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FRANCESCO GUARDIONE

IL DOMINIO DEI BORBONI IN SICILIA dal 1830 al 1861

IN RELAZIONE ALLE VICENDE NAZIONALI CON DOCUMENTI INEDITI (VOL. II)

SOCIETÀ TIPOGRAFICO EDITRICE NAZIONALE -TORINO, 1907

(3)


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CAPITOLO DECIMO.

Documenti..................................................................................429

CAPITOLO UNDECIMO.

Documenti..................................................................................481

CAPITOLO DUODECIMO

Documenti..................................................................................568

CAPITOLO DECIMOTERZO

CAPITOLO DECIMOQUARTO

CHIUSA DELL'OPERA

BIBLIOGRAFIA

INDICE ALFABETICO DEI NOMI DELLE PERSONE E DEI LUOGHI

INDICE


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Agosto 2013

CAPITOLO DECIMO.

Del Comitato d'insurrezione in Palermo istituito da Garibaldi — Dell'arrivo in Palermo di armi, del Fabrizi e del La Farina — Costituzione del Governo — Spedizioni varie del Migliavacca, del Malenchini, del Medici e del Cosenz — Diserzione del Veloce — Contrasti politici e l'arresto di Giuseppe La Farina — Missione diplomatica degl'inviati di Sicilia presso le Corti di Torino, Parigi, Londra — Lettera del Persano: manifestazioni rivoluzionarie nel Napoletano — Il De Martino plenipotenziario di Francesco II a Parigi — La costituzione largita da Francesco II, il nuovo Ministero in Napoli — Le opinioni della stampa napoletana — Atti del Governo regio in Sicilia dal 4 giugno al 13 luglio — Stato d'assedio in Napoli — Risposta de'  Ministri all'Atto sovrano — Proclami di Francesco II a'  Regj Stati e all'esercito — Il proclama di Liborio Romano — L'ordine del giorno del generale Pianell — Proclama agli abitanti della città di Napoli — Il generale Medici alla Provincia di Messina — Il Sirtori assunto temporaneamente alla dittatura — Garibaldi alle donne di Palermo — Garibaldi da Patti a Barcellona al campo di Meri — Un ordine del giorno del Bosco emanato dalla cittadella di Messina e prodromi della battaglia di Milazzo — La battaglia — La capitolazione — Le convenzione del Medici e del Clary per Messina — Entrata di Garibaldi in Messina — La prodittatura — Lo Statuto piemontese — La politica del conte di Cavour.

Il generale Garibaldi, il di 27 maggio, preso possesso di Palermo, dalla Fieravecchia alla piazza Pretoria, sebbene la città fosse ancora sottoposta ad assedio, stabili un Comitato generale d'insurrezione per la guerra, per la finanza, per l'annona, per le barricate e per l'interno, che doveva dipendere dal dittatore. Una baraonda di comitato, composta di 40 individui, nel maggior numero inesperti d'ogni arte di governo, solo di molta pretensione per la conquistata libertà, quando la più parte di essi aveva, dopo tanto fervore, tanto corrispondere cogli emigrati e tante lusinghe, abbandonato a sè stesso, dalla notte del 3 aprile, il popolano Francesco Riso (1), fuggendo per iscampare il pericolo della rivoluzione, anche il minimo di un arresto di giorni.

(1) Ettore Socci ci chiese notizie del popolano, rendendo bella e riverita la memoria di lui nel volume Umili eroi della Patria e dell'Urnanitdy che comprende i tanti forti rimasti oscuri ingiustamente. Si veda il volume predetto, pag. 200 206. Milano, Libreria Editrice Nazionale.

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Dal di 4 giugno le forze regie si erano concentrate in Trapani, in Termini, in Milazzo e nella cittadella di Messina, nell'intento di poter marciare sopra Palermo. Il giorno 7, come abbiamo notato nel capitolo precedente, era cominciato lo sgombro delle forze dalla città e dal palazzo Reale (1), e in quello stesso giorno, Nicola Fabrizi, condotto dal Castiglia, sbarcava in Pozzallo con 1500 fucili e munizioni, e il La Farina compariva in Palermo. La rivoluzione procedendo anche tra gli entusiasmi e gli errori, invocava ordini di governo; e Garibaldi, considerando la necessità di essi, scioglieva il numeroso Comitato, istituendo una segreteria di Stato con sei dicasteri. Ebbero nomina il Giordano Orsini per la guerra, il Guarneri per la giustizia, l'Ugdulena per l'istruzione, il Pisani per gli affari esteri e pel commercio, il Crispi per le finanze e per l'interno; a quali si univa Benedetto Travali, come capo del Segretariato Generale per le Segreterie di Stato, pratico ne' maneggi di governo; avendo tenuto nel 1848, con probità il Protocollo del Consiglio (2). Questi nomi avevano qualche valore, o per la coltura, o per essersi affaccendati ne' momenti che il Governo de'  Borboni cedeva all'uragano della rivoluzione, spiccando su tutti l'ultimo, giudicato troppo severamente, in bene e in male, prima e dopo. In que' momenti pare che il Garibaldi non avesse voluto scegliere nome di maggior prestigio a quello di Francesco Crispi; poiché al cospiratore voleva si unisse ora la fama dell'uomo di governo, specialmente dopo l'accenno dato a Salemi col decreto della dittatura.

Si decretavano in principio, con sensi di umanità, le sorti degli orfani e delle vedove orbati dalla perdita de'  congiunti, morti nelle patrie battaglie.

(1)«La piazza reale ed adiacenze erano stipate di soldati in colonna serrata e noi abbiamo tirato un velo intorno a loro da porta Felice al Palazzo. Lo stato nostro è ben misero. Il primo battaglione non ha più di 130 uomini con fucili, ed il 2° 260; il rimanente sono venduti o rubati! Questa è la disciplina dei soldati davanti a cui almeno 18 mila uomini si ritirano da Palermo! Il tutto, di combattenti armati non sommerà a 3 mila! magia della rivoluzione e tesoro d'odio che le truppe regie hanno seminato con tanta devastazione, incendi e rapine e stupri! Se però una di queste notti ci ravvisano, guai a noi! che non sappiamo dopo tanti anni di Governo lo stato nostro, e la poco robustezza dei Picciotti è quasi incredibile!» (Bixio in Guerzoni, op., citata, pag. 206; Firenze. Barbèra, 1875).

(2) Nominato poi Direttore del Tesoro nelle Province siciliane, Ruggero Settimo, che tanto lo pregiava, cosi gli scriveva da Malta il 22 febbraio 1863: «Signore Pregiatissimo per la debita etichetta, Mio caro Travali per inclinazione... Godo e non poco di sapervi contento della vostro posizione che la dovete in sostanza al vostro merito, ed a quella onoratezza che tanto vi distingue, e che io son lieto di aver saputo apprezzare nel 48».

— 401 —

E Garibaldi, dando con tale decreto un elevato concetto del soldato, additandolo come nobile cittadino, faceva riconoscere niuno poter essere tanto sacro a una Nazione quanto i figli e le vedove di coloro che avevano sacrificato la vita per la libertà e la indipendenza patria (1).

Altri atti politici di non lieve conto, emanati in que' giorni di frastuono (2), furono una serie di decreti concernenti la milizia divisa in tre categorie, la istituzione di un governatore in ciascuno de'  ventiquattro

(1) Italia e Vittorio Emanuele.

GIUSEPPE GARIBALDI

Comandante in capo le forze nazionali in Sicilia,

«In virtù dei poteri a lui conferiti

Decreta

«Art. 1. — I figli dei morti in difesa della causa nazionale sono adottati dalla patria.

«Saranno educati e nutriti a spese dello Stato, se donne sino agli anni sedici, se uomini sino agli anni diciasette.

«Giunte le donne agli anni sedici avranno una dote conveniente alla loro origine da consegnarla tosto che prenderanno marito. Gli uomini agli anni diciasette non saranno più a carico dello Stato; agli anni ventuno avranno un capitale pure conveniente alla loro origine.

Art. 2. — Le vedove dei morti in difesa della causa nazionale avranno una pensione conveniente al loro stato. La pensione durerà Binché si manterranno in vedovanza.

«La stessa pensione è accordata alle vedove dei tredici individui che subirono la fucilazione nel giorno 14 aprile 1860.

--- I loro figli vanno compresi nella disposizione dell'antecedente articolo.

«Art. 3. — Tutti coloro che in causa di ferite riportate, battendosi in difesa della patria e della causa nazionale, resteranno storpi o mutilati o inabili al lavoro cui prima erano addetti, saranno accolti in apposito ospizio e mantenuti dallo Stato.

«Art. 4. — Il segretario di Stato dell'interno per l'esecuzione del presente Decreto.

«Palermo, 6 giugno 1860.

«Il Dittatore: G. Garibaldi

«Il segretario di Stato dell'Interno F. Crispi».

(2) Queste parole, altamente vere, scrisse Pietro Fauché nel libro, pag. 63, Giambattista Fauché e la Spedizione dei Mille (Roma-Milano, 1905):

«Dopo i felici eventi di Sicilia, la capitale di quell'isola fu invasa da uno sciame di gente venuta da ogui dove, colla speranza di godere qualche cosa. I timori, le ansie, le titubanze, l'incredulità erano spariti per dar luogo a sentimenti opposti. Molti arrivavano in Palermo colle tasche piene di raccomandazioni; si aspirava a gradi, ad impieghi; si facevano valere i propri meriti, i propri diritti».

— 402 —

distretti dell'isola per la rappresentanza dello Stato (1), il ristabilimento in ogni Comune del Consiglio e di tutti i funzionari esistenti nel 1849, pria della occupazione borbonica, escludendo dai consigli civici e dai corpi del Magistrato municipale i giudici comunali, gli agenti della amministrazione publica e tutti coloro che avevano favorito la restaurazione borbonica, o esercitato ufizj publici di nomina del Governo caduto, e che, notoriamente, si opponevano alla redenzione patria (2). L'ultima parte di questo decreto, che, fedelmente, si atteneva a un disposto della rivoluzione di Francia, era ispirato da livore, da partigianeria, non da senno politico; imperocché le rivolte non possono né devono offendere gli altrui convincimenti; né il generale Garibaldi aveva concesso svolgimento alla libertà, imponendo un programma, un motto, che restringeva in principio lo svolgersi libero delle idee: un programma, che, allargandosi per soli interessi dinastici, ripetendo la politica nefasta del 1848, strozzava la rivoluzione, concepita profondamente, calpestando i patti di Zurigo.

Garibaldi in Sicilia fu creduto l'uomo mandato dalla provvidenza pel riscatto di un popolo, conculcato ne' suoi diritti. Le plebi, sempre schiave adulatrici e vigliacche, corsero dietro a lui inneggiandolo, e pareva che al suono degli inni patrj si volessero rinnovare. Il Garibaldi, che nutriva odio terribile per il papato politico e religioso, né aveva credenze cattoliche, soggiogò la plebaglia, col tenersi accorrente ed ossequioso in chiesa, udendo sermoni, ricevendo benedizioni, carezzando con amorosi detti i preti buoni.

Fu creduta necessaria la finzione; ma noi, dissentendo dal crederla col Machiavelli una finzione politica d'opportunità, considerando, invece, che un popolo non può assurgere a libertà, senza schivare le ipocrisie,

(1) Con saviezza il Dittatore nominava 24 governatori; ma essi invece ordine arrecarono il disordine e l'anarchia; poiché si avvalsero della propria autorità per consumare vendette antiche, proteggere amici, perseguitare nemici; travolgendo così città e comuni nelle lotte sanguinose di partiti, assai funesti ad un popolo, che sorge per abbattere la tirannide principesca.

(2) «Più inopportuno e funesto ancora fu il decreto che richiamò al loro posto le autorità governative del 1848 con quelle eccezioni che, potendo essere arbitrariamente interpretate, aprivano il campo agli odi privati, alle vendette, agli abusi di ogni maniera. Quel decreto, paralizzando d'un tratto l'azione degli attuali governanti, spingeva la Sicilia nell'anarchia, e dava luogo ai partiti di famiglia, ai livori tra i nobili ed il popolo, e finalmente formava la fortuna dei tristi e la sventura dei buoni secondo gli umori delle popolazioni, gl'intrighi dei municipi, la corruzione facile nei paesi guastati dalla tirannide. Oddo, I Mille di Marsala, Milano, Scorza, 1863.

— 403 —

 senza condannare le superstizioni, ci asteniamo dal lodarla (1). Il popolo di Sicilia usciva da un servaggio secolare, peggiore degli altri Stati, perché isolato; ed esso aveva il bisogno di concepire la rivoluzione delle idee, per non rinnovare gli atti plateali e sinistri del 1848, in cui ebbero predominio al Governo uomini pregiudicati da concetti aristocratici, che ambivano il potere, non per il principio di libertà, ma per guerreggiare il Governo di Napoli, per gl'istinti municipali, condannati con severità di giudizio dal Gioberti nell'Apologia al Gesuita Moderno. Nel 1860 Garibaldi diede larga mano agli uomini del 1849; fu cortese alla politica piemontese, anche dimostrandosi fiero avversario, usando acrità di espressioni.

L'uomo di governo, che nelle azioni non ebbe giammai parte minima, né se ne vantò, né l'avrebbe potuto, senza muovere il riso, più abile, sgombrate le soldatesche borboniche da Palermo, fu ritenuto il Crispi, abbenché egli niuna traccia avesse lasciato nel 1848, avendo assunto due volte la carica di segretario ed entrato in Parlamento sul finire della rivoluzione. In lui, tenacemente, furono conservati i difetti de'  politici del Quarantotto, che le faccende difficili di Stato credevano risolversi cogli atteggiamenti oratorj, con le tinte e le gesticolazioni della vecchia scuola politica. Nel Crispi l'ingegno non mancò; ma egli, povero di dottrine, o giuridiche, o letterarie, o storiche (2), non potè avvalersi che di superficialità, che, spesso, per la pompa della dicitura, scossero i più deboli, scossero que' gregarj e ammiratori schiavi, o stipendiati, usi ad ammirare, in uomo idoleggiato,

(1)  Il 15 luglio Garibaldi, dopo avere assistito al molo di Palermo all'imbarcazione de'  soldati, che partivano alla volta di Barcellona, alle ore 11, in camicia rossa, cappello alla calabrese e foulard a cappuccio, li recò alla cattedrale. Al suo venire il popolo applaude, l'arcivescovo «i dignitarj si genuflettono; indi, sotto l'ombrello rosso, guidato dall'arcivescovo, è condotto al trono, ove si asside alto su tutte le potestà ecclesiastiche, ivi convenute, ed eseguendo esattamente il cerimoniale, assiste alla messa solenne.

(2)  Gli Scritti e discorsi politici (Roma, Unione Cooperativa Editrice, 1890), costituiscono fino ad ora l'eredità intellettiva di Francesco Crispi; ma nulla di profondo in essi, né possono assicurare fama allo scrittore, per la storia, o per la politica, molto meno per le questioni giuridiche. L'acutezza è da ammirarsi; ma essa non acquista valore qualora manchino quelle rare virtù della dottrina, che fanno eccellere il raziocinio. XI Presidente del Ministero interessava non essere ricordato soltanto per fe' politica del giorno; ma, a divulgare il nome come scrittore sono necessarie opere che non siano i brevi scritti funebri o di cospirazioni. E' meglio sarebbe stato diminuire la mole del volume; correggendo cosi il Crispi gl'istinti di altri scrittori di professione, che, in grazia della stima goduta, credono che una filza di polemiche cucite e riunite in volume desteranno l'interesse de'  posteri!

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anche la stranezza, a santificare Terrore (1), le insufficienze e le ambizioni, fino a credere che egli fosse stato il promotore della Spedizione, senza giudicarlo di aiuto efficace nell'avere determinato con altri il generale Garibaldi (2). Con tali norme la Sicilia istitui nel 1860 il Governo: le opere popolari si ridussero all'ammirazione di Garibaldi e alle vendette, fino allo spargere del sangue.

(1) E santificarono pure un errore assai grave, consumato dal Crispi, poco prima di scendere nel sepolcro. Scrisse, turbando le coscienze, che celebravano, in Torino, il primo centenario della nascita di Vincenzo Gioberti, facendo eco di plauso e di ammirazione tutte le città d'Italia, che Pier Dionigi Pinelli, dopo la battaglia di Novara, avesse ricevuto una lettera del sommo filosofo e scrittore, nella quale, credendo necessario il ritorno al governo assoluto, proponeva l'abolizione dello Statuto Albertino. Affermazione sleale, avendo sostenuto il Crispi, che ciò si leggeva in lettera del Gioberti, posseduta dal Senatore T. Pinelli, nipote a Pier Dionigi. Il quale, con animo onesto, scrivendo al Direttore della Gazzetta del Popolo, in Torino, diceva: « non intesi però mai, né intendo confermare l'esistenza di una lettera scritta da Vincenzo Gioberti, da me fino al giorno d'oggi assolutamente ignorata, e neppure la verità di un suo consiglio, del quale personalmente, e neppure per memoria di famiglia mi è risultato mai, e non mi risulta». A smentire dippiù l'ingiuria atroce, La Stampa di Torino publicava una lettera dei Gioberti, inedita, datata del 1852, diretta a Giovacchino D'Agostini, in cui, morto il Pinelli, il Gioberti accennava a tutt'altro che a'  deliri del Crispi, che miravano ad insozzare un grand'uomo. — Cosi dal 184£ ad oggi bì sono travagliati i patrioti ad educare le generazioni novella; e mancata la riverenza ai sommi, senza guardare in essi l'indole politica, la gioventù rinnegò ogni sacro affetto, dieprezzando gli estinti, che pur fecero in parte la grandezza d'Italia. Oh la storia!

(2) L'Italia del Popolo, il 25 gennaio 1895, n. 1658, sugli errònei giudizj del Times, bizzarro e bugiardo nel rilevare uomini ed avvenimenti, scrisse l'articolo L'ha pagato del suo? da cui togliamo un brano che può giustificare le inesattezze de'  tempi presenti: …........................................

…..............................................................................................................

Alla quale partecipazione di Crispi all'impresa di Garibaldi, quest'ultimo, nel suo volume di Memorie, dedica una riga su cinquecento pagine, e il signor Stillmann dedica una pagina su sei della sua Rivista, per raccontarci che, Garibaldi non conoscendo il paese, Crispi era tutto, e da lui solo Garibaldi traeva consiglio: anzi lo volle fare suo sottocapo di Stato maggiore (perché non capo?) e colonnello dopo la disperata battaglia di Calatafimi.

Una volta sola Garibaldi non volle saperne del consiglio del colonnello Crispi, ma male gliene incolse. Leggere per credere:

«Crispi prese una parte attiva in tutte le operazioni (di guerra).  L'obbiettivo immediato del movimento era Palermo, e quando l'esercito garibaldino toccò Monreale, dove il nemico aveva preso una forte posizione difensiva alle porte della città, Garibaldi, colla solita sua audacia leonina, decise, secondo l'opinione di Crispi, di averla per attacco diretto. L'attacco fu respinto e fu adottato il piano di Crispi, di girare le difese di Palermo e attaccare dalla parte opposta».

Sicché, dunque, non solamente Crispi ha fatto lui la spedizione di Sicilia, ma se non era pe' suoi talenti strategici, quella che fu un'impresa fortunata diventava un disastro.

— 405 —

Alle forme assolute di reggimento subentrava un concetto demagogico, che si prefiggeva piuttosto favorire gl'interessi monarchici; e perciò dalla stessa democrazia, ora adulatrice, le ire più grandi contro il Mazzini e contro coloro, che, con alte idee, ne seguivano l'apostolato. Non riponendo piena fiducia il Dittatore sugli eletti al Ministero, ne rinnova le nomine, credendo meglio avessero potuto giovare al Governo Vincenzo Giordani Orsini, riconfermato alla guerra e marina, Gaetano La Loggia all'interno, Luigi La Porta, alla sicurezza publica, il Padre Ottavio Lanza al culto, il barone Giuseppe Natoli agli affari esteri e al commercio, Gaetano Daita all'istruzione, Francesco Di Giovanni alla finanza, Filippo Santocanale alla giustizia. Un Ministero di nomi poverissimi, la più parte oscuri, de'  quali, tolto qualcuno che aveva toccato' l'esilio, e altri anche la durezza della prigionia, niuno aveva fama se non se per avere insegnato o le regole della gramatica, o cantata la messa, o gridato nella curia, o tastati polsi nelle cliniche; e tra gli stessi, rappresentanti il Governo della rivoluzione, non pochi avevano disertato le file della congiura la sera del 3 aprile, lasciando nella desolazione gl'infelici ed onesti operai, che volsero i petti alle mitraglie regie, sempre combattendole; senza fuggire, morendo senza lasciare grave scandalo, ma le parole più alate per inneggiare la memoria loro!

Non basta, non basta. Il signor Stillmann, che si professa intimo di Crispi e quindi prende le sue notizie dove si deve, aggiunge:

«L'organizzazione della spedizione dei Mille, cosi come la concezione u fu interamente opera di Crispi».

Da quel che è detto sopra, anche l'esecuzione, la strategia, lo studio del terreno fu opera di Crispi. 0 allora che cosa resta di Garibaldi? Saremmo stati tutti mistificati? Il vero Garibaldi sarebbe Crispi? £ notate che il signor Stillmann contesta ogni favore di Cavour alla spedizione. Dice che questi e la Corte vi si opposero accanitamente:

Cavour segui il movimento rivoluzionario con implacabile ostilità: u era cosi opposto il regio governo a tutto il movimento, che la spedi«zione, per evitare la guardia che le si faceva, dovette evadere con m stratagemmi, e andò debitrice col ministro inglese signor James Hudson, u degli aiuti ed incoraggiamenti che le rifiutò Cavour».

Fin qui s'era creduto che l'Inghilterra non avesse avuto sulla spedizione di Garibaldi (pardon... di Crispi) che della buona influenza; ecco invece che è un suo inviato quello che ha dato i denari.

Non è vero che è uno storico sbalorditorio il signor Stillmann, incaricato di illuminare l'Europa e l'America sul conto di Crispi?

Dice, continuando, che nel 1859, dopo le dimissioni di Cavour, il Crispi si decise a venire da Londra in Italia (manco male, la guerra del 1859 non l'ha fatta lui e non è stato lui che ha vinto a Solferino e a San Martino!) e qui si diede a organizzare la spedizione dei Mille.

— 406 —

Libera Palermo dalla forza de'  Borboni, mandava saluti affettuosi e parole d'incoraggiamento alle città sorelle, perché, ora insorte, combattessero fortemente (1); ora che la Sicilia non aveva difetto degli aiuti invocati; ora che lo sdegno contro la monarchia aveva invaso i petti del popolo. Garibaldi il di 15 giugno dirigeva la parola con proclami a'  Cacciatori delle Alpi e a'  Siciliani; e se a'  primi, calorosamente, esprimeva: In rango dunque! tra poco voi tornerete agli agi della vita, agli amplessi dei vostri cari, alle carezze delle vostre donne. In rango tutti i soldati di Calatafimi, e prepariamoci ad ultimare l'opera magnifica che abbiamo cominciato; i secondi esortava col dire: Perseverate nel fermo attaccamento alla causa da voi con tanta gloria abbracciata nella devozione ai vostri capi, nella concordia e nell'ordine interno (2).

Il generale Garibaldi, non credendo sufficiente l'aumentarsi del suo esercito cogli accorrenti di Sicilia, previggente degli ostacoli, premurava in Genova il Bertani per aggiungersi alla prima altre spedizioni (3). Nella nobile e forte Lombardia si era organizzato un corpo scelto di volontarj del 1848-49 e del 1859, messi al comando del capitano Filippo Migliavacca.

(1) Vedi Documenti, I.

(2) Vedi Documenti, II.

(3) Come il Bertani avesse accolte le parole incitatrici del Garibaldi,, si rileva da questa lettera, scritta in quei giorni, da Torino, da un congiunto del Fabrizi, dalla quale ben si scorge il travaglio universale per la conquista della libertà d'Italia.

Torino, 17 giugno 1860.

Mio caro amico, Ho lettere da Malta da Sceberas del 9 corrente. Mi dà nuove di Nicola, che come sai è a Pozzallo (1), fu ricevuto a Pozzallo quanto a Modica con grandi accoglienze: ebbe le armi, le munizioni e quanto aveva imbarcato da Malta. Sceberas mi aggiunge che Nicola gli scrive che ha d'uopo di mezzi organici, che debbono venire dal di fuori; che giungono sempre persone in Malta che si debbono imbarcare per la Sicilia; che vi sono grandi spese per armi che in pochi giorni solo per imbarchi spese duecento lire sterline; che dunque, se I non vogliamo buttare a terra ogni cosa, mentre tutto va così bene, e I soccorrere con dei fondi. Mi dirigo a te, onde cerchi ogni mezzo di mandarne o farne spedire allo Sceberas, perché altrimenti si troverebbe in un imbarazzo stragrande.

Rispondimi per tranquillarmi.

Addio, ama il tuo aff. mo amico Fabrizi.

(1) Con Nicola Fabrizj era sbarcato a Fozzallo Giorgio Tamujo; ed era par tornato in Sicilia Abele Damiani. Questi, arrestato una prima volta in Palermo nel dicembre del 1853, perseguitato poi in Marsala, come capo di quel Comitato, fu arrestato di nuovo colà nel 1854 insieme al fratello, che poi moriva in carcere nel 1855. Liberato, e implicato nei moti del 1856, poi in quello del 4 aprile, era riuscito a fuggire allora da Palermo, trovando anch'egli asilo in Malta.

— 407 —

A questo corpo scelto di 400 uomini, convocato a Porta Vittoria, nell'Orfanotrofio maschile, così energicamente parlò il Migliavacca:

«Giovani italiani, badate che l'impresa a cui ci accingiamo è stranamente grave e pericolosa! Sacrifizj, stenti e rischi d'ogni maniera ci attendono! La fame, la sete, l'oppressura del caldo e delle marcie, le palle dei nemici. Ponetevi una mano sul cuore! Coloro che a tutto ciò non si sentono preparati sono ancora in tempo a ritirarsi». E le parole furono accolte con calore d'entusiasmo. Seguirono gli altri iscritti.

Incontrati a Pavia i volontarj piemontesi e a Novi gli altri di Pavia, si ridussero tutti a Sestri Ponente. Festosamente lasciando i congiunti, li abbracciavano commossi. Salivano sul Washington una parte di volontarj, Giacomo Medici collo Stato maggiore e gli altri capi della spedizione, il Migliavacca, il Cadolini, il Lombardi, il Picozzi, il Mangili, il Cattaneo, il D'Ondes, l'inglese Pecard: sull'Oregon il rimanente della spedizione. Lasciati i volontarj, sul mattino del dì 10, Sestri Ponente, il giorno 12, in vista di Cagliari, fu gettata l'ancora, rimanendo i battelli per quattro dì in quel golfo, raggiunti da un altro bastimento, che sotto il comando di Vincenzo Mallucchini trasportava i volontarj toscani. Riuniti con gioia i giovani del settentrione e del centro d'Italia, attendevano il muoversi del bastimento L'Utile. Frattanto Felice Cavallotti, giovinetto, con versi ispirati, incitava i compagni al sentimento di libertà e della grandezza nazionale (1).

(1) Sul Washington, il 14 giugno 1860:

Trascorso è già un anno — la bellica tromba

Dall'Alpi allo stretto — di nuovo rimbomba.

Oh come tremante — l'udì lo straniero!

Oh come son forti — le cento città!

Su Italia, su all'armi — quel grido guerriero

Pei figli d'Italia — vuol dir libertà.

Su all'armi, il servaggio — d'Italia finì;

Voliamo alle pugne — dei liberi dì.

O salve dell'Etna — gloriosa contrada,

Che il giogo scòtesti — brandisti la spada.

Fratelli noi siamo — del grande Nizzardo

Seguiamo la voce — che guerra tuonò.

Di lui che guidonne — sul suolo lombardo

Allor che le schiere — dell'Austro fugò.

Su all'armi, — il servaggio d'Italia finì;

Voliamo alle pugne — dei liberi dì.

(Segue)

— 408 —

L'Utile, comandato da Clemente Corte, era partito un giorno prima del Washington e dell'Oregon con bandiera americana; ma esso, nel giungere, la notte appresso, ne' paraggi liguri, all'altezza del capo Corso, nel silenzio di que' mari, anche salpando a lumi spenti, inattesamente, fu sorpreso da un vapore di guerra napoletano, che lo trasportò nelle acque di Gaeta; ove, trattenuto per un mese, dopo non poco soffrire de'  volontarj, tenuti prigionieri, fu rilasciato per le proteste severe del consolato americano.

Altre spedizioni e di sommo rilievo si compivano in quello stesso torno co' Nizzardi, con quella del Cosenz e del battaglione Gaeta. Enrico Cosenz, la cui fama era sì alta nelle gesta militari, per la difesa di Venezia, e per le vicende della guerra del 1859, prima di capitanare la spedizione, aveva diretto a'  suoi compagni d'armi un proclama, rimasto memorando, ricordato da'  biografi di lui e dagli scrittori del risorgimento politico" (1) per il sentimento patrio e per l'onore militare. E davvero ch'egli fu imitato e udito; poiché molti accorsero sotto la bandiera d'Italia, poco curandosi di rendersi spergiuri al re, sotto cui militavano.

Fratelli dell'Etna — gl'italici brandi

Lavata han già l'onta — di giorni esecrandi.

Fuggir del Borbone — l'odiate bandiere

Davanti ai gloriosi — tre nostri color.

Su all'armi di nuovo — s'uniscan le schiere

Dei figli d'Italia — sul campo d'onor.

Su allarmi, il servaggio — d'Italia finì;

Voliamo alle pugne — dei liberi dì

Siam gente lombarda — siam gente comana,

Veniam di Piemonte — d'Emilia e Toscana.

Per mari e per monti — veniamo alla terra

Che il santo vessillo — d'Italia levò.

Dall'Etna al Vesuvio — quel grido di guerra

Farem risuonare — che qui ci chiamò.

Su all'armi, il servaggio — d'Italia fini;

Voliamo alle pugne — dei liberi dì.

Sui campi di guerra — l'Italia è rinata,

L'esosa catena — per sempre è spezzata

Dei popoli, preda — di rabbia esacranda,

Già chiesero al cielo — vendetta i dolor.

E il sangue versato — sull'ara nefanda

Ricadde sul capo — dei fieri oppressore.

Su all'armi, il servaggio — d'Italia finì;

Voliamo alle pugne — dei liberi di.

(1) Vedi Documenti, III.

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Di non picciol conto è sempre da tenersi la diserzione del Veloce, comandato da Amilcare Anguissola, cui, unitamente agli altri, il Garibaldi rivolse il dì 19 luglio, mosso il vapore da Messina per Palermo, queste infiammate parole:

«Soldati e marinai italiani! Voi avete dato all'Italia un nobile esempio, abbandonando il vessillo del tiranno per unirvi sotto quello della Nazione italiana. Con uomini come voi, l'Italia sarà. Quell'Italia che gli stranieri han finora calpestata, e che è stata il ludibrio dei potenti, ed il sanguinoso teatro della loro ambizione, prenderà posto fra le grandi nazioni d'Europa, e farà valere in mezzo ad esse la sua voce. Nessuno verrà più a disputarci questa terra, che cessando di destare l'insultante compassione dello straniero, ne sveglierà l'ammirazione. Voi siete ora della nostra famiglia. In nome della patria io vi esprimo i sensi della più viva gratitudine. Io son pronto a fare individualmente per ognuno di voi e per le vostre famiglie tutto quello di che potrete abbisognare. Se alcun di voi volesse ripartire, il che non temo, avrà i mezzi; se volete rimanere, ciascun di voi sarà riguardato come figlio benemerito della patria». E le parole ardenti furon plaudite da'  capi e da'  marinai; ma non crediamo che l'onore militare sia rimasto illeso nel disertare, anche abbandonando il vessillo del tiranno!

I contrasti politici sorsero quasi a turbare l'avvenire della rivoluzione. Il Garibaldi da Dittatore voleva conservare la indipendenza politica, schivando i republicani che lo circondavano e le male insinuazioni del gabinetto piemontese; ma non determinato il suo programma, oscillante tra la sua fede vecchia popolare e il propugnare un'Italia sotto l'egida reale di casa Savoia, aveva difetto di risoluzioni energiche; né il prestigio, né i poteri dittatoriali potevano frenare tanta diatriba, tanto cozzare d'opinioni, lo scatenarsi d'una tempesta. Non timoroso di offuscarsi l'orizzonte, temeva invece di lui il conte di Cavour, che oramai voleva che le acque del Po, dell'Adige, anzi che scaricarsi nell'Adriatico avessero avuto pace, scaricandosi, nel Tirreno. Pauroso della fantasima republicana, che gli guastava i sonni, volle che un Siciliano, noto come scrittore e patriota, a lui e alla politica subalpina devoto, colla sua presenza, in Palermo, e co' suo' consigli distogliesse i cittadini da mene republicane, affinché facile avviamento avesse avuto il concetto monarchico del Conte, che tosto invocava l'annessione.

Giuseppe La Farina, presidente di quella società nazionale, che rese turpe in sul nascere l'Italia, creando un partito esoso, che fu refugio della gente usa a servire per ambizione d'impieghi e di fasto,

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aveva in Genova rotto ogni legame col Bertani; rifiutatosi di versare le offerte in danaro inviategli pel Garibaldi, credendo che le vicende di Sicilia e un'arrischiata invasione negli Stati della Chiesa, avesse potuto compromettere il Piemonte in faccia alla diplomazia. Consapevole il Dittatore, se ne dispiacque; i republicani non meno; sicché il La Farina trovò in Sicilia molte opposizioni e molti favori in appoggio agl'incarichi ricevuti. Indotta dalle parole del La Farina, la rappresentanza del Municipio, non tardò a presentarsi al generale Garibaldi, per ottenere l'annessione immediata al Piemonte sotto lo scettro di Vittorio Emanuele. Udi il Generale; ma concisamente parlò in guisa da convincere, allegando, ch'egli avrebbe potuto per mezzo di un atto dittatoriale proclamare l'annessione e spingere il compimento di questo fatto; ma l'essersi determinato a combattere per l'Italia, e non soltanto per la Sicilia, facevagli credere doversi parlare di annessione, unificata l'Italia; poiché, compiuta oggi l'annessione della Sicilia, sarebbe stato costretto attendere ordini d'altrove; costretto a ritirarsi dalla impresa nazionale da lui assunta.

La rappresentanza del Municipio, traendo convincimento dal dire di Garibaldi, dimise il pensiero; e cosi la missione politica del La Farina divenne più scabrosa. Egli insisteva a servire il gabinetto piemontese: i Comuni dell'Isola obedivano al Dittatore; non volendo in que' primi momenti sottomettersi ciecamente e senza patto alcuno. Il La Farina perseverò ancora ne' maneggi; e giudicate sue le idee di un proclama di un Trentino, publicato nel Giornale ufficiale, in cui era detto che la Società Nazionale co' suo' denari aveva organizzata la terza spedizione, e che per essa aveva dato quasi un milione, si pensò dal Garibaldi e da'  republicani di allontanarlo dall'Isola, reclamandosi pure, istantaneamente, per sospetti di connivenza, che il Ministro dell'interno si fosse dimesso dalla carica: il che si ottenne.

Ordinata la espulsione del La Farina, il Giornale ufficiale l'annunziava con tali parole: «Sabato 7 corrente (luglio). Per ordine speciale del Dittatore, sono stati allontanati dall'Isola nostra i signori La Farina, Giacomo Criscelli e Pasquale Totti. I signori Criscelli, Totti, còrsi di nascita, son di coloro che trovano modo d'arruolarsi negli uffici di tutte le polizie del continente. I tre espulsi erano in Palermo cospirando contro l'attuale ordine di cose. Il governo, che invigila perché la tranquillità pubblica non venga menomamente turbata, non poteva tollerare ancora tra noi di cotesti individui venutivi con intenzioni colpevoli».

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Parole che toccando pure il La Farina, arrestato con due spie, parvero assai esecrande; e l'atto, compiuto per inclinazione partigiana, fu sinistramente comentato nell'Isola e nelle regioni continentali, ove il La Farina era stimato per la valentia di storico, per la propugnata idea nazionale e per l'attività politica (1). Egli era stato dal principio un componente della Società Nazionale; ad essa aveva aderito Garibaldi, e da essa, negata da chiunque la grande opera del Mazzini sulla spedizione, aveva ricevuto quasi le norme e molti mezzi. Si il Garibaldi che il La Farina di fede republicana, avevano fatto tacere i principj professati per la monarchia costituzionale, credendo soltanto con essa potersi unificare l'Italia. Se non che il Garibaldi, seguendo gl'impeti della rivoluzione, disprezzava gl'intrighi, ritenendoli malefici, delle annessioni, non conquistata Roma; il La Farina, invece, ossequente alla politica del conte di Cavour, travagliato dall'affanno del piemontizzare, aveva compito di dar morte alla rivoluzione, perché la stessa non avesse potuto nuocere alla politica imperiale, cui era accodato il gabinetto piemontese, e da cui dipendevano le sorti italiche, né scuotere altri Stati, che male avevano giudicato la Spedizione, rimasti attoniti alle vittorie del Garibaldi.

Il Dittatore desiderando che il governo di Sicilia, già creduto costituito, riprendesse le funzioni del 1848, ripristinò le legazioni presso le corti di Torino, di Parigi e di Londra, inviando alla prima Emerico Amari, alla seconda il principe di S. Giuseppe, alla terza il principe di S. Cataldo. Si riepilogavano in principio della missione diplomatica le vicende siciliane del 1848 mettendole in contrasto co' nuovi desiderj e colle più recenti aspirazioni politiche. Dice vasi: lo stesso sentimento che ha spinto la Lombardia a salutare con gioia il trionfo delle armate alleate, che l'ha gettata in braccio a Vittorio Emanuele, che ha trascinato la Toscana, le Legazioni e i Ducati a votare spontaneamente la loro unione sotto lo scettro di questo principe magnanimo, il sentimento che infiamma oggi il cuore di tutto un gran popolo dall'Alpi al Lilibeo,

(1) Il La Farina nel Piccolo Corriere scriveva l'articolo «Quarto esiglio» chiudendolo con queste parole: "Il governo de'  Borboni volle togliermi la vita; quello del generale Garibaldi dà più innanzi: all'Italia il giudizio di tanta indegnità; ma è bene però che l'Italia sappia, che divulgatasi la nuova del mio arresto e della mia espulsione, i ministri, che tutto ignoravano, dettero la loro dimissione, che altre autorità seguirono il loro esempio, che fino il direttore del Giornale Ufficiale si dimise per non pubblicare quelle parole calunniose, e che la pubblica indignazione è stata si grande da divenire minacciosa. Questa nuova prova di affetto e di stima, che mi dànno i miei compaesani, è una ragione di più, perché io dopo queste parole, che mal mio grado ho dovuto scrivere, non occupi il pubblico dell'oltraggio che mi venne fatto. (Scritti Politici, pp. 308-313, Tomo ir, Milano, 1870, Tipografia Salvi).

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 è quello stesso che anima la Sicilia (1). Il qual dire escludeva dal far credere che la rivoluzione fosse indipendente dalla politica del governo piemontese; e il Garibaldi, per gli aiuti de'  suoi piccoli uomini di Stato, faccendieri, che vivevano delle reminiscenze fantasiose quarantottiste, cadeva in contradizione, rivelandosi assai chiaro il contrasto tra il non volere l'annessione nella regione meridionale e il ricordo d'avere la Toscana, le Legazioni e i Ducati votato spontaneamente la loro unione sotto lo scettro di Vittorio Emanuele, principe magnanimo.

Il Piemonte, intanto, spediva proteste, giurandosi da'  suoi rappresentanti la nessuna ingerenza da parte dello Stato. E mentre il conte di Cavour si disdiceva e negava, trattando perfino coi modi più convenienti la corte di Napoli, niuna tralasciava premura d'ingrossare le file della rivoluzione e di ordinarla politicamente, allontanando i pericoli di un reggimento contrario al monarchico e que' terrori, non rari in popoli sdegnosi da lunghe oppressioni. Il conte di Cavour vigilava sullo svolgersi delle vicende meridionali, e, occultamente, le soccorreva; né tali aiuti erano respinti dal Garibaldi, mentre accresceva gli odj sul Conte per la cessione di Nizza (2). Sgombrate le truppe regie da Palermo, la rivoluzione si estese nel Napoletano; né i mezzi anche ottimi, prescelti dalla Corte, avevano più influenza sulle popolazioni.

(1)Vedi Documenti, IV.

(2)Importante il documento di una lettera del Persano, publicata prima da la Calobria Nova, nel 1905, dopo da altri giornali. È tratta dall'archivio di Ferdinandea, posseduta da Achille Fazzari, noto nelle vicende patrie calabresi.

«Maria Adelaide, addi 30 giugno 1860. u Mio caro generale. — Sono contento come quattro. Mi viene scritto, da chi è in alto, di dirvi che avete ogni fiducia dalla parte del Re e del suo governo. Vi mando due lettere avute dal signor Brandi, vostro aiutante di campo ed una per colonnello cavalier Vincenzo MalenchinL Scrivo malissimo perché ho male ad un dito, intendetemi per descrizione.

«Sono incaricato di farvi sapere che il signor Gaileno vi spedirà stoffe rosse, scarpe e tela per pantaloni. Il Washington è arrivato a Genova. Cosenz sarà a Cagliari mercoledì, manderò il Vittorio Emanuele per scortarlo. Nel caso aveste bisogno di due cannoni da 80, ma che il bisogno sia reale veramente, son capace di sbarcarvene due dei miei purché sappiate metterli a terra di notte.

«Intanto che io son qua, la difesa la farò io; ma, se dovessi andarmene, due cannoni a bomba non sarebbero i mal venuti. Ci penseremo e ne parleremo.

«Certo che son con voi per la vita e per Vittorio Emanuele Re Galantuomo.

«Piola verrà presto con alcuni uffiziali. Vi è un certo maresciallo X (*) già impiegato d'amministrazione nella nostra marina. E un uomo di mal fare, non fidatevene ed abbiatelo in nota.

(*) Per delicatezza tacciamo il nome. (Nota della Calabria Nova).

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Giungevano con ritardo; né le passate promesse, non sostenute, aggiustavan credito alle novelle. Le Calabrie, le Puglie, la Terra di Lavoro e gli Abruzzi si volgevano al nuovo astro; e se da un canto speravano redimersi a libertà per opera di Giuseppe Garibaldi, da un altro non mancava la propaganda rivoluzionaria de'  partigiani al Piemonte, suggeriti da'  patrioti del piccolo Stato, intesi profondamente ad offendere fino alla rovina il Borbone. Manifestazioni calorose faceva il Comitato sedente in Napoli con tre proclami, ne' quali non v'era difetto di verità da scernersi fra le tante menzogne, che vieppiù avevano studio d'incitare i popoli (1).

Francesco II, in tanta tempesta, non trovava altro scampo di salvezza che nelle concessioni e negli aiuti stranieri; se bene questi ultimi male avesse potuto invocare; poiché la Francia e l'Inghilterra avrebbero tenuto fermo al principio del non intervento. Chiese da Napoleone III il modo d'impedire la invasione garibaldina nelle province della terraferma, incaricando il De Martino, ambasciatore di Napoli a Roma, di recarsi pria a Parigi, indi a Londra, per trattare presso quei gabinetti la questione politica del reame napoletano; ma egli, al suo ritorno, non altro potè riferire dell'imperatore de'  Francesi che i dati consigli di concessioni larghe, con uno statuto simile al sardo e di alleanza col Piemonte, dovendosi considerare il governo de'  Borboni moralmente decaduto.

Francesco, bene accogliendo i consigli imperiali, tralasciò di attenersi alle opinioni contrarie dominanti nella Corte, specialmente propugnate dalla regina vedova, e il di 25 di giugno emanava questo

«ATTO SOVRANO.

«Desiderando di dare ai nostri amatissimi sudditi un attestato della nostra sovrana benevolenza, ci siamo determinati di concedere gli ordini costituzionali e rappresentativi nel regno in armonia coi principii italiani e nazionali, in modo da garantire la sicurezza e prosperità in avvenire, e da stringere sempre più i legami che ci uniscono ai popoli che la Provvidenza ci ha chiamati a governare.

«Forse verranno Sandrè, Marini ed Albini, tutti e tre ottimi e l'ultimo di un coraggio a tutta prova. Col massimo affetto e colla vera ammirazione.

a Vostro Dev. mo C. di Persano.

(1)Vedi Documenti, VI.

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«A questo oggetto siamo venuti nelle seguenti determinazioni:

«1° Accordiamo una generale amnistia per tutti i reati politici fino a questo giorno.

«2° Abbiamo incaricato il commendatore D. Antonio Spinelli della formazione di un nuovo ministero, il quale compilerà nel più breve termine possibile gli articoli dello Statuto sulla base delle istituzioni rappresantative italiane e nazionali.

«3° Sarà stabilito con S. M. il re di Sardegna un accordo per gli interessi comuni delle due corone in Italia.

«4° La nostra bandiera sarà d'ora innanzi fregiata dei colori nazionali italiani in tre fascie verticali, conservando sempre nel mezzo le armi della nostra dinastia.

«5° In quanto alla Sicilia, accorderemo analoghe istituzioni rappresentative che possano soddisfare i bisogni dell'Isola; ed uno dei principi della nostra real casa ne sarà il nostro viceré.

«Portici, 25 giugno 1860.

«Francesco».

E con esso costituiva così un nuovo Ministero: D. Antonio Spinelli dei principi di Scalea, ministro segretario di Stato, presidente del consiglio dei ministri; Commendatore D. Giacomo De Martino, incaricato d'affari presso la corte pontificia, ministro segretario di Stato degli affari esteri; Cavaliere D. Federico del Re, controllore generale della real Tesoreria, ministro segretario di Stato dell'interno e della polizia generale; Principe di Torella D. Nicola Caracciolo, ministro segretario di Stato degli affari ecclesiastici; D. Giovanni Manna, ministro segretario di Stato delle finanze; Marchese D. Augusto La Greca, ministro segretario di Stato dei lavori pubblici; D. Gregorio Morelli, procuratore generale presso la gran corte criminale in Salerno, ministro segretario di Stato di grazia e giustizia; Maresciallo di campo D. Giosuè Ritacci, ministro segretario di Stato della guerra; Retroammiraglio D. Francesco Saverio Garofalo, ministro segretario di Stato della marina.

Alla emanazione dell'Atto sovrano poche furono le esultazioni, e in Napoli e altrove gli animi non si commossero, rinnovando la gioja del 1848. I più retrivi, cólto il momento, lodarono i nuovi ordini, né più ebbero biasimo pel governo piemontese, creduto poco prima causa di rovine. La stampa magnificò l'atto sovrano; ma, da ciò che ella emise sul contegno delle popolazioni, si leggeva con chiarezza come i nuovi disposti

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del giovine re, per le memorie del passato, pe' ricordi di una polizia atroce e per le mene rivoluzionarie, non avessero avute accoglienze liete (1). I cittadini, leggendo l'atto sovrano, con indifferenza, si strinsero nelle spalle: le spietate plebi applaudivano secondo il comando. Umane sorti tentennanti secondo la reità dell'operare, delle coscienze; e nel travolger di esse sempre i più timidi, abbrutiti, calpestano o levano su!

Non avendo più, il governo regio, sede ferma e sicura, i funzionaidi esso o recavano da'  luoghi non invasi dalla rivoluzione le notizie più disperanti, o richiedevano forze per le nuove resistenze da opporre, ovvero si aveva da parte del Ministro ì degli esteri una lenta corrispondenza sulle mosse di vapori e di armati che accorrevano in aiuto in Sicilia. Tali le energie messe in uso da'  primi del giugno a'  giorni vicini alla battaglia di Milazzo (2). E intanto il re fidava ne' suo' rappresentanti, credendoli fedeli e pieni di zelo; non imaginando né la corruzione, né la viltà, né il tradimento; né tampoco che, all'inaugurarsi dello statuto costituzionale, lo stato d'assedio sarebbe stato necessario a frenare le vendette di sangue, consumate con isdegno dal popolo sugli agenti della polizia, che, fatalmente, aveva travolto il trono de'  Borboni, e per essa cadeva (3).

I Ministri del governo costituzionale il primo giorno del luglio rispondevano al re nell'Atto sovrano, dandogli consiglio, che, consistendo uno statuto costituzionale nel diritto publico del regno, non poteva largire che lo Statuto concesso da Ferdinando II (4). Il re, intanto, con alacrità, desiderando che il malcontento cedesse alla rivoluzione, con sommo interesse, rivolgeva un proclama ai suoi Regi Stati e un altro all'esercito «all'armata; dicendo ai soldati che novelle sorti erano chiamate a rialzare la dignità del nostro paese italiano, e tutt'altro, che avrebbe dovuto lusingare soldatesche valorose e fedeli (5). Però quando le sorti napoletane correvano all'anarchia, rinnovando massacri atroci, mostrarono di acquetarsi pronunziata la parola di Liborio Romano, chiamato nel governo costituzionale al Ministero dell'interno e della polizia generale; chiamato per gli ordini politici, per metter freno agli sconvolgimenti, per garantia della corona de'  Borboni.

(1)Vedi Documenti, VII.

(2)Vedi Documenti, VIII

(3)Vedi Documenti, IX.

(4)Vedi Documenti, X.

(5)Vedi Documenti, XI.

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Uomo non risoluto, tentennò nella vita privata e nella publica; nè, co' suoi apologisti, diremo che rimaneva indeciso per le previsioni. Di questo altrove: ora bisogna notare ch'egli si adoperò co' mezzi delle guardie nazionali, finora riunite, ma non reggimentate, a mettere freno nelle plebi e nello sventare congiure della stessa famiglia reale, particolarmente la ordita dal conte d'Aquila, che tendevano alla rovina del re. Così con correttezza adempiva, in principio, all'ufficio assunto (1).

Tra'  Ministri napoletani, assunti al potere costituzionale, mancava l'avvicinarsi delle opinioni, e in que' momenti si può dire questo il danno maggiore che sovrastasse sul capo e sulle sorti di Francesco II; poiché, screditato nel popolo per le antiche e vecchie tradizioni di famiglia, si aggiungeva la poca rettitudine e la discordia ne' consigli de'  Ministri e le congiure degli intimi. Francesco, quasi presago della tempesta che lo avrebbe travolto, non amato dal popolo, non soccorso da'  potenti, sperava nelle forze del suo esercito, abbenché note gli fossero state le viltà e i tradimenti. Credendo che il Ministero della guerra avesse avuto bisogno d'un uomo di qualche valore e d'intenzioni rette, chiama al governo di esso il generale Pianell, assai benvoluto, non poco onorato dalla Corte. Però egli assumeva il Ministero senza propositi energici, e i sentimenti liberali espressi, su' quali a noi spetterà dir chiare parole, in mezzo a tanto rumore, più che una ribellione una rivoluzione, invano avrebbero potuto far rinascere la disciplina, mettendo un argine all'impetuosa fiumana. Il suo Ordine del giorno? ritenuto sincero, offese coloro che, fintamente, inneggiavano gli ordini liberi, desiderandoli, invece, attuati da altra dinastia: turbò i Ministri reggitori degli ordini costituzionali. Rimane a memoria de'  venturi, come documento in que' momenti di pericolo, momenti decisivi (2): propositi, che rispondevano a'  concetti di una riforma militare, che avrebbe potuto arrecare la civile e la politica, consigliate a Francesco II dal 3 aprile dal conte di Siracusa (3).

Ne' primi giorni del luglio il Medici, assunto al comando della Provincia di Messina, muoveva colla sua spedizione per le vie di Termini e Cefalù, per Barcellona, ov'erano riunite le forze volontarie per la battaglia, che, inevitabilmente, si preparava.

Giunto in Barcellona dirigeva due proclami agli abitanti

(1)Vedi Documenti, XI.

(2)Vedi Documenti, XII.

(3)Vedi Documenti, XIII.

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 della provincia di Messina e agl'Italiani dell'armata di Napoli (1). Ambi generosi di sensi; non del tutto giustificabile nelle espressioni del secondo; poiché noi non intendiamo, eccetto che le sollevazioni mirino a un governo di popolo, che la libertà debba conseguirsi esortando agli spergiuri e a'  tradimenti. Egli nulla tralasciò per organizzare le legioni volontarie, si che all'arrivo del Cosenz, poi del Generale Garibaldi, non fecero difetto né i preparativi, né le ricognizioni. I momenti d'una significante azione belligera si appressavano: Garibaldi, rivolta una parola amorevole, ma declamatoria, per colpe attribuite alla cadente dinastia sulla scarsa nutrizione data ai! miseri proietti, alle donne di Palermo, belle gentili e amanti della Patria (2), lasciava, precariamente, la dittatura; affidando il governo provvisorio al Sirtori; coadiuvato da Francesco i Crispi, segretario di Stato. Ne fu data notizia al popolo con questi pochi detti:

«Il Dittatore, essendosi allontanato per pochi giorni da questa generosa capitale, mi ha incaricato di assumere durante la sua assenza le redini dello Stato. Quantunque la missione alla quale son chiamato, sia superiore alle mie forze, pure l'accetto senza esitazione, sicuro di trovare in voi onesta cooperazione, mercé l'obbedienza alle leggi, e quella virtù di sagrificio, senza di cui non si fonda libertà e gli Stati non possono divenire potenti.

«Il Dittatore va a mettersi alla testa del nostro esercito, il quale opera nella provincia di Messina. Ho ferma convinzione che, vincitore fin oggi in tutti gli scontri contro i nemici d'Italia, raccoglierà nuovi e segnalati trionfi.

«Dolente di non poter dividere con lui i pericoli delle vitt cine battaglie, mi conforta il pensiero di potermi dedicare «al ben essere del vostro paese, che per le recenti ed antiche «sue glorie amo con affetto di figlio. Vogliate rendermene facile il compito, con la stessa devozione che sentite per «l'uomo che sono orgoglioso di aver per capo.

«Palermo, 18 luglio 1860.

«Giuseppe Sirtori».

Assunto dal Sirtori il governo provvisorio, Garibaldi il di 19 luglio sbarca, festeggiato, a Patti, con tremila uomini, compresi in essi i componenti del battaglione de'  carabinieri genovesi, comandati dal Mosto, del battaglione della morte, comandato dallo Sprovieri, del reggimento Vacchieri e del battaglione Gaeta.    

(1) Vedi Documenti, XIV.

(2) Vedi Documenti, XV.

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Non trovati al campo di Meri, né il Medici, né il Cosenz, giunti il di 18, allontanatisi per visitare gli avamposti per lo studio delle posizioni, si reca tosto, accompagnato dallo Stato Maggiore del Medici e da' capi di corpo, verso le campagne di Milazzo e di Santa Lucia, ne' luoghi ove gli era facile aver dominio con lo sguardo della pianura sottoposta. Ritorna nel comunello di Meri co' convincimenti di ciò che avrebbe dovuto operare, stabilendo il combattimento pel domani.

Già dal 14 luglio il Bosco aveva emesso il seguente ordine del giorno: «Un battaglione cacciatori della forza di 3629. Una sezione di ambulanza completa di materiale e personale. ' La 13a batteria di campo con otto pezzi di artiglieria. Uno squadrone di cacciatori a cavallo. Cinque giorni di viveri e cinque giorni di foraggi. Somma Ducati 1000 Cassa Militare. Comandante Bosco. 14 luglio 1860». Consegnato l'ordine del giorno con molto riserbo, uscito dalla cittadella di Messina era giunto fino al quartier generale, a Meri; sicché il Garibaldi e gli altri capi delle forze conoscevano i propositi del Bosco, tradito da un addetto alla fortezza.

Il dì 17 luglio a Coriolo, villaggio poco lungi da Milazzo, si compiva, agli avamposti, un fatto d'armi. Enrico Cosenz, a capo la terza spedizione, giunto in quei giorni in Palermo, precedeva al campo Giuseppe Garibaldi, ove importante era il movimento per l'accorrere dei volontarj da Barcellona a Meri e per le mosse delle soldatesche borboniche. Il generale Giacomo Medici, il giorno 16, aveva fatto occupare, dal battaglione comandato dal Guerzoni, Santa Lucia, per respingere il nemico, credendo che questo avesse potuto prendere la via Pace; ma tosto, disponeva altrimenti, accortosi che i soldati borbonici marciavano per altro luogo. Allora il battaglione del Guerzoni, con la sesta compagnia, occupava una cascina del piccolo villaggio, affinché, correndo il nemico per la strada consolare, avesse potuto aprire il fuoco alle spalle, se le legioni garibaldine fossero state assalite al campo di Meri. Il generale Beneventano del Bosco, avuta cognizione di tale movimento, mutò direzione, entrando in Milazzo per la via del villaggio Archi, ove, al trivio, mandò il maggiore Maringh con quattro compagnie di cacciatori, due cannoni e 25 cacciatori a cavallo.

La sera, la sesta compagnia, comandata dal Cianciolo, seguìta, come riserva, dalla ottava, compie una ricognizione, spingendosi, favorita dalle tenebre, fin sotto le mura di Milazzo.

Rispondendo al chi va là delle scolte col grido di viva Garibaldi, scambiate parecchie fucilate, cadde accisa una sentinella regia

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 e fu trovato ferito un ufiziale regio. Levatosi il grido d'allarme, occupate le strade circonvicine da uno squadrone di cavalleria, i volontarj, compiuta la ricognizione, si restituivano in Meri. Il dì 17 si riaccende il fuoco: le legioni garibaldine agli avamposti di Coriolo vengono sorprese; la quinta e la settima compagnia del primo reggimento sono assalite; e le munizioni, i pezzi di artiglieria e il numero possono

Milazzo e dintorni

facilmente sopraffare i militi della rivoluzione; i quali, fortemente resistono per impedire la marcia al nemico, e, rinforzati da varie compagnie, occupano la destra e la sinistra del fiume, le colline soprastanti e i punti più notevoli della strada consolare. Assalito il Maringh da una moltitudine di garibaldini, li respinge, li mette in fuga, facendo 22 prigionieri. Credendosi il Medici attaccato dalla parte d'Archi, riunisce tutte le forze in Barcellona, correndo contro il Maringh; il quale, non potendo più lottare, si ritira in Milazzo, conducendo i 22 prigionieri. Parve questo uno sbaglio sommo al Bosco; e mentre metteva agli arresti il Maringh, per l'abbandono del trivio d'Archi, mandava li in sostituzione il tenente colonnello Marra con sei compagnie del 1° de'  cacciatori, quattro cannoni e 25 cacciatori a cavallo. D'ambe le parti, in quel giorno, s'impegnò un fuoco vivissimo, che durò dalle 5 del mattino alle ore 10, riprendendosi nelle ore del pomeriggio, perché le soldatesche regie assaltarono di nuovo la medesima posizione.

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Si cuoprono di gloria parecchie compagnie del reggimento Malenchini e quattro compagnie di bersaglieri. Alle otto e mezzo della sera tutto è cessato, e il campo è pieno di morti e feriti. Le soldatesche borboniche si ritirano in Milazzo; e il generale Bosco, trepidante che quelle comandate dal Marra, attaccate da maggiori forze, fossero tagliate fuori Milazzo, corre in aiuto con pochi soldati, non parendogli opportuno il torre via dalla città altra forza. Un ordine del giorno del Medici fece comprendere, anzi che a una ritirata del Maringh, a una disfatta! Però in quel primo fatto d'armi compì prodigi la compagnia settima, capitanata dal Maringh, che divise la gloria con la quinta delle legioni volontarie, comandata da Alessandro Cattaneo di Varese, che, dopo essere stato isolato da'  suoi, dopo essersi difeso con bravura, a piedi, contro la cavalleria borbonica, veniva fatto prigioniero. In quel fatto d'armi moriva il giovinetto bergamasco Pavesi, che, lacero dalle ferite, grondante sangue, trasportato al campo di Meri, anzi che rimpiangere la perduta giovinezza, inneggiava entusiasticamente all'Italia e al Garibaldi. Ivi un caporale della quinta compagnia, combattendo da forte, cantava allegramente il ritornello daghela avanti un passo, e una palla gli tronca la vita. Caddero pure in quel giorno il sergente furiere Millefiori e il furiere Vittorio Molinatti; e tanta primavera d'Italia annunziava alle forze nemiche, con la potenza della frase di Tirteo, essere «bello e divino, per l'uomo onorato, morir per la patria, morir da soldato».

Il generale Enrico Cosenz, movendo da Genova, aveva detto in un proclama a'  suoi compagni d'arme: «Io mi rivolgo specialmente ai Pianell, Desauget, Negri, Novi, Ussani. Guillemont e quanti altri mi ebbi compagni nei primi passi della carriera militare, specialmente perché avevano le medesime aspirazioni e gli stessi intenti, e perché lo stesso dolore martellava il nostro cuore, quello cioè di vedere l'Italia, e più Napoli, così basso nell'opinione d'Europa». Intrepido, prima della battaglia, visita i luoghi, rimane grandemente sodisfatto, e loda il Medici, narrando Vincenzo Malenchini avviarsi solo a cavallo verso il ponte di Coriolo, per avere un'idea precisa dell'accanita difesa fatta in quel punto dal Bosco; disprezzando gli avvisi e i timori de'  volontarj livornesi, che, vedendolo sì tranquillo, lo pregavano di tornare indietro, di non esporsi al pericolo. Egli, il Medici e Giuseppe Garibaldi, da Patti, costui giunto al campo di Meri il 19, visitarono i luoghi occupati dalle legioni volontarie e il terreno ove, probabilmente, si sarebbero potute svolgere le azioni belligere.

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Esplorati, il Garibaldi, i luoghi circonvicini a Milazzo, recatosi a Santa Lucia, ritornò al campo di Meri, deciso di attaccare il domani il nemico.

Garibaldi, dal l'ingrossarsi le truppe del nemico in Milazzo, aveva compreso che il generale Bosco intendeva dare una forte battaglia; e veramente questi, anche mancantegli da Messina i soccorsi delle soldatesche da parte del generale Clary, che di 22 mila uomini di guarnigione, recava aiuti con la spedizione di sette soldati diretti dal capitano Posseca, aveva detto: «Sarò vinto, ma la vittoria dovrà costare al nemico, e si saprà poi che se io avessi avuto il doppio dei soldati, avrei vinta la rivoluzione». E in così dire il Bosco, anche conservandosi fedele ed integro, non vedeva la difficoltà di superare una battaglia, una guerra, qualora il popolo furiosamente si scateni contro. Garibaldi che ha interrogato tutto, notando minutamente le cose, dopo avere più volte lodato il Medici, strettagli la mano, la sera scrive l'ordine del giorno, e nel promuovere di grado il Medici, il Cosenz, il Bixio e il Carini, aggiunge nello stesso avere la brigata Medici ben meritato dalla patria; i suoi militi, più volte assaliti da forze superiori, aver provato ancora ciò che valgono le baionette de'  figli della libertà.

La mattina del 20, Garibaldi, presi i concerti col Medici, fece diramare gli ordini alle sue milizie legionarie. Alle ore 5, tutte erano disposte, pronte a marciare: dovevano formarsi due colonne: una al comando del colonnello Simonetta, l'altra del Malenchini; e da Meri, recandosi al villaggio San Pietro, avrebbero ricevuto nuove istruzioni. Si componeva la colonna Simonetta de'  battaglioni non completi del 1° reggimento e d'una compagnia del 3° battaglione bersaglieri, comandato dal maggiore Specchi, e di circa 20 uomini armati di carabina. Quella del colonnello Malenchini si componeva de'  tre battaglioni del 2° reggimento e d'una compagnia di volontarj messinesi. Una colonna di riserva era composta del battaglione Dum, di quello comandato dal Corte, d'altro del Corrao e del battaglione Valchieri. La prima doveva muoversi sullo stradale di Messina, perpendicolarmente sopra San Pietro a Milazzo: la seconda, descrivendo una diagonale, occupare Barone, una frazione di San Pietro. Esse dovevano distendersi, e, collegandosi, formare una sola fronte di battaglia, destinate ad inoltrarsi molto avanti a destra, per osservare da vicino le mosse e le posizioni nemiche. Il generale Bosco aveva divisa l'artiglieria in quattro sezioni: una alla spiaggia presso San Giovanni, una seconda a Casa Unnazzo, una terza al ponte delle Grotte, la quarta, sulla strada maestra, destinata a proteggere i mulini.

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Lasciata una piccola riserva al comando del tenente colonnello Marra, il Bosco, alla testa di non pia di mille uomini, usci fuori Milazzo, distendendosi nella pianura per opporsi alle legioni garibaldine, che già si avanzavano. Aveva avuto la soldatesca borbonica aggio di avantaggiarsi d'ogni cosa: d'ogni prominenza, de'  muri e de'  vigneti per combattere coperta, stando sulla difensiva, per ispingerài avanti contro le milizie della rivoluzione.

Alle ore 7 del mattino, i due eserciti si trovano uno in faccia all'altro. I borbonici muovono dalla loro destra verso la sinistra dei garibaldini, attaccandoli con le fucilate. L'assalto comincia al centro, poi sulla diritta, in seguito fu generale. L'artiglieria di otto piccoli cannoni fu chiamata sul campo di battaglia, seminando la morte nelle falangi del Garibaldi. I soldati napoletani, vedendo il generale Bosco sfidare qualsiasi pericolo, rimanendo sempre alla loro testa, combattono valorosamente, slanciandosi in mezzo alle numerose e serrate schiere garibaldine, più che con coraggio, con entusiasmo. Il generale Medici ordina al Simonetta di spingere parte delle sue milizie verso Archi, per rendersi padrone delle mosse nemiche a sinistra: movimento, che, eseguito dal maggiore Migliavacca, aiutato dal maggiore Croff, determinò le regie soldatesche a sloggiare dalle posizioni già prese. E così i garibaldini dalla parte sinistra si spingono, stendendosi verso la marina; movimento che, per necessità e salvezza, si dovette appoggiare coi rinforzi di quelli del centro, che, per portarsi all'altezza della sinistra, costretti ad inoltrarsi, s'incontrarono coi nemici, impegnandosi allora un combattimento vivissimo. In un tempo si combatte al centro, alla sinistra ed alla destra. Valorosamente combattono i Napoletani, e già cominciavano ad avere alla sinistra il sopravvento. L'artiglieria, che imboccava la strada, faceva strage delle milizie garibaldine, rendendo superiori le soldatesche regie. Ripiegando la sinistra, il fianco sinistro delle schiere del Garibaldi era gravemente minacciato. Il Medici, confuso, spediva subito un ufficiale di Stato Maggiore con metà del battaglione Dum, che era di riserva. Ma questi rinforzi non sarebbero bastati se il generale Cosenz, che era a dirigere quella parte del combattimento, in quei momenti pericolosi e decisivi, non avesse usato dell'energia e della perizia; se per lui i combattimenti della rivoluzione non avessero ripreso i posti perduti. Ma, non ostante questo valore del Cosenz, non ostante egli avesse sì bene disposti i suoi militi dietro i canneti e le muraglie dei giardini, da offendere principalmente l'artiglieria, riuscendovi non poco,

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i borbonici a causa del ripiegamento a sinistra, avevano potuto ingrossare le forze del centro, imperversando, furiosamente, da questo punto. Là vola Garibaldi, comanda, combatte, incoraggia. Ma viene, poco dopo, assalita la destra, ed il fuoco dei borbonici è terribile. Cadono molti e molti garibaldini, si separano i combattenti, e giunge un istante, in cui anche le forze del centro si trovano costrette a retrocedere. Ma se le file garibaldine non sono invase da sbigottimento, la vittoria però è dubia, incerto n'è l'esito.

Allora si crede necessario che tutti entrino in azione: la sesta e l'ottava compagnia, comandate dal Cianciolo, che occupano la fiumara di Meri, armate, rinforzano l'ala sinistra, e tutte le altre forze s'inoltrano nel campo di battaglia: muoiono i volontarj a centinaia; i carabinieri genovesi pugnano intrepidi e cadono da valorosi: la strage ha pochi ricordi; né si cessa, anche sfinite le due parti, anche gremito il campo e ogni altro; luogo di morti. In momenti si terribili Garibaldi, salito sulla tettoia di una casa, concepisce un piano, attaccando il nemico i là ove è debole. Scende, radunati i volontarj, si slancia nel punto designato, e le sue schiere si rivelano prodigiose in quegli ultimi istanti della battaglia.

Muove a rinforzare il centro il battaglione bersaglieri del Cosenz, guidato dal comando dello Specchi e del Bronzetti. Si riprende l'offensiva. Il Bronzetti furiosamente si spinge fino al ponte, e rompe, con un cannone, la linea nemica. I fati si mutano: sorride la fortuna alle legioni garibaldine; poiché nell'avanzare che esse fanno, le schiere borboniche perdono terreno. Si combatte nella strada detta Mangiavacca, a sinistra della città. Garibaldi rimane fermo dove più ferve la lotta ed è il pericolo spaventevole. Il Brida, suo aiutante maggiore, muore colpito da una palla; il Corte che gli sta accanto, è ferito: egli rimane in quell'attacco ancora illeso; ed ordina al Framarini e al Zaffaroni che si adunino con la prima e la seconda compagnia del battaglione Gaeta nei canneti, a fine di caricare il nemico alla sinistra; indi manda alla destra le altre compagnie dello stesso battaglione, comandate dal Frygycsy, dal Carini, dal Bolognini e dal Bianchi. E le legioni volontarie corrono, corrono freneticamente a combattere le soldatesche borboniche; delle quali si contano in pochi momenti tredici ufficiali tra morti e feriti e duecento soldati. Tanto valore improvviso, consiglia le soldatesche nemiche all'abbandono delle posizioni, lasciando due cannoni, guadagnati tosto da'  volontarj.

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Il generale Bosco scacciato da'  canneti e dalle case che occupava, chiama la riserva, opponendo tutti gli sforzi sul ponte. Terribile il momento: l'eroismo non cede dalle due parti. Garibaldi richiama a sè il battaglione Migliavacca, che trovasi alla destra, e Filippo Migliavacca, animando i suoi con parole assai generose, dà la carica alle soldatesche nemiche; e a'  grandi sforzi, quasi sovrumani, scalando muri e siepi, combattendo sempre, si muore, si vince, si arriva nelle vicinanze del ponte. Concentrate le forze, si conquista il ponte; ma mentre il Migliavacca invita i suoi a compire l'opera del trionfo, colpito da una scheggia di mitraglia, cade mortalmente ferito, e accanto a lui cade pure il luogotenente Leardi (1). L'esercito borbonico rientra, combattendo sempre, in Milazzo; e questo fu grave errore del Bosco che potè così concedere alle legioni garibaldine a costringerlo a ritirarsi nella fortezza, ed esse entrare vincitrici a Milazzo.

(1) Filippo Migliavacca, di professione avvocato. Nelle cinque giornate di Milano prese parte a'  combattimenti. Sergente della legione degli studenti tenne una condotta lodevole nel disgraziato affare del 13 luglio, sotto il forte di Pietole, ove morirono Assali, Ponti e molti altri tra'  suoi compagni. Fece poi l'infelice campagna di Novara; indi si recò a Roma sotto il Medici; ove per il coraggio e l'abilità meritò l'amicizia del Medici e del Garibaldi. Alla Villa Spada si distinse; poiché invasa la stessa da un battaglione francese, combattendo, ceduto il terreno, passo a passo, riusciva con pochi a salvarsi in Roma, trasportando seco il capitano Gorini, ferito; il quale a non rimanere prigione, dal balcone si era slanciato sulla strada. Dopo le ruine e le sventure del 184849 riparò in Sanpierdarena, confortando di studj i dolori dell'esilio. Nel 1859 riprese le armi, combattendo come luogotenente nei Cacciatori delle Alpi, meritando una menzione onorevole a Varese, presso Belforte, ove, agli avamposti, cominciò primo il fuoco contro gli Austriaci, obligando un battaglione austriaco a prendere la mossa di ritirata, presa, quindi,

I da tutto il corpo dell'Urban. Lasciata la professione un'altra volta, nel 18B0 seguiva la terza spedizione in Sicilia, dove moriva eroicamente, in giovine età, di anni trenta.

Il generale Medici, amico al Migliavacca, poneva un ricordo marmoreo, la cui iscrizione, assai disadorna nella forma, è poeo degna dell'eroe.

Filippo Migliavacca Milanese Maggiore

Tenne fronte al Tedesco nel 1848

In terra Lombarda

Difese Roma nel 1849

Ribattezzò col suo sangue

La bandiera della libertà

Nell'epiche battaglie di Milano

Al 1860

Morto in quei campi di anni  81

All'esule e martire italiano

Ov'ebbe la tomba

Venne dedicata questa lapide

Dal generale Medici

Suo antico compagno d'armi

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La battaglia durò dieci ore continue; i morti e i feriti delle schiere garibaldine giunsero fino ad ottocento; delle borboniche furono meno che cinquecento. Garibaldi scrisse più tardi di essa:

«Io ho veduto alcune pugne nella mia vita, e devo confessare che le battaglie di Calatafimi, Palermo, Milazzo e Volturno fanno onore ai militi e soldati che vi presero parte. Quando su cinque o seimila uomini che pugnarono a Milazzo, circa mille furono posti fuori combattimento, ciò prova che non fu tanto facile la vittoria».

I campi e le vie di Milazzo erano rossi di sangue. La storia registra il valore sommo di molti, ma, non dimenticando i tanti eroi, ha una parola alta di lode pel Medici e pel Cosenz, che, nella giornata del 20 luglio, si batterono fortemente, riconquistando le posizioni nei momenti che Garibaldi ordinava il fuoco dal vapore Tuekery; ripetendo i nemici che egli di là si fosse esposto poco. Anche ritirate le soldatesche borboniche nel forte, i fuochi non cessavano, e Garibaldi, temendo una nuova sortita, dispose le cose in modo che i nemici non potessero facilmente effettuare i loro disegni.

Il dì 21 non cessarono i fuochi di moschetteria e di artiglieria. Il generale Beneventano Bosco, che aveva con tanta fierezza combattuto, tenendo alto l'onore delle armi meridionali, credendo non mancargli anche ora compagni nell'adempimento de'  doveri, attendeva da Messina le soldatesche di rinforzo, chieste al generale Clary, comandante la fortezza di Messina; con cui designava riprendere il combattimento, circondando le legioni garibaldine da'  due estremi, dallo stradale e dalla uscita delle soldatesche dalla fortezza.  

Non ascoltato, rimasto solo negl'impegni, cominciò, costretto, a trattare su' patti di una capitolazione, non conclusi né il 21 né il 22; non conclusi, poiché il Garibaldi negava al Bosco gli onori di guerra richiesti: che poterono distendersi dopo l'arrivo di un ufiziale inviato da Napoli, sottoscritti il dì 24 alle condizioni seguenti:

«Che la guarnigione uscisse dal forte e s'imbarcasse sui legni che erano in porto, con tutti gli onori delle armi;

Che la guarnigione dovesse portar seco l'armamento ed ii bagaglio;

Che dovesse lasciare nel forte tutte le bocche da fuoco, tutti i cavalli, compresi quelli degli utiziali e dello stesso comandante Bosco, e la metà dei muli».

Le legioni volontarie acquistarono in quella occasione 36 cannoni, 2 in bronzo e 34 in ferro, 139 cavalli e 83 muli.

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Tra il 24 e il 25 la fortezza era sgombra dalle soldatesche regie. Passando il Bosco, per l'imbarco, innanzi le forze garibaldine fu fatto segno a'  fischi per il suo contegno fiero e sprezzante; e se un tal contegno fiero non pare a noi lodevole, neppure lodiamo gli eccessi plateali, che non potevano avvilire un militare, che, rivelando valore, conservò onorato il suo nome, allora e nella caduta, tenendo in alto sulla terra straniera il nome italiano (1).

Sulla battaglia molti e molti proferirono i loro giudizj; pochi si ritennero dalle menzogne spietate; si che negli anni di seguito si polemizzò anche sulle fredde o male accoglienze de'  cittadini (2). Il Dumas, romanziere accreditato, in una lettera al Carini (3) ritrasse i combattimenti, ma nel descrivere le vicende, spiccando un volo fino alle idealità del romanzo, sprofondò nelle esagerazioni e nelle fantasmagorie. Indi trovò lodatori, che non vollero discernere il vero dalle affastellate chiacchiere. Il generale Clary, comandante le forze in Messina, il 22 luglio aveva intimato a'  legni da guerra, di stazione nel porto, di ancorare fuori, per non recare imbarazzo alle operazioni da eseguirsi dalla cittadella.

All'annunzio si rinnovò nella memoria del popolo la distrazione del 1848, e subito la città fu disertata dalle famiglie agiate,

(1)Ricordiamo Renato Matteo Imbriani:

«... un gran merito ha avuto Ferdinando Bosco verso la Patria: — egli ha nel 1860 salvato il decoro di quelle armi italiane a lui affidate: — egli ha saputo far rifulgere il valore di quelle schiere troppo ingiustamente spregiate, rese Sacche da capi inetti o codardi, non curanti che di loro stessi». Ed ancora: «Ma questo nome augusto d'Italia — ma il sacro pensiero della Patria — in questi lunghi anni non gli ragionarono adunque mai sì fortemente, da ricondurlo a quel primo, più naturale e potente affetto, che vincola l'uomo alla terra ove ei nacque?».

Sì, e ciò puossi apertamente affermare, allorquando egli, campione di una casa che l'unità della Patria negava, esponendo la propria vita in singolare tenzone, punisce uno straniero che in presenza sua, a Parigi, osa insultare l'esercito italiano dopo Custoza. E il fatto fu spontaneo, sentito, senza rumore, modestamente, come adempimento di dovere eseguito, sì che l'eco quasi spenta ne giunse in Italia. E questo è bello, è generoso». (Ricordi, pp. 43, 48; Napoli, Stab. tipografico G. Gozzolino e C. Pignatelli. 1904).

(2)Entrato Garibaldi in Milazzo, la città, com'era da aspettarsi, per ragion della battaglia, non poteva presentare che una perfetta desolazione. Si dissero poi tante cose contrarie alla verità; volendo screditare i cittadini di Milazzo, nè altro potrebbe aggiungerai che quella indifferenza, che in que' momenti indispettiva gli animi bellicosi e contrarj alla dinastia de'  Borboni. Si fecero le publicazioni di due opuscoli in difesa, nel 1882 e nel 1884. contenenti lettere e documenti, ma nulli risultò da esse né in prò, né in disfavore. Ed oggi la storia non deve, per sentimento pietoso, tacere sugli oltraggi e sulle difese!

(3)Il Dumas publicò una lettera su La battaglia di Milazzo, diretta al brigadiere Giacinto Carini, edita in Barcellona, datata 21 luglio sera, che pochi anni addietro venne riprodotta in occasione del monumento eretto a Milazzo. Essa è un giro tortuoso di chiacchiere, ripetute sempre dagli scrittori, o con ingenuità fanciullesca, o con malizia!

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 che trovarono ricetto nelle campagne, e dalle povere, che, piene di sgomento, chiesero un rifugio lontano dal pericolo, anche su barcacce che avessero potuto trasportarle e tenerle lontane da'  fuochi.

Messina rammemorava con terrore il suo passato, ché sola aveva dovuto combattere strenuamente le numerose forze comandate dal Filangieri, sottostando pure a' fuochi incessanti della cittadella, senza che il Governo di Sicilia l'avesse provveduta di un quattrino, di un fucile, di un uomo.

Tali ricordi, rattristando, ingrandivano i timori ne' cittadini!

I giorni 23, 24 e 25 scorsero senza alcuna novità, ma recando soltanto una condizione di cose difficili ed infelici, poiché le soldatesche regie occupavano le creste de'  monti, che circondano la città, munite di artiglieria, cavalleria e di tutto altro che potesse mettere all'opera il comando superiore. Ma i timori e le preoccupazioni disparvero in un momento; disparvero dopo un piccolo attacco della sera del di 25; attacco avvenuto tra gli avamposti napoletani e le guerriglie condotte dall'Interdonato. Il mattino del dì 26 i Napoletani si condussero in città, rimanendo le squadre siciliane, discese nelle fiumare, che sono ne' pressi de'  Messina, in attenzione di nuovi ordini.

La ritirata delle soldatesche regie era stata una conseguenza della capitolazione di Milazzo. Il generale Clary, nell'evitare nuovi incontri colle milizie del Garibaldi, forse secondo i voleri del Ministero, che sceglieva modi prudenti per comporre le faccende divenute difficili, congiungendosi alle armi ribelli l'avversione e il furore del popolo. Si disse avere egli seguito i consigli del Ministero, mentre il Bosco non metteva indugio ad obedire il re. E indubitato che, dopo la capitolazione di Milazzo, pria che le legioni garibaldine fossero state disposte a muovere per Messina, si recarono il Medici ed il Clary, ambi sottoscrivendo, nella dimora del banchiere Francesco Fiorentino, per patti da stabilire una convenzione, che eliminava lo spargimento di sangue (1). Avutasi conoscenza della convenzione, che invocava componimenti amichevoli, ritornando di un tratto i cittadini a popolare le case e le vie, dappertutto sventolò la bandiera d'Italia, ovunque fu festa, ovunque intonato l'inno di libertà. Il generale Medici, che, all'alba di quel giorno 27, era ritornato al suo quartier generale in Gesso, prima del mezzogiorno, alla testa della sua divisione, rientrava in città acclamato dal popolo, che festeggiava l'Italia, Garibaldi

(1) Vedi Documento, XVI.

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e Vittorio Emanuele. Segui nello stesso giorno, alle ore due del pomeriggio, l'entrata di Giuseppe Garibaldi, e il popolo lasciate le letizie e le esaltazioni, briaco dalla gioia, santificate dal concetto di libertà, scese fino alla bestia, staccando i cavalli dalla carrozza, sostituendo uomini agli stessi. Cosi cominciava l'educazione di un popolo anelante di vita libera!

Il 18 luglio Garibaldi da dittatore aveva decretato: «Durante la mia breve assenza da Palermo la piena autorità dittatoriale sarà esercitata in mia vece dal generale Sirtori sotto gli ordini miei» (1). Il 22 luglio, alli undici decreti, emanati dal Sirtori, il Generale, dopo i pochi giorni d'interruzione, con un primo decreto restituiva il maggior generale Sirtori al quartier generale; con un secondo decretava: «L'avvocato Agostino Depretis, Deputato al Parlamento nazionale è nominato Prodittatore. Egli eserciterà tutti i poteri conferiti al Dittatore dai Comuni di Sicilia» (2). Il Prodittatore emettendo il di 3 agosto dodici decreti, principalmente si attenne alla promulgazione dello Statuto costituzionale del 4 marzo 1848 vigente nel Regno d'Italia, come legge fondamentale della Sicilia. Il che stabiliva un anacronismo, pugnava colle idee professate dal Dittatore ed annunciate alla Rappresentanza municipale di Palermo. Il conte di Cavour, dopo l'espulsione del La Farina, si tenne più inquieto, né le sue irrequietezze cessarono se non se appagando il desiderio ardente che un piemontese avesse mantenuto il Governo in Sicilia. Se il generale Garibaldi avversava l'annessione, come mai si potè indurre ad accogliere la promulgazione d'uno Statuto regionale, collaborato intempestivamente, quasi strappato con violenza al re del Piemonte dal suo popolo chiedente le riforme al sistema politico? vSiffatta contrarietà di principj generò le mali sorti nazionali; poiché la promulgazione della legge fondamentale restrìngeva la nazionalità al nazionalismo, o regionismo, assoggettava le nuove regioni alla conquista, chiudeva le porte all'italianità, seppelliva il diritto di formulare uno Statuto dall'assemblea nazionale che di li a poco doveva riunirsi nella capitale del Piemonte, provvisoriamente dell'Italia. Ma, dinanzi alla sagacia politica del Conte, si annichiliva la robustezza de'  propositi del Generale, come facilmente al decreto prodittatoriale sottostavano il Depretis, venuto dal Piemonte coll'adesione di quel Gabinetto, e il Crispi da segretario di Stato per gli affari dell'interno.

(1)Raccolta degli Atti del Governo Dittatoriale e Prodittatoriale in Sicilia (1860), Palermo, stab. tip. Lao, 1862.

(2)Raccolta citata, p. 145.

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 Il conte di Cavour, vinta la rivoluzione, ambiva l'annettersi delle province al regno subalpino. Non farà tacere, più tardi, la sua passione di accostarsi a Roma (1); ma non consentita pel momento la capitale naturale all'Italia, egli non può svestirsi di quegli abiti di municipalità, che crearono dissidj e avrebbero potuto ridare l'Italia in potere della reazione; e ciò per il malcontento generato. In lui oramai ha predominio l'estendersi de'  terreni piemontesi, e alle annessioni centrali, vuole siano aggiunte le altre del mezzogiorno, affinché la monarchia eletta non trovi contrasti diplomatici, non trovi ostacoli di nuove forze avversarie che sostengano i diritti delle dinastie cadute o morienti.

DOCUMENTI.

I.

I Palermitani ai fratelli Siracusani.

Dopo molti anni, che l'Idra Borbonica ci ha dilaniato, stanchi noi da'  soprasi, dalle oppressioni dell'abbominevole Polizia, dal depauperamento delle nostre sostanze, privi de'  beni, sequestrata la parola, e per fino il pensiero, ferma la risoluzione fu in noi di scuotere il pesante giogo, di acquistare la libertà, o perdere la vita, dappoiché vai meglio morire che vivere sotto la sferza di un dispotico tiranno. Insorgemmo, e questo popolo fece rammentare ai vili sgherri del Borbone le rinomate epoche del 1820 e 1848; ma il vantaggio che i venduti satelliti aveano pel numero infinito delle bocche da fuoco, e delle fortificazioni che occupavano, facevan dubitare, o almeno ritardare la nostra impresa, quando valorosi Italiani guidati dallo intrepido Garibaldi, di quello Eroe nel eui valore eccheggia tutta intera l'Europa, corsero a porgerci il loro aiuto lasciando i propri lari, le famiglie, ed esporre la loro vita pel generoso scopo di liberar la Sicilia di un Governo tirannico.

L'apparir di quei prodi infiammò vieppiù i nostri petti di nuovo coraggio, spaventò le milizie borboniche. L'assalirli, il vincerli, il ricacciarli nei murati castelli fu un lampo. Essi coll'osata risorsa dell'assassinio cominciarono ad inveire contro la nostra bella Città, ed un feroce bombardamento ne ha distrutto i più magnifici edifìci, ma ricinti da noi, ed assaliti fin ne' loro covili, a stento ottennero dalla generosità dell'Eroe guerriero d'imbarcarci col marchio dell'infamia sul fronte e ritornare all'iniquo loro padrone Tinti ed oppressi, per fargli ingoiare il veleno della disperazione.

(1) Discorsi parlamentari, voi XII pag. 314.; Roma, Eredi Botta, 1872.

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La nostra Isola è tutta libera del crudele giogo, solo l'Eroiche Messina e Siracusa giacciono tuttora nelle abominate catene, ma noi e i valorosi Italiani ci affrettiamo a liberarle, giacché nessun palmo di terreno siciliano dovrà (neanco provvisoriamente) rimanere all'usurpatore Capeto Borbone.

Incoraggiatevi, o fratelli Siracusani, e richiamate alla memoria le vostre glorie, le antiche gesta della primiera Siracusa che spaventavano Atene e Roma.

Rammentate quanti eroi ha contato la vostra patria, quanti martiri della libertà, fra i quali non possiamo dimenticare il celebre Cavaliere Gaetano Abela, la più solenne vittima del dispotismo Borbonico, che dopo mille tormenti lasciò la vita su di un palco allo sguardo doloroso del popolo palermitano; rammentiamo ancora il fratello Giuseppe Abela, che miracolosamente scampò la morte, ma che per tredici anni fu vivo sepolto in orridi criminali, soffrendo tutto con invariabile fermezza, educando i figli nella purità de'  sentimenti liberi, per cui anch'essi uniti al padre gemevano dal 1850, sin al 1852 nelle prigioni, e la liberale ed ammirevol famiglia Abela tutta intera veniva perseguitata, e colla inammissibilità ad impieghi ridotta all'indigenza. — Ricordate gli Adorno ed il Sollicito, tutti martiri e vittime del vandalismo Borbonico, rammentate quanti giovani dal 1849 in qua sono stati arrestati, perseguitati, esiliati. Si, fratelli Siracusani, non temete le minaccie de sgherri, disprezzate le bombe e il saccheggio, come l'abbiamo noi disprezzato. La nazione saprà tutto compensare. Unitevi a noi e decidetevi di scacciare i vili assassini per sempre dalla vostra Patria, e cosi il popolo intero Siracusano avrà una pagina nella Istoria come l'hanno onorevolmente riportati suoi compatriotti, come si legge nel Ricciardi al tomo terzo, pag. 23; nel Sestini, nel Colletta, nel Marchese Gargallo nella sua traduzione di Giovinale ed altri autori.

Coraggio fratelli, entusiasmo, fermezza, scacciate i vili borboni.

Viva l'Italia, Vittorio Emanuele, Garibaldi. Viva la Sicilia liberata.

II.

Proclami di Giuseppe Garibaldi.

Cacciatori delle Alpi,

Italia una e libera. — Non è tempo di riposo. Molti dei nostri fiatelli sono ancora nel servaggio, e noi abbiamo giurato di redimerli. Son quaranta giorni, voi lasciaste le sponde della Liguria, ma per battagliare a prò' di oppressi Italiani. Soldati di Varese e di Como, il vostro sangue ha bagnato la terra della Sicilia, ove dormono molti dei vostri compagni, ove passeggiano molti mutilati. In due battaglie contro agguerriti soldati, voi avete stupita l'Europa. La libertà italiana posa Bulle ruotate, sulle fatali vostre baionette, ed ognuno di voi è chiamato a condurre la gioventù italiana a nuove pugne, a nuove vittorie. In rango dunque! tra poco voi tornerete agli agi della vita, agli amplessi d«i vostri cari, alle carezze delle vostre donne. In rango tutti i soldati di Calatafimi, e prepariamo ad ultimare l'opera magnifica che abbiamo cominciato.

Palermo, 13 giugno 1860.

G. Garibaldi.

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Siciliani! — Io ho contato sai vostro amore alla patria, sul vostro antico valore. Voi mi avete accordato la vostra intera fiducia. Quando il nemico mi offeriva patti umilianti per la città di Palermo, il vostro grido di guerra tuonò intrepido fra gli apparati di una terribile lotta; fu risposta degna d'uomini italiani. Alle successive offerte del nemico io consentiva a prorogare la tregua fino all'imbarco dei suoi ammalati e dei suoi feriti, allo sgombro delle sue truppe, dei suoi materiali e dei suoi equipaggi, allo scambio dei prigionieri dall'una parte e dall'altra, alla evacuazione di Castellammare, e alla consegna dei detenuti politici. Queste condizioni hanno nella maggior parte ricevuto il loro adempimento. Saranno tutte adempiute fra poco, concorrendovi, come inora, il tranquillo e dignitoso contegno del passato. Perseverate nel fermo attaccamento alla causa da voi con tanta gloria abbracciata, nella devozione ai vostri, capi, nella concordia e nell'ordine interno. E l'Italia, che va superba di voi, vi annovera per sempre fra i suoi felici e liberi figli.

Palermo, 15 giugno 1860.

G. Garibaldi.

III.

Ai miei compagni d'arme nell'esercito del regno delle Due Sicilie.

Compagni d'arme — Dirigo a voi, miei antichi compagni di collegio e d'arme in questi supremi momenti le seguenti parole, perché voi che mi conoscete da giovanetto, possiate crederle dettate soltanto dal più grande amore al nostro paese ed a vol. Io mi rivolgo specialmente ai Pianell, Desauget, Negri, Novi, Ussari, Guillemont e a quanti altri mi ebbi compagni nei primi passi della carriera militare, specialmente perché avevano le medesime aspirazioni e gli stessi intenti, e perché lo stesso dolore martellava il nostro cuore, quello cioè di vedere l'Italia, e più Napoli, cosi basso nell'opinione d'Europa. Sono scorsi ben dodici anni, e la parte superiore d'Italia ha guadagnato immensamente nella stima europea, e noi siam caduti più basso ancora d'assai!

Un esercito forte ed abbondantemente provveduto di materiale da guerra, il quale, se avesse concorso con l'esercito piemontese, a quest'ora avrebbe redenta la patria, raccogliendo non pochi allori, e che è stato destinato, durante questo lungo periodo di dodici anni, se non a soffocare nel sangue le rivolte che in ogni canto del reame sorgevano contro l'oppressione, anzi a soffocare lo slancio nazionale? Sì, e voi lo sapete, ogni moto, ogni aspirazione, ogni dimostrazione che è succeduta e succederà in Italia, non vuol dire altro che questo: Vogliamo essere una nazione forte e rispettata, non vogliamo essere satelliti o valletti di nessuna nazione; noi a noi. Ma voi stessi lo sapete, perché tale è pure il sentimento che teùete ascoso e custodito con tanta cura.

Stendete dunque amica la mano al primo che incontrate, e troverete in lui un fratello preparato ad ogni sacrifìcio; dite una parola e resterete sbalorditi dalia grande unanimità; vogliate, farete prodigi.

— 432 —

Chi governa usa uu'arte trivialissima della quale voi siete cieco strumento; semina cioè disistima fra voi ed il popolo, fra Napoli e Sicilia, per potere a sua voglia martirizzarvi ed opporsi ai vostri nobili propositi. Di voi già non si fida e, sotto nomi di esteri, forma ed arruola nuovi corpi, mentre a voi non prepara che guerre civili. Oggi avete forse campo ancora di salvare voi stessi e, quel che è più, il vostro nome. Ricordatevi pure che deste ancora un giuramento alla costituzione del 1848, la quale fu calpestata! Su, sorgete; e fate che almeno una volta un grido di gioia ci venga da voi, da cui finora non ci vennero che grida di dolore.

Enrico Cosenz.

IV.

Missione diplomatica dal Governo di Sicilia affidata

a'  legati di Torino, di Parigi e di Londra.

Scuotendo il giogo dell'occupazione militare borbonica, che sopportava da 11 anni, la Sicilia ritorna a quella piena sovranità di sè stessa, in cui la costituiva la rivoluzione stessa del 1848, allorché dopo aver proclamato la decadenza della dinastia dei Borboni, essa chiamò sul suo trono un nuovo principe, ed i suoi commissari erano ricevuti presso i gdverni di Francia, di Inghilterra e di Sardegna, e la sua bandiera era salutata dalle due più potenti marine del Mediterraneo. La violenza delle armi riconduceva nell Isola il governo borbonico, illegittimo in diritto, condannato dalla costituzione del paese, e che in fatto non era che una mostruosa tirannia, un vero anacronismo in mezzo alla civiltà attuale, in modo tale che era divenuto proverbialo in Europa. Quel diritto e quel potere di regolare i propri destini, che la sola violenza gli aveva tolto, il nostro paese lo riprende oggi per legittima rivendicazione. Nel gennaio 1848, la Sicilia ritrova per suo proprio e generoso slancio nel movimento italiano, cominciato già da due anni a Roma, in Toscana, in Piemonte, ed a cui l'aveva tenuta sino allora lontana la politica austriaca e dispotica di Ferdinando li di Borbone. A quell'epoca, in Italia, le idee non andavano al di là di un sistema di riforme di miglioramenti locali pei singoli Stati italiani e non oltrepassavano il progetto di una lega o confederazione di questi Stati indipendenti e liberamente costituiti. La rivoluzione siciliana si appoggiava dunque allora su questi principii:

1° Ristaurazione della costituzione del 1812, giurata dai Borboni e poscia violata, il che li aveva giuridicamente detronizzati.

2° Autonomia siciliana e separazione dell'Isola dalla corona di Napoli.

3° Il voto solennemente espresso di far parte anch'essa della lega o confederazione italiana, come Stato indipendente sotto il suo proprio re. Da quell'epoca in poi gli avvenimenti e le opinioni hanno considerevolmente progredito in Italia. La nazione aspirando a riprendere il suo posto e l'importanza propria in Europa, s'arrestava dapprima all'idea d'una confederazione di Stati, come solo mezzo che poteva in quel momento condurla al suo scopo, come fase intermedia che doveva prepararla ad ottenere, in un più lontano avvenire, la piena sua unificazione.

Oggi essa intravide la speranza di giungere molto più presto a queste supremo

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 oggetto de'  Buoi voti. D'altra parte quel progetto di confederazione o alleanza che, dodici anni fa, sorrideva e soddisfaceva al pubblico sentimento, quel progetto è oggi una impossibilità materiale e morale, dopo l'aperta rottura delle corti di Roma e di Napoli colla causa e con qualunque idea nazionale, dopo la scomparsa dei piccoli Stati che formavano il centro della penisola italica. E' chiaro che l'Italia, desiderando e volendo una esistenza libera e indipendente in mezzo alle nazioni moderne, non ha ornai che una sola via di salvezza: aggrupparsi intorno alla gloriosa monarchia di Savoia, che ha personificato in sè la vita, la forza e la dignità nazionale. Al di fuori di quest'unica via non si troverebbe che la rinascente dominazione delr Austria, le barbarie di ciechi e crudeli governi, la disunione e la debolezza dei piccoli popoli abbandonati alle inteine loro discordie, alle mene ed alla influenza dello straniero, lo stesso sentimento che ha spinto la Lombardia a salutare con gioia il trionfo delle ai mate alleate, che l'ha gettata in braccio a Vittorio Emanuele, che ha trascinato la Toscana, le Legazioni e i Ducati a votare spontaneamente la loro unione sotto lo scettro di questo principe magnanimo, il sentimento che infiamma oggi il cuore di tutto un gran popolo dall'Alpi a Lilibeo, è quello stesso che anima la Sicilia.

Padrona oggi di se stessa, la Sicilia intende e vuole, come sempre, essere italiana, ed è perdi che, allontanando qualunque idea di separazione politica individuale, che sarebbe in disaccordo colla nuova epoca e coi nuovi bisogni, essa intende far parte di quella monarchia nazionale, che la civile Europa vede oggi innalzarsi e ch'ella saluta con gioia siccome un nuovo fondamento dell'ordine, dell'equilibrio, del riposo e del progresso del mondo. Riposta dalla violenza sotto il giogo del governo napoletano, la Sicilia non potrebbe essere dell'avvenire (come pr lo passato) che un pericolo permanente per la pace dell'Italia e dell'Europa, e se, in passato, la barriera che divideva moralmente l'Isola dai Borboni di Napoli pareva già insuperabile, come credere ad una possibile riconciliazione, dopo gli ultimi avvenimenti, dopo gli orrori della guerra attuale, allorché il governo napoletano abbandonò il paese, immerso nel sangue, saccheggiato e mezzo distrutto? Costituita isolatamente la Sicilia sarebbe un controsenso parlante nel movimento di agglomerazione e d'assimilazione che trascina tutto il resto dell'Italia. Esa sarebbe troppo debole per resistere da sè all'attacco di qualsiasi grande Stato, e si troverebbe esposta a divenir preda di stranieri dominatori. Inoltre, la scelta di un re che la governasse separatamente sarebbe una sorgente di difficoltà e di complicazioni infinite atteso l'odio popolare invincibile contro l'attuale casa regnante di Napoli, non meno che le gelosie e le diffidenze che dalla scelta d'un principe d'altra razza sorgerebbero tra le grandi potenze europee. Col voto nazionale oggi sì altamente espresso dalle popolazioni dell'Isola si trovano dunque d'accordo tutte le considerazioni alle quali la diplo mazia è solita aver riguardo, perché sia data soddisfazione alla Sicilia col pronto riconoscimento della sua proclamata annessione alle altre parti d'Italia, rinnite sotto la casa di Savoia.

Questo voto, che fu il primo grido della rivoluzione, scoppiata in Palermo il 4 aprile, è stato pure il grido di guerra delle bande siciliane che hanno per due mesi resistito alle regie truppe nelle montagne dell'Isola, esso ha risuonato in questi quattro giorni nei quali le bombe, la mitraglia e l'incendio schiacciavano e divoravano Palermo, e l'unica eonchiusione dei continui uniformi e calorosi indirizzi che giungono a Palermo da tutti i punti dell'Isola.

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La concordia regna in Sicilia come nel 1848; essa è in tutti i Comuni, in tutte le classi del popolo senza alcuna eccezione, né differenza. Il soccorso fraterno e ben naturale che gl'italiani delle provincie continentali Botto gli ordini del generale Garibaldi, ed in nome della patria comune, hanno recato alle insurrezioni dell'Isola, questo soccorso non ha fatto che assicurare il trionfo del grande principio d'unità, in nome del quale erasi sollevata la Sicilia e per il quale ha tutt'intiera combattuto. I volontari del continente venuti a versare nell'Isola il loro sangue, dovettero essi stessi stupire di trovar sì vivo e potente il sentimento nazionale unitario.

E gli è probabile che un'assemblea di rappresentanti debba riunirsi a Palermo per esprimere in forma legale ciò che vuole, che desidera la Sicilia. Probabilmente anche il popolo sarà convocato ne' suoi comizi affine di pronunciatisi mediante il suffragio universale, come fu praticato nella Toscana e nell'Emilia; nell'uno e nell'altro caso, il risultato non lascerà più il minimo dubbio. Tale è lo scopo, tale il carattere reale della presente rivoluzione siciliana che voi dovrete, come speciale apposito inviato dal governo provvisorio di Sicilia, spiegar bene e far conoscere al governo presso il quale siete accreditato, aggiungendovi tutti i motivi e gli schiarimenti che il vostro alto patriottismo saprà trovare II governo napoletano non mancherà di fare tutti gli sforzi per maturare i fatti ed ammassare calunnie su calunnie contro la Sicilia. Voi cercherete attentamente di smentirle, di porre in piena luce la verità, e di stornare le segrete mene che paprà mettere in opera un governo essenzialmente corrotto e sleale. Con queste istruzioni voi riceverete i numeri del giornale ufficiale contenente gli atti della dittatura del generale Garibaldi sin dal suo arrivo nell'Isola. Voi farete all'uopo risultare le estreme necessità che accompagnano una sanguinosa rivoluzione in un paese per molt'anni abbandonato ad una brutale e corrottrice tirannide, in un paese ove tutt'il vecchio edificio si è sfasciato ed è crollato ad un tratto; e di contro a tale necessità farete osservare urgenza di pronti ed energici rimedi. Torna utile raccomandarvi di informare esattamente il nostro governo delle disposizioui che voi troverete rispetto alla causa italiana, tanto nelle sfere ufficiali quanto nella pubblica opinione.

Questo documento dimostra sufficientemente quali fossero le idee di Garibaldi intorno agli affari di Sicilia, all'unità italiana, alla monarchia costituzionale di casa Savoia. Giova riflettere che Garibaldi confessava, la questione italiana non avere altra soluzione ragionevole e sicura che quella dell'unione delle sue varie provincie in un regno solo, che i Siciliani erano concordi nell'affrettare l'annessione al regno Sabaudo, e che nell'annessione si concentravano le aspirazioni del popolo e il fondamento dell'ordine, della prosperità e della forza di quella provincia ancora agitata dalla rivoluzione.

V.

Il Comitato agli abitanti della città di Napoli.

Abitanti della città di Napoli!

Per un tempo ormai troppo lungo le vostre lagrime silenziose hanno bagnata la terra del Sannio, per troppo lungo tempo le fronti italiane bì sono curvate davanti al delltto e all'infamia. Minacciti senza posa nelle persone, nei beni, nell'onore, per quarantanni voi avete servito di trastullo alla tirannia di alcuni pochi.

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Voi avete lamentato con noi la dilapidazione del publico tesoro; voi avete veduto i pubiici redditi servire alle voglie d'un Borbone imbecille, e divenir preda d'alcuni nobili che fanno pompa orgogliosa di lusso agli occhi vostri, quasi che in ciò si comprendesse per loro un titolo di onore. Voi vedete tutti i giorni i vostri padri, le madri vostre, e le spose e le figliuole sommesse a ciniche torture e sagri fica te da una polizia barbara. 11 sangue grida sangue, e quello dei vostri parenti e dei difensori dei diritti vostri, esige vendetta. Gli schiavi comperati a prezzo di denaro nell'America del Sud non sono sottoposti a così fatti odiosissimi trattamenti; e noi, Napoletani, chiamati a vivere liberi là dove i nostri padri son vissuti sovrani, come abbiamo potuto noi prestar mano a tante vessazioni, e tacere ad oltraggi cosi sanguinosi? Ma lasciamo ai timidi i piagnistei e i lamenti al tiranno; l'avvenire non matura in cosi fatte recriminazioni. Fin qui affranti per la debolezza e la bassezza degli esempi, tocchi dal contagio, le nostre menti son rimaste ottuse come quelle di schiavi. Ma alla vista di Sicilia vittoriosa, all'esempio del Piemonte magnanimo, alla voce potente di Garibaldi, le anime nostre si scuotano da un intorpimento troppo disonorante, le nostre braccia bì armino per vincere, castigare e liberare. Che il Vesuvio risponda all'Etna, che l'Appennino sia ii filo conduttore che porti ai nostri fratelli del nord il telegramma della nostra liberazione! Per lungo tempo, Napoletani, abbiamo rispettato come legittimo ciò che non poteva essere vendicato senza spargimento di sangue cittadino; per lungo tempo abbiamo esitato ad impegnare una lotta empia coi nostri fratelli svinti da livree pretoriane. Ma a fianco dei doveri di cittadino vi sono i doveri del paese; è arrivato il tempo di ripudiare una sensibilità ingiusta, e di sottrarci alla maledizione che batte alla porta dei cattivi padri, e pesa sugli schiavi! Abbasso le maschere, ciascuno scelga la sua via, fra l'onore e l'infamia non esitano che i traditori; non ci sono che i vili che riflettano. Tutto in nostre mani si cangi in arma terribile, dalla carabina infallibile, alle acute lave del Vesuvio; seppelliamoci sotto le rovine di Partenope, piuttosto che tollerare ancora la tirannia del Borbone; e se è destino che egli regni, regni sopra un cimitero! Attenetevi agli ordini del vostro Comitato; fratelli, diffidate dalle cattive nuove, e sopratutto di vane manifestazioni, proprio solo ad indurre ardimento negli oppressori, a frettar l'esitazione nei cuori dei timidi, e ritardare il giorno della redenzione. Sovvenitevi dall'antica energia, figli dei Sanniti! Aguzzate i ferri nell'ombra perché, noi ve lo giuriamo, la lotta è vicina!

Cittadini Napoletani.

Sui desiderii espressici da molti uomini generosi di queste città d'insorgere immantinente armata mano ad imitazione dei nostri fratelli di Sicilia; considerando che questo generoso desiderio nel momento attuale prematuro, menerebbe a troppo grande effusione di sangue, turberebbe il regolare andamento dei fatti, il cui coordinato e successivo sviluppo è stato da noi regolato e disposto, e perciò lungi dal favorire ritarderebbe il trionfo definitivo e completo della grande causa italiana, provvediamo:

1° Fino a nostro novello editto la massima quiete dovrà regnare in questa metropoli;

2 Sarà serbato severo e decoroso contegno, ed evitata studiosamente ogni collisione con gli agenti del governo;

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3° Qualunque apparente concessione strappata dall'urgenza dei tempi ed intesa a ritardare la piena ed intera attuazione all'idea nazionale, sarà accolta con disprezzo.

Napoletani.

Francesco II, bombardando Palermo la finiva coi suoi popoli, la finiva col mondo civile. Egli metteva in pratica il suo programma del 23 maggio 1859, cioè la continuazione della sanguinosa e volpina politica paterna, la quale in un anno appena di regno gli ha meritato il nome di Bomba IL Abbandonato dall'Inghilterra, dalla Francia e fin dall'istessa Austria, abbandonato da tutti, ricorrerà ora a quella costituzione tante volte violata dai suoi maggiori, e da lui sempre odiata e temuta. Costituzione che darà ai suoi popoli solo nella speranza di salvar forse il suo gii crollante trono, certo per ingannarli oggi e tradirli dimani. Napolitani, le triste mene borboniche vi sono ormai troppo note, state in guardia adunque. Accettare una costituzione del Borbone è tradire i nostri fratelli di Sicilia, è tradire l'Italia. Guardiamoci dagli inganni che ci tendono. Guardiamoci dalla vergogna che ci minaccia. Garibaldi deve essere il nostro duce, Garibaldi la nostra stella polare, ah! il nostro sangue non scorse sui campi lombardi, né sulle barricate della eroica Palermo. Serbiamo almeno senza macchia la dignità dell'opinione. Non ci rendiamo complici dei Borboni per assassinare le migliaia dei generosi fratelli italiani venuti sulla nostra terra per combattere e morire per nei. Che il nostro grido sia dunque: Viva Garibaldi, viva l'Indipendenza, viva Vittorio Emanuele re d'Italia.

VI.

Opinioni della stampa napoletana.

L'Iride in data 26 giugno diceva: «Dopo dodici anni vissuti nel lutto e nel terrore, risalutiamo sotto il cielo della bella Napoli i colori nazionali. Bel giorno è queBto per le genti del Napoletano! il cieco dispotismo ministeriale che ha insozzato di strage e di rapine queste contrade benedette da Dio, non è più. E' tramontato e per sempre! E sia gloria al Signore che dall'alto de'  cieli, finalmente ha volto uno sguardo di compassione a tutto un popolo gemente sotto il peso d'una schiavitù che non ha riscontri nella storia. Gloria a Dio che quando il vuole, lacera ad un volgere di ciglia il fitto velo di tenebre che sovente offusca le menti dei reggitori dei popoli. Bello ed ammirevole è il contegno che il popolo napolitano ha serbato in questo giorno. Non già la pazza e frenetica gioia d'una volta; in quella vece una calma, una riserva, una quiete solenne è stata la risposta, che il popolo di Napoli ha dato alla grande novità. Questa era da lungo tempo aspettata, certa, immancabile. La savia e prudente attitudine che il paese ha adottato, dimostra quanto esso è degno degli alti destini cui lo appella la grande patria italiana. Dodici anni d'inenarrabili sventure hanno maturato il senno del nostro popolo. Tutto è rimasto sereno e indifferente, come se nulla d'inaspettato, nulla di straordinario fosse avvenuto. Ognuno ha tranquillamente atteso alle sue ordinarie occupazioni. Gli esempi di civile prudenza che la gentile Toscana e gli altri Stati di già annessi al Piemonte, ci hanno mostrato, durante il volgere d'anno, che furono in balia di loro stessi, hanno fruttato appo noi.

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Mentre a noi si promette di farci rientrare nella grande famiglia italiana, da cui Biamo stati cosi duramente, e da tanto tempo divisi, gli incendi fumano ancora nella vicina Sicilia, ed ancora insepolti sono i cadaveri sotto le macerie di Palermo. Sarebbe stato un insultare al lutto di quella generosa Isola, un gioire senza limiti.

«Invece un evviva dal fondo dal cuore liberamente prorompa agli eroi della Sicilia, ed un glorioso inno funereo sciogliamo ai valorosi, che son morti colle armi alla mano pugnando per la libertà e per la patria.

«Se ci è lecito finalmente di chiamarci Italiani, senza che una feroce prepotenza ci rincacci la parola nella gola, è all'eroica Sicilia che noi

10dobbiamo. Gloria ai valorosi figli dell'Etna.

«Ora è un anno, sulle alture di Cavrìana e Solferino, si decidevano le sorti italiane; e ancora è principalmente a quel preziosissimo sangue versato che deve la sua risurrezione l'Italia, il cui nome, ah gioia! possiamo oggi a Napoli liberamente pronunziare. Caduta è per sempre la preponderanza austriaca, che tanti lutti addusse; non era per ogni mente assennata più dubbioso il grande avvenire. della patria comune. Oggi l'Austria si è trovata tuttavia impotente ad opprimerci; ed è per questo che possiamo in questi termini favellare ai leggitori nostri

Il Nomade, in data 28 giugno, scriveva: «Riceviamo notizie di varie provincie intorno al modo onde venne accolto l'atto sovrano, col quale si concedeva la costituzione, e tutte concordemente ci annunziano che ovunque si serbò il massimo e più dignitoso silenzio. Coloro i quali rammentano (e sono i più) le dimostrazioni di frenetica gioia, cui dette luogo simile avvenimento nel 1848, non saprebbero oggi come spiegare

11contegno assunto dall'intero reame. Si ricredano pure i nostri nemici, ritalia del 1860 è tutt'altra che quella del 1848.

12«Le sventure, i disinganni, gli esempi producono pur qualche cosa nella vita dei popoli, e massime di quelli che furono travagliati da durissima sorte. Fedeli al nostro programma, noi ritorneremo sopra avvenimenti che solo alla storia spetta registrare; noi non faremo che rendere omaggio alla maturità e al senno politico mostrato dalle popolazioni di quest'ultima parte d'Italia, le quali, benché tardi chiamata a far parte della grande famiglia italiana, si son però rivelate non men nobili e generose delle altre.

VII.

L'Intendente funzionario Montagnareale al Ministro Segretario di Stato per gli Affari di Sicilia in Napoli.

Siracusa il di 4 giugno 1860. — Eccellenza. — Ho ricevuto con sentimenti di viva riconoscenza la venerata Ministeriale del 25 maggio ultimo numero 925 con la quale V. E. degnava parteciparmi la sovrana approvazione all'esercizio delle funzioni dell'Intendente di questa Provincia da me assunte fin dal 25 detto mese. E malgrado i tristi tempi che corrono, posso assicurare l'È. V. che sento in me forza abbastanza per dedicare tutto me stesso con ferma volontà e cieca devozione al servizio della M. S. (D. G. ).

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I miei atti e le mie disposizioni correranno d'accordo con questo Signor Generale Comandante la Provincia, come sempre finora si è da me praticato.

Volendo infine sottomettere all'E. V. la posizione attuale delle cose nostre, mi onoro rassegnarle quanto segue:

Lo stato di questa città continua ad apparir tranquillo. La sinistra nuova qui circolata con maligne e smodate esagerazioni, cioè che Palermo sia caduta nelle mani dei rivoltosi fin dal 27 corrente, non produsse dei pubblici clamori, e quantunque esaltati, pure l'ordine pubblico non venne scosso per tanto. Da qualche giorno affluivano dalle terre e dai paesi vicini degli uomini di trista intenzione, che in preda al vagabondaggio ingombravano le vie, attendendo il momento del disordine. Ho disposto la espulsione di cotesti tali, facendoli accompagnare dai soldati d'arme fin oltre la cinta militare, e minacciandoli di arresto ove tornassero.

Ho piazzati degli agenti di Polizia alle porte della Città per vigilare d'accordo con gli agenti di Dogana che non s'introducessero delle armi clandestinamente in questa Real Piazza.

Sto dando opera ad attivare taluni pubblici lavori in questo Comune, onde cos'i occupare e dar da vivere alla classe lavoriera e bracciale. La pubblica annona assorbisce anche le mie più vigili cure, perché non manchino gli alimenti a questa Real Truppa ed intiera popolazione, togliendo in tal modo a quest'ultima fin l'ombra di un pretesto qualunque di malcontento.

Fra i paesi insorti della Provincia, Cannicattini deteneva ancora in quella Cassa Percettoriale da circa Ducati Seicento di Regio conto. Ho spedito ieri la Compagnia d'arme travestita per tentare con accortezza un colpo di mano, e ritirare quelle somme in vantaggio del Regio Erario, pria che distratte vengano dal potere illegittimo. Se la spedizione riesce nel modo come io l'ho disposta, sarà un tanto ricuperato ed un servizio reso nella utilità della Real Finanza.

Tanto per il momento mi onoro rassegnare a V. E. prescindendo di tutte quelle altre emergenze di pubblico servizio, che esigono svariatamente dalle continue provvidenze in tutti i rami della pubblica Amministrazione, e che assorbiscono tutta la mia entità nel servizio della Maestà del Re N. S.

Il Ministro degli Esteri Carafa a S. E. il Ministro Segretario

di Stato per gli Affari di Sicilia.

Napoli, 4 giugno 1860. — Eccellenza. — A bordo della speronara catturata al Gozzo, nell'Isola di Malta, della quale è parola nel mio foglio del 22 maggio decorso, n. 3311, si sono ritrovati, giusta ciò che mi riferisce il R. Console in quell'isola, rotoli 135 12 di polvere da sparo e n. 12 mila cartucci da fucili, che secondo le leggi di quel paese sono stati confiscati, n. 33 mazzi di fucili di 12 per ognuno, 19 sacchi palle e 5 casse di capsule fulminanti. E' stato da quelle autorità deciso che tutti questi oggetti non confiscabili fossero depositati nei magazzini della Dogana da poter essere esportati, previo il debito permesso di quel governo, dandosi dallo esportatore la debita cauzione doverli immettere effettivamente al luogo pel quale saranno spediti e dippiù ii Capitano della Nave è stato condannato a cinque lire sterline di multa. Il piccolo piroscafo di rimorchio ed il Cottes già noleggiato, con finta direzione,

— 439 —

dei quali fece pur menzione a V. E., non sono ancora partiti da quel porto. Per converso poi. il 27 scorso è partito, con la spedizione per Sfax, lo Schooner mercantile inglese Superba, capitano G. Accopardi, con merci E stato però informato quel regio Regente che il detto legno porti armi e munizioni da guerra e che malgrado la falsa spedizione per Sfax andrà in qualche punto della Sicilia. Le armi e munizioni imbarcate sono 1486 fucili, 12 casse palle, 5 casse fulminanti e polvere, e si ha ragione di credere, che tal carico è appunto quello che deve partire con la speronara, di cui è cenno in principio del presente foglio, accresciuto anche di altri 1080 fucili. Ed io mi onoro rendernela informata per suo opportuno uso.

Il Carafa a S. E. il Ministro di Sicilia.

Napoli, 4 giugno 1860. — Eccellenza. — Perché V. E. ne sia informata, le dò avviso che un piccolo piroscafo senza bandiera, proveniente da Genova, ha preso carbone e viveri a Cagliari ed è partito mercordi passato per Sicilia con emigrati ed armi.

Le fo' noto inoltre che i rivoluzionari di Genova hanno comperato i piroscafi francesi Belseuc e Helvetie e Isère per mandare rinforzi in Sicilia, essi sono già partiti da Marsiglia per Genova.

Napoli, 5 giugno 1860. — Eccellenza. — Riferendomi alla precedente corrispondenza relativa ad un clipper ancorato a Chenstoun con un carico di fucili, perché V. E. ne sia informato, le fo' noto che il cennato legno, dopo esser rimasto cinque o sei mesi a Chenstoun con un carico di molti migliaia di fucili, secondo un recente telegramma del Times, ha salpato la mattina del 25 maggio per Liverpool. Il corrispondente del Times crede possibile che tali movimenti possano coincidere cogli avvenimenti di Sicilia ed infatti la direzione presa per Liverpool, fa supporre il pensiero di un trabalzo a bordo di qualche Piroscafo. Non mancherò farne notizie.

Napoli, 8 giugno 1860. — Eccellenza. — Facendo seguito al mio f° del 2 stante di n. 3532 le soggiungo che il R. Console in Atene mi dà avviso che il R. Suddito Filippo Tusco, di cui si parla nel citato mio f°, intendeva partire d'Atene il 25 maggio, col piroscafo postale francese, che tocca Messina e Napoli, dirigendosi per Genova. Egli ha alla guancia destra due grandi cicatrici e sarà riconosciuto.

Napoli, 9 giugno 1860. — Eccellenza. — Di seguito al mio f° di 5 stante» ii. 3601, relativo al noto clipper americano le soggiungo che il cennato legno, giunto da vari giorni a Liverpool, non aveva fatto fino a 29 maggio nessuna dichiarazione in dogana, ed era tuttavia ancorato in riviera fuori i Docks, il che fa supporre l'idea d'un trabalzo, da me antecedentemente cennatole. Non trasanderò parteciparle le posteriori notizie.

Napoli, 9 giugno. — Eccellenza. — Mi fo un dovere trascriverle qui appresso un telegramma direttomi da Cagliari il 5 corrente. «Parte oggi fregata sarda Vittorio, imbarcato dicesi La Farina sotto titolo Ministro Inglese con segretario che si fa chiamare Leonardo Ristori. Si dice diretto per Palermo».

Napoli, 9 giugno 1860. — Mazzini avrebbe diretto a Londra da Genova lettera in cui leggesi quanto segue: «Non crediate che a Napoli sian cosi pronti a fare. Io muoverò nella prima quindicina di giugno.

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Il piano era che Garibaldi, guadagnata l'isola, scender dovesse nel regno, ma noi vi entreremo prima dall'altra parte. Medici è pronto con la sua spedizione, sia per la Sicilia, se richiesto, o per altrove. Se tutto mi andasse a vuoto, mi recherò in Sicilia ove ci accorderemo». Questa lettera sarebbe stata scritta all'emigrato R. S. Libertini il qual dovrebbe partire da Londra fra pochi giorni con passaporto sardo, sotto il nome di Probiolio; e credesi che Mazzini abbia il progetto di recarsi negli Stati fiomani e di là procedere negli Abruzzi. Parlasi anche di certo Castelli; ora a Genova, ed accanito Mazziniano, il quale dovrebbe anche penetrare in questa Capitale, costituirvi delle Bombe uso Orsini, e fatto nascere un qualche movimento popolare, gittarle in mezzo alle pattuglie ed alle truppe per accrescere lo scompiglio ed attenni e scuota la popolazione.

Piaccia a V. E. la dovuta intelligenza.

Napoli 9 giugno 1860. — Eccellenza. — Mi onoro trasmetterle un telegramma venendomi da Genova con data del 3 corrente:

«Il 31 — Vapore Utile faceva carbone a Cagliari — Messageries Impériales hanno venduto ai Comitati vapore Amsterdam ch'è destinato a sbarcar genti armate in Sicilia, non può farsi partenza prima domani sera.

Allo stesso fine allestiscono due o tre vecchi legni a vela sardi. — Partenze spesse dalla Costa.

TELEGRAMMI.

I.

Napoli, 9 giugno 1860. — Eccellenza. — Dal R. Console in Marsiglia ricevo l'avviso che il S. Antonio, legno sardo, ha caricato in Marsiglia il giorno 2 stante, circa 200 casse d'armi, con destinazione per Genova, per essere di là inviate il Sicilia. Può anche essere che la destinazione per Genova sia apparente e che il legno vada direttamente in Sicilia.

II.

Napoli, 9 giugno 1860. —Eccellenza. — Mi affretto a far noto a V. E. per sua dovuta intelligenza e norma venirmi scritta da Algeri che una nuova spedizione di 1500 faziosi, alla cui testa figurano Pace, Greco, Romeo, Plotino, Assante, sarebbesi diretta da Genova per Calabria.

Il Carafa a S. E. il Ministro di Sicilia.

Napoli, 9 giugno 1860. — Eccellenza. — Da Torino ricevo il seguente telegramma del 7 and. che qui appresso trascrivo per la dovuta intelligenza e norma di V. E.

«Spedizione pronta per dimani tre vapori».

Non credo ad impedimento. Potrebbero Reali Fregate incontrarli e seguirli.

Napoli, 9 giugno 1860. — Eccellenza. — Dal Regio Console in Livorno mi perviene telegramma dato il 3 corrente col quale m'informa che il vapore da guerra piemontese Tanaro è partito la notte del 2 da Genova con armi per la Sicilia, e che preparavasi la partenza del battaglione Malenchini sopra due vapori comprati dai Basivi. Piaccia a V. E. averne dovuta intelligenza.

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Napoli, 11 giugno 1860. — Eccellenza. — Di seguito al mio f° degli 8 c., n. 3663, perché V. E. ne sia informato, le fo noto che il R. Console in Atene mi soggiunge che R. sud. Turco non mandò ad effetto il suo viaggio, da me annunziatole. Egli sta in Atene, tuttavia dandosi da fare per raccogliere denaro. E a conseguire tal fine, alcuni emigrati, con a capo il noto Conte Delfico, andarono attorno per le case e le botteghe chiedendo soccorsi, denaro e riuscirono a raccogliere qualche centinaio di draehme1 né tralasciano di continuare siffatta questua, onde riunire la somma necessaria per il loro viaggio. Soggiunge il R. Console che un tal Luigi Cambiamonete, di Milazzo, abbia scritto a quegli emigrati in Atene, di recarsi in Sicilia che li avrebbe forniti di armi, denari e di tutto.

Napoli, 12 giugno 1860. — Perché V. E. ne sia informata, le fo noto che da Livorno mi si dà avviso che colà si imbarcano tuttavia armi e munizioni di guerra sopra piccoli piroscafi o legni a vela ed apertamente si dice che spedisconsi in Sicilia.

Anche gli arrollamenti seguitano a farsi attivamente e 200 soldati toscani disertori aspettano colà una propizia occasione per imbarcarsi insieme al battaglione del noto Vincenzo Malenchini. Le soscrizioni a favore della Sicilia producono sempre ingenti somme.

Napoli, 12 giugno 1860. — Eccellenza. — Per la sua dovuta intelligenza e norma mi affretto di trascrivere a V. E. qui appresso un telegramma speditomi da Livorno con la data di ieri. — «Questa notte partirà per Sicilia spedizione di mille con due vapori Bandiera inglese venuti aa Genova».

Napoli, 14 giugno 1860. — Eccellenza. — Perché TE. V. ne sia informata mi fo a parteciparle che da Roma mi giungono le seguenti note in data 11 e 12 stante. — In questi ultimi giorni è partito da Genova un piroscafo raccogliendo fuor usciti lungo le coste, destinati, credesi,. pel Regno. — La notte di sabato ultimo sono passati per Livorno circa §000 uomini comandati dal Cosenz, sopra 2 piroscafi, diretti, con sicurezza,, alla volta della Calabria. —In data degli 11 mi si dà avviso che la Corvetta Pontificia, di ritorno a Roma da Terracina, ha detto aver veduto verso l'annottare, 4 legni, due dei quali certamente piroscafi che facevano rotta tra Monte Circello e Ponza, di poi ha incontrato altri due legni per la stessa rotta.

Napoli, 14 giugno 1860. — Eccellenza. — Perché V. E. ne sia informato le fo no£o che il Regio Console in Cagliari mi scrive essergli stato dato come cosa certa che i legni da guerra sardi si incaricano della commissione corrispondente col Garibaldi.

Napoli, 18 giugno 1860. — Eccellenza. — Ricevo notizia da Cagliari che il giorno 15 and. stazionavano ancora in quel porto tre vapori con bandiera americana con 3000 uomini, aspettando un quarto legno per muovere alla volta di Sicilia. — Ho l'onore informarne Vostra Eccellenza per sua norma e corrispondente uso.

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L'intendente ff. Montagnareale a S. E. il Ministro di Sicilia.

Siracusa, 19 giugno 1860. — Eccellenza. — Le condizioni in coi versa questa Real Piazza sono oggi divenute più critiche che mai. La generale emigrazione dei cittadini ha vuotato alla lettera il paese, trasportandone la popolazione in Floridia, Comune oggi divenuto il capoluogo del distretto e sede del nuovo Governo rivoluzionario. Questo movimento in massa ha trascinato seco quasi tutti i pubblici funzionari: magistrati, amministratori comunali, agenti della percezione e tutte le altre singole dipendenze. Il carcere centrale, gli ospedali, la proiezione, lo stato civile, la Deputazione sanitaria ed altro son rimasti senza impiegati. Io supplisco, per quanto posso, alle svariate esigenze di questi rami di pubblica amministrazione, spedendo, fìnanco, al bisogno, patenti sanitarie, e provvedendo, con appuntamenti meglio legali, al movimento dello stato civile di quel residuo di sparuta popolazione qui rimasta. Le casse pubbliche portate via inutilizzano qualunque operazione, e la mancanza del danaro rende lacrimevole la nostra posizione, molto più in quanto alio alimento dei centotrè detenuti in questo Carcere centrale, per la quale spesa a stento, e miracolosamente, sopperisco alla giornata con mezzi e modi che la Divina Provvidenza m'inspira. Circondati dalla rivolta abbiamo appena di che vivere in questa Piazza riguardo all'Annona, e siamo a discrezione dei pochi speculatori di commestibile che con la forza son qui fatti restare.

Cosi escendo prego l'È. V. di rimanere penetrata particolarmente della mia posizione, come unico funzionario amministrativo, che resto al mio posto, e che, martire del proprio dovere, sostengo un peso di si gran lunga superiore alle mie povere forze.

Il Carafa a S. E. il Ministro di Sicilia.

Napoli, 21 giugno 1860. — Eccellenza. — Di seguito al mio foglio del 18 stato, n. 3885, le trascrivo il seguente telegramma, giuntomi ieri da Cagliari in data 16 stante.

«E' giunto ierisera un vapore da guerra sardo da Sicilia, partiti ora per Sicilia tre vapori che quà trovavansi con uomini».

Napoli, 25 giugno 1860. — Da Genova ho ricevuto il seguente telegramma: u L'Italia, piroscafo a elice, con uomini armati è partito la sera del 23 stante per Cagliari, ove stanno altri piroscafi con bandiera americana, destinati a compiere la spedizione per la Sicilia. 11 Bertani. agente di Garibaldi in Genova, ha ricevuto avviso dello invio da Londra di 2 a 3000 lire sterline. Un altro telegramma da Torino in data 23 annunzia che tre piroscafi della spedizione Bedin sono diretti per Cagliari, dove ne attendono due altri con arrollati naviganti con bandiera americana. Un altro teledramma d«l 21 da Cagliari comunica che 200 uomini sono partiti in quel giorno da Genova per la Sicilia col piroscafo Veloce di bandiera americana.

Napoli, 27 giugno 1860. — Eccellenza. — Perché V. E. ne sia informato, mi fo a parteciparle il seguente telegramma giuntomi in data del 26 giugno da Torino: «Una terza spedizione con bandiera americana si organizza a Cagliari, dove sono già giunti trecento e n'è capo Cosenz.

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I rifugiati Napoletani preparano pure una spedizione per Calabria forse per fare diversione all'attacco di Messina. Ma i preparativi Bono ancora lenti». Di V. E...

L'intendente Antonio Cortada, a S. E. il Ministro Segretario

di Stato per gli Affari di Sicilia.

Messina, 25 giugno 1860. — Eccellenza. — Sebbene non siano avvenute delle circostanze importanti negli ultimi miei rapporti sulla situazione politica, pure credo che non riuscirà superfluo per la superiore intelligenza de. rE. V. ogni avviso che tratti dell'argomento medesimo.

Le cose adunque sono nello stesso stato di prima tanto in Messina, quanto in Milazzo, soli punti rimasti, e la alterazione si volge sull'esito che si crede immediato; ora lontano, secondo le notizie che giungono ed il modo di pensare che dà luogo a differenti opinioni, sicché nella attualità non vi è stato caso speciale meritevole di particolare attenzione.

Prego quindi l'È. V ad accogliere il presente come adempimento di obbligo che credo soddisfare dalla parte mia.

Messina, 30 giugno 1860. — Eccellenza. — Compio il debito manifestare a V. E. essermi pervenuto la pregevole ministeriale del 25, Polizza n. 1114, imbarco a'  tre vapori Belga, Helvetie e Amsterdam, comprate da rivoluzionari, hanno mutati i loro nomi in quelli di Pregon, Washington e Franklin, e navigano con bandiera americana.

Messina, 4 luglio 1860. — Eccellenza. — Col mio rapporto del 29 dello stesso scorso mese, n. 163, interloquendo sullo spirito pubblico, feci cenno della diversità di opinioni che correvano intorno agli ordini costituzionali e rappresentativi del Regno, che qui si videro riportati nel Giornale Ufficiale e conchiusi che il maggior numero pensava che sarebbe stato un gran guadagno se non si mettessero a cimento le largizioni da accordarsi alla Sicilia.

E poiché V. E. mi comanda che io La informassi di tutto ciò che merita attenzione, io credo mio dovere farlo conoscere in continuazione che l'opinione di cui disponevasi nel suddetto rapporto é cambiata, mentre all'inverso oggi la maggior parte è di contrario sentimento all'accoglienza delle concessioni di cui trattasi, ritenendosi che le stesse non sono state stabilite di accordo con le potenze estere, epperò non capaci ad essere imposte alla Sicilia in caso di rifiuto. Di conseguenza a ciò, tutte le notizie che corrono sono nel senso opposto alla cessazione delle attuali emergenze ed invece alla continuazione delle ostilità.

L'Intendente ff. Montagnareale a S. E. il Ministro di Sicilia.

Siracusa, 6 luglio 1860. — Eccellenza. — E' mio dovere portare all'alta intelligenza di V. E. che ieri all'alba, in seguito alla pubblicazione dell'Atto sovrano costituente, sono apparsi ai cantoni di questa città dei piccoli carelli in stampa cosi concepiti: «Vogliamo l'annessione della Sicilia al Piemonte sotto Vittorio Emanuele Re Galantuomo».

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Tali cartelli, che si presumono venuti da Floridia, attualmente sede del governo rivoluzionario, furono, appena strappati, consegnati a questo signor Generale, comandante le armi, in numero di quattro, il quale li fece tenere al signor commendatore colonnello Severino.

In seguito a tale apparizione vari soggetti da me indicati al detto signor Generale come attendibili in politica sono stati espulsi da questa Beale Piazza.

Antonio Cortada, Intendente, al Ministro di Sicilia.

Messina, 13 luglio 1860. — Eccellenza. — Alla sera del 10 di questo mese Michele Lanfranchi, comandante della lancia di questa polizia marittima disertò insieme ad altri tre marinari portando seco la lancia con gli attrezzi ad essa inservienti.

Ho quindi disposto che la Polizia sudetta sia provveduta subito di altra lancia, affinché non manchi il necessario servizio e che i quattro marinai disertori siano rimpiazzati da altri.

Rassegno ciò all'E. V. per la sua cognizione.

(Questi documenti sono depositati negli Archivi di Stato di Napoli e Palermo; filze 1860).

VIII.

Il comandante la piazza di Napoli al publico napoletano.

D'ordine del ministero, in seguito de'  tumulti e degli avvenimenti di jeri sera e di oggi medesimo, si dichiara lo stato di assedio per questa capitale a norma degli articoli della reale ordinanza di piazza, che avranno il loro pieno vigore dal momento che ne prende conoscenza il publico con questo atto. Dovendo io prendere qual comandante di piazza l'assieme del comando, onde tutelare l'ordine pubblico, vivo sicuro che tutti gli abitanti di questa nobile capitale nella loro sublime civiltà ed energia già dimostrata, concorreranno al bene del paese con tutti i loro mezzi e piena volontà, e quindi attenersi all'esecuzione dei dettami della legge a cui ogni onesto cittadino deve essere ubbediente.

La città di Napoli splenderà in quella gloria di cui si è cinta.

In conseguenza di ciò dispongo:

1° È inebito ogni attruppamento superiore di dieci persone, i quali se si verificheranno dovranno essere subito dispersi dalla forza, che preventivamente per ben due volte dovranno essere avvertiti, e non venendo corrisposta si farà ubo delle armi.

2° È proibita l'asportazione d'armi tanto da fuoco che bianche, e coloro che saranno sorpresi in difetto a questa disposizione saranno arrestati per essere giudicati militarmente.

3° È proibita ancora l'asportazione dei grossi bastoni, per i quali si procederà come per le armi.

Infine, chiassi, voci sediziose ed altro da produrre tumulto verranno represse colle innanzi precitate norme, e promotori ed esecutori arrestati.

Il comandante la provincia e real piazza

Emanuele Caracciolo, maresciallo.

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IX.

Risposta de'  Ministri all'«Atto Sovrano».

Sire. — Col memorabile atto sovrano del di 25 giugno la Maestà Vostra annunziava ai popoli suoi due grandi idee, cioè quella di mettere ad atto nei suoi otati il regime costituzionale, e l'altra di entrare in accordi col re Vittorio Emanuele a maggiore vantaggio delle due corone in Italia.

Quelle sublimi parole, che segnano per la Maestà Vostra e pel suo regno insieme il principio di un era grande e gloriosa, risuonarono già in tutta Europa, ed aprirono alla gioia il cuore de' suoi sudditi, che aspettano dalla virtù e dalla lealtà del loro re il compimento della grande opera.

Degnavasi la Maestà Vostra in pari tempo chiamare al potere i sottoscritti per comporre il suo consiglio dei ministri, nel quale si poneva la sua fiducia per la pronta esecuzione de'  suoi voleri, e lo incaricava della compilazione dello Statuto per questa parte del reame. Ma il nostro consiglio, sire, nell'accingersi all'adempimento del sovrano comando, ha considerato che uno Statuto costituzionale sta nel diritto pubblico del regno, cioè quello che venne largito dal defunto vostro augusto genitore Ferdinando. Il quale Statuto, se dopo qualche tempo si trovò sospeso in conseguenza di luttuosi avvenimenti, che non accade ora rammentare, non però fu mai abrogato, come in qualche altro stato europeo è avvenuto.

Che però sembra ai sottoscritti esser semplice e logica l'idea che quello Statuto appunto sia richiamato nel suo pieno vigore.

Cosi facendo la Maestà Vostra trova bella e fatta la opera della quale vuole che questi suoi Stati godano i benefici effetti, lo straniero ammirerà la sapienza della mente sovrana in questo alto provvedimento, ed i vostri popoli, senz'attendere una novella compilazione, con assai maggior sollecitudine sapranno quali sono le loro franchigie, e riceveranno con animo riconoscente questo pegno novello del re per la inaugurazione del regime costituzionale.

Napoli, 1° luglio 1860.

Giacomo De Martino — Principe di Torella — Francesco Tavario Garofalo — Giosuè Ritucci — Federico del Re — Gregorio Morelli —

Marchese Augusto La Greca — Antonio Spinelli.

X.

Proclama del re Francesco II.

Proclama di Sua Maestà (D. G. ) A questi Suoi Regi Stati.

Dopo la pubblicazione del nostro atto sovrano del 25 giugno ultimo col quale concedemmo a'  nostri popoli uno Statuto sopra basi nazionali ed italiane, insieme ad un'amnistia generale per tutti i reati politici, ed annunziammo l'idea di entrare in accordo col re Vittorio Emanuele per l'interesse delle due corone in Italia; e dopo il nostro atto successivo del dì 1° di questo mese, col quale richiamammo in vigore per questa parte de'  nostri Stati lo Statuto promulgato nel di 10 febbraio 1848,

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nobile e grande è stato il senno civile di tutte queste nostre provincie continentali e di questa nostra grande metropoli.

Hanno esse mostrata a tutta la culta Europa che questi nostri dominii non eran da meno di tutti gli altri Stati italiani, i quali sono dianzi pervenuti a rigenerazione politica e ad unità di principii. Che se questi Stati, dopo tanti secoli, nel corso de'  quali, il risorgimento di Italia, si ebbe per delirio di mente inferma, vincendo ostar oli di ogni maniera seppero elevarsi a tanta gloria, ciò non avvenne altrimenti se non per la piena sommissione, che ebbero all'indirizzo dato da valenti uomini ai grandi interessi nazionali ed alla gloria della penisola.

Nè inferiori agli altri Italiani si son dati a dividere i popoli di questi reali Stati, poiché lungi dall'abbandonarsi in questi gravi momenti agli errori che spesso riescono fatali alla libertà, e macchiano la storia delle nazioni, attendono invece nella calma più ammirevole, da noi e dal governo dello Stato, l'attuazione della grande opera loro promessa.

La nostra aspettativa dunque non fu delusa, e noi nel rendere grazie ai nostri popoli di un si nobile e glorioso contegno, li vediamo perciò altamente rincorati menare a compimento con la maggior perseveranza il gran disegno donde emanar debbono la piena felicitò, la grandezza, la gloria di questi popoli culti e gentili che la Provvidenza affidò alle nostre cure.

Ed assai più accresce la gioia del nostro reale animo il pensiero che, chiamati dagli imperscrutabili decreti della Provvidenza a reggere le Due Sicilie in età tanto giovanile, ci troviamo assai di buon'ora iniziati in quel sistema rappresentativo il quale forma ormai il diritto publico di Stati inciviliti.

Così che inoltrandoci nella difficile arte del governare questa ci verrà come spianata e fatta più facile dai lumi di una stampa saggia e veramente nazionale, e dal concorso di tutri gli uomini di alto senno politico e civile, che sederanno nelle camere legislative.

Abituati cosi noi ben presto alla pratica del sistema novellamente inaugurato, abbiamo piena fede che, col divino aiuto, queste belle provincie continentali, che formano una parte de'  nostri Stati, portando a compimento gli alti destini della grande nazione italiana, sapranno rag giungere e conseguire in breve tempo quella potenza, grandezza e prosperità che formano il maggior voto del nostro real animo.

Napoli, 15 luglio 1860.

Proclama di Sua Maestà (D. G. ) All'esercito ed all'armata.

Di nostra piena, libera e spontanea volontà abbiamo conceduto ordini costituzionali e rappresentativi al reame, in armonia co' progressi della civiltà e coi bisogni de'  popoli che la Provvidenza ha alle nostre cure confidati.

Voi entrerete lealmente in questa nobile e gloriosa via, e riunirete al patto costituzionale che ci lega in una sola famiglia, voi sarete campioni di giustizia, di umanità, di disciplina, d'amor di patria, voi la speranza dei vostri cittadini, sarete saldo sostegno del trono e delle nuove istituzioni, e strumento della grandezza e prosperità nazionale.

— 447 —

Io ricordo con tenerezza e gratitudine di qual fedeltà ed ubbidienza siete stati fin oggi capaci, ed abbiatene le più vive grazie come segno della mia soddisfazione. Niuno più del vostro sovrano può rendere le debite lodi ai vostri meriti, che i deplorabili trascorsi di taluni pochi traviati per ignoranza o per maligne e stolte insinuazioni, non possono denigrar». Ora conviene che onorevoli per dignità e moderazione facciate del vostro braccio sostegno al nuovo ordine di cose e ad una nuova politica ferma e conciliante, la quale valga a dar fiducia alle popolazioni e dileguar le apprensioni della diplomazia, di vedere sconvolto l'equilibrio politico dell'Europa; ed il vostro passato mi è garante dell'avvenire.

Soldati, novelle sorti ci chiamano a rialzar la dignità del nostro paese italiauo: siate alteri di questo mandato. Il popolo che ha fatto redivivere per due volte la civiltà di Europa, non verrà meno al difficile arringo di riconquistar colla sua indipendenza quell'alto primato che la sua posizione geografica, la forza delle armi e la storia gli consentono; di questo popolo voi siete gran parte e sostener ne dovrete oggimai la gloria e la grandezza

Napoli, 15 luglio 1860.

XI.

Il Ministro dell'Interno a'  cittadini di Napoli.

Cittadini! — Nei gravi momenti in che venni assunto alla prefettura di polizia di questa nobilissima capitale, non indarno mi rivolsi al vostro senno civile. Lo spettacolo che deste alla nostra Italia ed alla Europa di un popolo degno per saviezza e temperanza dei suoi novelli destini, mi confortò non poco nelle ardue e penose incombenze. Vi ringrazio della vostra carità cittadina, ma se l'amore dell'ordine, la moderata ansia dell'aspettazione, la concordia pacata degli animi aiuta a superare le prime difficoltà, compagne di ogni transizione politica, è la sola persistenza in questo virtù civili che coopera eminentemente a raffermare le libere istituzioni, a fecondare i generosi principii, a ritrarre degna cittadinanza da ordinata libertà. Di questi ricordi non è uopo. Costanti nel bello e. comune proposito nei giorni di periglio, son certo che mi darete novella e più grande occasione di ammirarvi ora che la real corona va in parte a circondarsi di nuovi consiglieri. Io tra questi chiamato dall'augusto sovrano al ministero dell'interno e della polizia, troverò nella costanza del volere, nella lealtà de'  principii, ne' lumi degli onorevoli uomini miei compagni, e sopra tutto nella confidenza del paese, la forza sufficiente per condurre in modo conforme all'altezza dei tempi e con impulso vitale un ministero destinato a coordinare nei limiti de'  poteri costituzionali, ed in mezzo a sagace andamento della publica autorità la macchina dell'amministrazione civile alle nuove maniere di reggimento. Agevolatemi quindi del vostro concorso, affinché alla prontezza ed efficacia delle intenzioni, rispondano pronti e durevoli effetti; alle antiche speranze di una vita politica, forte ed italiana, ne consegua il celare raggiungimento.

Intanto vi annunzio che ii ministero va a completarsi con nomi a voi noti per fermezza di carattere ed amore verso la patria comune.

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Appena integralmente costituito darà il programma della sua condotta, per indi mettersi indeclinabilmente sul cammino, a cui meta siede la pubi! ca prosperità, il risorgimento, l'onore, la grandezza della nazione. Napoli, 16 luglio 1860.

Il Ministro segretario di Stato dell'interno e della polizia generale

Liborio Romano.

XII.

Ordine del giorno 17 luglio 1860, emanato dal Maresciallo di campo Pianell, Ministro della guerra dell'Esercito Napoletano.

Chiamato dalla Sovrana clemenza al grave difficile incarico del Ministero della guerra, ne assumo ogni responsabilità fidente nella universale cooperazione, ma sento l'obbligo ed il dovere di manifestare fin dal primo istante, e con piena franchezza, quali mai saranno i fermi miei divisamenti.

Gli ordini costituzionali e rappresentativi conceduti da Sua Maestà (D. G.) vogliono che ormai, se pur è necessario, si stringa vieppiù l'esercito alla patria, ed i militari tutti ubbidienti e disciplinati, tutelino nel tempo stesso gl'interessi più vitali del Trono e dell'universale.

Deciso ad evitar sempre qualsiasi discordia intestina e fratricida, l'esercito chiamato a lottare avrà tutti i mezzi, e la forza per combattere e trionfare. Abbia dunque fiducia nei capi e quella obbedienza passiva, che è fondamento ad ogni ordinato esercito, e siasi sicuro il risorgimento italiano. Per tanto scopo non mai verrà meno la dovuta ricompensa al merito, al valore, alla devozione verso del Re e alle novelle istituzioni. E per l'opposto l'inadempimento dei propri doveri, la tolleranza o negligenza verso i subordinati, la trepidezza verso le nuove istituzioni, avranno col biasimo il castigo.

Gli uffiziali Generali e di qualunque rango, i sott'uffiziali e soldati abbiano perciò in mente, che il Re costituzionale, alleanza italiana, autonomia propria, bandiera italiana, ormai ci riuniscono come in una sola famiglia, onde dimostra che siam tutti mallevadori delle novelle istituzioni profittevoli dell'universale e segnatamente a quanti sono, s'incamminano nella gloriosa carriera delle armi.

XIII.

Lettera di Leopoldo, Conte di Siracusa, al re Francesco II.

Sire. — Se la mia voce si levò un giorno a scongiurare i pericoli che sovrastavano la nostra casa, e non fu ascoltata, fate ora che, presaga di maggiori sventure, trovi adito nel vostro cuore, e non sia respinta da improvido e più funesto consiglio.

Le mutate condizioni d'Italia ed ii sentimento dell'unità nazionale, fatto gigante nei pochi mesi che seguirono la caduta di Palermo, tolsero al governo di V. M. quella forza onde si reggono gli Stati e rendettero impossibile la lega col Piemonte.

— 449 —

Le popolazioni dell'Italia superiore, inorridite alla nuova delle stragi di Sicilia, respinsero coi loro voti gli ambasciatori di Napoli e noi fummo dolorosamente abbandonati alle sorti delle armi, soli, privati di alleanza, ed in preda al risentimento delle moltitudini che da tutti i luoghi d'Italia si sollevarono al grido di sterminio lanciato contro la nostra casa, fatta segno alla universale riprovazione. Ed intanto la guerra civile, che già le provincie del continente, travolgerà seco la dinastia in quella suprema rovina che le inique arti di consiglieri perversi hanno da lunga mano preparata alla discendenza di Carlo III Borbone, il sangue cittadino inutilmente sparso inonderà ancora le mille città del reame, e voi un di speranza ed amore dei popoli, sarete riguardato con orrore, unica cagione di una guerra fratricida.

Sire, salvate, che ancora ne siete in tempo, salvate la nostra casa dalle maledizioni di tutta Italia! Seguite il nobile esempio della nostra legale congiunta di Parma, che allo irrompere della guerra civile sciolse i sudditi della obbedienza e li fece arbitri dei propri destini. L'Europa ed i vostri popoli vi terranno conto del sublime sacrificio, e voi potrete, o Sire, levare confidente la fronte a Dio, che premierà l'atto magnanimo della M. V. Ritemprato nella sventura il vostro cuore, esso si aprirà alle nobili aspirazioni della patria, e voi benedirete alla grandezza d'Italia.

Compio, o Sire, con queste parole il sacro mandato, che la mia esperienza m'impone, e prego Iddio che possa illuminarvi, e farvi meritevole delle sue benedizioni.

Napoli, 24 agosto 1860.

Di V. M. affezionatissimo zio

Leopoldo conte di Siracusa.

XIV.

Proclami del Generale Medici agli abitanti della Provincia

di Messina e agl'Italiani dell'Armata di Napoli.

Abitanti della provincia di Messina.

Il Dittatore di Sicilia mi affidò il comando della vostra provincia.

Il difficile incarico mi onora altamente, ma non per questo domando meno austeramente a me stesso, se le mie forze risponderanno alla

ravità della missione che ho assunta. Se in quelle unicamente avessi ovuto fidare, non avrei accettato; ma due ragioni mi confortano dall'altra parte ad accogliere il mandato — il dovere di pormi tutto al servizio del paese, e la sicurezza che ho di trovarmi assistito dal concorso di tutti i buoni, da tutti coloro che amano il bene della patria sopra ogni altra cosa.

Inviato di Garibaldi e altero di potermi chiamare suo compagno d'armi, poche parole ho da dirvi, e le dirò come lo vogliono i tempi e le circostanze — libere e franche, e senza jattanza.

Lungamente educato a libertà, fui soldato di lei sempre che mi fu dato impugnare un'arma per difenderla. E libertà per me vuol dire giustizia, virtù, moralità. — Tale è la libertà civile, educatrice, generosa, che io sono pronto a far rispettare da tutti e per tutti.

— 450 —

A questi principii sono informate le leggi che il potere dittatoriale emana, e che dovranno essere scrupolosamente osservate.

Convinto che la libertà porta seco dei diritti, che si debbono proteggere e difendere contro un partito che li vuole conculcati — che per fini iniqui e indegni del secolo in cui viviamo, agogna sostituire alla luce della libertà e del progresso il tristo e doloroso tenebrìo dell'ignoranza — che per combattere cotesti avversatori occorre la forza, non la forza brutale, ma la emancipatrice rappresentante l'energia e la volontà di un popolo — mi occuperò con studio indefesso della quistione militare.

A questo riguardo, se mi aspetto corrispondenza di intenti e di cooperazione da tutte le parti della pubblica amministrazione — se per riuscire farò tesoro di tutte le forze vitali del paese, mi attendo peculiare e possente appoggio dai governi animosi della Sicilia. In presenza del sublime spettacolo di migliaja di volontari accorrenti dall'Italia settentrionale per compiere il dovere di patrioti italiani nell'Isola i loro fratelli del sud non si staranno inerti. — Nei giovani sono poste le maggiori speranze della patria, perché al santo entusiasmo degli anni giovanili vanno congiunti intelletto, vigore ed animo risoluto — perché i canuti sono cauti custodi della sapienza passata, i giovani sono i soldati dell'avvenire.

E coi nostri giovani battaglioni ci atteggeremo a potenza, e sicuri del fatto nostro, proseguiremo la guerra, e finiremo di vincere. Pur troppo ancora una volta, le nostre armi dovranno essere rivolte contro gli avversari nati sullo stesso suolo, parlanti la medesima favella, e dallo stesso sole d'Italia nostra riscaldati. Ma il principio della libertà è più forte di noi tutti, perché è necessario. — Si ritemprino anch'essi a quel principio — un bello avvenire li attende. Lo straniero calpesta ancora molta parte di terra italiana, la redenzione di quel territorio sia la loro redenzione. Essi che sanno essere buoni soldati per una bandiera di schiavitù, senza gloria e senza onore, saranno eroi il giorno in cui potranno chiamarsi militi della patria — quando un principio immortale s'agiterà dentro di loro, e di schiavi li farà uomini e liberi.

Il principio per cui si combattè a Magenta e a San Martino, a Varese ed a Como è quello istesso che ha chiamato alle armi il popolo di Sicilia, che fa accorrere volontari da tutte parti d'Italia, che ci chiamerà all'armi domani. — Il grido d'allora, dei morenti e dei vincitori, era Italia una. Tale sarà il nostro. — Coi nobili esempi di re soldato e leale, e di Garibaldi giunto all'altezza di Washington non possiamo arrestarci a mezzo il cammino.

Abitanti della provincia di Messina!

La fortuna ci ha posti all'avanguardia — è un posto d'onore — sappiamo mostrare al mondo che ne siamo degni sotto ogni rispetto.

E quando potremo dire d'aver fatto il nostro dovere come uomini, come cittadini e come soldati, avremo vinto, e l'Italia signora una volta di sé siederà tra le civili nazioni.

Barcellona, 5 luglio 1860.

Il comandante generale della provincia di Messina G. Medici.

— 451 —

Un altro proclama egli dirigeva a quell'armata napolitana, che aveva a fronte, e nel quale la libera parola dell'Italiano cercava scuotere i soldati regj, perché disertassero la bandiera, e venissero insieme agli altri eroi a combatter per l'unità della patria e per l'indipendenza della propria nazione. Il Medici seguiva in tutto il buono esempio di Garibaldi, e poteva chiamarsi il più vigoroso fedele interprete delle sue opinioni.

Agli Italiani dell'Armata di Napoli.

Fratelli — Quando tatto il mondo guarda plaudente all'Italia, perché volete soli rimaner ludibrio d'Italia e del mondo?

Quando tutta la nazione è raccolta sotto il glorioso vessillo tricolore, perché voi soli volete rimanere sostenitori di una bandiera sulla quale sta scritto da un parte spergiuro, dall'altra infamia t

Quando i più generosi giovani d'Italia si fanno campioni valenti di libertà, perché voi soli volete rimanere ignobili strumenti della tortura e della cuffia del silenzio t

Pensatelo — voi pure siete valorosi — ve lo ebbe a dire il più valoroso dei soldati — ve lo disse Garibaldi a cui teneste fronte. E combattevate contro l'Italia la madre vostra.

Quelle istesse armi rivolgetele contro lo straniero, contro i nemici d'Italia, e sarete tanti eroi.

Pensatelo — voi potreste avere il petto fregiato da nomi immortali, come Crimea, Palestro, Magenta, San Martino, Como e Varese — e non avete invece che memorie di lotte fratricide.

Per l'onor vostro — per la vostra salute scuotetevi, o siete perduti, come perduta è la causa che servite.

Redimetevi combattendo i nemici della Patria — venite con noi — vi stendiamo la mano — stringetela — assieme saremo invincibili. Con una patria libera e grande tutte le nostre attività troveranno onorevole sviluppo.

Oggi non vi ha che un'Italia da servire — servitela. — Gettatevi nel suo seno, venite ad accrescere i combattenti per essa.

I vostri gradi saranno conservati — sarete anche promossi — ai vostri soldati, agli ufficiali a tutti che n'avranno bisogno sarà prestata immediata assistenza.

Venite a noi come fratelli, e sarete accolti come tali — come tali protetti.

Barcellona, 1° luglio 1860.

G. Medici.

XV.

Al Bello e Gentil Sesso di Palermo.

Colla coscienza di far bene, io propongo cosa gradita certamente ad anime generose come voi siete, o donne di Palermo!... A voi ch'io conobbi nell'ora del pericolo!... belle di sdegno e di patriottismo sublime!... disprezzando nel furore della pugna le immani mercenarie soldatesche, ed animando i coraggiosi figli di tutte le terre italiane — stretti al patto di liberazione o di morte!

Fidente a voi mi presento, vezzose palermitane!... e per confessarvi un atto mio di debolezza, io vecchio soldato dei due mondi piansi commosso nell'anima!... e piansi... non alla vista delle miserie e del soqquadro a cui fu condannata questa nobile città!...

— 452 —

non al cospetto delle macerie del bombardamento e dei mutilati cadaveri; ma alla vista dei lattanti e degli orfani condannati a morir di fame!... Nell'ospizio degli orfani 90 su cento lattanti periscono mancanti d'alimento!... Una balia nutre quattro di quelle creature fatte ad immagine di Dio!... Io lascio pensare il resto all'anima vostra gentile — già addolorata della nuova desolante.

Nei molti congedi della mia vita... il più sensibile sarà certamente quello, in cui, io mi dividerò da voi, popolazione carissima!... Io sarò mesto in quel giorno!... ma spero la mia mestizia raddolcita da voi, nobile parte di questo popolo, colla speranza, col convincimento che le derelitte creature, cui più la sventura che la colpa ha gettato un marchio d'infamia!... ripulse lungi dal seno della società umana!... dannate ad una vita di vituperio e di miserie... quelle infelici, dico, restino affidate alla cura preziosa di queste care donne, a cui mi vincola, per la vita, un sentimento irremovibile d'amore e di gratitudine!

Giuseppe Garibaldi.

XVI,

Convenzione firmata in Messina, il di 28 taglio 1860, da Tommaso de Clary, maresciallo di campo e Giacomo Medici, maggior generale.

Convenzione

L'anno 1860, il giorno 28 luglio, in Messina, Tommaso de Clary, maresciallo di campo comandante superiore le truppe riunite in Messina, ed il cavalier maggior generale Giacomo Medici, animati da sensi di umanità, e nello intendimento di evitare Io spargimento di sangue che avrebbe causato l'occupazione di Messina da una parte, la difesa della città e forti dall'altra; in virtù dei poteri loro conferiti dai rispettivi mandati, sono addivenuti alla seguente convenzione:

1° Le reali truppe abbandoneranno la città di Messina, senza essere molestate, e la città sarà occupata dalle truppe siciliane, senza pure venir queste molestate dalle prime.

2° Le truppe regie evacueranno i forti Gonzaga e Castellacelo nello spazio di due giorni a partire dalla data della sottoscrizione della presente convenzione. Ognuna delle due parti contraenti destinerà due ufficiali ed un commissario per inventariare le diverse bocche a fuoco, i materiali tutti da guerra, e gli approvigionamenti dei viveri e di quant altro esisterà nei forti suindicati all'epoca che questi verranno sgombrati. Resta poi a cura del governo siciliano lo incominciare il trasporto di tutti gli oggetti inventariati, appena verrà effettuato lo sgombro dei soldati; di compierlo nel minor tempo possibile, e consegnare i materiali trasportati nella zona neutrale di cui si tratterà appresso.

3° Lo imbarco delle reali truppe verrà eseguito senza che venga molestato per parte dei Siciliani.

4° Le truppe regie riterranno la cittadella coi suoi forti don Blasco, Lanterna e S. Salvatore, con la condizione però di non dovere in qualsiasi avvenimento futuro recar danno alla città, salvo il caso che tali fortificazioni venissero aggredite, o che i lavori d'attacco si costruissero nella città medesima. Stabilite e mantenute coteste condizioni, la inoffensività della cittadella verso la città durerà sino al termine delle ostilità.

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5 Vi sarà una fascia di terreno neutrale, parallela, e contigua alla zona militare, la quale si intende debba allargarsi per 20 metri oltre i limiti dell'attuale zona che va inerente alla cittadella.

6° Il commercio marittimo rimane completamente libero d'ambe le parti. Saranno quindi rispettate le bandiere reciproche. In ultimo resta all'autorità dei comandanti rispettivi che stipulano la presente convenzione la libertà d'intendersi per quei bisogni inerenti al vivere civile, che per parte delle regie truppe debbono venire soddisfatti e provveduti nella città di Messina.

Fatta, letta e chiusa il giorno, mese ed anno, come sopra, nella casa del signor Fiorentino Francesco, banchiere alle Quattro Fontane.

Tommaso db Clary, maresciallo di campo.

Cavaliere Giacomo Mbdigi, maggiore generale.

CAPITOLO UNDECIMO.

Vicende di Napoli — Il proclama del Ministero e la politica piemontese — Nuove spedizioni di volontarj — Garibaldi in Sardegna — La Circolare del Farini, ministro dell'interno del Piemonte, e il comento alla stessa del Mazzini — Condizione della Sicilia e dissidj nell'esercito volontario — Passaggio di Garibaldi nella Calabria — Attività del Castiglia da Torre di Faro alla Calabria — Atto militare del generale Enrico Cosenz — Le scissure politiche in Napoli — La corte e il conte di Siracusa — L'esercito regio — Il Pianell, il suo ritiro e le sue lettere a Francesco II — Francesco II lascia la corte di Napoli dando un saluto al popolo — Giuseppe Garibaldi, trascorse le Calabrie e il Salernitano, giunge nella capitale del regno — Contegno della popolazione e de'  capiparte — Giudizio sulla missione di Littorio Romano — Il governo della rivoluzione in Napoli — Dissentimenti in Sicilia — Il Crispi e il Depretis in Napoli — Il Depretis lascia la prodittatura — Garibaldi in Palermo ed esposizione delle sue teorie politiche — Il conte di Cavour e le annessioni — Garibaldi di ritorno in Napoli — Il Mordini prodittatore in Sicilia e formazione del nuovo Ministero — Invasioni delle truppe piemontesi nelle Marche — Combattimenti — Una nota diplomatica del conte di Cavour.

Napoli, dopo l'Atto Sovrano del di 25 giugno, alle prime indifferenze aggiunse le altre, publicatisi i quattro decreti del primo giorno di luglio. Il primo dava vigore alla costituzione dei 10 febbraio 1848, il secondo destinava il giorno 10 settembre per la convocazione del Parlamento nazionale; il terzo, promettendo di provvedere per una legge sulla stampa, provvisoriamente invocava le disposizioni contenute ne' decreti del 27 marzo, del 25 maggio 1848 e del 6 novembre 1849; il quarto istituiva una commissione di quattro componenti alla dipendenza del Ministro dell'interno, e dallo stesso presieduta per la preparazione de'  progetti di varie leggi costituzionali. Questi decreti, promettenti di cancellare il passato, mettendo il reame nella via della prosperità morale e civile, non ebbero né accoglienze, né lodi. Nè le ebbero per il passato spergiuro e per la violenza della polizia; perché i Borboni erano moralmente decaduti, secondo la sentenza vaga di Napoleone III: il quale avrebbe voluto, potendo dar vigore al trattato di Villafranca, sostenere le vecchie dinastie, per intercettare la strada alla rivoluzione, fermando la rapida corsa del generale Garibaldi, dell'uomo della camicia rossa, che destava curiosità, amore e sbigottimento.

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Publicato l'Atto Sovrano e i decreti, che lo avrebbero dovuto reggere, il popolo non gioì, né sperò; anzi i consiglieri del re, a maggiore condanna di costui, evocarono una memoria funesta, esprimendo nel primo decreto: «La costituzione del 10 febbraio 1848, concessa dal nostro augusto genitore, è richiamata in vigore». Determinazione, che, vieppiù, condannò la sorte del figliuolo; poiché quella data ricordava un lungo patire, e un solenne spergiuro, che, dopo quello del 1821, aveva accresciute le sventure, gittando nel lutto un popolo. Di tali colpe non doveva rispondere Francesco II; ma egli ne rispondeva, per la poco esperienza, pe' ministri reazionari, per la corte, che congiurava contro di lui, parendole non volere egli tenere fermo alle tradizioni di Casa Borbone, degenerata col figliuolo di Carlo III. Il popolo era trascinato; gli mancavano le convinzioni; senza fede attendeva i risultati de'  mutamenti, non presago che la sua grande metropoli forse sarebbe discesa dal suo splendore. E a giudicar bene que' momenti, vogliamo riferirci a uno scrittore contemporaneo, che, in poche linee, li ritrae con eccellenza. «Odio vero contro il Borbone non v'era, né amore all'unità e all'indipendenza della patria; ma tutta gente che stava lì, come aspettando il fato, pronta a seguire e a secondare l'impulso, purché gli fosse dato; incapace d'ogni ardita iniziativa. Sempre il tipo del popolo orientale, che si lascia andare per la china, facilmente manegevole, e che può esser così trascinato così all'eroismo come a crudeltà barbariche. Nel soldato poi si rifletteva l'animo del popolano, nello stesso modo che il patriziato e la borghesia avevano grande imperio sulle infime classi, gli ufficiali potevano molto sui loro soldati; ma ad ossi mancava fede e vigoria, e si sentivano quasi sopraffatti dai destini d'Italia» (1). Nè le parole sovrane avevano avuto alcun effetto: invano Francesco II, nello stesso giorno, si era rivelato sinceramente a'  Regi Stati e all'Esercito (2).

La libertà di stampa e il ritorno degli esuli aveva eccitati gli animi; e addipiu si erano eccitati nel Napolitano giungendo le notizie di Sicilia, ove Garibaldi ad ogni passo segnava una vittoria, e l'esercito regio,

(1)Memorie di Mariano D'Ayala e del suo tempo (1808-1877), scritte dal figlio Michelangelo, p. 285. — Torino-Roma-Firenze, Fratelli Bocca, 1886.

(1)Vedi Documenti, X, del cap. X, vol. II.

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per le viltà e pe' tradimenti, a mano a mano lo sfacelo (1). La Sicilia compiva la rivoluzione, ma, alla guisa di Napoli, mancava la coscienza nelle plebi, che si trascinavano dietro la nuova bandiera più che per odio alla dinastia per vendette, per il rinnovamento delle anarchie e delle stragi del 1820 e del 1848, impedite ora energicamente da Garibaldi (2). Napoleone aveva consigliato ravvicinarsi del re di Napoli a quello del Piemonte; ma recatisi a Torino Giovanni Manna e Antonino Winspeare, nella metà del luglio, assente il re sabaudo da Torino, dopo varie conferenze diplomatiche tra il Manna e il conte di Cavour, tra il Winspeare e il barone di Talleyrand, senz'alcuna decisione, dopo il pranzo ufficiale tenuto a'  plenipotenziarj napoletani, al quale intervennero i ministri del Piemonte, i plenipotenziarj d'Inghilterra, di Francia, di Prussia, di Svizzera e dell'incaricato degli affari di Russia, il di 25, furono ricevuti da Vittorio Emanuele, che, non avendo giudizio da sè, rimise le risoluzioni al conte di Cavour, come ministro degli affari esterni. Sperarono i plenipotenziarj napoletani, ma il conte di Cavour li tenne a bada, allegando non potere nulla operare di concreto, finché non s'avesse avuta conoscenza delle intenzioni del Parlamento napoletano a compiere in modo qualsiasi l'atto diplomatico si concluse, e della sincerità o della finzione nulla può affermarsi, che Vittorio Emanuele avesse scritto a Giuseppe Garibaldi una lettera per impedire l'imbarco nel Napoletano, facendosi latore della stessa il conte Giulio Litta Modignani, ufiziale di ordinanza del re Vittorio Emanuele, in seguito alle cerimonie cordiali diplomatiche, scriveva:

(1)Vedi Documenti, I.

(2)«Ordinanza,

«Il popolo di questa sublime ed eroica città ba sprezzato con una costanza degna dei tempi antichi la fame ed i pericoli che sono una conseguenza della guerra fratricida che i traditori d'Italia han provocato; pur non di meno la proprietà del cittadino è stata scrupolosamente conservata e protetta. Lode adunque al popolo: essa ha ben meritato della patria. Onde evitare intanto che qualche malvagio, che non può essere parte del popolo, col disegno di servire alla causa dei nostri nemici, e gettare lo scompiglio ed il marchio d'infamia su questo popolo generoso, si abbandonasse al furto, alla rapina, abbiamo risoluto quanto appresso:

«I reati di furto, d'omicidio e di saccheggio di qualunque natura, saranno puniti con pena di morte.

«Essi saran giudicati dal consiglio di guerra, dipendenti dal comandante in capo delle forze nazionali e Dittatore in Sicilia.

«Il comandante in capo e Dittatore

«G. Garibaldi».

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«Generale!

«Voi sapete che io non ho approvato la vostra spedizione, alla quale sono rimasto assolutamente estraneo. Ma oggi, la posizione difficile nella quale versa l'Italia mi pone nel dovere di mettermi in diretta comunicazione con voi.

«Nel caso che il re di Napoli concedesse l'evacuazione completa della Sicilia dalle sue truppe, se desistesse volontariamente d'ogni influenza e s'impegnasse personalmente a non esercitare pressione di sorta sopra i Siciliani, dimodoché essi abbiano tutta la libertà di scegliersi quel governo che a loro meglio piacesse, in questo caso io credo che ciò che per noi tornerebbe più ragionevole sarebbe di rinunziare ad ogni ulteriore impresa contro il regno di Napoli. Se voi siete di altra opinione, io mi riservo espressamente ogni libertà d'azione, e mi astengo di farvi qualunque altra osservazione relativamente ai vostri piani (1).

E i contrasti di questa lettera con l'altra del 27 giugno, che in un re, chiamato galantuomo, non possono essere stimate una menzogna, distruggono, per le mali arti politiche, que' concepimenti, che si dissero sorti nella notte cupa di Novara, o nell'unire le soldatesche piemontesi a quelle di Francia e d'Inghilterra per combattere la Russia nei campi di Crimea, e, per l'equilibrio europeo, tenere difesa per la Turchia. «Voi — scrive il Re — sapete che io non ho approvato la vostra spedizione, alla quale sono rimasto assolutamente estraneo. Nel caso, soggiunge, il re di Napoli concedesse l'evacuazione completa della Sicilia dalle sue truppe, se desistesse volontariamente d'ogni influenza e s'impegnasse personalmente a non esercitare pressione di sorta sopra i siciliani, dimodoché essi abbiano tutta la libertà di scegliersi quel governo che a loro meglio piacesse, in questo caso io credo che ciò che per noi tornerebbe più ragionevole sarebbe di rinunziare ad ogni ulteriore impresa contro il regno di Napoli».

(1) Prima di questa lettera Vittorio Emanuele ne aveva scritta un'altra a William De Roohan, americano, che aveva preso parte nel 1860 alla spedizione di Sicilia, e che condusse la seconda spedizione su tre vapori: Washington, Franklin e Oregon. A lui scriveva. «Commandant. Je vous rendois ci-inclus les deux lettres de Medici, que vous mettrez dans l'autres enveloppes, et livrerez à Cavour. J'ai déjà donne trois millions à Bertani. Retournez immédiatement à Palerme pour dire à Garibaldi que je lui enverrai Valerio en place de La Farina; et qu'il s'avance immédiatement sur Messina, Francesco étant sur le point de donner une Constitution aux Napolitains.

«Votre ami

«Victor Emmanuel.

«21 juin 1860».

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Detti che veramente annichilendo il concetto di unificazione, battezzato col sangue del martirio, darebbero trionfo all'avidità, alla conquista. E ad essi il Generale Garibaldi, compreso dal sentimento nazionale, risponde con espliciti modi, che condannavano le ritrosie o le tergiversazioni politiche del re: oramai Giuseppe Garibaldi era la stella d'Italia!

«Sire,

«La Maestà Vostra conosce l'alta stima e l'affetto che sento per la sua persona. Ma la situazione attuale delle cose in Italia non mi permette di ubbidirla com'io desidererei. Chiamato dalle popolazioni, io mancherei al mio dovere, e comprometterei la santa causa d'Italia, se ancora esitassi.

«Permettetemi adunque, Sire, di disubbidire per questa volta. Tostoché avrò raggiunto la meta, ed avrò liberato i popoli da un giogo detestato, poserò la mia spada ai vostri piedi, e vi sarò ubbidiente sino alla fine della mia vita».

Al programma di Liborio Romano, del 16 luglio, si aggiungeva il 4 agosto quello del Ministero (1), proponendosi che il paese avesse conosciuto «le norme generali con cui lo Stato cammina, sappia i principii che il governo intende affidare al presente come cemento dell'avvenire, vegga il primo ordito del nostro essere nazionale libero e indipendente. Per tal guisa la pubblica opinione illuminata degli atti e delle intenzioni procederà all'esercizio del diritto elettorale con calma fiduciosa nella fermezza dei nuovi ordini, e con coscienziosa deliberazione nella scelta de'  suoi deputati».

Il programma fu accolto benevolmente da'  devoti del Borbone; con freddezza e con biasimo dal partito della rivoluzione, che, per opera degli emigrati, mirava all'annessione del Piemonte. Di molto interesse si fecero i funeri in onore di Guglielmo Pepe, celebrati nella chiesa de'  Fiorentini, li 8 agosto, con ricordi e allusioni vivaci (2).

(1)Vedi Documenti, II.

(2)Era la memoria di Guglielmo Pepe sacra all'Italia. Nelle vicende napoletane del 1821, contro lo spergiuro, promosso a Lubiana, combatté animosamente gli Austriaci, e, vinte le forze, disorganizzate, napoletane, scelse l'esilio, cospirando per la libertà. Reduce nel 1848, mosse, chiamato da re Ferdinando II, a capo l'esercito per la guerra della indipendenza. Non cedendo allo spergiuro s'internò in Venezia, segnando in que' terribili combattimenti la pagina più eroica della sua vita. Dopo le sventure nazionali ritornò alla vita raminga, finché ricettato in Torino, moriva nel 1855 compianto universalmente. Ridestare la memoria di quest'uomo si grande e immaculato era virtù somma!

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Molto significante la lettera di Pasquale Stanislao Mancini a Mariano D'Ayala, nella quale concludeva: «Il giorno in cui un Parlamento comincerà costì a funzionare, tutto sarà perduto; nella massa di questo buon popolo non vi è che un grido di scandalo e d'indignazione contro Napoli» (1). Procedeva alacremente nella propaganda politica piemontese il Comitato dell'ordine, schiavo nelle opinioni alla Società Nazionale di Torino, col giornale il Corriere di Napoli. Ma ritornati gli esuli, uomini eminenti, tra cui lo Zappetta, celebre nel giure penale, ingannati momentaneamente, si allontanano da questo Comitato, e costituiscono il Comitato d'azione, mettendosi in legami con quello di Genova, non volendo, piuttosto che alla libertà, rendere servigj alla politica di allargamento del Conte di Cavour. Tutto cospirava contro le sorti del Borbone, e il maggior cospiratore, il Piemonte, rappresentato dal Conte, negava recisamente di avere parte alcuna nella rivoluzione; ed oggidì il giudizio de'  posteri non saprebbe come non contraddire tali osservazioni, ripensando alle parole del Garibaldi rivolte ad ambi i Comitati: «Ogni movimento rivoluzionario operato nelle provincie napoletane in questa quindicina, sarà non solamente utilissimo, ma darà una tinta di lealtà, in faccia alla diplomazia, al mio passaggio sul continente».

Questo scriveva Giuseppe Garibaldi da Messina ne' primi giorni dell'agosto, e nello stesso mese partiva per la Sardegna, per acquetare gli animi de'  volontarj, agitati per cagione dei sospetti nutriti dal governo sardo, che temendo la rivoluzione negli Stati papali, temendo il Bertani e il Nicotera, che erano a capo de'  volontarj, e temendoli per la fantasima della republica, arresta capi e gregarj, per impedire ogni disbarco nel territorio pontificio, permettendo soltanto che le nuove raccolte legionarie ponessero piede in Sicilia. Alle viltà de'  timori, si aggiunse la prepotenza di Luigi Carlo Farini, ministro dell'interno nel Piemonte, il quale, recatosi a Genova, per osservare da vicino quanto si disponeva, usò di ogni mezzo, violento, per guastare le opere del partito d'azione, ricordando le gesta poco liberali, compiute da lui ne' precedenti mesi. Il Bertani si era recato in Sicilia per prender consiglio dal Garibaldi, gli 8000 volontarj da Genova si erano concentrati nel golfo degli Aranci, al nordest dell'isola di Sardegna, tra l'isola di Caprera ed il capo Figari, i volontarj di Toscana erano stati pare costretti a seguire gli stessi ordini, raggiungendo i loro compagni,

(1) D'Ayala, Memorie citate, p. 293, ediz. cit.

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 per attendere ivi le ulteriori disposizioni del dittatore. E Garibaldi, che fu atteso lungamente, imbarcatosi il 22 agosto sul Washington, era giunto al golfo degli Aranci chetando gli animi, disgustati da'  precedenti del governo di Vittorio Emanuele. Visitata Caprera, il dì 16 Garibaldi sbarcava a Palermo, tosto ripartendo per Messina.

Luigi Carlo Farini, famigerato nelle arti poliziesche, partigiano per istinti, come bene addimostrò, senza ritegni, nell'opera Lo Stato Romano dal 1815 al 1850, ritornato a Torino, il di 13 agosto, spediva una circolare ai signori governatori e ai signori intendenti generali (1), e la espressione troppo aperta della stessa, mirava a disvelare la esistenza delle sètte, rivendicando — strano agire della politica! — al re del Piemonte la direzione del movimento nazionale; facendo conoscere che lo stesso sarebbe potuto venir meno per opera de'  settarj. Al grave insulto, che offendeva la maggioranza degl'Italiani, che con sacrifizj di sangue avevano combattuto lungamente le tirannidi, e dal 1859 la diplomazia, che, mallevadrice di libertà, la opprimeva, volendo spenta la rivoluzione, immenso fu il risentimento, sì che il governo sardo rimediò con una mistificazione, tollerando, con passaporto, il disbarco in Sicilia de'  volontarj, ed accrescendo la impudenza delle menzogne divulgando stampe prezzolate su' nuovi armamenti dell'Austria. Mentre il conte di Cavour e il Farini, costui lancia spezzata a'  comandi del primo, mettevano il dissolvimento con la rigorosità di novelli atti polizieschi, la gioventù d'Italia, ispirata al sentimento patrio, accogliendo i consigli di Giuseppe Garibaldi, si rassegnava, senza punto tumultuare; e mentre i politici del governo di Savoia cospiravano contro la libertà, che doveva edificare la nuova Italia, si ode il ruggito del leone che li spaventa, li sommette, li incenerisce. Giuseppe Mazzini, il grand'uomo del secolo, la più alta coscienza de'  tempi moderni, il creatore della nuova Italia, sorge a vituperare la circolare di un Farini (2); della quale le parole ultime furono credute memorande, alte e sincere, e i giovani d'Italia ne furono commossi: «Noi — diceva l'Esule — siamo forti e ostinati. Abbiamo per noi l'istinto della gioventù, del popolo d'Italia. L'istinto che, come accennai più sopra, ci ha dati pur ora in pochi più di sei giorni — e poi che avevamo ceduto migliaia a tre spedizioni per la Sicilia — oltre a sei mila volontarj.

Abbiamo per noi i fati d'Italia. E abbiamo per noi una tempra,

(1)Vedi Documenti, III.

(2)Vedi Documenti, IV.

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 che può forse rompersi, piegarsi non mai; una ferrea determinazione che né sciagure, o delusioni, o canizie e rovina di forze fisiche hanno potuto mutare. Vogliamo la patria, la patria una e rapidamente. Possiamo cedere su tutto: su questo no. Potete, sapete darcela? Saremo con vol. Dove no, saremo coi fati d'Italia e colla nostra audacia. Voi potrete impedirci in un punto: ritenteremo nell'altro. Potete deludere i nostri disegni due, tre, quattro volte: ritenteremo la quinta. Potete sequestrare — sequestrerete forse codardamente quest'una — le nostre stampe. Diremo come un tempo, clandestinamente, il vero all'Italia, che finirà per intenderlo. Potete imprigionare taluni fra noi: sorgeranno altri a continuare l'opera nostra. Quando il tempo è maturo al compimento d'una missione, Dio suscita dalla prigione o dalla sepoltura d'un uomo un altro uomo più potente di lui» (1). E tali detti, che veramente riflettevano i sentimenti d'ogni uomo nato in Italia, non potevano ancora stranamente far ripetere al Garibaldi: Mazzini guasta tutto ciò che tocca. No, Giuseppe Mazzini non guastava, ma irrompeva, sempre da forte, per istrappare da potere insano e dinastico la creazione sublime della sua mente, quella che scaldava i petti italici, non corrotti da arti monarchiche. E Garibaldi, giovine, ispirandosi alla bandiera della Giovine Italia, lo ammirò, ora da prodigioso combattente, ora da figura leggendaria.

Pria che Garibaldi avesse preso le vie di Calabria, per giungere alla capitale del reame, turbato sulle dissenzioni dominanti nell'esercito volontario e sulle condizioni turbolenti della Sicilia, non si ritenne di recare i provvedimenti migliori. La parte interna dell'isola satisfava le sue vendette colle rapine e col sangue; sicché nella provincia di Catania, militarmente, con la ferocia delle fucilazioni, anche per il solo sospetto, tosto eseguite, provvide l'austerità del Bixio, che lasciò poca leggiadra memoria di sè, specialmente nel paese montuoso di Bronte. Forse era una necessità aggiunger sangue al sangue; ma i popoli, che non siano conquistati, richiedono tutt'altri ordini, tutt'altre leggi, che non si racchiudono nel cervello militare. Sembrando più pericoloso al Garibaldi i dissentimenti del nuovo esercito, sorti per il disprezzo degli accorrenti dalla terraferma contro gl'isolani, e sorti per il contegno prepotente de'  primi, che la Sicilia consideravano una terra da conquista,

Garibaldi proferì parola solenne, che non ebbe, né allora,

(1) Il documento IV chiarisce l'opera del Mazzini sulla spedizione. Non altro, pel momento, diciamo sulle esagerazioni e menzogne di chi si attribuì e si attribuisce la impresa; proponendoci con larghezza trattare l'assunto ne La spedizione de' Mille.

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né indi alcun effetto, e può aver lode, non per la efficacia che n'ebbero i dissidenti, bensì per la nobiltà e la rettitudine del dire (1).

Garibaldi, pria di mettere piede nella regione calabra, esprimeva questi sensi: «L'opposizione dello straniero interessato al nostro abbassamento, e l'interne fazioni impedirono all'Italia di costituirsi. Oggi sembra che la Provvidenza abbia posto un termine a tante sciagure... l'umanità esemplare delle province tutte e la vittoria sorridente dovunque alle armi dei figli della libertà sono una prova che i mali di questa terra del genio toccano al termine. Resta un passo ancora!... e quel passo non lo pavento. Se si paragonano i poveri mezzi che condussero un pugno di prodi sino a questo stretto coi mezzi enormi di cui noi disponiamo oggi, ognuno vedrà che l'impresa non è difficile. Io vorrei però evitare fra Italiani lo spargimento del sangue; e perciò mi dirigo a voi, figli del continente napolitano. Io ho provato che siete prodi, ma non vorrei provarlo ancora, il sangue nostro noi lo spargeremo insieme sui cadaveri del nemico dell'Italia, ma tra noi... tregua. Accettate generosi la destra che non ha mai servito un tiranno, ma che si è incallita al servizio del popolo. A voi chiedo di far l'Italia senza l'eccidio dei suoi figli, e con voi di servirla e di morir per essa». La sera del dì 27 luglio disponeva che la flottiglia, raccolta nel porto di Milazzo, movesse per Torre di Faro, trasportando cannoni e munizioni ed un distaccamento della pirocorvetta Tuckery, che rimaneva inutilizzata nelle acque di Milazzo. La mattina del dì 28, disbarcato il materiale da guerra, sotto la direzione del genio militare, i marinai costruirono due batterie all'estremità del nordovest della spiaggia, ed altre, nel seguire di pochi giorni, ne furono costruite, secondo il bisogno; accogliendosi in quella spiaggia materiali e buon numero di soldati provenienti da Genova e da Palermo. Si preparava alacremente la spedizione per le Calabrie, affidandosi la flottiglia al comando di Salvatore Castiglia, che, dopo il decenne esilio, si era congiunto al Garibaldi nella prima spedizione (2). Fatte da lui quattro divisioni, la prima di 50 barche, le altre tre di 40 ciascuna, si ebbero il comando Andrea Rossi, Antonio Sandri, Giuseppe Marini e Paolo De Flotte, francese. Ciascuna delle squadriglie, in cui erano scompartite le divisioni, era comandata da un ufficiale subalterno di marina.

I quattro comandanti le divisioni montavano ognuno una barca distinta, e il Tilling, tenente di vascello, a capo dello Stato maggiore, imbarcava insieme al Castiglia nella barca latina C. comandante.

(1) Vedi Documenti, V.

(2) Vedi Documenti, VI.

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Dalla notte delli 8 agosto, per gli ordini dittatoriali, erano cominciati i disbarchi. Mosse la brigata Sacchi, con 25 barche e 300 uomini, e lo sbarco fu tentato nella spiaggia detta Fiumaretta del Faro. Seguì il Castiglia con altre 25 barche, assumendosi il comando delle varie divisioni. Così eluse le forze borboniche, effettuato lo sbarco, senza ostacolo furono deposti i trecento volontarj sur il litorale Calabro. Comandava questo corpo il maggiore Missori, che col suo drappello prese le alture forti di Aspromonte, attendendo i volontarj Calabresi; e, suscitando con essi la rivoluzione, rendere facile lo sbarco forte dell'armata. Garibaldi da Torre di Faro dirigeva le spedizioni; ma la seconda, comandata dai Castiglia, numerosa di 600 uomini, trasportati da 30 barche, non ebbe un esito felice; poiché accortisi i borbonici della flottiglia, avvicinatasi alla spiaggia calabrese, quasi sotto le mura di Alta Fiumara, non ignari della prima spedizione, fecero molte scariche di fucileria e di artiglieria, costringendo i navigli garibaldini a ritirarsi, senz'altro deplorare che qualche ferito.

Garibaldi, richiamata l'attenzione delle forze regie su quel punto, partiva per Taormina, ov'era la divisione del Bixio e parte di quella del Bertani. Di li la sera del 18 agosto, alle ore dieci, muoveva per la Calabria, designando lo sbarco a Melito: muovevano con lui i volontarj su' vapori il Franklin e il Torino, ch'egli comandava. Alle ore due del mattino appressatesi due navi al capo Pellaro, dopo 20 minuti entravano nel piccolo porto di Melito; se non che il Torino, spinto con impeto smodato su quel banco di sabbia, ignorandosi che la spiaggia di Melito corra a pendìo rapido verso il centro del Porto, d'un tratto cassero e pale furono sì investite da rimanere il vapore mezzo sepolto nell'arena. Scesi a terra i militi del Garibaldi, invano affaticatosi il Franklin a mettere un riparo sull'affondato Torino, alle ore 11 e 12, del giorno 19, ritornava in Messina. Nel giungere all'altezza dello Stretto i due vapori napoletani, il Fulminante e l'Ettore Fieramosca, alla vista del Franklin, girarono subito, prendendo la via opposta: presa non certo per timore, ma per gli accordi precedentemente stabiliti!

Giunta la notizia del disbarco in Melito, il generale Cosenz, lasciato al comando di Torre di Faro, ritenuta una necessità il passaggio in Calabria colla sua divisione, sbarcando alla sinistra di Reggio, per divergere le forze borboniche, concentrate in questa città e metterle in mezzo tra lui e il Garibaldi, fermò col Castiglia

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nella notte del 20 al 21 agosto di effettuare un altro sbarco, disponendo le cose in guisa da riuscire inavvertito a'  regj. Presero di mira due siti della costa calabra: Cutrona, da punta di Pezzo, e Reggio e Favazzina tra Scilla e Bagnara; ma la scelta cadde sul secondo de'  due punti messi a studio; prefiggendosi il Cosenz, nel marciare da Favazzina verso Reggio, di poter avere agio ad espugnare il forte Scilla, che, posto sur un promontorio, signoreggia una parte dello Stretto. Fissato il luogo di riunione in Torre del Faro, le quattro divisioni furono disposte la prima in 3 linee, le altre in 4, ciascuna di due squadrìglie; stando alla testa delle colonne le 5 barche cannoniere. Mossero le quattro divisioni alle ore 4 e 12, e la flottiglia, per iscansare, all'imboccatura del Faro, i danneggiamenti del forte di Scilla, si diresse per Nord-Ovest, affinché il semicerchio l'avesse trovata fuori tiro. Il forte non cessa di cannoneggiare, ma la flottiglia, trovandosi fuori pericolo, continua il suo cammino. Varcato il ponte, in cui maggiormente si potevano temere le operazioni del forte, la flottiglia piegò a destra. Giungendo a mille metri distanti da Favazzina, procedendo lentamente, fu ordinato alle 5 barche cannoniere di avanzarsi, inclinando tre di esse alla sinistra, due alla destra, lasciando tanto spazio in mezzo, si che la flottiglia avesse potuto eseguire il disbarco facilmente. Intanto gli spari del forte avendo destato l'allarme, le soldatesche di Bagnara si erano avanzate, per la strada militare, verso Favazzina; ma, aperto subito il fuoco dalle tre cannoniere, furono le medesime costrette a ritirarsi. Sicuri il Cosenz e il Castiglia che la spiaggia fosse libera da'  nemici, ordinata la marcia in avanti, poco dopo la prima divisione cominciò il disbarco de'  volontarj: e con ordine perfetto e celerità le quattro divisioni disbarcarono a terra.

Le batterie di Torre del Faro non cessavano di tuonare, avvertendo così che i legni nemici forzavano il passaggio per raggiungere la flottiglia. Quattro fregate a vapore muovevano rapidamente alla volta di essa, e le barche cannoniere non cessavano il fuoco per facilitare il disegno del Cosenz e de'  suo' militi nello allontanarsi dalla spiaggia. Il Castiglia, che aveva dirette le operazioni, prende imbarco con due ufiziali di marina, il Capozzi e il Bettoni; ma, mancando il vento, inoperose divenute le vele, la flottiglia nella sua ritirata fu raggiunta dalle fregate borboniche, che, dopo aver tirato qualche colpo di cannone a mitraglia e di moschetto sulle barche, ne prendeva trenta, facendo prigionieri gli equipaggi con 11 ufiziali; prigioniero fra essi pure il Tilling, comandante della terza divisione. Però, mandato a fondo il naviglio, i marinai, coll'intervallo

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di un'ora, venivano rilasciati su tre barche, trasportando nella cittadella di Messina il Tilling e gli altri ufiziali. Il Castiglia, riparato a Raisicolmo, si adoperò a riunire le molte barche messe in disordine; le barche cannoniere, veleggiarono con rischio, non potendo più pigliare il largo: le due di destra furono tirate a terra, le tre di sinistra, dopo avere costeggiata la Calabria, ripararono in vicinanza di Palermo, nascondendo i cannoni e gli attrezzi, più tardi ricuperati: gli scafi erano stati distrutti dalle fregate nemiche, accostatesi al luogo del disbarco.

Presa Reggio, per le azioni militari del Bixio, del Garibaldi e del Cosenz, ogni cantuccio di terra napoletana levò il grido di rivoluzione. In Napoli era atteso Garibaldi, ma da un partito, che rendeva sfacciati servigj al conte di Cavour, che, con ingenuità puerile, giurava ancora di nulla conoscere, o molto meno di venire in aiuto. Le plebi, sempre volteggianti, lodavano e deridevano: i momenti dippiù si abbuiavano: recava assai sgomento la divisione degli animi cittadini e l'incrudelire tra loro. Francesco II, non più tentennante pei suoi istinti, ma timoroso del rapido avvenire funesto, dipendeva ora da cortigiani vilissimi, ora da liberali, che, colle lusinghe, se ne facevano scherno. In que' giorni incerti, funesti per le previsioni dolorose, si udiva una seconda volta la voce di Leopoldo, conte di Siracusa; il quale, energicamente, diceva al nipote, per evitare la guerra civile, d'imitare la congiunta di Parma, che allo irrompere della guerra civile, sciolse i sudditi dall'obedienza e li fece arbitri dei propri destini, credendo che l'Europa e i popoli avrebbero tenuto conto del sublime sacrifizio (1). Linguaggio onesto e leale, che male, da'  più corrotti, fece giudicare questo principe artista; male da coloro, che dettarono, con acrità, le vicende della rivoluzione!

Le due lettere del conte di Siracusa, la prima del 3 aprile, la seconda del 24 agosto, dimostrano com'egli avesse nutrito in quell'anno, fatale alla monarchia borbonica, tutt'altri pensieri che i componenti la Corte, la cui viltà era stata di educazione al suo animo. Luigi di Borbone, conte d'Aquila, comandante generale del corpo della marina, ne' momenti sinistri, ordiva mene reazionarie nel proprio interesse, contento se avesse potuto debellare il nipote (2).

(1)Vedi Documenti, XIII, del cap. x del vol. II.

(2)Per essa ci riferiamo alle Memorie politiche (Napoli, G. Marghieri, pp. 29-51, 1873) di Liborio Romano.

«Il conte d'Aquila, smanioso da lunga mano di regolare a suo modo le cose dello Stato, nemico della vedova regina, che, morto Ferdinando II, era il solo ostacolo alle ambiziose sue mire, credè giunto il momento di profittare della debolezza del nipote,

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La vedova, gli altri congiunti e i cortigiani, vagheggiando sempre il ritorno del potere dispotico, avevano in odio Francesco II e le largizioni costituzionali, che, nelle ore del pericolo, pareva potessero divenire un'ancora di salvezza. L'esercito, in parte anche corrotto da alcuni capi, anelava combattere una battaglia decisiva, per ridare onore alle armi e render sicuro il loro re. Una frazione del popolo, giudicata reazionaria, invocava dal re gli aiuti alla difesa, rammentando, diceva al sovrano, che Carlo III, vostro immortale bisavolo, ci tolse per l'ultima volta dal pesante giogo straniero. E come qualcosa avesse potuto nuocere il popolo di Napoli in avvenire, si aggiungeva: Noi vogliamo dunque oggi restare e morire Napolitani con la bella civilizzazione che con tanta saviezza questo re ci donò (1). Parole energiche, che non giudichiamo ispirate da sensi reazionarj, ma da quel predominio, che già esercitava la politica piemontese, prematuramente avvalendosi d'una violenza nelle opinioni e nella conquista.

Napoli era in piena dissoluzione, e tutto faceva contrasto: i divideva il popolo colto tra il partito piemontese e il sostegno legittimo, rimanendo le plebi incerte, confuse, avide di sangue e di rapina: la costituzione aveva oltraggio dallo stato d'assedio, proclamato per freno:

del generale abbandono, e del vuoto che ogni di più facevasi intorno alla reggia. E però pensò tentar qualche cosa da insignorirsi del potere, od almeno da assicurarlo di poter disporre a suo arbitrio del Re, facendogli credere di aver salvato a corona dagli eccessi della demagogia.

 «Laonde cercò da prima di propiziare alle sue brame i due Ministri, che più poteano favorirlo all'interno e allo straniero; e, non riuscito in Cotesto strano divisamento, si determinò ad usare la forza, per togliersi finanzi quei due Ministri e compiere il suo disegno. Faceva perciò venir da Francia una quantità di tuniche, di chepì e di daghe di guardia nazionale, per armar con esse una mano di galeotti, la quale, unita ad altri vestiti da borghesi, appiccasse un conflitto colla popolazione e con la vera guardia nazionale, e cosi trucidare quei due Ministri e qualche liberale più ardito, presentarsi a colpo riuscito e farsi proclamare reggente, od almeno salvatore della dinastia.

«Ma la polizia, che già teneva d'occhio le sue mosse e quelle dei suoi agenti, seppe essere pervenute in dogana molte casse dirette al conte, con la smentita indicazione di chincaglierie; le sorprese, ed ebbe in mano il corpo del delitto.

«Rivelata la cospirazione al Consiglio dei Ministri, si lessero tutti i documenti, si tennero due Consigli di Ministri, e dopo la più matura discussione, si decise l'arresto del conte. Pur non fu eseguito; perché né il Ministro della marina, né alcun altro funzionario volle prestarsi. Onde si pensò chiamare il generale Palumbo, della marina, amico ed ajutante del conte, se gli esibirono i documenti, e se gli diede l'incarico d'intimare al prìncipe di partire fra ventiquattro ore, sotto l'apparente missione di comprare due fregate in Inghilterra, e così evitare il suo arresto».

(1) Vedi Documenti, VII.

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 la stampa e il partito liberale si scindevano, perché scissi i politici e i politicanti: si dimetteva il generale Nunziante, con risentite parole, allegando al Ministro presidente: «Non posso più portare sul mio petto le decorazioni di un governo, il quale comprende gli uomini onesti, retti e leali, con quelli che meritano soltanto disprezzo».

All'Ordine del giorno del Ministro della guerra del dì 15 luglio, il 29 agosto, un foglio reazionario scrive contro lo stesso Ministro, generale Pianell, rivolgendo al re acri detti, che non cessavano di accennare al perdere la nazionalità per la sottomissione al Piemonte: giustificando quasi il procedimento, se non sleale, perplesso del Ministro e generale, il quale, dimettendosi co' compagni del Ministero, i dì 2 e 3 settembre, rivolge a Francesco II due lettere, e nel medesimo giorno 3 un'ultima di congedo al generale Roberto De Sauget: lettera di saluto per lo allontanamento da Napoli: allontanamento che fondò i sospetti sulla sua persona; e se, a'  devoti alla dinastia,, parve che egli avesse tacitamente tradito (1); noi, anche lungi dal credere a ciò, abbiamo ragione di affermare che un generale in momenti estremi non si può tenere lungi dalla difesa; ed egli avrebbe dovuto incitare l'esercito, che aveva bisogno di consiglieri e di uomini forti.

Reggio era caduta. La caduta di questa città aveva dato al Garibaldi il vantaggio di proseguire le sue marce e di estendere la rivoluzione nelle Calabrie. I generali Gallotti e Briganti, comandanti nelle parti estreme della Calabria, si trovarono nelle mani del vincitore, che, movendo per Accerello, guadagnò i monti che sovrastavano al forte di Pizzo, di Altafiumara e Scilla, ove si congiunse col generale Cosenz, arrivato a Salino, ed ove il colonnello De Flotte, nome legato alla storia per la difesa fatta nel giugno 1848 sulle barricate de'  sobborghi insorti contro l'Assemblea costituente di Francia, moriva per il tradimento di un soldato napoletano. Operata la giunzione col corpo del Cosenz, Garibaldi, lasciati gli accampamenti di Mittinetti, scende verso Alta Fiumara, circonda i forti» prende una posizione contro il generale Melendez, che muoveva da Scilla all'incontro di lui. Il Melendez apre il fuoco contro le colonne garibaldine, che scendono da'  monti, ma non gli è facile poterle arrestare. La mossa strategica riesce: il Melendez, perduta la comunicazione de'  forti deve capitolare, e così Alta Fiumara, Torre Cavallo e Scilla cadono in potere del Garibaldi.

(1) Il Generale Pianell, pagg. 587-594; Memorie, 1859-1892; Firenze, Barbèra editore, 1902. — Vedi pure Documenti, VIII, prima lettera in difesa delle accuse.

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Parte della guarnigione, senz'armi, è imbarcata per Napoli, parte diserta, parte si sparge per la campagna. Combattimenti parziali accadevano di continuo, e le soldatesche napoletane, senza il freno del comando e dell'obedienza, di momento in momento si demoralizzavano. A Piale perdono, e il generale Briganti, dopo aver capitolato col Garibaldi, signicando a'  suoi soldati le maniere gentili e il valore di costui, creduto un traditore, fu ucciso con numerose fucilate. L'infelice morì senza un conforto, un compianto, un'illusione, lasciando dubia fama!

Garibaldi, dopo questi fatti d'armi, già venuti in credito, ritenuti gloriosi, riordina il corpo dello Stato maggiore, mantenendo a capo dello stesso Giuseppe Sirtori, e il di 31 agosto Stabiliva il suo quartier generale in Monteleone. Le forze regie, ivi poste, a difesa, si partiscono in due: una parte si sbanda, l'altra si congiunge cogl'insorti. Ingigantisce il movimento insurrezionale di Sora, scoppiato il dì 27 agosto. Numerosi armati prendono le alture per poggiare sul Molise e riunirsi cogli insorti di altri distretti: lo stesso esempio dava Avellino, similmente procedevano tutte le altre città, ove vi era difetto di presidio, ove si avvicinava Garibaldi, accolto al grido di libertà. Città e comunelli, dopo Reggio, Catanzaro, Castroviliari, Paola, stendevano la mano alla rivoluzione, sdegnosi degli eccessi di una polizia, che faceva sacrifizio di un popolo. La brigata, che in Cosenza era comandata dal generale Caldarelli, il dì 26 agosto, sottoscrive una capitolazione, dovendosi per essa il generale, lasciando il superfluo delle armi, ritirarsi pacificamente sopra Salerno. Un foglio del 27 agosto compendiava le ragioni delle ire: «La valanga precipita, forza umana non vale a resistere. Il trono dei Borboni, sede dei delitti, di infamia, va in frantumi per sempre, guai a coloro che osano attraversare il corso fatale della rivoluzione! Dio confonde l'empio e gli mette lo spavento nell'anima: Dio dà coscienza al popolo e lo infiamma di santo amore e coraggio. Garibaldi si avanza alla testa di 14. 000 prodi, fra gli applausi delle popolazioni esultanti, che lo acclamano padre della patria, liberatore di popoli. La gioventù di Bari e di Lecce corre numerosa in soccorso dei fratelli Lucani; giovanetti delle più distinte famiglie lasciano gli ozj ed il lusso delle case paterne e vanno ad ingrossare le file delle patrie legioni: onore ai prodi giovanetti, le rivoluzioni rigenerano i prodi». Gli animi si accendono sempre più leggendo il proclama Ai fratelli Lucani, del prete Rocco Brienza, ed egli, riunendo la gioventù volenterosa, la spingeva ne' luoghi, ove ferveva la reazione.

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A Reggio, Agostino Plutino incoraggiava i calabresi e li infiammava con nobile dire. Da governatore ordinava la publicazione dello Statuto di Carlo Alberto, metteva in effetto la legge comunale e provinciale e quella sulla guardia nazionale del Regno Sardo. Così quelle province in pochi giorni si erano sollevate, senza che le manchevoli forze borboniche le avessero potuto o trattenere o intimidire. Ma ne' popoli, delle stesse mancava un concetto; poiché, o si volevano detronizzati i Borboni, o si volevano ancora sul trono assoluto. Il governo, non potendo più frenare l'impetuoso fiume della rivoluzione, in questa terribile lotta de'  partiti, rispondeva, per voce del Ministro degl'interni, alle autorità in guisa da manifestare la sua impotenza, specialmente dopo le minacce reazionarie dei giorni 1, 2 e 3 settembre. Dimessisi d'un tratto tutti i Ministri, la condizione di Francesco li divenne più pericolosa. Persuaso che soltanto una battaglia, ne' pressi di Capua e di Gaeta, lo avesse potuto rendere vincitore su Garibaldi, si affretta, sciogliendo il campo di Salerno, posto nelle vicinanze di Cava e di Nocera, ad abbandonare Napoli, ritirandosi con un forte nerbo di soldatesche, scelte tra quelle che veramente riputava fedeli, in Gaeta. Salerno subito insorge: Luigi Fabrizi, con un Ordine del giorno, inculca concordia e fratellanza tra i cittadini.

Garibaldi si appressa a grandi giornate sulla capitale del reame: trionfa la rivoluzione, ma gravi sono le discordie, né la politica ha un programma definito. Le plebi, e di esse gli uomini di camorra, adibite come strumenti di polizia da combattere la reazione, quasi superbi di un tal mandato, si trattengono dal massacro e dal saccheggio. Francesco II, che pure aveva aderito in tutto a Liborio Romano, a colui che, burlescamente, aveva chiamato tribuno, publica il dì 6 due proclami (1), e la sera dello stesso giorno, imbarcatosi, partì per Gaeta, sur un legno spagnuolo, volendo risparmiare alla città gli orrori della guerra. Nel secondo de'  proclami richiamò l'attenzione di tutti i Governi d'Europa, lamentando, giustamente, la condotta del Governo sardo, che mentre condannava le imprese ardite di Giuseppe Garibaldi, si cooperava ad apprestare tutti gli aiuti per le stesse. Nè alcuno potrà giustificare un tal contegno; tanto più che il Piemonte strozzava in sul nascere, con fini poco retti, la rivoluzione sorta dal popolo. Quali le scuse addotte dal Piemonte alla diplomazia? Impedire le lotte intestine: inalzare la forma monarchica sulla republicana!

(1) Vedi Documenti, IX.

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La mattina del di 7, Liborio Romano, ministro dell'Interno di Francesco II, volgeva la sua parola al popolo di Napoli con questo proclama.

Al Popolo Napoletano.

«Cittadini,

«Chi vi raccomanda l'ardire e la tranquillità in questi solenni momenti è il liberatore d'Italia, è il generale Garibaldi. Osereste non essere docili a quella voce, cui da gran tempo s'inchinano tutte le genti italiane? No certamente. Egli arriverà fra poche ore in mezzo a noi, ed il plauso che ne otterrà chiunque avrà concorso nel sublime intento, sarà la gloria più bella cui ogni cittadino italiano possa aspirare. Io quindi, miei buoni concittadini, aspetto da voi quel che il Dittatore Garibaldi vi raccomanda ed aspetta».

Ed immediatamente il ministro di Francesco II telegrafava a Giuseppe Garibaldi in Salerno, ché, con impazienza, Napoli attendeva l'arrivo del suo liberatore, per deporre in lui tutti i poteri dello Stato e i proprj destini; promettendosi egli di tutelare pel momento l'ordine e la tranquillità. Garibaldi, per inoltrarsi nella capitale, attendeva il sindaco e il comandante delle guardie nazionali. Giunti costoro in Salerno, il Generale mosse per Napoli, ove col generale Cosenz, entrò trionfalmente in mezzo agli entusiasmi del popolo, che, con ripetuto gridare, acclamava lui dittatore, l'Italia e Vittorio Emanuele. Albergando nel palazzo regio, di li, alle furenti popolazioni tumultuanti di gioia nella vasta piazza, parla amorevolmente, infiammando vieppiù il linguaggio affettuoso le migliaia de'  cittadini, che lo applaudivano incessantemente. Però Garibaldi doveva rivelare i suoi concetti, non potendosi il popolo accontentare semplicemente delle improvvise parole, degli entusiasmi, che lo travagliavano. Ed allora Garibaldi confida tali pensieri:

Alla cara Popolazione di Napoli.

«Figlio del popolo, è con vero rispetto ed amore che io mi presento a questo nobile ed imponente centro di popolazioni italiane, che molti secoli di dispotismo non hanno potuto umiliare, né ridurre a piegare il ginocchio al cospetto della tirannia.

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«Il primo bisogno dell'Italia era la concordia per raggiungere l'unità della grande famiglia italiana; oggi la Provvidenza ha provveduto alla concordia colla sublime unanimità di tutte le provincie per la ricostituzione nazionale, per l'unità essa diede al nostro paese Vittorio Emanuele, che noi da questo momento possiamo chiamare il vero padre della patria italiana.

«Vittorio Emanuele, modello dei sovrani, inculcherà ai suoi discendenti il loro dovere per la prosperità di un popolo che lo elesse a capitanarlo con frenetica devozione.

«I sacerdoti italiani, consci della loro missione, hanno, per garanzia del rispetto con cui saranno trattati, lo slancio, il patriottismo, il contegno veramente cristiano dei numerosi loro confratelli, che dai benemeriti monaci della Gancia ai generosi sacerdoti del continente napoletano, noi abbiamo veduti alla testa dei nostri militi sfidare i maggiori pericoli delle battaglie. Lo ripeto, la concordia è la prima necessità dell'Italia. Dunque i dissenzienti di una volta, che ora sinceramente vogliano portare la loro pietra al patrio edifizio, noi li accoglieremo come fratelli. Infine, rispettando la casa altrui, noi vogliamo essere padroni in casa nostra, piaccia o non piaccia ai prepotenti della terra» (1).

Il programma ultimo del generale metteva negli animi la calma, parendo non lontano il momento di ristabilire gli ordini di governo. Però le apparenze di calma non fecondavano il bene desiderato e atteso; e sì il popolo che i capi parte tendevano al maleficio morale e politico. Il popolo, vissuto per lunghi secoli fuori il consorzio politico, non ha né convincimenti, ne fede, e, facile, come altre volte e allora in Napoli, si trae dietro a'  più scaltri, li segue ciecamente, li applaude con furia, senza che tanto delirio gli faccia scernere il giusto da quelle perversità, che si abbarbicheranno sotto un nuovo regime. I capiparte non hanno sentimento alcuno di virtù, e, mirando più alla fazione che alla patria, si travagliano in prò delle consorterie.

(1) A Palermo, giunto il telegramma il di 7, publicavasi il giorno 8.

Il Prodittatore a'  Cittadini,

Il Prodittatore dà notizia che si è compiuto un grande avvenimento. Esso ha ricevuto il seguente dispaccio che sarà accolto con esultanza dalla Sicilia, dall'Italia e da tutti i popoli civili:

«II Generale Dittatore è giunto in Napoli oggi (7 settembre) alle ore dodici e mezza meridiane.

«Palermo, 8 settembre 1860.

«Il Prodittatore: Depretis».

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In Napoli doveva cessare il dominio de'  Borboni, ma, cessando per opera de'  capiparte, il popolo, travagliato e afflitto da secoli dalle varie dinastie, cadeva nello sfacelo. Essi, in quel conflitto di opinioni, anzi che rendere libero il popolo e avviarlo sulla via della educazione politica, invocata, che sola può confermare la libertà, non ebbero altra virtù che un partito; sicché, anche prima che Garibaldi si fosse inoltrato nella popolosa metropoli, i capiparte, ligj, obedivano alla politica del conte di Cavour; si prostavano ad aggregare una grande ad una piccola regione, come ella fosse conculcata da armi conquistatrici; negavano, siffattamente procedendo, l'Italia vagheggiata da'  poeti, da'  pensatori, dal popolo, e di cui la nuova e più alta creazione si doveva a Giuseppe Mazzini!

L'uomo, che tenne il governo fino all'entrare di Giuseppe Garibaldi, fu Liborio Romano. Di lui si notano virtù, errori, ambizioni e sconfitte nel breve volgere di giorni, e la buona fama nel registro adamantino della storia non è a lui ancora assicurata. Il di 6 settembre Francesco II, nel proclama, protesta contro la ingiustizia alla guerra che invadeva i suoi Stati, dichiarando come fin dal principio l'animo suo fosse stato compreso dal sentimento di garentire la capitale «dalle rovine e dalla guerra, salvare i suoi abitanti, le loro proprietà, i sacri templi, i monumenti e gli stabilimenti pubblici, le collezioni d'arte, e tutto quello che forma il patrimonio della sua civiltà, e della sua grandezza, e che appartengono alle generazioni fùture e superiori alle passioni di un tempo». Segue Liborio Romano il re ne' suoi passi, come gli fosse fedele; ed egli sa pur troppo avere espresso nello stesso proclama: «E chieggo all'onore ed al civismo del sindaco di Napoli e del comandante della stessa guardia cittadina risparmiare a questa patria carissima gli orrori de'  disordini interni ed i disastri della guerra vicina; a quale uopo concedo a questi ultimi tutte le massime e più estese facoltà». Liborio Romano, il cui contegno difficile, in momenti difficilissimi, avrebbe potuto giudicare Niccolò Machiavelli, partito Francesco II alle ore 5 del giorno 6, manda a Garibaldi il sindaco e il comandante delle guardie nazionali, calma il popolo, promettendogli che il liberatore, invocato, presto sarebbe giunto nella città. Egli ci lasciò le Memorie politiche, che dedicò alla dilettissima madre, chiamandole documento di nuovi dolori. Il filosofo, più che lo storico, molto vorrebbe indagare in queste parole, che certo il Romano, nella vita raccolta degli ultimi anni, vergò con amarezza.

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Poiché s'egli è vero che avesse amato l'Italia, l'amore alla grande patria, anche minacciata Napoli dalla guerra civile, non avrebbe dovuto trattenerlo nell'ufizio di ministro, se grave era il pericolo per la dinastìa, e non avrebbe potuto salvare il re, che in lui confidava. Riconoscendo che, inesorabilmente, per volere del popolo, i Borboni dovevano essere rovesciati dal trono, a lui d'animo liberale, che la quiete di sua vita aveva visto combattere in passato dalla tirannide, era uopo respingere le cariche, e respingerle per conservare l'animo alieno da ambizioni, né esporlo alle accuse terribili del tradimento. Accettava il mandato in momenti non decisivi delle sorti del Borbone; e tenutosi dentro al maneggio delle faccende politiche, secondò gl'istinti delle consorterie piemontesi, che, a 14 giorni dall'arrivo di Garibaldi in Napoli, lo amareggiarono, lo combatterono, lo sconfissero politicamente (1). Ed egli, che avrebbe voluto tener lontane le province del mezzogiorno dalle rovine, confessando che, nell'accettare il potere, voleva come terza cosa impedire che l'idea dell'unità trascinasse il Dittatore a distruggere promiscuamente l'autonomia amministrativa di queste province (2), rimase illuso, adoperando vani sforzi! Francesco II scendeva dal trono per la volontà sovrana del popolo; ma Liborio Romano, che, da ministro, parve l'avesse raccolta e datale vita, congedando da tribuno il re, non salvò Napoli, né le province meridionali dalle consorterìe, che le resero terre di conquista! E n'ebbe dolori e pentimento, meditando e morendo nella solitudine della sua terra, compiangendo le ree sorti piombate sur un popolo, che aveva potuto compiere una rivoluzione; nella quale sebbene fosse mancato, come nelle precedenti, l'elemento aristocratico, pure non fecero difetto né le astuzie volpine della diplomazia, né la più funesta invasione militare (3).

(1) Memorie politiche, 2° periodo dal 7 al 22 settembre. Napoli, Marghieri, 1872.

(2) Memorie, p. 85, ediz. citata.

(3)«Liborio Romano promise tutto, ma non tenne nulla. Sia per una smania inqualificabile di ritornare al potere, sia perché illuso sulla sua forza nel Consiglio, sia perché oscillante di carattere, sia perché di non abbastanza fede politica, sia perché sedotto da falsi amici che ne speravano ufficii, egli accettò di far parte di un Consiglio con un programma opposto a quello dei paese e con uomini da questo male accetti. Questo fatto fu vera colpa, colpa ingiustificabile per tutti i versi, colpa che lo mise a discrezione dei suoi avversari! privandolo del concorso della pubblica opinione, sicché quando questa gli venne meno, i suoi colleghi dei Consiglio cominciarono non solo a combatterlo, ma ad umiliarlo; sicché egli che era affralito dalle gravi fatiche, di tempra non fortissima, di idee politiche non determinate, si trovò in una posizione difficilissima. L'opposizione intanto del paese sempre più si aumentava». (Giuseppe Lazzaro ne I Contemporanei Italiani, p. 77. Torino, 1863).

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Le nomine di un Governo provvisorio vennero annunziate da coloro che erano mossi da interessi! Però si provvedeva per decreto dittatoriale, col confermare Liborio Romano all'interno, incaricando il generale Enrico Cosenz al dipartimento della guerra, l'avvocato Giuseppe Pisanelli alla giustizia, confermando a direttori delle finanze Carlo De Cesare e Michele Giacchi; nominando direttore della polizia l'avvocato Giuseppe Ardito e direttore del dipartimento della guerra, agli ordini del Cosenz, il tenente-colonnello Guglielmo De Sauget. Un altro decreto aggregava tutti i bastimenti da guerra e i mercantili di proprietà dello Stato meridionale, arsenali, materiali di marina alla squadra del re Vittorio Emanuele, comandata dall'ammiraglio Persano. Il che, se molto piacque al Governo sardo e a'  devoti alla politica del conte di Cavour, recò assai rincrescimento a'  democratici, che, colle determinazioni dittatoriali, vedevano guastata l'opera grande italiana, usurpata e strozzata dalla politica piemontese.

Un nuovo gabinetto formavasi in Napoli, studiandosi il modo di dar freno alle discordie sorte tra'  politici, patrioti che avevano messo in oblio l'Italia, per rendere servigio sfacciato al Piemonte, per trarre vantaggi e profitti individuali. Lo propose Liborio Romano; lo costituirono Antonino Scialoia, per le finanze, Giuseppe Pisanelli, per la giustizia, Enrico Cosenz per la guerra, Rodolfo D'Afflitto, pe' lavori publici, Antonio Ciccone per la istruzione publica, Liborio Romano, per l'interno e la polizia, Agostino Bertani, pel segretariato generale della dittatura. E ancora, sulla proposta del Romano, la polizia formò un altro dipartimento, cui fu assunto Raffaele Conforti. La proposta fu accolta dal dittatore e messa in effetto; se non che la stampa onesta, ben ricordava al Romano che la scelta di alcuni Ministri noceva molto, perché, vissuti in Piemonte, devoti al Cavour, non potevano che eseguire i comandi di costui; e tornare assai fatali! (1).

In Sicilia i gravi dissentimenti politici accrescevano le manovre anarchiche. Il Depretis, volendo attenersi alle massime del Garibaldi sulle annessioni, non usava di quella energia che avrebbe potuto far nascere il risentimento nella persona del conte di Cavour, tanto che le opinioni discrepanti avevano deliberato il Garibaldi, il dì 17, a calmare le esasperazioni con proclami al popolo di Palermo (2). In esso appare nitida l'idea del Generale, che ambiva liberare l'Italia, non istrozzare la unità; ma nessun vantaggio, anche messa

(1)Romano, Memorie citate, p. 87, ediz. cit.

(2)Vedi Documenti, X.

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 in atto la teorica, avrebbe recato a'  popoli di Sicilia e del Napoletano.

Il conte di Cavour, fallito il mandato del La Farina, per affrettare l'annessione, aveva deputato il Bottero, della Camera Subalpina, che troppo si travagliava nell'eseguire il comando politico, dipingendo con troppi foschi colori lo Stato della Sicilia. Il Depretis, non potendo decidersi sulle insistenze dei Ministri, mandava il Piola a Napoli, recando al ritorno una lettera del Dittatore, che esprimeva di ritardare l'annessione per la conquista della unità. Contro le opinioni dei Ministri, che credevano una necessità l'annessione, sorse il Crispi a sostenere fortemente che si dovesse stare all'idea di Garibaldi. Non prevalendo la sua opinione, ed assurta a maggioranza la contraria, il Crispi si dimette, e si dimette anche per irregolarità, che offendevano il Consiglio di Stato colla intromissione di un estraneo, del Cordova. Il popolo si solleva: il Depretis promette di non volere sviare da'  propositi del Garibaldi. Rientra un po' di quiete negli animi de'  cittadini ribelli, che amavano seguire Garibaldi, rintemprandosi alle sue ispirazioni. Francesco Crispi giunge in Napoli: il Depretis lo segue, ed ambi conferiscono col Dittatore. Riferisce il Prodittatore sulle mene del Cavour. Garibaldi non recede dalla fermezza delle sue idee. Il Depretis promette il ritorno in Palermo, ma quando i cittadini attendevano le decisioni del Garibaldi, il. dì 15, il Depretis, forse in cor suo dolente di dovere respingere le brame del Conte, allegando di non potere ritornare, raccomanda da lontano il mantenimento dell'ordine publico, che sapeva turbato. Il Ministero, udita la notizia, decide di presentare le dimissioni. Inquieto e tumultuante era il popolo, anche dopo le raccomandazioni del Depretis: si acqueta all'improvviso apparire, il giorno 17, di Giuseppe Garibaldi, che lo accolse festevolmente (1). Garibaldi, riuniti intorno a lui i Ministri, si rivelò, in que' momenti, aspro nella parola, severo ne' modi, talché al Paternò, ministro della guerra, funzionante da Prodittatore, nell'assenza del Depretis, domandando la parola, per giustificarsi, non permise di aprir bocca. Alle brusche accoglienze i Ministri si dimettono, e Garibaldi pensò alla formazione di un nuovo Ministero, da comporlo con uomini che non si sarebbero prestati al Cavour, faro della politica piemontese.

La città, intanto, era in festa per l'arrivo del Dittatore. Nelle ore del meriggio s'ingrossano le file de'  cittadini, che si riducono con immensa gioia nella piazza del palazzo reale ad acclamare il Dittatore.

(1)Vedi Documenti, X.

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Questi, salutato il popolo, accenna di parlare, e, con brevi cenni, svolge di nuovo le sue teoriche politiche. Così egli disse:

«Vi ringrazio di questi evviva, e vi dichiaro che son contento, molto contento di ritrovarmi in mezzo a vol. Vi ringrazio di avere avuto fede in me, e di non aver creduto a chi vi voleva trascinare sopra una via erronea. Faceste bene a non volere un'annessione che io dichiaro intempestiva; rivelaste così di avere in voi il senno italiano. Quell'annessione ci avrebbe soggetti alla diplomazia, e quindi di nuovo incatenati. Di questi giorni, a Napoli, mi ritentarono per l'annessione; ma io vi dirò che dietro il Volturno vi sono ancora altri nostri fratelli che hanno le catene ai piedi; ora io vi dico, che finché vi saranno fratelli nostri a liberare, combatteremo per loro. Combattiamo dunque! Nessuna forza potrà impedire che l'Italia si faccia! Popolo di Palermo, popolo delle barricate, ancora una volta ti ringrazio di non aver creduto a chi diceva aver io secondi fini: il migliore amico dell'Italia e di Vittorio Emanuele, che è l'unico rappresentante della causa italiana».

Si ricompone il Ministero col Piraino agli esteri, col Parisi all'interno, coll'Ugdolena al culto e all'istruzione, col Peranni alle finanze, coll'Orlando ai lavori publici, col Tamaio alla sicurezza publica, col Viola alla giustizia, col Fabrizi alla guerra, col Fauché alla marina; ma alcuni si ritennero dall'accettare, perché, non educati alla vita politica, temevano il popolo, che essi non sapevano governare e volevano tosto assoggettare alle furberie e agl'inganni di gabinetto. Assunto il Mordini alla prodittatura (1), gli annessionisti patirono maggior confusione, temendo sempre di non potere riuscire ne' loro intenti, né avendo presenti le ruine, in cui sarebbe caduta l'Italia meridionale.

(1) Vedi Documenti, X.

(1) Questo il programma: u Siciliani!

«Non il merito personale, ma la fiducia che si compiace riporre in me il glorioso Dittatore dell'Italia Meridionale, mi fruttò l'alto onore di governarvi. Egli sa che nessuno è a lui più sinceramente affezionato di me; sa che la sua bandiera,

ITALIA E VITTORIO EMANUELE,

è pure la mia; sa che ho prestato giuramento di fedeltà a V. Emanuele nella mia qualità di deputato al Parlamento nazionale. Io sarò dunque in Sicilia 1 esecutore degli ordini del Dittatore, l'interprete della sua politica nazionale. Voi col buon volere e colla prudenza nei magnanimi propositi renderete facile, o Siciliani, il mio assunto, e porgerete nuovamente prova del vostro amor patrio al grand'Uomo, che, dopo avere infranto le catene dell'Italia Meridionale, si appresta oggi ad abbattere ciò che avanza della tirannia straniera e di quella dei preti, per restituire l'Italia agli Italiani. Questa è la sua sola legittima ambizione; fare l'Italia e dire ad un tempo:

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Varj i contrasti, e, dopo il correre di non pochi anni, il giudizio non può rimanere più incerto sugli operati di que' giorni, assai funesti, rivelati dal nuovo assunto alla prodittatura (1). Mentre Garibaldi, da Palermo, ritornava in Napoli, chiamando a suo segretario il Crispi, il Conte di Cavour volgeva le faccende della politica con assai sagacia.

Il Conte procedeva cauto sotto l'imperio del volere napoleonico. Egli, facendo credere imminente il pericolo di sorgere una republica nel mezzogiorno d'Italia, e che il Garibaldi avesse potuto prendere le vie di Roma, per rendere difficile la risoluzione della quistione italiana, facili le stragi tra Francesi ed Italiani, propose, ad evitare siffatti mali, rompere la guerra al Papa, invadere l'Umbria e le Marche, e, spingendo l'esercito al confine napoletano, impedire a Garibaldi l'assalto su Roma, e starsi fermo a piombare su Napoli qualora si fosse manifestata l'idea republicana. Menzogne e raggiri politici! Consentendo Napoleone alla nuova invasione, il Conte di Cavour, facendo mostra di voler frenare la rivoluzione, spediva a Roma il Conte della Minerva per dare intima al Governo pontificio dello scioglimento de'  corpi stranieri da lui arredati, i quali erano una minaccia di guerra al Piemonte e di ostacolo al libero svolgimento delle popolazioni italiane, siccome sorge da uno scambio di lettere tra'  diplomatici del Conte di Cavour e dell'Antonelli, cardinale pontificio (2). Al rifiuto, veniva dichiarata la guerra; tantopiù che le Marche e l'Umbria si erano sconvolte ed agitate, invocando, più che il Governo del Piemonte, la rivoluzione. Li 11 settembre l'esercito piemontese invadeva in due punti il territorio pontificio;  e il generale Cialdini, passata la Cattolica, entra in Urbino placidamente. Indi s'impossessa, dopo pochi colpi di cannone, di Pesaro, costringendo alla capitolazione il Legato monsignor Bellà

— L'eroica Sicilia, che aprì nel 1848 la serie dei grandi rivolgimenti europei, riconfermò nel 1860 la sua fede nazionale, e prima meritò d'entrare nel libero consorzio delle genti italiane. — Siciliani, torna adesso superfluo ch'io vi ricordi non essere passata l'ora dei sacrifizi. La vostra storia vi obbliga ad essere grandi. E neppur è mestieri ch'io vi raccomandi l'ordine e l'osservanza delle leggi. I nostri doveri noi li conosciamo reciprocamente. Associate dunque i vostri sforzi ai miei, perché mentre i vostri figli combattono sul continente la battaglia della patria unita, l'isola, appena appena redenta dalla schiavitù, presenti al mondo civile lo spettacolo d'un popolo che sa praticare la vera libertà.

«Viva l'Italia e Vittorio Emanuele! — Viva Garibaldi!

«Palermo, 18 settembre 1860.

«Il Prodittatore: A. Mordini».

(1)  Vedi Documenti, XI.

(1) Vedi Documenti, XII.

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coi 1200 tedeschi di guarnigione (1). Il generale Fanti, nel medesimo tempo, occupa Città di Castello, e prendendo la mossa per Perugia, secondato dal popolo, se ne impadronisce lo stesso giorno 13. Lo Schmidt, colonnello, che occupava quella città a nome del Papa, fatto prigioniero, capitola. Il di 16 Spoleto cade pure in potere delle armi piemontesi.

Il Lamoricière, uditi gli avvenimenti compiuti dal Cialdini e dal Fanti, si trovò in circostanze pericolose; poiché il suo esercito, poco numeroso e composto di varie razze, era sparso in diversi punti. Addippiù ebbe sbigottimento udito che il Cialdini, con una rapida marcia, occupando Val d'Iesi, si assicurava le comunicazioni col Fanti, e che si era fortificato sulle alture di Osimo e Castelfidardo fra Ancona e Loreto. Il Lamoricière si chiude in Ancona, anche temendo che il Fanti, incamminandosi da Spoleto su Foligno, lo avesse potuto sorprendere e cacciare dentro Loreto. Ma invano tentò un falso attacco contro l'esercito piemontese; invano tentò aprirsi lungo il littorale la strada di Ancona, attendendo in aiuto la sortita del generale De Courten. Sull'albeggiare del dì 18 settembre il generale Primodan, con alcuni battaglioni della sua brigata, diede l'assalto alle forti posizioni nemiche; ed essendosi i Piemontesi alquanto ritirati per concentrarsi, parve sulle prime che la fortuna gli sorridesse. Il Lamoricière raccoglie le sue soldatesche, per sostenere e prolungare il falso attacco ideato e per potersi aprire la via del littorale; ma quando il 1° battaglione straniero, composto di soldati svizzeri e bavaresi, fu comandato per la offensiva, a'  primi colpi del nemico, tanto ufficiali che soldati, indietreggiarono, e, dominati da timore, ruppero le file in disordine. Nè per la paura gli altri battaglioni poterono riordinarsi. Il Primodan dà loro un esempio di coraggio, riconducendoli contro le forze nemiche; ma egli è ferito gravemente. Il Lamoricière tenta di unire le sue soldatesche, aspettando la sortita del De Courten dalla cittadella di Ancona. Ma nulla potendo compire, deluso, con 400 uomini tenta attraversare i monti verso quella città, mentre il suo esercito è cacciato in rotta completa verso Loreto. Così finì la battaglia di Castelfidardo, e in pochi giorni le Umbrie e le Marche furono libere dalle forze pontificie.

(1) Si consulti B. Orerò, Da Pesaro a Messina, Ricordi del 186061, cap. II; Torino-Genova, Streglio, 1905.

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Notevole rimane nelle istorie del risorgimento politico italiano il Memorandum del governo del Re ai rappresentanti all'estero, del dì 12 settembre 1860 (1). Con le ragioni addotte in esso il Conte di Cavour voleva giustificare in faccia all'Europa l'operare del governo di Sardegna; ma esse, anche astute, non hanno valore diplomatico, e potevano acquistarlo per la forza de'  grandi fatti, che si erano compiuti e si compivano in Italia. Il Conte, oramai compenetrato dell'idea unitaria del Mazzini, dell'unità della Nazione, voleva conseguire il nobile fine, credendo che la costituzione della nazionalità italiana non dovesse avere alcuna forza contraria. Egli, ligio a Napoleone III, prima di spingere le armi piemontesi nell'Umbria e nelle Marche, non manca di ossequio all'Imperatore, e il Farini e il Cialdini eseguono gl'incarichi portandosi a Chambéry in momenti festivi per l'Imperatore e per l'Imperatrice, esaltati per l'aggregamento all'Impero di Nizza e Savoia. Così il Conte di Cavour, calate le forze nel centro d'Italia, nelle regioni soggette al Papa, giungeva a distruggere gl'ideali di Giuseppe Garibaldi sulle annessioni. Il ripiego contro il mantenimento delle forze straniere nel territorio ecclesiastico, abbattute le forze guidate dal Lamoricière, invocato il governo di Vittorio Emanuele, poteva far nascere di conseguenza gli ordinamenti costituzionali, rievocando un patto della pace di Villafranca, che aveva assicurato agl'Italiani il diritto di disporre della loro sorte. E se questo diritto dava animo ai sudditi pontificj d'invocare il riscatto dal governo e dalle armi papali, dava pure facoltà alla frazione del popolo meridionale di obedìre agli ordini del Conte, affrettando l'annessione, che seminò discordie: un malcontento avvenire, foriero di liti e di ingiustizie, che non strinse veramente in uno i popoli delle diverse regioni!

(1) Vedi Documenti, XIII.

DOCUMENTI.

I.

Nota del Ministero costituzionale di Napoli alle Autorità delle Province:

Signori. — Le condizioni in che versiamo non sono le più felici, sarebbe follia farsi illusioni del contrario. Da tutte parti vengono a questo Ministero novelle di disordini, e domande che vi si provegga mandando forze regolari per contenere gli animi nella moderazione e nel rispetto dovuto alla pubblica podestà ed ai diritti dei singoli cittadini. Ma sciaguratamente sembra che i mandatari del potere non s'abbian formata un'idea giusta dello stato del paese e dei mezzi che sono in poter loro per resistere alla piena delle passioni politiche, che meglio si direbbero egoistiche; le quali spingono alla reazione da un canto, a contrari eccessi dall'altro. L'esercito (dovrebbero essi saperlo) non è in grado di molto operare per la quiete interna del regno, distratto come è contra le esterne aggressioni, né d'altra parte gioverebbe sempre usare il braccio militare a reprimere e contenere i perturbatori dell'ordine pubblico, quando a conseguire lo stesso scopo vi fossero altri modi più civili e più alle presenti condizioni accomodati. Le persone cui scrivo vorranno bene incendere il mio pensiero, senza che io abbia a stemperarlo in più lunghe parole. Esse sanno quali sieno le forze vive del paese, e le hanno tutte sotto mano. Sono i proprietari, gli uomini d'intelligenza, quelli di chiesa che più predicano con l'esempio che con le parole, gli uomini in fine di mano ferma e risoluta; resta solo che si sappiano bene ed acconciamente adoperare e riuscire in ciò con piena soddisfazione del governo non meno che del paese alla loro amministrazione affidato; è opera, non dirò facile, ma neppure ardua, in modo che a fronte di essa debba venir meno il coraggio civile di personaggi onorevoli, per i quali non è nome vano amor di patria e sentimento del proprio dovere. Vi è pur dappertutto una guardia nazionale che in moltissimi luoghi ha meritato, per gli atti suoi, la universale approvazione; e dove questa fosse scarsa di numero, non dirò malnata (che non crederò mai) da non ispirar molta fiducia, manca forse di quegli uomini detti di sopra da una banda, e di altri di sufficiente abnegazione dall'altra per supplire a ciò che possa difettare dal lato di quella che più propriamente va dinotata sotto il nome di forza pubblica? In tempi difficili la forza pubblica è nello stesso paese, occorre solo cercarla, ordinarla, indirizzarla al fine supremo della comune salvezza. E questo sopratutto si domanda agli ufficiali del governo, che sappiano suscitarla ed usarla. S'informino tutti a questo gran principio della salute pubblica, ed io spero, anzi me ne vanto certo, troveranno fino nei piccoli villaggi tanto che basti a tener testa ai tristi sommovitori dei popoli contra il presente ordine di cose. Degli effetti ne terrà loro gran conto la patria.

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II.

Programma del Ministero ai Cittadini di Napoli:

Cittadini! — Allorché con la proclamazione del ministro dell'interno fa data promessa di un programma sullo indirizzo politico del governo, era dessa la espressione unanime del consiglio della corona, alla quale ora il Ministero non crede porre altro indugio nel momento in cui la nazione si prepara a mandare i suoi rappresentanti al primo parlamento.

Uopo è che il paese conosca le norme generali con cui lo Stato cammina, sappia i principii che il governo intende affidare al presente come cemento dell'avvenire; vegga il primo ordito del nostro essere nazionale libero e indipendente. Per tal guisa la pubblica opinione illuminata degli atti e delle intenzioni procederà allo esercizi» del diritto elettorale con calma fiduciosa nella fermezza dei nuovi ordini, e con coscienziosa deliberazione nella scelta de' suoi deputati.

Una delle prime cure del ministero, convinto come è che non possa esservi prosperità nazionale se non sia basata sui principii incrollabili della religione e della morale, sarà quella di proteggere con fermezza il culto dei padri nostri, espressione grande, solenne, imperitura di quel Vangelo che primo proclamò la fratellanza degli uomini, la emancipazione dei popoli.

All'interno poi l'attuizione piena e sincera della costituzione del 10 febbraio 1848. e la forte e legale repressione di ogni avverso conato formeranno lo strato immutabile del governo. Nel lavacro salutare de'  diritti e dei doveri ivi consecrati vuolsi rinvenire la rigenerazione politica del paese, il quale giustamente aspetta di vederne trasfusa la virtù animatrice in tutte le singole parti dell'organismo governativo, cosa alli quale intenderà il ministero.

E cominciando dalle riforme cardinali di principii legislativi, il governo va preparando, per assoggettarli al parlamento, analoghi progetti in varie branche di pubblico interesse e precipuamente per fondare nel cornane una vita nuova più rispondente alle istituzioni politiche; per richiamare la beneficenza a principii di più ordinata amministrazione; e che mentre ne spandono il sollievo per le classi veramente miserabili, le ajutino a migliorarsi nei sentimenti morali, sottraendolo alla inerzia ed alla improbità; per isvolgere la attivazione dei lavori pubblici in queir ampiezza di misura che permetterà lo stato dei fondi provinciali e finanzieri con metodi semplici e ripidi; per liberare il pubblico insegnamento dai legami che il costringono, e renderlo altamente educatore, consono al novello vivere cittadino, e comune ad ogni condizione sociale, per istabilire le forme generiche di un più felice avviamento di tutti gli interessi materiali, le quali mirino da un canto a restaurare le finanze coi metodi più utili allo Stato e men gravosi all'universale, e dall'altro a promuovere quanto è possibile i commerci, le industrie, le grandi intraprese, specialmente delle vie ferrate, produttrici di quelli immensi vantaggi che tutti sanno.

Discendendo poi a' miglioramenti secondarli che rientrano nei poteii esecutivi del governo, esso non farà che proseguirli con animo pronto e deliberato.

Nella giudiziosa e buona scelta di pubblici uffiziali stando in gran parte l'arra de'  tempi migliori, il governo ha tolto e serberà a regola del conferimento degli impieghi

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la capacità e le provate virtù cittadine, certo che dove esse albergano si troverà amore di giustizia, di rettitudine e di ordinata libertà, non mai sconoscimento de' doveri o dispetto del regime costituzionale. Al qual proposito il governo eccita al patriottismo di quanti vi hanno uomini onorandi ad agevolarlo coll'opera loro e ricorda le parole: Io non feci, io non dissi; perché comunemente la vera laude è poter dire: io feci, io dissi.

Per l'esterno la condotta del governo è nettamente dellneata. Esso è deciso ad ogni costo a tenere alta e ferma la bandiera italiana, che il giovine principe affidava al patriottismo ed alla devozione del valoroso e nazionale esercito Una miasione del governo sta in Torino per negoziare la lega col Piemonte, ed il ministero ne proseguirà con ogni sforzo le trattative nel doppio scopo di veder presto congiunte da vincoli indissolubili le sorti della grande Italia, e questa nobile regione abbandonarsi secura e fidente, senza ostacoli di nemiche passioni, allo assegnimelo de'  suoi novelli destini.

Nel governo pari alla lealtà è il volere costante che spiegherà per vincere le difficoltà dei tempi, fondare e compiere le sorti della patria comune sulle basi di libertà, e più ancora di nazionale indipendenza, pensiero supremo di tutti gli animi italiani. Onde il ministero è pronto e deciso a tutto intraprendere, tutto operare per raggiungere il grande scopo del consolidamento della monarchia costituzionale e della italiana indipendenza.

E frattanto, sostenuto dalla coscienza de' suoi doveri, spera gli sarà continuato l'appoggio della pubblica confidenza e dell'ordine, e che nelle prossime elezioni nobile e viva gara sorgerà in tutte le classi degli elettori per far sortire dalla nazionale rappresentanza l'opinione legale della vera maggioranza, cui solo è dato sperdere definitivamente le incertezze, annullare fin l'eco importuno del passato, e farsi guida alle giuste e legali aspirazioni.

Napoli, 4 agosto 1860.

Spinelli — Giacomo De Martino — Francesco Saverio — Garofalo — Principe di Torella — Pianell — Liborio Romano — A. M. Zanzilli.

III.

Circolare del Ministero dell'interno del Piemonte

ai signori governatori e ai signori intendenti generali:

Torino, 15 agosto. Sollevati, or sono tre mesi, i Siciliani all'acquisto della libertà, ed accorso in aiuto il generale Garibaldi con pochi valorosi, l'Europa fu piena della fama di sue vittorie, tutta l'Italia ne fu commossa e grande fu l'entusiasmo in questo regno, dove gli ordini liberi ed il libero costume non pongono impedimento alla manifestazione dei sentimenti della pubblica coscienza. Indi le generose collette di denaro ed il grande numero dei volontari partiti per la Sicilia.

Se in tempi meno commossi andarono lodati i popoli che diedero favore e soccorso alla liberazione di nazioni straniere, e se i governi ubbidienti, diremo all'autorità del sentimento universale, dove non favorirono apertamente, lasciarono soccorrere le Americhe, la Grecia, il Portogallo, la Spagna, che combattevano per la indipendenza

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e per la libertà, è a credersi che l'Europa civile porti giudizio unanime sui modi tenuti dal governo del re, in questo accidente dello irresistibile moto nazionale. Ora la Sicilia è venuta in condizione di esprimere liberamente i propri voti, e il governo del re, che deve custodire tutte le prerogative costituzionali della corona e del parlamento, e deve adempiere: eziandio quell'ufficio di suprema moderazione del moto nazionale, che a! lui s'appartiene, e per le prove che ha fatte e per pubblico consentij mento, ora il governo ha il debito di moderare ogni azione scomposta,: e di correggere gli ingerimenti illegittimi nelle cose di Stato di chi non i ha le costituzionali e le morali responsabilità, che esso ha gravissime verso la corona, il parlamento e la nazione. Altrimenti potrebbe avvenire che, per consiglio ed opera di chi non ha mandato né responsabilità pubblica, lo Stato venisse a pericolo e la fortuna d'Italia sinistrasse. E posciaché negli Stati liberi l'ordine e la disciplina civile, più che nel! rigore della legge, hanno presidio nella pubblica opinione, il sottoscritto la invita a dare ogni maggiore pubblicità possibile a questa lettera circolare.

Più volte il sottoscritto ammonì non potersi né volersi tollerare che nel regno bì facessero preparazioni di violenza a governi vicini, ed ordinò che fossero impedite ad ogni costo. Esso spera che la pubblica opinione basti a frenare gli impeti sconsigliati, ma in ogni evento si confida nelle podestà civili e militari per la pronta esecuzione degli ordini che ha dati. Raccomanda pure che con ogni maggiore diligenza sieno ricercati e con ogni legale severità puniti coloro che sospirando e trafficando ad ingiuria dell'onore nazionale e della disciplina militare, si fanno fautori e procuratori di diserzione.

E perché il sottoscritto deve compiere l'ordinamento della guardia nazionale mobile e preparare la formazione dei corpi composti di volontari della guardia nazionale che la legge abilita, non vuoisi permettere che altri faccia incetta e raccolta di soldati volontari.

Conchiudendo, il sottoscritto deve dichiarare che se il governo del re è costante nella volontà di accettare il leale concorso di tutte le parti politiche che intendono a libertà, unione e grandezza della patria, esso è pur fermo nel proponimento di non lasciarsi soverchiare da cbi non ha dal re e dalla nazione il mandato e la responsabilità del governo. L'Italia deve e vuole essere degl'Italiani, ma non delle sètte.

Il Ministro: Farini.

IV.

Il Partito d'azione e la Circolare Farini.

A parole chiare, risposta chiara. — La circolare del ministro Farini, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale del 13 è diretta a noi, partito d'azione, avvertimento e minaccia. La nave da guerra che accompagnava il 13, con un battaglione di bersaglieri, l'Aventin, sul quale era lo stato maggiore dell'ultima spedizione, era commento eloquente alla circolare.

Giova anzi tutto che l'Italia sappia il perché della circolare.

Da quando l'insurrezione siciliana ebbe luogo, da quando sopratutto Garibaldi e i suoi forti compagni mossero, rappresentanti di tutte le parti d'Italia,

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a suggellare in Sicilia col sangue il santo patto dell'unità nazionale, gli uomini che non servono se non ad una sola tattica: fare colle forze del paese l'Italia, sentirono che mercé il doppio fatto, l'iniziativa del moto trapassava nel popolo d'Italia, e s'apriva un nuovo periodo di vita pel quale, punto d'appoggio alla leva doveva essere la libertà, fine l'unità della patria. Era chiaro che la libertà non poteva impiantarsi in una provincia del regno di Napoli senza diffondersi all'arte; era chiaro, che per disegno proprio, per la natura degli elementi colà raccolti, e per la forza logica delle cose, Garibaldi scenderebbe presto o tardi sul continente italiano; era chiaro ch'ei vincerebbe. Una monarchia nella quale un senso di rovina imminente signoreggia ogni uomo, dal ministro all'ultimo birro, non regge a un certo dato con energia.

Ed era chiaro a quelli uomini che la conquista certa del regno e delle ingenti sue forze di guerra e finanza alla libertà, segnava un momento supremo all'Italia: momento nel quale essa potrebbe fondare d'un getto, e sfidando ogni elemento avverso, la propria unità. Bastava tradurre in atto, senza codardi tentennamenti, il programma dato il 5 maggio da Garibaldi, operare, assalire su tutti i punti il nemico; rendere impossibile, coll'universalità della massa, ogni intervento di diplomazia straniera; impedire, minacciando da più lati, agli avversari il concentramento delle loro forze sopra un punto dato, affermare vigorosamente l'unità e la solidarietà italiana.

E la vittoria era certa, l'Italia era fatta.

Le condizioni d'Europa correvano intanto, quasi per decreto di provvidenza, singolarmente propizie. L'Inghilterra, ostile a ogni predominio possibile dell'impero sul Mediterraneo, è presta a salutare con gioia la nostra unità nazionale. L'Austria guarda pensosa all'agitazione ungherese. La Germania concentra ogni sua cura sul Reno. La Russia sull'Oriente, gli uni e gli altri protesteranno: nessuno agirà.

Per considerazioni siffatte, gli uomini ai quali accenno, parecchi fra i quali avevano sopportato persecuzioni ingiuste e calunnie senza frammettersi agli eventi, perché non credevano giunta la opportunità dell'azione, pensarono ch'era debito afferrare il momento, e si diedero ad ordinare gli elementi di una potente importante mossa verso la frontiera terrestre del regno, attraverso le provincie romane. E dico provincie, perché Roma non era contemplata nel disegno. La questione di Roma sarà sciolta, giova sperarlo, pacificamente più tardi.

E il disegno si fondava su questo.

Dapprima sull'eterno diritto e sull'eterno dovere, dovere italiano, diritto italiano. Dovere e diritto di soccorrere i fratelli oppressi, di promuovere il moto, e dar loro opportunità d'emanciparsi quando essi inermi, vegliati, impediti in ogni convegno, in ogni preparativo, non possono facilmente cercarla; dovere e diritto di dichiarare con fatti splendidi al mondo, che noi quanti siamo Italiani, siam uno, e non riconosciamo divisione di terra od altro fra noi, ma siam tutti mallevadori gli uni degli altri; dovere e diritto di cancellare col sacrifizio o coll'azione la colpa d'inerzia che pesa sugli Italiani da quando stettero uniti e immobili spettatori della strage di Perugia.

Poi sulla necessità morale di aggredire apertamente la questione del papato temporale, e testimoniare all'Europa, della missione italiana, ch'è di abbattere il papa-re, distruggere dalle radici la schiavitù dell'anima e dare sul primo sorgere al mondo, impiantato su ferma base, il grande principio della libertà di coscienza.

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E da ultimo, sugli immensi vantaggi militari e politici, di dar mano al moto del sud, di stabilire la continuità della linea d'operazione che da quello si stende al nord dell'Italia, e di schiudere un varco, senz'ostacolo di mare frapposto a quanti giovani vogliono operare col braccio perché l'Italia sia. Calcolavano su basi di fatto, che se, invece di dover preparare a ogni tanto vapori e accogliere lentamente i mezzi indispensabili a poni in moto potessero dire ai giovani: movete: eccovi un punto di concentramento, sul quale voi potete da per voi stessi, a dieci, a venti, a quaranta, recarvi, cinquantamila volontarii si sarebbero raccolti in brev'ora sotto la bandiera dell'unità nazionale.

E forti di questi motivi si diedero all'opera.

Si diedero all'opera con tanta purezza d'affetto italiano, con animo si poco esclusivo che, raccolto tre volte il materiale in uomini ed in arme della spedizione, lo cessero, appena richiesti in nome della Sicilia e di Garibaldi, tutti o in gran parte, ad altri capi di spedizioni, a Medici, a Cosenz, a Sacchi, e si diedero a rifare per la quarta volta il lavoro.

Lavoro in cui tutte le difficoltà, tutte le paure, tutte le accuse non meritate, pur da evitarsi, erano calcolate e superate pazientemente. Bisognava risparmiare al paese le tristi conseguenze di piccoli moti, facilmente repressi — moti santi un tempo, che trassero dal nulla l'Italia e la educarono civilmente, ma inutili e dannosi in oggi — e raccolsero 8000 giovani, e provvidero cogli studii, colla scelta dei capi, con le intelligenze interne, con provvedimenti d'ogni maniera, alla quasi certezza della vittoria. Lamoricière non può allineare a difesa che dai sette a ottomila uomini della misera accozzaglia ch'egli comanda; e ai nostri 8000. sarebbe sostegno l'onnipotenza dell'insurrezione. Bisognava evitare ogni sospetto, ogni benché lieve semenza ai dissidii negli animi, e fu accettata unità di programma, quello di Garibaldi, e incita, per quanta potevasi di comando, intitolando i corpi diversi brigate dell'esercito di Garibaldi, da ricevere gli ordini non appena potesse operarsi il congiungimento. Bisognava non trascinare il governo in difficoltà diplomatiche; e si parlò di Sicilia; gli andamenti della spedizione dovevano determinarsi sul mare, dove il governo non poteva accusarsi di complicità. Gli uomini i cui nomi, meritamente o no, potevano incuter paure o porgere argomento di sospetto a taluni, si tennero studiosamente nell'ombra, ajutarono come meglio seppero il lavoro senza mostrarsi, e dichiararono che il loro nome non apparirebbe a pie' di proclami od atti.

La spedizione era presta. Allora il governo intervenne.

Intervenne, al solito, in sulle prime coll'artificio: chiese indugi che furono concessi, spiegazioni che furono lealmente date. Corsero assensi revocati il di dopo, ore dopo; promesse di ajuti non ottenute. E finalmente i negoziati proruppero in minaccia; minaccia di battaglia fraterna a proteggere i domimi del papa. Bersaglieri ed altre truppe accrebbero il presidio di Genova; e ogni uomo potè vedere la Costituzione esercitarsi davanti al porto della città su cannoni rigati.

Mio avviso era, mi piace qui ricordarlo, che si sfidasse anco la battaglia, tanto da non cedere un proposito altamente italiano se non alla aperta violenza. Avrei voluto vedere sciolto, per opera del ministro Cavour, il problema: se — mentre lo sfacciato sistematico intervento che or si compie da un anno cogli arruolamenti stranieri nelle provincie soggette al papa,

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non merita che qualche timida interpellanza diplomatica — l'intervento fraterno degli Italiani in Italia meriti l'opera dei cannoni rigati. Parmi assai dubbio che legni da guerra sardi possano mai obbedire a chi comandasse loro di colare a fondo vapori carichi di volontari italiani.

Fu scelto, più temperatamente, altro consiglio. E la spedizione è, mentre io scrivo, in Sicilia.

La circolare del ministro Farini ha origine dalla serie dei fatti accennati. E' la teorica della questione regolatrice della politica governativa futura.

E dice in sostanza a chi vuole ponderatamente rileggerla.

Lasciammo che andassero ajuti di denaro, d'armi, di volontarii in Sicilia; l'insurrezione era un fatto compiuto: la mossa di Garibaldi universalmente applaudita; il moto degli animi irresistibile. Faremmo in simili casi, probabilmente lo stesso. Ma ora basta. Ogni tentativo ulteriore per emancipare provincie italiane smembrate dall'Italia e soggette a tirannide, sarà represso colla forza. Ogni raccolta di volontarii e d'ora innanzi vietata. Il governo del re accetta volenteroso il concorto d'ogni cittadino ai proprii disegni; reprimerà ogni azione indipendente da essi. L'Italia deve essere degl'Italiani non delle sètte.

Semplificando con un metodo d'eliminazione noto agli allievi d'algebra questo sommario, il sermone ministeriale può tradursi cosi.

Tenteremo, come sempre, impedire ogni iniziativa di moto in Italia: vedremo di giovarci d ogni vittoria italiana, quand'altri la compia. E quanto alla politica interna, chi accetta quella norma è con noi, chi dissente è settario.

Non sappiamo com'altri accolga dichiarazione siffatta; per noi è dichiarazione antiitaliana, e negazione d'ogni principio: è dottrina atea, scesa per linea dritta dal materialismo che signoreggia ogni politica dell'oggi: è adorazione della forza e non d'altro; è teorica fondata sull'arbitrio, non ragione di cose, disconosce a un tempo il diritto italiano e le necessità del presente, e prepara al paese non la concordia, ma la anarchia.

Anche in una condizione anormale di cose, un popolo libero ha dritti che nessun governo può cancellare: sono i diritti che scendono al dovere supremo di fratellanza tra gli uomini della missione fidata a noi da Dio di combattere il male, e di procacciare il trionfo del bene. Quei diritti sono innegabili, l'applicazione pratica non può lasciarsene all'arbitrio di pochi, ma dove i caratteri del male sono chiaramente, ripetutamente sentenza, chi contende il diritto d'intervento pel bene, può avere il nome di sètta, non di governo. La coscienza dell'umanità è suprema su tutti i governi, essi devono esserne interpreti, o non sono legittimi. Per questo l'Europa volle che si lasciassero liberi gli ajuti dei popoli ' all'insurrezione greca, all'insurrezione polacca, comunque il governo austriaco ed altri protestassero contro. Per questo l'Europa salutò di lungo applauso l'intervento di Garibaldi in Sicilia; per questo saluta e saluterà il suo scendere sul continente italiano. La coscienza umana ha decretato che il governo di Napoli, il governo del Papa, il governo dell'Austria in Italia hanno meritato perire. Chi vibra il colpo è esecutore di quel santo decreto. Chi si frappone, si dichiara proteggitore del male. Un grido s'innalza dal cuore dell'umanità per dirgli: lasciate passare la giustizia di Dio.

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Ma noi non siamo oggi in condizione normale, siamo al cominciamento di un'impresa che deve compiersi, siamo in rivoluzione: non sociale, né strettamente parlando, politica, dacché sacrifica ora la predicazione del proprio ideale, ed un fine diretto, immediato, ma nazionale; rivoluzione d'una terra che fu chiamata finora espressione geografica, e vuole fare riconoscere dall'Europa la unità di vita, d'affetti, d'avvenire che le freme dentro; rivoluzione di un popolo che vuole una patria dall'Alpi al Peloro.

Questa santa, ineluttabile rivoluzione maturata dal tempo, dalla fede e dal martirio, ha già conquistato da circa quattordici milioni d'Italiani che rimangono tuttora smembrati, oppressi, divisi dai primi.

Da quella rivoluzione, come da sola legittima sorgente di vita, emanano tutti gli atti che si compiono o tentano compiersi in Sicilia. Il ministero, dimenticandolo, si separa dalla nazione, e diventa sèttario.

Noi non siamo sètta, siamo la coscienza della nazione. Rappresentiamo l'idea in nome della quale si combatte e si more, col plauso di tutta Europa, di Varese, di Calatafimi, da Solferino a Milazzo.

Cerchiamo, vogliamo la patria.

La volete voi pure? Volete davvero, come sussurrate all'orecchio dei nostri amici quando volete persuaderli ad essere pazienti, il trionfo di quell'idea?

Lasciateci fare.

Che temete da noi? La repubblica? No: voi sapete che abbiamo detto:

Il giorno anteriore a quello in cui crederemo nostro debito cospirare nuovamente per la repubblica, vi avvertiremo; e riandando di volo la nostra vita dovrete crederci. Gara d'ufficii? No; voi sapete che, proclamata l'unità monarchica d'Italia taluni fra noi riprenderanno la via dell'esilio, gli altri quella della solitudine. Riparto di gloria? Non la speriamo. Nelle imprese alle quali noi lavoriamo, i nostri nomi si celano misteriosamente, da noi medesimi. Lasciateci salvar l'Italia: scriveremo che voi l'avete salvata.

Lasciateci fare.

Voi siete vincolati a riguardi, a fatiche, alle diplomazie straniere: vincolati a tutelare, fra le tempeste, il regno sardo: vincolati dalle vostre paure, a tenervi amico l'impero. Noi non abbiamo né paura né vincoli: non abbiamo patti firmati a Plombières o a Saint Cloud con anima viva: non siamo vincolaci se non al paese e alla nostra coscienza: possiamo omettere senza rendere. E rispettiamo la vostra tristissima situazione. Salveremo le apparenze, faremo opera santa colle cautele di chi s'appresta a un delitto. E inoltre, quando nel 1848, disegnaste dopò cinque giorni di battaglie e vittorie di popolo, inoltrare nelle pianure lombarde, non diceste voi ai governi di Europa: Se noi non moviamo, siam rovesciati: noi moviamo a salvar voi e noi dall'insurrezione repubblicana Dite oggi ai governi: Non vedete salir la marea? L'Italia vuole l'unità. Se resistiamo cadiamo. Direte il vero.

Lasciateci fare. Che importa a voi, qual rischio correte se i battelli che salpano per Sicilia piegano a mezza via verso le terre napoletane o romane?

Se l'impresa riesce, voi sapete che, sol che vogliate accettarli, i suoi frutti son vostri; se non vi riesce provatevi innocenti perseguitando chi la tentò. Noi non vi chiediamo se non una cosa: perseguitateci dopo, non prima.

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Lasciateci fare. Lasciateci sommergere in una vasta, irresistibile manifestazione unitaria, le misere passioncelle locali e i colpevoli raggiri stranieri, prima che t vostri Torrearsa, Cordova e siffatti, impiantino, deludendovi o no, l'indipendentismo in Sicilia prima che i vostri Poerio, Spaventa, e membri del comitato dell'ordine, impiantino deludendovi o no, in Napoli coll'agitazione elettorale, la funesta idea di un'autonomia dell'Italia meridionale.

Questo è quello che i settarj, proferendovi il sacrificio di ogni cosa più cara, vita, nome e gloria, fuorché la loro fede in un avvenire che splenderà sulla vostra e sulla loro tomba, vi chiedono. Che se la vostra circolare parla veramente, o ministro, l'animo vostro; se intendete veramente persistere nella repressione d'ogni impresa a prò1 di quell'unità nazionale, che voi forse desiderate, ma non osaste tentare; se persistete a sottoporre i fati d'Italia al cipiglio di Luigi Napoleone o d'altri qualsiasi, udite allora la nostra determinazione.

A parole chiare, risposta chiara.

Non cederemo.

Noi siamo forti e ostinati. Abbiamo noi l'istinto della gioventù del popolo d'Italia. L'istinto che, come accennai più sopra, ci ha dato pur ora in pochi più di sei giorni — e poi che avevamo ceduto migliaja a tre spedizioni per la Sicilia oltre a sei mila volontarj. Abbiamo per noi i fati d'Italia. £ abbiamo per noi una tempra, che può forse rompersi, piegarsi non mai; una ferrea determinazione che né sciagure o delusioni o canizie e rovina di forze fisiche hanno potuto mutare. Vogliamo 11 patria, la patria una e rapidamente. Possiamo cedere su tutto: su questo no. Potete, sapete darcela? Saremo con vol. Dove no, saremo coi fati d'Italia e colla nostra audacia. Voi potrete impedirci in un punto: ritenteremo nell'altro. Potete deludere i nostri disegni due, tre quattro volte: ritenteremo la quinta. Potrete sequestrare — sequestrerete forse codardamente quest'una — le nostre stampe. Diremo come un tempo, clandestinamente il vero all'Italia, che finirà per intenderlo. Potete imprigionare taluni fra noi: sorgeranno altri a continuare l'opera nostra. Quando il tempo è maturo al compimento d'una missione, Dio suscita dalla prigione o dalla sepoltura d'un uomo un altro uomo più potente di lui.

Vogliamo la. patria; e le circolari ministeriali non c'impediranno di procacciarla. Esse possono, urtando di fronte l'irresistibile tendenza italiana e oltraggiando immeritatamente i partiti, oggi, in virtù dell'intento, concordi, travolgere il paese nell'anarchia: non possono mutare ciò che Dio e il popolo vogliono.

G. Mazzini.

V.

Parole di Giuseppe Garibaldi agli ufficiali e militi dell'Esercito meridionale.

Alcune parole agli ufficiali e militi dell'Esercito. — 1° Fra le qualità che devono primeggiare negli ufficiali dell'esercito italiano, oltre il valore deve contarsi l'amabilità che attrae e vincola l'affetto del soldato.

E' difficile che un ufficiale valoroso ed amato dai suoi subalterni non ottenga da loro quella disciplina, subordinazione e slancio necessari nell'ardue circostanze,

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e sopratutto quella costanza per sopportare i disagi delle lunghe campagne, e quella pertinacia che nelle pugne decide quasi sempre della vittoria.

Col rigore si può ottenere una severa disciplina, ma è preferibile ottenerla con l'affetto e con l'ascendente.

2° Il valore è sempre accompagnato con la generosità. Il valoroso soldato italiano deve essere magnanimo con tutti, e massime con le popolazioni fra cui soggiorna, e tra le quali transita. Questa guerra di emancipazione da voi cosi eroicamente iniziata deve la somma dei suoi successi allo slancio e alle simpatie delle popolazioni.

Il movimento che da Parco ci portava a Gibilrossa, e da Gibilrossa a Palermo, eiò che ci valse la liberazione della capitale della Sicilia, quel movimento, dico, ebbe uno splendido risultato perché il nemico non potè conoscerlo, ad onta delle numerose spie, e ciò fu dovuto allo affetto delle popolazioni per la santa causa che propugniamo, ed al lodevole contegno dai militi nostri verso gli abitanti.

3° Uno studio particolare debb'essere consacrato alla concordia tra le provincie italiane. Infelicemente questa verità riconosciuta da tutti, non è da tutti praticata.

Gli Italiani del Settentrione più assuefatti al fragor delle armi, insuperbiti dalle passate vittorie sul nemico dell'Italia, devono affratellarsi il nuovo milite del Mezzogiorno, fregiarlo della loro esperienza, e rinfrancarlo con amore ed accostevolezza, pensare soprattutto che nelle ultime battaglie l'Italia ha potuto vedere che può contare su tutti i suoi figli senza eccezione, e persuadersi che il valore italiano in tutte le epoche della storia ha brillato nelle fredde pianure del Piemonte, della Lombardia e del Veneto, siccome sulle lave del centro e del mezzogiorno.

Dunque io non raccomando valore al soldato italiano, ma devo raccomandare con tutto il fervore dell'anima mia la disciplina dell'antica Roma! Concordia inalterabile da individuo a individuo! da provincia a provincia! rispetto alla proprietà, massime dei poveri contadini che tanto sudarono per raccogliere lo scarso alimento delle loro famiglie.

4° Io ripeterò che l'ufficiale amato e rispettato dai suoi soldati si accorgerà con compiacenza del fascino acquistato su di loro dal ano valore ed amorevolezza, massime nei perigliosi casi di guerra, ove la stanchezza, la mancanza di cibo, la durata della pugna sembrano legittimare il milite ad accovacciarsi. Uno sforzo di più può decidere della vittoria! ma il soldato è sfinito! si risponde... La voce allora di un ufficiale di prestigio ed amato, basta per ispingere nuovamente alla pugna i più avviliti. E' impossibile poi che il soldato abbandoni sul campo di battaglia il suo caro ufficiale che lo trattò benevolmente, che lo sorresse nei bisogni e con cui divise le fatiche e le glorie della campagna.

Perciò debb'esser cura speciale degli ufficiali di stare coi loro militi e prenderne cura, come della loro famiglia.

5° Agli Italiani tutti raccomanderò alfine colla coscienza di essere

ascoltato che in pochi noi la finiremo tardi e con gran sagrifici d'oro

e di sangue — in molti la finiremo presto — bene — e saremo ricordati con affetto dalle generazioni venture.

G. Garibaldi.

(Dal Ballettino dell'Esercito meridionale).

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VI.

Sul passaggio dello Stretto di Messina

Relazione di Vincenzo Giordano Orsini.

Dopo la presa di Milazzo, ove il generale Bosco dette prova d'insipienza militare, la città di Messina venne occupata da Garibaldi e, stabilito un armistizio nel piano di Terranova, una doppia fila di sentinelle sorvegliavano la linea di demarcazione. Oltre ciò nulla opera vasi; ma appena arrivato il materiale che io meco e su diverse barcaccie condussi al faro, chiave dello stretto, impiantato un arsenale dà costruzione a Messina, attivate le fonderie in ferro, data commissione per la fabbricazione di quanta più polvere da guerra si potesse raccorre, s'installò al Salvadore, presso Messina, una pirotecnica. Nel contempo si armò in una notte il forte della lanterna al faro, e si rettificarono ed elevarono altre imponentissime batterie in terra sulla spiaggia e tale da controbattere i forti sulla costa calabra e però spazzare le acque dello stretto.

Le bocche a fuoco di grosso calibro erano 64. Al faro si sbarcarono anche le batterìe da campagna e montagna che feci fondere in Palermo.

Oltre i provvedimenti per molestare alle navi borboniche il passaggio del faro e rendere difficile le relazioni ed il vettovagliamento e l'approvvigionamento delle forze e posizioni borboniche sul lato Calabro del faro, feci costruire 12 barche cannoniere requisendo le navi atte a tale servizio che si trovavano ancorate lungo il faro, essendo sgombro il porto di Messina che restava sotto il cannone della cittadella. Quelle barche sotto la condotta del prode Salvatore Castiglia operavano catture nel faro delle provviste per uomini e cavalli dirette a Reggio, e durante la notte, a solo scopo di stancare le truppe nemiche, si con ducevano a pariglia ne' punti occupati dalle truppe ed aprivano un cannoneggiamento al quale, su qualsiasi punto ove aveva luogo, tutta la linea da Reggio a Scilla, non si sa perché, rispondeva. Quando poi si cessava dallo allarme, nuove cannoniere andavano a risvegliarlo.

Un vapore francese, credendosi inviolabile, da Reggio trasportava armamento, munizioni e viveri per tutte le stazioni fino a Scilla. Tollerai quell'impertinenza francese per qualche giorno, ma una sera, un'ora prima del tramonto apparente, trovandomi sulla batteria principale, quel comandante — forse con me indignato — mi disse: Vedo là, presso Cannitello, un vapore a bandiera del Borbone; permettete che lo avverta? Perché perdete ancora tempo? fu la mia risposta, il fuoco cominciò in tutta la linea delle nostre batterie; il vapore fece forza per fuggire, ma nuove palle raccolse nei suoi fianchi e danni gravi riportò alla macchina. Pochi giorni dopo due vascelli di linea francese dettero fondo al faro ed il dì seguente, stando, secondo il consueto, Garibaldi sulla lanterna del faro, quel comodoro venne a chiedergli soddisfazione per l'insulto fatto alla bandiera francese.

Garibaldi, stando sempre seduto su d'uno sgabello e tenendo il suo cannocchiale tra le mani gli rispose: Non essersi distinta la bandiera francese da quella del Borbone di Napoli, è ciò bastare, mentre la Francia poteva essere soddisfatta dacché il cannone degli uomini liberi aveva punito quel capitano francese che insudiciava in un traffico ignobile la bandiera francese.

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A questa risposta il comodoro soggiunse che, comunque sia, la bandiera di Francia era stata insultata, bisognavate quindi una soddisfazione, altrimenti l'avrebbe ottenuta coi suoi cannoni. A tali parole Garibaldi voltosi a me, disse: Generale avete inteso? Disponetevi quindi a rispondere ai cannoni del comodoro. Ciò detto, riposesi a fare sul mare Tirreno le sue osservazioni. Il comodoro restò interdetto, si ritirò pensieroso, ma il suo cannone non tuonò, ed invece alle 3 pom., sciolse i capi e parti. Se faceva fuoco que' due vascelli sarebbero stati colati a fondo. Dopo quel di cominciarono le spedizioni per le Calabrie. Dapprima fu un drappello che seppe guadagnare le alture che dominano Villa San Giovanni, quindi Garibaldi, spedite nascostamente delle truppe di volontari a Scaletta, di notte tempo con esso imbarcatele su d'un vapore disbarcò a Mileto. Lo sbarco eseguito, la squadra borbonica sopragiunta catturò il vapore rimasto abbandonato, e dopo, cagionato qualche incendio in quelle località, si ritirò.

Le forze borboniche, che per ignavia de' suoi generali si trovavano paralizzate sulla costa del faro Calabro tra le minaccie di una nuova spedizione che contenesse il grosso delle forze de'  volontari in Sicilia e quelle delle forze che occupavano le alture dominanti le loro posizioni, altra energia non dispiegavano che quella di perdere le munizioni, tirando contro il faro, in che furono coadiuvati dalla fregata la Borbone, la quale radendo la costa del faro fu presa per la Maria Adelaide di Piemonte, se non che appena riconosciuta, essendosi su di essa aperto un vivissimo fuoco da tutte le artiglierie del faro, issò bandiera borbonica e gagliardamente rispose al nostro fuoco.

Fu breve intanto la lotta, perché ciascuno de'  nostri colpi andando a segno, quella nave dovette prendere il largo. Noi perdemmo tre uomini, un lancione fu affondato e diverse navi colà ormeggiate affondarono del pari. Il tutto fu prontamente ricuperato.

Nella notte del 21 al 22 agosto 1860 la brigata Cosenz prese imbarco su quanti veicoli atti a prender terra si potettero raccogliere. All'alba del 22 agosto quella numerosa flottiglia, scortata da un vapore, prese il mare. 11 forte di Scilla apri su quella un vivissimo quanto inutile fuoco perché navigava all'estreme portate delle bocche a fuoco di quelle batterie. La squadra borbonica mosae subito da Reggio per agire contro quella spedizione, ma le artiglierie del faro su tutta la linea gagliardamente e con fuoco fittissimo le contrastarono il passo, tanto che, sbarcata sulla spiaggia tra Scilla e Cagnara la spedizione, e tosto presa la via de' monti, il vapore e metà delle barche guadagnarono la spiaggia di Spadafora in Sicilia, abbandonando senza uomini, vele e remi l'altra metà alla squadra che venne a raccoglierle. Intanto nel lago del faro feci costruire una quantità di zattere unendo a due a due le barcacce della dogana per mezzo di lunghi correnti sui quali era adattato un solido tavolato. Su codeste zattere, che erano munite di solide murate, si adattarono i congegni per legare i cavalli e fissare i cannoni, e per mezzo di scali all'uopo costruiti si rese facilissimo io imbarco e disbarco degli animali e macchine e si tenevano anche su quei ponti volanti disposte le artiglierie per ogni incidentale difesa.

Il 23 agosto venne l'ordine onde disporre il tutto per operare a Cannitello il disbarco del grosso delle forze de'  volontari, forzando le difese borboniche, deboli in quel punto. Le barche cannoniere, sotto gli ordini di Salvatore Castiglia, divise in sezioni, dovevano durante la notte portare l'allarme su tutta la costa da Scilla

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a Reggio onde impedire il concentramento contro Cannitello delle sperperate forze nemiche, mentre buon numero di esse e le migliori armate dovevano proteggere l'appro lo delle più che 200 barche che trasportavano quelle forze.

Si era sul punto di muovere allorché venne comunicato l'annunzio della capitolazione dei borbonici, e che però era libero il disbarco su qualunque punto della spiaggia calabra.

Erano le 3 del mattino del 24 agosto allorché io e S. Castiglia mettemmo piede sulla spiaggia di Villa San Giovanni. Chieste nuove del luogo ove fosse alloggiato Garibaldi ai soldati borbonici, che ovunque su quella spiaggia bivaccavano, col buon volere e prestevolezza dei soldati napolitani ottenemmo non solo le indicazioni che chiedemmo, ma si proposero di accompagnarci al palazzo ove dimorava il Generale, ciò che gradimmo.

Lo stradale di Villa San Giovanni aveva per tutta la sua estensione i fasci d'armi di quelle truppe che presso di essi ed ovunque per quello stradale bivaccavano; gli ufficiali, conservando le loro anni, erano per i caffè, ed in mezzo a quel cmpo nemico in armi, Garibaldi solo, meno pochi ufficiali che seco aveva, dormiva con piena sicurezza. Questo fatto basta a dimostrare che le arti turpi del governo borbonico non erano arrivate a demoralizzare la lealtà de'  suoi soldati; ebbi ragione di sdegnarmi dunque quando nelle sale del Parlamento a Torino intesi un napolitano qualificare di sleale, vile e senza onore l'esercito del suo paese.

VII.

Il popolo napolitano al suo Re Francesco II.

Sire — Quando la patria è in pericolo, il popolo ha il diritto di domandare al suo re di difenderlo, perché i re son fatti per i popoli e non i popoli pei re. Noi dobbiamo loro ubbidire, ma essi debbono sapere difenderci, e per questo Iddio ha dato loro uno scettro ed una spada.

Oggi, o Sire, il nemico è alle nostre porte, la patria è in pericolo, Da quattro mesi, un avventuriere, alla testa di bande reclutate in tutte le nazioni, ha invaso il regno ed ha fatto scorrere il sangue dei nostri fratelli. Il tradimento di alcuni miserabili l'ha ajutato; una diplomazia, più miserabile ancora, l'ha secondato nelle sue colpevoli intraprese. Fra giorni, quest'avventuriere c'imporrà il suo giogo odioso: perché i suoi disegni li conosciamo tutti; e voi ancora, o Sire. Quest'uomo d'altronde non ne fa alcun mistero, sotto pretesto di unificare quel che non è stato mai unito, egli vuole farci piemontesi, per meglio scattolicarci e quindi stabilire un governo repubblicano sotto l'odiosa dittatura di un Mazzini, di cui sarà egli anche il braccio e la spada.

Ma, Sire, noi siamo Napolitani da secoli. Carlo III, vostro immortale bisavolo, ci tolse per l'ultima volta dal pesante giogo straniero. Noi vogliamo dunque oggi restare e morire Napolitani con la bella civilizzazione che con tanta saviezza questo re ci donò. Il figlio di Ferdinando II non potrebbe tenere con mano ferma lo scettro che ha ereditato da suo padre, di gloriosa rimembranza? Il figlio della venerabile Maria Cristina ci abbandonerebbe vilmente al nemico? Francesco II, nostro dilettissimo sovrano, non avrebbe la virtù e le qualità del più umile dei re? No. no, ciò non può essere.

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Sire, salvate dunque il vostro popolo! Noi ve lo domandiamo a nome della religione che vi ha consacrato re, a nome della legge ereditaria del regno che vi ha dato lo scettro dei vostri antenati, a nome del diritto e della giustizia che vi fanno un dovere di vegliare continuamente alla nostra salvezza, e, se è necessario, di merire per salvare il popolo. Ma la patria in pericolo vuole quattro cose, eccole:

1° Il vostro ministero tutto intero vi tradisce: i suoi atti ne fanno fede; le sue relazioni coi Giuda e Pilati lo attestano. Che il vostro ministero sia adunque sciolto e surrogato da uomini onesti e devoti alla vostra corona, ai vostri popoli ed alla costituzione.

2° Molti stranieri cospirano contro il vostro trono e contro la nostra nazionalità. Che questi stranieri siano espulsi dal regno.

3° Numerosi depositi di armi esistono nella vostra capitale. Che un disarmamento sia ordinato.

4° La polizia è tutta intera devota al nemico. Che la polizia sia sciolta e surrogata da una polizia onorevole e fedele.

Sire, ecco quel che vi domanda il vostro popolo napolitano. La vostra armata è fedele tanto quanto è bravi. Prendete dunque una spada e salvate la patria. Quando si ha per sè il diritto e la giustizia, si ha con sé Iddio. Viva il re nostro Francesco II! Viva la patria! Viva la costituzione! Viva la brava armata napolitana!

VIII.

Lettera del Pianell, publicata dall'Opinione di Torino il di 3 settembre 1861, con la quale il Generale risponde alle mossegli accuse:

Signor Direttore. — Il Diritto del 27 agosto e 1° settembre e l'armonia del 28 agosto si sono permessi di citare il mio nome in modo ingiurioso. Non perché le loro parole prive di qualsiasi fondamento e dettate da spirito di parte possano offendermi, ma pel dovere che mi corre d'impedire che sorgano da esse negli animi degli uomini onesti, o dei miei compagni d'arme dei dubbj sulla mia passata condotta, mi veggo costretto di prendere per la prima volta la penna, e di ricorrere alla sua cortesia onde voglia inserire nel suo accreditato periodico la seguente dichiarazione:

Educato nel collegio della Nunziatella, appena compii il corso degli studi, intrapresi nel 1836 il servizio come Capitano di fanteria, e passando per tutti i gradi dopo aver comandato per molti anni prima un battaglione Cacciatori, e poscia un reggimento di linea, ottenni successivamente i gradi di Brigadiere e di Maresciallo di campo.

Dedito esclusivamente alle occupazioni militari, non mi sono mai allontanato dal contatto delle truppe, né ebbi mai la menoma ingerenza in cose estranee alla carriera militare durante la quale fui quasi costantemente fuori della capitale. Convinto come sono che i doveri della milizia chiaramente specificati nelle ordinanze, non si possono mai per nessuna ragione onestamente declinare, mi pregio di averli sempre compiti tutti, senza discuterli, né analizzarli mai.

Quando alla fine di settembre 1859 fui nominato Comandante delle truppe riunite alla frontiera degli Abbruzzi e Comandante territoriale di quelle due provincie, mi adoperai con solerzia a mettere le truppe che da me dipendevano in grado di rispondere in qualunque circostanza al debito loro:

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e per quella superiore autorità che in qualità di comandante territoriale ebbi per dieci mesi nel governo delle suddette provincie usai giustizia e fermezza insieme a conciliante moderazione. Cercai in quell'epoca difficile di tutelare gli interessi della popolazione presso il governo, e di rendere questo accetto verso di quelle provocando utili provvedimenti e curandone l'esecuzione. Non 'esito anche oggi, in cui per le mutate condizioni politiche e per le concitate passioni si confondono in fascio e si condannano ciecamente tutti gli uomini che ebbero posto nel passato governo di fare appello alla verità delle mie parole a quelle popolazioni medesime.

Chiamato al Ministero della Guerra alla metà di luglio '60 quando Francesco II aveva sin dal 25 giugno precedente concessa la costituzione e formato il Ministero, mi condussi, durante il mese e mezzo che vi appartenni come è debito di un Ministro costituzionale. Il Ministero fece ogni sforzo perché la costituzione potesse divenire un fatto; si oppose ad ogni tentativo di reazione e si adoperò contro l'interna rivoluzione e la esterna aggressione a sostenere con mezzi legali la minacciata dinastia. Però le mie cure furono principalmente rivolte a sollevare il morale dell'esercito, depresso dopo la capitolazione di Palermo, a riorganizzarlo, a provvederlo dell'occorrente, onde potesse con vantaggio affrontare la lotta che era per riprendersi.

Se il còmpito del Ministero venne meno, se le truppe si sbandarono in Calabria e la dinastia fu rovesciata, non si possono certamente imputare tali risultati agli uomini che furono al governo per si breve tempo, e vi vennero quando, per delle ragioni che la storia imparziale appoggiata da documenti, ha già in parte spiegate, le sorti del regno e della dinastia erano inevitabilmente segnate.

Allorché il Ministro fu costretto a dimettersi, la mia posizione nell'esercito non era più sostenibile per cagione della leale condotta tenuta come Ministro: l'aver disapprovato e punito chiunque mostravasi avverso al nuovo ordine di cose ed essermi mostrato deciso sostenitore di quella costituzione che l'esercito napoletano aveva giurato due volte a dodici anni di distanza, mi aveva creato potenti nemici dai quali insidiato nell'onore era stato con sottile arte denunziato alla avversione delle truppe. Nel momento in cui il Ministero si dimetteva mi trovai defraudato di quella fiducia che mi era acquistata con 25 anni d'interessanti servizi; e non mi era più possibile di sostenere comando alcuno fra truppe rese diffidenti al punto di usare le armi contro i propri superiori.

Esposte perciò lealmente e chiaramente al Re le ragioni per cui era costretto ad allontanarmi dall'esercito e dal paese, ed ottenutane l'adesione, mi recai in Francia ove vissi ritirato finché, caduta Gaeta il Re parti per Roma. La capitolazione di Gaeta, lo scioglimento completo dell'esercito napolitano, l'adesione fatta al nuovo governo dal più gran numero degli ufficiali napolitani, e sopra tutto il plebiscito con cui il paese aveva solennemente votato l'annessione al resto dell'Italia, mi autorizzavano a riguardarmi come del tutto sciolto dai doveri che mi legavano verso il caduto governo, e libero di servire il paese nel nuovo ordine di cose legalmente costituito venni quindi a Torino, ed esposti i miei antecedenti, fui ammesso nell'esercito italiano. Io fui dunque per 25 anni di servizio soldato onorevole, e per un mese e mezzo Ministro costituzionale sincero e leale. Figlio delle mie azioni non accetto altra responsabilità che quella della propria condotta militare e degli atti del Ministero a cui ho appartenuto ed in ispecie di quelle del dicastero da me retto.

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Ragioni di probità e di convenienza mi vietano di entrare in maggiori particolari, e sopratutto di fare la storia degli avvenimenti a cui ho preso parte, e però debbo limitarmi a protestare altamente contro le vaghe asserzioni dei giornali che dichiaro maligne e calunniose, e come tali spero saranno ritenute dal pubblico onesto e spassionato, finché non sarà citata una qualunque delle mie azioni che possa meritare ragionata censura.

Sappiano dunque il Diritto e l'Armonia che in materia d'onore non ho da cedere a chicchessia, e se il primo mi imputa a colpa l'avere fedelmente servito la dinastia che ha regnato in Napoli durante la mia vita, ed il secondo di aver fatto adesione al governo italiano quando io doveva credermi sciolto da qualunque precedente impegno, non sarà per questo che mi considererò come condannati dal Tribunale della pubblica opinione.

Mi creda signor Direttore con sensi di vera stima

Generale Pianell.

Proclama di Francesco II al popolo napoletano.

Proclama Reale. — Fra i doveri prescritti ai re, quelli dei giorni di sventura sono i più grandiosi e solenni, ed io intendo di compierli con rassegnazione scevra di debolezza, con animo sereno e fiducioso, quale si addice al discendente di tanti monarchi.

A tale uopo rivolgo ancora una volta la mia voce al popolo di questa metropoli da cui debbo ora allontanarmi con dolore.

Una guerra ingiusta, e contro la ragione delle genti ha invaso i miei Stati, non ostante che io fossi in pace con tutte le potenze europee.

I mutati ordini governativi, la mia adesione ai grandi principii nazionali ed italiani, non valsero ad allontanarla; che anzi la necessità di difendere la integrità dello Stato, trascinò seco avvenimenti che ho sempre deplorati. Onde io protesto solennemente contro queste inqualificabili ostilità sulle quali pronunzierà il suo severo giudizio l'età presente e la futura.

Il corpo diplomatico residente presso la mia persona seppe fin da principio di questa inaudita invasione, da quali sentimenti era compreso l'animo mio per tutti i miei popoli, e per questa illustre città, cioè guarentirla dalle rovine della guerra, salvare i suoi abitanti e le loro proprietà, i sacri templi, i monumenti, gli stabilimenti pubblici, le collezioni d'arte, e tutto quello che forma il patrimonio della sua civiltà e della sua grandezza, e che appartenendo alle generazioni future è superiore alle passioni di un tempo.

Questa parola, è giunta ormai l'ora di compierla. La guerra si avvicina alle mura della città, e con dolore ineffabile io mi allontano con una parte dell'esercito, trasportandomi là dove la difesa dei miei diritti mi chiama. L'altra parte di esso resta per contribuire in concorso con l'onorevole guardia nazionale, alla inviolabilità ed incolumità della capitale, che come un palladio sacro raccomando allo zelo del Ministero. E chieggo all'onore ed al civismo del Sindaco di Napoli e del comandante della stessa guardia cittadina di risparmiare a questa patria carissima gli orrori dei disordini interni, ed i disastri della guerra vicina; al quale uopo concedo a questi ultimi, tutte le necessarie e più estese facoltà.

— 497 —

Discendente d'una dinastia che per 120 anni regnò in queste contrade continentali, dopo averle salvale dagli orrori di un lungo governo vicereale, i miei affetti sono qui. Io sono napoletano, né potrei senza grave rammarico dirigere parole di addio ai miei amatissimi sudditi, e ai miei compatrioti.

Qualunque sarà il mio destino, prospero od avverso, serberò sempre per essi forti ed amorevoli rimembranze. Raccomando loro la concordia, la pace, la santità dei doveri cittadini. Che uno smodato zelo per la mia corona non diventi face di turbolenze. Sia che per le sorti della presente guerra io ritorni in breve fra voi, o in ogni altro tempo in cui piacerà alla giustizia di Dio restituirmi al trono dei miei maggiori, fatto più splendido dalle libere istituzioni, di cui l'ho irrevocabilmente circondato, quello che imploro da ora, è di rivedere i miei popoli concordi, forti e felici.

Napoli, 6 settembre 1860.

Francesco.

Secondo proclama di Francesco II.

Dacché un ardito condottiero, con tutte le forze di che l'Europa rivoluzionaria dispone, ha attaccato i nostri dominii invocando il nome di un sovrano d'Italia congiunto ed amico, noi abbiamo con tutti i mezzi in poter nostro combattuto durante cinque anni per la sacra indipendenza dei nostri Stati. La sorte delle armi ci é stata contraria. L'ardita impresa che quel sovrano nel modo più formale protestava sconoscere, e che non pertanto nella pendenza di trattative di un intimo accordo riceveva nei suoi Stati principalmente aiuto ed appoggio quell'impresa, a cui tutta Europa dopo d'aver proclamato il principio di non intervenzione, assiste indifferente lasciandoci soli lottare contro il nemico di tutti, é sul punto di estendere i suoi tristi effetti fin sulla nostra capitale. Le forze nemiche si avanzano in queste vicinanze.

D'altra parte la Sicilia e le provincie del continente da lunga mano, e in tutti i modi travagliate dalla rivoluzione, insorte sotto tanta pressione, hanno formato dei governi provvisori, col titolo, e sotto la protezione nominale di quel sovrano, ed hanno confidato ad un preteso Dittatore l'autorità e il pieno arbitrio dei loro destini.

Forti dei nostri diritti, fondati sulla storia, sui patti internazionali e sul diritto pubblico europeo, mentre noi contiamo prolungare, finché ci sarà possibile, la nostra difesa, non siamo meno determinati a qualunque sacrificio per risparmiare gli orrori di una lotta e dell'anarchia a questa vasta metropoli, sede gloriosa delle più vetuste memorie, e culla delle arti e della civiltà del reame.

In conseguenza noi moveremo col nostro esercito fuori delle sue mura, confidando nella lealtà e nell'amore dei nostri sudditi pel mantenimento dell'ordine e del rispetto all'autorità.

Nel prendere tanta determinazione sentiamo però al tempo stesso il dovere che ci dettano i nostri dritti antichi ed inconcussi, il nostro onore, l'interesse dei nostri eredi e successori, e più ancora quello dei nostri amatissimi sudditi, ed altamente protestiamo contro tutti gli atti finora consumati e gli avvenimenti che sonosi compiuti e si compiranno in avvenire.

— 498 —

Riserbiamo tutti i nostri titoli e ragioni, sorgenti da sacri incontrastabili diritti di successione, e dai trattati, dichiariamo solennemente tutti i mentovati avvenimenti e fatti nulli, errati, e di niun valore, rassegnando per quel che ci riguarda nelle mani dell'onnipotente Iddio la nostra causa, e quella dei nostri popoli, nella ferma coscienza di non avere avuto nel breve tempo del nostro regno un sol pensiero, che non fosse stato consacrato al loro bene ed alla loro felicità. Le istituzioni che abbiamo loro irrevocabilmente garentite, ne sono il pegno.

Questa nostra protesta sarà da noi trasmessa a tutte le corti, e vogliamo che, sottoscritta da noi, munita del suggello delle nostre armi reali, e contrassegnata dal nostro Ministro degli affari esteri sia conservata nei nostri reali Ministri di Stato degli affari esteri, della presidenza del Consiglio dei Ministri di grazia e di giustizia, come un monumento della nostra costante volontà di opporre sempre la ragione ed il dritto alla violenza ed alla usurpazione.

Napoli, 6 settembre 1860.

Firmato: Francesco.

Firmato: Giacomo De Martino.

X.

Proclama al Popolo di Palermo.

Vicino o lontano sono con te bravo popolo di Palermo, e con te per tutta la vita!...

Vincoli d'affetto — comunanza di fatiche, di pericoli, di gloria mi legano a te con ligami indissolubili; commosso dal profondo dell'anima mia — colla mia coscienza d'Italiano — io so che non dubito delle mie parole.

Da te mi divisi nell'interesse della causa comune — e ti lasciai un altro me stesso — Depretis!... Depretis è affidato da me al buon popolo della Capitale della Sicilia; e più che mio rappresentante, egli è il rappresentante della santa idea nazionale «Italia e Vittorio Emanuele» Depretis annunzierà al caro popolo della Sicilia il giorno dell'annessioni dell'isola al resto della libera Italia... Ma è Depretis che deve determinare — fedele al mio mandato, ed all'interesse dell'Italia — l'epoca fortunata!

I miserabili che ti parlano di annessioni oggi, popolo della Sicilia, sono quelli stessi che te ne parlavano, ti suscitavano un mese fa... Dimando loro, popolo... se io avessi condisceso alle loro individuali miserie», avrei potuto continuare a combattere per l'Italia, avrei io potuto mandarti oggi il mio saluto d'amore dalla bella capitale del continente meridionale Italiano?

Dunque, popolo generoso, ai codardi che erano nascosti quando tu pugnavi sulle barricate di Palermo per la libertà dell'Italia!... tu dirai da parte del tuo Garibaldi — che l'annessione ed il Regno del Re Galantuomo in Italia — noi proclameremo presto, ma là! sulla vetta del Quirinale, quando l'Italia potrà contare i suoi figli allo stesso consorzio, e liberi tutti, accoglierli nell'illustre suo grembo e benedirli!...

Napoli, 11 settembre.

G. Garibaldi.

— 499 —

Giuseppe Garibaldi al Popolo di Palermo.

Palermo, 17 settembre 1860.

Al Popolo di Palermo.

Il Popolo di Palermo — siccome impavido a fronte dei bombardato! lo è stato in questi giorni a fronte degli uomini corruttori che volevano traviarlo.

Essi vi hanno parlato d'annessione come se più fervidi di mxxxxxxxxx per la rigenerazione d'Italia — ma la loro mèta era di servire a bassi interessi individuali — e voi rispondeste come conviene a popolo che sente la sua dignità — e che fida nel sacro ed inviolato programma d me proclamato:

ITALIA E VITTORIO EMANUELE.

 A Roma, popolo di Palermo, noi proclameremo il Regno Italico — e li solamente santificheremo il gran consorzio di famiglia tra i liberi e gli schiavi ancora figli della stessa terra. A Palermo si voleva l'annessione perché io non passassi lo. stretto. A Napoli si vuol l'annessione perché io non possa passare il Volturno. Ma in quanto vi siano in Italia catene da infrangere — io seguirò la via — o vi seminerò le ossa.

Mordini vi lascio per Prodittatore, e certamente egli sarà degno di voi e dell'Italia.

Mi resta a ringraziar voi, e la brava Milizia Nazionale, per la fede avuta in me e nei destini del nostro paese.

Vostro G. Garibaldi.

XI.

Lettera di Antonio Mordini, Prodittatore in Sicilia, al Generale Giuseppe Garibaldi in Napoli.

Riservata.

Palermo, 21 settembre 1860.

Generale Dittatore,

Il Paese ha benissimo accolto il nuovo Governo e Palermo è tranquilla. Secondato dai Ministri io mi adopero attivamente a riordinare tutti i rami del pubblico servizio che ho trovati in uno stato di confusione deplorabile. Se ho un mese di tempo le rimetterò l'Isola pacificata e forte. Frattanto sono scoperti gli abusi dei Ministeri della Guerra e della Marina e i colpevoli stanno per essere puniti. M'occupo di costituire una forza pubblica che renda impossibile qualunque tentativo dei vostri e nostri nemici. Il vostro programma sarà fedelmente eseguito da me e dal Ministero. Non mancheranno da parto mia né i modi concilianti, né i provvedimenti energici, ogni qualvolta se ne farà sentire il bisogno. Anzi debbo prevenirla che forse domani stesso io le invierò costà, secondo gli ordini da lei datimi a voce, qualche individuo di alto lignaggio, che sta cospirando per far venire in Sicilia due o tre reggimenti piemontesi.

Sono in obbligo di dire adesso che il decreto sulla limitazione dei poteri proditoriali ha prodotto un cattivo effetto su questa popolazione, la quale ha sempre paura d'essere dominata direttamente o indirettamente da Napoli. Sono tutte vane apprensioni, è vero, ma la passione non ragiona. Ora considerando bene lo stato delle cose e particolare e generale, io credo che una prudente politica debba tener conto di questa ostinata disposizione degli animi sulla popolazione siciliana a veder sempre dappertutto la dominazione napoletana.

— 500 —

Sarei dunque a proporre che il detto decreto fosse revocato per ciò che riguarda l'Isola. La distanza da lei, e le comunicazioni non facili e che possono divenire difficili coll'approssimarsi della cattiva stagione, porgono un motivo fusibile per la revoca di un decreto, il quale per verità rende imposte qualunque provvedimento istantaneo di alta politica che fosse necessario adottare in alcune date contingenze. Figurisi il caso di un Governatore ribelle. Nel modo stesso che pel detto decreto non si possom nominare dal prodittatore i Governatori, questi non possono neppure destituirsi. Ora si pensi al tempo che trascorrerebbe prima di ricevere una risoluzione da Napoli e da paese anche più lontano se ella non fora a Napoli. Figurisi il caso che sia necessario spedire Commissari straordinari nell'interno, mettere in istato d'assedio una Provincia o una città. Figurisi altresì il caso di una crisi ministeriale. In ciascuno di quei casi il decreto si opporrebbe all'adozione di provvedimenti energici istantanei. La prego di riflettere sulla gravità della questione; il decreto noi ha ragione d'essere che in un solo caso, quando, cioè, siano di dubbi fede i prodittatori. Ma qui in Sicilia ella ha un prodittatore sicuro, e dei ministri sicuri, ha poi nel Colonnello Ceneri un comandante di Piaza ed un amico che vale per moltissimi. E sia certo che quando fosse possibile ci meriteremmo tutti che i poteri, anziché esser limitati, venissero ampliati. Noi vogliamo il bene dell'Italia, niente altro, il bene d'Italia non possiamo disgiungerlo da lei e dalla sua politica. Abbiamo una buona posizione nell'insieme, che vuol essere conservata. La nomina del Ministri di Grazia e Giustizia che io feci nel Barone Pietro Scrofani, uomo autorevolissimo, ha dato una gran forza al Ministero e gli ha assicurati la simpatia della Borghesia. Io domando solo perché la mia Amministrazione possa portare tutti i suoi buoni effetti, che non sia ferito l'eccessivo spirito municipale di questo popolo, che d'altronde adora il sui liberatore.

Veda che cosa è il paese. Si è adombrato perché a Napoli i segretar di Stato si sono intitolati Ministri, e questi di qua vogliono che i lori chiamansi pure Ministri. Piccolezze, ma che fare? Altra cosa che devi evitarsi è che il Governo di Napoli si ha da rivolgere al Governo di qua e non ai governatori. Ella si riservi pure la direzione degli Esteri ma mantenga i doppi ministri e doppi inviati. Io le parlo nell'interesse suo e nostro. Mi duole che la mia parola non è forse cosi autorevole presse di lei come sarebbe necessario che fosse, ma creda che parlo dopo aver coscienziosamente considerato le cose che dico.

Il primo istituto che visitai fu quello militare Garibaldi, ma ho il dispiacere di dirle che lo trovai in uno stato proprio lacrimevole. Farò d provvedere. Tutto ciò che faccio è a nome suo, spero che avrò un giorni la sua approvazione e questa sarà la più bella ricompensa per me. Ho trovato che Depretis dava i sussidi senza ricorrere alla finanza siciliana. Io la pregherò di farmi avere qualche cosa se può. In caso contrarie ricorrerò alla finanza.

Ho tutto fissato per provvedere definitivamente alla sorte dei feriti della prima spedizione.

Il Prodittatore: Mordini.

La prego di dare ordine che ritornino qua alcuni vapori perché possiamo avere comunicazioni regolari tra Palermo e Napoli, Palermo Messina.

— 501 —

Gabinetto del prodittatore.

Palermo, 21 settembre 1860

Generale Dittatore!

Il signor dottor S. Friscia, vecchio e provato amico di Rosalino Pilo e di Calvino, epperò eccellente patriota e tutto nostro, è porgitore della presente.

Egli ha l'incarico di rimettervi una mia lettera e di svilupparvi a voci e odierne condizioni di Palermo e della Sicilia in quanto hanno relazione coll'argomento della lettera stessa.

Gli ho confidato il mandato di insistere perché la vostra giustizia faccia agione delle speciali esigenze dell'Isola nell'interesse nazionale.

Generale Dittatore! La vostra preziosa confidenza mi ha imposto un grande onore, ma ho piena fiducia di riuscire a buon porto. Coadiuvaemi, ascoltando il mio incarico e secondando le mie richieste.

Salute.

Il Prodittatore: Mordini.

Gabinetto del prodittatore.

Palermo, 5 ottobre 1860.

Generale Dittatore,

La posizione del Governo diventa sempre più difficile in Sicilia in dipendenza degli imbarazzi suscitati dalla politica del Gabinetto torinese. Mi scrivono che non è improbabile una spedizione provocata da alcuni Siciliani, i quali pretendono essere una Deputazione. Potrebbe credersi che il Gabinetto Sardo non fosse per osar tanto senza un voto del Parlamento, e che questo d'altra parte non volesse accordarlo. Ma il passato loro incoraggisce a fare assegnamento sulla indipendenza della maggioranza. Ma anche senza un voto del Parlamento è da temere un intervento armato che si opererebbe o apertamente buttando giù la maschera, dopo avere provocato colla presenza d'una squadra un pronunciamento della Guardia nazionale e di una parte della popolazione. Io sono in questa posizione che non ho forza militare, eccetto poche centinaia di nomini, i quali sono già agitatissimi perché vogliono partire alla volta di Napoli. La mia forza è quindi tutta morale, ma se era sufficiente per tener tranquilla la Capitale e l'Isola finché non compariva la questione d'un intervento armato da parte del Piemonte, dico chiaro che con questo non ci ha più mezzo possibile di conservare l'Isola. Ho meditato lungamente su questo gravissimo soggetto aspettando intanto le sue istruzioni, che fin qui ho creduto non mi mancherebbero comecché si tratti di eventualità da molti giorni prevista, discussa e anche determinata.

Finalmente ho risoluto di appigliarmi a quel rimedio che ho creduto migliore chiamando gli elettori iscritti in forza del suo Decreto 22 giugno 1860 a nominare i Deputati all'assemblea. Quanto al giorno della convocazione dell'assemblea stessa, Ella è perfettamente libera e può differirla. Colla convocazione dell'assemblea Cavour non oserà, è da sperare, di cacciar via i rappresentanti e noi seguitando a governare potremo consacrare la Sicilia all'Italia e a vol. Di partiti separatisti non c'è da temere: il sentimento nazionale diffuso in tutto il popolo, il di lei gran nome e autorità e l'influenza nostra terranno l'assemblea nei suoi confini.

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Dopo l'assemblea può venire il Plebiscito. In sostanza questo decreto sulla convocazione dell'assemblea non guasta nulla, ripara a molti pericoli, provvede al nostro onore, e ci conserva una forza preziosa. Come ella stimò prudente decretare che bì facessero le liste elettorali mentre Ella ora in Sicilia circondata da imponente forza materiale e da una morale straordinaria, io ho creduto prudentissimo, percorrendo quella stessa linea, di chiamare gli elettori a nominare i Deputati. Ella approvi, la prego, il decreto e confidi in me che sono mosso solamente da affetto sincero per l'Italia e per lei. La mia politica, è, credo, la migliore in questo momento. Regna dappertutto molta tranquillità.

Tutto suo: Mordini.

XII.

Lettere del conte di Cavour e del cardinale Antonelli.

«Eminenza,

«Il governo di S. Maestà il re di Sardegna non potè vedere senza grave rammarico la formazione e l'esistenza dei corpi di truppe mercenarie straniere al servizio del governo pontificio. L'ordinamento di siffatti corpi non formati, ad esempio di tutti i governi civili, di cittadini del paese, ma di gente di ogni lingua, nazione e religione, offende profondamente la coscienza pubblica dell'Italia e dell'Europa. L'indisciplina inerente a tale genere di truppe, l'improvvida condotta dei loro capi, le minacce provocatrici di cui fanno pompa nei loro proclami, suscitano e mantengono un fermento oltremodo pericoloso. Vive pur sempre negli abitanti delle Marche e dell'Umbria la memoria dolorosa delle stragi e del saccheggio di Perugia. Questa condizione di cose, già di per sé stessa funesta, lo divenne di più dopo i fatti che accaddero nella Sieilia e nel reame di Napoli. La prepotenza dei corpi stranieri, che ingiuria il sentimento nazionale, che impedisce la manifestazione de'  voti dei popoli, produrrà immancabilmente la estensione dei rivolgimenti alle provincie vicine.

«Gl'intimi rapporti che uniscono gli abitanti de'  le Marche e dell'Umbria con quelli delle provincie annesse agli Stati del re, e le ragioni dell'ordine e della sicurezza dei propri Stati impongono al governo di S. Maestà di porre, per quanto sta in lui, immediato riparo a questi mali. La coscienza del re Vittorio Emmanuele non gli permette di rimanersi testimonio impassibile delle sanguinose repressioni, con cui le armi dei mercenarii stranieri soffocherebbero, nel sangue italiano, ogni manifestazione del sentimento nazionale. Niun governo ha diritto di abbandonare all'arbitrio di una schiera di soldati di ventura gli averi, l'onore, la vita degli abitanti di un paese civile.

«Per questi motivi, dopo aver chiesti gli ordini di S. Maestà, il re mio augusto sovrano, ho l'onore di significare a vostra eminensa che truppe del re hanno incarico d'impedire in nome dei diritti dell'umanità, che i corpi mercenarii pontificii reprimano colla violenza l'espressione dei sentimenti delle popolazioni delle Marche e dell'Umbria.

«Ho inoltre l'onore d'invitare V. Eminenza, per i motivi sovra espressi, a dar l'ordine immediato di disarmare e di sciogliere quei corpi la cui esistenza è una minaccia continua alla tranquillità dell'Italia.

— 503 —

«Nella fiducia che V. Eminenza vorrà comunicarmi tosto le disposizioni date dal governo di S. Santità in proposito, ho l'onore di rinnovarle gii atti dell'alta mia considerazione. u Torino, 7 settembre 1860.

«Di Vostra Eminensa

«Firmato: C. Cavour».  

«Eccellenza,

«Astraendo dal mezzo di cui vostra eccellenza stimò valersi per farmi giungere il suo foglio del 7 corrente, ho voluto con tutta calma portare la mia attenzione a quanto ella mi esponeva in nome del suo sovrano, e non posso dissimularle che ebbi in ciò a farmi una ben forte violenza. I nuovi principii di diritto pubblico che ella pone in campo nella sua rappresentanza mi dispenserebbero per verità di qualsivoglia risposta, essendo essi troppo in opposizione con quelli sempre riconosciuti dall'universalità de'  governi e delle nazioni. Nondimeno, tocco al vivo dalle incolpazioni che si fanno al governo di S. Santità, non posso ritenermi dal rilevare dapprima essere alquanto odiosa, altrettanto priva d'ogni fondamento ed affatto ingiusta la taccia che si porta contro le truppe recentemente formatesi dal governo pontificio; ed esser poi inqualificabile l'affronto che ad esso vien fatto, nel disconoscere in lui un diritto a tutti gli altri comune, ignorandosi fino ad oggi che sia impedito ad alcun (governo di avere al suo servizio truppe estere, siccome in fatto molti le hanno in Europa, sotto i loro stipendii. Ed a questo proposito, sembra qui opportuno il notare che, stante il carattere che riveste il Sommo Pontefice di comun padre di tutti i fedeli, molto meno potrebbe a lui impedirsi di accogliere nelle sue milizie quanti gli si offrono dalle varie parti dell'orbe cattolico, in sostegno della S. Sede e degli Stati della Chiesa.

«Niente poi potrebbe essere più falso e più ingiurioso, che l'attribuire alle truppe pontificie i disordini deplorabilmente avvenuti negli Stati della S. Sede, né qui occorre dimostrarlo. Dappoiché la storia ha già registrato quali, e donde provenienti, siano state le truppe che violentemente imposero alla volontà delle popolazioni, e quali le arti messe in opera per gettare nello scompiglio la più gran parte dell'Italia e manomettere quanto v'ha di più inviolabile e di più eacro per diritto e per giustizia.

«E, rispetto alle conseguenze di cui vorrebbe accagionare la legittima azione delle truppe della S. Sede per reprimere la ribellione di Perugia, sarebbe in vero stato più logico l'attribuirle a chi promosse là rivolta dall'estero: ed ella, signor conte, troppo ben conosce donde quella venne suscitata, donde furono somministrati danari, armi e mezzi di ogni genere, e donde partirono le istruzioni e gli ordini d'insorgere.

«Tutto pertanto dà luogo a conchiudere, non avere che il carattere della calunnia quanto declamasi da un partito ostile al governo della S. Sede, a carico delle sue milizie, ed essere non meno calunniose le imputazioni che si fanno ai loro capi, dando a crederli come autori di minaccie provocatrici, e di proclami propri a suscitare un pericoloso fermento.

«Dava poi termine alla sua disgustosa dichiarazione l'eccellenza vostra, coll'invitarmi, in nome dei suo sovrano, ad ordinare immediatamente il disarmo e lo scioglimento delle suddette milizie, e tal invito non andava disgiunto da una specie di minaccia di volersi altrimenti dal Piemonte impedir l'azione di esse, per mezzo delle regie truppe.

— 504 —

In ciò si manifesta una quasi intimazione, ch'io ben volentieri qui mi astengo di qualificare. La Santa Sede non potrebbe che respingerla con indignazione, conoecendosi forte del suo legittimo diritto, ed appellando alla giustizia delle genti, sotto alla cui egida ha fin qui vissuto l'Europa, qualunque siano! del resto le violenze alle quali potesse trovarsi esposta senza averle punto provocate, e contro le quali fin da ora mi corre il debito di protestare altamente in nome di Sua Santità.

«Con sensi di distinta considerazione mi confermo, u Roma, 11 settembre 1860.

«Firmato: G. cardinale Antonelli».

XIII.

Memorandum del conte di Cavour del di 12 settembre 1860.

«La pace di Villafranca, assicurando agli Italiani il diritto di disporre della loro sorte, ha messo le popolazioni di molte provincie del nord e del centro della Penisola in istato di sostituire ai governi soggetti all'influenza straniera il governo nazionale del re Vittorio Emmanuele. Questa grande trasformazione si è operata con un ordine ammirabile e senza che alcuno del principii sui quali riposa l'ordine sociale fosse scosso. Gli avvenimenti che si sono compiuti nell'Emilia e nella Toscana hanno provato all'Europa che gli Italiani, lungi dall'essere travagliati da passioni anarchiche, non domandavano che d'essere retti da istituzioni libere e nazionali. Se questa trasformazione avesse potuto estendersi a tutta la Penisola, la questione italiana sarebbe a quest'ora pienamente risoluta. Lungi dall'essere per l'Europa una causa d'apprensioni e di pericoli, l'Italia sarebbe invece un elemento di pace e di conservazione. Sciaguratamente la pace di Villafranca non ha potuto comprendere che una parte d'Italia. Essa ha lasciato la Venezia sotto la dominazione dell'Austria e non ha prodotto alcun cangiamento nell'Italia meridionale e nelle province rimaste sotto la dominazione temporale della santa Sede. Noi non abbiamo l'intenzione di trattar qui la questione della Venezia. Ci basterà ricordare che fino a quando questa questione non sarà risoluta, l'Europa non potrà godere di una pace solida e sincera. Essa sarà sempre in Italia una causa potente di torbidi e di rivoluzioni, che, ad onta degli sforzi del governo, minaccerà incessantemente di far iscoppiare nel centro del continente l'insurrezione e la guerra. Ma questa soluzione bisogna saperla attendere dal tempo. Qualunque sia la simpatia che ispira a buon diritto la sorte ogni di più infelice dei Veneti, l'Europa è così preoccupata delle conseguenze incalcolabili di una guerra, essa ha un così vivo desiderio, un bisogno così irresistibile della pace, che sarebbe poco saggio di non rispettare la Bua volontà. Ma non è lo stesso delle questioni relative al centro ed al mezzogiorno della Penisola. Ligio ad un sistema tradizionale di politica, che non fu meno fatale alla sua famiglia che al suo popolo, il giovine re di Napoli si è messo, dal momento della sua assunzione al trono, in opposizione flagrante coi sentimenti nazionali degli Italiani, come pure coi principii che governano i paesi civili. Sordo ai consigli della Francia e dell'Inghilterra, rifiutando per sino di seguire gli avvisi che gli venivano da un governo del quale non poteva mettere in dubbio né l'amicizia costante e sincera, né l'attaccamento al principio dell'autorità, egli ha respinto per un anno tutti gli sforzi fatti dal re di Sardegna per condurlo ad un sistema di politica più conforme ai sentimenti che dominano il popolo italiano.

— 505 —

Quello che la giustizia e la ragione non hanno potuto ottenere, una rivoluzione lo ha compiuto. Rivoluzione prodigiosa, che ha riempito l'Europa di maraviglia, per la maniera pressoché providenziale con la quale si è operata, l'ha colpita l'ammirazione per l'illustre guerriero, le cui gesta gloriose rammentano ciò che la poesia e la storia raccontano di più sorprendente. La trasformazione seguita nel regno di Napoli per essersi operata con mezzi meno pacifici e regolari di quella dell'Italia centrale, non è meno legittima: le sue conseguenze non sono meno favorevoli ai veri interessi dell'ordine ed al consolidamento dell'equilibrio europeo. Allorquando la Sicilia e Napoli faranno parte integrante della grande famiglia italiana, i nemici dei troni non avran più argomento potente da far valere contro principii monarchici, le passioni rivoluzionarie non troveranno più un campo, ove le più arrischiate imprese abbiano probabilità di riuscire o almeno di eccitare la simpatia di tutti gli uomini generosi. Saremmo dunque in diritto di pensare che l'Italia può rientrare alla fine in una fase pacifica, tale da dissipare le preoccupazioni europee, se due grandi regioni del nord e del sud della penisola non fossero separate da provincie che trovansi in un stato deplorabile. Avendo il governo romano rifiutato di associarsi in checchessia al moto nazionale, avendo al contrario continuato a combatterlo col più deplorabile accanimento, si è messo da lungo tempo in lotta formale con le popolazioni che uon riuscirono a sottrarsi alla sua dominazione. Per contenerle, per impedir loro di manifestare i sentimenti nazionali da cui sono animate, ha fatto uso del potere spirituale che la provvidenza gli ha confidato con uno scopo ben altamente più grande di quello assegnato al governo politico. Presentando alle popolazioni cattoliche la situazione dell'Italia sotto colori empi e falsi, facendo un appello appassionato al sentimento o, per meglio dire, al fanatismo che esercita ancora tanto imperio in certe classi poco illuminate della società, è giunto a raggranellare danaro ed uomini da tutti gli angoli dell'Europa, ed a formare un esercito composto quasi esclusivamente di individui, stranieri non solamente agli Stati romani, ma a tutta Italia. Era riservato agli Stati romani di presentare nel nostro secolo lo strano e doloroso spettacolo di un governo ridotto a conservare la sua autorità sopra i suoi sudditi col mezzo di mercenarii stranieri, acciecati dal fanatismo, animati dall'esca di promesse che non potrebbero essere soddisfatte se non gettando nella miseria intere popolazioni. Fatti tali provocano al più alto grado l'indignazione degli Italiani che hanno conquistato la libertà e l'indipendenza. Pieni di simpatia pei loro fratelli dell'Umbria e delle Marche essi manifestano da ogni parte il desiderio di concorrere a far cessare uno stato di cose che è un oltraggio a principii di giustizia e di umanità, e che offende vivamente il sentimento nazionale. Benché dividesse questa dolorosa emozione, il governo del Re ha creduto dover finora impedire e prevenire qualunque tentativo disordinato per liberare i popoli dell'Umbria e delle Marche dal giogo che li opprime. Ma esso non potria dissimularsi che la crescente irritazione delle popolazioni non potrebb'essere contenuta più a lungo senza ricorrere alla forza ed a misure violenti. D'altra parte avendo la rivoluzione trionfato a Napoli, come bì potrebbe arrestarla alla frontiera degli Stati Romani, ove la chiamano abusi non meno gravi di quelli che hanno tratto irresistibilmente in Sicilia i volontarii dell'alta Italia? Alle grida degli insorti delle Marche e dell'Umbria l'Italia intera si è commossa. Nessuna forza potrebbe impedire che al mezzodì ed al nord della Penisola migliaia di Italiani accorressero

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in aiuto dei loro fratelli, minacciati di disastri, simili a quelli di Perugia. Se rimanesse impassibile in mezzo a questo universale movimento, il governo del Re si metterebbe in opposizione diretta colla nazione. L'effervescenza generosa che gli avvenimenti di Napoli e della Sicilia hanno prodotto nelle moltitudini degenererebbe ben tosto in anarchia ed in disordine. Sarebbe allora possibile ed anche probabile che il movimento regolare che si è osservato finora, prendesse tutto ad un tratto i caratteri della violenza e della passione. Qualunque BÌa la potenza delle idee di disordine sugli italiani, vi hanno delle provocazioni alle quali i popoli più civili non saprebbero resistere. Certo, essi sarebbero

più da compiangere che da biasimare, se per la prima volta si lasciassero trarre a reazioni violenti, che produrrebbero le più funeste conseguenze. La storia c'insegna come popoli che sono oggidì alla testa della civiltà, abbiano commesso sotto l'imperio di cause meno gravi i più deplorabili eccessi. Se esponesse la Penisola a tali pericoli, il governo del Re sarebbe colpevole verso l'Italia, e non lo sarebbe meno in faccia all'Europa. Esso mancherebbe ai suoi doveri verso gli italiani, che hanno sempre ascoltato i consigli di moderazione che diede loro, e che gli hanno confidata l'alta missione di dirigere il movimento nazionale. Mancherebbe ai suoi doveri in faccia all'Europa, poiché ha contratto verso di essa l'impegno morale di non lasciare che il movimento italiano si perda nell'anarchia e nel disordine. Il governo del Re per adempiere questo doppio dovere, tostoché le popolazioni insorte dell'Umbria e delle Marche gli mandarono deputazioni per invocare la sua protezione, si diè premura d'accordarla ad esse.

Nello stesso tempo inviò a Roma un agente diplomatico per domandare al governo pontificio l'allontanamento delle legioni straniere, delle quali non potrebbero servirsi per comprimere le manifestazioni delle provincie che toccano le nostre frontiere, senza costringere ad intervenire in loro favore. In seguito al rifiuto della corte di Roma di ottemperare a questa domanda, il Re diede l'ordine alle sue truppe d'entrare nell'Umbria e nelle Marche con la missione di ristabilirvi l'ordine e di lasciare libera facoltà alle popolazioni di manifestare i loro voti. Le truppe reali devono rispettare scrupolosamente Roma ed il territorio che la circonda. Esse concorrerebbero, se mai fosse bisogno, a preservare la residenza del Santo Padre da ogni attacco e da ogni minaccia poiché il governo del Re saprà sempre conciliare i grandi interessi dell'Italia col rispetto dovuto al capo augusto della religione, a cui il paese é sinceramente devoto. Agendo di tal modo esso ha convinzione di non offendere i sentimenti dei cattolici illuminati, che non confondono il potere temporale di cui la corte di Roma fu investita per un periodo della sua storia, col potere spirituale, che è la base incrollabile della sua autorità reliiosa. Ma le nostre speranze vanno ancora più lungi. Noi abbiamo la fiducia che lo spettacolo dell'umanità e dei sentimenti patriottici che si manifestano ora in tutta Italia ricorderà al Sommo Pontefice ch'egli fu, anni addietro, il sublime ispiratore di questo gran movimento nazionale. Il velo, che consiglieri animati da interessi mondani, avevano steso sui suoi occhi, cadrà, ed allora riconoscendo che la rigenerazione dell'Italia è nei disegni della provvidenza, egli ritornerà padre degli Italiani, come non cessò mai d'essere padre augusto e venerabile di tutti i fedeli».

CAPITOLO DUODECIMO.

Le agitazioni in Napoli — Il Gavazzi e le controversie religiose — Nuove fortificazioni in Capua Battaglia al Volturno — Ordine del giorno di Garibaldi — Provvedimenti di legge chiesti dal conte di Cavour alla Camera subalpina sulle annessioni delle Province meridionali — La Prodittatura in Napoli — Giuseppe Mazzini in Napoli e le ostilità della consorteria e lettere del Pallavicino e del Mazzini — Il Proclama di Vittorio Emanuele e il suo passaggio coll'esercito dal Tronto — Contrasti in Sicilia per l'annessione — I funeri di Rosalino Pilo — La decorazione a'  Mille promessa dal Municipio di Palermo — Le annessioni — I decreti dittatoriali per la madre e le sorelle di Agesilao Milano, di Silvia Pisacane e della Società Rubattino — Garibaldi e Vittorio Emanuele a Teano — Del combattimento a Santa Maria di Capua e della capitolazione per la resa — Decreto di nomina a luogotenente generale per la regione continentale del Mezzogiorno — Il saluto di Garibaldi ai volontarj e loro sbigottimento — Partenza di Garibaldi da Napoli e lettera dello stesso al generale Sirtori — Decreto di Vittorio Emanuele per regolare l'esercito volontario — Vittorio Emanuele in Palermo dal 1° al & dicembre 1860 — Vittorio Emanuele a Mola di Gaeta e assedio di Gaeta — Francesco II lascia Gaeta per recarsi in Roma — Assedio della cittadella di Messina e resa della stessa — Ultimi sforzi di Civitella di Tronto e resa della fortezza a discrezione — Le opinioni varie assunte da'  partiti per la unità d'Italia — Condizioni non secure delle popolazioni del Mezzogiorno.

Prima che Francesco II avesse lasciata la regia di Napoli, esortato, per evitare i pericoli, dagli stessi suoi ministri, temevasi il regno dell'anarchia, l'infuriare dei partiti, lo scatenarsi delle plebi avide di preda, sitibonde di sangue. I pericoli gravi di una sommossa si ritennero allontanati dalla prudenza di Liborio Romano; e ogni male parve avesse dovuto cessare colla presenza del generale Garibaldi. Ma costui, lasciando Salerno, il dì 7 settembre, ed entrato in Napoli lo stesso giorno, dà subito mano alla formazione del governo, facendo seguire ai primi improvvisamenti il Ministero anzi notato. Ma questo Ministero per lo sgoverno e per gli atti della segreteria dittatoriale, sempre in contrapposto al primo, non potè mantenersi, e, scorsi diciassette giorni, presentava al Dittatore le dimissioni, conservandosi semplicemente nella carica Raffaele Conforti.

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I motivi esposti nella seconda dimissione, con la particolare del Romano (1) e nella relazione del Ministero dittatoriale (2), sono, se non sempre sinceri, molto veri pei disastri morali che si appressavano. Si componeva il Ministero di uomini devoti alla politica del conte di Cavour, ma, anche mancando d'ogni franchezza nelle opere e nella indipendenza del giudizio, pure non potevano nascondere quali effetti avrebbe portato il disordine presente, il disordine di coloro che. sottomettendo l'Italia, avevano inalzato un vasto edifizio alle loro mire. I momenti, frattanto, dimandavano energìa, e questa non v'era; richiedevano onestà e atti liberali, e la baraonda politica si arruffava pel proprio benessere, quasi facendo giudicare corretta la espressione volgare e crudele di Ferdinando II, che chiamava pennaiuoli i più reputati scrittori del reame, non degno di libertà il popolo governato da lui.

Alle difficoltà di poter governare il popolo di Napoli, le plebi superstiziose e ignoranti nutrirono forti sdegni per il barnabita Alessandro Gavazzi, che, colle sue dottrine religiose, attinte al protestantesimo, avrebbe voluto mutare la coscienza del popolaccio, rinunziando al cattolicismo e specialmente alla divozione a S. Gennaro. Alterava un tal procedere i buoni rapporti delle masse colla rivoluzione; talché il Gavazzi scampò da morte, per essersi occultato a tanta furia di popolo, che il ricercava, e che indi, placato, fece comento strano dei costumi di lui, di tener moglie e figliuoli, delle vendite di ori raccolti nelle sue prediche, e di tant'altro che favoreggia il malignare.

Francesco II, avvicinandosi Garibaldi a Napoli, aveva disposto tali fortificazioni, che Capua divenne uno dei due ultimi baluardi della cadente dinastia. Le operazioni di guerra diedero in quei giorni molto travaglio, e gli uomini, su' quali il Dittatore poneva fiducia, niuna cura tralasciarono per ritrarre dallo studio dei luoghi le più minute ed esatte cognizioni.

Nel correre dalli 11 al di 29 settembre, dalla invasione nelle Marche e nell'Umbria degli eserciti piemontesi alla resa del Lamoricière, Giuseppe Garibaldi si era recato in Sicilia per dar freno a'  dissentimenti politici, che davano segno di aprire la via alle discordie civili.

Ritornando in Napoli, consapevole degli avvenimenti ultimi, che avevano rese libere varie province soggette al dominio papale, anelante della liberazione di Roma e del Veneto, glorificando l'unione italiana,

(2) Vedi Documenti, I.

(2) Vedi Documenti, II.

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riunite le forze, dirigeva a'  volontarj questo proclama, rimasto memorando:

«Quando l'idea della patria era in Italia la dote di pochi, si cospirava e si moriva. Ora si combatte e si vince. I patrioti sono abbastanza numerosi da formare degli eserciti, e dare ai nemici battaglia. Ma la vittoria nostra non fu intera. L'Italia non è ancora libera tutta, e noi siamo ben lungi dalle Alpi, mèta nostra gloriosa. Il più prezioso frutto di questi primi successi è di potere amarci e procedere. Io vi trovai pronti a seguirmi: ed ora vi chiamo a me tutti: affrettatevi alla generale rassegna di quell'esercito, che esser deve la nazione armata, per far libera ed una l'Italia, piaccia o no ai prepotenti della terra.

«Raccoglietevi nelle piazze delle vostre città ordinandovi con quel popolare istinto di guerra, che basta a farvi assalire uniti il nemico. I capi dei corpi, così formati, avvertiranno anticipatamente del loro arrivo in Napoli il direttore del Ministero della guerra, perché appronti l'occorrente. Per quei corpi che più convenientemente potrebbero venir qui per via di mare saranno date le opportune disposizioni.

«Italiani, il momento è supremo. Già fratelli nostri combattono lo straniero nel cuore d'Italia. Andiamo ad incontrarli in Roma, per marciare di là assieme sulle venete terre. Tutto ciò che è dover nostro e dritto, potremo fare, se forti. Armi dunque ed armati. Generoso cuore, ferro e libertà.

«Napoli, 19 settembre 1860.

«Il dittatore: G. Garibaldi».

Però que' momenti di turbolenze, tali che avrebbero potuto rinnovare nella città partenopea le massacrazioni del 1799, richiedevano i Combattimenti da vicino, ove un forte nerbo di forze era a difesa del monarca fuggito dalla capitale del suo regno, per volerne, come si era espresso, la salvezza. Il dì 14 settembre il generale Garibaldi, pria di recarsi a Palermo, aveva affidato a Stefano Tiirr il comando della linea del Volturno con poche migliaia d'uomini e quattro cannoni, da questo fatti trasportare da Ariano. Di fronte alla forte posizione di Capua si erano concentrati da trenta a trentacinquemila uomini in sostegno del Borbone; e il Turr, non avendo trovato soltanto che Santa Maria occupata da poche forze garibaldine, fu costretto, mentre attendeva i rinforzi promessi dal Sirtori, a studiare le posizioni del nemico

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mediante ricognizioni, che Mero luogo durante il 14 e il 15 (1).

Egli, fin dal giorno 16, aveva fatto notare al Dittatore, che, con tanto poco numero di combattenti, innanzi Capua, gli era necessario fare un tentativo, lanciando dei distaccamenti al di là del Volturno, verso Rocca Romana e Piedimonte, per verificare l'attitudine delle popolazioni, ed organizzare, ove trovasse buone accoglienze, delle squadre di Guardie nazionali, per molestare con esse il nemico alle spalle ed ai fianchi; simulando dappoi attacchi sopra punti differenti per occuparlo e confonderlo; e mettere così in ritardo più che fosse possibile il piano d'attacco, prima che tutte le forze garibaldine fossero riunite sulla linea del Volturno. Al comando di detti distaccamenti il Tiirr aveva proposto al generale Garibaldi il maggiore Ciudafy, che fu bene accolto (2).

I volontarj, spediti fino a Santa Maria, presso Capua, non dovevano avere altra mira che quella di tenere in freno le soldatesche borboniche, riunite a custodia del re, delle fortezze di Capua e di Gaeta e de'  dintorni. Però nulla era accaduto di grave, tranne lo scambio di poche fucilate agli avamposti, specialmente per le azioni de'  Siciliani, de'  cacciatori genovesi del Mosto e di qualche corpo della brigata Eber; e il dì 19 le schiere del Garibaldi passarono il Volturno, senza punto darsi pensiero delle forze di diecimila napoletani, i quali, tratti in inganno da una dimostrazione, da Santa Maria mossa contro Capua,

(1)Si rilevano, con precisione, queste notizie dalle pagine che Stefano Turr pubblicò nel 1903 col titolo: Ai miei compagni d'armi (Roma, Forzani e C., tipografi del Senato); destinate, dopo la publicazione IMille, di Giuseppe Bandi (Firenze, Adriano Salani), a cancellare molte inesattezze.

«Caserta, 16 settembre 1860.

«Al signor Maggiore Ciudafj.

«Maggiore! Con tre distaccamenti che confiderà a voi il Generale Turr, voi passerete il Volturno al di sopra di Capua ove vi convenga.

Ilprincipale oggetto della vostra missione è di mostrarvi nella retroguardia al nemico dietro Capua, e incomodarlo in ogni modo possibile. Quindi mostrarvi alle popolazioni circonvicine, fra le quali voi dovete spargere i buoni principii di libertà e di indipendenza italiana e spingerle all'armamento contro il dispotismo. Sopratutto voi dovete ottenere dai vostri soldati che rispettino la gente, le proprietà e che procurino di farsi amare da tutti e temere dai nemici.

«Per mezzi di cui abbisognate, rivolgetevi alle autorità locali, che munirete di competente ricevuta. Se potete spingere qualcuno dei vostri distaccamenti (che cercherete di aumentare quanto possibile) alla frontiera e sul territorio pontificio, farete bene di farlo e spingere pure le popolazioni pontificie a scuotere il giogo. Infine voi darete notizie di voi e di qualunque cosa importante al quartier generale del Generale Tiirr ed al mio.

«G. Garibaldi».

(Vedi Turr, opuscolo citato, pag. 2).

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si lasciarono sorprendere dal battaglione Cattabene, che, dopo lungo combattimento, giunse ad occupare Cajazzo (1). Caddero da cencinquanta a dugento uomini della fazione comandata dal Tiirr, siccome attestano in disparere le due statistiche; ma si notò non poco valore, poiché duemila garibaldini, possedendo solamente due pezzi d'artiglieria, non si ristettero dal cozzare mirabilmente contro le muraglie di Capua, che erano difese da esercito numeroso e dalle artiglierie della fortezza. Morì, gloriosamente, il colonnello Puppi, che comandava la brigata de' Cacciatori delle Alpi (2).

(1) Il Turr si propose nelle cennate pagine di correggere specialmente gli errori del Bandi, e cominciò dal far notare, che nel 1860 fra i garibaldini non era affatto in uso il grido Savoia» per l'attacco e per la carica a fondo. Parole troppo esplicite, che fan mal giudicare anche altri volumi di contemporanei che presero parte alle vicende militari. Sulla occupazione di Cajazzo è un bel ricordo il telegramma che il Tiirr mandava al Ministro della Guerra a Napoli:

«Ieri inviai una colonna per attaccare questa mane Cajazzo; ordinai una ricognizione forzata per questa mane da Santa Maria e San Prisco verso Capua e mi portai pure questa mattina colla Brigata Sacchi e due pezzi di cannone per fore una forte dimostrazione verso lo Scafo di Ferrara e Scafo di Cajazzo. I regi, i quali si trovavano da questa parte del Volturno, furono rigettati al di là del fiume. Abbiamo sostenuto da quattro a sei ore di fuoco. Ricevo in questo istante rapporto del comandante Cattabene, che dice di aver preso Cajazzo. 11 Generale Garibaldi venne a vedermi allo Scafo di Formicola, donde passò alle colonne, che si trovavano tra Sant'Angelo e Santa Maria di Capua.

«Caserta, 19 settembre 1860, ore 3,20 pom.

(2)Queste le risoluzioni prese in quella giornata.

Il Tùrr, con la brigata Sacchi, col battaglione Ferracini ed una parte della compagnia del genio di Milano, doveva avanzarsi da San Leucio per Gradillo sul Volturno. La brigata Eber doveva guardare Santa Maria col solo reggimento Cossowich, dovendo il rimanente di essa avanzarsi per mantenere le comunicazioni fra Tiirr e Rustow. Due battaglioni della brigata Spangaro, nella notte del 18, si eran posti in marcia da San Tammaro a Foresta per potersi trovare la mattina del di 19 nei pressi di Capua. Il Rustow, oltre ai suoi militi, comandava la brigata Milano, condotta dal maggiore Giorgi, — della quale il battaglione Venuti, trovandosi agli avamposti, non poteva entrare in azione che nel corso del combattimento — una parte della brigata Puppi, tre battaglioni della brigata La Masa, due cannoni e pochi soldati del genio. Formatasi di tutte queste forze una colonna, si disponeva a marciare da Santa Maria a Capua, ed assalendo il nemico per richiamare su quel punto tutte quante le forze del medesimo, render facile la presa di Cajazzo.

Dalla parte avversa si erano stabiliti quattro battaglioni ai due lati della strada, tenendo in riserva altri due battaglioni, quattro squadroni ed una batteria da campagna. Un altro battaglione, cui si univano pochi soldati, prendeva la via di Foresta, ed incontratosi con la colonna di Spangaro, sostenne un conflitto di breve durata.

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Capua, situata a sinistra del Volturno, circondata dalle acque dello stesso per più di due terzi, dopo le fortificazioni del Vauban, resa più forte dalle opere compiute nel 1855 da un uffiziale del genio russo, non poteva espugnarsi senza metterla in breccia e bombardarla. Riusciva impossibile alle milizie volontarie poterla prendere con si poche forze; ma l'attacco operato dal Rustow, traendo in inganno la guarnigione della piazza, lasciava tempo al Tiirr e all'Eber di poter operare il movimento di fianco verso l'alto Volturno e guadarlo. Riuscito il movimento, occupato Cajazzo, si potè dominare la riva sinistra del fiume, ponendosi le schiere garibaldine a cavaliere della strada di Gaeta. Durata sei ore la ricognizione, i garibaldini, con intrepidezza e impavidità, rimasero per sei ore sotto il fuoco incessante degli avversarj, ritiratisi quando fu loro noto che il Tiirr trionfava sulle difficoltà da loro apprestate sull'alto Volturno.

Dopo la vittoria di Cajazzo, le divisioni dei generali Cosenz e Medici, postesi in marcia, raggiunsero quella del Tiirr, appostato tra Santa Maria, Sant'Angelo, Scafo Formica e Scafo Cajazzo; seguiva in riserva la divisione comandata dal colonnello Pianciani. E così le poche schiere garibaldine respingevano nelle vicinanze di Capua ventiduemila uomini, nell'intento, attaccata la fortezza, di costringerli alla capitolazione.

Il Tiirr, riferendosi a'  piccoli fatti d'armi de'  giorni precedenti, il di 19 metteva fuori un ordine del giorno così concepito:

«Io devo una parola d'encomio ai nostri avamposti di Santa Maria e San Leucio per la regolarità del servizio da essi prestato e specialmente pel valoroso contegno tenuto nei due scontri di questi due giorni.

«La mattina del 15 corrente una frazione della sezione ungherese che fa parte della brigata Eber, agli avamposti di Santa Maria, fu attaccata dal nemico; essa, mantenendosi freddamente al posto, respinse vivamente un primo ed un secondo assalto di cavalleria, costringendola in iscompiglio a ritirarsi. Quei bravi soldati, che devono sostenere l'urto, non si lasciano vanamente intimorire dallo strepito e dalle apparenze.

«Respinta la cavalleria, il nemico avanzò un grosso corpo di fanteria. I bersaglieri della brigata Eber ed i cacciatori del battaglione Carrano si fecero tosto ad incontrarlo. Scambiate le prime fucilate, i nostri bersaglieri si spinsero arditi coi compagni all'assalto, ed incalzarono il nemico fin sotto le mura di Capaa, entro le quali si riparò in rotta ed in fuga, protetto dal fuoco dei cannoni dei forti di quella città.

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«La mattina del giorno sedici anco agli avamposti di San Leucio, della brigata Puppi, ebbe luogo uno scontro di ricognizione, a cui presero parte il terzo battaglione, maggiore Ferracini, e la seconda compagnia del genio, capitano Tessera, sotto gli ordini del signor colonnello Winckler. Il nemico, che in grosso numero occupava la riva destra del Volturno, si ritirò, cedendo all'impeto con cui i nostri si slanciarono sulla riva sinistra, quantunque non avessero ponti, né altro mezzo possibile per guadagnarla.

«Da questi fatti mi è dato con vera compiacenza di desumere quale conto io possa fare di voi in operazioni di maggiore importanza. Speriamo che l'accecamento dei presenti nostri nemici non eia tale da costringerci ancora a versare il sangue dei fratelli, ma che tutte contro lo straniero si debbano ormai concentrare le forze del vostro valore e delle vostre virtù.

«Il generale comandante degli avamposti «S. Tùrr».

Il giorno 20 il generale Tiirr, per malattia, o per momentaneo riposo (1), dato il comando nelle mani del Medici, recavasi, per volere di Giuseppe Garibaldi, in Napoli. Dopo quarant'ore i borbonici, il dì 21 settembre, con grandi forze riprendevano Cajazzo. Il Dittatore, udita la notizia, il dì 22 partì all'alba col battaglione di suo figlio Menotti, ed incontratosi col colonnello Vecchieri a Maddaloni, udì da costui lagnanze per essere stato abbandonato senza aiuto e senza ordini, avendo avuto da combattere con migliaia d'uomini con artiglieria (2). La perdita di Cajazzo, scrisse il Tiirr, nel 1903, dopo quarantadue anni, per evitare ripetuti errori, fu trista e dolorosa; ma molti, crede egli, gli effetti benefici ricavati dalla ricognizione offensiva del di 19, e come prova migliore di essa e delle scorrerie abilmente svolte dal Ciudafy, potrebbe ritenersi lo sconvolgimento recato alla parte nemica; assai ben compreso

(1) Il Generale Garibaldi al Generale Tiirr — Caserta.

«Subito giunto Medici a Caserta incaricato del comando, venite a passare qui qualche giorno,

«Napoli, 20, ore 6, 50 ant.

«L'Ufficiale telegrafico;

«Clemente Vita».

(2) Tùrr, opusc. cit., pag. 5.

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ne' detti che il generale Ritucci esprimeva al generale Von Mechel (1).

Dal 21 al 30 settembre nulla accadde da dare argomento di ricordo alle istorie piuttosto che alle memorie militari (2). Intanto Garibaldi il di 25 trasportava il quartier generale a Caserta; concentrando tutte le milizie della rivoluzione a Santa Maria, Caserta e Maddaloni; preparando materiali per ponti, costruendo forti sulle alture di Sant'Angelo, che avevano le apparenze di battere Capua, rivolti sulle batterie napoletane, postate a Gerusalemme. Però tutto questo, che era un accenno al riprendere delle azioni, segui in altro modo; e in altra guisa seguirono le aspirazioni di Giuseppe Garibaldi, che voleva rendere forte la rivoluzione per non lasciarsi imporre dalla politica piemontese, che poco mirava alla liberazione d'Italia. Nulla accadde che possa essere degno di ricordo; solo che il distaccamento Ciudaiy, rinforzato di 600 uomini, spintosi fino alle montagne di Bairanu, passando per Piedimonte, dovette ritirarsi dinanzi alle forze superiori nemiche, coadiuvate dalla reazione.

(1) Lettera del Generale Ritucci al Generale Von Mechel.

«Signor Generale, «È intenzione di S. M. (N. S. ) che dopo l'attacco di Piedimonte d'Alife giusto le precedenti disposizioni, se l'azione riesce felice per le nostre armi, com'è a sperarsi, Ella facendo correre i suoi rapporti per la via di Cajazzo e dopo non più che un giorno di riposo alle sue truppe, con tutta la colonna di suo comando comprese le truppe di Ruiz e con le debite precauzioni prenda la volta di S. Polito, Trivo, Casali di Faicchio, Amorosi, Ducenta Valle, e pei monti della valle piombare alle spalle di Caserta, impadronirsene, spingersi sulla strada di Santa Maria per giungere alle spalle di questo paese, mentre una Divisione, che uscirebbe da Capua, l'attaccherebbe di fronte e di fianco per San Tammaro.

«Queste sono le idee generali. Ella però vi darà adempimento a seconda delle cognizioni locali che acquisterà, della conoscenza della forza e delle posizioni del nemico e di quanto altro giudicherà dì porre a calcolo per la buona riuscita del disegno, ritenendo sempre che deve in tutti i casi informarmi a tempo del risultato dr Piedimonte, delle determinazioni che prenderà per la esecuzione del disegno succennato e dei giorni indispensabili che stimerà impiegarvi, onde io possa muovere per agire di concerto sopra Santa Maria. Tutto il più resta affidato alla nota sua esperienza ed avvedutezza.

«Sappia intanto che farò marciare questa notte la Brigata Polizzy onde esserle di aiuto nel solo caso che l'azione di Piedimonte non fosse coronata di felice risultamento, mentre all'opposto, assicurati che saremo di felice successo, la detta Brigata Polizzy dovrà ripiegare sopra Capua per far parte della divisione destinata ad attaccare Santa Maria. Le invio il presente per lo mezzo del Maggiore Giobbe dello Stato Maggiore, che rimarrà momentaneamente presso di Lei, per mezzo del quale bramo avere notizia delle sue operazioni e dei di Lei divisamenti sul contenuto di questo foglio.

«Capua, 24 settembre 1860.

«Il Generale in Capo

«Firmato: Giosuè Ritucci».

(1) Vedi Cronica della Campagna d'Autunno del 1860 fatta sulle rive del Volturno e del Garigliano, per Giovanni Delli Frangi. Napoli, 1870, pei tipi di Angelo Trani.

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Frattanto come la inerzia e la cupidigia delle cariche e dell'oro avessero sfrondata in sul nascere la rivoluzione, si ritrae da un proclama di un commilitone, verace ne' sensi, che può essere ben compreso dai testimoni de'  tempi, o da coloro che gli accaduti studiano sinceramente (1).

Le forze garibaldine e le borboniche il dì 30 settembre erano ordinare siffattamente:

Il Bixio occupava la estrema destra a capo della divisione diciottesima, formata dalle brigate Nizza e Spinazzi, tenendo pure il coniando della brigata Eberhardt, della divisione del Medici e della colonna Fabrizi, cui si aggiungevano venti guide e alcuni pezzi da montagna. Egli con un corpo di volontarj, rimaneva al di là di Maddaloni, tra i monti di Caro e Longano, spingendo gli avamposti fino a Valle, sulla via che da Maddaloni corre a Ducenta. Ne' pressi di Castel Morrone, sulla strada da Caserta e Limatola, si accampava il battaglione dei bersaglieri Bronzetti della sedicesima divisione. La brigata Secchi, accresciuta dall'altra del Puppi, era appostata nelle vicinanze di San Leucio, più oltre nord presso Gradillo. Il Medici occupava le alture di Sant'Angelo fino a Santa Maria, avendo al suo comando due brigate della sua divisione, dugento carabinieri genovesi, il reggimento del genio e la brigata Spanzaro della divisione quindicesima; inoltre disponeva di nove cannoni, sei de' quali rigati. Alla sinistra del Medici, sulla linea di Santa Maria,  il Milbitz stava a comandare la divisione del Cosenz (1); ed erano sottoposte a lui parte delle milizie della brigata quindicesima e  sedicesima, con quattro pezzi di artiglieria.

(1) Ecco quanto, sul finire del settembre 1860, scriveva Giuseppe La Masa, di nessun coraggio, ma sentenzioso scrittore d'innumerevoli proclami:

«Non è il gallone dorato per le vie di Palermo che vi innalza, quando i vostri fratelli combattono eroicamente per la liberazione della patria, quando coloro che cospiravano con voi ed insorsero vittoriosi, formano I parte dei regolari battaglioni, che caricano alla baionetta e ricacciano fin entro i fulminanti baluardi l'armata borbonica. L'organizzazione, la disciplina, la guerra soltanto formeranno anco di voi un forte sostegno della libertà; diversamente resterete al disotto dei popoli che si agguerriscono, ed a ragione sprezzati. Le donne dell'Alta Italia disprezzaoo coloro che capaci di maneggiare un fucile passeggiano spensierati per le città. I nostri cacciatori dell'Etna gareggiano ora in valore militare coi cacciatori delle Alpi, con queste invincibili guide della libertà che vi diedero il glorioso esempio della fermezza e dell'audacia del soldato E voi che in fermezza e slancio rivoluzionario siete stati sempre di guida agli altri popoli d'Italia, mostrate che siete oggi ben degni seguaci ed emuli dei cacciatori delle Alpi nella guerra nazionale. Italiani di Sicilia! correte in massa unanimi, ed ispirati del grande sentimento, l'abnegazione, nelle nostre file, che si coprono di gloria negli avamposti di Santa Maria di Capua. Siate oggi soldati per essere domani liberi cittadini di una grande nazione».

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La brigata Basilicata, ordinata dal colonnello Corte, rimaneva vicino ad Aversa.

Era in Caserta il quartier generale; ivi si era stabilita la riserva, sulla quale il Ttirr teneva il comando e il Rustow comandava da capo di Stato maggior generale. In quel giorno, 30 settembre, la riserva si componeva delle brigate Eber, Giorgi, Assanti, del battaglione Paterniti e della brigata calabrese Pace; inferiore quest'ultima di numero alle altre; poiché scrivono i contemporanei, discordi come sempre nelle date statistiche, i cinquecento uomini erano male armati, e gli altri sì sforniti da non poter rendere loro alcun servigio militare. De' tredici pezzi di artiglieria della riserva, ne furono trasportati nove a Santa Maria. Il numero de'  combattenti, militanti sotto Garibaldi, si scrisse essere asceso a più che ventimila; ma di ciò nessuna certezza per un attestato della verità!

A capo dell'esercito del Borbone fu inesso il Ritucci: il Mechel, brigadiere, alla sinistra estrema dell'armata, destinato a marciare verso l'alto Volturno, poi su Maddaloni, per la via di Ducenta e Valle. Un distaccamento assai numeroso, comandato dal colonnello Perrone, per la via di Cajazzo, per Castel Morrone, doveva avanzarsi su Caserta; rimanendo il brigadiere Ruitz a Cajazzo al comando della riserva.

Due erano le colonne destinate ad uscire da Capua. Una, sotto gli ordini del generale Afan de Rivera, si componeva delle due brigate del generale Barbalonga e del colonnello Polizzi.

Essa doveva dare l'assalto al villaggio Sant'Angelo in Formis e alle alture del monte Tifata; e, posseduti questi luoghi, inoltrandosi sopra San Leucio per Gradillo, unirsi al distaccamento del Perrone,

(1) Il generale Enrico Cosenz, per volere del Dittatore, non potendo lasciare, com'era ne' suoi più vivi desiderj, il Ministero della guerra, per recarsi su' luoghi del combattimento, fu costretto cedere il comando della sedicesima divisione al generale Milbitz. Inteso il Cosenz della battaglia, impegnatasi il 1° dell'ottobre a Capua e a Santa Maria, subito si recò qui, seguendo in quella memorabile giornata il generale Garibaldi. La sera, per ordine espresso del Dittatore, dovette ritornare a Napoli, ove, nella notte, conferi lungamente col generale D'Ayala, comandante la Guardia nazionale di Napoli, e col Ministro degli esteri del Piemonte, marchese di Villamarina, per raggranellare, quanto più si potè, uomini e materiali da guerra. Il domani, 2 ottobre, ritornò a Santa Maria, riprendendo, per suo reciso volere, il comando della sedicesima divisione, sempre assumendo il Ministero della guerra per determinazione del Dittatore. Fu pure il Cosenz incaricato di dirigere l'assedio della piazza di Capua, sostituito poi, entrate le soldatesche sarde nel Napoletano, dal generale Della Rocca. Il Cosenz, gestendo da Ministro della guerra, in que' momenti difficili, si distinse per la tattica militare e per organizzare rinforzi e materiali, che apportarono validi aiuti alle legioni garibaldine.

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prendere Caserta, mettendosi in comunicazione colle forze del Mechel, che doveva occupare Maddaloni. Comandava la seconda colonna, alla quale era aggregata la Guardia reale, il generale Tabacchi; essa era destinata all'assalto di Santa Maria, ove dovevano essere attirate in buona parte le milizie garibaldine, a fine di potere in tal guisa facilitare le operazioni delle colonne del Mechel e di Afan de Rivera. Questa colonna seguivano i conti di Caserta e di Trapani. Francesco II seguiva quella di Afan de Rivera, da cui dipendevano le sorti decisive. Il brigadiere Sergardi con un buon numero di soldati stava all'estrema destra, dovendo spingere le azioni sul Tannaro. La cavalleria in ordine di battaglia rimaneva nella pianura della fortezza di Capua, pronta ad accorrere, ove se ne avesse necessità; alla destra della riva del Volturno, allo Scafo di Triflisco, sopra Capua, prese posizione il generale Colonna, dovendo seguire, come riserva, la colonna di Afan de Rivera. Rimanevano a Capua forze non poche di guarnigione e di riserva. Il complesso delle milizie si noverò ammontare a quarantacinquemila uomini, che, messi in confronto con le truppe volontarie, avrebbero superato queste di oltre la metà. Francesco II, fatte presentare al Ritucci le lodi per mezzo de'  generali Cutrofiano e Afan de Rivera, la sera del 30 rivolse all'esercito il seguente proclama:

«Soldati! — Poiché i favorevoli eventi della guerra ci spingono innanzi e ci dettano di oppugnare paesi dall'inimico occupati, obbligo di Re e di soldato m'impone di rammentarvi che il coraggio ed il valore degenerano in brutalità e ferocia quando non sono accompagnati dalla virtù e dal sentimento religioso. Siate adunque tutti generosi dopo la vittoria; rispettate i prigionieri che non combattono ed i feriti, e prodigate loro, come il quattordicesimo cacciatori ne ha dato nobile esempio, quegli aiuti ch'è in vostro potere di apprestare.

«Ricordatevi pure che le case e le proprietà nei paesi che occuperete militarmente sono il ricovero ed il sostegno di molti che combattono nelle nostre file: siate adunque umani e caritatevoli con quegl' infelici e pacifici abitanti, innocenti certamente delle presenti calamità.

«L'obbedienza agli ordini dei vostri superiori sia costante e precisa: abbiate infine innanzi agli occhi sempre l'onore ed il decoro dell'esercito napolitano.

«L'onnipossente Iddio benedirà dall'alto il braccio dei prodi e generosi che combattono, e la vittoria sarà nostra.

«30 settembre 1860.

«Firmato: Francesco».

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Alle cinque del mattino del l'ottobre un allarme annunziava l'inoltrarsi del nemico: il generale Tabacchi faceva assalire impetuosamente gli avamposti garibaldini alla fortezza ed al convento dei cappuccini, facendo ripiegar quelli verso Santa Maria; pareva che il Tabacchi, avanzandosi dal lato destro, sulla riva che mette a Sant'Angelo, avesse voluto girare le posizioni de'  garibaldini. Affidata questa linea al maggior generale Milbitz, corse egli subito in mezzo a1 suoi, notando che le soldatesche borboniche, violentemente, ingombravano tutti i lati, nell'intento di forzare la linea e di isolare il corpo di Santa Maria. Il Milbitz, che sulle prime aveva spinto un battaglione, per le forze superiori degli avversarj, fu obligato a indietreggiare fino a che due compagnie di riserva, del reggimento Corrao, un'altra di quello del La Porta, corsero a sostenerlo. Disponevasi da parte della rivoluzione di quattromila uomini d'ogni arma, di quattro pezzi di artiglieria e di settanta cavalli, e con tali forze era pure addimandata necessaria la sorveglianza de'  principali sbocchi di Capua, per impedire il possesso di Santa Maria, divenuto luogo principale delle operazioni de'  combattenti. A tal uopo si costruisce un dente di sacchi di terra a cavaliere sulla ferrovia, e vi si collocano due cannoni: un'altra piccola batteria si stabilisce sotto l'Arco Capuano, ove si collocano due altri pezzi, da prendere di mira tutto lo stradale. Alla destra dello stesso si erano eseguite delle opere, tali che avessero potuto sostenere quella parte molto accessibile della posizione: similmente si era fatto a Sant'Angelo.

Alle ore sei del mattino il generale Von Mechel giungeva a'  ponti della Valle, dividendo le sue schiere in colonne: una destinata a combattere, sul Caro, il Drezza; una seconda, sul monte Lungano, l'Eberhardt; la terza per investire i ponti della Valle. E il disegno mirava per corrispondere al Bixio, che, aspettando la colonna Mechel, aveva fortificato il sito strategico con cannoni e con uno de'  suoi migliori battaglioni. La maggior parte di questi erano formati da soldati piemontesi, congedati temporaneamente. Del pari la brigata Mechel si componeva di soldati stranieri, boemi, tirolesi ed alemanni, tre battaglioni che, con nome proprio, erano chiamati svizzeri.

Costoro pria che si desse principio alla battaglia, gittatisi a terra, non udirono né preghiere né minacce; fino a che il Mechel riuniti i volenterosi, si mise in marcia. Sul monte Lungano si combatte incessantemente: l'Eberhardt si difende da forte, ma vede i suoi militi cadere a centinaia.

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Ivi muore, colpito da una palla alla fronte, il capitano Mechcl; il generale padre di lui lo vede, una lagrima gl'irrora le gote, ma non si astiene dal grido vive le roi, per infondere coraggio ai combattenti, che di lui comprendevano lo strazio. Grande la strage sul monte Caro: i garibaldini corrono in disordine, strage segnando le artiglierie borboniche: strage da costringere il Bixio a cercare un riparo a villa Gualtieri. Maddaloni rimane aperta alle truppe regie, ricordando il Rustow che i volontarj di Sicilia e di Napoli, gittando le armi, si riducevano in Napoli.

Giunto a tempo il rinforzo delle milizie comandate dal Corrao e dal La Porta, le forze liberali si rianimarono, e, con piglio assoluto, attaccarono le soldatesche regie. Alla sinistra, tra la via ferrata e la Porta Capuana, spintosi innanzi con ardire un reggimento di granatieri, i volontarj, comandati dal Malenchini, dopo avere sostenuto lungamente lo scontro, si ritirarono con lentezza, lasciando che agisse la piccola batteria della strada ferrata, comandata dal sottotenente Verdinois, cui si era unito volontariamente il Moranti, capitano del genio. Frattanto, dall'altro lato della ferrovia, si spiegava una colonna regia; e di ciò fattosi accorto il Faldella, lasciato un posto di osservazione a San Tomaso, guidato il resto del suo reggimento, accorse al sostegno della strada ferrata. In si breve volger di tempo comincia il fuoco della piccola batteria; e, malgrado le forze superiori, il nemico, dopo circa un'ora, si trovò costretto a prendere la ritirata. Simultaneamente attaccato il centro, la lotta divenne ostinata, terribile; poiché l'artiglieria regia dirigeva un faoco vivissimo contro Porta Capuana, e dai due lati dello stradale si avanzavano forze assai considerevoli. 11 generale Milbitz ordina allora al brigadiere Porcelli, cui aggrega lo maggiore Napoletano, il maggiore Domagolascki, il capitano Borgiflawski ed il luogotenente Letizia, di condurre una colonna per respingere i regj; ed energicamente questo è eseguito. Si spinge con calore il reggimento del tenente-colonnello Langé, e nello scontro questi ha ucciso il cavallo. La lotta, forte, accanita, dura un'ora, e i garibaldini giungono a respingere i cacciatori, che ripiegarono dietro la loro fanteria di linea, la quale, schierandosi in ordine di battaglia, aprì un fuoco assai nutrito.

Il luogotenente De Massoins e il sottotenente Perucca comandavano con due cannoni il fuoco di Porta Capuana.

L'azione diviene generale, su tutta la linea, alle ore otto.

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In quel momento giunge la prima brigata della divisione sedicesima, comandata dal colonnello brigadiere Assanti; non avendo potuto avviarsi, secondo gli ordini ricevuti, verso Sant'Angelo, per avere nuove forze nemiche, uscite da Capua, ingombrata la via principale tra Santa Maria e Sant'Angelo. L'Assanti, a capo il suo secondo battaglione bersaglieri, attacca i borbonici sullo stradale; dividendosi così il rimanente della brigata.

Il primo reggimento, guidato dal tenente-colonnello Fazioli, destinato ad attaccare il nemico di fianco, s'inoltrava verso la sinistra, per riuscire dalla parte della strada di Capua; il secondo reggimento, agli ordini del tenente-colonnello Borghesi, marciò a destra di Porta Sant'Angelo, dal cimitero al ponte; il primo battaglione del terzo reggimento, comandato dal maggiore Montemajo, s'inoltrò a Porta Capuana, rimanendo di riserva il secondo battaglione al di dentro di Porta Sant'Angelo. Il primo battaglione bersaglieri, comandato dal Bronzetti, composto di dugentoventisette uomini, per otto ore resistette agli attacchi di migliaia di soldatesche nemiche; e soltanto si arrese, quando, decimate le piccole forze, si trovò privo di munizioni. Il tenente-colonnello Bordoni, giunto da Milbitz, per servizio, fu ivi ritenuto per tutta la rimanenza della giornata. Il colonnello Pace con due compagnie calabresi, giunto nelle vicinanze di Sant'Angelo, soccorsa una delle due batterie, si dispose agli ordini del Dittatore, che sosteneva in quel punto una lotta eroica.

Le milizie garibaldine più volte furono obligate a cedere il terreno conquistato, per le nuove forze, che sopraggiungevano da Capua incitate dalla presenza e dalla parola di Francesco II. Però le legioni, combattenti per la redenzione, respinsero i varj assalti del nemico sulla ferrovia, sullo stradone a destra, di fronte all'anfiteatro, a Porta Sant'Angelo, sulla via omonima, al cimitero e al ponte.

Il Milbitz si avvede tendere le forze nemiche al centro; poiché esse, lungo gli attacchi di destra e di sinistra, rinnovati con ardire, con perizia e, allo scopo di divergere le forze garibaldine, con particolarità, avevano stabilito sulla destra due batterie, i cui tiri piombavano lateralmente sulla strada ferrata e verso Porta Sant'Angelo; senza punto tralasciare di dirigere un fuoco incessante sulla piccola sezione de'  volontarj, posta a Porta Capuana; né tralasciando, protette dalle batterie, a riprese, di farsi avanti in colonne, giungendo fino alle opere di fortificazioni erette da'  garibaldini.

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Però, non ostante la piccolezza di mezzi, riuscì alle legioni volontarie di potere smontare la batteria nemica, già avanzatasi per la via di Capua; impadronendosi di tre cannoni, di due bandiere, di soldati, fatti prigionieri, e di cavalli del treno.

Alle ore 11 il fuoco si riprende con grande intensità su tutti i punti. Sostengono mirabilmente gli urti della sinistra, ove si trova il conte di Trani, fratello del re, il reggimento del Malenchini, quello del colonnello Fardella e l'altro del tenente-colonnello Sprovieri. Nel centro entra in azione il reggimento del tenente-colonnello Palizzolo, che si lega con quello del tenente-colonnello Langé e con la compagnia del genio, che si avanza guidata dal capitano Profumo. La compagnia francese De Flotte, comandata dal capitano Paugam, con coraggio si mantenne al suo posto, anche soffrendo perdite numerose. Alla destra attendono vigorosamente l'urto del nemico i reggimenti del Corrao e del La Porta: e il Corrao, abbenché fosse ferito all'avambraccio, pure non si tenne lungi dall'azione, fino a che Garibaldi non gli ordinò di ritirarsi per apprestargli delle cure. A Porta Sant'Angelo, l'Assanti respinge le colonne nemiche, che avevano tentato d'intercettare le comunicazioni a'  volontari con Sant'Angelo. Il Borghesi col secondo reggimento della prima brigata si era avanzato sullo stradone stesso di Sant'Angelo. Per ordine di Garibaldi, al di là di questo luogo, si era spinto, con un cannone, il secondo battaglione del terzo reggimento della brigata Milano. In tanto dibattersi di vicende, il Milbitz si avvia alla destra, per conoscere profondamente le operazioni e il modo come le stesse erano eseguite fuori Porta Sant'Angelo; affidando il comando del centro al brigadiere Porcelli, già in servizio del Borbone, comandante la fortezza di Siracusa, per volere del Dittatore aggregato allo stato maggiore del Milbitz. Il fuoco vivissimo dura un'ora; ma le forze borboniche, respinte da tutti i lati, si ritirano in fuga, lasciando il campo coperto di morti e di armi.

Ne' momenti più forti della sanguinosa lotta giunge da Caserta l'Angherà, maggiore d'artiglieria, con quattro cannoni, che vengono collocati due a Porta Sant'Angelo, due sulla trincea della ferrovia.

Frattanto le forze borboniche respinte, anche più volte, anche contando non poco numero di perdite, nuovamente ritornano all'assalto, sostenuto questa volta dalla cavalleria, che replicò la carica con violenza. Si avanzano allora i volontarj. comandati dal maggiore Monteforte, e i giovani soldati, inesperti alle armi, per non poco valore, strappano lodi.

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Entra pure in azione il colonnello Pace, comandante il resto del corpo calabrese. Mentre la cavalleria borbonica si avanzava sulla sinistra, nella speranza di potersi impossessare delle batterie, fu dispersa da'  colpi di cannone tirati dalla trincea della ferrovia e dell'Arco Capuano. Gli artiglieri arrivati a Porta Capuana, e messisi all'opera della piccola batteria, continuano per altre due ore il fuoco. Giunge Garibaldi a Santa Maria, e dà alcune disposizioni al brigadiere Assanti, non potendo più il Milbitz reggere in quella parte le sorti della battaglia: ferito alle gambe, era costretto rimanere adagiato sur un pagliericcio, da ove trasmetteva gli ordini per mezzo del Porcelli e di altri dello Stato Maggiore.

Il campo di battaglia due ore dopo il mezzogiorno presentava queste condizioni. L'estrema destra de'  garibaldini, comandata dal Bixio, aveva a Maddaloni perduta la prima posizione: la sinistra, sulle alture del monte Caro, si sosteneva con valore. Il Bixio, sicuro del monte Caro, occupato da'  suoi, si lanciò col secondo e terzo battaglione della prima brigata e col secondo della seconda; e in breve, riguadagnando il molino e l'acquedotto, respingeva il centro del nemico al di là della batteria sulla strada. Si affidavano le posizioni di destra al maggiore Spinazzi; e il brigadiere Dezza col primo battaglione di linea e coll'altro di Menotti Garibaldi, ricacciato il nemico fino alla valle, veduta la carica data dal Bixio, si lanciò da un lato con una parte del battaglione di Menotti Garibaldi sulla ritirata del nemico, che già fuggiva con artiglierìa e cavalli, e lo mise in piena rotta. Riprese le posizioni, il Bixio giudicò prudente l'arrestarsi, non inseguire le soldatesche borboniche. La vittoria costò molto sangue a'  volontarj, che ripresero un obice, lasciato al ponte, e due cannoni rigati dalla parte avversa. Frattanto la colonna regia, capitanata dal Perrone, era trattenuta energicamente dal Bronzetti a Castel Morrone; sebbene costui non avesse che pochi soldati stanchi, rifiniti, i quali potevano essere facilmente dalle forze nemiche costretti a ritirarsi (1). Il Sacchi, a Gradillo, rimaneva ancora senza azione; soltanto alcune compagnie della sua brigata erano state mandate da Garibaldi sul monte San Nicola, rivelando valore in uno scontro col nemico.

(1) La difesa di Castel Morrone è stata tale eroica azione che sarà sempre ricordata con ammirazione. Primo ottobre 1860: data memoranda! Gloria a Pilade Bronzetti!

Garibaldi ricorda Pilade Bronzetti e lo dice emulo degno del fratello Narciso, ferito mortalmente nel combattimento di Rezzato, nell'anno precedente.

«Alla testa di un pugno di cacciatori, Pilade ripeteva uno di quei fatti che la storia porrà certamente accanto ai combattimenti dei Leonida e dei Fabii».

Il sacrificio di Pilade Bronzetti e dei suoi, aiutò la vittoria del Volturno.

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A Sant'Angelo, Afan de Rivera, con molte forze, dopo i felici successi riportati sul Medici, non divagando le soldatesche co' saccheggi nella parte settentrionale del Tifata, facilmente avrebbe potuto congiungersi col generale Mechel. A Santa Maria era cessato il combattimento, ma ambe le parti si preparavano per apprestarsi a nuove lotte. I combattenti, comandati da Milbitz, che avevano pugnato dalle albe del mattino, erano sì depressi di forze, da non potere comprendere se avessero potuto resistere a un forte combattimento. Intanto una vittoria riportata da Afan de Rivera in Santa Maria gli avrebbe aperto Caserta: San Tammaro era in potere de'  borbonici.

Presentandosi dàppertutto pericolosa la condizione, non rimaneva altra speranza, a riportare una vittoria, che avvalersi della riserva; comunque della medesima era rimasta ben poca cosa; poiché le artiglierie erano già state spedite a Sant'Angelo e a Santa Maria;

«Alla sera del 1° di ottobre, prima di giungere a Caserta — scrìve Garibaldi nel suo ordine del Giorno — il prode tenente colonnello Miasori che io aveva incaricato di scoprire il nemico con alcune delle valorose sue guide, mi avverti che i regi trovavansi schierati sulle alture da Caserta vecchia a Caserta, ciò che potei verificare io stesso poco dopo.

Fu impresa perigliosa e difficile il rendersi padroni di quelle posizioni formidabili occupate dai borbonici. Il generale Sirtori coi suoi prodi impedì l'occupazione di Caserta, mentre Garibaldi respingeva il nemico quasi alla corsa fino a Caserta vecchia. Alcuni di questi caddero nelle mani dei soldati di Bixio, altri capitolarono col Sacchi.

I borbonici furono così disfatti. «Questo corpo — aggiunge Garibaldi — pare essere quello stesso che aveva staccato il Bronzetti a Castel Morrone, e che l'eroica difesa di quel valoroso col suo pugno di prodi, aveva trattenuto la maggior parte del giorno, ed impedito quindi che nel giorno antecedente ci chiudesse alle spalle». Pugnarono duecentoventisette contro sei mila, e tra loro eravi Matteo Renato Imbriani Poerio, che doveva dettare le epigrafi poste sul luogo dove cadde l'eroico duce e sull'ossario dove furono raccolte le reliquie dei caduti». Vedi La Lombardia, anno 1905, n. 269).

Queste le Epigrafi dell'Imbriani:

I.

Due diritti cozzanti — s'incontrarono — su queste rupi — duecento — Pel diritto d'Italia — contro settemila — per il diritto di un trono — il posto assegnato — mantennero.

II.

Premio — al dovere compiuto — Garibaldi — ai resistenti attribuiva — gran parte — della vittoria conseguita — sul Volturno.

III.

Icaduti — si dolsero — di aver combattuto — Italiani — I Superstiti

attendono — lo squillo di guerra — contro lo straniero — per la patria redenzione.

(Sulla bocca dell'ossario):

II1° ottobre 1860 — Pilade Bronzetti — duce — consacrava col sangue

Castel Morrone — rimprovero ai viventi — in nome — dell ideale per cui cadde — le sue ossa — chiedono — Trento.

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spediti pure la brigata dell'Assanti, il battaglione Paterniti e una particina della brigata Pace, che avrebbe potuto servire. Non si poteva far conto che di due brigate: quella dell'Eber e l'altra del Giorgi. A quest'ultimo avanzo della riserva, prima delle ore due dopo il pomeriggio, si era dato ordine di marciare sopra Santa Maria. Il Tiirr con la brigata Di Giorgi mosse per la via ferrata; il Rustow collo Stato Maggiore e con un piccolo distaccamento di usseri prese la via consolare, seguito a poca distanza dalla brigata Eber. Tutte quante queste forze giunsero a Santa Maria dopo l'arrivo del Garibaldi; il quale si era ivi portato da Sant'Angelo, percorrendo la via alpestre de'  monti. Egli, riflettendo sugli avvenimenti belligeri della giornata, aveva detto: «Noi siamo vincitori; non ci resta che dare l'ultimo colpo; ma per darlo vi vogliono truppe fresche». Sperava in que' terribili momenti la vittoria nella riserva.

Giunta la brigata Milano, Garibaldi dà ordine di avanzarsi tosto per la via di Sant'Angelo: il Rustow, a fianco del Dittatore, si pose a capo della brigata. Ma la colonna de'  bersaglieri, appena uscita, venne colpita dal nemico al fianco sinistro da vivo fuoco. Il Tabacchi preparava un altro assalto, più forte de'  precedenti, contro Porta Capuana. Garibaldi disponeva che alcune compagnie di calabresi avessero coperto la sinistra della brigata Rustow; dalle quali, marciando diagonalmente dalla via di Sant'Angelo contro quella di Capua, poteva ottenersi un risultato decisivo, tagliando al Tabacchi e all'Afan de Rivera la ritirata su Capua. Marciarono, adunque, prima i bersaglieri, poi i battaglioni della brigata sulla sinistra della strada, attraversando i folti alberi, che ingombrano i campi ne' pressi di Moricello. La fanteria borbonica ripiega allora verso la strada che conduce a Capua, e il Tabacchi, sbigottito dalla rapida marcia della brigata Milano, ordina tosto la ritirata generale. Voleva cuoprirla, mettendo quattro squadroni di cavalleria avanti i bersaglieri milanesi; ma questi, stringendosi e raddoppiando il fuoco contro gli squadroni, pria li costrinsero a una fermata, indi, di conseguenza, a retrocedere. E la ritirata apportò difficoltà al Tabacchi; imperocché essa fu accelerata da'  sessanta usseri, che il Milbitz fece uscire da Porta Capuana per inseguire il nemico. Il Tabacchi non resiste: fugge l'esercito condotto; lascia alcuni cannoni. Giunta la brigata Eber da Santa Maria a Caserta, il Sirtori dispone che una parte di essa si unisca a rinforzo della brigata Milano; mentre un'altra, al comando del Tiirr, si avviò per la via consolare di Capua, a persecuzione delle forze nemiche; sicché la cavalleria borbonica, sostenuti fieramente gli urti de'  volontarj, cede e si ritira.

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Il Medici, ricevuti pure a Sant'Angelo rinforzi di riserva, rianimando, i suoi soldati, costringe l'Afan de Rivera, cedendogli passo a passo il terreno, a ritirarsi.

Per una ritirata simultanea, e per unirsi presso Capua l'Afan de Rivera e il Tabacchi, si determinano di spingere avanti tutta la cavalleria concentrata nelle vicinanze di Capua. S'incontra co' sessanta della legione ungherese, in quel momento comandati dal Rustow; ed essi, senza punto sbigottirsi alla destrezza dei cavalieri napoletani, sostengono un forte combattimento. Il Rustow, che quasi si trovava accerchiato dalla cavalleria, tenta aprirsi una via in mezzo ad essa, la quale non avrebbe potuto dare un risultato senza gravi perdite. Però l'arrivo della compagnia straniera e della brigata Milano pose fine alla pertinace lotta, e la cavalleria borbonica, precipitosamente presa la fuga, si ritirò sotto le mura di Capua.

Alle ore quattro dopo il mezzogiorno la riserva, ch'era a Caserta, fu messa agli ordini del Sirtori, e con lui il generale Tiirr. Parte di essa si era recata verso Sant'Angelo, parte aveva occupato diverse posizioni. Non cessava il combattimento; ma le forze ostili perdevano sempre più coraggio e terreno. In dieci ore di combattimenti incessanti, perduta la giornata, alle soldatesche borboniche non rimaneva che correre a drappelli da destra a sinistra, bersagliando i più arditi dei garibaldini, che si spingevano troppo. A dar termine alle replicate insistenze, nel mentre s'inseguiva il nemico fuggente, fa ordinata la carica alla piccola cavalleria appartenente alla divisione del Tiirr. Le risultanze furono felici; poiché i borbonici, furiosamente, rientrarono in Capua, protetti dal tiro de'  cannoni della fortezza.

Alle cinque della sera il fuoco cessava a Santa Maria e a Sant'Angelo: il piano borbonico era già stato distrutto, mandato in fascio, e, non ostante le forze di gran lunga superiori, non ostante la molta perizia de'  capi, che tennero all'onore del giuramento, pure le defezioni di capi dell'esercito regio, che cagionarono corruzione e avvilimento, come l'abilità e l'ingegno dei capitani garibaldini e l'entusiasmo nazionale delle raccogliticce milizie volontarie e delle agguerrite del Piemonte, introdotte furtivamente e con poca lealtà, avevano potuto sopraffare il numeroso esercito, che pure in questa battaglia si dimostrò assai valoroso.

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La battaglia commosse l'Italia: il sangue fraterno, sparso sì copiosamente, non poteva mettere gioia ne' petti; e spuntando sulle labbra un sorriso, si volle benedire e inneggiare l'opera santa; poiché dalla vittoria di questa battaglia l'Italia potè assodare l'unità politica, né gli animi essere turbati e trafitti dal ritorno del passato, che avrebbe accresciute le sventure italiane!

La Battaglia del 1° ottobre presso Capua.

Ordine del giorno di Garibaldi.

«Il 1° ottobre, giorno fatale e fratricida ove Italiani combatterono sul Volturno contro Italiani, con tutto l'accanimento che l'uomo può portare contro l'uomo, le baionette de'  miei compagni d'armi incontrarono anche questa volta la vittoria sui loro passi da giganti.

«Con egual valore si combatté e si vinse a Maddaloni, a Sant'Angelo, a Santa Maria.

«Con egual valore, i coraggiosi campioni dell'indipendenza italiana, portarono i loro prodi alla zuffa.

«A Castel Morrone, Bronzetti, emulo degno del fratello, alla testa d'un pugno di cacciatori, ripeteva uno di quei fatti che la storia porrà certamente accanto ai combattenti dei Leonida e dei Fabii.

«Pochi, ma splendidi dell'aureola del valore, gli Ungheresi, i Francesi, gli Inglesi, che fregiavano le file dell'esercito meridionale, sostennero degnamente la fama guerriera dei loro connazionali.

«Favorito dalla fortuna, io ebbi l'onore nei due mondi di combattere accanto ai primi soldati, ed ho potuto persuadermi che la pianta uomo nasce in Italia, non seconda a nessuna, ho potuto persuadermi che quegli stessi soldati che noi combattemmo nell'Italia meridionale, non indietreggeranno sotto il glorioso vessillo emancipatore.

«All'alba di quel giorno, io giungeva in Santa Maria da Caserta, per la via ferrata. Al montar in carrozza per Sant'Angelo il generale Milbitz mi disse: «Il nemico ha attaccato i miei avamposti di San Tammaro».

 Subito fuori di Santa Maria verso Sant'Angelo, udivasi una viva fucilata, e giunto ai posti di sinistra della detta posizione, li trovai fortemente impegnati col nemico.

«Era bel vedere i veterani dell'Ungheria marciare al fuoco colla tranquillità di un campo di manovra e collo stesso ordine. La loro impavida intrepidità contribuì non poco alla ritirata del nemico.

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«Col movimento in avanti della mia colonna e sulla destra io mi trovai bentosto a congiungermi colla sinistra della divisione Medici che aveva valorosamente sostenuta una lotta ineguale tutta la giornata. I coraggiosi carabinieri genovesi che formavano la sinistra della divisione Medici, non aspettarono

10mio comando per ricaricare il nemico. Essi come sempre, fecero prodigi di valore.

«Il nemico, dopo aver combattuto ostinatamente tutta 1& giornata verso le 5 p. m., rientrò in disordine dentro Capua protetto dal cannone della piazza.

«2 ottobre.

«Reduce la sera del 1° in Sant'Angelo, io ebbi notizia che una colonna nemica di 4 a 5000 uomini trovavasi a Caserta vecchia, ordinai per le 2 della mattina ai carabinieri genovesi di trovarsi pronti con 350 uomini del corpo di Spangaro ed una sessantina di montanari del Vesuvio. Marciai a quest'ora su Caserta per la strada della montagna e S. Leucio. Prima di giungere a Caserta il prode tenente-colonnello Missori, ch'io aveva incaricato di scoprire il nemico con alcune delle valorose sue guide, mi avvertì che i regi trovavansi schierati sulle alture da Caserta vecchia a Caserta, ciocché potei verificare io stesso poco dopo.

«Mi recai a Caserta per concertarmi col generale Sirtori. e non credendo il nemico sì ardito da attaccare quella città, combinai collo stesso generale di riunire tutte le forze che si trovavano alla mano e di marciare al nemico pel suo fianco destro, cioè attaccarlo per le alture del parco di Caserta, mettendola così tra noi e la divisione Bixio, a cui aveva mandato l'ordine d'attaccare dalla sua parte.

«Il nemico teneva ancora le alture, ma scoprendo poca forza in Caserta aveva progettato di impadronirsene, ignorando senza dubbio il risultato della battaglia del giorno antecedente, e perciò lanciava circa la metà.

«Un cocchiere ed un cavallo delle vetture del mio seguirò furono ammazzati. Potei passare più liberamente, grazie al valore della Brigata Simonetta, divisione Medici, che occupava quel punto, e che respinse coraggiosamente il nemico.

«Giunsi così all'incrocicchio della strada di Capua e Santa Maria, centro delle posizioni di Sant'Angelo, e vi trovai i generali Medici ed Avezzana che col solito coraggio e sangue freddo davano le loro disposizioni per respingere il nemico incalzante su tutta la linea.

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«Dissi a Medici «vado sull'alto ad osservare il campo di battaglia, tu ad ogni costo difendi la posizione». Procedeva appena verso le alture che ci stavano alle spalle, quando mi accorsi esserne il nemico padrone.

«Senza perder tempo, raccolsi quanti soldati mi capitarono alla mano e ponendomi alla sinistra del nemico ascendente, cercai di prevenirlo. Mandai nello stesso tempo una compagnia di bersaglieri genovesi verso il monte San Nicola per impedire che il nemico se ne impadronisse. Quella compagnia e due compagnie della brigata Sacchi ch'io aveva chiesto e che comparivano opportunamente sulle alture, arrestarono il nemico.

«Movendomi io poi verso destra, sulla linea di ritirata, il nemico principiò a discendere ed a fuggire. Solamente dopo qualche tempo io venni a sapere che un corpo di cacciatori nemici, prima del loro attacco di fronte, erasi portato alle nostre spalle, per un sentiero coperto, senza che nessuno se ne accorgesse.

«Intanto la pugna ferveva nel piano di Sant'Angelo, ora favorevole a noi, ed ora obbligati di ripiegarci davanti al nemico assai numeroso e tenace.

«Da varii giorni non equivoci indizi mi annunziavano un attacco, e perciò non m'era lasciato allettare dalle diverse dimostrazioni del nemico sulla destra e sulla sinistra nostra; e ben ci valse poiché i regi impiegarono contro di noi nel primo ottobre quante forze disponibili avevano, e ci attaccarono simultaneamente su tutte le posizioni.

«A Maddaloni dopo varia fortuna il nemico era stato respinto. A Santa Maria parimenti, ed in ambi i punti aveva lasciato prigionieri e cannoni. Lo stesso avveniva a Sant'Angelo dopo un combattimento di più di sei ore; ma essendo le forze nostre in quel punto inferiori d'assai al nemico, egli era rimasto con una forte colonna padrone delle comunicazioni tra Sant'Angelo e Santa Maria; di modo che per portarmi alle riserve ch'io aveva chieste al generale Sirtori, da Caserta a Santa Maria, io fui obbligato di passare a levante dello stradale che da Sant'Angelo conduce a quell'ultimo punto. Giunto in Santa Maria, verso le due p. m. vi trovai i nostri comandati dal bravo generale Milbitz che avevano valorosamente respinto il nemico su tutti i punti.

«Le riserve chieste da Caserta giungevano in quel momento. Le feci schierare in colonna d'attacco sullo stradale di Sant'Angelo. La brigata Milano in testa seguiva la brigata Eber, ed ordinai in riserva parte della brigata Assanti. Spinsi pure all'attacco i bravi Calabresi di Jace che trovai nel bosco sulla mia destra e che combatterono splendidamente.

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«Appena uscita la testa della colonna dal bosco verso le tre p m. fu scoperta dal nemico, che cominciò a tirare delle granate, ciò che cagionò un po'di confusione allo spiegamento dei giovani bersaglieri milanesi che marciavano avanti. Ma quei bravi militi, al suono di carica delle trombe, si precipitarono sul nemico che cominciò a piegare verso Capua.

 Le catene dei bersaglieri milanesi furono tosto seguite da un battaglione della stessa brigata, che caricò impavidamente il nemico senza fare un tiro.

«Lo stradale che da Santa Maria va a Sant'Angelo forma colla direzione di Santa Maria a Capua un angolo di circa quaranta gradi, in guisa che, procedendo la colonna sullo stradale, lo spiegamento di essa doveva essere sempre sulla sinistra ed alternato in avanti. Quindi impegnata che fu la brigata Milano ed i Calabresi, io spinsi al nemico la brigata Eber sulla destra della prima delle sue forze su quella città. Mentre adunque mi trovava marciando al coperto, nel fianco destro del nemico, questo attaccava di fronte Caserta, e se ne sarebbe forse reso padrone, se il generale Sirtori, colla sua consueta bravura, ed una mano di prodi non lo avesse respinto.

«Coi Calabresi del generale Stocco, e quattro compagnie dell'esercito settentrionale io procedevo intanto sul nemico che fu caricato, resistè poco e fu spinto quasi alla corsa sino a Caserta Vecchia. Ivi un picciol numero di nemici si sostenne per un momento facendo fuoco dalle finestre e dalle macerie, ma presto fu circondato e fatto prigioniero. Quei che fuggirono in avanti, caddero nelle mani dei soldati di Bixio, il quale dopo d'aver combattuto valorosamente il 1° a Maddaloni, giungeva come un lampo sul nuovo campo di battaglia. Quelli che restarono indietro capitolarono con Sacchi, a cui aveva dato ordine di seguire il movimento della mia colonna; dimodoché di tutto il corpo nemico, pochi furono quelli che poterono salvarsi. Questo corpo pare essere quello stesso che aveva attaccato Bronzetti a Castel Morrone, e che l'eroica difesa di quel valoroso, col suo pugno di prodi, aveva trattenuto la maggior parte del giorno, ed impedito quindi che, nel giorno antecedente, ci giungesse alle spalle.

«Il corpo di Sacchi contribuì esso pure a trattenere quella colonna al di là del parco di Caserta, nella giornata del primo respingendolo valorosamente.

«Caserta, 5 ottobre 1860.

«G. Garibaldi».

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Non ancora decisa la battaglia al Volturno, il conte di Cavour riuniva, il 2 ottobre 1860, la Camera, presentando un progetto di legge per ottenere il governo la facoltà di accettare l'annessione delle province meridionali per mezzo di un decreto reale, anzi che per legge; e leggendo un rapporto in cui erano esposti i motivi, che inducevano il governo a presentare quel disegno di legge, chiedeva pure un voto di fiducia, senza il quale il Ministero avrebbe date le dimissioni. La storia moderna non ha ricordo di un simile atto ardito, e chiamando il Conte astuto, come lo disse il Mazzini, niun torto si fa alle vicende della sua vita politica. La Sicilia e il Napoletano si sollevano al grido di libertà, volendosi sprigionare da'  duri ferri della tirannide, e un politico, di mente vasta, che sognava la estensione di un piccolo territorio, al sollevarsi della rivoluzione, vuol tenere dietro a un mondo più largo, e perché non isdruccioli sulle vie alpestri, invoca l'aiuto di un potente, se ne rende schiavo, e sottomette a'  voleri di lui la rivoluzione, che deve penetrare negli animi ed avere pieni svolgimenti. Il conte di Cavour non aveva con sè il popolo, ma un partito, i cui emissarj erano gli accoliti alla Società Nazionale, una consorteria indegna di memoria. Il popolo seguiva la bandiera del partito d'azione; ma il gabinetto di Torino, timoroso che gli potesse venire meno la preda, strozza per mezzo degli emissarj la rivoluzione, e s'impone: e i suoi voleri, che muta in leggi, impone in luoghi lontani. Scusa astuta è l'avere il popolo invocato il nome di Vittorio Emanuele; e questo nome, allegava il Conte, doveva rispondere ad ordine, ad una politica monarchica costituzionale, contraria alla forma republicana, fantasima, che turbava i sogni dello statista e de'  suoi proseliti. Non considerando come sleale la condotta del capo del governo col Manna e col Winspeare, legati di Francesco II, consideriamo audacissimo l'atto di chiedere provvedimenti a una Camera del proprio governo per ragioni che nulla hanno di comune con esso. Giuseppe Garibaldi si opponeva fortemente alle annessioni: il conte di Cavour non meno fortemente contrariava le idee del Garibaldi, che miravano dapprima, anziché alle annessioni, a redimere l'Italia dalla oppressura straniera; poiché libero il mezzogiorno, non rimaneva che conculcare gli Austriaci, signori del Veneto, conservati in quel dominio col trattato di Villafranca, e i Francesi, che trattenevano Roma nella schiavitù.

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Il Conte in quel giorno, 2 ottobre, presenta d'ordine del re in unico articolo il progetto di legge: «Il governo del re è autorizzato ad accettare e stabilire per reali decreti l'annessione allo Stato di quelle provincie, nelle quali si manifesti liberamente, per suffragio diretto universale, la volontà delle popolazioni di far parte integrante della nostra monarchia costituzionale» (1).

La Camera era in quel dì popolata, e la presenza della deputazione siciliana doveva parere, e un tal giudizio forse non è ancora lecito ritenerlo, dopo tanto volger d'anni, una violenza: poiché essa, pure non rappresentando che la frazione della politica del Conte di Cavour, si presentava come fosse la rappresentanza di un popolo. Il numero dei deputati non era che di 300, militando gli altri sotto Garibaldi. V'intervenne il Persano, accolto con applausi per la vittoria di Ancona. Il Conte riepiloga le vicende italiche, e, con aria spensierata, con dire temerario, abile nelle argomentazioni, prova che i memorandi casi erano stati conseguenza necessaria della politica già iniziata da Carlo Alberto e proseguita per dodici anni dal governo del re. E strappa applausi; e aggiunge: Cerio, se tale politica fosse stata messa in disparte, ovvero se ne fossero mutati od alterati i principii direttivi, le cause surriferite sarebbero tornate impotenti a compiere la liberazione di tante parti d'Italia. Il Conte però, anche promovendo nella maggioranza le approvazioni, lascia un qualche disgusto lasciandosi sfuggire tra le sue manifestazioni un'idea, che, totalmente, non lo emancipava dal vassallaggio politico: «Noi giudichiamo che non debbasi rompere guerra all'Austria contro il volere quasi unanime delle potenze europee». Sicché la Nazione, anche tardi concepita nella mente dello statista, doveva sorgere legata a servitù, senza slancio, senza istinti, senza vita propria, ma rimanere sempre pitocca, assoggettata al comando de'  più scaltri e dei più forti, che imponevano, ricordando, in un documento diplomatico, non doversi rompere guerra all'Austria.

Punto culminante del rapporto non è la questione di Roma e di Venezia, la cui liberazione era considerata prematura, bensì lo stato del mezzogiorno d'Italia, in cui il Conte stima non doversi indugiare l'annessione sino ad opera compiuta, siccome caldeggiava Giuseppe Garibaldi; ritenendo il Conte di Cavour, che rivoluzione e governo costituzionale non possono coesistere lungamente in Italia,

(1) Vedi Discorsi Parlamentari del Conte Camillo Cavour, vol. xi, pagina 237 e segg: Roma, Eredi Botta, MDCCCLXXII.

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senza che la loro dualità non produca una opposizione e un conflitto il quale tornerebbe a solo profitto nel nemico comune.

Vecchia teoria, che persuadeva a generar male, perdurando nella mente de'  politici moderati lo spauracchio del 1849, sulla possibilità del ritorno degli spodestati. Questo il massimo degli errori: errore che strozza violentemente ogni progresso politico a discapito del rinnovamento di un popolo. La rivoluzione del 1860 non era da uguagliarsi a quella del 1848. Nel 1860 non si richiedevano riformucce, né si pietosiva da principi pregiudicati da falsa e ipocrita educazione, ma sorgeva il popolo a costituire la sua vita politica, irrompendo furioso contro le insidie e le male arti. E questo popolo, che combatte per una grande e luminosa idea, è arrestato nel suo cammino per le paure quarantottiste, per credere che la rivoluzione possa degenerare, rompendosi il non intervento, proclamato dalla Francia, bene accetto dall'Inghilterra. Potrebbero evitarsi i disastri conceputi dal Conte, se si fossero, ripeteva lo stesso, affacciati alla mente di quel generoso patriota, che finora contrastò l'annessione di Napoli e di Sicilia. i Ed una serie di argomenti, ritrovati politici, indussero, nei giorni di seguito, i rappresentanti, devoti al Presidente del Consiglio, al voto favorevole dell'unico articolo di legge, indotti dalle finali parole: «Sicuri della rettitudine delle nostre intenzioni, noi siamo egualmente disposti a servire la patria come ministri o privati cittadini, consacrando in qualunque caso tutte le nostre forze alla grand'opera di costituire l'Italia sotto la monarchia costituzionale di Vittorio Emanuele».

Altra volta il di 5 ottobre nell'assemblea si discute sull'articolo unico di legge per l'annessione allo Stato delle province centrali e meridionali; ed il Conte concreta, contrariamente alle asserzioni, credute vaghe, del deputato Cabella, le sue idee, enunciate il 2 ottobre, che le cose delle Marche e dell'Umbria si possono dire compiute: compiute le operazioni militari, non incominciate, appena in principio le diplomatiche! E con tale dire scansava lo statista di rispondere alle altre interpellanze. Il dì 8 ottobre, alla lettura dell'articolo di legge sull'annessione dell'Italia del mezzogiorno, con raziocinio di filosofo e con vibrate forme parlò Giuseppe Ferrari, l'interprete più acuto di G. B. Vico, legislatore della storia, lo scrittore delle rivoluzioni d'Italia. Egli, contrapponendo agli argomenti troppo elastici la profondità de'  raziocinj, combatteva tutte le teoriche politiche emesse dal conte di Cavour. Sostenendo l'atto non politico d'nn'annessione incondizionata, esclama:

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«Dunque libero il Piemonte di distruggere tutte le leggi napolitane per surrogarvi le piemontesi». Soggiungeva: «Io sto alla parola: incondizionata, non mi dà altra significazione. La discussione non sta sulla forma di governo, per noi è affatto indifferente, ma bisogna portarsi sul campo economico. A Napoli intesi orribili accuse contro i Borboni. Garibaldi entusiasma la popolazione, il Re Vittorio è atteso, venne promulgato lo Statuto piemontese, ma non mi fu dato udire alcun napolitano lagnarsi delle orribili leggi, che per tanti anni lo ressero nelle infami tradizioni, e voi volete che Napoli si dia incondizionatamente e subito?» (1).

A questo nobile ed elevato dire si unirono le voci del Sineo, del Bertani, del La Farina, che falsò lo stato delle cose, riprendendo in ultimo la parola il Conte di Cavour, che, destro nel linguaggio, trattò delle questioni più essenziali, di Garibaldi, di Roma e di Venezia, e, con applausi, venne approvato il dì 11 ottobre l'Articolo unico: «Il governo del re è autorizzato ad accettare e stabilire per reali decreti l'annessione allo I Stato di quelle provincie dell'Italia centrale e meridionale, nelle quali si manifesta liberamente, per suffragio diretto universale, la volontà delle popolazioni di far parte integrante della nostra monarchia costituzionale» (2). E l'Articolo, che calpestava la costituzionalità, che negava alla Camera le facoltà di discutere e di approvare una legge, fu accolto rumorosamente! accolto con grida di gioia pel trionfo ottenuto dal Conte e per la presenza del generale Manfredo Fanti, festeggiato per le vittorie nelle Marche e nell'Umbria. Nel risultato dello scrutinio si trovarono solamente 6 voti contrarj, notandosi che anche Agostino Bertani votò l'articolo di legge: il Bertani, che, più tardi, dovette sperimentare che il Conte di Cavour e la sua consorteria erano ben lontani anche dal tollerare in lui la opposizione! Il Ministero in quel giorno si ebbe il voto di fiducia, cotanto anelato ed atteso: Giuseppe Garibaldi, proclamato benemerito della patria, la sconfitta da una Camera, che, rappresentando la Nazione, doveva garantire il nuovo diritto di un popolo!

L'approvazione dell'articolo, creato per affrettare le annessioni, chiamava in Napoli a reggere la prodittatura il marchese Giorgio Pallavicino Trivulzio, la cui vita aveva ricordo di lungo martirio nello Spielberg.

(1) Vedi Atti parlamentari, 1860.

(2) Vedi Atti parlamentari, 1860.

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Lo aveva voluto Giuseppe Garibaldi; rimaneva contento della scelta il governo di Torino.

Egli assunse la carica, in que' momenti difficili e pericolosi, promettendo troppo, e forse credendo pagare gli animi colle astiose e crudeli parole: «Non salverà l'Italia la fiducia nel patrocinio straniero, non la sonora ciancia delle sètte impotenti, ma la concordia e le armi italiane» (1). E tali parole aumentavano vieppiù le discordie, accendevano le liti cittadine, mirando con esse il Pallavicino ad offendere l'uomo, che alla scheletrita Italia aveva dato nervi, polpe, soffio di vita. Viveva egli, allora, tranquillo in Napoli, e il prodittatore dà principio a'  suoi atti di governo con una lettera d'invito, che un eroe del martirio, maculando un passato glorioso, avrebbe dovuto ritenersi di scrivere, qualora egli non avesse preso il partito di rendere servigio alla politica del Conte. Scrive al Mazzini: «La vostra presenza in queste parti crea imbarazzi al governo e pericolo alla nazione, mettendo a repentaglio quella concordia che torna indispensabile all'avanzamento ed al trionfo della causa italiana». Alle quali parole, il Mazzini, opponendo un riluto, risponde con sì acuti detti, da scuotere il marchese prodittatore, che il martirio sacro di Spielberg e Gradisca mutava in uno strumento della politica piemontese; senza pur comprendere che il Mazzini in Napoli metteva un freno alle usurpazioni diplomatiche, che negavano al popolo i suoi diritti!

(1) Questo il programma del Pallavicino per l'assunta carica.

«Cittadini! Chiamato dall'eroe che vi redense con una serie di miracoli, io vengo a dividere con voi le fatiche e i pericoli che accompagnano la grande impresa da noi assunta in prò dell'Italia. Incanutito nelle battaglie della libertà, io avrei diritto a quel riposo che suol concedersi al soldato dopo lunga e laboriosa milizia; ma la patria mi chiama ed io non fui sordo all'appello della patria. Cittadini! in nome del Dittatore, io vi prometto uno splendido avvenire, prometto a queste nobili provincie, regnando Vittorio Emanuele, l'ordine con la libertà. E ciò significa, o cittadini, amministrazione imparziale della giustizia, base d'ogni governo civile; sollecito riordinamento dell'esercito e della flotta, accrescimento ed organamento migliore della guardia nazionale, scuole popolari, strade ferrate, incoraggiamenti d'ogni maniera all'agricoltura, al commercio, all'industria, alla scienza, alle lettere, alle arti;?rispetto alla religione ed ai suoi ministri, ove costoro siano davvero gli apostoli di Cristo e non del Borbone. Ma sopratutto il nuovo Governo promuoverà l'unificazione, bisogno supremo d'Italia. Non salverà l'Italia la fiducia nel patrocinio straniero, non la sonora ciancia delle sètte impotenti, ma la concordia e le armi italiane. Armiamoci dunque ed uniamoci tutti sotto il vessillo tricolore della croce sabauda, che tiensi inalberato dal salvatore delle Due Sicilie. Ecco l'orifiamma, ecco il palladio della nazione. Rinnodiamoci intorno ad esso, gridando: Vira Garibaldi! viva il Re Galantuomo!».

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Diceva sentitamente: «Io rifiuto perché non mi sento colpevole, né artefice di pericoli al paese, né macchinatore di disegni che possano tornargli funesti, e mi parrebbe di confessarmi tale cedendo; perché italiano in terra italiana conquistata a libera vita, credo di dover rappresentare e sostenere in una il diritto che ogni italiano ha di vivere nella propria patria quand'ei non ne offende le leggi, e il dovere di non soggiacere ad un ostracismo non meritato; perché, dopo aver contribuito ad educare, per quanto era in me, i popoli d'Italia al sacrificio, mi par tempo d'educarlo con l'esempio della coscienza, della dignità umana, troppo sovente violata, ed alla massima dimenticata da quei che s'intitolano predicatori di concordia e moderazione, che non si fonda la propria libertà senza rispettarne l'altrui» (1).

Il Pallavicino seguiva il consiglio de'  consorti, sottomessi alla politica prepotente del Gabinetto di Torino; e dopo avere affermato, audacemente, con poco reverenza da offendere un popolo, che il Mazzini creava imbarazzi al governo e pericoli alla nazione, ove non era governo, perché mancava la volontà del popolo, o pure un assentimento d'una frazione di esso, segue ancora gl'istinti rabbiosi e vendicativi de'  consorti, che dividevano il popolo di Napoli e lo aizzavano alle ire civili, che avevano incitato i pezzenti e i ladri, rimunerati nella plebaglia scarmigliata, a gridare morte al Mazzini. Voce scempia, che turbò Giuseppe Garibaldi, e quando più forte il grido si udì risuonare sotto la dimora di lui, placidamente sciolse la prezzolata turba colle parole: «Sento gridar morte ai miei amici, agli amici d'Italia, no, italiani, no; morte ai nemici d'Italia, morte agli stranieri oppressori!».

In mezzo a tanto correre di vicende, non certo liete, dissolvimenti politici, che inasprivano a malvagità, Vittorio Emanuele, invocato premurosamente di presenza dagli annessionisti, moveva alla volta delle province del centro e del mezzogiorno. Fermatosi qualche giorno in Ancona, il dì 9 ottobre diramava un proclama a'  popoli dell'Italia meridionale, significando il pensiero che l'avesse guidato nella impresa assunta; facendo ricordo di momenti storici. Il proclama non ebbe comenti dalla maggioranza, perché il re era aspettato, e perché speravasi, col suo appressarsi, rimettere quiete negli animi. Però la chiusa di esso combatteva la rivoluzione, senza che rispondessero ad evidenza le parole fatte ripetere al monarca, cioè: io so che chiudo Vera delle rivoluzioni (2).

(1) Vedi Documenti, III.

(1) Vedi Documenti, IV.

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Errore dell'estensore, la cui mente chiusa entro angusti limiti, non ispaziava al di là di essi. I popoli, col mutare de'  tempi, si rigenerano; né le sorti di un governo costituzionale potevano essere segnate perpetue! Il proclama confermava la espressione degli annessionisti, che seguivano, con animo ligio, la politica inculcata dal Conte di Cavour.

I contrasti in Sicilia non erano minori che a Napoli. Si voleva l'annessione immediata e incondizionata; ma contrariò le cricche moderate un decreto del prodittatore, che, concordando con Garibaldi, aveva pensato all'assemblea, la quale, costituita di uomini spassionati, nutriti di concetti liberali, non facilmente trascinati, come il popolo, avrebbe potuto decidere sulla questione di grave interesse. Ed un'assemblea poteva, dalla questione politica fermarsi all'organismo del governo, portando modificazioni e riforme allo Statuto; recando così un vantaggio alla libertà della nazione.

Cessavano per qualche giorno le dissenzioni in Palermo, onorando i diversi partiti la memoria di Rosalino Pilo, di colui, che si era estinto lasciando errare sul suo labro le ultime parole: lo morrò fra poco, ma ridite ai concittadini che tutto ho dato alla patriaf l'oro ed il sangue. Fu trasportata la salma dell'eroe con decorose pompe, e il rispetto, commovendo, raffrenò le parole e le lagrime. Tributava onori ogni schiatta di cittadini; ricordando le virtù somme, che avevano reso ammirato l'uomo intrepido, che, non rompendo mai fede al grande maestro, ne aveva seguito gli esempj col cospirare e colle azioni. Palermo in quel giorno, cui recava mestizia la stagione d'autunno, si vestì a lutto, e di rimpianti cupi e di sospiri risonarono le case; né alcuno fuvvi, che non avesse onorato tanta memoria, l'uomo che, dopo decenne travaglio per le sorti felici d'Italia, in ultimo, con un forte commilitone, con Giovanni Corrao, aveva precorso i Mille, riaccendendo la rivoluzione, quasi spenta pe' terrori militari. In San Domenico gli si scavò la fossa, come a volerlo i presenti ricordare tra'  più cospicui, consacrati nel Pantheon. Silenzioso il popolo accompagnò il frale di Rosalino Pilo all'ultima dimora, ove le gramaglie ispiravano pure sensi pietosi per l'estinto, ucciso da palla nemica a quarant'anni. Taciturno il popolo rimaneva, ma rompeva in singhiozzi, narrandosi le gesta gloriose e il miserando caso che gli aveva dato morte. Chiuso nell'avello, custodito da'  giuri degli Dei Mani, chi si prostrò riverente alla memoria, udì quelle ossa fremere amor di patria!

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Nel correre dello stesso ottobre, la rappresentanza municipale volle, in giorno solenne, fregiare di medaglia i petti de'  Mille, che avevano sfidato la morte, sfidate, collo sbarco in Sicilia, le forze possenti del Borbone, strenuamente vincendo. Però la rappresentanza, non fedele, né virtuosa, fin da quei primi istanti conciliò il diritto e la libertà, spregiando gli onori; che donò a chi non vide mai le pugne (1). Il Prodittatore, pronunziò allora detti solenni, che la storia vuole si registrino, per rimanere sculti ne' petti italici (2).

Appressandosi il giorno stabilito per le elezioni, se da un lato il Prodittatore lavorava alacremente a prò delle sue opinioni, gli annessionisti, mentre attendevano una risposta dal Garibaldi, per abbandonare il pensiero di convocare l'assemblea, pure votarono alcuni nomi di candidati, per non esser colti all'improvviso dalle elezioni. Dopo le opinioni ventilate a Napoli da Carlo Cattaneo e da Amelio Saliceti, contrapposte dal Predittatore Pallavicino e dal Ministro Conforti; il generale Garibaldi accettò le proposte d'una annessione senza assemblea, cedendo agli inganni curialeschi del Conforti, che, a compiere il più grato servizio alla politica del conte di Cavour, ricordò al Dittatore, con sensi ispirati a pietà di patria, e con menzognera asserzione, che l'Emilia e la Toscana si erano preoccucupate soltanto di riunire le sparse membra della famiglia italiana.

(1) Niuno più sincero di Franceeco Zappert, un eroe quasi dimenticato. Così egli scrive ne' Frammenti da Palermo ad Aspromonte (Milano, Tipografia Redaelli, 1863).

«............. Sulla camicia rossa, allora allora vestita, gli spicca quella famosa decorazione che il Municipio di Palermo, nell'alta e servile sua ignoranza, distribuì ai volontarj del 1860. A quelli, s'intende, cui non ripugnò riceverla, e che non si sentono macchiato il petto da un segno commemorativo che altro non è che una solenne menzogna. Casa di Savoja e Liberazione di Sicilia! £ codesto non senso dovea coniarsi a Palermo, là dove non si vide an soldato della monarchia, quando si combatterono le giornate della libertà; nella Palermo rivoluzionaria, emancipata per forze proprie, sgombrata de'  suoi tiranni da pochi eroi venuti dal continente; nella Palermo di Garibaldi, dove l'amore al grand'uomo è una religione, che non riesciranno a distruggere tutte le arti dissolventi del moderatismo. Que' consiglieri municipali devono aver piegata ben bassa la schiena per far omaggio alla casa di Savoja d'una conquista cui ella stessa non può vantare aver preso parte! Se decisamente voleasi accennare nel bronzo alla monarchia, si doveva scrivere:

Liberazione di Sicilia

Dono di Garibaldi Alla Casa di Savoja».

Io non so di parole simili che ben frustrano gli albori del risorgimento politico, diretto da uomini, la cui fama è vituperosa; i quali fecero credere di sostenere la libertà, non accrescendo che le vergogne e il vituperio.

(2)Vedi Documenti, V.

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Chiuse le questioni de'  partiti, tacendosi sull'assemblea e sulla costituente, stabilito il giorno delle elezioni, grandi feste si fecero in Napoli e in Palermo; e i festeggiamenti rumorosi fecero dimenticare le condizioni, cui si esponeva un popolo di dieci milioni, la parte più bella e più ricca d'Italia, quella che aveva potuto affermare la unificata nazione. L'opera del Conte di Cavour, sagace più che diplomatica, era prevalsa!

Il giorno 21 in Napoli, con le usanze della proclamazione di un bando spagnuolo, si procedette dapprima ad avere le annuenze popolari. Per la via Toledo quattro scamiciati, seguiti da poche centinaia di lazzeri e di camorristi, gridavano ad alta voce: Volete voi l'Italia una con Vittorio Emanuele vostro re? e al suono delle bande musicali, al furore delle grida delle moltitudini si aprirono le dodici sezioni, in cui era divisa la città. Affluiva in esse numeroso il popolo, il facile accorrere delle plebi napoletane, che alle novità si distraggono per usi consueti. In ogni sezione si mostravano due urne, additando a' votanti l'una da contenere il nome di Vittorio Emanuele, l'altra di Francesco II. Con tali mezzi poco sinceri, poco liberali, si scemava pregio alla sovranità popolare, che, anche ristretta in votanti limitati, era chiamata a demolire la dinastia de'  Borboni. Il plebiscito sì in Sicilia che in Napoli, rivelando tutte quante le tendenze monarchiche, metteva in trionfo le ingegnosità e le fatiche del Conte, che oramai i più e i meno devoti esaltavano, iperbolicamente, come creatore dell'unità italica (1).

La legislazione della dittatura in tutto il reame richiede uno studio minuto e sottile, tanto per rilevare ciò che in essa riflette poca imparzialità o necessità di atti. Diciamo soltanto del decreto ispirato dal ministro Raffaele Conforti, che, senza fondamento giuridico, confiscava alla famiglia Borbone le rendite, che rappresentavano l'eredità paterna e gl'interessi composti e cumulati per ventitré anni della dote di Maria Cristina di Savoia, madre a Francesco II. Garibaldi sottoscrisse un tal decreto, che fece bene accogliere le proteste degli offesi, che giudicavano non correttele pretese del giurista Conforti. Diciamo ancora che i decreti di pensione, accordati a Maddalena Russo, madre di Agesilao Milano, la dote a ciascuna delle sorelle di questo e la pensione a Silvia Pisacane, figlia di Carlo, trucidato a Sanza, non dovevano muovere irrequietezze; poiché quei fatti eroici, tendenti a distruggere le forze della tirannide,

(1) Vedi Documenti, VI. — Sul numero esiguo de votanti tenemmo parola nello scritto La Sicilia nell'Unità italiana in cui sono trattate le questioni che paiono sempre di grave interesse. (Nuova Antologia, 1908).

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avevano arrecato di conseguenza la rivoluzione; e la rivoluzione doveva premiare il sacrifizio! (1).

Il dittatore vedendo giungere al fine il suo governo, memore ch'egli, per passare in Sicilia, aveva dovuto avvalersi di due vapori della Società Rubattino di Genova (2), decreta un indennizzo in favore della stessa. Esprimendo:

«Considerando che è giustizia ed obbligo di riconoscenza nazionale, che la Società di navigazione a vapore di Raffaele Rubattino e compagni di Genova, venga indennizzata dei danni sofferti per la perdita di due battelli il Lombardo ed il Piemonte, i quali servirono alla prima e fausta spedizione in Sicilia nel maggio ora scorso, considerato quindi il prezzo dei due battelli al 5 maggio passato, desunto da stima fatta due anni prima, per cura della Società stessa; considerato il lucro che poteva recare alla Società l'esercizio di quei due battelli nei mesi trascorsi; considerato il danno che venne alla Società per le angustie in cui trovossi mancandole due dei migliori battelli suoi nell'esercizio delle imprese avviate e degli obblighi contratti; considerata la perdita che soffrirono delle loro robe molti marinai del Lombardo e tutti quelli del Piemonte; sentendo che la nazione deve equamente proporzionare la ricompensa a chi pati per la causa della sua libertà, e che giova si rassodi la confidenza di ogni proprietario ed industriale nelle imprese,

(1) «Considerando sacra al paese la memoria di Agesilao Milano che con eroismo senza pari s'immolò sull'altare della patria per liberarla dal tiranno che l'opprimeva,

Decreta:

«Art. 1. — E accordata una pensione di ducati 80 al mese a Maddalena Russo, madre del Milano, vita durante a contare dal 1° ottobre prossimo.

«Art. 2. — L accordata una dote di ducati 2000 per ciascuna delle due sorelle del detto Milano.

«Questa somma sarà investita in fondi pubblici a titolo di dote inalienabile, e consegnarla alle dette sorelle nel corso del prossimo ottobre.

«Il ministro delle finanze è incaricato dell'immediata esecuzione del presente decreto».

«Considerando che è debito ed obbligo di giustizia verso di un Governo interprete della gratitudine del paese riconoscere i grandi sacrifici fatti a prò della patria ed il soccorrere le vittime della tirannide.

«È accordata una pensione di ducati 60 al mese, vita durante, a contare dal 1° ottobre prossimo, a Silvia Pisacane figlia dell'eroico Carlo Pisacane, trucidato a Sanza (mentre combatteva per la liberazione dei fratelli) nel luglio 1857.

«Il ministro delle finanze è incaricato dell'immediata esecuzione del presente decreto».

(2)  La Società aveva nome di R. Rubattino e C., non di Raffaele Rubattino che aveva da due anni lasciata la gerenza dell'amministrazione di quella Società». (Vedi Giambattista Fauché e la spedizione de'  Mille, Memorie documentate a cura di Pietro Fauché, p. 16, Roma-Milano, Albrighi, Segati e C. ).

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per quanto ardite, della patria redenzione, decreta: sarà pagata in cartelle del debito pubblico dello Stato una somma corrispondente ad effettivi franchi 750 mila a carico per tre parti della finanza di Napoli e per una parte di quella di Sicilia, alla Società di navigazione a vapore Raffaele Rubattino e compagni di Genova, in compenso della perdita dei battelli a vapore il Lombardo ed il Piemonte, i quali saranno riparati e conservati in memoria dell'iniziativa del popolo italiano nella guerra d'indipendenza e unità nel 1860» (1).

Però il Generale, nell'adempiere un dovere, dimenticava Giambattista Fauché, direttore e solo gerente responsabile di quella Società (2). il quale, all'insaputa di tutti i membri della stessa, con molto rischio, concedeva dapprima il Lombardo, indi, per compiacere il Generale, il Piemonte (3), compiendo un atto patriotico, che gli scrittori o ignorarono, oppure scrissero sulle vicende del risorgimento, senza le più bisognevoli ed accurate ricerche, anche in tempi vicini (4).

Il decreto non ricorda il Fauché, non competendogli indennizzo, né avendone chiesto mai, anche dopo il licenziamento dalla Società e le non poche persecuzioni, concertate in Torino, nel Gabinetto ministeriale,  ove, nel maggio del 1860, si negava conoscere la Spedizione, nel luglio, affrettando le concessioni, si bandiva da'  proseliti essere stata dessa opera in gran parte del Governo del Piemonte!

(1)Oddo, I Mille di Marsala, pagg. 104647. Milano, Scorza, 1863.

(2)Vedi memorie citate, pag. 15.(1)

(3) «Egli mi rivolse cosi la parola: Ebbene, Fauché, credete che la faremo la spedizione? — Sì, generale, risposi. — E lui, con una dolcezza che mi avrebbe strappato l'anima, soggiunse: E se, invece di un vapore, me ne occorressero due! — Ed io risposi: oltre il Piemonte allestirò anche il Lombardo (il Lombardo era il migliore e più grande piroscafo della Società). A questa risposta, ch'egli accolse con manifesta gioia, le sue speranze si rinfrancarono». Le mie cure Adunque, anziché ad un solo vapore, dovevano estendersi ad approntarne due, ed a provvedere, poi, alla esecuzione del servizio postale col rimanente materiale navale, senza inconvenienti». (Vedi G. B. Fauché, Una pagina di storia sulla spedizione de'  Mille, Gazzetta d'Italia, n. 168, 17 giugno 1882. Una 2 edizione, preceduta da un Preambolo di Francesco Guardione, fu data in Roma dalla Società Editrice Dante Alighieri nel 1906).

(4) Errore tramandarono il Secolo, la Gazzetta d'Italia, il Mario e il Guerzoni; e l'errore fu ripetuto anche dopo le Memorie Autobiografiche del Garibaldi: anche dopo quanto scrisse G. B. Fauché (Una pagina di storia sulla spedizione de'  Mille) al direttore della Gazzetta d'Italia, n. 168, 17 giugno 1882, a pochi giorni dalla morte del Generale. In quest'anno 1905, il figlio Pietro Fauché, tenentecolonnello, nel libro cennato, con serenità d'animo e con sensi schietti e nobili rivendicò alla storia la verità, pagando cosi un tributo sacro alla memoria del padre, dimenticato, o per incuria, o per errore, o per volere mettere un velo fitto sulle azioni più prodigiose e rischiate!

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Il decreto era una ricompensa di 750 mila franchi a carico per tre parti della finanza di Napoli e per una parte di quella di Sicilia, per la perdita de vapori il Lombardo ed il Piemonte; i quali, in questa Italia, augurava Giuseppe Garibaldi saranno riparati e conservali in memoria dell iniziativa del popolo italiano nella guerra d'indipendenza e unità nel 1860 (1).

Vittorio Emanuele si era inoltrato nelle province napoletane. Il Conforti, ministro, avanzandosi il re sulla frontiera napoletana, rivolse la sua parola al popolo; ma quella che magnificò l'avvenimento fu proferita dal Garibaldi:

«Domani Vittorio Emanuele il re d'Italia, l'eletto della nazione, infrangerà quella che ci divise per tanti secoli dal resto del nostro paese, ed ascoltando il voto unanime di queste brave popolazioni, comparirà qui tra noi. Accogliamo degnamente il mandato della Provvidenza e spargiamo sul suo passaggio, come pegno del nostro riscatto e del nostro affetto, il fiore della concordia, a lui grato, ed all'Italia così necessario. Non più colori politici, non più partiti, non più discordie.... L'Italia una, come la sognano saviamente i popolani di questa metropoli, ed il re galantuomo siano i simboli perenni della nostra rigenerazione e della grandezza e della prosperità della patria». Giunto il re a Venafro, mosse Garibaldi con pochi ufficiali del suo Stato maggiore, e nei pressi di Teano, il di 26 ottobre, lo salutò col nome di re d'Italia. Vittorio Emanuele, ricambiato il saluto, chiamò Garibaldi il migliore de'  suoi amici. Indi il re, e il generale s'intrattennero sulle vicende d'Italia, il re lodò i garibaldini, che disse essersi battuti da eroi;

(1) Anzi che conservati in memoria dell'iniziativa, Garibaldi ne' Mille scrisse: «Ove sono i piroscafi che vi presero a Villa Spinola e vi condussero, attraverso il Tirreno, salvi nel piccolo porto di Marsala? Ove? Son forse essi, nuovi Argo, gelosamente conservati e segnati all'ammirazione dello straniero e dei posteri, simulacro della più grande e più onorevole delle imprese italiane? Tutt'altro; essi sono scomparsi.

«... Chi dice: essi furono perduti in premeditati naufragi. Chi li suppone a marcire nel più recondito d'un arsenale, e chi venduti agli ebrei per pochi soldi, come vesti sdrucite... ».

E Pietro Fauché, che ricorda il brano riportato, scrive queste memorande parole: «Non so quindi comprendere come a nessuno sia venuto in mente di proporre la conservazione di quei piroscafi, divenuti celebri pel trasporto della meravigliosa spedizione.

«In Italia non mancano stabilimenti marittimi; ci voleva ben poco a collocarli in qualche arsenale, in luogo conveniente, perché a tatti fosse permesso vederli. Ristaurati e diligentemente mantenuti, essi oggi sarebbero oggetto di curiosità non solo, ma, oso dire, di venerazione.

«Invece? Non posso dire con certezza come abbiano finito; so solamente che molti anni or sono, il Lombardo serviva a trasportare fango nel porto di Bari» (Vedi op. cit., pag. 36, ediz. citata).

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si dolse dello scioglimento dell'esercito napoletano, sperando potersi riordinare, avendo in animo, nella primavera imminente, con 350. 000 uomini, far rispettare da chicchessia i diritti d'Italia. A' sensi generosi del cittadino, cui, sovente, la diplomazia tarpa i voli del libero pensiero, Garibaldi assicurò l'animo del re su' pretesi republicani in Napoli, manifestando che i suo' amici, accettato lealmente il programma della spedizione, non volevano intrattenersi su questione di forme o di particolari opinioni.

Dopo questo colloquio il re rimase a Calvi, Garibaldi a Teano, movendo poi verso Sant'Angelo. La concordia desiderata non era avvenuta a cagione della politica del Conte di Cavour, il quale aveva consigliato il re a visitare l'Umbria e le Marche, destinate a governarle il Pepoli e il Valerio; disposto che muovesse Vittorio Emanuele II da Ancona, a piccole giornate, alla volta di Napoli, per arrivarvi in seguito al voto delle popolazioni, disposto pure che nuovi battaglioni di soldati, da Genova, fossero trasportati sulla costa napoletana, e che il Fanti e il Cialdini avessero varcato il confine degli Abruzzi. Il che faceva comprendere profondamente a Garibaldi il mutare della politica, che tradiva la rivoluzione; ed egli ritenne allora necessario lasciare Napoli, ritirandosi nella solitudine della sua Caprera. I raggiri e le ambiziose mire della politica ricompensavano con ingratitudine rea il liberatore di un popolo. Garibaldi, tranquillo scriveva:

«Sire! Quando, toccato il suolo siciliano, assunsi la dittatura, lo feci nel nome Vostro e per Voi, nobile principe, nel quale tutte raccolgonsi le speranze della Nazione. Adempio adunque ad un voto del mio cuore, sciolgo una promessa da me in varii atti decretata, deponendo in mani vostre il potere, che per tutti i titoli vi appartiene or che il popolo di queste provincie si è solennemente pronunciato per l'Italia una e pel vostro regno e dei vostri legittimi discendenti. Io vi rimetto il potere su dieci milioni d'Italiani tormentati fino a pochi mesi addietro da un dospotismo stupido e feroce, e pei quali è oramai necessario un regime riparatore. E l'avranno da Voi che Dio prescelse nell'instaurare la nazione italiana, e renderla libera e prospera all'interno, potente e rispettata allo straniero. Voi troverete in queste contrade un popolo docile, quanto intelligente, amico dell'ordine, quanto desideroso di libertà, pronto ai maggiori sacrifici qualora gli sono richiesti nell'interesse della patria e di un governo nazionale.

Nei sei mesi che io ne ho tenuta la suprema direzione, non ebbi che a lodarmi dell'indole e de buon volere di questo popolo,

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che ho la fortuna di rendere — io e i miei compagni — all'Italia, dalla quale i nostri tiranni lo avevan disgiunto.

«Io non vi parlo del mio governo. L'Isola di Sicilia, malgrado le difficoltà suscitatevi da gente venuta da fuori, ebbe ordini civili e politici pari a quelli dell'Italia superiore; gode tranquillità senz'esempio. Qui nel continente, dove la presenza del nemico vi è ancora di ostacolo, il paese è avviato in tutti gli atti all'unificazione nazionale. Tutto ciò mercé la solerte intelligenza dei due distinti patrioti, ai quali affidai le redini dell'amministrazione. Vogliate intanto, Maestà, permettermi una sola preghiera, nell'atto di rimettervi il supremo potere; Io vi imploro, che mettiate sotto la vostra altissima tutela coloro che m'ebbi a collaboratori in questa grande opera di affrancamento dell'Italia meridionale, e che accogliate nel Vostro esercito i miei commilitoni che han ben meritato della patria e di Voi».

Giunto l'esercito sardo, i volontarj si trovarono in altra condizione per le fatiche da doversi ancora sostenere. Rientrate alcune divisioni in Caserta, altre, rimaste al campo, riunite alle soldatesche piemontesi, si prepararono a prender parte a'  fatti di guerra. Il Cialdini, inoltrandosi, pareva avesse in mente di tagliare la ritirata alle forze del Salzano, costringendole a ripiegare sulla città di Capua; e frattanto il generale Della Rocca, avvicinandosi a Capua, prendendola di assedio, la costringeva a rendersi. Comandava il Della Rocca il suo corpo di esercito, e le schiere di Garibaldi, che ivi si trovavano. Garibaldi aveva evitato l'assedio per risparmio di stragi: il Della Rocca procedeva diversamente, e, per le usanze rigorose militari, dispose l'assedio. Costruite sei batterie, che formavano un semicerchio intorno alle fortificazioni di Capua, i Napoletani a volere impedire quelle opere, ne' giorni 28 e 29 fecero varie sortite, ma vennero sempre respinti. I Calabresi il giorno 28 s'impadronivano di un ridotto nemico al limitare della pianura della fortezza. Il dì 29 si presentavano al Della Rocca due legati napoletani per le trattative della resa; compreso il generale De Cornò, comandante della piazza, delle difficoltà che sovrastavano a sostenere la causa di re Francesco. Riuscite queste vane, nella sera di quel giorno furono dagli assediati piazzati trentadue cannoni e altri otto nella notte del 31 ottobre.

Il 1° del novembre, nelle ore pomeridiane, comincia il combattimento, energico ed incessante; ma arrecando pochi guasti.

Il partito resistente si rinvigorisce, credendo potersi sostenere le resistenze senza cagionare danni gravissimi. Però sull'imbrunire si cambiano le situazioni: le bombe, meglio tirate, battendo la fortezza,

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cadevano sulla città. Il che sconfortando i cittadini, fece cadere i resistenti nello scuoramento. Il sindaco allora corre dall'arcivescovo, pregandolo, a nome del popolo, di presentarsi al De Cornè, scongiurando di cessare dalla resistenze, salvando la città. E la stessa preghiera gli fecero pure varie deputazioni.

Il 2 novembre nuovi legati si presentano al Della Rocca per parlamentare. Ma questi protestò che avrebbe concesso brevissimo tempo alla resa, per riprendere, non conclusi i patti, il bombardamento. Non si tenne avvertito Francesco II, mancando il tempo: si tenne un ultimo consiglio di guerra, decidendosi subito la resa, per liberare la città da un bombardamento disastroso. Cominciate le trattative, furono sottoscritti i patti della capitolazione (1).

Il dì 6 novembre, dal quartiere di Sessa, Vittorio Emanuale faceva publicare il decreto della nomina del luogotenente generale, in cui era detto «essere incaricato di reggere e governare in nostro nome e nostra autorità, questa provincia continentale dell'Italia meridionale, e, all'immediazione, allorché saremo presenti». Destinava alla luogotenenza Luigi Carlo Farini, la cui nomina era un'onta a Giuseppe Garibaldi e al partito d'azione, ricordandosi di lui la circolare e gli ostacoli frapposti per le ultime spedizioni de'  volontarj in Sicilia. Si compiaceva con questa scelta il Conte di Cavour, sebbene costui non ignorasse punto mancare il Farini, in passato cospirante, l'abilità di amministratore. Ma gli errori e le violenze, che generarono mali e sventure, cominciarono d'allora ad aprirsi la via!

Il dì 7 novembre Vittorio Emanuele, Garibaldi e i due Prodittatori Pallavicino e Mordini entravano in Napoli, applauditi dal popolo (2). Il re, atteso al duomo da'  sacerdoti, imitò nella sottomissione a Dio i suoi padri, ossequenti alla chiesa cattolica. Raccolte le lodi per gli avvenimenti, si recò al palazzo, ch'era stata la regia de'  Borboni. Ricevuti i grandi corpi dello Stato, le deputazioni e gl'incaricati a presentare i risultati del plebiscito (3), si affacciò al balcone salutando il popolo, che lo festeggiava.

(1)Vedi, Documenti, VII.

(2)Il re chiuse in quel giorno le cerimonie, fregiando del collare dell'Annunziata il solo Pallavicino, Prodittatore in Napoli!

(2)Il Giornale Ufficiale di Napoli, n. 53, 8 novembre 1860, così si esprime: «Alle ore 11 la Maestà del Re Vittorio Emanuele, nella gran sala del trono, circondato dai grandi dignitarj della Corona, dal suo Stato Maggiore e con S. E. il cav. Carlo Luigi Farini, suo Ministro di Stato, ha ricevuto il Dittatore generale Garibaldi e l'attuale Ministero di Stato (il Ministero era composto da Giorgio Pallavicino, Raffaele Conforti, Enrico Cosenz,

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Anche le donne, in questa occasione solenne, rivelarono le loro tendenze entusiastiche per la unità nazionale, e salutato con esposto il re Vittorio Emanuele, non votanti, fecero nello stesso rimostranze per lo stato della donna, cui la legge, concedendo i diritti civili, nega i politici (1). Il nuovo re, in quello stesso giorno, partecipava i suoi sentimenti al popolo con altro programma:

«Il suffragio universale mi dà la sovrana podestà di queste nobili provincie. Accetto quest'alto decreto della volontà nazionale, non per ambizione di regno, ma per coscienza d'italiano. Crescono i miei, crescono i doveri di tutti gli Italiani. Sono più che mai necessarie la sincera concordia e la costante abnegazione. Tutti i partiti debbono inchinarsi devoti davanti alla maestà dell'Italia, che Dio solleva. Qui dobbiamo ristaurare un governo, che dia guarentigie di libero vivere ai popoli, di severa probità alla pubblica opinione. Io faccio assegnamento sul concorso efficace di tutta la gente onesta. Dove nella legge ha freno il potere e presidio la libertà, il governo tanto può per il pubblico bene quanto il popolo vale per la virtù. All'Europa dobbiamo addimostrare, che se la irresistibile forza degli eventi superò le convinzioni fondate sulle secolari sventure d'Italia, noi sappiamo ristorare nella nazione unita l'impero di quegli immutabili dommi, senza dei quali ogni società è inferma, ogni autorità combattuta ed incerta».

Garibaldi, pria di partire, respinge gli alti onori propostigli da Vittorio Emanuele, ma ha premure affettuose di raccomandargli i suoi soldati; i quali, veramente, avevano lasciato le case, i cari congiunti, per versare il sangue per la unità patria. Egli, Garibaldi, ben sapeva gli stenti, i pericoli e i sacrifizj durati nella campagna meridionale da'  volontarj d'ogni parte d'Italia, che unificavano il pensiero nazionale. Pria di partire il Generale, che tornava povero e immacolato alla sua diletta

Francesco De Sanctis, G. B. Coppola, Pasquale Scura).

«Il Dittatore si è avanzato verso il real trono, e il Ministro dell'interno e polizia, signor Raffaele Conforti, ha pronunziato queste parole: u Sire,

«Il popolo napoletano, raccolto nei comizj, ad immensa maggioranza vi ha proclamato suo Re. Nove milioni d'Italiani si uniscono alle altre Provincie rette dalla Vostra Maestà con tanta sapienza, e verificano la Vostra solenne promessa che l'Italia dev'essere degl'Italiani.

«Al che la Maestà Sua si è degnata rispondere con brevi parole, calde di nobili e generosi sensi italiani.

«Dopo di ciò è stato rogato e sottoscritto nelle debite forme l'atto solenne di unione.

«Erano presenti a questa solennità, oltre al Dittatore e ai Ministri coi Direttori del Ministero, il Sindaco e gli altri dignitari di Stato».

(1) Vedi Documenti, VIII.

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e selvosa isola, cosi parlò in iscritto a'  suoi compagni d'armi:

«Penultima tappa del risorgimento nostro, noi dobbiamo considerare il periodo che sta per finire e prepararci ad ultimare splendidamente lo stupendo concetto degli eletti di venti generazioni, il cui compimento assegnò la Provvidenza a questa generazione fortunata. Sì, giovani! L'Italia deve a voi una impresa che meritò il plauso del mondo. Voi. vinceste; e voi vincerete perché voi siete ormai fatti alla tattica che decide delle battaglie. Voi non siete degeneri da coloro che entrarono nel fitto profondo delle falangi macedoniche, e squarciarono il petto ai superbi vincitori dell'Asia. A questa pagina stupenda della storia ne seguirà una più gloriosa ancora, e lo schiavo mostrerà finalmente al libero fratello un ferro arruotato che appartenne agli anelli delle sue catene. All'armi tutti, tutti; gli oppressori, i prepotenti sfumeranno come polvere.

Voi, o donne, rigettate lontano i codardi, essi non vi daranno che codardi; e voi, figlie della terra della bellezza, volete prole prode e generosa; che i paurosi dottrinari se ne vadano a trascinare altrove il loro servilismo, le loro miserie. Questo popolo è padrone di sé. Egli vuol essere fratello degli altri popoli, ma guardare i protervi con la fronte alta, non rampicarsi, mendicando la sua libertà. Egli non vuol essere a rimorchio d'uomini a cuore di fango. No! no! no!

«La Provvidenza fece dono all'Italia di Vittorio Emanuele. Ogni cittadino deve rannodarsi a lui, deve serrarsi intorno a lui. Accanto al Re Galantuomo ogni gara deve sparire, ogni rancore dissiparsi. Anche una volta io vi ripeto il mio grido: all'armi tutti, tutti! Se il marzo del 1861 non troverà un milione d'italiani armati, povera libertà! povera vita italiana! Oh, no! Lungi da me un pensiero che mi ripugna come un veleno. Il marzo del 1861, e se fa bisogno il febbrajo, vi troverete tutti al posto. Italiani di Calatafimi, di Palermo, del Volturno, di Ancona, di Castelfidardo, d'Isernia e con noi ogni uomo di questa terra, non codardo, non servile, tutti, tutti serrati intorno al glorioso soldato di Palestro, daremo l'ultima scossa, l'ultimo colpo alla crollante tirannide.

«Accogliete, giovani volontari, resto onorato di dieci battaglie, una parola di addio. Io ve la mando commosso d'affetto dal profondo della mia anima. Oggi io devo ritirarmi, ma per pochi giorni. L'ora della pugna mi ritroverà con voi ancora accanto ai soldati della libertà italiana; che ritornino alle loro case quelli soltanto chiamati da doveri imperiosi di famiglia e coloro che, gloriosamente mutilati, hanno meritato la gratitudine della patria.

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Essi la serviranno nei loro focolari col consiglio e con l'aspetto delle nobili cicatrici, che decorano la loro maschia fronte di venti anni. All'infuori di questi, gli altri restino a custodire le gloriose bandiere.

«Noi ci ritroveremo fra poco per marciare insieme al riscatta dei nostri fratelli, schiavi ancora dello straniero; noi ci ritroveremo fra poco per marciare insieme a nuovi trionfi».

Memorandi detti! Un ultimo saluto, che meriti di esser considerato per due principali ragioni: «la prima è la costanza delle sue opinioni circa re Vittorio Emanuele; la seconda è la speranza che egli aveva di vedere alla vicina primavera Italia tutta far l'ultimo sforzo per acquistare la sua completa indipendenza e compiere la sua unità. Il Governo di Torino aveva fatto ogni sforzo per fermare Garibaldi in Napoli, e vi era riuscito; aveva messo tutto in opera per iscemare il prestigio del gran guerriero,  e l'avrebbe ottenuto, se l'Italia non fosse stata giusta, e se Garibaldi fosse stato meno grande o meno virtuoso; aveva determinato di ridurlo alla inazione, ed aveva raggiunto lo scopo. Eppure le opinioni di Garibaldi non si cangiano; egli è sempre lo stesso; immutabile; fedele alla sua bandiera; proclamatore dei suoi proprj convincimenti. Dopo la terribile lotta, dopo il trionfo della politica, il Dittatore delle due Sicilie proclamava ancora che la Provvidenza aveva fatto dono all'Italia di Vittorio Emanuele, e che tutti gli italiani dovevano assembrarsi intorno a lui» (1).

Il corpo de'  volontarj rimase sbigottito nel leggere l'addio del loro supremo comandante; e in molti, al dolore dell'allontanamento dell'uomo invitto, si aggiunse il dolore di dovere errare, lontani da'  lari domestici, vivendo lungi dalle care madri, perché inibito loro il terreno posseduto ancora dallo straniero. Le musiche intonavano dappertutto

«Va fuora d'Italia, va fuora o stranier»,

ma le sorti crudeli volevano ancora che lo straniero rimanesse in Italia, e i cittadini delle terre dominate da lui senza pane, né tetto, perché schiacciati perfino dal governo che inaugurava il regno d'Italia. Ripetiamo pure con Tacito il detto ricordato da Niccolò Machiavelli: Proclivius est iniuriae, quam benefìcio dicem ex-solvere, quia gratia oneri, ultio inquaestu habetur. Giuseppe Garibaldi, pria di lasciare Napoli, leggeva negli intendimeuti di Luigi Carlo Farini, e ben s'avvide, con amarezza, come il luogotenente, strumento del Gabinetto di Torino, si metteva sulla falsa via, piemontizzando le province meridionali.

(1) Oddo, pag. 1101, op. citata.

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E l'errore e l'inganno turbò la quiete e i progressi nella formazione del regno d'Italia!

Dall'alba del di 9 il popolo napoletano conosce che in quel giorno Garibaldi sul Washington salperà il mare. E convenne sul luogo, e al saluto di Garibaldi copiose lacrime furono versate. Molti, scandolezzati, s'intrattennero sulla ingratitudine del nuovo governo, e molti altri fecero strani comenti. Certo Giuseppe Garibaldi usciva immaculato da siffatti parlari: il nuovo governo lasciava una striscia di falso argento. Garibaldi, in sei mesi e quattro giorni, rovesciando una dinastia, disfacendo una forte armata, aveva reso libero un popolo di dieci milioni, lasciando esempj meravigliosi di azioni, di virtù, di disinteresse (1); il nuovo governo sgomentava i popoli, iniziando i suoi atti con oltraggi rei, con arbitrio, con prepotenza.

(1) Procedendo sempre schiettamente, a chiarire le vicende della Spedizione del 1860, per la niuna parte avuta, o dalla più ostile, da parte del Piemonte, ripublichiamo le lettere che Giuseppe Garibaldi mandò al prof. Barrili, messo alle stampe, nel 1869, il Diario del Persano. Quante verità in essa, quante false memorie smascherate!

«Caprera, 24 agosto 1869. u Caro Barrili. — Date posto, vi prego, ad alcune osservazioni sul Diario dell'Ammiraglio Persano.

 La mia corrispondenza coll'Ammiraglio comincia il 4 giugno 1860 (vedi lettera riferita in detto Diario). I combattimenti di Catalafimi e di Palermo sono del 15, 27, 28, 29 e 30 maggio; dopo quei giorni, armistizio e capitolazione dell'esercito borbonico.

«Egli è quindi dopo il felice esito della spedizione, coronato dagli anzidetti fatti d'armi, che cominciano gli amori cavouriani.

«Sarà superfluo avvertire che al popolo dei Vespri bastarono le notizie del nostro sbarco e dei primi felici successi, perché l'isola intera fosse in armi contro l'oppressore, a cui non restavano che le fortezze di Milazzo, Messina, Augusta e Siracusa.

« Si sa pure che cosa facemmo di tali fortezze e che, sbarazzato Milazzo, l'esercito meridionale, coadiuvato dalle popolazioni in armi, proseguì vittorioso fino al Volturno.

«Perché se la spedizione dei Mille doveva essere aiutata in ogni miglior modo possibile dal governo monarchico, perché, dico, non ci si permetteva di prendere le nostre 15. 000 buone carabine che possedevamo in Milano, acquistate coi fondi del Milione di fucili!

«E perché, in quella vece, si permise al La Farina di concederci mille cattivi fucili?

«E perché la protezione ed aiuto millantati, non cominciarono dalla nostra partenza da Quarto?

«E perché, quando si combatteva ancora nelle vie di Palermo, ove si fabbricava una libbra di polvere per adoperarla subito, il comandante D'Aste, del Governolo, ancorato in quel porto, rispondeva ad un giovine mio inviato: Non vi darò polvere; ritiratevi?

«Il divieto governativo di passare sul continente, è fatto storico. I maneggi di La Farina per conto di Cavour per trattenermi nell'Isola, sono storici del pari.

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Partito Garibaldi, il generale Sirtori, cui era stato trasmesso il comando, publicò la lettera che segue: «Il Generale Garibaldi mi trasmise il comando dell'esercito meridionale con la seguente lettera in data di Caserta, 21 ottobre:

«Generale Sirtori,

«Abbisognando alcuni giorni di cura, io lascio a voi temporaneamente il comando dell'esercito.

«Firmato: Giuseppe Garibaldi».

«Persano è conoscenza mia di lunga data, cioè dal Rio della Piata fino dall'epoca accennata dalle sue lettere. E debbo confessare che nella circostanza in cui stetti prigioniero a bordo della Carlo Alberto, da lui comandata nel 1849, io ne ricevetti molte gentilezze. Non è strano quindi che io lo trattassi con distinzione nel 1860 ed egli a me fosse personalmente cordiale.

«Ciò non toglie ch'egli mi assicurò di aver avuto ordine di inseguirmi e di arrestarmi, e ciò non fu perché, felicemente, la spedizione, che avrebbe dovuto costeggiare la Sardegna per giungere alla parte occidentale dell'isola, fu sviata verso la Toscana da circostanze impreviste, e perciò non caddi nelle ugne della squadra Italiana.

«Perché si continuò tutto il tempo che durò la spedizione, a suscitar la Sicilia contro di me, col pretesto dell'annessione, ed obbligarmi finalmente a lasciare l'esercito sul Volturno, alla vigilia d'una battaglia, per j recarmi a placare la popolazione dell'isola?

«E i maneggi degli agenti cavouriani sul continente napoletano per suscitare una rivoluzione contro il Borbone, prima del nostro arrivo e per togliervene il merito mentre il governo Sardo protestava amicizia a quell'infelice Francesco? E il calcio dell'asino dato dallo stesso governo sardo a quel Monarca coi 40. 000 uomini destinati a combattere la rivoluzione personificata in Garibaldi? (lettera di Farini al Bonaparte).

«Se tutto ciò sia aiuto e protezione, lo lascio pensare agl'Italiani.

«Si dica dunque piuttosto che quando la spedizione dei Mille e l'odio delle popolazioni meridionali contro il Borbonismo, lo avevano scosto i al punto da non lasciar dubitare della sua caduta, allora il solito sfogliatore del carcioffo, stupito da tanti eventi a cui meno aspettava, e continuando ne' meschini destreggiamenti, gettava la mano sulla Sicilia, rimandando a tempi migliori, e dopo un altro cumulo di astuzie e di menzogne, il raccogliere la foglia continentale.

«Cosi non pensava l'Italia, lanciata lealmente nella vita di rigenerazione intiera e stanca dell'ignominioso cammino.

«Garibaldi ha promesso di arrestare Mazzini, dice Persano. Tutti sanno che Mazzini fu da me protetto a Napoli contro l'ira popolare suscitata dai cavouriani. E perché lo avrei arrestato a Palermo? L'idea sola mi fa ribrezzo.

«Siccome molti archimandriti del dottrinarismo mi hanno chiamato fanciullo (io, fanciullo o no, ho la coscienza di non avere mai piegato ai capricci dei potenti né ai consigli dei dottrinari, quando gli uni e gli altri volevano sviarmi dal sentiero del mio convincimento), ne risulta che qua e là, da certi imbrattafogli diplomatici, si vede accennato: il fanciullo Garibaldi, sempre male attorniato, mal consigliato, in preda ora al Mazzini. ora cieco servo della monarchia.

«Intorno a ciò, bramerei si facessero meno parole e gl'Italiani ricordassero: aver bisogno di rilevare il loro decoro nel mondo.

«Addio ed abbiatemi sempre vostro

«G. Garibaldi».

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«Fino che egli rimase fra noi, io pregai il generale Garibaldi di conservare il comando dell'esercito, ora egli allontanandosi per alcun tempo, mi ordinò di pubblicare la presente lettera:

Ufficiali e soldati dell'esercito meridionale,

«E' la terza volta che il generale Garibaldi mi affida il comando dell'esercito, e per la terza volta io spero di restituirlo dopo breve tempo al grande uomo che amiamo siccome padre, anzi come padre della patria».

Ma partito Garibaldi, il Sirtori, li 11 novembre, consapevole dell'operato del governo, publicato un decreto con firma d Vittorio Emanuele (1), ritorna a dire a suo' compagni d'armi.

«Soldati,

«Ritornando alle vostre case, o rimanendo sotto le armi, io spero che sarete sempre e dovunque degni di voi stessi e delle vostre gesta, degni dell'armata, che rendendo all'Italia ed alla libertà dieci milioni d'Italiani, meritò la gratitudine della presente e futura generazione.

«Soldati! Per essere degni del prestigio che circonda la vostra giovane armata, e della gloria che l'attende, vi è duopo associare le virtù al valore e mostrarvi in ogni cosa osservatori severi dei doveri del soldato e del cittadino.

«Giovani soldati! la patria sarà pienamente soddisfatta di voi, se imiterete la disciplina e le solide virtù militari della vecchia armata» (2).

Vittorio Emanuele si era mostrato dolente dello scioglimento dell'esercito del mezzogiorno: gli amministratori del nuovo governo lo esponevano a sottoscrivere un decreto, che a'  combattenti dell'Italia meridionale non assicurava nò pane né ricetto, e li confortava per dippiù con un trastullo di parole! La politica del secolo xvi riprendeva l'abominevole potere!

Vittorio Emanuele, invocato dal popolo, visitata Napoli, ad invito della rappresentanza del Comune, visitava pure Palermo.

Un programma del primo giorno di decembre, in firma del nuovo re e del Ministro di grazia e giustizia, G. B. Cassinis annunziava l'arrivo

(1) Vedi Documenti, IX.(1)

(2) Vedi De Castro, Giuseppe Sirtori, xxix, xxx; Milano, Dumolard, 1892.

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con ricordi storici e promesse da adempiere al nuovo governo (1). Il Giornale Officiale diede un ragguaglio delle feste, e, dopo tanti anni, può lo stesso giungere gradito alla memoria de'  posteri, che sempre trovano diletti o insegnamenti nelle vicende passate, si per dileggio, o per ammirazione, qualche volta educando l'animo a nuovi e più alti destini (2). Il secondo giorno Vittorio Emanuele, sodisfatto da'  consigli del Conte di Cavour, facendo, con nuovo decreto, cessare la prodittatura, istituiva in Sicilia la luogotenenza, chiamando al governo della medesima il marchese Massimo Cordero di Montezemolo (3). Qui costui, a Napoli il Farini! I due decreti, emessi in meno di due mesi, distruggevano il passato, istantaneamente, senza contentare il popolo, oppure calmandolo co' lenitivi o colle aberrazioni della necessità politica, il cui scudo è la diplomazia!

Il giorno 3 il re accettava il plebiscito colle forme consuete; indi si presentavano a lui le dame con un indirizzo e con la dedicatoria di un vaso di agata lavorato da un artista di valore (4). In Sicilia le signore traevan contento di vedere il viso regale, lodando la persona per le imprese militari. Meno ardite delle dame napoletane, non lamentarono di non godere i diritti politici, il cui difetto non le aveva abilitate a deporre nelle urne plebiscitarie il loro voto. No; alle palermitane, più che l'esercizio del diritto elettorale, compiacque vedere da vicino la persona dell'eletto dalle popolazioni d'Italia; e ne furon paghe!

Dopo l'accettazione del plebiscito e il ricevimento delle signore di Palermo, alle ore quattro, il re usciva dal palazzo, accompagnato da'  ministri Cassinis e Fanti e dal marchese d'Angrogna, suo primo aiutante di Campo. Visitando l'istituto militare Garibaldi, entrò ne' saloni, parlò coi direttori, ed informandosi delle condizioni dello stabilimento, espresse la sua soddisfazione per la bella uniforme dei giovanetti, allievi militari, schierati nel cortile.

A' soldati d'Italia giungeva gradita la vista dei piccoli soldati che, speranze della patria, sarebbero stati parte della grande armata italiana.

Gli applausi, che eruppero dai petti giovanili, credutisi ora sotto il patrocinio di una paterna amministrazione; gli evviva infantili significarono al nuovo re che la giovane generazione contava su lui, perdute le altre speranze!

(1) Vedi Documenti, X.

(2)Vedi Documenti, XL

(3)Vedi Documenti, XII.

(4)Vedi Documenti, XIII.

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Dopo questa visita il re passeggiò nella via della Libertà, in cui moltissime persone lo acclamavano rispettosamente. Alle ore sei fu tenuto il pranzo di corte con numerosi invitati, tra'  destinati a sostenere la novella monarchia. Dopo, il re conversò cogl'invitati, informandosi delle cose più importanti dell'Isola; esprimendo la sua soddisfazione verso i Siciliani, pei quali esternò profondo affetto. Alle ore nove si recò al teatro, ove si rinnovarono gli applausi popolari: dimostrazioni di gioia, entusiaste, non interrotte ne' tre giorni della dimora in Palermo; le quali non cancellavano il vecchio costume de'  cittadini, facili sempre a prostrarsi alla vista d'un re; qualunque ne fosse il nome e la virtù, o altro!

Vittorio Emanuele, pigliando ad esempio l'incremento della istruzione popolare in Piemonte, fiorita sotto il suo breve regno; credendo, nel visitare gl'istituti di Palermo, anche alieno dalle cure degli studj, che molto mancava in essi, raccomandò al suo luogotenente il bisogno di estenderla, e, per essa, dalla cassetta privata, prodigò lire duecentomila (1).

Il  dì 5 decembre l'aspettato re ripartiva, chiamato dalle vicende di Stato. Ripartiva, dopo aver tutto disposto in tre giorni di permanenza. Prolungati applausi e grida di gioia lo accompagnarono. Lieto il re per gli accoglimenti festosi, lietissima Palermo per aver visto colui che la Nazione sceglieva a tutelare i diritti del popolo italiano. La luogotenenza e la rappresentanza municipale partecipavano al popolo i loro sensi (2). Le feste cessavano.

Lasciando il re Vittorio Emanuele la Sicilia, funzionò la luogotenenza, che aumentò i mali cagionati dalla rivoluzione; poiché tanto in Napoli che in Palermo i patrioti si sfogarono in vendette e permisero legalmente il furto. Vittorio Emanuele, dopo il soggiorno breve di Palermo, correndo a Mola di Gaeta per vedere i lavori di bombardamento, che si preparavano per espugnare Gaeta, con tranquillità ritornava a Napoli, spensierato delle condizioni della Sicilia, imaginate ottime, anche a cagione delle festose accoglienze fattegli. Ma la Sicilia rinnovava le ire, accendendo gli animi alla ribellione la severità dispotica de'  ministri luogotenenziali e coloro che n'erano avversi.

(1) Vedi Documenti, XIV.

(1) Vedi Documenti, XV, XVII.

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Si tentò, in Palermo, dal La Farina, che aveva ufficio di Ministro dell'interno, mettere agli arresti il Crispi, volendosi vendicare del patito oltraggio; ma costui, destramente, operò modo di fuggire, arrestandosi soltanto il Raffaele, il cui carattere mal potrebbesi definire. Agli accessi d'ogni sgoverno unirono i loro gli studenti, che schiamazzarono plebeamente contro i Ministri per l'aumento della tassa della laurea.

Assediata Gaeta, sospese per dimanda del Cialdini le ostilità li 8 dicembre per l'arrivo di Vittorio Emanuele, Francesco II in quel di, consacrato alla madre del Cristo, dirigeva a'  suo' popoli una Proclamazione (1), i cui sensi se non potevano giustificarlo pe' precedenti della famiglia, che aveva bruttato il nome di Carlo III, rendevano, dopo il dispaccio di protesta, inviato agli ambasciatori presso le corti d'Europa (2), assai responsabile la diplomazia, che aveva agito con poca lealtà, con le menzogne e i tradimenti che sono un costume politico!

Rimanevano tre fortezze soltanto, ché da ogni parte il reame era sgombro di soldatesche borboniche. Dopo le precauzioni politiche, invocate dal Parlamento dal Conte di Cavour, ridottosi Garibaldi in Caprera, l'esercito piemontese e l'armata di mare combatterono all'aperto, senza più concepire i politici del Piemonte alcun timore dalle potenze. Francesco tentava in Gaeta le sue ultime fortune, circondato da 12.000 uomini; ma il Cialdini, borioso più che soldato, superbo sì da riputarsi emulo del Garibaldi (3) l'assediava dalla parte di terra, fingendosi che la flotta di Francia proteggesse il re assediato dalla parte di mare. Giunto il momento, che costituiva la vera difesa, il Borbone si dovette ritirare, lasciando libero operare agli assedianti.

(1) Vedi Documenti, XVII.

(2) Vedi Documenti, XVIII.

(3) Il Cialdini ardi scrivere a Giuseppe Garibaldi le parole insane, che togliamo da una lettera:

«Generale, voi compiste una grande e meravigliosa impresa coi vostri volontari. Avete ragione di menarne vanto, ma avete torto di esagerare i veri risultati.

Voi eravate sul Volturno in pessime condizioni, quando noi arrivammo. Capua, Gaeta, Messina e Civitella non caddero per opera vostra, e cinquantaseimila borbonici furono battuti, dispersi, e fatti prigionieri da noi, e non da voi.

«È dunque inesatto il dire che il regno delle Due Sicilie fu tutto liberato dalle armi vostre.

«Nel vostro legittimo orgoglio non dimenticate, o generale, che Tarmata e la flotta nostra vi ebbero qualche parte, distruggendo molto più della metà dell'esercito napoletano, e prendendo le quattro fortezze dello Stato». (Vedi Epistolario di O. Garibaldi, vol. i, pp. 158f9. — Milano, Alf. Brigola e Comp. ).

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La difesa fu ostinata, tanto che gli scrittori del tempo giustamente la dissero degna di più bella causa. Il decaduto re e parte de suo' congiunti non si ritennero d'agire, e la stessa regina, giovinetta diciasettenne, correndo di qua e di là, curava pietosamente i feriti. Però, sdegnando Francesco II altre stragi, e la maggiore quella d'un assalto, dopo un terribile bombardamento, sospese i combattimenti, scegliendo di partire col suo seguito.

Civitella del Tronto

S'imbarcò sul vapore francese La Mouette, venuto da Napoli, e da Terracina, ove approdò, si condusse, onorato dalle autorità del Papa, in Roma.

Rimase prigioniera di guerra la guarnigione di Gaeta tino al rendersi della cittadella di Messina e di Civitella del Tronto. Il Cialdini, intanto, o adempiva obligo sacro, o voleva appagare con ipocrisia, faceva celebrare una messa per gli estinti d'ambi gli eserciti. Così la religione, come in ogni etade, serviva di strumento alla politica!

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Il generale Chiabrera aveva in Messina preceduto il Cialdini. Costui al suo arrivo invitò il Fergola, comandante la fortezza, alla resa della piazza in ordine alla convenzione di Gaeta. Il Fergola si ricusa, e non curando le minacce, risponde di resistere fino al momento estremo, anche non risparmiando la città. Il Cialdini accresce le minacce, dicendogli di considerarlo come ribelle, e di fucilare altrettanti ufiziali quante sarebbero state le vittime messinesi (1). La cittadella dopo un vario parlamentare, fu circuita dalla flotta e attaccata dalla parte di terra da' fortini de'  sovrastanti colli. I trastulli degli sparì di due ore, il 12 marzo 1861, diedero possibilità alla resa e all'onor militare! Sgombra la cittadella, in passato si temuta, dalle soldatesche borboniche, il governo di Torino permise oggi che il popolo la visitasse, aggiunse domani, alle prime promesse, l'atterramento; pentito, dopo qualche giorno, ordinò, fatti sgombrare i visitanti, i ripari a' guasti e le necessarie fortificazioni. Il popolo è lì ancora per attendere alle promesse del governo di libertà! Civitella del Tronto, abbandonata dalle forze regie, divenne patrimonio delle disperse, lì confinatesi per combattere. Il generale Durando spedisce l'ordine di resa di Francesco II, ma i radunati nella fortezza rifiutano di rendersi. Dopo quattro giorni, sostenuto un fuoco vivissimo, si rendono a discrezione.

(1) Il Cialdini al Fergola:

«1° Proclamato re d'Italia Vittorio Emanuele dal Parlamento di Torino, la vostra condotta sarà considerata come una ribellione; 2° Non vi sarà affatto capitolazione, e dovrete rendervi a discrezione; e se fate fuoco sulla città, io farò fucilare, dopo la presa della cittadella, altrettanti soldati ed ufficiali della guarnigione, per quante vittime avrà fatto il vostro fuoco; 3° I vostri beni e quelli degli ufficiali saranno confiscati per riparare le perdite dei cittadini; 4° Infine consegnerò voi ed i vostri subordinati alla vendetta del popolo di Messina. Tra poco voi ed i vostri sarete in mio potere; agite come vi piace, io non vi considererò più come un militare, ma come un vile assassino, e l'Europa intera dividerà la mia maniera di vedere».

Il Fergola al Cialdini:

«Un generale d'armata, anziano soldato com'ella è, conosce le leggi della guerra, e i doveri. Io cesserei di essere onorato soldato se mi regolassi diversamente da ciò che pratico. Ella mi dice che il Parlamento di Torino ha proclamato re d'Italia S. M. il re di Sardegna; io nulla ne conosco; ma ella sa da maestro che questo atto non è stato finora riconosciuto dalle Potenze Europee, le quali mantengono i loro plenipotenziarj presso il mio sovrano. Trovandosi nel caso mio, cederebbe ella una fortezza interessante ad una semplice intimazione? Dà il nome di ribelli ad onorati soldati! No, la penna lo ha scritto, ma il cuore del veterano vi si oppone, ed ella è convinto che io e il presidio che da me dipende facciamo il dover nostro; altrimenti non saprei come riconoscere in lei il soldato ed il generale d'armata».

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Chiuso il pericolo della monarchia de'  Borboni, aggregata la regione meridionale alle altre parti, l'Italia, per l'opera di Giuseppe Garibaldi, anche nulla scoprendo nelle sue tradizioni storiche, nel breve volger di mesi, potè davvero aspirare ai consolidamento della sua unità: se non che le gravi colpe de politici, dimenticando il popolo da sorgere; dimenticando di adoperare, con amore assiduo, a congiungere le altre province, anzi che lasciarle sotto la fatale sottoscrizione di Villafranca, ispiravano a Giuseppe Mazzini nuovi sensi per le più alte opere, il cui compimento avrebbe potuto inalzare l'Italia, ridandole vigore (1).

Eletti i rappresentanti della nazione, il di 18 febbraio 1861 venne destinato all'apertura della Camera. Torino si ornò in quel giorno a festa la Corte e il Governo vi si avviavano per avere il trionfo de'  trionfi del martirio e del sangue.

(1) Questa la lettera, che, il di 8 gennaio 1861, il Mazzini dirigeva a Giuseppe Garibaldi, publicata la prima volta da La Tribuna, nel n° 146 il 27-28 maggio 1907:

«Caro Garibaldi, — V'annoio di lettere; ma la salute del paese sta nelle vostre mani; abbiate pazienza per dieci minuti e leggetemi.

«Vi mando una lettera inglese; leggetela. Ciò che vi dicono è vero. Se veniste, fareste miracoli per offerte e per l'allontanamento dei francesi da Roma. Sarebbe un giro di dieci giorni in Inghilterra e Scozia. Pensateci bene.

Se non volete venire, scrivete poche linee da pubblicarsi, — a un dipresso come quelle che vi suggeriscono nella lettera. Non faranno quel che farebbe la vostra presenza; ma faranno molto.

» Vi chiesi due linee per Ceshu... Mi sarebbe assai caro l'averle.

«Ora sentite.

«Non so quanto sia di vero in ciò che dicono che la vostra prima operazione sarà in Ungheria. Per la via di mare non può essere: dunque sarebbe per la Transilvania.

«Per l'amore che porto all'Italia e per quello che porto a voi, non posso a meno di protestare, se è vero.

«Prima di tutto, andare a cercare la salute del Veneto in Ungheria, quando abbiamo 22 milioni d'Italiani da sommovere, non è degno di vol. incarnazione della Italia militante; ed è un rimprovero all'Italia, che l'Italia non merita. In secondo luogo, voi non siete certo del soccorso dell'Ungheria. Quando l'avrete liberata, nasceranno questioni inevitabili tra gli Ungheresi ed i Rumeni, tra essi ed i Croati, ecc., che costringeranno per lungo tempo le loro truppe a stare a casa. Sarete deluso nel vostro piano.

«In terzo luogo voi forse ignorate che nella loro foga di avere aiuti, essi, cioè i loro capi, Kossuth e altri, sono legati con L. N. e gli promettono di accettare Leuchtenberg, Napoleone Bonaparte o altri della famiglia. Volete prestarvi ad un raggiro bonapartista?

«Finalmente Cavour. Il giorno in cui voi sarete in Ungheria e avrete trascinato con voi il fiore dei nostri militi, Luigi Napoleone occuperà Gaeta e Napoli per cercare di collocarvi un Murat, o Napoleone Bonaparte, il cugino. E' il disegno del quale probabilmente è complice Cavour.

«Le truppe di Roma e quelle di Algeria comandate da Pelissier non hanno altro oggetto.

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La rivoluzione aveva liberata l'Italia dalle dinastìe vecchie, in parte dagli stranieri e dalle violenze ecclesiastiche; ma la rivoluzione, oramai, si voleva personificare' nel Conte di Cavour! Alla cerimonia parlamentare assistettero i Ministri della Prussia, dell'Inghilterra, della Turchia, della Svezia e del Belgio. I deputati e i senatori occupavano i loro posti: il popolo si affollava nelle tribune.

Il re d'Italia cosi parlò:

«Signori senatori, signori deputati!

Libera ed unita quasi tutta, per mirabile aiuto della divina provvidenza, per la concorde volontà dei popoli e per lo splendido valore degli eserciti, l'Italia confida nella virtù e nella sapienza vostra.

«A voi appartiene di darle istituti comuni e stabile assetto. Nell'attribuire le maggiori libertà amministrative a popoli che ebbero consuetudini di ordini diversi, veglierete perché l'unità politica, sospiro di tanti secoli, non possa mai essere menomata.

L'opinione delle genti civili ci è propizia, ci son propizii gli equi e liberali principii che vanno prevalendo nei Consigli d'Europa. L'Italia diventerà per essa una guarentigia di ordine e di pace, e ritornerà efficace strumento della civiltà universale.

L'Imperatore dei francesi, mantenendo ferma la massima del non intervento, a noi sommamente benefica, stimò tuttavia di richiamare il suo inviato.

«Assalendo, invece, il nemico nel Veneto e provocando la diserzione ungherese, voi date il segnale all'insurrezione della Ungheria. Quella dell'Ungheria trascinerà il resto. Ogni moto nel Veneto può essere seguito dal moto degli Italiani e Slavi della costa orientale dell'Adriatico. Rendete cosi possibile ogni diversione nostra per mare su quella parte. Riconquistate, cosi, d'un getto le frontiere d'Italia e rendete lo stesso servizio alla nazionalità.

«Cominciato il moto nel Veneto la diserzione dei reggimenti ungheresi (alla quale gli esuli ungheresi dovrebbero dirigere tutto il lavoro), ed in concentramento necessario delle forze d'Austria dalla parte nostra, rendono facile l'insurrezione in Ungheria nell'interno. E se anche hanno bisogno, ciò che io non credo, d'una iniziativa dal di fuori, la decima parte della forza che sarebbe necessaria, prima d'una iniziativa in Italia, basterà: 2000 uomini, facili a radunarsi nei Principati, che entrino in Transilvania e vi si riuniscano in Szekley sulla frontiera, basteranno.

«La rivoluzione ha ora trovato un punto di appoggio alla leva; e non lo abbandonate: un centro; creandone due, indebolisce invece di fortificare. Oggi qualunque cosa si farà in Italia, avrà l'approvazione europea; fuori, no. Avendo l'Italia la rivoluzione, sarà forte dapertutto: avrà una base. Cominciando in Ungheria, perdete la base; cominciato appena, avrete la Russia nella Galizia, e dovrete, presto o tardi, sostenerne l'urto.

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Se questo fatto ci fu cagione di rammarico, esso non alterò i sentimenti della nostra gratitudine, né la fiducia del suo affetto verso la causa italiana. La Francia e l'Italia, che ebbero comune la stirpe, le tradizioni, il costume, strinsero sui campi di Magenta e Solferino un nodo indissolubile. Il governo ed il popolo d'Inghilterra, patria antica della libertà, affermarono altamente il nostro diritto di essere arbitri delle proprie sorti, e ci furon larghi di confortevoli officii, dei quali durerà imperitura la memoria. Salito sul trono di Prussia un leale ed illustre principe, gli mandai un ambasciatore a segno d'onoranza verso di lui e di simpatia verso la nobile nazione germanica, la quale, io spero, verrà nella persuasione, che l'Italia, costuitita nella sua unità naturale, non può offendere i diritti né gli interessi dalle altre nazioni.

«Signori senatori, signori deputati! Io sono certo che vi faete solleciti a fornire al mio governo i modi di compiere gli armamenti di terra e di mare. Cosi il regno d'Italia, posto in indizioni da non temere offesa, troverà più facilmente nella coscienza delle proprie forze la ragione dell'opportuna prulenza.

«Garibaldi, per tutto ciò che amate, non abbandonate l'Italia: non smembrate le forze e correte rischio di perdere tutto, e di servire, senza volerlo, ad un intrigo bonapartista. Il vostro posto è nel Trentino; dobbiamo averlo per sorpresa nelle mani; date il segnale all'insurrezione del Cadore e del Friuli, sollevate in entusiasmo l'Italia, costringete il Piemonte ad entrare. Possiamo fare tutto questo, se mi aiutate con una parola vostra che dica: è bene che il Titolo italiano si prepari ad insorgere, e se potete con un aiuto d'armi, da depositarsi dove dirò.

«Preparerò io il terreno per voi: poi quando venite, se crederete che io mi ritragga, mi ritrarrò.

«Non ho, come voi, che uno scopo al mondo: vedere l'Italia una.

«Una parola ancora.

 Voi predicate in ogni vostra linea il re: io non divido la vostra opinione su lui. Non potrei chiamare sempre re galantuomo l'uomo che accettò la Lombardia in dono dallo straniero, che accettò il mercato di Nizza e di Savoia, e che tiene Cavour alla testa del paese.

«Ma la questione non è qui, è in quello che vi scrissi un anno addietro: agirò pel re, ma indipendentemente dal re. Tutta l'Italia datela a lui, nessuno obbietterà; ma non fissatevi nelle sue ispirazioni, non ne chiedete gli ordini, se volete farlo. Il re è per lo meno una macchina conscia o inconscia di Luigi Napoleone. Ora Luigi Napoleone non vuole l'unità: tende ad aver la Sardegna: ed a mettere un principe della famiglia in Napoli. E Cavour è disposto a secondarlo. Agite dunque indipendenteméhte, e sopratutto non lasciate l'Italia.

«Vostro Giuseppe Mazzini».

«8 61.

«Scrivetemi, se lo credete, una parola sulle vostre intenzioni: dove no, sprecheremo le nostre forze in direzioni diverse. Del mio silenzio assoluto potete essere certo».

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Altra volta la mia parola suonò ardimentosa, essendo savia cosa l'osare a tempo: devoto all'Italia, non ho mai esiato a porre a cimento la vita e la corona, ma nessuno ha diritto di cimentare la vita e le sorti di una nazione.

«Dopo molte segnalate vittorie, l'esercito italiano, crescente gni giorno in fama, conseguiva nuovo titolo di gloria espugnando una fortezza delle più formidabili. Mi consolo nel pensiero, che là si chiuderà per sempre la serie dolorosa dei mostri conflitti civili.

«L'armata navale ha dimostrato nelle acque di Ancona, di Graeta, che rivivono in Italia i marinai di Pisa, di Genova e li Venezia. Una valente gioventù, condotta da un capitano, she riempì nel suo nome le più lontane contrade, fece manifesto che, né la servitù, né le lunghe sventure valsero a fiaccare te fibre dei popoli italiani. Questi fatti hanno ispirato alla nazione una grande confidenza nei propri destini. Mi compiaccio di manifestare al primo Parlamento d'Italia la gioia che ne sente il mio animo di Re e di soldato» (1).

Lì 11 di marzo il Conte di Cavour presentava alla Camera de'  deputati il progetto di legge esprimente: Il Re nostro augusto signore assume per sè e suoi successori il titolo di Re d'Italia; e fu relatore di un tal progetto G. B. Giorgini. Non mancarono gli applausi, ma mancò qualcuno, tra gli usciti de'  governi assoluti, che avesse corretto le parole nostro augusto signore, che ricordavano il frasario de'  principi sorrettisi per diritto divino.

Ricordate le feste cotanto gaie e solenni, è uopo internarci sulle conseguenze lasciate dalla rivoluzione: e il tempo trascorso, che pure lascia tracce di dolore, consente che non. ci teniamo lungi da quel riflettere, che le virtù delle istorie fan mettere a profitto.

La Camera parlamentare dell'unità politica prese nome di ottava legislatura, tenendo in conto per l'Italia, sorta a Nazione, il periodo parlamentare corso in Piemonte. Ciò fu una violenza non meno di quella di applicare lo Statuto d'una regione di quattro milioni a tutto un popolo. Si negava in tal guisa l'italianità, si piemontizzava, si toglieva ogni pregio al Piemoni che, esterrefatto dal grido di Vincenzo Gioberti,

(1) Il Risorgimento d'Italia narrato dai Principi di Casa Savoia e dal Parlamento, pp. 18385; Firenze, Barbèra, 1888.

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si travaglia  di mutare gl'istinti municipali ne' più vigorosi sacrifizj in pi della Nazione (1). Il che diede ragione più tardi a uno scrittoi di storie di poter dire del Cavour: «Arbitro della Camera teneva fin tre portafogli a un tratto, operando egli solo invece di tutti i colleghi: più di cinquanta che seco entrarono nel Ministero, congedò o fece congedare, gettandoli via come arance spremuti. Il pubblico strepitava e la Camera allibiva ogni qua volta gli minacciasse abbandonare il portafoglio se appena gli limitasse l'assoluta fiducia. Mentre i suoi successori tremano cambiano consiglio davanti ai giornali o buffi o idrofobi, esso accaparrava, sapendo quanto costasse la coscienza di ciascun sempre ilare, sorridente, epigrammatico, toccando le corde volgari e interessate, introduceva così la corruzione, che contarne il rigeneramento italiano. Dei patriotti che si erano venduti valse per demolire, di quelli buoni per edificare; lo Stand non pensò riformare, ma scommetterlo colle interpretazioni della dittatura morale non si giovò per abbattere i veri nemici, repubblicani e socialisti, pago di avere esteso il suo Pia monte e umiliata l'Austria, che egli odiava più che non amasse l'Italia» (2).

Come i Borboni, caduti nelle mani della rivoluzione e della diplomazia in pochi mesi, lasciarono ricordanze fresche; cogli avversarj a una politica di prepotenza, co' loro dissentimene aprirono un campo vasto all'infuriare de'  partiti, che pure i Conte anelava vedere tosto strozzati. Ma noi poteva principe mente per le ragioni politiche. Il plebiscito, che fu una misera affermazione (3), aveva fatto depositario de'  destini d'Italia i re Vittorio Emanuele; ma nella regione meridionale, centro l popolosa Napoli, fervevano gli annessionisti, timorosi de'  repcani, e questi, con purezza d'ideali, combattevano il vecchio tema politico piemontese, inaugurato dopo la pace di Milano, Francesco II, nell'esilio di Roma, alle proteste diplomatiche, aveva riunite molte forze,

(1) Del Rinnovamento Civile d'Italia, ediz. citata.

(2) Storia universale di Cesare Cantù, pp. 8990, Torino, tomo duodecimo; Unione Tipografico Editrice, 1866.(3)

(3) Tralasciando quanto scrissero sui risultati il Rustow, combattenti nelle file del Garibaldi, ed altri, militari e diplomatici, sono memorandi le parole dell'Elliot, ministro inglese a Napoli, cioè: «Moltissimi voglion l'autonomia, ma sono forzati a votare per l'annessione; ed infatti la fon mola del voto ed il modo di raccoglierlo sono si disposti, che assicurano M gran maggioranza possibile per l'annessione, ma non constatano il desiderio del paese». Notevole il dispaccio del Bussel, ministro inglese: «I votj del suffragio universale in quei regni non hanno alcun valore, sono mcrJ formalità dopo una rivoltura ed una ben riuscita invasione; né iniplicaod in sè l'esercizio indipendente della volontà della nazione, nel cui nomi si son dati».

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destinate a contendere il terreno a nuova signoria, che resistettero invano, soccombendo alle migliaia di fucilazioni, ordinate dal dispotismo militare, che, scaldandosi all'idea politica patria, desolò ogni terra del Napoletano, xxnendola a massacro, ove mai si fosse veduto un militante per la causa del Borbone.

Non bastando questi contrasti sanguinosi, accrescevano le sventure le liti incessanti de'  consorti, seguaci della politica del conte di Cavour, e de'  sostenitori del partito d'azione, ch'era creduto esagerato nelle pretese, per non volersi piegare alla servitù politica del Governo, che aveva ridotto l'Italia ad un dipartimento francese. E in Napoli, fervendo le lotte, si avevano reminiscenze felici del regno di Gioachino Murat, tanto che se il figliuolo Luciano, prima di lasciare Francesco II la regia, invitato, avesse scritto una lettera sulla necessità di tenersi xxtano, anche chiamato, dalle vicende politiche, pochi giorni dopo i risultati del plebiscito, condannava il sistema di governo, la libertà, che agiva tirannescamente, credendola assai nociva xxsvolgere gli alti concetti d'ordine politico. Diceva, né si potrebbe censurare il suo dire: «Male si inizia la libertà col sospetto, con la tirannia. E che cosa significa il disarmo di tanti comuni napoletani, e la legge di guerra promulgata in tante provincie? Coteste cautele non mi paiono verificare la spontaneità dell'universale suffragio e la fiducia del nascente governo. Il genio della nazione noi preservi da novelle calamità» (1). E ciò scriveva il di 25 novembre, un mese e quattro giorni dopo il plebiscito, nel qual breve periodo il nuovo governo, colle violenze di atrocità militare, anzi che eguagliare, superava le memorie funeste dei Borboni, dal figliuolo di Carlo al nipote Ferdinando. Garibaldi e Giuseppe Mazzini, malcontenti della politica dinastica, preparavano il popolo a nuove cose, e notevoli sono le parole scritte dal Mazzini, da Firenze, nel novembre: «M'intesi perfettamente il 5 di questo mese con Garibaldi sull'avvenire e sui disegni da compiersi. Quei disegni esigono quello che sto per chiedervi. Per questo io scrissi sul Popolo d'Italia un articolo intorno ai Comitati di Provvedimento, e per questo feci scrivere a Garibaldi le poche linee che voi vedeste». Ed aggiungeva nella stessa lettera: «La terza cosa importante è ella di serbare contatto coi reduci dell'esercito di Garibaldi e incoraggiarli a mantenere la loro organizzazione militare nei punti ove risiedono, agglomerando nuovi elementi intorno a sè, tanto da tenersi pronti sempre ad una chiamata.

(1) Vedi Documenti, XIX.

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Questa chiamata verrà, se prepareremo su queste norme il terreno» (1).

Le opinioni varie e i convincimenti diversi sugli ordini politici da potere rialzare l'Italia, non isconfessavano il male cagionato dal sistema piemontese, si che, a breve distanza di giorni dal decreto popolare, le agitazioni recavano avvilimenti, miserie e sangue, cagionate da'  dissentimenti politici, militari, morali e legislativi. E se intorno a'  primi c'intrattenemmo, non è lecito trasandare gli ultimi; poiché le conseguenze più funeste provennero da'  medesimi.

Il Poeta aveva detto:

Una d'arme, di lingua, d'altare,

Di memorie, di sangue e di cor.

E questo sommo concetto morale e unitario, che riuniva le sparse membra della patria, spariva in sul nascere; e gl'Italiani, dal nord al centro, al mezzogiorno, mentre gridavano unificazione, rinnovavano dissentimenti regionali, che solo delle sventure di esse si trovava riscontro nelle vicende storiche esposte da Niccolò Machiavelli. Le ingiurie e le viltà del dire offendevano le terre meridionali, che, anzi che volerle affratellate alle settentrionali, ignominiosamente, si chiamavan conquistate; senza punto curare, all'ignominia del contegno, ché le stesse erano fatte preda ad usurpazioni e ruberie, spogliandole d'ogni ricchezza, ammiserendone le condizioni; senza proporsi il risorgimento morale ed economico di regioni che si reputava avere sottostato a forza dispotica.

Nella Sicilia i dolori e le stragi trovavano terreno fecondo per la coscrizione. Non educati i Siciliani al militarismo, perché esenti da lunga pezza, volendosi per pigrizia, ignoranza o paura tenersi molto lontani da un tale obligo, cominciarono le persecuzioni, che giunsero fino al sangue; e perfino un Cappello, sordomuto, non potendo rispondere agli agenti della publica forza, vane riuscite le preci lagrimose della madre e dei congiunti, venne forato in tutto il corpo dalle baionette, come dovesse il corpo del misero trapuntarsi (2). Non agivano le maniere prudenti in tanta renitenza e difficoltà; non si aveva la scelta di mezzi docili; bensì una ferocia senza pari, che dava martirio alle famiglie; e faceva si che si udiva maledetto il giorno del riscatto italico; maledetti erano i nomi più cari, esaltati dalla rivoluzione, e che, con lusinghe, avevano conquiso le plebi.

(1) Vedi Documenti, XX.

(2) Vedi Storia e Processo della tortura del sordomuto Antonio Cappello, con introduzione e note di Antonino Morvillo: Palermo, Lorsnaider, 1864.

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Sopraggiunse un arbitrio e una ferocia, che separarono le moltitudini dalla nuova idea politica, facendo loro desiderare i dominj disfatti dalla rivoluzione. La grandezza del Conte di Cavour, ancora vivente, scemava. Se pochi mesi pria della morte, infausta, aveva conquistato il concetto unitario del Mazzini, si tenne sempre ristretto a quel vecchio male, che faceva giudicare dal Guicciardini i cittadini italiani acciecati dalle cupidità particolari per corrompere con danno e infamia propria il bene universale (1). E, anche unitario, volendo estendere il Piemonte dalle Alpi al mare, lasciò tristo retaggio, ritardando l'Italia tuttavia la sua unità politica e morale, né prosperando quelle sorti, che fanno grandi e temute le nazioni colle industrie, co' commerci, colle colonie, col mare, unica salvezza d'Italia.

Peggiori e funeste condizioni toccò il mezzogiorno d'Italia colle leggi. Trattato esso dal sistema piemontese come barbaro e conquistato, si ritenne incapace di amministrarsi da sè; sicché, nella terra di G. B. Vico, de'  sapienti, che in ogni età avevano sgomentato il mondo colle leggi, trovando in tutti gli Stati ammiratori, s'introdussero, vergogna che fece più ridere che arrossire!, i gretti e complicati regolamenti del Piemonte, procedure complicate, inesplicabili, dispendiose, sostituendosi alle immortali leggi napoletane: sostituendosi co' medesimi quella burocrazia che invase tutto, e che mette di giorno in giorno a mina l'Italia. Forse si pensò col Machiavelli che «un principe, nuovo in una città o provincia presa da lui, debba fare ogni cosa nuova». Ma le regioni meridionali erano sorte a libertà in forza della rivoluzione, combattendo fortemente la dinastia regnante; invocando, volontarie, con sacrifizio, l'aggregamento alle altre regioni italiane. Se la ferocia le avesse sopraffatte, secondo lo stesso Machiavelli, la sola tirannide, avrebbe potuto rinnovare ogni cosa (2). Però questo non poteva essere l'effetto d'una rivoluzione, creduta di rigeneramento morale e civile.

Tramontavano i Borboni, odiati e fatti odiare; ma il popolo, credendo prima alle letizie delle libertà e ad una vita tranquilla, si amareggiò presto nel vedere sostituita una nuova polizia, che gli toglieva ogni bene, qualsiasi speranza di miglioramento materiale, di viver tranquillo.

(1) Storia d'Italia, vol. Ii, libro III; Friburgo, Kluch, MDCCLXXV.(2)

(2) Il Principe, cap. xxv.

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Non educato il popolo meridionale alla fiscalità, non soffrendo il danno di vedersi spogliato dei suoi guadagni, per saziare la rapacia e il furto degli esattori fiscali, rimase costernato, giudicando che nessun governo, dalla fondazione della monarchia normanna, avesse giammai usati di tutti i mezzi angarici per ispogliarlo e avvilirlo; e rise udendo parlare di gravezze spagnuole. Veramente così tristi furono gli inizj e gli auspicj della unificata Italia!

DOCUMENTI.

I.

Prima dimissione del Ministero dittatoriale.

Al signor generale Garibaldi, Dittatore dell'Italia Meridionale.

Signor generale dittatore. — È urgente necessità per noi quella di rappresentare al dittatore la vera situazione politica ed amministrativa delle Provincie napoletane, alle quali si estende il presente governo; ed è primo nostro dovere il parlargli francamente e lealmente, come si parla ai suoi pari, da buoni cittadini e da pubblici uffiziali nelle gravi emergenze in cui versiamo.

La popolazione di questa parte d'Italia, lasciando cadere sotto il peso del disprezzo una monarchia universalmente abborrita, ed elevandosi al prestigio del Vostro nome, acclamò re Vittorio Emanuele secondo, ed accolse con entusiasmo la vostra dittatura.

I sottoscritti amando sopra ogni altra cosa l'Italia ed il paese a cui appartengono, e dove riposano le ceneri dei loro maggiori, dei quali gran numero furono vittime sagrificate sull'altare della libertà, erano lieti di unire alla stima ed all'affetto dei loro concittadini, l'onor di essere prescelti da Voi, e di meritare la vostra fiducia.

Essi credevano che si volesse lasciar loro il carico gravissimo di assumere la responsabilità dell'amministrazione interna e dell'alto governo del dittatore, e speravano di entrare arditamente mallevadori dei loro proprii consigli verso il dittatore medesimo, e verso il paese in cui risiede la più eminente sovranità.

Con grande dolore dell'animo loro, e sotto l'imminente pericolo di cadere nella peggiore delle anarchie, in quella cioè del governo medesimo, i sottoscritti furono fin'ora testimoni di atti che farebbero argomentare di essere altra la via che vuol tenersi nell'attuale temporaneo governo di questa parte d'Italia.

Nelle provincie furono sostituiti governatori, i quali, col diminuire le imposte, col nominare impiegati, e col prendere altri provvedimenti, che in Napoli non potrebbero essere presi da altri che dal dittatore, operano come se fossero superiori al ministero, e pari in giurisdizione il dittatore medesimo.

Il ministero quindi propose istruzioni, per frenare questo arbitrio, aia non vennero ancora sancite. Propose nomine di governatori, ma non vennero accolte.

Aggiungasi che mentre altrove i ministri sottoscrivono gli atti che ossi propongono, in Napoli solamente i decreti dittatoriali escono senza portare alcun segno che distingua quelli i quali furono realmente proposti dal ministero.

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Sicché né il pubblico sa di quali atti rendere responsabili i ministri, né il dittatore di quali consigli chiamarli a sindacato, né infine essi medesimi sanno più ritrovare in tal procedere il modo di conservare illeso quel rispetto che pur debbono alla propria dignità personale, quando ali universale pare che essi temessero di svelarsi ai loro concittadini, consiglieri degli atti del governo.

Partiti avversi più o meno alla formola gloriosa con la quale s'intitolano quegli atti, si agitano, ed il ministero composto di nomi che qui nel loro paese sono, dopo la profonda ed immutabile fede vostra, una garentia cosi nelle grandi come nelle piccole cose che quella formola sarà sacrosantamente rispettata, sente l'impotenza di concorrere con efficacia a reprimere le più o meno aperte macchinazioni, se gli sono spezzati nelle mani i fili dell'amministrazione.

Le finanze non possono rispondere dell'entrate, se queste vengono alterate senza che il dittatore decreti, e che il ministero proponga di farlo; né rispondere delle spese, se al modo medesimo vengono creati impieghi, ed ordinate opere dispendiose.

Certamente non mancherà al dittatore né mente, né animo di rimediare a tali inconvenienti. Ma, nascendo quelli dal non essere la condizione del ministero quali gl'individui che lo compongono credevano che avesse ad essere, i sottoscritti da una parte invocano caldamente dal dittatore che vi ponga riparo, e dall'altra dichiarano che essi non vorrebbero essere di ostacolo all'applicazione degli opportuni rimedii, e pregano il dittatore di tenerli come dimessi dal loro uffizio, se egli pensi che con altri uomini possa più facilmente riuscire all'intento.

I sottoscritti debbono all'Italia, a queste provincie dove nacquero, alla riconoscenza verso il generale Garibaldi, all'ossequio pel dittatore ed alla propria dignità questa franca dichiarazione, che essi fanno con fiducia di aver meritato un istante la stima del dittatore, ed assicurandolo che egli ha interamente l'affetto loro e la loro ammirazione.

Napoli, 10 settembre 1860.

(Seguono le firme).

Particolare dimissione di Liborio Romano.

Signor generale. — A franco, leale e chiarissimo capitano come Ella è, non possono indirizzarsi che franche, leali e recise parole.

Io sono rimasto ai potere solo perché Ella lo ha onninamente voluto; e mi credo onorato dal portafogli, fidente nella idea di servire alla causa d'Italia sotto lo scettro di Vittorio Emanuele.

Ora si fa da taluni animosa guerra alla mia persona, per furente ambizione del mio ufficio.

Io ne cedo loro volontariamente l'esperimento; e desidero che facciano al mio paese quel bene ch'io ho la coscienza di aver fatto.

Mi dimetto, dunque, dalla mia carica, ma non cesserò giammai di essere col più profondo rispetto

L. Romano.

Napoli, 22 settembre 1860.

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Seconda dimissione del Ministero dittatoriale.

Al signor generale Garibaldi, Dittatore dell'Italia Meridionale.

Signor dittatore. — Quando, acclamato dalle popolazioni, Ella venne tra noi e formò il presente ministero, noi credevamo poter meritare la fiducia del paese, fummo altamente compiaciuti di aver potuto ottenere anche per un'istante la sua, ed accettammo senza esitanza.

L'alto scopo del governo era scritto sulle sue gloriose bandiere; il, suo affetto per l'Italia e per Vittorio Emanuele ci affidava che tutti i gl'Italiani avrebbero proceduto al nobile intento con divisamenti concordi. Con questi pensieri entrarono i sottoscritti nell'amministrazione, proponendosi segnatamente di sanare le piaghe da cui era contristato il paese, di promuovere tutte le sorgenti della sua potenza, di apparecchiarlo all'unione con le altre provincie italiane, di preservarlo dall'anarchia.

Ma per verità sin dai primi giorni del nostro ministero ci avvedemmo quanto fosse malagevole di adempiere il còmpito assunto. Molti decreti si emanarono senza che fossero stati proposti o discussi dai ministri, e parecchi altri deliberati nel consiglio, non erano pubblicati. Ciò rendea responsabili i ministri di atti, a cui non erano concorso, e vane in gran parte le loro cure.

Spesse volte con franchezza, e con sincerità le manifestammo le nostre osservazioni sopra questi ed altri punti, ed in varie guise ci studiammo di attenuarne gl'inconvenienti, ma i nostri voti non ebbero effetto.

Noi pertanto dubitammo se avessimo conservato la sua fiducia. I fatti avvenuti posteriormente hanno accresciuto cotesto dubbio, e per quanto profondo sia di ciò il nostro dolore, altrettanto è vivo il nostro desiderio di rendere più spedita l'azione governativa.

Ella è certamente guidato da un pensiero alto e generoso, quello di porre in accordo la sua volontà, con la volontà della maggioranza del paese; ma la nostra coscienza, l'amore che portiamo alla nostra patria, e l'ossequio che abbiamo pel dittatore, c'impongono il dovere di chiamare la sua attenzione su le arti che adoperano alcuni partiti, per rappresentarle come opinioni del paese quelle che sono di pochi individui, e discordi affatto dai veri sentimenti della gran maggioranza dei cittadini. Esse tendono a sospingere queste popolazioni sopra vie cui assolutamente ripugnano, mentre queste popolazioni abbandonarono il mal governo precedente, e si affidarono alle sue mani gloriose, con la certezza di formare col regno d'Italia un regno unico sotto lo scettro di Vittorio Emmanuele.

Ella che è alla cima del potere, può scorgere da qual parte sia l'errore; ed a noi non rimane altro còmpito che quello di rassegnare il nostro ufficio.

Napoli, 22 settembre 1860.

(Seguono le firme, meno quella del Conforti).

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II.

Relazione del Ministero dittatoriale

sulle condizioni delle province Napolitane.

Signor dittatore. — Quantunque dimissionarli noi conserviamo ancora il potere, e saremmo grandemente colpevoli se lasciassimo di richiamare la vostra attenzione sui gravi pericoli da cui è minacciato il paese.

La maggior parte delle provincie del regno, avverse per animo alla caduta dinastia, avevano con unanime voto, e con vivo affetto, acclamato alla vostra venuta ed al regno sospirato di Vittorio Emmanuele.

Rimuovere i pubblici uffiziali insufficienti, proni, o devoti all'assolutismo; arrecare conforto a coloro che furono indegnamente contristati dalla dominazione borbonica, promuovere tutti i miglioramenti morali ed economici; raffermare in tutte le classi l'amore e la fede per i nuovi ordini politici; apparecchiare il paese all'unione con tutte le altre Provincie italiane, era questo il còmpito che secondo il nostro avviso dovea proporsi il nuovo governo; ma le sue cure ed i suoi proponimenti rimasero in gran parte vani.

Fin dai primi giorni del nostro ministero noi vi esponemmo i gravi danni che potevano derivare dall'istituzione di tanti governatori con poteri illimitati, per quante sono le provincie.

Accogliendo le nostre rimostranze, voi approvaste un regolamento intorno ai poteri dei governatori; ma non pare questo provvedimento abbia portato tutto l'effetto che se ne sperava.

Noi ripetiamo la causa di ciò dalla istituzione della Segreteria, la quale si è arrogata la facoltà di dare importanti provvedimenti senza discuterli in Consiglio, e senza che alcuno dei ministri ne fosse consapevole.

Per riparare a siffatto inconveniente i qui sottoscritti dimandarono più volte che ciascun atto fosse discusso in Consiglio, e contrassegnato da un ministro, cosa da voi consentita, perché ragionevole, ma non mai effettuata. Anzi nel medesimo giorno in cui uno dei sottoscritti si recava da voi, ed in presenza del vostro segretario otteneva il vostro assentimento su questo punto, e il corrispondente ordine del segretario medesimo, si pubblicavano atti importantissimi senza la discussione e la firma dei ministri.

Ora, ecco lo stato del paese. Qui in Napoli, l'opinione pubblica è fortemente preoccupata per la irregolarità che si scorge nell'emanazione dei decreti della dittatura.

Nella maggior parte delle provincie le popolazioni sono agitate da gravi apprensioni e costernate.

Alcuni governatori hanno inteso il loro mandato in modo da esautorare del tutto l'amministrazione centrale, destituendo e nominando impiegati, che qui in Napoli voi solo potreste nominare; disponendo a lor modo delle cose pubbliche, alterando a loro grado le pubbliche imposte.

In qualche provincia taluni ignoti o malvisi, arrogandosi poteri di cui il ministero ignora la sorgente, commettono atti arbitrarli e soprusi, e spaventano tutti gli onesti cittadini.

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Quali possano essere le conseguenze di questi fatti è agevole il comprendere.

L'ultima parola che i qui sottoscritti vi rivolgono, e ch'è loro ispirata dall'affetto vivissimo che hanno per l'Italia e per la loro terra natale, dall'ossequio per la vostra persona e dall'ammirazione per la vostra virtù è questa: Voi dittatore, preceduto dalla vostra fama, circondato da glorie immortali, siete venuto tra noi acclamato da queste fidenti popolazioni; ma provvedete che dietro ai vostri passi non resti un solco di lacrime e di dolore.

Napoli, 25 settembre 1860.

(Seguono le firme, meno quella del Conforti).

III.

Lettera di Giorgio Pallavicino Trivulzio a G. Mazzini.

«L'abnegazione fu sempre la virtù dei generosi. Io vi credo generoso, ed oggi vi offro un'occasione di mostrarvi tale agli occhi dei vostri concittadini. Rappresentante del principio repubblicano e propugnatore indefesso di questo principio, voi risvegliate, dimorando fra noi, le diffidenze del Re e dei suoi ministri. Però la vostra presenza in queste parti crea imbarazzi al governo e pericoli alla nazione, mettendo a repentaglio quella concordia che torna indispensabile all'avanzamento ed al trionfo della causa italiana. Anche non volendolo, voi ci dividerete. Fate dunque atto di patriottismo allontanandovi da queste provincie. Agli antichi aggiungete il nuovo sagrificio che vi domanda la patria, e la patria ve ne sarà riconoscente. Ve lo ripeto, anche non volendolo, voi ci dividete, e noi abbiamo bisogno di raccogliere in un fascio tutte le forze della nazione. So che le vostre parole suonano concordia, e non dubito che alle parole corrispondano i fatti. Ma non tutti ci credono; e molti sono coloro che abusano del vostro nome col proposito parricida di innalzare in Italia un'altra bandiera. L'onestà vi ingiunge di metter fine ai sospetti degli uni ed ai maneggi degli altri. Mostratevi grande partendo, e ne avrete lode da tutti i buoni».

Risposta di Giuseppe Mazzini a Giorgio Pallavicino Trivulzio.

«Credo di essere generoso d'animo, e per questo rispondo alla vostra lettera del 3, con un rifiuto. S'io non dovessi ceder che al primo impulso e alla stanchezza dell'animo, partirei dalla terra che io calco, per ridurmi dove la libertà della opinione è sacra ad ogni uomo, dove la lealtà dell'onesto non è posta in dubbio, dove chi ha operato e patito pel paese, non crede debito suo di dire al fratello che ha egli pure operato e patito: partite.

«Voi non date ragione della vostra proposta fuorché l'affermazione che io anche non volendo divido. Io vi dirò la ragione del mio rifiuto. Io rifiuto perché non mi sento colpevole, né artefice di pericoli al paese, n macchinatore di disegni che possono tornargli funesti, e mi parrebbe di confessarmi tale cedendo; perché italiano in terra italiana riconquistata a libera vita, credo di dover rappresentare e sostenere in me il diritto che ogni italiano ha di vivere nella propria patria

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quand'ei non ne offende le leggi, ed il dovere di soggiacere ad un ostracismo non meritato; perché dopo aver contribuito ad educare, per quanto era in me, i popoli d Italia al sagrifìcio, mi par tempo di educarlo con l'esempio alla coscienza della dignità umana, troppo sovente violata, ed alla massima dimenticata da quei che s'intitolano predicatori di concordia e moderazione, che non si fonda la propria libertà senza rispettarne l'altrui; perché mi parrebbe, esiliandomi volontario, di fare offesa al mio paese, che non può senza disonorarsi agli occhi di tutta Europa, farsi reo di tirannide; al Re, che non può temere di un individuo, senza dichiararsi debole e malfermo nell'amore dei sudditi; agli uomini di parte vostra, che non possono irritarsi della presenza di un uomo, dichiarato da essi ad ogni tanto, solo e abbandonato da tutto quanto il paese, senza smentirsi; perché il desiderio non viene, come voi credete, dal paese che pensa, lavora e combatte intorno alle insegne di Garibaldi, ma dal ministro torinese, verso il quale non ha debito alcuno, e che io credo funesto alla unità della patria; da faecendieri e gazzettieri senza coscienza di cuore e di moralità nazionale, senza culto, fuorché verso il potere esistente, qual che esso sia, e ch'io per conseguenza disprezzo, e dal vulgo dei creduli inoperosi, che giurano, senza altro esame, nella parola d'ogni potente, e ch'io per conseguenza compiango; finalmente perch'io scendendo, ebbi dichiarazione, non rievocata finora dal Dittatore di queste terre, ch'io era libero in terra di liberi.

«Il più grande dei sagrificii ch'io potessi mai compiere, l'ho compiuto, quando interrompendo, per l'amore dell'unità e della concordia civile, l'apostolato della mia fede, dichiarava ch'io accettava, non per riverenza ai ministri ed ai monarchi, ma alla maggioranza, illusa o no, poco monta, del popolo italiano, la monarchia; presto a cooperare con essa, purché fosse fondatrice dell'unità, e che se mai mi sentissi un giorno vincolato dalla coscienza a risollevare la nostra vecchia bandiera, io l'annunzierei lealmente anzi tratto e pubblicamente ad amici e a nemici. Non posso compirne altro spontaneo. Se gli uomini leali, come voi siete, credono alla mia parola, debito loro è d'adoprarsi a convincere, non me, ma gli avverai a me, che la via (l'intolleranza da essi calcata è il solo fomite d'anarchia che oggi esiste.

«Se non credono ad un uomo che da trent'anni combatte come può per la nazione, che ha insegnato agli accusatori a balbettare il nome d'unità e che non ha mai mentito ad anima viva, tal sia di loro. L'ingratitudine degli uomini non è ragione perch'io debba soggiacere volontariamente alla loro ingiustizia e sancirla».

IV.

Vittorio Emanuele a'  Popoli dell'Italia meridionale.

In un momento solenne della storia nazionale e dei destini italiani rivolgo la mia parola, a voi, popoli dell'Italia Meridionale, che mutato lo stato nel nome mio, mi avete mandato oratori di ogni ordine di cittadini, magistrati e deputati dei municipii, chiedendo d'essere restituiti nell'ordine, confortati nella libertà, ed uniti al mio regno.

Io voglio dirvi quale pensiero mi guidi, e quale s:a in me la coscienza dei doveri che deve adempiere chi dalla Provvidenza fu posto sopra un trono italiano. Io salii al trono dopo una. grande sventura nazionale. Mio padre mi diede un alto esempio, rinunziando la corona per salvare la propria dignità e la libertà dei suoi popoli.

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Carlo Alberto cadde colle armi in pugno, e morì nell'esilio: la sua morte accumunò sempre più le sorti della mia famiglia a quelle del popolo italiano, che da tanti secoli ha dato a tutte le terre straniere le ossa dei suoi esuli, volendo rivendicare il retaggio d'ogni gente che Dio ha posto fra gli stessi con fini, e stretti insieme col simbolo di una sola favella. Io mi educai a quell'esempio, e la memoria di mio padre fu la mia stella tutelare. Fra la corona e la parola data non poteva per me esser dubbia la scelta: mai. Raffermai la libertà in tempi poco propizii a libertà, e volli che, applicandosi essa, gettasse radici nel costume dei popoli, non potendo io avere a sospetto ciò che ai miei popoli era caro. Nella libertà del Piemonte fu religiosamente rispettata la eredità che l'animo presago del mio augusto genitore aveva lasciato a tutti gli italiani. Colle franchigie rappresentative, con la popolare istruzione, colle grandi opere pubbliche, con la libertà dell'industria e dei traffici, cercai di accrescere il benessere del mio popolo: e volendo sia rispettata la religione cattolica, ma libero ognuno nel santuario della propria coscienza, e ferma la civile autorità, resistetti apertamente a quella ostinata fazione, che si vanta la sola anima e tutrice dei troni, ma che tende a comandare in nome dei re ed a frapporre fra il principe ed il popolo la barriera delle sue intolleranti passioni.

Questi modi di governo non potevano essere senz'effetto per la rimanente Italia. La concordia del principe col popolo nel proponimento dell'indipendenza nazionale e della libertà civile e politica, la tribuna e la stampa libera, l'esercito che aveva salvata la tradizione militare italiana, sotto la bandiera tricolore, fecero del Piemonte il vessillifero ed il braccio d'Italia. La forza del mio principato non derivò dalle arti di una occulta politica, ma dallo aperto influsso delle idee della pubblica opinione. Cosi potei mantenere, nella parte di popoli italiani riunita sotto il mio scettro, il concetto di una egemonia nazionale, onde nascer doveva la concorde armonia delle divise provincie in una sola nazione. L'Italia fu fatta capace del mio pensiero, quando vide mandare i miei soldati sui campi della Crimea, accanto ai soldati delle due grandi potenze occidentali. Io volli fare entrare il diritto d'Italia nella realtà dei fatti e degli interessi europei Al congresso di Parigi i miei legati poterono parlare per la prima volta all'Europa dei vostri dolori. E fu manifesto come la preponderanza dell'Austria in Italia fosse infesta all'equilibrio europeo, e quanti pericoli corressero la indipendenza e la libertà del Piemonte, se la rimanente penisola non fosse francata dagli influssi stranieri. Il mio alleato, l'Imperatore Napoleone III, senti che la causa italiana era degna della grande nazione sulla quale impera. I nuovi destini della nostra patria furono inaugurati da giusta guerra. I soldati italiani combatterono degnamente accanto alle invitte legioni della Francia. I volontari accorsi da tutte le provincie e da tutte le famiglie italiane sotto la bandiera della croce sabauda, addimostrarono come tutta l'Italia mi avesse investito del diritto di parlare e combattere in nome suo. La ragione di Stato pose fine alla guerra, ma non ai suoi effetti, i quali si andavano esplicando per l'inflessibile logica degli avvenimenti e dei popoli.

Se io avessi avuta quell'ambizione che è imputata alla mia famiglia da chi non si fa addentro alla ragione dei tempi, io avrei potuto essere soddisfatto dall'acquisto della Lombardia. Ma io avevo sparto il sangue dei miei soldati non per me, per l'Italia.

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Io avevo chiamato gl'Italiani all'armi: alcune provincie avevano mutati gli ordini interni per concorrere alla guerra d'indipendenza, dalla quale i loro principi abborri vano. Dopo la pace di Villafranca, quelle provincie dimandarono la mia protezione contro il minacciato restauro degli antichi governi. Se i fatti dell'Italia centrale erano la conseguenza della guerra, alla quale mi avevano invitato i popoli, se il sistema delle intervenzioni straniere doveva essere per sempre sbandito dell'Italia, io doveva conoscere e difendere in quei popoli il diritto di legalmente e liberamente manifestare i loro voti, lo ritirai il mio governo: essi fecero un governo ordinato; ritirai le mie truppe; essi ordinarono forze regolari, ed a gara di concordia e di civili virtù vennero in tanta riputazione e forza, che solo per violenza d'armi straniere avrebbero potuto esser vinte.

Grazie al senno dei popoli dell'Italia centrale, l'idea monarchica fu in modo costante affermata, e la monarchia moderò moralmente quel pacifico moto popolare. Cosi l'Italia crebbe nell'estimazione delle genti civili, e fu manifesto all'Europa come gl'Italiani siano acconci a governare sé stessi. Accettando l'annessione, io sapeva a quali difficoltà europee andassi incontro. Ma io non poteva mancare alla parola data agli Italiani nei proclami della guerra. Chi in Europa mi taccia d'imprudenza, mi giudichi con animo riposato che cosa sarebbe diventata, cosa diventerebbe l'Italia, il giorno nel quale la monarchia apparisse impotente a soddisfare il bisogno della ricostituzione nazionale! Per le annessioni, il moto nazionale se non mutò nella sostanza, pigliò forme nuove, accettando dal diritto popolare quelle nobili e belle provincie; io doveva lealmente riconoscere l'applicazione di quel principio, né mi era lecito il misurarlo colla norma dei miei affetti ed interessi particolari. In suffragio di quel principio io feci per l'utilità dell'Italia il sagrificio che più costava al mio cuore, rinunziando due nobilissime provincie del regno avito. Ai principi italiani che han voluto essere miei nemici, ho sempre dati schietti consigli, risoluto, se vani fossero, ad incontrare il pericolo che l'acciecamento loro avrebbe fatto correre ai troni, e ad accettare la volontà dell'Italia. Al granduca io indarno aveva offerto la alleanza prima della guerra. Al sommo pontefice, nel quale venero il capo della religione de'  miei avi e de'  miei popoli, fatta la pace, indarno scrissi offerendo di assumere il vicariato per l'Umbria e per le Marche. Era manifesto che quelle provincie, contenute soltanto dalle armi di mercenarii stranieri, se non ottenessero la guarentigia di governo civile ch'io proponeva, sarebbero tosto o tardi venuti in termine di rivoluzione. Non ricorderò i consigli dati per molti anni dalle potenze al re Ferdinando di Napoli. I giudizii che nel congresso di Parigi furono proferiti sul suo governo, preparavano naturalmente i popoli a mutarlo, se vane fossero le querele della pubblica opinione e le pratiche della diplomazia. Al giovine suo successore io mandai offerendo alleanza per la guerra dell'indipendenza. Là pure trovai chiusi gli animi ad ogni affetto italiano e gl'intelletti abbuiati dalle passioni.

Era cosa naturale che i fatti succeduti nell'Italia settentrionale e centrale sollevassero più e più gli animi nella meridionale. In Sicilia questa inclinazione degli animi ruppe in aperta rivolta. Si combatteva per la libertà in Sicilia, quando un prode guerriero devoto all'Italia ed a me, il generale Garibaldi, salpava in suo aiuto. Erano italiani: io non poteva, non doveva rattenerli! La caduta del governo di Napoli raffermò quello che il mio cuore sapeva, cioè quanto sia necessario al re l'amore,

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ai governi la stima dei popoli! Nelle due Sicilie il nuovo reggimento s'inaugurò nel mio nome. Ma alcuni atti diedero a temere che non bene s'interpretasse per ogni rispetto la politica che è nel mio nome rappresentata, Tutta l'Italia ha temuto che all'ombra del mio vessillo e di una gloriosa popolarità e probità antica tentasse di riannodarsi una fazione pronta a sagrificare il vicino trionfo nazionale alle chimere d?: suo ambizioso fanatismo. Tutti gli italiani si sono rivolti a me pere: scongiurassi questo pericolo. Era mio obbligo il farlo, perché m attuali condizioni di cose non sarebbe moderazione, non sarebbe sen ma fiacchezza e imprudenza il non assumere con mano ferma la dir' zione del moto nazionale, del quale sono responsabile dinanzi all'Europi. Ho fatto entrare i miei soldati nelle Marche e nell'Umbria disperdendo quell'accozzaglia di gente di ogni paese e di ogni lingua, che qui si era raccolta, nuova e strana forma di intervento straniero, e la peggiore di tutte. Io ho proclamato l'Italia degl'Italiani, e non permetterò mai che l'Italia diventi il nido di sètte cosmopolite, che si raccolgono a troncare i disegni o della reazione o della demagogia universale.

Popoli dell'Italia Meridionale! Le mie truppe si avanzano fra voi per raffermare l'ordine. Io non vengo ad imporre la mia volontà, ma a far rispettare la vostra. Voi potrete liberamente manifestarla; la Provvidenza che protegge le cause giuste, inspirerà il voto di fiducia che deporrete nell'urna. Qualunque sia la gravità degli eventi, io attendo tranquillo il giudizio dell'Europa civile e quello della storia, perché ho la coscienza di compire i miei doveri di re e d'italiano! In Europa la mix politica non sarà forse inutile a riconciliare il progresso dei popoli colla stabilità della monarchia. In Italia io so che chiudo l'èra delle rivoluzioni.

V.

Discorso del Prodittatore Mordini, tenuto ad invito del Municipio di Palermo, il dì 24 ottobre 1860, per la decorazione concessa da questo a'  Mille per lo sbarco in Sicilia.

L'Italia è: la fece il plebiscito del 21. Siamo ventidue milioni d'Italiani, sotto una legge sola, sotto una sola bandiera, che affermiamo il nostro diritto di nazione, pronti a difenderlo contro tutti, se occorre. Siamo ventidue milioni che con una voce sola esprimiamo un solo volere. Ancora un passo... e poi... un altro e Italia forte e temuta sarà, protetta dalla cintura delle sue Alpi e dai suoi due mari. Allora si vedrà che possa il genio di una terra, la quale fu già madre di tre civiltà.

Una serie funesta di colpa ridusse l'Italia mancipio dello straniero: ma le lagrime, i ravvedimenti, gli odii, i magnanimi propositi, i gloriosi martiri, le sante ire, prepararono i giorni delle battaglie e spianarono la via al compimento del disegno provvidenziale che manifestamente vuole l'indipendenza reciproca e l'affratellamento delle nazioni.

Non solo le presenti, ma le future generazioni, lungamente si affaticheranno intorno all'epopea del risorgimento italico del decimonono secolo. A noi basti che siamo a tanto di felicità arrivati da poter dire, sicuri ormai dell'avvenire: l'Italia è: la fece il plebiscito del si. Ma chi rese possibile questo glorioso plebiscito? Non esito a dirlo: fu Garibaldi coi suoi prodi!

— 577 —

Sicilia, la bella, la forte Sicilia, che aveva nel 1848 bandita e con larga copia di sangue sostenuta la crociata dei popoli contro i tiranni.

si alzava più deliberata che mai nell'aprile 1860 giurando di abbattere la mala dinastia, ché un delirio sistematico si era prefisso per còmpito il regresso del secolo ai più nefasti giorni della barbarie. A tanto siculo ardimento meravigliò, temè l'Europa ufficiale, tripudiarono ansiosi i popoli. Senonché sprovveduta di armi e senza capitano, mal poteva reggere l'insurrezione isolana contro i trentamila borbonici avidi di stragi, d'incendi e di rapine. Allora una voce unanime si levò da tutti i petti italiani dall'Etna al Cenisio, e proclamò unica salute il braccio del soldato cittadino, dell'eroe di Montevideo, di Valle Intelvi, di Varese e di Como.

L'eroe che già pendeva intento sui fati di Sicilia, che eran pur quelli d'Italia, studiando i modi del soccorso, udì l'appello, accolse i voti, e a sè chiamati i suoi più prodi fra i prodi delle battaglie combattute a Homi e in Lombardia, salpò da Genova su navi mercantili, sbarcò a Marsala, sotto il fuoco delle fregate nemiche, vinse una battaglia da giganti a Calatafimi, si affacciò alla capitale dal Parco, retrocesse con marcia meravigliosa alla Piana dei Greci, calò rapidamente a Misilmeri, come fulmine ricomparve e piombò dentro Palermo; il resto voi tutti meglio di ogni altro il sapete che foste spettatori e in pari tempo attori nelle asprissime e gloriosissime pugne che ebbero per effetto di rendere la Sicilia ai siciliani ed all'Italia.

Cinque mesi non sono ancora trascorsi dopo il 27 maggio, e già la storia assume nelle menti popolari le proporzioni della favola, tanto fu la grandezza dell'impresa. Volontari della prima spedizione! Il municipio di questa illustre città, facendosi interprete del voto universale, decretò una medaglia destinata a fregiare il vostro petto glorioso. Oggi ha desiderato che la pompa maestosa di una pubblica solennità, aggiungendo pregio all'offerta, sia di esempio e di sprone alla forte gioventù siciliana. Chiamato, come rappresentante di Garibaldi, ad appuntare sul vostro petto il nobile distintivo, ho volentieri aderito al desiderio dell'inclito Municipio. Ma perché la fortissima legione non è qui tutta raccolta? La patria non si acquista che a prezzo di sangue generoso, e voi pur troppo vedeste diradato dal piombo nemico l'invitto vostro drappello. Onore immortale ai forti che non sono più.

Altri qui mancano trattenuti da gloriose ferite, altri più numerosi stanno cingendo sulle rive del Volturno di nuovi allori la fronte. Voi soli restate rappresentanti dell'intera legione; poiché il lento rimarginar delle ferite e l'ubbidienza tanto meritoria del soldato non vi permise di prendere ancora parte alle invidiose fatiche del campo. Or venite, o prodi della prima spedizione, venite, figli diletti d'Italia, a ricevere, in mezzo alle acclamazioni di un popolo riconoscente, la più splendida riconoscenza del soldato cittadino. Venite, ma prima udite ciò che mi resta a dirvi, ciò che debb'essere per tutta la vostra vita il più bel titolo d'onore.

In nome di Garibaldi io vi proclamo benemeriti della Patria.

Viva l'Italia! Viva Vittorio Emanuele! Viva Garibaldi!

— 578 —

VI.

Risultato del plebiscito delle regioni napoletana e siciliana.

Catanzaro. Votazione soddisfaccntissima, lo stesso si annunzia da altri punti della provincia.

Gallipoli. Votazione già compiuta con gran concorso, i risultameli ti saranno superiori ad ogni aspettativa.

Lecce. La votazione compiutasi con calma, dignità e gran frequenza, è stata unanime pel sì. Il clero vi ha concorso con entusiasmo.

Maddaloni. Gran concorso di votanti, fra i quali due soli han votato pel no.

Cosenza. Unanime la votazione pel sì; lo stesso è avvenuto in varii paesi del distretto, di cui sono già pervenute le urne al capoluogo.

Lagonegro. Votazione unanime pel sì. Su duemila voti, si contano quattro soli pel no. Il popolo è in festa. Corrieri spediti da Latronico, Castelluccio Inferiore e Superiore, Lauria e Nemuli assicurano lo stesso risultato.

Potenza. Notizie qui pervenute da varii comuni della provincia arrecano che dappertutto il concorso dei votanti è stato numerosissimo e tutto è proceduto con ordine.

Paola. Ad unanimità si è votato pel sì. Gran festa nella città.

Amantea. La votazione è proceduta in modo eccellente e con piena tranquillità.

Salerno. Il capoluogo e molti comuni della provincia hanno già compiuta la votazione. Il clero secolare e regolare è concorso innanzi agli altri. Festeggiamento universale.

Monteleone. Unanime votazione pel con immensa dimostrazione di gioia.

Ariano. Di tremila votanti inscritti, oltre nove decimi hanno dato il loro voto pel sì. Gran festa nel paese. In Paralise, Contrada, Torino, Chiusano, Salsa, Sampolito ed altri comuni, simile risultato. Pochi assenti, i più per causa d'infermità.

Ventotene. Persona giunta di colà a Pozzuoli assicura che la votazione fu unanime pel sì.

Trani. Di 5963 votanti appena è mancato un centinaio o poco più per infermità o per assenza. Tutti han votato pel La città è in gran festa.

Ischia. Numeroso concorso di votanti. La votazione si è eseguita colla massima tranquillità ed ordine. Grandissima maggioranza pel sì.

Rossano. 3400 votanti, nessuno pel no. La città è auimatissima.

Lurino. Votazione unanime pel sì, e affollatissimi i votanti.

Caserta. La votazione volge al suo fine con ordine e tranquillità. L'esercito prende parte al voto, ciascun corpo col suo capo alla testa.

Osterni. La popolazione nella votazione ha esaurite le cartelle del si.

Brindisi. Compiuta la votazione soddisfacentissiina per concorso, spontaneità ed entusiasmo. Altrettanto si riferisce di molti comuni del distretto.

Sala. Unanime votazione pel sì. Gran gioia nel popolo.

Atripalda. Tutti sì. Nessuna astensione. Lo stesso in Monteforte, Cesinale, Belizzi, Capriglia, Servo.

Avellino. Finora tremila «ì, nessun no. La votazione continua. Applausi ai preti e ai frati votanti.

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Lagonegro. I comuni di Trecchina, Teano, Fardella e Moliterno, appartenenti a questo distretto, hanno votato unanimamente pel si.

Nola. Nel distretto la votazione è seguita in modo soddisfacente e con la massima tranquillità.

Amantea. I comuni di questo circondario e del vicino di Aiello han tutti votati pel sì.

Pozzuoli. Compiuta la votazione in modo soddisfacentissimo. Quattromila e più, quattro soli no. Immensa esultanza.

Procida. Milleseicento voti pel sì, lo stesso in Trani, Molfetta, Menopoli e Polignano.

Avellino. Ad unanimità si è votato pel sì. Vi han preso parte i Cappuccini e gli Scolopii. Simili notizie si hanno da Cervinara, Volturara, Montefusco e Montemileto. In Sant'Angelo dei Lombardi il clero e i cittadini han votato pel «i, e solo parte dei cittadini si sono astenuti.

Ottaiano. La votazione procede con ammirabile alacrità e moderazione.

Potenza. La votazione è riuscita numerosa ed unanime in Moliterno e Lagonegro. Financo alcuni infermi, soccorsi, si son presentati a votare. Solo in Camellara e Carbone, piccoli comuni, l'ordine è stato turbato da alcuni tristi che volevano impedire la libera manifestazione del voto.

Castellamare. In questo comune del pari che in Torre Annunziata, Lettere e Gragnane, la votazione è stata unanime, e pochi si sono astenuti dal votare.

Reggio. Si è compiuta la votazione col massimo ordine e tranquillità.

Cotrone. La votazione è stata eseguita con entusiasmo.

Il risultato dello spoglio dei voti della città e provincia di Napoli fu il seguente: inscritti 229. 780, parecchie migliaia non votarono. Tra i votanti: 183. 468 pel si, 1609 pel no.

Palermo. In 40. 507 inscritti, ebbe 36. 267 votanti: pel 36. 232, pel no 20, nulli 15.

Termini. Elettori inscritti 3414, votanti 3239: pel 3239, pel no nessuno.

Patti. Elettori inscritti 1646: pel 1646.

Noto. Elettori inscritti 2147, votanti 2145: pel ai 2145, pel no nessuno.

Alcamo. Votanti 3038: pel 3024, pel no 14.

Paceco. Elettori inscritti 877, votanti 862: pel 862.

Cefalù. Elettori inscritti 2363, votanti 1687: pel 1683, pel no 4.

Avola. Elettori inscritti 1876, votanti 1646: pel si 1643, pel no 3.

Montallegro. Elettori inscritti 345, votanti: pel 345.

Naso. Elettori inscritti 1372, votanti 1321: tutti pel sì.

Molo di Girgenti. Elettori inscritti 883, votanti 754: tutti pel sì.

Favara. Elettori inscritti 2337, votanti 2227: pel tutti.

Piazza. Votanti 4114: tutti pel ai.

Sciacca. Votanti 3267: pel 3251, pel no 6.

Raffadali. Votanti 1012: pel 1007.

Milazzo. Pel ai 2012.

Modica. Pel 1106.

Mazzara. Votanti 1940: pel 1919, pel no 21.

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Itala. Votanti 210: pel 210.

Messina. Votanti 24. 739: pel 24. 730, pel no 9.

Siracusa. Elettori inscritti 3661, votanti 3523: pel fi 3522, pel no 1.

Scicli. Elettori 1699, votanti 1678: tutti pel sì.

Palazzuolo. Votanti 2163: pel no solamente 1.

Caltanissetta. Votanti 2026: pel 2021, pel no 5.

Santa Caterina. Votanti 1913: pel tutti.

Trapani Votanti 5467; pel no solamente 2.

Marsala. Votanti 5475: tutti pel ai.

In tutte le altre città e villaggi la votazione ebbe le stesse proporzioni; essa fu unanime, immensa, maestosa, completa.

In tutta Sicilia i votanti furono quattrocentotrentaduemila e settecentoventi: pel quattrocentotrentaduemila e cinquantatre; pel no seicentosessantasette.

VII.

Capitolazione di Capua conchiusa tra il generale Della Rocca, comandante l'Annata sarda e il maresciallo De Cornè, comandante la Piazza.

Sulla capitolazione di Capua combinata di mutuo accordo, d'ordine di S. E. il generale Della Rocca (comandante in capo dell'annata Sarda comandante il corpo d'assedio, e d'ordine di S. E. il maresciallo De Cornè, comandante la piazza, dai commissari sottoscritti e quindi ratificato d i rispettivi generali comandanti.

Art. 1. La piazza di Capua col suo intero armamento, bandiere magazzini di polvere, d'armi, di vestiario, di vettovaglie, equipaggi da ponte, cavalli, carri, e qualsiasi altra cosa appartenente al governo tanto del ramo militare, quanto civile, verrà consegnata al più presto, cioè quelle ventiquattro ore dopo la sottoscrizione di questa capitolazione, alle truppe di S. M. Vittorio Emanuele.

Art. 2. A tale effetto saranno immediatamente consegnate alle truppe della M. S. lo porte della città e le opere tutte di forti ti e azioni.

Art. 3. L'intera guarnigione della piazza di Capua, compresi tutti i impiegati militari, o che si trovino presso Tarmata in detta piazza, esciranno cogli onori militari.

Art. 4. Le terze che compongono la guarnigione esciranno colle bandiere, armi e bagaglio ossia zaino pei soldati, e bagaglio proprio jr gli ufficiali successi va mento di ora in ora a duemila uomini per volta essi. dopo aver reso gli onori militari, deporranno le armi c bandiere a piedi dello spalto (eccettuato gli ufficiali d'ogni grado che riterranno la sciabola o la spadai e saranno avviate a piedi a Napoli, d'onda ranno trasportati in uno dei porti di S. M. il re di Sardina. Tutti i suddetti militari, meno gli ammalati, esciranno della città per la porta di Napoli, domattina 3 corrente novembre, a principiare fin Ile ore 7 precise. e saranno trattari quali disertori di guerra quelli che rimanessero senza essere impossibilitati a marciare.

Art. 5. Gli ufficiali dì ogni grado (ad eccezione dei generali che saranno trasportati a Napoli colle ferrovie' marceranno colle truppe proprie. Le famiglie dì militari non potranno seguire la colonna.

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Art. 6 I feriti e gli ammalati saranno lasciati a Capua. sotto la garanzìa delle truppe occupanti. Ad esse, se ufficiali, si permette di ritenere presse dì loro la propria ordinanza, ossìa soldato di confidenza.

Art. 7. Le partì continenti nomineranno una commissione mista e composta per ciascuna dì esse dì un ufficiale dì artiglieria, un ufficiale del genio e un segretario d intendenza militare, per ricevere dare in consegna tatto quanto esìste nella piazza dipendente o dì pertinenti governativa. D'ogni cosa sì farà l'opportuno inventario

Art. S. Mentre sì farà la consegna delle porte e delle fortificazioni, il capo dell'amministrazione militare in Capua e tutti i cantabili di corpo e azienda militare e del governo faranno la consegna del denaro che ritengono quale sarà dimostrato dai loro registri verificati  dagl'ufficiali dall'intendenza del corpo assediante.

Art. 9. Gli ufficiali  recheranno seco i propri bagagli.

Art. 10. E' convenuto che niuna carica dovrà esistere nella piazza, [dopo la sottoscrizione della presente. Ove si rinvenissero, la presente «capitolazione sarebbe nulla, e il presidio si esporrebbe a tutte le conseguenze di una resa a discrezione.

Art. 11. Nulla pure si riterrebbe questa capitolazione ove si ritrovassero pezzi inchiodati e armi messe fuori d'uso.

Art. 12. Le famiglie degli ufficiali che sono in Capua con le altre dell'armata di Francesco II, sono messe sotto la protezione di Vittorio Emanuele.

Art. 13. I cavalli di spettanza dei signori ufficiali si lasciano in loro proprietà.

Fatto in duplice copia, al quartier generale di Santa Maria addì 2 novembre 1860.

VIII.

Le dame napoletane al re Vittorio Emanuele.

Sire. — L'umana società, non sappiamo se più ingiusta o ingrata, mentre alla donna accorda i diritti civili, le nega affatto ogni diritto politico; quasi che essa non fosse la parte più viva e più influente dell'umano consorzio. L'avvenire della società è confidato nelle nostre mani per il delicato magistero della nostra famiglia, che da noi riceve l'indirizzo morale che non può spaiarsi dal politico e civile. Per la qual cosa, o Sire, se in questi solenni momenti i voti di tutto un popolo vi proclamano padre e sovrano della giovine ed unita Italia, se il suffragio universale di tutta una regione alla nobilissima corona che vi orna il capo congiunge due altre elette gemme delle due splendide provincie di Napoli e Sicilia, non sapremmo noi donne di Napoli non far eco ai loro ardenti voti, ed accogliervi e festeggiarvi come unico nostro re e padre della patria. Voi siete stato il sospiro dei nostri cuori pei ben due lustri; Voi abbiamo susurrato unica speranza della nostra salvezza nei segreti colloqui del santuario dei domestici lari, per voi abbiamo palpitato quando coraggioso correvate a mietere gli allori di Palestro, di S. Martino e di Solferino. Voi abbiamo indicato ai nostri figli fin dalla culla, unico sostegno del comune risorgimento; ritemprandoli nell'amor della patria, noi abbiamo cinto la spada della vittoria al fianco de'  nostri martiri, ed abbiamo loro accennato il vostro vessillo, sotto il quale si adunano per mettere in bando gli usurpatori stranieri; e quando questo novel leone di Giuda, Giuseppe Garibaldi, al suon d'Italia e del vostro nome sgominava le orde feroci dello schiavaggio borbonico, in neggiando la gioia del trionfo,

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voi siete stato l'oggetto dei nostri tripudii. Accogliete dunque i liberi suffragi delle donne tutte dell'Italia meridionale, le quali, mentre vogliono l'Italia una ed indivisibile, vi proclamano Re di essa costituzionale. Possa la storia, fedele interprete dei fasti e della vita dei popoli, ricordare all'avvenire che, quando Napoli e Sicilia rassembrate sotto il vessillo della Croce Sabauda facevano l'Italia degl'Italiani libera ed una, le donne, figlie non degeneri delle Cornelio, delle madri di Coriolano, dell'eroine di Si vigliano e di Tortona, e di Vigevano, e di Saluzzo, ebbero un palpito, un'aspirazione per la patria indipendenza e posero ancor esse una piccola pietra al grande edificio della nazionalità italiana.

IX.

Decreto di Vittorio Emanuele per regolare l'esercito volontario.

Vittorio Emanuele II. — Sentito il nostro consiglio dei ministri;

Sulla proposta del presidente del consiglio, nostro ministro segretario di Stato per gli affari esteri, e del ministro della guerra;

Abbiamo decretato e decretiamo:

Art. 1. I volontari Italiani attualmente sotto le armi formeranno un corpo separato dall'esercito regolare; la durata della ferma per la bassa forza sarà di due anni. Gli ufficiali avranno la speciale loro scala di anzianità e di avanzamento.

Art. 2. I vantaggi e gli obblighi si dei soldati che degli ufficiali sono interamente pareggiati a quelli dell'esercito regolare.

Art. 3. Una commissione mista determinerà i gradi e l'anzianità degli ufficiali del corpo dei volontari avuto riguardo ai servizi da essi resi ed ai loro precedenti.

Art. 4. Il governo si riserva di far passare nell'esercito regolare ufficiali del corpo dei volontari, in modo da rispettare i diritti acquisiti dagli ufficiali dell'esercito regolare.

Art. 5. Le condizioni precedenti non dispensano alcuno dagli obblighi civili e militari che possa avere verso lo Stato. Il giorno 12 di novembre il comando generale dell'armata emanava il seguente ordine del giorno, firmato già lo stesso giorno 11:

L'armata dei volontari comandata nell'Italia meridionale del generale Garibaldi ha bene meritato della patria e di noi. Mentre io col mio governo dò opera ad ordinarla definitivamente, secondo la base ed i regolamenti dello Stato, determino:

Art. 1. Che quanto ai gradi dei signori ufficiali una commissione di generali ed ufficiali superiori scelti nelle due armate mi farà le convenienti proposte sopra i relativi documenti.

Art. 2. Che agli ufficiali, caporali e soldati, i quali sonsi resi inabili al servizio militare per ferite riportate in guerra, sia applicata la legge sulle pensioni vigente negli antichi Stati.

Art. 3. Ai sottoufficiali, caporali e soldati, i quali desiderino tornare in seno alle loro famiglie verrà rilasciato il congedo, e saranno dati i mezzi di trasporto per mare e sulla ferrovia, ed inoltre a titolo di gratificazione per spesa di viaggio avranno un trimestre di paga. Il congedo non esonera chi abbia obblighi verso lo Stato e l'armata a termini delle vigenti leggi.

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Art. 4. I volontari i quali vogliono rimanere sotto le armi debbono prendere la ferma di due anni dalla data del presente. Essi saranno organizzati conformemente agli altri corpi dell'esercito.

Art. 5. Agli ufficiali che daranno la loro dimissione è accordata una gratificazione per spesa di viaggio, ragguagliata a sei mesi di stipendio.

Art. 6. Agli ufficiali e militi delle Guardie Nazionali mobili, che fanno parte dell'armata meridionale, è ugualmente accordata una gratificazione ragguagliata ad un mese di stipendio.

Vittorio Emanuele.

X.

Vittorio Emanuele al Popolo di Sicilia.

Popoli della Sicilia! — Coll'animo profondamente commosso io metto il piede in quest'isola illustre, che già, quasi augurio dei presenti destini d'Italia, ebbe per principe uno degli avi miei; che a giorni nostri elesse a suo Re il mio rimpianto fratello e che oggi mi chiama con unanime suffragio a stendere su di essa i benefizi del viver libero e dell'unita nazionale.

Grandi cose in breve volger di tempo si sono operate; grandi cose rimangono ad operarsi, ma ho fede che con l'aiuto di Dio e della virtù dei popoli Italiani noi condurremo a compimento la magnanima impresa.

Il Governo che io qui vengo ad instaurare sarà governo di riparazione e di concordia. Esso, rispettando sinceramente la religione, manterrà salve le antichissime prerogative che sono decoro della chiesa Siciliana e presidio della Podestà civile. Fonderà un'amministrazione la quale restauri i principii morali di una società bene ordinata, e con incessante progresso economico facendo rifiorire la fertilità del suo suolo, i suoi commerci e l'attività della sua marina, renda a tutti proficui i doni che la Providenza ha largamente profusi sopra questa terra privilegiata.

Siciliani!

La vostra storia è storia di grandi gesta e di generosi ardimenti; ora è tempo per Voi, come per tutti gl'Italiani, di mostrare all'Europa che, se sapemmo conquistare col valore l'indipendenza e la libertà, la sappiamo altresì conservare colla unione degli animi e colle civili virtù.

Palermo, 1° dicembre 1860.

Vittorio Emanuele

Il Guardasigilli Ministro di Grazia, e giustizia e degli affari ecclesiastici

G. B. Cassinis.

XI.

Notizie del Giornale Officiale di Sicilia.

Sotto l'impressione di emozioni profonde non possiam dare che un brevissimo cenno sulla stupenda accoglienza fatta oggi da questo popolo ammirando al Re Galantuomo, al Re eletto, desiderato, atteso ed accolto con tali ovazioni di cui la storia non offre esempio. L'anima del primo soldato d'Italia ha dovuto commuoversi ai tanti plausi sinceri e spontanei che irrompevano al suo avvicinarsi;

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e in mezzo a tutto un popolo ebro di gioia, l'ordine mirabile rendeva più ammirabile la festa. L'ombra del fiero ghibellino che erra da sei secoli nella Basilica di Santa Croce, attendendo l'attuazione del suo vaticinio, esulta oggi che l'Italia dalle Alpi al Lilibeo è riunita in una grande famiglia, e le nere gramaglie che oscurano tuttavia i stendardi regionali di Roma e Venezia spariranno fra breve — Vittorio Emanuele l'ha giurato sul sepolcro di suo Padre, noi Italiani di Sicilia crediamo alla sua parola, abbiam fede nelle sue promesse.

Vittorio Emanuele dirà al suo ritorno nel continente se Sicilia fu seconda alle altre regioni sorelle, se mai Re sia stato accolto con dimostrazioni più entusiaste di quanto egli lo fu oggi da noL E ciò perché Vittorio Emanuele è per noi la personificazione del principio nazionale, l'angelo della redenzione e della libertà italiana.

Garibaldi nel suo ritorno di Caprera può esser contento del popolo di Palermo, e l'aura che gli apporterà gli evviva al He Galantuomo gli dira quanta riconoscenza si racchiuda nei nostri petti per avere egli tanto contribuito alla realizzazione del nostro più fervido voto.

La Sicilia che aveva un tiranno desiderava, implorava un padre, e Garibaldi ci inviava Vittorio Emmanuele.

Prima ancora che i tre colpi di cannone annunziassero alla nostra Città l'apparizione della flottiglia reale, il Prodittatore co' Segretari di Stato, col Segretario Generale, col Governatore di Palermo e col Comandante la Piazza, erasi recato ad attenderla allo Scalo di Porta Felice. Fu alle ore 8 a. m. che il cannone diede il segnale aspettato da tutta la popolazione; e tostamente il Prodittatore cogli altri funzionari sudetti scese nelle lancie a ciò predisposte e si recò ad incontrare la fregata Maria Adelaide sulla quale trovavasi la M. S. Cominciavansi indi a udire i cento un colpi di cannone, segno che il naviglio era giunto all'altezza del Mulino dell'Arenella. Appena la Maria Adelaide fu entrata in Porto, il Prodittatore sali a bordo ed ebbe l'onore di presentare al Re le persone del suo Governo e poco dopo il Magistrato di Salute. Frattanto tutti gli abitanti dei più alti palazzi e delle umili case delle strade secondarie scendevano a torrenti alla marina e sul corso Vittorio Emmanuele a salutare il Re Galantuomo. Sospirato momento era quello, e di cui i figli dei nostri figli sapranno, per narrazioni le più vive, che pur parranno favolose; ora in cui il Re Galantuomo, il Re voluto a tanto prezzo di sangue, doveva posare il piede in Sicilia.

Una elegantissima lancia, nella quale lo aveano accompagnato il Generale d'Armata Manfredo Fanti Ministro della Guerra, il Cav. Giambattista Cassinis, Ministro di Grazia e Giustizia e degli affari Ecclesiastici, e il Prodittatore, lo depose allo sbarcatoio di Porta Felice, mentre indicibili grida di acclamazioni ed incessanti scoppiavano ed echeggiavano da per tutto, mentre tutte le campane della città suonavano a festa, mentre rincalzavasi, premevasi il popolo giulivo. Egli penetrava nel padiglione, appositamente ivi costruito, alle ore 9 e mezza e colà ricevendolo facevangli omaggio il Pretore, il Senato, il Consiglio Civico, il Comandante della Guardia Nazionale col suo Stato-Maggiore e molte rappresentanze di cittadini.

Sempre più accrescendosi la calca del popolo, bramoso di vedere da vicino l'anelato personaggio, impaziente e sempre acclamando e festeggiando, sospirava l'istante in cui, lasciando il padiglione doveva presentarsi agli occhi di tutti; e quell'istante e l'altro in cui già la maschia e nobilissima persona del Re

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entrava per Porta Felice furono superiori ad ogni immaginativa ed eminentemente sublimi. La tenerezza dipinta sul volto dell'immensa moltitudine, l'incalzare delle acclamazioni, l'abbracciarsi dei cittadini con verace espansione di cuore, il saluto che da tutti i balconi del corso Vittorio Emmanuele, e dalla popolazione prementisi in sulla via, con la voce, col gesto, e col continuato agitar di bandiere da'  tre colori, rendevano caldissima l'accoglienza preparata al nuovo, al sospirato Re.

Nei brevi momenti passati nello sbarcatoio S. M. diresse parole cortesi or all'una or all'altra delle persone presenti ed ordinò che la truppa e le artiglierie che aveano già preso posto lungo il Toledo e nella piazza Boi ogni avesser fatto ritorno alle caserme non amando apparati di forza in giorno di tanto gaudio popolare.

Salito in una carrozza di Corte coi suoi due Ministri e col Pro dittatore, Sua Maestà percorrendo il corso che da lui ha ricevuto nuovo battesimo, tra la Guardia Nazionale schierata in splendido uniforme, ricevette gli omaggi di un popolo che la sua presenza rendeva ebra di gioia.

Tra una folla imponente S. M. giungeva alle ore 11 alla Cattedrale, dove allo sportello della carrozza ricevevalo il Senato e all'ingresso del tempio Monsignor Arcivescovo ed altri dignitari ecclesiastici.

Così quel tempio che aveva veduto coronare Vittorio Amedeo, riempivasi di gente infinita, con la benedizione sulle labbra pel discendente di quell'inclito monarca; e in esso il nuovo Re d'Italia riceveva la benedizione da Monsignor Arcivescovo.

Infine la M. S. dalla cattedrale, accompagnata sempre dalle acclamazioni del popolo, recavasi al palazzo reale, e quivi facevanle omaggio i corpi costituiti civili, militari, ed ecclesiastici, ed altre rappresentanze cittadine.

XII.

Decreto di Vittorio Emanuele

con cui istituisce la Luogotenenza in Sicilia.

Vittorio Emmanuele II.

Veduto il resultamento del plebiscito del 21 ottobre scorso, esprimente il voto delle popolazioni delle Provincie Siciliane;

Sulla proposta del Consiglio dei Ministri;

Abbiamo decretato e decretiamo:

Art. 1. — Un Luogotenente Generale nominato da noi è incaricato di reggere e governare in nostro nome e per nostra autorità le Provincie della Isola di Sicilia ed alla nostra immediazione allorché saremo presenti nelle medesime. Egli è inoltre autorizzato ad emanare, sino a che il Parlamento sia adunato, ogni specie di atti occorrenti a stabilire e coordinare l'unione delle anzidette Provincie col resto della Monarchia ed a provvedere ai loro straordinari bisogni.

Art. 2 — Agli Affari Esteri e a quelli della Guerra e della Marina sarà direttamente provveduto dal nostro governo centrale.

Art. 3. — Il Senatore del Regno Marchese Massimo Cordero di Montezemolo è nominato nostro Luogotenente Generale nelle Provincie Siciliane.

— 586 —

Ordiniamo che il presente Decreto, munito del sigillo dello Stato sia inserto nella raccolta degli Atti del Governo mandando a chiunque spetti di osservarlo e di farlo osservare.

Dato da Palermo, addì 2 dicembre 1360.

Vittorio Emmanuele.

G. Battista Cassinis.

XIII.

Indirizzo delle Dame palermitane presentato

al re Vittorio Emanuele nel suo soggiorno in Palermo.

Sire, — Chiamate dalle signore di questa città all'onore di rendere manifesti i loro sensi di ammirazione, di gratitudine e d'affetto alla V. M., siamo certe che le nostre parole non bastano a ritrarre la profondità e l'estensione.

Imperocché la presenza della M. V. nell'isola ha posto fine ai lunghi affanni delle madri e delle spose, che, sempre incerte sulla sorte dei figli e degli sposi, dovean temere lo slancio del cuore e l'elevatezza della mente come una sciagura fatta segno agli esigli, alle torture e alla morte.

Noi parte della Società, che più ama e più soffre fra i dolci offici della maternità, scolpiremo nelle tenere menti dei pargoli l'indefinita e pura gioia di questo giorno, e nei vergini cuori stamperem la prima orma di quell'affetto che sostiene il trono dei Re.

Sire, noi abbiamo fede nella Monarchia, e tanto è profondo il nostro attaccamento per essa, che anche quando un feroce dispotismo faceva rotare la sferza ignominiosa sul volto del nostro popolo, mai non ci sedusse la lusinga di novità imaginaria, ma rivolgemmo mesto ed appassionato il pensiero alla memoria di quei nostri antichi Re che non fecero piangere.

Tanta eredità di fede, di costanza e d'affetto nelle mutate condizioni dei tempi e della civiltà raccoglier potete soltanto Voi, che dal glorioso Padre ereditando altresì il sublime proposito di fondar la nazione Italiana, con ardimento pari alla sapienza vi elevaste ad un'altezza ove non giungono le cagioni delle nostre discordie. Fin da allora fu compiuta la vera conquista su questo popolo che rivolse l'amore ove ripose la speranza.

E quando un Guerriero con un pugno di prodi tentò arditissima impresa nel Vostro nome, senti in quest'Isola centuplicarsi le forze e potè correre a trionfi inauditi.

Nel vostro nome divenuto simbolo della nazionale grandezza si vincerà ogni arduo cimento, di cui più splendida non cinse mai fronte di Re.

Ve la fabbricarono gli affetti, le aspirazioni, i sagri fi ci dei popoli, le stesse virtù ne alleggeriranno il peso. E in questa virtuosa gara che felicemente subentrò alle meschine ambizioni d'altri tempi, la Sicilia, ne siamo certe, non sarà l'ultima.

Animate da questi sentimenti noi, cui la legge non consente d'unire la voce alla voce del popolo che V'invitava, abbiamo domandato a questa terra diletta un dono in cui leggeste il nostro suffragio.

Sire, guardate il significato non il pregio del fatto.

— 587 —

È la terra Siciliana che apre il seno e somministra la preziosa materia all'arte, perché ne lavori un segno e un ricordo dell'indissolubile alleanza fra noi e il Re che ci eleggemmo.

Palermo, 2 dicembre 1860.

(Seguono le firme).

XIV.

Vittorio Emanuele al Luogotenente in Sicilia.

Onorevole signor Luogotenente Generale nelle Provincie Siciliane. — Il favorire e il promuovere l'educazione e l'istruzione popolare è fra i primi ed i più essenziali doveri d'ogni civile governo, perché mercé di esse specialmente possono le Nazioni progredire e prosperare.

Nel breve mio soggiorno in questa nobile e gloriosa parte d'Italia, soggiorno che avrei prolungato se le cure dello Stato non mi chiamassero al Continente, io riconobbi, che se la natura dotò largamente queste generose popolazioni di svegliato ed acuto ingegno, pur tuttavia in esse la istruzione del popolo richiede attenta vigilanza, direzione, soccorsi.

Ebbi del pari a convincermi che per molteplici cagioni, fra cui non ultime le passate vicende politiche, non poche persone trovansi ridotte a dolorose strettezze.

A questi bisogni sta provvedendo con lodevole gara la cittadina beneficenza, e nel mentre io le rendo questo giusto tributo, mi è pur grato l'associarmi ad essa. Ho quindi ordinato che dalla mia cassetta particolare sia prelevata la somma di lire 200. 000 italiane per essere distribuite in aiuto della popolare istruzione ed in opere di beneficenza, tenendo special conto delle eccezionali condizioni in cui versano alcuni degli Istituti pii di questa Città, a norma delle istruzioni che le ho particolarmente manifestate.

Ella avrà cura nel tempo. stesso di studiare colla massima sollecitudine i più urgenti bisogni delle Provincie tutte dell'Isola e di presentarmene quanto prima apposita relazione.

Egli è difatti mediante un'accurata e profonda cognizione dello stato morale ed economico delle Provincie stesse, egli è coll'imprimere all'a

ricoltura, all'industria, al commercio un vigoroso impulso, egli è vivicando in somma tutte le naturali fonti di pubblica e privata ricchezza, onde quest'Isola cotanto abbonda, che il mio Governo sarà in grado di procurarle, insieme ai benefizi del viver libero e dell'Unità Nazionale, quelli ancora della generale prosperità.

Ella sarà presso i buoni Siciliani, che qui accorrendo da ogni parte in numerose deputazioni, mi resero men grave il rammarico di non potere per ora visitare l'Isola tutta, interprete dei sentimenti d'affetto ond'è compreso l'animo mio verso di loro per le commoventi accoglienze ch'io mi ebbi, e delle quali serberò incancellabile memoria.

Non dubito infine che Ella sarà per fare quanto starà in lei perché i sovraccennati miei propositi sortiscano il loro pieno effetto.

Vittorio Emmanuele.

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XV.

libertà, stende su quest'Isola gloriosa il suo scettro costituzionale per assicurare i diritti della nazione italiana e la libertà cittadina.

Il patto di fiducia e d'amore tra la Sicilia e dinastia Sabauda è antico.

L'atto del 2 dicembre 1860, che con solenne sanzione consacra l'espressione del voto universale, si rannoda per voi all'atto dell'11 luglio 1848, con cui i nostri rappresentanti deferivano ad un augusto e rimpianto principe la Corona Siciliana, e la storia li rannoderà entrambi ai fatti del 1713, allorché la bianca croce di Savoia sventolando contemporaneamente sull'Alpi e sull'Etna, rivelò il grande concetto politico, che è dato finalmente all'erede di Vittorio Amedeo II di recare in atto a benefizio e gloria della Patria Italiana.

Siciliani! ponendo il piede nell'Italia meridionale il Re ha detto:

«Noi dobbiamo instaurare Governo che dia guarantigia di viver libero ai popoli e di vera probità alla pubblica opinione».

E toccando la spiaggia Palermitana disse:

«Il governo che qui vengo ad instaurare sarà Governo di riparazione e di concordia».

Onorato dell'alto uffizio di portare a compimento le generose e provvide intenzioni del Re nelle provincie Siciliane, io domando pel suo Governo il concorso delle intelligenze e delle volontà vostre; io domando spirito di conciliazione e di concordia: domando rispetto all'ordine, al diritto ed alla libertà di tutti i cittadini, sola base su cui si possono stabilmente fondare la sicurezza e la prosperità pubblica.

Aspettando che il Parlamento italiano rechi a compimento l'edifizio gloriosamente innalzato dal Re e dai popoli d'Italia, sarà cura di questo governo il recare negli ordinamenti della Sicilia l'indirizzo e le riforme strettamente richieste dall'acclamata comunanza di destini e d'istruzioni politiche colla Monarchia nazionale.

Noi dobbiamo mantenere inviolato l'impero della religione, conservando intatte le immunità della Chiesa Siciliana e i diritti della Società civile: agevolare a tutte le classi del popolo per mezzo della pubblica istruzione il conseguimento di quei beni materiali e immateriali che accompagnano una avanzata civiltà: dare impulso e vita alle industrie ed ai commerci tutelandone la libertà, aprendo lo necessarie comunicazioni, e patronando quelle istituzioni che conferiscono allo sviluppo della loro attività; noi dobbiamo istantemente provvedere alla finanza, stremata nel corso di un periodo di crisi, coi denaro, ed attivando le fonti dell'erario esausto. Il governo del Re consacrerà a questi grandi fini tutte le sue forze, tutte le sue cure.

Siciliani! Voi foste grandi nella lotta, e guidati da un Eroe, a cui un'aureola di virtù antica fa riverente quanto grato ogni buon Italiano, voi deste prova all'Italia della vostra forza e del vostro valore. Recate del pari nel campo delle pacifiche attività eguale alacrità di propositi ed eguale costanza, e non fallirà alla patria il premio dei sacrifizi incontrati.

Popolo di Sicilia! Qui, a tempi remoti l'Oriente e l'Occidente eressero con proficui commerci le fonti di una rigogliosa prosperità; qui suonò il primo vagito della musa italiana; qui la natura, larga dei suoi doni, fa vividi gl'ingegni, ubertosa la terra,

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dolci le aure, facile la vita. E' sorto il giorno in cui sotto l'egida d'un Re forte e generoso, nella securità d'un gran consorzio nazionale, avviati dall'alito della libertà; tutti questi elementi che una trista dominazione ha sì a lungo isteriliti, dovranno fruttare per quest'Isola nuova prosperità, e nuovi trionfi per la civiltà Italiana.

Ciascuno di voi cooperi al grande scopo al grido di Viva Italia, Viva il Re Vittorio Emmanuele.

Palermo, 5 dicembre 1860.

Il Luogotenente Generale del Re nelle Provincie Siciliane

Marchese di Monte. rivolo.

XVI.

La Rappresentanza Municipale a'  Cittadini.

La nostra città, che per interi cinque giorni è stata in festa, che per interi cinque giorni, affollata d'immenso popolo, ha echeggiato di acclamazioni al Re Galantuomo, quest'oggi ben possiamo dire che sia in lutto per la partenza di Lui per Napoli, seguita alle ore 2, 45 sulla Real Fregata la Maria Adelaide.

Se non che nei volti stessi composti a lutto vedesi trasparire la piena gratitudine per le sincere accoglienze fatte dal Re alle sincere dimostrazioni d'affetto del popolo, e una piena fiducia in un avvenire ridente.

Dai cuori dei Siciliani non potrà mai cancellarsi la grand'orma che vi ha impresso l'avvenimento della visita fatta all'Isola ila Vittorio Emmanuele; nella gioia di una vita libera e felice questo popolo benedirà agli immensi sacrifici di sangue sostenuti per estirpare la schiatta dei Borboni, ed unire la patria al Regno d'Italia sotto lo scettro d'un eroico ed amatissimo principe.

Con qual tenerezza era diretto l'addio a S. M. sul momento d'imbarcarsi rinforzeremo invano a descrivere, perché invano si tenta di ritrarre con le parole le più profonde emozioni dei cuori.

Palermo, 6 dicembre 1860.

XVII.

Proclamazione di Francesco II a'  Popoli delle due Sicilie.

Popoli delle Due Sicilie!

Gaeta, 8 dicembre 1860.

Da questa Piazza dove difendo, più che la mia corona, l'indipendenza della patria comune, si alza la voce del vostro Sovrano per consolarvi nelle vostre miserie, per promettervi tempi più felici. Traditi, ugualmente spogliati, risorgeremo allo stesso tempo dalle nostre sventure; ché mai ha durato lungamente l'opera della iniquità, né sono eterne le usurpazioni.

Ho lasciato perdersi nel disprezzo le calunnie; ho guardato con isdegno i tradimenti, mentre che tradimenti e calunnie attaccarono soltanto la mia persona; ho combattuto non per me, ma per l'onore del nome che portiamo. Ma quando veggo i sudditi miei, che tanto amo, in preda a tutti i mali della dominazione straniera, quando li vedo come popoli conquistati portando il loro sangue e le loro sostanze ad altri paesi, calpestati dal piede di straniero padrone, il mio cuore napoletano

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batte indignato nel mio petto, consolato soltanto dalla lealtà di questa prode armata, dallo spettacolo delle nobili proteste che da tutti gli angoli del Regno si alzano contro il trionfo della violenza e dell'astuzia.

Io sono napoletano; nato tra voi, non ho respirata altra aria, non ho veduto altri paesi, non conosco altro che il suolo natio. Tutte le mie affezioni sono dentro il Regno: i vostri costumi sono i miei costumi; la vostra lingua è la mia lingua; le vostre ambizioni mie ambizioni. Erede d'una antica dinastia che ha regnato in queste contrade per lunghi anni, ricostituendone l'indipendenza e l'autonomia, non vengo, dopo avere spogliato del loro patrimonio gli orfani, dei suoi beni la Chiesa, ad impadronirmi con forza straniera della più dellziosa parte d'Italia. Sono un principe vostro, che ha sacrificato tutto al suo desiderio di conservare la pace, la concordia, la prosperità tra i suoi sudditi.

Il mondo intiero l'ha veduto; per non versare il sangue ho preferite rischiare la mia corona. I traditori pagati dal nemico straniero sedevano accanto a'  fedeli del mio consiglio; ma nella sincerità del mio cuore, io non potevo credere al tradimento. Mi costava troppo punire; mi doleva aprire, dopo tante sventure, un'era di persecuzione; e cosi la slealtà di pochi e la clemenza mia mi hanno aiutata l'invasione piemontese, pria per mezzo degli avventurieri rivoluzionari e poi della sua armata regolare, paralizzando la fedeltà dei miei popoli, il valore dei miei soldati.

In mano a cospirazioni continue non ho fatto versare una goccia di sangue, ed hanno accusato la mia condotta di debolezza. Se l'amore il più tenero pei miei sudditi, se la fiducia naturale della gioventù nella onestà degli altri, se l'orrore istintivo del sangue meritano questo nome, sono stato certamente debole. Nel momento in che era sicura la rovina dei miei nemici, ho fermato il braccio dei miei generali per non consumare la distruzione di Palermo: ho preferito lasciare Napoli, la mia propria casa, la mia diletta capitale per non esporla agli orrori d'un bombardamento, come quelli che hanno avuto luogo più tardi in Capua ed Ancona. Ho creduto di buona fede che il Re del Piemonte, che si diceva mio fratello, mio amico, che mi protestava di disapprovare la invasione di Garibaldi, che negoziava col mio governo un'alleanza intima per veri interessi d'Italia, non avrebbe rotto tutti i patti e fatte violare tutte le leggi, per invadere i miei Stati in piena pace, senza motivi né dichiarazione di guerra. Se questi erano i miei torli, preferisco le mie sventure ai trionfi dei miei avversari.

Io aveva data un'amnistia, aveva aperte le porte della patria a tutti gli esuli, conceduto ai miei popoli una costituzione. Non ho mancato certo alle mie promesse. Mi preparava a garantire alla Sicilia istituzioni libere che consacrassero con un parlamento separato la sua indipendenza amministrativa ed economica, rimuovendo ad un tratto ogni motivo di sfiducia e di scontento. Aveva chiamato nei miei consigli quegli uomini che mi sembrarono più accettabili all'opinione pubblica in quelle circostanze, e per quanto me lo ha permesso l'incessante aggressione di che sono stato vittima, ho lavorato con ardore alle riforme, ai progressi, ai vantaggi del comune paese.

Non sono i miei sudditi che hanno combattuto contro di me; non mi strappano il regno le discordie intestine, ma mi vince l'ingiustificabile invasione d'un nemico straniero. Le Due Sicilie, salvo Gaeta e Messina, questi ultimi asili della loro indipendenza, si trovano nelle mani del Piemonte.

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Che ha dato questa rivoluzione ai miei popoli di Napoli e di Sicilia? Vedete lo stato che presenta il paese. Le Finanze ad un tempo così floride sono completamente rovinate: l'amministrazione è un caos: la sicurezza individuale non esiste. Le prigioni piene di sospetti; invece delta libertà, lo stato d'assedio regna nelle provincie, ed un generale straniero pubblica la legge marziale, decreta la fucilazione istantanea per tutti quelli dei miei sudditi che non s'inchinano alla bandiera di Sardegna. L'assassinio è ricompensato; il regicidio merita un'apoteosi; il rispetto al culto santo dei nostri padri è chiamato fanatismo; i promotori della guerra civile, i traditori al proprio paese ricevono pensioni che paga il pacifico contribuente. L'anarchia è da per tutto. Avventurieri stranieri han rimestato tutto per saziare l'avidità o le passioni dei compagni. Uomini, che non hanno mai veduta questa parte d'Italia, o hanno dimenticato in lunga assenza i suoi bisogni, formano il vostro governo. Invece delle libere istituzioni che io aveva date e che era mio desiderio sviluppare, avete avuta la più sfrenata dittatura, e la legge marziale sostituisce adesso la costituzione. Sparisce sotto i colpi dei vostri dominatori l'antica monarchia di Ruggiero e di Carlo III, e le Due Sicilie sono state dichiarate provincie d'un regno lontano. Napoli e Palermo saranno governate da Prefetti venuti da Torino.

Ci è un rimedio per questi mali per le calamità più grandi che prevedo. La concordia, la risoluzione, la fede nell'avvenire. Unitevi intorno al trono dei vostri padri. Che l'oblio copra per sempre gli errori di tutti; che il passato non sia mai pretesto di vendetta, ma pel futuro lezione salutare. Io ho fiducia nella giustizia della Provvidenza, e qualunque sia la mia sorte, resterò fedele ai miei popoli ed alle istituzioni che ho loro accordate. Indipendenza amministrativa ed economica tra le Due Sicilie con parlamenti separati: amnistia completa per tutti i fatti politici: questo è il mio programma. Fuori di queste basi non ci sarà pel paese che dispotismo o anarchia.

Difensore della sua indipendenza, io resto qui e combatto per non abbandonare cosi santo e caro deposito. Se l'autorità ritorna nelle mie mani, sarà per tutelare i diritti, rispettare tutte le proprietà; garentire le persone e le sostanze dei sudditi contro ogni sorta di oppressione e saccheggio. E se la Provvidenza nei suoi alti disegni permette che vada sotto i colpi del nemico straniero l'ultimo baluardo della monarchia, mi ritirerò con integra coscienza, con incrollabile fede, con immutabile risoluzione; ed aspettando l'ora inevitabile della giustizia, farò i più fervidi voti per la prosperità della mia patria, per la felicità di questi popoli che formano la più grande diletta parte della mia famiglia.

Preghiamo il Sommo Iddio e l'invitta Immacolata protettrice speciale del nostro paese, onde si degnino sostener la nostra causa.

Francesco.

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XVIII.

Dispaccio inviato dal Ministro di Francesco agli ambasciatori

residenti presso le grandi corti d'Europa:

Gaeta, 12 novembre 1860 Eccellenza. — Abbenche la rivoluzione delle Due Sicilie abbia condotto a termine con una meravigliosa rapidità la rovina completa del regno, la quale iniqui e misteriosi artifizi preparavano da lunga mano, cionondimeno la maestà del re nostro augusto signore non ha mai cessato di resisterle; e in quest'opera non meno gloriosa che sfortunata di resistenza energica, sono stati fatti eroici sforzi di costanza e d'energia i quali resteranno come un monumento eterno nella storia.

Sua Maestà era eccitata dalla coscienza di due doveri fortemente radicati nell'anima sua reale, i cui nobili pensieri s'ispirano più che mai a questa legge morale, che è la regola suprema delle azioni degli uomini e sopratutto dei principi.

Questi doveri sono: 1° L'obbligo di conservare e di difendere la monarchia delle Due Sicilie, augusta eredità che gli fu affidata dai suoi antenati;

2° Il rispetto di quel legame fraterno che dovrebbe unire tutti i monarchi per la ragione della missione divina che loro è comune, e della conformità dei loro interessi.

Non è necessario di ragionare lungamente del primo obbligo che incombeva a S. M., nò del modo con cui esso fu adempiuto.

Qualunque governo che ha secoli di esistenza, trovando la sua ragione d'essere in sè stesso, nelle tradizioni storiche e nelle condizioni dei popoli, considera come suo primo dovere quello di mantenersi, di difendersi e di combattere chiunque ne minaccia l'esistenza.

Ora tutto il mondo conosce come l'armata minata e scomposta dalle manovre perniciose della rivoluzione, la marina disertata e perdnta, il tradimento e la indisciplina ch'erano penetrati fin nella corte e nel consiglio, segnalavano spaventevolmente una catastrofe imminente, e un dissolvimento totale del regno.

Nonpertanto S. M. il re, resistendo con un eroico coraggio ai vili consigli di coloro che lo invitavano a una fuga vergognosa, si rinchiudeva nei primi baluardi del regno, e là mettendo in opera tutta la sua attività e il suo studio, riuscì in pochissimo tempo a riunire e a rifare un'armata troppo poco numerosa, ma d'una fedeltà e d'un coraggio capace di poter tentare di nuovo la sorte dei combattimenti.

Le gloriose imprese di questo pugno di bravi sono conosciute da tutta Europa, e anche la stampa bugiarda e malevola della rivoluzione ncn seppe e non osò smentirle. Il nemico fu respinto nei suoi attacchi, e cacciato dalle sue forti posizioni, i principi reali esposero ai pericoli la loro vita preziosa sui campi di battaglia, ove si celebrarono le vittorie dei loro avi; il re stesso si segnalò il primo tra i combattenti, e vide cadere ai suoi fianchi i martiri che s'immolavano per la causa sacrosanta.

La rivoluzione ne fu colpita e confusa, il popolo che soffriva impazientemente il suo giogo tirannico (!!!) cominciava ad agitarsi, e tutto presagiva il ritorno trionfale del re legittimo nel seno della sua capitale, allorché un altro sovrano spergiuro e sleale a capo d'un'armata potente scendeva a un tratto negli Stati del re, a fine di insegnale a tutta l'Europa che quella rivoluzione era opera sua, e ch'egli con voleva perderne il frutto vergognoso.

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Allora fu forza rinunziare alla prima idea della guerra, di limitarsi soltanto alla difensiva, non potendo con un piccolo esercito, già estenuato dalle privazioni e dai pericoli sofferti, marciare avanti, lasciando dietro sè un nemico forte e disciplinato che veniva ad attaccarlo.

Una serie di ritirate strategiche, tra le quali l'esercito piemontese non può contare una vittoria decisiva, fu allora intrapresa, e le truppe reali si videro in parte forzate a traversare le frontiere pontificie, e in parte a chiudersi sotto le mura di Gaeta.

Al momento ch'io vi scrivo non resta più al re che la sola fortezza di Gaeta, e quella di Messina, ultimi baluardi dell'autonomia di questo regno, dianzi tanto potente e sì bello, delle Due Sicilie.

Essi saranno difesi con quella costanza e quella bravura che sono le ?irtù proprie dell'augusta dinastia dei Borboni.

Ma siccome la resistenza delle fortezze dipende necessariamente da mille circostanze diverse, le quali non è necessario enumerare, egli è assai probabile che questa difesa non potrà essere così lunga come i sovrani d'Europa sembrano desiderare. E quando l'ora fatale e inevitabile della resa sarà venuta, il nostro augusto sovrano, in mezzo alle lagrime dei suoi fedeli, e con quella rassegnazione piena di dignità, ch'è un carattere distintivo dell'augusta famiglia, scenderà dal suo trono e si sovverrà con una giusta e nobile fierezza di non aver mancato all'adempimento d'alcuno dei suoi doveri.

Mi resta ancora ad esaminare, se S. M. pagando generosamente il debito che l'univa agli altri sovrani, n' ha ricevuto in cambio quei soccorsi e quei buoni uffici ch'ella aveva diritto di attendere; voi comprenderete che questo còmpito sarà tanto facile e concludente quanto il primo.

Da sette mesi la rivoluzione trionfa nel regno, ogni giorno più apertamente favorita da un governo perverso e spergiuro, il re, nostro signore, non ha potuto ottenere nulla dalla parte dei sovrani d'Europa, ai quali egli sperava che la sua causa fosse cara, salvo esprèssioni inefficaci d'affettuosa simpatia!

Igravi pericoli d'un piccolo esercito, le pressanti ed estreme penurie del tesoro reale, le violazioni sfrontate del diritto delle genti, l'ambizione illimitata d'una rivoluzione che non s'arresterà giammai, tutto infine fu esposto agli occhi delle grandi potenze d'Europa, e a tutto esse non seppero o non vollero rispondere che mediante voti o consigli.

Nè gl'interessi delle dinastie, né i pericoli comuni, né quelli delle antiche amicizie e alleanze furono capaci di dissuadere i gabinetti europei da quell'indifferentismo politico, di cui hanno dato prova, assistendo impassibili alla caduta di una monarchia secolare.

L'imperatore dei Francesi solo (ed è per noi un dovere di giustizia e di riconoscenza di dichiararlo altamente) dette il generoso esempio di voler uscire da questo stato d'universale apatia. La leale e monarchica Inghilterra osò rimproverarglielo amaramente, intanto che gli altri gabinetti si limitavano a lasciarlo arrischiare solo nella magnanima impresa ch'egli tentava.

L'invio della squadra francese nelle acque di Gaeta e l'accoglienza fraterna fatta agli avanzi fedeli e valorosi delle truppe reali sul territorio pontificio dai soldati di Francia, sono risultati che resteranno sempre scolpiti nel cuore del re nostro sovrano,

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e oltrepassano di molto le proteste d'amicizia offerte a S. M. dal rimanente di Europa.

Il re nostro sovrano sperava, in ultimo luogo, che la riunione di Varsavia condurrebbe all'idea d'un Congresso europeo, il quale solo avrebbe potuto mettere un termine alle violenze brutali della forza che rovescia e si burla di tutte le leggi più sacre e più antiche: al nuovo principio della sovranità popolare, di cui si fa un sì grande abuso, bisognava dare per contrappeso l'antico diritto pubblico, il quale è il frutto della saviezza e della morale dei secoli, affinché dalla discussione pacifica di questi principi opposti, e dall'imparziale esame di tutti i pretesti, nascesse un ordine nuovo concordante coi principi o accettabile dai popoli ritornati alla saviezza e alla pace. Fuori della effettuazione di questa grande idea non vi sarà mai pace in Europa.

Qualunque sistema che si limitasse a vincere l'ostacolo materiale agli interessi presenti, aprirà la via alla rivoluzione, la quale si propone l'abbattimento successivo di tutti i troni, poiché si abbandonerebbe quella grande unità di principio che fa la salvaguardia delle corone e la garenzia della pace e della prosperità dei popoli.

Ammessi questi principi, V. E. sentirà agevolmente da qual dolore dovrà essere oppresso il nostro augusto sovrano, quando saprà che un sì bel disegno resterà nullo per fatto delle potenze, che considerassero anzi tutto i loro rancori particolari, e quistioni di un'importanza secondaria, in luogo dei grandi principi dell'ordine universale della sicurezza dei troni.

In conseguenza, in nome del re, io v'incarico d'essere il propugnatore dell'idea che io n'espongo presso il gabinetto appo il quale voi siete accreditato, e se essa non è accettata come noi intendiamo, di domandare formalmente al ministro degli affari esteri le intenzioni del suo governo, relativamente alla crisi estrema e imminente della monarchia.

In virtù di quest'ordine sovrano voi darete copia e lettura del presente dispaccio allo stesso ministro, e mi farete sapere accuratamente il risultato di questa comunicazione, la quale servirà al re di regola di condotta per l'avvenire.

Firmato: Casella,

m. p.

A. S. E., ec.

XIX.

Lettere di Luciano Murat.

Signori! — Ho ricevuto la vostra lettera e senza indugio rispondo.

Non mi sono accette che le posizioni scevre di equivoco e schiette; non mi darò mai ostacolo al desiderio dei popoli, quand'anche mi sembrasse erroneo.

Sono parente dell'imperatore, e però non del tutto libero, ogni mia azione impegnerebbe più o meno la politica francese, e nello 6tato presente d'ingiusta diffidenza che parti nemiche vanno eccitando contro l'imperatore, cui sono tutto devoto, nulla riuscirebbe più dannoso quanto il far credere all'Europa che Napoleone III, pensoso unicamente del bene e dell'indipendenza delle nazioni, ad altro non intenda che a riporre nel trono i suoi. Quando la rivoluzione agita un popolo, la sola volontà popolare, liberamente espressa, può spegnere le discordie e le incertezze, perché essa si fa legge suprema alla quale deve sottomettersi ogni buon italiano.

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Nello stato presente delle cose, giova all'Italia che venga stabilito in Napoli, più presto che si può, il governo costituzionale acciocché sia assicurata la libertà e scansato il pericolo dell'anarchia o d'una invasione. Tanto basta perché intendiate che io non m'intrometterei nei moti de! vostro regno, che ove il popolo napoletano, sciolto da qualsiasi influenza esterna, avesse legalmente e solennemente manifestato il desiderio di avere in me un pegno d'indipendenza e di prosperità.

Forse sarei allora dell'assenso del mio cugino, allora apporterei l'alleanza francese, sola e certa sicurtà a questa nazione di durevole indipendenza.

Sacrifico adunque ogni mio privato interesse, e del solo pubblico interesse curandomi, dò fine ripetendo quel che già dissi altrove, cioè che l'Italia, a parer mio, ritroverà in una confederazione l'antica sua potenza ed il primo splendore.

Ricevano, signori, l'espressione della particolare mia stima.

L. Murat.

Caro Duca! — Non da voi solamente, ma da moltissimi fui, alcuni mesi sono, esortato ad iniziare un movimento nelle cose di Napoli. A voi, rispondendo a tutti, risposi facendo pubblicare la mia lettera. Senso di dovere patrio dettò allora le mie parole. Il mio pensiero rifuggì all'idea che il mio nome, le amicizie mie potessero essere ostacolo all'impresa della unificazione italiana. Per non osteggiare, anzi per aiutare questa impresa bastavami la rimembranza paterna; e però rispondendovi, dichiarai che io non poteva sommuovere veruna difficoltà, e che in caso, religiosamente avrei rispettato il supremo decreto della volontà nazionale. Tanto scrissi; altro avrei aggiunto, ove avessi ascoltati certi presentimenti, che mi facevano dubitare del successo e delle arti adoperate per ottenerlo. L'impresa dell'unità italiana fondata è sul principio della sovranità dei popoli, rimpetto al eguale sorge minaccioso ancora, quantunque a metà vinto, il regio diritto divino. Questo visse per molti secoli, suscitò e mantenne potenti monarchie, la cui storia giova riconoscerlo, immedesima gloriosamente con quella della civiltà e del progresso; visse venerato e l'universale venerazione, di cui per tanto tempo si circondò, era il frutto del regio sapere, della regia virtù. Oggi se ne ?a in ruina; ma perché si dilegui dal mondo, senza pericoli, senza danno, necessario è che, pareggiato e superato anzi venga nel sapere e nelle virtù del nascente popolare diritto. Tale è il mio culto per questo diritto, che mi astenni per non fomentare discordie che avrebbero profittato co' suoi nemici. Ma siccome dal fonte puro della scienza e dei nobili istinti sgorga la vita del progresso, lamento che l'avvenimento in Italia della popolare sovranità non abbia il debito corteggio delle schiette virtù cittadine. Ben veggo piantata nelle pubbliche piazze l'urna dello scrutinio, ma sdegno che intorno a quell'urna vadasi aggirando la corruzione e la violenza. Duolmi intendere che siasi fatto in Napoli un mercato di magistratura d'interessi pubblici, venerati dai padri della civiltà italiana come inviolabili e santi. Recenti sono gli avvenimenti del quarantotto, e ben possono continuare ad esserci documento ad esempio. Cadde la repubblica francese, perché tutto minacciò e distrusse, e nulla seppe creare o riedificare.

Le sètte collegate che oggi dominano l'Italia, non dimentichino questa lezione. Talora più tiranniche si mostrano che gli abbattuti governi.

Male si inizia la libertà col sospetto, colla tirannia.

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 E che cosa significa il disarmo di tanti comuni napoletani, e la legge di guerra promulgata in tante provincie. Queste cautele non mi paiono verificare la spontaneità dell'universale suffragio e la fiducia del nascente governo. Il genio della nazione noi preservi da novelle calamità. Finché si manifestino più felici auspiej in Italia, io resterò spettatore, desiderando virtù, senno e patria carità a chi imprese a rigenerare un popolo, esempio all'umanità di gloria e di sventura.

Consigliai la federazione, perché più idonea la credo all'indole storica, ai costumi, agli interessi d'Italia; la consigliai sopratutto per l'abborrimento che mi inspira la tirannia. So che durevoli non sono i subiti edificii della violenza; e tutta violenta ed artificiale parmi la presente unificazione degli Stati italiani. Credo che dalla sola federazione può sorgere l'unità destinata a conciliare gli interessi e la libertà locale con la potenza dell'autorità nazionale. Quando sarà Italia durevolmente ordinata a libertà e a grandezza, vedrò adempiuto il mio voto più caro, il voto supremo del padre mio.

Castello di Buserval, 25 novembre 1860.

Luciano Murat.

XX.

Lettera di Giuseppe Mazzini a Pietro Manzini.

Signore. — Scrivo a voi e ai vostri amici del Comitato di Provvedimento, come mi pare che il bene del paese lo esiga.

M'intesi perfettamente il 5 di questo mese con Garibaldi sull'avvenire e sui disegni da compiersi. Quei disegni esigono quello che sto per chiedervi. Per questo io scrissi sul «Popolo d'Italia» un articolo intorno ai Comitati di Provvedimento, e per questo feci scrivere a Garibaldi le poche linee che voi vedeste.

Parmi che l'azione dei Comitati debba democratizzarsi. Non v'è bisogno che i Comitati facciano capo ad un uomo o ad una Agenzia; ma al Programma. L'agenzia Bertani può difficilmente riottenere il credito antico in Italia; e d'altra parte l'armonia tra Garibaldi ed essa è scemata dopo il discorso al Parlamento che un momento d'entusiasmo ispirò a Bertani. Io non vi chiedo di far capo a me. Benché ora in perfetto accordo con Garibaldi, so che il mio nome suscita timori, stolti ed ingiusti, ma che non importa combattere. A me — e parmi d'averlo provato abbastanza — poco importa di me: importa si faccia.

Una cosa vitale da farsi è quella di raccogliere firme agl'Indirizzi dei quali vi mando copia e che circolano già diffusamente in tutte le provincie del Sud. Se gl'Indirizzi raccoglieranno un milione o mezzo milione di firme, costituiranno un fatto politico d'alta importanza.

Cancelleranno il vergognoso silenzio d'undici anni intorno a Roma. Porremo in posizione difficile Luigi Napoleone. Costringeremo il Parlamento nostro e Cavour a occuparsene. E avremo l'appoggio del Governo inglese.

Se gl'italiani ricusano le manifestazioni di opinione rendono inevitabile la soluzione dell'armi, a Garibaldi o ad altri.

Gli argomenti del resto che militano perché si firmi sono accennati in un articolo intitolato: «Questione di Roma» nel «Popolo d'Italia» in Napoli.

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Sarebbe forse bene ristampar quell'articolo.

Ma ciò che importa è di ristampare sollecitamente gli Indirizzi, avvertendo alle correzioni, ed a stampar separata, non in calce all'indirizzo francese, la traduzione italiana; è essa infatti semplicemente documento perché quei che non sanno il francese intendano ciò che sono invitati a firmare.

Ristampate copie quante credete necessario per le località sulle quali avete influenza, dovreste metterle in circolazione e raccogliere quante più firme potrete. Uomini e donne segnino nome, cognome, professione e luogo di nascita. Raccoglierete poi le liste firmate e si concentrerebbero nel punto da dove partiranno inviati a presentarle.

Ciascuno deve naturalmente apporre la firma ai tre indirizzi.

La seconda cosa vitale è il danaro. Ciò che si è fatto pel Sud, è necessario farlo ora per Venezia e Roma.

Senza escludere, s'intende, le offerte maggiori, un franco mensile costituirebbe la norma generale.

Le liste che mando sono, alcune firmate da me, alcune col nome in bianco. Il nome vostro e quello degli amici dovrebbero venir dopo il rfì, come Collettori o Collettrici.

Tutte le liste che distribuirete dovrebbero, a scanso di contraffazione, portare un solo timbro vostro.

Pochi collettori, ma buoni, influenti ed onesti. I collettori si farebbero, ciascuno nel suo cerchio, mallevadore pel buon uso delle somme raccolte, quelle somme rimarrebbero intangibili nelle loro mani, tinche o un'azione fosse, come un tempo quella della Sicilia, iniziata, o vi fossero reclamate da Garibaldi, da me o da altri in concerto con lui, per un'azione matura, nella quale, egli, Garibaldi, avrebbe parte.

La lista dei collettori sarebbe conosciuta una volta stampata. L'ideale sarebbe che ogni lista rappresentasse, alla fine di tre mesi, la somma collettiva di 500 franchi.

In Napoli, in Lecce e altrove la sottoscrizione è attivata da comitati di signore. Per ogni dove, le donne saranno utili collettrici.

La terza cosa importante è quella di serbar contatto coi reduci dell'esercito di Garibaldi e incoraggiarli a mantenere la loro organizzazione militare nei punti ove risiedono, agglomerando nuovi elementi intorno a sè, tanto da tenersi pronti sempre ad una chiamata.

Questa chiamata verrà, se prepareremo, su queste norme, il terreno.

Garibaldi non avrebbe emancipato il Sud se l'iniziativa siciliana non gli somministrava un punto di appoggio: egli rimarrà lungamente a Caprera, se non gli apriamo noi altro varco all'azione.

E queste sono le cose principali che io voleva dirvi. Se le approvate e me ne date cenno indirizzando ai fratelli Mosto in Genova, con sottocoperta per l'amico, potrò dirvi di più.

Abbiamo davanti noi tre mesi d'inverno o quasi; gioviamocene e compia l'anno venturo l'impresa.

Abbiatemi fratello.

Gius. Mazzini.

Firenze, 29 novembre 1860.

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Signore,

Dettai la lettera perché stanco degli occhi. Ora aggiungo due parole di poscritto. La copia degli indirizzi fu fatta ristampare da me ed è ora corretta. Son dunque inutili le avvertenze ch'io dava.

Io vi scrissi perché vi so buono, operoso, amico del vero. A patto d'unirci tutti quanti siamo fratelli nella fede dell'unità nazionale, compiremo nell'anno venturo l'impresa. Lasciata alle ispirazioni di Cavour o meglio di L. Napoleone, la Monarchia Piemontese non la compirà. Tratterà coll'Austria pel Veneto, ed inutilmente tratterà col Papa, per non so quale transazione bastarda concernente la nostra Roma. Intendiamoci dunque.

Vostro

Gius. Mazzini.

1° dicembre 1860.

CAPITOLO DECIMOTERZO.

La Sicilia e la rivoluzione — Il regno d'Italia proclamato nel Parlamento — Benefici e malefici effetti dell'Unità politica — Necessità dell'educazione — I grandi uomini del risorgimento politico — Contributo vario de'  popoli delle diverse regioni per la unità morale e politica d'Italia — Come e quanto alla grandezza italica abbia contribuito la Sicilia.

La Sicilia, co' rivolgimenti sanguinosi e anarchici del 1820, non potè giungere a satisfare le voglie smodate dell'aristocrazia, che si divise in partiti nella scelta della costituzione politica. Dato freno a'  tumulti per mezzo di patti, non riconosciuti dal Parlamento di Napoli, caduta ne' poteri militari, s'acquistò essa peggiori sorti per le ire de' ministri e della Corte. Percorse politicamente infelici e abiette condizioni fino al 1837, i Siciliani parevano acchetati, e, seguendo la lunga e costante tradizione, assai devoti alla maestà regia. Se non che le moltitudini, voltabili sempre, rallentata l'adorazione per la sacra persona del re, si accostarono a'  banditori d'autonomia politica, schiamazzando fortemente, ben destreggiandosi all'apparire del morbo coleroso. Stragi ed efferatezze seguirono da parte del popolo e dall'altra del Governo: furono conturbate le città, e la desolazione e il lutto le rese assai misere. Gli errori e le conseguenze tragiche furon dovute alla parte liberale, che sfrenava con impeti scellerati le turbe, per il solo odio a'  ministri di Napoli, mentre essa pietosiva alla monarchia, conciliando l'ambizione, un prence di casa reale, e, con fervore, a restaurare il passato e la costituzione del 1812, la indipendenza amministrativa, per segregare il popolo di Sicilia da quello oltre lo Stretto. Sopraggiunti anni di tristizia, decorrenti dal 1837 al 1847, la Sicilia col 1848 chiamò il popolo alla riscossa, e i capi, eletti o elettisi a moderare la cosa publica, lo videro obediente, e lo riconobbero valoroso. La rivoluzione segnò belle e ardite gesta, lasciando memorie imperiture; perché essa incitò i moti in Europa, e i più clamorosi, come gli avvenuti a Parigi e a Vienna, che furono interpreti della giornata del 12 gennaio.

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Però il principio di essa fu poi male sostenuto, e la Sicilia, disarmata, spettatrice del dissolversi delle Camere e del popolo, restrinse l'opera grandiosa de rivolgimenti nel chiedere aiuti e protezioni a due grandi potenze, nelle quali il confidarsi servilmente e con travaglioso affanno ri usci quasi un trastullo.

Le cause di tanta decadenza sono da attribuirsi alla forma della costituzione aristocratica, portante il fardello delle vecchie parie e delle rappresentanze feudali, che componevano uomini inetti alla vita politica, pregiudicati da usanze già viete, e dal cancro de' curiali, da'  quali invano si può sperare il vantaggio di una nazione. E ciò per le ragioni filosofiche, addotte in seguito alle esperienze politiche del 1848, dal Gioberti, non facendo la giurisprudenza buon effetto se alla scienza politica delle leggi e alla pratica delle liti non aggiunge quelle cognizioni, fuor delle quali il dar sentenza in politica è come un volar senz'ali o il far giudizio dei suoni e dei colori senza l'udito e la virtù visiva. E perché, come lo stesso profondamente aggiunge, le abitudini curiali, quando non sono accompagnate o temperate da altre parti, non che conferire, nocciono all'uomo di Stato, onde i savi in governo dell'antica Firenze faceano poco caso dei savi in giure e se ne ridevano. Il genio cavilloso de'  curiali, a'  quali si possono sempre attribuire le turbolenze, il venir meno delle sorti prospere di una nazione, la decadenza di un popolo, ripetiamo col Gioberti, si aggira sulle minuzie, inetto a veder le cose da una certa altezza e ad abbracciare il complesso loro, e travagliandosi nelle parole non coglie le idee e la realtà (1). Educati i legisti alle arti maligne, non mirando al bene universale, ma a render paghe le loro brame ambiziose, la ricchezza e la vanità degli onori, rimangono nelle aule legislative que' medesimi, che si dibattono nelle ristrette aule della curia, non dissimili in ogni età, come li scolpi il Colletta, timidi nei pericoli, vili nelle sventure, plaudenti ad ogni potere, fiduciosi delle astuzie del proprio ingegno, usati a difendere le opinioni più assurde, fortunati nelle discordie, emuli tra loro per mestiere e spesso contrari, sempre amici (2).

Chiuse, con discapito del carattere e dell'onore nazionale, le vicende del 1848, nella reazione funesta il popolo siciliano, seguendo poco chiari esempi, dimenticate le pretese rancide e difficoltose di autonomia, cospirò per aggregarsi alle regioni italiane, aspiranti alla unione.

(1) Del Rinnovamento Civile d'Italia, vol. il, pag. 303. Parigi e Torino, Bocca, 1851.

(2) Storia del reame di Napoli, vol. i. Milano, Pagnoni, 1861.

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 Morto Ferdinando, ripose per un momento fiducia nell'erede, sperando dallo stesso nuovi ordinamenti civili e politici. Perdute tali speranze, riuni tutti gli sforzi per il compimento della rivoluzione unitaria, e, negligendo le incertezze, dispregiando i vecchi canoni della politica, sorse al grido d'Italia, grido, che, prodigiosamente, spargendosi nella guerra del 1859 molto sangue, aveva emancipato dalla tirannide straniera e dalla nostrale le regioni superiori e le altre del centro. La Sicilia esciva dal servaggio delle opinioni, comandate dalla prepotenza feudale, e, mutandosi, allo scoppio della rivoluzione del di 4 aprile, combattente a capo di essa un uomo del popolo, lasciato solo nella dura circostanza da'  più promettenti, si manifestò italiana! E la, manifestazione fu popolare, e contro di essa, che, schiettamente, proclamava il principio unitario, si elevarono, senza punto attecchire, le malvage insinuazioni degli autonomisti, le cui idee non oltrepassavano la cinta triquetra. Questo popolo di Sicilia aveva dal profondo dell'animo accolto i sentimenti di Terenzio Mamiani, che, nel 1859, dedicando alle genti del mezzogiorno il Nuovo Diritto Europeo, notava: «Rinascete, dunque, animosi e perseveranti alla libertà e alla gloria, pigliando norma e consiglio dai vostri concittadini dell'alta e media Italia, i quali sebbene oggi vi precedano in alcun esercizio delle virtù pubbliche e della valentia militare, nullameno si persuadono ogni dì più, che in voi soli sta la potenza di compiere e di accettare per sempre l'opera travagliosa del risorgimento loro e della comune indipendenza». Oh la nobiltà de'  detti!

I moti parziali, a volte cachettici, finivano colla unificazione del Regno d'Italia; e la gloriosa idea, intuita e propugnata, in anni di barbarie, da Giuseppe Mazzini, fu conquistata da Camillo Benso di Cavour, che da uomo di Stato di una regione, piccola di territorio, divenne, anelando spogliarsi d'ogni vecchiume, un cospiratore in prò della nazione e della libertà (1). E l'Europa lo ammirò per avere in sette anni costituita, co' mezzi diplomatici,; la grandezza patria.

(1) «Sì, o signori, per 12 anni ho cospirato con tutte le mie forze; ho cospirato per giungere a procacciare l'indipendenza alla mia patria. Ma ho cospirato in un modo singolare; ho cospirato proclamando nei giornali, proclamando in faccia al Parlamento intero, proclamando nei Consigli di Europa qual era lo scopo della mia cospirazione. Cospirai poi nel cercare degli adepti, degli affigliati, ebbi a compagni tutto o quasi tutto il Parlamento subalpino; ebbi poi adepti in tutte le provincie d'Italia; ebbi negli anni scorsi ad adepti e compagni quasi tutta la Società Nazionale, ed in oggi io cospiro con 26 milioni d'italiani». (Discorsi Parlamentari, vol. xi, p. 336, ediz. citata).

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La quale mancando, nella proclamazione del Regno unito, della capitale naturale, la città, come ben disse Camillo, edificata dagli Dei per essere il cuore d'Italia, il Conte, a prevenire le controversie della diplomazia europea, diceva e sperava: «Voi ricorderete che in tempi nefasti per l'Italia, Clemente VII, dopo aver veduta la sua Roma invasa dalle truppe spagnuole e messa a sacco, dopo aver subito ogni specie di umiliazione per parte di Carlo V, alcuni anni dopo lo sacrò nel tempio di San Petronio e strinse alleanza con lui, col famoso scopo di togliere la libertà a Firenze, sua patria.  

Ciò posto, o signori, non ci sarà egli lecito sperare che il mutamento che si operò nell'animo di Clemente VII, onde ridurre in servitù la sua terra natale, non possa pure operarsi nell'animo di Pio IX, onde assicurare la libertà all'Italia e alla Chiesa» (1).

E questa grandezza patria rifulse il dì 18 febbraio 1861, il giorno in cui riunito il Parlamento nazionale, scrollate le bastite di Gaeta, Vittorio Emanuele, custode della bandiera dr libertà dalla notte di Novara, colui, che, avanti la pace di Milano, aveva saputo troncare la parola di perverso consiglio al Radetzki, che aveva mandato alleato il suo esercito a quello di Francia e d'Inghilterra ne' campi di Crimea, che aveva combattuto da soldato nelle due guerre d'indipendenza e cacciata l'Austria dalla Lombardia, inaugurando la VIII legislatura, infiammava la rappresentanza col dire: «Libera ed unita, quasi tutta, per mirabile aiuto della Divina Provvidenza, per la concorde volontà dei popoli, e per lo splendido valore degli eserciti, l'Italia confida nella virtù e nella sapienza vostra. A voi vi appartiene il darle istituti comuni e stabile assetto. Nell'attribuire le maggiori libertà amministrative a popoli che ebbero consuetudini ed ordini diversi, veglierete perché la unità politica, sospiro di tanti secoli, non possa mai essere menomata. L'opinione delle genti civili ci è propizia; ci sono propizi gli equi e liberali principii che vanno prevalendo nei consigli di Europa. L'Italia diventerà per essa una guarentigia di ordine e di pace e ritornerà efficace istrumento della civiltà universale» (2).

La unità politica dapprima entusiasmò, e il popolo la ritenne come il più grande avvenimento del secolo decimonono. Si ripetè essere stata la unità il sogno di tanti secoli, ma la storia del tentativo di un tal pensiero non ha alcuna memoria, e nel secolo nostro l'ardimento

(1)Discorsi Parlamentari, vol. xi, p. 333, ediz. citata.

(2)Il Risorgimento d'Italia, ecc., p. 183, ediz. citata.

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è segnato da un illustre guerriero, come lo chiamò Camillo di Cavour,  il quale, sebbene fosse di Francia, pure all'Italia si era consacrato con più che adozione. Cessati i fervori per la unità, la gente diversa, che il Manzoni, dai 1821, aveva presagito o serva tra l'Alpi ed il mare, o una d'arme, di lingua, d'altare, di memorie, di sangue e di cor, mal si attagliò a'  sacrifizj necessarj nell'alba della vita. La libertà, creduta più che un dono, una larga beneficenza, adescava i malcontenti e le masse a conseguimenti dilettevoli e ingordi, e il freno imposto suscitò livore, rabbia, e le male opre di attentati alla grandezza unitaria. Il Governo, rigidamente chiuso, non considerati i repentini mutamenti de'  popoli meridionali, subito li aggravò con nuovi sistemi amministrativi, e, volendo quasi del tutto allontanarli dagli usi passati, commise errore sommo, mostrando d'ignorare quanto sapientemente rammemora Niccolò Machiavelli de'  Romani, cioè che la virtù degli eserciti gli feciono acquistare lo impero: e l'ordine del procedere, ed il modo suo proprio, e trovato dal suo primo legislatore, gli fece mantenere lo acquistato (1). Le sparse membra d'Italia, riunite in un corpo, non erano lo acquisto delle colonie romane, ma in esse era vario il costume, diverse le leggi, le sorti, le tendenze, gli affanni e i sentimenti religiosi; e, d'un tratto, difettando la educazione, non poteva il Governo presumere e pretendere il confermarsi di tanti popoli in uno.

La unità politica ad assodarsi richiedeva la educazione nazionale, e questa venne meno dal principio. L'Italia perdendo, in sul nascere, Camillo di Cavour, discepolo per la sapienza di Stato, a Roberto PeeI, non ebbe una mente geniale, che avesse saputo infondere il sentimento italiano. Si svecchiò il Piemonte; ma l'Italia unita, non fu svecchiata: si credette anzi che ella fosse un allargamento del Piemonte, rafforzandosi le migliaia degli errori e i livori regionali. La educazione aveva preceduto le grandi rivoluzioni, e bisognava, assurta l'Italia, educare il popolo con leggi ed ordinamenti, che avessero fatto detestare negli ordini morali il passato, e nei politici e nei civili dato un nuovo avviamento; bisognava non si fossero ancora alimentati gl'istinti di sètta, seguiti dal Governo. La Nazione doveva dar morte alle sètte! (2).

(1)Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio, lib. li, c&p. 1, edizione citata.

(2)Dato ano sguardo alle nazioni di Europa, sorgenti a nuova vita, governate con forme democratiche, popolari o monarchiche, egli è certo che niuna tra esse rivelò si gravi errori, perdurando con ostinatezza, ne' delirj di setta, che, muovendo dal Governo, recano esquilibrio giuridico e morale. È sempre offesa la giustizia, manomessa la libertà, sempre pericolante nell'anarchia.

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e forze dispotiche, esercitate dall'Austria dal 1815, rinvigorirono l'ingegno italiano, e se il Gioberti nel Primato, considerando, nell'età vissuta da lui, le moltitudini, disse che la mollezza e la pravità degli studi risponde a quella dei costumi, non certo mirò a censurare i più eletti, che sorsero ne' tempi in cui l'Italia fu assai travagliata politicamente. Pagine sublimi di ricordi ha il martirio: le più forti, che trovano rari paragoni. Esso ridiede vita alla spenta terra, e gliela ridiede con eroico sforzo. Le rivoluzioni del 1820 e del 1821 e i processi seguiti alle stesse, unirono le sorti italiche, rimaste in addietro sempre divise; e d'allora i nomi del Silvati, del Morelli, del Santarosa, del Gonfalonieri, del Pellico, del Maroncelli, dell'Abela, divennero una memoria italica, tale che ruppe i confini geografici, con asprezza tenuti separati. Ecclissatasi la stella delle dinastie, sorse quella del popolo. I grandi uomini si stringevano a un patto: la nazionalità doveva avere il suo trionfo. Cessava la letteratura di restringersi ne' limiti angusti regionali, e il pensiero, spaziando, conquistava la grandezza della patria. Nel secolo decimottavo il Gozzi, l'Alfieri e il Parini evocavano l'ombra di Dante; e, anche in mezzo a'  rumori delle armi francesi, calate a turbare i più negligenti alle azioni, che vivevano sonnolenti, la parola del Ghibellino rinnovò un popolo decaduto. La donna, neppur di provincia, sentì di nobilitarsi, e nel fragore delle armi e nella vita novella delle istituzioni politiche e civili, vide inalzarsi il genio italico. Cadeva Napoleone, ma la fierezza sopravvenuta non estinse la virtù. L'Italia si rinnova: l'arte e la scienza divengono cospiratrici: il genio di Dante seguono il Foscolo, il Monti, il Leopardi, il Manzoni, il Niccolini, e gli estri sono fulmini, che incendiano la rea bestialitade della tirannide. Si ribadiscono le catene e si aumentano i supplizj: la filosofia e la storia combattano il diritto divino e la superstizione. Eccelle sempre la maestà d'Italia; muore per mano del boja Ciro Menotti, e dall'esilio chi ha proclamato Dio e il Popolo ridà vigore alla coscienza italiana: edessa, tetragona, combatterà lo straniero, che ci offende, vede morire intrepidi, a difesa della Roma del popolo, Goffredo Mameli e Luciano Manara.

È una pietà la condizione italica, ognora decadente; e più si accrescono i mali per opera di ministri mediocri, a volte scarsissimi di coltura, trascinati al potere dalle sètte, non per ammirazione all'ingegno o alle virtù, non per educazione politica, come in Francia e in Inghilterra, ma per l'intrigo, per gl'interessi di una combriccola parlamentare, senza coscienza, senza mente. Ed ancora in essi non cede la eredità de'  quarantottisti: lo sfarzo delle parole altosonanti, il niun senno politico, la rivelazione della dappocaggine; sì che la formazione di un gabinetto in Italia è tutto ciò che di misero e di abietto può dare una nazione di 32 milioni di cittadini!

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Tanto rapido svolgersi di opere d'intelletto e di azioni prodigiose non si ha che nel breve periodo di sei lustri. Dal 1815 al 1848 si decidono le cadute dinastiche e le sorti del popolo italiano. I rivolgimenti sono universali: da Torino a Palermo si grida alla indipendenza e alla libertà, e vuolsi un popolo federale con governi, che vogliano scostarsi dal passato e dar principio a una novella èra. Questo sentimento aveva legati gli animi italiani di tutte le regioni, e fu nuova e sublime ispirazione, che creò la Patria, disfatta dalle orde barbare. E la grande martire sorge assai bella nel suo martirio; e dato il segnale collo squillare delle trombe, vide fraternizzare a un patto il suo popolo: il patto fu dapprima la redenzione; indi consacrarsi alla bandiera di libertà. E sorse Italia, sorse questa Niobe, e le nazioni potenti la salutarono consorella!

La Sicilia, già ristretta ne' suo' mari, anche ne' primi anni del secolo, non si rese partecipe allo svolgimento del pensiero nazionale. La sua storia, l'archeologia, le arti, il dialetto, erano un esclusivo patrimonio; e quando, dopo Domenico Scinà, parve un bisogno agli scrittori rammodernarsi, accostarsi al convito solenne delle genti italiche, le generazioni, volgenti al tramonto, non celarono i loro rammarichi e i loro disdegni. Però, entrata nelle coscienze la italianità del pensiero, i Siciliani non si ristarono d'operare alacremente, e nel rinnovamento civile lasciarono tracce luminose. Poeti, storici, pittori, scultori, musici, filoioghi, archeologi, naturalisti e filosofi, una famiglia cospicua, che, lasciate le vecchie tradizioni de'  secoli, volò con faticoso pensiero a comporre la grande opera nazionale. Fuggiti dalla Sicilia i più ardimentosi, dalle lontane terre concorsero ad essa con armonia mirabile di sensi. E ciò rifulse di gran lunga nel decennio della reazione, quando, cessate le gare di forme politiche, tutti gl'Italiani si travagliarono a riunire le membra divise della gran madre Italia, il terreno, il nido, ove non potevano dire col Petrarca essere stati nutriti si dolcemente. Questa la grande, la maestosa opera, cui posero mano i cittadini dalle Alpi allo Stretto; ed è monumento, che il senno, le virtù e il carattere potranno rendere duraturo e incrollabile, né mai più da espugnarsi!

CAPITOLO DECIMOQUARTO

La fine di un Regno.

Dal 1735 al 1861 corrono 126 anni, e la monarchia dei Borboni, fondata con auspicj assai lusinghieri da Carlo III, che la conquistò come retaggio avito, decade; nè, per qualche sforzo, adoperato nella imminente caduta, con armi raccogliticce dalle sparse truppe, o con mezzi diplomatici, giunse a rialzarsi. Nè potè, perché assai differenti le condizioni ultime dalle anteriori, che segnano le date del 1799, del 1820 e del 1848. Ora a noi, pria di riandare i momenti principali del passato, che furono cagione di rovina perpetua, piace premettere, compendiando i concetti da svolgere, una riflessione di Niccolò Machiavelli, che, ne' Discorsi sulle deche liviane, così la esprime: «gli uomini che vivono ordinariamente nelle grandi avversità o prosperità, meritano manco laude o manco biasimo. Perché il più delle volte si vedrà quelli ad una rovina e ad una grandezza essere stati condotti da una comodità grande che gli hanno fatto i cieli, dandogli occasione, o togliendoli di potere operare virtuosamente» (1).

Napoli, dominando la Casa d'Austria, retta da Carlo VI, in mezzo a tanto esercizio abusivo pretesco, al commercio de'  varj ordini de'  frati, al signoreggiare de'  Gesuiti e alle prepotenze dell'aristocrazia ebbe i suoi precursori; e prima che Carlo III vi fosse giunto, già coronato signore delle terre, conquistate al di qua e al di là del Faro, la storia e la giurisprudenza congiunte avevano tratto il dado a nocumento della usurpazione e della violenza sacerdotale. Grande l'avvenimento, imperterrito ed audace il giureconsulto, precursore de'  tempi, che, proscritto da'  lazzaroni di Napoli e dal papa, trova ospitalità in Vienna, donde, con inganno e infamia, lo fece rapire Carlo Emanuele di Savoia, che, gittatolo nella cittadella di Torino, lo destina a penare gli ultimi venti anni della vita.

(1) Opere, tomo terzo, p. 245; MDCCLXXXIII, Cambiagi in Firenze.

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Pietro Giannone, contemporaneo a G. B. Vico, nel 1723 scatena la parola inferrata, condannando i poteri ecclesiastici colla Storia civile del Regno di Napoli a difesa del principato civile. Li condanna ne' periodi ancora tenebrosi del principio del secolo decimottavo, quando ancora le riforme civili non sono nelle menti de'  filosofi, né i principi possono, inesperti d'ogni bene, sciiniottare di farle proprie, né la Enciclopedia ha ancora incominciato il lavoro di preparazione, che dal 1750 si prolunga fino al 1789. Considerati in quegli anni il Giannone e gli altri giureconsulti, che precederono il Genovesi, il Filangieri, il Galiani, il Pagano e il Russo, la città, già parsa depressa dal vicereame, gittava le fondamenta di un nuovo diritto, che, sotterrando il medioevo, sottraeva il popolo alle usurpazioni sacerdotali. Il che inaugurando una nuova èra, cessava il principato di essere sostenuto da'  fuochi della inquisizione e da'  lacci delle forche.

Carlo III, assunto al trono, è il principe che più d'ogni altro intende alle riforme civili e politiche, secondando gli ardiri alti e spregiudicati de'  filosofi, degli economisti e de'  giurisperiti. Lo Stato di Napoli pria che egli vi giungesse è tale siccome lo ritrae Giuseppe Ferrari: «In mezzo a questi moti pacifici, e a questa contentezza silenziosa, tranquilla e dotata di tante ricchezze benefiche che moltiplicavano le feste e nudrivano un lusso sfrenato, alcuni uomini traducevano i grandi pensieri dell'epoca nel linguaggio della scienza e dell'arte. Napoli dava alla nazione Giambattista Vico, nostro venerato maestro, autore della scienza che svela le leggi della Storia» (1). Ma esso si mutava tosto; si che nel 1754, accogliendo Carlo III la proposta di conferire l'insegnamento del Commercio, prima cattedra di economia istituita in Italia, Antonio Genovesi, prescelto per tanto sapere, precorreva nelle idee, ventidue anni prima, le dottrine di Adamo Smith; né allora, fu timido nel ripetere, distruggendo il passato di secoli: «Studiate il mondo, coltivate le lingue, le matematiche, pensate un poco meglio agli uomini, che alle cose che sono sopra di noi, lasciate gli arzigogoli metafisici ai frati (2).

La regione, che più altamente seppe scuotere, operando, il vecchio edificio sacerdotale, fu la napoletana; nella quale, morto nel 1744 G. B. Vico; abbenché né i contemporanei, né i futuri di più generazioni avessero concepito i presagi menti, ch'erano dentro una nuova scienza, pure parve compreso da coloro che gli furono superstiti.

(1)Ferrari, Storia della rivoluzione d'Italia, vol. in, p. 591; Milano, Treves, 1872.

(2)Fiorentino, Storia della filosofia, p. 605; Napoli, Morano, 1887.

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Il che cagionò, che, anche derivando i concetti dalla operosità intellettuale straniera, le idee si sfrenarono, richiedendosi norme nuove alla vita civile, norme vigorose alla educazione intellettuale e al sentimento di moralità, che i commerci indecenti di religione avevano depresso.

Questo maggiormente si rivelò nell'opera della Scienza della Legislazione, della quale lo scrittore cosi compendiava lo scopo: «Fra tanti scrittori che si sono consacrati allo studio delle leggi, chi ha trattato questa materia da solo giureconsulto, chi da filologo, chi anche da politico, ma non prendendo di mira che una sola parte di questo immenso edifizio: chi, come Montesquieu, ha ragionato piuttosto sopra quello che si è fatto, che sopra quello che si dovrebbe fare, ma niuno ci ha dato ancora un sistema compiuto e ragionato di legislazione, niuno ancora ha ridotto questa materia ad una scienza sicura ed ordinata, unendo i mezzi alle regole, e la teoria alla pratica» (1). Il secolo decimottavo vedeva scomporsi l'organismo della vecchia Europa, principalmente per la caduta d'uno dei tre elementi dell'aristocrazia feudale; sicché un siffatto sconvolgimento dava vita alle plebi, ed i filosofi, gli economisti e i legisti investigavano altri modi di governo e altri procedimenti giuridici che non i passati, sì crudeli, che annientavano il senso d'umanità. Alla scuola lombarda, con a capo Cesare Beccaria, nel mezzogiorno d'Italia si levarono voci ancora più potenti, sicché, regnando Carlo III, reggendo il governo il Tanucci, lo Stato divenne assai fiorente, dimenticandosi gli abusi della prepotenza viceregia di Spagna e d'Austria, ponendo in preparazione le leggi, che, annullando tanta voluminosa faraggine di disposti, dovevano rendere ammirato il nome napoletano; massime ricordando Gaetano Filangieri, che invoca la riforma dell'intera legislazione, Mario Pagano, che medita la riforma del processo criminale (2).

(1)Filangieri, La Scienza della Legislazione. — Ultimamente (1904) il prof. Gr. Nisio publicò pe' tipi della Società Editrice Dante Alighieri il libro iv riguardante l'educazione, i costumi e l'istruzione publìca, e non poteva dar di meglio per gli alti intendimenti della coltura. Ma chi udì o ascolta tanta voce in quest'Italia sorda a quel bene, che dà incremento alla virtù e agli studj?

(2)Agl'Italiani, cotanto assidui nell'inalzare monumenti, ingombrando le piazze delle cento città con tanti simulacri, mediocri e sgraditi, non ricordo che il Filangieri,

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Cessata la monarchia di essere retta da Carlo III e dal Tanucci, dal principio anche le influenze austriache, venute su pe' maneggi diplomatici di una donna, che acquistò celebrità d'infamia,  e su cui più tardi si vollero modificati i processi violenti (1), non la turbarono; e di statuti o di leggi che reggimentavano colonie e allontanavano i passati mali del regno si hanno pochi buoni ricordi. E non vana sarebbe la fatica di mettere in parallelo la napoletana con le altre regioni italiche, republiche, ducati, granducati, reami e province soggette ad un impero, che le vicende politiche già rendevano esteso, e trovare in essa quella superiorità, che faceva dire al Settembrini quanto è vero, cioè: «I popoli che hanno forte personalità naturale hanno molti giuristi, perché questa personalità è la coscienza del proprio diritto individuale: e dov'è questa coscienza negli uomini, nascono frequenti contrasti, quindi la necessità di definirli risalendo a principii di ragione generale. Nella servitù l'uomo si afferra al diritto come al solo mezzo per esser libero e spiegare la sua personalità. Però il tipo napoletano è il giureconsulto, l'uomo intelligente della legge, libero nella legge, che dalla legge sale alla più alta filosofia,

primo propugnatore nel secolo xviii dell'idea civile, dell'educazione del cittadino, della libera coscienza dell'uomo, non ha un monumento; ma dico, ripetendo i lamenti di uno scrittore, che ne scrisse nel Corriere d'Italia, il di 24 luglio 1907, che i resti mortali del grand'uomo sono lasciati in completo abbandono, col pericolo di non più conservarsi la modestissima e piccola lapide murata in un pilastro della Chiesa excattedrale: dico, ripetendo il Querci, scrittore dell'articolo, che unicamente ne parlò, e forse invano chiese ove più fossero le ossa dell'autore de La Scienza della Legislazione. Io, più che volgermi a1 Ministri del belVitalo regno, rivolgo la parola agl'Italiani, particolarmente a'  Napoletani, che dovrebbero, più che arrossire, vergognarsi della dimenticanza, mal curando quanto grande apparve lo scritI tore de La Scienza della Legislazione nel secolo decimottavo; in cui oltre a divulgarsi l'opera, in pochi anni, con replicate edizioni in Napoli, in! Venezia, in Firenze, in Milano, in Catania, tosto si divulgò in Francia, in Inghilterra, in Germania e nella Spagna, e con traduzioni, che salirono in fama e accrebbero la celebrità del legislatore e filosofo napoletano. £ basta ricordare il dire del Fink e del Siebenkees, publico professore di diritto, che nel 1784 pur troppo riconobbero, come fece pure il Rubio a Madrid, il Filangieri pari al Montesquieu, rilevando d'avere egli dimostrato, con maggiori altezze di vedute, i difetti delle vecchie legislazioni e la necessità delle loro riforme. Eppure tanta grandezza resta in Italia non curata da'  cittadini, imitando il niuno zelo degli uomini di governo, cui poco interessa l'onorare il Filangieri, forse ignorandone la esistenza, l'essere stato precursore d'idee, che dovevano schiudere un'altra civiltà!

(1) Vedi Maria Carolina nelle Due Sicilie e i suoi tempi di I. A. Barone Belfort; «Archivio storico italiano», tomo li, anno 1878.

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che nella legge trova tutta la sapienza» (1). Napoli, prima di Carlo III e regnando il figliuolo Ferdinando, chiamato a succedere a nove anni, fu in lite perpetua con Roma, per difendersi dalla Curia che lo voleva feudo della Chiesa; e l'opera grande, avrebbe avuto il suo compimento fino all'emancipazione religiosa, se la Corte non avesse mutato i consigli de'  sapienti, o messili a riposo; se non avesse temuto le ire popolari, le cui lamentazioni, le grida e le vendette sanguinose dalla Francia ripercotendosi in Italia, fecero i principi timidi, dispotici e sanguinarj. Il patibolo, che giudicava Luigi XVI e Maria Antonietta, mutava le scuri nelle baionette; e la Francia, in forza della dichiarazione de'  diritti dell'uomo, scendeva, più che alla conquista de'  terreni e degli ori, a conquistare la coscienza de'  popoli; e così a travolgere un passato orribile per le nequizie generate dalla superstizione e dalla prepotenza del dominio. Dopo Vestfalia, finite le lotte fra cattolici e protestanti, si erano accese quelle fra cristiani e razionalisti, e da queste guerre si ebbero gli effetti più considerevoli, che dal l'Enciclopedia condussero all'Ottantanove. Nel secolo decimosettimo, piegata quasi tutta l'Europa a monarchie pure, i Re avevano potuto atterrare coll'aiuto de'  Comuni, indi rimasti sottomessi, la nobiltà, gravandosi cosi il voto autorevole di un solo sull'una e sugli altri. Nello stesso secolo Oliviero Cromwell aveva fatto ascendere il patibolo a Carlo I; ma nel secolo decimottavo il popolo, reso esperto de'  suoi diritti, si grava sulle monarchie, e le teste regie, recise dal boia, non rinvengono l'origine nel tradimento, come appunto gridò il carnefice, mostrando al popolo quella di Carlo I Stuart, ma nella trasformazione, che metteva sotto i piedi ogni squilibrio sociale.

Nella Corte di Napoli aveva  assai allargato il comando Carolina d'Austria, troppo secondata dal ministro Hamilton, troppo condiscesa dalla insipienza e dalla vita scapestrata di Ferdinando. Dopo il 1794 Napoli vede insanguinato un palco, e tre teste di giovanetti, strappate dal boia, empiono di terrore la città; nella quale, e in tutto il reame, si popolano le prigioni di sospetti di giacobinismo, si accrescono i dolori e gli strazj, diventando la rea forza un sistema di governo. Nella Sicilia trova ricetto la Corte, uscita da Napoli, atterrita dal giungere delle armi francesi. Indi peggiori le sorti de'  popoli e della Corte, dopo la spedizione del cardinale Fabrizio Ruffo:

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i violati patti di capitolazione della Repubblica partenopea infamano il Nelson e la Corte, tanto più che quegli agiva pe' suggerimenti dell'amante, bella di forme e bagascia di costume. Morti i migliori ingegni di Napoli sulle forche, ed anche strozzato il fiore della beltà e dell'ingegno femminile, la Corte rientra nella città capitale, rendendo il ritorno festose le plebaglie, ma costernate le classi colte, che ora nel re e nella regina non altro vedevano che lo spettro del maleficio. Cosi, nel volgere di quarantanni, dacché Carlo III assunse la corona di Spagna, il regno decadde, perché rese mute le riforme civili, accresciutasi, invece, la superstizione fatale; energica e rea divenuta l'opera poliziesca. Napoli, che dal 1723, coll'immortale Pietro Giannone, aveva veduto scadere la potenza ecclesiastica, e col Filangieri trionfare i principj più eletti dell'educazione di un popolo, un'altra volta si vide avviticchiata dalla ferocia religiosa, che seppelliva ogni progresso, faceva rimanere deluse le speranze di una vita novella, schiusa a destini alti. La Corte, per le armi vincitrici di Francia riprende l'esilio in Sicilia; e mentre dal 1806 regnano stimati Giuseppe Buonaparte e Gioachino Murat, Ferdinando e Carolina vivono ne' contrasti, nelle umiliazioni, rendendosi temuti con la forza dispotica, che né pure possono adoperare a voglia loro, perché soggetti. Lord Bentinck disfaceva nel 1811 il pronunziato dell'esilio de'  tre baroni, relegava la regina, adescava coll'oro, che spargevasi dalle forze inglesi, qui stanziate, i Siciliani ad amare un po' troppo l'Inghilterra. Il parlamento, anche rinnovata la costituzione nel 1812, rimaneva, più che inoperoso, inerte; e di proteste e di lamenti non seppe risparmiarsi, dopo i trattati del 1815 e i decreti del 1817, co' quali, cancellata la costituzione, si aggiogava la Sicilia a Napoli, divenendo provincia del reame delle due Sicilie.

Pe' Siciliani questo fu il momento fatale. Essi non si ribellano alla monarchia, ma chiedono, con ligia parola e ligi atti, sia riaperto il Parlamento, restituita la costituzione, rinnovata di fresco, dopo parecchi secoli. La quale, accomodata al senno inglese e garantita dalla grande potenza, era stata anche da essa distrutta a Vienna. Le ire de'  Siciliani più che pel re, cui si stringevano di devozione, si accrescevano pe' Napoletani, creduti da loro nemici, tali che, imperando nelle faccende di governo, li sottoponevano con l'arbitrio e con le violenze: lotte indecenti e crudeli che si prolungarono per lunghi anni: lotte che scandolezzarono gl'Italiani d'ogni luogo, quando nel 1842,

(1) Lezioni di Letteratura Italiana, vol. in, p. 15, Napoli, Morano, 1872.

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venuto fuori il volume La Guerra del Vespro siciliano, assai celebrato, si udirono chiamare nemici i Napoletani. Le acri e forti dissenzioni durarono fino al 1848, menomandosi dal 1849 al 1860.

Decaduta moralmente la monarchia, negli anni di governo di Ferdinando, Francesco I raccolse un'eredità di azioni manigoldo e, strano contrasto, una legislazione ammirata da'  popoli civili. I cinque anni del regno di lui, vecchio d'età, decrepito nella coscienza, sono un'irrisione. Nulla di serio, eccetto che le più minute persecuzioni, per sospetti fantasticati e insulsi, che funestavano le famiglie. Nel Napoletano si svolgono i fatti del disastro del Cilento, da ove si immortalano le gesta inique del Del Carretto: nella Sicilia l'arbitrio e la violenza del marchese Delle Favare, che, anzi che da luogotenente, imperò da re, macchinando furti, sevizie e crudeltà. E il regno, al di qua e al di là del Faro, parve decaduto, fino a che Ferdinando II, nel novembre del 1831, succeduto al padre, giovine ventenne, bollente di spiriti militari e di riforme, con belle promesse ed atti generosi cancellò in sulle prime le tristezze e le nefandigie del passato. I popoli, che sempre più corrono dietro a larghe lusinghe, le quali possono loro assicurare il benessere materiale, lodarono, sfarzosamente, il re giovinetto, che i poeti chiamarono novello Tito, e gli academici, in adunanze oziose, e gli oratori nelle curie sacre e nelle civili, fecero argomento d'esercizio retorico.

Romorosi gli avvenimenti regnando Ferdinando II, e noi li abbiamo con qualche rigore rammentati. Le date troppo notevoli di un tal dominio sono quelle del 1837 e del 1848; dalle quali sorgono contrasti, sfide, violenze e sangue. Ferdinando era nutrito di alti spiriti, e in altri tempi avrebbe percorso altro cammino; in quelli vissuto, anche lodato da'  popoli, pure da'  non sottoposti a lui, dovette limitare i suoi concetti, rimanendo quasi ossequioso agli interessi dell'Austria. Non altro; che egli esercitò sempre indipendenza negli atti di governo; né è vero che l'unione della seconda moglie, arciduchessa dell'Impero, lo avesse avvicinato all'Austria. Ferdinando II, tra'  principi italiani, sentì maggiormente la fierezza della propria personalità, senza punto assoggettarsi al comando. Mantenne i legami con la Russia e con l'Austria, riuscendogli fatali con quest'ultima, richiamata nel 1848, per sopraggiunto pentimento, la spedizione, con a capo Guglielmo Pepe, per la guerra di indipendenza. Si tenne poi neutrale nel 1859 per la stessa cagione, quando, trascorsi undici anni, gli animi erano vieppiù infiammati dal sentimento di libertà.

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Tanto il Napoletano che la Sicilia, regnante Ferdinando dal 1830 al 1859, non patirono penuria di miglioramenti materiali, rimanendo le amministrazioni d'esempio per la semplicità de'  procedimenti, che rendevano agevole a'  sofferenti di rivendicare i loro diritti, non costretti a que' gravosi dispendj, che rendono impossibili i litigi, negando le stesse leggi il diritto, lasciando incerti i provvedimenti, sovente ingiusti, perché in facoltà degli agenti fiscali, che si travagliano di tormentare e d'incrudelire pe' tornaconti della loro rapacità. Questo non mai avvenne sotto il governo de'  Borboni, resosi solamente esoso per l'arbitrio della polizia e per l'avversione agli statuti costituzionali.

Ferdinando si trovò in opposizione col suo popolo, e le ragioni, non istudiate profondamente, recarono sempre giudizj imperfetti. Egli era stimato da'  Siciliani, e nel tempo che questi gli si ribellarono colle opinioni, i Napoletani ancora che avessero avuto memoria del 1799 e del 1820, che ricordavano spergiuri e sangue, vivevano tranquilli, attendendo sempre giorni migliori. In Sicilia, dal 1815 al 1837, si pronunziano e si affermano gli odj per la perduta costituzione e per quella indipendenza che li fece tanto sospirare, prima del 1848 e anche dopo. Il 1837, per le ribellioni, che causarono morti atroci, facendo cessare i rancori e le odiosità municipali, strinse la Sicilia in un solo patto, deviandola dalle divisioni orribili del 1820. Trionfava negli animi anche eletti il sicilianismo, e, strana contradizione, mentre alla Giovine Italia, non pochi erano frettolosi ad aggregarsi, questi medesimi propugnavano il concetto indipendente regionale, volendo la separazione da Napoli. E invano il Gioberti nel 1848, perseverando i Siciliani nei vecchi concetti gridava: «I due popoli partiti dal Faro hanno comuni e indivise l'origine, la lingua, le ricordanze, le glorie preterite e l'avvenire; poiché per via di Napoli e Sicilia si congiunge coll'altra Italia, e per via di Sicilia l'Italia e Napoli possono aver l'imperio del traffico e del Mediterraneo» (1). Non vero però quanto prima esprime il Gioberti, cioè che la separazione a cui diedero opera nacque da diffidenza; e questa fu causata da chi regge il regno e non dai regnicoli. Non vero, ripeto, perché il contrasto fu grande per un principio, e non per interessi piccoli: la lotta fu immensa tra la classe aristocratica e il reame; ed il malumore dominò, partigianescamente, il popolo, infiammato dall'aristocrazia, come nel 1820, dando origine al sangue, all'anarchia; sicché elevando la mente

(1) Apologia al «Gesuita moderno», p. 448; Bruxelles e Livorno, Gans, 1848.

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ad un principio filosofico, noi troveremo in Sicilia quel che G. B. Vico vedeva acutamente nella cacciata de' Re in Roma, ordinata da Bruto la libertà de'  Signori (1).

La Sicilia nel 1848, si è detto e ripetuto soverchiamente, diede nna terribile sfida a Ferdinando II: sfida che i Siciliani menano troppo a vanto, ed orgogliosi tengono che l'Europa sia stata mossa da loro a rivoluzione. Causandoci dalle esagerazioni febbrili, nervose, violente, fermandoci freddamente su quegli avvenimenti, diremo quanto crediamo abbia di giusto e di vero. I Siciliani dal 1° settembre 1847 si erano sollevati: Messina levò un grido vago e con essa le vicine Calabrie. Era il grido che inneggiava Pio IX e chiedeva libertà, limitata alle riforme, già divenute un fatto nelle regioni papali e altrove. Dopo i supplizi, Messina perdurò nelle scaramucce fino a'  primi giorni del gennaro, mentre Palermo dal novembre pietosiva le riforme, le guardie nazionali, e altro che meglio avesse potuto assecurare alla dinastia il dominio, senza frastornarla col suono delle parole accennanti alla perduta e cancellata costituzione in Vienna. Sordo rimanendo Ferdinando a quelle voci, a quelle inchieste, il popolo, vista addippiù inferocire la polizia, che metteva agli arresti egregi e timidi cittadini, restò turbato, ma non deciso. Un proclama decide il rivolgimento; e dopo di esso molti generosi uscirono dalle case risoluti di combattere e morire, altri comparvero sulla scena per mostrarsi troppo, procacciarsi fama, improvvisare lo stesso giorno 12 gennaro un comitato, che a pochi giorni ne germinò diversi, e strappare alle donne clamorosi battimani trovandosi spettatrici ne' veroni delle loro dimore. La rivoluzione non preparata si matura, ed è questa una memoria bella e ardente; e ben presto, cacciate le soldatesche dal popolo, costrette a capitolare e a spingersi sulle vie marine, Ferdinando, anche fermo ne' suo' proponimenti, dubitando della quiete e della sicurezza del regno, primo tra tutti i principi d'Italia, concesse lo Statuto, accolto e plaudito in Napoli, che aveva clamorosamente dimostrato. I Siciliani, già costituiti in governo, riaperto pomposamente il Parlamento, trattarono con modi diplomatici col governo di Ferdinando; stimando necessario respingere qualsiasi proposta di conciliazione, che non avesse assecurato alla Sicilia l'indipendenza da Napoli. Se questo sia stato maneggio eccellente di politica, io non so dire; ma non può sfuggire contro gli entusiasmi di piazza, degni nel gridìo degli uomini di villa, ripetuti fino a questi giorni nelle replicate feste

(1) Scienza nuova, Opere, vol. I, p. 377; Napoli, Tipografia della Sibilla, 1834.

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di cinquantenarj e di onoranze, che la rivoluzione siciliana decadeva, messo in disparte il popolo, lasciato a corrompersi ne' delitti e nell'anarchia, per la tutela assuntane l'aristocrazia: un partito di signori aventi reminiscenze feudali, amante delle prerogative d'una vecchia costituzione, per soggiogare il popolo. Ferdinando, compreso bene di questo, la ritenne un trastullo; e più parvegli tale, accortosi che nel Parlamento di Sicilia vuotamente si concionava, e che il governo della rivoluzione, anzi che provvedere ad armi, ad uomini, all'ordine, vantava, invece, una stampa liberticida, e una furiosa turba di ingordi o di pezzenti, sprovvisti di mezzi, chiedente onori e cariche. Manda allora alla conquista del regno Carlo Filangieri che, dopo vario travaglio militare, assoggetta Messina, che valorosamente vede combattere i suo' cittadini, perfino i garzonetti e le donne, né trova gli aiuti del governo della rivoluzione; soltanto trova la vigliaccheria del La Masa, che, alla vista del pericolo, corre per la campagne opposte, sparpagliandosi le squadre, da lui per ironia condotte, che aumentano i saccheggi e le carneficine delle soldatesche borboniche.

Nel Parlamento Siciliano, conquistata Messina, fragorose grida irrompono dalle tribune contro il tiranno di Napoli, aggiungendo il compianto per la città desolata. Ma le grida e il compianto non educano, né fortificano; sicché i sospiri parlamentari uniformi nelle gesta da retorica, non trovano che una nota severamente aspra, che turba le lusinghe di guerreggiare e di vincere: era dessa quella del deputato Pasquale Calvi, che più tardi, crudelmente, sancì gli orrori del malgoverno e delle mire aristocratiche, di cui fu sempre dominato. A vane lusinghe si congiunsero inganni, errori e tradimenti. Frattanto, da astuto militare procedeva il Filangieri, e da diplomatici furbi usavano il Parker e il Baudin, rappresentanti l'Inghilterra e la Francia. Il Governo, dopo gli eroismi di Catania, diede la rivoluzione nelle mani del Filangieri, che sedusse Palermo con promesse futili e Palermo gli si sottomise, sperando la vicereggena del principe ereditario. Mentre gli uomini del Governo e molti rappresentanti delle Camere, de'  Comuni e de'  Pari, fuggono, intimoriti, i più pregiudicati, timorosi di trovar prigione lunga, o morte, le truppe entrano vittoriose, e Ferdinando, nel breve volgere di pochi mesi, dal 2 settembre 1848 al 15 maggio 1849, accredita le sue previsioni ed ha trionfo!

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A giudizio de'  più creduli nella rivoluzione del 1848, la Sicilia cadde, perché niuna regione avrebbe potuto sostenersi dopo la infausta battaglia di Novara, segnata il dì 23 marzo 1849. Codesto raziocinare non può essere che degl'inesperti, e de'  refrettarj all'errore, poiché il Piemonte e Carlo Alberto nulla

operarono in favore della Sicilia, timorosi del contegno di Ferdinando e della politica straniera: anzi tornò assai fatale alla Sicilia la elezione a re del Duca di Genova, il quale, tentennando su' voleri del padre, emette la sua rinunzia nel luglio del 1848 a Sommacampagna, e, non comunicata, i legati Siciliani, fino al febbraio del 1849, pietosivano a Torino l'accettazione!

La Sicilia cadde non soltanto per il sopravvenire della reazione; ma cadde, principalmente, per le imperizie, le ambizioni e la rapacità delle cariche e dell'oro: ed essa, che aveva lanciata la sfida nella giornata famosa del 12 gennaro, diede a Ferdinando argomento di riso e di attendere il momento di sparpagliare i congiurati contro di lui; ben intendendo il re del Capotano e della Sicilia che il popolo lo avrebbe nuovamente assaltato come negli anni precedenti; onde, dopo il 15 maggio 1849, rimase da combattere un duello tra i fuggiaschi, stabilitisi in luoghi lontani, e la Corona.

Le contese durarono undici anni. Ferdinando non interrompe le relazioni politiche coll'Austria e la Russia, gli esuli si avvicinano quanto più possono al Piemonte, e, dimenticate le prerogative della costituzione siciliana, sono ora volenterosi di accodare la Sicilia agli Stati Subalpini. Ferdinando non cura le proteste diplomatiche e le invettive; e, contro la parola di Lord Gladstone, sorge un difensore ufficiale. La Sicilia dopo il fatto esecrando de'  fucilati del 1850, trae la sua vita sotto l'imperio del Filangieri, che, tranquillamente, la ruba e la massacra, oltre a godersi il majorascato di Taormina. In Napoli, chiuso il dibattimento dell'unità italiana, che tanti palpiti generò nelle famiglie, e per essi furono rinserrati in orride fosse gli uomini altamente saliti in fama per ingegno e per dottrina, tutto parve restituito alla calma, e il re, ridonato alla Sicilia un ministero di affari, trattava tranquillo in Consiglio di Stato ciò che concerneva il Napoletano e la Sicilia, turbandosi qualche volta nel trovare opposizioni. Dopo le morti violente del 1850, dovute al Filangieri, arbitro de'  destini della Sicilia, il supplizio rattristò i popoli nel 1856, morendo di fucilate Agesilao Milano, a Napoli, Salvatore Spinuzza a Cefalu, Francesco Bentivegna a Corleone.

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Le agitazioni segrete avevano cagionato l'attentato del Milano, ma lo stesso e le ribellioni del Bentivegna e dello Spinuzza, se turbarono Ferdinando, non gli misero in animo la paura, ritenendo securo il regno. Vana illusione, che sempre più lo tradiva, aprendo una sepoltura profonda alla sua dinastia. Nelle vicende belligere dell'Oriente non prende egli alcuna parte: la sua neutralità non altera i legami colla Russia. Dopo il Congresso di Parigi, non ostante avesse dovuto molto rilevare dallo scambio di convenienze tra l'ambasciatore di Russia e il conte di Cavour, rappresentante il piccolo Piemonte, comprendere che le conseguenze di quelle riunioni diplomatiche pregiudicavano troppo l'Austria sugl'interessi italiani, e che nuova vita volgeva per il popolo diviso e tormentato, scuotersi alle avvertenze, piuttosto cortesi della Francia e dell'Inghilterra, si strinse nelle spalle, allegando che i suo' popoli non sentivano il bisogno di alcuna novità. Così chiamava il rinnovarsi de'  tempi, per effetto degli ordini costituzionali, assai compenetrato che i medesimi avrebbero potuto danneggiare la quiete del suo Stato; non intendendo che le astuzie politiche del conte di Cavour, e il favore con cui era accolta la sua abile parola, miravano formalmente ad ampliare il dominio di Casa Savoia. Ferdinando si fermava sulle tradizioni vecchie della politica, che le credeva più atte a mantenere gli ordini; e correndo, ostinato, a ritroso de'  tempi, il partito piemontese, favoreggiato dagl'interessi meridionali, precipitava in una fossa la monarchia fondata con eroismo, dal giovinetto Carlo e dal Tanucci.

Napoleone III e il conte di Cavour si collegàno strettamente per meglio potere sodisfare le loro brame. Si combatte l'Austria per gl'interessi della Casa di Savoia, per guadagnare la Francia la Savoia e la Nizza. Valicano le Alpi le forze francesi, e le piemontesi, unite ad esse, riacquistano, dopo la Cernaia, fama d'invitte, riparando al discredito patito il dì 23 marzo 1849: patito piuttosto per inerzia, poca o ninna disciplina, e per la incertezza politica e militare da seguire.

In tal periodo di entusiasmi, di destrezze, di combattimenti, Ferdinando scende nel sepolcro, dopo aver tenuto il regno ventinove anni. Gli succede Francesco II, nato dalle nozze con Maria Cristina di Savoia. Inesperto a'  maneggi politici, tradito nella corte da'  suoi più intimi, tradito dagli assunti al potere, non può arrestare la rivoluzione, che lo condanna, perché doveva condannarsi la violenza politica degli avi e del padre.

Le agitazioni, se maggiori in Sicilia, si accrescono nel Napoletano, e Francesco II crede, sulla fede e su' consigli altrui, poterle reprimere.

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Il dì 4 aprile, udito il suono della campana della Gancia, insorti i Siciliani, in poco numero, il programma Italia e Vittorio Emanuele non è nelle coscienze universali, ma i gregarj del conte di Cavour lo propugnano, e colle furberie e la mala fede riescono a renderlo popolare, ottenendo in cinque mesi l'annessione di un vasto regno al piccolo Piemonte.

Francesco II è vinto perché abbandonato e tradito, né coloro che lo tradirono scelsero anzi che la salvezza del re quella della patria: il Piemonte, nella battaglia al Volturno, scaglia travestiti i suoi soldati e riesce vittorioso. Giuseppe Garibaldi è esautorato: a Giuseppe Mazzini vuolsi dare morte, e gli si scatenano dagli agenti della diplomazia, la plebaglia e i lazzeri. Il Pallavicino, riverente alla politica del Gabinetto di Torino, ligio all'altro delle Tuilleries, spadroneggia su Napoli: Vittorio Emanuele, recandovisi, è esaltato, e mandate le sue truppe e i carabinieri nella region meridionale, trae lusinga fallace di finire con lui le rivoluzioni: i popoli, ciechi strumenti di servitù, applaudiscono al re, al suo dire, alle milizie, a'  nuovi gendarmi. Francesco II protesta, ma il regno è già caduto, e le due fortezze del Napoletano e Tunica di Sicilia si rendono, non credendo potersi più sostenere. Così, non costituita la Nazione, si organizza un'Italia d'interessi singoli, un'Italia oficiale, i cui destini sono stati sempre perplessi; né pare che l'avvenire sia d'auspicio a migliori sorti.

La rivoluzione generò diffidenze dal principio, e questo necessariamente doveva accadere pel difetto degli educamenti civili; e come lo improvviso non può dare perfezione a un'opera d'arte, similmente non è da immaginarsi che una strana confusione possa dare assetto a varj popoli i quali, a volerli fondere in uno, credendoli, per istrana irrisione, tali ab antiquo, furono facilmente assoggettati a una piccola regione. Il conte di Cavour rimase sempre piemontese, anche unificandosi le regioni italiche. E, morto lui, volgendo pochi mesi, la sua politica divenne la parola vangelica de'  suoi successori al Governo, il cui ingegno era troppo piccolo in paragone a quello dello statista piemontese. Un giorno del 1860, un grande filosofo, protestando sulla vicina annessione delle due Sicilie, domandò grazia per quelle poetiche e sventurate contrade, specialmente per Napoli, la terra del re Roberto, delle due Giovanne, dei condottieri delle mille vicissitudini romantiche, de briganti dell'eroico coraggio, di Masaniello, l'impareggiabile popolano, e di Vico il legislatore della Storia.

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E domandò grazia, non potendosi persuadere che tante vivaci popolazioni fossero prese dal taedium vitae che precede il suicidio; nè, allora, si ritiene di esclamare: «Se tutti gli italiani passassero ad uno ad uno innanzi al Parlamento di Torino e dicessero te lo giuro, io non li crederei, e direi a me stesso che scientemente o senza saperlo nascondono un altro pensiero». Il filosofo, che avrebbe desiderato Vittorio Emanuele presentarsi semplicemente qual capo della nazione, come l'imperatore di Germania, e non come un re alla Luigi XI e alla Luigi XIV, combattuta l'annessione pura e semplice della Toscana e della Emilia, opponevasi in Parlamento nelle tornate delli 8 e degli 11 ottobre a quella delle due Sicilie. Poiché credeva che il meridionale d'Italia avesse desiderato la libertà e non il predominio piemontese. Le vicende pericolose, funeste per l'avvenire, non gli facevano nascondere un tal dire: «Sono stato a Napoli, e vi ho trovato la memoria di un regno odiato, ma non ho udito nessun napolitano dirmi: abbiamo cattive leggi, noi chiediamo impazienti altri codici, un altro regime civile. V'è solo un partito di avventurieri che vuol precipitare l'annessione, ma è combattuto dalla rivoluzione, é combattuto da Garibaldi. L'annessione incondizionata è impossibile. Napoli non può venir soggetta a Torino. Se io avessi avuto l'onore di nascere nella patria di Vico, e l'Alta Italia volesse annettersi senza condizione e subito, io direi: no, non confondiamoci, ma confederiamoci» (1).

Il filosofo anzi a tutto, a prevenire i disastri morali e mateteriali, inculcava il discentramento amministrativo, il solo mezzo che avrebbe potuto recare vantaggi a'  popoli. E caduto il regno de'  Borboni, le regioni napolitana e sicula, senza di esso, non poterono sperare di fiorire. La politica avventuriera le chiamò terre di conquista; e, tali ritenute, sfruttandole, le abbandonò. Non fioriscono in esse come nel settentrione, l'agricoltura, le industrie e i commerci, poiché la esorbitanza delle tasse, riscosse con angaria di costume, ha soffocato per 45 anni ogni iniziativa; e a ciò si unisce che la trascuranza e l'oblìo del Governo giunse al punto che le campagne meridionali sono deserte, mancando i mezzi di comunicazione, tutto ciò che dà vita alle regioni. Sicché l'annettere le due Sicilie fu veramente un volere ingrandire lo Stato piemontese, non potendosi sconfessare che il principio di nazionalità manchi ancora del tutto per l'educazione e per il sentimento di giustizia.

(1) Vedi I contemporanei italiani; Giuseppe Ferrari per Diodato Lioy; Torino, Unione Tipografico Editrice 1864.

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Caduto il regno de'  Borboni, alla monarchia assoluta si volle sostituire la rappresentativa, congiurandosi contro le forme republicane, le sole che avrebbero potuto dare libertà, ridare lo splendore delle città marinare e commercianti del medioevo. La caduta del regno non diede al mezzogiorno d'Italia quiete, né quella prosperità, che avrebbe dovuto recare fortuna a un popolo, di cui non poteva altro commiserarsi che la nequizia dello stato politico.

Mancò d'allora la prosperità, che è il benessere de'  popoli. Dal mezzogiorno d'Italia, dolorosamente, corrono a migliaia e migliaia a ogni anno famiglie intere per trovare in luoghi lontani un ricetto e un pane; sdegnati dalla povertà e dalla disperazione messe negli animi dal governo della nazione; addolorati di vedere infeconde le loro campagne, tra le più belle d'Europa, o vendute dalla prepotenza scellerata fiscale, che nella storia dell'unificazione politica lascia tracce esecrande, sì da fare scomparire le tante odiate del governo di Spagna. Il regno cadde, ma non trionfando la Rivoluzione, peggiori destini gli farono preparati. Quale l'avvenire? Se fatale o no, non possiamo presagirlo: innegabile è soltanto che alle vecchie e decrepite razze non aspettino certo giorni tranquilli e lieti. La reazione opera sempre: l'inerzia e la corruzione le tendono le braccia in questa Italia, che i partiti monarchici chiamano sfacciatamente rigenerata. Noi diciamo, invece, operate, la storia registrerà i vostri nefasti, e quanto è sancito da essa, può dirsi la sillaba di Dio che mai si cancella.

CHIUSA DELL'OPERA.

In questa narrazione, dedita allo svolgimento della vita di un popolo in trent'anni, piacquemi, per amore al vero, tenermi. lontano dalle esagerate affermazioni de'  varj scrittori di monografie. Io, per il primo, riunisco la serie delle vicende del regno di Ferdinando II e di Francesco II, e avendo dovuto consultare i molti scritti e scritterelli, ho rilevato come ne' medesimi abbondi la ira, sovente la menzogna, per rendere più turpi coloro che rappresentarono i tempi. Certo questo mal costume non consentono le istorie; ed io mi studiai di rendermi fedele, contradicendo anche le note esagerate de'  più recenti scrittori, a'  quali parve raggiunger tutto, mettendo a stampa non poche carte inutili da ingrossare volumi; credendo gl'ingenui, inesperti d'ogni sapere elementare, che, col chiudersi del secolo, ancora abbiano valore le tirate retoriche contro la tirannide o i sostenitori di essa. La storia oramai trova le ragioni, s'interna in esse, discute i fatti, schiva, pur troppo, le sfuriate e le declamazioni insolenti. Siamo sempre riverenti al Botta e ad altri che toccarono la corda patriotica; ma a discernere le giuste o le male cause, siamo consigliati piuttosto di attenerci al metodo del Troya e del Balbo. Io non tralasciai di arricchire la mia opera di documenti, perché indispensabili, e perché non vorrei meritarmi l'accusa rivolta agli scrittori su cennati; usai però de'  documenti per sincerare i fatti; ne usai per render vane le tante ciarle, mercé le quali sovente venne soffocata la verità da parte degli uomini di governo e da quella liberale, che si rese non meno colpevole della prima per la educazione del popolo. Poiché se parve allora necessario tener conto delle narrazioni bugiarde e violente, per arrecare discredito alle dinastie cadute, non può oggi credersi più utile e più decoroso che le istorie sieno uno strumento vile di menzogna e di codardia. La critica si è troppo affannata alle opere della demolizione; ma, contro tanto travaglio di metter giù gli edifizj pomposi, non s'internò per le escavazioni delle fondamenta, le quali, già corrose, non poterono sostenere le novelle fabbriche.

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Questo diciamo per non credere punto lodevole il costume di scrittori che, mutando in mestiere le arti della eloquenza, si ritennero fortunati nel fracassare, mentre sconoscevano le origini e gli effetti delle cause.

Le publicazioni, maggiormente in opuscoli, concernenti il periodo da noi trattato, non li abbiamo trascurati, bramosi d'avere conoscenza perfetta degli avvenimenti. Ma, dovendo con sincerità trar giudizio di essi, ci sia concesso confessare che tali stampe non lasciano traccia di vero, limitatisi gli scrittori più a seguire gli entusiasmi e le passioni ree della politica e di un partito, anzi che elevare la parola a quelle considerazioni, che soltanto possono aprire la via della educazione politica e 'mantenere la libertà. L'Inghilterra rifulge sempre: e gli splendori ultimi hanno maggior forza di luce de'  passati. La storia del popolo inglese è una storia di ammaestramenti: è la vita di una schiatta che mira sempre alla perfezione dello stato politico. La vita politica italiana, che pure potrebbe rinvenire memorie di gloria in altre etadi, dalle medievali alla chiusura di esse, rimane ancora inceppata. Cacciate le dinastie vecchie e retrograde, cacciate con mezzi anche subdoli, il costituire l'Italia non diede vantaggi al popolo, si che a studiarlo oggi, correndo nove lustri dalla unità politica, noi non lo troveremo molto disforme da quello che fu in passato, quando crede vasi corrotto per il malgoverno. Se moviamo ad indagare le cause, non ci sarà difficile scorgere il precipuo difetto nella mancata educazione, e in altro, che può rendere prospero un popolo; sicché le istituzioni libere, anche parendo che allignino, non danno que' frutti che sono il progresso della civiltà.

Oggidì più che mai importa che lo scrittore abbia una mira all'educazione politica; poiché, vergognosamente, noi ripetiamo ancora un passato di ambizione e di prepotenze; e perciò vi ha penuria d'uomini di governo che sappiano intendere al benessere nazionale. La disfatta del passato non si è verificata né per il senso morale, né per le opere materiali; e volgendo la mente alle tristi ambizioni, scopriamo uno svolgere di vicende poco nobilitanti. Lo scrittore potrebbe metter freno alle passioni prave, e, mercé esempj generosi, la gioventù crescente non avere stimolo di que' vizj e di quella corruzione, con cui si trae alla vita publica con la imperizia d'ogni coltura. Una nazione sorta da pochi anni ha necessità di grandi prove di sacrifizi per raggiungere l'auge della gloria. Ma essa non fu né è concepita dagli uomini di governo, grandi o piccoli, che, seguendo concetti empirici nella politica, ritengono tutto dover compiere coll'imporre balzelli enormi, pe' quali la prosperità si è dovuta tenere lungi, perché scarse e prive le negoziazioni,

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decaduta l'agricoltura e la pastorizia, deserte le campagne, i villici correndo in lontane terre, desolati nell'anima, non trovando in Italia un pane che assicuri loro e alle famiglie la sussistenza. Il qual malore, che affligge e tormenta, fa credere quasi vaga e academica la provvida proposta di Vittorio Emanuele III, come la chiamò la Gazzetta del Popolo, devoto alla monarchia, di un istituto internazionale in difesa dell'agricoltura; poiché non curati i mali interni, lasciate le campagne più belle, le maggiori per fertilità, incolte, come poter credere per l'Italia, secondo le parole regie che «di notevole giovamento potrebbe quindi riuscire un Istituto internazionale che, scevro d'ogni mira politica si proponesse di studiare le condizioni dell'agricoltura nei varii paesi del mondo, segnalando periodicamente l'entità e la qualità dei raccolti, cosicché ne fosse agevolata la produzione, reso meno costoso e più spedito il commercio, e si conseguisse una più conveniente determinazione dei prezzi». Questo intendimento lodevole, come gli altri propositi, potrebbe avere un plauso lieto, se le condizioni agricole volgessero prospere. Se il re avesse dato occhio allo stato miserrimo delle due maggiori isole, alle regioni napoletana e romana e ad altri luoghi, anzi che volere stabilito un istituto che avesse corrispondenze internazionali, da riuscire pel momento inefficaci, avrebbe piuttosto richiamato l'attenzione del governo negligente, che, sfruttando sempre i mentovati luoghi, non mai assicura un viver propizio, almeno per quanto concerne la cultura agraria. E non siam lontani dal credere che la istituzione proposta da Vittorio Emanuele III, anche contrariamente alla saviezza de'  suoi consigli, diverrà in breve un maneggio politico, travisando gli speculatori la nobiltà dell'intento.

Giacché l'educare non fu mai nelle intenzioni del Governo, quest'Italia, la cui briglia è sciolta, dovrebbe trovare un conforto negli scrittori. Ma essi, da quando gli studj divennero un monopolio degli editori ignoranti e poco onesti, anzi che rendere rispettate e gloriose le memorie della vita italiana, o inculcare i bisogni della Nazione, si avvalgono delle più sfrenate adulazioni, de'  mezzi più bassi per la conquista degli onori, i quali tolgon modo al sano riflettere e a quelle emende atte a rinnovare l'indole di un popolo, già decaduto per servitù ed oppressione. Negli Stati, in cui la libertà è signora degli animi, la educazione cittadina ha solenne trionfo, e in essi la letteratura e la storia sono rivelatrici della vita. Nel nostro grave difetto è la incuria, e le due generazioni, sorte dagli anni de'  rivolgimenti unitarj, pongono in disprezzo quanto può essere la rappresentazione di un popolo, può affermare una nuova civiltà.

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Si vive, dicono taluni, di transizioni; ma esse se furono l'espediente del secolo decimonono, non dovranno essere ancora il retaggio del ventesimo. Sicché indispensabile é che gli scrittori, particolarmente gli storici, si attengano a rilevare il passato, i cui errori possono essere, non che messi in dileggio con ispirito da ossessi, schivati dal presente. Però si elimini la menzogna,, si ridoni luce alla verità, potendo per essa acquistare il popolo italiano quel carattere, del quale non ha fino ad ora saputo tracciare la purezza delle linee; poiché allo Stato, siccome traeva auspicio di risorgimento Giuseppe Mazzini, nel 1833, sono mancate le norme per «rendere universale e uniforme nella direzione generale l'Educazione Nazionale» (1).

Ed ora non mi rimane, chiudendo il presente libro, che aver fiducia nelle buone accoglienze, se pure la fatica amorevole me le possano meritare.

(1) Dell'Unità Italiana in Mazzini. Scritti, voi. in, p. 262. Milano, Daelli, 1862.

Aggiunta a' Documenti del Cap. IX del vol. II

Proclamazione della Dittatura a Salemi il dì 14 maggio 1860.

Il documento, che ha tanto valore storico, fu scritto il dì 14 maggio nel palazzo del Comune di Salemi. Trenta componenti costituivano il Decurionato, oltre il Sindaco, il I ed il II eletto. Quel giorno il Decurionato fu riunito in seduta ordinaria sull'invito del Sìg. Sindaco; però il Sindaco, Tomaso Terranova, era assente, e mancavano pure il l'eletto Dottoir Francesco Lampiasi e il II eletto sig. Alberto Mistretta. La deliberazione fu redatta in doppio originale, dovendosi conservare una copia nell'archivio del Comune, ora non esistente, e un'altra offrire al Generale Garibaldi. I decurioni presenti all'appello giunsero al n° di venti; ma, compiuta la redazione del verbale, de' venti, annotati alla riunione, risposero soltanto cinque, a1 quali, poco dopo, se ne aggiunsero altri quattro. L'assenza giustifica o il timore di troppo compromettersi, ovvero il non aver visto fra'  presenti la persona più autorevole, il Sindaco. Ma volendosi la deliberazione completa, le firme dei presenti al primo appello furono raccolte alla spicciolata, facendola sottoscrivere a casa di ciascuno de'  decurioni.

La Commissione, con a capo il Sindaco, presentò con solennità il deliberato al Generale Garibaldi, ospitato nel palazzo del marchese di Torralta. Ivi Giuseppe Garibaldi ebbe omaggio da'  cittadini più eletti, anche dal clero, preceduto dall'arciprete Tibaudo. Rimasti tutti in piedi, udirono, attoniti e commossi, la parola del Generale inneggiante la patria, udirono i doveri d'ogni cittadino in que' momenti critici, i suoi propositi, la sua fede; e il clero udì che, dopo i Borboni, sarebbe venuta la volta del papa.

Il documento, una bozza della deliberazione del Decurionato, è scritto in mezzo foglio di carta non intestata dalla Cancelleria del Comune, diviso in due colonne: trovandosi a sinistra l'elenco de'  decurioni presenti, a destra la deliberazione. Ma non bastato lo spazio della seconda colonna, le ultime linee furono scritte in quella di sinistra, in fondo all'elenco de'  decurioni, sì da non rimanere nel foglio alcun intervallo (1).

(1) Queste notizie, anche riferite da un decurione vivente, Giovanni Cosenza (che non fu tra'  soscrittori della deliberazione), vennero raccolte dal Sig. G. Lampasone nell'articolo Garibaldi e Salemi, publicato nel foglio Garibaldi nel centenario della nascita (Trapani, Stabilimento Tipografico Gervasi Modica, 1907). È un errore però leggere nello stesso che nell'Archivio di Stato di Palermo si conservi la deliberazione decurionale, conservandosi soltanto il decreto originale della Dittatura.

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Seduta del 14 maggio 1860:

Decurioni presenti:

1. D. Antonino Maragioglio

2. D. Mariano Dr. Marino

3. Sig. Antonino Scimemi

4. Sig. Paolo Vultaggio

5. Sig. Leonardo Agueci

6. Stefano Angelo Rizzo

7. D. Nicolò Grillo

8. Ciro Capizzo

9. D. Ignazio Dr. Salvo

10. D. Lnigi Orlando

11. Maestro Vincenzo Presti

12. Dr. D. Alberto Adragna

13. D. Gennaro Parlato

14. D. Pietro Montagnolo

15. D. Vito Bonacasa

16. D. Francesco Scurto

17. Maestro Antonino Rubino

18. Maestro Gaspare Amico

19. Maestro Melchiorre Angelo

20. D. Antonino Ferrante.

Salemi, li 14 maggio 1860.

Il Decurionato riunitosi in seduta ordinaria sull'invito del signor Sindaco in occasione del fortunato arrivo del prode Generale Garibaldi nel sudetto comune ha deliberato ad unanimità di voti di manifestare la sua riconoscenza a cosi inclito personaggio, che ha risoluto spontaneamente assumere la difesa della Sicilia, e di pregarlo a voler prendere la dittatura del paese per assicurarne l'ordine e la libertà, cacciando i satelliti del dispotismo borbonico. Il Decurionato fa completa adesione alla causa nazionale e fa voti che la Sicilia fosse unita alle provincie emancipate d'Italia raccolte sotto la potente Egida del valoroso e leale Re Vittorio Emanuele. Il Decurionato non fa che esprimere i voti di questa popolazione di cui è rappresentante, manifestando il desiderio che la Sicilia facesse parte della grande famiglia italiana e concorra anch'essa alla formazione dell'unità, e dell'indipendenza della penisola

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INDICE ALFABETICO  DEI NOMI DELLE PERSONE E DEI LUOGHI CHE RICORRONO NEI DUE VOLUMI (1)

Abba (Giuseppe Cesare). II, 347, 349. Abbate. II, 237. A bela (Giuseppe). II, 430. Aberdeen. II, 68. Aberovamby. I, 495, 496. Abruzzi. I, 91, 344, 374, 381, 496;

II, 209, 223, 237, 413, 543. Accarisi (Giuseppe). I, 78. Accopardi (Ga II, 438. Acerbi. II, 218, 221, 323, 392, 397. Aceto (conte). II, 8. Aci (principe di). I, 232, 276. Acireale. I, 177, 194, 480; II, 245. Acquaroni (Gabriele). I, 149. Acquaviva. II, 114. Acquisto (Benedetto d'). II, 130. Adda. I, 339.

Ademò. I, 510, 512; II, 366, 376, 377.

Adorno (Carmelo). 1, 168, 169;II, 430 Adorno (Mario). I, 159, 160, 162,

163, 166, 168, 169, 170; II, 430. Adragna (Alberto). II, 628.

Adriatico. I, 91, 339; II, 561.

Aducci (Giosuè). I, 263.

Afan de Rivera. II, 364, 518, 524,

525, 526. Afflitto (Rodolfo d'). II, 475. Africa. I, 26, 240. Agosta (Giuseppe). II, 390. Agosta (Pietro). II, 390. Agostini (Cesare). IT, 34. Agostini (Gioacchino d'). II, 404. Agresta (Giacomo). II, 146. Agresti. I, 195. Agueci (Leonardo). II, 628. Airenta (Girolamo). II, 349. Aiossa. II, 118, 140, 177. Ajala. I, 412. Ajello (Filippo). II, 103. Ajello (Rosario). II, 17. Alaimo (Filippo). I, 89. Albania, I, 63. Albini. II, 413.

Alcamo. II, 171, 195, 216, 223, 230, 253, 267, 321, 327, 330, 344, 363, 390, 392, 393. Alessandra Feodorowna. I, 239.

(1) Nell'indice alfabetico non figurano:

1° Il notamente dei Pari e dei Deputati del Parlamento del 1848 (da pagina 83 a pag. 87 del vol. II).

2° Quello degli emigrati, citi fn permesso di rimpatriare (pag. 124 detto).

3° Quello dei rimpatriati da giugno a dicembre 1859 (pag. 147 e 148 detto).

4° Quello degli emigrati, che non domandarono grazia pel rimpatrio (da pag. 148 a 150 detto).

5° La nota dei congiurati che Iniziarono la rivoluzione del 4 aprile 1860 (pag. 148 detto).

6° Gli elenchi dei Mille (da pag. 270 a pag. 318 detto).

7° Il notamente dei Comuni che fecero il plebiscito (da pag. 577 a pag. 579 del vol. IT).

Alessandria. 1, 170, 175; II, 220, 384. Alessandria d'Egitto. I, 118. Alessandro II. Il, 71. A lessi (Giuseppe) II, 129. Alestra. II, 267. Alfieri (Carlo). I, 282. Alfieri (Vittorio) I, 40, 41, 210. Alfonso, conte di Caserta. II, 518. Algeria. I, 62; II, 561. Ali. I, 505, 506, 507, 508. Ali (Giulio). II, 389. Alliata (Giuseppe). 1, 232, 233; II, 8. Allini (generale). I, 126. Alpi. I, 187; II, 187, 618. Altavilla. I, 300; II, 171. Aly (pascià). II, 99. Amari (Emerico). I, 33, 54, 288, 291, 359, 397, 468, 497; II, 39, 102, 129, 411.

Amari (Francesco). II, 159. Amari (Gabriele). I, 291. Amari (Michele). I. Ili, 112, 206, 207, 208, 218, 219, 229, 288, 289, 321, 357, 397, 398, 448, 495; II, 30, 3839, 129, 237. 248, 257. Amari (conte Michele). II, 385, 386. Amat. I, 260. Amati. I, 61.

Amato (Raimondo). II, 396. Ambrogi (de). I, 149. Amburgo. I, 63. Amendolara. I. 373. America. I, 230; II, 62, 357. Amici (de). II, 324. Amico (Gaspare). II, 628. Amico (Ugo Antonio). II, 129. Amodei (Pietro). I, 294, 295. Amorelli (monsignor). I, 181. Ancarano (Raffaele). I, 263. Ancona. 1, 50, 77, 123, 235, 260; II, 479,

532, 536, 543, 563. Andolfi. II, 360. Andrea (d'). I, 61. Andria. II, 114. Anfossi. II, 218, 221. Angelo (Giuseppe d'). I, 137; II,

170, 362. Angelo (Melchiorre). II, 628. Angelotti (Francesco). I, 97. Angheri. II, 522. Angiò (duca d'). I, 232. Angioletto. II, 342. Angitola. I, 386.

Angrogna (marchese di). II, 554. Anguillara. II, 102.

Anguissola (Amilcare). II, 408. Anna (Andrea d'). II, 121. Anna (Antonio d). I, 199. Ansai di (generale). II, 70. Antonelli (cardin. ). II, 478, 502, 503. Antoni. I, 149.

Antonini (Giacomo). I, 237, 238, 2M. Anversa. I, 149. Aquila. I, 263.

Aquila (conte d'). I, 277, 296, 303;

II, 77, 140, 416. Arago (Francesco). I, 95, 185. Arancio. I, 163; II, 8. Arceri. II, 389. Archi. II, 418, 419, 422. Ardiglio. I, 185, 189. Ardito (Giuseppe). II, 475. Argentino. II, 225. Argento (Gaetano). I, 39, 168. Argento (Salvatore). II, 247. Ariano. II, 509. Armar ri (Cesare). I, 81. Arnoldo (Giuseppe). II, 103. Arpino. I, 118, 123. Arrivabene (Teresa). II, 53. Artale (marchese). II, 145. Artale (Michele). II, 8, 29. Ascenso Spadafora. I, 298, 308, 50S,

509, 510. Ascoli (duca d') I, 270. Ascoli (Luigi d'). I, 114. Aspromonte. II, 464. Assante (Domenico). II, 68, 248, 334,

521, 522. 523, 525. Assia. 1. 63. Aste (d1). II, f49. Asti (marchese d1). II, 235. Atene. II, 64, 383, 439, 441. Attanasio (Giuseppe). II, 29. Augusta. I, 471. 478, 480; II, 7, 549. Augusto. II, 176. Auriemma (Giuseppe). II, 8, 29. Austria. I, 20, 38, 50, 62, 64, 67, 68, 89, 91, 93. 94, 96, 110, 183, 14, 212, 230, 240, 254, 256, 258, 259. 260, 262. 266, 267, 268, 341, 342. 344, 359, 361, 363, 364, 366, 367, 373, 397, 444, 451, 495; II, 23, 33, 34, 37, 40, 53, 63, 71, 72, 73, 76, 94, 95, 112, 113, 114, 115, 116, 117, 118, 119, 122, 123, 130, 131, 132, 133, 139, 145, 162, 187, 198, 199, 204, 221, 238, 384, 461, 485, 487, 504, 532, 561, 564, 574, 597. 602, 604, 613, 617, 618.

Avella (Domenico). I, 214, 215, 222.

Avellino. I, 230; II, 114, 469.

Averta. II, 517.

Avezzana (generale). II, 529.

Avola. I, 162, 169.

Ajala (Mariano d'). I, 269, 272; II,

460, 517. Ayebardo Aycard (Arsenio). 1, 226,

227, 229, 242, 243. Azeglio (Massimo d'J. I, 229, 230, 257.

Barbagallo. 1, 167. Babeuf. I, 248.

Bagkeria, I, 295, 299; II, 56, 91, 103, 151, 189, 192, 195, 342, 364. Bagnarci. I, 383, 401; II, 465, 492. Bainard. I, 160. Bairano. II, 516.

Balbo (Cesare). I, 256, 282; II, 623. Baldacchini (Michele). I, 59. Baldacchini (Saverio). I, 59. Baldini (Germano). I, 82. Balducci (Francesco II, 103. Ballotta (Vincenzo). I, 88. Baltico (mare). II, 90. Balutcheri (Paolo). I, 88. Bandi. II, 221.

Bandiera (Attilio). I, 234, 235, 236,

249, 368, 370, 393; II, 75. Bandiera (Emilio). I, 234, 235, 236,

249, 368, 370, 393; II, 75. Bandoli. I, 197. Barattieri (Oreste). II, 348. Barbalonga (generale). II, 518. Barberia. II, 224.

Barcellona (Sicilia). I, 135, 137, 138, 141, 185, 195, 416, 504; II, 216, 253, 416, 417, 418, 419, 451. Bargucs (Antonio). I, 136. Bari. II, 114, 117, 469, 542. Barnaba da Terni. I, 24. Barnazzi. I, 197. Baroncelli (Andrea). I, 81. Barone (Michelangelo). II, 177, 193. Barracco. I, 99, 10Ò. Barraco (Ippolito). II, 159. Barrante (Liborio). II, 171. Barrile (Giuseppe). I, 88. Barrili. II, 549. Basilicata. I, 874, 381. Bassarabia. II, 71. Bassi (Ugo). I, 154, 155, 240.

Bassini. II, 221. Basso. II, 221. Bastide. I, 397. Battaglini (Vincenzo). 1, 197. Baudin (ammiraglio). I, 347, 416, 444, 448, 460, 462, 466, 473, 478, 481, 491, 492, 493, 494; II, 10, 11, 29, 616. Bava (Eusebio). I, 375. Baviera. I, 62. Beato. I, 197. Beaufort. I, 195. Beaumarchais (Napoléon). I, 82. Beaumont. I, 448. Beccaria (Cesare). I, 22; II, 609. Bedeau. II, 39. Belfiore (Michele). II, 103. Belforte. II, 424. Belgio. I, 62, 67, 322; II, 561. Bell (James). II, 354. Bella (Mgr. ). II, 479. Bellardini (Francesco). I, 263. Bellelli. II, 237. Bellettieri (Calogero) II, 159. Bellina (Giuseppe). II, 18. Bellini (Vincenzo). I, 129, 130, 131. Bcllintona. II, 210. Bello (Michele). I, 279, 289, 372. BelmonteMettagvo. II, 192, 332, 338. Belmonte (principe di). I, 232. Beltrame (Martino). II, 159, 251. Beltrani (Vito). II, 8. Belvedere Spinello. I, 234. Benedetto XIII. 1, 61. Benedetto (Salvatore di). II, 245. Beneventano, vedi Bosco. Benini (Giuseppe). I, 263. Benini (Luigi). I, 190. Bennici (Francesco). II, 171. Bennici (Giuseppe). II, 171. Bensa. I 149.

Bentinck (Guglielmo). I, 42; II, 612. Bentivegna (Francesco). II, 61, 77, 78, 79, 80, 108, 120, 141, 151, 617. Bentivegna (Stefano). II, 79. Bentivoglio (conte). I, 80. Berardi (Battista). I, 263. Berchetta. II, 220, 221. Berghieri. I, 174. Beriguardi (Clementina). I, 199. Beriguardi (Maria). I, 199. Berna. II, 212, 237. Bernardino da Feltre. I, 24. Bernetti (cardinale). I, 79, 80, 110, 117, 260.

Bertani (Agostino). II. 207, 218, 219, 259, 260, 261, 262, 326, 384, 385, 386, 406, 409, 458, 460, 475, 534.

Berthollet (Claudio Luigi di). I, 40. Berti. I, 235. Bertini (G. B. ). Bertolani (Michele). II, 102. Bertolucci. I, 99, 105. Bertrand (Victor). I, 117, 118. Bettoni. II, 465. Besika. IT, 62. Biagini (Filippo). I, 137. Biamonti. I, 163. Biancavilla, I, 513; II, 376. Bianchi. II, 423. Bianchi (conte). I, 118, 123. Bianchi Giovini (Aurelio). II, 76. Bianchini (Gerlando). 11, 8. Bianchini (Ludovico). I, 216. Binotti (Filippo). I, 263. BÌ8acquino. II, 381. Bisazza (Felice). I, 193; II, 129. Bisignano (principe di). I, 270. Bitonto. II, 122. Bivona. I, 295, 392. Bivona (Gaspare). II, 176. Bixio (Adelaide). II, 335. Bixio (Nino). II, 217, 218, 221, 223, 237, 257, 259, 260, 320, 323, 335, 338, 339, 340, 386, 389, 392, 421, 462, 464, 466, 516, 519, 520, 523, 524, 530. Bianca (Filippo) II, 25. Blasi (Giovanni Evangelista di). I 64.

Blasi (Salvatore di). II, 133. Bloff (conte). II, 99. Boccadifalco. I, 229; II, 188. Boccheciampe (Pietro). I, 234, 235,

249, 250. Bodoni (Giambattista). I, 40. Boldrini. II, 221.

Bologna. I, 68, 76, 77, 78, 79, 80, 83, 137, 184. 197, 231, 233, 235, 238, 248, 342, 499; II, 210. Bolognini. II, 423. Bonacasa (Vito). IT, 628. Bonafede. II, 372. Bonamini (Giovanni). I, 197. Bonanni (Cesirio). I, 312. 331. Bonanno (Vincenzo). II, 249, 335. Bonaparte (Carlo). I, 239. Bonaparte (famiglia). I, 110. Bonaparte (Gerolamo). II, 113.

Bondoli (Luigi). I, 231. Bonfìglio. I, 185. Bondì (Livio). I, 81. Borchetta. II, 387. Bordeaux (duca di). 11, 39. Bordoni. II, 521.

Borelli (Giovanni Alfonso). I, 193. Borelli (Vincenzo). I, 70. Borgati (Luigi). I, 263. Bongiardino (Giuseppe). I, 303. Borghesi. II, 521, 522. Borghi (Giuseppe). I, 154, 155, 191,

192, 199, 203. Borgiflawski. II, 520. Borrini (Alessandro). I, 237, 238. Borruto (Gaetano). I, 278. Boscarello (Michele). II, 169. Boschi (Antonio). I, 81. Bosco. I, 170.

Bosco (Ferdinando). II, 337, 344, 380, 394, 395, 418, 419, 420, 421, 422, 423, 424, 425, 427, 480. Bosco (Nicola del). I, 103, 104. Bosforo. II, 71. Bosy. I, 149.

Botta (Carlo). 1, 41, 90; II, 78, 79, 623.

Botta (Niccolò). II, 78, 79.

Bottaro. I, 152, 174.

Bottero. II, 476.

Boucardi (Emanuele de). I, 86.

Bouel. I, 149.

Boulard. II, 100.

Bovi. II, 221.

Bozzani (Eligio). II, 348.

Bozzelli (Francesco Paolo). I, 239,

312, 331. Bracco (Francesco). II, 159. Bracco (Giuseppe). II, 385. Brancaccio (Francesco). II, 159. Branciforti. I, 295. Branciforti (Emanuele). II, 159. Brandi. II, 412. Brasky (Felice). I, 105. Brassieu. I, 138. Brenier. II, 76. BresBon (Ernesto). I, 302. Brida. II, 423. Brienza (Rocco). 470. Briganti. II, 343, 468, 469. Brizzi (Luigi). I, 263. Brofferio (Angelo). 1, 282; II, 63, 310. Bronte. I, 510; II, 376, 462. Bronzetti (Narciso). II, 523. Bronzetti (Pilade). II, 423, 521, 523, 524, 527, 530.

Bruneln. I, 149. Bruno. I, 294. Bruno (Giovanni). I, 88. Bruno-Giordano (Giuseppe). II, 146,

167, 170. Brunoro (barone). II, 99. Brusco-Ounis. II, 220, 387. Bruxelles. I, 255; II, 76, 107. Bruzzesi (Giacomo). II, 221, 225,

2)

BuenosAyres. I, 63. Buoi (conte). II, 71, 99. Buonopane. II, 397. Burgarella (Baldassarre). II, 267. Burgio (Giuseppe). I, 385, 396. Busacca (generale). I, 275, 381, 383,

2)394, 395, 401. Buscemi. I, 294, 295.

Butera (principe di). I, 232, 319,

2)492, 502. Buttà. II, 321.

Cabella. II, 533.

Cabet. I, 185.

Caecamo. II, 243, 244, 245.

Cacioppo (Mariano). II, 351.

Cadolini. II, 407.

Cadore. II, 562.

Cagliò. I, 278.

Cagliari. II, 83, 258, 362, 407, 412,

439, 440, 441, 442. Caiatzo. II, 511, 513, 515, 517, 518. Cairoli (Benedetto). II, 221, 320,

323, 340, 348, 386, 388, 395. Cairoli (fratelli). II, 218. Calabria (duca di). II, 116, 121. Calabrie. I, 119, 124, 233, 272, 273, 290, 373, 374, 377, 383, 385, 386, 387, 393; II, 40, 41, 42, 68, 248, 383, 413, 440, 441, 443, 462, 464, 465, 495, 615. Calabrò. II, 151. Calamezzana. II, 87. Calandra (Gaetano). II, 177, 193. Calanna. I, 276.

Calaiafimi. I, 48; II, 220, 227, 320,

3)322, 323, 324, 325, 326, 327, 328, 329, 330, 334, 337, 341, 344, 346, 348, 349, 350, 374, 379, 387, 389, 390, 391, 392, 393, 425, 430, 485, 549, 577.

Caldara (Giuseppe). II, 17. Caldarelli (generale). II, 469.

Calderone. II, 393, 394. Caldesi (Vincenzo). I, 231. Calefati (Giovanni). 11, 88. Cali. I, 445.

Calojero. I, 234, 249, 250. Coltagirone. II, 02, 245, 347, 349,

375, 37H, 377. Caltanissetta. I, 73; II, 19, 67, 154, 196, 197, 203, 246, 320, 360, 361. Calvi. II, 543.

Calvi (Pasquale). I, 320, 346, 347,

358, 413, 502; II; 8, 252, 616. Calvino (Angelo). II, 389. Calvino (Salvatore). I, 393; 11, 217,

220, 221, 331, 383, 500. Camaritta (Pietro), I 83. Cambiamonete (Luigi). II, 441. Camorrone (Sebastiano). II, 170, 177, 193.

Cammarata (Carmelo). II, 8. Cammarata (Francesco). II, 8. Cammarata (barone). II, 199, 239, 241.

Camodeca (Giuseppe). I, 233. Camodeca (Raffaele). I, 368. Campana (Alvarez). I, 136. Campo. I, 119, 124. Campo (Antonio). II, 182. Campo (Francesco). II, 146. Campo (Giuseppe). II, 348, 349. Campofelice. II, 236, 246. Campofranco (principe di). I, 61,

128, 152, 186, 247, 303. Campo Tanese. I, 385, 386. Canal (Bernardo de). II, 52. Canalotti (barone di). II, 87, 88. Canceri (Cono). II, 177, 193. Cancilleri. I 232. Candullo. I, 167. Candullo (Nino). II, 163. Canesse. I, 139. Canicatiì. II, 360. Canicattini. I, 162. Canino (principe di). I, 239. Cannella (Giovanni Battista). 1, 260. Cannevazzi (Cesare). I, 263. Canning (Giorgio) I, 267. Cannitello. II, 492. Cannizzaro. I, 480, 507. Canofari. II, 203, 237. Canosa (principe di). I, 133. Cantù (Cesare). I, 239. Canuti. I, 118, 123. Capace. I, 360. Capaci. II, 189, 239, 241.

Capaci (contessa). II, 246.

Capaci (Gerolamo). II, 209.

Capini (Adolfo). I, 82.

Capizzo (Ciro). (I, 628.

CapodimonU. II, 125, 139.

Capodistria (conte). I, 90.

Caponata. I, 276.

Capozzi. II, 465.

Cappelli. I. 381.

Capraia. II, 248.

Caprera,. I, 55; II, 461, 508, 543, 557, 584, 597.

Caprioli (Giuseppe). I, 63.

Capua. I, 118; JI, 77, 470, 509, 510, 511, 513, 515, 517, 518, 519, 521, 522, 525, 526, 527, 528, 529, 530, 544, 557, 580, 589.

Capua (principe di). I, 97, 134, 135.

Caputo (Vincenzo). Il, 114.

Caracciolo (Emanuele). II, 444.

Caracciolo (Nicola). II, 414.

Carafa. II, 66, 68, 76, 102, 107, 116, 203, 204, 212, 233, 237, 238, 247, 248, 252, 253, 257, 266, 268, 269, 351, 354, 382, 383, 438, 439, 442.

Carafa (Luigi). I, 78, 79.

Carafa di Noja (generale). 1, 152, 166.

Caraffa (Ettore), II, 141.

Caraffa (maresciallo). I, 165.

Caravita (Giovanni). T, 263.

Carbone (Salvatore). I, 82.

Carciola (G. B. ). II, 38.

Cardella (Gerolamo). I, 88.

Cardella (Salvatore). I, 89.

Carducci. I, 385.

Careli (monsignor). I, 79.

Cariati (principe di). I, 389, 439, 441, 442, 443, 444, 452, 455, 456, 457, 460, 462, 463; II, 29.

Carignano (principe di). I, 82.

Carini. I, 157; II, 56, 171, 189, 200, 201, 239, 241, 245, 337, 353, 372.

Carini. II, 247.

Carini (Giacinto). I, 294, 295; II, 77, 218, 221, 231, 320, 323, 336, 338, 340, 348, 350, 386, 387, 393, 397, 421, 423, 426.

Carlentini. I, 158.

Carley. I, 190.

Carlo II. I, 22, 193.

Carlo III. I, 39, 59, 96, 225, 270, 364; II, 111, 116, 607, 608, 609, 610, 611, 618.

Carlo VI. I, 61, 225; II, 607.

Carlo Vili. I, 253.

Carlo X. I, 62, 64, 66; II, 166.

Carlo Alberto. I, 38, 67, 82, 92, 93, 95, 96, 116, 170, 171, 258, 266, 281, 339, 342, 344, 346, 358, 359, 360, 397, 446, 449, 468, 471, 484, 496, 498; II, 256, 532, 574, 616.

Carlo Emanuele. I, 40.

Carlo Emanuele III. I, 41; II, 608.

Carlo Felice. I, 375.

Carnazza (Gabriele). I, 163, 358; II, 8.

Caronia. II, 209, 232, 233.

Caropreso. I, 61.

Carra (Giovanni). II, 209

Carrano (Francesco). II, 385.

Carrara. I, 50.

Carrara. II, 121.

Carrara (Francesco). I, 27.

Carrascosa (generale). I, 72, 82, 110, 118, 123, 185.

Carreca. II, 151.

Carrel (Armando). I, 185.

Carrozza (Giovanni). I, 278, 279.

Caruso (Paolo). II, 133.

Casa (ammiraglio de). I, 339.

Casaccini (cardinale). 1, 117.

Casano (Salvatore). II, 121.

Casella. II, 139, 594.

Caselli (Raffaele), I, 86.

Caserta. II, 117, 123, 510, 514, 515, 516, 517, 518, 522, 524, 525, 526, 527, 528, 529, 530, 531, 544, 551.

Casori (Luigi). I, 263.

Cassano. I, 373, 384, 385, 386, 394.

Cassaro (principe di). I. 68, 71, 72, 76, 77, 79, 81, 82, 109; II, 140, 172 178 189

Cassinis (G B. II, 554, 583, 584, 585.

Cassisi (Giovanni). I, 152, 165 166, 304: II, 18, 22, 32, 33, 42, 43, 59. 79, 356

Cassola. 1, 475.

Castagna (Giuseppe). II, 182.

Castagnetta. I, 498.

Castaldo. II, 346.

Castelcicala (principe). Vedi Ruffo (Paolo).

Casteldaccia. 1, 300.

Castelfidardo. II, 479.

Castellammare del Golfo. II, 103, 223.

Castellano (Francesco). II, 249.

Castelli. I, 193; II, 440.

Castel Morrone. II, 516, 517, 523, 524, 527, 530.

Castelnuovo (principe di). I, 232.

Castiglia (Salvatore). II, 217, 218, 224, 225, 231, 320, 350, 400, 463, 464, 465, 466, 491, 492.

Castrogiovanni. II, 335.

Castrone (Giuseppe). II, 42.

Castroreale. I, 504.

Castrovillari. I, 353, 384, 385, 393, 394; II, 469.

Catalano (Gaetano). I, 177, 38, 448, 502; II, 184.

Catania. I, 98, 113, 129, 131, 150, 161, 162, 163, 165, 166, 167, 170, ITI, 176, 177, 178, 180, 188, 190, 193, 203, 230, 244, 312, 332, 418, 478, 479, 480, 486, 502, 510, 511, 512, 513; II, 7, 9, 29, 35, 39, 42, 56, 67, 89, 92, 103, 108, 109, 154, 161, 163, 164, 171, 174, 177, 183, 197, 200, 202. 210, 234, 237, 238, 245, 320, 327, 329, 350, 357, 358, 359, 361, 363, 365, 375, 462, 616.

Catanzaro. I, 271, 373, 374, 381, 384, 386, 395; II, 469.

Catara Lettieri (Antonio). II, 130.

Catana. I, 273.

Cattaneo (Alessandro). II, 420.

Cattaneo (Carlo). I, 28; II, 407, 538.

Cattaro. I, 91.

Cattolica. II, 479.

Cava. I, 278.

Cava dei Tirreni. II, 470.

Cavaignac. I, 185; 11, 39.

Cavallaro. I, 503.

Cavallotti (Felice). II, 407.

Cavassi (Bartolomeo). I, 82.

Cavassini (G. B. ). I, 81.

Cavour (Camillo di). I, 14, 15, 16, 26, 27, 28, 36, 44, 48, 54, 256, 282; lì, 63, 71, 72, 73, 74, 81, 110, 113, 114, 117, 130, 145, 150, 153, 158, 176, 193, 208, 217, 248, 384, 405, 409, 411, 412, 428, 429, 457, 458, 460, 461, 466, 473, 475, 476, 478, 480, 504, 508, 531, 532, 533, 534, 537, 538, 539, 543, 545, 550, 554, 557, 560, 561, 562, 563, 564, 565, 567, 596, 597, 601, 602, 603, 618, 619.

Ceccarelli. I, 118, 123.

Cecchini (Pietro). I, 82.

Cecilia (La). II, 102.

Cecolini (Claudio). I, 81.

Cefali. II, 78, 79, 154, 209, 233, 236,

246, 416, 617. Celeste. II, 25. Ceneri (col. ). Il, 500. Cenni. II, 221. Centorbi. II, 377.

Cerda (marchese della). I, 152, 166,

347, 448. Cernala. Il, 70, 131, G18. Cerniti. I, 175. Cesare (Carlo de) II, 675. Cesareo (Santo). I, 368. Cesarò (duca di). Il, 199, 239, 241. Ceschi. II, 117. Cesena. I, 118, 122, 137. Cessai(Adolfo). I, 175. Cette. I, 141. Ceva. I, 40. Chambéry. II, 480. Changarnier. II, 39. Chiabiera (generale). II, 559. Chiara (Francesco di). II, 184. Chiaramonte Rosario. II, 252, 361, 362

Chiarenza (Calogero). II, 184. Chigi (principessa). I, 196. Chindemi (Salvatore). II, 8. Chinnici. 11, 236, 245, 246, 378. Chiusa Scia foni. II, 380, 381, 382. Chretien. II, 345. Ciacchi (cardinale). I, 34', 343. Ciaccio. I, 294; II, 320. Ciaccio (Alessandro). II, 386. Ciaccio (Vincenzo). II, 18. Cialdini (generale). II, 479, 480, 543,

544, 557, 558, 559. Cianciolo. II, 418, 423. Cianciolo (Francesco). I, 294, 295. Cianciolo (Giambattista). I, 294, 2i5. Cianciolo (Giuseppe Gaetano). I,

294, 295. Cianciulli (cav. ). L 312. Ciatta (Matteo). II, 169. Ciccone (Antonio). II, 475. Ciceruacchio. I, 265. Cilento. I, 63, 16", 170, 171, 364,

381; II, 248, 613. Cimarosa. I, 129. Ciminna. II, 77, 243f 244, 251. Cina. I, 240.

Cinga (Giuseppe). II, 18. Cioffi. I, 168. Cipriani. II, 209. Ciraulo (Martino). I, 88. Citta. II, 267.

Città di Castello. II, 479. Ciudafj (maggiore). II, 510. Civitavecchia. I, 50, 342, 360; II, 383. Civitella del Tronto. 11, 557, 558, 559. Clarelli. I, 77.

Clary (Tommaso de). II, 171, 375,

425, 426, 427, 452, 453. Clarendon. II, 71. Clemente XI. I, 61. Clore (Claudio). I, 126. Clotilde di Savoia. II, 114, 115. Cludafy. II, 514. Cobiauchi. I, 72.

Cochrane (Thomas). II, 181, 205, 263. Cocle (Celestino). I, 270, 280. Cocuzza. II, 393, 394. CoffaCaruso. Il, 129. Colella. I, 118, 119, 123, 124. Colletta (Pietro). I, 69; II, 600. Colli. I, 499.

Colli San Lorenzo. II, 170, 188, 191. Colombia. I, 63. Colombo (Antonio). II, 323. Colonna (Calogero Gabriele). Vedi

Cesarò (duca di). Colonna (generale). II, 343, 518. Comacchio. I, 343.

Comitini (principe di). II, 172, 179, 195, 1%, 197, 199, 200, 201, 202. Como. II. 52, 209, 223, 350, 430. Conciliis (Lorenzo de). I, 73, 118, 123.

Confalonieri (Federico). I, 230, 247, 248, 266.

Conforti (Raffaele). I, 39; II, 475, 508, 538, 539, 542, 546, 570, 572. Conti (Giacomo). I, 137. Conti (Giovanni). II, 20. Copenhagen. II, 99. Coppi, li, 315. CoppiToscanelli. Il, 237. Coppola (barone). II, 102, 320. Coppola (G. B. ). II, 546. Coppola (Giuseppe). II, 230, 390. Corboli Bussi. I, 260. Corbus. II, 104.

Cordero di Montezemolo (Massimo).

II, 554, 585, 589. Cordone (Giovanni). II, 169. Cordova (Filippo). I, 388, 445; II, 8,

129, 350, 476, 488. Corfii. I, 69, 82, 90, 115, 118, 123, 234, 249, 386, 395; li, 216, 257, 383. Corigliano. I, 385. Corigliano (Nicola). I, 233, 368.

Coriolo. II, 418, 419, 420. Coricane,. I, 157; II, 23, 77, 78, 79, 154, 171, 195, 227, 236, 246, 269, 333, 337, 344, 379, 380, 382, 395, 617

Coi né (de). I, 277. Corneso. II, 237.

Corradori (march. Gaetano). 1, 263. Corrao (Giovanni). II, 29, 211, 331, 333, 393, 394, 421, 520, 522, 537. I Correnti. I, 168.

Corsica. I, 72. 81, 115, 126, 132, 138,

141; II, 387, 618. Corso (Capo). II, 408. Cortada (Antonio). II, 443. Corte (Clemente). II, 408, 42), 423, 517.

Corteggiarli. I, 295. Corteggiani (Domenico). II, 171. Corteggiani (Francesco). II, 159. Cortes. II, 367.

Cortese. I, 193.

Corvaia (barone). II, 70.

Cosenz (Enrico). I, 340; li, 102, 135, 249, 252, 362, 385, 408, 412, 417, 418, 420, 421, 422, 423, 425, 432, 443, 464, 465, 466, 468, 471, 475, 513, 517, 546.

Cosenza. I, 233, 235, 368, 373, 381, 384, 386, 393, 394, 395; II, 51, 469. Cossins. li, 264.

Costa (capitano). I, 504, 505, 506. Costantini (Giovanni). I, 33. Costantino (Giacomo). II, 103.

Costantino (marchese Giuseppe). II,

62, 245, 362. Costantinopoli. II, 63, 64, 133, 176, I 192, 250. |

Costanzo (Salvatore). 1, 216, 217, 222. Cotrone. I, 234, 249, 250. 1

Cowley (lord). II, 117. Cozzo (Ferdinando). II, 61. Cracovia. I, 267, 284. Cremoli (Giovanni). I, 178. Crescenti (Giovanni). II, 182. Crescenti (Giuseppe). Il, 182. Crimea. II, 63, 67, 70, 93, 95, 100, 139,

574, 602. Criscelli (Giacomo). II, 410. Crispi (Francesco). 1, 15, 292, 358, 467, 468; II, 18, 32, 33, 39, 146, 209, 210, 217, 221, 224, 227, 231, 259, 384, 389, 390, 397, 400, 403, 404, 405, 417, 428, 476, 478, 557. Crispi (Rosalia). II, 389.

Croff (maggiore). II, 422. Crotti di Castiglione(tenentecolon

nello). I, 45. Cucchi. II, 341.

Cucinotta (Domenico). II, 170, 177, 193.

Cudia (Lorenzo). II, 121. Cutìaro (Andrea). II, 177, 193. Culez. II, 52

Culotta (Gioachino). I, 88; II, 78. Cumbo (Paolo). I, 163, 164; II, 118, 140, 141, 146, 152, 153, 155, 156, 159, 160, 179. Cuinia (duca di). 1, 83, 90, 102, 176. Cusa. II, 237. Cutrera (Paolo). II, 48, 57. Cutrofiano (generale). II, 518. Cutrona. II, 465. Cuzzolino. I, 272.

Daita (Gaetano). II, 405. Dalbono. I, 59. Damiani (Abele). II, 121, 406. Damiani (Giovan Maria). II, 349. Dandolo. I, 91. Danevaro (Filippo). II, 267. Daniele (Giovanni). I, 220. Danimarca. I, 20. Danubio. II, 71, 95. Darasz II, 51. Dardanelli. II, 62, 71. Davi. I, 294. Deana. II, 70. Deci. I, 197. De Cornet. II, 544, 545. De Courten (generale). II, 479. Dlcarretto (Francesco Saverio). I, 63, 66, 86, 88, 98, 133, 165, 166, 167, 168, 169, 170, 171, 179, 181, 15, 187, 191, 192, 194, 208, 212, 213, 214, 215, 216, 218, 221, 222, 223, 230, 231, 239, 248, 262, 269, 271, 272. 283, 287, 288, 311, 365; II, 19, 77, 613. DeJulinetz. II, 100. Delli Franci. I, 385. De Massoins. II, 521. Denaro (Giuseppe). II, 17. Denina (Giacomo Maria Carlo). I,

40, 41. Denti (Giovanni). I, 188. Denti (Giuseppe). II, 235, 246. Dentice (principe). I, 312, 331.

41 — Gt akdione. II.

Deo (de). II, 141.

Depretis (Agostino). I, 15; II, 413,

428, 472, 475, 476, 498. Désanges o Desendages. I, 133, 141. Desauget (Guglielmo). II, 475. Desauget (Roberto). I, 296, 297, 298, 299, 300, 306, 307, 318, 431, 468. Dezza. Il, 221, 523. Diliberto (Santa). I, 294. Diversi (generale). I, 401. Domagolascki. II, 520. Domingo (Luigi). II, 393. Donsto (D. ). I, 98. Donato (Rosa). I, 316, 411. Dora. II, 131. Dottesio (Luigi). II, 52. Drago (Marial. I, 113, 114. Drezza. II, 519. Ducevta. II, 516, 517. Durando. I, 231.

Durando (Giacomo). I, 232, 256, 282;

II, 560. Durando (Giovanni). I, 232. Durante. I, 129.

Eber. II, 513, 525.

Eberhardt. II, 519, 520.

Edgecuinbe iMounte). I, 314, 315.

Egadi. II, 387.

Egitto. I, 63.

Elba. I, 50.

Eletti (Pietro). I, 82.

Elia. II, 349.

Elliot. II, 564.

Ellul. II, 121.

Emilia. II, 145, 384, 504, 538. EmilianiGiudici (Paolo). II, 129. Enea. I, 294, 295. Enea (Salvatore). II, 159. Enrico II. I, 121. E reo la no. I, 39. Ercolano (Ludovico). I, 197. Eritrea (Colonia). I, 28. Errante (Vincenzo). I, 444. 502. Esculbeto. II, 176, 192.

Fabiano (Aristide). I, 231. Fabretti (A. ). I, 501. Fabri (Vincenzo). I, 263. Fabricotti. II, 257.

Fabrizi (Nicola). I, 115, 375; II, 103, 104, 174, 252, 400, 406, 470, 477. Fabrizi (Paolo). I, 375. Faccioli (Giulio). II, 52. Faenza. I, 231. Faja (Antonino). I, 88. Faja (Bartolomeo). II, 8, 29. Faja (Giovanni). II, 159. Faldella. I, 61; II, 520. Falla. II, 232.

Fanaro (Michele). II, 177, 193. Fanelli. II, 381. Fanini. I, 196.

Fanti (Manfredi). II, 384, 479, 534,

543, 554, 584. Fantini (Lodovico). I, 263. Fardella. II, 350, 522. Fardella (E. ). II, 257. Fardella (generale). I, 70, 386, 395. Fardella (Vincenzo). I, 320. Farina. Il, 63.

Farina (Cesare La). II, 397. Farina (Giuseppe La). I, 55, 130, 153, 340, 345, 357, 359, 360, 375,

2)390, 391, 392, 413, 414, 415, 444, 467, 468; II, 8, 30, 38, 47, 48, 74, 75, 76, 102, 129, 144, 155, 157, 208, 217, 218, 248, 386, 400, 409, 410, 411, 428, 439, 458, 476, 480, 484, 486, 534, 549, 550.

Farini (Luigi Carlo). I, 231; II, 158,

460, 461, 545, 549, 554. Faro (Antonino). I, 163, 164, 176. Fasitta (Marianoì. II, 169. Fastieri. I, 118, 123. Fattiboni. I, 118, 121. Fauché (G. B. ). II, 258, 259, 260,

261, 262, 541. Fauché (Pietro). II, 541, 542. Favara (Giuseppe). I, 372. Favare (marchese delle). I, 59, 60,

68, 69, 103, 186, 613. Favaro (Giuseppe). I, 278. Favazzina. II, 465. Favignana. I, 71, 232; II, 101, 388,

2)

Favre (Giulio). II, 112. Fazioli. II, 521. Fè (cav. ). I, 498. Federico (cav. ). II. 62. Ferdinando II. I, 38, 44, 57, 58, 59, 61, 62, 64, 66, 67, 68, 69, 70, 73, 74, 88, 95, 96, 110, 116, 117, 119, 128, 135, 147, 167, 170, 180, 184, 185, 192, 208, 212, 217, 218, 228,

229, 236, 239, 241, 247, 262, 267, 268, 269, 270, 271, 272, 279, 280, 281, 287, 290, 292, 293, 297, 300. 303, 306, 307, 308, 309, 311. 312. 313, 316, 319, 322, 323, 331, 339, 340, 344, 359, 363, 364, 365, 367, 373, 386, 389, 396, 400. 402, 440, 442, 444, 448, 450, 466, 469, 475. 481, 486; li, li, 18, 22, 28, 37, 40, 41, 42, 46, 47, 56, 59, 61, 68, 70, 76, 80, 111, 114, 116, 117, 118, 119, 120, 137, 139, 144, 166, 250, 356, 415, 445, 459, 608, 575, 601, 613. 615, 616, 617, 618.

Ferdinando IV. I, 39, 44, 225.

Ferdinando IV, III e I. I, 69, 97. 270, 287, 363, 368; II, 144, 166, 356, 611, 612, 613.

Ferdinando VII. I, 60.

Fergola. Il, 559.

Fermo. I, 496.

Fernandez (Diego). I, 98, 163, 164, 176; II, 103.

Ferraccini (maggiore). II, 514.

Ferrante (Antonino). II, 628.

Ferrara. I, 83, 197, 260, 342, 343, 469, 482. 4%, 499.

Ferrara (Francesco). I, 291, 358; II, 39, 79, 102, 129.

Ferrari (Giuseppe). 1, 28; II, 216, 533.

Ferreri. 1, 149.

Ferri (Ferdinando). I, 271, 280.

Ferro. II, 366.

Ferruzzano (Antonio). I, 278, 372.

Fey. I, 138.

Fiamingo (Gaetano). I, 302.

Ficuzza. II, 211, 380.

Fidone (Angelo). I, 158.

Fidone (Sebastiano). I, 158.

Filadelfia. II, 253.

Filangieri (Carlo). I, 8, 9, 10, 39, 63, 373, 390, 399, 401, 402, 404, 405, 406, 407, 409, 416, 420, 426, 440, 441, 442, 453, 456, 457, 459, 460, 461, 465, 475, 478, 479, 481, 485, 486, 492; II, 7, 9, 10, 11, 12, 13, 16, 18, 19, 20, 22, 23, 24, 25, 29, 32, 33, 37, 40, 42, 43, 46, 48, 53, 59, 61, 65, 66, 69, 88, 91, 118, 119, 127, 140, 151, 165, 181, 212, 243, 319, 320, 616, 617.

Filangieri (Gaetano). II, 609, 610, 612.

Filangieri (generale). II, 77, 497.

Filopanti (G. ). I, 501.

Finali (Gaspare). II, 385.

Fiorentino (Francesco). II, 427, 453.

Fiorentino (Giuseppe). I, 291.

Fiorenza (Felice). I, 88.

Firenze. I, 41, 72, 76, 77, 140, 233, 239, 257, 340, 342, 345, 357, 359, 451; II, 32, 108, 111, 198, 203, 237, 262, 351, 565, 597.

Firmaturi (marchese). II, 171, 246.

Firriolo (Domenico). II, 120.

Fitalia. II, 375.

Fiumedinisi. I, 504, 507, 508, 509.

Flaccavento (Carmelo). I, 160.

Flores (maggiore). I, 274.

Floridia. I, 162, 192, 199, 200; II, 442, 444.

Florio (Ignazio). II, 44.

Florio (Vincenzo). II, 30, 44, 45.

Flotte (Paolo de). II, 463, 468.

Focaccia (Aureliano). I, 138.

Foggia. II, 114.

Foligno. II, 479.

Fontana (Giuseppe). 1, 126; II, 267.

Fonclié. II, 477.

Forlì. I, 68, 76, 78, 197, 235.

Fornarelli (Vincenzo). II, 102.

Forni. II, 320.

Fortezza. I, 475.

Fortunato. II, 27, 30.

Fortunato (Giuseppe). I, 128.

Fortunato (Giustino). I, 280.

Forzadagrò. I, 505, 508.

Foschini (Stefano). I, 231.

Foscolo (Ugo). I, 50, 90.

Framarini. II, 423.

Francesco I. I, 57, 59, 60, 61, 119, 164, 225, 270, 287, 363; II, 144, 613.

Francesco II. II, 114, 118, 123, 140, 162, 166, 172, 187, 198, 319, 328, 341, 345, 413, 414, 416, 445, 448, 456, 459, 466, 467, 468, 470, 471, 473, 474, 493, 495, 496, 497, 508, 518, 519, 521, 531, 539, 544, 545, 550, 557, 558, 560, 565, 574, 589, 591, 618, 619.

Francesco IV. I, 65, 67, 69, 70.

Francesco, conte di Trapani. II, 518.

Francesco Giuseppe. II, 40, 52, 111, 132.

Francia. I, 10, 11, 12, 17, 20, 21, 23, 26, 33, 42, 62, 64, 65, 66, 72, 79, 81, 84, 87, 95, 96, 98, 121, 126, 132, 138, 139, 149, 175, 176, 184, 185, 190, 241, 248, 267, 313, 316, 321, 362, 387, 389, 397, 408, 439, 440, 442, 443, 447, 450, 456, 459» 469, 470, 473, 484, 491, 492; II, 22, 23, 28, 39, 40, 51, 53, 54, 57, 62, 63, 65, 66, 71, 72, 73, 74, 76, 77, 88, 90, 94, 98, 100, 111, 112, 113, 117, 129, 131, 140, 145, 153, 154, 161, 166, 176, 187, 216, 232, 413, 457, 491, 504, 533, 557, 562, 602, 603, 611, 616, 618.

Francia (Giovanni). I, 82.

Francica (Emanuele). I, 181.

Francisco (Paolo de). I, 275.

Franco (Antonio). I, 99, 105, 106, 121, 136.

Franzese (Giuseppe). I, 233, 368.

Franzese (Scanderberg). I, 233,

Frasconà (Antonio). I, 222.

Fraso. II, 360.

Fratini o Fratigni (Carlo). I, 184.

Friddani (barone di). 1, 397, 398, 448; II, 30.

Friette. I, 284.

Friscia (S. ). II, 500.

Friuli. II, 52, 562.

Fronte (avvocato). I, 358.

Frygycsy. II, 423.

Furia (Bernardo). II, 159.

Fuxa (Vincenzo). I, 344; II, 102, 103, 330, 364.

Gabriel. I, 381.

GabrioCasati (Teresa). I, 230.

Gaeta. I, 465, 473, 491, 494; II, 10, 11, 12, 68, 77, 408, 470, 495, 510, 519, 552, 553, 555, 557, 558, 561, 563, 589, 590, 591, 592, 593, 602.

Gaeta (Carlo) I, 396.

Gaetanì (Michelangelo). I, 282.

Galizia, H, 561.

Gaetani (Onorato). I, 86.

Gaileno. II, 412.

Gaipa (Francesco Paolo). II, 25.

Gajalbo (Pasquale). I, 83.

Gajani (Francesco). I, 137.

Galanti (Luigi) I, 82.

Galateri di Genola (conte). I, 170, 171.

Galatti (Placido). I, 164.

Galiani. II, 141.

Gallerani (Antonino). I, 82.

Galletti (G. ), I, 501.

Gallo (Angelo). I, 280.

Gallo (Antonio). II, 183.

Gallo (Biagio). II, 391, 393.

Gallo (Luigi). II, 8.

Gallois. II, 384.

Gallotti. II, 139, 468.

Gallina. I, 358.

Galluppi (Pasquale). I, 95.

Gambacorta (Corrado). II, 182.

Gamberini (Andrea). 1, 81.

Gambi. I, 197.

GarafFa (Giuseppe). II, 354.

Gardoni (Ludovico). I, 81.

Gargi (Raimondo). I, 159.

Gargiakoff. II, 70.

Garibaldi (Giuseppe). I, 15, 33, 44, 55: II, 76, 102, 132, 135, 153, 155, 158, 181, 203, 208, 210, 211, 212, 213, 217, 218, 219, 220, 222, 223, 224, 325, 226, 227, 228, 229. 230, 231, 233, 234, 236, 237, 238, 239, 249, 250, 252, 253, 257, 258, 259, 260, 261, 262, 266, 269, 319, 321, 322, 323 326, 328, 330, 331, 332, 333, 334, 335, 336, 337, 339, 340, 342, 343, 344, 345, 347, 348, 349, 350, 351, 359, 361, 362, 363, 364, 365, 366, 367, 373, 374, 378, 379, 381, 382, 383, 384, 385, 386, 387, 388, 389, 390. 391, 392, 393, 394,

2)396, 399, 4u0, 401, 402, 403, 404, 405, 406, 409, 410, 411, 413, 417, 418, 420, 421, 422, 423, 424, 425, 428, 430, 431, 440, 441, 442, 449, 452, 456, 457, 458, 459, 460, 461, 462, 463, 464, 46tf, 468, 469, 470, 471, 472, 473, 474, 476, 478, 480, 483, 484, 485, 486, 487, 489, 490, 491, 492, 498, 499, 500, 507, 508, 509, 510, 511, 515, 517, 522, 523, 524, 525, 527, 531, 532, 534, 535, 536, 537, 538, 541, 542, 543, 544, 545, 546, 548, 549, 550, 551, 560, 561, 564, 565, 568, 570, 575, 576, 577, 581, 584, 590, 5%, 597, 619, 620, 627, 628.

Garibaldi (Menotti). II, 323, 349,

3)523.

Garofalo (Francesco Saverio). II, 414, 445, 483.

Garofalo (Giuseppe). II, 17.

Garrau. II, 203.

Garzia (Giuseppe). I, 312, 331.

Garzilli (Niccolò). II, 17, 61.

Gasparino (Antonio). I, 137.

Gastaldi (G. B. ). 1, 149; II, 225, 388.

Gatta. I, 263.

Gatti (Stefano). II, 348.

Gaudio. I, 235.

Gaudio (Modestino del). II, 360.

Gavanini (Andrew). I, 196.

Gavazzi (Alessandro) II, 508.

Gavazzi (Giovanni). I, 265.

Gozzi. I, 404.

Gemelli (Carlo). I, 153, 164, 272, 345, 413; II, 102.

Genoesi (Federico). I, 277.

Genova. I, 50, 54, 96, 114, 121, 139, 140, 149, 175, 176, 266, 271, 398, II, 18, 31, 33, 62, 101, 102, 107, 109, 110, 163, 181, 203, 211, 217, 218, 219, 226, 231, 233, 234, 237, 238, 239, 247, 248, 258, 259, 260, 261, 262, 348, 351, 383, 384, 385T 386, 406, 409, 412, 420, 439, 440, 441, 442, 463, 486, 540, 543, 577, 597.

Genova (duca di). I, 344, 357, 392, 446, 449, 468, 469, 471, 484, 494, 498, 499; II, 131, 146, 210, 254, 460, 617.

Genovesi (Antonio). I, 39; II, 608.

Genovesi (Felice). I, 180.

Gentile (Francesco). I, 88.

Gentile (maggiore). I, 503.

Gentile (Pietro). I, 118, 122.

Genuardi (Ignazio). II, 252.

Gerace. I, 277, 289, 290, 372.

Gerace (Domenico). II, 159.

Gerardi (Giorgio). II, 18.

Germania. I, 10, 12, 20, 26, 90, 132, 301; II, 50, 51, 70, 90, 95, 97, 98, 112, 485.

Getroux (Vittorio). I, 126, 138.

Ghelli (Luigi). I, 197.

Ghilardi (Giovanni). II, 267.

Ghione (Emilio). I, 510.

Giaccapett (Angelo). I, 82.

Giacchi (Michele). II, 475.

Giannitrapani (Vincenzo). II, 267.

Giannone (Pietro). 1, 40, 216; II, 608, 612.

Giaracà (Salvatore). 1, 160; II, 129.

Giardinelli (principe di). II, 174, 199, 239, 241.

Giardini. I, 504.

Giarraffa (Giuseppe). II, 249.

Giarre. I, 480.

Gibilros8a. II, 489.

GiglioSinagra (Giuseppe). I, 89.

Giglioni. I, 149.

Ginevra. I, 40, 140.

Gioberti (Vincenzo). I, 28, 36, 53, 114, 255, 256, 315, 359, 468, 469, 471, 495, 498, 499; II, 130, 404, 564, 600, 604. Gioeni (Antonia). II, 209. Gioeni (Francesco). II, 8. Gioeni (Mariano). II, 8. Gioia (Luigi). I, 73. Giordani (Pietro). I, 156, 203. Giordano (barone), II, 68. GiordanoOrsini. Vedi Orsini (Vincenzo). Giorgi. II, 525. Giorgini. II, 220, 386. Giorgio III. I, 22. Giovanni Angelo da Montemaggiore

(frate). II, 169 Giovanni (Francesco di). II, 405. Girareli (cav. ). I, 83 Girgenti. I, 211, 219, 244, 312, 332, 383; II, 67, 154, 202, 225, 238,. 246, 251, 320, 350, 360, 361, 364, 365, 383.

Girolamo Bonaparte. II, 99, 113, 115. Girolamo Ignazio di). II, 121, Girolamo (Salvatore di). II, 121. Giudice (Raffaele). I, 308. Giuffró (Raffaele). I, 278, 373. Giulay. II, 114. Giuliana. II, 381, 382. Giuliani (Ercole). I, 263, 273 Giulietti (Giuseppe). I, 137. Giulini. II, 221. Giurba. I, 193. Giuseppe Bonaparte. II, 612. Gizzi. I, 260.

Gladstone (lord). II, 26, 68, 108,

181, 216, 617. Glorizio. I, 193. Goito. I. 375. Golfini (Oreste). I, 263. Golfo degli Aranci. II, 460, 461. Gomez (Valeriano). I. 175, 176; II, 112.

Goodwin (Gio. ). I, 302, 484; II, 372. Gorghiakof. II, 116. Gorgone. Il, 184. Gozo. II, 362, 438. Gramitto (Giovanni) II, 8. Gramitto (Hocco). II, 199. Grammichele. II, 376. Grammonte (principe di). I, 294, 392. Granatelli (principi di). 1, 216;II, 30. Gran Bretagna. Vtdi Inghilterra. Gran Monte. I, 385.

Grano (Gaetano). I, 273. Grano (Salvatore). II, 18. Grasso (Giovanni). II, 159. Gravina (Autonino). II. 39. Graziotti. II, 221. Greca (marchese Augusto La). II,

414, 445. Grecia. I, 79, 233; II, 64, 97. GrecoCurto. I, 168. Greco (Pasquale). I. 169. Gregor (Mac). I, 227. Gregorio XVI. I, 133, 216, 239, 260, 265.

Gregorio (Rosario). I, 203. Grenet. I, 381. Grenier. II, 341. Grenoble. I, 173. Greppi (conte). I, 498. Grifeo (Luigi) I, 76. Grifone (Vincenzo). II, 3, 29. Grigiotti. II, 320. Grillo (Giovanni). I, 275, 278. Grillo (Niccolò). II, 628. Grioli (Antonino). I, 285. Grioli (Giovanni). II, 52. Gross, I, 300.

Grua (marchese La). I, 80. Guacci (Maria). I, 59. Guardia (Ignazio La). II, 18. Guarnera (Alessandro). II, 78, 79. Guarneri (Andrea). II. 400. Guerrazzi (Francesco Domenico). I,

33, 54, 55, 56, 217, 256. Guerrazzi (Temistocle). I, 217. Guerriero (Pasquale). I, 230. Guerzoni(Giuseppe). 11, 386, 418, 541. Guiccioli (Ignazio). I, 196, 197. Guida (Francesco). II. 267. Guidotti (march. Alessandro). I, 81. Guilay. II, 131. Guillmat. II, 431. Gullavolti (Lazzaro). I, 82. Gulli. 1, 167.

Gustarelli (Giuseppe). II, 177.

Haller (Lodovico). 1, 133. Hamburt. I, 149. Hamilton. II, 611. Haussonville (visconte). I, 229. Havre. I, 18?. Hernandez. II, 230. Hirzel (F. C. ). 1. 302. Hubner. II, 71, 114.

Iacona. I, 294.

Iacono (Ferdinando). II, 246.

Iasson. I, 138.

ImbrianiPoerio (Matteo Renato).

2)524.

Imer (Agostino). I, 138. Indelicato (Mariano). II, 199. Ingham Petew. I, 284. Inghilterra. I, 12, 20, 22, 26, 28, 43, 47, 48, 127, 227, 228, 241, 312, 313, 321, 366, 387, 389, 392, 397, 408, 440, 442, 443, 448, 450, 456, 469, 470, 473, 491, 492, 496; II, 11,

3)22, 27, 40, 48, 51, 62, 63, 65, 68, 71, 72, 73, 76, 77, 88, 94, 95, 108, 111, 117, 154, 181, 187, 216, 224, 232, 265, 413, 457, 485, 533, 560, 561, 562, 602, 616, '618, 624.

Ingram II, 226, 263, 264. IngrassiaTaffiti (Giuseppe). I, 88. Inguaggiato (Michelangelo), II, 61. Insedilo. II, 340.

Interdonato. I, 480, 504, 507; II, 8,

38, 102, 427. Invernizzi (monsignor). I, 197. Intontì (Nicola). 1, 13, 63, 66, 98, 170. Iraso (Mauro). II, 18. Irlanda. I, 63.

Ischiatella (generale). II, 77, 140. Isabella. II, 111. Israeli (D. ). I, 448. Italiano (Antonino). I, 277.

Jacono (Salvatore Lo). II, 175. Jermanowski. I, 505, 506, 508, 509. Joinville (principe di). I, 269. Jean. II, 89. Joli (Vincenzo). I, 82. Jommelli. I, 129. Jonie (Isole). I, 233. Jonio. I, 385.

Jourdes (Luigi). I, 117, 118.

Kellesberg. II, 117. Koresztary (Carlo Emerico). I, 218. Kossuth (L. ) II, 93, 99, 560. Krymy (Giovanni). I, 275, 276, 278, 410, 413.

Ladislao. I, 59.

Laetizia. II, 397.

Laghi (Luigi). I, 263.

Lagrange (Giuseppe Loigi). I, 40.

Lamarmora (Alessandro). II, 70, 71.

Lambert. II, 263.

Lambruschini. I, 260.

Lamoricière. II, 39, 479. 480, 508.

Lampiasi (Francesco). II, 627.

Landi (M. ). II, 321, 325, 326, 327,

330, 346, 347, 354, 363, 374. Landi (Pietro). I, 82, 273. Landi (Salvatore). I, 166, 273, 276, 278.

Landi (Tommaso). I, 273, 385. Lanfranchi (Michele). II, 444. Langé. II, 520, 522. Lannetti (Giuseppe). I, 81. Lante (Filippo). I, 282. Lama. II, 110.

Lanza (Concetto). I, 168, 169. Lanza (Ercole). I, 269. Lanza (Ferdinando). 1, 394, 401, 407; II, 320, 328, 329, 330, 343, 345, 346, 354, 355, 357, 358, 359, 360, 361, 362, 364, 365, 366, 372, 373, 377, 378.

Lanza (Giovanni). I, 27.

Lanza di S. Marco (Ignazio). 1, 239.

Lanza di Trabia (Ottavio). II, 199.

239, 241, 405. Lanza (Pietro). I, 155, 208, 448. Lanza (Raffaele). II, 8. Lanzetta (Antonio). 1, 316, 411, 415. Lappa (Achille). I, 263. Lary (generale). II, 421. La Sila. I, 385, 395. Lateano (Domenico). II, 349. Lateano (Luigi). II, 347, 349. Laurenzana (duca di). I, 186, 188,

194, 199. Lauriano (Mariano). II, 157. Lavatelli (Francesco). I, 196, 197. Lawson. II, 226. Laybach. I, 42. Leardi. II, 424. Lecce. II, 114, 469, 597. LedruRollin. II, 51, 93, 99. Leibzeltern (conte di). I, 110. Leila (Francesco). II, 133. Lemonier (C. ). I, 138. Lentini. I, 158. Lentini (Stefano). II, 121.

Lentini (Vittoriano). II, 61. Lenzoni. II, 116. Leone X. I, 18. Leonforte. II, 245. Leopoldo, conte di Siracusa. I, 60, 61, 62, 86, 98, 127, 128, 132, 139, 146, 186; II, 140, 172, 187, 188, 416, 448, 449, 466. Leopoldo, granduca di Toscana. I,

212, 267, 281, 342, 359. Lepik (Anna). I, 158, 160, 162. Lepore (Antonio e Giuseppe). I, 86. Lercara, II, 77.

Letizia. II, 236, 245, 268, 341, 345,

346, 520. Leto (Alberto). II, 18. Leto (Casimiro de). II, 102. Leuchtenberg. II, 560. Leverato (Paolo). II, 267. Levi (David). I, 9. Levi (Israel). I, 82. Libertini (R. S. ). II, 440. Licata. I, 244, 332. Li Causi (Francesco). II, 121. Liccoli. II, 383. Licodia. II, 375, 376. Lieto (Casimiro de). I, 273, 373, 374,

377, 383. Li Greci. I, 159.

Liguoro (de). 1, 215, 230, 237; II, 118. Liguria. II, 69, 430. Lima (Giovanni). I, 186. Limatola. II, 516. Limina. I, 503, 504, 508. Linguaglossa. I, 504. Lione. I, 135, 141, 176; II, 101. Lipari. I, 392. Lipsia. I, 53. Liquore (de). II, 140. Liquori (Gennaro). I, 86. Litta Modignani (conte Giulio). II, 457.

Lituania. II, 95. Liverpool. I, 226; II, 439. Li Volsi (Matteo). I, 88. Livorno. I, 81, 82, 83, 115, 140, 141, 149, 175, 176, 185, 217, 225, 342; II, 32, 110, 181, 203, 216, 233, 235, 237, 239, 248, 249, 266, 268, 269, 351, 382, 383, 440, 441. Livoti. I, 168.

Lo Cascio (Damiano). I, 294, 295. Lo Cascio (Tommaso). II, 103. Locatelli (Francesco). I, 231. Lo Conte. I, 276.

Lo Dico (Domenico). II, 194. Loggia (Gaetano La). II, 405. Lo Jacono (Carlo). I, 294, 295. Lombardi (Eliodoro). II, 129, 407. Lombardia. I, 33, 50, 63, 70, 89, 97, 132, 146, 154, 259, 321, 339, 340, 342, 345; II, 139, 141, 145, 162, 167, 222, 364, 406, 490, 562, 574, 577, 602. Lombardo (Giuseppe). II, 389. Lombardo-Veneto. I, 256, 342; II, 72, 113.

Lomellina. II, 131. Lo Monaco (Antonio). II, 121. Londra. I, 110, 119, 127. 375, 398. 451, 496; II, 23, 31, 62, 68. 70, 101, 112, 209, 216, 226, 252, 253, 257, 411, 413, 432, 439, 440. Longo (Giacomo). I, 280, 375, 383,

384, 385, 394, 395. Lo Pizzo. II, 121. Longobardi. I 219, 372. Lorenzini (Filippo). I, 263. Lorenzini (Federico). I, 263. Lorenzo (Nicola di). II, 177, 193. Loreto. II, 479.

Lo Vecchio (Salvatore). II, 18. Lubiana. I, 98, 364; II, 73. Luca (Francesco de). I, 347; II, 8. Luca (Paolo de). II, 17. Lucca. I, 115.

LucchesiPalli (Antonio). I, 303. Ludolf (Giuseppe Costantino). I, 116, 126. Lugano. II, 141, 210. Lugo. I, 235.

Luigi, conte di Aquila. II, 466. Luigi, conte di Trani. II, 522. Luigi XI. I, 10. Luigi XVI. I, 64; II, 611. Luigi Filippo. I, 64, 65, 66, 73, 110.

185, 229, 314, 316; II, 166. Lugi Napoleone. Vedi Napoleone III. Lungro. I, 373. Luparelli. I, 235 Lyndharst. I, 227.

Macaluso. I, 383. Maccaferri (Antonio). I, 81. Macchi. I, 260. MacMahon. II, 71. Macedonia. I, 41 Macerata. II, 349.

Macherione. II, 129.

Maddalena. II, 259.

Maddaloni. II, 515, 516, 517, 518, 520, 523, 527, 529, 530.

Madrid. I, 59, 132, 176.

Maestri. II, 221.

Magdeburgo. I, 248.

Magenta. II, 132, 140, 151, 198, 209, 562.

Maggio (Andrea). II, 78, 79.

Maghella. I, 91.

Magliaccio. 1, 168.

Magliavacca. II, 423, 424.

Magliocco (Antonino). II, 159.

Maglione (Vincenzo), II, 133.

Magnavaccaf I, 343.

Maissin (capitano). II, 11.

Majo (Luigi de). I, 194, 215, 216, 276, 279, 291, 296, 297, 298, 299, 301, 302, 308.

Majocchi (Achille). II, 225, 324.

Malagrina. I, 141.

Malakoff. II, 71.

Malato (Anna). II, 389.

Malato (Giuseppe). II, 389.

Malato (Lorenzo). II, 175.

Maldini (Francesco). I, 263.

Malenchini. II, 237.

Malenchini (Vincenzo). II, 407. 412, 420, 421, 520, 522.

Maletva (Achille). I, 197.

Malibran. I, 129.

Mallia (G. ). II, 249.

Malocchi. II, 221.

Malpighi. I, 193.

MaUa. I, 82, 83, 90, 105, 109, 110, 118, 119, 120, 121, 123, 124, 158, 185, 215, 217, 223, 237, 248, 373, 375; 11, 28, 67, 101, 103, 105, 108, 133, 164, 174, 209, 216, 217, 218, 226, 237, 246, 248, 249, 252, 257, 258, 263, 265, 266, 354, 362, 383, 386, 406, 438.

Malta. I, 413; II, 120.

Maidica. I, 358.

Mameli (Goffredo). II, 222, 605.

Mamiani Terenzio. II, 601.

Manara (Luciano). II, 222, 605.

Manchester. I, 29.

Mancini (Pasquale Stanislao). II, 460.

Mandanici. I, 508.

Manderini. II, 139.

Manente. II, 360.

Manessi (Giovanni). I, 235.

Mangoia (Santi). I, 89. Manganelli (principe di). I, 163, 164, 166.

Mangeruva (Andrea). II, 8. Mangili (Angelo). II, 52, 407. Manin. II, 221, 225, 324. Manin (Daniele). I, 343; II, 74. Maniscalco (Giuseppe). I, 87, 88. Maniscalco (Salvatore). II, 16, 20, 66, 67, 79, 135, 141, 146, 147, 150, 151, 162, 163, 166, 168, 170, 171, 172, 173, 177, 178, 179, 180, 182, 184, 212, 215, 228, 239, 241, 253, 352, 354, 357, 362. Mann (Carlo H. )I, 284. Manna (Giovanni). II, 414, 457, 531. Manthoné. II, 141. Mantova. I, 68, 83; II, 52, 384. Manuzzi (Filippo). I, 137. Manzini (Giovanni Filipno). 1, 82. Manzini (Pietro). II, 596. Manzini (Rinaldo). I, 263. Manzoni (Alessandro). II, 603. Maragioglio (Antonino). II, 628. Maranchetti. I, 195. Marano. I, 163, 444; II, 257. Maranto. II, 78. Maratea. I, 381. Marca (Francesco La). I, 88. Marcantonio (Giovanni). II, 103. Marcantonio (Giuseppe). II, 103. Marceca (Michele). II, 389, 390. Marche. I, 50, 68, 92; II, 158, 209, 222, 478, 479, 480, 502, 505, 506, 508, 533, 534, 543, 575, 576. Marchesano (Vincenzo). II, 183, 184. Marchetti. I, 260, 505, 507, 509. Marcinone (Cesare) li, 18. Marchis (de). I, 294. Marco (Domenico di). I, 74, 88. Marco (Giovanni di). I, 88. Marco (Salvatore diì. I, 88. Marco (Vincenzo di). I, 445, 448, 502.

Marengo. II, 360. Maretimo. I, 232; li, 223, 387. Mari (Girolamo). I, 276, 278. Mari (Vincenzo). I, 276, 278. Maria (de). I, 295. Maria Antonietta. I, 346; II, 611. Maria Carolina d'Austria. I, 147; II, 611, 612.

Maria Clementina d'Orléans. 1, 147. Maria Cristina di Borbone. I, 60. Maria Cristina di Savoia. I, 38, 96,

117, 133, 134, 136, 366; II, 116, 539, 618.

Maria Sofia Amalia. II, 114.

Maria Teresa d'Austria. I, 147, 148.

Maria Teresa di Toscana. I, 96.

Mariani (Paolo). I, 149, 236.

Marina. II, 222.

Marineo. I, 157; II, 77, 333.

Maringh (maggiore). II, 418, 419, 420.

Marini (Giuseppe). II, 413, 463.

Marino (Luigi). II, 108.

Marino (Mariano). II, 628.

Marinuzzi (Giovanni Battista). II, 393 394.

Mario' (Alberto). II, 141, 143.

Mario (White). II, 541.

Marmora (La). I, 498.

Marocco. I, 341.

Marra. I, 381.

Marra (Bartolo). II, 346.

Marra (Pasquale). II, 346.

Marra (ten. col. ). II, 419, 420, 421.

Marrast. 1, 185.

Marruffino. I, 98.

Marryat. II, 226, 263.

Marsala. I, 33; II, 103, 108, 120, 121, 181, 205, 220, 224, 225, 226, 227, 229, 231, 245, 249, 252, 258, 262, 263, 264, 265, 266, 267, 268, 334, 348, 362, 386, 387, 388, 389, 406, 542, 577

Marsico. I, 272.

Marsiglia. I, 72, 81, 82, 83, 84, 99, 105, 115, 118, 119, 120, 123, 125, 126, 127, 132, 136, 139, 140, 141, 149, 173, 174, 175, 176, 185, 187, 189, 191, 195, 196, 199, 208, 246, 263; II, 62, 203, 233, 234, 239, 267, 439.

Marston (Gio. M. ). I, 302.

Martelli (Francesco). I, 81.

Martignoni. II, 324.

Martioengoli (Luigia). I, 82.

Martinez (baronessa). II, 246.

Martini. II. 237.

Martino (Giacomo de). I, 280; II, 31, 236, 413, 414, 445, 483.

Martorana. I, 294.

Masa (Giuseppe La). I, 294, 295, 321, 340, 342, 343, 407, 408, 413, 414, 415; II, 8, 102, 217, 221, 231, 330, 333, 334, 335, 336, 337, 338, 364, 511, 516, 616.

Mascalucia. I, 511.

Masi (Luigi). I, 282; II, 101.

Massa. I, 50, 79, 131; II, 337.

Massari (Giuseppe). I, 230.

Massaroni. I, 230.

Massi (Gaetano). I, 190.

Massimiliano. II, 114.

Mastropaolo. I, 61, 90, 98, 102.

Mastruzzi (Domenico). II, 25, 61.

Matilde (principessa). II, 99.

Mattioli (Antonio). I, 81.

Maupas. II, 39.

Mauro (Domenico). I, 269, 385, 395.

Mayer (Enrico). I, 129, 175, 176.

Mazas. II, 112.

Mazzaglia. I, 167.

Mazzara (Niccolò). II, 391, 393.

Mazzata del Vallo. II, 264, 266, 388, 390.

Mazzetti (Luigi). I, 92.

Mazzini (Andrea Luigi). I, 475.

Mazzini (Giuseppe). I, 10. 15, 16, 28, 46, 47, 50, 53, 91, 93, 94, 95, 111, 113, 114, 115, 121, 133, 140, 149, 157, 173, 174, 185, 234, 236, 254, 255, 2ól, 266, 279; 290, 349, 358, 366, 375, 495, 507, 509; II, 22, 34, 48, 51, 62, 67, 73, 74, 75, 77, 82, 93, 99, 109, 110, 132, 134, 135, 142, 143, 157, 159, 208, 210, 215, 217, 252, 405, 440, 461, 462, 473, 489, 531, 535, 536, 550, 560, 562, 565, 567, 572, 596, 597, 601, 619, 626.

Mazzoli (Tommaso). I, 235236.

Mazzone (Pietro). I, 279, 372.

Mazzoni (Pietro). I. 279, 289.

Mechel (D. G. ). II, 337, 378, 517, 518.

Medici (Giacomo). II, 135, 237, 257, 350, 407, 416, 418, 419, 420, 421, 422, 425, 427, 440, 449, 450, 451, 452, 453, 458, 513, 514, 516, 517, 526, 529.

Medina (Salvatore). I, 478; II, 176, 192.

Melana. II, 222.

Melegnano. II, 132.

Melendez. II, 468, 469.

Melendez (Niccolò). I, 86

Melga (Vincenzo). I, 82.

Meli. I, 185.

Meli (Giovanni). I, 202; II, 48.

Melito. II, 464.

Melloni (Macedonio). I, 95.

Menotti (Ciro). I, 59, 65, 68, 70, 81; II, 237, 604.

Mercantali (Luigi). II, 39.

Meri. II, 418, 419, 420, 421.

Merola (Nicola). I, 308.

Mestico. I, 63.

Messina. I, 8, 10, 71, 73, 83, 105, 114, 115, 117, 118, 119, 123, 130, 131, 140, 149, 150, 151, 153, 161, 164, 165, 166, 167, 174, 176, 177, 179, 188, 190, 193, 194, 203, 228, 230, 237, 238, 244, 247, 251, 273, 277, 278, 279, 280, 289, 290, 312, 316, 321, 333, 334, 335, 372, 373, 374, 383, 390, 392, 399, 400, 402, 408, 409, 411, 412, 413, 414, 419, 440, 441, 442, 443, 448, 452, 453, 454, 455. 456, 458, 470, 471, 479, 480, 483, 502, 504, 505, 506; II, 9, 20, 25, 28, 35, 40, 41, 42, 43, 65, 67, 88, 90, 92, 100, 102, 103, 104, 107, 108, 119, 120, 130, 133, 134, 137, 145, 146, 151, 154, 156, 161, 171, 174, 177, 181, 183, 195, 200, 202, 203, 204, 208, 210, 211, 226, 232, 233, 234, 239, 241, 246, 255, 263, 268, 320, 358, 359, 360, 361, 362, 409, 421, 425, 426, 427, 430, 439, 443, 449, 450, 452, 459. 460, 461, 464, 490, 491, 500, 549, 556, 557, 559, 590, 592, 615, 616.

Messina (Giuseppe). II, 121.

Mestre. I, 343.

Metternich (principe di). I, 65, 110, 267.

Metz. I, 117, 138.

Mezzacapo. II, 135, 350.

Mezzasalma (Nicola). II, 175.

Mezzoiuso. II, 77, 79.

Micali. I, 275.

Miceli (Francesco). I, 168; II. 80, 83.

Miceli (Rosario de). II, 102, 104.

Mierosawski. I, 478, 479, 504, 507, 508, 509, 512.

Migliavacca (Filippo). II, 407.

Migliore (Francesco), II, 169.

Mignona. II, 77.

Miguel (Don). I, 232.

Milana (Camillo). II, 8, 29.

Milano. I, 9, 84, 126, 131, 132, 230, 236, 259, 266, 359, 446, 471; II, 52, 75, 98, 111, 132, 134, 217, 220, 424, 565, 602.

Milano (Agesilao). II, 80, 81, 82, 110, 111, 141, 539, 540, 617.

Milazzo. I, 48, 194, 279, 332, 373, 377, 382, 392, 393, 413, 414, 416, 442, 456, 457, 458. 483, 504, 506: II, 234, 341, 367, 400, 415, 418, 419, 420, 421, 422, 424, 425, 426, 427, 441, 443, 463, 488, 490, 549.

Milazzo (cappuccino). II, 62.

Milbitz. II, 517, 519, 520, 521, 522, 523, 524, 525, 527, 529.

Mileti (Pietro). I, 277.

MUeto. II, 491.

Millefiori. II, 420.

Miller (Giovanni). I, 235.

Milo (marchese). II, 8.

Miloro (Antonino). II, 8, 252.

Miloro (Giorgio). I, 413.

Miloro (Pasquale). I, 276, 278, 294, 295; II, 8.

Mineo. II, 375, 376.

Minerva (conte della). II, 478.

Minervini (Luigi). I, 396.

Minghetti (Marco). I, 27, 260.

Minichini (Vincenzo). I, 114, 115.

Minneci (Mariano). II, 159.

Minto (lord). I, 312, 314, 316, 322, 333, 335, 347, 448, 470; II, 88.

Minutili a. II. 38, 320.

Mirabella Imbaccari. II, 376.

Mirabelli (Agostino). 11, 182.

Mirabelli (Giuseppe). II, 182.

Mirabeau. I, 176.

Misilmeri. I, 157, 295, 300; II, 7, 10, 56, 91, 171, 175, 183, 189, 192, 333, 335, 337, 338, 394, 577.

Missori. II, 218, 229, 324, 464, 524, 528.

Misterbianco. I, 512, 513; II, 366, 376.

Mistretta (Alberto). II, 389. 627.

Mistretta (Domenico). II, 18.

Mistretta (Francesco). I, 159, 160, 162, 212.

Mitchell. II, 129.

Mitz (Haphtati). I, 284.

Modena. I, 68, 76, 77. 79, 81, 105, 115, 175, 183, 195, 235; II, 132.

Modena (duca di). I, 59, 76, 79, 82, 83, 239.

Modenese. I, 62, 68, 74, 118, 122.

Modica. I, 159; II, 376.

Mola. I, 508; II, 555.

Moldavia. II, 71.

Molinatti (Vittorio). II, 420.

Molise. II, 469.

Mollica (Santi). I, 160

Monaco. I, 63; II, 114.

Moncenisio. II, 131. Mondelli. I, 149. Mondioo (Michele). II, 103. Mondino (Salvatore). II, 102, 103, 104.

Mondino (Vincenzo). II, 17, 83. Moneta (Enrico). II, 348. Monghini (Gaetano). I» 197. Monginevro. II, 131. Mongini. II, 257. Mongon. I, 176.

Monreale. I, 191; li, 56, 171, 188, 201, 227, 330, 331, 332, 362, 365, 367, 382, 393, 394, 404. Monreale (Giuseppe). II, 18. Montagna (duca della). II, 372. Montagli areale. II, 437, 442. 443. Montagnolo (Pietro). II, 628. Montalbo (duca di). I, 303. Montallegri (Sebastiano). I, 81. Montanari. I, 117; II, 221. Montanari (Giovanni). I, 196. Montanari (Pietro). I, 82. Montanelli (Giuseppe). I, 54, 495. Montecchi (M. ). II, 34, 51. Monteforte. II, 522. Monteforte. I, 73.

Monttleone. I, 373, 374, 377, 395; II, 469.

Monteleone (duca di). II, 174, 190. Montelepre. II, 200, 327, 393. Montemajo. II, 521. Monte San Giuliano. II, 230, 377,

381, 382. Montessues (conte di). I, 314. Montevideo. II, 222. Montezemolo, vedi Cordero. Montmasson (Rosalia), vedi Crispi

(Rosalia). Montori (Domenico). I, 137. Montoro. II, 129. Montpellier. I, 173; II, 45. Monzani (Cirillo). I, 54; II, 237. Morabito (Domenico). I, 278, 372. Morandi. I, 175. Morandini. II, 237. Moranti. II, 520.

Mordini (Antonio). II, 477, 478, 499,

500, 501, 545, 576. Morelli (Domenico). II, 68. Morelli (Gregorio). II, 414, 445. Moretti (Cesare). I, 82. Moretti (Giovanni). I, 82. Moricca. II, 361. Morici (Domenico). I, 114.

Morigi (Eugenio). I, 231.

Moro (Domenico). I, 235.

Morozzo (monsignor). I, 96.

Morozzo della Rocca, vedi Rocca (della).

Mortillaro (barone). I, 219.

Mortillaro (Vincenzo). II, 88.

Mosciaro (Francesco). I, 386.

Mosconi (Camillo). I, 263.

Moscuzza (Felice). I, 160.

Mosto. II, 221, 230, 418, 597.

Moxharta (barone). II, 389.

Mozart. I, 129.

Mucurta. II, 230.

Mundy (Rodney). II, 344, 373.

Murat (Achille). I, 109, 110, 111, 118, 119, 120, 121, 123

Murat (Gioacchino). I, 59, 69, 91, 95, 109, 111, 368; II, 565, 612.

Murat (Letizia). I, 109.

Murat (Luciano). I, 109; II, 565, 594, 595

Murat (Luisa). I, 109.

Muratori. I, 231.

Murena, II, 139.

Musicò (Francesco). I, 285.

Musso (Antonio). I, 302.

Mussolino. I, 395.

Mutari (Rosario), 88.

Muzio Salvo (Rosina). II, 129.

Nanni (Luigi). I, 235.

Napier (lord). I, 312, 313, 314, 416, 439, 440, 444, 451, 452, 453, 454, 457, 458, 460, 462, 484.

Napoleone 1. I, 21. 34, 95, 270, 366,

Napoleone III. I, 16, 24, 481; II, 39. 40, 53, 81, 110, 111, 112, 113, 114, 115,. 132, 141, 145, 158, 159, 162, 187, 208, 256, 320, 413, 455, 457, 478, 480, 488, 550, 560, 562, 574, 594, 596, 597, 618.

Napoletano. II, 520.

Napoletano. I, 47. 67, 73, 96, 132, 133, 134, 236, 270, 365. 366, 370, 372, 375; II, 43, 116, 117, 141, 222, 565, 613.

Napoli. I, 9, 15, 40, 50, 57, 58, 59, 60, 63, 64, 66, 69, 70, 72, 74, 76, 77, 79, 81, 85, 86, 87, 91, 96, 98, 100, 105, 106, 108, 110, 111, 112, 115, 116, 117, 118, 119, 120, 121, 122, 123, 126, 127, 128, 129, 131, 132, 134, 136, 137, 138, 140, 145, 146, 147, 149, 151, 154, 155, 165 170, 171, 174, 175, 179, 183, 184» 186, 191, 195, 202, 206, 212, 213, 214, 218, 220, 221, 222, 227, 231» 233, 237, 238, 239, 241, 247, 248251, 268, 269, 271, 272, 273, 277, 279, 280, 283, 288, 289, 297, 302. 303, 3U6, 309, 310, 311, 312, 316, 317, 333, 334, 345, 359, 360, 365,, 367, 371, 372, 373, 375, 376, 381, 383, 387, 388, 392, 395, 397, 398, 399, 420, 450, 451, 456, 457, 458, 460, 461, 462, 466, 484, 485, 486, 492, 498; II, 19, 22, 26, 27, 28, 31, 32, 42, 43, 44, 65, 66, 75, 76, 102, 107, 110, 111, 115, 117. 129, 131, 133, 134, 140, 142, 152, 159, 162, 170, 173, 175, 181, 187, 189, 190, 209, 211, 215, 216, 230, 254, 262, 265, 320, 329, 345, 349, 353, 363, 372, 383, 413, 414, 431, 434, 439, 441, 444, 445, 446, 447, 448, 449, 451, 455, 457, 466, 467, 468, 469, 470, 471, 472, 473, 474, 475, 478, 481, 482, 483, 488, 496, 497, 498, 499, 500, 505, 507, 509, 514, 517, 520, 534, 535, 536, 537, 538, 539, 543, 545, 548, 554, 555, 558, 561, 562, 504, 565, 569, 570, 571, 572, 580, 594, 595, 596, 597, 599, 611, 612, 615, 617, 619, 620.

Napoli di Romania. I, 114, 115.

Napoli (Giuseppe). I, 426.

Napoli (Vincenzo). II, 267.

Narcourt (duca di). I, 484.

Nardi (Anacarsi). I, 235.

Natoli (Giuseppe). I, 10, 175, 321, 390, 391, 405.

Navarra (Giacomo). II, 8.

Navarrà (Giuseppe). Il, 8.

Navarria. I, 163.

Nazziotti. II, 248.

Negri (Gioacchino). I, 263; II, 431.

Negrier (contessa di). I, 135.

Nelson (Orazio). II, 612.

Nemours (duca di). I, 84.

Neri (Luigi). I, 263.

Nero (Mar). II, 90

Nesci (Andrea). I, 276, 278; II, 38.

Neuchótel. II, 101.

New York. I, 284.

Nicchinelli. II, 18.

Niccolini (Giovanni Battista). 1, 257.

Niccolini (Nicola). I, 59, 366.

Niccolò I. II, 71. Nicosia. II, 376.

Nicotera (Giovanni). IL 110, 38,

389, 460. Nicotra. I, 167. Nimes. I, 173.

Niscemi (principe di). II, 174, 190,

199, 239, 241. Nitza. I, 149; II, 68, 102, 114, 145,

187, 233, 480, 562, 618. Nobili (Carmelo). II, 367. Nobili (Giorgio de). I, 81. Nocera. II, 470. Nola. I, 108, 114, 115. Nonay. I, 456.

Notarbartolo di San Giovanni. II,

174, 190, 239, 241. Notarbartolo di VillaroBa (Luigi).

Il 239 Notari (Carlo). I, 149. Noto. I, 167, 169, 180, 181, 190, 199, 200; II, 154, 174, 175, 246, 247, 361, 372.

Novara. I, 26. 96, 138, 254, 468;

II, 37, 165, 254, 404, 424, 602, 616. Novarese. II, 131. Novi. II, 431 Novi Ligure. II, 48. Nullo (Francesco). II, 324, 340. Nunziante (Vito). I, 60, 68, 69, 76, 82, 83, 277, 377, 381, 383, 39r, 401, 407; II, 140.

Oddo (Giuseppe). I, 294, 295; II,

218, 367. Odessa. II, 95.

Oglialoro (Francesco). II, 182. Olanda. Vedi Paesi Bassi. Ollini (generale). I, 126. Ondes (Andrea d'). II, 8, 407. Ondes (fratelli d'). I, 295. Ondes (Gioacchino d'). I, 291. Ondes (Giovanni d'). II, 8. Ondes (Vito d'). I, 54, 444; II, 102. Onofrio (Rosario). I, 510. Onufrio (Francesco d'). II, 18, 33. Opissoni (cardinale). I, 80. Oppido. I, 383; II, 114. Orbetello. I, 81; II, 219. 386. Orioli (Demetrio). I, 196. Orlando. II, 477. Orlaudo (fratelli). II, 217, 384. Orlando (Gaspare). II, 249.

Orlando (Giuseppe). II, 249. Orlando (Luigi). II, 102, 628. Orsini (Aureo). Il, 389. Orsini (Grnestina). II, 113. Orsini (Felice). I, 16; II, 111, 112. Orsini (Ida). II, 113. Orsini (Vincenzo). I, 280, 413, 445; II, 192, 217, 221, 224, 231, 249, 252, 320, 331, 337, 344, 350, 362, 379, 386, 394, 395, 400, 405, 490. Ortolani (Ludovico). I, 197. Oscorio. I, 381. Osimo. II, 479 Osmani (Carlo). I, 235. Ottaiano (principe di). II, 140. Ottonelli (Giuseppe). II, 52.

Pacchioni (Giuseppe). I, 235.

Pace. II, 521, 522.

Paceco. II, 229, 267, 377.

Paesi Bassi. I, 62, 267.

Pagano (Francesco Mario). 1, 39; II, 609.

Paganon (Giovanni). II, 52.

Paggi (Natale). II, 211, 233.

Paisiello. I, 129.

Patagonia, II, 376.

Palermo. I, 33, 54, 57, 60, 70, 71, 72, 74, 76, 82, 83, 85, 87, 100, 102, 103, 106, 111, 115, 116, 117, 118, 122, 123, 125, 127, 128, 131, 136, 137, 138, 139, 140, 150, 151, 153, 154, 155, 165, 173, 174, 176, 179, 186, 187, 188, 189, 194, 199, 203, 211. 212, 213, 214, 218, 219, 221, 222, 230, 231, 239, 244, 247, 248, 251, 262, 273, 279, '280, 283, 284, 289, 292, 296, 297, 301, 302, 303, 306, 308, 309, 310, 311, 312, 314, 316, 317, 332, 333, 358, 360, 373, 391, 392, 398, 400, 415, 419, 451, 475, 477, 481, 483, 484, 486, 492, 494, 502; II, 7, 11, 12, 13, 17, 19, 25, 26, 28, 29, 31, 33, 39, 44, 46, 53, 54, 56, 62, 65, 67, 77, 78, 79, 81, 88, 89, 90, 91, 92, 93, 100, 102, 103, 109, 116, 119, 120, 133, 134, 135, 141, 145, 146, 147, 150, 151, 153, 15ò, 156, 159, 160, 161, 164, 167, 170, 171, 174, 175, 182, 183, 184, 185, 186, 188, 189, 190, 191, 194, 195, 196, 197, 199, 200, 201, 202, 210, 211, 212, 213, 215, 220, 223,

226, 227, 228, 229, 230, 232, 235, 236, 237, 239, 240, 241, 242, 244, 251, 253, 254, 262, 263, 266, 268, 269, 320, 324, 327, 328, 329, 331, 332, 333, 334, 335, 337, 338, 341, 344, 34iS, 346, 347, 349, 350, 352, 354, 356, 358, 360, 361. 365, 366, 374, 377, 379, 381, 384, 387, 389, 393, 394, 395, 396, 399, 404, 406, 407, 409, 413, 418, 425, 431, 448, 451, 458, 461, 463, 466, 472, 475, 476, 47S, 489, 491, 498, 499, 500, 501, 509, 516, 537, 538, 539, 549, 554. 55r, 576, 577, 583, 584, 585, 586, 589, 590, 605.

Palesino. II, 52.

Palestina. II, 62.

Palizzolo. I, 295; II, 320, 522.

PallavicinoTri vnlzio (Giorgio). II, 76, 534, 535, 536, 538, 545, 572, 619.

Palestro. II, 132, 151.

Palma (Tommaso di). IT, 266.

Palmerston (lord). I, 313, 347, 442, 448, 477, 483; II, 26, 68, 108, 113, 181, 216.

Palmieri (Giuseppe). I, 61.

Palmieri (Matteo). I, 256

Palnrmo (Andrea). II, 8

Pagano (Mario). Il, 141.

Pancali (barone). I, 159, 161, 162, 176, 181; II, 8.

Paniolfini (Salvatore) II, 182.

Panuzi (Antonio). I, 209.

Pantaleo (frate Giovanni). II, 230, 330, 393.

Pantelleria. I, 71, 232.

Pantelleria (principe di). I, 307, 317.

Paola. I, 373, 382, 386, J193; II, 469.

Paolillo (sergente). I, 97.

Papa (Filippo). I, 102, 103, 104.

Parco. II, 91, 331, 334, 337, 374, 394, 489, 577.

Pardo (principe di). Vedi Sammartino Francesco.

Paretti (L. ). 11, 362.

Parigi. I, 9. 67, 72, 79, 84. 95. 99, 105, 127, 131, 132, 137, 138, 141, 175, 185, 195, 197, 207, 229, 248, 255, 270, 397, 451, 500; II, 13, 30, 39, 4?, 47, 53, 57, 66, 67, 68, 69, 70, 71, 72, 73, 75, 99, 101, 111. 112, 117, 153, 181, 198, 208, 216, 247, 320, 411, 413, 432, 574, 600, 618.

Parigi (conte di). II, 39, 115, 116.

ParUi. II, 477. Parisi (Achille). I, 383. Parisi (Giuseppe). I, 276, 280. Parisco. I, 271.

Parker (Guglielmo). I, 347, 416, 444, 453, 454, 455, 457, 458, 460, 461, 462, 466, 473, 474, 478, 491, 492, 493; II, 29, 616. PaTlato (Gennaro). II, 628. Parma. I, 50, 68 373; 11, 132, 466. Parrino (Giuseppe). II, 18. Partinico. II. 56, 189, 195, 201, 227,

245, 327, 330, 331, 393. Pascoli (Pietro). I, 197. Pasi (conte). I, 262. Pasotti (Francesco). I, 81. Pasta. I, 129. Paterniti. I, 291. Paternò. I, 510, 511; II, 366. Paternò (Alvaro). I, 160. Paternò (cavaliere). I, 127. Paternò (Giuseppe). I, 321, 388,. 390,

413, 415, 444; II, 476. Paternostro (Paolo). I, 293, 470. Patierno (Domenico). I, 86. Patricola (Giovanni). II, 182. Patti. I, 504; II, 108, 120, 417, 420. Patti (Filippo). II, 176. Paugam. II, 522. Pavesi. II, 420. Pavia. I, 53; II, 407. Pavone (Antonio). I, 176. Pecard. II, 407. Pedaboli. I, 277.

Peel (Roberto). I, 28, 29; II, 603. Pellegrino (Luigi). I, 276; II, 38, 108, 109.

Pellicano (Paolo). I, 273, 276, 278. Pellico (Silvio). I, 282. Pellisier. II, 7, 561. Peluflo (Angelo). I, 63, 97, 114, 115. Penasbuglia. II, 225. Pennacchi (G. ). I, 501. Pensabene. I, 167. Pentaglio. II, 229. Pepe (Florestano). I, 9, 317. Pepe (Guglielmo). I, 72, 97, 339,

340, 392; II, 68, 119, 459, 613. Pepe (Tommaso). I, 86. Pepoli (barone). II, 267. Pepoli (marchese). I, 80, 260; II, 543. Peranni (Domenico). II, 477. Perducca. II, 324. Perez (Francesco Paolo). I, 291; II, 39, 129.

Perez (Gaetano). I, 160.

Pergolesi. I, 129.

Per otta (marchese). I, 448, 471.

Perpignano. I, 137, 196.

Perrone (colonn. ). II, 517, 518, 523.

Perroni (Francesco). II, 199.

Persano. II, 237, 412, 413, 475, 532,

549, 550. Persi. II, 176. Perucca. II, 521. Perugia. I, 81; li, 479, 485, 502. Pesaro. I, 235; II, 479. Petralia. II, 243, 244. Piacenza. I, 50.

Piana dei Greci. II, 56, 171, 189, 195, 211, 233, 236, 332, 333, 337, 374, 394, 577. Pianciani. II, 513. Piane! l'(generale). II, 416, 431, 448,

1)483, 494, 495. Piani (Achille). I, 263. Piazza Armerina. II, 376. Piazza (Innocenzo). II, 396. Piazza (Salvatore). II, 8, 29. Piazzuoli (Pietro). I, 235. Piccinini. II, 340.

Picini. I, 129. Piciolo. I, 193. Picozzi. II, 407.

Piedimonte d'Alife. II, 510, 515, 516. Piedimonte Etneo. I, 508, 509, 512. Piediscalzi (Pietro). II, 171, 332. Piemonte. I, 26, 27, 33, 34, 38, 40, 41, 63, 67, 95, 96, 118, 122, 170, 171, 173, 176, 212, 257, 259, 266, 271, 281, 344, 367, 373, 444. 468,

2)495, 496, 498, 499; II, 37, 39, 47, 63, 65, 69, 71, 72, 73, 74, 80, 103, 113, 116, 117, 118, 130, 145, 162, 176, 187, 214, 233, 235, 246, 364, 372, 384, 410, 412, 413, 428, 443, 448, 457, 470, 475, 478, 483, 490, 503, 527, 534, 549, 555, 557, 562, 563, 564, 567, 574, 603, 616, 617, 618, 619.

Pieri. II, 112.

Pietracatella. I, 61, 270, 271. Pignatelli (principe Antonio). Il,

174, 190, 199, 239, 341. Pilo (Girolamo). II, 367. Pilo (Giuseppe). II, 211. Pilo (Rosalino). II, 62, 102, 103, 203, 209, 210, 211, 233, 252, 326, 327, 331, 332, 333, 362, 367, 393. 394, 500, 537.

Pimentel (Eleonora). II, 141. Pindemonte (Ippolito). I, 113. Pinelli (Giuseppe). I, 81; II, 18. Pinelli (Pier Dionigi). II, 404. Pinnetta. I. 167.

Pio IX. I, 260, 261, 263, 265, 266, 281, 292, 298, 307, 339, 345, 346, 372; II, 68, 602, 615. Pio la. II, 412, 476. Piraino (Domenico). I, 273, 279, 373, 374, 391, 399, 405, 408, 418; II, 8, 477. Piraino (famiglia). II, 246. Pisa. I, 239; II, 351. Pisacane (Carlo). II, 110, 141, 209,

383, 539, 540. Pisacane (Silvia). II, 539. 540. Pisanelli (Giuseppe). II, 475. Pisani. II, 362.

Pisani (barone). I, 321, 345, 347, 357, 359, 397, 445, 468, 497; II, 199, 239, 241, 251, 400. Pistoia. II, 237. Pittà. I, 167.

Pittaluga (Giovanni). II, 367. Pizzitelli. I, 206.

Pizzo. I, 109, 277, 368; II, 212, 468. Pizzuto. I, 291. Plombières. II, 113, 158, 488. Fiutino (Agostino). I, 273, 277. Pi ut ino (Antonino). I, 238, 239, 273,

373, 374, 377, 383; II, 470. Po. I, 340, 343; II, 131, 187. Po (del). I, 103. Pocorobba (Agostino). II, 246. Poerio (Carlo). I, 249, 269, 272; II, 488.

Poggioli. I, 197.

Poggioli (Gaetano). 1, 197.

Pala. I, 377.

Policastro. I, 381.

Polidori (P. ). I, 78.

Polizzi (colonnello). II, 518.

Polizzi (Giovanni). II, 235, 267.

Polizzy (V. ). II, 374, 378.

Polistine. I, 384.

Polistine (barone di). I, 384.

Politi (conte). II, 104.

Pollina (Clemente). II, 388, 389.

Polonia. I, 62, 67, 240; II, 51, 94,

95 97. Poma (Carlo). II, 52. Pompei. I, 39.

Ponistergh (Francesco). II, 25. Pontimele. I, 277.

Ponza. II, 110.

Porcelli. I, 295, 392; II, 520, 522. Porro (Luigi). I, 185, 230. Porta (Luigi La). II, 61, 171, 405,

520 522. Portelli (Alessandro). II, 361. Porticello. II, 243, 244. Portici. II, 129, 357, 414. Portoferraio. I, 81. Portofino. II, 234. Portogallo. I, 63, 225; II, 96. Portopalo. II, 224. Porto Torres. II, 259. Posen. I, 284. Posseca. II, 421.

Poulet. I, 413, 448; II, 25, 28, 61. Pozzallo. I, 180; li, 174, 362, 400, 406.

Pracanica (Antonino). I, 273, 274,

276, 278, 480, 502. Pralormo (de). I, 110. Prato. I, 238, 251. Presciani (F. ). II, 362. Prestarà (Rosario). I, 88. Presti (Vincenzo). II, 628. Primacerio. I, 272. Primerano. IT, 245, 246. Priolo (conte). I, 291. Prizzi. I, 157; II, 77. Probiolio, vedi Libertini (R. S. ). Procida. I, 97. Profumo. II, 522.

Pronio (generale). I, 390, 401; II, 181.

Prussia I, 41, 62, 240, 361; II, 22,

71, 99, 181, 204, 457, 561, 562. Pruth. II, 62, 117. Puglie. I, 374; II, 114, 413. Puglia (Mario). II, 178. Puglisi (Nicola). I, 273. Pulvirenti (Giuseppe). II, 278. Puntillo. II, 151. Puppi (col. ). II, 511, 514.

Quarto. I, 15, 44; II, 218, 259, 260,

347, 385, 386. Quattrocchi (Filippo). I, 88. Quintavalle (Giuseppe). II, 52.

Rabbica (Pietro). II, 267. Rabbiolio. II, 163.

Rftboni (Giuseppe). I, 82. Raddusa. II, 376. Radetzky. II, 51, 602. Raeli (Matteo). I, 445. Raffaele (Giovanni). I, 358; II, 109, 557.

Raffaele (Vincenzo di). I, 88. Raffo (conte). II, 105. Ragona (abate). I, 293, 295; II, 8. Rambelli. I, 197. Ramirez (Giuseppe). II, 249. Rammacca. I, 75. Rammacca. II, 376. Ramondini (Gaetano). I, 88. Randazzini (Salvatore). II, 349. Randatzo. I, 504, 508, 510, 512. Randi. II, 3, 24 Rao (Antonio). I, 233. Rapisarda (Santi). I, 100, 106, 107, 163.

Rapisardi (Emanuele). II, 109. Rasponi (Tulio). I, 231; II. 101. Rasponi (Carlo Alessandro). I, 231. Rattazzi (Urbano). I, 27, 56. Ravajoli (Ranieri). I, 81. Ravaschieri (duchessa). I, 8. Ravatelli (Mariano). I, 103. Ravenna. I, 68, 76, 78, 80, 197, 231; II, 101.

Rayneval (C. de). I, 389, 416, 439, 440, 441, 442, 443, 449, 451, 455, 458, 461, 462, 463, 465, 466, 478, 485, 491; II, 29. Re (del). I, 272; II, 78. Re (Federico del). Il, 414, 445. Rebuffi (Paolo). I, 196. Rechigiani (Achille). I, 82. Reggio di Calabria. 1, 166, 238, 273, 276, 277, 278, 279, 289, 290, 372, 373, 281, 384, 395, 401, 418; II, 134, 360, 464, 465, 466, 468, 469, 470, 491, 492. Reggio d'Emilia. I, 67. Regis (generale). I, 66. Reno. I, 62; II, 485. Requisenz (Emanuele). I, 317. Resica. II, 140.

Restuccia (Paolo). I, 273, 276, 278. Ribotti (Ignazio). I, 231, 373, 374, 375, 376, 383, 384, 385, 392, 393, 394, 395; II, 135, 383. Riboty. II, 341.

Ricasoli (Bettino). I, 27; II, 209. Ricci (Giacomo). I, 81. Ricci (G. B. ). I, 121.

Ricci (marchese). I, 398. RicciGramitto (Rocco). Vedi Gramitto (Rocco). Ricciardi (Giuseppe). I, 192, 373, 374, 376, 377, 386, 393; II, 248. Riccio (barone). II, 267. Ricciotti (Niccolò). I, 235. Richard. I, 149. Richardieu. I, 149. Richiedei. II, 397. Ridolfi 'Agostino). I, 263. Riga. Il] 95. Riga (G. ). II, 250. Righini. II, 341. Rimini. I, 184, 239; II, 384. Rimodan (generale). II, 479. Rineda (Antonio). I, 308. Rio de la Piata. II, 550. Ripa Berardi (Luigi). I, 73, 74. Ripari. II, 221. Riposto. I, 190, 480, 504. Riso (Eugenio de). I, 373. Riso (Francesco1). II, 146, 167, 168, 169, 170, 177, 179, 183, 184, 199. 201, 240, 241, 399. Riso (Giovanni). II, 170, 177, 178,

180, 193, 240, 241. Riso (barone Giovanni). I, 320, 321, 425; II, 7, 9, 174, 190, 199, 239, 241.

Ristori (Leonardo). II, 439. Ritucci. I, 340.

Ritucci (Giosuè). II, 414, 445, 515,

517, 518. Rivalta (Francesco). II, 373. Rivera. II, 360. Rivieri. I, 169. Rizzo (Ignazio). I, 88. Rizzo (Ottavio). II, 159. Rizzo (Stefano). II, 159, 628. Robb. I. 456. Roberti (Biagio). I, 218. Rocca generale Della). II, 517, 544,

545, 580. Rocca (Jacopo). I, 235. Roccalumera. I, 152, 174. Rocca Romana. II, 510. Rodi (Giuseppe). II, 221, 383. Rodriguez. II, 247. Rogliano. I, 395.

Roma. I, 20, 40, 47, 55, 69, 77, 78. 91, 126, 133, 137, 138, 140, 141, 149, 196, 197, 261, 265, 266, 271, 280, 333, 340, 344, 345, 359, 373. 469, 4S2, 483, 496, 497, 498; II, 20, 21, 51, 68, 95, 98, 135, 209, 222, 223, 236, 238, 383, 384, 413, 424, 429, 440, 441, 478, 495, 499, 506, 509, 532, 558, 560, 561, 565, 577, 596, 597, 611.

Romagne. I, 50, 54, 64, 68, 70, 73, 74, 77, 78, 109, 118, 122, 132, 175, 233, 238, 263, 281, 368; II, 51, 132, 158, 176, 192, 203, 209, 385.

Romagnosi (Gian Domenico). I, 311.

Romani (Felice). I, 129, 130, 131.

Romani (Luigi). I, 81.

Romania. I, 114, 115.

Romano (Cataldo). II, 25.

Romano (Giuseppe). II, 130.

Romano (Liborio). II. 415, 448, 459, 470, 471, 473, 474, 475, 483, 507, 508, 534, 569.

Romano (Vito). I, 97, 118, 123.

Romeo (Giandomenico). I, 273, 276, 277, 278, 279, 289.

Romeo (Giovanni). I, 276, 279, 372,

Romeo (Giuseppe). II, 18, 102.

Romeo (Stefano). I, 277, 372.

Ronchey (Amos). II, 384.

Ronchi. I, 158.

Roohan (William de). II, 458.

Rosa (La). I, 341.

Rosaroli (Cesare). I, 97, 114.

Rosaroli (Giuseppe). I, 97, 114.

Rosetti, inteso Sonazai (Luigi). I, 197.

Rosica. II, 118.

Rosselli. II, 135, 257.

Róssi. II, 225.

Rossi (Alessandro). 1, 81.

Rossi (Andrea). II, 463.

Rossi (Aristide). I, 189.

Rossi (Augusto). II, 385.

Rossi (canonico). I, 219.

Rossini (Gioacchino). I, 129.

Rota (Gaetano). I, 82.

Rovito. 1, 368.

Rubattino (Raffaele). II, 258, 261, 262, 386, 540.

Rubini. I, 129.

Rubino (Antonino). II, 628.

Rubino (Pietro). I, 88.

Rudini (marchese Antonio di). II, 239, 341.

Rudio. II, 111.

Ruenchl (Gh. ). I, 302.

Ruffo (Fabrizio). II, 611.

42 — Gi akihoxe, il.

Ruffo (Gaetano). I, 279, 289, 372.

Ruffo (Paolo). II, 69, 81, 108, 144, 160, 161, 171, 173, 174, 178, 179, 182, 188, 189, 190, 191, 194, 195, 196, 197, 199, 200, 201, 202, 205, 213, 215, 232, 234, 235, 238, 239, 244, 246, 247, 249, 250, 252, 267, 268, 269, 320, 325.

Ruggeri. I, 276.

Ruiz. II, 515, 518.

Rusconi. I, 80.

Russa (La). II, 184, 340.

Russa (Antonino La). II, 230.

Russa (Rocco La). II, 230.

Russel (lord). II, 108, 564.

Russi. I, 197.

Russia. T, 20, 50, 63, 127, 240, 241, 268, 361; II, 62, 63, 64, 65, 71, 94, 95, 99, 100, 117, 118, 204, 232, 235, 457, 485, 561, 613, 617, 618.

Russo (Gioacchino). II, 18.

Russo (Maddalena). II, 539, 540.

Russo (maresciallo). II, 171.

Rustow. II, 511, 513, 517, 520, 525, 626, 564.

Sabina. II, 222.

Sacci. I, 278.

Sacchi. II, 523, 524, 530.

Saffi (Aurelio). I, 15; II, 34, 51.

Saffi (Girolamo). I, 81; II, 257.

S. Arnaud. II, 39.

S. Cloud. II. 488.

S. Hilaire (Cristoforo di). I, 175.

Saladini. I, 138.

Salasia (Filippo). II, 194.

Salazar. 1, 395.

Salemi. II, 227, 229, 230, 231, 269, 388, 389, 390, 391, 392, 396, 400, 627, 628. Salemi. I, 381.

Salerno. I, 381; II, 212, 470, 507. Saliceti (A. ). II, 34, 101, 538. Salino. II, 468. Salluzzo (generale). I, 270. Salmeri (Antonio). II, 235. Salinow. II, 140. Salpietra. I, 150. Salvadori (Domenico). I, 289. Salvatore (Francesco). I, 279, 372. Salvo (Ignazio). II, 628. Salvotti. II, 19.

Salzano (Giovanni). II, 170, 171, 172, 173, 175, 176, 177, 178, 186, 186, 189, 216, 239, 241, 242, 337, 346, 352, 354, 358, 365, 373, 644.

Sambuca Zabut. II, 381.

Bammartino duca di Montalbo. I, 73, 98.

Sammartino (Francesco). II, 123, 125.

Sampieri (Domenico). II, 230.

San Benedetto UUano. II, 80.

San Cataldo (principe di). II, 411.

San Cesareo (duca di). I, 270.

San Cono. II, 376.

8anctis (Francesco de). II, 546.

San Donato (G. S. di). II, 102, 116, 121.

Sandrò. II, 413.

Sandri (Antonio). II, 463.

Sandron. I, 221.

Sangro. I, 134.

Sansone (Carlo). II, 169.

Sansone (Giuseppe). II, 251.

Sant'Anna (fratelli). II, 230, 320, 324 390

Sant'Anna (Stefano). II, 171, 390.

Santa Caterina. I, 232.

Santa Lucia del Mela. II, 418, 421.

Santa Maria. II, 259, 509, 510, 511, 513, 516, 517, 518, 519, 521, 523, 524, 525, 526, 527. 529, 530, 681.

Santa Maria di Capua. I, 123.

SanAleuto. I, 504, 605, 508.

Sant'Alfano (marchese di). I, 181.

Sant'Angelo. II, 513, 510, 516, 518, 519, 521, 522, 524, 525, 527, 528, 529, 530, 543. ' x

Santangelo (Niccolò). I, 97, 98, 19 239, 247, 271, 280.

Sant'Antonino (colonnello). I. 504, 506.

Sant'Antonio (Salvatore). I, 273, 274, 278; II, 38.

San Giuliano (marchese di). I, 163, 164.

San Giuseppe. II, 331.

San Giuseppe (principe di). II, 8, 411.

San Leucio. II, 516, 518, 528.

San Marino. I, 73, 74.

San Martino. II, 132.

San Michele. II, 376.

Sant'Onofrio (Giovanni). II, 8.

San Pietro (duca di). I, 194, 215, 291, 303.

San Pietro a Clarenza. I, 511.

San Pietro sopra Patti. II, 421.

San Secondo (conte di). II, 2R 267.

San Severino. I, 234, 249. San Tammaro. II, 525, 527. Santo Stefano. I, 276, 278; IL, SI.

223, 386. Santo Stefano (conte di). I, Idi Santo Stefano di CamaHra. H, 232.

San Vito. II, 387. Santocanale (Filippo). IX, 406. Santoro. I, 294, 295. Santa. II. 539, 640. Sapri. I, 381; II, 75, 110. Saracena. I, 373

Sardegna. I, 50, 156; II, 63, 72, 37.

460, 550, 662. Sarpi (Paolo). I, 28, 63. Satriano (principe di). Vedi Filangieri Carlo. Sanana. II, 74. Sarzana (Salvatore). I, 88. Savini (Carolina). I, 82. Savio (Pietro). I, 82. Savoia. I, 173, 176; II, 74, 114, 145,

187, 480, 562. Scaletta. I, 479, 504, 505, 609, 520,

512; II, 491. Scalia (Alfonso). I, 385. 386, 41S,

506, 608, 509; II, 30, 31, 257. Scarelli (Cesare). I, 82. Scarlatta. I, 168. Scarpinato (Francesco! I, 88. Scarsellini (Angelo). Il, 62. Sceberas. II, 406. Schiaffino. II, 323, 324, 348, 34f Schiellotto. I, 149. "chillaci (Stefano). II, 18. Schmid (generale). I, 401. Schimdt (colonnello). II, 479. Sfchwteftt?® (Giuseppe). 1, 158, 159.

1607l6l Sciacca. I, H, 224, 226, 361,

379, 381, £8. Sciacca (Ste»n?)61Scialoia (Annmo)n 475Scido. I, 277. V

Scilla.

Scimeni (Antonino). lì2__ Scinà (Domenico). I, 16639 2, 6:

II, 605. Sciuto. I, 167. Sci va (Giuseppe). I, 276, 278,»12. Scordato (Giovanni Battista). 1, 296. cordato (Giuseppe). I, 296. eordia (principe di). I, 155, 208, 241, 448; II, 8, 30, 31, 68, 69, 102. eorza. II, 139. fotto (Nicola). I, 275, 278. % botto (Vincenzo). I, 275. fcovazzo (Gaetano). I, 331. botta. II, 560. hrivia. II. 131. Icrofani (Pietro). II, 500. ienderi (Domenico). II, 121. ienderi (Felice). II, 121. " ura (Pasquale). II, 546. urto (Francesco). II, 628. bastopoli. II. 63, 64, 71, 94. ceni (avvocato). I, 81. idita (Stefano). II, 8. 'fieminara. I, 381. Sensi (cavaliere). I, 81. Sergardi (brigadiere). II, 518. Sergognani (Giuseppe). I, 81. 'Berrà (Giovanni Battista). I, 175. Serracapriola (duca di). I, 312, 314,

331; II, 140. Serradifalco (duca di). I, 319, 357; II, 8.

Serraino (Pasquale). II, 389. jSesia 11, 131. iSessa. II, 545. Sessa (Emanuele). I, 291; II, 8. Sessa (Giulio Cesare). I, 291. Sestri Ponente. II, 407. Settembrini (Luigi). I, 289. Settimo (Ruggero). I, 295, 296, 301, 306, 310, 316, 318, 319, 320, 337, 388, 396, 435, 445, 502; II, 8, 400. Severino (Agostino). II, 141, 147,

190, 234, 444. Sfax. II, 438, 439. Sgaralini (fratelli). II, 203. Sgobel (Antonino). II, 8. Sgroi. I, 167. Siboni (Augusto). II, 111. Siculiana. I, 244. Siena. I, 81.

Simoncini (Carlo). II, 235. Simone (De). I, 61. 272. Simonelli (Paolo). I, 128, 139. Simonescbi (Paolo). I, 163, 396. Simonetta (colonn. ) II, 421, 422. Simonetti. I, 272, 273. Sineo. II, 534. Sinigaglia. I, 137. Siracusa. I, 71, 82, 136, 158, 159, 161, 162, 163, 164, 165, 166, 167,

168, 169, 170, 171, 173, 180, 181, 188, 228, 312. 333, 418, 471, 478, 480, 502; II, 7, 174, 175, 372, 430, 437, 442, 522, 549.

Siracusa (conte di). Vedi Leopoldo.

Sirena (L. ). II, 257.

Sirtori (Giuseppe). II, 34, 221, 225, 227, 320, 323, 324, 335, 348, 384, 389, 390, 392, 394, 417, 428, 469, 509, 524, 526, 528, 529, 530, 550, 551.

Smirne. II, 119, 125.

Smith (Penelope). I, 134, 135.

Soccomanni. I, 149.

Sofia (Gerolamo). I, 279.

Solferino. II, 132, 151, 198, 209, 488, 562.

Sollecito (Silvestro). I, 168, 169; II, 430.

Solunto. I, 300.

Sommacampagna. II, 617.

Sora. II, 469.

Sortino (Silvestro). I, 162, 166.

Sostegni (Sostegno). I, 81.

Soveria. I, 395.

Spada (Vito). II, 230.

Spadafora (principe di). II, 120.

Spadoni. II, 113.

Spagna. I, 20. 44, 45, 60, 63, 112, 135, 139, 141, 149, 173, 175, 195, 225, 233, 367; II, 47, 97.

Spangaro. II, 396.

Spanò (Agamennone). I, 276.

Spasiano (Antonio). II, 357.

Spaventa (Silvio). II, 488.

Specchi (maggiore). II, 421, 423.

Spedalieri (Niccolò). I, 216.

Spedalotto (marchese di). I, 297; II, 8.

Spezzano Albanese. I, 384, 393, 394, 395.

Spinazzi. II, 523.

Spinelli (Antonio). I, 280; II, 414, 445, 483.

Spinuzza (Salvatore). II, 78, 79, 80, 517.

Spiraglio. II, 176.

Spoleto. II, 479

Sprovieri. II, 324, 418, 522.

Spucches (Giuseppe de). I, 203; II, 129.

Squiglio (Lo). II, 340.

Stabile (Mariano). I, 315, 320, 321, 322, 337, 346, 359, 388, 502; II, 8, 30.

Stagnetti. II, 221, 396. Staiti. I, 358. Stanley. I, 448. Statella (Antonio). IIt 172. Statella (conte). II, 24. Stati Uniti d'America. I, 241. Stazzerà. II, 388. Stazzone (marchese). II, 236, 389. Sterbini (Pietro). I, 282. Stocco (Francesco). 1, 272, 386; II, 68, 102, 221, 248, 320, 324, 530. Stradella. I, 176. Strazzaro. II, 225. Strocchi (Girolamo). I, 231. Strozzi (Filippo). I, 109. Strubet (Carlo Teodoro). I, 113. Sue (Eugenio). I, 213, 214. Sury. II, 343. Svezia. I, 20; li, 99, 561. Svizzera. I, 20, 26, 132, 140, 176, 248, 262; II, 67, 97, 101, 210, 457. Szekley. II, 561.

Tabacchi (generale). II, 518, 519,

525, 526. Taglia vi a (Giuseppe). II, 332. Taix (Amato). I, 226, 227, 229, 242,

243, 246, 247. Talamone. II, 219, 220, 222, 223,

386, 387. Talleyrand (barone di). II, 457. Tamaio (Giorgio. II, 477. Tamajo (Stefano). I, 199; II, 406. Tamburello (fratelli). I, 294. Tanara. I, 260. Tanshawe (A. ). II, 263. Tanucci (Bernardo). I, 39, 364; II,

609, 610, 618. Tanzi (generale). I, 161. Taormina. I, 478, 479, 480, 503, 505,

507, 508, 509; II, 29, 617. Taormina (duca di). Vedi Filangieri

Carlo.

Tapanelli (G. B. ). I, 81. Taparelli (Luigi). I, 229, 257. Tapputi. II, 237. Tardi (Raffaele). II, 8. Tassara. II, 349. Tazzoli (Enrico). II, 52, 53. Teano. II, 542, 543. Tedeschi. II, 367. Tedesco (Salvatore). II, 121.

Tempie (Guglielmo). I, 229, 39

478; II, 11, 12, 27, 28, 29, 30. Tenedo. II, 62. Teramo. I, 78.

Termini Imerese. I, 157, 186, 312, 332; II, 154, 171, 188, 190, 191. 202, 209, 233, 236, 245, 246, 250. 251, 320, 361, 365, 400, 416. Terracina. II, 441, 558 Terra di Lavoro. I, 115, 118, 123:

II, 212, 413. Terranova di Sicilia. I, 73, 74, 244.

402, 408; II, 247. Terranova (Tommaso). II, 627. Terresi (Giuseppe). 11, 177. Terzi (sacerdote). I, 134, 135. Tesci (Francesco). I, 235. Tessera (capitano). II, 514. Thiers (Adolfo). I, 18; II, 39, 69. Tibaudo (arciprete). II, 627. Ticino. I, 259, 339; II, 114. Tilling. II, 464, 465, 466. Tiriolo. I, 386, 395. Tirolo. I, 392; II, 50, 562. Tirreno. II, 387. Tirrito (Luigi). II, 159 Todaro (Giuseppe). I, 89. Tolesi (Giuseppe). II, 178, 193. Tolone. I, 117, 138. Tolosa, h 27, 196. Tornei. II, 269.

Tommaseo (Niccolò). I. 343; li, 233. Tommasi (marchese). I, 61, 68, 76,

97 98 99

Tommaso Natale. II, 246. Tondù (Pietro). II, 171, 393. 394. Torcelli. II, 237.

Torella (principe di). I, 314, 331; II,

414, 445, 483. Torelli. II, 63.

Torino. I. 9, 15, 40, 47, 55, 134, 140. 183, 266, 315, 340, 345, 346, 35». 397, 451, 468, 495, 496, 500; Il 18, 73, 75, 100, 101, 102, 123, 131. 134, 143, 144, 159, 203, 237, ! 258, 259, 261, 384, 385, 404, 406. 411, 428, 432, 440, 442, 443, 457. 461, 483, 488, 493, 494, 502, 531, 534, 541, 548, 549, 559, 561, 605, 608, 620. Tornabene (Salvatore). I, 163. Torralta (marchese di). II, 627. Torre Arsa (marchese di). I, 319, 320, 357, 387, 388, 389, 435, 445, 482, 496; II, 8, 30, 31,

Torre di Faro. I, 273; II, 463, 464, 465.

Torre (Onofrio La). II, 18.

Torricelli (Antonio). I, 475.

Tortori (Biagio). I, 263.

Tortorioi (Domenico), il, 105, 351.

Toscana. I, 50, 69, 70, 80, 81, 118, 122, 147, 199, 212, 271, 344, 345, 469, 475, 498, 499; II, 32, 129, 131, 132, 145, 158, 159, 160, 161, 209, 411, 412, 461, 504, 538, 550.

Toscana (granduca di). I, 239, 266, 339, 342.

Totti (Pasquale). II, 410.

Tour (conte De la) 1, 110.

Tramontana (Vincenzo). II, 182.

Transilvania. II, 560, 561.

Trapani. I, 71, 194, 312, 332; 11, 83, 101, 103, 121, 155, 190, 195, 202, 226, 229, 236, 237, 238, 245, 249, 263, 266, 267, 268, 269, 350, 359, 377. 384, 387, 388, 389, 400.

Travali (Benedetto). II, 400.

Trentino. II, 562.

Trento. I, 147.

Treviso. I, 149, 343.

Trieste. I, 284, 496; II, 50, 114.

Trincherà (Francesco). I, 269, 273.

Triolo (Salvatore). II, 25.

Troya. II, 140.

Tscliudy (Giuseppe). I, 70, 71, 192, 194, 199, 215; II, 269.

Tukery. II, 218, 336, 338, 339, 340, 348, 395

Tunisi. 1, 116; II, 83, 101, 104, 105, 216, 257.

Turchia. II, 62, 63, 71, 561.

Tiirr (Stefano). II, 218, 219, 220, 221, 225, 226, 231, 321, 323, 325, 326, 341, 345, 347, 348, 396, 509, 510, 511, 513, 514, 517, 525, 526.

Turrisi (barone). I, 448.

TurrisiColonna (Anna). I, 191.

Turrisi Colonna (Giuseppina). 1, 191, 204, 229, 240.

Tusco (Filippo) li, 439, 441.

Tyssowrki (Giovanni). I, 284.

u

Ugdulena (Gregorio). I, 56, 445; II, 400, 477.

Ugo. Vedi Favare.

Ullao. II, 237.

Umberto I. I, 28.

Umbria. I, 68, 92; II, 2G9. 222, 478» 479, 480, 502, 505, 506, '508, 533, 534, 543, 575, 576. Ungheria. II, 94, 95, 97, 98, 528,

560, 561. Urbano II. I, 61. Urbino. II, 479. Ureo (Pietro d'). I, 280. Use ani. II, 431.

Ustica. I, 71, 100, 107, 232, 392. Uzes. I, 121. Uziel. 11, 397.

Vaccaro. I, 159.

Vadini (Felice Antonino). I, 61.

Valeggio. I, 346.

Valenti. Il, 170.

Valenti (Francesco). II, 103.

Valenti (Girolamo). II, 103.

Valenza. II, 252.

Valenza. 11, 131.

Valerio. II, 458, 543.

Valguarnera (Corrado). Vedi Niscemi

(principe di). Valletta. I, 123.

Vallone (Liborio). Vedi Villamanea

(Calogero). Valmorri (Filippo). I, 263. Valmorri (Giuseppe). I, 263. Valparaiso. II, 348. Valtellina. II, 52. Vandea. I, 121. Vandessen. I, 133, 141. Vanella (Vincenzo). II, 121. Vannucei. II, 237. Varese. II, 208, 424, 430, 488. Varsavia. II, 593. V»rvuzza (Antouino). II, 104. Vassallo (cavaliere). II, 246. Vassallo (Pietro). II, 177, 193. Vauban. II, 513. Vecchi (Augusto). II, 218, 386. Vecchi ni (Carlo). I, 128. Vecchioni. I, 157. Venafro. II, 542. Venerucci. I, 235. Veneti (Vincenzo). I, 82. Veneto. I, 70, 342; II, 52, 113, 158, 490, 597.

Venezia. I, 9, 13, 97, 196, 235, 339, 343, 396; II, 21, 52, 98, 119, 135, 152, 162, 187, 254, 408, 459, 504, 532, 534, 596.

Ventimiglia (Francesco). II, 109, 177, 193, 328.

Ventimiglia Siculo,. II, 77, 171.

Ventura (Gioacchino). 1, 345, 359, 360, 482, 496; II, 45, 46, 47, 56, 57, 69, 129.

Venturelli. II, 30.

Venturi (Bartolomeo). I, 82.

Venusio. II, 237.

Vercellese. II, 131.

Verdi (Raffaele). II, 29.

Verdinois. II, 520.

Verducci (Rocco). I, 289, 372.

Verdura (duca della). I, 152, 174; II, 8.

Vergara Craco (Giuseppe). II, 61, 62.

Verona. II, 73.

Versani (Camillo). I, 82.

Vesuvio. I, 39; II, 528.

Vi al (Pietro). I, 194, 279, 280, 284, 291, 296, 299, 301, 308.

Vicari. II, 216, 243, 244.

Vicesvinci. II, 44.

Vico (Giov. Battista). I, 39, 53; lì, 533, 608, 609.

Vienna. I, 35, 64, 95, 147, 258, 304, 316, 347, 366, 397; II, 48, 72, 99, 115, 117, 166, 237, 349, 600, 608, 612, 615.

Viglia (Domenico). I, 61, 251.

Vigo (Giovanni). I, 158.

Vigo (Leonardo). I, 322.

Villa Pezzoni. I, 176.

Villani (Pietro). I, 368.

Villareale (Marco). II, 48.

Villa San Giovanni. I, 383; II, 491, 492.

ViUabate. I, 157, 295, 300; II, 151, 191.

Villafiorita. I, 295.

Villafranca. II, 132, 135, 143, 179, 456, 480, 504, 532, 560, 575.

Villafranca (principe di). I, 232; II, 396.

ViUafroti. II, 77, 78, 209, 233, 382.

ViUalba, I. 188.

Villa manca (Calogero). II, 177, 193.

Villamarina (marchese di). II, 71, 517.

Villarena (marchese di). II, 87, 88.

Vii lari (Pietro). I, 233.

Viola. I, 388, 444; II, 477.

Visiano (Salvatore). II, 103, 104.

Vita. II, 231, 320, 348, 391.

Vita (Clemente). II, 514.

Vitale (Bartolo). II, 159.

Vitale (Giambattista). I, 88. Vitaliani. II, 141. Vitelloni (conte). I, 262. Vittoria (Sicilia). II, 246. Vittorio Amedeo III. I, 41. Vittorio Emanuele I. I, 96. Vittorio Emanuele II. I, 28, 49; II, 113, 116, 117, 119, 122, 130, 131, 132, 139, 141, 142, 144, 145, 152, 162, 169, 179, 198, 199, 219, 220, 227, 231, 256, 350, 351, 353. 362, 410, 411, 412, 428, 443, 445. 446, 457, 458, 461, 472, 475, 480, 504, 531, 532, 533, 534, 535, 536, 539, 542, 543, 545, 546, 547, 548. 551, 554, 555, 557, 559, 564, 569, 570, 571, 573, 577, 580, 581, 582, 583, 584, 585, 586, 587, 589, 602, 619, 628.

Vittorio Emanuele III. I, 28; II, 625.

Vizzini. II. 375, 376.

Vochieri. I, 170.

Volano. I, 343.

Volterra. I, 81.

Volturno. II, 380, 425, 509, 510, 511, 512, 513, 514, 517, 518, 523, 527, 549, 550, 557, 577, 619. Von Mechel. II, 344, 515, 519, 520, 524.

Vultaggio (Paolo). II, 628.

Walewski (conte). II, 71, 76, 150. Wedekind (E. ). I, 302. Wedekind (F. ). I, 302. Welden (generale). I, 343. Wellington. I, 448. Vetliog (Guglielmo). I, 248. Winppeare (Antonino). II, 172, 176,

192, 193, 248, 457, 531. Wbite Mario (Jessie). II, 367. Winikler (colonnello). II, 514. Wood. I, 227; II, 205. Wuttemberg. II, 99.

Yauch (Luigi). I, 312.

Zaffaroni. II. 423. Zambeccari. II, 343, 386. Zambeccari (Livio). I, 238; II, 76.

Z&mbelli (Giovanni). II, 52. Zambianchi (A. ). I, 507; II, 223. Zanga (Michele). II, 194. Z&nnetti (Salvatore). I, 396. Zanie. I, 82, 118. Zanzilli (A. M. ). II, 483. Zappieri (Pietro Maria). I, 176.

Zerbi (Rocco de). I, 276. Zicchitella (Giorgio). II, 103. Zingarelli (Nicola). I, 129. Zocchi (Pietro). I, 81. Zola (generale). I, 410. Zacchi. I, 70.

Zurigo. I, 28; II, 132, 135, 143, 402.




INDICE

CAPITOLO PRIMO.

Fine della rivoluzione — Opere della Municipalità — Il proclama del Filangieri — Nuove disposizioni dello stesso contrarie all'Ultimatum e alla sincerità delle promesse — Protesta degli esuli in opposizione alle ordinanze del Filangieri — Due lettere scritte dalla Toscana — La Polizia e i cittadini — Congiure e la cospirazione del Garzilii e C. i — I Comuni per l'attentato del dì 27 gennaro — Ritrattazioni di varj de'  43 proscritti Domanda di ritorno in patria del Crispi e sua lettera — Le carte della rivoluzione — Il Maniscalco e gli agenti segreti — Il Comitato nazionale dopo la caduta di Roma — Nuovi programmi di rivolta — Condanna del Mastruzzi e C. i — Agitazioni in Sicilia e processi politici in Napoli — Giudizio del Palmerston per re Ferdinando — Le lettere del Gladstone e la risposta alle stessePag. 7

Documenti» 27

CAPITOLO SECONDO.

La emigrazione e la italianità in Sicilia — Il colpo di Stato in Francia

Manifestazioni del Filangieri sulle condizioni politiche in Sicilia nel 1852 — Viaggio di re Ferdinando in Messina e in altri luoghi dell'Isola — Concessione del portofranco a Messina — Canti alla libertà di marinai austriaci e della canzone la «Palommella bianca» — Pel vapore Ylndépendant di Vincenzo Florio — Il P. Cutrera e la Polizia — Sottomissione a re Ferdinando del P. Gioachino Ventura — Giuseppe Mazzini e il Partito Nazionale — Il prestito mazziniano — I Comitati rivoluzionarj e il Radetzky — Francesco Giuseppe in Lombardia — Indirizzo del Municipio di Milano — Il processo di Mantova sul Tazzoli ed altri

CAPITOLO TERZO.

Del Filangieri e delle ritrattazioni de Deputati e de'  Pari — Processi politici — La Guerra d'Oriente — Le convenzioni per la Guerra d'Oriente con l'Inghilterra e la Francia discusse nel Parlamento subalpino — Timori per la invasione colerosa — Il Filangieri richiamato in Napoli — Ritorno delle plebi alla calma — Di un'opinione del Palmerston sul Murat — Rivelazioni del Carafa sulle mene rivoluzionarie — fine della Guerra d'Oriente e il Congresso di Parigi — I Giornali politici — Il «Piccolo Corriere d'Italia» — Il Programma della Società Nazionale — De' partiti politici degli emigrati in Parigi — Nuovi processi politici e condanna a morte di Francesco Bentivegna e di Salvatore Spinuzza — L'attentato a re Ferdinando — Agitazioni de'  fuorisedi — Tentativi di sbarco degli stessi nel Regno... Pag. 59

Documenti» 83

— 666 —

CAPITOLO QUARTO.

Notizie attinte dall'u Italia e Popolo» per l'acquisto di 10. 000 fucili — Parole di Lord Russel sull'avvenire della Sicilia — Riflessioni del Castelcicala e contegno tenuto dall'Inghilterra — Macchinazioni in Marsala — Processo di Luigi Pellegrino — Di strumenti creduti adoperati pe' prigionieri politici — Lavoro unitario del Mazzini e biasimo de'  metodi politici del conte di Cavour — La spedizione di Sapri — Varj attentati — L'attentato a Napoleone III — Fine di Felice Orsini — Il conte di Cavour a Plombières — Nozze regali nella Casa di Savoia e cessione della Savoia e di Nizza — Nozze regali nella Casa Borbone — Viaggio e malattia di Ferdinando li — Preliminari di guerra tra il Piemonte e l'Austria — L'opuscolo «Napoleone III e l'Italia — Notizie di Napoli sullo scoppio della fregata Carlo III e della polveriera di Santa Maria di Leuci — Lettera del San Donato al Dnca di Calabria — Guerra tra l'Austria e il Piemonte — Notizie sullo stato di Ferdinando II e sua morte — Agitazioni nel popolo — Giudizio dell'uomo e del re — Il proclama di Francesco II — I funerali dell'estinto re — Il decreto di amnistia pe' reati politici e rifiuto della stessaPag. 107

Documenti 120

CAPITOLO QUINTO.

Condizioni politiche e morali della Sicilia dal 1849 al principio del 1859 — Le principali publicazioni periodiche — Del movimento intellettivo nell'ultimo decennio — La guerra di Lombardia e il Trattato di Villafranca — Il console di Sardegna in Messina. — Armi da sbarcarsi in Reggio — Viaggio del Crispi in Sicilia — Attentato al Maniscalco, tumulti il di 9 ottobre 1859 e disarmo in Palermo — Devozione al re — La politica del Piemonte e le proteste generose di Giuseppe Mazzini a Vittorio EmanuelePag. 127

CAPITOLO SESTO.

La Corte e il Governo di Napoli — La Sicilia nella fine del 1859 — Richieste sulle concessioni di rimpatrio — Il giudizio di Alberto Mario sulla Sicilia — Proclama a1 Siciliani e fermento nell'isola — Atti del Governo — Gli scritti del Mazzini e lettere dello stesso a'  Siciliani — Arresto in Palermo — Varj proclami — Agitazioni del Governo — Preliminari di congiure — Annessione al Piemonte dell'Emilia e della Toscana — Un proclama del popolo Siciliano — Una lettera del CrispiPag. 139

Documenti» 146

— 667 —

CAPITOLO SETTIMO.

Prodromi della Rivoluzione del di 4 aprile 1860 — Una nota del Maniscalco — Francesco Riso e gli altri congiurati alla Magione — Avvenimenti del giorno della Rivoluzione in Palermo — Proclama del Comandante Generale le Armi — Il «Giornale Ufficiale di Sicilia» — Il conte di Siracusa a Francesco II — Il Luogotenente al Governo in Napoli — Lettera del Principe del Cassaio al Luogotenente in Sicilia sulle condanne capitali — Arresti in Palermo e dissolvimenti nelle altre province — Condizioni politiche di Palermo ed ordinanza del Generale Salzano — Il proclama di Misilmeri — Notizie del R. Incaricato di Costantinopoli — C ntradizioni della luogotenenza sul contegno popolare — La buca della salvezza — Il Consiglio di Guerra pe' 13 imputati de' moti del dì 4 aprile e la sentenza di condanna capitale — Lettera di Vittorio Emanuele a Francesco II — Il contegno politico delle popolazioni dell'Isola — Notizie di Francesco Riso moribondo all'ospedale — Le bande di Carini — Proteste de consoli pe' bombardamenti — Nuove notizie sullo stato politico dell'Isola — Telegrammi per arruolamenti in difesa della Sicilia e d'una fregata inglese a MarsalaPag. 165

Documenti» 182

CAPITOLO OTTAVO.

Il governo del Piemonte e preliminari della Spedizione in Sicilia. — Precursori della stessa. — Nota del Governo in Sicilia e le dimostrazioni interne. — Contradizioni del Governo e telegrammi di diplomatici. — Corrispondenze assidue de'  rappresentanti il Governo. — Il Comitato di Palermo. — Proclami del Castelcicala e la cessazione dell'assedio. — Il Luogotenente al Ministro in Napoli. — Palermo alla Sicilia. — Corrispondenze politiche e telegrammi. — Il proclama del Comitato di Palermo e la nota del Governo del primo di maggio. — Proclama de'  Siciliani alle civili nazioni d'Europa. — Note diplomatiche. — Le vicende della Spedizione da Quarto a Marsala. — Mezzi della stessa. — Proclama del Generale Garibaldi. — Proclami del Comitato di Palermo. — Altri Proclami di Garibaldi. — Corrispondenze varie da Trapani, Malta e Napoli. — Da Marsala a Salemi. —

L'abbandono de' due vapori e le carte rinvenute e trasmesse a Napoli. — Da Marsala a Palermo. — La Dittatura. — Il governo dei Borboni e la diplomaziaPag. 207

Documenti» 232

— 668 —

CAPITOLO NONO.

La insurrezione in tutta l'isola — L'opera e i consigli richiesti dalla Corte al Filangieri — Le squadre garibaldine da Salemi a Vita e le forze borboniche — La battaglia di Calatafimi — Rapporto del generale Landi al Governo in Palermo — Ordine del giorno di Giuseppe Garibaldi — Manifestazioni insurrezionali — I decreti di Francesco II — Le note ufficiali dal 16 al 22 maggio — L'arrivo di Ferdinando Lanza — Le manifestazioni popolari — Documenti ufficiali dal 23 al 24 maggio — Le escursioni delle forze volontarie dal di 16 al 24 maggio — L'occupazione di San Martino e la morte di Rosalino Pilo e di altri — Il campo di Gibilrossa — Documenti ufficiali dal 23 al 26 maggio — L'alba del di 27 maggio — L'entrata e il combattimento in Palermo — Resa di Palermo — Notizie da Napoli al Governo di Sicilia — Il proclama di Garibaldi agli Italiani — Il documento della Spedizione da Quarto a PalermoPag. 319

Documenti» 348

CAPITOLO DECIMO.

Del Comitato d'insurrezione in Palermo istituito da Garibaldi — Dell'arrivo in Palermo di armi, del Fabrizi e del La Farina — Costituzione del Governo — Spedizioni varie del Migliavacca, del Malenchini, del Medici e del Cosenz — Diserzione del Veloce — Contrasti politici e l'arresto di Giuseppe La Farina — Missione diplomatica degl'inviati di Sicilia presso le Corti di Torino, Parigi, Londra — Lettera del Persano: manifestazioni rivoluzionarie nel Napoletano — Il De Martino plenipotenziario di Francesco II a Parigi — La costituzione largita da Francesco II, il nuovo Ministero in Napoli — Le opinioni della stampa napoletana — Atti del Governo regio in Sicilia dal 4 giugno al 13 luglio — Stato d'assedio in Napoli — Risposta de'  Ministri all'Atto sovrano — Proclami di Francesco II a'  Regj Stati e all'esercito — Il proclama di Liborio Romano L'ordine del giorno del generale Pianell — Proclama agli abitanti della città di Napoli — Il generale Medici alla Provincia di Messina — Il Sirtori assunto temporaneamente alla dittatura — Garibaldi alle donne di Palermo — Garibaldi da Patti a Barcellona al campo di Meri — Un ordine del giorno del Bosco emanato dalla cittadella di Messina e prodromi della battaglia di Milazzo — La battaglia — La capitolazione — Le convenzione del Medici e del Clary per Messina — Entrata di Garibaldi in Messina — La prodittatura — Lo Statuto piemontese — La politica del conte di Cavour Pag. 399

—669 —

CAPITOLO UNDECIMO.

Vicende di Napoli — Il proclama del Ministero e la politica piemontese — Nuove spedizioni di volontarj — Garibaldi in Sardegna — La Circolare del Farini, ministro dell'interno del Piemonte, e il consento alla stessa del Mazzini — Condizione della Sicilia e dissidj nell'esercito volontario — Passaggio di Garibaldi nella Calabria — Attività del Castiglia da Torre di Faro alla Calabria — Atto militare del generale Enrico Cosenz — Le scissure politiche in Napoli — La corte e il conte di Siracusa — L'esercito regio — Il Pianell, il suo ritiro e le sue lettere a Francesco II — Francesco II lascia la corte di Napoli dando un saluto al popolo Giuseppe Garibaldi, trascorse le Calabrie e il Salernitano, giunge nella capitale del regno — Contegno della popolazione e de'  capiparte — Giudizio sulla missione di Liborio Romano — Il governo della rivoluzione in Napoli — Dissentimenti in Sicilia — Il Crispi e il Depretis in Napoli — Il Depretis lascia la prodittatura — Garibaldi in Palermo ed esposizione delle sue teorie politiche — Il conte di Cavour e le annessioni — Garibaldi di ritorno in Napoli — Il Mordini prodittatore in Sicilia e formazione del nuovo Ministero — Invasioni delle truppe piemontesi nelle Marche — Combattimenti — Una nota diplomatica del conte di Cavour. Pag. 455

Documenti» 49 L

CAPITOLO DUODECIMO.

Le agitazioni in Napoli — Il Gavazzi e le controversie religiose — Nuove fortificazioni in Capua — Battaglia al Volturno — Ordine del giorno di Garibaldi — Provvedimenti di legge chiesti dal conte di Cavour alla Camera subalpina sulle annessioni delle Province meridionali — La Prodittatura in Napoli — Giuseppe Mazzini in Napoli e le ostilità della consorteria e lettere del Pallavicino e del Mazzini — Il Proclama di Vittorio Emanuele e il suo passaggio coll'esercito dal Tronto — Contrasti in Sicilia per l'annessione — I funeri di Rosalino Pilo — La decorazione a'  Mille promessa dal Municipio di Palermo — Le annessioni — I decreti dittatoriali per la madre e le sorelle di Agesilao Milano, di Silvia Pisacane e della Società Rubattino — Garibaldi c Vittorio Emanuele a Teano — Del combattimento a Santa Maria di Capua e della capitolazione per la resa — Decreto di nomina a luogotenente generale per la regione continentale del Mezzogiorno — Il saluto di Garibaldi ai volontarj e loro sbigottimento — Partenza di Garibaldi da Napoli e lettera dello stesso al generale Sirtori — Decreto di Vittorio Emanuele per regolare l'esercito volontario — Vittorio Emanuele in Palermo dal 1° al 5 dicembre 1860 — Vittorio Emanuele a Mola di Gaeta e assedio di Gaeta — Francesco II lascia Gaeta per recarsi in Roma — Assedio della cittadella di Messina e resa della stessa — Ultimi sforzi di Civitella di Tronto e resa della fortezza a discrezione — Le opinioni varie assunte da'  partiti per la unità d'Italia — Condizioni non secure delle popolazioni del Mezzogiorno Pag. 507

— 670 —

CAPITOLO DECIMOTERZO.

La Sicilia e la rivoluzione — Il regno d'Italia proclamato nel Parlamento — Benefici e malefici effetti dell'Unità politica — Necessità dell'educazione — I grandi uomini del risorgimento politico — Contributo vario de'  popoli delle diverse regioni per la unità morale e politica d'Italia — Come e quanto alla grandezza italica abbia contribuito la SiciliaPag. 599

CAPITOLO DECIMOQUARTO.

La fine di un Regno....................................................................Pag. 607

Chiusa dell'opera.........................................................................  »    623

Aggiunta a'  Documenti del Cap. IX del Vol. II…........................  »    627

Bibliografia...................................................................................  »   629

Indice alfabetico dei nomi delle persone e dei luoghi che

ricorrono nei due volumi.............................................................. »   633
















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