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La rivoluzione napoletana del 1820-1821 tra "nazione napoletana" e "global liberalism" di Zenone di Elea

STORIA DELLA RIVOLUZIONE DI NAPOLI DEL 1820

COMPILATA DA N. C.

NAPOLI

MARIANO LOMBARDI Editore

1864

Proprietà letteraria.

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Tip. dell'Industria, vico Freddo alla Pignasecca, 15.

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A’ LETTORI

Le rivoluzioni per causa di libertà sono i periodi più importanti della storia, e per quanta si possa dire di esse si è sempre desiderosi di saperne altro.

Della memoranda Rivoluzione di Napoli del 1820 non si è scritto poco, pur tuttavolta non avea una istoria a sé che per lungo e per largo ne avesse narrato le gesta. Il chiarissimo Pietro Colletta ne ha fatto un

LIBRO della storia del reame e quantunque esalto pure non soddisfa in taluni fatti, cui forse la dignità storica di lui non ha creduto discendere; epperò non è la storia minuta ed isolata di quella Rivoluzione. Altri ne hanno ancora scritto; ma chi per propria difesa, chi per tramandare alla posterità i soli moti della rivolta, chi per entrare in grazia de'  Borboni e degli uomini tenuti in alto da’ medesimi.

In tale stato di cose, stante che la Rivoluzione di Napoli del 48%0 fu l’opera de’ partiti, delle sette, della milizia, del popolo, della nazione tutta, ho stimato util cosa descriverla dettagliatamente, almeno per quanti documenti ho potuto avere nelle mani per mezzo del mio ottimo compare Mariano Lombardi a incitazione ed uso del quale ho compilalo la storia, unendo ciò che ciascuno ha narrato, innestandovi qualche jjiia massima e producendo lettere, rapporti, proclami, arringhe ed in particolare là discussione del Parlamento sul Messaggio del 7 dicembre. Ho divisa l'opera in sette libri: il primo col titolo preliminari discorre de’ motivi che spinsero la nazione alla rivolta; il 2°,3°,4°,5° e 6° trattano della involuzione e del Reggimento costituzionale; il 1° della tirannide che gli tenne dietro.

Non ho citali autori, imperocché ognun sa che la istoria non s’inventa, ma si ricava o da coetanei o da annali, cronache e memorie sole fonti da cui nasce la radicale storica verità; ed anche perché questo lavoro non è altro che una compilazione: Pietro Colletta signoreggia in esso. Il pubblico legga, giudichi e compatisca l’autore del Davide Rizio e dello Andrea d’Ungheria, se ha ardito elevarsi dal romanzo storico alla storia, e tenga la Rivoluzione dell'anno 1820 come una delle pietre dell'attuale edilizio di libertà e indipendenza; imperocché le rivoluzioni concatenano tra loro: le prime son sempre causa delle seconde e tutte sono le fondamenta di quanto tende a rendere l’Italia nostra: UNA, FORTE, INDIVISIBILE.

Napoli, 1 marzo 1864.

N. C.

STORIA DELLA  RIVOLUZIONE DI NAPOLI DEL 1820

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LIBRO PRIMO

PRELIMINARI

Sommario

Conseguenze della rivoluzione francese. — Affetto a Gioacchino. —Amore della plebe pel re Ferdinando. — Editto di Ferdinando del 20 maggio 1815. — Trattato di Casalanza. — Ritorno di Ferdinando: conservazione degl’impiegati civili e militari: Ministero. —Amministrazione. — Segreto trattato con l’Austria. — Ferdinando prende il nome di I; legge di successione. —Finanza ed obblighi. — Composizione dell’Esercito: Consiglio Supremo. — Decadenza dell’ordine delle Due Sicilie. — Medaglia di Onore. — Nugent capo delle armi. — L’ordine di San Giorgio. — La Carboneria. — Concordato del 16 febbraio 1818, suo effetto. — Ferdinando in Roma. — Il sovrano si ammala e guarisce. — Il re si taglia la coda. — De Medici favoreggia i Carbonari. — Floridezza di governo. — I settari dimandano la Costituzione. —Cartelli rivoluzionari. Il Marchese di Pietracatella. — Church in Lecce. — Intontì. — Nugent in Puglia. — Istituzione de’ militi. — Governi dai 1799 al 1820. — Voci allarmanti. —Campo a Sessa. — Operosità de’ settari.

La rivoluzione francese cangiò interamente l’Europa. Successe alla medesima la gloria militare, a questa successero i poteri consolari, e quindi l’aquila imperiale di quel gigante che frenò sotto al suo trono l’idra insanguinata delle fazioni, spandendo il suo alto potere da un polo all’altro.

Fermato nel regno di Napoli il governo di re Gioacchino la prima cura che si ebbe fu quella di compensare i| merito civile e di sublimare alle prime dignità dello stato ogni classe di persone distinte per ingegno, probità, onore. A questo bene congiunto l’altro della uniformità delle leggi, di un rito giudiziario civile e pepale diretto a garantire le persone e le proprietà, ne derivò che un gran partito notabile ed influente si affezionasse alla nascente dinastia... intanto la massa generale del popolo, quantunque abbagliata e soddisfatta dal fasto e dallo splendore francese, si tenne, vizio antico della plebe, costantemente per l’antico suo Signore, Ferdinando.

L’aristocrazia militare ed il dispotismo che si esercitava impunemente da chiunque vestisse guerriera divisa, il peso esorbitante de’ balzelli, l’abborrita coscrizione, tutti infine questi mali lertiranó gli sforzi straordinari delle feste, d?lle pompe, delle prodigalità, degli spassi e del gavazzo che tuttodì il novello, governo promoveva,

Non pertanto, tra gli stessi, gavazzatori vivea forte n?a tacita una setta che il ritorno de’ Borboni anelava. Questo momento non tardò a giungere imperocché la caduta di Napoleone, I, che reggeà uomini e cose, trascinò seca ogni scpttrato poterfrche:suìiuipogg»ava. Colpa imperdonabile della gita. io Russia correndo. il verno e della ferale battaglia di Waterloo. Così Dio avea segnato il fine del grand’uomo!

Laonde re Ferdinando IV nei di primo maggio 1815 diresse da Palermo a’ napolitani un manifesto col quale accordava la più piena e perfetta amnistia a tutti, e la conservazione a' militari de'  soldi, de'  gradi e degli onori che godevano.

A questo manifesto tenne dietro il seguente editto.

Messina,20 maggio 1815.

«Dopo tanti anni di separazione, piace alla Divina Provvidenza di restituire a’ nostri amatissimi sudditi il unii loro legittimo Sovrano. — I nostri sacri dritti sulle Due miei Sicilie, riconosciuti e confermati dall’universale consentimento dell’Europa in congresso, le forze de'  nostri magnanimi alleati e le nostre, l’amore de’ popoli che hanno sospirato il nostro ritorno, fanno arrivare il momento in nei cui cesseranno tutt’i mali che hanno desolato una sì bella oca e gran parte de’ nostri domini. — Per corrispondere ad un così segnalato beneficio dell’Altissimo, ed a sentimenti dell’animo nostro, consagreremo tutt’i nostri momenti ed impiegheremo tutte le nostre cure a rendere felici i nostri popoli; ed essi vi contribuiranno colle virtù necessari rie all’ordine sociale, la concordia, la moderazione è la reciproca fiducia. Resti estinta nella loro memoria passata vicenda come lo è nella nostra. Fin dal primo corrente maggio manifestammo con nostra proclamazione da Palermo le nostro paterne intenzioni e promesse.

«e Confermando ora, e più estesamente spiegando le stesse dichiariamo e promettiamo solennemente in nome nostro ed in nome de'  nostri successori di dar per base alle leggi, sulle quali sarà stabilito il sistema del nostro Governo, le seguenti garentie che sin da ora concediamo irrevocabilmente a’ nostri amatissimi sudditi.

«1. Assicuriamo la libertà individuale e civile.

«2. Le proprietà saranno inviolabili e sacre.

«3. La rendita dei beni dello Stato sarà irrevocabile.

«4. Le imposizioni saranno decretale secondo le forme che saranno prescritte dalle leggi.

«5. Il debito pubblico sarà garentito.

«6. Le pensioni, i gradi e gli onori militari saranno conservati, come anche l’antica e la nuova nobiltà.

«7. Ogni napolitano sarà ammissibile agl’impieghi civili e militari!

«8. Nessuno individuo potrà essere ricercato né inquietato per le opinioni e per la condotta politica, che ha tenuto anteriormente al nostro ristabilimento nel possesso dei nostri domini napolitani in qualunque tempo. E di qualunque circostanza. Inconseguenza concediamo una piena amnistia a tali soggetti senza interpetrazione né eccezione qualunque. — FERDINANDO.»

Nel di 20 dello stesso mese di maggio ebbe luogo il famoso trattato di Casalanza, cosi detto dalla piccola casa di Lanza posta a tre miglia da Capua, ove il generale Colletta, il generale austriaco Neipperg e l’inviato inglese Burgherh dopo lunghe e agitate conferenze convennero: Pace fra i due eserciti La fortezza di Capua cedersi nel dì 21 — La città di Napoli; co’ suoi castelli nel 23, poi il resto del regno, meno le fortezze di Gaeta, Pescara ed Ancona— presidi napolitani che uscivano,dà luoghi forti avere gli onori convenuti — Il debito pubblico garantito — Mantenute le rendite de'  beni delle Stato — Conservata la nuova nobiltà con l’antica, confermati ne’ gradi, onori e pensioni i. militari che giurala fedeltà a Ferdinando IV passassero volontari: a suoi stipendi, non che (e questo lo aggiunse. il tedesco) perdono generale ad ogni opera politica de’ tempi trascorsi, comunque fatta a pro de’ nemici, e contro, i Borboni; e che obbliate le trascorse vicende, ogni napolitano aspirar potesse agli uffizi civili o militari dei regno.

Questi patti acciò da’ napolitani, i quali aveano ancora viva la memoria degli spergiuri del 1799, fossero, tenuti sicuri, vennero garentiti dall’Imperatore d’Austria.

Per effetto degli editti e di questo trattato venuto re Ferdinando nella capitale del regno gl’impiegati civili e militari vennero conservati, al pari che provvisoriamente che lo furono le leggi pubblicate nella passata francese dominazione. Solo il ministero ricevé cangiamento avendo a capo il cavalier de Medici, indi il marchese Tommasi.

Se non che quando si volle por mano alla riforma della civile Amministrazione furono ritenuti gli ordini municipali e provinciali, rivocato il consiglio di; Stato, restando i consigli alle comunità; a distretti, alle provincie; epperò lo Stato non ebbe unità di amministrazione.

Intanto i plenipotenziari austriaci e napolitani avevano già sottoscritto un altro segreto trattato di alleanza per la reciproca difesa del Regno e degli Stati imperiali.

Tra le altre cose restò conchiuso che le obbligazioni le quali i due monarchi assumevano per assicurare la pace interna dell'Italia, facendo loro dovere di preservare i propri Stati ed i loro rispettivi sudditi da nuove agitazioni, e dalle sciagure d’imprudenti innovazioni che ne cagionerebbero il ritorno, rimaneva inteso tra le parti dei contraenti, che il re delle Due Sicilie ripigliando il governo del suo Regno non avrebbe introdotti cambiamenti i quali non potessero conciliarsi colle antiche Costituzioni Monarchiche, e coi principi adottati dall’imperatore d'Austria nel Regno delle sue provincie d’Italia.

In coerenza delle riferite cose con decreto del dì 8 di dicembre 1816 il re Ferdinando sanzionò che avendo il congresso di Vienna riconosciuta la legittimità dei dritti della sua Corona come re delle Due Sicilie, qual legge fondamentale dello Stato disponeva che tutt'i suoi domini al di qua ed al di là del Faro costituissero il Regno delle Due Sicilie di cui egli assumeva il titolo col nome di Ferdinando I; che la successione al Trono sarebbe regolata perpetuamente colla legge di Carlo III del. 1759; e che una Cancelleria Generale fosse eretta» nella quale a conservasse il registro ed il deposito di tutte te foggi che avrebbe emanate, ed in questa un Consiglio si riunisse per la discussione degli affari più importanti dello Stato da presentarsi da ministri alla Decisione Sovrana, del consiglio di Stato.

Frattanto il riordinamento della cosa pubblica:avea principio dalla. finanza. Il re avea contratto obblighi grandi nel Congresso di Vienna: dovea all’imperatore d’Austria 26 milioni di franchi, per prezzo di conquista al principe Eugenio milioni, e nove milioni a’ potenti ministri del Congresso per mance o comprato favore. Dovevasi ancora nutrire l'esercito tedesco, il siciliano e il molto che avanzava del murattiano. Dovevasi compenso agli usciti, pane a fedeli, premio a’ partigiani, abbondanza pel mantenimento reale. Laonde si dovettero confermare i sistemi finanziari del decennio, abolire la legge delle patenti.

Per restituirsi a rimpatriati con Ferdinando i loro beni, nel decennio venduti, l'Erario richiamò i doni di Giuseppe e Gioacchino. Queste forzate restituzioni produssero scontento e malumore non che vituperio al governo. Sopra rendite inscritte vendevansi i beni dello Stato, francavansi i censi, alienavansi i beni delle fondazioni pubbliche, ed essendo quelle rendite ricercate salirono molto in prezzo, e La finanza creando nuove polizze, empi i tesoro dello Stato. Né ciò bastava...

Il debito dello Stata cresceva: era di ducati ottocentomila al cader di Marat, con Ferdinando divenne doppio. Monti di pietà, ospedali, case di arti, di scienze, di educaziooe, perderono il patrimonio de’ loro beni, spacciati dal governo e mutati in rendile sul Gran LIBRO dello Stato. Cosicché trovandosi legati alle sorti della finanza tutti i mezzi di civiltà, il potere assoluto del Governo negando o sospendendo gli impegni, spingeva alla miseria tutta la società del regno.

Or così procedendo la macchina governativa senza attivare la sua tirannide ma commettendo più falli che colpe, ora con leggiere insidie; ora con odi oscuri diè occasione ad originare cotanti rivoletti che ingrossando dì per di strariparono in grossissimi fiumi che inondarono l'intero regno nell’anno 1820.

Veduto di poi che l’esercito tedesco era di gravità allo Erario, s’imprese a comporre l’esercito del regno. Un ministro di guerra sarebbe stato borbonico o marattiano, laonde si creò un Consiglio Supremo composto del principe D. Leopoldo presidente, del marchese Saint Clair vice-presidente, e di quattro generali, due per ciascuna parte, consiglieri.

Dell’esercito di Murat pochi soldati eran rimasti giacché molti erano disertati; di quello di Sicilia erano varie le schiere e variamente amministrate; laonde i due eserciti, prima nemici ora uniti, avevano diversi gli ordini, l'indole, le vestimenta. Il Supremo Consiglio dovea dunque tutto unificare accordando gli uomini e le cose; ma esso non andò allo scopo, imperocché si perdè nell’ideale blandendo per ambizione il partito trionfatore.

Il principe D. Leopoldo come membro della famiglia, Saint Clair come della casa dei re e caro alla regina Carolìna d’Austria erano ambi presi da passione e cure di corte; i quattro generali aveano il carico, di governare l’esercito, ma essi per mostrarsi imparziali, i borbonici erano avversi a’ borbonici, i murattisti a’ murattisti in guisa che per dar saggio di essere superiori a’ partiti e benigni, ora gli uni, ora gli altri difendevano gli oppressi della opposta setta, e quando si vollero cambiare le veci non si ottenne il mutamento delle cose; quindi si ebbero fazioni, favori, oltraggi, scandalo, irritamento sempre.

Fatto radunare in Salerno l’esercito che rimaneva di Murat, le milizie venute di Sicilia furono guardie reali. Composti poi alcuni reggimenti mescolando soldati ed uffiziali delle due parti, fu assegnato a’ murattiani stipendio scarso, a’ borbonici largo; i generali rimpatriati col re promossi di uno o due gradi; gli uffiziali dell’esercito siciliano a grado eguale e con qualunque siasi anzianità di servigio preferiti a napolitani; il re a maggiormente favorire i suoi alle posteriori promozioni de'  borbonici pose l’antidata del 23 maggio 1815, giorno della restaurazione di sua casa.

Dell’ordine cavalleresco delle Due Sicilie, serbato per trattati e promesse, si cambiarono i colori, lo stemma, l’epigrafe; ma esso ricordava sempre la casa francese: il corpo di marina lo nascose, degli altri ufficiali dell’esercito i timidi lo deposero, gli animosi l’usarono; ne’ circoli a corte dovea celarsi agli occhi di re Ferdinando nel nuovo scudo della monarchia quell’ordine, non ebbe segno. Cosicché l'esercito separato più che prima ne risultava debolezza allo Stato, scorno al Consiglio Supremo, pericolo al Governo.

L’odio fra le due parti dello esercito semprepiù cresceva, e la discordia si manifestò appieno allorquando il re volle largire nuova medaglia, che chiamò di Onore; a tutti i militi che durante il decennio francese gli furon presso in Sicilia. La medaglia era di bronzo. Avea da una parte la effigie di Ferdinando, dall’altra il motto: Costante attaccamento. La conteneva una stella a quattro raggi, sostenuta da nastro rosso. Ma questo distintivo di onore fu dato da re Ferdinando con tal larghezza che si vide anche sul petto di coloro usciti dalle galere. Esso servì solo a rendere più nota una parte dell’esercito e quindi a più dividerla dall’altra. Impolitico trovato! Fu questo l’ultimo atto del Supremo Consiglio; dopo di che fu sciolto eleggendosi capo delle armi Nugent irlandese di nascita, indi generale austriaco e citato con varia fama nelle guerre d'Italia. La scelta spiacque a’ napolitani, i quali con pertinace costanza vedeansi sempre posposti agli stranieri e con la nomina del Nugent ricordavano l’Acton e il Mack!

Non per tanto le truppe di Napoli furono così unite a quelle di Sicilia ed il Nugent prendendo il titolo di Capitan Generale, disfece quanto avea operato il Supremo Consiglio dando fuori ordinanze nuove e difettose. Sicché il Consiglio Supremo e il Capitan Generale Nugent in forza di nuove ordinanze e d’incessanti novità generarono nello esercito fastidio e ignoranza e giunsero a disconoscere sino la tattica sperimentata tenuta in uso da tutta Europa bellicosa!

Ad amalgamare cotante amaritudini e riunire tutti i cuori venne a luce (1819) l’ordine militare di San Giorgio col nome aggiunto di Riunione per indicare l’unione de'  due regni. Le parole in hoc signo vinces circondavano l’effigie del santo: alla parte opposta era scritto virtuti.

 I colori della stella erano rubino e bianco; il nastro turchino orlato di giallo. Esso fu creato per abolir quello delle Due Sicilie che area origine da Giuseppe e lustro da Gioacchino. Si dava al valore ed a’ servigi militari a parere di una commissione di Generali. Di quest'ordine era gran maestro il re, gran contestabile il principe ereditario, gran collane i capi dell’esercito, gran croci i generali più chiari in guerra, e cosi scendendo per ogni otto gradi sino a’ soldati, I napolitani e i siciliani, muratisti o borbonici n’ebbero il petto ornato, e parve iride di pace fra le parti contrarie dello esercito.

La lunga dimora de’ Francesi in Italia ingenerò ne’ popoli idee nuove e speciose. Il progresso scientifico del secolo spiegò sopra di esse una azione influentissima. Le loggi Massoniche si moltiplicarono e crebbero, in modo che al tempo della restaurazione (1815) la esaltazione dello spirito pubblico giungeva al culmine.

La setta Carbonaria s’introdusse in Napoli da alcuni napolitani che esulando nel 1799 l'appresero nella Svizzera e nell'Alemagna ov’era in fiore. Ma essa restò inefficace e inosservata. Nel 1811 settari francesi ed alemanni venuti nel regno chiesero alla Polizia di propagarla come incivilimento e sostenitrice di nuovi governi, e la Polizia trovando questa setta simile alla Massonica non solo la permise ma la protesse. I pubblici uffiziali s’iscrissero settari ed i settari divennero ufficiali pubblici, né vi era amministrazione che non ne contasse un gran numero. Avvertito Murat essere i Carbonari nemici de’ troni, proscrisse la setta appellandola nemica del regio potere. A tale sentenza i buoni e fedeli alla casa del re fuggirono la setta, e sol rimasero ed ebbero compagni i nemici del potere e gli amanti di novità.

I Carbonari perseguitati dal re Gioacchino, rifuggiarono in Sicilia, e perché potenti estimavansi presero a favorire re Ferdinando, in guisa che divenuti arroganti, quando nel 1815 Gioacchino sentì bisogno di loro osarono negargli la loro amicizia.

Caduto Murat e tornato Ferdinando i Carbonari speravano da questi sostegno e favori; ma il re li riprovò, ne impedì le pratiche, sicché gli lasciò delusi in modo dà non osare di adunarsi. I settari però eran molti, e andando in peggio, la setta tralignò, passò dalle passioni pubbliche alle private, ed or per odio, ora per isdegno, ora per vendetta sparse, versò indistintamente sangue reo ed innocente.

Il Governo fidando nel suo potere proponevasi ad ogni noi costo di reprimere ì Carbonari castigandoli pei loro misfatti, ma questi essendo forti per sé medesimi venivano da tutti temuti e perciò mancavano, gli accusatori, tacevano; o mentivano i testimoni, cedevano i giudici, trionfava l’impunità. Per la qual cosa si ascrissero alla setta i colpevoli e gli incammipati per la via de’ delitti, e i Calderari, altra setta, mutata veste, si trasfusero nella Carboneria, e tutti, cui mala coscienza spingeva, a vita agitata, furono Carbonari; i quali non tardarono ad aver con loro l’esercito, già diviso per interessi. per genio e tutto indisciplinato.

A tante sciagure a danno del borbonico Governo venne, sempre per colpa del Governo stesso, ad aggiungersi altro mate.,.

Re Ferdinando nel suo giovine regno plaudì agli scritti di Pietro. Giannone, unico storico che prima ardisse con dotte discussioni, sprigionare il potere civile da quello della chiesa. Epperò avendo il re bisogno di danaro poco curando le pretensioni del papa, molti beni vendé Della chiesa a vantaggio del regio Erario. Questa noncuranza verso Roma fu tenuta ferma anco da! re francesi, ed il Pontefice, veduto i tristi tempi, tacque e tollerò. Ma giunto il 1815, restaurata casa Borbone e divenuto il re timido per vecchiaia si cinse di preti che tutte le presentarono alla coscienza le passate dispute col papa. E Ferdinando vedendo prossima la propria tomba non si lasciò molto pregare per ingraziarsi col Vicario di Gesù Cristo, ed il fece convenendo in Terracina il Concordato del 16 febbraio 1818.

Parti principali di questo Concordato furono:

Riordinamento delle Diocesi.

Riconoscimento delle vendite de’ beni ecclesiastici avvenute ne’ regni di Ferdinando, Giuseppe, Gioacchino: i beni non ancora venduti restituiti.

Ristabilimento de’ conventi nel maggior numero possibile, avuto riguardo alla quantità de’ beni restituiti ed alle assegnazioni sulle finanze.

Dritto di nuovi acquisti alla Chiesa.

Divieto a’ re delle Due Sicilie di disporre de’ possessi ecclesiastici.

Annuo pagamento a Roma di ducati 12mila sopra le rendite de’ vescovati napolitani.

Ristabilimento del foro ecclesiastico per le discipline de’ cherici è delle cause dette ecclesiastiche dai Concilio Tridentino.

Facoltà di censura ne’ vescovi contro chiunque trasgredisse le leggi ecclesiastiche ed i sacri canoni.

Libertà a’ vescovi di comunicare co’ popoli, di corrispondere col papa. Ognuno poter ricorrere alla corte romana: i divieti del liceat scribere rivocati.

Facoltà a’ vescovi d’impedire la stampa o la pubblicazione de’ libri contrari alle sacre dottrine.

Dovete il re. proporre i vescovi, il pontefice scrutinarli e consacrarli.

Prescritto il giuramento de'  vescovi, il quale era cosi:

Io giuro e prometto sopra i santi evangeli abbedienza e fedeltà alla real maestà. Parimenti prometta che io noi non avrò alcuna comunicazione, né interverrò ad alcuna ei adunanza, né conserverà dentro o fuori del regno alcuna sospetta unione che noccia alla pubblica tranquillità. E se, tanto nella mia diocesi che altrove, saprò che alcuna cosa si tratti a danno dello Stato, la manifesterò a S. M.

Un tal Concordato spiacque a’ sapienti; imperocché esso spegneva il lustro e lo. sforzo di alti ingegni e filosofi; spiacque a’ religiosi ornai abituati a vita libera; deteriorò i principi e gl’interessi tanto del papa quanto del re, stante che il giuramento de’ vescovi eccitando il sospetto, che le cose confessate fossero rivelate, trasandarono la confessione i settari, i liberali, i nemici de’ potenti ed i potenti stessi. Così la diffidenza cresceva, il Governo agiva contro sé medesimo, il popolo cercava i modi di aver reggimento libero.

Avvenuto li Concordato il re quasi a riceverne onore dal pontefice e con esso' benedizioni e indulgenze si recò in Roma con la regina, ma senza pompa. Tra i pochi seguaci però volle che lo seguisse Casacciello, buffo napoletano; imperocché al canuto monarca piaceva per mezzo di divertimenti e buffonerie avere ognora l'animo lieto, come se fosse lieve cosa il ridere col peso di un regno sugli omeri. Vedi stoltezza!

Re Ferdinando, soggiornando in Roma fè grazia di ripatriare a dieci emigrati napolitani del 1815 parte per seguire Murat, parte per non vivere sotto lo scettro de’ Borboni. Tre di questi dieci nomavansi barone Poerio, Davide Winspeare, conte Zurlo, onore di patriottismo avvenire.

Ritornato Ferdinando in Napoli, verso la fine dell’anno (1818) ammalò mortalmente. I napolitani, pare incredibile a dirsi, palpitarono per la vita dei re. Ma ciò non per affetto al vecchio monarca, ma per sospetto che il figliuolo non mandasse a peggio gli ordini civili, imperocché i ministri del re morente disamavano il successore dipingendolo proclive al male, contrario alle blandizia governative, amicissimo del principe di Canosa, di quel Canosa,che fatto ministro (1817) baciando reliquie in chiesa, a imitazione di Luigi XI, esercitò su soggetti opere inique presente le immagini del Salvatore e de’ santi, avendo la casa piena di confessori, di frati, di delatori e di sicari, strumenti delle sue crudeltà. Ma il volere dell’Eterno non ancora volea tronca la vita di colui che tante sangue cittadino area versato nel 1799 adoperando la scure del carnefice cosicché risanò e fu testimone dell’universale contento.

I ministri fecero correr voce che il re grato a’ pubblici voti avrebbe fatta cosa piacevole a’ liberalì. Infatti il re recise la coda de’ suoi capelli io prova di cambiati principi.

Il: taglio. della coda nel 1799 fu segno di Giacobinismo e quindi motivo a condannare chi tante avea operato, epperò causa di sangue; ora che il re avea tagliata la sua si gradi, ma nel medesimo tempo fu cagione di dolorosi ricordi!

La nazione aspettava sempre.. Or quantunque tra i patti formati tra il re di Napoli e l’imperatore d’Austria vi stesse quello di essere interdetto a Ferdinando d’introdurre innovazioni che alterassero l’attualità dello stato politico del Regno, non per tanto il capo del Ministero, cavalier de Medici, non isdegnò di ingraziarsi le idee liberali e favoreggiarle in guisa che i settari delle Puglie quasi pubblicamente si assembrassero.

Intanto verso il finir del quinquennio al governo militare de’ re francesi era succeduta uno stato di cose soddisfacente. La magistratura, questa classe tanto vicina al popolo e tanto influente alla sua felicità o sventura, trovavnsi composta di sommi giureconsulti e per probità e per rettitudine. Né di minor conto erano i magistrati dell'ordire amministrativo, i quali tutti intenti al miglioramento della cosa pubblica, rivaleggiavano di zelo, di accorgimento e di attività nel disimpegno del proprio dovere.

La finanza pubblica iva aumentando in floridezza e vigoria; il debito pubblico era per estinguersi, e per conseguenza le pubbliche imposte erano già prossime ad essere diminuite, quando desiderio di maggior perfezione affrettò novello reggimento.

La setta dei Carbonari avea dei proseliti sparsi in tutta la superficie dei regno, ed il maggior numero nelle Puglie.

Nell’anno 1817 vari emissari si misero in giro percorrendo ad una ad una quelle contrade, e dai Capi settari si decise che in determinati giorni si trasmettessero contemporaneamente al re indirizzi colla dimanda formale di una Costituzione di libero reggimento. Nel mese di dicembre dello stesso anno centinaia d’indrizzi furono all’uopo da diversi luoghi delle Puglie inviati al Ministero, il quale anziché scuotersi dalla inerzia cui erasi abbandonato, li disprezzo in guisa che diede motivo sullo scorcio dello stesso mese ad una operosità maggiore.

In tutt'i comuni delle Puglie in un medesimo mattino furono trovati affissi cartelli in istampa co’ quali si eccitavano i popoli alla rivolta perché dal re non si erano secondati gli espressi voti. Questo imponente avvenimento scosse in fine il Ministero: il marchese di Pietracatella intendente a Potenza, venne subito traslocato nella provincia di Lecce, nella quale più che altrove erasi sviluppato il germe settario. Né qui si fermò l’azione del Governo. Investito di altissimi poteri fu anche in Lecce spedito il generale Church inglese, e perciò ignaro dello passioni che caldeggiavano que’ luoghi.

Il marchese di Pietracatella venne in discordia col Generale, perche essendo egli conoscitore del personale della provincia non avea giammai permesso che gli astuti settari Io avvicinassero. All’opposto lo straniero Church preso da’ modi gentili de’ leccesi, in mezzo alle danze ed a’ festeggiamenti non curò i capi organizzatori del movimento rivoluzionario e colpì solo tra i meno noti 163 persone di varie sette. Così l’opera dei settari raggiungeva Io scopo senza che il Generale potesse render servigio al Governo. Il marchese di Pietracatella, dipinto dal Generale come un entusiasta visionario, fu richiamato in Napoli e confinato nell'amministrazione del grande Archivio Generale del Regno: la provincia di Lecce per la parte politica restò nel dominio esclusivo di Church: l’opera dei Governo andò fallita, e le Puglie proseguirono dritto all'ambita meta.

Queste cose accadevano quando Nicola Intontì, un dì zelante personaggio del Governo francese, poi amico della restaurazione, da procurator. Generale della Gran Corte Criminale di Napoli veniva assunto a Prefetto della provincia di Foggia.

I rapporti di lui però sullo stato politico morate delle Puglie furono dal cavalier de Medici tenuti in noncuranza. Il trattato di Casalanza, diceva il Ministro, aver soddisfatti i desideri e le passioni di tutti; godere ciascuno impieghi; onori, ricchezze: opporsi quindi a tutti i più cari e personali interessi lo sconvolgimento di un Governo benefico, generoso, liberale; e perché il marchese Francesco Patrizi Direttore della Polizia Generale del Regno non dividea questi sentimenti del de Medici; cadde dal potere e con encomi, onorificenze e ricchissima pensione venne posto al ritiro.

In questo stato di cose si pensò mandare nelle Puglie il Capitan Generale Nugent nel fine di scandagliare con maggiore esattezza lo spirito pubblico. Ma Nugent, odiato dagli uffiziali Generali che lo circondavano, fu tratto in errore e illuso dai festeggiamenti e dalla gioia, rapportò, che le popolazioni da lui visitate, l’armata e tutti i Generali gareggiavano di amore e di devozione verso del re. Cosi la setta trionfava sempre, il popolo camminava a libertà, e la gendarmeria posta a tutela del potere proteggeva le libere voci e le corrispondenze settarie.

La istituzione dei militi, sotto la cui bandiera si raccolsero i più ardenti settari fu il compimento dell’opera; I cittadini vennero armati dal braccio stesso del Governo. Si affidò il comando della divisione più pericolosa (Puglie ed Avellino) al Tenente Generale Guglielmo Pepe, non ignoto al Ministero per le sue idee esaltate, amante di novità, borioso é tenace negli antichi dogmi di libertà. Ecco come la Provvidenza sovente volte accieca là tirannide, e fa che da sé medesima si tragga in rovina.

Le calde rimostranze degl'intendenti di Foggia e di Avellino sul comando affidato al General Pepe nulla valsero.

 Altra rivoluzione dovea muovere il Regno. I napolitani nel 1790 erano governati da monarchia moderatamente assoluta. Peso di finanza, conculcata giustizia, angarie di feudalità e di chiesa aggravavansi su loro. Scoppiata in Francia la rivoluzione la moderatezza del Governo divenne dispotismo. Venne la repubblica, indi la tirannide del 1799, di poi il decennio francese. Il popolo s incivili, si divise le proprietà de’ baroni e della chiesa, comprese i suoi dritti. Ritornato nel 1815 Ferdinando IV, prendendo in forza del Congresso di Vienna il nome di Ferdinando I, or sostenne, or mutò in parte gli ordini del decennio, infine il reggimento risultò tale da somigliare, a libera costituzione.

Infatti nel 1819 il regno di Napoli era tra i regni europei meglio governati. Il potere era benigno, la finanza florida, i lavori d’utilità in vigore, la prosperità in fiore, dolce il tempo presente, dolcissimo presentavasi il futuro. Or se nulla mancava a’ soggetti perché le contumacie, le cospirazioni, i tumulti, le ribellioni? Perché la mannaia del 1799, la maschera del quinquennio, i fatti passati insomma aveano distrutta la fiducia nel popolo, il quale temendo ad ogni tratto per la persona e gli averi vivea nel sospetto; quindi stimolo a rivoltarsi, per maggiormente assicurare e vita e fortuna. E il nembo rivoluzionario si addensava e scoppiava nel mese di marzo dell’anno 1820 nelle Spagne. Questo turbine fu creduto assai lontano ed estraneo da’ sintomi del morbo politico che si avvertivano nel Regno.

Nello stesso anno l’assassinio del duca di Berry fu anche creduto follia di un idiota, e la prigionia del re di Spagna di niuna influenza al destino delle Due Sicilie per modo che l’attività settaria aumentavi ogni di, ed a raggiungere la meta vuolsi che Guglielmo Pepe facendo una visita nelle provincie di Capitanata ed Avellino, facesse a tutti conoscere che al prossimo ritorno del duca di Calabria da Sicilia sarebbesi messo ad atto lo sviluppamento dei già maturi e concertati disegni.

Le voci allarmanti si raddoppiavano ognora. Querele e censure contro qualsivoglia atto governativo si udivano e sveltamente gridavasi. Segni non mendaci e chiarissimi d'imminente insurrezione.

Intanto non si cessava di avvertire il Governo che i settari avevano già guadagnati uffiziali, bassi uffiziali e buona parte di soldati; queste insistenti rimostranze diedero motivo di formarsi, sotto mendicati pretesti, nel mese di maggio del 1820 un campo nelle pianure di Sessa onde accertarsi della fede e dell’amore dell’esercito. Inutile ritrovato quando la malattia dell’animo ha tutto corroso il corpo! Vi si recò Ferdinando e fu veduto ed ammirato, dagli stessi settari, che sospesero le cominciale mosse, percorrere le file di quelle bandiere che tra non molto doveano cangiarsi ad esempio delle spagnuole in vessilli di libertà. A mezzo del mese di maggio fu levato il campo, e le schiere tornarono ciascuna alle loro stanze.

Negli ultimi giorni del mese di giugno il signor Fresenga tenente del reggimento Cavalleria Re, da Foggia si portò a Nola per manifestare a Morelli che il suo Colonnello Giovanni Rossi trovavasi in pieno accordo col General Pepe, il quale gli avea fatto conoscere essere già prossimo il concertato momento ed attendere solo una risposta del General Carascosa per attuarsi. Gli confidò pure la sua venuta in Nola altro scopo non avere che di esplorare d'ordine del Pepe, le tendenze del reggimento, degli uffiziali e di altri compromessi.

In questo medesimo tempo l’operosità del prete Luigi Menichini non fu ad altri seconda: percorse l’intero circondario di Nola, ravvivò a tutti le agitate speranze e col mezzo del sergente maggiore Altomare fece conoscere ai settari di quelle regioni essere già prossimo il gran giorno delle prime mosse rivoluzionarie.

Tali erano le condizioni e lo stato delle cose nel regno delle Due Sicilie allorquando qual fuoco da vulcano coperto. di neve la rivoluzione divampò e scosse tutte le provincie.


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LIBRO SECONDO

Sommario

Diserzione di Morelli e Silvati e 127 soldati. — Campo a Mercogliano. — Rapporto a de Conciti per la diserzione di Nola. — Effetti in Napoli della novella di diserzione. Ordini di Guglielmo Pepe. — Si elegge a partire pel campo Carascosa. — La sommossa progredisce. — Gl’Irpini chiedono la Costituzione e proclamano de Concili capo delle forze costituzionali. — Proclama di de Concili — Affetti del generale Carascosa, il quale va al campo senza soldati. — Morelli entra in Avellino e dà il comando a de Concili. — Fogli di Nunziante a Russo e Campana— Progetti di Carascosa; — Disunione delle forze del re. — Rapporto di Menichini a de Concili Campana marcia verso Avellino; avviso di Pristipino a de Concili. — Campana si ritira; rapporto al maresciallo Colonna. —Lettera del capitano Paolella a de Concili. — Altre diserzioni di milizie. — Rapporti a de Concili. —Indirizzò di de Concili alla Nazione; risposta del sotto intendente di Ariano. — Paura e dolore della reggia. — Lettera di Nunziante al re. — Guglielmo Pepe nel campo liberale. — Cinque settari si recano nella reggia. — Il re in consiglio. — Promessa di Costituzione. — Allegrezza dei napolitani, r L’editto si spedisce a’ campi. — De Concili riceve l’editto. — Le milizie reali si ritirano. — Nuovo Ministero. — IL re nomina il duca di Calabria Vicario del Regno. — Sospetti e agitazioni. Decreti che adottano la Costituzione di Spagna per lo: regno delle Due Sicilie. — Spirito pubblico, popolarità di de Concili. — Il Generale Pepe riceve il comando supremo da de Concili. — Lettera di Pepe a de Concili, il quale con un proclama inculca all’annata obbedienza verso il generale Pepe. — Proclama di Pepe a’ popoli delle Due Sicilie. — Morelli, Silvati e de Concili fregiati di medaglia— Pepe annunzia una entrata di trionfo in Napoli. — Partecipazione alle Corti del cambiamento politico. — Indisciplina e sospetti. —Nomina della Giunta di Stato. — Entrata di Pepe in Napoli. — Pepe, Napolitani, de Concili, Morelli e Menechini nella reggia. — Letizia generale. — Attestato di soddisfazione del duca di Calabria. —Pepe ringrazia S. A. — Abolizione del grado di Capitan Generale. — Programma pel giuramento. — Giuramento innanzi alla Giunta di Stato.

La notte del dì uno al due luglio 1820, due sottotenenti, Michele Morelli e Giuseppe Silvati, e centoventisette fra sergenti e soldati del reggimento reale Borbone cavalleria, disertarono da’ quartieri di Nola, secondati dal prete Luigi Menichini e da un venti settari carbonari, movendo tutti verso la città di Avellino per unirsi ad altri settari giorni innanzi sbanditi da Salerno,dove là setta era forte e numerosa. Fattosi giorno e percorrendo il cammino che da Nola conduce in Avellino, il fuggiasco drappello procedendo a passo lento andava gridando: Viva Dio! Viva il Re! Viva la Costituzione! e poiché il senso del motto politico non era ben compreso dagli abitanti de’ paesi e sobborghi da’ settari percorsi, ciascuno trovava in esso ciò che più ambiva. Le masse popolari han sempre d’uopo di una voce per unirsi. Più la parola di guida alla rivolta è sacra e d’interesse universale, più è efficace. Il nome di Dio è sempre il più potente a muovere i popoli. Giunto Morelli a Mercogliano, pose ivi il campo, e scrisse lettere al tenente colonnello Lorenzo de Conciti, il quale stava in Avellino con autorità militare e potere civile, essendogli patria quella città. Il de'  Concili amico del generale Guglielmo Pepe, capitano, per così dire di tutti i carbonari, era ricco, nobile, audace. Le lettere del Morelli dicevano ch’eglino primi promulgavano il comune voto di governo più libero; aiutasse perciò, il de Concili, l'impresa; desse gloria imperitura al suo nome. Prima delle lettere la fama avea divolgato quelle mosse, costernate le autorità, concitate le milizie, rallegrato il popolo; ed il de Concili innanzi tutto n’era stato avvisato col seguente rapporto.

«Avella, il 1 luglio 1820.

«Signor tenente Colonnello,

«Mi affretto parteciparvi che questa mattina il sotto uffiziale del distaccamento qui stanzionato del reggimento a Borbone cavalleria, è venuto ben tre volto in mia casa, insistendomi che mi fossi con sollecitudine portato in Nola per un affare che non immetteva dilazione. Veggendo abbastanza da’ suoi detti di che mai si trattasse, non ho esitato un momento a recarmi colà. Mi sono abboccato col sotto tenente Silvati e col sergente maggiore Altomare, i quali mi hanno comunicato la risoluzione presa di muoversi col reggimento nella prossima notte in unione di parecchi paesani. I medesimi perciò mi hanno premurato a disporre i miei, a quanti più avessi potuto del circondario, per attendere la loro mossa e la loro venuta alle cinque e mezzo della notte, e che frattanto mi fiossi portato costà, per recarne a voi l’avviso. Io non ho creduto di potermi muovere un solo momento da qui in questa circostanza, e credo anziché la mia persona sia necessaria,vi scrivo perciò e colla presente vi metto a giorno di tutto.

«Io non solamente. già ho disposto i miei paesani, ma insieme anche ho inviato il sergente dei. militi Stefano Majetta a recarne l'avviso pel circondario, ed ho spedito un corriere in S. Maria per avvisarne i. signori Majetta, i quali essendosi colà relegati per opinione, correranno seriamente alla difesa della causa comune.

«Voglio sperare che se voi secondate un tale movimento sarà tutto per riuscire felice, e che l’aurora di domani sarà quella della nostra rigenerazione politica.

«Nicola Luciano»

Quando in Napoli giunse la novella della diserzione di Nola, re Ferdinando andava sopra ricca nave incontro al figliuolo duca di Calabria, che venendo di Sicilia, entrava nel golfo. Erano ministri del re il cavaliere de Medici, il marchese Tommasi, il marchese Circello, il generale Nugent, tra quali era Medici il primo. Eglino si congregarono, e, come avviene sotto assoluto signore, consultavano come dirlo al sovrano senza recargli timore o muoverlo a sdegno. Il cavalier de Medici, ne’ regi consigli, avea qualificata la Carboneria come vaghezza o delirio di poche menti, che i preti avrebbero col santo mezzo delle confessioni dissipata. Ma stante la gravità della cosa, vinto ogni ritegno, stabilirono verso il tardi del giorno riferire ai re quei successi, attenuando il pericolo per arte di racconto, e con pronto rimedio.

Intanto a quelle nuove i napolitani bisbigliavano, rumoreggiavano i settari, le autorità trepidavano, i novatori, gli ambiziosi rallegravansi, non senza presentire non so che; nella diserzione di. pochi uomini. Il resi voleva, trattener sul naviglio ma, incorato dalle lettere de’ ministri, discese col figliuolo e tosto adunaronsi a consesso timidi ministri di timido principe, e non esperti alle rivoluzioni, costernati ondeggiavano, perdendo ciò che ne’ tumulti civili ha più forza, il tempo. Altro consiglio, di. generali intanto convocato da Nugent, deliberò che il generale Guglielmo Pepe, governatore militare della ribellante provincia, andasse in Avellino a combattere i ribelli, Nugent, certo dello assenso del re, stretto dal tempo, chiamò Pepe, e con parole incitatrici gli impose partire all’istante portando seco un foglio del. redi conceduti poteri. Il generale ne fu lieto, diede comandi, ordinò movimenti di soldati e di milizie civili, annunziò il presto suo arrivo nella provincia al comandante militare di Avellino col seguente foglio.

COMANDO GENERALE DELLA III DIVISONE MILITARE

Napoli, 2 luglio 1820.

«Signor Maresciallo,

«In ricevere la presente disporrete che le compagnie sai di milizie di Monteforte e di Mercogliano si portino tra Monteforte ed il Cardinale per conservare la tranquillità sulla grande strada. Le compagnie di Atripalda ed Avellino dovranno tenersi in Avellino. Disporrete che tutte le compagnie di milizie si riuniscano nei capi circondari per esser pronti a marciare.

«Farete sentire alle milizie tutte che il loro Generale, il quale ha eseguita una si bella organizzazione arriverà fa momenti, che con essi soli manterrà l’ordine nella divisione, e farà conoscere al Sovrano che i proprietari armati sono il più sicuro appoggio del trono.

«Farete sentire che tutte le milizie che abbandoneranno le loro comuni saranno pagate.

«Intanto conservate l’ordine in Avellino, e farete rispettare tutte le autorità. —. Il Tenente Generale — G. Pepe.».

«P. S. — Terrete le truppe unite, e se credete, unite )r[ le milizie al numero che credete necessario. Farete sentire che tatto il Reggo gode perfetta quiete. —G. Pepe.»

Ma il Nugent,'riferite nel consiglio del re le anzidette cose, n’ebbe risposte che il Governo avea in sospetto la fede del general Pepe. Per la convenzione. di Casalanza e i patti di Vienna mantenuti negli impieghi i murattiani, ottennero a poco a poco autorità, comando, potenza, e pur taluni le apparenze del favore; ma gli aborriva il rei ne diffidavano i ministri, e pregiando i loro servigi, aveansi in sospetto ed in odio le persone. Nugent, egli stesso non godeva la piena fidanza del Governo, e perciò ignorava i sospetti contro il Pepe. Eppure, il Nugent, comandava da Capitan Generale l’esercito e dirigeva il ministero della guerra; ed il general Pepe, tenuto nemico e traditore, reggeva tuttavolta con poteri straordinari due provincia, riceveva la gran croce di san Giorgio, gli era affidata la composizione delle milizie civili. Ecco qual era l’arte dei Borboni!

Nugent dice a Pepe di non partire, e copre con vari non creduti pretesti il mutato comando: quegli sospetta il vero, teme di peggio, s’infinge e tace. Non poteva muovere contro i sommossi lo stesso Nugent, perché mal tollerato dall’esercito, per. essere istromento di finanziere avarizia; non poteva inviare alcuno degenerali di Sicilia, perché privi di fama e spiacenti alle milizie di cui erano nerbo i murattisti. Ma Infine il consiglio, costretto ad una scelta, quantunque insoddisfacente elesse il generale Carrascosa, murattiano, chiaro nell'esercito, atto alle difficili prove, sperimentato istromento di monarchia, ma non discaro al popolo per giovanili fatti di libertà, per manifestato amore di più libero reggimento, e perché Repubblica, Napoleonismo e Libertà sembravano alla moltitudine opinioni compagne, vedendole dagli stessi uomini seguite, e dalla stessa borbonica famiglia combattete.

Per fare ossequio al duca di Calabria, essendo circolo nella reggia, vedevasi confusa l'adulazione de’ cortigiani tra la gioia di quello arrivo, la tristezza di quel giorno, i pericoli, le speranze, i timori. Il re si mostrò sereno, e i cortigiani per seguirne l’esempio, simularono serenità.

Il tempo che in Napoli scorreva fra dubbiezze e scioperaggini, procedeva per Morelli utilmente, imperciocché la sommossa col grido e la impunità si spandeva. Nel giorno stesso invase il Principato Ulteriore, invase parte del Citeriore, toccò la Capitanata; tanto spazio corse quanto la fama. Il de Concili, tutto intento alla rivoluzione, ingannò, spaventò, sedusse, secondo i casi, le autorità della provincia; adunò le milizie assoldate e le civili, e, sotto specie di guardia, le accampò incontro a Morelli, col quale ebbe secreta conferenza nella notte, e fermarono entrare in Avellino nel mattino seguente, colla pompa delle allettatrici parole, e dei colori della setta.

Gl'lrpini intanto dimandavano la Costituzione e conferivano al de Concili il comando di tutte le forze riunite nella provincia con questo indirizzo.

«Avellino, 3 luglio 1820.

«Alle ore undici d’Italia di questo giorno, è comparsa un'avanzata di cavalleria della truppa accantonata in Monteforte, gridando: Viva il Re, viva la Costituzione. Il signore intendente della provincia ha immediatamente peti riunite tutte le autorità civili, militaci, ecclesiastiche e giudiziarie. Inseguito si sono presentati i signori Gaetano Licastro, Scipione Giordano, Nicola Imbimbo, Giuseppe Vitale, Gabriele Damiani e Saverio Tanucci incaricati dal popolo di questa provincia, ed han domandato in di lei non fe impetrarsi da S. M. il Re la sanzione della Costituzione delle Cortes di Spagna, che il popolo medesimo desidera fra breve termine, onde non dar luogo a’ tumulti che avvenir potrebbero in altre provincia; e si ha esso riserbato di presentare alle autorità riunite dall’intendente, tutte le domande di dettaglio concernenti la detta Costituzione. Appena seguita tal domanda il popolo ad alta voce ci ba annunziato che la Costituzione è stata proclamata. Ha proclamato ancora ali unanimità, e ad alta voce come capo di tutte le forze costituzionali de Concili Lorenzo. — Gaetano Licastro — Scipione Giordano— Saverio Tanucci—Nicola Imbimbo— Giuseppe Filale— Gabriele Damiani.»

E il de Concili accettava, e rispondeva col seguente

PROCLAMA
A' POPOLI IRPINI

«Miei concittadini!

«Uno di quei casi che non sa l’umana ragione prevedere, richiamò sulle alture di Monteforte 150 uomini a cavallo.

«Nella mia qualità di Capo dello Stato Maggiore della divisione, io non mancai di concertarmi col Generale Comandante della Provincia, affinché coerentemente alle disposizioni di Sua Eccellenza il Tenente Generale Pepe si fosse impedito di più progredire al corpo di cavalleria, che avea presa quella posizione per noi pericolosa. A? tale uopo riunite le compagnie di militi nel numero che si potè maggiore, ed alle quali aggiunsi dia forti distaccamenti di tutte le armi qui esistenti ed i soldati degli altri corpi, ordini espressi furono da me dati, perché valida resistenza si opponesse, Ciò disposto, vari rapporti fecero intendere posteriormente, che i militi ed i Sanniti reiterando le esclamazioni di viva il Re, viva la Costituzione si. erano riuniti alla truppa, la quale era già ingrandita di qualche migliaio di altre, persone annate che partecipavano a’ medesimi sentimenti. In questo.. stato di cose, consultai nuovamente il Generate Comandante la Provincia, non che i principali funzionari pubblici, e fu risoluto che mi limitassi a conservare,l’ordine interno. In. attenzione di più opportune circostanze, la nostra capitale, Avellino, è stata ieri inondata da persone armate e dalla truppa. Voi avete, risposto alle loro acclamazioni, ed io ho veduto che il pubblico voto era per il Re e per la Costituzione. Nato fra voi non ho saputo resistere alla vostra volontà. Scevro d’ambizione, io però dichiaro che. il mio posto sarà sempre quello di capo dello stato maggiore della divisione, e che sotto gli ordini de’ miei superiori io impiegherò tutte le mie forze al vostro bene. Le nostre voglie pacifiche saranno secondate, poiché esse si limitano a meritare dalla beneficenza del nipote di;San Luigi, nostro Sovrano, quel governo rappresentativo, ch’è il più adatto ai costumi ed ai bisogni degli attuali Europei. Io son sicuro che non saremo frustati nel nostri desideri, subitochè conoscerà il Re magnanimo, essere questi i voti co’ quali l’intera provincia si è pronunziata,

«Intanto però a meritar con più sicurezza una tanta adesione, io da vostro concittadino v’insinuo a serbare la massima, ubbidienza alle leggi vigenti, il più esatto rispetto alla autorità amministrative, giudiziarie ed ecclesiastiche, non che la più inviolabile subordinazione a’ superiori rispettivi. Io vi conosco; in conseguenza non dubito di aver troppo, fidato nella vostra lealtà nel vostro attaccamento al bene comune. I militi non si stancheranno a corrispondere efficacemente alla vostra difesa: se de’ mali intenzionati ardissero di alterare la quiete delle vostre famiglie, essi i primi seconderanno i miei sforzi, perché impunito non rimanga qualunque minimo attentato, che offendesse la dignità del Sovrano delle leggi, de’ magistrati. Seguite questi, principi: voi nobiliterete ancor più la nostra bella cappa, sicuri che al bene non si va senza la scorta della virtù e dell’ordine. — Il Tenente Colonnello Capo dello Stato Maggiore — DE CONCILI.»

Per lo che allo spuntar. del giorno 3 luglio, Morelli lietamente marciava da Mercogliano ad Avellino; e Carascosa in Napoli, aspettando istruzioni, perdevasi trambusto di idee e doveri. Voleva servire il governo per giuramento, ed interesse; ma non combattere i liberali, i cittadini della stessa patria, de’ quali cresceva, ora ad ora, la possanza ed il nome, e di cui tardi o presto era certo il trionfo. Irresoluto ed afflitto e’ mostravasi ed il governo più sospettava della sua fede, temeva che la concedutagli autorità divenisse stimolo e mezzo di irreparabile tradimento; pur tutta volta, risolvendosi, diede mandato libero al generale, ma non milizia. Quegli perciò parti e dovette arrestarsi a Marigliano, indi a Nola, trovando impedita la strada di Avellino, perché le schiere messe campo, il presidio della città, milizie civili, settari, liberali, erano corsi d’ogni parte per unirsi al Morelli, il quale poderosamente afforzato, aveva campato le sue genti sulle vette di Monteforte, incontro Napoli, mentre slargava nelle opposte provincie la impresa.

I magistrali di Avellino, l'intendente, il vescovo festosamente lo accolsero, e nella chiesa giurarono Dio, Re, Costituzione! Nella cerimonia del giuramento il Morelli dichiarò non essere sediziose le sue mosse, rimaner integri lo Stato, là famiglia regnante, le leggi gli ordini; ed avanzatosi verso l’intendente, gli esibì foglio del sindaco di Mercogliano, che certificava la schiera del sottotenente Morelli avere in quella terra serbato strettissima disciplina e pagato le vettovaglie. Dipoi, toltosi a de Concili gli porse altro foglio indicante il ruolo delle spedenti, e disse: «Io sottotenente obbedirò voi tenente colonnello dello stesso esercito di S. M. Ferdinando, re costituzionale.» E ciò pronunziato, prese l’aspetto di subordinato, non più diè comandi, non alzò la voce, e fu tutto sottomesso al de Concili, che assunse il grado supremo.

Intanto il tenente generale Nunziante dirigeva questi fogli ed al colonnello Russo comandante il reggimento Re cavallerie in Foggia ed al maresciallo di campo Campana,

Mercato, 3 luglio 1820.

«Signor Maresciallo,

«Mi affretto a parteciparle, che in punto, ch’è un'ora della notte, arrivo in questo paese. La truppa disponibile che da Salerno l’ho condotta meco, e sarà qui verso le ore 3.

«Ho ricevuto la scaletterà di questa stessa data. Se ella non crede di abbandonare il suo posto, io verrò a Montuori per conferire, essendo cose da trattarsi col vivo della voce, come nella sua saviezza ritroverà regolare.

«NUNZIANTE.»

IL COMANDANTE GENERALE DELLA QUARTA E QUINTA DIVISIONE MILITARE COLL'ALTER-EGO

«Quartiere generale di Salerno, li 3 luglio 1820.

«Signor Colonnello,

«Circa 130 uomini del reggimento real Borbone si sono disertati da Nola, ed han preso la volta di Avellino.

Il maresciallo di campo Campana gl'insegue, e S. E. il tenente generale Carascosa marcia anche al loro incontro.

Io stesso moverò oggi da Salerno, e prenderò norma dalle

circostanze. Intanto nel dubbio, che l’ordine speditole dal detto signor maresciallo di marciare col suo reggimento sopra Avellino non le fosse pervenuto, le spedisco per altra strada il presente e l’incarico di partire all’istante per Avellino e di mettersi in corrispondenza col detto generale Campana, per riuscire all’arresto o dispersione di questi pochi faziosi. — Il Tenente Generale.

«NUNZIANTE.»

Nello stesso giorno 3v là Capitanata, la Basilicata gran parte di Principato Citeriore si levarono a tumulto; perciocché un foglio di de Concili, o un messaggiero, un segno bastava a conciliare numerosi popoli. Ma fra i moti e le armi erano sacre le leggi, mantenuti gli ordini, salve le vite, rispettate le proprietà; gli odii repressi, la rivoluzione convertita in festa pubblica: saggio di irresistibile movimento. Il generale Carascosa in Nola, stando vicino a pericoli, sentivasi più incerto, privo di soldati, esercitava l'autorità per lettere o esploratori, tentava i sollevati, protestava al Governo, sentiva la difficoltà de'  suoi casi, d'ora in ora più sconfortarsi. Gli si affacciò speranza su di indurre i capi a patteggiare per danaro la fuga del Regno, e poi quetare o vincere la sconcertata moltitudine de'  seguaci. Manifestò il pensiero al Governo che lietamente lo accolse, ma quel riuscir per arti oscure era mezzo antico, più d'ogni altro dicevole a ministri pusillanimi e scaltri.

Il Generale che propose l'accordo, bramando che alcun altro il maneggiasse, dimandò un magistrato, ne scrisse al duca d'Ascoli amico del re, ne pregò il ministro de Medici, ma tutti negavano l'ufficio, certi del doppio pericolo verso il re, scansavano i maneggi e le cure di Stato, essendo sorte del re l'essere intorniati d'importuni cortigiani nelle prosperità, lo star soli nelle sventure.

Nella notte del 3 al 4 luglio il general Carascosa ebbe seicento soldati, mentre schiere più numerose reggeva il general Nunziante in Nocera, ed altre il general Campana in Salerno. Niuna delle tre colonne bastava ad espugnar Monteforte; unite, soverchiavano; ma la loro unione era temuta, sospettandosi della fede dei soldati e dell'accordo dei generali.

Così stando le cose il prete Luigi Menichini inviava un rapporto così concepito a de Concili.

«Ponte di Bosco, 14 luglio 1820.

«A questo memento Avella ed i paesi limitrofi con entusiasmo fanno sventolare la tricolore bandiera. Essa è protetta da 50 uomini di mia fiducia. Molti ottimi cittadini, fra quali il degnissimo Benedetto incoronato, han cooperato alla celebrazione di un avvenimento così sensibile.

Nola è difesa da circa 70 uomini d'infanteria, i quali sono uniti a noi per opinione. Quelli dell'ottimo reggimento Borbone, che seguitano le voci della patria, sento con qualche precisione, che siano andati a riunirsi con altri in Aversa, o in Maddaloni.- In quest'istante per persona idonea incaricata apposta, mi perviene notizia che tra Pomigliano e Napoli siavi forza di cavalleria e fanteria.

Domani ve ne darò precisa contezza. Noi siamo uniti al tenente Campanile della compagnia di Monteforte, ed al tenente di Chiusano signor Francesco Saverio Pietrolongo. I due tenenti Napoli della mia compagnia, han mostrato e mostrano un indicibile attaccamento per la patria, per cui non dubito dell'esito felice, avendo al mio fianco tanti bravi: debbo particolarmente lodarmi del foriere Casoria del reggimento Borbone cavalleria. – Luigi Menichini.»

Ora nella mattina del 4, il generala Campana, il quale era mosso da Salerno marciò con fanti e cavalieri sopra Avellino, ma il de Concili sin dal giorno 3 ne area avuto già novella mercé Pristipino che così scrivea.

TERZO BATTAGLIONE FUCILIERI REALI
Prima Compagnia

«Solofra, 3 luglio 1820.

«Signor tenente Colonnello,

«Ho l’onore di renderla informata, che trovandomi in marcia per qui, arrivato appena alle falde del bosco detto di Atripalda, ho inteso, che una truppa uscita da Salerno si era avanzata per Solofra, e, che colà arrivata, incominciato aveva un vivo fuoco sopra quelli abitanti. Ho accelerato la marcia, e preso tasto le alture, ho scoverto che la truppa suddetta contromarciava sopra Montuori, per cui non ho creduto piombiar sopra Solofra, sospettando avervi essa potuto lasciare una forte guarnigione, ma avendo spedite colà subito delle persone di fiducia onde aver delle notizie a proposito, ed assicuratomi di essere la truppa partita, mi vi sono recato subito, ove sono in attenzione de'  suoi ordini. La truppa, per quanto mi assi cura il capitano Jannace comandante questa brigata, era forte di 500 uomini circa, comandati dal generale Campana, e che appena entrata nell'abitato aveva incominciato a tirare delle fucilate e saccheggiare; una sola infelice donna è rimasta estinta con un colpo di fucile in bocca. La popolazione, sebbene più famiglie siano state spogliate, gli ha fatto della resistenza: e terminate simili operazioni la truppa se n'è uscita, retrocedendo sopra il luogo detto Torchiato, distante da qui circa tre miglia, ove trovasi campata in punto che sono le ore 22. Vado subito ad accamparmi coi miei e con i militi, attendendomi suoi ordini. – Gregorio Pristipino.»

Il Campana adunque a mezzo il cammino scontrò il nimico, combatterono; ma il generale improvvisamente tor nò alle sue stanze ed il seguente rapporto fu diretto al Maresciallo di campo Colonna in Avellino.

«Misciano, li 4 luglio 1820.

«Signor Generale,

«Il nemico è stato battuto: io con la mia truppa che comando, composta di 26 individui del secondo leggiero, e circa 200 militi ci siamo inoltrati sino a Mercato, ove abbiamo trovati de'  buoni amici in gran quantità, che ci hanno assicurati, che i signori generali Campana e Nunziante sono fuggiti; la cavalleria è fuggita in Nocera. Dopo di una tale operazione non ho stimato colà restare, né avanzare, atteso che non ho trovato più la cavalleria, che credeva trovare appartenente a noi, per cui mi tono ritirato sopra Misciano. Qui mi ritrovo coll'ottimo capitano Anzuoni, e siamo perfettamente di accordo La prego signor Generale di far venire la cavalleria, e tutta la truppa disponibile per poter completare l'azione. — Qui ci esiste ancora un distaccamento di 12 uomini di cavalleria comandato da un ottimo sergente maggiore. Dal numero del mio distaccamento ella rileverà, che. ci mancano numero 10 individui, de’ quali non sognanti siano i morti — Il tenente aiutante di. reggimento — V. Varese.»

Nel medesimo tempo il capitano Paolella scriveva al tenente colonnello de Concili:

«Vicinanze di Salerno, la notte de’ 4.

«Signor tenente colonnello Comandante,

«Ho ricevuto il vostro imperioso ordine di non marciare sopra Salerno, se non sicuro; mi pare,che non debbasi abbandonare questo capo luogo, per cui vado a fortificarmi su le alture di Vietri; bensì conoscendo le vostre idee di mettere un punto di appoggio a Baronissi per sostenere le operazioni di Florio sopra Nocera, al momento vado a spedire 500 uomini con un tenente dello stato maggiore per prendere la posizione di Baronissi, e servire di punto di appoggio tanto a nse, quanto a Florio, per così tenerci aperta la nostra. comunicazione. Attendo però vostri nuovi ordini; intanto vi fo sapere che ho di già aperta la comunicazione con tutta la costa dell'Amalfi, ed ho ordinato alla deputazione a me venuta da quel le contrade, che cercasse di attaccare il nemico alle spalle. Se è possibile quest'oggi alle ore 22, o pure domani le genti, che calano alla parte del Cilento saranno al più presto da me. Sono ansioso di sapere se cosa debbo fare. – B. PAOLELLA, capitano.»

La mattina del 5 mosse da Nocera il general Nunziante, e, dopo breve cammino, disertarono a folla i soldati; il generale dissimulò il pericolo, e ricondusse le menomate schiere a Nocera. Le mosse di Campana non erano aiutate da Nunziante né da Carascosa; la mossa di Nunziante non aiutava Carascosa o Campana, Carascosa in quel tempo tentava i capi della sommossa, ma si perdevano le blandizie, anzi apparivano inganni per gli assalti impensati delle altre colonne. Il governo dirigeva quelle opere dislegate e contrarie. All'aspetto del quale disordine, cresciuta la contumacia, un reggimento di cavalleria, inobbediente al suo colonnello e sfrontato, nel mezzo del giorno, a stendardi aperti, disertò da Nocera; un batta glione della guardia reale, giunto al campo, palesò l'animo di non combattere; ed altro battaglione di fanti, stanziato in Castellammare, tumultuava.

Al tenente colonnello de Concili, progredendo così gigantescamente la rivoluzione, piovevan rapporti da tutte parti. Il capitano Paolella gliene spediva due di pari data; il capitano di gendarmeria Pristipino un altro, ed altro lo inviava il capitano Giannelli. Noi a memoria impe ritura di quel prodi patriota li riportiamo tutti e quattro.

«Porte di Saleruo, 5 luglio 1820.

«Signor tenente Colonnello,

«Eccomi alle porte di Salerno. Il Signor generale Campana mi ha mandato un uffiziale con l'ordine che m’invitasse acciò gli mandi un uffiziale per potere accomodare qualche cosa. — Ho destinalo il signor tenente Varese aiutante del reggimento, che adesso ci andrà. Intanto la prego di subito venire ella alla testa della cavalleria per poter compire l’opera, ed anche far venire il maggiore Giuliani con l'altra truppa di linea, giacché se le cose non si accomoderanno, io sono obbligato sbattermi in ritirata se pure mi riesce. La truppa di Salerno è un battaglione completo di real Palermo, col signor Campana alla testa; e quella di Nocera è forte di due battaglioni; uno di real Palermo, e l’altro de’ Bersaglieri, con 200 uomini di cavalleria. — Gli uffiziali di real Palermo ieri ci conobbero, e ci hanno mandato a salutare, con particolarità il capitano Vairo. Spero di. aver adempito a quanto ella mi ha Ordinato. — B. Paolella, capitano.»

 «Salerno, 5 luglio 1820.

«Signor tenente Colonnello,

«Questa piazza era occupata da uri battaglione di real Palermo, un plotone di cavalleria Principe, gendarmeria a cavallo di circa 200 fucilieri reali comandati dal generale Campana. Giunti che siamo, abbiamo intimato là resa della piazza. Io ho parlamentato col tenente Petrosini della cavalleria; di fatti il generale ha fatto retrocedere la truppa sopra Nocera, e noi ci siamo impossessati della città. — Il tenente de Vicariis della cennata cavalleria che abbiamo qui trovato, ci ha assicurati, che tutto il reggimento è disertato per Nocera, e questa notte per la parte di S. Severino sarà qui. — La prego mandarci della truppa per poterci sostenere. — capitano comandante — Gregorio Pristipino.»

«Salerno,5 luglio 1820

«Signor tenente Colonnello,

«La città, che non ho potuto darvi nelle mani ieri, la sorte mi ha favorito oggi: l’inimico è stato disperso, e si è ritirato alla fuggita. I soldati hanno lasciato la colonna nemica, e si sono uniti agli amici, che abbiamo trovate in Salerno. Questa città è tutta amica, ed un gran numero di liberali si è unito a noi. Tutto è in ordine, ed io ho marciato per istrada con la massima regolarità. — So situato tutta la truppa, é tutta la gente con massimo ordine militare: ho messo degli avamposti nei luoghi, che ho stimato necessario.»

Non ho potuto inseguire l’inimico, perché la gente era stanca; domani seguiterò la. mia marcia. — Il reggimento di Nocera è disertato, e si viene ad unire a noi: di questo ne sono stato assicurato dal tenente de Vicariis nostro amico che come sapete fa parte di esso. — Vi ho dato tutto queste notizie per mie discarico, e per vostra norma; ed,altro, non. vi prego, che a contare sul mio attaccamento, di cui mi lusingo non dobbiate dubitare. — Debbo di più manifestarvi la mia piena soddisfazione pel capitano Anzuoni, e pel tenente Varese. — In punto, che sono le ore 24, mi è giunta notizia per mezzo del telegrafo, che il capitano generale sia arrivato in Nocera. lo starò qui in osservazione, e darò le disposizioni analoghe: vi prego però a venir subito, e non mancare. — B. Paolella, capitano.»

«Bracigliano, 6 luglio 1820.

«Signor tenente Colonnello,

«In punto che sono le ore 13 siamo felicemente giunti in questo circondario. Abbiamo, trovata In popolazione ben disposta, tutta in ordine in particolare la forza dei militi. Ci hanno bene accolti, con grida di giubilo, ed in un istante si è alzata la bandiera, ed affissa la carta di costituzione. — Qui tutto è tranquillo. La truppa comparsa ieri, si è ritirata in Nocera, per quanto ci han riferito. — Intanto sono in attenzione, di ulteriori ordini. —«Il capitano — Giuseppe Glannelli.»

A tanta commozione, a tanto trionfo della buona causa nazionale de Concili divulgò questa scritta.

PROCLAMA
ALIA NAZIONE NAPOLITANA

«Ecco il tempo acclamato dalla politica di tutt'i po poli. I desideri del cuore umano sono già riempiti. La religione e la patria hanno comune il vessillo. Esso sventola sulla Daunia e sulla Irpina terra; e le confinanti regioni vi si raccolgono intorno. Da tutt' i punti truppe regolari e reggimenti interi di cavalleria aumentano l'esercito nazionale, divenuto ormai da per se stesso imponente: pochi deboli si tengono ancora indecisi. Ma essi non oseranno d'attaccarci. Dai loro sforzi non riporteranno che macchie d' infamia e di tradimento. Il nostro re Ferdinando I non tarderà che pochi momenti a con tentarci. Già alterna nella capitale del regno sopra i labbri di tutt'i buoni il sacro grido di Costituzione e di pace. Sì, viva Iddio, l'una e l'altra ci spetta. Noi le avremo per sempre. Noi saremo felici. E il nome de'  napolitani del 1820 riscuoterà da' tardi posteri tributi di riconoscenza e d'amore.

«Dal quartier generale di Avellino, 5 luglio 1820.

«Il tenente colonnello capo dello stato maggiore

«DE CONCILI.»

Il Sotto-intendente di Ariano avendo avuto copie di questo proclama, rispondeva:

Ecco il tempo acclamato dalla politica di tutt’i popoli. I desideri dei cuore umano sono già riempiti.

PROVINCIA DI PRINCIPATO ULTRA

«Sotto intendenza di Ariano, li 6 luglio 1820.

«Signor tenente Colonnello,

«Ho ricevuto il di lei pregiato foglio della data de’ 5 corrente, nel quale ha avuta la compiacenza di accludere diverse copie di un proclama, che brama si dirami nel mio distretto: nell'assicurarla che seconderò subito le sue premure, dirigendone una copia ai giudici di questo distretto, acciò ne facciano conoscere il contenuto a’ loro amministrati per mezzo de’ sindaci, ne farò io affiggere tre copie in questa comune. — sotto intendente.

«G. Filangieri.»

Or mentre la Provvidenza i campi prosperava, le notizie giungevano nella reggia di Napoli l’una più dolorosa dell’altra.

Un reggimento alloggiato in Foggia erasi unito a’ novatori; Puglia e Molise eransi levate in armi; Terra di Lavoro agitava: ignoravasi per distanza lo stato degli Abruzzi e delle Calabrie; ma se ne presagivano le mosse tutte a bene della rivolta. Cosicché la dimora del re doppiò le guardie; le pattuglie in maggior numero esplodevano la città; le milizie stavano ne’ quartieri, a riserva e spiate. Nel qual tempo giunse lettera ai re del generale Nunziante. Egli scriveva:

«Sire,

«Se vi ha chi teme di far giungere a’ piedi del Trono la verità in tutta la sua purezza non sono io quel desso, o signore. V. M. si degni di ascoltarla dal più umile è dal più fedele dei suoi sudditi. Sire! qui non trattasi di combattere pochi uomini malamente raccozzati senza piano e come in tanti altri rincontri diretti solo da private passioni, e da malnati interessi. Le intere popolazioni, o Sire, dimandano una Costituzione e la sperano dal senno, dal cuore e dall’accorgimento che distinguono V. M.

«In tale stato di cose il combattere sarebbe lo stesso che accrescere la forza; e quando anche fortuna mi sorridesse, qual bene tornerebbe a V. M. dallo spargimento del sangue de'  suoi popoli?

«Spedisco il principe di Campana con una porzione di truppe in Salerno, ed io col rimanente mi dirigo in Nocera, onde conservare le comunicazioni con Salerno dando così tempo alla M. V; di dare una carta alla Nazione, la quale, componga in pace gli spiriti e corra prontamente innanzi al voto universale del popolo di V. M., il quale, fa per ogni dove risuonare il grido di viva il Re e la Costituzione!

«Ogni indugio sarebbe funesto: il maggiore della Rocca da me spedito ha l’ordine di manifestare al Ministro, e al Capitan Generale quanto ha inteso e veduto.

«Pieno del più profondo rispetto mi umilio a piedi del vostro real trono.

«Mercato di S. Severino, 4 luglio 1820.

«Umilissimo e fedelissimo suddito

«VITO NUNZIANTE.»

Il re non sospettava la fede dello scrivente, il quale nato da parenti oscuri, allevato fra le discordie civili, lo aveva seguito costante nelle varie fortune, e perciò era pervenuto agli alti gradi dell’esercito egli onori ed alle ricchezze; pure le assicurazioni del Carascosa di sottomettere i sollevati per accordi o per guerra, sostenevano le speranze e si aspettava, ansiando, la mattina del 6 temmpo prefisso alle trame o al combattere. Ma nuove sventure precipitarono le dimore. Il generale Guglielmo Pepe, insospettito, credé per suggerimento di alcuni settari e per proprio ingegno, che il governo volesse metterlo in carcere, sicché decise fuggire e ricoverarsi in Monteforte: Chiamò a compagno il general Napolitani, e insieme, a notte piena, ne quartieri del Ponte della nel quartieri del Ponte della Maddalena, assembrando uffiziali e soldati, col comando, colle lusinghe, spinsero a diserzione altro reggimento di cavalleria e parecchie compagnie di fanti, che aveano a capo il bravo tenente colonnello Tupputi, non mai restio al grido di libero reggimento. Saputosi il fatto, nella città e nella reggia, cinque settari andarono agli appartamenti del re, dicendo scopertamente a custodi ed alle guardie essere ambasciadori di causa pubblica venuti a parlare al re o a qualche grande di corte.

Un servo frettolosamente portò l'ambasciata, per la quale venne sollecito il duca d'Ascoli, e l'uno del cinque gli disse:

– Siamo delegati per dire al re che la quieta della città non può serbarsi (né si vorrebbe) se S. M. non concede la bramata costituzione. E settari e soldati e cittadini e popolo sono in armi, la setta è adunata, tutti attendono, per provvedere a nostri casi, le risposte del re.

Andrà a prenderle, disse il duca; ed indi a poco tornato, volgendosi a quella stesso che sembrava il primo dell'ambascerìa, disse:

— S. M., viste il desiderio de’ sudditi, avendo già deciso di concedere una costituzione, ora co’ suoi ministri ne consulta i termini per pubblicarla.

E quegli:

— Quando sarà pubblicata?

— Subito.

— Ossia?…

— In due ore.

Un altro dei cinque allora si messe, e, distesa la marra senza far motte al pendaglio dell'oriuolo del duca, inurbanamente glielo tirò di tasca, e, volto il quadrante così ch’egli e il duca vedessero il segno delle ore, disse:.

— E un'ora dopo mezza notte, alle tre la costituzione sarà pubblicata. Rese l'orologio e partirono.

L’audace era il duca Piccolelli, genero dell Ascoli.

Stavano a consiglio continuamente presso del re i! suo figliuolo duca di Calabria e tre ministri, però che il quarto, general Nugent, trattenevasi al campo di Carascosa per assistere alle conclusioni del mattino vegnente sia di accordo, sia di guerra. Quei ministri, avviliti, pregavano il re che cedesse alla necessità de'  tempi acconsentisse alla voluta legge, sperasse ne’ futuri eventi, e quanto più il re confidava negli aiuti del cielo ed indugiava, altrettanto i ministri lo pregavano, lo intimorivano. Il marchese Circello, in odio al pubblico e vecchissimo, ma per delizie di vita bramoso di più lungo vivere, piangendo gli disse: Io amo Vostra Maestà tome padre ama figlio: tutti ascoltato e seguite il consiglio che viene da labbro fedele, concedete prontamente una costituzione, superate i pericoli di questo istante, che Iddio aiuterà principe religiosissimo ed innocente a ricuperare da popolo reo i diritti della corona.

Il Nestore della napolitano milizia, Danero, con gravità e franchezza rispettabile, piangendo anch’egli dirottamente, pronunziò al re le seguenti memorabili parole: «Figlio, mio adorato re, se fosti ingannato da’ beneficati ministri, e da chi comandava il tuo esercito, ascolta un vecchio che sull’orlo della tomba non può lusingarti: i sudditi tutti ti amano come padre; ma il governo che oggi ad essi conviene, è appunto il costituzionale: essi lo chieggono, e son sicuro che non saprai loro negarlo».

A queste parole che tutti udivano colla dovuta rassegnazione, il duca di Calabria aggiunse i suoi preghi e le sue ragioni.

Il re si arrese e fu questo l’editto:

ALLA NAZIONE DEL REGNO DELLE DUE SICILIE

«Essendosi manifestato il voto generale della nazione del regno delle Due Sicilie di volere un governo costituzionale, di piena nostra volontà vi consentiamo, e promettiamo nel corso di otto giorni di pubblicarne le basi. Sino alla pubblicazione della costituzione le leggi veglianti saranno in vigore.

«Soddisfatto in questo modo al voto pubblico; ordiniamo che le truppe ritornino a! loro corpi, ed ogni altro alle sue ordinarie occupazioni.

«Napoli, 6 luglio 1820.

«FERDINANDO»

«Il Segretario di Stato ministro Cancelliere»

«Marchese Tommasi.»

Spuntava l’alba del giorno più memorabile nella napolitana istoria, ed il più brillante e straordinario di nostra vita, quando ne’ suoi primi albori fu in tutti i punti della capitale affisso il reale decreto col quale si prometteva nello spazio di otto giorni una costituzione adattata a!le bisogne della nazione. I liberali che la notte erano stati vigilanti in aspettativa, e gli armati che avevano mantenute il buon ordine lo lessero i primi, e fu quello il principio della universale esultanza, e della inesprimibile gioia. Gli amici abbracciavano piangendo i compagni; i parenti correvano a risvegliare i congiunti onde partecipar loro un tanto bene; gli amanti stessi che pel bene della patria da vari giorni non più vedevano gli oggetti de’ loro respiri, festanti correvano ad avvertire le amiche che il più alto bene erasi ottenuto: e mentre ciascuno non pago replicatamente rileggeva la reale promessa, già le strade erano piene di gente di ogni classe nella più tenera allegrezza immersa. In men di due ore Napoli presentò uno spettacolo non mai per lo innanzi veduto e difficilissimo ad esporsi. Le strade piene di gente, e quella di Toledo precisamente occupata intera da una quantità incredibile. di uomini di ogni condizione: nel largo della Carità,: quartier generale della guardia nazionale, si era, innalzato, uso stendardo tricolore, e colà la calca de'  liberali era imponente. La gioventù ebbre di un piacere incalcolabile, da chi non ha il bene di trovarsi in tanta ventura, correva furibonda per la primaria strada, benedicendo quel giorno felice, ed il magnanimo sovrano. Le grida di viva il re, viva la costituzione echeggiavano per la capitale, ed alle otto del mattino, tutto era moto, tutto brio, tutto stupore. Il largo della reggia interamente era occupato dalla moltitudine esultante, e tutti chiedevano ad alta voce di vedere l’amato sovrano, onde acclamarlo e benedirlo. È inutile esprimere lo strepito e le acclamazioni fatte, allorché il re comparve sul balcone. Quello strepito sarebbe stato più forte ancora, se le lagrime di piacere non avessero soffocate le voci. I primari Generali che giravano a cavallo tra la calca della gente pel buon ordine e per assicurare i dubbiosi, erano attoniti nell'osservare, che in tanto tumulto e nel riscaldamento più possente delle fantasie, non vi erano disastri, non sdegni, non minacce; ma invece, giubilo, benedizioni e fervore. La più bella e studiosa gioventù strepitante ed ebbra di gioia nel vedere il vago aspetto di una brillante vita avvenire, non più credeva quasi l’accaduto: i vecchi benedicevano il cielo nel considerare qual epoca spuntava pe’ loro nipoti: ed i fanciulli stessi facendo eco a’ primi, tripudiavano di non saputo piacere. Napoli la mattina del 6 luglio era il teatro della gioia più pura di una virtuosa nazione.

Il basso popolo, e propriamente quella classe di plebe, che nella funesta epoca del 1799 spaventato aveva la capitale con i tanti eccessi di cui seppe contaminarsi negli orrori dell'anarchia, non poteva in venti anni di progresso e civilizzazione non migliorare la educazione sua ed incivilirsi. Laonde appreso che si trattava della. nobile J19 unione del re colla nazione, risoluti i popolani presero parte nell’avvenimento. Gli artieri con piacere seguitavano i loro lavori; le botteghe tutte erano aperte; gli oggetti preziosi esposti alla solita vendita. Infine, nell'atto che a primo sguardo la strada di Toledo faceva spavento, sopratutto ne' larghi contigui, e che la capitale sembrava esposta a tutte le spaventose vicende della rivolta, nel fatto tanto tumulto edotto lo strepito si limitava ad estrinsecare la gioia pei conseguito bene, e la sorpresa per la inaspettata riforma.

Di tenerezza e di fraterno amore furono argomento le premure, che una quantità immensa di gente fecero al generale Filangieri comandante di Piazza, che instancabile e con sangue freddo era presente a tutti i punti di Napoli, per assicurare e mantenere il buon ordine, allorché gli domandarono che fossero sprigionati i liberali detenuti per materia di opinione. Erano quelli i veri martiri della santa causa, e coloro che veramente avevano sofferto e risicato per essa. Filangieri diede le opportune disposizioni per soddisfare le universali brame, e all’istante furono aperte le carceri in dove molli disgraziati, rei solamente di aver amato svelatamente la patria, avevano languito. Strappava il pianto dagli occhi il veder liberi quegl’infelici, ed era commovente il loro incontro con i parenti, amici ed altri liberali. Essi erano preceduti da una folla di popolo di ogni classe, che colle palme nelle mani era andato a torli di carcere: le grida di acclamazione facevano sentirsi. per le strade che traversavano: poco potevano camminare per soddisfare le premure di chi Voleva abbracciarli, di chi volevano festeggiarli, e de’ moltissimi che in loro unione volevano, benedicendo la patria, versare, lagrime di tenerezza. Le famiglie di quegli eroi, accorse all'apertura delle prigioni, davano al mondo l’inudito esempio della consolazione pe' patimenti de’ loro congiunti, perché soffietto avevano per tanta sublime causa.

Nell’atto che con fervezza in tutti gli angoli della capitale si applaudiva alla reale promessa e mentre nella radunanza delle migliaia d’uomini si discettava per immaginare quale sarebbe stata la costituzione adattabile alle nostre bisogne, il voto universale era quello di. ottenere la costituzione spagnuola promulgata lo Cadice il 19 marzo 1812. Tale parere dagli uni passando agli altri, in meno di un’ora le opinioni erano pronunziate, e senza neppure ideare che altra costituzione potesse convenire al nostro paese, come se vi fosse stato l’antecedente concertato di più mesi, tutti ad alta voce gridavano, che la sola opportuna, desiderata costituzione, con piacere accettabile, sarebbe stata la spagnuola. Anche tra i liberali di provincia per corrispondenza erasi presa di mira quella costituzione. Quasi tutti se la promettevano come sicura, e l’annunziavano agli altri, fidando nella clemenza del principe, in modo che tutti indistintamente bramavano e gridavano lo spagnuolo costituzionale reggimento.

Per solleciti messi intanto l’editto fu spedito a’ campi di Nocera, Magnano e Monteforte, ed al primo albore del dì 6 giunse a Carascosa ed a Nugent, mentre disperando la pace, ordinavano le schiere agli assalti.

Il maggiore Lombardi qd il capitano Minonna in qualità di. parlamentari si presentarono a de Concili, il quale era ne’ posti avanzati di Cardinale con una porzione di cavalleria del reggimento Principe per notificargli il decreto col quale il re prometteva di accordare una Costituzione nel termine di otto giorni. Ma come de Concili era informato dello spirito del popolo, rispose, che per assicurare i seguaci dell’indipendenza vi abbisognavano degli Osteggi di considerazione,che faceva mestieri di allontanare le truppe che gli stavano. a fronte; soggiunse, che senza tali condizioni non poteva rispondere di quanto avrebbero operato le popolazioni che dalla gioia erano infervorate. Con tali felici circostanze egli ritornò in Avellino per attendere la risposte.

Ivi le donne erano tutte intente a lavorar nastri ed eran vaghe di decorare gli uomini del segno tricolore. La moglie di de Concili, Margherita Bellocci, per tre giorni occupata a cucire bandiere costituzionali.

Il maggiore Guarini di poi inviò al de Concili le copie della promessa Costituzione col seguente ufficio e tutto fu finito.

QUINTO BATTAGLIONE BERSAGLIERI
AL TENENTE COLONNELLO COMANDANTE

 «Dalla Schiava,6 luglio 1820.

«Signor tenente Colonnello,

«S. E. il tenente generale Carascosa m’incarica della piacevolissima commissione di farle pervenire dugento copie del decreto reale col quale S. M. ha annuito allo stabilimento di un Governo costituzionale. La fortuna mi avea riserbato il favore di farle pervenire pezzi ufficiali tea to interessanti per chiunque ba cuore e pensieri di buon cittadino. — La prego d’indicarmi ricevuta delle carte che ho l’onore di rimetterle — Francesco Guarini.».

I campi regi si sciolsero, e le milizie tornarono alla città festosamente gridando: Viva Dio, viva il Re, viva la Costituzione. Il capo di Monteforte stette saldo. In quattro giorni la rivoluzione di un regno ebbe pieno successo.

Alla pubblicazione dello editto del dì 6 luglio successe la nomina del Ministero e perché il re credeva che gli autori principali del movimento fossero stati i murattisti, così furono ministri: il duca di Campochiaro per gli affari Esteri, il conte de’ Camaldoli per la Giunta di Culto, il generale Carrascosa per la Guerra e Marina, il conte Zurlo per l'interno, il cavalier Macedonio per la Finanza.

Questo ministero sorse col consenso del campo di Monteforte. Indi re Ferdinando dolendosi delle sue infermità, depose con la seguente disposizione sovrana il regio potere nelle mani del duca di Calabria nomandolo Vicario Generale del Regno.

FERDINANDO I
PER LA GRAZIA DI DIO E PER LA COSTITUZIONE DELLA MONARCHIA RE DEL REGNO DELLE DUE SICILIE, DI GERUSALEMME RE INFANTE DI SPAGNA, DUCA DI PARMA, PIACENZA, CASTRO EC. EC. GRAN PRINCIPE EREDITARIO DI TOSCANA

«Mio diletto e carissimo figlio Francesco

Duca di Calabria.

«Per indisposizione di mia salute essendo io obbligato, per consiglio de’ medici di tenermi lontano da ogni seria applicazione crederei essere verso Iddio colpevole se in questi tempi non provvedessi al governo del regno, in modo che anche gli affari di maggior momento abbiano il loro corso e la causa pubblica non soffra per la detta mia indisposizione alcun danno. Volendo io dunque di gravarmi dal peso del governo sino che a Dio non piaccia restituirmi lo stato di mia salute adattato a reggerlo, non posso ad altri più condegnamente che a voi affidarlo, mio dilettissimo figlio, e per essere voi il mio legittimo successore, e per l’esperienza che ho fatto della vostra somma rettitudine e capacità. Laonde di mia piena volontà vi costituisco e fo in questo mio regno delle Due Sicilie, mio Vicario Generale, siccome lo siete stato altre volte in questi domini; ed in quelli oltre il Faro: e vi concedo ed in voi trasferisco colla pienissima clausola dell’alter-ego, l’esercizio di ogni diritto, prerogativa, proeminenza, e facoltà, al modo istesso che da me si potrebbero esercitare ed affinché questa mia volontaria a tutti nota, e da tutti eseguita, comando che questo mio foglio da me sottoscritto e munito del mio real suggello sia conservato e registrato dal nostro segretario di stato ministro cancelliere, e ne sia da. voi passata copia a tutti i consiglieri e segretari di alato per parteciparlo a chiunque loro convenga.»

«Napoli,6 luglio 1820.

«Ferdinanbo»

L’editto, il decreto, le. lettere concitarono moti maggiori nel popolo, che diceva non bastare otto giorni per una costituzione che si ordisse da suoi principi, ovvero esser troppi per alcun alita che si prendesse fra le usate io Europa, e perciò quella offerta esser arte per assonnare, scioglierò il campo di Monteforte, opprimere alla spicciolata; desse il re la costituzione delle Cortes, riconosciuta, in Europa e giurata da lui stesso quale in fante di Spagna. Soggiungeva ancora estete stato eletto Ministero nuovo e migliore per presente necessità, non per mutato ingegno; citando in prova i ricchi stipendi mal prodigati agli antichi ministri. Il vicariato del duca M di Calabria, ricordando col nome gl'inganni usati in Sicilia, rinforzava il sospetto che il re covasse intenzioni maligne. Questi moti crebbero nel giorno 6 spinti, benché soggiornasse nel campo, dai generale Pepe.

Col cadere del giorno aumentarono le grida nella città, gli spaventi nella reggia, tanto che il Vicario adunò a consesso (cosi prestamente che la chiamata diceva: nello istante comunque vestito) pochi generali, alcuni antichi,pu consiglieri di Stato, i ministri nuovi, e lor disse: «il re e noi, tutti della. stessa patria, salviamo, se bastano le forze umane, la madre comune dal presente pericolo. Sino a che la costituzione chiedevasi da pochi arditi mossi a tumulto, apparendo pensiero o pretesto di setta, il re dubitava di concederla. Egli poteva colle armi con espugnar Monteforte, vincere e punire i costituzionali» cosi per la prima volta si dinotavano quei medesimi che insino allora ne’ consessi regi furono chiamati ribelli; «ma non volle perché abborriva il sangue civile, e voleva dare alle opinioni tempo e libertà di manifestarsi, onde conoscere le vere brame, il vero bisogno politico del suo popolo. E però il ritardo, che si credeva ripugnanza, era studio di re saggio e benigno.

«E difatti, conoscendo appena il voto di tutti, ha promesso di soddisfarlo; ha levato i campi e inviato i soldati a’ quartieri come ne’ tempi di pace; il cammino da Monteforte alla reggia è aperto; la casa intera e quindi la dinastia de'  Borboni è in mano a' popoli sommossi, e non fugge e non teme. Ma se ii desiderio trasmoda e nega tempo alla difficile compilazione di uno statuto, o turba il consiglio a voi, destinati dal re a quell’opera, farete cosa imperfetta e sconvenevole; apparirà indi a poco il bisogno di riformarla, e poiché le riforme ne’ governi costituzionali portan seco il sospetto ed il moto delle rivoluzioni, ritorneremo presto alle presenti dubbiezze e pericoli..

«A voi perciò, così amanti della patria quanto fedeli al trono, dimando un modo per attiepidire il pubblico fervore, ed aspettar quietamente, non più del prefisso tempo di otto giorni la promessa legge. Incitando a parlare ciascun di voi, rammento a tutti che nelle difficoltà di regno la sincerità del consigliere è bellissima fede al sovrano, e che se inopportuno riguardo ritiene il vostro labbro, farete onta a voi stessi, tradimento al re, danno alla patria comune, offesa a Dio.»

Tacque, ciò detto; e tacevano per maraviglia o diffidenza i consiglieri adunati, però che varia era la fama del duca di Calabria, erudito nei penetrali di reggia infedele, amico del Canosa, sospettato ne’ tradimenti fatti alla Sicilia, ma insino allora innocente, e (ciò che più il commendava) tiranneggiato dal padre; per questi pregi, per quel parlare onesto, per la gravità de’ casi, dissipata la tema, uno di quei molti, dopo nuovo incitamento, così disse:

«Nel rispondere a V. A. io non guardo la importanza del. subbietto, il pericoloso uffizio del consigliere, la mia stessa incapacità, ma solamente il debito di dire e operare nei difficili casi, come vogliono il proprio giudizio e la coscienza. Parlerò aperto, e troppo, stimolato dal comando di V. A, e dalla mia natura.

«La costituzione è desiderio antico de’ napolitani, sorto ne’ 30 scorsi anni di civili miserie; salito a speranza per la costituzione concessa dal re Ferdinando alla Sicilia e l'altra dal Re Luigi alla Francia, e l'altra a noi stessi (benché tardi) dal re Gioacchino, e l’ultima data o presa in Ispagna. Ed oggi, che di questa voce han fatto lor voto e pretesto numerosissimi carbonari, ella non è solamente desiderio e speranza, ma bisogno ed ansietà. L’opporsi al torrente degli universali voleri era già da tre anni vana fatica, ma facile prova il dirigerlo; l’ultimo ministero è stata cieco a’ pericoli, sordo a’ Consigli, sperando che il turbine si disperdesse, o scoppiasse più tardi per vanto di serbare illesa la monarchia, eccola colpita ne’ suoi maggiori nervi, cioè nell’impero e nel prestigio. Si poteva il 2 luglio sottomettere Morelli e i suoi pochi, si poteva ne’ seguenti giorni espugnar Monteforte, si poteva rendere vano questo altro cimento della setta e dilungare la rivoluzione, perocché scansarla era impossibile, ove i modi del governate non mutassero. Si avevano rimedi di forze insino a ieri, oggi non più la facile promessa di una costituzione, il richiamo delle milizie da’ campi, la caduta del vecchio ministero, i rumori attorno alla reggia non depressi, han fatto il governo men forte della rivoluzione; e nei conflitti civili la condizione de’ deboli è la obbedienza o la rovina.

«É pericoloso questo momento alla monarchia quanto alò al monarca; i costituzionali negano il tempo a comporre un nuovo statuto, e ne dimandano uno straniero, quello delle Cortes. Se il re oggi ricusa, vorrà dimani; e frattanto la continua ritrosia, da’ tumulti crescenti superata, più abbasserà l'autorità del ree delle leggi, più innalzerà i suoi nemici e la plebe: in quelle politiche sproporzioni risiedono, A. R., i gran delitti. Perciò son d’avviso che debbansi avanzare le dimande, soddisfare in un punto tutti i desideri presenti, dare al popolo, sotto specie di concessioni, quanto egli guadagnerebbe per via di forza.»

«Ma (disse il Vicario rompendo il discorso) la costituzione delle Cortes è convenevole a napolitani?»

«Vano il cercarlo, rispose l'oratore, oggi trattasi del come chetare la rivoluzione, non del motivo di farla; essa è già fatta. Coloro che più altamente richiedono la costituzione di Spagna, non intendono il senso politica di questo atto; è un domma per essi: ogni altra costituzione, ancorché più adatta, ancorché più libera, spiacerebbe.

«É dolorosa necessità per un governo piegarsi alla forza de'  soggetti; è doloroso per noi esortare alta pazienza, ma poiché siamo sì presso a’ precipizi, è officio, de’ consiglieri la prudenza, come forse sarebbe virtù nel monarca correre le fortune per sostenere le sue ragioni. Perocché l’ardire col proprio pericolo è valore, coll'altrui è arroganza.»

Mentre l’uno cosi parlava, uscivano segni e voci di approvazione dal gesto e dal labbro de'  circostanti; ma pure il Vicario chiese il voto aperto di ognuno e tutti si unirono al proponente. Un solo suggerì d'introdurre nel decreto un motto di doppio senso, a fin di giovarsene quando, superate le attuali strettezze, rinvigorisse la monarchia; ma il principe opponendosi, mostrò sdegno: disse che dagli inganni rifuggiva la religione del re e del Vicario. E senza sciogliere il consiglio andò dal padre, tornò, riportò che il re confermava il parere dell’adunanza, e voleva che si riducesse a decreto. Furono sì brevi le dimore del principe, che non bastavano a riferire gl’intesi discorsi; e però i consiglieri sospettarono che il re, non visto, fosse presente al consiglio. Il decreto fu subito scritto e nella notte stessa pubblicato con la firma di Francesco, Vicario; ma si volle la firma del re, e lo stesso decreto ricomparve firmato da Ferdinando. Esso diceva:

FERDINANDO I
PER LA GRAZIA DI DIO E PER LA COSTITUZIONE DELLA MONARCHIA RE DEL REGNO DELLE DEE SICILIE, DI GERUSALEMME EC. INFANTE DI SPAGNA, DUCA DI PARMA, PIACENZA, CASTRO EC. EC. GRAN PRINCIPE EREDITARIO DI TOSCANA EC. EC. EC.

«Dopo di aver dato al nostro amatissimo figlio tutte le facoltà necessarie per provvedere al buon reggimento del governo del nostro regno, dichiarandolo nostro Vicario Generale coll’alter-ego ed avendo egli basato la costituzione da noi promessa, pigliando per norma quella emanata ed adottata per lo regno della Spagna nell’anno 1812, e sanzionata da S. M. cattolica nel marzo di questo anno, salve le modificazioni che la Rappresentanza Razionate costituzionalmente convocata crederà di proporre per adattarla alle circostanze particolari de’ reali domini, confermiamo questo atto dell'amatissimo nostro figlio, e promettiamo l'osservanza della costituzione sotto la fede e parola di re, riservandoci di giurarla nella de bita forma primo innanzi alla Giunta provvisoria a somiglianza' di quella stabilita in Ispagna, che sarà dal nostro amatissimo figlio e Vicario Generale nominata; ed indi innanzi. al Parlamento nazionale subitoché il medesimo sarà legittimamente convocato.

«Ratifichiamo in oltre da ora tutti gli atti posteriori che dal nostro amatissimo figlio si faranno per la esecuzione della costituzione, ed in conseguenza delle facoltà, e de’ pieni poteri che gli abbiamo accordati;. dichiarando che avremo per rato tatto quatto che egli fora, e come folto in nostra piena scienza.

«Napoli,7 luglio 1820.

«FERDINANDO.

«Il Segretario di Stato Ministro di Grazia

e Giustizia degli affari Ecclesiastici....

«Conte db’ Camaldoli.

«Pel Segretario di Stato Ministra Cancelliere

assente reggente della 1.° camera del
supremo consiglio di cancelleria del Regno

«PRINCIPE M CARDITO.»

A questo decreto tenne subito dietro l’altro con la stessa data che promulgava la Costituzione di Spagna nel regno di Napoli. Eccolo:

FERDINANDO I
PER LA GRAZIA DI DIO B PER LA COSTITUZIONE DELLA MONARCHIA RE DEL REGNO DELLE DUE SICILIE, DI GERUSALEMME EC. INFANTE DI SPAGNA, DUCA DI PARMA, PIACENZA, CASTRO EC. EC. GRAN PRINCIPE EREDITARIO Di TOSCANA EC. EC. EC.,

Noi Francesco Duca di 'Calabria Principe Ereditarioe Vicario Generale.

«In virtù dell’atto della data, di ieri, col quale S. M. il nostro augusto genitore ha trasferito a noi colla pienissima clausola dell’alter-ego l'esercizio di ogni diritto prerogativa, preeminenza e facoltà nel modo stesso che dalla M S. si potrebbero esercitare; per effetto della decisione di S. M. di dare una Costituzione allo stato;

«Volendo noi manifestare a tutt’i suoi sudditi i nostri sentimenti, e secondare al tempo stessa il di loro voto unanime;

«Abbiamo risoluto di decretare e decretiamo quanto segue:

«1. La Costituzione del regno, delle Due Sicilie sarà la stessa adottata per lo regno delle Spagne nell'anno 1812, e sanzionata da' S. M. Cattolica nel marzo di questo anno salve le modificazioni che la Rappresentanza nazionale. costituzionalmente convocata crederà di proporci, per adattarla alle circostanze particolari de’ reali domini.

«2. Ci riserbiamo di emanare tutte le altre disposizioni che potranno occorrere per facilitare ed accelerare l'esecuzione del presente decreto.

«Tutti i nostri Segretari di Stato Ministri sono incaricati della esecuzione del presente decreto.

«Napoli, 7 luglio 1820.

«Francesco, Vicario Generale.»

Ciò praticato la rivoluzione si acchetò e ad essa successero grida di giubilo e plausi incessanti al re. Napoli era tutto in festa; imperocché i desideri erano soddisfatti senza che sangue si fosse versato. I negozi pubblici, la borsa, il foro, i teatri non aveano punto interrotto i loro esercizi. I genitori, i figliuoli delle vittime del 1799, scordandoli dolore. plaudivano. il sovrano e benedicevano I le passate sofferenze in grazia della risorta libertà.

Mentre nella capitale cosi operavasi l'entusiasmo liberale esaltava più che mai nelle provincia e nel campo. Tutta tendeva all'unità dell'opera con le medesime voci, co’ medesimi modi civili. Tutto il regno era in armi; ma perché il sentiero ed il pensare era uno, non avveniva disordine. Il nuovo ordine di coro era tutto edifizio della Carboneria, società ampia e ricca, bramosa di meglio e di sicurezza individuale.

 Il seguente rapporto a de Concili è un saggio di spirito pubblico.

«Vitolano, 7 luglio 1820.

«Signor tenente Colonnello,

«la esecuzione de’ suoi ordini ricevuti in Avellino, ho attraversato vari circondari colla mia troppa colla tricolore bandiera spiegata, onde promulgare la costituzione. Altavilla, Vitolano, e S. Maria Maggiore, Santa Croce, Fagliarase, Torrecuso e Paupisi hanno con entusiasmo corrisposto alla riforma. Dirigendo in seguito la mia marcia per Terra di Lavoro, fu con eguale ardore ricevuta la costituzione in Solopaga, Frasso, S. Agata dei Goti ed altri siti. Mi fo un dovere manifestarle che in tutti i paesi per li quali sono passato, sempre gli abitanti mi hanno prevenuto con entusiasmo e risolutezza. Bisogna convenire che le popolazioni tutte sono disposte; ansi anelanti del moderato governo; e l’ordine col quale fanno succedere il cangiamento indica che le meritano. —di captano. Gaetano Lente.»

Il tenente colonnello de Concili era pei suo credito e le sue ricche proprietà il sovrano della setta Carboneria tutti l’ascoltavaoo, tutti l’obbedivano, tutti gli rapportavano e tutti ambivano averlo a capo. Il 7 luglio il reggimento governativo era mutato, la Costituzione concessa, epperò la garenzia pubblica assicurata; eppure Salerno invidiando Avellino che avea in grembo un tant'uomo qual era il de Concili lo desiderava a sé e l'invitava cosi al comando di quella terra tanto prima quanto dopo l’atto costituzionale.

«Salerno, 6 luglio 1820.

«Signor tenente Colonnello,

«Noi siamo in Salerno sin da ieri sera: tutto è tranquillo, la truppa ai unisce a noi. Venite per dar tuono alte altre provincie, insomma venite al voto generate. — ANTONIO, capitano.»

«Salerno, Ii 7 luglio 1820.

«Signor tenente Colonnello,

«I voti unanimi di quella popolazione, avendo in Voi molta fiducia, per gratitudine desidera; che accettiate il comando, delle armi della nazione. al quale il popolo vi proclama. Se per sventura di tanti onesti cittadini, voi per riguardi particolari volete esonerarvi da questo incarico, abbiate almeno la bontà di nominarci un soggetto degno, al quale tutti vi presteremo quella stessa fiducia 0 che voi ci avete saputo ispirare. Sappia contentare i voti di molte popolazioni che hanno fiducia nella vostra probità e risolutezza. — Raffaello Pagliaro.»

Il tenente colonnello de Concili, divolgato l’atto sovrano del 6 luglio, sia civil modestia, sia imitazione di quanto avea praticato il Morelli verso la persona di lui, depose il comando supremo nelle mani del generale Pepe, il quale pregiando le azioni del de Concili, così si esprimeva in una sua lettera.»

IL GENERALE COMANDANTE IN CAPO DELL’ESERCITO CONTINENATLE

«Dal quartier generale di Avellino, il 6 luglio 1820.

«Signor tenente Colonnello,

«Allorché. il reggimento Borbone cavalleria osò il primo dichiararsi per la costituzione, trovandomi io in Napoli, ella talmente influì alla bella causa della rigenerazione della patria, che senza il suo deciso coraggio, e senza i suoi rapporti nella provincia, il tentativo di quel reggimento sarebbe stato vuoto di effetto: tanto più che io rimasi quattro giorni in Napoli senza poter raggiungere l’esercito costituzionale, ed in quel, tempo ella ha dato delle pruove di decisione, coraggio imperterrito, e talenti militari. Io l’assicuro che cercherò al Governo costituito la sua nomina di maresciallo di. campo, e di barone 'del regno. Quando una nazione dee tanto ad un suo uffiziale, non fa di troppo accordando quanto io domando per esso. Intanto questa mia lettera le servirà come attestato di quanto a me costa sul suo conto; e della costante stima ed amicizia che ha, ed avrà sempre per ella il generale comandante in capo suo pagano—GUGLIELMO PEPE.»

Innanzi però che il Pepe prendesse il costituzionale comando dell’armata cominciò a prevenirne gli uffiziali in questi termini:

 «Il tenente generale Pepe previene gli ufficiali tra le comuni di Lauro ed Avellino, ch’egli a momenti giunge per prendere il comando dell'esercito costituzionale. — Lauro, 6 luglio. 1820 — Guglielmo Pepe.»

E l’uffizialità, fedelissima al de Concili girò la prevenzione del Pepe cosi:

«Si rimette al signor maggiore Pionati per farla pervenire al tenente colonnello de Concili. — L’uffiziale dell'avamposto tenente Lignito.»

Ma il capo carbonaro scevro d’ambizione, poiché in seguito fu pago soltanto di essere Deputato, e sollecito e premuroso del buon andamento della cosa pubblica, lasciando, il comando, inculcò obbedienza con questo

PROCLAMA
ALL’ARMATA COSTITUZIONALE

«Bravi difensori della più giusta causa!

«Essendo ritornato fra noi S. E. il tenente generale Pepe, a norma della mia prima dichiarazione allorché mi sceglieste a vostro capo, ho a lui rassegnato il comando. In conseguenza invito i capi tutti de’ corpi dell’armata, non che de'  bravi liberali, a dipendere dagli ordini suoi.

Vuole però la giustizia, che dichiari al pubblicò quanto dritto alla bastonai riconoscenza abbiano i tanti valorosi che la bella causa sono concorsi; e specialmente quanto si debba allo squadrone sacro diretto dagli imperterriti uffiziali Morelli e Silvati dall’aiutante Descisciolo; da’ sotto uffiziali Altomare, Zapi, Casoria, de Giacomo, Cavallo, Pistone, Quatrini, Escobedo, Bossi, Scotenna, Vili k sconti Martiho, Sala, Bosco, Fiorentino Musone; Staffetti e Scazioti. Tutti ha gareggiato di zelo e di valore, e convien confessare che da questi è stato il primo colpo vibrato. Io son felice di rassegnare il comando, allorché sei provincia sono già interamente costituzionali, ed il grido di costituzione si ode dal Tirreno all'Adriatico,e dopo di aver ricusate proposizioni vantaggiose, non soddisfacenti all’attual nostra posizione. Bravi! secondiamo la gran causa. Noi abbiam vinto se continueremo. come sinora a spogliare il,nostro cuore da ogni altro interesse, se non è quello di pio, dei ree della Costituzione.

«Avellino, 6 luglio 1820.

«Il Capa dello Stato Maggiore

«DE CONCILI».

Il generale Guglielmo Pepe ricevuto il comando, così prese ad annunziarsi:

IL COMANDANTE IN CAPO DELL’ESERCITO COSTITUZIONALE AI POPOLI DEL REGNO DELLE DUE SICILIE

«Seco lidi barbarie, di servaggio, è di avvilimeoto aveano immerse nella miseria la nostra bella patria; ma l’entusiasmo di cui sono tutt i cuori agitati per avere una Costituzione ci annunzia già che noi ci mettiamo al livello delle più colte nazioni di Europa.

«Noi eravamo. poveri non ostante ché abitassimo il suole. più beato della terra; eravamo poco avanzati. nella civilizzazione, nonostante che i migliori ingegni nascesser tra noi avevamo poca riputazion militare non ostante che animati di coraggio e di ardire; ma queste contraddizioni erano ben facili a spiegarsi: gli errori del governo non: potendosi smascherare, eravamo nella guerra comandati da esteri mercenari; l’amministrazione interna, manomessa alle più vili passioni; era ricoperte da tenebre impenetrabili. Tutti questi mali sono fugato dal governo costituzionale, ogni cittadino è da questo sistema invitato ad istruire il governo, ed il governo stesso, circondato da’ lumi e dalla saggezze nazionale, diviene esso stesso sempre più saggio e più giusto.

«Già gl'Irpini, essendosi messi ne’ posti avanzati contro gli ostacoli del potere arbitrario; han proclamato di voler vivere sotto una Costituzione monarchica rappresentativa, basata sopra principi atti ad assicurare la libertà della nazione; e questo nobile esempio è stato seguito dal Principato Citeriore, dalla Capitanata, e dalla Terra di Bari; e forse nel momento questa sacra scintilla si è comunicata nella capitale e nelle altre provincie del Regno ancora.

«Lo slancio unanime della nazione non ha più misura: l’armata ogni giorno s’ingrossa; i soccorsi delle provincie limitrofe sorpassano le richieste e l’aspettativa.

«Tutte le armi eran presenti alla rivista che ho passato queste mattine. Fanteria, cavalleria, artiglieria, militi, tetti gareggiavano di ardore, e presentavano delle masse imponenti pel numero e più ancora per lo coraggio. Gli amici della libertà, ampiamente arricchivano i ranghi dell'esercito. Donde mai derivano questi prodigi? Egli è dacché non possono gli errori de’ governi estinguere le disposizioni che popoli ereditano dalla natura alla grandezza.

«Potrebbero non pertanto esservi degli uomini caldi altronde di amor di patria, i quali fossero deboli abbastanza dà temere che qualche estera potenza, invidia della nostra gloria e della nostra felicità, impiegasse: le sue forze per rimetterci in ceppi più duri di quelli che andiamo a spezzare. Ma donde queste invidia? Potrebbe farsi la guerra ad una nazione perché vuol governarsi con buone leggi? E perché non si fa là guerra alla Francia; alla Spagna, al Regno di Olanda, all’Inghilterra, od agli stati uniti di America?'Sol perché vivono sotto un regime costituzionale. Quale stolta guerra sarebbe quella di farla alla volontà delle nazioni, specialmente quando questa è.mossa da cosi santi motivi!

«L'aver noi napolitani resistito i primi tra tutti i popoli alle armi francesi, non basterebbe provare che, siam fatti per aver orgoglio e cuore? Noi non sfideremo altra potenza colle nostre operazioni dirette al nostro bene; ma se esse vorranno nei nostro territorio penetrare, troveranno la pena detta loro ingiustizia, nel nostro coraggio nazionale macchiato per forza solò di destino. Mi perché il nostro Sovrano negar si dovrebbe a firmare una costituzione, mentre i suoi, congiunti l’han firmata in Francia ed in Ispagna, e degli stesso l’ha giurata, come infante? Perché preferir dovrebbe di regnare per mezzo de’ ministri piuttosto che di una rappresentanza nazionale? Egli è tanto buono quanto è stato idolatrato dalla nazione intera.

«Egli ha dimostrato di esser più che Re padre de’ suoi Popoli, a cui è stato sempre attaccato; e se ha procurato il bene, non potrà certamente rifiutar di prestarsi ad una sì grand'opra, che lo renderà; veramente immortale nella storia, e gli aprirà un tempio ne cuori di tutti. Non la giurò egli forse ne? domini al di là del Faro, nominando l’adorabile suo figlio primogenito per suo Vicario? Ne sostenne questi con tutta la saviezza, religione e fermezza che l’adornano, la sua esecuzione, e per tali tratti ha già acquistato de’ titoli per esser adorato da noi, come lo è stato in que domini, ove la sua assenza ha recato il più gran duolo; e gli occhi di quegli abitanti sono ancora bagnati dalle lagrime di dolore, e di riconoscenza per la sua persona, non avendo pensato mai a se stesso; ma sempre a’ suoi sudditi, interessandosi per essi sino a consumare il suo patrimonio pel di loro sollievo, calcando così le degne tracce del suo genitore.

«Chiamato da nostri concittadini ad assumere il comando dell'Esercito nazionale, ho giurato, ed hanno essi giurato di assicurare alla patria comun madre una costituzione, o di morire. Io dichiaro che mi dimetterò da questo comando appena che sicuri saremo di essere esauditi i voti comuni. Io raccomando a tutti gl'impiegati di rimanere nel loro posto, onde il corso degli affari non riceva ritardo. L'onor nazionale mi rende sicuro, che nessuno si negherà a concorrere col suo giuramento a conservare il sacro edificio, che con tanta gloria si va ad innalzare.

«Avellino, 7 luglio 1820.

LA RAPPRESENTANZA DEL POPOLO DELLA PROVINCIA DI PRINCIPATO ULTRA

Al cittadino Morelli comandante dello squadrone sacro dell'armata costituzionale.

«Avellino, 7 loglio 1820.

«Il tenente generale»

«GUGLIELMO PEPE.»

Compiti questi atti, la rappresentanza del popolo della provincia di Principato Ultra, con tre indirizzi, come appresso, in segno di riconoscenza, ringraziava e fregiava di medaglia i cittadini Morelli, Silvati e de Concili.

LA RAPPRESENTANZA DEL POPOLO DELLA PROVINCIA DI PRINCIPATO ULTRA

Al cittadino Morelli comandante dello squadrone sacro dell'armata costituzionale.

«Avellino, li 7 luglio 1820.

«Cittadino,

«ll popolo irpino riconoscente al segnale. che li deste della rigenerazione politica della nazione, ha creduto di darvene un attestato colla qui annessa medaglia. Essa non indica il lusso, ma il dono di un cuore grato. Accettatela perché dimostrerà l’attaccamento che il popolo stesso vi dee finché avrà esistenza.

«Vi salutiamo con tutta stima e considerazione.

«Rappresentanti

Sebastiano Preziosi, pel distretto di Avellino.

Felice di Florio, pel distretto di Ariano.

Giuseppe Jorio, pel distretto di S. Angelo de'  Lombardi.

Gaetano Ricciardelli, Segretario.»

LA RAPPRESENTANZA DEL POPOLO DELLA PROVINCIA DI PRINCIPATO ULTRA

Al cittadino Silvati sotto-tenente della squadrone sacro dell’armata costituzionale.

«Avellino, li 7 luglio 1820.

«Cittadino,

«Il popolo topino riconoscente al segnale che li deste della regenerazione politica della nazione, ha creduto di darvene un attestato colla qui annessa medaglia. Essa, non iodica il lusso, ma il dono di un cuore grato. Accettatela perché dimostrerà, l’attaccamento che il popolo stesso vi dee finché avrà esistenza.

 «Vi salutiamo con tutta stima e considerazione.

«I Rappresentanti

Sebastiano Preziosi, pel distretto di Avellino.

Felice di Florio, pel distretto di Ariano.

Giuseppe Jorio, pel distretto di S. Angelo de'  Lombardi.

Gaetano Ricciardelli, Segretario.»

LA RAPPRESENTANZA DEL POPOLO DELLA PROVINCIA 'DI PRINCIPATO ULTRA

Al signor de Concili Lorenzo comandante in capo del popolo irpino.

 «Avellino, li 7, luglio 1820.

«Cittadino rispettatile,

«Il popolo di questa provincia riconoscente al segnale che li deste della rigenerazione della nazione, ha creduto di darvene un attestato colla qui acclusa medaglia.. Essa, non indica il lusso, ma il denudi un cuore grato. Accettatela perché dimostrerà l’attaccamento che il popolo stesso vi dee finché avrà esistenza.

«Abbiamo il bene di salutarvi con alta stima e considerazione.

«I Rappresentanti

Sebastiano Preziosi, pel distretto di Avellino.

Felice di Florio, pel distretto di Ariano.

Giuseppe Jorio, pel distretto di S. Angelo de'  Lombardi.

Gaetano Ricciardelli, Segretario.»

Intanto il general Pepe accoglieva ne' campi di Avellino e Salerno liberali, milizie e settari. Egli, non principale autore della rivoluzione, vedutone il sicuro frutto, volea più a perfezione ridurlo per averne rinomanza.

Sicché radunata tanta gente, ideò un trionfo, e scrisse al Vicario del Regno che sarebbe al più presto entrato in Napoli con le schiere civiche e militari per attestare l'universale assenso pel mutato Governo.

L'annunzio destò agitazioni nella reggia, e subito il Vicario spedì ambasciatori al campo per isvolgere i disegni del generale. Ma si convenne che nella mattina della truppa costituzionale entrasse in città; che duemila e non più settari o liberali seguissero le schiere ordinate; che da quel giorno il general Pepe assumesse il comando di tutte le forze militari della monarchia, e il ritenesse sino all'adunanza del Parlamento; che quattro battaglioni di milizie civili restassero di presidio e di guardia nella reggia; che al dì seguente le genti soperchie partissero di città, le milizie per le assegnate stanze, i cittadini per la loro patria; e siccome i costituzionali a primi concitamenti avevan mutato lo stendardo borboniano ne' colori nuovi e mistici della Carboneria (rosso, nero, turchino), così con quelle fogge volevano entrare trionfalmente in città. Ma il Governo vi si oppose e si fermò di aggiungere alla bandiera del re la lista de tre colori della setta.

Nunzi del cambiamento politico di Napoli, il duca di Campochiaro scrisse fogli alle Corti europee con la data 7 luglio. Nella circolare stava adombrata la forza che il re soffriva pe’ popolari tumulti; la quale sincerità, quando i fogli divennero di ragion pubblica, fu motivo di di scapito alla fama del ministro.

Il giorno 8 le genti costituzionali attendarono nel campo di Marte presso Napoli per marciare il dì seguente in città. La disciplina già prima poco osservata nell'esercito, non lo era affatto dopo la comunanza di soldati colpevoli e settari licenziosi, quindi gli ordini confusi, la voce de capi non intesa, le pene impossibili; gli stessi Pepe, de Concili, Menichini, non eran d'accordo.

In questo volger di tempo nella città soddisfatto e stanco il tripudio, si alzarono i sospetti: diffidavasi del l'antica Polizia, altra ne fu scelta; si temé de’ comandanti de'  forti, e furono cambiati; sospettavasi che il danaro pubblico fusse involato, ebbero i settari la custodia del banco; si disse che il re fuggiva, furono sguarnite le navi, guardato il porto. Era la stessa Carboneria, numerosa, operosissima, dì e notte armata, che bisbigliava quelle voci, le volgeva in sospetti, provvedeva a rimedi. Per innalzare un potere nuovo, al quale il nuovo stato ubbidisse a simiglianza delle cose di Spagna, fu instituita una Giunta provvisoria di quindici membri, che, insieme al Vicario, imperando e reggendo, governasse sino alla con vocazione del Parlamento. Essa risultò di uomini esperti a tenere il freno de'  popoli, amanti di monarchia, onesti, onorati. Ecco il decreto:

FERDINANDO I
PER LA GRAZIA DI DIO E PER LA COSTRUZIONE DELLA MONARCHIA RE DEL REGNO DELLE DUE SICILIE, DI GERUSALEMME EC. INFANTE DI SPAGNA, DUCA DI PARMA, E PIACENZA, CASTRO EC. EC. GRAN PRINCIPE EREDITARIO DI TOSCANA EC. EC. EC.

Noi FRANCESCO Duca di Calabria Principe ereditario, Vicario Generale.

«In forza della facoltà trasmessaci dal nostro Augusto Padre e Sovrano;

«Avendo col nostro atto de’ 6 del corrente proclamato pe’ nostri domini e promesso di giurare la Costituzione fatta nell’anno 1812 per il regno delle Spagne;

«Volendo adempire solennemente alla nostra promessa, e convocare nel più breve tempo possibile il Parlamento nazionale del nostro regno, giusta la forma della citata Costituzione;

«Volendo che tutti gli atti preparatori alla convocazione del parlamento stesso fatti da persone onorate della pubblica confidenza;

«Abbiamo risoluto di decretare e decretiamo quanto segue:

«Art. 1 È creata una giunta provvisoria di quindici persone, innanzi alla quale sarà prestato da noi e da tutti i principi della nostra famiglia,'il giuramento alla nuova Costituzione della Monarchia. Questo giuramento sarà ripetuto, innanzi al Parlamento nazionale dopo la sua legittima convocazione.

«Art. 2. La stessa giunta sarà da noi consultato per tutte le disposizioni del Governo, insino all’istallazione del parlamento nazionale, e queste saranno da noi date e pubblicate di accordo colla medesima.

«Art. 3. Perché la scelta ci colorò, che debbono comporla, cada sopra le persone più meritevoli e capaci di corrispondere a voti nostri della nazione, nominiamo il tenente generale D. Giuseppe Parisi, il cavaliere D. Melchiorre Delfico, il tenente generale D. Florestano Pepe, il barone D. Davide Winspeare ed il cavaliere D. Giacinto Martucci. acciocché riuniti in commessione ci presentino una lista di altre venti persone, dalle quali saranno da noi stelle dieci, che aggiunti a’ già nominati, formeranno la giunta incaricata delle funzioni di sopra espresse.

«Art. 4. Il nostro ministro degli affari interni è incaricato della esecuzione del presente decreto.

«Napoli, il dì 9 luglio 1820.

«FRANCESCO, Vicario generale.

«Il segretario di Stato ministro degli affari interni,

Pel segretario di Stato ministro cancelliere assente,

Il reggente della prima camera del supremo consiglio

di cancelleria

«GIUSEPPE ZURLO

«PRINCIPE DI CARDITO.»

Giunse intanto il momento trionfante pel campo, fe li stivo pel popolo, doloroso pe Borboni, di timore per a molti. Il giungere della milizia dicevasi o termine o principio della rivoluzione. Chi temeva per il re, chi pe’ liberali, chi infamava i carbonari facendo credere che movessero a strage e rapina. Ma mentre pensieri ed affetti si agitano, arrivata l'ora, le schiere dal campo di Marte al al suono di bande militari, per Foria e Toledo procederono ai verso la reggia. Casa reale ne fu avvertita. Il re ricoverò il nelle più remote stanze verso il castello; il Vicario in abito da cerimonia con la famiglia, la Giunta, i Ministri, i cortigiani andarono a balconi per onorar le schiere.

Veniva innanzi il drappello dello squadrone sacro nome che prese la compagnia disertata da Nola; seguivano e le bande musicali, indi il general Pepe avendo intorno il sta generale Napoletani, il tenente colonnello de Concili, i re sotto-tenenti Morelli e Silvati. Succedevano le schiere ordinate, tra le quali alcuni battaglioni che il giorno prima eransi recati al campo: l'ultima schiera della prima il mostra era il superbo reggimento del Dragoni.

Alle truppe regolari succedevano le milizie civili, onore e braccio della rivoluzione. Brioso aveano il volto contento il cuore: essi erano i campioni della patria, e tra gli applausi insieme a’ circostanti ivano gridando: Viva la Costituzione! Viva il Re! I gridi, i saluti, I clamori non ebbero tregua se non quando nuovo spettacolo si offerse. Era l’abate Luigi Menichini e i suoi settari. Egli, vestito da prete, armato da guerriero; profusamente guernito de’ fregi della sètta, precedeva a cavalle sette migliaia di carbonari, plebei e nobili, chierici e frati, diffamati ad onesti; senza ordinante, senza segno d’impero e d’obbedienza, mescolati, confusi. La qual truppa, noncurante degli applausi altrui, da sé applaudirsi col grido: Viva i Carbonari! A giudicar questa brigata non potevasi di essere essa militare o civile, afa beasi un ammasso di uomini ebbri è festosi. Appella scoperta da’ balconi della reggia, il Vicario comandò che ognuno attaccasse al petto il segno di Carboneria, ed egli e i principi della casa se ne ornarono i primi, imperocché ne erano forniti dalla duchessa di Calabria che avea vaghezza di lavorare i nastri con le proprie mani (Arte di regno!). L'esempio fu imitato.

Finita la rassegna ed avviate le schiere agii apprestati alloggiamenti; andarono alla reggia Pepe, Napoletani, de Concili, Morelli, Menichini, e subito corteggiata passarono alla gran sala delle cerimonie, dove il Vicario gli attendeva. Si inchinarono sommessamente a lui che cortesemente gli accolse, e Pepe disse:

«Quando giunsi al campo Costituzionale, la rivoluzione era fatta, e però fu mio pensiero dirigerli per il bene dello Stato e del trono. Gli uomini armati che ho mostrato a V. A. R. ed altri a mille, trattenuti nelle provincia, non sono ribelli ma sudditi, e perciò quelle armi non si rivolgono a rovine delirano, ma io sostegno. Fu necessità per me durissime prendere a patto il. comando suprema dell’esercito; perocché meno anziano e tanto meno meritevole de’ miei colleghi, ripugno all'autorità quanto essi forse alla dipendenza; ora S. M. e V. AL possono accorciare (e le ne prego) la nostra comune inquietudine, convocando prestamente la Rappresentanza nazionale. Io giuro al venerando cospetto di V. A. e di questi primi dello Stato, che discenderà dal presente grado assai più lietamente di quel che oggi vi ascendo.»

Il Vicario rispose: «S. M. il re, la nazione, noi tutti dobbiamo gratitudine all’esercito costituzionale, ed a voi, sono degni capi. Il voto pubblico è manifesto per la natura istessa del seguito cambiamento: il governo oggi mutato non aveva il consenso de’ soggetti; il trono non era saldo; ora è saldissimo, ché poggia sulle volontà e gli interessi del popola. Il re, che nelle sue stanze vi attende; manifesterà egli stesso i suoi sentimenti, io qui i miei. Nato per i decreti della divina mente, erede del trono, era mio debito lo studio della monarchia e de’ popoli, si che d’assai tempo sono persuaso esser riposta la stabilità dì quella, la felicità di questi (per quando lice alle cose mondane) neh governar costituzionale. Persuasione politica si converti, come a principe cristiano si aspettava, in domina religioso, e pensai e penso che non potrei con calma di coscienza reggere un popolo per mio solo ingegno, e per atti della mia sola comeché purissima volontà. Se dunque riconosco in voi la salute del regno, la durevole prosperità della mia stirpe, la pace dell’animo, doni, si grandi agguaglierà la mia gratitudine, che non sarà spenta o scemata per mutar di fortuna o di tempi.

«Voi; general Pepe, acchetate le inquietudini prodotte da generosi pensieri, esercitate, la suprema militare autorità senza ritegno, perocché i generali han, mostrato compiacimento della vostra elevazione da stupendi, fatti singolar merito giustificata, così che le opere han superato il camminar lento degli anni..

«In quanto alla costituzione di Spagna, oggi ancora nostra, io giure (e, alzò la. voce più di quel che ixnportava tessere udito) di serbarla illesa, ed all'uopo difenderla col sangue.» ed altro forse dir. voleva, ma. la commozione degli astanti vinse il rispetto, e da cento plausi. il discorso fu rotto.

Poscia que’ cinque, guidati dal Vicario, passarono. alle stanze dove il re gli attendeva; mentre gli ufficiali di ogni grado si assembravano nei vasto edifizio del ministero di guerra per aspettare il Generale e fare omaggio ed atto di obbedienza ai nuovo, impero. Il re stava sul ietto per infermità o infingimento; Pepe, avvicinatosi, piegò a terra il ginocchio, baciò la mano che da sessantanni reggeva lo scettro, e, sollevatosi, reiterò con più modesta voce le cose poco innanzi dette ai figliuolo. E que’ rispose: «Generale, avete reso gran servizio a me ed alla nazione, e però doppiamente ringraziò voi ed i vostri. Impiegate il supremo comando dell'esercito a compiere l'opera della cominciata santa pace, che tanto onorerà i napolitani. Avrei data innanzi la Costituzione, se me ne fosse stata palesata l'utilità, o l’universale desiderio; oggi ringrazio l’onnipotente iddio per aver serbato alla mia vecchiezza di,poter fare un gran bene al mio regno.» E ciò detto, licenziò col cenno gli astanti, porgendo al Generale la destra, ma con tal atto che l’invitava a baciarla. Il Generate la ribaciò e partì sollecito di cogliere nelle sale del ministero le dolci primizie della fortuna e del comando.

Le milizie assoldate, le civili e i settari tennero nella città disciplina severissima: parevano genti anziane in tempi riposati sotto robusta monarchia; in quella quantità d'armati, non la rivolta sediziosa, non Io spirito e la privata vendetta raffiguravansi. Era bello vedere i soldati abbracciati a' liberali nell’atto che dividevano il comune contento; e mentre essi chiamavano i paesani autori del grato avvenimento, questi si compiacevano, di essersi ottenuta la Costituzione per opera de’ primi. In vero, se a vicenda non si fossero combinati i desideri del popolo coll'armata, meno illustre sarebbe stato il politico risorgimento, perché mancante di unità. Tutti erano animati dal più puro amor di patria e dì affezione e rispetto pel sovrano. Erano stati mossi da' bramosia di politica riforma, per la bui meta era una Costituzione capace a render saldo il ala patto sociale, spezzando la prepotenza ministeriale. Così gli animi più timidi si rassicurarono, la rivoluzione venne in grazia de’ più austeri e le luminarie degli edifici: «I prolungarono nella notte il conversare e la festa che solamente dada stanchezza de’ moti e del piacere fu chiusa. Soddisfatto perciò il duca di Calabria diresse all’armata questo attestato.

FRANCESCO DUCA DI CALABRIA VICARIO GENERALE DEL REGNO

All'armata condotta dal tenente generale Pepe Comandante in Capo.

«Il contegno, l'ordine, e la condotta che ha osservato l'armata in marcia, in stazione, e nella solenne entrata in questa fedelissima città sotto il comando del degno duce, che l’ha condotta, ci ha recata tale e tanta soddisfazione; che non abbiamo voluto ritardare a dargliene un pubblico attestato. Soldati! Quando la gloria e non l’interesse forma il fine di una intrapresa, quando la disciplina e la moderazione ne sono i compagni; i grandi oggetti si conseguiscono. Lode sfa al degno duca che ha saputo tutto ciò condurre a lieto fine. Lode afta disciplina e alla buona armata che ha ubbidito con tanto successo.

«Napoli, 10 luglio 1820.

«Francesco Vicario Generale.

Guglielmo Pepe ringraziò io questi termini.

A sua altezza reale il Duca di Calabria.

Vicario Generale del Regno.

«Essendosi 'V. A. degnata di esternar sentimenti di. soddisfazione all’esercito di cui sono il comandante in capo, a nome di quello mi corre l'obbligo di ringraziarli di questa novella pruova della sua benevolenza. V. A. ha voluto dargli un pubblico attestato del mo contento per esser riuscita di disordini scevro grande impresa del nostro fausto risorgimento. Ma invero non poteva essere altrimenti; poiché lo stesso da ognuno desideravasi. la rettitudine del fine cui si tendea, rendeva i disturbi inescusabili, l’unanimità del voto li rendeva impossibili. Presso niun popolo la volontà nazionale si palesò in più breve tempo, ed in più positiva maniera. Dal momento in cui presi il comando dell’esercito, in soli quattro giorni si unirono a quello quarantamila cittadini armati, molti de’ quali eran proprietari, moltissimi padri di famiglia, tutti devoti al bene comune. Essi volean seguirmi, bramosi di prender parte alla pubblica esultanza, e dimostrare al Monarca la loro gratitudine. Ventiduemila fra a loro, e più di centomila altri, che da ogni punto del regno pari cagione spingea, cedendo alle mie insinuazioni, mi si son ritirati nel seno delle loro famiglie: ubbidienza rara, che palesa la purità delle loro intenzioni, e ci assicura nel tempo stesso della lor pronta riunione, ogni qual volta sarà d'uopo sostenere i diritti del trono costituzionale. In tutto ciò sono stati egualmente mirabili la celerità degli avvenimenti, la disciplina delle truppe, la concordia di ciascuno. Senza stilla di sangue, luce di gloria si è sparsa sulla Nazione, e sul Soglio. Il giorno del desiderio, quello della inquietudine, quello della letizia sono stati simili riguardo alla tranquillità. Questi maravigliosi effetti mostrano, che degni eravamo di questa rigenerazione politica; e tanto più l'eravamo, in quanto mi che in noi giammai non tacque il rispetto per il Monarca, e per la Real Dinastia. La voce de fervidi voti per la nostra indipendenza, non cuopriva quella dell'ossequio verso l'augusto Sovrano, ma a questa mescevasi, ed ambo unite formavano l'espressione del desio generale. Così le lodi, che V. A. si è compiaciuta di compartire all'esercito, si estendono alla Nazione: anzi ad essa propriamente appartengono.

«Di V. A. R.

«Il Generale in Capo dell'Esercito Costituzionale

«GUGLIELMO PEPE.»

E in data del giorno dieci lo stesso General Pepe a dar ti saggio della sua straordinaria moderazione a nome dell'armata chiese l'abolizione del grado di Capitan Generale l inviando al Vicario Generale del Regno il qui appresso foglio.

«Altezza Reale,

«Il voto unanime dell'armata, il cui comando l'A.V.R si è degnata affidarmi, e lo stesso bene del servizio esigendo che il grado di capitan generale sia abolito con decreto organico, rimanendo nella sola persona del capitan | generale Danero, finch'egli viva; prego vivamente l' A V. R. a prendere in esame questa mia rispettosa osservazione.

«Iddio conservi V.A.R. per lunghi e felicissimi anni

«Napoli, 10 luglio 1820.

«Il Generale in Capo

«GUGLIELMO PEPE.»

Dopo due dì il Vicario rispose:

«Napoli, li 12 luglio 1820.

«Signor Generale in Capo,

«La proposizione, che mi avete sottomessa è un'evidente prova della moderazione che vi anima, e del nobile disinteresse ch'è guida delle vostre azioni. Io mentre ?o il dovuto conto di tali brillanti qualità, non manco di dichiararvi, che concorro nelle vostre idee, e credo utilissimo, pel bene generale, di abolirsi l'impiego di capitan generale.

«In tal senso non mancherò fare quel che si conviene per mia parte sul conseguimento della sopradetta abolizione.

«FRANCESCO, Vicario Generale.

«A S. E. il Tenente Generale Pepe,

Generale in Capo dell'armata.

Or la vecchiezza del re, e l'aver egli abbandonata al, figliuolo buona parte della regia facoltà per fruire con agio i piaceri del rimanente di sua vita, confortavano molto le pubbliche speranze. Francesco succedendo al trono scevro di dispotismo, non avrebbe potuto avere in la odio la monarchia costituzionale, sicché fidandosi in lui tri si dubitava ognora del vecchio sovrano; laonde si chiese al re la solennità del giuramento, che fu stabilito così:

PROGRAMMA

Per lo giuramento alla Costituzione della Monarchia del suo regno delle Due Sicilie, a’ termini del real decreto de’ 7 luglio 1820.

«In conseguenza della sovrana dichiarazione de’ 7 luglio corrente, essendosi già istallata la Giunta provvisoria di governo, Sua Maestà ba risoluto di giurare la Costituzione nel giorno di domani 13 luglio alle ore undici di Spagna.

«La Giunta provvisoria ne sarà subito avvertita, e si coi riunirà nel lodale delle sue ordinarie sedute, alle ore dieci di Spagna, ove attenderà l’avviso e la chiamata.

«Quando sarà avvertita, si condurrà subito nel Reale appartamento, e sarà introdotta secondo l'etichetta di corte nella camera del re, ove è l’oratorio private, che il si troverà aperto e preparato.

«Sua Maestà avrà a dritta S. A. R. il duca di Calabria, principe ereditario e Vicario Generale dei Regno, ed a sinistra S. A. R. il principe di Salerno. Dietro si situeranno i ministri, il generale in capo dell’armata costituzionale, ed i capi di corte. Il cappellano maggiore sarà vicino all’altare.

«Sua Maestà, dopo aver ricevuto dal presidente e da tutti i membri della Giunta gli omaggi secondo l'etichetta di corte, dichiarerà che intende mandare ad effetto la sua ferma risoluzione di giurare l'osservanza della Costituzione. Quindi avvertirà la Giunta di avvicinarsi all'altare, dirà al cappellano maggiore di presentarle i libri de'  santi Vangeli, e pronunzierà il tenore del giuramento prescritto nell'articolo 173 della costituzione di Spagna, ed ai termini della sovrana dichiarazione del 7 luglio corrente.

«Successivamente S. A. R, il duca di Calabria, principe ereditario e Vicario Generale del Regno, darà in mano del re il giuramento prescritto al principe di Asturies nell'articolo 212 della cennata costituzione, ed a termini della citata sovrana dichiarazione del 7 luglio. Farà lo stesso S. A. R. il principe D. Leopoldo.

«Giurerà successivamente il presidente della Giunta nelle mani del re, colla formola contenuta nell'articolo 337 della costituzione, ed a termini della detta sovrana dichiarazione del 7 luglio.

«S. M. dichiarerà in seguito che autorizza S. A. R.

il principe ereditario a ricevere gli altri giuramenti che avrebbero dovuto successivamente darsi nelle sue mani, S. A. R. li riceverà nel giorno seguente.

«Al momento del giuramento di S. M. si farà una salva di artiglieria. Quel giorno si andrà in gala. La sera vi sarà illuminazione per la città, e nel real teatro di S. Carlo, dove si daranno i palchi ed i biglietti franchi.

«Napoli, 12 luglio 1820.»

E il duca di Calabria annunziò cotanta solennità con la seguente disposizione.

FERDINANDO I
PER LA GRAZIA DI DIO E PER LA COSTITUZIONE DELLA MONARCHIA RE DEL REGNO DELLE DUE SICILIE, DI GERUSALEMME EC. INFANTE DI SPAGNA, DUCA DI PARMA, PIACENZA, CASTRO EC. EC. GRAN PRINCIPE EREDITARIO 'di DI TOSCANA EC, EC. EC.

Noi FRANCESCO Duca di Calabria Principe ereditario, Vicario Generale.

«Sua Maestà il re nostro augusto padre e sovrano, volendo adempire alla promessa fatta nella sua dichiarazione de 7 del corrente mese, essendo seguita oggi la prima il riunione della Giunta provvisoria, ha determinato di giurare domani la Costituzione già proclamata, prestando questo giuramento in mano della Giunta provvisoria su i Santi Vangeli, nell'oratorio privato della Maestà Sua, coll'assistenza del cappellano maggiore, presenti i ministri, il generale in capo, ed i capi di corte. Questo atto mdi solenne sarà nello stesso tempo adempito da noi, e dal nostro amatissimo fratello principe di Salerno, nelle mani di sua Maestà.

«Napoli, 12 luglio 1820.

«FRANCESCO, Vicario Generale.

«Il Segretario di Stato

«Ministro degli affari interni

«GIUSEPPE ZURLO.»

Il sovrano alla domanda non indugiò punto, e al mezzogiorno del 13 luglio, nel tempio del palazzo, al cospetto della Giunta, del ministero, de grandi della corte e di alcuni del popolo, dopo il sacrifizio della messa, salì sul l'altare, stese la mano sicura sul Vangelo, e con ferma ed alta voce pronunciò:

«Io Ferdinando I per la grazia di Dio, e per la Costituzione della monarchia re del regno delle Due Sicilie, giuro nel nome di Dio, e sopra i santi vangeli che desidero e conserverò la religione cattolica apostolica romana senza permetterne verun altra nel regno: e che osserverò, e farò osservare nel regno la costituzione politica emanata ed adottata per lo regno delle Spagne nell'anno 1812, e sanzionata da S. M. Cattolica nel marzo di questo corrente anno, salve le modificazioni e che la rappresentanza nazionale di questo regno costituzionalmente convocata crederà di proporre per adattarla alle circostanze particolari della monarchia: che avrò sempre, ed unicamente la mira in tutte le mie operazioni al bene ed al vantaggio del regno: che non alienerò, non cederò, né dismembrerò veruna parte del regno stesso: che non esigerò mai né frutti, né danari, né verun altra cosa, fuori solamente ciò che il parlamento avrà decretato: che non toglierò mai ad alcuno la sua proprietà, e rispetterò sopra ogni altra cosa la libertà politica della nazione, e la personale di ogni individuo. Se io oprassi contro il mio giuramento, o contro qualunque articolo di esso non dovrò esser obbedito; ed ogni operazione, con cui vi contravvenissi sarà nulla e di niun rigore. Così facendo Iddio mi aiuti e sia in mia difesa; altrimenti me ne domandi conto.»

Il giuramento era scritto. Finito di leggerlo, il re alzò il capo al cielo, fissò gli occhi alla Croce, e spontaneo disse: Onnipotente Iddio, che collo sguardo infinito leggi, nell'anima e nell'avvenire, se io mentisco o se dovrò man care al giuramento, tu in questo istante dirigi sul mio capo i fulmini della tua vendetta. E ribaciò il Vangelo. Aggiunsero fede la canizie e il vecchio volto.

Giurarono un dopo l'altro, il duca di Calabria e il principe di Salerno, e il vecchio re e padre li benedisse, e i principi si abbracciarono piangendo, a giudizio che se n'ebbe, per troppa allegrezza. Nello stesso giorno e ne' succedenti continuarono per tutto il regno le cerimonie del giuramento: giurarono i costituzionali e i retrivi, i murattiani e i borbonici, gl'ignari di setta e i carbonari.

Il mutamento governativo avea fatto del popolo delle Due Sicilie un'anima in più corpi.


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LIBRO TERZO

Sommario

La rivoluzione del 1820 fu opera della nazione tutta. — La Costituzione spagnuola era desiderio de’ napolitani. — Provvedimenti di prosperità pubblica, — Trecento soldati disertano di pieno giorno; conflitto al ponte della Maddalena. — Il general Napoletani. Potenza della Carboneria. — Scrutinio nell'esercito. — Benevento e Pontecorvo inalberano la bandiera tricolore. Rivoluzione in Sicilia. — Editto di Francesco a’ palermitani. — Ritorno di Cariati da Vienna. — Ricomposizione dell’esercito e fortificazioni. Pasquale Borrelli. — Il principe della Scaletta luogotenente in Sicilia e Florestano Pepe comandante delle armi. — Ambasciaria siciliana in Napoli. — Si apparecchia una spedizione per Sicilia. L’armata scioglie le ancore. — Elezione del Parlamento e editto del Vicario, — Formola di procura pe’ Deputati. — Il primo ottobre: Giuramento del re nella chiesa dello Spirito Santo: Parole di Galdi: Risposta del sovrano: Discorso della corona. Pepe rassegna il comando dell’esercito. — Scritto di Borrelli al re. — Abolizione della Giunta di governo. — Sala del Parlamento. — Il Parlamento diviso in nove commissioni. — Tutti gli sguardi sono sopra i Deputati: loro prime cure. — La Carboneria prende il nome di assemblea generale; Guglielmo Pepe capo supremo delle milizie civili; — Azioni del Borrelli. — Notizie di Sicilia: il principe di Paternò: trattato di pace. — La milizia napolitana entra in Palermo. — Napoli disapprova il trattato. — Pietro Colletta in Sicilia. — Azioni del Ministero e del Parlamento per immegliare lo Stato. — Messaggio del re per la elezione de’ Consiglieri di Stato.

Chi disse che la rivoluzione di Napoli del 1820 fu l’opera dell’armata, e specialmente della murattista, errò alla grossa. La rivoluzione la fece la nazione tutta, perché tutta la nazione avea d’uopo di garentia e di libera forma governativa. Non ambizioni non bramosia di averi furono la spinta della rivolta, e. se fuvvi chi si elevò al potere in grazia della rivoluzione se ne deve incolpare la natura umana inclinata alla elevazione. Il solo amore e dignità di se stesso messe ciascuno a rivendicare i propri diritti ed a migliorare il destino della patria. Morelli e Silvati, con i loro pochi in concerto con de Concili, non che gli altri decisi che concorsero alla rivoluzione, erano gli animosi dell'armata; ma dal loro numero, si vede che in essa pochi erano de’ settari e che la milizia provinciale fu il braccio poderoso dell'avvenimento. I militi erano una truppa composta di proprietari, e nessuno più dì essi potea avere a cuore un immegliamento di Stato. I popoli ambiscono o aspirane a reggimenti costituzionali non già perché avessero sperimentato il bere che le Costituzioni apportano alle nazioni, ma per odio che hanno a' Governi invecchiati e detestati per abusi. Napoli abborriva il procedere delle vecchie cose e ne cercò, delle nuove.

«Le cause precipue che scossero l’antico sociale edifizio furono la invenzione della stampa che ha facilitato la comunicazione de’ pensieri; le grandi. scoverte delle due indie, che hanno per mezzo del commerciò ravvicinati tanti uomini, facendo conoscere i loro usi e governi; la riforma e la rivoluzione della Inghilterra, non che quella dell’America, è la memorabilissima di Francia. Dopo cotanti avvenimenti l'uomo non può fare a meno di volgere ognora allo perfezione governativa, e di comprendere che esso è libero; che la libertà deh cittadino consiste ad essere sottoposto alla sola legge, che la eguaglianza civile 0 mon ista nelle proprietà ma nell’obbligo che hanno tutti gli uomini di essere egualmente sottoposti alla legge, avendo dritto di essere della medesima egualmente protetti.

I napolitani e per particolare attaccamento alla Spagna e perché non mai ultimi nelle sublimi virtù, avevano il sino dal 1812 apprezzata la giustezza de’ principi della Costituzione di Cadice; e quest'ammirazione divenne un desiderio. La Costituitone spagnuola ammetteva la religione cattolica; dichiarava sacro il sovrano, soli responsabili i ministri; eligeva il consiglio di Stato per voto nazionale, nominava i magistrati permetto di un’assemblea di savi; non immetteva distinzione tra i membri del Parlamento; limitava l'armata a seconda de’ bisogni; proporzionava i tribali; dava libertà di stampa ec. ec.; e ciò si ambiva. Il 1820 appagò queste brame, e la nazione liberandosi dagli artigli ministeriali cominciò a fruire il frutto dell'opera sua.

In principiò del novello reggimento la plebe chiese la diminuzione del prezzo del sale, ed il costo di esso si ridusse alla terza parte con grandissima soddisfazione della. povera gente. 1 tribunali di eccezione vennero aboliti; la. libertà della stampa instituita; molti provvedimenti proteggitori della pubblica prosperità emanati. All’antica ed odiata polizia successe una commissione di pubblica sicurezza a tutela dell'ordine pubblico: ne fu presidente Pasquale Borrelli.

Intanto i ministri murattiani aveano messo a più alti gradi altri murattiani, e questi ancora altri; si che le ambizioni di Monteforte salirono, e lasciò dire che la rivoluzione fosse stata operata da’ murattisti.

In alcune provincie si composero governi propri collegati da vicendevoli patti, e gli autori brigavano che le altre provincie imitassero l’esempio acciò la Costituzione del regno fosse la confederazione delle provincie. Ma ciò non essendo volontà generale, il Governo ne disperse l'idea.

Trecento soldati del reggimento Farnese, armati e minaccevoli, disertarono di pieno giorno dal quartiere di Piedigrotta. I disertori giunti al ponte della Maddalena furono raggiunti dal reggimento Borbone e dal tenente generale Filangieri un conflitto sanguinoso s’impegnò, per modo che diciotto ne rimasero morti ed il giovane ufficiale Spagna, che a tutt’uomo volea impedire quelladiserzione, peri nella pugna, come ancora restò ferito il tenente colonnello de’ Dragoni signor Tupputi. I disertori furono presi e imprigionati. La guerra in città, le recenti turbolenze, gli animi agitati cagionarono scompigli; ma così continui erano i disordini, cosi scatenata la disciplina, cosi debole l'autorità, che i colpevoli, dopo breve prigionia, tornarono liberi ed impuniti.

Della libertà di stampa ne’ primi giorni si fé uso scempiato e maligno. Ma presto la ignoranza sfogata, la mediocrità inaridito, la malvagità dispregiato, ciò che liberamente si scrisse fu sapiente e civile.

In quei giorni mori di febbre il general Napoletani, compagno del general Pepe ne’ fatti di Monteforte. Napoletani nel 1799 era prete, confessore, curato. Cacciato in esilio, divenne soldato degli eserciti francesi, sali per valorosi servigi sino al grado di capo squadrone, e, regnando Gioacchino, a colonnello e generale. Nel corso delle sue milizie fu due volte marito e padre avventurato di numerosa famiglia. Nel 1815 per essere, conservato sotto il regno del divoto Ferdinando, andò a Roma a comprare la remissione de’ suoi falli, restò generale, padre, marito.

La Carboneria si aggrandiva, perocchè tutti vi aspiravano per timore o ambizione; e tutti la meretrice accoglieva per far guadagno di denaro e di numero con la sua vendita. Fu carbonaro il tenente generale duca di Sangro. Vincitrice, numerosa e non più cauta de'  suoi misteri, la setta bramò un trionfo; e compose co' mistici riti suoi sacra e pubblica cerimonia. In giorno di festa moltitudine di Carbonari, profusamente spiegando le dovizie del loro fregi, ad ordinanza di processione, stando nelle prime file preti e frati in petto a quali miravasi la croce ed il pugnale, protervi al guardo, taciturni, a passi lentamente misurati, si recarono in chiesa, dove un sacerdote settario o intimidito, benedisse la insegna e i segnati. Non già tra le file, ma presente alla cerimonia fu visto il general Pepe; e tante genti, tante armi, tanto mistero spaventarono la città.

Questa setta era divenuta così potente da mettersi, imperdonabil cosa, sopra la legge. Un duca di famiglia illustre, spacciatore delle proprie sostanze, poi delle altrui, menato per sentenza di giudice alla prigione, traversando la popolosa strada di Toledo, cavò di tasca le insegne della setta, le sventolò in alto col braccio e dimandò soccorso. Innumerevoli carbonari veduti i loro colori, sguainando i pugnali, liberarono quel disonesto.

E misfatti peggiori commettevano tutto di uomini di mala fama e audacissimi, che ora in un luogo della città, ora in un altro, più spesso nel campo Marzio, adunavano il popolo armato, trattavano di governo per concioni; e le sentenze più infeste alla quiete pubblica erano le meglio accettate. Quegli stessi nelle notturne adunanze, per malvagità o sospetto, lanciavano contro i più alti dello Stato accuse e minacce; ché non antica fama, non presente virtù, non grado, non decoro era scudo agli onesti cittadini. La Carboneria non aveva macchia di sangue, e non delitti usati ne’ civili sconvolgimenti; ma sopra modo spargeva timori e afflizioni.

Benché lusinga di quiete esterna e brama di restringere le spese dello Stato consigliassero a trasandare i fornimenti di guerra, provvidenza di Stato esigeva che si rifacesse l'esercito; tanto più che dello antico restava poco per abbondantissime diserzioni, prodotte dalla usitata contumacia del soldati, e dalla natura delle coscrizioni ne’ paesi non liberi; di modo che alcuni battaglioni era no scemati di metà, altri sformati. Ma impedivano la ricomposizione dell'esercito così le ambiziose schiere di Monteforte, dal general Pepe per proprio vanto decantate meritevoli di doppio avanzamento, come il maggior numero e le ragioni degli altri uffiziali che non tollerava no la preminenza, a dir loro, de disertori. E conviene rammentare in questo luogo che l'esercito antico era viziato di parecchi pessimi uffiziali venuti col re di Sicilia, accetti per fedeltà; e di altri pessimi conservati per il trattato di Casalanza. Il general Pepe bramò, ed un decreto prescrisse che fosse scrutinata la vita militare di ogni uffiziale da una Giunta di generali e colonnelli, numerosa, indi pubblica. I cattivi della milizia si agitarono, sparsero discordie, congiurarono. Si pubblicò la lista de'  promossi, tutti di Monteforte; e le sentenze si unirono, e, convertite in tumulto, fu minacciato e insidiato a morte il general Pepe; così che, intimidito, cedé al numero; si soppressero gli scrutini, non avevano effetto le promozioni, quando nel giorno stesso, i promossi e delusi, con pubblico foglio rinunziarono i ricevuti avanzamenti, dicendo non meritarne per le opere facili della rivoluzione e averne ottenuti larghissimi dalla felicità del successi: ammirevole virtù!

In mezzo al parosismo di tante svariate passioni, le idee di moderazione e di rispetto verso gli altri Stati confinanti, in ispecie del Pontificio, dominavano eminentemente in Napoli. Al primo annunzio dell'avvenimento di luglio, le città di Benevento e Pontecorvo inalberarono il vessillo tricolore. Ciò saputosi nel di 12 il Vicario generate notificava un editto con che proclamava il principio che volendo conservare la propria indipendenza era necessario di rispettate quella degli altri Stati, e religiosamente evitare tuttocciò che potesse compromettere la buona armonia con la Corte Pontificia; quindi ordinava a tutti gli abitanti del regno che niuno ardisse intromettersi armato ne’ confini degli altri Stati, né mischiarsi in modo qualunque negli affari dello Stato limitrofo.

Le nuove intanto del cangiamento politico di luglio giungevano: officialmente nella Sicilia, la quale ne fece grandissima festa: sollecite a prestare il giuramento alla Costituzione ed al re furono le città di Messina, Catania e tutte te altre così dette Valli: Palermo ne gioì per poche ore: in men di un istante il nastro tricolore fu segno di tutti, ma la sera stessa del giorno 15 del detto mese comparve unito ad altro di color giallo. Voci a quando a quando si udivano di volersi un diverso Parlamento, una separazione ed indipendenza della rappresentanza di Sicilia da quella di Napoli. Queste voci venivano soffiate dalla crudele oligarchia di Palermo, la quale invase tosto le altre contrade.

Naselli, siciliano, reggeva il governo dell'isola assistito dal magistrato cavalier de Thomasis uomo dotto, illuminato, di gran fama e scelto a sostegno della nota incapacità del Naselli.

Stavano in Napoli per servizio di corte o a diporto parecchi nobili palermitani, a’ quali più giovando la Costituzione anglicana del 1812, che la popolare delle Cortes, ne palesarono il desiderio al Vicario ed al re; e questi, per timore arrendevoli a tutte le speranze de’ sudditi, diedero risposte ambigue o disadatte; poi divulgate da richiedenti (fosse scaltrezza od errore) come mascherato, assenso alla dimanda. Alcuni di que’ nobili, dopo ciò, partiti, giunsero a Palermo quando la nuova della rivoluzione di Napoli concitava il popolo, numeroso ed ebbro più dell'usato perché ricorrevano le feste di Santa Rosalia. Il general Church, capo militare dell’isola, volendo, reprimere que’ moti; e strappare con ira e disprezzo il nastro piatto dal petto di un siciliano fu dalla plebaglia oltraggiato, minacciato, inseguito, e il general Coglitore a’ suoi fianchi ferito; salvaronsi ambo con la fuga. Ma il popolo a vendicar l’oltraggio recato ad un pacifico cittadino, corse tosto alla casa dell'improvvido Generale: la guardia che vi era a custodia oppose resistenza: le fu risposto con colpi da fuoco, e, dopo sanguinoso conflitto l’abitazione del signor Church fu messa a sacco, e quanto era in essa bruciato nella piazza della Marine con grida giulive. Il che dimostrò che non stimolo di rapina, ma vendetta cittadina spinse il popolo a quegli eccessi.

I nobili, venuti di Napoli, adunandosi con altri e concordando nella Costituzione dell’anno 1812, ne lanciarono fra i tumulti la voce che restò schernita; perocché i settori, e i liberali della Sicilia presentivano le dolcezze della Costituzione spagnuola. Caduta la prima speranza, propagarono l’altra voce d'indipendenza, e fu accolta perché grata a tutti gli uomini, più agli isolani, gratissima agli abitanti della Sicilia, cui francarsi da noi era desiderio antico e giusto. Dio, Re Costituzione di Spagna ed Indipendenza fu quindi il motto della rivoluzione di Palermo, cosi che a’ tre nastri della setta aggiunsero il quarto di color giallo, patrio colore. Il luogotenente Naselli costretto, ad operare, trasportato dagli avvenimenti, fece, disfece, ondeggiò fra pensieri opposti. Diede, richiesto, al popolo il solo forte della città, Castellamare; ma indi a poco, mutato pensiero, e non bastando a riaverlo le dimande o l’autorità, comandò di espugnarlo. Tre volte le milizie Io assaltarono, tre volte furono respinte; perderono uomini e credito, crebbe della plebaglia l’audacia e lo sdegno. Naselli, sentita la sua debolezza, nominò al governo della città una Giunta di nobili composta del maresciallo Ruggiero Settimo, del principe Gaetano Buonanni ed altri; ma essa cadde tosto ih dispregio.

Soperchiare ogni legittimo potere, sconoscere i magistrati, calpestare le leggi, opprimere, imprigionare le milizie, schiudere le carceri e le galere, abbassare le bandiere del re, rovesciar le sue statue, o mutilarle, bruciar le effigie, saccheggiar la reggia, devastar le delizie,in tutte le guise offendere la sovranità, oltraggiare il sovrano, furono la ribellione di un giorno. E poco appresso molte case spogliate, altre incendiate, parecchi cittadini per furore e sospetto, miseramente uccisi, e due principi, la Cattolica, Jaci e l'uffiziale Sansa, a’ quali per maggior ludibrio fu troncato il capo e portato in mostra per la città sulle picche. Viste quelle furie, la fazione de’ nobili, si atterri, il general Naselli, quasi nudo e invilito, fuggi sopra piccola barca. Il popolo creò una Giunta Sovrana, facendone capo il cardinal Gravina, e membri parecchi nobili ed alcuni della più bassa plebe; il qual magistrato governava, fra comizi armati, meno da reggitore che da soggette.

Fuggitivi sopra varie navi arrivarono in Napoli nel giorno stesso Naselli, De Thomasis, Church ed altri parecchi, che, per onestare la viltà della fuga, o per narrare casi di pietà e di spavento, aggiungevano favole alle verità per sé grandi della rivoluzione di Palermo. Il popolo, tumultuariamente ragunato a crocchi, a moltitudini, correndo le strade maggiori della città, l'un l’altro chiedevasi: Che fa il governo? Che aspetta? I napolitani sono trucidati in Sicilia, i siciliani comandano in Napoli. Al qual grido si univano i lamenti ed il pianto de’ parenti di que’ moltissimi che si dicevano uccisi. Le sentenze, variavano,i più caldi della plebe proponevano chiudere in carcere i siciliani per ostaggio; proponevano i più iniqui di trucidarli per rappresaglia. Ma poté la giustizia; cosi che, vincendo il parere di eccitare il governo a partiti solleciti e severi, si spedirono ambasciatori al Vicario, gli ammutinamenti si sciolsero: de’ siciliani ch’erano in Napoli a primi gradi dell'esercito e della corte, fu rispettata la persona, obbedita l’autorità.

Ondeggiava il Governo fra pensieri diversi, perocché cedeva pericoloso il rigore, nocevole la pietà, l’esercito non ancora composto, e le discordie non meno pericolose. Per lo che si spedi in Sicilia un editto del Vicario, del di 20 luglio in questi sensi:

«PALERMITANI,

«Voi che io chiamava miei figli siete stati i primi a gittarvi nella sedizione e nel disordine contro i nobili principi che hanno sempre distinta la vostra nazione.

Avete in up momento dimenticato i doveri di uomini e di ragione: avete operato contro l’interesse vostro e della causa pubblica,11 più penoso per me è che separato appena da voi e prima che vi fossero note le mie disposizioni per lo scemamento delle imposte e per lo miglioramento del vostro Stato, abbiate obbliata la mia costante affezione ed i sacrifici che ho fatti per voi. – Piuttosto che credermi ingannato alle dimostrazioni di amore e di fedeltà che mi avete date, voglio attribuire il vostro errore all'opera dei vostri istigatori. – Ritornate all'ordine, al rispetto per le leggi ed alla obbedienza del re. – Il mio cuore si sgrava in parte del profondo dolore che mi ha percosso nell'animo offerendovi il perdono. – Guardatevi di ostinarvi negli orrori di una rivoluzione. Se co sa credete che manchi alla vostra felicità abbiate in me quella fiducia che non ho mai demeritata. Imitate l'esempio del popolo vostro confratello: esso vi dica se le intenzioni del re e le mie corrispondano a loro voti. Desidero conoscere ciò che meglio può convenire al vostro stato, alla sicurezza ed alla gloria della nazione. Ma l'animo mio non tornerà a voi se voi non vi spoglierete della obbrobriosa figura di sediziosi. – Deponete le armi, non mi costringete a ricorrere a misure dispiacevoli, sottomettetevi alle leggi, fatemi conoscere che siete capaci di lavare col pentimento le vostre colpe, lo vi prometto solennemente che perdonerò tutti, e non farò ricercare neppure la causa della rivolta, né gl'istigatori di quella, se voi appena intesa la mia voce sentirete il rimorso di avere così male corrisposto al mio amore per voi.

«FRANCESCO.»

Niuno effetto queste espressioni produssero ne' palermitani tranne il pensiero d'inviare una deputazione la quale aprisse il volere positivo degl'insorgenti. Intanto i napolitani, dicendo il foglio del Vicario essere debole rimedio e nessuna vendetta, sospettavano la lealtà di lui, tanto più che, nella devastazione del palagi e delizie reali, gli appartamenti suoi e le sue ville furono rispettate; laonde accusavano la Giunta e i ministri, volevano i generali Naselli e Church giudicati; diffidavano, spiavano.

Così contristata la parte costituzionale, ritornò da Vienna il principe di Cariati, là spedito ambasciatore straordinario, e riferì l'inurbano accoglimento e gli atti ostili di quella Corte. Le ansietà esterne e le interne fecero trasandare, benché primario obbietto della rivoluzione, il discarico del tributi, e volgere il pensiero alla ricomposizione dell'esercito. L'animo de'  cittadini mostravasi voglioso e audace, la finanza pubblica era copiosa, i generali abbondavano, ed a parecchi fra loro non mancava uso ed arte di guerra; ogni detto ed ogni opera del Vi cario e del re dimostravano il proponimento di sostenere il nuovo Stato; ed a tali apparenze di concordia e di forza, le menti leggiere superbivano, le sapienti non disperavano. Per formare cinquantamila combattenti si richiedevano ventottomila nuovi soldati; e poiché le pratiche di coscrizione erano lente rispetto al bisogno, si invitarono a difendere la patria i già congedati dalla milizia, con editto che dichiarava volontaria l'ascrizione, breve il servizio, perchè di sei mesi, grande il merito. Si aspettava da quell'invito alcun soccorso a bisogni; ma i congedati, avanzando le comuni speranze, corsero in folla ad ascriversi, le moglie e i genitori (freni mai sempre) furono questa volta stimoli alla partenza; si negligevano le domestiche dolcezze, le private faccende, lo stesso amore de’ figli; ed allorché partiva un drappello di congedati, gli si faceva festa dalla città, gli si pregavano voti nelle chiese. Prendevano il peso e la cura delle abbandonate famiglie le autorità del municipio e i cittadini presenti, tanto che in alcun luogo fu visto coltivato senza mercede il campo degli assenti. Assai più de’ provvedimenti, giunsero i congedati; e però ohe il troppo numero faceva pese ed impaccio, molti ne furono rinviati, e ha necessaria parzialità cagionò invidia negli atei. Oltracciò, essendo angusti gli alloggiamenti a’ venuti, mancando le vesti e le armi, vedendosi mal corrisposto il fresco zelo di quelle genti nacque scontento pubblico, o si levarono sospetti e accuse contro il ministro della guerra.

Frattanto l’esercito si accrebbe a cinquantaduemila soldati con saggia misura tra fanti, cavalieri;genio, artiglieria; e. benché da prima. fossero poche le munizioni, meno le armi, più scarso il vestimento, e tutto fu provveduto con mirabile celerità. Il 17 luglio lungo la riviera di Chiaia vi fu una rassegne di truppe regolari di 20mila uomini. Indi si volsero le cure alle fortezze. Civitella era state smurata da' francesi nel 1805, e Pescara da’ tedeschi nel 1815; però que’ due già baluardi del Regno, inutili alle difese, restavano monumento di nazional vergogna, e di straniero barbarico dominio; Gaeta non aveva riparato tutti i danni dell’assedio del 1806; Capua, rosa dal tempo; a parti a parti rovinava. Delle quali fortezze in breve tempo si restaurarono i bastioni, e si accrebbero; si alzarono altre fortificazioni nella frontiera, così. che ogni entrata nel Regno fosse, impedita e difesa; si ridussero, a fortezze occasionali. Quieti, Ariano, Montecassino; si tracciarono due gran scampi a Mignano ed Aquile, quella compiuto per opera del generale Carrascosa, questo non mai cominciato per le improvvidenze del general Pepe. Altre linee, altre trincero, altri forti erano segnati nella Calabria e nella Sicilia.

Oltre alle milizie assoldate, si composero le civili, aiuto delle prime o riserva. Tutti gli uomini atti alle armi

(atti sentivansi perfino i vecchi) furono ascritti; chiamando i più giovani legionari, i meno giovani militi, gli anziani urbani; con legge che i primi, richiesti, si unissero all'esercito, i secondi difendessero la provincia, gli ultimi la città o la terra. Erano delle tre specie duecentomila.

Ma la Carboneria avendo in ogni reggimento due ordini di gradi, cioè della milizia e della setta, i militari discendevano dal primo all'ultimo, i settari ascendevano dall'ultimo al primo; sicché si confondevano i doveri, si spegneva la disciplina. Nelle notturne adunanze scrutinavasi l’animo e le azioni de’ generati, e, come è natura delle basse congreghe, si diceva chi traditori, chi contrari alla libertà della qual censura pigliando sdegno i generali, si concitavano vicendevoli dubbiezze e discordie.

Visti que mali, la Giunta di Governo e i ministri, adunatisi per trattare de'  rimedi, chiamarono a consulta il capo della polizia Pasquale Borrelli, per natura scaltra mente ingegnoso e per lunga usanza esperto delle brighe di Stato. Egli opinò di non reprimere la Carboneria, ma spiarne le pratiche, dirigerne le voglie e l'opera: e soggiungendo che d'assai tempo egli usava quel modo, di scorrendo i casi e i successi, pregando a non recidere o intricare le bene ordinate fila, prometteva piena e vicina tranquillità. Essendo fra i pregi suoi parlar facile e scorto, mascherò l'ambizione di reggere la parte più potente dello Stato, così che gli astanti si arresero al suo voto, e quello oscuro artifizio di polizia si slargò in sistema dannoso di Governo. La rivoluzione in Sicilia erasi distesa dalla città di Palermo al Vallo (provincia) dello stesso nome, ed indi al contiguo di Girgenti. I due Valli ribelli con inviti e minacce concitavano gli altri cinque, che rispondevano da nemici coll'armi; avvegnachè, ridestato l'antico livore fra le siciliane città, facendosi altiera Siracusa per le sue memorie, Messina per le sue ricchezze, Palermo perchè regina dell'isola, si combattevano i concittadini, le famiglie, i congiunti in guerra, non che civile, domestica.

Soli Palermo e Girgenti erano contrari al Governo di Na poli; gli altri cinque obbedienti. Il re nominò suo luogo tenente il principe della Scaletta, e comandante delle armi il generale Florestano Pepe, che andò a Messina, vi dimorò pochi giorni, ed inatteso ritornò in Napoli. Così passando i giorni, la rivoluzione di Palermo rinforzavasi. Quella Giunta Sovrana con alterezza di governo, mandò in Napoli (3 agosto) ambasciatori per patteggiare da Stato a Stato, mentre nello interno faceva nuove leggi sovversive delle antiche, chiamava eserciti, nominava magistrati, usava la sovranità negli attributi maggiori. Ma la bruttavano le turpitudini dell'anarchia: violenze nella città, correrie nelle campagne, spoglio dei paesi contrari, ed in ogni luogo uccisioni e rapine; non fu salvo il banco, dove stava in deposito il denaro pubblico e privato; non furono salvo le biblioteche, le case di scienza e di pietà, cose umane e divine la stessa furia distruggeva. Gli ambasciatori domandavano pace, mirando ad ottener per patti le speranze della ribellione; ossia il governo di Sicilia separato da quel di Napoli; ivi la stessa costituzione di Spagna, lo stesso re, i due Stati confederati. Prima di rispondere agli ambasciatori si consultò. Uno dei pochi convocati così parlò.

«La costituzione di Spagna in due Stati non si apprende ad unico re, perchè nel casi più gravi di governo, come la guerra, la pace, le alleanze, il matrimonio del re, lo smembramento dello Stato, abbisognando alla regia volontà l'assenso del Parlamento: se de’ due parlamenti l'uno assentisse, dissentisse l'altro, qual ne sarebbe l'effetto? a chi si appiglierebbe la decisione del re? qual sarebbe l'opera di governo? E dire non abbisogno, però che il presente lo dimostra, che la sconcordia de due parlamenti sarebbe facile e continua fra «genti, per genio antico e nuovo, nemiche.

«E nemmeno è possibile la confederazione di due (e non più) Stati liberi, mancando il modo di costringersi alle pattuite condizioni; così che la confederazione di due soli Stati è sustanzialmente alleanza, la quale per varietà d'interessi, di tempi, di passioni si stringe o scioglie.

«Perciò gli ambasciatori dimandano cose impossibili, ed io penso che, concedendole, sarebbero le Due Sicilie o presto in guerra, o divise affatto di governo. Che non giovi la guerra, le presenti ansietà lo dimostrano; e che nuoccia lo star divise, lo mostra più chiaramente la natura. Ella così ha situato le Due Sicilie che, nelle invasioni nemiche, il regno di Napoli sia antimuro a quell'isola, e l'isola cittadella del Regno. Riandate, per non dire le vecchie cose, la storia del nostri tempi: la napoleonica potenza, che tanti eserciti disfece, che tanti regni conquistò, fu trattenuta sul lido del Faro, non da presidi dell'isola, nè dalle armate nemiche, ma da a poco mare. Sono le fantasie de tempi, o, a dirla più schiettamente, le ingiustizie nostre, che fan desiderare a siciliani separarsi da Napoli.

«Abbia la Sicilia tutti i frutti della libertà; serbi a sé la sua finanza, diriga le amministrazioni, compisca i giudizi; abbia comuni con lui leggi ed esercito, abbia eguale dignità e decoro di governo, tal che altiera signoria o livida dipendenza non più rompa i legami naturati de due popoli. Provveda a suoi bisogni più veri, che sono l'abolizione piena della feudalità, lo scioglimento degli opulentissimi monasteri, la misura ed eguaglianza del tributi, il ritorno delle proprietà, col nome di soggiogazioni, distratte.

«Io quindi avviso dover rigettarsi, come impossibili o nocevoli le proposizioni de siciliani ambasciatori; e trattare accordi alle condizioni vere, giuste, persuadenti, di sopra esposte. Per lo che cesserà la ribellion di Palermo, o la colpa di durarla resterà tutta de siciliani, non divisa, quale oggi appare, col popolo e governo di Napoli.».

Ma nulla ostante, i ministri del re, con pompa di vecchie astuzie, dieron risposte vaghe, disadatte: non con cederono, non rigettarono. Napoli, come avviene nella vera o creduta libertà, voleva essere tiranna su gli altri; sì che, sdegnandosi della offerta pace, la chiamava teme rità e seconda ribellione, maggior della prima. Superbia nostra impediva gli accordi, superbia propria concertava nuove discordie nell'isola; ed a questa insensata passione son dovute tante morti e tanti danni. Le città più avver se erano Palermo e Messina, che per qualità di natura e di stato hanno condizione sì varie, che mancherebbe, se lo sdegno non le acciecasse, ogni motivo al contendere: Palermo è capo, Messina è forza dell'isola; l'una dell'altra libera e bisognosa. Ma sbandito il ministerio della ragione, le opere de due popoli e de due governi erano turpi e disordinate. Il re, offeso nel nome, ne beni, nella potestà, nel decoro, voleva sulle ribellate provincie aspro e sollecito castigo; secondavano quello sdegno i ministri, la Giunta, il popolo; fu apparecchiata una spedizione di novemila fanti, cinquecento cavalli, un vascello, due fregate, parecchi legni minori da guerra e da corso, tremila altri fanti erano in Messina, Siracusa e Trapani. Si consultava nel consigli del re la scelta del duce supremo di quelle squadre, quando voce di popolo preconizzò il generale Florestano Pepe, che il governo nominò e pregò; però che quegli a malgrado accettava l'onore.

L'armata sciolse le ancore al finir di agosto, e pochi giorni appresso arrivò in Sicilia: duemila fanti, guidati dal colonnello Costa, aggiravansi per lo interno dell'isola onde ritornare all'obbedienza i paesi ribelli, rassicurare i fedeli, contener gl'incerti. Il generale, per la più diritta via, marciava sopra Palermo con diecimila soldati, avendo unito alle sue schiere alcuni battaglioni di milizie calabresi, e parecchi drappelli volontari della Sicilia. In tutti gli scontri vinsero i napolitani, che, sebben di nu mero minori, prevalevano per uso ed arte di guerra; ma sì poco e sì tardi si raccontavano tra noi le geste di Sicilia, che il popolo, credendole avverse, tumultuava. Si acchetò quando si volse a nuove cure di Stato, alla elezione del Parlamento.

Un decreto del re del dì 22 di luglio sanzionava la con vocazione del Parlamento nazionale per gli anni 1820 e 1821; ne prescrivea le forme, ed il giorno primo ottobre fermava per l'apertura della prima sessione legislativa.

Nel medesimo giorno il Vicario Generale emanava questo editto.

Ai fedeli Comuni ed a Collegi elettorali delle Due Sicilie.

«All'avvicinarsi di un'epoca nuova per voi il mio cuore prova quella sollecitudine che sente chi attende un bene o pure teme le difficoltà le quali possono contrariarlo.

Mi compiaccio sperare che penetrati delle importanti funzioni delle quali i vostri Deputati saranno incaricati, voi porrete mente alla scelta delle persone dalle quali dipenderà la fortuna ed eterna sorte della Nazione. Ascoltate la mia voce come quella dell'amico più che del Vicario Generale del mio Augusto Padre: quel che io ho fatto per voi mi dà un pieno dritto alla vostra fiducia.

«Il momento delle elezioni è appunto quello in cui dovete far tacere la voce delle passioni e de'  partiti. Niuno più di me è persuaso che il giudizio delle persone fatto dalla generalità è sempre vero e giusto; ed io intendo che le elezioni sieno abbandonate alla rettitudine del vostro senso. – Ma perchè così avvenga siate voi stessi prevenuti della importanza delle vostre funzioni che de legherete a vostri Rappresentanti. Richiamatevi a memo ria che al primo Parlamento è dato il proporre le modificazioni convenienti alle circostanze del Regno: che da lumi, dalla prudenza e dalla saviezza di questa prima adunanza dipenderà il futuro destino e la stabilità stessa del la Costituzione. Abbiate presente che da essa pure dipenderà il sistema del vostri tributi, quello dell'Amministrazione pubblica, lo stabilimento della forza interna, l'ordine giudiziario, lo stato militare, infine quanto serve a rendervi felici nell'interno ed indipendenti dalle straniere nazioni.

«La catena delle elezioni è tale che le prime influiscono necessariamente sulle seconde e queste sulle ultime, Incominciate dunque dal primo anello a prendere di mira le persone rivestite della pubblica confidenza: fate che le vostre prime scelte servano di esempio alle altre e faccia no quasi sentire agli elettori delle provincie la difficoltà di discernere gli ottimi fra i buoni – Rivolgete le vostre mire agli uomini probi, incorruttibili, virtuosi, di stinti per un vero e puro amor di patria. Elevatevi al di sopra di ogni passione e di ogni personale interesse. Gli uomini e gl'interessi personali passano, ma le nazioni sono eterne.

«Che l'avvenire sia avanti a vostri occhi più che il presente. Quanto a me dichiaro che io non ho altro interesse che il vostro. Il re mio Augusto Genitore allorché ha giurato la Costituzione ha detto che il suo unico voto era il vedervi felici: questo voto medesimo anima me.

«Se aspiro ad una gloria questa è quella di aver prima di tutti gli altri cooperato alla vostra felicità.

«FRANCESCO, Vicario Generale.».

I collegi elettorali furono affollati come in paesi di antica libertà; lo zelo del pubblico, infaticabile; il giudizio, severo; i primi offici della elezione erano sperati, non contesi; e se alcun mai pregava o consigliava per sé o per altri, subito palesato e accusato, si mutava in demerito quella preghiera o consiglio. Così oneste furono le prime congreghe, non così tutte le seconde e le succedenti: e però in alcune provincie, prepotendo la Carboneria, furono scelti a deputati i più caldi settari; ma tanto picco lo era il numero a confronto del buoni, che la prima rappresentanza nazionale si direbbe opera di popolo già fatto alle costituzioni. Di settantadue deputati erano: dieci ministri della Chiesa, otto professori di scienze, undici magistrati, nove dottori, due impiegati del governo, tre negozianti, cinque militari, ventiquattro possidenti; e fra tutti due soli nobili: marchese Nicolai, e marchese Dragonetti. I collegi elettorali mostraronsi avversi all'antica nobiltà, cui spesso disonestamente impedivano il diritto comune di dare il voto. Furono ingiusti ed ingrati, perciocchè la legge non escludeva i nobili; e non vi ha in Napoli altra nobiltà che di nome, e questi nomi, Colonna, Caracciolo, Pignatelli, Serra, altre cento nobilissime famiglie, diedero alla scure il primo sangue per amore di libertà. Qui, di poco anticipando i tempi, mi convien dire che, di ventiquattro deputati Siciliani, la terza parte era di nobili, la quarta di preti, gli altri dieci fra tutti i ceti della società; onde veggasi come ancora duravano nelle opinioni di quel popolo le preminenze feudali ed ecclesiastiche.

La formola della procura de deputati al Parlamento fu la seguente:

Nella città.... o villaggio di.... il giorno.... del mese.... dell'anno.... nella sala di... essendosi congregati i signori (seguiranno i nomi del presidente e degli elettori di distretto che compongono la giunta elettorale di provincia) hanno dichiarato innanzi a me pubblico notaio, ed a testimoni chiamati a quest'oggetto, che essendosi proceduto in conformità della costituzione politica della monarchia Spagnuola alla no mina degli elettori parrocchiali e di distretto con tutte le solennità prescritte dalla stessa costituzione, siccome co sta da certificati originali a questo riguardo; ed essendosi riuniti in seguito gli elettori suddetti de'  distretti nella provincia di.... nel giorno di.... del mese.... del presente anno, hanno nominato i deputati che in nome di questa provincia debbono concorrere per rappresentarla nel parlamento; e che furono eletti per tali deputati della stessa provincia i Signori NN. NN. NN.

Per conseguenza i nominati elettori concedono ampli poteri a medesimi deputati insieme riuniti, ed a ciascuno in particolare, onde adempiere, e disimpegnare le auguste funzioni de di loro incarichi, e perchè riuniti con altri deputati del parlamento come rappresentanti della nazione del regno delle Due Sicilie possano concedere e risolvere quanto giudicano convenevole al bene generale della stessa, dovendo in ciò usare delle facoltà fissate dalla costituzione, salve le modificazioni che andranno a proporre per adattarle alle circostanze particolari del regno, senza variare le basi della costituzione suddetta, le quali rimarranno inalterabili. Gli stessi elettori quindi in virtù di tutte le facoltà ad essi concedute per l'adempimento del presente atto, si obbligano tanto in nome proprio, quanto in quello di tutt'i cittadini di questa provincia a tener per valido, ubbidire ed adempiere tutto ciò che i nominati deputati del parlamento facessero, e tutto ciò che da questo si risolvesse secondo la costituzione politica della monarchia Spagnuola, colle modificazioni che saranno reputate convenienti, salve sempre le basi della medesima. Tanto han dichiarato e concesso in propria presenza de'  testimoni NN. NN. che insieme con essi elettori si sono firmati. Di tutto ciò fo ?ede ec.

Napoli, 22 luglio 1820.

L'approvo

FRANCESCO, Vicario generale.

Il Segretario di Stato

Ministro degli affari interni

GIUSEPPE ZURLO.

Terminate le elezioni, venuti gli eletti alla città, giunse il primo ottobre, giorno fissato per l'apertura del Parlamento. Era surta voce che il re deputerebbe il Vicario; e veramente abbisognarono arti e preghiere del ministri e del figlio per dissuaderlo dal proponimento, e scrivere lettere che dissipassero la popolare inquietudine. Altra voce diceva che i liberali volessero dar segni al re di servile obbedienza, tirando a braccio la carrozza regia; ma un'ordinanza di polizia vietandolo, rassicurò gli animi dalle turbolenze che spesso produce la troppa gioia dei popoli. Ed infine, credendosi angusta per la cerimonia del giuramento la sala di San Sebastiano, fu apparecchia ta la vasta chiesa dello Spirito Santo. Il re doveva recar visi alle undici ore della mattina, i deputati ed i primi dell'esercito e della corte alle dieci; e frattanto non ancora spuntava la prima luce del giorno, ed il popolo ingomberava la magnifica strada e le piazze di Toledo: imperciocchè alla immensa popolazione della città erasi aggiunto gran numero di provinciali, venuti per interesse o curiosità fin dalle parti estreme del regno.

All'ora stabilita il re, preceduto da principi e principesse della casa, standogli a fianco il Vicario del regno, uscì con magnifica pompa dalla reggia precorrendo a passo grave di cerimonia la strada di Toledo, tra il popolo che a mille voci lo applaudiva, e spargeva fiori sul suo cammino, e liberava uccelli al suo sguardo, per doppio simbolo di allegrezza e di libertà. Fra questa gioia il re giunse in chiesa ove a piè delle scale fu ricevuto dalla duchessa di Calabria, dal principe di Salerno, e da una deputazione di trentadue deputati. Entrato in chiesa seguito da ministri, da capi di corte, dagli uffiziali e dal comandante in capo dell'esercito, trovò tanto numero di spettatori, quanti nel vasto edifizio a stento capivano. E frattanto così profondo era il silenzio, che pareva vacua la sala: sia che la maraviglia impedisse le voci, sia che ciascuno intendesse a scoprire nel viso del re i segreti del cuore. Ma poiché si mostrò lieto e sereno, da mille e mille ripetuti evviva fu rotto ed emendato il silenzio, Egli, fatta riverenza all'altare, salutò al pubblico, sedé in trono, mentre alla manca, sopra sgabello minore se deva il Vicario; e stavano in piedi a suoi fianchi i grandi della corte e il general Pepe. Il cavalier Galdi, presidente del Parlamento, ed il più anziano del segretari, si avvicinarono al trono, il primo portando in mano, il libro de, gli evangeli, l'altro il giuramento scritto: ed il re, leva tosi, prese la carta, pose sul sacro libro la mano, e ve la tenne finché a voce alta ed intesa pronunziò il seguente giuramento.

Io Ferdinando I per la grazia di Dio e per la costituzione della monarchia re del regno delle Due Sicilie, giuro in nome di Dio e dei SS. evangeli che difenderò la religione cattolica apostolica romana senza permetterne alcun'altra nel regno: che osserverò, e farò osservare la costituzione politica emanata ed adottata per lo regno delle Spagne nell'anno 1812 e sanzionata da S. M. Cattolica nel marzo di questo corrente anno, salve le modificazioni, che la rappresentanza nazionale di questo regno costituzionalmente convocata crederà di proporre per adattarle alle circostanze particolari della monarchia delle Due Sicilie: che in quanto sarò per fare non avrò in mira se non il bene ed il vantaggio della monarchia; che non alienerò, né venderò, né smembrerò parte alcuna del regno: che non esigerò giammai quantità alcuna di frutti, né somma alcuna di danaro, né altra cosa qualunque, senza che abbia ciò decretato il parlamento: che i non prenderò giammai la proprietà di alcuno e che rispetterò soprattutto la libertà politica della nazione, e la personale di ogni individuo. E quanto in quello che ho giurato, o in alcuna parte di questo giuramento facessi il contrario, non dovrò esser obbedito: anzi tutto ciò che vi si opponesse, debba esser considerato come nullo, e di niun valore. Così facendo Iddio mi aiuti e sia in mia difesa; e nel caso contrario me ne imputi.

E poi, rendendo saluti agli evviva del popolo nuova mente sedé.

Cessata la generale emozione il cavaliere Galdi presi dente del Parlamento profferì il seguente discorso.

«Sacra Real Maestà,

«Le eterne leggi colle quali la Provvidenza regola e compone l'ordine dell'universo, la loro costanza e la loro apparente discordia stessa considerate dall'uom religioso non men che filosofo, e quindi ridotte a chiari teoremi ed a formole generali, costituiscono il codice di verità di uso comune a tutt'i popoli inciviliti.

«Se al contemplatore geologo faran meraviglia il cangiato aspetto delle isole e delle terre, i laghi ed i fiumi. disseccati, i nuovi continenti sorti dal seno delle onde, l'abbassamento delle montagne, le piante e gli animali totalmente spariti dalle superficie del globo, e quelli che vi si rinvengono di nuova creazione, non minor meraviglia recar debbono al filosofo politico le vicissitudini del le nazioni, delle monarchie, delle repubbliche ed i cangiati costumi e le cangiate leggi ed i cangiati governi, la loro grandezza e decadenza e le cause che le produssero.

«Quella energica forza della natura che fa cambiar di continuo l'aspetto del mondo fisico, tende ancora di continuo a far lo stesso del mondo morale. Ma l'autor del tutto sostiene da sé solo colla onnipossente mano e con serva la gran mole dell'universo; ed affida all'uomo, ai monarchi, a governi il conservare l'ordine morale e ci vile de popoli: quindi dotò l'uomo di squisiti sensi di ragion penetrante ed un raggio gl'infuse della eterna luce, lo rese inclinato alla sociabilità, a riunirsi in famiglie, in città, e quindi a comporsi uno stato bene organizza to, onde gradatamente poi nacquero le grandi società ed i grandi imperi.

«Finché l'uomo seguì i dettami della ragione e della giustizia, di poche semplicissime leggi ebber bisogno le società civili, non vi furono ostinate guerre e frequenti: i vecchi patriarchi ressero il tutto, e non trovarono nei loro figli e concittadini che obbedienza e rispetto. «Ma sopraggiunsero le ricchezze, l'ambizione di do minio, crebbero i bisogni delle società, crebbero i delitti, e divennero necessari i complicati codici di legislazione. In mezzo a queste vicissitudini nacque la funesta discordia civile, mostro che con mille diverse lingue, mille aspetti e sotto mendicati pretesti va divorando le popolazioni della terra. – Si credè di poter rimediare a tanti mali con nuove leggi, ma spesso inefficaci perchè mal sostenute da costumi: si ricorse alla viva forza e si abberrò tra gli eccessi della tirannide e della demagogia.

«Talvolta per accrescere la felicità del popoli si affrettò la loro rovina, facendo pompa di uno spirito esagerato d'innovazione e di perfettibilità, e dall'altra parte, vedendosi tanti mali della società prodotti dal filosofismo contro le scienze e gli scienziati, si corse verso la barbarie.

«Per questi vizi caddero in rovina i più fiorenti imperi quando credevansi giunti all'apice della loro grandezza perchè dominati dalla superbia e dall'avarizia; men tre che senza tali sforzi della politica astratta e solo per qualche resto di virtù antica, si rialzarono vegeti e robusti quelli che credeansi prossimi al loro decadimento.

Restava ed ancora resta a sciogliersi il gran problema di moderare l'orgoglio delle nazioni nella loro grandezza e prosperità, e di rincorarne lo spirito abbattuto dalla op pressione e dalle ingiustizie. Ma il dito solo della Provvidenza nell'onorata scuola delle sventure poteva indicare a monarchi ed alle nazioni la stella polare che dovea salvarli dall'oceano de'  mali.

«Questa stella consisteva in una Costituzione saggia, moderata figlia di maturo sapere e di matura esperienza: dovea consistere in un patto sociale con che i popoli si emancipavano dalle violenze del governi arbitrari. Verso il declinare del passato secolo lo stato di Europa giunse a tale di essere divenuto necessario il ricomporre i patti sociali. Ma dov'erano i re padri amorosi del popoli? E dov'erano i popoli figli ubbidienti del re? I rimedi ai quali si ricorse furono veleni per l'ordine sociale: fummo minacciati da nuove barbarie e dalle tenebre di eterna notte. Ed ancora non poche nazioni vanno fluttuando nel la incertezza di loro sorte, non trovano il loro punto di equilibrio ove fissarsi, e nol troveranno per lungo tempo, se la divina mano del Creatore non le ricompone in miglior ordine, come intorno al sole, per le leggi di gravità, stabilì le orbite de pianeti nel dì che trasse il mondo dal caos.

«In mezzo alle sventure universali di Europa, le ultime Spagne erano state vienaggiormente afflitte da tutt'i mali onde Iddio suol fare esperienza della costanza e virtù di un popolo. Quasi soggiogato da un bellicoso, e fino a quel momento creduto invincibile esercito straniero, il commercio distrutto, le colonie ribellate, espugnati i baluardi della penisola, incenerita la marina, sbaragliato l'esercito, prigioniero il re; quando alla voce della religione e dell'onor nazionale, si rammentano gl'Ispani esser discendenti dei Consalvi e dei Mendozza, corrono alle armi, debellano il nemico, liberano da suoi timori l'Europa, riconquistano le loro antiche Cortes, riconquistano il loro re, si formano una Costituzione che ha servito a noi di modello, e che non sarà inutil monumento di ragion politica alle nazioni dell'universo.

«Sire, questa Costituzione è figlia di lunga esperienza, e di quel che meglio dettarono i pubblicisti di Europa dalla metà del passato secolo finora. Essa sembra aver colto il vero punto di riposo e di contatto fra i dritti dei popoli e le prerogative de monarchi – Egli ha saputo distribuire a figli l'avita eredità, lasciando al padre una ragionevole latitudine nelle sue disposizioni: è lontana da tutti gli estremi viziosi che lasciano sempre nella incertezza la sorte delle nazioni.

«Questa Costituzione procede e s'innalza come una maestosa piramide; ne formano l'ampia e solida base la dichiarazione de dritti e doveri del cittadini: prosegue nelle ben calcolate elezioni, assicurando una scelta di rappresentanti nazionali, cui presiede sempre la religione, assiste al più che è possibile il voto universale, si allontanano i germi di corruzione, si apre la strada al merito, che si fa passare al vaglio di moltiplici e severi esperimenti. Questa Costituzione stessa definisce e circoscrive i limiti del potere legislativo, quindi insensibilmente lo avvicina all'esecutivo per mezzo del Consiglio di Stato, e dell'aita della Corte di Giustizia, e pianta alla sommità dell'edificio il monarca in tutta la sua grandezza, circondato da suoi ministri e da tutto lo splendore e la forza del potere esecutivo: tutto è ordine e simmetria, tutto solidalmente costrutto, non resta luogo di aggiungere, non di togliere una pietra angolare dal grande edificio senza deturparlo o farlo cadere in rovina: qual'è durerà immoto, ed indistruttibile come la gran piramide di E gitto, che da quaranta secoli sfida il tempo e le stagioni, e rimarrà a sostenerne gli oltraggi per lunghi secoli ancora.

«Sire, noi abbiam giurata colle lagrime della gioia e con religioso rispetto questa Costituzione: il popolo ha veduto la nostra commozione e le nostre lagrime. Vostra Maestà ha giurato lo stesso, ed il discendente e l'erede della religione di San Luigi, e delle virtù civili di Carlo III non giura invano! Ecco stabilito fra il re ed il suo popolo un nuovo patto sociale che assicura ad entrambi la loro quiete e felicità avvenire. Iddio d'Israele non sdegnò spesso di pattuire col popolo eletto, e perchè lo sdegnerebbero i re? Con questo patto è assicurata la grandezza vostra, la vostra gloria e la legittimità della vostra dinastia. Essa non riposa più sulla volontà di un solo, non su precarie alleanze straniere, ma sulla nostra riconoscenza, sulla volontà di sette milioni di cittadini pronti a versare l'ultima stilla del loro sangue in difesa della religione degli avi, della patria e del re.

«Quell'adorabile famiglia che vi fiorisce d' intorno come all'ombra del maestoso cedro del Libano crescono le sacre palme, quel rampolli del tanto a noi sì caro primogenito figlio, cresceranno anch'essi nelle avite e dimestiche virtù: dalla M, V. apprenderanno ad imitar le virtù degli avi, gli arcani del governi, la sana politica e la dura milizia. Uno ne crescerà certamente fra essi che di unita alle arti di pace saprà coltivare quelle della guerra. Egli accoppierà al brillante coraggio ed all'alma in trepida di Francesco I e di Enrico IV il saper militare del gran Condè, e se, tolga il cielo l'augurio, sarà chiamato a combattere lo vedrem circondato da bellicosi Marsi, da Dauni, da Sanniti, da tutti i popoli della magna Grecia e della Trinacria alle frontiere del regno, co me l'angelo del Signore con l'adamantina spada in mano, stava alle difese del paradiso terrestre.

«Or finalmente accettata e giurata la nostra Costituzione non sarà più chimerica e sperata invano nell'esercito la forza che ebbero nelle armi i nostri avi, ed il risorgimento della marina: non più inceppati i progressi dello spirito umano e della istruzione pubblica; non disordinato e dilapidato il pubblico erario, non compro messa la dignità del monarca e della nazione nelle politiche transazioni. Le pagine del codice di Astrea rimar ranno immuni da qualunque macchia e custodite da in corruttibili sacerdoti: il potente braccio e la volontà della Maestà Vostra, e le assidue e vigili cure del Parlamento nazionale assicureranno si bel retaggio fino alla nostra più remota posterità. Risorgeranno i teleuci e gli Archita, gli Archimedi ed i Tulli onore delle nostre regioni e dei genere umano: risorgeranno i bei monumenti dell'arte antica in questa terra felice, e riuniremo in una sola e poca tutti gli onori onde fummo fregiati dagli Italo-Greci a tempi di Augusto e del regno di Alfonso di Aragona a quello di Carlo III.

«Deh! tu onnipossente Iddio arridi dal cielo a sì felice augurio; conserva nel re il padre ed il benefattore del popolo: conserva nel popolo la famiglia ed il baluardo del re conserva nel Parlamentò nazionale il vigile custode delle nostre Costituzioni, e delle leggi nostre, e fa che viva e regni per lunghi anni l’augusto nostro Ferdinando sicché divenghi il Nestore dei monarchi costituzionali.»

Il Re. udì questo discorso affermando, a quando a quando col cenno, e finito che fu rispose:

«Gradisco sommamente i leali sentimenti che il Parlamento per l’organo del suo Presidente mi esprime, e sperò colla sua cooperazione vedere sempre più felice, e tranquilla questa nazione, che per tanti anni ho governata, e governo.»

Indi. il Vicario Generale si levò e preso rispettosamente un foglio dalle mani del padre ov’era vergato il discorso della Corona, lesse:

«Signori Deputati,

«Comincio dal render grafie a Dio che ha coronata la mia vecchiezza circondandomi de’ lumi de’ miei amatissimi sudditi. In voi considero la Nazione come una gran famiglia. della quale potrò conoscere i bisogni e soddisfare i voti. Non Altro è stato il mio desiderio. nel lungo regno che il Signore mi ha concesso, se noli di ricercare il bene, e di eseguirlo. Voi mi pesterete d’ora innanzi la vostra mano nell’adempimento di questo sacro dovere; ed io raccogliendo dalla vostra propria voce i vati delta nazione, sarò liberato dalla incertezza di dovergli interpetrare.

«Per conseguire l’oggetto delle nostre comuni cure, debbo richiamare la vostra attenzione alle importanti operazioni che vi sono commesse, ed alfe difficoltà che noi dobbiamo superare. Il conoscer queste sarà un eccitamento maggiore alla vostra saviezza ed alla vostra prudenza, e ci farà acquistare anche la gloria, se avrem saputo trionfare degli ostacoli che ci presentano le circostanze de’ tempi. e le conseguenze stesse delle nostre passate vicende.

«Voi siete in primo luogo incaricati dell importante opera delle modificazioni da farsi alla Costituzione Spagnola, onde adattarla al nostro bisogno. Molte, delle nostre istituzioni sono compatibili con qualsivoglia ordine politico1. Tali sono la divisione del nostro territorio, il sistema di pubblica amministrazione ed il nostro ordine giudiziario.

«Io sono sicuro che il Parlamento valuterà sopra tutto bene di evitare il più che sia possibile i cangiamenti dell'ordine interno, e di tutto quello in generale che la nostra stessa esperienza ci raccomanda. Noi consolideremo la Costituzione, e la stabiliremo sulle basi delle. nostre antiche istituzioni e delle idee che ci sono familiari. Non intendo che questa considerazione vi ritenga dal proporre quegli inevitabili cambiamenti che sotto necessari a' rendere solido; durevole, ed utile alla generalità il nuovo ordine politico che oggi fondiamo. Il mio animo riposa tranquillo nella saviezza del Parlamento, che saprà scegliere il giusto mezzo tra la necessità e l’utilità.

«Vi raccomando principalmente l’assicurare l’ordine pubblico, senza del quale ogni sistema politico e civile resterebbe privo di effetto. Voi saprete dar vigore al governo, la forza del quale si confonde con quella delle leggi, quando il suo andamento è da queste diretto. Custodite gelosamente le garentie individuali de’ cittadini, ma sottoponete le volontà particolari alla generale, è rivesti; te l’autorità che la rappresenta di tutti i mezzi necessaria farla rispettare.

«Questo è il primo carattere di ogni governo civile e di ogni nazione che voglia far rispettare la propria indipendenza.

«L’inviolabile attaccamento che la nazione Ha dimostrato alla nostra santa cattolica religione, mi rende sicuro che il Parlamento ne custodirà la purità, è conserverà con ciò il più bel pregio della Costituzione. Noi non i siamo stati mai persecutori delle opinioni altrui, ed abbiamo sempre lasciato a Dio il giudizio della credenza degli altri. Il nostro suolo non è stato mai macchiato dapersecuzioni religiose, anche nel tempo del fanatismo e de’ pregiudizi.

«Ma i popoli che professano un’altra credenza non hanno il. dritto di contaminare, neppur con l'esempio, l'unità e la purità delle nostre dottrine. 1 doveri della ospitalità non possono essere maggiori di quelli che noi abbiamo verso noi stessi.

«Stabilite felicemente, come spero, le basi del nostro ordine politico, ed invocata l'assistenza e la protezione del nostro signore Iddio a tutti i travagli da’ quali dipende il riordinamento del regno, noi potremo felicemente provvedere a tutti i nostri interni bisogni.

«Io debbo prima di ogni altra cosa manifestarvi la soddisfazione che provo nel vedere intorno a me i Deputati dell’una e dell’altra Sicilia. Queste due parti della mia famiglia, egualmente a me care, ché da ciascuna delle parti ho ricevute luminose prove di attaccamento, non sono state per me giammai divise. I disordini parziali non decidono della volontà né dello spirito di una Nazione. Io sono stato sempre persuaso che la Sicilia di là dal Faro non avrebbe mai smentito il nobile carattere che l’ha sempre distinta, e mi compiaccio che essa siasi affrettata a confermare col fatto la mia opinione — Dai lumi uniti di due Popoli, a quali la natura, è stata provvida dispensatrice d’ingegno e di generosi sentimenti, io non posso non ripromettermi misure, leggi, e regolamenti tali che assicurino con indissolubili legami di unità e di reciprocazione la rispettiva loro felicità.

«Affinché voi possiate avere una esatta notizia della situazione dei regno, io ho ordinato, a' tutti i miei segretari e ministri di Stato di presentare il più presto che potranno, un rapportò dello stato di Ciascun ramo. Lo stesso desiderio per quanto riguarda le sue operazioni, ho. manifestato alla giunta provvisoria di. governo, che ha col suo consiglio assistito il mio amatissimo figliuolo e Vicario, ed ha si bene corrisposto alla fiducia mia e della nazione.

«Lo stato delle nostre relazioni coll’estero è dilicato; ma presenta difficoltà, a superai le quali può forse essere bastevole la moderazione unita ad un contegno nobile e fermo.

«La necessità di questo contegno vi persuaderà altresì de'  sacrifizi che la Nazione dee fare nel ramo delle finanze. Lo stato di queste non è solamente la conseguenza della nostra attuale posizionò, ma anche delle circostanze, nelle quali ci trovammo dopo l’anno 1815. Voi vedrete dal rapporto idei segretario di Stato ministro di questo ramo gli sforzi fatti onde soddisfare a tutti gli straordinari bisogni e preparare alla nazione una stabile prosperità.

«Le medesime circostante hanno influito ed influiscono attualmente nel dipartimento della Guerra. La vostra saviezza vi guiderà naturalmente a' distinguere lo stato momentaneo dai permanente onde l’armata serva al atto scopo e non divenga onerosa alle nazione — Le nostre milizie ci presentano una forza interna che: non aggrava il tesoro e che è della più grande utilità a mantenere l’ordine e la tranquillità delle persone.

«Le stesse considerazioni 'vi si presenteranno per la. nostra marina che noi dobbiamo principalmente rivolgere alla protezione del commercio marittimo ed alla difesa delle nostre coste.

«L’interesse del nostro commercio politicamente calcolato vi sarà presentato dal nostro ministro segretario di Stato degli affari Interni — Formerà questo uno del più gravi e più importanti argomenti delle vostre deliberazioni.

«Voi troverete preparate tutte te altre istituzioni dalle quali dipende l’intera prosperità del Regno. Io ho conservato dopo il 1815 quelle che la esperienza ed il voto nazionale indicavano come necessarie ed utili.

«Raccomando alle vostre cure gli stabilimenti di educazione, di beneficenza, di umanità, e le prigioni soprattutto, Io stato delle quali è ancora lontano da quello a cui avrei desiderato di portarle.

«Il dipartimento della giustizia presso a poco sfondato sulle stesse basi che io trovai stabilite; lo mi sono giovato dell’esempio e della esperienza ed ho adottato le leggi che mi sono sembrate. le migliori, perché di niun altra passione sono stato capace fuorché del bene de'  miei popoli. Il mio ministro di Grazia e Giustizia vi proporrà i progetti necessari per perfezionare questo ramo importante. Se altri miglioramenti giudicherete necessari alla libertà delle, persone ed alla sicurezza delle proprietà, voi dovete essere persuasi che proponendoli andrete sempre incontro al mio desiderio.

«Quando agli affari Ecclesiastici, l’ultimo concordato ha. folto sparire tutte le antiche controversie colla Cotte di Roma. Per esso è stata restituita la calma alle coscienze sono stati ridotti i vescovadi e si è preparata la dotazione ed il miglioramento del clero. Per ottenere questi vantaggi è. stato d’uopo di convenire di molte transazioni., Io vi ho consentilo perché le ho riguardate come prerogative alle quali non ho voluto sacrificare l’interesse principale de'  miei popoli. Io sono persuaso che in tutte le future transazioni. il Parlamento si farà sempre guidare dal rispetto dovuto alla santa Sede, e dalla necessità di stringere sempre più le relazioni di amicizia che debbono essere fra due stati vicini ed insieme legati per comune interesse.

«Dopo questa breve espressione dello Stato nostro, mi rimane solamente a dire che non,permettendomi ancora la mie forze di ripigliare, tutte le cure del governo, io continuerò per ora ad affidarle ai mio amato figliuolo, ed erede il duca di Calabria nella qualità di mio Vicario Generale, lo sono stato compiaciuto del modo ond’egll'ha corrisposto alla mia ed alla vostra fiducia. L’esperienza servirà a renderlo sempre più maturo nel governo ed a voi più caro. Io avrò verso la nazione il merito di avere non solamente formato il suo cuore, ma di avergli altresì additati i mezzi di rendervi felici.

«Signori Deputati, niun momento nella storia della monarchia è. stato più importante rii questo. — L'Europa tutta ha gli occhi sopra di noi. L’Onnipotente che regge il destino di tutt'i popoli ci ha messo nella posizione di acquistarci colla moderazione e colla saviezza la stima di tutte le nazioni. É nelle vostre mani il. consolidare le. nostre istituzioni, ed il renderle stabili, durevoli e tali che producono la nostra prosperità.

«Quando a me non farò che secondare il voto de’ miei popoli e sarò unito ad essi con quella medesima fiducia che hanno a me dimostrata, lo desidero portare con me nella tomba la vostra riconoscenza e meritare il solo elogio,di aver sempre voluta la vostra felicità.»

Poscia il general Pepe rassegnò il comando dell’esercito, è dal re n’ebbe lode. Ed il duca di Calabria, qual figlio, drizzò discorso al padre, che ragionava, non già di politica o di regno, ma della gratitudine sua e della sui stirpe; adombrando che solo per la Costituzione poteva esser salda la. dinastia. Dopo ciò il re dichiarò aperto il Parlamento nazionale dell’anno 1820, e partì. Si ripeterono al suo muovere i voti del pubblico; tanto che egli non era più nella chiesa, ed il gridò di plauso e di gioia si prolungava. Ma il cielo che nel mattino era sereno, all'uscir del corteggio annebbiò; si fe’ più scura, e quando il re giurava, si addensarono le nubi e cadde stemperata pioggia. Fu caso; ma il superstizioso volgo diceva che Iddio, antivedendo l’avvenire, cruccioso de’ preparati spergiuri, oscurava improvvisamente i luminosi spettacoli della natura.

In occasione del giuramento, del 1° ottobre Pasquale Bottelli indirizzò al re questo scritto.

«Napoli, 4 ottobre 1820.

«Sire,

«Ardisco presentare alla M. V. un omaggio che non potrebbe esser figlio dell’adulazione. Io le offro i sentimenti della maggiore ammirazione e della maggior gratitudine, dalla quale un cuore sensibile possa esser commosso.

«Se non curando i dritti di un popolo, innocente, Ella avesse conquistate le lor terre native se in altri termini Ella avesse lordata la vittoria con la oppressione e gli allori col sangue; è appunto in tal caso ch’Ella sarebbe autorizzata ad aver sospetta la lode, ed a temere una insidia in ogni segno di applauso. Forse il suono delle, bande festive le ricorderebbe i gemiti de'  nemici moribondi: la letizia, de'  soldati in trionfo non le farebbe obbliar. e il lutto di mille spose vedovate, e di mille figli ormai privi de’ lor genitori; la sua anima sarebbe lacerata fra l’umanità dolente e l’ambizione soddisfatta. Se V. M. venisse a versare i suoi benefizi, e le sue compiacenze su di un favorito prediletto; il di lui contento equivarrebbe forse all'affanno di cento famiglie mancanti de'  più necessari soccorsi. Né potrebbe Ella accettare la di lui gratitudine senza negligere il sentimento della giustizia:

«Ma, Sire, ciò che io ammiro, ciò che fa necessaria la mia riconoscenza, è una gloria senza macchia, è un beneficio disgiunto da qualunque molestia. La M. V. ha giurato solennemente il patto sociale;. Ella ha impresso il suggello, della religione su la libertà de'  suoi popoli. Innanzi alla sua famiglia, innanzi al Parlamento nazionale, innanzi a più migliaia di cittadini divisi fra lo stupore ed. il piacere, Ella ha chiamato Iddio in testimonio della purità de’ suoi voti: ed a tutti in certa guisa è sembrato che Iddio medesimo uscisse dal suo tabernacolo per benedirli con gioia e per prenderli sotto la guardia della sua onnipotenza. Quelle lagrime che allora han ricoperte le ciglia de’ cittadini presenti, quelle strepitose acclamazioni che han rimbombato in più riprese per le volte del tempio, poteano avere, altra origine che il fondo de’ cuori, e poteano avere altra indole che quella del vero? Non si obbrigava Ella forse a conservarci la fede de’ nostri antenati, ad armare del suo scettro la nostra indipendenza; ad aver sacra la proprietà di cui godiamo? Ed esiston forse per l’uomo delle affezioni più care che quelle della suaproprietà, della sua indipendenza e della. sua fede?

«No, Sire, la modestia della M. V. non ne sia disgustata. Ciò ch’Ella vide, ciò che ascoltò in quei giorno di gloria, non fu che una parte infinitamente picciola di ciò, che fece; e che disse la sensibilità pubblica. Quanti padri ritornando dallo spettacolo, voleano narrare a’ figliuoli desiderosi ciò che aveano osservato, ed interrotti da’ singhiozzi di tenerezza, non fecero che stringerli nelle loro braccia ed inondarli di pianto? Quanti vecchi bramarono che il giorno consacrato dal giuramento reale fosse il loro ultimo giorno! Al rimbombo dell'artiglieria che annunziò il compimento di quell'atto solenne, quante madri in fine e quanti, fanciulli si curvarono al suolo, ed offrirono de’ muti ringraziamenti a colui che impera. a’ monarchi ed a’ popoli!

«Sire, il primo di ottobre ricomparirà mille volte nella serie degli anni. Le città sorgeranno forse ove ora il bosco frondeggia, e l’aratro aprirà i suoi solchi ove ora sorgon le reggie. Ma il tempo rispetterà l’eroismo della M. V. SU l'aurora di questo giorno fortunato i padri sensibili sveglieranno forse i figliuoli, e li chiameranno intorno di sé.

Figliuoli, essi diranno, un re assoluto dominava una volta il vostro paese: sacrificò Egli una parte del proprio potere alla prosperità de'  suoi popoli: è a lui che dovete la tranquillità e la sicurezza della vostra vita fiorente. Riconoscenza all’autore del vostro benessere.

È allora, o Sire, che tutte le mani si volgeranno al cielo: tutte le labbra suoneranno di benedizioni: e la grande anima della M. V. si rallegrerà ancora un» volta del suo giuramento.

«La storia adulatrice de’ delitti de’ principi diverrà’, lo spero, di tratto in tratto più vereconda. I fasti sanguinosi de’ conquistatori perderanno insensibilmente, la' loro luce: e si arriverà infine ad un tempo, nel quale i nomi de’ Cesari, degli Alessandri e de’ Tamerlani si pronunzieranno con fremito. Ma appunto in quel tempo i dritti della umanità saranno più. conosciuti, e. la gloria della M. V. si renderà più luminosa. Giungerà essa tant’oltre, che si crederà di onorare Enrico IV e San Luigi, di Francia co ’l dominarli antenati di Ferdinando I

«Voglia Ella intanto conservarsi all’amore ed al rispetto della doppia Sicilia: raccolga per lunghi anni e con usura il compenso de’ suoi benefici: ogni giorno della sua vita sia un grado di aumento nella felicità de’ suor. popoli e nella lor gratitudine: e la tomba che riceverà in fine i di lei ultimi avanzi sia rispettata come l’altare delta patria redenta.

Convocato li Parlamento fu abolita là Giunta di Governo, della quale si lamentava il popolo accusatore e calunniatore incessante de governanti.

L’edifizio di San Sebastiano venne destinato per uso del Parlamento: la gran sala di forma ellittica, avea in fondo if trono del re coverto di velluto cremisino stellato di gigli con frange d’oro pendenti e con lo stemma de’ Borboni di Napoli. Al di sotto una sedia gemmata pel presidente del Parlamento cui faceano corona quattro altre pe’ segretari. Quasi nel mezzo ergevasi una bicongia alla quale si ascendeva per mezzo di due grandi scalinate coverte di castoro verde. Ciascun deputato avea seggio, distinto, nei semicerchio della sala e su di esso erano collocate grondi e magnifiche tribune fregiate di vari dipinti ed ornati ira le quali per ricchezza di tappeti e di oro rispondevano quelle per la famiglia reale, pe’ principi pel corpo diplomatico e pel ministero. La parte. pi(i elevata della gran sala era destinata per uso del popolo divisa in tanto logge con sedili corrispondenti: in un angolo,di essa avena tavolo gli stenografi addetti al servizio de’ giornali ed i capi collaboratori de'  medesimi.

Nella prima seduta il Parlamento nazionale si diparti in nove Commissioni: legislazione; guerra, marina ed affari esteri; milizie provinciali; gendarmeria è pubblica sicurezza; finanze; agricoltura ed industria; istruzione pubblica; amministrazione provinciale e comunale; governo interno del Parlamento.

 Ora, nel Parlamento fissarono gli sguardi il re, il Vicario, i ministri, i moderati, gli eccessivi, per indagar lo spirito di quella congrega, e farne guida chi di regno, chi di salvezza, chi di ambizione e chi d’inganni. Presto spiacque a’ seguaci delle parti estreme, chiamandola demagogica gli assoluti, servile gli sfrenati, dissolutati ministri, ministeriali i dissoluti. Le quali ingiurie si volgevano in lode; però che dove 1tì passioni opposte trasmodano, gli uomini giusti, che stanno in mezzo, dagli uni e gli altri, sono maledetti! ed oltracciò in quella libertà nuova, mancando l’abito del dir francò, spesso scorreva il licenzioso; e, mancando la pazienza delle scoperte confutazioni, ne. indispettivano i grandi. e i superbi, ed è pur vero che i deputati, tirando esempio dal costume inglese, confondendo due costituzioni di genio diverso, una invecchiata, l’altra nascente, credevano domma di libertà l’opposizione a’ ministri, e li trattavano nemichevolmente. Il pubblico, nuovo anch'esso alle scorrevoli dicerie di tribuna, spesso credeva sentenza del Parlamento 1° il voto audace 0 scorretto d’un deputato. Queste erano! le 'condizioni dell'adunanza.

Prima cura del Parlamento fu il mutar nome al le provincie dicendole Irpini, Morsi, Sanniti, ed altri dell’antichità, essendo natura di popoli scarsi del presente ricordar le glorie del passato, e con vergognoso vanto, mostrare le miserie della decadenza. Altre cose nuove ogni di si proponevano, sempre grate alla moltitudine, perché il nuovo piace a’ nuovi, onde il far poco nelle rivoluzioni è l’opra più difficile e più sapiente. La intera macchina sociale voleva mutarsi, per l'argomento che a popolo libero sconvengono le istituzioni della servitù; e cosi caddero l'amministrazione comunale, la provinciale, quella di acque e boschi: erano cadenti le amministrazioni del demanio, delle dogane, de’ ponti e strade; altri sistemi si meditavano, giudiziario e finanziero. Opere di molti lustri e di pesato consiglio innovator momento distruggeva.

E più crebbe il desiderio di novità quando le discussioni del Parlamento si temperarono alle opinioni momentanee degli ascoltatori, e dirò come. Nelle prime adunanze, dalle tribune del popolo si applaudirono. alcune. lii orazioni e sentenze; la quale mercede popolare fu grata la agii oratori, gratissima al presidente; ma di uso fatta diritto, si estese cosi, che sovente uscivano voci contrarie di plauso e dissentimento da quelle stesse tribune che si chiamavano giudizio pubblico, come che fossero popolate da pochi, guasti e insipienti. Animata da quest’aura, una scintilla divenne incendio. Trattavasi del modo di proporre al re le riforme della Costituzione, allorché ad un deputato, che pur abbondava di senno, sfuggi dal labbro la dimanda: Questa assemblea è costituita o costituente? né altro disse. Gli scaltri fra’ deputati e le popolari tribune accolsero la voce, la ripeterono; non più si parlò di riforme, ma il costituita o costituente era il subbi etto tumultuoso delle parlamentarie discussioni. E poiché, divise le sentenze, senza nulla decidere passavano i giorni, il re, la casa, i ministri, gli onesti sentirono spavento, s ricordando la Costituente di Francia, la Convenzione, l’atroce giudizio ei primi fatti della cruenta:rivoluzione francese.

Altra sollecitudine sopravvenne. La Carboneria, insino allora divisa in tante società, quante almeno le provincie, si strinse in una, sotto proprio, reggimento, col nome di assemblea generale, che componevasi de'  legati delle società provinciali. L’assemblea generale aveva;un vasto edifizio nella città, sue leggi, sua finanza, suoi magistrati, ed un regolatore su premo, col nome di presidente. Ella era sì potente che, spesso richiesta, soccorreva il governo, come fu al richiamo de’ congedati, allo arresto dei disertori, alla esazione de’ tributi fiscali, alla leva delle. milizie, ad altri bisogni dello Stato. Erano soccorsi e pericoli.

Ed aggravò le condizioni del regno la vita privata del general Pepe, che sceso dal comando supremo dell’esercito, senz’abito militare, senza pompa o segno di autorità, davasi argomento della caduta rivoluzione. Però, tumultuando i partigiani suoi e i ribaldi, il governo, a malgrado, lo nominò capo supremo delle milizie civili, ufficio immenso e nuovo, pericoloso alla monarchia ed alla libertà. Quelle milizie, già motte, si accrebbero smisuratamente.

In quel mezzo il capo della polizia, Bertelli, eletto Deputato dalla provincia di Chieti, dimettendosi da presidente di pubblica sicurezza, a cui successe Siniscalchi, a restò che era ad un tempo vicepresidente del Parlamento, e dirigeva, per suoi ministri, la Carboneria. Disponitore di tante forze, vedendo in mano al re nel presente gli impieghi e le ricchezze, o, nel possibile rovesciare di fortuna, le persecuzioni e le Condanne, attese ad ingraziarsi a’ principi coll’arte più valida sopra i timidi, atterrire e rassicurare.

Finse che un Paladini, avvocato, e perna, tura impetuoso, congiurasse con altri ad imprigionare il re, il Vicario, tutti della casa, menarli in Melfi, città forte della Basilicata, e tenerli guardati sino a che là riti votazione di Napoli fosse riconosciuta da’ potentati stranieri. Fece chiudere in carcere il Paladini e i disegnati compagni, affermò che per documento era chiaro il delitto. Ottenne il guiderdone di grazia dalla regia famiglia; e quando il giudizio ebbe liberati quegl'innocenti, egli fece credere ingiusta la sentenza, forzata, per timore che i giudici avevano de’ congiurati, Paladini, che lo accusò di calunnia, viste indi a poco peggiorar le sorti dello Stato, con foglio pubblico dichiarò sé veramente. innocente, Borrelli veramente calunniatore; ma, non volendo aggiungere alle pubbliche inquietudini private discordie, ritirava, per amor di patria, l’accusa, e rimetteva l’ingiuria e la colpa. Altre volte il Borrelli diceva al Vicario, state in pericolo la vita di lui e del re, raddoppiava le guardie, accresceva i provvedimenti, concertava le simiglianze della verità, ed a notte avanzata, con viso allegro; andava in corte a rassicurare del pericolo superato i timidi principi. Quegli artifiz medesimi oh diva per gli amici del re, sì che il de Medici, il Tommasi, l’Ascoli, 1l Sangro, ingannati e creduli, si tenevano debitori di vita al Borrelli.

Erano cosi meste le cose pubbliche, quando venne in parte a consolarle un foglio del generale Florestano Pepe, con lieto annunzio: il foglio narrava che, più volte scontratosi il Pepe co' ribelli siciliani, gli aveva vinti e fuggiti, prese le artiglierie le bandiere, spinta e chiusa la rivoluzione in Palermo che, attendato coll’esercito nelle soprastanti colline, poteva torre le acque alla città ma, in carità, ne concedeva sei ore al giorno che, dopo tre combattimenti, occupava la Flora ed una delle porte, la Carolina, sì che l’entrata gli era aperta, ma il riteneva pietà de’ palermitani nostri concittadini, benché ribelli, aspettando d'ora in ora là loro volontaria sommissione. La magnanimità del Generale fu laudata, perché indizio di forza, e perché le azioni generose 0 feroci piacciono. a popoli: ma il re non se ne allegrava, o che lo rendessero indifferente le dubbiezze di regno, o che gli piacesse il prolungato contrasto alla napolitana rivoluzione. Al tre nuove della Sicilia giungevano tuttodì, ed agli 11 ottobre pervenne il trattato di pace ed il racconto degli ultimi fatti di quella rivoluzione.

Poi che i ribelli furono confinati nella città, cadute le speranze, suscitato il timore ne’ capi, arricchiti gl’infimi, bramavan tutti la pace, ma in secreto. Dell'universale desiderio si avvide il principe di Palermo, che, dopo la popolar disgrazia del cardinal Gravina e la partenza del principe di Villafranca, presedeva la giunta di governo.

Paternò, ricco, nobile, ottuagenario, gottoso, vegeto ancora di animo e di mente, conoscitore astuto della sua plebe, convocandola nella piazza' maggiore, lo disse:

«Palermitani; il nemico è alle porte, noi mendichiamo l’acqua dalla sua pietà, i viveri sono al termine, il ferro, la sete, la fame ci minacciarlo morte, mentre il pregar delle mogli, il pianger de'  figliuoli e il consiglio de’ padri ci discorano: né fia maraviglia se tra poco snervati di forza e di animo, crederemo ventura darci agliabborriti napolitani colle nostre case, donne e ricchezze. Se un resto di virtù è ancora in noi, tentiamo le sorti estreme: ascoltatemi.

«Il nemico ci propone la pace; e però ch'egli la vuole, a noi giova di rigettarla. Ho preso spazio di un giorno a rispondere per consultar con voi delle nostre sorti, ed ora dirò primo e libero il mio voto. Io propongo di ordinare a schiera tutti i giovani della città; escir dimani alla campagna, chiudere indietro le porte, per non avere altro scampo che nella vittoria; cingere il nemico ed assaltarlo alle spalle ed a fianchi, mentre i vecchi e le donne combatteranno da muri; né lasciar la battaglia che morti o vincitori. Saremo, lo prevedo, meno numerosi del nemico; mancheranno a noi l'uso e l'arte di guerra; ma ogni difetto suppliscono il co raggio, la disperazione, la necessità. Io dovrei, per vecchiezza, combattere dalle mura, ma sarò nel campo, ed inabile a trattarle armi, pugnerò colla voce, vi darò aiuto di esempio e di ardire.

«Compagni, amici, prima di rispondere riflettete maturamente, perciocchè i subiti consigli sconvengono dove sono a cimento vita, onore, libertà ed avvenire; dimani allo spuntar del giorno, in questa piazza, ci raduneremo, ed armati; se Iddio, se i santi protettori e custodi della città vi avranno ispirata la guerra, noi, sotto la guida celeste, usciremo dalle porte, e combatteremo; sarà stata mia l'idea, vostra la decisione, comune la gloria o la rovina.»

Ciò detto, non attese risposta, ed applaudito partì: l'adunanza si sciolse. Restavano ancora molte ore del giorno, e tutte della notte alla fredda riflessione; e ridottosi ognuno alla famiglia, già intesa e mesta del discorso, non cessò la doglia, se prima i giovani non giurassero sopra i più teneri e sacri nomi di votar l'indomane per la pace.

All'ora prefissa del vegnente giorno la piazza fu ripiena di popolo, e, giunto il principe di Paternò in abito e treno da guerra, innanzi ch'e' parlasse, si alzò grido uni versale di pace. Lo astuto principe lo aveva previsto; e però, col cenno intimato il silenzio, parlò in questi sensi:

«Palermitani, poiché vi duole la guerra, tratteremo di pace, né io sosterrò le opinioni di ieri, che oggi dannevoli mi sembrano, sol perchè voi le rigettaste. Il nemico anch'egli ridomanda pace, ignorando, per ventura nostra, lo stato della città, e l'abbattimento del nostro spirito, ma non tarderà a saperlo, se tarderemo a trattare. Primo de'  nostri bisogni è la prestezza; oggi si dovea combattere, se voi levate la guerra; oggi si fermi la pace, però che pace volete. Scegliete negozia tori che abbiano fama ed ingegno, e più che ingegno e fama, la fiducia vostra.»

Si gridò dal popolo, il principe di Paternò negoziato re. Ed egli: «Non potrei esserlo perchè l'oratore di guerra mal si trasforma in legato di pace.»

Più stimolo fu il ritegno, ed il popolo, ripetendo a rumore lo spesso voto, non permise che il principe parlasse, se non quando col gesto affermò di accettare, Ed allora disse:

«Giacchè lo volete, sarò trattatore di pace, ma unite a me tre compagni da sostener la fiacchezza della mia età e della mia mente. Concedete a vostri quattro legati piena fidanza, pieni poteri; non rinnovate sopra noi la stessa ingiuria che faceste al principe di Villa franca, pur egli ambasciatore di pace, da voi spedito, per voi fatto fuggitivo e disertore; perchè allora (ricordatelo con vergogna) era pericolo tra voi riferire il vero.»

Furono aggiunti al Paternò il colonnello Requesenz, l'avvocato, e prima di muovere dalla città mandarono nuncio al general Pepe del loro vicino arrivo.

Fu al generale nuova gratissima; perocchè le munizioni da guerra scemavano, era il vivere ora profuso per saccheggi, ora mancante per disordini, le casse vuote; i soldati scontenti per insita ribalderia, e perchè tenuti sotto le mura, pazienti delle offese, inabili ad offendere; il campo mal collocato; le alture sguernite; la città non investita. I montanari, vista la lentezza del napolitani, parteggiando per Palermo, scendevano a combattere; al tre torme si radunavano alle spalle dell'esercito; le navi per forza di vento si tenevano in largo mare, lontane dal campo. Soprastava il pericolo più a vincitori che a vin ti. Giunti al campo i legati, avuta onorevole accoglienza richiesero che si trattasse sulla nave inglese Racer ch'era nel porto; e fu accordato. Era negoziatore per la nostra parte lo stesso general Pepe, che condusse con sé il general Campana e due uffiziali superiori dell'esercito; trovarono sul Racer i consoli austriaco ed inglese, testimoni al trattato. Il secreto, l'ingegno, l'arte, gli usi di diplomazia si trasandarono: non era esame, o negozio, ma discorso; né pareva che si trattasse delle sorti future di due regni. I negoziatori siciliani chiedevano; il napolitano concedeva; cosicchè il 5 ottobre si convenne:

1. Le truppe prendessero quartiere fuori la città, laddove S. E. il Comandante generale lo credesse opportuno: tutt'i forti e batterie sarebbero consegnati.

2. La maggioranza de voti siciliani legalmente convocati deciderebbe della unità o della separazione della Rappresentanza nazionale del regno delle Due Sicilie.

3. La Costituzione di Spagna del 1812 confermata da S. M. Cattolica nel 1820 essere riconosciuta in Sicilia, salve le modificazioni che adotterebbe l'unico Parla mento, ovvero il Parlamento separato per la pubblica felicità.

4. Eligersi da ogni Comune un deputato per esternare il voto pubblico sulla riunione o separazione del Parlamento.

5. Decidere S. A. R. il principe Vicario il luogo della riunione di detti deputati.

6. Restituirsi tutt'i prigionieri esistenti dell'armata napolitana in Palermo qualunque fosse il grado e la patria.

7. Potere il solo Parlamento unico o separato fare od abrogare le leggi ed osservarsi le antiche sino alla pubblicazione delle nuove.

8. Le armi del re e le sue effigie rimesse.

9: Intero oblio coprire il passato anche per tutti Comuni e persone che avessero presa parte negli avvenimenti pe quali l'oblio suddetto era stato pronunziato, e ciascun membro che si trovasse fuori dell'isola rimanere libero di ritornarvi se mai lo avesse voluto. Una giunta scelta tra i più onesti cittadini dover governare Palermo provvisoriamente, sino a quando S. A, R. desse le sue sovrane risoluzioni: dover essere la medesima presieduta dal signor principe di Paternò; il comandante delle armi poterne far parte.

Appena scritto il trattato entrarono in città due battaglioni di milizia napolitana preceduti dal principe di Paternò, che tra mezzo alla plebe faceva segni di vittoria per sé, di ludibrio per l'avversa parte; indicando con gesto plebeo la scempiatezza del napolitani. Erano artifizi e verità. Il popolo fra speranza e maraviglia fu cheto e muto, i castelli, trovati aperti e senza guardia, ebbero presidio napolitano, i prigioni furon liberi, molte armi esibite, tutte deposte, l'esercito accampò fuori delle mura, Quell'anarchia, dopo vita di ottanta giorni, fu spenta.

La resa di Palermo, allegra per Napoli quando il tele grafo la segnò, fu poco appresso cagion di tumulto e di tristezza. Avvegnachè, pubblicato il trattato, si vide che alla ribelle città erano concedute, come patti di pace, le condizioni medesime ricusate come preghiere agli amba sciatori prima che cominciasse la guerra; quasi l'esercito napolitano fosse perdente, non vincitore. Si aggiunse un foglio della città di Messina, diretto al Parlamento ed al Vicario, segnato da molti più noti cittadini, che diceva:

«Il benefizio di unire in uno Stato le Due Sicilie non è inteso che da pochi sapienti, ma la comune de siciliani, ricordevole delle ingiurie patite da napolitani, e vaga del nome d'indipendenza, credendo libertà l'esser sola, pronunzierà nell'assemblea generale la lusinghevole separazione. Quindi Palermo sarà capo di questo regno, la città ribelle avrà trionfato; noi, perchè città fedeli, nemiche a lei, saremo oppresse. Se voi tollerate, anzi se voi stessi fate infelice la fedeltà, chi mai più vi sarà fedele? E se la ribellione da voi vinci tori è premiata, qual città non sarà ribelle?»

Sensi aspri, veri, minacciosi. I napolitani a torme correvano le strade della città, biasimando quella pace, maledicendo chi la fermò, trasmodando in sospetti e voce di vendetta. Il Vicario a quel rumore vituperava anch'egli il trattato, ed il ministro Zurlo, autore delle istruzioni date al general Pepe, spedì tre messaggi al Parlamento per dimostrare che il generale, di sua mente, le aveva trasgredite. Allora nella sala del Parlamento, piena di popolo, il deputato colonnello Pepe (diverso a generali Pepe per patria, famiglia, animo, ingegno) parlò in contra rio di quel trattato, pregò che fosse cassato, propose che l'autore (o fosse il general Pepe o fosse il ministro) si assoggettasse a giudizio; e che altro generale con nuove schiere andasse in Sicilia per ridurre le ribellate genti all'obbedienza. Quel parere, seguito dal Parlamento, fu decretato dal Vicario; l'arringa diede all'oratore fama e favor popolare, e poco appresso sventure.

Il general Pepe, rivocato, ebbe in premio dal re la gran croce di San Ferdinando, e dal Vicario lodi e grazie; nè saprei dire se quel favore fosse verace o finto, per timore del nome, o per aggradire a palermitani, o perchè il contrasto al presente stato di Napoli giovasse alla politica, piacesse allo sdegno de due principi. Il Generale, scrivendo al re e pubblicando colle stampe lo scritto, rinunziò i ricevuti onori; perocchè, diceva, riprovata l'opera sua, non meritar premio l'operatore.

Sensi onorevoli ed ammirati. A lui fu surrogato il general Pietro Colletta, che, arrivando in Palermo, levò il campo, sciolse la Giunta di governo, disusò i nastri gialli, cancellò tutti i segni del passato sconvolgimento. Indi a poco ne' paesi già ribellati fece dar giuramento alla Costituzione di Napoli, ed eleggere i deputati al Parlamento comune. Il Colletta, preceduto da meritata fama di severità, l'accrebbe in Sicilia; raffrenò l'esercito e la plebe; amante vero di libero reggimento, scacciava le false libertà. Egli fu amato da pochi siciliani, obbedito da tutti, che bastava per la condizione de tempi allo interesse de due regni. Così, quietata l'isola, cadde lo sdegno de'  napolitani; Naselli e Church furono liberi, l'autore dell'abborrita convenzione non ricercato. Gli eletti deputati de due Valli, sapendo l'esercito austriaco sul punto di muovere contro Napoli e le sorti costituzionali, declinanti, ricusarono per vari pretesti l'onorevole officio.

Eterna vergogna a cotanta codardia!

Le discussioni parlamentarie intanto acquistavano ogni giorno maggior forza e splendore sia per bella eloquenza sia per profondo sapere. Laonde a tramandarne un'idea alla posterità, e per far rilevare nel tempo stesso qual era allora lo stato delle cose, narriamo che nel di 16 ottobre il ministro della Giustizia era alla tribuna, e presentava un quadro il più castigato della magistratura di quel tempo. Accennava che nell'esame del personale il suo spirito erasi allegrato per aver rinvenuti magistrati collegiali e circondariali, i quali per lume, per morale e per amor di giustizia formavano l'ornamento della magistratura; aggiungeva però che questa gioia era conturbata da pensiero ben triste e lagrimevole, dal bisogno, cioè, di una riforma urgentissima della magistratura stessa per aver ravvisato che l'amministrazione della giusti zia era caduta nel massimo languore, la spedizione dei giudizi in molti collegi ritardata, non esservi più costanza di massime nella giurisprudenza, violentarsi i più sacri canoni del dritto da coloro che si aveano l'obbligo di apprendere a rispettarli e tuttocciò fare addivenire precaria la proprietà, l'onore, la libertà, la vita de'  cittadini; i quali in tale tramestio di cose doveano bilanciare come la maggiore delle sventure il rattrovarsi nella necessità di richiedere a magistrati giustizia! E qui il ministro discorreva nobilmente de mezzi di riforma tra quali primeggiava quello di essere la classe degli avvocati il vero semensaio della magistratura, avvegnachè negli esami non si cimentano per lo più che giovani legulei senza opinione, senza esperienza del foro e bene spesso senza scienza.

Infine bellamente analizzava la legge del Giurati nel fine di estirpare il tremendo potere che la legge accorda al magistrato criminale di cumulare nella stessa persona la qualità di giudice di fatto con quella di dritto e chiuse il suo dire con queste parole:

«Si dice che lo stato della nostra civilizzazione non permette di avere un numero di cittadini istruiti che sia sufficiente per compiere senza molto incomodo le funzioni di Giurati. Io non discenderò qui a minuti ragguagli sulle misure prese onde i Giurati non abbiano spesso ad essere distolti dalle loro cure private. Per ora basterà osservare che la istruzione non è così tra noi limitata come si vuol far credere: da venti anni a questa parte i lumi han fatto rapidi progressi in tutte le classi, ed il nostro popolo non è forse oggi inferiore a popoli più civilizzati di Europa. Del resto per essere Giurato non è necessario il corredo di cognizioni difficili e di scienze sublimi. I Giurati non dovranno pronunziare che una risposta semplice dettata dalla convizione che si forma nelle loro coscienze, ed a ciò sono qualità sufficienti un cuore retto ed una mente di ordinaria penetrazione. Or di tali cittadini il numero non potrà essere mai scarso, o Proponeva quindi un progetto di legge pe Giurati ed avvisava i doversi i medesimi adibire pe soli misfatti a motivo che se a giudici correzionali si desse anche il Giurì, la classe del cittadini che somministra i Giurati sarebbe stata troppo distolta dalle sue occupazioni. Aggiungeva che la mancanza di un Giurì pe' giudizi correzionali sarebbesi supplita con affidarne la giurisdizione, non più ad un sol giudice di circondario, ma ad un collegio che sarebbe formato in quel circondario le cui sentenze esser dovrebbero appellabili. Avvisava in fine do versi istallare in tutt' i distretti un tribunale, che oltre alla giurisdizione civile esercitasse la correzionale in grado di appello, da dovere questo collegio somministrare due giudici ad ogni Corte di Assise, la quale si unirebbe in alcuni mesi dell'anno: che in ogni capoluogo di provincia s'istituisse una Corte di Giustizia la quale oltre di essere Corte di appello nelle cause civili del tribunali distrettuali, avesse il giudizio preliminare di causa pe' misfatti, e spedisse ne distretti un Giudice funzionante da Presidente nelle Corti di Assise, le quali dovrebbero com porsi di dodici Giurati sulla lista di 24 individui, da presentarsi all'imputato, e di tre magistrati: i primi come giudici di fatto, gli ultimi di dritto.

Succedeva il ministro delle Finanze ed esponendo le condizioni dell'erario anteriori all'avvenimento di luglio comparativamente all'epoca posteriore annunziava offrire lo stato discusso dell'anno 1820 una diminuzione di rendita di 3,914,800 ducati la quale derivava in gran parte dalla riduzione del prezzo del sale importante un milione e mezzo, dalla mancanza delle rendite oltre il Faro redenti ad un milione cento trentasemila ottocento ducati, e da altri cespiti e prodotti in parte abbassati, in altra venuti meno per le circostanze del tempi. – Osservava doversi aggiungere a tale mancanza un vuoto antico, il quale si covriva in ogni anno colle rendite di gennaio per modo che il semestre del debito pubblico, il bimestre delle pensioni di ogni natura, i soldi, i ruoli provvisori e tutte le spese fatte a dicembre erano a peso dell'anno che segui va: a questo arretrato faceva d'uopo aggiungere la partita dovuta a Casa reale in ducati 53,350, talché riunite le tre reste si avea un vuoto di circa sei milioni di ducati.

Ad estinguere questo debito proponeva il ministro la vendita de beni dello Stato, il milione esistente in azione nella cassa di sconto e le obbligazioni della Sicilia: offrire questi cespiti un risultamento di 6,233,971 ducato ed esservi perciò un avanzo da rimanere in riserva per l'anno 1821 in credito alla nazione. – E tra le riforme finanziere teneva lo statuto della cassa di sconto doversi abolire e sostituirne altro più solido e produttore sicuro dell'incremento della industria, delle manifatture e del commercio laddove venisse aumentata la circolazione dei valori appoggiati a crediti privati.

«Il Governo, diceva, col trarsi di mezzo da siffatto stabilimento, lo renderà indipendente restituendolo alla fiducia naturale che le nazioni incivilite ripongono in simiglianti istruzioni e potrà allora disporre del milione che vi tiene impiegato e che forma un vuoto nel Tesoro.

Adempito a questa prima parte del mio dovere, con chiudeva il ministro, il Governo sta ora preparando gli elementi che dovranno formare lo stato discusso del 1821.

Debito pubblico consolidato e da consolidarsi, imposta fondiaria da ripartirsi pel venturo esercizio, principi di buona ed economica amministrazione da adottarsi: sono questi gli altri oggetti importantissimi di meditazioni e di travagli che precederanno il progetto dello stato discusso dell'esercizio medesimo. Il Governo non desidera che vedere la nazione disgravata da pesi, ma nello stesso tempo adempite le contratte obbligazioni ed il pubblico servizio assicurato: nella conciliazione d'interessi tanto eminenti e cari, incessanti sono e saranno le cure e le sollecitudini affidandosi al prezioso sentimento che l'amo re del bene è il primo gran passo per ottenerlo.

I ministri di Guerra e Marina e dell'Interno ascende vano del pari la napolitana ringhiera e con non minore eloquenza e saggezza di dire del precedenti esponeva il primo lo stato dell'esercito innanzi luglio, il suo avvilimento e per difetto di disciplina e di rette istituzioni, il mercenario sistema delle vendite del gradi, e tutti i mali di una disaccorta e viziata amministrazione faceasi quel ministro rapidamente ad analizzare, quindi prospettava lo sviluppo e tutte le risorse di una nazione opero sa ed infaticabile essere in movimento perchè l'esercito venisse di nuova vitalità informato; riparate le principali fortezze del regno rendute segno di ludibrio da ogni straniera invasione, e sulle sue dimande il Parlamento nazionale decretava nel giorno 27 di ottobre accordarsi al ministro della Guerra il credito non solo di mezzo milio ne, ma di altri ducati 85,000 ad oggetto di sopperirsi a tutti i bisogni straordinari dell'armata.

Il conte Zurlo da ultimo svolgendo le parti più recondite dell'amministrazione interna del regno, dimostrava il languore, l'oblio, l'abbandono di tutti gli svariati rami di questa parte tanto importante di civil reggimento ed espedienti energici e saggi proponeva sia per la spedita direzione di tutte le opere pubbliche spogliate dalle vicissitudini speculative degl'ingegneri, che altro scopo non veggono che il proprio guadagno col danno e sperpero inseparabile della cosa pubblica, sia per lo migliora mento delle amministrazioni Comunali col restringersi ad un cerchio ben piccolo la fatale centralizzazione del sistema francese e restituirsi a municipi le loro franchige e la libertà delle azioni nel governo economico delle loro faccende, sia col proteggere ed animare il commercio, le manifatture indigene, sviluppare le industrie nazionali; e da ultimo proponeva un istituto per tutte le università, licei, collegi e scuole secondarie di pubblica istruzione di retto ad apparare in particolar modo gli elementi filosofici del dritto Costituzionale ed altri simili mezzi che aveano tutti lo scopo di porre il regno di Napoli a livello degli Stati più culti della civile Europa.

Ciò da parte del ministero: dall'altra poi del Parla mento nazionale una rivista scrupolosa si faceva sopra ciascun ramo della gran macchina sociale nel fine di migliorarne le istituzioni, consolidarne la forza. E tra le prime cure si fu quella della formazione del Consiglio di Stato qual corpo conservatore delle acquistate franchige: il ribasso di un sesto della fondiaria, la istituzione della Guardia Nazionale, le ricompense patrie, l'abolizione della feudalità in Sicilia e la divisione del demani, l'altra sul macino civico e rurale, l'abolizione del maggioraschi come contraria alla circolazione de beni, del giuochi di azzardo sovversivi della pubblica e privata morale, la nuova denominazione delle provincie del regno unito delle Due Sicilie, l'abolizione della direzione Forestale restituendosi a municipi la tutela del loro boschi, della loro amministrazione compresi i pubblici stabilimenti, l'organamento del personale dell'armata, la legge sugli ascensi militari: furon queste le sanzioni legislative tra le altre moltissime emanate dal Parlamento nazionale.

Su la elezione del Consiglieri di Stato il re inviò il seguente messaggio.

«Napoli, 28 ottobre 1820.

«Il Parlamento mi ha proposto cinque modificazioni sopra cinque articoli della Costituzione relativi alla scelta i e composizione del consiglio di stato.

«1. Riduzione del numero de’ consiglieri; ed in conseguente degli ecclesiastici.

«2. Esclusione della necessità; della scelta de’ magi, strati.

«3. Scelta per provincie.

«4. Proposta non della totalità, onde sceglierne un terzo, ma di tante terne quante sono le provincie.

«5. Che i consiglieri non possono estere trasferiti ad altre cariche.

«Le prime due modificazioni come semplici adattamenti alte circostanze locali, non esigono alcuna osservazione.

«Ma le altre tre limitando i poteri stabiliti dalla costituzione, richiamano la più grande attenzione; ed io che ho giurato di mantener la costituzione, debbo alla mia lealtà, ed alla santità del giuramento, che ho dato, il palesare le ragioni del mio dissenso nella fiducia, che il Parlamento ligato dallo stesso vincolo del giuramento, e dagli stessi doveri, con quello spirito di conciliazione, che dee regnare tra poteri istituiti pel bene dello stato, concorrerà meco alla inviolabilità di una delle basi della costituzione.

«La scelta per provincie è stata dettata da un sentimento onorevole, quello di dare a ciascuno una eguale influenza, e di riunire i lumi delle nozioni locali di ciascuna ne' consigli dello Stato; ma il consiglio che la costituzione ha collocato tra l'assemblea nazionale, ed il re per illuminar questo, e temperar quella, deve essere composto di elementi diversi; non deve accogliere secondo i termini espressi della costituzione, che uomini di stato, a qualità che non s'incontra dapertutto, né siegue il numero delle provincie; né la località. Spesso ancora coloro i quali sono nati, o domiciliati nelle provincie, ne conoscono meno i rapporti, ed i bisogni.

«Ma cotesta modificazione, cosi contraria alla utilità generale, ed allo scopo della costituzione, tende a limitare il potere del Parlamento. nazionale, coartando la libertà della scelta. Il Parlamento attuale non ha certamente la facoltà di limitare il potere di parlamenti futuri.

«La proposta al re di ventidue terne invece della lista tripla di ventidue candidati, limita sensibilmente il potere del re, togliendogli quella latitudine ragionevole, che gli dà la costituzione nella scelta del suoi consiglieri; scelta che più che altri interessa il re, che dee cercare tra i candidati quelli che debbono scortare i suoi passi nell’esercizio de’ suoi doveri costituzionali.

«Finalmente l'immobilità che si propone di consiglieri di Stato, onde non sieno trasferiti ad alcuna altra carica, non è solamente una condizione dura, che s’impone ad uomini, de’ quali dovrebbe favorirsi il concorso, ma è nuova’ restrizione al potere reale, cui si toglie il mezzo di profittare de’ talenti di coloro, che egli ha avutala facoltà di conoscere e sperimentare per affidar loro delle funzioni più importanti, e più delicate.

«Testo che si tratta di modificazioni, quando anche fossero meno importanti di quelle, che rei sono state proposte, non vi sono che due mezzi legittimi; uno nascente i dalla costituzione, l’altro dal patto sagro, che ho fatto colla nazione nell'adottare la costituzione di Spagna. Il primo mezzo che è tracciate nei titolo X.della costituzione, esige dopo l'esperienza di otto anni, ed oltre i mandati speciali degli elettori, il concorso unanime di tre diverse nazionali assemblee, giacché la costituzione non ha voluto dare ad una sola i! pericolo arbitrario di cambiare il patto sociale. Il secondo mezzo è quello che nasce da un patto sociale, che agli sperimenti; ed alla garentia stabilita dalla costituzione, ne sostituisce un altro, cioè quello dell'assenso del primo datore della costituzione, del fondatore del trono costituzionale, questo patto è nel mio decreto de’ 7 luglio, fondamento del nuovo patto sociale, che voi ed io abbiamo giurato, che han giurato parimenti tutti coloro, che vi hanno investiti delle sublimi funzioni che voi esercitate, che han fatta condizione essenziale ne' loro mandati.

«Or quel decreto non vi dà altra facoltà, che quella di propormi le modificazioni; non già di deciderle da per voi soli. Io non poteva obbligarmi ad accettare modificazioni ignorate e non prevedute; sarebbe stato lo stesso, che darvi la facoltà di togliere al Governo quella forza, che è tanto necessaria per proteggere la sicurezza individuale, la proprietà, la libertà civile, l’indipendenza nazionale: sarebbe stato lo stesso, che esporre all’arbitrio di (una sola assemblea la sorte dell'intera nazione. Avrei mai potuto rinunziare al dovere, che volontariamente mi ho imposto, adottando la costituzione, e come fondatore della medesima di preservarlo da tutte le novazioni non utili, né necessarie?

«Seguendo esattamente i dettami della costituzione, nel palesarvi il mio dissenso, non ho voluto servirmi della formolo prescritta nell’art. 147, perché questa porterebbe la conseguenza di non potersi discutere ulteriormente lo affare nella vostra legislatura, il che arresterebbe il corso della costituzione. Il mio vivo desiderio è che il Consiglio di Stato sia messo prontamente in attività.

«Io non cerco che di circondarmi del merito, de’ lumi, e del patriottismo de’ buoni abitanti delle provincie delle Due Sicilie. Dalla lista tripla, che me ne presenterà il Parlamento, usando del mio libero dritto, sceglierò quelli che in grado più eminente riuniranno le qualità richieste dalla costituzione, giacché la maturità de’ consigli influisce grandemente su la prosperità e la gloria della nazione, unico mio voto, ed unico oggetto delle mie cure.

«FERDINANDO.

«Segretario di Stato

«Ministro di Grazia e Giustizia

«RICCIARDI»


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LIBRO QUARTO

Sommario

Voci di guerra e cose estere. — Indirizzo di mediazione al re. — Decadenza di finanza. — Il re risolve partire. — Lettera dell'imperatore d'Austria. — Segreto consiglio nella reggia, — Messaggio del 7 dicembre. — Ricciardi e de Thomasis procurano voti in appoggio del Messaggio: armano la dimora del re. — Parlamento e Sette in permanenza, città in concitamento. — Presentazione al Parlamento del Messaggio reale. — Esame di esso Messaggio e decreto del Parla mento. – Nuovo Messaggio del re, e risposta ad esso. — Altra dichiarazione sovrana ed altra risposta. – Osservazioni di Poerio. — Decreto del 12 dicembre. – Una commissione di 24 deputati si re ca dal sovrano. — Parole pronunziate da Borrelli. — Risposta del re. — Nuovo Messaggio. — Il re s'imbarca — I venti trattengono il vascello a Baia. — Ferdinando riceve in Baia visite ed ambascerie di condoglianza. — Il Duca d'Ascoli interroga la volontà del re.

Le prime voci di guerra contro gli avvenimenti di luglio furon messe da giornali di Vienna. Galdi, primo presidente del Parlamento nazionale, a conforto della pubblica sicurezza aveva un bel dire dalla tribuna che se non si era su letti di rose, nemmeno erasi su quelli di spina. Dove sono gli eserciti che dovranno aggredirci? dicea egli, la giustizia della nostra causa garentisce la nostra sicurezza. Esecrato da tutta Europa sarebbe colui che osasse tirare il primo colpo di cannone contro una nazione, la quale sa religiosamente rispettare gli altrui dritti. Vogliamo noi conservare la nostra libertà? Guardiamo i nostri confini senza offendere alcuno.»

Questi pensieri del grand'uomo non aveano forza bastante a tranquillare affatto gli animi.

Le cose esterne peggioravano giorno per giorno, avvegnachè le principali corti, la Russia, l'Austria, la Prussia, riprovavano il nuovo stato di Napoli; la Francia nol riconosceva, taceva la Inghilterra; e benché la Spagna, la Svizzera, i Paesi Bassi, la Svezia facessero formale riconoscimento, era poca la sicurtà in confronto del pericolo. Sapevasi che i re contrari si adunavano a congresso in Troppau per consultare delle cose di Napoli; dicevasi nuovo esercito tedesco sceso dall'Alpi; si vedevano nel nostro golfo giungere, trattenersi, crescere tuttodì navi da guerra francesi e inglesi. Il principe Ruffo e il principe Castelcicala, ambasciatori, quegli a Vienna, questi a Parigi ricusarono di giurare per la monarchia costituzionale. Il principe Serracapriola, ministro in Russia, scrisse al re in lettera privata:

«V. M, comanda che io giuri per il nuovo stato di Napoli, e qua corre fama che forza di ribellione, non libera volontà, le abbia imposto quel mutamento. Che farò io, così avverso a disobbedire ai suoi comandi come a nuocere a suoi interessi? Rimetterò a V. M. in questo foglio segreto il mio giuramento, a fine che lo mostri o lo distrugga, secondo a lei giova e piace.»

E il re con messaggio palesò al Parlamento il procedere de tre ministri, lodò Serracapriola, tolse agli altri carica, onori e stipendi.

Non andò a Vienna nuovo ambasciatore, perchè quella corte aveva manifestato di non accettarne; il duca di Canzano succedette al principe Scilla in Ispagna; il principe Cariati a Castelcicala in Francia, dove fu aggradito come privato, non ricevuto come ministro; il principe Cimitile, spedito in Russia per ambasciata straordinaria, impedito a Vienna, volse verso Inghilterra dove andava ministro. E tutti e tre prima del partire avendo preso comiato dal re, ne avevano avute lodi, ordini, consigli; il duca di Canzano, già maturo di età, stanco e schivo di vicende, padre di molta famiglia, non ambizioso, non ricco, aveva chiesto al re che altri andasse in sua vece, ma dopo lungo pregare que rispose: «Canzano, sono tali le cose che, o voi o un carbonaro. Non mi obbligate ad ingrate scelte, accettate; io vi darò lettere di mio pugno per la corte di Spagna, ed ambasciata che dimostri quanta fiducia io pongo in voi. Dite al re mio nipote che io sto bene, e che la divolgata infermità è ritrovata per allontanarmi dalle presenti cure del regno.»

L'ambasciatore si arrese e contento e grato con numerosa famiglia partì. Cimitile, ritroso anch'esso, non mai ravviluppato ne' tanti e tanti sconvolgimenti del regno, amante di riposato vivere, disse al re schiettamente che, suddito fedele, obbedirebbe al suo signore, ma che di anni pieno, non si esporrebbe voglioso alle dubbietà di contrastata politica, e padre e sostegno di non poca fa miglia, non vorrebbe esser cagione di domestico pianto, e sentire da figli ricordata la intempestiva ambizione.

Ma il re, interrompendo il discorso, aveva incorato il ministro con detti onesti e con ingenue, a sentirle, protestazioni di fede, tal che Cimitile, rassicurato e pago, tornò dalla reggia.

Gli annunci precursori di guerra si accreditarono maggiormente quando si seppero i seguenti fatti.

Il duca di Gallo (quegli stesso tanto caro allo imperatore Francesco che lo nominò a suo legato nel trattato di Campo-Fornio) spedito ambasciatore a Vienna in vece del principe Ruffo, giunto in Klagenfurt dove sostare per ordine di quella Corte.

Il diplomatico mandò note al principe di Metternich affin di conoscere i motivi che cagionavano la straordinaria misura ed ebbe da quel ministro la seguente risposta:

«In seguito di un sovvertimento che abbatte dalle fondamenta l'edificio sociale e che minaccia ad un tempo la sicurezza del troni, quella delle costituzioni riconosciute ed il riposo de popoli, S. M. l'imperatore d'Austria agirebbe in contraddizione del principi che gli servono invariabilmente di guida, se accettasse la di lei missione.»

Il principe di Cimitile spedito a Pietroburgo colla medesima divisa, chiesti i passaporti all'inviato di Russia in Vienna onde proseguire il viaggio, ebbe officialmente a risposta:

«Che il suo sovrano essendo intimamente ligato ai suoi augusti alleati con trattati ed indissolubile amicizia, ogni attitudine che porterebbe una specie d'iniziativa sarebbe una deviazione da questa norma, sopra tutto in un oggetto tanto grave quanto quello che presenta lo stato attuale delle cose nel regno delle Due Sicilie, il quale reclamava la mediazione di un accordo comune tra i garanti dell'ordine europeo.»

Per tali diplomatiche dichiarazioni il principe ebbe ordine di partire dagli Stati della monarchia austriaca, e si ridusse a Bologna in cui erasi anche fermato il duca di Gallo.

A voci e cose così allarmanti il Parlamento nella adunanza del 5 dicembre decretò inviarsi al re il seguente indirizzo di mediazione, letto dal deputato Borrelli.

«Sire,

 «La sollecitudine che V. M, prende per la salvezza del regno, è ben conveniente ad un monarca, il quale amai! suo popolo e n’è idolatrato. Il primo effetto dell’espressione de’ di lei sentimenti non può non esser quello della. gratitudine più rispettosa e più viva. Noi non saremo mai stanchi di. Tributargliela.

«Osserviamo pur troppo le difficoltà, che sì oppongano alta conservazione della pace, e non ci dissimuliamo disegni de’ nostri nemici. Ma secondo i sacri principi che n V. M. ci ricorda, noi preferiamo il partito di esserne vittima a quello di ricomprarcene con la viltà e col delitto.

«Sire! gli avvenimenti che tra noi ebbero luogo, son conosciuti in Europa, e lo saranno per sempre, i popoli delle Due Sicilie andaron persuasi di poter trovare la fesa licitò nella costituzione di Spagna. La M. V. ne andò persuasa Ella stessa,;e perciò, congiunse il suo voto al voto di tutti. Sorse quindi il nostro patto sociale, i nostri cuori lo strinsero: le nostre bocche lo espressero: la li religione medesime lo benedisse. Da quell'istante in poi la nostra légge politica fu meno un trattato fra gli uomini, che un deposito collocato nelle mani di Dio.

«Tutti i cittadini del regno, lo hanno avuto per tale, e non hanno quindi dubitato che fosse intangibile. Regolando i nostri poteri, eglino ci hanno incaricato di rispettar le fondamenta dello statuto di Spagna. Che se ci hanno insieme permesso di renderlo conciliabile con le civili costanze del regno, non han fatto altro, che confermarci In quella facoltà istessa che nel decreto de'  7 luglio 1820 la M. V. spontaneamente ci aveva accordata.

«Noi ci unimmo nella sala delle nostre adunanze. La prima delle nostre funzioni fu quella di presentare i nostri poteri. La seconda fu di ratificare innanzi alla terra, ed ari cielo, che avremmo serbata rigorosamente la costituzione di Spagna; che l’avremmo solamente adattata a bisogni nazionali; ché il desiderio del popolo, la determinazione di V. M. ed il giuramento comune sarebbero stati in sicuro.

«Ciascuna delle nostre discussioni ha riconosciuto per regola il nostro patto sociale: ciascun giudizio ch’Ella ha portato sul merito de’ nostri decreti, n’è stato un nuovo ricordo.

«Una fama intanto si è sparsa per la estensione dei regno. Si è minacciato, che alcun potente della terra voglia decretare una modificazione del nostro statuto. Si è avuta pena di credere, ch'egli si stimi nel caso di dettar delle leggi al più antico monarca di tutta l’Europa e ad un popolo degno di averlo per capo; Ma il solo sospetto (benché poco probabile) di una ingiustizia sì nuova ed poco aspettata ha fatto fremere i cuori di tutti i cittadini, e ne ha messe in tumulto le menti. Da' per tatto essi giurano delle alleanze difensive: e le provincie più esposte all'incursione de’ nemici, sentono meno l’orrore di subire il contrasto. Delle deputazioni san giunta nella Capitale. Esse ci hanno chiesta la grazia o di tener lontana ogni macchia dalia dignità regia e dall'onor nazionale, o di sottrarsi con la morte alla propria vergogna.

«Qual potrebbe essere, o Sire, la nostra opinione in tali circostanze?' Premurare un altro sovrano a tarsi mediatore di pace sarebbe egli mai un acconsentire a transigere su la costituzione, di Spagna? Sire! Essa è segnata indelebilmente de’ nostri poteri, ne’ nostri giuramenti, nelle nostre cosciente, nella religione di V. M. e nella volontà: de’ popoli ohe rappresentiamo. Evvi altra cosa che alcuno de’ dominatori del mondo possa bramare da noi, all'infuori di un cangiamento della nostra legge politica? Ne attenderemo, o Sire, con ansia là manifestazione, e delibereremo, secondo le norme, che la di lei gloria, la felicità nazionale, e la costituzione di Spagna sapran suggerirci.

«Nell’appigliarci ad un partito cosi indispensabile, noi non sapremmo occultarcene le conseguenze e i pericoli. Ci siamo anzi studiato di presentarne il quadro più nero, all’immaginazione infiammata de'  cittadini. Non ci Bianchiamo di dipingere campagne desolate, tuguri fumanti ed accumulati in cataste i moribondi e gli uccisi. Ma più, o Sire, s’ingrandisce l’effetto di una enorme ingiustizia, più s’inferocisce la brama di allontanarla.

«La. prova di questi sentimenti non è forse lontana» Sarà forse vero ciò che il sublime carattere dell’impera tore d’Austria ei,fa stimare impossibile: sarò, vero che numerose armate sien forse pronte ad invadere questa terra innocente. Pugnerà per esse la disciplina fervile, l’oppressione ed il numero: pugnerà per noi il diritto. delle genti, l’opinione de'  popoli, la giustizia della nostra, causa, la libertà nazionale, là veneranda canizie di V. M., le ombre di Enrico IV e di San Luigi.

«Non osiam prevedere qual possa essere l’effetto di questa pugna inudita. Ma siamo sicuri che il sangue di un popolo Libero, non può se non rendere universale il fenomeno, che spaventa ora in un spunto del cielo d'Italia.

«Voglia Iddio conservare la M. V. La di lei saviezza, ed il di lei attaccamento al suo popolo saran forse bastanti a mantenerci la pace.,Ma tutta l’ingiustizia degli; uomini non farà che Ella o il Parlamento delle due Sicilie rinunzi alla gloria.»

L’avversione de’ potentati stranieri allo stato di Napoli era in secreto moderata dalla loro stessa politica, giacché fra tante fantasie de’ popoli, faceva pericolo una guerra. La casa che aveva motivo più forte, ed esercito più pronto a combattere, era l'austriaca, il cui dominio, già grande in Italia, non piaceva agli altri re che si allargasse.

Il Russo perciò, e per dare qualche sfogo alle bollenti voglie dell'esercito, avviava numerosa schiere, con sospetto di tutta Alemagna, dovendo passare per le sue terrei La Prussia,'benché. terza, preparava un esercito. Armamenti cosi poderosi ingelosivano la Francia e l’Inghilterra. D’altra parte, i liberali del mondo, facendo plauso alla rivoluzione di Napoli, e giustificandone le massime, minacciavano la sicurezza de’ troni; molti d'Italia, parecchi francesi, alcuni, prussiani, un russo si offrivano campioni della napolitana libertà; due inglesi di fama offrivano con sé stessi quattro reggimenti volontari; case ricche di Londra e Parigi non dubitavano di fare imprestiti alla nostra finanza; generali stranieri, vietati di. combattere per noi, consigliavano sulla difesa della frontiera, o per teorica trattavano della resistenza de'  popoli agli eserciti ordinati: si affaticavano, gl’ingegni da ogni parte a scopriree comunicare segretamente a noi macchine o artifizi di guerra. Questa che ad immagine chiamerò Crociata Politica, dava inquietudine a’ monarchi, e più ancora, per la natura della napolitana rivoluzione, che, non prodotta da povertà o disperazione, non compagna di delitti, non cagione di danni, lasciando illese le proprietà, la civiltà, la religione, era solamente un bene scevro di mali, una libertà nuova, bella, facile, innocente. La macchia militare de’ centoventisette fuggitivi di Nola era stata dalla fortuna e dal grido pubblico volta in gloria, cosi che gli altri eserciti se ne invaghivano, altri governi vacillavano, le costituzioni d’Europa in breve tempo muterebbero. E però se grave pericolo era il tollerare quell’avvenimento, se grave il reprimerlo, si voleva, senza guerra, salvare l’impero o il prestigio delle monarchie, rendere la costituzione di Napoli più conforme alle usate in Europa, evitar lo scandalo e la imitazione. La Francia, alla quale più premeva la continuazione della pace, si mostrò inchinevole ad interporsi per gli accordi, qualora il Governo napolitano colle riforme dello statuto sedasse le cagionevoli agitazioni de’ potentati stranieri ed era opportuno l’‘officio; perciocché de’ re congregati stando pronti gli eserciti, ma sospese le volontà, rattenuti, non so se dalla supposta immensità de pericoli o dalla ingiustizia di opprimere popolo quieto od innocente, in quel librare dell’animo molto valeva ogni argomento per là pacco per la guerra.

Se ne aveva anche facile il moda, avvegnaché di riforme consultava il parlamento. Ma in quel tempo medesimo la setta imperversava, ed il generale Guglielmo Pepe fidando a’ gridi di rassegna ed a vanti de’ settari, era preso di tanta boria, che desiderava la guerra, credea la pace sventura e vergogna. Lo spirito del Parlamento era palese: di tre fazioni che lo componevano, una di troppo, libera, forte di numero, fortissima per aiuto delle popolari tribune, ma ignava, ineloquente; altra d’incuriosi dello Stato, provvidi dello avvenire, taciturna, inchinevole al bene, timidissima, nulla per proprio ingegno, potente negli scrutini, perché al computo de’ voti più numerosa; la terza de’ moderati dove stavano la eccellenza del dire, l’altezza della mente; e de’ pochi che la componevano erano primi per eloquenza Poerio. Borrelli, Caldi, e per dotto scrivere Dragonetti, Nicolai. Nelle contese vinceva il terrore, perciocché la Carboneria dominava in segreto, tanto che alcun deputato non ardiva contrastare, le passioni, benché sfrenate, di lei. E però i discorsi della tribuna nelle materie astratte erano alti, liberi e meravigliosi; nelle subbiette, bassi e servili al popolo.

Da tali cose derivò che la mediazione della Francia fu rigettata; che le riforme allo statuto, invece di stringerlo alte monarchia, lo allontanavano;. che altri errori più gravi resero impossibili gli accordi, certa la guerra, Le più importanti riforme da proporre alte furono tre: il numero do deputati accresciuto di due quinti, il numero de'  consiglieri di Stata di due quinti scemato; regola pel Parlamentò e obbligo al re di scegliere i consiglieri per provincia. Ma l’una camera, la sanzione delle proposte leggi, là deputazione permanente, altri articoli nocivi o spiacenti al monarca, si confermarono.

La finanza, impoveriva, essendo grandi le spese per esercito ed. armamenti addoppiati, minori le rendite poiché tolti alcuni tributi, altri minorati,e la Sicilia impuntaste per rivoluzioni e strettezze; poche le speranze, cadendo il credito per le minacce della guerra esterna; grave li bisogno, perché maturavano i pagamenti all’Austria e dal principe Eugenio: vergognosi patti accordati nel congresso di Vienna. E col declinare della finanza decadevano le operò pubbliche, le istituzioni di pietà; inaridivano tutte le vene del pubblico bene, moltiplicavano le popolari scontentezze,; crescevano i timori del re, i maneggi della polizia; i preparamenti di guerra e moli di interne concitazioni. Il re decise di allontanarsi dal regno, e ne scrisse segretamente per aiuto e consiglia a’ re congregati a Troppau, de’ quali giunsero le risposte al fluire di novembre.

Le lettere de’ tre sovrani invitavano il re a congresso in Laybach. Trascriviamo quella dell'imperatore d’Austria:

«Signor mio fratello e carissimo suocero,

«Triste circostanze non mi hanno permesso di riceverete lettere che V, M. mi ha dirette da quattro mesi. Ma gli avvenimenti, a cui tali lettere han dovuta riferirsi, non han cessato di formare l’oggetto; delle mie più serie meditazioni; e le Potenze alleate si sono riunite in Troppeu, per considerare insieme la conseguenze, di atti questi avvenimenti minacciano il resto della penisola italiana, e forse l’Europa intera.

«Nel deciderci a questa comune deliberazione noi non abbiamo fatto che conformarci alle transazioni del 1814, 1815 e 1818, transazioni delle quali V. M. non meno che l’Europa conosce il carattere e lo scopo, e sulle quali riposa quell'alleanza tutelare unicamente destinata a guarentire da qualunque. attaccata indipendenza politica, e la integrità territoriale, di tutti gli Stati, come altresì ad assicurare il riposo, e la prosperità di ciascuno de’ paesi che la compongono. — V. M. dunque non dubiterà che la intenzione de’ Gabinetti qui riuniti, non ria se non quella di consiliare I interesse ed il benessere di cui la paterna sollecitudine della M. V. deve desiderare di far godere i suoi popoli con i doveri che appartengono a monarchi alleati di adempire verso i loro Stati, e verso il mondo. Ma i miei alleati, ed io feliciteremmo di eseguire questi solenni impegni colla cooperazione di V. M. e fedele a’ principi che abbiamo proclamato, noi dimandiamo oggi siffatta cooperazione.

«Appunto per questo solo oggetto preponiamo alla M. V. di riunirsi a noi nella città di Laybach. La vostra presenza, o Sire, affretterà, ne siamo sicuri, una conciliazione così indispensabile; ed in nome degli interessi più cari del vostra regno, e con quella benevola sollecitudine, di cui crediamo di averle dato più di una testimonianza, noi invitiamo V. M. di venire a ricevere nuove pruove della vera amicizia che le portiamo, e della franchezza la quale forma la base della nostra politica.

«Ricevete le assicurazioni della distintissima considerazione e dello inalterabile attaccamento, colle quali sono

«Di V. M.

«Il buon Fratello, Genero ed Alleato

«FRANCESCO.

«Troppau, li 20 novembre 1820.»

Ma non potendo il re per le costituzioni del regno, allontanarsi senza permissione del Parlamento, e dubitando che, chiesta, fesse negata, e non chiesta sembrasse fuga il partire, si ridussero a segreto consiglio il re, il Vicario ed i tre ambasciatori de’ sovrani congregati. L’uno dei tre pensava che bastasse palesare le lettere del congresso e il proponimento di eseguirle, perocché nomi sì alti ed opinione si vesta di forza e di volontà, ammutinerebbero il parlamento ed il popolo. Il Vicario meglio esperto e più timido dando miti consigli, decise che si notificasse al Parlamento il foglio di Troppau, con messaggio dei re, non umile, non altiero.

Al facile proponimento succederono il dubbio e la lentezza. Il re non poneva fede nei suoi ministri, non aveva partigiani nel Parlamento nel popolo, sospettava le sue guardie, il fantasma della Carboneria gli stava sempre sugli occhi: quanto più temeva, più desiderava partire; e quel desiderio, palesatogli portava nuovi timori. Però irresoluti e frequenti erano i consigli nella reggia,tanto che il pubblico ne insospettì; ma infine, prevalendo ravvisò del Vicario, fu scritto il seguente messaggio.

FERDINANDO I
PER LA GRAZIA DI DIO E PER LA COSTITUZIONE DELLA MONARCHIA RE DEL REGNO DELLE DUE SICILIE, DI GERUSALEMME EC. INFANTE DI SPAGNA, DUCA DI PARMA, PIACENZA, CASTRO EC. EC. GRAN PRINCIPE EREDITARIO DI TOSCANA EC. EC. EC.

A' miei fedeli deputati del Parlamento.

«I sovrani, di Austria, Prussia e Russia, uniti in congresso a Troppau, mi hanno inviato. tre lettere colle quali m’invitano a rendermi personalmente a Laybach per prendere parte al nuovo congresso che ivi si terrà.

«Dalle lettere stesse, delle quali ho ordinato al mio ministro di affari esteri di darvi comunicazione, scorgerete l'importanza dell’oggetto; di tale invito, ch'è quello d’interpormi come mediatore fra i sopraddetti sovrani, e la nazione.

«Penetrato intanto l'animo mio dallo stato delle circostanze, e desideroso di fare qualunque sacrificio per stabilire solidamente la felicità della nazione, mi appiglio ad ogni espediente, che mi offre la speranza di poterla conseguire. In conseguenza son risolute di vincere tutte le difficoltà, che mi presentano la mia avanzata età, ed il rigore della stagione per rendermi prontamente all’invito; giacché i sovrani anzidetti mi hanno fatto dichiarare che non avrebbero ammessi altri a trattare, compresi anche i principi della' mia famiglia reale. Io parto colla fiducia, che la divina provvidenza voglia porgermi i mezzi onde darvi l’ultima prova del mio amore per voi, facendo evitare alla nazione il flagello di una guerra.

 «Lungi da me, e da voi il pensiero, che l’adesione a questo progetto possa farmi per un momento dimenticare il bene del mio popolo. Partendomi da voi è degno di me darvene una nuova prova e solenne garentia. Dichiaro perciò a voi, ed,alla nasone, che farò di tutto, onde i miei popoli godano di una costituzione saggia e liberale. Qualunque misura verrà esatta dalle circostanze relativa all’attuale nostro stato politico, ogni mio sforzo sarà adoprato, perché rimanga sempre fondato su le seguenti basi.

«1. Che sia assicurata per una legge fondamentale, dello Stato la libertà individuale, e male de’ miei amatissimi sudditi.

«2. Che nella composizione de'  corpi dello Stato non si avrà alcun riguardo a’ privilegi di nascita.

«3. Che non possano essere stabilite imposte senza il consenso della nazione legittimamente rappresentata.

«4. Che aia, alla nazione stessa, ed alla sua rappresentanza penduto il conto delle pubbliche speso.

«5. Che le leggi sien fatto d’accordo colla rappresentanza nazionale.

«6. Che il. potere giudiziario sia indipendente.

«7. Che resti. la libertà della stampa, salve le leggi ristrettivi dell’abuso della medesima.

«8. Che i ministri siano responsabili.

«9. Che sia fissala la lista civile.

«10. dichiaro inoltre, che non aderirò mai, che alcuno de'  miei sudditi sia molestato per qualunque fatto politico, avvedute.

«Miei fedeli deputati, assumendo io questa cura per convincervi del mio amore, e della; mia sollecitudine per la nazione, desidero che una deputazione composta di quattro membri a scelta del Parlamento mi accompagni; e sia testimonio del pericolo, che ci sovrasta, e degli sforzi fatti per ischivarlo.

«È necessario pure che insino all’esito delle negoziazioni il Parlamento non proponga novità alcuna ne’ diversi rami, rimanendo le cose nello stato in cui trovano attualmente, e limiti la sua cura alla parte, ch'è chiamato a prendere per l'organizzazione dell’armata; giacché quanto agli stati discussi per una necessità di tempo, e di circostanze devono essere continuati per lo nuovo anno come si trovano già fissati per quelle, ch’è prossimo a spirare. É mia ferma volontà di portare nelle spese la maggiore economia in tutti i rami, subito che le circostanze lo permetteranno.

«Partendo io lascio tra’ voi tutto quello che ho di più caro. Voi continuerete per la mia famiglia reale ne’ sentimenti di attaccamento che avete sempre professati.

«Confermo al mio amatissimo figlio, il duca di Calabria, le facoltà di mio Vicario, quali sono espresse ne miei atti de'  6 luglio; e degli 11 ottobre di quest’anno.

«Sono convinto, che accoglierete questa comunicazione come una pruova de’ miei sentimenti, e come effetto della necessità che ci obbliga a preferire ad ogni altro interesse secondario la salvezza della nostra patria.

«Napoli, 7 dicembre 1820.

«FERDINANDO.

«Il segretario di stato.

«Ministro di affari esteri.

«Duca di Campochiaro.»

Nel mattino del 6 dicembre, il Vicario lesse a suoi ministri le lettere di Troppau ed il messaggio del re per consultare i modi da notificare quegli atti al Parlamento e pubblicarli nel popolo. Un de’ ministri propose leggiero mutamento al messaggio; e il principe replicò non po' tersi variare lo scritto, perché opera, non propria né del re ma degli ambasciatori stranieri. Fu risoluto di persuadere o allettare maggior numero de’ deputati, e col meno de propri carbonari ammansire la Carboneria. Quindi due ministri, Ricciardi e de Thomasis, meno increscevoli al Parlamento, riandarono in privato, manifestarono que’ fogli a diciotto deputati quanti per ventura ne adunarono, e scoprendoli non avversi, li pregarono che al dimani confermassero pubblicamente quel voto. Spesero il resto del giorno, ciascun de’ ministri, a vincere la opinione di altri deputati: e nella sera computatano. quaranta voti affermativi, il resto incerto. Al tempo medesimo providdero alla difesa della reggia, alla quiete delta città, e credendo certa la riuscita, fermarono di ottenerla per arti o per forza. De’ ministri, altri usato a’ liberi comandi, altri scontento delle licenze di troppa e nuora libertà, altri adontato dal trovarsi nelle parlamentarie discussioni disuguale all’eloquenza di esercitati oratori, tutti bramavano mutar lo statuto, si che piegasse alla monarchia più che al popolo. Ma per la opposta parte, divolgato il messaggio, e scrutinato nelle notturne adunanze de’ settari, vista in pericolo la costituzione spagnuola, opera loro sostegno, giurarono di prorompere ne’ più rischiosi sconvolgimenti prima di tollerare che nulla si mutasse a quella legge. Nella stessa notte spedirono alle provincie messi, fogli, ordinanze; prolungarono le sedute; l’assemblea generale decretò di non separarsi sino a che durava il pericolo; tutte le altre vendite imitarono l'esempio. E i carbonari, segreti agenti di polizia, non bastando a moderare la foga universale, amplificavano l'avversione del re al reggimento costituzionale, il genio liberale del Vicario, la sua fede, la bontà, l’amicizia per la setta, cosi che il diresti settario, e persuadevano che giovasse la partenza del re, e la pienezza dell’impero nel figlio. Fu questo il primo servigio di quei falsi settari al monarca assoluto; perciocché sino allora eransi affaticati per il monarca costituzionale, o più spesso per propria utilità ed ambizione. Fra tanti confusi moti de’ reggitori, de’ carbonari, del popolo, e il trepidar degli onesti, e lo sperar de'  malvagi, era grandissimo il concitamento della città.

Nel seguente mattino stavano i deputati al Parlamento, i settari alle tribune, il popolo affollato, nella sala e ne’ vestiboli, quando i ministri giunsero, lessero i fogli del congresso, ed il messaggio del re, li deposero nelle mani del presidente, e, pregando sollecito esame, partirono. In loro presenza il popolo fu taciturno, ma, partiti appena, si alzò strepitoso grido: la costituzione di Spagna o la morte. Per quel rumore prolungato a riprese, e per dare spazio e quiete alle menti, si differì l’esame al dimani. Intanto il tumulto agitava la città. Visti gli apparati ostili della reggia, le guardie decuplate, le artiglierie del castello volte al popolo, una moltitudine correva al Parlamento per invocar soccorso e vendetta, quando l’altra ne usciva accesa di altro sdegno; e però, scontrandosi le infuriate torme, infiammavano. Il messaggio del re, affisso a' canti della città, fu lacerato; il popolo in armi, la guerra civile imminente, ma trattenuta dalla vicina decisione del Parlamento. Annottò, e temendosi che si affiggessero altri messaggi e editti spiavano con fiaccola le mura, mentre la plebe a stormi correva le strade, gridando; Costituzione di Spagna o morte. Tutti e diritti della notte, la quiete, il silenzio, le tenebre, furon turbati. La Carboneria, intendente ad offici maggiori, spedi alle provincie nuovi messi, altre lettere, per concitare i rivoluzionari del 6 luglio; e mandò ambasciatori a deputati del Parlamento, significando esser voto di lei serbare intatta la costituzione di Spagna e concedere al re di partire.

Col giorno apparve scena più spaventevole. Si vide popolata la città di provinciali armati, venuti nella notte da paesi vicini; ed altri, con mirabile celerità dai più lontano delle provincie di Avellino e Salerno. Durava eguale il moto, minore il grido, era nel pubblico più affannosa la aspettazione e il timore; alcuni deputati, come fesse l’estremo di vita, fecero gli alti di religione, altri il testamento, ma nessuno si arretrò dal pericolo. I deputati passavano per mezzo il popolo dal vestibolo. alla sala; a ciascun, deputato gli ambasciatori della Carbone ria ripetevano la intimazione del giorno innanzi, mostravano il pugnale, minacciavano di morte i trasgressori.

Cominciò l’esame del messaggio. La commissione incaricata a darne parere era composta da’ signori Caldi, Poerio, Berni, general Begani, colonnello. Bausan, di Donato, presidente Ricciardi, colonnello Visconti e Borrelli relatore. Laonde la sessione ebbe principio con la parola di Pasquale Borrelli, il quale così si,espresse:

«Signori,

«Il messaggio che S. M. vi diresse nello scorso giorno, era ben giusto che occupasse tutti i vostri pensieri Desideroso di rispondervi con quella calma prudente, che non può esser divisa dalla maturità del consiglio, voi nominaste a tal uopo una commissione novella. Non potrei esibirvi i motivi della di lei opinione. se non riproducessi nella vostra mente la storia di taluni fatti notabili.

«I rapidi e luttuosi avvenimenti, i quali distinsero il fine del secolo scorso, aveano alterata sensibilmente la marcia della nostra vita politica. La pietà ed il terrore aveano scossi gli spiriti: il sentimento patrio era divenuto più energico, e le cognizioni più estese: la coscienza della propria forza non era più muta nel popolo: e gli svantaggi di una libertà intemperante aveano imparato a desiderarne un'altra più moderata e più cauta.

«Le sempre nuove e sempre varie vicende che hanno sconvolto l’Europa, non avean fatto che fortificare questa disposizione del popolo. Essi non eran che errori della democrazia o della monarchia assoluta; ed eran quindi i più atti ad indicare il bisogna di un partito intermedio. Era facile d’altronde osservare, che contro gl'incerti fenomeni di talune repubbliche effimere reggea tuttora e prosperava la costituzione d’Inghilterra.

«Mentre tali riflessioni serpeggiavano oscure nelle menti de’ più, gli amici del potere arbitrario o non eran capaci di scorgerle, o trovavano nel dissimularle il proprio vantaggio. Sorgeva quindi fra l’opinione ed il governo quel sordo e grave contrasto, che annunzia sempre vicini i grandi cangiamenti. In vano il vigore di Gioacchino Murat e la sua premura di mostrarsi popolare avean cercato di estinguere l’effervescenza degli animi. Invano il tentativo di rendersi liberi avea richiamata negli infelici Abruzzi la rabbia del dispotismo militare. Il capo del governo era stato costretto ad accorgersi che la civilizzazione de’ popoli non può mai essere illusa dall'artifizio delle corti, e molto meno superata dalla violenza. Dopo di aver vacillato per lungo tempo fra i voti del regno ed i propri, fra l'ambizione e il dovere, e cadde in fine dal trono. Fu allora che lasciossi sfuggire una costituzione apparente, come l’avaro inseguito si lascia sfuggire un deposito che ha lungamente, negato.

«Il re legittimo si preparava intanto a rientrare nella eredità de’ suoi avi. Era per lui il coraggio di quegli eserciti immensi che avean rotta la fortuna del. conquistatore di Europa, ed avean cangiato la politica dell’universo. Ma la bontà naturale del di lui cuore era stata perfezionata,dalla sofferenza de’ mali: egli aveva meditato per due lustri interi nel più incomodo ma più istruttivo gabinetto de’ principi, io vo’ dire nel gabinetto della sventura. E conoscevala smania degli antichi suoi sudditi per isciogliere i vincoli del proprio servaggio. É dunque fama che riprendendo la comunicazione con essi, accarezzò la più cara delle loro speranze, quella di essere liberi. Furon chiare le voci che per quanto i fogli assicurano, egli emanò nel proclama del primo maggio 1815, essendo. ancora in Palermo. Egli, promise la sovranità al popolo, e la più energica e più desiderevole costituzione allo Stato. Professò anzi che avrebbe solo ritenuta, per sé medesimo la più bella, e più modesta facoltà de’ monarchi, quella, di serbare intatte e far eseguire le leggi.

«Una dichiarazione, si nobile e si generosa non mancò di produrre le conseguenze più utili. Fu essa e non il valore alemanno, che ne’ piani di Macerata dissipò ad un tratto le schiere de’ nostri campioni. Cosi la mano di Ferdinando IV impugnò di nuovo lo scettro: e la di lui anima non dimenticò le intenzioni con cui lo avea racquietato. Si sa in fatti che solamente fra i tristi la fortuna è la morte delle promesse.

«Sventuratamente de'  rapporti fallaci e non di rado maligni della situazione de'  suoi popoli gli persuasero la necessità di ritardare l’effetto de'  suoi proponimenti. Se le cose in seguito occorse han potuto occasionargli alcun dispiacere, è stato solamente quello di non aver prevenuti i desideri co’ benefici.

«Continuati intanto ed accesi eran questi desideri. Ciò non ostante rimasero in certa guisa inattivi fino a che il governo blandilli con una condotta liberale. Non si tosto incominciarono a venire irritati dalla persecuzione, che proruppero all'improvviso in uno scoppio violento.

«Egli è vero che i primi segni ne apparvero su la vetta de’ colli di Monteforte. Ma venner prodotti da un movimento comune alle provincie finitime, e propriamente a quelle di Capitanala, Avellino e Salerno. Fu il popolo che diè la spinta a’ 140 individui del reggimento Borbone; ed è perciò che la bandiere da essi inalberata non tardò a circondarsi di centomila proseliti. Chi ritrova la origine di questo avvenimento nella diserzione militare deduce in vero il principio dalla sua conseguenza. E crede nata la marea in quel punito del lido, in cui l’onda si è rotta.

«Il grido del riscatto arrivò tosto alla reggia e risvegliò la memoria delle antiche promesse. Non tardò ad apparirne l’effetto nel decreto de’ 7 luglio 1820; In esso il re si compiacque di fondar ne’ suoi stati la costituzione di Spagna con quelle sole modificazioni che la rappresentanza nazionale avesse potuto proporre.

«Era questa:la maggior parte del regno, allora quando venne scossa da questa nuova: né ascoltolla da’ valorosi dì Monteforte, ma dai proprio sovrano. In tal casa la libertà, che in alcuni siti era stata chiamata, giunse in altri inattesa, ma in tutti fu accolta con quei vivo entusiasmo che accompagna la soddisfazione delle lunghe speranze.

«La riconoscenza del popolo superò la sua gioia. Non acclamò egli giammai la costituzione di Spagna, senza mescervi il nome di colui che gliel’aveva accordata: e Ferdinando I non mai potè tanto su la sua nazione che quando mise una legge al proprio potere. Sentì egli la sua gloria, ed accumulò tutti i mezzi di consolidarla. Sette giorni appena eran corsi, da che egli aveva adottata la costituzione di Spagna: ed innanzi alla giunta provvisoria recentemente creata e’ ratificò la sua scelta col giuramento. Tutti i principi suoi figli seguiron l’esempio: e la sua famiglia e il suo popolo non ebber quindi che un pattò.

«Comparve il giorno più celebre ne' nostri annali politici, il primo di ottobre. Nel volto d’infiniti spettatori si vedea brillar la sorpresa, la riverenza ed il gaudio. Un tenero e taciturno contegno era visibile ne vostri sguardi ed in tutti i vostri movimenti. La conferma della costituzione di Spagna usci appena dalle labbra del re; ebbe egli appena invocatoli tremendo nome di Dio; ed un immenso concerto di voci, che tutti insieme esprimeva gli affetti più cari, scosse le mura del tempio. Egli vide che la più soave sensazione di un monarca è il grido festivo e spontaneo della riconoscenza di un popolo.

 «Fa d’uopo osservare che sorbi egli la soddisfazione, per sino all’ultima stilla. Un fiore: non fu sparso, non fu emesso un accento, che non risvegliasse nel di lui cuore un piacere distinto. Egli adornò con l’augurio delta vostra salute la giocondità della mensa: protestò che il suoi sonni eran divenuti più dolci: non si nascose il vantaggio di aver vestito il suo trono di una tace novella.

«Fin da’ 7 taglio dell’anno corrente aveva egll'approvati con anticipazione quegli atti che il suo vicario Generale avesse creduto opportuni per mandare ad effetto lo statuto dii Spagna. Fu spiegato a’ 22 luglio il più importante fra essi; fu stabilita in fatti la pratica dell’elezione de’ deputati: e fu determinata la formola de'  vostri poteri. Il governo medesimo credette allora limitarli a mani tener salde le basidi quello statuto politico; né veruna modificazione vi lasciò in dritto di fare, quando non fosse richiesto dalla necessità di adattarlo atte circostanze del regno.

«Unisoni a questa formola furono i vostri poteri: unisoni a questi poteri furono i vostri giuramenti ed unisoni a questi giuramenti furono quelli del re, ed il decreto de’ 7 luglio. L’obbligo di rispettare i principi dello statuto di Spagna, e l'impossibilità di sommetterlo a delle riforme importanti è dunque radicata nei nuovo patto sociale, nella stessa indole de'  vostri mandati; nella religione del re e nella vostra.

«So che l’invidia del bene ha posta in opra ogni macchina della calunnia. So che la gloria di un monarca, il quale affrancava il suo popolo, si è. deturpata con fa taccia della violenza. 1 posteri crederanno appena che l’ardimento della menzogna sia stato condottò sì oltre da voler togliere alla notorietà la sua evidenza. Ma se la natura istessa de’ fatti non rispondesse all'accusa, gioverebbe a smentirla un documento della maggiore importanza. Modificando la Costituzione di Spagna, il Parlamento aveva prescritto che per ogni provincia si eleggesse un consigliere di stato. S. M. si persuase che questa norma restringesse le sue prerogative. Non si stette allora in silenzio, e non si contentò di protestarsi. Usando anzi francamente de'  regi suoi dritti, richiamò alla memoria del l’assemblea il patto sociale, il giuramento comune, l’inviolabil dovere di conservar le fondamenta della costituzione adottata. Mostrò in tal guisa di non esser egli men libero, allora quando aderiva alla rappresentanza del popolo, che allora quando resisteva alla di lei opinione. Se l’unità di questo caso è sufficiente ad escludere la soggezione del sovrano, non l’è meno a render noto raccordo fra i due principali poteri che dirigono lo stato.

«Era questa la marcia sempre posata e prudente del nostro regime, allorché delle nuvole incominciarono a stringersi verso il nostro orizzonte politico. Gelosi della nostra indipendenza, non avevamo offesa l’altrui. Né ragione di fratellanza, né opportunità di sito, né utilità di dominio ci avevano indotto a ricevere sotto il nostro patrocinio le città sollevate di Benevento e Ponte Corvo. Gli ambasciadori de’ sovrani di Europa avean goduto nelle nostre contrade di tutta la stima e di tutti i vantaggi, che il loro grado esigeva. La nostra libertà era del pari innocente, che urbana e tranquilla. Eppure i rappresentanti della nostra nazione trovavan chiuse le porte di varie corti di Europa. Eppur delle penne vendute alla menzogna ed al biasimo non tralasciavano di ventilar la fama della nostra anarchia.

«La curiosità di sapere il motivo di questi modi spiacevoli pareggiava la certezza di non averli meritati. Fra i nostri agenti diplomatici vi fu chi prese ad appagarci. Ecco ciò che in data de'  14 novembre egli scriveva su l’uopo: L'avversione de’ gabinetti di Europa a cagione del modo, con cui la costituzione si è ottenuta, sembra formare il nodo più forte della quistione europea per la sua essenza. La camera unica de’ deputati, le restrizioni della prerogativa reale, l’incoerenza di partecipare ad un’assemblea, le negoziazioni diplomatiche, la deputazione permanente, la nomina agl’impieghi, de'  quali dispone il Parlamento; l'inceppamento del potere esecutivo, l’odiosità del veto lasciata al solo governo, e questo veto anche inefficace, perché solamente sospensivo, ed altre disposizioni della costituzione spagnuola, si trovano dalle varie potenze, come tanti germi di discordia e di anarchia, e come incompatibili, con la tranquillità di Europa.

«L'autor del rapporto indicava i mezzi opportuni a riparar questi mali: Mi sembra (ei dice) di poterle asserire che tutti questi mezzi si riducono ad un solo: la rifusione. della costituzione spagnuola, o più tosto la formazione di una costituzione napolitana. Mi pare che il punto decisivo sia questo. E riguardo a questo punto il dilemma è breve: o venire incontro con dignità a’ desideri dell’Europa, o aspettarsi la guerra e le conseguenze che ne verranno; modificar da noi stessi la costituzione, o aspettar che altri venga a modificarla.

«Il nostro agente diplomatico aggiungeva un consiglio. Era quello di domandar l’intervento di una gran potenza di Europa, onde in compenso delle riforme che avremmo apportate alla nostra legge politica, ci procurasse la pace.

«Noi non fummo persuasi della esistenza de’ mali, e detestammo i rimedi. L’unità della camera avea per noi un supplimento nel consiglio di stato; non ci sembrava ristretta la prerogativa reale, ma il poter de’ ministri: non leggevamo prescritta la necessità d’indicare all’assemblea legislativa le negoziazioni diplomatiche, ma di renderle conto de’ risanamenti di esse: trovavamo incapace di esser molesta al governo una deputazione destinata alla sola vigilanza; ignoravamo che il Parlamento nazionale avesse su gl’impieghi altro dritto, fuorché quello di presentar le terne per lo stesso consiglio; se la forza esecutiva è inceppata nel male, la vedevamo sciolta nel bene: o il veto non ci si mostrava sotto l’aspetto di odioso, o credevamo che l’odiosità dovesse ferire il consiglio assai più che il monarca: non ci era dato in fine il convincerci della inefficacia di un atto che poteva differire per anni la sanzione delle leggi, e che necessitava con questo mezzo al consenso i due poteri sovrani.

«Era ben lungi dalle nostra mente il pensiero che gli alti alleati di Europa volesser gradire il progetto dell’autor del rapporto. La indipendenza del nostro regno è tanto sacra per essi, quanto il dritto delle genti e la opinione illibata della loro giustizia. Quella storia che avara per le generose azioni ha profuso il suo lusso per gl’illustri misfatti, non ci presenterà l’esempio di un principe che abbia snudata la spada per costringere una nazione ad avvilir le sue leggi. L’abolizione de’ sacrifici umani coronò una volta il trionfo di un re di Siracusa: e fu scritto ch’egli allora stipulava per l’umana natura. La servitù insanguinata di un popolo disonorerebbe il più grande di tutti i trionfi; e si scriverebbe che si è combattuto, e si è vinto per lo vitupero del buon senso e per l’infortunio dell’uomo. Chi osò mai di supporre disposizioni si triste ne’ magnanimi regolatori dell’Europa attuale?

«Che se avreste obbliata la di loro virtù e la di loro grandezza, non avreste potuto non sovvenirvi de’ vostri poteri. Voi avreste sempre letta nel tenore di essi l’impossibilità di aderire ad un cangiamento essenziale del vostro statuto. Voi avreste riputato contrario alla dignità di quel popolo che rappresentate ed alla vostra costanza l’andare incontro all'intervento di una potenza straniera per offerirle di permutare la libertà con la pace.

«Riceveste adunque con gratitudine quel messaggio reale, che dimandò il vostro parere su la mediazione. Ma quando il ministro che vi presentò il foglio, congiunse ad esso i progetti dell’autor del rapporto, tutti i vostri sentimenti vi sboccarono dal cuore, e mi suggerirono l’indirizzo. de’ cinque novembre. Esprimeste io esso l'attacca mento a’ vostri doveri, la vostra piena fiducia ne’ giuramenti reali, la decisione, irremovibile de’ vostri commettenti, la vostra.

«I troni di Austria, di Russia e di Prussia erano stati fio qui circondati. da un cupo silenzio. La prima voce che da essi ci venne, fu la prima testimonianza della loro giustizia. Non c’intimò quello sdegno, che non abbjam meritato, ma il desiderio di accordare un posto nel di loro consesso al nostro monarca. Fu questo un introdurre nel gabinetto di Laybach la santità de’ idi lui giuramenti, la legittimità del nostro cangiamento politico, l’indipendenza e l'autorità, del nostro patto sociale.

«S. M. ci diresse il messaggio, de’ 7 ottobre, e noi vi scorgemmo due parti. Manifestò l’una il disegno di consentire all’invito de’ suoi alti alleati: manifestò l’altra le basi di una costituzione novella, e ci premurò a sospendere alcuna delle nostre incombenze.

«La vostra commissione, o signori, non può ravvisare nell’una che le intenzioni reali: non può ravvisare nell’altra che un dispiacevole equivoco del redattore del foglio. É sicuramente degno del cuore di Ferdinando I lo abbellir l'adunanza de’ signori del mondo, ed il prender parte nella sublimità de’ loro consigli. Ma come mai avrebbe egli pensato dicessero in caso di aderire ad una costituzione novella? Avrebbe egli cancellato il decreto de’ 7 luglio, i suoi giuramenti solenni, le sue ripetute proteste, la nobiltà del proprio carattere’? Più non tornerebbero alta di lui rimembranza quelle lagrime di tenerezza, le quali vennero sparse nel primo ottobre, quelle acclamazioni solenni che accompagnaron la conferma dello statuto di Spagna, quegli accenti interrotti, que’ fiori che tanto interessarono il di lui cuore commosso? La virtù e la condotta del Capo della vostra nazione più non sarebber sinonimi? E colui che godeva chiamarsi il fondatore e protettore del vostro statuto, presterebbe la mano a divellerlo? E voi destinati, obbligati a mantenerne intatte le basi, potreste voi consentirvi? Un cangiamento. preparato da 20 anni diventerebbe adunque per vostra colpa o per vostra negligenza retrogrado?

«Rispetto, o signori, alla lealtà, alla fermezza del vostro monarca. Tutto ciò eh’ è contrario alla di lui dignità, è per lui impossibile. Se egli è pronto a partire per lo congresso di Laybach, non può essersi proposto che il generoso disegno di dileguar le calunnie de’ vostri nemici, di render sicura la felicità con la indipendenza del regno; e di provare all’universo che non il palpito del timore, ma lo slancio della gloria gli. dirigeva la mano, allorché egli aderiva liberamente alla costituzione di Spagna. Immaginare in lui altri fini è non riputarlo inviolabile: è trasandar lo statuto. Non evvi in fatti profanazione maggiore della persona sacra di un re, che il supporto non ricordevole della propria parola.

«Qual è dunque lo stato della controversia che voi avete a risolvere? Negherete all’unione de’ sovrani il desiderio di chi ha stabilito tra voi il regime attuale, e vi priverete del più gran difensore della vostra indipendenza? Perderete la opportunità di spedire un argomento vivente del vostro buon dritto? Ed alla chiamata della giustizia risponderete ferocemente col grido di guerra?

«No, cittadini, non è tale il parere che la vostra commissione m’impone di esporvi. Elia ha creduto di unir nel decreto di cui vi rassegno il progettò, la vostra dignità, la vostra intrepidezza, la vostra fiducia nella virtù del monarca e de'  suoi alti alleati, la franchezza e l'onore del popolò, de cui tenete i poteri. Il vostro criterio ne giudichi? il Dio della verità e della buona fede assicuri il vostro giudizio.»

Ciò profferito l'oratore lesse la formola del decreto come appresso.

«Visto il real decreto de’ 6 luglio, in cui vien consentitala costituzione di Spagna, salve le modificazioni, che la rappresentanza nazionale potesse proporre;

«Visto il decreto de’ 23 luglio; in cui conformemente al precedente decretò furono prescritte le formole per la redazione de’ poteri de’ deputati;

«Visti gii atti dei giuramento prestato da S. M. innanzi alla giunta provvisoria ed al Parlamento nazionale;

«Visto l’atto de’ 28 ottobre con cui S. M. dissente dal decreto di modificazione relativo al consiglio di stato, salve le restrizioni, che i ministri latori dell'atto medesimo, vi fecero a vece, e che si trovano ne’ processi verbali delle rispettive adunanze;

«Vista lo formola de’ poteri de’ deputati al Parlamento nazionale e gli atti del loro giuramento;

«Considerando, che da tutti i mentovati fatti e scritture risalta al Parlamento nazionale la impossibilità di aderire a tutto ciò che ripugna alla costituzione di Spagna; salve le modificazioni che egli stesso propugna;

«Considerando, che questo principio dee regolare l'applicazione della facoltà, che gli concede il secondo numero dell'articolo 172 della costituzione di Spagna;

«Il Parlamento decreta di doversi rappresentare a Sua Maestà:

«1. Che non ha esso facoltà alcuna di aderire a tutto ciò, che il real foglio spedito con messaggio del 7 ottobre contenga di contrario a giuramenti comuni, ed al patto sociale, che stabilisce la costituzione di Spagna;

«2. Che non ha facoltà di aderire alla partenza di S. M. se non in quanto fosse diretta a sostenere la costituzione di Spagna comunemente giurata.

«Napoli, 8 dicembre 1820.

«Il Presidente Cavalier Ruggiero.

«

Nazzario Colaneri,
I SegretariFerdinando de Luca
Luigi Dragonetti
Felice Pulejo.»

Fattosi alla tribuna il deputato marchese Domenico Nicolai, disse:

«Signori,

«L'affetto del re per un popolo che non può soffrire catene, vuol fargli accettare un sacrifizio, cui il Parla mento d'una nazione rigenerata dee vigorosamente resistere. I potenti di Europa alfin conoscono che la benda dell'inganno è squarciata, che l'uomo più non rispetta prescrizioni crudeli, che la voce del cuore trionfa, che la libertà nella calma della intrepidezza è sgombra degli antichi furori, sa maturare de'  cangiamenti immortali: il grido de popoli s'innalza alla fine nel congresso del forti: le speranze de'  nemici delle nazioni non sono più baldanzose, ed in un'epoca memoranda pe' traviamenti de'  monarchi e de popoli, è spuntata alla fine quella universale opinione che detesta del pari la bassezza della servitù e la baldanza d'una licenza sfrenata. Cittadini legislatori! I re generosi non s'adunano per lo pianto de'  po poli; i principi della terra, malgrado le vetuste abitudini, pronunziano concordemente alla fine transazione co' popoli! Cittadini legislatori! La libertà non è più tinta del sangue del cittadini, i suoi più fervidi adoratori pronunziano concordemente moderazione e costanza! Ma la dignità del monarchi e delle nazioni è il fondamento del loro patto sociale: se la dignità non trionfa, si desta il suono delle antiche catene, gravi finanche a re assoluti, che sovente perfezionano le sventure de popoli. Ma questa dignità che rassoda i nostri legami di amore sarebbe atterrata, se il Parlamento dubitasse un istante sul partito da scegliersi per ciò che S. E il ministro degli affari esteri ci fe ieri conoscere. E ci annunziò la partenza d'un re adorato dalla nazione e da suoi rappresentanti; e ci palesò che il monarca era atteso in un congresso di transazione co' popoli, e ci offerse un nuovo pegno d'amore del vecchio padre della nazione, nel foglio in cui giura, che a dispetto di qualunque sventura, resterebbe salda una parte delle nazionali franchige. Ma questa volta conviene pur confessarlo, l'amore paterno ha ecceduto nel suo trasporto. Ciò che si offre al nostro esame, offende la nazione ne suoi rappresentanti, offende il monarca medesimo; e noi abbiamo giurato di conservar lo splendore del monarca e del popolo. Io voglio rappresentare al vostro pensiero questa duplice offesa, e la importanza del soggetto mi renderà degno della vostra attenzione.

«I rappresentanti della nazione sentono ancora quel sacro fremito che il giuramento ha destato nel loro petti. Le loro mani che si sono arrestate sul libro della eterna salute, sul codice dettato da Dio, per promettere il sostegno alla costituzione di Spagna, stringeranno esse forse con compiacenza quel foglio che lasciando ferma alcuna parte della costituzione giurata, minaccia di sovvertirne le basi? Con qual coraggio il ministero ci ha presentato una carta, che non serba il giuramento della eterna sovranità del popolo, sovranità, senza di cui la costituzione stessa ci renderebbe spregevoli? Con qual coraggio si vogliono atterrare i limiti che lo statuto ha imposto al potere del re? Con qual coraggio si, serba un silenzio sul consiglio di stato, quell'eccelso senato che deve illuminare la mente del principe, ed eletto da rappresentanti della nazione, altra voce non farà suonar nella reggia, che la voce di amore e di concordia con un popolo che ha sospirato abbastanza? Con qual coraggio in un detto vuol patteggiarsi che si distrugga una sillaba del codice di libertà? Ma l'intrepidezza del ministero non si è quivi arrestata. Se il solo consenso del Parlamento può fare che il principe si allontani dal regno, non dovea certo a noi nudamente annunziarsi che il monarca ne andava al congresso dei potenti dell'Europa, non dovea sostituirsi la semplice comunicazione ad una espressa domanda, che lo statuto, con severa determinazione reclama. E che dee dirsi di tale violazione se la stessa domanda sarebbe un oltraggio? La bocca de'  rappresentanti del popolo ancora calda del giuramento di serbare illeso quel codice che è la sola nostra speranza, dovrà essa con ardire sagrilego contaminarsi a pronunziare, che corra il monarca al congresso dei forti, onde ascolti annunziarsi che si deve dar bando alla costituzione giurata? Né l'oltraggio è al suo colmo: si vuole che quattro rappresentanti del popolo con ferma fronte e con occhio sereno odano il patto giurato contro la nostra riforma, odano progetti di transazione sempre ignominiosi e nefandi, quando calpestano il giuramento che a noi domanda non transazione ma forza. È il re medesimo che a noi comandò nel 22 luglio di non attentare né direttamente né indirettamente alle basi dello statuto politico, non unirebbe egli forse la sua voce alla voce del popolo per chiamarci spergiuri, ed invitare sulle nostre teste tutte le pene del tradimento? Si racconsoli il buon monarca, e sgombri dall'antica sua fronte la nebbia della tristezza! Il suo popolo per l'organo di fedeli rappresentanti non accetta un sacrifizio sì acerbo; ei resterà con noi a consolidare la nostra felicità, a rallegra re il suo cuore tra le voci della pubblica riconoscenza, ad accrescere colla sua fermezza l'opinione della generosità nazionale. Quale spada, o signori, vorrà drizzarsi contro de'  petti consacrati dal giuramento e che non conoscono che la necessità di resistere? E chi non vede d'altronde che il bisogno di libertà cangia in piacere il pericolo, e che la minaccia della ingiustizia accresce il vigore del 'innocente, che brama una pace non bruttata dal disonore?

«Ma io quasi dimentico gli oltraggi che a noi si scagliano, se volgo gli sguardi alle offese che prendono di mira l'augusto e coronato vegliardo che gode fra noi della santa letizia di vedere destati a nuova vita i suoi figli.

«Non voglio qui ricordare che non si rispetta la virtù d'un monarca con domandargli ch'e' calpesti un giuramento, che egli stesso ha dettato a suoi figli, ch'e venga a giurare altro patto, e sagrifichi il voto d'un amor generoso. Ma se la nazione volesse trasgredire ogni con fine di dignità, se il nostro padre volesse avere un rango nell'imminente congresso, qual mai sarebbe la sua divi sa? Giungerebbe a Laybach il re che governa senza la nazionale rappresentanza? Ferdinando, o signori, ha giurato ch'e' regna per la costituzione, ed è forte abbastanza per aborrire un carattere che non s'accorda col di lui giuramento. Siederebbe egli forse tra i fratelli monarchi coll'insegna onorata d'un re che governa la sua nazione per lo patto giurato, per la costituzione di Spagna? Ed una lega di re, ingannata da nostri nemici, non grida forse contro la nostra rigenerazione politica? Tutte le calunnie degli impudenti follicolari non si scagliano forse contro di noi? Il nostro nome non desta forse il palpito d'indignazione nel cuore di alcun ministro onnipossente? Taluno vuol cancellare dal numero delle nazioni il nome delle Due Sicilie, perchè i popoli di tal contrada adorano un monarca devoto alla costituzione giurata. E tal monarca si coprirebbe d'ingnominia, se prima di esser riconosciuto da' gabinetti di Europa col suo vero carattere, si avvisasse di presentarsi al congresso de'  re. I monarchi di Europa conoscano al fine l'estensione de'  nostri doveri, conoscano che la nostra rigenerazione, anziché turbare il sistema sociale, vie più lo rassoda, che la concordia è l'emblema del nostro nuovo regime, e stendano la destra di amicizia e di pace ad una nazione che non ha comprata la libertà col delitto. Onorino i monarchi d'Europa la vecchiezza di Ferdinando, che lietamente fa plauso a nostri alti destini, e attende dal nuovo sistema una gloria che non lo aggrava di pianto! La costituzione da noi abbracciata più non desti persecuzioni e sospetto, il re costituzionale delle Due Sicilie sia riconosciuto da que' potenti, che lo invitano all'augusto congresso, il popolo delle Due Sicilie ascolti alla fine che nessun monarca vorrà punirlo per la giurata costituzione di Spagna, e dopo così solenni promesse il re delle Due Sicilie circondato dal pubblico amore, seguito dalle sincere bene dizioni del figli rigenerati, giungerà gloriosamente al congresso ad avvalorare nel cuore de'  principi co' suoi esempi paterni, l'amore per quel sistema, che consola i po poli ed assicura i monarchi! Le voci del più canuto tra i re della terra, trionferanno nel cuore de'  potenti, e la causa dell'uomo in Europa accrescerà le speranze. Il re delle Due Sicilie narrerà lietamente a monarchi che lo chiameranno lor padre, che l'innocente suo popolo, ed i rappresentanti di esso, non poteano spergiurare, che era dolce la guerra se dovea scoppiare per la tutela de'  dritti, e che i forti di Europa possono numerare le loro armate, ma non conoscere la vigoria dell'entusiasmo in un popolo che non può patteggiare colla bassezza. A questo prezzo soltanto i popoli delle Due Sicilie potranno separarsi per poco dal cittadino monarca. Ma se la minaccia e l'insulto risponderanno alle nostre voci di dignità, di concordia, finisca il buon re di temere le sventure che la guerra farebbe piombare sul popolo rigenerato! Ogni petto incontrerà generosamente la spada, perchè la sua fermezza provvede all'onore di quel monarca che si vuole oltraggiare, allorché s'insulta il suo popolo! La guerra ha puranche le sue delizie, se assicura la dignità nazionale, e conosceranno i posteri il grado de sacrifizi d'un popolo libero, conosceranno come un tal popolo saprà soffrire per la gloria del suo monarca. Guai a quella nazione che non trema al nome dello spergiuro, ed accostasi senza un santo tremore al codice della sua libertà! Sia degno di servire quell'uomo che abbia potuto dubitare un istante della fermezza de'  rappresentanti del popolo!

«Momenti difficili, questioni gravissime! Questo linguaggio potrebbe adottarsi da chi guardando le esteriore delle cose, giudica dal primo loro aspetto.

«Momenti gloriosi, questioni onorevoli! ecco quello che io dico nelle circostanze presenti.

«Noi abbiamo argomenti certissimi dell'interesse che il re prende al bene del regno delle benefiche intenzioni de'  potenti della terra. E qua' sagrifizi potrebbe il re fare maggiori che nella grave età sua abbandonarsi alle difficoltà di un viaggio spaventevole, agl'incomodi di rigo rosa stagione, agli stenti, a travagli, alle vigilie ed a quanto mai può concepirsi di difficile ed arduo?

«Santa carità è nel suo cuore. Egli vuole e non può volere che il bene.

«Quali pruove più certe di loro favorevoli intenzioni possono darci i monarchi del congresso, che quelle di chiamare fra loro il nostro re, che anderebbe a presedervi, ed a far sentire la sua lealtà, la sua giustizia, la sua religione pel mantenimento della nostra costituzione politica?

«Ma crede il re che sia questo il solo mezzo, onde ottenere la salvezza del regno e l'onor della patria? Credono i monarchi che il nostro stato sia quale la calunnia, il maltalento, lo spirito di Satana ci ha dipinti al loro cospetto, e che mani potenti sieno richieste al bene comune?

«Il re ci chiama deputati fedeli. Tali noi siamo: ma proviamo di esser tali a tutta la terra.

«Santa verità scendi dal cielo fra noi, e per nostro mezzo ti presenta al re costituzionale!

«È dell'interesse del re e della nazione che assuma egli di persona la missione di cui si tratta?

«La verità che suona al mio cuore, e che pronunzio a questo augusto consesso mi dice di no. Non deve il re partire, ed abbandonare il popolo alle conseguenze di passioni, che potrebbero esaltarsi, di diffidenze e sospetti che occulta lingua inimica potrebbe diffondere. La sua augusta presenza può mantenere essa sola la calma che ne momenti di più acceso fervore non fu punto alterata, che ha regnato e regna in tutta la monarchia.

«Il re deve rimanere fra noi, e nel nostro cuore sic come noi siamo nel suo: dalla penna leale del re vegga l'augusto congresso il nostro vero stato: conosca che pericoli non esistono fra noi: che il Parlamento ed i popoli impegnati a perfezionare di accordo col re le istituzioni giurate in faccia alla terra ed al cielo, mantengono la calma la più perfetta, e dan pruova di esser degni della costituzione che hanno.

«Può bene il re, ed io son certo, e tutti dobbiamo esser sicuri che il voglia, assicurare il regno da ostili estere misure, che non possono nel vero aspetto delle cose nostre aver luogo. Manterrà egli solo colla sua veneranda presenza la tranquillità, la pace, la calma del regno, Qual sarebbe il suo dolore se dopo un momentaneo allontana mento, disastri e mali avvenissero? Da qua rimorsi non sarebbe accompagnata la preziosa sua vita?

«S'illumini la mente ed il cuore del re sugl'interessi del trono e della nazione.

«I monarchi alleati spargono la loro beneficenza sulle altre nazioni che potrebbero averne bisogno; e vero dettaglio dimostri che noi stiamo bene, e che inalterabile reciproco amore lega il popolo al re, ed il re al popolo.

«Il re rimanga fra noi e cooperi col Parlamento alla felicità ed al benessere de popoli.

«Questo io sento: questo io dico: tradirei la mia coscienza ed i miei giuramenti, de quali debbo dar conto al regno, al re, alla terra ed a Dio, se portassi opinione diversa.»

Il deputato Poerio con fuoco di sovrana eloquenza successe alla parola del Nicolai. Egli favellò in questi termini:

«Signori,

«Non mai popolo nel rigenerarsi fu più innocente del nostro. Non mai nazione, pel suo nobile contegno, acquistò diritti maggiori alla stima de'  contemporanei ed al l'ammirazione del posteri.

«E frattanto l'istoria antica e moderna non offrono forse l'esempio di una situazione più penosa e meno meritata di quella in cui, noi rappresentanti di questa nazione, oggi ci troviamo!

«Il nostro venerando monarca è improvvisamente invitato a formar parte dell'augusto congresso che va ad aprir si nella città di Laybach fra i più alti potentati di Europa. Egli, risoluto di consolidare la felicità del popolo, affronta il rigore della stagione, non cura la sua avanzata età, e vuol rendersi all'invito. Ma l'istessa, identica dichiarazione, che ci annuncia questa novità contiene, e per la forma e per le cose, degli atti assolutamente in compatibili con la costituzione che abbiamo giurato di difendere! Degli atti a quali noi non potremmo aderire senza renderci colpevoli! Degli atti, infine, che non riprovati ecclisserebbero la gloria nazionale e quella del re!

«Cosa faremo, o signori, in una sì difficile circostanza? Ciò che de'  mandatari fedeli debbono a loro stessi, a loro commettenti, ed al capo della generosa nazione che rappresentano. Noi discuteremo il contenuto del messaggio reale con calma: decideremo con coraggio: agire mo con costanza, e metteremo nella nostra condotta la più grande franchezza e verità.

«La vostra commissione straordinaria ha inteso l'importanza dell'esame preliminare a lei affidato. Essa si è penetrata de'  diversi obblighi dell'assemblea, e perciò ha distinto nel messaggio la parte benevola ch'è tutta del re, dalla parte anti-costituzionale che non è, né può esser sua, e che dee unicamente attribuirsi ad erronei ed imprudenti consigli.

«Questa distinzione ha guidato la commissione a quel parere saggio, dignitoso e prudente che l'onorevole deputato relatore vi ha rassegnato, illustrandolo.

«Non ci discostiamo, o signori, da questa distinzione salutare: evitiamo di pronunciare una negativa assoluta e riflettiamo, che il destino di sette milioni di nostri concittadini ne dipende.

«A che serve il dissimularlo? Il nostro risorgimento politico ha avuto sin da primi momenti i suoi detrattori. È vero che l'esagerazione e gli spettri creati a nostro danno dalla malignità e dall'invidia, han dovuto cedere alla forza dell'evidenza. È vero, che ormai è stabilita la opinione generale in Europa a nostro riguardo, e che niuno crede più questa terra ospitale nell'anarchia e nel disordine. È vero, infine, che le scene funeste enfatica, mente presagite da pochi giornalisti servono dappertutto al dileggio dei falsi profeti. Ma pure non han cessato i nostri nemici di andar predicando un errore, al quale si deve principalmente attribuire l'incertezza delle nostre relazioni diplomatiche. Diciamolo arditamente e senza alcun velo: si è voluto accreditare un pregiudizio ingiurioso; si è osato dire che la costituzione delle Spagne fu proclamata fra noi da una fazione, che il re non fu libero nell'assentirvi.

«Signori, poiché questo ingiustissimo rimprovero si lega intimamente al soggetto che stiamo trattando, è utile, è onorevole, è necessario dileguare questo errore, e combattere siffatto pregiudizio. Ne risulterà un argomento trionfante a favore dell'avviso della vostra commissione straordinaria.

«Ma permettete, che la mia dimostrazione non derivi da ricerche politiche di un ordine eminente. Soffrite che io deduca il mio sistema da soli fatti passati sotto i nostri occhi, noti all'intero universo, e divenuti ormai il demanio dell'istoria. Anzi soffrite, che per rendere questo sistema irresistibile, io, rappresentante di un popolo libero e costituito, impronti il linguaggio del partigiani del potere assoluto, e confuti le loro accuse coloro stessi principi.

«Chi non sa che il desiderio ardente, e dirò febbrile de'  popoli delle Due Sicilie è stato sempre quello delle istituzioni liberali? Senza perderci nell'antichità, sul cui terreno combatteremmo con una inutile superiorità, limitiamoci al periodo degli ultimi 25 anni.

«Le idee sviluppate dalla rivoluzione francese, di cui la lontananza ingrandiva la magnificenza e nascondeva i disordini, ebbero qui sin dal 1795 de seguaci di semplice inclinazione. Il governo prese le teorie per congiure; e questo sbaglio fatale produsse i suoi immancabili effetti. Le idee liberali si diramarono fra le classi più il luminate e più distinte della società, e l'incursione francese, avvenuta nel 1799, diede loro una forza preponderante che il rigore non giunse mai a spegnere.

«L'invasione che Bonaparte fece nel 1806 del regno di Napoli, ed il governo assoluto che ne fu la conseguenza, non poterono svellere la brama di libertà che la riflessione, l'esperienza e l'esempio degli errori di altre nazioni avevano convertito in bisogno di un reggimento costituzionale. I popoli non si fecero illusione di splendide apparenze, e manifestarono con diverso linguaggio una medesima volontà. Nel 1812 le Calabrie, nel 1813 gli Abruzzi si muovevano senza concerto nello stesso senso per ottenere una costituzione. E dal 1812 in poi quali sforzi non fece la Sicilia per migliorare la sua? Il mare, ed anco i governi dividevano i due popoli; ma un interesse ed un desiderio concorde gli riuniva.

«Nel 1814 la nobiltà, la magistratura e l'armata chiesero solennemente una costituzione a Gioacchino. Fu promessa con pompa, ma non fu data se non negli ultimi istanti del suo governo, e quasi fosse l'unica tavola del suo naufragio. Ma questa concessione era troppo tardiva, e fu presa per un atto di derisione.

«Ma qual bisogno ho io di argomenti e di congetture? La proclamazione del 1 maggio 1815 che S. M. diresse da Palermo agli abitanti del regno di Napoli e nella quale per eccitarli a scuotere il giogo straniero e prepararli alla libertà, il magnanimo re restituiva a suoi popoli i nomi antichi, perchè imitassero le prische virtù; questo atto solenne in cui si annunciava il ritorno al trono del re legittimo in nome del congresso degli alti alleati, che con tanti pericoli e tanta gloria avevano fatto trionfare la causa della legittimità, questo editto di consolazione e di pace contiene le seguenti memorabili parole: Un governo stabile, savio, religioso è per voi. Il popolo sarà il sovrano, ed il principe il depositario della leggi che detterà la più energica e la più desiderevole delle costituzioni. Quale omaggio più puro e più vero potea rendersi alla impazienza in cui erano i popoli di una rigenerazione politica? Il capo del governo che stava per perderne le redini, e S. M. che stava per ripigliarle parlavano lo stesso linguaggio: il solo che i popoli intendessero e gustassero, perchè il solo che conveniva a loro bisogni, che poteva guarire i loro mali e cicatrizzare le loro ferite. Come immaginare che in seguito l'obbliassero? Le nazioni soffrono talvolta in silenzio; ma niuna ha mai rinunziato alla speme; e molto meno all'aspettativa della sua felicità.

«Infatti nel mese di giugno del 1815, S. M. fece ritorno in Napoli, e la sua amministrazione dolce e paterna creò ne' cuori di tutti la più viva riconoscenza, aumentò l'amore de popoli; ma non ismorzò ne' loro petti il desiderio antico; non fece dimenticare la recente pro messa, né cancellò dalla loro mente la verità che gli uomini passano e le istituzioni restano.

«Se vogliamo essere veridici, non negheremo che dal 1815 al 1820 si bramò piucchè mai una costituzione tra noi; e che a diversi intervalli in alcune provincie se ne alzò altissimo il grido, in altre le preghiere, in tutte la Speranza.

«In tale stato di cose, de'  prodi si riuniscono il dì 2 luglio in Monteforte, ed hanno il nobile ardire di esternare i primi il pubblico voto per un reggimento costituzionale. Essi eran pochi di numero, ma i loro sentimenti eran quelli dell'universale del regno.

«Giunge la nuova di questo avvenimento in Napoli, ed i primi passi del ministero sembrano diretti a voler far uso della forza; ma bentosto si accorge della sua vera posizione, e la svela tutta intera al re. Il venerando monarca inorridisce al solo pensiero del sangue civile: egli chiama a consiglio i suoi vecchi ministri, ed in mezzo ad essi, e solamente con essi si determina ad appagare i voti unanimi e già antecedentemente conosciuti della nazione, e concederle infine quel sospirato dono da lui promesso nella pienezza della sua libertà, e mentre affiancato dalle alte potenze stava per ritornare fra noi: dono prezioso, che rende i popoli più liberi, il trono più stabile, l'impero delle leggi più forte.

«Siamo giusti, o signori. Tra la mattina del 2 luglio, in cui cominciò il movimento, e la notte del 6, in cui S. M. lo fece saggiamente ed avventurosamente terminare proclamando la costituzione delle Spagne, quale regione del regno, fu scossa, quale perdè la sua calma, quale si emancipò dall'autorità regia? Al contrario tutte le 22 provincie della monarchia vivevano sotto l'obbedienza del re. Il maggior numero di esse non solo ignorava del tutto gli avvenimenti; ma non vi sarebbe stato il tempo d'istruirnele, neppure per le vie telegrafiche: dimodochè la Sicilia, le Calabrie, le Puglie, gli Abruzzi, la Basilicata, il Sannio, la capitale, e sinanco le provincie limitrofe non si diedero esse la costituzione, ma la ricevettero dalla mano del re. La ricevettero bensì con gioia e con plauso come il primo del loro bisogni, come il pegno della loro prosperità, come il vincolo che le stringeva più tenacemente alla dinastia regnante: ma in fine, se non si vuole falsificar l'istoria, devesi convenire che lo statuto spagnuolo fu conceduto a popoli dal monarca, e fu pubblicato in suo nome dalle autorità costituite.

«E si osa attaccare la legittimità e la spontaneità di questo atto memorando? E si osa attribuirlo al timore? Sì, fu per un nobile timore che S. M. si determinò a questo passo: il timore, cioè, degno della coscienza di un re religioso che un governo senza guarentige non bastasse più al nostro ben essere ed al suo riposo.

«Qual meraviglia, se rischiarato dalla esperienza, commosso da voti ferventi ed unanimi, memore delle sue promesse e sollecito di vedere il popolo stabilmente felice, avesse infine dato un termine alle tempeste politi che, e fissato il timone del governo, quasi in un porto sicuro, fra le basi del patto sociale? Ma perchè la sua risoluzione fu più calcolata sarebbe perciò meno libera? E quale politica costituzione, qual trattato diplomatico, quale alleanza, quale pace non fu determinata da forti ed impellenti motivi?

«I nostri detrattori non si stancano di prodigare ai bravi di Monteforte il titolo di rivoltosi, di esagerare la loro influenza e di attribuir loro esclusivamente il nostro cambiamento politico, Ma qual cosa fu mai di questa men vera? No, che il movimento di Monteforte non fu la causa ma l'occasione della concessione a noi fatta. La causa ne fu il volere libero del monarca conforme a quello della intera nazione. No, che la nostra non fu una rivoluzione, ma una festa nazionale in cui i primi inni furono sciolti in lode del re. No, che gli uomini del 2 luglio non han preteso mai d'influire sulle operazioni del go verno, anzi col più delicato disinteresse han ricusato le cariche, i premi e gli onori che il governo aveva loro offerto, E la posterità imparziale e severa giudicherà, se vi fu mai una rigenerazione costituzionale più legittima, più dignitosa, più immacolata della nostra!

«Fin qui dell'editto del 7 luglio. Ma seguono atti e fatti di non minore importanza.

«S. M. ed i suoi angusti figli giurano la costituzione innanzi alla giunta provvisoria; si congregano per ordine reale i consigli elettorali; si scelgono i deputati della nazione; si riunisce il Parlamento. Il re le apre in persona, e rinnova il suo giuramento!

«Il fuoco della ribellione e della discordia si accende in una città della monarchia: i popoli si stringono intorno al trono, e la riconducono sotto la obbedienza del re!

«Una guerra straniera vien creduta possibile: il Vicario Generale del regno, questo illustre principe benemerito della patria richiama in nome del re sotto le bandiere i congedati dell'antico esercito, ed a questo invito non accorrono, ma volano tutti alla comune difesa!

«E quali altre prove si possono dare della forza del governo, della piena libertà del monarca, dell'amore e del rispetto del popolo?

«Ma di tutti gli atti governativi due meritano, o signori, di fissare la nostra attenzione: il real decreto che regolò la riunione del consigli elettorali, e la dichiarazione relativa al modo di comporre il consiglio di stato, Questi atti dimostrano due cose: che le basi della costituzione spagnuola sono inalterabili, e che lo sono per le volontà combinate della nazione e del re. Nel primo di essi è il governo, che, dettando il tenore delle procure de'  deputati al parlamento, dichiara lo statuto politico delle Spagne intangibile nelle sue basi: passo utile, ma ardimentoso, che un solo governo sicuro dell'affetto e della condiscendenza del popoli potea dare. I consigli elettorali eseguirono rispettosi il real decreto, ed i nostri poteri furono limitati alle sole modificazioni necessarie per adattare la costituzione a questo regno.

«Nel secondo atto, è S. M. che in via conciliativa, ma libera, resiste alle modificazioni portate dal Parla mento sul modo costituzionale di proporre i consiglieri di stato, e raccomanda la più stretta osservanza dello statuto. Di questa dichiarazione autografa ciascun di voi, onorevoli colleghi, ritiene nella memoria e nel cuore le gravi sentenze, con cui il religioso nostro monarca si chiama il datore della costituzione ed il primo fondatore della monarchia costituzionale.

«Cosa si desidera di più? Questo atto solo basta a rendere vittoriosa la dimostrazione della legittimità del nostro risorgimento politico; poiché è il re stesso che se ne dichiara l'autore, e tale si dichiara non richiesto, ma spontaneo, nell'esercizio attuale della prerogativa.

«In queste circostanze, nulla poteva accadere di più avventuroso per la nostra patria dell'invito fatto a S. M. di recarsi al congresso di Laybach.

«Quale immensa fiducia non debbono infatti ispirare de'  monarchi giusti, che protestano di voler custodire gelosamente il principio della indipendenza delle nazioni? E notate bene, signori, che di qualunque natura esser possano le prevenzioni del gabinetti stranieri contro la nostra rigenerazione politica, S. M. il re non sarebbe stato chiamato a dissiparle nella qualità di mediatore fra il suo popolo e gli alti potentati. No, poiché la mediazione è sempre di un terzo, ed egli è concorso nell'atto con cui siamo stati costituiti. Il re dunque andrebbe al congresso degli altri principi, come il loro eguale in grado, e come il loro anziano in regno ed in età; egli andrebbe a difendere in via conciliativa e nello stato di pace gl'interessi della nazione, come gli difenderebbe alla testa dell'esercito se fossimo in guerra; egli andrebbe a sostenere la monarchia costituzionale di cui è il fondato re; egli infine, andrebbe a disingannare del sovrani ingannati.

«E certamente, signori, se il messaggio reale non contenesse, che la domanda del consenso costituzionale del Parlamento alla partenza del re, chi di noi potrebbe dissentirvi? Chi vorrebbe chiudere la strada ad una negoziazione diretta ed immediata fra il capo della nostra nazione ed i più grandi monarchi della terra?

«Ma la redazione veramente anti-costituzionale del messaggio ha reso per noi complicato ciò che sarebbe stato semplice, impossibile ciò che sarebbe stato agevole, criminoso ciò che sarebbe stato innocente. Infatti come potremmo noi aderire ad un atto, che contiene la notizia della partenza del re, e non già la richiesta preveduta dallo statuto? Ad un atto in cui si annunciano le basi di una costituzione novella, quasichè la nazione non ne avesse una giurata da suoi rappresentanti e dal re? Ad un atto in fine che prescrive la paralisi indefinita di questa assemblea?

«Errori sì gravi possono correre inosservati sotto l'occhio vigile di un Parlamento fedele? No, che non si transige co propri doveri e co propri giuramenti. Noi sediamo qui non già per formare il patto sociale, ma in forza del patto preesistente. La nazione, secondando i desideri del re, non ci ha delegato la facoltà di cambiarlo statuto di Spagna, ma quella soltanto di adattarlo a no stri bisogni, vietandoci espressamente di alterarne le basi. Questo divieto preclude la via ad ogni discussione; di modo che se potesse immaginarsi che il re, o gli alti potentati volessero prendere l'iniziativa di un politico mutamento, la sola nazione potrebbe deciderne. Ma cosa potremmo far noi senza mandato, anzi contro il manda to? Il nostro obbligo è un solo: quello di difendere in trepidamente i diritti nazionali e la costituzione che ci ha legittimamente creati. 2 «Ma lungi da noi qualunque ipotesi irriverente, che offenderebbe la lealtà del re nostro e la magnanimità de gli altri monarchi. Diciamolo con confidenza: le parti anti-costituzionali del messaggio non sono, e non posso no essere state nelle loro volontà.

«Non nella volontà del re, il quale datore dello statu to, n'è stato sempre il più severo custode, e con replicati giuramenti ed aperte dichiarazioni ha manifestato di volerne la più stretta osservanza.

«Non nella volontà degli alti alleati, i quali rispetta no il principio della indipendenza delle nazioni, riconoscono le costituzioni politiche di tutti i popoli, ed hanno precisamente riconosciuto quella delle Spagne nel suolo natio. Perchè vorrebbero combatterla nel suolo adottivo?

«Dunque le parti anti-costituzionali del messaggio non devono, né possono attribuirsi che a cattivi consigli, ed è ne nostri poteri, anzi è nel nostri doveri di separarle dalle intenzioni non dubbie del re, di consolidare la felicità nazionale ed il suo trono..

«Ma questa stessa separazione deve ubbidire alle re gole dello statuto. Perciò la vostra commissione straordinaria ha escogitato quella formola negativa, ma condizionale, che concilia la nostra fedeltà verso il popolo con quella verso la persona sacra ed inviolabile del re, i dritti della nazione con quelli del suo capo, la difesa coraggiosa dello statuto politico con i riguardi dovuti a de'  grandi monarchi.

«Io voto, o signori, per il parere della commissione.»

Dopo tali arringhe ed altre ancora il Parlamento approvò il progetto di decreto avverso al regio messaggio; ed il dì seguente, dietro lettura fattane dal Borrelli, votò ancora questo indirizzo di accompagnamento.

«Sire,

«Ciò che in data dello scorso giorno V. M. si è degnata di scriverci, non ha meno occupata la nostra attenzione che quella del pubblico. Da lungo tempo desideravamo conoscere le vere intenzioni degli alti alleati a nostro riguardo: ed un sentimento di fiducia nella loro giustizia ci rendeva superiori alle interpetrazioni odiose che i nostri nemici applicavano a talune apparenze. Il primo tratto di luce che quegli augusti personaggi han diffuso verso di noi, è veramente atto a confermare i no stri presagi. Ben lungi in fatti, dal voler dichiarare la guerra ad un popolo innocente che non gli ha mai provocati, eglino bramano di far sedere nel loro consesso la M. V. o sia il fondatore e protettore del nostro statuto politico.

«Se ella è paga di corrispondere a questo onorevole invito, ciò non può essere che per assicurarci sempre meglio il suo dono. Si compiacque ella di farcelo sin da 7 luglio. Il ratificò ben tosto innanzi alla giunta provvisoria, e non mancò di suggellarlo col suo giuramento. Con decreto del 22 dello stesso mese, regolò materialmente la convocazione delle assemblee elettive; e somministrando la formola di redazione del nostri poteri, vi espresse la necessità di conservare le basi della costituzione di Spagna, e la facoltà di adattarla alle circostanze del regno.

«Ciascuno di questi atti era bastante a formare la no stra sicurezza, ma non fu bastante a contentare la di lei beneficenza. Sarà sempre caro alla di lei virtù, alla no stra gratitudine ed all'ammirazione del posteri il primo giorno di ottobre. Noi vedemmo la M. V. altamente penetrata di tenerezza e di gioia deporre a piè dello altare il voto inviolabile di mantenerci illibata la costituzione di Spagna con le sole modificazioni che noi avremmo pro poste. Noi sentimmo echeggiare da per ogni dove gli evviva che questo grandioso atto esprimeva da tutte le labbra: ed il nome di V. M. si scolpì allora per sempre nel cuore di tutti, e particolarmente nel nostro. Stabilimmo di scegliere i consiglieri di stato. Credette ella che il suo potere non fosse abbastanza mantenuto: e disapprovando il nostro decreto, ci rammentò in termini espressi il nostro comune giuramento, il giuramento di rispettare le basi della costituzione di Spagna.

«Se la libertà del volere di V. M. non risultasse a sufficienza da questa congerie di fatti, nulla sarebbe più utile a presentarne la prova che il di lei personale intervento al congresso di Laybach. Non mai infatti un monarca è più vivamente pressato dal suo eccelso carattere a far mostra di lealtà, di costanza e di attaccamento al suo po polo che quando ha per testimoni e per suoi simili.

«Senza sottrarci all'effetto di queste gravi avvertenze, ammiratori i noi non potremmo in tale ipotesi accettare il progetto ch'ella crede proporci: quello di farla seguire da quattro deputati. Non è infatti il di loro occhio vigile che potrebbe farci sicuri, è la bontà del cuore di V. M., è il sentimento della dignità propria, è la parola di re, è il ripetuto e solenne suo giuramento, è la veduta osservatrice di tutta l'Europa, è l'indipendente e severo giudizio de'  posteri.

«Ma il redattore del rispettabile foglio che ci si è presentato in suo nome, ha sensibilmente deviato da questi principi. Ha egli indicate le basi di uno statuto politico, quasi che uno di nuovo convenisse formarne; e ci ha tracciato un andamento totalmente opposto alla linea delle nostre funzioni.

«Non avverrà mai che s'imputi alla M. V. ciò che dissente in un modo così manifesto dalle di lei note intenzioni, dalle di lei abitudini, dalle di lei ripetute proteste. Non abbiamo mai dubitato che le di lei voci partissero dal fondo del cuore. Ed il cuore di un figlio di Carlo III è naturalmente un tempio di fede. Noi crederemmo far torto alla severità delle massime del di lei alti alleati, se ci paresser capaci di chiederle il più picco lo sacrificio de di lei sublimi doveri. Faremmo un torto più grave alla M. V. se tutte le forze del mondo ci paresser capaci d'indurla ad un tal sacrificio.

«Non ha ella dunque bramato d'intervenire al consiglio di Laybach, se non per difendervi la costituzione, che si è degnata di ammettere. Ella non può sostenervi verun altro carattere, fuorché quello di monarca indi pendente, che protegge il suo popolo, che garentisce il suo giuramento, che perora la causa della sua coscienza, della sua gloria e della felicità del suo regno, che si prepara a spandere un lungo solco di luce nella carriera de'  secoli. È solamente per un oggetto così degno della sua grande anima che V. M. può vincere il torpore degli anni, il rigore della stagione e la difficoltà del cammino. È solamente per quest'oggetto che l'assemblea nazionale può acconsentire a dividersi per un momento da lei.

«Si oserebbe egli dar luogo ad un'ipotesi assurda? Si oserebbe immaginare un dissenso (veramente impossibile) fra l'oggetto del suo viaggio e la di lei generosità e la nostra fiducia? Noi faremmo ciò che un Parlamento degno della di lei stima è obbligato di fare. Severi custodi dello statuto di Spagna, non ci permetteremmo di frapporre a di lei passi alcun ostacolo fisico. Noi frapporremmo il nostro amore, la nostra riconoscenza, il di lei giuramento, il decoro del di lei scettro, la santità inviolabile de'  nostri doveri reciproci, la pace del regno. La M. V. si congratulerebbe con sé medesima di presedere ad un popolo, i cui rappresentanti sostengono la vera gloria del trono; e noi saremmo sempre più superbi di appartenere ad un principe, la cui regola è nella virtù, la di cui con dotta è nel bene del popolo.

«Son questi, o Sire, i sentimenti del Parlamento nazionale. Sono essi, che ci han dettato il decreto che le rassegniamo. La M, V. lo troverà conforme alle sue sublimi vedute; poiché le sue vedute furon sempre conformi alla religione, alla umanità, ed all'onore della sua dinastia.

«

Il PresidenteCav. Pie. Ant. Ruggiero.
Nazario Colaneri.
I SegretariFerdinando de Luca
Luigi Dragonetti
Felice Pulejo.

Deciso così di rifiutare ogni nuova costituzione, ma permettere al re di partire, purché di nuovo giurasse quella di Spagna, e promettesse di sostenerla nel congresso, si osservò con meraviglia il Parlamento scegliere fra i possibili partiti il peggiore. Poteva accettare intiero il messaggio, e per la spontanea promessa di nuova costituzione accrescere le ragioni del popolo, le difficoltà de'  mancamenti; o poteva rigettarlo in intiero, e tener presente il re, quasi ostaggio e prigione. Ma se poi riconosceva l'offerto statuto come riforma della costituzione spagnuola, e vietava al re di partire, avrebbe avuto nuove sicurezze, nuove speranze, maggior ritegno alla guerra, speditezza alla pace; e questo era, per la natura dei tempi e delle cose, il più sapiente consiglio. Come per l'opposto tutti i benefizi si perdevano col decretare nessun'altra costituzione che la spagnuola, e libero il re di partire. Non è già che i deputati volessero il peggio; ma,.

spaventati dalle minacce de Carbonari, ed inesperti alle rivoluzioni, temevano i pericoli più vicini, non vedevano i futuri, giudicavano durabile quel che men dura, il presente.

Non ancora pubblicata la decisione del Parlamento, il timido re, da' popolari tumulti atterrito, credendo nemici suoi le guardie, i servi, gli stessi presidi delle navi francesi ed inglesi ancorate nel porto, mirando solamente a fuggire, scrisse nuovo messaggio.

FERDINANDO I
PER LA GRAZIA DI DIO E PER LA COSTITUZIONE DELLA MONARCHIA RE DEL REGNO DELLE DUE SICILIE, DI GERUSALEMME EC. INFANTE DI SPAGNA, DUCA DI PARMA, PIACENZA, CASTRO, EC. EC. GRAN PRINCIPE EREDITARIO DI TOSCANA EC. EC. EC.

A'miei fedeli deputati del Parlamento.

«Ho con infinito dolore dell’animo mio appreso che non tutti han riguardato sotto un aspetto la mia risoluzione a voi comunicata in data di ieri 7 del corrente.

«Ad oggetto di dileguare ogni equivoco, dichiaro che non ho mai pensatogli violare la costituzione giurata; ma siccome nel mio real decreto de’ 7 luglio riserbai alla. rappresentanza nazionale il potere di proporre delle modificazioni che avrebbe giudicato necessarie alla costituzione dì Spagna, cosi ho creduto e credo che la mia intervenzione ai congresso di Laybach potesse esser utile agl'interessi della patria, onde far gradire anche alle potenze estere progetti tali di modificazioni, che senza nulle detrarre a’ dritti della nazione, respingessero ogni cagione di guerra, ben inteso che, in ogni caso, non potesse essere eccettuata alcuna modificazione che non fosse consentita dalla nazione e da me.

 «Dichiaro inoltre, che nel dirigermi ai Parlamentò intesi; ed intendo di conformarmi all’articolo 172, § 2 della costituitone.

«E finalmente dichiaro che non ho inteso d’insinuare la sospensione (durante la mia assenza) degli atti di governo legislativi, ma di quelli solamente che riguardano le modificazioni della costituitone.

«Napoli,8 dicembre 1820.

«FERDINANDO,

«Il segretario di stato ministro di affari esteri.

«DUCA DI CAMPOCHIARO.».

Pubblicato questo nuovo messaggio, dirolgata la parlamentaria decisione, caddero i sospetti e i tumulti; e il Parlamento con la data del 10 rispose:

«Sire,

«Col real foglio degli otto dicembre 1820 la M. V. si è degnata dichiararci che non ha mai pensato di violare la costituitone giurala. Ella ha voluto. Aggiungere, con queste sacre parole una nuova protesta alle antiche, e consolidare la fiducia, che da sì lungo tempo ha saputo ispirare maggior sentimento di gratitudine è appena capace di corrispondere a sì generosa Condotta. Noi lo proviamo al segno più alto, e ci facciamo un dovere di esprimerlo..

«La brillante e dolce memoria del di lei giuramento ci risveglia ad un tratto la idea di tutti i nostri doveri, di tutti i nostri diritti, di tutti i titoli che il nostro patto, sociale ci ha dati per esser felici. Ci è quindi impossibile il perder di vista che la costituzione di Spagna da lei conceduta alle brame della nostra nazione, non è ormai suscettibile di verun ultra riforma, fuori quelle che al Parlamento sembri opportuno proporre. Tal è il tenor de’ decreti de’ 7 e 26 luglio; tal è la clausola espressa di quella formola augusta; con cui ella sottopose 41 nostro nuovo regimò alla tutela divina; e tal è il requisito che ci autorizza a spiegare le facoltà contenute nell'articolo 172, num. 2 dello statuto di Spagna.

«Gli alti alleati di V. M. ascolterai! Volentieri da lei nel consesso di Laybach che la gloria di aver aderito alla libertà de'  suol popoli appartiene. intieramente al di lei spontaneo volere; e che il dritto di aderirvi è così indipendente da ogni potenza straniera, come la facoltà di regolate là propria famiglia e di esser giusto co’ suoi.

Que’ sagaci e potenti dominatori del mondo non penseranno a privare un discendente de’ Borboni del più gran privilegio dell’autorità di un monarca; né meno equi saranno con V. M. di quel che si son mostrati col di lei. augusto congiunto il re delle Spagne. Innanzi alla loro grandezza non mai si alzarono invano i desideri de’ popoli: ed il dritto delle genti, la opinione de’ saggi e. la tarda ed austera solennità della storia furon sempre considerati ne’ loro giudizi..

«La M. V. adornò la. sua corona della libertà del suo popolo. L’adornerà in breve del merito di averla conservata. L’opera della di lei gloria non, appartiene che a lei: l’opera della riconoscenza che va ad esserle dovuta, appartiene a noi, a’ nostri coevi, a’ nostri posteri, all’umanità intera.

«

Il PresidenteCav. Pie. Ant. Ruggiero.
Nazario Colaneri.
I SegretariFerdinando de Luca
Luigi Dragonetti
Felice Pulejo.

Al che il sovrano dichiarò:

FERDINANDO I
PER LA GRAZIA DI DIO E PER LA COSTITUZIONE DELLA MONARCHIA RE DEL REGNO DELLE DUE SICILIE, J)I GERUSALEMME EC. INFANTE DI SPAGNA, DUCA DI PARMA, PIACENZA, CASTRO, EC. EC. GRAN PRINCIPE. EREDITARIO DI TOSCANA EC. EC. EC.

A' miei fedeli deputati del Parlamento

«La vostra decisione della data del. dì 8 corrente porta fra le altre cose che il Parlamento non ha facoltà di aderire alla mia partenza, se non in quanto fosse diretta a sostenere la costituzione di Spagna comunemente giurata.

«Su di ciò io dichiaro che la mia intervenzione al congresso di Laybach non ha altro fine che quello appunto di sostenere, la costituzione di Spagna comunemente giurata, ed il nostro patto sociale, e di soggiungere dietro le manifestazioni da voi fattemi col messaggio de’ 9 corrente che tale è la decisa ed unanime volontà de’ miei popoli. Che se il mio messaggio de’ 7 corrente ha ricevuto altra interpretazione, io credo di aver dileguato ogni equivoco con l’altro mio messaggio del di otto

«Dopo questa mia dichiarazione, io desidero che il Parlamento decida in termini positivi, se assentisce alla mia intervenzione al congresso di Laybach, nel fine di sostenere la volontà generale della nazione per la costituzione adottata e di allontanare insieme le minacce di guerra.

«Nel caso affermativo, desidero che in Parlamentò si spieghi sulla conferma del Vicariato Generale in persona dei mio dilettissimo figlio il duca delle Calabrie, da me propostagli.

«Il Parlamento, collocando in me una fiducia che io giustificherò col favor di Dio, non ha creduto necessario di scegliere quattro personaggi che mi accompagnino. Su di questo punto io debbo dirvi che io desiderava, e desidero un tale accompagnamento, perché amava, ed amo di profittare de’ lumi loro. Se dopo queste spiegazioni, il Parlamento trovassi utile detta misura, io non potrei esserne che,contento. Non intendo, però di esigerlo come una condizione al mio intervento nel congresso.

«E finalmente sul riflesso che i sovrani congregati in Laybach aspettano una mia pronta risposta, desidero che il Parlamento pronunzi sollecitamente sulle sopra esposte. cose.

«Napoli, 10 dicembre 1820.

«FERDINANDO.

 «Il segretario di stato.

«Ministro degli affari esteri

«Duca di Campochiaro.»

Il Parlamento il giorno 12 rispose ancora:

«Rispondendo al terzo messaggio di V. M., abbiam l’onore Rinviarle il decreto ch’ella ha motivato. La costituzione che in caso di assenza del re, non riconosce il carattere di Vicario Generale, non ci ha somministrato altro mezzo di secondare le di lei intenzioni circa la provvisoria amministrazione del regno, fuorché quello di convenirlo in reggente. Non dubitiamo che la nostra determinazione combaci del tutto con le vedute della M. V. ed è perciò che nel reggente noi abbiamo trasfuse per lo tempo dell’assenza le di lei prerogative.

«Circa la di lei partenza per Laybach ed il di lei accompagnamento, null'abbiamo da aggiungere a ciò che le abbiam rassegnato ne precedenti indirizzi; quando pur non sia il desiderio perpetuo della di lei presenza, ed il dispiacere di esserne anche per poco privati. Piena in tanto è la nostra fiducia ne' di lei giuramenti. Sarà pieno l'effetto della di lei influenza per lo mantenimento della costituzione di Spagna, e per la felicità del suo popolo.

«Noi siamo sicuri che dopo il congresso la M. V. tornerà a godere fra noi di una pace gloriosa, opera del suo amore paterno, o a partecipare della difesa della nazione. In questo modo soltanto il Parlamento può con sentire che V. M. si allontani dall'amato suo popolo.

«Noi riguarderemo come un nuovo pegno della di lei passione pe nostri vantaggi la immediata formazione del consiglio di stato, ed il compimento di ciò che le appartiene per rendere efficaci le modificazioni che le trasmettiamo dello statuto politico.

«I nostri voti, o Sire, non lasceranno di spargersi per la di lei gloria: siam persuasi che i suoi saran sempre di retti alla salute del regno: ciò che vuol dire lo stesso, alla libertà nazionale.»

Frattanto il deputato Poerio stando il dì 11 alla tribuna, rispondeva così al deputato Netti, il quale attaccava il secondo messaggio reale.

«Signori, confesso che non so intendere la difficoltà che l'onorevole preopinante eleva contro il progetto di risposta al secondo messaggio di S. M. Non bisogna (egli dice) pregiudicare la quistione sulla partenza costituzionale del re. Ma è dunque ancora una quistione se il re possa partire? A me sembra che il vostro ultimo decreto equivalga ad un vero consenso condizionale. Or quando mai fu lecito di ritirare le condizioni accordate, o di distruggerle? Chi di noi, o signori, può più dissentire ad un viaggio che ha per unico oggetto la difesa della costituzione da noi giurata? Non indeboliamo, di grazia, l'effetto meraviglioso della memorabile giornata del dì 8 corrente. E se la vostra saggia risoluzione, ed il vostro coraggioso rispetto sono stati coverti da pubblici applausi, ed accompagnati dalla calma più profonda, non facciamo rinascere con de'  dubbi intempestivi le represse inquietudini.»

E passando al progetto di decreto letto dal deputato Borrelli in nome della commissione straordinaria nella seduta del 12 corrente con cui si accordava a S. M. il con senso di rendersi al congresso degli alti alleati, e si nominava durante la sua assenza lo stesso duca di Calabria reggente del regno; lo stesso deputato Poerio rispondeva a signori deputati Morici, Angelini e Nicolai, che aveano fatto successivamente varie osservazioni:

«Signori,

«Noi siamo tutti di accordo sulla partenza del re, e non potremmo non esserlo. Il decreto che vi sì propone oggi non è,che fa conseguenza necessaria ed immediata di. ciò che fu da voi decisa nella seduta memorabile del di 8 dicembre. Voi deste implicitamente. in quel giorno uh consenso condizionale alla partenza di S. M. pel conpresso degli alti alleati. S. M. ha gloriosamente adempito alla condizionò. Il consenso. diviene parodi pieno dritto e lo diviene si bene che' la presentò dichiarazione potrebbe riguardarsi come superflua se il re stesso non l’avesse sollecitata.

«Egualmente siamo tutti di accordo che durante l’assenza di S. M. il reggente del regno debba essere S. A. R il duca di Calabria, ed esserlo con la pienezza dell’autorità regia.

«Cosa dunque ci trattiene? Dubbi più di forma che di sostanza, che si promuovono: delle ulteriori precauzioni; che si desiderano: delle addizioni onorevoli, che si dò i mandano.

«Rallegriamoci con noi stessi, o signori. Queste proposizioni, e questi desideri esprimono l’ansietà della libertà, e portano l’impronta del caldissimo nostro amore verso la patria ed il re. Ma intanto è facile vedere che tutto ciò che si brama, e si chiede esiste nel progetto di decreto a voi rassegnato. Infatti cosa vuole l’onorevole deputato Morrei? Che si assegni un tempo preciso alla lontananza del re: ma il tempo in questa occasione è subordinato all’oggetto, del suo viaggio. Se S. M. va a formare parte di un congresso la di cui durata dipende dalle circostanze e dalle convenienze di tutt’i monarchi che debbono intervenirvi come potrà determinarsi un termine fisso?

«Al deputato Angelini poi spiace l’idea che il reggente debba esercitare le sue funzioni provvisoriamente, e teme che ciò possa farle confondere con quelle della ì reggenza provvisoria. L’espressione può cambiarsi senza inconveniente alcuno: il timore però dell’onorevole collega è poto fondato; poiché il nostro statuto distingue il caso del reggente da quello della reggenza, e concede al parlamento la facoltà di assegnare i confini destro i quali sia la reggenza, sia il reggente debbono esercitare l’autorità regia: facoltà preziosa la quale, più che qualunque altra, ricorda al monarca di non essere che un potere costituito ed un delegato del popolo. Or la vostra commissiono straordinaria vi ha per l'appunto proposto di confidare al principe Ereditario durante l’assenza del suo augusto genitore l’esercizio non di una parte sola delle attribuzioni reali, ma di tutte, Fiducia lusinghiera, e ch’egli ba saputo si ben meritare. Non vi è dunque luogo a’ dubbi promossi:

«Dichiaro infine che le addizioni all’indirizzo, proposte dal signor Nicolai, mi sembrano utili, e sopratutto nobili, e degno di un popolo libero.»

Udite queste osservazioni il Parlamento votò il seguente: decreto:

«Visti i reali fogli de’ 7, 8 e 10 dicembre, il decreto emesso dal Parlamento in data degli 8, e gli indirizzi, dal medesimo scritti in data dello stesso giorno e de’ 12 del corrente;

«Visti gli articoli 172 n. 2 187, 188 e 190 della costituzione del regno;

«Considerando che in caso di fisico impedimento del re, la di lui autorità debba, provvisoriamente esercitarsi ne’ modi stabiliti dalla costituzione che secondo l’articolo 188, se l’impedimento, si sviluppi nel tempo della minorità. del Successore immediato del trono, vi è luogo ad una reggenza, la quale non cessa, se non quando scorri i due anni, e divenuto maggiore l’erede, può questi assumere la qualità di reggente; che l'articolo 190 non ammette nella composizione della reggenza successore immediato del trono, se non perché allo svilupparsi dell’impedimento lo suppone minore, che secondo questi principi, ritrovandosi egli maggiore, va naturalmente chiamato ad esser reggente.

«Considerando chele qualità eminenti di SA. B. il principe ereditario del trono meritano la maggior fiducia della nazione;

«Il Parlamento decreta:

«1. Che ne’ termini contenuti nel decreto degli 8 dicembre, e negli atti correlativi di S. M. e del Parlamento medesimo, resti accordata la facoltà ch’egli chiede io virtù' dell’articolo 172 n. 2 della costituitone.

«2. Che avvenendo la partenza di S. M., l’autorità regia, descritta nel titolo IV cap. I della costituzione di Spagna, adattata per lo nostro regno, venga esercitata durante l’assenza nella qualità di reggente del regno, da S. A. R. il duca di Calabria.

«3. Che l’atto istesso della partenza di S. M. debba valete adesione al presente decreto, a quello degli otto dicembre, ed alle idee contenute negl’indirizzi degli otto, dieci e dodici dicembre.

«Napoli, 12 dicembre 1820.»

Il PresidenteCav. Pie. Ant. Ruggiero.
Nazario Colaneri
I SegretariFerdinando de Luca
Luigi Dragonetti
Felice Pulejo.

Nel giorno 13 dicembre si presentò a 8. M. una commissione composta da signori deputati al Parlamento nazionale Borrelli, Poerio, Rogani, Vivacqua, Giovine, Sonni, Riolo, Strano, Cassini, Incarnati, de Filippina Nicolai, Caracciolo, Ricciardi. Decio Coletti, Abate Coletto, Desiderio, Melchiorre, Arcovita, Tafuri, Lauria Bonduele,e da segretari Dragonetti e Pulejo: in tutto ventiquattro.

Essa fu introdotta nella sala del trono, ov'era il re circondato da ministri, da capi della corte, da generali dell'esercito e da ministri stranieri.

Inchinato il sovrano Borrelli disse:

«Sire,

«Incaricati dal Parlamento nazionale, noi presentiamo la di lui risposta all'ultimo messaggio che V. M. gli ha spedito. Noi le faremo tenere nel corso del giorno le po che modificazioni dello statuto politico, quali abbiam creduto proporre, e che debbono compiere l'opera del nostro edifizio sociale. Esse potranno mostrarle quanta cura abbiam posta nel custodire il regio potere, le franchige nazionali, il di lei giuramento, ed il nostro. Ci voglia ella intanto permettere d'intrattenerla un momento su di un oggetto che sveglia il nostro più caldo interesse.

«V. M. si accinge a partire per lo congresso di Laybach. Il Parlamento nazionale non può vederla vicina a se pararsi dall'amato suo popolo senza il più vivo dolore, Tutto egli avrebbe fatto per non esser privato un istante della sua augusta presenza; tutto, fuorché dispiacerle, e nuocere al bene del regno. Un solo pensiere può rattemperare il nostro cordoglio. Ella parte per sostenere la costituzione di Spagna, la sua propria indipendenza, e quel la della sua nazione, la comune prosperità, il giuramento comune. Possa il cielo secondare le di lei intenzioni, ed i pubblici voti! Chi, o Sire, sarà più glorioso della M. V., o chi sarà più felice? Ella sarà circondata dalle benedizioni, dalle lagrime di tenerezza, dalle adorazioni di tutti, Ella avrà tanti troni per quanti sono i cuori de'  cittadini. Il resto della di lei vita, che auguriamo lunghissima, offrirà il più grande spettacolo di ammirazione a tutto il genere umano. Niun timore, niuna apprensione avvelenerà le nostre speranze. Alta, illimitata è la fiducia che ci com piacciamo riporre nella magnanimità e nella costanza della M. V. Possa essere sopra di lei e sopra tutto il suo po polo lo sguardo di quel Dio che protegge la buona fede, che assicura le buone opere, e che stringe nel suo pugno il destino del monarchi e quello de popoli.»

Il re rispose:

«Io vado nel congresso per adempire quanto ho giurato. Lascio con piacere l’amato mie figlio nella reggenza del regno. Spero in Dio che voglia darmi tutta la forza necessaria alle mie intenzioni.»

Le parole di S. M. pronunziate coll’accento dell’amore, destarono vivissimo entusiasmo negli animi de'  deputati, i quali unanimemente gridarono: Viva il re!

Indi i medesimi deputati gli presentarono, per l’approvazione, |e riforme alta costituzione spagnuola e la scelta de’ consiglieri di stato. Il re promise rispondere dopo il consiglio. In fatti il di seguente adempì la promessa con il questo novellò messaggio.

A' miei fedeli deputati del Parlamento.

«L'interesse che io prendo per lo bene de'  miei popoli, esige che io non differisca di un solo istante la mia partenza per Laybach, ove i monarchi alleati si son già diretti.

«Voi nell’aderire alle mie paterne sollecitudini, desiderate che io prima disponga tutto ciò che ha rapporto alla nomina de’ consiglieri di'. stato ed alla modifica della Costituzione.

«La strettezza dei tempo non mi permette di occuparmi che del solò consiglio di stato. E son pago di rimanervi stabilito questo corpo, affinché l’andamento degli affari non soffra nella mia assenza il menomo ritardo.

«Le modifiche alla costituzione han bisogno di più maturo esame che non può essere da me compiuto nelle poche ore che precedono la mia partenza. Rimane perciò affidata questa cura ai principe reggente duca di Calabria mio dilettissimo figlio, il. quale è rivestito de'  miei poteri in tutta là loro pienezza: ma quando voi riputiate necessario che ciò debba farsi da me medesimo, mi si potranno inviare, o si potrà attendere il mio ritorno dii congresso di Laybach, che io mi auguro di effettuire in breve tempo.

«Intanto la durata di tre mesi che la costituzione prescrive alle vostre funzioni legislative, è prossima a spirane, mentre non sono tutti ancora esauriti gli oggetti delle vostre discussioni. Io desidero che a‘ termini dell’articolo 107 dello statuto, l’attual sessione del Parlamento si proroghi di un altro mese. Tanto richiedono i bisogni della patria.

«FERDINANDO BORBONE.»

Il consiglio di stato fu composto di ventiquattro membri.

Re Ferdinando affrettava il partire. Scrisse lettere al figlio, non pubbliche, né da re, ma private, da padre, esprimendosi cosi: Benché più volte io ti abbia palesato i miei sensi, ora li scrivo acciò restino più saldi nella tua memoria. Del dolore che provo in allontanarmi dal regno mi consola il pensiero di provvedere in Laybach alla quiete de’ miei popoli ed alle ragioni del trono. Ignoro i proponimenti de1 sovrani congregati; so i miei, che rivelo a te perché tu gli abbi a comandi regi e precetti paterni Difenderò nel congresso i fatti del passato luglio, vorrò fermamente per il mio regno la costituzione spagnuola; domanderò la pace. Così richiedono la coscienza e l’onore. La mia età, caro figlio, cerca riposo ed il mio spirito, stanco di vicende rifugge dalla idea di guerra esterna e civili discordie. Si abbiano quiete i nostri sudditi, e noi, dopo trent’anni di tempeste comuni, afferriamo un porto. Sebbene io confidi nella giustizia de’ sovrani congregati e nella nostra antica amicizia, pur giova il dirli che in qualunque condizione a Dio piacerà di collocarmi, le mie, volontà, saran quelle che ho manifestate in questo foglio, salde, immutabili agli sforzi dello altrui poteri o lusinga. Scolpisci, 0 figlio, questi detti nel cuore, e siano la norma, della reggenza, la guida delle tue azioni. Io ti benedico e ti abbraccio.

Il reggente, in argomento della fede paterna, lesse il foglio a parecchi ministri e confidenti; e però, di bocca in bocca divulgati que’ sensi, e viepiù le menti rasserenate, si facevan voti a Dio per la partenza dei re ed il conseguimento de’ suoi desideri. Cosi, benedetto, imbarcò sopra vascello. inglese nel mattino, del 14 dicembre, con seco la moglie, il ministro della casa, il cavaliere di compagnia e pochi servi: il duca del Gallo, nominato, ministro al congresso, doveva attenderlo in Firenze

Contrari venti ritennero il vascello a Baia. La città fu mesta de’ pencoli e de’ timori del re, la regal famiglia andò subito a visitarlo, né furono lente le ambascerie del Parlamento, della comunità, dell’esercito, il re, rimasto a bordo, accolse tutti cortesemente.

Gli ambasciatori del Parlamento furono i deputati Begani, Tommaso, Donato, Antonio Mercogliano, e il deputato segretario Ferdinando de Luca. Montati sul vascello, furono introdotti dal re dal marchese Ruffo. Il deputato cavalier Donato parlò ne’ termini seguenti:

«Sire

«Due contrari affetti ha prodotto pel Parlamento nazionale, la partenza di V. M., di dolor sommo uso, per averla veduta allontanarsi da un popolo che ama ed adora il suo re; e di vivo piacere l’altro, per l’oggetto del vostro viaggio, diretto a consolidare il nostro reggimento politico nell’augusta unione de’ più alti potentati di Europa in Laybach. Il vostro viaggio è turbato dalla contrarietà de’ venti; ma questa contrarietà ha, o Sire, il suo compenso, quello di porgere ai Parlamento l’occasione di rinnovare alla M. V. i suoi sentimenti. Noi destinati al sommo onore di esserne gl'interpreti, vi auguriamo il più prospero viaggio, il miglior successo nella grande impresa che fissar dee per sempre i nostri destini, ed il più pronto e felice ritorno fra noi.»

Il re rispose con bontà, e con gioviale ilarità che facea trasparire tutto il contento del suo animo:

«Ringrazio assai il Parlamento dell'interesse che prende per me. Son grato agli auguri che in suo nome mi rinnovate, e solo m’incresce il fastidio che vi siete dato di venir sin qua col cattivo tempo. Io attendo il buon vento per proseguire, con l’aiuto di Dio, l’intrapreso viaggio; e spero che tutto riesca come tutti desideriamo.»

Fu visto con meraviglia che, stando Ferdinando sicuro e libero sopra vascello inglese, portasse a fregio nell'abito il nastro tricolorato di carboneria, disusato nell'universale, solamente rimasto a caldissimi settari.

Andò fra gli altri a condolersi il duca d'Ascoli, vecchio amico del re, compagno a lui nei ruvidi piaceri della caccia e nelle dissolutezze degli amori, nelle regie fortune fortunato, alle sventure fedelissimo, che, dopo i rallegramenti del passato pericolo della notte, così gli disse: Spesso è un bene accanto al male; senza questo accidente non avrei potuto parlare a V: M., quando non è indiscreto il richiedere. Ella parte, noi restiamo smarriti, senza comando e senza esempio. Qual sarà il mio contegno? che dovrò fare tra questi turbamenti civili? In carità ed in mercede di antica incorrotta servitù mi palesi la sua volontà, prescriva le mie azioni.»

Il re rispose: «Duca d'Ascoli, farei scusa ad ogni altro della dimanda, ma non a te, che da fanciullezza mi conosci. Dopo il giuramento, le promesse, le patite tempeste, la grave età, il bisogno di vivere riposato, come puoi credere che io voglia guerra co' miei popoli, e nuovi travagli, nuove vicende? Io vado al congresso intercessore di pace; pregherò, la otterrò, tornerò grato a miei sudditi. Voi, che qui restate, manterrete la quiete interna, e, se avverso destino lo vuole, vi apparecchierete alla guerra.»

A quali benevoli concetti Ascoli pianse, lodò il re, gli baciò la mano e partì, Funeste lodi per lui e funesto pian to, perciocché il re lo sospettò propenso a libertà, e tornando da Laybach, stando ancora in Roma, decretò l'esilio del suo amico.

Calmatisi i venti dopo due giorni, il re parti.


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LIBRO QUINTO

Sommario

Novello ministero —Ira popolare. —Filangieri dà le sue dimissioni e non sono accettate. —Gli ex-ministri accusati nel Parlamento. —Difesa del conte Zurlo e del duca di Campochiaro. —I Rappresentanti assolvano i ministri. —Guglielmo Pepe va ad ispezionare gli Abruzzi. -- Dragonetti difende Aquila. —Festa delle bandiere civiche. —Il Parlamento compiti i lavori di modificazioni sospende le sue funzioni. —Stato dell'esercito. —Stato di cose in Italia —Assassinio di Giampietro.

I fatti del messaggio del 7 tolsero credito a ministri ed essi si dimisero tutti. Il duca di Gallo fu prescelto a ministro degli affari esteri e provvisoriamente in suo luogo il commendatore Pignatelli; il marchese Auletta a, ministro dell'interno, rimpiazzato poscia dal cavaliere de Thomasis; il duca di Carignano delle finanze, il tenente generale Parisi della guerra e marina, e il magistrato Giacinto Troysi a ministro di grazia e giustizia e degli affari ecclesiastici.

Ma la caduta de ministri non calmò affatto l'ira del popolo, il quale fervente ancora pel tentato rivolgimento del 7 dicembre, incolpava i ministeriali come sostenitori, minacciava la milizia come sostenitrice del messaggio. Il general Filangieri, capo delle guardie della città, fece pubblica dimanda di esser dimesso dall'esercito, giacché vedea sgraditi i suoi servigi. Ma il Reggente non aderì, al popolo piacque la modestia del generale, e Filangieri grato per la sua fama di guerra e per l'onorata me moria del genitore, crebbe in grazia della moltitudine, e, la Guardia fu lodata perchè era in dovere di custodire il re ne' tumulti.

Ma non fu così rispetto a dimessi ministri, anzi tutti gli sdegni piombarono su loro. Il partito degli esaltati, che una funestissima influenza di già esercitava sopra la parte maggiore della rappresentanza nazionale, ed una accusa capitale, sottoscritta dal deputato Gabriele Pepe, colpirono tutti gli ex-ministri latori del messaggio.

Il marchese Nicolai infra gli altri oratori nel dì quindi ci dicembre ascendeva la napoletana ringhiera e con fuoco ardentissimo favellando, diceva: Tutti gli ordini del re i quali pronunciavansi a contraddizione dello statuto politico, dovere attirare la severità del Parlamento sopra que ministri che ne secondavano l'opera: per tale do vere aversi quel turpe messaggio, il quale avea pochi giorni innanzi comminato di seppellire la nazione, in una e terna ignominia: l'avvenuto del giorno 7 dicembre, giorno memorabile pel dolore del popoli e per la codardia degli inimici del bene, contenere una violazione incontrastabile della giurata costituzione: essere il re per base di essa considerato sempre come il genio del bene, l'ami co del popolo, il sostegno della indipendenza nazionale, ed essere sempre i soli ministri quelli che aguzzano il volere del principi, che li consigliano per la oppressione de popoli, che danno forza a quel volere che è quasi sempre il risultato delle loro trame, che armano il braccio di infami esecutori di più infami decreti, e rendono fatali ai popoli quelle intenzioni le quali senza il concorso non mai sorgerebbero, e surte, rimarrebbero sepolte nell'a bisso del cuore.

«Popoli delle Due Sicilie, il deputato gridava, sei ministri si son presentati innanzi a vostri rappresentanti per promettere a tutti in nome del re che, i nostri comuni misfatti sarebbero stati perdonati: tutti e sei hanno insultato un popolo libero ne suoi rappresentanti, tutti hanno insidiata la gloria e l'indipendenza dei popoli, tutti dunque deggiono rispondere di questo orrendo attentato. Cittadini legislatori, il pericolo diventa ruina se resta invendicata la sovranità nazionale nei primi giorni del risorgimento di un popolo.»

In opposta sentenza il marchese Dragonetti, con non minore energia di dire, rispondeva: Che nuovi nella po litica costituzionale non doveasi senza profonda medita zione decidere una delle più complicate e difficili quistioni che interessavano in quel momento il Parlamento.

Gli uomini nel divenire ministri non rinunziavano alle franchige garentite dal patto sociale ad ogni cittadino, e prima di macchiarne la fama accusandoli, fosse di mestieri che una diligente analisi precedesse la imputazione che loro si ascrivea: guardare il cielo che il più lumino so de trionfi nazionali venisse disonorato da una ingiustizia. Sei ministri essere stati chiamati alla sbarra per due imputazioni ad essi comuni: la prima di aver consigliato il re ad un messaggio di funesta memoria, e la seconda di esserne stati gli apportatori. In quanto alla prima essere lagrimevole esempio vedersi compromessa la riputazione di un cittadino innanzi agli occhi delle più culte nazioni per una semplice congettura che fatti omai conosciuti contraddicevano apertamente.

Il consiglio del re, proseguiva l'oratore, quando si fabbricava quello scritto non essersi composto che di persone straniere al ministero, ed ancor dubbia esser la fama se alcuno dei nazionali v'intervenisse. Non esser dunque vero che gli accusati prendesservi parte: né una presunzione mal fondata e senza alcun indizio di prova, poter mai costituire il soggetto di un'accusa di alto tradimento. Sventurata essere quella nazione che dimostrasse tanta leggerezza in affare di tanta importanza, e così piccolo spazio frapponesse tra la innocenza e la colpa: quindi aggiungeva, che se i ministri furon latori del messaggio non conveniva illudersi dalle apparenze avvegnachè i messaggi reali al Parlamento altro non sono che l'esperimento del dritto che la costituzione congeda al monarca di prendere la iniziativa delle proposte, e noi deputati abbiam comune con lui questo dritto prezioso, e certamente non sarebbe tradotto in giudizio quello tra noi che facesse alcuna mozione non conforme a principi costituzionali.

Che non si poteva chiamar risponsabile quegli che firmò quello scritto, perchè con ciò non altro fece che il re venisse per l'organo suo a farci una proposizione, che la dignità nazionale e la convinzione della santità de’ nostri dritti persuasero di rigettare.

Che l'articolo 226 dello statuto, su cui era poggiata l'accusa, non parlava se non di ordini, perchè gli ordini eran quelli che producevano le infrazioni e provocavano la punizione del ministri, i quali apponendo la loro firma gli davano la forza esecutiva. Nulla di comune esserci tra un ordine ed una mozione, la quale era priva di effetto finché la sanzione della rappresentanza non le imprimesse il carattere della legge: non essere dunque colpevoli i ministri per avere accompagnato il messaggio, nè esserlo quello che fra di essi legalizzò la firma reale perchè non era quistione di ordine, ma di una proposizione in cui egli non avea avuta alcuna parte:

Che se ne cinque segretari di stato non vedevasi alcun ombra di reità, ben colpevole, diceva l'oratore, ravvisava colui il quale mentre il re su questa tribuna emetteva il suo voto, egli quasi decreto lo faceva di pubblica ragione, lo affiggeva per tutti gli angoli della città usurpando così anche i dritti del ministro di grazia e giusti zia e della pubblica sicurezza, al quale si apparteneva la pubblicazione degli editti. Esser dubbio se nella inconsiderata circolare spedita agl'Intendenti campeggiasse più la perfidia o la follia, e doversi molto dubitare se un colpo di stato o pure una demenza dovesse chiamarsi quella serie di operazioni che pel ministro dell'interno ebber luogo dal momento in che quel messaggio si proclamava in questo recinto.

Per le esposte ragioni, conchiudeva, non doversi dar luogo ad accusa contro i cinque ex-ministri e doversi sol tanto dichiarar reo d'infrazione politica dello statuto il ministro dell'interno che avea oltrepassati i suoi poteri e quelli del re onde rovesciare il presente ordine di cose.

Il risultamento di così vari ed opposti ragionari a gran maggiorità di voti fu che i ministri di grazia e giustizia e degli affari ecclesiastici, di guerra e di marina venissero dichiarati immuni da ogni responsabilità; rimanessero invece sottoposti ad accusa i ministri dell'interno e degli affari esteri, ed una sessione parlamentaria si stabilisse per sentire le personali loro discolpe.

Altra scena quindi non mai vista né letta nelle istorie del regno di Napoli si preparava: la onnipotenza ministeriale umiliata si vide comparire alla sbarra della rappresentanza nazionale, per difendersi e per render ragione degli atti di sua amministrazione. Esempio solenne, potente e mallevadore della prosperità del popoli: lezio ne alla prepotenza ministeriale!

L'ordine del giorno del dì 26 dicembre annunziava l'esame della causa de'  due ministri accusati di responsabilità, di alto tradimento: quello degli affari esteri per aver sottoscritto il messaggio, l'altro dell'interno per averlo comunicato a tutti gl'Intendenti delle provincie e pubblicato qual reale decreto che d'altra sanzione non avesse bisogno.

I rappresentanti del popolo sedeano in quel dì nella, pompa più solenne e maestosa della loro sublime missione; zeppe erano le tribune di esteri e nazionali personaggi, di dame e di diplomatici. Nell'ampia sala regnava religioso silenzio.

Dall'usciere di servizio il conte Zurlo fu il primo ad essere introdotto. Il presidente gli permise di favellare ed egli così disse.

«Signor Presidente, signori Deputati,

«Se io avessi avuto l'onore di essere interrogato su i primi atti di accusa prodotti contro di me, avrei forse prevenute molte delle discussioni fatte sopra questo soggetto. Non parlo di quelle che erano comuni a miei col leghi perchè ne avete già giudicato: se comune era con me il carico, comune era pur la ragione che lo fece svanire: io non ho in quel atto una parte maggiore o diversa da quella degli altri ministri.

«Parlo bensì di quel carico che mi si fa per la comunicazione del messaggio del re da me dato agl'Intendenti nella notte del 7 di questo mese. Voi avreste veduto che io allora ministro incaricato della corrispondenza colle provincie, dovea dare scienza di ogni atto pubblico e noto, specialmente quando con cattive interpretazioni avesse potuto influire nella tranquillità e nel buon ordine del regno..

«Si dice nel rapporto della commissione che il messaggio fu letto dopo le due pomeridiane. Se la memoria non m'inganna a me sembra che i ministri si fossero al quanto più tardi presentati al Parlamento. La sessione fu pubblica, il messaggio del re fu letto dal ministro com petente. Siccome non conteneva che una proposizione alla rappresentanza nazionale, ricevé colla lettura la pie na e totale esecuzione, la sola che corrispondeva alla na tura dell'atto.

«Non poteva dunque quella circolare avere altro oggetto che quello di comunicarne la notizia. Gli ordini, se vogliamo chiamarli così, o le lettere ministeriali non potevano avere che l'effetto solo d'indicare con verità quello, che il re avea scritto al Parlamento nel suo messaggio.

«Le provincie non doveano né approvarlo né rifiutar lo. Si trattava unicamente di darne loro la scienza: ora questo messaggio era divenuto legalmente pubblico dacchè se n'era fatta lettura in una seduta pubblica della rappresentanza nazionale. Si sa che questi messaggi e tutti gli altri che non si leggono in comitato segreto non devono e non possono più rimaner nascosti. S'intende subito che data con questa forma una notizia pubblica e certa se ne fa inevitabilmente ed immediatamente l'inserzione non solo nel giornale officiale, ma in tutti gli altri giornali.

«Si aggiunga a tutto questo che in Napoli, questo atto, già pubblico per la sua lettura solenne, che andava ad esser noto per mezzo de'  giornali e del fogli volanti in istampa, fu subito conosciuto per via dell'affissione.

«Se io mi fossi affrettato di comunicare un atto indirizzato al Parlamento e non ancora comunicato; se avessi fatto precedere nelle provincie la pubblicazione del messaggio prima dell'atto che lo rese noto alla capitale, questo potrebbe essermi imputabile. Ma la spedizione per le provincie seguì verso le due dopo mezzanotte.

«Quale fu dunque la ragione di fare questa comunicazione e di farla senz'attendere il corriere ordinario che partiva due giorni dopo? Non vi era motivo di far ignorare nelle provincie quello che già si sapeva nella capitale.

«Se questa scienza non si fosse data, il silenzio del governo avrebbe accreditate le false voci che precedeva no e che già si cominciavano a spargere. Per evitare le esagerazioni e gli equivoci conveniva dire in un modo officiale la cosa qual era. Permettetemi che io non analizzi tutte le conseguenze che avrebbero potuto derivare dal silenzio. Voi potete immaginarle, e non può attribuirmisi a colpa l'averle prevedute, o l'averle anche vanamente temute ed aver cercato d'impedirne gli effetti.

«Le preci ordinate furono un voto del re che ha a tutti ripetuto, il quale non era ingiusto e che non indicava né il tempo né il modo con cui S. M. avrebbe intrapreso il viaggio.

«Si giudica spesso diversamente ed anche contraddittoriamente delle cose, secondo il punto di veduta dal quale si riguardano.

«Ho potuto ingannarmi, ma io non veggo quale sia il difetto di dovere o di prudenza, che possa essermi rimproverato: mi sembra che la circolare non mi può essere imputabile né per se stessa né per le intenzioni che l'hanno fatta spedire, né per le conseguenze che ha prodotto.

«Ho potuto commettere errori, ma non colpe. Vi è memoria nell'antichità di qualche magistrato che uscendo dalla carica e non essendovi luogo a dire altre parole, giurò solo di averla bene amministrata. Sono sicuro anche io, con franchezza, di aver fedelmente e legalmente º 20 esercitata la carica che ho deposta, e di non avere in queste difficili circostanze demeritato della mia patria.»

Finito il suo dire il presidente permise all'ex-ministro di ritirarsi. Il duca di Campochiaro ebbe allora ingresso e così tolse a favellare:

«Signor Presidente, signori Deputati,

«Gli uomini passano e le istituzioni restano, ha detto con maschia eloquenza uno de'  più chiari oratori a que sta tribuna. E come che io creda aver da me egualmente lontano le cause di favore e di odio, vi prego, signori, a dimenticare la persona del ministro e colla severità del principi, colla imparzialità che si conviene a rappresentanti di una libera nazione, con quella fermezza in fine da voi mostrata nelle difficili circostanze, giudicare per i modo di regola se possa mai un ministro essere risponsabile per avere sottoscritto un messaggio, una proposizione diretta dal re al Parlamento, per formarne il soggetto di una vostra deliberazione.

«Tra le imputazioni fatte al messaggio del giorno 7 corrente vi è quella di sospendere una parte delle attribuzioni del Parlamento e forse la più importante, quanto la fissazione delle imposte per l'anno 1821. Ecco in alcun modo disturbate le vostre sessioni: ecco il caso del l'applicazione del n. 1 dell'art. 172 dello statuto: caso terribile, di cui il solo pensiero mi riempie di orrore, e la immaginazione spaventata rifugge: caso che suppone l'obblio del sacro giuramento del re, e de suoi doveri costituzionali: caso infelice di triste esperienza, che non vorrei preveduto da una costituzione come il più sapiente legislatore dell'antichità non volle nelle sue leggi pre vedere il parricidio, per non dichiarare ne' popoli possibile la sua esistenza: caso in fine che non macchierà il trono del fondatore della monarchia costituzionale. In qual modo risponde la commissione, non dirò a questa imputazione, ma a questo dubbio per dileguarlo? Un messaggio (son parole del rapporto) in modo di consiglio, e di semplice proposizione che si assoggetta alla libertà de voti del Parlamento, non prende il carattere di precetto; e quando si mandasse ad effetto, tutto rovescerebbe sulla condotta del Parlamento.

«Riconosciuto che il messaggio non avea il carattere di precetto, di comando, di ordine, che sono parole sinonime, e che contengono un senso stesso, ma che per contrario tutto dipendeva dall'alta vostra deliberazione, e non già da un ordine autorizzato dal ministro contro la costituzione, svanisce non solo il tentativo previsto dal l'art. 172 n. 1 della costituzione, giusta ha opinato la commissione, ma ancora la risponsabilità del ministro prevista dall'art. 226. Ivi è previsto che i segretari di stato ministri saranno risponsabili al Parlamento degli ordini autorizzati da loro contro la costituzione, o contro le leggi.

«Il re può fare al Parlamento nazionale una dimanda qualunque, il ministro al di cui ramo appartiene il soggetto della dimanda, deve legalizzare la firma del re. Con questo atto egli non autorizza alcun ordine, poiché chi propone non ordina certamente. Egli non fa che dichiarare che la proposizione parte dal re, e che nel di lui archivio se ne conserva l'originale.

«Il ministro non può, né deve prestarsi ad autorizzar un ordine contro la costituzione, o le leggi, ma non può né deve negarsi a legalizzare una proposizione, un messaggio del re al Parlamento, senza attentare direttamente al dritto che ha il re di provocare una deliberazione qualunque dal Parlamento, del pari che ogni deputato potrebbe farlo. Egli farebbe allora un atto incostituzionale, opponendosi a quando lo statuto prescrive nel titolo IV, Cap. I, S 14.

«Immaginate per un istante, che il governo credesse proporvi una legge di eccezione la quale sospendesse, o restringesse una o più franchige dal nostro statuto garentite; potreste mai dichiarare risponsabile il ministro che venisse alla tribuna a presentarvene il progetto? Presso tutte le nazioni costituite, la lotta tra il ministero e l'opposizione s'impegna grandemente, appunto quando siffatte leggi vengono proposte, ed i due partiti fanno ogni sforzo per vincere la decisione dell'assemblea.

«Passo alla seconda imputazione. – Ha creduto la com missione, che io avessi rilasciato copia del messaggio al ministro degli affari interni per spedirlo come ordine alle provincie. È questo un equivoco di fatto. Quel messaggio di cui non ho avuto parte alcuna del suo contenuto, scritto nella segreteria privata di S. M., lo ricevei dalle mani auguste, in compagnia de'  miei colleghi, pochi istanti prima che mi recassi con loro a leggerlo in Parla mento. Vi apposi la mia firma per certificare quella del re. Era ciò un dovere del ministro degli affari esteri, dappoichè quel messaggio era motivato dalle tre lettere autografe de'  sovrani in Troppau. Il di più mi era estraneo. La sera del 7 per la prima volta nella segreteria di mio carico, ne furono recate cinquanta copie stampate.

Io non ne aveva prima rilasciata alcuna di un originale, che non possedeva, né ho diretta comunicazione alcuna a chicchesia, non dico a miei colleghi, ma neanche agli impiegati di mia dipendenza.

«Signori, sono sei lustri e più scorsi da me in servizio del mio paese, e qui come altrove non ho giammai servi to da strumento di schiavitù: le poche ragioni fin qui dette mi sembrano sì solide e positive da dileguare ogni nebbia che potesse per un momento offuscare la verità e la giustizia,

«Ma se a consolidare l'edifizio costituzionale è necessario l'esempio di chiamare a risponsabilità un ministro, siate pure ingiusti meco, e riserbate alla imparzialità della storia, al severo infallibile giudizio de'  posteri la dichiarazione della mia innocenza.»

Finito l’ex ministro il suo dire ebbe dal presidente commiato. Allora i deputati Berni, Galanti, Poerio ed altri ascesero successivamente la tribuna e parlarono tutti in diversi sentimenti ed avvisi. Un decreto di assoluzione, a gran maggioranza di voti, fu tosto emanato a pro degli accusati ministri, e così calmaronsi le irritazioni ed i timori di un popolo intere che in questa grave bisogna notava rinforzate le dibere istituzioni ricevute; cosi le inquietudini cittadine si tranquillarono; là setta carbonaria levò Sai cielo il riportato trionfo.

Sin dallo scorciò del mese di dicembre Guglielmo Pepe comandante della terza divisione militare si recava a spezionare le contrade Abruzzesi, e nel dì 24 il principe Eleggente gli scrivea:

«La Principessa ereditaria, mia dilettissima sposa, la quale divide con me i sentimenti di attaccamento al re, al trono costituzionale ed alla nostra patria, ha voluto ornare di stia mano le bandiere. Le cravatta, delle. medesime sono opera sua e sventolano già in cima de'  drappelli che Saranno confidati alla forza nazionale. La. principessa ha. adempito con ciò alla promessa fattane.

«Son sicurissimo che saprete fare appressare tal dono che parte dal cuore di chi divide pienamente i miei sentimenti non ad altro diretti che alta felicità della nazione.»

Fu contentissimo il general Pepe dello spirita pubblico che avvivava gli Abruzzi. I quali caldeggia vano tutti di sentito amor patrio. Diciotto battaglioni di milizie cittadine ben armati e meglio forniti offerivano una forza vigorosa ed imponente. Furono in. ciascuna provincia distribuite le bandiere ed ih questa festa civile l'entusiasmo dei popolo, non ebbe confine. Intanto mentre dal Generale si riferiva al principe Reggente la sua molta soddisfazione degli Abruzzi, delle fortezze di Pescara, di Civitella del Tronto e del modo con che eransi fortificate le cosi dette gole di Antrodoco, lamentava con dubbie parole Io stato morale della grandiosa città di Aquila.

«L’Intendente Betti, egli scrivea, nella provincia di Aquila ha fatto quasi dimenticare la memoria delle aberrazioni cui sono andati per poco soggetti alcuni individui di quella provincia.»

Il marchese Dragonetti non rimase indifferente alla lettura di simile rapporto. Nel di 28 gennaio scrisse a Pepe: che costituito rappresentante della nazione non avea potuto dimenticare che gli abitanti di quella parte del regno gli confidarono i loro destini e che andava egli debitore di quanto poteva interessare la loro gloriale prosperità nazionale; che nella provincia e città di Aquila non v!era nulla a dimenticare, e molto a rammentare con nobile orgoglio, per modo che le prische sue memorie non meno che le recenti gli avean sempre destata la compiacenza di esser nato sopra una classica terra; che comunque la frase del suo rapporto fosse vaga, avvisava che agli ultimi avvenimenti avesse dovuto essa riferirsi; che lungi dì esservi individui soggetti ad aberrazioni, dall'ultimo Sangro sino alla sorgente del piccolo Aterno, niun grido di sedizione o di tumultuosa letizia avea alteratala a gioia sublime con cui venne proclamato il novello ordine di cose che se i modi ond’era stato il Generale lungamente festeggiato non ebbero sembiante di popolare o frenetica esultanza, ciò dovessi ascrivere all'austero caratte10 re di quegli, abitanti che ritengono ancora della sabina severità, ed io cui nulla si trova di esagerate tranne il sentimento della propria dignità; che se da ultimo quelle l(parole scritte nel rapporto si fossero dirette,a qualche individuo di cui il Generale conoscesse personalmente meno, i lodevoli sentimenti, egli in nome di trecentomila abitanti ne chiedeva una espressa dichiarazione e domandava questo attedi giustizia dalla rettitudine e magnanimità del suo cuor cittadino.

Il Generale alla lettura della scritta del Dragonetti cosi rispose.

«Signor marchese stimatissimo,

«Io sempre più ammiro con piacere il vostro grande patriottismo come napolitano ed il grandissimo come abruzzese. Dovete convenir meco che i torti degl’impiegati i quali dovrebbero dirigere lo spirito pubblico riflettono. disgraziatamente suite innocenti popolazioni. E troppo le Calabrie dove io sono nato provano questa verità. Io pel mio rapporto ho inteso parlare dell'Intendente nello stenderlo di mio pugno avea anche nominato, ma in seguito me ne astenni per non sembrare che volessi appesantire sopra di un profugo.»

Il marchese Dragonetti si tenne soddisfatto di tale dichiaratone.

La festa intanto delle bandiere civiche si celebrava al primo di gennaio 1821; Essa fu cosi maestosa e sublime che non si ricorda la simile. Era festa di un popolo rigenerato, d’un popolo che fatto consapevole de'  propri dritti e de'  corrispettivi doveri ne faceva rispettare la esistenza colla osservanza dell'ordine e della legalità. Un popolò che confondeva la sua gioia con quella del principe costituzionale. Un sole di aprite splendeva nel più bel cielo d’Italia: Dio pòrta sorridere a’ popoli napolitani.

Undici reggimenti della guardia nazionale tra fanti e Cavalli defilavano al suono de’ tamburi e delle bande musicali per la popolosa Toledo e quindi lungo la incantevole riviera di Chiaia si spiegavano in battaglia. Quivi la carrozza di gran gala col principe Reggente e con la principessa Elisabetta di Spagna, seguita dalla famiglia Reale, circondata da un brillante e numeroso stato maggiore, appariva, e si ricevea dalle schiere a furia di plausi.. Era immensa la calca del popolo. Giunto il Reggente nella piccola chiesa di Piedigrotta ebbe luogo la religiosa benedizione delle bandiere le cui cravatte erano state, ricamate dalla principessa che area intorno a sé riuniti tutt’i cuori, tutte le simpatie, tutt'i partiti. La consegna delle bandiere fatta dalle auguste mani in potere di ciascun comandante Veniva annunziata dalla salta di tutte la artiglio. rie de'  forti, dallo sparo della fucileria, dalle acclamazioni. del popolo, dal rimbombo de’ cannoni, dal frastuono delle bande musicali. Le luminarie spontanee per tutta la città, le danze nelle strade e nelle piazze, i teatri pubblici illuminati e gratuitamente aperti a tutti prolungarono la letizia sino a notte avanzata, ed in mezzo allo sviluppo di tante entusiastiche e svariate passioni niun disordine, niun delitto macchiarono la gioia di quella festa cittadina.

I lavori intanto del Parlamento sulla modificazioni dello statuto vennero compiuti: nel giorno 30 gennaio con bell’ordine, di pompa, al frastuono di tutte le bandi musicali fu presentato alla sanzione del principe Reggente il libro del novello patto sociale; e il Parlamento, giuste la costituzione sospese le sue funzioni, restando in permanenza una deputazione composta di Galdi presidente, Tito Bersi segretario, Scrugli, Nicolai, Borrelli, Donato e Strano componenti.

L’esercito costituzionale fa completato: un corpo di cinquantaduemila uomini di truppa regolare, la cavalleria: il treno, l’artiglieria, il gènio interamente ordinato e disposto in caso di guerra, Non penuria di armi, non deficienza d'insegnamento. Il materiale di artiglieria bastevole a’ bisogni dell’esercito; le sussistenze assicurate a tutto settembre di quell'anno, gendarmeria e Stato Maggiore a totale compimento portato.

La forza nazionale fa divisa in militi e legionari.

Le milizie capaci di portar armi fuor di provincia sommarono a 219,807 uomini; i legionari per lo interno servizio del regno in numero di quattrocentomila eran pronti: la gendarmeria a 5,000 individui ascendeva.

Tutte queste forze sarebbero state più del bisogno capacissime ad affrontare con vittoria la più vigorosa aggressione se non fossero state spinte dall'urto incendiario e frenetico della Setta, ognor fallace e volubile. Questa massa di forza militare componevasi di padri di famiglia, giovani imberbi, uomini parte dissoluti, parte scaltri e maligni, la miglior porzione fastidiosa dei proprio mestiere; quasi tutti senta disciplina.

Il governo di Napoli anzi che sentire che una massa di milizie di simil fatta lungi dal sostenere la difesa della patria, l’avrebbe piuttosto irreparabilmente perduta, non volle disingannarsi sullo stato reale delle sue forse,anzi magnificandole oltre ogni lecita misura, si tenne per forte, per potente, per invincibile.

Or mentre in Laybach trattavansi le sortì del regno; erano in Napoli rallentati, per le credute promesse del re, gli apparecchi di guerra. La Carboneria, diretta e scommossa, da segreti agenti del governo, non operava; l’indole del ministero era pacifica e muta; vacuo di cure appariva il regno. Ma non così il resto d’Italia. Essa, sollecita mai sempre al grido di libertà, allor che intese le prime fortunate mosse di Napoli, si agitò; ed al crescer della rivoluzione, ed alla vantata felicità de’ successi, il Piemonte preparatasi a soccorso; gli stati di Roma ed altri minori alcun opera compivano se a loro sostegno fossero uscite schiere napoletane o editti. Ma il governo dichiarò che, contento di sé, non mirava gli altri stati, e che il miglioramento detto sue costituzioni dipendendo dal voto unanime del popolo e dall’assentimento spontaneo, del re, disdegnava le pratiche usate dalle rivoluzioni. Citava io prova i fatti di Pontecorvo e Benevento, due città del pontefice Bel seno del regno, che ribellatesi e presa la costituzione di Spagna, chiesero d'incorporarsi al reame di Napoli; rifiutate,pretesero di confederami; offerendo danari, armi e combattenti; rifiutate di nuovo, pregarono di essere protette. Il governo di Napoli rispondeva non poter trattare le cose degli Stati romani che sodamente col sovrano pontefice.

In quel tempo un delitto privato ebbe pretesto ad effetti pubblici. Era in Napoli un Giampietro, in gioventù avvocato, caldo ed onesto partigiano di monarchia, amante de’ Borboni, esiliato perciò dal re Giuseppe, richiamato da Gioacchino, intemerato sotto i re francesi. Al 1815 le sue affezioni trionfarono; ma non però il governo gli diede impiego, delle ingrate dimenticanze egli si dolse. Due anni appresso fu nominato prefetto, e poi direttore di polizia, le quali cariche, per sé malefiche, in tempi difetti e corrotti, gli procacciarono numerosi nemici. Vero è che molti settari erano stati per suo comando imprigionati o sbanditi, senza giudizio, senza difesa: pratiche inique, infeste all'innocenza, infeste per fino alla colpa, grate e necessarie a’ governi assoluti. Per la rivoluzione di luglio tornarono potenti quegli afflitti da lui; tornò egli privato ed oscuro, vivendo tra pochi amici, e numerosa famiglia. Una natte, uomini armati, che si dissero: della giustizia andarono io sua casa; ed. il capo impose a Giampietro, di seguirlo: ma benché autorevole fosse il comando, la voce balbutiva, ed il sollecitare udivasi ansante come di misfatto, non riposato come di servizio e di zelo; mentre i compagni, evitando studiosamente fa luce, nascondevano il viso alfa famiglia ed a’ famigliari. La moglie ed una giovane' figlia furono prime a’ sospetti; poi tutti della casa, e, come Voleva età, sesso e misera condizione, proruppero in pianto, ed abbracciavano le ginocchia degli assassini; i quali a’ lamenti più imperversavano, perché faceva pericolo il rumore. L’infelice padre, rapito sotto gli occhi di tenera moglie, e di nove figliuoli, quasi all’uscio della sua casa è trafitto di 42 punte, collo stesso pugnale: gli infami si prestavano il ferro per incrudelir sulle spoglie.

Fatto noto il delitto, la città si spaventò, tanto più che falsamente si diceva essersi trovato scritto sopra cartello, chiodato in fronte al cadavere, numero primo. Si citavano ventisei disegnate vittime, e perocché ciascuno a suo talento ne indicava i nomi, le fiere liste spaventavano innumerevoli cittadini. Crebbe il terrore al sentire preparato il misfatto nelle notturne adunanze di Carboneria, ed all'osservare il silenzio e la pazienza de magistrati, non già per assentimento, ma per paura. Il cavalier de Medici, nominato in molti fogli, fuggì sopra nave a Civitavecchia, indi a Roma; e l'alto nome, il pericolo, la fuga, i discorsi screditarono la rivoluzione di Napoli. Il conte Zurlo, mal visto e minacciato, cercò asilo sopra fregata francese ancorata nel porto, e l'ottenne benevole e riverente. Altri minori, non offesi né ricercati, ma timidi o nelle pubbliche rovine ambiziosi e speranti, fuggirono, come il duca di Sangro, tenente generale, che, avendo giurato a quel governo, e tirandone onori e stipendi, fu disertore. E, non pago di un sol delitto, trasse compagno un suo giovinetto figlio, tenente nell'esercito; il quale, insino allora innocente, fece contrasto alle voglie paterne, ma infine dall'obbedienza fu vinto.


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LIBRO SESTO

Sommario

Giungono novelle del re e lettere del duca del Gallo.- L'esercito tedesco muove dal Po. — Il Reggente aduna un consiglio, si nominano i capi dell'esercito. — Notizie recate dal duca del Gallo e parole scritte dal re al figlio. — Si convoca il Parlamento. — Parole del Reggente. Rapporto del duca del Gallo. – Dichiarazioni dell'Assemblea nazionale. — Dimanda del duca d'Ascoli a S. A. ed altre simili. — Promulgazione di guerra. — Stato del regno. — Consiglio per formare i disegni di guerra e sistema a tenersi. — Ordine del giorno di Francesco a soldati. — Istruzioni politiche a capi degli eserciti. — Gli eserciti marciano. — Pepe attacca i tedeschi in Rie ti ed è sconfitto. — I tedeschi occupano gli Abruzzi. — Consiglio a Torricella. — Carascosa ritira l'esercito dietro il Volturno. — Avvilimento del Parlamento, e tradimenti de capi settari. — L'esercito si sbanda. — Ferdinando I in riscatto dello spergiuro appende lampada alla Madonna in Firenze. — Rivoluzione in Piemonte. — La guardia reale in Napoli. — Il ministero è licenziato. — Poerio aduna 26 deputati e formola l'atto di protesta. — Il Parlamento si chiude. — L'esercito tedesco entra in Napoli. — Esame generale del reggimento pubblico.

Giunsero le nuove lungamente attese del re, che riferiva il felice viaggio e la perfetta sanità; vantava i suoi cani che agli esperimenti di caccia superavano i bracchi dello imperator di Russia; nulla diceva degli affari di stato. Ma quelle lettere, benché sceme di pubblico interesse e di real decoro, furono partecipate al Parlamento a fin di sedare i popolari sospetti dal troppo silenzio eccitati. Lettere del duca del Gallo rapportavano ch'egli, prima in Mantova, ora in Gorizia, stava impedito di portar si al congresso; mentre notizie officiali o private accerta vano che l'esercito tedesco moveva dalla linea del Po.

Ridestato il timore di guerra, rumoreggiando i partigiani della rivoluzione, il Reggente adunò consiglio per la difesa. Fu nominato capo del primo esercito il generale Carascosa, il quale, cruccioso delle patite accuse, o prudente dell'avvenire, con simulata modestia rifiutava; fu capo del secondo esercito il generale Guglielmo Pepe, che, baldanzoso e confidente della vittoria, richiedeva il co mando; quegli a stento, questi voglioso accettò. Stavano col Carascosa i tenenti generali Ambrosio, Filangieri, Arcovito, Roccaromana, Pignatelli Strongoli, con Pepe niun tenente generale, perocchè agli eguali dava tedio quel mal tolto impero. I due capi, l'uno verso l'altro liberi, penderebbero dal comando supremo del principe Reggente, del quale era capo di stato-maggiore il generale Florestano Pepe. Il primo esercito difenderebbe la frontiera del Garigliano, il secondo gli Abruzzi. Ma questi eserciti stava no ne nomi, perciocchè nessuna schiera era in movimento, né si provvedeva a mezzi della guerra, vesti, vettovaglie, ospedali, aumenti d'armi, aumento d'uomini. Si viveva alla spensierata.

L'ozio vergognoso fu scosso da nuove lettere del re, scritte il 28 gennaio da Laybach, pervenute al Reggente il 9 febbraio per mano del duca del Gallo, che il re ave va chiamato da Gorizia per istruirlo delle decisioni del re congregati, e farlo portatore in Napoli de'  suoi fogli, e consigliero al figlio, al Parlamento, al popolo di rassegnazione e di quiete. Gli aveva imposto di assistere al congresso di quel ministri come testimonio e nuncio della concordia del potentati, e del proponimento di mantenere le stabilite cose. Egli perciò vide il ministro d'Austria Metternich presedere a ministri di Russia, Prussia, Francia, Inghilterra, e de’ principi italiani; vide tra quelli sedere e consultare, come ambasciatore del regno delle Sicilie, il principe Ruffo, lo stesso che dal re poco innanzi era stato cassato d'impiego; udì che le tre monarchie della Santa Alleanza opererebbero colle armi, mentre assentiva la Francia, non contrastava l'Inghilterra, e i governi d'Italia applaudivano. Tali cose riferì a voce; le proprie parole del re erano:

«Lubiana, 28 gennaio 1821.

«Voi ben conoscete,i sentimenti che mi animano per la felicità da’ miei popoli, ai motivi pe’ quali solamente ho intrapreso, ad onta della mia età. e della stagione, un così lungo e penoso viaggio. Ho riconosciuto che il nostro paese era minacciato da nuovi disastri, ed ho creduto perciò che nessuna considerazione dovesse impedirmi di fare il tentativo che mi veniva dettato da’ più sacri doveri.

«Fin da’ miei primi abboccamenti con i sovrani, ed in seguito delle comunicazioni che mi furono fatte delle deliberazioni che hanno avuto luogo dalla parte de’ gabinetti riuniti a Troppau, non mi è restato più dubbio alcuno sulla maniera colla quale le potenze giudicano gli avvenimenti accaduti in Napoli dal 2 luglio a questo giorno.

«Le ho trovate irrevocabilmente determinate a' non ammettere lo stato di cose che è risultato da tali avvenimenti, né ciò che potrebbe risultarne; e riguardarlo, come incompatibile colla tranquillità del mio regno, e colla sicurezza degli stati vicini, ed a combatterlo piuttosto colla forza delibarmi, qualora la forza della persuasione. non ne producesse |a cessazione immediata

«Questa è la dichiarazione che tanto i sovrani quanto i plenipotenziari rispettivi mi hanno fatto, ed alla quale nulla li può indurre a rinunciare.

«É al disopra del mio potere, e, credo di ogni possibilità umana, di ottenere un altro risultato. Non vi è dunque incertezza alcuna sull’alternativa nella quale siamo messi, né sull'unico mezzo che ci reste per preservare il mio regno dal flagello della guerra.

«Nel caso che tale condizione, sulla quale i sovrani insistono, sia accettata, le misure che ne saranno conseguenza non verranno regolate se non colla mia intervenzione. Devo però avvertirvi che i monarchi esigono alcune garenzie, giudicate momentaneamente necessarie per assicurare la tranquillità degli stati vicini.

«In quanto al sistema che deve succedere all’attuale stato di cose, i sovrani mi han tetto conoscere il punto di vista in generale sotto cui essi riguardano tal quistione.

«Essi considerano come un oggetto della più alta importanza per la sicurezza e tranquillità degli stati vicini al mio regno, per conseguenza dell’Europa intera, le misure che adotterò per dare al mio governo la stabilità della quale ha bisogno, senza voler restringere la mia libertà nella scelta di queste misure. Essi desiderano. sinceramente che, circondato degli uomini più probi e più savi fra i miei sudditi; io consulti veri e permanenti interessi de’ miei popoli; senza perdere di vista quel che esige il mantenimento della pace generate, e che risulti dalle mie sollecitudini e dal miei sforzi un sistema di governo atto a garentire per sempre il riposo e la prosperità del mio regno; e tale da render sicuri nel tempo stesso gli altri stati d'Italia, togliendo tutti que’ motivi d’inquietudine che gli ultimi avvenimenti del nostro paese avevano loro cagionato.

«É mio desiderio, figlio carissimo, che voi diate alla presente lettera tutta la pubblicità che deve avere, affinché nessuno possa ingannarsi sulla pericolosa situazione nella quale ci troviamo. Se questa lettera produce l'effetto che mi permettono di aspettarne tanto la coscienza delle mie paterne intenzioni, quanto la fiducia ne' vostri lumi e nel retto giudizio e lealtà de'  miei popoli, toccherà a voi mantenere frattanto l’ordine pubblico, finché io possa farvi conoscere la mia volontà in una maniera più esplicita per il riordinamento dell'amministrazione.

«Di tutto cuore intanto vi abbraccio, e benedicendovi, mi confermo

«Vostro affezionatissimo padre

«FERDINANDO.»

Gli ambasciatori russo, austriaco, prussiano che attendevano il ritorno in Napoli del duca del Gallo, per notificare al Reggente le dichiarazioni del congresso, uniti in quel giorno medesimo, recandosi nella reggia, presentarono le lettere de’ loro sovrani. Benché tra gli ambasciatori, uno parlò e delle tre lettere uno era il dettato, ad argomento di stretta concordia. Diceva che la rivoluzione di Napoli, nelle prime segrete trame, come ne’ mezzi e nel fine, offendeva i sistemi politici di Europa, minacciava la sicurtà de’ governi d’Italia, perturbava la pace universale, nuoceva col fatto e coll’esempio, era incomportabile da’ reggitori de’ popoli. Ma per oprare maturamente, avendo consultato l’esperienza ed il senno del monarca di Napoli, era stato necessità stabilire che un esercito austriaco, in prima linea, ed altro russo, in riserva, marciassero sopra quel regno, amichevolmente, se ritornava all’antica obbedienza, e da nemici se l’ostinato proponimento persisteva: e che, per pace e per guerra, vi rimarrebbe temporalmente un esercito tedesco in sicurtà del re, delleleggi, della giustizia. Il Reggente rispose che avrebbe consultato il Parlamento. Indi a poco, nel giorno stesso, il ministro di Francia dichiarò al Reggente che il suo governo aderiva, alle decisioni del congresso di Laybach ed il ministro inglese, che la Inghilterra starebbe neutrale nelle presenti contese.

Era vicino e grave il pericolo: il Reggente convocò il Parlamento straordinario, ed il 13 febbraio, perocchè sollecitamente si adunarono i deputati, ne fece apertura.

Il principe giunto colle solite solennità nelle sale del Parlamento, disse:

«Signori Deputati,

«Nel momento di chiudere le vostre sessioni ordinarie vi annunciai che forse sarei stato nella necessitò di chiedere una convocazione straordinaria del Parlamento. Eccone giunto il tempo nel quale con vera soddisfazione mi veggo di nuovo in mezzo a rappresentanti della nostra nazione. Trattasi in questo momento di dover voi deliberare sull'oggetto il più importante che siasi mai presentato alla vostra considerazione. Consentaneo sempre ai principi da me dichiarati ed alla fermezza di essere strettamente unito alla mia nazione, non ho tralasciato di far mettere a giorno la Deputazione permanente delle notizie che abbiam ricevute. Ho similmente ordinato al ministro degli affari esteri che vi faccia un pieno e fedele rapporto della sua missione, di quanto concerne le risoluzioni del congresso di Laybach ed a noi manifestate su tuttociò che riguarda il nostro stato politico, come altresì delle relazioni in cui ci troviamo colle potenze straniere.

«Son sicuro che le più sagge riflessioni e la ponderazione più profonda dirigeranno le vostre discussioni in un affare di fonte alla importanza che interessa al tempo stesso l'onore e la felicità di tutta la nazione, che mi sono tanto a cuore. Prendiamo delle misure sagge ed energiche, ed io sempre fedele a miei giuramenti godrò di essere in mezzo ad una nazione che non cessa di dimostrarmi in ogni rincontro i suoi affettuosi sentimenti.»

Terminato di favellare, il principe partì cogliendo plauso da’ deputati e dal popolo, quantunque si fosse notato che lai sua voce usciva rotta e turbata; e prese subito la parola il duca del Gallo, i quale dopo aver fatto un fedele racconto del suo viaggio, degli ostacoli frapposti dal governo austriaco al suo arrivo a Laybach, di come chiamollo il re comandandogli di assistere all’adunanza de’ ministri col divieto di nulla opporre, ma di udire, partire a volo, persuadere la rassegnazione e la pace, presentò e lesse l'autografo di re Ferdinando del 28 gennaio.

Successe indi la lettura del fogli de’ tre sovrani e delle note degli ambasciatori d'Inghilterra, di Francia e del dispaccio del conte Nesselrode ministro degli affari esteri di S. M. l'imperatore delle Russie al conte di Stockalberg inviato straordinario e ministro plenipotenziario alla corte di Napoli.

Questo dispaccio tra l'altro diceva «che la rivoluzione di Napoli portava in sé stessa. un carattere molto allarmante per esser cagione dell’attenzione de’ sovrani e per dirigere le loro misure su i danni che essa comminava agli stati vicini: aver essa dato al mondo altrettanto istruttivo che deplorabile esempio di ciò, che le nazioni, vanno a guadagnare cercando le riforme politiche per via della ribellione e del delitto: che ordita nel segreto da una setta le cui empie massime attaccavano ad un tempo la religione e la morale, e seguita:da truppe difettive a loro giuramenti non avea potuto produrre che l'anarchia ed il dispotismo militare, creando un reggimento mostruoso ed incompatibile coi primi bisogni della società: che la soppressione spontanea di questo reggimento avrebbe restituito il regno delle Due Sicilie nelle sue antiche relazioni cogli stati di Europa; ed allora S. M. il re circondato da' lumi e sostenuto dallo zelo degli uomini i più probi ed i più savi fra suoi sudditi, avrebbe stabilito per l'av venire ne' suoi stati un ordine di cose portante in sè stes so la garentia della sua stabilità conforme a veri interessi de'  suoi popoli e proprio a rassicurare gli stati vicini sulla loro sicurezza e futura tranquillità.»

Conformi erano i di spacci del gabinetti di Vienna e di Berlino. E dopo che il del Gallo ebbe ancora palesato al Parlamento le conferenze tenute nella reggia la sera del 9, riferì le ostili disposizioni delle corti d'Italia, e come il ministero eseguirebbe i voleri del Reggente, e questi le decisioni del Parlamento; insomma non nascose nulla, e partì.

Grande e veramente sublime fu l'adunanza del Parlamento nazionale quando si lessero le dette note diplomatiche: nobilità di dire, appello al dritto internazionale de’ popoli, volontà deliberata di seppellirsi sotto le rovine della patria, anziché comprare la pace a prezzo d'ignominia tanta, furon queste le idee che dominarono l'intera assemblea, la quale ad uniformità di voti dichiarò:

1.° Non avere il Parlamento facoltà di aderire ad alcuna delle proposizioni comunicategli per parte delle LL. MM. il re di Prussia, e gl'imperatori di Austria e di Russia: proposizioni dirette alla distruzione della costituzione attuale, ed alla occupazione del regno.

2.° Riguardare come incapace di attribuirsi alla volontà di S. M. ogni atto passato o futuro, il quale fosse contrario a suoi giuramenti confermativi della costituzione medesima, ed in conseguenza riguardare in ordine a tali atti S. M. come costituita in istato di coazione.

3.° Durante questo stato di coazione della M. S. continuare il duca di Calabria, suo augusto figlio, nella reggenza del regno nel modo prefisso col decreto del 10 dicembre 1820.

4.° Che in conformità delle suddette dichiarazioni tutte le misure doveano prendersi per la salvezza dello Stato.

Da quel momento l'energia della rappresentanza nazionale è ben degna d'imperitura memoria. La sua operosità fu prodigiosa ed instancabile. Un imprestito di tre milioni di ducati divisi in 150mila obbligazioni, ciascuna di ducati venti, fu tosto decretato ed eseguito con spontaneità senza esempio: un altro milione di beni territoriali fu assegnato come dote per ricompensare quel bravi che si distinguessero in guerra, ammettendosi a partecipare di questo beneficio le vedove ed i figli di que' prodi che perdessero la vita in difesa della patria.

La riserva de'  vecchi soldati esuberante fu richiamata in attività: nuovi armamenti, novelle milizie, cinquantamila quattrocento uomini di guardie nazionali divise in 72 battaglioni vennero mobilizzate e messe a disposizione del governo: raddoppiate le sussistenze militari, e tutti gli sforzi straordinari che possono ottenersi da una nazione generalmente infiammata dal sentimento di orgoglio e di cittadino entusiasmo, ciascun mezzo in un una parola fu messo in opera per la più valida e vigorosa difesa della patria. L'entusiasmo generale era al culmine, in guisa che nel dì 15 febbraio il vecchio duca d'Ascoli scrivea al principe Reggente:

«Altezza Reale,

«La nostra patria e la vostra dinastia sono minacciate da una guerra straordinaria, ed io nel corso non breve di mia vita, ho sempre amata e servita l'una e l'altra. Desidero quindi un destino militare e lo richieggo a V. A. pregandola ad esser certa che il più pericoloso, purché utile al servizio pubblico, sarà il più grato al mio cuore.

«Um. Servo

«Duca d'Ascoli.».

Oltre a questa scritta del duca d'Ascoli, il principe di Salerno figliuolo del re, dimandò di servire nella guerra; e chiesero il medesimo cimento il giovane Partanna, Niscemi figlio del principe che stava col re in Laybach, non che altri molti cari e devoti al monarca. I loro servigi furono accettati.

Nelle rimanenti ore del giorno della convocazione del Parlamento, i cittadini a crocchi, i settari alle loro adunanze, prevedevano i pericoli, consigliavano i rimedi. Altri scusava il re, altri lo gridava spergiuro, e chi diceva giusta la guerra, chi necessaria.

«Così stavano le opinioni comuni, quando al vegnente giorno il Parlamento si adunò fra genti spettatrici molte, ma tacite; imperciocchè la gravezza de casi e lo smarri mento comprimevano la usata popolare loquacità.

Primo a parlare fu il deputato Borrelli: a lui ed a molti che succederono soprastava, per forza di ragioni e di eloquenza, il discorso del Poerio. Dimostrò libere nel passato luglio le concessioni del re a sudditi; e quella regia libertà più certa, quando, chetata la popolare allegrezza (allegrezza non ribellione), mancava per fin l'aspetto di politico sconvolgimento; e certissima quando il re sul vascello inglese ripeteva le sue promesse, certissima quando arrivato in Livorno, certissima quando, al giungere in Laybach, non protestava di patita forza. Per lo che dimostrò la ingiustizia delle decisioni di Laybach, la illegittimità delle straniere intervenzioni, per esse i pericoli della civiltà europea; e conchiuse, come gli altri oratori, per la guerra. Il Parlamento, dichiarando il proprio re prigione di altri re, la sua libertà in paese straniero violentata, e forzato lo scritto, decretò la guerra. Queste dichiarazioni non vere, non credute, si fingevano per evi tare la taccia e il pericolo di ribelli. Un drappello di deputati presentò, con indirizzo, quel voto al Reggente, che aderì; e quindi la guerra, per grido e per legge, fu promulgata. Animosa sentenza, che invaghì la maggior parte de'  cittadini, per fino i più schivi e i più timidi. Il general Pepe ne fu lieto come di certo trionfo; ne furono lieti coloro ch'erano in maggior rischio, i settari; e, per tanto giubilo, quasi mutata in virtù la temerità del picciol popolo, che allegro affronta gli eserciti dell'Europa, sembravano magnifiche le stesse avversità, le stesse rovi ne. Gli ambasciatori stranieri, gli osservatori della rivoluzione, gli uomini più sapienti crederono a quella ebbrezza.

Ma ecco qual era lo stato del Regno in quel giorno di sicura guerra. Le speranze della rivoluzione mancate o cadenti, i rivoluzionari delusi, la fiducia pubblica spenta, il popolo ricreduto, la Carboneria tralignata, tradita da' suoi, menata dagli astuti servi del potere; il re contrario e fattosi guida alle squadre nemiche; il Reggente, figlio, suddito, confidente del padre, capo dell'esercito napolitano; di questo esercito i generali svogliati, gli uffiziali disobbedienti, la soldatesca ribalda, povera la finanza, gli imprestiti esterni mancati, gl'interni lenti, difficili; grande il terrore delle armi nemiche, grandissimo delle vendette del re; sospetti scambievoli nell'esercito e nella nazione. E fra tanti pericoli la risoluzione irrevocabile.

La decisione del Parlamento per la guerra, e la gioia pubblica erano stati effetti non del senno, non del valore, non delle speranze, non per fino della disperazione, bensì di quella vaghezza di somma lode che più alletta i caldi popoli delle Sicilie. Ma serenate le menti, i timorosi di speravano di salvezza, i pigri correvano colla fortuna, i contumaci gridavano indiscrete voci di libertà, e gli astuti secondavano il Reggente per averlo capo nelle venture, o riparo ne' precipizi. In tanta varietà di privati disegni, l'interesse pubblico si trasandava; erano le azioni quanti gli uomini: il ministero, il Parlamento, l'esercito, la carboneria, i sostegni di quello Stato, dispersi e deboli. Pure alcuni sapienti o esperti, ancora speravano nel tempo, negli apparati di resistenza, e nelle negoziazioni col nemico e col re. L'animo de’ re contrari era palese: odiavano meno gli effetti della rivoluzione di Napoli, che le sue cause apparenti, la potenza di una setta, la ribellione dell'esercito, l'esempio della Spagna. Mutare i nomi, stringere le licenze, rinvigorire la monarchia, concordare per concessioni alcuna delle libertà strappate colla forza, parevano condizioni possibili di pace.

O per veramente resistere, o per porre in mostra mezzi grandissimi di resistenza, bisognava formare i disegni di quella guerra: perciò il Reggente, convocati a consiglio i generali più chiari dell'esercito, disse loro:

«La guerra che all'ultima nostra adunanza era dubbia, oggi è certa. Allora la varietà delle opinioni dava motivo e stimo lo a rintracciare il vero; ma oggidì saria rovina, imperocchè per solo accordo di volontà e di opere, è lecito a poco esercito ed a piccola nazione sperar di resistere ad eserciti dieci volte maggiori, o a nazioni sterminate. Ciò che nel nostro caso la patria esige da noi, voi lo sapete; e ciò che esige l'onore, io nol dirò ad uomini onoratissimi. Per la mia parte dichiaro a voi che insieme a mio fratello, principe di Salerno, vi saremo compagni ne' cimenti della guerra, consorti ne' destini dell'avvenire.»

Si tacque; applaudirono gli astanti; e tanto più che le antiche discordie fra generali erano chetate o celavansi. Sapevasi per lettere autorevoli la forza degli eserciti nemici essere in Italia di settantamila Austriaci, de' quali cinquantamila pronti a marciare sulla frontiera di Napoli: altri rinforzi preparar l'Austria, muover lentamente l'esercito russo, starsi il prussiano.

Essendo il nostro esercito di quarantamila soldati, de'  quali dodicimila presidio della Sicilia, assoldare le milizie civili era bisogno per accrescere i combattenti, e prudenza per dare alla guerra indole nazionale. Fu deciso che tornassero da Sicilia quattromila uomini, movessero dalle provincie settanta battaglioni di milizia civile, e così accampassero intorno alla frontiera trentaduemila vecchi soldati, quarantaduemila di nuova leva, mentre che altre milizie si ordinassero per riserva. La scarsezza degli arnesi di guerra sgomentava, avvegnachè fra le passate speranze di pace, trascurate le provvidenze, tanto i bisogni soperchiavano la ordinaria misura de' rimedi, che pareva non bastasse l'umano ingegno. Si estimò non reggere a tanta mole la età grave del generale Parisi, e gli fu surrogato nel ministero di guerra il general Colletta, già richiamato dalla Sicilia; ma invero il Parisi non aveva della vecchiezza fuorché gli anni ed il senno, essendo giovane la mente, ed affaticandosi al servizio pubblico come ambizione il pungesse, non qual uomo che già tutte aveva gustate e schifate le vacue delizie della grandezza. Nel tempo stesso fu nominato ministro dell'interno il cavaliere de Thomasis, già ministro di marina, in luogo del marchese Auletta, chiedente, per vecchissima età, di riposare. Ciò fatto, si trattò del sistema di guerra ragionando due gravi quistioni: Combatteremo il nemico alla frontiera, o porteremo fuori la guerra? Qual sarà nel regno il punto obbiettivo del nemico? Rammentati gli avvantaggi del guerreggiare in terra straniera, prevalse che a milizie nuove, la più parte civili, aventi disciplina non salda e poc’arte di guerra, giovasse combattere a piccoli stuoli, nel proprio paese, aiutati dal luogo, guerreggiando è agguerrendosi. ed oltracciò, per la natura della napolitana rivoluzione dovendosi evitare per fin l’immagine dell'assalire, conveniva la pazienza di aspettare le offese, ed uscire a guerra, non per conquista o ambizione, nemmeno per impeto di giusto sdegno, ma solamente per difendere diritti, patria, casa e vita. Fu quindi stabilito che il genere di guerra sarebbe per noi difensivo; e di ciò informato il Parlamento, con decreto subitamente assentito dal Reggente, dichiarò non riguardarsi nemico l’esercito austriaco se non quando nemichevolmente assaltasse là frontiera del regno.  .

La seconda quistione fu più dibattute, più incerta. Il tratto debole del confine è il terreno fra Ceperano e Sora, lungo il Liri; ma lo proteggon gli Abruzzi, tre provincie ne gioghi degli Appennini, tra i fiumi Tronto e Sangro. Que’ monti avanzano, accanto le terre del papa, di cento miglia la frontiera del Liri, sì che dalle loro pendici si  scende nelle valli del Tevere e Teverone, si minaccia Roma. E però un esercito che marciasse contra il Liri per la strada di Valmontone e Ceperano, esporrebbe il fianco al nemico, e facilmente resterebbe diviso dalla sua base. Fu quindi creduto (benché dubbiamente, come chi indaga gli altrui pensieri) che l’oste tedesca, anzi che il Liri, assalterebbe gli Abruzzi. Stesse in prima linea il nostro secondo esercito, in seconda ed in riserva il primo; i quali, comunicando per la grande strade degli Abruzzi, e per la valle chiamala di Roveto, contrapporrebbero al nemico il tutto delle forze, qualunque fosse il punto combattuto della frontiera.

Farebbero il maggior nerbo del nostro esercito i battaglioni più sciolti e più destri, che han nome di leggeri, così convenendo al terreno alpestre degli Abruzzi, ed a schiere nuove tumultuariamente composte. Reggerebbe il general Pepe diecimila soldati di vecchia milizia, ventimila di nuova; il general Carascosa diciottomila degli uni, ventiduemila degli altri; quattromila, prescelti per esercizio d'armi e disciplina, resterebbero presidio della città, guardia della reggia, ultima riserva. Il general Pepe, capo delle milizie civili, affermava che di trentaseimila militi abruzzesi, ventiquattromila erano vestiti alla militare, armati e vogliosi di guerra; ma il consiglio non volendo usare sopra modo dello zelo di quelle provincie ne prese a difenderle quanto dalle altre del regno; e vi aggiunse i militi della Calabria, patria del Generale, e i Dauni, e gl’Irpini, da lui formati nell’anno 1818 e suoi compagni nelle rivoluzioni del 6 luglio.

Le strade, i sentieri, le valli che menano dallo stato romano agli Abruzzi, erano state chiuse per forti opere di guerra; altre opere munivano il Liri; si fecero inespugnabili lo stretto d’Itri; ed una fortezza di Montecassino ed un gran campo in Mignano altro in Cassano; due forti in Pontecorvo e Mondragone, e doppia testa di ponte al Garigliano. osi alla frontiera; e intanto altre linee si preparavano indietro. Era seconda il corso del Volturno e dell’Ofanto, alle origini de’ quali fiumi siede la città di Ariano, allora mutata in fortezza. In questa linea era Napoli, che, sebbene inabile a difender se stessa, difenderebbe potentemente il regno, perocché proponevasi di abbattere le sue tre basse castella, ostacoli, non già, ma ricoveri al nemico e cittadelle contro il popolo; accrescere i baluardi di Sant’Elmo da contenere quattromila soldati; trasportare in Capri e Messina le armi, le macchine, gli arsenali, ogni strumento, di guerra; ritirare coll’esercito, il Reggente, la sua casa, il Parlamento, il consiglio, gli archivi pubblici, i documenti della monarchia; torre alla città il prestigio pericoloso di sede di governo. E perciò dolorosa, ma non mortale sarebbe, stata la perdita di Napoli, ed infelice acquisto al nemico, cui non basterebbero diciottomila uomini per contenere un immenso popolo, resistere alle offese di Sant’Elmo, respingere le facili sortite di quel presidio.

Sarebbe terza linea il terreno tra Cava ed Ariano per Sanseverino ed Avellino, e già un campo era segnato nei dintorni di Montefusco, dove la natura più dell’arte contrasterebbe al nemico; perciocché là i monti non seguono la legge ordinaria di catene primitive e contraforti, ma confusamente si aggruppano come. se tremuoti. gli abbia sconvolti, cosicché s’incontrano ad ogni passo inaspettati rivolgimenti e torrenti ed angustie.

Perduta questa linea, si muterebbe il genere di ritirata, e l’esercito, diviso e sparso, marcirebbe. per vie diverse nelle Calabrie, dietro Spezzano e Belvedere fortemente munite. Altre resistenza si preparava sopra i gioghi di Tiriolo, alto e stretto monte degli Appennini, le cui pendici finiscono ne mari Ionio e Tirreno. ed infine un gran campo sulla riva del Faro accoglierebbe l’esercito per passare in Sicilia, donde poi, ristorato ed accresciuto, tornerebbe alle sorti varie della guerra. Comprendevano quest’ultimo campo le fortificazioni un di erette da francesi nella Calabria, dagl’inglesi nella Sicilia, contrapposte e per dieci anni nemiche, serbando ancora i segni delle scambievoli offese.

Un solo de'  generali, Guglielmo Pepe, vedeva nelle nostre milizie, vecchie o recenti, zelo e valore invincibile; ma gli altri più esperti dell'indole napoletana, e meno ebbri di temeraria grandezza, sapendo nuovo l’esercito, debole la disciplina, temevano. che i soldati si smarrissero all’inusitato aspetto e rumore delle armi; e poiché il nemico a gran giornate procedeva verso il regno, e le nostre schiere dovevano al tempo stesso combatterlo ed agguerrirsi, erano vantaggi per noi guadagnar tempo, esporre i contrari allo, impedimento ed alle perdite di cento assedi, obbligarli a combattimenti piccoli e conti nui, avvezzar l’occhio e il pensiero de’ nostri militi alimenti del campo. ed oltracciò la nostra guerra era nazionale, o nulla; ché non potevamo sperar trionfi, ma il vincer lento de’ popoli. Bisognavano perciò luoghi forti, che a’ cittadini armati dessero opportunità di sorprese, appoggio negli scontri, ricoveri nelle sventure; e tali che si aiutassero a vicenda e si collegassero ad alcuni prestabiliti centri di operazioni. Erano centri Civitella, Chieti ed Aquila negli Abruzzi; Montecassino e Capua ih Terra di Lavoro; Sant’Elmo in Napoli; Ariano in Puglia; Tiriolo in Calabria; ne’ quali accampavano stuoli numerosi, che secondo, i casi assalterebbero il nemico» correrebbero i le campagne, si porrebbero sopra i monti a mostra e minaccia.

Altre difese popolari si proponevano: ogni paese sulla 1 linea di operazione del nemico sarebbe chiuso e custodito dalle guardie urbane; innanzi di cederlo si trasporterebbe in luoghi sicuro ogni mezzo di guerra e di vitto; il non farlo sarebbe colpa, il farlo non sarebbe perdita, perché lo stato ne compensava il valore. Si comporrebbero le guerriglie. Si porrebbero in corso le forze di mare per guardare i lidi dell’Adriatico e del Tirreno lungo le strade Emilia e Terracina; ma non si permetterebbero gli armatori, barbaro genere di guerra, benché dicevasi che i tedeschi ne preparassero ne’ loro porti dell’Adriatico. A tante specie di armi e di difese, dal governo decretate o dal consiglio disposte, il general Carascosa aggiunse parecchie ordinanze sul modo di condurre la piccola guerra e di combattere per guerriglie.

Quindi Francesco nel di 28 febbraio bandi, il segueote ordine del giorno:

«Soldati

«Eccovi riuniti sul campo dell’onore per difendere il trono del re, mio angusto, genitore, la costituzione e la patria indipendenza. Combattendo per questi sacri oggetti voi acquisterete i dritti più solenni alla riconoscenza nazionale ed all’ammirazione dell’Europa che tiene gli occhi rivolti sopra di voi.

«Fedeli a’ nostri giuramenti, noi riposavamo tranquilli  all’ombra delle nostre leggi e rispettavamo tutte le nazioni, non mischiandoci punto ne loro affari. Io era particolarmente felice di occuparmi a migliorare la vostra sorte ed a riorganizzare l’armata nazionale comandata tutta da’ vostri concittadini, quando una fatale prevenzione sorda a tutt’i consigli della giustizia e della moderazione, ha spinto de’ sovrani, che in altri tempi hanno combattuto per la indipendenza delle nazioni, a muoverci guerra, per rovesciare il nostro ordine costituzionale e per togliere alla nazione la libertà concessale dal suo ottimo sovrano stesso. Un nemico non provocato marcia verso le nostre frontiere. Egli copre la più ingiusta aggressione col venerando nome del re ed osa trasformare in delitto la santità de’ nostri giuramenti.

«Io sarò fra voi, soldati, Dio ci proteggerà, giacché noi difendiamo una causa giusta. Spiegate tutte le virtù che onorano i bravi osservando la più esatta disciplina. Riguardate come vostri nemici quelli soltanto che impugneranno le ermi contro di voi, ma rispettate come vostri confratelli i pacifici abitatori delle contrade che occuperete.

«So tali principi gli ordini più severi sono stati emanati per non mischiarsi ponto nel governo interno dei paesi ove l’armata sarà costretta a portarsi. Il nostro scopo è solo di difendete, non già di essere aggressori né di fare altrui male giammai.

«Soldati, militi, legionari, napolitani, lunghe fatiche vi attendono, e là gloria più pura: siate fermi ne’ combattimenti, moderati nella vittoria, tolleranti ne' disagi e nelle privazioni. La Spagna che è a noi unita, vi offre il memorando esempio della costanza con la quale sostenne una ben lunga lotta per riacquistare il suo sovrano e difendere la sua indipendenza.

«Rammentatevi, o soldati, che voi siete i discendenti di que’ prodi guerrieri che guidati dal mio augusto avo Carlo III respinsero ne’ campi di Velletri quegli stessi nemici che ora vengono ad attaccarci.

«Dopo che avrete salvato il trono, la costituzione, là patria, voi deponendo le armi, e ritornando coverti di gloria in seno delle vostre famiglie, formerete l'Oggetto della pubblica riconoscenza, l’invidia delle nazioni e l'ammirazione della nostra più remota posterità.

«FRANCESCO.»

Fermate le idee della guerra, comandato il partire alle legioni, e per celeri messi e telegrafi il movimento di settanta battaglioni di milizie civili, il Reggente diede ai capi de’ due eserciti istruzioni per la parte militare. conforme a quelle idee; e per la politica le seguenti:

«Il nostro sistema di guerra è difensivo, cosi convenendo alla natura del territorio ed alla giustizia della nostra causa. Ma poiché la neutralità passiva del papa, e i suoi stati già occupati dal nemico danno a noi diritto eguale di oltrepassare i confini del regno per tetre le posizioni migliori alle difese, voi ne’ movimenti strategici avrete libertà senza limiti.

«Il governo de!papa sarà da voi rispettato)! popoli de’ paesi che occuperete, saranno trattati con piena giustizia, non permetterete il minimo attentato alte proprietà degli abitanti, farete pagare al giusto le vettovaglie, veglierete acciocché il comando militare, il quale naturalmente si stabilisce nella occupazione di un paese, provegga solamente alle proprie milizie. Se alcun fatto del sovrano pontefice obbligasse nello avvenire a mutar sistema, noi col nazionale Parlamento il dichiareremmo, e voi delle decisioni sareste opportunamente avvisato; Serberete continua corrispondenza col capo dell’altro esercito, col capo dello stato maggiore generale, col ministro della guerra.

«Le vostre facoltà sono fra i limiti delle presenti istruzioni. E poi che in guerra molto dipende da circostanze di luoghi o tempi, non sarà vietato al. capo di un esercito di allontanarsi dalle cose prescritte, ma sotto due leggi: giustificare le sue opere, avvisare prontamente lo stato maggiore generale, il ministro della guerra, ogni generale, ogni comandante interessato all’impreveduto movimento.

«FRANCESCO.»

Frattanto marciavano alla frontiera due eserciti con poderose artiglierie. Due commissari civili, cioè i consiglieri distato Bozzelli e Zucchi, furono destinati a’ due corpi di armata per invigilare a' mezzi di sussistenza, a traspor ti, ed a’ fornitori. Ogni schiera lietamente partiva, ma più si ammirava la guardia reale per bello aspetto, ricco vestimento e. grida di libertà e di fede. Al partire di ogni drappello, il Reggente, nella rassegna, confortando, comandando, incitava i soldati, minacciava, prometteva; la sposa di lui annodava all'antica bandiera la lista de’ tre colori, ed accertava che que’ ricami erano lavoro delle sue mani e delle principesse sue figlie. Al tempo stesso alcuni battaglioni delle milizie civili si erano mossi dalle provincie e pareva che abbisognasse freno, non stimolo alle volontà, e che i militi soperchiassero il richiesto numero; alcuni giovanetti a quali erano gravi le armi ordinarie, ne presero di più atte alla debole età, e lieti marciarono; alcune donne, sorelle o madri; alcuni padri o zii, non abili per vecchiezza o per sesso a trattar le armi, indossando i fardelli scemavano a’ militi la fatica. Ma questo che pareva zelo di patria era in gran parte timore de’ Carbonari, i quali in ogni comunità, e per salvar se stessi da’ travet gli della guerra; minacciando e forzando i più placidi cittadini, gli spingevano alla frontiera. Qualunque fossero le cagioni, quel movimento guerriero era. grande, superbo, ammiralo per fin da’ contrari, spaventoso al nemico. Intanto con mirabile celerità fu provveduto agli arnesi di guerra, armi, viveri, vestimenti; le opere della frontiera munite in un di, le forze di mare messe incorso. Si afforzavano le speranze, sol che non mancassero por chi altri mesi alle discipline dell’esercito ed a’ maneggi di pace; e pareva che il nemico, sia che dubbioso, sia che lento per comporre insidie, concederebbe il bramato tempo, quando due casi fecero il suo pensiero più manifesto. Un drappello tedesco si portava da Norcia ad Acquata, paesi romani più vicini al regno, tra mezzo a quali la frontiera non ha segni certi per fiumi o per cunei di monti, ma si rivolge in tanti giri, che or s’incontrano, or si lasciano le terre di Napoli o di Roma. E’ però quei soldati, venuti a caso nel territorio napolitano, avutone avviso dalla guida, celeremente ritraendosi, presero altra via, lunga, montuosa, disagevole, ma romana. E dopo altri giorni alcuni soldati di Napoli, a introdussero nello stato di Roma, presso a Rieti, ed abbattendosi nelle guardie nemiche, il capo di queste lor disse:

«Tornate salvi a' vostri campi, ma se noi rispettiamo il confine napolitano e de’ paesi, benché romani, da voi guardati, voi rispettate le terre occupate da noi.»

Que’ due folti si divulgarono pe’ campi, e pel regno.

L’esercito tedesco (quarantatremila combattenti) radunato incontro agli Abruzzi, guardava in prima linea, come a scoperta, Montalto e Norcia; in seconda Fermo, Camerino, Tolentino, Macerata; in tersa linea o riserva tutto il paese da Foligno ad Ancona. Aveva; una legione a Rieti, altra in Terni e Spoleto, un battaglione ad Albano, uno a Frascati, un reggimento a Civita Castellana, altro a Roma, uno squadrone a vedetta sulla strada da Valmontone a Ferentino, pochi cavalieri tra Velletri esisterne. E però quelle ordinanze erano di battaglia contro gli Abruzzi, o a scaloni contro il Liri: i disegni del nemico rimanevano incerti. Il re di Napoli stava in Firenze, si attendeva a Foligno: coperto dalle armi tedesche, si aggirava intorno al regno, sperando meno nella guerra che ne’ tumulti. E frattanto la inazione di quelle schiere agevolava la pace, e sol restava consultarne col Parlamento, avvegnaché il Reggente non ardiva esercitare in segreto il potere regio, temendo, in que’ miseri tempi, il sospetto e lo sdegno del popolo; ma già prevalendo il voto del ministro della guerra, doversi ogni dì accrescere gli apparati di forze e i maneggi di pace, si disponevano i modi, le condizioni, gli ambasciatori; allorquando con somma sorpresa si lesse in una gazzetta napolitana che il general Pepe, il dì 14 febbraio, aveva promesso al principe Reggente che al 7 marzo in Rieti sconfiggerebbe i tedeschi. ed era per lo appunto quel giorno il 7 marzo, ed era vera la temeraria promessa, e quell’articolo, scritto in Abruzzo, era stato mandato in Napoli dal Generale per pubblicarsi. Infatti, o egli ne avesse fitto in mente il pensieri), o che Vi fosse spinto (come poi dichiarò) da lettere di alcuni più caldi settari e deputati che dicevano in pericolo la libertà perché s' inchinava alla pace, fermò l'animo ad assaltare i tedeschi la mattina del 7; né poteron distorre quello arrischiato proponimento i consigli e le preghiere di alcuni uffiziali a lui soggetti  ed il decreto del Parlamento che vietava esser noi primi a combattere gli ordini conformi del reggente, e le condizioni del suo esercito; avvegnacchè alcuni reggimenti di vecchia milizia e molti battaglioni delle civili stavano ancor lontani dalla frontiera, e ne suoi campi era cominciata tuttodì cresceva la diserzione. La sua volontà fu inflessibile, non considerando quanto sia grave la primiera offesa, e che spesso, andando a vuoto, di mille morti e di mutati imperi è cagione. Nello annottare del giorno 6 inviò ai ministro della guerra un editto del re dato da Laybach, diretto a' sudditi; minaccevole, insidioso, che intimava lo scioglimento degli eserciti, la obbedienza de'  popoli: un  altro foglio, ordine del giorno del generale Frimont, che rammentava a' suoi soldati, nella vicina guerra, le leggi della disciplina, il dovere, l’onore, le pene, i premi. Il general Pepe diceva que’ due fogli penetrati ne’ suoi campi, e concludeva voler dar nel domani degna risposta combattendo. Non palesava il come, con quali schiere, con quanta speranza; non cercava gli aiuti del primo esercito, non avvisava il capo, non prevedeva infortunio; sì; che non preparava i ricoveri, non concertava i ritorni: nascose le vicine ostilità a‘ condottieri di due proprie legioni stanziate in Ascoli e Tagliacozzo. Assaltare un campo nemico, far molti o pochi prigioni, spedirli a suo trionfo nella città, occupar del suo nome la fama, benché di un giorno, erano le sognate felicità della sua mente.

Quelle lettere del Generale giunsero in Napoli al mezzo del dì 8 e confermarono i timori suscitati dalla gazzetta del giorno innanzi; tanto più che a quell’ora erano ignote a noi ma già decise le sorti della battaglia, e fatta irrevocabile la guerra, impossibile la pace. Di ciò informati nel giorno stesso il Parlamento ed il pubblicò, si produssero poche insensate speranze, mille ben fondati timori, e comune incertezza, che durò sino alla mezzanotte del 9, quando giunse in Napoli, spedito dal Generale, senza sue lettere, il maggiore Cianciulli, testimonio di quegli eventi, che riferì: il general Pepe nel di 6 aver fatto marciare verso Antrodoco due legioni per la diritta del Velino, altra per la sinistra; ma che, non essendo paralleli i due cammini, le colonne restarono separate da molto spazio e dai fiume. Che la mattina del 7, colla schiera più poderosa, non aspettando l’aiuto ed il giungere dell’altra e discendendo i monti di Antrodoco, assaltò Rieti; ove i tedeschi, ordinati a difesa, poi che videro dubbietà e lentezza negli assalitori, uscirono dalla città in tre colonne, con una investendo la fronte, con altra il fianco della nostra linea, e tenendo addietro la. terza, in pronto agli infortuni o alle venture della battaglia. Vacillarono le nostre giovani bande, si ritirarono le prime, non procederono le seconde; si confusero le ordinanze. ed allora avanzò, prima lentamente, poscia incalzando i passi, ed alfine in corsa un superbo reggimento di cavalleria ungherese, si che, nell’aspetto del crescente pericolo, le milizie civili, nuove alla guerra, trepidarono, fuggirono, strascinarono coll’impeto e coll’esempio qualche compagnia di più vecchi soldati, si ruppero gli ordini, si udirono le voci di tradimento e salvasi chi può; scomparve il campo. Il generale Giovanni Rosso, affaticandosi senza profitto a rattenere i fuggitivi, avanzò col piccolo suo drappello, scontrò il nemico, e, per breve combattere, lo spinse a ritirarsi. Proseguirono nella succedente notte i disordini dell’esercito: Antrodoco fu abbandonato; il general Pepe seguiva i fuggitivi; il messaggiero, allorché parlava, credeva perduti gli Abruzzi. Fu questo il suo racconto; ma poco appresso per mille bocche disse io fama che il Generale condottiero, inesperto, dagli inattesi eventi sbalordito, paventò anch'egli e fuggì; non si fermò all’Aquila, non a Popoli, non a Solmona: noi ritenne bisogno di riposo e di cibo, sempre cacciato dalla pungente memoria del 6 luglio.

Pepe primo de’ fuggitivi, giunse in Napoli, dimandò ed ottenne (tanto ancora potevano audacia in lui tinidità nel Reggente) la ricomposizione e il comando del secondo esercito; ma, peggiorando le cose pubbliche, si nascose; ed infine, preso il passaporto per l’America, s’imbarcò, partì. La colonna che doveva attaccar Rieti per la sinistra del Velino, visto il disastro della dritta, si riparò sopra i monti; le due legioni di Ascoli e Tagliacozzo, ignorando la cominciata guerra, stavano ferme nei campi; ma dopo il terzo dì, avvisate dal grido pubblico, ritiraronsi frettolosamente, e i soldati, udendo i tristi casi e vedendo i segni della fuga, trepidando, fuggirono. Col partire del Generale mancò il comando, ogni cosa si disordinò; tutti credevano il nemico alle spalle, tutti speravano trovare innanzi aiuto d’armi e di consiglio.. E così, ogni schiera fuggendo, restarono gli Abruzzi vuoti di difensori.

Miserando spettacolo! Gettate le armi e le insegne; le macchine di guerra, fatte inciampo al fuggire, rovesciate, spezzate; gli argini, le trincare, opere di molte menti e di molte braccia, aperte, abbandonate; ordine scomposte; esercito, poco innanzi spaventoso al nemico, volto in ludibrio. I tedeschi, temendo agguati nella inattesa fuga, si tennero più vigilanti ne’ campi; ma, rassicurati dalla solitudine della frontiera, il giorno dieci avanzarono sopra Antrodoco, e, benché trovassero la città spopolata, i fortini e cannoni abbandonati e giacenti, pur lentamente  procederono o non si affacciarono sopra; i monti dell'Aquila prima del 14. Stava la fortezza spalancata e deserta: la comunità spedì ambasciatore e doni al vincitore, la città fu occupata.

Il Reggente, appena informato de’ disastri di Rietj,  chiamò, per la mattina del 10, consiglio a Torricella, quartier generale del primo esercito, acciò le decisioni di  quell'adunanza fossero al punto stesso eseguite: v’intervennero il principe reale don Leopoldo, il generale. Carascosa comandante del primo esercito, il capo dello stato maggiore, il gemerai duca d’Ascoli e il general Fardella; non già Colletta ministro della guerra, inviato per comunicare al Parlamento gli importanti casi d’Abruzzo; il quale, Colletta, richiesto del suo voto, scrisse:

«Lascerei a guardare le strette d’Itri tre battaglioni di vecchi soldati, sei di nuova milizia. Guarderei il campo di Mignano, con otto battaglioni di soldati, dieci di militi. Ciò che resta del primo esercito, cioè venti battaglioni di milizia soldata, dieci almeno di milizia civile, spedirei negli Abruzzi per le strade dii Sulmona e Roveto. Questo movimento raccoglierebbe molte schiere disperse del secondo esercito, conterrebbe le dubbiose, rincorerebbe le intimidite. Con esercito così grande, il general Carascosa ripiglierebbe i posti abbandonati dal general Pepe, e credo, ancora occupati dal nemico, perché non disposto ad assalirci; e meravigliato, incerto del nostro stato. Cosi che noi potremmo giungere all’Aquila prima de’ tedeschi, rattenerli fuori della frontiera, guadagnar tempo, rianimare il popolo, nostro solo mezzo di guerra. Prendo impegno di provvedere a tempo viveri, vestimenti, danari, trasporti, ogni altra cosa, perché. nulla manchi ad eseguire l’indicato movimento. In guerra sono preziose le ore, oggi lo sono gl’istanti.»

Quel foglio letto in Capua al Reggente e da’ generali del consiglio innanzi che andassero a Torricella dovei sta va il Carrascosa, fu approvato da tutti e iodato. Servì di tema per l'adunanza, ma fu diverso il voto di Carrascosa; il quale, temendo che la fuga di un esercito fosse di esempio all’altro, ritornando al già suo pensiero che obbietta degli assalti del nemico fosse il Liri, e che però, sguarnita quella frontiera, la città capo del regno rimanesse in pericolo credendo certa ed irreparabile la perdita de'  gli Abruzzi, propose ritirar l’esercito dietro sii Volturno, seconda linea prestabilita né disegni di guerra. Il Reggente, gli altri membri del consiglio, poco innanzi consenzienti al ministro, poco appresso, con turpe facilità, consentirono al Generale, e la ritirata dei primo esercito decretata in. quel di fu ne’ seguenti compita. Perciò le opere d’Itri si abbandonarono, Gaeta si chiuse in assedio, il ponte sul Garigliano fu scomposto, le fortificazioni abbattute, i. campi di Mignano e Cassano per incendio distrutti, colle macchine di guerra, i carretti ed ogni altro impedimento al precipitoso ritorno. Al tempo stesso dal Parlamento, sentite le sventure di Abruzzo, e svanite le speranze di libertà, si decretò un indicizzo al re, umile, sottomesso, le cui prime righe dimostravano l’innocenza di quel consesso ne’ fatti della rivoluzione. Era mutato il linguaggio, solito stile di si fatte congreghe, audaci nella sicurezza, timide ne’ pericoli, sempre giovevoli a consigliare riposato governo, sempre dannose a reggere Io stato fra le tempeste: popolo fra le venture, plebe ne’ disastri. Quel foglio ed una lettera del Reggente al re, esortatrice di bene per il regno, furono portate dal generale Fardella; nominato messo ed oratore a pro di Napoli. Pendeva il Reggente fra i pericoli dell’avvenire e del presente; però che lo spaventavano le vendette del padre e de’ re alleati, quanto le disperazioni de’ settari. Ma i settari più di ogni altro paventavano, e chi di loro prendeva rifugio, chi lo preparava, fuorché i capi, che, già da lungo tempo servi della polizia e del Reggente, ora, doppiando servigi e cure, obbedivano ed indovinavano le voglie del re e del figlio, strascinavano più che mai e tradivano gli ingannati compagni. Maledizione alla loro memoria! E nel campo i generali diffidavano de’ soldati, i soldati de’ generali; gli uni e gli altri vedevano impossibile la pace; credevano colpa ogni virtù, discolpe i mancamenti. In tanta abbietezza de’ principali operanti, il senno di governo si perdè: non si reggeva, non si imperava; le sorti della nazione stavano in mano al nemico.

Da lungo tempo le fughe de’ soldati scemavano i campi; ma, dopo i narrati disordini, crebbe il delitto; i Dauni e gli Irpini, primi nella rivoluzione del 6 luglio, furono primi a sbandarsi; seguirono que’ che chiamavano congedati, poscia i soldati. Alcune compagnie della Guardia munivano le trincero di Montecassino, il comandante del presidio, vedendo vicini gli assalti, apprestava le difese, quando i soggetti, ribellando, Io minacciarono, lo spinsero a fuggire, diedero il forte a’ nemici. Di già la Guardia stessa diceva che non combatterebbe i tedeschi perché collegati del re; e dal general Selvaggi, capo di lei, manifestata quella colpa, sfrontatamente come fosse vanto, a’ Generali maggiori, la teneva segreta; o che sperassero di correggere il vergognoso proponimento, o che temessero la forza del mal esempio e l’adire che ne prenderebbe il nemico, o che non volessero affrontare i soprastanti pericoli della denunzia e punizioni che seguirebbero. E per lo stesso colpevole avvedimento i disertori restavano assoluti da’ Generali ne’ campi, da' magistrati nella città, facendosi nefando traffico di colpa ed impunità per futura salvezza. Ne derivò che le milizie, non trattenute dai dovere, non dal timore, trasmodarono ne’ maggiori delitti; minacciavano i capi come impedimenti alla foga, guerreggiavano contro, i compagni ancora fidi alle bandiere; uccisero parecchi uffiziali, molti più ne ferirono, scaricarono le armi su i generali, e sui generale supremo Carascosa, quale si esprimeva cosi in un suo rapporto al ministro della guerra datato 18 marzo 1821.

«Eccellenza,

«Ieri fui a Torricella fino alle 4 e mezzo pomeridiane: ritornai quindi a Casalanza pe movimenti della divisione Ambrosio. Nella notte mi è giunto rapporto del tenente generale Filangieri da Torricella col quale mi dava parte che quella brigata quasi in totalità erasi sbandata, tirando fucilate su gli uffiziali, e particolarmente su di lui: fucilate. che traforarono a centinaia la porta della stanza dove egli abitava. Intanto mi giungeva rapporto che la brigata leggiera del generale Coste, aveva avuto un avvenimento quasi simile verso Seste. E mentreché mi contristava di tutto ciò intesi a poca distanza rumorose fucilate e verificai subito che queste partivano da’ cinque battaglioni della prima divisione arrivati e bivaccati a Casalanza, e ohe i soldati’ dirigevano su’ propri uffiziali.

«Di là ad un momento furon caricati da quella canaglia ì quartieri generali del generale d’Ambrosio e mio: il generale d’Ambrosio fu salvo per una compagnia di zappatori che fu fedele a’ suoi doveri, ed io il fui per una ventina di gendarmi che fece fuoco su’ soldati; i quali vili quanto iniqui si dispersero per la campagna. Ordinai allora alla cavalleria che li caricasse, ed in questa guisa ne ho raccolti molti e ricondotti ne’ ranghi: ma V. E. rifletta che sono questi gli stessi uomini ammutinati e sbandati un'ora innanzi.

«La prego di stabilire delle pattuglie di cavalleria sulla strada di Napoli ad Aversa: io farò Altrettanto da Avversa a Capua: il di più è nelle mani di Dio.

«Si degni V. E. dar subito conoscenza di tutto ciò a S. A. R. il principe Reggente.

«Carascosa.»

Nel giorno 20 marzo venne Segnata al gran Priorato innanzi Capua dal generate maggiore Figelmont per porte degl’imperiali, e dal barone d’Ambrosio tenente generate al servizio del re di Napoli, una convenzione colla quale si Stabili la sospensione delle ostilità in tutte le parti del regno; l'armata austriaca dovere occupare Capua nel di 21 ed i suoi avamposti non potere oltrepassare Aversa: l’occupazione della città di Napoli e de'  suoi Forti essere oggetto di altra peculiare convenzione: l’armata austriaca dover, rispettare le persone e le proprietà qualunque fossero le circostanze particolari di ciascuno individuo.

Ma sebbene grande, il disfacimento dell’esercito non era faterò; perché, standosi. ancora sulla. destra sponda del Volturno, era il fiume per molti ostacolo al fuggire. Numerose torme giunsero in Capua, e colà (il fiume tragitatto, mia te porte chiuse) i contumaci sollevaronsi con voci moti, tumulti; spregiata l'autorità de'  capi, vicina la ribellione. I generali, pensando che giovasse separare i buoni da’ tristi, comandarono che i bramosi di partire uscissero, ma disarmati, e sì aprirono le porte. Il restare portava seco nuovi travagli e pericoli; il partire; impunità e riposo: la mala indole umana scelse il partire. Mossero in prima pochi, gli sfrontati e arroganti, poi molti; alfin tutti; giacché l'esempio e la frequenza del disonore scemavano la vergogna e il ritegno. Restarono soli attorno alle bandiere, pochi ufficiali attoniti a que’ fatti; perciocché la istantanea dispersione di un esercito sembra non opera umana, catastrofe della natura, tanto è immensa ed irrevocabile. Sparirono coll’esercito le preparate difese; le linee, la ritirata del governo e ogni altra idea grande e libera; prostrare al nemico la nazione, raccomandarla al re, salvare se stessi, erano le cure pubbliche o private.

Il nemico avanzava. Il re (la cui storia erasi spiegata minaccevole nella mente di tutti) cupo taceva; e la fama lo diceva sciolto dagli obblighi del giuramento per benedizioni papali; tanto più che poi seppesi avere appesa in voto, a riscatto dello spergiuro, nella chiesa della Madonna Annuncia di Firenze, lampada ricchissima di argento e di oro, col motto: Mariae Genitrici Dei Ferd. F. Dir. Sic. rea Don. D. D. an. 1821 ob pristinum imperii decus, ope ejus protestantissima, recuperatum. Pur dicevasi, ed era vero, che in tanto pubblico lutto seco traeva da Laybach alcuni orsi grossissimi, donati dall'imperator di Moscovia, e graditi per migliorare la specie d’orsi che ne’ boschi di Abruzzo vive poco feconda e tapina. Si annunziava il ritorno del principe di Canosa; altri tristissimi e diffamati per le atrocità del 99 uscivano fieri e. superbi, comparve nuova coccarda coll'impresa de’ Borboni, e col motto interino: Viva l'assoluto potere di Ferdinando I.

Così grande, cosi giusto era il pubblico dolore, quando il 17 di mano giunsero in Napoli le nuove della rivoluzione del Piemonte. Soli a saperle furono la polizia ed il Reggente, che, cauti, le nascosero sino al di 21, allorché le forze stavano in mano a tedeschi ed era fermata là occupazione delle città, sciolto il Parlamento, l'esercito disperso. Quel gran successo, che poco innanzi era salute del regno, si volse in motivo di cordoglio considerando di quanta mole furono gli assalti di Rieti. Ché se nuove apprensioni del nemico per il Piemonte e per la Italia si aggiungevano alle presenti perplessità per la guerra, creduta immensa, di Napoli, quanto docile sarebbe stato l’orecchio alle offerte di pace, e quanto rattenuta il disdegno del re! Vero è che allora, rianimata ed accesa la parte dissennata del popolo, sarebbe tornata all’antica baldanza, o forse prevalevano la costanza del ministero e la gravità del caso. Ma piacque a’ cieli disporre gli avvenimenti cosi che le speranze di un regno e di più regni, per inetti consigli, per fallo di poche ore, per accidenti di fortuna precipitassero.

Frattanto il grido della rivoluzione piemontese, benché giunto al re Ferdinando ed al general Frimont dopo la nuova delle venture di Rieti, eccitò tanta sollecitudine, che doppiarono le minacce e le insidie per accelerare la impresa. di Napoli. Il re comandò all’ammiraglio Correste, che dirigeva nell'Adriatico un vascello, ed altri legni da guerra, di obbedire al capitano di fregata austriaca, Paolucci; e quegli, senza arrossire dell’avvilito grado, s’assoggettò al nemico ed al minore. L’avanguardo tedesco chiese al governo napolitano la cessione della fortezza di Capua, delle altre fortezze del regno, de’ forti della capitale; e tutto vilmente si concedeva, sperando ingraziarsi per merito di obbedienza e di scommessone. Fu stabilito che a’ 23 marzo l'esercito tedesco occupasse la città.

Due battaglioni della Guardia presidio della ceduta fortezza di Capua, tornarono il dì 21 in Napoli; e correndo a mezzo il giorno la Via Toledo, trionfati del tradimento, gridavano voci di fede al re, di ludibrio alfa setta; per lo che avevano lacerata dalla bandiera, e calpestaste la lista de’ tre colori ricevuta in dono dalle principesse; altri due battaglioni stavano in pronto per giungervi il 23 in avanguardia e in trionfo col nemico. Que’ primi ebbero alloggiamento nel Castello Nuovo; e non appena entrati al sicuro, per leggiero contrasto tra un soldato ed un pescivendolo, chiudon le porte. Si schierano dietro i parapetti e tirano dia cieca colpi di archibugio sul popolo; de'  quali restarono morti, un uomo, un fanciullo, due donne, e feriti altri cinque di vario sesso ed età. Stava per mala ventura nel castello, a cagione di servizio, un sergente della guardia urbana, che da que’ 'ribelli soldati assalito, di cento punte restò trafitte. Né dopo queste stragi cessava il fuoco; per lo che nella città erano grandi le agitazioni, ed imminente il pericolo di popolari tumulti, che impedita stessa in que’ fatti offesa guardia urbana; sempre e sola degna di lode, perché instancabile alieutiche, esenta foracchia d’infedeltà. La guardia reale de’ commessi misfatti restò impunita nel governo costituzionale, perché mancò il tempo al giudizio, ebbe lodi e guiderdone dal governo assolato di Ferdinando, usato a premiare i delitti che gli giovavano o che il dilettavano.

Tristo il presente, era l’avvenire tristissimo, i motori della rivoluzione del 6 luglio, i timidi, gli accorti, preso passaporto. per America o Spagna, partirono; altri si nascosero; il Reggente diè a tutti aiuto di consigli e di doni. Il ministero fu licenziato, altri ministri aveva scelto il re con decreto di Firenze. Il Parlamento stava dubbioso, ora si adunava a crocchi, ora disperdevasi, e le sale, poco innanzi si popolose, slavati deserte. Il deputato Poerio, che all’aspetto delle universali rovine afforzava lo zelo, adunò picciol numero di deputati, ventisei solamente, tra quali Dragonetti, Matteo Imbriani, Nicolai, Gabriele Pepe, e, nel giorno 19 propose e fece accettare da quella immagine di Parlamento l’atto che, ad onore di lui e per memoria dell’avvenire, parola a parola trascrivo:

«Dopo la pubblicazione del patto sociale del 7 luglio 1820, in virtù del quale S. M. si compiacque di aderire alla costituzione attuale, il re, per organo del suo augusto figlio, convocò i collegi elettori. Nominati da essi, noi ricevemmo i nostri mandati giusta la forma e prescritta dallo stesso monarca. Noi abbiamo esercitate le nostre funzioni conformemente a nostri poteri, ai giuramenti del re ed a’ nostri. Ma la presenza nel regno di un esercito straniero ci mette nella necessità di sospenderle, e ciò maggiormente perché, dietro l’avviso di S. A. R., gli ultimi disastri accaduti nell’esercito rendono impossibile la traslocazione del Parlamento, che d’altronde non potrebbe essere costituzionalmente in attività senza il concorso del Potere Esecutivo. Annunziando questa dolorosa circostanza, noi protestiamo contro la violazione dei diritto delle genti, intendiamo di serbar saldi i diritti della nazione e del re, invochiamo la saviezza di S. A. R, e del suo augusto genitore, e rimettiamo la causa del trono e dell'indipendenza nazionale nelle mani di quel Dio che regge i destini de’ monarchi e de’ popoli.»

Dopo ciò i documenti del Parlamento furono portati in più sicuro loco, i deputati si divisero, la sala fu chiusa.

Giunto il di 23 del mese di marzo 1821, l’esercito tedesco entrò in città, s'impadronì, de'  forti, accampò nelle piazze, si guardava come fra nemici. Non fu nel pubblico allegrezza; nemmen d’uso e di plebe; né appariva mestizia, o che gli addolorati temessero di mostrarla, o che tutti gli affetti coprisse lo stupore.

Tale fu il fine della Rivoluzione di Napoli del 1820. La mosse bramosia di maggior garentigia di diritti e personalità; la spense la tirannia de’ potenti della terra, altre rivoluzioni la vendicheranno!

Alla caduta del libero reggimento, la plebe, com’è sua natura, non si astenne di rompere in ciarliera maldicenza. Essa non vedea altro che tradimenti: traditori erano i generali, i ministri, il Parlamento: nulla accusavano il re, poco il Vicario. Secondavano quelle voci, per nascondere la turpitudine de! propri falli, le numerose congreghe di settari perfidi o vili, di soldati infami della fuga, di liberali e novatori codardi, di timidi deputati, d'impiegati bassi e servili. Talché non rimase intatto alcun nome, già chiaro per virtù e servigi.

Le cagioni vere di tanta sventura furono la scelta della costituzione di Spagna non atta alle nostre usanze; il non esser sorti uomini nuovi a capo della cosa pubblica; la ingrandita Carboneria, che si allargò e palesò, dando agli astuti servi del potere agio di conoscerla, dominarla, tradirla; gl’inganni del re, del Vicario, dell'intera casa, la cui scaltrezza cominciò per timore, durò per arte; e in fine la Santa Alleanza, e con essa la. necessaria adesione della Francia, la interessata pazienza della Inghilterra. Se tale non era il mondo, la rivoluzione di Napoli, cambiando in meglio, mantenevasi. Se questi impulsi non avessero rovinato lo stato d’ingegno focoso e contumace del general Pepe, le doppiezze del deputato Borrelli, i mal ragionati concetti del general Carascosa, le mille licenze del popolo, gli ondeggiamenti e le debolezze di due ministeri, le vane timidità del Parlamento forse, non avrebbero portato nocumento alla cosa pubblica e alla catastrofe si sarebbe andato più lento.

Pur tuttavolta quando furono scoperte le cagioni, si misero la vastità delle rovine. Ne’ nove mesi di quel reggimento i disegni del ministero, l'ingegno del Parlamento, il senno del consiglio di stato; tutti i pregi del governo restarono inosservati, perché coperti dal rumore e dalle sollecitudini delle interne discordanze e della guerra; Nel silenzio della tirannide poi si andarono lamentando le buone leggi quasi ad un punto fotte e distrutte.

A rifare ed a migliorare le restituzioni gareggiarono il ministero ed il Parlamento. Il duca di Campochiaro da ministro degli affari esteri, destreggiò colle corti nemiche, ma non val destrezza dove soperchia la contraria forza: nulla ottenne, lasciò il ministero. Gli successe il duca del Gallo, ne’ consigli e nelle opere sagace, fido, ma anch’egli sventurato nelle grandi quistioni di regno, accompagnando il re a Laybach, riferendo in Parlamento, consultando nel congresso de’ ministri, fu per i partiti più liberi ed animosi.

Il ministro di giustizia, conte Ricciardi, già chiaro sotto i regni di Giuseppe e Gioacchino, i codici non abbisognando di riforma, sperava tempo più riposato per discutere ogni legge; perciò provvide a’ bisogni presenti della giustizia; vide che le era intoppo la setta de’ Carbonari, e due volte ne propose lo scioglimento, ma invano; però che si opponevano al buon disegno la timidezza de’ principi, la timidezza e le affezioni de’ deputati al Parlamento, il numero e la potenza de'  settari. Indi propose la ricomposizione de’ magistrati. Dimostrato il bisogno della riforma, ne provò la giustizia; perciocché i magistrati erano tuttora amovibili, a piacimento del re. Quindi intese a riformane quella parte della costituzione che dava al consiglio di stato la facoltà di nominare i magistrati: egli dimandava che l'avesse il ministro, lasciando al consiglio l’approvazione o il rifiuto de’ proposti. E benché parlasse a suo pro, il chiaro dire, il buon volere, la verità, la probità dell'oratore, vinsero il sospetto e la invidia. Poscia per nominare i magistrati novelli o promuovere, i nominati segnò modi giusti, liberi, e tanto certi: quanto è concesso agli umani giudizi. E lode anche maggiore a quel ministro diede la proposizione de’ giuri; voto antico e deluso de’ padri nostri e di noi. Rammentò i dubbi generali, e i particolari, al regno delle Due Sicilie; abbatté gli uni e gli altri. Proponeva i giurì per i soli misfatti, riserbando a più e spediti giudizi le colpe minori, e provvedendo che da questa eccezione non venisse danno o pericolo agli accusati. Tolse le idee dallo leggi francesi e inglesi sopra i giuri; più si giovò delle americane. Avvantaggiò sopra tutte, sempre a pro degli accusati; parzialità, forse offensiva della giustizia, ma buona ad esempio di carità cittadina, e profittevole a costumi più che gli atti inflessibili del rigore. Dopo il conte Ricciardi fu ministro il magistrato Troyse, che, sebben grave di età e per lunga pezza impiegato sotto monarchia dispotica, ricalcò le tracce libere del precessore, e le avanzò. Così mostrando che ne suoi primi anni aveva seguito, dolente, gli errori di assoluto governo.

 Il ministero dell’interno si affaticò a conciliare le passate istituzioni amministrative colle presenti, del nuovo statuto. Ma grande intoppo facevano le opinioni del pubblico e del ministro, però, che il pubblica credeva il ministro fermo nelle pratiche dell’assoluto, e quegli vedeva i patenti della rivoluzione inchinati alte troppe libertà municipali. Era doppio e vero il difetto. Aggiungeva diffidaaza e discordia l’ingegno del conte Zurlo, usato a rigiri della curia, alle dissimulazioni ministeriali, a comandi del dispotismo: perciò il suo ministero fu campo di liti e di astuzie. Gli succedé il marchese Auletta, che tra il poco sapere e il voler poco, chiedeva di uscirne. E, lui uscito, il cavalier de Thomasis, il quale sapeva e voleva; ma per brevità di tempo, fra le sollecitudini della guerra o i vacillamenti dello stato, nessuna cosa fece di memorabile.

L’erario era pieno nel 1820; ma per le rivoluzioni di quell’anno, tolti alcuni tributi, le rendite scemate, cresciuti i bisogni, distrutto il credito, le casse del fisco si vuotarono. Si chiese prestanza e si otteneva da case di Londra e Parigi, se il ministro di finanze, parendogli i patti assai duri, non avesse sciolto i maneggi. Ciò operava il cavalier Macedonio, amante, ab antico di patria e di governo, dotto in economia; ma, giudicandone per sentenze, che spesso fattaci anche nel riposo; delle opinioni, fallano assai più ne’ tempi di sconvolgimento e di guerra, Il Macedonio diede luogo al duca di Carignano, ignorante di quelle scienze, avverso a libero stato, solo curante del proprio comodo. Crescendo i bisogni e i pericoli, divenuta impossibile la prestanza esterna, si fece ricorre, ad un prestito interno sotto condizioni gravi alla finanza, più gravi a’ creditori; a’ quali si davano cedole non circolanti, perché rappresentative di credito, non di moneta, e perciò lontane speranze in tempi disperati. Il prestito divenne tassa forzata, motivo a vessazioni, materia e stromento di polizia.

Altro male sopravvenne dall’avere il banco dello stato fermato i pagamenti, perciocché nelle cresciute strettezze della finanza colla memoria de' passati spogli, sotto ministro non abile, non sicuro, il pubblico ritirando a folla i depositi scuoprì un vuoto di ducati 500 mila, antichissimo e sino allora non avvertito. I fondi pubblici decaddero anch’essi; né per infedeltà o improvvida legge, ma per gli estremi della finanza, il discredito del ministro, il vacillante di quel nuovo stato.

Molti provvedimenti per la milizia e per la guerra furono operati. Trentamila soldati ne’ tempi di pace, cinquantaduemila per la guerra componevano l’esercito stipendiato: seguivano le milizie civili, centoquarantamila tra urbani, militi e legionari, de'  quali i primi difenderebbero le proprie mura, i secondi la provincia, gli ultimi il regno. Le proporzioni tra fanti, cavalieri, zappatori, artiglieri. erano come in esercito bene ordinato e convenienti alle particolari condizioni delle Due Sicilie. La Guardia era conservata, ma per tal modo che fosse premio a servigi, sprone alle opere, non mai strumento al dispotismo, non mai pericolo alla libertà. Le milizie soldato si facevano per coscrizioni, le civili erano regolate dal senno e dalla sorte: per quelle valevano ancora le antiche leggi, per queste il ministro della guerra propose una sapiente ordinanza; ma non piacque al general Pepe, che altra men buona ne impose alla Giunta di governo. Il Parlamento avrebbe corretto quegli errori se le urgenze della guerra soffrivano il ritardo che viene dalle riforme.

Armi, vestimenti, munizioni, stanze, ospedali furono allestiti. Scarseggiavano gli archibugi, ed averne a compera nella presente lega de'  governi europei fu impossibile! perciò si animarono e accrebbero le fabbriche interne, le quali fornirono a’ primi bisogni, ed avrebbero dato in breve armi abbondanti. Tutte le fortezze ristorate, accresciute: nuovi forti alzati niella frontiera e nello interno.

Nuove leggi regolarono i licei militari, gli avanzamenti, i premi per guerre o ferite, le ricompense a veterani, gl’invalidi: cessavano le parzialità de’ ministri e de’ principi; ogni merito ogni servigio troverebbe mercede.

Le descritte cose si operarono da tre ministri. Al Carascosa si debbe il maggior merito, perciocché quasi tutte furono de’ tempi suoi. Fu del Parisi una legge per le vedove de’ militari e per gli orfani, ed altra per alloggiare le milizie stanziali o di passaggio. Il Colletta nessuna nuova legge propose, operò sulle cose fatte: provvide in tempi penuriosi a tutti i bisogni dell'esercito e della guerra: intese per ordinanze a ristabilir la disciplina, ma non bastò il tempo a' concetti.

Ministro di marina fu il cavalier de Thomasis, esperto di politica e delle dottrine legali e filosofiche, imperito nell’armi. Ma per lui potè l'ingegno ciò che spesso per altri le pratiche lunghe non possono. Rappresentò al Parlamento i benefizi che ricava lo stato da’ navili guerrieri e commerciali: disse come era in atto; propose riforme, miglioramenti, risparmi; fu lodato dal pubblico per la sua già buona fama, e dagli uomini d’armata per i suoi giudizi nell’arte. Quel ministero fu poscia unito al ministero di guerra; ed allorché l’esercito apprestavasi alle difese, molte navi armate correvano i mari con meraviglia universale, per la prestezza delle opere in tanta scarsezza di mezzi.

Il Parlamento, nelle buone leggi testé riferite, meritò fede comune co’ ministri; ma fu solo agli altri onori. I maggiorati tuttora duravano nelle Due Sicilie: in Napoli non aboliti da’ re francesi, imitatori vogliosi o forzati dell’imperator Napoleone; né dal re Borbone, che teneva quelle vecchie leggi, sostenitrici di assoluta monarchia; ed in Sicilia caduti per la costituzione dell’anno 1812, e subitamente rinvigoriti con decreto di quel Parlamento, cosi che la mala pianta vegetava ne' due regni uniti. Ma la legge del 1821 l'abbatté: i beni soggetti a maggiorasco tornarono per essa liberi. Il deputato Arconte fu della buona legge l’oratore.

Altre leggi, proposte dal deputato Natale, abolirono la feudalità di Sicilia; non essendo bastati sino al 1821 gli esempi de’ più civili regni, e la sapienza de'  tempi e i costumi de’ signori, e la stessa costituzione politica dell’anno 1821, e parecchi decreti degli anni 1816-17. Quella feudalità, cessata molte volte nel nome, non mai ne’ possessi, era finalmente per le nuove leggi distrutta, le stesse che sotto i re Giuseppe e Gioacchino operarono tra noi la piena caduta del barbaro edificio. Mancò tempo alla seconda prova, perciocché, spento indi a poco il reggimento costituzionale, tornò qual era la feudalità nella Sicilia.   

Terza legge del Parlamento regolava l'amministrazione delle comunità e delle provincie. L’asprezza delle ordinanze francesi, divenute nostre nel decennio, e conservate nel succedente regno de’ Borboni, generò ne’ popoli opinione che fosse libertà il disfacimento di quel sistema. Perciò la nuova legge, parteggiando colle credenze dell'universale, schivando l'autorità del governo, affidava quelle amministrazioni agli ufficiali del municipio. Il re disapprovò quella legge. Se non mutavano i tempi, il governo inchinando verso la libertà, il Parlamento verso regale, si ricomponeva legge, come le altre, profittevole e sapiente. Per la finanza pubblica, benché subbietto di continuo esame, si fecero poche e transitorie ordinanze, nessuna legge. Era fatica pel vegnente anno, quando il Parlamento sperava maggior sicurezza e minori ansietà di governo. Appariva frattanto che preparasse minorazioni, di tributi, economie nell’esercito, separazione delle casse di provincia dal tesoro pubblico, e che volesse render la libertà testé perduta alle amministrazioni di pubblici stabilimenti, e far palesi, per divolgati conti e sindacati, le entrate, le uscite del denaro comune.

Sperati beni che non si ottennero; anzi bisognò ritirare dalla cassa di sconto un milione di ducati, e vendere ducati cinquantamila di annuo frutto sulle inscrizioni, possedute in maggior somma dalla finanza. Poco profittò prestito forzato, nulla le vendite de’ beni dello stato. Doveva la Sicilia all’erario comune quasi metà dell’annuo tributo. Si pagarono alla casa Torlonia di Roma ducati seicentomila prestati nel 1816 per le ingrate spese del congresso di Vienna. Si mantennero gl’impegni co’ potentati Barbareschi. Cosi che a computare le sopradette somme, vedesi che nulla o poco disperse lo stato pe’ casi di quel tempo; e frattanto ristaurò le fortezze da tempo immemorabile abbandonate, provvide armi nuove, fece alcun vantaggio a’ popoli per le diminuita imposta del sale, e per lavori di guerra e guadagni nuovi.

Rimarrebbe a dire del Parlamento se dir si potesse in breve ciò che operò per apprestar la guerra e concitar Io zelo de’ cittadini, premiare ogni virtù, fecondare le speranze, celebrare nonché i fatti onorevoli, le intenzioni di alcun inerito futuro ne’ trovati per apprestar la guerra e conciliare lo zelo de'  cittadini, premiare ogni virtù, fecondare le speranze, celebrare i fatti onorevoli fu sagacissimo, ed in ben dire, in bene operare infaticabile il deputato Poerio; suoi pregi sventurati, perché, sterili allora, gli fruttarono più tardi prigionia, esilio, molti danni, quasi povertà, fama più bella.


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LIBRO SETTIMO

Sommario

Massima Costernazione — Il re in Firenze consulta col principe ili Canosa le regole di Governo. — I carbonari in Messina intesa la sventura di Rieti procurano difendere per loro la giurata Costituzione. — Rossa roll. — Ferdinando comincia a governare per ministri. — Giunte di scrutinio. — Canosa ministro di Polizia. — La frusta. — L’intendente Guarini in Salerno. — Veduta la viltà generale Canosa scrive al re che può punire, e il re risponde: punisci. — Carcerazioni. — Sangro capo della Giunta scrutatrice dell’esercito. — Un delatore uscendo di chiesa è pugnalato: altro muore di morte improvvisa in grembo al Canosa. Si condannano alle fiamme i libri interdetti e il Catechismo. — Re Ferdinando viene in Napoli. — Un editto del 30 maggio 1821 perdona i delitti della rivoluzione meno pe’ militari e settari di Monteforte. — Si apre il processo di Monteforte. — Armati nelle campagne, e loro azioni. — vescovo Tommasi in Aversa e Mormile. — I carbonari in Palermo. — Mormile preso e spento: altri sessanta dannati a morte: altre condanne. — Giudizio per la uccisione di Giampietro. — La reggia sempre in lietizia. — Titoli, dignità e ricchezze a’ militari austriaci. — È distrutto H trattato di Casalanza. — Cambiamento in Polizia. — Prigionieri spediti in Austria. Esilio di Canosa, richiamo di de Medici. — I rigori di Governo restano fermi. — Giudizio di Monteforte. — Tupputi, la marchesa Mesuraca e la grazia del re. — Morte di Morelli e Silvati. — Premio e pena a’ giudici. — Altre condanne e miserie.

Se tutt’i sovrani del mondo avessero la virtù di operare nulla per se stessi, tutto pe’ popoli, con ischetta bontà e senza mendacio, le rivoluzioni non avrebbero più luogo ed i troni vivrebbero sicuri e benedetti. Ma i re son troppo egoisti, eglino aspirano mai sempre ad elevarsi sulle nazioni ed a rendere assoluto il loro: io tono; quindi vi saranno rivoluzioni sino a che vi saranno tirannidi.

La Città ed il regno, certi di vicina come che incognita sventura, stavano inquieti e costernati: non alcun uomo ne’ nove mesi, per genio, o timore, vaghezza, o ambizione, non avea operato e detto qualche cosa conforme al tempo; non alcun uomo, fra tanti sdegni civili, potea sperare che gli mancasse delatore o nemico: il re offeso, sdegnato e per natura sordo a pietà, inchinevole a ’ vendetta; esercito che lo secondava, poderoso e straniero;pravi costumi; età corrotta. Era universale il pericolo e lo spavento. Alle prime fughe de’ più conti settari; altrene succederono; e de’ rimasti, chi andava ramingo nel regno, chi nascondevasi, chi troppo si palesava per mostrarcoscienza sicura; tutti tremavano.

Nel qual tempo il re ih Firenze consultava col principe di Canosa le regole di governo. Canosa, cacciato in esilio l'anno 1816, si ricoverò nella Toscana; vide in Livorno il re al suo passaggio per Laybach, ma senza indizio di regal favore; lo rivide al ritorno, e il re lo scelse ministro del suo regno e del suo rigore. Nel congresso di Laybach, avuto rispetto a’ giuramenti del re, si erano fermate, per decoro del nome, sentenze oneste di governo: riprovare la rivoluzione dell’anno 1820; dichiarar forzata la libertà del monarca; e però invalidi gli atti di quel tempo; punire i capi di Monteforte, ma pochi e non colla morte; spingere a fuggire i colpevoli, aiutarli alla fuga per evitare io scandalo de’ giudizi; rifare lo stato del 1820; rigidi sull'avvenire, benigni al passato, coprire col silenzio e con la dolcezza un fallo comune de’ soggetti e de’ reggitori.

Queste benignità spiacevano al Canosa, e però, concitando gli sdegni del re, consigliava di pregare i sovrani del congresso a rigidezze maggiori; e scritte alcune lettere in forma di orazione, ed inviate a Laybach dal re col nome del suo ministro, non valsero a mutare i benevoli proponimenti. Di poi, per i fatti di Rieti e, per le rivotazioni del Piemonte, sicuro ed inasprito l’animo di que’ potentati, di nuovo pregati dal re dì Napoli, gli diedero, libero impero. Felice, il Canosa della sfrenata tirannide, fermò le massime di governo, che furono:

Punire ne’ sudditi ogni colpa; vendicare ogni offesa del lunghissimo regno del suo signore; schierare alla memoria gli odi presenti, e quelli del quinquennio, del decennio francese, della costituzione di Sicilia, della repubblica napolitana, de’ primi moti del 1793; opprimere i mal sofferenti di assoluto governo colla morte, le prigioni, gli esigli; schivare i giudizi, come lenti; presto punire per proprio senno; rompere il trattato di Casalanza, e tutti i precedenti trattati o perdoni; prendere il destro per nettare il regno da’ nemici de’ troni.

E tanto più che un novello tumulto accreditava la sentenza di lui, che, non per travagli, o disastri, assai meno per benefizio o pietà, ma solo per morte o per impotenza di ribelli si assicuri l’imperio del re che era per lui la quiete de’ regni. In Messina, forte d’armi e di ricchezze, intese le sventure di Rieti e le fughe degli eserciti e l'avvicinamento dell'oste tedesca, i carbonari, molti ed arditi, sperarono difendere per sé la giurata costituzione, purché i presidi della città fossero compagni al disegno ed a’ pericoli. Reggeva le milizie di quel Vallo il general Rossaroll, vago di libertà e per natura immaginoso ed estremo. A lui, il 25 marzo, andati come oratori i primi della setta, e da lui promessi gl’invocati aiuti, insieme concertarono i modi della impresa. Rossaroll sarebbe il capo; i soldati, per le leggi della milizia, i settari, per propria scelta, gli obbedirebbero. Tali cose dette da’ cospiratori e fermate in animo, passati gli avvisi nella notte a’ settari della città, ciascuno tra le ambizioni e le speranze del proprio ingegno attendeva impaziente i primi albori prefissi al movimento.

Spuntato il giorno cominciarono i tumulti, ed in poco d’ora trascorsero in ribellione; perciocché fu rovesciato stemma regio ed alzate in quel luogo le bandiere della setta, abbattute le statue del re, quelle di marmo rotte in pezzi e disperse, una di bronzo, resistente allo sforzo di atterrarla, sfregiata, sporcata in viso, e imposto al capo, cosi che nascondesse la corona, vaso immondissimo. Il luogotenente del re, principe della Scaletta, minacciato e fuggitivo, i magistrati atterriti e nascosti, tutta la podestà in mano del Rossaroll, il quale, rammentando per editto le parole del giuramento del re, che dicevano: Se operassi contro il mio giuramento e contro qualunque articolo di esso, non dovrà essere obbedito; ed ogni operazione con cui vi contravvenissi sarà nulla e di nessun valore, dichiarò legittime quelle mosse di popolo e di milizia, e palesando i disegni suoi e de’ settari, confidava che fossero secondati dalle genti dell’isola, benedetti da Dio, ammirati dal mondo. Diede comandi da generale a tutti i presidi della Sicilia per adunarsi a Messina, e nunzi suoi e della setta furono spediti alle città dell’isola e della vicina Calabria per levarsi in armi. Ma non facendo, per suo poco senno e per le disordinate voglie de’ seguaci, i provvedimenti necessari alla guerra ed al governo delle moltitudini, era quel moto, a vederlo, vasto, confuso; allorché, fu riferito al re in Firenze mentre consigliava di governo col suo ministro.

Ma le città siciliane invitate a sollevarsi rifiutarono i domandati aiuti; de’ nunzi, altri scoperti, furono imprigionati, altri, cauti o infedeli, disobbedirono; le milizie, o non avvertite del comando del Rossaroll, o per comando contrario de’ propri capi, non mossero. Allentava la foga: gran numero di cittadini nella stessa Messina si congregavano armati, prima in difesa di se stessi, poscia in sostegno della quiete pubblica, e poco appresso per frenare ed opprimere i ribelli. Così che questi si divisero, e, pensando ciascuno a campar solo, chi fuggì, chi si nascose: il general Rossaroll, dopo breve disordinato impero, imbarcato da fuggitivo, andò in Ispagna; guerreggiò con infelice fortuna, ed alla caduta di quel governo costituzionale si riparò in Inghilterra, e di là in Grecia, non per asilo o riposo, ma per combattere a pro di libertà Giunto ad Egina, infermò e morì.

Il re, formate le massime d’impero, cominciò a governare per ministri rivocando ogni legge costituzionale. Provvide alla sicurezza del regnare, disarmando i cittadini, castigando di morte i portatori di qualunque arme, sciogliendo le milizie civili, vietando le riunioni, perfino le più legittime e laudevoli: università, scuole, licei. S’intesero condannati a morte senza giudizio, per solo bando di polizia, i generali Rossaroll e Pepe, e promessa ricca mercede per l’arresto de’ più conti rivoluzionari di Monteforte. Si composero, de’ più caldi partigiani della tirannide, molte Giunte chiamate di Scrutinio, distillate a scrutinare la vita di tutti gli uffiziali dello stato è de’ più alti e più noti cittadini: giudizi e giudici spaventevoli.

E non vi era giorno che non si udisse la campana della giustizia ed il pubblico invito alle sacre preghiere: erano giudizi delle corti marziali pe’ portatori di alcun’arme, o i detentori di qualche segno di setta. In quel mezzo arrivò in città ministro di polizia il principe di Canosa, che volle al pubblico annunciarsi, prima che per. editti o per fama, con spettacolo atroce, ormai scordato dal popolo, ignoto a’ più giovani, la frusta. A mezzo il giorno, nella popolosa via di Toledo, fu visto, in militare ordinanza; numeroso stuolo di soldati tedeschi, poi l'assistente del carnefice, che ad intervalli dava fiato alla tromba, e poco indietro altri tedeschi ed alcuni sgherri di polizia, i quali accerchiavano un uomo, dalla cintura in basso coperto di ruvida tela, con piedi scalzi, dalla cintura in sopra nudo, con i polsi strettamente legati, portando in mano ed appesi al coito tutti i fregi settari, ed in capo un berretto di tre colori collo scritto a grandi note: Carbonaro. Quel misero, accavalcato sopra di un asino, aveva dietro il carnefice, che ad ogni picchio di tromba con isferza di funi e chiodi gli flagellava le spalle; cosi che il sangue mutava colore alle carni, ed il volto, smorto e chino al petto, dimostrava il martirio. Seguiva plebe spietata ma taciturna; gli onesti fuggivano, nascondendo per. prudenza, la pietà e l'orrore. Il flagellato dopo la frusta, dovea penare in galera quindici anni, non per giudizio di magistrato, ma per sentenza del ministro della polizia, principe di Callosa.

Ne’ seguenti due giorni si videro altre due fruste, terribili come la prima, se non che mancavano i soldati d’Austria, non so se per ribrezzo o vergogna. Furono le ultime in città; ma in Salerno l'intendente Guarini, che volea somigliare al Canosa, fece frustare un sarto, per fama settario e liberale, attempato, padre di molti. figli, reo questa volte di mancato rispetto all'intendente, restando seduto a suoi lavori mentre quel magistrato in abito di cerimonia e con pompa di sgherri e clienti, gli passava dinanzi. Nella provincia di Avellino e nella Puglia erano severissime le corti marziali; nella Basilicata la polizia, più che altrove operosa e tirannica; nelle Calabrie abbondavano i delitti di parte e le vendette; negli Abruzzi e in Terra di Lavoro i comandanti tedeschi, sospettosi e da mala gente accerchiati, imprigionarono tanti cittadini, che bisognò forma più breve di processo e particolar magistrato a giudicarli. Aveva ogni provincia il suo flagello.

Ma si percuotevano uomini, benché, famosi di Carboneria, bassi ed oscuri nel mondo; se non che subito il circolo degli afflitti si slargò. Perciocché, visto lo stato della città, la divisione de'  cittadini, la viltà, la paura, la pazienza del popolo, Canosa scrisse al re che potea punire senza pericolo, ed avuta risposta, punisse, fece, chiudere in carcere il general Colletta, il general Pedrinelli, il deputato Borrelli, al quale i servigi di nove mesi non eran bastanti a placare l’odio antico del re. Poco appresso altri generali: Arcovito, Colonna, Costa, Busso; altri deputati: Poerio, Pepe, Piccoletti e consiglieri di Stato: Bozzelli, Bossi, Bruni; e magistrati ed uomini chiari per virtù e per opere, furono imprigionati. La insidiosa polizia con mala industria diceva esser molti altri destinati alla pena, e indicava i nomi acciocché fuggissero, desiderando degli innocenti la fuga, non in giudizio. Non che mancassero giudici iniqui a condannarli, ma la manifesta ingiustizia faceva timore, e nondimeno l’odio sfogava, però che nella presente lega delle polizie europee i fuggitivi sarieno stati di certo dovunque straziati; e per l'andar volontario sospettandosi mala coscienza e delitti, avrebbero incontrata doppia pena, L’esilio e la infamia. Cosi spinto a fuggire fu il general Carascosa. Ma poi scoperto l’inganno, cessarono le fughe; e non potendo ad un punto castigar per giudizi quanti l’odio accennava, se ne scrissero i nomi e si attendeva l’opportunità alle vendette. La fama, forse maligna, come suole contro i potenti, diceva inscritti quattromila nomi nel LIBRO esiziale, e che continuò cresceva di pagine per le cure delle Giunte scrutatrici. Era ferocissima quella per l’esercito; nella quale usando scrutinare per dimande, il capo di lei, general Sangro, interrogava: Siete mai stato carbonaro? Avete mai disertato? Commetteste alcun altro delitto contro il re e lo stato? Domande sfrontate, perché egli stessa carbonaro nel 1821, disertò col figlio dalle. giurate insegne. Cosi che spesso la indignazione de’ sottoposti, vincendo la prudenza, facea rispondere svergognando e confondendo quel tristo. Dopo di allora quella Giunta e le compagne, mutato stile, giudicando per segrete inquisizioni, furono più libere, più infeste.

Si moltiplicavano i delatori e le spie, officio infame, ma che, arrecando salvezza e premi, era in età pericolosa e corrotta ricercato. Uno di que’ malvagi; uscendo di chiesa affollato con altre genti, ebbe da ignota mano trafitto il fianco; vicino a morte, rivelò quali persone per le sue false accuse stavano in carcere: mori ma senza pro a’ discolpati. Altro tristissimo (un certo Avitaia), nel mezzo della notte conferendo, come soleva, col ministro Canosa, si levò all’improvviso e vacillando su i piedi, chiese aiuto: accorse il solo che poteva, il ministro; ma quel moribondo gli appoggiò la fronte sul petto e spirò. Casi orribili, che divolgati aggravavano la mestizia de'  tempi.

Per nuova legge si condannarono alle fiamme, oltre i libri interdetti dal pontefice, il Catechismo sino allora insegnato nelle chiese, e si. minacciarono gravi pene a possessori. Quel libro, composto nel 1816 per le. cure del governo, era stato cavato dalle opere morali del Bossuet; ma sembrando pericoloso per i nostri tempi noverar fra i doveri del cittadino la difesa e l’amore della patria, e non volendosi in Napoli cittadini ma sudditi, non patria ma trono, fu odiato il LIBRO e proscritto. I fatti seguirono le minacce: visitate nella notte parecchie case, raccolti molti de’ vietati libri, tratti nel carcere i possessori, disposti que’ volumi a rogo nella piazza Medina, furono per man di birro, mentre il banditore pubblicava la infamia, bruciati. Erano il Catechismo, la Dottrina Cristiana, i Doveri Sociali, e il Voltaire, il Rousseau, il Montesquieu. Da’ quali fatti avvisati del pericolo i possessori di biblioteche, distrussero gran numero di libri, fin gl’innocenti e i più istruttivi e giovevoli. Un anno appresso si aggiunse alla censura de’ libri stranieri dazio si grave, che ne impediva l’entrata. Il ceto de’ librai, venuto in povertà, dimostrando che per il troppo dazio era scemato il benefizio della finanza, pregò per l’abolizione della legge il ministro de Medici, il quale, dichiarò essere lo scopo di quella gravezza non la utilità finanziaria, ma la ignoranza del popolo; cosi che i loro argomenti si volgevano a sostegno della legge.

Cosi stava inorridita ed afflitta la città, quando con magnifica pompa vi giunse il re, fra feste preparate, dall'adulazione e dal timore. I discorsi de’ magistrati, della municipalità, della università, delle accademie, fatti al re per gratulazione del ritorno, esaltavano la giustizia e la pietà di lui; lo chiamavano padre del suo popolo; adombravano con laude i mancamenti e lo spergiuro ed egli, tornato appena, provvedendo alle cose sacre, concesse a’ cherici |a cura della pubblica istruzione; a’ gesuiti le antiche sedi e ricchezze, ad altri monasteri e società religiose, doni e stipendi. L’esempio secondava le leggi, perocché spesso, co’ principi della casa e cortigiani e ministri, egli assisteva divotamente alle funzioni di chiesa, comunque volgari e ordinarie. E non bastando i precetti e l'esempio, aggiunse i premi e le pene, togliendo di carica que’ che mostravano larga coscienza, e dando impieghi e favore a coloro che in ostentata divozione compivano i riti della chiesa. Perciò la religione, che ne’ padri nostri era di coscienza, divenuta d’interesse, fu ipocrisia ed inganno..

De' militari e settari di Monteforte, alcuni fuggirono; altri stavano palesi e spensierati, non indotti a partirsi dalle astuzie della polizia, né dal vedere in carcere gli ultimi di quel rivolgimento del quale eglino erano i primi. Il re voleva scansare quel giudizio, per non esporre a pubblico di battimento e registrare in processo fatti poco degni del regal decoro; ma non poteva dissimulare colpe sì gravi, senza perdere la facoltà di punire le minori. Però facendo l’ultima prova, con editto del 30 maggio, giorno del suo nome, disse di perdonare i delitti della rivoluzione, ma non quello de’ militari e settari che accamparono in Monteforte. Lo studio del re a scacciarli era per coloro maggiore argomento a restare; insino a che lo sdegno e la politica di lui, vincendo il pudore, tutti in un giorno furono chiusi nelle carceri, l’editto e il perdono restaron cassati. Si apri il giudizio di Monteforte.

Numerosi stuoli di liberali, per contumace ingegno e per difendersi dalle persecuzioni della polizia, correvano le provincie;. e la più parte, come ricchi e potenti, uffiziali poco innanzi delle milizie 0 principali della setta, avevano seguaci, amici, aderenti, denaro, armi, conoscenza dei luoghi, mezzi di guerra lunga e sanguinosa. Il capitano Venite, il capitano Corrado, il maggiore Poerio, il colonnello Vallante, ed altri di grado e fama, stavano armati nelle campagne, più spesso ne’ piccoli paesi, pur talvolta nelle città, ribelli all’autorità del governo, imperando sul popolo, non per imporre taglie o tributi, avidi solo di libertà. II capitano Venite con le sue genti, un giorno dopo aver fatte le cerimonie sacre della setta, assaltarono Laurenzana, città grande di Basilicata, combatterono e vinsero le guardie del carcere per far libero un settario; ma impedirono agli altri prigioni di uscirne, non volendoli compagni né liberi, perché rei di misfatti. Felice il Venite in Laurenzana, assaltò nella notte le carceri di Calvello, altra città, e ne trasse un frate, settario anch’esso, fra Luigi da Calvello. Il quale, messo il piede in libertà, vestito da francescano, chiese alcun’arme e l’ebbe. Un uomo stava in disparte legato, perché imbattutosi ne’ settari mentre andavano agli assalti del carcere, fu trattenuto; non come nemico o avverso, ma per prudenza del delitto. A questo misero il frate si avventò, e per dare argomento d’animo fiero, non declinato sotto i travagli della prigionia, con molti replicati colpi l’uccise.

In Aversa il vescovo Tommasi, ambizioso e caldo partigiano della tirannide, dimentico della carità del suo ministero, spiava i colpevoli di stato, gli accusava, instigava il governo a punirli, o, dove bastasse l'autorità di prelato, li puniva. Per lui stava in carcere un prete, Mormile, sostegno alla famiglia, venerato in patria, i congiunti del quale per continui prieghi e per lagrime speravano di ammollire lo sdegno del persecutore; ma quegli un giorno, infastidito, superbamente lor disse: Sino a tanto piacerà a Dio tenermi vescovo d’Aversa, resterà il Mormile imprigionato. La qual sentenza, diretta al giovine che lo supplicava, Carmine Mormile, produsse che subito cessasse dal pregare, e con gli altri della famiglia partisse. Soleva il vescovo, al declinar del giorno, andare a diporto in carrozza; e il giovine Mormile, informato di quell’uso, poche ore dopo i feroci detti, nella pubblica piazza lo attese, e vedutolo si appressò, lo chiamò per nome, gli scaricò nel petto un’arme da fuoco che tenea celata sotto le vesti, l’uccise e disse: Or non sei vescovo di Aversa, Iddio avveri la tua sentenza.

In Palermo la setta de’ Carbonari, debole nel 1819, accresciuta dopo i trionfi del 1820, più numerosa, benché flagellata, nel 1821, si adunava nella notte in alcune grotte della contrada di Santo Spirito, lungi un miglio dalla città. Di che informata la polizia, sorprese i settati (in quella notte soli 14) armati ed ornati de'  fregi della setta. Cinque tra loro, per amor di salvezza e per malvagità, denunziarono altri compagni, altri ricoveri e disegni e speranze; cosi che varie, sorprese e molti arresti seguirono. ed allora gli ancora liberi, sperando salute da un generale sconvolgimento, passati gli avvisi alle società compagne dell’isola, si tenevano nascosti ed armati ne’ boschi, aspettando l’opportunità di prorompere. Ma il governo, sapute o sospettate quelle opere e quelle speranze, accresceva rigori, faceva provvedimenti di sicurezza e prudenza; i presidi tedeschi si chiusero ne’ forti della città, le milizie napolitane erano tenute in riserva ne’ quartieri, i loro capi, fidi al re, sospettando le proprie schiere, stavano costernati e inquieti; la polizia più che non mai era operosa e tiranna.

Inique leggi, pratiche inique, reggitori spietati ed ingiusti, passioni del popolo ardenti e ree, coscienze sfrenate generavano misfatti gravi e continui, famiglie intere distrutte, cento e cento vendette satollate. Né solamente nell’infima plebe, ma negli alti della società per natali o grado. Si udivano tuttodì preti ribelli ed uccisi, preti sicari di polizia; ed uffiziali dell’esercito onorarsi del mestiero di bjrro, ed intendenti e comandanti di provincia straziar persone innocenti, e magistrati denunziatori in secreto, e poscia delle. loro accuse giudici iniqui.

E tra casi tanto miserevoli ed orribili multiplicavano le condanne delle corti marziali e de’ magistrati. Il giovine Mormile, non preparato al delitto, reo per impeto di un istante, privo di asilo, vagando nelle campagne intorno alla città, fu preso, e al terzo di, nella piazza medesima dove egli aveva consolato il suo sdegno, fu spento. Gli assalitori di Laurenzana e Calvello, sopraffatti dal numero delle milizie, alcuni traditori, tutti traditi, presi e giudicati, furono al numero di sessanta dannati a morte, e primo a morire fu il frate da Calvello. Fu morto combattendo il capitano Corrado; si salvò fuggendo il maggiore Poerio; fu chiuso in carcere il colonnello Valiante. I tumultuosi. di Palermo furono giudicati, quarantatré puniti, e nove colla morte. Per altro giudizio morirono diciassette in Messina e trentotto condannati a ferri. Altri dodici morirono in Lanciano. Avanzava il processo di Monteforte: altri processi per le rivoluzioni dell’anno 1820 si spedivano. Il giudizio per la uccisione di Giampietro, terminò colla condanna di tre alla morte, diciassette appena di galea, e di ergastolo. Si provò il delitto concertato in adunanza di Carboneria, e commesso ad alcuni settari scelti o sortiti, usando nelle atrocità eleggere ministri non conosciuti dal proscritto per abituarli a qualunque obbedienza e sperdere gli indizi del misfatto. Furono perciò esecutori contro il Giampietro uomini della plebe, e motivo all’odio della setta l’esser egli stato, da direttore di polizia, cieco ed acerbo punitore de’ settari. Ottocento almeno condannati, o nelle civili discordie combattendo, furono morti nell'anno 1822 per causa di libertà.

Ne’ quali fatti di giudizi erano accusatori, testimoni, giudici, persecutori in segreto, assalitori armati de’ liberali, altri poco innanzi liberali anch’essi e compagni nella setta e nelle opere: mutati, non per ravvedimento, ma per desio di salvezza, o ambizione, o guadagno. Il dotto canonico Arcucci, caldo scrittore a pro di Carboneria quando essa era felice, fuggiasco scrive in istampa lettere latine al pontefice, altre volgari al re; dimostrando sé iniquo, malvagia la setta poco fa santificata, implorando, perdono; e l’ottiene. Altri rivela i nomi de’ compagni settari; altri si gloria de’ suoi mancamenti al giurato governo costituzionale; vanto, vero o falso, sempre infame.

Ma sia freddezza per le altrui sventure o prudenza di regno, il re e la sua casa vivevano lietamente; ora festeggiando i di natalizi, ora gli onomastici.

Il re concedé profusamente titoli, dignità e ricchezze a militari austriaci stanziati nel regno: il generale Frimont fu creato principe di Antrodoco, e donato di ducati duecentomila con lettera del re che dichiarava la gratitudine sua e della sua stirpe per il riacquistato impero. E tutto ciò ne’ giorni medesimi, che, sciolto l’esercito napolitano, il re toglieva gradi, onori e stipendi a que’ militari suoi soggetti, che per guerra o lungo servire gli meritarono, e distruggeva la convenzione di Casalanza. Vero è che, non osando rompere un trattato dalla fede dell’imperator d’Austria guarentito, ne fé richiedere l’imperial ministro Fiquelmont, che subito replicò essere facoltà regia, ed anzi debito di politica distruggere quello accordo. Fu distrutto. Si trovaron puniti della rivoluzione dell’anno 1820 gli assenti da Napoli, gli avversi, gli  innocentissimi, e di quel mancamento non fece coscienza il re, non né alzò grido l’imperatore, ne menò vanto il  ministro Fiquelmont: tanto poco stimavano la religione de'  giuramenti.

Si cambiò il ministero di polizia in direzione; il principe di Canosa, che n’era ministro, fu nominato consigliere di stato: restò più potente. Andarono in Austria i prigioni tre già deputati: Poerio, Pepe, Borrelli; tre generali: Colletta, Pedrinelli, Arcovito, là confinati in lontane città Gratz, Brunn e Praga. Il principe di Metternich accertò che i rigori di Napoli erano ignoti al governo d’Austria, mentre il governo napolitano diceva ch’erano voluti da’ ministri dell'Austria. Si palleggiavano la vergogna di opere inique; ma, coll’andar degli anni e col ripetere il fallo stesso, gli uni e gli altri glorificavansi di quelle ingiustizie, chiamandole senno di governo. Si ricomposero i magistrati per distaccar gli odiosi e dare i impiego a’ partigiani. E si ricomponeva l’esercito per cassarne i murattisti, non ritenendo di tanto numero se non pochi astuti che, mutata la fortuna di Murat e lui fuggito e spento, lo incusavano e maledicevano acerbamente, per farri grati al nuovo regno.

Impoverita la finanza e dovendosi tornare per nuovo  prestito a Rothschild, questi vi acconsentì a patto che fosse il de Medici, suo amico, richiamato al ministero.

Or siccome de Medici e Canosa erano nemici così quei  due potenti avvicendano i ministeri e gli esigli. Il re tutto  concesse; rivocati gli antichi ministri altri ne scelse de' voti al de Medici o non avversi: Canosa fu scacciato con stipendi più ricchi e chiare pruove di reale affetto. Nel pubblico si alzarono le speranze, però che si credea mutato l’ingegno del re, mentre mutava l’apparenza sola del favore.

Partirono nel tempo stesso de Medici da Firenze, Canosa da Napoli, che tornò all’antico asilo di Pisa. Ma nel regno la speranza di miglior governo decadeva; perciocché la gioia pubblica per il ritorno del cavallerie Medici, e l’odio contro lui ancora vivo, del re, cosi che nei consigli nol mirava in volto, avvisarono quello astuto e vecchio ministro che gli bisognava demeritar le lodi del pubblico, e molcere l’animo del suo signore; cose che otterrebbe straziando gli afflitti. Altri cento e cento furon perciò rimossi dagli impieghi, crebbe il numero del prigioni, de'  confinati all’isole di pena, de’ mandati in esilio; si accelerò il processo di Monteforte, fu riprovate la lentezza de'  giudici, e minacciata per lo avvenire: le massime del Canosa, con pubblica meraviglia; duravano ne’ consigli del de Medici, cosi che il mondo pende incerto se l’uno o l’altro, a paragone d’opere malvage, fosse più tristo.

Il giudizio di Monteforte procedeva: fuggiti i principali colpevoli, pericolavano i minori; ma caddero nei lacci Morelli e Silvati, primi e condottieri de’ disertori di Nola. Venute in Napoli le nemiche schiere tedesche, que' due fuggirono insieme; il Morelli fattosi capo di 600 soldati e partigiani, correva le campagne intorno alla forte città di Mirabella. Ma la foga de’ suoi col tempo ammolliva, altri disertavano, altri si mostravano schivi a’ pericoli: Morelli licenziò tutti, e solo col Silvati, compagno antico, imbarcarono sopra piccola nave per Grecia. Percossi da tempesta, correndo il mare, approdarono ai lidi di Ragusi; ma privi di passaporto, e mostrando le ansietà de’ fuggiaschi, suscitato sospetto alle autorità del luogo e imprigionati, furono spediti (però che avean detto essere di Romagna) in Ancona. Ivi le menzogne si palesarono, i nomi che avean finti erano ignoti alla finta patria: il parlar napolitano, le dubbiezze a rispondere, le varietà dell’uno e l’altro sopra fatti comuni, le note vicissitudmi, e i luoghi e i tempi accertavano ch’e’ fossero due fuggiti; e però, tenendoli guardati nel carcere, si aspettava di consegnarli al governo di Napoli.

Quando eglino, fingendo altri nomi, si dissero già uffiziali del reggimento Principe, partecipanti, benché da ultimi e da seguaci, a’ moti civili dei 1820, ed escolpati da decreto del re. Bastarono que’ detti per esser mandati nel regno con numerose guardie. Silvati vi giunse, Morelli ebbe altre sorti: entrando per natural bisogno in una cava, le guardie custodivano l’uscita, ma la spelonca, dilungandosi Bei seno del monte, aveva altro varco nell’opposta valle: per quella il Morelli fuggi. Di foresta in foresta, camminando sol nella notte, andò negli Abruzzi, scese nelle Puglie, intendeva di passare in Calabria, aver denaro da’ suoi parenti, ed imbarcar di nuovo con più felici speranze per Grecia; Incontrato da’ ladri fa rubato e percosso; ma poiché serbò nascoste in una cinta poche monete d’oro, fece animo a proseguire il cammino. Quasi nudo e tutto scalzo, andando poco, soffrendo troppo, entrò nel piccolo villaggio chiamato Chienti; provvide da un calzolaio scarpe, cibo e veste, e le pagò con una moneta di sei ducati, ricchezza non conforme alla visibile povertà del suo stato. Il calzolaio ne insospettisce, e, facile o tristo, rivela i dubbi a’ ministri del luogo. È arrestato il Morelli, e ad un punto conosciuto, e in catene a 26 spedito in Napoli. Egli e Silvati accrebbero l'importanza del cominciato giudizio di Monteforte.

Dice vasi che il processo discolpava gli accusati, e della voce lietamente sparsa indispettiva il governo; così che ad occasione di un decreto della corte suprema, benigno e rei, lo annullò, rimprocciò per pubblicate lettere quel magistrato, levò di carica il ministro di giustizia cavalier de Giorgio, perché in sostegno delle leggi opponevasi a quel rigore; indi appresso surrogò al procurator generale Colenda, di onesta fama, il magistrato Brundisini, non curante d’infamia: e dagli esempi sbigottito il presidente Potenza, allegando causa d'infermità, diè loco al supplente Girolami, ambizioso e perverso. Mancò il Potenza al maggior debito di magistrato, costanza ne’ pericoli.

Ma il dì prefisso al dibattimento quattro degli accusati erano infermi: due con febbre, un terzo di emottisi, l’altro di riaperte ferite di guerra al collo ed alla gota. Gli avvocati pregarono che si differisse, ma invano; i quattro infermi furono tratti per forza dal carcere al giudizio: l'uno chinava il capo al patto, ed appoggiava la persona, come moribonda, sul vicino; l’altro di febbre balbutiva e tremava; dava di bocca vivo sangue il terzo; e il quarto ne mandava dal capo, e ne bruttava le vesti. Deforme spettacolo! Uno de’ giudici, de Simone, si levò e disse:

«Dimando al signor presidente ed al procurator regio se qui siamo giudici o carnefici? Il re, se fosse presente, biasimerebbe l’inumanità nostra, lo prego cogli avvocati che sia differito il giudizio.»

A que’ detti assentiva tumultuando il popolo presente; le guardie (erano tedesche) impugnarono l’armi, parecchi imprigionamenti nella casa della giustizia seguirono, vile silenzio successe nella moltitudine; i preghi del de Simone furono rigettati. Con sembianze tanto atroci cominciò il dibattimento.

Erano grandi le colpe, le discolpe: diserzioni concertate de’ reggimenti, violata la disciplina e il giuramento della milizia, mutato il governo, cagionata la guerra; e dall’opposta parte, moti tranquilli, rivoluzione civile, perdono, lodi; giuramento del re; universal consentimento  de’ reggitori e de'  soggetti; eguali sforzi a sostener quei lo stato, eguale abbandono nelle rovine: perciò colpe comuni o nessuna. Per i quali rispetti gli onesti fra i giudici sentivano pietà e brama di giovare a que’ miseri; gli ambiziosi disegnavano di amplificare il delitto. Gli accusati stavano sereni, o per animo grande, o per gli aiuti della speranza, o per la calma che viene dalla disperazione. Morelli, più volte interrogato sulle particolarità del delitto, rispondendo, aggravava le colpe, e soggiungeva:

«Mancai, lo confesso, al giuramento della milizia; ma il re giurò di perdonare al mio mancato giuramento.» Il colonnello Colentani, altro incolpato, udendo accusare come ribelli gli uffiziali del suo reggimento, chiese parlare, e disse:

«Ho esposto altre volte per quali onesti motivi condussi a Monteforte il reggimento; ma quegli argomenti vaglian per me, non per questi uffiziali (segnandoli col guardo e col dito) che sento con meraviglia chiamar ribelli e spergiuri. Sariano al certo e spergiuri e ribelli, se disobbedivano al mio comando. Io innanzi di muovere non consultai col reggimento, ma, come è costume negli eserciti, feci suonare la partenza; e questi ufficiali e soldati, obbedienti come altra volta, mi seguirono. Giunti noi a Monteforte, se io comandava di combattere le schiere del Morelli, il mio reggimento le combatteva; ma io comandai di unirsi ad esse, e tutti si unirono per obbedienza ed esempio. Dirò anzi cosa verissima: io che non poteva palesare ad ognuno le oneste cagioni di quelle mosse, e che di tutti conosceva l’avversione alle novità di stato e la fede al re, colle cose che dissi e colle ordinanze del marciare o del fermarci intesi a far credere che si andasse ad espugnare il campo di Monteforte, né rivelai le intenzioni vere se non in mezzo a quel campo, quando era l’opera irrevocabile. Strano giudizio è ora questo! Siamo rei nella stessa causa, e qui seduti insieme sulle scranne dei pericolo, io perché ne’ fatti gravissimi di que’ tempi operai a mio senno, e costoro perché non operarono col senno proprio; per me dunque è delitto la libertà delle azioni, ed è delitto per essi non avere agito liberamente; la cieca obbedienza era debito a me, e il non averla avuta è colpa; la cieca obbedienza non è merito a loro, è delitto. Pensate, o giudici, alla natura di questa causa, di stato per me solo, di disciplina per gli altri del reggimento. Fareste cosa giustissima (quando mai fosse delitto di maestà quel movimento) punir me colpevole, salvar coloro innocenti, e ricercare un mio soldato che disertò nel cammino per castigarlo secondo le ordinanze della milizia. Ripeterò in breve il mio concetto: tutti innocenti, o reo per tutti sol io.»

Durò il dibattimento. più che tre mesi: parlarono, a difesa gli avvocati animosamente, come non fosse causa dì maestà in tempi pericolosi e feroci. La sentenza fu data da sette giudici: tre furono per la libertà degli accusati, però che non costava di colpa nelle rapportate azioni, o si trovava rimessa dal perdono del re; e gli altri quattro ne condannavano 30 di morte; 13 di ergastolo, o galera.

Letta la sentenza, da eseguirei tra poche ore, i condannati a morire furono condotti in luogo sacro per gli ultimi conforti di religione.

Era tra loro il colonnello Tupputi, chiaro nelle armi, al quale si era promessa sposa la marchesa Mesuraca, di fresca età, di gentil persona, nobile, ricca. Ella, poi che udì la condanna andò sollecita per dimandar grazie alla principessa Floridia, moglie del re. Il cordoglio di lei, il nome, la famiglia, la pietà della inchiesta mossero la gentildonna a pregare il marito, il quale, avendo in animo di campar dalla morte i condannati, fuorché i due primi, rispose: farebbe grazia. La principessa ritornò alla misera, che incerta ed ansante aspettava: e quella, inteso il felice annunzio, come, anzi fuggì verso il carcere, ed arrivata gridò ripetute volte: «Tupputi, la grazia è fatta.» Ma gl'infelici non udivano quelle voci, perciocché la cappella del mesto uffizio sta in loco recondito, lontano  dalla porta e dalle strade. Avvertita di ciò la Mesuraca, pregò i. custodi e le guardie, offri larga mercede a chi primo giungesse coll’avviso; ma tutti rifiutavano, impediti a penetrare in quel segreto di religione e di spavento. Cosi che disperata si aggirava intorno al vasto edilizio della Vicaria, e dovunque vedeva o finestra o spiraglio, gridava con voce altissima e pregava il popolo a gridar seco: «Tupputi, Colentani, Gaston, la grazia è fatta.» Tanto rumore, tanta pietà produssero l'effetto; Tupputi e gli altri furono avvisati della ottenuta salvezza; e per molte vie ritornò al pubblico l’annunzio che i condannati n'erano intesi ed allegri. Allora cessarono le voci e i moti della Mesuraca, ma le forze, sino a quel punto sostenute dall’ansietà, le mancarono; e dalle braccia del popolo fu trasportata nella nobil casa del padre.

Le grazie del re indi a poco si pubblicarono: la pena di morte fu mutata in ergastoli o galee a vita, le minori pene si attenuarono. Solamente inflessibile fu l'animo regio per Morelli e Salvati, che il giorno stesso morirono sulle forche. Agli altri campati dalla morte si recisero i capelli, s'imposero vesti e ferri di pena, si accoppiarono (però che in quel martirio son tenuti a coppia) con altri condannati per delitti vituperevoli, e cosi andarono agli infami scogli di Santo Stefano e Pantelleria. De’ sette giudici, tre benigni furono per simulate cagioni cassati d’impiego, gli spietati promossi; il procurator generale Colenda dimesso affatto, Brundisini avanzato; più rimunerato il Giratami dell’esempio, primo nella curia napolitano co’ quali premi e pene il governo palesava l’animo fermo al rigore, ed a’ giudici comandava severità cieca, libera da rispetti di ragione o di coscienza.

Spedila la causa di Monteforte e le altre, come innanzi ho riferito, per i tumulti di Messina, Palermo, Laurenzana, Calvello, e la causa di Giampietro, ed altre cause minori; sfogate cento vendette o della legge o dello sdegno; versato tanto sangue di cittadini e tanfo pianto, non però si mitigava l’acerbità de’ castighi. Furono condannati a morte in contumacia, e poco appresso dichiarati nemici pubblici, nove fuggiti, primi de’ quali i generali Carascosa e Pepe. Fu intimato per editto a settecento e più cittadini di andar volontari alle prigioni, per essere giudicati seconda le leggi; ovvero uscir dal regno con passaporti liberi, senza indizio di pena: aggiungendo promesse di benignità agli obbedienti, minacce a’ ritrosi. Erano costoro rei o timidi che stavano sospettosi ed armati nelle campagne, non entravano nelle città, mutavano le stanze, sempre liberi, ma di pericolosa libertà. Dopo l’editto, chi, secondo il proprio senno, restò guardingo ne’ boschi, chi, fidando all’innocenza, si presentò pel giudizio, e cinquecentosessanta chiesero di partire. Ebbero i passaporti promessi, e, stabilito il cammino ed il tempo, andò ciascuno nel prefisso giorno al confine del regno. Ma, impediti da’ ministri pontifici, si adunarono nella piccola città di Fondi, ove il seguente giorno i commessi della polizia e le genti d’arme li accerchiarono e condussero, prima nella fortezza di Gaeta, poi nelle prigioni della città. La polizia fu lieta e superba del riuscito inganno: parecchi de’ traditi furono giudicati e mandati alla pena, altri ottennero passare in Tunisi o Algeri. Il maggior numero, non giudicato e non espulso, restò in carcere, materia sofferente della tirannide, poi balestrata in mille guise dagli uomini e dal caso.

Era tanto il numero de'  napolitani proscritti o fuggiti, che se ne trovava in Italia, in Germania, in Francia, in Ispagna, in Inghilterra, in America, nelle città barbare, in Egitto, in Grecia; la più parte miseri, vivendo per fatiche di braccia o di mente, senza discendere a delitti o bassezze. Si videro casi miserevoli: figliuoli orbati di padre, in paese straniero abbandonati; padri orbati di figli morti di stento; un’intera famiglia (madre, moglie, cinque giovani figli) naufragata; altri, cacciato da ogni. città, con moglie inferma, in istagione nemica, indossando due bambini, e reggendo il terzo per mano, andare alla ventura, cercando ricovero e pane; altri gettarsi volontario nel Tevere e morire.

A tanta spietatezza di Governo poteva la nazione non vendicare i suoi diritti? Rispondano il 1848 e il 1860.

FINE.


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INDICE

LIBRO PRIMO — Conseguenze della rivoluzione francese. — Affetto a Gioacchino. —Amore della plebe pel re Ferdinando. — Editto di Ferdinando del 20 maggio 1815. — Trattato di Casalanza. — Ritorno di Ferdinando: conservazione degl’impiegati civili e militari: Ministero. —Amministrazione. — Segreto trattato con l’Austria. — Ferdinando prende il nome di I; legge di successione. —Finanza ed obblighi. — Composizione dell’Esercito: Consiglio Supremo. — Decadenza dell’ordine delle Due Sicilie. — Medaglia di Onore. — Nugent capo delle armi. — L’ordine di San Giorgio. — La Carboneria. — Concordato del 16 febbraio 1818, suo effetto. — Ferdinando in Roma. — Il sovrano si ammala e guarisce. — Il re si taglia la coda. — De Medici favoreggia i Carbonari. — Floridezza di governo. — I settari dimandano la Costituzione. —Cartelli rivoluzionari. Il Marchese di Pietracatella. — Church in Lecce. — Intontì. — Nugent in Puglia. — Istituzione de’ militi. — Governi dai 1799 al 1820. — Voci allarmanti. —Campo a Sessa. — Operosità de’ settari.7
LIBRO SECONDO — Diserzione di Morelli e Silvati e 127 soldati. — Campo a Mercogliano. — Rapporto a de Conciti per la diserzione di Nola. — Effetti in Napoli della novella di diserzione. Ordini di Guglielmo Pepe. — Si elegge a partire pel campo Carascosa. — La sommossa progredisce. — Gl’Irpini chiedono la Costituzione e proclamano de Concili capo delle forze costituzionali. — Proclama di de Concili — Affetti del generale Carascosa, il quale va al campo senza soldati. — Morelli entra in Avellino e dà il comando a de Concili. — Fogli di Nunziante a Russo e Campana— Progetti di Carascosa; — Disunione delle forze del re. — Rapporto di Menichini a de Concili Campana marcia verso Avellino; avviso di Pristipino a de Concili. — Campana si ritira; rapporto al maresciallo Colonna. —Lettera del capitano Paolella a de Concili. — Altre diserzioni di milizie. — Rapporti a de Concili. —Indirizzò di de Concili alla Nazione; risposta del sotto intendente di Ariano. — Paura e dolore della reggia. — Lettera di Nunziante al re. — Guglielmo Pepe nel campo liberale. — Cinque settari si recano nella reggia. — Il re in consiglio. — Promessa di Costituzione. — Allegrezza dei napolitani, r L’editto si spedisce a’ campi. — De Concili riceve l’editto. — Le milizie reali si ritirano. — Nuovo Ministero. — IL re nomina il duca di Calabria Vicario del Regno. — Sospetti e agitazioni. Decreti che adottano la Costituzione di Spagna per lo: regno delle Due Sicilie. — Spirito pubblico, popolarità di de Concili. — Il Generale Pepe riceve il comando supremo da de Concili. — Lettera di Pepe a de Concili, il quale con un proclama inculca all’annata obbedienza verso il generale Pepe. — Proclama di Pepe a’ popoli delle Due Sicilie. — Morelli, Silvati e de Concili fregiati di medaglia— Pepe annunzia una entrata di trionfo in Napoli. — Partecipazione alle Corti del cambiamento politico. — Indisciplina e sospetti. —Nomina della Giunta di Stato. — Entrata di Pepe in Napoli. — Pepe, Napolitani, de Concili, Morelli e Menechini nella reggia. — Letizia generale. — Attestato di soddisfazione del duca di Calabria. —Pepe ringrazia S. A. — Abolizione del grado di Capitan Generale. — Programma pel giuramento. — Giuramento innanzi alla Giunta di Stato.27
LIBRO TERZO — La rivoluzione del 1820 fu opera della nazione tutta. — La Costituzione spagnuola era desiderio de’ napolitani. — Provvedimenti di prosperità pubblica, — Trecento soldati disertano di pieno giorno; conflitto al ponte della Maddalena. — Il general Napoletani. Potenza della Carboneria. — Scrutinio nell'esercito. — Benevento e Pontecorvo inalberano la bandiera tricolore. Rivoluzione in Sicilia. — Editto di Francesco a’ palermitani. — Ritorno di Cariati da Vienna. — Ricomposizione dell’esercito e fortificazioni. Pasquale Borrelli. — Il principe della Scaletta luogotenente in Sicilia e Florestano Pepe comandante delle armi. — Ambasciaria siciliana in Napoli. — Si apparecchia una spedizione per Sicilia. L’armata scioglie le ancore. — Elezione del Parlamento e editto del Vicario, — Formola di procura pe’ Deputati. — Il primo ottobre: Giuramento del re nella chiesa dello Spirito Santo: Parole di Galdi: Risposta del sovrano: Discorso della corona. Pepe rassegna il comando dell’esercito. — Scritto di Borrelli al re. — Abolizione della Giunta di governo. — Sala del Parlamento. — Il Parlamento diviso in nove commissioni. — Tutti gli sguardi sono sopra i Deputati: loro prime cure. — La Carboneria prende il nome di assemblea generale; Guglielmo Pepe capo supremo delle milizie civili; — Azioni del Borrelli. — Notizie di Sicilia: il principe di Paternò: trattato di pace. — La milizia napolitana entra in Palermo. — Napoli disapprova il trattato. — Pietro Colletta in Sicilia. — Azioni del Ministero e del Parlamento per immegliare lo Stato. — Messaggio del re per la elezione de’ Consiglieri di Stato.92
LIBRO QUARTO — Voci di guerra e cose estere. — Indirizzo di mediazione al re. — Decadenza di finanza. — Il re risolve partire. — Lettera dell'imperatore d'Austria. — Segreto consiglio nella reggia, — Messaggio del 7 dicembre. — Ricciardi e de Thomasis procurano voti in appoggio del Messaggio: armano la dimora del re. — Parlamento e Sette in permanenza, città in concitamento. — Presentazione al Parlamento del Messaggio reale. — Esame di esso Messaggio e decreto del Parla mento. – Nuovo Messaggio del re, e risposta ad esso. — Altra dichiarazione sovrana ed altra risposta. – Osservazioni di Poerio. — Decreto del 12 dicembre. – Una commissione di 24 deputati si re ca dal sovrano. — Parole pronunziate da Borrelli. — Risposta del re. — Nuovo Messaggio. — Il re s'imbarca — I venti trattengono il vascello a Baia. — Ferdinando riceve in Baia visite ed ambascerie di condoglianza. — Il Duca d'Ascoli interroga la volontà del re.153
LIBRO QUINTO — Novello ministero — Ira popolare. — Filangieri dà le sue dimissioni e non sono accettate. — Gli ex-ministri accusati nel Parlamento. — Difesa del conte Zurlo e del duca di Campochiaro. — I Rappresentanti assolvano i ministri. — Guglielmo Pepe va ad ispezionare gli Abruzzi. -- Dragonetti difende Aquila. — Festa delle bandiere civiche. — Il Parlamento compiti i lavori di modificazioni sospende le sue funzioni. — Stato dell'esercito. — Stato di cose in Italia — Assassinio di Giampietro.222
LIBRO SESTO — Giungono novelle del re e lettere del duca del Gallo.- L'esercito tedesco muove dal Po. — Il Reggente aduna un consiglio, si nominano i capi dell'esercito. — Notizie recate dal duca del Gallo e parole scritte dal re al figlio. — Si convoca il Parlamento. — Parole del Reggente. Rapporto del duca del Gallo. – Dichiarazioni dell'Assemblea nazionale. — Dimanda del duca d'Ascoli a S. A. ed altre simili. — Promulgazione di guerra. — Stato del regno. — Consiglio per formare i disegni di guerra e sistema a tenersi. — Ordine del giorno di Francesco a soldati. — Istruzioni politiche a capi degli eserciti. — Gli eserciti marciano. — Pepe attacca i tedeschi in Rie ti ed è sconfitto. — I tedeschi occupano gli Abruzzi. — Consiglio a Torricella. — Carascosa ritira l'esercito dietro il Volturno. — Avvilimento del Parlamento, e tradimenti de capi settari. — L'esercito si sbanda. — Ferdinando I in riscatto dello spergiuro appende lampada alla Madonna in Firenze. — Rivoluzione in Piemonte. — La guardia reale in Napoli. — Il ministero è licenziato. — Poerio aduna 26 deputati e formola l'atto di protesta. — Il Parlamento si chiude. — L'esercito tedesco entra in Napoli. — Esame generale del reggimento pubblico.241
LIBRO SETTIMO — Massima Costernazione — Il re in Firenze consulta col principe ili Canosa le regole di Governo. — I carbonari in Messina intesa la sventura di Rieti procurano difendere per loro la giurata Costituzione. — Rossa roll. — Ferdinando comincia a governare per ministri. — Giunte di scrutinio. — Canosa ministro di Polizia. — La frusta. — L’intendente Guarini in Salerno. — Veduta la viltà generale Canosa scrive al re che può punire, e il re risponde: punisci. — Carcerazioni. — Sangro capo della Giunta scrutatrice dell’esercito. — Un delatore uscendo di chiesa è pugnalato: altro muore di morte improvvisa in grembo al Canosa. Si condannano alle fiamme i libri interdetti e il Catechismo. — Re Ferdinando viene in Napoli. — Un editto del 30 maggio 1821 perdona i delitti della rivoluzione meno pe’ militari e settari di Monteforte. — Si apre il processo di Monteforte. — Armati nelle campagne, e loro azioni. — vescovo Tommasi in Aversa e Mormile. — I carbonari in Palermo. — Mormile preso e spento: altri sessanta dannati a morte: altre condanne. — Giudizio per la uccisione di Giampietro. — La reggia sempre in lietizia. — Titoli, dignità e ricchezze a’ militari austriaci. — È distrutto H trattato di Casalanza. — Cambiamento in Polizia. — Prigionieri spediti in Austria. Esilio di Canosa, richiamo di de Medici. — I rigori di Governo restano fermi. — Giudizio di Monteforte. — Tupputi, la marchesa Mesuraca e la grazia del re. — Morte di Morelli e Silvati. — Premio e pena a’ giudici. — Altre condanne e miserie.286








Nicola Zitara mi chiese diverse volte di cercare un testo di Samir Amin in cui is parlava di lui - l'ho sempre cercato ma non non sono mai riuscito a trovarlo in rete. Poi un giorno, per caso, mi imbattei in questo documento della https://www.persee.fr/ e mi resi conto che era sicuramente quello che mi era stato chiesto. Peccato, Nicola ne sarebbe stato molto felice. Lo passai ad alcuni amici, ora metto il link permanente sulle pagine del sito eleaml.org - Buona lettura!

Le développement inégal et la question nationale (Samir Amin)










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