Eleaml - Nuovi Eleatici


Questo testo è interessante per una serie motivi che indico brevemente:

  • è uno dei rari testi che racconta i fatti senza lasciarsi prendere dalla retorica patriottarda o dal revanscismo borbonico, somiglia quindi ad un testo scritto secondo criteri storici e non ideologici;

  • nel primo volume fa una considerazione abbastanza originale rispetto ai tanti testi dell'epoca, si chiede come mai le notizie inviate via telegrafo venissero prese per buone senza operare alcuna verifica sulla loro veridicità;

  • del secondo volume mi hanno colpito i numeri dei gruppi in armi che si opposero alla conquista sabauda, la retorica risorgimentalista ha liquidato l'esercito napolitano come “esercito di Francischiello” ma la verità storica è un'altra, le migliaia di insorti dimostrano che l'unico stato che si oppose a mano armata alla unificazione fu il Regno delle Due Sicilie, nessun altro stato lo fece e questo andava cancellato, dalla memoria collettiva e dai libri di storia.

Abbiamo corredato i due volumi di indici ipertestuali che ne facilitano la consultazione.

Buona lettura e tornate a trovarci.

Zenone di Elea – 1° Giugno 2014

GLI AVVENIMENTI D’ITALIA DEL 1860

CRONACHE POLITICO-MILITARI DALL’ OCCUPAZIONE DELLA SICILIA IN POI

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VOLUME I. - 01A

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VENEZIA

PREM. TIPOGRAFIA DI GIO. CECCHINI EDIT.

1860

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01A-Gli avvenimenti d’Italia del 1860 cronache politico-militari dall’occupazione della Sicilia - HTML
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02A-Gli avvenimenti d’Italia del 1860 cronache politico-militari dall’occupazione della Sicilia - HTML
02B-Gli avvenimenti d’Italia del 1860 cronache politico-militari dall’occupazione della Sicilia - HTML

Un’ordinata esposizione dei fatti politici e militari della nostra Penisola, riferitici sinora dai periodici in modo si imperfetto, confuso, e, ciò ch'è peggio, quasi sempre contraddittorio, non dee riuscir che gradita agli amatori della storia contemporanea.

Noi non abbiamo assunta che la parte di cronisti e ci limitammo ad esporre i fatti i quali avvennero secondo l'ordine dei tempi. Indagini ed argomentazioni politiche sono estranee al nostro assunto e quindi da noi evitate.

PARTE PRIMA

OCCUPAZIONE DELLA SICILIA.

CAPITOLO PRIMO

Spedizione e sbarco di Garibaldi In Sicilia

I.

Noi, semplici cronisti, non ci faremo a svolgere il lato politico dell'impresa di Garibaldi sul regno delle Due Sicilie; parleremo soltanto colf altrui voce esponendo un’opinione della Patrie, la quale dice averla dedotta da corrispondenze ricevute da Genova e che, a suo detto, spargono molta luce intorno ai disegni di quell’ardito condottiero.

«L’impresa di Garibaldi, dice quel giornale, si riferiva all’esecuzione di un disegno d’insieme precedentemente studiato e che le turbolenze avvenute in Sicilia fecero sbocciare più presto che non si avesse voluto. Quel disegno consisteva nel porre immediatamente in rivoluzione l’Italia meridionale portando l’attacco su tre punti ad un tempo per impedire alla difesa il concentramento delle sue forze e porla fra tre insurrezioni. Giusta quel disegno, trattavasi di organizzare una sollevazione generale negli Abruzzi, nella Calabria e nella Sicilia. La provincia degli Abruzzi dipende dal

regno di Napoli; giace fra l’Adriatico, la Terra di Lavoro e gli Stati della Chiesa, nei quali si doveva propagare egualmente la rivolta; è paese montuoso, in mezzo al quale torme insurrezionali potrebbero piantarsi e mantenersi a lungo. La Calabria, ch'è la più meridionale delle provincie continentali e la più vicina alla Sicilia, forma una penisola confinata a settentrione dalla Basilicata; la sua topografia è presso a poco la medesima che quella degli Abruzzi; presenta dunque a torme insurrezionali, che riuscissero a piantarmi, i medesimi vantaggi, ma un tal disegno esigerebbe mezzi militari considerevoli, una grande unità di azione e principalmente il concorso delle popolazioni, senza il quale gli insorti, ad onta del loro coraggio, sarebbero esposti a terribili disinganni. Si ricorda la mala riuscita del colonnello Pisacane e de’ suoi compagni in occasione dello sbarco che fecero al tempo della spedizione del Cagliari. Il problema era dunque a sapere se il nome celebre di Garibaldi avrebbe un poter decisivo sulla popolazione della Sicilia e delle altre provincie napoletane. Arrogi che gli Abruzzi non possono essere abbordati con vantaggio se non dalla parte dell’Adriatico e che è mestieri, prima di sbarcare sul lido di quel mare, di una navigazione difficile e lunga.»

Checché ne sia di tale disegno, Garibaldi (1), un tempo capo de’ combattenti in America indi professore di lingua italiana e francese e di matematica a Costantinopoli, poscia tribuno a Montevideo, nel 1848 generale a Roma, e nel 1859 generale dell’armata sarda, progettò ed esegui una spedizione sulla Sicilia nel mese di maggio 1860.

(1) Giuseppe Garibaldi nacque nel 1807 in Nizza.

È nota l’insurrezione scoppiata in quel paese. All’epoca della spedizione di Garibaldi per altro quell’insurrezione pareva alquanto calmata se non interamente repressa. «Non v’ha ora del giorno, scriveva il Giornale ufficiale del Regno delle Due Sicilie nel 28 aprile, che non riceviamo notizie, tanto dalla Sicilia, quanto da ciascun’altra parte del regno, né v’ha notizia che ci venga trasmessa dai telegrafi o portata dai piroscafi, la quale non sia una lieta e rassicurante ripetizione dei precedenti. Per ciò appunto, nell’ultimo cenno che facemmo della tranquillità perfetta de’ reali dominii al di là del Faro, dichiarammo astenerci dal riferire i non interrotti annunzii sull’ordine e sulla quiete che dominano in tutte le provincie continentali ed insulari. In fatti, à pubblicarli tutti converrebbe inventar nuovi vocaboli e nuove frasi per esprimere la medesima cosa. La mercé di Dio, altra novità non abbiamo su questo esaurito argomento se non se quella di qualche voce foggiata o pescata da torbide fonti, con la quale si presume dar ad intendere le cose altrimenti da quello che lo sono. Se mai fosse nostro dovere confutare le ciance, non ci basterebbero il tempo, la carta e l'inchiostro. Noi non isprechiamo l’ufficio e la penna per dar mentite a vociferazioni assurde, che cadono da sè stesse. Altro è il nostro compito, quello di dire senza giri di parole quello che ci viene autenticamente riferito intorno alla tranquillità generale, al pacifico andamento degli affari ed alla piena osservanza delle leggi in ogni provincia, in ogni città, in ogni terra del Reame, siccome allo zelo ed alla vigilanza delle Autorità e dell’esercito nel tutelare la pubblica e privata sicurezza.

Che se contro il consueto, or tocchiamo delle ciarle che la garrulità, la leggierezza e la malizia fan circolare, ciò è pure un adempimento del nostro dovere, sentendoci obbligati di rassicurare i creduli che tutte le cose che lor si dicono, contro le nostre asseveranze, altro non sono che menzogne, nessuna delle quali basta ad acquistar voga un sol giorno. Sian dunque tutti intenti a godere della pace che regna per ogni dove e chiudiam le orecchie alle fole, le quali non possono avere migliori successi che il disprezzo contro chi le inventa e il ludibrio di chi le accoglie.»

Ma tale solenne ed enfatica smentita. alle pubbliche voci parve non fosse del tutto sincera e altri giornali contemporanei sostenevano non essere cessata l’agitazione nelle provincie siciliane.

II.

Garibaldi, dopo aver aperto un arruolamento di volontarii ed una colletta per l’acquisto di un milione di fucili, diede le sue dimissioni da deputato di Nizza (1) e da

(1) Forse non sarà inutile per la storia di questa spedizione U riferire lalettera che Garibaldi e Laurenti-Robaudi, deputati al parlamento di Nizza, scrissero alla presidenza della Camera con cui rinunziavano alla loro deputazione:

«Genova,25 aprile 1860.

» Sig. Presidente,

» Visto il risultato della votazione della contea di Nizza, fatta il 15 corrente, senza veruna guarentigia legale, con violazione manifesta della libertà e della regolarità del voto e delle solenni promesse stipulate nel trattato di cessione del 24 marzo;

Attesoché una siffatta violazione si è compiuta in un paese che nominalmente apparteneva ancora allo Stato sardo e libero di scegliere fra questo e la Francia, ma in realtà in completa balia di quest'ultima potenza, occupato militarmente e sottomesso a tutte le influenze di forza materiale

generale dell’armata piemontese e s’imbarcò tra Genova e la Spezia nella mattina del 6 al 7 maggio con circa 1800 uomini e parecchi pezzi di artiglieria sopra due bastimenti. Tre milioni di franchi in viglietti furono cambiati in oro alla Banca di Genova evidentemente all’uopo di facilitarne la spedizione.

«L’impresa di Garibaldi, diceva un giornale (1), è il principio di una serie di complicazioni, sia che riesca o no il suo sbarco, e quando pure ei venisse fatto prigioniero. La prima domanda da farsi è d’onde ha egli quest’uomo ricevuto danaro, truppe, armi e bastimenti? Forse che il Governo sardo nulla ha saputo di tutto ciò, od è il potere centrale a Torino così debole ed impotente da non avere potuto impedire un’impresa ferace di tante conseguenze? Molto certamente ha contribuito l'entusiasmo privato, particolarmente se si rifletta che non solo italiani, ma anche inglesi, sono animati per la liberazione della Sicilia. Garibaldi ha, com’è noto, chiesto un milione di fucili per liberare l’Italia. Per ciò sonosi finora incassati 1,600,000 franchi, si acquistarono 18,000 fucili, e questi, come pure

e di pressione morale, come per noi fu dimostrato in modo irrefragabile al cospetto della Camera e del paese;

» Attesoché la presente votazione è stata fatta, in quanto al modo, con irregolarità gravissima, che l'esperienza del passato ci preclude ogni via a sperare che venga su questo punto ordinata un'inchiesta;

» Noi sottoscritti crediamo nostro dovere di deporre il nostro mandato di rappresentanti di Nizza, protestando contro l'atto di frode e di violenza che si è consumato, aspettando che i tempi e le circostanze consentano a noi ed ai nostri concittadini di far valere con una libertà reale i nostri diritti, che non possono venir menzionati da un fatto illegale e fraudolento.

» G. Garibaldi.

» Laurenti-Robaudi.

(1) Ost Deutsche-Post del 9 maggio.

il rimanente denaro di un milione, sono stati presi dal generale di guerriglia ad oggetto di armare la sua spedizione. La flotta napoletana piomberà adosso sui bastimenti della spedizione rivoluzionaria, ma, se non ha la sorte d’impadronirsene, il Governo napoletano in Sicilia troverà presto un nuovo elemento di resistenza, che supererà di molto tutto ciò che ha dovute combattere finora. Del resto, parecchie grandi Potenze avrebbero spedito in Sicilia alcuni agenti per aver positive informazioni sul vero stato delle cose. Come si diporti la Francia a rispetto di tutto ciò, non si può ancora riconoscere. Napoleone sta in aspettazione di ciò che sarà per succedere. Il Governo francese, per quanto ufficialmente rilevasi, è risolutamente avverso alla sollevazione siciliana; però non ha fatto ancora qualsiasi energica dimostrazione per avvalorare le sue intenzioni.

«Non è difficile il prevedere, esclamava un foglio inglese (1), che la presenza e l’azione di Garibaldi in Sicilia possano suscitare gravi imbarazzi e grandi difficoltà al governo di Vittorio Emanuele. La disfatta, la possibile prigionia o la morte del patriotta generale farebbero cacciar grida di angoscia ben più forti che tutti quelli che vennero finora a lacerar gli orecchi del Re di Sardegna. Si esigerebbe dal Re ch'ei vendicasse il più distinto de’ suoi sudditi e generali. Il trionfo di Garibaldi produrrebbe complicazioni politiche non meno gravi della sua disfatta.»

«Secondo alcuni, diceva un altro giornale (2), il Gabinetto di Torino è sincero nelle sue dimostrazioni e non si

(1) Il Morning Post.

(2) L'Indépendance belge del 9 maggio.

cura per ora di aggravare le difficoltà della sua situazione; secondo altri, Garibaldi si sarebbe imbarcato collo assentimento del conte di Cavour e del Re Vittorio Emanuele, i quali si sarebbero riservato soltanto il diritto di disconoscere Garibaldi qualora egli non riuscisse a bene nella sua impresa. Quanto alla rinunzia data da Garibaldi della sua deputazione e del suo grado di generale, giusta coloro che sostengono codesta opinione, essa non proverebbe niente di più della rinunzia data dal generale Fanti l’anno scorso prima ch'egli si ponesse alla testa delle forze dell’Italia centrale, la qual cosa non impedì che il generale ritornasse a Torino, pochissimo tempo appresso, come un ministro di guerra. Quali pur siano queste valutazioni contraddittorie, è innegabile che la risoluzione di Garibaldi, se riesce a buon fine, porrà il Piemonte in gravi imbarazzi ed obbligherà, o a romperla colle idee che trascinano l’Italia a nuovi destini, o a procedere per la via degl’ingrandimenti, malgrado la resistenza ch'egli potrà incontrare da parte di alcune potenze europee, tra le quali si dee porre in primo luogo la Francia. Quanto alla supposizione che Garibaldi istituirebbe in Sicilia un protettorato inglese, qualora il Re Vittorio Emanuele ricusasse di accettare codesta nuova annessione, non possiamo scorgere in tutto ciò se non una nuova invenzione dello spirito di gelosia e di diffidenza che gli atti dell’Inghilterra destano sempre in Francia. Dall’altra banda dello Stretto codesto sentimento esiste al medesimo grado, ed ispira al Times le sue denunzie contro l'estensione dell’influsso francese nel mar Rosso e sulle coste dell’Abissinia.

Perché a Londra si tennero alcuni meeting a prò de’ Siciliani, e perché un ufficiale di marina francese fu ben accolto alla corte di un piccolo re d’Africa, se ne con chiude che Garibaldi opera per istigazione del gabinetto di S. James e che l’insurrezione della Sicilia non è che un mezzo adoperato dall'Inghilterra per impedire alla Francia di acquistare un diritto di stazione nel mar Rosso. Godesti ragionamenti possono essere ingegnosissimi, ma non reggono all’esame.»

III.

Dicevasi che il Governo sardo erasi opposto alla partenza della spedizione di Garibaldi ed aveva dato tosto, alle navi da guerra sarde che trovavansi in Sicilia, l'ordine di opporsi a qualsiasi tentativo a mano armata che venisse fatto da individui imbarcati su legni portanti bandiera sarda.

Le disposizioni però prese dal Governo piemontese, dice l'Indépendance belge del 9 maggio, per impedire la

partenza della spedizione e sottrarsi ai richiami della diplomazia europea, furono sventati. Quest'esito è necessariamente attribuito dagli avversarli del Gabinetto di Torino ad una complicità secreta. Il Governo piemontese, dice la Patrie, aveva ordinato il sequestro d’armi e munizioni depositate a Quarto e faceva sopragguardare il porto, ma il bastimento di spedizione aveva preso una patente per Malta ed era uscito da due giorni tenendosi al largo. Garibaldi raggiunse, sopra un battello di spasso, che gli apparteneva, il naviglio, il quale, invece di recarsi a Malta, fece vela per la Sicilia.

A fine di riparare il sequestro delle armi ch’ei temeva, Garibaldi, in relazione coi membri della Giunta di Londra, incaricata di accentrare le collette private fatte in Inghilterra a favore della sollevazione della Sicilia, aveva raccolto, dicono, in vista della sua spedizione, altri mezzi del medesimo genere, i quali non passarono pel Piemonte.

Il signor Thouvenel, all’annunzio della partenza di Garibaldi, si affrettò d’indirizzare due note, una al principe di Talleyrand rappresentante della Francia a Torino e l’altra al cavaliere Nigra ministro di Sardegna a Parigi. Il signor di Thouvenel cominciò coll’esporre la incresciosa impressione cagionata da tal avvenimento al Governo francese. Senza far pesare sul Gabinetto di Torino la responsabilità diretta di quanto successe, egli ci vedrebbe almeno l'effetto di una negligenza inudita e tanto meno spiegabile, in quanto che il Governo francese aveva avvisato il Governo piemontese del disegno di Garibaldi. Dopo aver mostrato le tristi conseguenze che aver potrebbe tale impresa, il signor Thouvenel chiese spiegazioni categoriche al Gabinetto piemontese. In risposta a queste due note il conte Cavour rispose ch'ei disapprovava la spedizione di Garibaldi non meno altamente del signor Thouvenel, ma aggiunse che non era dipenduto dal Governo piemontese impedirla; ch'egli aveva posto a profitto gli avvisi ricevuti da Parigi; che aveva usato di tutto l’ascendente che poteva usare su Garibaldi per distorlo dal suo disegno; che adoperò tutt’i mezzi posti in poter suo per arrestarne l’esecuzione; che Garibaldi aveva ceduto da principio alle sue rimostranze e prese l’impegno di protrarre la sua partenza per la Sicilia;

ch’egli era rimasto sorprèso al pari che il signor Thouvenel all’udire che Garibaldi si era imbarcato, e che il Governo sardo aveva fatto tutto ciò che poteva fare, arrestando la partenza della seconda spedizione che dovuta tener dietro a quella di Garibaldi.

Si disse che il Governo francese rimanesse soddisfatto dette spiegazioni date dal Gabinetto di Torino.

IV.

La spedizione di Garibaldi s’imbarcò sopra due bastimenti, il Piemonte comandato da Garibaldi in persona, e il Lombardo capitanato da Bixio.

Nel 7 maggio la spedizione gettò l'àncora a Talamone, poco lungi da Orbitello, sull’estremo lembo della Toscana vicino agli Stati pontificii.

Garibaldi scese a terra in uniforme da generale con Sirtori, Turr ed altri ufficiali. Pochi momenti dopo tatti furono chiamati sul cassero e il capitano Castiglia diede lettura di un ordine del giorno, in cui si rammentavano le gesta dei Cacciatori delle Alpi che formavano la maggior parte della spedizione, veniva inculcata la completa abnegazione e si diceva che il grido di tutti debb’essere Italia e Vittoiio Emanuele. Lo stesso capitano Castiglia fece conoscere i nomi degli Ufficiali di stato maggiore e dei comandanti di compagnia. Sirtori è a capo dei primi e Bixio a capo dei secondi. I comandanti di compagnia sono autorizzati a scegliersi i proprii ufficiali.

Nessuno conosceva i disegni del generale, sendo tutti stretti ad una cieca obbedienza.

La sosta fatta a questa parte sembrava mirare ed eludere la vigilanza dei legni che inseguivano la spedizione e la potevano trattenere. Si attendeva di essere raggiunti in alto mare poco lungi da Talamone da altri legni con armi e compagni, ai quali nella vegnente notte la spedizione partirebbe unita.

A Napoli si davano grandi disposizioni per impedire lo sbarco di Garibaldi. La crociera delle acque di Messina era in grande attività. Vapori carichi di truppe e batterie erano pronti a prendere il largo al primo segnale. Varie compagnie di carabinieri avevano presa la via di Basilicata.

V.

Garibaldi va in Sicilia. Vediamo anzitutto qual paese sia quello cui si dirige l’audace condottiero.

La Sicilia, abitata da principio dai Sicani, fu poi occupata da colonie di Fenici e di Greci/i quali vi fecero sorgere la città di Siracusa, che contava più di un milione di abitanti.

Gelone e poi Gerone, che furono re in quella città, l’avevano portata al più alto grado d’incivilimento e di progresso al punto da gareggiare colle più cospicue città della Grecia. Come in Grecia, fiorivano in que’tempi nella Sicilia le scienze e le arti, e i sapienti di essa andarono rinomati unitamente a quelli della penisola ellenica.

Siracusa, assediata dai Greci, fu a questi superiore e li respinse, dettò leggi a Cartagine ed ordinandole di desistere da sagrifizii umani, venne con quella a lotta e fu ancora vincitrice.

Narra la storia che in que’ tempi Dionigi, re di Siracusa, avesse radunato sotto di sè circa 500,000 soldati.

Soggiogata pilò tardi dai Romani, servì per qualche tempo a soddisfare il lusso e l'avidità di diversi proconsoli; rimase poi in mano a duchi e baroni, fu in seguito percossa da Saraceni e conquistata dai Normanni.

Passò da questi agli Svevi, agli Angioini, agli Aragonesi ed al duca di Savoia Vittorio Amadeo, che poscia la cambiò colla Sardegna. Essa allora passò sotto la casa di Borbone.

È divisa nelle provincie di Palermo, di Catania, di Messina, di Noto, di Girgenti, di Trapani e di Caltanissetta, nelle quali, oltre alle città di questi nomi, si distinguono quella di Termini, di Corleone, d’Arcireale, di Caltagirone, di Siracusa, di Siacca, d’Alcamo e di Piazza.

La superficie quadrata dell’isola è di chilometri 26,582,59, nella quale gli abitanti si dividono nella progressione di 77,16 per ogni chilometro quadrato.

Il suo terreno è fertilissimo, abbondante della più ricca vegetazione. Nell’interno però è montuosa e quasi priva d’alberi, manca di strade, e la popolazione vi è più rara. Questa trovasi agglomerata verso la costiera, dove le grandi città e i diversi porti di mare le procurano più facili mezzi di prosperità.

La Lombardia, dove il terreno produce solo in forza di grandi lavori e in seguito alla grand’arte dell'uomo, la popolazione conta 126,17 individui per ogni chilometro quadrato, cioè poco meno del doppio di quello che conta per eguale superficie la popolazione siciliana, quantunque il terreno della Sicilia sia uno dei più fertili d’Italia e produca quasi senz’aiuto dell'uomo,

e quantunque la Sicilia abbia avuto un’epoca di grandezza durante la quale i suoi elementi di ricchezza avevano preso tale sviluppo ch'essa era chiamata il granaio d’Italia.

La Sicilia, oltre al produrre in grande quantità ogni sorta di grani, produce pure in quantità frutta di ogni sorta, fra cui distinguonsi particolarmente gli ulivi e la vite, che creano, mercé l'esportazione degli olii e dei vini, una delle rendite del paese. Essa dà pure buon raccolto di cotone, che solitamente viene lavorato nell’isola stessa.

Come la Sicilia è ricca per prodotti del suolo, è pure ricca di bestiame e per ciò la pastorizia e l’agricoltura furono industrie che sempre in essa fiorirono.

La ricchezza del bestiame offre un campo all’industria della fabbricazione dei cuoi. Vi ha pure un gran prodotto di lane, le quali però non poterono ancora trovare sul luogo solidi imprenditori che sapessero trarne profitto.

Vi primeggia invece l’industria serica, introdotta nell’isola fino dal 1146 quando Ruggiero, conquistata l’Africa e il Peloponneso, trasse prigioni nell’isola i lavoratori di seta. Catania, Palermo e Messina sono le città dove avvi il maggior lavoro in sete e da dove si traggono i migliori tessuti. La sola Catania, nel 1837 impiegava nel lavorare in seta più di 13,000 operai.

Avvi pure in quell’isola qualche fonderia di ferro e di bronzo, qualche stabilimento di prodotti chimici, specialmente uno destinato alla fabbricazione dell’acido solforico; ma questi stabilimenti sono ben lungi dal trarre profitto dalle ricchezze del paese e dal corrispondere ai suoi bisogni.

Sotto l’aspetto politico la Sicilia è il vero punto d’appoggio della penisola italiana pel dominio del Mediterraneo. La bella isola dei Geroni e dei Dionigi ebbe quindi molti amatori ed aspiranti.


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VI.

La spedizione di Garibaldi, composta nella maggior parte degli antichi cacciatori delle Alpi, romagnoli e lombardi con parecchi genovesi, era in tal modo organizzata: Sirtori, capo di stato maggiore, Crespi, Manin, Calvino, Malocchi, Graziotti, Borchetta, Bruzzezi. Tùrr primo aiutante di campo di Garibaldi. Cenni, Montanari, Bandi, Stagnetti. Basso segretario del generale. Nino Bixio comandante la prima compagnia, Orsini la seconda, Stocco la terza, la Masa la quarta, Anfossi la quinta, Carini la sesta, Carioli la settima. Intendenza, Acerbi, Bovi, Maestri, Rodi.

Ripari, Boldrini, Giulini.

La spedizione, lasciando Talamone, in Toscana, sciolse le vele verso l’Africa, toccò il capo Bon sulla costa di Tunisi ove si provvide di vettovaglie, quindi Garibaldi ordinò che la prua dei due vapori Piemonte e Lombardo fosse diretta alla Sicilia e precisamente in faccia a Marsala, città e porto nella Val di Mazzara,20 leghe all’O. S. 0. di Palermo presso il capo di tal nome.

Navigarono di notte senza alcun lume a bordo, tutti in piedi, silenziosi come ombre, cogli occhi fissi nell'oscuro orizzonte per discoprire un segnale nemico. Ogni uomo aveva quadruplice carica di fucili e di munizioni per render più rapido lo sbarco. Garibaldi fu il primo che si accorse della crociera napoletana allorché entrarono nelle acque siciliane.

Si raddoppiò la forza del vapore. All’alba due forti fregate napoletane, scorgendo i legni di Garibaldi, incominciarono la caccia, stringendosi su essi da due lati. Garibaldi aveva quattro ore di vantaggio sul nemico, ne approfittò abilmente, ordinò che i due suoi vapori si congiungessero a formare la figura di un A; poi fece accostare i due legni ad una sola fregata nemica onde non trovarsi fra due fuochi; ed a questo punto incominciò uno spettacolo non facile a descriversi.

Sforzate le macchine quasi all’impossibile, i due vapori di Garibaldi progredirono la loro corsa verso Marsala, inseguiti da vicino da una fregata napoletana, mentre l’altra girava in modo da tagliare ad essi la via. Garibaldi aveva quattr’ ore di vantaggio, ma ogni dieci miglia perdeva mezz’ora, di modo che arrivando alla costa non era più che a mezz’ora dai legni nemici, che apersero un fuoco terribilissimo.

Albeggiava. Sbarcarono le poche artiglierie e le armi, e scontrato un piccolo corpo d’infanteria, che tentò di fare opposizione, lo misero in fuga.

Intanto sopravvenne la flotta che cominciò un furibondo cannoneggiamento a palla ed a mitraglia, che disturbava assai lo sbarco degli uomini che stava per compiersi.

Una nave inglese, che quivi era ancorata, protestò allora mediante segnali contro l'attacco improvviso affermando avere suoi uomini a terra e reclamando la cessazione del fuoco pel tempo necessario al loro ritorno a bordo.

Il cannone napoletano per la lontananza del nemico non ristette dall’imperversare e continuò a tirar colpi contro i legni vuoti, uno de’ quali, il, fu mandato a picco, mentre poteva essere preso sano, e l'altro, il Piemonte, fu catturato dopo essere stato gravissimamente danneggiato.

VII.

Allorché i volontarii di Garibaldi ebbero sbarcato a Marsala, essi si occuparono ad organizzare i loro diversi servigii ed a collocare posti di osservazione su tutt’i punti elevati. Nella sera, una colonna composta di uomini scelti fece una forte ricognizione nel verso di Trapani (1) e tornò al campo dopo aver conosciuta la direzione in cui si trovarono le truppe reali.

Il punto dello sbarco, stabilito da alcuni giorni, era stato tenuto segreto, ma venne comunicato a tutt’i capi del movimento che dimoravano nell’isola, e durante la notte questi giunsero al campo per intendersi sul contegno da tenersi. Nel domani le antiche torme, che avevano preso parte all’ultima rivolta, si congiunsero al corpo di spedizione e si risolvette di porsi in movimento nel 13 maggio allo spuntare del giorno.

(1) Trapani, città sulla costa occidentale della Sicilia nella Val di Mascara con porto e castello, a 10 leghe N. E. da Mazzara e 18 leghe S. da Palermo.

L'ordine di marcia stabilito si eseguì con molto insieme e da quel momento l’insurrezione andò aumentando.

Il comandante delle truppe regie, informato di quanto succedeva dagli avvisi che riceveva d’ora in ora, comprese che non doveva sparpagliare le sue forze, fece sgombrare a tempo Trapani, capo-luogo della provincia di tal nome, come pure tutt’i siti intermedii, e si concentrò in Palermo.

La Giunta insurrezionale di Marsala prese immediatamente la sue disposizioni per mettersi in relazione colle piazze importanti delle provincie di Girgenti, di Siracusa, di Catania, di Caltanissetta e per rigettare la difesa sull’estremità nord e nord-est dell’isola.

VIII.

Nella notte del 13 maggio Garibaldi trovavasi a Salemi, città a 6 leghe da Mazzara, ed in essa con un proclama dichiarò ch'egli prende la dittatura in nome di littorio Emanuele re d3 Italia. Molti insorti si unirono a lui lungo la via.

Molto si parlò sul combattimento a Calatafimi (1) avvenuto nel 15 maggio tra le truppe regie ed i militi di Garibaldi.

(1) Calatafimi o Calataseli, volgarmente Catallano, è una città di Sicilia nella Val di Mazzara a 5 miglia a libeccio da Alcamo ed a 20 miglia a levante da Trapani. Il suo nome le deriva dal greco capitano chiamato Fimi, quello stesso che nell’anno 827, per sostenere la propria ribellione, indusse gli arabi a sbarcare in Sicilia che vi si stabilirono a dimora, giacché que’ musulmani, nei precedenti cento anni, avevano fatte varie incursioni in quell’isola e ne conoscevano la ubertosità del suolo e la ricchezza degli abitanti. È fabbricata sopra le rovine di Longarium con 40,000 anime.

I regii lo ritenevano come una vittoria, ed i liberali come una disfatta delle truppe napoletane. Il vero si è che Calatafìmi, ad 8 leghe S. E. da Trapani, è la chiave della strada da Marsala a Palermo. Se il governo napoletano avesse potuto prevedere che Garibaldi sbarcasse a Marsala, certamente non avrebbe trascurato di fortificare Calatafìmi, facilissima, d’altra parte a fortificarsi, poiché sta a ridosso di un’altura, che sarebbesi agevolmente guernita; vi si sarebbe ammassato un corpo d’esercito e per tal modo si sarebbe preclusa agl’insorti ed a garibaldiani la strada di Palermo. Ma non era possibile fortificare tutta la costa della Sicilia, tanto più che il governo napoletano non era in guerra con nessuna potenza e non aveva a fare se non con insorti, la maggior parte ritirati ne’ monti, all’interno dell’isola.

La truppa di Garibaldi incontrò dunque truppa napoletana a Calatafìmi e ne seguì un combattimento, nel quale s’ebbero vantaggi e perdite da ambe le parti. Nè i regii né i garibaldiani non retrocessero: i primi tennero fermo, gli altri mutarono strada. Le istruzioni del capo erano d’andare innanzi; eglino si sparpagliarono, per raccozzarsi poi in altro sito e continuare la marcia per un’altra via, men facile e più lunga, che mena pur essa da Marsqjp a Palermo. Le truppe napoletane non gl’inseguirono.

Ora, siccome i garibaldiani avevano lasciato molta gente sul campo di battaglia e non avevano forzato il passaggio di Calatafìmi, i napoletani posero quel vantaggio in attivo e che l’annunzio telegrafico chiamò vittoria.

D’altro canto, i garibaldiani, non avendo retrocesso, ed essendosi avviati verso Palermo, potevano, dal canto loro, presentare come una vittoria loro quel fatto.

Nel 20 maggio Garibaldi era in possesso di tutte le vie di comunicazione da Alcamo fino a Marsala e minacciava direttamente Palermo. Il suo corpo principale era ordinato militarmente e provveduto di uno squadrone di cavalleria, come pure di quattro cannoni coll’attiraglio, mentre gl’irregolari erano divisi in colonne mobili per far la guerra di guerriglia e collocati da Castel Veterano (1) nel sud fino a Tanica, distante quattro chilometri da Carini (2) nel nord. Con questa linea di guerriglia la comunicazione per via di terra da una costa all’altra fra Trapani e Palermo, era tolta, come pure era tolta a Palermo la possibilità di far venire a sè il presidio che trovavasi a Trapani, mentre in tal modo Trapani era separata totalmente dall’interno e quindi doveva ritirare tutte le necessarie vettovaglie, ecc. per mare.

Garibaldi era accampato sotto Monreale (3), faceva grandi ricognizioni e stava ordinando le site forze per un attacco decisivo. Aveva diviso i suoi volontarii in due corpi, uno de’ quali veniva da lui comandato e l’altro dal colonnello Medici. Oltre a questi due corpi, che dovevano marciare, paratamente ad attaccare Palermo di fronte, egli aveva formato una riserva sotto il comando di Mezzacapo.

(1) Castel Veterano, città a il leghe S. da Trapani; giace presso le rovine di Sellinunte con 11,900 anime.

(2) Carini, città sopra un piccolo golfo al S. 0. da Palermo, con 4000 anime.

(3) Monreale, città ad l'lega 0. S. 0. da Palermo, con 8000 anime.

IX.

I giornali annunziarono che nel maggio avvenne un combattimento tra i regii e gl’insorti, il quale ebbe per effetto di fare sloggiar questi ultimi dal Parco (1) e di, respingerli su Piana de’ Greci (2), ed un altro nel 26 in questo luogo medesimo, nel quale parimenti gl’insorti ebbero la peggio. »

Le bande siciliane, scrivevano i giornali ufficiali napoletani, abbandonano le truppe di Garibaldi nuovamente battute alla Piana, le quali ebbero morti, feriti e prigionieri e perdettero un cannone, ed attualmente sono in piena rotta, in fuga e perseguitate al di là di Corleone. I vantaggi delle truppe regie in questo fatto venne però attribuito all’essere i garibaldini stati presi tra fuochi di due forti colonne di truppe reali.

Ma gli strategici spiegavano tale sconfitta dei garibaldini come un’astuzia di guerra destinata ad allontanare le truppe regie da Palermo, ed il fatto, come vedremo in appresso, giustificò tale spiegazione. La ritirata in Corleone era appunto un’astuzia per isparpagliare le forze napoletane.

Garibaldi non si trovava sul luogo del combattimento; con parte della gente del Parco, riunendo nel percorrere le contrade Marineo, Gibilrosso e Misilmeri, tutte le bande che vi rinvenne, si accingeva ad un colpo su Palermo.

(1) Parco, villaggio nel distretto di Palermo a 5 miglia da questa città.

(2) Piana de’ Greci, città nella provincia e distretto di Palermo, capo-luogo di cantone.

CAPITOLO SECONDO

Presa di Palermo

I.

Palermo è situata al nord della Sicilia, nel fondo di un golfo, cui dà il proprio nome, e all’imboccatura di un piccolo fiume chiamato l’Oselo. La città antica è munita di una cinta bastionata e in cattivissimo stato che si svolge pel tratto di circa 4 chilometri. La città nuova si allarga fuori delle fortificazioni fino alla via di Monreale. In quel luogo, la muraglia che serve di cinta alla città presenta un’interruzione di circa 500 metri.

Le vere difese di Palermo sono le sue opere sul mare, che si compongono di due forti principali: l’uno, il forte di Castellacelo, situato nell’estremità del porto, e l’altro, il forte di Castellamare, grande fortezza, in buono stato, che ha la forma di un vasto rettangolo. Esso ha doppia cinta ed è armato di tutto punto. Quest’opera importante manteneva le truppe che la difendevano in comunicazione col mare e col porto, il quale è chiuso da un molo lungo 100 metri, terminato da un faro e da una batteria.

La città ha due vie principali, che si tagliano in angolo retto e la dividono in quattro parti quasi eguali tra esse; l'una è le via del Cassero o Macqueda; la seconda è la via Nuova o di Toledo. La loro lunghezza è da 1,200 a 1,400 metri; la loro larghezza di 10 metri.

II.

Dopo lo sbarco di Garibaldi l’agitazione in Palermo si fece estrema. Nella domenica del 13 maggio vi fu una dimostrazione, in cui la popolazione si è sollevata contro la truppa e vi si sparse sangue.

Le armate del re Francesco II occuparono tutt'i più importanti punti dell’isola di Sicilia e si credevano in grado di domare e soffocare l’insurrezione. A Trapani (1) v'era già un Governo provvisorio insurrezionale.

Venne emanato un decreto del 15 maggio con cui il Re nominava il generai Lanza a suo commissario straordinario in Sicilia, Raso è del seguente tenore:

«Considerando che dopo il disbarco de’ faziosi in Sicilia, l’ordine pubblico trovasi gravemente compromesso, nella Intenzione di far cessare il più presto possibile lo stato attuale delle cose, tanto dannoso alla pubblica sicurezza èd agli interessi de’ nostri amatissimi sudditi al di là del Faro, e volendo or noi, nella sollecitudine dell’animo nostro convenevolmente ripristinare l’ordine con provvidi ed energici temperamenti governativi, ed accorrere con tutt’i mezzi adatti alla natura degli avvenimenti che colà si succedono; sulla proposizione del nostro consigliere ministro segretario di Stato, presidente del consiglio, abbiamo risoluto di decretare e decretiamo quanto segue;

(1) Trapani città sulla costa occidentale della Sicilia nella Valle di Mazzara, giace a 10 leghe N. E. da Mazzara e 18 al S. 0. da Palermo.

» Art. 1. Nominiamo il tenente generale Ferdinando Lanza nostro commissario straordinario in Sicilia con tutt’i poteri dell’Alter ego, onde recarsi in quella parte de’ nostri reali dominii e nei punti dove crederà meglio, per ristabilire la calma, ricondurre l'ordine, animare i buoni e tutelare le persone e le proprietà.

» Art.2. Egli eserciterà le funzioni inerenti a tale incarico, sino a che, ripristinato l’ordine, invieremo colà il reai Principe che abbiamo già prescelto per nostro luogotenente generale nei nostri dominii oltre il Faro.

» Art. 3. Accorderà, in nostro real nome, ampio e generale perdono a tutt’i nostri sudditi che, or traviati, faranno la loro sommessione alla legittima Autorità.»

Questo decreto fu susseguito da un altro, dello stesso giorno e del seguente tenore:

«Visto il nostro reai decreto di questa data, col quale abbiamo nominato il tenente generale D. Ferdinando Lanza nostro commissario straordinario in Sicilia coi poteri dell'Alter ego, abbiamo risoluto di decretare e decretiamo quanto segue:

» Art. i. D. Pietro Ventimiglia, nostro procurator generale presso la Gran Corte de’ conti in Palermo, è destinato provvisoriamente alle funzioni di ministro segretario di Stato presso il nostro luogotenente generale nei nostri reali domimi oltre il Faro, e sarà incaricato di assistere nella spedizione di tutti gli affari il tenente generale D. Ferdinando Lanza, nostro commissario straordinario in Sicilia.»

In Palermo venne nuovamente proclamato lo stato d assedio. L’ordinanza in proposito era così concepita:

«La più grande violazione al diritto delle genti ha ricondotto i pericoli nell'isola ed in questa città. Ottocento avventurieri, col loro generale ed uno stato maggiore, sbarcarono a Marsala dà due legni sardi il ed il Piemonte il giorno 11 dello stante, col disegno di provocare la rivolta ed avvolgere il paese nell'anarchia.

» Minacciata la città di essere investita dagl’invasori, ausiliati da bande di faziosi, che suscitano sul loro passaggio, il maresciallo comandante le armi, in seguito ad approvazione di S. E. il generale in capo, dovendo provvedere alla salute della città, dispone quanto appresso:

«La città di Palermo e suo distretto sono, da questo momento in poi, posti in istato d’assedio.»

Il general Lanza, arrivato a Palermo nel 20 maggio avanti giorno, fece affiggere immediatamente i proclami dei suo sovrano che aveva portati seco e radunare il consiglio di guerra. Qui però avvennero tosto violenti diverbii fra lui ed il suo predecessore, e in quest’incontro Lanza gli rinfacciò, tra le altre cose, di non aver saputo pur fortificare ed occupare le due gole presso Calatafimi, benché tanto facili a difendersi. Quelle strette sono gli unici punti di passaggio per corpi che da Marsala si avanzino su Palermo; lo rimproverò altresì di aver mandato sempre nell’interno deboli colonne che dovevano avere la peggio, per cui fu demoralizzato lo spirito delle truppe, mentre da questo contegno incerto e tentennante non era da attendersi alcun certo risultato d’importanza. In mezzo a tali circostanze altro non rimaneva al Lanza, com’egli osservò, che tener unite le truppe a Palermo ed erigere trincieramenti sulle alture che circondano la città e far preparativi per una grande battaglia.

Dispose quindi di 28,000 uomini concentrati sotto le mura di Palermo, aumentò l’armamento dei forti di Castellamare e di Castelluccio, e fece erigere due batterie a difesa del porto e dell’arsenale.

E quando si ebbe pienamente informato dello stato delle cose, comprese che a fronte di un’insurrezione, come quella ch’era scoppiata, ei non poteva sperare di liberar la città, e quindi indirizzò un particolareggiato rapporto a Napoli e propose il seguente piano, il quale in data del 23 maggio poteva ancora essere eseguito. Secondo quel disegno il generale avrebbe imbarcato a bordo de’ legni della squadra gli archivii del Governo, il corredo di guerra e le provvisioni della città, e sarebbesi posto in ritirata sopra Messina, piazza situata a 190 chilometri da Palermo. Il suo corpo d’esercito, forte di 25,000 uomini, avrebbe costeggiato il mare sino al Capo Rosigelli al di sopra di Cefalù e sarebbe entrato, fra Mistrella e S. Marco, nelle montagne di Ciselba, i cui passi trovavaosi in quel momento occupati dalle truppe del generale Russo, comandante di Messina.

Questo piano, dal lato strategico, offriva grandi vantaggi e dispensava l'esercito napoletano di venir a combattimento in Palermo, ed aumentava in considerevole proporzione i mezzi della difesa dal lato di Messina, che è la posizione strategica la più importante dell’isola. Ed invero, il generale Lanza, avendo, per presidiar Messina, un esercito numeroso, ed un corredo eccellente, poteva stabilire la sua linea di difesa alle gole, per cui si sbocca nella pianura che conduce alla città, vale a dire a circa 20 chilometri dalla cittadella, appoggiare la sua destra e la sua sinistra alle piazze forti di Melazzo e di Taormina,

mantenere con tal disposizione le sue comunicazioni con Catania e rendersi così inespugnabile in quella parte sì importante della Sicilia.

Questo piano non venne approvato per ragioni tutte politiche e che furono esposte ai membri del corpo diplomatico a Napoli.

III.

Il generale Lenza, assumendo il comando supremo, modificò pienamente il sistema seguito dal suo antecessore. Questi impediva che si formassero assembramenti, facendo girare continuamente per le strade forti pattuglie, che obbligavano gli abitanti a rientrare nelle loro case. Tali disposizioni rendevano più difficile l’ordinamento dell’insurrezione, non permettendo alla popolazione di concertarsi, ma stancavano le truppe ed inasprivano gli abitanti. Il generale Lanza le fe’ cessare; concentrò su tre punti principali forti colonne, le quali dovevano, in caso di aggressione, accordarsi per operare, e che che accadesse, mantenere le loro comunicazioni colle opere di mare, che furono la base d'operazione delle truppe napoletane.

Gli abitanti, così lasciati a sè stessi, si posero in relazione cogl’inviati secreti di Garibaldi e convennero che quel capo giungesse il 26 di sera in vista della città che si rivolterebbe il domani. Per organizzare la sollevazione, i capi si adunarono nella cappella del re Ruggero, magnifico monumento che risale il 1120.

La domenica del 27, giorno di Pentecoste, come suonarono le sei ore alla cattedrale, la folla si sparse per le strade gridando: Viva la Sicilia! Vittorio Emanuele! e in poche ore l’insurrezione divenne minacciosa. Le truppe apersero il fuoco e cominciò un terribile combattimento. Garibaldi giunse in mezzo alla folla, a cavallo, circondato dai suoi volontarii; da quel momento ei prese la direzione dell’insurrezione e spiegò tostò il maggior vigore. La lotta fu terribile, disperata e combatterono persino molte donne.

Garibaldi, che, come abbiamo veduto più sopra, con nna parte delta gente del Parco, riunì, nel percorrere le contrade Marineo, Gibilrosso Misilmeri, tutte te bande che vi rinvenne, ai presentò a Palermo, i distaccamenti di truppe destinate alla guardia delle porte di Termini e di Sant'Antonino, furono costrette a ripiegare sopra il palazzo reale a Castellammare, e così riusci a Garibaldi ed alle sue troppe penetrare in Palermo.

Ti bombardamento cominciò dalla flotta per parte dei due vascelli la Partenope e l’Amalia e fa seguito da quello del forte di Castellamare. Cadevano sulla città tre bombe al minuto. Un'ora dopo il mezzogiorno il bombardamento si rallentò e sino alle sei non furono scagliate che due bombe al minuto. Il bombardamento continuò un po’ più lento anche nella notte. Atte IO del mattino fa ripreso colla massima violenza.

Le truppe regie, non potendo mantenere la situazione, lasciarono le posizioni ohe occupavano netta città e si ritirarono nei forti.

Garibaldi, non volendo perder tempo, attaccò nel 28 con tutte le sue truppe il castello, come la principale difesa della città e che si appoggia al mare; s’impadronì audacemente del quartier di S. Giacomo e delle; Caserme, e, più tardi occupò la Vicaria. Il generale Saldano fu fatto prigioniero col suo stato maggiore.

I volontarii mostrarono la maggior bravura e le truppe regie risposero con un fuoco sostentatissimo. Dopo una lotta di cinque ore, nel 28 i consoli stranieri, s’interposero fra'  combattenti per far loro accettare un armistizio di sei giorni che doveva terminare il giorno di domenica 5 giugno. Tal tregua avrebbe permesso di seppellire i morti, di raccogliere i feriti, avviarli su tre poderi de’ dintorni, e di far uscire dalla piazza le donne ed i fanciulli.

Garibaldi annunziò ai siciliani l’armistizio dicendo che il nemico glielo aveva proposto e ch'egli non istimò ragionevole denegarlo; che L’inumazione dpi morti, il provvedimento pei feriti, quanto in somma, è reclamato dalle leggi d’umanità onora sempre il valore del. soldato italiano; che per altro i feriti napoletani sono pure fratelli loro, e che onde i termini degl’impegni contratti sieno mantenuti con religione, egli pubblica gli articoli di convenzione in data di Palermo 51 maggio 11160, del seguente tenore: «Art.1. La sospensione delle ostilità resta prolungate per tre giorni a contare da questo momento, che sono le 12 meridiane del dì 31 maggio, al termine del quale S. E. il generale in capo spedirà un suo aiutante di campo, onde di consenso si stabilisca l’ora per riprendersi le ostilità; 2.° Il regio banco sarà consegnato al rappresentante Crispi segretario di Stato con analoga ricevuta, ed il distaccamento che lo custodisce andrà a Castellammare con armi e bagaglio;

3.° Sarà continuato l'imbarco di tutti i feriti e famiglie non trascurando alcun mezzo per impedire qualunque sopruso; 4.° Sarà libero il transito per le due parti combattenti, in tutte le ore del giorno, dando le analoghe disposizioni per mandar ciò pienamente ad effetto; 5.° Sarà permesso di contraccambiare i prigionieri Mosto e Rivalsa con il primo tenente colonnello ed altro ufficiale o il capitano Grasso.

Nel giorno 1.° giugno Garibaldi emanò un proclama ai siciliani in cui dice loro che quasi sempre la tempesta segue la calma e che tutti devono prepararsi alla tempesti sinché non è raggiunta la meta; che le loro condizioni migliorano ogni momento, ma che ciò non toglie di fare il dovere e di sollecitare il raggiungimento del fine ultimo; che si preparino quindi armi ed armati e si allestisca ogni mezzo di difesa ed offesa; che per le esultanze e le feste si avrà tempo abbastanza quando il paese sarà sgombro da nemici e che chi non pensa in questi tre giorni ad un’arma è un traditore od un vigliacco.


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Quell'armistizio di tre giorni venne poscia prolungato a tempo indeterminato. Finalmente si conchiuse una convenzione tra il tenente generale Ferdinando Lanza ed il generale Giuseppe Garibaldi coll'intervento dei consoli d’Inghilterra e di Francia. Essa è del seguente tenore:

» Art. 1. Nella botte del di 8 giugno, le truppe regie che si trovano nel Palazzo reale e lungo lo stradone di Porta di Termini sino alla Guadagna, si accamperanno al piano di Monte Pellegrino, Quattroventi, Molo sino all’Arinella, per imbarcarsi fra dieci giorni.

» Art.2. Le troppe reali si porteranno in Napoli, Gaeta e Messina e negli altri porti del continente, con armi, bagaglio, munizioni e cannoni.

» Art. 3. Le truppe stanziate nel castello s'imbarcheranno dal di 17 sino al 20 corrente giugno, e durante questo tempo non potranno far fuoco svila città, né con bombe, cannoni o fucilate.

» Art.4. Le squadre nazionali insorte non potranno molestare le troppe reali, restando le une dalle altre distanti due miglia dalla linea marcata

» Art 5. Le squadre nazionali insorte occuperanno, oltre la città di Palermo, e tutti i suoi dintorni, tutta la linea di S. Lorenzo, Favorita e Ferrocavallo.

Terribile era l'aspetto dei danni di vite e di proprietà cagionati dal bombardamento. Un'intera parte della città, di 1800 passi di lunghezza e 150 di larghezza fu ridotta in cenere. In altre parti furono minati dalle bombe conventi, chiese ed edifizii isolati. Furono lanciate 1100 bombe dalla città e 200 dalle navi da guerra, senza contare i tiri a palla ed a mitraglio.

IV.

La capitolazione fatta tra il generale Garibaldi ed il generale Lanza venne ratificata del re di Napoli nel giorno 6. Immediatamente furono spediti da quella città a Palermo molti trasporti onde imbarcarvi le truppe. A tutto il giorno 7 giugno infatti le truppe napoletane, con lutti gli onori militari, avevano sgomberato Palermo, recando seco loro le armi e tutto il materiale di guerra.

I regii occupavamo ancora il castello, ehe in quel giorno si disponevano pure ad abbandonare e che realmente in seguito abbandonarono.

In virtù della capitolazione sottoscritta a Palermo il 6 giugno tra il generale Letizia ed il generale Garibaldi, il forte di Castellammare doveva essere consegnato in cauzione all'ammiraglio inglese finché fosse pienamente seguito lo sgombero dei regii.

Questo punto venne interpretato in tutte le forme: alcuni scorsero in esso un tentativo dell’Inghilterra di ristorare in Sicilia il suo protettorato del 1812; altri ridussero i fatti ad una semplice garantia accordata alte due parti belligeranti, sostenendo che l'Inghilterra intese di rimanere fedele al principio di non intervento, poiché essa attese che la capitolazione fosse sottoscritta e perché, d’altra parte, la fortezza non le fu consegnata se non in deposito provvisoriamente e fino allo sgombero delle truppe napoletane.

La risposta su questo affare data da lord Palmerston nella tornata del 12 alla Camera de’ comuni non ebbe tutta la precisione che si poteva desiderare, e dalia parte del lord non risultava altro che a tenore della capitolazione il forte di Castellamare doveva, sino all’intero sgombero delle truppe napoletane, essere occupato dalle truppe poste sotto gli ordini dell’ammiraglio inglese.

Quello ch'è certo si è, che quell’occupazione doveva avvenire e che l’ammiraglio Mundy l’aveva perfino annunziata al sig. Elliot ministro inglese a Napoli, come un fatto quasi compiuto;

ma il comandante delle forze navali britanniche non credette dover usare del diritto che la capitolazione gli dava, sia per aver incontrato ostacoli materiali da parte di Garibaldi, sia che gli stano stati fatti considerare gli inconvenienti che poteva derivare da tal atto, una volta compiuto e la malleveria che gli incombeva. E si ritenne in fatto che quell’occupazione non abbia avuto effetto per l’energico opposizione di Garibaldi.

Il forte di Castellammare venne in seguito demolito per ordine del dittatore, ed il popolo vi accorse per darvi mano alla demolizione. Essendo i cannoni, che formavano l’armamento, asportati a tenore della capitolazione, e l’esercito insurrezionale non avendo sufficiente artiglieria per sostituirli, si credette preferibile il distruggere la fortificazione per tema ch'ella servisse à napoletani, qualora tentassero un ritorno offensivo contro la capitale della Sicilia.

V.

L’uomo ardito, dicevasi, che la mattina del 7 giugno salpava dal porto di Genova con 1800 volontarii a bordo di due bastimenti per attaccare una potenza che dispone di una flotta ragguardevole e di un esercito di almeno 120,000 nomini, approdava pochi giorni dopo, quasi senza essersi battuto, ad una costa guardata numerosi legni da guerre, occupava una città marittima, difesa da una forte guarnigione, e con un pugno di uomini, spalleggiato soltanto da una massa di gente senza militar disciplina e male armata, inoltratasi combattendo sempre ed avanzandosi continuamente, nello spazio di due settimane, da Marsala sino a Palermo,

percorrendo una strada lunga ben venti leghe e dopo un breve combattimento lungo la via, occupava la capitole di un paese che conta due milioni e mezzo di abitanti. Come sia stato possibile che una forza di almeno 30,000 uomini di truppe regolari non abbiano trattenuto le schiere di Garibaldi come abbia potuto succedere che le truppe reali abbiano sgomberato le loro posizioni, una dopo l’altra, e, quantunque fornite a dovizia di artiglierie, non abbiano distrutto un avversario che seco conduceva soltanto una mezza. dozzina di obizzi da montagna, ella è cosa altrettanto singolare e sorprendente quanto il giuoco inaudito che il telegrafo napoletano si permetteva di fare nelle gazzette. Il telegrafo elettrico, dacché avvolge la terra coi suoi fili, ci ha abituato a grandi cose; però non si sapeva che vi fosse esempio di una farragine di dispacci quale fu veduta negli otto giorni scorsi circa gli avvenimenti della Sicilia, ed è senza esempio nella storia delle guerre e degli sconvolgimenti della nuova epoca che il telegrafo annunzii con tale coerenza la verità tramutata in contrario, come questa volta, e il più deciso svantaggio come un esito luminoso, senza curarsi della mentita dell’ora successiva. L’annunzio del Tartaro detta Crimea pose per 48 ore tutta l'Europa nella più forte combustione, ma fu ben presto riconosciuta l’assoluto mancanza di fondamento della notizia e sintanto che durò la guerra in Oriente non apparve più una simile baia nelle colonne dei giornali. Un primo errore non avrebbe dovuto sorprendere nemmeno questa volta al principio dell’impresa di Garibaldi, ma che per parte del governo napoletano si avesse tanta finzione e per parte dei liberali fosse quasi tutta nuda verità,

fu cosa che giunse a molti inaspettata e più d’un lettore di fogli non può ancora riaversi da quelle allucinazioni che gli furono preparate mediante telegrammi autentici riprodueentisi nelle medesime ferme. Non può ammettersi che le notizie che recavano la dispersione delle schiere di Garibaldi e la fuga dei loro condottieri, quasi nello stesso tempo in cui seguiva l’assalto più decisivo di Palermo, venissero diffuse da Napoli nel mondo per mezzo di telegrafo colla coscienza della loro falsità. Conviene credere, soggiungevasi, che il governo napoletano sia stato in forma coerente falsamente informato dal suoi rappresentanti al di là del Faro. Il telegrafo può avere ingannato il governo al pari degli altri, e questo può essere venuto in cognizione del vero stato delle cose soltanto quand’era ormai troppo tardi. Che poi i rappresentanti del governo di Palermo abbiano creduto alla vittoria nel momento in cui la loro causa era già per metà perduta, può essere derivato dal disprezzo con cui i canuti guerrieri guardano dall’alto gli attacchi irregolari di schiere in fretta raccolte.

Quanto valga questo ragionamento a giustificare la sconfitta toccata alle truppe regie ognuno può scorgere da sé medesimo Nondimeno il ministero napoletano vi diede peso, ed il ministro degli esteri Carafa emanò una circolare a tutti i rappresentanti della Sicilia all’estero onde giustificare con una relazione storica degli avvenimenti di Sicilia, i successi delle armate regie in confronto di Garibaldi.

Lo stesso ministro degli esteri Carafa, nella ricordata circolare, volle provare come il Piemonte agiva con mala fede dando soccorso alla spedizione di Garibaldi dopo averla rinnegata e condannata, ed a fate proposito il ministro unisce alla circolare la seguente nota del ministro Cavour:

«Il sottoscritto ha ricevuto la nota 24 andante colla quale illustrissimo sig. cav. Canofari inviato ecc. ha informato che nei proclami sparsi dal generale Garibaldi in Sicilia esso assume il titolo di dittatore in nome del re di Sardegna e richiama su tal fatto la disapprovazione e la contraddizione del Governo di S. M. il re di Sardegna. Benché non possa nemmeno cader dubbio in questo proposito, il sottoscritto, d’ordine di S. M. non esita a dichiarare che il Governo del re è talmente estraneo a qualsiasi atto del generale Garibaldi, che il titolo da lui assunto è onninamente usurpato e che il real Governo di S. M. non può che formalmente disapprovarlo. Cavour.»

Finalmente in quella circolare il ministro Carafa protestò contro il titolo di dittatore che Garibaldi assunse in Sicilia a nome di Vittorio Emanuele e dichiarò che il reale Governo di Napoli sebbene per evitare uno spaventoso spargimento di sangue abbia sgombrato Palermo, non riconoscerà mai quanto fosse per operare il partito rivoluzionario in Sicilia.

Lo stesso ministro Carafa poi diresse all’ambasciatore inglese signor Elliot una nota sullo sbarco di Garibaldi a Marsala. Essa è del seguente tenore: «Il Governo delle Due Sicilie non ebbe mai intenzione di aggravare di biasimo e di responsabilità le operazioni della marina inglese. Esso ha voluto soltanto far conoscere le circostanze nelle quali si trovarono i bastimenti della marina regia, e soprattutto dimostrare l’esattezza colla quale essi hanno adempiuto le rigorose loro istruzioni che consistevano nel rispettare più ch’era possibile le persone e le proprietà estere.

I capitani di S. M. il Re hanno soltanto voluto far emergere nel loro rapporto ch'essi non avevano nulla ommesso per prevenire i danni che avrebbero potuto risentire gli uffiziali che si trovavano a terra e i bastimenti inglesi, non meno che i sudditi britannici. S. E. il ministro della Gran Brettagna ha creduto di protestare contro il modo con cui furono riferiti i fatti. Ma il vero senso del rapporto pone il Governo nell’obbligo di respingere qualunque falsa spiegazione o qualunque interpretazione sfavorevole che si volesse dare alla comunicazione storica degli avvenimenti. E però si affretta a riconoscere che gli uffiziali della marina reale di S. M. britannica non hanno preso né involontariamente, né volontariamente alcuna parte che potesse impedire o ritardare le operazioni dei bastimenti napoletani. Questa dichiarazione esplicita e leale deve dunque distruggere le osservazioni alle quali diede luogo il passo della relazione che riguarda gli ufficiali inglesi.»

Il governo di Napoli domandò inoltre l’intervento di tutte e cinque le grandi Potenze. L’Inghilterra, per la prima, respinse la proposta e dopo di essa le altre Potenze rifiutarono l’intervento. Napoleone rispose che un intervento era possibile soltanto tra due Potenze indipendenti e che con un tentativo di mediazione si verrebbe quindi a riconoscere la rivoluzione. Lord John Russell promise di raccomandare al Piemonte di non fomentare inquietudini sul continente italiano, sperando che le altre Potenze imiterebbero questo provvedimento.

CAPITOLO TERZO

Ordinamenti civili e militari in Palermo, ed aumento delle forze garibaldiane sì terrestri che marittime

I.

fin dal 14 maggio, come più sopra dicemmo, il generale Garibaldi in Salemi assunse la dittatura di Sicilia in nome di Vittorio Emanuele re d’Italia sull'invito di notabili cittadini e sulle deliberazioni dei Comuni liberi dell’isola. Col decreto 17 maggio da Alcamo egli instituì un governatore in ciascuno dei 24 distretti della Sicilia.

Dopo la presa di Palermo, Garibaldi, insediato nel palazzo senatorio, formò il suo ministero, nominò un governatore della città e della provincia, ordinò una leva straordinaria e diede molte disposizioni nell’intento di continuare energicamente l'impresa. Ei fece, a sicurezza degli abitanti di Palermo, provvedimenti fortissimi contenuti in un proclama, il quale annunziava grande severità contro coloro che commettessero furti od omicidii contro qualsivoglia ragione.

Un decreto in data del 2 giugno stabiliva che sopra le terre dei demanii comunali da dividersi, giusta la legge, tra i cittadini del proprio comune, avrà una quota certa chiunque si sarà battuto per la patria. In caso di morte del milite, questo diritto spetterà al suo erede. La quota dei difensori della patria sarà eguale a quella che verrà stabilita per tutt’i capi di famiglia poveri, non possidenti e pei quali le quote saranno estratte a sorte.

Che se le terre di un comune fossero tanto estese da sorpassare il bisogno della popolazione, in tal caso i militi od i loro eredi otterranno una quota doppia di quella degli altri condividenti. Che se i comuni non avranno demanio proprio, vi sarà supplito con terre appartenenti al demanio dello Stato e della Corona.

Un decreto del 9 giugno stabilisce che durante lo stato attuale di guerra è creata in ogni capo-distretto una Commissione speciale che conoscerà dei reati comuni commessi da semplici cittadini e procederà secondo la forma stabilita dello Statuto penale militare e dalle leggi in vigore sino al 15 maggio 1849. Quelle Commissioni saranno composte di un presidente, quattro giudici, di un avvocato fiscale e di un segretario cancelliere.

Garibaldi decretò il sequestro di tutt’i beni del cessato Governo; abolì il titolo di eccellenza per chicchessia ed il baciamano tra uomo e uomo, e stabilì il principio di una piena libertà nei porti e nelle isole di Sicilia per le provenienze e pei prodotti dei dominii italiani, sotto lo scettro di S. M. Vittorio Emanuele. Un suo decreto del 30 giugno punisce di morte chi avrà ucciso o gravemente ferito un cittadino qualunque per motivi politici, ed anche quello che avesse eccitato al delitto; punisce coll'esilio perpetuo chiunque arresterà o farà arrestare un cittadino senz’ordine espresso dell’Autorità competente.

E per la difesa di Palermo emanò il seguente decreto:

«Art.1. È instituita una commissione di difesa la quale dovrà provvedere attivamente a quanto è necessario per costruire barricate regolari in tutta la città ed a metterla in istato di difesa indipendentemente dai generosi venuti dalle altre provincie italiane in soccorso della Sicilia.

«Art. % Le barricate stabili si formeranno alla distanza di cento passi all’incirca l'una dall’altra ed alla loro costruzione si adopereranno le pietre del selciato, le gabbionate, le fascine, i sacchi ripieni di terra, mettendo alla direzione dei lavori persone intelligenti, che abbiano pratica nella costruzione di tali opere. Gli oggetti per le barricate mobili si prepareranno nei luoghi ove la utilità lo esige, e specialmente ove le nostre milizie devono avanzarsi protette dal fuoco nemico, come nel dar l’assalto ai quartieri ed altri luoghi occupati da’ regii. Queste barricate si formeranno di botti piene di terra, di materassi, di pagliericci, ecc.

«Art.5. La commissione terrà un deposito di sacchi di terra, che farà senza indugio riempire a migliaia e migliaia.

«c Art.4. Le barricate devono essere sempre custodite dalle persone più coraggiose che si trovano nella via ove sono erette.

«Art.5. Le porte e le finestre delle case devono essere aperte sì di giorno che di notte, onde dar ricetto alle persone che la commissione spedisse per assicurar meglio la difesa.

«Art.6. La commissione organizzerà un corpo di guardia centrale, che possibilmente risederà vicino al luogo di sua residenza. Ogni via dovrà avere un corpo di guardia filiale che col mezzo di piccole pattuglie si terrà in rapporto col corpo centrale, coll’incarico di mandare un espresso ogni mezz’ora per informarlo dell’andamento della difesa e di spingere gli abitanti di ogni casa ad adoperarsi per la difesa della medesima.

» Art.7 La commissione si circonderà di un forte distaccamento di uomini armati onde potere all’occorrenza spedire rinforzo nei sestieri più minacciati.

» Art.8. Avrà cura di far preparare della munizione e specialmente la così detta polvere rivoluzionaria.»

II.

Il dittatore nominò il maggiore generale Vincenzo Orsini a segretario di Stato per la guerra e marina; per l’interno Asolano La Loggia; per la sicurezza pubblica Luigi La Porta; pel culto il P. Ottavio Lanza; pegli affari interni e pel commercio il barone Giuseppe Natoli; per l'istruzione pubblica e pei lavori pubblici Gaetano Daita; per le finanze Francesco Di Giovanni; per la giustizia Filippo Santocanale. In appresso La Loggia passò alla segreteria dei lavori ed istruzione pubblica e Daita all’interno, rimanendo provvisoriamente alle finanze.

Ai primi di luglio per ordine speciale del dittatore vennero allontanati dall’isola Giuseppe La Farina, Giacomo Griscelli e Pasquale Totti, che dicevansi cospirare contro l’ordine attuale delle cose. Per tale circostanza tre ministri diedero la loro dimissione che fu accettata. I nuovi segretarii di Stato sono Interdonato per l’interno, Michele Amari (il professore) pei lavori pubblici ed istruzione, ed Erranti per la giustizia e culto. La Loggia cambiò il portafoglio succedendo a Natoli nella direzione delle cose estere.

Nel 7 del mese di luglio alle 11 di sera il La Farina stavasene nella propria casa, in compagnia di alcuni amici, fra i quali v’erano varii cospicui personaggi siciliani, quando si presentarono due alti impiegati della polizia, e, reso ostensibile un laconico ordine firmato da Garibaldi, pregarono con bei modi il La Farina di prestarsi ad eseguirlo. L’ordine conteneva un precetto di sgombero dall'isola nel più breve termine possibile. La Farina si accomiatò dagli amici, che si avviarono per uscire; ma la casa era circondata da soldati comandati da un colonnello, il quale si avanzò verso il prigioniero e dichiarò che nessuno sarebbe uscito dal suo domicilio infintantoché egli non fosse in mano della forza pubblica. I preparativi della partenza furono fatti celerissimamente. La Farina s’imbarcò poco dopo, sempre accompagnato dai due agenti della polizia e dal colonnello, in un canotto, che Io condusse a bordo della nave ammiraglia dell’armata sarda.

La Farina pubblicò una lunga dichiarazione in cui indicava che la cagione della sua discordia con Garibaldi consisteva in ciò ch’egli riteneva l’unica salute della Sicilia stare nell’immediata annessione col Piemonte, mentre Garibaldi voleva prima vedere liberate anche Roma e Venezia. Inoltre credere il La Farina che era una grande imprudenza l'affidare una parte del potere ad alcuni uomini, od odiali dai siciliani, o partigiani dei borbonici nel 1847, o repubblicani nel 1848, o a mazziniani riconosciuti. Garibaldi credere, all’incontro, che la cooperazione di tali elementi possa giovare alla causa nazionale. La Farina accennò anche ad una serie di disposizioni che gli dispiacevano, fra le quali quella che, mentre il paese era avverso alle idee mazziniane, si fece di Palermo il ricettacolo dei più incorreggibili mazziniani d’Italia.

Quanto alle sue relazioni con Garibaldi, esser elleno state da principio assai amichevoli, quantunque questi gli abbia rimproverato la sua amicizia per Cavour, la sua votazione in favore del trattato di cessione di Savoia e Nizza e la sua resistenza contro l'impresa ch’egli aveva in animo di fare nell’Italia centrale, ec. ec.

III.

Il consiglio municipale di Palermo presentò a Garibaldi un indirizzo nel quale chiedeva la pronta annessione della Sicilia al Piemonte. Garibaldi rispose che, quantunque egli desiderasse l’annessione, era inutile che venisse prontamente effettuata.

Ma benché Garibaldi abbia ricusato di pronunciare l’immediata annessione, tutto facevasi come se annessione al Piemonte fosse già avvenuta. I reggimenti che si andavano formando, prendevano i numeri piemontesi, quadravano colle divisioni piemontesi, ed in forza di un decreto del dittatore, dovevano portare sulla bandiera tricolore le armi di Savoia e la corona reale, non solo i bastimenti da guerra ma anche i mercantili.

Un decreto (24 giugno circa) del dittatore ordinò la preparazione delle liste elettorali pel tempo, non ancora determinato, in cui l’isola avrà a dichiararsi sull’annessione alle provincie emancipate dell’Italia. Tutt’i cittadini sono elettori a ventun anno compiuto e tutti danno il voto sia nel loro Comune, sia nel luogo di loro residenza. Gli ecclesiastici sono privati del diritto di essere elettori.

I condannati per delitto non possono dare il voto durante il tempo in cui subiscono la loro pena, ma bensì dopo l’espiazione, eccettuati i condannati per furto, truffa, falsa testimonianza e calunnia, i quali perdono i loro diritti per due anni dopo l’espiazione del delitto. I condannati per crimini non possono dare il voto se non dopo la riabilitazione. Sono eleggibili tutti gli elettori che hanno venticinque anni e sanno leggere e scrivere. Le città che hanno 10,000 anime nomineranno un deputato; quelle che ne hanno meno di 20,000 né nomineranno due, e quelle che ne hanno più di 20,000 ne nomineranno tre. Palermo elegge dieci deputati, Messina cinque, Catania cinque, l’isola di Lipari diiè. I deputati riceveranno dai comuni un risarcimento che noh oltrepassarà i 20 tari, vale a dire 9 franchi al giorhd durante il corso della Sessione. I consiglieri civici si raduneranno il primo luglio in ogni comune, per comporre i collegii elettorali, per iSceglieré le Giunte e per preparare gli avvisi necéssarii all’edificazione del pubblico. Le Giunte elettorali si raduneranno il 10 luglio per ricevere l’iscrizione degli elettori e per corrispondere coi Consigli civici. La compilazione delle liste sarà terminata il 18 giugno e i cittadini avranno due giorni per far richiami. L’esercito darà il Voto nel luogo ove si troverà. Alle disposizioni del decreto precede quanto segue: «Considerando che il popolo siciliano non tarderà ad essere chiamato a manifestare il suo voto sull’annessione dell’isola alle provincie emancipate dell’Italia o pér Suffragio diretto o per mezzo di un'Assemblea, ec. ec.»


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IV.

Il nuovo Governo di Palermo instituì il servizio marittimo, per cui vennero formate compagnie di marinai per essere addette a parecchi porti, attualmente posseduti dall'insurrezione. Codeste compagnie vennero poste sotto il comando di un uffiziale, che deve avere il titolo di direttore del porto e il cui uffizio consiste principalmente nel soprantendere agli sbarchi ed agli imbarchi. Queste operazioni sono di grande importanza, esigono molta cura e sono difficilissime anche por le potenze che fanno guerre regolari, ma sorto più difficili ancora per truppe composte nelle condizioni eccezionali in cui si trovano i volontarii di Garibaldi, i quali s’imbarcano clandestinamente su bastimenti sopragguardati dalle crociere napoletane, ogni giorno più numerose e più rigorose.

V.

Nel frattempo avvennero altre spedizioni in Sicilia, che andavano ad accrescere le forze di Garibaldi.

Sopra un clipper americano e sull’Utile che lo rimorchiava erano imbarcati 1000 uomini. La maggior parte dell’equipaggio componevasi di lombardi che trovavansi da molti giorni a Genova. La loro rotta era per la Sicilia. Nel 10 giugno una fregata napoletana denominata il Fulminante arrestò i due legni e li trasse seco a rimorchio.

L’ambasciatore sardo Villamarina rimise allora al Governo napoletano una vivissima nota, in cui sostenne che la cattura di que’ bastimenti era un atto irragionevole e contrario alla libertà della navigazione. Il ministro degli Stati Uniti perorò in favore del bastimento appartenente alla sua nazione, appoggiò il reclamo d’indennità formulato dalla Sardegna per l’altro bastimento e chiese in pari tempo al proprio Governo che gli venisse spedita una nave da guerra americana. Il Governo napoletano diede ordine di restituire i due bastimenti catturati e di mettere in libertà gli equipaggi.

Una nuova spedizione per la Sicilia è partita da Genova nella sera del 3 luglio. I volontarii, che si erano radunati a Genova, ascendevano al numero di 1000, per la massima parte soldati; non se ne potè però imbarcare che la metà per mancanza di mezzi di trasporto. Due soli vapori sono partiti, il Washington e la Provence. Il primo aveva a. bordo il brigadiere Cosenz col suo stato maggiore, gran numero di uffiziali e circa 1,200 uomini; la Provence non potè accoglierne che 800. Questi volontarii sono stati organizzati militarmente ancora prima della loro partenza, in guisa che, all’uopo, possono, appena sbarcati, entrare in campo. Il luogo dell’approdo era ignoto ed i comandanti portavano seco lettere suggellate le quali non potevano essere aperte che in alto mare e ad una determinata altezza. I due vapori portavano seco anche sei cannoni rigati. I volontarii erano, per la massima parte lombardi; si trovavano però fra essi anche 40 francesi, quasi tutti soldati comuni, ad eccezione di quattro ufficiali e di dieci sottoufficiali. Faceva parte della spedizione La Cecilia, come aiutante di Cosenz. Nel 6 la spedizione approdò a Palermo.

Posteriormente parti una numerosa squadra di giovani volontarii piemontesi, modenesi, parmensi, ecc., sotto gli ordini del maggiore Stefano Sicceli Garibaldi aveva mandato Sfccoli, da Palermo a Torno con un’importante missione, compiuta la quale, il Secoli, sarebbe ritornato in Sicilia alla testa dei, giovani d&e aveva raccolto, intorno a se.

A Palermo sbarcavano frequentemente volontarii in grosse e piccole colonne e ne sbarcavano continuamente in altre parti principalmente al sud in drappelli meno considerevoli provenienti da Tunisi, dall’Arcipelago, da Alessandria e da Malta.

Nel 1,9 giugno un bastimento co% bandiera ionia, ora giunto a Catania proveniente, da lealtà ed aveva, a bordo una spedizione, di volontari con armi.

In complesso, si, fece il calcolo che a tutto, il 19 luglio il numero dei volontarii dell’Italia settentrionale e meridionale partiti per la Sicilia, ascendesse, a poco, meno, di 14,000 uomini.

Garibaldi aveva agenti operosi, in Inghilterra, che ivi facevano acquisto di 20,000 fucili, tutti di nuova costruzione e che vennero pagati al prezzo di 52 sino a 35 scellini l’uno, ed inoltre di cannoni con tutt’i loro accessorii. Vennero pure comperati, un nuovo vapore di 800 tonnellate pel prezzo di 460,000 franchi, l’Elvezia l'Amsterdam, il Belzunce con due rimorchiatori, e il The London per 200,000 franchi. Ai primi di luglio vennero acquistati, all’incanto alcuni buoni vapori per la flottiglia.

VI.

Oltre questi rinforzi, accrebbero le forze di Garibaldi molte defezioni sì terrestri che marittime dei regii. E tra le defezioni marittime si ricorda quella del Veloce che avvenne nel seguente modo:

Una mattina si presentò davanti a Palermo il legno della marina napoletana il Veloce con bandiera bianca accompagnata da bandiera tricolore collo stemma borbonico. Fu immediatamente un affollarsi di curiosi sul molo, un domandarsi quale incarico fosse affidato a quel legno. Chi diceva portasse l'annunzio della promulgata costituzione a Napoli, locché, come vedremo in appresso, avveniva in quel torno, chi un ultimatum di Francesco li. Ma ben tosto ogni dubbio fil dissipato. La corvetta entrava in darsena e il comandante dichiarava ch'egli e i suoi uffiziali si ponevano sotto gli ordini del generale Garibaldi. La bandiera tricolore borbonica fu sostituita da quella collo stemma di Savoia, Il Veloce aveva una missione governativa per Messina, dove doveva arrivare il giorno 11; ma durante la traversata, il comandante, venuto a consiglio cogli uffiziali e col commissario e stabilito l’accordo, all’insaputa dell’equipaggio, veleggiò per Palermo.

L'esempio del Veloce fu imitato poscia da due vapori che facevano il servizio delle coste, chiamati ad elice e il Duca di Calabria a ruote.

CAPITOLO QUARTO

Provvedimenti civili e militari In Napoli e promulgazione della Costituzione

I.

Nei 10 giugno si radunò in Napoli il consiglio dei ministri ed il ministro della guerra sottopose al Re una relazione delle operazioni in Sicilia, dalla quale faceva risultare che non fu strategia preconcetta ed ordinata quella di Garibaldi di offendere dalla parte di Corleone per poi attaccare Palermo da Misilmeri; essere stati di fatto battuti e dispersi gl’insorti dai regii; le squadre fuggire e non ritirarsi dinanzi i regii battaglioni; Orsini essere stato costretto a darsi a precipitosa fuga per non vedere distrutto il suo corpo; codesto capo di ribelli aver offerto ai contadini del luogo cinque once ciascuno se avesser voluto prestarsi à trasportare i suoi cannoni; avere i contadini rifiutato, in vista del pericolo a cui sarebbero andati incontro, e perciò Orsini essere stato costretto di. abbruciare gli affusti ed inchiodare i cannoni; le truppe regie aver dato prove di valore e di disciplina; quindi, sconfortate dall’improvviso attacco di Garibaldi a Palermo, essersi disordinate alquanto, ma ricondotte a buon ordine, mediante il non mai abbastanza encomiato comando degli uffiziali indistintamente.

Dopo questa prima esposizione il ministro passò a fare un quadro delle presenti condizioni di Sicilia; disse che gl’insorti non erano allora talmente organizzati in milizia regolare da poter sostenere l'urto delle regie truppe; che gl’insorti del paese sono indisciplinatissimi e senza buona direzione, ma quelle stesse squadre, quando avessero il tempo di ordinarsi regolarmente, siccome mirava Garibaldi, diverrebbero formidabili; epperò conveniva agire prontamente, tanto più che non si poteva fare assegnamento sulle guardie urbane e sugl’impiegati dei distretti ch'erano tuttora soggetti al Governo. La relazione accennava inoltre ai pericoli che minacciavano il Governo nelle Calabrie.

Il ministro dell’interno disse essere a sua cognizione che in Palermo e in tutt’i luoghi della Sicilia in potere degl’insorti esisteva una grande confusione; essere sorte molte ambizioni, le quali, unitamente alle passioni fomentate da diversi agenti diplomatici e dai partiti estremi, porgerebbero al regio Governo mezzo di ricondurre le cose nel primitivo stato, come nel 1848. A questo fine però sarebbe indispensabile una misura pronta, energica, quand’anche questa dovesse condurre lo Stato ad aperta guerra col Piemonte, e questa misura sarebbe d’indurre il Governo di Vittorio Emanuele a pubblicamente disconoscere e riprovare gli atti che Garibaldi emanava in Sicilia a nome suo; imperocché erano precisamente codesti decreti, leggi ed altro che colà si promulgavano in nome di Vittorio Emanuele, che davano forza alla rivoluzione e la rendevano vittoriosa; impiegati civili, militari, esercito, ogni pubblico funzionario Infine, si lasciavano adescare da quel nome; credevano trovarvi certezza d’avvenire e disertavano per ciò la causa del loro legittimo sovrano.

II.

In seguito agli avvenimenti della Sicilia furono assoggettati a consiglio di guerra il tenente generale Ferdinando Lanza, comandante in capo; i marescialli di campo Giovanni Salzano, Ignazio Cotaldo, Pasquale Marra; i brigadieri Bartolo Marra, Carlo de Curry (ex svizzero), Giovanni Carlo Alberto di Wittemback (ex svizzero), Francesco Landi, marchese Giuseppe Letizia, e il colonnello di stato maggiore Camillo Buonopane. Le famiglie degl’incolpati furono avvertite che, qualunque cosa avvenga, gli accusati sarebbero l’oggetto della clemenza reale.

Quanto agli ufficiali della marina, sospetti di avere patteggiato coll’insurrezione, essi non furono tradotti avanti un consiglio di guerra, perché mancavano le prove. Tre di essi furono rinviati dinanzi ad un consiglio d’inchiesta che loro inflisse una severa riprensione. Essi erano i comandanti dello Stromboli, del Capri e della Partenope.

III.

Le truppe che stanno in Napoli ed hanno la destinazione di gittarsi sui punti minacciati, sono divisi in colonne, comandate dal cónte di Trani, da Nunziante, Barbalunga e Bosco. L’esercito napoletano opera un movimento generale di concentrazione su alcuni punti. La sua difesa sembra appoggiarsi a tre piazze importanti, quali sono Siracusa, Agosta, appartenente alla'  medesima provincia, e Messina. Codeste città ricevono rinforzi, corredo e munizioni.

Grandi sono gli apparati che si stanno facendo per mettere la capitale in istato di difesa.

Si lavora a Castel Nuovo, ove si sta erigendo una nuova batteria che domina il mare. Un altro forte si sta costruendo al Carmine; la entrata del Castel dell’Uovo è innalzata ed afforzata. Gran quantità di ogni specie di materiale da guerra è stato raccolto a Sant’Elmo. I comitati realisti stanno alacremente organizzando ed armando i lazzaroni di Santa Lucia, del Basso Porto e di Chiaia.

Nel 18 giugno si diede l'ordine alla colonna mobile di partire alla volta delle Puglie e delle Calabrie, ove bande armate cominciano a percorrere la campagna. La colonna si compone del 13.°,14°,15.° e 16.° cacciatori, di un battaglione di bersaglieri della guardia, del secondo reggimento dei granatieri della guardia, di parecchi squadroni di dragoni e di usseri e di varie sezioni di artiglieria. La spedizione è comandata dal generale Nunziante, insieme al colonnello Barbalunga ed al maggiore Bosco.

L’esercito napoletano è posto sul maximum del piede di guerra e si vuole tosto ridurlo alla somma totale di 160,000 uomini, comprendendovi la riserva normale, ch'è di 33,000 uomini e che dee far parte dell’armata attiva. Un secondo esercito di riserva deve sostituire il primo. Il suo effettivo debb’essere di 40,000 uomini ed è già in piena formazione.

Mentre l’insurrezione si apparecchiava a continuare energicamente la lotta da essa appiccata, la difesa, dal canto suo, spiegava tutt’i mezzi e provvedeva ad ogni bisogno. Oltre alle squadre di blocco, essa ha formato una squadra di trasporti a vapore, incaricata esclusivamente di vettovagliare le fortezze della costa meridionale e gli stabilimenti militari dello Stretto.

IV.

Il re di Napoli, in seguito ad un lunghissimo abboccamento coi suoi zìi, il conte d’Aquila e il conte di Trapani, si appigliò al partito di accordare al suo popolo istituzioni liberali, e per consiglio, dicesi, dell’imperatore Napoleone, si determinò a stringere con Vittorio Emanuele un’alleanza, o addivenire almeno ad un accordo franco, solido ed efficace.

L’Atto sovrano sulla concessione degli ordini costituzionali e rappresentativi era del seguente tenore:

«Desiderando di dare ai nostri amatissimi sudditi un attestato della nostra sovrana benevolenza, ci siamo determinati di concedere gli Ordini costituzionali e rappresentativi nel Regno in armonia coi principii italiani e nazionali, in modo da garantire la sicurezza e la prosperità in avvenire e da stringere sempre più i legami che ci uniscono ai popoli che la Provvidenza ci ha chiamato a governare.

» A quest’oggetto siamo venuti nelle seguenti determinazioni:

» 1.° Accordiamo una generale amnistia per tutti i reati politici fino a questo giorno;

» Abbiamo incaricato il commendatore Antonio Spinelli della formazione di un nuovo ministero, il quale compilerà nel più breve termine possibile gli articoli dello Stato sulla base delle istituzioni rappresentative italiane e nazionali.

» 3.° Sarà stabilito con S. M. il re di Sardegna un accordo pegl'interessi comuni delle due corone in Italia.

» 4.° La nostra bandiera sarà d'ora innanzi fregiata dei colori nazionali italiani in tre fasce verticali, conservando sempre nel mezzo le armi della nostra dinastia.

» 5.° In quanto alla Sicilia, accorderemo analoghe istituzioni rappresentative che possano soddisfare i bisogni dell’isola, ed uno de'  Principi della nostra real casa ne sarà il nostro Viceré.

» Portici,25 giugno 1860.

» Francesco.»

Questo proclama fu accolto con singolare indifferenza. L’indomani, 26, si fecero fare numerose dimostrazioni col grido di Viva il Re! Viva la Costituzione! ma tali dimostrazioni vennero fischiate. Non un lume, non una bandiera, non una coccarda. Nel 27 si rinnovò la stessa dimostrazione governativa, ma essa provocò quella del partito liberale che gridava: Viva Vittorio Emanuele! Viva l’Italia! Viva Garibaldi! diede origine sul far della sera ad una collisione nella via Toledo tra i due partiti. Il signor Brenier, ministro di Francia, che attraversava quella via, venne percosso nel capo, come diremo in appresso.

Nella mattina del successivo giorno 28 la popolazione si recò nei dodici commissariati di polizia della capitale; diè di piglio a carte, archivii, registri, mobilie, biancheria, materassi e coperte; ammucchiò il tutto dinanzi a’ commissariati stessi e vi diè fuoco tra gli applausi della moltitudine. In tutt’i commissariati trovaronsi armi, orologii, danaro, oggetti preziosi; il tutto fu scrupolosamente rispettato, fedelmente portato in deposito e consegnato alla Prefettura da povera gente, scalza e appena coperta di cenci. Eccettuato un agente di polizia chiamato Aversano, il quale venne ucciso nel quartiere di Porto, ed un ispettore di polizia chiamato Pevelli, che rimase ferito, la polizia non ebbe a deplorare altre perdite.

Si avverta però che commissarii, ispettori e la maggior parte degli agenti di polizia eransi, all’accostarsi del pericolo, allontanati dalla capitale, e che il marchese d’Ajossa, l'antico direttore della polizia, aveva fatto domandare rifugio al barone Brenier, il quale gli accordò la facoltà di recarsi a bordo di un bastimento della squadra.

In conseguenza di questi avvenimenti, Napoli fu dichiarata in istato d’assedio. Furono collocate in tutte le vie truppe con fucili carichi. L’artiglieria occupava la piazza del ministero e il palazzo reale con miccia accesa, e il palazzo del re era ingombro di truppe.

Il comandante della piazza di Napoli, maresciallo Emanuele Caraccioli pubblicò al popolo la seguente ordinanza:

«D’ordine del ministero, in seguito dei tumulti e degli avvenimenti di ieri sera e di oggi, si dichiara lo stato d’assedio per questa capitale, a norma degli articoli delle reali ordinanze di piazza, che avranno il loro pieno vigore dal momento che ne prende conoscenza il pubblico con quest’atto.

» Dovendo io prendere, qual comandante di piazza, l’assieme del comando, onde tutelare l’ordine pubblico, vivo sicuro che tutti gli abitanti di questa nobile capitale, nella loro sublime civiltà ed energia, già dimostrata, concorreranno al bene del paese con tutti i loro mezzi e piena volontà, e quindi si atterranno all’esecuzione dei dettami della legge, a cui ogni onesto cittadino debb’essere obbediente.

» La città di Napoli splenderà di quella gloria di cui si è cinta.

» In conseguenza di ciò dispongo:

» 1.° È inibito ogni attruppamento superiore di dieci persone, i quali se si verificheranno, dovranno essere subito dispersi dalla forza, che preventivamente, per ben due volte, dovrà avvertirli, e non venendo corrisposto, si farà uso delle armi.

» 2.° È proibita l’esportazione di armi, tanto da fuoco che bianche, e coloro che saranno sorpresi in difetto a questa disposizione, saranno arrestati per essere giudicati militarmente.

» 3.° È proibita ancora l’esportazione dei grossi bastoni, per i quali si procederà come per le armi.

» In fine, chiassi, voci sediziose ed altro da produrre tumulto verranno represse colle precitate norme, ed i promotori ed esecutori arrestati.»

Il ministro dell’interno, Federico del Re emanò il seguente proclama:

«Visti i gravi disordini, avvenuti nella capitale nel giorno d’ieri e d’oggi, si è ai termini delle leggi in vigore, trovato indispensabile proclamare lo stato di assedio, onde aversi la possibilità di recare in atto le novelle istituzioni e comporre una guardia cittadina per tutelare l'ordine e la tranquillità pubblica. Si sono già date le più urgenti disposizioni perché dal sindaco e dagli eletti si proceda alla compilazione delle liste per ogni quartiere.»

Ed il prefetto di polizia Liborio Romano, pubblicò la seguente ordinanza:

«Cittadini,

» Le novelle istituzioni, promettitrici e garanti al nostro bel paese di un lieto e prospero avvenire, non possono convenientemente radicarsi e produrre frutti soavi se il popolo non dà prova di averle meritate, aspettando con pazienza le nuove leggi e il tempo dell’operare; rispettando l''ordine pubblico, le persone e le proprietà; confidando nello zelo e nella sapienza dei governanti; reggendosi in somma con quell’alto senno civile, ch'è la più solenne testimonianza della coltura delle nazioni.

» Così si consolida, si assicura, si accresce la pubblica e privata felicità; coll’esercizio delle virtù cittadine, colla moderazione, con la obbedienza alle leggi, e non già con insane parole ed oltraggiosi schiamazzi, non colle intemperanze di crocchi incivili, non cogl’intempestivi attruppamenti atti solo ad ispirar dubbii e poca fiducia nella buona causa. Sono queste le male arti dei malvagi, che cercano migliorare la propria sorte suscitando private passioni, intolleranza e tumultuose dimostrazioni.

» Or mentre il contegno tranquillo e dignitoso di un popolo eminentemente civile distingue ed onora l'immensa maggiorità degli abitanti di questa metropoli, sono una eccezione pur troppo dolorosa quei pochi che, per inconsiderata avventatezza, osano trascorrere a provocazioni e dimostrazioni sovversive delle leggi e della pubblica tranquillità, lesive al diritto di proprietà, turbatrici dei consigli del Governo, perigliose ai novelli ordini della comune rigenerazione.

» Preposto alla tutela della pubblica sicurezza, veggo in questo momento la necessità di rivolgermi ai buoni napoletani, fatti degni del novello reggime, ed invitarli a concorrere al mantenimento deir ordine e della tranquillità, deponendo ogni elemento di privati odii e di rancori.

» In conseguenza di questo principio e nel fine di ovviare ad ogni menomo disordine, rimangono in questo momento inibiti gli attruppamenti e le grida di ogni specie, che potrebbero ingenerare tumulti.

» La forza militare prenderà cura di tutelare l’ordine pubblico, dissipando con modi urbani le riunioni tumultuose, che potessero verificarsi.

» Ho fiducia che questa esortazione voglia essere bene accolta dai buoni cittadini, i quali col loro moderato contegno non vorranno in niun modo obbligare la forza militare ad agire, trattenendo coloro che si rendessero sordi a siffatta esortazione per quindi essere inviati alle autorità competenti.»

In esecuzione degli ordini del re la bandiera costituzionale napoletana fu innalzata nella mattina del 26 sul forte Sant’Elmo e salutata da tutta l’artiglieria dei forti della città. A ciò fecero eco i navigli stranieri ancorati nella rada, di bandiera francese, inglese, russa austriaca, spagnuola ed americana.


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V.

Il ministro di Francia Brenier,. giusta la sua abitudine di ogni sera, erasi recato in carrozza alla passeggiata di Chiaia e ritornando da Posilippo nel 25 giugno verso le 8 e mezzo trovavasi nella via di Toledo, dove c’erano molte carrozze e considerevole numero di gente a piedi. Alcune grida Viva l'Italia!, Viva Vittorio Emanuele! Viva la Francia!, Viva Garibaldi! si fecero udire da varii crocchi. In ogni punto per dove passava il ministro di Francia era salutato colla più grande sollecitudine. Presso al palazzo del Nunzio ed alla via Corrazzieri, la moltitudine ingombrava la via ed i marciapiedi e le carrozze avanzavano assai lentamente.

In quel punto, due uomini armati di grossi bastoni impiombati, uno a destra, l'altro a sinistra della carrozza del barone Brenier, lo percossero dandogli due colpi violenti sul capo e aprendogli una piaga sull’osso frontale.

La forza del colpo aveva rovesciato il barone Brenier, il quale cadde per un istante sui cuscini della carrozza. II suo servo, in quel punto, riceveva due bastonate sul capo e rimaneva mezzo svenuto. Gli autori di quell’attentato sparvero in fretta tra la folla.

Il barone Brenier rientrò nella sua abitazione colle vesti e colla camicia insanguinate. Immediatamente si fece chiamare presso di lui, dal bordo della, il primo chirurgo, il quale chiuse la ferita, dopo aver lasciato colare buona copia di sangue da essa. Il barone si ristabilì perfettamente in pochi giorni.

Dacché la voce di codesto fatto si diffuse per la città, il palazzo del ministro di Francia fu ingombro di visite, che accorsero a manifestare al ministro il. loro cordoglio per l’avvenuta. Il principe d’Ischitella, luogotenente generale dell’esercito, fu il primo a recarsi presso il barone Brenier. L’ammiraglio Le Barbier de Tinan rimase lungo tempo coll’ambasciatore, come pure il generale conte d’Aragon inviato a nome del conte di Trapani. Il conte d’Aquila andò due volte, De Martino ministro degli affari esterni, il duca di Sangro, aiutante del campo del re ed il conte di Siracusa si recarono pure presso il barone, e tutti i membri del corpo diplomatico, tutt’i personaggi dell’alta società, sì stranieri che nazionali andarono a farsi iscrivere all’Ambasciata.

Senza la promulgazione dello stato d’assedio, il quale vietava i radunamenti e senza il desiderio manifestato dal barone Brenier, una dimostrazione imponente sarebbesi recata all’Ambasciata di Francia.

Appena fu noto l’atto, di cui era vittima il barone Brehier, un vascello inglese, un vascello francese, una fregata spagnuola ed una fregata austriaca abbandonarono il loro ancoraggio e vennero ad ormeggiarsi presso la riviera di Chiaramente.

Gli ufficiali della marina napoletana percorsero le strade per imporre alla plebaglia, e uno di essi, capitano di fregata, arrestò una persona che proferiva insolenti parole contro il barone Brenier (1) accusandolo di esser lui la cagione del tradimento che il re aveva commesso.

(1) Il barone Brenier aveva consigliato il re Francesco a pronte ed energiche riforme.

Parecchie persone si recarono alla Legazione di Francia dando tutt’i connotati degl'individui che avevano commesso l’attentato contro il barone Brenier, e questi connotati si accordavano in ogni deposizione. Gli autori del fatto furono quindi riconosciuti nel famigerato Campagna e nel Manetta, ed immediatamente fu spedito l’ordine di arrestarli.

Il comandante della squadra francese vice-ammiraglio Romano Desfossés era munito di poteri estesissimi e si disponeva ad operare uno sbarco per la protezione degl’interessi affidati alla sua custodia, quando un più esatto giudizio sulla situazione lo indusse a non avere per anco ricorso ad un provvedimento sì grave.

Dall’Anzianato della città di Napoli venne fatto il seguente indirizzo al barone Brenier:

«Il popolo napoletano, fortemente commosso ed addolorato pel luttuoso avvenimento che ha colpito l’Eccellenza Vostra, sente il dovere di altamente protestare contro di esso, e far testimonio all’Eccellenza Vostra ed all’augusto personaggio che rappresenta, come quell’attentato non sia avvenuto che per colpa di que’ tristi, che, dopo di avere per sì lungo tempo oppresso e straziato questo nostro paese, con mala intenzione han voluto appigliarsi ad un ultimo mezzo ed infame. Il popolo napoletano, che ci diè carico di rappresentarlo, sente però tutto il debito di gratitudine verso l'Eccellenza Vostra che si è tanto cooperata pe’ suoi vantaggi, non che verso la Francia ed il suo angusto Imperatore, il quale, in uno col Re Vittorio Emanuele,

dava inizio sui campi di battaglia al risorgimento d’Italia; ed è pronto il popolo stesso a versare tutto il suo sangue per iscagionarsi di ogni sospetto di cooperazione in un fatto che solo varrebbe a disonorarlo.»

L’indirizzo è firmato da tre anziani per ogni quartiere.

Il barone Brenier rispose a quest’indirizzo presentatogli dall’Anzianato a nome della popolazione di Napoli colle seguenti parole:

«Signori,

» Sono profondamente grato all’onore che mi avete fatto, rimettendomi l’indirizzo. Nulla riesce più commovente dell’espressione del sentimento popolare, commosso all’aspetto di una bassezza e di un’ingiustizia. Io non aveva bisogno di questo attestato d’interesse per essere convinto. che la popolazione di Napoli rispetta il rappresentante di un Sovrano, che ha compite cose memorabili per l’interesse d’Italia e per credere ch’ella riprova quello che mi è accaduto la sera del 27.

» Conserverò quest’indirizzo come titolo d'onor personale e di mia famiglia, e mi chiamo fortunato, signori, dopo aver passati molti anni della mia vita in Italia, d’essere trattato con tanta distinzione da una delle più belle e migliori città di questo nobile paese.

» Compiacetevi aggradire la nuova protesta de' miei sentimenti di gratitudine e di affetto. — Brenier.»

VI.

Il nuovo ministero di Napoli viene sostenuto dai seguenti individui: Commendatore D. Antonio Spinelli dei principi di Scalea, ministro segretario di Stato, presidente del consiglio de'  ministri; Commendatore D. Giacomo De Martino, incaricato di affari presso la Corte pontificia, ministro segretario di Stato pegli affari esteri; Cav. D. Federico Del Re, controllore generale della Real Tesoreria, ministro segretario di Stato dell’interno e della polizia generale; Principe di Torella D. Nicola Caracciolo, ministro segretario di Stato pegli affari ecclesiastici; D. Giovanni Manna, ministro segretario di Stato delle finanze; Marchese D. Augusto La Greca, ministro segretario di Stato de’ lavori pubblici; D. Gregorio Morelli, procurator generale presso la gran Corte criminale in Salerno, ministro segretario di Stato di grazia e giustizia; Maresciallo di campo D. Giosuè Ritucci, ministro segretario di Stato della guerra; Retro-ammiraglio D. Francesco Saverio Garofalo, ministro segretario di Stato della Marina. Ma con posteriori decreti a Del Re fu sostituito D. Liborio Romano, già prefetto di polizia, ed a Ritucci D. Giuseppe Salvatore Pianelli.

Si emanò il seguente decreto riguardo all’amnistia pei reati politici:

«Volendo che l’amnistia generale pei reati politici da noi concessa coll’Atto sovrano del 25 giugno, abbia la sua più larga e benigna estensione,

da non rimanere arrestata pel disposto delle leggi di procedura penale; visto l'articolo 687 di quelle leggi, del seguente tenore: Le amnistie complessive non comprendono le condanne passate in sia il condannato passato al luogo della pena, o che tuttora si rimanga in carcere o sotto altra custodia o cauzione. Le amnistie non riguardano che i giudizii pendenti, e per conseguenza impediscono soltanto l'ulteriore procedimento pei reati, che vi si comprendono quando l'eccezione di amnistia sia stata ammessa. L'ammissione dell'incolpato all'amnistia non reca alcun pregiudizio all’azione civile nascente dal reato, e lascia salvo all Amministrazione del registro e bollo ed alla parte civile l’azione per la ricuperazione delle spese.

Sulla proposizione del nostro ministro segretario di Stato, di grazia e giustizia; udito il Consiglio ordinario di Stato; abbiamo risoluto di decretare e decretiamo quanto segue:

«Art.1. £ abolita l'azione penale per tutt'i giudicabili per l'imputazione di reato pubblico, e quindi vietato l'ulteriore procedimento contro i detenuti od assenti per fatti anteriori al sopraddetto giorno 25 giugno.

» Art. % Rimane parimente condonata ogni pena principale ed accessoria, che resterebbe ad espiarsi ai condannati per simili delinquenze, non che l'esilio perpetuo dal Regno anche per coloro a’ quali venne inflitto in commutazione di altre pene.

» Art.3. Favoriti dal beneficio dell’amnistia saranno pure coloro che per politica imputabilità si trovassero già condannati in contumacia. Similmente coloro che per disposizione di prevenzione, motivata da politici addebiti, uscirono dal regno, sono facoltati a rientrarvi.

» Art.4. Quante volte i giudicabili politici dovessero rispondere alla giustizia ancora di altri reati comuni, per tali delinquenze soltanto il corso della giustizia sarà proseguito. Per i condannati similmente per reati politici e per reati comuni, ci riserbiamo ad ogni caso nominativamente determinare la minorazione di pena che vorremo ad essi accordare.

» Art.5. Le sopraddette estensioni non derogano, come per legge, a’ diritti per le azioni o riparazioni civili, e per lo indennizzo delle spese giudiziarie, competenti alle sole parti private. Quelli però che competono all’Amministrazione generale del registro e bollo, od allo Stato, non avranno altro corso, né ulteriore esecuzione.»

Venne pure emanato un decreto per la riduzione e attenuazione delle condanne pei reati comuni. Esso è del seguente tenore:

«Volendo non rendere estranea al beneficio, derivante dall’Atto sovrano del 25 giugno pegli ordini costituzionali ed amministrativi, anche la classe di coloro che espiano pene e trovansi imputati per reati comuni; sulla proposizione del nostro ministro segretario di Stato di grazia e giustizia; udito il nostro Consiglio ordinario di Stato, abbiamo risoluto di decretare e decretiamo quanto segue:

» Art.1. La pena di ferri per condannati si ne’bagni che nei presidii è diminuita di due anni. La pena di reclusione e quella di relegazione è minorata di un anno. Alla minorazione stabilita col presente articolo saranno ammessi soltanto coloro che si trovano attualmente ad espiare la pena.

» Art.2. L’azione penale per delitti, avvenuti sino a tutto il giorno d'oggi è abolita. Le pene eccezionali di prigionia, confino ed esilio correzionale, già divenute esecutive, sono diminuite di mesi sei. L'ammenda correzionale è condonata.

» Art.5. L'azione penale, per contravvenzioni anteriori al presente giorno, è abolita. Le pene contravvenzionali di detenzione, mandato in casa ed ammenda, già rese esecutive, sono condonate.

» Art.4. Non sono compresi in questa Sovrana indulgenza i recidivi ed i giudicabili o condannati per furto, calunnia o falsa testimonianza, ancorché l’imputabilità sia connessa con altri reati, i quali non patirebbero esclusione.»

Un decreto del 5 luglio stabilì l’istituzione e l'ordinamento di una guardia nazionale nei regii dominii di qua del Faro per mantenere l’obbedienza alle leggi e tutelare, l'ordine e la pace pubblica. Essa deve comporsi de’ padri di famiglia, possidenti, impiegati, negozianti e capi d’arte, i quali abbiano compiuto gli anni trenta e non oltrepassati i cinquantacinque, abbian domicilio nel comune cui la guardia appartiene ed offrano per la loro conosciuta probità sicura guarentigia all'ordine pubblico. I componenti questa guardia non possono prendere le armi, ne riunirsi, senza l'ordine superiore, dietro facoltà concessa dall autorità civile o dal Comando in capo. Per la città di Napoli il numero delle guardie è fissato a seimila divisi in dodici battaglioni. Nelle provincie, il numero della forza sarà di 40 uomini nei comuni che hanno meno di 1000 anime, di 60 in quelli da 1000 a 2000, di 100 in quelli da 2000 a 6000, di 150 in quelli di 5000 in su.

Nei capoluoghi di provincia il numero potrà aumentarsi sino a 300 con le corrispondenti cariche. Gli ufficiali superiori sono di nomina del Re, gli altri ufficiali sono scelti dagl’intendenti sulle terne proposte alle autorità municipali, i sotto-ufficiali dai capi di compagnia. L’uniforme descritto nel decreto è a carico dei militi, ma non è obbligatorio.

VII.

Coll’Atto sovrano 25 giugno il Re, come vedemmo, incaricò il ministero della compilazione dello Statuto costituzionale, ma quel ministero propose di rimettere in vigore la Costituzione che il re Ferdinando promulgò nel 1848, anziché compilarne una nuova. I motivi trovansi nel seguente rapporto che nel 1.° luglio i ministri De Martino, Principe di Torella, Garofalo, Ritucci, Del Re, Morelli, La Greca e Spinelli diressero a S. M. Francesco II.

«Sire,

» Col memorabile Atto sovrano del dì 25 giugno la M. V. annunziava ai popoli suoi due grandi idee, cioè quella di mettere in atto nei suoi Stati il reggime costituzionale, e l’altra di entrare in accordi col re Vittorio Emanuele a maggior vantaggio delle due Corone d’Italia.

» Quelle sublimi parole che segnano, per la M. V. e pel suo Regno insieme, il principio di un’era grande e gloriosa, risonarono già in tutta Europa ed aprirono alla gioia il cuore dei suoi sudditi, che aspettano dalla virtù e dalla lealtà del loro Re il compimento della grande opera.

» Degnava si la M. V. in pari tempo chiamare al potere i sottoscritti per comporre il suo Consiglio de’ ministri, nel quale riponeva la sua fiducia per la pronta esecuzione dei suoi voleri, e lo incaricava della compilazione dello Statuto per questa parte del reame. Ma il vostro Consiglio, o Sire, nel l'accingersi all’adempimento del sovrano comando, ha considerato che uno Statuto costituzionale sta nel diritto pubblico del Regno, cioè quello che venne largito dal defunto vostro genitore Ferdinando II. Il quale Statuto, se dopo qualche tempo si trovò sospeso in conseguenza di luttuosi avvenimenti, che non accade ora rammentare, non però fu mai abrogato, come in qualche altro Stato europeo è avvenuto.

» Che però sembra ai sottoscritti esser semplice e logica la idea che quello Statuto appunto sia richiamato nel suo pieno vigore.

» Così facendo la M. V. trova bella e fatta l'opera, della quale vuole che questi suoi Stati godano i benefici effetti; lo straniero ammirerà la sapienza della mente sovrana in questo alto provvedimento, ed i vostri popoli, senza attendere una novella compilazione, con assai maggior sollecitudine sapranno quali sono le loro franchigie, e riceveranno con animo riconoscente questo pegno novello del Re per l’inaugurazione del regime costituzionale.».

In seguito a questo rapporto S. M. richiamò in vigore la Costituzione del 1848 col seguente decreto del 1.° luglio:

«Visto il nostro Atto sovrano del 25 giugno, e visto il rapporto dei nostri ministri segretarii di Stato, abbiamo risoluto di decretare e decretiamo quanto segue:

Art.1. La Costituzione del 10 febrajo 1848 concessa dal nostro augusto genitore, è richiamata in vigore. Art.2. La disposizioni contenute nell’articolo 88 della Costituitone relativa allo Stato discussa ed alle antiche facoltà del Governo per provvedere con espedienti straordinarji a’ complicati ed urgentissimi bisogni dello Stato, restano in pieno vigore, finché non vi sarà provveduto dal Parlamento nej modi costituziofiali.»

Con altro decreto, pure del primo luglio, il Re convocò il Parlamento nazionale. Esso è del seguente tenore:

«Visto il decreto del luglio col quale si richiama in vigore la Costituzione del 10 febbraio 1848; valendo al più presto circondarci de’ lumi e dello appoggio della nazione rappresentata legittimamente al parlamento, onde rendere un fatto, con la propagazione delle leggi organiche, i diritti garantiti dalla Costituzione; sulla proposizione del nostro Consiglio de’ ministri, abbiamo ritenuto di decretare e decretiamo quanto segue: Art.1. Il Parlamento Nazionale sarà convocato in Napoli pel dì 10 settembre 1860: Art.2. I collegii elettorali sono convocati per procedere alla elezione dei deputati nel dì 19 agosto; Art.3. In mancanza di una legge elettorale definitiva le elezioni saranno eseguite a norma della legge centrale provvisoria del 29 febbraio 1848 e del decreto 24 maggio dello stesso anno.»

Alla Stampa il Re provvede nel seguente modo con decreto dello stesso giorno.

Sulla proposizione del nostri ministri segretarii di Stato di grazia è giustizia, dell'interno è dell'istruzione pubblica; udito il parere de’ nostri ministri segretarii di Stato; volendo provvedere all’esercizio del diritto della stampa, evitando gl’inconvenienti che deriverebbero dalla mancanza di norme atte à reprimerne l'abuso; abbiamo risoluta di decretare e decretiamo quanto segue: Art. 1. Finché non verrà sanzionata e pubblicata la légge definitiva intorno all'esercizio del diritto di stampa, saranno provvisoriamente osservate le disposizioni contenute ne' decreti  del maggio 1848, 27 marzo 1849 e 6 novembre 1849.

Parimente col seguente decreto i\ Re istituì una Commissione pegli oggetti menzionati nello ètèsisb decreto':

«Visti i decreti di quest’istessa  dati per l'attuazione della Costituzione, e per la convocazione del Parlamento; volendo provvedere anticipatamente alla preparazione delle leggi organiche Costituzionali, che la legislatura  dovrà votare; sulla proposizione del nostro Consiglio de’ ministri, abbiamo risoluto di decretare è decretiamo quanto segue: Art: 1. È istituita una Commissione di quattro componenti, alla dipendenza del ministro dell'interno, e da esso preseduta, per preparare i progetti a) della legge elettorale; b) della legge sulla guardia nazionale; c) della legge sull'organizzazione amministrativa; d) della legge sul Consiglio di Stato; e) della legge sulla responsabilità ministeriale. Art. 2. Simile Commissione è istituita, alla dipendenza del ministro dell’istruzione pubblica, e da esso preseduta, per preparare il progetto della legge sulla stampa.

Art.3. l rispettivi ministri sono autorizzati di scegliere i componenti della suddetta Commissione, i quali presteranno il loro uffizio gratuitamente.»

La Costituzione del 1848 richiamata ora a Napoli in vigore ha per base la sovranità reale e dichiara che la religione cattolica è esclusiva e che non è tollerato l’esercizio di alcun altro culto; il potere esecutivo appartiene al Re, il legislativo si riassume in una Camera dei pari vitalizia, ed in un’altra dei deputati, i cui elettori ed eliggibili devono avere venticinque anni e possedere un reddito determinato dalla legge elettorale. Sono elettivi inoltre i membri delle Accademia, i professori titolari o laureati dell'Università, i decurioni, i sindaci, e gli aggiunti dei Comuni, i pubblici funzionarii ed aggiunti dei Comuni, i pubblici funzionarii in ritiro, godenti una pensione di 125 ducati e gli ufficiali superiori in ritiro. La stampa è soggetta ad una legge repressiva ed alla censura per le opere riguardanti specialmente le materie religiose. Il Re è il capo supremo dello Stato; la sua persona è sacra, inviolabile ed irresponsabile; egli comanda le forze di terra e di mare e nomina a tutti glimpieghi; può sciogliere la Camera dei deputati, ma deve convocarne un’altra entro tre mesi, e la sanzione delle leggi è a lui riserbata. L ministri sono responsabili; hanno libero ingresso nelle due Camere e possono farne parte; possono, essere posti in istato di accusa dalla Camera dei deputati ed essere giudicati da quella dei pari.

Col decreto dell'8 luglio fu stabilito che tutti gl'impiegati di qualunque grado e qualità. non potranno esercitare le funzioni inerenti alle rispettive loro cariche ed impieghi se non avranno prestato il giuramento di fedeltà ed obbedienza al Re ed alla Costituzione dello Stato giusta la seguente formula:

«Io N. N. prometto e giuro innanzi a Dio fedeltà ed obbedienza a Francesco II Re del Regno delle Due Sicilie ed esatta obbedienza ai suoi ordini; prometto e giuro di compiere col massimo zelo e con la massima probità ed onoratezza le funzioni a me affidate; prometto e giuro di osservare e di far osservare la Costituzione del 10 febbraio 1848, richiamata in vigore da S. M. il Re N. S. con reale decreto 1.° luglio 1860; prometto e giuro di osservare e di far osservare le leggi, i decreti ed i regolamenti attualmente in vigore, e quelli che saranno sanzionati e pubblicati in avvenire nei termini della Costituzione medesima; prometto e giuro di non volere appartenere ora né mai a qualsivoglia associazione segreta. Così Dio mi aiuti.»

Lo stesso giuramento debb’essere prestato da tutti gl’impiegati militari, ma per essi alla formola esposta più sopra si aggiunge anche la seguente: «Prometto e giuro di difendere anche con la effusione di tutto il mio sangue le bandiere (o gli stendardi) che S. M. si è degnata di affidarmi.»

VIII.

Un decreto del 13 luglio nominava il barone di Lechina, D. Salvatore Carbone, a direttore del Ministero e regia Segretaria di Stato dei lavori pubblici per coadiuvare il ministro nella firma e nel disbrigo degli affari.

Un altro decreto ponea in esercizio il nuovo Corpo del Consiglio di Stato, cui venivano date provvisoriamente le attribuzioni della Consulta, dodici membri della quale passavano a far parte del nuovo Corpo, di cui veniva nominato vicepresidente l'attuale consultore commendatore. D. Francesco Gamboa. A completare le nomine provvisorie dei consiglieri di Stato venivano aggiunti quattro nuovi ai tredici surriferiti, in correlazione poi a questo decreto, un altro dello stesso giorno metteva a ritiro il presidente ed il vicepresidente della già Consulta, nonché cinque membri della medesima.

Un decreto della stessa data conferiva al tenente generale principe d'Ischitella, D. Francesco Emanuele Pinto, il comando della guardia nazionale per la provincia di Napoli e destinava alla immediazione di lui il duca di Cajanello. Quindi nominava i capi di battaglioni e comandanti di ciascuna sezione di detta guardia.


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IX.

L’impartita Costituzione non valse a cangiare ad un tratto là situazione di Napoli. Continuava la diffidenza da parte della Corte e del popolo e si appalesava ad ogni occasione. I periodici napoletani si lamentavano amaramente che già da lungo tempo i ricchi ed i benestanti si recassero in tutta fretta alla campagna quasi che stasse un nuovo Attila alle porte. Uomini, che per la loro posizione o il loro credito avrebbero dovuto col proprio contegno rassicurare i pusillanimi ed i deboli ed infondere loro coraggio, facevano in ogni occasione conoscere l’angusta ed il timore da cui erano compresi.

La plebe approfittava di un istante di movimento più liberamente concesso per soddisfare la propria sete di vendetta facilmente accesa. Da ciò derivavano le giornaliere persecuzioni degl’impiegati polizia licenziati. D’altra parte, veniva intanto posta in ispavento la popolazione concentrando le truppe nell’interno ec| intorno alla città. Venivano in fatti richiamate in città le guarnigioni di S. Maria, Caserta, Nola, Capua e via discorrendo, e si completavano ed armavamo i forti che circondano la città. Ciò soffocava sino all’ultima scintilla la fiducia e si diceva che la libertà durerà sinché quelle mura rimanevano incomplete. Il Ministero divenne ben presto vacillante e si nominarono quali nuovi ministri Baldacchini, Ferrigni e Ventimiglia. E si deve ascrivere alla credenza generalmente diffusa sulla instabilità della presente situazione che il marchese Camillo di Bella, di principii assai liberali, abbia rifiutato il posto di ambasciatore a Parigi, che gli era stato offerto in sostituzione del marchese Antonini. Il marchese di Bella abbandonava Napoli in marzo del presente anno, per andare in esilio e d’allora in poi viveva in Toscana.

X.

Una controrivoluzione militare gittò, nella domenica luglio, la desolazione e lo sgomento nella captale, nei dintorni e nelle provincie quasi nello, stesso tempo. Ommettendo i ragguagli su ciò ch'è accaduto al di fuori, ci limiteremo a quello ch'è avvenuto in Napoli.

La reazione, che da diversi giorni era minacciosa, tentò di aprirsi una via nel suindicato giorno alle 4 pomeridiane. Tutto pareva organizzato a quanto risultava dalle informazioni che si poterono raccogliere, e se il tentativo non ha pigliato larghe e serie dimensioni fu tutto dovuto alla prudenza dei cittadini contro quelli, i quali volevano pescare nel torbido e trovare successo nei loro inconsiderati tentativi.

A Porta Capuana, un popolano si brigava con una di quelle donne. Un soldato de’ granatieri si fece innanzi minaccioso, e, facendo le viste di proteggere la donna, cominciò a percuotere quell’uomo colla sciabola. Sembra che questo fosse il segnale convenuto, perché alquante centinaia di soldati si raccogliessero tosto a correre le strade, obbligando i pacifici cittadini a gridare con essi  Viva il Re!

Di là la massa reazionaria si partì in due e parte si avviò per la strada che mette a Foria, parte per la strada Porto, sempre percotendo, togliendo bastoni e fino gli ombrelli, e facendo fuggire spaventata la gente ch’era nelle strade. La banda, che prese la strada Foria, per le Fosse del Grano, scese per Monte Oliveto, ed al Largo del Castello si riunì a quella, che sboccò da Porto. Di là, sempre manomettendo i cittadini, passarono a Toledo ove rinnovarono le grida, costringendo colle minacce a ripeterle. Lungo Toledo fracassarono tutte le lastre.

Gli uffiziali, che incontravano per via, erano costretti anch’essi a gridare Viva il Re, mentre a perdita di fiato vanamente eglino tentavano di ridurre que’ soldati a riporre le armi e ritirarsi.

Alla strada Fiorentini, ove si era gittata quella massa, furono accerchiati dalla cavalleria ed arrestati.

Lo stesso movimento avvenne contemporaneamente in buona parte dei quartieri di Napoli ed anche in diverse città vicine.

All'ospitale de’ Pellegrini furono portati una cinquantina di feriti, alcuni de’ quali gravemente. Varii marinai inglesi e francesi riportarono ferite e due anche morirono.

Nel domani tutte le botteghe di Toledo restarono chiuse e là popolazione è rimasta sgomentata.

Verso mezzodì si pubblicò un’ordinanza del ministro dell’interno, Liborio Romano, che ha rassicurato alquanto gli animi. Il Re visitò i quartieri, esortando i soldati a mantenersi ne’ limiti della loro disciplina, minacciandoli di rigori nel caso di nuovi disordini.

XI.

Nel 15 luglio il Re emanò i seguenti proclami:

Proclama di S. M. a questi suoi regii.

«Dopo la pubblicazione del nostro Atto Sovrano del 25 giugno ultimo, col quale concedemmo ai nostri popoli uno Statuto sopra basi nazionali ed italiane, insieme ad un’amnistia generale per tutti i reati politici, ed annunziammo l’idea di entrare in accordo col Re Vittorio Emanuele per l’interesse delle due Corone in Italia, e dopo il nostro Atto successivo del dì 1.° di questo mese, col quale richiamammo in vigore per questa parte de’ nostri Stati lo Statuto promulgato nel dì 10 febbraio 1848, nobile e grande è stato il senno civile di tutte queste nostre Provincie continentali e di questa nostra grande Metropoli.

» Hanno esse mostrato a tutta la colta Europa che questi nostri Domini non eran da meno di tutti gli altri Stati italiani, i quali sono dianzi pervenuti a rigenerazione politica ed a unità di principii. Che se questi Stati, dopo tanti secoli, nel corso dei quali il risorgimento d’Italia si ebbe per delirio di mente inferma, vincendo ostacoli di ogni maniera, seppero elevarsi a tanta gloria, ciò non avvenne altrimenti se non per la piena sommessione, ch'ebbero all'indirizzo dato da valenti uomini ai grandi interessi nazionali ed alla gloria della penisola.

» Nè inferiori agli altri Italiani si son dati a divedere i popoli di questi reali Stati, poiché, lungi dall’abbandonarsi in questi gravi momenti agli errori, che spesso riescono fatali alla libertà e macchiano la storia delle nazioni, attendono invece, nella calma più ammirevole, da noi e dal Governo dello Stato, l’attuazione della grande opera loro promessa.

» La nostra aspettativa dunque non fu delusa, e noi, nel rendere grazie a’ nostri popoli di un sì nobile e glorioso contegno, li vediamo perciò altamente rincorati menare a compimento con la maggiore perseveranza il gran disegno, donde emanar debbono la piena felicità, la grandezza e la gloria di questi popoli colti e gentili, che la Provvidenza affidò alle nostre cure.

» Ed assai più accresce la gioia del nostro reale animo il pensiero che, chiamati dagli imperscrutabili decreti della Provvidenza a reggere le Due Sicilie in età tanto giovanile, ci troviamo assai di buon'ora iniziati in quel sistema rappresentativo, il quale forma ormai il diritto pubblico di tanti Stati inciviliti.

» Così che, inoltrandoci nella difficile arte del governare, questa ci verrà come spianata e fatta più facile da’ lumi di una stampa saggia e veramente nazionale, e dal concorso di tutti gli uomini di alto senno politico e civile, che sederanno nelle camere legislative.

» Abituati così noi ben presto alla pratica del sistema novellamente inaugurato, abbiamo piena fede che, col divino aiuto, queste belle Provincie continentali, che formano una parte de’ nostri Stati, portando a compimento gli alti destini della grande nazione italiana, sapranno aggiungere e conseguire in breve tempo quella potenza, grandezza e prosperità, che formano il maggior voto del nostro real animo.»

Proclama di S. M. all'esercito ed all'armata.

«Di nostra piena, libera e spontanea volontà, abbiamo conceduto ordini costituzionali e rappresentativi al Reame, in armonia co progressi della civiltà e coi bisogni dei popoli che la Provvidenza ha alle nostre cure affidati.

» Voi entrerete lealmente in questa nobile e gloriosa via e vi unirete al patto costituzionale, che ci lega in una sola famiglia; voi sarete campioni di giustizia, di umanità, di disciplina, d’amor di patria; voi, la speranza de’ vostri concittadini, sarete saldo sostegno del trono e delle nuove istituzioni e strumento della grandezza e prosperità nazionale.

» Io ricordo con tenerezza e gratitudine di qual fedeltà ed ubbidienza siete stati fin oggi capaci, ed abbiatevene le più vive grazie, come segno della mia soddisfazione.

Niuno più del vostro Sovrano può rendere le debite lodi ai vostri meriti, che i deplorabili trascorsi di taluni pochi, traviati per ignoranza o per maligne e stolte insinuazioni, non possono denigrare. Ora conviene che, onorevoli' per dignità e moderazione, facciate del. vostro braccio sostegno al nuovo ordine di cose e ad una nuova politica ferma e conciliante, la quale valga a dar fiducia alle popolazioni e a dileguare le apprensioni della diplomazia di vedere sconvolto l’equilibrio politico dell’Europa; ed il vostro passato mi è garante dell’avvenire.

» Soldati, novelle sorti ci chiamano a rialzare la dignità del nostro paese italiano; siate alteri di questo mandato. Il popolo che ha fatto redivivere per due volte la civiltà d’Europa, non verrà meno nel difficile arringo di riconquistare colla sua indipendenza quell’alto primato che la sua posizione geografica, la forza delle armi e la storia gli consentono; di questo popolo voi siete gran parte, e sostener dovete oggimai la gloria e la grandezza.»

CAPITOLO QUINTO

Catania, Milazzo e Messina

I.

Nel giorno 30 giugno le truppe regie sorpresero i garibaldini accampati presso Catania (1). Il combattimento fu vivissimo e molto accanito da ambe le parti, ma la posizione svantaggiosa in cui si trovavano i garibaldini, gli obbligò a ritirarsi lasciando un gran numero di loro sul teatro della lotta. La perdita degl'insorti consistè in un cannone senz’affusto, che costituiva tutta la loro artiglieria. Anche le truppe napoletane hanno toccato gravi perdite; oltre un buon numero di morti lasciati sul campo deir azione, non menò di 130 feriti sono stati da Catania trasportati all’ospitale di Messina.

Nel primo luglio drappelli di alquante centinaia d’insorti attaccarono Catania, ma furono nuovamente respinti, e le truppe poterono rimanere tranquille in città.

Ai 4 luglio giunse un ordine reale alla guarnigione di Catania di ritirarsi a Messina.

Una colonna mobile di Garibaldi partì alla volta di Catania per piantare in essa città, sgomberata dalle truppe napoletane, un’amministrazione insurrezionale.

(1) Catania, città appiè dell Etna, sul golfo dello stesso nome, a 40 leghe E. da Palermo.

Si organizzavano pure due altri corpi di truppe destinate ad investire per terra le piazze di Siracusa e d’Augusta. Codeste operazioni non avevano altro motivo se non che di esercitare i soldati all'insurrezione, imperocché il nodo della quistione siciliana era Messina e quella città forte doveva essere lo scopo di tutti gli sforzi di Garibaldi e dei suoi volontari!.

II.

Garibaldi, disposto l’opportuno per l’organizzazione delle riserve del servizio interno in Palermo e contorni, ricevuto il materiale necessario, mise in moto le sue truppe regolari verso la parte orientale dell'isola, dirigendosi sopra Messina. Una piccola squadra, con poche compagnie, ebbe l'incarico di tenersi in vista della costa siciliana fingendo l’intenzione di uno sbarco nelle Calabrie. Da ciò il movimento impressò alle truppe reali, che a marcie forzate vennero dirette verso la costa: da ciò le disposizioni prese dal Governo pontificio di una più rigorosa sorveglianza delle sue rive onde opporsi ad ogni eventuale sbarco. Era ferma intenzione di Garibaldi d’impadronirsi di Messina e di sgombrare l'isola intera dalle truppe regie prima di procedere oltre. I regii, concentratisi a Messina, munirono fortemente i passi che conducono alle fortezze, onde non avesse a ripetersi il caso di Palermo, che con una guarnigione fortissima ed al coperto degli assalti nemici, fu costretta a capitolare.

III.

Il generale Garibaldi, partito al 18 luglio da Palermo, era arrivato ai 19 al campo dei Meri, e già da due giorni erano succeduti combattimenti parziali. Appena arrivato, egli aveva passato in rassegna le truppe di Medici, che lo accolsero con entusiasmo.

L’indomani, all’alba, tutte le truppe erano in moto per assalire i napoletani, usciti dal forte e dalla città di Milazzo, da loro occupata. Melanchini comandava l'estrema sinistra, il generale Medici e Cosenz il centro: la destra, composta solamente di alcune compagnie, non aveva per iscopo che coprire il centro e la sinistra da una sorpresa. Il generale Garibaldi si collocò al centro, cioè a dire, nel sito ove ei giudicava che l’azione sarebbe più viva.

Il fuoco cominciò alla sinistra a mezza strada tra Meri e Milazzo. S’incontrarono gli avamposti napoletani nascosti nei canneti. Dopo un quarto d’ora di moschetteria sulla sinistra, il centro, alla sua volta, si è trovato in faccia della linea napoletana e l'ha attaccata e sloggiata dalle prime posizioni. La destra, nel frattempo, scacciava i napoletani dalle case che occupavano. Ma le difficoltà del terreno impedivano ai rinforzi di arrivare.

Bosco spinse una massa di 6000 uomini contro i 500 o 600 assalitori che lo avevano costretto a indietreggiare e che, sopraffatti dal numero, erano stati obbligati a indietreggiare alla loro volta.

Garibaldi spedi tosto a prendere rinforzi, giunti i quali si attaccarono di nuovo i napoletani nascosti tra canneti e riparati dietro i fichi d’india. Ciò era un grande svantaggio pei garibaldini che non potevano caricare alla baionetta.

Medici, marciando alla testa de'  suoi uomini, aveva avuto il cavallo ucciso sotto di sè. Cosenz era stato colpito da una palla morta nel collo ed era caduto a terra; si credeva ferito mortalmente allorché si rialzò gridando l Italia! Fortunatamente la sua ferita era leggiera.

Garibaldi si pose allora alla testa de’ carabinieri genovesi con alcune guide e Missori. La sua intenzione era di affrontare i napoletani ed attaccarli di fianco, togliendo così la ritirata ad una parte di essi, ma s'imbatté in una batteria di cannoni che fece ostacolo a siffatta manovra.

Missori ed il capitano Statella si spinsero allora con una cinquantina d’uomini. Garibaldi era alla testa e dirigeva la carica; a venti passi il cannone fece fuoco a. mitraglia. L’effetto fu terribile; cinque o sei uomini solamente rimasero in piedi. Garibaldi ebbe la suola della scarpa e la staffa portata via da una palla di cannone; il suo cavallo, ferito, divenne indomabile, ed egli fu costretto ad abbandonarlo, lasciandovi il suo revolver. IL maggior Breda e il suo trombetta furono colpiti a’ fianchi; Missori cadeva col suo cavallo ch'era ferito a morte da una scheggia. Statella restava in piedi, fra un uragano di mitraglia; tutti gli altri morti o feriti.

A parte di questi particolari, da tutti si combatteva e si combatteva valorosamente.

Garibaldi, vedendo allora l’impossibilità di prendere il cannone che aveva fatto questo danno di fronte, ordinò al colonnello Dounne di scegliere qualche compagnia e di slanciarsi con essa attraverso i canneti, raccomandando a Missori ed a Statella, appena sormontati i canneti, di saltare al di sopra del muro che doveva trovarsi dinanzi, e poscia slanciarsi sul pezzo di cannone che doveva essere a poca distanza. Il movimento fu eseguito da due uffiziali e da una cinquantina d’uomini che li seguivano con molta compattezza e molto slancio, ma allorché arrivarono sulla strada, la prima persona che vi trovarono era il generale Garibaldi in piedi e colta sciabola in pugno.

In questo momento il cannone fa fuoco, uccide alcuni uomini, gli altri si slanciano sul pezzo, se ne impadroniscono e lo portano via.

Allora la fanteria napoletana s’apre e dà il passaggio a una carica di cavalleria che si avventa per riprendere il pezzo. Gli uomini del colonnello Dounne, poco abituati al fuoco, si dividono ai due lati della strada, in luogo di sostenere la carica alla baionetta, ma a sinistra sono trattenuti dai fichi d’india, a destra da un muro. La cavalleria passa come un turbine; dai due lati i garibaldini allora fanno fuoco, e la esitanza di un momento è svanita.

Moschettato a destra ed a manca, il comandante napoletano s’arresta e vuol tornare indietro; ma ecco, in mezzo alla via, serrargli il passaggio Garibaldi, Missori, Statella e cinque o sei uomini. Il generale salta alta briglia dell'uffiziale gridando: Arrendetevi.

L’uffiziale, per tutta risposta, gli mena un fendente; Garibaldi lo para e di un colpo di rovescio gli spacco la gola. L’uffiziale vacilla e vien giù; tre o quattro sciabole sono alzate sul generale, che ferisce uno degli assalitori con un colpo di punta. Missori ne uccide altri due e il cavallo di un terzo con tre colpi di revolver. Statella mena le mani dalla sua £>arte e ne cade un altro. Un soldato, smontato di sella, salta alla gola di Missori, che a bruciapelo gli fracassa la testa con un quarto colpo di revolver.

Durante questa lotta Garibaldi rannodò gli uomini sgominati. Egli carica con loro e mentre riesce di sterminare o di far prigioni cinquanta cavalieri, dal primo Ano all’ultimo, incalza alla fine colle baionette, secondato dai resto del centro, i napoletani, i bavaresi e gli svizzeri. I napoletani fuggono, i bavaresi e gli svizzeri tengono fermo un momento, ma fuggono essi pure.

Tutta l’armata napoletana si pone in rotta verso Milazzo ed è inseguita sino alle prime abitazioni; là i cannoni del forte si uniscono al combattimento.

Milazzo è costruita a cavaliere su di una penisola. Il combattimento, che aveva cominciato nel golfo orientale, si era a poco a poco ridotto nel golfo occidentale. Ivi era la fregata il Tuberi. Garibaldi si slancia sul ponte del, sale sulle antenne e di là domina l’azione.

Una truppa di cavalleria e di fanteria napoletana usciva dal forte per portare soccorso ai regii. Garibaldi fece dirigere un pezzo da sessanta contro di essi e ad un quarto di tiro, li mitragliò. I napoletani fuggirono al primo colpo.

Allora si animò una lotta tra il forte e la fregata.

Allorquando Garibaldi vide essere riuscito ad attirare verso di sé il fuoco della fortezza, slanciossi in una scialuppa insieme ad una ventina d’uomini, approdò e tornò tra le fucilate di Milazzo.

Il fuoco di fucileria durò anche un’altra ora, dopo di che i napoletani respinti di casa in casa, entrarono nel castello.

Garibaldi aspettavasi una sortita dei napoletani nella notte, e perciò aveva dato ordine di custodire attentamente i punti della città che mettevano al castello e di fare le barricate. La notte, contro ogni aspettazione, passò tranquilla.

I feriti ed i morti erano sparsi nelle strade, e la casa del console francese, in cui trovavasi albergato Garibaldi, era ingombra di morenti. Il combattimento fu una vera carneficina. È impossibile concepire l’idea del disordine che regnava fra gli abitanti della città (1).

IV.

Nel SI luglio giunse in rada di Milazzo un pacchebotto, il cui comandante doveva porsi a disposizione del colonnello Bosco, comandante della piazza. Con sua grande sorpresa, l’ufficiale di marina trovò, essendosi recato, a terra, la città occupata dai garibaldini, e udì nel medesimo istante che Bosco erasi rifugiato colle sue truppe nella cittadella.

(1) Dicevasi che parecchi abitanti di Milazzo, partigiani dei re Francesco, avessero gittato dalle finestre a’ garibaldini olio ed acqua bollente e che Garibaldi, presa la piazza, avesse fatto fucilare 30 mìlazzesi e birri, ma tale notizia venne smentita dalla Gazzetta uffiziale della Sicilia del 28 luglio.

Geloso di adempiere la sua missione, ei si recò presso Garibaldi, e gli chiese licenza di abboccarsi col colonnello, la qual cosa gli venne accordata.

Egli parti scortato da un uffiziale dei volontarii e da un trombetta con bandiera bianca. A qualche distanza dalla cittadella fu sonata la tromba e fatta sventolar la bandiera, in segno di parlamentario; tosto due uffiziali napoletani uscirono dal forte, e dopo alcune spiegazioni preliminari sull'oggetto della visita, bendarono gli occhi al comandante, lo condussero seco, chiusero le porte alle sue spalle e non gli tolsero la benda se non dopo ch’egli fu entrato nella stanza di Bosco.

Dopo aver fatto conoscere al colonnello la missione, di cui egli era incaricato presso di lui, per ordine del Governo napoletano, l’uffiziale credette di dover aggiungere che egli era latore altresì di proposizioni di Garibaldi per una capitolazione. — Parlate, dissegli Bosco, v’ascolto. — Colonnello, rispose l'uffiziale, ecco le precise parole di Garibaldi: «Dacché vi recate presso Bosco, ditegli che, s’egli vuole accettare, gli permetto d’imbarcarsi coi suoi uffiziali, ma, quanto alle sue truppe, no. Egli è eccessivamente tenace; s'egli ricusa, ditegli di più, che la cittadella è minata e che, entro ventiquattr'ore, io la farò saltare in aria.» — «Nò, esclamò il colonnello, i miei soldati si batterono troppo bene perché io gli abbandoni. Dite a Garibaldi che, s’egli vuole indicare il luogo della mina, Bosco s’impegna sul proprio onore, di sedervisi sopra a fumare il sigaro, e che, allo scoppio della mina, il suo ultimo grido sarà: Viva il Re!

«La sola grazia ch'egli domanda è che si risparmi il sangue dei suoi soldati.»

Il parlamentario riportò immediatamente codeste coraggiose parole a Garibaldi, il cui animo ne rimase fortemente commosso. — Bene! esclamò il dittatore, dopo un momento di riflessione, ecco la nuova proposizione che io fo a Bosco: lo autorizzo ad imbarcarsi colle sue truppe, ma senz'armi e con riserva che i soldati napoletani non partiranno se non per propria volontà. —

Siccome la sua intromissione non era che uffizìosa, l'uffiziale domandò codeste condizioni per iscritto a Garibaldi, il quale gliele diede, aggiungendo tuttavia parecchie condizioni concernenti la capitolazione. Lieto di adempiere a codesto dovere di umanità, l'uffiziale tornò alla cittadella e comunicò il suo messaggio a Bosco; ma il colonnello non solo ricusò di accettare codeste condizioni senza ordine del suo Governo, ma non volle neppure farne lettura ei medesimo. Rispose che — la sua situazione non era sì disperata da trovarsi ridotto a fare simile capitolazione, e che, d’altra parte, tra alcuni giorni, farebbe domandare egli stesso un parlamentario, per evitare, più che per lui si potesse, lo spargimento del sangue italiano. In caso di attacco per far saltar in aria il forte, ei sacrificherebbe prima la sua vita per salvare il suo onore e quello dei suoi soldati. — Dopo sì energico rifiuto, l'uffiziale ritornò presso Garibaldi per rendergli conto del mal esito della sua missione, allorché apparvero dinanzi Milazzo quattro fregate napoletane, tra cui la Fulminante.

Tosto si aprì l'adito a mille supposizioni.

Gli uni immaginavano uno sbarco, altri un semplice approvvigionamento di vettovaglie, ma tutti si aspettavano un cannoneggiamento. Nell’armata di Garibaldi era stata sonata la generale, ed una batteria di sedici pezzi, disposta come per incanto, s’elevava nella spiaggia a pie’ della fortezza, ed un’altra di due pezzi vedevasi alla estremità della baia presso l’imboccatura della riviera. Il fuoco di queste due batterie doveva incrociarsi. Le due torri, sulla sommità della penisola, che sulle prime erano cadute in potere di Garibaldi, avevano diretto verso la squadra i quattro pezzi di cui erano armate.

Tutti questi apparati belligeri dovevano riuscire inutili. La fregata napoletana innalzò la bandiera parlamentaria al suo albero di mezzana.

Il colonnello di stato maggiore, Francesco Anzani, inviato dal Re per trattare della capitolazione, smontò a terra per avere un abboccamento con Garibaldi, il quale inviò a lui un colonnello che gli servisse di scorta.

In codesto abboccamento furono pattuite le clausole della capitolazione, per cui le truppe regie dovevano sgomberare la cittadella con armi e bagaglio, ed il materiale del forte dovea dividersi in due parti, metà agli assedianti e metà agli assediati (1).

(1) Dicesi che quando Garibaldi entrò nel forte, trovò inchiodati i dieci cannoni che gli spettavano; che adontato della mancata buona fede, si portò subito presso l’inviato napoletano ripetendo il cambio di altri dieci pezzi, e che fu fatto diritto alla sua domanda.


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V.

Dopo la presa di Milazzo, Garibaldi e Medici marciarono sopra Messina (1) ed il 23 luglio la circondavano.

Il generale napoletano Clary, aveva prese tutte le misure necessarie per mettere Messina in istato di resistere agli attacchi di Garibaldi. Il numero delle truppe, che fin dal 14 luglio erano scaglionate all'avanguardia sino a sei leghe da Messina, ascendeva a 26,000 uomini, tra infanteria, cavalleria ed artiglieria.

Opere esterne sorgono all’est ed all’ovest della piazza e ne difendono gli approcci; al centro si è costruita un’opera a denti, fiancheggiata da inaccessibili rocce, che rendono difficile lo stabilimento dei lavori di contrapproccio; di più, i bastioni di San Francesco, San Diego, Santo Stefano e Muremberg, già per sè stessi tanto formidabili, erano stati armati di cannoni rigati dell’ultimo modello. Alcune vie della città erano disposte in maniera da respingere un attacco, e il loro ingresso era difeso da cannoni in batteria.

Nel 22, ai legni da guerra di stazione nel porto era stato intimato dal generale Clary di ancorarsi fuori per non essere d’imbarazzo alle operazioni difensive o aggressive della cittadella.

Dallo sgombro dei bastimenti da guerra derivò di conseguenza lo scoraggiamento e la fuga di tutti coloro che rimanevano ancora in città.

(1) Messina, città seconda della Sicilia a 53 leghe S. E. da Palermo, ha un vasto ed ottimo porto, una cittadella con arsenale e tre castelli e conta 70,000, abitanti.

La parte della. popolazione più agiata era già fuggita, e per le vie non s’incontravano che soldati, cavalieri, cannoni e pattuglie. La restante popolazione trovavasi accalcata sulle spiaggie dello stretto di Messina, parte su talune tende logore, parte entro battelli di ogni sorta, ove le donne e i fanciulli erano stivali in modo che in un solo di essi vennero contati ventotto fanciulli e dieciotto femmine. I consoli eransi ritirati a bordo dei bastimenti da guerra.

La città era deserta e squallida come un sepolcro, e il silenzio era soltanto interrotto dalle grida di allerta delle sentinelle e dai colpi di fucile che queste lanciavano senza ragione sui passanti. Il porto non era meno deserto; tranne qualche corvetta napoletana, già prossima a metter le vele, non rimaneva che la sola, la quale, nel bisogno di far carbone, era ancorata a Terranuova.

Igiorni 24 e 25 trascorsero senz’altra novità; ma un combattimento sembrava imminente.

Secondo le intenzioni manifestate dal generale Clary, doveva aspettarsi una difesa disperata. Ed in effetto, le truppe napoletane occupavano tulle le creste dei monti che circondano Messina. Artiglieria, cavalleria, genio, nulla mancava per mettere in opera le forze comandate dal generale dell'armata regia.

II25, alle ore 7 della sera, un attacco di poco momento ebbe luogo fra gli avamposti napoletani e le truppe di uno dei capi di Garibaldi, nominalo Interdonato, malgrado il fatto divieto.

Ciò faceva presumere per l’indomani un'azione interessante.

Ma al levarsi del sole i napoletani si erano ritirati in città; i picciotti discesi nelle fiumane, ove stavano in attenzione di ordini, in fine incominciavasi ad evacuare il forte.

Il generale Clary, in seguito a nuovi ordini emanati da Napoli, entrò in trattative con Medici e fu tosto firmata la seguente convenzione:

«L’anno 1860, il giorno 28 luglio (1), in Messina, Tommaso di Clary, maresciallo di campo comandante superiore le truppe riunite in Messina, ed il cavaliere maggiore generale Giacomo Medici, animati da sensi di umanità e nell'intendimento di evitare lo spargimento di sangue, che avrebbe causato l'occupazione di Messina da una parte e la difesa della città e forti dall’altra, in virtù, ecc.

» 1.° Le regie truppe abbandoneranno la città di Messina, senza essere molestate, e la città sarà occupata dalle truppe siciliane, senza pure venir queste molestate dalle prime.

» 2.° Le truppe regie evacueranno i forti Gonzaga e Castelluccio, nello spazio di due giorni a partire dalla data della sottoscrizione della presente convenzione. Ognuna delle due parti contraenti designerà due uffiziali ed un commissario per inventariare le diverse bocche da fuoco, i materiali tutti da guerra, e gli approvvigionamenti de’ viveri e di quanto altro esisterà nei forti suindicati all’epoca  che questi verranno sgombrati. Resta a cura poi del Governo siciliano lo incominciare il trasporto di tutti gli oggetti inventariati, appena verrà effettuato lo sgombro de’ soldati, di compierlo nel minor tempo possibile e consegnare i materiali trasportati nella zona neutrale, di cui si tratterà in appresso.

(1) Le troppe napoletane cominciarono a sgombrare il forte nel 36, nel qual giorno entrò in città la colonna Aledici, ma la sottoscrizione della convenzione non ebbe luogo che nel giorno 33.

» 5.° L’imbarco delle regie truppe verrà eseguito senza che venga molestato per parte de’ siciliani.

» 4.° Le truppe regie riterranno la cittadella coi suoi forti Don Blasco, Lanterna, San Salvatore, a condizione però di non dovere, in qualsiasi avvenimento futuro, recar danno alla città, salvo il caso che tali fortificazioni venissero aggredite, e che lavori di attacco si costruissero nella città medesima. Stabilite e mantenute coteste condizioni, la inoffensiva della cittadella verso la città durerà fino al termine delle ostilità.

» 5.° Vi sarà una fascia di terreno neutrale, parallela e contigua alla zona militare, la quale s’intende debba allargarsi per venti metri oltre i limiti dell’attuale zona, che va inerente alla cittadella.

» 6. Il commercio marittimo rimane completamente libero da ambe le parti.

» Saranno quindi rispettate le bandiere reciproche. In ultimo resta alla urbanità de’ comandanti rispettivi, che stipulano la presente convenzione, la libertà d’intendersi per que’ bisogni inerenti al vivere civile, che, per parte delle regie truppe, debbono venire soddisfatti e provveduti nella città di Messina.

» Fatto, letto, chiuso, il giorno, mese ed anno come sopra, nella casa del signor Fiorentino Francesco, banchiere alle Quattro Fontane: — Sottoscritti: Tommaso di Clary, maresciallo di campo; cav. G. Medici maggiore generale.»

VI.

In seguito alla convenzione militare Medici-Clary i regii abbandonarono la città di Messina e s'imbarcarono sai legni da guerra napoletani pel continente in numero di 12,000. l garibaldini occuparono la città e i forti delle colline.

L’Autorità di Messina, In presenza della ritirata delle truppe regie, pubblicò due manifesti. Nel primo invitava i cittadini a ritornare immediatamente nella città per acclamare e celebrare colla loro presenza l’attuale Governo. Nel secondo, adorno dello scudo di Savoia, il sindaco invitava i cittadini ad illuminare le loro case per festeggiare l’ingresso del generale Medici.

Nel 26 la colonna Medici entrava solennemente in Messina. Il generale Clary si ritirò nella fortezza e le due parti s'impegnarono a non venire alle mani per qualsivoglia motivo.

Nel 27, entrò alla sua volta il dittatore alla testa del suo numeroso stato maggiore. Percorse la città. Fino dal suo arrivo si occupò di diversi lavori di fortificazioni da far eseguire, ed emanò varii decreti che garantivano la pubblica quiete, punivano severamente ogni attentato alla sicurezza personale ed organizzavano la guardia nazionale, che prendeva posto al presidio dei forti abbandonati dall’armata napoletana.

Arrivarono pure gli altri generali, Bixio, Cosenz, ecc. colle loro truppe.

Gli abitanti, ch'erano fuggiti da Messina, vi rientrarono. Tutt'i bastimenti da guerra e di commercio, che dopo il 22 erano ancorati nella rada, ripigliarono posto nel porto.

Alle finestre sventolavano le bandiere sarde. Le botteghe si riaprirono. Alle pattuglie napoletane succedettero i movimenti dell’armata del dittatore, che percorreva la città in tutt’i sensi.

VII.

Occupata Messina da Garibaldi, molti impiegati regii colle loro famiglie cercarono rifuggirsi a Reggio su numerose barche, e la popolazione, scorgendo uno sbarco di carattere dubbio, trasse per opporvisi armata mano e ne nacque una lunga zuffa, alla quale presero parte anche i carabinieri. Fu quindi necessario intervento della guardia nazionale, la quale ne arrestò non pochi; se non che, per inesplicabile combinazione, costoro giunsero ad evadere e cercarono un rifugio nel quartiere di gendarmeria. Accorse colà la guardia nazionale, rivendicò gli evasi, ma il basso uffiziale che comandava i gendarmi, per un falso zelo e più che falsa pietà, denegò i rifugiati. La negativa mal calcolata produsse sopra eccitazione e minacce; dalle minacce si passò alle vie di fatto ed all’uso delle armi, e un colpo di fuoco, partito dal quartiere, produsse che il popolo in armi, assalitolo, lo ebbe presto in suo potere, insieme a quanti vi si trovavano dentro. Sembra che non si abbia avuto a deplorare la perdita di nessuna vita, ma vi furono feriti e l'ordine venne immantinente ristabilito.

PARTE SECONDA

SBARCO SUL CONTINENTE ED INGRESSO DI GARIBALDI IN NAPOLI.

CAPITOLO PRIMO

I Dominii continentali napoletani
Il Governo di Napoli si prepara a respingere l'invasione garibaldiana

I.

I Dominii di qua del Faro, o sul continente napoletano, ove vanno a compiersi gli avvenimenti che andremo esponendo, sono cinti dallo stato della Chiesa e dai mari Adriatico, Ionio e Mediterraneo e si dividono in quindici provincie, che sono le seguenti:

1.° Abruzzo Ulteriore I. Questo Abruzzo comprende la provincia di Teramo, la quale apparteneva un tempo all'Abruzzo Citeriore, ed è posto fra il mare Adriatico, gli Stati della Chiesa e gli altri due Abruzzi, con una superficie di più di 53 miglia quadrate, suddivise in due distretti, di Teramo cioè e di Civita di Penna. Popolazione 168,441.

2.° Abruzzo Ulteriore II. È posto tra gli altri due Abruzzi, gli Stati della Chiesa e la Terra di Lavoro con più di 130 miglia quadrate di superficie, suddiviso presentemente in tre distretti d’Aquila, di Civita Ducale e di Sulmona.

3.° Abruzzo Citeriore o Basso. È posto sul mare Adriatico tra la provincia di Capitanata, la Contea di Molise e l'Abruzzo Ulteriore, ha 79 miglia quadrate di superficie ed è presentemente suddiviso in due distretti, capoluogo dei quali sono Lanciano e Cheti, detta già capitale dei Marucini, che fu colonia de’ Romani, indi passata in mano dei Longobardi e poi de’ Normanni. Popolazione 225,544.

Gli Abruzzi sono l’antico paese de’ Bruzi e Sanniti. Il paese è per lo più montuoso, ma però fertile in grano, riso, frutta e produce eccellente zafferano, oltreché vi ha molta seta e si fabbrica quantità di panni ordinarii. È bagnato dal fiume Pescara.

4.° Capitanata. Provincia che confina al nord coll’Adriatico, all’est colla Terra di Bari, al sud colla Basilicata e col Principato Ulteriore, all’ovest coll’Abruzzo Citeriore e colla provincia di Molise, ed ha la superfìcie di circa 400 leghe quadrate. È irrigata dal Fortore, dal Candelaro e da qualché altro fiume di minor conto. Al piano il suolo è in gran parte sabbioneccio, ma al colle è ricco di eccellenti pascoli e produce frutta, ligorizia, tabacco e vini prelibati. Il capoluogo è Foggia. Popolazione 255,000.

5.° Molise. È il paese degli antichi Irpini. Questa provincia è posta fra l’Abruzzo, la Capitanata, il Principato Ulteriore e la Terra di Lavoro ed ha la superficie di 55 miglia geografiche quadrate. Vi scorrono il fiume Biferno, Trogno e Tammaro e, quantunque traversata da monti, è ricca di grani, vino, zafferano, mais, miglio, riso, frutta, olive, seta, mele, ec., di cui fa buon commercio, oltre al bestiame che viene alimentato da’ suoi stupendi pascoli. La capitale è Campobasso. Popolazione 207,000.

6.° Bari. La Terra di Bari era chiamata Apatia tia. Confina al nord coll’Adriatico, al sud colla Basilicata, all’est colla provincia d’Otranto ed all’ovest colla Capitanata. Ha la superficie di 290 leghe quadrate. Il suolo è fertilissimo in grano, frutta, olive, ecc. ed oltracciò ha delle saline e fa molto nitro. I re di Napoli solevano un tempo coronarsi nella celebre chiesa della sua capitale Bari. Barletta dicesi fondata sopra l’antica Canne, celebre per la disfatta dei Romani. Popolazione 300,000.

7.° Otranto. La terra d’Otranto anticamente chiamavasi Hydruntinaj Japigia Messapia e Salentina. Questa provincia è posta fra l’Adriatico ed il golfo di Taranto; confina colla Terra di Bari e la Basilicata; ha la superficie di 119 mi glia geografiche quadrate. È fertilissima di olive, frutta, vini, cotone, tabacchi, ec. ed abbonda di bestiame ed ottime pesche. Si divide in tre distretti, cioè di Lecce, capitale, di Taranto e di Massagna. Lecce è molto popolata ed è patria del celebre storico Scipione Ammirato. Brindisi è nominatissima nelle storie romane per l’armata navale che ivi teneva la Repubblica e per la celebre via Appia che ivi terminava; qui nacque Pacuvio e morì Virgilio. Taranto è celebre per la sua antichità e per essere patria del celebre filosofo e matematico ArchitaTarentino. Popolazione 293,000.

8.° Principato Ulteriore. Chiamasi anche Provincia di Monte Fusco. Era il paese degli antichi Hirpinù Questa provincia confina al nord con quelle di Molise e di Capitanata, all’est con quella di Basilicata, al sud col Principato Citeriore ed all’ovest colla Terra di Lavoro. Ha la superficie di 84 miglia geografiche quadrate.

Il suo territorio, intramezzato di valli e monti e bagnato dai fiumi Tamaro, Sabato, Calore ed Ofanto, non è fertile in grani e vino quanto il Principato Citeriore, ma abbonda di ottima seta, di castagne e di pascoli eccellenti che alimentano gran quantità di bestiame. Oltracciò vi si trovano cave di bellissimo marmo. Sua capitale è Avellino. Popolazione 358,000.

9.° Principato Citeriore. Chiamasi anche provincia di Salerno. Fa parte dell'antica Lucania e de' Piacentini. Confina al nord col Principato Ulteriore, all'est colla Basilicata, al sud ed all'ovest col Mediterraneo, al nord-ovest colla Terra di Lavoro. Ha la superficie di 113 miglia quadrate. È in parte alpestre, viene bagnata dai fiumi Sarno, Silaro, Calore e Negro, ed i suoi principali prodotti consistono in grani, riso, vini, frutta, castagne, olio, zafferano e seta. Fa inoltre buona pesca di corallo, nonché di pesce e racchiude delle sorgenti d'acque minerali. La capitale è Salerno; Amalfi è città rinomata, ed in essa ebbero la sua nascita Flavio Gioia inventore della bussola nel 1310, e Tommaso Aniello o Masaniello celebre capo-popolo. Popolazione 145,000.

10.° Terra di Lavoro. Paese detto un tempo Campania Felice. Questa provincia confina al nord colla provincia di Molise, al sud col golfo di Napoli, col mare di Toscana e colla Campagna di Roma. Ha la superficie di 108 miglia geografiche quadrate. Lungo la costa il suolo è piano, nel resto attraversato da più rami dell'Apennino, fra cui escono a bagnarlo i fiumi Volturno, Clanio, Garigliano ed altri di minor conto. Abbonda di grani, vini, olio, canape, melarancie, zafferano, bestiame, pesce, ec., e può dirsi la più bella regione d’Italia.

Dividasi in tre distretti, cioè di Gaeta, di Santa Maria e di Sora. Fra le sue città conta Nola più considerabile per la sua antichità che per la presente grandezza; vuolsi fondata dai Tirii e passata indi da’ Greci agl’Itali ed ai Romani, trovandosi molte volte ricordata nelle loro storie; vi mori l’imperatore Augusto, ed è la patria di Tansillo, di Giovanni scultore, e di altri. Popolazione 585,000.

11.° Napoli. Provincia nella Terra di Lavoro della superficie di 42 miglia geografiche quadrate. Popolazione 755,000

La capitale Napoli, chiamata un tempo Partenope e abitata dai Greci e dai popoli di Cuma, dicesi da Cuma calcidense nell’isola di Eubea, ora Negroponte, venne denominata Neapolis, cioè la città nuova. Nella declinazione dell’impero soffrì anch’essa le sue vicende, poiché ora fu occupata dai Goti, ora dai Longobardi, ora dai Greci, ora dai Saraceni, che la tennero 80 anni. Giace a guisa d’anfiteatro all’estremità d’una vasta baia cinta da amenissime prospettive e in sè racchiude quanto valer può a costituire il più magnifico e delizioso soggiorno d’Europa. Attivissima vi è l'industria in orificerie, manifatture di seta, lana, cuoi, coralli, strumenti musicali, corde armoniche, ec. ec., come pure nella costruzione navale, ed è considerevole il commercio che vi fa dei suddetti oggetti, come dei prodotti del fecondissimo suolo. Fu patria, fra gli altri, a Stazio, a Velejo Patercolo, a Pontano, a Sannazzaro, a Costanzo, a Borelli, a Bernini, a Genovesi, a Vico, a Galliani, a Filangeri, a Paesiello, a Giordano, a Salvator Rosa, ec.

Uscendo da Napoli pel borgo di Chiaia si vede la montagna di Pusilipo e si passa per una strada coperta tagliata nel masso dai Romani, lunga un miglio circa, della quale fa memoria Seneca nelle sue Epistole.

All'ingresso di questa strada coperta, che chiamasi Grotta di Pozzuolo, si vede il sepolcro di Virgilio. Di qui si va a Pozzuolo, antica colonia dei Greci, indi dei Romani, che la dissero Puteoli ed anche Colonia Neronia e Colonia Flavia Vespasiano. Nel suo territorio si vedono molte mine d’antichi templi, come di Nettuno, di Diana, un anfiteatro, un laberinto e molti antichi sepolcri. Passato il monte Gauro, si vede il celebre lago d’Averno. Dalla parte d'oriente è la grotta della Sibilla Cumana, un tempio d’Apollo, la Palude Acherontica, oggi delta il Lago della Goluccia. Sulla costa si vedono ancora le rovine dei templi d’Ercole, di Diana, di Venere, delle Terme di Pisone, del sepolcro d’Agrippa e di moltissimi altri romani. Non lungi si vede pure il promontorio Miseno, sì celebrato da Virgilio, ove esistono ancora le rovine della città.

Cinque miglia dal promontorio Miseno è Cuma, antica città, fondata dai Greci sur uno scoglio. Ora è un semplice forte. In vicinanza vedesi un arco trionfale, detto l’Arco Felice, formato di grosse pietre quadrate di marmo, e non molto lungi si vedono le rovine del tempio dei Giganti. Due miglia più lungi si vedono ancora le rovine del sepolcro del grande Scipione.

Oltre le ricordate città nella Terra di Lavoro già Campania Felice, merita di ricordare:

Sorrento, la cui antichità apparisce dalle rovine de’ templi di Cerere, della Fortuna, e di Minerva, la quale seguendo anch’essa la sorte delle altre città del Regno, fii un tempo colonia de’ Romani. Essa diede in ogni età uomini illustri in lettere e nelle armi, e tra gli. altri Torquato Tasso.

Capua, che dalla sua situazione ebbe il suo nome. Fu fabbricata dagli Osci ed in breve tempo divenne capo (caput). Le sue ricchezze e la fertilità del suo territorio la resero ardita di gareggiar coi Romani, proponendo al senato di fare ogni anno un console romano ed uno di Capua, locché rese i Romani nemici. Venuto Annibale in Italia dopo la battaglia di Canne, si unirono i capuani con esso e le delizie della città impedirono ad Annibale di prender Roma. Genserico re de’ Vandali la distrusse interamente, ma fu rifabbricata due miglia più lungi alla sponda del Volturno da Landone conte di Capua e da Landolfo suo vescovo. Ruggiero re di Napoli nuovamente la devastò, indi la rifabbricò dandola col titolo di Principato a suo figlio. Di là del Volturno si vede nella campagna gran quantità di rovine dell’antica Capua che dinotano la sua passata magnificenza. A Capua finisce la via Appia. Attualmente è bene fortificata e può dirsi il baluardo del regno. È patria di parecchi uomini insigni, come di Onorio Papa, e di altri cardinali e prelati.

Gaeta è città molto antica e se ne attribuisce la fondazione ad Enea ed ai popoli di Samo. Giace a pie’di una montagna ed è sì ben difesa da due colline che la fiancheggiano, che può annoverarsi tra le migliori fortezze d’Italia. Tra le sue singolarità meritano osservazione le tombe di Munesio Plauco, del contestabile di Borbone e del principe d’Assia Philipsthat.

Oltre a queste quindici Provincie di terra ferma appartengono inoltre ai Dominii al di qua del Faro:

1.° Le isole Tremiti situate nell’Adriatico, che fanno parte della Provincia di Capitanata e che portano il nome di Caprara, San Domingo e San Nicolò.

2.° Le isole in faccia al golfo di Gaeta poste sul mar Tirreno, che sono Ponza, Palmira, Zannone, Formiche, Botte, Ventotene e Santo Stefano.

3.° Le isole presso il golfo di Napoli, tra Capo Miseno e la punta della Campanella, che sono Ischia, Procida, Nisida, Capri e Sirene.

Gli Abruzzi, che sono le provincie più vicine all’Italia inferiore, formano un vero baluardo che s’avanza a più di cento chilometri negli Stati della Chiesa. Essi sono percorsi da due strade fatte dall’ultimo Re e le quali mettono dal nord al mezzogiorno; l’una termina verso Aquila e l’altra a Pescara, città di circa 3000 anime e che potrebbe risguardarsi come la vera chiave degli Abruzzi, se le sue fortificazioni, la cui costruzione risale al 1530, fossero riedificate e ben difese. Le montagne che attraversano questa contrada sono collocate fra quelle di prim’ordine; esse però non arrivano alla regione delle nevi e generalmente sono nude e scoscese. Esse formano una difesa naturale assai forte e presenterebbero grandi vantaggi ad un’armata seria che volesse respingere un’invasione.

Superata che sia la catena principale, il paesG presenta ancora grandi ostacoli per un’armata invaditrice, sia pel numero considerevole di vallate selvatiche e di burroni, che vi s’incontrano. In mezzo di queste naturali difficoltà, la sola infanteria può muoversi. Gli abitanti degli Abruzzi, rozzi ed indipendenti, in generale sono pastori, attaccati molto ai loro costami, alle loro abitudini ed alla loro religione. Il loro paese presenta poche risorse per un'armata.

Dopo gli Abruzzi, le Calabrie, dal punto di vista topografico, figurano la regione più interessante. Esse occupano una vasta penisola avente 260 chilometri di lunghezza, sopra 80 di larghezza, situata nella parte più meridionale dello Stato. Le Calabrie, nell’antichità, furono rinomate per la loro fertilità, e sebbene attualmente varie piagge lunghesso il mare sieno interamente incolte ed abbandonate, le valli si fanno ammirare per tutte le ricchezze d’una natura meridionale, e le montagne, assai numerose, sono coperte di magnifiche foreste. l'calabresi hanno un carattere più fermo che gli abitanti degli Abruzzi, uno spirito assai militare e fornivano numerosi soldati all’armata napoletana.

In breve, eccettuato qualche distretto, il suolo del Regno di Napoli, in gran parte di origine vulcanica, è ricco, e fertile.

Il regno racchiude numerose città, ha eccellenti porti e costituisce evidentemente la parte più ricca d’Italia.


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II.

Il Governo napoletano dà opera per respingere la minacciata invasione. Il comando delle truppe regie è assunto dal generale Pianelli or ministro della guerra. A Bosco è affidato il comando di una divisione nelle Calabrie, alla volta delle quali furono spediti 16,000 regii, e dove si pianteranno tre campi, cioè a Reggio a Monteleone ed a Paola.

L’esercito che ora si trova nelle Provincie continentali ascende a 80 mila uomini. Da 27 a 30 mila uomini sono concentrati nella capitale e intorno la capitale; il resto è scaglionato verso le Calabrie e dove a quest’ora sono concentrati 20 mila uomini.

Il Governo potrebbe porre circa 35 mila uomini di truppa mobile contro Garibaldi.

Pianelli è un giovane generale che nell’esercito napoletano gode di molta riputazione militare ed è generale che ha saputo tenere compatto ed in buona disciplina il suo corpo. Egli si è circondato degli elementi i più energici ed attivi, di ufficiali cioè il cui programma è di vincere l’insurrezione per rivendicare quello ch’essi considerano l’onore delle armi napoletane, di conservare l’autonomia, e la dinastia e la Costituzione. Il Governo può dirsi ormai personificato in Pianelli.

I provvedimenti militari poi che prende il Governo napoletano sono vastissimi p mostrano la risoluzione di una disperata difesa. E veniva 'asserito che la Corte avesse concluso accordo con Lamoriciére, generale dello Stato Pontificio, invitandolo ad unirsi coll’esercito napoletano ed ordinando a Pianelli d’intendersi-con lui per la difesa.

CAPITOLO SECONDO

Proposta d’alleanza fatta dal Re di Napoli al Re di Piemonte e successiva protesta del Gabinetto napoletano

I.

Fin dal 10 luglio partì per Torino l’inviato napoletano Canofari latore di proposizioni indirizzate al Governo sardo. Ai 18 dello stesso mese il ministro delle finanze Manna, il barone Winspeare, nominato ministro plenipotenziario presso il re di Piemonte, in sostituzione all’inviato Canofari, chiamato ad altro posto, ed il sig. Bianchini, nominato primo segretario della Legazione a Torino, partirono per quella capitale dopo aver avuto col Re una lunga conferenza, Nel 24 luglio alle ore 10 e mezzo i signori Manna e Winspeare furono ricevuti in udienza da S. M. il re di Sardegna.

Le proposizioni che il Governo napoletano faceva al Governo della Sardegna erano distinte: La prima, riguardante la Sicilia, portava il ritorno dell’isola sotto la dominazione della casa di Napoli; essa però si formerebbe da sè stessa una particolare costituzione mediante il Parlamento da convocarsi secondo le regole prescritte dallo Statuto del 1812. Quanto a Napoli, le basi della sua alleanza colla Sardegna, per quello che concerne il Reame, erano fondate sui seguenti elementi:

Costituzione simile alla piemontese unità dì pesi e misure, abolizione delle dogane, tariffe daziarie fra le due nazioni sorelle, abolizione dei passaporti fra sudditi dei due paesi e finalmente scambio di truppe e guarnigioni in talune fortezze dei Reami. Ma condizione sine qua non a queste concessioni che il Governo di Napoli farebbe in vantaggio degl’interessi italiani e dell’unità federale della Penisola, era la ristorazione del dominio napoletano sulla Sicilia giusta l'Atto sovrano 25 giugno.

Le proposte del Gabinetto sardo dicevansi all’incontro consistere nei seguenti punti: 1.° Si attenderà che la Costituzione promulgata entri in attività e che, fatte le elezioni e convocate le Camere napoletane, il paese possa esprimere il proprio sentimento circa le concessioni che il re di Napoli fece a‘ suoi Stati. Il re di Sardegna deve anzi tutto conoscere se i napoletani considereranno la data Costituzione come soddisfacente ai loro voti e come distruttrice delle cause del loro malcontento e dei loro reclami; 2.° Il re di Napoli farà cessare qualunque guerra civile colla Sicilia; egli non cercherà colla via delle armi di far rientrare i siciliani nel suo dominio; essi saranno liberi di pronunziarsi sulla loro sorte avvenire; 5.° Il re di Napoli metterà la sua politica d’accordo con quella del Piemonte, e gli sforzi costanti dei due Sovrani, come scopo manifesto e perseverante della loro politica, sarà l'affrancamento di tutto il territorio italiano da qualunque dominazione straniera; Il re di Napoli s’adoprerà presso la Santa Sede, d’accordo col re Vittorio Emanuele, per ottenere dal Papa una Costituzione liberale ed una politica nazionale pe’ suoi Stati e la ratifica  del voto delle Romagne.

Queste contropoposte del gabinetto sardo sarebbero anche state comunicate a Parigi per mezzo del barone Talleyrand e del cav. Nigra.

II.

In uno dei primi abboccamenti ch’ebbero luogo tra il ministro degli affari esterni e gl'inviati straordinarii napoletani, questi esposero che uno dei precipui oggetti della loro missione era quella di sollecitare il Piemonte a far uso di tutta la sua influenza appo il generale Garibaldi a fine d’indurlo ad abbandonare qualunque disegno che avesse mai concepito per attacchi contro il regno di Napoli in terra ferma. A questo patto, soggiungevano gl’inviati napoletani, S. M. il re Francesco II, essere pronto a sospendere le ostilità in Sicilia e ad evacuar Pisola. Il conte Cavour rispose ch'egli veramente non saprebbe quanto potesse valere l’influenza del Governo piemontese sull’animo di Garibaldi, citando a prova il fatto della spedizione in Sicilia compiutasi a totale insaputa del Governo stesso. Tuttavia, soggiunse il ministro, il Governo di S. M. sarda, per dar prova di buon volere, avrebbe accondisceso a manifestare al generale Garibaldi le buone intenzioni di S. M. Borbonica, purché Francesco II, per garanzia delle pacifiche sue disposizioni, mandasse tosto ad effetto le sue promesse riguardo alla Sicilia, sembrando cosa assolutamente impossibile che Garibaldi si acquetasse alle dichiarazioni del re di Napoli insino a clic questi si tenesse in tuia minacciosa posizione a Messina.

Il barone Manna comunicò tosto al suo Re le parole del conte Cavour insistendo vivamente per lo sgombero totale ed immediato della Sicilia e dichiarando che a questo patto soltanto si poteva concepire speranza che Garibaldi desistesse dai suoi progetti sulla terra ferma. I consigli del Manna ebbero per effetto gli ordini immediati dello sgombero della Sicilia, ordini che contemporaneamente furono trasmessi a Messina e comunicati alla Legazione napoletana a Torino.

. Era duopo che il Governo piemontese mandasse comunicazione al generale Garibaldi delle citate disposizioni del re di Napoli ed aggiugnesse l'espressione del desiderio che cessino le ostilità. Il conte Litta fu appunto spedito latore di tale comunicazione, nel fare la quale il Governo piemontese non si è assunta alcuna responsabilità, avendo dichiarato preventivamente di non esser punto a parte dei disegni di Garibaldi, tenendo questi celati i suoi pensieri anche ai suoi più intimi amici, e quindi di non poter in modo alcuno vincolare la libertà d’azione del dittatore della Sicilia. A tal uopo il re Vittorio Emanuele scrisse a Garibaldi una lettera del seguente tenore:

«Caro generale,

» Voi sapete che, quando partiste per la Sicilia, voi non aveste la mia approvazione. Oggi mi decido a darvi un consiglio nelle presenti gravi circostanze, conoscendo la sincerità dei vostri sentimenti per me.

» Onde far cessare la guerra tra italiani e italiani, io vi consiglio di rinunciare all’idea di passare colla vostra valorosa armata sul continente napoletano, purché il re di Napoli consenta a sgombrare tutta risola e lasciare i siciliani liberi di deliberare e di disporre de’ loro desini.

» Io mi riserverò piena libertà d’azione relativamente alla Sicilia, nel caso in cui il re di Napoli non potesse accettare questa condizione.

» Generale, seguite il mio consiglio, e vedrete ch'esso è utile all’Italia, alla quale voi agevolerete il mezzo di aumentare i suoi meriti, col mostrare all’Europa che in quello stesso modo ch'essa sa vincere, essa sa anche far buon uso della vittoria.»

Il conte Litta, apportatore della lettera reale a Garibaldi, ritornava ai i agosto in Torino colla risposta del generale che si riassume nei seguenti termini: Malgrado il suo rispetto e la sua devozione, la situazione d’Italia non gli permette di obbedire: le popolazioni lo chiamano: egli mancherebbe al suo dovere, e comprometterebbe la causa d’Italia se esitasse. «Permettetemi, sire, egli scriveva, di disobbedirvi questa volta. Quando il compito sarà finito, io deporrò la spada ai vostri piedi e vi obbedirò il resto della mia vita.»

Il conte Cavour dichiarò quindi agli inviati napoletani che Garibaldi, prevalendosi dell’indipendenza di fatto, nella quale le circostanze l'hanno posto, rifiuta di cedere ai consigli di moderazione, che il Re, nella sua alta premura per la conservazione della pace nella Penisola, aveva creduto opportuno di dargli, e manifesta chiaramente la sua intenzione di non arrestarsi nel corso delle sue ardite imprese; che in conseguenza di ciò si deve riconoscere nella condizione attuale delle cose un grave ostacolo alla buona riuscita delle trattative aperte tra le due corti; che per quanto gli sia doloroso dì vedere l'inefficacia dell'opera di conciliazione, che era stata intrapresa,

il Governo del Re non potrebbe uscire dalla sfera de’ consigli e della persuasione; ch'esso deve, anzi tutto, astenersi dal prender parte ad una guerra tra italiani, ch'esso deplora altamente. Il conte Cavour concluse cucendo ch’egli si vede costretto ad attendere che nuove circostanze offrane al Governo reale un’occasione di esercitare, con miglior successo, la propria azione moderatrice e conciliativa, ed è perciò ch'esso continua a contare sulla cooperazione degl’inviati napoletani.

III.

Il marchese La Greca era stato incaricato di proporre alla Francia ed all’Inghilterra ch’esse esercitassero una pressione su Garibaldi a fine di ottenere una tregua regolare di sei mesi onde poter meglio conchiudere i negoziati d’alleanza col Piemonte e affinché i rappresentanti della nazione potessero raccogliersi in Assemblea. Il marchese La Greca venne dal Governo francese raccomandato a quello di Londra, presso il quale egli si recò coll’indicazione che all’imperatore Napoleone sarebbe in ogni modo cosa grata il trovare, d’accordo coll’Inghilterra e senza offendere il principio del non intervento, un mezzo per salvare il trono di Napoli (1).

(1) È nota la lettera che Napoleone scrisse a Persigny, cui era appoggiato rinviato napoletano presso la corte di Londra. Eccone alcuni brani; Dite a Palmerston che dalla pace di Villafranca in poi, io non ho avuto se non un solo pensiero, cioè quello d’inaugurare una nuova era di pace a tutti gli Stati vicini e precipuamente all’Inghilterra. Mi fu difficile intendermi coll’Inghilterra riguardo all’Italia centrale, perché era impegnato dalla pace di Villafranca. Riguardo dil’Italia meridionale, io sono libero da qualunque impegno, lo non domando più altro che d’intendermi coll’Inghilterra su questo, come su altri punti; io desidero che l’Italia sia tranquilla, in qualsiasi modo, ma senza intervento straniero, e che le mie truppe possano abbandonar Roma senza esporre a pericolo il Papa.»

Lord John Russell credette quindi di non poter a meno di dichiarare al conte di Persigny, cui era appoggiato rinviato napoletano, come e perché il Gabinetto inglese, colla migliore volontà, non si trovava in istato di fare alcun passo, diretto od indiretto, a favore del re di Napoli.

L’inviato napoletano La Greca non potè ottenere neppure dal Governo francese che parole evasive, rifiutandosi esso assolutamente a prendere l’iniziativa in una mediazione. D’altro. canto, l’Imperatore, sapendo che verso Garibaldi non avrebbero giovato nemmeno i consigli del Piemonte, trovava affatto inutile di tentare il proprio. Ad ogni modo, egli promise di cooperare il meglio del Reame di Napoli.

Il re di Napoli fece a Napoleone 111 vivissime rimostranze, ed a tale riguardo si ricorda una lettera diretta a S. M. l'Imperatore del seguente tenore: «Voi mi avete consigliato di dare delle istituzioni costituzionali ad un popolo che non ne domandava; io ho aderito al vostro desiderio. Voi mi avete fatto abbandonare la Sicilia senza combattere, promettendomi che così facendo il mio Regno sarebbe garantito. Finora le Potenze sembrano persistere nel loro pensiero di abbandonarmi. Ora io devo prevenire V. M. che sono risoluto di non discendere dal mio trono senza combattere; io farò un appello alla giustizia dell'Europa, ed ella saprà che io difenderò Napoli, ove sia assalito.»

IV.

Gl’inviati del Governo di Napoli, dopo le avute risposte, dichiararono. immediatamente al conte Cavour che la missione, era finita e che essi partirebbero; ma il conte Cavour li trattenne, dimostrando loro come la risposta di Garibaldi al re di. Sardegna non fosse un motivo sufficiente per rompere i negoziati, che terà dovere reciproco dei due Stati di non troncare se non all’ultimo estremo, e quando ogni speranza di conciliazione fosse svanita; fra la dichiarazione di Garibaldi ed il compimento del suo progetto poteva nascere qualche incidente, che permettesse nuove trattative. D’altronde, stava all’armata napoletana di provare colla sua resistenza la solidità dell’ordine di cose da essa propugnato.

Gl'inviati napoletani. rimasero dunque a Torino, a negoziare l'alleanza dei due paesi, malgrado la lettera di Garibaldi e malgrado i preparativi ch'egli faceva per eseguire il programma in essa contenuto.

V.

In seguito all’occupazione della Sicilia ed alla quasi abortita proposta del Governo napoletano a quello della Sardegna, il ministro degli affari esteri di Napoli diresse ai rappresentanti delle Potenze estere accreditate presso S. M. Siciliana, la seguente circolare in data 21 agosto.

«Il generale Garibaldi, dopo aver invaso la Sicilia, non contento di aver usurpato la bandiera reale di Sardegna ed intestato tutt’i suoi atti col nome del re Vittorio Emanuele, per decreti del 5 andante, ha messo in vigore lo Statuto piemontese ed obbligati tutti gl’impiegati e le municipalità, nominate dalla rivoluzione, a prestare giuramento di fedeltà al re Vittorio Emanuele.

» Il Governo di S. M. siciliana si crede nel dovere di portare alla conoscenza di tutte le Potenze queste nuove usurpazioni e questi attentati, che conculcano le prerogative le più evidenti della sovranità, i principii più inconcussi della ragione delle genti, e fanno dipendere la sorte di un popolo dal capriccio arbitrario di una forza straniera.

» Il Governo di S. M., volendo, a costo dei più gravi sacrifizii, evitare l’effusione di sangue, sin dalla promulgazione dell’Atto sovrano 25 giugno, nel desiderio di armonizzare la sua politica con quella della Sardegna pel mantenimento della pace in Italia, ha sperato la soluzione della quistione siciliana nelle sue lunghe e persistenti trattative.

» Delusa quest’ultima speranza, il Governo di S. M. per organo del sottoscritto, ecc., si vede nell’imprescindibile obbligo di denunziare a S. E. il sig............ questi attentali, che si commettono sotto la pressione di una forza straniera in Sicilia; di protestare formalmente contro tutti gli atti che tendono a negare od indebolire i legittimi diritti del Re,

e dichiarare che non riconosce, né riconoscerà alcuna delle loro conseguenze, essendo fermamente deciso a mantenere le ampie istituzioni liberali promesse specialmente a quell’isola, e a non transigere mai sul principio, poggiato sulla storia e sul diritto pubblico europeo, che riunisce sotto la reai casa di Borbone i due regni di Napoli e di Sicilia.»

CAPITOLO TERZO

Rinforzi de’ Garibaldini e loro passaggio al di la dello Stretto

I.

Parlando delle spedizioni per la Sicilia, dicemmo che a tutto 19 luglio il numero complessivo dei volontarii dell’Italia settentrionale e meridionale partiti per la Sicilia ascendeva a poco meno di 14,000 uomini, ma altre successive spedizioni andarono ad aumentare le forze di Garibaldi.

Nel 21 luglio giunsero a Palermo a bordo di una nave francese 8000 volontarii lombardi e toscani nel tempo stesso che un altro bastimento usciva dal porto con un battaglione di volontarii che dirigevansi al teatro della guerra a Milazzo. Altri 1600 vi giunsero nel SS dello stesso mese sul Torino, bastimento della società transatlantica. Nel S4 col vapore Franklin arrivarono altre quattro compagnie di volontarii e due batterie di posizione.

Una forte spedizione provveduta d’armi, di munizioni e di viveri erasi organizzata in Genova, che dicevasi destinata a sbarcare sullo Stato pontificio. Il Governo sardo, sulle prime, affidò all’intendente di Genova di dover manifestare ch'esso Governo si opponeva a qualunque tentativo di operazione che toccasse l’attuale territorio pontificio, ma le rimostranze non riuscirono a frutto e sapevasi che la spedizione partirebbe con istruzioni che non sarebbero state conosciute se non quando la spedizione stessa non fosse più in vista delle coste genovesi.

Lo scopo della spedizione doveva essere un segreto di guerra, ignoto a tutti, anche a coloro cui veniva affidato il comando, perché anch'essi non dovevano conoscerlo se non aprendo i sigilli del loro mandato. Il Governo piemontese però li persuase a rinunziare al loro progetto. Ma la spedizione, così impedita, lasciò a poco a poco Genova con l’ordine di concentrarsi nel golfo degli Aranci vicino a Terranuova di Sardegna. Di là i volontari dovevano partire a quella volta che venisse prefissa da Garibaldi. Il deputato Bertani partì pel campo onde prendere i necessarli concerti con Garibaldi sulla spedizione di questo poderoso corpo di truppa. Giunti i volontari nel golfo degli Aranci e quando studiavano appunto per passare il tempo necessario al loro ordinamento ed a ricevere le istruzioni di Garibaldi, si avanzò la fregata piemontese la Costituzione e intimò al comandante del corpo o di andare in Sicilia o di tornare a Genova. Ogni insistenza fu vana e la spedizione prese la via della Sicilia (1). Nel 12 agosto giunse a Palermo il Torino con 1700 volontari, e nel 15 un'altra colonna di 5000 uomini.

(1) La storia di questa spedizione ci viene narrata dal Diritto nel modo seguente. Noi ne riferiremo le parole lasciando a quel giornale tutta la responsabilità.

«Una spedizione per rivoluzionare le Marche e l'Umbria, dice il Diritto, si stava attivamente preparando, e la quinta brigata si doveva formare per tentare l’impresa. Garibaldi chiamò Nicotera al comando di questo corpo che doveva organizzarsi in Toscana.

» Avanti di accettare tale incarico, Nicotera volle da sè stesso vedere se la riuscita era più o meno probabile. Di subito lasciò Palermo e visitò il Piemonte. A Genova, a Torino, a Milano trovò tutto mirabilmente disposto. I comitati possedevano tutti in abbondanza, denari, armi, munizioni, e di nulla 'erano mancanti. Pur non ostante Nicotera non voile cominciare nessuna cosa senza prima essere assicurato da solide e certe garantie.

» Un accordo venne formato dal ministro piemontese e da Bertani, mandatario di Garibaldi e de comitati.

» Nicotera, assicurato da tutto ciò, ai recò in Toscana per la formazione della brigata.

Nel 15 agosto giunse a Messina la corvetta garibaldiana la Regina d'Inghilterra, armata di sedici cannoni rigati, recando 22,000 carabine inglesi.

Il barone Ricasoli, rappresentante del ministero piemontese osserva scrupolosamente la convenzione. Egli assegna Castel Pucci, proprietà degli Ospedali, per alloggiarvi i volontarii ed egli pensa a tutto. Le armi furono consegnate per suo ordine, come pure i kepi, i cappotti, in breve, tutto quello che fu d’avanzo all’armata toscana nell’ultima campagna. Il danaro fu liberamente distribuito, ed ogni cosa andava per lo meglio. Nicotera vedeva sovente il barone Ricasoli, il quale, pieno di speranza per la buona riuscita della spedizione, nessuna cura risparmiava per assicurarle un favorevole successo.

» Tutto era all’ordine, ognuno era pronto. Le quattro prime brigate, organizzate a Parma, a Milano, ecc., stavano sulla partenza, ed il barone Ricasoli non voleva che la quinta fosse in ritardo, per cui raddoppiava di attività.

» Viene l'ordine di partire. La quinta brigata dee muovere su Perugia.

» Le rimostranze del Governo francese e la Nota dell’Austria portarono la circolare Farini.

» La spedizione partiva da Genova per isbarcare negli Stati romani; si trovava al golfo degli Aranci, aspettando il suo comandante colonnello Pianciani, allorché viene dato l’ordine dal capitano del, legno da guerra piemontese, di lasciare il golfo e muovere per la Sicilia. Quest’ordine fu eseguito. All’indomani arriva a quella volta il colonnello Pianciani co’ due ultimi legni partiti da Genova e non trova più, nessuno.

» Il generale Garibaldi, che a bella posta si era mosso da Messina per dirigere in persona questa spedizione, vedendola impossibile per lo smembramento di forze, ordina al colonnello Pianciani di seguitare anch'egli per la Sicilia, e colà sbarcaré co’ suoi volontarii.

» Chiamati a Torino il barone Ricasoli e il generale Cialdini, fu dato loro l’ordine di disciogliere il corpo di Castel Pucci e d’impedire ogni mossa di volontarii sulle frontiere romane.

» Il barone Ricasoli resiste con tutta l’abituale fermezza del suo forte carattere agli ordini ricevuti. Le armi, il danaro continuano ad affluire come prima a Castel Pucci. Una più straordinaria attività fu messa in opera; ma lettere pressanti, ordini formali e reiterati vengono da Torino a più riprese, imponendo il discioglimento dei volontarii e perfino il nome del re fu invocato.

Nelle truppe di Garibaldi s’incorporarono anche Inglesi. Ed a tale riguardo nella seduta del 16 agosto alla Camera dei Comuni il sig. Hennesser chiamò l'attenzione della Camera sulla lettera del colonnello Styles, aiutante di campo di Garibaldi,

» Alle preghiere, alle minacce, Nicotera non risponde che questo: Io ho 350,000 cartucce che voi stessi mi avete dato; i miei volontarii ed io siamo decisi di saltare in aria insieme al castello, piuttosto che scioglierci senta avere in prima adempiuto ai santi doveri che un sacro giuramento c’impose. Del resto, il vostro accordo è chiaro e preciso; io non voglio eseguire che gli ordini ricevuti precedentemente da voi. Che cosa avete da rimproverare ai volontarii che voi stessi inviaste? Nulla. Eglino si conducono ammirabilmente: perché insultate a me ed a’ miei soldati co’ vostri giornali? Perché ci chiamate mazziniani? È in soli tre giorni che Io spirito del corpo, in fino ad ora proclamato eccellente, si è cambiato? Non è molto che noi godevamo di tutta la vostra confidenza, di tutta la vostra stima; oggi fate dire che noi siamo briganti, ladri, il rifiuto insomma della società. Che vuol dire tutto ciò? Donde proviene un tanto cambiamento? Dobbiamo soffrire ancora per lungo tempo di tali trattamenti, di simili ingiurie? È egli possibile di cacciar via due mila uomini, alle orecchie dei quali siasi fatto risuonare le grandi parole d onore, di patria, di sacri doveri per chiamarli alle armi, agli occhi dei quali voi avete fatto balenare il magico prisma della gloria? Questi prodi giovani, che in me ogni fiducia riposero, dovranno essere da me abbandonati? Datemi i mezzi di trasporto, e io parto all’istante, lascio Castel Pucci. Ma, lo dichiaro, se voi non mi date quel che giustamente domando, io non mi muovo dal Castello.»

«Il barone Ricasoli, al quale Nicotera faceva questa dichiarazione, tentava calmarlo, dicendogli che, in quanto a lui, deplorava, più che ogni altro, un sì fatale impedimento/ e che nello stesso tempo lo assicurava che la forza non sarebbe mai stata impiegata per la dissoluzione del corpo.

» Nicotera, confidando in queste parole, rassicurava i sudi volontarii, i quali, chiusi da un mese a Castel Pucci, senza poterne uscire sotto qualsiasi pretesto, erano stanchi dei continui chiaccherecci e vessazioni dei loro parenti, che ogni giorno andavano a visitarli.»

Qui il Diritto segue a narrare l'arresto del colonnello Nicotera e come il Governo dovette accordare alla sua brigata di partire per la Sicilia, somministrandole i mezzi d’imbarco a Livorno.

pubblicata nel Times, la quale faceva appello ai volontari inglesi perché andassero a raggiungere l'esercito di Garibaldi. L’oratore disse, che sarebbe dovere del Governo di non permettere in tal modo la violazione dei diritti internazionali. Il sig. Shelley rispose all’oratore domandandogli perché non abbia mosso queste obbiezioni allorquando furono arrotati i volontarii in Irlanda, destinati a far parte dell’esercito del Papa. Lord Palmerston disse che non aveva notizia alcuna che fossero stati fatti arrotamenti in Inghilterra per l'esercito di Garibaldi. È fuor di quistione, soggiunse il ministro, che se i militari inglesi andassero ad unirsi a Garibaldi, quest’atto equivarrebbe ad una diserzione, precisamente come se questi militari entrassero al servizio del Papa. Le conseguenze che risulterebbero da simili atti sono bastanti ad impedire che i militari abbandonino la bandiera per l’una o l’altra destinazione. Indi lord Palmerston disse che all’epoca in cui si facevano gli arruolamenti in Irlanda per l’esercito del Papa, gli uomini interrogati sulla loro destinazione rispondevano che andavano a lavorare alle strade ferrate romane, e che gli arrolati di oggi potrebbero dire che vanno in Sicilia per visitare il monte Etna. Per quanto poi concerne la violazione delle leggi internazionali, il procuratore generale spiegò che vi erano grandi difficoltà per applicare queste leggi ai casi particolari; che il Governo non ha alcuna notizia degli arrolamenti in discorso, ma ch'esso è disposto ad applicar la legge in modo imparziale ed uniforme in tutt’i casi.

Oltre ai bastimenti comperati da Garibaldi, di cui abbiamo altrove fatto cenno, verso i primi di agosto partì dall’Inghilterra per la Sicilia il naviglio l’Independance, capace di 340 tonnellate, di 225 piedi di lunghezza e 24 di larghezza, e con macchine della forza di 220 cavalli.

A questo bastimento tenne dietro il Queen of England della capacità di 1849 tonnellate, che portava un armamento formidabile. Aveva a bordo un certo numero di cannoni rigati di Blakeley di 6 o 7 pollici di diametro, che possono lanciar bombe a tre miglia di distanza, ed anche cannoni da 13. Vi s’imbarcarono 1135 casse di carabine di Colt, 35 tende, 80 altre carabine, 10 casse di revolver,13 casse di affusti da rimonta,800 coltelli, 1150 carabine d’Enfield, una cassa di 40 pistole, due cannoni rigati, 13 cannoni da 19,40 casse di granate e 336 palle da cannone. Questo carico rappresentava un valore di 50.000 lire di sterlini, cioè 1,350,000 franchi.


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II.

Garibaldi, appena giunto in Messina, rivolse tutte le possibili cure al progetto di passar presto lo Stretto e gittare il suo esercito sul continente. Incominciò quindi dal provvedere 300 barche per operare lo sbarco di 30,000 uomini, e, per proteggere questo sbarco dal fortificare la Punta del Faro ond’essere completamente padrone di quel passaggio.

Il Faro di Messina dista da questa città un 13 miglia e forma quella punta più avanzata sul mare che riesce propriamente di fronte a Scilla. Su questa punta v’è la Torre del Faro, luogo capace di essere ben fortificato.

Alla Torre del Faro, ove lo Stretto è più angusto, Garibaldi collocò le artiglierie e il corpo del genio con poche compagnie di linea. A breve distanza, al così detto Faro superiore, egli fece accampare la brigata Sacchi.

Il generale Orsini ebbe il comando di tutte le forze di stazione al Paro e dirigeva i lavori di fortificazioni, che si spingevano innanzi colla maggior attività.

Sulla spiaggia presso il Faro e per una lunghezza in linea ricurva di quasi 200 metri si eseguirono ampii parapetti e terrapieni con l’opera principalmente del maggiore de Benedictis.

Una batteria di sei pezzi da 60 venne collocata presso la Torre del Faro che dominò tutta quella parte dello Stretto; poco discosto vennero posti in batteria varii pezzi da 80.

Batterie di pezzi da campagna con varie colubrine furono schierate lungo la spiaggia, presentando così insieme una linea abbastanza formidabile sia per la difesa che per la offesa.

Garibaldi formò quindi alla Punta del Faro un campo di osservazione, ed ha appostato batterie per impedire il passaggio di legni a lui sospetti.

III.

Per le Calabrie erano scaglionati circa 20,000 soldati regii, che si congiungevano a piccole distanze lungo la linea del mare, facendo inoltre tre campi, uno dei quali alla Melea poco distante da Scilla. E si andava formando un cordone di 56,000 per far argine ai tentativi dei garibaldini sulla terra ferma.

Il dittatore spedì armati nelle Calabrie ed emissarii nelle altre Provincie per operarvi sollevazioni. Il suo scopo, nel propagare l'agitazione su tutt’i punti ad un tempo, era quello di costringere il Governo napoletano a sguernire la capitale, in cui trovavansi concentrati tutt'i mezzi di difesa.

IV.

Nella notte del 7 agosto a Garibaldi riuscì di gittare, mediante le apprestate barche sul continente un 250 uomini comandati dal Missori, creato maggiore dopo i fatti di Milazzo, i quali raggiunsero felicemente la sponda della Calabria. Suo primo scopo era quello di sorprendere il fortino detto del Cavallo, che sta al di sopra di Scilla, proprio a rincontro della Torre del Faro, poiché calcolava che, una volta padrone anche di quel forte, che domina l’opposta sponda, impresa potevasi dire quasi assicurata, perché, incrociando i fuochi delle due sponde, si rendeva impossibile il passo ai vapori nemici. Sgraziatamente il piano non riuscì, perché i soldati, accortisi della mala partita, si difesero, e la sorpresa su cui ciecamente contavasi non fu più possibile. I garibaldini dovettero rifugiarsi nelle montagne. La colonna di Missori si riunì ad altre d’insorti calabresi e poteva aspettare aiuto tosto che Garibaldi si avesse aperto in un modo o nell’altro la strada del continente.

La notte successiva si fecero tentativi per mandare rinforzi ai pochi che trovavansi sull’opposta sponda, ma non si potè riuscirvi, perché i vapori napoletani, in numero di cinque o sei, facevano la più attiva sorveglianza e ricevevano a cannonate chiunque si avvicinava.

V.

Nella sera dell’8 agosto partì una spedizione dalla stazione di Messina pel Faro e di là s’imbarcò alle 11 pomeridiane sull’Aberdeen in numero di circa 80 carabinieri e qualche altra compagnia di cacciatori e del genio.

I vapori, il Duca di Calabria il piccolo vapore pieni di truppe, erano pronti a seguire la prima spedizione. In tutti sommavano 3000 circa. Intanto 23 barche peschereccie à sei remi, con 10 o 12 soldati ciascheduna, partirono un’ora prima per la Calabria; fra questi erano 40 guide. Venti barche, sotto il comando del maggiore Rossi, eseguirono lo sbarco, senza trar colpo, ma tre di esse, deviando dalla rotta per un errore imperdonabile, si presentarono sotto un forte, che non è quello che domina lo Stretto, e salutale da due colpi di cannone e da qualche, fucilata, tornarono indietro con alcuni feriti.

Intanto si sparse l’allarme sulla linea napoletana, e tutti i legni della crociera si misero in moto, sicché la sorpresa che doveva farsi al forte opposto al Faro, andò fallita e lo sbarco restò impedito pel rimanente della spedizione. Non si è potuto andare in soccorso de’ 200 sbarcati, i quali s’internarono nelle montagne e i regii non osarono attaccarli.

VI.

Verso un’ora di notte del 15 agosto le truppe garibaldiane scaglionale alla Punta del Faro furono chiamate sulla spiaggia per assistere ad un fuoco d’artiglieria e moschetteria che si faceva sopra l'opposta sponda calabrese in una estensione di quasi due miglia.

S’ignorava il motivo di quel combattere, in quanto che in quella sera non si tentavano sbarchi. Si suppose che fosse la truppa sotto Missori, che, unito agFinsorti calabresi, avesse attaccato la posizione dei regii. Vennero per ciò spedite in tutta fretta barche in ricognizione e tutte le cannoniere disponibili. Il fuoco durò vivo per più d’un ora, e quindi a poco a poco si estinse.

Una barca, al suo ritorno, portò seco cinque marinai che aveva trovato in mezzo dello Stretto, i quali narrarono che nel dopo pranzo di quel giorno erano ivi entrati con un brick proveniente da Malta, carico di armi e di munizioni, per isbarcarli in Calabria. Cessato il vento, il bastimento non potè avanzare. Sopravvenuta la notte, la corrente contraria lo respinse sulla costa calabrese, dove le truppe regie gli aprirono contro il fuoco di artiglieria e moschetteria, che si Vedeva dall’altra parte dello Stretto e che diede l'allarme alle truppe garibaldiane.

Il brick rimase arrenato sulla spiaggia in potere de’ regii. L’equipaggio cercò di salvarsi gittandosi in mare. I cinque, di cui si parlò più sopra, vennero raccolti dalle barche di Garibaldi; degli altri non si sapeva che cosa ne fosse avvenuto; soltanto di quattro seppesi poscia essere caduti in mano dei regii.

VII.

A’ piccoli sbarchi già operati nei precedenti giorni dai garibaldini sulle coste della Calabria successe finalmente lo sbarco del grosso della truppa de’ volontarii.

Il 19 agosto, alle 10 pom., Garibaldi si recò al Faro. Alle ore una del 20 rientrava a bordo del col suo stato maggiore e col comandante la 13. divisione a Messina.

Alle 5 partiva per Giardino ad ispezionare la brigata Bixio. Alle 9 tutte le truppe erano imbarcate, 5000 uomini in due vapori, il Torino ed il Franklin. I due vapori partirono facendo mostra di bordeggiare alla volta di Catania. Verso le 10 e mezzo, avendo veduto che il passaggio non era sorvegliato, il Franklin con bandiera americana si portò a tutta macchina verso un «paese alla destra di Reggio, lasciando il Torino in osservazione.

Il generale, veduta la spiaggia deserta, fu il primo a portarsi a terra. In meno di un’ora lo sbarco del Franklin fu compiuto. Intanto un fumo lontano annunziava che due vapori si avvicinavano a tutta forza. Allora il Franklin fece segnale al Torino, perché tosto si recasse ad operare lo sbarco a sua volta. Bixio ordinò che questo vapore s’investisse per assicurare lo sbarco. Sopraggiunse il bastimento napoletano il Fulminante e prese a cannoneggiarlo. In mezzo a tutto questo e mentre si operava lo sbarco, si vedeva da lontano venire un altro vapore. I regii lo credettero garibaldiano, e, temendo di essere presi fra due fuochi, andarono a fare una ricognizione. Il nuovo vapore era delle Messaggerie imperiali. Al loro ritorno i regii trovarono che Garibaldi aveva compiuto lo sbarco senza la perdita di un sol uomo. Il Franklin lavorava da due ore per salvare il Torino, ma vedendo ritornare i regii, issò bandiera inglese e si ritirò a Messina.

CAPITOLO QUARTO

Situazione delle cose In Napoli

I.

La situazione della città di Napoli si fa sempre più critica. Il potere supremo è sopraffatto dalla rivoluzione, che cerca di spingerlo fino agli estremi. Nessuno ha fiducia nell’avvenire e i regii costernati si preparano alla lotta che si sente vicinissima.

Non si parla che dello sbarco di Garibaldi sul continente. Le notizie a tale riguardo si succedono e tengono i regii in continuo allarme. Il Governo fa molto assegnamento sulla truppa e confida di respingere qualunque attacco. I provvedimenti militari che prende sono estesissimi e mostrano la risoluzione di una disperata difesa.

In Napoli si parla anche di ricorrere a un bombardamento ove la rivoluzione osasse alzare la testa. Egli è per ciò che molte persone si allontanano dalla città, chi prendendo la via della campagna, chi imbarcandosi per altri paesi.

Il ministero si trova tra due forze contrarie che cercano di combatterlo: i liberali da una parte che vogliono l’unità italiana, e i reazionarii dall’altra che vorrebbero il ritorno dell’antico despotismo. Posto su questo orribile letto di Procuste, il ministero non può lunsigarsi di uscire trionfante dalla lotta e non può augurarsi lunga vita, perché debb’essere vinto o dal partito liberale o dai retrogradi assolutisti.

II.

Nella notte di lunedì 13 agosto un grave allarme si sparse in Napoli ali’ udire parecchi colpi di cannone in alto mare. La guardia nazionale accorse ai quartieri la truppa uscì tutta e si schierò parte con cannoni nella spianata della Reggia, parte in altri punti della città. Tutt'i generali corsero alla Reggia. Al rompere dell’alba del 14 si seppe la causa dell'allarme.

Intorno alle ore 12 della notte del 13 la lancia di ronda nel porto di Castellamare e la sentinella del vascello il Monarca intravvidero un vapore, senza fanali, che tentava di approssimarsi al detto vascello. Il vapore era il caduto in potere di Garibaldi.

Il secondo comandante del vascello, capitano di fregata sig. Acton, fu sollecito d’ingiungere a quel vapore di prendere il largo, ma vedendo che esso sempre più tentava di abbordare il Monarca, dispose che si aprisse il fuoco.

Le lance del vapore Veloce intanto studiavansi tagliare gli ormeggi e dare al vascello l'abbordaggio; ma vinte dal fuoco vivissimo aperto contro esse, ed il vapore stesso da quello del castello, si ritirarono, prima mascherandosi tra altri legni, ch'erano nel porto, e poscia prendendo il largo.

In Vico Equense si è trovata affondata una lancia che apparteneva al Veloce, ed un’altra è stata catturata.

Dicevasi che dodici ufficiali subalterni erano stati guadagnati dai garibaldini; che erasi indicato il calibro dei 90 cannoni già al loro posto, e che il vapore assalitore era pieno di munizioni per quei cannoni. Dicevasi pure che, essendo il vapore Veloce giunto prima del tempo stabilito, uno dei complici avesse gridato: È troppo. Questo grido avrebbe dato l'allarme e fatto accorrere il capitano Acton, il quale ordinò la resistenza.

Il capitano Acton riportò nell’azione una ferita non pericolosa; due marinai rimasero pure feriti ed uno morto.

Il cavalier Piola, ministro della marina palermitana, rimase assai sconfortato dal mal esito del colpo di mano tentato a Castellamare. Egli si lodava soltanto della bravura e dell’intelligenza dimostrata dai bersaglieri che aveva a bordo, ma diceva che uomini di mare, i quali dovevano servire alle imbarcazioni d’abbordaggio, mancarono assolutamente al loro dovere. Sosteneva che se i marinai avessero eseguito esattamente le loro istruzioni, come fecero le truppe di bordo, il Monarca sarebbe caduto indubitatamente in loro mano, e che la confusione e l’incertezza nata nelle imbarcazioni, allorché scoppiò l'allarme a bordo del, rese impossibile l'assalto, di modo che, per evitare più gravi disastri si dovette sonare a raccolta o battere la ritirata.

III.

Dietro a questo fatto venne pubblicata la seguente ordinanza del maresciallo di campo Giosuè Ritucci, comandante della piazza e provincia di Napoli, con cui viene dichiarato lo stato d’assedio:

«Per effetto di determinazione presa dal Consiglio dei ministri, dietro dimostrazioni e fatti ostili già avvenuti in Castellamare ed in altri punti, viene dichiarato lo stato d’assedio nella capitale e provincia di Napoli, a norma dei corrispondenti articoli della reale ordinanza di piazza, che avranno il pieno loro vigore dal momento che il pubblico ne prenda conoscenza con quest’atto.

» Dovendo in conseguenza io prendere l’assieme del comando per tutelare l’ordine pubblico, sono nella fiducia che tutti gli abitanti di questa nobile capitale, nella loro avanzata civiltà ed inclinazione pacifica, concorreranno al bene del paese volonterosamente e con tutti i loro mezzi, evitando il soffio malefico dei nemici della pace, e si atterranno all’esecuzione dei dettami della legge, a cui ogni onesto cittadino debb’essere ubbidiente. £ così la insigne città di Napoli splenderà, anche nell’attuale occasione, di quella gloria della quale si è sempre coverta.

» In conseguenza di ciò sono a disporre:

» 1.° E' inibito ogni attruppamento maggiore di dieci persone, il quale verificandosi, dovrà essere subito sciolto dalla forza, sia di truppa o di guardia nazionale, che dovrà preventivamente avvertirlo per due volte onde far uso delle armi, se dispiacevolmente non si vedesse corrisposta.

» 2.° È proibita non meno ogni riunione clandestina nelle abitazioni sotto il titolo di comitato, o altro, i cui tragressori saranno arrestati.

» 3.° È proibita l’asportazione di armi, tanto da fuoco che bianche, e coloro che saranno colti in difetto, saranno arrestati per essere giudicali militarmente.

» 4.° È proibita del pari l'asportazione dei grossi bastoni, e si procederà come si è espresso per le armi.

» 5.° L’uso delle pietre sarà trattato in egual modo.

» 6.° Infine i chiassi, le voci sediziose ed altro da produrre tumulti verranno represse colle precitate norme, ed i promotori ed esecutori arrestati.»

Nel successivo giorno al fatto di Castellamare il ministro della guerra napoletano pubblicò il seguente ordine del giorno:

«Nei momenti difficili ed allorché avvenimenti dolorosi succedono, è gran fortuna quando le istituzioni del paese rispondano allo scopo per cui furono create.

» Il Governo e la città di Napoli si ebbero questa fortuna e ne provarono, ieri a sera e questa mattina, la efficacia, perocché tentativi di disordine e l'attacco del vascello Monarca in Castellamare, furono sventati pel contegno ed annegazione addimostrati dalla guardia nazionale e dalle truppe, e pel valore della regia marina.

» Sono quindi lieto di altamente esternare il mio compiacimento e ringraziare, a nome del R. Governo, la guardia nazionale, la marina e l'esercito, e di potere affratellare questi nomi; perché la guardia nazionale e l'esercito, deputati entrambi per vegliare alla pubblica sicurezza, e mantenere e difendere le libere istituzioni del paese, lo salveranno da ogni sventura, se sempre, come ora, saran fermi, nel proposito di farlo.

» Il ministero avendo creduto di proclamare per la città di Napoli lo stato di assedio, ora più che mai la guardia nazionale e l'esercito denno stringersi insieme; che lo facciano, è il mio voto ardentissimo e il consiglio che dò ad entrambi. Uniti, qualsiasi eccesso sarà impedito, la tranquillità pubblica sarà assicurata, le nostre libere istituzioni si raffermeranno, ed i buoni cittadini plaudenti renderanno, al pari di me, grazie alla guardia nazionale e all’esercito.»

IV.

Nel giorno 15 agosto si tenne una seduta molto burrascosa dal Consiglio di Stato di Napoli. Il principe Luigi di Borbone, conte d’Aquila, zio del Re, ed il principe d'Ischitella avevano proposto di unire i bastimenti della flotta napoletana e di mandare a distruggere le barche di Garibaldi nel porto di Messina. Il ministero, unanime, si oppose violentemente a tale misura. La discussione si riscaldò da una parte e dall’altra. Il ministro della guerra Pianelli ed il generale Ischitella si diedero reciprocamente parecchie smentite. Il conte d’Aquila uscì dalla sala ed il sig. Martino si lasciò trasportare ad una requisitoria contro il principe, accusandolo di personale ambizione e conchiuse col chiederne l’esilio.

In questo medesimo giorno operavasi il tentativo di far gridare Viva la Repubblica, sperando da ciò che una collisione di partiti ne potesse nascere e produrre una lotta intestina (1).

(1) Così viene asserito dal Monitore della guardia nazionale di Napoli.

E questo farsi volea nello sciogliersi il Consiglio de’ ministri, che trovavansi riuniti nella reggia. Fin dal mattino si era dato ordine in Dogana che nulla si movesse di mercanzie od altro, essendosi denunziato che vi era là un deposito di armi pronto a distribuirsi ad una mano di faziosi per gittare il paese in una terribile conflagrazione. Il fatto provò vero il sospetto e il tentativo fu sventato. In poco d’ora, divulgatasi questa voce d’allarme, tutta la guardia nazionale fu sotto le armi, tutti convennero nei rispettivi quartieri, frequenti e forti pattuglie perlustrarono la città.

La guardia nazionale medesima, con modi gentili, cercava di rassicurare chicchessia, e fu da tanto da fare, che in poco d’ora, tutte le botteghe si vedessero nuovamente dischiuse, sbarrati tutt’i portoni e la gente rassicurata ritornare alle sue solite occupazioni.

Nello stesso giorno il principe di Borbone conte d’Aquila (2) ricevette la seguente comunicazione: «Altezza! S. M. il Re, seguendo il parere del Consiglio de’ ministri, e pensando al bisogno del servizio della sua reale marina, ordina che V. A. s’imbarchi immediatamente sul reale vapore Stromboli, ove troverà istruzioni in piego suggellato, cui V. A. potrà aprire quando sarà lontano venti miglia da terra; e ciò a fine di compiere commissioni concernenti la reale marina. Sottoscritto: Garofalo.» — Il Principe si recò dal Re, ma non potè vedere il nipote.  

(2) Il principe Luigi di Borbone, conte d’Aquila, era sospetto alla Corte di voler farsi un partito e di aspirare ad un vicariato generale, seguendo l’esempio di Luigi Filippo.

Il Principe, ricevuto l'ordine, dettò al generale Palomba, suo antico precettore e latore dell'ordine medesimo, la seguente Nota: «Ho ricevuto un piego suggellato ed un foglio del ministero. Col primo mi si dà una missione che, secondo le spiegazioni del generale Palomba, non è che un mezzo di far me stesso esecutore della volontà del Consiglio de' ministri, l’ordine della mia partenza. Me lo confessò il generale/incaricato del messaggio. Approfitto dunque dell’Archimede, per rimorchiare una goletta, sulla quale io m’imbarcherò in questa medesima sera. Se poi si vuole condurmi a bordo di quella goletta per aprire il piego in discorso in presenza del comandante, dò la mia parola di onore (e per un uomo che ha i miei sentimenti e la mia maniera di vedere, questa parola vale più d’ogni umana cosa), dò la mia parola che, nella notte e senza resistenza alcuna partirò per Marsiglia, come il generale Palomba chiese, e mi sforzerò di sollecitare gli apparecchi della mia partenza. Se una tale misura mi affligge, è unicamente perché, sempre consentaneo a me stesso, alla mia parola, alle mie azioni, amo il mio paese più della mia vita, e mi è doloroso il dividermi da lui. Questo allontanamento, che mi è imposto, nondimeno io lo subisco, facendo voto ch'esso non sia pregiudizievole al paese. Solo una cosa io avrei domandato, se me ne fosse stato concesso il tempo, di poter cioè portare con me ciò che ho di più caro, la spoglia mortale di mia figlia; ma, nella precipitazione, con cui si esige la mia partenza, non posso che lasciarla, come il pegno più sacro della mia devozione al paese, colla speranza che mi sia dato rivederla un giorno, poiché l'averla presso di me sarebbe la sola consolazione del mio esilio.

Prego S. M. di concedermi due righe di suo pugno, almeno un addio, in cambio di tutto affetto che ho potuto attestarle. Dichiaro inoltre che la. mia sposa e i miei figli partiranno sulla goletta brasiliana. Il cielo colmi il Re di felicità, protegga il mio amato paese, lo salvi dalle calamità, che lo minacciano, e vigili sulla marina, dalla quale mi disgiungo con dolore pari all’affetto. Io non obblierò mai che questo corpo è quello con cui ho diviso dalla mia infanzia tutte le mie gioie, tutte le mie pene.»

Il generale Palomba, ritornato presso il Principe, gli ordinò, da parte del Re, d’imbarcarsi, senza por tempo di mezzo, per evitare ogni effusione di sangue e risparmiare al Principe dispiaceri e mancanze di rispetto. Erasi deciso di farlo arrestare da quattro gendarmi.

E il Re gli scriveva la seguente lettera: «Mio carissimo zio. Dal momento in cui vi disponete a lasciare il nostro suolo natale, non posso trattenermi di dirigervi queste due righe per darvi con tutto l'affetto, che vi è noto, un addio. Sono persuaso che accoglierete queste assicurazioni che partono dal fondo del mio cuore. Vi prego, in nome del nostro affetto, di darmi spesso vostre nuove, e siate convinto che ip le rice verò sempre con gioia; in qualunque luogo io mi troverò, non vi dimenticherò mai. Faccio voti perché il vostro viaggio e la vostra futura dimora vi siano favorevoli più ch'è possibile, come pure alla mia zia, alla quale farete i miei più affettuosi complimenti, ed a’ miei cugini, vostri figliuoli, che stringo al mio cuore. Che il buon Iddio e la Santa Vergine ci riservino giorni migliori, prima di tutto pel bene della nostra patria, poi per le nostre famiglie. Vi prego di continuarmi la vostra antica affezione, e, in qualunque parte possiate essere, vogliate contare su’ miei sentimenti sempre costanti: adempiendo i doveri di nipote verso lo zio, con tutto il cuore vi saluto e mi rassegno, ec.»

Il Principe Luigi di Borbone mandò la principessa sua moglie, contessa di Aquila e sorella dell’imperatore del Brasile, sul vascello brasiliano. Non voile assolutamente imbarcarsi sullo Stromboli, e montato a mezzanotte del 13 sopra un yacht di piacere, di sua proprietà, si recò presso io stesso bastimento brasiliano denominato il, fece chiamare a sé il ministro del Brasile signor di Britto per istendere una protesta, che consegnò a questo diplomatico e che era del seguente tenore:

» Maestà,

» Il generale Palomba, comunicandomi l’ordine ministeriale che m’ingiunge di recarmi a bordo di un bastimento a vapore, rimettendomi il mio passaporto, mi ha dichiarato, in nome del presidio del Consiglio, il vero motivo della misura. Trattasi, mi diss’egli, che tutti mi sono avversi e ch’io dovrei, per conseguenza, sforzarmi colla più grande sollecitudine di salvare il paese da una conflagrazione e di preservare, in pari tempo, la mia vita, che non era più al sicuro, poiché i miei nemici si porterebbero in folla contro di me e mi troverei in grande pericolo.

» V. M. vede dunque che la missione, che mi è assegnata nel piego, di cui è parola, è ben lungi dall’essere seria, che mente alla realtà delle cose e che in tal caso, da uomo d’onore, da vero cittadino costituzionale e italiano, non posso astenermi, dal protestare. Ma lo faccio solo dopo aver eseguito l'ordine d'imbarcarmi, come ho fatto in questo momento, un'ora dopo mezza notte.

» Questa protesta io non intendo farla per dispensarmi dal partire. Lontanissimo dal volerlo, io lascierò Napoli, tosto che avrò potuto regolare le carte necessarie a quest’effetto. Solo io voglio dire a V. M. che i miei principii italiani e costituzionali avrebbero. meritato un'altra ricompensa, e che la nera calunnia, onde io sono colpito, è ben grave al mio cuore, che sentesi tutto differente dall'indegno ritratto che si é voluto fare di me.

» Aveva un altro motivo non meno potente per iscrivere a V. M., ed è ch'essa non si è degnata di ammettermi alla sua presenza, quando io aveva non solamente a dirle queste cose, ma ancora ad esprimerle l’immenso mio affetto, di cui essa del resto ha tante prove.

» Con tutto ciò, mi sia lecito scrivere queste poche righe per attestare la mia riconoscenza e per protestare, al cospetto di V. M., al cospetto della nazione ed al cospetto del mondo tutto, ch’io non aveva in nulla meritato la prova inflittami, e che avevo diritto di sperare ben altra gratitudine.

» Consegno questa lettera allo stesso generale Palomba. Egli potrà altresì ridire al Re i sentimenti che mi legano a S. M., al Regno, all'Italia. Sono con rispetto, ec.»


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V.

Venne stampata e diffusa a migliaia d’esemplari una lettera in data 24 agosto del conte di Siracusa al Re, colla quale consiglia il nipote di cedere alle circostanze e risparmi are una pagina sanguinosa alla monarchia. Eccone il tenore (1):

(1) Questa lettera venne già riprodotta nel fogli periodici.

«Se la mia voce si levò un giorno a scongiurare i pericoli che soprastavano alla nostra Casa, e non fu ascoltata, fate ora che, presago di maggiori sventure, trovi adito nel vostro cuore e non sia respinta da improvvido e più funesto consiglio.

» Le mutate condizioni d'Italia ed il sentimento dell'unità nazionale, fatto gigante nei pochi mesi che seguirono la caduta di Palermo, tolsero al Governo di V. M. quella forza onde si reggono gli Stati e resero impossibile la lega col Piemonte. Le popolazioni d’Italia superiore, inorridite alla nuova delle stragi di Sicilia, respingono co’ loro voti gli ambasciatori di Napoli, e noi fummo dolorosamente abbandonati alla sorte delle armi, soli, privati di alleanze ed in preda al risentimento delle moltitudini, che da tutt'i luoghi d’Italia si sollevarono al grido d’esterminio lancialo contro la vostra Casa, fatta segno dell’universale riprovazione. Ed intanto la guerra civile, che già invade le Provincie del continente, travolgerà seco la dinastia in quella suprema rovina, che le inique arti di consiglieri perversi hanno lunga mano preparata alla discendenza di Carlo 111 Borbone; il sangue cittadino, inutilmente sparso, inonderà ancora le mille città del Reame; e voi, un dì speranza ed amore de’ popoli, sarete riguardato con orrore una cagione di una guerra fratricida.

» Sire, salvate, che ancora ne siete in tempo, salvate la vostra Gasa dalle maledizioni di latta Italia!

Seguite il nobile esempio della nostra regale congiunta di Parma che, all’irrompere della guerra civile, sciolse i sudditi dalla obbedienza e li fece arbitri dei proprii destini. L’Europa ed i vostri popoli vi terranno conto del sublime sacrifizio; e voi potrete, o Sire, levare confidente la fronte a Dio, che premierà l'atto magnanimo della M. V. Ritemprato nella sventura il vostro cuore, esso si aprirà alle nobili aspirazioni della patria, e voi benedirete il giorno, in cui generosamente vi sagrificaste alla grandezza d’Italia.

» Compio, o Sire, con queste parole il sacro mandato, che la mia esperienza m’impone, e prego Iddio che possa illuminarvi e farvi meritevole delle sue benedizioni.»

La sera del 30 agosto, un telegramma venuto da Torino annunziava al Conte di Siracusa che la fregata sarda la Costituzione era posta a disposizione di S. A. e che l'ammiraglio Persano aveva ricevuto gli opportuni ordini. Nelle ore pomeridiane del 31 dello stesso mese il Conte di Siracusa s’imbarcava, accompagnato dal ministro Villamarina e dall’ammiraglio Persano a bordo di quel bastimento.

Il Conte fu ricevuto cogli onori dovuti, e s’intuonò l'inno di Savoia. Egli sbarcò a Livorno.

CAPITOLO QUINTO

Insurrezioni nella Basilicata. Patti di Reggio, Piale, Scilla e Villa S. Giovanni. Altre insurrezioni

I.

Nella provincia di Basilicata, lino dal giorno 16 luglio, scorgevasi agitazione, che nel 18 agosto si fece rivoluzione. In Potenza (1), alle 2 pomeridiane, 400 gendarmi, che dapprima parevano affratellarsi col popolo, pigliarono ad un tratto un’attitudine minacciosa e all’ordine del loro capitano Castagna fecero fuoco contro il popolo inerme. Tutto il paese si volse allora contro i gendarmi, che si ritirarono in disordine fuori della città e cedettero successivamente le armi.

Alle 10 il colonnello Boldoni con 1500 insorti si mosse da Corleto a Potenza. Il moto si estese per tutte le provincie e tosto furono in armi 15000 uomini, oltre ad alcune migliaia che per difetto di armi erano armati di falci.

Un proclama del 19, sottoscritto pel dittatore Garibaldi, da’ prodittatori Mignogna e Albini annunziava ch’era stabilito in Potenza un governo prodittatoriale per dirigere la grande insurrezione Lucana.

Gran numero di soldati napoletani e stranieri disertarono dai corpi residenti in Salerno per andare ad ingrossare le forze insurrezionali della Basilicata.

(1) Potenza, città vescovile nella Basilicata a 4 leghe S. S. 0. da Acerenza, conta 8800 abitanti.

II.

Verso il 20 agosto a Napoli vi erano quattro battaglioni di cacciatori, tre reggimenti di linea e due batterie da montagna; a Caserta, quattro battaglioni di cacciatori; a Capua, due reggimenti di linea e due batterie da campagna; a Nocera due battaglioni di cacciatori leggieri; a Nola una batteria da montagna; a Portici, due reggimenti di granatieri della guardia, uno di cacciatori della guardia, due battaglioni de’ tiragliatori del reggimento di marina; a Gaeta, un reggimento di linea e tre compagnie scelte d’altri reggimenti, sei reggimenti di cavalleria, uno di carabinieri a cavallo e due batterie a cavallo. Tutte queste truppe potevano essere concentrate a Napoli in meno di due ore e formavano un’armata di circa 48,000 uomini e sette batterie.

A Bari v’erano due reggimenti ed una batteria; a Monteleone quattro reggimenti ed una batteria, ai quali furono spediti altri cinque battaglioni di cacciatori; a Cosenza ed a Paola, un reggimento di linea ed un battaglione di carabinieri a piedi; negli Abruzzi, quattro battaglioni di cacciatori e due batterie; due compagnie del 10.° di linea a Campo Basso. Tutte queste truppe erano sul piede di guerra e formavano un totale di 90,000 uomini.

Napoli si preparava alla più viva resistenza. Il Re aveva assunto il comando supremo delle truppe. Il generale Pianelli, ministro della guerra, doveva sostenere, presso il Re, l’ufficio di maggiore generale.

Il secondo fratello del Re, il conte di Trani, comandava il primo battaglione dei cacciatori a piedi della guardia; il conte di Caserta, suo terzo fratello, ufficiale di artiglieria, la prima batteria rigata della guardia, i tre principi assistevano tutt’i giorni per più ore agli esercizii delle truppe.

III.

Garibaldi, appena sbarcato sul continente, prese il cammino delle montagne, girando le posizioni occupate dai napoletani.

Egli fece approdare al nord di Reggio (1) una quantità di piccoli sbarchi, i quali si diressero tutti verso Aspromonte, alture che dominano la strada, che da Cosenza (2) mette a Reggio, con che tenne tagliata la base d’operazione ad una parte della truppa napoletana.

Il comandante di quel corpo attaccò Bagnara (3), ove trovavasi il generale Melendez con una divisione di truppa di linea, ma girando questa posizione, si volse quindi verso Palmi. Con ciò fu minacciata l’unione del generale Melendez con Monteleone (4), ov’era il grosso dell’armata, perché gli mancava la ritirata.

(1) Reggio, o Sant’Agata delle Galline, antica città nella Calabria Ulteriore I sullo Stretto di Messina, a 80 leghe S. da Napoli, conta 7500 abitanti.

(2) Cosenza, città capitale della Calabria Citeriore a 50 leghe S. E. da Napoli. Ha 8000 abitanti.

(3) Bagnara, piccola città nella Calabria Ulteriore t a 6 leghe N. E. da Reggio.

(4) Monteleone, città un tempo assai florida, ma quasi distrutta da un terremoto nella Calabria Ulteriore presso il golfo di Santa Eufemia, a 40 leghe S. 0. da Squillace, conta 45000 abitanti.

Questa manovra fu assai destra e riuscì perfettamente. Frattanto sbarcò nel 20 agosto presso Capo dell’Armi la spedizione principale ed attaccò Reggio.

Per attaccar Reggio fu concertato che il generale Bixio, il più audace dei generali dell’armata siciliana, attaccherebbe la città di fronte, intanto che Garibaldi e Missori, girando il forte di Reggio, prenderebbero i napoletani tra due fuochi.

Le colonne si misero in marcia e, protette dal silenzio della notte, sorpresero le truppe reali scaglionate sulla grande strada di Reggio.

Erano le tre ore e un quarto del mattino quando l'avanguardia di Bixio s’imbatteva nelle vedette nemiche. Il fuoco fu subito incominciato e ben presto Fazione divenne generale.

Il comandante le truppe napoletane concentrò le sue forze e cominciò un fuoco di battaglione così ben nutrito che l'ala destra dei siciliani per un momento vacillò. Bixio, vedendo la sua destra minacciata, portò due battaglioni sul punto del pericolo e in poco tempo ristabilì l’ordine e riprese l'offensiva.

Dopo due o tre scariche, Bixio alla testa della colonna, ordinò la carica alla baionetta. La mischia fu terribile, e i napoletani, sbaragliati, si ripiegarono in massa sulla cittadella.

Intanto Garibaldi e Missori erano arrivati a tiro di fucile dal forte, e i loro cacciatori cominciavano a dirigere le carabine inglesi, delle quali erano armati, contro le cannoniere del forte. Il loro tiro era così preciso che molti napoletani rimasero uccisi sui pezzi.

Garibaldi e Bixio si avanzavano sempre, quando quest’ultimo, avendo sloggiato una compagnia di napoletani dalle prigioni della città, ch'essa aveva occupato, trovò 24 cavalli e due pezzi d’artiglieria.

Era questa una preziosa conquista, giacché Garibaldi non aveva cannoni. I cavalli furono attaccati, i cannoni furono messi in posizione e il fuoco aperto contro il forte.

Le colonne di Bixio avanzavano sempre e quelle di Garibaldi facevano la scalata. Dopo un’accanita pugna, alle ore 9 e mezzo il forte cessò dal fuoco.

Nel combattimento esterno e nell’assalto i napoletani soffersero la perdita di circa 500 tra morti e feriti e di 400 circa prigionieri. Anche le perdite del corpo di Bixio (che rimase leggermente ferito in un braccio) furono notevoli.

La guarnigione uscì coi soli fucili e bagagli personali. Rimanevano in potere di Garibaldi 8 pezzi da campagna, 2 alla paixhans da 80 e 6 da 36,12 obici,8 pezzi da posizione e più 2 mortai di bronzo, 500 fucili, molti viveri, carbon fossile, cavalli, muli, ecc.

IV.

Le truppe napoletane, dopo aver sostenuto coraggiosamente il primo attacco, ma rovesciale poscia e cacciate nella fortezza della città, e dopo aver sostenuta un’accanita pugna, dovettero ritirarsi nella posizione che i generali Melendez e Briganti avevano preso presso Piale.

Il domani di buon mattino s’impegnò nuovamente il combattimento. Essendo stata tagliata la ritirata delle brigate Melendez e Briganti, le truppe comandate dai generali Vial e Chio, che procedevano da Reggio, non trovarono in esse nessun appoggio e tutti questi corpi sono stati sbaragliati o fatti prigionieri.

Così il combattimento di Piale fu decisivo e si ebbe per risultato che tutt’i reggimenti, stanziati a Monteleone, si ritirassero in disordine.

V.

Non sì tosto fu Garibaldi padrone dell’altura di Piale, la guarnigione di Scilla, tagliata fuori dalla sua unione con Catanzaro (1), dovette capitolare.

Garibaldi domina ormai lo Stretto, sta in pari tempo a cavaliere della strada di Catanzaro ed ha libero movimento per terra ed alle coste di Reggio.

VI.

Villa di S. Giovanni è una vaga e ridente città, posta sul pendio dei monti che formano, nello Stretto, la riviera calabrese. La traversa, in tutta la sua lunghezza, la strada che mette a Reggio pel litorale. In questa città e nelle due borgate adiacenti si erano raccolte tutte le forze teste sparpagliale fra Reggio e Scilla.

I napoletani tenevano il castello del Pezzo e il rialto sopra Aniarello. Al di sopra stavano i garibaldini e sul fianco destro del nemico il corpo di Bixio.

La condizione dei regii era tale, che se si fossero ostinati a resistere, sarebbero stati tutti distrutti.

(1) Catanzaro, città nella Calabria Citeriore II a 69 leghe S. E. da Napoli. Popolazione 10,000.

Difatti, Garibaldi, fece annunciare ai regii, che, se prima delle ore 5 pomeridiane del giorno 24 agosto non si arrendevano, verrebbero distrutti, essendo per la prima volta i suoi soldati superiori in numero ai loro nemici, che sommavano a 5000.

Il generale napoletano si lasciò persuadere e stipulò una convenzione con Garibaldi, in forza della quale i soldati napoletani sarebbero usciti senz’armi e bagagli.

VII.

Un piccolo corpo di Garibaldi trae a sè nelle Calabrie tutte le forze militari e fa strada netta, mentre quello di Sargì opera nella Basilicata, in Cilento, in Salerno e così di seguito

L'insurrezione progredisce sempre più è sostituiscono governi provvisorii. In Cosenza, malgrado che vi fossero 4000 uomini di truppe reali, la rivoluzione seguì senza combattimento.

Ai 26 di agosto Tarmata del sud di Garibaldi entrò in Bagnara.

L’insurrezione scoppiò a Sora (1) e numerosi armati presero le alture per poggiare sulla provincia di Molise (1) ed unirsi ad altre armate di altri distretti. Da tutt’i punti aecorsero giovani ardentissimi a rinforzare le popolazioni sollevate.

(1) Sora, città nella Terra di Lavoro a 24 leghe N. da Napoli, ha 7200 abitanti.

(1) Molise, provincia fra l'Abruzzo, la Capitanata, il Principato Ulteriore e la Terra di Lavoro della superficie di 55 miglia geografiche quadrate. La capitale è Campobasso. Popolazione 307,100.

CAPITOLO SESTO

Deliberazioni prese in Napoli. Nuovo ministero.Il Re parte per Gaeta

I.

Nulla di decisivo è ancora convenuto a Napoli. La sorpresa che dovettero cagionare i rapidi avanzamenti di Garibaldi e lo spettacolo di una grande capitale, ove lo stato di assedio non impedisce che si apparecchino e si compiano liberamente le manifestazioni le più ostili al potere, faceva luogo ad un'altra specie di sorpresa. Si chiedeva come il Re rimanesse ancora in piedi, mentre tutto si sprofondava intorno a lui. Egli era ancora in Napoli e non annunziava per anco il disegno di partire.

II.

Nella notte del 27 si radunò a Palazzo un consiglio di generali, tra i quali v’era il generale Gerolamo Ulloa. Si disputò sulla risoluzione da prendere. I più noti esponevano i loro divisamente ma niuno veniva accettato. Il generale Pianelli, da ultimo, osservò che il distribuire l'esercito in piccoli corpi, sparpagliati per le Calabrie, tornava favorevole a Garibaldi e a danno dei napoletani; giudicar miglior provvedimento di guerra raccorre in uno l'esercito, marciare contro Garibaldi e schiacciarlo col numero e colle molte artiglierie.

Piacque il parere, e già il Consiglio era per venire in quella risoluzione, quando uscì fuori a parlare il generale Ulloa, e da quell'avveduto maestro di guerra ch'è, discoprì i vizii e gli errori del concetto di Pianelli. Dilatandosi l'insurrezione, ei disse, l'esercito napoletano non potrebbe rimaner unito; minacciato dai drappelli delle Provincie in sommossa alle spalle, ai fianchi, oltre a non poter conservare libere le sue comunicazioni, dovrebbe di necessità sparpagliarsi, non tanto per sedare i tumulti, che lo premono da tutt'i lati, quanto per aver aperta la via, in ogni caso, ad una ritirata. Il miglior partito è raccorre quanti battaglioni si possono intorno a Napoli e quindi aspettar di piè fermo il nemico in Napoli, gran deposito d'armi e di viveri, libere le comunicazioni, possibile uno sbarco a fianco del nemico, ben difeso da ogni lato l'esercito per le forti castella. Si tenterebbe la fortuna delle armi, dopo avere stancato in una lunga guerra il nemico, dopo aver lasciato le Provincie in preda ai partiti opposti e nemici. Terribile nemico Garibaldi in una guerra breve, debolissimo in una guerra lunga. Le sue Schiere non sono dirette dalla disciplina, ma dall’entusiasmo, e l'entusiasmo cessa negli assedi, difficili a sostenersi anche da ben disciplinato esercito. Essere stato lo stesso concepimento ardito di Radetzky nel 1848. Una vittoria apparecchiata con arte profonda non solo ridurrebbe a nulla l'esercito di Garibaldi, ma si ripristinerebbe l'autorità del Re, subitamente, in tutte le Provincie»

Il consiglio del generale Ulloa conseguì l’universale approvazione in quel consesso. L’esercito verrà richiamato dalla Calabria e si raccoglierà intorno a Napoli.

Anche il ministero si è adagiato nella risoluzione presa dal Consiglio di guerra.

Fu stabilito che il Re ed i Principi di Casa reale si porranno a capo dell’esercito il quale verrà diviso in tre corpi. Il primo verrà collocato ad Eboli, e avrà per capo il generale Bosco; il secondo a Capila, e il terzo a San Germano.

In caso di rovescio, l’esercito napoletano, col Re a capo, riparerà nell’Umbria e si unirà a quello di Lamoriciére. La città di Napoli, per convegno fatto cogli ambasciatori esteri, sarà dichiarata neutrale durante la guerra ed affidata alla guardia nazionale.

III.

Onde reprimere i movimenti interni, il ministro dell’interno di Napoli M. Giacchi, spedì, nel 29 agosto, agl’intendenti e sotto-intendenti la seguente circolare:

» Signori,

» Le condizioni, in che versiamo, non sono le più felici e sarebbe follia farsi illusione del contrario. Da tutte le parti vengono a questo ministero novelle di disordini e domande che vi si provegga, mandando forze regolari per contener gli animi nella moderazione e nel rispetto dovuto alla pubblica podestà ed a’ diritti de’ singoli cittadini Ma, sciaguratamente, sembra che i mandatarii dei potere non s’abbiano formata un' idea giusta dello stato del paese e de'  mezzi che sono in poter loro per resistere alla piena delle passioni politiche, che meglio si direbbero egoistiche, le quali spingono alla reazione da un canto, a contrarii eccessi dall’altro.

L'esercito (dovrebbero essi saperlo) non è in grado di molto operare per la quiete interna del Regno, distratto com’è contro le esterne aggressioni; né d’altra parte gioverebbe sempre usare il braccio militare a reprimere e contenere i perturbatori dell’ordine pubblico, quando, a conseguire lo stesso scopo, vi fossero altri modi più civili e più alle presenti condizioni accomodati.

» Le persone, cui scrivo, vorranno bene intendere il mio pensiero, senza ch'io abbia a stemperarlo in più lunghe parole. Esse sanno quali sono le forze vive del paese e le hanno tutte sotto mano. Sono i proprietarii, gli uomini d’intelligenza, quelli della Chiesa, che più predicano coll’esempio che colle parole, gli uomini in fine, di mano ferma e risoluta; resta solo che si sappiano bene ed acconciatamente adoperare. E riuscire in ciò con piena soddisfazione del Governo, non meno che del paese alla loro amministrazione affidato, è opera, non dirò facile, ma neppure ardua in modo che, a fronte di essa, debba venir meno il coraggio civile di personaggi onorevoli, pei quali non è nome vano amor di patria e sentimento del proprio dovere.

» Vi è pur da per tutto una guardia nazionale che in moltissimi luoghi ha meritato, per gli atti suoi, la universale approvazione, e dove questa fosse scarsa di numero o mal ordinata (che non crederò mai), da non ispirare molta fiducia, manca forse di quegli uomini detti di sopra, da una banda, e di altri di sufficiente abnegazione, dall'altra, per supplire a ciò che possa difettare dal lato di quella che più propriamente va dinotata sotto il nome di forza pubblica?

In tempi difficili, la forza pubblica, è nello stesso paese, occorre solo cercarla, ordinarla, indirizzarla al fine supremo della comune salvezza. E questo, sopra tutto, si domanda agli uffiziali del Governo, che sappiano suscitarla ed usarla. S’informino le signorie loro a questo gran principio della salute pubblica, ed io spero, anzi ne vado certo, troveranno, fino nei più piccoli villaggi, tanto che basti a tener testa a’ tristi sommovitori de’ popoli contro il presente ordine di cose. Degli effetti ne terrà loro gran conto la patria.»


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IV.

I ministri, col signor Liborio Romano, ch’erano l’anima del ministero, prima della fine d’agosto, avevano data la loro dimissione verbalmente, ma il Re esitava fino al dì 2 settembre, nel qual giorno, alle 7 di sera, i ministri rinnovarono le domande della loro dimissione, stendendola in iscritto e corredandola con varie ragioni, prima delle quali, se non unica, fu questa che cioè, v’erano in Corte e nell’esercito persone che accusavano i ministri di tradire il Re; perciò eglino non potevano rimanere con decoro al potere; era necessario che provvedessero al proprio onore. Il Re rimproverò ai suoi ministri di non aver arrestato nemmeno un annessionista,  sebbene molti di costoro fossero a Napoli. I ministri risposero ch'essi avevano fatto quel che poterono. Il Re prese lo scritto contenente la dimissione e consultò varii, ma nessuno accettava, nella sera del 4 il foglio uffiziale annunciava che il Gabinetto dimissionario resterebbe al potere fino alla formazione del nuovo ministero.

Tra i ministri dimissionarii v’era il generale Pianelli, che rinunciò al portafoglio della guerra ed al grado di generale perché un Consiglio di alcuni ufficiali superiori, composto dei generali Colonna, Ferrara, Cutrofiano, Bosco e dal colonnello Anzoni, spose a Sua Maestà che il generale Pianelli aveva formato il campo di Sabino per collocare l’esercito in mezzo alle Provincie ribelli, in un territorio colla mal’aria, aperto da luti’ i lati, e che per conseguenza offriva ai soldati tutta la facilità di disertare; inoltre la postura del campo era tale che, assalito da Garibaldi, era certa la rovina della dinastia alla prima sconfitta. Pianelli quindi fu surrogato da un altro.

V.

Ai primi di settembre, oltre alle Provincie calabresi era in movimento rivoluzionario la Basilicata e una parte del Principato Ulteriore. A Potenza e nella Provincia di Salerno erano instituiti Governi provvisorii. Certo Giovanni Mutina aveva sollevato il distretto di Campagna ed assunto il titolo di prodittatore. Fatto questo movimento, tutta la Provincia era insorta, meno il distretto di Salerno.

In tal modo cinque Provincie trovavansi già in potere della rivoluzione ed erano insorte anche le Puglie. Altamura, in cui erasi formato un Governo provvisorio, fu sussidiata da armati spediti da Potenza e comandali dal colonnello BolIoni.

In appresso insorse anche Terra di Lavoro e nel 2 settembre gl'insorti marciavano sopra Campobasso. Ad Ariano si era formalo un nucleo d’armati che si ponevano a marciare sopra Avellino già insorto, insieme con masse venute da Benevento. Tutto il Malese era in rivolta. A Mondragone era successo uno sbarco fatto da tre vapori. Garibaldi vittorioso andava sopra Salerno.

VI.

Nel 3 settembre di notte si seppe che Garibaldi moveva sopra Salerno e la mattina del 4 si tenne a Palazzo consiglio di guerra, in cui furono proposti tre disegni.

II primo consisteva nel concentrarsi a Salvia fra Nocera e Salerno, punto perfettamente scelto, e nelf attendere in quel luogo l'esercitò garibaldino. Questo disegno, dicevasi, aveva il vantaggio, in caso di riuscita, di liberare la capitale e di rincacciar l'insurrezione nelle Calabrie. Ma e’non fu ammesso perché si riteneva sapere in maniera sicura che Garibaldi, anziché tenere la via di terra e traversare Nocera, doveva imbarcarsi a Salerno e sbarcare direttamente a Napoli, ove il Comitato annessionista gli aveva assicurato il concorso della guardia nazionale e della marina regia. Garibaldi a Napoli avrebbe girato l’esercito napoletano in battaglia a Salvia e l’avrebbe cosi pienamente paralizzato.

Il secondo disegno consisteva nel dar battaglia in Napoli stessa. Dicevasi che strategicamente esso era il migliore.

Quella città, la quale possedé un buon arsenale, forti che la dominano, ed un sistema di strade favorevolissimo all’azione della moschetteria, è in certa guisa, imprendibile.

Il terzo consisteva nello sgombrar Napoli e concentrare, fra Capua e Gaeta, l’esercito regio, il quale, in tal caso, si appoggerebbe a due piazze forti importanti. E’ presenterebbe, dicevasi, grandi vantaggi per un esercito vero, il quale sarebbe in istato di continuare le operazioni, di far un ritorno offensivo e di approfittare delle vicende della guerra. Capua, situata sul Volturno, 30 chilometri a settentrione di Napoli, è piazza ben munita e provvista. Possedé ella una testa di ponte, dalla quale si può trarre grande partito. Ella è, dicevasi, come Gaeta, piazza più forte ancora, situala nella Terra di Lavoro, provincia i cui abitanti non sono ostili al Re. Questo progetto fu proposto e sostenuto dal generale Bosco.

Il piano del Re Francesco II era di dare una battaglia dinanzi a Napoli, ma tutto si sventò coll’entrata di Garibaldi in Napoli stessa, come vedremo in appresso.

VII.

Il piano del re Francesco II era di dare una grande battaglia dinanzi a Napoli, ma i più intimi suoi consiglieri, vedendo com’egli non potesse confidare su valida difesa, lo esortarono a partire. Francesco II, abbandonando il concetto primitivo di andare a mettersi a capo dell’armata, nel giorno 5 settembre chiamò a sé i comandanti della guardia nazionale, li ringraziò di aver conservato l’ordine e salvata la capitale, li pregò di fare altrettanto per l'avvenire, raccomandando il paese nella sua assenza, e si dispose a partire per Gaeta.

E di fatto nel 6 egli partì. Si fece precedere dai tamburi battenti e domandò al Tesoro 220,000 ducati per la cassa di Gaeta, 40,000 per quella di Capua, 880,000 per sé.

E siccome il Tesoro non aveva danaro, si è preso danaro alla Banca rilasciandole certificato di rendita.

Prima di partire il Re fece la seguente protesta:

«Dacché un ardito condottiero, con tutte le forze di che l'Europa rivoluzionaria dispone, ha attaccati i nostri dominii, invocando il nome di un sovrano d Italia, congiunto ed amico, noi abbiamo, con tutt’i mezzi del poter nostro, combattuto durante cinque mesi per la sacra indipendenza'  de’ nostri Stati. La sorte delle armi ci è stata contraria. L’ardita impresa, che quel sovrano nel modo più formale protestava sconoscere, e che non pertanto, nella pendenza delle trattative di un intimo accordo, riceveva ne’ suoi Stati principalmente aiuto e appoggio, quell’impresa cui tutta Europa, dopo di aver proclamato il principio di non intervenzione, assiste indifferente, lasciandoci soli lottare contro il nemico di tutti, è sul punto di estendere i suoi tristi effetti fin sulla nostra capitale. Le forze nemiche si avanzano in queste vicinanze.

» D’altra parte la Sicilia e le Provincie del continente, da lunga mano e in tutt'i modi travagliate dalla rivoluzione, insorte sotto tanta pressione, hanno formato dei Governi provvisorii col titolo e sotto la protezione nominale di quel sovrano, ed hanno confidalo ad un preteso dittatore l'autorità ed il pieno arbitrio dei loro destini.

» Forti nei nostri diritti, fondati sulla storia, sui patti internazionali e sul diritto pubblico europeo, mentre noi contiamo prolungare, finché ci sarà possibile, la nostra difesa, non siamo meno determinati a qualunque sacrifizio per risparmiare gli orrori d’una lotta e dell’anarchia a questa vasta metropoli, sede gloriosa delle più vetuste memorie e culla delle arti e della civiltà del Reame.

» In conseguenza noi moveremo col nostro esercito fuori delle sue mura, confidando nella lealtà e nell’amore dei nostri sudditi pel mantenimento dell’ordine e del rispetto alle Autorità.

» Nel prendere tanta determinazione sentiamo però al tempo istesso il dovere che ci dettano i nostri diritti antichi ed inconcussi, il nostro onore,. l’interesse dei nostri eredi e successori e più ancora quello dei nostri amatissimi sudditi, ed altamente protestiamo contro tutti gli atti finora consumati egli avvenimenti che sonosi compiuti o si compiranno in avvenire.

» Riserbiamo tutt’i nostri titoli e ragioni sorgenti da sacri incontrastabili diritti di successione e dai trattati, e dichiariamo solennemente tutt'i mentovati avvenimenti e fatti nulli, irriti e di niun valore, rassegnando, per quel che ci riguarda, nelle mani dell’Onnipotente Iddio la nostra causa e quella dei nostri popoli, nella ferma coscienza di non aver avuto, nel breve tempo del nostro regno, un sol pensiero che non fosse stato consacrato al loro bene ed alla loro felicità. Le istituzioni, che abbiamo loro irrevocabilmente garantite, ne sono il pegno.

» Questa nostra protesta sarà da noi trasmessa a tutte le Corti, e vogliamo che, sottoscritta da noi, munita del suggello delle nostre armi reali e controsegnata dal nostro ministro degli affari esterni, sia conservata nei nostri reali ministeri di Stato degli affari esteri, della Presidenza del Consiglio dei ministri, e di grazia e di giustizia, come un monumento della nostra costante volontà di opporre sempre la ragione ed il diritto alla violenza ed alla usurpazione.

Nel giorno 7 venne in Napoli pubblicato il seguente proclama del Re al popolo:

«Fra i doveri prescritti al Re, quelli del giorno di sventura sono i più grandiosi e solenni, ed io intendo di compierli con rassegnazione, scevra di debolezza, con animo sereno e fiducioso, quale si addice al discendente di tanti monarchi.

» A tale uopo, rivolgo ancora una volta la mia voce al popolo di questa metropoli, da cui debbo ora allontanarmi con dolore.

» Una guerra ingiusta, e contro la ragione delle genti, ha invaso i miei Stati, non ostante che io fossi in pace con tutte le potenze europee.

» I mutati ordini governativi, la mia adesione ai grandi principii nazionali ed italiani, non valsero ad allontanarla; ché anzi la necessità di difendere l’integrità dello Stato trascinò seco avvenimenti che ho sempre deplorati. Onde io protesto solennemente contro queste inqualificabili ostilità,  sulle quali pronunzierà il suo severo giudizio l’età presente e la futura.

» Il corpo diplomatico residente presso la mia persona seppe, fin dal principio di questa inudita invasione, da quali sentimenti era compreso l'animo mio per tutt’i miei popoli e per questa illustre città; cioè, garantirla dalle rovine della guerra, salvare i suoi abitanti e le loro proprietà, i sacri templi, i monumenti, gli stabilimenti pubblici, le collezioni d’arte, e tutto quello che forma il patrimonio della sua grandezza, e che, appartenendo alle generazioni future, è superiore alle passioni di un tempo.

» Questa parola, è giunta ormai l'ora di compierla. La guerra si avvicina alle mura della città, e con dolore ineffabile io mi allontano con una parte del mio esercito, trasportandomi là dove la difesa. de’ miei diritti mi chiama. L’altra parte di esso resta per contribuire, in concorso coll’onorevole guardia nazionale, alle inviolabilità ed incolumità della capitale, che, come un palladio sacro, raccomando allo zelo del ministero. E chieggo all’onore ed al civismo del sindaco di Napoli e del comandante della stessa guardia cittadina risparmiare a questa patria carissima gli orrori dei disordini interni ed i disastri della guerra vicina; al qual uopo concedo a questi ultimi tutte le necessarie e più estese facoltà.

» Discendente da una dinastia che per 126 anni regnò in queste contrade continentali, dopo averle salvate dagli orrori di un lungo governo viceregnale, i miei affetti sono qui. Io sono napoletano, né potrei senza grave rammarico dirigere parole di addio ai miei amatissimi popoli ed a’ miei compatriota.

» Qualunque sarà il mio destino, prospero od avverso, serberò sempre per essi forti ed amorevoli rimembranze. Raccomando loro la concordia, la pace, la santità dei doveri cittadini. Che uno smodato zelo per la mia corona non diventi face di turbolenze. Sia che per le sorti della presente guerra ritorni in breve fra voi, o in ogni altro tempo, in cui piacerà alla giustizia di Dio restituirmi al trono de" miei maggiori, fatto più splendido delle libere istituzioni, di cui l'ho irrevocabilmente circondato, quello, che imploro da ora, è di rivedere i miei popoli concordi, forti e felici.»

VIII.

In occasione della partenza del Re nel 6 settembre il prefetto di polizia di Napoli Giuseppe Bardari pubblicò il seguente proclama:

«Cittadini,

«Il re parte. Fra una eccelsa sventura, che si ritira, e un altro principio, che trionfando, si avanza, la vostra condotta non può esser dubbiosa. L’una v’impone il raccoglimento al cospetto della Maestà ecclissata, l’altro esige il senno, l'annegazione, la prudenza, il civile coraggio. Nessuno tra voi turberà lo svolgimento degli eroici destini d’Italia; nessuno penserà di lacerare la patria colle mani, o vindici o scellerate. Invece, attenderete con calma il dì memorando che aprirà al vostro paese la via per uscire dalle ambagi e dai pericoli, senza nuove convulsioni, senza spargimento di sangue fraterno.

Quel giorno è vicino: ma, intanto, la città resti tranquilla e non si commuova, il commercio prosegua fiducioso il suo corso; ognuno rimanga nelle ordinarie occupazioni della vita: tutte le opinioni si uniscano nel sublime accordo della patria salvezza. Per vostra tutela la polizia è in permanenza; la guardia nazionale veglia sotto le armi.

» Così, o cittadini, non renderete inutile il longanime sacrifizio di coloro, che, affrontando le crudeli incertezze della situazione, si sono immolati al reggimento della cosa pubblica, e, deviando i pericoli, che sovrastavano alla libertà vostra ed alla indipendenza della nazione, ne furono i vigili e fermi custodi. Essi proseguiranno il sublime mandato, e seno certo che la vostra concordia, l’ordinalo vostro procedere gli aiuterà ancora a vincere le difficoltà che restano; sono certo che non saranno costretti ad invocare la severità della legge contro il dissennato agitarsi dei partiti estremi; ed in tal guisa le nostre sorti saranno compiute, e la storia, se terrà conto del patriottismo dei governanti, sarà generosa dispensiera di gloria alla civile sapienza di questo popolo veramente italiano.»

IX.

Nel mentre che Francesco li partiva per mare alla volta di Capua, la sua truppa da Napoli vi si recava per terra. Le guarnigioni delle provincie vennero richiamate e ritirate.

Le truppe che si condusse dietro il Re si scaglionarono tra Caserta, Santammaro e Capua e si componevano delle seguenti forze:

1.° granatieri, Caserta;

2.° granatieri, id.;

3.° cacciatori della guardia,

1.° 2.° e 3.° dragoni, id.;

batterie, n.° 6, id.;

2.° 4.° 6.° 14° e 15.° cacciatori, S. Maria; batterie n.° 5 e 13, id.; tiragliatori della guardia e 16.° cacciatori, fra Sessa e

Caserta;

1.° usseri, id. id.;

batteria n.°4 e batteria a cavallo, id.;

batteria n.°1 da Capua a Caserta;

2.° e 3.° battaglioni esteri; 7.° 8.° 9.° e 10.° battaglioni cacciatori, nei dintorni di Capua;

2°. usseri, Santammaro.

In Napoli non restarono che 4 battaglioni di cacciatori come ausiliarii della guardia nazionale e sotto il comando del generale Desauget.

CAPITOLO SETTIMO

Garibaldi entra in Salerno

I.

In Salerno (1) erano fortemente trincerati 20,000 uomini di truppe napoletane sotto gli ordini di Bosco e di Barbalunga. Nel 4 settembre 4,000 insorti, comandati dal generale Torre, sbarcarono a Sapri (2). Garibaldi, che nel 20 agosto trovavasi a Palmi, marciava su Salerno appoggiato alla destra da Cosenz. Tra Salerno e Nocera (3) erano 40,000 uomini di truppe regie in posizioni naturalmente favorevoli alla difesa e comandate, come si disse, da Bosco, dal conte di Trani e dal conte di Caserta.

II.

Sendo le cose in questo stato, narrasi il modo singolare con cui Garibaldi entrò in Salerno:

Nella sera del 5 settembre, Garibaldi essendo andato a dormire, il colonnello Peard e due altri ufficiali di stato maggiore, proposero di andare in cerca di qualche notizia per sapere se i napoletani, accampati a Salerno, avessero veramente l’idea di attaccare le truppe di Garibaldi.

(1) Salerno, città nel Principato Citeriore a 10 leghe S. E. da Napoli, conta 11,000 abitanti.

(2) Sapri, piccola città nel Principato Citeriore con porto sul Mediterraneo; popolazione 1500.

(3) Nocera, o Nocera dei Pagani, città nel Principato Citeriore sul Sarno, a 5 leghe N. 0. da Salerno, conta 6,700 abitanti.

Presero quindi la via d’Eboli, ed arrivarono a quel villaggio distante tre ore da Salerno e cinque da Napoli, domandarono notizie e vennero a sapere che 10,000 napoletani e 8000 bavaresi erano in fatto accampati nei dintorni di Salerno e decisi di resistere. Si noti che l’avanguardia dell'armata garibaldiana era allora distante 35 miglia dal generale e 50 dagli esploratori.

Il colonnello Peard, ascoltando il comandante della guardia nazionale d’Eboli, che gli dava quei ragguagli, gli rispose con calma; «Ebbene! or pregheremo i napoletani di lasciar Salerno al più presto. Seguiteci, disse ai compagni, all’ufficio telegrafico.»

In cinque minuti essi erano a quell’ufficio. Peard prese la penna e scrisse al ministro della guerra: — «Generale, Garibaldi è qui con 5000 uomini di truppe regolari e 5000 insorti calabresi. La divisione Medici sta per isbarcare domani dietro la nostra armata, a Salerno. Seguite il mio consiglio, ritirate le vostre truppe per evitare un inutile spargimento di sangue.»

L’impiegato del telegrafo spedì il dispaccio. Si attese con ansietà. Passò una mezz’ora, ed ecco che l'ago chiama l'attenzione dell’impiegato. Era la risposta che si aspettava. Si scrisse. Cinque minuti dopo l’impiegato diede a leggere il dispaccio seguente: «Il ministro della guerra al colonnello Peard. Grazie, signore. Potete voi dirmi ove trovasi la colonna di Cardarelli che ha capitolato a Cosenza il 27 agosto?»

Peard rispose: «Ella si è unita a Garibaldi alle grida di Viva Vittorio Emanuele

Si aspettò ancora qualche tempo per vedere se il ministro avesse alcun altro bisogno, ma tutto ad un trattosi venne a sapere che uno squadrone di usseri napoletani non era distante che un miglio da Eboli. Gli esploratori lasciarono il villaggio in tutta fretta e si recarono a Sala per render conto della loro spedizione telegrafica al dittatore. Egli molto ne rise e gl'invitò ad apprestarsi a partire il di vegnente per Salerno.» — Come? senza truppe? — «Andate, rispose Garibaldi, voi vedrete.»

Infatti il dispaccio spedito da Peard aveva portato i più soddisfacenti risultati. Il ministro della guerra del re Francesco, ricevendolo, diede ordine al generale Scotti di sgombrare Salerno in tutta fretta e di ripiegarsi sopra Nocera e Capua.»

III.

Sembrerà strana la narrazione di questo fatto, ma noi la riportammo perché attestata dai giornali. Checché ne sia, fatto si è che alle 2 del giorno successivo i garibaldini partirono da Sala ed alle o giunsero a Salerno, in mezzo agli applausi della popolazione. Le brigate Bosco e Von Mechel avevano evacuato quella città ripiegandosi sopra Nocera, la cui provincia era insorta.

Nel corso della notte Garibaldi ricevette il seguente dispaccio del ministro dell’interno di Napoli, Liborio Romano, In data 7 settembre, dopo la partenza del Re:

«All'invittissimo generale, dittatore

delle Due Sicilie

» Colla maggior impazienza Napoli attende il suo arrivo per salutarla redentore d'Italia e deporre nelle sue mani i poteri dello Stato ed i proprii destini.

» In quest'aspettativa io starò saldo a tutela dell'ordine e della tranquillità pubblica: la sua voce, già da me resa nota al popolo, è il più gran pegno del successo di tali assunti.

» Attendo gli ulteriori ordini e sono con illimitato rispetto, ecc.

CAPITOLO OTTAVO

Garibaldi entra in Napoli

I.

Nel mattino del giorno 7 settembre il ministro Liborio Romano pubblicò in Napoli il seguente proclama al popolo napoletano: «Cittadini. Chi vi raccomanda ordine e la tranquillità in questi solenni momenti è il liberatore d’Italia, è il generale Garibaldi. Oserete non essere docili a quella voce, cui da gran tempo s’inchinano tutte le genti italiane? No, certamente. Egli arriverà fra poche ore in mezzo a voi, ed il plauso che ne otterrà chiunque avrà concorso al sublime intento, sarà la gloria più' bella cui cittadino italiano possa aspirare. Io, quindi, miei buoni concittadini, aspetto da voi quello che il dittatore Garibaldi vi raccomanda ed aspetta.»

Garibaldi giunse in Napoli il giorno 7 alle ore 11 e mezzo con soli cinque de’ suoi, accompagnato da tutte le deputazioni ch'erano andate, infìno a Salerno, ad incontrarlo, oltre il sindaco, il comandante la guardia nazionale ed il ministro dell’interno napoletano sig. Liborio Romano. Fu accolto con entusiasmo.

La squadra napoletana, composta di due vascelli e 16 fregale a vapore, più una trentina tra corvette ed altri legni minori, inalberò la bandiera di Savoia.

Allorquando si innalzò la bandiera di Vittorio Emanuele, la squadra fece una salva di 101 colpo di cannone e tutt’i forti della città fecero lo stesso. Era stato pubblicato che si avrebbero fatti questi spari, ma, o sia che ravviso fosse stato pubblicato troppo tardi, o sia che non si fosse abbastanza divulgata la voce, o che, il popolo occupato in festeggiamenti non avesse fatto attenzione alla pubblicazione, o che mali intenzionati tentassero soffiare discordie, prendendo pretesto di una rissa avvenuta al Carmine; fatto sta che, ai primi colpi di cannone cessarono come per incantesimo le strida, il corso delle carrozze si arrestò e vi fu un momento d’esitazione. Dopo brevi istanti ricominciò la gioia e durò sino a notte prolungata.

Un solenne Te Deum fu cantato nella cattedrale.

II.

All’entrata di Garibaldi in Napoli l’ambasciatore d’Austria, quello di Prussia ed il Pontificio lasciarono la città.

La rendita salì dall’88 al 93.

Garibaldi proclamò Vittorio Emanuele e i suoi discendenti re d’Italia; confermò Liborio Romano al suo posto del ministero dell’interno; incaricò il generale Enrico Cosenz del dipartimento della guerra, e l’avvocato Giuseppe Pisanelli del dipartimento della giustizia; confermò al loro posto i direttori delle finanze Carlo di Cesare, e dell’interno Michele Giacchi;

nominò direttore di polizia l'avvocato Giuseppe Arditi, e nominò il tenente colonnello Guglielmo Desauget direttore del dipartimento della guerra agli ordini del generale Cosenz.

Egli inoltre decretò che tutt’i bastimenti da guerra e mercantili appartenenti allo Stato delle Due Sicilie, arsenali, materiali di marina, sieno aggregati alla squadra del Re Vittorio Emanuele, comandata dal generale Persano.

CAPITOLO NONO

Pretese al trono di Napoli dell'infante D. Giovanni di Borbone e di Luciano Marat

I.

Il signor H. di Lazen, segretario dell’infante Don Giovanni di Borbone, diresse nel 29 giugno la seguente lettera al ministro della Sardegna a Londra:

«Signor ministro,

» II principe D. Giovanni di Borbone, mio signore, ha veduto con dispiacere che il Governo spagnuolo abbia stimato doversi immischiare nelle cose d’Italia, trattando in singolare maniera la questione dei diritti eventuali de’ Borboni di Spagna al trono delle Due Sicilie.

» Questi diritti, che datano dalla separazione dei due paesi, sotto Carlo li, avevano per fondamento l'ordine di successione stabilito da Filippo V, e sebbene il Governo di Napoli abbia riconosciuto la regina Isabella, esso non ha punto alterato l'ordine designato per succedere alla corona di Napoli, ordine pel quale ebbe luogo la separazione dei due paesi.

» Anche nel caso, in cui tutt'i Borboni di Napoli vets sero a mancare, i diritti della corona sarebbero riversibili nella persona del principe D. Giovanni e non mai nella persona d’Isabella di Borbone.

» S. A. mi ordina di dirvi ch' egli non vuole punto immischiarsi nelle questioni d’Italia, e Che i diritti dei Borboni di Spagna alla corona di Napoli, scudo cosi lontani, come i diritti eventuali, che il re Vittorio Emanuele ha alla corona di Spagna, sono soltanto di tale natura da essere presi a pretesto per mettere disordine fra i due paesi. S. A. è oggi, inoltre, decisa a farne la rinuncia, se cosi conviene all’ordine ed alla tranquillità dell'Europa.

» Il Principe desidera che voi abbiate la bontà di far conoscere la sua risoluzione al Governo del Re.

» Ho l'onore ecc.

II.

Alcuni napoletani e si recarono a Parigi o scrissero da Napoli per offrire al principe Luciano Murat la corona di Napoli (1). In una lettera dei 19 agosto diretta a questi, il Principe prende modestamente la posizione di pretendente al trono di Napoli. Eccone il tenore:

«Desideroso di non compromettere chi mi è affezionato, e chi mi ha scritto, rispondo alle loro lettere per via de9 giornali.

» Signori,

» Ho ricevuto la vostra lettera e senza indugio rispondo. Non mi sono accette che le posizioni scevre d’equivoco e schiette: non mi farò mai ostacolo al desiderio dei popoli, quand'anche erroneo a me sembrasse.

(1) Anche un opuscolo del sig. Lizabe Buffoni, il quale era presso il Principe, sostenne il partito murattista, se pur si può chiamar partito una riunione di alcuni individui, senza seguito e che non osano rivelare i loro nomi.

» Quando la rivoluzione agita un popolo, la sola volontà popolare, liberamente espressa, può spegnere le discordie e le incertezze, perch’essa si fa legge suprema, alla quale dee sottomettersi ogni buon italiano.

» Sono parente dell’Imperatore, e però non del tutto libero; ogni azione impegnerebbe più o meno la politica francese, e nello stato presente d’ingiusta diffidenza, che parti nemiche Tanno èccitando contro l’Imperatore, cui sono tutto devoto, nulla riuscirebbe più dannoso quanto il far credere all’Europa che Napoleone III, pensoso unicamente del bene e dell’indipendenza delle nazioni, ad altro non intende che a riporre sul trono i suoi.

» Nello stato presente delle cose, giova all’Italia che venga stabilito in Napoli, più presto che si può, il Governo costituzionale, acciocché sia assicurata la libertà e cansato il pericolo dell’anarchia o di un’invasione. Tanto basta perché intendiate ch’io non m’intrometterei nei moti del vostro regno, che ove il popolo napoletano, sciolto da qualsiasi influenza esterna, avesse legalmente e solennemente manifestato il desiderio di avere in me un pegno d’indipendenza e di prosperità.  

» Forte sarei allora dell’assenso del mio cugino; allora apporterei l’alleanza francese, sola e certa sicurtà a questa nazione di durevole indipendenza.

» Sacrifico adunque ogni mio privato interesse, e del solo pubblico interesse curandomi, do fine ripetendo quel che già dissi altrove, cioè che l'Italia, a parer mio, ritroverà in una confederazione l'antica sua potenza e il prisco splendore.

» Ricevano, o signori, l'espressione della mia particolare stima.

Il principe Murat diresse poscia al compilatore del Moniteur, nel 1 settembre, il seguente richiamo contro l'interpretazione data dallo stesso Moniteur alla sua lettera del 9 agosto:

«Signore,

» Debbo far richiamo contro l’interpretazione data alla mia lettera dal Moniteur di ieri. Io non ebbi mai la pretensione d'impegnare anticipatamente né la politica dell’Imperatore, né r alleanza della Francia. Ma penso, e ho voluto dire, se, fuori di ogni influsso straniero, il suffragio universale si manifestasse in mio favore, il voto delle popolazioni non sarebbe senza dubbio meno rispettato per Napoli, di quel che lo fu per le altre parti d’Italia.»

Ora lasciamo Garibaldi a Napoli e andiamo a vedere i fatti che si compirono nello Stato Pontificio.

















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