del rigore, non per nuovo comando del re; ma perchè i ministri e magistrati suoi, vedendo l'animo regionon inchinato a nessuna pietà, speravano maggior favore e più larghi premi straziando gli afflitti. Tanto più sicuramente, perchè caduto in quel tempo il governo costituzionale delle Spagne anche là furon visti tradimenti, fughe, vituperi, tutta la debolezza dei novatori moderni. «E però che in Napoli le sofferenze del popolo e le tristizie del governo durarono costanti, simili, continue per tutto il tempo racchiuso in questo libro (dice il Colletta), io, argomentando l’animo de' leggitori dalla mia propria sazietà e melanconia, e bastando le già dette cose a rappresentare la miseria dei tempi, cesserò di narrare altre morti, esili, fughe, povertà: sventure pur troppo ripetute in queste mie storie. Di tutte le riforme costituzionali una sola rimase e fu quella della proibizione dei pubblici giuochi. Un milanese, Domenico Barbaja, l'ottenne da Saliceti, e speculando sull’infame vizio arricchì, e lui già povero vide Napoli in splendidi cocchi e in fastose ville: non destarono il governo dei refrancesi e dei restaurati Borboni i moltiplicati suicidi, le truffe, i furti, chequei pubblici giuochi ingeneravano: l'immorale ed ingorda finanza incassava centomila ducali all'anno, e per quell’infame profitto lasciava che i padri di famiglia si ruinassero e gli studenti e la gioventù tutta vi si pervertisse. Nel 6 di luglio 1820 la coscienza pubblica si commosse e i medesimi studenti nel caldo delle nobili passioni eccitale dal sublime istinto della libertà sentirono orrore del vizio e corsero colle armi, il popolo plaudendo, a chiudere di propria autorità l'iniquo ritrovo dei giuochi, e per pudore il nuovo governo fu obbligato a sancire l’operalo degli studenti.

Sperò il Barbaja con la restaurazione del governo assoluto di riaprire i suoi giuochi, ma trovò ostacolo insormontabile nella coscienza del re; e allora l’accorto milanese sapendo che quella coscienza trafficava il confessore monsignor Caccamo offri a costui una messa di mille ducati, che accettava dall'avido vescovo, venne ripetuta a giorno fisso per molte settimane, e quando il destro biscazziere presuméche lo scrigno del frate fosse colmo, che la somma fosse abbastanza cospicua, trattò apertamente con Sua Grazia e promise di doppiare l'intiera cifra delle messe se strappasse al reil desiderato permesso di riaprire le bische: quel vile mercante di anime accettò il contratto e pose ogni studio per decidere il reale penitente allatto immoralissimo; ma contro ogni sua aspettativa Ferdinando perseverò nelle ripulse e Barbaja sopportò la perdila di venticinque messe (venticinquemiladucati) inutilmente celebrale; mentre il cupido confessore aumentò il patrimonio, ma fu sempre piùspregiato ed abbonito.

Verso il cadere dell’anno 1824 ammalò il re, ma leggermente, e tornò poi alle cacce ed ai teatri. Nella sera del 3 gennaio 1825 cenò copiosamente, e dopo il giuoco e la preghiera andò a dormire. Diffidente di tutti quelli che le servivano preferiva di farsi guardare da un cane grossissimo e feroce della razza dei mastini: una doppia catena riteneva la furibonda bestia presso il letto del requando egli usciva dalla stanza; ma entrato il refra le coltri e licenziati 1 servi scioglieva ii cane e niuno più osava entrarvi, perchè ne sarebbe stato divorato. Allo svegliarsi di sua maestà pria legava il cane e poi suonava pei domestici. La mattina del 4 gennaio battél'ora consueta e non udissi il campanello: i servi attesero; si accostarono all’uscio e sentirono 1 fremiti del mastino come se guardasse una preda e se ne spaventarono: chi vegliava alla custodia del re nelle vicine stanze assicurò di averlo inteso tossire verso le sei del mattino. Erano le dieci antimeridiano ed egli solea chiamare alle olio: si fece consiglio tra i famigliaried i medici, essendo uso di quella corte che i medici assistano al destarsi del re, e gli uni e gli altri concordi decisero di entrare. Pensarono al pericolo che bisognava affrontare col mastino se fosse ancora sciolto, chiamarono gli alabardieri del palazzo, i quali con quelle armi del medio evo impugnate entrarono i primi nella stanza, e comechè il cane si avventò per isbranarli l'uccisero. Entrati i servi e 1 dottori ad ogni passo crescevano i sospetti, e furono viste le coltri ed i lenzuoli disordinati e in essi avvolto il corpo del recosi stranamente, che pareva aver lottato per lungo tempo; un lenzuolo gli avvolgeva il capo, e quel viluppo ai nascondeva sotto al guanciale; le gambe, le braccia stravolte, la bocca aperta come a chiamare aiuto o spirare le aure della vita; livido viso e nero, occhi aperti e terribili: metteva spavento. Accorse la famiglia, altri medici arrivarono e non rimase più dubbiezza o speranza: il reera morto di apoplessia.

Cosi si spense Ferdinando dopo settantasei anni di vita e sessantacinque di regno; degli uomini ebbe tutti i vizi, tutte le passioni, o dei rele più triste inclinazioni: goffo, abietto, ignorante, non senti pietà, non provò affetti se non ai suoi propri piaceri abbisognavano; arguto, perspicace, fornito di Maturale ingegno, ma per pigrizia abbonente fino dal pensare: la gola, il sonno e i grossolani sollazzi costituivano l'insieme della scioperala vita: dominato dai ministri, dominalo e raggiralo dalla moglie, fu burlato marito, tristo padre, pessimo re: della sua morte strana e terribile accolse Napoli e serbò la fama il seguente distico:

Accadono in ver gran cose strane,

Moriva un lupo e l’assisteva un cane.


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NOTE

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1

La setta dei Calderari era la medesima de’ Sanfedisti, che dicevasi istituita da Giuseppe Maistreda colui che santificò il carnefice e lo chiamò il gran sacerdote dell’espiazione, V'erano ascritti come capi un Monaldo Leopardi, il Cavedoni, il Canosa e più tardi il duca di Modena ed il duca del Genovese ed altri principi e prelati. i calderari di Napoli (sanfedisti nelle Romagne ubbidivano al Canosa. Si riunivano in luoghi appartati e giuravano sulla croce cieca obbedienza al papa, odio a tutti liberali, e nei loro riti avevano per costume d’immergere ciascuno il proprio pugnale nel corpo d’un agnello e nei diplomi distribuiti agli affigliati della setta vedevansi effigie di croci, di coltelli e di pecore. Scopo supremo della setta era di costituire una Italia sacerdotale sotto il gran prete. E qui giova osservare di volo che le idee del primato di Gioberti coincidessero esattamente con quelle dei sanfedisti, in quanto alla supremazia papesca. Avevano i calderari segni per riconoscersi, parole d’ordini e simboli e una bandiera d’un sol colore il rosso tremenda scita era questa di assassini e di ladri.

Ecco il giuramento dei Sanfedisti o Calderari, setta instituita in tutta Italia dal Canosa e dal reverendo cardinale Bemolli. — Instituzione per i fratelli della cattolica apostolica società dei Sanfedisti.

GIURAMENTO

Io N.N., in presenza dì Dio onnipotente Padre, Figliuolo e spirito Santo, di Maria sempre vergine immacolata, di tutta la corte celeste e di le onoralo padre, giuro di farmi tagliar piuttosto la mano diritta, la gola, di morire dalla fame e fra i più atroci tormenti, e prego il signore Iddio onnipotente che mi condanni alle pene eterne dell’inferno piuttosto che tradire o ingannare uno degli onorandi padri della cattolica apostolica società, alla quale in que. sto momento mi ascrivo; e se io non adempissi scrupolosamente le sue leggi e non dassi assistenza ai miei fratelli bisognosi, giuro di mantenermi fermo nel difendere la santa causa che ho abbraccialo, di non risparmiare nessun individuo appartenente all’infame combriccola de’ liberali, qualunque sia la sua nascita, parentela o fortuna; di non avere pietà né dei pianti de’ bambini, né dei vecchi, e di versare fino all’ultima goccia il sangue degl’infami liberali, senza riguardo né a sesso, né a grado. Giuro infine odio implacabile a tutti i nemici della nostra santa religione cattolica romana unica e vera.

PAROLE DI PASSO E COLLOQUIO DI RICOGNIZIONE

Saluto. Evviva! Risposta. Evviva pure! Dimanda. Abbiamo una bella giornata?

R. Domani spero che sarà meglio.

D. Sarà bene perchè la strada è cattiva.

R. In breve sarà accomodata.

D. E in qual modo?

R. Cogli ossi dei liberali.

D. Come vi chiamale?

R. Luce.

D. Di dove viene la luce?

R. Dal cielo.

D. Che pensate oggi di fare?

R. Di perseverare sempre a separare il grano dal loglio.

D. Qual è la vostra parola d’ordine?

R. ***

D. Qual’è la professione di fede?

R. La distruzione de’ nemici dell’altare e del trono.

D. Quale la lunghezza del vostro bastone?

R. È abbastanza per abbatterli.

D. Qual pianta l’ha prodotto?

R. Un albero seminalo in Palestina, cresciuto nel Valicano, sotto la fronda del quale stanno coperti tutti i fedeli.

D. Vi proponete voi di viaggiare?

R. Sì.

D. Dove?

R. Verso i lidi della fedeltà e della religione, a bordo del navicello del pescatore.


SEGUE PER GL’INIZIATI D’UN ORDINE SUPERIORE

D. Evviva! Siete il ben venuto, ditemi per la seconda volta, chi siete voi?

R. Un vostro fratello.

D. Siete voi uomo?

R. SI certamente, ed acconsento che la mia mano diritta e la mia gola sia tagliata, di morire di fame e fra i più atroci tormenti, se mai tradissi o ingannassi un fratello.

D. Come fate per conoscere un uomo fedele al suo Dio e al suo principe?

R. Con queste tre parole: fede, speranza ed unione indissolubile.

D. Chi vi ha messo fra i sanfedisti?

R. Un uomo venerabile coi capelli bianchi.

D. Come ha fatto a ricevervi?

R. Mi ha fatto porre in ginocchio sopra la santissima eucarestia e mi ha armato di un ferro benedetto.

D. In che luogo vi ha ricevuto?

R. Alle rive del Giordano, in luogo non contaminato dai nemici della santa religione e dei principi, nell'ora istessa che nacque il nostro divin Redentore.

D. Quali sono i vostri colori?

R. Col giallo e col nero mi copro la testa, e copro il cuore col bianco e giallo.

D. Sapete voi quanti siamo?

R. Siamo certamente in numero sufficiente per annientare i nemici della santa religione e della monarchia.

D. Qua) è il vostro dovere?

R. Di sperare in nome di Dio e della sola vera madre la chiesa cattolica romana.

D. Da dove viene il vento?

R. Dalla Palestina e dal Valicano: questo disperderà tutti i nemici di Dio.

D. Quali sono i nodi che ci stringono?

R. L'amore di Dio, della patria e della verità.

D. Come vi addormentate?

R. Sempre in pace con Dio e colla speranza di svegliarmi in guerra contro i nemici del suo santo nome.

D. Come si chiamano i vostri passi?

R. Il primo Alfa, il secondo Arca di Noè, il terzo Aquila imperiale, il quarto le chiavi del cielo.

Coraggio adunque fratello e perseveranza

Del Canosa poi aggiungeremo un brano dei suoi scritti, onde dalle proprie opere giudicarlo.— Nell'esperienza ai Re della terra cosi scriveva:

«

Principi miei, che cosa fate? Il mondo va tutto in precipizio, il fuoco arde sotto i vostri troni, la cancrena corrompe la società, e voi vi battete le mani sull’anca, applicale qualche cerottello inconcludente su piaghe sterminate e non adottale provvedimenti vigorosi e validi?.... Voi per zelo malinteso della sovranità avete levato ai comuni tutt'i loro diritti, tutte le loro franchigie e libertà e avete concentrato nel potere ogni moto e ogni spirito di vita. Con questo avete reso gli uomini stranieri nella propria terra, abitatori e non più cittadini delle loro città, e dell’abolizione dello spirito patrio è sorto lo spirito nazionale. Distrutti gl’interessi privati di tutti i municipi, avete formato di tutte le volontà una massa sola, ed ora vi trovate insufficienti a reprimere il moto di quella mole terribile e smisurata. Divide et impera. Voi vi siete dimenticali di questa massima scolpita nel fondamento dei troni: avete preteso regger il mondo con una redine sola, e questa vi si è spezzata nelle mani. Divide et impera. Dividete popolo da popolo, provincia da provincia, città da città, lasciando ad ognuno i suoi interessi, i suoi statuti, i privilegi suoi, i suoi diritti e le sue franchigie. Fate che i cittadini si persuadano d’essere qualche cosa in casa loro; permettete che il popolo si diverta coi trastulli innocenti de’ maneggi, delle ambizioni e delle gare municipali; fate risorgere lo spirito patrio colla emancipazione dei comuni, e il fantasma dello spirito nazionale non sarà più il demonio imbriacatore di tutte le menti.»

Il suddetto Canosa esclamava parimente:

«

Un'altra causa principale dello sconquassamento del mondo e la troppo diffusione delle lettere, e quel pizzicore di letteratura che e entrato anche nelle ossa dei pescivendoli e degli statlieri. Al mondo ci vogliono i dottori e i letterati; ma ci vogliono anche i calzolai, i sarti, i fabbri, gli agricoltori e gli artieri di tutte le sorti; ci vuole una gran massa di gente buona e tranquilla, la quale si contenti di vivere sulla fede altrui, e lasci che il mondo sia guidato coi lumi degli altri, senza pretendere di guidarlo coi lumi propri. Per tutta questa gente la letteratura è dannosa, perchè sollecita quegl’intelletti che la natura ha destinati ad esercitarsi dentro una sfera ristretta, promove dubbi che la mediocrità delle suo cognizioni non è poi sufficiente a risolvere, accostuma ai diletti dello spirito, i quali rendono insopportabile il lavoro monotono e noioso del corpo, risveglia i desideri sproporzionati alla umiltà delle condizioni, e con rendere il popolo scontento della sua sorte lo dispone a tentativi arrischiati per conseguire una sorte diversa. Perciò, invece di favorire smisuratamente l’istruzione e la civiltà, dovete con prudenza imporle qualche confine, e considerate che se si trovasse un maestro, il quale con una sola lezione potesse rendere tutti gli uomini come Aristotile, e civili come il maggiordomo del Re di Francia, questo maestro bisognerebbe ammazzarlo subito per non vedere distrutta la società. Lasciale i libri e gli studi alle classi distinte e a qualche ingegno straordinario che si fa strada a traverso l’oscurità del suo grado; ma procurate che il calzolaio si contenti della lesina, e il rustico del badile, senza andarsi a guastare il cuore e la mente alla scuola dell'alfabeto.»


2

Le royaume des Deux Siciles sera rendu aux Bourbons. Càpefiguc, Le Conqrés de Vienne, pag.77.

3

Di questi patti col pontefice che offendevano la potestà regia, umiliavano il re, dicevasi con-cordato, vi si aggiungevano altre sconce parole .

4

Il re andò prima a caccia in Persano, uccise molti cinghiali dalle lunghe zanne e gli mandò in Roma in regalo al papa ed ai cardinali; indi arrivò lui, e dopo la moglie Lucia Partanna, onde gli arguti Romani facevano dire a Pasquino:

Con le zanne innanti,

E con le corna indietro (*)

Venne Fernando

A vistar San Pietro.

* Allusioni ai cinghiali ed alla moglie Partanna nota per la galanti gesta.

5

Tutti questi particolari della scena stanno scritti nel processo diesi svolse dinanzi le corti criminali di Salerno c di Napoli.

6

Epiteto.

7

Il tenente d’Apice e il capitano Maldura.

8

Noi abbiamo visto negli archivi del parlamento i boni delle vettovaglie prese dagl’insorti giorno per giorno, compagnia per compagnia, e possiamo accertare che il 4 di luglio la forza de’ carbonari ascendeva a dieci migliaia. Questi boni servirono poi come documenti di convinzione contro gli accasati nel processo di Monteforte.

9

Noi abbiamo vista la lettera autografa.

10

Tutti conoscono il famoso inno di Gabriele Rosselli.

Sei pur bella cogli astri sul crine,

Coronata di vaghi zaffiri,

È pur dolce quel fiato che spiri

Porporina foriera del di.

Tu ci annunzi dal balzo vicino

Che d’Italia nell’almo giardino

Il servaggio per sempre finì.

cc. cc.

11

Ci siamo forse ingannati nel giudicare il generale Pepe di poco senno politico? La sua credenza nella buona fede di Ferdinando è più che bastevole per dimostrarlo con le sue proprie confessioni.

12

Fra tutte le pubblicazioni di quell’era costituzionale del 1820 bisogna eccettuare il giornale La Minerva e i dialoghi in dialetto napoletano editi col titolo della primma chiacchieriata du cuorpo de Napole e du Sebeto. La Minerva scritta meravigliosamente dal distinto Liberatore e da altri letterati brillava per le discussioni politico-sociali. i dialoghi spiegavano al popolo la costituzione e i doveri del cittadino libero.

13

Monsignor Marcello raccontò a noi, al Colletta e a molti altri commensali la scena della iniziazione del principe vicario, aggiungendo il dabben uomo: «di Ferdinando possiamo dubitare, ma non del duca di Calabria, essendo divenuto uno dei più caldi carbonari, un nostro buon cugino. Ed io mi ci conosco dal modo come ripeté meco il giuramento!» Monsignor Marcello è morto nell'esilio e buon per lui che fuggi.

14

Il fratello del generale Napoletani giudice della gran corte criminale di Napoli ci assicurava che nell'aprire il cadavere trovaronsi quasi distrutte le viscere per la forza del veleno. Si diceva pubblicamente che fosse stato avvelenato il generale da un medico che gli amministrò del farmachi per una leggiera indisposizione. Lo sciagurato era povero, divenne ricco dopo la morte del generale. Questo prode soldato ed ottimo patriotta erasi attirato l'odio della corte per aver proposto di spingere la rivoluzione in Italia e per essersi ricusato di andare nella reggia e lasciarsi invischiare dalle subdole arti del principe vicario.

15

Fra le molte vittime che potremo citare ricorderemo la sposa dell’aiutante maggiore Rhut, che fu stuprata, e incinta di sette mesi fu sventrala nella pubblica piazza. Il Rhut sposò poi in seconde nozze la vedova principessa di Carinola siciliana, che avea tentato invano di salvare la vittima.

16

Nel movimento del popolo contro i Siciliani, parecchi di essi corsero a ricovrarsi nella reggia invocando l’ausilio del vicario, e la gioventù non solo incalzava quei disgraziati Ha presso le truppe che schieravansi a guardia del palazzo; ma ebbe in pensiero di bruciare la reggia per distruggere i fuggitivi insieme ai Borboni, che più siciliani, che napoletani considerava, allorché per l’intervento di sommi cittadini si calmarono te furibonde passioni e la città chetò.

17

Per meglio chiarire come fossero leali le promosse di re Ferdinando e sotto quali vedute s'inaugurava il congresso di Laybach, trascriviamo una lettera del plenipotenziario toscano a quel congresso, ove furono chiamati altresì i plenipotenziari di tutti gli altri stati italiani.

Lettera di D. Neri Corsini al consigliere Leonardo Frulloni, da Laybach, sulle segrete trattative di quel congresso in rapporto delle cose italiane, e specialmente sulle leggi colà discusse per il reame di Napoli.

Laybach, il 30 gennaio 1821.

Pregiatissimo e carissimo amico.

Ho promesso di scrivervi particolarmente tosto che avessi potuto veder chiaro sulle intenzioni che qui si avevano intorno al regime interno futuro degli Stati d'Italia ed in specie de^ regno di Napoli.

Oltre tutto ciò che vedrete nel dispaccio che indirizzo alla segreteria degli affari esteri, devo aggiungervi, che non ci è stata, né poteva esserci idea alcuna di proporre istituzioni da adottarsi da tutti gli stati d'Italia come statuto comune, e molto meno di suggerire cambiamenti in veruna parte della legislazione degli stati rispettivi.

Non può essere questione neppure di una confederazione fra gli stati italiani; progetto che incontrerebbe opposizione invincibile anche in varie potenze straniere, e clic la saviezza del ministero austriaco si è astenuta dall’accennare, attesa la gelosia che il protettorato di questa confederazione, necessariamente esercitole dall’imperatore, avrebbe ispiralo nelle altre principali potenze, ed attesa anche l'opposizione che la corte di Sardegna, diretta ed ispirata dalla corte di Russia, avrebbe fatto ad un tal progetto D'altronde i principi clic vedreste sviluppati in una memoria del governo inglese contro l'intervento dei tre potenti alleati nelle cose interne degli stati indipendenti d'Italia, fuori del caso di avvenimenti che per il loro carattere minaccino la sicurezza degli stati vicini, sarebbero stati sempre un ostacolo a questa confederazione, quando anche, come veniva fatto nelle deliberazioni di Troppau, si volesse colorire sotto l'aspetto di ammissione o esclusione della alleanza, di cui le tre potenze d'Austria, di Russia, di Prussia si sono dichiarale capi e direttrici.

Dileguati così e nella parie più essenziale i dubbi che aveva destalo l’improvvisa chiamala degli stati italiani a questo congresso per provvedere insieme con loro alla sicurezza dello stato futuro d’Italia ed alle misure che dovevano garantirla, la quistione si è assai semplicizzata; giacché si e ridotta a deliberare quali istituzioni dovranno essere stabilite nel regno di Napoli, ed in questa deliberazione si è voluto fare intervenire gli stati italiani, perchè nulla si facesse di contrario a quello che esiste negli altri governi della penisola, onde non si eccitasse appunto nei popoli desiderio inopportuno d’innovazione.

La casa d’Austria, più di tutte interessala ad allontanare queste innovazioni, era esitante per il dubbio percorso sulle disposizioni del governo Sardo, a cui, oalmeno ad un forte partilo in quel ministero, si attribuiva l’idea di voler introdurre un regime costituzionale o quasi analogo, attese le discussioni che si facevano di piani relativi ed interna organizzazione, e de’ quali nel mio dispaccio ragguaglio la segreteria degli affari esteri.

Una spiegazione, che o spontanea o per ordine della sua corte, il ministro russo a Torino ebbe col primo ministro del re di Sardegna, fece conoscere quanto si era ivi lontani da idee costituzionali, e dissipò il timore eccitatosi, spiegando su quali oggetti si stava travagliando per migliorare molte parli della legislazione interna di quel regno.

Un lungo dispaccio del ministro russo a Torino comunicato al ministero austriaco avendo rassicuralo pienamente sulle intenzioni di quella corte, fu proposto immediatamente ed adottato di far chiamare i ministri degli stati italiani.

Dall'istoria che vi ho tracciato, vedete chiaramente che la direzione e le intenzioni sono state sempre pure in tutti anche in rapporto a costituzioni, delle quali l'istesso imperatore Alessandro ha veduti i pericoli; perloché non solo ha cambialo linguaggio, ma l’ha fatto sul suo esempio cambiare anco ai ministri.

Non si tratta più dunque di difendersi da progetti lesivi dell'indipendenza degli stati, o per un vincolo federale, o per una costituzione di statuto comune; ma solo di preservare il regno di Napoli da istituzioni pericolose per lui e per gli altri, e di fare evitare gli errori nei quali anche con retto fine potrebbero cadere i ministri delle principali potenze, non conoscendo gli umori politici delle popolazioni d'Italia, e stimando indifferente quello che nelle circostanze diverrebbe funesto per la tranquillità di tutti.

A tal effetto, ho creduto prima (Fogni altra cosa di far sentire al plenipotenziario del re di Napoli, uomo savissimo e di antichissima mia relazione, che quanto il suo sovrano aveva bisogno di lasciar fare gli altri ciò che volevano per distruggere la rivoluzione di Napoli, altrettanto doveva farsi padrone assoluto del nuovo ordine di cose da stabilirsi nel suo regno; e che quindi non doveva aspettare che altri prendessero l’iniziativa, ma doveva egli stesso portare un progetto approvato dal suo re, e di questo progetto formare la base ed il soggetto della discussione.

Adottata da lui subito questa idea, ha desiderato concertarsi col Marchese di San Marsano e meco per la redazione di questo progetto, che hanno voluto farmi redigere, e che ho corretto a misura delle discussioni che abbiamo avuto fra noi.

Partendo dal principio, che nelle monarchie pure, quali sono tutte quelle d’Italia, su di che non nasce controversia, il potere legislativo non può essere disgiunto dall'esecutivo, direttivo ed amministrativo, siamo rimasti tutti d'accordo, che nelle presenti circostanze neppure la discussione delle leggi poteva separarsi dalla dipendenza dell'autorità reale (*), e che sarebbe stato pericoloso d'introdurre la forma dell'interinamento o registrazione delle leggi già sanzionate dal sovrano, quando questo interinamento o registrazione dovesse farsi, sia da un corpo politico, sia da un corpo giudiciario, benché nominato dal sovrano, specialmente quando a questi corpi si desse un' autorevole rappresentanza che potesse riputarsi equivalente di una rappresentanza nazionale.

Quindi, nel nostro concetto, la sanzione sovrana deve essere F ultimo sigillo della legge discussa consultivamente avanti un corpo non molto numeroso e scelto dal sovrano; ed in tal guisa non vi può mai esser luogo a rimostranze da avanzarsi da corpi politici e giudiciari contro la legge già firmata; e voi sapete dall’istoria, che queste rimostranze sono state sempre il principio delle turbolenze, anco negli stati monarchici. Si è rigettata ancora l’idea di fare che in questo corpo da istituirsi ci devono essere necessariamente soggetti scelti dall’uno o l’altro dogli ordini dello stato, come nobiltà, ecclesiastici, giudici, cittadinanza; poiché non si é voluto risuscitare idea di ordini o privilegi: tanto più che lo spirito rivoluzionario agisce adesso in senso inverso da quello che faceva nei principi della rivoluzione francese; ed in luogo di corrompere ed agitare il popolo, attacca e corrompe le classi superiori, per giungere al popolo per il loro mezzo e per la loro influenza.


(*) Ben diverso era il concetto che si faceva in quei giorni medesimi dei bisogni delle popolazioni italiche e dei doveri o meglio del senno necessario ai governi italiani, da uno straniero più sinceramente e più passionatamente monarchico dei più di coloro che addirizzavano a quei giorni la monarchia sopra una via pericolosa e poco accorta, dico il visconte di Chateaubriand. Egli scriveva da Berlino al presidente del consiglio, barone Pasquier, in data del 20 febbraio 1821, dando il suo parere sugli affari napoletani, non credendo forse possibile né compatibile con la politica naturale di Francia una prolungata occupazione del regno.

«

Il faut affranchir Naples de l’indépendance démagogique, et y établir la liberté monarchique, y briser des fers, et non pas y porter des chaînes. Mais l'Autriche ne veut pas de constitution à Naples: qu' y mettra-t-elle? Des hommes ? ou sont-ils ? Il suffira d'un curé libéral et de deux cents soldats pour recommencer. C'est après l'occupation volontaire ou forcée que vous devez vous interposer pour établir à Naples un gouvernement constitutionnel, où toutes les libertés sociales soient respectées.»

Fissate così le nostre massime, ho redatto un progetto di decreto o legge normale, ove si stabilisce un consiglio di ministri, col voto dei quali il sovrano decide tutti gli affari ordinari che devono risolversi dal potere direttivo ed amministrativo supremo; ed una consulta di stato, che dovrebbe essere divisa in due, l’una per il regno di Napoli, F altra per la Sicilia; ed a queste consulte dovrebbero essere rimesse, per l’ulteriore esame e parere, tutte le proposizioni che devono essere convertite in leggi, e promulgate come tali; ed inoltre vari altri affari più gravi, come il budget annuale dello stato, il reparto delle imposizioni dirette fra le diverse provincie, il contenzioso amministrativo nella parte in cui non dovesse secondo le leggi essere deciso dai tribunali, l’omologazione di tutte le alienazioni di beni demaniali, ecclesiastici, comunicativi, e di tutte le corporazioni qualunque.

Queste consulte peraltro non dovrebbero prendere l'iniziativa di alcun affare, e solamente opinare sopra gli affari che gli venissero rimessi per ordine del re, a cui dovrebbero sottoporre il loro voto e il re decidere, e dopo la sua sanzione non ci dovrebbe essere altra formalità da adempire che la pubblicazione della legge.

Voi sapete che in Piemonte i quattro senati di Torino, Genova, Nizza e Chambery, interi, nano ancora le leggi, e che il tribunale denominato la camera dei conti interina quelle delle finanze, e tutti hanno diritto di fare delle rimostranze che il re attende o non attendo; ma che queste rimostranze si protocollano, come la risoluzione negativa del re.

Simili forme, che in Piemonte si lasciano sussistere, perchè sarebbe oramai urtante l’abolirle, e perchè non producono fin adesso inconvenienti, sarebbero pericolose a Napoli dopo tutto quello che vi e accaduto, e presto diverrebbe un mezzo di aperta opposizione al sovrano.

Quanto alla scelta dei membri, delle consulte, si è inserito un articolo, ove si dice, che il re li sceglierà fra gl’impiegati che esercitano le cariche più eminenti dello stato, e fra i proprietari tanto della capitale, che delle provincie. Questi consultori non sono costituiti inamovibili; ma dopo due conferme da darglisi di tre in tre anni diverranno consultori a vita, ed allora essendo messi in stato di ritiro otterranno una pensione; ma si riserva sempre al sovrano di non comprenderli nel ruolo annuale che deve fare delle consulte.

Tali sono le basi del lavoro di cui è stato già parlato al re, e quando esso l’avrà approvato, si prepareranno le strade cogli altri principali ministri per schiarire e superare le difficoltà.

La parte riservala agli altri ministri d’Italia sarà quella di non aderire e di opporsi a qualunque istituzione pericolosa, e che non possa combinarsi con quello che esiste nei loro stati e eccitare desiderio d’innovazione.

Qualche difficoltà peraltro si trova nel re di Napoli, il quale, come suole accadere nelle disgrazie degli stati, ne dà la colpa ai suoi ministri, e crede che non convenga lasciare ai ministri che poca autorità, dicendo, che quando essi sono soli a decidere gli affari, nasce fra loro una coalizione di cui divien padrone il più astuto o il più ardito.

Quindi il suo concetto sarebbe ammesse le Consulte, che verrebbero meno numerose di quelle proposte (di ventiquattro membri per Napoli e dodici per la Sicilia), di creare un consiglio di stato composto di ministri senza dipartimento, e che questi dovessero dare il loro voto al re sulla decisione degli affari che venissero presentati da ciascun ministro avente dipartimento, introducendo in questo consiglio ad uno per volta e non insieme i ministri per render conto degli affari e dare il loro parere.

18

Ecco un nuovo documento del Sanfedismo, professione di fede dei sanfedisti.

Sì mìserum quenquam sursum consurgere cernis

Fac ruat ac jaceat, dummodo nemo sciat

Si quis obesi, occide etsi tibi carior adsit,

Aut lingua, aut ferro, dummodo neno sciat.

Religio vesti sii, quam induis, escuis, ut vis;

Mentem nulla ligat, dummodo meno sciat

Ista clientelae sunt jura perennia nostrae:

Fingere, mentiri, dummodo meno sciat (*).

(*) Si noti che L'ordine della Santa Fede fu istituito nel 1231 sotto papa Onorio III dal cardinal Beltramo per coni^attere coloro che non professavano fede ardente nella cieca obbedienza alla podestà sovrana; aveva poi in modo speciale in mira la distruzione degli Albigesi e il sostegno della casa di Monfort. Questa professione di fede così svergognaa, che parrebbe incredibile, venne eziandio alle mani del governo romano nel 1836. In que’ giorni il cardinal Larnbruschini voleva liberarsi dalle sfrenate esigenze di questo partito, il quale abusava della necessità che il governo romano aveva avuto del suo soccorso, domandando quasi una parte al governo, o almeno non volendo a questo sottostare. Spinto anzi da un governatore delle città di Romagna che aveva sequestrato questo documento con altri riguardanti la sella medesima, scrisse una circolare a tutti i governatori per frenare, se era possibile, l'insopportabile prepotenza di costoro e rinvigorire il governo. Traspira però da quella circolare tutto il timore che il cardinale aveva dei sanfedisti; poiché lagnandosi dei loro abusi riconosce 1 servigi che hanno prestalo, e spera che in ogni avvenire non mancheranno di prestarne ancora.

19

Il Bey di Tunisi accolse non solo i rifuggiti, ma gli assegnò dicci piastre al giorno, circa due franchi, vedendoli affamati e sforniti d’ogni cosa; indi allo spirare di ogni mese fece tratta sul governo di Napoli pel rimborso delle somme pagate agli esuli napoletani, e trovando opposizione al pagamento il sovrano, che noi chiamiamo barbaro, scrisse a Ferdinando, che egli giusta la formola dei passaporti di dare aiuto ed assistenza aveva aiutato ed assistito i sudditi del re di Napoli, che ne avevano bisogno, e per ultimo conchiuse, che si sarebbe pagato su i bastimenti di commercio. La paura dello scandalo, la ragione del bey, obbligarono il governo di Napoli a lacere e pagare, e gli esuli ebbero un sussidio, a dispetto dei loro persecutori, per tutto il tempo che rimasero a Tunisi.












Nicola Zitara mi chiese diverse volte di cercare un testo di Samir Amin in cui is parlava di lui - l'ho sempre cercato ma non non sono mai riuscito a trovarlo in rete. Poi un giorno, per caso, mi imbattei in questo documento della https://www.persee.fr/ e mi resi conto che era sicuramente quello che mi era stato chiesto. Peccato, Nicola ne sarebbe stato molto felice. Lo passai ad alcuni amici, ora metto il link permanente sulle pagine del sito eleaml.org - Buona lettura!

Le développement inégal et la question nationale (Samir Amin)










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