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GLI AVVENIMENTI D’ITALIA DEL 1860

CRONACHE POLITICO-MILITARI DALL’ OCCUPAZIONE DELLA SICILIA IN POI

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VOLUME II. - 02B

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VENEZIA

PREM. TIPOGRAFIA DI GIO. CECCHINI EDIT.

1861

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PARTE QUARTA

DALL’ASSEDIO ALLA PRESA DI GAETACOLLA RESA DI MESSINA E CIVITELLA DEL TRONTO

CAPITOLO PRIMO

Fortezza di Gaeta. Principi e principesse che andarono a Gaeta con Francesco II

I.

Gaeta è una bella ed antica città vescovile nella Terra di Lavoro, sopra un golfo che porta il suo nome, a 16 leghe N. 0. da Napoli giace a piè d’una montagna, e conta 10000 abitanti. È una penisola, congiunta alla terraferma per mezzo di un istmo, nel cui centro trovasi il sobborgo, del quale tanto si parlò. Lambiscono la penisola le; acque occidentali di un golfo, in fondo del quale è posta la città di Mola di Gaeta con 8000 abitanti, e un breve tratto piè oltre il villaggio di Capuzzi, luoghi incantevoli, i quali rammentano' la più sublime poesia ed eloquenze, che siamo costretti, nostro malgrado, a dimenticare per rivolgere il pensiero alle opere sanguinose della guerra. Rammenteremo sol tanto che Gaeta, per la sua posizione isolata, formò una specie di Repubblica indipendente sotto la sovranità nominale degl'imperatori d’Oriente.

Parlando degli assedii sostenuti da questa città, diremo die dopo la pace d'Aquisgrana, Gaeta, che già aveva più o meno onorevolmente sostenuti gli assedii di Consalvo nel 1504, del duca di Livia e di Carlo III nel 1734 e del francese Rey 1798, era stata sì bene e fortificata che, quando la debole reggenza di Napoli inviava ordine al principe d'Assia Philipstadt di cederla ai francesi, calati nel Reame sotto gli ordini di Massena, il principe tedesco ricusava l'obbedienza, dichiarando volerla difendere per uniformarsi ai più impellenti comandi dell'onore e della guerra. Il principe, ch'era assistito dalla flotta inglese, la quale costeggiava il golfo, perdurava siffattamente nel suo proponimento, che seppe resistere all'oste francese per oltre sei mesi, e solo capitolava il 18 di luglio 1806, quando la Sicilia era caduta e dopo di aver sostenuto undici giorni di terribile fuoco.

Questo memorabile assedio può menar vanto di cinque mesi, di blocco, e di assedio, compresi quattro mesi di trincea aperta ed undici giorni di fuoco» I francesi ebbero 790 soldati e 29 ufficiali fra morti e feriti, e il principe d'Assia ne ebbe un numero certamente non minore. Gli assedianti trassero 68700 colpi e più di 100,000 ne rispose Gaeta. Nei lavori i francesi impiegarono 171,000 sacchi di terre, 9,000 gabbioni e 32, 000 fascine, più tutte le porte e le tavole che venne fatto di rinvenire nel sobborgo. Per compera dei materiali furono spesi 430, 000 franchi, 800, 000. per indennizzo di guasti falli. Calcolando poi il costo delle polveri e proietti, tirati da ambo le parli, ascese esso a 6,565,000 franchi.

II.

Ora Gaeta, dal lato di terra, presenta una stretta fronte d’attacco con dinanzi una spianata d’arena. I monti che le stanno dietro, e dai quali la si avrebbe potuto dominare, sono scogli erti e dirupati e fu d’uopo scavarvi faticosamente la strada per poter portare su quelle alture le artiglierie di assedio e recar inoltre da luoghi molto lontani la terra per far trincee.

Il sistema difensivo della fortezza riposa sulla sua posizione, isolata in mezzo al mare, ed estende le opere d’arte d’attorno al monte Orlando, ch'è la parie più elevata del promontorio. Componesi di cinque linee differenti di fortificazioni, le quali sono Furia dall’altra a vicenda protette e dominate. Sul punto culminante trova$i la torre Orlando, circondata da un forte, costrutto a modo di stella a sei raggi, che non è sé non il ridotto della cittadella. Tre di queste punte sono rivolte verso l'istmo e concorrono colle altre Ire a difendere pure la piazza dal lato del mare. Però i più formidabili mezzi di difesa sono rivolti versi) il continente.

Dalla cittadella scendendo il declivio verso l'istmo trovasi immediatamente la batteria della Regina, che costituisce da sé stessa una vera fortezza. Più sotto incontrasi una batteria a due file di cannoni, denominata Sant'Andrea. A un di presso sullo stesso piano sortovi altre sette batterie in riva al mare, di cui quattro a sinistra e tre a destra, e sono partendo da Sant'Andrea, a sinistra: La Breccia o I tre Piani, Calderi o Piattaforma; Cinque Piani e Tre Croci; a destra: La Tica, S. Giacomo, Conza o Cappelletta.

AI di sotto, delle batterie Regina e Sant’Andrea giace quella di Philippstadt, posta sulla sofà portad'ingresso, che abbia la fortezza dalla parte di terra. Vi è inoltre una cinta continua, munita di torri, mezzelune e. batterie.

Oltre |a porta di terra, detta l'Avanzata, un'altra ve ne ha, detta porta del Mare. Essa si trova sul mezzo di una rada, che s'inoltra all'estremità del promontorio. È questo l'ingresso principale, dappoiché i trasporti dell’arsenale di Napoli a Gaeta si fanno per mare, e per questo la bella strada, già esistente fra Mola e Gaeta, fu lasciata deperire, riconosciuta come inutile ai difensori, e che avrebbe potuto anzi facilitare assai i lavori degli assediarti.

Le batterie della fronte d'attacco, dalla parte di terra, che non si estende oltre 700 metri, ed è difesa da opere costrutte o cavate nel masso, danno in complesso circa 3000 pezzi, i cui fuochi convergono i punti, donde debbono necessariamente muovere gli assalti. Il fosso appiè della scarpa è tagliato, nel masso, ed il basso della scarpa trovasi affatto coperto. Gli altri punti fortificali sono protetti da masse di rupi, che li rendono inaccessibili e vanno al mare. 11 terreno sulla fronte d'attacco è sassoso a segno da non poter avanzare se non lentissimamente o mercé lo zappone.

La piazza di Gaeta, così forte per la sua posizione e per la quantità delle sue opere fortificate, di. cui è. munita, ha inoltre. due linee naturali di difesa, il Volturno ed il Garigliano. i fatti avvenuti su queste linee furono da noi già esposti.

Dalla cronaca dell'assedio del 1806, da noi così brevemente tracciata, si potrà giudicare con quante e quali difficoltà abbia a contendere il generale, cui furono da Vittorio Emanuele affidate le operazioni contro Gaeta. E si osservi che se nel 1806 l’esercito di Francia non riusciva a rendersi padrone di Gaeta che dopo sei mesi di potentissimi sforzi, come si potrà ora operare contro una Gaeta, diremmo quasi tramutata per l'aumento di nuove e formidabilissime difese? Massena non ebbe al certo a contendere colla artiglieria del bastione della cittadella recentemente rinforzato, né colla batteria della Regina, or sono pochi anni costruita, né con molte altre in seguito aggiuntevi. Non esistevano nel 1806, come esistono ora, le casematte dei fronti, né i 640 cannoni che guerniscono i bassi ed alti forti. Nè qui è tutto, ché, per impedire gli approcci, il Monte Secco venne con immenso lavoro spianato, e spianate pur vennero le case del sobborgo, eh’ erano più prossime alla cinta della città. Il suolo dei giardini di Serapo, che in quel tempo offriva nascondiglio securo ai lavoratori francesi, è ora ridotto ad arido piano, che si confonde e forma in vero parte della grande spianata, la quale sta di fronte all'unica entrata della fortezza. Un esercito, che al nostro tempo assedia Gaeta, deve quindi almeno da questo lato, ch’è forse il più importante, deve, diciamo, lavorare allo scoperto senza speranza di poter nascondere al nemico le opere d’approccio che va mano mano costruendo.

III.

I principi e le principesse che andarono a Gaeta sono i seguenti:

Maria Leopoldo Francesco II, nato il 1836, nominato Re delle Due Sicilie il 22 maggio 1859;

La Regina, figlia di Massimiliano Giuseppe, duca di Baviera e sorella dell’imperatrice d’Austria;

Il conte Luigi Maria di Trani, fratello del Re, nato il 1 agosto 1838;

Il conte Alfonso Maria di Caserta, fratello del Re, nato il 28 marzo 1841:

Il conte Gaetano Maria di Girgenti, fratello del Re, nato il 18 gennaio 1846;

Il conte Pasquale di Bari, fratello del Re, nato il 15 settembre 1852;

Il conte Gennaro Maria di Castelgirone, fratello del Re, nato il 28 febbraio 1837;

La principessa Maria Annunciata Isabella, sorella del Re, nata il 24 marzo 1843;

La principessa Maria Clementina Immacolata, sorella del Re, nata il 14 aprile 1844;

La principessa Maria Pia, sorella del Re, nata il 3 ago sto 1849;

La principessa Maria Immacolata Luigi, sorella del Re, nata il 21 gennaio 1858;

La Regina vedova di Ferdinando II, matrigna del Re, Maria Teresa Isabella, arciduchessa d'Austria, nata il 1816.

Riguardo agli zìi del Re due di loro, il conto di Siracusa e il conte d'Aquila, sono, uno a Firenze e l'altro a Londra. Il conte di Trapani è a Gaeta (1).

La regina vedova di Napoli, nel 22 novembre alle 5 pomeridiane, proveniente da Gaeta, giunse improvvisamente in Civitavecchia sotto lo stretto incognito di contessa di S. Cecilia, accompagnata dalla maggior parte de reali principi e principesse suoi figli, e loro seguito, e si condusse a Roma, ove prese alloggio nel palazzo apostolico del Quirinale.

(1) L'Osservatore Triestino pubblicò la seguente lettera direttagli dal segretario del conte di Montemolin:

«Pregiatissimo sig. direttore dell'Osservatore Triestino;

Sul di lei pregiatissimo foglio di ieri si copia I articolo della Gazzetta di Torino, nel quale, dopo la lista dei nomi di tutt'i principi e le principesse della famiglia di Napoli, si assicura che non si sa se S. A. R. il conte di Tra pani sia a Gaeta o pur no.

S. A. R. il conte di Trapani è in Gaeta, ha seguito sempre fedelmente il Re delle Due Sicilie, dividendo con lui tutt’i pericoli e conservando il comando della guardia reale, che aveva da varii anni.

 S. A. R. il conte di Trapani ha, fatto e farà sempre il suo dovere, come glielo impongono i retti principii, che dalla più tenera età ha sempre professato pubblicamente, e la sua condotta in tutti questi tristi avvenimenti è stata ed è troppo nobile perché si possa lasciar in oblio.

 Sicché la pregherò, sig. direttore, di aver la compiacenza d’inserire nel suo stimatissimo foglio questa dichiarazione, in ossequio e del principe e della verità.

 Mi creda, ec.

» Trieste li 18 novembre.

Di Lei, sig. direttore,

Aff. ed osseq. Servitore

Il segretario del conte di Montemolin

Niceto Morikno. »

Quantunque i rappresentanti delle Potenze estere, i quali seguirono in Gaeta S. M. Francesco II, avessero dichiarato di voler compiere in ogni evento la loro missione, rimanendo fermi al posto, pure S. M. formalmente gl'invitò, verso la metà di novembre, a ritirarsi in Roma, dove continueranno ad essere considerati come accreditati presso la real Corte di S. M. Francesco II.

CAPITOLO SECONDO

Cialdini passa II Garigliano. Flotta francese. Presa di Mola di Gaeta. Protesta del Governo di S. M. Francesco Il perché la flotta sarda prese parte a questo combattimento

I.

Il generale piemontese Cialdini, nella notte dell'1 al 2 novembre, passava, movendo da Teano, il Volturno a Suio e Martola; poscia costeggiava il Traetto ed usciva dalla pianura di Scauri ove batteva i borbonici.

Ai 5 novembre, parte della divisione Sonnaz passò il Garigliano impadronendosi del ponte di ferro e facendo circa 100 prigionieri. La marina gettò un ponte di barche alla foce del Garigliano, ed un altro ne fu costrutto sopra corrente al ponte di ferro.

II.

Fino dal 16 del mese di ottobre giunse nella rada di Gaeta una squadra francese sotto gli ordini del viceammiraglio Barbier di Tinan, il quale, non appena ebbe dato fondo la Bretagne, vascello eh’ egli montava, si portò a complimentare S. M. Francesco II.

Nel 27 ottobre si presentò una squadra sarda alle foci del Garigliano con truppe di sbarco.

L'ammiraglio francese spedi la pirofregata il Descartes presso la foce del Garigliano ad osservare le mosse della divisione piemontese, eh’ era sotto gli ordini del retro ammiraglio Persano.

Alle 1 e 45 minuti pomeridiane dello stesso giorno venne segnalato che la surriferita divisione piemontese mettevasi in movimento e si dirigeva per la rada. L’ammiraglio francese, come vide ravvicinarsi maggiormente la divisione piemontese alla piazza, non tardò a segnalare al vascello della sua nazione il Redoutable, che veniva in quel momento da Bairut, di non dar fondo e di portarsi immantinente presso l’ammiraglio piemontese ed impedire ch'egli colla sua divisione si fosse ulteriormente avanzato, facendo altresì accendere le macchine di tutt'i suoi vascelli della squadra, ed inviando il vascello di linea il Saint Louis, che, riunitosi all’altro vascello ed alla pirofregata il Descartes in completo assetto di combattimento, fecero arrestare la divisione piemontese, la quale ben tosto spedi un parlamentario al vascello ammiraglio francese. Intanto si questo vascello, che l’altro, l'Imperial, erano pronti a mettersi in movimento e riunirsi al resto dei legni francesi, se tanto faceva mestieri, per energicamente impedire ogni sbarco ed operazione marina, dalla foce del Garigliano, sino a Sperlonga.

L’ammiraglio sardo dichiarò al sig. Tinan ch'egli aveva istruzioni per operare ano sbarco alla foce del Garigliano e ch’era costretto ad eseguirlo. Se i vascelli francesi lo attaccassero, egli non si difenderebbe, ma renderebbe l'ammiraglio responsabile delle conseguenze di quell’intervento armato, ch’egli credeva illegale, atteso ch’egli trovavasi fuori delle acque di Gaeta e della linea del blocco di quella piazza.

Il Re di Napoli, avendo osservato il contegno dell'ammiraglio francese quando impediva Io sbarco delle truppe piemontesi, ordinò per dispaccio al suo ministro di marina d'andare a bordo della Bretagtte a complire il viceammiraglio Le Barbier di Tinan per quello che aveva fatto e per pregarlo di esprimere, al più presto possibile, la sua gratitudine a S. M. l’Imperatore de' francesi, delle istruzioni che aveva date al suo ammiraglio.

Dopo d’essere stata respinta, la flotta piemontese andò bordeggiando all'ingresso del golfo di Gaeta; restò sempre in vista, e finalmente prese posizione alla sinistra foce del Garigliano, all'estremo punto di linea, che l’ammiraglio francese aveva sottratto alla sua azione. Ricevutane appena notizia, fece questi salpare tutt’i bastimenti della sua squadra ed intimò per la seconda volta più energicamente di astenersi da ogni operazione contro l'armata napoletana dal Garigliano sino a Sperlonga. I bastimenti piemontesi allora gittarono l'ancora e lo stesso fecero i francesi. In questa posizione sommamente minacciosa le squadre rimasero, misurandosi in certa guisa cogli occhi, il dì 30 e 51 ottobre, sino al meriggio del t.° novembre.

Questo episodio marittimo aveva cominciato tra le 7 e le 8 della mattina, alla vista di tutta l'armata napoletana, destando naturalmente grande romore, e la notizia erasene diffusa con incredibile celerità. Generali, uffiziali e soldati si sentivano rianimati ed incoraggiati da questa pruova di protezione e di simpatia da parte di una grande potenza europea;

si ritenne di poter far fondamento sopra una più energica assistenza, essendo questo il primo appoggio conseguito dopo che aveva avuto principio la lotta. Sicuri di un attacco, che poteva minacciare lungo una linea assai estesa il fianco destro, furono tosto prese disposizioni per portare le forze, divenute ora disponibili, al centro dell ala sinistra. Al 31 ottobre si attaccarono 6000 piemontesi, che volevano sforzare il passaggio del Garigliano, si respinsero e si fecero 50 prigionieri.

L'ammiraglio piemontese, nel partire, consegnò una protesta nelle mani dell’ammiraglio francese e del comandante il vascello inglese il Renown.

Così stavano le cose, quando il primo novembre, verso le due dopo il mezzo giorno, un aiutante del viceammiraglio francese domandò udienza al re Francesco II. Egli annunziò, per incarico del suo capo, il suo rammarico di non poter continuare, come avrebbe desiderato., e come aveva fatto anche sino allora, il suo intervento proteggitore, perché un telegramma giunto da Parigi disapprovava il contegno da lui sino allora tenuto, e gl ingiungeva di limitare la sua azione d’ora innanzi ad una cerchia più ristretta. L’aiutante soggiunse che, giusta le pervenute istruzioni, il tenore di questo telegramma doveva, entro 4 ore, essere portato a conoscenza del viceammiraglio Persano, il quale, dopo eh era stata per la prima volta respinta la squadra piemontese, aveva surrogato nel comando il contrammiraglio Albini, per cui rimanevano ancora al Re due ore per cambiare, in faccia alle variate circostanze, le posizioni della sua armata. Il Re diede tosto l’ordine della ritirata.

Si diceva che l’ammiraglio francese fosse contrario al bombardamento di Gaeta e che nel manifestare questa sua opposizione, oltrepassasse, per soverchio zelo, gli ordini del suo Governo. E la Perseveranza di Londra del 6 novembre ci dà quanto segue sopra questo fatto: «Il nostro Gabinetto, essa dice, ha finalmente ricevuto da quello di Parigi gli schiarimenti, da lungo tempo attesi, intorno all’ordine trasmesso all'ammiraglio francese, d’impedire Fazione della flotta italiana contro Gaeta. Il ministro dell'imperator Napoleone dichiara non esservi alcun disegno d'infrangere il principio del non intervento, ma essersi soltanto voluto proteggere la famiglia del Re di Napoli, il quale, come si dice, ha accettato i consigli dell’Imperatore; insomma quel Governo protesta non mirarsi ad altro che a procurare al Re e alla sua famiglia uno scampo ed un ritiro onorevole. »

Per altro Barbier di Tinan non si ritirò colla sua flotta dalle acque di Gaeta, non ricevette ordine di ritirarsi, e si mantenne sempre in atto d’impedire alla flotta sarda T investire la fortezza.

III.

Il villaggio di Mola di Gaeta (1) ha buone case, strette le contrade ed il mare a sinistra. Era dunque difendibile e fu dai borbonici difesa nel giorno 4 novembre,

(1) Mola di Gaeta, piccola città che giace in fondo al golfo di Gaeta a più di 8 chilometri a greco di quella città, e sta sulla strada da Traetto a Gaeta.

I battaglioni esteri erano stati scelti a difesa de)le numerose barricate innalzate all’entrata del villaggio. I soldati indigeni si erano posti nelle case, sui tetti e negli altri luoghi coperti che offriva il villaggio.

La divisione De Sonnaz, che aveva ricevuto l’ordine di proseguire la sua marcia verso Mola, veniva dunque improvvisamente arrestata alle prime case di quella borgata. Date le disposizioni necessarie, fu quindi impegnata l’azione. I piemontesi furono i primi ad attaccare la zuffa.

La fucilata era però tanto viva dalla parte de’ borbonici, che, dopo un quarto d’ora, divenne apparente la necessità di conquistare il villaggio di barricata in barricata, di casa in casa.

Un potente ausiliario però era vicino. L’ammiraglio Persano, veduto qual aiuto poteva egli prestare all’esercito, messe in non cale le supplicazioni, le rimostranze ed anche le minaccie dell’ammiraglio francese, voltò la prora delle sue navi verso Mola, incominciò a far fuoco sì micidiale contro il nemico, che in meno di un’ora la posizione fu presa, il villaggio abbandonato e l’esercito regio se ne correva disperso a Gaeta.

All’ora in cui le navi piemontesi incominciarono a fulminare la posizione de’ regii, un battaglione di bersaglieri erasi già impadronito della prima barricata. Il capitano Grosso era già stato ucciso, due altri de’ suoi compagni feriti e con essi molti soldati.

Cacciati di strada in istrada, sloggiati dalle case, i borbonici pur persistevano nella lotta, ma al tuono delle bordate dei navigli piemontesi, il disordine cominciò a manifestarsi nelle loro file, il disordine si converti presto nella più apparente confusione e questa in fuga.

Le navi francesi erano sempre al loro posto, senza che la minaccia avesse avuto compimento. Il fuoco di Persano seguitava pur sempre, ma non era diretto contro il villaggio, sibbene contro i fuggenti battaglioni nemici.

Le perdite dei borbonici furono di oltre 600 fra morti e feriti e di circa 2000 prigionieri. Il vento cominciò a soffiare al nordest ed il mare si fece sì gonfio, che la maggior parte delle bordate de' piemontesi colpivano a vuoto. Persano non cessò per altro tutta la notte e tutto il giorno successivo di far fuoco contro la collina adiacente al mare.

IV.

Il corpo borbonico, rimasto tagliato fuori da Gaeta, dopo il combattimento di Traetto e l’occupazione di Mola per parte dei piemontesi, prese la via di Fondi e riparò sul territorio pontificio. Esso componevasi di 12,000 uomini con 50 pezzi di cannone e comprendeva alcuni reggimenti di cavalleria.

Un corpo considerevole di napoletani era collocato a difendere le posizioni sul Garigliano al di sopra di Traetto. Questo corpo non prese parte alla battaglia del 5. Ricevette la notizia dell’occupazione di Mola per opera del nemico poco dopo avere ricevuto dal generale in capo l’ordine di abbandonare le sue posizioni e di venire al soccorso, ripiegando appunto su Mola.

Senza tentare altro, prese subito la via di Fondi il generale piemontese Sonnaz, naturalmente ritardato dall’occupazione di Mola, che dai borbonici veniva vivamente contrastata, non giunse ad Itri e Fondi se non quando quel corpo aveva già passato la frontiera riparandosi sul territorio pontificio.


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V.

In conseguenza dell’avere l’ammiraglio Persano preso parte all’azione del 3 al 4 novembre a Mola di Gaeta, il generale napoletano Casella, incaricato del portafoglio degli esterni, indirizzò, in data 8 dello stesso mese, a’ rappresentanti delle Potenze straniere accreditate presso il Re di Napoli in Gaeta, la Nota seguente:

«Eccellenza!

» Il sottoscritto, presidente del Consiglio de’ ministri, incaricato del portafoglio degli esterni, ha l’onore di partecipare a V. E. che nuovi atti degni di riprovazione, commessi dall’esercito d’invasione, vennero a confermare le giuste lagnanze espresse nella Nota 16 ottobre p. p.

» Per sottrarre le truppe, scaglionate lunghesso il Garigliano, al bombardamento che la squadra piemontese dirigeva contro il campo, fu necessario ordinare un movimento di ritirata, che fu cominciato la sera del l.° novembre.

» Immediatamente la squadra piemontese prese posizione lungo la marina, che costeggia la strada, e si mise a far fuoco sulle truppe regie, le quali coll’arme al braccio e in buon ordine eseguivano il movimento prescritto.

» Il nemico non cessò dal tirare il cannone per tutta la notte e una gran parte del giorno seguente, fino alla fine del la ritirata di quelle truppe senza difesa, a cui non potettesi volgere altro rimprovero che quello di aver troppo contato sulla formale assicurazione, fatta loro, che non sarebbero attaccate dalla parte di mare.

» Trovandosi così tutto l’esercito del Re chiuso tra Mola di Gaeta e le frontiere del Regno, quella medesima squadra piemontese s’arrestò, nella notte del 3 al 4, davanti a Mola, e per quasi sei ore di seguito, fin dopo il mezzogiorno del 4, non cessò di lanciare su quella sventurata città bombe, granate ed altri proietti, di cui veggon si ora le tracce sanguinose e devastatrici nelle private proprietà, negli ospitali e tra pacifici e inoffensibili abitanti.

Ne' tempi trascorsi, ogni qualvolta il sovrano legittimo delle Due Sicilie si vide obbligato, con suo gran dolore, a ricorrere alle tristi necessità della guerra, per ridurre alla obbedienza qualche città ribelle, i difensori ufficiosi de’ sudditi insorti non mancarono di contrastare, con un linguaggio pieno di oltraggi, al Governo regio il primo diritto di ogni Governo, quello di mantenere la propria autorità e di proteggere l’ordine pubblico.

» Oggidì gli eserciti e le squadre d’un Governo, che si dice regolare e incivilito, invadono senza dichiarazione di guerra uno Stato vicino ed amico, combattendone le truppe con tutt'i mezzi sleali ed indegni, quando non pervengono, con vili artificii, ad abbatterne la fedeltà e l’onore;

quegli eserciti e quelle squadre si danno con accanimento a distruggere ogni elemento di forza e di prosperità presso mi popolo, che si osa ancora chiamare col nome di fratello; e finalmente se ne bombardano le pacifiche ed innocenti popolazioni, senza che una voce si levi in Europa contro una serie d’enormità, che sono senza esempio nella storia.

» È tempo che le ipocrisie e le perfidie della politica piemontese sieno svelate all’Europa sotto il vero loro aspetto; e il Governo del Re, deciso ad adempiere fino all'estremo il dovere di combattere, anche colle armi della pubblicità, i fautori del disordine morale e della rivoluzione sociale, ha dato incarico al sottoscritto d’informarne V. E. perché il suo Governo abbia conoscenza di questi fatti.

» Sollecito d’adempiere il dovere, che gli è confidato, il sottoscritto approfitta dell’occasione per rinnovare a V. E. l’assicurazione della sua più distinta considerazione.

«Casella. »

CAPITOLO TERZO

Le truppe napoletane, battute sul Garigliano, si rifuggiano nello Stato Pontificio

I.

Ventiduemila borbonici, dopo le disfatte loro toccate sul Garigliano, si rifuggiarono nel territorio pontificio.

Nel 5 novembre il Governo pontificio fu ufficialmente informato che questo corpo di truppe napoletane, seguito da un corpo pressoché eguale di truppe piemontesi, era entrato armato nel suo territorio e si trovava a Terracina, ultima città della sua frontiera.

I napoletani, come dicemmo, erano stati battuti e la loro ritirata pareva volontaria. Erano circondati dalla parte di mare dalla flotta piemontese, composta di fregate e cannoniere, aventi a bordo truppe di sbarco. 11 Governo pontificio, volendo mantenere la sua neutralità, fece loro dichiarare che se desideravano trovar asilo ne' suoi Stati, dovevano deporre le armi.

Il generale di Govon, per appoggiar questa misura, spedi in missione a Terracina il sig. Mamony, capitano di stato maggiore addetto al suo stato maggiore generale.

Quest’ufficiale aveva per istruzioni di ricordare al generale napoletano le intenzioni del Governo romano, e di vegliare alla loro esecuzione. Il sig. Mamony, giungendo a Terracina, entrò in relazione co' napoletani, che non avevano potuto intendersi coi piemontesi, e, dopo una lunga trattativa, egli li fece acconsentire a deporre le armi nelle mani delle Autorità francesi e pontificie.

II.

V'erano in tutti, come dicemmo, 22,000 uomini, 5,000 cavalli e 40 pezzi di cannone. Quelle truppe furono tosto incamminate, attraverso le: maremme pontine, per deporre le loro armi nelle mani del corpo francese di guarnigione a Velletri.

Deposte le armi, i napoletani furono accantonati ne' villaggi di quella Provincia. Il Governo pontificio e l’Autorità militare francese assicurarono la loro sussistenza.

 

III.

Il generale Govon felicitò il capitano Mamony pel modo ond’egli compì la sua missione.

Il Re di Napoli spedì da Gaeta al capitano Mamony, nel 10 novembre, il brevetto della decorazione di Francesco I, ed al generale di Govon la gran croce dell’ordine di S. Gennaro.

CAPITOLO QUARTO

Reazioni. S'intima al forte di Civitella del Tronto di arrendersi. Combattimento sulla collina de' Cappuccini

I.

In prossimità del forte di Civitella (1) successero disordini gravissimi tendenti ad impedire la riunione de’ comizii e a ristabilire il Governo borbonico. Per molti giorni si visse colà in grandissima apprensione perché la fiamma di quel vulcano minacciava erompere su quasi tutta la Provincia e massimamente sulla città di Teramo (2), che ha dovuto barricar le porte. Il cavaliere De Virgilii, coadiuvalo dal governatore militare, dal segretario generale, dal procuratore del Re, dal sindaco e dai comandanti della guardia nazionale, si prestò a riparare i disastri avvenuti e cessare i pericoli, armando masse, mobilizzando molte colonne di guardie nazionali sotto il comando di uomini i più energici e decisi e chiamando e facendo venire soccorsi da ogni parte, da Chieti, dalla fortezza di Pescara, dal campo piemontese, con ripetuti telegrammi a Cialdini ed a Farini, ed anche dalle Marche.

(1) Civitella del Tronto, città forte nell'Abruzzo Citeriore a 12 leghe 0. da Aquila, con un buon castello che la difende, conta 1700 abitanti.

(2) Teramo, città vescovile, capoluogo dell’Abruzzo Ulteriore sul Tordino, a 10 leghe N. E. da Aquila, con 5300 abitanti.

Le guardie nazionali di quasi tutt'i Comuni della Provincia si misero in movimento con quanti soldati piemontesi si poterono raccogliere. Questa forza unita ad un battaglione di circa 600 armati e duepezzi di artiglieria, venuti da Ancona sotto il comando del maggiore Carozzi, dopo aver percorsi e soggiogati i paesi ribelli, trovavasi ai primi di novembre a fronte di Civitella per assediarla mercé altra necessaria artiglieria, che si attendeva. Il colonnello Curci, con la sua numerosa e prode legione sannita, lino dal 5 novembre, era già presso quel forte. £ nel mattino del 6, mentre che ognuno ne presagiva la prossima resa, comparve il seguente telegramma che fece conoscere la necessità di procedere ad un regolare assedio:

«Al governatore di Teramo il maggiore

» Questa mane alle 9 intimai il forte: ne ebbi in risposta per iscritto quanto segue: Rispondo alla proposizione, che mi fa da parte del suo comandante che questa piazza di Civitella, al mio comando affidata, si serberà sotto l'impero del re Francesco II, sinché, stando egli nel non comandi diversamente, e sino a che egli sarà sul trono, essendo questo il sovrano volere. — Il comandante la regia piazza, Luigi Ascione.

» A momenti il forte comincia il fuoco. La piazza è più forte di quello che dicevasi. Vi vorrà artiglieria di assedio, con grandissimo stento per montarla.

» Ho pochissime munizioni; pel momento non risponderò al loro fuoco, riservandomi a questo alle 4 pomeridiane.

» Presso Civitella, 6 novembre 1860. »

II.

Nella mattina dei 9 novembre sulla collina dei Cappuccini, s’impegnò un combattimento e durò quasi tutto il giorno. I cacciatori napoletani furono sostenuti da colpi di granata lanciati dalle più alte batterie di Gaeta nel mezzo dei piemontesi, che si riparavano dietro gli olivi, ma che dovettero soffrir perdite.

Verso la fine della giornata i piemontesi, il numero de’ quali cresceva incessantemente, guadagnarono terreno, lasciando pure 20 o 30 prigionieri nelle mani de’ napoletani. I cacciatori napoletani si ritirarono fin sotto le batterie, e la sera tutte le truppe del campo rientrarono in città e vennero rimutate dalle guardie reali.

CAPITOLO QUINTO

Si consiglia Francesco II a lasciare Gaeta.Protesta del Governo di S. M

I.

L'ammiraglio inglese faceva da qualche tempo vivissime istanze a Francesco II affinché lasciasse Gaeta e s’imbarcasse per la Spagna o per l’Austria, come meglio gli piacesse. L’ammiraglio francese, benché avesse dato qualche segno di sentimentale sollecitudine, facendo sapere tanto in Gaeta quanto all’ammiraglio piemontese Persano, che egli proteggerebbe la famiglia del Re fuggiasco contro i pericoli di un bombardamento sul castello, dov’essa abitava, e non la lascierebbe andare prigioniera, pure, parlando con Francesco e col suo comando militare, appoggiò sempre le istanze dell’ammiraglio inglese, consigliando ad una partenza, ed assicurando che la Francia vedrebbe volentieri cessata l’inutile effusione di sangue, ed offrirebbe al Re ogni agevolezza e sicurezza per andarsene. Le fregate spagnuole, russe e prussiane offrivano pure i loro servigii, pregando il Re a preferirle nel caso di partenza, in segno di gradimento alla vera e cordiale amicizia del loro Governo.

Ma Francesco II respinse tutt’i consigli. Egli disse al l’ammiraglio Le Barbier di Tinan ch’ei resterà ad ogni costo in Gaeta, la quale è in istato di resistere un anno intero,

soggiungendo che non poteva ammettere il consenso delle Corti europee e dei rappresentanti del principio della legittimità, allo stato presente delle cose in Napoli, e che per la sua persona era, in ogni modo, risolalo a difendere sino agli estremi il suo diritto. Le Barbier replicò che in questo caso la protezione del Re e della sua famiglia, per parte della flotta francese, non avrebbe più potato essere esercitata nel modo sinora praticato, e sarebbe stato costretto, suo malgrado, a ritirare le fatte proposte di mediazione.

II.

Il generale napoletano Casella indirizzò, nel 5 novembre, la seguente Nota ai rappresentanti delle Potenze accreditate presso il re Francesco II:

«Eccellenza,

«Il sottoscritto ha l’onore di dar conoscenza a S. E. di alcuni fatti, che hanno seguito l’ingresso dell’esercito piemontese nel Regno, e che bastano a determinare il carattere di questa ingiusta invasione. Dopo il primo scontro colle truppe regie, il generale Cialdini, avendo fatto prigioniero il generale Scotti, si è creduto autorizzato ad ordinare al giudice di Venafro d’indirizzare al luogotenente generale Ritucci una comunicazione, con cui dichiaravasi che se si toccasse un sol capello de’ prigionieri garibaldini sarebbesi usata rappresaglia sul generale Scotti e sugli altri prigionieri fatti nell'armata regia.

» Senza parlare del carattere ingiurioso di questa comunicazione da parte d’un generale comandante un corpo di truppe regolari ad un altro generale, che si trova in una posizione affatto simile alla sua, è chiaro che tali minacce non sono m nulla giustificate da fatti precedenti, conoscendo tutti con quanta umanità, ed anche generosità, sono trattati a Gaeta, per ordine del Re, i nemici prigionieri.

» I feriti ed i prigionieri garibaldini medesimi, i quali avrebbero meritato, secondo le leggi militari riconosciute e praticate finora da tutte le Potenze civili, la pena, che viene comunemente inflitta ai pirati, furono trattati con tutt'i riguardi possibili; e sono fìnanco nutriti, vestiti ed alloggiati meglio de soldati fedeli del Re, e possono renderne testimonianza essi medesimi, mentre i prigionieri regii, fatti da Garibaldi il l.° ottobre, condotti a Napoli, erano costretti a partire pel Piemonte, ov’erano forzati ad arrolarsi nelle truppe della Sardegna.

» Un altra circostanza, sulla quale il sottoscritto ha l'onore di chiamare l’attenzione di S. E., e come assoluta mente contraria alle prime nozioni del diritto di guerra, alle abitudini ed all'onor militare, è il contegno tenuto dal generale Ci aldini nell’abboccamento da lui stesso richiesto al generale Salzano, comandante in capo provvisorio dell’esercito.

» Il generale del Re si recava al luogo designato per 1 abboccamento presso il Cajanello, accompagnato da un drappello di cavalleria per sua scorta, ch’egli lasciò in dietro a Teano, per andar tutto solo al suo abboccamento, secondo il desiderio espresso del generale Cialdini.

Avendo incontrato a Teano un distaccamento di truppe garibaldine, il generale Salzano avvertiva il capo di quella truppa che il drappello di cavalleria formava la sua scorta, che lasciava a Teano con ordine di aspettare, e che continuava il suo cammino per abboccarsi senza testimonii col generale Cialdini comperasi convenuto.

» È vano ripetere le parole del generale Cialdini, le quali non avevano altro scopo che di provare l’inutilità del combattere, appoggiandosi sull’estensione dell’usurpazione del Piemonte e sugli angusti limiti, ne’ quali è esercitata la legittima autorità di S. M. siciliana. Il generale Salzano rispose a quelle proposte coi sentimenti di fedeltà e di onore, che gli sono proprii, e dichiarò che il suo Re legittimo regnava a Gaeta, e eh’ era parato a difendere l'autorità e gli Stati del Re, fintanto che restasse in vita e avesse un soldato a combattere con lui. Ma il generale Cialdini non si accontentò di cercar di abbattere la costanza delle truppe rimaste fedeli al Re e de’ loro bravi capi, con artificii famigliari ai luogotenenti del Re Vittorio Emanuele, il generale Cialdini ha anche permesso che si commettesse un delltto senza esempio nella civiltà moderna e che solleverà certamente lindignazione di tutti coloro, che apprezzano l’onor militare.

» Allorché il generale Salzano si preparava a ritornare a Sant'Agata presso Sessa, dopo aver terminato un colloquio, che non poteva produrre altro risultato, rientrando in Teano, non trovò più la sua scorta.

» Essa era stata fatta prigioniera dal capo del distaccamento garibaldino, ch'erasi veduto conferire agli avamposti dell’esercito piemontese durante l’abboccamento del generale Cialdini.

» L’ultimo fatto, che dev’essere sottomesso, come quelli che precedono, al giudizio dell’Europa civile, è il proclama, recentemente pubblicato dal generale Cialdini, con cui si annuncia, che tutt’i paesani, che avranno preso le armi per la difesa del loro legittimo sovrano, saranno fucilati senza quartiere.

» Basta confessare l’esistenza di tali bande di volontarii regii, che hanno già raggiunto una certa importanza, per riconoscere la poca sincerità della pretesa unanimità del voto popolare in favore di un cangiamento di Governo; ma bisogna anche osservare che il Piemonte pretende, in virtù di un nuovo diritto di guerra, riservarsi il privilegio esclusivo d’impiegare il nuovo elemento di forze militari, di cui esso pel primo fece uso, vale a dire delle milizie volontarie.

» Non è inutile aggiungere, che, mentre S. IVI. siciliana fa grazia della vita non solo agli stranieri, che furono fatti prigionieri in una guerra di banditi, ma anche ai suoi proprii sudditi, cittadini forviati ed ingannati, che sono caduti nelle mani delle regie truppe, allorquando servivano nelle file delle bande garibaldine, i luogotenenti del Re di Sardegna s’arrogano il diritto di porre a morte sudditi fedeli al legittimo sovrano, che prendono le armi animati da un giusto e santo ardore per difendere il loro Re e la loro patria contro la più iniqua delle umane aggressioni.

» Il sottoscritto si astiene da ogni altra considerazione sui fatti esposti.

I fatti bastano a qualificare l’ingiusta guerra fatta dal Piemonte a S. M. il Re delle Due Sicilie, e questa guerra, sempre fedele all'idea rivoluzionaria, che l’ha ispirata, viola ogni fede, calpesta i più sacri diritti e arriva sino a violare le leggi militari, che nobilitano la vita e la professione del soldato. »

«Casella. »

CAPITOLO SESTO

I napoletani assalgono i piemontesi, ohe restringono vieppiù la linea del blocco. Il generale Bosco va a Gaeta a riprendere il comando delle truppe. I piemontesi e poscia i francesi occupano Terracina. Protesta ministeriale di Francesco II

I.

Nel giorno 12 novembre le truppe borboniche, accampate fuori di Gaeta, mossero ad assalire la linea piemontese. 11 risultato fu che rimasero in potere de’ piemontesi molti prigionieri, e che i restanti battaglioni napoletani furono costretti a ricoverarsi dentro la piazza, cosicché le truppe piemontesi acquistarono tutta la linea, e le posizioni conquistate vennero parte da essi abbandonate e parte munite di artiglieria di campagna. Esse restrinsero la linea dei blocco, occupando le posizioni di Borgo Sant’Agata, Monte Sortono, Monte Erta, Monte Lombone ed i Cappuccini.

Le perdite dei piemontesi furono di circa 100 uomini. Si distinsero in questo combattimento la brigata Bergamo comandata dal generale Casanova e IMI. 0 bersaglieri comandalo dal generale Buri. Ebbe una parte attiva e brillante anche il 24.° reggimento brigata Como, il quale accampato lontano, fu condotto sul luogo dell’azione dallo stesso generale Leotardi, comandante le truppe combattenti, e contribuì al risultato di obbligare dieci battaglioni accampati fuori di Gaeta a chiudersi nella piazza.

II.

Il generale Bosco, che s’impegnò con Garibaldi a non servire il re Francesco II ed andò a Parigi, essendo spirato il termine del suo impegno, venne a Gaeta per riprendere il comando delle truppe napoletane.

Il generale, arrivato nel 20 novembre a Gaeta, fu presentato alle truppe da Francesco II, il quale gli testimoniò, alla loro presenza, la soddisfazione che provava nel rivederlo, come la piena fiducia, che in lui riponeva. Bosco ebbe il comando della infanteria.

III.

La squadra piemontese spedi una divisione di navigli leggieri per incrociare il golfo di Terracina e tagliare così le comunicazioni per mare tra Gaeta e gli stati della Chiesa. Questa nuova misura venne presa per rendere più difficile per l'avvenire l'approvvigionamento della piazza di Gaeta.

Ai 15 novembre i piemontesi occuparono Terracina (1) in numero di 1000 uomini con 120 cavalli e 2 pezzi di artiglieria. I pochi gendarmi pontificii, che v’erano, si ritirarono a Velletri.

(1) Terracina, città vescovile al Sud delle Paludi Pontine presso le frontiere del Regno di Napoli, a 50 leghe N. E. da Roma, conta 9000 abitanti.

Per ordine di S. Santità, il cardinale Antonelli protestò contro questo fatto dell’armata piemontese, e nello stesso tempo il generale Govon spedì due ufficiali francesi a Terracina per intimare a’ piemontesi l’ordine di retrocedere.


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IV.

La frontiera degli Stati della Chiesa, dal lato del Regno delle Due Sicilie, doveva essere esclusivamente occupata da truppe francesi. I primi distaccamenti del corpo, incaricato d’occupare la frontiera romana giunsero nel 22 novembre a Punto Maggiore, grosso borgo situato a sette chilometri da Terracina, nella quale entrarono il giorno appresso.

Un Uffiziale di stato maggiore ed un uffiziale di amministrazione erano giunti, da due giorni, in quella città, a dare i necessarii provvedimenti per ricevere le truppe francesi.

L’occupazione di Terracina combinava coll’aumento delle guarnigioni di Velletri e di Frosinone. Codesti provvedimenti militari resero la Francia padrona della frontiera all'est degli Stati della Chiesa.

V.

Ecco una nuova Nota del ministro degli affari esterni di Francesco II, ai rappresentanti del Re presso le corti estere in data 16 novembre:

«Signore,

» Col mio dispaccio del 5 ottobre vi ho fatto conoscere come il Governo rivoluzionario di Napoli spogliò il Re, nostro padrone, e tutta la famiglia reale, della loro fortuna privata e aggiungeva la calunnia alla violazione di tutte le leggi. Non bastava essersi impadronito delle immense ricchezze artistiche, le quali S. M., benché gli appartenessero per ereditò, ha sempre voluto lasciare a libera disposizione del suo popolo, facendo affluire così alla capitale tutte le intelligenze; non bastava confiscare arbitrariamente i maggioraschi de' principi e delle principesse, le risorse delle orfanelle, i legali fatti ai poveri da Ferdinando li, l’eredità della santa principessa di Savoia, madre adorata del Re, nostro padrone; bisognava obbedire alla logica del l’anarchia, distribuendo la fortuna privata della famiglia reale agl’individui, che da dodici anni non cessarono di congiurare contro la dinastia, il trono, l’ordine sociale, e contro tutt’i principii costituenti la base del diritto universalmente conosciuto.

» Voi comprenderete, signore, non essere gli uomini di sincera opinione, quelli che hanno combattuto e sofferto nella lotta contro il Governo stabilito, che profitteranno di tale disposizione sovversiva. Le persone oneste, non importa la loro opinione, respingeranno con indignazione ogni partecipazione a quest’atto di rapina. La rivoluzione trionfante dee fare le sue elemosine ai rivoluzionari indomabili, agli agitatori per condizione, per mestiere.

Dopo la glorificazione e la rimunerazione del regicidio, coloro, che si vantano aver più volte giurato l’assassinio di Ferdinando II, devono avere una parte preponderante nel bottino della ricchezza della sua famiglia. La giustizia della rivoluzione vuole che i figli siano costretti a rimunerare gli attentati contro i loro parenti.

» Nel decreto qui incluso, notate il considerando e la data. Vi si dice che il giorno 15 maggio 1848 Ferdinando IIruppe il patto giurato, empi la città di terrore e di sangue, sostituì l’arbitrio e la alla legge, e die da allora incominciarono le persecuzioni.

» Se un Governo ebbe mai diritto alla resistenza, fu in quel giorno. Per la prima volta, i rappresentanti del popolo si riunivano, secondo la costituzione giurata dal sovrano e dalla nazione, quando ad impedire la pacifica inaugurazione dei lavori parlamentarti, scoppiò la rivoluzione. Tutto il mondo sa che il Governo prese tutte le misure della conciliazione innanzi a quelle della forza e che, dopo la compressione ed il successo, e si affrettò a convocare, secondo la stessa Costituzione, una nuova Camera. Si può giudicare differentemente gli avvenimenti posteriori, ma la condotta, tenuta dal Governo in quel giorno, non era in nulla attaccabile.

» Il decreto in discorso è sottoscritto dal re Vittorio Emanuele, come gli altri; la data del 23 ottobre è posteriore di due giorni al plebiscito, che attribuiva a Vittorio Emanuele la sovranità delle Due Sicilie, e di undici giorni alla determinazione, presa dal Re di Sardegna, di non attendere neppure il plebiscito,

e di passare la frontiera del Regno, per impadronirsi colla forza degli Stati posseduti dalla Gasa di Borbone.

» L’oltracotanza di questi atti è evidente; poiché il Re di Sardegna ha cospirato contro il trono del Re delle Due Sicilie, e, violando le leggi divine ed umane, si portò in persona a comandare un’odiosa aggressione, ed oggidì presta il suo nome, la sua autorità, la sua forza armata all’esecuzione di questa enormità, ed egli osa prenderne la responsabilità innanzi all’Europa ed alla posterità.

» Ho creduto mio dovere volgermi a voi, signore, perché facciate conoscere al Gabinetto, presso cui siete accreditato, in qua) modo il Governo del Re considera i fatti, e perché protestiate formalmente e solennemente, da parte di Francesco II, contro il decreto rivoluzionario del 23 ottobre ultimo.

» Vogliate lasciar copia di questo dispaccio al ministro degli affari esterni e accusarmene ricevuta.

«Casella. »

CAPITOLO SETTIMO

Piano del genio sardo sulle operazioni di attacco. Sortite da Gaeta. Il forte apre il fuoco. Notificazione al commercio marittimo ed ordine del giorno al soldati di S. M. Francesco II

I.

Il genio sardo decise che bisogna rivolgere sul Monte Secco tutti gli sforzi delle truppe piemontesi. Allorché i piemontesi ne fossero padroni, si stabilirebbero sulle spianate delle batterie rigate, colle quali si aprirebbe contro la piazza un fuoco terribile. 11 Monte Secco è a 500 metri dalla prima cinta, e si trovava ancora in mano de1 napoletani, che solidamente vi si stabilirono.

Si calcolò che per rendersi padroni di questa posizione e costruirvi le batterie ci vorranno circa tre mesi, per cui il fuoco dell’artiglieria piemontese non potrà aprirsi che verso i primi di marzo 1861.

Nello stesso tempo si decise che, per inquietare la fortezza, si stabiliranno ai Cappuccini, posta a 1,400 metri dalla sua cinta, le due batterie di mortai, venute da Genova nel 19 novembre, e per realizzare questo progetto si cominciò a costruire una strada, che sarà terminala verso la metà del mese di dicembre e andrà direttamente ai Cappuccini. Allorché saranno collocate queste batterie, si comincerà il bombardamento, che continuerà senza interruzione.

Intanto che l’attacco prepara questi terribili mezzi, la difesa si dispone ad una vigorosa resistenza. Il Re dispone ancora di 16, 000 uomini di buone truppe; le opere di terra e di mare sono armate di ottocento o novecento bocche da fuoco; i viveri sono abbondanti e l’approvvigionamento della piazza si fa regolarmente.

In quanto concerne Francesco II, si può ritenere che persista sempre più nella risoluzione di difendersi sino al l’ultima estremità, giacché tale resistenza gli dà mezzo di attendere gli avvenimenti, che possono accadere in un periodo di tempo più o meno lontano e la cui importanza è imprevisibile.

II.

Nel 24 novembre gli assediati fecero una vigorosa sortita sulla sinistra degli attacchi, nello scopo d’inquietare i lavoratori e distruggere le opere loro. Essi furono ricevuti con grande energia dai piemontesi.

Dopo una viva moschefteria e perdite eguali da una parte e dall’altra, gli assediali tornarono nella piazza.

III.

Gli assediati apersero, durante le giornate del 26 e 27 novembre, un fuoco vivissimo contro i lavoratori nemici. Essi obbligarono i piemontesi a sgombrare il loro deposito di trincea ed a riportarlo a circa 300 metri indietro; costrinsero egualmente questi ultimi a cangiare la posizione del campo della prima divisione del corpo d'assedio, per metterlo fuor di tiro del fuoco della piazza.

IV.

Nel 29 novembre la guarnigione di Gaeta fece una sortita per impadronirsi di alcune posizioni de' sobborghi e venne respinta.

Da un dispaccio telegrafico del generale Cialdini da Mola di Gaeta si ha che nel mattino del 29 sortirono da Gaeta 1500 uomini, che vennero respinti da due compagnie del 7.° bersaglieri e da una del 24.° Dai rapporti dei prigionieri si rilevò che le truppe sortile non fossero che la avanguardia di forze maggiori, che però non uscirono dalla piazza, e che il disegno della sortita fosse di riprendere tutte le posizioni fino a Mola di Gaeta. La piazza aprì per la prima volta un fuoco formidabile per sostenere i suoi; con tutto ciò le perdite de' piemontesi furono insignificanti, contando in tutto 24 feriti, fra i quali il capitano Brunetta e il luogotenente Aros del 7.° bersaglieri.

Ma il rapporto del generale napoletano Bosco al ministro della guerra, su questo fatto d'armi, ha i seguenti particolari:

«Un’ordine sovrano m’imponeva che questa mane (29 novembre), allo spuntar del giorno, un distaccamento di 440 uomini, de’ quali 200 stranieri ed il resto de’ battaglioni 8.° e 9.° e l.° cacciatori, sotto il comando del bravo luogotenente colonnello Migv, del 2.° battaglione straniero, eseguisse una ricognizione verso il monte Atralina e la collina de' Cappuccini, sino alla valle di Calegna, allo scopo d’assicurarsi se il nemico avesse costruito batterie destinate, sia ad attaccare la piazza, sia a difendersi contro le sortite.

L’augusto monarca, sempre previdente, mi ordinò di dare le disposizioni perché una forza di 500 uomini, tolta dal 7.° 8.° e 9.° cacciatori, sortisse dalla piazza, come sostegno del distaccamento Migy ed a protezione della sua ritirata.

» Per meglio proteggere la colonna d'attacco, chiamai un devoto veterano, il capitano Steiner, conoscitore perfetto de' siti, il quale non solamente accettò con piacere questa missione, ma mostrò, molto valore, guidando la colonna centrale e spingendo la ricognizione con pochi soldati.

» Il bel risultato della ricognizione, la quale ci ha dato la sicurezza che il nemico non ha costrutto lavori di nessuna sorte, né dentro la valle d’Àtralina, né a’ Cappuccini, non è per noi senza amarezza, a causa della grave ferita del luogotenente colonnello Migv, che mi prendo la libertà di raccomandare particolarmente alla bontà del Re. Rimetto a V. £. il rapporto particolare e dettaglialo delle operazioni praticate da questo distaccamento per la valle Àtralina e sulle colline de’ Cappuccini. Questo rapporto fu redatto dal capitano Steiner, il luogotenente colonnello Migv non avendo potuto occuparsene, a cagione del gravissimo stato di sua salute. Io non tacerò a V. E. che il capitano Steiner vi ha aggiunto, che la colonna del centro era composta interamente di soldati nazionali. Non devo ommettere di dire che ho ammirato il contegno de’ 500 uomini di riserva, che, imitando l’intrepidezza del loro giovane comandante, maggiore Gatlscher, sono rimasti fermi al loro posto fino a che l’ultimo uomo del distaccamento Migy non fu dentro la piazza.

» Per arrestare l’audacia del nemico, che si era spinto fin sotto le mura dell’ultimo giardino di fronte alla fortezza, ho fatto avanzare due compagnie comandate dagli sperimentati capitani Bellini e Caruba; abilmente sostenute dal fuoco dell’artiglieria della piazza, che ha fatto tacere quello del nemico, esse si sono in seguito ritirate con calma per rientrare in città. Ho avuto anzi a lagnarmi del l'ostinazione di qualche uomo della compagnia Caruba, che si è lungo tempo fermato a’ piedi de’ rampari per rispondere al fuoco del nemico.

» L’augusto monarca ha voluto ch'io assistessi all’insieme di queste operazioni; io posso dunque in questo rapporto far notare il valore e l’intelligenza di qualche ufficiale e soldato che potei osservare co’ miei occhi (seguono diversi nomi ed atti di valore). Ho ammirato il primo luogotenente Valenzuela, che, seguito da qualche cacciatore, si è caritatevolmente mosso verso un preteso ferito, giacente sulla sabbia a sinistra di Monte Secco, molto lontano dal glacis. Sul punto di essere raggiunto, quell’uomo ha scaricato il suo fucile contro l’ufficiale, e poi si è salvato a gambe passando al nemico.

» Le informazioni, che ci hanno riportato varii ufficiali del distaccamento Migy, concernenti le forze considerevoli del nemico, avendomi fatto sapere eh’ esso si mostrava con due battaglioni sulla nostra dritta e con un battaglione sulla nostra sinistra, mi obbligarono a pensare solamente di assicurare la ritirata generale, lo scopo della ricognizione essendo stato raggiunto.

» Non posso chiudere questo rapporto senza menzionare specialmente il distaccamento del 16 cacciatori, che, in ragione della sua formazione recente, vedendo il fuoco per la prima volta, è però stato fermo al posto, e quando si è ritirato, si ritirò con calma e buon ordine.

» Debbo aggiungere che il capitano Steiner fece osservare che il movimento, eseguito dalle truppe piemontesi sulla nostra destra, fa supporre che la parte di borgo, nella direzione de' Cappuccini e del suo prolungamento, sia occupata da soldati.

» Dai rapporti parziali risulta che le nostre perdite sono state di due morti e nove feriti, e fra questi si trovano cinque ufficiali, il luogotenente colonnello Migv, il luogotenente Jeger, il primo tenente Rieger, tutti e tre dei carabinieri stranieri, il luogotenente Napoli, dell'8.° cacciatori, e l'alfiere Della Noce del 9.°

» Infine un capitano straniero, il sig. conte Harkrcct, si è offerto volontariamente per prender parte alla ricognizione.

V.

Il Governo di Gaeta diresse al commercio marittimo italiano la seguente notificazione:

«Gaeta 26 novembre.

» Dacché la piazza di Gaeta è assediata, quattro legni, con bandiera e carico sardi hanno dato fondo in questo porto, spinti dalla tempesta.

Il Governo del Re aveva evidentemente il diritto di preda, poiché essi non erano protetti né dalla loro bandiera, né dalla destinazione del loro carico.

» L’applicazione del diritto di guerra sarebbe stata inoltre vantaggiosa alla piazza assediata, imperocché il primo di quei legni era carico di carbone e gli altri tre di grani, generi di grande utilità per la città investita. Nondimeno il Re ha voluto mostrarsi generoso, prendendo in considerazione le circostanze eccezionali della guerra attuale, che non fu preceduta da alcuna diehiarazione regolare; e però S. M. ha ordinato che i legni fossero lasciati in piena libertà.

» Ma il Re non vuole permettere che una concessione, al tutto benevola e spontanea, possa essere interpretata come un abbandono de’ suoi diritti, o come una pruova di debolezza. Egli ha dunque deciso che ogni naviglio, con bandiera sarda, il quale si presentasse, da oggi 56 novembre, nelle acque di Gaeta, sarebbe immediatamente catturato dai bastimenti della marina reale e trattato secondo i principii, che reggono il diritto di guerra.

«Casella. »

VI.

Il ministro della guerra di Francesco IL pubblicò il. seguente ordine del giorno ai soldati:

«Soldati!

» In seguito all’ordine del giorno di $. M. del 5i ottobre, voi non siete pel momento che decorati del nastro della medaglia, che dee sul vostro petto ricordare i combattimenti che avete valorosamente sostenuto pei due mesi di settembre e di ottobre.

» Il vostro coraggio si manterrà, e portando questo nuovo distintivo, voi saprete col vostro ardore acquistare altri meriti.

» L’occasione è là; l'assedio attuale di Gaeta vi darà il mezzo di eternare il vostro nome come coloro de’ vostri pari, che nel 1806, ridotti allo stremo delle risorse, resistettero per sei mesi.

» Soldati!

» L’onore del paese e dell’armata lo esige; prestatevi dunque con zelo e coraggio, e noi compiremo l’opera gloriosa.

» In conseguenza, domani, un ufficiale di ciascun corpo si renderà presso lo stato maggiore per ricevere il nastro.

«Casella. »

CAPITOLO OTTAVO

Il Re Vittorio Emanuele va a Palermo
Suo proclama. Lettera autografa dell Imperator Napoleone a S. M. Il Re Vittorio Emanuele torna a Napoli

I.

Il re Vittorio Emanuele partì da Napoli ad un’ora pomeridiana del 30 novembre e giunse in Palermo alle 9 antimeridiane del J.° decembre. Egli fu ricevuto con in credibile entusiasmo. Il popolo volle staccare e tirare la carrozza reale, e si tentò invano d’impedirlo. Si calcola che oltre a 400, 000 persone siano accorse da ogni parte dell’isola.

Prima di scendere al palazzo, S. M. recossi al duomo, ove fu solennemente ricevuto dal cardinale arcivescovo. S. M. ricevette quindi i corpi costituiti e le deputazioni dei municipii dell’isola.

Il Re diresse al popolo il seguente proclama:

«Popoli della Sicilia!

» Coll’animo profondamente commosso io metto il piede in quest’isola illustre, che già, quasi augurio dei presenti destini d'Italia, ebbe per Principe uno degli avi miei;

che a' giorni nostri elesse a suo Re il mio rimpianto fratello, e e che oggi mi chiama con unanime suffragio a stendere su di essa i benefizii del viver libero e dell’unità nazionale.

» Grandi cose in breve volger di tempo si sono operate; grandi cose rimangono ad operarsi, ma ho fede che, coll'aiuto di Dio e della virtù dei popoli italiani, noi condurremo a compimento la magnanima impresa.

» II Governo, che io vengo qui ad instaurare, sarà Governo di riparazione e di concordia. Esso, rispettando sinceramente la religione, manterrà salve le antichissime prerogative, che sono decoro della Chiesa siciliana e presidio della podestà civile; fonderà un’amministrazione, la quale ristauri i principii morali di una società bene ordinata, e, con incessante progresso economico, facendo rifiorire la fertilità, la sua marina, renda a tutti proficui i doni, che la Provvidenza ha largamente profusi sopra questa terra privilegiata.

«Siciliani!

» La vostra storia è storia di gesta e di generosi ardimenti; ora è tempo per voi, come per tutti gf Italiani, di mostrare all’Europa che, se sapemmo conquistare col valore l’indipendenza e la libertà, la sappiamo altresì conservare colla unione degli animi e colle civili virtù.

» Palermo, l.° dicembre 1860.

Vittorio Emanuele. »

II.

L’imperatore Napoleone III con sua lettera autografa a Vittorio Emanuele esprime la propria soddisfazione per la condotta tenuta dal Governo piemontese e dichiara che la sua simpatia per 1 Italia non è punto scemata.

Il Re ai 7 dicembre ritornò a Napoli.

CAPITOLO NONO

La flotta francese si pene più al larga
I pimentasi aprono il fuoco contro Gaeta. Proclama del Re Francesco II

I.

L’ammiraglio francese Le Barbier di Tinan agli ultimi di novembre fece cambiar l’ancoraggio alla sua squadra, la quale si trovò posta molto più al largo. Quest’ordine venne dato nella previsione di un bombardamento molto prossimo.

Mentre il corriere scambiava i suoi dispacci coll’ammiraglio, un colpo di cannone è stato tirato dalla parte dei legni piemontesi, e la piazza ha immediatamente risposto con una trentina di bombe ed obici. I piemontesi non hanno continuato il fuoco, e certamente essi vollero assicurarsi della portata dei loro pezzi.

II.

L’assedio di Gaeta è spinto con alquanto più di attività. 1 piemontesi ricevettero un rinforzo di 3, 000 uomini e di artiglierie.

Sebbene le opere di assedio non siano ancora condotte a compimento, pure Cialdini volle farne un saggio nel l.° dicembre.

Due batterie, erette sul fianco destro delle posizioni piemontesi più avanzate, aprirono un fuoco assai vivo contro quelle della Regina, quando meno se Io attendevano gli assediati.

L'artiglieria della piazza rispose con un fuoco terribile, fuoco che andò sempre crescendo, dopo che gli assediati furono in grado di scoprire i lavori che si facevano dalla parte dell istmo e al di là del Monte Conca.

Non vi erano che 27 pezzi piemontesi che lavoravano, ma pei guasti ch’essi fecero alle batterie del Monte Orlandoci poteva facilmente giudicare quando il generale Cialdini sarà in grado di aprire il fuoco con tutt’i pezzi che sta per porre in batteria.


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III.

Nei successivi giorni il fuoco degli assedianti aumentò; tutt'i proietti da essi lanciali erano palle rigate del peso di 30 chilogrammi, a percussione, od a miccia, in modo che non potevano guari fallire il loro effetto. Queste enormi bombe traversavano facilmente la città. Nel 3 dicembre ne scoppiò una sulla piccola piazza di Conca nel momento in cui passava il Re.

I piemontesi miravano alle polveriere, che non poterono ancora toccare e al laboratorio degli artiglieri, e ruppero il muro alla torre Orlandi, punto dominante, alcune pietre della quale furono portate via.

L'ospitale di S. Francesco, sul quale ondeggia di giorno una grande bandiera nera, sormontata da una lanterna durante la notte, viene pure colpito, e parecchie palle scoppiarono nelle sale degli ammalali.

Altri due ospitali, m vicinanza del primo, ma sopra un piano molto più basso, non vennero colpiti.

Nel 5 dicembre la Regina andò per la prima volta a coricarsi a bordo di un bastimento spagnuolo. Nel successivo giorno volle ritornare a terra. Il Re le fece preparare una casamatta.

IV.

S. M. Francesco II, pubblicò, nel 4 dicembre, il seguente proclama ai soldati:

«Soldati!

» Superati dal numero e non dal valore de' nemici, dopo numerosi combattimenti, noi ci troviamo chiusi già da un mese in questa piazza.

» L’Europa ha ammirato i vostri sforzi nei mesi di settembre e di ottobre; ella si aspetta ora di vederli continuare durante l’assedio.

» La brava guarnigione di Messina, rimembrando quella che, nel 1848 e 1849, difese valorosamente la cittadella, è disposta a fare di tutto, a soffrire tutti gl’incomodi e le privazioni da cinque mesi, altera di difendere la causa del diritto e l’onore della bandiera napoletana.

» Voi avete a rivaleggiare con una guarnigione di un’epoca più antica, quella che nel 1806 resistette in questa piazza, sprovvista dei mezzi di difesa che ora possiede, con un valore senza pari, agli assalti de' primi soldati del mondo. La storia glorifica ancora quelle pagine, que’ fatti memorabili.

» Ora che la fortezza è perfezionata, dopo molli anni di lavori, di cui voi stessi avete eseguito una parte, voi dovete difenderla con gloria eguale e miglior successo.

» Dopo tante spese e fatiche per ottenere che questa piazza potesse resistere ad un lungo assedio; dopoché l'esercito napoletano ha acquistato in campo aperto, sul Volturno e sul Garigliano, onore e rinomanza, questo esercito saprà certamente acquistare altra gloria ed una più grande riputazione, per la ferma difesa, cominciata contro un nemico, che viene a rapirci la nostra antica indipendenza, calpestando tuffi principii dell'onestà e della religione.

» La vostra disciplina si manterrà: ufficiali, sottufficiali, e soldati, rivaleggiando a tutto potere, voi saprete ottenere così la riconoscenza della vostra patria, che vi ammira, e la stimai dell'Europa, che vi guarda.

» Francesco. »

CAPITOLO DECIMO

Sortita da Gaeta. Fuoco degli assedianti. Falso allarme. Catturazione di una felueea borbonica. Manifesto di S. M. Francesco II ai popoli delle Due Sicilie

I.

Nel giorno 4 dicembre era stata disposta una sortita da Gaeta per far saltare le prime case del borgo, le quali nascondevano alla piazza le operazioni e gli assembramenti di truppe che i Piemontesi avrebbero potuto disporre nel villaggio. Ma avvedutosi il generale Bosco che i piemontesi, accortisi dell'uscita de' soldati napoletani, si preparavano a respingerli, non volle senza utilità esporre i soldati che a quell'opera si accingevano ed immediatamente li fece ritirare nella piazza.

Nel giorno 5 fu ripetuta la stessa operazione con miglior successo; imperocché 120 uomini, prescelti dal 7.°, 8.° e 9.° cacciatori e guidati dall'aiutante maggiore Simo netti, eseguirono con risolutezza ed impeto l’impresa.

Uscita la truppa in tre piccole colonne, come si vide scoperta dalle sentinelle nemiche, non curando la fucilata degli avversarii, le aggredì alla baionetta.

Frattanto, il primo tenente Corrado di artiglieria, seguito da dodici inermi artiglieri, cui eransi affidati otto barili di polvere, garantito dalle posizioni del distaccamento, dava sollecitamente opera all'ideata distruzione. A lui stesso lasciavasi la cura di comandar la ritirata quando fosse raggiunto lo scopo della missione, ed alle truppe si comandava di continuare a combattere sino a che non udissero il tocco convenzionale.

Alle 2 e 20 minuti dopo la mezzanotte, il distaccamento usciva dalla piazza, e dopo 20 minuti all’incirca, vi rientrava al grido di Viva il Re, ed al chiarore di due esplosioni, senza ricondurre alcun soldato ferito.

II.

Nel giorno 7 gli assedianti smascherarono una nuova batteria di cannoni rigali. 11 primo proietto scoppiò nel cannone stesso, rendendolo inetto al servizio, li resto della batteria continuò il fuoco, ma la batteria Regina della piazza lo fece tacere. I cannoni piemontesi erano appostati alle rovine di Sant’Agata.

Per tutta la notte si lanciarono bombe sulla città, di tre in tre minuti. Alcune caddero intorno all’ospitale. Fu risoluto di togliere di là gli ammalati, ma ciò non potè effettuarsi appunto pel motivo delle bombe.

Alcune case ebbero pure guasti. Nella mattina dell’8 il fuoco della piazza era poco gagliardo.

III.

Verso le ore il di sera i napoletani si accorsero per la prima volta dei lavori del genio dei piemontesi nei posti avanzati e ciò essi presero per qualche movimento dei medesimi verso la fortezza, mentre invece se ne stavano pacifici nelle loro posizioni. Improvvisamente tutte le bocche della fortezza da quel lato cominciarono a vomitar un fuoco terribile accompagnato da diversi colpi di moschetto.

Le sentinelle piemontesi, sentendo questi ultimi e supponendo che i regii facessero una sortita, diedero l’allarme. In un momento tutto il campo fu in piedi ed alla mezzanotte tutt'i reggimenti, tranne la riserva ed il 23.° che si trovava ad Itri, erano alle posizioni più opportune per respingere l’attacco. Allora l’artiglieria piemontese ruppe il suo silenzio. Non mancava che questo per dar alimento al timore che i borbonici avevano concepito. Per ben due ore, da allora in poi, continuò un fuoco sì vivo, che si sarebbe supposto il bombardamento di Gaeta.

Quando poi s’accorsero dello sbaglio ed i piemontesi si persuasero non esservi alcuna sortita, le artiglierie piemontesi cessarono il fuoco, locché poco dopo fecero pure i napoletani.

Verso le tre tutte le truppe ritornarono al loro campo, tranne qualche battaglione, che rimase di rinforzo agli avamposti.

IV.

In questo torno una felucca borbonica, lasciato il porto di Gaeta, remava a tutta Iena verso Napoli; quando, scoperta da un ufficiale dello stato maggiore di Cialdini, che aveva a caso volto il suo cannocchiale da quella parte, ne fu avvisato il generale.

Il telegrafo fu messo in movimento ed una lancia a 10 remi fu vista subitamente staccarsi da uno de’ vapori piemontesi, per dare la caccia al naviglio nemico.

Avvedutosi questi del pericolo che gli soprastava, issate le vele con vento favorevole, drizzò l’antenna all’isola di Ponza, sperando sottrarsi.

I marinai piemontesi non si scoraggiarono per questo, e fatti sforzi erculei, giunsero pur finalmente a catturare la felucca. V’erano a bordo cinque marinai napoletani, due ufficiali della guardia ed un' altra persona. I due ufficiali, un capitano nominato Pucci e il lenente Nocera furono subito arrestali per ordine di Cialdini, sebbene protestassero che si recavano a Napoli per prender servigio nell’esercito nazionale.

V.

Nel giorno 8 dicembre S. M. Francesco II pubblicò il seguente manifesto;

«Popoli delle Due Sicilie!

» Da questa piazza, ove difende, più che la corona, la indipendenza della patria comune, il vostro sovrano leva la voce per consolarvi delle vostre miserie e per promettervi tempi più felici. Egualmente traditi, egualmente spogliati, noi ci rileveremo insieme dal nostro infortunio. L’opera dell’iniquità non è mai durata mollo tempo, e le usurpazioni non sono eterne.

» To lascio cadere con disprezzo le calunnie, guardo con disdegno i tradimenti, purché tradimenti e calunnie si rivolgano solamente

contro la mia persona. Io ho combattuto non per me, ma per l’onore del nome che noi portiamo. Ma vedendo i miei amatissimi sudditi in preda a tutt'i mali di una dominazione straniera, il mio cuore napoletano batte d’indignazione nel petto, e solo mi consola la lealtà della mia brava armata e lo spettacolo delle nobili proteste che, da tutr i punti del Regno, si levano contro il trionfo della violenza e della astuzia.

» Io sono napoletano: nato fra mezzo a voi, non ho respirato altro aere, non ho visto altri paesi, non conosco altro suolo che il suolo natale. Tutte le mie affezioni sono nel Reame; i vostri costumi sono i miei, la vostra lingua è la mia, le vostre sono pure le mie ambizioni. Erede di un'antica dinastia, che da lunghi anni regna su queste belle contrade, dopo averne rivendicala l’indipendenza e autonomia, io non vengo, dopo avere spoglialo gli orfani del loro patrimonio e la Chiesa de’ suoi beni, ad impossessarmi colla forza straniera della più deliziosa parte dell’Italia.

» Io sono un principe, eh’ è vostro e che ha tutto sacrificato al desiderio di conservare fra suoi sudditi la pace, la concordia, la prosperità.

» Il mondo intero lo ha veduto: per non versare del sangue, ho preferito arrischiare la mia corona. I traditori pagali dallo straniero nemico, s’assisero nel mio Consiglio, a lato de’ fedeli servitori; nella sincerità del mio cuore io non poteva credere al tradimento. Mi costava troppo il punire, mi addolorava l’aprire, dopo tante sciagure, un'era di persecuzioni, e così la slealtà di qualcuno e la mia clemenza hanno facilitato l’invasione che. sì è operata col mezzo di avventure, paralizzando la fedeltà de’ miei popoli ed il valore de' miei soldati.

» Minaccialo da continue cospirazioni, io non ho fatto versare una goccia di sangue, ed accusarono la mia condotta di debolezza. Se l’amore il più tenero pe’ miei sudditi, se la fiducia naturale della gioventù all’onestà degli altri, se l'orrore instintivo pel sangue meritano questo nome, sì, certamente, io fui debole. Nel momento nel quale la rovina de’ miei nemici era sicura, io arrestai il braccio de’ miei generali per non consumare la distruzione di Palermo. Preferii abbandonare Napoli, la mia casa, una capitale carissima senza essere scacciato da voi, per non esporla agli orrori di un bombardamento, come quello eh’ ebbe luogo più tardi a Capita e ad Ancona.

» Io credetti di buona fede che il Re di Piemonte, che si diceva mio fratello e mio amico, che mi protestava la disapprovazione sua per l’invasione di Garibaldi, che negoziava col mio Governo un’alleanza intima pe’ veri interessi d’Italia, non avrebbe rotti tutt’i trattati e violate tutte le leggi per invadere i miei Stati in piena pace, senza motivo, né dichiarazione di guerra. Se son tutti questi i miei torti, io preferisco i miei infortunii ai trionfi dei miei avversarii.

» Io aveva data un’amnistia, aveva aperto le porte della patria a tutti gli esiliati; aveva accordato a’ miei popoli una costituzione. Io non ho certamente mancato alle mie promesse. Mi preparava a garantire alla Sicilia delle istituzioni liberali,

che avrebbero consacrato, con un Parlamento separato, la sua indipendenza amministrativa ed economica togliendo d’un colpo tutt'i motivi di diffidenza e di malcontento. Io aveva chiamato nel mio consiglio gli uomini che sembravano più accetti all'opinione pubblica; in questa circostanza, e per quanto me lo promise l'incessante aggressione della quale sono vittima, io lavorava con ardore alle riforme, al progresso, alla prosperità del nostro comune paese.

» Non sono le discordie intestine quelle che mi strappano il Regno; no, sono vinto da una inqualificabile invasione d’un nemico straniero. Le Due Sicilie, ad eccezione di Gaeta e di Messina, ultimi asili della loro indipendenza, si trovano nelle mani del Piemonte. Chi mai ha procurato ai popoli delle due Sicilie questa rivoluzione? Guardate la condizione che presenta il paese. Le finanze, non è molto cosi fiorenti, sono completamente minate; amministrazione è un caos; la sicurezza indiuiduale non esiste; le prigioni sono piene di sospetti; invece della libertà, lo stato d'assedio regna nelle Provincie, e un generale straniero pubblica la legge marziale, decreta la fucilazione istantanea per tutti quelli de' miei sudditi che non s9 inchinano davanti alla bandiera di Sardegna. L9 assassinio è ricompensato; il regicida ottiene un'apoteosi; il rispetto al culto santo de' nostri padri viene chiamato fanatismo; i promotori della guerra civile, i traditori del loro paese ricevono delle pensioni cui pagano i pacifici contribuenti. L'anarchia è da per tutto. Avventurieri stranieri misero la mano per tutto per soddisfare l'avidità e le passioni de' loro compagni.

Degli uomini che non hanno mai veduto questa parte d’Italia, o che da una lunga assenza hanno obbliato i suoi bisogni, costituiscono il vostro Governo. Invece delle libere istituzioni che vi aveva dato, e che desiderava sviluppare, voi avete avuto la dittatura la più stretta, e la legge marziale ora rimpiazza la Costituzione. Sotto i colpi dei vostri dominatori, scomparirà la monarchia di Ruggero e di Carlo III, e le Due Sicilie saranno dichiarate Provincie di un Regno lontano. Napoli e Palermo saranno governate da prefetti venuti da Torino.

» Non vi ha che un rimedio a questi mali ed alle calamità più grandi ancora che io prevedo: la concordia, la risoluzione, la fede nell’avvenire.

» Unitevi intorno al trono de’ vostri padri; che l’obblio copra per sempre le opere di tutti; che il passato non sia mai più un pretesto di vendetta, ma una lezione salutare per l’avvenire. Io ho fiducia nella giustizia della Provvidenza, e qualunque sia la mia sorte, resterò fedele a’ miei popoli, come alle istituzioni ch'io ho loro accordate. Indipendenza amministrativa ed economica fra le Due Sicilie, con un Parlamento separato; amnistia completa per tutt'i fatti politici: ecco il mio programma. Fuori di questo, non vi resterà pel paese che dispotismo ed anarchia. Difensore dell’indipendenza della patria, io resto e combatto qui per non abbandonare un deposito così santo e così caro. Se l’autorità ritornerà nelle mie mani, sarà per proteggere tutt'i diritti, rispettare tutte le proprietà, garantire le persone ed i beni de’ miei soggetti contro tutta sorte di oppressione e di saccheggio.

Se la Provvidenza, ne’ suoi profondi disegni, permetterà che l’ultimo baluardo della monarchia cada sotto i colpi di un nemico straniero, io mi ritirerò colla coscienza senza rimproveri, con una fede incrollabile, con una risoluzione immutabile, e attendendo Torà della vera giustizia, io farò il voto il più fervido per la prosperità della mia patria, per lq felicità di que' popoli che formano la più cara porzione della mia famiglia.

» Il Dio onnipotente e la Vergine immacolata ed invincibile protettrice del nostro paese sosterranno la nostra causa comune.

«Francesco. »

CAPITOLO UNDECIMO

L'Imperatore Napoleone significa a S. M. Francesco II che la situazione della sua flotta non può durare indefinitamente e consiglia S. M. a ritirarsi cogli onori della guerra. Risposta di S. M. siciliana

I.

L'imperatore Napoleone scrisse la seguente lettera a S. M. il Re di Napoli, e che venne a questi consegnata nel TU dicembre dall’ammiraglio di Tinan:

«Non ho scritto da qualche tempo a Vostra Maestà, perché desiderava vedere se gli avvenimenti pigliassero un carattere sufficientemente chiaro e preciso, sì da permettermi disporre, con cognizione di causa, la mia opinione a Vostra Maestà.

» Allorché l’ingiusta aggressione del Piemonte porse aiuto alla rivoluzione ne’ vostri Stati, e vi costrinse a ritirarvi a Gaeta, io deliberai d’impedirne il blocco, a fine di dare a Vostra Maestà una prova della mia simpatia, e di evitare all’Europa l'affliggente spettacolo d'una lotta a oltranza tra due Sovrani alleati, lotta nella quale il diritto e la giustizia stavano per colui che doveva soccombere. Ma pur lasciando, mediante la mia flotta, il mar libero a Vostra Maestà, non poteva entrare nella mia politica d'intervenire nella contesa.

Per la qual cosa, l’ammiraglio di Tinan ricevette l'ordine di osservare la più stretta neutralità tra' due avversarii.

» Gli emergenti della guerra complicano la situazione della mia flotta a Gaeta; spesse volte ella si trova al punto d'operare contro i piemontesi, i cui assalti minacciano la sua sicurezza; talvolta ella è obbligata, per mantenere la sua neutralità, d'impedire a' bastimenti di Vostra Maestà di esercitare giusta rappresaglia contro i bastimenti piemontesi. Tal situazione non può durare indefinitamente; miglior cosa sarebbe, io credo, nell'interesse ben inteso di Vostra Maestà, ch’ella si ritirasse cogli onori della guerra; imperciocché ella sarà costretta a farlo: la peripezia è inevitabile. Voi aveste fatto pruova di lodevole fermezza. Finché rimanevano per voi probabilità di risalire sul trono, era vostro dovere di sostenere il vostro diritto colle armi; ma oggidì, lo dico con rammarico, il sangue che scorre è inutilmente versato; il vostro dovere, com’uomo e come sovrano, è di arrestarne l’effusione. Non so che cosa l'avvenire possa riservare a Vostra Maestà; ina sono persuaso che l'Italia e l'Europa riguarderanno come perfette e la energia, che avete sfoggialo, e la risoluzione, che prenderete per evitare le grandi sventure, che opprimono oggidì il vostro popolo.

» Vi prego di credere che il linguaggio, che tengo a V. M., m’è suggerito dal più grande disinteresse fra le due parti, e dal rammarico che proverei, se, facendosi le congiunture più gravi, più non mi permettessero di mantenere la mia flotta in una situazione, in cui la stretta neutralità diverrebbe impossibile.

» Prego V. M., ec.,

II.

S. M. Francesco II rispose nel seguente modo alla lettera dell’imperator Napoleone.

«La lettera che V. M. mi fece l’onore di scrivermi, e che l’ammiraglio di Tinan mi ha consegnato, mi pone, debbo confessarlo, nel più grave imbarazzo. Era mia ferma intenzione di resistere e di tutelare il mio onore a costo de’ più grandi sacrifizii, se le congiunture m'impedivano di salvare i miei Stati contro un’ingiusta aggressione. Ma i consigli affettuosi, datimi da V. M., e la prospettiva della ritirata della vostra flotta, m’impongono e mi fanno esitare.

» In tal congiuntura, V. M. non rimarrà né sorpresa, né offesa, s’io piglio tempo a riflettere, prima di prendere una risoluzione definitiva. Benché sapessi che la flotta francese non doveva indefinitamente soggiornare nel golfo, le mie informazioni uffiziali, e le assicurazioni particolari, che m’era no state date, mi facevano sperare la prolungazione del suo soggiorno, od almeno la presenza della bandiera francese sopra un bastimento della marina imperiale.

» Valutando i motivi, che guidano V. M., e conoscendo la vostra efficace simpatia, non posso se non deplorare il richiamo d’una flotta, che lascia libero il mare a’ miei nemici ed aggrava considerabilmente la mia situazione. Mi sarà necessario, per sapere se mi sarà possibile, senza co desto aiuto, di far lunga resistenza, di esaminare colla più grande attenzione quali siano i miei mezzi.

Ciò ch'io desidero sinceramente è di evitare due scogli, a’ quali la mia barca può naufragare o rimanere offuscato lo splendore: la temerità e la debolezza.

» Sapete, Sire, che i Re, i quali abbandonano il loro trono, difficilmente vi risalgono, a meno che i raggi della gloria non abbiano dorato i loro infortunii e la loro caduta. So che, dopo l’ebbrezza d’un trionfo, dovuto più alla pusillanimità od al tradimento de' miei generali, che alla potenza de’ rapitori del mio Regno, costoro troveranno immense difficoltà per indurre i miei sudditi ad accettare idee, che ripugnano parimenti a’ loro interessi ed alle loro tradizioni.

» Le difficoltà divenendo ognora più gravi in Europa, la vostra alta capacità e l'autorità, di cui gode Vostra Maestà, mi fanno sperare che il giorno non sia lontano, in cui i principi! della legge, del dovere e della giustizia cesseranno d’essere calpestate dal Piemonte. Se codeste speranze sono chimere, v’ha un punto almeno, che non soffre discussione, ed è, che, combattendo pel mio diritto, soccombendo con coraggio, cadendo con onore, sarò degno del nome, che porto, e sarò un esempio al principe, che mi succederà.

» Sono qui Re, in principio, ma generale in fatto. Non ho più Stati, posseggo soltanto una fortezza ed un esercito fedele. Debbo io abbandonare, in vista di pericoli personali, per timore dello spargimento del sangue, che ho cercato di evitare a ogni costo, un esercito, che può mantenere l’onore della sua bandiera, e una fortezza per la cui difesa i miei avi fecero tanti sforzi, considerandola come l’ultimo baluardo della monarchia?

V. M., ch'è un eccellente giudice in codesto argomento, può decidere meglio di chiunque, se, ritirandomi senza essermi assicurato dell'insufficienza de’ miei mezzi, avrei adempiuto il mio dovere come soldato.

» Posso morire, posso esser fatto prigioniero. Ciò è vero. Ma i principi debbono saper morire come si conviene, e Francesco II fu prigioniero. Ei non difendeva, come io fo, un Regno ed un popolo, e ciò malgrado, i suoi contemporanei e la storia raccontarono com’egli espose la sua persona e come sopportò le amarezze della sua prigionia. Non è passeggierà esaltazione, che m’ispiri questo linguaggio; esso è il prodotto di lunga riflessione, e V. M, eh’ è uomo di risoluzione, d’intelligenza e di coraggio, comprenderà meglio di chiunque i sentimenti, che mi animano.

» Debbo dunque lottare contro la corrente delle mie" idee e de’ miei sentimenti, prima di cangiare risoluzione. Permettetemi di pigliare il tempo per riflettere, e se intanto, malgrado i miei desideri, le mie speranze, e, oso dire, le mie preghiere, gl’interessi e la politica di V. M. vi costringono a ritirare la vostra flotta, ne avrò rammarico senza dubbio, ma renderò sempre giustizia a’ motivi, che vi guidano; e soprattutto conserverò profondamente scolpita nel mio cuore la pruova di simpatia, che mi avete data, e la memoria del servigio, che mi avete prestato, assicurandomi per sì lungo tempo la libertà dei mari, in congiunture nelle quali nessuna potenza dell’Europa poteva darmi soccorso.

E se debbo soccombere in conseguenza della partenza della vostra flotta, pregherò sinceramente Dio perché V. M. non ne provi rammarico, e perché, invece d’un alleato riconoscente e fedele, voi non incontriate una rivoluzione ostile ed un sovrano ingrato.

» Qualunque sia la mia decisione in congiunture sì gravi, sarà mio desiderio di porne a conoscenza V. M., e colgo questa occasione di manifestare tuia volta di più a V. M. la riconoscenza pel vostro sostegno, pei vostri consigli, e soprattutto per l’interesse, che vi piacque dimostrarmi.

» Prego V. M., ecc. »


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CAPITOLO DUODECIMO

I piemontesi tengono consiglio di guerra. Fuoco d’assedio dal IRal 99 dicembre. Il Re trasporta II suo quartier generale

I.

Verso la metà di dicembre si tenne un consiglio di guerra fra tutti i generali del campo piemontese, tra cui Fanti, Cialdini, Menabrea e Valfrè. Dopo accurate e profonde discussioni si decise che, oltre il bombardamento, si tenterà di aprire la breccia a 1200 in 1500 metri, al quale effetto fu ordinata per telegrafo la pronta spedizione, da Torino, da Alessandria e da Genova, di nuove artiglierie, fra le quali due batterie da 80 e due da 16, tutte rigate, di altri mortai e munizioni corrispondenti.

II.

Nella sera del 15 decembre i piemontesi ripresero il fuoco, il quale durò tutta la notte e pei due giorni successivi con qualche interruzione. Dalla valle di Caligno essi tirarono maggiormente, mentre tacevano da Monte Cristo, punto più lontano, ove erano stabilite le prime batterie di cannoni rigati. Le palle di questi cannoni e le bombe si succedevano; ciò non pertanto erano le prime che spesseggiavano.

I piemontesi avevano pochi pezzi in batteria, e la piazza non rispondeva con molta vivacità. Non pertanto i piemontesi vollero far tacere il fuoco nemico, ed una decina di bombe, dirette sulla batteria rigata caddero con una precisione matematica ed il silenzio si fece.

III.

Il fuoco continuò dai 19 al 26 dicembre senza interruzione. Il tiro a bomba fece molto danno alla città alta, ma non distrusse alcuna delle batterie napoletane, le quali continuarono a rispondere.

Il fuoco del 19 e del 20 fu il più vivo. Le bombe cadevano spesse. Una palla ferì due ufficiali fra le due cinte dei rampari. Un terzo ufficiale ebbe rotta una gamba.

Nel giorno 21 continuava il fuoco dall’una e dall’altra parte. Le due batterie rigate degli assedianti sparavano di continuo contro la polveriera centrale e il forte a stella. Ad evitare l’accensione delle polveri, gli assediati davano opera a costruire una nuova polveriera situata in luogo riparatissimo e fuori da ogni offesa.

IV.

Il bombardamento obbligò il Re ad abbandonare il suo palazzo colpito dai proietti.

Egli ed i suoi fratelli piantarono il loro quartier generale alla batteria Philipstadt, che è la più importante della fronte bastionata della piazza. Essi passarono colà tutte le notti dal 19 in poi.

Anche l’ambasciatore spagnuolo abbandonò il suo palazzo colpito dal bombardamento.

CAPITOLO DECIMOTERZO

Francesco II rifiuta di cedere Gaeta.Gli assediati ricevono soccorsi di viveri e di danaro

I.

Tra il Piemonte e Francesco II s’intavolarono traltative onde quest’ultimo si determinasse ad abbandonare la piazza di Gaeta. Tre punti principali furono messi in discussione. Francesco II, colla intromissione della Francia, domandava la restituzione dei 10 milioni di ducati confiscati alla sua famiglia per decreto dittatoriale; il riconoscimento di tutt’i gradi conferiti all’armata napoletana, e finalmente l’ammissione di un suo rappresentante nel Congresso, che potesse, un giorno, essere chiamato a discutere la quistione italiana.

Le due prime domande non trovarono obiezione, ma la terza incontrò difficoltà e il Piemonte non l’ammise. Fallirono quindi tali negoziazioni, perché, come si vede, Francesco II, cedendo Gaeta, intendeva riserbarsi i suoi diritti di sovrano in vista del futuro Congresso.

Egli dunque, verso la metà di dicembre, durava fermissimo nel proposito di combattere Uno all’estremo per la sua sovranità.

II.

Da Roma e dalla Francia s’inviavano viveri a Gaeta. Non passava settimana che mettessero piede sul suolo francese agenti di Francesco II, i quali facevano continui acquisti nella piazza di Marsiglia.

Francesco II riceveva inoltre somme ragguardevoli da parecchi sovrani.

CAPITOLO DECIMOQUARTO

Posizioni e lavori d'assedio de' piemontesi. Fuoco d’assedio. Ordine del giorno di Francesco II alle truppe che trovasi sugli Stati pontificii, i cui corpi vengono disciolti

I.

Tutte le alture, che dominano le batterie di terra e il forte Orlando, sono in mano de’ piemontesi ed in comunicazione col campo di Mola per mezzo di comodissime e numerose strade, nella maggior parte al coperto del fuoco della fortezza. Verso il 26 dicembre, le batterie d’assedio non erano ancora tutte armate. Tra mortai e cannoni debbono essere poste in linea centotrentacinque bocche da fuoco, delle quali le prime novanta, a. quell'epoca, erano già in posizione.

Ma i piemontesi dovevano giornalmente sopportare molti incomodi per mantenersi nelle posizioni conquistate. Le strade di comunicazione fra un posto e l’altro erano bene spesso coperte d’acqua, e trailo tratto i terrapieni si dovevano rifare per essersi sprofondati a cagione delle piogge, quasi continue, di que’ giorni.

Questa fu una delle cause per cui si dovette impiegare un tempo maggiore del preveduto nel terminare le parallele e nel porre i mortai ed i cannoni in batteria.

II.

La sera del giorno di Natale fu una della più funeste pegli assediati di Gaeta. Essi ebbero, oltre una giovane ragazza morta, due uomini morti e una decina di feriti.

Nel 26 dicembre il fuoco fu assai vivo da ambe le parti. I piemontesi avevano quattro batterie che tiravano, ed un’altra preparata e prossima a far fuoco.

Il 27 le batterie piemontesi, e specialmente quella di Monte Tortola, funzionarono fragorosamente e la piazza rispose con vigore. Il Conte di Caserta fu sul parapetto, e cinque palle di cannone rigato fecero esplosione sulla spianata senza ferir persona.

Il 28 la cannonata non fu forte.

III.

S. M. Francesco II diresse il seguente ordine del giorno, in data 26 dicembre, alle truppe che trovavansi negli Stati pontifici, ed i cui corpi vengono disciolti:

«Soldati!

» Separato da voi dalla forza degli avvenimenti, la mia affezione è sempre con voi. Il ricordo delle fatiche, durate in questi otto mesi, e i gloriosi fatti d’armi, valorosamente compiuti, starà sempre nella mia memoria.

» Io sono obbligato provvisoriamente a disciogliere i corpi, dei quali voi fate parte. Ma ho ferma fiducia che fra poco voi sarete riuniti, probabilmente per combattere ancora ed aumentare la gloria delle truppe napoletane.

» Voi porterete sui vostri petti una memoria del vostro valore, colla medaglia che ricorderà tutt’i combattimenti, nei quali avete date così belle prove di coraggio e di bravura. Voi ritornerete pel momento ai vostri focolari, dove ritroverete i vostri compagni, che, combattendo valorosamente nel 1848 e 1849, seppero guadagnare le medaglie della fedeltà. Unitevi ad essi, e sarete, com’essi, rispettati ed onorati da tutt’i buoni ed onesti cittadini.

» Un giorno verrà certamente, nel quale voi saprete riprendere le armi, che avrete fra le mani, per la salute del paese, delle vostre famiglie e dei vostri beni.

» Gaeta 26 dicembre 1860. »

CAPITOLO DECIMOQUINTO

Artiglierie del generale Cavalli. Loro arrivo a Gaetae dove vengono collocate

I.

L'esercito piemontese possedé una speciale artiglieria d'invenzione del generale sig. Cavalli. S'immagini una vettura comune a due ruote col seggio sull’asse per tre artiglieri. Sotto al seggio, ai due capi dell’asse, dove cominciano le teste delle ruote, si sviluppano due braccia di ferro, che, riunite al centro, sostengono il cannone ed il meccanismo necessario a metterlo in batteria ed a puntarlo tanto di fronte che sulle due direzioni obblique di destra e di sinistra.

Ai fianchi del seggio sono attaccate due piccole casse per le munizioni e gli strumenti necessari alla carica ed alle manovre del pezzo e del carro. La vettura, quantunque solidissima, è assai leggera e può essere strascinata sulle strade comuni da un solo cavallo; sulle strade di montagna più disagiate, due cavalli bastano.

Questo sistema economico e potentissimo, massime nei terreni accidentati dell’Italia meridionale, non potè finora applicarsi, atteso l’estremo riserbo con cui il Comitato del materiale s’adopera ogni volta che vien proposta una modificazione ai sistemi più conosciuti e più adottati nelle artiglierie francese e prussiana.

Il generale Cavalli, quando fu invitato dai Governi liberi dell'Emilia e della Toscana ad assumere la direzione superiore del servizio dell'artiglieria allora nascente, non tardò ad applicare le idee che da tanto tempo egli difendeva. Egli portò a Bologna il suo cannone a due ruote, servito da artiglieri a piedi, ed il suo cannone &e nophe, che trasporta il pezzo ed anche gli artiglieri di servizio.

La riuscita di questi tentativi fu destinata a dotare i corpi leggieri di cacciatori, a piedi ed a cavallo, di artiglierie convenienti al loro sistema di azione, e che, pel calibro, superano di gran lunga i piccoli pezzi dell'attuale artiglieria di montagna a schiena di mulo, che generalmente, per la complicazione della manovra, sono d1 impaccio e d1 ostacolo alla celerità dei movimenti delle altre truppe.

I cannoni del generale Cavalli poi sono pezzi di una formidabile potenza e che acquistarono al loro inventore l’europea rinomanza, di cui già godeva fin da quando teneva nel l'esercito l'umile grado di capitano d'artiglieria.

Questi cannoni sono muniti alla culatta di un voluminoso apparecchio, che serve ad aprirla. Per mezzo di tale meccanismo il cannone rimane alla sua posizione in batteria, e gli uomini al coperto nelle trincee lo caricano, fanno il colpo e lo puliscono senza esporsi alle offese del nemico. Tale sistema ha un grande vantaggio sui cannoni ordinarii anche per la celerità con cui si succedono i fuochi. Un cannone Cavalli può fare anche cinque colpi, mentre le artiglierie comuni arriverebbero soltanto a farne due.

La carica, racchiusa ermeticamente nella camera praticata al. fondo della canna, esce per la medesima a tutta forza, e, per contribuire alla maggior violenza della proiezione, l’interno della canna medesima è scannellato a modo delle moderne artiglierie rigate.

II.

Dai primi giorni che fu iniziato l’assedio di Gaeta, si decise l’applicazione di una batteria di sei obici rigati, secondo il sistema Cavalli. Il materiale occorrente e la munizione furono preparati; se non che, volendo uniformarsi alle prescrizioni date dall’inventore stesso per ovviare agl’inconvenienti ch'erano accaduti durante le esperienze, si dovette procedere ad un’accurata ispezione dei proietti per verificarne la bontà e la perfezione. Gl’inconvenienti consistevano in ciò che le granate cilindroogivalicave scoppiavano entro l'obice stesso, per non essere abbastanza precisa la fusione: ond’è che si comunicava il fuoco alla materia incendiaria nell’interno prima che partissero dalla canna.

Quest’operazione arrecò gravi ritardi: inoltre, al punto d’imbarcare il tutto, la fregata a vapore il Ruggero si trovò che non era acconcia ad un ingombro e ad un peso cosi enorme, in vista dell’ingente quantità di proietti corrispondenti, che andava unita a sì pesanti artiglierie: fu forza dunque provvedere per altra nave, e fra le occupazioni che soffriva la marina da guerra, fra gli sconvolgimenti del mare molto frequenti in quella stagione, la spedizione venne ritardata.

Nel frattempo, per meglio provvedere all’esattezza del l’invio, fu chiamato il capitano d’artiglieria sig, Duprè per occuparlo specialmente nell’ultimare e completare, d’accordo col generale Cavalli, tutta la riunione e la collaudazione del materiale in discorso, per prevenire qualunque inconveniente.

III.

I cannoni Cavalli vennero imbarcati da Genova e partirono alla volta di Gaeta. Nel 28 dicembre que cannoni giunsero alla loro destinazione per essere posti in batteria sullo spianato della villa di Caposela nella quale Cialdini aveva fissato il suo quartier generale.

Da questo classico luogo adunque i cannoni di nuova invenzione faranno per la prima volta la loro terribile pruova. Il luogo non potrebbe essere più adatto, giacché da quell’eminenza si domina la magnifica vista dell’assediata città, che quasi per incanto sorge dal golfo. Di faccia, la punta estrema di quella costiera, che, in bizzarre ondulazioni piegando le radici de’ suoi erti promontorii segna la curva occidentale del golfo. A dritta, la punta estrema del l'istmo, sul prolungamento del quale sorge il monte Orlando, ed i minori pendìi, su quali è fabbricata la città.

Da questa storica villa le batterie Cavalli potranno battere inoffese la lunga costiera, clic dall’acqua del golfo è lambita. Diciamo storica villa, perché, al basso della sua terrazza si scorgono ancora i ruderi dei bagni di quella Formina, che fu favorita residenza di Cicerone:

tranquilla solitudine, nella quale occorsero le conferenze politiche con Pompeo, e dove il grande oratore, ritraendosi dalle tempeste del foro, godeva degl’ideali colloqui! di Scipione e di Lelio. La splendida villa di Cicerone fu bensì distrutta dalla mano inesorabile del tempo, ma il corso di 2000 anni non ha alterato la maestà delle sue montagne; il Sinus Cajetanus è ancora ugualmente ridente, le sue brezze primaverili del paro profumate, com'erano ai tempi di Plutarco, o come quando Marziale esclamava:

Temperatae dulce Formiae litus.

CAPITOLO DECIMOSESTO

Il Re Vittorio Emanuele parte da Napoli alla volta di Torino. Visita del nipote di Russell a Garibaldi

I.

Nella notte del 27 dicembre il Re Vittorio Emanuele partì da Napoli per la via di terra. Alle 3 e minuti 53 giungeva a Capua, dove fu ricevuto da tutte le Autorità, e ne ripartiva dopo brevissima fermata.

Alle ore 10 il Re passava ad Isernia. Nel 29 egli giunse a Torino, col principe Carignano e coi ministri, eh’ erano alle 4 andati ad incontrarlo. 11 Municipio ricevette S. M. alla scala della ferrovia, ove la guardia nazionale trovavasi sulle armi.

Al passaggio di S. M. la folla immensa applaudì entusiasticamente. La città fu illuminata e risuonarono gli spari di cannone.

II.

Verso la fine di dicembre ancorò nei paraggi di Caprera una goletta inglese; fu lanciato in mare un canotto, in cui entrarono due persone, che mossero verso terra e consegnarono una lettera al generale Garibaldi.

Dopo un’ora, il generale raggiunse la goletta, e, appena a bordo, fu salutato con 21 colpo di cannone, e lo fu con altrettanti colpi al suo ritorno.

Il generale vi si trattenne una mezz’ora e vi mangiò. Il nipote di lord. J. Russell aveva fatto l’invito al generale. nella sera la goletta ripartì per Gaeta.

CAPITOLO DECIMOSETTIMO

Civitella del Tronto e Messina

I.

Civitella del Tronto (1) giace nell’Abruzzo Ulteriore fra Ascoli e Teramo. I suoi forti, costrutti sopra una rupe in sito vantaggiosissimo, non possono essere ridotti che per fame e con un assedio in regola, che presenta grandi difficoltà.

La truppa italiana, in numero di 1400 ed il battaglione sannita, erano, ai primi di dicembre, al blocco di questa rocca, in appresso investita in forma regolare pel numero dei soldati colà arrivati.

II generale piemontese Pinelli, giunto dalla Marsica, Provincia di Aquila, nel 6 dicembre, recando con sè un battaglione di bersaglieri ed altri militari, artiglieri e zappatori, minatori e varie compagnie del 39 di linea, partì da Teramo il giorno 7 di mattina per Civitella del Tronto, facendo contemporaneamente muovere da Giulia altra colonna, composta dal 40.° di linea e da altri militari, o di scorta, o di servizio de’ cannoni e mortai, colà pure diretti nel numero di dodici pezzi.

(1) Civitella del Tronto, città forte nell’Abruzzo Citeriore a 19 leghe 0. da Aquila, conta 1700 abitanti,

Il giorno 8 di dicembre il generale Pinelli aprì trattative di resa. Egli con un uffiziale del suo stato maggiore, recossi al forte e parlamentò col comandante di esso. Le intimazioni di resa, o non si ricevettero, o appena, per rispondervi, si proposero condizioni esagerate. Dietro di ciò, immediatamente le operazioni d’assedio s’intrapresero, e la mercé del valore e della espertezza del generale poterono collocarsi i pezzi in tre favorevoli posizioni.

Agli 11 dicembre molti pezzi, ed anche cannoni rigati, traevano al forte, però con poco o niun frutto, il che ha fatto vieppiù convincere della robustezza di quel forte, che ai molti vantaggi riunisce una posizione che non ammette assalto.

Nel 12 il generale Pinelli fè tirare settanta granate e tutte meravigliosamente a tiro preciso. Quelli del paese risposero con manifestazioni ed evviva a Vittorio Emanuele; quelli del forte con evviva a Francesco IL

Quattro bombe tirate sul forte caddero sulla piazza d'armi. I pezzi erano molto vicini alla fortezza e gli assedianti vi potevano tirare con la carabina; i bersaglieri vi tiravano con effetto a 300 metri.

Il 21 dicembre il presidio del forte, rinforzato da paesani armati, fece una sortita, attaccando gli avamposti delle truppe piemontesi al convento di Santa Maria dei Lumi, occupato dalla 34 compagnia dei bersaglieri, la quale fece una gagliarda difesa.

Intanto, ad una parte del convento è stato messo il fuoco. Accorsero le altre compagnie del battaglione, alla coi presenza i regii si precipitarono entro la rocca, portando seco alcuni capi di piccoli bestiami, stati riuniti appositamente da alcuni villici, lo che provò le secrete corrispondenze che il presidio aveva con questi.

II.

A Messina, mentre il popolo festeggia con lumi, bandiere e musiche gli avvenimenti, ecco, nel 3 dicembre, arrivare la gran fregata già Borbone ora Garibaldi, quella stessa che, nell'ultimo agosto, formante parte della napoletana crociera, attaccò con bombe i forti del Faro, ed ora è messa al comando del capitano di vascello Eduardo D'Amico con equipaggio di 530 marinai. Recava da Palermo bandiera parlamentare e un generale, con alti poteri, a trattar la resa di Messina. I patti offerti al generale Fergola, comandante della piazza, erano i seguenti:

1.° La cittadella di Messina, con tutto il suo materiale di guerra, artiglieria, armi, magazzini e tutti gli oggetti di spettanza governativa, sarà consegnata alle truppe di S. M. il Re Vittorio Emanuele, appena si presentino.

2.° Le truppe napoletane, attualmente costituenti la guarnigione della cittadella di Messina, usciranno colle armi e saranno imbarcale per essere dirette ad uno dei porli del Regno di S. M. per tenervi guarnigione.

3.° A tutti i signori ufficiali, impiegati amministrativi, ufficiali sanitarii, che fanno parte dell’attuale guarnigione di Messina, e che appartenevano all’esercito regolare del già Regno delle due Sicilie, saranno conservati i gradi acquistati nel succitato esercito a tutto il 7 settembre dell’anno corrente.

4.° Alla bassa forza saranno conservati i gradi e la posizione attuale, coll'obbligo però che ciascuno abbia ad ultimare, sotto la bandiera di S. M. il Re Vittorio Emanuele, la ferma di servizio contratto nel già esercito regolare delle Due Sicilie, a termini delle leggi militari vigenti in questo Regno.

5.° All'atto della convenzione saranno consegnati, per parte dei commissarii napoletani, al commissario del Re, appositi elenchi nominativi e graduati tanto pei signori ufficiali, come per la bassa forza, e gli specchi delle bocche da fuoco e materiali da guerra esistenti nella piazza.

Il comandante Fergola respinse ogni trattativa, nettamente dichiarando che finché Francesco II sarà a Gaeta, esso non vorrà sentire proposizione alcuna da altri che dal suo Re.

II.

Verso la metà di dicembre, le Autorità dell'isola fecero al generale Fergola una nuova intimazione di aver a rendere la cittadella di Messina.

Il generale tenne un consiglio di guerra, al quale furono chiamati tutti gli ufficiali della guarnigione.

A voti unanimi fu dichiarato di non arrendersi e di difendersi fino all’ultima estremità, nel caso di un assalto contemporaneo da terra e da mare.

A fronte di tale risposta, e siccome il possesso della cittadella di Messina non aveva, pel momento, importanza pei piemontesi, fu soprasseduto alle operazioni militari.

Il vascello misto francese il, staccato dall’ammiraglio di Tinan dalla sua squadra, erasi ancorato nel porto di Messina.


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CAPITOLO DECIMOSETTIMO

Reazioni

I.

il Napoli si hanno continue pruove che dagli uomini della reazione, e, specialmente da antichi impiegati d ogni genere, vengono eccitati disordini e tumulti. Ciò avviene con singolare insistenza dopo l’arrivo del Re. Questi ogni giorno spargono qualche voce per destare agitazione. Ora è quella della Maria Adelaide cannoneggiata dai francesi, col l'albero rotto, ec., benché tutti la possono vedere nella rada con tutt’i suoi alberi e perfettamente intatta. Ora è una sortita de’ borbonici da Gaeta con perdita di più migliaia dei soldati piemontesi. Ora è una zuffa tra gl’inglesi volontarii e i garibaldini a Caserta con un nembo di morti e di feriti. Altra volta fecero circolare la voce di una colonna di contadini insorti, che aveva fatto prigioniero Cialdini in una sua perlustrazione. Costoro si posero una maschera da liberali e furono essi che cercarono eccitare il popolo, sussurrando che Garibaldi era andato via, non per sua volontà, ma per essere esiliato, e che a Caprera si trovava in prigione. È vero che tosto la sciocca o colpevole novella viene scoperta, ma è pur vero che un’ora o due dopo ne circola un’altra.

Queste manovre sono di facile successo in mezzo a tanta moltitudine, che non legge e che non sa leggere. La mancanza di lavoro, l’ozio abituale, il cinismo di una vita che si assoggetta alle più ignobili privazioni, non già per istoica austerità, ché anzi sono sensualissimi, né per sobrietà, ché anzi sono ghiottissimi, ma per fuggire la fatica del lavoro, sono le prime cause della degradazione di quella plebe.

Le insurrezioni locali furono principalmente organizzate da colonne irregolari, che il generale Scotti Douglas aveva gettato sulle strade di montagna detratto Abruzzo, allorché pose le sue truppe nei quartieri di Sora e S. Germano. Dopo la rotta d’Isernia, quelle colonne non cessarono d’infestare il paese: esse tenevano il loro campo a Monreale, Civitaducale ed altri luoghi vicini al confine, e di la scorrazzavano lungo le vallate, che sboccano al lago Fucino, portando dovunque, sotto i colori borbonici, una guerra di devastazione e di rapine.

Fu ordinato una spedizione contro questi scorridori. All’appressarsi del corpo, capitanata dal generale Pinelli furono rotte le comunicazioni fra le montagne esposte alle scorrerie dei volontarii borbonici e le città, che loro servivano di base in queste escursioni di brigantaggio politico: anzi i più compromessi ripararono sul territorio pontificio, e molti gregarii, deposte le coccarde rosse e le armi, ritornarono alle loro occupazioni domestiche.

Ma vi sono tuttora resti delle compagnie sbandate nei luoghi più selvosi e inaccessi, avvengono nuove agglomerazioni di gente manesca, sussidiata dai soldati borbonici del corpo forte di 22,000 uomini, condotto dal generale Roggiero a Terracina, e che hanno facoltà di ritornare in piena libertà alle loro case.

Il generale comandante la colonna mobile della Provincia d’Aquila emanò il seguente proclama:

«Vista la proclamazione dello stato d’assedio pubblicata dal governatore della Provincia d’Aquila, il maggior generale comandante le truppe di S. M., il Re Vittorio Emanuele, stanziate in questa Provincia:

» l.° Lo stato d’assedio, con tutte le sue conseguenze, avrà luogo dal giorno 4 novembre.

» 2.° I Comuni nei quali è dichiarato lo stato d’assedio sono i seguenti:

» Nel Distretto Aquila.

» I Comuni di Arischia, Pizzoli, Barete, Cagnano, Monreale e Circondario, Lucoli, Preturo, Rocca di Mezzo, Rocca di Cambio, Ocre, S. Demetrio.

» Nel Distretto di Civita Ducale.

» Civita Ducale, Finterò Circondario di Fiamignano, Finterò Circondario di Borgo Colle Fegato.

» Nel Distretto d'Avezzano.

» L’intero Distretto.

» Finalmente, in tutti gli altri Comuni, in cui venissero a sollevarsi disordini, per parte dei reazionarii, s’intenderà ipso facto proclamato lo stato d’assedio.

» 3.° Viene instituita una Corte marziale, composta dei membri qui infrascritti, la quale dovrà prendere cognizione di tutt'i delitti commessi dagl’individui appartenenti alle sedicenti bande borboniche, e giudicare tutti coloro che, a causa di reazione, trovansi o verranno tenuti ed accusati di avere attentato e cospirato contro il Governo e l'ordine stabilito; di avere illegittimamente riunita ed usata la forza armata; di avere scientemente e con volontà somministrati mezzi, od altrimenti cooperato; di averne taciuta la rivelazione; di avere distrutto, abbattuto, od in altro modo sfregiato lo stemma sabaudo, l’immagine o la statua del Re Vittorio Emanuele, o la bandiera nazionale italiana; di avere portato le armi contro le truppe del Re Vittorio Emanuele, od i rappresentanti o partigiani della causa nazionale; o di avere commesso violenze e rapine nei Comuni della Provincia; o di essere stati fautori o promotori dei disordini, che hanno perturbato il territorio di essa in questi ultimi giorni.

» 4. 1 colpevoli saranno giudicati colle pene portate dallo Statuto penale militare pel Regno delle Due Sicilie. »

II.

Ai primi di dicembre la insurrezione degli Abruzzi cominciò a divenire un fatto di qualche importanza, perché andava ad avere un ordinamento abbastanza regolare. Gran numero di soldati dell'esercito napoletano, venuti da diverse Provincie, riuscirono a guadagnar le montagne di quella contrada ed a formare un corpo di truppe comandate dal colonnello La Grange.

Questo corpo, forte di 7000 uomini, ai primi di dicembre occupava gli stretti del monte Velino, posizione strategica molto importante. Numerose compagnie di guerriglia si organizzavano su tutt'i punti.

La Grange dominava già la grande strada da Napoli ad Aquila, che gli permetteva di mantenere comunicazione colla Terra di Lavoro e coi luoghi principali degli Abruzzi.

I piemontesi formavano due colonne mobili, che dovevano agire con grande energia e recarsi sui punti minacciati.

III.

In Nocera si stava componendo il 33.° reggimento di linea formato in massima parte di borbonici sbandati e delle reliquie del corpo napoletano di Cardarelli. Avendo avuto ordine di ritirarsi a Foggia, quando furono a Pratola (1) cominciarono a tumultuare e a fare schiamazzo. Le grida di Viva Francesco, morte ai liberali, risuonavano dovunque, in modo che i pacifici cittadini vi furono sgomentati e la voce si diffuse nei paesi vicini.

Gl'insorti in Villa Castellana (2), ai primi di dicembre, erano in 400. Un nerbo di guardie nazionali, con parecchi soldati andarono ad assalirli, ma dovettero indietreggiare dopo lunga resistenza e varie perdite. Poco dopo, i reazionarii vennero circondati e chiusi dalle guardie nazionali partite da diversi punti.

(1) Pratola, borgata nell’Abruzzo Ulteriore, con 3100 abitanti. (!) Villa Castellana, borgata nell’Abruzzo.

IV.

Dopo la presa di Capua e lo sbandamento dei varii corpi dell’esercito borbonico, che scorrazzavano pei distretti di Sora (1) e di Gaeta, si allontanarono i capi della reazione e i più rifuggirono nel finitimo Stato pontificio; ma i villici, che avevano parteggiato per essa, mai non deposero le armi e si mantenevano minacciosi nelle campagne, dove avevano dimora abituale. Più che in altri paesi, ciò era osservabile nella città di Sora, dove il numero de’ contadini è grandissimo, e il villano scaltro, ardito e manesco.

Le guardie nazionali, in fretta composte, non avevano armi. Erasi però raccolto un certo numero di guardie nazionali mobilizzate, colle quali, messe sotto il comando di Alessio Mollicone, uomo di forti spiriti e di tempra gagliarda, si sperava d’indurre i villici sorani a deporre le armi, con cui si sarebbe armata la guardia nazionale e si sarebbe allontanato il pericolo temuto di questi contadini in anni ed ostili all’attuale ordine di cose.

Quelle guardie, in numero di 300, si riunirono in Sora nel l.° dicembre, e il giorno appresso, per ordine del governatore fu arrestato certo Taddei, reazionario famoso tra’ famosi. Veduto imprigionato uno dei loro capi più arditi, questi contadini, raccoltisi in buon numero ed armati di tutto punto, minacciarono in quel giorno stesso di assaltare la città.

(4) Sora, città vescovile nella Terra di Lavoro a 14 leghe N. da Napoli, con 7100 abitanti.

Nel giorno 2, domenica, ingrossate le loro fila da altri villici, venuti da paesi limitrofi, e perciò cresciuti di audacia, si avvicinarono ordinati alla città e cercarono di penetrarvi nelle ore pomeridiane, ma, accolti a fucilate, tanto dalle guardie mobilizzate, quanto da quei pochi individui che poterono armarsi, retrocessero. Nella notte seguente fecero un altro tentativo, e parimente dovettero retrocedere.

Per sedare l’ira di que’ contadini e toglier loro ogni pretesto, si mise in libertà il Taddei, da loro reclamato, il quale immantinente fuggì, e si fece per suo mezzo intendere ad essi che deponessero le armi. Ricusarono. Allora si chiese rinforzo alle guardie nazionali de’ paesi circonvicini, ma le più vicine non poterono penetrare in città, respinte dai contadini, e le più lontane non giunsero in tempo. Intanto, le campane delle cappelle rurali suonavano a stormo, i contadini ingrossavano sempre più di numero, e, forti di 2300 uomini, sull’imbrunire del 3 dicembre, entrarono a viva forza nella città, dopo un fuoco vivissimo sostenuto dalla. guardia mobilizzata e dalla guardia nazionale. Cinque militi mobilizzati rimasero uccisi, e i contadini, lieti della loro vittoria, percorsero la città distruggendo gli stemmi di Savoia, lacerando le effigie di Vittorio Emanuele e di Garibaldi e gridando viva a Francesco IT, i cui ritratti erano da essi portati in trionfo.

Di qui il minaccioso invadere Isola (1), Arpino (2) ed altri Comuni,

(1) Isola, borgata nella Terra di Lavoro sol mare a tre quarti di lega S. 0. da Sora; popolazione 1600.

(2) Arpino, città sopra amena collina nella Terra di Lavoro a 7 leghe N. da Gaeta, patria di Mario e di Cicerone, popolazione 9700.

per rinnovarvi le medesime scene, e Io potevano impunemente perché niuna forza poteva loro opporsi non essendo tutto il Distretto difeso da un solo soldato.

Ma il sotto governatore Colucci, appena seppe che un battaglione di truppe piemontesi moveva da Capua per Sora, mosse ad incontrarle. Giunto in Mignano, prese i debiti concerti col maggiore comandante Augusto di Montereal per tutto quello che gli sarebbe potuto occorrere lungo il viaggio, e per tutti que’ provvedimenti, che dovevano adottarsi al suo arrivo in Sora.

Come prima il battaglione giunse nel comune d'isola, i contadini ed i soldati sbandati dalla selva di Sora e paesi limitrofi, si riunirono al suono delle campane a stormo delle loro chiese rurali, per difendersi, anzi per respingere dalla città di Sora le truppe, sotto pretesto che non fossero piemontesi,. ma guardie nazionali fatte travestire dal sotto governatore con abiti di soldati piemontesi.

Due de' più notabili proprietarii andarono a parlare cogl'insorti per dissuaderli a salvare cosi la loro patria dagli orrori di un assalto a mano armata; ma tutto fu indarno, avendo essi risposto che non trattavasi di truppa piemontese, e che alla perfine avrebbero dovuto depositare le armi ed esser tratti in carcere.

Il maggiore comandante, quantunque gl’insorti superassero di gran lunga il numero de’ suoi trecento ottanta soldati, non pertanto mosse per Sora ad investirli. Ma appena quei tumultuanti contadini si accorsero che trattavasi daddovero di milizie piemontesi, in tutta fretta si ritirarono.

V.

Una reazione di Civita di Penna (1) fu sedata dalle guardie nazionali e dalla truppa.

A Cervinara (2) un duemila contadini armati assalirono la guardia nazionale, la disarmarono, la dispersero, abbatterono il busto di Vittorio Emanuele, lacerarono le bandiere tricolori e sostituirono l'immagine di Francesco II e le bandiere borboniche. Indi gridando e scorrazzando il paese, assalirono le case de' liberali e vi fecero molti danni. La famiglia Verna, già perseguitata sotto i Borboni, si difese disperatamente tutta la notte, e così pure altre case di liberali. Furono tratti fino al mattino del giorno successivo più che 4000 colpi di moschetto.

Sanguinosi avvenimenti ebbero luogo anche a Chieti (3) e nel comunello di Marcianise (4), dov’è gente di pessima indole e facile alla corruzione.

VI.

Nella sera del 50 novembre si trovò ucciso un garibaldino sulla strada Gambucci in Caserta (5). Un uomo in giacca ne assali tre altri alla calata. del Redentore e fu morto.

(1) Civita di Penna, città molto antica nell’Abruzzo Ulteriore I, ad il leghe E. da Aquila, conta 8900 abitanti.

(2) Cervinara, borgata nel Principato Ulteriore a 4 leghe e mezza N. p. da Avellino, conta 4000 abitanti.

(3) Chieti, città arcivescovile, capoluogo dell’Abruzzo Citeriore, sulla destra del fiume Pescara, a 328 leghe N. da Napoli, conta 13,000 abitanti.

(4) Marcianise, città nella Terra di Lavoro a 5 leghe N. da Napoli, conta 1600 abitanti.

(5) Caserta, città in deliziosa pianura a 5 leghe S. E. da Capoa.

 

Nella piazza del Redentore altri attacchi e fucilate in diversi punti della città. La guardia nazionale fece il suo dovere, e, dopo qualche disordine, inseparabile da simili movimenti, riuscì ai capi di ricondurre la quiete in città. I reazionari! erano plebe travestita e soldati borbonici sbandati. Addosso a taluni si trovarono medaglie regie.

Ma in appresso una sommossa, eccitata da reazionarii, fu seguila da una contromanifestazione terribile. Tutta Tarmata garibaldina accorse per ischiacciare il movimento. Vi furono parecchi individui arrestati ed alcuni fucilati. Gran numero di abitanti si abbandonarono a manifestazioni di gioia.

La città di A versa (1) si sollevò contro i garibaldini, i quali rimasero padroni del terreno. La presenza del cardinale arcivescovo di Napoli in quella città diede luogo a manifestazioni in senso contrario. Le grida il VivaGaribaldi! furono mandate alternativamente. I rivoltosi assediarono e tentarono d’incendiare il palazzo, e le turbolenze durarono 18 ore. L’arcivescovo comparve alla finestra del palazzo tenendo in mano una bandiera tricolore.

VII.

Nella sera del 29 novembre a Cervinara i contadini, al solito istigati dalla gente ligia alla caduta dinastia, in numero di 2000, mandando grida di Francesco II invasero il paese.

(1) Aversa, città vescovile nella Terra di Lavoro fra Capute Napoli, conta 11,800 abitanti.

La guardia nazionale, essendo in piccol numero, non potè opporre alcuna resistenza, e, chiuso il posto di guardia, gl’individui di servizio salirono alla casa del giudice. Richiesto il capo degl'insorti che cosa volesse, rispose: Vogliamo le armi di Francesco Il, che stavano nel posto di guardia, essendo questo il nostro Re, e dobbiamo fare la guardia.

Visitarono quindi minutamente la casa, prendendosi fucili e commettendo ruberie. Non fu possibile colle persuasive di farli ritirare, ed essi misero sossopra il Comune.

Al cadere del giorno 30, recatosi sopra luogo il battaglione garibaldino, s'impegnò breve fucilata, in seguito del ler quale gl insorti, parte fuggirono, parte furono arrestati ed alquanti rimasero uccisi.

VIII.

Dal giorno 7 al 10 dicembre vi fu a Saateramo (1) una terribile reazione, in cui il giudice regio Dell’Uva rimase massacrato dal partito reazionario. Nel giorno 9 la guardia nazionale di Gioia venne respinta dai santeramani, i quali a due miglia le fecero un’imboscata per non farla entrare. Nel giorno 10 vi accorsero le guardie di Acquaviva, di Casamassima, di Gioia e di Altamura con 30 carabinieri a cavallo. Si fece un gran regolare combattimento ed un fuoco vivo di due o tre ore, dopo il quale le guardie suddette entrarono in paese facendo molli prigionieri ed arresti.

(1) Santeramo, borgata nella Terra di Bari a 4 leghe E. da Altamura.

Nel giorno 7 parimente successe una reazione a Sava (1) colla morte di tre notabili di colà, fra cui l’esattore fondiario, col bruciarsi in piazza stemmi e bandiere costituzionali col gridar Viva Francesco II, e coll’obbligare gli altri a dire lo stesso. Poscia v’accorsero le guardie nazionali di Lecce, e di Manduria e di altri paesi, che ripristinarono l’ordine. La reazione cominciò a presentarsi in piazza con un traino carico di persone, che avevano di soppiato un tamburo. Sonatolo appena, accorse un gran numero di gente, che fece eco alle grida della sedizione.

IX.

Nel giorno 8 dicembre i briganti vennero a TorricelIa (2), ove trovarono un distaccamento della guardia nazionale di Notaresco e di Teramo. Il fuoco cominciò alle dieci della mattina e durò sino alle sette della sera. Vi furono sette morti dalla parte dei briganti. La guardia nazionale non ebbe che qualche ferito. Nulladimeno ella è stata forzata di mandare a Teramo per prendere rinforzi d’uomini, che però arrivarono un po’ tardi a Torricella. La banda era in numero di 500 e si batteva gridando Viva Francesco

A Santamara (5), nel giorno 10 dicembre, ad un tratto alcuni popolani armati di fucili insorsero ed abbatterono gli stemmi italiani innalzando in vece quelli di casa Borbone.

(1) Sava, piccola città nella Terra d'Otranto, nella provincia di Lecce, conta 3500 abitanti.

(2) Torricella, piccola città nell'Abruzzo Citeriore a 3 leghe N. da Cangiano, ha 3000 abitanti.

(3)Santamara, borgata nel distretto d'Altamura città nella Terra di Bari.

La guardia nazionale, rafforzata da quella di Altamura e di altri circondarli vicini, accorse e dopo tre ore di fuoco vivissimo disperse i reazionari!, facendone parecchi prigionieri.

A S. Erasmo (1) gran numero di contadini armati, e condotti dal giudice regio insorsero contro l'attuale ordine di cose gridando Viva Francesco. Un capitano della guardia nazionale di Altamura, alla testa di dugento guardie nazionali e con due cannoni, mosse contro quell’orda assai più numerosa. Una parte degl'insorti aveva teso un agguato, appostandosi ne’ boschi. Il suddetto capitano divise la sua schiera in tre piccole colonne, e dopo una lunga e sanguinosa lotta vinse e sperperò il nemico. Vi ebbero parecchi morii dall’una e dall’altra parte.

X.

Verso la metà di dicembre il generale borbonico Barbalunga, testé venuto dal confine romano, venne arrestalo a Napoli come orditore di reazione.

A Napoli. venne pure scoperta una vasta cospirazione apparente, scopo della quale era la filantropia, ma che in realtà tendeva a ricondurre il Borbone a Napoli. Il complotto fu svelato da un commissario di polizia e vi erano implicati personaggi eminenti della nobiltà.

(1) S. Erasmo, Comune nella Provincia di Bari, vicino e quella d’Altamura.


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XI.

Paleno (1) subì la prova della reazione promossa da soldati borbonici sbandati sul territorio pontificio. Questi, avuto campo di tornare in famiglia, e stativi parecchi giorni, mal soffrivano di riprendere il servizio militare.

La mattina del 14 dicembre misero in sollevazione il paese, sfasciando prima le porte delle carceri per far uscire un di loro, chiusovi la sera innanzi, poi disarmarono il corpo di guardia, ed in fine rovesciarono lo stemma di Savoia. Passate tre ore in tumulto ed in baldoria, già si apparecchiavano, colle grida di Viva Francesco II ad assaltare i palazzi per uccidere e derubare; quando, mercé l'energia e il valore delle sole guardie nazionali locali, furono sciolti e sbaragliati a fucilate.

 Di quella ciurmaglia due rimasero morti, una ventina feriti, e gli altri, in numero di circa cento e cinquanta, presi e carcerati.

XII.

La Provincia di Salerno è afflitta dal brigantaggio. Molte brigate in armi scorrazzano arditamente il paese, commettendovi furti, aggressioni e violenze.

Il brigantaggio nelle Calabrie ha preso proporzioni terribili e si sviluppa principalmente verso Bucchianico.

(1) Paleno, città nell'Abruzzo Citeriore a 3 leghe E. da Sulmona.

Le guardie nazionali e pochi piemontesi sono in azione per respingere le orde de' briganti che ebbero la baldanza di mostrarsi sino a poche miglia della città di Teramo.

Ciascuna comitiva conta da 100 a 150 uomini, tutti armati di fucili e di scuri. Le masse ingrossano alla giornata.

Le voci di reazione, di congiure, verso il 20 dicembre, prendevano a Napoli maggior consistenza. Si eseguirono molti arresti e venne incarcerato l’ex. consigliere della suprema Corte.

XIII.

A Preginto (1), alla mezza notte del 25 dicembre, una mano di reazionarii irruppe al grido di Francesco, abbasso Vittorio Emanuele. Eransi preparati due fuochi per bruciarvi entro due oneste famiglie. Fortunatamente accorse subito la guardia nazionale di Cava, e dopo aver feriti alcuni reazionarii e fattine alcuni prigionieri, l'ordine fu ripristinato.

Nella stessa sera, verso due ore di notte due garibaldini capitarono, nel rione di S. Martino a Bovino (2), in una imboscata di reazionarii. Uno di questi tirò un colpo di pistola ad un garibaldino, ma la palla fortunatamente gli sfiorò la guancia, senza recargli danno di rilievo.

(1) Preginto, borgata pretto la Cava nel Principato Citeriore a 2 leghe N. da Salerno.

(2) Bovino, città vescovile nella Capitanata sul Cervaro a 6 leghe S. da Foggia, conta 4000 abitanti.

Si chiamò all’armi; corsero gli altri pochi garibaldini, quivi stanziati, e le guardie nazionali, e s'impegnò una viva fucilata, che durò circa un'ora senza che si fosse lamentata una vittima da parte degli aggressi. I reazionarii fuggirono nella sottoposta campagna, donde insieme agli altri innumerevoli compagni colà appostati, continuarono a far fuoco contro le mura della città. Ma venne fatto a' garibaldini di catturare un abruzzese, da cui si seppe che lo scopo della congiura era di assaltare il corpo di guardia nazionale, aprire le prigioni distrettuali e fare una seconda santafede al. grido diViva FrancescoII; anzi si vociferava che le fila si estendevano sino a Lucera (1), in cui non sarebbero mancati i tentativi di aprire quel carcere criminale e liberare tutta la bordaglia colà rinchiusa. I detenuti, che sapevano la trama, da più giorni lavoravano di dentro per farsi una strada, in caso che il tentativo di que’ di fuori fosse andato a vuoto. In fatti, nella notte del 28 dicembre, da un’apertura fatta nel muro sbucarono quattro galeotti, tutti condannati a 26 anni di ferri, e se non si fosse chiamato all’armi, sarebbero tutti evasi.

XIV.

Una banda di reazionarii armati, di circa 6000 uomini, verso gli ultimi di dicembre, voleva entrare nella città di Lanciano (2), ma fu respinta dalla guardia nazionale unita alla popolazione ed anche aiutata dalla truppa regolare che vi si trovava.

(1)Lacera, città nella Capitanata a 5 leghe da Foggia, conta 1200 abitanti.

(2)Lanciano, città arcivescovile nell'Abruzzo Citeriore, sopra un fiume dello stesso ramo a 85 leghe N. da Napoli, conta 9000 abitanti.

Nel 29 a Chiaja ed a Santa Lucia si udirono grida di va Francesco II. La reazione è fornita di munizioni, attacca e sbanda le truppe piemontesi che la inseguono e logora le loro forze. In Sava, comune di Taranto, quattrocento contadini disarmarono la guardia nazionale è lacerarono la sua bandiera.

XV.

Nella sera del 31 dicembre, al Mercato di Napoli, uno dei punti più centrali e popolati della città, avvenne un disordine, che prese le proporzioni di un vero conflitto.

La plebaglia ed i lazzaroni gridando: Viva Francesco II, vogliamo Francesco II, si opposero perfino colle armi alla forza. La guardia nazionale si portò assai bene ed il subbuglio fu sedato, ma v’ebbero feriti da ambe le parti.

I borbonici andavano distribuendo cariche, impieghi, onori e vi avevano mille e mille che ricevevano fino a venti ducati il mese per mantenere la reazione ed agevolare il ritorno del Re.

Anche nelle vicinanze di Napoli le Autorità stavano in grande prevenzione, perché continuamente temevano movimenti reazionarii.

CAPITOLO DECIMONONO

Nuova circoscrizione dei collegii elettorali per la elezione del deputati al Parlamento nazionale di tutto il Regno. Il principe Eugenio di Savoia Carignano è nominato luogotenente generale delle provincie napoletane. Consiglio di luogotenenza in Sicilia. Francesco II dà alla Sicilia lo Statuto

I.

Un regio decreto del 17 dicembre portò la nuova circoscrizione dei collegii elettorali per l’elezione dei deputati al Parlamento nazionale di tutto il Regno.

Ecco il numero dei deputati stato assegnato in complesso a ciascuna Provincia:

Abruzzo Citeriore, 7; Abruzzo Ulteriore I e Abruzzo Ulteriore II, 7; Alessandria, 13; Ancona, 5; Ascoli, 4; Arezzo, 3; Basilicata, 10; Benevento, A; Bergamo, 7; Bologna, 8; Brescia, 10; Cagliari, 7; Calabria Citeriore, 10; Calabria Ulteriore I, 7; Calabria Ulteriore II, 8; Capitanata, 7; Catania, 9; Caltanisetta, 9; Como, 9; Cremona, 7; Cuneo, 12; Ferrara, A; Firenze, 14; Forlì, 4; Genova, 13; Girgenti, 3; Grossetto ed Isola d’Elba, 2; Livorno, 2; Lucca, 3; Macerata, 3; Massa e Carrara, 2; Messina, 8; Milano, 18; Modena, 3; Napoli, 18; Novara, 12; Noto, 7; Palermo, 11;

Parma, 3; Pavia, 8; Pesaro e Urbino, 4; Piacenza, 4; Pisa, 8; Portomaurizio, 3; Principato Citeriore, 12; Principato Ulteriore, 9; Ravenna, 4; Reggio, 5; Sassari, 4; Siena, 4; Sondrio, 2; Terra di Bari, 11; Terra di Lavoro, incluso Pontecorvo, 16; Terra d’Otranto, 9; Torino, 19; Trapani, 4; Umbria 10.

Totale N.° 443.

II.

Il cav. Farini venne nominato luogotenente del Re per le Provincie napoletane, ma egli diede la sua dimissione. Egli intendeva di ritirarsi alla villa di Saluggia, finché, senza alcun pericolo per la sua salute, potesse ritornare alla cura degli affari di Stato.

Ai primi di gennaio 1861 il principe Eugenio di Savoia Carignano venne surrogato al cav. Farini. Ecco in sunto il regio decreto in data 7 gennaio:

«Il nostro amatissimo cugino, il principe Eugenio di Savoia Carignano, è nominato nostro luogotenente generale nelle Provincie napoletane. Egli è incaricato a reggere ed a governare in nostro nome e per nostra autorità le anzidette Provincie. Eserciterà pertanto in esse, e in nome nostro, il potere esecutivo: quelli di far grazia, di commutare le pene, di nominare e rivocare gl’impiegati e i funzionarii dell’ordine amministrativo e dell’ordine giudiziario: di far decreti e regolamenti per la esecuzione della legge.

Vi avrà il comando delle forze di terra e di mare. Egli è inoltre investito, sino alla prima riunione del Parlamento nazionale, dei pieni poteri riserbati a noi dagli articoli 2.° del decreto nostro 17 dicembre e 82.° dello Statuto del Regno.

» È stabilito, presso del nostro luogotenente generale, un segretario generale di Stato per le Provincie napoletane. Il segretario generale di Stato, unitamente al rispettivo consigliere di luogotenenza, sottoporrà al nostro luogotenente e contrassegnerà tutt’i provvedimenti, pei quali sia necessario il decreto o l’assenso sovrano, e potrà essere incaricato da lui di spedire direttamente gli affari, pei quali basti un decreto ministeriale. Egli indire eserciterà tutte le attribuzioni del cessato ministero della presidenza. Il segretario di Stato corrisponderà direttamente con ciascuno dei nostri ministri, pel ramo che rispettivamente gli risguarda. A ciascuno dei rami di Governo e d’amministrazione pubblica, che, a termini delle leggi e degli ordini vigenti in quelle Provincie, erano di rispettiva competenza dei ministri di„ grazia e giustizia, degli affari ecclesiastici e dei culti, delle finanze, degli affari interni, della polizia, dei lavori pubblici, dell'agricoltura e del commercio e della pubblica istruzione, presederà, sino all’apertura del Parlamento, un consigliere di luogotenenza, sotto la dipendenza immediata del segretario generale di Stato, salve in quell’epoca le occorrenti ulteriori determinazioni.

» Le attribuzioni del ministro della guerra e di quello della marina continueranno ad essere direttamente esercitate dai nostri ministri di guerra e di marina tutte le Autorità delle Provincie napoletane sono poste sotto la dipendenza del nostro luogotenente generale.

Esse corrisponderanno dircttamente col segretario generale di Stato e coi consiglieri di luogotenenza. Saranno determinate con particolari istruzioni le relazioni tra il luogotenente generale ed il nostro Governo, necessarie ad una perfetta unità nell’indirizzo e nel governo della cosa pubblica. »

Il principe di Carignano a Napoli l'11 gennaio. Fu salutato dalla squadra inglese. Egli pubblicò un proclama in cui disse avergli il Re affidato il Governo di questa parte del Regnoitaliano ed essere venuto col proposito di affrettare l'operadell’unificazione, di mantener l’ordine e l’osservanza delle leggi.

Il Re Vittorio Emanuele pubblicò il seguente proclama ai napoletani:

«Italiani delle Provincie napoletane!

» Le cure dello Stato mi costrinsero a separarmi con rammarico da voi. Non saprei darvi maggior prova di affetto che inviandovi il mio amato cugino, principe Eugenio, al quale soglio affidare, in mia assenza, il reggimento della Monarchia. Egli governerà le Provincie napoletane in mio nome e con quei poteri, ch’esercitai io stesso e delegai all’illustre uomo di Stato, cui grave tutto domestico ritrae dall’onorevole ufficio.

» Ponete nel principe Eugenio quella fiducia, della quale mi deste prove non dubbie; e, mentre attendo i vostri rappresentanti al Parlamento, agevolate, colla vostra concordia e col vostro senno civile, l’opera di unificazione, ch’egli viene a promuovere.

» L’Europa, che da due anni guarda meravigliando i grandi fatti, che si compiono in Italia, apprenderà dalla vostra condotta che le Provincie napoletane, se più tardi vennero nel consorzio delle libere sorelle, non perciò sono meno ardenti nel volere fortemente l’Unità della patria comune.

«Vittorio Emanuele. »

III.

Il luogotenente Montezemolo rese nel seguente modo nota la formazione del nuovo Consiglio di luogotenenza in Sicilia:

«In un momento d’ansia pubblica, io chiesi alla popolazione ed alla guardia nazionale di Palermo d’aver fiducia nel Governo del Re, tutore di tutt’i legittimi interessi, emanazione di quella sovranità, di cui il plebiscito del 21 ottobre 1860 costituisce la legale espressione.

» Come io fidava nel criterio e nell’intelligenza del popolo, egli fidò nella lealtà del Governo, e la pubblica quiete consentì di comporre pensatamente un Consiglio di luogotenenza, nel quale il Governo del Re è certo di trovare quel sussidio di lumi, di opera, d’autorità, di cui temporaneamente lo privava il ritiro dei cessati consiglieri.

» Nel rendere testimonianza al sentimento della dignità civile e della solidarietà politica, che produssero questo risultato, si annunzia che i cittadini chiamati a far parte del Consiglio di luogotenenza sono:

» Presidenza e pubblica istruzione, marchese di Torrearsa;

» Interno, cav. Emerico Amari;

» Sicurezza pubblica, barone Turrisi Colonna;

» Grazia e giustizia, Filippo Orlando, sostituto procuratore generale alla Corte civile;

» Lavori pubblici, principe S. Elia.

» Palermo 8 gennaio 1861.

» Montbzemolo. »

IV.

Nel 15 gennaio S. M. Francesco II pubblicò ai Siciliani il seguente Proclama colle basi dello statuto per la loro Provincia.

Statuto per la Sicilia 1861.

«Siciliani!

» II giovine Re delle Due Sicilie fu vittima di pessimi consigli. È circondato da ignominiosi tradimenti. Resiste da eroe in Gaeta. Con un piede in Gaeta ed un altro nella cittadella di Messina, sembra militarmente e politicamente un colosso di Rodi, sotto cui passano le discordanti navi di una diplomazia estera da tartarughe.

» Una monarchia d’otto secoli è stata violentemente scrollata da un’onda d’avventurieri, invitati, accolti da voi settariamente. Sotto la speciosa larva di unità italiana, con un plebiscito brutale, stappato dalla forza, voi siete un armento già piemontizzato.

Avete perduta l’autonomia nazionale. Le venerande memorie storiche della Sicilia naufragarono sotto la pressione straniera: la legittima dinastia barcollò. Puntellatela, sostenetela con la concordia inconcussa. Preferireste l’anarchia ad un Governo regolare temperato?

» Il vostro Re vi apre le braccia ed affida il suo cuore da padre a voi. Deplorabilmente non ha più un esercito, perché, in gran parte, infedele. E i generali!

» Egli riproduce per voi lo Statuto anglo-siculo del 1812. Parlamento e ministri responsabili siciliani, amministrazione assolutamente separata dal Continente, libertà di stampa, diminuzione di dazii, coscrizione abolita, armata e marina siciliana.

» Egli stesso soggiornerà fra voi quattro mesi all’anno, col corpo diplomatico, i suoi ministri, la real corte. Vi lascierà, in sua assenza, un real principe da Viceré con pieni poteri.

» Che potreste bramare di più?

» Consultate i proprii interessi. L Europa minaccia una rediviva coalizione del 1815. Non vi lasciate illudere da comprati sanguinosi ciarlatani di libertà. Le rivoluzioni sono, talvolta, mezzo per tentar di ottenere un migliore stato di cose, non per piombare impudentemente in maggiori disordini. La così delta sovranità del popolo consiste nell’esercizio de’ proprii diritti, non in una sfrenata licenza contro il legittimo ereditario, prescritto da più di un secolo, real potere. Siete all’orlo di un precipizio spaventevole. Rientrate in voi stessi. Affratellatevi.

» Accettate i dieci articoli del nuovo Statuto, qui appresso inserto. Esso è la colomba, che, dopo un cataclisma diluviano, torna all’arca e vi reca il ramo dell’ulivo di pace.

» Date, spontanei, asilo ad una derelitta, ma imperterrita e speranzosa reale famiglia, ora tremendamente educata alla sventura. Un’aureola di gloria patria vi coronerà. La gelida posterità vi acclamerebbe ravveduti e savii. »

Basi dello Statuto per la Sicilia,

« 1. La Costituzione del 1812 sarà richiamata in vigore, salve le modifiche, che, di accordo col Parlamento, saranno credute necessarie alla riunione delle due corone sul capo di un solo principe e alle condizioni dei tempi.

» 2. Sarà promulgata una compiuta amnistia ed un perfetto obblio di tutti gli avvenimenti passati con l’espressa assicurazione che si accetteranno nelle pubbliche cariche gli uomini appartenenti a tutt’i precedenti partiti, purché facciano vera, franca e leale adesione alla monarchia ereditaria e presentino i necessarii requisiti di moralità e capacità.

» 3. È ammessa in principio l’indipendenza compiuta, amministraiva ed economica, fra le Due Sicilie sotto un solo Re, con Parlamenti separati.

» 4. È comune a’ due Stati, insulare e continentale, la rappresentanza presso le Potenze estere perché, essendo uno il Re ed uno l’interesse de’ popoli, non potrebb’essere doppia la rappresentanza al di fuori, né il ministero degli affari esteri.

» 5. Il diritto di pace e di guerra appartiene al Re e la difesa de' territorii delle due Sicilie richiedendo unità della direzione e della forza di esecuzione, anche per la topografica configurazione de’ due paesi, non può esservi che un esercito ed un’armata. E però il ministero di guerra e quello di marina deggiono essere comuni alle Due Sicilie.

» 6. Similmente sarà comune tuttociò che ha rapporto alla persona del Re ed alla real famiglia, agli ordini cavallereschi ed all’alta cancelleria di Stato, come il deposito e la pubblicazione delle leggi, il deposito de’ titoli autentici di concessione e di altri atti relativi all’esercizio d’indivisibili prerogative sovrane.

» 7. La proporzione al contributo delle Due Sicilie, per le spese occorrenti pe’ numeri 4, 5, 6, sarà sempre fissata da un quarto e tre quarti. Nondimeno, la urgenza della ricostruzione dello Stato, della formazione dell’esercito e dell’attuale posizione politica d’Italia, comandano che, per questa prima volta e sino alla riunione del Parlamento, si abbia per fissata al mantenimento di 40, 000 uomini la quota siciliana, che si comporrà di volontari d’ingaggiati e di esteri stipendiati, per alleviare i siciliani dal grave' peso della coscrizione, salva la determinazione, che sulla recitazione futura dell'esercito, potrà prendere il Parlamento. La proporzione al mantenimento dell'esercito, per questa prima volta, si ripete, e sino alla formazione degli Stati discussi permanenti per opera del Parlamento, rimane determinata a seicento once, o meno, se è possibile.

» 8. I ministeri dell’isola, compresa la presidenza, saranno del tutto distaccati ed indipendenti da quelli del Continente.

» 9. Si assicura la residenza del Re nell’isola per Ire o quattro mesi dell’anno; queste determinazioni di tempo essendo proporzionate alla popolazione ed al numero delle Provincie ne’ due paesi.

» 10. Durante lo intervallo di tempo fra una dimora del Re e l’altra, S. M. lascierà un principe reale della sua famiglia come Viceré, o altro distinto personaggio siciliano, con pieni poteri, proporzionati alla durata della gestione.

» Gaeta 15 gennaio 1861.

» Francesco II»

Il presidente del Consiglio de' Ministri

Casella.


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CAPITOLO VIGESIMO

Assedio di Gaeta

I.

Le ostilità, riprese nel 19 dicembre, si continuarono senza interruzione. 11 fuoco fu vivo da ambe le parli. Gli assediati costruivano nuovi lavori, principalmente dalla parte del mare, dopo avere di assai migliorate le loro difese di terra e blindate le batterie Philippstadt e della Regina, che fiancheggiavano il versante occidentale di monte Orlando.

Dietro preghiera di Francesco II, il generale Gouvon spedì a Gaeta uno dei principali chirurghi del suo corpo d’armata, secondo i consigli del quale furono meglio riorganizzati gli spedali. Molti ammalati vennero inviati a Terrari na e collocati, fuori di città, in un edilìzio offerto dal Governo pontificio.

L’ammiraglio francese Le Barbier di Tinan inviò al Re lingerie e medicamenti a sollievo dei malati.

II.

Il primo giorno dell'anno 1861 fu pacifico, ma poscia i piemontesi riguadagnarono il tempo perduto. Nei giorni 2 e 3 gennaio il cannoneggiamento fu molto forte, ed i piemontesi non tiravano che con cannoni rigati.

Il giorno e la notte del 4 non furono, come i precedenti, fragorosi. 11 tirare da ambe le parti s’era fatto più raro, perché la pioggia, che cadeva fissa ed incessante, aveva reso quasi impossibile il lavorare.

III.

Dalla sera del 5 gennaio il fuoco de’ piemontesi raddoppiò. Le strade in Gaeta erano divenute più pericolose, e ad ogni momento un fischio acuto annunciava una palla rigata. In tutt’i quartieri della città le case portavano i segni dei proietti cavi, i soli dai piemontesi impiegati. La piazza rispondeva vigorosamente.

Nel giorno 7 specialmente il fuoco fu terribile. Le batterie napoletane dell’Annunciata, che potevano battere da terra e da mare, risposero a quelle del Borgo, con un fuoco dei più sostenuti. I proietti s’incrociavano per l’aria; il combattimento era solenne e continuò interrottamente tutta la notte. L’arcivescovo ebbe il suo piano superiore sfondato.

IV.

Nel giorno 8 il numero dei proietti lanciati dai piemontesi fu di 6130, pressoché tutte bombe e palle rigate. Le batterie napoletane, che risposero con vigore e precisione tirarono circa 2000 colpi.

Le case di Gaeta soffersero molto, ma, non essendo esse costrutte di grosse pietre, i proietti le attraversavano facilmente, e precisamente a causa della loro poca resistenza le muraglie non crollarono.

Verso sera il fuoco dei piemontesi rallentò, e dei loro mortai, due soli continuarono il fuoco.

V.

Sino dal giorno 8 l’ammiraglio francese ed il suo capo di stato maggiore andavano e venivano continuamente. Il Governo di Napoleone 111, volendo conciliare la esigenza di una politica di neutralità col pensiero che Io aveva indotto a procacciare al Re Francesco II il mezzo di operare liberamente la sua partenza, si fece mediatore di una proposta d’armistizio, che fu accolta da ambe le parli belligeranti. Le Barbier di Tinan significò a Francesco II, che se questa proposizione non fosse accettata, la squadra francese si ritirerebbe otto giorni dopo, e se fosse accettata rimarrebbe sino al tramonto del sole del giorno 19, in cui quella tregua avrebbe dovuto cessare. Tale proposta del viceammiraglio fu accettata, e di fatto le ostilità vennero sospese sino a quel giorno. Ecco i documenti relativi a questa tregua:

Il generale Cialdini comandante l'esercito d’assedio dinanzi Gaeta, all’ammiraglio Le Barbier di Tinan.

Castellone 11 gennaio.

«Signor ammiraglio,

» Ho l'onore di dichiararvi che, sino al cadere del 19 corrente, non sarà fatto da mia parte nessun atto di ostilità verso la piazza,

né alcun lavoro d’approccio, né alcun aumento delle bocche da fuoco in batteria, se però la piazza non mi provoca col suo fuoco o co’ suoi lavori. In tal caso, mi considererò come libero da ogn’impegno, e la sospensione delle ostilità cesserà del pari da parte mia. Nondimeno, signor ammiraglio, non aprirò il mio fuoco senza prima avvertirvene. Voi sarete giudice allora, e potrete ridire a S. M. l’imperatore da qual parte sia il torto.

» Piacciavi aggradire, ec.

Il generale comandante l'assedio dinanzi Gaeta,

«ClALDINI. »

Il generale Ritucci, governatore della piazza di Gaeta,

al sig. viceammiraglio Le Barbier di Tinan.

Gaeta il 12 gennaio.

«Signor ammiraglio,

» Avendo preso gli ordini da S. IVI. il Re, mio augusto signore, ho l'onore di farvi sapere che, sino al cadere del giorno 19 corrente, non sarà proceduto in questa piazza a nessuna costruzione di nuove batterie, né a nessun aumento di quelle ora esistenti, e non verranno eseguiti se non i soli lavori di riparazione, richiesti dalle congiunture.

Se però gli assedianti mi provocassero, od aumentando le batterie loro, o formandone di nuove, è chiaro che resteremmo liberi da ogni impegno.

A fine di allontanare ogni falsa interpretazione, nel caso di ricominciamento del fuoco della piazza. vi pregherò, signor ammiraglio, d’inviarmi, quando il momento fosse venuto, uno de’ vostri ufficiali, per giudicare da qual lato sia stato il torto.

» Il tenente generale comandante la piazza di

«Ritucci. »

VI.

Due legni della flotta francese, di stazione nelle acque di Gaeta, erano già partiti verso la metà di gennaio, ed il vice ammiraglio Le Barbier di Tinan, nel 19, giorno in cui spirava l'armistizio, di cui precedentemente parlammo, lasciò quelle acque col rimanente della squadra.

Nel giorno precedente la cessazione dell’armistizio, S. M. Francesco II fece annunziare ai Gabinetti la sua ferma risoluzione di resistere fino agli estremi. Ecco la Circolare che il ministro degli affari esterni indirizzò agli agenti diplomatici accreditati presso le corti estere:

«Gaeta 18 gennaio 1861.

» Signore,

» L’ammiraglio della squadra imperiale propose ai Re, nostro augusto signore, a nome dell’lmperator de’ francesi, un armistizio. Codesta tregua, incominciata il 9, doveva durare fino al 19 corrente.

L’ammiraglio dichiarò a S. M. che, se codesta proposizione non fosse accettata, la squadra francese si ritirerebbe otto giorni dopo;se fosse accettata, rimarrebbe sino al tramonto del sole del giorno sovraccennato. Le ostilità interrotte ripiglierebbero allora il loro corso, e la flotta sarda rimarrebbe libera di bloccare il porto e di cominciare dalla parte del mare l’attacco ed il bombardamento di Gaeta.

» Codesta alternativa era trista, perché i due casi traevansi dietro la partenza della flotta e l’interruzione d’ogni comunicazione col rimanente del mondo. L’armistizio in sé stesso era a noi sfavorevole, imperocché noi avevamo nostri tuti’i mezzi di difesa, a punto e senza possibilità di aumentarli; mentre i piemontesi avevano bisogno di quel tempo per trasportare munizioni e apparecchiare, se non compiere, nuove e più possenti batterie.

» Tuttavia S. M. accettò, non solo per le considerazioni di umanità, che prescrivono di tardare, ogni qualvolta si possa onorevolmente, l'effusione del sangue, ma sopratutto perché codesto armistizio era un desiderio dell’Imperatore de’ francesi.

» Per la qual cosa, il governatore di Gaeta accettò tutti gli articoli, proposti dall’ammiraglio, i quali voi troverete qui appresso. Ma la presenza di un uffiziale francese per sopravveghiare la sospensione dei lavori delle due parti, condizione che ci rendeva facile la nostra buona fede, non fu accettata dal generale nemico. Due giorni appresso, il generale Cialdini dichiarò all’ammiraglio di Tinan che un ordine del Re di Sardegna confermava il suo rifiuto precedente.

» Ciò non ostante, noi non ci rifiutiamo d’osservare la tregua, e benché tutte le nostre relazioni ci additassero d’ora in ora l’avanzamento de’ lavori del nemico, noi l’abbiamo rispettata, e domani essa avrà termine, senza che alcuno possa accusarci di non essere rimasti scrupolosamente fedeli a codesto armistizio indiretto.

» Sin da domani, il porto di Gaeta rimane bloccato, ed è aperta la via agli attacchi marittimi contro la piazza. Sin da domani, i bastimenti medesimi di Sua Maestà, abbandonati al più infame tradimento del Re di Piemonte, lanceranno le loro bombe sopra famiglie disarmate, qui rifuggite, sul Re legittimo e sulla Regina delle Due Sicilie.

» Non si può credere che l’Europa assista più lungamente impassibile allo spettacolo di un Re, riconosciuto da tutte le Potenze, spogliato de’ suoi Stati colla più iniqua aggressione, in preda a tutti gli orrori di un lungo bombardamento, senza altra colpa, se non la fermezza di difendere coraggiosamente l’ultimo propugnacolo della monarchia contro una vile invasione. I sovrani ed i popoli comprenderanno finalmente che si difende, a Gaeta, qualche cosa di più della corona di un’antica dinastia; si difendono i trattati, in virtù dei quali regnano tutt’i sovrani; si difende il diritto pubblico, sulla forza del quale posano la tranquillità e l’indipendenza dei popoli.

» S. M. il Re è deciso d’affrontare, fino alla fine, tut t’i pericoli della sua situazione abbandonata. Bloccato ed attaccato simultaneamente per mare e per terra, ei potrà cadere sotto le ruine della piazza, esso potrà essere prigioniero de’ suoi nemici.

Qualunque sia la sua sorte, S. M. è pronta a sopportarla colla grandezza d’animo e colla fermezza, di cui ella dà pruove, da cinque mesi, sì numerose e costanti.

» Contro quanto succede, contro quanto potrà succedere, non fa bisogno di protestare. La legge e la coscienza pubblica, il sentimento morale di tutte le anime oneste protesteranno pel Re in questa decisiva congiuntura. E se l’Europa abbandona S. M., S. M. non si abbandonerà. Il suo dovere di sovrano, il Re lo farà sino alla fine.

» Avrete appreso da tutt'i giornali, da quelli pure che difendono col maggior accanimento la causa della rivoluzione, qual è il vero stato del Regno di Napoli e della sventurata Sicilia: sfiducia, mancanza di sicurezza, ruina. Da ogni punto de' dominii continentali, le popolazioni sorgono spontaneamente a protestare, com’esse possono, nel generale sovvertimento, a prò del loro sovrano legittimo contro la dominazione straniera. Mentre i piemontesi accusano di barbarie e d’inumanità i mezzi di moderazione e di dolcezza, adoperati da S. M. per sedare i tentativi di rivolta, e ciò fino al punto di ordinare, al primo annunzio, la sospensione del bombardamento di Palermo, il Piemonte bombarda ogni giorno, e senza posa, le città italiane, che gli resistono, come Ancona, Capua, Mola e Gaeta. La sola cura usata da' generali per comprimere le popolazioni, è fucilare senza misericordia.

» In tali congiunture, il Re, volendo, non salvare la sua persona, eh’ egli espone ogni giorno, da due mesi, a tutt'i pericoli, ma assicurare dall’umiliazione e dall’insulto la dignità reale, ch’ei rappresenta, avrebbe diritto a sperare che, nella lotta ineguale, che sta per continuare, le Potenze dell" Europa dichiarassero se elleno riconoscano o no il blocco, che sta per farsi senza dichiarazione di guerra, senza notificazione regolare, dalla squadra attualmente posseduta dal Piemonte. E se codesto blocco non è riconosciuto, $. M. ha fiducia, almeno, che verrà fatta un" intimazione collettiva al Re di Sardegna, per garantire la libertà di S. M se le vicende di un assedio disperato rispettano la sua vita, e per assicurare da ogni oltraggio la persona della giovine Regina, la quale, con una magnanimità degna del cuor suo, e insensibile ad ogni personale pericolo, resistette alle più incessanti preghiere per dedicarsi, negli spedali, alle cure de' feriti.

» Siete autorizzato, signore, a dar lettura del presente dispaccio a....... ed a lasciargliene copia.

«Casella. »

I ministri di Russia di Prussia e di Portogallo andarono a Roma, e rimasero in Gaeta quelli d’Austria, di Spagna, di Baviera, e di Sassonia.

Tutt'i bastimenti stranieri, anche i mercantili, noleggiali per conto del Re di Napoli, lasciarono Gaeta il 19 di sera.

Al mattino del giorno 20 il generale piemontese Menabrea, per ordine del generale Cialdini, andò a denunziar l'armistizio e ad offrire condizioni per la dedizione della piazza.

Il generale piemontese, domandando la resa di Gaeta, offriva al Re di porre a sua disposizione due fregate per trasportarlo, colla sua famiglia, nel punto ov’egli credesse di recarsi. Offriva inoltre sei mesi di paga a' soldati rinchiusi nella piazza, la conservazione del grado agli uffiziali che fossero incorporati nell'esercito sardo, ed accordava tre mesi di tempo alle truppe nazionali per dichiarare se volessero incorporarsi in quell’esercito. Il Governo piemontese incaricavasi inoltre, a proprie spese, del trasporto nella propria patria delle truppe estere che trovavansi a Gaeta. Queste proposizioni vennero rigettate.

VII.

Il ministro di S M. Francesco II aveva già indirizzata la seguente Circolare ai rappresentanti delle Potenze, accreditati presso di lui, per invitarli a rimanere in Gaeta. Essa era del seguente tenore:

«Il sottoscritto ha l’onore di dirigersi a V. E. rev. monsig. Giannelli, nunzio di S. S., come ministro della Santa Sede, e come decano dell’eccelso Corpo diplomatico, per manifestargli che S. M. il Re (D. G. ), desideroso di avere in queste estreme circostanze presso la sua persona i rappresentanti dei sovrani alleati ed amici, ha deciso d’invitare formalmente tutti i capi delle legazioni estere a rimanere in Gaeta, dove sono pel comune vantaggio accreditati.

«Se gravissime considerazioni non rendessero indispensabile questa misura, S. M. il Re, nel cui sensibile animo tanto possono le sofferenze altrui, non vorrebbe certamente imposte le privazioni ed i pericoli di una piazza assediata agli onorevoli rappresentanti delle potenze amiche.

Fu con questo sentimento che, due mesi fa S. M. invitò il Corpo diplomatico a risiedere a Roma, per evitare i danni ed i pericoli dell'assedio, non restando in quell’occasione presso S. M. che il ministro di Spagna, deciso dal principio a dividere la sua sorte ed associarsi alla sua fortuna. £ con questo sentimento pure il Re non ha voluto far pregare nessun membro del Corpo diplomatico a recarsi in Gaeta, malgrado le circostanze ogni giorno più critiche ed a causa del bombardamento, che dal primo giorno di dicembre cominciò su questa piazza.

» Mentre le comunicazioni marittime erano aperte, il Re poteva, sebbene indirettamente, essere in contatto col Corpo diplomatico residente in Roma, risparmiandogli allo stesso tempo ogni pericolo, e se si fosse presentata una circostanza difficile, dove i suoi consigli fossero stati necessa rii, restava sempre il mezzo d’invitarlo a venire in poche ore a Gaéta. Ma quest’ultimo rimedio non esiste più. Le comunicazioni marittime saranno dopo domani interrotte; ogni contatto tra il Re ed il corpo diplomatico, accreditato presso la sua persona, sarà definitivamente impedito, e S. M. non può e non vuole rinunziare al piacere di avere presso di sé, per servirsi de’ loro lumi, i rappresentanti de’ diversi Governi.

» Un’altra circostanza ha deciso pure S. M. Quando, nella giornata di ieri, si presentò il Re al Corpo diplomatico, i corpi di legazione, ch’ebbero l’onore di parlargli dell’assedio di Gaeta, l’incoraggiarono a resistere anche dopo che la partenza della squadra francese lasciasse libero il campo al blocco ed agli attacchi marittimi.

E quando più tardi volle S. M. sentire particolarmente l'avviso d'importanti ministri, il consiglio di questi onorevolissimi rappresentanti fu un' abbondanza di ragioni date a favore della resistenza. S. M., che pesava da una parte l’onore di resistere fino all'ultimo istante, dall’altra la probabilità di essere fatto prigioniero e veder forse la dignità reale avvilita nella sua persona, non esitò più dopo questi consigli, e si decise immediatamente a chiudersi in Gaeta e difendere fino all’ultimo istante questo resto della monarchia.

» Ma essendo possibile, se continua questo stato di cose, che ceda alla fine questa piazza isolata ed abbandonata, restando allora la persona del Re, quella della Regina e dei Principi alla mercé del vincitore, S. M., che vuole cadere da Re e soffrire da Re la sua sorte, ha bisogno dei rappresentanti, accreditali presso la sua persona, per ricorrere, in caso necessario, ai consigli loro e perché restino sempre testimonii memorabili dei fatti.

» Per questo, S. M., che ha veduto con gran piacere il Corpo diplomatico a Gaeta, e ch'è stato riconoscentissimo di questa pruova spontanea di attaccamento e di cortesia, ha profittato dell’occasione, che le davano la sua venuta, i suoi consigli, e soprattutto l’emergenza delle circostanze, per pregarlo di rimanere presso la sua persona.

» Il sottoscritto, nel comunicarlo a S. E. rev. perché faccia sapere tale invito a tutti gl’individui componenti il Corpo diplomatico, non permettendo l’urgenza del tempo di scriverlo particolarmente a ciascheduno, è nel dovere di aggiungere che S. M. il Re

non vuole obbligare alcuno a restare, ma invita tutti, e sarà riconoscentissimo a quelli, che vorranno dividere in quest’ultimo periodo dell’assedio le sue privazioni ed i suoi pericoli.

» Il sottoscritto ha pure l’ordine di manifestare a S. E. che, per le persone del Corpo diplomatico, che si decideranno a restare, è disposto il più bello e più sicuro locale, che può offrire Gaeta, incaricandosi il reai Governo di tutto quello, che per la loro comodità sarà compatibile con le condizioni di una piazza assediata. E per tutti quei signori, che vorranno mandare a prendere i loro effetti a Roma, ed anche per quelli, che non giudicheranno conveniente, per circostanze particolari, di rimanere in Gaeta, è pronto un vapore, che si recherà a Civitavecchia o a Terracina, e che trovasi fino da questo istante alla disposizione di S. E. rev. il nunzio apostolico.

» Pregando l’E. V. di un pronto riscontro, il sottoscritto ha l’onore, ec. ec.

» Il presidente del consiglio dei ministriincaricato del portafoglio degli affari esterni» CASELLA. »

VIII.

Nel giorno 20 il generale Persano notificò il blocco per parte della squadra di S. M. Vittorio Emanuele dinanzi a Gaeta.

«Notificazione del blocco.

«Considerando il regolare assedio della parte di terra di già inoltrato dalle regie truppe di S. M. dinanzi a Gaeta;

» Considerando che la città e porto di Gaeta sono una piazza forte, e una piazza commerciale;

» Considerando che l’approdo in Gaeta di qualsiasi bastimento debb’essere riguardato come una operazione intesa ad approvvigionare ed assistere gli assediati;

» Considerando che l’impedire gli approdi dei bastimenti nella zona marittima di Gaeta non può turbare il commercio pacifico delle Potenze neutre;

» Io sottoscritto, vice ammiraglio comandante in capo le forze navali di S. M. Vittorio Emanuele dinanzi Gaeta, di concerto con S. E. il generale Cialdini, comandante in capo del corpo d’assedio, dichiaro con la presente, in nome del mio Governo, e porto a cognizione di tutti coloro che avessero interesse della cosa, che ho stabilito il blocco effettivo della piazza di Gaeta e suo littorale, compreso tra Torre S. Agostino da una parte, e Mola dall’altra, con lo scopo d’impedire qualsiasi approvvigionamento agli assediati.

» Pegli effetti della presente Notificazione, si terrà conto della dichiarazione del 16 aprile 1856, stupulata nella conferenza di Parigi, per riguardo agl’interessi delle Potenze neutre.

» Dato nelle acque di Gaeta il 20 gennaio 1861.

» Il vice ammiraglio comandante in capo

le forze navali di S. M. dinanzi Gaeta. »

» PERSANO. »

Lo stesso generale Persano pubblicò un proclama, con cui annunziò che lascerebbe alcune ore di tempo agli abitanti che volessero partire.

In seguito alla dichiarazione del blocco, le navi estere, ch'erano in porto, tutte si allontanarono.


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IX

Le linee d’attacco dei piemontesi, prendendo per centro il monte Tortona e Li Colli, a sinistra si stendono dalla spianata di Monte Secco a mare largo, comprendendo da questo lato le posizioni di monte Conca, Sant’Agata, Cappucini e Trattina. La destra è formata dalle posizioni meno alpestri di monte Cristo e del Lambone. Presso la spiaggia del golfo, alla metà circa dal borgo, vennero egualmente compite altre opere al luogo detto il giardino Gonzales e la Torretta a Conca, ed a Vindice. Queste sono le linee piemontesi d’operazione.

X.

Nel mattino del giorno 22 erano appena suonate le otto all’orologio di Mola, quando gli artiglieri borbonici, vedendo i lavoratori piemontesi intenti alla costruzione di nuove batterie, improvvisamente aprirono il fuoco dei loro cannoni. Que’ lavoratori erano circa 2000 sparsi qua e là in gruppi, tutt’intenti all'opera incominciata in quel tratto di terreno, che dal monte Secco prende nome e che fa parte dell’istmo. Presi così all’improvvista, mentre lavoravano a fidanza, si ripiegarono in massa verso Borgo, ma la pioggia delle palle era sì fitta ed incessante, che molti cadevano morti o feriti per via.

Passate circa due ore, le batterie piemontesi s’accinsero a rintuzzare i colpi nemici e gli artiglieri si misero all’opera con tutta quella lena e con tutta quella precisione di tiro, per la quale vanno tanto famosi.

Si tirava da monte Tortona e da altri punti. I due pezzi colossali che dal generale Cavalli derivano il nome, e ch'erano piazzati sul rialzo di terra formato dallo sconscendimen to a sinistra, che, uscendo da Castellone, è attraversato dal ponte di Realto, lanciavano i loro grossi proietti in città, e descrivendo una curva cadevano sui tetti delle case di Gaeta, e sugli spalti della fortezza (1).

I borbonici rispondevano intanto al fuoco dei piemontesi, il fuoco dei quali durava da un’ora, quando le antenne della nave ammiraglia si coprirono improvvisamente di piccole variopinte bandiere, le quali, scorrendo rapide per virtù d’innumerevoli fili tramandavano alle altre navi gli ordini dell’ammiraglio Persano di salpare e di prepararsi alla pugna.

A quei segnali, il Garibaldi che, a guisa degli altri legni a vapore, mostrava sin dal mattino la sua mobile spira di fumo grigiastro, fu visto spiccarsi dalla rada di Mola, drizzare l’antenna verso i bastioni, che fronteggiano il largo mare, ormeggiavano sotto poppa

(1) I cannoni Cavalli da 80 fecero on grande effetto in questa giornata. Alla distanza di 6,500 metri, non un sol colpo su cinque fallì. Dietro questi immensi risultati, il generale Cialdini ordinò che fosse costrutta una batteria di questi cannoni, ma da 40, all’Atratina, alla fine del borgo verso Gaeta, per battere in breccia.

due scialuppe cannoniere, e la piccola flottiglia, or piegando ad ostro, ora avanzando, lanciava le sue palle infocate e le sue bombe contro le batterie, che a Gaeta difendevano gli approcci del porto.

Quel primo movimento offensivo della flotta piemontese non era che il foriero di una mossa più ardimentosa, perché, verso la mezz’ora dopo il mezzogiorno la Maria il Carlo Alberto, il Vittorio Emanuele, scortati da un altro legno, andavano a raggiungere il Garibaldi, e così uniti, dopo abile manovra, aprirono il fuoco contro i forti della città, che fronteggiano il villaggio di Mola. Le batterie nemiche, che da quel lato erano forti e numerose, risposero con un tirar di palla incessante, ma le artiglierie dei vascelli piemontesi essendo di portata maggiore, potevano lanciare con sicurezza, e senza temere offesa, i loro strumenti di distruzione. Perdurarono essi in questo assalto micidiale per più di un7 ora, quando, alle due, desiosi del più avventato cimento, si spinsero risoluti sotto il tiro del cannone nemico, e, scaricate le loro formidabili bordate contro i bastioni del porto, alla fortezza grave danno in quel punto arrecavano.

Mentre questi avvenimenti si avvicendavano sulle tranquille acque del golfo, il fuoco delle batterie di terra era, da una parte e dall’altra, incessante, terribile, assordante. Ad un colpo dei piemontesi i borbonici rispondevano con dieci dei loro.

Gaeta e le sue montagne offrivano un colpo d'occhio che incuteva spavento. Sembrava che da quelle montagne l'inferno avesse aperto le sue voragini.

Il danno ch'ebbero i piemontesi non fu proporzionato allo spreco di proietti fatto dai borbonici. Tra i caduti fu il capitano di artiglieria Savio, figlio dell’avvocato Savio e della poetessa Olimpia Savio Rossi, ch’ebbero un altro figlio morto sotto le mura di Ancona.

Dei legni piemontesi, il Garibaldi ed una scialuppa cannoniera ebbero solo a soffrire. Pochi furono però i morti ed i feriti, e le avarie sofferte erano di facile riparo.

Comandanti, ufficiali, soldati e marinai rivaleggiarono di zelo, d’intelligenza e di coraggio. L’ammiraglio, cessato il fuoco, fece significare alla squadra intera la sua soddisfazione. Il generale Cialdini fece il giro di tutte le posizioni durante il fuoco; il suo coraggio animava i bravi artiglieri sottoposti al diluvio dei proietti nemici.

Ecco la relazione dei fatti di questa giornata che diede il ministero della marina:

» Alle ore 8 del mattino del 22 volgente, le batterie del nemico, avendo ricominciato il fuoco contro quelle del nostro esercito, la squadra, composta in quel mentre delle pirofregate Maria Adelaide, Vittorio Emanuele, Carlo Alberto, Garibaldi, Costituzione, della pirocorvetta Lonzambano e delle pirocannoniere Vinzaglio, Confienza, Veloce, Ardita, salpò e si avvicinò, disposta in ordine di battaglia, alle fortificazioni nemiche poste a difesa di Gaeta, dal lato di mare.

La pirofregata Garibaldi e le pirocannoniere Vinzaglio, Confienza, e Veloce, furono destinate a combattere le batterie a ponente della città, rimanendo gli altri legni contro quelle a levante.

» Alle ore 11 antimeridiane, le batterie di terra, di ponente, principiarono il fuoco; i nostri bastimenti risposero senza ritardo. Verso mezzogiorno, il Carlo Alberto e la Costituzione, e poco dopo il Vittorio Emanuele presero a far fuoco contro le batterie a levante; ma siccome i loro colpi non producevano il desiderato effetto, il viceammiraglio comandante la squadra, che trovavasi a bordo della Maria Adelaide, sotto un vivo e nutrito fuoco, si portò sotto quelle batterie, battendo tutte le linee di difesa, manovra che venne eseguita dal Cario Alberto e dal Vittorio Emanuele, rimanendo la Costituzione a far fuoco contro le batterie della Lanterna.

» Alle 12 e mezzo, le batterie di terra, vigorosamente battute sopra tutt'i punti, rallentarono il fuoco. Verso le 2, il fuoco del nemico avendo ripreso vivamente, la squadra, defilando a mezzo tiro innanzi alle batterie da levante, aprì il fuoco contro le medesime, che per più di mezz'ora continuarono un vivissimo fuoco lanciando una grandine di proietti.

» Trascorse di poco le 2 pomeridiane, il nemico cessò il fuoco da quella parte. La squadra, senza ritardo, si portò a ponente della città, a rinforzare i fuochi dei rari legni, stati sino dal mattino destinati a combattere in quella parte. Alle quattro e mezzo, il nemico avendo cessato il fuoco, la squadra cessò pure dal combattere, riprendendo l'ancoraggio del giorno precedente. Nella notte, la pirocorvetta le pirocannoniere Veloce, Ardita e Vinzaglio, ritornarono sotto le batterie e molestarono il nemico.

» In questo combattimento, ammirabile per coraggio e sangue freddo spiegato dagl'intieri equipaggi di tutt’i regii legni, composti di marinai delle antiche provincie e di napoletani, non si ebbe a lamentare

che tre morti e cinque feriti e qualche avaria a bordo di alcuni bastimenti, non però tale da compromettere menomamente la sicurezza.

» A meglio dimostrare in qual modo la squadra abbia compiuto, verso il Re, verso la patria, il suo dovere, si riproduce la seguente lettera, che il generale d’armata comandante l'esercito, Cialdini, diresse il giorno seguente, al conte di Persano, vice ammiraglio, comandante la squadra:

Castellone 23 gennaio 1861.

Prego la S. V. Ill. ma di aggradire i miei ringraziamenti e di volerli partecipare alla flotta per abile ed energica sua cooperazione nella giornata di ieri.

Dall'alto delle nostre posizioni osservando le ardite manovre de' suoi legni da guerra, tutt'il quarto corpo d'armata riconobbe e salutò l'ammiraglio e la squadra che espugnarono la Lanterna d'Ancona.

Le rinnovo l'assicuranza della mia distinta considerazione.

Il generale d'armata

CIALDINI.

Il ministro della marina di Francesco II diresse il seguente ordine del giorno al comandante ed all'equipaggio di una fregata reale, ch’era sola rimasta nel porto della città assediata. Esso è del seguente tenore:

«È un’alta soddisfazione di poter dire ne’ momenti del pericolo: Ho fatto il mio dovere. Questa soddisfazione voi tutti potete averla oggi, artiglieri, marinai e soldati di marina; poiché nella giornata d’ieri, ciascuno di voi stette fermo, e coraggiosamente, al suo posto:

tutti avete ben meritato della patria, che vi guarda con ammirazione; del nostro adorato Sovrano, che, per Porgano del suo ministro, vi comparte gli elogii meritati.

» Tutti vi ringrazio, e di tutti voi vado altero, o uffiziali superiori e subalterni, sotto uffiziali e soldati, che, con tanta intrepidezza, avete fulminato il nemico dall’alto delle batterie; e così dico di quegli uomini valorosi, che aventi alla loro testa il bravo capitano di vascello, Pasco, sul ponte della fregata, hanno sfidato tutt'i pericoli ed affrontata freddamente la morte.

» Di nuovo, marinai, cannonieri e soldati, io vi ringrazio, e ammiro la vostra eroica bravura, la quale, cingendo la vostra fronte di una gloria imperitura, aggrava ancor più il disprezzo dovuto a que’ tristi uomini, che, non è molto, non hanno voluto o saputo comandarvi.

» II vice ammiraglio della marina reale»

» LEOPOLDO DEL RE. »

XI.

Alla sera del 24 gennaio la piazza di Gaeta cominciò di bel nuovo a far fuoco, ma le batterie piemontesi, che risposero immediatamente, le ridussero ben presto al silenzio.

I piemontesi ad onta di questo, proseguirono sempre il fuoco. I cannoni Cavalli, non ismettevano, e i loro colpi, meno qualcuno che scoppiava per l’aria, piombarono tutti sulla disgraziata città con precisione.

I lavori alle trincee costarono ai piemontesi ogni giorno qualche vittima.

XII.

Nel 26 alle ore otto del mattino un parlamentario uscì dalla cittadella di Gaeta, per abboccarsi coll'ammiraglio Persano.

Dopo mezz'ora di conferenza, il parlamentario rientrò in fortezza, ed un’ora dopo Cialdini ne inviò un altro con una missiva pel Re, il quale si lagnava che un convento di religiose e l’ospitale non fossero risparmiati.

Cialdini rispose eh’ egli non poteva garantire il tiro delle artiglierie, ma ch’era pronto a ricevere tutt’i feriti delle truppe di Francesco II, ed i religiosi dell’ospitale, che volessero lasciare la città.

XIII.

La piazza continuava il fuoco con alterna vicenda. I borbonici levarono i cannoni in barbetta o piattaforma e formarono due batterie in cima della Lanterna e l' altra verso la porta della città.

I piemontesi da terra li molestarono tirando colpi di una giustezza ammirabile.

Ma nel 28 due polveriere de’ piemontesi, accese dalle bombe degli assediati, scoppiarono con molta strage dei primi.

Due legni della flotta calarono a fondo. Il Re e la Regina assistevano al combattimento. Due soli cannoni vennero smontati, dalla parte di terra.

XIV.

li fuoco, a Gaeta, continuava dalla parte di terra e dalla parte di mare, ma veniva sospeso a quando a quando per la consegna di lettere degli assediati al conte Persano, il quale si era incaricato di farle pervenire alle persone cui erano dirette.

Francesco H approfittò di tale occasione per far rimettere al comandante della flotta una lettera diretta all’Imperator de' francesi. Quella lettera fu dal conte Persano inviata al luogotenente generale in Napoli, il quale la fece pervenire a Napoleone III.

XV.

Ai primi di febbraio gli assedianti terminavano parecchie batterie nuove, piantate un po' innanzi delle antiche, ma il cui tiro era sempre diretto alla città.

Gli assediati, dal canto loro, lavoravano alacremente ed avevano riparato le opere danneggiate e costruito inoltre nuovi lavori, fra cui si trovavano due batterie rigate.

Gli ufficiali garibaldini dimoranti in Napoli stabilirono di unirsi in una compagnia, ed, eletto un capo, di chiedere al Governo il favore di essere lasciati montar primi all’assalto di Gaeta.

XVI.

Il 2 febbraio la marina sarda smascherò una nuova batteria di sei pezzi rigati da 16 ch'essa aveva piantato a Gasa Arzana, fra le ultime case del Borgo e il luogo chiamato S. Martino.

Il tiro di tutte le opere d’assedio era indirizzato contro l’opera a sega, che giaceva tra l’Annunziata e il porto.

Nella notte del 3 al 4 due bastimenti della flotta vi cooperarono.

Il fuoco continuò vivissimo nella giornata del 4. Verso le quattro della sera la polveriera napoletana Cappelletti saltò in aria producendo gravi guasti nel corpo principale della piazza. Questo accidente annientava detta batteria Cappelletti e due batterie di riserva, in caso d’assalto.

Immediatamente S. M. Francesco II diede ordine di racconciare la breccia. I lavori vennero lodevolmente incalzati sotto la direzione del maresciallo Traversa, uffiziale del genio. Fu uno degli avvenimenti frequentissimi in un assedio.

Da quel punto fino al bastione Sant'Antonio Vera una lunga cortina: era facile accorgersi che gli assediati operavano con grandi lavori; vi si annoveravano ben quindici cannoni. Codest’opera poteva nuocere grandemente all’azione della flotta nel punto decisivo, allorché si avesse giudicato necessario il suo aiuto. Tutti gli sforzi dovevano riuscire ad impedirne la costruzione. Nella notte, fu fatto contro di essa un fuoco terribile, al quale parteciparono il Garibaldi e il Vittorio Emanuele.

XVII.

Il 3, il tiro fa gagliardissimo; la piazza rispondeva assai debolmente. Dalle alture, che cingono il golfo, scorgevansi facilmente, mediante un cannocchiale, gli assediati che lavoravano alle nuove costruzioni e che vi trasportavano polveri e proietti. Le bombe e le palle di tratto in tratto ponevano in disordine le loro file, senza però allontanarli definitivamente.

Erano quattro ore e mezzo della sera quando successe una grande esplosione. La polveriera Cittadella e di Sant'Antonio saltò in aria e comunicò il fuoco al grande deposito dei proietti carichi, che parimente scoppiarono (1).

Lo scoppio fu sì terribile che l’eco delle valli le più lontane lo ripeterono con sordo e prolungato rumore. Un bastimento francese, che si trovava in quel punto rimpetto a Gaeta, ne risentì l’urto, benché fosse alla distanza di sei miglia.

(1) A torto venne do taluni imputata a tradimento questa orribile esplosione. Un nomo, dice il Pays, posto nelle condizioni, in cui egli può appiccare fuoco ad una polveriera, non ha quasi veruna probabilità di sfuggire la morte. C'era in quel momento sulla cortina una compagnia di zappatori e tre compagnie del 10.° di cacciatori, in tutto 600 soldati, non compresi i cannonieri. Era dunque quasi impossibile di usare le precauzioni che sogliono impiegarsi da un traditore in simile congiuntura. Sembra più probabile che la batteria di Casa Arzana, la quale da 24 ore indrizzava il suo tiro con buon esito da quella parte, facesse scoppiare inopinatamente una bomba, che produsse l'esplosione. Simili avvenimenti sono frequenti in un assedio, e si può addurre come esempio l’incendio della polveriera del poggio Verde nel magazzino del Molino durante la spedizione della Crimea. E lo stesso visconte A. Pellet de Lautrec, capo dello stato maggiore del maresciallo Riedmatten comandante superiore della batteria di terra di Messina, dice in una sua comunicazione all Espérance, non poter affermare che le polveriere di quella fortezza siano Saltate in aria per effetto di tradimento o del fuoco nemico. Non conviene smarrire di vista, egli soggiunge, che il nemico possedeva cannoni rigati di forte calibro, i cui proietti avevano una for sa di penetrazione considerevole.

Quasi trenta metri di parapetto furono abbattuti; i 15 cannoni andarono rovesciati; gli affusti a pezzi; un gran numero d’uomini, che coprivano il parapetto, furono lanciati in aria, colle enormi travate e con volumi di pietre e terra; molti furono fatti a brani, stritolati, sepolti vivi, e tutta notte il lamento de’ morenti e de' feriti si confuse col rumore del cannone. Densa nube di polvere coperse la piazza fino a sera, solcata soltanto dalla luce istantanea della bomba e della granata, che scoppiava. Il disordine fu spaventoso nella piazza e la costernazione immensa.

Vittima di questa esplosione fu anche il luogotenente generale Traversa, in età di 80 anni, e che si era trovato all’assedio sostenuto da Gaeta contro Massena nel 1806, come sottotenente. Questo vecchio, ad ogni ora del giorno e della notte, s’incontrava sui bastioni che stimolava i lavoranti da per tutto ove fossero urgenti lavori.

Cialdini, volendo approfittarne per ottenere una capitolazione immediata, trasmise, col telegrafo piantato a Caposele, l’ordine a tutte le batterie di cominciare il bombardamento. Trentadue n'erano, in quel momento, in assetto; circa 170 cannoni. I napoletani furono per un istante atterriti, silenziosi; poi risposero, ma debolmente; la proporzione del loro fuoco, rispetto a quello del nemico, essendo appena da 1 a 10 (1).

(1) Gli assedianti, a quanto sembra, non se n’erano avveduti, a primo tratto, dei disastri cagionati dalla esplosione. I dispacci che l'annunziavano a Tori no, smentivano le voci di resa, che correvano da parecchi giorni, e accenna vano le difficoltà, che opponeva la qualità del suolo al compimento delle trincee. Sarà cosa lunga, diceva una lettera del 6.

In tutta quella giornata il fuoco fu vivissimo e si. cercò d’impedire qualunque racconciamento della cortina. La piazza continuò a rispondere debolmente. Verso le 10 essa cessò di sparare.

XVIII.

Nel 6 i piemontesi mandavano una pioggia di proietti, ad onta dei quali i napoletani cavavano molte persone sotto a' ruderi degli edifizii crollati. La piazza rispondeva vigorosamente.

A mezzo giorno del 6, una scialuppa, con bandiera parlamentaria, uscì dal porto, e si fece silenzio su tutta la linea degli assedianti.

Un uffiziale si presentò al quartier generale di Cialdini per domandare un armistizio di 48 ore, esponendone i motivi con voce commossa. Trattavasi di seppellire i morti e di dissotterrare i viventi.

Cialdini acconsentì a quanto gli si domandava; inviò anzi ghiaccio e mignatte pei primi soccorsi.

XIX.

Il giorno 7 e l’8, gli assediati non avendo avuto il tempo di estrarre i cadaveri di gran numero di vittime dell'esplosione, né di portare ad un nuovo spedale una parte degli ammalati di Santa Catterina, fu domandato un prolungamento di tregua di quarantott’ore.

Il generale Cialdini ricusò perché con ciò avrebbe sacrificato i vantaggi procacciatigli dagli ultimi avvenimenti, ma offerse di ricevere quegli ammalati che gli si volessero dare.

Duecento ammalati furono condotti nel 9 a Castellone, in un quartiere di cavalleria, che si fece sgombrare per essi. Il giorno appresso vennero inviati all’ospitale di San Pietro di Napoli.

XX.

Spirato l’armistizio, il fuoco fu ripigliato il mattino del 9 alle ore 10. In questo giorno gli assedianti smascherarono una nuova batteria piantata verso la casa abitata già da Massena nel 1806; batteria, che, rifilando la cortina, ne impediva qualunque racconciamento.

Nella nette dello stesso giorno, le due cannoniere Palestra e Fin z aglio si portarono sotto le batterie e vi aprirono contro, per due ore, un fuoco terribilissimo.


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XXI.

Nei giorni 10, Ile 12 il bombardamento continuava forte e rispondevasi debolmente.

Nel 13, alle 9 della mattina i piemontesi smascherarono due nuove batterie costruite nel Borgo.

In questo giorno la breccia fu aperta e le casematte di nuova costruzione avevano molto sofferto.

Gli assediati, pensando che il generale Cialdini potesse tentar di espugnare la piazza a viva forza, caricarono a mitraglia una parte dei loro cannoni per ispazzar via le colonne piemontesi che si avanzassero.

A 11 ore un giovane uffiziale napoletano, che comandava la batteria Transilvania, accortosi che le mura di quella polveriera, la quale conteneva 400 quintali di polvere, avevano sofferto guasti rilevanti, diresse un rapporto al comandante della batteria di sinistra della piazza, nel quale egli domandava di cessare il fuoco della sua batteria per non attirare il fuoco nemico sulla polveriera, che correva i più gravi pericoli.

Prima ch'ei potesse ricevere una risposta, la polveriera scoppiò. Cannoni da 80, mortai, cannonieri, tutto scomparve. Non fu ritrovato che un affusto d’un pezzo da 80, lanciato assai da lontano, sopra un muro.

Le negoziazioni per la resa della piazza furono riprese a mezzogiorno. A cinque ore della sera il piroscafo francese laMouette riceveva l’ordine di lasciar Napoli per recarsi nelle acque di Gaeta. A sei ore la capitolazione era sotto scritta.

CAPITOLO VIGESIMOPRIMO

Reazioni ed altri combattimenti

I.

Sei generali borbonici Polizzi, Barbalonga, di Liguori, Palmieri e due Marra vennero arrestati a Napoli, accusati di cospirazione in favore di Francesco II. Alcuni di essi erano, da tempo, usciti da Gaeta, adducendo di non voler più servire Francesco II, e recatisi in Napoli, vi godevano piena libertà.

Cialdini andava premunendosi contro i moti reazionarii che sembravano minacciare. Nell’eventualità di qualche attacco dei borbonici, che ingrossavano, si scaglionavano reggimenti di fanteria ad Itri e sulla strada di Civita Farnese; si fortificò Sant’Andrea e finalmente si raccolse tutto il materiale d’artiglieria ch'era in varii luoghi disperso. Per isolare questo paese fu impedita ogni comunicazione con Terracina e Frosinone, fra Mola ed Itri. Nessuno poteva più uscire od accostarsi al litorale, dal Garigliano al confine pontificio. Rigorosa sorveglianza sulle corrispondenze; arresti giornalieri di sospetti.

Il Governo era risoluto ad operare con energia contro la reazione e quindi spedi rinforzi contro i sollevati degli Abruzzi.

II.

Casse di fucili e di munizioni, convogli di soldati degli sciolti reggimenti del generale Ruggiero, ai primi di gennaio, erano arrivati a Frosinone da Roma, ed a Frosinone v’era chi provvedeva a gettare armi ed armati o per la strada di Ceprano a Terra di Lavoro, o per quella delle montagne ai distretti più selvaggi dell’Abruzzo Ulteriore. Erano organizzati dal conte di Trapani.

Nel 5 gennaio un’immensa turba di così detti cafoni, che di buon mattino uscirono dalle loro case, armati di baionette, stocchi, scuri, stili e mazze, in numero di più di 5000, si presentarono nella piazza di Foggia (1) gridando viva il Borbone!

Appena usciti, si diressero al carcere, dove, sfasciando le porte, fecero uscire tutt'i detenuti, minacciando ancora di assalire i palazzi. Istantaneamente si unì buon numero di guardie nazionali, le quali sulle prime tentarono di frenarli colle buone, ma fu invano, e si dovette far uso delle armi. Dopo qualche ora di combattimento, i reazionarii furono sbaragliali lasciando buon numero di morti e molti feriti.

Appena sedato il tumulto, la guardia nazionale, dopo un giudizio statario, fucilò due capi della sommossa conosciuti promotori ed assassini. Si fecero molli arresti. Subito accorsero le guardie nazionali di Apricena e Torre maggiore, il governatore e il procurator generale della Provincia.

(1) Foggia, città sul Cevrera, capoluogo della Capitanata a 5 leghe S. Q. da Manfredonia, conta 17,000 abitanti.

III.

Ai primi di gennaio venne arrestato in Chieti il caporale Diaz, comandante un distaccamento di carabinieri venuti dalla frontiera. Diaz era entrato per ispingere una ricognizione in que’ luoghi, ma si conobbe il disegno dell’insurrezione.

Essa raccoglieva contadini e soldati congedati per tentare un'invasione nella Mar sica. Tre grandi corpi erano già organizzati e dovevano operare contemporaneamente in tre punti: su Sora, ove il barone Chiavone, che comandava il l.° corpo, era potentissimo; nella Valle Rovereto, ove il conte Giorgi aveva numerose relazioni, ed infine dal lato di Garsoli, il cui circondario era tutto insorto. Questi due corpi dovevano dar mano a' numerosi partigiani che percorrevano l’Ascolano. Il 3.° corpo doveva rimanere in riserva per sostenere gli altri due.

Il piano era già fatto, i capi erano al posto e i corpi reazionarii organizzati. Chiavone solo poteva disporre di più di 5000 uomini armati. Gli antichi soldati dell'armata napoletana bastavano per portare il corpo che comandava La Grange a 6000 od a 7000 uomini (1).

(1) V. il capitolo decimottavo n. 11. Questo capo di reazionarii non chiamavasi però La Grange, poiché nell'Armonia fu pubblicata la seguente dichiarazione del barone La Grange, in data di Roma 2$ gennaio:

«Il giornalismo italiano e straniero, da capo, ha cominciato a creare un colonnello o generale La Grange, alla testa di bande armate, negli Abruzzi, il legittimo portatore di questo nome si vede perciò costretto a far la dichiarazione d'aver bensì comandata una brigata di regie truppe napoletane e d’aver combattuto anche con successo pei sacri diritti del suo Re e per l'indipendenza del Regno.

Quel corpo aveva inoltre cinque pezzi di artiglieria. Era una forza dieci volte maggiore di quello che si richiedeva per impadronirsi della Marsica e mantenervisi. Quella regione è capoluogo degli Abruzzi, comanda assolutamente il posto dal Mediterraneo all’Adriatico, costeggia sur una lunga linea gli Stati pontificii e forma un vasto campo trincerato, assai facile a difendere con pochi armati.

IV.

Ai primi di gennaio avvenne una grave reazione in San Severo di Puglia. La guardia nazionale sedò il tumulto dopo un forte combattimento.

La città di Chieti (1) era tutta commossa da una grossa colonna di briganti, che si concentrarono a Riello a sette miglia di distanza. Essi erano in 1,200; saccheggiarono e bruciarono due villaggi vicini. Da Chieti partì una colonna di guardie nazionali con quattro compagnie di piemontesi. I briganti vennero completamente battuti e molti rimasero uccisi.

Però verso la fine d’ottobre ha dovuto retrocedere per espresso sovrano comando dagli Abruzzi ed occupare altra posizione strategica. In seguito, fu obbligato anch’egli a ripiegare sopra terra neutrale, ma in vista soltanto della quasi totale deficienza di munizioni da guerra e perché era rimasto abbandonato da tutti gli altri corpi. Dalla metà di novembre dimora a Roma senza qualsiasi incarico o missione, e non occupato che di quegli studiì che sempre ha cercato di coltivare. Quindi, del tutto estraneo a quanto da quell’epoca in poi è accaduto o che accade negli Abruzzi. Tuttora però soldato, saprà sempre stare al suo posto, quando il suo sovrano e la voce dell’onore lo comandino. Uno de’ varii avventurieri, frattanto, che hanno intrapreso di rendere gii Abruzzi il teatro delle loro gesta, ha preteso diramare ordini nel nome di, contro la quale usurpazione s’intende protestare colla presente.

» BARONE DE. KLITSCHK DE LAGRANGE. »

(1) Chieti, città arcivescovile capoluogo dell’Abruzzo Citeriore sulla de stra del fiume Pescara, a 38 leghe da Napoli, ha 15,000 abitanti.

Volontarii partirono dal territorio pontificio per recarsi negli Abruzzi a combattere per la causa di Francesco IL I fratelli Piccioni si posero alla testa di 4000 paesani della Provincia d’Ascoli.

Migliaia di borbonici bene organizzati nello Stato ponti ciò irruppero nel territorio napoletano a nome di Francesco II. Marciavano a combatterli un seicento guardie nazionali. La lotta fu viva e lunga e morirono quindici militi nazionali e un trentacinque borbonici. Sopraggiunti i bersaglieri italiani ruppero completamente gl'invasori e fecero molti prigionieri, fra cui tutti gli uffiziali dello stato maggiore.

V.

Un piccolo corpo borbonico, comandato da Luverà, che era già pervenuto a Tagliacozzo, retrocedette e si sbandò di nuovo pel territorio pontificio appena udì che il generale Sonnaz stava in Sora con forze ragguardevoli e moveva a quella volta.

L'insurrezione era ordinata abbastanza solidamente ed estesamente nell'Ascolano. Esso faceva centro d’operazione nei monti, che sono tra Civitella del Tronto, Ascoli, Amandola, Arquata ed Acquasanta.

Nel giorno 9 gennaio da Ascoli partiva una compagnia per Mezzano (poche miglia da Ascoli sul Tronto alla sponda sinistra), la quale doveva dare il cambio ad altra colà distaccata. Mentre una compagnia marciava per Mozzano, l'altra veniva aggredita dai reazionarii, ed il comandante di questa ultima spedì espresso al comandante delle truppe in Ascoli a chiedere rinforzi, il quale distaccò altra compagnia col maggiore cavaliere Lodegiani.

Questi doveva assumere il comando e la direzione di tutte le compagnie, e così con tale ' rinforzo prese egli la via dei monti, sia perché di là facevasi sentire il combattimento, sia perché di là sarebbe riuscito a dominare il villaggio.. In fatti, giunto verso le 4 ore e mezzo sul poggio e villaggio di Tronzano, si gettò su Mozzano, cacciando i reazionarii che l’occupavano. Qui seppe che la compagnia, la quale presidiava Mozzano, erasi ritirata a Venarotta pei monti, e che l’altra, che doveva dare il cambio, giunta a Mozzano quando la prima crasi già ritirata, aveva fatto ritorno in Ascoli.

Mozzano, ch'è diviso in due parli, superiore ed inferiore, giace a mezza costa e tutto è circondato d'alti monti, ed ha ai suoi piedi il Tronto, il quale scorre entro una valle angusta. Il maggiore Lodegiani, colla compagnia di rinforzo, occupò la parte superiore soltanto e si premunì con avamposti Sulle vie di Ascoli, di Acquasanta e di Tronzano, e frattanto spedì ordine al comandante della compagnia di presidio a Venarotta, di portarsi ad occupare Tronzano, posizione, dalla quale egli poteva essere aggredito dai reazionarii non solo, ma eziandio privato di ogni via di ritirata. Nello stesso tempo mandò ad Ascoli ad informare della sua critica posizione il comandante maggiore Finazzi. La notte era buia per folta nebbia. Alle ore 10 e mezzo, furono uditi tre colpi di fucile verso il Tronto; una pattuglia venne spedita da quella parte, e riportò aver trovato colpito al cuore di palla di fucile un soldato della compagnia, il quale, uscito oltre gli avamposti solo, senza avvertire alcuno, era rimasto vittima dei reazionarii.

L’indomani mattina, un forte numero di reazionarii scesi dai monti di Rosera, vennero quasi sulla riva del Tronto per assalire Mozzano; ma, dopo due ore d’inutile fucilata, di nuovo si cacciarono nei monti; Frattanto il maggiore non riceveva né rinforzi, né ordini, ed i reazionarii, nella notte del 10 all’11, attraversavano il Tronto e f indomani circondavano in numero imponente la compagnia, che tene vasi in Mozzano superióre, occupando ogni punto ed ogni sbocco dei monti, e nello stesso tempo, altri tentavano guadare il fiume in faccia al villaggio, e per tal modo circuire interamente la compagnia suddetta. Da prima il maggiore tentò ordinare una difesa nelle case estreme dei villaggio verso Ascoli; ma vista questa via minacciata dai reazionarii, che stavano guadando il fiume, si decise ritirarsi su Ascoli, e per un tratto di più di due miglia questa compagnia fu bersagliata dai reazionarii postati sulle alture laterali alla strada, muniti di fucili a lungo tiro. In questo difficile frangente, la compagnia ebbe il capitano ferito e fatto prigioniero, 9 morti, tra quali un sottotenente, due sergenti, 3 feriti (ricondotti ad Ascoli ) e 18 prigionieri, compreso il capitano, probabilmente perché rimasto ferito.

In conseguenza di sì grave fatto, il generale tinelli in persona, col tenente colonnello Pallavicini e tenente colonnello Gircana, rannodate sufficienti forze, nel giorno 12 partì da Ascoli, formando la sua truppa in quattro piccole colonne per avviluppare i reazionarii.

Queste colonne erano comandate, una dal tenente colonnello Pallavicini, composta di 2 compagnie e 4 pezzi da montagna; una comandata dal maggiore Finazzi, composta di tre compagnie; una comandata dal tenente colonnello Gircana, composta di 6 compagnie e 2 pezzi da montagna; e finalmente la quarta, comandata dal maggiore Lodegiani, era composta di altre 3 compagnie. Il generale tenevasi con quella del tenente colonnello Pallavicini.

Le colonne Gircana e Finazzi dovevano convenire verso S. Vito, la prima passando per Rosara, la seconda per Tre sino; le due altre dovevano convenire a Mozzano, quella del tenente colonnello Pallavicini per la grande strada da Ascoli al villaggio ora detto, l'altra per Gemigliano e Tronzano. Occupato Mozzano, queste due colonne riunite dovevano scendere ad Acquasanta passando il Tronto presso Arli. Ad Acquasanta eravi già una compagnia di presidio. Questa manovra aveva per iscopo di chiudere i reazionarii, raccolti intorno a Mozzano, tra Acquasanta, S. Vito, il Tronto, e quindi, avanzando da questi due villaggi le truppe piemontesi, le une a riscontro delle altre, battere i reazionarii, nello Stesso tempo che si sarebbe loro impedita da tutte le parti la fuga. Chi doveva dare il segnale d’attacco era la colonna Gircana, tosto giunta in Rosara, la quale infatti, alle 11 e mezza, con alcuni colpi di cannone avvertiva il generale Pinelli del suo arrivo a destinazione. Questi fece attaccare Mozzano di fronte dalla colonna Palla vicini, mentre quella del maggiore Lodegiani alla sua volta attaccava le alture di Tronzano.

I reazionarii che occupavano Mozzano, in gran parte cercarono salvezza nella fuga e molti rimasero vittime. Quelli, che occupavano le alture di Tronzano, vennero cacciati sul torrente Fluvione.

Mentre da questa parte del Tronto il combattimento si animava, sulla destra tutto era silenzio, dopo i primi colpi di cannone. Ciò malgrado, il generale Pinelli proseguì la sua marcia per portarsi a pernottare ad Acquasanta. Sino al di là d’Arli, verso il ponte, non ebbe a scoprire più il nemico, se non che pochi fuggiaschi sulla vetta dei monti, che di tanto in tanto sparavano colpi molto mal diretti, e pochi altri rinchiusi in una chiesa, allo sbocco d’Arli, i quali si diedero pure alla fuga, dopo pochi colpi di cannone diretti contro detta chiesa; ma, ad un tiro di fucile da Arli, ove la valle si rinchiude da rocce irte, i reazionarii mostravansi minacciosi. In fatti l'avanguardia, colla quale era il tenente colonnello Pallavicini, venne colta da viva fucilata; si fecero avanzare i pezzi, i quali tirarono alcuni colpi a mitraglia ed a granata, ma stante l'elevazione troppo forte riuscirono senza effetto.

La giornata era avanzata (4 e mezza pomeridiane), il tempo mettevasi alla pioggia, oscurando maggiormente l’orizzonte, e per conseguenza il generale si risolse di rinunciare ad inseguire i reazionarii, ed invece spingersi sollecitamente in Acquasanta per non lasciarsi sorprendere in quelle gole di notte, e così dispose l'ordine di marcia, siccome richiedeva la circostanza. Ma non appena la testa della colonna giunse alla pietra indicante i nove miglia da Ascoli, una tempesta di palle incrociavasi per la strada delle alture laterali non solo, ma anche dai burroni fiancheggianti la strada.

L’ingolfarsi maggiormente in quelle strette, mentre il giorno andava a spegnersi, era somma imprudenza, e per conseguenza venne deciso il ripiegarsi su Mozzano. La ritirata si effettuò con ordine e senza perdite gravi, malgrado i fuochi dei reazionarii, ai quali i piemontesi stettero esposti per circa quattro miglia di strada. La pioggia cadeva in gran copia. Mozzano offriva poco o nulla risorsa di ristoro, per cui venne deciso di ripiegarsi sino ad Ascoli, lasciando una compagnia di avamposto in Tronzano, ove il generale contava ritornare l'indomani.

La colonna Gircana, occupato Rosara ed i monti circonvicini, non potè progredire pei medesimi la sua marcia verso Acquasanta a causa delle cattive strade e particolarmente della copia grande di neve ivi caduta, e per conseguenza il tenente colonnello Gircana pensò abbandonare i monti per seguire la strada lungo il Tronto al fondo della valle. Non incontrò ostacoli che verso Pedana, cioè una casa sulla strada era occupata dai briganti, come pure le alture circostanti. Tutto questo però venne superato facilmente, ma giunta la colonna a mezzo miglio circa dal ponte d'Arli (verso le 3 mezza pomeridiane), ove la strada s’incassa tra monti a picco, essa venne arrestata, perché quella posizione, occupata fortemente dai reazionarii, era impossibile poterla attaccare di fronte. In conseguenza, il lenente colonnello suddetto ordinò la ritirata per non lasciarsi esso pure sorprendere dalla notte. Ciò malgrado, trovando la via già percorsa dai reazionarii, e la marcia facendosi perciò lenta, la notte sopraggiunse quando ancora trovavasi all'altezza circa di Mozzano. Il maggiore Finazzi, colle sue tre compagnie, aveva raggiunto il tenente colonnello Gircana alle 3 pomeridiane, al ponte di Cavaceppo.

La colonna fece alto, si munì d’avamposti ed accese i fuochi, sia per riposare un poco, sia per asciugarsi e riscaldarsi, stante che la neve cadeva in gran copia. Alle 9 circa si rimise in marcia, ed alle 10 entrò in Ascoli.

VI.

Nel 15 ebbe luogo un fatto d’arme a Tagliacozzo fra una colonna di reazionarii ed una colonna di piemontesi.

I piemontesi, attaccati con grande energia ebbero la peggio; furono sloggiati dalla loro posizione ed inseguiti fino al di là di Avezzano, lasciando dietro parecchi morti, molti prigionieri, armi, bagagli e munizioni.

I reazionarii, ch'erano comandati da un generale bavarese, in numero d’un 1500 soldati regolari, bene armati e disciplinati, d’un 500 soldati appartenenti a diversi corpi dell’esercito napoletano, e di un rilevante numero di contadini e masse irregolari, dopo il fatto del 15, inseguirono i piemontesi fino a Scurcola, dove questi si ritrassero in buon ordine, combattendo in ritirata.

I piemontesi, giunti in Sant'Antonio, alla distanza di un tiro di fucile da Scurcola, videro una mezza compagnia, che, scendendo dal monte, tentava tagliar loro la ritirata. Allora affrettarono il passo per attraversare Scurcola, guadagnarono la porta verso Avezzano, appunto poco prima eh’ entrassero colà i regii e le masse provenienti da Tagliacozzo, e quella mezza compagnia che scendeva dal monte.

I piemontesi, sotto una pioggia dirotta ed in mezzo a strade orribili, fecero sosta per qualche momento in Cappelle, e poscia, a circa 2 ore italiane di notte, giunsero in Avezzano.

Immantinente, senza prender posa, uniti alla compagnia che presidiava la città, bivaccarono da quel lato, ove gl'inimici potevano accedere. Il tempo era orribilmente piovoso, né si poteva accendere il fuoco per non farsi scoprire e sorprendere. Mercé sollecite staffette, fu richiamata la compagnia di Celano, che fu collocata, nella stessa notte, nel ponte di Riarello, posto al di sotto di S. Pelino. Furono pure richiamate le due compagnie stanziate in Capistrello e Civitella, e queste giunsero nella stessa sera in Avezzano, cosiché nel mattino del 15 le sei compagnie del 40.°, che copriva la Marsica, erano tutte schierate in ordine di battaglia lungo la linea rivolta verso Scurcola. Per precauzione, furono spediti in Celano gl’infermi, la cassa distrettuale e quella del l'esercito; imperocché Celano era il luogo della ritirata in caso di possibile disfatta. Si ebbe cura di spedire in Celano tuli’ i prigionieri sbandati e tuli’ i prigionieri politici che stavano in Avezzano, onde non avere impacci di sorte alcuna.

La guardia nazionale, unitamente ad una piccola mano di piemontesi, che avevano scortati i prigionieri, si pose a guardia de' medesimi, ed i contadini si mostrarono tranquilli e fidenti. Avezzano, rimasta sgombra di ogni forza, si comportò in una maniera sommamente lodevole. Allorché furono tratti dalle prigioni circa venti carcerati politici, le donne si misero a piangere e ad urlare sulla sorte de’ loro congiunti, temendo che venissero per via fucilati.

Il vicegovernatore di Avezzano si fe’ innanzi alla forza, facendosi consegnare cinque tra venti prigionieri, eh’ erano appunto di Avezzano. Liberolli immantinente, e la moltitudine proruppe in pianti ed acclamazioni di gioia.


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VII.

Verso la metà di gennaio vennero arrestati molti francesi ed italiani, che tentavano promuovere una reazione borbonica in Messina.

Le loro fila furono rolte dalla preveggenza ed attività mostrata dal generale Chiabrera e dal governatore barone Napoli.

Le prime indagini si ebbero dietro l’arresto di un francese che usciva dalla cittadella. Qualche altro legittimista era già passalo in Calabria, ove aveva fatto dei proseliti, ma tutti costoro vennero arrestali.

VIII.

Nel 20 gennaio, il 9.° e 21.° battaglione del 27.° reggimento di linea piemontese scortati, da due cannoni, fecero una sortita da Ascoli per attaccare gl’insorti nelle loro posizioni.

I piemontesi, vedendo che la forza nulla valeva contro que’ reazionarii che coronavano le alture, finsero una precipitosa ritirata, ed a viemeglio colorire l’inganno, lasciarono sul terreno due cannoni da montagna, da cui erano scortati.

I reazionarii, non appena videro i piemontesi volti in fuga, calarono dalle alture per inseguirli, e per impossessarsi dei due cannoni. Ma i bersaglieri, che nella simulata fuga erano stati i primi, a passo di corsa salivano il monte dalla parte opposta, da dove scendevano i reazionarii.

Tosto le fucilate avvertirono che i bersaglieri occupavano le alture abbandonate. Allora gli artiglieri, i quali non avevano fatto che appiattarsi, corsero ai loro pezzi; il battaglione di linea, fatto fronte indietro, mosse contro i reazionari che, accortisi troppo tardi dell’inganno, furono battuti in tutt’i sensi.

In questo scontro meglio di 90 di essi vi lasciarono la vita, e gli altri rimasero in potere de’ piemontesi.

IX.

Ad un' ora di notte del 22 gennaio i borbonici, in forte massa fra regolari ed irregolari, assalirono Scurcola, ch’era presidiata da una compagnia. Questa sostenne il fuoco per un' ora e mezza. Poscia, mezza compagnia rimase a battersi e l'altra mezza ripiegava su Cappelle, per mantenersi aperta la ritirata verso Avezzano. In quel frattempo, sopravvennero in Scurcola, girandola dalla parte del monte, due compagnie, che presidiavano Magliano, accompagnate da tutta la guardia nazionale di quel paese.

Ristorata la battaglia, fu tre volte battuta la carica. I reazionari! vennero scacciati dal monte e battuti sulla pianura, dove manovrava un squadrone di lancieri piemontesi. Ripiegò sopra Scurcola la mezza compagnia ritirata in Cappelle, e quindi, tutte e tre le compagnie, con la cavalleria, fecero macello de’ reazionarii, respingendoli verso Tagliacozzo. Sopraggiunse un’altra campagna da Avezzano, ma già il fatto d’arme era presso che terminato. 11 suolo, dentro e fuori di di Scurcola, era coperto di cadaveri.

Per un pelo non fu preso Giorgi, capobanda dei razionar», dalla cavalleria. Nel corpo di guardia a Scurcola, si erano rinchiusi 50 o 60 ribelli. Uno di loro, co’ suoi lamenti, scoperse a’ piemontesi quel covo. Venne sfasciata la porta e furono tutti presi.

X.

Nel 25 gennaio seicento zuavi pontificii attaccarono gli avamposti piemontesi di guardia mobili a Ponte Corese, sul l'estremo confine della Sabina. 1 piemontesi si batterono ed ebbero morti, feriti e prigionieri.

Poco dopo, rimontando il Tevere, alcuni vapori sbarcarono sulla riva sinistra circa duemila uomini con una batteria e 200 cavalli. Subito si fortificarono.

Il 2.° battaglione umbro di guardia nazionale mobile si concentrò subito e le guardie nazionali locali corsero sotto le armi. Pel momento, niun’altra forza si potè opporre ai pontificii, giacché mancavano affatto truppe regolari.

Ecco la relazione che fa di questo fatto il tenente colonnello comandante il battaglione de’ zuavi pontificii De Bécdelievre al proministro delle armi di S. S.

«A dodici miglia da Monterotondo a Corese, distaccamenti nemici, di cui il numero variava dai 50 ai 200 uomini, si erano appostati in un’osteria, situata all estremo confine della Provincia di Rieti. Questi si erano impadroniti del ponte e della strada di Terni, situati per intiero, 1 uno e l’altro, nel territorio della Comarca. La gendarmeria pontificia, da un’altra osteria, che trovasi al di qua del ponte,

mi faceva apprendere tutt’i giorni che i piemontesi dall’osteria vicina non cessavano di tender loro degli agguati, di eccitarli alla diserzione, di offrir loro danaro e di spandere pel paese la voce eh’ essi andavano quanto prima ad occupare militarmente, in nome del Piemonte, l’intera Provincia. In presenza di questo sistema di corruzione in faccia dell’armata pontificia e di minaccia contro la quiete del paese, ha dovuto il posto piemontese esser tolto.

«Il giorno 24 inviai il capitano di Chillaz a fare ricognizione, e durante ch'esso osservava la posizione, gli uomini del posto facevano pompa di cantare canzoni rivoluzionarie contro il Papa e i soldati della sua armata, che trattavano da assassini e da briganti.

«Il 25 a mezza notte sono partito senza strepito alla testa del mio battaglione; i miei uomini hanno eseguito rapidamente, con un silenzio ed un ordine perfetto, una marcia, che li ha condotti, verso 3 ore del mattino, in vista del posto piemontese. Li ho divisi in due colonne (la prima comandata dal capitano di Chillaz), e li ho lanciati al passo su l’osteria. Le sentinelle hanno fatto fuoco, ma gli uomini del posto non hanno avuto il tempo di riconoscersi e di organizzare una difesa, che avrebbe potuto, stante la posizione che occupavano, causarci molto male. Si sono limitati a tirare alcuni colpi di fucile, ma sono stati rapidamente disarmali. Un di loro è stato ucciso, cinque feriti, e tutto il resto fatto prigioniero. Durante questo tempo io faceva circondare la casa da una compagnia spiegata in tiragliatori e tagliare il telegrafo. Noi ci siamo impossessati di tutta la corrispondenza, che ho fatto immediatamente trasmettere a V. E., di parecchi chilometri di filo telegrafico,

e d un numero d’armi molto più considerevole di quello de soldati, che abbiamo trovati al posto. Una parte degli uomini del distaccamento piemontese passava, secondo quanto m’è stato detto, dentro una casa vicina, o nel mezzo ai campi, e così poterono sottrarsi.

» Quest’affare terminato, io mi sono immediatamente ripiegato sopra I’ osteria situata nella Comarca, limitandomi a far guardare la strada ed il ponte.

» Alle 8 del mattino, il sig. capitano di artiglieria, Dandier, è giunto con una batteria di montagna, e quasi nel medesimo tempo, il sig. colonnello Blumensthil d’artiglieria. Il sottointendente Ferri ed un uffiziale d’amministrazione mi recavano, con un battello a vapore, i viveri per la mia colonna, delle palle, delle zappe, delle tavole, dei pali, e tutti gli altri oggetti necessarii per fortificarmi. Ne ho immediatamente profittato per metterci in istato di difesa, in caso di avvenimento, e fare delle feritoie nella nostra osteria.

» Ho lasciato sul luogo due pezzi ed un distaccamento de’ miei uomini. Il resto è ritornato a Monterotondo, conducendo seco una spia, che io aveva fatto arrestare, e che s’era trovata portatrice di carte sospette. Le unisco a questo rapporto.

» I prigionieri, nel numero di 50, sono stati diretti a Roma. V. E. si rallegrerà meco pei riguardi di cui i medesimi sono stati l’oggetto, per parte dei miei uomini incaricati di condurli. Essi hanno ricevuto da loro del danaro, degli effetti di abbigliamento, e si mostravano assai meravigliati di non essere maltrattati.

A loro dire, sarebbero stati arrotati per forza in Toscana, e, secondo le notizie che han date, sarebbero organizzati nel modo il più deplorabile.

» A Monterotondo, il ritorno de' miei uomini ha prodotto il miglior effetto sulla popolazione; la città è stata illuminata.

» Tal è monsignore, il rapporto esatto e dettagliato degli avvenimenti di ieri.

» Non credo di essere uscito dal mio programma di moderazione e vigilanza armata, nell’occupare, nella Comarca, e confine della Provincia di Rieti, derubala l’anno scorso al sovrano Pontefice, in onta a tutte le leggi dell’onore militare, un posto nemico, ch'era per noi causa continua d’inquietezza, e che stabiliva, d’altronde, un'avanguardia per una nuova invasione, ed è nella fiducia che V. £. sarà soddisfatta della riuscita di questo avvenimento, che attendo gli ulteriori ordini che vorrà comunicarmi.

» Avrò l'onore, monsignore, di rimettere a V. E., appena avrò potuto riunire i documenti necessari), uno stato degli uomini che si sono maggiormente distinti in questo affare.

Il tenente colonnello» BÉCDELIEVRE. »

I prigionieri fatti dagli zuavi pontificii erano in numero di 30 e vennero condotti a Roma. 11 maggior numero erano volontarii, fra cui qualche giovane di famiglia romana e due toscani. I più importanti soggetti fra’ prigionieri era un curiale romano, chiamato Petrucci, che, prima di fuggire da Roma, si occupava di affiggere proclami rivoluzionarli; un tale Fantini, maresciallo dei gendarmi pontifici, che pochi mesi prima aveva disertato dalla sua stazione di Tivoli, e alcuni soldati di finanza.

Santo Padre disapprovò apertamente la condotta di Bécdelievre e ne diede la prova. I soldati, come disertori, vennero tradotti in carcere e gli altri, per ordine di Sua Santità, furono vestiti di nuovo, perché laceri; i due toscani mandati a casa, e i restanti, in numero di trentasei, furono condotti a Ponterotto, luogo pegli esercizi! spirituali, affinché vi facessero un ritiro di tre giorni e poscia vennero posti in libertà.

XI.

Nel 27 gennaio, a Mirto, comune del collegio di Naso, nella provincia di Messina, mentre si procedeva alle elezioni, una banda di malvagi invase la sala elettorale e scannò il presidente del collegio ed i suoi figliuoli ch’erano presenti.

La guardia nazionale ed i carabinieri si misero tosto sulle tracce degli assassini.

XII.

In Banco, paese della Delegazione di Frosinone (1) essendo convenuto un corpo di militi napoletani, il quale era riuscito a procurarsi armi e munizioni, il Governo pontificio, per mezzo del conte Garpegna, comandante militare la forza di Veroli, erasi dato premura di far intimare a quel corpo di militi di sciogliersi e di andarsene disarmati, ma a questa intimazione si rifiutarono di aderire.

(1) Frosinone, città nello Stato pontificio, capoluogo della Delegazione di tal nome a 22 leghe S. E. da Roma, conta 5000 abitanti.

Quella città è posta sulla sommità di un monte formato a pan di zucchero e vi mette capo una sola via, quasi im impraticabile, e quindi è impossibile lo scendere a Banco con carri e carrozze e anche difficile con cavalli se non sono pratici. I napoletani si fortificarono quivi, quantunque il luogo fosse fortificato da sé medesimo, cosicché al moschetto possono supplire i sassi per tener lontani coloro che venissero ad assalire. Essi erano comandati da Chiavone e da un uffiziale francese nomato Christen.

I piemontesi tentarono di snidare da quel luogo i napoletani, e per ciò con circa 2000 uomini con cavalleria e sei pezzi di artiglieria, partiti la notte del 27 al 28 gennaio dal l'isola di Sora, territorio del Regno, vennero sull’alba del 28 a circondare Banco, e circa le 8 ant. di quel giorno lo attaccarono con fuoco vivissimo di artiglieria e di moschetteria.

Gli assediati risposero gagliardamente, cagionando coi sassi e colla moschetteria gravi perdite ai piemontesi, che erano molto esposti, di morti e di feriti, parte dei quali vennero trasportati all’ospitale di Monte S. Giovanni.

Mentre continuava l’attacco, un’altra grossa colonna di piemontesi, del corpo del generale Sonnaz, si presentò a Ceprano, borgata nella legazione ed a 3 leghe S. E. da Frosinone, domandando di passare per correre in soccorso della colonna, che stava sotto Banco. 11 governatore di Ceprano protestò contro la violazione di territorio, ma il comandante piemontese dichiarò eh’ egli non aveva nessuna intenzione ostile, che rispettava le Autorità pontificie e solo chiedeva di passare per recarsi a Banco. Si accordarono, e la colonna piemontese, proveniente da S. Germano, passò senza recare il minimo disturbo a Ceprano.

A Banco intanto continuava il combattimento e non cessò se non dopo sette ore.

I piemontesi, veduta l’inutilità della loro artiglieria e l’impossibilità quindi di snidare i napoletani, si ritirarono, avendo fatto, in proporzione, gravi perdite, che ascendevano a 200 uomini fuori di combattimento, fra cui quattro ufficiali.

La partenza dei piemontesi avvenne dopo un abboccamento del comandante piemontese con due ufficiali dell’esercito francese di occupazione.

Il capo dei napoletani diede ad un messo del comandandante pontificio della piazza di Veroli l’assicurazione che Banco sarebbesi da loro sgombrato nella notte medesima.

XIII.

Nel 2 febbraio di sera la via di Toledo a Napoli era popolata di pattuglie, locché sembrava stranissimo, dominando nella città un’assoluta calma.

Nel 3 spargevasi la notizia che il Governo avesse scoperta una congiura borbonica. Proponevansi i congiurati di suscitare un falso allarme per trucidare le guardie nazionali, le quali, per l’adempimento del proprio dovere, fossero uscite dalle abitazioni, recandosi ai posti. Così doveva cominciare la strage.

Il governo procedè al alcuni arresti. Un siciliano, chiamato de Angelis, venne scoperto in un albergo e imprigionato. Egli, mutata l'acconciatura della barba erasi ivi rifugialo in compagnia di due altri. Rilevò fatti importantissimi.

V’era un deposito d’armi e di uniformi di guardia nazionale. Si voleva vestirne ed armarne soldati dello sciolto esercito borbonico onde si confondessero colle vere guardie nazionali e succedesse un massacro.

XIV.

A quest'epoca, nuovi corpi di partigiani si formavano nell'Abruzzo Ulteriore.

Tre battaglioni di bersaglieri partirono per Aquila nella notte del 2 al 3.

Le truppe piemontesi erano numerose in quelle Provincie, ma il rigore della stagione rendeva le operazioni difficili ed impediva loro di penetrare nell'interno della montagna.

XV.

Nella sera del 6 febbraio accadde un tentativo di reazione a S. Giovanni di Teduccio.

Varii individui in quel Comune, armati di revolver e di fucili, verso mezz'ora di notte, percorsero le strade gridando: Viva Francesco II; indi ammazzarono il negoziante Jesu.

La guardia nazionale, subito riunitasi, li disperse a colpi di fucile; alcuni rimasero uccisi, altri vennero arrestati.

XVI.

Alla mattina del 6, due colonne di 200 reazionarii l’una, che, disperse nell’Ascolano, si erano riunite ne’ vicini monti del Teramano, calarono dai loro dirupi per prendere alle spalle il cordone di blocco piemontese di Civitella.

Dato il segno d'allarme, i piemontesi si disponevano a difendere le due posizioni attaccate di Ripa e Rocca S. Nicola. Dopo qualche resistenza, i reazionarii dovettero prendere la fuga, perché, mentre dalla posizione di S. Nicola venivano circondati da una compagnia di linea e da un pelottone di bersaglieri, dall’altra posizione di Ripa venivano respinti da due compagnie del 27.° e così andavano a dare tra due fuochi.

A S. Nicola i reazionarii lasciarono due morti e sette prigionieri, con sei bestie da soma. Alla Ripa lasciarono 12 morti ed alcuni prigionieri. Da parte dei piemontesi non ebbe luogo alcuna perdita.

Tra’ prigionieri si trovò il comandante le due colonne. Questo capitano era un ricco contadino della Valle Castellana. Vestiva da montanaro, al par de’ suoi compagni. Ferito in una gamba, non potè più fuggire, né i suoi ebbero agio di trasportarlo, quantunque dovessero conoscere l’importanza della loro perdita. Gli si trovò addosso una lunga e completa corrispondenza col capitano dei gendarmi che slava nel forte. Da questa corrispondenza si rilevò che il tentativo dei reazionarii aveva per iscopo di aprirsi il varco per approvvigionare il forte stesso. Tra' morti, si ritrovarono due gendarmi napoletani e due fra' prigionieri. Questi gendarmi, approfittando delle tenebre, erano usciti dal forte, la notte avanti, e si erano messi, quali guide, alla testa delle colonne. Durante tutta la giornata il forte non si fece sentire, ma, allorquando cominciò l'attacco, da parte de' reazionarii, si distingueva la truppa schierata ai parapetti, la quale attendeva forse il buon esito de' suoi compagni per fare una sortita.

Alla sera tutto era silenzio, quando due giovani uffiziali piemontesi di avamposti al convento Santa Maria, con ardito coraggio, si avanzarono fin presso al forte ed appiccarono il fuoco ad un ammasso di paglia dove, di quando in quando, i borbonici venivano a far foraggio di notte tempo. Al destarsi di quel vivo fuoco, fu spaventoso l’allarme di quella fortezza e nel paese. Grida, suoni a stormo e fiaccole, come se fosse il momento dell’estrema difesa. Cominciarono a tirar di cannone, ma poco dopo si persuasero di osservare in pace l'incendio della paglia, che durò fino a mattina.

XVII.

Una colonna d’insorti tentava, ai primi di febbraio, congiungersi colla guarnigione di Civitella del Tronto. I piemontesi senza indugio si posero in cammino da Ascoli, ed a marce forzate, rese ancor più disastrose da quelle alpestri posizioni, arrivarono a piedi del forte, appena in tempo di impedire la congiunzione di quella colonna colla guarnigione.

Nello scontro avuto cogl’insorti, questi lasciarono nelle mani dei piemontesi 9 prigionieri e 4 feriti, tra i quali la moglie del capo degl’insorti e 12 mule cariche di viveri destinati al presidio di Civitella.

I giorni susseguenti furono dai piemontesi impiegati ad esplorare le montagne del primo Abruzzo Ulteriore, perché credevano che fossero infestate da altre bande, ma le loro ricerche li persuasero che non ne esistevano più.

Nel giorno 10 i piemontesi entrarono nel borgo di Campii, ove riposarono tre giorni, dopo i quali ripartirono per le via dei monti, alla volta di Teramo.

All'alba del dì vegnente un esploratore essendo venuto ad avvertirli che alcune colonne d’insorti movevano alla volta di Teramo, senza frapporre indugio, i piemontesi batterono la raccolta e, radunate tutte le forze, di cui potevano disporre, aumentate da un battaglione di garibaldini, che da qualche tempo presidiava quella città, in numero circa di 1000 uomini, andarono ad incontrare quelle colonne.

Il primo giorno passò senza incidenti e poterono riposarsi in Ginepro. Alla mattina, appena fu giorno, ricevettero diverse fucilate che li avvertirono della vicinanza del nemico.

Proseguirono risoluti la loro strada e fecero sosta in una valle, chiamata, per la sua tetra apparenza, la della morte, ove incontrarono il grosso degl’insorti.

Gl’insorti, dopo mezz’ora di fuoco, si diedero a precipitosa fuga, lasciando 19 prigionieri, la maggior parte gendarmi napoletani, 15 morti o feriti.

Una compagnia de’ piemontesi ebbe un ferito; la sesta n’ ebbe 5, dei quali uno poscia morì; i garibaldini perdettero pure 7 ad 8 dei loro, ed il 9.° battaglione bersaglieri ebbe morto l’ufficiale Certani e 2 soldati feriti.

XVIII.

Alla posizione di Mola di Razzano gli zuavi pontificii, invadendo il territorio piemontese, avevano preso possesso di un terreno alla sinistra del Tevere.

I piemontesi giunsero il 10 febbraio, circa le ore 6 in Montopoli e circa le 10 partirono pel luogo destinato. Erano alla sinistra 60 zuavi ed alla destra 140 fra zuavi e carabinieri. I piemontesi si mossero nella stessa notte onde sorprenderli, attaccandoli alla baionetta, ed impadronirsi di due spingarde che gli zuavi avevano tenute sempre alla sinistra. I piemontesi furono loro sopra alla distanza di 30 metri circa, ma le spingarde non v’erano più. L'avamposto fece una scarica ed i piemontesi risposero con altra scarica alla direzione dell'avamposto e di un lume.

Gli zuavi risposero con una moschetteria continuata, ed il capitano Giuseppe Albertini, colpito da una palla che gli traforò il cappotto, arrotolato sul petto, e gli usci dai reni.

Morto l’Albertini, i piemontesi si scagliarono di nuovo sugli zuavi, li scacciarono dal terreno da loro occupato, e distrussero ogni mezzo di passaggio che queglino avevano sul fiume.

I piemontesi non ebbero altri morti né feriti. Gli zuavi ebbero tre morti e sette feriti.


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XIX.

Certo Lareter, maggiore e garibaldino francese, verso la metà di febbraio scopri una trama, di cui egli faceva parte.

Parecchi tra gli uffiziali stranieri, che. seguivano Garibaldi per desiderio di guadagno, o più per bisogno di rimestare ed agitarsi, erano pronti a sorgere, nella speranza di restaurare nella parte meridionale della penisola il governo di Murat.

Gl'ufficiali del passato governo borbonico e gl’impiegati destituiti avevano accettato volentieri un partito, che dava loro il destro di vendicarsi de’ loro nemici, e riacquistare la perduta autorità.

Un certo medico svizzero, certo Waytland, andava attorno arrolando, corrispondendo per lettere e missive segrete co’ capi, spargendo armi e danari. I documenti, che caddero in mano della polizia, erano gravissimi. Si diceva inoltre che un celebre scrittore francese forniva armi agli arrolati (1).

Terribile e vasta era la trama. Le sue fila estendevansi per le Provincie ed in Sicilia, e furtivamente sbarcavansi arme sulle coste della Calabria e del Salernitano. Alte rivelazioni furono fatte alla polizia e la cospirazione fu sventata.

(1) A. Dumas scrisse nel suo giornale l'Indipendente quanto segue:

«Il Nazionale annuncia che una congiura murattiana è stata scoperta; che diecimila giovani erano arrolati e che un celebre scrittore francese teneva corrispondenza e somministrava le armi.

«Il nostro confratello avrebbe dovuto, non foss'altro che per carità, porre le iniziali del nome di questo scrittore.

«Noi abbiamo qui assai amici e nemici, perché ei sia applicato, malgrado la sua assurdità, l'epiteto di celebre. Credo quia absurdum.

«Conosciamo in Francia un solo scrittore che possa far parte di una congiura murattista, ed è il sig. De Bel...; solo egli è uno scrittore si, ma non un celebre scrittore.

«Il sig. De Bel..., ligio per tutta la sua vita alla famiglia imperiale di Francia, è stato, per lungo tempo, segretario particolare della regina Ortensia. Egli ha fatto molte odi in onore di Napoleone III, e colla collaborazione di Soumet, una tragedia ohe aveva un aspetto poetico assai magistrale. Una queste odi ba particolarmente eccitato uno scoppio di risa che ba risonato per tutta la capitale. Aveva per soggetto il fuoco artifiziale delle Tuileries e terminava con questo verso: Le vrai seu d’artifice c’est d’étre magnanime. La tragedia aveva per soggetto la Morte d'Agrippina.

«Il sig. De Bel...., secondo che ne siamo assicurati, è venuto a Napoli e vi è rimasto due giorni.

La forte giacitura del Castello di Collalto, sito nel circondario di Rieti, già fondo de' Barberini, e la solida cinta delle sue mura, consigliò a’ pochi abitanti la difesa contro gl’insorti, che ai 13 febbraio da ogni parte l’assalsero.

Gl'insorti, da principio validamente respinti, tornarono più forti all'assalto, e dopo tre ore di eroica difesa i colaltesi dovettero cedere, mancati gli esterni aiuti, non avendo potuto penetrare nel castello, e stremate le poche munizioni di guerra.

I vincitori, forti di oltre 1500 uomini, entrarono in Collalto con muli e cavalli per trasportare in salvo la preda, e Collalto, paese di 700 e più anime, fu abbandonato ad un generale saccheggio.

Gl'insorti, murate le porte del forte castello, e ricevuti dalla parte di Poggio Ginolfo rinforzi d'armi, armati e munizioni, attendevano a fortificarsi con barricate e controcinte.

In appresso Christen, Chiavone, Luverà, e Giorgi, che avevano occupato Collalto, ebbero ordine di ritirarsi in Arzoli. Parie di essi ha obbedito e parte no. Questi ultimi presero la via d’Oricola; gli altri passarono per Tivoli, dirigendosi nuovamente a Roma.

XX.

Il conte Coétlogon, comandante le forze militari napoletane negli Abruzzi, diresse al comandante delle forze piemontesi la seguente lettera in data 22 febbraio, con cui egli annunzia la sua ritirata:

«S. M. il Re, mio glorioso sovrano, per evitare una effusione di sangue, che le circostanze hanno resa inutile, mi ha ordinato di abbandonare gli Abruzzi e di partire immediatamente da Oricola.

» Non è senza dolore che io eseguisco quest'ordine, poiché i prodi, che io comandava, volevano, ancora una volta, mostrare ai vostri soldati come si difende la causa di un re legittimo ed italiano. Domani all’alba, voi gli avreste trovati pronti a sostenere l’assalto, decisi a combattere sino all’ultima ora. Mi è doloroso il far loro sgombrare il posto, ove si erano allineati in battaglia per difendere il territorio del loro principe, divenuto l'oggetto della simpatia di tutta l’£uropa civile. Ma essi non perdettero ciò non ostante la speranza di riprendere le armi; essi sanno pienamente che il giorno del trionfo della verità e della giustizia non è molto lontano, e che Dio riserba gloria a quelli, che combattono in nome suo. Allora noi accorreremo sul campo di battaglia per cacciarvi tutti negli abissi dell’empietà, dai quali siete usciti.

» Qui sotto troverete i nomi dei generali ed uffiziali, che per due mesi hanno combattuto sempre vittoriosamente sul suolo degli Abruzzi, in mezzo a privazioni e sagrifizii, rari nella storia militare, contro la prepotenza e la tirannia piemontese. Confrontate questi nomi con quelli, che vanno ogni giorno pel cammino della rivoluzione, spandendo racconti di assassinii, di brigantaggi, di rapine commesse dai nostri, poi lasciate il giudizio alla posterità.

«Oricola 22 febbraio 1861.

«Il comandante la colonna, conte di Coétlogon; Ciccarelli, colonnello;  Rochette, colonnello; Guerrieri, maggiore; Piccolo, capitano; Amarosso, capitano; Saracelli, capitano; Caracciolo, luogotenente, aiutante maggiore; Stenaur, Falletaz, Lumlev Woedyear, Lumley Woedvear Henry, Montgermah, luogotenenti; Loeguillon, Stefano Lumley Voedvear, di Villiers de l’Isle, Bacquas, Tribant, marchese di Carbonel sottoluogotenenti. »

XXI.

Il Governo piemontese nel 22 febbraio ricevette dispacci da Rieti, i quali gli annunziavano una nuova violazione del suo territorio per parte dei reazionarii.

Questi reazionarii erano comandati da un legittimista francese e venivano dagli Stati romani.

Essi vennero respinti nel territorio pontificio.

Appena ricevuti questi dispacci, si radunò il consiglio de’ ministri. La seduta durò lungo tempo e fu animatissima. Vennero messi in discussione partiti assai energici, ed uno di questi fu adottato.

CAPITOLO VIGESIMOSECONDO

Resa di Gaeta

I.

Abbiamo veduto al capitolo vigesimo, n. XIX che dopo lo scoppio del magazzino di polvere, il quale rovesciò il bastione Transilvania, vennero a Gaeta riprese le trattative per la resa della piazza. Ecco il testo della stabilita capitolazione:

«Dalla villa Caposelle in Castello di Gaeta, il 13 febb. 1861.

» Art. 1. La piazza di Gaeta; il suo armamento cpmple to, bandiere, magazzini a polvere, vestiario, viveri, equipaggi, cavalli di truppa, navi, imbarcazioni, ed in generale, tutti gli oggetti di spettanza del Governo, sieno militari che civili, saranno consegnati, all’uscita della guarnigione, alle truppe di S. M. Vittorio Emanuele.

» Art. % Domattina, alle ore 7, saranno consegnate alle truppe suddette, le porte e poterne della città dal lato di terra, non che le opere di fortificazione attinenti a quelle porte, cioè dalla cittadella inchiusa sino alla batteria Transilvania, ed inoltre Torre Orlando.

» Art. 3. Tutta la guarnigione della piazza, compresi gl’impiegati militari ivi rinchiusi, usciranno cogli onori della guerra.

» Art. 4. Le truppe componenti la guarnigione usciranno colle bandiere, armi e bagagli. Questi, dopo aver reso gli onori militari, deporranno le armi e le bandiere sull’istmo,

ad eccezione degli uffiziali, che conserveranno le loro armi, i loro cavalli bardali, e tutto ciò che loro appartiene, e sono facoltati altresì a ritenere presso di loro i trabanti rispettivi.

» Art. 5. Usciranno, per le prime, le truppe straniere, le altre in seguito, secondo il loro ordine di battaglia, colla sinistra m testa.

» Art 6. L'uscita della guarnigione dalla piazza, si farà per la porta di terra, al cominciare dal giorno 15 corrente, alle ore 8 del mattino in modo da essere terminata alle A pomeridiane.

» Art. 7. Gli ammalati e feriti ed il personale sanitario deglf ospitali, rimarranno nella piazza; tutti gli altri militari od impiegati, che rimanessero nella piazza senza motivo legittimo e senza apposita autorizzazione, dopo l’ora prestabilita dall’articolo precedente, saranno considerati come disertori di guerra.

» Art. 8. Tutte le truppe componenti la guarnigione di Gaeta, rimarranno prigioniere di guerra finché non siasi resa la cittadella di Messina e la fortezza di Civitella del Tronto.

» Art. 9. Dopo la resa di quelle due fortezze, le truppe componenti la guarnigione, saranno rese alla libertà. Tuttavia, i militari stranieri, dopo la prigionia, non potranno soffermarsi nel Regno, e saranno trasportati ne’ rispettivi paesi. Assumeranno inoltre l’obbligo di non servire per un anno contro il Governo, a partire dalla data della presente capitolazione.

» Art. IO. A tutti gli uffiziali ed impiegati militari nazionali capitolati, sono accordati due mesi di paga, considerati in tempo di pace.

» Questi stessi uffiziali avranno due mesi di tempo, a partire dalla data in cui furono messi in libertà, o prima, se Io vogliono, per dichiarare se intendono prendere servizio nell’esercito nazionale od essere ritirati; oppure rimanere sciolti da ogni servizio militare. A quelli che intendono servire nell’esercito nazionale, o essere ritirati, saranno, come agli altri ufficiali del già esercito napoletano, applicate le norme del R. decreto, dato in Napoli il 28 novembre 1860.

» Art. 11. Gli individui di truppa, ossia di bassa forza, dopo terminata la prigionia di guerra, otterranno il loro congedo assoluto, se hanno compiuta la loro ferma, ossia il loro impegno. A quelli che non l'avessero compiuta, sarà concesso un congedo di due mesi, dopo il qual termine, potranno essere richiamati sotto le armi. A tutti indistintamente, dopo la prigionia, saranno dati due mesi di paga, ossia di pane e prestito per ripatriare.

» Art. 12. I sott’uffiziali e caporali nazionali che. volessero continuare a servire nell'esercito nazionale, saranno accettati coi loro gradi, purché abbiano le idoneità richieste.

i» Art. 15. È accordato agli ufficiali, sottuffiziali e soldati esteri, provenienti dagli antichi cinque corpi svizzeri, quanto hanno diritto per le antiche capitolazioni e decreti posteriori fino al 7 settembre 1860. Agli uffiziali, sott’uffiziali e soldati esteri, che hanno preso servizio dopo l’agosto 1859 nei nuovi corpi e che non facevano parte dei vecchi, è concesso quanto i decreti di formazione, sempre anteriori al 7 settembre 1860, loro accordano.

» Art. 14. Tutti i vecchi, gli storpi o mutilati militari, qualunque essi siano, senza tener conto della nazionalità, saranno accolti nei depositi degli invalidi militari, qualora non preferissero ritirarsi in famiglia col sussidio quotidiano, a norma dei Regolamenti del già Regno delle Due Sicilie.

» Art. 15. A tutti gl'impiegati civili, sì napoletani che siciliani, racchiusi in Gaeta, ed appartenenti ai rami amministrativo e giudiziario, è confermato il diritto al ritiro che potrebbero reclamare, corrispondente al grado che avevano al 7 settembre 1860.

» Art. 16. Saranno provvedute di mezzi di trasporto tutte quelle famiglie dei militari esistenti in Gaeta, che volessero uscire dalla fortezza.

» Art. 17. Saranno conservate agli uffiziali ritirati, che sono nella piazza, le rispettive pensioni, qualora sieno conformi ai regolamenti.

» Art. 18. Alle vedove ed agli orfani dei militari di Gaeta, saranno conservate le pensioni che in atto tengono, e riconosciuto il diritto per dimandare tali pensioni pel tratto avvenire, ai termini della legge.

» Art. 19. Tutti gli abitanti di Gaeta non saranno molestati nelle persone e proprietà, per le opinioni passate.

» Art. 20. Le famiglie dei militari di Gaeta che trovansi nella piazza, sono poste sotto la protezione dell’esercito del Re Vittorio Emanuele.

» Art. 21. Ai militari nazionali di Gaeta, che, per motivi di alta convenienza, uscissero dallo Stato, saranno pure applicate le disposizioni contenute negli articoli antecedenti.

» Art. 22. Resta convenuto che, dopo la firma della presente capitolazione, non dee restare nella piazza nessuna mina carica; ove se ne trovassero, la presente capitolazione sarebbe nulla, e la guarnigione considerata come resa a discrezione.

» Uguale conseguenza avrebbe luogo, ove si trovassero le armi distrutte a bella posta, nonché le munizioni, salvo che l’Autorità della piazza consegnasse i colpevoli, i quali saranno immediatamente fucilati.

» Art. 25. Sarà nominata, d'ambe le parti, una commissione, composta di un uffiziale di artiglieria, di uno del genio, di uno della marina, di uno d'intendenza militare, ossia commissario di guerra, col personale necessario per la consegna della piazza.

» Per l'armata sarda:

» Il capo di stato maggiore colonnello,

Piola Caselli.

» Il luogotenente generale comandante

superiore del genio, L. F. Menabrea.

«Visto, ratificato ed appiccato, il generale

armato, comandante le truppe d'assedio,

» Cialdini.

» Per la piazza di Gaeta:

» tenente, capo dello stato maggiore,

Delli Franci.

» Il generale della real marina,

Gobuti Pasca.

» Il generale, capo di stato,

Francesco Amonelli.

Visto, ratificato ed approvato, il Governatore

della piazza di Gaeta,

» Francesco Milon, tenente generale.»

Alla cittadella di Messina ed a Civitella del Tronto, le due ultime fortezze, che rimanevano in potere de’ borbonici, venne significata la resa di Gaeta.

La corvetta francese la Mouette andò a Gaeta per imbarcare il Re e la famiglia reale.

Ecco l'ordine del giorno con cui Francesco II si separò dalle sue truppe:

«Gaeta 14 febbraio 1861.

» Generali, ufficiali è soldati dell’armata di Gaeta!

» La fortuna della guerra ci separa dopo cinque mesi, nei quali abbiamo sofferto per la indipendenza della patria, dividendo gli stessi pericoli, le stesse privazioni; è giunto per me il momento di metter termine ai vostri eroici sacrifizii. Era divenuta impossibile la resistenza, e se il mio desiderio da soldati) era per difendere, coi né voi, l'ultimo baluardo della monarchia, fino a cadere sotto le mura crollanti di Gaeta, il mio dovere di Re, il mio dovere di padre, mi comandava oggi di risparmiare un sangue generoso, la cui effusione, nelle circostanze attuali, non sarebbe che ultima manifestazione di un inutile eroismo. Per voi, miei cari fidi compagni d'arme, per pensare al vostro avvenire, per le considerazioni che meritano la vostra lealtà, la vostra costanza, la vostra bravura, per voi rinunzio all’ambizione militare di respingere gli ultimi assalti di un nemico, che non avrebbe presa la piazza difesa da tali soldati, senza seminare di morti il suo cammino.

» Militi dell armata di Gaeta, da dieci mesi combattete con impareggiabile coraggio. Il tradimento interno, l’attacco di bande rivoluzionarie straniere, l’aggressione di una Potenza, che si credeva amica, niente ha potuto domare la vostra bravura, stancare la vostra costanza. In mezzo alle sofferenze di ogni genere, traversaste i campi di battaglia, affrontando i tradimenti, più terribili che il ferro ed il piombo. Siete venuti a Capila ed a Gaeta, seguendo il vostro eroismo sulle rive del Volturno e sulle sponde del Garigliano, sfidando per tre mesi dentro a queste mura gli sforzi di un nemico, che disponeva di tutte le risorse d'Italia. Grazie a voi, è salvo l’onore dell’armata delle Due Sicilie; grazie a voi, può alzare la testa con orgoglio il vostro sovrano, e sulla terra d’esilio in che aspetterà la giustizia del cielo, la memoria dell’eroica lealtà de’ suoi soldati sarà la più dolce consolazione delle sue sventure!

» Una medaglia speciale vi sarà distribuita per ricordare l’assedio, e quando ritorneranno i miei cari soldati nel seno delle loro famiglie, tutti gli uomini d’onore chineranno la testa al loro passo, e le madri mostreranno come esempio ai figli i bravi difensori di Gaeta.

» Generali, uffiziali e soldati, vi ringrazio tutti; a tutti stringo la mano, con effusione di affetto e di riconoscenza. Non vi dico addio, ma a rivederci. Conservatemi intanto la vostra lealtà, come vi conserverò la sua gratitudine e la sua affezione il vostro Re. »

» Francesco. »

Francesco II s’imbarcò all’alba del 14. Cialdini spedì immantinente un battaglione di bersaglieri a prender possesso delle porte.

L’aspetto dei militi componenti la guarnigione era tristo, ma essi non erano emaciati quanto si supponeva. Mandavano un puzzo cadaverico, disgustevole per le esalazioni putride, di cui i loro abiti erano saturati.

Il Re Francesco II, prima di partire, prese l’impegno morale di far pervenire al comandante di Messina e di Civitella del Tronto la notizia degli ultimi fatti di Gaeta, invitandoli a cedere alla forza ed a rassegnarsi alla mala fortuna.

II.

L’aspetto della città era orribile. Non vi era casa dalla parte di terra, che non fosse in ruina, e que’ mucchi di sassi e frammenti di case che ingombrano le vie, erano sparsi di scheggie di bombe e pezzi di mitraglia con grandissima profusione. Il fetore, poi, che esalavano le ruine, era tale che non si poteva tollerare.

Il palazzo reale aveva il tetto sfondato, e fino nella casamatta regia qualche palla si fece strada. La bellissima chiesa di S. Francesco di Paola fu colpita da sette bombe; però la bella e colossale statua della Fede, ch'è in cima alla scalinata dell’ingresso, sebbene colpita da una bomba, che ruppe un pezzo della cornice del piedestallo, non fu né rovesciata, né offesa. Nella piazza si passeggiava sul ferro, e le strade, tutte ingombrate di rottami e di macerie delle case percosse é rovinate dalle palle di cannone e dallo scoppio delle bombe, erano in tale stato che difficilmente si poteva camminare.

La miseria degli abitanti era tale da far ribrezzo. Fin l’aspetto dei muli e dei cavalli era orribile; quelle povere bestie non erano che carcami o scheletri, giacché si potevano contar loro tutte le costole, tutti senza coda, né crini al collo, avendoseli rosi l’un l'altro per fame.


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III.

La mattina del 15, in ordine di battaglia, con le bande, tamburi e trombe alla testa, sulla spianata così detta di Montesecco, sfilarono innanzi alla brigata Regina i borbonici, deponendo le armi, innanzi al generale Casanova. Ad uno, ad uno, i varii corpi venivano noverati e denominati dal generale Ritucci, già comandante della piazza, il quale, seguito dal suo stato maggiore, ed a piedi, era allato del Casanova. Luridi, cenciosi, macilenti, ma pure non isbaldanziti, i soldati borbonici piegavano ed abbassavano le loro bandiere, deponevano le loro armi, con certa aria di non curanza.

La guarnigione di Gaeta ammontava a circa 11, 000 nomini. Nella piazza erano 800 cannoni, de' quali 460 in servizio; 230 nella fronte di terra e 230 nella fronte di mare; 9 piccoli cannoni rigati di campagna, e una batteria di 12 cannoni rigati da 12 (1).

(1) Il colonnello di Rivera era riuscito a rigare 4 obici d 80 e alcuni cannoni da 12, ma i proietti mancavano. Non se ne poteva fondere che 30 al giorno, e a far questo mancava il ferro. Si raccoglievano quindi le palle e scheggia nemiche per fonderle.

IV

Agli agenti diplomatici delle Due Sicilie venne inviato Il seguente proclama per annunziar loro la capitolazione di Gaeta:

«Signore,

» Le ragioni che indussero alla capitolazione di Gaeta, furono in parte politiche in parte militari.

» Fra le ragioni politiche, si dee porre l’ostilità sistematiche dell'Inghilterra, la risoluzione altamente manifestata dall Imperatore de' Francesi, di mantenere il principio del non intervento; finalmente l’inazione delle Potenze: ra «gioni che non lasciavano alcuna speranza di pronto soccorso.

» Quanto alla questione militare, la piazza aveva orribilmente sofferto pel bombardamento prolungato; il tifo assottigliava la guarnigione; Vartiglieria nemica era superiore a quella della piazza; due brecce erano aperte dall"esplosione delle polveriere (esplosione alla quale il tradimento non era stato estraneo); e mentre i mezzi d'attacco, di cui disponevano gli assedianti, aumentavano in proporzione considerevole, i mezzi della piazza diminuivano ad ogni giorno.

» In codeste congiunture, quando la difesa non avrebbe potuto essere prolungata se non di qualche giorno, e a prezzo de' più gravi sacrificii, il Re credette di dover operare più come sovrano e come padre, che come generale, risparmiandogli ultimi orrori dell’assedio a truppe, pronte a versare sin l’ultima goccia dei loro sangue per adempiere al loro dovere di sudditi e soldati.

» Ma i fatti, che, da parte de' piemontesi, accompagnarono le negoziazioni, hanno un carattere, che importa additare. Il generale Cialdini ricusò di sospendere le ostilità durante le negoziazioni. Per tre giorni egli coperse la piazza di bombe e di granate. Tutte le condizioni erano già fermate; non mancava, a compimento della capitolazione, se non la trascrizione del testo di quel lungo documento e le formalità della sottoscrizione: e le batterie piemontesi spargevano ancora la morte a Gaeta, e l'esplosione di un'altra polveriera seppelliva sotto le rovine ufficiati e soldati.

» Vogliate aggradire, ec.

 Casella.

E nel 16 marzo il Governo di S. M. Francesco II diresse la seguente Nota ai soci rappresentanti presso le corti straniere:

«Roma, 16 febbraio 1861.

» Nel momento stesso, in cui la dolorosa risoluzione di lasciare Gaeta, fu presa, dopo un maturo esame, S. M. il Re vuol fare conoscere a tutt’i Gabinetti dell'Europa i motivi del suo contegno. E questo dovere ho l'onore di adempiere per ordine di S. M.

» L'esito, al quale si giunse, dopo gli sforzi più eroici, era facile a prevedersi, dal momento che le congiunture particolari delle grandi Potenze europee non permettevano, malgrado gl’iterati appelli del Governo del Re, di mettere un freno all'ambizione del Piemonte.

» Un sovrano, che si trovava circondato dalle più difficili emergenze, appena salito sol trono de’ suoi antenati, al quale, il tradimento, il raggiro, la rivoluzione, non davano il tempo di studiare la situazione del paese, era degno di qualche aiuto, e meritava, io credo, simpatie efficaci. £ quando questo sovrano era slealmente assalito, il giorno in cui concedeva una Costituzione e le più grandi guarentigie ai suoi sudditi, ei poteva credere di essere in diritto di fare un appello al tribunale delle grandi nazioni, che si costituirono pel bene comune arbitre del diritto pubblico e dell’equilibrio politico del mondo, in diverse contingenze, nelle quali si trovòl’Europa, cominciando dal 1815, ed in tempi relativamente antichi, del pari che in tempi più recenti.

a Che un sovrano non debba né chiedere né sperare nessun aiuto esterno nelle agitazioni puramente interne dei suoi popoli; che l'intervento straniero non possa venir ad assicurare alternatamente il trionfo della rivoluzione o dell’autorità; che si lascino, in una parola, i Governi ed i popoli liberi di modificare il reggimento politico del loro proprio paese, questa dottrina sembra poter essere ammessa come teorica generale da tutti, ed essere fondata sui principii di libertà, che regolano oggidì la politica dei grandi Stati del 1 Europa.

» Ma quando un monarca combatte lealmente per assicurare Pordine pubblico per l’indipendenza e per la libertà de’ suoi popoli, e’può almeno chiedere la garantia delle leggi comuni fra le nazioni le quali non permettono ad un altro Governo di violare il diritto pubblico, i trattati solenni, che formano l’unico legame, l’unica sicurezza della società politica dell'Europa.

Il Re delle Due Sicilie poteva credersi nella medesima condizione degli altri sovrani, ed aveva diritto contro l’aggressione esterna alla medesima protezione, che non domanderebbero invano la Porta ottomana, il viceré di Egitto e le reggenze barbaresche di Africa.

» E non basta dire, per negare la conseguenza di tal principio, che si tratta di una questione tra italiani. L’Italia, quale la storia, l'ha falla, quale l’Europa l’ha costituita, si compone di diversi stati con Governi indipendenti. I popoli, che si costituiscono, siano pur liberi di scegliere il loro Governo, siano essi liberi, se vuolsi, di spingere fino agli estremi suoi limiti la teorica della loro sovranità, di rinunziare all’indipendenza loro; ma non si può permettere, senza conculcare tutt'i principii, che que’ medesimi popoli siano invasi senza dichiarazione di guerra, sotto il preteste, d’unità e di libertà, lasciando una sola Potenza violar nella sua ambizione la legge comune delle nazioni.

» Il Re ha creduto che, s’era dover suo soddisfare le aspirazioni legittime de’ suoi popoli, e lottare contro la rivoluzione interna, ci poteva senza scrupolo appellarsi al tribunale europeo quando avventurieri d’ogni paese, rinnegati uffizialmente dal Governo di Sardegna, ma coperti della sua bandiera, traversavano a migliaia il Mediterraneo per far loro campo di battaglia il territorio delle Due Sicilie. Un esercito intero, una flotta, parchi di artiglieria, munizioni, tutt’i mezzi furono adoperati per ispargere la morte e la desolazione negli Stati di un sovrano pacifico, come nell’antichità barbara.

» Colto all’improvvista da tali avvenimenti, non trovando aiuto nella legge comune, il Re si ritirò, cogli avanzi del suo esercito fedele, dietro la riva del Volturno, per risparmiare alla sua capitale gli orrori di un bombardamento e per difendere i suoi diritti. Si vide in breve che le truppe regie erano sufficienti, non ostante la penuria dei loro mezzi, per riconquistare il Regno. Allora senza motivo e senza dichiarazione di guerra, violando la santità de’ trattati, il sovrano del Piemonte entrò alla testa del suo esercito ed occupò il territorio delle Due Sicilie, come un paese conquistato.

» Ad onta dei sospetti, che la politica sleale della Sardegna poteva inspirare da lungo tempo, il Re non poteva credere ch’ella fosse per osar tanto e che l’Europa fosse per tollerarlo. Attaccare un sovrano, ch’era in pace col mondo intero, che aveva offerto al Piemonte la sua alleanza ed aveva ancora a Torino i suoi rappresentanti per negoziarla, che aveva a Napoli un ministro di Sardegna, accreditato presso la sua persona; violare tutt’i trattati, calpestare tutte le leggi, distruggere a suo profitto il diritto pubblico, tutela e patrimonio di tutti, era un’enormità tale, che nessuno avrebbe potuto supporre, perché ogni nazione avrebbe interesse e dovere di punirla. Il Piemonte violava il diritto pubblico e specialmente l’impegno assunto a Parigi nel protocollo delti aprile 1856, giusta il quale la guerra non poteva succedere tra due Stati, che avessero accettato quella dichiarazione, senza sottoporsi prima alla mediazione degli altri. Questo era appunto il caso, in cui si trovavano Napoli ed il Piemonte.

Si comprende che S. M. non abbia potuto credere l’aggressione possibile, e che, poiché fu assalita, ella abbia potato e dovuto credere che le grandi Potenze d’Europa l'assisterebbero

» Così non fu.

(La Nota ricorda quali fossero i risultati dell'azione piemontese, che non si poteva prevedere; il Re costretto ad abbandonare le posizioni del Volturno e le difese sul Garigliano per la presenza della flotta sarda e quindi a ritirarsi a Gaeta, senza finanze, senza mezzi militari né amministrazioni, ha resistito per più di tre mesi. )

» Confidando nella giustizia della sua causa e nell interesse ben inteso degli altri sovrani, il Re affrontò i pericoli di un assedio, il quale, prolungato, poteva procacciargli aiuto nella politica de’ sovrani d’Europa. È noto il contegno magnanimo della Regina, del Re e dei due giovani principi napoletani, durante quella lotta disperata.

» Le congiunture politiche obbligarono infine l’Imperatore a ritirare la flotta da Gaeta. Il Re, senza illudersi sull’esito di una lotta ineguale, credette di non dover abbandonare una posizione, nella quale, come in altre, S. M. difendeva, non solamente la sua corona, ma l’indipendenza dei suoi popoli, il diritto pubblico e la legge, in virtù della quale i sovrani regnano e le nazioni sono indipendenti e rispettate. Senza tal legge non vi è più giustizia né sicurezza per alcuno; ed il Re è altero di aver sostenuto, per quanto le sue forze glielo hanno permesso, questa base della società.

(La Nota insiste nuovamente sulla ineguaglianza della lotta risultante dal fatto che il nemico si era impadronito del tesoro, degli arsenali, de' depositi di guerra e che in tal modo ei poteva rinnovare ed aumentare ogni giorno i suoi mezzi d offesa. )

» Contro soldati, del continuo rinnovati e aumentati noi non potevamo opporre altro che valorosi, sfaticati per le lotte sostenute sin dal mese d’agosto, da Palermo a Messina, da Messina alle Calabrie, dalle Calabrie al Volturno, dal Volturno al Garigliano, dal Garigliano a Mola, da Mola a Gaeta, esposti ai rigori della stagione, sdraiati per terra senza tende né coperte! E però, a’ danni procurati ad essi dal cannone del nemico, s’aggiunsero i danni delle malattie. 11 coraggio e la devozione non mancarono mai, in mezzo a così grandi sagrifìzii! Finché il Re ha sperato un soccorso, egli credette di dover continuare a difendere la causa della giustizia e quella de’ suoi popoli.

(La Noia dice che la Conferenza di Varsavia non fece sperare alcun risultato, e il discorso dell Imperatore non lasciò credere che la Francia potesse o volesse por limiti all ingrandimento del Piemonte. Il risultato delle elezioni fece trionfare la politica del conte Cavour, e, allontanando la guerra coll'Austria, diede al Governo di Torino il tempo di concentrare tutti suoi sforzi contro Gaeta, abbandonata a sè medesima, e contro il Re, convinto che la sua causa non era sostenuta da alcun principe regnante in Europa. La Nota dice inoltre che la superiorità dell artiglieria dava ai piemontesi il vantaggio di tirar al di sopra delle alture, che circondavano la piazza, e distruggerla senza correre alcun pericolo. La resistenza avrebbe continuato fino all'assalto definitivo senza due emergenti che l'hanno resa impossibile, cioè lo scoppio di due polveriere. )

La resistenza a’ mezzi di guerra diveniva impossibile, quando il tifo ci uccideva ogni giorno da 60 a 80 uomini: 1600 soldati erano alf ospitale. Una suora di carità era morta, 7 erano a letto; sole 7 erano sane. Nella casamatta del Re e della Regina, il tifo rapiva il duca di San grò ed il sig. Ferrari, luogotenente generale. Il Re convocò un consiglio di guerra composto dei generali e dei capi dell’esercito. La resa fu risoluta ad unanimità. La guarnigione rinnovò in quel momento orribile, il suo giuramento di devozione, cui ella non aveva mai pensato di mancare. 11 Re avrebbe preferito di cadere alla testa di quel pugno di prodi, i quali così alto levavano l’onore dell’esercito napoletano. Ma il cuore di un padre doveva limitare i sacrifizii de’ suoi figli, divenuti ormai senza utilità, senza speranza nessuna. S. M. autorizzò le negoziazioni per la resa. Saputa appena questa risoluzione, il nemico, anziché sospendere il fuoco, l’aumentò in modo straordinariamente barbaro, coprendo di bombe e di materie incendiarie una piazza, che chiedeva di capitolare.

» Era già stabilito l’accordo sulle basi della cessione, non mancando se non le formalità e la ratificazione; ma il fuoco continuava con una crudeltà senza esempio, da parte di una nazione riguardata come incivilita. Durante le ore della negoziazione, vi fu una carnificina di soldati e di famiglie, che non avevano più in nessuna parte un riparo.

» Mi permetto di fare una digressione, che vi prego di ben notare. In risposta alle osservazioni misurate, ma ferme, del generale Ritucci, il generale piemontese giustificò il suo contegno col dire che noi avevamo mancato alla promessa di non riparare la breccia durante l’ultimo armistizio. Tacciamo del linguaggio, almeno insolito, in un nemico fortunato: mettiamo in chiaro il fatto che ci si rimprovera.

(La Nota imprende a dimostrare la falsità accusa. )

» Il Re, desolato per doversi separare da’ suoi prodi, si imbarcò colla famiglia reale sulla corvetta francese la Mouette che l’imperatore Napoleone III lasciava nel porto di Napoli a disposizione di lui. Cortese previdenza ch’ebbero anche la regina di Spagna e l’imperatore di Russia, lasciando a Civitavecchia ed a Villafranca vascelli agli ordini di S. M.

» Alla partenza del Re e della sua famiglia, la guarnigione che faceva due ale sul suo passaggio, e la folla che seguiva le LL. MM., piangevano ed acclamavano con grida entusiastiche il loro giovine, bravo e sventurato sovrano.

» Giungendo in questa città, ove le LL. MM. ricevettero l’accoglienza più lusinghiera del Sommo Pontefice e da un immenso pubblico, il Re crede del suo dovere di far protestare ancora una volta, da parte sua ed in suo nome, contro la violenza, di cui egli è vittima, riserbando tuli’ i suoi diritti, e risoluto di appellarsi alla giustizia dell’Europa.

» S. M. non vuole minimamente provocare agitazioni nel Regno; ma quando i suoi fedeli sudditi, ingannati, traditi, oppressi, spogliati, alzeranno le loro braccia, mossi da un sentimento comune, contro l’oppressione, il Re non abbandonerà la loro causa. Per evitare tuttavia l’effusione del sangue e l’anarchia, che minaccia di ruinare la penisola italiana, S. M. crede che l’Europa, adunata in un Congresso, debba essere chiamata a decidere degli affari d'Italia.

» Il solo scopo della sua politica esterna sarà quind'innanzi di manifestare quest'idea e di adoperarsi alla sua attuazione.

» Quanto al sistema interno, le sue convinzioni non cangiarono. Le promesse del manifesto dell'8 dicembre continuano ad essere il suo programma unico ed invariabile.

» Casella. »

CAPITOLO VIGESIMOTERZO

Resa di Messina

I.

Nel corso di quest'opera abbiamo fatto qualche cenno sulla città e forte di Messina e sui combattimenti che colà avvennero prima della resa di Gaeta. Ora parleremo di ciò che avvenne in quella piazza dopo la resa di Gaeta.

Prima però d’entrare in argomento non sarà inopportuno che diamo un’idea storica e strategica di quella fortezza.

Il porto di Messina è naturalmente formato da un braccio di terra a fior d’acqua, che, movendo dal lato estremo di oriente e mezzogiorno, e spintosi a tramontana, volge, come da gomito piegato, verso ponente in figura di falce; donde veniva l'antichissimo nome della città. Il braccio, da un romito del secolo XI, prese nome di S. Riniero, e ripiegandosi appunto dinanzi al vortice di Carridi, e queste pericolose acque e le agitate dello Stretto serra repentinamente in un bacino, di meravigliosa bellezza e sicurezza, che il Porzio direbbe tassa d'ariento. In fondo, dal mezzodì, distendesi il piano di Terranova, e donde parte il braccio, a sirocco della città, s’innalza la cittadella.

Essa fu eretta dopo la guerra, che nel 167 bandì la sola Messina a tutta la monarchia di Spagna, e dopo varii casi, ridotta ad ultima estremità pei soccorsi che non solo la casa d'Austria diede a Carlo II ed ai paesi dell’Italia spagnuola,

ma per quelli principalmente venuti dalle altre città e dai baroni di Sicilia e del Reame di Napoli, datasi in braccio a Luigi XIV, fu tradita e barattata nella pace di Nimega per tutta la Franca Contea, Provincia da tanti anni dalla Francia agognata, non mai potuta torre stabilmente alla Spagna per forza d’armi; acquistata per trattato in permuta d’italiana città.

II tedesco Carlo di Norimberga, architetto di gran rinomanza nelle fortificazioni militari, studiati nella guerra di Fiandra i nuovi modi, detti recenti, dal Vauban introdotti nelle fortezze fiamminghe, e fatto dotto nei libri del Montecuccoli, elevò una piazza, che fu tra le più terribili d’Europa.

Corpo principale di essa è un pentagono, figura a quel sito soprammodo accomodata, da fossa e canali tutto ricinto e bastionato negli angoli, con ivi polveristi e cavalieri. Attorno ha molti corpi avanzati, rivelini e lunette, guardie e controguardie rasenti, da marittimi canali, ponti e saracinesche separati o congiunti: capace in tutto di 300 bocche o più; accresciuta di opere sempre più in appresso, e specialmente dal 1848 in qua, per batterie avanzate e a fior d'acqua dal lato del porto e altre opere regie. Costò allora la somma di scudi 679, 937, senza gli armamenti. Cominciala nel 1680, vi s’innaugurò il reale stendardo di Carlo al dì 4 novembre 1683.

Nel 1748 sostenne lungo assedio, ma contro gli spagnuoli, che n'ebbero gran travaglio, tenuta dagli austriaci. Nel 1848 bombardando ed incendiando la città intera, non sarebbe senza di lei caduta Messina in mano di Filangeri e suoi dieciottomila svizzeri e napoletani, e fu poco men che tutta la cagione della rovina della guerra siciliana.

II.

Il generale Chiabrera, comandante delle forze italiane in Sicilia, inviò nel 14 febbraio, al maresciallo Gennaro Fergola comandante la cittadella di Messina, una copia della capitolazione di Gaeta, con l'invito di rendere la cittadella, di cui era comandante e della cui reddizione dipendeva la libertà del corpo d’armata fatto prigioniero a Gaeta, come risulta dalla stessa capitolazione da noi superiormente esposta.

L'intimazione di resa recata al maresciallo Fergola dal capitano di stato maggiore Verani nel 14 febbraio, suonava così: «Signor maresciallo! Se sino al giorno d’oggi la di lei resistenza fu tollerata, d’ora innanzi sarebbe delitto. A nome di S. M. Vittorio Emanuele, Re d’Italia e della nazione, signor maresciallo, le intimo la resa.

Chiabrera. »

A questa intimazione il maresciallo Fergola rispose oralmente al capitano Verani, come segue: «Ella dica al signor comandante Chiabrera che io non mi credo autorizzato di cedere la fortezza; che io la considero affatto indipendente dalla caduta di Gaeta, e che sono deliberato di resistere fino all’ultima estremità. »

Reiterata la intimazione con altro foglio del 17 febbraio, lo stesso maresciallo Fergola inviò al generale Chiabrera la seguente risposta:

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«Real Cittadella, li 19 febbraio 1861.

«Signore.

» Prestando fiducia a quanto espone coi suoi distinti fogli del 14 e 17 corrente, circa la cessione di Gaeta, per l'infausto avvenimento della esplosione di diverse riserve a polvere, mi onoro di farle conoscere che non sono tenuto a cedere questa reai fortezza, non essendomi pervenuto niun ordine da S. M., nostro signore, a cui dovessi dar esecuzione. In conseguenza di che, sono nell’obbligo di manifestarle che, da militare d’onore, starò alla difesa della fortezza con tutta la guarnigione, che da me dipende, fino a che non saranno esauriti tutt’i mezzi di una valida ed onesta difesa.

» Il maresciallo di campo

» Gennaro Fergola. »


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III.

Dopo la risposta del comandante Fergola, il Governo piemontese mandò ordine al generale Cialdini d’imbarcare le truppe, artiglierie e materiali e di recarsi di sua presenza a dirigere l'assedio di quella cittadella. La regia squadra, agli ordini del generale Persa no, si recò pure nelle acque di Messina.

Dei vapori piemontesi, che da una settimana andavano e venivano, a trasporto di uomini e di materiali, parecchi in principio approdavano in porto, o molto vicino.

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Il  VittorioEmanuele, nel 28 febbraio, maestosamente entrò difilato sotto le batterie del forte San Salvatore e della cittadella e disbarcò gli artiglieri.

Allora il comandante Fergola dichiarò che il nemico aveva rotto l’armistizio, dando sospetti di approcci (gli approcci, secondo i patti del 25 luglio stabiliti tra il generate Clary ed il generale Medici, rompevano la tregua ), e quindi egli si credeva in diritto di usare tutt’i mezzi, non solo tirando contro i lavori militari, ma altresì sopra Messina. E a questa minaccia aggiunse il Fergola invito a tutt’i consoli e ai comandanti dei navigli stranieri di sgombrare il porto, e porre in salvo i legni e i sudditi loro. La mediazione dei consoli non valse.

Le ostilità, se così si possono chiamare poche cannonate dell'estremo fortilizio avanzato Don Blasco, rimaste a mezza via, cominciarono il dopo pranzo, primo marzo.

Qualunque fossero le fiere parole di Fergola, non si tirò sulla città, e si riteneva che non si tirasse, perché l’in timazione di Cialdini doveva fare un qualche effetto. Ecco il testo della lettera con cui questo generale rispondeva alla dichiarazione della rottura della tregua fatta dal Fergola:

«Generale,

» In risposta alla lettera, eh’ ella m’ha fatto l’onore di dirigermi quest’oggi, debbo dirle che il Re Vittorio Emanuele, essendo stato proclamato Re d’Italia dal Parlamento italiano, la di lei condotta sarà ormai considerata come aperta ribellione;

430

che per conseguenza non darò a lei né alla sua guarnigione capitolatone di sorta, e che dovranno arrendersi a discrezione; che s’ ella fa fuoco sulla città, farò fucilare, dopo la presa della cittadella, tanti uffiziali e soldati della guarnigione quante saranno state le vittime cagionate dal di lei fuoco sopra Messina; che i di lei beni e quelli degli uffiziali saranno confiscati per indennizzare i danni recali alle famiglie dei cittadini; e per ultimo che consegnerò lei e i suoi subordinati al popolo di Messina.

» Ho costume di tener parola, e senza esser accusato di iattanza, le prometto eh’ ella e i suoi saranno quanto prima nelle mie mani. Io non riconoscerò più nella S. V. ili. un militare, ma un vero assassino, e per tale lo terrà l’Europa intera.

VI.

Il primo marzo, divulgatasi per la città la risposta di Cialdini, gli abitanti compresero che si veniva al serio, e perciò moltissimi lasciarono la città.

Alle 5 pomeridiane il forte Don Blasco, come dicemmo, tirò cinque colpi a palla verso i lavori del campo. Il popolo si mise nell’attitudine d’aspettarsi subito il bombardamento. Donne, fanciulli, vecchi, ammalati (e alcuni uomini sani e robusti, per riguardo della loro famiglia e non per loro ) uscirono a migliaia in quella notte da Messina. Le cittadine, i carri, i somarelli, le barche si pagarono a prezzi esorbitanti.

I legni mercantili, uno dietro l’altro, passarono avanti il forte San Salvatore e fuori in mare. Il porto presentava un lugubre spettacolo.

Il porto di Messina senza una barca mercantile, senza un legno, chi lo aveva veduto?

V.

Nel giorno 2 arrivarono altri battaglioni di bersaglieri ed altri legni da guerra piemontesi. I trasporti erano ritardati dal mare burrascoso.

Persano era fuori di tiro verso Paradisi.

La cittadella fece diversi tiri a palla ed a granata contro i vapori piemontesi, che passavano per portarsi al campo.

Il comandante Fergola ordinò alle due fregate americana ed inglese di uscire dal porto. Nel 3 arrivarono tre vascelli ed un vapore inglesi. Ciò avvenne perché il comandante della fregata inglese, quando sentì l'intimazione di uscire dal porto, telegrafò all’ammiraglio a Napoli ed ebbe in risposta di starsi fermo, ed ecco l'indomani arrivare l’ammiraglio in persona con tre grossi vascelli ed un vapore (1).

In questo giorno 3 giunsero a Messina altri legni piemontesi.

VI.

Nel giorno 6 alle undici antimeridiane molti colpi di cannone fecero correre la gioventù al mare, credendo che fosse una solita traveggiata del comandante Fergola, ma si avvide che furono lanciati dalla comandante dei piemontesi, in onore dell’ammiraglio che vi saliva.

(1) Sul meriggio del 3, la flotta inglese del contrammiraglio Mundy, proveniente da Napoli, passò lo Stretto, e, aiutata dai legni della flotta italiana, fece alto di fronte alla fregata che batteva bandiera del vice ammiraglio Persano.

Il contrammiraglio inglese resi gli onori alla bandiera italiana, si portò a complimentare l'ammiraglio Persano, il quale a sua volta contraccambiò tal atto di gentilezza, accompagnando il sig. Mundy al proprio vascello.

La flotta inglese proseguì alla volta di Malta.

Alle 5 fu dichiarata il blocco. Nel tempo stesso entrava in porto un vapore con bandiera prussiana. Esso, ignaro della intimazione del blocco, chiamato due volte all'obbedienza della comandante piemontese, gittò in mare una lancia, che si avviò allo sbarcatoio. In quell’istante, sui bastioni del Salvatore e della cittadella, comparvero a mille i borbonici, facendo segnali alla lancia., nell’atto che ivi staccavasi una lancia per andarle incontro. Parve racchiudersi un tranello, e perciò una bombardiera piemontese, di guardia al porto, si scagliò addosso, e, fatta ritirare la borbonica, trasse prigioniera la lancia prussiana. La guardia nazionale si assicurò del capitano, che già si era messo a terra (1).

Nella cittadella micce accese, artiglieri in attenzione, soldati in movimento, recando plichi quinci e quindi, quasi volessero incutere timore; e dopo tutto questo affaccendarsi, silenzio.

VII.

Al campo si lavorava con incredibile alacrità, quantunque la pioggia, se aveva lasciato la sua imperversante impetuosità, non avesse cessato del tutto. E incredibile con quanta vigilanza, con qual accorgimento e bello studio si andassero compiendo le opere piemontesi.

Il 7 una bandiera bianca partì dalla cittadella. Parlamentarli recavansi a bordo della comandante piemontese, ove convennero anche i varii consoli.

(1) Il legno prussiano, entrato in porto, era mercantile ed armato a guerra per garantire i proprii naturali. Si riconobbe che il capitano e ì marinari erano innocenti d’ogni broglio o segreta relazione colla cittadella, laonde furono rilasciati al loro console.

Ivi, dopo breve colloquio, che a quanto sembra, versava sulla venuta del legno prussiano, i parlamentarii ritornavano in cittadella.

VIII.

Ai 9 un parlamentario piemontese recò alla cittadella diversi dispacci, che il comandante la stazione militare francese pregò di far consegnare al maresciallo Fergola. Con questa occasione il parlamentario fece osservare al generale De Martino, comandante la cittadella, quanto fosse inutile la resistenza, e lo assicurava che Europa intera, non che disapprovarla, la condannava.

Questo consiglio non fu ascoltato. Per tutta risposta, il generale De Martino disse al parlamentario piemontese, di avere spedito al generale Cialdini un' intimazione di cessare i lavori d’approccio, mentre, in caso contrario, all’una pomeridiana avrebbe principiato il fuoco. La risposta del generale Cialdini a tale intimazione fu, tirasse pure il Fergola sopra i lavori ed anche. sulla città, ma si ricordasse della sua lettera.

Dopo di che, un capitano di artiglieria si recò alle batterie piemontesi, perché gli artiglieri stessero sull’avviso. Alle 2 e 25 minuti soltanto la cittadella aprì il fuoco, dirigendo i colpi al Noviziato, a’ Gemelli ed alla Contessa, luogo di sbarco.

Il Noviziato è posto sopra un' altura, parallelamente al bastione di cinta della città, che guarda al sud. È un vasto fabbricato a forma di convento, che prima del 1845 era occupato da’ gesuiti.

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Sul piazzale era eretta una bellissima batteria di nove cannoni da 16 rigati. Sopra un’altura sparsa di oli veti, cosi detta la Carrubara, ma più precisamente i Gemelli, sorgeva una formidabile batteria di venti cannoni da 40. Questa posizione è quasi al livello del Noviziato, ma dista verso mezzogiorno da questo, di 160 a 200 metri.

Sulla pianura, dove sbocca in mare la fiumana Zujera, precisamente al Cimitero, venne costrutta una batteria di dodici mortai da 27.

In fondo alla strada detta la Maddalena e quasi sulla spiaggia del mare, vi erano altre due batterie, una di tre cannoni da 16 rigati e l’altra di quattro da 40 lisci. All’estremità del gran piazzale, detto Terranuova, verso porta di città, quasi a trecento metri dalla cittadella, venne eretta una batteria di tre pezzi da 40 lisci.

A trecento metri da questa batteria, si piazzarono dietro due case tre mortai da 16, dai quali appena si scorgeva l’estremità del bastione D. Blasco al sud.

Questi erano lavori quasi improvvisati.

I colpi diretti alla Contessa arrivavano appena a due terzi, cioè a 2600 metri circa.

Le opere del Noviziato e dei Gemelli, ch’erano le sole visibili dalla cittadella, non soffersero alcun danno dai proietti nemici, che in gran parte scoppiarono in aria.

Nel giorno 9 i piemontesi perdettero un artigliere ed un soldato per lo scoppio d’una granata, ed ebbero cinque feriti, tra i quali un borghese.

Una bomba cadde vicino al piazzale del Duomo e sprofondò una casa. Essa era in direzione delle batterie d’approccio.

La popolazione si manteneva dignitosa e tranquilla e pareva si desse poco pensiero de’ pericoli a cui la esponeva il cannoneggiamento.

IX.

Nel giorno 10 marzo Francesco II diresse al generale Fergola la seguente lettera:

«Al governatore della piazza in Messina.

» L’onore dell'armata napoletana essendo stato salvo per l’eroica difesa di Gaeta e per la condotta della guarnigione di Messina, io credo inutile di prolungare la resistenza di questa cittadella, resistenza che potrebbe causare dei gravi danni alla città e sagrificare la vita della guarnigione fedele, che sostiene con tanta costanza da questa parte del Faro il vessillo reale. Animato dal medesimo sentimento, che mi fece sospendere il bombardamento di Palermo e lasciar Napoli, io credo che sia mio dovere di preservare a qualunque costo il mercato della Sicilia.

» In quanto a voi, generale Fergola, che avete dato un così nobile esempio d’affezione, di fermezza e di coraggio,  io vi confido la cura di fissare col nemico le condizioni della resa. Fate in modo eh’ essa sia onorevole e vantaggiosa per la guarnigione.

» lo voglio conservare il sangue de’ miei soldati; ma voglio, nello stesso tempo, salvare il loro onore ed assicurare il loro avvenire.

» Francesco. »

X.

Alle ore undici antimeridiane del giorno 1 1 un parlamentario, uscito dalla cittadella, chiese di comunicare col vapore postale delle Messaggierie, il che gli fu negato, in forza del blocco.

Il Fergola frattanto scriveva al generale Cialdini dicendo di trovarsi costretto a tirare sul Noviziato, quantunque temesse che il colpo potesse far danno alla città. Il generale Cialdini rispose al Fergola con una lettera piena di cortesia e ben diversa dalla prima.

La cittadella continuava a tirare, con poco successo però. 1 lavori d’approccio procedevano con mirabile speditezza. Pertanto il generale Cialdini concertavasi coll'ammiraglio Persano per dare l'attacco all’indomani. In fatto si videro diverse fregate lasciare l'ancoraggio delle Grotte e passare al sud della cittadella. Successe una generale emigrazione nella popolazione.

XI.

La flotta italiana si dispose in ordine di battaglia il giorno 12. Il generale Cialdini diede l'ordine di attacco generale per mezzogiorno, non sì tosto fu sonata l'ora indicata, tutte le batterie vomitarono un fuoco d’inferno nella cittadella.

Un furioso vento di maestrale allontanò i legni della flotta dal luogo di destinazione, e tanto era violento che le macchine a vapore non potevano vincerlo.

La pirofregata Maria Adelaide fu la sola a sormontare il furioso elemento, e, spintasi prima a duemila, quindi a mila metri dalla cittadella, per più di tre ore e mezzo fulminò la piazza.

L’ estremità del sud del bastione D. Blasco rispose alcuni colpi alle batterie di terra, ma, presa di fianco da una batteria di cannoni a poca distanza, i quali tiravano a mitraglia, venne in brev’ora abbandonata.

La batteria a casamatta della Lanterna traeva contro la fregata, e la cortina a cavaliere della cittadella cercava di ribattere i colpi del Noviziato o delle batterie Gemelli; ma i tiri delle batterie piemontesi erano tali che presto i borbonici fuggirono dai pezzi e non fecero più fuoco.

Sul finire dell’azione la fregata Vittorio Emanuele giunse in tempo di tirare alcuni colpi. Ma dalla cittadella più non si rispondeva e si scorgeva un gagliardo incendio, che divampava. Lo scoppio di un deposito di granate pose fine alla difesa della piazza, e verso le ore 5 pomeridiane si videro in tre punti inalberarsi bandiere bianche. Allora, tanto in terra quanto in mare fu dato il segno di cessare il fuoco.

In fatti il maresciallo Fergola spedì uu parlamentario a chiedere 24 ore di tregua. Cialdini rispose che alle 10 avrebbe ripigliato il fuoco. Tornato vano questo tentativo, i borbonici deposero le armi e recarono l’atto di resa alle 9 di notte al generale Chiabrera, rendendosi a discrezione.

Ecco il bollettino del 15 marzo spedito dal generale Cialdini al ministro della guerra sulla resa di questa piazza.

«La cittadella si è resa a discrezione. Dopo aver sofferto durante quattro giorni, il fuoco del nemico, oggi a mezzogiorno ho aperto il fuoco delle mie batterie, di cui due erano a 400 metri dalla piazza. La nostra artiglieria fu ammirabile, il suo fuoco efficacissimo. Noi abbiamo fatto scoppiare varii depositi di granate cariche e prodotto un vasto incendio.

» Alle ore 5 la cittadella inalberò bandiera bianca. Alle ore 6 rifiutai ogni capitolazione, concedendo tre ore a riflettere. Alle 9 di sera tutta la guarnigione si è resa a discrezione. La flotta ha fatto due ore di fuoco.

» Sono nostri prigionieri cinque generali, 150 uffiziali, da 4 a 5 mila uomini e 309 cannoni; tutto ciò approssimativamente. »

XII.

Le ulteriori condizioni che il generale Cialdini impose ai vinti furono le seguenti:

La cittadella è resa a discrezione e consegnata nello stato, in cui si trova, alle truppe di S. M. Vittorio Emanuele, Re d’Italia, che ne prenderanno possesso.

I generali ed uffiziali tutti verranno mandati a Napoli, con un mese di paga, ed il Governo s’incaricherà di scegliere quelli, che potranno far parte dell’armata.

Un consiglio di guerra esaminerà se gli uffiziali, messi agli arresti, siano colpevoli di qualche reato, e, nel caso affermativo, deciderà sulla pena da infligger loro.

S. M., sempre proclive al bene, e secondando il suo generoso animo, Ordina che siano tutti rispettati.  

I soldati, che non hanno tuttora compito i cinque anni di ferma, seguiteranno a servire nell'armata. Gli altri andranno a casa loro con un mese di paga e due mesi di permesso; al primo appello verranno chiamati sotto le armi.

CAPITOLO VIGESIMOQUARTO

Resa di Civitella di Tronto

I.

Nel corso di quest'opera abbiamo fatto qualche cenno sulla fortezza di Civitella del Tronto e sui combattimenti che colà avvennero prima della resa di Gaeta. Ora parleremo di ciò che avvenne in quella piazza dopo la resa di Gaeta.

Anche qui, come riguardo alla resa di Messina, prima di entrare in argomento daremo un’idea strategica della fortezza di Civitella del Tronto.

Civitella del Tronto siede sur una collina sul fondo del Salinello, ad una grande altezza, ed è circondata da occidente a settentrione da questo fiume. L’inclinazione dei pendìi, che succedono dal forte al fondo del fiume è all’ovest di 50 e l’altra di settentrione forse di 60.° Dal lato meridionale, i pendìi sono a 45. circa. Al piede del forte, sul pendio meridionale, è posta la città, che discende in anfiteatro per 250 metri circa, ed è circondata da mura alte 7 ad 8 metri e costrutta in pietra trevertina.

Il forte, eh’ è sopra una rupe, domina la città ad un’altezza considerevole, ma in guisa che la mitraglia, passando oltre i tetti delle case, batte a breve distanza innanzi alle mure il pendio del monte e lo spazza sino al fondo della valle, ove scorre un piccolo rigagnolo confluente del Salinello.

La rupe, sulla quale è il forte, è stretta ed allungata da oriente ad occidente, e la cinta della città, che si unisce ad essa, verso i due estremi, la sopravanza dal lato orientale solamente, formando un angolo rientrante col forte, ove trovasi la porta principale della città, che però guarda una profonda e larga vallata al nord. L'angolo di questa cinta è occupato da una chiusa in solida muratura.

Il terreno, innanzi a questo lato orientale, è una stretta cresta, che discende dal forte, per rialzarsi in un culmine, ove trovasi il monastero di Santa Maria, a 500 metri circa dalla città ed alquanto ad essa sottoposto. Da questo punto, continua a sinistra una cresta alta allo stesso livello di Santa Maria e parallela al lato orientale della città per un 300 metri; indi s’innalza un altro culmine più elevato di dove si divide in due serie di alture, che vanno, una perpendicolarmente indietro verso Ponzano, mentre l'altra circuisce il forte dal lato meridionale, e va a bagnare a S. Nicola il suo piede a Saline Ilo superiormente a Civitella. Però Santa Maria è il punto più vicino alla città; gli altri culmini di quest’ultima serie di alture si allontanano di più. Fra queste alture e la città giace la valle di quel rigagnolo, confluente del Salinello, detto più sopra essere al piede del pendio meridionale di Civitella.

I mezzi di difesa della piazza sono: 20 cannoni ed obici, quasi tutti da 32 e da 16 centimetri, più migliaia di granate a mano, ed inoltre il forte, meno il lato che guarda la città, è coronato da grosse pietre, che, lanciate, vanno per li pendii a rotolare rapidamente sino alle sottoposte valli.

Le batterie d’assedio dovettero essere costrutte alla destra e sinistra del monastero di S. Maria, la prima di 6 obici, la seconda di 7 mortai.

Altre due batterie vennero costruite sui due culmini alla sinistra di quello di S. Maria, a 400 metri circa di distanza l'una dall’altra, la prima di 3 obici, 1 ultima di 3 cannoni. Per accrescere il fuoco, furono collocati due cannoni Stanhophe accanto alla batteria di mezzo.

Per condurre i pezzi in batteria s’è dovuto costruire la strada da Borano a S. Maria, e da questo punto al Salinello riattarla quasi a nuovo.

Eran chiusi in Civitella 300 gendarmi, 100 guardie urbane ed un altro centinaio di contrabbandieri e di briganti propriamente detti.

II.

Appena il generale Mezzacapo, cui, venne affidato l’assedio di Civitella, arrivò a Ponzano, mandò il suo capo di stato maggiore, col tenente colonnello Pallavicini, come parlamentarii al forte di Civitella, offrendo agli assediati i patti stessi che furono accordati alla guarnigione di Gaeta. Ma nulla si potè concludere.

Quando il piccolo parco d’assedio, che il ministro della guerra fece spedire da Ancona per battere Civitella del Tronto, arrivò a destinazione, ed i lavori di batteria furono preparati, i piemontesi furono in caso di aprire il fuoco contro quel forte.

Oltre al parco d’assedio d’Ancona gli assedianti avevano otto pezzi c|i montagna da 13, due pezzi da 4 a trascino, quattro pezzi da 4 rigati, sistema Cavalli, e quattro pezzi da 8.

Le truppe che stanziavano colà, erano le brigate Ravenna, il 27.° e 30.° di linea e quattro battaglioni di bersaglieri.

Si fecero trasportare con sommo stento sulle erte cime, che attorniano la fortezza, circa venti bocche da fuoco di vario calibro, e postele in batteria, si aperse il fuoco.

Civitella rispose con grande energia avendo gli assediati pezzi di grosso calibro. 11 fuoco durò tutto il giorno, né cessò pure la notte.


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III.

Correvano voci che fra i rinchiusi nella fortezza fossero sorti gravi disordini; epperò il generale Mezzacapo, stimando bene di valersi di questa supposta, ma probabile circostanza, che sembrava dover esser stata aggravata dalla specie di bombardamento fattosi nel giorno, dispose che nel giorno successivo di buonissima ora tre colonne movessero a tentare l’assalto contro le tre porte principali e scalare le mura.

I difensori ne avevano certamente avuto sentore, poiché, come le truppe piemontesi, superando un'ardua salita di 46 a 60 gradi di inclinazione, giunsero a tiro, vennero accolte da un tremendo fuoco di mitraglia e di fucile. Per lo che, dopo un’ora e mezza di pertinaci, ma vani sforzi, vedendo di non poter per ora far frutto, i piemontesi si ritirarono in perfettissimo ordine e con poche perdite: la qual cosa si’ deve ascrivere all’impeto con cui si fecero innanzi e si spinsero sotto le mura, che li ripararono dai tiri diretti dall’atto in basso.

Frattanto si spinsero i lavori d’approccio fino a 300 metri dalla cinta.

IV.

Il generale napoletano La Rocca, che faceva parte del seguito di Francesco II a Roma, partì da Ascoli per Civitella, accompagnato dal suo capo di stato maggiore e da due ufficiali di ordinanza. Era latore al comandante della cittadella di un plico suggellato di Francesco II, che conteneva l’ordine di resa della fortezza.

Erano quattro giorni che si faceva un fuoco vivissimo. La piazza di Civitella inalberò bandiera bianca nella mattina del giorno 20 marzo. Essa si arrese a discrezione.

L’eiTetto dei fuochi piemontesi era spaventevole. La città sofferse gravissimi danni, ed il forte non restò che un ammasso di rottami.

La guarnigione fu tradotta prigioniera ad Ascoli ed i malfattori vennero arrestati.

V.

Resa Civitella del Tronto, il direttore generale del ministero della guerra in Napoli pubblicò il seguente avviso in data 20 marzo con cui dichiara cessata la prigionia della guarnigione di Gaeta:

«Col giorno d’oggi cessa la prigionia di guerra per tutti i militari ed impiegati componenti il presidio di Gaeta all’epoca della resa.

» Da pari data decorreranno i due mesi di congedo portati dagli articoli 10 ed 11 della capitolazione.

» È fatta facoltà agli individui di truppa, ossia bassa forza, chiamati sotto le armi, cioè appartenenti alle leve 1857, 1858, 1859, 1860, sia per levata che per cambio od ingaggio, che non volessero fruire del congedo, di prendere immediatamente servigio, e saranno loro dati egualmente i due mesi di paga.

» Al 20 di maggio scadrà pure la licenza dei capitolati, già lasciati partire in congedo per le loro case, ed a tale epoca, tutti quelli fra essi delle leve chiamate, dovranno essere presentati al deposito generale di reclutamento, per obbedire al disposto del R. Decreto del 20 dicembre 1860, mentre quelli compresi nelle leve anteriori, potranno continuare a rimanere alle case loro.

» In questo frattempo, gli uffiziali capitolati di Gaeta dovranno dichiarare se intendono prendere servizio all’eser cito nazionale, od essere ritirati.

» Chi non avrà fatta tale dichiarazione prima del 21 maggio, sarà considerato come dimesso volontariamente.

» Napoli, 20 marzo 1861.

» Pel ministro,

Il Direttore generale G. Revel. »

FINE DEL VOLUME SECONDO.

INDICE

DELLE MATERIE DEL SECONDO VOLUME

PARTE PRIMA

Dall'ingresso di Garibaldi in Napoli fino a quello delle truppe piemontesi nel napoletano.

CAPITOLO PRIMO

Il  Re Francesco II istituisce il suo ministero a Gaeta. Suoi armamenti. Protesta del Governo napoletano presso le Corti estere. Regio ordine del giorno ai militi che occupano la cittadella di Messina.
IComposizione del ministero napoletano istituito da Francesco II in Gaetapag. 5
IIStato dell'armata napoletana ai primi di novembre. — Capua e Gaeta sono poste in serio stato di difesa. — Il maresciallo Salzano comanda a Capua. — Si emanano decreti che mettono in istato d’assedio le Provincie, nelle quali è impegnata la lotta. — Proclama di Francesco II alla sua armata ivi
IITesto della comunicazione del ministro segretario di stato degli affari esteri Francesco Casella a tutti i rappresentanti delle corti estere accreditate presso S. M. il re di Napoli in data 16 settembre7
IVOrdine del giorno 14 settembre del re Francesco II da Gaeta ai soldati che trovansi nella cittadella di Messina 11

CAPITOLO SECONDO

Fatti d'armi di Santa Maria. Presa di —Occupazione del forte Sant'Elmo. Ricognizione intorno a Capua e combattimento.

Partono da Santa Maria parecchie compagnie di bersaglieri per far isloggiare i regii dalle posizioni prese attorno il paese. — Viene sforzata la posizione di S. Angelo e i regii fuggono a Capua pag. 13
II. Pescara si arrende senza capitolazione. La piazza è ricca di ogni maniera di provvigioni ivi
III.Composizione della guarnigione del forte Sant'Elmo, ch'era ammutinata. — Mezzo adoperato da Garibaldi per farsi consegnare il forte. —11 popolo sale sulla spianata del castello e vi pianta la bandiera di Savoia. — Esce dal forte il rimanente de’ soldati, che domandano di raggiungere il resto del loro corpo a Capua. — Materiali trovati nel forte. — Decreto del generale Tiirr per la demolizione del forte 14
IV.Truppa raccolta a Capua e bocche da fuoco. Gli avamposti sono scaglionati sino a Gaeta. — Sono tolte tutte le scale ed i ponti da Triflisco e Pietramala. — Garibaldi va a carponi fin sotto le mura di Capua. — Scaramucce tra le truppe di Garibaldi e gli avamposti regii. — Ricognizione fuori di Capua. — Una frazione della sezione comandata da Tiirr agli avamposti di Santa Maria viene attaccata dai regii, che si ritirano in iscompiglio; e ciò avvenuto, i regii avanzano un grosso corpo di fanteria, che pure riparò sotto le mura di Capua in rotta ed in fuga. — Anche gli avamposti di San Leucio ebbero uno scontro di ricognizione, ed i regii, che occupavano la riva destra del Volturno, si ritirarono cedendo all’impeto de’ volontarii. 15

CAPITOLO TERZO

Fatti di Caiazzo. Memorandum di S. M. Francesco


CAPITOLO QUARTO

Dissidii tra il ministro Cavour ed il generale Garibaldi


Caiazzo. — I regii, dalla parte di Santa Maria, combattevano dalle mura ed i garibaldini alla scoperta. In breve i cannonieri de garibaldini restano uccisi. I soldati portano sulle spalle i cannoni sotto l’incessante mitraglia dei forti. — In questo esce dal forte la cavalleria de’ dragoni, ma viene respinta. — Quei militi che varcarono il Volturno, occupano Caiazzo e respingono i regii che tentano cacciarli. — Garibaldi sta sempre ov’è maggiore il pericolo 17
II.I garibaldini in poco numero occupano Caiazzo, ma essendo la posizione pericolosa, domandano rinforzi, che non vengono loro spediti. — Una colonna di regii di 8, 000 uomini esce da Capua e si dirige verso Caiazzo. — I garibaldini escono dalla città e vanno incontro al nemico, e si appicca una mischia eh’ è una vera carnificina. — I garibaldini, non potendo resistere a forze sì straordinariamente superiori, si ritirano in città, ma entrati in questa vengono accolti dai contadini a colpi di fucile, di falci ed ascie, e quindi si trovano tra due fuochi. — Imperterriti, i garibaldini erigono barricate, che vengono tosto sfondate e la città si trova innondata dai regii. Succede una carnificina. — Finalmente i garibaldini cedono e si disperdono. — Numero de’ garibaldini messi fuori di combattimento. — I regii vogliono che i garibaldini gridino Viva il, ma questi rispondono Viva l’Italia e vengono immediatamente fucilati. — Perdite de’ regii. — I regii, ripresa Caiazzo, furono in istato di poter minacciare. 18
III.Testo del Memorandum del ministro degli affari esteri di S. M. Francesco II ai rappresentanti delle Corti estere, in data 25 settembre 20
I. Come parlassero i pubblici fogli di un antagonismo tra Cavour e Garibaldi 24
II. Da quali fonti si possono trarre informazioni sopra tali dissidii. Se i periodici si ingannassero sopra le conseguenze di tali dissidii. 26

CAPITOLO QUINTO

Annessionisti.
I. Garibaldi opina che la Sicilia non debba ancora votare sulla sua annessione al Regno di Piemonte. — Ragioni cui egli si appoggia. — Maneggi dei faccendieri annessionisti. 27
II. A Palermo s'inducono i cittadini a firmar petizioni per un’immediata annessione. — Modalità contraddittorie di queste petizioni. — Il Governo fa chiedere a Garibaldi il permesso di far votare immediatamente l'annessione, ma il dittatore dà una risposta negativa. — I segretarii di Stato, rimasti, al potere, tentano nuovamente di persuadere Garibaldi all’annessione.

—La notizia che Garibaldi è in Napoli fa perdere la forza agli annessionisti.

ivi

CAPITOLO SESTO

Ministero e prodittatori di Napoli e di Sicilia.

I. Decreto di Garibaldi del 12 settembre che stabilisce il ministero di Napoli, i governatori delle Provincie, gli intendenti, e dichiara beni nazionali quelli della Casa reale, quelli riservati alla disposizione sovrana, quelli de' maggioraschi reali, dell’Ordine Costantiniano e quelli donati da reintegrare allo Stato. — Sirtori è prodittatore di Napoli. 29
II. Quali persone vengono nominate al ministero di Sicilia. — Mordini è prodittatore di Sicilia. 30

CAPITOLO SETTIMO

Il ministero di Napoli si dimette. Nuovo ministero.

I. Abusi del segretario generale Bertani, per cui i ministri presentano la loro dimissione il 10 settembre. — Continuando gli abusi del segretario generale i ministri ridomandano la dimissione il 22 settembre. — Perdurando gli arbitrii del segretario, generale, que’ ministri, ai due indicati atti, ne aggiungono un terzo nel 25 settembre 32
II. Dimissioni accettate dal dittatore. — Nomi delle persone componenti il nuovo ministero. 39

CAPITOLO OTTAVO

Ingresso delle truppe piemontesi nel Napoletano.

Manifesto del Re Vittorio Emanuele ai popoli.

I. Viene domandato a Garibaldi come riceverebbe le truppe sarde

se entrassero nel territorio napoletano. — Risposta di Garibaldi.

— Un ordine del giorno di Garibaldi annunzia l’entrata dei piemontesi.

41
II. Nel 9 ottobre le truppe piemontesi entrano nel territorio napoletano. Il Re Vittorio Emanuele parte da Ancona per la stessa direzione. — Manifesto di S. M., che nel giorno della sua partenza da Ancona 9 ottobre, diresse ai popoli dell’Italia meridionale e che spiega la sua politica. 45

CAPITOLO NONO

Note ministeriali ai rappresentanti accreditati presso S. M. Francesco II. sull'ingresso dell armata piemontese nel napoletano e sulla confisca dei beni della Casa reale.
I. Nota del ministro della guerra napoletano incaricato del ministero degli esteri in data 5 ottobre, a’ rappresentanti esteri accreditali presso S. M. il re di Napoli, in seguito all'arrivo dell’armata piemontese. 52
II.Nota dello stesso ministro della guerra, incaricato del ministero degli esteri, in data 5 ottobre ai rappresentanti di S. M. il re di Napoli all’estero sulla confisca dei beni della Casa reale. 54

CAPITOLO DECIMO

Il barone Winspeare annunzia al conte Cavour la sua partenza da Torino Risposta del conte Cavour. Arrolamento di volontarii per S. M. Francesco II.

I. Il ministro di Napoli, barone Winspeare. inviato dal suo Governo presso il ministro piemontese conte Cavour, annunzia in una sua lettera diretta a questo ministro, che abbandonava Torino.
Testo della lettera 7 ottobre.59
II. Risposta del conte Cavour al barone Winspeare. 62
III. Nel giorno 8 ottobre viene emanato in Sangermano un'ordinanza di Francesco II con cui si apre un arrotamento di volontari! 63
PARTE SECONDA

Dall’Ingresso delle troppe piemontesi nel napoletano sino alla resa di Capua.

CAPITOLO PRIMO

I garibaldini occupano il forte di Baia. Il forte di Messina ripiglia il fuoco.
I. I. Guarnigione del forte di Baia : il suo comandante ha pure il comando eventuale di Pozzuoli. — Un maggiore de’ garibaldini significa al comandante ch'egli venne a prender la consegna del forte; il comandante dà una risposta negativa. — Ragioni per cui si preferì di assediare il forte anziché assalirlo.—11 comandante di Baia intima ai garibaldini, che lo assediavano, d’allontanarsi, e, prima che sia spirato il tempo per la risposta, il forte fa fuoco. — La guarnigione, protetta dall’artiglieria, fa una sortita. — 1 garibaldini, eh’ erano in numero di 60, si ritirano. — Il forte si arrende a discrezione , ed i prigionieri s’imbarcano per Genova 67
II.  La città di Messina è vessata da continui all’armi. — La cittadella manda granate in città. — I consoli inglese e francese si abboccano col generai Fergola, comandante della fortezza. — In questo abboccamento si conviene di richiamare in vigore il trattato 28 luglio stabilito fra il generale Medici ed il maresciallo Clary, ma nella notte il forte fa tuonare di bel nuovo il cannone. — Spiegazione di questo fatto.... I. Guarnigione del forte di Baia: il suo comandante ha pure il comando eventuale di Pozzuoli. — Un maggiore de’ garibaldini significa al comandante eh’ egli venne a prender la consegna del forte; il comandante dà una risposta negativa. — Ragioni per cui si preferì di assediare il forte anziché assalirlo. —Il comandante di Baia intima ai garibaldini, che lo assediavano, d’allontanarsi, e, prima che sia spirato il tempo per la risposta, il forte fa fuoco. — La guarnigione, protetta dall’artiglieria, fa una sortita. — I garibaldini, ch’ erano in numero di 60, si ritirano. — Il forte si arrende a discrezione, ed i prigionieri s’imbarcano per Genova. 69
III. Un vapore francese giunge a Gaeta con un capitano dello stato maggiore napoletano, il quale si reca alla cittadella. — Quel capitano significa al comandante d’un pachebotto francese che i regii ritenevano rotta la convenzione 28 luglio, e che quindi la truppa napoletana prenderebbe le offensive. —11 comandante francese osserva che i forti della cittadella non debbono tirare sulla città se non quando venissero aggrediti dai siciliani, oppure si vedessero costruire approcci offensivi. — Il capitano napoletano soggiunge che nel caso in cui si riaprissero lo ostilità, i legni stranieri ne sarebbero prima avvertiti. — I consoli francese ed inglese si recano nella cittadella onde chiarire qualche malinteso che vi fosse di mezzo. — Il capitano di stato maggiore napoletano arrogantemente risponde che il Re, avendo la forza in mano, sedarebbe la rivoluzione e distruggerebbe anche Messina. — La città si scoraggia. — I consoli francese ed inglese tentano d evitare il conflitto. — Finalmente il generale Pergola, comandante della fortezza, dichiara di voler osservare rigorosamente la convenzione 8 luglio. — La popolazione si rassicura. Pag. 70


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CAPITOLO SECONDO

Battaglia del Volturno.

I. Posizioni occupate dall’armata di Garibaldi. — Linea del Volturno 73
II.Garibaldi comanda il corpo d’armata di Santa Maria e tiene la sommità del monte Sant'Angelo; i generali Tiirr e Medici tengono Santa Maria; il colonnello Fardella tiene San Tammaro; Sirtori è a Caserta, e il generale Bizio a Ponte della Valle e Maddaloni. — Il generale Ritucci riprende l’offensiva e spinge le sue truppe verso Santa Maria, Sant’Angelo e Maddaloni. — La cavalleria deve sostenere le colonne che procedono innanzi e guarantire l’ala sinistra dell’esercito napoletano. ivi
III.Il primo ottobre Gapua fa fuoco ed escono i napoletani dirigendosi in tre corpi su monte Sant’Angelo, Santa Maria e San Tammaro ; Sirtori è attaccato a Gaserta e Bixio a Ponte della Valle, e T armata napoletana marcia con vigore e compatta su tutto il fronte di battaglia. — 1 napoletani attaccano Garibaldi, che ha pochi uomini, e resta avviluppato. — Si chiama Bixio in soccorso, ma egli è impegnato nel respingere i regii; gl’italiani perdono due cannoni. —
Garibaldi non si perde di coraggio e comprende che la vittoria deve decidersi a Santa Maria, e cento suoi uomini si slanciano dalla parte della città, riaprono la comunicazione, riprendono, li due pezzi e ritornano riconducendo soccorsi e prigionieri. —11 dittatore, vedendo che i suoi soldati tenevano fronte ai regii, si avvia a Sant'Angelo e colà trova i napoletani battuti e che l’estrema destra era vittoriosa. — Valentia de’ combattenti. — Ma l’armata italiana è sempre sotto la minaccia di una sconfitta e San Tammaro è perduto. Sirtori perde terreno a Caserta. — Come avvenne questo fatto. — Al termine della giornata la situazione è più grave.74
IV. Esposizione di questo fatto della Gazzetta di Gaeta 77
V. Situazione di Bixio e di Sirtori. — Da che parte venissero i napoletani che attaccarono Bixio. —11 generale garibaldino fa ripiegare i  suoi avamposti ed attende dietro il cannone che il nemico lo assalga; i napoletani vengono respinti. — Bixio va in soccorso di Sirtori. 79
VI. Episodio di Garibaldi, in cui questo generale fa prova di straordinaria prodezza e coraggio. ivi
VII. Il dittatore, vedendo che nulla era più a temersi, va a Caserta. —Sirtori domanda soccorsi a Villamarina, ministro sardo, il quale gl’invia sul campo 4500 piemontesi, che arrivano nella notte al campo 82
VIII. Allo spuntar del giorno 2 ottobre Garibaldi, Sirtori e Bixio si trovano fra Marni e Caserta e marciano in avanti. — I napoletani, nella notte, neglessero le cautele necessarie e si riposarono sul parco di Caserta. — I piemontesi alla testa de’ garibaldini, piombano con furore sui regii, ohe si sbandano e vengono fatti in gran parte prigionieri. — Alle undici del mattino non v’era più resistenza, e Garibaldi scrive ohe la vittoria è completa su tutta la linea ivi
IX. Un milite, che fu presente a questo combattimento, lo pareggia a quelli di Magenta e di Solferino. — I regii erano in numero di 25 mila contro soli 15 mila garibaldini; il re Francesco II comandava in persona. — Garibaldi trovavasi. sempre dove maggiore era il pericolo, annunciava la vittoria ed incoraggiava i suoi soldati. — Prodezza de’ carabinieri genovesi. — Il maggiore Morfei. — Il brigadiere Assanti 83
X. Ordine del giorno pubblicato da Garibaldi nel 2 ottobre. —Rivista di Garibaldi fatta a Caserta nel 6 Pag. 84
XI. Pericolo de’ garibaldini; strage dall’una parte e dall'altra; tripudio e mestizia della capitale. — Mancanza di cavalleria e scarsità di artiglieria de’ garibaldini resero la lotta più lunga e sanguinosa. — La vittoria de’ garibaldini occupò la stampa di tutta Europa. — Garibaldi ringrazia il ministro sardo Villamarina per l’aiuto che ricevé. 85

CAPITOLO TERZO

Truppe piemontesi destinate ad operare nello Stato di Napoli. Si rinforzano le posizioni di S. Santa Maria, Sant'Angelo, Monte Tifato, S. Leucio e Maddaloni. Fatti de garibaldini verso Capua, S. Lazzaro e S. Angelo. Fatto all'anfiteatro Campana.

I. Un corpo piemontese di 25,000 uomini, senza le truppe speciali, con artiglieria numerosa e parco d’assedio, è destinato ad operare nello Stato di Napoli, ed ai primi di ottobre esso era alla sua destinazione. — Il rimanente dell’esercito prende posizione nella Romagna e nei Ducati 87
II. Si fortificano varie posizioni. Caserta diviene una piazza d’armi ivi
III. Garibaldi riconosce che la linea del Volturno è ancora fortissima mente guardata e che le truppe regie sono ancora in grado di difenderla vigorosamente. Riconosce pure essere fortificato il ponte di Treflisco e che non si può rigirar la piazza dal settentrione. 88
V. Combattimento nelle posizioni di Sant’Angelo — I garibaldini ributtano i nemici al di là del fiume e possono stabilirsi dietro l’argine del medesimo. — La brigala Eberardt toglie due cannoni ai nemici. — Perdite de' garibaldini 89
VI. Sotto l’anfiteatro Campana i regii vengono assaliti dalla divisione Cosenz, ed un battaglione di cacciatori rimane prigioniero. 90

CAPITOLO QUARTO

Preparativi del campo. Rivista di Garibaldi a Angelo.

Il re Vittorio Emanuele arriva a Giulianova.

Disposizioni per accogliere il Re.

I. A Sant'Agnello si costruiscono nuove batterie e si preparano barche per la formazione di un ponte. — Fili elettrici, e posti avanzati che terminano sotto le mura di Capua. — Le case isolate nella campagna si tramutano in forti; s'innalzano tende, e si trae profitto da una fabbrica di mattoni per far alloggi Pag. 91
II. Garibaldi passa in rassegna a santa Maria la 18. a divisione comandata dal generale Bixio; loda i valorosi e strappa colle proprie mani i distintivi del grado a quelli cbe non si mostrarono prodi. — Encomia il corpo de' chirurghi. — Stringe a tutti la mano e ritorna a Caserta 92
III. Dimostrazione in Giulianova passando per quella città il ministro Villamarina nel giorno che precedette Farrivo de) Re Vittorio Emanuele. — Il ministro pronuncia un discorso. — Si applaude al ministro, a Garibaldi, a Cavour ed a Villamarina. —Il Re giunge ai 15 ottobre a mezzo giorno. — Entusiasmo della popolazione. ivi
IV. Garibaldi, giunto in Napoli, raduna il consiglio de' ministri di missionari, e dopo la seduta si sparge la voce che la biasimata Segreteria verrebbe ricostituita. — Agitazione a questa voce; l’ordine però non viene turbato in forza di un proclama del dittatore 93
V.Il ministro dell’ interno di Napoli, con un proclama , annunzia che il Re Vittorio Emanuele verrà a Napoli 94
CAPITOLO QUINTO

Combattimenti di Angelo.

I. La posizione di Monte S. Angelo viene presa di mira dai regii; il combattimento dura otto ore, ed i regii vengono valorosamente respinti dai piemontesi. — Rapporto del generale Milbitz al generale Tiirr sopra questo fatto 96
II. S’impegna una fucilata rimpetto a S. Michele; i regii guadagnano terreno, ma la legione de’ volontarii inglesi li pongono in fuga. — Rapporto del colonnello inglese Peard sopra questo fatto. 97

CAPITOLO SESTO

Combattimenti d’Isernia.

I. Una colonna di 700 garibaldini muove per prendere Isernia. —Vengono circondati dai regii e reazionarii in numero di 7000 con artiglieria; si battono disperatamente, ma sono soverchiati dal numero. — Tra i prigionieri il cappellano de’ garibaldini viene tagliato a pqzzi e due o tre ufficiali vengono feriti lungo la via e poi rinchiusi in una stanza senza cibo né assistenza. 100
II. La più avanzata avanguardia del generale Cialdini viene attaccata sull’alto del Macerone da tre colonne napoletane ascendenti a 6000 uomini con due pezzi di artiglieria. — Per un ora e mezza il generale Grifiini si trova solo con due battaglioni di bersaglieri ed una sezione di artiglieria. — Arriva il generale Cialdini colla brigata Regina e spingendo qualche battaglione a destra e a sinistra e avanzando contemporaneamente al centro sbaraglia il nemico. —Uno squadrone di lancieri seguito dal 7.° bersaglieri si rovescia sui fuggiaschi ed arriva ad Isernia prima di loro. ivi
III. I napoletani però riuscirono a trarsi d impaccio, ebbero un rovescio, ma impediremo il cammino de’ nemici e poterono ritirarsi a Venafro 101

CAPITOLO SETTIMO

Reazioni.
I. Insurrezione d Isernia. — Perdite del generale Nullo 103
II. La reazione si va sempre più estendendo nelle Provincie. — Insurrezioni a Corbona, a Castel Saraceno, a Montesano, a Latronico e in tutt’i punti delle Calabrie ivi

CAPITOLO OTTAVO

Note del ministro della guerra napoletano ai rappresentanti di S. M. Francesco
I. Nota del ministro della guerra, incaricato degli affari esteri del 49 ottobre diretta ai rappresentanti accreditati presso S. M. Francesco II 105
II. Comunicazione dello stesso ministro agli stessi rappresentanti del 24 ottobre 106

CAPITOLO NONO

Truppe dell’esercito italiano e napoletano

II. I garibaldini hanno per unirsi al corpo di Cialdini onde cominciare l’assalto a Capua. — Truppe che trovavansi alla fine del mese d’ottobre 111
III. Forze che tenevano il presidio di Capua. — La guarnigione non è stata diminuita, ma è stata anzi aumentata da alcuni battaglioni di retroguardia 112

CAPITOLO DECIMO

Garibaldi passa il Volturno per unirsi alle truppe di Cialdini. Sortita di borbonici da Capua. Combattimento sulla linea del Volturno. Ricognizione sul Garigliano.

I. I. Garibaldi nel 25 ottobre passa il Volturno con 7 ad 8 mila uomini e va incontro alle truppe di Cialdini.— Egli sispinge sul fianco dei borbonici onde assicurare la disfatta qualora fossero impegnati di fronte. — Il generale Bixio si rompe una gamba ; esposizione di questo fatto. —Una parie deir armata garibaldina rimane a Santa Maria e a Sant'Angelo per guardare quelle posizioni dagli attacchi nemici. 113
II. Due battaglioni borbonici escono da Capua ed attaccano gli avamposti garibaldini del centro, i quali, sopraffatti dal numero, ripiegano e perdono la posizione che occupavano. — I garibaldini, da respinti ed assaliti si fanno assalitori, rioccupano la posizione perduta e rincacciano i borbonici fin dentro le loro trincee. — Le artiglierie di Capua aprono il fuoco. — Perdite d’ambe le parti. 114
III. I regii operano un movimento generale di ritirala e di concentramento. — Quindici mila regii sostengono un vivo combattimento contro i piemontesi comandati dal Re in persona. —La retroguardia napoletana, di 12, 000 uomini, viene respinta dietro il Volturno; ma ai napoletani riesce di trarsi d’impaccio. — Perdite d’ambe le parti. — Ve truppe del generale Cialdini sostengono, vicino a Sessa, un brillante combattimento, ed i borbonici sono costretti a ritirarsi sul Garigliano 115
IV. 1 napoletani lasciano Sessa, e, passato il Garigliano, piantansi dietro quel fiume. — Posizioni da essi occupate. — Malgrado i sofferti rovesci; i napoletani poterono operare un movimento generale di concentrazione 116

CAPITOLO UNDECIMO

Incontro di Garibaldi col Re Vittorio Emanuele.

Ricognizione sul Garigliano.

I. Garibaldi e il Re Vittorio Emanuele s’incontrano a Sant’Agata.— L’incontro fu cordiale ed espansivo. — Garibaldi dice al Re che gli dava tutto il paese conquistato in suo nome. — Il Re e Garibaldi parlano delle operazioni militari. — Garibaldi ritorna a Caserta e pene sotto gli ordini del generale Della Rocca il generale Medici colla sua divisione 117
II. II. Il generale Garibaldi, in conseguenza d' aver deposto i poteri in mano del Re. diresse una lettera al marchese Pallavicino, in cui gli dice che per V avvenire debba dipendere da S. M. 118
III. Si temeva che Garibaldi partisse per Caserta il dì stesso in cui il Re doveva arrivare a Napoli. — Il giorno antecedente all'ingresso del Re in Napoli, S. M. si recò in persona a Caserta ed ebbe un colloquio con Garibaldi, il quale differì la sua partenza. ivi
IV. Ricognizione dei piemontesi sul Garigliano. — Passato il ponte, le batterie coperte del nemico apersero un fuoco sì vivo che un terzo de piemontesi rimasero morti o feriti ed una quarantina caddero in mano de’ regii. — Si viene a sapere che il campo trincerato sui Garigliano è difeso da 100 pezzi di posizione. — Il passaggio del fiume è ritardalo dall’altitudine presa dall’ammiraglio francese, che colla sua squadra si trovava allora a Gaeta. 119

CAPITOLO DUODECIMO

Ordini del giorno del ministro della guerra napoletano e di S. M. Francesco lì. Posizioni e movimenti de' borbonici.
I. Ordine del giorno ai soldati in data 30 ottobre del ministro della guerra napoletano Antonio Ulloa121
II. Ordine del giorno ai soldati in data 31 ottobre dello stesso ministro. 122
III. Ordine del giorno in data 31 ottobre ai soldati di S. M. Francesco II. 123
IV. Come seguisse il movimento di ritirata dei borbonici. — Tale variazione nella direzione della fronte di battaglia fu determinata dalla marcia delle truppe piemontesi. — Qual terreno tenessero i borbonici su questa nuova linea. — Si rendono inutili gli spedienti de’ borbonici dalle operazioni del generale piemontese Cialdini. — Ora se i borbonici vogliono battersi debbono farlo sul I’ estremo lembo della Terra di Lavoro o possono disputare ai nemici i passi del Garigliano, ma per breve tempo. 124

CAPITOLO DECIMOTERZO

Resa di Capua.
I. Effetti delle prime bombe lanciate in Capua. — Gli assedianti deliberano di non rispondere ai fuochi de’ borbonici se prima non siano compite tutte le opere di offesa. — Queste opere vengono disturbate. — I regii tentano una sortita per distruggere le opere d’assedio; dopo accanito combattimento, la fanteria borbonica si ripiega verso il Volturno; sortono alcuni squadroni di cavalleria contro gli avamposti degli assedianti. e si ritirano. — I paesani di Caiazzo, eccitati dagli sbandati borbonici, prendono le armi in nome di Francesco II 127
II. Il quartier generale di Vittorio Emanuele è a Sessa, ma egli va a vedere i primi colpi tirati verso la piazza. — Garibaldi visita le linee di Sant’Angelo e ritorna a Caserta. Gli viene ordinato di concertarsi col generale Della Rocca per l’assedio di Capua. pag. 128 128
III. Si apre il fuoco contro Capua ai 30 ottobre. Disposizioni delle batterie d’assedio. —La piazza risponde vigorosamente. —S. M. Vittorio Emanuele assiste alle prime prove del bombardamento. — Proietti gittati dalla piazza e dai garibaldini. — Generali che si espongono al fuoco della fortezza. 129
IV.Prosegue il fuoco degli assedianti nel 1 e 2 novembre, in cui sventola la bandiera bianca su Capua. — Il parlamentario napoletano chiede una tregua che gli viene negata. — Il generale napoletano accetta le imposte condizioni. — Testo della capitolazione. — Ordine del giorno dei generale Della Rocca ai soldati del corpo d’assedio 130

CAPITOLO DECIMOQUARTO

Ingresso del Re Vittorio Emanuele a Napoli.

Proclama del Re ai napoletani e siciliani.

I. I lavori per decorar Napoli, onde accogliere il Re, vengono impediti dal cattivo tempo. — Il Re nel 7 novembre arriva prima dell’ora stabilita. — Rinuncia ad ogni forma solenne, e se ne va alla reggia con Garibaldi, Pallavicino e Mordini, tutti nella sua carrozza. — Cerimonia religiosa. — Il Re, nella stanza del trono, riceve i grandi corpi delle stato. — Si fa al balcone per mostrarsi al popolo plaudente 135
II. Proclama del Re ai popoli siciliani e napoletani del 7 novembre. 136

CAPITOLO DECIMOQUINTO

Garibaldi presenta al Re Vittorio Emanuele il plebiscito napoletano. Il ministero si dimette. Offerte del Re a Garibaldi. Questi trasmette il comando delle truppe a Sirtori.

Partenza di Garibaldi.

I.Il dì 8 novembre Garibaldi, circondato dal ministero, presenta al Re Vittorio Emanuele il plebiscito. Parole del ministro Conforti dirette al Re. 138
II.Il Re fa offerte a Garibaldi, che questi rifiuta. — Il Re acconsente che tutt'i gradi dell’esercito garibaldiano siano riconosciuti senza sindacato. — Si spera che Garibaldi rimanga alla testa del l’esercito, ma invano. — Egli trasmette il comando dell esercito meridionale al generale Sirtori. — Lettera di questo generale in cui pubblica tale trasmissione. ivi
III. Garibaldi pone il generale De Medici sotto gli ordini dei generale Della Rocca. — Tenore dell ordine del giorno con cui questo generale manifesta la soddisfazione del Re verso i volontarii. —Prima di partire, Garibaldi prende congedo dall’ammiraglio inglese Mundy. — Egli lascia la rada di Napoli per Caprera. — Chi partisse con lui. — Pubblica un ordine dei giorno indirizzato all’esercito meridionale sui suoi futuri disegni. 140

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CAPITOLO DECIMOSESTO

Volontari di Garibaldi. Nomine e promozioni militari.

I. Decreti del Re Vittorio Emanuele sui volontarii italiani ch'erano

allora sotto le armi in data 11 novembre.

141
II. Ordine del giorno della prefata M. S. sull’armata meridionale comandata dal generate Garibaldi. — L’esercito garibaldiano rimase sotto il comando del generale Sirtori. 145
III. S. N. Vittorio Emanuele volle che venisse fatto un progetto definitivo per riorganizzare i volontarii garibaldiani. — A tal uopo si riuniscono tutt’i comandanti delle divisioni di quell’esercito. — Progetto d’organizzazione combinato d’accordo ed all’unanimità. 147
IV. Decreto sulla Commissione incaricata di esaminare i titoli e far proposta al Governo relativamente agli ufficiali dei corpi volontarii garibaldiani. — Determinazioni prese dai generali sull’esame dei titoli degli ufficiali. — Le esclusioni fatte dalla Commissione vengono acconsentite dagli stessi generali garibaldiani. — Difficoltà più grave. 149
V. Nomine e promozioni firmate da S. M. Vittorio Emanuele fra gli ufficiali generali e i generali di brigata. 151

PARTE TERZA

Annessione degli Stati meridionali d’Italia al Regno di Piemonte.

CAPITOLO PRIMO

Progetto di legge al Parlamento di Torino pel quale si chiede che venga data facoltà al Governo del Re di accettare e stabilire per decreto reale l’annessione degli Stati d'Italia meridionale. — Deliberazioni delle Camere.

I. Discorso del conte Cavour, nella tornata del Parlamento 2 ottobre, sopra un progetto col quale si chiede che venga data facoltà al Governo del Re di accettare e stabilire per decreto reale l’annessione al Piemonte degli Stati italiani sottratti all’antica dominazione. 155
II. Discorso del ministro Cassinis nella sessione d’apertura del Parlamento Pag. 167
III. Relatore del progetto di legge. — Presidente della commissione incaricata dell’esame del progetto. — Il progetto viene approvato all'unanimità dagli Ufficii, meno il voto di un deputato. — Alcuni Ufficii propongono di aggiungere al progetto un articolo per la riforma della legge elettorale. — Si fa la proposta di un ordine del giorno in elogio di Garibaldi e de’ volontarii. — Opinioni di Macchi, Avesani, Castellani Fantoni, Ferrari, Gabella, Casaretto, Pareto, Ricci, Tecchio, Depretis e Rattazzi. 169
IV. Relazione del ministro che presentò alla Camera elettiva lo schema di legge per la modificazione delle leggi elettorali politiche. 171
V. Il deputato Cabella, nella tornata del 3 ottobre della Camera dei deputati, domanda che il Ministero dia comunicazione di tutti que’ documenti diplomatici, o d’altra specie, che potessero riferirvisi. — Il ministro dell’interno dichiara non doversi divulgare tali documenti. 173
VI.Nella tornala dell’ 8 ottobre alla Camera de’ deputati incomincia la discussione dello schema di legge 174
VII. Tornata del 9 ottobre 183
VIII. Tornata del 10 188
IX. Tornata dell’11. — Si approva per alzata e seduta l’ordine del

giorno in lode di Garibaldi e l’articolo unico della legge. — Lo scrutinio segreto da’ 200 voti favorevoli e 6 contrarii. — Applausi grandissimi accolgono la votazione

191
X. Nella tornata del 12, dopo breve discussione, la Camera de’ deputati approva lo schema di legge sulla facoltà d’accordarsi al governo di modificare la legge elettorale politica. 195
XI. Il presidente del Consiglio de’ ministri presenta nel 12 ottobre

il progetto di legge, già adottato dalla Camera elettiva, e lo accompagna con una esposizione delle attuali condizioni politiche che consigliarono la presentazione della legge. — Il Senato passa agli Ufficii per occuparsi dell esame. — Nella tornata del 16 ottobre s’intraprende la discussione della legge sulle annessioni. —L’articolo unico della legge viene approvalo per alzata e seduta. Allo scrutinio i voti favorevoli sono 84 ed i contrarii 12

196

CAPITOLO SECONDO

Si decreta il plebiscito per l'annessione. Garibaldi richiama i suoi incaricati d’affari. Si tenta impedire la votazione. Risultali della votazione. S'instituiscono Luogotenenze. Le Marche, l'Umbria, le Provincie napoletane e la Sicilia vengono dichiarate far parte dello Stato italiano. Programma  del luogotenente Farini. Protesta del ministro di Francesco II contro il plebiscito sull'annessione.
I. Si decreta, per le Provincie napoletano e siciliane, un plebiscito pel 21 ottobre, onde il popolo possa esprimere «e vaile l’Italia unita ed indivisibile sotto lo scettro di Re Vittorio Emanuele. Pag. 213
II. Per essersi decretato il plebiscito Garibaldi diresse un dispaccio ai suoi incaricati d’affari in Parigi ed in Londra, in cui dichiara che la loro missione è cessata. 215
III. Il Governo pontificio ordina che la votazione sia impedita a Viterbo, ed i francesi vi si oppongono. — Moti reazionari» nel giorno dei comizii in varie parti 216
IV. Risultato della votazione delle Marche. — Risultato della votazio

ne nelle Provincie napoletane. — Risultato della votazione nelle Provincie siciliane

217
V. In conseguenza della votazione delle Provincie napoletane, il Re

Vittorio Emanuele istituisce una luogotenenza per quelle Provincie. — Così pure per le Provincie siciliane. — Con quattro decreti si dichiara che le Provincie napoletane, siciliane e dell'Umbria fanno parte integrante dello Stato italiano.

218
VI. Programma di governo del luogotenente Luigi Carlo Parini. 220
VII. Il ministro degli affari esteri dei Re Francesco II diresse a’ suoi

agenti diplomatici una Nota contro la votazione delle popolazioni napoletane e siciliane

225
VIII.Lettera del principe Luciano Murat indirizzata ad un duca senza nome, in cui il principe parla del plebiscito e delle condizioni in Napoli. — Cospirazione muratista scoperta. 230

PARTE QUARTA

Dall’assedio alla presa di Gaeta colla resa di Messina

e Civitella del Tronto.

CAPITOLO PRIMO

Fortezza di Gaeta. Principi e principesse

che andarono a Gaeta con Francesco

I. Descrizione della città di Gaeta. — Assedii sostenuti da quella città.Pag. 257
II. Descrizione di Gaeta come fortezza. — Difficoltà di farla cadere. 239
III. Nomi dei principi e delle principesse che si ritirarono a Gaeta assieme con Francesco II. —Rappresentanti delle Potenze estere. 242

CAPITOLO SECONDO

Cialdini passa il Garigliano — Flotta francese. — Presa di Mola di Gaeta. — Protesta del Governo di S. M. Francesco II perché la flotta sarda prese parte a questo combattimento.
I. Cialdini, il 2 novembre, passa il Volturno ed a Scauri batte i borbonici. — La divisione Sonnaz passa il Garigliano facendo prigionieri. 245
II. Il 16 ottobre giunse a Gaeta una squadra francese — Una squadra piemontese si presenta alle foci del Garigliano con truppe di sbarco. — Dirigendosi essa verso la rada, viene dall’ammiraglio francese impedita di avanzarsi ulteriormente. Il Re di Napoli, avendo osservato il contegno dell’ammiraglio francese verso la squadra, gli esprime la sua gratitudine. — La flotta piemontese, dopo essere stata respinta, prese posizione alla sinistra foce del Garigliano, ma per la seconda volta 1 ammiraglio francese le intimò più energicamente di astenersi da ogni operazione contro l’armata napoletana dal Garigliano fino a Sperlonga. — I bastimenti piemontesi ed i francesi gettarono l’ancora e stettero in tale posizione minacciosa il 30 ottobre sino al 1 novembre. — L’armata napoletana prende coraggio; si attaccano 6000 piemontesi che volevano sforzare di passare il Garigliano. — Protesta del l’ammiraglio piemontese.  
  Il primo novembre un aiutante del viceammiraglio francese dichiara a Francesco II che non può più continuare il suo intervento proteggitore perché un telegramma giunto da Parigi disapprovava il contegno da lui tenuto finora. — Il Re dà ordine della ritirata. — Perché l'ammiraglio francese impedisse l'azione della flotta italiana contro Gaeta. — Nondimeno l’ammiraglio francese si mantenne sempre in atto d’impedire alla flotta sarda d’investire la fortezza. 246
III. Il villaggio di Mola di Gaeta era difendibile, e come venisse difeso da’ borbonici. — La divisione di Sonnaz viene impedita nella sua marcia verso Mola dalle prime case di quella borgata. — I piemontesi attaccano la zuffa, si preparano a conquistare il villaggio di barricata in barricata, di casa in casa. — La flotta piemontese, ad onta delle minacele dell'ammiraglio francese, fece un fuoco micidiale verso Mola, per cui il villaggio fu dai borbonici abbandonato e l’esercito regio corse disperso a Gaeta. — Persistenza dei borbonici nella lotta. — 11 fuoco della flotta piemontese non era diretto verso il villaggio, ma contro i fuggenti nemici. — Perdite de' borbonici. —La flotta piemontese continuò il fuoco tutta la notte e tutto il giorno successivo contro la collina adiacente al mare. 249
IV. I borbonici in numero di 12, 000 uomini con 50 pezzi di cannone, tagliati fuori di Gaeta, ripararono sul territorio pontificio. — Il generale Sonnaz non potè impedire questo passaggio delle truppe borboniche. 251
V. Nota del ministro degli esterni di S. M. Francesco a’ rappresentanti delle Potenze straniere perché la flotta piemontese prese parte all’azione a Mola di Gaeta 252

CAPITOLO TERZO

Le truppe napoletane, battute sul Garigliano,

si rifugiano nello Stato Pontificio.

I. Ventiduemila borbonici si rifugiarono nello Stato pontificio.. — Il Governo pontificio fece loro dichiarare che, se desideravano trovare asilo ne’ suoi Stati, dovevano deporre le armi. — Il generale Govon appoggia questa misura del Governo romano. 255
II.I napoletani, rifugiati nello Stato romano, depongono le armi nelle mani del corpo francese di guarnigione a Velletri. — Il Governo pontificio assicurò la loro sussistenza .
III.Il Re di Napoli spedisce al capitano Mamony il brevetto di decorazione di Francesco I ed al generale Goyon la gran croce dell'ordine di S. Gennaro.

CAPITOLO QUARTO

Reazioni. S'intima al forte di Civitella del Tronto d'arrendersi. Combattimento sullo collina de’ Cappuccini.

I.Reazioni in prossimità del forte di Civitella e nella città di Teramo. — Si età per assalire il forte di Civitella, ma si viene a conoscere la necessità di un regolerà assedio, stante ohe quella piazza è più forte di quello che si ritenevapag. 257
II. Combattimento sulla collina de' Cappuccini. — I cacciatori napoletani vengono sostenuti dal fuoco di Gaeta, ma finalmente si ritirano

CAPITOLO QUINTO

Si consiglia Francesco II a lasciar Gaeta.

Protesta del Governo di S. M.

I. L’ammiraglio inglese fa vive istanze a Francesco II perché lasci Gaeta, le quali istanze vengono pure sostenute dall’ammiraglio francese. — Le fregate spagnuole, russe e prussiane offerivano pure i loro servigi. — Francesco II respinse tutt’i consigli, dichiarando ch'è risoluto a difendere sino agli estremi il suo diritto. 260
II. Nota ai rappresentanti delle potenze accreditate presso il re Francesco H indirizzata dal generale napoletano Casella sopra alcuni fatti che seguirono l’ingresso dell’esercito piemontese nel Regno napoletano 261

CAPITOLO SESTO

I napoletani assalgono i piemontesi, che restringono vieppiù la linea del blocco. Il generale Bosco va a Gaeta a riprendere il comando delle truppe. I piemontesi e poscia i francesi occupano Terracina. Protesta ministeriale di Francesco II.
I. I. Le truppe borboniche accampate fuori di Gaeta assalgono la linea piemontese, ma sono costrette a ricoverarsi dentro la piazza, ed i piemontesi acquistano terreno e restringono la linea del blocco.— Perdite dei piemontesi, e militi che si distinsero in questo fatto d’armi. 266
II. Il generale Bosco, che s’impegnò con Garibaldi a non servire Francesco II, spirato il termine del suo impegno, va a Gaeta a riprendere il comando di truppe. — Francesco II esternò la sua soddisfazione nel rivederlo. 267
III. I piemontesi tagliano le comunicazioni per mare tra Gaeta e gli

Stati della Chiesa. — Occupano Terracina. — Il S. Padre protesta contro questa occupazione, ed i francesi intimano ai piemontesi di retrocedere.

ivi
IV. I francesi occupano Terracina. 268
V. Nota del ministro degli affari esterni di Francesco II, ai rappresentanti del Re presso le Corti estere ivi

CAPITOLO SETTIMO

Piano del genio sardo sulle operazioni di attacco. Sortite da Gaeta. Il forte apre il fuoco. Notificazione al commercio marittimo ed ordine del giorno ai soldati di S. M. Francesco II.

I.Tiene stabilito dal genio sardo che tutti gli sforzi debbono essere diretti sul Monte Secco. — Misure adottate per inquietare la fortezza. — Disposizioni per la resistenza in Gaeta. — Francesco II persiste nella risoluzione di difendersi sino all’ultima estremità. 272
II.Sortita degli assediati onde molestare i lavori piemontesi. —Gli

assediati si ritirano

273
III.Gli assediati, nella notte del 26 e 27 novembre aprirono un vivissimo fuoco contro i lavoratori piemontesi, ed obbligano il nemico a portare il suo deposito di trincea a 100 metri indietro ed a cangiare la posizione della prima divisione del corpo d’assedio . ivi
IV. La guarnigione di Gaeta fa una sortita per impadronirsi di alcune posizioni de’ sobborghi e viene respinta. — Narrazione del fatto secondo un dispaccio telegrafico del generale Cialdini. — Relazione del generale napoletano Bosco al ministro della guerra sul medesimo fatto 274
V. Notificazione del Governo di Gaeta al commercio marittimo italiano 277
VI. Ordine del giorno del ministro della guerra napoletano ai soldati. 278
CAPITOLO OTTAVO

Re Vittorio Emanuele va a Palermo. Suo proclama. Lettera autografa dell'imperator Napoleone Re Vittorio Emanuele torna a Napoli.

I. II Re Vittorio Emanuele giunge in Palermo il 1 dicembre; modo con cui viene ricevuto. — Proclama del Re al popolo. .
II. L’imperatore Napoleone III con lettera autografa a Vittorio Emanuele esprime la propria soddisfazione per la condotta del Governo piemontese. — Il Re Vittorio Emanuele il 7 dicembre torna a Napoli.

CAPITOLO NONO
La flotta francese si pone più al largo. I piemontesi aprono il

fuoco contro Gaeta. Proclama del Re Francesco II.

I. Nella previsione di un prossimo bombardamento, l'ammiraglio francese pose più al largo la sua squadra. — I piemontesi vogliono assicurarsi della portata dei loro pezzi e tirano un colpo di cannone, cui risponde la piazza 283
II.I piemontesi ricevono un rinforzo. — Cialdini vuole fare un saggio delle opere d’assedio, benché ancora non compiute, e si apre un fuoco assai vivo contro il forte della Regina. — La piazza risponde con fuoco terribile. — Pezzi dei piemontesi che lavoravano. ivi
III. Il fuoco dei successivi giorni aumentava. — I piemontesi mirano alle polveriere. — Resta colpito anche l’ospitale di S. Francesco. —Il 5 dicembre la Regina va per la prima volta a coricarsi a bordo di un bastimento spagnuolo, ma, avendo voluto essa ritornare a terra, il Re gli fece preparare una casamatta. 284
IV. Proclama ai soldati di S. M. Francesco II. 285

CAPITOLO DECIMO
Sortita da Gaeta. Fuoco degli assediatiti Falso allarme. Catturazione di una felucca borbonica.

Manifesto di S. Francesco II ai popoli delle Due Sicilie.

I. Si tenta una sortita da Gaeta per far saltare le prime case del borgo, ma viene sventata. — Nel successivo giorno si eseguisce l’impresa; la truppa uscita aggredisce il nemico alla baionetta, e frattanto un primo tenente da fuoco ad otto barili di polvere. — Fatto ciò, la truppa rientra alle grida di Viva il Re. 287
II. Il giorno 7 dicembre gli assedianti smascherarono una nuova batteria, la quale aperse il fuoco, ma fu ridotta al silenzio dalla batteria nemica Regina. — Per tutta la notte si lanciarono bombe, le quali caddero anche sull’ospitale e guastarono case. ivi
III. La fortezza fa improvvisamente fuoco, credendo erroneamente che i piemontesi facciano qualche movimento. — Le sentinelle piemontesi, credendo che i regii facciano una sortita, danno l’allarme, e per due ore segue un fuoco sì vivo, che si sarebbe supposto il bombardamento di Gaeta. — Ambe le parti, accortesi dello sbaglio, fecero silenzio. — Gli assedianti si ritirano al loro campo. ivi
IV. Una lancia piemontese dà la caccia ad una felucca borbonica, che, lasciato il porto di Gaeta, a tutta lena remava verso Napoli. — La felucca spera sottrarsi al pericolo dirigendosi all’isola di Ponza. — I piemontesi la catturano, ma l’equipaggio protesta che si recava a Napoli per prendere servizio nell’esercito nazionale. 289
V. Manifesto di S. M. Francesco II ai popoli delle Due Sicilie in data 8 dicembre. 290

CAPITOLO UNDECIMO

L'imperatore Napoleone significa a S. M. Francesco II

che la situazione della sua flotta non può durare indefinitamente e consiglia S. M. a ritirarsi

cogli onori della guerra. Risposta di S. M. siciliana.

I. L’imperatore Napoleone, in data 11 dicembre, scrisse una lettera

a Francesco II, in cui gli dichiarò ch’egli impedì il blocco di Gaeta per dare una prova della sua simpatia verso S. M. e per evitare una lotta a oltranza tra due sovrani alleati, ma oh’ egli non poteva intervenire nella contesa, e quindi il suo ammiraglio dovette conservare la più stretta neutralità; complicata poi la situazione della flotta francese a Gaeta, lo stato di essa non può durare definitamente e dovere, a suo avviso, S. M. ritirarsi cogli onori della guerra.

296
II. S. M. Francesco II rispose all’imperator Napoleone, che quantunque sapesse la flotta francese non dover indefinitamente soggiornare nel golfo, le sue informazioni uffiziali e le assicurazioni particolari gliene facevano sperare la prolungazione od almeno la presenza della bandiera francese; che deplora il richiamo della flotta e domanda un tempo a riflettere onde cangiare la risoluzione di resistenza. 298

CAPITOLO DUODECIMO

I piemontesi tengono consiglio di guerra. Fuoco d'assedio dal 19 al 26 dicembre. Il Re trasporta il suo quartier generale.

I.Fra tutt’i generali del campo piemontese si tiene consiglio di guerra e si decide che. oltre il bombardamento, si tenterà di aprire la breccia a 1200 in 1500 metri.... 302
II.Alla sera del 15 dicembre i piemontesi ripresero il fuoco, il quale durò tutta la notte e pei due giorni successivi. — I piemontesi avevano pochi pezzi in batteria e la piazza non rispondeva con molta vivacità; per altro gli stessi piemontesi ridassero in silenzio il forte. ivi
III. Il fuoco continuò dal 19 al 26 senza interruzione. Dal 19 al 20 il fuoco fu più vivo. — Nel 21 continuò dall’una e dall’altra parte 303
IV. Il Re di Napoli abbandona il suo palazzo e va coi suoi fratelli a piantare il quartier generale alla batteria Philipstadt. — Anche l’ambasciatore spagnuolo abbandona il suo palazzo. ivi

CAPITOLO DECIMOTERZO

Francesco II rifiuta di cedere Gaeta. Gli assediati ricevono soccorsi di viveri e di danaro.

I. S’intavolano trattative affinché Francesco II si determini ad abbandonare Gaeta. — Si pongono in discussione tre punti proposti da Francesco II. — 1 due primi punti vengono accettati dal Piemonte, ma rifiutato il terzo. — Francesco II, verso la metà di dicembre, era fermo di combattere fino all’estremo 305
II.li. A Gaeta s’inviano viveri da Roma e dalla Francia. — Parecchi

sovrani mandano somme di danaro a S. M. Francesco II.

306

CAPITOLO DECIMOQUARTO

Posizioni e lavori d assedio dei piemontesi. Fuoco d'assedio. Ordine del giorno di Francesco II alle truppe che trovatisi

negli Stati pontifica, i  cui corpi vengono disciolti.

I. Tutte le alture che dominano le batterie di terra e il forte Orlando sono in mano de’ piemontesi ed in comunicazione col campo di Mola. — Verso il 26 dicembre le batterie d’assedio non erano ancora terminate. — Difficoltà pei piemontesi onde mantenersi nelle posizioni conquistate e che ritardano la formazione delle parallele e la posizione delle batterie. 307
II. La sera 25 dicembre è stata funesta pegli assediati. — Il 26 il fuoco fu assai vivo da ambe le parti. — Il 27 le batterie piemontesi lavorarono molto e la piazza rispose con vigore. — Il 28 il cannoneggiamento fu mite. 308
III. Ordine del giorno di S. M. Francesco II, in data 26 dicembre, alle truppe che trovavansi negli Stati pontificii, ed i cui corpi vengono disciolti ivi

CAPITOLO DECIMOQUINTO

Artiglierie del generale Cavalli. Loro arrivo a Gaeta

e dove vengano collocate.

I. Descrizione dell’artiglieria Cavalli. — Cannoni dello stesso generale 310
II. Quando si cominciasse ad applicare una batteria Cavalli; inconvenienti. — Come vi si rimediasse 312
III. Dove venissero imbarcati i cannoni Cavalli e quando giungessero alla loro destinazione. — Descrizione del luogo in cui i cannoni Cavalli devono fare la prima pruova. 312

CAPITOLO DECIMOSESTO

Il Re Vittorio Emanuele parte per Napoli alla volta di Torino.

Visita del nipote di Russell a Garibaldi. 

I. Il 27 dicembre il Re Vittorio Emanuele parte per Napoli e giunge a Capua. — Passa ad Isernia. — Il 29 arriva a Torino. — Ovazioni al passaggio di S. M. 315
II. Una goletta inglese ancora a Caprera, e viene consegnata una lettera al generale Garibaldi. — Garibaldi si reca a bordo della go

letta e viene salutato con 24 colpi di cannone sì alla sua andata che al suo ritorno. — La goletta conduceva il nipote di lord Russell

ivi

CAPITOLO DECIMOSETTIMO

Civitella del Tronto e Messina.

I. Descrizione di Civitella del Tronto. — Truppa al blocco di questa piazza. — 11 generale piemontese Pinelli con truppe ed artiglierie muove verso Civitella del Tronto. — Apre trattative di resa, ma i napoletani propongono condizioni esagerate, per cui vengono collocati i pezzi d’assedio. — 11 fuoco degli assediaci fa poco effetto sul forte, locchè convince della sua robustezza. — Si lanciano granate; quattro bombe cadono sulla piazza d’armi. — Il presidio del forte fa una sortita, e rientra asportando provvigioni sono state raccolte appositamente dai villici 317
II. La fregata Garibaldi recava da Palermo bandiera parlamentare e un generale con alti poteri a trattare la resa di Messina. —Patti offerti al generale Fergola, il quale respinge ogni trattativa 319
III. Le Autorità dell’isola fanno al generale Fergola una nuova intimazione di rendere la cittadella di Messina. — 11 generale Fergola raduna un consiglio, ove si decide di difendersi fino all’ultima estremità. — Non avendo pel momento importanza il possesso della cittadella di Messina, si soprassedè alle operazioni militari. — Un vascello francese erasi ancorato nel porto di Messina 320

CAPITOLO DECIMOTTAVO

Reazioni.
I.A Napoli si eccitano disordini e tumulti; voci che si spargono per destare agitazione. — Òuetite manovre sono di facile successo presso una nazione qual è la napoletana. — Nuclei delle bande reazionarie. — Si ordina una spedizione contro le scorrerie dei reazionarii che vendono sparpagliati. — Restano per altro compagnie nei luoghi più selvosi ed inaccessi, ed avvengono nuove agglomerazioni, sussidiate da 22,000 borbonici. — Il generale comandante la colonna mobile della Provincia d’Aquila emana un proclama, in cui viene dichiarato lo stato d’assedio. 322
II.L’insurrezione degli Abbruzzi comincia a divenire importante. — Ove stanziasse il corpo reazionario del colonnello La Grange. — La Grange domina la grande strada da Napoli ad Aquila. — I piemontesi, in due colonne, devono recarsi sui punti minacciati. 325
III.In Nocera ai forma un reggimento di linea di borbonici sbandati. — Tumulto che destano a Pratola. — Gl'insorti di Villa Castellana vengono circondati e chiusi dalle guardie nazionali. 326
IV. I capi della reazione si rifugiano nel territorio pontificio, ma i villici reazionarii non vogliono deporre le armi. — Movimenti delle guardie nazionali. — Si arresta il capo reazionario Taddei, che viene posto in libertà per sedare F ira de’ contadini. — I reazionarii sono vittoriosi in Sora. — Di là irrompono in altri siti. — Truppe piemontesi muovono per disfarli. — I reazionarii in Sora dichiararono di voler resistere, ma appena seppero venir loro incontro truppe piemontesi, si ritirarono. 326
V. Reazioni di Civita di Penna, di Cervinara e di Chieti. 330
VI. Reazioni di Caserta e di Aversa. ivi
VII. Reazione di Cervinara. 331
Vili. Reazioni di Santeramo e di Sava. 332
IX. Reazioni di Torricella, di Santamara e di Sant’Erasmo. 333
X. Il generale borbonico Barbalunga viene arrestato a Napoli. —Reazione scoperta a Napoli. 334
XI. Reazione a Paleno. 335
XII. Brigantaggio della Provincia di Salerno e delle Calabrie. — Le guardie nazionali e pochipiemontesivi si oppongono. ivi
XIII. Reazione di Periginto. — Fatto nel rione di S. Martino a Bovino. 336
XIV. Banda di reazionarii a Lanciano. — Reazione a Ghiaia, a Santa Lucia ed in Savia 337
XV. Disordini in Napoli 338

CAPITOLO DECIMONONO.

Nuova circoscrizione dei collegii elettorali per la elezione dei deputati al Parlamento nazionale di tutto il Regno. Il principe Eugenio di Savoia Carignano è nominato luogotenente generale delle provincie napoletane. Consiglio di luogotenenza in Sicilia. Francesco II dà alla Sicilia lo Statuto.

I. Numero de deputati assegnato in complesso a ciascuna Provincia dal decreto 17 dicembre. 339
II. Farini, luogotenente per le Provincie napoletane, dà la sua dimissione. — Ad esso viene surrogato il principe Eugenio di Savoia Carignano. — Decreto 7 gennaio relativo a questa nomina. — Il principe giunge in Napoli. — Proclama ai napoletani del Re Vittorio Emanuele 340
III. Il luogotenente Montezemolo rende nota la formazione del nuovo Consiglio di luogotenenza in Sicilia. 343
IV. S. M. Francesco II pubblica un proclama colle basi dello Statuto per la Sicilia. — Testo. 344

CAPITOLO VIGESIMO.

Assedio di Gaeta.

I.Si riprendono le ostilità il 19 dicembre. — Il generale Gouyon manda a Gaeta uno dei principali suoi chirurghi per riorganizzare gli spedali. — L’ammiraglio francese manda al Re medicamenti. 348
II.Cannoneggiamento dei giorni 2 al 4 gennaio. » ivi
III. Fuoco del 5 e del 7. 350
IV. Fuoco dell’8. ivi
V. Il Governo di Napoleone III si fa mediatore di una proposta di

armistizio. — Lettera in proposito del generale Cialdini all’ammiraglio francese. — Lettera del generale Ritucci, governatore di Gaeta, all’ammiraglio francese.

351
VI. Francesco II fa annunziare ai Gabinetti la sua risoluzione di resistere fino agli estremi. — Circolare in proposito del ministro degli affari esterni. — I ministri di Prussia e di Portogallo vanno a Roma. — I bastimenti stranieri lasciano Gaeta. — Denunzia dell’armistizio e offerta di condizioni per la dedizione della piazza che viene rigettata. 353
VII. 358
VIII. Il generale Persano notifica il blocco per parte della squadra di S. M. Vittorio Emanuele. — Lo stesso generale annunzia che lascierebbe alcune ore agli abitanti per partire. — Le navi estere abbandonano il porto. 361
IX. Linee piemontesi di operazione 363
X. Gli assediati, il 20 gennaio, aprono improvvisamente il fuoco sui

lavoratori piemontesi. — Rispondono le batterie piemontesi. —

La flotta piemontese fa fuoco contro le batterie della piazza. —

Il fuoco di terra e di mare è terribile. — Danni dei piemontesi. — Relazione dei fatti di questa giornata, fatta dal ministero della marina piemontese — Ordine del giorno del ministro di S. M. Francesco II al comandante all’equipaggio di una fregata rimasta sola nel porto.

ivi
XI. Fuoco del 24 gennaio. 369
XII. Un parlamentario napoletano si lagna che un convento di religiose e l’ospitale non siano risparmiati. — Risposta di Cialdini 370
XIII. Il 28 scoppiano due polveriere dei piemontesi, e due legni della flotta calano a fondo. ivi
XIV. Il fuoco di terra e di mare continua, ma viene interrotto dalla consegna di lettere degli assediami al conte Persano, il quale si obbligò a farle pervenire alla loro destinazione. — Francesco Il rimette al conte Persano una lettera diretta a Napoleone III. 371
XV. Lavori degli assediami ai primi di febbraio. — Gli ufficiali garibaldini dimoranti a Napoli chiedono al Governo il favore di essere lasciati montar primi all’assalto di Gaeta. ivi
XVI. Fuoco del 2 al 4 febbraio 372
XVII. Fuoco del 5. — Salta in aria la polveriera Cittadella e di Sant’Antonio e comunica il fuoco ad un gran deposito di proietti carichi, che pure scoppiano. — Danni. — Cialdini, volendo approfittare di questa circostanza per una immediata capitolazione, ordina a tutte le batterie di cominciare il bombardamento. — La piazza risponde debolmente 373
XVIII. Fuoco dei piemontesi del 6. — Un parlamentario napoletano domanda un armistizio di 48 ore per seppellire i morti e di
XIX. Gli assediati domandano un prolungamento d'armistizio. — Cialdini lo nega per non sagrificare i vantaggi procacciatigli dagli ultimi avvenimenti ed offre di accogliere gli ammalati. ivi
XX. Spirato l’armistizio, il fuoco viene ripigliato il 9. —Anche la

flotta apre un fuoco terribilissimo.

376
XXI. Fuoco del 10, 11 e 12. — Il 13 fu aperta la breccia. — Scoppio della polveriera Transilvania. — Danni. — A mezzo giorno si

riprendono le negoziazioni per la resa della piazza ed a sei ore la capitolazione è sottoscritta.

376

CAPITOLO VIGESIMOPRIMO.

Reazioni ed altri combattimenti.

I. Generali borbonici vengono arrestati a Napoli perché imputati di cospirazione. — Precauzioni di Cialdini contro gli attacchi dei borbonici. — Il Governo è risoluto di operare con energia contro la reazione 378
II. Dai reazionarii s’introducono armi nell’Abruzzo Ulteriore. — Reazione a Foggia. 379
III. Insurrezione tentata. — Erano organizzati tre grandi corpi, che dovevano operare su Sora, nella Valle Rovereto e dal lato di Carsoli. condotti principalmente da Ghidvone e dal conte Giorgi. — Il comandante La Grange, e suo corpo.
IV. Gran reazione in San Severo di Puglia. — In Chieti i briganti

vengono completamente battuti. — Volontari che dal territorio pontificio vanno negli Abruzzi per sostenere l'insurrezione. — Combattimento tra migliaia di soldati borbonici e seicento guardie nazionali, finché, sopraggiunti i bersaglieri italiani, i borbonici vengono sbaragliali.

381
V. Un corpo borbonico comandato da Luverà si ritira. — Insurrezione resa solida nell’Ascolano, e suoi centri d’operazione. — Fatti di Mozzano. 382
VI. Fatti di Tagliacozzo. 388
VII. Arresti di francesi ed italiani che promovevano una reazione borbonica. 390
VIII. Sortita de' piemontesi da Ascoli per attaccare gl’insorti nelle loro posizioni ivi
IX. Fatto di Snrcola 391
X. Seicento zuavi pontificii attaccano gli avamposti piemontesi a Ponte Corese. — Sbarcano circa altri duemila uomini con una batteria e cavalleria e si fortificano. — Relazione di questo fatto del tenente colonnello comandante il battaglione de' zuavi pontificii al proministro delle armi di S. Santità. — Prigionieri fatti dai pontificii. — 11 Santo Padre disapprova la condotta del colonnello pontificio. 392
XI. Assassinio commesso da reazionarii a Mirto. 396
XII. Fatti di Banco. ivi
XIII. Congiura borbonica scoperta a Napoli. 398
XIV. Nuovi corpi di partigiani nell’Abruzzo Ulteriore. — Truppe piemontesi che vanno loro incontro. 399
XV. Reazione tentata a S. Giovanni di Teduccio. ivi
XVI. Due colonne di reazionarii tentano di prendere alle spalle il

cordone di blocco piemontese di Civitella. — Perdite dei reazionarii. — Prigionieri., — Azione ardita di due uffiziali piemontesi sotto il forte.

ivi
XVII. Una colonna d’insorti lenta congiungersi colla guarnigione

di Civitella del Tronto. — Scontro coi piemontesi. — I piemontesi esplorano le montagne del primo Abruzzo Ulteriore. — Entrano nel borgo di Campii. — I piemontesi ed i garibaldini vanno incontro a colonne d’insorti. — Incontrano gl’insorti nella valle della Morte. — Gl insorti si danno alla fuga.

401
XVIII. Gli zuavi pontificii prendono possesso di un terreno piemontese alla sinistra del Tevere. — I piemontesi gli scacciano da quel terreno. 402
XIX. Trama scoperta. — Gl’insorti assalgono Castello di Collalto, vi entrano e si fortificano. — Christen, Chiavone, Luverà e Giorgi, che avevano occupato Collalto, ricevono l’ordine di ritirarsi in Arzoli. 403
XX. Lettera del conte Coetlogon, comandante le forze militari napoletane negli Abruzzi, al comandante delle forze piemontesi, con cui gli annunzia la sua ritirata. 405
XXI. Nuova violazione del territorio piemontese per parte dei reazionarii. 407

CAPITOLO VIGESIMOSECONDO

Resa di Gaeta.

I. Testo della capitolazione di Gaeta. — Viene notificata la resa di

Gaeta ai comandanti di Messina e di Civitella del Tronto. —

Una corvetta francese va a Gaeta per imbarcare il Re e la famiglia reale. — Ordine del giorno di S. M. Francesco II, con cui si separa dalle sue truppe. — S. M. s’imbarca, e Cialdini prende possesso delle porte di Gaeta. — Aspetto dei militi componenti la guarnigione della piazza. — S. M. Francesco II s'impegna di far pervenire al comandante di Messina e di Civitella del Tronto l’invito di cedere alla forza

408
II.  Aspetto della città di Gaeta dopo la resa 415
III. La guarnigione di Gaeta depone le armi sfilando dinanzi al generale Casanova. — Numero della guarnigione e quantità di materiali della fortezza 416
IV. Proclama del ministro Casella ai diplomatici delle Due Sicilie con cui si annunzia lei o la capitolazione di Gaeta. — Nota del Governo di S. M. Francesco II ai suoi rappresentanti presso

le corti straniere

417
CAPITOLO VIGESIMOTERZO

Resa di Messina.

I.Idea storica e strategica della fortezza di Messina 427
II.Il generale piemontese Chiabrera invia al maresciallo Fergola, comandante di Messina, una copia della capitolazione di Gaeta e lo invita a rendere la cittadella. — Risposta del maresciallo Fergola. — Si ripete la intimazione di resa; risposta dello stesso maresciallo. 429
III. Dopo la risposta negativa del generale Fergola, il Governo piemontese ordinò al generale Cialdini s’imbarcassero truppe, artiglierie e materiali ed egli dirigesse l'assedio della cittadella; vi si recò pure la regia squadra. — Avvenuto lo sbarco, il generale Fergola dichiara che il nemico aveva rotto l’armistizio e eh’ egli tirerebbe anche sopra Messina. — Cominciano le ostilità. — Lettera del generale Cialdini al maresciallo Fergola in risposta alla dichiarazione della rottura della tregua fatta dal Fergola. 426
IV.Molti abitanti di Messina lasciano la città. — Il popolo si aspetta il bombardamento. — Il porto è deserto. 430
V. Movimenti dei giorni 2 e 3 marzo
VI. Movimenti del giorno 6. — Viene dichiarato il blocco. — Un vapore con bandiera prussiana entra in porto; aneddoto. — Attitudine della cittadella ivi
VII. Lavori del campo. — Parlamentarii vanno a bordo della comandante piemontese a motivo del vapore prussiano.
VIII. Vengono consegnati dispacci al maresciallo Fergola. — S'intima al generale Cialdini di cessare i lavori d’approccio, mentre, in caso contrario, il forte avrebbe principiato il fuoco. — La cittadella apre il fuoco, dirigendo i colpi al Noviziato, a’ Gemelli ed alla Contessa. — Batterie di assedio. — Perdite dei piemontesi del giorno 9. — Danni alla città. — Contegno della popolazione. 433
IX. Lettera di S. M. Francesco II al generale Fergola, in cui lo invita alla resa
X. Un parlamentario della cittadella vuol comunicare con un vapore postale, ma ciò gli viene negato. — Il generalo Fergola si scusa con Cialdini di essere costretto a far danno alla città. — Cialdini si concerta coll’ammiraglio Persano per dare l’attacco.436
XI.

 

La flotta italiana ai dispone in ordine di battaglia. — Effetti del fuoco. — La cittadella più non risponde e si scorge un gagliardo incendio; lo scoppio di un deposito di granate pone fine alla difesa della piazza. — Bollettino del generale Cialdini al ministro della guerra sulla resa della piazza. 436
XII. Condizioni di resa. 438

CAPITOLO VIGESIMOQUARTO

Resa di Civitella di Tronto

I. 440
II. Il generale Mezzacapo offre al forte di Civitella gli stessi patti che furono accordati alla guarnigione di Gaeta, ma nulla si conchiude. — Quando i piemontesi fossero in grado di aprire il fuoco contro il forte. — Materiali degli assedianti. — Il forte risponde con grande energia. 442
III. Vano tentativo di assalto. — Si spingono i lavori d’approccio. 443
IV. S. M. Francesco II manda al comandante della cittadella l’ordine di rendere la fortezza. — La fortezza si arrende a discrezione. — L’effetto dei fuochi piemontesi era terribile. — La guarnigione viene tradotta prigioniera ad Ascoli.. 444
V. Resa Civitella di Tronto, il direttore generale del ministero della guerra in Napoli pubblica un avviso con cui dichiara cessata la prigionia della guarnigione di Gaeta ivi












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