Eleaml - Nuovi Eleatici


Se dovessimo consigliare dei libri da leggere, certamente questo di Guardione sarebbe tra i primi. Uno di quei libri che avremmo preferito incontrare qualche anno fa. Ci saremmo evitata la fatica notevole che a volte si fa per capire certi eventi, dovendo leggere fra le righe dei tanti che la storia la scrivono a proprio piacere spacciandola per narrazione obiettiva dei fatti.

Fra le decine di documenti che l'autore pubblica in fondo ad ogni capitolo, il che ci pare una ottima scelta, tantopiù che li pubblica integralmente senza tagli, ve ne consigliamo alcuni che riguardano la situazione delle provincie napolitane e che vennero indirizzati al Dittatore delle Due Sicilie appena pochi giorni dopo il suo trionfale ingresso a Napoli, nel settembre del 1860.

Emerge  dai documenti l'anarchia assoluta in cui erano piombate le provincie, dove non solo si conferivano incarichi a iosa ma addirittura si decidevano imposte!

I guasti della dittatura prima e delle luogotenenze poi cominciarono ad affossarci e da allora non ci siamo più ripresi.

Guardione non è un campione di obiettività in quanto disprezza profondamente la destra storica, ma ha il pregio di lavorare sui documenti e soprattutto di sottoporli al lettore, il quale poi può decidere se la valutazione degli eventi da parte dell'autore è da accogliere o da respingere.

Insomma, un testo non certamente “borbonico”, che non deve mancare nella biblioteca di chi ama la storia del proprio paese (ovviamente parliamo delle Due Sicilie).

Buona lettura.

Zenone di Elea – 6 agosto 2013


FRANCESCO GUARDIONE

IL DOMINIO DEI BORBONI IN SICILIA dal 1830 al 1861

IN RELAZIONE ALLE VICENDE NAZIONALI CON DOCUMENTI INEDITI (VOL. II)

SOCIETÀ TIPOGRAFICO EDITRICE NAZIONALE -TORINO, 1907

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CAPITOLO PRIMO

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CAPITOLO SECONDO

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CAPITOLO TERZO

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CAPITOLO QUARTO

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CAPITOLO QUINTO.

Documenti........................................................................136

CAPITOLO SESTO.

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CAPITOLO SETTIMO.

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Agosto 2013

CAPITOLO PRIMO.

Fine della rivoluzione — Opere della Municipalità — Il proclama del Filangieri — Nuove disposizioni dello stesso contrarie all'Ultimatum e alla sincerità delle promesse — Protesta degli esuli in opposizione alle ordinanze del Filangieri — Due lettere scritte dalla Toscana — La Polizia e i cittadini — Congiure e la cospirazione del Garzilli e C.i — I Comuni per l'attentato del dì 27 gennaro — Ritrattazioni di varj de'  48 proscritti Domanda di ritorno in patria del Crispi e sua lettera — Le carte della rivoluzione — Il Maniscalco e gli agenti segreti — Il Comitato nazionale dopo la caduta di Roma — Nuovi programmi di rivolta — Condanna del Mastruzzi e C.i — Agitazioni in Sicilia e processi politici in Napoli — Giudizio del Palmerston per re Ferdinando — Le lettere del Gladstone e la risposta alle stesse.

Cessato il Governo dalle sue funzioni, fuggiti i rappresentanti del popolo, anche prima che il timore li potesse incogliere, dopo gli sforzi prodigiosi di Catania e la resa di Augusta e di Siracusa, la città di Palermo, la sola ed ultima che avrebbe dovuto sigillare col sangue la perdita della libertà, in onta al volere del popolo, che voleva retrocedere alle disposizioni del Filangieri, ebbe guida dalla Municipalità, la quale con prostrazione inviò a Misilmeri, ov'era il principe di Satriano, una deputazione, che composero uomini oscuri e celebri per delltti. Furon costoro seguiti il giorno dopo dal Riso, e in quello stesso di, dieci del maggio, recarono il messaggio delli esclusi dall'amnistia. Il console della Republica francese, il Pellisier, aveva il di 9 trasmesso al Pretore Tatto di amnistia; ormai si aggiungeva la nota di coloro che non avrebbero potuto godere dello stesso, a cagione de'  dissolvimenti che avevano travagliato la Sicilia (1); a causa de'  mali, in cui gli uomini della rivoluzione l'avevano avvolta, e pe' quali, bandiva il Governo, il popolo era soggiaciuto a miserie e dolori.

«Nomi di coloro i quali vanno esclusi dall'amnistia del general perdono che S. M. il Re N. S. concede a' suoi sudditi

(1) Al Pretore queste poche parole volgeva la Commissione: — «In discarico della nostra missione affidataci lo scorso giorno, dopo gravissimi stenti ebbimo il bene di ottenere da S. E. il principe di Satriano il notamento distinto di tutte le persone che debbono intendersi escluse dall'amnistia generale, che originalmente le accludiamo.

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Siciliani pubblicati dal Tenente Generale il Principe di Satriano nel real nome il 22 aprile 1849 in Catania e 7 maggio detto anno in Misilmeri.

«D. Ruggiero Settimo, Duca di Serradifalco, Marchese Spedalotto, Principe di Scordia, Duchino della Verdura, D. Giovanni Ondes, D. Andrea Ondes, D. Giuseppe La Masa, D. Pasquale Calvi, Marchese Milo, Conte Aceto, Abbate Sacerdote Ragona, Giuseppe la Farina, D. Mariano Stabile, D. Vito Beltrani, Marchese di Torrearsa, Pasquale Miloro, Cav. D. Giovanni S. Onofrio, Andrea Mangerua, Luigi Gallo, Cav. Alliata quello spedito in Piemonte, Gabriele Carnazza, Principe di S. Giuseppe, Antonino Miloro, Antonino Sgobel, D. Stefano Seidita, D. Emmanuele Sessa, D. Filippo Cordova, Interdonato il così detto Deputato, Piraino di Milazzo, Arancio di Pachino, D. Salvatore Chindemi di Catania, Bar. Pan cali di Siragusa, D. Giuseppe Navarra di Terranova, D. Giacomo Navarra di Terranova, D. Francesco Cammarata di Terranova, D. Carmelo Caminarata di Terranova, D. Gerlando Bianchini di Girgenti, D. Mariano Giojeni di Girgenti, D. Francesco Giojeni di Girgenti, D. Giovanni Gramitto di Girgenti, D. Francesco de Luca di Girgenti, D. Raffaele Lanza di Siragusa. — Misilmeri, 11 maggio 1849. — Il Tenente Generale Comandante in capo il corpo di Esercito della Reale Squadra Principe di Satriano».

Alle debolezze, all'inerzia e alla vigliaccheria del Governo era succeduta la indegna Municipalità, che, contrariando il popolo furente per la ruina della rivoluzione, si rendeva col Riso, cancellato dalla lista degli esclusi dell'amnistia, ossequente e servile alla volontà del Satriano, che trovò dopo pochi di, entrando in Palermo, festeggiamenti e letizia di accoglienze, che distruggevano un passato glorioso. Quando i Dalmati, dopo il trattato di Campoformio, videro rovesciata la Republica di Venezia, e le truppe austriache entrare a prendere possesso delle loro terre, grande terribile e lagrimoso spettacolo lasciarono nel consegnare la bandiera di San Marco (1). Qui le bandiere della libertà furono con tripudio consegnate a quell'uomo, che, baldanzosamente, conquistava al Borbone, con inganno, una regione tradita. Il malgoverno della Rivoluzione aveva tutto sfrondato, e il Satriano credette a'  proprj trionfi.

— Camillo Milana, parroco di Santa Croce, Bartolomeo Faja, parroco di San Nicolò la Kalsa, Michele Artale, Vincenzo Grifone, Andrea Palorno, Raffaele Tardi, Salvatore Piazza, Giuseppe Auriemma ».

(1) Cappelletti, Storia di Venezia, vol. XIII, pag. 317 ; Venezia, 1855.

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Gli uomini della Rivoluzione, cedendo sempre a puerili entusiasmi e a baldorie di piazza, non avevano ognora che distrutto, giammai edificato; sicché la Sicilia vide torbidi e assassinj; vide alimentati dalla metà dell'anno 1848 gli esempj feroci di reazione in tutte le province, specialmente nelle occidentali.

Il di 14, il Pretore, barone Riso, metteva fuori una notificazione, in cui diceva in ultimo: «Domani martedì, 15 maggio, arriveranno in Palermo le reali truppe. Esse, senza entrare in città, e girando intorno alle mura, andranno nei rispettivi quartieri. Il servizio nell'interno della città resta affidato alla sperimentata attività e solerzia del nobile corpo della guardia nazionale. Il servizio fuori la città sarà prestato dalle reali truppe. In conseguenza di questa disposizione, il nono e decimo battaglione della guardia nazionale, che sinora han prestato servizio fuori le porte, serviranno anch'essi nell'interno della città. In seguito S. E. il principe Satriano farà conoscere le benefiche intenzioni di S. M. il Re fe. E raccomandava l'ordine e la tranquillità; poiché, diceva, i soldati del Re sarebbero venuti non come conquistatori e nemici, ma come fratelli, e bisognava accoglierli come tali. Ed ora tutto era perduto, ed estinte nel popolo le forze cogl'inganni; il quale traeva, muto e indispettito, lo sguardo lontano per non rimirare e avere ricordo del consumato sacrifizio. Il Filangieri, recando oltraggio al di 15 maggio 1848, sceglieva lo stesso dì per il suo trionfo in Palermo, e nella città del 12 gennaro fu visto entrare, imperterrito, da vincitore, quando egli non aveva compiuto che l'opera assai trista e malevola di chi pone ogni sforzo di reità alla conquista. Il dì 22 maggio, con parole lusinghiere, furbesche più che sagaci, enunciò il suo proclama, che, oltre a manifestazioni bugiarde, conteneva i sensi del governo che lo avrebbe guidato.

«Siciliani! — Conoscendo la maestà del re nostro signore il modo pacifico e fraterno, col quale sono state accolte per ogni dove della Sicilia le reali truppe, meno la resistenza, che han dovuto vittoriosamente respingere in Messina ed in Catania, e che hanno eliminato il disordine e tutti gli orrori di una guerra fratricida, piantando invece lo stemma della pace e facendo rinascere la speranza negli animi di tutti i suoi sudditi; conoscendo il re, per i miei rapporti, quanto debba egli confidare nella siciliana fedeltà, che può essere per un momento scossa, ma non mai rovesciata, è venuto il suo santissimo petto, sede di tutte le più generose e magnanime virtù, nel disegno di far paghi gli antichi voti dei Siciliani, dando loro per suo rappresentante la gemma più cara della sua corona,

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il suo figliuolo primogenito, erede di questo regno beato delle due Sicilie.

«Parlare qui dei meriti di quest'angelo sarebbe fuor di luogo, non essendovi angolo nei nostri paesi ove non risuonino splendide le eminenti sue virtù. Egli congiunge ad una sagacia profonda la bontà che Dio nell'Evangelo suggellò. Quindi la maestà del re nostro signore non potea fare a questa parte dei suoi reali dominii un dono più caro di quello che lo fa nel diletto figlio suo, stabilendo quelle leggi che più converranno al benessere della Sicilia, e che assicureranno la pace, il progresso e la fortuna avvenire di questa terra.

«Il re, che è fonte di clemenza inesauribile, scioglie i ceppi dei Siciliani prigionieri, e li ritorna, salvo poche eccezioni dei capi, alle loro desolate famiglie, che han pianto gli effetti dell'altrui aberrazione funesta e lagrimevole.

«Il re, consapevole nei miei rapporti della lealtà della guardia nazionale di Palermo, dello zelo, attività e fiducia che dee essa inspirare, ne consolida la instituzione con quelle modifiche che il tempo e l'esperienza sapranno meglio destare. Quind'io intendo che il suo capo si cooperi con tutte le forze al suo miglioramento, e s'impegni sempre più a meritare della sovrana fiducia.

 Siciliani, siate forti nel vostro zelo pel bene di questa terra di paradiso; comprendete che non già nelle istituzioni di sfrenata demagogia, ma in quello che l'esperienza dei secoli consiglia, sta la fortuna degli Stati. Qui non avete voi sentito una parola che guidi all'idea di forza, ma sibbene la voce del pensiero, ch'è la vera espressione del santissimo animo del magnanimo principe che ci governa. Confidate in lui, bandite il timore ed il dubbio, e la fortuna avvenire della vostra patria sarà pienamente consolidata. — Palermo, 22 maggio 1849. — II tenente generale comandante in capo, Principe di Satriano».

Questo proclama era coerente ne' concetti all'atto o ultimatum di Gaeta, al quale aveva preso parte l'ammiraglio Baudin. Il Filangieri dal dì 14 al 19 maggio rese fallace l'ultimatum, bugiardo il suo stesso dire, enunciato nel proclama. A Misilmeri il di 14 erano stati invitati i cittadini a vendere volontariamente le armi, il dì 19 si emetteva l'ordine: «Tutti li abitanti della città di Palermo e delle sue dipendenze suburbane, meno li individui della guardia nazionale, debbono, nel termine improrogabile di quarantott'ore, consegnare le armi di qualunque specie, e le munizioni da guerra di cui sono in possesso.

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Siffatto termine comincerà dalle ore venti di questo giorno, e finirà alle ore ventiquattro del dì 21... Ciascuna guardia nazionale non potrà tenere che un solo fucile ed una sola sciabola. Tutt'altro di più debbesi consegnare... Elasso il termine prescritto per la consegna delle armi, la forza militare praticherà delle visite domiciliari nelle case in cui si saprà esservi delle armi e delle munizioni celate. I contraventori alla presente ordinanza saranno considerati quali rubelli presi colle armi alle mani, e giudicati da un consiglio di guerra, che procederà in forma subitanea, verranno condannati alla pena della fucilazione. Il consiglio di guerra sederà nel R. forte di Castellammare, e le sue decisioni saranno, com'è di legge, inappellabili, ed eseguite dopo due ore, affine di dare ai colpevoli i conforti di nostra sacrosanta religione».

La scelleratezza e la ipocrisia distruggevano con quest'ordine le assicurazioni del Gaudin. Il Filangieri distruggeva la volontà del suo sovrano, contradiceva anche se medesimo. Le truppe, che dovevano tenersi lungi da'  posti della città, il dì 19 li occupavano tutti quanti. La guardia nazionale, dopo dieci giorni dalla occupazione di Palermo, era disciolta, e ciascun milite tenuto alla consegna delle armi, per non incorrere, trasgredendo, nella pena di morte. L'amnistia, che doveva comprendere soltanto i 43, siccome avevano stabilito le istruzioni del capitano Maissin, convenute col Baudin, e confermate dal Filangieri, a riprese, dal di 7 maggio al dì 22, era reso un patto bugiardo; e nel volgere di pochi giorni le prigioni di tutta la Sicilia erano gremite di cittadini, o per semplice sospetto del passato, o perché nella rivoluzione avevano formato parte del popolo della città natia.

Intanto, riprendendo il sistema di governo le passate usanze, l'Inghilterra, mal tollerandole, rivolgeva, il dì 16 settembre 1849, una Nota al Ministro degli affari esteri del Governo di Napoli, per mezzo del William Tempie, Ministro plenipotenziario in Napoli, con la quale, severa ne' modi, manifestava che il malcontento de'  Siciliani, causa de'  disordini in Sicilia, era profondo e generale, e che derivava da'  continui abusi, non interrotti e mantenuti dopo la sospensione dell'antica costituzione di Sicilia, modificata e riveduta nel 1812 sotto gli auspicj del Governo inglese, e sanzionata dal Re. Si aggiungeva ancora, che le condizioni offerte dal re Ferdinando, col proclama di Gaeta, non rispondevano alle franchige costituzionali, concludendo: «Il governo della regina, ricordandosi della parte cui fu chiamato a prendere nel comporre la costituzione del 1812, non può trattenersi

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dal far considerare al re di Sicilia ed a'  suoi ministri, che non si può giustamente ritenere avere il popolo siciliano perduto l'antico e riconosciuto diritto a quella costituzione. Il governo della regina domanda inoltre il permesso di fare osservare, che un'ulteriore sospensione degli antichi incontrastabili diritti del Popolo siciliano perpetuerebbe ed aggraverebbe vieppiù quello inasprimento degli animi che fece della Sicilia il teatro di deplorabili conflitti, e che l'unione tra Napoli e Sicilia potrebbe essere rotta da eventi interni ed esterni, cui deve pure opporsi la sagacità del ministero napolitano».

A tali detti austeri, il Ministro del Governo di Napoli rispondeva con temerità, insolenze e menzogne; allegando che la costituzione del 1812 era già caduta in oblìo, e richiamarla a vita novella sarebbe stata pura perdita di tempo. E, non tralasciando di magnificare le concessioni di Gaeta, chiamandole generose, caratterizzava come audaci le risposte negative; adducendo, che la rivoluzione siciliana non era stata l'opera di tutti, ma d'una mano di faziosi perversi, e che i provvedimenti dati dal Duca di Taormina, dalla sottomissione di Palermo, erano stati sempre ed invariabilmente diretti dal sentimento di umanità e di oblìo profondo del passato. E chiudeva il suo dire con tali espressioni: «Il sottoscritto non crede di dover mettere termine a questa sua risposta senza palesare a S. E. il sig. cav. Tempie, onde il governo di S. M. la regina del regno unito della Gran Brettagna, amica ed alleata del re suo signore, sei sappia, che in atto godesi la maggiore tranquillità, che quelle popolazioni gioiscono del loro ritorno sotto lo scettro del loro legittimo sovrano, e che S. M. ha piena fede, che se avvenimenti stranieri non verranno ad alterare la pace di cui si gode in quell'isola, tutti i suoi sudditi saranno uniti in un vincolo indissolubile di amore e di lealtà verso la sua real persona e dinastia» (1).

Le vicende funeste, non limitandosi soltanto agli sfoghi e alle crudeltà della politica, ma spaziando anche con arbitrio in ciò che concerneva la parte finanziaria, mossero assai a sdegno gli esuli, e, in quello stesso anno 1849, con vivezza di modi protestarono contro le ordinanze del principe di Satriano, colle quali abusivamente rimetteva in vigore il contributo fondiario, secondo le disposizioni delli 11 ottobre 1833 e 20 dicembre 1846, restaurava il dazio sul macinato de'  cereali, imponeva tasse sulle terrazze e finestre, un dazio sulla carta bollata e gravava la Sicilia di un debito di 20. 000. 000 di ducati, uguali a L. 83,333,335.

(1) Vedi Documenti, I.

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La protesta parve grave argomento (1), e fa menato scalpore anche prima che se ne vedesse la stampa. Tosto fu nota al Governo, e, da'  giornali politici di Parigi, riprodotta in Palermo. Il Filangieri, che la ebbe, la occultò con disdegno. Essa ora rimane un documento delle pagine storiche, e ricordarla, per rammentare tanta franchezza di liberi sensi, non i, crediamo noi, un còmpito futile.

«Protesta de'  Siciliani. — Benché profondamente convinti, che — i nostri dritti politici scritti nelle antiche costituzioni di Sicilia, raccolti e riformati nella carta del 1812, protestati e rimessi in vigore da gennaio 1848 ad aprile 1849 non sono della novella attuale usurpazione in parte alcuna cancellati o diminuiti, e che — la forza delle armi è nulla quando é spoglia della forza del dritto, — purtuttavia onde mantenere in tutti i modi illeso il loro esercizio futuro rafforzandolo con un atto emanato nello attuale stato politico — ci crediamo nel dritto e nel dovere al tempo istesso di protestare:

«Che il novello debito pubblico consolidato dall'attual Governo, che regna di fatto in Sicilia, col decreto del 18 dicembre 1849 in una anomala istituzione che é piaciuto decorare col titolo di Gran Libro del debito pubblico di Sicilia è nullo, perché non convalidato da un titolo qualunque che lo legalizzi.

«Che la violenza di un dispotismo militare potrà solo co stringere questo popolo a pagarne gli interessi e l'annuo sconto, ma che esso si riserba illesi i dritti onde non riconoscerlo, quando la prepotente forza delle armi cederà di nuovo dinanzi all'energia dei nostri imprescrittibili dritti politici.

«La Finanza Siciliana benché soggetta a tutte le spoliazioni di una finanza coloniale, pure non era gravata in gennaio 1848 che di un debito pubblico in soli ducati 12. 376. 623, 56 dei quali soli ducati 10. 136. 591, 10 fruttavano interessi, ammortizzandosi puramente la residuale cifra di duc. 2. 240. 031, 96.

«La consolidazione di un novello debito liquidato secondo il sovracitato Decreto in duc. 20.000.000, dei quali soli ducati 5,164,021,16 facevan parte dell'antico, ha oggi — più che duplicata questa onerosa partita della finanza Siciliana, — commessa un'enorme ingiustizia verso i vecchi creditori dello Stato. Giacché le rendite dei corpi morali — le annualità dei creditori dello Stato dal 1816 al 1833, e — quelle dovute agli antichi possessori degli uffici e dritti aboliti per la loro liquidazione,

(1) Vedi Documenti, II.

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le quali, arretrate poscia, vennero pagate in boni ammortizzabili per sorteggio — non sono state in modo alcuno iscritte, ma con aperta violazione dei loro titoli trascurate nelle partite consolidate.

«La Sicilia durante la sua legittima insurrezione avea contratto finanziere obbligazioni, mutuando sotto varie forme — sia d'una emissione di cartamoneta, non iscontrata nella di lei totale cifra, — sia abilitando la reluizione dei censi e canoni dovuti ai corpi morali, dei quali pagossi il capitale all'Erario Siciliano, costituendosi questo debitore dell'annuo censo o canone — sia nella forma diretta di un mutuo d'un milione di once (duc. 3. 000. 000) sborsato quasi interamente dai privati. Ora nessuno di questi legittimi impegni è stato oggi rispettato, e non curato né il dritto dei particolari, né il fatto se non altro del danaro mutuato, la cartamoneta non è stata riconosciuta siccome valor commerciabile, — la reluizione dei censi e canoni che cotanto vantaggiava la privata proprietà svincolandola, è stata nulla, e i creditori mutuatari del milione non hanno veduto rispettato il loro titolo. — oggi nessuno di questi valori figura nelle parziali somme che compongono l'enorme cifra di duc. 20. 000. 000.

«Non a liquidare né a consolidare l'antico debito o i novelli impegni della Sicilia venne adunque decretata questa novella istituzione, ma solo a garantire e privilegiare tutte le somme erogate per la rioccupazione della Sicilia — sieno i presunti crediti della corte di Napoli. Cosicché le spese di guerra, l'antico debito presunto della Tesoreria di Sicilia verso quella di Napoli, le pretensioni per la quarta dovuta dalla Sicilia in rata delle spese comuni pél regno delle due Sicilie, il Maggiorascato del Principe Satriano, creato in di lui favore per la conquista dell'Isola figurano le più grosse partite consolidate. Il suo titolo non è perciò che quella violenza; la sua validità non istà riposta che nella distruzione della Costituzione del 1812, e nella conservazione dell'unità del Reame; e la sua forza esecutiva nella tirannia d'un arbitrario potere che ci sforza a pagar sinanco il prezzo della polvere consumata e delle bombe lanciate.

«La imposizione di questo novello debito, e la destinazione onde soddisfarlo dal cespite più ricco presso tutti i popoli agricoli, la rendita cioè territoriale, è un'aperta violazione dei nostri politici diritti. — La facoltà d'imporre nuovi pesi e di stabilire l'annuo budget della Finanza Siciliana non compete secondo la Costituzione del 1812 (Parag. I del cap. II del Pot. Legis. ) che al solo Parlamento restando al Re la facoltà di assentire o dissentire puramente. — Il Decreto istesso del 1816 che annullò l'antica Costituzione e la riforma del 1812 pur tuttavia

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rispettò in parte il principio che la cifra dei dazi dee votarsi dal Parlamento, stabilendo che questa non poteva oltrepassare il valore di duc. 5. 543. 061 (cifra votata nella sessione parlamentare del 1813) senza il consenso del Parlamento. — La violazione di queste leggi fondamentali rende illegale qualunque novella imposizione, e vizia nella base il titolo degli acquirenti dei novelli certificati di rendita che si emetteranno, i quali e solo durante l'attuale usurpazione avranno un esercizio di fatto, restando sempre alla Finanza Siciliana un titolo di credito per le somme erogate.

«Il Decreto che consolida questo presunto credito all'interesse del 5 per cento non enuncia le partite che lo compongono. Solo accenna un notamente rimesso dal funzionante in Sicilia da Luogotenente, che dicesi racchiudere queste singole partite, il quale non si è reso sin oggi di pubblica ragione. Da questo istesso mutamento rilevasi che la cifra totale non oltrepassa il valore di duc. 17. 370. 924, 40. — Eppure il suddetto Decreto sfrontatamente asserisce che (secondo il notamento formatone del mentovato funzionante da Luogotenente Generale) risulta un insieme di debiti, funesto retaggio lasciato alla Sicilia da quei sconvolgimenti, per la somma di 20 milioni circa di Ducati.

«Egli è perciò indubitabile che il Governo Borbonico non ancor sicuro dei futuri eventi politici, più che al proprio pagamento in rate annuali, intenda al rimborso dei suoi presunti crediti in pronto contante — e che altro non voglia procurarsi in questa novella istituzione che un beneficio onde negoziarne i titoli con miglior vantaggio su qualche piazza d'Europa. — Certo pur tuttavia però che i suoi crediti radicalmente viziati perderanno sempre assai di valore nelle transazioni di vendita — è da sospettarsi che la residuale somma di duc. 2. 629. 006, 60 non serva che a far fronte alla perdita che egli sperimenterebbe negoziando qualora anco ritrovi compratori sovra un titolo così precario, i suoi certificati sulla piazza e nella borsa istessa di Napoli.

«Benché nullo il titolo di questo novello debito, illegale la forma della sua costituzione, usuraria la sua cifra totale, pure la forma della di lui liquidazione ne dimostra ancora l'invalidità; — giacché le sue cifre enormemente gravose sono state pesate, discusse e determinate in Napoli, non restando alla Tesoreria di Sicilia altro ufficio che l'umiliante di accettarle, senza potere né scrutinarne i titoli, né liquidarne l'ammontare, né opporre a queste presunte cifre di crediti altre legittime e valide dei crediti dell'Erario di Sicilia sulla Finanza di Napoli.

«La Finanza Siciliana esausta da 30 anni di rapine

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del Governo Napoletano, l'industria paralizzata dalle miserie del popolo, ogni forza produttiva distrutta dai dazi antichi, e dagli altri recentemente imposti (1) e da quelli che l'insaziabilità del Governo le imporranno, lo Stato aggiungerà debiti nuovi ai vecchi e legittimi, e non potrà evitare una prossima bancarotta in faccia degli antichi e dei nuovi creditori. Allorché però la Sicilia sarà restituita nel proprio esercizio dei suoi politici diritti, dichiarerà illegittimi come oggi li dichiara questi debiti novelli. E quand'anche volesse rispettare l'opera della violenza d'un Governo illegale, l'esaurimento della sua Finanza, e la necessità i sacra di riconoscere e satisfare i debiti legittimi contratti durante la rivoluzione per salvare la sua indipendenza, gliene renderebbe impossibile il pagamento» (2). ]

La fierezza della reazione era esercitata dall'alta polizia e da coloro che dovevano obedire al comando superiore. Le manifestazioni degli esuli erano credute continui complotti a prossimi i rivolgimenti da turbare la quiete e la prosperità rimessa. Si I volevano gli esuli lontani dalle regioni italiche, né si concedeva loro anche il potersi trasferire in esse: il Governo era divenuto più timoroso che nel passato; spiava ogni opera, censurando acremente le opinioni liberali, che metteva in rilievo. Un esempio assai fecondo lo porgono due lettere scritte dalla Toscana in uno stesso giorno, nelle quali sono dellneati i partiti, che dividevano i cittadini, e resi noti al gabinetto napolitano (3). Però il rigore non dava sicurezza di pace, e gli animi dippiù ' si inasprirono e si scossero fatte menzognere le promesse, che, mantenute, avrebbero potuto allontanare in parte la ferocia degli anni precedenti. Il Filangieri aveva condotto seco il gendarme Salvatore Maniscalco, ed a lui, capo della polizia, erano affidate in Sicilia le sorti delle famiglie, le quali, caduta la rivoluzione, speravano infine dal ristabilito ordine il potere tranquillamente vivere. Ma non cessarono le lotte, e gli animi più assai si accesero: il Governo voleva ridurre i cittadini ad essere un vile bestiame, ma abusi prepotenze e sangue non vinsero i più arditi, memori delle strepitose azioni del 12 gennaro.

(1) L'attuale Governo ha imposto all'entrata delle truppe Napoletane in Palermo, ben quattro novelli dazi, cioè una tassa sulle porte e finestre, un dazio sull'esportazione degli zolfi, il dazio della carta bollata, ed un aumento enorme sul dritto da riscuotersi pei permessi d'armi. — Eppure si assicura che il deficit dello Stato discusso per l'anno 1650 è di ducati 900.000.

(2) Archivio di Stato di Palermo, Ministero Luogotenenziale, anno 1850. Trovasi nelle carte, coll'epiteto di sozze, trasmesse da'  varj Comuni.

(3) Vedi Documenti, III.

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La municipalità aveva espresso: «Palermo adempie un atto di sentito dovere ritornando alla obbedienza del Principe che la Provvidenza le ha largito, e di cui tra le altre nobilissime sono preziose prerogative la Religione e la clemenza»; e la congiura, propagando sentimenti contrarj a ogni costume vigliacco, colle armi in mano si decideva a combattere ogni malvagità politica. Ricordevole è l'attentato del dì 27 gennaro 1850, noto precedentemente alla polizia. In quella notte l'ardimento di pochi giovinetti era una protesta popolare; e se male incolse a Niccolò Garzilli, a Giuseppe Caldara, a Giuseppe Garofalo, a Vincenzo Mondino, a Rosario Ajello, a Paolo De Luca, perché non coadiuvati da altri ribellanti, il Governo, nello strozzare le loro vite, fìx compreso da spavento, certo oramai che le minacce e i seminati orrori non sarebbero bastate a frenare le ire. Giudicati gl'infelici giovinetti da un Consiglio di guerra, subito, dietro gli ordini del Satriano, ebbero condanna di morte da attuarsi colla fucilazione (1), che fu eseguita entro le ventiquattr'ore. Ninna difesa li raccomandò a'  poteri militari; perché il Costanzo respinse cinque avvocati, ne trattenne un solo, cui concesse trenta minuti per la visione degli atti processuali. Morirono gli infelici, ma la memoria rimase perpetua. Di essi fu compianto per maggiori doti d'intelletto Nicolò Garzilli, giovinetto, scrisse allora Giuseppe Massari, destando terrori e ridestando gli animi a novelle imprese, di animo nobilissimo, di rara dottrina, che nel 1847, toccando appena il diciannovesimo anno dell'età sua, rese di pubblica ragione un sapiente volume di scienza metafisica, intitolato: «Prospetto filosofico sulle attinenze ontologiche della formola ideale co' più rilevanti problemi della filosofia secondo Gioberti» (2). Il processo istruiva, forse dopo la morte, Giuseppe Denaro, nel tempo della rivoluzione bollente d'ire republicane. Fu detto, ma nulla il comprova, che il padre del Garzilli, ufiziale del Borbone, con calma e con abito sfolgorante, il domani della spietata morte si fosse mostrato in publico. Non raro sarebbe il caso di si enorme scelleratezza; ma la storia non deve più ripetere le esagerazioni, o ciò che è infondato, sovente falso! (3).

(1)Il Satriano a Salvatore Costanzo, comandante la fortezza di Castello a Mare: «Gli sciagurati che vi rimetto per giudicarli avranno pena di morte fatta in giornata col terzo grado di pubblico esempio nella piazza della Fier&vecchia, ove cominciarono i moti rivoltosi del 1848, e dove si tentò questo secondo colpo».

(2)Gioberti, Operette politiche; Proemio di G. Massari, vol. i, p. 229; Capolago, Tipografia Elvetica, 1851.

(3)Per lo svolgimento di altri fatti fondati sulla stessa cospirazione, il dì 23 luglio 1850, la Gran Corte Criminale di Palermo emetteva sentenza sulle conclusioni

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Alla viltà, troppo manifesta e nauseante, di tutti i Comuni dell'Isola, rivolgentisi alla sacra real maestà per dar biasimo all'attentato del 27 gennaro 1850, in principio di quest'anno stesso si aggiunsero le più basse e detestevoli ritrattazioni di molti de'  43 proscritti, che chiedevano di ritornare nella terra natia, promettendo di ridursi a bestiale obedienza. Non tutti i chiedenti i il Governo esaudì, quasi temendo che le loro promesse non fossero ispirate a sincerità; volendo schivare ribelli, che avevano i decretata la decadenza della dinastia. Anche Francesco Crispi, scriveva il Satriano, aveva domandato il ritorno nell'Isola, ma la dimanda, non conservataci, poteva aver di mira quanto indagò il Satriano, indi il Ministro Cassisi, deputato per gli Affari di Sicilia, che ne fece relazione a re Ferdinando, e che chiese con grande istanza che il re respingesse il desiderio (1). Frattanto è notevole il documento, che ci vien serbato, e ben I può chiarire le intenzioni del Crispi. Egli, pochi giorni avanti della dimanda citata dal Satriano e dal Cassisi, scriveva a Francesco D'Onufrio una lettera di grave argomento, che, intercettata a Genova dalla polizia, cagionò all'amico la prigionìa. I sensi della lettera sono tali, che non possono far credere mutati nel Crispi le intenzioni, tanto più che ne' suoi ricordi c'era l'avere incitato il popolo a sollevarsi in difesa della libertà, e sollevarsi ne' tristi giorni che il Governo e la Municipalità soccorrevano il Filangieri a rendersi padrone della Città. Così il Crispi scriveva all'avvocato D'Onofrio in Palermo: — «Torino, 10 giugno 1850. — Carissimo Ciccio. — Rispondo alla tua carissima e comincio col ringraziarti della sollecitudine, onde mi hai favorito verso Nicchinelli. Tuttavia quest'ultimo non mi ha ancora risposto, onde ti prego a consegnargli la qui acchiusa, ed a spingerlo d'inviarmi quello che gli ho richiesto.

«Non posso significarti a parole il dolore che qui proviamo nel conoscere il deplorevole stato in cui fe la patria nostra. Pure non cesserò mai di pregarti a voler fare apostolato di pazienza. Ogni moto ohe fosse precipitato sarebbe una vera ruina.

del Procuratore Generale del Re, Giuseppe Pinella che chiedeva per Giuseppe Cinga, Salvatore Grano, Mauro Iraso, Onofrio La Torre, Domenico Mistretta, Giuseppe Romeo, Stefano Sobillaci, Giuseppe Bellina, Giorgio Gerardi, Alberto Leto, Salvatore Lo Vecchio, Giuseppe Monreale e Giuseppe Parrino la pena di morte, col terzo grado di publico esempio, e per Ignazio La Guardia, Cesare Marchione, Gioachino Russo e Vincenzo Ciancio la pena della reclusione e la malleveria come di legge.

(1) Vedi Documenti, IV, V.

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Le condizioni di Europa sono mutate, e se i despoti non si aspettavano il grande scoppio del 1848, oggi lo aspettano e vi stanno preparati. Il 12 gennaro, tu lo sai bene, fu una fortuna. I soldati dopo il ritorno nell'Isola, hanno la coscienza che anch'essi possono vincere — il raddoppiamento delle loro forze poi, e le fortificazioni che sono aumentate li rendono più arditi. Or sta a noi attendere il momento opportuno, in cui l'Europa entrerà in una nuova crisi, ed allora servirci de'  mezzi che ci si offriranno per cogliere i nemici. Non credere che noi dormiamo. In mezzo alle miserie di cui siamo afflitti, la patria sta in cima de'  nostri pensieri. Pazienza ed attenzione.

«Avremmo bisogno di una statistica approssimativa, se non può essere certa, delle forze de'  nostri nemici, e come distribuite nelle varie Piazze. È vero l'esistenza di un campo militare in Caltanissetta, o in que' dintorni? Comprerai una carta topografica di Palermo nella tipografia Sconduto, e designerai nella stessa con numeri i locali occupati dalle truppe, e tenuti dalla polizia. Se potesse ciò farsi dalle altre città principali ci piacerebbe. In tutti i modi ci basta di Palermo per ora. È a te solo che ciò si scrive. Quindi esegui tutto senza che altri giammai il sappia. In che forza potreste contare nel caso di un movimento? Quali sarebbero i mezzi di cui potreste disporre? E qui ci basta conoscere le cifre, né più di questo. Attenzione e pazienza — noi non dormiamo... Scrivimi presto ed abbiti un amplesso. Salute e fratellanza» (1).

I tempi precipitavano sempre in peggio, e perciò la restaurazione non trovava altro seampo che ne' maneggi terribili polizieschi. Le memorie de'  Salvotti e de'  Delcarretto non rimanevano obliate, che altri uomini non meno crudeli ereditavano di loro l'indole scellerata e le costumanze feroci. In Sicilia aveva dominio Carlo Filangieri, le cui tristizie oggidì si vorrebbero scusare, quand'egli vagheggiò ogni empietà, lieto di poter conculcare un popolo, che si era sollevato al grido di libertà. Il governo da lui amministrato fu un potere poliziesco, giungendo le perversità degli istinti a voler imporre che dalle menti fosse cancellato il periodo della Rivoluzione. E prova audace compì chiedendo con prepotenza di modi tutte quante le carte che i Comuni avevano raccolto sotto gli ordini rivoluzionarj. E raccoltele, riunitele, volendo punito il delltto, le trasmise al suo signore in Napoli, dando alle stesse il titolo di carte sozze; chiamando con indecente detto i ricordi di grandi fatti, ammirati dall'Europa.

(1) Archivio di Stato di Palermo; Ministero Luogotenenziale, anno 1850.

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Quest'uomo, che più tardi cercò di offuscare le sue reità, operate colla conquista e col governare, a compiere ogni maleficio, richiese le azioni di Salvatore Maniscalco, che,  dal principio alla fine della sua esercitata missione, ispirò odio sommo negli animi de'  Siciliani, se bene non gli fossero mancate certe prerogative che lo facevano chiamare ora prudente, ora esperto. I giudizj vili, vestiti di adulazione, dispregiava: poiché gli pareva che i delatori, esagerando, trascendessero in quelle viltà che non assicuravano nulla di bene: e si mostrava sdegnoso, e li metteva in dileggio (1). Di altri e gravi pensieri era allora ingombra la mente di chi reggeva la polizia, e al Filangieri e al Maniscalco turbavano i sogni le larghe propagande politiche, alle quali miravano le popolazioni, ancora che sopraffatte fossero dalla reazione.

La Republica di Roma era caduta gloriosamente, ma le forze congiunte non avevano spento il pensiero che l'aveva avvivata. Il dì 4 luglio Roma cadeva in mezzo alle armi straniere, ma in quello stesso dì i triumviri avevano sancito terribili ricordi, che il Comitato nazionale rinnovava nel settembre del 1850. Da ciò l'imbarazzo de'  governi restaurati, la solerzia, ogni opera vigile e sterminatrice, che pure non potevano trattenere i palpiti; niuno volendo o potendo tenersi lontano dal seguire i concetti più alti dell'italianità, che dal Nord correvano veloci e ammirati fino al Sud dell'Europa. E per essi i contrasti indeterminati: non più tregua al dispotismo; niuna concordia tra popoli e regi. Il Comitato nazionale eseguiva l'opera più vasta di educazione politica, e tali erano i sensi che imprimeva:

«L'Italia vuol essere Nazione: per sè e per altrui; per diritto e dovere: diritto di vita collettiva, d'educazione collettiva, di crescente prosperità collettiva, dovere verso l'umanità, nella quale essa ha una missione da compiere, verità da promulgare, idee da diffondere.

«L'Italia vuol essere nazione una: non d'unità napoleonica, non d'esagerato concentramento amministrativo che cancelli a beneficio d'una metropoli e di un governo la libertà della membra: ma d'unità di patto: d'assemblea d'interprete del patto, di relazioni internazionali, d'eserciti, di codici, d'educazione politica armonizzata coll'esistenza

(1) Da Messina, Giovanni Conti, addetto alla polizia segreta, gli scriveva una lettera indecorosa, supplicando di avere rilasciato un certificato pe' servizj resi, e il Maniscalco, stancato dalle continue istanze, scriveva in margine alla stessa: Costui è un Cagliostro senza fede. — Trovaci sempre del partito del più forte. E ben lo puniva; e così tante altre spie, a noi note, che, scelleratamente, turbavano colle infamie le famiglie!

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di regioni circoscritte da caratteristiche locali e tradizionali e di grandi e forti comuni partecipan ti quanto più possibile coll'elezione al poterete dotati di tutte le forze necessarie a raggiunger l'intento dell'associazione.

«E perché nazione sia, è necessario che conquisti coll'azione e col sacrificio coscienza de'  suoi doveri e de'  suoi diritti. La indipendenza e la libertà devono dunque raggiungersi non solamente pel popolo, ma dal popolo. Battaglia di tutti, vittoria per tutti.

«L'insurrezione è la battaglia per conquistare la rivoluzione cioè la nazione. L'insurrezione deve dunque essere nazionale: sorgere dappertutto colla stessa bandiera, colla stessa fede, collo stesso intento. Dovunque essa sorge, deve sorger in nome di tutta Italia, né arrestarsi finché non sia compita l'emancipazione di tutta Italia.

«L'insurrezione finisce quando la rivoluzione comincia. La prima guerra, la seconda, manifestazione pacifica. L'insurrezione e la rivoluzione devono dunque governarsi con le leggi e con norme diverse. A un potere concentrato in pochi uomini scelti per opinione di virtù, d'ingegno, di privata energia, dal popolo insorto, spetta sciogliere il mandato dell'insurrezione e vincer la lotta: al solo popolo spetta il Governo della rivoluzione. Tutto è provvisorio nel primo periodo: affrancato il paese dall'estrema Sicilia all'Alpi, la Costituente Italiana raccolta in Roma, metropoli e città sacra della Nazione, dirà all'Italia e all'Europa il pensiero del popolo.

«Questi principi sono oggi nostri come erano ieri, come erano molti anni addietro, quando il Partito Nazionale era speranza di pochi dispersi individui e la formula Dio e il Popolo pareva sogno di menti giovinilmente audaci. Quel partito è in oggi costituito e potente; quella formula consacrò i decreti delle assemblee di Roma e Venezia, le due città che ultime salvarono l'onore italiano. Non però sorge in noi intemperanza di sistema o dritto d'intolleranza. Ciascun di noi porta in core credenze fatte care dagli studj e dai patimenti; ciascun di noi sente il dovere d'esprimerle come opera di apostolato individuale, ma ad ogni manifestazione collettiva, la sovranità nazionale è norma inviolabile, Guerra e Costituente; vittoria in nome e per opera di tutti; poi le leggi pel bene e col consenso di tutti; è questo il solo programma che possa riunire sopra un campo comune gli uomini buoni e volenterosi di tutte provincie d'Italia. Su questo campo noi li chiamiamo. All'adempimento di questo programma noi sollecitiamo la cooperazione di quanti amano sinceramente, operosamente la patria.

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Sorgerà un governo che lo faccia suo? che col popolo e pel popolo muova guerra senza tregua ai privilegi, ai pregiudizj, alle divisioni dell'interno e alle usurpazioni dello straniero? Le forze raccolte gli saranno aiuto all'impresa. Non sorgerà? faremo da noi. Un popolo che per sacrifizj eroici nella lotta, generosità sublime nella vittoria e fiera grandezza nella sventura s'è rivelato degno erede dei padri ed eguale ai più grandi popoli della terra — un popolo che conta Brescia e Palermo, Bologna e Messina, Roma, Venezia e Milano tra le sue città, è fatto per esser libero, conscio dei suoi diritti e doveri, atto a trattare e compiere i suoi destini».

Il programma del Comitato nazionale conteneva inoltre l'invito agl'Italiani per il prestito di 10 milioni di lire, necessarie per una futura insurrezione. Sparso ovunque; ovunque fu accolto, e le polizie, dal principio informate, si travagliarono per le ricerche e lo scoprimento delle cartelle. E fu, si può dire, quest'opera del Comitato nazionale un principio di quella unione, che, eliminando le incertezze e le vecchie aspirazioni passate, costituiva gl'Italiani in un popolo, rompeva le barriere ferree, preparava la grandezza della unità, che i timidi, nutriti d'idee moderate, avevano condannato come utopistica, e condannato più volte il fondatore dell'unità italica. In Sicilia governava con rigori assoluti il Filangieri, principe di Satriano e duca di Taormina, ed egli, inetto a sostenere i maneggi ardui della politica, ma fornito di astuzie volpine, impasto di eroe, di barbaro conquistatore e di ladro spietato, regnando per Ferdinando II, ben comprendeva che nel 1848 ne' popoli, a cominciare dalla Sicilia, le idee si fossero trasformate, e che, anche in quei difficili tempi, le congiurazioni mirassero al trionfo dell'idea nazionale (1).

(1) In mezzo a tante spavalderìe, questo eroe, tenuto in tanta stima da uno scrittore moderno che pretese rivendicarlo alla libertà, concepiva i timori, da'  quali faceva credere tenersi lungi co' suo subalterni.

«Signor Sottointendente. — Mentre una mano di perversi va suscitando per la Sicilia insensate speranze, va gridando d'essere imminente una guerra generale, da cui si aspettano veder tornati i giorni nefasti e deplorabili di passati disordini, mentre si vuol far credere che una lega si stabilisce tra la Francia, l'Inghilterra e la Prussia, lega impossibile pei principi, e per le condizioni di quegli Stati, è buono ch'io la informi sullo stato della politica generale d'Europa, per metterla in grado di illuminare l'opinione de'  suoi ammaestrati, e dileguare le apprensioni e le inquietudini per un incerto avvenire che risente la immensa maggioranza di buoni.

La pace è un bisogno supremo, e sentito da tutti gli Stati d'Europa.

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Difatto egli, travagliato da questo pensiero scriveva al Cassisi, che con abilità, sapeva sostenere il governo della ferocia) trovandosi in Napoli al Ministero degli affari di Sicilia, dileggiando le proposte mazziniane, e anche chiedendo novelli mezzi per poter dare un freno a'  novelli progressi politici (1).

La Francia agitata e fluttuante sotto il reggimento Repubblicano, e che attira gli sguardi di quanti sperano nel flagello della guerra la Francia più che ogni altro paese tiene alla conservazione della pace Europea.

Gli atti di quel Governo da un anno in qua lo han provato. Il Comunismo, ed il Socialismo che quel grande Stato chiude nelle Bue viscere, han fatto riunire tutti i partiti, e gli uomini delle opinioni più divergenti, nel fine di salvar la Francia dalla più sovversiva fra le rivoluzioni. Non v'è forse in Europa governo in cui gl'imprenditori di rivolgimenti sono contenuti con una mano di ferro quanto in Francia.

Là il Governo popolare vi esiste per necessità, ma l'idea dell'ordine predomina a quei reggimento, che ha fatto vedere nelle giornate sanguinose di Maggio e Giugno 1848, quel che osa l'Autorità per tutelare il riposo della Francia.

Tutto poscia concorre negli altri Stati per la consolidazione della pa$p, e gli uomini che stanno al Governo s'intendono per conservarla a qualunque costo. La causa della civiltà e dell'ordine che fu si fieramente minacciata di totale sovversione durante gli anni 1848 e 1849 trovasi oggi garantita, oltre dagli Eserciti, dall'immensa maggioranza dei buoni di tutti i paesi.

I fuorusciti che van ramingando in Francia ed in Inghilterra, menando secoloro l'esecrazia de'  popoli che hanno illusi, e traditi gridano sul giornalismo imminente una conflagrazione; ma gli uomini di buon senso san valutare la jattanza di queste voci, e le tengono in giusto disprezzo.

L'Europa oggi s'incammina in un avvenire di pace e di sicurezza.

Io la terrò sempre informata delle condizioni politiche d'Europa per metterla in grado di contrapporre la verità alle menzogne de'  perversi.

Palermo, 26 del 1850.

Il Pbincipb di Satriano».

Al sig. Sottointendente del Distretto di Corleone

(Dall'Archivio del Duca Delpino in Palermo).

(1) «Palermo, 3 dicembre 1850. — Signore. — Dall'officina rivoluzionaria di Mazzini e Consorti in Londra è uscito un novello manifesto ai popoli della Penisola in nome del Comitato Nazionale Italiano, col quale ai fa vedere prossima l'attuazione d'un reggimento democratico con tutte quelle umanitarie promesse di cui il bel paese ebbe un saggio negli ultimi due anni. Segui al manifesto un progetto di prestito di ben 10 milioni di lire che gli esuli e fidenti dimandano in nome della futura rigenerazione, e con tale una sfrontatezza e securtà, che sembra non un branco di fuorusciti esecrati che dimanda una si ingente somma, ma invece una Potenza di primo ordine, il cui credito è fondato sulla solidarietà della tassa prediale o su risorse finanziarie incontestabili».

Era preceduta, con data del di 13 ottobre 1850, la protesta contro il prestito del Monte Lombardo-Veneto, inculcato dall'Austria. Questo documento, inedito, lo publicammo noi la prima volta in Palermo nel 1892, nel foglio X Marzo. Importante l'argomento; lo ripublichiamo (Vedi Documenti, VI).

« Gli uomini da senno e gli onesti rideranno di questo nuovo ciarlatanismo,

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E chiede che la sua Nota sia pnre comunicata al conte Statella, a ciò s'avesse potuto provvedere con efficacia maggiore. Però in quel medesimo anno 1850 altri impacci lo turbano, né sa il Satriano come evitare le dissoluzioni demagogiche. Vengon fuori due proclami, il primo de'  quali prese nome dal Mastruzzi, il secondo dal Poulet, ed in essi è fervida parola,

di questa specie di giustizia politica fatta per impaniare gli sciocchi, i malaccorti giovani ed i creduli, e trar loro del denaro per alimentare i bagordi e le orgie di quegli esuli, i quali divorato il.... nelle spogliazioni di Venezia, di Roma e di Sicilia, tentano ora con modi nuovi e scaltri d'aversi dei milioni. G poiché sistematicamente il mendacio caratterizzi ogni atto della demagogia, si fa credere che a gara corrono i sottoscrittori, che oltre la metà del prestito si è ottenuto, e che non v'è alcuno il quale per mutare la sua fede nell'avvenire della rivoluzione ed avere un titolo onorato, fra quelli che contribuiranno al successo, non apporti il suo obolo alla novella crociata. Il mondo ornai per trista esperienza fattane, sa quanto malvagi siano ed a che tendano questi esuli che sono stati il flagello d'Europa; ne conosce le ribalderìe e sa in qual conto tener debba le loro jattanze.

«Ma queste inique ed oscene carte che introduconsi di furto in Sicilia, sotto la magia del divieto che agli occhi dei gonzi ne accresce l'importanza, sono tali da alimentare colpevoli speranze, e da render più difficile l'opra di conciliazione cui indefessamente tende il Beai Governo, non che fomentare quelle passioni rivoluzionarie che è desiderio della grande maggioranza dei baroni di vedere estinte.

«Il R. Governo non si preoccupa menomamente di queste scempie e ridicole carte, egli sa quel che gl'impongono i suoi doveri ed è preparato a tutti quegli eventi per difendere la sua esistenza e mantener ferma la tranquillità della Sicilia. Non vi saranno mezzi ch'egli lascierà intentati, non ostacoli innanzi a cui si assisterà per tenere irrevocabilmente saldo il potere in tutta la sua integrità ed inconcusso il riposo del paese. A questa suprema necessità tutto si sagrificherà, e nei partiti estremi il R. Governo potente d'armi e di navigli si troverà in grado di padroneggiare gli avvenimenti.

«Ma debbe il Governo del Re S. N. non guardare con indifferenza i rei maneggi di quella fazione nemica che mira incessantemente a perturbare l'animo delle tranquille popolazioni, facendo intravedere un avvenire non lontano di agitazioni e di tumulti, e che si giova di quelle carte per accreditare le assurde voci che fa circolare.

«Io quindi richiamo la sua attenzione e quella dei funzionari che le dipendono sulla furtiva introduzione delle stampe criminose che per mille vie tentano i fuorusciti di far penetrare in questa parte dei Reali Dominj.

«Faccia da accorti e coscienziosi funzionari di Polizia tener d'occhio le persone sospette di relazioni clandestine collo straniero per sorprenderli più nelle case; si studii di far apportare una severa vigilanza su coloro che vengono dall'estero; e poscia frugare le valigie, le casse, la persona, e pensi sempre che si dovè a queste casse a questi libelli l'universale depravazione che preparò gli avvenimenti lagninosi degli ultimi due anni.

«Non perda d'occhio le officine di Dogana ove si sdaziano le merci e vegli attentamente sulla condotta degl'impiegati Doganali, ora sopratutto che sono cessati i rigori del Cordone Sanitario». — (Arch. di Stato di Palermo, anno 1850).

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che sfida qualsiasi tirannide, preparando i popoli alla rivoluzione (1). Al Satriano fu noto il programma del sacerdote Domenico Mastruzzi, per averglielo spedito da Messina, il di 17 dicembre, l'Intendente Celeste, e in Palermo potè soppri' merlo il di 18, aprendo strepitoso processo contro il Ponisbergh, il Triolo, il Mastruzzi, il Romano, il Bianca, il Gaipa, ritenuti nel Castello a Mare, indi condannati con sentenza del dì 29 settembre 1851 (2); oltre ad altri, che, ritenuti in vicaria, il 18 febbraro 1851, furono messi in libertà, facendo sapere che il 12. Governo non userà più, con essi quella indulgenza che vengono ora di sperimentare (3). Per il programma del Poulet, il Filangieri scriveva in Napoli il dì 4 marzo 1851, queste parole biliose, e anche insulse: «Intanto in nome di questo Comitato di cui dicesi capo Giuseppe Poulet, ex-ufficiale del Real Esercito, che abbandonò per servire la rivoluzione in Sicilia, si dava fuori l'annesso manifesto manoscritto che ha circolato fra le mani di poche persone, e che non ha prodotto alcuna impressione.

(1) Vedi Documenti, VII.

(2) Il Procuratore Generale del Re, Giuseppe Pinelli, chiese alla Gran Corte Speciale perché avesse dichiarato:

1° Costare, che il sacerdote Domenico Mastruzzi abbia provocato col mezzo di un proclama sedizioso stampato, diffuso e pubblicato dirottatamele gli abitanti del regno ad armarsi contro l'autorità reale, e distruggere il Governo. — 2° Costare, che la provocazione non sia stata seguita dal proposto effetto. — 3° Costare, che Francesco Ponisbergh e Salvatore Triolo abbiano commesso complicità nel suddetto reato con cooperazione tale, nella scienza che si doveva commettere, che senza di essa non sarebbe stato commesso. — 4° Costare, che Cataldo Romano abbia commesso del pari complicità nel suddetto reato con cooperazione tale che senza di essa il reato sarebbe stato sempre commesso. — 5° Costare che Filippo Bianca e Francesco Paolo Gaipa abbiano avuto conoscenza del suddetto reato contro la sicurezza internadello Stato, e fra le 24 ore non ne abbiano rivelato al Governo, o alle amministrative o giudiziarie le circostanze, che loro erano pervenute a notizia. — Veduti gli articoli 140, 123, 74, 75, 144, 55, 31, 34, num. 1, 2, 51 legi penali, e procedura penale. — Condannare: 1. Il sacerdote Domenico Mastruzzi — 2. Francesco Ponisbergh — 3. Salvatore Triolo al quarto grado de'  ferri — 4. Cataldo Romano a due gradi meno del quarto grado dei ferri. — 5. Filippo Bianca. — 6. Francesco Paolo Gaipa alla pena della reclusione. — Tutti alla malleveria, e solidalmente alle spese del giudizio a favore della real Tesoreria.

La Gran Corte Speciale lo stesso giorno 29 settembre 1851 condannò: 1. Il sacerdote Domenico Mastruzzi alla pena de'  ferri per anni ventiquattro. — 2. Dichiarò complici non necessarj del Mastruzzi, Ponisbergh, Triolo e Romano. — Condannò Ponisbergh e Triolo alla pena de'  ferri, ciascuno per anni sedici, e Romano alla pena de'  ferri per anni dieci. — 3. Condannò Bianca e Gaipa alla reclusione, ciascuno per anni sei. — Tutti alle pene accessorie come di legge.

(3) Arch, di Stato di Palermo, Minisiero Luogotenan. 1851.

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Ed il Poulet partito per fare un viaggio in Oriente, come ebbi l'onore di riferire a V. E. col mio foglio de'  3 andante, n° 360, nel passare per Malta dava conto di questo manifesto agli emigrati siciliani, aggiungendo che dovea farlo stampare per mandarlo in Palermo» (1).

Il reame al di qua e al di là del Faro di Messina era in preda alle agitazioni, senza che potessero rimettere quiete le sevizie brutali, la presenza delle numerose armi, i consigli di guerra e ogni sorta di terrore. Al tumultuare della Sicilia corrispondeva pure l'altro di Napoli: poiché il giudizio lungo strepitoso dell'Unità Italiana, aveva sdegnato perfino la voltabile plebaglia, che in grandi masse occupava il largo della Vicaria, gridando sotto le finestre della procura generale «grazia, grazia» (2); aveva sdegnato il popolo eletto, che, per ottanta e più sedute, aveva assistito allo spettacolo funesto di vedere giudicati, per essere condannati a morte o a 25 o 30 anni di ferri i migliori ingegni e le coscienze più oneste di Napoli; aveva sdegnato gli uomini di Stato delle potenze straniere, e, prima che il Palmerston avesse giudicato Ferdinando il più stolto de'  re, Lord Gladstone, dopo avere visitato le prigioni putride, ove co' ladri e cogli assassini erano confusi il Settembrini, il Poerio, l'Agresti, il Fucitano, il Nisco, il Barilla e gli altri del cennato procedimento, scrisse le due lettere, divenute famose, al conte di Aberdeen, in cui rivelava lo stato misero e infelice, cagionato da tormenti e scelleratezze, di un popolo (3). Le lettere del Gladstone ridestarono anche i più tranquilli, e tra'  giornali stranieri, molta fu la diffusione, vario il comento e il sentimento di orrore. Ferdinando, credendo che la replicata lettura di esse e le chiose lo potessero rendere assai sfavorevole alla diplomazia, non mise indugio a ordinare una lunga risposta, se bene fosse riuscita fiacca, di poco o nessun interesse, perché il Gladstone aveva manifeste quelle verità, che non possono essere offuscate da'  raggiri e dalle furberie (4). La risposta non ebbe alcun valore, abbenché lo scrittore si fosse compiaciuto d'invocare da Cicerone la sentenza: «Errare, nescire, decipi et malum et turpe ducimus».

(1) Vedi Documenti, VIII.

(2) Nisco, Ferdinando II, pag. 299; Napoli, Morano, 1884.

(3) Due lettere di W. E. Gladstone, in fine del vol. Francesco II Re, di Nicola Nisco; Napoli, Morano, 1889.

(4) Rassegna degli Errori e delle Fallacie pubblicate dal signor Gladstone in due sue lettere indiritte al conte Aberdeen, sui processi politici nel Reame delle due Sicilie; Napoli, Stamperia del Fibreno, 1851.

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DOCUMENTI (1).

I.

Note del Ministro d'Inghilterra Tempie e del Ministro degli Affari Esteri del Governo di Napoli a S. E. il cavaliere Fortunato Ministro degli Affari Esteri in Napoli.

Napoli, 16 settembre 1849. — Il sottoscritto, inviato straordinario e ministro plenipotenziario di S. M. Britannica, ha l'onore d'informare S. E. il cav. Fortunato, Ministro segretario di Stato, incaricato del portafoglio degli affari esteri, avere egli ricevuto l'ordine del suo Governo di dichiarare a Sua Eccellenza, che la parte presa negli affari di Sicilia dal Governo inglese nelle varie circostanze, cosi dietro invito ripetuto dalla corte napoletana, che più recentemente ancora; non ché il sincero interesse che il Governo della regina porta al ben essere ed alla prosperità del Regno delle due Sicilie, eccitano il Governo stesso della stessa regina a rivolgersi al Ministro napolitano nell'attuale occasione, e colla piena fiducia che S. M. Siciliana ed il suo Governo renderanno giustizia ai sentimenti amichevoli, che dettarono il seguente dispaccio.

Gli agenti diplomatici della corona d'Inghilterra furono sollecitati l'anno scorso da S. M. Siciliana d'impiegare i loro buoni uffici come rappresentanti del Governo inglese, per cercare di regolare pacificamente le funeste vertenze imposte tra il Governo del re ed i suoi sudditi di Sicilia.

Ma gli agenti inglesi ed il Governo del re sapevano bene, che il malcontento dei Siciliani, origine di tutti i disordini della Sicilia, era profondo, generale, antichissimo e che esso derivava dalla continuazione non interrotta di molti abusi introdottisi e mantenutisi dopo la sospensione dell'antica costituzione di Sicilia, modificata e riveduta nel 1812 sotto gli auspici del Governo inglese e colla sanzione del re. Per conseguenza, gli agenti diplomatici dell'Inghilterra rifiutarono d'impiegare la loro opera chiesta dal re, ove non fossero autorizzati a dichiarare ai Siciliani, che la costituzione del 1812 con alcune modificazioni necessarie verrebbe rimessa in vigore; e ciò facevano appunto perché conoscevano quel giusto malcontento, che fu origine dei tumulti, e non sembrava punto voler cessare.

Una serie di circostanze ben conosciute rese vani tutti gli sforzi usati dal Governo inglese del 1848 e 49 in diversi periodi, affine di comporre una conciliazione tra il re ed i sudditi Siciliani, sempre sulla base dei prìncipi mentovati.

Basta il dire che nell'ultima occasione il Governo della regina, congiunto col Governo di Francia, raccomandò ai Siciliani d'accettare le condizioni offerte dal re nel porto di Gaeta a'  28 febbraio ultimo decorso, quantunque il Governo della regina dovesse vedere che i particolari di quel proclama non rispondevano alla disposizione della costituzione del 1812, la quale era pure stata riconosciuta colla sanzione e approvazione del re.

(1) Il 1° è tolto dall'Archivio di Stato di Napoli; Carte diplomatiche, anni 1849-1850; gli altri all'Archivio di Stato di Palermo; Ministero Luogotenenziale, anni 1849-1850.

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Disgraziatamente l'irritazione prodotta dagli avvenimenti di Messina del mese di settembre continuava tra gli uomini che dirigevano gli affari a Palermo. Le proposizioni del proclama di Gaeta furono respinte, e si ordinarono tutte le difese in Palermo per resistere fino all'estremo.

E' una grande soddisfazione per il Óoverno della regina il sapere che l'effusione di sangue, cui avrebbe dato luogo la difesa di Palermo, e le terribili calamità, che per tale lotta avrebbero colpito le popolazioni, siano state evitate per l'amichevole intervento d'un agente inglese e degli ufficiali sì civili che della marina di S. M., e che l'autorità del re fu ristabilita a Palermo pacificamente, senza che si spargesse una sola goccia di sangue. Ma la popolazione di Palermo si sottomise cosi tranquillamente all'autorità reale solo perché fu ad essa assicurata una amnistia generale da parte di S. M. Considerando la parte dagli agenti inglesi in questa pacificazione, il Governo della regina crede di potere esprimere la fidente speranza, che la parola reale non sarà violata, e che l'aninistia, in virtù della quale soltanto i Palermitani fecero la loro sommissione, sarà osservata dal Governo di S. M.

Il Governo della regina ricordandosi della parte cui fu chiamato a prendere nel comporre la costituzione del 1812, non può trattenersi dal far considerare al re di Sicilia ed ai suoi Ministri, che non si può giustamente ritenere avere il popolo siciliano perduto l'antico e riconosciuto diritto a quella costituzione.

Il Governo della regina domanda inoltre il permesso di far osservare, che un'ulteriore sospensione degli antichi ed incontrastabili diritti del popolo siciliano perpetuerebbe ed aggraverebbe vieppiù quell'inasprimento degli animi, che fece della Sicilia il teatro di deplorabili conflitti, e che l'unione tra Napoli e Sicilia potrebbe essere rotta da eventi interni ed esterni, cui deve pure opporsi la sagacità del Ministero napolitano. Il sottoscritto approfitta di questa occasione, per rinnovare a S. E. le assicurazioni della più alta stima.

William Temple.

A S. E. il cavaliere Tempie.

Napoli, li 23 settembre 1849. — Il sottoscritto, ecc. ecc. ha ricevuto la nota de'  16 del corrente, indirizzatogli da S. E. il cav. Tempie, e si è fatto il dovere di metterla immediatamente sotto gli occhi del re suo augusto padrone. E la M. S. lo ha incaricato di richiamare alla memoria dell'E. S. tutto l'accaduto in Sicilia.

Il sottoscritto reputa superfluo il riandare sopra i buoni uffici dei diplomatici inglesi, onde porre fine alla ribellione in Sicilia dopo che era scoppiata, e sulla costituzione siciliana del 1812; dacché siffatte cose non sono nuove, e dopo lunghe, ripetute e serie discussioni sono del tutto cadute nell'obblio, sicché il richiamarle a novella vita sarebbe a pura perdita di tempo. In quanto poi alle generose concessioni fatte da S. M. pel suo atto sovrano de'  28 febbraio del corrente anno, basta rammentare al sig. cav. Tempie l'ultimo articolo di quello, come sta scritto e pubblicato per le stampe, concepito nei seguenti termini.

Tali concessioni s intendono come non mai avvenute, nò promesse, nò fatte qualora la Sicilia non rientri immediatamente sotto l'autorità del legittimo sovrano;

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poiché se dovesse il reale esercito militarmente agire per rioccupare quella parte dei reali domini, la stessa si esporrebbe a tutti i danni della guerra, ed a perdere i vantaggi che le assicurano le presenti concessioni.

Il cav. Tempie non può ignorare le pratiche messe in opera da'  due ammiragli Parcker e Baudin, avvalorati nel tempo stesso dagli sforzi dell'E. S., e da quelli del signor di Rayneval, recatisi di persona appositamente a Palermo, onde persuadere quei rivoltosi ad accettare le benefiche concessioni del re, insieme ad un generoso perdono.

Ben ricorderà del pari l'È. S. le audaci risposte alle magnanime proposizioni, non che le immense sventure cagionate alla Sicilia dal grido di guerra elevato da qualche centinaio di uomini prezzolati dagli eccitatori e capi della rivolta, affin di ribadire nelle menti così degli ammiragli che l'È. S. e del signor Rayneval le illusioni prodotte dalle falsità date loro ad intendere sul carattere della rivoluzione siciliana, la quale reputa erroneamente come l'opera di tutti e non di una mano d'imprudentissimi e perversi faziosi, trasse nei primi giorni di settembre del 1848 i prelodati ammiragli a quei partiti, che contro ogni loro volere accrebbero di mille doppi i mali della Sicilia, e che il sottoscritto non si permette di qualificare. L'E. S. rammenterà pure, che dolente Ella non meno che il signor di Rayneval per non essere riusciti ad ottenere una pacifica soluzione, manifestavano entrambi, cioè questi in data de'  28, e Ì'E. S. in data del 30 marzo dell'anno che volge, con loro note al principe di Cariati, il dolore da cui erano compresi per non essere riusciti a conseguire il loro scopo, dichiarando in un medesimo tempo vano e inutile ogni loro ulteriore tentativo.

Non avrà dimenticato il signor cav. Tempie, che i rivoltosi dopo i combattimenti di Taormina e di Catania nei giorni 7, 8 e 9 maggio combattevano di nuovo nei dintorni di Palermo contro le truppe reali, e che dopo di essere stati completamente battuti e messi nell'impossibilità di difendersi, si rendevano a discrezione al generale in capo dell'esercito, inviando all'uopo una deputazione composta dal parroco Fana, dal parroco Milano, dal cav. D. Giuseppe Attanasio, del legale D. Raffaele Yerdi, dal legale D. Michele Artale, da D. Salvatore Piazza, da D. Giovanni Corrao, da D. Vincenzo Griffone, da D. Giuseppe Auriemma.

In fine l'È. S. è sì saggia, da non poter mettere in dubbio, che per i prìncipi di diritto pubblico, rispettati costantemente da tutti i governi del mondo, S. M., qual sovrano indipendente, è nel pieno diritto di regolare da sé l'amministrazione interna dei propri stati, secondo i dettami della sua religiosa e intemerata coscienza e scevra d'ogni influenza straniera.

Dopo tutto ciò non rimane al sottoscritto far altro che a render consapevole il signor cav. Tempie, che il re suo signore, si occupa indefessamente ad elaborare tutte le leggi di pubblica amministrazione le più convenienti e le più utili a quella parte dei reali, ed atte solo a produrre il vero bene dei suoi sudditi. Tutti i provvedimenti dati dal duca di Taormina dal momento della sottomissione di Palermo sono stati sempre ed invariabilmente diretti dallo spirito d'umanità e di obblio profondo del passato. Niuna idea di vendetta ha avuto parte nelle operazioni del Governo in quell'Isola; ed il signor inviato non può ignorare, che la severità delle leggi è stata ivi solo messa in opera contro pochi assassini e nemici dell'ordine sociale; rammentando in questa circostanza, che è dovere di ogni bene ordinato governo quello di guarentire la pace e la tranquillità dei buoni, il più delle volte manomessa da pochi disturbatori.

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H sottoscritto non crede di dover mettere termine a questa sua risposta, senza palesare a 8. E. il signor cav. Tempie (onde il Governo di 6. M. la regina del regno unito della Gran Bretagna, amica ed alleata del re suo signore, sei sappia), che in atto godeBi la maggiore tranquillità; che quelle popolazioni gioiscono del loro ritorno sotto lo scettro del loro legittimo sovrano, e che S. M. ha piena fede, che se avvenimenti stranieri non verranno ad alterare la pace, di cui si gode in quell'isola, tutti i suoi sudditi saranno uniti in un vincolo indissolubile di amore e di lealtà verso la sua real persona e dinastia.

Il sottoscritto approfitta dell'occasione, ecc.

Firmato: Fortunato.

II.

Rapporti del R. Ministro in Parigi in data 20 e 22 dicembre 1849 a S. E. il cav. Fortunato.

Eccellenza. — Sono informato che varj rifuggiti Siciliani qui residenti hanno firmato una protesta, la quale o è stata già pubblicata in qualche giornale demagogico, o è destinata a veder prossimamente la luce. Nell'uno e nell'altro caso mi farò un dovere di ricercare subito il foglio, che essi avranno prescelto come organo di pubblicità, e ne rimetterò un esemplare all'E. V.

Intanto posso parteciparle che si assicura essere i sottoscrittori di tale protesta i signori Granatelli e Friddani, La Farina, Michele Amari, Stabile, Venturelli, Scalia e varii ufficiali superiori dello Stato maggiore Siciliano: ed avere essi dichiarato nullo, innanzi all'Europa ed al mondo, il Beai Decreto che abolisce l'altro preteso decreto, col quale il Parlamento Siciliano aveva proclamato l'indipendenza della Sicilia.

Con questa occasione, nel confermarle, che il Principe di Seordia ed il signor di Torrearsa sono qui giunti per intendersi co' signori Scalia e Stabile, relativamente a'  loro conti per la gestione pelle Finanze della Sicilia, mi fo un dovere annunziarle, che il suddetto Scalia ha fatto quest'oggi legalizzare in questa Reggia missione una procura al signor Vincenzo Florio di Palermo, con la quale egli conferisce i poteri necessari per riscuotere gl'interessi scaduti e a scadere di una rendita di annui duc. 30 iscritta a nome dello stesso costituente sul G. Libro del Debito Pubblico di Napoli al num. 10343, fol. 10848, vol. 12, e gli dà ancora il potere di vendere e trasferire il capitale di detta iscrizione.

Ne do conoscenza all'E. V. per sua superiore intelligenza e per l'uso che crederà fare di tali notizie.

Eccellenza. — Avendo potuto risapere che era la Reforme il giornale socialista nel quale i fuorusciti Siciliani hanno fatto pubblicare la loro protesta contro le ritrattazioni individuali, che fanno i sedicenti membri del fu Parlamento rivoluzionario in Palermo, io mi affretto a rimetterlene qui unito un esemplare in continuazione del mio rapporto del venti corrente di n. 334.

Ella troverà molti nomi di Siciliani i quali quantunque non sieno stati membri di quel Parlamento, hanno data adesione a questo nuovo atto di ribellione, ed io non mancherò di sorvegliare se qualcuno contraddicesse tale pubblicazione, ove altri aderiranno.

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Dalia sorveglianza che ho procurato di far continuare con più accuratezza, mi risulta, che dopo l'arrivo di Scalia da Londra, e di Scordia e Torrearsa da Genova l'oggetto de'  conciliaboli fra i Siciliani, è come le dissi, la formazione del rendiconto della gestione de'  fondi mandati fuor di Sicilia per acquisti di armi, munizioni, legni da guerra e reclutamenti per sostenere l'insurrezione. Non ho ancora dati per indicare quale ne sia la combinazione, ma so che si tenti di accreditar la voce che la Commissione istituita in Palermo per la revisione de conti è una nuova persecuzione contro il partito liberale agendo arbitrariamente solo contro le opinioni politiche, e non contro le geste e l'amministrazione di compromessi.

Sarebbe quindi conducente che venisse pubblicato in questi giornali al Real Decreto che istituisce quella commissione ed il modo come procede, non che il risultamento che possa averne già il Real Governo ottenuto. Vuoisi egualmente far credere da'  detti profughi Siciliani che il Real Governo volesse riconoscere a credito della Sicilia, ed a favore di quei che pagarono l'imprestito forzoso, il valore del piroscafo il Vectis, qui da me ricuperato, darebbero agio per far ricuperare sotto le stesse condizioni anche il piroscafo il Bombay che sta in Inghilterra. Io credo non tardare ad informare V. E. di tali indicazioni mentre ho scritto al Commendatore De Martino di non rallentarsi nell'azione giudiziaria che ha intrapreso pel ricupero del Bombay comunicandogli le sopra espresse nozioni.

Debbo poi aggiungere che lo scoraggiamento in questi rivoluzionari Siciliani è aumentato dalle notizie che han ricevute dall'energica amministrazione che s'è stabilita nell'Isola, ove rimpiangono che per viltà dei nobili si verifica nna grande reazione realista.

III.

Il Ministro degli Affari Esteri a S. E. il Ministro degli Affari di Sicilia.

Napoli, 28 del 1850. — Eccellenza. — Mi vien fatta la seguente relazione. Sa ciò che concerne i partiti politici tuttora esistenti nella Toscana, la quale ho fondati motivi che proceda da sicura fonte.

Mi si dice, tali partiti essere distinti in due categorie, cioè il monarchico religioso, il liberale moderato e l'esaltato. Il primo non conta molti aderenti di nota capacità francamente deliberati a porsi alla testa di esso e concentramento della forza ed unione dirigerlo in corrispondenza allo scopo. E' a noverarsi in questo partito la numerosa classe de'  contadini non proprietari, i quali hanno sempre malveduto le innovazioni; e la maggioranza del Clero molto influente segnatamente nelle campagne.

Il secondo partito denominato pur costituzionale dottrinario, ha alla testa persone generalmente apprezzate per istruzione per sezione sociale. Debbesi osservare per altro aver molto perduto rimpetto alla potenza in cui in passato era giunto, atteso le sofferenze che hanno la più parte di esso patite, per le ultime vicende; di tal che guardano l'attuazione de'  principj costituzionali come l'incentiva all'anarchia, è questa la legittima conseguenza di quelli: quindi temono la rinnovazione de'  passati disordini.

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L'ultimo partito presenta diverse forme percioché prendendo il carattere talune volte della moderazione mostrasi costituzionale, onde giungere al potere con questo mezzo, reputando cosi raggiungere la mòta a cui aspira. Non si palesa in sostanza che nelle occasioni, si frammischia nella plebe indigena e straniera mediante il potente ausilio del terrore, che ha sempre curato di spargere. Esercita perciò un'influenza su la massa degli indifferenti, stante la versatilità ed incostanza de'  Toscani, che facilmente diventano ligi a coloro che sanno adescarli.

Ho reputato mio dovere fare all'E. V. la narrazione di siffatte particolarità riferitemi, valutando che fosse stato importante ne avesse V. E. avuto piena conoscenza, per l'uso che in sua saviezza reputerà opportuno.

Napoli, 28 del 1850. — Eccellenza. — In continuazione dèlia mia di oggi, mi pregio farle noto le altre nozioni pervenutemi in ordine alle cose della Toscana, che possono essere ritenute parimente per sicure.

Con l'amnistia costà concedutasi, dalla quale vennero pochissimi esclusi, che in sostanza erano soltanto l'istrumento del partito demagogico, n'è risultata la permissione del ritorno nel granducato di tutti i più caldi promotori de trascorsi sconvolgimenti, i quali anelano il momento propizio per rinnovarli.

Quindi è che dopo il ritorno di essi seguirono in Livorno le note grida sediziose; l'affissione di stampe incendiarie, ad onta la sorveglianza del governo militare.

In Firenze poi gli eccessi della stampa sono scandalosi, segnatamente per rapporto al governo Napolitano, del quale esagerano notizie ed avvenimenti; nò audacemente vien risparmiata l'augusta persona del nostro amato Sovrano. A tutto ciò contribuiscono i molti Napoletani e Siciliani ch'ivi trovansi, spacciandosi per vittime politiche, e la permissione del soggiorno colà de'  membri che sono stati influenti nella Costituente Romana.

E ad aggiungersi che un nostro rifugiato, di cui non mi è riuscito conoscere il nome, ha in sua casa il club al quale convengono molti Toscani, e vi ha maggior parte un Siciliano troppo noto pe sentimenti ostili verso il nostro clemente Monarca.

Or non mi resta a portare alla conoscenza dell'E. V. per l'uso che giudichi convenire in riguardo alle narrate cose, che ne' contorni di Livorno furon da poco sbarcati munizioni ed armi.

IV.

Il Generale in Capo Luogotenente Generale interino, Duca di Taormina, a S. E. D. Giovanni Cassisi, Ministro Segretario di Stato per gli affari di Sicilia presso S. R. M. in Napoli.

Palermo, 27 giugno 1850. — Eccellenza. — Tra gli emigrati Siciliani che dimorano in Piemonte v'è l'avv. D. Francesco Crispi-Genova, uomo notissimo nei fasti della rivoluzione per politica intemperanza, e per avere negli ultimi giorni di aprile 1849, quando il Reale Esercito. era alle porte dì Palermo, consigliato il popolo alla guerra ed al massacro degli uomini che si cooperarono a salvare la Città dal fatto che le sovrastava.

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Costui ha invano brigato finora per rimpatriare, e mentre continua le sae istanze per tornare dall'esilio fa delle occulte pratiche per tener vive le speranze dei rivoluzionari di Palermo; si dà il sembiante di essere un personaggio che tiene nelle mani le sorti future della Sicilia e da lontano consiglia, provvede e manda norme per futuri rivolgimenti.

Una di lai lettera spedita in questa per mezzo d'un legno proveniente da Genova era l'altro giorno da questa Polizia intercettata, e dalla copia che qui annessa mi onoro mandarle, V. E. rileverà come pensa costui, quali disegni matura, e quali relazioni si abbia in questo paese.

Dai sensi espliciti della lettera scorgesi che è di risposta ad altra indirettagli dall'avv. D. Francesco d'Onofrio, nella quale costui doveaparlargli di qualche movimento insurrezionale contro la sicurezza dello Stato, che divisava di tentare.

Quest'ultimo è stato in conseguenza di ciò arrestato e chiuso in una camera del Real Forte della Castelluccia.

Piaccia a V. E. restarne intesa, ed informare S. M. il Re.

V.

D Ministro degli affari di Sicilia a S. R. M. Ferdinando II.

Sire. — Il Duca di Taormina, funzionante da Luogotenente Generale in Sicilia, riferiva esservi fra gli emigrati Siciliani che dimorano in Piemonte l'aw. Francesco Crispi-Genova, nome notissimo nei fasti della rivoluzione per politica intemperanza, il quale mentre briga per rimpatriare fa pur da lontano delle occulte pratiche per tener vive le speranze dei rivoluzionari in Sicilia, consigliando, provvedendo e mandando norme per futuri rivolgimenti siccome si è rilevato da una di lui lettera spedita, non ha guari, in Palermo per mezzo di un legno proveniente da Genova, e da

nella Polizia intercettata. E la M. V. nel Consiglio ordinario di Stato el di 8 dell'andante, fuori Protocollo, si è degnata ordinare che non si permetta all'anzidetto Crispi-Genova di rientrare nei Reali Domini.

Rassegno intanto a V. M. che tal Sovrano Comando è stato da me, con Rescritto dei 10 di questo istesso mese, partecipato al Ministro degli Affari Esteri ed al funzionante da Luogotenente Generale anzidetto — G. Cassisi.

VI.

Il Comitato Nazionale Italiano agl'Italiani.

Italiani! — All'imprestito tentato oggi dall'Austria, sia a carico del Monte o in qualunque modo, nel Regno Lombardo-Veneto, ostano — e i banchieri lo intendono — gli obblighi assunti dall'Austria nel trattato del 1815 riguardo al debito pubblico da scriversi sul Monte suddetto, non che quelli che risultano dalla Costituzione Austriaca del marzo e i principi! in essa contenuti sulla votazione delle imposte e sulla parificazione di tutte le provincie nei paesi dell'Impero.

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Ma il Comitato Nazionale Italiano ha debito di richiamarsi a ben altri principii che non ai sanciti da trattati, ai quali la Nazione rimase estranea, o da Costituzioni straniere. E in nome del Dritto Nazionale, esso protesta contro l'imprestito tentato dall'Austria come contro ogni altro levato in Italia da governi stranieri o protetti dall'armi straniere.

Interprete del voto nazionale, il Comitato:

Dichiara essenzialmente nullo e di niun valore ogni imprestito che, sotto qualunque forma o pretesto, venisse imposto dall'Austria a carico del Monte Lombardo-Veneto o delle provincie e città del territorio Italiano da essa occupato.

Dichiara, che nessun Governo Nazionale potrà mai riconoscere in tutto e in parte siffatti imprestiti quando non siano stati assolutamente forzati.

Dichiara che ogni atto di volontario concorso tendente a promuovere, favorire, attuare, sia le pratiche preliminari, sia l'esecuzione effettiva dell'imprestito, potrà dare al Governo Nazionale futuro il diritto di procedere contro i colpevoli pei danni cagionati al paese coll'aiuto prestato al Governo oppressore:

E invita fin d'ora gli amici della causa Nazionale a farne giungere i nomi, colla dichiarazione dei fatti a carico e della loro data, al Comitato Nazionale sì ch'esso intanto ne prenda registro, ed affinché possa pubblicarli, quando gli paresse opportuno, a vergogna perpetua dei codardi e dei traditori.

Italiani delle provincie Lombarde-Venete! Mentre l'Austria vi chiede e v'impone imprestiti a mantenere il giogo sul collo, gli uomini che lavorano a rompere quel giogo v'hanno, colla loro Circolare del 10 settembre, proposto un imprestito Nazionale destinato ad affrettare il momento della riscossa.

Resistere all'Austria; affretterete così la crisi che pende nelle sue finanze.

Concorrete alacremente all'imprestito aperto dal Comitato Nazionale: crescerete potenza al lavoro di emancipazione, e fonderete primi il credito pubblico della Rivoluzione.

Alla forza continua dell'opposizione passiva accoppiate la forza viva efficace dell'azione, e sarete in brev'ora padroni della vittoria. — Londra, 13 ottobre 1850.

Giuseppe Mazzini — A. Saffi — A. Saliceti — G. Sirtori — M. Montecclii — Cesare Agostini, Segretario.

VII.

Proclama del Comitato Nazionale Siciliano.

Siciliani. — L'intrigo straniero, lo spirito di moderazione, l'ignoranza dei governanti, il tradimento degl'infami dierono il crollo fatale alla più gloriosa delle rivoluzioni. La Sicilia che aveva sì eroicamente battuto e cacciato via da'  suoi lidi il vile esercito del dispotismo, che avea tanto sangue versato su i campi della libertà, che tanti sacrifizii avea sostenuti per la Sacra difesa degli antichi suoi dritti, Siciliani! Ella cadde... vergognosamente cadde!

Volge al suo fine il diciottesimo mese, che gli sgherri del ]peggior de'  tiranni calpestano le nostre belle contrade.

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Volete voi che vi si ricordi confessi entrando in Messina e in Catania, città eroiche delle nostre terre, abbiano nell'ebbrezza della nostra vendetta contaminato i luoghi Banti, struprate delle vergini, uccise delle donne, degl'infermi, de' bambini? Volete che si richiami alla mente? Lo volete purtroppo come sopraccarichi di enormi balzelli, toltoci financo quel tozzo di pane che serviva a sfamarci ci abbiano gettato nello squallore della più disperata distretta. Il Governo intanto e i suoi fidi gozzovigliando alle spai Ile del popolo ne succhiano il sangue sino all'ultima stilla. Lo vedete come inceppato il pensiero, o per soli sospetti, o per la denunzia di un birro, di una spia, di un vile mosso da privata vendetta, si strappino tutto giorno dal seno delle inviolabili famiglie i genitori, i figli, i mariti e si gettino a migliaia negli orrori delle' segrete ad espiare colla tortura il solo dritto dell'innocenza.

Popolo di Sicilia tu trascini intanto vilmente la servile catena, la tua fronte non ha guarì ricoperta di gloria permette che la si deturpi del marchio della vergogna, tu che altra volta intrepido affrontasti la mitraglia e le bombe e possente sfidasti le schiere nemiche, or soffri atterrito la tirannica sferza di un Governo illegittimo. Popolo che dormi il sonno della morte, egli è tempo di scuotere la poi vere del tuo sepolero e mostrarti in tutto il vigore della vita e della tua possanza. Vedi, si avvicendano gli avvenimenti politici Europei. I popoli del continente son pronti a ricominciare una lotta decisiva contro allo assolutismo de'  troni. Le potenze che hanno interesse vitale e dovere politico a sostenere i nostri diritti costituzionali, non mancheranno a venire anch'essi al cimento. Popolo svegliati dunque, e al tuo svegliarti ti scintillino gli occhi come ardenti carboni; la tua bocca mandi un grido d'inesorabil vendetta, e il tuo braccio stritoli come polve i nemici della tua libertà.

Moderantisti del Parlamento, zelanti pacieri del 1849, eloquenti predicatori della famosa amnistia, dettatori della tirannide, tremate!! i vostri delltti sono enumerati!! si peseranno nella bilancia del popolo. — Siciliani non si attenda che un cenno. Coraggio, forza, unione, e la vendetta sarà piena e terribile; vivano i dritti costituzionali dell'Isola. — Viva l'atto solenne del 1° aprile 1849.

VIII.

Comitato esecutivo Siciliano — Dio e Popolo — Indipendenza e Libertà.

Il Comitato esecutivo ha eoo si derato che se le tre grandi rivoluzioni delle quali da marzo 1282 a gennaio 1848 la Sicilia può gloriarsi frut-taron libertà, ciò avveniva per la concordia delle varie classi del popolo, e la sola forza di esso. All'incontro la libertà decadde, e le tirannidi si rilevarono con maggior vigore, quando la lotta degli interessi privati successe alla concordia comune, Yio individuale all'io collettivo, e quindi per la debolezza interna si sperò nello straniero. Oramai dopo lunga e fatale esperienza i Siciliani han dovuto metter senno, e conoscere il motivo delle loro sciagure e per quai mezzi la patria possa aver salute. Dinanzi all'oppressore non vi ha classi; così la borghesia che il popolo minuto, cosi il ricco che il povero, hanno una stessa bandiera a difendere. Dinanzi allo straniero non vi ha differenza. Finché i trattati del 1815 saranno il diritto internazionale d'Europa, ed esisteranno governi ed eserciti

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per propugnarlo, sono ugualmente nostri nemici l'Inglese e l'Austriaco, il Francese e il Russo, ogni gente che oltre il mare e le Alpi non han la nostra lingua, né può avere la nostra fede. Con tali convinzioni il Comitato esecutivo mentre incoraggia i cittadini che nell'interno dell'Isola resistan alla prova di sempre nuovi dolori, a continuar nella fede de nostri padri per la causa della libertà e scongiura i tiepidi cittadini a dimettere ogni rancore, ogni sentimento di particolari interessi innanzi il supremo interesse della patria, poiché dalla loro unione, e dall'opera loro dipenderà una gran parte del trionfo avvenire.

Sia lungi ogni desiderio politico. Nissun partito ha il diritto d'imporre l'un genere e l'altro di guarentigie sociali della Nazione: questo diritto, dopo la vittoria del popolo, saprà decretare la vera formula, onde questa vittoria non sia un'altra volta defraudata. Ciò che tutti noi oggi dobbiamo è di confonderci in una sola volta, e raccolte le sparse forze congiungerle a quelle degli altri popoli della penisola per seguire la sorte che toccherà ai medesimi. E in questa guisa che ci presenteremo potenti all'oppressore straniero, e che il domani della rivoluzione, invece di ricever la legge la daremo alla diplomazia. Il Comitato Esecutivo mancherebbe alla missione assunta se professasse altre massime su l'attitudine a prendere nelle presenti condizioni della patria.

Ispiraci a questi principi, e con l'odio dello straniero tutto di nuovi martiri sorgono per affrontare le torture di Satriano e di 30. 000 carnefici da lui dipendenti; ed oseranno gli esuli distaccarsi da questa fede, e non prepararsi concordi pel giorno forse non lontano dell'italico risorgimento?

La patria dimentica il passato di coloro de'  Buoi figli, che si ravvederanno, ed invece di lavorare per vecchie e nuove servitù metteran la opera loro al trionfo de'  diritti del Popolo. Guai pei duri di cuori, che nell'ora della suprema giustizia si presenteranno colle mani immonde e non potranno di per dì dare contro della loro vita! Essi pagheranno dente per dente, ed occhio per occhio i loro misfatti e le loro omissioni. — Sicilia, 5 novembre 1850. — Il Comitato esecutivo.

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CAPITOLO SECONDO.

La emigrazione e la italianità in Sicilia — Il colpo di Stato in Francia Manifestazioni del Filangieri sulle condizioni politiche in Sicilia nel 1852 — Viaggio di re Ferdinando in Messina e in altri luoghi dell'Isola — Concessione del portofranco a Messina — Canti alla libertà di marinai austriaci e della canzone la «Palommella bianca» Pel vapore l'Indépendant di Vincenzo Florio — Il P. Cutrera e la Polizia — Sottomissione a re Ferdinando del P. Gioachino Ventura — Giuseppe Mazzini e il Partito Nazionale — Il prestito mazziniano — I Comitati rivoluzionarj e il Radetzky — Francesco Giuseppe in Lombardia — Indirizzo del Municipio di Milano — Il processo di Mantova sul Tazzoli ed altri.

Carlo Botta scrive: «Ne' governi non liberi i legislatori hanno procurato di rompere ogni vincolo che unir potesse nomo con uomo e famiglia con famiglia» (1). E questo che era stato concetto predominante del regime de'  Borboni, principalmente attuato dal 1820 al 1848, non potè attecchire dal 1849 in poi, da quando, facendosi ritorno al passato, per opera della restaurazione, si fecero più ampie le vie dell'esilio, e i migliori ingegni corsero raminghi in luoghi lontani. In Italia il Piemonte, non curando le invasioni e le continue minacce delle stesse, aveva mantenuta, raccolta nella notte funesta di Novara, la bandiera di libertà: le altre regioni, o spontanee, o cedendo a' timori dell'Austria, avevano cancellati gli statuti costituzionali, spergiurando e manomettendo il libero vessillo. Questo stato infelice recò a'  popoli assai pentimento degli errori e delle colpe preterite, e la unione degli animi, ispirati a un pensiero comune, fu grande travaglio a'  governi assoluti, poiché oramai tutti gli Italiani parevano disposti ad accettare quell'armonia perfettissima di menti e di cuori, che il Gioberti nel 1848, scrivendo a Pier Silvestro Leopardi, aveva desiderato legasse Napoli e Sicilia (2). Ferdinando, prima che il Filangieri da conquistatore avesse posto piede in Sicilia, sottoscrivendo il decreto di amnistia, aveva escluso dallo stesso 43 individui, come non meritevoli di alcuna indulgenza.

(1) Pensieri Politici, capo vin, pag. 282.

(2) Bicordi Biografici e Carteggio per Vincenzo Gioberti, tomo iv, pagina 50; Napoli, Morano, 1868.

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Ma il numero dei 43 proscritti s'ingrossò ancora, e numerosa schiera usci dalla Sicilia a trovar pane e tetto altrove, ad esplicare le idee, non più limitate al municipalismo, ma al principio di unità nazionale. Il qual lavorìo, energico e fedele, accelerò a'  Borboni la fine, ché i Siciliani, da lungi, colle operosità delle congiure e con le armi acuminate della scienza, della politica, della letteratura e delle arti minarono il trono (1). Cessato il sicilianismo, subentrò la italianità; ed essa, anzi che rimanersi lontana le migliaia di leghe, penetrò ne' regi dominj rapidamente, accolta con furore di entusiasmo. La parola de'  Siciliani gradiva da per tutto, sia che s'udisse dalla cattedra o dalla tribuna politica: era dessa la risultanza di una sacra aspirazione; ed essa dalla cattedra, dalle riviste, dalle colonne de'  giornali politici, da'  circoli, dalle opere a stampa, mirava sempre a demolire la potenza di Ferdinando II, sostenuto dalle baionette e dalla polizia efferata; mirava a riunire il bel Paese, lacerato da viltà e da crudeli ordinamenti. Fiamma diveniva la parola di Giuseppe La Farina, di Michele Amari, di Francesco Ferrara, di Emerico Amari, di Francesco Crispi, di Francesco Paolo Perez, di tanti altri sommi, letterati, filosofi,

(1) La emigrazione lasciò pure note gaie e comiche, da rendere manifeste le vanità liberalesche, rivolte piuttosto a disdoro della libertà e della grandezza patria. Memorevole il brano di lettera, di certo G. B. Carciola, che, trovata nelle carte della Polizia, publichiamo per recare un po' di sollazzo a lettori, e recarglielo in memoria della folla de'  patrioti, che della Patria fecero un mercato!

«Stampai mesi addietro alcuni cenni storici e militari sulla rivoluzione e caduta di Messina del 1848 colla pura verità innanzi agli occhi, e ti assicuro che l'opuscolo è buono. — Si mosse però contro di me un vespaio d'una ventina d'importuni messinesi qui emigrati, che pretendeano esservi tutti menzionati da eroi, e che io avessi esagerate nel senso loro le cose. Non essendo stati da me soddisfatti, mi han fatto una guerra schifosa, con minacce, con protesti e satire in istampa. Non temendo di alcun di loro, io ho risposto con altre stampe colle quali gli ho serviti a meraviglia, trattandoli da calunniatori, facchini ed asini, e dimostrandoli tali. Intanto, invece di onore, gratitudine e guadagno, ho avuto bile, inimicizie e dispendj. Ho speso circa onze ventiquattro, frutto de'  miei minutissimi risparmj e del pegno del mio orologio con catena, e del mio bastone con pomo d'oro; e sinora ne ho ricuperato circa onze sei, avendo dovuto dare gratuitamente una gran parte delle stampe a questi famelici emigrati. Ma tu sai che il mio cuore è grande e non si confonde a'  guaù Io soffro sventure, contradizioni e privazioni con animo veramente da stoico. I miei più accaniti contraddittori sono Interdonato, Nesci, Santantonio. Minutilla, e per ultimo Pellegrino che mi facea l'amico. Questi ultimi tre so che stanno scrivendo contro l'ultima mia stampa, che gli ha battuti ben bene. Ma l'avran da fare con me». E questi esempj, aurei assai nella forma e nel carattere, vergognosamente, insozzarono l'emigrazione, fatta mercato di vituperj!

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legisti, economisti, politici; fiamme il dir loro, e, pari alla lava de'  vulcani, accendendo il popolo siciliano, lo univa strettamente nelle idee colle regioni italiche, massimamente col Piemonte, ove le libere istituzioni rovesciavano mano mano dentro e fuori la vecchia eredità del municipalismo (1).

Lo stato incerto, in cui versavano le potenze di Europa, cessò dal 2 dicembre 1851, giorno funesto, ricordo dell'anniversario della coronazione di Napoleone, prefisso al colpo di Stato. La Francia, che pareva impossibile potersi acconciare al freno di Luigi Bonaparte, era creduta ultima tavola di salvezza dal numero infinito de'  naufraghi delle rivoluzioni europee, che da essa attendevano una riscossa, un avviamento conforme a'  desiderj della democrazia. Ma nati i conflitti nel cominciare i lavori per rivedere la Costituzione, nate le discordie fra'  legittimisti e gli orleanisti, che avevano in disprezzo la republica, e bramavano la restaurazione del trono, o col duca di Bordeaux o col conte di Parigi, vietando la Costituzione a'  buonapartisti di potere prolungare i poteri della presidenza, i partiti rimasero di fronte, apparecchiandosi alle battaglie dell'anno di seguito. In quello stesso giorno Napoleone III, concertandosi col generale Saint-Arnaud, ministro della guerra, e col Maupas, prefetto di polizia, sull'albeggiare fece arrestare, i generali Cavaignac, Changarnier, Bedeau, Lamoricière, e il Thiers del partito degli Orleans. In quello stesso giorno 2 dicembre un decreto scioglieva l'Assemblea e il Consiglio di Stato, metteva in assedio Parigi, riuniva il popolo a comizj generali, e, accanto al decreto, un proclama spiegava i motivi, che avevano indotto Napoleone a procedere siffattamente.

(1) Quali sentimenti affratellassero, negli anni che ricordano le durezze dell'esigilo, gl'Italiani, ben si rileva da una stampa necrologica di Luigi Mercantini del 1812, dalla quale, anche a buona e gentile memoria dell'estinte, togliamo una parte. «Questo giovane era nato in Catania: suo nome Antonino Gravina: ma questo giovane, che di tutta la bellezza della virtù santificava l'amor della patria, che volenteroso, al primo grido di libertà, era corso a Palermo, e tosto in Lombardia per dirsi fratello a tutti i fratelli italiani, sui campi delle battaglie per suggellare anche col sangue di Sicilia il gran patto dell'unità d'una patria sola dall'Alpi all'Etna, questo giovine a cui i dolori ineffabili dell'esilio non facean che rafforzare la santa fiamma dell'anima, il di primo di luglio del corrente anno in Parigi, risalendo spirito immortale a Dio, mandava l'ultimo respiro all'Italia. Che avrà pensato, che avrà sentito Antonino in quell'ora estrema, vedendo piangere intorno al suo letto i suoi fratelli di sventura, i suoi compagni d'arme? (Archivio di Staio di Palermo, filza dell'anno 1862).

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Queste mutazioni rinfrancarono l'Austria e gli altri governi dispotici d'Italia, credendo già conculcata la libertà, riconoscendo avviarsi così Napoleone all'impero. Il che rivelò nel marzo del 1852, inaugurando il Corpo legislativo. Anche Francesco Giuseppe, che aveva baloccato i sudditi colle promesse della costituzione, operò, alla insaputa, il suo colpo di stato; poiché, sopprimendo il giuramento allo statuto, dichiarò a'  Ministri che da allora in avanti sarebbero stati responsabili soltanto con la Corona. L'assolutismo suggellava in quell'anno un trionfo; e memoranda resta per noi una nota del Filangieri, nella quale ritrae al Ministro degli Affari di Sicilia in Napoli i sentimenti delle varie classi dei cittadini al giungere la notizia in Sicilia (1).

Nel marzo del 1852 il Filangieri, chiamato ad obedire a un ordine supremo, emesso dal Cassisi, Ministro degli Affari di Sicilia in Napoli, dellneava le condizioni dell'Isola, che a lui parevano secure ed eccellenti pe' mutamenti politici di Francia e d'Inghilterra, Le ritrae, compiaciuto, né s'avvede, che, nel recare inganno a chi gli richiede le notizie, immiserisce la sua valentia; poiché il conquistatore e il capo delle mene basse poliziesche non può mutarsi in politico, mancandogli l'ingegno e la indole. Le calma ch'egli scorge, apparentemente, non gli fa scoprire le intenzioni ardite, che animavano i Siciliani, abbenché un buon numero de'  medesimi non avesse occultata la devozione al restaurato ordine, né mostrarsi ritroso alle viltà, che offendono coloro, che si prostrano alla calunnia, al tradimento, alla servilità. La relazione particolareggiata, anche da ipocrita, precede di più mesi il viaggio di Ferdinando (2); il quale dopo gli osanna e i tumulti di ammirazione delle Calabrie, riesce a strappare accoglienze trionfali ne' luoghi visitati in Sicilia.

Se, rigorosamente, siam chiamati a trarre giudizio sul viaggio in Sicilia, fermandoci alle giornate del 23, 24 e 25 ottobre, scelte dal re a dimora in Messina, a cagione della plebaglia adulatrice, ciondolata, serva per istinto, dovremmo cancellare il martirio di Messina, e cancellar pure, per la tenacità, l'encomio sublime del Gioberti, che la disse eroica (3). Ma noi in que'dì, nella folla, che inneggia al cospetto del sovrano, che la smantellò, non vediamo il popolo generoso, che altro non richiese che volere sempre combattere e resistere alle orde nemiche.

(1)Vedi Documenti, I.

(2) Vedi Documenti, II.

(3) Operette Politiche, vol. li, pag. 209, ediz. citata.

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E giacché siam costretti ricordare gli atti di una folla briaca, seguiamo Ferdinando nella città martire, e diciamo il vero, ché le memorie della storia non devono turpemente travisarsi.

Percorsa Ferdinando la Calabria festosamente: percorsa con quegli entusiasmi che son di vergogna a un popolo, che fin ieri aveva giurato di volerne la morte, fece ingresso trionfale in Messina, nella città distrutta nelle giornate del settembre 1848, distrutta da forze feroci, sempre resistenti al popolo, strenuo per la rivoluzione. Le accoglienze sfrenate, dopo il volgere di quattro anni, non furono ispirazione del popolo, scottato ancora dal martirio, ma opera di quel nucleo, che in ogni età sa rivelare la sua rea indole, inneggiando sempre, adulatore per costume e per interesse, ribelle alla virtù, schiavo di tirannide sempre. Un libretto ricordò queste gesta vilissime (1), e, dopo il correre di mezzo secolo, il puzzo esalante da quelle memorie tuttavia appesta. Noi ripetiamo la chiusa della descrizione, che non è un'onta alla città eroica, ma allo scrittore: «Così compiva il più generoso, il più clemente, il più giusto fra i Principi della terra il suo trionfo in due giorni, che resteranno a ricordo non perituro della sua gloria. — Così Messina potrà superbire del titolo di prediletta fra quanti erano popoli della devota Sicilia che sospiravano il momento fortunato che a Messina fu prima concesso. — Così la storia saprà unire su la Corona di Ferdinando II gli allori raccolti da'  suoi prodi su le rovine del disordine, all'ulivo da figli dilettissimi come frutto di pace, di amore e di paterne benedizioni». — La mano che vergava questa prosa enfatica, e imprimeva in essa le parole su le rovine del disordine, stimmatizzando la rivoluzione del 1848, non si peritava anche dal chiudere un'ode con questi sensi:

Troppo aspettammo... ah celere

Non T'involar da noi,

Tito alle Due Sicilie

Esempio degli Eroi;

Giusto, benigno e pio

Imagine di Dio ì (2)

Il Foscolo, che al Parini lodava l'artificio mirabile de'  versi d'un'ode, era dal medesimo ripreso con queste parole: «0 giovinetto, prima di lodare all'ingegno del poeta, bada ad imitar sempre l'animo,

(1)Memorie Storiche, ovvero Messina nel 23 e 25 ottobre 1852, Messina, 1852; Dalla Stamperia dell'Editore all'insegna del Maurolico.

(2) Vedi Memorie Storiche, etc. citate, pag. 28.

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ed a fuggirlo ov'ei ti conduca al vizio ed alla servitù» (1). La età nostra ebbe cantori, che in re Ferdinando trovarono rinnovato Tito, ne videro la imagine di Dio. — Quale dissimiglianza di nomini e di tempi!

Il 2 novembre 1852 l'Intendente Giuseppe Castrone manifestava: «Per riverita ministeriale del 28 ottobre or finito, S. E. il Luogotenente Generale ha fatto noto essersi degnata la Maestà del R. N. S. comandare la cessazione dello stato d'assedio imposto alla città di Messina il 28 marzo 1849». Il 5 novembre il Satriano, comunicando allo stesso Castrone un decreto regio del 2 novembre, esprimeva: «S. M. il Re, Nostro Augusto Signore, volendo sempre più favorire il commercio della città di Messina, e fare sperimentare a quella fedele popolazione nuovi tratti della Sua Sovrana clemenza, si è degnata di accordare delle bonifiche sullo ammontare dei Regi Dazi ai generi indicati nell'art. 19 del Regolamento sul Porto-Franco di Messina de'  12 febbraio di quest'anno, i quali, ancorché dichiarati pel consumo della città di Messina, sono esclusi dal beneficio della esenzione dei Regi Dazi d'immessione; ed in pari tempo di ordinare che i tessuti di cotone colorato che s'immettono e si dichiarano per consumo interno di quella Città sieno esenti di Dazio Regio d'immessione» (2).

A rendere omaggio, de'  varj consessi si costituì una deputazione, che si genuflesse al re, imagine di Dio; e, de'  prostrati a'  piedi sovrani e delle accoglienze reali, i giornali di Napoli notarono ogni sospiro, ogni atto, ogni bassezza; e le lodi degli stessi furono sterminate (3). A render poi omaggio imperituro, Messina erigeva una statua rappresentante la città, raffigurata in atto di additare tanto beneficio. È una deforme statua, che i nuovi tempi, anche a non perpetuare la deformità, avrebbero dovuto consigliare di ridurla a minutissimi pezzi!

Il viaggio, compiuto con esagerati schiamazzi nella Calabria, in Messina e in Catania, non tranquillava né l'animo regio né quelli de'  suo' devoti. Vivevano perplessi, e bastava un picciol cenno a nuove e libere istituzioni per farsi universale il turbamento. Il Satriano, che, con tanta letizia, aveva partecipato alla città di Messina la cessazione dell'assedio e la concessione di bonifiche al porto franco, nello stesso ottobre del 1852 denunziava, inorridito, al Ministro Giovanni Cassisi, un grave scandalo, che, nel ricordarlo, sperava non più doversi ripetere.

(1) Foscolo, Opere edite e postume, vol. n, pag. 164; Firenze, F. Le Monnier, 1850.

(2) Vedi Memorie Storiche, etc. citate, pag. 41.

(3) Vedi Memorie Storiche, etc. citate, pag. 52, 53, 54.

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Marinai austriaci avevano inneggiato alla libertà! Egli scrive: «La sera del 17 corrente (ottobre 1852) verso le 9 ½ p. m. una Guardia di Polizia nelle strade di Messina udiva da lungi un canto in italiano idioma, ma di straniero accento, che finiva colle parole viva la libertà. Accorsa colei immantinente sul luogo, quei che canticchiavano si diedero a fuggire, e potè solo riconoscere essere coloro tre marinai imperiali, i quali colla lor fuga a vista dello agente della forza publica diedero a dividere ch'essi comprendeano quel canto mal convenirsi nel paese ove si trovavano. Si è da quell'Intendente fatta, dell'occorso, analoga prevenzione al Console Austriaco in Messina per disporre l'occorrente da sua parte, onde siffatto scandaloso sconcio non si ripeta; ed ora stimo ragguagliarne V. E. per rimanerne intesa, e per servirsi risolvere locché stimi in proposito» (1). Il Filangieri, di coscienza lesa e di costumi fiacchi, ora eroe, ora capitano di ventura, ora preso in sospetto per idee liberali, ora gendarme di reazione, carattere sempre indeterminato, comprendeva lo svolgersi delle idee ne' nuovi tempi, ma si affaticava, con zelo, a volerle soffogare; se non che la permanente cospirazione pareva si volesse dare trastullo di quella attività politica, nella quale il Satriano neppure lasciò tracce geniali; perché pedestre in lui lo intelletto, soltanto l'animo rotto ad ambizioni e ad avidi e illeciti guadagni. I rivolgimenti del 1848 avevano lasciato larga e sublime eredità di ricordi; e costernando i medesimi i Ministri di Napoli, il Filangieri è chiamato a discolparsi per la canzone la Palommella, che ancor si udiva (2). Siffatte misere cose ingombravano la mente di chi tutelava un vasto reame; e la Sicilia e il Napoletano, trasandandosi gl'immegliamenti civili, soggiacevano al capriccio e alla crudeltà di gestori, o iniqui, per istinto e per istudio, o ignoranti, elevati per malvagio costume dalle cariche più umili alle più alte.

(1)Archivio di Stato di Palermo, Ministero e Beai Segreteria di Stato presso U Luogotenente Generale, anno 1852.

(2)Cosi il Satriano al Cassisi: «La musica che accompagnava la canzone napoletana la Palommella bianca, era divulgatissima in Sicilia, e durante l'ultima rivoluzione, s'intuonava dal popolaccio per le vie in alquante oscene e scempie cantafere contro l'Autorità Reale. In quella epoca medesima dalle Reali Milizie nelle Calabrie ed in Sicilia quando combattevano l'insurrezione, si canterellavano sullo stesso metro di versi contro i rivoluzionari. Ripristinato l'ordine tacquero quelle canzoni e la popolazione sapendo che l'Autorità ritiene come sediziosa la riproduzione di quelle note musicali, non le ha più fatto sentire. Può darsi che i numerosi fuorusciti siciliani che stanno in Piemonte, vanno ancora canticchiando nel dialetto siculo quelle canzoni; la qual cosa avrà potuto far supporre che il motivo della musica fosse un segno di riconoscimento in caso di tumulto». — (Archivio di Stato di Palermo, Ministero Luogotenenziale, anno 1853).

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E qui voglio io recare ancora un altro esempio, che può ben chiarire la leggerezza degli uomini di governo, che facevan di tutto a dare ruina alla famiglia regnante. Si disputa dal Ministro di Polizia in Napoli e dal Luogotenente in Palermo sul nome Indépendanty dato precedentemente al 1848 ad un vapore acquistato da Vincenzo Florio. Il Ministro scrive: il mio niego fu ispirato da un sentimento piti grave di quello cioè della inconvenienza che un piroscafo siciliano si intitolasse ancora col nome medesimo d'Inde pendant, che portava prima del 1848; sentimenti che io non celai manifestar al signor Vicesvinci (1). Tralasciando tali oziosità, che offendono l'animo, mentre rivelano la nefandigia di quegli anni e degli uomini che avevano il dominio politico, volgiamo la mente a ricordare gl'incrementi commerciali generati in Sicilia per opera del Florio.

Era sorta la casa commerciale Florio, rappresentata dapprima in Palermo da Vincenzo nel principio del secolo, quando già costui non era che un giovinetto quindicenne. Con pochi capitali, lasciatigli dal padre, indi accresciuti dalle dovizie, dalla onestà e dalla savia amministrazione dello zio Ignazio Florio, il nipote Vincenzo seppe dare avviamento rapido a que' commerci, che dan vantaggio a un popolo. Il Florio aveva sortito da natura ingegno pronto e securo, e volgendosi con tali doti, più che al cumunare ricchezze, alla prosperità delle industrie, in breve tempo fondò in Sicilia vaste aziende commerciali, che si accreditarono in Europa.

(1) Il Luogotenente Generale di Sicilia cosi rispondeva al Ministro degli affari di Sicilia in Napoli. — Palermo, 23 febbraio 1853. — Eccellenza. — Rilevo dal pregiato foglio di V. E. dei 12 andante N. 223 quanto dal Direttore del Real Ministero di Polizia si osservò sul nome d'Indèpendant che ha uno dei Vapori di Real Bandiera del signor Florio, e le considerazioni che lo mossero a non farlo menzionare nel Manifesto dell'itinerario dell'altro Vapore Corriere Siciliano che costà si affisse. — Riandando sulla storia dell'Indépendant è bene che V. E. sappia che or son più di quattro anni, questo vapore si apparteneva al Capitano Capefigue di Marsiglia, e con bandiera francese faceva dei viaggi intorno la Sicilia, allora in preda alla fazione anarchica. — Acquistato posteriormente dal signor D. Vincenzo Florio, fu coverto dalla Bandiera del Re, conservando il nome primitivo d' Indépendant; nome che si lasciò, per essere il vapore accreditato nell'Isola per la sua solidità e per la sua forza motrice. — Nessun pensiero politico s'implicava in questo nome, e venire ora dopo quattro anni a mutarlo, risveglierebbe forse quell'idea non caduta in mente ad alcuno e darebbe argomento a parlari, curiosi ed offensivi pel Real Governo. — Io quindi opinerei di lasciare correre il vecchio nome ed impedire che in avvenire si parli dell'lndependant nei Manifesti che si pubblicano in Napoli. — Su che mi attendo i savii divisamenti di S. E. — (Archivio di Stato di Palermo, Ministero Luogotenenziale, anno 1853).

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I vini, gli zolfi, la pesca, singolarmente de'  tonni, i legni a vela e i vapori, dapprima richiamarono la sua attenzione, e, operando con ingegno e con la esperienza di lunghi viaggi, sostenuti per visitare i luoghi più cospicui per rinomanza commerciale, non falli giammai nelle sue imprese, sempre ammirato dalle migliaia di famiglie, alle quali egli era prodigo de'  mezzi di lavoro, che da'  posteri congiunti vennero accresciuti. Estraneo alla politica militante, non si era però astenuto Vincenzo Florio nelle vicende del 1848 dal rendere ottimi servizj da cittadino probo; e abbenché il governo della restaurazione non l'avesse turbato nelle alte mire commerciali, pure, a cagion del vapore il Corriere Siciliano, un Ministro trovava modo di avvertire che un vapore del Florio, col nome l'Indépendant, doveva mutar nome nell'altro di Diligente. E ciò per non ridestare ricordi ribelli, sanciti dalle rappresentanze d'una rivoluzione appellata anarchica!

In quell'anno 1853 il P. Gioachino Ventura dava prove deboli, contrarie ai principj enunciati con molto calore ed intemperanza giovanile. Già nel 1849 in Montpellier aveva, dietro condanna eclesiastica, fatta ritrattazione ampia del Discorso funebre pe' morti di Vienna (1), e poteva indi tacersi, obliando nel silenzio il suo passato.

Però variamente egli pensò, siccome variamente aveva agito, e la verità non deve occultarsi. Ammalatosi in Parigi, gli recò aiuti e inganni

(1) Vedi Opere complete del Rev. Padre Gioacchino Ventura, Milano, Tiirati, 1860. — Questa la dichiarazione, datata 8 settembre 1849. «Io sottoscritto avendo saputo non prima d'oggi, per mezzo del Giornale romano, che il mio Discorso pei morti di Vienna, recitato e stampato in Roma alla fine di novembre 1848, per decreto della S. Congregazione dell'Indice è stato posto nel numero dei libri proibiti.

«Non ignorando ciò che in simili circostanze la Chiesa ha diritto di esigere da un suo docile e devoto figliuolo, massime se ecclesiastico, e volendo pienamente conformarmici: Credendomi in coscienza obbligato alle anime che ho dirette, al popolo che ho evangelizzato, di dar loro io stesso l'esempio della perfetta adesione che si deve agli alti giudizi della 8. Sede apostolica e che ho sempre loro insinuato colle parole: avendo sempre dichiarato e protestato di volere assoggettare al giudizio della stessa Santa Sede e del sommo Pontefice tutte le mie opere, e avendo con ciò contratto un impegno solenne col pubblico cristiano, di mostrargli col fatto in tale circostanza la lealtà di queste mie dichiarazioni e proteste; e la sincera volontà che ebbi nel farle, di metterle in pratica senza esservi stato nò costretto, né consigliato da alcuno, ma ascoltando solo i sentimenti proprj di un vero cattolico, dai quali, per divina misericordia, il mio cuore non ha mai deviato; liberamente e di mio spontaneo movimento dichiaro: che intendo di accettare, come accetto diffatti, il suddetto decreto di condanna dell'indicato mio opuscolo, e che anch'io condanno l'opuscolo medesimo senza restrizione o riserve, ma in tutta l'estensione del senso in cui, dalla legittima Autorità è stato condannato.

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il nipote teatino P. Cutrera; il quale moveva da Palermo dopo i presi concerti e i giurati impegni colla polizia. Sieché giunto a Parigi, corrispondendo col Direttore di Polizia in Palermo, il Filangieri scriveva a Napoli queste parole esecrande: «Palermo, 20 del 1853. — Il P. Teatino D. Paolo Cutrera ha scritto da Parigi una lettera al Direttore di Polizia, nella quale havvi un brano che merita l'attenzione di V. E., essendo correlativo a quanto si ripromette questo religioso nel recarsi presso il di lui zio P. Ventura» (1). E tali parole, esplicite, bastano a persuadere della missione assunta dal Cutrera, e com'egli, lasciando la Sicilia, recandosi a Parigi, non avesse avuto che un pessimo intento. Aveva il P. Ventura, con aperta confessione, rinnegato il suo passato, come espresse nella lettera di sottomissione a re Ferdinando; aveva detto: trovandomi all'orlo d'un sepolcro, non ho dimenticato l'óbligo che mi correva di fare alla M. V. una riparazione; ma forse senza gl'incitamenti del Cutrera, esortato dalla polizia, il P. Ventura, debole di mente e infermiccio, non avrebbe contaminato il suo passato, rinnegandolo, e protestando devozione a quel sovrano, che aveva udito tuonare la voce del filosofo e dell'oratore nelle Menzogne diplomatiche, ovvero esame de' pretesi dritti che s'invocano dal Gabinetto di Napoli sulla questione sicula (2).

«Riprovo ancora rigetto e condanno tutte e singole le dottrine, le massime, le espressioni, e le parole che in detto mio libro e, in qualunque altro mio scritto si trovano o potrebbero in seguito trovarsi in contraddizione con l'insegnamento della S. Chiesa Cattolica Apostolica Romana, unica vera. Protesto infine che in questa Santa Chiesa, in cui sono nato e vissuto, intendo e spero col divino aiuto di morire a costo di qualunque pena e di qualunque sacrifizio».  

(1) Archivio di Stato di Palermo, Ministero Luogotenenziale, anno 1853.

(2) Vedi edizione delle opere citate. — Si mettano in corrispondenza queste parole con la lettera di sottomissione a Ferdinando. «Ecco dunque la bella, la saggia, la libera costituzione che il re di Napoli, decaduto da ogni dritto sovrano, privo di ogni autorità, riguardato come intruso, usurpatore, tiranno, abborrito, detestato, maledetto sino dai sassi della Sicilia, osa di proporre al popolo siciliano da sette secoli in possesso della più larga costituzione di Europa; che ha adottate liberamente le dinastie che vi hanno regnato; che si è formato da sè le sue leggi, e non ha mai sofferto in pace che gli fossero imposte; che ha combattuto da eroe per la sua indipendenza e per la sua libertà, ed è tuttavia colle armi in mano per sostenerla a costo ancora del sangue e della vita. Ora ad un tal popolo, in tali condizioni, un tal re, venire ad offrire uno Statato sì balordo, sì vano, si inconcludente, sì derisorio, sì insultante, e lusingarsi che possa essere accettato, non è il capo d'opera della stolidezza, della follìa, della sfacciataggine e dell'insolenza umana?» — (. Menzogne diplomatiche, op. cit., vol. il, pagg. 56263).

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La lettera a Ferdinando è un atto di viltà; poiché il Ventura con essa, oltre a usare un linguaggio da schiavo, cancella le memorie gloriose della rivoluzione, che aveva combattuto non soltanto il dispotismo regio, ma la oppressione a'  diritti del popolo di Sicilia. Altri pari al Ventura diedero esempj tristi di viltà; ninno potè raggiungerlo negli intendimenti, che gli fecero esprimere ritrosia di sentimenti (1).

Ferdinando, ormai pago di non poche sottomissioni di rappresentanti politici, s'inaspriva contro coloro che negli Stati stranieri e nel Piemonte facevano propaganda contraria agli ordini amministrativi e civili del suo governo; sicché alle disposizioni varie, sovente angariche, sovente crudeli pe' proscritti, un'altra ne avrebbe voluto aggiungere, con la quale si sarebbero rinnovate le asprezze degli editti di Spagna, nel passato governante diverse regioni italiane. Si sparse la voce sinistra volersi il governo napoletano impossessare, co' mezzi della confisca, delle proprietà degli emigrati, specialmente degli esclusi dal decreto di amnistia. E non fu quella una voce infondata, poiché chiaro emerge, dal carteggio del Ministero degli Affari di Sicilia e della Luogotenenza, non essere mancate le intenzioni di manomettere le leggi in vigore, e manometterle, non potendosi derogare alle vigenti, promulgate nel 1819, in cui si era stabilito: «Niun reato può essere punito con pene che non erano pronunziate dalla legge prima che fosse commesso» (2). Non si poteva, adunque, derogare a una tale disposizione, se bene la prepotenza degli atti avesse potuto non dar freno a'  voleri de'  Ministri di un potere assoluto. Però la notizia molto mormorio destò negli esuli, e di quel rumore ci rimane una lettera di Giuseppe La Farina alla madre, nella quale, comunque egli si compiaccia disdire le voci corse, pure significa i modi di potere mettere in salvo la parte della sua proprietà (3).

(1) Vedi Documenti, III-

(2) Codice per lo Regno delle Due Sicilie; Leggi Penali, art. 60; Napoli, 1819.

(2) Parigi, 3 aprile 1853. — Carissima mammà. — Sebbene avrei potuto scrivervi la presente lettera per mezzo della posta, come al solito, nondimeno ho risoluto mandarvela per una via più sicura. Qui corre una notizia ch'io credo una chiacchiera, che codesto governo intenda confiscare i beni degli emigrati. Vi replico a dire che io non ci credo, e che in ogni caso non posso supporre che si voglia pensare a me, che non mi occupo per niente di cose politiche, e che da quattro anni fo una vita assolutamente solitaria, né mantengo corrispondenza con chi che sia. Il proverbio siciliano dice però, chi si guardò si salvò.

«Sarebbe quindi mia intenzione che si facesse una divisione fra me e Sile (Silvestro), della maniera seguente. Io riterrei per conto mio il denaro

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La lettera non giunge alla signora La Farina, poiché la polizia, che rovistava minutamente le valige de'  viaggiatori, la intercettò con violenza in taluno di essi.

In quell'anno 1853, il dì 10 giugno, solennemente si traslatavano, nella stessa città di Palermo, le ceneri di Giovanni Meli, morto nel 1815. Il poeta, anche rinomato in suo vivente fuori dell'Isola e lungi dalle Alpi, si era estinto quando alla Sicilia, pe' complotti diplomatici di Vienna, erano toccate sorti diverse dalle passate e dalle promettitrici degli statati del 1812, tutelati dall'Inghilterra, che, nelle aule di Vienna, si trastullava, infrangerli. Il modesto ricetto di San Francesco gli si mutò in altro splendido e perpetuo nel tempio di San Domenico, in cui già la usanza eccellente aveva collocato illustri estinti, erette memorie de'  migliori, da'  quali la Sicilia aveva tratto fama singolare negli studj e nelle arti. La città divenne in quel giorno allegra, accorrente a tributare onori al poeta che, con poemi, e specialmente con liriche, aveva rigenerato le arti del poetare, avvicinando la sua alle muse greche, in cui risplende a maggior efficacia la greca simplicitas, cotanta lodata dal Giordani. Al popolo, numeroso, seguirono il feretro il Senato, i docenti dell'Università e i varj corpi scientifici. Ricchezza di fiori piovvero al passaggio del convoglio funebre, e giungendo al tempio, a celebrare la memoria co' riti ecclesiastici, si aspettò l'arrivo di Carlo Filangieri, Principe di Satriano, luogotenente generale in Sicilia. Terminate le cerimonie sacre, schiusa la bara, il Pretore, alla presenza de'  cittadini, cinse il capo dell'estinto di una corona, e il poeta fu deposto in avello sculto da Mario Villareale, e che rimane ad onor sommo dell'insigne, onorato in Italia dall'Alfieri, dal Cesarotti, dal Casti, dal Monti, dal Foscolo; fuori da'  non pochi celebri,

che mi avete mandato; Sile riterrà per conto suo quel poco di beni stabili che possediamo, compresa la casa sulla quale trovasi impiegata la dote di Luisa.

«Voi come mia procuratrice fareste quindi a Sile un ricevo in regola del denaro che mi avete dato. Alla fondiaria rimarrebbe iscritto il solo nome di Sile e quello di Luisa per la parte dotale. In quanto al quartino che state fabbricando, siccome voi lo fate co' danari vostri, s'intende bene che i contratti saranno fatti in vostro nome, e che alla fondiaria sarà iscritto il nome vostro. La conclusione di tutto questo discorso è questa, che voi dovete trovar modo di sottrarre da questo pericolo possibile, non il mio, perché io calcolo che quello che mi avete mandato eguagli già la mia porzione, ma il vostro, quello di Sile e la dote di Luisa, che al presente rimangono in confuso. Eipeto che io credo questa notizia non vera, ma vi ho voluto avvertire per non restarmi scrupolo di coscienza. — La nostra salute è ottima. Tutto il resto ve lo scriverò per la posta. — Vi bacio le mani — Vostro aff. mo figlio». — (Archivio di Stato di Palermo, Ministero Luogotenenziale, anno 1853).

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che si studiarono di intenderlo profondamente, di tradurlo a vantaggio de'  loro connazionali, come lo Chatenet e il Gregorovius (1).

La violenza degli atti de'  governi restaurati trovava un contrapposto nella voce solenne di Giuseppe Mazzini, che, dall'esilio, fortificava i caduti. Egli, rinnovando il programma, in quell'anno 1853 scriveva: «Se il Partito Nazionale non si trasforma oggi, dichiaratamente, in Partito d'Azione, è Partito di tiepidi, disonorato, perduto». Credendo il Mazzini quasi compiuto il periodò d'educazione, inculca quello d'azione; e credendo riuscire vani gli sforzi de'  monarchici in prò della redenzione dell'unità d'Italia, arditamente rivela quali potrebbero essere i risultati de'  monarchici, quali gli altri de'  republicani. I tempi chiedevano risolute opinioni, e già i furori di una prossima guerra non avrebbero, con le idee del passato, messo in salvo l'Italia, sottraendola alle condizioni toccate dopo il 1848. Ed ecco che Giuseppe Mazzini, con la coscienza di un martire, scrive, e la parola, che corre rapidissima come fulmine, è sentimento, è educazione, che può fortificare gl'Italiani, destandoli dal torpore. Diceva: «Gli uomini della monarchia vogliono una guerra d'indipendenza dalla quale esca il trionfo d'una dinastia. E quel trionfo ha bisogno d'impiantarsi sulla riconoscenza della nazione, sulla coscienza in essa che l'impresa s'è vinta unicamente per opera della dinastia, dell'elemento regio destinato a reggerne l'avvenire. La guerra è dunque per essi guerra di forze regolari condotta colle vecchie norme delle guerre governative da generali di re: guerra alla quale le leve in massa, le barricate, le bande sussidio all'esercito, l'elezione di capi militari nei ranghi, le paghe ravvicinate, la infrazione ai dritti di noviziato o d'anzianità, la vigilanza esercitata dai commissarj politici sulle operazioni, le rapide promozioni e le destituzioni solenni, le audacie appoggiate su calcolo di forze, tutti gli elementi insomma delle guerre nazionali, sono segreti ignoti o sospetti; e sospetto è il popolo al quale ogni azione compita, ogni battaglia vinta con forze proprie, infonde coscienza d'un dritto funesto al principato futuro: sospetto ogni consiglio d'uomini di parte non regia, solamente perché il seguirlo accresce importanza a un elemento pericoloso.

(1) Palermo, trascorso quasi un mezzo secolo dall'aborrito passato, non ha un monumento pel grande poeta da renderlo memorando a'  posteri. Nè se ne pente, né se ne vergogna. Priva di piazze, l'unica destinò a on prosindaco, e ne perpetuò la memoria, temendo l'oblio, con un busto. Tali norme tracciano gli amministratori della cosa publica, nelle cui doti, se pure tali possano dirsi, sono principali la ingordigia de'  negozi; e la ignoranza detestevolissima! 4 — Guardi?!. II.

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E poiché una monarchia deve pur vivere logicamente d'alleanze monarchiche preparate anzi tratto, è sospetto ed inesorabilmente respinto ogni disegno che, comunque giovevole all'esito della guerra, urti di fronte tradizioni diplomatiche o rompa trattati. Il commercio inglese vieta alla guerra regia Trieste; la Confederazione Germanica le contende il Tirolo; la necessità di non insospettir le Potenze e di non mutare in guerra di principj una guerra di diritti locali, insegna a non giovarsi d'ausiliarj Svizzeri repubblicani, a respingere ogni aiuto di democrazia, straniera ad astenersi da leghe con popoli insorti. La loro è la guerra del quadrilatero; e il 1848 ci ha insegnato dove finisca.

«I repubblicani intendono la guerra nazionale come guerra anzi tutto di popolo; come guerra nella quale bisogna trarre le moltitudini sull'arena e suscitarle a entusiasmo di patria con tutti i mezzi possibili. Da quel fermento deve escire l'esercito, e ricomporlo di nuovi elementi, rinvigorito di nuovi capi, inalzato a dignità propria dall'esercizio delle facoltà elettorali; e deve movere fiancheggiato dalle fazioni irregolari dell'insurrezione, protetto contro il tradimento dall'occhio vigile degli agenti governativi, inanimato dall'azione universalmente ordinata all'interno. I popoli sono per essi gli alleati naturali della nostra guerra: allargare il cerchio dell'insurrezione quant'oltre si può, creare per ogni dove nemici al nemico, rompere arditamente i vincoli coi quali la diplomazia separa le nazioni; difendere il paese assalendo, è legge non solamente di fede politica, ma di tattica che vuol vincere» (1).

Giuseppe Mazzini all'ingresso delle trpppe francesi, aveva salutato i Romani con queste parole: «Una nube sorge tra il vostro avvenire e vol. È nube di un'ora...: durate costanti nella scienza del vostro diritto, e nella fede per la quale morirono i migliori di voi...: quando il cielo risplenderà raggiante di risurrezione...; quando tra breve ora il prezzo del sacrifizio che incontraste... vi sarà pagato, possiate allora ricordarvi degli uomini che vissero per mesi della vostra vita, soffrono oggi dei vostri dolori, e combatteranno, occorrendo, domani, misti ne' vostri ranghi, le nuove battaglie». Ed il 3 luglio, riunitisi alcuni dei rappresentanti del popolo avevano emesso questo decreto: «Quindici membri di quell'assemblea disciolta colla forza, riuniti sopra un qualunque luogo libero d'Italia, avranno diritto di convocare di nuovo l'assemblea, la quale sarà considerata come legalmente costituita tosto che si saranie dichiarati adunati almeno sessanta membri».

(1) Il Partito Nazionale, Cenni di Giuseppe Mazzini, pagg. 89, 1863.

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Costituito il Comitato nazionale italiano, al Mazzini, al Saffi e al Montecchi fu dato l'incarico di contrarre un prestito a nome del popolo romano,» e in vantaggio della causa nazionale per ristabilire l'autorità popolare in Roma. Giuseppe Mazzini, ridottosi in Inghilterra, aggregatosi co' profughi più celebri di altre nazioni, formò un Comitato europeo, che mirava a stabilire l'alleanza de'  popoli, in contrasto a quella de'  principi; e già dal 1850, con LedruRollin per la Francia, con Arnaldo Ruge per la Germania e col Darasz per la Polonia aveva egli espresso: «Noi vogliamo costruire la democrazia europea; fondare il tesoro, la cassa de'  popoli; ordinare l'esercito degl'iniziatori... Gli emancipati compiranno il lavoro, noi siamo oggi per essi e nel nome loro sulla breccia. Stringiamo le destre, e pensiamo a combattere». Aprì adunque il Comitato, cui si aggiunsero il Saliceti e il Sirtori, un prestito di dieci milioni di lire, cogli utili del sei per cento, che avrebbe dovuto rifondere il futuro governo nazionale. Avrebbe il Mazzini trovati assai oppositori, perché i nemici più fieri, amanti di calunnie, rammentavano i tentativi di Savoia, delle Romagne, e gli attribuivano la tragedia di Cosenza; ma prevalendo l'affetto alla patria serva e conquisa, l'aspirazione alla indipendenza, molti si resero con animo determinato alla cospirazione, che in nome di Dio e del Popolo, doveva francar da servitù e da tirannide il popolo d'Italia. Le anime grandi de'  martiri, morti sulle barricate di Roma e di Venezia, del Dandolo, del Morosini, del Manara, di Alessandro Poerio, di Cesare Rosaroll ispiravano nuova virtù ne' petti italici; e da quella nuova cospirazione l'Italia pareva, finalmente, destinata a liberarsi dalle forze straniere.

I proclami e gli altri scritti rivoluzionarj si diffusero in maggior numero nella Lombardia e nel Veneto, e il maresciallo Radetzky «determinava che chiunque ne fosse venuto in possesso, immediatamente alla più vicina autorità politica il consegnasse, indicandone la provenienza, e che il possesso e la mancata denunzia si punirebbero col carcere duro da uno a cinque anni» (1). E se grande fu il terrore destato dal maresciallo, non meno austero fu il contegno tenuto da'  cittadini, che le minacce, le prigionìe e la morte ebbero in disprezzo. Le memorie istoriche ricordano l'intrepidezza di Antonio Sciesa, condannato a morte per l'affissione di un proclama; ricordano com'ei, liberamente, si fosse recato al supplizio, e come nella prolungata agonia, da forte, avesse disprezzato le maligne insinuazioni della polizia austriaca e del tribunale militare, che,

(1) Belviglibri, Storia d'Italia dal 1814 al 1866, vol. IV, pag. 295; Milano, Corona e Caimi, 1872.

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per bocca dell'onesto operaio, avrebbero sperato scoprire cose di maggior conto. Tacque sempre lo Sciesa, o se motto alcuno proferì, inoltrandosi al luogo destinato per dargli morte, fu Tiremm innanz (1).

Non ancora cessati gli strazj delle condanne, Francesco Giuseppe visitava i suoi Stati in Italia. Dappertutto lo accolse il silenzio. A Venezia dava franchige irrisorie al portofranco, negando il comando generale della marina. A Milano il Municipio, anzi che preparargli feste, rompendo la taciturnità del popolo, in un indirizzo, severo e dignitoso, facevagli note le sventure della città, cagionate da'  dolori e da'  lutti arrecati dal potere militare. Talché rimessa tra le piccole qualche pena, il giovane imperatore si tolse alla vista di un popolo disunito per opera della politica straniera, oppresso da cento e cento mali. Partito l'imperatore, anzi che scemare, 6Ì accrebbero i dolori del popolo. A Como, che niun omaggio aveva voluto rendere a Francesco Giuseppe, sali il patibolo Luigi Dottesio, preso in sospetto di diffondere le cartelle del prestito mazziniano; a Mantova si fece morire di fucilate il prete Giovanni Grioli. sospettato di possedere scritti rivoluzionar]; e altre condanne seguirono nel Friuli, nella Valtellina, nel Veneto e nel Polesine. Memorande fra tutte quelle di Mantova, in cui, per i motivi addotti, una corte marziale, preseduta dal generale Culez, condannò a morire col laccio sulle forche Enrico Tazzoli, pio e intemerato sacerdote, Scarsellini Angelo, De Canal Bernardo, Zambelli Giovanni, Paganon Giovanni, Mangili Angelo, Faccioli Giulio, Poma Carlo, Quintavalle Giuseppe, Ottonelli Giuseppe, sacerdote parroco. Queste morti furono misfatti atroci. Il popolo sperò la commutazione della pena; ma le speranze e i desiderj furono vani. Si pianse assai per il Tazzoli, ultimo a morire per aver voluto assistere i suoi compagni (2). Da quei giorni di lutto sull'Austria si raddoppiarono gli odj, e il dito di Dio e le forze del popolo non tardarono a distruggerla.

(1) «Uomo maturo, padre di famiglia, tappezziere di professione, lo Sciesa fu sorpreso di notte da una pattuglia, mentre stava affiggendo ad una muraglia un proclama. Sottoposto a Consiglio di guerra fu nelle ventiquattr'ore condannato a morte, fucilato, ina fucilato e non impiccato, sol perché, come ebbe cura di dire la sentenza, mancava il boia. Lungo il tragitto dal carcere al luogo della esecuzione gli fu offerta grazia purché palesasse i complici; alla quale egli rispose colle due parole Tiremm innanz, diventate leggendarie nella loro eroica semplicità — (Rivista Storica del Risorgimento Italiano, vol. n, pag. 602; 1897, Roux e Frassati).

(2)«Sul piano di Belfiore sorgeano cinque forche. A quella vieta, il Tazzoli, senza mutare aspetto e con quel sorriso spirituale di cui, come fa notato da altri, la morte stessa lasciò viva in lui tutta la espressione, esortò i compagni a morire da uomini.

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DOCUMENTI (1)

I.

Per gli avvenimenti di Parigi. — Il Luogotenente Generale Duca di Taormina al Ministero per gli affari di Sicilia in Napoli.

Palermo, 11 dicembre 1851. — Eccellenza. — Le novelle del grave avvenimento dell'ardito e felice colpo di Stato del Principe Luigi Napoleone recate qua dal R. Piroscafo il Messaggiere, han prodotto, come era da aspettarsi, una profonda impressione. Si è data tutta la pubblicità nei Giornali a'  fatti di Parigi del giorno 2 e 3 andante, e con satisfattone ho visto che universalmente sono tornati graditi, rassicurando gli animi dalle minacciate eventualità dell'anno 1852, con le quali da un anno si costernavano i buoni. I timidi e gl'incerti che aveano sempre dinanzi agli occhi il fantasma della rivoluzione, e che non osavano manifestare i loro pensamenti, han ripreso lena, ed hanno esternato la loro esultanza vedendo soffocato oltremonte il fomite del Socialismo. La parte guasta però del paese, quei tali che nutrono perversi e sovversivi principii, coloro che per delusa ambizione sono ostili al Governo di 8. M., tutti quelli infine che facevano assegnamento sul rivolgimento di Francia per tornare a' disordini del passato, all'annunzio dell'atto di vigore del Presidente della Repubblica han compreso che poco o nulla v è più a sperare da quel paese, e che i disegni della demagogia verranno meno, e che i Governi sempreppiù consolidano il loro potere.

II.

Il Luogotenente Generale in Sicilia al Ministro degli affari di Sicilia in Napoli.

Palermo, 12 marzo 1852. — Eccellenza. — Il consolidamento del nuovo ordine di cose iniziato in Francia dall'atto del 2 dicembre, ed il mutamento sopravvenuto nella politica della Gran Bretagna, han di già portato i loro frutti, ed oggi questo paese offre uno stato di calma e di quiete negli animi che si rivela negli atti e nel portamento di quegli stessi che mostravano un contegno ostile al R. Governo.

E morirono tutti da forti, mandando all'Italia il loro ultimo saluto. I tamburi copersero il fremito d'orrore della folla. Il Tazzoli si cavò un anello, in cui erano legati i capelli di sua madre con quelli di Teresa Arrivabene, ed un ricordo mandatogli dalla pupilla Isabella, e il consegnò a chi li rime tesse alla famiglia — Enrico Tazzoli per Gaetano Polari, ne' Contemporanei Italiani, pag. 74; Torino, Dall'Unione Tipografico Editrice, 1861.

(1) Tratti dall'Archivio di Stato di Palermo, Ministero Luogotenenziale, anni 18511853.

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Non è già che una conversione siasi succeduta nell'animo di costoro, ché incapaci sono, per odiosi passioni, di ravvedimento; ma han ceduto ad un timore che si è in loro destato per le mutate condizioni dei tempi. E difatti coloro che sederono nei conciliaboli del Convento di San Francesco, e che rifiutarono a seguire lo esempio de'  loro colleghi a firmare Tatto di disdetta a quello notissimo del 13 aprile, oggi sonosi dati, non per tardivo pentimento, ma per codardo consiglio di atterrita coscienza a farne ammenda, per quanto io sappia, firmando un foglio di sommessione, identico a quello che altri più opportunamente seppero e voller fare. I buoni sudditi sonosi confortati alla vista delle garanzie di pace e di tranquillità che presenta la politica di Europa, gl'incerti che trepidavano han ripreso animo e respirano oggi più fidenti nell'avvenire del Governo del Ke, ed i malvagi che contavano buI cataclismo sociale preconizzato dalla demagogia in questo anno han dimesso, o aggiornato i loro rei disegni. Ma questa demagogia viste mancare ad una ad una tutte le folli sue speranze, e conquisa là dove avea più proseliti e più mezzi di azione, cedendo alle necessità de'  tempi, bì rifugierà, or che non può più levar alta la fronte, nelle cospirazioni secrete, e ricomincerà nell'ombra e nel mistero quel travaglio dissolvente dello spirito di setta che preparò la combustione generale d'Europa nel 1848, e di cui la prima scintilla partiva da Sicilia. Quest'ap pressione non vana, ed ispirata dall'esperienza del passato, e dalla Storia di tutte le rivoluzioni abortite, mi tiene in guardia, e fa ch'io versi la mia attenzione ad impedire quelle occulte associazioni, e quelle conventicole tenebrose, ove si tempran le armi per le rivoluzioni. La massa della popolozione che fu da l'empie dottrine de' novatori traviata, ma non pervertita, si è abituata al rispetto ed alla obbedienza verso l'Autorità governativa, e di questo felice ritorno allo stato normale, non v' è chi non vegga tuttodì meravigliosi effetti. L'odio che la rivoluzione ispirò nelle moltitudini contro tutto ciò che rappresentava la legge, e contro quello che personificava le idee d'ordine e di conservazione, si è, la Dio mercé, dileguato; ed oggi il paese offre il consolante spettacolo di vedersi il principio d'Autorità rispettato e temuto. Sonovi però ne' grandi centri di popolazione, ed in Palermo, più che altrove, abituati al disordine, i cui istinti feroci li rendono avidi di sangue, e di novità, gente fluttuante sempre fra gli ozii ed i bagordi d'una vita vagabonda e l'espiazione del bagno, materia sempre pronta alle rivoluzioni. Ma questi tali contenuti con una mano di ferro, non osano levare il capo. La docilità delle masse alla sommessione alle leggi ed all'autorità, che accennava dianzi, si rivela dallo scemarsi de'  delltti e de'  misfatti, com'emerge dalla statistica penale, e dello stato di sicurezza che offrono le città e le campagne. Se non che v'è ancora a deplorare la continuazione de'  reati contro la religione e il buon cortame, e tutta la mia sollecitudine è rivolta ad infrenare le malvage passioni d'uomini che han perduta ogni idea di timor di Dio, e che trascorrono in brutale incontinenza. Alle offese che cuori empii recano alla Religione, ed alle scellerate libidini di animi corrotti e licenziosi che bravano la pubblica morale e l'onor delle famiglie, non sempre sono per la natura stessa dei reati di sufficiente schermo le leggi, ed io su tali colpe procedendo inesorabilmente li dove scorgo che le forme e le garantie delle leggi stesse danno un varco ad eluderle, sopperisco con misure economiche di lunghe detenzioni, e di deportazioni nelle isole.

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Più che la severità delle pene in fatto di questi reati è ben efficace a reprìmerli la voce autorevole della Religione, per la qual cosa non mi ristò mai dal raccomandare al Clero per mezzo degli ordinarii di predicare dalTalto del Pergamo la divina parola del Vangelo, e lo adempimento delle cristiane virtù per ravvivare lo spirito religioso ne1 cuori, e ridestare il sentimento di quell'eterne verità che reggono il consorzio degli uomini. Come ho detto, nei miei precedenti rapporti, il Clero, si secolare, che regolare, non risponde alla divina sua missione per essere involucrato in mondane passioni e per non essere castigati i suoi costumi. Mancando quindi nel Sacerdozio l'esempio di quelle virtù che ispirano la venerazione nella moltitudine, la sua parola che parte dal pulpito non ha l'autorità necessaria per produrre buon effetto. Sonovi però delle nobilissime eccezioni, ecclesiastici, che, a profonda dottrina, congiungono intemerati costumi, e su questi tali io confido per ricondurre i traviati. Non dirò che un motto sulla classe degl'impiegati in generale. E1 a desiderarsi che abbia fine lo scetticismo politico che provato nella più gran parte di essi, che abbian fede nella stabilità del Governo del Re, e che s'identifichino ne' suoi interessi.

Palermo trovasi in calma, e sono cessate auelle sistematiche menzogne, quelle assurde novelle colle quali gli occulti agitatori si studiavano di tenere in fermentazione lo spirito pubblico. Questo stato di qui si deve alle presenti contingenze de'  tempi ed alla severità del R. Governo. Quieta anche la plebe di questa grande città che vive docile e sommessa, comunque angustiata da miseria per la scarsezza del ricolto del caduto anno, e per la sofferenza in cui trovasi il commercio di esportazione che dava vita ed alimento alle classi laboriose.

E questa miseria si risente vieppiù da quella classe media del foro, e da tatto quello stuolo di Patrocinatori, di Razionali, di Notari, e d'altri scritturali, vera tabe della Società di Palermo, classe loquace e turbolenta, che non ha opinioni, malcontenta sempre ed avida di novità, e di mutamenti da cui spera fortuna.

Messina è sempre la stessa Città, che chiude nel suo seno il germe della insurrezione, ed a cui non valgono a far rinsavire i benefizii che la mano generosa del Re ha largamente profusi su di essa. La massa della popolazione è buona, ama il viver tranquillo, e riconosce quanto deve alla magnanimità del Monarca.

Ma vi é una minoranza faziosa, decisamente avversa al principio della legittimità, che non si ristà mai dal cospirare per turbare il riposo di quella fiorente Città.

Là più che in altro luogo, io inseverisco, e mi mostro inflessibile per isbarchicarvi quello spirito di setta, che è il motore di tutte le perturbazioni che datano dal l'settembre 1847.

Io porto lusinga che perseverando nel rigore il mal seme si estirperà, e che quella Città, tanto importante sotto il rapporto politico e geografico, bandirà una volta quello spirito sedizioso dei traviati suoi figli, che le ha attirato tante calamità. Catania continua ad esser buona e tranquilla, e l'operosa sua popolazione è tutta intenta alle oneste sue speculazioni ed al travaglio. I novatori che stanno nella classe più agiata e più intelligente, sapendo che stanno vigilati, e che non corrono più i tempi delle utopie, mostransi tranquilli e sommessi, anzi si studiano di evitare ogni cosa che potesse attirar l'attenzione dell'Autorità su di essi.

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In questa Città, bisogna confessarlo, le idee d'ordine ed il sentimento di fede al Re, S. N., han fatto immensi progressi. Le Città secondarie dell'Isola ed i grossi Comuni nulla offrono di notabile, e lo spirito pubblico si è buono, a parte, come sempre ho ripetuto, di un certo numero di torbidi, che aspirano a novità, ma il cui maltalento è infrenato dal rigore. — Le popolazioni rurali, a meno quelle del contado di Palermo, sono animate da eccellente spirito, hanno in somma venerazione il Governo del Re, ed è confortante, che in esse le tradizioni politiche e religiose siati rimaste in tutta la loro interezza.

Non può dirsi altrettanto di quelle del Distretto di Palermo. — Bagheria, Misilmeri, Piana, Partinico, Morreale, Carini contengono sempre una popolazione feroce, pronta alle rivoluzioni, e proclive al furto ed al sangue. Ma l'azione incessante dell'Autorità previdente ed energica ad un punto, è giunta in quei Comuni a reprimere le sbrigliate passioni siffattamente, che quelle contrade altra volta teatro di sangue e di rapina, oggi godono quiete e securtà, e se il Governo non vi è amato, perché con mano gagliarda infrena la licenza, ai certo vi è rispettato e temuto.

E' penoso per me di dover del continuo essere armato di severità e di mostrarmi inesorabile nell'esercizio del potere. Ma è una necessità il farlo, e d'altronde i rigori ricadono sopra uomiui, che avean rotto ogni vincolo sociale, e che sono insoffVrenti di qualunque giogo.

Io ho la convinzione, che, finche durerà l'infermità nelle menti, e la depravazione ne' cuori, prodotti dalle ultime commozioni (ed il tempo ne sarà lungo) il Governo del Re non deve smettere da'  suoi giusti rigori, ritenendo, che l'inflessibilità sola può disciplinare gli uomini pervertiti. Smarritosi ogni sentimento del giusto e dell'onesto da gente, cui la passione fa velo al giudizio, non v'è che la paura, che possa contenerli nella diretta via. — La paura quindi dev'essere un elemento di governo co' perversi, la paura che i legislatori antichi riconobbero e deificarono, elevandola sugli altari, come a Nume tutelare della Città.

Accolga V. b. questo cenno sulla situazione politica e morale di questa parte del Reame, e nel rassegnarlo alla Maestà del Re nostro amatissimo Sovrano, le piaccia sommettergli, che ogni mio sforzo, ogni mia sollecitudine mira incessantemente a fare amare il clemente e paterno Suo Governo, mettendo ne' suoi atti quella verità, quella giustizia e quella moderazione, di cui l'esempio parte dall'alto del Suo Trono.

III.

Lettera del P. Gioacchino Ventura a Ferdinando II.

A S. M. Ferdinando II. — Mi si scrive da Palermo che Vostra Maestà ha preso il più vivo interessamento alla mia vita, ne' momenti in cui una mortai malattia è stata sul punto di togliermela e che. in molte circostanze, la M. V. si è espressa, sul conto mio, ne' sensi della più grande indulgenza, e d'un'iinmensa bontà. Tutto ciò, Sire, mi ha profondamente commosso.

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Devo ancora essere gratissimo a V. M. della particolare protezione che a mio riguardo (a quanto mi si assicura), il Vostro Real Governo di Sicilia ha spiegata per la mia famiglia, e della facilitazion accordata al P. Don Paolo Cutrera Teatino, mio nipote, onde raggiungermi qua in Parigi. La sua presenza al letto del mio dolore, e le sue amorevoli cure mi sono state di un gran sollievo, ed hanno non poco contribuito al ristabilimento che la Divina misericordia ha voluto concedermi.

Questa condotta nobile, generosa di un animo veramente reale per parte di V. M. mi ha tanto più colpito e confuso che l'attitudine da me presa nelle vicende del 1848, pareva che avesse dovuto per sempre escludermi dagli affetti della vostra clemenza. A proposito di questi avvenimenti io sono dolentissimo di avere, in qualcuno dei miei scritti di quel tempo, fatto torto al carattere morale di V. M., sopra rapporti di persone che io avea luogo di credere sincere, e che in seguito mi sono divenute sospette. Ma, grazie a Dio, io ho, Sire, una coscienza. Trovandomi dunque all'orlo del sepolcro, non ho dimenticato l'obbligo che mi correva di fare alla M. V. una riparazione; e l'ho fatta in una dichiarazione da me dettata al mio confessore, e che doveva essere pubblicata dopo che io fossi trapassato. Ma questa dichiarazione, cui la circostanza della mia morte avrebbe impresso il sigillo della sincerità e delle verità; non avrebbe, me vivente, lo stesso valore né la stessa portata. In Francia, come in Italia, non si mancherebbe di attribuirla ad un calcolo di mio personale interesse che, la Dio mercé, non è mai stato la molla del mio operare, e che non raggiungerebbe affatto lo scopo cui è diretta. D'altra parte, essa non farebbe, che risuscitare discussioni penose che è nel comune interesse che restino sepolte nell'oblio in cui gli avvenimenti e il disinganno le han fatto cadere. Ecco, Sire, perché ritornato alla vita, io non ho creduto e non credo espediente di fare ciò che avea disposto, e che resterà fermo, nel caso della mia morte.

Nulla però potrà mai, o Sire, cancellare dall'animo mio la memoria dei tratti della vostra degnazione, né della riconoscenza che ve ne debbo.

Nel suo ritorno in Sicilia, ripassando per Napoli, il Padre Cutrera avrà l'onore, se V. M. glie ne accorda la grazia, di farle omaggio de'  due volumi di Conferenze sulla Religione che io ho qui pubblicati, e di confermarle la gratitudine di cui è penetrato il mio cuore. Intanto accogliete, o Sire, questa semplice, schietta e leale manifestazione che le vostre bontà han provocata e quale del mio carattere si conviene, come una prova del profondo rispetto e divozione, con cui, baciandovi la mano, ho l'onore di essere. — Parigi, 16 marzo 1853. — Um. mo osseq. mo ed ubb. mo suddito D. Gioacchino Ventura.

CAPITOLO TERZO

Del Filangieri e delle ritrattazioni de'  Deputati e de Pari — Processi politici — La Guerra d'Oriente — Le convenzioni per la Guerra d'Oriente eon l'Inghilterra e la Francia discusse nel Parlamento subalpino — Timori per la invasione colerosa — Il Filangieri richiamato in Napoli — Ritorno delle plebi alla calma — Di un'opinione del Palmerston sul Murat — Rivelazioni del Carafa sulle mene rivoluzionarie — Fine della Guerra d'Oriente e il Congresso di Parigi — I Giornali politici — Il «Piccolo Corriere d'Italia» — Il Programma della Società Nazionale — De' partiti politici degli emigrati in Parigi — Nuovi processi politici e condanna a morte di Francesco Bentivegna e di Salvatore Spinuzza — L'attentato a re Ferdinando — Agitazioni de'  fuoriusciti — Tentativi di sbarco degli stessi nel Regno.

Volgendo lo sguardo al passato, considerato il Filangieri negli anni percorsi dal 1849 al 1854, ci è toccato giudicare le sue azioni da conquistatore e di strumento validissimo per opprimere un popolo. Eppure il nostro giudizio può essere attenuato, ricorrendo alle opere compiute dagli uomini della rivoluzione. Il Filangieri, tutto dedito a render servizio al suo monarca, spietatamente, aveva dato principio al governo restaurato coll'opprimere il popolo e colle fucilazioni; e credendo che i suoi atti fossero stimati non maligni dall'Europa, poco dopo il suo ingresso nella capitale dell'Isola, si propose rendere un'irrisione il decreto del dì 13 aprile 1848, che era ricordo infausto del voto delle Camere sulla decadenza di Ferdinando II e della dinastia. E la proposta, che doveva parere si scabrosa ad attuarsi, travagliò poco il Satriano, perché disposti e Deputati e Pari a sottomettersi, a disdire, con fiacchezza di detti, l'espressione più solenne del Parlamento di Sicilia. Dovendo esecrare i fatti, ricorriamo dapprima alle parole del Filangieri. Egli, il dì 6 maggio 1850 scriveva al Ministro Cassisi con tale spensieratezza. — «Fra gli atti più scempii che disonorarono la Sicilia nel periodo funesto della sua rivoluzione fuvvi quello esacrando de'  13 aprile 1848 con cui una mano di sudditi ribelli ne' saturnali di un empio conciliabolo dichiarava decaduto il Re S. N. e la Sua Augusta Dinastia, dal governo di una parte della Monarchia. La riprovazione dell'Europa e le armi vittoriose del Re fecero ben presto giustizia di quel politico misfatto, e la rivoluzione conquisa e vinta, finiva con un generale perdono,

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con un'ampia amnistia che il Re, magnanimo sempre, generosamente concedeva, per covrire tante colpe e tanti errori. Poco dopo i sedicenti Pari e Deputati, che votarono l'atto del 13 aprile, pensarono di farne ammenda, e di protestare alla faccia del mondo che desso non fu l'espressione della loro libera volontà, ma estorto dalla violenza d'una fazione che aveva manomesso la Sicilia e che ne aveva giurata la rovina. Quindi spontaneamente, e senza che l'autorità v'abbia preso parte alcuna, sonosi umiliati degli indirizzi alla Maestà del Re da questi sudditi ravveduti, i quali, confessando i propri errori, han fatto atto di fedele sudditanza e di sincera devozione. Solo nove Pari e 41 Deputati sonosi ricusati all'invito dei loro colleghi di adempiere un dovere, che se non era da attendersi nel loro ravvedimento, doveva aspettarsi bensi dalla loro riconoscenza. Ma questa riluttanza di pochi di fronte del voto della maggior parte, servirà a provare che l'atto sommesso a S. M. è stato spontaneamente dettato.

Nell'onorarmi d'informare V. E. che gl'indirizzi sono stati di già messi a piedi del Re, io mi pregio di trasmetterle in due specchietti i nomi di quelli che han firmato la disdetta, di quelli che sonosi ricusati, e degli altri che trovansi o emigrati

0estinti» (1).

Se le vicende degli anni ci avessero conservato solamente le su esposte parole, i posteri potrebbero credere a un mendacio del conquistatore, ma avendoci pure tramandate le sottomissioni de'  rappresentanti delle due Camere, si è costretti giudicare ignobili le loro azioni, scellerato il contegno tenuto, o per timidezza, o per servilità. Il che ci mena a giudicare, che in Sicilia l'opera grandiosa della rivoluzione popolare del 12 gennaro fu distrutta da'  rappresentanti, e che in essi, specialmente nel ramo della aristocrazia, assai prevalente, non albergò fede alla rivoluzione, bensì al monopolio delle cariche, agli astj, che l'avevano sempre alimentato dal 1820 contro il Governo di Napoli. Le istorie parlamentari degli Stati, sorti dalle rivoluzioni, indi ricaduti per il sopraggiungere delle forze tiranniche, non presentano una sì triste e rea memoria. I rappresentanti presa la fuga, lasciato il popolo in mani nemiche, rinnegano i loro voti, li dichiarano emessi perche astretti, e si prostrano ossequiosi a quel monarca, da cui credevano avere avuto origine ogni male. Tra i cento e cento esempj di cotanto vigliacco costume, diamo ricordo di due Pari, le cui idee esposte

(1) Vedi Documenti, I.

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non sono dissimili a quelle degli altri, prima e dopo sottomessisi, per mano del Filangieri, a re Ferdinando (1). E questi e tutti gli altri potevano davvero confermare il Filangieri nell'opinione che la rivoluzione fosse stata una scapestreria!

I sentimenti, gli errori e le ingenerose ritrattazioni non cagionarono che il discredito ed accrebbero le file de'  cospiratori. Oramai il popolo non riponeva alcuna fede negli uomini, che avevano rappresentato la Rivoluzione; ma, se odiosa tornavagli in mente la memoria dell'aristocrazia, che, inetta, timida e servile, aveva dato ruina a ogni opera trascorsa, facilitata la conquista, volgeva l'anima a speranze su' pochi esuli, che non cessavano di combattere il dispotismo di casa Borbone e la prepotenza efferata di Carlo Filangieri, Principe di Satriano e Duca di Taormina. Dopo i tentativi del Garzilli, del Mastruzzi e del Poulet, che erano stati una sfida solenne, il Governo, costernato dell'esistenza di un Comitato in Palermo, come ramificazione del Comitato famoso di Londra, sì infausto agli Stati d'Italia (2), dal 1851 si era attivato a chiudere in prigione coloro che maggiormente erano caduti in sospetto, e un brano della lettera cennata ci dà minuto ragguaglio della solerzia della polizia. Dicevasi ancora dal Filangieri: «A quando a quando qualche membro del Comitato è stato arrestato per impellente necessità. Cosi avvenne nel novembre 1851 per Giuseppe Vergara Craco, oggi fuoruscito, per D. Luigi la Porta, per Don Stefano Sciacca, per Vittoriano Lentini, tutti giovani sconsigliati, che figurarono nell'ultima rivoluzione, e che non han saputo acquietarsi ad un vivere tranquillo. Dal fondo delle prigioni questi ultimi quattro membri del Comitato non han cessato di comunicare coi loro consocj di fuori, ed un'attiva corrispondenza verbale e scritta passava tra le prigioni e la città. Molti erano, da guadagnati messi, recati al Direttore di polizia, il quale pigliava copia del carteggio, e poscia lo lasciava correre. Si raccolse una curiosa corrispondenza, da cui si rileva, a traverso di un superbo linguaggio, meschine macchinazioni e deplorabili follìe. Conosciuto tutto questo, disposi che la polizia si desse tantosto a seguire le persone più notevoli in fatto di audacia demagogica, e di tenersi pronta per isventare l'insano proponimento. È stato arrestato il Bentivegna; si dovrebbero arrestare inoltre D. Ferdinando Cozzo,

(1)Vedi Documenti, II.

(2)Il Duca di Taormina al Ministro Cassisi, Ministero Luogotenenziale. 1853.

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D. Michele Inguaggiato, il padre Milazzo dei Cappuccini, il cav. Federico, il Marchesino Costantini, ed altri individui» (1). Da Genova Rosalino Pilo e da Londra Giuseppe Mazzini tenevano in agitazione i Siciliani, e le promesse di soccorso di armi lusingavano gli animi ad una pronta sollevazione. Il Vergara Craco, che si era celato alle continue vigilanze poliziesche, ricevuta una lettera del Mazzini il dì 6 dicembre 1851, rimasto la sera in Palermo, il dì 7 fri tratto agli arresti, denunziata la sua presenza in città da una donna addetta ai servizj della sua amante (2). Trattenuto nel Castello a Mare nove mesi, fu costretto a chiedere un passaporto per gli Stati stranieri, e negatogli il confino in qualche comunello dell'Isola, recatosi in Marsiglia, e ingiuntogli dal Console napoletano di lasciare la Francia, anzi che l'America scelse a refugio l'Inghilterra, ove fermatosi fino al 1852, conferì più volte con Giuseppe Mazzini, ponderando sulle condidizioni politiche della Sicilia. Dopo, fermata sua stanza a Genova, s'ispirò a'  pensieri degli esuli, che si affaticavano a liberare la Sicilia dalla mala signorìa del Borbone.

Durando un tal fervore, sempre crescente da parte degli esuli, una dichiarazione politica, cui 3eguì lo scoppio di una guerra, mutava le condizioni d'Italia (3). A cagione d'un conflitto religioso, avvenuto in Palestina tra Latini e Greci, intervennero, in favore dei primi la Francia, in favore de'  secondi la Russia e l'Inghilterra. Questa, in questione cotanto importante, intervenne prima come mediatrice, indi come parte interessata. Mal tollerando la Russia che la Turchia cedesse piuttosto alla Francia e all'Inghilterra, rese consapevole il governo turco che avrebbe occupati i Principati danubiani, dipendenti allora dalla Turchia; ed il dì 3 luglio 1853 le colonne russe, passato il Pruth, entrarono in quel paese. Le flotte di Francia e d'Inghilterra dal 13 giugno lasciate le stazioni di Salamina e di Malta, avvicinandosi allo stretto de'  Dardanelli, si erano ancorate presso Tenedo nella baia di Besika. Non entrarono nel Mar Nero che nel 1854, dopo che la flotta della Russia il 3 novembre 1853, forzando l'ingresso della rada di Sinope, incendiava della flotta turca sette fregate, due corvette ed alcuni legni minori. Inutili riusciti i maneggi politici della Francia e dell'Inghilterra per indurre lo Czar a ritirarsi da'  Principati del Danubio, si trovarono le due potenze coinvolte nella guerra, che si combatteva fra la Turchia e la Russia.

(1) Lettera del Duca di Taormina, loco citato.

(2) Le circostanze dell'arresto si leggono in una lunga nota, datata Palermo 12 dicembre 1851, Ministro Luogotenenziale; Archivio di Stato di Palermo.

(3) Vedi Documenti, III.

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Segnata tra esse una convenzione, l'alleanza avrebbe mirato allo scopo di proteggere l'integrità dell'impero ottomano. Si fecero lunghi apparecchi, e in ultimo fu deciso di dirigere le operazioni contro la penisola di Crimea e contro Sebastopoli (1).

I rumori della guerra in Oriente, di grave interesse per l'Europa, spaventarono i governi del terrore, e dello sgomento diede prova non piccola il Satriano, le cui note politiche sono un attestato della nessuna fiducia ch'egli riponeva nelle popolazioni, e de'  timori nutriti per le mene potute ordire dagli emigrati. Quali i suoi pensieri, quali gl'intendimenti per la quiete degli Stati, li rivela con dir chiaro, e il disotterrarli varrà molto per indagare gli uomini, che esercitavano ogni dominio, e i tempi, che davano nuovo aspetto alle vicende (2). Frattanto il Piemonte prendeva pure parte alla guerra dell'Oriente. Il dì 26 gennaro 1855, il conte di Cavour, ministro del piccolo Stato, che già si faceva ammirare dall'Europa, e che aveva scosso la Corte di Roma colla legge Siccardi, con che era stato abolito il foro ecclesiastico, presentò all'approvazione del Parlamento: 1° Un trattato di alleanza fra la Sardegna, l'Inghilterra e la Francia; 2° Una convenzione militare fra le potenze suddette; 3° Una convenzione a parte coll'Inghilterra per un prestito, colla stessa, e il Re si obligava a fornire pe' bisogni della guerra un corpo d?armata di 15 mila uomini, organizzato in cinque brigate, una delle quali di riserva sotto il comando di un generale sardo, che fosse pronto a partire il più presto possibile. Il trattato del Parlamento subalpino fu discusso, con vivezza di modi, favorevolmente e in disfavore, il 16 febbraro. Dopo la lettura del rapporto fatta dal Governo, contrariò le intenzioni il Farina, e a lui, seguito dal Torelli, che difese la proposta diplomatica, si aggiunse Angelo Brofferio, che rivelò grandezza d'animo, esprimendo peregrini sensi. Tra le argomentazioni a combattere il trattato diceva: «La Francia, l'Inghilterra e l'Austria ?anno esse a combattere per la giustizia, come si dice nel ragionamento preliminare del trattato? Certamente non è giusto che la Russia occupi Costantinopoli; ma non meno ingiusto è che Costantinopoli sia occupata dalla Turchia. Per fare una guerra di giustizia, d'uopo era che gli alleati pigliassero le armi per ricostituire la greca nazionalità:

(1)Maxfrbdi, La Spedizione Sarda in Crimea nel 185556; Voghera, Roma, 1856.

(2)Vedi Documenti, IV.

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era d'uopo che Costantinopoli, sede del greco impero, fosse resa alla Grecia: allora, o signori, allora questi promovitori di civiltà, questi difensori del diritto delle genti avrebbero sperato secondo giustizia, e non prendendo a proteggere un barbaro contro un altro barbaro? Sventoli sopra i minareti di Costantinopoli la mezzaluna, o sventoli l'aquila moscovita, sarà sempre uno stendardo di usurpazione e di violenza: sulle torri di Santa Sofia non dovrebbe salutarsi che la croce ellena; e i vostri alleati cominciano la loro opera di civiltà e di giustizia calpestando la terra greca e tenendo prigioniero in Atene il re della Grecia perché dichiarava che i suoi voti erano coi voti del popol suo. Son questi, o signori, son questi gli atti magnanimi dei vostri alleati promovitori di giustizia e maestri di civiltà! Per far guerra alla Russia in nome del diritto delle genti, bisognava cominciarla nella Polonia; bisognava stendere la mano a quella generosa nazione così barbaramente conculcata dall'autocrate di Pietroburgo (1).

Giacomo Durando dimostrò, con severità di raziocinio che la guerra era necessaria, utile e conveniente; provando che essa non era in opposizione alla politica tradizionale, seguita dal Piemonte in tre secoli, e neppure alla politica parziale, cominciata dopo il 1848. Quanto poi alla barbarie russa, rifletteva: «Non potete negare che l'Europa da un secolo in qua conosce il pericolo in cui versa relativamente alla Russia; ma forse giammai questo pericolo l'ha così palpabilmente toccato quanto in questa contingenza. Da taluno si è parlato della barbarie russa. Per dir vero, io non vi credo molto: quando veggo una nazione la quale ha costrutto Sebastopoli, ha eretto e creato dal nulla Cronstadt, ha fortificato Varsavia in un modo che ben presto se ne sentirà la potenza, io dico che questa nazione è tutt'altro che barbara. Or bene, l'Europa vede appunto quella civiltà che si va insinuando nella Russia, andarsi lentamente svolgendo per rivolgersi poi tutta contro la civiltà europea. Lasciate che quei 60, 70 o 80 milioni di Russi siano collegati tra loro colle strade ferrate,

(1) Brofferio. Storia del Parlamento Subalpino, vol. v, pag. 686; Milano, Battezzati, 1869. — Aggiunse inoltre, temendo, come tanti altri, che il Piemonte avesse potuto contrarre alleanza col Governo di Vienna; «Ora che stringete la mano all'Austria, in qual campo vi siete voi collocati? Non io ve lo dirò: per me già ve lo disse Kossuth da Londra con questa solenne esclamazione: — Il balsamo di queste liete novelle cada dolcemente sul tuo cuore straziato, Mazzini, fratello mio. Rallegriamoci e ringraziamo. — Queste parole chiudono una grande sentenza: esse ci dicono che gli uomini della repubblica, per fatali impazienze postergati nella italiana lotta, voi li ristabilite nel seggio primiero. Coi Piemontesi, accanto agli Austriaci, l'Italia non può più rivolgersi al Piemonte. Sono altrove ornai le sue speranze». — (Op. cit. vol. vi, pag. 688).

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coi telegrafi elettrici, e formino una nazione compatta come la Francia e l'Inghilterra; allora comincerà il grande pericolo per l'Europa.

Fra cinquanta anni la Russia conterrà i 100 milioni, i quali uniti sotto un solo regime politico-religioso, ne varranno 200 o 300 altri che siano divisi di interessi religiosi e politici, come è il rimanente dell'Europa» (1).

Chiusa la lunga è importante questione, la quale rilevò intelligenza e carattere d'ambe le parti, le convenzioni vennero approvate, e il dì 8 marzo si publicava questo articolo: — «Vittorio Emanuele II, ecc. — Il Senato e la Camera dei Deputati hanno approvato. — Noi abbiamo sanzionato e promulghiamo quanto segue: — Il Governo del Re è autorizzato a dar piena ed intera esecuzione alla convenzione militare stipulata il 16 gennaro scorso con S. M. la Regina del Regno Unito della Gran Brettagna ed Irlanda, e S. M. l'Imperatore dei Francesi, ed alla Convenzione supplementaria firmata nello stesso giorno con S. M. Britannica».

Con questa alleanza il Piemonte si trovò accanto a due grandi potenze, e la spedizione lasciò memorie gloriose, delle quali non è dato a noi qui d'intrattenerci: l'averla accennata, c'indusse la necessità degli eventi, che, in breve, mutarono i fati sinistri d'Italia (2).

Le truppe alleate in Oriente avevano sofferto gravi perdite per la invasione del colèra, che, presto, si diffuse nelle parti occidentali di Europa. Ne fu invasa Napoli nel luglio, e la notizia recata in Sicilia rattristò le popolazioni, memori de'  funesti casi del 1837. Il Duca di Taormina, presiedendo la luogotenenza, riceveva da Napoli continue richieste, volendosi conoscere se il popolo fosse calmo o turbolento: ed egli potè, fino al dì 4 agosto, assicurare, con franchezza, quale fosse lo stato dell'Isola. E lo ritraeva in una Nota, che dà chiarezza del malcontento, de'  modi turbolenti, della niuna fiducia, cui s'ispirava il popolo (3). Il colèra dopo Napoli invase nell'agosto la città di Palermo e gli altri luoghi della Sicilia, maggiormente infierendo in Messina, che, nel volger di pochi giorni, fu esposta a strage orrenda (4),

(1) Brofferio, op. e vol. citati.

(2) Si consulti La spedizione Sarda in Crimea nel 186566, Narrazione di Cristoforo Manfredi, libro assai pregevole.

(3) Vedi Documenti, V.

(4) Nell'Appendice alla Storia del Regno di Sicilia del Di Blasi, bì legge che Messina per più mesi fu travagliata dal micidiale morbo. Non si può dir di peggio da un simile sciocco, che scriveva alla distanza di 6 anni. Messina fu invasa dal colèra negli ultimi di agosto, e il di 8 settembre il male era già declinato.

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che vide morire trentaduemila de'  suoi cittadini, e tra essi estinto il fiore degl'ingegni, che ornava la città. Nè la igiene, né gli aiuti, né le arti mediche recaron sollievo, e il male cagionò strage orrenda. Il ricordo di que' giorni è assai lugubre, e a me, scrittore, rammenta le paure nutrite in quegli anni infantili. Sopraggiunse poi il dolore: la città rimase desolata per lo scemarsi della popolazione: il lutto delle famiglie fu immenso: gli orfani e gl'infelici, innumerevoli, trovarono soccorso nella pietà de'  superstiti.

Il Filangieri, nell'agosto del 1854, era stato richiamato in Napoli; ed egli, credendosi lontano temporaneamente, non volse un saluto alla Sicilia, da lui crudelmente prima saccheggiata, indi afflitta da mali. Il saluto avrebbe potuto rimordergli l'animo tristo! I suoi atti da generale li abbiamo notati: gli altri d'uomo di governo lasciarono memorie d'insufficienza pel bene, di scelleraggine per le reità. Nella corruzione saziò le sue voglie smodate: dal bene rifuggi, ché gli pareva una viltà seguirlo, né potere con esso dar fama al suo nome. Più tardi la viltà e la imperizia, chiamato come consigliere, rese assai manifeste.

Nel suo allontanamento governò Salvatore Maniscalco, direttore della polizia. Il quale, nelle circostanze luttuose del morbo, temè lo infuriare delle plebi, sgomento di rinnovarsi le giornate sanguinose del 1837. Lietamente scrive sulla ritornata quiete: ne scrive cessate le stragi del morbo, e, seguendo le istruzioni del Filangieri, trasfonde i suoi palpiti pe' novatori e pe' timori di un tentativo di sbarco (1). Questi palpiti e questi timori erano causati dalle agitazioni della guerra d'Oriente, poiché il risveglio, cagionato dalla stessa, accendendo i popoli d'Europa a sensi belligeri, aveva fatto trarre augurio per un novello assetto politico. Di fatti il Maniscalco non era lungi dal vero, descrivendo, nel declinare dell'anno, i sentimenti che riscaldavano i petti siciliani, e ciò in seguito agli avvertimenti, esposti dal Carafa, assunto al Ministero degli Esteri, il dì 20 dicembre 1854: «Il Regio Ministro in Parigi mi scrive che uno dei Capi di quella Polizia il consigliava, in uno amichevole abboccamento seco lui tenuto, di far che il Real Governo fosse desto e vigilante più del solito, poiché il partito della rivoluzione non risparmierà i mezzi per suscitare macchinazioni novelle ne' Reali Dominii, e nel resto d'Italia, avendo ormai la certezza di non aver successo le loro mene nella Francia.

Lo stesso soggetto assicurava in modo positivo esser priva di fondamento la voce corsa

(1) Vedi Documenti, VI.

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che Mazzini avesse lasciato la Svizzera e si fosse recato a Parigi» (1).

Il 1854, schivati i pericoli delle rivolte, pei timori e le credulità del morbo, si chiudeva santamente per il domma dell'immaculato concepimento di Maria, che Pio IX volle celebrato.

(1) Archivio di Stato di Palermo, Ministero Luogotenenziale, 1854. — Tali i sensi espliciti del Maniscalco in data del di 29 dicembre 1854:

….....................................................................................................

«L'emigrazione sempre più perseverante nelle sue pratiche or palesi ed ora tenebrose, incoraggia in tutte le maniere la fazione del disordine, e nutre tutte le illusioni degli uomini che aspirano alla rivoluzione, e credon di raggiungerla da un momento all'altro.

«E nel sembiante e nell'attitudine di questi tali, mostrasi di già un non so che di burbanza e di cipiglio concitato, che rivelano la convinzione che si hanno di dover fra non guari mutarsi le condizioni politiche del paese. E a desiderare che queste aspirazioni colpevoli non vadan oltre per non ridurre il R. Governo all'estremità di ricorrere a mezzi di repressione. In Palermo le voci di novità circolano pure fra'  popolani a'  quali si sono date ad intendere le solite ubbìe d'intervento straniero in ausilio dell'imminente rivoluzione d'Italia. Disgraziatamente questa plebe di Palermo, irrequieta e turbolenta sempre, presta un facile orecchio alle insinuazioni della fazione anarchica, ed è sempre pronta a gettarsi ne' partiti estremi e disperati, passando colla più deplorevole leggerezza dall'abbattimento allo entusiasmo, e viceversa. Si ha dall'autorità di polizia la più grande cura per tenerla infrenata, e si usa di ogni mezzo per sorvegliarla rigidamente e tenerla disciplinata e sommessa.

«Nella provincia di Trapani ferve un cattivo spirito in molti comuni per le continue relazioni che hanno con Malta, e per una mano di occulti agitatori che hanno influenza su la popolazione. L'autorità ha gli occhi su quelle contrade e non si discontinua dalla severa sorveglianza e da quei provvedimenti, atti a prevenire qualunque perturbazione. Nelle Provincie di Caltanissetta e di Girgenti v'è calma nello spirito pubblico. Nella provincia di Noto, i comuni della costa risentono pur essi della vicinanza di Malta, ed il R. Governo tien d'occhio parecchi faziosi i quali aspettano un'occasione propizia per agitare quelle contrade. In Messina pel continuo approdo di navi da guerra, e di piroscafi postali francesi, che lascian notizie sempre sfavorevoli alle armi Russe nella guerra che si combatte in Crimea, e per l'influenza che esercitano in quella città le case di commercio inglesi, lo spirito pubblico è in continua commozione, e mal si cela il desiderio ardente di vedere il trionfo delle armi occidentali, da cui al modo di vedere de'  politicanti debba venirne la revisione de'  Trattati del 1815, e la ricostituzione della Nazionalità, sulle quali si fonderebbe il nuovo dritto pubblico d'Europa. In Catania lo spirito pubblico è conforme a quello di Palermo e di Messina. Però in quella città il morbo asiatico ha lasciato negli animi tracce profonde ed odiose reminiscenze. La iniquità soffiando nelle menti credule ed ignoranti della plebe maligni sospetti, è riuscita più che altrove a far credere d'esser quel flagello Divino un malefizio del R. Governo, e questa idea serpeggia per tutta la Provincia, ed è radicata anche nel1 animo di coloro, che per la loro condizione dovrebbero essere al di sopra di questi volgari errori.

«Debbo dirlo con pena, qualche cosa di vago e d'incerto pesa sul paese, e la gente onesta che rifugge dagli sconvolgimenti e dai disordini intravvede un ignoto che la rende inquieta, e le fa temere mali immaginarii. Questa situazione inquietante dell'animo della massa de'  buoni durerà tanto, per quanto durerà la guerra d'Oriente, che riscalda le passioni sovversive, e fa temere una conflagrazione generale».

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Dopo avere da Gaeta, prigioniero volontario, fin dal 1849, con enciclica, interpellati i più competenti nelle materie eclesiastiche, Pio IX scioglieva i dubj delle generazioni di tanti secoli! Egli volle che la pia credenza fosse elevata a principio dommatico! Sicché l'accorrere in Roma di pastori, di patriarchi, di vescovi, di arcivescovi, di cardinali, fu stuolo numeroso, che da'  più lontani luoghi si ridusse nelle sale vaticane per emettere l'oracolo. I popoli, se non istolti, accecati da crudeli superstizioni, tremarono nell'udire la solennità del verbo, si pentirono de loro trascorsi, corsero dietro a lunghe processioni, e, popolate per molti giorni le chiese, cantarono l'osanna. Il sacerdozio compiva un'opera politica; ma essa non ebbe potenza di metter freno all'impeto degli eventi politici!

Nel 1855 addippiù si accrescono i sospetti su' tentativi murattiani ne' reali dominj, e il Governo, in mezzo a'  rumori politici, causati dalla guerra in Oriente, confidava troppo ne' suoi agenti diplomatici; perocché la Corte e il Governo non riponevano soverchia fiducia sulla diplomazia: specialmente dopo i chiari sensi, già significati in Inghilterra dal Gladstone all'Aberdeen. Talché da Genova, il di 21 febbraro 1855, scriveva Domenico Morelli al Carafa quale scopo s'avesse avuto il viaggio dell'Assante e quali parole esplicite avesse proferite Lord Palmerston. Gli diceva: «Sul principio del corrente mese partì da Nizza per Parigi e Londra il nominato Domenico Assante. Non prima di ieri ho conosciuto lo scopo di questo viaggio. Esso tende a trovare appoggio presso Palmerston da sostenere una rivoluzione nelle Calabrie. In una corrispondenza di Pepe co' suoi satelliti in Parigi addetti alla Casa Murat è stata letta la seguente frase: Se il Pizzo fu la tomba di Murat padre; il Pizzo sarà il primo gradino del Trono di Murat, figlio. — In un'altra lettera si scrisse: La costa del Pizzo a Tropea sarà il luogo di operazione per lo sbarco. — Rassegno tutto ciò all'E. V. per la dovuta intelligenza, e le soggiungo che il nominato Guglielmo Pepe è oltremodo dispiaciuto del Barone Stocco Calabrese e del Barone Giordano degli Abbruzzi per essersi essi rifiutati di visitarlo e pronunziati a lui contrarii».

In questo stesso anno 1855 il Ministero degli esteri, eseguendo con rigidezza gli ordini di Ferdinando II, proibiva la traslazione della salma di Pietro Lanza di Scordia. Il Principe, colto variamente, scrittore di qualche grido, come aveva dimostrato nell'opera principale Dello spirito di associazione nella Inghilterra in particolare, lodata dal Thiers, dopo il 1837, per la stima popolare meritata nella invasione del colèra,

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non aveva più goduto il riguardo del Borbone, che non ignorava come lo Scordia fosse animato da idee liberali, riformatrici del passato. Dopo le vicende del 1848 e del 1849, esulando, perché annotato nella lista di proscrizione, compilata dal Satriano, si portò nella Liguria e nel Piemonte, stringendosi in cordiali legami co' più benemeriti della politica monarchica. Ridottosi a Parigi, stette vicino al Thiers, che da più anni ne pregiava l'intelletto, e vicino agli esuli, tra cui l'Amari e il Ventura. Colto nel maggio da malattia, il dì 27 giugno 1855, se ne morì in età immatura, compiuto il quarantottesimo anno. Compianto da quanti lo amavano e lo conoscevano per le rare virtù dell'animo e dell'intelletto, lo pianse lungamente Adolfo Thiers; gli apprestò le cerimonie di lutto il Padre Gioachino Ventura. Il Governo, temendo che la traslazione della salma avesse potuto suscitare nel popolo ire pe' passati ricordi, la proibì; rimanendo ricettata in Parigi fino al 1861, fino all'anno in cui nella terra natale si respiravano aure di libertà (1).

Per usurpazioni di poteri, al Filangieri, sostituivasi alla luogotenenza, nel marzo del 1855, Paolo Ruffo, Principe di Castelcicala, Maresciallo di Campo, Aiutante generale del re, figlio a quel Castelcicala, che, nel Congresso di Vienna, i Siciliani ritennero avere nociuto a'  loro diritti. Con tali auspicj regj giungeva in Palermo! «Con l'annesso R. Decreto S. M. conoscendo i servizi da V. E. resi e la costante devozione e leale attaccamento dell'E. V. alla Sacra Real Persona della M. S. si è degnata di destinarla alle funzioni di Suo luogotenente Generale ne' Reali Dominii oltre il Faro, e fino a che non sarà dalla M. S. provveduta la carica di Ministro Segretario di Stato presso la Luogotenenza Generale, si è del pari degnata di ordinare che l'È. V. ne assuma provvisoriamente l'esercizio» (2). Non raccomandato da ricordi gloriosi o perversi, il Ruffo prese possesso della carica affidatagli senza alcun risentimento del popolo, e, funzionando da Luogotente e da Ministro segretario di Stato, segui, non sempre con la competenza necessaria in chi tiene i freni di governo, l'andazzo anteriore, meno spaventando, forse perché i tempi lo consigliavano diversamente. ché se è innegabile che le durezze e le vessazioni, esercitate cogli arresti, colle processure e col confino, non mai cessarono negli anni della restaurazione, pure le notizie di luoghi lontani non tenevano tranquilli né il re, né coloro de'  quali lo stesso si era circondato per la sicurtà e la salvezza del reame.

(1)Vedi Guardione, Scritti, vol. n, p. 353 e seg., ediz. citata.

(2)Archivio di Stato di Palermo, anno citato.

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Sconfortavano le notizie del poco successo delle Armi delle potenze alleate in Crimea, e sconfortavano per le complicazioni, che potevano sorgere dalla politica della Germania, e perché pareva essere rinate ne' rifuggiti le speranze (1).

Da oggi al domani varie e incerte le determinazioni; né il Governo di Napoli pe' continui agitamenti aveva agio di più mirare alle buone sorti delle popolazioni, le quali gli nutrivano odio per desiderio di progresso, se bene le forme apparenti tutt'altro addimostrassero, e sentimenti di sacra devozione muovevano dalle plebi inconscienti e use a'  bagordi. Temeva il Governo le conseguenze della pace tra'  potentati, e d'altra parte gioiva alla notizia della stessa, e i sensi di gioia divenivano uficiali, e se ne menava scalpore (2). Il reame, intanto, era continuamente minato dal mutarsi della politica, e re Ferdinando e i suoi consiglieri in quell'anno 1856 non si sentirono scossi dalle proteste ardite fatte udire al Congresso di Parigi!

I Piemontesi nella guerra dell'Oriente ridiedero allo esercito loro la fama del valore antico, quasi distrutta nella prima guerra dell'indipendenza. Essi a'  disagi patiti e a'  tormenti della pestilenzia colerosa, che tolse di vita i generali Alessandro Lamarmora e l'Ansaldi, si coprirono di gloria il dì 15 agosto 1855 alla Cernaia, ove il principe Gargiakoff aveva spinto la notte di quel giorno le sue numerose soldatesche contro il ponte di Traktir, custodito da'  Francesi, col proposito di ricacciare le linee nemiche al mare; ed ove Alessandro Lamarmora trattenuto, dall'ala sinistra, un buon numero di nemici, sostenne tale pugna, da costringere i Russi a ritirarsi con perdite assai gravi.

(1)Cosi il Carafa al Luogotenente in Sicilia in data del di 2 agosto 1855. —» Le notizie del poco successo delle Armi delle Potenze Alleate in Crimea, e le complicazioni derivanti dalla politica della Germania, àn rianimate le speranze de'  rifuggiti in Londra. Eglino stan procurando, come vien riferito, di riunire le frazioni di rivoluzionari nazionalisti e di repubblicani Mazziniani. Principali Agenti di questa conciliazione si additano il noto Barone Corvaia, ed un certo Deana, Romagnuolo. ma vuoisi che, a consiglio di Mazzini (1), essi aspettano che sieno più inoltrate le dissidenze e le gare fra i governi, per rovesciarli con le sognate repubbliche. Per quello che riguarda l'Italia, si sta escogitando il modo di far sollevare la parte centrale di essa, la Romagna, la Toscana, il Modenese ed il Parmense, e rispetto ai Reali Domini, fondano gli Emigrati le loro speranze nel voluto partito murattiano, segnatamente i rifuggiti Siciliani in Genova, i quali vanno indicati come agenti di questo partito». — (Ministero Luogotenenziale, anno 1855).

(2)Vedi Documenti, VIII, IX.

(1) Il Gabinetto di Napoli in quello stesso tomo udì la solenne parola rivolta alla Democrazia Europea. Un appello, allora sparso, raro tino al 1901, venne, attestò la signora White Mario, a noi legata di nodi amichevoli, alla Rivista di Roma, che lo rese noto ne fascicoli del 21 e 28 novembre. — Vedi Documenti, VII,

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Caduta il dì 9 settembre Malakoff, per le strenue opere della divisione francese, comandata dal MacMahon, i Russi non credendo più proficue le resistenze, arsero la città, arsero le navi, e distrutto l'arsenale si ridussero a Sebastopoli. Morto in quei momenti l'imperatore Niccolò, con Alessandro II si chiudeva la guerra, accettando egli le proposte di mediazione offertegli dall'Austria, e accogliendo alquanti preliminari di pace, che dovevano indi discutersi in congresso da'  legati delle grandi potenze.

Il dì 28 febbraro 1856 convennero in Parigi i legati della Francia, dell'Inghilterra, della Prussia, dell'Austria, della Russia, della Turchia e del Piemonte. Si voleva dall'Austria escluso il Piemonte dalle Conferenze, o almeno si voleva che i Plenipotenziarj di questa regione avessero avuto un trattamento diverso da quelli delle grandi potenze. Non attecchirono le pretese austriache; furono esse combattute dall'Inghilterra e dalla Francia. Rappresentarono il Piemonte il conte Camillo Benso di Cavour ed il marchese di Villamarina, ed ambi discussero co' rappresentanti politici delle altre nazioni gli articoli varj del trattato di pace. In esso si stabiliva di dovere la Russia rinunziare ogni protezione su' Cristiani residenti nell'impero ottomano; che il mar Nero si dovesse tenere neutrale, e tenersi chiusi gli stretti de'  Dardanelli e del Bosforo a'  legni di guerra di tutti gli Stati, tranne che a'  piccoli stazionarj; che rimanesse libera la navigazione del Danubio, e, dandosi rettifica a'  confini tra la Moldavia e la Bessarabia, avesse fine il protettorato russo ne' Principati del Danubio.

Pria di chiudersi il Congresso, il di 8 aprile, sulle replicate insistenze del conte di Cavour, il conte Walewski, ministro della Francia, parlò sulla necessità di tranquillare l'Europa, del bisogno di trattare altre questioni importanti, specialmente talune concernenti gli Stati italiani. A lui si uni il Clarendon, con parole più vibrate; ed alle proteste de'  legati d'Austria, che non credevano giusta e opportuna cosa il discutere cotali argomenti, il conte di Cavour ricordò il memoriale presentato dal dì 27 marzo, e con veemente parola si rivolse all'Austria, che, occupando le Legazioni, demoliva l'equilibrio politico; e perciò chiedeva dal Congresso un rimedio. Proteste corsero da parte del barone Hùbner e dal conte Buoi; ma il Cavour, certo della stima e della protezione della Francia e dell'Inghilterra, che gli promisero aiuti per le gravi emergenze, pria di lasciar Parigi, consegnò ai Ministri delle potenze alleate una nota diplomatica, che riepilogava quanto aveva espresso contro l'Austria,

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e li invitava a soccorrere di consigli e di aiuti il Piemonte, l'unico Stato, che, nella crudele reazione, conservava la indipendenza.

Il conte di Cavour fu accolto al suo ritorno festevolmente, e quanto egli aveva espresso all'imperatore de'  Francesi nella memoria del 1856 (1), lo rendeva noto nel discorso, tenuto alla Camera piemontese il dì 6 maggio 1856, che chiudeva con ta'  sensi: «Rispetto alla questione italiana, non si è, per vero, arrivati a gran risultati positivi; tuttavia si sono guadagnate, a mio parere, due cose: la prima, che la condizione anomala ed infelice dell'Italia è stata denunziata all'Europa non già da demagoghi, da rivoluzionari esaltati, da giornalisti appassionati, da uomini di partito; ma bensì da rappresentanti delle primarie potenze dell'Europa, da statisti che sorgono che seggono a capo dei loro Governi, da uomini insigni, avvezzi a consultare assai più la voce della ragione, che a seguire gl'impulsi del cuore. Ecco il primo fatto che io considero come di una grandissima utilità. Il secondo si è quello che quelle stesse potenze hanno dichiarato essere necessario, non solo nell'interesse d'Italia, ma in un interesse europeo, di arrecare ai mali d'Italia un qualche rimedio. Non posso credere che le sentenze profferite, che i consigli predicati da nazioni quali sono la Francia e l'Inghilterra, siano per rimanere lungamente sterili. Sicuramente se da un lato abbiamo da applaudirci di questo risultato, dall'altro io debbo riconoscere che esso non è scevro di inconvenienti e di pericoli. Egli è sicuro, o signori, che le negoziazioni di Parigi non hanno migliorato le nostre relazioni con l'Austria! Noi dobbiamo confessare che i plenipotenziari della Sardegna e quelli dell'Austria, dopo aver seduto due mesi a fianco, dopo aver cooperato insieme alla più grande opera politica che siasi compiuta in questi ultimi quarantanni, si sono separati senza ire personali, giacché io debbo qui rendere testimonianza al procedere generalmente cortese e conveniente del capo del Governo austriaco, si sono separati, dico, senza ire personali, ma nell'intima convinzione, essere la politica dei due paesi più lontana che mai dal mettersi d'accordo,  

(1) L'Imperatore può rendere molti segnalati servigi all'Italia, per la quale ha già fatto tanto, inducendo l'Austria a rendere giustizia al Piemonte ed a mantenere gl'impegni presi; ottenendo che essa mitighi i rigori che pesano sulla Lombardia e sulla Venezia; costringendo il re di Napoli a non essere più cagione di scandalo a tutta l'Europa civile col suo contegno contrario ad ogni principio di giustizia e d'umanità; e finalmente riponendo l'Italia nelle condizioni in cui fu messa dai trattati di Vienna, cioè dire, facendo in guisa che gli Austriaci sgombrino le Legazioni e le Romagne, sia affidato il governo di queste provincie o a un principe secolare o ad una amministrazione laica ed indipendente».

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essere inconciliabili principii dall'uno e dall'altro paese propugnati» (1). — Questi gli alti concetti espressi dal sommo Statista, il quale, per la prima volta, in seno alla diplomazia scuoteva i rappresentanti delle potenze d'Europa: egli, grande avversario, dava, monarchicamente, armonia all'Idea di Giuseppe Mazzini, da cui il Cavour, pari a tutti gl'Italiani, aveva imparato a pronunziare i nomi d'Italia e di libertà. E pur troppo poteva conchiudere con le solenni parole: «Per la prima volta nella storia nostra la questione italiana è stata portata e discussa avanti ad un Congresso europeo, non come le altre volte, non come al congresso di Lubiana ed al Congresso di Verona coll'animo di aggravare i mali d'Italia, e di ribadire le sue catene, ma coll'intenzione altamente manifestata di arrecare alle sue piaghe un qualche rimedio, col dichiarare altamente la simpatia che sentivano per essa le grandi nazioni» (2).

La guerra d'Oriente e il Congresso di Parigi avevano dato a'  fogli politici argomento di severe recriminazioni, di risentimenti contro la usurpazione e l'atrocità austriaca in Italia. La questione politica era venuta in campo, sì che il Corriere italiano di Vienna publicava nell'aprile del 1856 una risposta a due documenti sardi, inerenti allo stato d'Italia. Nè credendosi ancora mutati i tempi, si diceva: «Attualmente, che regna la migliore intelligenza tra la Francia e l'Austria, immediatamente dopo la conchiusione di un trattato tra l'Austria, la Francia e l'Inghilterra, un trattato, il quale sebbene contrattato colla vista di mantenere intatto l'impero ottomano, non può restare senza influenza sulle altre questioni europee — attualmente diciamo, il Piemonte non sarebbe molto ben accolto, quando cercasse di suscitare delle questioni tendenti solo ad agitare le menti a Torino, e che troverebbero poco incoraggiamento presso le grandi potenze dell'Europa» (3). Ma le agitazioni degli animi non mancarono, e il Piemonte, accrescendo ed alimentando i desideij nutriti dagl'Italiani, divenne focolare delle medesime. Il Morning Post, contrariamente alle opinioni della stampa austriaca, scriveva: «Il tempo però è vicino in cui l'Austria deve veder messa in discussione l'estensione e il diritto del suo intervento negli Stati Italiani, o ritirando interamente la pressione che esercita su quegli infelici Stati, o affrontando i mali di un'altra rivoluzione, ben di più probabile riuscita dell'ultima... ».

(1) Discorri Parlamentari, vol. ix, pag. 457 e seg.; Firenze, Eredi Botta, 1870.

(2) Idem.

(3) Il Portafoglio Maltese, anno xix, n. 1121.

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E giudicando che un tale stato non avesse potuto avere lunga durata, concludeva con tali parole di augurio: «La condizione dell'Italia deve esser presa in considerazione. Bisogna salvarla dal furore di una catastrofe rivoluzionaria, e dalla tirannia straniera». Le agitazioni non potevano più mancare, né potevano essere frenate. Siffatti erano i sentimenti e i travagli degli uomini rinomati per fermezza di principj. Daniele Manin, in una lettera, resa publica nel giornale II Diritto, aveva in quello stesso anno detto: «Oggi in nome del grande partito nazionale, dico ai patrioti italiani: Agitatevi ed agitate, ardentemente, incessantemente, finché non sia raggiunto lo scopo nostro, finché l'Italia non sia diventata indipendente ed una. Ho fede che la monarchia piemontese sarà con noi: questa mia fede fu da'  recenti avvenimenti aumentata. Se fosse delusa, sarebbe una grande sventura; ma non per questo il partito nazionale italiano dovrebbe desistere dall'opera sua. In ogni caso, in ogni ipotesi, e finché l'Italia non sia diventata indipendente ed una, Italiani tutti che amate la terra vostra natale, ascoltate questa parola che vi vien dall'esilio. — Agitatevi ed agitate».

In Torino, addi 26 maggio 1856, usciva il Programma e numero di Saggio del giornale II Piccolo Corriere d'Italia, dii retto da Giuseppe La Farina, già republicano, ora convertito alla monarchia. Lasciata la Francia si era ridotto nel Piemonte, e, seguendo fedelmente la politica del conte di Cavour, contradiceva spesso sè e la verità. Il che nocque alla sua fama; e, non di rado, la eccellenza della virtù dello scrittore e dell'uomo cadde nelle laidezze delle polemiche giornalistiche. Egli, attenendosi oramai alla politica del gabinetto piemontese, pure rendendo non poco servigio alla causa italiana, negava violentemente la storia, oltraggiava il più grande uomo d'Italia, oscurando gl'ideali del passato, ripetendo, con indecente e pettegola forma, queste sentenze, strabocchevolmente ingiuste e disoneste: «Chi ha dato il diritto al Mazzini di personificare in sè il partito d'azione? Forse che l'Italia attese la sua venuta al mondo per imparare che la libertà e l'indipendenza si acquistano colle armi? E per non parlare che dal 1830 in poi, noi affermiamo che tutto ciò che si è fatto di più importante e di più durevole in prò della rivoluzione italiana, si è fatto fuori degl'influssi del Mazzini, e spesso anche contro alla sua volontà. Sì, si devono al Mazzini la spedizione di Savoja e la doppia spedizione di Sarzana; si devono al Mazzini il macello degli eroici fratelli Bandiera, e le ecatacombi di Milano e di Sapri: ma in tutti questi moti da lui suscitati non lino che abbia avuto la durata

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di ventiquattr'ore, non uno che abbia trovato seguito nel popolo» (1). Con tali menzogne, ingratitudini e calunnie s'iniziava in que' primordj la politica di Gabinetto, e Giuseppe La Farina, già credutosi fervente apostolo di republica, ne diveniva strumento, contaminando, per seguire i nuovi convincimenti, l'onore, calpestando la verità, che pure il Foscolo aveva almeno creduto immortale. E male è il dovere ricordare simili crudeltà di dissenzioni, poiché esse, come fu detto testé in Torino, dimostrano la niuna concordia degli uomini del partito liberale (2). Se non che ci rimorderebbe l'animo se, parlando di Giuseppe Mazzini, angelo tutelare d'Italia, noi non volessimo dire a'  suoi umili detrattori... vostra miseria non mi tange. — Frattanto il Piccolo Corriere correva per l'Italia, eludendo le polizie, con rapidità, e per esso il concetto d'indipendenza e di libertà si divulgava. Chiariva le tendenze politiche, e la politica monarchica, creduta necessaria, traeva a sè migliaia di proseliti. Il che era dovuto a'  risultati delle Conferenze di Parigi e all'entusiasmo del re del Piemonte, che rivolgeva i suoi pensieri, costando al piccolo Stato non pochi sacrifizj, all'Italia, conquisa dalle armi e dalla politica degli stranieri. Fuori d'Italia le agitazioni si manifestavano più vivamente, e, nel dechinare del 1856, sugli emigrati, che avevano stanza a Parigi, scrive?asi da Napoli in Sicilia: «Il Ministro degli Affari Esteri mi manifesta essere stato rapportato, che l'emigrazione italiana in Parigi crede che attualmente esistano nelle due Sicilie due soli partiti rivoluzionari, l'uno federalista, che vorrebbe il ristabilimento di un regime costituzione, l'altro unitario per la formazione di un solo regno di tutta l'Italia. E che parlasi pure di un prossimo movimento in Sicilia» (3).

(1)Scritti Politici; Il Piccolo Corriere d'Italia, tomo il, pag. 180; Milano, Salvi, 1870. Cosi miseramente gli uomini del partito moderato, nefasto alla rivoluzione e all'Italia, dottoreggiando, bestemmiavano sulle vicende. Eppure il La Farina ha fama di storico!

(2)Anche, dopo il correre di più che mezzo secolo, non ha torto il partito clericale, la cui parola è sempre un tristo augurio all'Italia, di affermare: «Veramente una delle caratteristiche del «nostro risorgimento» e «rinnovamento» sta nel fatto che i campioni di esso furono sempre fra loro nella cordiale relazione che vige fra i cani e i gatti, dicendo l'un dell'altro roba da chiodi. E1 cosi che si preludiava alla «unità morale» d'Italia; e questa scuola fiorisce ancora oggidì più che mai!» — (L'Italia Reale Corriere Nazionale, anno xxviii, n. 42, 1213 febbraio 1901).

(3) Archivio di Stato di Palermo, Ministero Luogotenenziale, anno 1856. data 6 febbraio 1857 lo stesso aggiungeva: «Mi è stato comunicato riservatamente da Bruxelles, che comunque fossero pochi gl'Italiani residenti in quella città, pure si sta facendo colà una sottoscrizione per offrire 10.000 fucili alla prima Provincia d'Italia che sarebbe insorta. Pare che il danaro che si ricavrà dalla stessa, si pensi a spedirlo a Genova. (Archivio di Stato di Palermo, anno 1857).

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Fondava il La Farina nell'agosto del 1857 la Società Nazionale, il cui programma accettato da Daniele Manin, persuaso che l'Italia non poteva essere unificata se non si rendesse indipendente, fu con ampiezza e con tenacità svolto e propagato da Giorgio Pallavicino, da Livio Zambeccari, da Aurelio Bianchi Giovini e da Giuseppe Garibaldi. In esso si leggeva: «La Società Nazionale Italiana dichiara: Che intende anteporre ad ogni predilezione di forma politica, e d'interesse municipale e provinciale, il gran principio dell'indipendenza ed unificazione italiana: Che sarà per la Casa di Savoia, finché la Casa di Savoja sarà per l'Italia».

Chiuso il Congresso, e volendosi rimediare a'  mali de'  varj Stati italiani, il conte Walewski, Ministro degli Affari esteri in Francia, inviò al Brenier, ambasciatore a Napoli, la seguente Nota: «Noi siamo convinti che la situazione attuale tanto di Napoli come della Sicilia, costituisce un serio pericolo pel riposo d'Italia, e questo pericolo che minaccia la pace dell'Europa, doveva necessariamente fissare l'attenzione del Governo imperiale; in ogni caso esso c'impone un dovere, quello di tener desta la sollecitudine dell'Europa, e la previdenza degli Stati più direttamente interessati a scongiurare deplorabili evenienze. Noi abbiamo adempito a questo dovere prendendo l'iniziativa in seno del Congresso; noi lo adempiamo egualmente facendo appello allo spirito stesso di conservazione del Governo delle due Sicilie, il quale darà prova delle sue buone intenzioni col farci conoscere le misure che egli avrà creduto conveniente adottare». Il Ministro Carafa, seguendo le vecchie consuetudini, non tardò a rispondere che nissun Governo doveva prendere ingerenza nell'amministrazione di un altro Stato, e che la maestà di re Ferdinando, che non aveva tralasciato di rivelarsi clemente co' traviati, non poteva ora cedere a'  desiderj invocati, avendo provato gli atti di clemenza essere un mezzo insufficiente. Ferdinando, fidando nell'Austria e nelle sue forze, assumendo un contegno ostile alle determinazioni prese dal Congresso, ripudiando gli ottimi consigli della Francia e dell'Inghilterra, non tenne in calcolo i pericoli, ne' quali, in avvenire, sarebbe incorso il suo dominio. Egli reggimento nuove e numerose forze, e mise in pronto navi da guerra: egli finse, allora, aver bisogno di mandare in Sicilia altre truppe per sedare gli accenni a'  tumulti; e non potendo con tali finzioni contentare le potenze occidentali, quando queste lo esortarono a mutare il decreto parziale di amnistia in decreto generale, respinse la proposta;

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respingendo ancora le istanze de'  generali Ischiatella e Filangieri, dell'ambasciatore Carini, perfino dell'odiato Delcarretto; sicché la Francia e l'Inghilterra ruppero le relazioni diplomatiche, richiamando i loro ambasciatori. E a ciò si mostrarono risolute, quand'egli, in cambio di accogliere i buoni consigli, quanto era stato un desiderio de'  politici del Congresso, fortificò Capua e Gaeta, piantò nuove batterie lungo la costa, inculcando al conte d'Aquila, cui diede il comando, di respingere qualsiasi attacco, o cagionato questo da'  rivoluzionarj, o da nemici esterni.

Nuove afflizioni e novelli terrori spaventavano il reame. Chiuso il procedimento Mignona, nella cui abitazione si era rinvenuto un programma del Mazzini e una lista di nomi; aperto il dibattimento, con gran rumore per la dissimiglianza degl'imputati, due preti, una religiosa, due uomini di legge e quattro forzati, il tribunale, mostratosi coraggioso, respingeva la requisitoria sanguinosa, limitando la condanna, per semplice progetto di cospirazione, all'esilio del Mignona, e per gli altri a pene miti. Sul governo si accrebbero gli odj, aumentandosi le agitazioni!

Seguirono in Sicilia gli accaduti capitanati da Francesco Bentivegna, da Corleone, deputato nel Parlamento di Sicilia, ardente di libertà, ma cospiratore poco cauto. A un suo grido credeva dovesse insorgere la Sicilia, e il moto comincia con pochi, al pari di lui sconsigliati. La sera del 22 novembre 1856 egli guida i suoi pochi compagni a Mezzojuso, ed ivi, abbattuto primieramente il carcere, i prigionieri, resi liberi, gli si uniscono. La comitiva si reca al paesello di Villafrati, già in possesso della vettura corriera, assalita lungo il cammino, e alle grida incessanti, nato dapprima lo sgomento in quegli abitanti, che godevano la tranquillità notturna, tosto, venuti a conoscenza dell'ardimento, prestano i loro aiuti. Lusinga troppo il Bentivegna; fa credere, che un esercito inglese fosse sbarcato in Palermo, e a quelle affermazioni entusiaste gli abitanti non mettono indugio a sollevarsi. Fattesi cedere le armi dalle Guardie urbane, che le deposero senza resistenze, il Bentivegna, fidando e sperando troppo, colle ali della imaginazione, crede, dopo avere percorso Ventimiglia, da Ciminna facile la insurrezione di Lercara, di Prizzi, di Marineo, del suo luogo natio, e con la compagnia di 200 uomini, ritiene facile l'entrata in Palermo, di niuna difficoltà la universale insurrezione. Però giungendo alla Pianotta, rimane deluso, che ivi incontratosi con taluno, lo assicura della quiete regnante in Palermo, lo pone in chiaro dello sgomento del Comitato, dello smarrimento popolare,

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degli ordini energici del Governo, che aveva mandato a Villafrati forze di fanti, di artiglieria e di cavalleria (1). Alla triste novella, che la poca esperienza non gli aveva resa lucida, fugge per i monti, e convinto non potere le sue fantasie e le sue azioni avere alcun effetto, licenziati i compagni, la sera del 24 novembre, con i capi della rivolta prende riposo a Perrello. Il giorno dopo erra lungamente; sopraggiunta la notte si riposa; indi, dopo tanto affannoso cammino sostenuto, si trae silenzioso ne' pressi di Corleone.

Le notizie d'insurrezione la sera del dì 25 ridestarono gli animi di pochissimi anche in Cefalù, ove era prigione Salvatore Spinuzza. Si rivoltarono il Guarnera, i fratelli Niccolò e Carlo Botta, il Maggio, il Maranto, il Re, il Culotta, e altri tre o quattro. Liberarono i prigionieri, fecero sventolare un vessillo tricolore, ordinando i sollevati con a capo lo Spinuzza. Varie le vicende nel correre di poche ore e del giorno susseguente: si mise mano agli istituti regj e comunali, si dispersero le carte degli ufizj, si bruttò la effigie ferdinandea, si incitarono i più indifferenti, e parve che pochi, d'idee generose, ma inesperti, avessero potuto conquistare la rivoluzione. Questo l'inganno! Intanto dopo qualche sollevazione in luoghi limitrofi, all'apparire d'una nave, ventilatesi le notizie in città, i cospiratori si dividono, non sapendo, né potendo resistere, ed errano per le campagne.

Sopraggiunge il terrore, causato da'  poteri militari. Il Maniscalco inculcava il rinvenimento del Bentivegna, minacciando di licenziamento gli agenti della forza se avessero ancora indugiato ad impossessarsene. Egli, in compagnia del fratello Stefano, si era nascosto; ma, ambi, stimolati dalla fame, si confidano con un contadino per comperar loro qualcosa che li avesse potuto alimentare. Questi accetta l'invito, ma, sorpreso dalla forza, alle dimando insistenti e minacciose, rivela il nascondiglio.

Lì si traggono, lesti e festevoli gli agenti: lì trovano i due fratelli, che fuggono, e, inseguiti, si difendono. Si sottrae dalle mani nemiche il fratello Stefano; è arrestato Francesco.

(1) Oramai sarebbe giusto restringere entro esatti limiti la nota patriotica. Le esagerazioni e gli entusiasmi di mezzo secolo dovrebbero bastare! Corriamo in traccia della verità, unicamente da idoleggiarsi. Agli entusiasmi fantastici del Bentivegna, non escludiamo le viltà dei componenti il Comitato di Palermo, che nelle stesse perseverò il dì 4 aprile 1860, e fino a che veramente il popolo non insorse. Eppure le viltà furono riputati atti eroici, e nel 1860 fu aperto il ladro mercato del patriotismo! (Vedi F. Guakdione, Il Moto Politico di Cefalù nel 1856, pp. 910; Cefalù, Tip. Gussio, 1907).

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Condotto a Corleone, il domani fu raggiunto dal fratello, spontaneamente presentatosi. Interrogati, furono trasportati in Palermo. Paga ormai la rabbia e la sete di sangue del Maniscalco, segnalò al Cassisi: I capi della banda, incluso Bentivegna, sono nelle mani della giustizia (1). Il dì 9 dicembre si trasmettevano dal luogotenente gli atti del procedimento al Procuratore Generale, perché fosse espletato il giudizio da un Consiglio di Guerra; e vani riuscirono i ricorsi de'  difensori in sostegno della competenza della Gran Corte. Dichiaratasi questa incompetente, si replicarono i motivi di ricorso alla Corte suprema di Giustizia; ma pria che fosse stata emessa una decisione, il giorno stesso, 19 dicembre, stabilito per il dibattimento di competenza, senza le forme richieste, il Consiglio di guerra lo condannava a morte. Trasportato la notte in Mezzojuso, il domani 20, concessegli poche ore per le preghiere, e, dietro contrasti, di poter dettare il suo testamento, fu fatto morire di fucilate. E morì cosi giovine, né sapremmo dire se impazienza di opere, o smisurato affetto alla patria, lo avesse fatto privo di quella calma che, tenendosi lontana dagli impeti, concede sempre migliore riuscita a'  grandi e terribili eventi. Morto sì presto, la libertà perde in lui un forte sostenitore della sua bandiera (2).

Lo Spinuzza con Alessandro Guarnera, i fratelli Botta e Andrea Maggio, che avevano promosso la sollevazione di Cefali, fino al dì 5 febbraio, vagando per le campagne, rimasero obliati. Il di 6; scoperto in Pettineo il luogo ove si stavano, circondato da numerose forze, sostennero un conflitto di nove ore. Finite le munizioni si arresero. Chiusi nelle Grandi prigioni in Palermo, furono giudicati nel Castello a Mare da un Consiglio di guerra il dì 6 marzo 1857. — Salvatore Spinuzza di anni 25, fu condannato a morte col secondo grado di publico esempio; gli altri ugualmente a morte: ma fu sospesala esecuzione, perché dal Consiglio raccomandati alla clemenza sovrana.

(1)Ministero Luogotenenziale, Grazia e Giustizia, anno 1856.

(2)Il di 24 gennaro 1857, Francesco Ferrara, nella fine d'un brano di lettera, sequestrata dalla Polizia, ricorda il Bentivegna:

«Salatami tutta la famiglia; abbracciami Mamà. — Quanto desidero di rivedervi! Io non sono mai stato tanto oppresso e sfiduciato quanto da qualche tempo in qua. Sto fisicamente piuttosto bene; ma una malattia morale che mi è parsa quasi ridicolo in altri, oggi può in me di una maniera prepotentissima e non so come vincerla: il mal di patria. Oggi abbiamo celebrato una messa in memoria di Bentivegna; io noi conosceva, ma mi dicono che era un giovane pieno di buone qualità, e non meritava di commettere gli errori che lo condussero ad una fine cosi deplorabile». — (Archivio di Stato di Palermo, filza 1212, anno 1857).

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Lo Spinuzza, trasferito in Cefalù, circondato da numerosa forza, dopo due giorni dall'arrivo, dopo avere scritto il suo testamento, pronunziate parole sublimi al canonico Francesco Miceli, che lo assistette, cadeva il di 16 marzo 1857, colpito da dodici palle. Il Sottointendente, siccome impongono le usanze oficiali di tutti i tempi, così si espresse col Luogotenente: La sentenza di morte in persona di D. Salvatore Spinuzza è stata eseguita stamane alle ore 13A. L'ordine pubblico non è stato menomamente turbato.

Il moto, capitanato dal Bentivegna, sembrò avvenimento assai grave pel giungere della notizia dell'attentato a re Ferdinando, compiuto da Agesilao Milano, di San Benedetto Ullano nel Cosentino, soldato del 3° battaglione de' cacciatori. L'uno e l'altro avvenimento si credettero concordi ad inaugurare un'insurrezione. L'attentato era avvenuto il di 8 dicembre, al Campo di Marte, riunite le truppe per la messa in onore dell'Immaculata. Allo sfilare poi le stesse avanti il re, che, a cavallo, godeva di osservare l'arredo e la istruzione, il Milano, uscito dalle file, si era spinto col moschetto, con in punta la daga, contro il re. Non gravi le conseguenze, perché piccola e non profonda la ferita, ma furono di non lieve conto i convincimenti e le feste di contentezza oltre gli Stati. Ne gioirono gli emigrati (1), e in Piemonte la stampa plaudì all'attentato. La poetessa Laura Beatrice Oliva Mancini verseggiò, e gli estri le ispirarono:

Ecco in mezzo alle sue squadre guerriere,

Scorrendo il vasto campo,

In suo fulgor stassi il temuto sire,

Ratto fuor delle schiere

Qual vide balenar sinistro lampo?

Oli sovrumano ardire!

Osi affrontar coll'unico tuo ferro

Il coronato sgherro

Coll'angel di vendetta, a lui dicevi:

«Deponi il reo tuo serto,

«0 re, morir tu devi...

«Io solo, in mezzo al tuo poter, ti atterro n.

Ma il gran colpo fallì! Pallido, incerto,

Dal terror vinto e dall'interno affanno

ché non vedi il tiranno?

Ben forse il di gli appar ch'ei cada estinto

Da quelle spade, onde a difesa è cinto (2).

(1)Vedi Documenti, XX.

(2)Patria ed Amore, Canti Lirici, pag. 51; Firenze, Le Mounier, 1874.

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I concetti, anche non peregrini, del canto della poetessa non si trovarono dissimiglianti dagli espressi nel secolo decimosesto da Lorenzo de'  Medici, uccisore del cugino Alessandro, Duca di Firenze, avendo scritto Apologia. «Ma non per questo vuole la conseguenza, che questa fede e questa amicizia si abbia da osservare ancora con i tiranni, perché siccome loro pervertono e confondono tutte le leggi, e tutti i buoni costumi, cosi gli uomini sono obbligati contro tutte le leggi e tutte l'usanze a cercar di levarli di terra, e quanto prima lo fanno, tanto più sono da lodare. Certo sarebbe una buona legge, per i tiranni, questa che vorrebbesi introdurre, ma cattiva per il mondo, che nessuno debba offendere il tiranno di quelli in cui egli si fida, perché fidandosi egli di ogni uno, non potrebbe per vigor di questa vostra legge esser offeso da persona, e non avrebbe bisogno di guardie o fortezze» (1).

In Sicilia la notizia dell'attentato giunse il dì 10, e il Ruffo, luogotenente, sul contegno tenuto dalla popolazione di Palermo scriveva sollecitamente al Ministro in Napoli il dì 11: «Coll'arrivar del piroscafo mercantile l'Ercole, ieri sul tardi si divulgava la notizia del sacrilego attentato d'un settario sotto le vesti di soldato contro la Sacra Persona del Re S. N. che miracolosamente per evidente celeste favore scampava al periglio. La grave novella commosse tutti e produsse una dolorosa impressione, anco nell'animo di coloro che sono conosciuti di nudrire principii avversi al Real Governo, ed ier sera parlavasene con indignazione in tutti i pubblici ritrovi. Si parlava con ammirazione del calmo ed intrepido contegno di Sua Maestà in quel frangente e della devozione mostrata dall'Esercito e dalla popolazione di Napoli in questa dolorosa contingenza.

(1) Apologia, in Nuova Biblioteca Popolare, pag. 255; Torino, Cugini Pomba, 1852. — Non comentiamo: ma ci occorre dire, che se Lorenzo de'  Medici fu creduto ora un vendicatore di libertà, ora un assassino, per ud avvenimento truce, che turbò la Nazione, evocandosi la memoria di Agesilao Milano, la medesima si volle macchiare pel commesso regicidio. Però nel Piemonte lodarono l'azione poeti e giornalisti; e nel 78 agosto 1900, L'Italia Reale Corriere Nazionale, ricordando la Gazsetta del Popolo delli 11 dicembre 1856, ripeteva le parole seguenti:

«I fogli retrogradi clericali parleranno ora di un regicida napoletano coll'usata loro malafede, mentre che non si tratta che di un soldato italiano, che ha creduto di poter combattere un capobanda di mercenari svizzeri». — Tacque allora il Parlamento, ma in principio dell'anno 158, attentata la vita a Napoleone III, il conte di Cavour chiese provvedimenti di legge, e si scusò d'aver taciuto pel fatto di Napoli, perché, diceva, le due grandi potenze d'occidente hanno creduto che le condizioni interne del regno di Napoli fossero tali da non permetter loro di mantenere relazioni diplomatiche con quel Governo. — (Discorsi Parlamentari, vol. x, pag. 454, ediz. citata).

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Col piroscafo di sabato venturo sarò in grado di ragguagliar meglio V. E. della impressione che questo avvenimento ha prodotto sullo spirito pubblico. Questa sera nella Cattedrale sarà cantato un Te Deum in solenne rendimento di grazie al Signore, per aver salvato i giorni preziosi di Sua Maestà, intervenendovi tutto il personale delle amministrazioni e le corporazioni dello Stato. La Città ed il Teatro saranno illuminati» (1).

Il giorno 13, stabilito per la esecuzione della pena capitale; il giorno che Agesilao Milano ascendeva il ferale supplizio, il luogotenente, compiaciuto, scrive ancora allo stesso Ministro, manifestandogli il disgusto c la pietà del popolo (2). I giorni delle feste noi li ricordiamo: la parte principale di esse fu rappresentata da'  più ligi al sovrano, per ragion di carica, e per quella benevolenza, che non esclude mai, per troppo attaccamento, la servitù: il popolo non si astenne dal parteciparvi; i municipj tutti si prostrarono a'  piedi del sovrano, benedicendo il Signore, che l'avea scampato dal pericolo, esecrando Agesilao Milano. Ma da questi entusiasmi non si possono trar convincimenti, ché le turbe corron sempre dietro a'  chiassi, e il crucifige di ieri, oggi mutano in osanna. Grande è il difetto di educazione, di quella educazione, cui Giuseppe Mazzini volgeva tutti i suoi pensieri.

(1)Archivio di Stato di Palermo, Ministero Luogotenenziale, anno 1856.

(2)Palermo, 13 dicembre 1S56. — Eccellenza. — «L'attentato contro la Sacra Persona det Re S. N. destò orrore ed indignazione in tutte le clas3Ì di persone in questa Città, ei ha formato e forma giustamente il tema di tutti i socievoli convegni, e ciascuno si fa a consideiare la desolazione in cui si sarebbe trovato il Reame se la mano del Signore non avesse con evidente prodigio fatta salva la Vita preziosa dell'Amato Sovrano, su cui si concentrano tanti affetti e tante speranze, e l'amore e la devozione di tutto un popolo. Non v'è stata che una voce per condannare il parricida, e gli uomini di tutte le opinioni sono stati concordi nello imprecare la mano scellerata che osò avventarsi coutro il Monarca. A me è grato render testimonianza di sentimenti di affetto verso il Re manifestati in questa congiuntura dalla popolazione di Palermo, la quale nell'accorrere che fece alla Cattedrale la sera degli 11, in cui cantossi il Te Deum, e nella spontanea generale illuminazione di cui fece brillare la Città, die a vedere tutta la sua esultanza per aver vista salva la vita del Magnanimo Sovrano. E per me fu commovente spettacolo le feste e le luminarie che la sera stessa ebber luogo ne' circostanti villaggi, e sopratutto nell'ampia e popolosa contrada di Colli, ove le manifestazioni del gaudio pubblico ebbero un carattere più brioso e più espansivo siccome è proprio degli abitanti delle campagne. V. E. troverà un fedele ragguaglio di quanto si fece in quel giorno nello annesso numero del Giornale Ufficiale di ieri». — (Archivio di Stato, d: Palermo, Ministero Luogotenenziale, anno 1856).

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Provvedimenti energici erano adoperati per un tentativo di sbarco. Il quale destava il ricordo d'altro tentativo scoperto dal Console di Cagliari, che, nel luglio, aveva scritto un legno con bandiera inglese essersi diretto a Tunisi per caricare armi e approdare in Trapani (1). Trascorsi sei mesi, altre notizie di maggior conto vengono scoperte, e la scoperta de'  travagli per una spedizione in Sicilia era dovuta a'  due fuorisciti Mondini e de Miceli; il primo de'  quali rivelò molte cose, tacendo qualche particolarità; il secondo, invece, si tenne nel silenzio, e da lui nulla potendo sapersi, non fu dato alle autorità il congiungere, per meglio discernere, le rivelazioni de'  due arrestati. Però bastevoli parendo le aperte parole del Mondini, la polizia preso interesse d'informare il Ministro in Napoli, schiarì il passato lavorio de'  congiuratori, carteggiando col Console in Tunisi. Le corrispondenze cortesi fecero generare promesse per la vigilanza più scrupolosa (2).

DOCUMENTI (3).

I.

Il Luogotenente al Ministro per gli Affari di Sicilia in Napoli.

Notamento dei sedicenti Pari che segnarono tanto col proprio nome, che come procuratori d'altre Parie, l'esecrando Decreto del 13 aprile 1818, dei quali il maggior numero si sono disdetti e sottomessi alla Maestà del Re Nostro Signore, ed altri si sono negati, oltre quegli all'Estero o defanti.

Disdetti e sottomessi. — 1. Arcivescovo di Monreale Monsignor Francesco Brunaccini — 2. Pel Vescovo di Catania Padre Luigi Ventura Vescovo di Cefalù Monsignor Visconte Proto — 3. Vescovo di Nardo Monsignor Angelo Filippone — 4. Abate di S. Giovanni gli Eremiti — 5. Canonico Salvatore Calcara — 6. Abate di S. Maria La Grotta — 7. Padre Scartata Gesuita — 8. Abate di S. Maria di Gala — 9. Monsignor Criapi — 10. Abate di S. Gregorio Lo Gibso — 11. Monsignor Francesco Salvo — 12. Abate di S. Nicandro Padre Paolo Vagliaaindi — 13. Abate di S. Maria di Terrana — 14. Monsignor Domenico Cilluffo — 15. Abate di S. Martino de Scalea — 10. Padre Pietro Tarallo — 17. Abate di S. Placido Padre Ippolito Papè — 18. Abate S. Nicolò L'Arena Padre Filippo Cultrera — 19. Abate di S. Anna Monsignor Epifanio Turrisi — 20. Per l'Arcivescovo di Palermo Canonico Baldas8are Palazzotto —

(1)Vedi Documenti, XI.

(2)Vedi Documenti, XII, XIII, XIV.

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21. Per l'Abate S. Nicolò La Fico — 22. Sacerdote Domenico Turano — 23. Per l'Abate S. Calogero d'Agosta — 24. Canonico Giovanni Cirino — 25. Per l'Abate S. Giacomo d'Alto Passo sacerdote Nicolò de Carlo — 26. Per l'Abate di S. Pietro e Paolo Barone Giuseppe Pilo — 27. Per l'Abate di S. Maria delle Giambarre Canonico Ragusa — 28. Priore di S. Maria la Nova Padre Giambattista Tarallo — 29. Pel Priorato di Messina Canonico Giovanni Alcozèr — 30. Pel Priore di S. Spirito da Caltanissetta Canonico Ragusa — 31. Beneficiale di S. Matteo di Messina Padre Gaetano Messina — 32. Per la Archimandrita di Messina Priore Giambattista Scasso — 33. Parroco Rugiero D'Angelo — 34. Sacerdote Antonio Cali Sardo — 35. Sacerdote D. Giovanni De Francisci — 36. Sacerdote D. Mario Turrisi — 37. Principe di Castelvetrano Duca di Monteleone — 38. Principe di Trabia Giuseppe Lanza — 39. Alessandro Alliata dei Principi di Villafranca — 40. Principe di Maletto Domenico Spadafora. — 41. Pel Principe di Campofranco il Principe Furnari — 42. Principe di Valguarnera Pietro Valguarnera — 43. Principe di Partanna D. Benedetto Grifeo — 44. Principe di Malvagna Alessandro Migliaccio — 45. Principe di Palagonia Francesco Paolo Gravina — 46. Principe di Galati Duca di Caccamo — 47. Principe di Sciara Francesco Notarbartolo — 48. Principe di Giardinelli Gaetano Starrabba — 49. Principe di Spadafora Mario Spadafora — 50. Duca di S. Giacomo Villarosa Notarbaitolo — 51. Duca di Palma D. Giulio Tommasi — 52. Duca di Castellacelo Ignazio Agraz—  53. Conte Sampieri Guglielmo Morreale — 54. Marchese di Mariueo Conte di Capaci Pilo — 55. Marchese Giarratana Principe di Fitalia — 56. Marchese di Cerda Alessio Santostefano — 57. Marchese Villarena Vincenzo Mortillaro — 58. Marchese della Sambuca — 59. Marchese S. Ferdinando Rostagno — 60. Marchese dell'Ogliastro Antonio Parisi

61. Barone di Giardìnello Principe di Niscemi — 62. Barone di Santo Stefano Principe di S. Elia — 63. Barone di Vallelunga Principe di Valdina — 64. Barone della Feria Francesco Tarallo — 65. Barone di Campobello Duca di Montalbo — 66. Barone Francesco Vagliasindi — 67. Barone Colobria Pietro Riso — 68 Barone di Ficarra Marchese Lungarini — 69. Barone Fucilino Vincenzo La Via — 70. Barone Canalotto Giovanni Calafato — 71. D. Francesco Marletta — 72. D. Salvatore Vigo — 73. D. Stefano Bonelli.

Negativi a segnare la disdetta. — 1. Beneficiale Paolo D'Antonino per la Badia di S. Lucia — 2. Principe di Resuttana — 3. Principe di Paternò — 4. Barone Aliminusa D. Emmanuele Milone, una volta Regio Giudice — 5. Lucio Mastrogiovanni Tasca — 6. L'Abate Giuseppe Castiglione — 7. L'Arciprete Giuseppe Evola — 8. Marchese della Foresta

9. D. Calogero Amato Vetrano.

Dimoranti all'Estero. — 1. Principe di Butera — 2. Duca di Serradifalco — 3. Duca di Gualtieri — 4. Principe di Torremuzza — 5. Marchese di S. Cataldo — 6. Marchese RoccaForte — 7. Marchese Villalba

8. Principe di S. Giuseppe — 9. Duchino della Verdura — 10. D. Sebastiano Leila — 11. Barone di Pettineo — 12. Duca di Cassaro — 13. Principe di Leonforte.

Trapassati. — 1. Principe di Rammacca — 2. Principe di Baucina — 3. Principe di S. Margherita.

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Osservazioni. — Molti dei sedicenti Pari segnarono l'esecrando Decreto anche come Procuratori di altre Parìe ereditarie. Oggi quasi tutti si sono disdetti e sottomessi col solo proprio nome, ond'è che non tenendosi conto delle firme fatte per procura, i Pari ascendono nominativamente al numero di novantuno.

Il Luogotenente al Ministro per gli Affari di Sicilia in Napoli.

Notamento dei sedicenti Deputati del 1848, che segnarono l'esecrando Decreto di decadenza del 13 aprile, de'  quali il maggior numero si sono disdetti e sottomessi alla Maestà del Re Nostro Signore, pochi si sono negati, ed altri trovansi all'Estero o trapassati.

Disdetti e sottomessi. — 1. Avila Arciprete D. Francesco — 2. Accordino Dott. D. Francesco — 3. Agnello D. Giacinto — 4. Arezzi D. Corrado Barone Donnafogata — 5. Amodei Canonino D. Rosario — 6. Atone di Bertolino D. Giuseppe — 7. Albergo D. Giuseppe — 8. Bonanno D. Silvio Principe di Linguaglossa — 9. Barile Paolo Barone Turrisi — 10. Bonfiglio Barone D. Giuseppe — 11. Bellone D. Antonino — 12. Barbagallo Garano D. Domenico — 13. Bruno D. Giovanni —14. Carella D. Basilio — 15. Castro Canonico D. Rosario — 16. Corvaja D. Mariano — 17. Cultrera Ascenso D. Florio — 18. Calefati D. Giovanni Barone Canelotti — 19. Catalano D. Giuseppe — 20. Cammarata D. Emmanuele — 21. Civinna Barone D. Mercurio — 22. Calamai D. Francesco — 23. Citelli D. Placido — 24. Curto Barone D. Calogero — 25. Coniglio D. Alessandro — 26. Calcagno Dott. D. Vincenzo — 27. Callerame Padre Giovambattista — 28. Cantarella D. Salvatore — 29. D'Ippolito D. Giovanni — 30. Di Figlia Barone D. Vincenzo — 31. Dara D. Nicolò — 32. Drago Dottor D. Giuseppe — 33. De Castro Canonico D. Giuseppe — 34. De Leva Gravina D. Giuseppe — 35. Dilettoso D. Pietro — 36. De Spucches D. Giuseppe Principe Galati — 37. Federico D. Pietro — 33. Fronte D. Innocenzo — 39. Fazio Salvo D. Antonino — 40. Ferruggia D. Giuseppe — 41. Gatto Canonico D. Anselmo — 42. Glorioso D. Tommaso — 43. Grimaldi D. Vincenzo — 44. Grimaldi D. Vincenzo Barone Calamezzana — 45. Galici Galletti D. Giuseppe — 46. Gange Dottor D. Giuseppe — 47. Gagliardo D. Girolamo Barone Carpinello — 48. Gravina D. Francesco de Principi Comitini — 49. Giuffrida Scuderi D. Domenico — 50. Greco D. Carmelo — 51. Giattini Canonico D. Antonino — 52. Jannelli D. Fortunato — 53. Interlandi D. Pompeo Principe Bellaprima — 54. Lancia D. Federico Duchino Brolo — 55. Lo Bue D. Gaetano — 56. La Lumia Barone D. Salviati — 57. La Eosa D. Mariano — 58. Libertini D. Gesualdo Maria — 59. Lombardo D. Giovambattista — 60. Mainone D. Pasquale — 61. Meli Priore Giacomo Olivetano — 62. Marrocco Dottor D. Angelo — 63. Marletta D. Giuseppe — 64. Majorana D. Salvatore — 65. Muccio D. Raffale — 66. Mastrogiovanni L. Gaetano — 67. Mantegna D. Giuseppe — 68. Nicosia Barone D. Giovanni — 69. Notarbartolo D. Placido — 70. Nicastro Barone D. Paolo — 71. Orlando D. Francesco Paolo — 72. Ortolani Barone D. Carlo —73. Pinelli D. Giuseppe — 74. Picone D. Gaetano — 75. Pucci Barone D. Egidio — 76. Privitera Dottor Barone Benedetto — 77. Pisani Ciaccio D. Francesco — 78. Pintaura D. Corrado — 79. Randazzo Dott. D. Giuseppe — 80. Riso Barone D. Pietro — 81. Riolo Parroco D. Paolino — 82. Ribaudi Sacerdote D. Michelangelo — 83. Romeo D. Ignazio — 84. Spanò D. Vinceuzo — 85. Siragusa D. Giovanni

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— 86. Sortine Arciprete D. Michele — 87. Serroy D, Giuseppe — 88. Spedalotto Marchese — 89. Scriffignani D. Francesco — 90. Schininà Barone D. Giuseppe — 91. Stajano sacerdote D. Vincenzo — 92. Trigona D. Giuseppe Marchese Cannicarao — 93. Tebaldi Dott. D. Giuseppe — 94. Taormina D. Alfonso — 95. Trigona Stella D. Pietro — 96. Tagliavia Parroco D. Onofrio — 97. Vecchio. Majorana D. Onofrio — 98. Ventura Barone D. Francesco — 99. Virgilio Parroco D. Giuseppe — 100. Vaina D. Giovanni — 101. Vigo Fuecio Don Leonardo — 102. Vigo Calanna Don Leonardo — 103. Vaccaro D. Salvatore — 104. Vizzini Parroco D. Giuseppe — 105. Vita D. Giuseppe — 106. Vasari D. Ignazio — 107. Zito Arciprete D. Nicolò — 108. Zuccaro D. Pietro — 109. Zerega D. Antonino.

Negatisi a segnare la disdetta. — 1. Acates D. Benedetto — 2. Amodei D. Domenico — 3. Ali D. Giulio —4. Agnetta D. Antonino — 5. Battaglia D. Dario — 6. Bonelli D. Nicolò — 7. Bentivegna D. Francesco — 8. Daida D. Gaetano — 9. De Luca D. Francesco — 10. De Pasquale D. Gaetano — 11. De Pasquale D. Filippo — 12. De Angelis D. Pietro — 13. De Felice D. Francesco — 14. Fa vara D. Vincenzo — 15. Fatta D. Girolamo — 16. Firmaturi D. Giovanni — 17. Fiammingo D. Casimiro — 18. Gramignani D. Pietro — 19. Garbo Paternò D. Giovanni — 20. Grasso Dott. D. Giuseppe — 21. Gandolfo D. Gianfilippo — 22. Lanza D. Nicolò 23. Lanza D. Ignazio — 24. Lanza D. Ercole 25. La Porta D. Giuseppe — 26. Mastrojeni D. Giuseppe — 27. Musmeci D. Nicolò — 28. Nicolosi Dott. D. Calcedonio — 29. Omodei D. Benedetto — 30. Piraino D. Errico — 31. Pilo D. Ignazio — 32. Passarci lo Dott. D. Benedetto — 33. Picardi D. Silvestro — 34. Riggio D. Simone — 35. Raffaele D. Giovanni — 36. Setajnolo D. Girolamo 37. Scoppa D. Giuseppe — 38. Santocanale D. Filippo — 39. Turrisi D. Nicolò — 40. Torreforte Mallia Marchese — 41. Venuta sacerdote Luigi.

Non richiesti a segnare. — 1. Pisani Barone D. Casimiro — 2. Ugdulena sacerdote D. Gregorio — 3. Ugdulena D. Francesco — 4. Ugdulena D. Giuseppe.

Dimoranti ali Estero. — 1. Amari D. Emerico — 2. Amari D. Gabriello

3. Amari D Michele — 4. Amari Conte D. Michele — 5. Anca Dottor D. Francesco — 6. Basile D. Luigi — 7. Beltrani D. Vito — 8. Bertolani D. Michele — 9. Cordova Dott. Filippo — 10. Calvi Dott. D. Pastinale — 11. Carnazza D. Gabriello — 12. Crispi Genova D. Francesco — 13. Cammarata D. Francesco — 14. Chinnemi D. Salvatore — 15. Cannizzaro D. Stanislao — 16. D'Ondes Barone D. Vito — 17. De Marco D, Vincenzo — 18. Errante D. Vincenzo — 19. Fardella Marchese D. Vincenzo — 20. Fiorenza sacerdote D. Giuseppe — 21. Fernandez D. Diego — 22. Fardella D. Giovambattista — 23. Ferrara Don Francesco — 24. Granatelli Principe — 25. Interdonato D. Giovanni — 26. La Farina D Giuseppe — 27. La Farina L. Carmelo — 28. Lanza D. Raffaele — 29. Marano D. Pietro — 30. Masaracchio Barone D. Francesco — 31. Napoli D. Federico — 32. Natoli D. Giuseppe — 33. Navarra D. Giuseppe

34. Perez D. Francesco Paolo — 35. Paternostro D. Paolo — 36. Raeli D. Matteo — 37. Stabile D. Mariano — 38. Scalia D. Luigi — 39. Trigona D. Francesco — 40. Venturelli D. Benedetto.

Trapassati. — 1. Greco D. Gaetano — 2. Giandolfo D. Giuseppe — 3. Velez D. Gaetano.

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Osservazioni. — Il Barone di Calamezzana signor Grimaldi avea segnato qual Procuratore di un sedicente Deputato quando si conobbe erronea la procura, bisognò rimandarsi. Tornata la stessa vi si trovò eletto altro Procuratore, che segnò, e quindi la firma di Calamezzana debbe ritenersi come non fatta. Il Deputato D. Giuseppe Marletta volle segnare sull'atto, a malgrado che non firmò la decadenza.

II.

Esposto al Re de'  Pari Barone di Canalotti e Marchese di Villarena.

S. R. M. — Signore. — Quegli enormi delltti politici che non hanno esempio nella storia di un popolo, non sono mai l'opera che della concentrata nequizia de'  pochi; i quali per arti infernali, pria di seduzioni, poscia di violenza e di terrore, insignoritisi di un irraffrenato potere, impongono a1 riluttanti istinti demolti un fittizio assentimento. — Tale è la storia di eccessi cosi fatti, antichi e nuovi, tal è pur quella del nefando atto seguito in Palermo a 13 aprile 1848. — Ma se, in quello stolto ed esecrabil atto, altri hanno a deplorare la miserabil condizione di esser concorsi, benchò ripugnanti, alla sua formazione, ha già Pari temporali elettivi di Sicilia, cne or riverenti alla M. V. s'inchinano, toccò minore sventura, quella solo di aver patito la violenza di dover so scrivere separato atto adesivo a quanto e Rappresentanti e Pari, ereditarj e spirituali, aveano già consumato. — Imperocché, assunti alla Paria il di 15 aprile 1848, in quei primi bollori della setta trionfatrice, solo a pareggiar le condizioni di tutti i sedenti in Parlamento, fu loro imposto che esplicitamente al nuovo atto assentissero, e nella prima seduta ne venne loro anche ingiunta la formola. — Ma, Sire, qual via di scampo offrivasi allora a'  collocati in quel misero stato? Rinunziare alla Parìa, dopo la nominazione de'  Comuni e l'elezione de ripristinati Pari, era un far atto di fatale opposizione contro chi poteva ed aveva usato ogni cosa, era un designarsi infruttuosamente, e senza asilo pe1 presenti, al facilmente incitabil odio di un'affascinata moltitudine. E d'altra parte, a che avrebbe riparato il martirio de' nuovi eletti? Allora nella Camera, lo ripetiamo, l'opera parlamentare era compiuta, Rappresentanti e Pari laveano già consumata. — Pure i fatti posteriori, meglio d'ogni parola, qualificano i precedenti. Quali furono la condotta, le idee, le tendenze de'  già Pari elettivi? Basti il dire che in quindici interminabil mesi di reggimento rivoluzionario, quando noti ed ignoti erano a fascio chiamati al Ministero, niun di loro ru mai, non che assunto, ma né ad esso invitato. E non dimeno, poiché il voto di due Camere legislative era solennemente concorso alla loro elezione, è a presumere aver collocato fra essi più d'un'assennata capacità. — Ma agli occhi di una fazione che non vive se non di sistematica esagerazione, non ha alcun peso quel merito che non sia stemperatezza di voti, esaltazione, fanatismo. — Nò questa volta, a dir vero, andavano errata; ché i già Pari temporali elettivi di ben altro amore, amavano il paese, né sapean per esso vedere che sciagure, ruine e turpe assoggettimento, ove dal suo Re e dalla legittima dinastia si dipartisse. — Quindi, appena certa maturità di tempi ne offerse loro il destro, potentemente concorsero ad abbattere la incomportabile dominazione di una perfidiosa monomania.

— 88 —

E però l'ultimo Ministero de'  15 aprile 1849, il solo dopo quindici mesi, Ministero di reazione, inteso a restaurare le smarrite idee della legittima Monarchia, si compose, sopra tre Ministri, di due fra Pari elettivi. Ed in mezzo a pericoli d'ogni specie, d'ogni intensità non si sarebber essi rimossi dalla opera da lor cominciata, se non avessero stimato miglior Consiglio il dare un primo esempio di obbidienza agli ordini precisi di S. M. che l'amministrazione delle cose passasse al municipio di Palermo. — Ecco i già Pari temporali elettivi a piè del Real trono con quel rigore di verità siccome sarà per giudicarli la Storia. Pur tali quali essi sono, non dissimulano a sè medesimi il grande uopo in che stanno della demenza sovrana per sentirsi sicurati nella lor coscienza di fedele sudditezza. Ma il nipote di S. Luigi e di Errico IV, ha già dimenticato falli più gravi perché abbiano a sconfidare i sottoscritti non voglia ora fare scender su loro la magnanimità che obblia, e la grazia che riconforta. — Umilissimi Devotissimi sudditi Signori Barone di Canalotti cav. Giovanni Calefati — Signor Marchese di Villarena Vincenzo di Mortillaro.

III.

Il Duca di Taormina al Ministro per gli Affari di Sicilia in Napoli.

Palermo, 3 febbraio 1854. — Eccellenza. — Nelle condizioni inquietanti in cui trovasi l'Europa e nel segreto che chiude l'avvenire gravido di tempeste, alla vigilia d'una temuta conflagrazione, non può sperarsi che quotino gli spiriti bollenti della gioventù e che calmino gli animi irrequieti de'  rivoluzionarj e di quella parte turbolenta della plebe delle grandi città avida di novità, e quindi la situazione dello spirito pubblico in queste Provincie risente di quei timori e di quelle speranze che hanno generalmente destato da pochi giorni in qua i rumori di guerra per la entrata nel Mar Nero delle flotte di Francia e d'Inghilterra.

L'emigrazione incalza con lettere su lettere per dare ad intendere di esser suonata Vora della riscossa, e conforta a sperare in una prossima soluzione. Assegna vicino il termine della tirannia e della servitù de popoli, come scrivono que' banditi nell'osceno loro linguaggio, e tutti dicono d'esser preparato pel nuovo insorgimento che sarà potentemente ausiliato dalle due grandi Potenze occidentali.

Scrivono avvicinarsi al Reame delle due Sicilie Lord Minto, quest'uomo fatale che porta nel suo seno i destini d'Italia, che tutto il bel paese deve costituirsi in un grande Stato sia a Monarchia costituzionale, sia a reggimento democratico: i fati decideranno che da'  Comizj britannici partirà la folgore che deve mettere in fiamme l'Europa e portare la libertà a?popoli.

Tutti questi suggerimenti congiunti alle polemiche del giornalismo straniero ed allo allarme propagatosi nel Commercio, infiammano le menti, eccitano desiderj e svegliano le passioni rivoluzionarie. I buoni trepidano per l'incertezza dell'avvenire, tanto più che si è fatto credere che il Reame sarà trascinato buon grado o malgrado nel vortice della guerra ed astretto a collegarsi con una delle parti belligeranti. Questa credenza acquista sempre più consistenza. In Messina l'allarme è più intenso come quella che pel soffermato corso de'  commerci sente più da presso la gravità della situazione. Là la fazione democratica si agita sordamente e si prepara agli eventi.

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la Catania sonovi le stesse apprensioni ed il partito della rivoluzione fiuta già la guerra e si predispone alla riscossa sotto l'influenza sempre del ViceConsole Inglese Jean, che non ha mai scontinuato dalle inique pratiche di sovvertire gli animi. Nelle altre città secondarie e ne' grossi Comuni si politica meno, vi stanno meno agitatori, ma non v'è penuria di desiderj e di speranze di mutazioni di Stato.

Dappertutto il numero de'  buoni e degli onesti è immenso, i proprietarj per la più parte voglion l'ordine ed abborrono le novità. Se non che tutti i buoni sudditi sono generalmente quietisti che non vogliono mai compromettersi, che sorridon per paura a'  rivoluzionarj e non daranno in un momento di crisi altro appoggio all'Autorità che quella di sterili voti. Essi staranno col R. Governo fino a quando il Governo sarà forte e temuto.

In Palermo le esagerazioni politiche son discese nella parte più ribalda della plebe e della maestranza, guastata questa nel tempo dell'anarchia dal contatto che si ebbe cogl'ideologhi, militando nella Guardia Nazionale.

La voce d'imminente guerra si è pur diffusa in tutti i paesi che fan cerchio a Palermo, ove si annida gente facinorosa e ladra, strumento a rivoluzione e che è impaziente di rompere quei vincoli che impennan di presente le malnate sue passioni.

Gli agitatori intelligenti soffiano nella plebe senza compromettersi, il volgo meno prudente rivela le sue tendenze, e da pochi giorni a questa parte gli agenti secreti della polizia si sono accorti che gli spiriti fermentano, e che siavi una recrudescenza di agitazione.

Una voce è surta che annunzia pel giorno 15 andante l'arrivo d'un piroscafo da guerra Inglese che deve diffondere de'  proclami rivoluzionarj, e darsi il segnale dell'insurrezione.

In parecchi luoghi si son visti de'  popolani gavazzare e parlare di prossime rivolture, alle quali mostransi decisi a pigliar parte.

Si è pure fatto credere alla plebe che una mano occulta e potente tiene assoldati a grana 30 al giorno migliaia d'individui, i quali stan pronti ed in armi pel primo segnale. Questa voce è bugiarda, e si divulga nel fine di colpire la mente de'  popolani sulla grandiosità de'  mezzi di cui è in possesso il partito della rivoluzione.

La polizia segue da presso tutta questa gente e si studia, per quanto può, di saperne il segreto, mentre che il Governo del Re, securo di sè tiensi, senza mostrarsi allarmato, in misura di reprimere ogni conato rivoluzionario.

Non sarà facile a'  malintenzionati asseguire gli scellerati loro disegni, sapendo essi quanto sia formidata la forza del R. Governo, e quanta la severità de'  mezzi di repressione. A forza di oculatezza, di vigilanza e di previdenza io porto fiducia che si neutralizzeranno i perfidi suggerimenti della emigrazione ed i consigli della fazione inglese, e che non saremo astretti a ricorrere a partiti estremi, riuscendo sempre, coll'aiuto di Dio, a sventare le tenebrose macchinazioni de'  nemici dello Stato.

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IV.

Lo stesso al medesimo.

Palermo, 26 marzo 1854. — Eccellenza. — Collo stringere degli avvenimenti allo appressarsi della buona stagione, che apre il campo alle operazioni di guerra a cui con tanto rumore si apparecchiano le potenze belligeranti, si rinvigoriscono le speranze del partito che vagheggia la insurrezione, ed una sorda fermentazione sempre crescente si manifesta negli animi indomiti di coloro che aborrono il freno della legittima autorità.

Questa recrudescenza nelle cogitazioni rivoluzionarie si appalesa in Palermo e nelle provincie, e si ravvisa fra la gente di male affare un insolito movimento precursore di quelle agitazioni popolari che scuotono

i Governi.

E quasi generale la credenza, che cominciata la guerra nel Baltico e nel Mar Nero, l'insurrezione verrà in ausilio alle due potenze occidentali, le quali per far diversione susciteranno certe pretese nazionalità, ed accenderanno la face rivoluzionaria per mettere in combustione l'Italia e l'Alemagna. L'emigrazione rafforza queste credenze, e fa vedere imminente l'insurrezione.

Le ultime lettere pervenute per vie indirette annunziano che fra un mese le sorti della Sicilia saranno cangiate, e che tutti i fuorosciti torneranno in armi. Questa volta il linguaggio di tali lettere è più risoluto e spira una convinzione inusitata.

Quelli che chiamansi liberali moderati e che rifuggono da'  mezzi violenti per asseguire certe forme governative, di cui si è fattasi dolorosa pruova, mostiansi lieti delle contingenze attuali, dalle quali essi sperano che sarà per emergerne l'abrogazione de'  trattati del 1815, il riconoscimento della Nazionalità e l'attuazione di quelle utopie che hanno sempre vagheggiato. Costoro tengonsi in un'attitudine aspettante e raccomandano agli spiriti bollenti di non precipitare gli avvenimenti e non compromettere la causa, ch'essi chiamano de'  popoli, con intempestivi moti insurrezionali. Il paese è generalmente travagliato da gravi preoccupazioni, e l'incertezza e l'inquietudine è negli animi. La polizia segue da presso con perseverante operosità tutti gli uomini di azione, e si studia, per quanto può, di sapere il segreto delle loro incessanti macchinazioni.

E siccome finora nessun definitivo disegno si è maturato da queBti forsennati per turbare la sicurezza dello Stato, si stima prudente consiglio di lasciarli andare fino a quando non diverranno pericolosi. La vigilanza è rigorosa ed incessante e si ha fiducia di poter antivenire sempre i conati rivoluzionarli.

In Messina v'è qualche preoccupazione pel passaggio del navilio di Francia che porta la spedizione in Oriente, temendosi che i tristi, i quali atterrano ogni occasione per agitare il Paese, volessero alla vista della Squadra Francese, che facilmente si fermerà al Faro per provvedersi di acqua e di carbone, irrompere in qualche manifestazione clamorosa di simpatia, e che sarebbe in sostanza quella che nel linguaggio rivoluzionario chiamavasi una dimostrazione. Ho raccomandato all'Intendente della Provincia ed al Generale Comandante della Piazza di stare oculati, di circuire i malvagi, provvedere al mantenimento dell'ordine

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e prevenire qqualunque scandalo, senza apparato di forze, senza ostensive precauzioni che potessero per poco insospettire i francesi che si tema della loro presenza nel Faro.

Si aspettava in Palermo un emissario straniero, annunziato da uno degli emigrati più influenti nelle classi popolari, e si ha dalla Polizia dei dati per poterlo conoscere, arrivando. Mi astengo di favellar della miseria che affligge il paese. Il Governo di S. M. ausiliato dalla carità pubblica fa quanto può per venire in soccorso degl'infelici. La sicurezza pubblica nelle città e nelle campagne è soddisfacente.

V.

Il Luogotenente Generale Duca di Taormina al Ministro per gli Affari di Sicilia in Napoli.

Palermo, 4 agosto 1854. — Eccellenza. — Continuando a favellarle di quanto discorsi a V. E. col mio foglio de'  28 p. p. n. 2058, mi onoro farle palese che la fermentazione degli animi di questa popolazione si fa sempre più intensa e che sinistri proponimenti corrono fra la plebe, la quale si è pronunziata che al primo caso di cholera piglierà le armi. Tanta baldanza non si è lasciata passare impunemente; e la polizia ha ghermito finora 15 popolani, ed una persona civile che sovvertivano le menti de'  creduli, e che influenti per triBta celebrità acquistata nel tempo della rivoluzione consigliavano l'insurrezione, e convenivano in conciliaboli per concertare una levata in armi.

Nella classe civile, a parte di coloro che contano sul morbo per far leva alle masse, vi sono apprensioni tanto pel pericolo dell'invasione del male, quanto per le conseguenze di una commozione popolare politica che potrebbe ingenerare. E comunque da'  buoni siasi fidenti nell'antiveggenza e nella forza del Governo di S. M. pure le sinistre voci non lasciano di produrre una profonda impressione e la trepidazione è universale. Tutto giorno ne' paesi de'  dintorni avvengono delle scene di sospetti di avvelenamento, che sarebbero ridicole, se non alimentassero fatali illusioni.

I provvedimenti emessi dal Magistrato Municipale pel divieto della vendita delle frutta insalubri, per la nettezza delle strade e per l'imbiancamento delle case terrane sono 6tate dalla plebe prese in mala parte, e la cecità è tale che si oppongono all'introduzione de'  muratori, temendo che nella calce vi fossero delle sostanze venefiche.

Invano taluni proprietari hanno, per isnebbiare i sospetti, offerto il danaro a'  lo catari per fare acquistare a loro stessi la calce; la pervicacia è tale che non intendon ragione, e debbesi ricorrere a mezzi coercitivi.

In parecchi luoghi delle campagne di Misilmeri, di Bagheria e di Parco, de'  coloni hanno chiuso a chiavistello le fonti d'acqua, e tengonsi continuamente in guardia sospettosi delle persone che attraversano i loro campi, ed hanno maggiormente in mala vista gli uscieri, il cui ingrato uffizio li espone alla calunnia. A dileguare questo fatale pregiudizio io ho con una Circolare raccomandato al Clero d'impiegare l'autorità della sua parola dalla cattedra di verità per disilludere le menti,

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e riportarle al sentimento della cristiana rassegnazione al flagello divino.

Debbo però confessare ch'io fo poco assegnamento sul concorso del sacerdozio che, a parte di qualche eccezione, non ha nessuna influenza sul popolo, che anzi è discreditato.

I rapporti ufficiali e privati che mi pervengono dalle Provincie appresentano la situazione dello spirito pubblico del tutto uniforme a quello di Palermo. Dappertutto le stesse illusioni sulla natura del morbo, dappertutto gli occulti ma neggiamenti della fazione nemica al R, Governo per sovvertire le masse. La demagogia è lieta di vedere l'esaltazione della moltitudine e non si lascerà sfuggire un'occasione che potrebbe suscitare la guerra civile in questa parte del Reame. Le corrispondenze private d'uomini di secura fede che mi arrivano hanno un carattere allarmante, che s'inspira alle reminiscenze del 1837 e del 1848.

Io mi studio di tranquillizzare questi timori conservando quell'attitudine calma e risoluta che la manifestazione della coscienza della forza del R. Governo, e tutto è predisposto per soffocare sul nascere ogni conato sedizioso.

I Comandanti militari nelle Provincie hanno avuto le istruzioni per la tutela dell'ordine pubblico, ed ho loro inculcato di usare in caso di tumulto, sotto qualunque nome si faccia, la più vigorosa repressione.

Sarebbe doloroso, se, manifestandosi il cholera in questa Isola, si avesse a deplorare l'effusione di sangue per conquidere la rivolta. Piaccia a Dio di allontanare da queste contrade il fiero morbo; ma se soprarrivasse in onta alle misure di precauzioni adottate, il Governo di S. M. non mancherà a se stesso e farà il debito suo.

In Catania ed in Messina, ove l'agitazione si è appalesata colla stessa gravità di quella di Palermo, ho fatto arrestare parecchi individui fra i più esaltati, ed ho preparato altre misure per appalesarle nel caso che l'agitazione crescesse.

VI.

Il Direttore di Polizia al Ministro degli Affari di Sicilia in Napoli.

Palermo, 11 ottobre 1854. — Eccellenza. — Quasi tutti i faziosi plebei che sordamente si agitavano nei passati giorni, sono caduti nelle mani della Polizia, ed oggi la calma è tornata nella parte turbolenta della plebe, la quale trovasi invasa da un salutare terrore. Mi si riferisce che all'audacia è succeduto l'abbattimento e lo sconforto, men per la scoverta del complotto e la presura dei faziosi, quanto per aver visto due fra i più in fama d'uomini d'azioni e di consumata prudenza nelle ribalderie, farsi con una sfacciata impudenza organi e ministri della Polizia per catturare coloro che furono i loro complici, cosa che non era avvenuta precedentemente, avvegnaché se altri lo avean fatto in congiunture simili, vi avean messo segreto e mistero.

E' a sperare che questa calma duri qualche tempo, e che non venisse ad intorbidarla la novella che andrà divulgandosi del tentativo di disbarco dei fuorosciti, di cui forma oggetto il mio rispettoso rapporto di questa data.

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I novatori non si passano di giudicare severamente la Polizia e di censurarla nei loro discorsi quando si metton le mani sulla plebe che imbaldanzisce nei suoi istinti sediziosi, e van dicendo che si dànno importanza a delle puerilità, che si esagerano i pericoli e che bì dà corpo all'ombra. Essi così mormorando sono conseguenti ai loro principii, imperocché vedon di malocchio che la plebe che è strumento cieco delle loro cogitazioni a forza di repressione finirà per credere più alla possanza del Governo di S. M. il He S. N. che alle loro jattanze ed ai perfidi loro suggerimenti. Ed assai di queste conversioni per calcolo hanno avuto luogo fra la popolazione di Palermo.

Tutte queste vane declamazioni, che sommessamente circolano, non distorranno la polizia di fare il debito suo, dal compiere il suo ufficio di vegliare sulla sicurezza dello Stato, e sul pubblico riposo. La guerra in Oriente, ed i voluti successi degli Occidentali in Crimea, alimentano le insane speranze della demagogia, la quale non sa infingersi, ed aspetta che meglio si disegni la situazione politica di Europa per cominciare quella che essa chiama la grande agitazione. La Polizia ha gli occhi su questi faziosi per reprimerne la baldanza all'occorrenza e neutralizzare le loro cogitazioni.

VII.

Un manifesto inedito di Mazzini, Kossuth e LedruRollin alla democrazia europea.

Ai nostri fratelli di fede,

Il momento ci sembra giunto perché la Democrazia europea si ricostituisca in potente Unità, si schieri di fronte al nemico e agisca. E noi ci assumiamo di dirlo ai nostri fratelli di tutti i paesi con l'autorità che può venire alle nostre parole, non dal nome eh è nulla, ma dalla certezza di esprimere ciò che vive e freme oggi nel core dei popoli, da una conoscenza delle condizioni presenti attinta in relazioni stese bu tatti i punti importanti di Europa, la coscienza di qualche pegno dato l'alla causa della libertà Europea e la ferma determinazione di non fallire ai nostri fratelli s'essi rispondessero alla nostra chiamata. E necessario ad ogni vasta impresa il concentramento d'una iniziativa; una mano che levi in alto la bandiera del movimento, una voce che gridi: Vora è suonata.

Noi siamo quella voce e quella mano.

Se la maggioranza del partito riconosce in quella che noi inalziamo la propria bandiera; s'essa crede la nostra parola espressione di verità, è debito suo secondarci. Sentinelle inoltrate della Rivoluzione, noi ci confonderemo nelle fila dei nostri al primo ridestarsi dei popoli; ma quel ridestarsi — la storia degli ultimi sei anni lo insegna — non avrà luogo se non quando l'unità sarà fondata nel campo. É questo in oggi il bisogno supremo. Le circostanze generate dalla guerra che si combatte in Oriente, lo additano urgente. Per questo, parliamo.

Perché oggi? Perché non ieri? Qual nuovo elemento si è introdotto in una guerra che, rotta nel 1853, si trascina d'allora in poi nello stesso cerchio d'incapacità, d'immoralità, d'impotenza?

Parecchie illusioni sono sparite; parecchie verità presentite son oggi convalidate dai fatti. Per l'una cosa e per l'altra, era necessaria l'opera del tempo.

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Nella sfera dei principii, la questione europea è una sola: libertà per tutti; associazione fraterna di tutti: è questo il diritto, questo l'intento comune. Ma nella sfera del fatto, dei mezzi, la quistione assume due aspetti diversi: quello delle nazionalità dei popoli, i quali come l'Italia, l'Ungheria, la Polonia, devono rivendicarsi esistenza contro l'oppressione straniera; e quello dei popoli che avendo già, come la Francia, conquistata la Patria, tendendo soltanto a seguirne, contro l'usurpazione, lo sviluppo regolare, organizzando la Sovranità del Paese. Pei primi, la rivoluzione è guerra immediata: occorrono ad essi alleati e circostanze propizie; pei secondi, non si tratta se non oli un lavoro interno, d'essere concordi e volere. La guerra presente sembrava poter offrire alle nazionalità smembrate, probabilità di sacrifici non gravi: gli uni speravano che la quistione italoungherese sarebbe agevolata dalfappoggio forzato delle Potenze occidentali, quando l'identità del principio, la tradizione o la paura cacciassero l'Austria apertamente in braccio allo Tsar; gli altri credevano che la necessità di riescire spingerebbe i Governi d'Inghilterra e di Francia verso il solo punto vulnerabile della Russia, la Polonia. Illusioni siffatte non erano nostre. Noi sapevamo che, per dare ogni aiuto possibile alla Russia, bastava all'Austria mantenere un'apparente neutralità; e sapevamo che né l'uomo del due dicembre, né i ministri che, dopo aver sacrificato Roma e Pesth, gli accoppiano oggi l'Inghilterra, oserebbero mai sollevare il sudario che copre la Polonia. Ma, nel primo periodo della guerra, quelle illusioni erano pei popoli una realtà, che Bolo il tempo potea distruggere.

Era necessario che vedendo l'Impero trascinare per oltre dieci mesi la bandiera di Francia nel fango delle cancellerie austriache; udendo sulle labbra dei ministri inglesi le empie parole: l'insurrezione ungarese sarebbe sciagura; non giova che Roma sia libera, il concorso deW Austria è necessario al progresso italiano, né senza esso può la Polonia sperare un cominciamento di libera vita, i popoli imparassero che ogni speranza fondata sulla guerra dei Gabinetti è follìa; che il mantenimento dello statu quo è lo scopo dei Governi occidentali; che tra il campo della Libertà e quello della Monarchia non è contatto possibile fuorché di lotta; e che soli il sudore della nostra fronte e il sangue delle nostre vene possono conquistarci il nostro Diritto.

Oggi, crediamo, l'insegnamento è innegabile. Noi non incontreremo fantasmi sulla nostra via. Le illusioni dei popoli sono svanite.

E v'ha di più: attraverso questa guerra impotente, il tempo ha messo in luce due gravi fatti, sui quali or giova chiamar l'attenzione.

Il primo è la forza della rivoluzione confessata dai suoi nemici.

In due anni la grande Repubblica francese del 1792, assalita all'interno ed all'estero, sprovveduta di mezzi regolari e con impoverite finanze, scacciava, colla forza del principio incarnatosi in essa, il nemico straniero dal territorio, schiacciava la ribellione, diffondeva al di fuori la parola di libertà, trasformava la vecchia società e fondava istituzioni civili che durano. In due anni, il dispotismo e la monarchia costituzionale alleati, potenti di tutti i mezzi di una organizzazione regolare, hanno speso il sangue di centomila uomini e i sudori del lavoro sino al valore di due miliardi, senza riavvicinare d'un passo lo scioglimento della contesa, senza risultato militare fuorché l'assedio dell'opere esterne di Sebastopoli e alcune rovine sulle sponde dei due mari.

Perché?

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Perché i principi del nuovo ordine di cose che soli possono creare il genio, il sacrificio e la forza, non sono con essi: essi combattono in nome di cose che muoiono; la vita è altrove, con noi che rappresentiamo l'avvenire, nel core dei popoli che li atterriscono, nella rivoluzione ch'essi intravvedono per ogni dove.

Si, prostrati come anche oggi siamo, noi siamo ad essi cagione di perpetuo terrore. Essi cercano scongiurare il futuro che li incalza, e sacrificano alla dea paura. La rivoluzione turba i loro consigli, signoreggia i loro disegni, ne inceppa i moti e le operazioni militari. È per terrore del ridestarsi delle nazionalità ch'essi si strisciarono codardamente appiè dell'Austria sprezzata da essi nel core. È per terrore dell'insurrezione polacca, e di vedere una bandiera di rivoluzione levarsi in Lituania e in Podolia, ch'essi rinunziano a Odessa e Riga. È per terrore del moto ungarese che, retrocedendo davanti a una campagna oltre il Danubio, essi hanno consegnato i Principati all'invasione austriaca. É per terrore delle conseguenze che il menomo rimaneggiamento territoriale produrrebbe nei popoli, ch'essi vincolandosi a rispettare l'interezza dell'impero russo, hanno perduto l'alleanza svedese. È per terrore della rivoluzione che incontrerebbero tra via dovunque l'alito delle battaglie susciterebbe le moltitudini che sanno ostili, ch'essi contendono a sè stessi la guerra su larga base, si ristringono in un angolo isolato del territorio moscovita e incatenano le loro forze impotenti appiè d'una rupe. Negoziati, protocolli, combattimenti, tutto in questa guerra senza esito possibile svela il profondo convincimento dei Governi che su questo suolo europeo minato dai patimenti e dall'idea, nessuna scintilla di vita può accendersi senza dar moto ad un incendio universale.

Or che mai potrebbero opporre i governi a codesto incendio?

Uniti nell'anima in uno stesso antagonismo contro ogni pensiero di giustizia e di libertà collettiva, i Governi — ed è il secondo fatto importante ch'esce dalla situazione presente — sono oggi materialmente divisi. Il pensiero della Santa Alleanza vive nel loro core come ai giorni del 1S15; il fatto della Santa Alleanza è distrutto. La sola forza che abbia potuto sospendere il moto ascendente del 1848, la forza collettiva più non esiste. Il concentramento dei mezzi di molti su ciascun punto dato, non è più possibile. Il campo nemico è oggi smembrato in quattro campi: il campo russo, il campo anglofrancese, i due campi sui quali l'Austria e la Russia si contendono i piccoli governi germanici. E tra questi due campi non può esistere vincolo o direzione comune, né accordo pratico contro noi. Ciascun popolo ha in oggi da combattere un solo nemico: or nel 1848, non bisogna dimenticarlo, bastò ad ogni popolo d'assalire per vincere. La cooperazione di due o tre forze riunite, potè sola trionfare della rivoluzione in Roma, in Germania, nell'Ungheria.

Non basta. In conseguenza della discordia presente le forze d'ogni Governo sono inevitabilmente smembrate: i loro moti non sono più liberi. È duopo alla Russia proteggere il proprio terreno. È duopo all'Austria, impegnata nei principati, perfida con tutti, sospetta a tutti, mantenere la più gran parte delle forze lungo le sue frontiere per resistere ad un assalto che potrebbe venirle dall'una o dall'altra delle potenze belligeranti. È duopo all'Impero, già costretto a serbare in Francia gran parte dell'esercito per reprimere il crescente fremito della nazione, provvedere alla perenne minaccia dell'Austria e della Prussia e proteggere le frontiere nordest. E che può l'Inghilterra?

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Esaurita fin d'ora in conseguenza del difetto d'ordinamento militare, essa è ridotta a chiedere alla venalità o alla miseria altrui un'accozzaglia straniera che colmi il vuoto delle sue file.

Terrore della rivoluzione, discordia fra Governi uniti poc'anzi contro di noi, impossibilità di scagliare liberamente contro l'elemento popolare forze assottigliate dal combattere e impedite l'una dall'altra; son questi in oggi i punti salienti delle condizioni governative in Europa. L'opportunità è dunque giunta pei popoli, ed è nostro debito dichiararlo.

Debito tanto più grave, quanto più l'opportunità, oggi innegabile, può domani sfuggirci. Le condizioni dei popoli sarebbero gravemente peggiorate se l'unità governativa europea, oggi infranta, potesse tra non molto ristabilirsi.

Oggi dunque devono i popoli, se si sentono degni della libertà, afferrare l'opportunità che Dio manda ad essi. Vi sono tempi nei quali l'azione collettiva, provocata di fronte a difficoltà insuperabili, è delltto; il martirio è protesta dell'individuo; non è concesso chiamarvi un'intera nazione. Ma vi son tempi nei quali il delltto sta pei paesi che possono cancellare la necessità di quella protesta con la vittoria, nel tollerare pazientemente il martirio degli individui. E siamo oggi in tempi siffatti. Noi diciamo profondamente convinti: il Partito è d'ora innanzi colpevole del sangue che scorre sui patiboli, delle lagrime che si versano nelle prigioni d'Europa. Il Partito può vincere.

È tempo che il Partito impari a conoscere la propria forza, come la conosce il nemico. Per conoscerla, per attingere in questa conoscenza la fede che combatte e trionfa, è necessario che il partito si costituisca, s'ordini, concentri la propria molteplice vita in un foco comune, d'onde si possa irraggiarla con la parola e con l'azione sulle moltitudini. Il giorno in cui lavoro siffatto sarà compito, vedrà iniziarsi vigorosa e potente la battaglia della libertà. Non dubitate della vittoria; a ottenerla basta scriverla non solamente sulla bandiera, ma nel core, nei disegni di guerra, in ogni nostro atto, quella grande parola, Alleanza Europea, che sconoscemmo più o meno noi tutti nel 1848. E lo faremo. Lasciando da banda la santità del principio, sorgente a giustificazione dell'opera nostra, sappiamo noi tutti dal 1848 in qua, che in quella parola è riposta la nostra salvezza e che a noi bisogna vincere per tutti o cadere.

Noi siamo forti perché stanno per noi Dio e i popoli: per noi, il diritto, la verità, la giustizia della causa alla quale consacrammo la vita, il martirio che migliaia dei nostri fratelli incontrarono con un sorriso, il ricordo delle nostre vittorie, la coscienza che noi non la contaminammo mai di delltto o di vendetta. Siamo forti perché stanno per noi il numero, le aspirazioni delle moltitudini, i loro patimenti, i loro interessi materiali, l'onnipotenza del sentimento nazionale negato dagli oppressori, l'istinto immortale che balza sotto la pressione e grida all'anima: Libertà!

Siamo forti perché stanno per noi le colpe e gli errori dei nostri nemici, il loro difetto di genio e di core, la loro avidità, la noncuranza con la quale essi spingono per una guerra senza scopo, le nazioni alla rovina finanziaria; il disprezzo della vita umana che li induce a spendere in Crimea il sangue di migliaia di prodi per far che riesca un imprestito, o per celebrare un anniversario.

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Noi siamo forti perché stanno per noi l'iniqua assurdità del loro assetto territoriale, il germe inesauribile di disordini e guerre contenute in esso e che noi soli possiamo soffocare, e la carta dell'Europa futura, che la rivoluzione racchiude nelle pieghe della sua bandiera

In questa segnatamente è riposta la nostra forza. Per ogni dove in oggi le monarchie negano la vita, solo la rivoluzione può dirle: sii santa e cresci protetta da'  tuoi fratelli. Solo essa può risolvere la questione vitale delle nazionalità che intelletti superficiali si ostinano a fraintendere, ma ch'è per noi l'ordinamento dell'Europa; sola essa può dare il battesimo dell'umanità alle razze che domandano di partecipare nel lavoro comune e alle quali è conteso il Begno della loro vita individuale; solo essa può far rivivere alla terza vita l'Italia, dir sii all'Ungheria e alla Polo: costituire l'Alemagna, confondere Spagna e Portogallo in una Repubblica Iberica, creare la giovine Scandinavia, dar forma all'Illiria, estendere ai suoi termini naturali la Grecia, trasformare la Svizzera ampliata in una Confederazione dell'Alpi, affratellare in fratellanza di liberi, in una Svizzera dell'Oriente, Serbi, Rumeni, Bulgari e Bosniaci. Solo la Rivoluzione può congiungere in armonia, al di sopra di questo vero equilibrio europeo, segno di progresso pacifico, le due grandi idee che guidano il mondo e si chiamano: Libertà, Associazione.

Non diffidate delle vostre forze, o fratelli: il nostro programma risponde a tutti gli istinti dell'epoca. Anime privilegiate combattono, aspirano, muoiono per esso su tutti i punti d'Europa.

Ordinatevi e osate. L'osare è la prudenza dei forti.

Urge che il Partito abbia un centro di azione riconosciuto — una Cassa — una parola d'ordine comune a tutti. Se il Partito non riesce a questo in un meBe, è inferiore alla propria missione.

Il centro d'azione vive in noi o in altri quali essi siano, purché ispirano fiducia al Partito: in pochi uomini puri, che intendano e rappresentino le grandi nazionalità europee, che s'amino ed amino la causa di tutti, che siano presti a collocarsi nella prima fila nel giorno della battaglia, o nell'ultima sorto il giorno della vittoria. Quali essi siano, voi non dovete temerli: essi non possono aver forza che non sia vostra.

La Cassa del Partito può fondarsi rapidamente purché ogni uomo voglia versarvi il suo obolo, purché, ovunque esiste un soldato, uomo o donna, della Repubblica, s'apra una sottoscrizione; purché dal franco del povero fino al migliaio dei doviziosi, ogni credente rappresenti un'azione nell'imprestito della libertà. Noi siamo, volendo, il più ricco Partito: milioni compongono le nostre file.

La parola d'ordine noi l'abbiamo detta: Libertà per tutti; associazione di tutti. La nostra formula racchiude, accetta ogni cosa. Più oltre comincia la tirannide: dov'è il centro d'azione che potrebbe o vorrebbe costituirsi tiranno?

Non appartiene ad alcuni uomini, né al partito attivo, dov'anche fosse tutto concorde, decidere oggi intorno ai mezzi pratici coi quali la Rivoluzione darà rimedio ai mali che tormentano le moltitudini, alle gravi ineguaglianze del presente ordine sociale: la decisione appartiene appunto alla Rivoluzione della quale noi non siamo che gl'iniziatori; la parola dell'epoca sorgerà dall'ispirazione collettiva, dal coro commosso di quei Popoli ch'oggi si agitano sotto il drappo mortuario, quand'essi avranno fatto di quel drappo un Labarum di vittoria.

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La vita genera la vita; la libertà feconda e suscita le menti; e l'uomo che impalma la propria alla destra dei suoi fratelli riuniti in entusiasmo di sacrificio, di trionfo e d'amore, riceve una rivelazione della verità che Dio ricusa allo schiavo isolato che non s'attenta rompere la propria catena. Rompiamola adunque e uniamoci per questo. Ciascuno mediti e proponga ciò che gli sembra vero intorno ai problemi sociali: è diritto e dovere. Ma vergogna a quegli fra noi che allontanandosi dal lavoro comune, diserterà l'esercito, che il grido di dolore dei suoi fratelli suscita alla battaglia, per concentrarsi nello sterile orgoglio d'un programma esclusivo: quegli è un settario, non l'uomo della grande Chiesa.

Esercito, abbiam detto; ed è la parola che meglio riassume la nostra attuale missione. Noi non siamo il futuro, ma i suoi precursori; noi non siamo la democrazia, ma un esercito incaricato di conquistarle il terreno.

L'Intento definito, l'intento comune conquistato oggimai per quanti intelletti non sono corrotti, è la forma repubblicana ordinata dal popolo e pel popolo: è l'emancipazione di tutte le nazionalità affratellate in una federazione repubblicana.

Il mezzo non è la libertà assoluta dell'individuo, né la discussione : è l'associazione, l'organizzazione, il lavoro concorde, l'ordine, l'abnegazione, il sacrificio. L'anarchia non ha mai vinto battaglie. La discussione è impotente, inutile, quando s'indirizza a popoli cui segna in fronte il marchio di servitù. Rendete ad essi lo spirito di Dio, l'alito purificatore della libertà, la pienezza delle facoltà loro, il sacro entusiasmo della creatura clic può dire: io sono la vostra parola sarà seme allora di forti azioni ; oggi si richiedono le vostre azioni perché la santità della libera parola possa rinascere. I Greci del Basso Impero discutevano e morivano miseramente: la sciabola di Maometto colpiva in silenzio.

Urge che ogni uomo repubblicano si chiami oggi azione e rappresenti una forza.

Urge che ogni individuo appartenente al Partito rechi a un centro comune una somma qualunque di sacrificio e di attività: il braccio, l'intelletto, la borsa.

Urge che da ogni labbro esca simultanea la parola di fede a diffondere sui cerchi secondarii il bisogno di agire e la credenza che il momento opportuno è venuto.

Urge che di seno al Partito un sol grido sommova le popolazioni incerte, esitanti: noi siamo uniti; unitevi tutti.

Su questa via stanno l'onore, il dovere, il trionfo.

Noi abbiamo detto ciò che crediamo esser vero sulla condizione presente dei Governi, sull'occasione offerta ai popoli, sulla missione che spetta al Partito. I patriotti d'ogni paese pensino e decidano. Ad essi appartiene la scelta dell'ora e del luogo sul quale deve iniziarsi l'impresa.

Identici sono per tutti il fine e il dovere; ma le circostanze corrono diverse per alcuni. Conosciamo popoli ai quali, come all'Ungheria e alla Germania, non è concesso, pel numero di nemici che li ricinge, fuorché l'entrare in seconda linea nella battaglia; essi devono prepararsi a seguire immediatamente la chiamata che sorgesse altrove. Conosciamo altri popoli che il passato, il presente e circostanze speciali chiamano all'onore dell'iniziativa. A questi appartengono la Francia e l'Italia. La Francia, guida un tempo del moto che trascina l'Europa verso il futuro, non può senza perire, rassegnarsi lung'ora al materialismo degli appetiti e a veder la bandiera che corse il mondo aggiogata da un padrone volgare al carro d'un Potere disonorato come l'Austriaco.

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L'Italia deve temere il peggio, dalla vergogna che uccide il futuro, sino a nuovi smembramenti che accrescerebbero il numero de'  suoi nemici se contro le fazioni pullulanti sul suo terreno essa non si leva ad affermare il suo diritto, la sua nazionalità, la sua Vita una e repubblicana.

La Francia ha obbligo di continuare, di svolgere per la propria gloria e pel bene di tutti, la potente sua tradizione del 1789 e del 1792: l'Italia ha obbligo di compire il programma dato nel 1848 dall'insurrezione di Sicilia, dalle giornate di Milano, da Roma a Venezia: tocca al suo popolo risollevare la bandiera che i suoi monarchi tradirono. La Francia non ha da combattere nei primi giorni nemico straniero; il solo

che l'Italia abbia è or debole, isolato, circondato dai nemici che un grido italiano gli susciterebbe sui fianchi, alle spalle nel core. La Francia ha potenza per sommo vere quanti soffrono e aspirano in Europa sotto ordini sociali corrotti: l'Italia ha nel lembo della sua bandiera tricolore l'insurrezione della nazionalità. L'uomo del due dicembre è l'assassino di Roma. Francia e Italia; Roma e Parigi; tale dovrebbe essere la parola d'ordine della riscossa.

Ha qualunque ne sia il luogo, qualunque l'ora, noi crediamo poter affermare che la prima bandiera di popolo, innalzata in nome della Patria e dell'Umanità, sarà tosto seguita dall'altre.

L'insurrezione darà moto all'insurrezione; la prima vittoria a dieci vittorie su dieci diversi punti. Non v'è oggi nazione che non possa con atto energico e potente di volontà redimere l'Europa intera.

Settembre, 9, 1855.

Gius. Mazzini.

L. Kossuth.

LedruRollin.

VIII.

Rapporto della Regia Legazione di Parigi al Ministro degli Esteri in Napoli.

Parigi, 2 marzo 1856. — Eccellenza. — Nella seconda riunione di questo Congresso pare che siasi data lettura del Protocollo della prima sessione; che in questa occasione i Plenipotenziari degli Alleati del 4 dicembre abbiano prevenuto a'  Plenipotenziari Russi che all'armistizio decretato non si accorderà proroga di sorta alcuna; e che siasi dato principio alla discussione della quinta proposizione.

So da sicura sorgente essere priva di fondamento la notizia pubblicata a più riprese, da varii Giornali Esteri, di aver cioè la Russia, per mezzo del suo rappresentante a Vienna, fatto esprimere al Gabinetto Austriaco la convenienza di fare dal Congresso di Parigi discutere, decidere tutte le altre questioni politiche, che sono pendenti in Europa. Il Conte Buoi è stato incaricato dalla sua Sovrana di presentare all'Imperatrice de'  Francesi il Cordone della Croce Stellata. Il Gran Visir Aly Pacha deve da parte del Sultano, presentare due ricchissime Corone in diamanti, l'una a questa Imperatrice e l'altra alla Regina d'Inghilterra.

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All'Imperatore poi il Gran Signore ha inviata una sciabola, una sella ed una gualdrappa di magnifico lavoro, e tutte tempestate di diamante, unitamente a de'  bellissimi cavalli Arabi. Mi si assicura che il Gran Signore abbia risposto alle osservazioni che doveanglisi sul valore ingente di tali regali, che pei medesimi non avea egli gravato per nulla l'Erario imperiale, essendosi servito dei ricchi depositi di gioie accumulate dai Sultani suoi antecessori.

Qui ebbe luogo nella Cappella Russa un servizio funebre per lo anniversario della morte dell'lmperator Nicola. V'intervennero S. A. I. la principessa Matilde, il Conte Bloff, il Barone Brunoro, gl'inviati di Prussia e di Wittemberg, l'incaricato di Grecia, e tutte le famiglie russe che trovansi in Parigi. Si osservò l'assenza degl'inviati di Svezia e di Copenhaghen, i quali nell'anno scorso vi presero parte come rappresentanti di corti di famiglia. Anche S. A. I. il principe Girolamo si è fatto rappresentare a questa cerimonia dal suo primo aiutante di campo.

IX.

Il Luogotenente al Ministro Segretario di Stato per gli Affari di Sicilia in Napoli.

Palermo, 11 aprile 1856. — Eccellenza. — L'Intendente di Messina con foglio del 4 stante, N. 1586, mi ha scritto locché segue: «In continuazione a quanto ebbi l'onore di telegraficamente far segnalare all'E. V. in ordine alla conclusa pace, mi pregio soggiungere, che il Comandante dell'Elba approdato qui ieri l'altro, portava la notizia, che giusto un avviso telegrafico arrivato all'ambasciatore di Russia in Napoli, la pace era stata conchiusa. Questa novella, qui tanto desiderata, fu ieri confermata dal vapore arrivato direttamente da Marsiglia. Io ne diedi subito avviso al Console di Russia Cavaliere De Julinetz che con grande ansietà attendeva questo lieto successo. In seguito venne a trovarmi il vice Console di Francia signor Boulard, il quale mi chiedeva il permesso per illuminare la sera lo esterno della di lui abitazione facendovi anche sventolare la bandiera francese. Aggiunse che altri Consoli bramavano praticare lo stesso, al che io mi prestai con piacere. Infatti vari Consoli e qualche negoziante estero illuminarono il prospetto delle loro case. Questo risultato nel paese ha fatto una bella impressione, giacche si spera fortemente, che il commercio piglierà un maggiore slancio. I quattro legni Russi eh dal principio delle ostilità marcivano disarmati nel porto, vanno già ad ormeggiarsi, e si affrettano a preparare i carichi per tornare in Russia. Ieri in sì lieta congiuntura si videro pavesati di bandiera Russa. Il suindicato vice Console francese ieri stesso mi annunziava, che secondo gli avvisi ricevuti, una gran quantità di carboni arriverà qui per uso de'  legni francesi che andranno e torneranno dalla Crimea per rilevare le truppe. Da quel che comprendo, pare che la Francia voglia dar mostra in quest'occasione dello sviluppo delle sue forze navali, in modo che, a mio credere, il trasporto si farà in poche volte con esteso numero di legni. 11 suindicato signor Boulard infatti chiedeva da me l'appoggio per avere de'  magazzini, ove riporre i carboni,

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fondando la sua domanda sulle risoluzioni del Re N. S. Il contentarlo non è cosa molto facile, ma io sono in attività onde soddisfare nel migliore modo che mi riuscirà possibile le di lui premure».

X.

Rapporto del Regio incaricato di Affari in Torino del di 20 dicembre 1856.

Alla notizia dello iniquo attentato i rivoluzionari si diedero (e proseguono) gran movimento per inspirare l'idea che il fatto non è isolato, che esiste nello Esercito estesa cospirazione, che non è vera la repressione dei tumulti in Sicilia, che tutto è pronto pei novelli tentativi.

Sanno essi ben che mentiscono, le loro parole ed i loro scritti fan prova della poca lor confidenza, ma non pertanto agiscono come se fossero intimamente persuasi.

Nel giorno 11 Saliceti si recò da Parigi a Lione chiamando di qui per telegrafo Masi, che vi andò. Di Lione Masi è passato in Isvizzera, ove or trovasi. Mi si ripete sempre ciò che già cennai in cifra, insistere cioè i demagoghi italiani presso i loro confratelli Elvetici, affinché la quistione di Neufchatel si complichi, le cose prendano apparenza ostile, ed i reggimenti di costà sien richiamati. Parecchi rifugiati, precipuamente Siciliani, son venuti da Londra a Genova, e parecchi dicesi, sono andati a Malta. Nelle loro criminose speranze, non credean la Sicilia, come si è mostrata, e riavvicinavansi. Tra essi vi ha un tal Francesco Germani, Siciliano,, cattivo soggetto e che pure il Regio Console in Genova ha segnalato. E passato per qui e per Genova, ed è ora a Malta. Sento che viaggia con carichi del Comitato rivoluzionario di Londra, e sia pur latore di proclami. Tutto ciò però rimonta alle prime notizie di Sicilia, quando i rivoluzionari non voleano affatto contare su la devozione delle popolazioni pel Re S. N. e su la energia delle truppe.

I! giovine Rasponi, soggetto di mia antecedente corrispondenza, è stato qui per parecchi giorni. Nel corso della settimana parte per Bologna e Ravenna, ove, siccome dice, rimarrà. I Mazziniani aspettano il loro capo a Torino, almeno egli ha annunziato la venuta. Il Ministero ne è stato informato, e, se interrogato accademicamente, protesta di farlo arrestare. Sappiamo però il valore di tali assicurazioni.

XI.

Rapporto del R. Console di Cagliari del di 8 luglio 1857.

Ho esattamente ricevuto il Dispaccio telegrafico dall'E. V. speditomi in risposta alla mia segnalazione in cifra.

Facendo seguito ai molti avvenimenti che TE. V. non ignorerà, successi dal 29 dello scorso mese in poi tanto ne1 Reali Domini che in altri ponti dell'Italia, da gente cui altro epiteto migliore non puossi accordare che quello d'infame canaglia, è mio sacro dovere di rendere in oggi riservatamente informata l'È. V., che eguali disordini stanno per minacciare la Sicilia.

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È venuto a mio orecchio che un legno (Kotter) inglese, partito non ha guari da Malta, si fosse diretto per Tunisi, quivi debba caricare armi in luogo di zavorra e voglia dirigersi per Trapani, anzi per l'isola di Favignana, fingendovi l'approdo, come derivante da forza maggiore di mare. Mi è impossibile il poter conoscere il nome del legno e si Capitano, solo vuoisi che il naviglio porti bandiera inglese. Senza garentire l'autenticità di queste vaghe voci, pure meritano esse un qualche riflesso, considerando gli avvenimenti successi dai quali ben chiaramente scorgesi che la cospirazione macchinata, ma alla Dio mercé scoperta, aveva teso i suoi diabolici fili per tutta l'Italia, e la Sicilia di certo non ne sarà stata da loro esclusa.

Non posso per ora prevenire il R. Consolato di Tunisi poiché le occasioni per colà mancano totalmente.

XII.

Il Carafa Incaricato del Portafoglio degli Esteri al Ministro Segretario di Stato per gli Affari di Sicilia.

Napoli, 20 dicembre 1856. — Eccellenza. — Il Regio Incaricato di Affari in Torino ha riferito, che in seguito delle ultime notizie sugli affari di Sicilia son rimasti soppressi i proponimenti di viaggi, di compra di un vapore, e di pretese spedizioni, ma le sottoscrizioni proseguono, ed hanno assunto l'incarico di riunir firme e danaro i noti La Cecilia, La Masa, La Farina, San Donato, Anguillara e Gemelli.

E da rapporto del Regio Console in Genova, del 15 corrente, rilevasi che le sottoscrizioni rivoluzionarie fatte fra i Siciliani finora si elevano a franchi 10000; che gli esaltati rivoluzionari Montemayor, Salomone e Trisolini maggiore, avevano stabilito di sollenizzare con un pranzo la notizia da essi stessi fatta correre sull'assassinio diS. M. (D. G. ) allorché sarebbe stata confermata. Finalmente, che Romeo padre è di nuovo in Genova co' suoi due figli, ed è tuttavia in Nizza il Barone Stocco; che siccome pure Francesco Ungaro di Messina si è clandestinamente trasferito in quella città, ed ora è di ritorno in Genova. Io mi sollecito render di tutto consapevole V. E. per sua intelligenza ed uso conveniente.

XIII.

Il Luogotenente al Ministro Segretario di Stato per gli Affari di Sicilia.

Palermo, 28 dicembre 1856. — Eccellenza. — Fornita la contumacia a cui sottostarono i due fuorisciti Salvatore Mondini e Rosario de Miceli, e sottoposti ad interrogatorio dal funzionario di polizia addetto alla Delegazione marittima, il primo ha dichiarato quanto appresso:

Che l'emigrazione siciliana in Genova intenta sempre a far ritorno nell'Isola con mezzi violenti, era desolata dal vedere tranquilla la Sicilia, ove nessun sintomo si manifestava che avesse potuto fare sperare un movimento insurrezionale, che essa avrebbe potentemente secondato: Che in agosto del 1855, stanchi i fuorisciti di più aspettare pensarono di tentare un colpo disperato,

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ed a questo fine ebber luogo due riunioni, nella casa dell'emigrato napoletano Barone Coppola, ove intervennero le persone qui scritte: L'avventuriere Garibaldi, D. Rosolino Pilo Capace siciliano, D. Casimiro de Leto calabrese, D. Vincenzo Fornarelli napoletano, D. Emerico Amari siciliano, Barone Ondes siciliano, Luigi Orlando siciliano, D. Francesco Ferrara siciliano, D. Vincenzo Fusca siciliano, il figlio del Generale Cosenz napoletano, l'avvocato Interdonato siciliano, Michele Bertolani siciliano, il defunto Principe di Scordia.

Che in ambe le riunioni fu riconosciuta la posizione forte presa dal Beai Governo in Sicilia, e la compressione in cui trovavasi lo spirito pubblico, le quali cose non davano a sperare che potesse spontaneo manifestarsi un moto rivoluzionario, e che era quindi mestieri che l'impulso venisse da fuora tentando un colpo audace con uno sbarco di arditi emigrati, i quali gettatisi in una spiaggia avrebbero levato lo stendardo della ribellione, trascinando le popolazioni in cui si avvenivano, sperando che all'annunzio d'uno sbarco che la fama avrebbe magnificato, Palermo, Messina e Catania, si sarebbero sollevate, ed il resto si affidava all'evento. Tutti concorsero in questa sentenza, e si fissò il giorno per una novella riunione onde determinare deffinitivamente il mòdo d'attuarsi il disperato disegno.

Nella terza riunione, furono invitati ad intervenire altri individui qui scritti, tenuti in concetto d'uomini d'azione, risoluti ed arditi e capaci di gettarsi nelle più arrisicate avventure: Salvatore Mondini siciliano, Salvatore Visiano siciliano, Giuseppe Arnoldo siciliano, Giacomo Costantino siciliano, Giorgio Zicchitella siciliano, Diego Fernandez siciliano, Zicchitella e Fernandez oggi defunti.

Discutendosi il modo di esecuzione del disbarco lo Zicchitella manifestò che era volenteroso a far parte della spedizione, dimandava però quali mezzi e quanti uomini si aveano per la impresa e faceva considerare che si andava incontro a secura morte se si tentasse lo sbarco da sparuto numero di emigrati. Tutti risposero che la spedizione non avrebbe corso alcun pericolo, avvegnacché, al suo apparire, molti Siciliani si sarebbero uniti agli emigrati, ed in sostegno di ciò il Pilo mostrava delle lettere di fresco ricevute da un tale Giovanni o Giuseppe Marcantonio di Castellammare, in provincia di Trapani, che assicurava d'avere pronti nomini ed armi per appoggiare il disbarco degli emigrati. Il Pilo dava le stesse assicurazioni in nome d'un tal Filippo Ajello di Bagheria, d'un Francesco Balducci di Marsala, d'un Michele Belfiore di Messina, d'un D. Girolamo o Don Francesco Valenti avvocato in Catania, dei quali esibiva le lettere. Uguali assicurazioni dava il dichiarante Mondino, in nome del nipote D. Michele Mondino, diD. Tommaso Lo Cascio, il quale gli aveva scritto che il momento era propizio per tentare un colpo di mano.

Si parlò lungamente e con calore sulla probabilità di riuscita della impresa, ma le dubbiezze prevalevano, e lo Zicchitella e gli altri che passavano per più pronti di mano rifiutaronsi ad avventurarsi nella insana impresa.

Il Pilo che era il più caldo sostenitore della spedizione, ripigliando la discussione, disse che bastavano tre uomini di cuore con una bandiera per destare un vasto incendio in Sicilia, sol che sbarcassero in Castellammare, ove tutto era predisposto da Marcantonio. Questo proposto dal Pilo fu adottato ad unanimità, e ne fu affidata l'esecuzione a Vincenzo Fnsca, Salvatore Mondino, Salvatore Visiano, tutti e tre di Palermo.

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Imbarcatisi costoro sul vapore postale francese, partivano per Malta, raccomandati al notissimo emigrato lombardo Niccolò Fabrizi, fondandosi sulla considerazione che costui avendo della influenza in Malta, poteva agevolmente loro procurare una speronara di bandiera inglese, che li avrebbe clandestinamente sbarcati in Castellammare.

In Malta dal 6 settembre 1855 al 4 marzo 1857 non fu possibile trovare un mezzo di trasporto, e Vincenzo Fusca, disperando di poter menare in porto la spedizione, lasciò Malta, e ritornò in Genova, promettendo a Mondino e Visiano, di farli richiamare in Piemonte, tanto più che egli andava a proporre di abbandonarsi l'idea d'uno sbarco in Uastellammare ma invece farsi nelle spiagge della Provincia di Messina, ove tornerebbe più agevole.

Esauriti i mezzi di cui eransi forniti il Mondini ed il Visiano, sui consigli del Fabrizi, passavano in Tunisi, ove erano raccomandati all'emigrato romano Conte Politi.

Pervenuti in Tunisi il 6 marzo ultimo, si associarono a Rosario de Miceli ed Antonino Varvuzza, i quali informati di quanto si era passato, dissero che voleano far parte della spedizione. Poche armi pervennero in Tunisi spedite da Fabrizi, che rimasero presso il Conte Politi.

Interpellato il Mondini sulle carte che gli si sorpresero in casa, rispose che erano relative al progetto di spedizione e confermava il senso che erasi dato alle parole convenzionali che contenevano.

L'Eccellentissimo a cui è diretta la lettera N. 1, che trasmisi in passata a V. E, dice il Mondini, che si fosse Nicola Fabrizi. Questa spiegazione sembra non sincera.

L'altro fuoruscito Rosario do Miceli dichiarò di nulla sapere. Il Verbale dello interrogatorio colle carte criminose repertate sono di già nelle mani di questo Procuratore Generale del Re presso la Gran Corte Criminale.

Sonosi date le opportune disposizioni per lo arresto delle persone che trovansi compromesse nel progetto di disbarco suenunciato.

XIV.

Il Console Generale di Tunisi al Luogotenente in Sicilia.

Tunisi, 30 dicembre 1856. — Eccellenza. — Atteso il temporaneo assentamelo del Signor Console Generale ai bagni TermoMinerali di Corbus, io compio in uno l'onorevole e doveroso incarico di rispondere al pregevole Dispaccio di Vostra Eccellenza del di 13 volgente mese, per ringraziarla precipuamente dei lusinghieri encomi si è degnata prodigare al sullodato rappresentante di Sua Maestà il Re Nostro Augusto Sovrano in questa Reggenza, per essersi egli solertemente occupato a reprimere le mene di taluni sconsigliati perturbatori, eliminando quelli che per le loro frenetiche tendenze formavano parte integrale di una propaganda rivoluzionaria sotto la pretesa divisa di riformatori della Società.

Per secondare adunque le vedute di Vostra Eccellenza non mancherà il Consolato colla sua solita abnegazione di perseverare nelle già attuali indagini onde scovrire se sia possibile le ramificazioni di essa propaganda, ed i principali elementi di azione che si proponeva svolgere in forza di proclami sovversivi ed incendiarii.

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In quanto concerne poi la cooperazione prestata da S. A. il Bey di porre uno dei suoi legni a disposizione del signor Console Generale, io mi premurai nel nome suo di spiegarle letteralmente il contenuto di quel paragrafo. L'A. S. mostrossi sensibilissima ed edificata al maggior segno del modo in cui l'Eccellenza Vostra apprezzò questo piccolo attestato di riguardo e deferenza verso l'Augusta persona di Sua Maestà il Re N. S. che l'Eccellenza Vostra degnamente rappresentava in cotesta parte dei Reali Dominii, e mi aggiunse finalmente parole di ben sentita riconoscenza per le diverse eccellenti frutta che si compiacque fargli presente, assicurandomi gli era graditissimo in quanto che emanava da quel sentimento di leali e simpatici rapporti esistenti fra i due rispettivi governi.

Mi valgo inoltre della sperimentata gentilezza di Vostra Eccellenza, onde informarla che da circa un mese parti da questo porto della Goletta con carico barili tonno salato, e con destinazione per Malta, il Yelacciere di bandiera Tunisina Rondine diretto dal Regio suddito capitano Domenico Tortorici, proprietà il tutto di questo Conte Raffo Ministro di Affari Esteri di questa Altezza Sua il Pascià Bey di Tunisi. Non essendo qui fin'oggi pervenuta certa notizia qualsisia sulla sorte di esso legno, ma soltanto per via indiretta si sono attinte da un padrone Pantelleresco delle vaghe assertive che l'enunciato Velacciere cioè a causa di temporali che imperversavano sia stato gettato sulla spiaggia di Girgenti, e che porzione del carico siasi colà ricuperato in uno alla salvezza dell'equipaggio, dietro però la totale perdita del naviglio abbandonato dal Capitano.

Prego però l'Eccellenza Vostra di fare cosa grata non solo all'Ill. mo signor Console, ma benanco al prefato Ministro di S. A. che mi ha all'uopo interessato, raccogliendo autentici schiarimenti sul seguito sinistro, e di dare in pari tempo le opportune sue disposizioni onde li salvati carico ed attrezzi del Bastimento sieno posti m luogo di sicurezza fino ad ulteriori provvedimenti, e far si in ultimo che il proprietario non venghi gravato da enormi spese, come se gli fa prevedere, meno però quelle indispensabili a farsi in simili casi, mentre per la di lui alta posizione e rapporti presso il Bey, questo Consolato a positivo ed essenziale bisogno del suo influente appoggio in qualunque affare di servizio — Mi auguro adunque dalla rinomata bontà di Vostra Eccellenza un felice risultato di quanto sarà per operare in proposito interessandola altresì, a volersi degnare di onorare di suo riscontro questo Regio Consolato incaminandosi il piego alla direzione del Console Generale per la via di Malta in mancanza di occasioni dirette, e ciò per il sollecito ricapito onde rasserenare al più presto possibile l'animo giustamente agitato di questo signor Conte Raffo.

CAPITOLO QUARTO.

Notizie attinte dall'«Italia e Popolo» per l'acquisto di 10.000 fucili — Parole di Lord Russel sull'avvenire della Sicilia — Riflessioni del Castelcicala e contegno tenuto dall'Inghilterra — Macchinazioni in Marsala — Processo di Luigi Pellegrino — Di strumenti creduti adoperati pe' prigionieri politici — Lavoro unitario del Mazzini e biasimo de'  metodi politici del conte di Cavour — La spedizione di Sapri — Varj attentati — L'attentato a Napoleone III — Fine di Felice Orsini — Il conte di Cavour a Plombières — Nozze regali nella Casa di Savoia e cessione della Savoia e di Nizza — Nozze regali nella Casa Borbone — Viaggio e malattia di Ferdinando li — Preliminari di guerra tra il Piemonte e l'Austria — L'opuscolo «Napoleone III e l'Italia» — Notizie di Napoli sullo scoppio della fregata Carlo III e della polveriera di Santa Maria di Leuci — Lettera del San Donato al Duca di Calabria — Guerra tra l'Austria e il Piemonte — Notizie sullo stato di Ferdinando II e sua morte — Agitazioni nel popolo — Giudizio dell'uomo e del re — Il proclama di Francesco li — I funerali dell'estinto re — Il decreto di amnistia pe' reati politici e rifiuto della stessa.

Nella fine del 1856 il Governo apprendeva, dall'Italia e Popolo, che in Messina si era iniziata una sottoscrizione per acquisto di fucili, e il Carafa rendeva consapevole il Ministro degli Affari di Sicilia con detti, che rivelavano poca e niuna energia (1). Poco dopo lo stesso Ministro, ritornando a dire sull'acquisto de'  10. 000 fucili, comunicava che del medesimo fervore erano accesi gl'Italiani residenti in Bruxelles, i quali si davano assiduo pensiero a spedire il ricavato delle somme a Genova,

(1) «Napoli, 24 ottobre 1856. — Eccellenza. — Il periodico l'Italia e Popolo nel suo numero 287, del giorno 16 ottobre corrente mese, pubblica una lettera datata da Messina, del 10 detto mese, relativa alla sottoscrizione che operasi in quella città per la patriottica contribuzione di 10 mila fucili, destinati alla prima Provincia Italiana, che insorgerà, ed asserisce che la cennata sottoscrizione va lenta essendosi finora raccolte sole onze 23 e tari 14». — (Arch. di Stato di Palermo, Ministero e R. Segreteria di Stato degli Affari Esteri, anno 1856).

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per le offerte alla prima provincia d'Italia che sarebbe insorta (1). Il Governo oramai, non ostante usasse rigori e inventasse pure torture, che la parte liberale esagerava, era mal securo di sè; poiché si credeva scosso pe' contrasti delle grandi potenze occidentali, e per le continue mene adoperate nell'interno. Lord Russel, plaudendo all'avvenimento del barone Bentivegna, sconsigliava il ripetersi di moti che avessero avuto la durata di qualche giorno, e non si fossero prolungati. Egli, con molta franchezza, in lauto banchetto, a Firenze, aveva detto «che sperava molto per l'avvenire della Sicilia, che però consigliava di non fare movimenti di 24 ore, ma bensi di qualche mese, potendosi contare in tal caso sull'aiuto morale e materiale dell'Inghilterra» (2). Il che impensieriva: e il Castelcicala credeva, che «le parole d'un uomo, che ha tanta importanza politica in Inghilterra, serviranno ad incoraggiare colpevoli speranze e triste aspirazioni, che solo potranno far venir meno l'attitudine vigorosa e l'antiveggenza del Real Governo» (3). Grandi i sospetti continui, i timori; l'Inghilterra, da quando contrai ] alle opere del Governo di Napoli si erano pronunziati il Gladstone, il Palmerston, recava stupore per ogni minimo atto, e nelle fantasie più ardite e più vaghe si voleva rinvenire la realtà. In Marsala si ritiene vi fossero macchinazioni pericolose, specialmente per le relazioni commerciali con le isole di Malta, e si procede agli arresti di persone, che si crede agitarsi; si sostiene che il viceconsole Marino, con altri otto individui, recandosi in una salina, a due miglia dalla città, si fossero incontrati con un capitano inglese, travestito, consegnandogli delle carte, e scambiando parole lusinghiere (4). Si riordinano le idee su Vincenzo Patti, da Santa Ninfa, che nel 1854, lasciata Malta, aveva, interessato dal Comitato Nazionale italiano, intrapresa una missione politica, non compita per morte volontaria, e le cui carte, d'indole politica, trovategli addosso, erano rimaste in potere della Polizia (5). Si arrestava nella provincia di Catania Luigi Pellegrino, da Messina, che da Malta aveva percorso occultamente la linea sudest della Sicilia, deciso con alcuni compagni d'insorgere.

(1) Cosi lo stesso Carafa al Ministro degli Affari di Sicilia in Napoli (Arch. cit., Minist. Luog., anno 1857).

(2) Ministero e Real Segreteria di Stato degli Affari Esteri, anno 1857.  (Arch. di Stato di Palermo).

(3) Ministero Luogotenenziale, anno 1857.

(4) Vedi Documenti, I.

(5) Copia delle carte trovate sul cadavere di Vincenzo Patti, in Archivio di Stato di Palermo, Ministero Luogotenenziale, anno 1854.

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Giudicato, lo sottrasse da morte la parola abile e maestosa del giureconsulto e oratore Emanuele Rapisardi, cui era pure toccato l'esilio, né ancor si cedeva di amareggiarlo colle persecuzioni (1). Questi moti parevano suscitati da potenza straniera, e il Governo, mentre nutriva timore per l'Inghilterra, che procedeva clandestinamente, favoreggiando il lavorio rivoluzionario, e doveva guardarsi da'  travagli delle pretensioni del Murat, era assalito dalla stampa del continente italico e dalla straniera, che rivelava, con iscalpore, certi nuovi strumenti di tortura, adoperati contro i prigionieri politici. Essi erano, attenendoci alla invenzione faceta, la Muffola e lo Strumento angelico, l'uno da servire a incatenare i piedi, l'altro a stringere con istrazio i pollici delle mani, de'  quali menarono rumore il Corriere Mercantile di Genova e il Morning Post, a'  cui calunniosi articoli fu data risposta nel Giornale Ufficiale, diretto dal Ventimiglia. Si diceva, in data delli 8 aprile 1859: Quando si ricorre a questi meschini espedienti per accreditare una menzogna e sorprendere la fede pubblica, sarebbe ozioso adoperare altre parole per ismentirla. Si volea calunniare un governo, quando la calunnia più giovava con uno scopo abbastanza palese, e la Cuffia del silenzio, questo raffinamento della tortura, che farebbe inorridire lo stesso medio evo, venne immaginata. Il Morning Post accolse quella invenzione con la solita malafede» (2).

(1) L'arresto avvenne nel finire del dicembre 1856. Il dibattimento, clamoroso, si chiuse il 25 giugno 1858: il Luogotenente scriveva al Ministro Gassisi: «In questi plausi, ed in questa ovazione non c'è chi non vede la simpatia che destavano i giudicati alla parte guasta della popolazione di Catania, la quale, sorpresa di non vedere, siccome aspettatasi, dannato nel capo il Pellegrino, nel primo istante palesò una gioia plaudente la G. Corte. Ma siccome le masse sono mutabili e non hanno misura ne' loro desiderj, dopo alquante ore la pubblica gioia, trasmutossi in tristezza, ed il plauso in disapprovazione; imperocché i 28 anni di ferri inflitti al Pellegrino, che suscitato avean dapprima il pensiero della securtà della vita, sembraron soverchi dappoi, ed oramai contro la decisione della G. Corte universalmente reclamossi». — (Ministero e R. Segreteria di Stato, anno 1858).

(2) L'articolo trascritto per intero dal Giornale Officiale, si legge (pagg. 306 309) nelle Rivelazioni Storiche della rivoluzione dal 1848 al 1860, appunti meschini e biliosi di Giovanni Raffaele (Palermo, Stab. Tip. Amenta 1878); il quale lungamente s'intrattiene sull'argomento. Però noi crediamo poco allo scrittore di queste Memorie, perché in lui non alberga la sincerità, e abbonda soltanto la vanterìa che egli, nientedimeno, avesse contribuito alla grandezza nazionale! Come egli non si ritenne dal voler far' credere che la Protesta delle due Sicilie fosse stata opera sua. può bene affermare, fantasticando, aver visto gli strumenti angelici. Provati no; perché in tutti gli anni della reazione il Raffaele rimase tranquillo in Palermo!

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Giuseppe Mazzini lavorava alacremente per la riscossa nazionale, e, anzi che per lo ingrandimento di un territorio, mirava costante e intrepido all'unità. Biasimando i metodi politici scelti dal conte di Cavour, e per nulla fidandosi di Napoleone III, che aveva colle armi distrutta la Roma del popolo, accoglieva le istanze de'  profughi napoletani, che, animosi di riconquistare la patria, facilmente si davano alla rischiosa impresa. Il  grande esule fece pensiero d'impadronirsi in Genova degli arsenali, delle casse publiche e della flotta, e, avverandosi la insurrezione, portare la guerra a Napoli. I congiurati giunsero ad impossessarsi del forte il Diamante, e de'  sedici uomini di guardia uccisero il sergente. Al sopraggiungere della polizia, fuggirono ventidue de'  congiurati, quarantanove, messi agli arresti, furono, dopo quasi un anno giudicati dalla Corte di Genova. La quale emanò per sei sentenza di morte, condannando gli altri a'  lavori forzati. Tra sei la sentenza ferale gravò il capo di Giuseppe Mazzini! Anche in Livorno, nello stesso giorno, non mancò audacia di ardimenti, nè, falliti questi, mancò il sangue de'  poco superstiti; i quali, dopo non poche resistenze, presi colle armi in mano, senza forma veruna di legge, furono fucilati. I Napoletani, non attendendo i risultati della ideata sommossa di Genova, il dì 25 giugno si erano imbarcati sur il Cagliari, piroscafo di pertinenza privata. Guidati da Carlo Pisacane e da Giovanni Nicotera, primi a sottoscriversi per iniziare la rivoluzione italiana, si fermarono dapprima all'isola di Ponza, liberando trecentoventisette ergastolani e relegati, e aggregandoli alla loro comitiva. Mal volentieri, dovendo ora eglino, pentiti dell'audace impresa, aderire al capitano, che asseriva non poterli trasportare altrove, approdarono a Sapri, e vane grida furono quelle di libertà e di repubblica, ché ninno li secondò, né li seguì, credendoli, o un corpo debole, o evasi da prigioni, capitati li per ruberie e per ammazzamenti. Venuti alle prese co' gendarmi, furono o uccisi o arrestati: misere sorti affliggendoli nel primo e nel secondo scontro, e nel terzo a Lanza. Ottanta rimasero morti sul terreno. Il Pisacane, toccate le ferite, fu fatto prigioniero col Nicotera: indi si disse essere stato fucilato. Il Fuschini si uccise per non cadere nelle mani delle guardie urbane. Gli altri, che avevano ripreso posto nel Cagliari, furono tratti agli arresti (1).

(1) Chi, secondando i doveri d'uomo e di cittadino, non avrà ignorate le pagine di Giuseppe Mazzini, Ricordi su Carlo Pisacane, rammenterà le parole dolorose pel martire, le altre fiere contro la turpe indifferenza. Rammenterà pure di esse le seguenti: «E il sangue di Pisacane e d'Agesilao Milano, il sangue di quanti morirono col nome di Patria sul labbro per suscitarvi ad opre virili, da Milano e Pisacane risalendo fino al Bandiera,

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Finita così infelicemente la spedizione; seguirono vertenze diplomatiche per il Cagliari còlto dal Tancredi e dall'Intere Fieramosca ne' mari di Napoli; e le vertenze, abbenché la Francia e l'Inghilterra, in favore della Sardegna, avessero riconosciuto la violazione del diritto publico, durarono per due anni, restituendo il Cagliari alla morte di Ferdinando II. Seguirono i giudizj, commutando a sette la pena di morte, condannando duecentoquattro all'ergastolo e a pene più lievi, rilasciandone cinquantasei.

Varj dal 1854 al 1856 erano stati gli attentati. Isabella di Spagna, uscita di puerperio, recatasi il dì 2 febbraro 1852 al tempio, per ringraziamenti a Dio, fu colpita al fianco diritto; a Firenze, il dì 22 ottobre, incognita mano ferì il Baldasseroni, volendo forse ferire il Granduca, per avere rimessa in quello Stato la pena di morte; a Milano il di 6 febbraro 1853, si gridò morte agli Austriaci, e, fatto proposito di uccidere chiunque avesse divisa militare, mancarono settanta soldati tra morti e feriti, e più che altrettanti degli assalitori; e seguì strage di fucilazione, ordinata dal Radetzki. Attentata pure la vita di Francesco Giuseppe d'Austria e del re di Prussia, si arrivò fino all'assassinio di Carlo III, duca di Parma, pugnalato in una via della città. Nel 1855 un'altra volta Isabella di Spagna patì minaccia di pistola. Nel gennaro del 1856 cadeva, ucciso di pugnale, nella chiesa di Santo Stefano del Monte, Augusto Sibour, arcivescovo di Parigi. Nello stesso anno Agesilao Milano mirò a toglier di mezzo Ferdinando II, e nel gennaro del 1858 l'intrepido Felice Orsini rivolse il pensiero a dar morte a Napoleone III. Gli scrittori, apologisti delle cadenti monarchie, accusarono negli autori delle reità la setta politica, che aveva giurato a dar nuovo assetto politico a'  popoli; e veramente, considerata la nequizia della reazione, non si tennero eglino troppo lungi dalla realità. Ma parve assai rilevante l'attentato a Napoleone III; perocché non si poneva dubio ch'egli in Europa mantenesse quell'equilibrio politico, che avrebbe potuto dar sicurezza alla libertà.

grida a voi degnamente, Italiani di Napoli: targete e ribattete da uomini un'accusa che serpeggia crescente per tutta Europa. Siete voi, iniziatori un tempo della lotta italiana, caduti per sempre? Non freme più vita sulle vostre terre, fuorché quella dei vostri vulcani? Da parecchi anni voi diffondete attraverso l'Europa un lamento che riesce ignobile, se non profetizza, dimostrandola legittima, l'insurrezione, voi snudate, popolo Giobbe d'Italia, le vostre piaghe dinanzi a tutte le Nazioni e non temete ch'esse dicano: un popolo che soffre ciò ch'essi soffrono è un popolo degenerato; chi sopporta il bastone lo merita f (Scritti editi ed inediti vol. xi, p. 25, Roma, M. DCCC. LXXXII).

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Però Felice Orsini, credendo che Napoleone fosse un ostacolo, per le forze di cui disponeva, al principio nazionale e alla democrazia, concertò in Londra col Rudio, veneto, col Gomez, napoletano, e col Pieri, lucchese, di recarsi a Parigi, e di uccidere l'imperatore col mezzo di piccole bombe, che presero nome da lui. La sera del dì 14 gennaro, entrando al teatro, l'imperatore e l'imperatrice, ivi recandosi per un'opera di beneficenza, i cospiratori attuarono con grande fracasso l'opera loro; ma la vittima designata restò immune; molti furono i feriti; venti i morti. Arrestati, furon tosto sottomessi a giudizio. L'Orsini, anche difeso con isplendore di detti da Giulio Favre, parlò veemente. Disse: «Quando i Francesi, che noi avevamo sempre considerati per amici, approdarono in Italia, abbiamo creduto ch'ei porgerebbero la mano; ina non tardarono a diventar nostri accaniti nemici. In uno dei numerosi assalti, diretti contro di noi, furono respinti, e ne facemmo molti prigionieri. Noi continuavamo a pensare che la Francia è la prima fra le nazioni civili e liberali; che se venivano contro di noi, gli è perché vi erano trascinati, e noi restituimmo in libertà i prigionieri alle grida mille volte ripetute, Viva la Francia, Viva la libertà, Viva l'Italia». Aggiunse: «Esaminando le condizioni politiche di tutti i Governi d'Europa, mi sono fissato nell'idea, che vi era un uomo solo in grado di sottrarre il mio paese all'occupazione dello straniero; che quest'uomo era Napoleone III, il quale è onnipotente in Europa. Ma tutto il suo passato mi dava la convinzione, che egli non vorrebbe fare quello che egli solo poteva fare. Confesso adunque francamente che l'ho considerato come un ostacolo, ed allora dissi fra me, che bisognava toglierlo di mezzo» (1).

Felice Orsini, ascendendo al patibolo, non ismenti l'austerità del carattere, né tampoco la sua fede, la sublime idea di patria. — Morì proferendo le parole: Viva l'Italia, Viva la Francia.

Chi conosce i ricordi della vita, da lui impressi nelle Memorie Politiche, sa pur troppo quanto egli avesse amato e sofferto per l'Italia; e sebbene nel risorgimento politico la figura del martire poco sia stata onorata,

(1) Dalla prigione di Mazas, li 11 febbraio 1858, scrivendo a Napoleone, dicevagli: «Per mantenere l'equilibrio presente dell'Europa, è d'uopo rendere l'Italia indipendente, o restringere le catene, sotto di cui l'Austria la tiene in servaggio'. Domando io forse per la sua liberazione, che il sangue de'  Francesi si sparga per gl'Italiani? no, io non vado fin là. L'Italia domanda, che la Francia non permetta all'Allemagna di sostenere l'Austria nelle lotte, che stanno forse tra breve per impegnarsi. Ora è appunto ciò, che Vostra Maestà può fare; quando voglia. Da questa volontà dipendono il benessere o le sciagure della mia patria, la vita o la morte di una nazione, a cui l'Europa va in gran parte debitrice della sua civiltà». — (Orsini, Memorie politiche; Appendice, pag. 588; Napoli, Morelli, 1860).

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certo egli è che gl'Italiani in avvenire l'additeranno tra le più costanti e le poche fervide anime, che vollero la grandezza d'Italia col sacrifizio della vita (1). L'attentato non rallentò i legami diplomatici colla Francia, quantunque Vittorio Emanuele, con isdegno, non avesse ceduto alle pretese di Napoleone III, volendo non violata la indipendenza morale dello Stato, né soffrire prepotenze (2). Nel luglio di quello stesso anno 1858, il conte di Cavour, per invito segreto di Napoleone, convenne a Plombières, ove furono stabiliti i patti d'un'alleanza offensiva e difensiva tra il Piemonte e la Francia; stabilita ancora la cacciata dell'Austria dalla Lombardia e dal Veneto, e la formazione di un forte regno costituzionale nell'alta Italia sotto il dominio della Casa di Savoja. In tal convegno segreto fu chiesta per Girolamo Buonaparte, figlio dell'ex-re di Westfalia, la mano della principessa Clotilde e la cessione della Savoja e della contea di Nizza.

Tosto il conte di Cavour si affrettò di scrivere a Vittorio Emanuele, perché la gentile principessa, così tenera di anni, s'immolasse all'avvenire d'Italia, ed accettata la proposta della cessione della Savoja, rimandò pel momento quella della contea di Nizza.

(1) Morendo, gli sopravvissero le care figlie Ida ed Ernestina; la prima morta in tenerissima età, la seconda, gentildonna, vivente in Imola, sposa allo Spadoni, maestro di musica, non tenuta in alcun conto dal Governo, che non avendo mire nazionali, non ritiene che Felice Orsini sia stato tra primi fondatori della unità italica, fecondandola col sangue del martirio. Il Botta, ricordando Pietro Micca, dice, avere vergogna di dire come la famiglia dell'eroico preservatore aia stata ricompensata; le furono statuite due rate di pane militare in perpetuo. (Storia d'Italia dal 1534 al 1789, vol. VIII, pagg. 116-117; Torino, Unione Tipogràfico Editrice, 1868). Se Vittorio Amedeo II, arbitro del governo, dispose con tanta avarizia, che è disprezzo alla virtù; il governo della nazione lascia maggiore eredità di vergogna, calpestando la memoria del martire, dimentico facendosi dell'unica figliuola, alla quale, in vita incontaminata, sono retaggio le alte doti di ispirazione paterna. Vedi Lettera a Ernestina e Ida Orsini, scritta dalla Svizzera il 28 settembre 1854, in Lettere edite ed inedite di Felice Orsini, G. Mazzini, G. Garibaldi e F. D. Guerrazzi; Milano, Librerìa Sanvito, 1861.

(2) Proponeva l'Imperatore la soppressione dell'Italia del Popolo; che i fuorisciti non avessero dovuto scrivere ne' fogli politici: e che i reati di stampa si dovessero giudicare da'  tribunali ordinarj. Il re si limitò soltanto a far proporre al Parlamento una legge, che rese paghe le brame di Napoleone III. La legge, approvata dalle Camere parlamentari, puniva le cospirazioni e gli scritti contro i sovrani ed i governi stranieri. E fu una legge servile, con la quale le Camere sottomettevano uno Stato al comando ambizioso di un potente! — In Inghilterra il Ministero liberale del Palmerston cedette posto a quello del Derby; e fu cagione Tessere stato celebrato l'Orsini e il regicidio. Napoleone, zelante, chiese giustizia per gl'impunitarj insidiatori di Sovrani, e nel Moniteur fece stampare una protesta di militari, minacciosi d'invadere l'Inghilterra per ispegnere il focolare de'  regicidj. Presentato dal Palmerston un bui, fu per atto prudente accolto, ma si votò per altro contro il Ministero. Venuto su, con rammarico universale, il conservatore Derby, il bill rimase senza effetto!

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In principio dell'anno 1859 nella Casa Borbone si effettuavano le nozze tra Francesco II, erede del trono, e Maria Sofia Amalia, figlia di Massimiliano, sorella dell'imperatrice d'Austria. Si celebrarono le nozze a Monaco il dì 8 gennaro; furono ribenedette a Bari il 3 del febbraro, ove la principessa reale, lasciata dalla imperatrice a Trieste, fu accompagnata da cavalieri e dame di corte. Ferdinando li 8 di gennaro da Caserta si mise in viaggio, seguito dalla famiglia, per le Puglie, all'incontro della sposa. Ma percorsa la città di Avellino, ammalò, peggiorando dopo una fermata ad Oppido, ove gli fece invito il Vescovo Caputo, designato da'  fedeli al Borbone come strumento insidioso della parte politica liberale. Si aggravò il male, che lo aveva invaso, a Foggia, e corse, penando, con febbre psoitide e freddo ad Andria, a Taranto, ad Acquaviva, a Lecce, costretto qui il dì 16 a mettersi a letto. La malattia, scrive un cortegiano di Casa Borbone, fé meraviglia: chi la negava, chi l'attenuava, i settarii davanlo per morto (1).

L'orizzonte politico col cominciare dell'anno si era offuscato. Napoleone, a'  congratulamenti del capo d'anno, fattigli dal corpo diplomatico, scambiando sorrisi e cortesie, rivolse al barone Hùbner queste parole: «Mi rincresce che le nostre relazioni col vostro Governo non sieno più buone come per lo passato; ma vi prego di dire all'Imperatore, che i miei sentimenti personali per lui non sono mutati». Le quali furono credute una minaccia di guerra: tali interpretate dalla diplomazia, quantunque il Moniteur, organo imperiale, avesse voluto mitigare il significato. L'Austria, intanto, considerando la gravezza delle espressioni, ingrossò gli eserciti, comandati in Italia dal Giulay, e si appostarono verso il Ticino. Le agitazioni nella Lombardia si accrescevano, e se bene non trasandata fosse la prudenza consigliata dal Conte di Cavour, al teatro La Scala, rappresentandosi la Norma, al coro Guerra guerra} grida fragorose furono udite, mischiandosi alle voci de'  cittadini anche quelle degli ufficiali. Gli animi italiani addippiù ferverono, inaugurando Vittorio Emanuele il dì 10 gennaro la novella sessione del Parlamento, e notevoli divennero queste parole, ripetute, senza riserbo, in ogni cantuccio d'Italia:

(1) De' Sivo, Storia delle Due Sicilie dal 1841 al 1861, volume II, pag. 393; Roma, Salviucci, 1864.

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«L'orizzonte in mezzo a cui sorge il nuovo anno, non è pienamente sereno: ciò nondimeno vi accingerete colla consueta alacrità ai vostri lavori parlamentari. — Confortati dall'esperienza del passato, andiamo risoluti incontro alle eventualità dell'avvenire. Quest'avvenire sarà felice, riposando la vostra politica sulla giustizia e sull'amore della libertà e della patria. — Il nostro paese, piccolo per territorio, acquistò credito nei consigli d'Europa, perché grande per le idee che rappresenta, per le simpatie che esso ispira. Questa condizione non è scevra di pericoli, giacché, nel mentre rispettiamo i trattati, non siamo insensibili al grido di dolore che da tante parti d'Italia si leva verso noi. Forti per la concordia, fidenti nel nostro buon diritto, aspettiamo prudenti e decisi i decreti della divina Provvidenza» (1). — Eseguite nel febbraro le nozze della principessa Clotilde col principe Girolamo Buonaparte, Napoleone al Corpo legislativo manifestò le ragioni politiche su' dissentimenti coll'Austria, e le cause, che avevano fatto stringere legami col re di Piemonte, le chiamò, conseguenza naturale della comunanza d'interessi dei due paesi e dell'amicizia dei due sovrani.

I concetti prevalenti della politica napoleonica furono in quel torno espressi dall'opuscolo Napoleone III e l'Italia, scritto dal Laroguennière, sulle ispirazioni dell'imperatore. Destò rumore in tutti gli Stati d'Europa, chiarendo esso la questione politica, su' nuovi desiderj e sulla situazione italiana, come necessaria alla quiete dell'Europa; rinnovando, specialmente, i consigli dati a Napoli e Vienna chiuso il Congresso di Parigi. Però il federalismo proclamato era pianta, cui non era più dato di attecchire, e, vanamente, contro le aspirazioni unitarie, nello stesso si leggeva: «Non è pertanto l'unità assoluta che si dee avere di mira in Italia, si l'unione federativa. Questa idea d'unione si presenta come l'espressione d'un comune bisogno per tutti gli Stati italiani; è per essi tutti, una tradizione ed una soluzione» (2). Ripetere nel 1858 le vecchie idee della scuola guelfa, parve inopportuno; poiché né le idee di Dante e del Petrarca, né tampoco quelle del Gioberti e del Balbo, alle cui autorità si riferiva lo scrittore dell'opuscolo politico, erano consuone co' tempi, reclamanti ora l'unità della grande idea mazziniana, insanguata perfino negli uomini che erano la stessa voce del gabinetto piemontese.

(1) Il Risorgimento d'Italia narrato dai Principi di Casa Savoja e dal Parlamento, pagg. 142-43; Firenze, Barbèra, anno 1888.

(2) L'Imperatore Napoleone III e l'Italia, pagg. 52; Milano.

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Tanto risveglio di opinioni, che miravano a riforme o a mutamenti, non curò il Governo di Napoli, restringendosi nel vecchio sistema della persecuzione e degli odj a'  novatori. Dopo l'attentato regio, altro fu operato per iscuotere la "vecchia politica; ma di niuna efficacia erano riusciti lo scoppio della polveriera del molo militare avanti la reggia, e l'altro più spaventevole della fregata a vapore Carlo III, destinata a muovere, il domani 5 gennaro 1857, alla volta di Palermo per il trasporto di arredi militari. Ferdinando ne' tre anni, corsi dal Congresso di Parigi alle preparazioni di guerra dell'Austria e del Piemonte, rimase intrepidamente fermo nei suoi proponimenti; ed anzi, vicino a morte, manifestò le sue tendenze in una breve nota diplomatica, datata del 23 aprile 1859, diretta al Carafa. Diceva: «Ringraziare Gorchiakof delle assicurazioni date, e continuare a far sentire che il Regno non sente bisogno di cambiamento. Alle confidenziali domande di Lenzoni circa le nostre intenzioni nelle eventualità di una guerra nell'alta Italia, Fortunato potrà rispondere: che il Governo di Napoli intende di continuare nella condotta neutrale dettata da' suoi principii, dalla sua posizione geografica, e dal costante desiderio di mantenere la tranquillità nell'Italia meridionale» (1). Le notizie del peggiorare la malattia di re Ferdinando si divulgavano intanto fin ne' lontani luoghi, e gli occultamenti o il mendacio divenivano futili. Nell'animo degli emigrati rinascevano le speranze, e col successore, nato da Maria Cristina di Savoja, pareva si dovesse cancellare il lugubre passato. A lui, Duca di Calabria, nell'aprile del 1859, il Di San Donato dirigeva una lettera di schietti e leali sensi, che la vecchia e impenitente polizia chiamò stampa di caratteri sediziosi. Ricordando la gloria avita di Carlo III, lo esortava a unirsi a Vittorio Emanuele, scorrendo nelle sue vene il sangue glorioso di Casa Savoja; e facendogli note le aspirazioni universali sulla indipendenza d'Italia, dicevagli che oramai le popolazioni del Napoletano e della Sicilia dimandavano che il Governo fosse condotto a rispettare le leggi (2).

Abbiamo detto avere l'Austria dal proferito discorso di Vittorio Emanuele, ingrossato il suo esercito, rendendo così manifeste le intenzioni ostili; ma non meno operavano la Francia e il Piemonte, già stretti in alleanza.

(1) Bianchi Nicombdb, Storia documentata della Diplomazia Europea in Italia, vol. vili, pag. 481; Unione TipograficoEditrice Torinese, 1872.

(2) Vedi Documenti, II.

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Le agitazioni richiamavano sotto la bandiera piemontese un numero sterminato di volontarj, ardenti di combattere l'Austria. In questo stato gli altri principi, dominatori de'  varj Stati, si ostinavano nella resistenza a'  moti nazionali, sperando presto soffocare i moti popolari, e aver salvezza dall'Austria, creduta da loro invincibile. L'Inghilterra bramava sedare tanto tumulto generante una guerra, e nulla avendo ottenuto, incaricando a Vienna Lord Cowley, allora la Russia propose un Congresso, cui aderirono la Francia, l'Inghilterra e la Prussia. Vi aderì pure, con finzione e con ritardo l'Austria, se bene male avesse tollerato mandare il Piemonte i suoi rappresentanti; ma, ad intervenirvi, dimandava dovere scemare Vittorio Emanuele l'esercito e sciogliere il corpo dei volontarj. Il conte di Cavour, di rimando, stimolato pure dall'Inghilterra, presentò un Memorandum sulle intenzioni di Vittorio Emanuele rispetto all'Italia, che era un ampliamento di quello presentato al Congresso di Parigi. Contro il volere delle potenze, che avevano desiderio di pace, l'Austria, non aderendo al Congresso, senza frapporre indugio, mandò al Piemonte una dura intimazione. Ed il 23 di aprile il Kellesberg e il Ceschi, legati dell'Austria, facevano sapere al conte di Cavour, che al Piemonte si concedevano tre giorni per ridurre l'esercito e per congedare i volontarj. Il Piemonte, sicuro dell'ausilio della Francia, dava un rifiuto alle pretese austriache, e, accettando la guerra, il Governo chiese dalle Camere la dittatura.

Ferdinando, che da Bari era stato trasportato alla Favorita, e indi per la via ferrata a Caserta, dopo aver penato quattro mesi e otto giorni, il di 22 maggio, giorno di domenica, se ne mori. La malattia della miosite non gli diede un istante di requie: il sangue guasto, gl'irritò perfino l'asse cerebro spinale, che gli cagionò l'apoplessia e il dellrio, ed ebbe tumori e febbri intermittenti. Morì cristianamente: dettò il testamento, distribuendo il suo patrimonio in dodici parti uguali, dieci pe' figliuoli, una in favore della regina, la duodecima per istabilire messe, pe' poveri, e per ornamenti a chiese, ove fossero mancati tanto in Sicilia che nel Napoletano. Nato in Palermo il di 12 gennaro 1810, scendeva nel sepolcro di anni 49, mesi 4 e giorni 10. Il cadavere, chiuse le pompe solenni, fu deposto in Santa Chiara di Napoli, ricettato nelle sepolture de'  suoi padri. Regnò quasi trent'anni, e molti di essi li visse in contrasti; perché i popoli, che pure riconoscevano le opere grandiose, delle quali arricchiva gli Stati, l'odiavano per l'assunta politica, ritrosa a'  progressi civili. Il 1848 gli scavò la bara: la Sicilia, memore degli oltraggi dell'avo, fece ricadere sul capo di lui tutte quante le reità dell'avo e del padre.

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Non gli mancò la idolatria e il fiero biasimo: dalla moltitudine creduto buono e generoso, dal partito liberale malvagio ed avaro. Esagerati i giudizj dall'una e dall'altra parte; e la esagerazione non affermò giammai la coscienza del popolo, che oggi dava negli evviva forsennatamente, domani nelle incomposte esecrazioni. Il partito liberale traboccò negli odj; ma, istigando le plebi, crudelmente, non ebbe in risultato che il delltto. Nella politica Ferdinando si accostò all'Austria e alla Russia, ma non comprese l'animo suo la servitù, e d'indipendenza diede sovente esempio. Poteva assodare il regno à' suoi dipendenti, e noi fece per ostinazione e per mala voglia. Morto, un suo biografo scrisse: «Appartiene alla storia di raccontare il vero senza rancore e scevra di passioni; perché la storia severa ed imparziale ha la grande missione di far dissipati i tristi influssi dei tempi, di smascherare i falsi ed erronei giudizi de'  contemporanei, di spegnere ogni tumulto di effetti, di preoccupazioni, di tendenze» (1). Ma gli errori, che tanto nocquero, non potranno non rivelarsi; e la storia consacrerà, che ne' giorni che Ferdinando moriva, il popolo d'Italia correva a festa per combattere le battaglie contro lo straniero; sacrificando così il dispotismo, inneggiando alla libertà; ed egli lasciava al figliuolo, erede del trono di Carlo III, una trista e sanguinosa eredità.

La proclamazione al trono di re Francesco fu publicata lo stesso di 22 maggio (2), e i sensi di essa costernarono il popolo. Il successore di Ferdinando era l'aspettato, poiché in lui si riteneva scorgersi la bontà e le virtù materne; ma nel fervore, in cui era il popolo, il programma, che chiamava il padre Grande e Dio Monarca, lo mise subito in discredito, quasi in odio, giudicandosi volere egli seguire quella politica di repressione, contraria alle novelle sorti d'Italia. Ferdinando aveva dichiarato la neutralità de'  suoi Stati nella guerra tra l'Austria e il Piemonte: Francesco la riconfermò in principio del suo regno. Ne' di 2 e 9 giugno si fecero mutazioni nel Ministero; scegliendo il Filangieri a presidente e a ministro della Guerra; direttore alle Finanze il De Liquoro, all'Interno il Rosica, a'  Lavori publici l'Aiossa, e a Ministro degli Affari di Sicilia il Cumbo. Erano costoro devoti ciècamente al Filangieri, e dovevano chinare il capo, più che al re, a lui, da cui si fecero dipendere le male prossime sorti del reame.

(1) Cenno storico di Ferdinando II del Regno deUe Due Sicilie per Francesco Duretti, pag. 3: Napoli dalla Stamperia Reale, 1859.

(2) Vedi Documenti, III.

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Oramai il Filangieri si proponeva rivelare istinti d uomo libero, ma nulla volle o seppe fare: unica forza dei suoi voleri il tradire un inesperto, travolto dalla grossa fiumana della rivoluzione! La quale si propagava di giorno in giorno, da un momento all'altro, e in quell'anno 1859 il grido di morte a'  Borboni usciva perfino da'  villaggi, sorridendo dappertutto le speranze d'italianità, incarnate in Vittorio Emanuele, stimato prodigioso e leale cavaliere. Il giovine re, inesperto, ripetiamo, atterrito dalla educazione paterna, mal consigliato, tradito, anzi che trovare le vie di salvezza, trovò intricato cammino con la ferocia della polizia, che non mutò condotta, procedendo sempre arbitra de'  destini del reame. Pria che si compisse un mese dalla sua ascensione al trono, egli mette fuori, il dì 16 giugno, Vailo sovrano, che concedeva grazia di rimpatriare a diversi indicati regii sudditi emigrati. L'atto sovrano non è accolto da'  numerosi graziati, ma da pochissimi; contro lo stesso sorge viva protesta di Francesco Sammartino, Principe di Pardo, Siciliano; il quale nel 1848, da ufficiale superiore nelle truppe napoletane, era partito con Guglielmo Pepe per sostenere l'onore italiano e combattere l'Austria; ed avuto a vergogna il ritorno, richiamate le forze da Ferdinando, aveva proseguita la sua missione a capo di tre mila volontarj, sostenendo fiere lotte in Venezia; emigrando, dopo le sventure patite dall'assediata città, a Smirne. Di li protesta (1); e il suo rifiuto è giustificato contro il decreto proposto dalla malvagità del Principe di Satriano, che il reame teneva ancora in ceppi, graziando capricciosamente alcuni, escludendo i più noti, odiati da lui pe' rivolgimenti del 1848! Col Filangieri re Francesco ribadiva la reazione e rinvigoriva contro sè i tradimenti!

All'estinto Ferdinando si dovevano pompe solenni di funeri, gareggiando in quegl'istanti le rappresentanze decurionali a renderle più celebri. Sfarzose furono a Palermo, non dissimili a Messina; e la parola bugiarda, anche tornita di eleganza e di effetti oratorj, non istrappò lagrime. La folla curiosò l'altezza de'  catafalchi: la folla lesse, attonita, Je lodi epigrafiche, e i tempj lasciava non commossa, né consapevole degli eroismi e della pietà ricordata. Anzi ella fu spettatrice di nuovo ed insolito avvenimento, udendo il rimbombare di fragorose bombe, offerte in refrigerio all'anima del re, che aveva permesso al Filangieri di distruggere co' fuochi di guerra la città di Messina (1).

(1) Vedi Documenti, IV.

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E un tal contegno assicurava addippiù le avversioni popolari, che non erano soltanto un incitamento della parte liberale, ma una leva di avverso sentimento dell'afflitto popolo, stanco di più calcare le orme passate.

DOCUMENTI (2).

I.

Il Luogotenente al Ministro degli Affari di Sicilia in Napoli.

Palermo, 4 del 1857. — Eccellenza. — Nel Comune di Marsala predomina uno spirito sedizioso fomentato da stranieri là dimoranti e dalle continue relazioni che ha con Malta, e reiterate volte il Real Governo è stato nella necessità di adottare misure di severità contro taluni dei suoi abitanti.

Quando il fuorbandito Vincenzo Patti in agosto 1854, veniva clandestinamente in Sicilia con lettere e proclami per tentare un movimento sedizioso, era in Marsala che si avea i più notevoli fautori. Sul finir di novembre ultimo quando s'intese la scorrerìa della masnada di Bentivegna, la Polizia si avvide d'una insolita agitazione in taluni conosciuti rivoluzionari di Marsala, e temendosi bene a ragione di qualche scandalo, l'Intendente con molta vigorìa provvide allo arresto delle persone qui scritte: Principe di Spadafora, Domenico Firriolo trafficante, Simone Lo Pizzo carrettiere, Ignazio di Girolamo muratore, Francesco Li Causi beccajo, Salvatore Tedesco bettoliere, Giuseppe Messina mugnajo,  Stefano Lentini carrettiere,

Lorenzo Cudia bottajo, Salvatore Casano carrettiere, Vincenzo Vanella carrettiere, che furono chiusi nelle prigioni della Colombaja di Trapani.

Correva intanto voce che D. Luigi Marino, Vice-Console inglese in Trapani, uomo senza carattere e facile a vendersi a chi meglio lo paghi, aveva avuto de'  notturni abboccamenti con persone sospette di Marsala,

(1) «Messina, 22 giugno 1859. — Eccellenza. — L'altro ieri alle ore 24 d'Italia ebbero principio in questa Cattedrale i funerali per il Re Ferdinando II, di felice ricordanza, e proseguirono fin la sera, quando nel Tempio pieno di gente accorsa per tale funebre cerimonia si udì uno scoppio.

«Esaminando al momento la polizia, che colà non mancava di vegliare, da dove proveniva il rumore in parola, rilevò essere stato il disparo di alquanta polvere avvolta ben legata in carta e riposta in una recondita cappelletta ove fu accesa da mano maligna che l'aveva architettato, e che io ora sono nell'impegno di scovrirla. Simile frastuono però non turbò affatto l'ordine. La cerimonia prosegui sino al fine, e la gente rimase a suo piacere nella chiesa. La dimane poi i funerali terminarono colla gran messa, e l'elogio funebre, intervenendovi tutte le Autorità Civili e Militari, nonché sufficiente popolazione senza essersi sperimentato alcun menomo inconveniente. Reputo mio dovere rassegnare ciò a Lei per la superiore conoscenza». (Carteggio dell'Intendente col Luogotenente in Palermo).

(2) Tratti dall'Archivio di Stato di Palermo, Ministero Luogotenenziale, anni 1857-1859.

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e che in queste riunioni eravi un capitano di nave inglese venuto a comprar sale, con cui il Marino era in intime relazioni.

Si aggiungeva che questo Capitano travestito si era recato su d'una barca, ora all'incontro d'un legno che traversava ed a riceverne le carte, ora in una salina a due miglia da Marsala, di proprietà della vedova Carrara, ove passava la notte, insieme ad otto individui vestiti da gentiluomini fra i quali un prete. Dicessi pure che il Marino a notte avanzata recavasi a visitare il Capitano inglese nella salina detta Marausa e sulla propria lancia lo conduceva ad imbarcare su d'un legno ancora di passaggio, dal bordo del quale una voce in lingua siciliana dimandava al Marino come si stasse, e costui rispondeva: bene appoggiati.

Si disse che il Marino avea fatto sapere a'  marinari della sua lancia che il Capitano sarebbe tornato in breve, e che riuscito lo affare, si sarebbero arricchiti, e che conservassero della cosa il più grande segreto.

L'Intendente dandosi alle più accurate indagini sulle dicerie che correvano, di due cose confermossi, cioè che il Marino assentavasi qualche volta di notte dalla casa, e che una speronara maltese erasi vista bordeggiare da'  Telegrafi nei mari di Trapani. D'altra parte la Polizia in Riarsala provvedeva sugl'individui qui scritti, D. Salvatore di Girolamo, D. Domenico Scuderi, D. Felice Scuderi, D. Andrea D'Anna, D. Abele Damiani, sacerdote D. Antonino Lo Monaco, D. Antonino Lo Monaco, notissimi per precedenti rivoluzionari, che stavano in grande frequenza col maltese Ellul stabilito in quella Città, uomo di principi sovversivi; e si ebbe luogo a ritenere che tali individui fossero quelli stessi che si designavano come coloro che facean parte col Marino a'  notturni conciliaboli.

Le investigazioni adoperate dall'Intendente per conoscere se avean fondamento le voci che correvano, niente ancora hanno potuto chiarire. Le visite domiciliari fatte al di Girolamo e compagni sono riuscite infruttuose, né dal loro interrogatorio è risultato alcun che che possa ribadire i concepiti sospetti. Si continuano le indagini, ed il Marino è sottoposto a severa vigilanza.

Si è proceduto allo arresto del di Girolamo e compagni, misura consigliata dalla necessità per calmare l'effervescenza eh erasi suscitata in Marsala. L'Intendente persevera nelle indagini e nella sorveglianza.

II.

Lettera di G. S. di San Donato al Duca di Calabria.

Principe. — Vi sono nella vita dei popoli, come in quella delle dinastie, momenti solenni, occasioni propizie, che ove si afferrino, rendono gli ani avventurosi e circondano d'immensa fama le altre. La fortuna, gli uomini, gli avvenimenti, o Principe, vi porgono il destro di questo momento solenne per l'Italia e per la civiltà.

Deh! non lasciateli fuggire nell'interesse della Vostra Casa e pel bene di nove milioni e più di uomini, i quali altamente reclamano di essere anzitutto italiani e di voler propugnare dal canto la causa dell'indipendenza.

V. A. R. è chiamato a regnare e trova in vigore sistemi funesti al paese, all'Italia, e sui quali la storia e non io ha di già portato il suo giudizio.

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Voi trovate vacillante il Trono, deserto d'ogni vero affetto la reggia, avvilite ed oppresse le popolazioni, immorale e corruttrice l'amministrazione, servile ed ignorante la magistratura, negletta la istruzione pubblica, nullo il commercio, infame la polizia, rotte le relazioni diplomatiche con i due governi più civili d'Europa; ogni cosa insomma avviata nel regno a sempre più dividere profondamente il Re dal popolo e diretta a rovesciare in un istante opportuno il Trono.

Da un altro lato, Principe, V. A. R. vede l'Augusto Vittorio Emanuele benedetto dai suoi popoli, acclamato da tutte le genti italiane, seguire fedelmente una politica nazionale e calcare con somma lealtà le vie dell'onore e del progresso fra gli applausi e l'ammirazione di tutte le nazioni del mondo. Or fra questi due sistemi, fra il passato governo delle Due Sicilie ed il presente di Vittorio Emanuele, la scelta Vostra non può essere incerta e dubbiosa, se ponete mente come è necessario il cancellare tristi memorie, asciugare tante pubbliche e private lagrime, ristorare tanti danni, e ringiovanire l'antica pianta della Vostra Real Casa.

Carlo III, il primo dei Borboni che regnò sulle Due Sicilie, non solo fece il bene dei popoli e li guidò verso di un grandioso incivilimento, ma seppe rendere gloriose le nostre armi e benedetto il suo nome agli Italiani battendo l'Austria a Bitonto e scacciandola dal regno nella famosa battaglia di Velletri del 1774. Principe a che non continuare le nobili tradizioni di Carlo III, sia negli ordinamenti civili, sia nella politica esterna? L'Italia, o Principe, vuole essere indipendente: e lo prova anche oggi il concorso di migliaia e migliaia di volontari a Torino a cui sovente fanno scorta fortissime madri e canuti genitori: lo prova l'entusiasmo sublime che si manifesta nelle sue cento città e nelle campagne: lo provano migliaia di martiri, tanti sacrifici e le abnegazioni di tutti. L'Italia dunque coi fatti si accinge a rendersi indipendente scegliendo a suo campione Vittorio Emanuele. Or potrebbe convenire a Voi, che pur sentite scorrere nelle vene il sangue glorioso di Casa di Savoja, di non congiungere la vostra spada a quella del primo soldato delle guerre dell'indipendenza, del Re Cavaliere! L'onore nazionale, l'interesse propiio, e l'obbligo che come nato in Italia e presto Re di nove milioni e più d'italiani, v'impongono, o Principe, di entrare francamente nelle vedute della generosa politica del Piemonte. Tutto infine vi spinge a poter lacerare la pagina del passato e a dettare quella del futuro. Il passato, o Principe, è tremendo per la Vostra dinastia. Voi non ne rispondete, ma siete però risponsabile dello avvenire. Esso è nelle vostre mani e vi si appresenta raggiante di gloria, di prosperità e di splendore se vorrete approfittarne. Esiterete Voi nel ripudiar l'uno, nell'afferrar l'altro? Ricordatevi che, si bene inuocente, il passato ha scosso il Trono dalle fondamenta e che l'avvenire di una politica nazionale consoliderà il Trono, riabiliterà la dinastìa, e ridonando all'Italia con la vostra valevole cooperazione la bramata indipendenza vi preparerà immortali corone e gratitudine santissima.

Le popolazioni delle Due Sicilie domandano, o Principe, che il governo sia condotto a rispettare le leggi; Che la giustizia ripigli i suoi diritti e che abbia fine l'arbitrio; Che le costituzioni fondamentali del Regno date, giurate ed esistenti siano richiamate in vigore.

Le popolazioni domandano finalmente che sieno chiamate a concorrere con tutti i potenti mezzi di cui a dovizia dispone il paese alla vicina guerra contro l'Austria.

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Possano, o Principe, queste mie povere parole farsi strada sino a Voi. Io non le avrei scritte se non avessi la ferma speranza che troveranno un'eco nel vostro giovane cuore. — Torino, 16 aprile 1859.

III.

Proclamazione di Sua Maestà il Re Francesco Secondo alla sua ascensione al Trono, e conferma di tutte le Autorità del Regno nello esercizio delle loro funzioni.

Caserta, 22 maggio 1859. — Francesco II, etc. — Per lo infausto avvenimento della morte dello Augusto e Dilettissimo nostro Genitore Ferdinando Secondo, ci chiama il Sommo Iddio ad occupare il Trono de'  nostri Augusti antenati. Adorando profondamente gl impescrutabili Suoi Giudizii, confidiamo con fermezza, ed imploriamo per Sua Misericordia voglia degnarsi di accordarci aiuto speciale ed assistenza costante, onde compiere i nuovi doveri che ora c'impone, tanto più gravi e difficili, in quanto che succediamo ad un Grande e Pio Monarca, le cui eroiche virtù ed i pregi sublimi non saranno mai celebrati abbastanza. Avvalorati pur nondimeno dal braccio dell'onnipotente, potremo tener fermi e promuovere il rispetto dovuto alla nostra sacrosanta Religione, la osservanza delle leggi, la retta ed imparziale amministrazione della

iustizia, la floridezza dello Stato, perché così, giusta le ordinazioni ella Sua Provvidenza, resta assicurato il bene degli assicurati sudditi nostri. — E volendo che le spedizioni de'  pubblici affari non sia menomamente ritardata: — Abbiamo risoluto di decretare e decretiamo quanto segue:

Art. I. — Tutte le Autorità del nostro Regno delle Due Sicilie rimangono nell'esercizio delle loro funzioni. — II. Il nostro Ministro Segretario di Stato Presidente del Consiglio de'  Ministri, tutti i nostri Ministri Segretarii di Stato, lo Incaricato del portafoglio del Ministero degli Affari Esteri, tutti i nostri Direttori de'  Ministeri di Stato con referenda e firma, ed il nostro Luogotenente Generale nei nostri reali dominii al di là del Faro sono incaricati della esecuzione del presente Decreto.

IV.

Decreto di rimpatrio pe' sudditi emigrati. — Rifiuto del Principe di Pardo Francesco Sammartino.

Francesco II, etc. — Volendo in occasione della Nostra Ascensione al Trono far degni di Nostra Sovrana Indulgenza i Nostri sudditi che si trovano allo straniero per la condotta da essi serbata nei politici sconvolgimenti degli anni 1848 e 1849; — Abbiamo risoluto di decretare e decretiamo quanto segue:

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Art. 1. — E' permesso di poter rimpatriare ai nostri sudditi emigrati allo straniero qui appresso indicati, cioè:

Paolo Amari, Giuseppe Arnoldi, Giuseppe Ayala, Diego Arancio, Pietro Alella, Mario Aitisi, Gregorio Amò, sacerdote Luigi Basile, Antonio Bruno, Michele Bottari, Pietro Bongiorno, Antonino Bonconsiglio, Antonino Bonaccorsi, Felice Bonaccorsi, Giuseppe Branciforte ingegniere di Leonforte, Francesco Butario, Francesco Burgio, Vincenzo Buscumi, Girolamo Buscumi, Saverio Bacchi, Giuseppe Bracco, Antonio Callari, Francesco Campo, Achille Campo, Lorenzo Carà, Francesco Paolo Cianciolo, Giovanni Battista Cianciolo, Pasquale Colajazzi, Alessandro Ciaccio, Salvatore Calvino, Stanislao Canizzaro, Saverio Cappello, Giuseppe Barone Corvaja, Camillo CoIona, Antonio Chirchiner, Antonio Campanella, Lorenzo Cotti, Marchese di Roccaforte, Ceraulo Antonio Oddo, Vincenzo Cianciolo, Giuseppe Cottone, Vincenzo Cordaro, Luigi Condurelli, Vito Casaramona, Emmanuele Cracampi, Vincenzo Colletti, Filippo Corpora, Pasquale Cardile, Camarda (Parroco Greco), Vito Barone d'Ondes, Giovanni del Castillo, Domenico Denaro, Gaetano di Pasquale, Girolamo Di Stefano, Giuseppe di Stefano, Francesco de Caro sacerdote, Vincenzo Malta, Rosario D'Angelo, Nicola de Palma, Vincenzo d'Errante, Carlo Falconieri, Giuseppe Fiorenza sacerdote, Francesco Ferrara, Giovanni Battista Fontana, Rocco Frazzetto, Pietro Fernandez, Giuseppe Fondanino, Antonio Forno, Salvatore Furnari, Mariano Fiorentini, Giovanni Gentile, Pietro Guccione, Giuseppe Giunta, Salvatore Giunta, Domenico Gagliani, Salvatore Giacoma, Francesco Germano, Michele Giuffrida, Giuseppe Guasta, Cavalier Giuseppe Gravina, Giovanni Giaimo, Giuseppe Giaimo, Marcantonio Lomonaco, Raffaele Lanza, Sebastiano Leila, Tommaso Landi, Carmelo Lentini, Gabriele Langillotto, Castelli Principe di Torremuzza, Antonio Lanzetta, Salvatore La Rosa, Pietro Landi, Francesco Languidara, Pasquale Mastricchi, Lorenzo Mastricchi, Paolo Morello, Luigi Meli, Giorgio Miloro, Giuseppe Amò, Ferdinando Monroy Principe di S. Giuseppe, Tommaso Conte Manzoni, Giuseppe Natoli, Federico Napoli, Rocco Piccolo, Giuseppe Paternò Spedalotto, Domenico Piraino, Giovanni Battista Platania, Giuseppe Passalacqua, Michele Rutigliano, Antonio Riccobono, Carlo Stabile, Giacinto Scelzi, Francesco Sammartino Principe di Pardo, Giaccomo Saccaro, Gaspare Spadaro, Gaetano Sorito, Gaetano Scalia, Alfonso Scalia, Pasquale Sozzi, Michele Siciliano, Gaetano Scuderi, Francesco Scolaro, Giuseppe Stussi, Emmanuele' Tuccari, Giuseppe Teripotti, Cavalier Francesco Trigona, Francesco Terrasona, Paolo Terranova, Carlo Ventimiglia Principe di Grammontc, Abramo Fragalà Vasta, Stefano Vacca, Benedetto Zuccarello, Vincenzo Zuccaro, Francesco Veneti, Gerardo Bonomo, Giacomo Caudisto, Achille Varvesi, Giuseppe Gaetano Cianciolo, Antonino Mastricchi.

Art 2. — Ci riserbiamo pertanto di provvedere per gli altri Nostri sudditi emigrati allo straniero, non compresi in questo Nostro Atto Sovrano che faranno a noi pervenire le loro suppliche, e che prometteranno di vivere all'ombra delle Nostre leggi, come ad ogni onesto suddito si conviene.

Art. 3. — Il Nostro Consigliere Ministro Segretario di Stato, Presidente del Consiglio dei Ministri, il Nostro Luogotenente Generale in Sicilia, il Nostro Ministro Segretario di Stato per gli Affari di Sicilia presso la Nostra Real Persona, lo Incaricato del Portafoglio del Ministero degli Affari Esteri,

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e lo Incaricato provvisoriamente della referenda e firma del Ministero della Polizia Generale sono incaricati della esecuzione del presente Decreto, ciascuno per la parte che gli concerne. — Capodimonte, 16 giugno 1859.

I Giornali rendevano publica lo protesta del Principe di Pardo, e uno di essi premetteva le parole «Nous sommes priés de publier la note suivante».

«Francesco Sammartino Principe di Pardo, Siciliano, ufficiale superiore delle truppe napoletane, in aprile 1848, parti col 7° di linea di avanguardia, per ordine del Governo, a scacciar l'austriaco dal suolo italico. Ritornate le truppe in Napoli sullo scorcio del mese di maggio, egli tenne a vergogna e disdoro voltar le spalle all'Italia, e saldo ai principi della causa Italiana, proseguì la sua nobile missione, marciando alla testa di tremila volontari Italiani, e sotto gli ordini del Generale Pepe, fu a sostenere la lotta in Venezia, ove venne elevato, per azioni al grado di colonnello; sopravvenuto poscia l'infortunio all'eroica città, fu obbligato abbandonarla. Da quel tempo esulò e fissò la dimora a Smirne, ove tuttora vive. Nel Decreto del 16 giugno p. p. vedesi tra gli aggraziati anche il nome di Francesco Sammartino Principe di Pardo. Sappia il Pubblico ch'egli rifiuta la grazia e l'esprime con la più aperta e franca parola». Smirne, li 12 giugno 1869.

CAPITOLO QUINTO.

Condizioni politiche e morali della Sicilia dal 1849 al principio del 1859 — Le principali publicazioni periodiche — Del movimento intellettivo nell'ultimo decennio — La guerra di Lombardia e il Trattato di Villafranca — Il console di Sardegna in Messina. Armi da sbarcarsi in Reggio — Viaggio del Crispi in Sicilia — Attentato al Maniscalco, tumulti il di 9 ottobre 1859 e disarmo in Palermo — Devozione al re — La politica del Piemonte e le proteste generose di Giuseppe Mazzini a Vittorio Emanuele.

Il decennio d'una reazione crudele aveva accresciuti i dolori e la esasperazione degli animi, ecceduti i limiti della prudenza. Carlo Filangieri sottoposti il popolo e la volontà regia, lasciata la Sicilia, portò con sè una triste e funesta reminiscenza di memorie di sangue e d'ire perpetue, che non davan più tregua al regime. Correndo gli anni si attendevano con ansia le mutazioni, sebbene lo sperarle non fosse più un desiderio ristretto a'  confini dell'Isola, ma un aggregamento, che annientava l'autonomia siciliana, reclamante fino al 1849 gli statuti siciliani. Per guarentigia delle popolazioni oltre il Faro, il Governo di Napoli aveva ripristinato un Ministero di affari, sedente nella capitale; ma esso corrispondeva colla luogotenenza, e in Consiglio di Stato l'autorità sua era debole, qualora in tutto non era sottomessa. Le condizioni precarie non assodavano come in passato le determinazioni regie; le plebi procedevano ciecamente, secondando gl'istinti; le classi colte miravano in alto, ove le congiure si moltiplicavano, ove grandiose si facevano le aspettative per l'avvenire d'Italia. Qui il re e il popolo vivevano discordi: la lotta, o tacita o aperta, si accresceva: lassù, sotto le Alpi, volava libera la parola, e l'ingegno siciliano in quelle regioni, dalle cattedre e dalle tribune politiche, esercitando la eloquenza nell'aula parlamentare o ne' fogli cotidiani, preparava le nuove sorti della Sicilia. Il Governo di Napoli, sospettoso e timido, non trovava riparo che cogli atti crudeli. Rigurgitavano le prigioni degli uomini più eletti, mischiati a'  più perfidi, usi al delltto: le donne infelici, madri, sorelle e mogli, pregavano per la liberazione dei loro congiunti, e, quando vana riusciva la preghiera, non risparmiavano la insolenza.

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La tranquillità aveva disertato questi luoghi, e i fuggiaschi giungevano ad un tal numero, che molti, seguiti dalle loro donne, poteva ciascuna di queste ripetere non esser certa della sua sepoltura. Ne' teatri, ne' balli, ne' ritrovi publici, la spia si studiava di scoprire il pensiero, e da un qualsiasi atto, di mestizia o d'ardire, argomentava spirito avverso, cagionando alle famiglie lagrime e paure. La gioia e il sorriso erano spariti perfino dagli animi e dalle bocche innocenti: la puerizia più che volgersi a'  balocchi, a'  trastulli, era contristata dall'assenza de'  più intimi, e ne sospirava il ritorno, o la salvezza. Tutto era dolore, e il tormento non isfuggiva a'  lontani delle altre nazioni, ove miserando vivere era giudicato questo che affliggeva e contristava un popolo forte, abbattuto, ma non depresso!

Tra gli affanni delle cospirazioni e i rumori di lontana guerra, che in Sicilia avevano lasciato tracce profonde, la coltura fu un conforto, sulla quale il Governo volgeva l'occhio linceo. Se non che, a volte, rimase ingannato, e il velo delle allegorie aveva un alto significato. Il Governo dal 1837 al 1847 aveva con energica violenza, soppresse non poche publicazioni periodiche letterarie, ritenute di qualche conto per lo svolgimento delle nuove idee; ma uguali mezzi non iscelse dal 1849 al 1859. Poiché se la politica riserbava a sè, comunicando le poche interessanti notizie, concernenti i moti d'Europa, non impediva che le dottrine letterarie, le scientifiche e le artistiche si fossero partecipate. Sicché in quel periodo, se Messina, Catania, Trapani e altri luoghi ebbero le loro effemeridi, Palermo fu assai operosa, e le varie publicazioni periodiche assunsero un'importanza. Cito alcune di esse, che vengono conservate in una biblioteca publica di Palermo. Cito II Vapore, Il Segesta, La Scienza e la Letteratura, La Rivista scientifica e letteraria, f Rigoletto, La Ricerca, Il Poligrafo, L'Idea, L'Ateneo Siciliano, L'Armonia, L'Anonimo, Il Diogene, Il Diadema, Il Commercio, Il Buon Gusto, Il Baretti, La Favilla, Le Ferrovie (1),

(1) Notevole questo foglio ebdomadario, che, 'uscito il dì 2 luglio 1859, chiuse le publicazioni il 18 febbraro 1860. Notevole, perché si proponeva u dare (n. 3) alle comunicazioni accelerate ed economiche un'unità di sistema, un insieme coordinato, onde soddisfare con previdenza e calcolo i bisogni commerciali, politici e strategici del paese. La rete sicula che noi progettiamo risponde al punto di vista politico, al gran bisogno di mettere in facile contatto i centri di popolazione colle cose e colle classi agricole, affinché queste avessero nelle grandi città una facile comunicazione per perfezionare il grado di loro civiltà imperfetta».

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in cui scrivevano, a riprese, ingegni vigorosi, e sovente le idee erano una fedele ripetizione d'un'eco lontana, ardita e dolorosa. A tanto svolgersi di concetto, che riuniva il romanzo, la critica, la storia, l'archeologia, il giure, la economia e l'arte, le usanze di capodanno svegliavano be' sentimenti con le strenne, che si componevano di versi e prose, che tanto tornavano gradite a'  molti. Lo spirito si sfrenava, e con reconditi pensieri cercava mondi ideali o nuove sfere. Versi non isvigoriti, ricordavano con sentimento memorie passate, e della battaglia di Novara si faceva simbolo la rosa, nata a pie' le croci. Ed altri ricordi, ne' quali l'occhio vigile della polizia non sempre seppe scrutare l'indole politica, velata da parola mesta e placida.

Di fuori dal 1855 giungevano clandestinamente le stampe politiche, storiche, romanzesche, critiche, e la lettura, compiuta in silenzio ed in luoghi non noti, accendeva gli animi all'italianità. E mentre dagli Stati subalpini, dalla Toscana, dalla Francia, giungeva qui il dire maestoso del La Farina, di Emerico Amari, del Ventura, del Cordova, del Ferrara, dell'EmilianiGiudici, del Perez, di Michele Amari, che con istorie, con ispeculazioni legislative, filosofiche e teologiche, con alti sensi oratorj, con fatiche economiche, con altezza di critiche letterarie e col cementare una civiltà sparsa, svisata dalle tradizioni, in Sicilia, scotendosi gli animi a virtù singolare, tenevano dietro alle grandi opere, travagliandosi di lumeggiarle e d'imitarne gli esempi, rendendoli fecondi. Si consacravano alle arti poetiche uomini e donne. Poetavano con lode il Bisazza, il De Spuches, il Mitchell, il Giaracà, i giovani Lombardi, Macherione e Ugo Antonio Amico, la MuzioSalvo, la Montoro, la CoffaCaruso, investigavano il mondo greco, traendone le scintille sacre, alcuni di questi, cui si congiungeva Giuseppe Alessi, che dal 1837 aveva dato principio, con due volumi, a una storia critica della Sicilia; e si univano ancora archeologi e filosofi, ne' quali era a dovizia il sapere. E pur mancando in questi ultimi la originalità delle idee, non si tennero lungi dal tenere aperte le vie del pensiero italiano. Ninno è che parli oggi di Giuseppe Romano, di Benedetto D'acquisto, e di Antonio CataraLettieri,

Il Governo di Napoli, che, dal 1839, aveva aperto fra gli Stati italiani il primo tronco, da Napoli a Portici, nel 1860 si trovò minore ad essi ne chilometri destinati all'esercizio. Il documento (1) dà le statistiche del 1839 e del 1860.

(1) Vedi Documenti, 1.

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non avendo le opere loro la genialità e la invenzione richieste, siccome scriveva il Leopardi, a far progressi notabili nella filosofia (1), ma una memoria dì loro, considerati ne' tempi vissuti, non può riuscire sgradita. Il Romano scrisse con eccellenti forme, e la sapienza giobertiana conciliò con altri metodi; il D'Acquisto s'inselvò nelle asprezze metafisiche, e, anche usando d'uno scrivere barbaro, discusse gravi problemi, allora in voga, oggi ripudiati dal buon senso e da'  progressi della stessa filosofia, che si attiene a'  grandi ritrovati scientifici; il Catara-Lettieri, sebbene non avesse avuto il minimo pregio di scrittore, né in filosofia alcuna inventiva, talché rimangono perfettamente ignorati i molti volumi ed opuscoli da lui dettati con fatiche, pure ebbe il merito d'avere dal principio del secolo passato introdotta in Sicilia la psicologia galluppiana, ammonendo i giovani, con insegnamento proficuo, a risalire alle fonti della scienza italiana. Seguì in questo gli entusiasmi, che allora destavano le opere del Gioberti e del Mamiani; e rendendo culto al primo, eludendo la vigilanza poliziesca, nel recinto delle sue mura, privatamente, a gioventù numerosa, svegliò la mente a'  sentimenti di grandezze, che allora avevano predominio sugl'Italiani, e che il Gioberti magnificò con aureo dire in libri filosofici, apologetici, critici e politici. Nel 1859 il Governo lo confinò in un paesello nella stessa provincia di Messina, credendo che troppo il Catara si fosse spinto insegnando la filosofia giobertiana, il gius naturale e le dottrine di economia.

Frattanto gli effetti dello stato politico dando vita novella al Piemonte, rinnovano le sorti d'ogni regione italiana, e da ogni parte le popolazioni volgevano i petti alla speranza. Le vecchie dinastie, impenitenti, ritrose ad ogni progredimento, cascate moralmente giù, non trovavano altra via che quella del terrore; ma il terrore non infrenava più gli ardimentosi, e i Governi erano quasi compresi che le prigioni, gli esilj e le scuri erano diventati, contro la universale opinione, armi impotenti.

L'orizzonte politico si offuscava. Presentato dall'Austria l'tiZtimatum, chiedente il disarmo in tre giorni, il Piemonte, respingendolo, aveva udito nelle Camere parlamentari la voce solenne del conte di Cavour, che chiedeva poteri straordinarj al Governo del re durante la guerra (2). Il dì 29 aprile Vittorio Emmanuele, rivolgendo all'esercito un proclama, nobile di sensi, aveva detto:

(1) Opere, vol. iv, p. 259; Firenze, Le Monnier, 1845.

(2) Discorsi parlamentari del conte Camillo di Cavour, vol. xi, pp. 4250, ediz. citata.

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«L'Austria che ai nostri confini ingrossa gli eserciti, e minaccia d'invadere le nostre terre, perché la libertà qui regna con l'ordine, perché non la forza ma la concordia e l'affetto tra popolo e Sovrano qui reggono lo Stato, perché qui trovano ascolto le grida di dolore d'Italia oppressa; l'Austria osa intimare a noi, armati soltanto a difesa, che deponiamo le armi e ci mettiamo in sua balia. L'oltraggiosa intimazione doveva avere condegna risposta. Io la ho disdegnosamente respinta». E nella fine di esso annunziava: «Avrete a compagni quegli intrepidi soldati di Francia, vincitori di tante e segnalate battaglie, di cui foste commilitoni alla Cernaia, e che Napoleone III, sempre accorrente là dove vi è una causa giusta da difendere e la civiltà da far prevalere, c'invia generosamente in aiuto le numerose schiere» (1). Il dì 26 aprile il generale Guilay aveva invasa la Lomellina e il Novarese, territorj abbandonati dagli eserciti piemontesi, che si accingono alla difesa della linea del Po. Il re Vittorio Emuanuele assume il comando supremo a capo di ottantamila uomini. Gli Austriaci, passata la Sesia, si spingono nel Vercellese, perché, occupando Torino, portandosi al Moncenisio, possano chiudere il passo ai Francesi. Però alla Dora sono arrestati dalle nostre trincee. Scendono i Francesi in numero di 200 mila dal Moncenisio e dal Monginevro, e, sbarcando pure in Genova, si dispongono in lunga linea sul Po, dalla Scrivia a Valenza. Questi i preliminari poco fausti all'Austria. Riunite le forze numerose francesi alle piemontesi e al corpo de'  volontarj, comandato da Giuseppe Garibaldi dal dì 30 maggio,

(1) Il Risorgimento d'Italia narrato dai principi di Casa Savoia e dal Parlamento, pagg. 146-147; Firenze, Barbèra, 1888. Gli emigrati napoletani, facendo copiose ristampe del proclama, la mandavano a'  soldati napoletani, con questa nota: «Alla voce potente e generosa di un Principe si valoroso e leale, si è commossa l'Italia da un capo all'altro, e forse in questo stesso momento i campi di battaglia avran veduto le prove di valore dell'esercito Subalpino e delle numerose schiere de' volontari che si raccolgono all'ombra della croce di Savoia. Voi soli, o oli napoletani, rimarrete stranieri alla guerra, che deciderà dei nostri destini. Eppure son vive ancora ed affettuose le memorie del vostro valore sai campi lombardi. Vi sia di sprone ed esempio il piccolo esercito della Toscana che sdegnando di poltrire nell'ozio lungo le sponde dell'Arno, corre animoso sul campo dell onore e della gloria. Sì battette la più bella, la più nobile, la più santa delle guerre, onde emerge raggiante la redenzione d'Italia, senza che tutti i valorosi suoi figli vi abbiano prestato il loro unanime concorso. Ah! no, l'Italia confida che non sarà mai pronunciata per voi l'amara rampogna. Forti del vostro dritto di cittadini» concordi nel grido comune di 24 milioni di uomini, sia pure il vostro grido: Guerra all'Austria, viva l'indipendenza italiana.

I Napoletani.

Napoli, 2 maggio 1859.

(Stampa dell'Archivio di Stato di Palermo.

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che segna la data della battaglia di Palestro, segui la sanguinosa di Magenta, che cagionò agli Austriaci, in piena ritirata, l'abbandono di Milano, lo sloggio delle truppe nemiche da Melegnano, fino alle ultime pugne sanguinosissime di Solferino e di San Martino. Tragrande il numero de'  morti d'ambe le parti, ma notevole il valore; e se le armi francesi si mostrarono degne del loro passato, d'una storia militare gloriosa, gli eserciti piemontesi e le schiere volontarie rivelarono questa volta all'Austria, come vero fosse il detto del Poeta, non essere in noi spento l'antico valore. Napoleone III, sceso in Italia il dì 12 maggio, lì 8 di giugno, entrato in Milano con Vittorio Emanuele per l'Arco del Sempione, seguiti ambi dagli eserciti vittoriosi, in mezzo alle esultanze del popolo, diceva a'  Lombardi: «La Provvidenza favorisce qualche volta i popoli come gli individui, porgendo ad essi occasione d'ingrandire ad un tratto; ma colla condizione che sappiano approfittarne. Profittate dunque della fortuna che vi si presenta. Il vostro desiderio d'indipendenza... diverrà realtà, se voi ve ne mostrerete degni. Organizzatevi militarmente: volate sotto le bandiere del re Vittorio Emanuele... non siate oggi che soldati, per essere domani liberi cittadini d'una grande nazione». Però presto sbollirono questi entusiasmi, e, secondo le idee dell'opuscolo del Laromiguiere, mirando solo a costituire un regno nell'Italia superiore, quando la Toscana, gli Stati della Duchessa di Parma, del Duca di Modena e le Romagne proclamavano la dittatura di Vittorio Emanuele, lì 8 luglio, riunitosi Napoleone con l'imperatore Francesco Giuseppe, stabiliva a Villafranca que' preliminari di pace, che addolorarono, perché parvero troncare la rivoluzione e le speranze di unità. I preliminari indi si confermarono col trattato di Zurigo, il di 10 novembre; ma andarono perduti nel vuoto il 2° e il 3" patto, poiché i popoli non richiamarono gli spodestati, e la vagheggiata confederazione, con a capo il Pontefice, rimase un desiderio, che si tramutò in un cencio vecchio (1).

(1) Giuseppe Mazzini il di 20 luglio aveva scritto le parole solenni: u Gl'italiani possono, devono oggi far ammenda solenne del commesso errore. Devono sorgere, raccogliersi, convocare adunanze popolari per ogni dove, far che si levi tale una protesta dalle viscere dell'Italia contro la pace di Villafranca, da far trasalire l'Europa intera: devono, per ogni dove, dichiarare altamente, risolutamente, ch'essi non riammetteranno, se non cedendo alla forza gli antichi cacciati padroni; devono dichiarare ch'essi hanno inteso combattere per la Patria Libera ed Una; ch'essi, popolo, non tradiscono il loro programma, e che non cesseranno dal moto se non conquistata la Libertà e l'Unità. £ devono prepararsi ad usare, contro la forza, la forza». (Scritti editi ed inediti, vol. x, p. 337, Roma, mdccclxxx.

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La guerra contro l'Austria fu un festeggiamento universale, e in Sicilia gli animi si manifestavano apertamente, senza ritegno. Banditi i vecchi feudali concetti del 1820 e del 1848, alimentati dalla aristocrazia, il popolo siciliano mirava ad aggregarsi alle altre regioni italiche, che, unite, avrebbero costituita la grandézza politica. La vittoria delle armi alleate in Messina festeggiava il Console di Sardegna Francesco Leila, si che scrivevasi al Luogotenente, in data del dì 12 giugno: «Ieri sera questo console Sardo rinnovò le illuminazioni di gioia ai balconi» (1); e dicevasi ancora nella stessa corrispondenza telegrafica: «Questa mane il vapore postale francese Vaticano, proveniente da Malta e diretto per Napoli ed altre parti, nello arrivare si è ornato a gala. Esso porta circa quaranta emigrati pervenuti da Costantinopoli e che vanno ad arruolarsi in Italia». I più lontani tornavano in seno alla derelitta madre per redimerla dagli oltraggi e dalla violenza straniera; i vicini fervevano, e le cospirazioni sprofondavano la vecchia tirannide. Il dì 22 giugno a Messina gli entusiasmi nazionali non poterono essere frenati: alla vista delle armi alleate, il popolo, con sensi di gioia smisurata, fece plauso agli avvenimenti, che francavano l'Italia dall'obbrobrio (2). A Palermo si chiudeva la Università ed era occupata militarmente. À Messina si proclamava lo stato d'assedio, ordinandosi il disarmo in tutta la provincia; ma il Console Francesco Leila, fortemente perseverante nell'idea nazionale, apriva sottoscrizioni, facendo appello a'  cittadini e alle siguore, perché si apprestassero a provvedere i feriti, che avevano combattuto per la guerra della indipendenza, e che giacevano negli ospedali di

(1) Il Luogotenente rispondeva in data 16 giugno 1859. — Signor Intendente, — Apprendo dal suo riserbato foglio del 14 andante, N. 372, la trista impressione che fece in codesta Città la notizia di una politica dimostrazione verificatasi in Napoli, che fu tosto dalla Polizia repressa, e la imitazione che voleasene fare costà dagli attendibili, incitati dalle continue luminarie del console Sardo; e di riscontro le significo ch'Ella deve a tutto coBto impedire queste tali dimostrazioni che potrebbero suscitare un incendio nella Provincia, e debbesi impiegare la forza per reprìmerle.

Approvo impertanto la cattura de'  tre principali agitatori, Paolo Caruso, Salvatori Di Blasi e Vincenzo Maglione, e la prego di perseverar sempreppià in queste misure di severità, togliendo di mezzo i pervertitori, non essendovi migliore espediente per tutelare l'ordine pubblico.

(2) Vedi Documenti, II.

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Torino, di Milano e di altre città italiane (1). Il Governo si oppone che circoli la parola pietosa, liberale, umana, italiana, e si rimette al Re. Questi risponde, e noi trascriviamo le parole segnate a matita da lui: Se vuole pubblicarla per mezzo di stampa non può permettersi, come neppure farne una pubblicazione ufficiale. Ma c'era o no il divieto, il Console chiedeva soccorsi pe' feriti, la cittadinanza accorreva e adempiva a un obbligo! Il Governo contristava, ma nel contristare gli mancava la vigorìa: la vittoria delle armi alleate lo aveva scosso. Un rappresentante consolare da Genova gli fa manifesto che a Reggio Calabria saranno sbarcate armi e munizioni da un vapore portante la bandiera sarda, e il Governo da Napoli e da Palermo si adopera a provvedere, ma non sa trovare i mezzi d'impedire un tale sbarco. Il Filangieri faceva nota la sua insufficienza: il conquistatore non trovava armonia coll'uomo di governo!

Alle città si univano i paeselli e le borgate. Le manifestazioni nazionali erano un grido universale: il concetto di unità politica era già un bisogno universale: il popolo aveva seppellito gli errori del 1848, e voleva rinnovarsi, dimenticando un passato crudele e ricco di misfatti. La bandiera patria era quella vista sventolare su' campi lombardi, bagnata dal sangue del martirio (2). S'infiammano sempre più gli animi, ed essi, al giungere in Sicilia con altro nome Francesco Crispi, addippiù si agitano e si dispongono ad insorgere.

(1) «Mesiina, l'luglio 1859. — Signori. — Oltre alle tante vittime, che si offrono in olocausto alla Gran Causa della Indipendenza d'Italia, rattrista l'animo il riflettere che a migliaia giacciono infermi, feriti, e mutilati in tutti gli ospedali di Torino, Milano e delle principali Città in quei Regi Stati.

«La carità dei Cittadini e delle Signore in particolare, coi suoi prodigi ha supplito al bisogno col provvedere bende, filacci e cose di siimi genere. Oggi quegli ospedali mancano affatto di qualche ristoro che quelle contrade non possono offrire, e pel quale il comitato delle Signore a Torino s'è qui rivolto. Aranci e limoni domandano tanti infelici che il ferro e la polvere nemica ha condannato agli spasimi di acerbi dolori!

Il sottoscritto si affretta a fare appello alla carità di distinti citta dini, oude concorrere colle loro offerte a tanta opera pia e filantropica.

Le casse agrumi potranno rimettersi in questo Regio Consolato, ed il sottoscritto ne curerà la spedizione al Comitato suddetto, franche di nolo. — Il Console di Sardegna — Francesco Leila Siffredi».

(2) Il di 14 novembre 1859 il Mazzini scriveva ai Giovani d'Italia. — «Sorgete, come le tempeste dei vostri cieli, tremendi e rapidi! Sorgete, come le fiamme dei vostri vulcani, irresistibili, ardenti! Fate armi delle vostre ronche, delle vostre croci, d'ogni cosa che ha ferro! Sfidate la morte e la morte vi sfuggirà. Abbiate un momento di vita volente, potente, Italiana davvero, come Dio la creò; e la Patria è vostra r. (, Scritti editi ed inediti, vol. xi, pag. 115; Roma, mdccclxxxii

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Egli, arditamente, visita le città principali e lega le sorti della Sicilia a quelle dell'Italia (1). Doveva insorgersi, con a capo Palermo, il dì 4 ottobre, ma i propositi vengon meno. Il pugnale attenta la vita al Maniscalco, e invano si cerca il colpevole. Nè l'esempio rimane solo, che in varie città dell'Isola vengono feriti di pugnale alti funzionarj della Magistratura e di altri ordini civili. Seguono in Palermo tumulti dignitosi il di 9 ottobre: il Governo, pauroso, disarma i cittadini, ed estende il disarmo nelle province. La quiete si crede aver fatto ritorno: le rappresentanze comunali chiedono perdono alla maestà regia: questo istinto seguon pure uomini creduti poi di parte liberale: il re c il Governo ne son paghi; e il trattato di Zurigo, che raffermava i preliminari della pace di Villafranca, poteva acchetare i più esposti alle turbolenze. Acchetare coloro che non avevano dato ascolto alle proteste solenni di Giuseppe Mazzini, che dal luglio 1859, firmata la pace a Villafranca, aveva detto: «Separandosi dai pochi faccendieri condannati dalla natura a servire e tradire, gli uomini che hanno tentato redimere per via diversa l'Italia, si stringano insieme a noi, intorno alla bandiera dell'Unità Nazionale, e l'agitino sugli occhi del popolo, con una parola energica di fede in esso, e nei fati della patria comune: saranno seguiti. Chiamino il popolo all'armi, e lo guidino alle caserme dei volontari, delle milizie italiane, col grido: Salvate V onore dell'Italia con noi. Ripetano ' i volontari quel grido ai capi delle loro colonne. Non sono essi quei capi, Garibaldi, Mezzacapo, Rosselli, Ribotti, Medici, Cosenz e gli altri, gli uomini che salvarono, dieci anni ad) dietro, l'onore d'Italia in Roma e Venezia? Non rifiuteranno forse di salvarlo in oggi» (2). Ma né Villafranca né Zurigo gittarono nell'apatia gli italiani, e un dì la Nazione si scosse

I dalla regione piemontese alla sicula. Lo stesso re, che Napoleone credeva dovesse sottostare al di lui comando, rinnovando le conquiste e la spartizione de'  dominj del primo impero, lesse, commosso, quanto Giuseppe Mazzini scrivevagli da Firenze, il di 20 settembre. E quelle parole, udite da un re, furono auspicio della unità, che, veduta troncare da Napoleone, aveva perfino mosso a sdegno il generale De Luzy, che firmata la pace di Villafranca, vergognato e indispettito, rimandò la spada all'imperatore. Il Mazzini così incitava Vittorio Emanuele: «Dimenticate per poco il re, per non essere che il primo cittadino, il primo apostolo armato della Nazione.

(1) Diario di Francesco Crispi; vedi Scritti, ediz. citata.

(2) Mazzini, Scritti, voi x, pag. 338; ediz. citata.

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Siate grande come l'intento che Dio vi ha posto davanti, sublime come il Dovere, audace come la Fede. Vogliate e ditelo. Avrete tutti, e noi primi, con Voi. Movete innanzi, senza guardare a dritta o a manca, in nome dell'eterna Giustizia, in nome dell'eterno Diritto, alla santa Crociata d'Italia. E vincerete con essa. — E allora Sire, quando di mezzo il plauso d'Europa, all'ebrezza riconoscente dei vostri, e lieto della lietezza dei milioni, e beato della coscienza d'aver compita un'opera degna di Dio, chiederete alla Nazione quale posto ella assegni a chi pose vita e trono perch'essa fosse Libera ed Una, sia che vogliate trapassare ad eterna fama tra i posteri col nome di Preside a vita della Repubblica Italiana, sia che il pensiero regio dinastico trovi pur luogo nell'anima vostra, Dio e la Nazione vi benedicano! — Io, repubblicano, e presto a tornare a morire in esilio per serbare intatta fino al sepolcro la fede della mia giovinezza, sclamerò non di meno coi miei fratelli di Patria: Preside o Re, Dio benedica a Voi, come alla Nazione per la quale osaste e vinceste «(1).

DOCUMENTI.

I.

Dalla Relazione intorno l'esercizio delle Strade Ferrate delle reti Mediterranea, Adriatica e Sicula dal 1° luglio 1885 al 1900, Parte 1a, volume 1a, pp. xv; Roma, Tipografia dell'Unione Cooperativa Editrice, 1901.

N° d'ordine STATI DATA d'apertura TRONCO APERTO Lunghezza in Km.
1 Regno delle Due Sicilie 4 ottobre 1839 Napoli-Portici 8
2 Regno Lombardo-Veneto 18 agosto 1840 Milano-Monza 13
3 Granducato di Toscana 14 marzo 1844 Pisa-Livorno 19
4 Ducato di Lucca 20 seta 18(6 Lucca-Cerasomma (Conf. terso Pisa) 7
5 Stati Sardi 21 settem. 1848 Torino-Moncalieri 8
6 Stato Pontificio 12 ottobre 1857 Roma-Frascati 20
7 Ducato di Modena 21 Mio 1859 Piacenza-Bologna (Porte) 50
8 Ducato di Parma 21 luglio 1859 Idem 66

(1) Mazzini, Scritti, vol. x, pagg. 406-407; ediz. citata.

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Alla fine del 1860, e cioè ventun anno dopo l'apertura della prima linea, in tutta Italia si contavano soltanto 2189 chilometri aperti all'esercizio, corrispondenti ad uno sviluppo medio complessivo di appena 104 chilometri all'anno. (Vedi Relazione cit. pag. 15.

»»»»»»

INDICAZIONE DEGLI EX-STATI FERROVIE

IN ESERCIZIO

Stati Sardi chilometri 850
Regno Lombardo-Veneto 607
Granducato di Toscana 323
Stato Pontificio 132
Stati Borbonici 128
Ducato di Parma  99
Ducato di Modena  50
II.

Brano d'una relazione di un Ispettore di Polizia, datata Messina, 27 giugno 1859.

…............................................................................................................................

» La sera del 31 detto, mentre in questa Chiesa Cattedrale facevansi l'esequie del Be Ferdinando II, una esplosione di polvere compressa in carta con spago ivi dentro s'intese, che messe in iscompiglio tutta la gente che colà si trovava. La polizia neanche di ciò fece carico. Tali trascuratezze portarono seco un altro atto più assai importante quale fa quello della riferita dimostrazione, eseguita con tutte le maggiori forme rivoluzionali, gridandosi — Viva l'Italia — Viva la Francia — Viva la rigenerazione — Viva Vittorio Emmanuele — Viva Napoleone — Viva la libertà — Viva la Costituzione, e gettando su le lance Piemontesi che disbarcavano gli uffiziali ed il Comodòro di essa nazione, dei mazzi di fiori ligati con nastri verdi, bianchi e rossi. Fiori che sin dalla mattina si eran cercati per tutti i giardini, e nastri, che presso ogni mercante si eran comprati. A tale dimostrazione furon presenti il Commessario di Polizia, e gl'Ispettori Patinella e Cardosi; l'Ispettore Grillo trovavasi di guardia al Commessariato: e come costoro non ebbero l'accorgimento di prevenire tale importantissimo caso, non seppero nemmeno far modo di ripararlo, né di reprimerlo dopo avvenuto, ma solo non fecero che dire — Basta, Signori miei, ora, basta. — Ed alla tracotanza usatasi dai rivoltosi, di avere offerto ad essi tre funzionari i mentovati fiori, nulla benanche seppero a tale insulto rispondere, mentre, sendo succeduto l'avvenimento nella marina, innanzi il palazzo Comunale, ove stavvi una Gran Guardia di ottanta, soldati potevano con questi, ed anche con minor numero, rimediare ad ogni cosa; dappoiché se potessero scusarsi dicendo che delle preparative della mattina non furono resi scienti,

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lo che non è credibile, mentre tutto il paese conosceva ciò che dovea eseguirsi, non potranno però legittimarsi del fatto del dopo pranzo, poiché l'assembramento di tanto popolo, e lo bisbiglio sospettoso che si udiva doveva certo farli mettere in grande attenzione, anzi doveva farli energicamente operare, e non già starsene quivi come semplici curiosi.

Dopo tanti disonorevoli accaduti si sono eseguiti degli arresti, ma, per quanto pubblicamente se ne dice, non si sono ghermiti quelli che veramente si dovrebbero, tranne di alcuno. I veri tristi ed i capi di essi passeggiano pel paese, e se l'È. V. vorrà degnarsi averne il notamento, siamo noi pronti a servirla, mentre siamo occupati a raccoglierlo.

Ministero Luogotenenziale, Grazia e Giustizia, anno 1856.

Tratti dall'rcfa'  uio di Stato di Palermo, Ministero Luogotenenziale, anni 18511856.

CAPITOLO SESTO.

La Corte e il Governo di Napoli — La Sicilia nella fine del 1859 — Richieste sulle concessioni di rimpatrio — Il giudizio di Alberto Mario sulla Sicilia — Proclama a Siciliani e fermento nell'Isola — Atti del Governo — Gli scritti del Mazzini e lettere dello stesso a' Siciliani — Arresto in Palermo — Varj proclami — Agitazioni del Governo — Preliminari di congiure — Annessione al Piemonte dell'Emilia e della Toscana — Un proclama del popolo Siciliano — Una lettera del Crispi.

Da Crimea alla guerra contro l'Austria, combattuta in Lombardia, i popoli oppressi erano divenuti indomiti, perché oramai, insofferenti, miravano alla necessità di un mutamento politico. Chiudendosi l'anno 1859 i Siciliani cessando di sperare salvezza nel successore di Ferdinando, prestarono fede alla Casa di Savoia, inneggiando con inganno della polizia, il nome di Vittorio Emanuele perfino ne' teatri. A lui si volgevano, a lui creduto amante d'Italia e della libertà, alla quale si era consacrato su' campi di battaglia. Sicché sul finire dell'anno 1859 e nel principio del novello la congiura non si ritenne a'  misteri segreti, ma alle aperte manifestazioni, alle promesse esplicite di operare. Il Governo, non potendo più frenare la chiarezza delle opinioni, né distogliere i congiuratori dalle avversità, raddoppiava le soldatesche, accresceva i timori colle inquisizioni e cogli arresti: mezzi stolti che riuscivano già inefficaci.

La Corte e il Governo, dalla morte di Ferdinando II, non vagavano che nelle incertezze. Mancava chi bene potesse attendere a'  maneggi dello Stato, sì che la fiacchezza interna, più tardi si rifletteva nei rappresentanti diplomatici, la cui parola non sapeva più legittimare gli atti di governo presso le grandi potenze. In Capodimonte, il di 2 giugno, al Ministero erano stati sostituiti il Murena, addetto a'  lavori publici, lo Scorza alla Grazia e Giustizia, il Bianchini alla Polizia, chiamando il Manderini, il Gallotti e il Casella. E a questi nomi non troppo noti per valentia di governo, si aggiungevano gli altri di Carlo Filangieri Duca di Taormina, del Principe del Cassero e del Duca di Serracapriola, con nomina di Consiglieri di Stato.

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Però questo mutamento non cementava la monarchia, perché i nuovi ministri e consiglieri intendevano mantenere la rigidezza passata, letiziando il giovine e inesperto monarca sulla sicurezza, che apprestavano la eccellenza delle leggi e la forza delle armi. E peggio la corte fu tratta in rovina da'  tentennamenti del Filangieri; il quale, vagheggiando un potere senza limiti, avendo in animo di rinnovare le geste compiute in Sicilia, di tenere impero assoluto, mal sopportando il dividere i suoi cogli altrui consigli, dapprima respinse l'incarico, indi, alle insistenze reiterate del re, lo accolse. Ed accettandolo, in que' momenti pericolosi, non islegò il reame dagl'impacci, renitente nel manifestare la necessità di sodisfare i bisogni de'  popoli, che avevano dellrio delle nuove istituzioni civili e della libertà, non potute conquistare da più che sessantanni, conquise con fiume di sangue da'  Borboni.

Di colpe maggiori si aggrava la memoria del Filangieri, pensando ch'egli, dopo le manifestazioni focose popolari, che inneggiavano alla Francia e all'Italia per la vittoria di Magenta, chiamato il di 9 giugno dal re, per consiglio di due congiunti, il conte di Siracusa e il conte d'Aquila, invece del Troya, alla presidenza del Governo e a reggere il dicastero della guerra, coadiuvato da'  direttori De Liquore alle Finanze, del Resica all'Interno, dell'Aiossa a'  Lavori pubblici e dal Cumbo al Ministero degli affari di Sicilia, sempre perplesso, non tracciò che le linee del passato, non edificando, ma volgendo tutto a precipizio; disdegnoso anche lui della proposta presentata dal conte Salmona, a nome del re degli Stati subalpini, di congiungere in alleanza i due regni, costituendoli forti, perché ferverosi de'  nuovi ordini e di gloria.

Nel novembre la Corte, chiusi i termini assegnati per il lutto, faceva ritorno in Napoli, e il di 27 il re udiva le acclamazioni festose e briache delle plebi, che levarono strepitose le voci fino alla sera, mostratosi Francesco II al teatro San Carlo. Nell'assenza del re dalla capitale non era mancata gravezza di fatti, come indizio dell'avvenire. Governando il Filangieri era avvenuta, senza punto potersi frenare, la ribellione de'  reggimenti svizzeri, e le corruttele e i contrasti sanguinosi invalsi obligarono allo scioglimento, che si ritenne macchinato, con poca lealtà di opere, dal Nunziante e dal Filangieri. Gli ufiziali, accesi i loro petti da sentimenti liberi e nazionali, poco zelanti si mostrano alla fede della bandiera.

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Il principe di Ottaiano e l'Ischitella avevano, dopo Villafranca, riveriti in Lombardia Napoleone e Vittorio Emanuele, dicendo d'indurre il loro re ad inaugurare un governo libero. Le rimostranze si erano congiunte alle dimostrazioni; sicché gli entusiasmi si recavano aperti sì in Sicilia che nel Napoletano.

Il re, volendo ingraziarsi i sudditi, chiudendosi l'anno, domandava nota de' sudditi di Sicilia, a'  quali era stato concesso di rimpatriare. E mentre, con ischiettezza di parole, il colonnello Severino, segretario del re, sollecitava al Cumbo, ministro della regione siciliana in Napoli, le disposizioni sovrane, partecipato il desiderio al Ministro luogotenente in Palermo, il Maniscalco, Direttore della polizia, alterando i sensi della richiesta, arbitro delle fortune e delle sorti de'  cittadini, rispondeva presentando la lista de'  fuorusciti, e su ciascun nome il suo parere, più o meno odioso (1).

Varie, frattanto, erano le opinioni de'  lontani dallo Stato meridionale, e già da Lugano, nel luglio, Alberto Mario aveva rivolto nel foglio Pensiero ed Azione, detti assai acri a'  popoli meridionali, credendo tenersi eglino inerti per concorrere ad affrancare l'Italia da qualsiasi tirannia. Diceva con parola severa, quasi retorica, o togata: «Come? voi o Italiani delle due Sicilie, che foste benedetti di tanto sorriso di cielo e di tanta luce d'ingegno, voi che deste all'Italia le vittime più venerate e più numerose per la sua redenzione, e più chiari insegnamenti di virtù civile, il primo esempio di lotte nazionali e di vittorie, oggi che si tratta di cogliere il frutto di quanto nella maggior parte voi avete seminato, vi starete spettatori, mentre in Lombardia si versa anche per voi sangue italiano? Se dai sepolcri scavati di sotto ai patiboli uscissero le ombre sante dei Galiani, dei Vitaliani e de De Deo, di Ettore Caraffa, di Manthoné, di Mario Pagano, di Eleonora Pimentel, di Bentivegna, di Pisacane, di Agesilao Milano e d'altri mille, a riconoscere l'osservanza delle promesse che eglino morendo facevano all'Italia in nome vostro, non le vedreste riaffrettarsi dolenti e sdegnose agli eterni silenzi di sotterra? Dunque il passato ed il presente della nostra patria non hanno virtù che basti a strapparvi da tale inerzia colpevole? Guai per voi e per l'Italia se, cessata questa lotta, il telegrafo ridirà all'Europa; Napoli è tranquilla — Palermo è tranquilla! Su di voi più che su gli altri Italiani pesa una responsabilità grandissima, poiché non solo aiuto voi potete dare ai combattenti, ma apportare salute all'Italia.

(1) Vedi Documenti, I.

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Gli eventi e la fortuna vi chiusero la via a mediocre stato: voi dovrete scegliere tra la gloria e l'infamia» (1).

Siffatte querimonie non erano una rivelazione sincera e da qualche tempo è bastato l'avere avuto notizia della corrispondenza segreta per giustificare il contegno de'  Siciliani. Eglino nell'interno, in mezzo a forze numerose, cospiravano con disprezzo della vita e della dinastia, non più tenendosi lungi dalla grande cospirazione, che accendeva i popoli italiani alla redenzione. Ma essi non potevano facilmente insorgere senza i preparamenti necessarj, e senza che, come avvenne nell'anno susseguente, altre forze, guidate da un capitano, non avessero coadiuvate le popolari, sparse, dappertutto, nell'Isola, strette a un patto. Ricordando i tentativi insurrezionali dal 1850 al 1860, non diremo che il decennio trascorse negli ozj, e, ponendo anche da parte i fatti d'arme, basterà recarci convincimento l'opera intellettuale e il mutarsi della moralità publica. L'idea italiana aveva conquistato le alte intelligenze, e queste, di fuori, rischiaravano con nuova luce le tenebre della politica e della vita siciliana. Dal Garzilli al Bentivegna e allo Spinuzza le vecchie teorie costituzionali erano cadute, e l'ultimo grido uscito dalle loro bocche, resi esanimi i corpi da'  carnefici, fu quello d'Italia. Non inerte l'ingegno, né l'opera; risoluti i pochi, che stavano a capo la cospirazione; perplesso quel volgo, che si scalmanava per fini venali; titubanti le plebi, che avevano avuto l'esempio funesto della reazione, e che, ritornando a signoreggiare i Borboni, erano state spettatrici di vivere esecrando.

In Sicilia nel gennaro del 1860, con lungo proclama, s'invitavano i cittadini ad insorgere, e ogni desiderio si volgeva alla unione politica con Vittorio Emanuele; esprimendo in esso que' sensi d'italianità, che non potrebbero far credere volersi allora i Siciliani rimanere nella inerzia e ripudiare le sorti comuni (2).

Gli animi si scaldavano al sentimento di unità, e ben lo attestavano i ragguagli, che, dalla capitale dell'Isola, correvano a Napoli; da'  quali, più che trasparire, è messa in chiaro la condizione poco lusinghiera de'  comunelli e delle città in prò della causa regnando (3). Inoltre gli scritti del Mazzini, disponevano, in que' momenti difficili, molti a seguirlo nella fede politica. Troppo interesse destarono allora il Delenda Carthago,  L'Italia e Roma, Ha chi vuole, publicati nel Pensiero e Azione

(1) Scritti Politici di Alberto Mario, pagine 45; Bologna, Zanichelli, 1901.

(2)Vedi Documenti, II.

(3)Vedi Documenti, III, IV, V, VI.

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i di 13 gennaro, 3 e 17 febbraro (1); in cui la questione, alta, politica, la unità della nazione era anteposta agli affanni casalinghi, che mettevano tutto sossopra per le annessioni delle province, già rese libere; vilipendendosi i trattati di Villafranca e di Zurigo, che avevano strozzato l'idea nazionale, lasciato diviso il popolo con nuovi limiti geografici, non sodisfatti i desiderj universali.

Con animo deliberato il Mazzini, contro le mene dinastiche e le propagande della Società nazionale, dichiarava la questione diplomatica in una lettera a'  Siciliani del 2 marzo 1860, la quale avrebbe potuto essere di grande incitamento a non predisporre il popolo meridionale ad aggiogarsi ad una politica d'interessi, di estensione, di territorio. Egli esorta in essa i Siciliani ad insorgere; ma, esortandoli alla rivoluzione, in prò dell'unità e della monarchia rappresentata da Vittorio Emanuele, non si astiene di far noti i pericoli e gli errori da venire, se sopraffatti dalle astuzie diplomatiche (2).

Con dicitura quasi simile allo scritto del Mario, ma scorrettissimo, un attentato turpe alle forme italiche, da Torino, li 11 marzo, sorse un proclama al popolo siciliano, in cui gli erano attribuite colpe non meritate d'indugio a una sollevazione, che potevano definirsi ripetizioni vaghe delle sfuriate declamatorie del 1848 (3).

(1) Scritti editi ed inediti, vol. XI, pagg. 116145; Roma per cura degli editori, 1882.

(2) Vedi Documenti, VII.

(3) Proclama al Popolo Siciliano, datato Torino, li 11 marzo 1860.

I lumi del secolo, i presagimenti del tempo, il sangue dei Martiri, i fatti del giorno forse non hanno su di voi l'impero? la disattenzione e la imbecilità dell'anima, che riscalda inutilmente il petto, non sono che di scandalo e d'impudenza a noi: — Figli pure voi d'Italia, perché ancora da inerti??? scuotervi! non più insonnia! annientate con lira dei vostri sguardi l'empietà dei vili! siate di braccio e di baldanza all'uopo! poiché il fatto è onninamente già per noi infallito. Nulla volgono i soprusi, gli arresti, le torture su questa terra infernalmente emesse, poiché il colpo sarà tremendo, perché dal sommo Iddio con terrorismo è dato è il Maniscalco, i tirrannelli, i venduti, gli apostati, la birraglia e i coverti simolanti Ortodossi, che blasfeman l'Ente, se non si ritiran presto, piomberanno in vii massacro. Se gli stessi caderanno da rinsaviti e tutti in un le armi, ed il sentire avverso, l'ira dei cieli ne sarà all'ormai scemata, ed il Popolo perché uniforme al progredimento generoso e bello, li perdonerà nella grande infamia e nequitade orrenda, salvando loro la vita, ma, se col no essi risponderanno al destro per eroismo grande; peggio per loro!!... al primo tocco del sacro bronzo il giuramento seguirà; l'aitar di Dio rimarrà adorato; il Cristo compirà di sue promesse il fatto — e col novello Vespro il sangue degli empii inconvertiti senza riserva e senza più un perdono ne sarà disperso!!! Fratelli udite quali sono i fatti di questo di tremendo? coraggio or quindi! coraggio, unità e fierezza, poiché l'amor dell'Italia, che il guerriero regge, anco tra noi è vivamente caldo — e là l'apogeo di settifdrme luce: tutti leggette: Libertà ovunque!!!

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Erano poi un controsenso, ricordando il programma messo in giro in Sicilia nel gennaro di quel medesimo anno. Maggiore forza di concetti e serietà di propositi conteneva il proclama di Giuseppe La Farina, inviato da Torino li 22 marzo alle soldatesche del Papa e del Borbone. E veramente in quegl'istanti non potevano né si dovevano aspettare i prodigi dalle sole popolazioni, ma da quelle soldatesche, che le tenevano oppresse. Il La Farina, presiedendo la Società nazionale, diceva: «1 vostri vili padroni vi tennero schiavi per mantenere nel servaggio i vostri fratelli, e vi dànno eccitamento contro di noi. È facile prevedere qual debba essere il risultato di questa guerra scellerata (da parte dei Borboni e del Papa); voi sarete battuti e disfatti, non perché vi manchi il coraggio o l'istruzione; ma perché la libera Italia non ha che a stendere una mano per abbattere i troni mal basati del Borbone e del Papa; perché noi combattiamo per la patria che amiamo; e voi cambattete per padroni che aborrite e sprezzate; perché voi sarete comandati dal figlio di Ferdinando II, nipote di Francesco I, e pronipote di Ferdinando I, progenie di vili che non valgono che a tradire od a fuggire; e noi invece saremo comandati da Vittorio Emanuele, il degno erede di cotanti eroiSoldati napoletani, mostrate che siete degna progenie di quella illustre razza di bravi che i Borboni han fatto morire sotto le forche o sul patibolo, o negli affanni dell'esilio... Soldati romani mostrate che non siete indegni dell'antico stipite. Italia e Vittorio Emanuele è il nostro grido: levatelo con noi e l'Italia sarà!» (1).

Frattanto gli uomini di governo in Sicilia esercitavano violenze, cagionate da'  timori d'una prossima riscossa. Il di 5 marzo il luogotenente Paolo Castelcicala mette in carcere alcuni cittadini, credendo cosi potere assicurare che la cattura di una parte di essi servirà d'utile ammaestramento agli altri. E mentre, dappertutto, si sprigionavano gli spiriti a congiure, a libere aspirazioni, al sentimento patrio, al concetto nazionale, egli, quasi lieto, faceva credere soffogate le ostilità, diminuite le agitazioni calorose, attentatrici della sicurezza dello Stato. Però il contradire degli atti attesta la imperizia politica: la energia vana il decadimento delle forze, che non giungevano più a tutelare la dinastia (2).

(1) Il proclama né a frammenti né per intero fu riprodotto da Ausonio Franchi, che curò in due volumi la edizione degli Scritti Politici (Milano, Silvi, 1870). Si legge, e, costretti, ce ne avvalghiamo! nel libro

Il 33: Crispi Palladista, Uomo di Stato smascherato, pagg. 102103; Parigi, Librairie Antimaonnique A Pierret, Editeur, 1897

(2) Vedi Documenti, VIII.

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La quale niun vantaggio avrebbe potuto ottenere, se pure, essendo dalle resistenze posto un argine al passato, avesse saputo mantenere le promesse secondo i desiderj popolari consentiti da'  fattori della nuova civiltà. Dopo le battaglie combattute contro l'Austria, i risultati vittoriosi avevano infiammato troppo gli animi, ed anche esaltate le menti, che, correndo dagli ordini assoluti a'  rappresentativi, credevano potersi mettere tutto sossopra, conquistando i tesori delle vaste Californie: credenza, che s'ingenerò troppo nella parte sbrigliata a ogni cupidigia, mossa più da interesse che da amor patrio.

Al volere popolare unitosi pure quello della diplomazia, formalmente fu accettata l'annessione delle province, che avevano dichiarato di far parte del regno costituzionale di Vittorio Emanuele. Tornato il conte di Cavour al Ministero, dopo avere reso manifesto che il Piemonte avrebbe rivolta ogni mira all'unificazione, il re, con decreto del dì 18 marzo 1860, sanzionava l'annessione dell'Emilia, e il dì 22 quella della Toscana. Annuiva all'annessione Napoleone III; ma dopo la stipula di un trattato, che segregando la Savoja e il territorio di Nizza dagli Stati subalpini, congiungeva le due province alla Francia!

Cotali vicende accrescevano in Sicilia i desiderj di unione alla Casa di Savoja; e ciò era con franchezza di parola espresso nel proclama H Popolo agli Agenti della Polizia di Sicilia (1), compilato in Palermo, in cui anzi che le minacce sanguinose, erano ottimi suggerimenti, l'esortazione a conciliare i loro animi colla causa italiana. Il Governo scadeva dalla sua autorità di giorno in giorno: il popolo non attendeva, impaziente, che la prossima ora del riscatto. Corrotte le truppe: attendevano quasi forzosamente a'  loro doveri: il giuramento non era più un vincolo, ché i campi di Lombardia erano intrisi di sangue italiano, e lo straniero dominava ancora nelle terre italiane! Discordia era ne' funzionarj dello Stato, e i minori di grado si affrettavano a denunziare i supremi (2): il dissolvimento e le ostilità erano universali.

(1) Vedi Documenti, IX.

(2) Da Messina, il di 29 marzo,. Commissario di Polizia, volendo severamente obbedire al Maniscalco, offendeva il procedere dell'Intendente Marchese Artale, che poco inclinava a perseverare nel passato. Scrive nella fine di una relazione al Direttore della Polizia: «Ieri sera per un inusitato concorso vedeasi in Teatro ed eravi preparativi per una dimostrazione. Pria dello spettacolo ne avvertiva questo signor Intendente, a cui annunziava che al suo giungere dovea gridarsi l'evviva con battere le mani in di lui favore, cosa che credè riparare avvertendone i suoi amici per non comprometterlo.

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Queste le condizioni della Sicilia fino al cadere del marzo 1860!

Però il Comitato in Palermo, concorde con gli altri di Sicilia, stabiliva s'insorgesse, ma non determinava il giorno della insurrezione. Molti i preparativi nel marzo, moltissime le rèmore, e sempre in contrasto a'  capi il popolano Francese Riso; il quale, sebbene non avesse avuta notizia della lettera del di 30 marzo che Francesco Crispi spediva con premura e con grave pericolo a Giacomo Agresta in Messina, pure ricordava quanto Francesco Campo, Siciliano, da Genova, aveva scritto a lui e' a Giuseppe Bruno Giordano: «Non più reticenze! Insorgete. La madre comune è pronta ad aiutare i suoi figli lontani, con armi, uomini e denari». Parole concordi alle ultime del Crispi (1): Ogni giorno che passa inerte è un danno per noi, un vantaggio per i nostri nemici».

DOCUMENTI

I.

Il Direttore della Polizia Salvatore Maniscalco al Comm. Paolo Cumbo Ministro Segretario di Stato per gli Affari di Sicilia in Napoli.

Il Luogotenente Generale, in nome di S. M. il Re S. N., mi ordinava jer l'altro di compilare uno stato degli emigrati che non hanno ancora supplicato di redire in patria, colle mie osservazioni su quelli ai quali si potrebbe far grazia. Lo stato è stato compito e trasmesso al Segretario Generale che deve sommetterlo direttamente a Sua Maestà.

Adempio al debito di rassegnare un esemplare identico a V. E. per la debita sua intelligenza. V. E. troverà che io ho largheggiato alquanto

Io intanto mi premunii con una imponente pattuglia di milizia e guardie di Polizia, alla cui testa vi destinai l'Ispettore Orlando, collocandolo immobile d'innanzi il portico del Teatro. Alzatasi la tela incominciarono i forti clamori di evviva, ed all'apparire della prima donna con abito a tricolore una pioggia di fiori e ghirlande ne furono dirette. — Recatomi al palco del Marchese per questo scandalo, mi rispose che niente potea disporre, perché erano i tempi che le esigevano, e neanco potei ottenere d'impedirsi per questa sera. — Iddio mi assista per darmi forza di potere alla meglio riparare la tempesta». [Archivio di Staio di Palermo; Ministero Luogotenenziale, anno 1860).

(1) Vedi Documenti, X.

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e che certi nomi lascino a pensare. Ma dovendo subire una necessità politica bisogna francamente entrare nell'amnistia per non attenuarne la portata. Pochi ho creduto escludere e quelli che notoriamente si sa che cospirano allo straniero.

La saviezza di V. E. saprà rettificare i miei errori.

Pieno di grato e devoto ossequio mi onoro raffermarmi.

Palermo 11 del 1860.

Umiliss. dev. obbl. servo

Salvatore Maniscalco.

II.

Al Ministro Segretario di Stato per gli affari di Sicilia in Napoli.

Napoli 30 dicembre 1859. — Eccellenza. — S. M. il Re S. N. mi ha imposto di chiedere all'E. V. un esatto elenco de nomi di regii sudditi Siciliani, che da giugno a questa parte ànno avuto permesso di rimpatriare.

Voglia adunque V. E. compiacersi inviarmelo al più presto, specificando in esso le date delle concessioni.

Ho l'onore ripeterle in questo opportuno riscontro gli attestati dell'alta mia considerazione. Dell'Eccellenza Vostra

Dev. mo Agostino Severino.

Elenco dei Regi sudditi Siciliani che da giugno a questa parte ànno avuto il permesso di rimpatriare con la data delle concessioni, giusta il Sovrano comando contenuto nella lettera del Sig. Commendator Severino di oggi stesso 30 Dicembre 1859.

Oltre di quelli emigrati compresi e nominati nel primo articolo del Magnanimo Atto Sovrano de'  15 giugno, di cui per maggior servizio di S. M. il Re, N. S. (D. G. ) si trasmette, qua in seno, la copia in istampa, hanno dimandato ed ottenuto il permesso del rimpatrio, in forza del secondo articolo di esso Decreto, i seguenti Regi sudditi Siciliani:

1° Santoro Giovanni, di Palermo — Mercé il Reale Rescritto dei 2 ottobre 1859.

2° Cracolici Giuseppe, idem — Mercé il Reale Rescritto dei 12 ottobre 1859.

3° Mangiaruva Andrea, idem — Mercé il Real Rescritto dei 15 ottobre 1869.

4° Li Mandri Francesco, idem — Mercé il Sovrano Rescritto dei 24 ottobre 1859.

Scalia D. Ercole, di Palermo — Mercé il Sovrano Rescritto dei 5 dicembre 1859.

6 Ricci Gramitto Antonino, di Girgenti — Mercé il Sovrano Rescritto dei 12 dicembre 1859.

7° Galtabiano Domenico, di Catania — Mercé il Sovrano Rescritto dei 26 dicembre 1859.

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N. B. Sono sotto istruzione altre tre domande trasmesse dal Ministro degli Affari Esteri.

Questo elenco fu rimesso, con lettera autografa di S. E. il Ministro, al Signor Commendator Severino in risposta alla di lui lettera dei 30 dicembre.

La risposta fu data la stessa sera dei 30.

Elenco degli emigrati che non hanno domandato grazia pel rimpatrio, e che tuttora trovansi all'estero.

1. Amari Michele, Palermo. Si potrebbe graziare.

2. Amari Conte Michele, Palermo. Idem.

3. Amari Emerico, Palermo. Idem.

4. Anselmo Giuseppe, Palermo. Idem.

5. Anselmo Rosario, Palermo. Idem.

6. Agnetta Giuseppe, Palermo. Idem.

7. Ardizzone Carmelo, Catania. Idem.

8. Balsamo Tommaso, Palermo. Idem.

9. Beltrami Giuseppe, Palermo. Idem.

10. Bruno Martino, Palermo. Uomo pericoloso, non merita grazia.

11. Badia Pasquale, Palermo. Idem.

12. Borgia Giuseppe, Piana dei Greci. Idem.

13. Brigandi Alessandro, Palermo. Idem.

14. Beltrami Giuseppe, Palermo. Si potrebbe graziare.

15. Bertolami Vito, Novara. Idem.

16. Branciforti Michele, Palermo. Idem.

17. Bonsignore Pre. Vincenzo, Castelvetrano. Uomo pericoloso, non merita grazia.

18. Benigno Giuseppe, Belmonte. Idem.

19. Barbuzza Giuseppe, Palermo. Idem.

20. Bagnasco Antonio, Palermo. Idem.

21. CoIona Rosario, Palermo Si potrebbe graziare.

22. Calvi Ignazio, Alcamo. Uomo assai pericoloso, non merita grazia.

23. Carini Giacinto, Palermo. Si potrebbe graziare.

24. Castiglia Benedetto, Palermo. Idem.

25. Castiglia Salvatore, Palermo. Idem.

26. Castiglia Giov. Batt., Palermo. Idem.

27. Corrao Giovanni, Palermo. Non merita grazia.

28. Cugino Marchese Milo, Palermo. Idem.

29. Chindemi Salvatore, Siracusa. Si potrebbe graziare.

30. Cammarata Scovazzo Francesco, Butera. Idem.

31. Cammarata Scovazzo Carmelo, Butera. Idem.

32. Ciaccio Francesco Paolo, Palermo. Non merita grazia.

33. Cordova Filippo, Aidone. Si potrebbe graziare.

34. Carmazza Gabrielo, Catania. Idem.

35. Crispi Genova Francesco, Ribera, Idem.

36. Candullo Giovanni, Catania. Idem.

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37. Caltabianco Domenico, Catania. Ha di già ottenuto la grazia.

38. De Luca Francesco, Girgenti. Si potrebbe graziare.

39. D'Ondes Giandom., Palermo. Idem.

40. Di Miceli Rosario, Palermo. Costui è ricercato nel Regno dopo di essere stato arrestato in Tunisi per ribalderie commesse in quella Reggenza.

41. Di Stefano Rosario, Palermo. Si potrebbe graziare.

42. De Marchis Andrea, Palermo. Uomo pericoloso, non merita grazia.

43. Fardella March. Torrearsa, Trapani. Idem.

44. Denaro Giuseppe, Palermo. Si potrebbe graziare.

45. D'Ondes Andrea, Palermo. Idem.

46. Fardella Enrico, Trapani. Uomo pericoloso, non merita grazia.

47. Fardella Giov. Battista, Trapani. Si potrebbe graziare.

48. Fuxa Vincenzo, Palermo. Non merita grazia.

49. Fr&ncica Bar. Pancamo Emmanuele, Siracusa. Uomo pericoloso, non merita grazia.

50. Gemelli Carlo, Messina. Idem.

51. Gioeni Francesco, Girgenti. Si potrebbe graziare.

52. Interdonato Giovanni, Messina. Idem.

53. Interdonato Pietro, Messina. Idem.

54. Interdonato Stefano, Messina. Idem.

55. Jacona Antonio, Palermo. Uomo pericoloso, non merita grazia.

56. La Masa Giuseppe, Trabia. Idem.

57. La Farina Giuseppe, Messina. Idem.

58. Medina Salvatore, Palermo. Idem.

59. Meli Enrico, Palermo. Si potrebbe graziare.

60. Miloro Antonio, Palermo. Uomo pericoloso, non merita grazia.

61. Marchetta Ottavio, Palermo. Si potrebbe graziare.

62. Miloro Giorgio, Palermo. Non merita grazia.

63. Micali Luigi, Messina. Idem.

64. Montalbano S. re Vincenzo, Montevago. Non merita grazia.

65. Marano Pietro, Catania. Si potrebbe graziare.

66. Mistretta Domenico, Salemi. Uomo pericoloso, non merita grazia.

67. Merenda Giuseppe, Palermo. Idem.

68 Nesci Giovanni, Messina. Si potrebbe graziare.

69. Onofrio Giuseppe, Messina. Non merita grazia.

70. Oddo Giuseppe, Palermo. Uomo pericoloso, non merita grazia.

71. Onofrio Rosario, Messina. Idem.

72. Orlando Salvatore, Messina. Uomo pericoloso, non merita grazia.

73. Orlando Luigi, Palermo. Idem.

74. Orlando Fran. Paolo, Palermo. Idem.

75. Orlando Giuseppe, Palermo. Idem.

76. Pizzuto Leopoldo, Palermo. Si potrebbe graziare.

77. Paternò Sessa Cav. Emmanuele, Palermo. Si ritiene che fosse morto in Malta.

78. Pilo Capaci Rosalino, Palermo. Uomo pericoloso, non merita grazia.

79. Parlato Sebastiano, Acireale. Si potrebbe graziare.

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80. Pisani Enrico, Palermo. Uomo pericoloso, non merita grazia.

81. Privitera Biagio, Catania. Si potrebbe graziare.

82. Perez Fran. Paolo, Palermo. Idem.

83. Paternò Sessa Giuseppe. Palermo. Idem.

84. Porcelli Giuseppe, Palermo. Idem.

85. Romei Gregorio, Mazzara. Si potrebbe graziare.

86. Raccuglia Antonino, Palermo. Idem.

87. Raeli Matteo, Noto. Idem.

88. Riccobono Vito, Palermo. Idem.

89. Santoro Giuseppe, Palermo. Uomo pericoloso, non merita grazia.

90. Ragona Sac. Vito, Partinico. Idem.

91. Santoro Giuseppe, Palermo. Idem.

92. Santoro Santi, Messina. Idem.

93. Santoro Francesco, Palermo. Idem.

94. Stabile Mariano, Palermo. Idem.

95. Stabile Francesco, Palermo. Si potrebbe graziare.

96. Settimo Cav. Ruggiero, Palermo. Costui personificò la rivoluzione del 1848. Conta circa 85 anni, e stando presso alla tomba si potrebbe fare redire in patria. Questa grazia esercitata sopra d'un uomo che acquistò una certa celebrità, e che è tenuto in istimazione dal Governo Inglese darebbe alla amnistia un pregio maggiore.

97. Sant'Antonio Salvatore, Messina. Uomo pericoloso, non merita grazia.

98. Scavazzo Luigi, Palermo. Si potrebbe graziare.

99. Saura Niccolò, Trapani. Idem.

100. Stassi Giuseppe, Piana dei Greci. Idem.

101. Tamajo Grass. Giorgio, Palermo. Uomo pericoloso, non merita grazia.

102. Venuto Sac. Luigi, Messina. Si potrebbe graziare.

103. Vollaro Giovanni, Girgenti. Idem.

104. Venturelli Benedetto, Palermo. Idem.

105. Valenza Giuseppe, Palermo. Uomo pericoloso, non merita grazia.

106. Vergara Giuseppe, Palermo. Idem.

107. Venturelli Francesco, PalermoSi potrebbe graziare.

108. Vicari Pre. Salvatore, Vicari. Uomo pericoloso, non merita grazia.

109. Zicchitella Gennaro, Palermo. Idem.

Palermo 10 gennaio 1860.

Il Direttore del Dipartimento di Polizia

Salvatore Maniscalco.

II.

Proclama ai Siciliani, datato gennaro 1860.

Siciliani. — L'ora suprema della ricostituzione d'Italia è suonata. Il congresso, la restaurazione dei duchi, il ritorno delle Komagne al papa, sono ormai cose impossibili. Napoleone III ha parlato «la logica dei fatti, ei disse, è inesorabile». E Walewski si ritira, e Cavour ritorna al potere, e l'Italia Centrale si prepara alle feste dell'annessione.

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Ogni cuore palpita di gioia santa e profonda nella certezza che i luogotenenti dell'Austria non contamineranno più della loro presenza queste belle contrade; e che gli Antonelli e tutta la genia dei carnefici porporati non opprimeranno più il popolo delle Romagne, seminando scandali e corruzione, apprestando torture, segrete, patiboli in nome di Dio, e di chi dovrebbe in terra rappresentarLo nell'amore, nella pace e nella libertà.

L'Italia dei fatti compiuti (che sventuratamente sono oggi necessari perché i dritti dell'umanità siano riconosciuti); l'Italia che non restò sorda al grido di guerra, e mandò in massa i suoi figli a combattere le battaglie di redenzione; l'Italia che, deposte le meschine pretensioni

municipali, segui francamente lo slancio dell'unità nazionale, questa Italia protetta dal suo valoroso Re progressista, camminerà dignitosa e potente nella via d'un brillante avvenire, e svolgerà ad utilità del suo popolo i principii d'una libera e sapiente amministrazione.

E noi, o Siciliani, che faremo noi? È doloroso il dirlo, ma la logica dei fatti è inesorabile! Noi che non rispondemmo all'appello della madre patria nei giorni delle battaglie, e che, desiderosi come tutti eravamo di prender parte alla lotta, ci lasciammo imporre dalla sorveglianza di pochi sbirri e piangemmo divisi e tremanti il pianto dell'impotenza. Noi che nelle dimostrazioni di Palestro, Magenta e Solferino, lasciammo in Palermo e in Messina insultare dalla sbirraglia i più bravi cittadini senza insorgere — ed il momento era opportuno! — vedemmo strascinare nelle luridi prigioni dei malfattori, patriot ti di nun'altro rei che di avere applaudito alle vittorie di Francia e d'Italia, e non si mosse un lamento, e non si levò un grido di sdegno che spaventasse gl'insolenti nemici. Noi che mancammo alla promessa di levarci in massa al primo segnale d'insurrezione, e lasciammo e lasciamo tuttora gavazzare nelle violenze e nel sangue di Satriano, i famosi sbirri e carnefici Maniscalco, Denaro, Puntillo, Carreca, Calabro che arrestano, torturano, immiseriscono le sventurate famiglie di Bagheria, di Yillabate e dei Colli. Noi che abbiamoassistito alle scene desolanti di donne e di bambini tratti per ostaggi in prigione; assistito alla penosa carcerazione, alle torture, ai processi, agli esilii, alla fuga di onesti cittadini, senza avere avuto per loro una parola di conforto. Noi che tolleriamo le violenze fino nel tempio del Signore, e mentre solenni riti si compiono. Noi che non insorgiamo in massa per salvare, se ancora n'è tempo, tanti infelici flagellati ed infranti nella ferocia di Maniscalco...  per salvare, se ancora n'è tempo, gl'innumerevoli prigionieri politici, ai quali dopo le torture d'ogni genere, son riservati i fulmini dei falsi processi compilati sotto l'influenza d'una polizia iniqua, e tollerati da una magistratura vigliacca che freme e trema ad un tempo: che deplora il male in segreto; ma che, per paura, si complice della bassa tirannide di Filangeri e Maniscalco. Noi che non alziamo un grido unanime di riprovazione contro un Pasciuta procurator generale che lungi dal tutelare le leggi, ne soffre, tacendo, la più aperta violazione; d'un Pasciuta sul cui capo ricadrà il sangue di Salvatore Licata e dei suoi sventurati compagni; d'un Pasciuta il cui nome passerà infamato alla storia, poiché la sua colpevole tolleranza lo ha condannato! Noi che lasciammo vivere tranquilli fin'oggi, ed insolentire, e farsi più ferocemente arditi coloro che assassinarono per ordine di Filangieri le vittime del 27 gennaro.

— 152 —

Che non rispondemmo all'appello dell'infelice Bentivegna, e lo vedemmo, silenziosi, trascinare al luogo del martirio, e non vendicammo finora l'illegale fucilazione di quell'ardito patriotta. Noi è doloroso il pensarlo! ma è una verità fatale!

Noi, o Siciliani,  assistemmo ancora lungo tempo allo spettacolo straziante d'un governo di corruzione, di sangue, se una Insurrezione rapida, generale, violenta, non rompa la barriera che ci separa dal Progresso Italiano, e non provi all'Europa che tra noi non sia desiderio sterile la Nazionalità d'Italia, ma potente aspirazione che vogliamo ad ogni costo attuare. I nostri tiranni ci calunniano dichiarandoci lieti, e contenti dell'attuale iniquo regime. Filangieri proclama altamente che a governarci non abbisognano che il bastone e la forca. Maniscalco c'imprigiona, ci tortura, c'insulta, e deride alla nostra pazienza come alla più bassa viltà! Insorgiamo adunque, e compiamo una gloriosa Rivoluzione!, se vogliamo che i fratelli d'Italia prestino fede alle nostre intendende nazionali, se vogliamo che i valorosi campioni delle libertà italiane rivolgano lo sguardo verso le nostre desolate contrade.

Siciliani, la Libertà non s'implora dalla carità altrui, ma si acquista con atti arditi e gravi sacrifizi. Guai all'uomo che confida nell'uomo! guai ad un popolo che confida in altro popolo!

Insorgiamo, e il Dio dei forti sarà con noi. Di presente non abbiamo Svizzeri da combattere; non intervento austriaco da temere, non partiti antiliberali da vincere. Voi lo sapete, tutte le classi in Sicilia, tutte l'aristocrazia e la pretesca incluse, odiano l'attuale regime, e lungi dall'opporsi, favoriranno il momento degli uomini arditi che vorranno affrontare ogni più grave pericolo per la salvezza della patria.

Noi non abbiamo che pochi sbirri da vincere, pochissimi direttori della sbirraglia da sperdere, e il nostro trionfo sarà assicurato; ed un fatto compiuto chiamerà anche noi a far parte della grande famiglia italiana e a godere delle istituzioni che un governo illuminato e liberale sa tutelare ai suoi popoli.

Insorgiamo, e forse Napoli ove l'armata già malcontenta è decimata dai consigli di guerra, si scuoterà al nostro grido di Resurrezione.

Oh! possa la nostra terra cancellare l'onta che sta scritta in fronte al popolo e al soldato d'una parte d'Italia, giacenti, senza stranieri che l'opprimono, in una schiavitù vergognosa!!!

Insorgiamo!... e nei giorni che precederanno la lotta, nei pochi giorni che forse ci dovran separare dal glorioso istante della pugna, imitiamo nel dignitoso contegno la nostra sorella di sventura, la cara ed infelice Venezia. Venezia patria eccelsa di magnanimi spiriti. Venezia che disarmata, e priva dei suoi figli più forti, fa argine della propria dignità, e della speranza d'un avvenire migliore, ai 50 mila austriaci che l'opprimono e la immiseriscono!

Bando alle feste! siano deserti i teatri, deserte le passeggiate pubbliche, contaminate dalla presenza degli sgherri del dispotismo! Siano maledetti e segnati a dito dalla pubblica riprovazione i pochi spensierati che convengono in luoghi di tripudio e di gioia, mentre migliaia di cittadini gemono nelle prigioni di stato, e le nostre popolazioni vivono sotto il flagello d'una efferata tirannia.

Siciliani! Il tempo della pazienza, della moderazione e della calma è passato. Oramai ci vuole ardire e non lagrime! Insorgiamo adunque come un sol uomo nel nome santo della Nazionalità Italiana, e la Provvidenza farà il resto.

Viva l'Italia! Viva Vittorio Emmanuele!

— 153 —

III.

Il luogotenente Gen. le Castelcicala a S. E. il Comm. Cumbo. Ministro Segretario di Stato p. gli affari di Sicilia.

Palermo, 21 gennaio 1860. — Eccellenza. — Coll'incalzar che fanno le sinistre novelle su d'una non lontana conflagrazione che minaccia la Italia, e col crescere le apprensioni per le incertezze dell'avvenire, lo spirito pubblico intristisce di giorno in giorno e pesa sugli animi in generale quella inquietudine ch'è d'ordinario foriera delle grandi commozioni.

Il paese sente profondamente l'influenza delle condizioni in cui trovasi l'Europa governata da una politica di espedienti e pigliano novella vita le più audaci ed insane speranze.

Siccome ebbi l'onore d'informare V. E. nell'ultimo mio rapporto sullo spirito pubblico, finora non è apparso alcun sintomo d'un insorgimento, ma dobbiamo aspettare una riscossa se la rivoluzione sotto gli auspici della Francia irrompesse nello Stato Pontificio dilatandosi alle frontiere del Reame.

Sanno gli agitatori quanto disuguale sarebbe la lotta se volessero misurarsi colle forze del R. Governo e si ristanno, ma sperano ne' moti di Italia, su Cavour, su Garibaldi, e su quella funesta pleiade di nomi che personificano da più anni la sovversiva idea unitaria.

Si dissemina la mala contentezza e l'avversione contro il R. Governo, e disgraziatamente queste inique pratiche trovano favore e simpatia anco ne' più schivi, i quali fanno buon viso alla propaganda per la tema di veder prevalere un giorno o un altro l'elemento rivoluzionario che li soverchierebbe se li trovasse indifferenti o retrivi.

E quindi le vagheggiate illusioni di cangiamenti d'istituzioni governativi vanno pigliando radici, e cresce la schiera di coloro che anelano fortemente le mutazioni di Stato.

Sono queste le condizioni dello spirito pubblico, ed i più vanno nella Sentenza che la rivoluzione morale è fatta e che non manca che un incidente per aversi quella materiale.

Il R. Governo veglia attentamente per impedire che divampi lo spirito rivoluzionario, e tiensi preparato per far testa agli avvenimenti che il vento dell'agitazione che soffia dal nord e dal centro della Italia potrebbe eccitare passando per queste contrade.

Tolgo a premura far ciò noto a V. E. per la debita sua intelligenza.

IV.

Il luogotenente Generale Castelcicala a S. E. il Comm. Cuuibo, Ministro Segretario di Stato per gli Affari di Sicilia.

Palermo, 16 febbraro 1860. — Eccellenza. — Rinvenutimi i rapporti delle Autorità di Polizia sullo spirito pubblico di questa parte dei Reali Domini, tolgo a premura qui appresso ragguagliarne partitamente Vostra Eccellenza.

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Distretto di Palermo. — Il Prefetto riferisce che " dopo di essersi da'  pubblici fogli divulgato l'aggiornamento indefinito del congresso di Parigi, quasi generalmente si crede svanita ogni speranza di potersi per le soie vie diplomatiche vedere aggiustate le collisioni attuali sugli affari d'Italia, e da ciò deriva una perplessità di animo, che come fa temere a'  buoni e pacifici la riproduzione di nuovi disordini, cosi lusinga i tristi di un avvenire, che seconderebbe i loro pravi disegni.

Ma che in tutto questo è un voto, o a dir meglio una fiducia pressoché universale, che la sapienza del Governo di S. M. il Re S. X. saprà, qualunque sia per essere lo sviluppo delle attuali divergenze, trovar modo di conciliare tutti gl'interessi e propugnar la nostra interna quiete. Ma che non puossi tacere che i tristi, cui piacerebbe di vederla compromessa, fanno sopratutto assegnamento sul maltalento che invade le infime classi per l'eccedente caro dei viveri, reso più intollerabile dai rigori dell'attuale stagione.

Distretto di Termini. — Scrive il Sotto Intendente che lo spirita pubblico è soddisfacentissimo e tutto procede colla massima regolarità.

Distretto di Cefalù. — Rapporta il Sotto Intendente, che si gode in tutto il distretto la maggior tranquillità, che si usa tutta la sorveglianza ed energia perché le allarmanti e mendaci notizie dell'Estero non generino disordini di sorta.

Distretto di Corleone. — Riferisce il Sotto Intendente, che v'è devozione ed attaccamento verso il Re D. G ed il suo R. Governo, apprezzandosi nel generale la quiete e l'ordine pubblico.

Provincia di Messina. — L'Intendente, discorrendo dello spìrito pubblico, dice: che nel corso del p. p. gennaio se non si mantenne nella stesso modo tranquillo, come lo era nel precedente dicembre, purtuttavia non presenta caratteri di perturbabilità di significante considerazione, ed il rispetto al Sovrano ed alle Autorità non ne venne per nulla menomato. Che i Cartelli, di cui diede contezza con apposito rapporto, furono un fenomeno che non ebbe alcun seguito, e potendosi considerare come l'opera d'un sólo, o di sparuti tristi non sono elementi capaci a far credere come mutati i sentimenti dell'universalità stabiliti per l'ordine.

E che a questo pensamento è di sostegno il concorso che si ebbe nella inaugurazione dell'Augusto Fondatore della dinastia felicemente regnante, nella quale circostanza ognuno prese parte al pubblico festeggiamento. Che però a fronte di questa manifestazione di calma sta la speranza di miglioramenti, fomentata dall'influenza degli eventi e dall'aspirazione dell'epoca, la quale mantiene sempre lo spirito pubblico oscillante, e se fermo nell'ordine e contrario alla rivolta per le conseguenze che ne derivano, pure cresciute nello scontento, e nel desiderio di un nuovo ordinamento.

Provincia di Catania. — Scrive l'Intendente che «lo spirito pubblico è nello Stato normale».

Provincia di Noto. — L'Intendente rapporta che si mantiene salda la conservazione dell'ordine in tutta la Provincia, e se debbesi aggiustar piena fede ai concordi rapporti di tutti i funzionarii di polizia ed amministrativi, la grande maggioranza delle popolazioni è aliena da ogni idea di mutamenti politici, ed attende a'  propri affari con alacrità.

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Provincia di Girgenti. — L'Intendente scrive: che le idee attribuite all'Imperatore Napoleone, quali si dicono manifestate per mezzo di un Opuscolo intitolato: «II Papa e il Congresso», non che le voci d'una nuova alleanza tra la Francia e l'Inghilterra, e le asserto differenze tra esse e le altre Potenze, han di nuovo cominciato ad eccitare lo spirito pubblico.

Provincia di Caltanissetta. — L'Intendente favellando dello spirito pubblico, dice che la tendenza pubblica è da gran tempo viziata e mal si potrebbe definire.

Che naturalmente la Provincia è monarchica e contenta dalle forme attuali, ma le brighe dei demagoghi forestieri, l'oscitanza nell'educazione, la lettura inevitabile de'  libri e giornali con falsi principii, ha, come per moda fatto entrare le più tranquille nel desiderio di novità ed ora è né facile nò prossimo un accomodamento, ed il rientrare nella retta via i fuorviati.

Pure è certo che tutto ciò si riduce ad opinione, giacché ne' fatti si osserva obbedienza e persuasione di buon governo, oltre l'amore e la venerazione pel Re e la R. Dinastia che felicemente governa e regge.

Che se Iddio si degnerà aiutarci nell'attuale crisi si è certi che gli abitanti tutti della Provincia torneranno alle loro antiche e sincere persuasioni.

Provincia di Trapani. — Rapporta l'Intentendente che lo spirito pubblico è soddisfacente, ed ogni classe di cittadino ed in generale si mostra attaccamento all'ordine ed al Re S. N. ed a tutta la R. Famiglia.

Che se mai vi è qualche sospetto la Polizia non manca di sorvegliarlo.

Sono questi i rapporti testuali sullo spirito pubblico di gennaro ultimo che mi son pervenuti, e ch'io sottometto all'E. V. per la debita sua intelligenza.

V.

Il luogotenente generale Castelcicala a S. E. il comm. Cumbo, Ministro di Stato per gli Affari di Sicilia.

Palermo, 23 febbraro 1860. — Eccellenza. — L'attitudine calma ma piena d'energia ad un punto conservata dall'autorità negli ultimi tre giorni di Carnovale, fece venir meno l'insano disegno d un sommovimento, che ventilava una mano di giovani ardenti e sconsigliati, siccome ebbi l'onore d'informare la S. V. col mio foglio dei 18 andante n. 300. Non si mostrò apparato di forze militari, non si ricorse a misure troppo ostensive di precauzione e bastò la sorveglianza ne1 punti minacciati ed il rigoroso contegno della forza ordinaria per infrenare gli agitatori.

Fin da Domenica costoro mutarono pensiero, e fecero percorrere la voce che non bisognava arrischiarsi in quelle sere stante la prevenzione in cui stava il Governo rimettendosi il proponimento sedizioso ad altra sera quando potrebbe cogliersi la forza pubblica alla spensierata ed alla sprovvista.

I faziosi favellando colla consueta iattanza andavano buccinando che co' pugnali alla mano avrebbero aggredito nella via Toledo gli agenti di Polizia.

Lo spirito sedizioso ha fatto disgraziatamente in questi giorni dei rapidi progressi in Palermo e si è rivelata una tendenza nella gioventù, ad un'idea strana

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e mostruosa in un paese che ha un indomato spirito municipale e che da secoli è travagliato dalla brama d'una propria autonomia, specie di religione tradizionale che il tempo fortifica ne' petti de'  Siciliani.

Quest'idea abbracciata da'  più avventati si è quella dell'annessione al Piemonte, dell'unificazione italiana alla quale travaglia il notissimo emigrato messinese Giuseppe La Farina, segretario e primo motore della Società per la unificazione presieduta dal Garibaldi, i cui mezzi stanno nella propaganda occulta e palese degli emissari, e del giornalismo, e ne' danari che si raccolgono pel milione di fucili. Questo partito non trova fautori nella generalità del paese, ma raggranella intorno a sè i giovani malaccorti e disperati e quanta materia a rivoluzione trovasi in una grande città.

Questa mala gente va consigliando non solo la resistenza quotidiana ed universale, resistenza che a suo dire diventa alla lunga irresistibile, e dovrà condurre al trionfo, ma minaccia di rompere in arditi e sanguinosi proponimenti. E di già accennansi le vittime designate alle prime sue vendette, parlasi di macchine infernali, di bombe alla Orsini, di pugnali foggiati a ecntinaja, d'armi da fuoco apparecchiate, e d'una vasta associazione, che ad un dato giorno e ad una data ora debba levarsi minacciosa e formidata per rovesciare il R. Governo.

Tutti i conosciuti artifizi fantasmagorici dei tempi agitati son messi in uso per preoccupare il Governo, e per magnificare le fo. ze ed i mezzi occulti di cui dispone la rivoluzione. Forse, m'incresce il dirlo, la febbre politica che esalta le menti, ci condurrà fatalmente a qualche fatto cruento, ma il sangue che si verserà ricadrà sul capo di coloro che provocheranno la guerra civile.

I più fra gli agitatori, in verità, sono esitanti a venire alla riscossa, ma pochi furiosi, cui il fanatismo politico fa velo all'intelletto, possono lasciarsi trascinare a un disperato partito.

Fortifica sempre più le speranze de'  mestatori, la certezza che si hanno d'un vicino sbarco di emigrati nelle coste dell'Isola, i quali con armi e con armati venirebbero in ausilio della rivoluzione.

Nelle provincie v'è calma e molta temenza di disordini che potrebbero soprarri vare per le male voci che partono da Palermo, che fan credere imminente una sollevazione.

In Messina ed in Catania ferve più latente lo spirito sedizioso ed in quelle città gli uomini del disordine guardano con ansietà Palermo, da cui aspettano che fosse iniziato un movimento.

Sono queste le condizioni al certo non consolanti, dello spirito pubblico negli attuali momenti, e l'Autorità veglia a tutela dell'ordine, e fa di tutto per isventrare le tenebrose macchinazioni dei tristi, che cogitano a danno della sicurezza interna dello Stato.

Questo quadro è rattristato, ma non è esagerato, e tutti i miei sforzi sono diretti a scongiurare i pericoli di questa situazione senza collisione e senza ricorrere a partiti estremi.

Vorrà V. E. nel restare intesa di questi particolari, farne l'uso che giudicherà conveniente.

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VI.

Il luogotenente generale Castelcicala a S. E. il comm. Cumbo, Ministro segretario di Stato per gli Affari di Sicilia.

Palermo, 1° marzo 1860. — Eccellenza. — La situazione dello spirito pubblico in questa città non è mutata c l'effervescenza politica alimenta quella febbrile agitazione che si rivela un di più che l'altro con sintomi allarmanti, che preoccupano la maggioranza de'  buoni.

Quest'agitazione è permanente, e se non s'irradia nelle Provincie, vi desta però un'inquieta ansietà che fa credere nel generale che gravi pericoli sovrastano al R. Governo e che non sia lontano il giorno di un cataclisma politico.

Notizie mendaci vanno intorno sulla rivoluzione che irrompe in Italia e che si avvicina alle frontiere del Reame su rivolgimenti nelle Provincie continentali, su grandi attentati: sulla mala disposizione delle R. Truppe, che in un momento fraternizzerebbero col popolo, su armi e munizioni venute dallo straniero, e su d'altre cose simili fatte per dar coraggio a'  faziosi e spingerli ad osare un colpo disperato.

Non debbo dissimulare che l'ansietà è in tutti gli animi, e che molti sperano, e molti trepidano di prossimi eventi. Queste speranze e questi timori sono alimentati da taluni scandali che a quando a quando delle mani occulte e codarde vengono a produrre in città. Tementi i faziosi di sconfinare in aperte manifestazioni di ostilità e di avversione al R. Governo, ricorrono a misteriosi espedienti che sarebbero ridicoli se nella preoccupazione nella quale disgraziatamente trovansi gli animi non accrescessero l'allarme.

Lunedì ultimo nel Tempio di San Domenico, mentre predicava il quaresimalista, una colomba che aveva sospesa una coccarda tricolorata, uscendo da una cappella, svolazzò nella nave destra e fu raccolta da un Padre Domenicano che la pose in una sua tasca.

La sera dello stesso giorno in un cortiletto della via Toledo fu sparato un piccolo petardo di latta carico di polvere, fortificata da spago che intimori i passanti. La polizia che stava nella via rassicurò tutti, e non vi fu commozione di sorta.

Nelle indagini praticatesi è venuto fatto sapere che un tal D. Mariano Lauriano, agiato capo maestro fontaniere che dispone di circa 47 garzoni del mestiere, uomo che si è trovato sempre mescolato in tutte le coagitazioni politiche, sia il promotore di questi scandali. La polizia lo ha diggià ghermito e trovasi prigione.

Del pari si vanno arrestando tutti i più notori agitatori ed in ventura mi farò un pregio di far palese i nomi di coloro che sonosi più compromessi in questi giorni nei quali ha avuto luogo una recrudescenza politica.

Il R. Governo in questi scomposti tempi e mentre soffia dal Piemonte il vento della rivoluzione può sperar solo salute nella previdenza, nella forza e nella energia, e S. M. il Re S. N. potrà star certa di tutto il mio impegno per iscongiurare le passioni sovversive che minacciose irrompono in questa città.

Nelle Provincie continua la calma.

In Messina a parte degli assassini politici, che una mano misteriosa dirige sotto le ispirazioni della sanguinaria Setta Mazziniana, v'è quiete di presente, e non si deplora lo spirito d'effervescenza che angustia Palermo.

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Mi giova sperare che le misure di repressione che si adopreranno contro i faziosi, soffocheranno questa effervescenza e che rinasca quella calma che da un mese in qua si è perduta.

VII.

Lettera di Giuseppe Mazzini a'  Siciliani, datata 2 marzo 1860.

Fratelli. — È necessario ch'io vi dica di tempo in tempo la vera condizione delle cose. Farete poi ciò che Dio e l'amore del paese vi ispirano. Confesso e non vogliate adontarvene che io non riconosco più gli uomini della disfida del '48 nei Siciliani dell'oggi.

L'immobilità nella crisi attuale riesce inesplicabile a tutti, dentro e fuori d'Italia. Non posso attribuirla a difetto d'ardire in voi, e l'attribuisco quindi all'essere voi illusi, travolti intellettualmente, non so da chi. Se da La Farina e dalla sua Società, non posso a meno di compiangere l'acciecamento. E l'abbandono di Garibaldi avrebbe potuto illuminarvi.

Prima di tutto, io ripeto a voi ciò che stampiamo da ormai due anni. Non si tratta più di repubblica e di monarchia: si tratta d'Unità nazionale — d'essere o non essere — di rimanere smembrati o schiavi della volontà d'un despota straniero, francese o austriaco non monta, o d'esser noi, d'essere uomini, d'essere liberi, d'esser tenuti siccome tali, e non siccome fanciulli tentennanti, inesperti da tutta Europa. Se l'Italia vuole essere monarchica sotto Casa Savoia, sia pure. Se dopo fatta vuole acclamare liberatori o non so che altro il re o Cavour, sia pure. Ciò che tutti or vogliamo è che l'Italia si faccia; e se deve farsi, deve farsi per ispirazione e coscienza propria; non dando carta bianca sui modi a Cavour e al Be, e rimanere inerti ad aspettare.

Aspettare chi? In buona fede, potete voi credere che Cavour, il Re o Luigi Napoleone vengano a darvi la libertà? Ponete che lo desiderino: come farebbero? Qualunque sia, intorno ad essi la nostra opinione essi possono riconoscere il fatto, e dargli aiuto, non iniziarlo per noi.

Ma il vero è questo: Cavour non ha che uno scopo; ed è quello di aggiungere il Veneto alla Monarchia, come era inteso a Plombières. Luigi Napoleone non ha che uno scopo: quello d'ottenere la Savoia e mantenere la supremazia francese in Italia. Quindi l'avversione all'Unità; gli impacci posti all'annessione delle Romagne; la deliberata opposizione all'annessione della Toscana. Cavour non osando imprendere guerra all'Austria col solo esercito regolare e non volendo appoggiarsi sull'insurrezione e sul popolo d'Italia, tende a trascinare Napoleone in una seconda guerra. Napoleone tende e schermirsene. Cavour non desidera, fìsso in quell'unico scopo, muove complicazioni. Luigi Napoleone non teme. Nè dall'uno, né dall'altro potete dunque aspettarvi salute.

E non potete aspettarla da una mossa iniziatrice dei vostri al di là dell'attuale confine. Per iniziativa, questa mossa avrà difficilmente luogo. Noi — noi soli — badate, eravamo riusciti a prepararla sui primi del Novembre scorso. Fummo a 48 ore a distanza della mossa. Avevamo strappato, mercé Garibaldi, il consenso del Re. Un biglietto minaccioso di Luigi Napoleone annietò ogni cosa.

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Fu allora che Garibaldi diede la dimissione. Cosi avverrà sempre. Più dopo Napoleone se ne vantò nella sua lettera al papa.

Questo è il vero; chi vi dice altro v'inganna per trattenervi.

Ma d'altra parte, agite, emancipatevi. Tutto è, per necessità di cose, mutato.

11 Governo Sardo è costretto per non perdere l'occasione d'esservi il Re, ad aiutarvi. Il moto dell'opinione trascinerebbe irresistibilmente l'esercito del centro a varcare il confine, e dato moto all'insurrezione dell'Umbria e delle Marche, a inoltrarsi fino al Regno. Nell'esercito un vasto lavoro d'associazione esiste, già guidato a quello scopo. Farini parteggia per lo stesso fine, Garibaldi è vincolato ad accorrere. Credo potere affermare che la nostra iniziativa sarebbe immediatamente seguita dall'inoltrarsi delle forze del Centro.

Luigi Napoleone d'altra parte è impotente a nuocere. Gli pende la guerra Europea sul capo. Ei può minacciare il Re d'opporsi: opporsi realmente non può. Combattendo per noi, di mezzo a un popolo che lo acclama liberatore, le Potenze non possono operargli contro. Combattendo contro noi, dichiarando quindi implicitamente che egli opera per fini propri, egli avrebbe tutti contrarli.

Gli è forza riconoscere i fatti compiuti.

E fatti compiuti furono il moto delle Romagne, il voto dell'annessione della Toscana e il rifiuto di Napoleone Bonaparte proposto dagli agenti di Luigi Napoleone al Be. E quei fatti, deliberatamente avversati prima, sono oggi riconosciuti come necessità da subirsi.

Oggi, come sempre, ha chi vuole.

Perché dunque vi rimanete inerti? Non so intenderne la ragione.

So che un partito fra voi si adopera per un moto costituzionale federativo e parla di Costituzione sia col Be attuale, sia con un membro della famiglia. Pensateci bene. E' il pessimo fra i partiti. Vi priverebbe degli aiuti del Nord, delle simpatie dell'Italia e vi lascerebbe soli contro tutte le forze del Be.

Il moto, ricordatevi di quel che io vi dico perché le mie predizioni si sono sempre avverate, sarebbe abbandonato, tradito, e vi lascerebbe più che mai sotto il gioco di prima.

Osate, perdio. Sarete seguiti. Ma osate in nome della unità nazionale: è condizione»ine qua non. Osate chiamare al potere un piccolo nucleo d'uomini energici; i primi atti parlino d'Italia, di Nazione; chiamino in aiuto gl'Italiani del Centro e del Nord. Li avrete. Avvertiteci prima.

Noi determineremo la massa del Centro verso il Sud. Insisteremo assalendo il moto delle Provincie Napolitano; smembreremo le forze che vi sono nemiche. Tra i due moti Napoli seguirà.

Ma l'inerzia d'oggi, il titubare continuo, il parlare di fare e l'indietreggiare per una lettera che vi giunge da Torino o Firenze, non è da vol. Voi avete in mano le sorti del Sud; ma a patto d'un momento di suprema energia.

Vostro Giuseppe Mazzini.

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VIII.

Il Luogotenente Gren. Castelcicala, a S. E. il Comm. Cumbo Ministro Segretario di Stato per gli Affari di Sicilia.

Oggetto. — Spirito pubblico

Palermo, 5 marzo 1860.

Eccellenza. — Tratti in arresto gl'individui in calce scritti di questa città, siccome quelli che più si agitavano, una certa calma ha subentrato a quella effervescenza, che per più giorni si deplorava e che minacciava di turbare la quiete pubblica.

Molti e molti altri non meno compromessi di costoro esistono in città, ma si è usata temperanza, sperando che la cattura d'una parte di essi servirà d'utile ammaestramento agli altri.

Tolgo a dovere far ciò palese alla E. V. per la debita Sua intelligenza.

Baronello D. Giovanni Grasso. — Cav. D. Francesco Brancaccio. — D. Emanuele Branciforti. — D. Ottavio Bizzo. — D. Domenico Gerace. — D. Bartolo Vitale. — D. Stefano Bizzo. — D Martino Beltrame. — D. Calogero Bellettieri. — D. Bernardo Furia. — D. Giovanni Faja. — D. Mariano Minneci. — D. Lucio Tirrito. — D. Antonino Magliocco. — D. Francesco Cortegiani. — D. Francesco Bracco. — D. Francesco Amari. — D. Ippolito Barraco. — D. Salvatore Enea. — D. Carlo Sansone.

Il Luogotenente Generale Castelcicala a S. E. il Comm. Cumbo Ministro Segretario di Stato per gli Affari di Sicilia in Napoli.

Palermo, 12 marzo 1860. Eccellenza. — Va quetando ognora lo spirito politico effervescente in questa città e va scemando quella vaga inquietudine che pesava ne1 giorni andati su tutti gli animi per lo allarme che una mano di faziosi spargeva in questa città.

Le misure di repressione usate contro i più caldi agitatori da una mano, e l'influenza delle novelle politiche dall'altra, hanno in parte soffocato le ostili aspirazioni, e menomato quella febbrile agitazione che minacciava di rompere in attentati contro la Sicurezza dello Stato.

E' un momento di tregua e non di sconforto ne' nemici dell'ordine i quali continuano senza posa a sperare sull'intervento dell'emigrazione armata, o su d'un colpo di mano disperato, cogliendo alla sprovvista l'autorità e la forza pubblica.

La voce che fanno correre si è ora, che bisogna aspettatare i resultamene del suffragio universale della Toscana, e la risposta che darà il Re di Piemonte a'  voti degli stati insorti dell'Italia centrale per l'annessione.

Si hanno gli occhi su parecchi faziosi che si dimenano all'ombra e si veglia indefessamente Bulle macchinazioni del partito del disordine per antivenire qualunque perturbazione.

Nelle provincie permane la calma la quale viene a quando a quando scossa dalle novelle allarmanti che vi giungono di Pai ermo.

Si è fatto credere che pel giorno 16 dell'andante un movimento dovrà aver luogo in questa città e questa notizia tiene in apprensione gli animL E' questa la situazione dello spirito pubblico ch'io mi onoro far palese a V. E. per l'opportuna sua intelligenza.

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Il Luogotenente Generale Castelcicala a S. E. il Comm. Cumbo Ministro Segretario di Stato per gli Affari di Sicilia in Napoli.

Palermo, 13 marzo 1860.

Eccellenza — Lo spirito pubblico in questa parte dei R. Domini non ha subito variazioni sensibili, e dura sempre un'agitazione più o meno latente, che s'ispira alle condizioni anormali nelle quali trovasi l'Italia.

Un pugno di faziosi si dimena nelle tenebre e nel mistero e fa intendere che si prepara ad un colpo di mano ed è generale in tutta l'Isola l'aspettazione di un movimento in Palermo che trascinerebbe in caso di successo tutte le popolazioni, siccome avvenne nel gennaio 1848.

I facinorosi di tutti i comuni hanno gli occhi fisi su questa città e credono che non s'indugierà a levarsi lo stendardo della rivolta.

Gli uomini della plebe che inferociscono ne' rivolgimenti del 1848 sono in commozione e di già aspirano il sangue e la rapina disegnando le vittime e le case sulle quali debbono mettere le mani. L'autorità segue tutti i maneggiamenti, u provvede per non lasciarsi cogliere alla sprovvista. Le insurrezioni vittoriosamente non sono d'ordinario che delle sorprese, ed un governo che non lascia sorprendersi trionfa sempre nelle rivoluzioni.

Si fanno sempre più calzanti le voci su d'uno sbarco d'emigrati in Sicilia. Io non saprei dire se ciò fosse un desiderio od una realità, ma i faziosi fanno grande assegnamento su questo ausilio.

Ipiù informati dicono che il suffragio universale raccolto ne' comuni di Toscana sarà per l'annessione, e che questo voto sarà la fiaccola che metterà in combustione tutta l'Italia.

IIGoverno nella pienezza della sua forza morale e disponendo a dovizia di quella materiale, tiene in soggezione gli agitatori e li comprime.

E' questa la situazione dello spirito pubblico che mi onoro sottomettere all'E. V. per la debita sua intelligenza.

Il Luogotenente Generale Castelcicala a S. E. il Ministro di Stato per gli affari di Sicilia in Napoli.

Palermo, 22 marzo 1860.

Eccellenza — Non si è avuto luogo a marcare alcuna variazione nell'andamento dello spirito pubblico in questa parte di R. Domini dalla d&ta del mio rapporto de 17 corrente fino a questo giorno.

Gli uomini del disordine si studiano di mostrarsi calmi e sereni in aspettazione degli eventi, ma v'è nel loro sembiante alcun che di grave e di concitato, il quale rileva che si maturano sinistri disegni. Questo contegno è in analogia colle voci sorde che si fanno circolare di organizzazione e di preparativi per la riscossa che vanno intorno, coi conforti che si dànno agl'impazienti e co' consigli che si mandano in Messina, in Catania ed altrove di non mostrarsi insofferenti degl'indugi e di aspettare pacatamente che Palermo insorga.

Queste voci sono quando più quando meno calzanti ma permangono aempre. L'autorità di Polizia sta sulle peste d'una mano di cospiratori, ed adopera ogni mezzo per iscrutarne i disegni.

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La prudenza consiglia di non molestarli per ora onde in una volta non si spezzino quelle file che non è sempre agevole di rannodare. Non debbo tacere che in tutta l'Isola si è in espettazione d'un movimento in Palermo, che sarebbe secondato da uno sbarco d'emigrati, la qual cosa tenendo gli animi incerti e sospesi fa pesare sul paese un'inquietndine che piglia sempre più forza dalle condizioni anormali sulle quali si trova l'Italia, e dalla politica dubbia e tortuosa della Francia. I buoni non disperano ancora del trionfo della buona causa, ma sono profondamente affettati dalle male nuove che la demagogia va buccinando d'una non lontana conflagrazione.

E' questa la situazione dello spirito pubblico ch'io mi onoro far palese a V. È. per l'opportuna sua intelligenza.

IX.

Il Popolo agli Agenti della Polizia di Sicilia (1).

Pria che l'ire prorompano, pria che questa bell'Isola rosseggi dal sangue dei suoi tìgli, pria che la causa italiana, in mezzo ai suoi trionfi contro lo straniero, sia deturpata dagli orrori della guerra civile in una provincia d'Italia — noi vi offriam pace.

Troppo voi abusate della vostra forza, troppo insultate ai nostri dolori, troppe lagrime e troppo sangue avete fatto versare; ma noi vi perdoniamo — più del nostro odio, voi siete degni del nostro compianto.

Voi siete stati orribilmente ingannati — di voi ha fatto strumento di sua ambizione l'infame Maniscalco, o vi ha sedotti con la larva del pubblico bene, vi ha compromesso nelle più laide azioni, ha degradato il vostro coraggio, infamato la vostra divisa — voi chiamati a difendere l'ordine sociale, siete discesi al rango di vilissime spie, voi che potevate essere la sicurezza del vostro paese, ne siete ora il flagello.

Sgannatevi — gettate uno sguardo all'attualità — mirate l'abisso in cui quel tristo vi sbalza!,,,

Dodici milioni di uomini, in Piemonte, in Lombardia, nei Ducati, respirano l'aere di libertà. Venezia vive nell'ansia di scuotere il giogo straniero, il sentimento della nazionalità italiana si spiega libero nelle Romngne, corra profondo in Napoli e Sicilia, ove siam otto milioni a maledire un governo venduto all'Austriaco. L'idea della indipendenza italiana invade tutti gli animi dal Piemonte all'estrema Sicilia — di giorno in giorno grandeggia, e conta fra cinque vittorie, l'acquisto della Lombardia e dei ducati, l'umiliazione dell'Austria, l'appoggio di Napoleone III e del parlamento Inglese, il favore di tutte le nazioni libere e di tutti i liberali di qualunque nazione, e quel che è più l'aiuto della Provvidenza.

A tutto ciò si oppone un ragazzo imbecille, educato dall'Austriaca madrigna, che persistendo ciecamente nella persona politica del padre, sostiene la causa del dispotismo e corre alla sua rovina.

Vittorio Emanuele e Francesco II oramai non possono insieme durare sul terreno d'Italia, come la libertà e la tirannia non possono coesistere sul suolo istesso — l'uno o l'altro è forza che cada.

(1) Il proclama non ha data, ma, da indagini accurate, risulta essere stato divulgato nella fine del marzo 1860.

— 163 —

Credete voi che la causa nazionale sostenuta da un re valoroso, duce di un esercito agguerrito, cinto dall'amor dei suoi sudditi, aiutato da una nazione generosa  e possente debba soccombere a fonte di un governo di fazione che senza credito presso le potenze, senza simpatia nei suoi soggetti, mal difeso dalla truppa, non può esistere se non spargendo la corruzione e il terrore?

Persuadetevi — il vostro tempo è finito — o cedete alla corrente, o questa v'ingoierà — voi un pugno d'uomini non potete porre argine al compimento di un'idea fecondata dal sangue di migliaia e migliaia di martiri, maturata dal tempo, protetta dal Cielo.

Il trionfo della causa italiana è vicino, ad affrettarlo è forza rovesciar questo sleale governo, che l'osteggia — il popolo ha compreso tal verità, la rivoluzione dunque è un fatto inevitabile.

Voi già il sapete, son più mesi che raddoppiate lo spionaggio, gli arresti, le sevizie, le torture, gli assassini. Ma se voi tenete impianti, voi siete almeno felici? — Incatenate gli uomini, ma l'idea vi sfugge, anzi vi calpesta — le feste civili e religiose, belle per l'assembramento del popolo, a voi son di spavento — lo sparo di un mastio fan corrervi all'armi — un alterco in piazza vi par sintomo di rivolta — il sospetto del veleno vi attossica il pranzo, il timor del pugnale vi accompagna nelle vie, il fantasma delle vittime da voi torturate o spente v'insegue nei sogni, la mano di Dio pesa sempre sul vostro capo — ah la vostra vita è un inferno!

Qual è il compenso di tanti affanni, di tant'odio, di tanti delltti? Il sorriso ammaliatore di un mostro dal bello aspetto, dalla dolce parola, ma dal cor scellerato e crudele? — E voi ciechi al comando di un sol uomo trarrete sopra tutto un popolo, che vien reclamando in nome di Dio i suoi dritti, e che offre il suo sangue per redimer da schiavitù sè stesso, e voi i primi più degli altri schiavi del dispotismo!

Pensateci bene — il popolo insorgerà — fia vano il resistergli — rispettatelo — egli è il sovrano, e l'arbitro del suo destino — se il provocate ricadrà sul vostro capo il sangue versato, l'abominio degli uomini e la maledizione di Dio.

À voi s'apron due vie — in una è la pace e la felicità, nell'altra è la morte, scegliete — tra l'onore e l'infamia, tra la libertà e il servaggio, scegliete — tra Maniscalco e il popolo, tra la causa del tiranno e quella dei vostri parenti, dei vostri amici, dei vostri concittadini, scegliete.

Slanciatevi nella buona via, unitevi a noi, Maniscalco è il nostro comune nemico, nel suo sangue lavate la macchia che egli ha impresso al vostro nome, voi sarete salvi. Guai se vi butterete nella via mala, il furore del popolo piomberà sopra di voi, e voi sparirete dalla terra.

X.

Genova, 30 marzo 1860.

Carissimi amici,

La vostra del 5 cadente giunse con moltissimo ritardo, non così quella del 18. Vogliate vi prego rispondere sempre coi mezzi di cui noi ci serviamo per fare giungere le nostre lettere.

Questa volta vi sarà data la presente dalla persona che ho di più caro dopo la Patria.

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Immediatamente al suo arrivo preparatevi perché dal 3 aprile in poi e per 5 sere consecutive un individuo si trovi dopo le 10 pomeridiane sotto il vecchio forte della grotta. Egli dovrà avere una cravatta bianca al collo, da distinguersi di notte.

All'individuo che gli si presenterà dovrà rispondere giusto la parola d'ordine che vi fu scritta da Rabbiolio, a qualche distanza dovrà tenere una vettura nella quale possono andare 3 individui. Preparate per lo stesso giorno un asilo a coloro che arriveranno.

L'acclusa per Catania dovrà essere consegnata a mani proprie di Nino Candullo, l'altra a quello degli individui che verrà e che ve ne chiederà.

La vostra del 18 che fa sperare un prossimo avvenimento ci ha fatto immenso piacere. Non siamo però di accordo sul consiglio dato a quelli di Catania che non sia più necessario far venire da Malta le sapute merci. Quelle merci giungono sempre a tempo. Non vorrei che i nostri di Palermo avessero insinuato di sospendere il richiamo per differire il pronto pagamento della cambiale.

Fate per Dio, che non si temporeggiasse ulteriormente.

Ogni giorno che passa inerte è un danno per noi, un vantaggio per i nostri nemici.

Dopo la mia del 9 del mese nulla mi resta più a dire ai nostri di Palermo.

Nel continente tutto è a noi propizio nel momento. Se sappiamo fare il nostro dovere avremo tutta l'Europa per noi.

Dai documenti pubblicati dal Governo Inglese risulta chiarissimo che il Be Francesco II è giudicato peggio di suo padre e non troverebbe ajuti di sorta in caso che ei soccombesse in una lotta coi suoi popoli.

Il Times dicea che nelle due Sicilie a Tiberio è succeduto Caligola.

Il Morning Post soggiungeva che i borboni espulsi da Napoli troveranno sulle altre Corti le uguali sorti dei Duchi spodestati nel centro d'Italia.

Su via facciamo il nostro dovere purché i borboni vadano via e il nostro paese divenga parte del grande Stato Italiano.

Distruggete la presente appena l'avrete letta e ne avete preso le indicazioni.

Abbiatevi un fraterno abbraccio

vostro Serafino.

CAPITOLO SETTIMO.

Prodromi della Rivoluzione del dì 4 aprile 1860 — Una nota del Maniscalco — Francesco Riso e gli altri congiurati alla Magione — Avvenimenti del giorno della Rivoluzione in Palermo — Proclama del Comandante Generale le Armi — Il «Giornale Ufficiale di Sicilia» — Il conte di Siracusa a Francesco II — Il Luogotenente al Governo in Napoli — Lettera del Principe del Cassaro al Luogotenente in Sicilia sulle condanne capitali — Arresti in Palermo e dissolvimenti nelle altre province — Condizioni politiche di Palermo ed ordinanza del Generale Salzano — Il proclama di Misilmeri — Notizie del R. Incaricato di Costantinopoli — Contradizioni della luogotenenza sul contegno popolare — La buca della salvezza — Il Consiglio di Guerra pe' 13 imputati de'  moti del di 4 aprile e la sentenza di condanna capitale — Lettera di Vittorio Emanuele a Francesco II — Il contegno politico delle popolazioni dell'Isola — Notizie di Francesco Riso moribondo all'ospedale — Le bande di Carini — Proteste de'  consoli pe' bombardamenti — Nuove notizie sullo stato politico dell'Isola — Telegrammi per arruolamenti in difesa della Sicilia e d'una fregata inglese a Marsala.

Chi volge mente alle vicende ultime di questa narrazione, ponendole in paragone alle anteriori, del 1820, del 1837 e del 1848, trarrà giudizio assai diverso sul contegno politico del popolo in Sicilia, negli anni, in cui, principalmente per il dispotismo del Filangieri, la reazione si rivelò prepotente e feroce. L'alba del 1860 lasciava in fitta tenebra il 1848: al sorgere di essa primeggiava il concetto di nazionalità, aborrendosi le ristrettezze regionali, già condannate dal tempo, che mirava ad unire i diversi popoli d'Italia, ancora che eglino, attraverso la molteplicità de'  dominj, il variare delle costumanze e delle tradizioni, non potessero rinvenire nella storia la origine unica della razza. 11 1848 aveva salvato i principj di libertà, e, dopo i disastri di Novara, la tirannide non fu più una superba e formidabile aristocrazia di tutte cose padrona e signora; a'  monarchi non fu dato ancora di ripetere, come per consuetudini secolari, il detto di Luigi XIV, ritenuto vangelo. Non ebbe più senso efficace la formula lo stato sono io, né tampoco, il primo articolo de'  trattati del Congresso di Vienna, cioè:

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La potenza dei monarchi è assoluta: il popolo non ha diritti né superiori ad essi, né uguali; non può esautorare e trasferire la corona da un capo all'altro. Le rivoluzioni del 1820, del 1831 e del 1848 erano giunte a calpestare le violenze de'  congregati in Vienna, che avevano disposto ad arbitrio l'aver publicus e la sorte de'  loro clienti e famuli; la guerra del 1859, i decreti del popolo, o plebisciti, e la rivoluzione del 1860 contro la forza de' cannoni, avevano dimostrato la potenza del diritto de'  popoli, mercé il quale esautorava e trasferiva la corona da un capo all'altro. La giovine Europa demoliva il vecchio giure: non potendo smantellare l'irrisorio dire del Bossuet, cioè, che il contratto sociale non si trovava custodito in nessun archivio, trovò modo di provare vana essere la nomina de'  re fatta per la bocca del Signore de'  cieli.

I Borboni non temerono giammai le conseguenze delle ire della rivoluzione, perché profondo in loro il convincimento che il popolo fosse uno strumento, da dovere rimanere soggetto in perpetuo alla schiavitù. La ostinatezza della credulità si trasmise talmente negli eredi di Ferdinando I, che il nipote Ferdinando II ritenne aver potuto cancellare il 1848 colle persecuzioni e col sangue; il pronipote Francesco II, quando nelle ricorrenze intemperanti, che aprivano la via a'  moti del 1860, udì dal Cassisi, ex-ministro, non dovere in que' momenti di turbolenza l'animo del re inclinare a partiti estremi, ricordando che per tali misure i sovrani Carlo X e Luigi Filippo avevano dovuto abbandonare la Francia, il giovine re si crucciò, congedando, sdegnosamente, il creduto imprudente e cattivo consigliere (1).

Il Maniscalco, quasi consapevole del lavoro dirigente, che attendeva con ogni studio a fare insorgere il popolo, il di primo dell'aprile, scriveva, con fiducia ed interesse: «Il contegno pacato e risoluto dell'Autorità se riesce ad imporsi agli uomini del disordine, non può arrivare a calmare l'ansietà della moltitudine, la quale commossa dal ciarlatanismo rivoluzionario, aggiusta fede ai pericoli che dicesi sovrastare all'ordine pubblico» (2). Il che è un compendio de' suo' convincimenti; tanto che, la notte precedente a quel giorno, si era avvalso di mezzi severi, facendo mettere agli arresti alcuni di coloro, che credeva componessero il comitato rivoluzionario, e perquisire, per iscoperte di relazioni epistolari, perfino gli angoli più reconditi delle loro dimore.

(1) Bracci, Memorie storiche intorno al Governo della Sicilia dal 1815 fino al cominciamento della Dittatura, pag. 122; Palermo, Pedone Lauriel, 1870.

(2) Vedi Documento, 1.

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Però la rivoluzione non concepi timore, e se mancarono coloro, che, con astuzia o interesse di prave arti, si proclamarono allora e poi capi o faccendieri de' moti, non mancò il popolo, che, nei primi furori, compie sempre le sue azioni con liberalità, recando termine alle medesime per un sentimento. Nella mente del popolo era rimasta indelebile la data del dì 13 aprile 1848: la data dell'ultimo Parlamento, che aveva segnato la decadenza de'  Borboni!

Frenare i moti della rivoluzione non più si poteva. La polizia vanamente adoperava le sue arti; il comitato, proponendosi di agire più cauto, rispondeva male, con gl'indugi, a'  desiderj comuni; sì che il volere rimandare la sollevazione accese di più gli entusiasmi del popolano Francesco Riso, poco sospetto, ma da più anni meditabondo sulle sorti patrie. Creduti da lui pronti i mezzi alla rivolta; ritenendo deliberata per essa la popolazione di Palermo e il corrispondere delle altre città dell'Isola; non credendo vi fosse difetto di munizioni, d'armi e d'ardimento, poiché consapevole d'ogni segretezza, la sera del di 2 aprile promette di non più rimanere inoperoso, anche sospettando di venirgli meno le tante promesse di aiuti. Fiducioso nel popolo attenne a'  suoi giuri.

Il giorno 3 grande è il contrasto, perché vario nella città il contegno. Chiusa la Università, per ordine supremo, forzosamente costretta la studentesca a ridursi ne' paesi nativi, si allontanano pure i molti di altri luoghi, che affluiscono nella città capitale. I cittadini, da una parte si affaccendavano a provvedere a tutto ciò che poteva loro, per cagione di tumulti, assicurare la esistenza; dall'altra si agitavano di continuo per isfidare le forze numerose. E tutto questo, che faceva nascere uno scandalo, accennante all'irrompere del popolo, rimaneva ancora occulto a'  reggitori del Governo, che non concepivano lo svolgersi vicino di atti ribelli; abbenché trepidazioni e rigorosità non fossero mancate dall'ottobre dell'anno precedente, e anche prima, da'  giorni de'  combattimenti in Lombardia.

Stabilitosi d'insorgere sull'albeggiare del dì 4, la sera del 3 Francesco Riso, fatte aperte dichiarazioni a Giuseppe Bruno, che si recava a'  Colli per trasportare in Palermo delle capsule, accomiatatosi, con animo deliberato, da coloro che ancora tentennavano, o dagli altri, cui il timore consigliava di trovare lungi uno scampo a'  pericoli, riuniti i suoi compagni, li divide nelle tre sezioni della Zecca, della Magione e della Gancia, pronti ad uscire al segno dello squillo

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della campana di Santa Maria degli Angioli, unita al convento della Gancia de'  Minori osservanti (1).

Nel convento della Gancia, destinato come primo ritrovo e centro della insurrezione, principale deposito delle armi, la sera del 3 si chiude il Riso co' compagni, dovendo attendere gli altri delle zone Zecca e Magione lo squillare della campana per riunirsi. Frattanto uno de'  congiurati, chiesto d'assentarsi pochi istanti, rivela in iscritto, con matita rossa, i segreti della cospirazione al Direttore della Polizia; né più si vede (2). Riuscita inefficace, mercé il pietoso zelo de'  frati, la visita notturna, il Maniscalco, presi gli accordi col Generale, comandante le armi, sparse nelle vie adiacenti, circondando così il chiostro, designato come primo ritrovo, soldati, gendarmi e birri, che avrebbero dovuto reprimere, usando violenze di mezzi, la rivolta (3).

Sull'albeggiare del dì 4 aprile sono segni della rivoluzione varj colpi di artiglieria, che interrompono il silenzio e il battere a martello della campana della Gancia.

(1) Nota dei Congiurati che alla Sezione della Magione, in Palermo, iniziarono la Rivoluzione del 4 aprile.

1° Salvatore La Placa; 2° Chierico Francesco Succione la Masa; 3 Bartolomeo Castellana; 4° Salvatore Piazza (non fu fra i combattenti); 5 Antonino Fontana; 6° Salvatore Bruno; 7° Carlo Noto; 8° Francesco Paolo Sirico; 9° Filippo Gambino; 10° F. P. Landolino; 11° Giuseppe Castelli; 12® Pietro Borghesi; 13° Mariano Castelli; 14° Vito Di Giorgio; 15'' Salvatore Baldanza; 16° Giacchino Di Giorgio; 17° Diego Amato; 18° Vincenzo D'Addienon Natale; 19° Matteo Terra vecchia; 20° Rosario Di Miceli; 21° Antonio La Grassa; 22° Giuseppo Randazzo; 23° Francesco Billeci; 24° Luigi Migliore; 25° Domenico Migliore; 26° Giuseppe Vitali; 27° Placido Timino; 28® Pietro Mauro; 29° Ambrogio Balbestre; 30° Domenico Drago; 31°Francesco Marino; 32° Antonio Billeci; 33° Pasquale Sala; 34° Lorenzo Giampellari; 35° Giacomo Palerna; 36 Nicolò Marino; 37 Salvatore Cagliari; 38° Salvatore Danneo; 39° Giuseppe Mancuso; 40° Giuseppe Aglio, 41° Francesco Buzzetta; 42é Vincenzo Anacrelio; 43° Filippo Cimino; 44° Giuseppe Aruso; 45° Giovanni D'Aleo; 46' Vincenzo Vivona; 47° Baldassare Spatula; 48° Sebastiano Camarrone (fucilato); 49° Matteo Ciotta (morto in attacco); 50° Francesco Migliore (idem); 51° Gian. Battista D'Angelo (morto strangolato in carcere dopo le forzate denunzie).

(2) Non rivelò al Maniscalco un frate del convento della Gancia, come sempre, romanzescamente, fu asserito, ma un congiuratore, premiato tosto e poi! Il nome a'  posteri più lontani!

(3) Nell'opera II Risorgimento Italiano, vol. iv, Milano, Casa Editrice Dott. Francesco Vallardi, pag. 447 e segg. nel capitolo I frati della Gancia, sparisce la denunzia del frate, ma altre cose oscurano la verità. Non riferisce al Maniscalco né la guardia di polizia, né denunziano due imprudenti, soltanto uno, che i tempi ancor freschi ci vietano rivelarlo, siccome sorge dalla denunzia sottoscritta e conservata in quest'Archivio di Stato. Notevole poi, in detto capitolo, il far credere avere partecipato alla rivoluzione persone che per lo spavento erano fuggitele che rientrarono in città al venire di Garibaldi. Notevolissimo che i frati, ignari di tutto, fossero stati iniziati nella congiura.

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Nella chiesa di Santa Maria degli Angeli si devono riunire i congiurati, sparsi per la città, ed unirsi, per raggranellare le forze co' divisi nelle tre sezioni cennate. S'impegna con fierezza la lotta; poiché le file de'  combattenti fra'  cittadini s'ingrossano, schiudendosi il passo, anche attraversato dalle soldatesche e da'  gendarmi. Echeggiano grida di evviva alla libertà, a Vittorio Emanuele: si combatte con piglio imperterrito dal campanile, dalle finestre e da'  tetti; sbucano dalle vie diverse, adiacenti a quella del luogo di convegno, drappelli di armati ed invadono il piano di Sant'Enno, la via della Vetriera, spingendosi in quella Butera per l'arco di Santa Teresa.

Tutti non erano che un centinaio, ma pronti a morire. Si distinguevano pe' berretti, per le coccarde, per le fasce tricolori, che ornavano i loro petti. Il rumore de'  colpi accresceva le forze delle soldatesche'e delle pattuglie, e giunto al soccorso di queste un intero reggimento con cannoni e cavalli, il conflitto divenne troppo disuguale. Francesco Riso incoraggiava i compagni colla voce e eoll'esempio, se bene sbandati quelli della Vetriera e di Sant'Euno. Nelle due ore di contrasto, i cittadini, anche in si poco numero, diedero prove di coraggio e di costanza; e Francesco Riso, esortato da alcuni de'  suoi compagni a fuggire, respinse le proposte, disprezzò il pericolo, rimanendo fermo al suo posto.

Caddero tra'  primi Giuseppe Cordone, Matteo Ciatta, Mariano Fasitta, Michele Boscarello, Francesco Migliore; cadde, ferito mortalmente da quattro palle l'eroe della giornata, Francesco Riso, tosto trasportato all'ospitale di San Francesco Saverio, per avere più tardi supplizio d'interrogatorj, anzi che cure mediche (1). La città fu presto diserta: ne rimase arbitra la forza. Preso di mira il convento della Gancia, sfracellata con una bomba la porta di essa, si saccheggia; né si risparmia dal saccheggio la casa del Riso; si assassinò nella quiete del suo ritiro il frate Giovanni Angelo da Montemaggiore; si legarono dapprima trentasette monaci, e, fatti loro traversare due vie principali, furono rinchiusi in prigione. A capo di loro si vedeva Giovanni Riso, padre a Francesco; a coda della processione un Valenti.

La questione si è dibattuta acremente a'  nostri tempi, e i vecchi frati, superstiti del moto del 4 aprile, hanno provato evidentemente la niuna loro ingerenza, e come nulla avessero conosciuto. Nel chiostro Francesco Riso teneva in afflitto un magazzino per gli attrezzi del mestiere; e per ciò i frati, messi in sospetto, tradotti in carcere. In esso il Riso depositò le armi. Oramai ripetere ancora chiacchiere è un oltraggio alla storia!

(1) Vedi Documenti, II.

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Altri numerosi arresti furono eseguiti, e ancora altri tredici frati, con dileggio, condotti alla Prefettura di Polizia, due con le gambe rotte, per avere cercato salvezza, precipitandosi da alte finestre, trasportati all'ospitale, e tra gli aitimi il D'Angelo, il Camarrone e il Cucinotta, catenati, esposti a ludibrio per le vie.

Il D'Angelo, mal potendo soffrire l'atrocità delle torture, rivelando le armi e le munizioni tenute nascoste da Giuseppe Bruno Giordano, o pentito, davasi la corda al collo, o fu ucciso da'  campagni per il segreto rivelato. Momenti di terrore e di sangue, accresciuti dalla viltà de'  dirigenti la rivoluzione, che, o fuggirono, o denunziarono! Giuseppe Bruno Giordano, che con Francesco Riso avrebbe diviso le opere coraggiose, rimase colla sua squadra su' colli di San Lorenzo, proibitogli nella notte del 3 al 4 aprile l'entrata in città. Lo sgomento invase in quegli istanti gli animi dei cittadini, ma furono riprese le vigorìe, e il popolo, o fuggente nelle vicine campagne, o rimasto in città, si preparò a compiere azioni più energiche. Intanto lo squillo della campana della Gancia si era ripercosso dovunque in Sicilia. Il popolo sorgeva alla riscossa: sorgeva unanime al grido d'Italia e Vittorio Emanuele: le caste del 1848 cadevano con riso di compassione!

La repressioni non tranquillarono il Maniscalco e il generale Salzano. Si volevano scoprire tutti i congiurati, che si supponevano numerosi, ma restarono le indagini un mistero impenetrabile. Però temendosi nuovi tumulti, lo stesso giorno, 4 aprile, la città dichiarata in istato d'assedio, fu sottoposta agli ordini militari del Salzano.

Conosciuti in Napoli i moti, da Palermo, con bugiarde e miti parole, si diceva: «L'ordine e la tranquillità furono prontamente ristabiliti in Palermo, e gli sperperati avanzi delle bande distrutte, che comparvero ne' dintorni della città, erano senza posa incalzati dappertutto; il che potè forse cagionare alla valorosa truppa noia soltanto, trattandosi di masnade, che son pronti del pari a dileguarsi alla vista della forza ordinata, e sconfitti, raggranellarsi in altri punti. Quanto all'attentato del 4 aprile non rimane ad aggiungere se non che l'ardore delle reali truppe nel reprimerlo fu superiore ad ogni elogio. Un battaglione del sesto reggimento di linea, al grido entusiastico di viva il Re! s'impadronì in poco d'ora, e con slancio irresistibile, del convento de'  ribelli, e delle armi loro. Lo spirito che anima colà i soldati è quale da per ogni dove si manifesta nel reale esercito e nell'armata. La città di Palermo, solo a tutela de'  suo' pacifici abitanti, fu messa in istato d'assedio per ordine del generale Salzano.

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Tranquillissima è la Sicilia, come tranquillissima fu la stessa città di Palermo, durante il conflitto e dopo». Nè le repressioni né le lusinghe avevano spento il fuoco della rivoluzione; poiché le opere contradicevano le assertive; poiché allo squillare della campana della (rancia la popolazione si sollevò dappertutto, e le armi de' lontani si apprestavano a richiamarsi a quelle di Palermo. A Piana giungeva Pietro Piediscalzi, di origine greca, accompagnato da Francesco e Giorgio Bennici, e adunate le schiere liberali, raccolti uomini e raccolto danaro, lo stesso di 4 aprile, organizzando una piccola schiera di valorosi, inalzavano il vessillo di libertà; e settanta uomini, armati di fucili e di falci, muovevano, comandati dal Piediscalzi e da altri alla volta di Palermo. Domenico Corteggiani, scampato miracolosamente all'eccidio della Gancia, si recava a Misilmeri, e, coll'aiuto di alcuni popolani, solleva la popolazione, respingendo le truppe borboniche, che si ritiravano per le vie di Palermo. Pietro Tondu ribella Carini, e, con una guerriglia, marcia su Palermo. Stefano Sant'Anna proclama in Alcamo il governo provvisorio, e messosi a capo di trecentocinquanta uomini piomba sopra Monreale. In Corleone il marchese Firmaturi abbatte lo stemma regio, e, dopo avere inaugurato il governo della rivoluzione, a capo di una squadra corleonese si aggrega ad altre guerriglie. Liborio Barrante, muovendo con uomini armati da Termini, unitisi cogl'insorti di Altavilla, ingrossa le file delle schiere. A Ventimiglia la notizia delle repressioni de'  congiurati del 4 aprile giunge assai trista; ma Luigi La Porta, da lunghi mesi, dall'avvenimento del Bentivegna, rimasto nascosto, per isfuggire alla persecuzione politica, anzi che avvilirsi, animoso, dato annunzio de'  moti arditi di Palermo, sventolando la bandiera nazionale, istituisce un Comitato e si dà a raccogliere armi ed armati. La voce della rivoluzione aveva commosso tutta l'Isola poiché, correndo pochi giorni, tutti i Comuni seguono il primo grido. Catania e Messina insorgono con le proteste di dimostrazioni; né più valgono gli ordini del Maniscalco, né la operosità del comandante Clary in Catania, né del maresciallo Russo in Messina: sbigottiti sono gli uomini destinati al governo, sgomenti i capi delle armi, timide le soldatesche, abbenché conservassero istinti di ferocia.

Cessato il combattimento, la città rimase desolata, solo dominata da quasi l'intero presidio de'  15 migliaia di uomini, che ovunque si sparse per metter freno a nuovo insorgere, a recare spavento. Assente da Palermo il Castelcicala, Luogotenente generale, il Generale comandante le armi, Giovanni Salzano, sottoponendo la città

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e il distretto in istato d'assedio emetteva un'ordinanza (1). Ma non cessarono le ostilità perché a nulla valgono i terrori incussi dalle artiglierie e da'  battaglioni, schierati ne' sobborghi e alle porte della città, per contendere l'entrata. E mentre nella contrada di Santo Ciro fumavano i primi incendj, appiccati, con barbarie, dalle soldatesche, nella pianura de'  Porrazzi, ove parte delle stesse si erano accampate, i cittadini tiravano furiosamente delle fucilate, cessando dalle resistenze per il folgorare de'  cannoni.

Scena comica, degna però di considerazione, avveniva in quel medesimo giorno. Il Maniscalco, oramai troppo sospettando, assistito dal Salzano, in seguito ad avviso, schierava nella piazza Bologni le spie occulte, che muniva d'insegna e di moschetto. Grave lo scandalo: molti di costoro erano stati creduti dalla parte liberale, mentre si erano aggregati per le rivelazioni alla polizia. Un tal fatto, che pure non disonora il Maniscalco, ma i traditori, rimane ancora fresco nella memoria de'  più vecchi, che lo tramandano con sorriso crudele d'ironia! Della giornata del dì 4 aprile il Giornale Officiale di Sicilia del dì 10 publicava le ordinanze de'  giorni 4, 5, 7, 10 (2) con le osservazioni, che, per la memoria de'  tempi, non crediamo sieno da lasciarsi in dimenticanza.

Procedendo in Sicilia la rivoluzione, e procedendo co' convincimenti e colle ire popolari, il Filangieri, anzi che recare aiuti alla monarchia, salvandola con mezzi energici, ispirati a sentimenti liberali, si dimetteva dalla carica presidenziale, e con lui buona parte del Ministero. Nominava il re, co' decreti del dì 16 marzo e 4 aprile, presidente dei Ministri, Antonio Statella, principe di Cassaro, assai vecchio di anni, già ministro degli Affari esteri, creduto onesto nella opinione popolare, non meno che legato a'  Borboni; il Winspear era designato alla Guerra, il Gamboa alla Giustizia, il Gravina, principe de'  Comitini, agli Affari di Sicilia, che rifiutando di assumere la carica per le vicende rivoltose, temporaneamente ne prese l'incarico il principe di Cassaro, cui apprestò aiuti un direttore.

In quei momenti, decisivi per le buone o male sorti della dinastia, il conte di Siracusa, fratello all'estinta re, dirigeva una lunga lettera al nipote Francesco II, vituperata dalla parte borbonica, perché creduta ispirata alla rivoluzione ed eccedente troppo ne' consigli. Essa però dà prova d'animo educato ad altri sentimenti, che non erano gli assolati,

(1) Vedi nel Documento III la ordinanza datata 4 aprile.

(2) Vedi Documenti, III.

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retrogradi a'  progressi civili, costantemente volati seguire dalla corte e dal re; e rivela ancora come qualcuno tra'  membri della famiglia regnante avesse avuta la comprensione de'  mutati destini de'  popoli (1).

La rivoluzione che lo stesso di 4 aprile, coi mezzi telegrafici, era stata partecipata a Napoli, aveva obligato il Castelcicala a ritornare tosto nella capitale dell'Isola. Due giorni dopo, ripreso il suo ufizio, si premurava informare il Presidente dei Ministri sulle condizioni della Sicilia, e, nell'attestare che la rivolta del di 4 aprile era stata soffogata, s'intratteneva a rilevare come dalle vicine campagne, animate da furore ribelle e guerreggiante, si potesse temere l'irrompere delle bande sulla città. Afferma e disdice nello stesso momento; non ha sicurezza di parole nell'esprimersi, nel volere mettere la calma negli animi de'  lontani trepidanti reggitori (2).

Fatto notevole, di cui possono soltanto recar chiarezza i documenti, è questo che concerne gli arrestati, sottoposti al Consiglio di guerra. Dal di 4 aprile continui gli arresti, senza punto badare a condizioni o a colpe; bastando il solo sospetto per imprigionare, sottoporre a torture e a giudizj esecrandi. Da Napoli il Presidente de'  Ministri, abbenché non consapevole de'  procedimenti militari, né di quanto era stato stabilito dal Generale Salzano e dal Maniscalco, in data delli 8, inviava una nota, assai eloquente, sulla sospensione delle sentenze capitali, la quale si riferiva ad altra telegrafica dello stesso giorno della rivoluzione. Si diceva in essa: «Affinché non sorgano dubbi o esitazioni di qualunque natura sulla interpretazione del detto segnale telegrafico, è necessità che V. E. sappia che quanto fu segnalato al Generale Salzano nel dì 4 corrente mese sulla sospensione della esecuzione delle sentenze capitali, non può che unicamente applicarsi a tutti coloro che presero parte agli avvenimenti di quel giorno e non mai a coloro che si sono resi colpevoli di fatti posteriori, poiché non poteva accordarsi una grazia preventiva per reati non ancora commessi» (3). A questa prima Nota, assai manifesta, il dì 7 maggio, tolto in Sicilia lo stato d'assedio, un'altra ne seguiva più esplicita, nella quale si diceva, che le decisioni capitali che potevano forse essere pronunziate dalla Gran Corte speciale, debbono anche rimanere sospese. Sul contenuto delle stesse ritorneremo a dire, fatto ricordo di supplizio atroce, che tanto scandalo offerse agli occhi dell'Europa.

(1) Vedi Documenti, IV.

(2) Vedi Documenti, V.

(3) Vedi Documenti, VI, con annessa nota del dì 7 maggio 1860.

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Vanamente le autorità politiche e militari traevano lusinghe pel ristabilimento della quiete; ozioso era lo spreco delle parole adoperate per recarne convincimento al Governo in Napoli. Il di 8 il Castelcicala non occultava che se vi fosse calma materiale, silenzio, non atti ostili, erano da aspettarsi gli eventi; e comunicava che nella notte passata la Polizia aveva sorpreso nella casa del duca di Monteleone il principe di Giardinelli, gentiluomo di Camera, il barone Giovanni Riso, il principino di Niscemi, il principe Antonio Pignatelli e il cavaliere Notarbartolo di San Giovanni, e, arrestati e tradotti in carcere, ritenendo avere costoro nel di 4 soffiato la rivolta nel convento della Gancia, suscitando il popolo ad armarsi incoraggiandolo con mendaci voci d'imminente arrivo di navi da guerra sarda con un corpo di spedizione e della irruzione di più migliaia d'armati dei più vicini paesi in città (1).

I creduti sospetti, anche ventilati come atti di pochi, si allargavano, non lasciando più il dubio che la rivoluzione fosse già una opera vasta popolare: un grido che da Palermo era penetrato in ogni luogo dell'Isola. Ed ecco come i fatti male corrispondevano a'  falsi convincimenti degli uomini di Stato, che pure inducevano il governo di Napoli e la corte a ritenere cessati i tumulti, circoscritti soltanto nella città capitale. Messina, il dì 8 aprile, domenica della Pasqua di resurrezione, udite le novelle di Palermo, era insorta, e i conflitti colle soldatesche e il popolo avevano lasciato tracce di sangue. Nè la calma fece più ritorno negli animi, poiché molti fuggirono per le campagne, determinati di non dare riposo alle armi; altri trovarono, miracolosamente, imbarco su nave francese, decisi di raggiungere in Malta Nicola Fabrizi, che più tardi sbarcò al Pozzallo; altri finalmente, tratti agli arresti, furono chiusi in prigioni orrende. Le popolazioni rivelarono un contegno esasperato, mal tollerando le lagrime e i dolori delle famiglie, mal tollerando lo stato d'assedio, che era mezzo a far sospendere i traffici commerciali. Le province di Siracusa e di Catania univano voti, ostinazioni e fortezza al moto rivoluzionario; futili rimanendo tutte le lusinghe dei capi di polizia, mercé le quali persuadevano d'inganno sè stessi e il Governo.

Da Noto, città prediletta da'  Borboni, esaltata sull'antica Siracusa, un Intendente studiava di accozzare le frasi più adescanti per far rilevare solamente da esse la quiete delle popolazioni della provincia e l'avversione alle novità politiche,

(1) Vedi Documenti, VII.

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cui dicevano, correr dietro i pochi esaltati (1). E mentre il generale Giovanni Salzano, il dì 10, assicurava con un'Ordinanza, che tutto era già finito ed incorava all'abbandono d'ogni sinistra preoccupazione, tornando i cittadini alle loro abitudini, e il luogotenente, lietamente, dava ragguaglio al Governo, in Napoli, delle condizioni politiche di Misilmeri (2), paesello poco distante da Palermo, esciva una voce terribile, nunzia, più che di lotte, di guerra, che invocava il decidere sulle nuove sorti, chiudendo tutto il passato. Era una voce nazionale, le cui manifestazioni unitarie rendevano infeconde le speranze degli spodestati: una voce, che, non limitando più il pensiero alla regione, inculcava

(1) Si abbia un esempio in questo brano di lettera da Noto, il di 10 aprile 1860, diretta al Luogotenente generale di Sua Maestà in Sicilia.

Noto, 11 aprile 1860.

Al Luogotenente Generale di Sua Maestà in Sicilia. Palermo.

Eccellenza,

Gl'invani tentativi di Palermo, e più il difetto delle comunicazioni, sparsero l'allarme da per tutto, e lo spirito pubblico venne per un momento agitato e scosso; ma in questa Provincia grazie al buon senno della grande massa avversa interamente si tenne fermo, ed il dignitoso contegno serbato impose ai pochissimi tristi uomini che si affaccendavano per turbare la pubblica tranquillità, non per altro scopo che per profittare delle altrui sostanze. Io rimango soddisfattissimo e son lieto di poter rassegnare a V. E. che in questo Capoluogo ed in tutti i Comuni, tranne d'un sparutissimo numero di faziosi misti a fanciulli agitantisi senza scopo, senza mezzi e senza pratiche, il numeroso ceto dei villici, i Maestà ed i Civili bastavano da sè medesimi a neutralizzare e rendere impotenti gli sforzi della debole fazione al segno che in tutti i luoghi, in tutti i paesi le sacre funzioni della passione di Gesù e la festa della sua resurrezione si solennizzassero nei modi consueti con tutta pompa senza potersi deplorare il benché menomo disturbo.

Però in mezzo a tale soddisfacentissimo risultato non si è mancato delle Autorità di Polizia d'usare la più severa violenza, e di cogliere qualche tristo, che si vedeva intento al mal fare, e gli altri di minore importanza, dividendoli in paesi che più presentano profonda calma.

Io debbo lodarmi in tal congiuntura della solerzia e della fermezza di questo commissario di Poliizia, Di Lorenzo Malato, del Capitano d'armi D. Salvatore Lo Jacono e di tutta intera la Urbana di questa città, che concorse con suo contegno a scoraggiare i pochi tristi, e mi spero di poter umiliare anche a V. E. la lodevole condotta serbata dai funzionari residenti negli altri luoghi.

Solo mi addolora la diserzione del Cancelliere di Polizia D...... Amenta, che senza verun ragionevole motivo, per una pusillanimità e viltà propria, nella mattina da S. Pasqua, abbandonando il suo posto, corse a rifugiarsi in Siracusa, ove scandalosamente tuttora si mantiene. Sarà dell'Alta Saviezza dell'E. V. sul conto suo come meglio giudicherà opportuno.

Rassegno i nomi degli arrestati, e di quelli che ho destinato a domicilio forzoso.

L'Intendente Nicola Mbzzasalma.

(2) Vedi Documenti, VIII.

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il liberare il popolo dall'oppressione morale e materiale per riunirsi in Nazionalità italiana sotto lo scettro di Vittorio Emanuele.

Da luoghi lontani si agitavano gli esuli senza più ritegno o timore; i Consoli partecipavano con rigore il movimento; ma le notizie si accoglievano con poco fervore, con quella indifferenza, che fa mirare quasi tranquillamente il precipizio d'una monarchia. E ciò, anche prima che la sollevazione avesse poste profonde radici; poiché il dì 4 dell'aprile, da Costantinopoli, il Winspeare, regio diplomatico, in seguito a indagini minute, faceva noto al Governo che due emissari, il Medina e l'Escubbeto, invitati dal conte di Cavour, si sarebbero recati nella Romagna; indi, trasportati in Sicilia, ove, alle eccitazioni popolari di condanna alle forme di governo, represse dalla forza, sarebbero intervenute le rappresentanze di Francia e del Piemonte, al fine d'imporre al governo locale il desistere dalle stesse, sottoponendosi al suffragio universale la questione del reggimento politico (1).

La luogotenenza, perplessa, non possedendo più cogli ordini le armi, le armi potenti del frenare, perché il popolo si sottraeva alle minacce, ora colle stampe clandestine, ora colle dimostrazioni, concertava col Salzano l'ispirare coi terrori rispetto alle istituzioni.

Di fatti si preparava un lutto, che, assai funestando, fu mezzo efficace a maggiori odiosità. Il di 4 aprile erano stati tratti in arresto numerosi cittadini, e tra essi non pochi inermi. Due scamparono da sì trista condizione, rimanendo chiusi nelle sepolture del chiostro della Gancia, alimentati, nel carcere di più giorni, dalla pietà cittadina. Poi, il dì 9, giunse all'ardimento temerario, eludendo le sentinelle, che il chiostro tenevano in assedio, di procurare loro un palo, per forare il muro e mettersi in salvo. Ingombrata la via di carri, al frastuono dei medesimi, al trambusto de'  venditori, de'  fanciulli e delle femine, che alzando troppo le voci, fingevano rissarsi, distratte le vigili scolte, gl'infelici uscirono, aiutati da braccia poderose, dalla buca preparata pazientemente, e con timore (2).

Degli arrestati, tredici furono sottoposti al Consiglio di guerra.

Il Maniscalco e il Salzano si vendicavano tosto delle onte patite sull'imbrunire del giorno 13, delle dimostrazioni clamorose, incitate da Giuseppe Gustarelli, monaco dell'Ordine di San Basilio, da Messina, inneggianti l'Italia e Vittorio Emanuele.

(1) Vedi Documenti, VII.

(2)Essi furono Gaspare Bivona e Filippo Patti.

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Il di 14 si decideva sulle sorti de'  tredici, dieci dei quali erano stati sorpresi colle armi in mano nel convento della Gancia, tre, presi in sospetto, tolti dalle case loro, ov'erano a conforto delle famiglie spaventate. Sottoposti nel Castello a mare a un Consiglio di guerra, per gli ordini emanati dal generale Salzano, furono condannati, secondo le leggi penali rimesse in vigore col decreto reale dei dì 27 dicembre 1858, ad unanimità di voti, alla pena di morte, da eseguirsi colla fucilazione e col terzo grado di esempio publico. La sentenza emessa il dì 14 doveva avere effetto dopo ore undici, e, per essere tosto eseguita, il Maniscalco, timoroso di un ordine contrario, timoroso assai della pietà dei giovani sovrani, fa note al Ministro di polizia, Aiossa, uomo crudele troppo, le condizioni della Sicilia, notando le squadre sparse nelle campagne, le dimostrazioni di Catania e gli avvenimenti di Messina del dì 8 aprile. L'Aiossa afferma di avere ottenuta l'adesione del re, e a'  tredici, giudicati il di 14, fu data la morte (1). E fu data morte atroce a Giovanni Riso, settuagenario, non avendo potuto trascinarsi, moribondo, alla presenza dei giudici, Francesco Riso, e ad un giovinetto diciottenne, di cui, per ragion di età tenera, non prescritta dalle leggi per una esecuzione capitale, si alterava l'anno di nascita. Queste morti straziarono l'animo del popolo; ma in quel giorno, se la città si tenne strettamente in lutto, sempre più da quel turbamento si fortificarono gli animi (2). Frattanto mentre Francesco Riso penava all'ospitale, eseguita la condanna a morte de'  tredici, fu visitato dal Maniscalco, che gli prometteva salvare la vita al padre, rivelando i nomi dei congiurati. Quali risposte abbia date il popolano noi lo ignoriamo, né stimiamo lecito accrescere le invenzioni.

Non ignorata la sua intrepidezza fino agli ultimi istanti di sua vita, egli è certo però che coloro che il dì 4 aprile lo abbandonarono, si piacquero di seminare calunnie e infamie.

(1)Questi i nomi degli estinti: Sebastiano Camorrone, figlio del fu Vincenzo, da Palermo, di anni 30, droghiere; Domenico Cucinotta, figlio di Ciro, di anni 34, da Palermo, muratore; Pietro Vassallo, figlio del fu Antonio, di anni 40, da Pallavicino, operaio; Michele Fanaro, figlio di Michele, di anni 22, da Boccadifalco, stampatore; Andrea Cuffaro, figlio di Giuseppe, di anni 40, da Bagheria, operaio; Giovanni Riso, figlio del fu Francesco, di anni 58, da Palermo, portatore d'acqua; Giuseppe Terresi, figlio di Francesco, di anni 24, da Falsomele, facchino; Francesco Ventimiglia, figlio di Gaetano, di anni 24, da Misilmeri, operaio; Michelangelo Barone, figlio del fu Pietromasi, di anni 30, da Mezzoiuso, carbonaio; Liborio Vallone, presunto Callogero Villamanca, figlio d'Ignazio, di anni 44, da Alcamo, calafato; Nicola Lorenzo, figlio di Giuseppe, di anni 32, da Palermo, muratore; Gaetano Calandra, figlio del fu Salvatore, di anni 34, da Palermo, calafato; Cono Canceri, figlio del fu Francesco, di anni 34, da Palermo, calafato.

(2) Vedi Documenti, X.

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Giovanni Riso quello stesso giorno era stato fucilato: difeso dall'avvocato Mario Puglia, vanamente, con abilità di parola e con fasto eloquente venne allegata da costui la interdizione dell'imputato, constata da un deliberato del magistrato civile.

La sentenza emessa dal Consiglio di guerra fu, con arbitrio di scelleraggine, eseguita non per gli ordini reali, ma pei voleri del Salzano e del Maniscalco. Ninna volontà né colpa in quelle stragi dalla parte regia, soltanto la fiacchezza di far dipendere il potere da uomini iniqui. In data del dì 8 aprile il Principe del Cassero aveva fatto noto al luogotenente che il 4 aprile la M. S. comunque il suo reale animo fosse stato profondamente amareggiato, pure seguendo gl'impulsi della sua sovrana clemenza, rispondeva per telegramma dello stesso giorno al detto Generale (Giovanni Salzano) che si fossero sospese le sentenze capitali, e che se ne fosse reso conto a S. M. E un tal dire esplicito, sì chiaro, alla distanza di men che un mese, il dì 7 maggio, viene riconfermato da una nota, riservatissima, allo stesso luogotenente, inculcandogli che, tolto lo stato d'assedio in Palermo, le cause pei reati politici, ivi commessi, devolvere alla Gran Corte speciale, S. M.  a torre ogni dubbiezza sulla precisa esecuzione dell'anzidetto ordine sovrano, si è degnato dichiarare, per come mi viene partecipato oggi stesso, dal signor colonnello Severino, segretario particolare della M. S., intendersi bene che le decisioni capitali che potranno forse pronunziarsi dalla G. C. speciale, debbono anche rimanere sospese (1).

Atti nefandi e crudeli sostenevano in que' giorni gli uomini al governo dell'Isola, credendosi invincibili per le forze. E, intanto, la loro infamia, come abbiamo potuto dimostrare sulle esecuzioni a morte, non erano conosciute, né consentite dalla Corte. Il Castelcicala, sciocco, raffigurò in quei giorni il Soderini; né l'anima sua poteva cascare oltre il limbo dei bambini. Lo guidavano, o cedeva ai comandi, il Salzano e il Maniscalco, né sapeva che dire, né che fare: le parole di lui erano un impasto di contradizioni e di slealtà, che, insorto il popolo, maggiormente compromettevano la esistenza della dinastia odiata da lunghi anni pe' rancori municipali, più che per altro, che indi si svolse con entusiasmi febbrili. Del Castelcicala le relazioni di que' giorni pericolosi giustificano quanto qui noi affermiamo proponendoci la sincerità, schivando le esagerazioni che infangano e tradiscono le storie.

(1) Vedi Documenti, VI.

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Egli, temendo il popolo, credeva con menzogne più che poliziesche, infantili, restituire la quiete nel reame; ma il giorno, in cui la parola cedeva al mendacio e all'adulazione, facendosi scuola d'ogni tranquillità, era costretto a rivolgere parola timida sulle nuove tempeste che imperversavano, sulle nuove ire delle popolazioni delle altre province (1).

Strano contrasto di ciò che accadeva in quelle giornate, palpitanti, ribelli e sanguinose, era un atto diplomatico, solenne, assai efficace negl'intendimenti comuni. Vittorio Emanuele rivolgevasi al cugino Francesco II ed esprimevagli sensi generosi sulla necessità invocata da'  tempi, di mutar condotta politica, ricordando gli errori del passato e le speranze dell'avvenire d'Italia nel costituire due regni nel settentrione e nel mezzogiorno (2). I consigli non uditi rimasero nel vuoto; ma essi comprovano come dopo il pentimento del trattato di Villafranca non fossero ancora albergati nell'animo del re sentimenti unitarj; e come, dopo il rifiuto o il silenzio, la diplomazia appaga i suoi propositi di larga estensione di territorio, profittando del grido de'  popoli, e correndo ad essi per ben aggiogarli a destini, che furono creduti, secondo la moda, più lieti; cancellandosi le sorti di risorgere con le forme popolari, le sole naturali e legittime a un popolo, cui, strappata la libertà e ogni splendore d'istituzione politica, non poteva, dopo le secolari oppressioni, che inalzarsi secondo i concepimenti vasti unitarj e nazionali, e non co' rappezzamenti d'un municipalismo decrepito e falso.

Degli interrogatorj, fintamente amichevoli, dal Maniscalco fatti subire a Francesco Riso, rimane un documento, da alcuni giudicato sinistramente. Lo stesso è una nota riservata dal Castelcicala diretta al principe di Comitini, sostituito al Cumbo nel Ministero degli affari di Sicilia.

Il Maniscalco tentò con lusinghe e viltà di promesse di adescare il Riso. Credendo di averlo vinto con le rivelazioni, lasciò retaggio maligno agli scrittori che su questo s'intrattennero. Noi ritenghiamo, non correndo dietro a una imaginosa convinzione, che il Riso col suo parlare riveli potentemente l'operato suo, e che la franchezza usata da lui, in quei giorni estremi, avrebbe messo in uso altri, sano della mente,

(1)Vedi Documenti, XI, XII, XIII, XIV.

(2)Vedi Documenti, XV.

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sano del corpo, giudicato rigorosamente nelle azioni (1). Il Maniscalco nulla potè raccogliere dalle inchieste sediziose, e Francesco Riso, morendo poi il dì 27 aprile (2), dopo avere per giorni 23 tollerato tanti dolori, lasciò ricordo sublime della sua opera prodigiosa, della sua fede, d'una costanza, non imitata lontanamente da coloro che, fuggiti, nel giorno del pericolo, s'ingegnarono indi a celebrare le loro gesta, Avvalorando con inganni le viltà ree.

La rivoluzione, anziché sedarsi, si estendeva, e il Castelcicala dall'oggi al domani si trovava peggio impacciato. Quanto dicesse delle bande, che al governo centrale si faceva credere componessero predoni, si rende manifesto dalle corrispondenze dei giorni 19 e 20 aprile, che rimangono a troppo chiarire quali sforzi avessero compito i Siciliani per rendersi liberi da'  Borboni e a dare notizia certa che la sollevazione non era un fatto parziale,

(1)Vedi Documenti, XVI.

(2)Così il Luogotenente Generale al Ministro degli affari di Sicilia in Napoli:

«Palermo, 3 maggio 1860 — Eccellenza — Quel D. Francesco Riso di cui formò argomento il mio rapporto de' 17  p. p., n. 633, capo del moto sedizioso del Convento della Gancia, e che fece importanti rivelazioni alla Giustizia, il giorno 27 soccombeva per le gravi ferite che avea riportate. Le fo ciò palese per la debita sua intelligenza».

Esaminai con diligenza le carte di Stato ed altre di biblioteche publiche e private. Non potei leggere il processo del Riso, e scoprire molte cose, e peggio infamare i compagni, che, morto, lo calunniarono. Un'interpolazione, cui segui un deliberato della Camera del Senato, lo fa tenere segreto. Avendo io più volte fatta nota al Ministero la necessiti di leggere il processo per non falsare la storia o ricorrere alle svariate menzogne dei contemporanei, il Sottosegretario all'Interno, con molta cortesia, scriveva in data 7 febbraio 1899, ad un Deputato; «Il prof. Guardione, che ha citato alcuni articoli del Regolamento sugli Archivi di Stato, deve pure conoscere l'art. 2°, che non ammette la pubblicità degli atti confidenziari e segreti sin dall'origine, ed evidentemente mal si appone quando sostiene che gli atti del processo Riso hanno carattere puramente storico e sono perciò pubblici qualunque sia la loro data. Invece il carattere degli atti è eminentemente politico, e quando anche il Ministero dell'Interno volesse permettere la lettura dovrebbe avvertire anche il Ministero di Grazia e Giustizia, trattandosi formalmente di un processo penale giudiziario».

Chiusa ogni via di poter leggere il processo, mi fu necessario rassegnarmi. Senonché voglio qui dire, senza che la mia parola abbia la benché minima intenzione di offesa, che anche i processi del Gorzilli, del Bentivegna, dello Spinuezza e del Pellegrino, parmi aver carattere politico, ed io li consultai, come tutte le carte politiche a correre dal 1812 al 1860. Inoltre che del processo Riso corrono in Italia varie copie, e una di esse in breve sarà messa a stampa; e che il Ministero, nell'ottobre 1900, lasciava ad arbitrio del sopraintendente di questo Archivio poter consultare il processo un Senatore del Regno. Il mio non era desiderio di curioso, ma un bisogno di esporre i particolari della fine del Riso e contrariare i calunniatori dell'eroico popolano.

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ma lo scuotersi di un popolo (1). Dall'esterno non mancavano i timori e le lusinghe; e quando Giuseppe Garibaldi non si era ancora determinato di muovere in soccorso della Sicilia combattente, anche conculcata, varie notizie inesatte si partecipavano da Genova, da Livorno e da Napoli, siccome attestano le cronache de'  giorni 17, 19 e 20 aprile (2).

In Napoli varie le proteste dei Consoli pe' fuochi di artiglieria; e le proteste erano comunicate al luogotenente in Sicilia. Messina aveva del 1848 ricordi terribili d'incendio: le violenze e l'eroismo di que' cittadini non risparmiarono i generali Filangieri e Pronio di ridurla in cenere; insorgendo ora il di 8 aprile, le forze borboniche si preparavano a rinnovare lo strazio passato, non più tollerabile da'  tempi. I Consoli protestano contro tanta mina, che può offendere le proprietà e le vite de'  loro connazionali; e allora notevoli si rendono le parole del Carafa, incaricato degli Esteri, al Luogotenente: notevole l'esortarlo a prudenza. Dello stesso tenore è il rapporto dello incaricato di Prussia, il cui Console, inoltre, dimandava al Governo la soddisfazione dovutagli, per non avere il Generale risposto alla dimanda fattagli d'una guardia di sicurezza offertagli, e che realmente era stata data a tutti gli altri Consoli esteri.

Mentre il dì 20 si scrivevano parole si rammaricanti; mentre il complicarsi delle cose non faceva trovar modo al Governo di uscire dagl'impacci d'una rivolta, la luogotenenza accresceva i timori coll'approdo di una nave inglese in Marsala, comandata da Thomas Cohrane, fornita di 36 cannoni e di 350 uomini di equipaggio. Il comandante si era recato dal viceconsole, di nazione inglese, ed aveva conferito con lui. Il conferire turba il Luogotenente e si rivela col Ministro degli affari di Sicilia (3). Molti i dubj, ma nessun fondamento ancora. Dall'Inghilterra erano uscite le condanne del Palmerston e del Gladstone: qualche accenno nel Congresso di Parigi sulla condotta de'  Borboni di Napoli, ma nulla che avesse determinato, mantenendo il costume inglese, un'avversione; né l'Inghilterra del 1860 contradiva l'operare del 1848, non avendo prodigato allora per l'Italia né un canotto, né uno scellino!

(1)Vedi Documenti, XVII, XVIII, XIX.

(2)Vedi Documenti, XX, XXI.

(3) Vedi Documenti, XXII.

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DOCUMENTI.

I.

Il Direttore Salvatore Maniscalco a S. E. il Principe di Castelcicala Luogotenente Generale di S. M. in Sicilia.

Palermo, 1° aprile 1860. — Eccellenza. — Ne' telegrammi quotidiani che ho diretto a V. E. le ho sommesso che questa città è agitata ed allarmata. — L'esaltazione politica da una mano di taluni sciagurati che mirano al disordine e le apprensioni dell'universale della popolazione dall'altra che teme una conflagrazione, han dato, in questi giorni alla città una sinistra fisonomia, e portato al colmo la concitazione degli uni, e lo spavento dell'altra.

Le apprensioni sono andate sì innanzi, che quasi tutte le famiglie han fatto provvigioni di vettovaglie, ed in talune ore del giorno e della sera si è sperimentata penuria di pane e di pasta, comunque gli opifìci annonari, in vista della ricerca, avessero addoppiato il numero degli operai.

Le voci d'un imminente tumulto, causa e fomite di questa perturbazione morale, vanno intorno da mattina a sera, accompagnate da quel corredo di esagerazioni e di fantasmagorie sulle forze che i rivoluzionari di tutti i tempi e di tutti i paesi son usi adoperare ne' giorni di crisi per raggiungere i loro fini. Il contegno calmo e pacato, e risoluto dell'Autorità se riesce ad imporsi agli uomini del disordine non può arrivare a calmare l'ansietà della moltitudine, la quale commossa dal ciarlatanismo rivoluzionario, aggiusta fede ai pericoli che dicesi sovrastare all'ordine pubblico.

I faziosi hanno il proponimento d'irrompere da un momento all'altro, come lor meglio ne verrà il destro, e sono divorati dall'ansietà di venire ad un atto disperato.

Però mancano sino a questo giorno di coesione e di mezzi ed aspettano che un incidente sopraggiunga per sollevarsi.

Essi son però circuiti e sorvegliati, e la forza pubblica veglia attentamente alla conservazione dell'ordine pubblico.

L'audacia e la baldanza delle persone a manca scritte (1), delle quali una parte ha dato a credere che costituisca il Comitato Rivoluzionario, mi hanno messo nella necessità di farli ghermire nella scorsa notte, e far loro praticare delle visite domiciliari.

La pazienza e la longanimità tornano funeste al Potere ne' giorni di crisi, e l'inazione dell'autorità innanzi alle mene de'  rivoluzionari incoraggia i partigiani del disordine.

Forse questa misura per le tristizie dei tempi, ne' quali versiamo, e per le speranze che la perigliosa condizione in cui trovasi l'Italia, non porterà grandi fratti, ma è un argomento agli occhi dei faziosi della rivoluzione e della vigilanza del B. Governo.

(1) Cav. D. Corrado Gambacorta, D. Francesco Oglialoro, D. Antonio Campo, avv. D. Giuseppe Crescenti, D. Giovanni Crescenti figlio, D. Giuseppe Castagna, D. Giuseppe Mirabelli, D. Agostino Mirabclli figlio, D. Salvatore Pandolfini, Capo Maestro D. Giovanni Patricola, D. Vincenzo Tramontana.  

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Altri individui sonosi, che diconsi i membri del Comitato e che agitano il paese, ma non si è giudicato opportuno di arrestarli per non perdersi in una volta le intelligenze che la Polizia si ha nei complotti dei faziosi.

La notte de'  30 a'  31 ha fatto disarmare e sciogliere la guardia urbana del torbido comune di Misilmeri, nella quale eransi manifestati sintomi sediziosi. Il disarmamento eseguitosi da 60 compagni d'armi, ebbe luogo in poche ore e senza riluttanza.

Tatti i comuni che stanno ne dintorni di Palermo, abitati da gente la più parte facinorosa, pendono da'  rivoluzionari di Palermo, e promettono, siccome hanno praticato in tutte le rivolture di questa Città, di accorrere in armi al primo segnale.

La forza pubblica accede a quando a quando in tali comuni, e va ghermendo i pi4 ribaldi che hanno segrete intelligenze con Palermo.

Nelle Provincie v'è calma, ma non si è senza inquietudine per lo stato di effervescenza nel quale trovasi Palermo.

In Messina ferve sempre lo spirito fazioso.

In Catania vi è pacatezza. — Nell'una e nell'altra città si aspetta la sollevazione di Palermo.

E' questa la situazione dello spirito pubblico ch'io mi occorre sottomettere alla E. V. per la debita sua intelligenza.

II.

Certificato sulle ferite toccate da Francesco Riso.

Certifico io qui sottoscritto Archivario dello Spedale Civico di Palermo qualmente nel libro di recezione degli ammalati in questo Spedale Civico, e propriamente nel giorno 4 aprile 1860, trovo la seguente partita.

«A 4 aprile 1860 Francesco Riso con tre ferite penetranti nell'addome, ed altra al di sopra del ginocchio sinistro con frattura dell'osso prodotto tutto da projettili spinti da arma da fuoco. Giudico le prime pericolose di vita per loro stesse, l'ultima pericolosa di vita e di mutilazione assolutamente. Disse che fu offeso alla Gancia. Si coricò.

«Marchesano».

Altro certificato posteriore sulle ferite di Francesco Riso.

Oltre le ferite su descritte Francesco Riso ne aveva una da bajonetta ed una ferita contusa alla regione inguinale destra prodotta da un colpo datogli col calcio del fucile da quel poliziotto che lo rubò dell'orologio.

All'ospedale arrivò su di una carrettella e dei suoi abiti aveva solamente la camicia, le mutande, le calze, un paio di stivali di pelle marocchina ed il pantalone di velluto zegrino rigato.

Dopo essere stato adagiato nel letto e medicato, presentandosi l'infermiere certo Antonio Gallo con la mappa d'accettazione per prendere le generalità, dopo aver declinato il nome e cognome soggiunge: congiurato.

— 184 —

Ho saputo della richiesta fatta a Francesco Di Chiara chirurgo di guardia per trasportare il Riso fuori dell'ospedale e del suo diniego. Fui presente quando lo stesso diniego fu fatto dall'Illustre prof. Gorgone all'ispettore Catalano il quale volle rilasciato un certificato attestante l'impossibilità di far il trasporto. Ricordo auzi che restai scandalizzato dal vedere il detto ispettore Catalano nell'infermeria ed alla presenza dell'illustre uomo fumargli vicino e quasi in faccia mentre scrivevasi il certificato.

Mi trovai anche di guardia la notte in cui Francesco Riso ebbe il colloquio con Maniscalco e vi era anche il sacerdote Calogero Chiarenza da Cappellano e Vito, e La Russa da giovine interno. Col pretesto di visitar malati, di dar conforti religiosi, di somministrare farmaci, tutti e tre ognuno per parte sua, cercammo di avvicinarci per quanto era possibile al letto ove avveniva il colloquio, e credemmo da qualche parola intera indovinare che il Maniscalco usava l'inganno di promettergli salva la vita del padre, che già era stato fucilato, per avere qualche confessione.

Presimo pure ognuno da parte nostra di fargli sapere che suo padre era stato fucilato e seppi che padre Chiarenza avvicinandogli con un lume col pretesto di adempire al suo ufficio, gli fece leggere i nomi dei fucilati fra i quali era compreso quello di Giovanni Riso, suo padre.

Corse voce l'indomani che Francesco Riso avesse fatto delle propalazioni, locché produsse un certo raffreddamento nelle cure, nelle premure, negli avvicinamenti.

Uno o due giorni dopo egli si lagnò di questo con me e, indovinando la causa della comune freddezza, mi disse queste testuali parole: questa è l'ultima infamia che mi ha fatto il paese. Ora ed allora riflettendo, io non ho ragioni di credere che egli abbia fatto delle rivelazioni, poiché a quella notte del colloquio non seguirono arresti precisi e tassativi, ma continuarono arresti alla rinfusa su sospetti e vedute particolari della polizia per spargere il terrore.

Mi fu detto che fra gli arrestati vi fu anche il Farinello e nulla seppe raccapezzare e nulla conosceva la polizia del colpo che egli vibrò al Maniscalco nel tamburo della Matrice, ed io credo che di ciò anche il Riso dovesse esserne conoscitore. — 9 dicembre 1890.

Vincenzo Marchesano.

III.

Il Generale Comandante le Armi della Provincia e Real Piazza di Palermo.

Essendosi al far dell'alba di questo giorno osato da una mano di faziosi attaccare le reali truppe con armi da fuoco, per provocare una insurrezione in questa, eccitando i sudditi ad armarsi contro l'Autorità Reale.

Il Generale Comandante delle Armi della Provincia e Real Piazza, in forza delle facoltà della Reale ordinanza di Piazza, dispone quanto appresso:

Art. 1. La città di Palermo e suo distretto sono da questo momento in poi dichiarati in istato di assedio.

— 185 —

Art. 2. I ribelli presi con le armi alla mano, non che tutti coloro che presteranno concorso alla insurrezione saranno giudicati da un Consiglio di guerra subitaneo, che da ora in poi resta in permanenza, e ciò a norma del Real Decreto del 27 dicembre 1858.

Art. 3. Tutti coloro che in atto detengono armi di qualunque natura dovranno farne in ore 24 dalla pubblicazione della presente, consegna a questo Comando militare sito nella piazza Bologni, a malgrado che avessero ottenuto legale permesso della Polizia; quale permesso da oggi in poi resta annullato.

Art. 4. Durante il giorno gli abitanti dovranno camminare per le strade isolatamente. La notte da un'ora in poi dovranno portare una lanterna o fanale.

Art. 5. E' vietato di ricevere ai particolari, persone in loro casa che non siano parenti, e qualora volessero riceverne alcuno alloggiandola dovranno munirsi di legale permesso dell'autorità civile.

Art. 6. E' vietato il suono delle campane tanto di giorno quanto di notte; come pure è vietato d'affiggere qualunque siasi cartello o proclama sedizioso. I contravventori saranno giudicati dal Consiglio di guerra subitaneo.

Durante lo stato d'assedio le tipografie resteranno chiuse.

Art. 7. Il Consiglio di guerra di guarnigione resta elevato da ora a Consiglio permanente subitaneo di guerra.

Il detto Consiglio sederà in questa Casa Comunale.

Palermo, 4 aprile 1860 alle ore 7 a. m.

Il Generale Comandante le Armi nella Provincia e R. Piazza di Palermo

Giovanni Salzano.

Il Generale Comandante le Armi nella Provincia e Real Piazza di Palermo.

Rende sentimenti di ammirazione al contegno serbato dagli abitanti di Palermo nell'occasione della tentata rivolta di taluni faziosi che disconoscendo i veri sentimenti del Paese han cercato d'immergere questa bella Città nella desolazione e nel sangue.

Si rincorino i buoni e gli onesti abitanti, giacché quella fazione anarchica e stata dispersa dalle Reali truppe, ed una Colonna mobile muove per darle una caccia efficace e per ripristinare la tranquillità nel' contado.

Abitanti di Palermo! Tornate alle vostre abituali occupazioni ed attendetevi dalle Autorità protezione e guarentigia alle vostre persone ed alle vostre sostanze.

Palermo, 5 aprile 1860.

Il Generale Comandante le Armi nella Provincia e R. Piatta di Palermo

Giovanni Salzano.

Il Generale Comandante le Armi nella Provincia e Real Piazza di Palermo.

E' lieto di manifestare nuovamente l'ammirazione sua pel costante contegno, che la popolazione di Palermo ha serbato nelle attuali emergenze, e si augura

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che la piena fiducia rinasca e che tutto ritorni alle normali condizioni, ora che gli avanzi della fazione, la quale tentò di commuovere il Paese, trovansi sperperati mercé il valore delle Reali Milizie, che tutelando energicamente l'ordine han reso un segnalato servizio al Paese.

I motori del movimento sono per la più gran parte nelle mani della giustizia.

Una commissione è stata prescelta intanto per distribuire delle sovvenzioni alle classi più bisognose, fornendosi le somme necessarie dal Regio Erario.

Continui la popolazione ad aver piena fiducia nell'Autorità: viva nella secura tranquillità e nella ferma certezza, che l'ordine non sarà ulteriormente turbato; e respinga le voci inquietanti, che vengono sparse col solo scopo di destare apprensioni ed allarmi.

Palermo, 7 aprile 1860.

Il Generale Comandante le Armi nella Provincia e Real Piazza

Giovanni Salzano.

Il Generale Comandante le Armi nella Provincia e Real Piazza di Palermo.

Fa palese che un certo numero di predoni, di quelli che fiutano il sacco e la rapina in tutte le perturbazioni civili, corsero ad infestare il contado nella speranza d'irrompere in città appena seppero il moto sedizioso del mattino dei 4 dello stante.

Questa gente, che tiene ancora in ansietà la Città, e sulla quale gli agitatori fondano ancora le loro speranze di sovversione, ieri è stata vigorosamente attaccata dalle Reali milizie nel villaggio di S. Lorenzo, ed in breve ora rotta e dispersa.

A tornare alla completa quiete, a rianimare ogni pubblico servizio, ed a riattivare il traffico ed il commercio, ingiunge a tutti i Capi delle Amministrazioni civili e giudiziarie a riprendere il corso degli affari, inculcando agl'impiegati di recarsi al loro posto.

I Capi delle Amministrazioni faranno quotidianamente giungere alla sede di questo Comando delle Armi gli stati d'intervento degli uffiziali delle rispettive officine.

Invita tutti i negozianti ed i fabbricanti ad aprire i loro magazzini ed i loro opifici ed a ripigliare i negozi ed il lavoro, facendoli certi che l'Autorità tutelerà i loro interessi.

Comunque permanessero le restrizioni che sono una conseguenza dello stato di assedio, pure ogni agevoleza sarà data al commercio pel trasporto delle merci e delle derrate fra l'interno e l'esterno della città.

Abitanti di Palermo! Stringetevi intorno alla idea dell'ordine, e smettendo ogni sinistra preoccupazione tornate con fiducia alle vostre abitudini ed alle vostre occupazioni, all'ombra di un potere provvido e forte.

Palermo, 10 aprile 1860.

Il Generale Comandante le Armi nella Provincia e Real Piazza

Giovanni Salzano.

— 187 —

IV.

Lettera di Leopoldo, Conte di Siracusa, al nipote Francesco II.

Napoli, 5 aprile 1860. — Sire! — Il mio affetto per Voi, oggi Augusto Capo della Nostra Famiglia; la più lunga esperienza degli uomini e delle cose che ne circondano; l'amore del paese, mi dànno abbastanza il diritto presso V. M., nei supremi momenti in cui volgiamo, di deporre ai piedi del Trono devote insinuazioni sui futuri destini politici del Reame, animato dal medesimo principio che lega Voi, o Sire, alla fortuna dei popoli.

Il principio della nazionalità italiana, rimasto per secoli nel campo delle idee, oggi è disceso vigorosamente in quello dell'azione. Sconoscere noi soli questo fatto, sarebbe cecità delirante, quando vediamo in Europa, altri aiutarlo potentemente, altri accettarlo, altri subirlo come suprema necessità dei tempi.

Il Piemonte per la sua giacitura e per dinastiche tradizioni, stringendo nelle mani le sorti dei popoli subalpini e facendosi iniziatore del novello principio, rigettate le antiche idee municipali, oggi usufrutta di questo politico concetto, e spinge le sue frontiere fino alla bassa valle del Po. Ma questo principio nazionale ora nel suo svolgimento, com'è naturale cosa, direttamente reagisce in Europa e verso chi l'aiuta, e verso chi l'accetta e lo subisce. La Francia dee volere che non vada perduta l'opera sua protettrice e sarà sempre sollecita a crescere d'influenza in Italia e con ogni modo per non perdere il frutto del sangue sparso, dell'oro prodigato e dell'importanza conceduta al vicino Piemonte; Nizza e Savoia lo dicono apertamente. L'Inghilterra, che pure accettando lo sviluppo nazionale d'Italia, dee però contrapporsi all'influenza francese, per vie diplomatiche si adopera a stendere pur essa la sua azione sulla Penisola, ed evoca sopite passioni nei partiti a vantaggio dei suoi materiali e politici interessi. La tribuna e la stampa in Inghilterra accennano già lontanamente a doversi apporre alla Francia ben'altra influenza nel Mediterraneo, che non sono Nizza e Savoia a pie' dell'Alpi. L'Austria dopo le sorti della guerra, respinta nei confini della Venezia, sente ad ogni ora vacillare il mal fermo potere e benché forse presaga, che il solo abbandono di questa Provincia potrebbe ridonarle la perduta forza, pur tuttavolta non ha l'animo di rinunziare alla speranza di una rinnovata Signoria in Italia... Nè occorre che io qui dica a V. M. dell'interesse che le potenze settentrionali prendono in questo momento alle mutate sorti della Penisola, giovando infine, più che avversando, la creazione d'un forte stato nel cuore d'Europa, guarantigia contro possibili coalizioni occidentali.

In tanto conflitto di politica influenza, qual'è l'interesse vero del popolo di V. M.  e quello della sua dinastia?

Sire! La Francia e l'Inghilterra per neutralizzarsi a vicenda, riuscirebbero per esercitare qui una vigorosa azione, e scuotere fortemente la quiete del paese ed i diritti del Trono. L'Austria, cui manca il potere di riafferrare la perduta preponderanza e che vorrebbe rendere solidale il governo di V. M. col suo, più dell'Inghilterra stessa e della Francia, tornerebbe a noi fatale, avendo a fronte l'avversità nazionale, gli eserciti di Napoleone III e del Piemonte, la indifferenza Britannica.

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Quale via dunque rimane a salvare il Paese e la dinastia minacciati da così gravi pericoli?

Una sola. La politica nazionale, che riposando sopra i veri interessi dello Stato, porta naturalmente il Reale del mezzogiorno d'Italia a collegarsi con quello dell'Italia superiore; è movimento questo che l'Europa non può disconoscere, operandosi fra due parti d'un medesimo paese ugualmente libere ed indipendenti fra loro. Così loro. V. M. sottraendosi a qualsivoglia estranea pressione, potrà, unito politicamente col Piemonte, essere generoso moderatore dello svolgimento di quelle civili istituzioni, che il rinnovatore della nostra monarchia ne largiva, quando sottratto il Reame al vassallaggio dell'Austria, lo creava sui campi di Velletri il più potente stato d'Italia.

Anteporremo noi alla politica nazionale uno sconsigliato isolamento municipale? — L'isolamento municipale non ci espone solo alla pressione straniera, ma peggio ancora, ché, abbandonando il paese alle interne discordie, lo renderà facile preda dei partiti. Allora sarà suprema legge la forza; ma l'animo di V. M. certo rifugge all'idea di contenere solo col potere delle armi quelle passioni che la lealtà di un giovane re può moderare invece e volgere al bene, apponendo ai rancori l'oblio; stringendo amica la destra al Re dell'altra parte d'Italia, e consolidando il trono di Carlo III sopra basi, che la civile Europa o possiede o domanda.

Si degni la M V. accogliere queste leali parole con alta benignità per quanto sincero e affettuoso è l'animo mio nel dichiararmi novellamente

Affezionatissimo zio

Leopoldo Conte di Siracusa.

V.

Il luogotenente Generale Castelcicala a S. E. il Ministro Segretario di Stato per gli Affari di Sicilia — Napoli.

Palermo, 6 aprile 1860 — Eccellenza — L'insurrezione soffocata in Palermo nel suo primo conato, si è estesa ne' paesi vicini e sono corsi ne' dintorni di questa Città una quantità di malfattori parte armati e parte inermi divisi in più bande che molestano gli avamposti collo intendimento d'irrompere in Palermo.

Le Reali Truppe con ammirevole energia respingono tutto giorno gli aggressori e dei caldi conflitti hanno avuto luogo in Monreale, in Boccadifalco, nel piano dei Porrazzi, nel Villaggio di S. Lorenzo e dappertutto i ribelli sono stati respinti.

E' una dura guerra quella che questa gente fa alle R. Truppe le quali debbono combattere un nemico che non si mostra mai all'aperto, ma che difilato ed invisibile sempre si fa schermo delle offese, si scioglie, si sperpera, si raggranella or qua ed or là alla maniera dei guerrillos. Evidentemente le bande tendono a stancare le Truppe e sopraffarle a forza di una continua lotta.

Palermo contenuto dalla forza è tranquillo e non vi avviene alcun atto di ostilità, ma se avvenisse che gl'insorti di fuora vi penetrassero, l'incendio della rivolta vi divamperebbe.

In Termini la popolazione ha fatto una dimostrazione con bandiere tricolori, ma fino a questo momento non ha trascorso ad atti ostili, forse perché contenuta dalla guarnigione della fortezza.

— 189 —

In Bagheria, in Misilmeri, in Carini, in Partinico, in Piana, in Capaccia i facinorosi si sono levati a tumulti spiegando la bandiera tricolore.

Non si ha notizie delle Provincie per le rotte comunicazioni telegrafiche e per l'intercettate vie ai Corrieri.

Le bande infestando i dintorni, deviano le acque dei mulini, e torna difficile provvedere all'annona di questa popolosa Città.

Le farine quindi mancano, e ciò è assai grave, potendo avvenire che la Città si affami. — La situazione in verità è allarmante ma non disperata ed io mi spero coll'aiuto di Dio ripristinare l'ordine profondamente turbato.

Pregiomi far tutto ciò palese a V. E. per la debita Sua intelligenza.

VI.

Il Principe del Cassaro a S. E. il Principe di Castelcicala Tenente Generale dei R. li Eserciti, Luogotenente Generale di S. M. (D. G.) in Sicilia, Palermo.

Napoli, 8 aprile 1860 — Eccellenza — Al primo annunzio che ebbe S. M. il Re, Nostro Augusto Signore, per telegramma del Generale Salzano del 4 corrente, del conflitto sostenuto e vinto dalle R. li truppe nel Convento della Gangia, la M. S. comunque il suo R. le Animo fosse stato profondamente amareggiato, pure seguendo gl'impulsi della Sua Sovrana Clemenza, rispondeva per telegramma dello stesso giorno al detto Generale che si fossero sospese le sentenze capitali, e che se ne fosse reso conto a S. M.

Affinché non sorgano dubbi o esitazioni di qualunque natura sulla interpretazione del detto segnale telegrafico, è necessità che V. E. sappia che quanto fu segnalato al Generale Salzano nel di 4 corrente mese sulla sospensione della esecuzione delle sentenze capitali non può che unicamente applicarsi a tutti coloro che presero parte agli avvenimenti di quel giorno, e non mai a coloro che si sono resi colpevoli di fatti posteriori, poiché non poteva accordarsi una grazia preventiva per reati non ancora commessi. Rimane dunque nella piena facoltà di V. E. di regolarsi nel modo che meglio crederà, conferendosi all'E. V. la facoltà di sospendere le sentenze capitali sempre che lo reputi opportuno. — E tengo ciò riservatissimo solo per suo uso, e badi che le leggi di R. li Deereti siano osservati, non ehè si dia il tempo necessario di Cappella a'  giudicati, acciò si abbiano tutti i conforti di nostra sacrosanta religione.

Di V. E.

Riservatissimo — A S. E. il luogotenente Generale — Palermo.

Napoli, 7 maggio 1860 — Eccellenza — S. M. (D. G. ) per impulso di Sua Sovrana Clemenza degnavasi ordinare in data del 24 aprile scorso, che si fossero sospese le sentenze capitali che sarebbero state pronunziate da'  Consigli di Guerra subitanei, e che se ne fosse dato conto alla M. S.

— 190 —

Or sotto lo stato di assedio in Palermo epperò le cause pe' reati politici ivi commessi dovendo devolversi alla Gran corte Speciale, S. M. a torre ogni dubbiezza sulla precisa esecuzione dell'anzidetto ordine Sovrano, si è degnato dichiarare, siccome mi vien partecipato oggi stesso dal Sig. Colonnello Severino, Segretario particolare della M. S., intendersi bene che le decisioni capitali che potranno forse pronunziarsi dalla G. C. speciale, debbono anche rimaner sospese. Nel R. l Nome partecipo a V. E. questa Sovrana determinazione per servirsi e farne l'uso che convenga.

VII.

Il luogotenente Gen. Castelcicala a S. E. il Ministro per gli Affari di Sicilia. — Napoli.

Palermo, 8 aprile 1860. — Eccellenza — La situazione di questa città continua ad essere quale le esposi nel foglio mio del 6 dell'andante. Vi è calma materiale, v'è silenzio, non vi sono atti ostili e si aspettano gli eventi.

I dintorni continuano ad essere infestati dalle bande di villani, a'  quali sono mescolati alquanti palermitani e la generalità de'  buoni teme che irrompendo quella ribaldaglia in città ne avvenga uno di quei disordini che producono una disgregazione sociale.

La notte antipassata la Polizia sorprendeva nella casa del Duca di Monteleone gl'individui in nota scritti (1), i quali han soffiato la rivolta e che nel mattino de'  4 mentre si lottava nel Convento della Gancia andavano per le vie suscitando il popolo ad armarsi incoraggiandolo con mendaci voci d'imminente arrivo di navi da guerra sarde con un corpo di spedizione e della irruzione di più migliaia di armati de'  più vicini paesi in città. Essi donansi nome del Comitato dirigente.

Sono stati rinchiusi nel R. Forte di Castellammare e saranno sottoposti al Consiglio di Guerra.

Ieri si sono avute notizie da Trapani e da Termini. — Nell'una e nell'altra città apparve momentaneamente una bandiera tricolore; ma prevalendo la maggioranza de'  buoni, non si è più visto quel simbolo di sedizione ed i più notabili col permesso dell'autorità hanno formato una guardia urbana pel mantenimento dell'ordine.

A mio credere questi notabili per la incertezza degli eventi, e sapendo Palermo presidiato dalle Reali Truppe, hanno adottato il partito di mezzo, e senza pronunziarsi pigliano un'attitudine aspettante.

Nel congregarsi pel mantenimento dell'ordine non si dissimula da essi l'idea vagheggiata d'una guardia Nazionale, avvegnaché non vogliano il concorso della forza pubblica.

(1) 1. Principe di Giardinelli, Gentiluomo di Camera.

2. Barone D. Giovanni Riso.

3. Principino di Niscemi.

4. Principe D. Antonio Pignatelli.

5. Cav. Notarbartolo di G. Giovanni.

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Queste velleità spariranno appena le R. Milizie faranno giustizia degl'insorti che scorrazzano le campagne.

In Termini le autorità sonosi ritirate nel Forte ed i notabili del paese pensano a provvedere di vettovaglie la Truppa del Presidio, e le autorità «tesse con le quali sono in continua comunicazione.

Il giorno 6 entrava in Termini una banda di circa 200 individui del Comune di Cerda, la più parte inermi e privi di mezzi portando una bandiera tricolorata.

Gli abitanti della città persuasero quella gente ad uscire. Due colpi di cannone tirati dal Castello disperse quella massa.

Manchiamo di novelle delle altre Provincie, e la notte scorsa ho spedito il R. Piroscafo l'Aquila in giro per tutta l'Isola per recare de'  plichi alle autorità ed informarli del vero stato delle cose, ed avere da esse ragguagli sulla situazione delle rispettive Provincie.

Lo arrivo ier sera delle Truppe di rinforzo hanno scorato i faziosi di Palermo, e scorerà i villani, i quali si aspettano ad essere attaccati vigorosamente.

Dagli emissari che si mandano nelle Campagne dall'Autorità si ritrae cbe le bande sono sconfortate tanto pel vigore e pel valore delle Reali Truppe, quanto per l'inazione nella quale si tiene Palermo. Essi difettano di tutto e vivono da predoni.

Stante le attuali condizioni, la popolazione di Palermo, mancando di lavoro, manca di pane. Ho creduto fornire ad una commissione D. ti quattromila per distribuirli agli operai più necessitosi. Ho fatto pubblicare dal Generale Comandante le armi l'annesso manifesto che ho pure spedito agl'Intendenti delle Provincie.

Le farine di cui abbiamo avuto penuria, cominciano ad abbondare.

Le sommetto due esemplari di libelli che la notte de'  6 si trovarono disseminati per terra presso S. Francesco de'  Chiodari.

Piaccia a V. E. restare intesa di questi particolari e farne l'uso che giudicherà conveniente.

VIII.

Il luogotenente generale Castelcicala a S. E. il Ministro Segretario di Stato per gli Affari di Sicilia in Napoli.

Palermo, 10 aprile 1860. — Eccellenza. — La quiete sempre più si rafferma in questa città, la quale va pigliando fiducia, e si rinfranca delle durate emozioni. Da ieri in qua le vie sono animate, e si ripigliano dagli abituiti le ordinarie occupazioni. Il manifesto, qui annesso, pubblicatosi stamane dal Comandante le armi nella Provincia ha contribuito a rassicurare gli animi.

Degli sciami d'insorti, più inermi che armati, si mostrano sui versanti de monti che circondano Palermo, ma si dileguano all'apparire delle Reali Truppe.

Ieri i faziosi che si erano trincerati ne' Colli e nel Villaggio di S. Lorenzo, attaccati da due battaglioni, dopo un breve combattimento, ripararono ai monti vicini.

Altrettanto è avvenuto stamane nel Comune di Villabate.

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Questa caccia incessante sperpera gl'insorti, i quali scoraggiati e privi di sussistenza, vanno rientrando ne' loro focolari. In Bagheria gli abitanti più influenti guardano il lor paese, e respingono i malandrini che vorrebbero occuparlo.

In Misilmeri regna l'anarchia, ma nella vegnente notte sarà investito dalle R. Truppe colla cooperazione degli abitanti di Belmonte, che sonosi per la più parte tenuti fedeli.

Le comunicazioni telegrafiche continuano ad essere interrotte e le vie intercettate ai corrieri postali.

Quest'anormalità mi spero che cesserà fra qualche giorno.

Manco ancora di novelle delle Provincie ed aspetto con ansietà i due vapori che ho spedito in giro per l'Isola per averne.

Di voci allarmanti non v'è penuria, ed il R. Governo avrebbe bene a preoccuparsi se vi aggiustasse fede.

Si procede con calma, e con ponderazione, e si fa faccia agli eventi con quel sentimento di superiorità ch'è un'arra del successo.

Occupati unicamente dell'azione non ancora si sono messi i faziosi caduti nelle mani della Giustizia a disposizione del Consiglio di Guerra.

Si stanno però ammanendo gli atti e fra qualche giorno si procederà. Le sommetto due esemplari del foglio officiale d'oggi che dà i ragguagli delle attuali emergenze.

Pregiomi far ciò palese all'E. V. per la debita sua intelligenza.

IX.

Rapporto del Winspeare, R. diplomatico in Costantinopoli, a Sua Eccellenza il Ministro Segretario di Stato per gli Affari esteri in Napoli.

Costantinopoli, 4 aprile 1860. — Eccellenza. — E mio dovere avvertirla che gli emigrati Salvatore Medina ed Escubbeto, o sono in procinto di partire, o ànno già mosso di qua per la volta d'Italia. In apparenza terranno la stessa via sulla quale sono stati preceduti da Vincenzo Orsini, ma io realtà si fermeranno in Malta, d'onde si propongono di passare in Sicilia, non si tosto sarà loro facilitato questo passaggio dagli avvenimenti che attendono con sicurezza.

Cosi mi vien riferito dal noto individuo, il eguale mi ha soggiunto, che gli si era proposto di accompagnarli e mi à domandato se io lo autorizzava a seguirli per tenere il R. Governo a giorno delle loro mosse, ma avendo V. E. respinte le sue prime offerte, non ho creduto aver la facoltà di concedergli la chiesta autorizzazione. Sono con sensi di alta e rispettosa considerazione. Post scriptum.

Al momento di chiudere il piego ritorna da me lo stesso individuo per comunicarmi che ierisera à avuto lunga conversazione con Medina ed Escubbeto i quali gli spiegarono tutto il piano delle loro operazioni. Essi sono latori di lettere di Cavour che gl'invita a condursi in Romagna e di là saranno essi trasportati in Sicilia dove si organizzerà a loro arrivo una dimostrazione popolare che sarà seguita da repressioni per opera della forza pubblica e da imprigionamenti, dei legni da guerra Francesi e Sardi i quali si trovano in crociera imporranno al Governo locale

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di desistere da ogni azione legale e prendendo pretesto da quella sedicente manifestazione della opinione popolare, dimanderanno che si sottoponga al suffragio universale la questione della forma del Governo da adottarsi.

Tanto mi ha riferito il noto soggetto, assicurandomi che rapportava parola per parola ciò che dai predeti aveva saputo e che egli stesso ha veduto la lettera di Cavour.

I due nominati individui partiranno probabilmente sabato prossimo 7 del corrente. Ho creduto dover aggiungere queste altre notizie, onde V. E. ne faccia l'uso che crederà migliore.

Firmato: Winspeare.

X.

Francesco II per la grazia di Dio Re del Regno delle due Sicilie, di Gerusalemme, ecc. Duca di Parma e Piacenza, Castro, ecc., gran Principe ereditario di Toscana, ecc. ecc.

Palermo, 14 aprile 1860.

Il Consiglio di guerra della guarnigione della Provincia di Palermo, investito di straordinari poteri in virtù dell'ordinanza del Generale Comandante le Armi della Provincia e Fortezza di Palermo, promulgata nel 4 aprile 1860 per lo stato d'assedio della suddetta città e distretto.

Essendoci adunato nella Fortezza Reale di Castellammare alle 8 ant. del 13 corrente, secondo gli ordini del Generale per giudicare in una sola seduta sopra:

Sebastiano Camarrone, figlio del fu Vincenzo, d'anni 30, da Palermo, pizzicagnolo;

Domenico Cuccinotti, figlio di Ciro, d'anni 34, da Palermo, muratore;

Pietro Vassallo, figlio del fu Antonio, di anni 40, da Pallavicino, operaio;

Michele Fanaro, figlio di Michele, di anni 22, di Boccadifalco, calcararo;

Andrea Cuffaro, figlio di Giuseppe, di anni 60, da Bagheria, operaio;

Giovanni Riso, figlio del fu Francesco, di anni 58, da Palermo, fontaniere;

Giuseppe Tolesi, figlio di Francesco, di anni 24, da Falsomele, guardiano;

Francesco Ventimiglia, figlio di Gaetano, di anni 24, da Misilmeri, operaio;

Michelangelo Barone, figlio del fu Pietromasi, di anni 30, da Mezzoiuso, carbonaio;

Liborio Vallone, presunto Calogero Villamanca, figlio di Ignazio, di anni 44, da Alcamo, calafato;

Nicola Di Lorenzo, figlio di Giuseppe, di anni 32, da Palermo, muratore;

Gaetano Calandra, figlio del fu Salvatore, di anni 34, da Palermo, calafato;

Cosimo Caneeri, figlio del fu Francesco, di anni 34, da Palermo, calafato.

Accusati del delltto di attentato a distruggere od a cambiare la forimi di governo o di eccitare gli abitanti ad armarsi contro l'Autorità Regia, arrestati fra i giorni 4 e 12 corrente aprile, trovati quanto a dieci di loro con armi in loro possesso, e quanto a tre con munizioni di guerra con effetti e strumenti con piombo, ecc. ecc. Nella supposizione che sieno essi i promotori e complici del detto delitto;

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Il Consiglio di Guerra sulla quistione del fatto presentato dal Presidente, secondo le prove ottenute dalle minute del processo; e secondo la pubblica discussione, e conforme all'opinione del Commissario del Re con maggioranza di 7 contro 1, ha dichiarato che tutti i 13 accusati sono colpevoli del delitto nei termini dell'accusa. Sulla quistione di legge:

Avendo veduto gli articoli 30 del Codice e Procedura penale, 123, 124, 5, 2, 6, 63 delle Leggi Penali e 246 delle Leggi di Procedura Penale, rimesse in vigore col Decreto Reale del 27 dicembre 1858, e per ordine del Generale Comandante la Provincia e la Fortezza; ha condannato e condanna, a unanimità di voti, tutti i 13 summenzionati alla pena di morte da essere eseguita con la fucilazione e col 3° grado di esemplarità pubblica, alle spese del giudizio, e finalmente ali'indennizzamento di danni ed interessi reclamato dal Tesoro Regio e da privati individui.

Questa sentenza sarà eseguita dopo il termine di undici ore passate nelle celle dei condannati. Se ne stamperanno 1000 copie per la debita pubblicazione.

Fatto sentenziato e pubblicato il 14 aprile 1860 alle ore 5 ant. In Palermo.

XI.

Il luogotenente Generale Castelcicala a S. E. il Ministro Segretario di Stato per gli Affari di Sicilia in Napoli.

Palermo, 14 aprile 1860. — Eccellenza. — L'effervescenza ridestatasi l'n questa città di cui ebbi l'onore favellare a V. E. col mio foglio del 12 dello stante N. 562 è andata crescendo, ed ieri sull'imbrunire taluni giovinastri e gente del popolo raccoltisi momentaneamente in un punto della via Toledo detto Madonna del Cassero, sventolando de'  fazzoletti i bianchi gridaron dapprima: Viva il Re, quindi «Viva la Italia». Accorse una pattuglia che stava li presso, disperse quell'attruppamento e ne traeva quattro in arresto.

Motori e capi di questa dimostrazione si erano un tal D. Filippo Salasia, un Michele Zanga ed un tal Domenico Lo Dico, dei quali si è disposto l'arresto.

Mentre avveniva questo scandolo un Caporale del 4° Reggimento di linea d'ordinanza, s'imbatteva in un gruppo di persone nella strada S. Sebastiano ed invitato a gridare m Viva la libertà», viva la Costituzione, si ricusò e fu disarmato. Da due giorni a questa parte lo spirito pubblico ha imperversato e si hanno ragioni per credere che i più avventati volessero tentare un colpo disperato.

Vengono designati i giorni 15 e 17 per la rivolta, ma tutto è disposto per conquiderla sul nascere, o per antivenirla.

La notte scorsa si son fatti dalla polizia togliere tutti i battocchi! delle campane delle chiese, essendosi ventilato che si volea agitare la città suonando a stormo.

Siamo ancora in una condizione violenta, e la febbre rivoluzionaria non ancora è calmata.

Le bande degl'insorti vanno sciogliendosi, ed un gran numero de'  traviati rientra nei comuni rispettivi.

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Ieri una certa quantità di quelli di Alcamo, di Partinico e di Corleone erano in Piana di Greci, ma si è saputo stamani, che lascerebbero se pur non l'abbian lasciato, quella contrada.

In Corleone i notabili e le persone più influenti si strinsero per vegliare sull'ordine pubblico, e questa mattina vi ho spedito cinquanta esemplari dell'indulto richiesto da'  compromessi.

Le colonne che percorrono il Distretto e che vanno ad entrare nella Provincia di Trapani, sono ricevute con acclamazioni e festeggiate colle grida di «Viva il Be». Tutto porta a credere, che lo scoraggiamento ha guadagnato i faziosi, e che si dissipa il turbine che minacciava Palermo.

Tatti i dintorni di questa città fino alle radici de'  monti, sono sgombri da faziosi.

Ieri son partiti i corrieri postali per tutte le direzioni, meno per Trapani.

Porto speranza che fra due giorni comunicherò liberamente con quella Provincia.

In Bagheri a è ripristinato il telegrafo ad asta, e sono partiti degli artefici per rannodare i fili elettrici spezzati.

Grazie all'alta sollecitudine di S. M. il Re che si è degnata spedire in questa delle abbondanti farine, la cupidigia de'  possessori di frumenti si è attenuata e l'annona pubblica ha migliorato. Nulla manca al mercato.

Sommetto a V. E. due esemplari dell'Ordinanza pubblicata da questo Generale Comandante le Armi nella Provincia contro gli attruppamenti sediziosi.

Colgo a premura sommettere a V. E. tutto ciò per la debita sua intelligenza.

XII.

Il luogoten. Gen. Castelcicala a S. E. il Principe di Comitini Ministro Segretario di Stato per gli Affari di Sicilia.

Palermo, 15 aprile 1860. — Eccellenza. — Pervenutimi i rapporti pe' quali sono ragguagliato di fatti particolari avvenuti nella Città di Messina, dal 1" istante a questa parte, compio il debito di riferirli in iscarico a V. E.

Il 1° di questo mese corsa in Messina notizia di essere abolito il dazio sulle suole, se ne chiusero tutte le fabbriche e furon congedati gli operai.

Questi, rimasti oziosi, impresero a crocchi a vagar per le strade, dimandando soccorsi, ma con arroganza, a quanti incontravano.

Ad ovviare qualche inconveniente che a ragion temeasi, l'Intendente chiamò le persone influenti del paese ed i fabbricanti di suole, ed interessò gli uni a far modo che quei manifatturieri si ritirassero, assicurandoli che sarebbesi provveduto per la loro sussistenza, e gli altri a riaprir le fabbriche per far lavorare quella estesa classe. Gli uni e gli altri promisero di obbedire ed attuavano il rispettivo impegno.

Però gli operai mostraronsi restivi, e fu mestieri di disporre a guarentigia dell'ordine, che forti pattuglie perlustrasser la Città che vede vasi alquanto agitata e di adottare altre misure di precauzione.

Cosi duraron le cose sino al giorno 7. Il giorno 8 una mano d'insorti osarono attaccare una pattuglia militare, la quale resistendo gagliardamente, giunse a respingerli. Si proclamò intanto la Città in istato di assedio.

— 196 —

La sera del 10 assembratisi i faziosi nelle campagne di Messina, attaccarono con fucilate la truppa, col divisamento di entrare nello abitato; però questa si sostenne e frustò il sinistro intendimento. Il conflitto durò per ore 6 all'incirca, nel quale, il forte S. Blasco tirò due colpi dì mitraglia, e si lamentò da parte delle Beali Milizie la perdita di un soldato, e la ferizione lieve di un Ufiziale.

Il di appresso (11) il Comandante le armi della Provincia e Piazza emise una proclamazione di minaccia, onde intimorire i faziosi che fossero nella città; la qual proclamazione avendo tutti compreso di terrore gli abitanti, determinò i Consoli stranieri a mettere in salvo le rispettive famiglie sulle navi di lor nazione che stavano in porto ed altri notabili a emigrare.

Il di appresso i sudetti Consoli e parecchie Autorità di Messina si recarono in corpo dal Generale Comand. le armi nella B. Piazza a pregarlo di non ricorrere alle minacciate estremità; ed il Generale Comandante anzicennato mise fuori un altro manifesto pel quale assicurò ch'egli avrebbe spinto solamente i mezzi estremi in caso di bisogno, verso gli aggressori delle Milizie.

Così rassicurati gli animi, rientrarono quelli già usqiti, nella Città; e cominciava a rinascere la fiducia e la quiete.

Gli Uffizi pubblici sono nel loro esercizio, e già si andavano a riaprire le interrotte comunicazioni.

Piacciavi all'E. V. restare intesa di questi particolari Ano al 12 andante e farne l'uso che giudicherà in sua saviezza.

XIII.

Il luogotenente Generale Castelcicala a S. E. il Principe di Comitini, Ministro Segret. di Stato per gli Affari di Sicilia. Napoli.

Palermo, 15 aprile 1860. — Eccellenza. — L'Intendente della Provincia di Caltanissetta con foglio del 9 stante mi ha scritto così:

Ora eh'è felicemente passata la breve crisi, che sparse apprensione in questa parte de'  Reali Domini, io debbo rapportare a V. E. con sensi di veracissima gioia come più che mai profonda è stata la tranquillità di questa buona provincia.

Tutti i funzionari d'ogni ordine, rimasti fermi a'  loro posti, hanno insieme fatto uso di precedente contegno, mentre che le popolazioni di loro parte non avrebbero potuto dimostrare maggiore buon senso, né maggiore confidenza nella pubblica autorità.

Grandissimo e stato poi in tutti e in ogni Comune l'attaccamento ed L il rispetto verso il Real Governo.

FSenza dunque defraudare ad alcun funzionario, ne' paesi della Provincia, la lode meritata dalla comun condotta, io debbo fare special menzione del capoluogo Caltanissetta, dove, non che l'ordine e la tranquillità, è stata mantenuta integra ogni costumanza religiosa della Settimana Santa.

— 197 —

Numeroso concorso di vicini paesi per godervi i mesti uffici di Chiesa Santa, ha reso in questi giorni imponente la Città di Caltanissetta, ma quanto maggiore era il pericolo, altrettanto incolume vi si mantenne l'ordine che né dal più lieve reato di sangue o di furto fu tocco affatto.

La grande processione serotina de'  misteri Cristiani nel Giovedì Santo e l'altra ancor ragguardevole del Crocefisso nel Venerdì, segnarono la miglior prova di un paese che sempre unanime nelle sue varie classi, giammai smentì la sua fede verso l'Augusta dinastia Regnante.

Oggi stesso ho fatto manifesta la mia soddisfazione a tutti i funzionari, per continuare sempre meglio le ordinarie occupazioni.

Mi onoro comunicar tutto ciò all'E. V. per la debita sua intelligenza e per farne l'uso che giudicherà in sua saviezza.

XIV.

Il luogotenente Generale Castelcicala a S. E. il Principe di Comitini ministro Segretario di Stato per gli Affari di Sicilia. Napoli.

Palermo, 15 aprile 1860. — Eccellenza. — In Catania la privazione per cinque giorni di notizie dirette, dopo quelle colà giunte della sommossa di Palermo, in parte esagerate ed in parte false, scoraggiò grandemente gli onesti, e rese baldi e giulivi gli agitatori.

Però le misure opportune dell'Autorità civile in perfetto accordo con la militare, ed il contegno delle Reali Milizie tenner saldo l'ordine che la parte guasta del popolo avrebbe voluto mettere a soqquadro, per profittarne.

Giunto colà il Piroscafo da me spedito, che recava mio uffizio all'Intendente con cui dava veraci ragguagli della situazione di Palermo, e questi propagati a bello studio rapidamente si riconfortavano gli animi, ma gli agitatori avendone dispetto feano ogni opera per ismentirli o screditarli. Pe' cattivi suggerimenti quindi della classe perversa, si diffondea lo allarme e le apprensioni invadevano gli animi della gran maggioranza, che temeva nella concitazione del popolaccio il sacco e le rapine, cui avrebbe potuto ad ora ad ora abbandonarsi la ribaldaglia se lo spirito della sedizione intristisse.

Fu quindi provveduto che forti pattuglie percorressero di e notte la Città (le quali sperperavano gli attruppamenti), e che si ghermissero i più notori ladroni che soffiavano il disordine.

I buoni tutti, e gli onesti strettisi alle Autorità, comprendendo la grave situazione del momento, sonosi cooperati per neutralizzare le mene dei perturbatori, i quali anziché lo sperato appoggio nelle classi elevate, hanno trovato questa volta una ripugnanza ed una riprovazione agli iniqui loro disegni di sovversione e di anarchia.

L'Autorità è nel suo pieno prestigio, la rivolta fu compressa prima che si manifestasse, e le misure adottate varranno a prevenire qualche colpo di mano che gente trista estranea alla città potrebbe co' facinorosi interni osare di tentarvi.

— 198 —

Il resto dei Comuni della Provincia, assicura l'Intendente, mantengonsi in una certa agitazione, ma sopratutto tranquilli, ed in attitudine di aspettazione sui fatti che saranno compiti nella città di Catania ed in questa Capitale.

Piaccia all'E. V. restarne intesa.

XV.

Lettera di Vittorio Emanuele a Francesco II.

Firenze, 15 aprile 1860.

Caro Cugino. — Mi sarebbe inutile farle osservare lo Stato politico dell'Italia dacché le grandi vittorie di Magenta e di Solferino distrussero l'influenza che l'Austria esercitava sul nostro paese. Gl'Italiani non possono più essere governati come lo erano trent'anni sono. Eglino hanno acquistato la piena conoscenza dei loro diritti, e posseggono la sapienza e la forza succienti per difendersi. D'altra parte la pubblica opinione ha sancito il principio che ogni nazione ha il diritto incontestabile di governarsi come meglio crede. Ma annientata l'influenza già onnipotente dell'Austria, era naturale che i popoli dell'Italia centrale si affrancassero dai minori Principi e tentassero di costituire una Nazione unita ed indipendente. Siamo giunti cosi ad un tempo in cui l'Italia può essere divisa in due Stati potenti, l'uno del settentrione, l'altro del mezzogiorno, i quali adottando una stessa politica nazionale sostengano la grande idea dei nostri tempi, l'Indipendenza Nazionale. Ma per mettere in atto questo concetto, è, come io credo, necessario che Vostra Maestà abbandoni la via finora tenuta, se Ella ripudierà il mio consiglio il quale, mi creda, è il risultato del mio desiderio pel bene suo e della sua dinastia, se Ella ripudierà il mio consiglio, verrà forse il tempo in cui io sarò posto nella terribile alternativa, o di mettere a pericolo gli interessi più urgenti della mia dinastia, o di essere il principale strumento della sua rovina. Il principio del dualismo se è bene stabilito ed onestamente seguito, può essere tuttora accettato dagli Italiani.

Se Ella lascerà passare qualche mese senz'attenersi al mio suggerimento amichevole, V. M. vorrà forse sperimentare l'amarezza di quelle terribili parole «è troppo tardi» come avvenne ad un membro della sua famiglia nel 1830 a Parigi. Solo gl'Italiani potrebbero concentrare in un solo tutte le loro speranze; vi son doveri, quantunque increscevoli, che un principe italiano dee adempiere. Poniamoci dunque insieme a tanto nobile lavoro, mostriamo al Santo Padre la necessità di dare le dovute riforme, uniamo i nostri Stati in un legame di vera amicizia, da cui sorgerà certo la grandezza della nostra Patria. Voglia Ella accordare subito una Costituzione liberale; si attornii della influenza di quegli uomini che sono i più stimati per i patimenti sofferti nella causa della libertà, rimuova ogni sorta di sospetti dal suo popolo, e stabilisca un'alleanza perpetua fra i due potenti Stati della Penisola. Noi allora attenderemo ad assicurare al nostro Paese il gran vantaggio di essere l'arbitro dei suoi destini.

Ella è giovane, e l'esperienza comunemente non è la dote della gioventù.

Mi permetta adunque d'insistere nella necessità di seguire il consiglio che le offro nella mia doppia qualità di parente prossimo e di Principe italiano.

— 199 —

Attenderò ansiosamente al ritorno del corriere confidenziale che presenterà questa lettera a Vostra Maestà, una risposta soddisfacente.

Mi creda di V. M. il più affezionato cugino,

Vittorio Emanuele.

XVI.

Il Luogotenente Generale Castelcicala al Principe di Comitini Consigliere Ministro Segretario di Stato per gli Affari di Sicilia in Napoli.

Palermo, 17 aprile 1860. — Eccellenza. — Un tal D. Francesco Riso, agiato, Maestro fontaniere, capo della banda che nell'alba del di 4 dello stante riunivasi nel convento della Gancia, cadeva nel conflitto mortalmente ferito da più colpi d'armi da fuoco, ed era condotto allo spedale.

Costui trovasi in uno stato disperato, e sarà difficile che si salvi. Iersera dopo d'essere stato per più volte indarno interrogato su' fatti criminosi ai quali prese parte, fatto miglior senno, manifestava di voler parlare al Direttore di polizia per rivelargli quanto sapeva.

Questo funzionario recavasi tantosto dal ferito nello spedale e domandando questi che gli fosse dalla Clemenza di S. M. D. G.) condonata la pena, dichiarava quanto è appresso.

Ch'egli era stato l'anima della cospirazione che divampò col moto sedizioso dei 4 andante, e che questa cospirazione ha durato fin ora con varie vicende essendo sempre abortiti i tentativi d'insurrezione, sia perla viltà dei cospiratori esitanti, timidi ed irresoluti sempre.

Che venuto il movimento italiano, la guerra contro l'Austria, la ribellione degli Stati dell'Italia centrale, il principio dei fatti compiuti, quello del non intervento la cospirazione pigliò nuova lena, e dilatossi reclutando delle persone nobili e denarose.

Che in ottobre ultimo, venuta meno la speranza d'un movimento per l'energia spiegata dal Governo, si ricorse all'assassinio nella persona del Direttore di Polizia, e Ducati 600, ed un pugnale, che dice avvelenato, faron dati ad un sicario che assicura non conoscere (ma pel quale usa reticenza forse per pudore dell'atto scellerato) ed aggiunge che posteriormente si opinava assassinare in vettura il Direttore, ma ch'egli riusci a dissuadere i congiurati dal farlo.

Che datosi a preparare il movimento non potè raccogliere fra dentro e fuori della città che un 110 fucili, la più parte dissotterrati, e che pensò supplirvi forgiando delle lance per ornarne gl'insorti, e facendo fondere da un ferraro delle granate.

Che gl'individui a manca (1) ed altri che non ancora ha nominato, perché dice d'essere offuscata la sua mente, e che a mio yedere è per ripugnanza a svelar tutti i suoi complici più intimi e della sua condizione, fornivano il denaro.

(1) Barone Riso, arrestato; Barone Cammarata, id.; Principino Niscemi, id.; Principe di Giardinelli, id.; Duchino di Cesarò, id; Principe Pignatelli, id.; Cav. Ottavio Lanza di Trabia, id.; D. Rocco Graj mitto; D. Mariano Indelicato, id.; D. Francesco Perroni Fati; D. Casimiro Pisani.

— 200 —

Ed è tanto vero che usa delle reticenze, quanto ricordatigli taluni nomi dal Direttore ch'egli avea obliato, non negò ch'erano nel complotto.

Che il movimento non doveva aver luogo il mattino del 4, ma sul finire di Aprile, quando i mezzi sarebbero stati preparati, ma che per l'arresto verificatosi di taluni de'  congiurati, e temendosi che tutto si sventava si affrettò la sommossa, ch'ebbe un esito infelice.

Che nel mattino del 4 non poterono unirsi tutti alla Gancia i faziosi perché la Compagnia d'armi e la Polizia nella notte occupavano i dintorni del Convento.

Che suo disegno era non di fare resistenza alla Gancia, ma di riunire i faziosi ed armarli in quel Chiostro, e poscia passare nella Piazza della Fieravecchia, per barricarsi e lasciar libero lo ingresso da Porta di Termini a'  villaui, da dove doveano penetrare in città.

Che non eranvi in Palermo altri depositi di armi, fuori di quello della Gancia e di quello sorpreso presso S. Caterina da Siena la notte de'  15 a'  16 andante, sorpresa ch'egli ignorava.

Ch'egli non temeva altro movimento in città per ora, e fino a quando la cospirazione non avesse rannodato le sue fila, ritenendo egli che in Palermo si cospira sempre.

Son queste le rivelazioni fatte dal Riso, e si sta provvedendo perché fossero consacrate in un verbale giuridico nella istruzione che si sta compilando.

Rassegno a V. E. quest'importanti particolari per farne l'uso che giudicherà in sua saviezza.

XVII.

Il Luogotenente Generale Castelcicala a S. E. il Principe di Comitini, Segretario Ministro di Stato per gli Affari di Sicilia.

Palermo, 19 aprile 1860. — Eccellenza. — Sempre più rassicuranti sono i rapporti ed i telegrammi che mi pervengono dalle provincie sul consolidamento del l'ordine in questa parte de'  R. Domini e sul ripristinamento completo dell'azione governativa e della riscossione di pesi pubblici. Messina che fu fortemente scossa ha ripreso la sua ordinaria fisonomia ed il suo movimento. Catania è tranquilla ed ogni altra contrada tutto è nelle normalità.

Solo nel ristretto teatro de'  monti fra Montelepre e Carini sonosi concentrati ì faziosi in armi, i quali perseguitati da più colonne delle R. Truppe non hanno posa ed ieri attaccati in Carini, fortissima posizione, ove credevano di poter opporre una vigorosa resistenza con successo, furono sloggiati dalle R. Truppe che ne uccisero una parte, e che alle grida di «Viva il Re» espugnarono il paese, che fu esposto a tutte le conseguenze d'una città pigliata d'assalto.

Una parte del caseggiato rimase preda delle fiamme, giusta necessaria e terribile punizione meritata da un paese ribelle, dalla quale trarranno utile insegnamento le altre terre, che provocano la guerra civile, innalzando il vessillo della rivolta.

— 201 —

In questa città dopo i disastri toccati dai faziosi in armi nelle montagne, v'è scoramento e sconforto, e non trovano più fede le bugiarde voci che i maligni divulgavano per sollevare lo spirito sedizioso.

E' stato arrestato l'agitatore D. Angelo La Cava, di cui favellai nel mio precedente rapporto.

Tolgo a premura sommettere ciò all'E. V. per la opportuna sua intelligenza.

(Situaz. di Palermo).

XVIII.

Il Luogotenente Generale Castelcicala a S. E. il Principe di Comitini Consigl. Ministro degli Affari di Sicilia intorno alla situazione attuale. Napoli.

Palermo, 20 aprile 1860. — Eccellenza. — L'Elettrico partito iersera per codesta volta, per fortuna di mare, dovè tornare in questa.

Dai rapporti che mi arrivano dal teatro dell'ultima lotta, e da'  paesi vicini apprendo che le bande dissipate e sciolte vanno ritirandosi ne' rispettivi comuni, e si son visti de'  gruppi di faziosi per le montagne parte armati, e parte inermi andare per diverse direzioni. Tutto sembra far credere che il colpo fatto dalle R. Truppe sopra Carini abbia incusso in tutti i fuorviati un salutare terrore, e li abbia ricondotti e persuasi a non prolungare una lotta per loro funesta.

Stamane parecchi compagni d'arme arrestarono lungo la via Consolare da Partinico a Morreale due insorti armati che han tradotti in questa.

I compagni d'arme han preso parte a tutti i conflitti avvenuti contro i ribelli ed hanno gareggiato colle R. Truppe di zelo, di abnegazione e di coraggio.

I comandanti militari sotto i quali hanno servito si sono altamente lodati del lor concorso.

La notte scorsa la polizia in questa sorprendeva nove fucili in una casa disabitata atti a maleficio, ed altri cinque smontati e mancanti di qualche pezzo.

Eran tutti di quelli dissotterrati e forbiti alla meglio.

Più rinveniva 200 fulgori.

Le perquisizioni sono continue. Quel D. Francesco Riso, capo del moto sedizioso della Gancia di cui ebbi luogo a favellare a V. E. nel mio foglio del 17 andante, N. 633, sta facendo le sue dichiarazioni al Giudice della G. Corte Criminale delegato per la istruzione degli ultimi fatti.

Le presentazioni de'  faziosi continuano sotto la garentigia dello indulto. Si usa indulgenza per quelli che depongono le armi nelle mani delle autorità, e si traggono in arresto per incriminarli quelli che dopo aver celato le armi tornano cheti nei Comuni nella speranza di passare inosservati.

Piaccia a V. E. rimanere intesa di questi particolari, e farne l'uso che giudicherà conveniente.

— 202 —

XIX.

Il Luogotenente Generale Castelcicala a S. E. il Principe di Coraitini Consigl. Ministro Segretario di Stato per gli Affari di Sicilia. Napoli.

Palermo, 20 aprile 1860. — Eccellenza. — Pervenutimi ulteriori rapporti delle Autorità delle Provincie, compio il debito, in continuazione, ragguagliarne in aunto V. E.

Ne' Distretti della Provincia di Palermo si è ricomposto l'ordine là dove era stato sconvolto, e pur si è riattivata la percezione dei Dazi.

In Termini si è celebrata l'apertura al Consiglio Distrettuale. La Città di Messina è in calma, vi è rimesso l'ordine v'è rinata la fiducia. L'autorità ha riattivato le opere pubbliche per addirvi gl'inerti, dar loro mezzi di vita ed alienarli dal vagabondaggio e dal malfare.

Nel resto della Provincia si è pure interamente ristabilita la tranquillità, ov'era stata per gl'incitamenti degli agitatori pergiuntivi da Messina, per breve ora, scossa o turbata. La percezione dei dazi si è ovunque ripristinata.

Le colonne mobili che percorrono la provincia sono ovunque festeggiate ed accolte col grido di «Viva il Re».

In Catania v'è soddisfacente calma, si rianimano i saggi, si sono riattivati i lavori pubblici e le fabbriche, ove migliaia di operai trovan pane per sè e per le famiglie.

Con volontarie oblazioni degli agiati, s'è venuto in soccorso de'  poveri inabili al travaglio.

Nel di più della provincia vi è quiete ed i proprietarii gareggiano colle autorità per far testa a'  pochi malvagi che desiderano lo scompiglio per usufruttarlo.  ìn Caltagirone vi si è aperto il Consiglio Distrettuale.

Nella Città e provincia di Noto si è stato estranei a disordini ed alle aberrazioni, dolorati qui, in Messina ed in qualche altro paese.

Vi è saldo il principio di fede al Re S. N. e di attaccamento all'ordine.

Nella Città di Girgenti vi è calma apparente, però si sta in espettazione di notizie degli eventi della Capitale dell'Isola, diffidandosi del trionfo già fatto della buona causa, che si è da qui comunicato all'Intendente, e da questa per le stampe comunicato ne' paesi di sua dipendenza.

Il resto della Provincia è tranquilla, ma si sta come nei Capoluogo, esitanti e perplessi in espettazione di notizie sul resultato delle operazioni delle R Milizie su' ribelli ambulanti.

Non di meno in Girgenti si è aperto il Consiglio Comunale e Provinciale.

Ovunque i buoni desiderano ordine ed all'uopo fiancheggiano l'autorità.

Nella Città di Trapani non vi è azione governativa, e tutto è in abbandono per l'assoluta inettitudine dell'Intendente, e per la debolezza del Comandante Militare.

In tutti gli altri paesi della Provincia si è ricomposto l'ordine dov'era stato turbato, ma mancano l'azione e l'energia del Capo luogo, la cosa pubblica procede sconcertata ed i dazi non si pagano.

— 203 —

In Caltanissetta ed in tutta la Provincia non possono durare più soddisfacenti l'ordine e la tranquillità. Si deplorano colà le aberrazioni dei paesi di aliene contrade, si gode del trionfo riportato dalle R. Truppe sopra gl'insorti, e si fanno voti perché presto finisca l'attuale vertigine politica, e torni ovunque la quiete, e la obbedienza al R. Governo.

Sono infine assicurato da parziali rapporti de'  singoli paesi di tutte le Provincie che, come per incanto i proprietari e gli onesti rifuggono da'  disordini, e per mantenere salda la quiete, dànno la mano all'autorità per conquidere i tristi, che vorrebbero agitarsi per avere un istante di anarchia.

Piaccia all'E. V. restare intesa di questi particolari e farne l'uso che giudicherà in Sua saviezza.

XX.

Garrou al Ministro Affari esteri. Napoli. Rispondo al Telegramma del 17.

Non vi è mezzo saperlo certo — Qui si arrolla per Sicilia e Romagna — Garibaldi condurrebbe le masse da imbarco su vapore chiesto a Marsiglia e Livorno, precedendole solo: partì ieri sera e vuolsi che con altro nome sia sul Vapore Commerciale Russo Cara per Messina. Genova, 17 aprile 1860 — ore 8 a. m.

Tschudy da Firenze a S. E. Carafa. Napoli.

Sono assicurato che nella notte dal 22 al 23 corrente passerà di qui vapore con Bandiera Inglese (credesi S. Venefredo) prenderà a bordo individui fra i quali tre fratelli Sgaralini di qui, per sbarcare in Sicilia.

Livorno, 19 di aprile 1860 — ore 2 14 p. m.

Canofari a S. E. Carafa. Napoli.

Regio Console riferisce a V. E. Garibaldi scomparso da Genova. l'miei informi di qui convengono sia partito per Sicilia.

Rosalino Pilo, agitatore, con lui. Vuolsi tenteranno sbarco con falso nome.

Torino, 20 aprile 1860 — ore 3 p. m.

— 204 —

XXI.

L'Incaricato del Portofogli degli Affari esteri Carafa, a S. E. il Cons. Ministro di Stato per gli Affari di Sicilia.

Napoli, 20 aprile 1860. — Eccellenza. — Il Ministro inglese e l'Incaricato d'Affari di Prussia sono stati separatamente da me per darmi lettura di rapporti ricevuti dai rispettivi Consoli in Messina, l'oggetto dei quali era di chiamare l'attenzione del R. Governo sulla condotta tenuta dal Generale comandante quella fortezza, in occasione de'  disordini di recente ivi avvenuti. — Il ministro inglese con il ricevuto rapporto mi ha dato lettura dell'annessavi copia di un indirizzo presentato al sudetto Generale e sottoscritto da tutti i Consoli esteri ivi residenti, meno che dai Consoli di Austria e Russia.

Protestavano i Consoli con tale atto a garentigia delle persone e proprietà dei rispettivi connazionali per i danni che a questi arrecava il vivo fuoco di artiglieria e moschetterìa, che di giorno come di notte non aveva cessato contro la Città atterrita dal 9 al 16 corrente mese senza che in questo spazio di tempo, alcuna provocazione di disordini, né di attacco di faziosi contro le R. Truppe avesse potuto giustificarlo e malgrado le assicurazioni dallo stesso Generale già loro date, che mai sarebbe stato dalla cittadella tirato sulla città se da questa non si fosse attentato alla Sicurezza delle R. Milizie. Sembrava una tale promessa dover essere mantenuta dell'essersi ritirato l'ordine, con affissi già minacciato di far fuoco nel caso preveduto.

Il Generale, dice il rapporto, aver risposto ai Consoli, che ciò era ivi accaduto per equivoco; le funeste conseguenze n'erano state un inglese ferito, vari Regi sudditi morti nelle proprie case, contro delle quali la truppa eseguiva senza provocazione, scariche di moschetti.

Contro tali ingiustificabili eccessi, i Consoli chiamavano con l'atto di protesta responsabile il Generale de'  danni ed interessi cagionati a rispettivi nazionali negozianti e sugli abitanti.

Sullo stesso tema è il rapporto lettomi dall'Incaricato di Russia, il cui console inoltre dimanda dal Governo la soddisfazione dovutagli per non avere il Generale risposto alla dimanda fattagli d'una guardia di sicurezza offertagli, e che realmente è stata data a tutti gli altri Consoli esteri.

Lascio alla saggezza di V. E. il giudicare di quante gravi e nuove complicazioni possa essere anche per la causa dell'ordine la condotta tenuta da quel Generale comandante, della quale sembra non potersi dubitare, e mi limiterò a pregarla di voler prendere provvedimenti che stimerà proprii ad impedire dar nuovi motivi a simili reclami, e mettermi nel caso di dare ai due esteri rappresentanti una risposta che soddisfi gli avanzati reclami dopo averne verificata la giustizia.

— 205 —

XXII.

Il Luogotenente Generale Castelcicala a S. E. il Ministro Segretario di Noto per gli Affari di Sicilia.

Palermo, 21 aprile 1860. — Eccellenza. — Ha riferito il funzionario di Polizia di Marsala che il giorno 18 volgente dava fondo in quella rada, a distanza di un miglio circa dal Porto, la Fregata a Vapore Inglese denominata Amphiou, e staccando una lancia con due Ufficiali ed alquanti marinari, facendosi precisione delle leggi Sanitarie, uno degli Ufficiali si condusse alla Casa del Vice Console di Sua nazione nello stabilimento dei vini del Sig. Wood, senza conoscersi lo scopo di tale approdo e dello abboccamento con detto Vice Console.

Questa Fregata, intanto ieri dava fondo in queste acque, e si è saputo essere al Comando del Sig. Thomas Cochrane, con 36 cannoni e 350 uomini d'equipaggio.

Volgo ad onore di far ciò noto a V. E. per la debita intelligenza.



















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