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DELLA EMIGRAZIONE ITALIANA IN AMERICA

COMPARATA ALLE ALTRE EMIGRAZIONI EUROPEE

STUDII E PROPOSTE PER L'AVVOCATO

GIOVANNI FLORENZANO

Due  sono le condizioni politiche, le quali al governo spettano in peculiar modo: in primo luogo il mantenimento della giustizia e e dei dritti di ciascuno: in secondo luogo, una savia e temperata ingerenza all'opportunità.

M. MINGHETTI. Della Economia Pubblica

Libro 3. pag. 224

NAPOLI PE' TIPI DI FRANCESCO GIANNINI MILITO. I; CISTERNA DELL'OLIO 5 1874

(2)

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» 4. Porti d'imbarco e naviglio dell'emigrazione.......................................................  » 180

» 5. Tradimenti e disinganni................................................................................... » 190

» 6. 1 clandestini.....................................................................................................» 200

» 7. La P. S. e la magistratura................................................................................. » 208

» 8. Nuovi inviti e collocamenti.................................................................................» 217

» 9. L'emigrazione italiana è uri bene od un male per la patria?................................» 235

» 10. È un bene od un male per l'emigrante?............................................................ » 298

» 11. Quale debba essere in un regime di libertà l'attitudine del governo...............» 342

» 12. Riepilogo, Conclusione e Proposte............................................................... » 360

Note.......................................................................................................................» 365

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PAGINA 4. a

I porti d'imbarco ed il naviglio della emigrazione

I porti italiani nei quali s'imbarca la nostra emigrazione, sono: Palermo, Napoli, Livorno, Savona, Genova.

I piroscafi che partono da questi porti, tutti o quasi tutti toccano Genova, la quale sia come prima stazione degli emigranti della bassa e media Italia, sia come punto di partenza della emigrazione settentrionale, che vi si rovescia dal Piemonte, dalla Lombardia, dal Veneto, è divenuta il céntro di questo grande movimento dei nostri connazionali.

Niuno si dissimulerà la importanza del porto di Genova; cresciuta certamente negli ultimi 14 anni di vita nazionale, ma che fin dal 1853 richiamò l'attenzione del Conte di Cavour. Il quale espose al Parlamento subalpino su lo scorcio della 4a legislatura, i vantaggi che sarebbero derivati al Piemonte quante volte si fosse attirata al porto di Genova una parte dell’emigrazione tedesca e svizzera; perché la Finanza «ha maggior profitto sull’individuo che attraversa il paese, che non sulle mercanzie, perché mentre l'individuo è nel paese, consuma tabacco, sale, vino, merci tassate, e passa sulle strade ferrate». Per queste ragioni il Cavour volea mettere in comunicazione il porto di Genova col centro della Germania, e ritenne meglio convenisse attraversare la Svizzera per il S. Gottardo, che per il Lucomagno (1).

L'unificazione italiana, e la cresciuta emigrazione europea han data maggiore importanza ed opportunità alle aspirazioni del nostro uomo di Stato.

(1) V. Brofferio. —Storia del Parlamento Subalpino Voi. VI, pagina 643 — ed Atti del Pari. Subalp. Tornata del 31 maggio 1853.

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Ma i governi del nuovo regno che accettarono e svolsero tanta parte della politica di Cavour, non sappiamo che cosa facessero per attuare questo pensiero; il quale avrà un avvenire immancabile dopo l'apertura della ferrovia del Gottardo, se i nostri uomini politici vi porteranno la loro attenzione.

Intanto che cosa avviene? Di stranieri ad imbarcarsi in Italia ne vengon pochi, ed una parte della emigrazione nostra corre ai porti esteri come Marsiglia, Hàvre, Bordeaux, e le cifre della Prefettura di Torino lo provano.

Questo vuol dire che il porto di Genova ha minori attrattive pei prezzi d'imbarco e per la concorrenza del naviglio straniero. Dimostra che in Italia non si prende niuna iniziativa per evitare questa distrazione del nostro commercio, essendo la quistione del commercio italiano intimamente connessa ai trasporti marittimi degl'individui.

Nè queste sono idee nuove. Le notarono il Carpi ed il Cosentino ragionando della nostra emigrazione (1); le comprende certamente il Consiglio del Commercio ed Industria, il quale ultimamente avvisò di non aumentare le tariffe attualmente in vigore pei viaggiatori marittimi. Ma qual prò delle discussioni e dei voti, se continuiamo ad essere tributarii dello straniero anche in questo importantissimo servizio?

La quistione non si arresta qui. Neanche il naviglio che salpa dai nostri porti, è di compagnie italiane.

Come ci risulta da' uno specchietto ricevuto da Genova, i 26,183 emigrati dell’anno passato, furono trasportati in 125 viaggi, cioè 20 di vapori francesi, 16 di Lavarello, 9 della Italo Platense, 11 di Vapori misti, e 69 di bastimenti a vela.

I principali vapori francesi sono i cinque della Compagnia di Marsiglia (Società Generale di trasporti marittimi a vapore)

(1) Carpi op. cit. pag. 76. —Marchese di Cosentino. Sguardo alla emigrazione italiana ed estera. Roma 1873.

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Picardie, Bourgogne, Poitou, Savoje, France; che partono da Napoli per l’America del sud (Rio Janeiro, Montevideo, Buenos Ayres) toccando Genova, Marsiglia, Barcellona, Gibilterra e San Vincenzo.

La Italo Platense è società italiana residente a Genova, ma che ora non manda più i suoi vapori a Napoli. Altre società francesi ed inglesi mandano nei nostri porti legni a vapori, misti, ed a vela, pel transito nelle due Americhe. La ditta Lavarello di Genova è la sola società italiana che si occupi costantemente di questi viaggi,. ed essa trasporta circa un terzo della nostra emigrazione nazionale.

Siffatta condizione di cose impone agi' italiani, e segnatamente ai genovesi, di provvedervi, essendo deplorevole questa distrazione di ricchezza in beneficio dei porti stranieri.

È vero che le nostre società marittime hanno già le loro linee nei mari di Europa, o sulle coste di Affrica o in 0riente, per cui difficilmente rinunzierebbero ai certi guadagni attuali, per l’alea di linee nuove. È vero che per creare nuovi piroscafi pel servizio di America, sarebbero necessarii ingenti capitali che le società esistenti non vogliono compromettere,  né le società nuove troverebbero facilmente, nelle presenti condizioni del mercato italiano. È vero che molti tentativi furono fatti per avere sussidii governativi, sussidii non meno difficili a concedersi da uno Stato che ha un annuale disavanzo nei suoi bilanci.

Ma ove il buon volere animasse le più solide tra le nostre compagnie, non sarebbe poi impossibile un accordo ed una fusione d’interessi e d'intenti. Se non ci fa velo 1 amore del paese, crediamo che questa sia quistione di ricchezza non solo, ma di dignità nazionale. L'una e l’altra consiglierebbero anche qualche sacrifizio, ed intanto non ci si bada, ed il mondo è sempre di chi lo vuole.

Uno spettacolo degno di attenzione è il porto di Genova nei giorni di queste partenze per l’America.

– 183 –

Gli emigranti di ogni angolo d'Italia, sbattuti dalla prima traversata, sono spesso, appena giunti, trasbordati sopra altri piroscafi per proseguire il viaggio. Essi in Italia sono costantemente paragonabili ai sacchi delle derrate— si caricano e scaricano secondo la polizza di carico — i riguardi all'uomo ignoti.

Gli emigrati tedeschi che vanno ad imbarcarsi a Brema, trovano colà un grande edifizio, splendido per costruzione, ammirevole per ordinamento. L'emigrante vi è subito ricevuto e prende il suo numero. Vi trova doccie e vasche per lavarsi il corpo — biancheria se gli manca — e macchine per lavare e stirare a vapore quella che toglie—e pranzo di una cucina eccellente—e ben aerati dormitorii con soffici letti— ed una nettezza ed una disciplina esemplare. Tutto questo egli lo paga, ma è piccola cosa che paga; l’edificio è del governo della città libera di Brema, ed il governo vi spende parecchio per trattare con umanità gli emigranti tedeschi. Quelli sono per costoro i giorni più felici di loro vita. Se sbarcheranno in New York troveranno lo stesso, per conto della medesima città anseatica.

Così comprendiamo noi che un govèrno voglia l'emigrazione! E sul modello di Brema potremmo citare varii stabilimenti negli altri porti d'imbarco d Europa. In Italia non possiamo citare niente, oltre le circolari del Ministro e gli inni ai vantaggi della emigrazione!

Ma l’àncora è salpata—ed al rumorio delle catene e della ruota, al fischio della partenza, alle nuvole di fumo, si confondono gli addii di chi va e di chi resta, ed il sospiro concorde che tutta quella turba manda ai suoi cari ed agli orizzonti della patria dai qitèdi a poco a poco l’allontana il vapore!

Seguiamoli sul mare questi infelici. H pensiero sa dove e come trovarli, poiché ci è ben nota quest'altra pagina della loro istoria!. . .

I 26,183 emigranti italiani del 1873, trasportati in America dalle indicate società, andarono distinti così:

– 184 –

Vapori Francesi viaggi 20 passegg. 6907
Lavarello » 19 » 8008
Italo-Platense » 9 » 4311
Misti » 11 » 3640
Bastimenti a vela » 69 » 3317
viaggi 125 passegg. 26,193

Proporzione fatta su queste cifre, abbiamo iseguenti risultati:

Ogni vapore francese trasportò 345  passeggieri
» Lavarello » 500 »
» Italo platense » 479 »
» bastimento misto » 330 »
» a vela » 48 »

Ma questa cifra proporzionale, non ci dà il criterio esatto del numero di persone che sono accolte sul bordo di ogni nave. Due ne sono le ragioni. Innanzi tutto non ogni vapore, o misto, o legno a vela, carica uguale numero di passeggieri, per la differenza della portata dei legni, che è l'insieme della forza, della solidità, della capacità e del servizio di ogni nave. Così è evidente che se Picardie piroscafo di 2000 tonnellate potrà trasportare 345 passeggieri, un terzo di più ne trasporteranno Poitou e Saooje che han 3,000 tonnellate, e vicersa. Dee dunque variare il carico di bordo a seconda della portata.

La seconda ragione è che oltre al numero dei nostri emigranti, ogni vapore contiene il suo personale di bordo, e chi sa quanti altri individui vanno a caricare, specialmente i vapori francesi, a Marsiglia, a Barcellona, a Gibilterra, a S. Vincenzo.

Ciò posto, noi non possiamo dal solo numero dei viaggi trarre conclusioni certe.

– 185 –

Avrebbe già dovuto, e da lunga data, trarle il governo queste conclusioni, se avesse fatta una di quelle inchieste che sono un dovere per chi regge l’Amministrazione dello Stato. Già troppi anni volsero da che i giornali di America, e per eco, gl'italiani, descrivono le sofferenze dei nostri connazionali, spesso ammucchiati come montoni in fondo alla cala d’una sudicia nave, senz'aria, senza conforti, morti di freddo e di fame, ed esposti ai contagi delle terribili epidemie che soglionsi sviluppare nella vita in comune di parecchie centinaia di esseri, la più parte stordita dal mal di mare, tutti privi d'igiene; scontenti tutti.

Notissima è la traversata dell’Henri IV, vapore d'una compagnia francese, che nel gennaio 1873 trasportò da Hàvre a Montevideo ben 450 passeggieri, quasi tutti italiani. Soffrirono nella lunga navigazione la fame, il freddo, ed altri inenarrabili calamità, fra le quali una, che è il peggiore tormento del navigante: la sete. E la scarsa acqua fu concessa in alcuni recipienti di zinco ossidati, per cui quasi tutti furon presi da subita dissinteria!

Un altro vapore, il Pò, partito da Genova, arrivava il 21 ottobre 1873 a Buenos-Ayres con un carico di 650 passeggieri, e con 18 morti lungo il viaggio, per cui fu sottoposto, all’arrivo, a 15 giorni di rigorosa quarantena!

L'Emilia piroscafo noleggiato da una compagnia di spedizionieri genovesi, arrivava nel dicembre passato a Buenos-Ayres con alcuni casi di colera a bordo. Il corriere della Plata (del 16 die.) si affrettò a spiegare dopo precise informazioni «che i creduti casi di colera erano un avvelenamento per cattiva alimentazione».

Nello stesso porto, poco dopo, giungeva un altro legno carico di emigrati italiani, spossati da un penoso viaggio.

– 186 –

«Male alloggiati, mal nutriti, mal curali, han veduto svilupparsi subito fra loro, casi di malattia, ed alcuni passeggigieri son morti. Un'inchiesta constatò che questi infelici avean mangiato merluzzo avariato, ed avean bevuta acqua corrotta; quindi i casi di avvelenamento numerosi. In principio si credette colera, ma presto si riconobbe l’errore, e la quarantena fu stabilita a Montevideo». Così una lettera da Buenos Ayres, pubblicata nell’Hdvre del 20 gennaio ultimo.

Di questi fatti è ricco il processo della nostra emigrazione in America. Celebre, fra tutte, divenne la recente istoria del San Piero, vapore della Compagnia Valéry, che nell'ottobre 1873 partiva da Napoli con 500 emigranti, 300 dei quali imbarcati per conto della Società riunita delle cinque Ditte. Erano spediti a Bordeaux, donde la Colina, piroscafo noleggiato da una casa di emigrazione francese, dovea portarli in America.

Durante il viaggio da Napoli a Marsiglia, a bordo si sviluppò il colera, per cui alcuni emigrarono addirittura da questa vita. A Marsiglia il legno fu ricusato, e respinto a Napoli — ed anche Napoli lo rifiutò. In alto mare, in un giorno di uragano e di procella, si vedeva dalla marina di Napoli, sbattuto dalla furia delle onde, questo sventurato vapore, su di cui i nostri contadini combattevano con le paure del colera e del mare. L'indomani, calmata la burrasca, noi volemmo da presso visitare il legno, ove erano alcuni contadini ed artigiani di nostra conoscenza. — L'avvicinarsi della barchetta fu salutata da grida di disperazione, da proteste, da accuse, da pentimenti di quella turba che facea pietà! Diceano di aver fame e freddo, e molti di aver viaggiato per un mese in coperta la notte e il giorno, per mancanza di spazio nella stiva. Ed in quel gridìo, alle accuse si alternavano le minacce contro i capi, ed il maggior numero implorava la grazia di rivedere la terra e le loro famiglie, dichiarando di rinunziare all’America sognata, ed al danaro che ognun di essi avea stillato dalla propria miseria!... Sono impressioni queste, che non si scordano, e dalle quali un paese che si rispetta, ha il dovere di trarre utili ammaestramenti!

– 187 –

Scesi a terra, pregammo il Questore di aiutare quei miseri. Le autorità non furono sorde, ma cedendo ad uno dei tanti pregiudizii del secolo, spedirono il SanPiero al Varignano per scontare in quel lazzaretto, la contumacia piena di 40 giorni; contumacia, la cui utilità è ormai respinta dalla scienza, e peggio che respinta dal buon senso, quando in paese bravamente e giornalmente uccide il colera, ed i pedoni e le carrozze e le ferrovie non hanno ostacolo alla libera circolazione.

 Ma tanto avvenne. Un bastimento della Real Marina, il Tripoli, dovè scortare il SanPiero per garentire la vita del Capitano. E la quarantena fu scontata fra stenti e sofferenze nuove. Dopo le quali gli emigranti, neanche potettero partire per l’America, perché la Società delle cinque ditte disse già partito da Bordeaux il suo piroscafo. Un legno dello Stato. la Dora restituì a Napoli questi ballottati pellegrini, i quali finirono, come malfattori, sotto la scorta dei carabinieri, che li accompagnarono ai rispettivi paesi, ove andarono a narrare accanto al focolare le dellzie dei dì che furono.

E del danaro? Sia lode grandissima al Questore di Napoli, che giunse a ricuperare 50 mila lire delle centomila sborsate dai contadini!...

Primi fabbri di tante sventure sono le Agenzie di emigrazione, e lo leggeremo meglio nella pagina 5a di questo processo. Ma le società di navigazione alle quali appartengono i navigli, possono declinare la loro complicità?

Esse sanno e vedono meglio di ogni altro queste cose; e conoscono gli Agenti e le loro arti, anzi pagano a costoro un testatico di 40, di 50 lire a persona, per ottenere la cessione degli emigranti; ed è evidente che tal negozio attira la concorrenza, e le società che meglio pagano gli agenti, peggio tratteranno i loro passeggieri. Ma supponghiamo che le Compagnie fossero innocenti, sorprese, ingannate dai mezzani.

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Non avrebbero esse il mezzo facile di scoprir la frode chiedendo ad ogni imbarcato, pria della partenza, il porto cui è diretto, la somma che ha spesa?

Basterebbero a tale inchiesta due soli impiegati di bordo, e due ore di tempo. Se ciò avessero fatto gli armatori, non sarebbero avvenuti pel passato gli scandali che narreremo nelle pagine seguenti.

Dunque una conclusione ci pare evidente; le compagnie di navigazione sono in gran parte responsabili di tutte le frodi e le sofferenze cagionate ai poveri emigranti.

Ma il quadro che abbiam dipinto a nero non manca di punti chiari, che brillano maggiormente al paragone. Vi sono società oneste che compiono scrupolosamente i loro impegni, e delle quali non ha che a lodarsi la nostra emigrazione, perché non solo vi è ben trattata nel viaggio, ma nei casi di forza maggiore ricevé riguardi umanitarii. Non abbiam bisogno di citare nomi, perché il paese conosce le une e le altre. E poi questo processo ricorda fatti e non persone.

La quistione del naviglio a noi parve di una grande importanza e degna di studio nel processo della emigrazione. Ci parve che bisognava ricercare le ragioni che crearono in Europa la concorrenza e la rivalità dei porti di Hàvre per la Francia, di Brema ed Amburgo per la Germania, di Liverpool per l'Inghilterra, oltre ai porti minori di Amsterdam, Rotterdam, Glascow e di Anversa, che ha perduta l’antica importanza come punto di partenza della emigrazione belga, per la poca cura che ebbe degli emigranti.

Questa gara produsse umanitarie precauzioni prese dai governi e dalle compagnie per diminuire i disagi ed i rischi ai quali andò incontro l’emigrazione europea sino a 30 o 40 anni or sono, e non vi è paese di Europa che non abbia registrato i fatti dolorosi del suo esodo come noi facciamo oggi per l'Italia.

Tali vantaggi e precauzioni possono ridursi a cinque principalissimi:

– 189 –

1.°Ai prezzi del trasporto.

2.°Al numero dei passeggieri, proporzionato alla capacità della nave; ed alla prevalenza dei vapori sui legni a vela.

3.°Allo stato di salute degli imbarcati.

4.°Al nutrimento ed al riposo dei passeggieri durante il viaggio.

5.°Alla cura delle loro infermità.

1.°In quanto ai prezzi, tutte le Società di Europa si studiarono di ribassarli, essendo questo il primo eccitamento alla concorrenza.

2.°Il numero degli imbarcati crebbe con l'aumento della emigrazione e con l’aumento della portata delle navi, ma ebbe un limite, il quale contrassegnò la onestà delle compagnie.

Avendo noi studiate le cifre dell’emigrazione europea nei tre porti di Amburgo, Brema e Liverpool, (1) volemmo completare quello studio con la seguente indagine sul naviglio.

Emigrazione da Amburgo

Dal Emigrati Trasportati

per ogni naviglio

1846    al    50 31,985 113
1851     »     55 99,170 115
1856    »     60 98,080 199
1861     »    65 110,400 272
1866    »     69 161,265 391

Questo specchietto dimostra come in ogni periodo quinquennale aumentò il numero de' passeggieri di ciascun naviglio, il che vuol dire che furono adoperati bastimenti di più grande pomata, specialmente vapori.

(1) Cap. II pag. 56 e seguenti.

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L'emigrazione partita da Brema dal 1832 al 1846, che, come vedemmo, fu di circa 200 mila individui, fu spedita in proporzione di 105 persone per ogni nave. Dal 1847 al 50 la proporzione aumentò a 143 viaggiatori. Da quel tempo cominciò una concorrenza fra i navigli a vela ed a vapore; infatti. nel sesto decennio di questo secolo partirono da Brema 2172 bastimenti a vela, con 397,476 emigranti, divisi in 183 per ogni bastimento, mentre 142 vapori trasportarono 26,443 viaggiatori, cioè 186 per ogni vapore. Dai calcoli che abbiamo fatti su queste cifre, ci risulta che si bilanciarono le proporzioni del carico de' velieri e de' vapori. Ma negli anni successivi la navigazione a vapore aumentò gradatamente, come è chiaro dal seguente specchio che non ispiacerà di osservare a quelli, fra i nostri lettori, che s'interessano di questo speciale argomento.

Partirono da Brema

Negli anni Naviglio a vela A vapore
Dal 1861 al 1865 533 96
nel     1866 136 43
 »      1867 159 67
 »      1868 130 76
 »      1869 101 104

Dal 1869 in qua la prevalenza dei vapori si è fetta più rimarchevole, anzi dominante in Brema, ove la Società transatlantica, costituita in gran parte con capitali di azionisti, si occupa esclusivamente della spedizione de' passeggieri. Per lo passato questi vapori giungevano fino a New York; oggi vanno a Baltimora, a Boston, a Nuova Orleans, a Filadelfia ed in altri porti.

Non meno interessante a studiarsi è la condizione del naviglio inglese che trasporta la emigrazione.

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Durante i 16 anni dal 1853 al 1868 partirono dal Regno Unito per oltre all’Oceano 5572 navi inglesi e 3043 straniere. Il maggior numero toccò all’anno 1855 in cui si numerarono 524 battelli inglesi e 460 stranieri; laddove sei anni dopo (1861) partirono soli 199 bastimenti inglesi e 108 stranieri.

La ragione di questa differenza sta nei vantaggi che la emigrazione inglese trovava ad imbarcarsi negli altri porti di Europa, Ma quel gran popolo che calcola e provvede, che se da lontano osserva un vantaggio, cammina e lotta per raggiungerlo, non permise questa distrazione di ricchezza. In questi ultimi anni migliorò notevolmente il suo naviglio mercantile accrescendone la portata. Nel 1853 una nave inglese destinata ai trasporti transatlantici avea la forza di 766 tonnellate inglesi; una nave straniera ne avea 1043. Sette anni dopo, nel 1860, la nave inglese avea la portata di 1219 tonnellate, ed una straniera di 1354. Nel 1868 la prima ne avea 1514, e la seconda 1296. Nè questi progressi si arrestarono lì. Oggi il naviglio mercantile del Regno Unito è forse il primo in Europa, ed insieme alla portata dei suoi legni crebbe la esattezza e la celerità 4elle sue spedizioni. Gli emigranti inglesi non s'imbarcano nei porti di Francia o di Germania, ma a Glascow,a Londra, a Portsmouth, a Liverpool, e questo porto, fra tutti i 160 che ne ha il Regno Unito, è divenuto il più importante della Gran Brettagna. —Situato sulla costa occidentale dell’Inghilterra, di fronte all’Irlanda ed ai piedi della Scozia, lo favorisce la sua posizione alla porta dell’Atlantico.

Riassumiamo ora questa doppia ricerca.

Tenendo conto dei confronti fatti, ci pare che si possa con fondamento stabilire che la media dei trasporti del naviglio sia da 200 a 250 passeggieri. Abbiamo sottocchio anche le statistiche degli approdi nei porti nordamericani. Da una di esse risulta che 1491 battelli giunti a New York in questi ultimi anni, vi trasportarono 307,182 emigrati tedeschi partiti da varii porti del Baltico e dell’Atlantico. La media di ogni naviglio fu di 206.

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Ed ora ricordiamoci del San Piero che partì carico di 500 persone, dèi Po che ne ammucchiò 650, e con questo carico, o poco meno, partono ogni giorno dai nostri porti, vapori stracarichi di merce umana, senza che nessuna autorità se ne brighi o ci pensi.

La seconda ricerca ci trae a concludere che la nave a vela nei porti dell’Europa settentrionale è ormai discreditata dal vapore. Le più recenti statistiche degli approdi, che ci siam procurate, offrono le seguenti cifre: Nel solo anno 1868 giunsero a New York 451 vapori, ed invece 200 a vela. Negli anni successivi il numero di questi ultimi diminuì, alimentando per contrario i vapori.

Ed una prova anche più diretta della convenienza di limitare il carico dei passeggieri, e preferire il vapore alla vela, ce la offre la statistica delle nascite e delle mortalità a bordo, argomento questo di grave considerazione.

Sui 451 vapori anzidetti, avvennero 96 nascite e 200 morti. Invece sui legni a vela si verificarono 102 nascite e 393 morti. E traemmo dal raffronto la seguente conseguenza. Se nei vapori la mortalità, proporzione fatta, non giunse all’uno per mille, nei battelli a vela arrivò al 13 per mille. Ne son cagioni il più lungo viaggio, la inferiorità dell’armamento, onde maggiori le sofferenze.

3.° Fuvvi un tempo in cui le razze anglosassoni rovesciarono in America turbe di uomini non solo affamati e laceri, ma infermi, ed invalidi. Le compagnie non aprivano bocca; ogni emigrante rappresentava un guadagno; poco interessava se vivi o morti giungessero tutti.

Ma negli Stati Uniti di America (ove non è vero che sia freddo il sentimento dell'umanità) lo spettacolo continuo e progressivo de' morti che ogni vapore europeo vi recava, provocò un provvedimento che in Europa parve strano, e che nondimeno ottenne il suo effetto.

– 193 –

Con un Atto del 5 marzo 1855 fu prescritto che il Capitano di ogni legno è obbligato a pagare all’approdo in ogni porto degli Stati Uniti, una multa di 8 dollari (L. 41,60) per ogni individuo maggiore della età di anni 8, morto di malattia ordinaria durante il viaggio. Questa sanzione penale che va tutta a carico del Capitano, e da cui egli non può sfuggire, perché ogni decesso risulta dallo stato dei passeggieri (che è tenuto a mostrare, arrivando, agli agenti della dogana) costrinse i capitani e le compagnie a rifiutare l’imbarco a quegli individui malaticci o consunti dalla miseria.

La nostra emigrazione che si volge in gran parte all'America del Sud, non subisce questa precauzione. Quindi si emigra liberamente a 70 anni come a 20, deboli e forti, e tutto procede come ispira la follia degli umani eventi, senza freni e senza cautele.

Ma qui sottoponghiamo al senno de nostri governanti, che all'Atto del 5 marzo 1855 risposero con regolamenti analoghi molti Stati di Europa, ed in quell'Atto son consacrate importanti precauzioni intorno al carico della nave, all'igiene nel viaggio ed alla cura degl'infermi, sotto pena di forti multe ai Capitani in caso di trasgressione.

Facciam voti che tutti questi regolamenti vengano studiati in Italia e se ne tragga partito.

4.° Il nutrimento ed il riposo de' passeggieri nella traversata, sono i principali elementi dell'igiene, scienza che compendia gran parte della medicina moderna. Abbiamo letto sul proposito i regolamenti inglesi, ed il cuore si allarga vedendo come in quel paese pria di rispettarsi il cittadino, sia garentito l’uomo. Tutti i conforti necessarii ad un viaggiatore, la natura delle provvigioni, l’orario dei pasti, e sino la cottura degli alimenti, ogni cosa vi è scrupolosamente preveduta. Se un Capitano trasgredirà ad alcuna di queste norme, gli è preparata una multa di 1000 dollari, che in nostro stile significano lire 5200, oltre ad una pena di prigionia estensibile ad un anno, ed alla responsabilità innanzi ai Tribunali de' Capitani e delle Compagnie.

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Ed ora non vorremmo fare il riscontro. Sui manifesti che diffondono le nostre agenzie di emigrazione, si promettono molte belle cose ai poveri emigranti: vaste camere sotto coperta per alloggiarli; colazione, pranzo e cena con un menu in cui il contadino vede un' anticipazione dell’America. Ma qual disinganno quando il sogno si dilegua innanzi alla realtà! I passeggieri all’aria aperta, ed il merluzzo avariato, e l'acqua putrida, e la fame, e la sete, ecco i ricordi che si associano al viaggio della nostra emigrazione. E ripetiamo che vi han vapori ove le promesse si compiono, ma qui discutiamo il male, il male esiste, e bisogna che sia rimosso.

5.° Un'ultima condizione è necessaria a tenersi presente: la cura degli infermi a bordo. Ai malanni che son proprii di ciascun organismo ed a quelli che sopravvengono quando meno l'uomo li prevede, in una lunga navigazione se ne manifestano nuovi e frequenti, come il mal di mare con tutte le sue conseguenze, ed i contagi di ogni natura (malattie di occhi, di pelle, tifo, colera etc. ) che richiedono cura e precauzioni grandissime.

Nelle lunghe traversate è necessario a bordo uno spedale proporzionato almeno al carico di 3a classe; e chi prevede i casi delle epidemie, comprenderà che ad evitarle è oltremodo necessario uno spazio sufficiente tra i letti nei cameroni interni di un vapore. Lo spedale e gl'infermieri, i medici e le medicine, dovrebbero essere l’oggetto di sanzioni regolamentari, nelle quali spiccasse il concetto della responsabilità come cosa concreta, perocché senza di essa non intendiamo il dovere, come senza il dovere non comprendiamo una comunanza civile.

Concludiamo.

Fino a che da Genova non partiranno per l'America in maggior numero vapori italiani—fino a che Compagnie nazionali non entreranno nella gara con le altre di Europa— fino a che non avremo regolamenti che terran conto strettissimo delle suesposte condizioni —

– 195 –

il desiderio del Conte di Cavour dormirà in pace con lui, e continueremo a vederci rapire dall’attività forestiera una fonte di ricchezza che è nostra; e per giunta, l’emigrazione italiana soffrirà quei mali ed abusi avvenuti nei passati secoli in altri paesi di Europa, dèplorati dai più autorevoli economisti, e rimossi oramai da tutti i governi.

Eppure che cosa ci manca per far di Genova la Brema ed il Liverpool d'Italia?

Il buon volere.

– 196 –

PAGINA 5. a

Tradimenti e disinganni

Col titolo di questa pagina si potrebbero scrivere lugubri e pietosi racconti. li tradimento ed il disinganno con cui comincia e finisce buona parte della nostra emigrazione, offre materia ad uno studio di frodi nuove, degne dell'attenzione dei criminalisti e dei politici.

Lasciamo ad altri la cura di trar partito da questa messe preziosa. Il nostro processo esige ricordi di fatti, ed affrettiamoci a raggrupparne alcuni sotto l’occhio dei lettori.

Facemmo più sù la conoscenza degli agenti di emigrazione. È tempo ora di sapere come essi crearono indicibili sventure a migliaia di emigranti. Non v'è contrada dell'Europa civile donde non partirono reclami ed accuse contro costoro. Per essi molti emigranti perdettero le ultime sostanze, e chi la salute, e chi la vita, e chi la pace dell'esistenza; altri mandati in regioni deserte, sterili ed insalubri; altri trattati come schiavi dai nuovi padroni presso i quali furon collocati.

Questa storia di dolori è ormai vecchia di oltre a tre secoli. Risale all'origine, e si estende allo svolgimento delle colonie americane. Tra i tanti esempii citeremo la emigrazione degli operai francesi alle Antille, che per 148 anni costituì una corrente perenne dal 1626 al 1774. Partivano da Hàvre, Dieppe e Saint-Malò; stivati in grossi battelli, lanciati, sotto la sferza dei soli tropicali, alle dure fatiche delle piantagioni, senz'altro salario che cento libbre di tabacco pel primo anno, questi infelici, reclutati con lusinghiere promesse, risentirono peggio che la schiavitù, il più amaro dei tradimenti.

Dopo tanta e costante esperienza, molti Stati determinarono che gli agenti per la spedizione degli emigrati, pria di intraprendere i loro affari, debbano avere il permesso governativo, e sieno obbligati di presentare i contratti con i singoli emigrati.

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Le agenzie presso di noi, non proibite  né frenate, manipolarono a loro modo la pasta dell’emigrazione. Denunziate da parecchi anni al paese dalla stampa quotidiana, riprovate dalla pubblica coscienza, non solo aumentarono l'emigrazione italiana, ma spesso ne tradirono le speranze e ne ingannarono la buona fede.

Nel gennaio 1873 erano a Marsiglia alcuni miseri giovanotti italiani, contadini della provincia di Salerno. Quattro o cinque mesi prima, un vapore provveniente da Genova li avea ivi sbarcati. Invano gl'infelici invocarono la pietà del capitano, che a Genova li avea. ricevuti per Marsiglia,  né potea trasportarli in America.

Per ognuno di essi lo spedizioniere pagò alla compagnia 80 lire ogni posto di 3a classe: ma i contadini avean pagato allo spedizioniere 900 lire per ciascuno, cioè largamente un posto di vapore dall'Italia a Buenos-Ayres.

A Marsiglia toccò loro, poco dopo, la fame e la disperazione. Passarono cinque mesi mendicando la vita, quando alcuni genovesi che li incontrarono per le vie di Marsiglia, raccolsero dalle loro labbra la storia dei sofferti patimenti, e questa istoria, che poi narrarono a noi, può compendiarsi in due sole parole: stento e desolazione. Solo aggiungeremo che il caso di questi contadini si è riprodotto le cento volte, e lo sa meglio di noi il governo.

Un altro giorno l’agente di emigrazione ha esatto dallo emigrante il nolo per il legno a vapore, e sopra un vapore lo ha imbarcato a Palermo o a Napoli. Ma a Genova cambiò la scena. Furono sbarcati e condotti sopra una nave a vela, la quale chi sa dopo quanto tempo e quanti pericoli, ha fatto loro toccar l’America. Fu questa la vicenda di 40 calabresi a noi noti, che eran diretti a Buenos-Ayres. Ma la tempra calabra a Genova si risentì, e si ammutinarono alla sorpresa, e non volevano partire.

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Si ricorse alla Questura, si strepitò e finalmente si ottenne dai passeggieri che partissero a vela, iniziandosi intanto un processo contro gli autori della frode. Di simiglianti'processi se ne fanno ormai ogni giorno, ma la loro istruzione, necessariamente lunga per la complessità dei fatti e la distanza tra gl'imputati e i testimoni, ritarda il salutare esempio della pena, e la impunità incoraggia i vecchi e nuovi frodatori. In questi dibattimenti entrano giudici la magistratura, i giornali, il paese, e la responsabilità si ballotta come una palla nel circo, tra le Compagnie, le agenzie e gli arruolatori, per modo che a capirne il netto è difficile impresa.

Un altro giorno si fece pagare all’emigrante il viaggio per l’America del sud, e poi lo mandarono ad Hàvre per la via del Cenisio, e di là a New York, con promessa, giunto colà, di fargli proseguire il viaggio con altri piroscafi senza nuovo pagamento. Invece il povero ingannato si trovò solo e stordito in mezzo al frastuono di New York, e svanirono per lui gli aiuti promessi, ed il corrispondente dell’agenzia, ed il piroscafo, e il lavoro largamente pagato.

Fu questo il destino di una turba d'italiani che l'anno passato erravano per le popolose vie di quella città, e al cui destino finale dové provvedere il nostro Consolato.

Un altro giorno un tale, spacciando relazioni con le agenzie di Napoli e di Genova, giunse ad accaparrare 200 e più individui, scroccando loro, nell’atto della sottoscrizione, un paio di caciocavalli (1) per ciascuno. Poi li condusse in Napoli, ove li imbarcò sopra un vapore per Genova, e si fè pagare da ognuno lire 20, il che vuol dire 4,000 lire di lucro, e 4 quintali di caciocavalli.

Intanto l'America di quei 200 fu il porto di Genova, ove giunti, non trovarono chi li avesse imbarcati per l'America vera.

(1) Specie di formaggio, comune nelle province napoletane.

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Alcuni tornarono a casa, altri restarono a Genova a contemplar la riviera, altri spediti a Marsiglia, e nel viaggio vittime di gravi disgrazie pel troppo peso del bastimento. Altri infine partiti per l'America, ma sopra legni a vela, e non se ne ebbero notizie!!

Chi porrà in dubbio che l’eroe di questo episodio meriterebbe un brevetto d invenzione?

E qui ne avremmo da continuare per lunga pezza, se non fossimo incalzati dai nuovi argomenti. Oltre a che la materia è disgustosa e ristucca. Sono inganni e tradimenti, che meriterebbero di figurare tra le bolge di Dante. Il codice penale le chiama frodi ma non le raggiunge che assai raramente. Un processo di nostra conoscenza intorno a queste truffe, si aggira da tre anni per gli ufficii giudiziarii, ammucchiando carte e divertendo impiegati, ma gli eroi che esso dovrebbe aver raggiunti, continuano a trescare in questa ridda indecente della emigrazione, sicuri che pria di esser tradotti ad un Tribunale, passeranno ancora degli anni.

Dio ce ne guardi di chiamare in causa la responsabilità del magistrato! Noi notiamo il fatto, ed acquistiamo nuovi argomenti per tener cara questa gemma del processo inquisitorio! Voi che citate ad ogni passo l'Inghilterra, codesto non avverrebbe colà dove i birboni veri son puniti, senza questa roba lunga ed inutile del nostro processo penale, creato apposta per far morire l'ammalato mentre il dotto professore si ammazza di studio.

Ora tornando alle agenzie ed ai loro satèlliti, vedrà ognuno quanto sia necessario di proibirle o di regolarle. Coni' oggi procede la cosa, l'emigrazione è tradita ed il paese ci rimette di dignità.

E le agenzie oneste che si occupano di questo commercio, plaudiranno per le prime al nostro voto.

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PAGINA 6a

I clandestini

Beviamo sino alla fine il calice amaro!

Gli studii statistici da noi fatti innanzi ci offrirono cifre ed induzioni penose intorno a quella parte d'emigrazione italiana che annualmente lascia la patria senza passaporto o clandestinamente. Sono per lo più giovani, nel fiore degli anni, che si sottraggono alla coscrizione militare ed imputati che si liberano dai rigori della giustizia penale, e fanciulli venduti e trascinati di soppiatto, e debitori e falliti e rovinati; non emigranti ma fuggitivi, che escono dallo Stato con le precauzioni del ladro perché non sieno visti e sorpresi.

Dimostrammo quanto sia difficile saper la cifra vera di questo esodo tenebroso. Il Prefetto di Genova solo in quella provincia ne accertò 400 per l'anno 1872. Nel napoletano (V. Tabella A) ce ne indicarono altri 320—cifra tutt'altro che veridica in paesi dai quali l’emigrazione dei suonatori girovaghi è in gran parte clandestina, e la fuga dei soggetti alla leva ha preso proporzióni inquietanti.

Ricordiamo che il censimento officiale rilevò 11,068 emigrati clandestini del 1871; 11,444 nel 1870; e 14,040 del 1869, nel quale anno il Carpi ne calcolò 15,352. Tai risultati officiali di un triennio, ed altre considerazioni svolte nei Cap. V e VI, ci persuasero ad assegnare una cifra di 0 mila alla emigrazione clandestina del 1873, certi di dire meno del vero.

Questo fatto non è un privilegio italiano; fu deplorato anche in altri paesi di Europa e segnatamente in Germania. Dalla Prussia, durante nove anni, dal 1856 al 64, emigrarono clandestinamente 47,616 individui, fra i quali 10,069 soli renitenti di leva. Alcuni scrittori calcolarono che in media la Prussia offra 5 mila clandestini per ogni anno.

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Anche renitenti di leva furono i clandestini dell’Oldenburg. Ma nel 1862, quando già da molti anni erano iscritti 2073 renitenti, ed il loro numero aumentava, il Governo accordò un' amnistia per quelli che volessero ritornare e prender servizio nella milizia, o che bramavano dare il supplemento.

L'emigrazione della Baviera, che studiammo ascendere per 30 anni, sino al 1864 (1) a 254,557 usciti, fu per metà emigrazione clandestina, cagionata in parte dalla reazione del 1850, e nel resto tutti renitenti di leva. Solo in 13 anni di quel perjodo dal 1852 al 1864, essa risultò di 35,997!!. . .

Dal Wurtemberg in 26 anni, dal 1840 al 65, emigrarono circa 60 mila clandestini. Nell'anno seguente 1866 se ne contarono 1570. (2)

Respiriamo dunque; ché non siamo soli ad aver i malanni, benché proporzione e paragoni fatti, la nostra emigrazione clandestina annua, superi le cifre degli stessi paesi che abbiam citati. Ma non è del numero. dei nostri clandestini che qui vogliamo discutere. Le cifre vere del fatto non può dircele neppure il governo dopo gli studii che sta compiendo; ce le dirà la virtù del paese quando tutti faremo il proprio dovere.

La pagina presente rileverà ben altra cancrena, ed è il modo come si recluta e si fa largo la nostra emigrazione clandestina. Nei tanti libri che abbiamo svolti studiando queste quistioni, non incontrammo in nessun paese di Europa un complesso simigliante di oscenità, che qui si compiono impunemente e notoriamente!...

(1) Capo III pag. 68.

(2) Per questi ed altri dati raccolti nel presente volume intorno ai paesi tedeschi, ricorremmo alle seguenti fonti — Allgemeine deutsche Real Encyklopädie für die gebildeken stände. Conversations Lexikon. Leipzik 1864. Zweiter Band pag. 455. Supplement zur eilften Auflage des Conversations Lexikon. Leipzik 1872. Erster Band pag. 129 — nonché a parecchie altre pubblicazioni statistiche tra le più recenti che vennero di Germania.

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Cominciamo dai modi più semplici e comuni. Un giorno X disse ad una donna «Se vuoi ottenere il passaporto per tuo figlio, mi devi dare 30 piastre, oltre il prezzo del posto. Se vuoi farlo partire clandestinamente, mi devi dare lire 600 in oro, quanto hanno pagato i figli di Tizio, Cajo e Mevio». X faceva a quella donna una proposta discreta. Da altri ottenne 700 ed 800 lire. Due soldati di Ia categoria gli pagarono 850 lire per ciascuno sino a New York; negozio non disprezzabile quando il viaggio per New York costa lire 200!

Nè questi sono i massimi utili. L'incettatore contratta questa specie di affari con due norme. La prima sta nella sorveglianza maggiore o minore che si deve eludere. Ad es: un iscritto di leva non avrà il passaporto, ma non è guardato, laddove un renitente dichiarato lo si ricerca per arrestarlo. Un imputato fuori carcere non desta le precauzioni delle autorità, mentre il condannato in contumacia, od il colpito da mandato di cattura, è ricercato dai Carabinieri. Cresce il merito dell’opera e quindi il dritto al compenso, quanto più crescono le difficoltà di far partire un individuo.

Il secondo criterio è la posizione finanziaria della recluta clandestina. Un uomo agiato non pagherà  né sette,  né ottocento lire per emigrare così; ma ne pagherà mille, duemila, secondoché gli consentiranno le sue forze; perché in generale il mezzano domanda somma grossa per carpire quanto più può.

Ed ecco creata nel paese una nuova specie di scrocco; ed ecco avviati in America disertori delle bandiere e malfattori, non tutti schiuma di onestà capaci di onorare il nome italiano!

Fin qui è la innocente storia di ogni giorno. Ma v'ha uomini astuti che san fecondare la frode, ed essi sapran creare fatti nuovi degni di essere svelati all’universale, perché il paese vegga sino a qual punto lo tragga un sistema di prolungata indifferenza in chi governa.

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Alessi, Titiro e Coridone sono tre contadini, innocenti come quei delle egloghe Virgiliane. Istigati da quotidiani eccitamenti, e lusingati da seducenti promesse, son colti air amo da un Dameta, vecchio arnese di emigrazione; il quale promise loro di farli emigrare quantunque soggetti alla leva, purché gli pagassero 600 lire per ciascuno in considerazione della loro povertà; assicurandoli che di questa somma si sarebbero rifatti in pochi giorni, appena giunti in America.

Ai dubbii ed alle paure dei parenti, per essere i loro figli impegnati in leva, Dameta rispondeva: «Non dovete a nulla pensare. Questi non sono più figli vostri, ma miei. Io li fo andare per sottoterra, ed arriveranno senza ostacoli in America, ove vanno a fare i galantuomini».

E quegl'infelici vendettero le loro casucce, e fecero debiti, accumulando a via di stenti le 600 lire per ciascuno.

E Dameta ebbe il danaro e rilasciò per ricevo un biglietto d'imbarco da lui firmato, con timbri e sugelli, e promise di far partire i nuovi figli fra due giorni.

Altro che due e venti ne passarono! Ed alle insistenze dei parenti Dameta li fè successivamente partire. La emigrazione cominciò su d un carretto tirato da un somaro ed un mulo, ove ciascuno dei tre provò per quattro giorni le dellzie di un viaggio di cento miglia a questo modo.

Alessi, ultimo venuto, fu dal carrettiere condotto in Napoli e depositato in una lurida locanda dei bassi quartieri; fu la prima fermata della nuova via crucis. Colà si trovò il mal capitato fra volti nuovi ed ignaro del suo destino. Vi stette otto di, ed all’ottavo sopravvenne Dameta, e gli fè cambiar domicilio. Nella nuova locanda, assai peggiore della prima, Alessi trovò Titiro e Coridone, ed a tutti e tre Dameta assicurò di farli partire fra due giorni per l’America.

E passarono due e dieci e trenta giorni; e dopo il primo mese passò il secondo, e continuava il sequestro di quelle tre persone, alle quali il locandiere avea interdetto anche di uscir di casa, sotto minaccia che Dameta non li avrebbe più fatti partire.

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Ma il lungo aspettare li avea stancati. Un giorno ruppero il freno, e fuggiti da quella prigione, a piedi, mesti ed affamati, si avviarono alla patria. Si diressero primamente in casa di Dameta, il quale, al vederli, li minacciò di vita, e li chiuse in un antro di sua casa, per paura che ne fosse andata la notizia alle povere famiglie. Alle quali il furbo Dameta già da un pezzo avea assicurato, per notizie venutegli dai corrispondenti, che i figli eran giunti in America, ove avean trovati ottimi collocamenti, ed a giorni sarebbero giunte le lettere. S'immagini con quanta ansia le aspettavan queste liete lettere, gli ammiseriti genitori!!...

Intanto il terzo sequestro durò altri otto giorni; in capo ai quali, una sera Dameta, assicurandoli di condurli ad imbarcare in Napoli, li trasse dal paese.

E via a piedi facendo la strada, (che i giovanotti divoravano sognando vicini il vapore e l'America) li fè soffermare poche miglia dopo, in una certa casa e stalla, taverna lurida, che tenea luogo di albergo. Ivi giunti, e venuti a riceverli il padrone, compare di Dameta, questi destramente scomparve, ed i meschini arrivati subirono colà un quarto sequestro di 24 giorni, rallegrati da minacce di vita del compare, se per caso osassero aprir bocca a lamenti.

E spirati i 24 giorni venne Dameta, e con parole dolci e pretesti a diluvio, li rilevò di là e li condusse finalmente (ed era la seconda volta) in Napoli, in una certa casa ove altri 20 disgraziati, tutti clandestini, (renitenti di leva o malfattori) aspettavano da due mesi l'ombra di Dameta, principio e cagione della loro mestizia.

Ed allora le reclute furono 23, e continuarono a star rinchiuse colà, e si badava a non farle prender aria per conservarle in buona salute, e pareano secoli i giorni passati meditando l’ora dell’esodo.

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Ma quegli esseri più pazienti dei somari, avrebbero forse aspettato ancora il Messia, se il locandiere, canzonato anch'egli da Dameta, non li avesse cacciati di casa perché anche una zuppa di legumi ed un tozzo di pane a ciascun d'essi, ogni giorno, cominciava a pesargli.

Ed i meschini ripresero la via della patria, anche a piedi, e camminando sempre il dì e la notte. E pria di tornare alle loro case si recarono da Dameta, il quale prontamente uscì con essi, e placandoli con nuove astuzie e promesse, li condusse in una vicina masseria di campagna, al cui custode li affidò, e maggiore fu questa volta lo spauracchio delle minacce di vita. Il sequestro durò questa volta pochi giorni, perché le famiglie agitatissime per non ricever lettere d'America dai figli, già da molti mesi partiti, ebbero notizia della loro dimora e corsero a liberarli. E qui rifiuti, minacce e resistenze dei custodi e di Dameta accorso alla chiamata, finché alla forza del numero non essendo più possibile il resistere, Dameta, come il comandante d'una piazza forte, ordinò la liberazione dei suoi figli adottivi, dopo aver fatto provare loro i rigori della paternità.

Però in tono irato li arringò: guai a voi, se usate reclamare alla giustizia!... Ma questa volta i figli si ribellarono— e ne fecero querela all'autorità.

Un processo lungo e voluminoso fu compilato, e fatti nuovi e gravi vennero in luce, e pei meandridelle sedi giudiziarie quel processo da tre anni si aggira, or sospinto ed or ristagnato. Ed intanto Dameta ha continuato impunemente il suo mestiere, ed è divenuto maestro nell’arte di mandar clandestini in America, e di non mandarvi i più pazienti. E per riuscire nel doppio intento ognun vede quale rete di complici sia necessaria. È tutto un tessuto di intrighi e di colpe, ordito a danno della pubblica fede, la quale ha tanto più dritto ad essere tutelata, quanto maggiore è l'ignoranza e la dabbenagine delle popolazioni rurali. I Dameta che esercitano la esportazione clandestina non sono 10 o cento — sono senza numero in tutte le nostre province.

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Sbucati dal fondo dei più oscuri stati sociali, essi acquistano, con l’esercizio, la sfrontatezza necessaria a simili affari, e proclamano di non temere l'ira della giustizia, perché la legge (essi dicono) non può punire ciò che si fa ormai palesemente sotto gli occhi di tutte le autorità!

Maper emigrare è mestieri d un passaporto, che dee mostrarsi o a bordo o alla frontiera; or come fa ad uscire dal regno tanta gente senza passaporto?

Ecco i modi come il nuovo problema è risoluto.

Dicemmo altrove che una paffje dei clandestini si avvia per terra e valicando gli "erti sentieri delle Alpi, cautamente si getta nel territorio estero, e va ad imbarcarsi ai porti di Francia.

Un'altra parte, ed è numerosissima, senza tante cerimonie s'imbarca addirittura nelle acque italiane e placidamente arriva in America. Ad evitare la briga del passaporto due sono i consueti modi.

O sono imbarcati su vapori francesi, e la bandiera estera covre la merce, non controllata,  né visitata da niuno.

Ovvero gli emigranti, ad ora convenuta, ed in punti determinati, raggiungono in alto mare vapori partiti dai nostri porti, i quali soffermano la corsa, e ricevono a bordo i clandestini. Questo modo di emigrare è noto nelle province meridionali;  né è ignoto a Livorno ed a Genova, ed il Virgilio lo rilevò nella sua relazione.

Ma ove non giunge il dritto, arriva l’astuzia. Lo stesso Virgilio narra che speculatori italiani cedendo alle compagnie gli emigrati clandestini, li qualificarono sacchi!

Altre volte gli agenti di P. S. recatisi a bordo, trovarono in fondo alla stiva un ammasso di catene arruginite dal mare. Udirono forse una voce, un rumore, e dando corpo al sospetto, fecero rimuovere le ancore ammonticchiate; e sotto a quel promontorio di ferro trovarono gruppi di uomini distesi l'uno sull’altro, senza aria, senza luce, senza carità.

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Erano tutti giovani delle nostre province, sforniti di passaporto, soggetti o renitenti di leva, che emigravano all’America. I trafficanti della emigrazione san mettere a prezzo le precauzioni, i nascondigli, il rischio, e cosi ognun di quelli paga non il nolo del vapore, ma le grosse somme che van divise fra quanti facilitano, aiutano, compiono la tratta.

A dirla in breve, codesta emigrazione clandestina è una baldoria rivoltante, indegna di un paese civile! Per essa la frode è divenuta comune, e vestita di nuovi inganni; aumentate le sofferenze del viaggio; condannati tanti traditi ài pentimento ed alla disperazione — e la moralità pubblica scossa e sfiduciata!

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PAGINA 7. a

La P. S. e la Magistratura

I devoti al principio di autorità non torcano il muso al titolo di questa pagina; essa fa parte del processo della emigrazione e non l’abbiamo creata noi, ma la natura delle cose. Dell’autorità nello Stato siam rispettosi quanto altri;. ma più che ogni rispetto, ci trascina l'amore della verità. — E dicendo il vero, saremo sobrii e rispettosi.

E pria di tutto una domanda. — Sarebbe giunta a queste proporzioni l'emigrazione clandestina in Italia, se la Pubblica Sicurezza si fosse mostrata più zelante nel perseguitarla e coglierla in flagranza? Ragioneremo più tardi del debito che ha lo Stato. Per ora dimostreremo che, posto il dovere nel governo di prevenire i reati, e di denunziarli al magistrato, questa potestà, che dicesi polizia, risponde malamente alle aspettative del paese, quando neglige l'uno e l'altro suo còmpito.

Non diremo che in Italia la P. S. non faccia nulla, o quanto peggio, tradisca il paese. — Questo non và detto perché non è vero. Ma la Polizia fa poco, e spesso non fa. Le ragioni sono parecchie, e molte di esse comuni alle altre amministrazioni dello Stato.

Ne citeremo tre soltanto, che ci paiono le più spiccate.

In primo luogo la Polizia è composta di agenti, più o meno alti, ma agenti tutti della mente che pensa e dispone nel centro dello Stato e si chiama Governo. Se questa mente avrà concetti chiari e decisi, chiara e decisa potrà essere l'azione di chi esegue. — Ma se in qilella mente vi fosse confusione d'idee, bilico d'opinioni, onde una condotta fiacca e snervata ovvero ordini ineseguibili, come sarebbe possibile pretendere da chi sta in giù quella forza che non gli viene dall’alto?

La seconda ragione sta nel personale della P. S. Come in ogni corporazione sociale, vi sono i buoni ed i cattivi, perché di buoni e cattivi si compone la famiglia umana.

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Pretenderli tutti ottimi sarebbe utopia, accusarli tutti sarebbe ingiustizia. Ma nessuna amministrazione dello Stato avrebbe il dovere di studiare e scegliere le sue persone, quanto la P. S. per la dellcatezza e la gelosia delle attribuzioni che la società le confida.

E per venir difilato alla materia, dimanderemo.

1° Compie la P. S. di tutte le province italiane il dovere di prevenire la emigrazione clandestina, e di avvertirne le altre autorità dello Stato, appena sorpreso in flagranza o quasi flagranza l'emigrante?

2.°Quale e quanta sorveglianza esercitano le varie Questure del Regno, lungo le rade dei golfi, e segnatamente su quei punti onde, d ordinario, partano barche cariche di clandestini?

3.°E da ultimo, è bastevole il personale di P. S. nei porti d'imbarco, per esaurirò non solo tutte le operazioni della emigrazione, ma per visitare i vapori, e scovare i clandestini in mezzo a tutte le astuzie di che li maschera la frode?

Dopo tutte le cose sin qui discorse, è chiaro che la P. S. non previene con rtiuna precauzione l'emigrazione clandestina. Dovettero proprio gli agenti incontrarli per via mentre emigravano, o sorprenderli nell'atto d'imbarcarsi, e si riconobbero renitenti e soldati in congedo illimitato. E poche volte furon rimessi al potere giudiziario; in generale fatti scortare ai loro paesi; il che vuol dire che niun provvedimento fu preso,  né si ritiene una colpa questo esodo furtivo.

Posta tale indifferenza a sistema, le conseguenze sono inevitabili: niuna sorveglianza alle coste, mentre sarebbe tanto facile farla eseguire dagli agenti doganali che vi si trovano; e poi, volendo, non sarebbe gran fatto il far aggirare qualche barca di P. S. nei giorni delle partenze per l'America, nei punti più sospetti dei golfi di Napoli e di Genova segnatamente. Si dirà che il personale della P. S. è insufficiente, ma noi chiediamo concetti dove non ve ne ha nessuno, chiediamo un pò di quel buon volere che crea, che organizza, che provvede, e sa vincere gli ostacoli.

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Ma se in Italia il personale della P. S. è insufficiente, sarà una buona ragione per privare il paese dei pubblici servizi? Non è per questo scopo che i cittadini pagano le tasse e ne sopportano i continui aumenti? C' è serietà a tenere in un porto d'imbarco, come Napoli, un solo ed unico funzionario di P. S. senza altri agenti e sotto agenti, mentre in un giorno di partenza dei vapori per l'America, bisognerà eh' ei riveda un per uno forse 600 passaporti di emigranti in una o due ore? Avrà questa vittima di funzionario gli occhi di Argo per scoprire tutte le magagne della emigrazione? Non diviene illusoria questa fuggevole  ispezione ai passaporti? Come sarà possibile al funzionario di scovare i clandestini, quando egli appena per un istante sale a bordo dei vapori. mentre il fumo ed il fischio già ne annunziano la partenza?

Non occorre aggiungere altro perché sieno evidenti le risposte alle tre dimande che facemmo più innanzi. Ma non lasceremo l'argomento senza accennare ad un lato dellcatissimo della quistione.

Sui vapori francesi la nostra P. S. non si riconosce il diritto di accedere, senza il preventivo permesso dell'autorità Consolare; e poiché il tempo manca nei giorni di numerosa partenza, o si vogliono serbare scrupolosi riguardi, si finisce coli' astenersi. Ed intanto sicuri di non aver molestie, i clandestini cercano di guadagnare i vapori francesi, i quali favoriscono così, forse anche inscientemente, la nostra emigrazione illecita.

Noi crediamo invece che l'autorità politica dello Stato abbia bene il diritto di accedere a bordo delle navi estere mercantili che fanno il traffico della nostra emigrazione, segnatamente quando v'è legittimo sospetto contro la regolarità della emigrazione. Questo dritto di visita fu più volte sanzionato dai trattati internazionali tra le potenze amiche, ed uno Stato abdicherebbe alla sua legittima autorità, se nelle acque del proprio territorio, rinunziasse ad ogni sorveglianza del naviglio mercantile straniero.

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Che cosa direbbe la polizia francese se uni nave italiana andasse ad imbarcare nei porti di Hàvre o Marsiglia emigranti clandestini Francesi? Potrebbe il Capitano della nave italiana respingere l’autorità locale che si presentasse a bordo per esercitare atti di sua giurisdizione sui cittadini francesi imbarcati? Un malfattore può presentarsi a bordo con un passaporto falso. Il Capitano non ha potestà di controllo. È sempre l'autorità politica locale quella che dee vigilare. Ma se anche per diritto internazionale non fosse lecito, v'è il modo, ed è di darne avviso al Console pria di accedere sulla nave, e laddove il Console voglia intervenire, niuno glielo impedisce. Cosi fu fatto altre volte, e non vi fu autorità consolare che si fosse opposta.

Ma ammettiamo pure quello che non è—il bisogno del permesso consolare — e, quanto peggio, il rifiuto—ed allora (a parte tutte le ragioni internazionali che si potrebbero far valere fra potenze amiche) non sarebbe facilissimo il circondare di sorveglianza la nave mercantile estera, perché non vi si imbarcassero nazionali sprovvisti di passaporto? Non sono quasi tutti contadini ed artigiani i nostri emigranti, per modo che sia agevole a scernerli e chieder loro il passaporto pria che raggiungessero la scala del vapore? 0 si vorrà abdicare anche alla giurisdizione nelle acque nazionali?

Comunque la si esamini la quistione, ci pare sempre evidente che se il Governo volesse impedire, o certamente diminuire l’emigrazione clandestina, la P. S. ne avrebbe il diritto ed i mezzi.

L'ultima delle tre ragioni che annunziammo, perché la Polizia faccia poco e spesso non faccia, è la mancanza di fondi.

Come è possibile pretendere che la P. S. nello Stato compia importanti servigi, senza assegnarle mezzi pecuniarii sufficienti in via ordinaria e straordinaria? Vedete quanto costa la Polizia francese—paragonate quella spesa a quella segnata nei nostri bilanci — proporzionate per quanto volete i bisogni, e le risorse dei due paesi, e le conseguenze saranno irrecusabili.

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E quando alla confusione dei concetti ed alla scarsezza del personale, aggiungerete la mancanza dei quattrini in una importante amministrazione, sorge chiaro il dilemma: o la vita o la morte di una istituzione. Troppo dovremmo dire intorno alle riforme che chiede la P. S. in Italia. Se essa è destinata a rimanere nel meccanismo politico dello Stato, bisognerà che rappresenti qualche cosa di più concreto ed efficace. Come oggi è, poco meno sarebbe che non vi fosse.

Ma studiando la P. S. di fronte al nostro argomento, bisogna anche riconoscere qualche cosa di peggio — essa non moralizza la emigrazione, anzi sovente le è dannosa. Citeremo uno dei tanti casi. Un giorno il mezzano pattui il prezzo per l’esodo di un clandestino. Ebbe il danaro, lo condusse al porto, lo imbarcò. Forse o certamente, la Polizia non se ne sarebbe accorta, ma il mezzano avido e traditore, lo denunziò all'orecchio di qualche agente, ed il mal capitato fu catturato. E se costui gli richiese il suo danaro, il mezzano rispose che l’agenzia non restituisce il prezzo del nolo.

Ecco creata una miseria di più ed un' altra vittoria dello scrocco, col passaporto della P. S. Codesti son fatti e potremmo citare date e nomi. Ma la colpa è in minima parte dei funzionarii. Il vero è che la P. S. non ha forza, perché non ha legge che regoli la emigrazione, non ha forza perché manca di personale e di mezzi pecuniarii; se adunque vogliamo che faccia e faccia utilmente, bisognerà darle la forza che le manca, o creare invece nuove istituzioni che circondino la emigrazione di consigli, di tutela, di vantaggi, di carità.

Ma la mancanza di una legge sulla emigrazione ha disarmato il braccio della magistratura, e la confusione nei eritemi governativi si è riverberata anche nel dominio delle leggi esistenti.

Oramai sarà palese che la emigrazione lasciata in balìa di sè stessa, ha resi possibili, suscitando le più basse passioni, una quantità d'inganni, di tradimenti, di ruberie.

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L'art. 626 del codice penale che prevede la frode, effetto degli artifizii e dei maneggi dolosi, si presta ad interpretazioni quasi sempre favorevoli agli scrocconi dei poveri emigranti. Fin che una legge speciale non dirà esplicitamente che è reato ed è punibile qualunque illecito profitto fatto in nome della emigrazione dai privati e dagl'impiegati, fin che la frode non sarà smascherata da sanzioni categoriche del legislatore, tutte queste colpe rimarranno impunite,  né v'è da farsi illusione. Non parliamo delle sentenze assurde o contradittorie, perché esse le ripara il magistrato superiore; ma chiediamo il provvido intervento del legislatore per la previsione tassativa di queste frodi. Anche le falsità che si commettono nei passaporti e negli altri documenti accennati di sopra, come l’uso dei medesimi, benché rientrino anche ora nelle vigenti disposizioni delle leggi, acquisteranno altra importanza innanzi il magistrato, quando avremo una legge che porrà termine a tante disonestà. La benignità del magistrato, provvida in alcuni casi, quando tempera il rigore delle pene e ne modera l’applicazione, è inopportuna e nociva in questi reati che sorprendono e tradiscono la pùbblica fede non solo, ma aiutano, anzi creano la emigrazione artificiale, causa di danni economici al paese. E si ponga mente che i trafficatori si tengono al corrente della giurisprudenza dei magistrati e delle risoluzioni dei processi. Il giorno in cui uno di questi industrianti fu catturato, la paura si sparse nel campo—l’ora in cui ottenne la libertà provvisoria, ritornò l'audacia — quando venne l’assoluzione, divennero baldanzosi. Questi tre momenti sono notevoli, e dovrebbero esser di lezione per rafforzare la necessità di una legge.

Ed eccoci ora di nuovo all'ingrato tema dei clandestini, che han dato luogo al maggior numero di processi, ed alle varie sentenze pronunziate dalla magistratura italiana. —Le quistioni più frequenti che si presentarono al magistrato furono queste:

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È colpevole chi tentò di emigrare all'estero pria di aver adempiuti agli obblighi di leva? È colpevole chi si adoperò alla emigrazione di un iscritto di leva, sapendo che questi non era stato sciolto da tale obbligo?

Queste due figure di colpevoli furon tradotti innanzi ai tribunali, in nome della legge sul reclutamento militare, invocandosi segnatamente gli art. 174 e 178 (1).

La magistratura disse quasi sempre non esservi reato fino a che il designato non si presenta allo assento, perché da quel momento solo comincia la renitenza ai termini dell’art. 174. L'iscritto può tornare—si disse—e presentarsi il giorno dello assento, epperò non vi sarebbe infrazione alla legge. Ne venne di conseguenza che gl'imputati di aver facilitata la emigrazione dei designati fossero assolti, anzi una volta in cui un tribunale del regno dichiarò reato il raggiro compiuto per sottrarre alla leva il designato, venne una Corte di Appello e cassò la sentenza.

(1) Art. 174 — L'iscritto designato per far parte del contingente, che senza legittimo motivo non si presenta all’assento nel giorno prefìsso, è considerato e punito come renitente.

La lista dei renitenti è pubblicata dieci giorni dopo la promulgazione del discarico finale per cura degl intendenti in ciascun capo luogo di provincia e nei comuni sulle cui liste di levà i renitenti fossero iscritti.

Art. 178. — Chiunque abbia scientemente nascosto od ammesso al suo servizio un renitente, è punito col carcere estensibile a sei mesi"

Chiunque abbia scientemente cooperato alla fuga di un renitente è punito col carcere da un mese ad un anno.

La stessa pena si debba applicare a coloro che con colpevoli maneggi abbiano impedito o ritardata la presentazione all’assento di un iscritto designato.

Se il dellnquente è uffiziale pubblico, agente od impiegato del governo, la pena si può estendere a due anni di carcere, e si fa luogo ad una multa estensibile fino a lire duemila.

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Con tutto il rispetto all’autorità della cosa giudicata, ci sia lecito discutere la dottrina. La quale a noi pare discorde dalla legge stessa che sorregge simili processi, e pericolosa per le conseguenze.

Tutti i cittadini dello Stato sono soggetti alla Leva, dice l’art. 4, e nell’art. 7 è sancito che il cittadino soggetto alla leva non può conseguire passaporto per l’estero se non ne ottiene l’autorizzazione sotto le cautele determinate dal Regolamento.

In questo regolamento che fa seguito alla legge, v'ha una intera Sezione del Capitolo IV, cioè 19 articoli, nei quali sono preveduti tutti i casi della espatriazione, e vi è sanzionato che niun giovane, fino a che faccia constatare di aver adempiuto all’obbligo di leva, potrà conseguire passaporto per l’estero senza il consenso del Prefetto. Vi è espresso che, anche ottenuto il passaporto, il designato il quale non si presenti allo assento, incorrerà negli effetti e nelle pene comminate ai renitenti. Che insorgendo presunzioni ed urgenti indizii che il giovane chiedente di recarsi fuori stato sia per sottrarsi all’obbligo della leva, gli sarà recisamente niegato il passaporto. Anzi è detto che i giovani entrati nell'anno 19° di loro età sono esclusi dal poter ottenere passaporto per l’America e per le Indie ancorché sia colà migrata l’intiera loro famiglia. — Insomma,, la legge è severissima, ed è giusto, fino a che la nazione ha un esercito permanente, insieme di tutte le giovani forze nazionali. Chi legge non una parte, ma tutte le disposizioni della legge e del regolamento, vedrà con quanto fondamento si è invocato finora il braccio del magistrato per punire la fuga di questi disertori del dovere. Un giorno transitavano a piedi sulla via che adduce all’imbarco alcuni soldati in congedo illimitato. Sospettati di emigrazione, furono sorpresi e perquisiti. Aveano negli stivali i napoleoni d’oro ed i recapiti all'agenzia che dovea farli partire per l’America. La P. S. li arresta, li traduce al potere giudiziario. Erano colpiti dagli art. 1134 a 1145 del regolamento citato. Il fatto è che poco dopo ne andarono assoluti.

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Il magistrato in cosiffatti reati si lascerà guidare da teoriche benigne, forse non ritenendo punibile il tentativo,  né verificatasi la renitenza. Ma pel complesso delle disposizioni accennate, noi, giuridicamente, portiam diversa opinione. E crediamo pericolose le conseguenze della benignità, pensando agli effetti che trae la emigrazione clandestina, cioè il danno dei terzi per supplire all'assenza dei renitenti.

Ma più pericolosa ci pare la teorica sanzionata per gli scienti favoreggiatori della emigrazione clandestina, tanto più che essi non la facilitano ma la creano con le persuasioni e col raggiro. Far quistioni di parole per sapere se fu impedita o ritardata infatti la presentazione all’assento di un iscritto, ci pare assai al di sotto della gravità della cosa, e, come è chiaro, noi sosteniamo questa tesi non da avvocati ma da giuristi indipendenti, e, più che tutto, da buoni cittadini.

Nel campo del diritto positivo gli effetti giustificano le leggi e la giurisprudenza. E se in questa materia la dolcezza incoraggiò la indegna speculazione, noi ci permettiamo di richiamare l'attenzione della magistratura sulla legge del reclutamento, ed insistiamo per una giurisprudenza meno, difforme e più rigorosa, finché non avremo una legge armonizzata alle disposizioni che concernono la leva e l'esercito, che dissipi le incertezze, che offra norme precise al senno ed alla virtù della magistratura italiana.

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PAGINA 8. a

Nuovi inviti e collocamenti

Parlammo nel capo IV degl'inviti che fanno agli Europei i varii paesi americani. Ma gl'inviti aumentano, e ci traggono a riparlare dell’America.

Un recente opuscolo del signor Prospero Pereira Gamba intorno ai "progressi degli Stati Uniti di Colombia, diffonde in Italia la notizia di quelle tre Repubbliche. Ne sviluppa la corografia, l'organismo politico, le produzioni e i vantaggi che vi trova l’emigrazione europea e particolarmente l'Italiana.

Ma è appena un mese dacché i nostri diarii annunziarono che la repubblica di Venezuela offre il passaggio gratuito ai nostri connazionali che si decidono di recarvisi. In così breve tempo già oltre a 500 emigranti, partiti in due viaggi, ne profittarono ; ed un terzo e più numeroso invio si prepara per Venezuela.

Dicemmo nel capo l’(pagina 115) dei richiami del Perù. Ora aggiungiamo che il Congresso di quella Repubblica, considerando:

Che l’emigrazione contribuisce di una maniera efficace alla prosperità de' popoli, ha votato la legge seguente:

Art. l.° Il potere esecutivo è autorizzato:

a) Ad impiegare 500 mila franchi ogni anno per attirare l’immigrazione europea sulle basi più appropriate ad ogni paese e ad ogni genere d’industria.

b) A distribuire agli immigranti terreni irrigati appartenenti allo Stato.

c) A irrigare i terreni che non lo sono, destinandovi i fondi designati dalla legge del 24 gennaio 1871 relativa alla irrigazione de' terreni situati sul littorale.

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Art. 2.° I coloni saranno tenuti di rimborsare allo Stato alle scadenze fissate dal governo tutte le spese che essi occasioneranno, eccetto quelle di trasporto.

Questa legge che il Congresso Peruviano votava il 26 aprile 1873 fu pubblicata in Europa in un opuscolo stampato a Parigi dal signor M. Oscar de Rojas Console del Perù a Saint-Nazaire Sur-Loire (1). Egli espone i grandi vantaggi che gli europei troverebbero in quel paese; e questa propaganda che egli fa in Francia, il signor Bazo Basombrio è venuta a fare in Italia, e già dalla Lombardia molte centinaia di emigrati furono spediti a Lima, perché il settentrione d'Italia a preferenza del mezzogiorno manda l’emigrazione in quelle contrade.

Dunque, come appare da queste notizie, un lavoratore italiano, che si voglia recare a Venezuela od al Perù, può esservi trasportato a spese di quei governi; e questa facilitazione, farà aumentare la nostra emigrazione e provocherà una gara fra gli Stati Americani, che per aver europei imiteranno l’esempio.

Ma a noi conviene non abbandonare gl'italiani alla balia di seducenti inviti che potrebbero tornar loro pericolosi. Siam d’avviso che il nostro governo non debba entrare in questa briga; utilissime sarebbero invece le società di patronato, le quali tra i molti aiuti che potrebbero dare alla emigrazione,  questo sarebbe importantissimo: studiare i varii paesi di America e dirigerla con paterni consigli ove è più probabile il buon successo.

Fra i tanti inviti americani ve ne ha uno che ci ha colpiti.

Parlammo a più riprese del Brasile, paese immenso, fertile e spopolato. Avevamo già scritte quelle pagine quando sapemmo che il governo dell’impero Brasiliano avea conceduto ad un italiano, il signor Franzini, che poi divenne Generale in Francia sotto l'impero di Napoleone III, la imponente estensione di 323 kil. di terreno e di foreste, con lo scopo di importarvi e stabilirvi 50 mila emigranti europei nel periodo di 10 anni.

(1) Notice sur la république du Pérou. Paris, libraire générale, 1873.

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Questo signore avea contratto l'obbligo di formare nello spazio di un anno, e col capitale di 50 milioni di franchi, una compagnia che diverrebbe concessionaria del terreno, ed esecutrice del contratto stipulato tra il governo brasiliano e lui.

Il tentativo ci parve degno di studio, e cercammo di avere il contratto originale. E siamo grati ad una cortese mediazione, se giungemmo ad avere così il contratto fra il Governo del Brasile ed il Generale Franzini, come l'altro fra la Compagnia e gli emigranti.

Non faremo cosa inutile alla emigrazione italiana riproducendo questi due documenti, de' quali niuno forse tra noi ha notizia. Oggi la Compagnia è formata ed ha sede in Londra, ove il Generale Franzini ha iniziata la sua propaganda per raccogliere emigrazioni. Forse gli inglesi non andranno al Brasile, essi che oggi si dirigono non solo agli Stati Uniti, ma al Canadà ed alla Nuova Zelanda in larghissime proporzioni, come ci risulta da un contratto che abbiamo sott'occhio tra una società di patronato inglese ed il governo della Nuova Zelanda. Perciò noi prevediamo che la Compagnia del signor Franzini estenderà la sua propaganda in Germania ed in Italia, i due paesi ove il movimento di emigrazione non ha regioni fisse.

Agl'italiani che decisamente vogliono emigrare, noi non consiglieremo  né sconsiglieremo il Brasile. Troppe cose si dovrebbero sapere che qui ancora sono dubbie intorno al clima, alle correnti, agi' insetti, ai miasmi delle foreste, quando la scure del legnaiolo europeo abbatterà quegli alberi secolari.

Diciamo solo questo: abbiam voluto raccogliere larga messe di fatti — molti di essi li spiegammo — ma ve n'ha alcuni

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che aspettano ancora lo studio della esperienza e la sanzione del. tempo. — E ci parrebbe troppo grave responsabilità il consigliare a chi lascia una patria, che si chiama l'Italia, di correre a contrade magnificate da interessati lodatori, ma forse combattute dall’ira degli elementi.

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NOTA

Copia del contratto stipulato il 12 luglio 1872 fra il Governo Imperiale del Brasile ed il Generale M. M. Franzini, per l'introduzione e stabilimento di emigranti Europei nell'imperò del Brasile.

1.° Il General M. M. Franzini s'obbliga per sè ed a nome della Compagnia che deve formare nello spazio di un anno col capitale di 50 milioni di franchi per lo meno, d? importare e stabilire nel Brasile nelle terre della provincia d’Espirito Santo, 50 mila emigranti nel periodo, di 10 anni; l'importazione annuale sarà a seconda degl'interessi della intrapresa.

2.° Gli emigranti saranno scelti fra gli agricoltori e lavoratori rurali d'Europa, sani, robusti, di buoni costumi; saranno preferiti quelli che hanno famiglia. La porzione degli artigiani ed altre professioni differenti non dovrà sorpassare il 20 per 0q del numero introdotto annualmente.

Le condizioni d’attitudine, professione, capacità e moralità degli emigranti saranno provate con documenti emanati dalle Autorità locali ed autenticati dagli agenti consolari del Brasile, residenti nelle medesime località, o nelle città che sono più vicine, o da agenti speciali che il Governo Imperiale destinerà a tale effetto.

3.° Prima d'imbarcarsi gli emigranti firmeranno, in presenza del Console Brasiliano o di quelle persone che saranno a ciò destinate in sua vece per ordine del Governo, un documento nel quale dichiarano conoscere appieno e per intero le condizioni

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alle quali trattano con la Compagnia, e che, fuori dei favori e della protezione in generale che le leggi accordano nel paese agli stranieri e lavoratori di buona condotta, il Governo non prende affatto impegno verso di loro individualmente in virtù di questo contratto.

Il detto documento conterrà la traduzione letterale del contratto che la Compagnia avrà fatto cogli emigranti, e la dichiarazione citata nel presente articolo sarà scritta sotto clausola speciale nel detto contratto, ed in mancanza di detta iscrizione la Compagnia sarà sottoposta alla perdita de' vantaggi accordati dal Governo per la introduzione e lo stabilimento degli emigranti nell'Impero.

4.°Una copia dell’anzidetto documento sarà rimessa all’agente del Governo in Europa, ed un'altra sarà inviata al Ministero d'Agricoltura, Commercio e lavori pubblici del Brasile, che dovrà essere avvisato in tempo della partenza di ogni spedizione di emigranti, come anche del loro arrivo nel luogo della loro destinazione in conformità delle disposizioni di questo contratto.

5.°In ciò che concerne il trasporto degli emigranti la Compagnia osserverà le disposizioni del decreto N.° 2118 del Io maggio 1858.

6.°La Compagnia s'impegna di fare a suo conto tutte le spese relative, cioè:

1.°Lo stabilimento ed il salario dei suoi agenti nella città o nelle località che giudicherà le più convenienti per procurarsi degli emigranti o per informarsi delle rispettive condizioni alle quali per il suo intermedio saranno ammessi a stabilirsi nel Brasile.

2.°L'imbarco ed il trasporto delle merci, lo sbarco, alloggio e vettovaglie degli emigranti, come pure le spese dello sbarco e trasporto de' loro bagagli, utensili e macchine sino al luogo del loro definitivo stabilimento.

3. Tutte le operazioni, lavori e servizii necessarii allo stabilimento coloniale e loro futuro sviluppo, misure e fissazione dei lotti coloniali; e l'apertura delle strade vicinali.

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4.° La costruzione dei Tempii, Ospitali, compresi i loro impiegati e la rimunerazione dei Cappellani, Professori, Medici, e le farmacie con o senza retribuzione o cooperazione della parte degli emigranti, secondo l'accordo che avrà fatto con essi, e secondo le regole coloniali che adotterà.

7.°La Compagnia si obbliga di fare gli anticipi agli emigranti tanto per la compra d'istrumenti necessarii all'agricoltura o ad altri lavori, quanto de' mobili e degli utensili in generale che faranno bisogno ad ogni mestiere.

8.°La Compagnia preparerà una tabella che sarà vistata ed approvata dal governo, e che indicherà il prezzo dei terreni, compreso le spese di misurazione e di compra dei lotti coloniali, secondo la loro qualità e la loro situazione in maniera da facilitare la scelta agli emigranti. — In mancanza dell’anzidetta tabella il prezzo non sarà maggiore di un reale per braccio quadrato (metr. quadrato 4. 84) per i lotti destinati solamente alla coltura. —Il prezzo delle baracche e delle case provvisorie dipenderà dagli accordi fatti con essi emigranti, secondo le circostanze speciali di famiglia.

9.°La Compagnia formerà pure una tabella per il rimborso degli anticipi indicati nella clausola 7a, che dovrà essere uguale a quella riguardante il prezzo dei terreni e dei servizii, di che si tratta nella clausola 8.° Questo rimborso sarà fatto per annualità non eccedente il quinto della rendita sulla proprietà degli emigranti o dei lavori nei quali saranno stati impiegati. — In caso che si fissasse l'interesse non sarà mai maggiore del 6 per 0q in regola legale, e non incominceranno a contare che dopo lo spirare del secondo anno per i lotti rustici solamente.

10.°Ogni emigrante riceverà per sè solo, e come capo di famiglia, un titolo provvisorio del terreno o della proprietà che gli dovrà essere attribuita nella colonia, il quale titolo sarà rimpiazzato da un altro definitivo quando avrà pagato alla Compagnia l'intero suo debito.

11.° La Compagnia rimetterà semestralmente al Ministero d'Agricoltura, Commercio e Lavori Pubblici, per mezzo dei suoi agenti a Rio de Janeiro, un rapporto indicante il numero

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delle famiglie e degli emigranti che saranno stati trasportati e stabiliti, i loro mezzi di esistenza e di benessere, comprendendovi il numero dei lotti distribuiti, i nomi degli emigranti e la classificazione delle loro famiglie, la loro età, filiazione, nazionalità, religione e professioni; la costruzione di strade, edifìci, e tutti i lavori eseguiti nelle colonie, come pure il terreno fissato per la coltura e quello per gli stabilimenti coloniali.

12.°Il Governo Imperiale del Brasile s'obbligherà da parte sua ad aiutare la Compagnia che il General Franzini costituirà, per ottenere lo scopo dichiarato in questo contratto col mezzo di stipulazioni e privilegi relativi, ed espressi qui appresso, riservandosi per l'avvenire gli altri vantaggi che saranno stipulati specialmente in favore della Compagnia.

13.°Il Governo Imperiale accorda alla Compagnia nella provincia di Espirito Santo, nel luogo scelto dal General Franzini, ed indicato nel piano geografico di Carlo Krauss annesso alla proposizione di detto Generale, un' estensione di terreno e di foreste disponibili, contenenti una superfìcie quadrata di 49 leghe Brasiliane (323 chilometri italiani) equivalente ad un quadrato di setté leghe Brasiliane per ogni lato (46 chilometri per ogni lato), situata fra la terra Guarapanj al Sud Est, e la colonia Santa Isabella al Nord, ed i confini delle colonie della foresta di Batasal. — (21° grado di latitudine nella zona torrida — 44° grado di longitudine ). Questa concessione è fatta a titolo di vendita al prezzo di mezzo reale il braccio quadrato, (4. 84 metri quadrati); ogni vendita corrisponde all'estensione di due territorii e otto leghe quadrate, e secondo che il rispettivo spazio sarà pronto dovrà essere distribuito ed occupato dagli emigranti e messo in uso per i lavori od edifìcii necessarii per lo scopo dell’impresa. —Il prezzo totale di tal terreno sarà pagato dalla Compagnia in ragione del 10 per 0q per anno, prima dello spirare di questo contratto.

La misura e descrizione e la demarcazione dei rispettivi terreni saranno fatti per conto della Compagnia, e là verificazione di questi lavori a spese del Governo, toltone i diritti dei terzi.

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14.°Il Governo pagherà alla Compagnia alla fine di ciascun anno, a contare dalla data della costituzione, una sovvenzione a premio di 200,000 reis (circa lire 600) per ogni emigrante al di sopra di 10 anni, che la Compagnia avrà imbarcato e stabilito in conformità delle disposizioni del presente contratto, sia che l'emigrante formi famiglia col rispettivo capo, o si stabilisca separatamente a suo proprio conto se è adulto. Questa sovvenzione sarà pagata dal Tesoro Nazionale fino al numero di 3,000 emigranti per anno, secondo le condizioni sopra indicate ed indicate nell’articolo 2°, come pure della verificazione dell'agente che il Governo avrà scelto per procedere al loro esame. — Se durante Tanno il numero degli emigranti introdotti è meno di quello stabilito (3,000), la Compagnia potrà completarne il numero l’anno seguente.

15.°Nello scopo di assistere la Compagnia ad estendere il suo piano di colonizzazione, il Governo Imperiale le garantisce diggià la preferenza di fare delle esplorazioni minerologiche od altre nella foresta e nel terreno compreso nel perimetro della medesima concessione indicata nell'articolo 13°, come pure il dritto di aprire delle strade e ferrovie, e di intraprendere tutte le operazioni industriali e commerciali devolute al servizio dell’interesse immediato della medesima Compagnia, semprecché tali concessioni saranno della competenza del Governo Generale. — La realizzazione di queste concessioni dipenderà dalle richieste e proposizioni speciali che saranno presentate dalla Compagnia al Governo Imperiale; durante il contratto in vigore l’espettazione degli alberi della foresta si farà secondo lo sviluppo e lo stabilimento degli emigranti.

16.°Oltre le concessioni e gli aiuti qui avanti designati, la Compagnia godrà tutti i vantaggi, favori ed esenzioni che le leggi in vigore concedono all’emigrazione spontanea ed alla colonizzazione in generale, come agli emigranti in particolare che vengono a stabilirsi nell’Impero, ed il Governo provvederà acciocché le provigioni ed i viveri di bordo, e bagagli, utensili, istrumenti e macchine d'aratro appartenenti agli emigranti sieno liberi di dazio.

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17.°Il Governo Imperiale potrà, quando lo crederà conveniente, far visitare ed ispezionare gli stabilimenti coloniali della Compagnia da un commissario di fiducia a fine di prendere le informazioni di che avrà bisogno nell’interesse del buon esito della Compagnia, tanto riguardo alla posizione degli emigranti, quanto riguardo al risultato della colonizzazione del paese.

18.°Appena che la Compagnia sarà formata nominerà un rappresentante di sua scelta che resiederà a Rio de Ianeiro con pieni poteri, senza riserva di prima citazione per trattare e transigere col Governo Imperiale sopra tutte le competenze che potrebbero succedere tanto nell’esecuzione del presente contratto, che per quello fatto tra la Compagnia e gli emigranti.

19.°Tutte le difficoltà che sorgeranno fra l'Imperiai Governo del Brasile e la Compagnia a proposito dei loro dritti ed obblighi,

saranno decise nel Brasile da arbitri. — Se le parti contraenti non andranno d'accordo sulla scelta del medesimo arbitro, ognuno nominerà il suo, e questi cominceranno il loro lavoro e indicheranno un terzo arbitro che deciderà definitivamente, se i due non vanno d'accordo. — Se ci sarà ancora un disaccordo fra loro riguardo alla nomina di questo terzo arbitro, ciascuna delle parti litiganti sceglierà un Consigliere di Stato, e la sorte deciderà chi sarà l'arbitro che appianerà la questione.

20.°Le differenze che si eleveranno fra la Compagnia e gli emigranti, oppure fra i particolari, saranno decise nell’Impero del Brasile secondo le leggi in vigore.

21.°L'infrazione della clausola 2a di questo contratto da parte della Compagnia, gli imporrà l’obbligo di riportare a sue spese, al bisogno, gli emigranti che non saranno nella condizione di salute, di moralità e d'attitudine al lavoro, je di restituire al Tesoro Nazionale, nello spazio di tre mesi, l’ammontare del premio rispettivo che avrà ricevuto.

22.°Ogni infrazione alle condizioni e disposizioni del presente contratto, salvo il caso di forza maggiore, esporrà la Compagnia alla multa di 500 mila reis a due centesimi di reis

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(5,000 franchi), e il Governo potrà in caso di recidiva annullare il contratto, se lo crederà necessario.

23.°I casi di forza maggiore che possono impedire il compimento delle obbligazioni imposte alla Compagnia, ccme pure quelle in favore dei coloni, saranno giustificati avanti il Governo Imperiale.

24.°Il presente contratto sarà in vigore per 10 anni dalla data della sua promulgazione; ma alla fine di cinque anni sarà riveduto, e potrà essere attuato di comune accordo, tanto nell’interesse dell’impresa y come quello del paese.

25.°La Compagnia farà pubblicare questo contratto ne' luoghi ove sono stabiliti i suoi agenti incaricati degli arrolamenti, e farà rimettere a ciascun di loro una copia del detto contratto, prima di sottoscrivere il contratto d'ingaggio. Il medesimo contratto sarà presentato dall’emigrante capo di famiglia, o ingaggiato per suo conto all’agente Brasiliano nel posto d'imbarco, riempendo la formalità che la clausola 3a qui sopra citata prescrive, e lo stesso sarà pure presentato al posto di sbarco o al luogo della sua destinazione alle autorità competenti secondo le istruzioni della clausola 4a.

26.°Il Generale Franzini in nome della Compagnia che promette formare, potrà, appena che questo contratto sarà firmato, occuparsi della designazione del luogo dove dovranno incominciare i lavori preparatorii per l’istallazione dello stabilimento, la ricezione, gli alloggi, ed il mantenimento dei primi emigranti che arriveranno per conto dell’Impresa.

27.°Questa designazione sarà fatta in presenza di un ingegnere nominato dal Governo per verificare se il terreno è effettivamente disponibile ed appartiene al dominio pubblico, senza contestazione di proprietarii legittimi, seguendo delle stesse maniere e collo stesso scopo, prima di continuare i lavori di limite ed altro che dovranno far parte della prima porzione del terreno, misurare e marcare secondo la clausola 13a.

28.°Le spese necessarie per il servizio indicato nelle due ultime clausole, compreso la gratificazione dell’ingegnere, saranno per conto della Compagnia e del General Franzini,

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il quale dovrà vegliare sopra tutto ciò che sia necessario, e perché nulla manchi per tutte le spedizioni che invierà o condurrà per eseguire gli anzidetti lavori, ed in mancanza di ciò il contratto può essere senza effetto, e la Compagnia perderà i miglioramenti che avrà fatti nelle località scelte.

In fede di ciò il presente contratto è stato fatto e firmato dal Barone d'Itanne Ministro e Segretario di Stato dell’Agricoltura,  Commercio e Lavori Pubblici, dal. Generale M. M. Franzini e dai testimoni qui sotto segnati.

Dall’ufficio del Segretariato di Stato dell’Agricoltura, Commercio e Lavori Pubblici, il giorno 12 luglio 1872.

Firmati — Barone d'Itanne

» General M. M. Franzini

» Iosè Soares de Nabrega

» Iosè Chrispiniano Valdetar

Per copia conforme B. de Castro

N.° 744 registrato 13 luglio 1872. — Ricevuto di dritto 27,000 reis. Visto.

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Copia del Contratto fra la Compagnia e gli emigranti

La Direzione della Compagnia Generale di Agricoltura, Commer. ciò ed Industrie nel Brasile, dalla sede generale di Londra, stabilisce le seguenti condizioni da osservarsi da tutte le persone che avranno ottenuto una posizione nella colonia Franzini, situata nella provincia di Espirito Santo nell’Impero del Brasile.

Queste regole sono per maggior schiarimento di quelle tracciate  nel contratto stipulato il 12 luglio fra il Governo Brasiliano ed il Generale M. M. Franzini.

Art. 1.° Per ottenere il successo che si propongono tanto il Governo Imperiale del Brasile, che la Compagnia anzidetta, è d'uopo di raccomandare ad ogni emigrante che nel proprio interesse dovranno sottomettersi scrupolosamente alle prescrizioni amministrative le quali non esiggono altro che ciascuno conservi per principio di non allontanarsi dall’ingaggio contratto; e per mantenervi questo ordine, con la giusta disciplina, la Direzione fissa una multa pe' trasgressori, che secondo i casi potrà variare da una a dieci lire sterline, ed i recidivi potranno essere espulsi dalla detta colonia ed inviati a loro spese in Europa, conformemente all'art. 21° del contratto.

Art. 2.° La Compagnia accorda de' crediti a titolo di prestito secondo la dimanda di quei stabiliti nella colonia Franzini.

1.°Pel sussidio giornaliero: questo nel caso non potessero lavorare.

2.°Per l’acquisto de' mobili necessarii alle loro famiglie.

3.°Per l'acquisto di utensili di agricoltura e di lavori.

4.°Per la costruzione delle loro abitazioni.

Questi prestiti sono sottomessi ad un interesse annuale del 6 per 0|0, ed 1 pesa per dritto di commissione, pagabili ad ogni trimestre, che tutti potranno soddisfare nella proporzione del quinto del proprio lucro, che gli sarà garentito dalla medesima Compagnia, elevandosi da 6 a 10 lire al giorno per ogni operaio rustico, e da 3 a 5 lire per ogni donna o ragazzo che la Compagnia potrà impiegare.

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Art. 3.° I medesimi otterranno egualmente a credito il terreno che avranno scelto per la loro abitazione, agricoltura ed industria, il cui prezzo sarà ulteriormente fissato dalla Direzione, tanto per quelli delle città che per quelli de' campi. — I pagamenti saranno effettuati secondo la prescrizione dell'art. 9 del contratto 12 luglio 1872.

Art. 4.° Nessuno emigrante, ammesso al passaggio gratis, stabilito nella colonia Franzini, potrà cambiare la professione od il posto che sopra la sua domanda gli è stata dato, senza averne pria ricevuto l’autorizzazione ufficiale dell’amministrazione locale.

Art. 5.° L'emigrante che vuole abbandonare la colonia pria dello spazio di un anno, a contare dal giorno del suo sbarco nel Brasile, dovrà pagare alla Compagnia un'indennità di 200,000 reis, e questo indipendentemente da tutto ciò che deve alla Compagnia a titolo di prestito.

Art. 6.° In virtù dell’art. 10° del precitato contratto, nessuno abitante della colonia Franzini può vendere oggetti o mobili stabiliti nella sua casa, prima di aver pagato tutto il suo debito alla Compagnia. Il compratore di questi oggetti si mette nell’obbligo di restituirli immediatamente per aver acquistato ciò che appartiene ancora alla Compagnia.

Art. 7.° Secondo le disposizioni dell’art. 15° del contratto, nessun abitante della medesima colonia può esercitare una professione industriale o commerciale qualunque, senza averne l’autorizzazione in iscritto dal Governatore della medesima colonia.

Art. 8.° In caso di morte gli eredi dovranno fare la dimanda all’Amministrazione che gli sarà accordata, per continuare il commercio o la industria del defunto; tuttavia però dovranno accettare i debiti dovuti alla Compagnia ed offrirne le stesse garenzie.

Art. 9.° Per ottenere il favore di essere ammesso gratuitamente nella colonia Franzini, ogni persona con famiglia o senza, dovrà produrre all’agente della Compagnia:

– 229 –

1.°Un certificato di buona condotta emanato dalle autorità civili o da persone notabili, ed autenticato dal Console Brasiliano.

2.°Un passaporto in regola, conformemente all’articolo 11 del contratto.

Art. 10.° Dopo queste formalità, se dichiarato ammesso dal medesimo agente, dovrà, prima d'imbarcarsi, in presenza del Console o dell’agente del Governo Brasiliano, firmare la dichiarazione in quattro copie, secondo il modello N.° 1, due delle quali saranno rimesse al Governo Imperiale del Brasile, una all’Amministrazione, ed una resterà come proprietà dell'emigrante, col rispettivo libretto, il quale contiene il suo numero, che dovrà essere chiaramente marcato in rosso sopra i bagagli, ed uno stato N.° 3, che gli servirà per presentare all’anzidetta Compagnia ogni qualvolta dovrà ricevere un prestito, per jplo scrivere, come pure quando rimborsa alla medesima una somma qualunque, di maniera che ogni persona può conoscere ad ogni epoca la sua situazione.

Art. 11. 0 In ciò che trattasi nei paragrafi 3° e 4° dell'articolo 6° del sopra indicato contratto, gli emigranti dovranno, per quote uguali, pagarne il contingente che sarà stabilito annualmente secondo i bisogni progressivi della medesima colonia, compresovi la dovuta pigione di alloggio delle baracche provvisorie, e tutto ciò che si riferisce alle spese di pubblica utilità.

Art. 12.° Gli atti di associazione o d'ingaggi fra gli emigranti non saranno accettati dall'amministrazione che dopo essere stati approvati dalla Direzione locale.

Ecco il Decreto riguardante la immigrazione nella repubblica di Venezuela (E questo un altro importante documento che noi per i primi pubblichiamo in Italia. Emanato a Caracas nel gennaio ultimo, appena in questi giorni ci è arrivato — maggio 74. — L'Aut. ), tradotto letteralmente dall’originale spagnuolo.

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Antonio Gusmann Bianco Presidente degli Stati Uniti di Venezuela—Decreta.

Art. 1. Il Governo promuove la immigrazione nel paese, per le persone proprie all’agricoltura, alle arti, ed al servizio domestico.

Art. 2. Per questo scopo aiuta la immigrazione conforme alle disposizioni di questo decreto, spesando la traslazione degli immigrati dal porto del loro imbarco fino a quello del loro sbarco a Venezuela, come anche la spesa di ospitalità al loro arrivo per il tempo indispensabile, e quelle che potrebbero occasionare qualche malattia ai detti immigrati prima di collocarli senza dovere indennizzare di nulla al Governo,  né alle persone le quali potranno andare a servire per causa di questo traslocamento, ospitalità, mantenimento al loro arrivo, e spese por cura.

Art. 3. Il Governo garentisce agli immigrati la libertà religiosa, quella dello insegnamento, e quella che garentisce la costituzione.

Art. 4. Gl'immigrati troveranno al loro arrivo preparata la collocazione per la quale debbono prestare i loro servizi; ma resta in loro piena libertà di cambiar padrone, e contrattare le loro occupazioni come quando loro convenga meglio.

Art. 5. Gl'immigrati che contrattino pei loro servizi avanti alcuna delle Giunte che si stabiliscono con questo decreto, sono sotto la protezione della medesima riguardo alle differenze che possono risultare da tali contratti.

Art. 6. Gli oggetti che gl'immigrati porteranno pel loro uso personale, come abiti, utensili domestici, ferramenti, strumenti della loro professione, semenze, ed animali domestici vanno esenti da diritti marittimi e terrestri, se è stata fatta la opportuna dichiarazione al rispettivo console nel luogo dello imbarco.

Art. 7. Per mandare ad effetto le disposizioni di questo decreto si stabiliscono una Direzione Generale d'immigrazione, una giunta centrale, giunte subalterne ed agenzie all’Estero.

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Art. 8. La Direzione Generale che dipenderà immediatamente dal Ministero dell’Interno e di Giustizia, sarà composta di un Direttore, di uno o più capi di sezione, di uffiziali in numero corrispondente ad ogni sezione, ed altri impiegati che fossero necessarii, secondo il giudizio del potere esecutivo Nazionale.

Art. 9. Le funzioni della Direzione Generale saranno: 1.° Studiare il modo più conveniente per aumentare la immigrazione ed ottenere per mezzo dei Consoli di Venezuela i dati che possono riunire sulle differenti legislazioni su questo ramo e su i risultati che hanno avuto in altri paesi le diverse misure adottate. — 2.° Formare i regolamenti necessari e sottometterli al Governo per sanzionarli e mandarli ad esecuzione, pel miglior compimento delle disposizioni di questo decreto.

Art. 10. La giunta centrale che si crea per ausiliare e facilitare i lavori della Direzione Generale, e che sarà presieduta dal Direttore avrà i seguenti doveri.

1.° Invitare i particolari che domandano di ricevere gli immigrati nelle loro case o nelle loro industrie, a manifestare; il numero e la classe di persone òhe abbisognano, il clima, il luogo nel quale devono lavorare, la classe di lavoro che si esige, il salario che si offre, le concessioni che vogliono farsi agli immigrati, e nelle campagne, e nelle fattorie, se loro si offre o no terreni per concessioni che coltivino per loro conto, e sotto quali condizioni — 2.° Esaminare le premure che loro si fanno, e trovandole convenienti, farne richiesta in conformità delle disposizioni di questo decreto previo la partecipazione al Potere esecutivo Nazionale. — 3.  Ricevere sia direttamente o per mezzo delle Giunte subalterne gl'immigrati e soccorrerli secondo quello che il Governo offre loro con questo decreto, — 4.° Formare opportunamente i preventivi delle erogazioni che debbono farsi e sottometterli al Potere esecutivo Nazionale. — 5.° Essere in comunicazione costante con gli agenti all’estero, colle Giunte subalterne, e con le altre autorità e persone che debbono intervenire nella immigrazione. — 6.° Nominare le Giunte subalterne a cui si riferisce l’art. 11.

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Art. 11. Le Giunte subalterne si stabiliranno nella Guaira, Porto Cabello ed in qualsivoglia altro punto in cui si credono necessarie.

Le loro funzioni saranno:

1.° Ricevere le richieste che loro si presentano per far venire immigrati, e passarle coi loro informi alla Giunta centrale. Dette richieste debbono contenere i dati espressi nello inciso 1° dell'articolo precedente. 2° Preparare nei porti alloggiamenti e tutto ciò che è necessario onde poter ricevere gl'immigrati che giungono, vigilarli nello sbarco, ospitarli, procurar loro assistenza medica in caso di malattia, ed inviarli alle loro rispettive destinazioni secondo le istruzioni che riceveranno dalla Giunta centrale tutti gl'infermi. 3. Dare alla Giunta centrale tutti gl'informi necessari sulla immigrazione più adeguata agli interessi delle rispettive demarcazioni. Le Giunte subalterne avranno un segretario quando i lavori lo ri» chiedono a talento del Potere esecutivo Nazionale.

Art. 12. Per lo scopo di questo decreto sono agenti della immigrazione all’Estero gli agenti consolari della Repubblica nelle loro rispettive giurisdizioni e nei luoghi in cui non potranno esserlo li nominerà specialmente il potere esecutivo.

Art. 13. è dovere degli Agenti — Io Preparare secondo le istruzioni che ricevono per mezzo della Direzione tutto ciò che è necessario per facilitare l’esecuzione degli ordini che loro vengono comunicati sugli immigrati — 2° Dare a questo decreto, ed alle altre misure che in favore della immigrazione detta il Governo, tutta la pubblicità possibile, ed istruire gl'immigrati affinché sappiano con esattezza i vantaggi che loro si offrono — 3° Fare in modo, adempiendo strettamente gli ordini della Giunta centrale, di ottenere le persone premurate, attenderle al loro imbarco, e spedirle di accordo con le disposizioni legali per i passeggieri con l’art. 6 di questo decreto — 4° Avvisare là Giunta centrale di tutti i dati che le sieno convenienti per migliore studio di questa materia — 5° Ricevere le proposte delle persone che vogliono emigrare per Venezuela, e parteciparle alla Giunta centrale con tutti gl'informi che possono dare.

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Art. 14. Sono gratis per gl'immigrati, in conformità della legge, i passaporti che all’estero spediscono loro gli agenti consolari, ma questi riceveranno, in rimunerazione del loro lavoro per ogni passaporto che formano, due venezolanos che pagherà il Governo all'arrivo degl'immigrati.

Art. 15. Opportunamente le rispettive Giunte daranno avviso alle persone per le quali si sono fatti venire gl'immigrati affinché anticipatamente preparino tutto ciò che è necessario per riceverli nel porto al loro sbarco e trasferirli a spese del richiedente.

Art. 16. Le Autorità ed impiegati pubblici nel paese dovranno prestare la loro cooperazione decisa a tutto ciò che fosse necessario allo scopo di questo decreto, alle Giunte tanto centrale come subalterne, quanto queste lo esigono.

Art. 17. Le norme ed i soldi non inclusi in questo decreto saranno fissati per decisioni speciali.

Art. 18. Subito che l'ingrandimento della immigrazione lo richiede, il Potere esecutivo Nazionale nominerà uno o più Agenti Generali d'immigrazione in Europa e negli Stati Uniti del Nord i cui doveri si fisseranno con decreti separati.

Art. 19. Il Ministro di Stato dell’Interno, e di Grazia e Giustizia resta incaricato della esecuzione di questo decreto, e di comunicarlo a tutte le Autorità della Repubblica.

Dato nel Palazzo della Repubblica firmato di mia mano e legalizzato dal Ministro dell'Interno e Grazia e Giustizia in Caracas il 14 gennaio 1874 anno 10° della Legge 15 della Federazione.

Gussmam Bianco — legalizzato, il Ministro di Grazia e Giustizia — Leven.

Stati Uniti di Venezuela Ministero dello Interno e Giustizia Sezione 3. a Caracas — gennaio 1874. 10° 15.

Risoluto — In conformità del decreto di questa data che promuovel’immigrazione, l’Illustre Americano Presidente della Repubblica à creduto bene nominare Direttore Generale della immigrazione il Cittadino Isaac S. Pardo — Si comunichi all’interessato e si pubblichi—Firmato Leven.

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Stati Uniti di Venezuela Ministero dell'Interno e di Giustizia Sezione 3. a Caracas — gennaio 1874. 10° 15. Sezione 3. a

A compimento del decreto che promuove la emigrazione l'illustre Americano Presidente della Repubblica ha creduto bene di nominare per la Giunta Centrale di Emigrazione che dovrà essere preseduta dal Direttore del Ramo, i cittadini Carlo Engelke, Diaz Francesco, e G. Antonio Mosquera. Si comunichi agli interessati e si pubblichi—Firmato Leven.

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Conclusione — Le otto pagine promesse son compiute, e più vasta materia ci offrirebbe il processo. Ma disegnato il quadro, è bene guardarlo nello insieme.

Incettatori, agenti e compagnie, in mezzo al quale esercito abbondano figure bieche di scrocconi e di complici; e segretarii comunali spesso colpevoli; e sindaci non sempre edificanti, e profitti sui certificati, ed usurai strozzini in nome delle spese di viaggio, e garanti impotenti a garentire, e famiglie che rendettero gli ultimi cenci per mandar clandestini, i quali poi videro affamati tornare a casa con la scorta del carabiniere; e la leva tradita, e colpevoli che pigliano il largo, ed uomini ammucchiati a centinaia, simili a gregge, nella cala di una nave, e la indifferenza della P. S, e la tenerezza dei magistrati, e le seduzioni degl'inviti americani, de' quali il paese ignora i vantaggi ed i danni; e niuna legge, nessun consiglio, nessun aiuto all’emigrante — dormienti tutti, reggitori e paese — ecco le figure che spiccano dal fondo di questa tela, ecco i fasti di questa famosa emigrazione, che, secondo gli omerici lodatori, deve rallegrare la patria.

Anche la plebe romana, ai giorni di Pompeo e di Nerone, stivata nel Colosseo, si allegrava del sangue del gladiatore, e della lotta immane tra l’uomo e la belva. Lo spettacolo che abbiam descritto è di altra natura. Ma, in nome di Dio, non possono compiacersene  né tollerarlo un secolo civile, un paese che si rispetta, un popolo cristiano.

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CAPO IX.

L'Emigrazione sociale è un bene o un male per la patria?

SOMMARIO

Posizione della quistione — Criterii regolatori: Criterio 1.°—Indole del paese da cui si emigra, avuto riguardo—

a) alla popolazione—Dottrina di Malthus — Opinioni del Cavour e del Minghetti — Alcuni luoghi del Malthus criticati — Conclusione del Malthus intorno alla emigrazione — Opinioni ad essa favorevoli di alcuni scrittori — Dottrina di StuartMill. — Ragioni contrarie alla emigrazione — Esempii storici — Opinioni di scrittori italiani — Dottrina del Gioja — Ricordi biblici — Cifre della popolazione italiana — Suoi aumenti — Raffronti con altre popolazioni di Europa—Non eccesso, ma difetto — Densità — Sel’emigrazione sia rimedio al pauperismo — Fu considerata così in Inghilterra ed in Germania — Effetti — Se questo argomento possa invocarsi in Italia. 1

b) Alle condizioni del suolo ed allo sviluppo della produzione— Elementi naturali della terra italiana—¡Raffronti conl’Inghilterra, la Germania ed altri paesi.

Criterio 2.°—Qualità delle persone che emigrano—Malthus e Ferrara — Elementi produttivi ed improduttivi — Contadini e giovani— Lord Russell e l'emigrazione odierna—Nostra opinione— Quali persone dovrebbero emigrare dai grandi centri—Quali dai Comuni rurali.

Criterio 3.° Effetti che questa emigrazione produce alla patria — Emigrazione di lavoro—Conseguenze economiche—Immigrazione ed emigrazione di capitali — Considerata come mezzo di potenza degli Stati — Durata della emigrazione italiana—Conclusione.

Alla vista di 50 mila italiani, che in ogni anno lasciano la patria, veleggiando verso il nuovo mondo, la maggior parte affamati ed illusi, ingannati o traditi, l’animo nostro si commove, ed il vuoto che lasciano ed il presente e l’avvenire della nazione, si affacciano alla mente in uno stesso ordine di pensieri.

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La portata delle cifre dà al fatto tutta la importanza di un problema sociale degno della maggiore attenzione.

La progressione delle cose svolte, ha reso maturo il problema per una discussione di principii; e noi l’affronteremo studiando la prima quistione che esso presenta, se cioè l'emigrazione sociale sia un bene od un male per la patria.

Ecco una di quelle tesi che si prestano alle più disparate opinioni. Da una parte economisti autorevoli e stimati la incoraggiano, altri la combattono. Alcuni sostennero che se essa non è un male, è però il sintomo di un male, che affligge il corpo sociale. Altri han creduto vedervi una pruova di energia della volontà umana e la ritennero un' apparizione preziosa pel vantaggio della generalità.

Noi non siamo per le opinioni assolute. Vogliamo invece penetrare nello spirito delle opposte dottrine ed applicarle con la maggiore imparzialità.

Se non che, essendo svariati i punti di vista dai quali siffatta quistione può guardarsi, abbiam creduto di giovare all'ordine delle idee ed alla loro completa discussione, lasciandoci guidare da taluni criterii che verremo partitamente disaminando.

CRITERI REGOLATORI

1.°Indole del paese da cui si emigra, avuto» riguardo

a) alla popolazione.

b) alle condizioni del suolo ed alla produzione.

2.°Qualità delle persone emigranti.

3.°Effetti che questa emigrazione produce alla patria.

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CRITERIO 1.°

Indole del paese da cui si emigra, avuto riguardo

a) alla popolazione

La emigrazione sociale, ovvero economica, fu ritenuta un bene da alcuni economisti, e consigliata nei paesi troppo popolati ove difettano le risorse del generale sostentamento. La dissero un mezzo di arresto per la popolazione sovrabbondante, e mezzo sicuro pei governi e per le società onde liberarsi dall’eccedente pauperismo. Questi due argomenti sono due facce della stessa quistione, la quale altro non è che il grave ed immenso problema della popolazione. I primi germi di questo problema apparirono nella scienza, con Platone ed Aristotile (1) ¡quali intravidero la necessità di una limitazione del numero dei cittadini, per proporzionare alla ricchezza del paese la quantità dei suoi abitatori. In Inghilterra. Davide Hume, Wallace, Adamò Smith, il D. r Price, Franklin; in Francia il Montesquieu, ed in Italia il veneziano Ortes, fecondarono il principio dei due antichi filosofi. Ma quasi tutti avean veduto nei vizii dei governi gli ostacoli al perfezionamento degli uomini. Non aveano approfonditi i rapporti tra la moltiplicazione degli esseri umani %e le sussistenze,  né trovata la causa delle sproporzioni,  né avvisato ai rimedii. Il meritò di questo studio e la gloria di aver trovato un principio, di che s'è giovata la scienza, van dovuti a Roberto Malthus la cui celebrata opera (2) fu un' apparizione importante ai principi di questo secolo.

(1) Platone. Repubblica Lib. V; Leggi L. l’Aristot. Politica lib. II. Cap. 3 e 4.

(2) Essay on the Principle of Population.

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Egli si propose «di esaminare gli effetti di una grande causa intimamente legata alla natura umana, che ha agito costantemente e potentemente dall'origine delle società.

«Questa causa è la tendenza costante che si manifesta in tutti gli esseri viventi ad accrescere la loro specie più che non lo comporti la quantità di sussistenze che è a loro portata.

«La natura ha sparsi con una mano liberale i germi della vita nei due regni, ma essa è stata parca di posto e di alimenti. Senza questa riserva, in poche migliaia di anni milioni di mondi sarebbero stati fecondati dalla terra sola; ma una imperiosa necessità reprime questa popolazione lussureggiante, e l’uomo è sommesso alla sua legge come tutti gli esseri viventi».

Ecco dunque, con le sue stesse parole, il concetto fondamentale del Malthus. Ed ecco le due proposizioni che egli stabilisce e dimostra:

1. Che allorquando la popolazione non è arrestata da alcun ostacolo, essa raddoppia ogni 25 anni, e cresce di periodo in periodo, secondo una progressione geometrica.

2. Che i mezzi di sussistenza, nelle circostanze le più favorevoli all’industria, non possono giammai aumentare più rapidamente, che secondo una progressione aritmetica.

Non è nostro còmpito di seguire e discutere nella sua vasta esplicazione, la dottrina di Malthus; nel qua! caso sarebbe difficile di aggiungere cose nuove a quelle già dette dagli scrittori di tutta Europa che la lodarono o la biasimarono.

Però se tutta la dottrina è fondata sulla tendenza che ha la popolazione a moltiplicarsi più rapidamente  dei mezzi di sussistenza, è nostro debito di approfondire lo spirito di questa parola tendenza.

La quale, come acutamente osserva il Cavour, può ricevere due diversi significati. Considerarsi come una forza, la quale, non incontrando ostacoli, conduca ad un dato risultato, e può anche significare un fatto probabile dipendente da un certo stato di cose.

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«Noi riputiamo assolutamente esatta ed incontrovertibile la sentenza Malthusiana, se la parola tendenza, che in essa si trova, s'interpreta nel primo degli accennati modi, assurda ed erronea se ad essa si attribuisce il secondo significato.

«La storia dei passati secoli, lo studio delle condizioni economiche della società presente, ci dimostrano del pari che se vi esiste una forza potente, che spinge l’umanità a crescere in numero, questa viene contrastata da altre forze che ne moderano la efficacia e fanno sì che in diffinitivo la popolazione sia cresciuta, e continuerà probabilmente a créscere meno rapidamente dei mezzi di sussistenza» (1).

Alcuni scrittori, particolarmente della scuola inglese, accolsero senza esame la teoria di Malthus; ma il Dottor Whately arcivescovo di Dublino, uno dei più acuti economisti moderni, fu tra i primi a spargere luce sul contenuto della dottrina. Ecco che cosa ne pensa il Minghetti in una sua opera giustamente lodata (2).

«Molto saggiamente il Whately avvertì alla importanza di ben determinare il vocabolo tendenza. Il quale dee intendersi come una propensione che sortirebbe il suo effetto se non trovasse ostacoli, ma non già come una forza irresistibile e fatale. La tendenza espressa da Malthus non esclude che altre forze la contrastino e la contrappesino

«Così poniamo che nessun ostacolo di monopolii e di abusi impedisca la produzione della ricchezza; che nissun privilegio la concentri in alcune classi, che vi sia conveniente riparto e conserto fra la città e la campagna, la capitale e le province, fra l'industria e l'agricoltura; che gli uomini vengano istruiti ed educati ad esercitare le attitudini loro, temperare i desiderii,

(1) Cavour—Opere politico-economiche. Voi. 3° sul discorso proemiale del Corso di Econom. poi del Prof. Ferrara.

(2) Dell'Econ. pubbl. e delle sue attinenze con la morale e col Diritto — Libri 5 di Marco Minghetti — 2a Ediz. Firenze 1868.

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utilizzare i risparmii, che alla giustizia pubblica si accompagni la privata beneficenza: noi crediamo che a gran pezza sia evitato ogni disquilibrio fra la popolazione ed i mezzi di sussistenza» (1).

Chiunque non sia preoccupato, troverà giuste le osservazioni del Cavour e del Minghetti, le quali non contraddicono la teoria di Malthus, ma la rettificano e le dànno il suo giusto valore. In mezzo a tutte le esagerazioni e le contraddizioni che gli attribuì la critica, ei tenne sempre fiso allo scopo di migliorare la sorte, e di aumentare la felicità delle infime classi, (2) ed è giustizia il riconoscerlo. Ma i suoi critici come i suoi ammiratori frantesero sovente il contenuto vero della dottrina Malthusiana. Ne sia esempio il seguente passaggio, che è tra i più criticati, riportato dal Godwin: «Un uomo che nasce in un mondo già occupato, se la sua famiglia non può più nutrirlo, 'o se la società non può più utilizzare il suo lavoro, non ha il menomo dritto a reclamare una porzione qualunque di nudrimento, ed egli è realmente soverchio sulla terra. Al gran banchetto della natura non vi «ha coverta messa per lui. La natura gli comanda di andarsene, ed essa non tarda ad eseguire da sè stessa questo comando».

Con queste frasi, forse troppo rettoriche, Malthus non intese già che il proletario debba emigrare o morire assolutamente, ma uditelo dal Garnier che cosa volle dire:

«Nous ne voulons pas dire que cette assertion ne soit vraiment pénible: et qu' elle ne doive même étonner ceux qui ont vécu dans l’illusion que moyennant l'émigration, la culture des terres incultes, la vulgarisation de la pomme de terre, l’usage des soupes économiques, ou tout autre moyen de banale philanthropie, ou de crédule politique, on ouvait ne pas s’inquiéter de la multiplication des misérables.

(1) Op. cit. L. 2° p. 154.

(2) Dichiarazione di Malthus p. 3 e 632.

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 Mais ce qu' il faut bien reconnaître c'est, que si ce qu' on vient de lire est effrayant, Malthus ne l'invente ni le conseille: il le constate seulement, et en avertit le père de famille et ceux qui coopèrent à la multiplication des hommes, hors des proportions avec les moyens de travail.

«C'est la nature et non Malthus, qui a mis un précipice sous les pas de l'umanité; et pourtant c'est ce pauvre savant que l’on rend responsable; comme s'il fallait punir une sentinelle de son cri d'alarme et des avis qu' elle donne pour éviter le danger.» (1).

Ma più che ogni altro critico, gioverà interrogare lo stesso Malthus per sapere che cosa egli pensi dell’emigrazione come mezzo di arresto al soverchio della popolazione.

A pag. 346 della citata opera v'ha un intero capitolo sulla emigrazione, ove l'illustre scrittore comincia per dire che secondo il suo sistema, l'emigrazione sia impraticabile; ma che anche sperimentata, la storia delle colonie europee in America non incoraggia il tentativo', per la difficoltà di fondare colonie nuove; difficoltà di clima, di costumi, di attitudini. Dimostra che la nuova colonia dovrà soffrire molta mortalità pria di porsi a livello dei mezzi di sussistenza; e che anche creata e fondata la colonia, e superandole nuove difficoltà di provvedere al viaggio ed ai bisogni degli emigrati, non per questo sarà diminuito il bisogno nella madre patria, e lo prova con l’esempio dell’Inghilterra. «Anche durante gli anni delle sue emigrazioni (son parole di Malthus) io domanderò se in Inghilterra il popolo ha cessato di essere in preda al bisogno; se ogni uomo ha potuto ammogliarsi colla piena sicurezza di poter allevare una numerosa famiglia, senza ricorrere all’assistenza della sua parrocchia. Io ho il dolore di pensare che la risposta non sarà affermativa».

(1) Ioseph Garnier — Avant propos sur le livre de Malthus Le principe de fopulation. Paris 1852.

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Ecco il Malthus propugnatore delle emigrazioni!...

E continua: «Si dirà forse che la colpa è di coloro che avendo una occasione di emigrare, preferiscono vivere ove essi sono nel bisogno e nel celibato. Ma è dunque un torto di amare chi ci ha veduti nascere, i nostri parenti, i nostri amici ed i compagni della nostra infanzia? Una tale separazione è qualche volta compresa nelle grandi vedute della Provvidenza, ma non è perciò meno dolorosa».

E qui segue Malthus a segnalare le difficoltà e le incertezze che si dipingono nell’avvenire di un emigrante e riconosce che la misura dell’emigrazione non può adottarsi d'una maniera generale, sia per la ripugnanza che provano gli uomini ad abbandonare la patria, come per la difficoltà di dissodare e lavorare un terreno incolto.

«Se questo rimedio della emigrazione fosse efficace e potesse apportare qualche sollievo ai mali che il vizio o l'infortunio produce negli stati antichi, da lungo tempo si sarebbe vuotata questa coppa salutare».

Da tutti questi concetti Malthus cavò la sentenza che «l'emigrazione é assolutamente insufficiente per far posto ad una popolazione che cresce senza limiti. Ma guardata come un espediente parziale ed a tempo, proprio ad estendere la civiltà e la coltura sulla faccia della terra, l'emigrazione apparisce utile e conveniente. »

Dunque non è vero che essa, secondo il Malthus, sia mezzo di arresto della eccedente popolazione, ma solo qualche volta possa essere un espediente parziale, non già (si noti) per diminuire la popolazione in patria, ma per estendere la civiltà e la coltura sulla faccia della terra. E per questa medesima ragione la consigliarono il Dunoyer, il Degerando, Errico Stork, il quale la chiama un elaterio di civiltà e di espansione; il Reybaud, il Duval, il Blanqui, che la dicono un fatto provvidenziale utile alla civiltà del genere umano.

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Oltre ai quali scrittori giova tener conto delle opinioni di altri autorevoli economisti, come Adamo Smith, Davide Ricardo, MacCulloch, Stuart Mill, i quali, come è noto, furono fautori delle emigrazioni.

Innanzi tutto dee avvertirsi che essi son figli delle idee inglesi e veggono il fatto attraverso i vantaggi apportati all'Inghilterra dalle sue colonie in America. Il quale effetto fu riconosciuto da quasi tutti gli scrittori di economia, e ricorderemo il Say ed il Legoyt in Francia, ed il Roscher, capo della moderna scuola economica tedesca.

Ed il Legoyt ed il Roscher, come anche il Verri, partendo da un criterio relativo, ritennero la emigrazione utile solo ai paesi straordinariamente popolati.

Ma chi entra nella disamina delle opinioni dei quattro citati economisti, si accorgerà come niuno di essi riconobbe nella emigrazione sociale un mezzo di arresto della popolazione. Adamo Smith salutò nelle colonie la grandezza dell'Inghilterra. Davide Ricardo avvisò che quando in patria non son proporzionati i salarii al caro dei prodotti, è utile che temporaneamente ina parte della popolazione emigri alle colonie. MacCulloch preoccupato dall’eccedente pauperismo inglese, avvisò che la emigrazione alle lontane colonie qualora reclutasse tutta la poveraglia d'Irlanda, renderebbe un servizio ed un profitto al Regno Unito (1).

Da ultimo si attribuisce a Stuart Mill di aver ritenuto assolutamente, che la emigrazione fosse efficace per ragguagliare la popolazione ai mezzi di sussistenza. E poiché sarebbe il solo ad emettere un concetto assoluto, sarà utile esaminare per un momento il contenuto della sua dottrina.

(1) Principes cT Economie politique — voi. 2° p. 57 Traduit par Aug. Planche. Paris 1863.

– 244 –

«Allorché — egli dice — lo sviluppo della popolazione sorpassa il progresso dei perfezionamenti, e che un paese è costretto a procurarsi i mezzi di sussistenza a condizioni maggiormente sfavorevoli, perché la terra non può più soddisfare a nuove dimande che a più onerose condizioni, si presentano due espedienti, con l’aiuto dei quali si può sperare di addolcire questa triste necessità. L'uno di questi espedienti è l'importazione delle derrate alimentarie, l'altro è l'emigrazione (1)».

Il profondo economista inglese dimostra quanto sieno inefficaci questi due espedienti per ottenere lo scopo che si propongono, segnatamente quando la produzione del paese ha raggiunto il limite estremo di convenienza economica. È troppo poco il fatto della emigrazione perché operi il miracolo di arrestare o anche di moderare l'aumento della popolazione, ed oltre al Malthus lo han dimostrato Bentham, Fournier, Pellegrino Rossi e Carey. Molte furono le ragioni addotte da questi scrittori, tra le quali è principale e gravissima considerazione che le nascite superano le mortalità in ogni paese. Ma dai paesi onde si emigra, restando più proporzionate le sussistenze alla popolazione, si moltiplicherà più facilmente la specie con la cresciuta facilità dei matrimonii.

Questo è appunto il concetto di Stuart Mill, il quale lo spiega più chiaro in un § cui è titolo: L'emigrazione non dispensa dalla necessità di restringere i progressi della popolazione. Ivi egli dice che l'emigrazione in massa ha potuto rendere dei segnalati servigi all’Irlanda, quando questa si trovava sotto la triplice influenza dell’assoluta mancanza di raccolta delle patate, della legge dei poveri, nuova per essa, e della espulsione generale dei campagnoli censuarii, che ne fu la conseguenza.

(1) Stuart Mill Principes d'Econom. polit. Ti ad. par Courcel Seneuil 3" ediz. toni. 1 p. 225. — Paris 1873.

– 245 –

Ma fuori quel caso straordinario, non è possibile di provocare una emigrazione «che mantenga tra la popolazione e la produttività del lavoro l’equilibrio continuamente rotto dalle nascite. Fin che questo stato di cose non si modifichi, l'emigrazione non può, anche dal punto di vista economico, dispensare dalla necessità di creare degli ostacoli allo sviluppo della popolazione (1)».

Trovateli prima questi ostacoli, ricercate altri e più efficaci mezzi di arresto, ma non ci arriverete di certo  né col sottrarre ad un paese 50 mila uomini ogni anno, o con l'introdurre in esso 10 mila quintali di derrate alimentarie.

Se il lettore ebbe la pazienza di seguirci, avrà veduto come innanzi all’esame delle vantate opinioni degli scrittori, queste argomento della popolazione si rimpiccolisce e dispare.

Ma l’autorità della storia, della ragione e della scienza, ci traggono in un altro ordine di opinioni.

Accettando anche il principio che la popolazione tenda a sorpassare i mezzi di sussistenza, bisogna che questo principio sia posto in rapporto al tempo ed allo spazio,altrimenti avremmo conseguenze empiriche. Interroghiamo la storia.

Gli stati dell’antica Grecia non possedendo che un piccolissimo territorio, la loro popolazione giunse presto al limite cui le permettevano di giungere le sussistenze locali, quindi uscirono colonie di Dori che si stabilirono principalmente in Italia ed in Sicilia, colonie di Ionii ed Eolii che si diffusero per l’Asia minore e per le isole del mar Egeo.

I barbari del Settentrione di Europa che pel loro stato di società, per la eccedenza del numero, aveano bisogno di territorio immenso, che non aveano in patria, vennero ad invadere l’impero romano, e ne divisero le spoglie.

1) Ibidem, p. 231.

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Altri esempii potremmo arrecare; ma questi due tolti l'uno dall’antichità, l’altro dal Medioevo, provano che vi furono epoche nelle quali il bisogno cacciava gli uomini dalla patria, ed il bisogno dipendeva dall’angustia del territorio o dal genere nomade di vita o dalla mancanza di produzione o dalle carestie. L'agricoltura e l'industria antica eran bambine. Le carestie comparivano nel Medio-Evo più spesso di oggi.

Ma le condizioni della società moderna son del tutto diverse. Estesi e definiti i limiti delle nazioni, legati gli uomini alle terre ove nacquero da vincoli d'interessi molteplici morali e materiali; immensamente migliorata l'agricoltura, creata 'a vita industriale, le ostili influenze della natura riparate dall’arte, dalla scienza, dagli scambi, tutto questo ha reso le popolazioni moderne non soverchie ad un paese civile.

Pria di tutto un popolo numeroso è un popolo forte. Il Galiani disse «Tanto vale un regno, quanti ha uomini e niente «più: tanto più forte quanto più uomini in minor terreno» (1) ed il Conte Verri soggiunse «il numero degli abitanti è la «vera e sola misura della potenza di uno Stato (2)».

Benché queste due sentenze fossero state confutate dal Gioja (3) con buoni argomenti, pure v'ha nel loro contenuto una parte di vero, ed il Young ne dà le ragioni parlando dell’Inghilterra.

Ma che l’uomo sia la vera ricchezza di un paese, non lo dice solo il Galiani (4) ma lo dimostrarono pensatori che si chiamano Genovesi, Beccaria, Filangieri, Quesnay. Ed il Gioja il quale dice che gli scrittori del secolo passato sragionavano su questo argomento, stabilì le seguenti formule, che cioè

1) Scritti economici, tomo 1° p. 230.

2) Id. tomo 2° p. 130.

3) M. Grioja Nuovo Prospetto delle scienze Ec.

4) Tomo 2° p. 130.

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«la popolazione tende a mettersi in equilibrio coi mezzi di guadagno e che l’aumento della popolazione non è un vantaggio, se non quando è conseguenza di un aumento sui mezzi di guadagno» (1).

Noi ci asterremo dallo esporre le opinioni dei citati sragionatovi per non far di questo esame un trattato. Ci terrem paghi ad osservare che le due sentenze del Gioja si convertono in un' accusa contro i paesi poggiati sopra un falso o imperfetto sistema economico. Immaginate una nazione che abbia un numeroso popolo: se ivi le leggi ed i costumi, attivando tutte le energie, intendano ad aumentare i guadagni, in modo che ciascuno, secondo lo sviluppo delle proprie attitudini troverà un posto al banchetto della vita; in quel paese la popolazione non sarà mai soverchia, anzi in aumento. «Nulla «può accrescere la popolazione — dice altrove il Gioja —se «non ciò che accresce l’industria di qualunque specie, e so«pratuttol’industria manifatturiera» (2).

Dunque i concetti del Gioja ci traggono a conchiudere che la causa latente della miseria di un paese, non è l'aumento della popolazione, ma la mancanza di produzione sufficiente a provvedere ai bisogni del popolo. Questa è la convinzione che traemmo dall’aver meditato sul grave argomento. E siamo lieti di rilevare che il valoroso economista che oggi presiede il governo d'Italia, abbia espressi i medesimi pensieri nel citato suo libro. Egli riconosce che una società provetta ove la popolazione tende a soverchiare i mezzi di sussistenza, «se questa società sia ben costituita, se gli uomini vi sappiano far buon uso della libertà, la tendenza della popolazione è contrappesata da altre tendenze pure a noi connaturate, che la infrenano. E per conseguenza nulla ripugna alla proporzione fra la ricchezza di un paese ed il numero dei suoi abitatori, che è fondamento alla buona ripartizione di quella ed alla prosperità pubblica.

(1) Gioja parte 2a p. 250.

(2) Ibid. p. 240.

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In una nazione ordinata e savia la popolazione giunta ad un certo limite, segue l’aumento dei prodotti, generato dai progressi della scienza e del capitale» (1).

Questi concetti della sana scuola economica, rispondono ai precetti che la sapienza antica imprimeva nella Bibbia, libro il cui fondo racchiude incontestabili verità.

«Respiciam vos — sta scritto nel Levitico — et crescere faciam: multiplicabimini, et firmabo pactum meum vobiscum» (2). Ed altrove il Profeta Geremia consiglia: moltiplicatevi nella città ove avete fabbricate le case, e dove siete sposati, e non vi riducete a scarso numero (3)». Ed ai ribelli d'Israele e Giuda, la maggiore minaccia del Signore, che ad ogni tratto si legge nei libri dei profeti, è questa «Io li disperderò tra le nazioni che erano ignote ad essi ed ai loro padri (4)». Era dunque nei fini della Provvidenza la moltiplicazione del genere umano, ed era il maggior bene promesso all’uomo il fargli godere le dolcezze della terra ove nacque.

Ma tutto questo oggidì vai nulla:  né la rivelazione,  né la scienza,  né la tradizione,  né la storia. Si sostiene che il popolo soverchia in numero; si vagheggia la morte per decimarlo, si discredita il matrimonio perché non aumenti la specie, si plaude alla emigrazione come mezzo di arresto, come tara al soverchio, come medicina salutare. Ogni secolo ha la sua moda!

Che la emigrazione non valga ad arrestare l'aumento degli uomini, lo dimostrammo; ma questo è discutere in tesi generale. Ora conviene studiare se in Italia sia necessaria una valvola al rigurgito della popolazione.

(1) Minghetti Op. cit. Libro II, p. 158.

(2) Levitico Capo XXVI.

(3) Geremia Capo XXIX.

(4) lbid. a Capo IX.

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E qui ricorriamo alle cifre.

Il censimento del 1871 ci assicura che la popolazione di tutto il Regno d'Italia è di 26,801,154 — La sua superficie: 296,305 kil. quadrati

L'Italia che nel 1788 avea poco più di 16 milioni di abitanti, ne contava nel 1852, 22,320,000, ed il Moreau de Jonnès chiama debole questo accrescimento di 6,320,000 pari a circa 100 mila per anno; perché questo aumento dà uno sopra ogni 191, e suppone un raddoppio in capo a 135 anni, cioè verso l'anno 1987 (1). Il censimento del 1861 offri un complessivo di 25,023,810, e la cifra ottenuta nel 1871 prova che nel decennio della vita italiana la popolazione non aumentò che di 1,777,344, cioè di 177,744 per ogni anno, ovvero poco più del 7 per 0[p nel]' intero decennio.

E pare soverchio questo aumento? guardiamo intorno in Europa.

La Gran Brettagna e l'Irlanda, secondo il Moreau de Jonnès, avevano nel 1788 12 milioni di abitanti. Dopo 64 anni, nel 1852, ne contavano più del doppio, 27,675,000. Oggi il regno unito ha una popolazione di 32 milioni sopra una superficie di 314 m. kil. quad. Dunque la popolazione delle Isole Britanniche sta all'Italiana come 8 a 6. 80.

L'Olanda ha 3 milioni e mezzo di abitanti sopra una area di circa 33 mila kil. q. Bisogna moltiplicare 9 volte questa per avere la superficie italiana, e l'Italia per essere popolata come l'Olanda dovrebbe avere 31 milioni e mezzo di abitanti. Ma ne ha meno di 27 — dunque l'Olanda sta all’Italia come 8 a 6. 90.

Il Belgio ha una estensione di 29,455 kil. q: Bisogna moltiplicare questa cifra 10 volte, per aversi quasi la superficie italiana. La popolazione Belga è di 5,087,105; moltiplicando anche questa per 10, avremo oltre a 50 milioni, quanti ne dovrebbe avere l’Italia. Quindi il Belgio sta all’Italia come 9 a 4. 85.

(1) Moreau Elem. de Statis. Paris 1852 p. 440.

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E si noti che nessuno di questi tre paesi di Europa è favorito dal clima come l'Italia. — Dell’Olanda, scrive il Moreau: «il faut un rare courage, une haute intelligence, une admirable perseveranoe, pour faire prospérer un pays aussi mal favorisé de la nature». Il Belgio è uno dei più recenti Stati europei. Avea appena 2 milioni di abitanti sotto il dominio austriaco. In mezzo secolo li raddoppiò: ebbe un aumento di uno sopra ogni 85 abitanti per anno: proporzione straordinaria, che minaccia il Belgio di raddoppiare la sua popolazione; in pochi anni. Eppure quanti sono i suoi emigrati? Non ne trovammo che soli 18 mila ili tutto questo secolo, diretti agli Stati Uniti di America (1).

Per concludere questi confronti notiamo, che le Isole Britanniche contano per ogni kilometro quadrato 150,95 individui; il Belgio ne ha 167; l'Italia 90 — questa è la densità della sua popolazione, assolutamente presa (2).

Ma la proporzione, perché sia esatta, bisogna riferirla alla popolazione di ciascuno dei compartimenti nei quali il regno è diviso.

Ecco i risultati di siffatta ricerca (3).

(1) Pag. 65 c 00.

(2) Italia Econ. del 1873 p. 571.

(3) Chi voglia sapere le province elio compongono ogni compartimento, le suddivisioni in comuni, ed altrg notizie statistiche affini, le troverà nei quadri dell’Italia Economica 1873 a pag. 5697071 e seguenti.

L'ordine del nostro specchietto ha per criterio la scala discensiva della densità della popolazione.

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COMPARTIMENTI Popolazione

nel 1871

Sup.

in kil. q.

Ab.  per

kil. q.

Liguria 843,812 5,324 158
Campania 2,754,595 17,978 153
Lombardia 3,460,824 23,526 147
Veneto 2,642,807 23,463 113
Emilia 2,113,828 20,515 103
Piemonte 2,899,564 29,268 99
Marche 915,419 9,703 94
' Toscana 2,142,525 24,052 89
Sicilia 2,584,099 29,241 88
Abruzzi e Molise 1,282,982 17,290 74
Calabrie 1,206,302 17,257 70
Lazio 836,704 11,917 70
Puglie 1,450,892 22,115 64
Umbria 549,601 9,633 57
Basilicata 510,543 10,675 48
Sardegna 636,660 24,342 26
16 Compartimenti 26,801,154 296,299 (1) 90

A quante considerazioni non dà luogo il riferito specchietto! La maggiore densità italiana è 158 abitanti. Ma che si dirà della Basilicata che ne ha 48, della Sardegna che ne ha 26? Diremo che son paesi spopolati in proporzione della condizione del suolo; diremo che se da questi paesi si emigra, ed in quali proporzioni lo vedemmo, è un' amara ironia parlare di esuberanza di popolazione.

Se anche vi fosse un Malthus diverso da quello che è, se tutta una scuola dimostrasse che la emigrazione è, come il tifo, il colera, la morte, mezzo di arresto della popolazione eccedente, questa condizione manca assolutamente in Italia, e l'argomento non avrebbe efficacia per noi.

(1) La differenza di sei kil. sulla indicata totale superficie italiana, è rappresentata dalle parziali frazioni che abbiamo omesse.

– 252 –

Ripetiamo, da ultimo, per conto nostro, quel che fu detto e dimostrato da altri scrittori: Non di 26, sibbene di 60 milioni di abitanti sarebbe capace l'Italia.

Ma anche una popolazione non esuberante può avere una gran massa di poveri: ed eccoci ora, per naturale sviluppo d’idee, di fronte al secondo argomento col quale si sostiene che la emigrazione sia un mezzo favorevolmente accolto dai governi e dalle società per liberarsi dell’eccedente pauperismo.

Siffatta quistione convien che sia studiata nel campo dei fatti, anzicché delle teorie. Il pauperismo è un problema che s'impone alle società moderne con sembianze più o meno minacciose. Esso trae la sua origine da certe condizioni speciali a ciascun paese, condizioni di suolo, di cielo, di ricchezza, di attività, di costumi, di leggi. Ricercheremo nel secondo volume, che abbiam promesso, i bisogni di questo immenso proletariato europeo, e vedremo sino a qual punto siano a temersi le sue agitazioni, e sin dove debba estendersi l’opera provvidente de' Parlamenti e de' governi.

La indagine attuale è diversa.

È mai vero che l'Inghilterra vide nell’emigrazione un grande canale destinato a dar corso alla torbida fiumana di quel pauperismo che in patria è cagione di disordini e di agitazioni?

È vero, com'è vera la desolazione della povera Irlanda, come son vere le centinaia di migliaia di proletarii inglesi gettati sulla via da un complesso di tante influenze naturali, economiche e sociali. Nel 1870 lord Hamilton dicea alla Camera dei Comuni, che quantunque 167 mila inglesi avessero preso il largo nell’anno precedente, pure il numero dei poveri era aumentato di 74 mila nella sola città di Londra. Il giornale Tory: The Standard dicea non ha guari che Londra aveva un numero di poveri maggiore che in ogni altra epoca. Un membro del parlamento M. Torrens, ne mosse interpellanza al ministro della carità pubblica (President of the poorlaw board) rivelando le sofferenze più crudeli nei diversi quartieri di Londra.

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La tassa de' poveri è insufficiente; essa non indica neppure il decimo di ciò che soffre la popolazione laboriosa, la quale aspetta fino all'ultim'ora pria di domandare un soccorso. L'Inghilterra si rassegna a vedere un ventesimo della sua popolazione, cioè un milione e mezzo di poveri, vivere di una tassa che divora ogni anno da 3 a 400 milioni di franchi. Questa crescente miseria è un fatto gravissimo in un paese ove d’altra parte le grandi ricchezze accumulate superano i tesori di Cartagine, di Tiro e di Babilonia.

Ogni cosa al mondo ha la sua ragione di essere. L'emigrazione inglese divenne una necessità sociale.

La regina destinò nel suo budget una somma annua per sussidiare i viaggi degli emigranti. Governo e privati l’accompagnano e la facilitano con ogni maniera di aiuti. E non una, ma molte Compagnie sorsero in quel paese per la spedizione degli emigranti, e forti capitali si impegnarono in queste speculazioni, che fruttarono agli azionisti utili considerevoli.

Oltre al MacCulloch, innanzi citato, gli economisti e i politici della scuola inglese consigliarono la emigrazione dei poveri. Quando il parlamento di Londra ordinava un'inchiesta sulla condizione de' tessitori a mano, i commissarii la raccomandarono come efficace rimedio.

In difnnitivo, le cause dell’esodo d'Inghilterra possono riassumersi alle seguenti:

1.°Un immenso proletariato, creato da cagioni economiche politiche e legislative, prima delle quali è il regime della proprietà immobiliare, in cui si mantiene tuttavia l’antico feudalismo inglese.

2.°La opportunità di avere colonie in America ed in Australia, e specialmente una seconda patria negli Stati Uniti.

3.° L'accumulazione dei capitali, onde le facilitazioni offerte dalle Compagnie, e questa, secondo il Carey, è uno degli stimoli principali ad emigrare.

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Ma anche al pauperismo è rimedio insufficiente la emigrazione, e lo dimostrò il Destrutt-Tracy. Le nostre ricerche ci traggono a dimostrarlo con i seguenti esempii.

In Germania non solo lo Stato, ma anche i Comuni contribuirono con sussidii speciali alle spese di viaggio degli emigranti. Così nel Wurtemberg in 26 anni dal 1840 al 65, lo Stato ed i Comuni accordarono ai 191,408 espatriati un sussidio complessivo di 4 milioni di fiorini. Nel successivo triennio 186668 la emigrazione del Wurtemberg ricevè dai soli Comuni il sussidio di altri 50 mila fiorini.

Ma vi furono paesi in Europa ove i Comuni, incalzati dai pericoli del pauperismo, si determinarono a spedire oltre l’Oceano i poveri contadini atti al lavoro, pagando loro tutte le spese di viaggio. Era un gran sacrificio cotesto per contrade ove regnava tanta povertà!

Ma i risultati non sempre risposero alle speranze. Le statistiche provano copie la maggior parte di questa gente ritornasse successivamente in patria alle antiche abitudini dell’accattonaggio o sotto la cura de' poveri. E si noti che gli stessi scarsi risultati risposero all’attività filantropica dell'Inghilterra. Il che prova come una gente non abituata in patria al lavoro, non vi si acconciasse in terra straniera, o almeno la energia di procurarselo le facesse difetto. Questa è facoltà che non s'improvvisa, ma si acquista con le abitudini contratte fino dall’adolescenza. Oltre a che, se è difficile là dove si è nati di trovare un utile impiego alle proprie attitudini, diviene a mille doppii difficile in paesi remoti, in mezzo ad uomini nuovi, ove l’emigrato è solo e straniero, e cui nessuno provvede se non la propria energia speculatrice e laboriosa.

Ma in. Italia, ove  né Governo,  né Comuni,  né privati, sussidiano l’emigrazione (e questo dimostra che il paese non sente il bisogno di provocarla) malamente si afferma da alcuni che essa sia un rimedio moderatore del pauperismo.

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Gli emigrati italiani sin oggi, nella maggior parte, espatriarono a proprie spese; il che vuol dire che non furono reclutati in mezzo a quella turba scalza e lacera, senza pane e senza tetto, che si aggira per le vie cittadine o si inerpica per le balze delle nostre campagne. "Questa è l’onda che rimescola infelici ed oziosi, diseredati e malviventi, accattoni necessarii od improbi, gente tutta che offre con alterna vicenda un triste contingente al brigantaggio de' monti ed ai furti delle città, agli ospedali ed alle carceri, alle ammonizioni di polizia ed ai ferri della galera. Questo è il pauperismo pernicioso in sè stesso e pei suoi contagi; questo è il male che nessun paese di Europa, anzi del mondo, potrà estirpare dalla radice, se prima il tempo e gl'incessanti progressi delle società moderne non avran migliorate leggi e costumi, questi due fondamenti deìla miseria o della felicità de' popoli.

Se i nostri 50 mila emigrati fossero stati davvero sottratti a tali tristi categorie, che si agitano ne'  bassi fondi di ogni paese, allora l’emigrazione potrebbe dirsi un depurativo. Ci farebbe l'effetto di un'acqua lustrale destinata a lavare il corpo sociale; benché anche in questo caso non sappiamo quanta dignità vi fosse per una nazione che rovesci sopra una terra straniera i peggiori della sua popolazione, probabili malfattori, più che probabili operai. Se delinqueranno in luoghi ove havvi il freno di leggi severe, la loro condanna non sarà onore alla patria. Se una libertà sconfinata offrirà largo campo alle loro disonestà, diverrà tristamente famoso il nome del paese che mandò questi sciagurati.

Dunque se dall’Italia non emigra il pauperismo pericoloso; e se anche emigrando, andrebbe a disonorare la patria con la fiacchezza ed i cattivi istinti—ci pàr chiara la conseguenza, che qui non si possa invocare il rimedio dell’emigrazione come una medicina atta a sanare la piaga del pauperismo.

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Da ultimo se uno statista credesse davvero ai benefici risultati di questa medicina, mostrerebbe di temere le scosse violenti della miseria, sapendo che nel suo paese vi ha una popolazione che lotta col bisogno e colla fame, e dichiarandosi impotente a sollevarla con provvide arti di governo. Avvisò opportunamente Clialmers che nel paese da cui si emigra manchino i mezzi di sussistenza; ed il Carey dimostrò che quando una società si migliora, diminuisce il bisogno di emigrare.

Rimovete le cagioni ed avrete distrutto il male, senza bisogno di ricorrere a mezzi empirici, ad espedienti inefficaci.

b) Alle condizioni del suolo ed allo sviluppo della produzione.

Non abbiamo bisogno di una dimostrazione per provare una cosa evidente e notissima, che l'Italia sia essenzialmente un paese agricolo. Per posizione geografica, per mitezza di cielo, per fecondità di terra, essa ha sviluppato nei suoi figli la prevalente tendenza all’agricoltura, bisogno supremo e ricchezza maggiore degl'italiani.

La vasta estensione del suo territorio, come accennammo dinanzi, sarebbe teatro all’operosità di un popolo assai più numeroso. In questa terra privilegiata l’uomo è sicuro che non indarno verserà il sudore sui solchi aperti dall’aratro e dalla vanga. Questa è la Saturnia tellus, che fu salutata da Virgilio magna parens frugum; ed alle miti orezze delle sue ombre, ai fioriti viali dei suoi giardini, ai profumi dei suoi aranceti, convengono da tutte parti gli stranieri, desiderosi di vederla questa Italia che fu il sogno della loro vita, la poetica leggenda della loro infanzia. I suoi vasti orizzonti, l’azzurro delle sue marine, la fecero il tempio dell'arte; i tesori dei suoi terreni la fecero ricca e privilegiata tra le genti.

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In questo immenso giardino di Europa non sia mai detto ohe la terra manchi all’Italiano,  né che avara essa nieghi le vendemmie festanti e le messi maturate dagli splendidi soli. Quel che può accadere agi' italiani è l’inverso, che alla terra manchi l’uomo, leva della sua produzione. Il giorno in cui le nostre campagne fossero abbandonate dagli agricoltori, quello dovrebbe essere giorno di tutto nazionale. Qui la campagna alimenta la città, qui la terra è la ricchezza della nazione. Sarebbe disfatta quel giorno la catena della produzione, ed una grande scossa dovrebbe risentirne tutto l'edifizio sociale.

Questo tutto non lo risentono l’Inghilterra e la Germania per le loro emigrazioni. In quella, ove migliaia di fabbriche alimentano milioni di operai, se una parte di essi emigra, perché scontenta dei salarii, o eccedente i bisogni dell’industria, la loro emigrazione servirà a ristabilire l'equilibrio fra quei che restano; perciò può dirsi che l’esodo degli operai inglesi è un bene, ma un bene relativo a quel dato paese. Lo stesso diremo della Germania: lo stesso in gran parte dell’Olanda, del Belgio, della Svizzera.

In generale può dirsi che delle emigrazioni agricole non risentono scosse le razze del nord, le quali svilupparono la loro attività nel campo delle industrie specialmente manifatturiere. Nel nord di Europa, come vedemmo, la popolazione è più densa in rapporto al territorio—quindi deficienza di suolo—quindi ivi sarebbe applicabile, se fosse sufficiente, la medicina dell’emigrazione.

Nè tutti i loro terreni si prestano alla coltura e rispondono alle speranze del contadino. Nè il regime agrario permette alle classi inferiori di possedere o di guadagnare in proporzione del lavoro e de' bisogni, e questa è la ragione più grave. È il desolante problema che ha innanzi a sè l'Inghilterra. Gli economisti della nuova scuola, Mill, Leslie, Fawcett, ed un partito di cui M. Bright è il più eloquente oratore, sostengono che la causa principale della situazione eccezionale

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in cui si trova l’Inghilterra è la grande proprietà, che spinge ed agglomera la popolazione delle campagne nelle città, dove l’abbassamento dei salarii e l’eccesso della popolazione aumentano il proletariato con tutte le sue conseguenze. Ecco un altro gravissimo argomento che ci proponiamo di disaminare nel secondo volume. La quistione agraria in Irlanda ed in Inghilterra fu cagione di mali le cui conseguenze divennero contagiose per gli altri popoli di Europa.

Ma vi ha di più. Possono le crisi bancarie o commerciali gettare sulla via migliaia di operai, che la vigilia viveano col lavoro dell’officina; ed allora l’uomo del nord rigoglioso di quella energia, che è la risultante dell’operosità e del carattere, abbandona volentieri la patria ed ogni cosa a lui più caramente diletta, e questo esodo può forse risolversi in vantaggio dell’individuo e della patria.

Emigrazione è dunque, questa degl'italiani, emigrazione è pure quella degli altri paesi di Europa; correnti son tutte che si rovesciano oltre l'atlantico per popolare i paesi di America. Ma la diversità delle conseguenze prodotte dal medesimo fatto sociale, dimostra ancora una volta come al mondo nulla siavi di assoluto, ma solo idee e fatti relativi. Anche il morbo che affligge due corpi umani, può essere lo stesso per origine e per caratteri, ma diverse saranno le sue conseguenze a seconda della tempra organica di ciascuno. All'uno di essi quel male scaverà la fossa; per l'altro sarà una fugace meteora nell’orizzonte della vita, anzi talora un ricostituente efficace.

Ciò posto, chi potrebbe sul serio affermare che questo fenomeno dell’emigrazione sia un bene od un male assoluto, senza porlo in relazione col paese da cui si emigra, con le sue condizioni di suolo e con tutto lo sviluppo delle sue ricchezze naturali od artificiali? Un paese può avere esuberanza di una. certa popolazione e scarsezza d’un' altra; può risentire i danni di una emigrazione agricola; mentre vedrà sulla sua superficie moltiplicarsi un pauperismo operaio;

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un altro paese potrà incoraggiare la emigrazione agricola, come l'Irlanda; un altro la operaia, come l'Inghilterra. Se dunque è del soverchio quello di cui si spaventano alcuni economisti, bisognerà prima valutare la quistione sociale di ciascun paese perché del soverchio relativo un popolo possa sbarazzarsi.

Or dunque perché si emigra dall’Italia? È inutile dissimularci i mali presenti della patria. Gl'italiani per la maggior parte son cacciati dal bisogno. Un complesso di condizioni che sono più il fatto dell" uomo, che l’opera della natura, nega loro. in patria ciò che vanno a chiedere a lontana e straniera terra. Meno quella de' Liguri, Agente operosa ed ardita, che, obbediente ad una tradizione secolare, continua oggi coi paesi transatlantici i fortunati commerci de' suoi antenati, la emigrazione degli altri paesi d'Italia vuol dire fame. È una forma desolante con cui il proletariato italiano esprime la sua miseria fe la sfiducia nella patria. Le cause di questo malessere nazionale son già note, e forse non sarà inutile il presentarle in un quadro e suggerire i rimedii che ci paiono necessarii, il che faremo nel secondo lavoro. Ma importa al nostro attuale ordine di idee di fermare il concetto del bisogno come causa prossima e predominante dell'attuale emigrazione italiana. Nessuno, o pochi, direbbero addio alla patria, come oggi fanno le migliaia di nostri connazionali, se non fossero spinti da una forza che vince l’affetto. per la terra natale, i dolci ricordi dell’infanzia, le carezze degli amici, l’amore della famiglia. Questa forza che s'impone ed incalza e non lascia scampo, è,  né altra può essere, che la fame.

Ed ora se domandiamo allo stesso Mantegazza che cosa sia l'emigrazione, egli ci risponderà da onesto scrittore «È un revellente il quale mantiene vigoroso ed agile l'organismo delle nazioni, quando non è vendetta sociale,  né fuga,  né fame».

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Innanzi a questa dolorosa conclusione ci tornano a mente le savie parole che un egregio italiano, Vincenzo Botta di Cuneo, già Deputato al Parlamento Subalpino, scrivea non ha guari al deputato Mauro Macchi da New York, ove da parecchi anni guarda con dolore la crescente immigrazione degl'italiani.

«Dite ai vostri connazionali che l’America è in Italia, il cui suolo è tanto fertile quanto quello del nuovo mondo, ed ha bisogno delle braccia dei suoi coltivatori».

A noi meglio che ad altri conviene applicare la sentenza del Quesnay «grave sciagura è per un popolo agricolo la emigrazione. »

2.° criterio

Qualità delle persone che emigrano.

Roberto Malthus disse che «se l’uomo è un capitale, la emigrazione di questo capitale avviene a danno del paese da cui muove» (1).

Il nostro Ferrara dimostrò la erroneità di questa idea con un ragionamento che può ridursi al seguente sillogismo.

Il capitale — ei disse — è ricchezza quando è atto a produrla. Ma chi emigra perché non guadagna in patria è un capitale morto, che diventa di nuovo capitale quando è messo in condizioni relativamente migliori. Dunque ciò che esce dal paese non è capitale.

Noi accettando la prima dottrina non respingeremo la seconda. Sostanziale differenza fra esse non vediamo. Il concetto del Ferrara completa ed allarga quello di Malthus. Infatti nel mondo economico non vi sono che valori e non valori. È non valore l'ozioso, il consumatore parassita, infine chiunque non produce per mancanza di attitudini o di volontà. Diviene non valore chiunque non può produrre, perché le condizioni sociali lo condannano alla inerzia.

(1) Malthus: Le definizioni della Economia.

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Invece ogni uomo che con le braccia o con la mente si adopera a trar partito dalle proprie forze, è sempre un valore, qualunque sia la proporzione tra la fatica ed il guadagno; perocché questa proporzione è determinata da cento influenze naturali, politiche, economiche, finanziarie.

Il Ferrara, che è un dotto economista, non ha potuto voler dire che l’uomo il quale guadagna meno di quanto potrebbe, dovesse considerarsi come capitale morto, come un non valore, a cui l’aria delle regioni tropicali operasse il miracolo di infondere la vita. In un paese manifatturiero ove i salarii fossero bassi e sproporzionati alle sussistenze, ogni operaio produrrà poco e vivrà a disagio. Sarà perciò un capitale morto o destinato a morire?

---Se in un paese agricolo le scarse annate o le eccessive imposte faran languire la popolazione campestre, sarà capitale morto il contadino che prova la fame, perché non gli basta il guadagno? No; egli è sempre un valore, è un capitale vivo, e la sentenza di Malthus lo dichiara necessario al suo paese.

Questi principii sono nel nostro lavoro integrati dalle cifre e dagli esempii.

Nel Capo VI parlammo delle professioni dei nostri emigranti. Le statistiche furono eloquenti, e qui è il luogo di discuterne i risultati.

Quando sopra 116,256 emigrati meridionali del 72, ne troviamo soli 385 senza professione, ed il rimanente tutto elemento operaio e dedito ad uno stabile lavoro, abbiamo la prima prova che da noi non emigrano gli oziosi o gl'inabili alla fatica. Lo stesso va detto per le altre province italiane.

L'emigrazione sociale richiede due forze che l'accompagnino: il capitale danaro per le spese di viaggio, e l’attività per il lavoro, che è pure capitale.

– 262 –

 

Chi non è al caso di disporre di queste due forze, non sogni neanche l’Atlantico e l’America. Infatti fra 100 emigrati italiani ne troverete tre o quattro al più che erano scioperati e solamente consumatori in patria. Quindi la proporzione tra gli elementi produttivi ed improduttivi, si risolve in pura perdita del paese che si abbandona.

Ma v'ha una seconda, e forse più importante considerazione.

Gl'italiani, (V. pag. 140 e seg. ) emigrano dalla campagna, e per eccezione dalle città; gli emigranti sono in massima parte contadini, agricoltori e bracciali, ed artigiani rurali e pastori e piccoli industriali, e tutti costoro in tali proporzioni, da ecclissare le cifre degli altri mestieri e professioni.

Questo è per noi il lato più penoso della questione. L'Italia, senza colonie, invia in America coloni; ricca di campagne si priva dei suoi campagnoli; il contado in alcune province si spopola, e bisognerà, se il gioco continua, che stranieri contadini vengano a popolarlo. I contadini che son la base e la forza della ricchezza nazionale, proprio essi abbandonano il terreno della patria, mentre questa ha bisogno delle loro mani incallite. Ed in quali età essi emigrino, lo dimostrammo (pag. 136 a 139). Son tutti giovani nel fiore della vita e della vigoria, dai 20 ai 40 anni per lo più, forze tolte alla salute della patria, epperò le sole che l'America e l'Australia chiedano. Questo è naturale. Il nuovo mondo non avrebbe che farsene di esseri logori dagli anni e dalla fatica. Quando nel Parlamento inglese nel 1840 si discuteva un piano sulla emigrazione gratuita, lord John Russell pronunziava le seguenti parole: «lo scopo che si sono proposti gli autori di questo piano è di liberare la Gran Brettagna dagli sventurati il cui lavoro è il meno profittevole, e che pesano sulla patria. Ma lo scopo che si propongono le colonie è naturalmente diverso: è di ottenere non la peggiore, ma la migliore classe de' lavoratori. Essi non vogliono  né i vecchi né i giovanissimi, ma solo quelli che essendo capaci di ben lavorare, sono sicuri di non mancare d'impiego nei loro paesi».

– 263 –

 

Ed il grande statista inglese enumerò le ragioni per cui a quel tempo i lavoratori attivi e capaci in Inghilterra erano restii ad emigrare. Questo vuol dire che!o stato sociale dell’Europa oggidì trovasi in peggiori condizioni, poiché appunto i giovani ed i forti emigrano e l'Italia lo sa per prova.

La emigrazione degli elementi improduttivi è un fatto che si spiega e si giustifica. Quella degli elementi perturbatori dell’ordine sociale, come gli oziosi ed i vagabóndi, vogliamo anche plaudirla, se costoro han voglia e mezzi da prendere il largo. Ma la emigrazione dell’uomo che produce noi la reputiamo un male per la patria, da qualunque aspetto voglia considerarsi questo fatto.

 Meditando sulla statistica delle professioni, una serie di considerazioni ci si affaccia alla mente. Innanzi tutto osserviamo che nei grandi centri, come il capoluogo della provincia e le città provinciali, si mesce e confonde alla popolazione nativa una corrente di persone diseredate, venute dalle campagne o da altre città per trovarvi utile impiego. Da questo rimescolìo di elementi esce una maggioranza affamata, che getta gli occhi sulle pubbliche amministrazioni come l'avvoltoio sulla preda. Sono giovani usciti di scuola senza nulla avervi imparato; uomini che sciuparono la fortuna in una vita licenziosa; vecchi che perdettero la ciambella dei governi caduti, commercianti falliti, industrianti senza capitali, cortigiani da anticamera e corifei di piazza, tutti accattoni di raccomandazioni, parassiti in erba, impiegati in aspettativa, risorsa unica che si apra ai loro sconfinati orizzonti!

Gli armadii di tutti gli ufficii dello Stato, hanno ciascuno una provvista di domande d'impieghi, le quali dormono là come inutile ingombro d’archivio, perché se lo Stato dovesse dar pane a tutti, dovrebbe convertirsi nell'ordine dei Francescani che abbeverava i poveri con la loro broda.

– 264 –

 

Non è un' accusa che noi facciamo a queste moltitudini italiane; constatiamo un fatto, il quale ha la sua giustifica ed è degno della maggiore attenzione de' governanti. Un paese che appena da qualche anno si è svegliato alla vita dell'industria e del commercio; un paese in cui il movimento economico non seppe ancora adoperare tutte le singole energie in modo da assegnare a ciascuno la sua parte di utilità e di benessere, non può altro aspettarsi che offerta di lavoro qualunque ne sia la portata e la ricompensa. Nè crediamo che in pochi anni possa rimuoversi totalmente questo stato di cose, assicurando la prosperità a tanta gente che ne manca per quanto il paese possa progredire. Ma reputiamo che ove il desiderio di emigrare si diffondesse in queste classi sociali, la patria ci guadagnerebbe. Questa è appunto la popolazione eccessiva in Italia, esuberanza perturbatrice di elementi improduttivi o produttori di pessimi frutti. Infatti quanti mestatori, nell’aspettativa di un impiego, non invadono ora gli uffioii dello Stato, e fino il tempio della giustizia! Professionisti non riusciti, ciarlatani di altri mestieri, tentano di scambiare la livrea con la toga: corruttori e corrotti essi debbono campare la vita non guardando alla disonestà o meno del guadagno. Sorgono cosi sollecitatori di affari e spacciatori di influenza, e promettitori di ambiti risultati che corrono l'alea di non sudati premii! Quanti di questi ciurmadori sotto i portici de' tribunali italiani, ingannatori della pubblica fede! Questa è tutta gente che potrebbe, con sicuro vantaggio della patria, emigrare.

Ma fin qui non guardammo che i grandi centri, cioè i comuni che hanno dai 10 mila abitanti in sopra, i quali sono oggi in Italia 362. Gli altri 8 mila comuni in circa, che costituiscono il regno, e che in massima parte sono comuni rurali, potrebbero con maggiore utilità sbarazzarsi di altri elementi. Per es. sui 16 mila e più emigranti del 1872, gli ecclesiastici non furono che 60.

– 265 –

 

Se l’emigrare ha per iscopo di mutar fortuna, chi non vede che la loro vita sarebbe più profittevole nei paesi cristiani dell’America del sud, anzicché nei nostri comuni rurali ove traggono una poco invidiabile esistenza? Qui dovunque ve ne ha largo numero. La emigrazione di una parte di essi gioverebbe all’individuo senza nuocere alla patria.

Perché non emigra dai villaggi quella turba inutile ed infingarda che costituisce la mezza borghesia del contado, gente dedita al vino ed all’ozio, inutile a sè, alla famiglia, alla patria, e per converso nociva alla quieta di una piccola borgata?

Se la emigrazione nostra fosse di gente cosiffatta, noi non avremmo scritto il presente volume. Invece emigra chi dovrebbe restare; e ad ogni battello che salpa dai nostri porti, carico di contadini, si apre un nuovo solco di dolori e di danni nell'abbandonato suolo della patria!

3.° CRITERIO

Effetti che questa emigrazione produce alla patria.

Emigrazione di lavoro — Fu detto che di tutti i fenomeni sociali, l'emigrazione sia uno dei più conformi all’ordine della natura, uno dei più permanenti a tutte le epoche della storia. Ed il Burke scrisse «il est aussi naturel aux hommes d’affluer vers les contrées riches et propres à l’industrie, quand par une cause; quelconque la population y est faible, qu'il est naturel à l’air comprimée de se précipiter dans les couches d'air raréfié.» Fu dunque sostenuto che l'emigrare sia un istinto inerente alle società umane; ma nondimeno si riconobbe che le conseguenze di questo istinto meritano di essere studiate.

– 266 –

 

Nissuno dubita che una corrente di emigrazione popolando contrade spopolate, vada ad attirarvi le sorgenti della ricchezza. Ma che la madre patria tragga vantaggi dalle sue emigrazioni, ecco un argomento che da un secolo in quà divide le opinioni dei pubblicisti e degli uomini di Stato.

Queste forze umane che abbandonano il vecchio mondo per esplorare e coltivare il suolo di paesi lontani, non sono esse perdute per la terra ove le avea prodotte e collocate la natura? Il loro allontanamento non sottrae alla società, che esse abbandonano, una parte del suo vigore e della sua vitalità?

Ecco la prima domanda alla quale è mestieri rispondere.

Se parte il contadino, i campi risentiranno la mancanza delle braccia a misura che l’espatrio aumenta, e la offerta diverrà inferiore alla domanda delle braccia. Questa non è teoria—è la storia quotidiana di tutti i comuni che dànno un annuale contingente alla emigrazione. Alcuni puritani rispondono a questo lamento con una facile frase: sostituite all'uomo le macchine. Ma hanno sul serio costoro meditato sulla pratica attuazione del loro consiglio? Hanno esaminato se le condizioni della proprietà fondiaria in Italia, divisa e suddivisa come è, si prestino ai grandi congegni coi quali la meccanica venne in questo secolo in aiuto dell’agricoltura? Hanno studiato le differenze dei terreni, per posizione piana o montuosa, e per qualità? Sanno quante difficoltà si dovettero superare negli altri paesi di Europa pria di svezzare i contadini dai vecchi sistemi ed abituarli ai nuovi? E se anche queste ragioni non fossero gravi per noi, non salta agli occhi che pria di parlar di macchine bisogna parlar di capitale in un paese ove il capitale, se vi è, sta chiuso nel forziere del ricco, ancora inviluppato nei suoi tradizionali pregiudizii? E non è noto che in Italia, segnatamente nel mezzogiorno, non esistono, nel fatto, banche agrarie, consorzii di proprietarii, istituti di nessuna maniera, che richiamino il capitale e lo faccian servire ai bisogni della classe agricola?

– 267 –

 

Qui ognuno fa per sè. La terra non ha che le braccia del lavoratore e la speranza del sole e della pioggia a tempo opportuno. Quando una di queste condizioni vien meno, la terra non produce ed il proprietario langue — E si noti chela emigrazione italiana non è sorta, come la scozzese ed irlandese, per cambiamenti improvvisi nel sistema di coltura. Ma è nata perché il prodotto della terra fu ed è insufficiente ad assicurare la esistenza di chi lavora e di chi possiede, per le tasse esorbitanti che han gravata la proprietà fondiaria. Quando a queste ragioni economiche si aggiunsero le cause naturali, come siccite, inondazioni, gragnuole, generatrici degli scarsi ricolti, allora la popolazione agricola provò il 'bisogno e la sfiducia. Il giorno in cui saran noti al paese i risultati della Inchiesta Agricola, già votata dal Parlamento, allora queste cose le vedremo certamente svolte e documentate, con poca soddisfazione dei puritani, che si ostinano a vedere color di rosa l'attuale desolante posizione degli agricoltori italiani. Nè in questa analisi è qui il luogo d'insistere, perché ci troveremmo lanciati nel vasto campo delle cause onde ha origine questa crescente voglia di emigrare nei nostri contadini. Intorno al quale argomento che abbraccia quasi tutta la nostra quistione sociale, abbiamo già distesa la tela del secondo lavoro promesso ai nostri lettori.

Invece occupandoci qui degli effetti della emigrazione, bisogna studiare quali sieno le conseguenze economiche di questo capitale di lavoro che esce dalla patria.

Senza perderci in una lunga enumerazione, le riassumiamo in tre principali queste conseguenze.

1. L'espatrio dei contadini produce immediatamente il rialzo dei salarii. Infatti la mano d'opera divenne più cara pei lavori della campagna e gli affitti diminuirono. I pochi contadini rimasti in ogpi comune rurale dettarono la legge ai proprietarii; la terra che rendeva cinque tomoli di frumento, dopo le emigrazioni ne rese due ed in alcuni luoghi uno, e la giornata del contadino non valse più 80 centesimi, ma fino a due lire. —

– 268 –

 

Tutto ciò, è vero, si risolve in miglioramento materiale dei lavoratori della campagna, ma si risolve pure in danno del proprietario, quando questi dee pagare circa il 60 0[Q di tasse, e le nuove leggi di riscossione lo rallegrano della visita bimestrale dell’esattore, sotto pena di esproprio del fondo, in caso d'inadempienza. —Oltre a che tengasi conto dello stato dell’agricoltura in Italia. Se ne eccettui la Lombardia, ed in minori proporzioni il Piemonte e la Toscana, quali sono nelle altre province italiane le condizioni dell’industria agricola, questa potente ausiliaria dell'agricoltura? Una statistica esatta della produzione ci manca. La recente inchiesta industriale ha messi in luce molti elementi, i quali però riguardano poco l'industria agricola, che offrirà invece largo campo di ricerca ai commissarii della prossima inchiesta agraria. Per ora, senza tema di errare, possiamo affermare che la pastorizia, la enologia, la sericoltura, ed altre specie di industrie che si collegano al lavoro della terra, offrono quà e là dei buoni tentativi, ma non sono in generale la occupazione dei proprietarii, e ciò per tante ragioni che potran rimuovere il tempo e la educazione, e, più che tutto, l’accumulazione dei capitali, effetto in gran parte di un più moderato sistema d'imposte. — Onde è chiaro che dove il proprietario non riscuote che solo l'affitto della terra, e poco o nulla dalle industrie ausiliarie, il rialzo dei salarii ed il ribasso degli affitti produrranno una grave perturbazione nei suoi interessi.

Ma come avviene che anche migliorato, come oggi è, il guadagno dei contadini, la emigrazione aumenta, e di anno in anno sottrae ed assottiglia le forze rimaste? A parte l'esempio e gl'incoraggiamenti ad emigrare, ciò vuol dire che questo relativo aumento dei salarii, è sempre sproporzionato ai bisogni cresciuti. E senza perorare la causa dei possidenti, difesa che non è nei nostri concetti per cento altre ragioni, è giustizia il riconoscere che nelle attuali condizioni non sia possibile richiedere al proprietario maggiori sacrifìzii in prò dei suoi coloni, fino a che la proprietà fondiaria sarà gravata da sì enormi ed insopportabili pesi.

– 269 –

 

E tengasi conto che in Italia la grande proprietà è la eccezione; la regola è la piccola possidenza, quella appunto che resta schiacciata, e fra breve forse assorbita, da tutte queste nuove condizioni economiche. Ecco adunque la prima e dannosa conseguenza dell'emigrazione agricola: l'aumento non graduale, ma repentino dei salarii, sproporzionato alle forze del possidente, mentre è insufficiente allo stesso contadino.

Ma oltre a questa emigrazione, v'ha quella dei piccoli artigiani; e questa apparirà non meno dannosa ove si pensi alla necessità che ogni piccolo comune ha dei mestieri indispensabili come il sarto, il calzolaio, il muratore, il ferraio, il falegname. Un tempo la giornata d’un di costoro si pagava a frazioni di lira. Quando crebbe il caro della vita aumentarono naturalmente i salarii; ma quando emigrarono, i pochi rimasti dettaron la legge. Sommate gli attuali salarii delle giornate che impiega un operaio di contado per una manifattura, ed avrete un prezzo maggiore di quel che la stessa cosa vale in una grande città, meno i pregi del lavoro; e questo perturba la popolazione rurale, perché urta alle abitudini, ed alle forze del maggior numero. Ma v'ha comuni di due e tre mila abitanti d'onde quei pochi che esercitavano un dato mestiere sono emigrati tutti; ed allora il bisogno di ricorrere alla mano d'opera forestiera, la quale sarà più cara e difficoltosa. Nè lice sperare che quei vuoti saran colmati da operai di altri paesi vicini o lontani, essendo nota la tendenza delle popolazioni di affluire dalla periferia al centro, onde le emigrazioni concentriche dalle campagne alle città, ma nessun operaio cambierà il suo paesello, per un altro consimile, sia pure nella stessa provincia, meno che un matrimonio non ve lo spinga, e son rari i casi.

2.° Ritorniamo ai contadini. Nei comuni donde si emigra, non sempre quelli che restano bastano a colmare i vuoti per la coltura di tutti i poderi.

– 270 –

 

Aumentate fin che volete i salarii, ribassate fin che vi piace gli affitti, ma quando le braccia mancano è quistione di numero. Molte terre rimarranno incolte, e lo sanno i proprietarii delle province meridionali. E quando la terra non rende, che giova al proprietario di possederla? Il capitale nominale, il capitale morto, diviene un pensiero ed un dolore. Ed allora noi domanderemo a chiunque ha senso retto: è giusto che questo possidente paghi il tributo fondiario, e gli altri erariali, come la bonifica in alcune province, e gli addizionali del comune e della provincia? Chi non vede che le imposte sopra una proprietà infruttifera pesano sul capitale ed in breve lo esauriscono, contro ogni sano principio economico che vuole sia tassata la rendita e non divorato il capitale? E questo effetto non mancherà, segnatamente per la piccola proprietà, la quale in meno di dieci anni finirà per essere distrutta dalle tasse, ed assorbita dai più scaltri e più ricchi. Torneremo ai tempi dei latifondi e della proprietà nelle mani di pochi, ed a questo scoraggiante avvenire ci prepara ed avvia la presente emigrazione.

3.° Ma non è solo il contado che risente le perturbazioni del nuovo fenomeno. Il malessere o la prosperità delle campagne si propagano, come il fluido di una corrente elettrica ai grandi centri. Sulla superficie delle città si agita una popolazione affacendata nei commerci e nelle speculazioni, avida di lusso e di brio, epperò più bisognosa. Oggidì il caro della vita lia reso un problema la esistenza delle masse cittadine; ed intanto le risorse generali diminuiscono, e lo provano i continui fallimenti del commercio, i suicidii per disperazione, la offerta eccessiva di lavoro, lo scadimento di tutte le professioni. Studiate con esame imparziale le cause di questo evidente malessere, e ci troverete in fondo le conseguenze della miseria delle campagne. Le masse non si dànno la pena di questo esame, ma ne risentono i danni.

– 271 –

  

I politici del tornaconto, per ragion di partito, dissimulano i mali presenti della patria ancorché ne comprendano la misura. I pochi se ne rattristano davvero, e se alzano la voce, questa non trova eco che nella coscienza del paese. Ma ai poteri dello Stato improvvidi, ed ai pubblicisti che han paura di affrontare certe ardenti questioni sociali, noi ci permettiamo di ricordare la sentenza di Stuart Mill «i mali della società come quelli del «corpo, non si possono né prevenire né guarire a meno che «parlandone apertamente. »

Ora noi siam convinti che la causa prima dei mali economici delle nostre città, dipenda dalla poca prosperità delle campagne, dove si feconda la produzione agricola, che in Italia è la sola o almeno la principale ricchezza nazionale. Le professioni, i commerci, le industrie, le manifatture, i mestieri delle città, attingono i loro elementi di vita nelle fatiche dell'agricoltore, nella fertilità della terra, nel benessere delle popolazioni agricole. Ne sia prova l'anno che corre, in cui questa consonanza di effetti si è risentita più forte. Ciò posto, chi non vede, che la presente emigrazione non è solo un danno per le campagne, ma benanche per le città? Essa che è l’effetto del bisogno locale, diviene causa di altri danni economici alla generalità, ed ecco la terza conseguenza funesta di questa somma di lavoro che esce dalla patria, alla quale produce lo stesso effetto che al corpo umano deriva da una larga ed inopportuna sottrazione di sangue; lo indebolisce quando non lo uccide.

Immigrazione ed emigrazione dei capitali—Quelli che propugnarono finora l’emigrazione italiana, si valsero di un argomento contro il quale non trova risposta chi non ha studiato a fondo la quistione. Guardate i nostri emigranti—han detto — essi partono più o meno miserabili, e tornano agiati; qui stentavano la vita, in America vanno a vivere; le loro famiglie non videro mai un gruzzolo d’oro, ed il gruzzolo essi mandano dopo pochi mesi di lontananza.

– 272 –

 

E non mancarono le cifre in appoggio dell’eloquente argomento, il quale, mentre adesca ed invoglia nuove emigrazioni, persuade e tranquilla gli spettatori innanzi ai capitali nuovi che entrano nella patria.

In questo libro era un dovere l'esame diligente di siffatta quistione. Della fortuna che faccia l’emigrato in America, parleremo nel Capo seguente. Una prima ricerca era necessaria, sapere qual fosse la somma che in un anno entri in Italia col mezzo dei Vaglia postali internazionali. E poiché i nostri parziali studii statistici si limitarono all’anno 1872 ed al 1° semestre 1873, volemmo conoscere i capitali venuti dall'estero in questi due periodi. Cominciamo dal rendere pubbliche grazie alla Direzione generale delle Poste del Regno, che ci favorì cortesemente i desiderati elementi, che qui appresso riportiamo dalle originali tabelle.

– 273 –

 

QUADRO

DEI VAGLIA POSTALI CONSOLARI

emessi durante l'anno 1872.

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CONSOLATI NUMERO

dei vaglia

VALORE
Aleppo 4 1,140
Amsterdam 16 2,972 80
Assunzione 12 3,950
Atene 274 111,176 | 94
Avana 186 72,108 71
Bairut 76 23,223 40
Barcellona 223 62,822 20
Berdianska 6 976 57
Bombay 14 3,613 33
Bucarest 98 23,703 30
Buenos Ayres 9,667 3,129,351 64
Cairo 1,539 243,079 70
Caracas 12 3,900
Cardiff 27 9,206 40
Cipro 13 4,145
Corfù 224 40,242 08
Costantinopoli 734 180,361 38
Damasco 2 370
Galatz 24 3,671 58
Guatemala 10 1,750
Ibraila 224 43,409 44
Lima 522 351,145 73
Liverpool 24 5,583 37
Londra 29 4,634 60
A riportare 13,960 4,326,538 17
274 –

 

Seguito del quadro precedente

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Riporto NUMERO

dei vaglia

VALORE
Malta 13,960 4,326,538 17
Melbourne     85 10,405 17
Montevideo     20 13,865
Nuova Orleans    5,035 1,706,591 02
Nuova York    717 214,669
Odessa 2,213 771,024
Panama      245 28,661 49
Pelotas      10 11,260
Pietroburgo     205 71,267 90
Porto Said     179 104,186 85
Rio Janeiro     218 35,106 68
Rosario      1,444 1,423,192 40
Salonicco      366 129,136 12
S Francisco    410 108,599 32
Scutari 899 442,487 80
Shanghai      1 400
Smirne 2 350
Suez       247 37,112 11
Sulina 216 37,410 74
Trebisonda     28 5,841 55
Tripoli 12 1,394
Valparaiso     17 4,194 10
Totale    23 8,169 60
Riporto 26,552 9,491,863 02
275 –

 

QUADRO

DEI VAGLIA POSTALI CONSOLARI

emessi dal 1° gen. al 30 giugno 1873

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CONSOLATI NUMERO

dei vaglia

VALORE
Aleppo 3 340
Amsterdam 7 1,800
Assunzione 46 15,216 05
Avana 32 21,51 80
Bairut 38 9,985 25
Barcellona 103 46,508 73
Berdianska 2 340
Bombay 5 2,250
Bucarest 52 10,711 80
Buenos Ayres 5,841 1,832,906 21
Cairo 3 1,484
Caracas 29 10,468 30
Corfù 76 11,642 05
Costantinopoli 436 90,966 09
Guatemala 5 1,725
Ibraila 45 11,402 , 05
Lima 299 255,966 31
Lisbona 55 13,147 28
Malta 43 6,368 96
Melbourne 21 7,915
Messico 18 8,350 03
Montevideo 2,992 990,652 55
Nuova Orleans 369 144,009
Nuova York
A riportare
276 –

Seguito del quadro precedente

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CONSOLATI NUMERO

dei vaglia

VALORE
Riporto 12,292 3,964,423 46
Odessa 81 14,502 72
Panama      1 400
Pelotas      157 56,352 34
Pietroburgo     96 97,976
Pireo 189 97,190 63
Rio Janeiro     718 804,972 43
Rosario      214 76.44.00 42
Salonicco      342 86,147 24
S Francisco    480 158,360 50
Santiago      42 17,369 55
Smirne 134 20,975 26
Sulina 3 381 35
Trebisonda     11 1,404
Tripoli 11 2,33 40
Valparaiso     52 16,270
Totale 14,823 5,403,824 30

Di queste somme entrate nel Regno in 18 mesi, non tutto è danaro della emigrazione di che ci occupiamo. Sono valori dell’industria, del commercio, di tutte le relazioni internazionali, che può avere un paese di 26 milioni con gli altri paesi del mondo. Ora, anche senza tener conto delle varie ragioni di questi valori, e pur volendo tutti attribuirli ai guadagni ed ai risparmii della nostra emigrazione, sarebbe indispensabile il distinguere, per rispondere allo scopo dei nostri studii, le somme venute dai paesi d'America, e quelle emesse dagli altri Consolati del mondo.

– 277 –

Ma neanche questa distinzione vogliam fare, ed accettiamo invece nella loro integrità i due ufficiali documenti. Contiamo adunque circa 9 milioni e mezzo di lire entrate nel 1872 e 5 «milioni e mezzo nel 1° semestre 1873. Intanto ricordiamoci che nel 1872 emigrarono dal regno 50 mila italiani e per conseguenza la metà nell’altro periodo; e ricordiamoci che ogni emigrante ha bisogno d’un capitale per emigrare.

Questo capitale, dicemmo a p. 174, varia da 220 a 1500 lire. Però si noti, che questo minimo e massimo rappresentano il semplice noleggio di un posto di vapore secondo le distanze, ma non certamente l'effettiva somma che paga un disgraziato emigrante, sul quale vedemmo quanta gente deve speculare. In guisa che noi saremo discreti limitando a 500 lire la media del capitale necessario ad ogni emigrante. Moltiplicatelo per 50 mila volte, ed avrete 25 milioni di lire.

Dunque dal regno d'Italia uscirono nell’anno 1872, 50 mila uomini, che rappresentano un capitale formidabile di lavoro, e 25 milioni di lire, mentre ne entrarono soli 9 milioni e mezzo. E così nei primi sei mesi del 1873 se emigrarono 25 mila italiani e 12 milioni e mezzo di lire, non entrò altro capitale che 5 milioni e mezzo. Ecco una prima e vittoriosa dimostrazione contro la decantata immigrazione dei capitali.

Ma qui prevediamo una obbiezione. Non tutti i danari che vengon d’America o da altri paesi—potrebbe dirci taluno — si affidano ai Consolati; molte somme vengono per tratte commerciali che si pagano dai nostri banchieri. Questo è vero; e conosciamo le case principali che pel passato fecero di codeste operazioni. Ma dal 1867 quando fu introdotto il sistema dei Vaglia postali consolari, la posta tenne luogo delle banche. Dal 1° al 31 Dicembre 1867, i nostri consolati emisero la complessiva somma di L. 302,529. Nell'anno 1868 sali la emissionea circa tre milioni, e nel 1869 a 5 milioni ed 811 mila lire. La cifra di 9 milioni e mezzo del 1872, prova che le proporzioni son progredite, e si spiega non solo con l'aumento dell’emigrazione, ma con la cresciuta ed intera fiducia in questo mezzo di trasmissione, che offre sicurezza e celerità, con piccolo sconto.

– 278 –

Ma sia pure che vengano danari per tratte commerciali. Il Carpi per l'anno 1869 parlò di 3 milioni di lire, per quanto eragli stato assicurato a Genova, e troppo ci vorrebbe a costatare la verità della cifra complessiva d'un intero anno. Bisognerebbe leggere i registri di tutti i banchieri del regno. E bisogna tener presente che dopo i fallimenti di parecchie banche italiane, che ingoiarono nel loro passivo anche i valori delle tratte estere, o' per lo meno han sobbarcate le famiglie degli emigrati a disturbi e ritardi considerevoli, i nostri connazionali all’estero, se non esclusivamente, almeno nella massima parte, si servono dei consolati.

Quando si è ricchi di ragioni si può esser prodighi di concessioni. Supponiamo che nell'anno 1872 sieno entrati nel regno altri 5 milioni e mezzo di lire per mani dei banchieri; aggiunte alla somma consolare, avremo 15 milioni. E qui potremmo ripetere: non sono tutti sussidii che i contadini del Salernitano o del Lombardo, mandano alle famiglie. Vi sono danari del commercio e dell’industria. Ma lasciamo stare. Vada pure che tutti i 15 milioni sieno frutto del lavoro americano, che Giove per noi si trasformi nuovamente in pioggia di oro, saran sempre 15 milioni e non più. Ma noi facemmo getto di un capitale italiano di 25 milioni, dunque sarà sempre vero che il danaro che esce è maggiore del danaro che entra.

Nè qui ci arrestiamo. Questo argomento è così grave, che merita una maggiore disamina.

Oltre ai riportati quadri, noi chiedemmo alla Direzione Generale delle Poste, un secondo elemento, cioè la distinta dei vaglia e dei valori spediti alle 16 province del Napoletano, intorno alle quali avevamo compiuta la nostra inchiesta statistica. Ci ririspose con sollecitudine ed esattezza, che raddoppiano la cortesia ed il debito della riconoscenza.

Ed ecco i due quadri parziali:

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QUADRO

Dei vaglia consolari emessi nel 1872 e pagati nell'anno medesimo

PROVINCE VALORE

dei vaglia pagati

OSSERVAZIONI
Aquila 2,376 N. B. La differenza

fra la somma totale delle emissioni e quella dei pagamenti, rappresenta i vaglia non pagati in tempo utile, i quali rimangono da rinnovare.

3,925,769,73 

5,550,995,29

Avellino    8,053 38
Bari 69,333 53
Benevento  
Caserta    91,101 50
Campobasso   160,041 23
Catanzaro   23,301 34
Chieti 103,018
Cosenza    516,857 14
Foggia    4,081 50
Lecce 4,737 50
Napoli 546,815 23
Potenza     1,193,360 85
Reggio Calabria 6,524 50
Salerno    1,195,748 03
Teramo    420
Altre province 9,476,765,29

280 –

QUADRO

Dei vaglia consolari emessi

nel 1° semestre 1873

e pagati nel semestre medesimo


PROVINCE VALORE

dei vaglia pagati

OSSERVAZIONI
Aquila     1,053 N. B. La considerevole differenza fra
la somma di paga
menti nel semestre
e quella delle emissioni è costituita dai vaglia, emessi bensì nel 1° semestre ma
giunti in Italia nel 2°, oppure non presentati tosto alla riscossione.
Avellino     4,725
Bari      57,433 79
Benevento    160
Caserta       52,961
Campobasso 50,811 75
Catanzaro    1,51
Chieti      45,226 15
Cosenza     260,853 93
Foggia     2,120
Lecce      6,306 32
Napoli     135,026 31
Potenza     398,807 48
Reggio Calabria 2,600
Salerno     417,797 17
Teramo     500
Tot. 1,437,894 20
1,437,894. 20
Altre provincie 2,064,894,12
3,502,788. 32

Ora dunque conosciamo che nelle 16 province che costituiscono il Napoletano, entrò nel 72 la somma di L. 3,925,769. 73. Bisogna sottrarne le cifre di Catanzaro e Napoli, che sommano a L. 570,116, per stabilire un esatto rapporto

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con la cifra che ottenemmo nella nostra inchiesta (1). Cosicché abbiamo tre elementi noti: 16,256 emigrati, 14 provincie, e 3,355,653 lire, entrate nelle medesime da tutti i consolati del mondo. Il quarto termine ci è facile aggiungerlo. Moltiplichiamo le 500 lire che esporta ogni emigrante per 16,256, ed avremo un complessivo di 8 milioni e 128 mila lire di capitale uscito. Quale è dunque il guadagno se esce 8 ed entra 3?

Alle stesse conseguenze ci trae il rapporto pel 1° semestre 1873.

Ci è nota la cifra degli emigrati di 11 province, cioè 4,645. Se i valori entrati sommano ad 1,437,894, bisognerà detrarne quelli spediti ad Aquila, Bari, Catanzaro, Cosenza e Napoli (delle quali province ignoriamo il numero degli emigrati) che ammontano a lire 455,879.

Quindi il capitale entrato per vaglia postali, si riduce a 982,015; mentre moltiplicando le 500 lire per 4,645 individui, avremo un capitale emigrato di 2,322,500 lire!

Dunque in sei mesi e per undici province la proporzione del danaro uscito sta a quello entrato, come 2 3/3 ad 1. Che bel profitto!  

Dopo questa dimostrazione non è più serio il sostenere che la nostra emigrazione sia utile per l’oro straniero che annualmente entra nel regno. È invece il caso rovescio, di dimandare se torni utile ad una nazione di distrarre dal suo mercato un imponente capitale, ogni anno.

A questa dimanda risposero gli economisti con opposte sentenze. Da una parte la scuola inglese, con Stuart Mill alla testa, considerò come un bene la esportazione dei capitali, mentre i pubblicisti francesi e tedeschi si spaventarono di questa diminuzione della ricchezza d'un paese.

(1) V. Tabella A e B nelle quali mancano appunto Catanzaro e Napoli.

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Non esporremo tutti i ragionamenti coi quali il Mill, il Merivale, il Torrens, discussero largamente la quistione,e segnatamente quest'ultimo nella sua dotta opera: Colonization of South Australia. Ma il loro contenuto si riassume in due concetti fondamentali.

Può un dato paese avere un eccesso generale di produzione, a general glut of commodities; dal che nasce una sovrabbondanza di capitali, a redundancy of capital, quindi una pletora universale. Il secondo concetto è che inviando questi capitali alle colonie ben organizzate, essi non sono perduti per la patria, la quale trae vantaggi grandissimi dalla loro moltiplicazione.

Posto che questi due concetti fossero veri, essi non sarebbero applicabili che solamente all’Inghilterra. In quella nazione essenzialmente manifatturiera e commerciante, dice il Torrens, che il campo di collocamento (the field of employement) e la dimanda di lavóro, non possono essere determinati solo dall’abbondanza dei capitali, ma dalla estensione del mèrcato straniero. Ove questo non si estenda, la produzione non sarà mai vantaggiosa,  né i salarii cresceranno permanentemente; invece, per una tendenza economica, diminuirà il profitto dell’operaio; inoltre, il capitale può crescere in proporzioni diverse.

In Inghilterra — ad es. — si lavorano il cotone, la seta, le lane, come grandi industrie di esportazione. Se i capitali impiegati in queste manifatture cresceranno più rapidamente dei capitali impiegati nelle contrade straniere a produrre le materie prime che entrano nella fabbricazione delle stoffe di cotone, di seta, di lana, è dimostrato dalla esperienza che il valore di queste stoffe scaderà in rapporto al costo di produzione, e quindi in queste industrie i profitti ed i salarii scemeranno. Dippiù può verificarsi nella stessa industria una concorrenza simultanea e pericolosa, ché darà luogo al ribasso dei prezzi e quindi degli utili e dei salarii. Ecco dunque le ragioni per le quali in talune epoche ed in taluni paesi può verificarsi un eccesso di capitali.

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Cóntro queste opinioni del Torrens e del Merivale si schiera un gran numero di economisti, i quali sostengono impossibile tale eccesso, per rapido che sia lo sviluppo della produzione; perché i prodotti si scambiano coi prodotti, perché nel secolo della divisione del lavoro ogni paese ha le sue speciali industrie, onde maggiore la perfezione e più difficile la concorrenza; perché infine la produzione si sviluppa ordinariamente in armonia col capitale.

Ma se in Inghilterra vi abbia o no eccesso di capitali, per noi italiani è quistione accademica, trovandoci, per nostra sventura, in opposte condizioni. Il capitale qui circola poco, l'industria è piccina, non siamo che agricoltori, ed emigriamo con gli stenti del campicello venduto, o col danaro dell'usuraio. Dunque lasciamo stare gli scrittori d’Albione e la esperienza del loro paese, Gli emigranti pel Canadà nel 1834 trassero seco un milione di lire sterline. Nel 1840 fu valutato a 400 sterline il capitale che annualmente espatriava per l’Australia. Ai principii di questo secolo v'erano alle Indie occidentali due miliardi di capitali inglesi, E furono tutti questi capitali che svilupparono il cotone dell'Unione Americana, lo zucchero delle Indie Occidentali, le lane dell’Australia, il legno di costruzione del Canadà. Cosi in Inghilterra crebbe l'industria, i salarii ricevettero un rialzo permanente, la nazione prosperò. Quale di questi miracoli venne o verrà all’Italia dai 25 milioni all’anno che disperdiamo pel mondo? È seme che non può fruttare, appunto perché mancano a noi le due condizioni dell’Inghilterra: l'eccesso dei capitali e le colonie.

In un paese che, come il nostro, si trascina, a furia di espedienti, nel disavanzo annuale, un paese malato dal contadino al primo Ministro, malato di anemia finanziaria, questi milioni di che ci priviamo, servono ad impoverirci di più, come il salasso estenua un organismo anemico. Nè andiamo a crear nulla pel presente o per l'avvenire. Manca un Bacone che sappia dirigere l'emigrazione italiana,  né oggi è facile impresa il fondar colonie come ai tempi di Guglielmo Penn.

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Fra cinque, fra dieci anni, ci accorgeremo delle conseguenze di questo espatrio di capitali italiani.

Abbiamo detto che i pubblicisti francesi e tedeschi condannarono questo fatto. Per citarne una fra tante opinioni, ricorderemo la famosa sentenza di Giovambattista Say, che fu ripetuta dal Roscher, e divenne la dottrina degli uomini di Stato verso la fine del passato secolo. «Le départ de 100,000 émigrants par an, avec des millions de florins, équivaut à la perte d'une armée de 100,000 hommes, qui tous les ans seraient engloutis en passant la frontière avec armes et bagages». Lo stesso Say ha detto nella sua celebrata opera sulla produzione delle ricchezze, che «se l'espatriazione accompagnata dall'industria, dai capitali e da affezioni, è un puro guadagno per la patria adottiva, nessuna perdita è più dolorosa per la patria abbandonata. La regina Cristina di Svezia avea ben ragione di dire in occasione della revoca dell’editto di Nantes, che Luigi XIV si era tagliato il braccio sinistro col suo braccio destro» (1).

Alcuni scrittori tedeschi han fatto un altro calcolo. Stabilendo da 700 a 900 lire il capitale esportato da ciascun emigrante, (2) han paragonata questa somma alla quota parte della ricchezza nazionale, ugualmente ripartita. In Germania siffatta divisione fa ricadere, 3,000 lire per individuo. In Italia non ne sappiamo davvero la portata,  né la sa il governo. «I dati statistici della ricchezza agricola — dice l’egregio «Prof. Bodio — cosi interessanti, così necessarii a giudicare della economia produttiva del paese,

1) Traité d'Econ. Pol. J. Bapt. Say 7. Edit. Paris 1860 p. 233.

2) Il Comit. di emigr. di Francfort calcolava 374 fiorini a testa. In Baviera dal 1835 al 1844, gli emigranti esportavano in media 298 fiorini. Dal 1844 al 1851, 424. Tenendo conto di queste differenze il Roscher stabilisce la media di 700 a 900 lire.

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mancano affatto od hanno scarsissimo valore fra noi (1)». Quello che solo ha cercato di ben accertare il governo è, in qual misura la rendita della terra contribuisca al pubblico erario!

Frattanto, serviamoci dei pochi elementi officiali. In Italia la rendita agraria netta per ogni abitante è di lire 46,14 e per ogni ettare, di lire 46,75. In Francia, la prima è di lire 62, e la seconda di lire 73. Nel Belgio ogni ettare di terra imponibile, dà il risultato complessivo e lordo di 281 lire; in Italia, appena di L. 119!... E questi raffronti ci persuadono sempre più che la produzione agricola italiana è immensamente minore di quel che potrebbe e dovrebbe essere.

Ma anche accertata la ricchezza agraria ed industriale, essa non è tutta la ricchezza d’un paese fecondo e civile; v'ha il risparmio che vi fa larga parte. Il risparmio della Germania fu calcolato ultimamente ascendere ad un miliardo di lire. Il risparmio francese ad un miliardo e 300 milioni. E si noti che queste colossali cifre non son costituite dai risparmi del capitale, ma del lavoro; non dalle economie accumulate degli avari e degli agiati, ma dai sudori delle moltitudini operaie, a quattrino a quattrino (pfennig über pfenning). Il Leroy-Beaulieu stabilisce un rapporto tra le cifre annuali dell’emigrazione tedesca, il peculio degli emigrati, e la somma dei risparmii. Ammettendo che nel 1854 (anno della maggiore emigrazione) sien partiti dalla Germania 251,921 individui, il capitale da loro esportato non supera i 227 milióni e mezzo di lire, cioè meno del quarto del risparmio annuale.

Ed in Italia? Pochi anni fa (nel 1867) le nostre casse di risparmio avean raccolta la cifra di 276 milioni. Oggi la somma è, naturalmente, aumentata; ma per formarsi una idea comparativa, si ponga mente ai seguenti confronti.

(1) Italia Econ. del 73, pag. 34.

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Il credito medio di ogni abitante versole casse di risparmio, è

in Italia   di   L9,70
in Francia       16,95
in Prussia       21,57
in Inghilterra   45,80
in Isvizzera   52,40

Questa eloquente progressione è completata da un altro fatto.

In Italia v'ha un libretto per ogni 56 ab. , in Francia per ogni 19, in Prussia per ogni 18, in Isvizzera per ogni 7. Dunque l’operaio italiano non risparmia e non accumula, perché non può risparmiare  né accumulare. Dunque qui non si può dire che il capitale emigrante sia una parte del risparmio nazionale. E non lo si può dire per un' altra gravissima ragione. In Italia non abbiamo che solo nelle città le casse di risparmio e le banche popolari. Nelle campagne questi istituti non esistono, e la notizia dei sistemi di previdenza non è arrivata ancora alla cognizione dei contadini nella maggior parte delle province. Per tal guisa i pochi risparmi accumulati rappresentano la previdenza dell’impiegato, dell’operaio di città, ma il contadino resta sempre lo stesso, in mezzo a questo progresso della civiltà umana, povero ed ignorante. Abbiamo la certezza di dire il vero affermando, che su mille emigranti italiani, è molto discutibile se uno solo abbia qualche lira sulla cassa di risparmio!... Dunque la discussione sollevata dal Roscher e dal Leroy non è opportuna per noi; il danaro che ci toglie la emigrazione non è risparmio, ma capitale, sangue vivo della nazione.

Nè si creda che solamente per la emigrazione italiana il capitale che esce sia maggiore di quello che entra. Possiamo dimostrare la stessa tesi colle statistiche di altri paesi d'Europa. Citeremo la stessa emigrazione prussiana, che in soli 4 anni dal 1858 al 61 portò via un capitale di 13 milioni e mezzo di talleri pari a 67 milioni e mezzo di lire; al quale devesi aggiungere il capitale non denunziato di circa 17 mila clandestini,

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che emigrarono nel detto periodo, e la cui somma individuale fu calcolata a lire mille, cioè altri 17 milioni. Avremo così un capitale uscito di 84 milioni e mezzo. Il capitale entrato nei 4 anni fu di 14 milioni di talleri, pari a 70 milioni di lire; quindi una perdita di 14 milioni e mezzo di lire.

Gli emigrati della Baviera tornati in patria nei 26 anni dal 1835 al 1860, importarono un capitale di 26,000,000 di fiorini, pari a 65 milioni di lire italiane. Nondimeno questa cifra, in sè stessa rilevantissima, è assai minore del capitale esportato. Nel paragone il danno ascende a 36 milioni di fiorini, cioè a 90 milioni di lire.

Ad avvalorare questa sproporzione contribuisce un'altra statistica, che ne'  13 anni dal 1852 al 1864 calcola il capitale entrato, a fiorini 3,193,791, mentre il capitale esportato somma a 9,932,302. Il che vuol dire una perdita di 6,738,511 fiorini, pari a 16 milioni e mezzo di lire.

Nel Wùrtemberg in 26 anni dal 1840 al 65, 191,408 emigrati esportarono un capitale di 29,245,324 fiorini. Sessantamila clandestini ne esportarono altri 19 milioni: in tutto 48,245,324 fiorini. La cifra entrata in questo lungo periodo non rappresenta che il quinto di quella Uscita. Nel seguente triennio 6668, 2932 emigrati del Wùrtemberg esportarono 2,397,557 fiorini. Il capitale entrato fu di un milione appena.

Non citeremo altri esempi per non stancare il lettore. Le cifre riportate bastano ad avvalorare una tesi, che parrà ormai chiarissima, da qualunque lato la si voglia esaminare.

Ma supponiamo come non fatta tutta questa dimostrazione. Ammettasi per poco, quel che non è, che la nostra emigrazione faccia entrare in patria un capitale annuo uguale o maggiore di quel che esce, noi domanderemo: che cosa sono queste somme in paragone di ciò che potrebbe rendere un paese fertile ed un popolo, come l’italiano, alla ricchezza della nazione?

Nel secolo XVI, le colonie spagnuole in America rovesciavano sulla madre patria cinque milioni di piastre ogni anno.

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Il Le Roy Beaulieu nel ricordare questi vantaggi delle colonie, magnificati dagli storici del tempo, fa la medesima nostra domanda «qu'est ce que cette somme minime, en comparaison des revenues qu'une population active et industrieuse peut sans souffrance fournir au trésor d'un grand pays? (1)».

Mezzo di potenza degli stati. — Considerando l'emigrazione degl'inglesi, che portano capitale, lavoro, lingua e costumi nelle più lontane contrade, acquistando sempre maggiori le simpatie del mondo, in questo moto espansivo lo Chevalier ravvisa un gran mezzo di potenza dell'Inghilterra.

È una impresa gigantesca — egli dice—che sembra doverla condurre alla dominazione del mondo.

Questo è troppo, osserveremo rispettosamente all'economista francese. Nella società moderna ci pare spiccato un carattere che la diversifica dalle età precedenti. È l’equilibrio di forze, d'influenza e di ricchezze tra le nazioni civili. Alla forza prevale il diritto, all’arbitrio la ragione, al caso la intelligenza. In guisa Che una nazione, quantunque non si spanda al di fuori, potrà essere grande e rispettata dalle universe genti. E ci conforti l’esempio della patria nostra, la quale in pochi anni guadagnò la stima del mondo, e non ce la procacciarono le migliaia di contadini che mandammo in America, ma la giustizia della nostra causa e le simpatie che ispira il popolo italiano.

Fu privilegio di altri tempi il guadagnar queste simpatie col mezzo delle emigrazioni, e dicemmo che talora esse significarono conquista. Oggidì una nazione sarà grande non se emigra, ma se forte, se ricca, se còlta.

I popoli tendono a divenir soldati, non per aggredire ma per difendersi; tendono ad aumentare le industrie e gli scambi per provvedere ai cresciuti bisógni; a moltiplicare i tesori delle arti e delle scienze, che sono il patrimonio della civiltà.

(1) Le Roy pag. 41.

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 Tutto questo si fa in casa propria senza necessità di emigrare. Il Legoyt, il quale non è sospetto, riconobbe questo concetto, affermando che quella grandezza e potenza che le altre nazioni acquistarono con la emigrazione, la Francia la ottenne con la propagazione delle sue idee.

Legittimo è questo orgoglio nei figli della rivoluzione dell’89. Ma sarebbe stoltezza fare un privilegio alla Francia di quello che è dritto delle grandi nazioni, di esser cioè rispettate per quanto valgono. Il pensiero italiano non lo portarono oltre le Alpi i saltimbanchi ed i pifferai, i contadini e gli artigiani emigrati, ma le opere di Vico, Giannone, Filangieri, Beccaria, Foscolo, cioè tutta questa falange di arditi pensatori che glorificarono il nome italiano. Certo la espansione dei genovesi, dei pisani, dei veneti, quando si disputavano il commercio sui mari, era bella ed ardita impresa. Ma la emigrazione odierna se non ci manda danari stranieri, se ci aumenta la miseria interna, non ci darà nemmanco simpatie, influenza, prestigio, anzi produce il contrario e lo dimostreremo nel capo seguente.

Se noi italiani vogliamo far cosa davvero utile alla patria, stringiamoci tutti nella fede dell’avvenire, e diffondiamo pel mondo una corrente perenne d'idee, di commerci e di scambi. Sarà la vera grandezza vagheggiata dallo Chevalier.

Durata della emigrazione italiana. — La nostra Giunta di statistica afferma che i nostri emigrati portano la patria nel cuore e mantengono con essa il vincolo politico; che essi partono per tornare appena messo insieme un mediocre peculio, a differenza degl'inglesi, degl'irlandesi, dei tedeschi, che vanno in America e diventano cittadini del paese.

Questo non è sempre vero, perché nella Plata come negli Stati Uniti, i nostri sono incoraggiati dalle leggi di naturalizzazione. Ma il termometro migliore di questa tesi sta nelle cifre del ripatrio.

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Il Prefetto di Genova ci assicura, che se nell'anno 1872 emigrarono per l'America 20,365 per mare, e 12 mila per terra, sbarcarono a Genova reduci dalle Americhe 6102, cioè meno del quinto della cifra nota dei partiti. E si noti che non essendo fra i 32 mila noverati, i clandestini di tutte le province italiane, la proporzione non può essere esatta. Stabilendo invece il rapporto tra i 50 mila da noi calcolati, ed i 6 mila, il ripatrio rappresenta poco meno del nono della emigrazione d'un anno.

La stessa Prefettura che ci diè le cifre di 8037 emigrati per mare nel 1° semestre 1873 e 1290 da Modane, (9327) fa ascendere a 4 mila i ripatriati in detto periodo. Dicasi lo stesso della inesattezza del rapporto. Se l'emigrazione fu di 25 mila, i reduci rappresentano meno del sesto degli usciti.

Prevediamo una obbiezione. Non tutti tornano diretti a Genova. Molti vanno a sbarcare ad Hàvre o in altro porto francese, e per ferrovia rientrano in Italia. È vero, ma non bisogna esagerarne le proporzioni. Quelli che preferiscono questa rotta sono in piccolo numero, e per lo più coloro che desiderano conoscere la Francia e darsi bel tempo, perocché tornaconto di economia non vi ha. Sommando il noleggio di un posto di vapore da uno dei porti americani per Hàvre, e la spesa della ferrovia sino alla prima stazione italiana, qualunque sia la compagnia dei vapori, ed ammesso il viaggio di 3a classe, costa sempre meno il ritorno diretto a Genova. Abbiamo sottocchio tutte le tariffe che ci menano a questa conclusione.

Ciò posto, noi non possiamo accettare la cifra, che si legge nella relazione del signor Virgilio, di 8587 ripatriati nel 1872 dai soli stati di Plata, mentre il nostro documento officiale ci indica 6102 dalle due Americhe,  né il Prefetto Colucci ce l’avrebbe trasmessa, se non fosse risultata tale dai registri.

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Aggiungasi che il Virgilio desume la sua cifra da notizie raccolte negli ufficii delle Compagnie di Navigazione; dalle quali, e dalle induzioni sui ritorni per via di Hàvre, Bordeaux, Marsilia, egli argomenta che l'annuale ripatrio degl'italiani dalle Americhe ascenda a 10 mila.

Per stabilire con sicurezza una cifra bisognerebbe saper la media di tre anni almeno, desunta dagli approdi negli scali marittimi italiani ed esteri. E speriamo che una diligente statistica dell’emigrazione che noi invochiamo dal Governo, ricolmi con esatte ricerche quest'altra lacuna.

Intanto non sarà inutile citare altri elementi da noi raccolti. Dalla provincia di Salerno, come studiammo, emigrarono nel 1872, 4530; ripatriarono circa 900 persone, cioè meno del quinto degli usciti. Dalla provincia di Cosenza nella stesso anno partirono 2902; ripatriarono 253, cioè poco più del dodicesimo degli emigrati. — E per dare un esempio dell'anno 1873, citeremo la provincia di Chieti, dalla quale partirono 854, e ritornarono solo 53, cioè meno di un sedicesimo. Anche dopo questi esempii nói non azzardiamo di stabilire un termine proporzionale tra l’emigrazione e il ripatrio. Il Virgilio dice 10, cioè il 5° del nostro calcolo. Noi potremmo dir 5, cioè il decimo. Forse niuno di noi due avrebbe ragione. La media triennale parlerà il vero.

Nondimeno il fin qui detto prova una cosa, cioè che questo carattere di temporaneità attribuito dalla nostra Giunta di Statistica alla emigrazione italiana, è una delle tante illusioni ottiche attraverso le quali noi si guarda questo grave fenomeno sociale. L'esodo di tutti i paesi di Europa è, più o meno, lo stesso: partono le migliaia e ritornano le decine, e lo dimostrammo con le cifre straniere studiando le altre emigrazioni europee. Possono esservi differenze parziali, ma concernono più le modalità che il fatto in sè stesso. Ad es. siamo di accordo con la Giunta, che gli emigrati tedeschi muovono a famiglie intere, mentre da noi parte ordinariamente l'individuo, lasciando in patria la famiglia.

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È pure un fatto che di 123 mila emigranti partiti nel 1872 da Amburgo e da Brema, i maschi rappresentarono appena il 5.°o ed i fanciulli sotto ai 10 anni il 20 %; mentre noi nel passato anno avemmo il 7.° di maschi ed il 9% di fanciulli; (v. p. 127) quindi, giova il ripeterlo, la nostra è emigrazione di maschi adulti, e per eccezione di femmine e di bambini, è emigrazione di individui e non di famiglie.

In questo carattere individuale e maschile della nostra emigrazione, la Giunta di Statistica vede un bene. «Significa che questi movimenti a contrade lontane non si effettuano con l'animo di abbandonare la patria, di farsene un'altra nel paese ospitale, di portarvi i proprii cari o di crearvi una famiglia che saluti la nuova terra non come adottiva, ma come terra natale; mia bensì unicamente per isfruttare gli anni delle forze gagliarde in un paese che meglio rimuneri il lavoro e lo collochi in rapporti tali di fronte al capitale, da dargli vantaggi superiori a quelli che avrebbe potuto sperare rimanendo in patria a svolgere la zolla del Campetto paterno; e sempre poi col desiderio, con la preoccupazione assidua di farvi ritorno, appena messo insieme un mediocre peculio».

Queste splendide parole del eh. Prof. Bodio, che, a titolo di onoranza, riportammo, contengono il vero ove si entri nel pensiero dell’emigrante nel giorno in cui disse addio ai suoi cari, e se lo seguiremo fra i duri travagli della terra straniera. Ma se questo scopo è legittimo, per raggiungerlo, quanti nuovi dolori si creano!...

La maggioranza degli emigrati italiani è di uomini coniugati, e ci risulta da parecchi elementi statistici. Anzi conosciamo paesi, nei quali l’uomo lascia la donna appena dopo averla sposata, e donne che si maritano a condizione che il consorte emigri dopo i primi giorni della luna di miele. Questo abbandono, noi domandiamo, risolverà il problema della popolazione e quello della moralità?

– 293 –

Se lasciate una donna nel fiore della vita, per anni interi, sola, in balìa del cieco istinto, potrete contare sulla fedeltà del talamo? Non è forse vero che nelle campagne l'istinto predomina sulla ragione, perché difetta la pubblica educazione moderatrice degli appetiti del senso? Vuol dire che avrete un maggior numero d'illegittimi sul registro della popolazione o nelle case di maternità, invece di una generazione nata dalla legalità dell’amore; differenza che non sarà certo a beneficio dei costumi. Vuol dire che aumenterete i pericoli dell'infanticidio, se la donna abbandonata vorrà occultare la prole illegittima; o accrescerete il numero delle vituperevoli transazioni domestiche, quando, tornati al vostro focolare, vi troverete rannicchiata una colpevole, e dei figli non vostri, che vi chiederanno l'elemosina d'un nome, il perdono alla madre, e l'affetto paterno.

Immaginate, per contrario, di lasciare una donna che vi serbi intatta la fede giurata. Allora chiederete a costei un celibato forzoso, il sacrifizio di una vedovanza fittizia, esigerete che la donna in nome di un dovere, che è tirannia, spezzi le leggi di natura che la destinano alla riproduzione, reprima per molti anni della sua gioventù gli eccitamenti ed i bisogni del senso. È legge fisiologica che, come gli occhi desiderano la luce, le membra il moto, l'intelletto la riflessione, così i nostri appetiti e le nostre passioni anelano il loro soddisfacimento, altrimenti indeboliranno certamente e si ammaleranno gli organi sessuali, e ne soffrirà tutta la economia organica dell'individuo. Nella normale soddisfazione di tutti i bisogni naturali sta l'equilibrio della vita. Si pecca per abuso come per difetto, ed i mali derivanti dall’uno o dall’altro, sono il fardello delle miserie che l'umanità trascina nel faticoso cammino delle generazioni.

«Le conseguenze dell'astinenza — dice un moderno fisiologo inglese — non sono meno funeste di quelle dell'eccesso, e sono di gran lunga più insidiose e pericolose, perché non generalmente riconosciute.

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Mentre ogni moralista sa dipingere in tutto il suo orrore i mali dell’eccesso ben pochi sanno che il rovescio del quadro è altrettanto deplorabile all'occhio esperimentato e imparziale (1)».

Questo dotto scrittore è uno dei pochi che, dopo coraggiosa analisi, svelasse questa nuova pagina delle miserie umane, sino al nostro secolo non abbastanza studiata dai fisiologi, in omaggio al falso pudore, che pregiudicò la società europea. Egli prova che la donna la quale nega ai suoi organi sessuali l’esercizio sufficiente degli stimoli naturali, va incontro a gravi malattie, come la clorosi, le irregolarità funzionali, e le affezioni isteriche in numero infinito. La medicina è impotente contro di esse; le riparazioni ed i rimedii stanno nella natura, nella legge fisiologica che chiede l'amplesso.

Voi che reclamaste in nome di queste leggi la libertà della donna, condannando il chiostro, con quale logica potete plaudire ad uno spettacolo peggiore, che è la donna abbandonata cui si chieda una castità forzosa? Ed è peggiore: colei che si recide le chiome, sa di dover rinunziare ad ogni affetto terreno, mentre la donna che si sposa ad un uomo, mostrò di non voler mortificare gl'istinti della carne.

Quando l'autorità e l'interesse formularono il codice della morale che esalta l'astinenza e la vittoria sui sensi, si conculcarono le leggi di natura, sconoscendo i tristi effetti che il trascurarle produce eziandio alla vita morale degli esseri. Nella mirabile struttura dell'uomo e della donna ogni organo è deputato ad una funzione. Ogni desiderio eccitato dalla natura non è un tormento da soffocare, ma un bisogno da soddisfare. Ogni violenza che lo reprima, è un attentato contro noi stessi.

(1) Elements of Social Science; or Physical, Sexual and Naturai Religion di un Dottore di Medicina. Opera che ebbe 16 edizioni, in inglese, tedesco, francese, olandese, portoghese, italiano. Milano Brigola 1874.

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Queste leggi naturali non possono trovar ostacoli che solo nelle difficoltà sociali che s'impongono allo sviluppo eccessivo della popolazione — ed eccoci nella teoria di Malthus. Ma ora di ciò non si tratta. Noi ci troviam di fronte ad una donna maritata, ed affermiamo: che sia pericoloso per l'onore della famiglia e pel pubblico costume, che il marito l'abbandoni— diciamo: è una prepotenza il chiedere la castità di questa vittima — e se anche vi si accomodi per virtù o per interesse, ella è ignorante, ella non ha diritto di crearsi dei mali che saranno funesti all’avvenire della prole.

Dunque nel primo caso la famiglia e corrotta—nel secondo è sacrificata — si dissolve sempre.

Queste conseguenze che tengono all’ordine morale, sono inevitabili effetti della emigrazione di breve o di lunga durata. Ma non si compie il viaggio dell’oceano, col pensiero di far fortuna, per restare assenti sei mesi od un anno. La media durata delle nostre emigrazioni sarà forse di cinque anni, tenendo conto di chi allo sbarco si ammala di nostalgia e torna, e di chi non viene se non dopo otto o dieci anni. Alcuni fanno e rifanno la via più volte in un decennio, per capriccio o per impegni presi. Altri restano, promettendo ritorno e fortuna in ogni mese, e non arrivano mai a consolare le desolate famiglie. Altri non mandarono addirittura più nuove di loro esistenza, e crearono palpiti ed incertezze ai cari, e spesso, mentre la consorte custodiva intatta la fedeltà del talamo, il lontano marito gioiva, non fra le braccia di un'amante argentina, ma fra gli amplessi di altra moglie americana. Nè fu raro il, caso che venuta la nuova della morte del marito, la donna, lungamente abbandonata, siasi rifatta sposa, e nell'ora delle sue nuove gioie venne importuno a disturbarla il primo marito, il quale dopo molti anni si ricordò che avea in patria una moglie e forse dei figliuoli!...

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In mezzo a tanta varietà di successi che hanno le emigrazioni a remoti paesi, e nella mancanza di precisi elementi statistici, non è possibile di stabilire esattamente una durata. Le induzioni che caviamo da tutti questi studii, e dagli altri che faremo nel seguente capitolo, non ci fan credere alla breve durata della nostra emigrazione. Vi contribuisce anche la qualità delle persone. Fu detto degli Olandesi che essi non. emigravano per stabilirsi altrove e coltivare terre; sibbene dediti a professioni commerciali non lasciavano la patria che col pensiero dèi vicino ritorno. Ma si pensi che l'Olanda non ebbe altri emigrati che artefici, agenti di commercio e marinai.

Gli emigrati italiani vanno invece ad attaccarsi alla gleba americana!!

Conclusione—Vogliamo condensare in poche formule tutto il discorso di questo capitolo.

1. L'emigrazione è insufficiente ad arrestare l'aumento della popolazione, benché quest'aumento, lungi dall'essere un male, risponda ai fini della creazione ed al fatale progresso delle società umane.

2. Non è vero che la popolazione italiana sia esuberante: invece è scarsa in rapporto al territorio.

3. Ancorché una emigrazione giovi a sanare la piaga del pauperismo, come si sostiene per l'Inghilterra, la nostra, essendo di altra natura, non può raggiungere questo scopo.

4. L'Italia, paese agricolo, ha bisogno degli agricoltori, a preferenza dei paesi del nord di Europa, che svilupparono l'industria manifatturiera.

5. L'emigrazione italiana è di contadini e di giovani, forze utili e vigorose, mentre gli elementi improduttivi continuano a stentare una grama esistenza nei grandi e piccoli centri.

6. Emigra col contadino un capitale di lavoro, ed ogni sofisma è impotente a distruggerne le conseguenze economiche, dannose alle campagne abbandonate, al proprietario che paga le imposte, ed ai rapporti dei salarii.

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7. Esce con l’emigrante un capitale di danaro, sempre maggiore delle somme che l’emigrante manda annualmente nel regno.

8. L'emigrazione sociale non è una forza che aumenti la potenza delle nazioni,  né le simpatie straniere. Nel mondo moderno questo è il portato delle idee e non delle masse ignoranti e bisognose.

9. Non è vero, perché non è dimostrato, che la nostra sia emigrazione di breve durata, anzi tutto induce a ritenere il contrario.

10. Ma breve o lunga che essa sia, le sue conseguenzé morali sono in patria funeste all’ordine delle famiglie, contrarie a molte leggi di natura.

Ecco le illazioni ultime delle nostre premesse. Rappresentano il passivo nel bilancio della emigrazione. Che cosa vi sia nell'attivo, non sappiamo intenderlo daddovero, poiché ogni vantaggio magnificato ci offrì il doloroso rovescio.

Non ponemmo assiomi, ma dimostrammo un problema: il metodo, i fatti, la scienza, han risposto alla nostra dimanda

La emigrazione sociale italiana, è un male, un male gravissimo per la patria.

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CAPO X.

È un bene od un male per l'emigrante?

SOMMARIO

Tre quesiti.

I. Paese a cui si emigra — Sue condizioni di clima—Se ci guadagni la salute e la razza.

Concetto del clima — Suoi rapporti con la vita — Varietà dei climi—Applicazioni alle emigrazioni—Teoria dell'acclimatazione— I climi in America. Malattie predominanti e mortalità — Il sud e gl'insetti — Terremoti — I nemici della salute. — Idee sulle razze — Miglioramento de' tipi — La razza nostra — GÌ' incrociamenti in America—Se questa emigrazione migliori la razza italiana.

II. In quali limiti si possa far fortuna avuto riguardo alle condizioni sociali ed economiche del luogo, nonché alle attitudini dell'emigrato. —GÌ' italiani al West degli Stati Uniti — La società sudamericana: condizioni sociali del Paraguay e dell'Argentina — La pace ed il lavoro. —L'America nell'ordine finanziario ed economico — Crisi bancarie—Corso forzoso— Industrie estrattive—Effetti dei dissesti economici. Operai licenziati e fabbriche chiuse — La vita negli Stati Uniti — Una nota della Gazzetta ufficiale d'Italia—I poemi sull’emigrazione e le banche usure in Napoli — L'emigrato nelle repubbliche del sud — L'asilo di Buenos Ayres — Tariffe dei salarli — I mestieri degl'italiani in America — La spesa ed il risparmio — Depositi sul Banco di BuenosAyres. — Una lettera d'America — Fatti ed illazioni.

III. Se l'emigrazione aumenti la coltura e l'energia, e crei l'uomo del lavoro e della morale. — Se il viaggio possa migliorare tutti. — Gli analfabeti e un dato statistico — La lingua — L'energia— Il lavoro — Idee morali che l’emigrato porta dalla società americana del sud e del nord — Conclusione.

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Se l'emigrazione italiana è un male per la patria, potrebbe almeno essere un bene per l'individuo che emigra. Il Roscher fu partigiano di questa idea... Malthus avvisò diversamente. «Quoi qu'elle fasse le bien général, elle ne cesse pas pour cela d’être un mal individuel (1)». Tra le due opinioni è mestieri intervenga la discussione. E la faremo alla stregua di tre criterii, che ci paiono riassumere tutta la quistione.

1. Paese a cui si emigra—Sue condizioni di clima. Se ci guadagni la salute e la razza.

2. In quali limiti vi si possa far fortuna, avuto riguardo alle condizioni politiche ed economiche del nuovo paese, non che alle attitudini dell’emigrato.

3. Se l’emigrazione aumenti la coltura e l’energia, e crei l’uomo del lavoro e della morale.

I.

Paese a cui si emigra — Sue condizioni di clima

— Se ci guadagni la salute e la razza.

La parola clima non si limita a significare la latitudine di un luogo ed il grado di calore che vi regna. Clima vuol dire l'insieme di tutte le influenze cosmotelluriche che derivano dall’atmosfera e dal suolo Fu questo il concetto spiegato da Ippocrate nella sua famosa opera: Dell'aria, dell'acqua e dei luoghi. Nel clima si comprendono, di conseguenza, tutti i particolari relativi all'aria, considerata nel peso, nella densità e gravità, leggerezza, rarefazione e temperatura varia, nella elettricità e negli stati anormali di umidità o di miasmi che si raccolgono in essa. Fanno altresì parte del clima le condizioni topografiche, come quelle che decidono degli effetti sugli organismi e sulla vegetazione delle regioni elevate e montuose, relativamente alle pianure o ai bassi fondi od al livello del mare.

(1) Op. citata pag. 351. Paris. 1852.

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Nè sono da meno apprezzabili le condizioni geognostiche della terra nelle sue varietà. Certe speciali esalazioni e certe nascenze acquose che traversano i suoi strati, sono sorgenti di speciali malattie.

Tutti questi elementi, che la scienza ha largamente sviluppati, costituiscono il clima. E poiché non è possibile che esista al mondo un clima tipo, nel quale concorrano tutte le migliori condizioni, ne deriva che la differenza e la varietà dei climi, si presenti come uno studio di altissima importanza e fecondo di utili applicazioni alla statistica, all'igiene, alla medicina.

Questo studio mette capo nel concetto complesso della vita degli organismi e delle piante. Imperocché la vita dei viventi deve essere valutata come una risultanza di tutte le attività del vario dell'organismo, messe in azione dalle influenze esterne che trovansi in rapporto di affinità con gli organi diversi della economia animale; rapporti non di semplici impressioni, ma di alimentazione, di compenetrazione e di appropriazione— quindi rapporti chimici di elementi che dal di fuori debbono affratellarsi con l’organismo, per divenirne parte integrale. Tali sono gli alimenti che operano il rinnovamento del sangue; tale è l’ossigeno che trasforma e chimicamente lo rende atto a vitalizzare tutto l’organismo.

Dunque la vita è un tutto organico, dovuto non solo alla struttura degli organi rivestiti delle proprie attività, ma in tanta parte alle influenze esteriori.

La varietà dei climi rende ragione del diverso sviluppo dei popoli; è l'indice che segna le diversità fisiche, morali ed intellettive, è il termometro della immensa varietà dei morbi.

Nei climi freddi lo sviluppo è tardivo, ma più consistente e duraturo. Il carattere morale gli risponde. Gli uomini sono più decisi, più audaci, più serii nei propositi, più costanti. Il loro ingegno segue questa legge di compenso: minore è la facilità del percepire, ma han potenza di concezione e di creazione:l’inventiva è quasi loro attributo.

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Nei climi caldi, precoce è lo sviluppo—più presto s'invecchia» predomina la mollezza del senso, il carattere è debole, fiacca e snervata tutta la vita morale dell’uomo. L'egiziano non è un essere energico, perché gì'infuocati soli d'Oriente gli sottraggono la forza. Il clima dà la tempra al nostro organismo e la tempra fisica è così strettamente congiunta alle tendenze morali dell’uomo, che esse si esplicano con perfetta armonia. Questo lo ha splendidamente dimostrato il Cabanis nelle sue celebri 12 Memorie sui rapporti tra il fisico ed il morale dell'uomo. La loro pubblicazione a Parigi nel 1802, fu un avvenimento nel mondo scientifico. In una di esse (la IXa) studiò le influenze dei climi sulle abitudini morali—in altre sull'uomo fisico — e sposando la fisiologia alla psicologia, vaticinò la utilità che queste nozze arrecherebbero un giorno al filosofo, al moralista, al legislatore.

Applicando questa dottrina dei climi al fatto delle emigrazioni, cominciamo per rispondere alla prima parte del quesito posto, se cioè chi emigra da una in altra regione, vi guadagni o vi perda nella salute.

Dopo i principii esposti, è chiaro che non possa darsi una risposta assoluta, ma relativa e condizionata. È vero che i cangiamenti delle condizioni interne ed esterne della vita non producono malattia fin che l'uomo vi si può accomodare. Questa facoltà di accomodamento che l’uomo possiede per assuefarsi a certe condizioni anormali, è ciò che dicesi acclimatazione. È la maravigliosa possibilità concessa all’organismo umano di vivere così nelle regioni polari, come in quelle dell'equatore. Per essa — dice il Wirchow — sopportiamo la diversa pressione atmosferica, sia che scendiamo negli antri profondi, sia che salghimo sulle vette più alte. Per essa, accrescendosi un' attività negli organi, o eccitandosene una nuova, gli agenti straordinarii e le influenze morbose vengono neutralizzate.

Questa medesima facoltà di accomodamento segna il confine della malattia.

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È concetto fondamentale della medicina che la malattia comincia quando le forze del corpo divengono insufficienti a rimuovere gli sconcerti. Il nemico non entra nella cittadella senza questa prima vittoria. Ciò posto, di parecchi uomini che affrontino le stesse influenze, uno di essi si acclimerà sin dalla prima ora, un altro pria di acclimatarsi dovrà molto lottare; un terzo si ammalerà presto, un quarto si crederà per lunga pezza di aver superato i pericoli, e quando meno sei pensa, il nemico lo assale.

Ma tutti questi fatti non possono costituire la condizione normale dell'organismo. Sono delle eccezioni e delle coazioni che l'organismo sperimenta sotto straordinarie influenze, e delle quali talora resta vittima, e talora trionfa, a seconda della forza del nemico e delle resistenze degli organismi.

Nello stato ordinario dell'uomo, la emigrazione può tornare un bene o un male alla salute, a seconda delle condizioni del luogo donde si esce, relative a quelle dove si emigra.

Chi lascia un clima freddo, nebuloso ed umido, e si porta sotto un cielo ridente e temperato, vi guadagna sempre, e le razze anglosassoni non possono che cambiare in meglio quando emigrano a zone temperate: e certo questa facilità di acclimatazione incoraggia la frequenza dei viaggi dei popoli settentrionali di Europa.

Chi esce da certe date regioni, ove sono predominanti le malattie endemiche, ed ove gli organismi son degradati nel fisico e nel morale, come, ad esempio, il gozzo nel basso Valese, ed il cretinismo che gli fa seguito, l’emigrazione è il solo farmaco capace di rigenerare, ma dopo successioni di generazioni, innestate ad elementi nuovi e floridi.

Per contrario chi lascia un bel clima, ove la natura sorride in tutte le sue produzioni, e corre ad affrontare paesi troppo caldi ove l’aria è malsana, ove esistono correnti mefitiche o germi contagiosi, in tali casi l'emigrazione è sinonimo di distruzione.

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Insomma — giova il ripeterlo — l’emigrazione tornerà un bene o un male, o indifferente, a norma dei rapporti di affinità fra le condizioni cosmotelluriche del clima che si lascia con quelle del clima che si trova.

GF italiani come innanzi studiammo, si spandono per tutti i paesi di America. Il clima che essi trovano sarà amico o nemico secondo le latitudini. Gli spagnuoli che per la prima volta sbarcarono sul continente Americano, vi trovarono tale varietà infinita di terre e di climi, che come nota il Mantegazza «una lunga e faticosa acclimatazione fu necessaria, sicché le stesse piante dettero poi semi e frutti diversi. »

Egli è vero che al di sopra di ogni teorica sta il fatto. Se ci fossero note le esatte cifre annuali di mortalità degli italiani che 'effettivamente esistono in ogni grado di latitudine americana, tale statistica sarebbe la più eloquente dimostrazione della tesi che ci occupa. Ma questi elementi mancano nel censimento officiale che abbiamo discusso — né, per quanto ricercammo, conosciamo niente oltre gli studii del Dottor Odicini e del Dottor Martin de Moussy intorno alla mortalità di Montevideo, citati anche dal Mantegazza. Ciò posto, attingeremo le norme dei nostri giudizii dalle condizioni più note della climatologia americana.

Non abuseremo della pazienza del lettore, obbligandolo a seguirci in un nuovo pellegrinaggio descrittivo pei due immensi continenti. Diremo che molti sono i nemici che dovrà combattere l’europeo in America. Primo fra essi è la febbre gialla. Quando fu scoperta la baia di Hudson, fu chiamata la baia della morte, perocché quanti europei vi approdarono, tanti furon vittima di questa terribile malattia. I giornali ed il telegrafo ce l'annunziano ora a New York, ora nel Messico, ora nel Brasile, ora nella Plata. Abbiamo sottocchio le date dei bullettini da un anno in quà.

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Lo Chevalier osservò che nelle terre calde del Messico, vicino ai porti dell'Atlantico, esce la febbre gialla dal pestifero nido di quelle maremme, dove l’atmosfera è bruciante ed i miasmi pestilenziali. A Venezuela, al Perù, alla Bolivia, al Chili, troverete la febbre gialla, ove più o meno stabile, ove a periodi. Nel Brasile è detta: fevre amarella. Fu cagione della fuga degl'inglesi, come risulta dai documenti comunicati da Lord Granville alla Commissione per l'emigrazione. Il Prof. Bodio riferisce «che arrestata l'emigrazione degl'Italiani al Brasile per cagione delle frequenti pestilenze, essa si volse al grande estuario meridionale». E neppure le repubbliche della Plata, ove si rovesciò la corrente, furono risparmiate dalla febbre gialla. Un' ultima epidemia spopolò Montevideo. Nè Buenos Ayres, la città dal cielo d'oltremare e dalla dolce temperatura, ne andò esente. Si disse che fosse venuta dal Brasile alla capitale Argentina. Comunque sia, questa terribile febbre, pria endemica dell'Asia, oggi lo è di tutti i paesi americani. E giova notare che essa attacca ed uccide l'emigrato a preferenza dell’indigeno.

Un secondo nemico è il Colèra. Vero è che da parecchi anni lo abbiamo anche in Europa, ed in Italia ne sono recenti i tutti. Ma potremmo dimostrare con date e cifre, come qui si mostra a larghi intervalli, ed in America è frequente flagello. Neil'anno passato tutti i giornali del mondo erano pieni di desolanti nuove del colera americano. Mietè vittime a migliaia con violenza inaudita negli Stati dell'Unione. Al Maine ed al Kentuki gli attaccati morivano rapidamente. A New York il 9 agosto, su circa 800 decessi, officialmente costatati, 600 furono di colera. Nel SudAmerica, proprio a Buenos Ayres, la città che secondo il Mantegazza fu sempre rispettata dalle grandi calamità endemiche d'Asia e d'America, nel dicembre 73, il colera, con nuova indiscrezione, si manifestò.

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I giornali locali ne limitarono la importanza e la durata. Ma una circolare del Ministro dell’Interno d'Italia

(4 marzo 1874) ai prefetti del regno, in seguito a notizie consolari, attribui più gravi proporzioni a quella epidemia, perché le nostre popolazioni sapessero i pericoli ai quali vanno incontro recandosi in quei paesi.

Alla febbre gialla ed al colera fan compagnia in parecchi luoghi il tetano e la bronchite. A Montevideo soccombono a questi mali un gran numero di bambini fino ai 2 anni. Il citato Dottor de Moussy trasse dai suoi studii che la morta lità di Montevideo fu negli anni 1851 e 1852 del tre per cento; quindi superiore a quella di Parigi. Nel settembre del 1873 fu pubblicata dai giornali italiani una tavola di mortalità delle principali città del mondo. Secondo la quale, si muore: a Napoli il 27 per mille, a Parigi il 24, a Torino il 19, ed a New York il 40 per mille. Dunque le cifre della mortalità in Araerica sono spaventevoli, Ovunque il nostro emigrato approdi nel continente americano, si troverà alle prese con elementi nuovi, micidiali spesso, pericolosi sempre. Se andrà nel Nord, troverà. clima freddissimo nei prolungati inverni, e bisognerà che nei paesi occidentali si copra di pelli d'orso e di toro selvatico. Tra le nebbie eterne della Sierra la natura è selvaggia come gl'indiani che abitano il Kansas insanguinato. Se i nostri emigranti che si recano alla ventura in quei paesi, sapessero leggere, noi diremmo loro: pria d'imbarcarvi, leggete la stupenda descrizione che William Dixon fece della nuova America. Forse non vi andreste più (1). Ma gl'italiani accorrono in maggior numero al Sud. Vuol dire che le razze si attraggono per un secreto istinto. È una misteriosa forza di simpatia. Ma i pellegrini, in cerca della terra promessa, vanno nella immensa solitudine delle Pampas a trovare la febbre e il vomito nero, i soffocanti calori, la mal'aria.

(1) New America by William Hepworth Dixon — mes. Leipzig. 1867.

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Si troveranno in contatto di selvaggi, di bestie feroci, di serpenti e d'insetti velenosi. Le classifiche di questi ultimi ospiti costituiscono per noi un nuovo trattato di zoologia. Vé ne ha di nuovi e molesti a segno da affrettare al viandante l'ora del ritorno. La pulex penetrans, appena visibile ad occhio nudo, — dice il Mantegazza — «vi salticchia sui piedi, e aprendosi il cammino tra le cuciture delle vostre scarpe, e le maglie delle vostre calze, vi si introduce sotto la pelle, facendosi da quel momento del vostro corpo, casa, talamo e cimitero». Qualcuno ne ebbe un nido in mezzo alla guancia. Un medico acquistò fama esportandone uno dall'occhio d'un infelice che invano era ricorso a molti medici che avean giudicata stranissima e nuova la sua malattia. E chi può enumerare le miriadi d'insetti, le varietà delle belve! Sono i paesi dei crotali e dei serpenti bovi! Ma nell’America centrale e meridionale, sotto gli strati della terra, il calore prepara la frequente ruina dei terremoti. Hanno devastato popolose città, come Guatimala, Lima, Caracas, ed altre. Pare che il Perù, la Bolivia, Venezuela, il Chili, sieno le regioni più minacciate dal pauroso nemico.

Quanti nemici nel continente Americano! L'aria e la terra, la febbre, il colera e il vomito nero, gl'insetti vampiri e gli animali, e il suolo, spesso infecondo come in Patagonia, e l'alimentazione il più delle volte inadatta all’europeo, e la sete nelle aride ed immense pianure — Dio mio! con quanti nemici si troverà in lotta l'italiano, che lasciò in patria uno dei più dolci climi del mondo, una terra obbediente ai germi, splendida nelle sue produzioni, non contristata, che per rare eccezioni, dalle miserie naturali!... Chi oserà affermare che la salute dell’emigrato possa vantaggiare in quei nuovi climi? Ma gli italiani vi accorrono — Questo non vuol dire che tutti gl'italiani vi si acclimino e che ci vivano. Niuno potrebbe confutarci sul serio senza addurre cifre comparative di mortalità, quando le induzioni nostre sono fondate sulle condizioni dei luoghi.

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Pòchi anni or sono, ima colonia di belgi non potea acclimatarsi a Guatimala. Il governo belga mandò delle navi, ed a proprie spese li fè ripatriare. Si dirà che l'Italia non fu costretta ancora a fare altrettanto — Sarà forse perché i nostri connazionali prosperino di salute, o perché questa madre patria non si briga dei figli lontani, ancorché alle prese coi più ostili elementi? Chi mai ha detto a questo paese quanti infelici morirono nelle faticose traversate, e quanti andarono a popolare i cimiteri americani, o si perdettero in qualche landa inospite, sospirando invano la patria nell'ora estrema, ora contristata dal pentimento, ora di angosciose privazioni! Non si spaventi l’uomo al pensiero della morte, ma lo spaventi l'idea d'un rimorso e la solitudine dell’agonia!...

Ed ora rispondiamo alla seconda dimanda. L'emigrazione migliora la razza?

Delle stesse considerazioni che facemmo sui climi, emergono le idee relative alle razze. Queste essendo l'opera della generazione, possono migliorare o peggiorare in ragione delle condizioni fisiche, salutari e tipiche degl'individui che si accoppiano. Nelle forme tipiche si trovano le condizioni elementari delle generazioni, e le differenze di tutte le razze umane. Conservare quindi i tipi sani e favorevoli, e migliorarli con accoppiamenti rivestiti di felici condizioni, ecco tutto il segreto di questa grande opera del progresso generativo.

Non verremo qui enumerando le condizioni fisiologiche della nostra razza. Non diremo se v'ha pletora o linfa o anemia in questo popolo che andò, coi nuovi elementi, incrociando il suo sangue greco e latino. Non diremo se la scrofola e la tisi sien triste privilegio italiano, più che d'altri paesi. Questo lungo e delicato esame ci distrarrebbe dal tema.

Forse non sarebbe inopportuno di studiare i tipi delle razze americane. Ma chi ci ha seguiti nei primi capitoli di questo libro, ha assistito al progressivo convegno delle genti nel continente di Colombo.

– 308 –

Quante famiglie umane s'incrociarono e si confusero in una sola famiglia! Tutti i colori e tutte le fattezze degli uomini s'incontrarono per amarsi e per generare, o per combattersi e distruggersi. Son quattro secoli da che l'America rappresenta l'immenso crogiuolo in cui si fondono tutte le razze umane. Gli elementi che emersero da quel crogiuolo sono la necessaria risultanza dei loro fattori. Quanta diversità tra l'America inglese e la spagnuola! Quanta differenza tra le razze che popolano tutte quelle irrequiete repubbliche del sud, ove si avvicendano i figli dei guarani e degl'incas, i mocovis ed i mataguayos, e tanti ultimi avanzi delle innumeri tribù antiche! Gli etnografi assottigliarono l'ingegno a classificarne le famiglie. D'Orbigny, Morillo, Ouseley, studiarono e disputarono a lungo. Certo è che oggi quei nomadi avanzi spariscono o si trasformano. È l'opera del tempo che traveste ogni cosa, e delle continue immigrazioni di popoli nuovi. Gli europei ebbero la parte maggiore in questa grande opera di trasformazione.

Nei portenos di BuenosAyres corre molto sangue francese. Il Chili è ricco di sangue inglese. E coloni portoghesi e spagnuoli ed emigrati tedeschi e svizzeri, tutti rinsanguarono e ringiovanirono le razze americane.

Questo argomento è uno dei più alti ed attraenti che possegga la scienza antropologica. Ma a noi è debito di tagliar corto, e tirar difilato ad una conclusione.

Migliorerà la nostra razza —abbiam dimandato —per opera della emigrazione?

La risposta sarà agevole. Supponete che in ogni regione ove si trovi l'italiano, sia ai tropici o agli antipodi, la donna cui si accoppia abbia le migliori condizioni salutari e tipiche che abbiam premesse come necessarie ad ottenere buona generazione. Questi figli, che avran migliorati i tipi dei padri, per quale delle due patrie cresceranno? Verranno a fecondare coi loro germi rigogliosi di vita la terra che i padri abbandonarono un giorno?

– 309 –

La storia delle emigrazioni europee risponde di no. Il colono, che sposò una creola od una portena, non tornò più in patria. Fu il ceppo primo di molte generazioni locali. Avvenne cosi la metamorfosi delle rasze. Forse in dieci anni vi sarà I' eccezione di un ardito avventuriero che recherà in patria la sua bella americana, o i figli che ebbe da lei, ma qui parliamo di regole e non di eccezioni, che finora non si avverarono, almeno nel mezzogiorno d'Italia.

Dunque l'incrociamento delle razze, ancorché produca ottimi frutti, sarà utile al luogo ove essi germogliano, ma alla madre patria non mai — anzi è ragione di averla abbandonata per sempre.

Ma, questa che ponemmo, è una ipotesi, perocché come s'è fin qui dimostrato, la nostra emigrazione, salvo il più o il meno della durata, è temporanea—E vuol dire che l'italiano non si sposa in America, se in patria lo aspettano moglie e figliuoli, od un core di fidanzata. E vuol dire che egli va, lavora e suda per riunire il gruzzoletto, e non pensa al problema delle razze  né per l'America né per l'Italia. Vuol dire che se dai fugaci amplessi con una piscoira (bella) argentina, avrà antenados (bastardi) sarà anche egli casado por detras de la iglesia, che nella lingua dei gauchos suona matrimonio dietro la chiesa. E non per ciò avrà doveri. Nell'ora che gli pare, potrà dirle addio, senza che le leggi od i costumi pretendano nulla da lui.

Ora ci dica qualcuno, in cortesia: quando torneranno i nostri emigrati, soli come partirono, quale razza avranno essi migliorata, eccetto forse i bastardi lasciati, senza curarsene, in qualche campagna argentina? Quando mai la venere vaga suonò miglioramento di razza? O non è vero invece, che privandoci noi dei giovani da 20 a 40 anni, e restando in patria i fanciulli ed i vecchi, se crescerà la emigrazione, vedremo deteriorare successivamente la razza nostra? Quando l’opera della generazione è affidata alle forze esaurite delle età stanche, i tipi delle razze si corrompono, ed infelici nuovi vengono al mondo per esser distrutti dalla scrofola, o dall’idrocefalo.

– 310 –

Ridotta la quistione a queste inevitabili conseguenze, il sostenere che la nostra emigrazione temporanea migliori la razza, è una ironia e niente più.

Ma vi pare proprio cosi decrepita la razza italiana, che sia necessario di ringiovanirla? Il mezzo non è difficile. Studiate se vi convenga meglio il sangue dei guarani o dei patagoni, e fatene venire un esercito ad accasarsi in Italia!...

II.

In quali limiti si possa far fortuna, avuto riguardo alle condizioni sociali ed economiche del nuovo paese, nonché alle attitudini dell’emigrato.

Se il pellegrino non va nell’Eden della salute, non a ravvivare la sua razza, è a sperare che, dopo corso l'oceano, trovi almeno il sognato Eldorado; trovi un paese ove l'avventuriero possa far fortuna sollecita — ove il lavoro sia meglio retribuito—ove la proporzione tra il guadagno e la spesa assicuri il risparmio ed il capitale. Se così non fosse, sarebbe stoltezza di affrontare i pericoli degli elementi.

Studiammo nel Capo IV le ragioni geografiche e storiche per le quali l'America domanda Europei. Ora è il momento di ricercare se le condizioni sociali ed economiche di quei paesi permettano che questa fortuna si raggiunga.

Non parleremo delle varie forme delle costituzioni politiche; già le accennammo nel capo IV. Interessa di sapere se l'emigrato troverà nella terra promessa ìa pace, la sicurezza, che è la condizione prima del lavoro produttivo.

Cominciamo per seguire gl'italiani che vanno all'America del Nord. Finché si fermassero a New York, a Filadelfia, a Boston, a Washington, insomma in tutte quelle belle città surte sulle coste dell'Atlantico, dal Maino alla Carolina, l'italiano sarebbe certo di trovarvi pace e floridezza relativa.

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Ma gli europei da tempo in quà s'inoltrano nei territorii degli Indiani, e non son pochi i nostri che sieguono la nuova corrente. Nei paesi dell'ovest, dal Minesota all'Oregone, dal Texas alla Sierra Nevada, vive una popolazione non civile, come i yankees dell'Est, ma selvaggia e barbara. Sono abitanti armati sino ai denti per combattere gl'indiani e le bestie feroci. Vivono di caccia, di pesca e di agricoltura. Le regioni che dalla riviera del Missouri si spandono sino alle ftocky Mountains. erano sino a venti anni fa abitate da tribù indiane, che nelle immense pianure perseguitavano il buffalo e la gazzella. Dacché i bianchi popolarono que' vasti paesi, si formarono le grandi città che oggi sono Homaka, Nebraska, Atkison, e Leavenworth. Allora lungo le sponde del Missouri, cominciarono quelle contese di sangue, onde surse la triste fama del Kansas insanguinato. Fu il preludio di una lunga e desolante guerra civile. I viaggiatori citano, come una maraviglia, che avvenga oggidì qualche matrimonio fra gl'indiani inciviliti e gli europei. V'ha un odio di razza che li separa ancora. Gli uomini bianchi vengono, ed il buffalo se ne va — disse Black Hawk— (Whiteman come, Buffalo go). Ma quando il Buffalo è andato via—dicono gl'indiani — le nostre donne e i nostri figli moriranno. (When Buffalo gone, squaws and papooses die). Essi sentono che avanzandosi la civiltà nel deserto, la loro razza è condannata a perire. E contrastano accanitamente ogni stabilimento europeo nelle loro terre di caccia. Ma se i bianchi vi si accasano, i pelle rossa li visitano con la devastazione ed il massacro. È una lotta mortale fra due razze che sembrano escludersi; è la lotta per la esistenza giustificata da Darwin. Innanzi al bianco che si avanza, il negro indietreggia, (1) ma l'indiano si dibatte con uno sforzo estremo—ecco la differenza.

(1) V. pag. 107.

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Presto o tardi la vittoria non può mancare alla civiltà—Ma intanto chi obbliga gl'italiani a correre alla lotta coi selvaggi, a morire in una vita di stenti e di pugne, come tanti altri infelici europei? Sarà mai possibile il lavoro ove l’esistenza non è tranquilla e sicura?

Se volgiamo uno sguardo alla società Sud Americana, la storia di tutte quelle repubbliche spagnuole ci presenta una serie di disordini, rivoluzioni e guerre civili; serie non interrotta mai sin dal giorno in cui riuscirono a scuotere la soggezione della madre patria. Le cause esistono tuttavia, e le conseguenze sono necessarie ed inevitabili. Ond’è che questo stato di cose difficilmente potrà rimuoversi per ora.

Già parlammo del Paraguay (1), disgraziato paese, che dopo aver subita la tirannia del Dottor Francia, vide le sue terre devastate, ed i suoi abitanti massacrati nella recente guerra mossagli dalle armi collegate degli argentini e dei brasiliani. Le voglie discordi degli alleati permisero al Paraguay di conservare fin qui la sua autonomia. — Ma il paese è finanziariamente rovinato, consunto nelle forze dalla lunga resistenza, e minacciato ancora dai suoi potenti vicini, i quali forse vagheggiano di assorbirlo, e continuano a devastarlo ed insanguinarlo.

Della repubblica Argentina discorremmo nei cap. IV e V. (pag 79 e 117). Sono cinquanta anni da che quel paese è il teatro d'un dramma politico in cui si agita un conflitto di ambizioni e di rivalità personali. Ne è causa latente l'antagonismo fra le provincie e BuenosAyres, la quale fu l'anima della guerra d'indipendenza ivi combattuta. Ma appena assicurato il trionfo delle armi repubblicane, apparvero i germi della discordia. Interessi diversi spingono le province a combattersi a vicenda.

(1) Pag. 82 e 83.

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Buenos Ayres, paese commerciale ed industriale, e il più avanzato nella coltura dello spirito, impone a quelle le costituzioni unitarie, i codici europei,l’amministrazione regolare, tutti infine i portati della civiltà. Gli altri Stati, paesi agricoli, avvezzi alla selvaggia indipendenza degli antichi coloni, dei guachos pastori e nomadi, di queste cose non voglion sapere. Indi le oscillazioni delle costituzioni politiche, secondo che l'una o l'altra di queste contrarie influenze prevale. Da ciò le frequenti sommosse le rivoluzioni e le guerre civili, hanno assunto un carattere quasi permanente. Chi guarda queste lotte dal punto di vista della civiltà generale, non può non riconoscerle feconde di un grande avvenire. Sono le lotte del nuovo contro il vecchio, sono i bisogni di una società nuova che trasforma gli elementi antichi ed a poco a poco va sperdendo le origini della comune madre iberica.

In quanto a noi, popolo italiano, molto abbiamo a fare in casa nostra, pria di pensare alla civiltà altrui. È una legittima e nobile idea la fratellanza dei popoli; ma quando l'uomo è necessario alla sua patria, sarà figlio ingrato se abbandona la madre. Ma, dopo tutto, i nostri non vanno per incivilire l'America. Chi al mondo può aspettare il sole della civiltà dai contadini della Basilicata o di Cuneo? Nè possono sognarlo gli americani, i quali in mezzo a tante bizzarrie e differenze di razze, di costumi, di altari, di leggi, hanno in ogni loro paese istinti d'indipendenza e lampi di genio, e si preparano l'avvenire con la lotta e col lavoro,

Dunque spogliamo l'emigrazione di ogni veste esagerata, e guardandola qual è, cioè il nudo desiderio di far quattrini, giova ben ponderare se in quei focolari delle guerre civili possano gli emigrati nostri trovar la sicurezza e la pace. Poverini! Sui mille che partono, quanti sanno le condizioni politiche e sociali dei paesi ai quali si dirigono?

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La doppia benda della ignoranza e della illusione li acceca, e le bende caddero quando molti italiani si trovarono, senza certo volerlo, mandati a combattere sulle sponde del Parana contro l'Argentina o contro il Paraguay, soldati di una causa assai remota dai loro vagheggiati fini economici.

E sia pure che rimangano estranei alle guerre: qual sicurezza potrà avere una pacifica e laboriosa emigrazione, quando per tutto il continente americano incontrerà l’ira degli uomini?

Nel Nord gli odii delle razze, nel Sud il cozzo degli interessi e delle ambizioni, e da per tutto il fermento e le agitazioni di un mondo che si rinnova. Odi talora tentativi di rivoluzione al Perù: ora una sommossa a Panama, ora più gagliarda la lotta a Cuba, ed ora il tentato assassinio di un Presidente. E se quelle repubbliche si agitano, quegl'imperi non dormono: il Brasile ed il Messico lo provano. Dunque l’italiano che ama la pace e la fecondità del lavoro, non vada in un mondo ove questa pace gli mancherà dovunque.

Guarderemo ora l’America dal punto di vista finanziario ed economico.

Nel nostro secondo capitolo dicemmo le meraviglie delle miniere e delle piantagioni, e ci rallegrammo, con le parole di Adamo Smith, dei grandi vantaggi che la scoperta d'America avea rovesciati sul mercato europeo.

L'America di oggi non è più quella di due secoli fa. Non diminuirono le risorse, ma aumentarono gli abitanti, e le guerre, ed il contatto cresciuto con la corruzione mondiale, mutarono le idee, gl'interessi, i bisogni.

Lasciamo stare la storia, sia pure recente; parliamo dell’oggi. Guardate gli Stati Uniti! Da un anno in quà, quante grandi case bancarie sospesero i pagamenti! Non citeremo le molte ditte che abbiamo sottocchio—ve ne ha parecchie, come la colossale Casa Jay Cooke et Coche, dichiarata dai tribunali in istato di fallimento. Lo Stock exchange di New York nei giorni delle crisi suole chiudere le sue porte.

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Questo spettacolo della Borsa americana, che ricorda gli usi del tempio di Giano, è frequente. Ma le crisi maggiori si verificarono nel sud; ed il panico e lo sconforto non si limita, ma sale e si diffonde, perturbando tutta la vita commerciale ed economica degli Stati Uniti. I nostri che emigrarono dal paese della carta moneta sperando di rivedere il metallo sonante nella terra promessa, trovarono, con sorpresa, anche fra gli ÀngloAmericani il corso forzoso della carta. Il che vuol dire che le condizioni finanziarie non erano più prospere come ai bei giorni delle miniere d’oro e d’argento. L'anno passato il segretario deL Tesoro a Washington annunziò che il governo avrebbe ripresi i pagamenti in oro, cambiando in oro la carta moneta dello Stato. Ma questo risveglio va dovuto all’aumento delle esportazioni. Solo da New York dal 1° gennaio al 30 settembre 73 si esportò per 223 milioni di dollari, mentre nell’anno 1871 si esportò per 171 milioni. E questo aumento di esportazioni l'America lo deve alle immigrazioni europee che vanno a coltivare i suoi immensi terreni. Dunque la vicenda è mutata, Un giorno l'avventuriero di Castiglia quando voleva arricchire, correva alle colonie americane; oggi l’America vuole le braccia dei nostri contadini per riparare con la produzione ai suoi dissesti fìnanziarii ed economici. Rammentiamo di aver letto ultimamente nel Times che in un mese l'Inghilterra dovè mandare negli Stati Uniti due milioni di sterline, tanta ivi era la ricerca del danaro in seguito della crisi bancaria.

Oltre alle accennate ragioni altre ve ne ha che spiegano i dissesti americani. Una di esse è l'aumento di certe industrie estrattive. Ultimamente gli speculatori di New York che speravano trarre grandi guadagni dal monopolio del petrolio, furono sorpresi dall'annunzio nella Pensilvania della scoperta di nuove e ricche sorgenti di questo combustibile. Infatti il prezzo diminuì della metà, e col ribasso svanirono i sogni di ingenti ricchezze future.

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Dissero i giornali locali che ognuno dei pozzi scavati dava da 200 a 1500 barili di petrolio al giorno. Questo enorme prodotto gettato sul mercato quando ne era già provveduto ad esuberanza, ha prodotto un effetto ruinoso per coloro che ne avean fatto vistosi acquisti.

L'esame delle cause nella quistione economica d'un paese si completa nello esame degli effetti. Quale fu l'effetto immediato delle ultime crisi negli Stati Uniti? Furono licenziati 600 operai dalle fabbriche di pannilana, 1500 meccanici dai lavori delle locomotive di Paterson, altri 2 mila da una compagnia ferroviaria. La riduzione delle costruzioni ferroviarie facea ultimamente presagire che sarebbero rimasti negli Stati Uniti 60 mila operai senza lavoro. In varie città venne sospesa la pubblicazione di molti giornali. A Pittsbourg i giornalisti licenziarono i compositori tipografi e si sciolse la società cooperativa tipografica. Nelle fabbriche del Maino, la paga dei lavoranti fu diminuita del 20 per 0{0Invece nella Pensilvania e nello stato di New York tutti gli opificii furono chiusi. Il solo metallurgico di Venango pose sul lastrico tre mila operai. Chiuso benanche fu il lanificio Cameron in Filadelfia, ove erano in operazione 116 telai a vapore. A Tray sono inoperosi 10 mila meccanici. Tutti questi ed altri appunti noi prendemmo ultimamente dai giornali americani, tra i quali l'Eco d'Italia, il quale conchiudeva con le seguenti parole «Tanta è la miseria tra la classe operaia in Paterson, nella Jersey, che il governo municipale ed alcune società filantropiche distribuiscono pane e minestra a migliaia di bisognosi. Lo stesso fu fatto in New York, Filadelfia ed altre città. — Da molti anni non si era deplorata in queste contrade una più desolante miseria».

Ecco i paesi dove al volgo emigrante si fa credere di andare a calpestare l’oro, e dove l'operaio vada a raggiungere i cieli della felicità. La vita che si trae negli Stati Uniti è cara, carissima. L'alloggio, il vestire, il vitto, assorbono tutto il guadagno dell’emigrato.

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Un economista americano il sig. Moore, paragonando la condizione economica del paese nel 1860 e nel 1870, prendendo il lavoro per criterio del paragone e la potenza d’acquisto del dollaro in ciascuna delle due epoche, ha trovato che relativamente alle necessità dell’esistenza, questa potenza è diminuita del 19 7«per cento.

Dalle statistiche formate dall’Ufficio del Lavoro del Massachussett, risulta che negli Stati Uniti dove il salario nominale dell'operaio è maggiore che altrove, questo salario non basta ai suoi bisogni, ed è mestieri che il lavoro di sua moglie o dei suoi figli minori ne colmi la deficienza.

Ma lasciamo gli scrittori e le statistiche. Queste cose dovrebbero essere notissime in Italia. Perocché l’Opinione di Roma il 7 gennaio 73 e la Gazzetta Ufficiale, il 14 detto mese, pubblicarono la seguente nota:

«Le autorità locali della città di New York hanfatto sapere al governo degli Stati Uniti che un gran numero di emigrati italiani approdarono recentemente in quel porto, affatto privi di mezzi di sussistenza, e che ora dipendono dalla pubblica e privata carità per tutto quello che è necessario alla vita.

«Questi emigrati dichiarano di aver preso passaggio in alcuni casi per Buenòs Ayres, ma che poi senza il loro consenso, e contro la loro volontà, furono sbarcati a New York; che in altri casi furono costretti ad imbarcarsi per quel porto con false lusinghe circa la facilità di ottenere lavoro con grosse mercedi fatte loro da persone interessate nel trasporto di emigranti.

«Gli è vero che in certe stagioni dell’anno, uomini industriosi e specialmente abili lavoranti, trovano facilmente occupazioni negli Stati Uniti e buone paghe; ma la rigidezza del clima durante l'inverno negli stati settentrionali, fa cessare nelle campagne e nelle città molti lavori per un lungo periodo di tempo.

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«Gli stranieri che arrivano nel porto di quegli Stati in questa stagione dell’anno, se non sono ben provveduti di abiti d'inverno o se mancano di mezzi pecuniarii per far fronte alle spese necessarie per qualche mese, sino a che trovino qualche utile occupazione, sono esposti a crudeli tormenti, tanto per la rigidità del clima, al quale essi non sono abituati, quanto per la mancanza di mezzi per procurarsi tutto ciò che è necessario per vivere in un paese ove i bisogni sono assai maggiori, e tutto è più caro che in Italia.

€ Questa legazione in tale circostanza si crede in dovere di avvertire i cittadini italiani che si propongono di recarsi in America, di non credere troppo facilmente alle asserzioni degli agenti di emigrazione, e di essere molto cauti, e specialmente di non recarsi negli Stati Uniti nelle, stagioni di autunno e d'inverno senza mezzi sufficienti per provvedere alla loro sussistenza per un tempo ragionevole dopo il loro arrivo. »

Riportammo questo documento perché ci è parso una buona lezione. È la conferma di quanto dimostrammo finora, ed è una risposta officiale a tutti i poemi sui facili guadagni americani, scritti in forma di opuscoli o di cartelli, dalle compagnie e dai ciurmadori. Ci ricorda che nel tempo delle famose banche usure in Napoli, queste provincie furono ammorbate di consimili pubblicazioni, con le quali si tentava di persuadere il colto pubblico che il più sicuro e fruttifero impiego dei capitali era di affidarli ad una di quelle generose istituzioni. Il paese rispose con 60 milioni — e la banca in pochi mesi li divorò e li disperse. Anche in quest'utile affare dell'emigrazione i ciurmadori son creduti. —Del resto qual meraviglia se la massa sia credenzona? Non son cosi tutte le masse ignoranti? Sono gli uomini colti, che hanno il dovere di guidare il volgo, esercitando sulle sue decisioni la legittima influenza della persuasione. Spetta dunque alla borghesia italiana delle campagne e delle città il diffondere la verità dei fatti nei centri ove sono maggiori le illusioni.

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Nelle repubbliche del Sud si ritiene generalmente esser migliore la condizione del nostro emigrato. Esiste in Buenos Ayres una commissione centrale d'immigrazione ora presieduta dal sig. Leonardo Pereyra. Essa è nominata dal governo e mantenuta a spese dei contribuenti per promuovere la emigrazione; alle quali spese concorre in gran parte il governo.

Questa Commissione si adopera ad agevolare l’acquisto di terre all'emigrante ed a trovargli lavoro; difende i dritti dei coloni nei loro rapporti con gl'impresarii delle colonie. Ha stabilito un asilo degli emigranti ove questi vengono alloggiati e mantenuti nei primi giorni dell’arrivo, se voglion prosarne. L'asilo data dal 1856, e nel 1868 sopra 29,384 immigrati di quell'anno, ne ricoverò 5,005. Queste notizie pubblicate anche dai nostri giornali, (1) si leggono nella Guida per l’Emigrante italiano alla repubblica argentina del signor Cuneo (Firenze 1870). Però sovente il povero emigrato, dissuaso da ingordi speculatori, invece di recarsi all’asilo, «va a cadere in mano di qualche oste che specula su lui, e gli mangia quel poco danaro che ha portato con sè».

Abbiamo con ripetute ricerche, esaminate tutte le tariffe dei salarii dei mestieri, cosi nell’Argentina come nell'Uraguay. Le differenze dei prezzi notati nei varii stampati che ci procurammo, indicano la maggiore o minore buona fede di questi documenti. Noi ci terremo ad una comunicazione ufficiale della città di Buenos Ayres, che riportiamo per intero:

(1) Le pubblicai tra gli altri il Piccolo giornale di Napoli il quale trattò con notevoli articoli più volte la quistione dell'emigrazione.

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Al mese, con vitto ed alloggio

Lire ital.
Giardinieri, ortolani, fiorai 100 a 120
Agricoltori, bifolchi 80 a
Garzoni, coloni, giornalieri 70 ad 80
Pastori, mandriani 70 ad 80
Cameriere (donne) 80 a
Donne di servizio e bambinaie 60 a 80
Cuochi e cuoche 90 a 120
Cocchieri e camerieri 100 a 120
Servitori 70 a 80
Servitori da 12 a 15 anni 25 a 40
Garzoni di caffè e camerieri di locanda 90 a 100
Parrucchieri
Sarte, fascettaie
Modiste, ragazze per magazzini
Lavandaie, stiratrici 80
Fornai, confettieri e pasticcieri 150

Al giorno, senza vitto  né alloggio

Sarti e cappellai 10 a 12
Calzolai da uomo e donna a
Muratori 8
Manuali 5
Legnaioli o falegnami 8 a 9
Ebanisti e tapezzieri 9 a 10
Fabbri e manescalchi 8 a 9
Fonditori, meccanici armaioli   
Carrai e carrozzieri
Sellai e valigiai
Stagnini, lumai, calderai b
321 –

 

Marmisti 10 a 12
Imbianchini, pittori di stanze
Tipografi, litografi, legatori di libri   
Orefici, incisori, orologiai
Cuoiai 10 a 15
Conciatori  
Beccai, pizzicagnoli 10 a 12
Lavoranti per gli sterri delle vie ferrate 6 a 8

a queste tariffe si riportano a molti anni fa, quando diverse erano le condizioni dell’America. Oggi i salarti son ribassati,'e di molto. L'ordinario è 5 fr. al giorno, ma spesso non trovano lavoro, e molti si tengon felici se guadagnan tanto, da rifare il viaggio per tornare alla pace del loro tugurio, ove la polenta o la cipolla non mancava senza stento e pericoli.

Nondimeno, pognamo che riescan tutti ad occuparsi.

Il maggior numero degli italiani Va a coltivare nelle vaste campagne il maiz, il granturco, il grano, il fieno. Un altra massa, corre agli sterri delle ferrovie, od a caricare le spalle di cesti di pietre nelle costruzioni, o di'balle di cotone, ed altre mercanzie, nelle dogane; tutto lavoro da facchini e da somari, che sfrutta in breve le giovani forze dell'emigrato ai cocenti ardori di quei soli! E tra i tanti carichi ve ne ha uno degno di attenzione. È il guano, sterco di uccelli marittimi, ritenuto prezioso ed incomparabile ingrasso. I suoi depositi naturali sono sul littorale e sulle isole. Dal Perù ad es. se ne esportano in media 450 mila tonnellate ogni anno. Ma l'uomo che carica guano, ha la probabilità di morir tisico dopo tre mesi!. . .

Altri italiani vanno a fare i rivenditori di commestibili e di manifatture di vestiario. Comprano i generi nelle città e li rivendono nelle campagne, o viceversa, secondo i luoghi della ricerca. Il mestiere non è faticoso, ed assicura guadagni che, a sentirli, non ti paiono cosa onesta.

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Ultimamente a bordo di un vapore che salpava per Montevideo, ci narrava un contadino, che era già stato in America, eh egli andava a fare il rivenditore ambulante di scarpe. Diceva, salvo il vero, che le comprava per 10 lire il paio, e le rivendeva per 20. Ecco un lavoro che odora di usura!

Non sono pochi i nostri emigrati che divengono lustra scarpe; ed altri, benché in età adulta, che vanno a divertire quei buoni repubblicani, con le armonie di un organetto, girandone passivamente il manubrio.

In tanta. folla di mestieri, supponete che la media non sia di 5, quanto è pur troppo, ma anche di 6, di 7, e dite di 8 lire al giorno, cifra che non risponde alla realtà.

E qui il Carpi ci avverte che Chi emigra vagheggiando l’alto prezzo della mano d’opera in America, «non riflette che tutto poi nell'ordine di quella vita vi corrisponde». Ed il Mantegazza parlando dell’Argentina assicura che «la spesa giornaliera di un operaio, compreso l’alloggio e il vitto può calcolarsi fra le 3 e 4 lire italiane». Ora questa spesa è certa, mentre il guadagno è subordinato a tante altre condizioni: di attitudini, di ricerca, ed anche di fortuna, la quale c' entra per qualche poco nei successi degli uomini. In guisa che, nelle più favorevoli condizioni, un onesto e laborioso operaio potrà mettere da parte quattro lire al giorno, che in capo a un mese saran 120, e ad un anno 1440.

Ma poi tutti guadagnano 8 lire? E, secondo la cennata tariffa, chi sterra sulle ferrovie per 6 fr. al giorno, ne risparmierà due, e dopo un anno avrà un capitale di 720 lire.

Ma quest'uomo non avrà nessun bisogno da soddisfare oltre il pane e il tetto? non appagherà nessun diletto dello spirito; non dovrà sostituire i panni nuovi ai logori, insomma in quest'omo emigrato immaginate proprio una macchina, che ad ogni 21 ore debba porre in serbo lo stesso costante ed eguale risparmio?

E se a questa macchina una malattia spezzerà la corda?

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Se questa macchina non sarà messa in moto perché manca il lavoro? 0 non è vero che quando un armento di emigrati fu malamente diretto da ingorde compagnie, quelle torme d'infelici provarono di che sapore è la fame?

Dunque, tutta la fortuna che può fare un nostro operaio in America, sarà U accumulo di un risparmio di poche centinaia di lire all’anno — quante volte egli indovini il paese, e la fortuna gli conceda salute e lavoro sempre ben retribuito.

Ma v'ha una importante obbiezione in contrario. Guardate— si dice —le somme che al Banco di BuenosAyres depongono gli europei. Attestano la prospera condizione degli emigrati. Da documenti pubblicati nel 1866 e 67 (1) risulta che sopra ogni 100 depositanti, se ne trovano:

Tedeschi   3,90
Inglesi ed irlandesi      4,10
Francesi 8,90
Diverse nazionalità   9,60
Raschi 12,70
Spagnuoli 12,80
Argentarti  17,50
Italiani 30,50

La quale statistica prova, tutt'al più, che gl'italiani, a preferenza degli altri emigrati d'Europa, sanno, per la sobrietà della vite, accumulare risparmii. Infatti sopra 100 milioni di dollari di carta, appartenevano:

(1) La repubblica argentina sus colonias agrícolas ecc. Buenos Ayres 1866. Francis Clare Ford — La republique argentine etc. París 1867.

– 324 –

È

a diverse nazionalità Milioni 6
ai Tedeschi » 6
ai Francesi » 8
ai Baschi » 9
a Spagnuoli » 10
ad Inglesi ed irlandesi » 14
ad Italiani » 20
ad Argentini » 27

bene avvertire, per chi noi sappia, che ogni 20 dollari di carta corrispondono a 4 o 5 lire, secondo il cambio. Pognamo il massimo, ed avremo cinque milioni di lire.

Ma gl'italiani all'Argentina sono la maggiore emigrazione europea. Ricordiamo che nel 1866 nella provincia di Buenos Ayres ve ne erano 70 mila, dei quali 40 mila solo nella capitale (1). Dunque la cifra dei depositi ripartita a tutti gl'italiani dà lire 71 per ciascuno. Ma vi sono depositi di banchieri, negozianti professionisti e proprietari fra i 20 milioni; dunque a che si riduce questo argomento?

Molti vorranno sapere che cosa guadagnino laggiù le professioni d’un ordine più elevato, come il medico, il chirurgo, il prete, il farmacista ecc.

Lo leggano i lettori nella seguente lettera che nèl settembre 1873 ci scriveva dall'America meridionale un medico italiano, ivi da molti anni stabilito, ed a cui ci rivolgemmo per informazioni generali e speciali:

«Mi domandate notizie di America; vi parlerò schietto: ebbene tutto quello che in Italia vi si riferisce è una mezza mensogna da un lato, una mensogna completa dall’altro.

«La mezza mensogna è, che è vero che si lucra del danaro, ma non più come una volta, perché le spese se lo assorbono.

1) V. pag. 118.

– 325 –

 

Quello che si può mettere in serbo è il frutto della più stretta economia e del più improbo lavoro.

«La mensogna completa è poi quella della vantata ospitalità americana, specialmente dopo i furti, le truffe, e gli assassinii che gli stranieri vi hanno praticato. Nel Rio della Plata lo straniero è grinco de mierda: nel Brasile è carcamao marotto... in italiano si può tradurre solo con una perifrasi che esprimesse quanto vi ha di più laido, ingiurioso, ed awilitivo.

«Ripeto però che sempre si lucra qualche cosa come medico e come chirurgo; come prete non si fa più nulla in città, massimamente dopo la guerra che i preti hanno intimata alla massoneria. In campagna farebbero qualche cosa, onestamente parlando: dissonestamente si fa qualche cosa dippiù, facendosi dare dalle creduli penitenti tutto l'oro di toletta, come cosa del diavolo, e per celebrarne messe espiatorie. Un prete che io ho conosciuto, è arrivato a mettere insieme quattro rotoli di orecchini, lacci e braccialetti. Questo lo dico solo in risposta alla millanteria di tutti i bugiardi.

«Dal mio arrivo in America, ho viaggiato più che star fermo. Fui nelle provincie della Bahia, Sergipe, Alagoas e Pernambuco, fra i miasmi palustri, il fuoco del capricorno e la febbre gialla che ho sofferto. Quivi lo spazio è immenso; un raggio di 800 miglia.

«Per esercitare la professione senza incontrare ostacoli, bisogna presentarsi all’Accademia di Bahia o di Rio Ianeiro per essere legalmente autorizzato, dopo un esame d'idoneità e dopo di aver sostenuto una tesi in pubblico concorso. Per esercitare il prete, si deve ottenere il placet del Vescovo diocesano.

«In qualunque punto si approdi è sempre America. Consigliare d’andare quà o colà è presunzione che non dice nulla per ciascun caso individuale. Chi per es. sfugge alle febbri palustri può vantarsela; non così della febbre gialla, che si avventa con ispecialità agli stranieri che vivono in cattive condizioni igieniche.

– 326 –

 

«Da ultimo, voi mi chiedete se io consigli agli italiani di venire in America. La responsabilità di questo consiglio è troppo grave, ed io la declino. C'è il bene per alcuni, c'è il male, e molto, per tutti. Del resto ciascuno faccia quello che Dio gl'ispida».

Vostro aff. mo

Amico D C...

L'accorto lettore sentirà dalle linee di questa lettera traspirare la verità senza ostentazione o misteri. Nè son cose nuove. Oramai l'Italia ha troppe relazioni' con l’America perché si possa ignorare la vera condizione di quei paesi. Nella larga inchiesta che facemmo per questo libro abbiam raccolti una serie di fatti individuali, dei quali si potrebbe comporre una brillante collana. Ne diremo due soli per non stancare il lettore.

Ultimamente un prete delle province napolitano, dopo breve dimora in una campagna dell’America del Sud, ripatriò con l'ingente somma di venti mila ducati, tutti in napoleoni d'oro; danaro che non si può guadagnare onestamente coi 10 o 12 franchi al giorno, quanti ne promettono ai preti le tariffe delle agenzie. Saranno dunque grazie piovute dal Cielo al reverendo, e nelle quali entra il mistero anziché il risparmio del lavoro!

Un muratore, anche di queste province, dopo brevi giorni di dimora nelle vicinanze di Rio Ianerio, tornò precipitosamente in patria con un grosso peculio, da empirne di stupore i compaesani. Il muratore riceve, secondo le cennate tariffe, lire 8 al giorno senza vitto e senza alloggio!

Poco tempo passò che lettere venute di America assicurarono i compaesani che il loro compagno mentre col piccone demoliva un muro, avea trovato un grosso deposito di danaro nascosto, e dopo averlo fatto suo, sottraendosi alle ricerche dei compagni, di notte era fuggito a piedi imbarcandosi per l’Europa.

Guai  all’Italia se dovesse mandare i suoi figli in America a fare gli espoliatori ed i ladri! Il furto degli emigrati non è solo un delitto per chi lo compie, ma torna a discredito della madre patria.

– 327 –

 

Se si facesse un inventario delle fortune fatte in America dai nostri emigrati, se venisse vaghezza ad alcuno di indagarne le origini, quante mai non sarebbero giustificabili col lavoro e col risparmio! Nissuno nega le laute retribuzioni che per tutta America trovano gli artisti di prosa, di canto e di musica, le danzatrici e i ballerini. Nissuno nega che un uomo d'ingegno audace, energico, possa trarre dalle sue attitudini, se dalla fortuna secondato, larghi compensi in un mondo pieno di tante bizzarrie, ove l'ardire conquista sempre qualche cosa. Ma, buon Dio! qual successo è dato di conseguire a tutto questo armento di Uomini che mandiamo, noi a caricar guano e pietre, o ad arare i campi, oltre i pochi soldi al giorno che potran lesinare ed accumulare, a furia di stenti e di privazioni? Dunque tornaconto non v'ha a correr l’oceano, a sfidare tanti nemici, per la meschina conquista di qualche centinaio o migliaio di lire. E se questo volgo che si paga a tanto al giorno, avrà conquistato pingue bottino, diffidate o italiani di quella tenebrosa ricchezza. Essa non dee eccitarvi invidia ma sprezzo, perocché una sola ricchezza a questo mondo è a desiderare, quella che nasce dal sudore della fronte, o è benedetta dai lampi del genio.

III.

Se la emigrazione annienti la coltura e l'energia,

e crei l'uomo del lavoro e della morale.

L'uomo che ricevé dalla sua famiglia una coltura ed una educazione, non ha necessità di emigrare per migliorarsi. Sono le classi meno colte quelle che, secondo alcuni, mutando cielo, potrebbero acquistare dai costumi, dalle abitudini, dagli esempii nuovi, impulsi capaci di trasformare tutta la loro vita morale.

Innanzi tutto una osservazione — Molti credono che la nuda vista di nuovi paesi allarghi la mente degli uomini, la popoli di nuove idee, aumenti l'audacia e la costanza dei propositi. Ma perché il mondo esteriore riverberandosi in noi possa operare queste modificazioni, bisogna che l'uomo abbia un certo grado di civiltà da renderlo suscettibile di assimilazioni intellettive e di perfezionamento morale, ed una tempra fisica capace di certa energia. Ciascun di voi, o lettori, avrà fatta questa esperienza. Di due uomini, che intraprendano lo stesso viaggio, che visitino le stesse contrade, se v'ha tra essi differenza estrema d'ingegno, di educazione, di fibra, uno tornerà con la ménte piena d'idee e di ricordi, col cuore riboccante di emozioni provate, e l'altro lo rivedrete vuoto ed arido come partì; viaggiò con la passività di una merce gli spazii della terra e dei mari, ed in mezzo al brio delle città vegetò non visse, poco serbò nel mondo delle memorie, niun partito trasse dalla immensa varietà delle sensazioni ed impressioni nuove. Sono conseguenze di certe leggi psicologiche, che non è dato a noi di mutare. Tutta la vita dell universo acquista forma e colore dall’intelletto che la contempla e dall’organismo che la sente.

Li avete mai visti i nostri contadini ed artigiani, ripatriati dopo qualche anno di dimora in America? Partirono analfabeti—dicono gli ottimisti — e tornarono che sapean leggere.

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E noi risponderemo che oggi s'impara a leggere e scrivere in tutti gli 8382 comuni del regno d’Italia, e non fa d'uopo valicar l’oceano per tanto poco.

Ma la statistica tenne conto di questo elemento, ed ecco alcuni dati che tolghiamo da un volume recentemente pubblicato dal nostro ufficio generale di statistica (1).

Sui 957 italiani numerati al Chili nel censimento del 1871, se ne trovarono analfabeti 123. Sui 1066 di Venezuela, analf: 410. Sui 2519 del Brasile, analf: 1173. Sui 24136 dell'Uraguay, analf: 10769. Sui 56016 dell'Argentina, analf: 26265.

Dunque questo argomento letterario val poco, e se non lo provasse la statistica, lo proverebbe il ripatrio: il maggior numero di essi tornano illetterati, come erano. La lingua che essi parlavano, parlano, peggiorata da un confuso e disarmonico connubbio di spagnuolo, di portoghese, d'inglese, secondo le contrade che hanno abitate. E le difficoltà della lingua rendono in molti paesi più difficile la vita del nostro emigrato, il quale assai di rado ha l'attitudine per apprenderla.

Quanti più sono gli ostacoli, di clima, di suolo, di razza, di lingua, di tanto cresce la difficoltà di sviluppare le proprie energie. Ma ne ha poi tanta da mettere a prova un contadino o un artigiano italiano, precise se esce dai paesi meridionali? Egli è una pianta che nel terreno nativo aduggiava per sé e per la patria; quando lo trapiantate in una regione così lontana, se è difficile l’acclimazione dell’organismo, più difficile diventa di assuefarsi alle idee, ai costumi, alle abitudini, alle fatiche del loco straniero. Ma si dirà—nell'Argentina vi è tal folla d'italiani, che quasi vi sentite in Italia. E risponderemo che l'America non è tutta repubblica Argentina — che d'italiani ve n'ha in ogni grado di latitudine, e che anche nella Plata tutto il genere di vita richiede tempra resistente, vigoria di corpo e di spirito.

(1) Rendiamo grazie ali egregio professore Bodio per averci cortesemente inviata questa pubblicazione.

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Le difficoltà crescono negli Stati Uniti, ove son necessarii i due elementi proprii delle razze nordiche: fredda perseveranza, e talora impeto sconsigliato.

L'italiano è paziente, è rassegnato, è sobrio, economo, qualità che ravvisate cosi fra i geli delle alpi, come ai piedi dei vulcani. Le sue energie, bastevoli in un mondo vecchio, ove tutto procede per tradizione non lo sono sempre in un mondo giovane che vive nella febbre perenne di lotte, di trasformazioni, di rinnovamento. Il tipo che abbiamo dinanzi in questo studio fisiologico, è l'artigianello di campagna, è il povero contadino; e questa è gente al di sotto della mezzana energia, della mezzana intelligenza. Noi non diremo: la razza latina è troppo vecchia per un continente giovane. Sarebbe arrischiata sentenza, benché detta da altri, suscitatrice di molte obbiezioni. Ma saremo nel vero affermando, che se ogni razza ha la sua scala, il maggior numero dei nostri emigrati sta all'infimo gradino di essa, quindi è la pessima fra tutte le emigrazioni sociali. Gli ignoranti, nota opportunamente il Mantegazza, «appena sbarcati in mezzo ad un popolo che non intendono, in una terra nuova che non conoscono, son presi da uno stupido scoraggiamento. Poco energici in casa loro, diventano stupidissimi e quasi disfatti dalla nostalgia in mezzo ad un mondo tutto nuovo; e se rimane loro in quel tempo una scintilla di energia, si spegne in una bestemmia, in una maledizione (1)».

Duplice è quindi la conclusione: chi non ha ardire e prontezza di pensiero o di azione, nel che sta l'energia, non pensi ad emigrare. E chi questa virtù non porta nel sangue, non aspetti di trovarla, sbarcando, nei porti americani.

(1) Op. cit, pag. 382.

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Rispondiamo ora alla seconda parte del quesito posto: Se l'emigrazione crei l'uomo del lavoro e della morale.

Nello studio fatto sui mestieri, il lettore avrà notato che quasi tutti si occupano come meglio trovano, e questo è pregio che distingue dalla forzata, la emigrazione spontanea o dell’uomo libero.

Ma quale ne è l'effetto? Chi parti coltivatore di terra, e divenne facchino di dogana, o lustra scarpe, o suonatore di organetto, deviò dal mestiere in cui nacquero e vissero lui e le generazioni dei suoi antenati. Il colono non migliorò di condizione nel nuovo impiego, ed è evidente. Ma se per molti anni suonò l'organino o lustrò stivali, quando egli tornerà in patria, difficilmente si piegherà di nuovo ai solchi delle terre che coltivava un giorno. Il gruzzoletto d'oro che avrà portato, ed i lunghi pantaloni nei quali cangiò il suo costume da contadino, gli fan tenere a vile la vanga e l'aratro — ei si crede già ricco e sollevato di condizione. Oltre a che nel suo paesello tutti lo guardano, lo distinguono, ed egli sente, (vanità d'ignoranti! ) un dritto di preminenza sui paesani, che non corsero, come lui, l'oceano.

Ma se a questi pregiudizii e vanità sarà superiore il ripatriato, vi fu per molti la lunga desuetudine dall'indurare nelle fatiche della terra, c troverà troppo faticosa la vita del contadino chi in America esercitò qualche mestiere leggiero.

Cinque o sei anni di abiti nuovi valgono a creare nell'uomo una seconda natura, ond’è che al ritorno assale il fastidio di trovarsi in un campo d'azione oh! quanto diverso e ristretto, e chi non ritorna ad arare i campi della patria, a niente altro si terrà utile, ed allora o diverranno oziosi, usurai di quel pugno di soldi che han portati, o ripiglieranno la via di America, ed ecco come si spiegano i frequenti ritorni di contadini che poco innanzi ne eran venuti, e col pròposito di andare a morire all’ombra del campanile di casa loro, e fra le carezze della famiglia!

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Dunque in moltissimi casi l'emigrazione distrugge nell'uomo l’abito del lavoro normale, e vi sostituisce occupazioni frivole e passeggiere. Ed allora i guadagni di uno o più anni non compensano un avvenire d'inazione in patria, o la necessità di un secondo espatrio.

Ben s'intende che in una vasta e perenne emigrazione vi saranno i casi di uomini disoccupati nei loro paesi che trovarono collocamento in terra straniera; ma non è già che l'emigrazione creasse nell'uomo la voglia o il bisogno di lavorare, bensì gli offre le occasioni, che non trovò in patria, ove era divenuto un capitale morto. E notisi che costoro, in generale, non sono gli emigrati delle campagne, ma i borghesi delle città, i quali dopo amare delusioni, o speranze fallite, o rovesci di fortuna, invece di suicidarsi, come ultimo tentativo di questa vita, prendon la via dell’Oceano, e fanno bene, e codeste emigrazioni noi le abbiamo già plaudite, e tornano sempre utili, se accompagnate da forti propositi e da buone dose di energia. Certo in America vi sono commercianti, avvocati, medici, ingegneri italiani,alcuni dei quali raggiunsero brillanti posizioni, come vi ha giovani già dissipati e rovinati in Italia, ai quali fu ricostituente morale l'aria delle nuove regioni.

La conclusione è sempre la stessa in ogni lato del quesito; alle mezze ed infime energie, ai dappoco, agl'ignoranti, ai timidi, il nuovo mondo ha nulla a dare, oltre un vile impiego ed un salario bagnato di sudore e di stenti. Chi sa creare la capacità degli slanci non è l'America — è Dio, e dopo Dio,l’educazione, che, segue (almeno ancora in Europa) le condizioni sociali.

Rimane un'ultima dimanda; se v'ha speranza che l'emigrato artigiano o contadino torni in patria con un capitale di idee morali, attinte agli esempii ed ai confronti. in tutti gli ordini della vita.

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Egli parti pieno di fede tradizionale nella santità del matrimonio, e trovò in tutta la società sud americana la poligamia tollerata dalle leggi e dai costami. Non è colà una offesa alla morale,  né colpa, l'abbandonare la moglie per sposarne un' altra. E di ammogliati più volte ne vedrete al Perù, in Bolivia, al Chili, nella Plata. Ma se v'inoltrate in mezzo alle solitudini dei pascoli, abitate dai ganchos, troverete assai maggiore rilasciatezza. Lo stato abituale di questo argentino della campagna, è il concubinato. Il gauchos poco s'adatta al nodo monogano; passa la vita tra la moglie e l'amante, e tra un' amante e l’altra, quando non galoppa sul suo parejero, o non si delizia con una coppa di mate.

Per quanta differenza siavi tra i libertini gauchos di Entrenos, e gli abitanti, forse più continenti, delle città, è innegabile che v'ha fra la società sudamericana e la nostra, un abisso di idee e di abitudini diverse. Non è il caso di discuterle, per sapere chi abbia ragione—Ma quando noi mandiamo un povero contadino, che crede in Dio e nella famiglia, perché nacque e visse all’ombra di queste due religioni, probabilmente vacilleranno le sue credenze in paesi ove il sentimento religioso è debolissimo, e mal ferma è l’unità della famiglia.

Se questo libro, valicando l'oceano, avrà lettori nell'America del Sud, noi ricordiamo loro che scrivemmo per gl'italiani, e segnatamente a prò delle classi infime italiane. Uno scrittore onesto ha il debito di servire innanzi tutto il proprio paese, bruciando sull’altare della verità il suo granello d'incenso. — D’altronde la società americana non ha d'uopo delle adulazioni di penna europea. Essa lotta e cammina, e l'avvenire, speriamo, coronerà i suoi sforzi.

Se volete sapere, cari lettori, che cosa insegneranno al nostro povero emigrato le regioni angloamericane, eccovi una altra pagina non meno interessante, e sarà l’ultima.

Nel corso di questi studii parlammo a più riprese dell’America del Nord, mai però dal lato che ora e' interessa di sapere, cioè di tutta la vita morale di quei popoli.

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Essa è la risultanza del sentimento di Dio e della famiglia, del rispetto alle leggi e all’azione della giustizia, della coscienza dei diritti e dei doveri di ciascun cittadino, della coltura intellettuale e dei pubblici e privati costumi.

Chiunque ha letto la stupenda opera' del Tocqueville (1) si sarà formata una splendida idea della società Anglo-Americana. I più noti pubblicisti francesi, come Louis Blanc, Sainte Beuve, Laboulaye, Baudrillard, Ampère, ed in Inghilterra Stuart Mill, Robert Peel, ed altri molti in Europa ed in Amorica, onorarono questo libro con le lodi e le critiche serie onde si discutono le opere eminenti dell’ingegno.

Chi d’altra parte consultò il libro, non meno importante, del Legoyt sulle emigrazioni europee (2) vi avrà vista la nera dipintura che questo scrittore fece della società degli Stati Uniti d’America.

Le due contrarie orme non pochi scrittori ricalcarono nei libri, nelle riviste, nei giornali, segnatamente da che la mania di emigrare all’America crebbe in Europa. Come ognun vede, nell'analisi delle opposte opinioni si potrebbe scrivere a lungo, citando fatti, dottrine e giudizii.

Un paese che presenta la varietà delle tre razze umane; ove il primo nucleo delle colonie inglesi andò maravigliosamente allargandosi col convegno di tutti gli altri popoli di Europa; ove dalla mischianza di tanti elementi nacque la più grande repubblica dei tempi nostri, grande per estensione, per ardire, per guerre, per leggi, per costituzione politica; è ben naturale che offra, al rovescio del quadro, contrasti altrettanto spiccati e pericolosi.

1) La Dem. en Amer.

2) A. Legoyt. L'Emigration éuropéenne; sa importance, ses causes et ses effets—Paris. Guillaumin.

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Il signor di Tocqueville, che visse e meditò negli Stati Uniti, fu colpito a preferenza da uno spettacolo, destinato a maravigliare il pensatore europeo, cioè l’eguaglianza delle condizioni sociali. È un fatto che esercita una prodigiosa efficacia sul cammino di quella società, crea le opinioni, le leggi, i sentimenti, il governo e i cittadini. Questo fatto non è altra cosa che lo spirito di democrazia, il quale dopo aver segnato ad un popolo la via che dee percorrere nel campo politico, si riverbera sulla società civile cioè sulle idee, sui costumi, sulle abitudini.

Questa duplice indagine si propose l’eminente scrittore. Ma per entro i suoi tre volumi serpeggia la stessa idea madre, cioè il carattere essenzialmente democratico dello stato sociale angloamericano. Lo riconosce nell'assenza di ogni aristocrazia ereditaria, nella legislazione che uguaglia le fortune, nella coltura che attenua le disuguaglianze delle intelligenze, i quali elementi permisero di fondare e mantenere la sovranità del popolo, dogma fecondato dal sangue della rivoluzione americana. «Le peuple règne — dice il Tocqueville — sur le monde politique americani, comme Dieu sur l’univers. Il est la cause et la fin de toutes choses; tout en sort, et toùt s'y absorbe».

Posto questo principio, le conseguenze erano necessarie. La democrazia eleva, ma elevando, livella—Livella le opinioni e le credenze nel cammino dello spirito — Sostituisce all’egoismo ed ai legami delle società aristocratiche l’individualismo, sentimento di origine democratico, che si sviluppa a misura che le condizioni si uguagliano. Crea l'associazione dei cittadini, onnipotente quanto in Europa sono i governi. Diffonde la passione del benessere materiale, il quale non è esclusivo ma generale, ed eccita lo spirito del lavoro ed il fremito della ricchezza. Il godimento della vita è l’aspirazione di ogni americano, perché il benessere universale è la necessità dei popoli democratici.

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Ma perché questa passione non traripi in corruttela, bisogna che sia congiunta all’amore della libertà ed alla cura dei pubblici affari, e l’americano vive di lavoro e di libertà, e guarda la prosperità della repubblica come la fonte della prosperità sua. Il quale amore di libertà non assorbe il bisogno della eguaglianza, sentimento più profondo e durevole nel popolo angloamericano. In questa tendenza dello spirito il Tocqueville vide una forza atta a mantenere i buoni costumi ed il freno della morale. Ma egli forse non prevedeva nel 1830, quando pubblicava la sua opera, che ingrossando la corrente europea agli Stati Uniti, la lue filtratavi dal fradicio di tutt'i paesi, avrebbe adulterato se non lo stato sociale americano certo la purezza dei costumi, le tendenze del carattere e le vicende delle fortune.

Guardate oggi gli Stati Uniti. Per conoscerne le condizioni non è mestieri passare l’oceano; abbiamo i giornali, i libri e la parola viva dei continui viaggiatori. Il legame della famiglia debole, per l1 indole stessa della democrazia americana, s è rallentato — La società matrimoniale non è più quella splendidamente descritta dal Tocqueville. La passióne del benessere e del guadagno, divenuta febbre, ed eccitatrice anche del delitto. Altrimenti non vi si vedrebbero nel mondo commerciale divorati i capitali altrui con avidità che non ha riscontro in Europa, ed il furto in proporzioni colossali. La fede nella giustizia perduta, perché fatta da giudici infeudati al partito politico che li nominò, e perché facilissimo al malfattore di sottrarsi alla pubblica vendetta. Infine mentre gli Stati Uniti domandano europei, il disprezzo per gli stranieri si manifesta in ogni parte, e lo provano le risse sanguinose spesso fatali agli emigrati d’Europa.

Questi e tanti altri sono gli effetti di una libertà sconfinata che ubbriaca il cittadino e lo trascina a calpestare le leggi. Esse sono ottime, degne di repubblica— Ma che cosa valgono le leggi, senza i costumi?

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E dopo tutto, guardate un fatto. L'America spagnola ignora la piaga del pauperismo. Gli Stati Uniti già la conoscono. È perché troppo siasi popolato il territorio? È perché comincino a mancare le risorse? È perché le città ribocchino di pletora? Chi lo sa! V'ha dei misteri nelle esplicazioni sociali, come ve n' ha in tutto il resto della vita universale!. . .

E poi guardate — c è un altro fatto gravissimo, che non può sfuggire ad ogni attento osservatore. Le classi operaie degli Stati Uniti sin dal 1868, e forse poco prima, sono in relazioni colla Internazionale europea. Già non yi sarà nissuno tra i nostri lettori che ignori che cosa sia e che cosa voglia questa grande associazione di lavoratori. Nata a Londra nel 1862 al tempo della esposizione Universale con le idee del socialismo francese e delle Trade's Unions sbandì il suo dogma: sostituzione dell'associazione al salariato, e subordinazione del capitale al lavoro. L'Inghilterra, la Francia, la Germania, il Belgio, la Svizzera furono i principali campi ove si organò questa formidabile lega, che conta oramai quattro milioni di affiliati ed aderenti in quasi tutti i paesi della terra. Dai suoi concilii uscirono le famose dottrine dell’abolizione della eredità, della liquidazione sociale, della soppressione del salario, della doverosa gratuità del capitale, del riconoscimento d'un quarto stato, della limitazione del dritto di punire, poi l'abolizione delle nazionalità, e la sovranità politica delle federazioni operaie. Con le pacifiche coalizioni, le Trade's Unions inglesi, tendevano ad ottenere il rialzo della mercede e la diminuzione delle ore di lavoro. I mezzi della internazionale sono invece gli scioperi parziali o generali, le sollevazioni, i tu' multi, insomma il sistema rivoluzionario della violenza; sistema che discredita anche quello che vi ha di vero in fondo al problema della internazionale. La quale, tra gli altri fasti, può gloriarsi della Comune di Parigi, frutto delle sue idee e dei suoi uomini, e glorificata dal Consiglio generale

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di Londra. Tutto ciò risulta da documenti (1) che fan parte della storia.

Dopo i fatti di Parigi, l'Internazionale perseguitata dalla pubblica opinione europea, indebolita da intestine scissure, ha valicato l'Oceano. Al Congresso di Aja (agosto 1872) fu risoluto di trasferire la sede del Consiglio generale da Londra a New York. Ove d’altronde esistono oggidì 20 sezioni (8 francesi, 5 tedesche, 2 irlandesi, 5 indigene). Una donna, la signora Modhal, è dal socialismo americano acclamata alla Presidenza della Internazionale.

Altre sezioni sorsero a New Iersey, a S. Francisco, a Chicago, a Filadelfia. Associazioni operaje di quasi tutte le emigrazioni europee fecero atti di vassallaggio alla rappresentanza internazionale — infine gli Stati Uniti sono il nuovo teatro ove le idee socialiste si svolgeranno senza paure di leggi repressive, come quella emanata in Francia il 14 marzo 1872, o di grandi ostacoli sociali. Imperciocché dove la libertà non ha limiti né freni, ed il sentimento di eguaglianza è messo in moto dal bisogno, le idee della internazionale operaia, troveranno ubertoso terreno. E questo è il caso degli Stati Uniti. — Tutto ciò non fu  né poteva essere intraveduto 40 anni or sono dal Tocqueville. Fu però vaticinato 13 anni fa dal celebre storico inglese Maculay, in una lettera pubblicata dal Times, la quale avea termine così:

«Presso di noi la quistione non si presenta tanto difficile e tanto spaventosa come da voi, perché in Inghilterra ed in Europa la classe che soffre non è la classe che governa. Ma quando gli Stati Uniti dovranno affrontare il socialismo nel secolo che ci attende, e forse anche nel secolo che corre, come potrà lottare tenacemente?

(1) Tra i quali citiamo:

Le Gouvernement du 4 septembre et la Commune de Paris, par Emile Andreoli pag. 215.

Histoire de l’Internationale par Edmond Villetard — Appendice p. 327 — Deliberazione del Consiglio generale di Londra (30 maggio 1871) ed altri documenti.

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«Vi auguro di cuore una felice transazione, ma i miei desiderii non si accordano col mio modo di ragionare e non posso impedire a me stesso di congetturare le catastrofi che vi attendono. È chiaro, come il sole, che il vostro governo non potrà mai contenere una maggioranza sofferente èd irritata, perché da voi la maggioranza è il governo, ed i ricchi, che sono in minoranza, vivono alla sua mercè. Giorno verrà per lo Stato di Nuova York in cui la moltitudine fra la metà d’un pasto, e la prospettiva della metà d un pranzo, nominerà i suoi legislatori. È egli possibile di concepire il dubbio su chi cadrà la scelta, se da una parte un uomo di Stato predicherà la pazienza, il rispetto dei dritti acquistati, l’osservanza della fede pubblica; dall’altra un demagogo declamerà contro la tirannide del capitale e dell’interesse, chiedendo perché gli uni bevano il vino di Champagne e passeggino in vettura, nel mentre che agli altri, tra i quali tutta la gente onesta, manca il necessario? Quale dei due candidati, credete voi, avrà la preferenza dell’operajov che avrà in casa i figli mezzo morti di fame? Cadrete allora in quegli errori dietro i quali la prosperità sarà morta per sempre. Ed allora o un Cesare, un Napoleone, un Salvatore, prenderà con mano onnipossente le redini dello Stato; o la vostra repubblica sarà tanto orribilmente spogliata e devastata, come lo fu l'Impero romano dai barbari del V°; con la differenza però che i devastatori di Roma, gli Unni ed i Vandali, erano stranieri, ed i barbari d’America saranno gli Americani stessi. » (1)

Se è lecito di contrapporre un modesto e libero vaticinio a quello del sommo storico inglese, noi non crediamo che un grande e nuovo paese, come gli Stati Uniti, esuberante di una vita tutta originale, possa temere così irreparabili danni. Vediamo le nuvole che precorrono una bufera, non una catastrofe estrema.

(1) Togliemmo questo luogo dei Maculay dalla Storia della internazionale di tuttio Martello. Padova 1873 pag. 457.

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La propaganda della internazionale potrà per un decennio o due, agitare l'America, dar la vertigine a certe classi, momentaneamente spostate o contagiate, ma finché gli Stati Uniti avranno terre a coltivare, sia pure nel west, vi sarà modo di distrarre i malcontenti dal terreno scottante dei centri popolosi. La civiltà che annienta la razza negra e la indiana, darà, ne abbiam fede, pane ed agiatezza a molti nuovi milioni di bianchi nell’immenso territorio angloamericano.

Tutto questo è avvenire, che i calcoli della mente possono intravedere. Ma guardando all'oggi, è innegabile che si fa strada in quelle regioni la lega internazionale, e noi per carità di questa Italia, non vorremmo che i nostri poveri emigrati andassero a oollegarsi anch'essi, o almeno ad ammaestrarsi alla scuola di esempii e di idee che non ebbero in patria.

Sì, non ebbero in patria! L'internazionale in Italia sta nella mente di pochi, pochissimi, i quali lavorarono sinora per crearla, ma non vi riuscirono, né vi riusciranno, perché il campo non si presta a tai frutti. V'ha in Italia un grande e profondo malcontento contro il governo, contro le amministrazioni, contro le tasse, onde la miseria, le angustie, lo scetticismo generale. Ma non vi è neppure il germe delle generose utopie trovate dalla internazionale nel fondo del vecchio socialismo francese e dei nuovi rancori contro il presente stato sociale.

La storia della parte che han preso alcuni italiani a questa agitazione è nota, ed è inutile di rifarla qui. Ma noi riparleremo della internazionale (e già lo promettemmo a pag. 185) nel secondo volume, solo per discutere talune idee che hanno stretta attinenza con le cause della emigrazione. Non temiamo che»gli sforzi di questa lega possan produrre il finimondo, segnatamente fra noi, ove cento buone ragioni la respingono.

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Ma poiché una quistione sociale in Italia e' è, né vale il dissimularlo, saremmo una inetta generazione se lasciassimo il terreno in preda all'avversario, senza combatterlo. La paura o l'egoismo delle classi colte permette sovente che l'errore conquisti l'ignoranza delle masse. Combattere l'errore con aperta discussione, è diritto di libero scrittore. E distruggerlo, creando, sarebbe il dovere di un altra lega ben diversa dalla internazionale operaja!...

Conclusione — La discussione di questo capitolo può essere riassunta nelle seguenti idee generali:

Le teorie sui climi e le loro applicazioni ci trassero a studiare molte condizioni naturali americane, ostili alla salute degl'italiani. Con lo studio delle razze dimostrammo non essere possibile che la nostra razza sia migliorata dalla emigrazione, diffinitiva o temporanea che sia. Le condizioni sociali di quei paesi ci presentarono ire selvagge e guerre civili, e conflitti d’ambizioni e d'interessi, e dissesti finanziari e salari diminuiti, e scarsezza di lavoro e difficoltà di risparmi — In mezzo alle quali condizioni non può che stentare la vita un uomo di limitata energia e di scarso ingegno. Cosi essendo il maggior numero dei nostri emigrati, dimostrammo che l'espatrio non gli dà coltura intellettuale, non aumento di energia, non conserva le speciali abitudini del lavoro, non educazione morale, perché le idee ed i sentimenti suoi vengono da altri esempii potentemente modificati.

Tutte le quali conclusioni rispóndono alla dimanda di questo capitolo: che la presente emigrazione italiana è un male anche per l'individuo.

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CAPO XI.

Quale debba essere in un regime di libertà l'attitudine del governo e del paese innanzi alla emigrazione.

SOMMARIO

L'emigrazione nell'ordine politico: so lo Stato possa impedirla. — Opinioni di scrittori — Doveri dei cittadini e diritti dello Stato. — La tutela dell’emigrazione. — Ragioni che la giustificano e modo come venne attuata in altri paesi di Europa. —Contegno tenuto dal governo italiano—Interpellanze in Parlamento. —Il ministro Lanza alla Camera ed in una Circolare — Effetti della Circolare e necessità di una legge — Concetto di essa — Doveri del Paese — Le società di patronato — Quel che sono in altri paesi di Europa—Come noi le intendiamo in Italia—Tre compiti principali — Le Colonie all’estero e le risorse nazionali.

La emigrazione studiata nell'ordine politico, fu con incisiva frase definita dal Lamentay «une transpiration naturelle de la liberté». Lo schiavo non emigra, tranne quando sia forzato. Ma lo emigrare spontaneamente è lo esercizio di un dritto naturale che non può essere vietato all'uomo libero, senza esercitare una violenza sulla sua libertà.

È proprio delle monarchie dispotiche, dei governi assoluti, d'incatenare alla terra natale l’uomo ed i suoi beni, per esercitare su di essi il dominio e la oppressione.

È noto che prima del 1859 i governi esistenti in Italia ponevano ostacoli quasi insuperabili all'emigrazione. L'austriaco non ne riconoscea il diritto, la permetteva soltanto in alcuni casi e ad alcune persone come singolare eccezione. Nelle province meridionali esistevano leggi anche più severe che la vietavano. Cento altri esempii vecchi e nuovi potremmo citare, ma di paesi liberi neppure uno.

– 343 –

 

In uno Stato figlio della libertà, ove una costituzione rappresentativa affermi i diritti del cittadino, ogni limitazione del diritto di emigrare sarebbe una restrizione della libertà individuale, non giustificabile con nessun motivo di opportunità. Lo Stato diverrebbe un carcere — scrisse Geremia Bentham—quante volte impedisse l’emigrazione.

A questo modo la considerarono i più insigni pubblicisti di Europa, tra i quali ci limitiamo a ricordare. Gioia e Romagnosi, Ugone Grozio, Wattel, Weaton, Hautefeuille, Kluber, Foelix, Ortolan, Degerando, Fiore, Dunoyer, Hello, Naville.

Tutti questi insigni scrittori riconoscono nonpertanto che per usare di questo dritto, bisogna che l'uomo possa liberamente disporre della sua persona. Lo appartenere ad uno Stato implica degli obblighi inerenti alla qualità di cittadino; tale è il dovere di servire con le armi il proprio paese, secondo le speciali leggi degli ordinamenti militari. Uguale dovere può legarlo alla giustizia punitrice, quando egli abbia, con fatti colpevoli, turbato l'ordine sociale. Nei quali due casi il dritto dello Stato sull’individuo non è messo in dubbio da alcuno. Al dritto naturale si sostituisce il dovere cittadino, altrimenti non esisterebbe comunanza civile. Ed allora lo Stato, che di essa è legittima rappresentanza, ha stretto dovere d'impedire con la maggiore oculatezza, che non fossero valicati i confini del territorio.

Altri doveri può avere un emigrato.

Verso la famiglia. — Una moglie repentinamente abbandonata nella miseria; dei figli che restano affamati e nudi a piangere il pane che loro somministrava il lavoro del padre; vecchi genitori che trascinavano la tarda età col sostegno dell’unico figliuolo, il quale in un' ora di delirio emigrò: ecco i doveri sacri che egli ha calpestato con un crudele addio. —

Verso la società — Un debito di onore; impegni di qualunque natura da soddisfare, per rapporti civili, commerciali od industriali; e chi può dire le svariate forme dei rapporti morali e giuridici onde l’uomo s'incatena agli uomini?

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Se non visto, e senza addio, si sarà involato alla terra natale, egli li ha infranti questi legami.

In siffatto duplice ordine di obblighi uno Stato non può,  né deve entrare, a meno che non si ricorra alle sue leggi dagli offesi diritti privati dei cittadini. Dal che si parrà più chiaro, che lo Stato non possa guardare l'emigrazione che solo nelle attinenze poi diritto pubblico della nazione.

Molto fu discusso dai pubblicisti se e fino a qual punto lo Stato debba esercitare la tutela dei cittadini, Ma certa cosa è che un governo bene ordinato non può abbandonare a sè stessa l’emigrazione, e per tre gravissime ragioni.

Primamente perché gli emigranti son 'figli della patria, alla quale appartengono fino al valico della frontiera. In secondo luogo perché la maggior parte degli emigranti è gente incolta, nuova ai viaggi, facile ad essere ingannata o tradita. Da ultimo perché i cittadini non fossero eccitati ad emigrare a ' paesi ove possono miseramente soccombere.

Non è dunque il caso di discutere teorie più o meno rigide di dritto pubblico. Queste ragioni, svolte e documentate abbastanza nel nostro processo della emigrazione, impongono ad un governo civile d'intervenire con l'assistenza e col consiglio a prò dei figli della patria.

Gli altri governi di Europa che ebbero la emigrazione, s'interessarono più o meno, ma tutti, del convenevole trasporto degli emigranti ai porti esteri; sorvegliarono che il loro arrivo nei luoghi di destinazione seguisse senza pericolo, e difesero la emigrazione da ogni specie di violenza.

Prima cura fu di accordare permesso di spedire emigrati a grande distanza a navigatori sicuri ed esperti, i quali non compromettano la vita di centinaia di persone.

Si pensò inoltre alle condizioni interne dei navigli di lungo corso, secondo le norme da noi esposte a pagina 189 eseguenti. Nei porti principali di Amburgo e di Brema la legislazione e la polizia di marina riceverono notevoli miglioramenti sin dall’unione della Confederazione Germanica settentrionale,

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segnatamente intorno agli obblighi dei capitani e degli armatori, i quali assumono di trasportare gli emigranti sino al termine del loro viaggio, ancorché il naviglio per qualunque avarìa dovesse interrompere il suo corso, ed essi sono responsabili della disciplina severa e dei buoni trattamenti a bordo.

Cosi il governo della Confederazione ascoltò i consigli dei suoi scrittori, fra i quali il Roscher, che, nella sua celebrata opera, invocò la severa vigilanza dello Stato sul modo come procedeva la emigrazione. A questi voti risposero non solo le leggi tedesche, ma le inglesi, le belghe, e i regolamenti di Brema, siccome avemmo occasione di citare in diversi luoghi di questo libro e segnatamente nel Capo Vili.

Ed ora abbiamo il diritto di dimandare: Che pensa e sente il governo italiano innanzi alla nostra emigrazione? Assiste con indifferenza a questo annuale espatrio dal regno, o si commuove innanzi a tanto spettacolo? In verità noi non sappiamo renderci ragione del suo contegno.

La quistione dell’emigrazione fu portata più volte innanzi al Parlamento. Nella tornata del 30 gennaio 1868 il deputo Lunaldi la suscitò nella Camera. Deplorò il fatto, enumerò i suoi danni. I deputati Arrivabene e Castagnola ed il Ministro Menabrea, distinguendo gli abusi, dal fatto economico in sé stesso, la giudicarono vantaggiosa alla nazione.

Nella seduta del 20 maggio 1872 risollevò la quistione il dep. Tocci, gettando un grido di allarme, cui rispose il Ministro Lanza, che l'emigrazione non era indizio di malessere e di miseria, ma esuberanza di forza, e prova di coraggio. Citò la prospera Germania da cui si emigra, citò la opulenta Genova che manda a popolare l'America meridionale, disse che l’emigrazione italiana non avea nessuna proporzione allarmante; che non vi era bisogno di provvedimenti straordinarii del governo, e propose che il modo più opportuno per arrestare l'emigrazione era l'aumento della mano d'opera, avvilita per colpa de' proprietarii.

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Ma in conclusione l'emigrazione non era un male (1).

Dal 20 maggio 1872 passarono solo pochi mesi, e con la data del 18 gennaio 1873 lo stesso Ministro Lanza mandava ai Prefetti del regno una Circolare, la quale provò che le opinioni dell’onor. signor Ministro erano mutate. Due concetti esprimeva: impedire l'emigrazione illecita, anzi denunciarla all'autorità competente, ed infrenare ogni altra emigrazione lecita e spontanea. Non vogliamo qui ristamparla, perché è ormai vecchio documento, divenuto notissimo per la critica concorde di tutta la stampa italiana, e pel mirabile effetto che produsse, che cioè l'emigrazione del 1873 fosse superiore a quella dell’anno precedente. La Circolare finiva così: «il Ministero spera che per tal modo si riuscirà a reprimere l'industria malefica degli agenti per l'emigrazione, e si frenerà la crescente tendenza ad abbandonare la terra nativa di tanti cittadini inconsci de' pericoli che corrono col prestar cieca fede alle fallaci promesse dì avidi speculatori».

Innanzi tutto è assai notevole questa diversità radicale di co Atti nel primo Ministro di un paese. Il che si traduce così: il governo prima della interpellanza Tocci ignorava che esistesse in Italia una emigrazione nelle proporzioni e ne'  modi che sei mesi dopo lamentò la Circolare. Ed ecco il primo contegno del governo sino al 18 gennaio 1873.

(1) Presero parte a quella discussione gli on. del Giudice Giacomo, Branca, Vollaro, Lacava, Mellana, con osservazioni assai opportune intorno alle cause dell'emigrazione.

Sentiamo il debito, poiché citiamo precedenti parlamentari, di ricordare che l'attenzione del Ministero sulla emigrazione venne richiamata più volte dal deputato Salvatore Morelli nelle tornate. 30 maggio 1871, 8 marzo 1872, 11 dicembre 1873. Con quale frutto, lo dicano i fatti.

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Ma quella Circolare ordinatrice di mezzi parziali, inefficaci, ed alcuni d'impossibile attuazione, mostrò il concetto confuso del male che si volea scongiurare. Disse ai Prefetti: «impedite che le agenzie procurassero imbarchi ad emigranti, e le agenzie continuarono pacificamente le loro operazioni, anzi aumentarono notevolmente. Prescrisse molte misure per impedire i clandestini, ed il numero dei clandestini è cresciuto. Che si sorvegliassero i corrispondenti e gli emissarii delle agenzie estere (la qual sorveglianza rjmase in progetto) senza impedire, e severamente, tutta la bieca organizzazione che le agenzie delle nostre città hanno fatta nelle campagne, come era ben noto nel gennaio 1873 ai vivi ed ai morti italiani. E sotto gli occhi delle autorità la tresca de' faccendieri è continuata in omaggio alla Circolare. La quale, nel suo insieme, era inattuabile, perocché quando si vuol colpire un grava malanno sociale, è tale lo diagnosticava il Ministro, ci vogliono leggi e non circolari. Solo la legge ha forza imperativa, ed azione repressiva, pronta e salutare. E quando un Ministro dice innanzi al paese: tutto impone di provvedere energicamente nel proposito: la frode che vuole essere punita, la commiserazione dovuta ad una classe tanto sventurata di cittadini, il decoro del paese da serbare, i reclami della pubblica opinione da satisfare; infine i gravi imbarazzi che rende ai Regii agenti consolari la tutela degli emigrati poveri abbandonati ed oppressi, e la rilevante spesa che costa all’erario il curarne la sussistenza ed il ritorno in patria; vuol dire che la necessità di un efficace provvedimento è riconosciuta, e la quistione sta nel modo di provvedervi.

Ma se veramente il governo avesse voluto satisfare i reclami della pubblica opinione, avrebbe dovuto per sua iniziativa, già fin da due anni proporre alla sanzione del Parlamento una legge che curasse le molteplici forme del male.

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Ma perché questo non fece  né il Ministero Lanza,  né il presente Gabinetto? È forse perché manchi il tempo di occuparsene? Sarebbe futile pretesto per un governo. Forse perché il male è diminuito? Al contrario. Dunque altra spiega non v'ha che la incertezza e la confusione d'idee a traverso la cui nebbia si vede la quistione dalle sfere governative. La qual confusione non vi sarebbe, se si andasse sino in fondo dei problemi sociali, studiandoli amorosamente.

Questo libro non è una requisitoria, è uno sprone, è un voto nell'interesse del paese, che da tanto tempo ed minimamente reclama una savia legge sulla emigrazione. La richiese anche il relatore della Commissione sugl'istituti di previdenza sin dal marzo corrente anno (1). La richiesero moltissimi pubblicisti nei giornali e negli opuscoli. Infine è un bisogno, e quando il bisogno reclama una legge, il Montesquieu ci avverte che essa non deve farsi aspettare.

Da tutte le considerazioni fatte in questo volume, parrà chiaro il concetto che noi crediamo debba informare la legge invocata. Cioè libertà completa di emigrare ai cittadini che non abbiano obblighi verso lo Stato; sorveglianza dell'emigrazione e tutela contro ogni insidia alla buona fede. Non è dunque il caso, come pretendeva la Circolare Lanza, di in% frenare la emigrazione, perché questa si arresterà unicamente innanzi alla prosperità economica del paese, e crescerà se aumenteranno le pubbliche e private miserie. La emigrazione che invece va impedita e condannata, è la frode, che ha creato finora un fatto artificiale, che sfugge il più delle volte all’azione del codice penale. Dal quale punto di vista questa legge diviene un dritto dell’ordine sociale, un dovere pei poteri dello Stato. Nel concetto di tutela è rinchiuso tutto lo svolgimento della protezione all’emigrato finché non abbia toccai la terra straniera; e con la parola sorveglianza vogliamo accennare alla cognizione piena che il governo deve avere di tutto questo movimento italiano di entrata e di uscita, studiandone attentamente

(1) Il prof. Iacopo Virgilio. Relazione citata.

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la essenza e le forme; sorveglianza larga, come noi la intendiamo, creatrice d'una statistica compiuta, da cui il paese possa trarre utili ammaestramenti.

Siffatta legge dovrebbe impedire assolutamente le agenzie e gli agenti di emigrazione in ogni angolo d'Italia, e sostituire alla loro azione un servizio pubblico della emigrazione, quello insomma che l’Inghilterra possiede da moltissimi anni col nome di emigration office, il quale onestamente fornisca il passaggio agli emigranti dal luogo dello imbarco sino al porto ove hanno dichiarato di voler sbarcare.

In questi ultimi tempi fu sollevata una quistione. Se cioè lo Stato abbia il diritto di concedere a sè stesso l’esclusivismo di questo servizio; e quindi si domandò se il governo debba essere imprenditore o agente di trasporti. Ed il Marchese di Cosentino, che la discusse in un opuscolo (1), conchiude col riconoscere il diritto ed il dovere nello Stato di creare ed esercitare temporaneamente, finché duri il bisogno, questo pubblico servizio, senza che possa farglisi accusa di monopolio o di speculazione industriale. Noi in verità vediamo la quistione in una sfera più limitata, ove non entra nell’industria, né il pericolo di monopolio. Vogliamo che il governo si brighi dell’emigrazione, che chiuda le agenzie esistenti per aprirne una o più in suo nome; ma—s'intenda bene—con fini di speculazione non mai, sibbene di direzione e di guida, tutela in cui il governo dovrebbe rifonderci le spese di amministrazione pel mantenimento degli ufficii.

Il governo diverrebbe imprenditore quante volte stabilisse una linea di vapori proprii pei trasporti degli emigrati, e su quelli unicamente li spedisse — ecco il caso del monopolio. Diverrebbe imprenditore quante volte sovvenisse con forti ed annuali sussidii una data compagnia marittima, e sui vapori di essa esercitasse lo stesso monopolio.

(1) La quistione ardente. Genova 1874.

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L'uno o l'altro caso creerebbe esclusivismo a danno della libertà industriale e commerciale. Ma a che prò discutere questi pericoli, quando anche volendolo, il governo, nelle presenti condizioni finanziarie, non può neanche sognare la spesa di altri milioni per nuove intraprese?

E se anche, senza dar sussidii, il governo volesse proteggere una speciale Compagnia, chi non vede i pericoli di un simigliante privilegio?

Abbiamo già detto nel Capo II di questo libro i tristi effetti delle Compagnie privilegiate, cadute sotto la riprovazione dei migliori economisti, e proscritte dalle nazioni europee verso la metà del passato secolo. Il ripetere i medesimi errori, dopo tanta scuola di esperienza e progresso sdentilo, non sarebbe degno di un savio paese.

Riducendo a proposta concreta il nostro pensiero, noi non chiediamo che un semplice organismo governativo, con piccolo numero d'impiegati, perché la emigrazione spontanea e decisa, sia diretta con intelligenza ed amore.

Per tal modo crediamo di aver circoscritta nei suoi ragionevoli confini l'azione urgente del governo. Al quale non si ha, d’altra parte, a chiedere più di quello che può dare, senza ripetere le vuote pretese di coloro che tutto il bene di questo mondo aspettano dall'ente che rappresenta lo Stato. Nel meccanismo costituzionale il potere esecutivo ha un limite oltre il quale v'ha il paese con le sue potenti iniziative, coi suoi diritti e i suoi doveri.

I corpi elettivi la scuola, la stampa, l'associazione, ecco altrettante forze che il paese anima e mantiene. In guisa che dall’ultimo cittadino, elettore o consociato, sino al deputato ed allo scrittore, governiamo tutti, ciascuno nella sua sfera d'azione. Questo concetto non è ancora filtrato nel cervello delle masse, tenaci nei vecchi pregiudizii.

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Altrimenti in paese sarebbe più generale un sentimento che è ancora di pochi, quello della responsabilità. Un popolo in cui sia viva questa coscienza, può dirsi civile e mille volte degno di libertà. Perocché vuol dire che tutti, o il maggior numero, compiono il proprio dovere, il quale non dee limitarsi a non rubare ed a non uccidere, ma à cospirare per la prosperità della repubblica,, come se fosse il bene della propria casa. Veramente a questi generosi desiderii mal risponde il secolo egoista e quattrinaio, in cui sortimmo, sia presto o sia tardi, il nascimento. E per ciò il sentimento della responsabilità è di pochi, e perciò i molti si affrettano a trarre dai pubblici e privati contatti le maggiori utilità personali, anche a scapito della, civil convivenza. —Se cosi dovessero volgere perpetuamente le cose umane, vi sarebbe a disperare del sociale progresso. Ma v'è la fede che riconforta i timidi, vi sono i buoni che equilibrano i tristi, e cosi l'animo nostro dopo ogni disinganno, ricomincia a sperare.

Se noi italiani vogliamo davvero progredire in meglio, bisogna che, ripiegandoci su noi medesimi, cominciassimo a fare un inventario esatto delle nostre azioni: domandarci per quanta parte ciascun di noi contribuisca alla prosperità della patria, e forse allora molti tribuni sentirebbero, nell'intima coscienza, che essi attendono ad un'opera di demolizione anzicché di creazione. Che cosa ci si guadagna ad es. a tener sempre pronte ed affilate le cesoie della maldicenza per tutto e contro tutti, quando si è impotenti a creare qualche cosa? Persuadiamoci che i popoli, non altrimenti degli individui, saran rispettati e felici se ne saranno degni, né un sistema di governo sarà altra cosa che lo specchio fedele di quel che è il paese. Dal che sorge che di molti presenti malanni italiani, son responsabili unicamente gl'italiani, né solo quelli che siedono nell'alta direzione degli affari, ma tutti, fino all'ultimo cittadino. La quale responsabilità cresce in ragion diretta della coltura delle classi sociali.

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In Europa fu il potente terzo stato che fece la rivoluzione francese, e che ha operato questa grande trasformazione nella politica delle nazioni. Così la borghesia divenne anello di congiunzione tra i secoli aristocratici e le aspirazioni democratiche, e molto cammino avremo ancora a fare, pria che gli impulsi del bene vengano dalle classi inferiori, o per dir meglio, pria che il patrimonio della civiltà, divenuto patrimonio di tutti, faccia sparire le ineguaglianze fra la coltura e l'ignoranza, onde le legittime iniziative ed il servilismo delle masse.

Questi pensieri si affollano alla mente, sempreché deploriamo l’accidia del paese pensante ed operoso. Vantarci di aver fatto abbastanza, o cullarci nella comoda speranza che il resto lo farà il tempo, può essere il pabolo degl'impotenti, ma non di una generazione maschia, che. intenda a raccogliere i frutti delle fatiche proprie e de' padri.

Moltissimo resta ancora a fare, ed il tempo uopo è che sia bene speso, perché noi potessimo lasciare ai nostri figli una eredità senza colpe, e senza il biasimo della storia.

Ed ora tornando nei limiti della quistione che ci occupa, se il debito del paese è indeclinabile, noi vediamo la necessità che sorgano nei principali centri d'Italia, ove si manifesta la emigrazione, altrettante società di patronato, per iniziativa di cittadini autorevoli ed intemerati. Così fu fatto in altri paesi di Europa e valga l’esempio dell’Inghilterra ove ve ne ha parecchie, e fondate con privati capitali. Anche in Germania nel 1843 surse per azioni la compagnia di Dusseldorffs. Sono parimenti notevoli quella di Giessen, quella di Glarona, le quali tutte divennero utili e benefattrici quando si occuparono della spedizione, dei conforti, degli aiuti, e del collocamento degli emigrati. Il che è provato segnatamente dalla Compagnia nazionale per la emigrazione tedesca in Francoforte, e da quella di Berlino per la centralizzazione dell'emigrazione tedesca, ricostituita anche meglio nel 1864.

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In quei paesi oltre alle officiali comunicazioni che ricevono gli emigranti de' loro dritti e doveri, questa privata protezione avvia ed agevola, sorveglia e chiarisce, ricerca e denunzia quando trova il male. Le benedizioni degli emigrati tedeschi ricompensarono le fatiche di queste benefiche istituzioni, le quali completano egregiamente, con armonia d'intenti,l’opera dei governi.

Per contrario, quando queste Società vollero fissare i paesi all'emigrazione, esse fallirono allo scopo, perché non è facile imporre ad un uomo libero la meta dei suoi passi,  né poca sarebbe la responsabilità. Perciò in Germania fallì la Compagnia de' nobili per l'emigrazione al Texas, la quale, dopo aver meritati gravi rimproveri, nel 1848 venne nel Texas ceduta ad un privato. Lo stesso infelice successo toccò alla Compagnia prussiana per la colonizzazione della spiaggia Moscovita. In Italia come noi le intendiamo, le Società di patronato dovrebbero essere animate dallo spirito di rendere l'emigrazione profittevole alla patria, il più che sia possibile, finché questo fatto sociale fatalmente si riprodurrà.

Togliere molte illusioni intorno alle condizioni americane, consigliare l’emigrazione a paesi che meglio rispondano per clima e per prosperità, alla salute, alla età ed alle attitudini individuali. Insomma far sentire a questi infelici una parola amorevole, un consiglio onesto — ecco il primo e cristiano còmpito di una società di patronato. Quanti emigrati la udirono nei paesi loro questa parola? Forse, udendola non sarebbero partiti, e sotto un inclemente cielo straniero non avrebbero maledetta una patria madrigna, avara anche di un consiglio. Oh! benedetta mille volte quella istituzione che con la dolcezza della parola avrà restituito un padre alla famiglia, ed una forza alla ricchezza della nostra terra; o per contrario avrà diretta questa forza in modo, da renderla, anche emigrando, utile al figlio ed alla madre.

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Alla quale il maggior bene che potrà arrecare una società di patronato, sarà di promuovere il commercio dei prodotti italiani coi paesi esteri popolati da italiani —ed ecco il secondo suo scopo.

Tra i consigli ad ogni emigrante dovrebbe dirsi questo: voi che correte alla Plata, ai Chili od al Perù, cercate almeno di divenire utili a questa patria che abbandonate. Non saran la ricchezza d’Italia le cento lire stentate da' salarii che manderete alle famiglie, sibbene la richiesta dei prodotti nostri che voi potrete consumare e diffondere, ponendoli in concorrenza con altri simili prodotti stranieri. Un uomo che parte adulto da un. paese ove ha sempre vissuto, dovrebbe preferire, sia che si trovi in America od in Australiani prodotti agricoli e manufatti del suo paese a quelli che trova, e questa preferenza rientra nelle leggi dei gusti e delle abitudini. È vero che l’Italia manda alla Plata, vino, liquori, riso, paste, cacio, funghi, conserve. frutta, e tanti altri oggetti di esportazione. Ma in quali proporzioni? Ecco dove sta il desiderio. Il Virgilio si loda di tali risultati commerciali—a noi sembrano poca cosa, segnatamente se le cifre, da lui riportate, le confrontiamo alle esportazioni di altri paesi di Europa. Ma la quistione non si limita qui. Bisogna che uomini esperti, studiando praticamente le molteplici produzioni del paese, giungessero a stabilire quali di esse sieno maggiormente ricercate nei varii paesi dell’altro emisfero. Ed allora la emigrazione non sarebbe solo esportazione di lavoro e di capitali a danno della patria, ma scambio di derrate e di manifatture con l'oro del nuovo mondo, epperò sorgente di ricchezza per noi. Fu questo il desiderio espresso da Guglielmo Roscher per la Germania, quando lamentò che gli emigrati tedeschi consumavano all’estero prodotti stranieri, rompendo ogni legame commerciale con la patria. Ed il commercio è vincolo potente tra l’emigrato ed il suo paese, perché mantiene deste tutte le memorie della Vita. Ed è la sola espansione utile ad uno stato moderno, perché trae tutti i buoni effetti, che la emigrazione essa sola è impotente a produrre.

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L'argomento che discutiamo, ci trae a porre nella sua vera luce un fatto che abbiamo forse appena accennato nei capitoli

precedenti. Sapete perché gli scrittori genovesi plaudono concordemente alla emigrazione? Perché. vedendola quel che è in gran parte nel loro paese, la riconoscono come una via aperta ai commerci dei prodotti liguri. E Dio li feliciti! Ma quale prodotto delle province napoletane, ad esempio, va in America, in conseguenza della nostra emigrazione? Si badi, che se ci prendessimo la pena di fare questa nuova dimostrazione con cifre e notizie dirette, proveremmo qualche altra dolorosa conseguenza economica, prodotta dalla magnificata emigrazione italiana. Ed ora che abbiamo espresso il nostro pensiero, facciano il resto le società di Patronato!. . .

Terzo Ufficio delle medesime dovrebbe essere di sorvegliare il collocamento degli emigrati al paese di arrivo, perché il lavoro del nostro connazionale non sia divorato dal monopolio dei grandi concessionarii di terre, i quali fan dell’uomo libero uno schiavo bianco — perché i nostri non vadano a degradarsi nella salute e nella dignità con occupazioni malsane o avvilienti, perché in fine un povero italiano sbalzato sul lastrico di New York o sull’erba della Pampa, non si vegga solo, in mezzo ad una moltitudine d'uomini o ad una imponente natura, che nulla gli offrono fuor che lo sgomento.

Ecco in riassunto i compiti precipui ai quali dovrebbero intendere le società di patronato dell’emigrazione. Avranno a collegare i loro sforzi a quelli del governo, perché lungi dall’eccitarla o promuoverla o sussidiarla con danaro, venga consigliata con carità e diretta con accorgimento. Gl'italiani debbono ricordarsi che questa non è emigrazione colonizzatrice.

La quistione delle colonie richiamò, già da molti anni, l'attenzione del governo, tanto vero che quantunque l'Italia non abbia colonie, possiede non pertanto la Commissione delle medesime.

Si pensa a colonie agricole e commerciali, si pensa a colonie penitenziarie, benché il Parlamento non abbia mai manifestato il suo voto su queste gravi innovazioni.

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Sin dal 1866 un distinto viaggiatore italiano, il signor Emilio Cerruti, proponeva di colonizzare la Melanesia-Polinese, ma egli stesso l’anno passato affermò che il terreno era già occupato. Il contrammiraglio Acton ed il prof. Sapeto ebbero incarico di studiare la convenienza della baia di Assab, la quale invece fu comprata da un certo principe Danakilo. Si pensò poi a Socotora e da ultimo a Borneo, l’una sede di delinquenti arabi ed indiani, e l’altra sotto l'Equatore in una pestifera atmosfera. Nè di esse si è più parlato. Ultimamente il signor Cerruti progettò la nuova Guinea, come terra ottima per una colonia penale, e per diventare fra 20 anni una fiorente colonia agricola commerciale italiana. Benché quel paradiso sia abitato da popoli antropofagi, noi ignoriamo che cosa abbia in animo di fare il presente Gabinetto. Del precedente sappiamo due risposte date da' Ministri di Marina e di Giustizia in Parlamento. Quando nella tornata 8 febbraio 1873 l’onorevole Villa interpellò il governo sulla missione data al capitano Racchia, di occupare la baia di Sandahau nell’isola di Borneo, il Ministro Ribotty rispose; che la missione si limitava ad uno studio di idrografia. Più tardi in Senato il guardasigilli de Falco, rispondendo al Senatore Caccia, dichiarava che tratta vasi di studii per stabilire oltre mare uno scalo commerciale ed un luogo di pena, schierandosi però apertamente tra gli avversarii del sistema della deportazione. Non è nostro compito di entrare nell’immenso argomento di questa pena che oggi si discute in Italia da uomini competentissimi (1). Ma limitandoci alle colonie agricole, ognuno vede che la prima difficoltà

(1) Delle Colonie di Beneficenza e di Pena per Vincenzo Garelli, Torino 1870.

Della massima pena incruenta per Domenico Giuriati. Venezia 1874.

Varie lettere del Senatore de Foresta, del Cav. Beltrani Scalia ed ultimamente una del Senatore De Falco, pubblicate su diversi periodici italiani.

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del governo sta nella scelta del luogo in cui coincidano tanti legittimi requisiti di clima, di fertilità, di vicinanza col mare, ed innanzi tutto che fosse terra libera, o facilmente acquistabile, ma senza pericoli di altri pretendenti o di possibili quistioni politiche. Non pertanto a noi pare che pria d'intraprendere un pellegrinaggio sulla superficie della terra e de' mari, per trovare la plaga fiorita che dovrà essere principio e cagione delle nostre gioie future, sarebbe un pochino a discutere in precedenza, se a questa umile Italia fia salute una colonia transatlantica. Certo il Parlamento ed il paese c' entrano per qualche cosa nella quistione, pria che i Ministri passati presenti o futuri, ordinassero studii costosi, e forse per avventura inutili. Lo esàme di questa quistione meriterebbe un lungo ragionamento, e se noi vedremo nuovi tentativi del governo, ritenteremo la disputa, per ragionare con qualche ampiezza il nostro avviso che non temiamo di anticipare.

Tutti gli economisti sono d'accordo a considerare le colonie come gli sbocchi della popolazione e de' capitali esuberanti in patria. Ma noi dimostrammo, e fin troppo, che in Italia non abbiamo esuberanza  né di uomini  né di danaro, quindi una colonia all'estero manca di necessità e di scopo. Certo il pensiero di trovare oltre l'oceano una terra sotto il cui cielo si rifletta l'imagine della patria, ove sventoli la nostra bandiera, ove gl'italiani si sentissero come in casa propria, protetti dalle leggi loro, continuatori delle loro tradizioni, è nobile e generoso pensiero. Ma noi contrastiamo appunto agi' italiani la necessità di lasciare la patria, e vorremmo che gli alti poteri dello Stato invece di esplorare le isole e le baie dell’Oceania, pensassero a colonizzare l'Italia, ove abbiamo la Sicilia e la Sardegna che valgono milioni di volte Socotora e Borneo.

Nel continente l'agro Romano ed il tavoliere di Puglia, e le deserte saline e le miniere di zolfo e di ferro, campo vastissimo all'attività agricola ed industriale degl'italiani.

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I quali mentre emigrano alle remote regioni a morire o a stentare, lasciano una patria, cui solamente un altro indirizzo potrebbe mutare in una conca d’oro.

Nè i geografi, nè i naturalisti,  né i politici si curano di penetrare nelle nostre inesplorate ricchezze. Non v'ha che solo gli antiquari che vadano scavando vasi etruschi e teschi di morti sotto le zolle, sì spesso abbandonate, dell’Etruria e del Lazio. Quante colonie agricole non potremmo noi fondare in alcune isole italiane, infeconde per mancanza di braccia! A chi s'interessi di questo importante argomento raccomandiamo le succose lettere scritte intorno all’arcipelago toscano dal chiarissimo Garelli, il quale dopo aver descritto l'avvenire che potrebbero aver l’Elba, il Giglio, la Capraia, la Pianosa, la Gorgona, il Montecristo ed altre, manifesta il desiderio che il governo nostro ordini una spedizione nel mondo insulare italiano, che non solo è improduttivo, ma sconosciuto. Noi raccogliendo il patriottico desiderio, lo ripresentiamo per conto nostro al Governo del Re, il quale farà opera certamente più utile alla patria studiando le ricchezze che la natura ci ha concesse, anziché correre agli antipodi in cerca della terra disabitata.

Ben sappiamo che autorevoli economisti raccomandarono le colonie, e potremmo riportare ragionati passaggi di molti scrittori. Ma a che prò? Non è forse vero che gli economisti ed i politici formano le proprie dottrine alla scuola de' fatti, dei quali sono testimoni nel loro secolo e nel loro paese? Il Roscher fu caldo fautore delle colonie, perché vedea improduttiva alla patria la imponente emigrazione tedesca; e chiese una colonizzazione che portasse la lingua e l'indole nazionale nella terra lontana, aiutando lo Stato coi proprii danari queste fondazioni coloniali. In verità a noi italiani non mancherebbe che questa cifra nel deficit annuale del nostro bilancio!

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Dicemmo fin troppo dell’Inghilterra perché dovessimo nuovamente dimostrare le ragioni perché la scuola inglese propugnò le colonie. Il concetto che domina questa materia è sempre uno, e vogliamo ripeterlo ora con le parole di Stuart-Mill: «la fondazione delle colonie è l'esportazione dei lavoratori di un paese troppo popolato in un paese disoccupato, «è il miglior modo come porre a profitto i capitali di un «vecchio e ricco paese» (1).

Gl'italiani applichino queste parole alle condizioni nostre. Pensino ai danari che costerebbero e l’impianto delle colonie e le stazioni navali che dovrebbero guardarle, e si persuaderanno facilmente che non è savio consiglio pensare in questo secolo come pensavano gli Spagnuoli ed i Portoghesi de' tempi di Colombo e di Pizzarro. Quando l’Italia sarà più popolata, più ricca e più forte, vada pure in cerca di qualche nuovo paradiso per l'immensità dei mari, ma oggi gl'italiani hanno il debito di restare a casa loro se veramente ci preme la prosperità di questa alma terra che tutti diciamo di amare, anche quando guardiamo neghittosi i suoi bisogni o l’abbandoniamo in preda ai suoi mali!

(1) Stuart Mill. Principes d'écon. polit. Paris. T. II Livre V. Chap: XI, § 14.

 

CAPO XII.

Riepilogo

Conclusione e proposte

Pei lettori che han tempo di leggere appena la prima e l’ultima pagina di un libro, vogliamo riassumere il contenuto di questo volume.

Cominciammo per enumerare le origini e gli scopi delle emigrazioni umane, raggruppando i fatti raccolti dalle analisi storiche in concetti generali e sintetici. Distinguemmo le emigrazioni moderne in concentriche ed eccentriche, in forzate e spontanee, in temporanee e diffinitive.

Premesse queste considerazioni, ricordammo la storia delle scoperte americane e le vicende delle colonie europee nel continente di Colombo. È una storia di tre secoli, feconda per chi la studia, di esempii e di ammaestramenti salutari.

Ma gli europei del secolo XIX continuano a correre all'America, e si emigra anche dai paesi che non ebbero,  né hanno colonie nell'altro emisfero. — Dunque dovevamo studiare le proporzioni vere delle emigrazioni di Europa, e lo facemmo accennando appena, qui dove parlammo di cifre, agli stimoli ed alle modalità di questo immenso spostamento di uomini dalle loro sedi natie.

L'America ci chiama, ed indagandone le ragioni, le trovammo nell'estensione del territorio e nell’abolizione della schiavitù. La sproporzione tra la terra e la popolazione aumentata dall’arresto delle immigrazioni africane e dal decadimento delle due razze negra ed indiana, ci spiegò perché dall'altro emisfero giungano all’Europa seducenti inviti e lusinghiere promesse.

Questi ricordi e raffronti stranieri doveano essere necessario preparamento a studiare in Italia la portata della emigrazione italiana.

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Ne ricercammo i dati, e la statistica ci provò che nel 1872 emigrarono 50 mila italiani, cifra sorpassata nell'anno decorso. Le distinzioni di sesso, di età, di professioni, ci offrirono conclusioni irrecusabili, ed oltre ai paesi di destinazione, potemmo offrire un saggio delle parziali cifre delle provincie del regno.

Tra i nostri emigrati trovammo uno sciame di fanciulli diffusi pel mondo e venduti. Il Parlamento con una legge ne ha proibita la tratta: credemmo utile di render popolare il concetto della legge, ricordando questa pagina di vergogna italiana.

Appurate le cifre, bisognava studiare il processo della emigrazione, e tessere una storia di fatti, non tutti noti,  né finora veduti nell'insieme. Sul sentiero della nostra quistione trovammo traditi e traditori, colpe ed indifferenza, e miserie ignorate. Ci piegammo a raccogliere ad una ad una queste spine sociali e ne componemmo un fascio, perché se non tutto il paese guarda le carni lacerate da esse, ne saprà almeno il numero e le punte.

E quindi domandammo se questa lodata emigrazione fosse un bene od un male per la patria, un bene od un male perl’individuo. La rassegna delle cause e degli effetti, delle condizioni della terra italiana, de' suoi rapporti con la popolazione, del lavoro e del danaro che esce, e delle somme che vengono, la qualità delle persone, la durata dell’espatrio; tutto questo ci trasse a conchiudere che la emigrazione italiana sia un male per la patria. Come del pari conchiudemmo che sia un male per l'individuo, dopo uno studio sui climi delle regioni ove si va, sulla fortuna che si procaccia, sui vantaggi morali che se ne traggono.

Su questa via di spine era ben naturale di ricercare con quale attitudine vi fossero passati il governo ed il paese, se a piedi nudi o con calzari di piombo, se fuggevoli, o sé fermandosi, se con cinica indifferenza o coi sentimenti del dovere e della carità.

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Ma accanto agli sconci esprimemmo i desiderii; e così per naturale successione d'idee venimmo alla proposta dei mezzi che, secondo noi, debbono ordinare e tutelare l’emigrazione italiana. Nemici delle vuote filippiche, volemmo concretare il lungo esame in poche proposte, tendenti a riparare ai mali deplorati con misure di severità, conciliabili anzi richieste dai principii dei liberi ordinamenti.

La conclusione ultima del nostro lavoro è: che la presente emigrazione italiana, da qualunque aspetto considerata, sia sempre dannosa. Lo Stato non può  né deve impedirla, perché ha il debito di rispettare la libertà umana. È necessaria però una legge che ne regoli l'indirizzo, ne reprima gli abusi, ne segua, con provvida cura, i movimenti.

Il concetto della legge lo dicemmo; rimane il suo svolgimento pratico, e questo vogliamo qui determinare.

La legge dovrebbe dichiarare esser, d’ora innanzi, la emigrazione italiana all’estero, regolata da un pubblico servizio. Il quale s'avrebbe a fare con tre ufficii nei più importanti sbocchi dai quali si emigra; Napoli, Genova e Torino. Vietare le attuali agenzie che si occupano di spedire emigranti, nonché gli arrolatori per conto di agenzie o compagnie nazionali od estere. Sanzionare pene pei trasgressori.

Prescrivere i doveri degli emigranti e le condizioni per ottenere il passaporto. Definire gli obblighi dei Sindaci. Punire la emigrazione clandestina, e più severamente se di renitenti. , disertori, accusati o condannati.

Rendere obbligatoria, con opportune circolari, la dimanda di estradizione nei casi previsti dai trattati internazionali. Promuovere nuovi accordi per la consegna dei renitenti e dei disertori emigrati, poiché i trattati esistenti tra l'Italia e le potenze amiche non ammettono l'estradizione per questi reati, che si considerano come politici.

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Colpire i capitani dei bastimenti per l’aiuto che essi prestano ai clandestini. Agli armatori ed ai capitani dettar norme per. la ricezione degli emigranti, e pel trattamento durante la traversata.

Prescrivere ai Regii Consoli all'estero di raccogliere esatta e progressiva statistica degl'italiani che arrivano in ogni distretto consolare o ne partono; e di inviare al governo, a brevi periodi, un rapporto statistico di questo movimento.

Questa legge dovrebbe riconoscere la costituzione delle Società di Patronato con gli scopi da noi svolti, e dichiararne la necessità nelle tre sedi ove proponemmo stabilirsi un ufficio di emigrazione. È un debito che, speriamo, il paese voglia splendidamente pagare.

Inoltre, il governo centrale', raccogliendo e coordinando tutti gli elementi statistici mandati dagli ufficii di emigrazione e dai consoli, dovrebbe compilare una statistica annuale della emigrazione italiana all'estero e dei ripatriati; tenendo conto del numero, del sesso, delle età, delle professioni, dei capitali, della istruzione.

Ecco in breve lo sviluppo delle proposte che noi presentiamo al giudizio dei savii. Le abbiamo anche formulate in uno schema di legge, che sottoporremo, con separata pubblicazione, alla benigna considerazione del governo.

Da ultimo, facciamo voti perché la inchiesta agraria, maturata da parecchie commissioni parlamentari, venga non fra due anni, ma in tempo possibilmente minore, attuata, certi come siamo, che i suoi risultati toglieranno molte illusioni, e ispireranno importanti riforme. Niuno ignora i salutari effetti che l'enquête agricole produsse in Francia sotto l'ultimo impero. Non è una quistione da differire o da negligere. Essa vuol dire la ricchezza o la miseria del paese; la quiete, o il focolare dei pubblici rancori.

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È agevole il comprendere, che le riferite proposte, non contengono forse tutt'i provvedimenti che bisognerà adottare; ma ili esse vi ha i concetti fondamentali espressi nel corso dei nostri studii, e razionalmente suggeriti dai inali che la pubblica opinione lamenta.

Nompertanto, se le medesime non andranno a garbo di chi ne sa più di noi, le si emendino, si combattano, si respingano pure, a patto che si sostituisca ad esse qualche cosa che attesti come questo paese non dorme sui suoi mali,  né si limita a deplorarli con la nenia impotente, ma ha cuore ed energia per apprestarvi rimedio.

In quanto a noi, abbiam la coscienza di avere studiata una grave quistione sociale, e se questo libro richiamerà sul suo tema l'attenzione di alcuni, se qualche nostro suggerimento verrà accolto dal governo e dal paese, noi ci terremo paghi e compensati largamente della fatica durata.

E con questa speranza tolghiamo commiato dai nostri lettori, ringraziandoli vivamente se per avventura ebbero la pazienza di seguirci nel lungo cammino, ed auguriamoci di vivere gli anni che ancora avanzano alla. nostra generazione, spettatori non delle miserie, ma della prosperità della patria. Avventurati tra noi quelli che alla sua grandezza possano contribuire coi tesori dell'intelligenza; ma debitori siam tutti alla gran madre comune di affetto operoso, alla cui gara è confidato l’avvenire del popolo italiano.

 

NOTE

Nota al Capo IV.

A pag. 74, linea 20—Dicemmo che la cordigliera delle Ande, si protrae per 14 mila kilometri. Dichiariamo di aver tolta questa misura dal libro di Chevalier «Le Mexique». Nondimeno essa ci pare esagerata, poiché i geografi concordemente fanno ascendere a 14 mila e 200 kil. la lunghezza di tutte le due Americhe.

A pag. 86 ultime linee. — Intorno alla popolazione delle cinque parti del mondo sono così discordi i geografi, che, a seguirli, ci vorrebbe un lungo esame. Le cifre, che riportammo, dell'Hiibner, crediamo che sieno le meno inesatte, tranne per l’Africa, ove gli abitanti non arrivano ai 100 milioni.

Intorno alla superficie, crediamo bisognerà moltiplicare 16 volte il miglio quadrato tedesco, per ottenere la cifra delle miglia quadrate che il Balbi, il Marmocchi, il De Luca e molti altri geografi, attribuiscono al pianeta che abitiamo. In fatti l'Hiibner dice: geografichen meilen quadraten, e non già deutschen meilen. Dunque egli parla di miglia geografiche quadrate, e jion di semplici miglia tedesche.

Nota al Capo VII.

A complemento di quanto dicemmo da pag. 160 a 164, siamo lieti di pubblicare il testo della legge che il Congresso degli Stati Ùniti ha testé votata per l'abolizione della tratta dei fanciulli:

«Art. 1°— Chiunque scientemente e deliberatamente porterà agli StatiUniti, o «nei territorii di questa Repubblica, persone sedotte o rapite in qualsiasi altro paese, collo scopo di tenerle in esilio od in servitù involontaria, e chiunque scientemente o deliberatamente venderà o farà vendere in qualsiasi vaso in servitù involontaria persone cosi vendute e comprate, sarà ritenuto colpevole di fellonia, e se convinto, sarà condannato alla pena del carcere per la durata di tempo non maggiore

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di 5 anni e multato per una somma non superiore ai 5,000 dollari.

«Art. 2°—Chiunque, sia prima che dopo il fatto, si presterà alla perpetrazione di uno dei detti sopra dichiarati, sarà ritenuto colpevole e se convinto verrà imprigionato per uno spazio non oltre i cinque anni e condannato ad una multa non al di sopra di 1000 dollari».

L'Italia che riparò con la legge 18 decembre 1873 a questa che era per noi vergogna nazionale, deve esser grata al Congresso di Washington il quale ha nuovamente attestata la solidarietà dei popoli nella unità della legge morale e nel sentimento del bene.

Nota al Capo VIII.

Da pag. 218 a 220 parlammo della concessione accordata dal governo Brasiliano al generale Franzini, e riportammo i due contratti che chiarivano la mente di quel governo ed i propositi della compagnia.

Pria di chiudere questo libro, un amico, che ci avea procurati i detti documenti, ci scrisse da Parigi che il generalo Franzini era da qualche giorno in potere della giustizia. Cercammo più precise notizie del fatto, ed ecco quel che leggemmo nel Piccolo Giornale di Napoli del 1° luglio.

«Lo Standard di Londra annunzia l'arresto di Michele Maria Franzini la cui estradizione era stata chiesta dal governo francese. Egli è accusato di avere quando era ricevitore delle finanze francesi profittato di somme appartenenti allo Stato e falsificato i libri. Michele Maria Franzini, si dice oriundo di Napoli, e scriveva a Londra sulle sue carte di visita, antico generale nell'esercito francese. Armato di questo titolo egli aveva ottenuto dall'imperatore del Brasile e dai suoi ministri la concessione di una estensione di terra nel Brasile vasta quanto la Francia, più un sussidio di 600 franchi per ogni colono che vi porterebbe. Il generale Franzini era andato a Londra e vi aveva organizzata una società per la formazione della nuova colonia; di cui si vedeva già re, e sui prodotti della quale spendeva e spandeva già con una liberalità principesca.

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Il Franzini era stato sottouffiziale nella legione straniera, aveva ottenuto l’uffizio di percettore di finanza nel 1859; allo scoppiar della guerra del 1870 diventò comandante dei mobili all’Alta Savoia. A Digione pare che non avesse voluto marciare contro il nemico. Il processo di lui sarà curioso perché rivelerà le peripezie di questo avventuriero. »

Noi non aggiungeremo parola intorno ad un uomo di cui si occupa la giustizia. Del resto i lettori avran notata la riserva con cui parlammo di quell’ardita intrapresa, e si persuadano gl'italiani a discuterli lungamente, pria di accettarli, gl'inviti americani, quanto più lusinghieri.











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