Eleaml - Nuovi Eleatici



Avv. LUIGI BRANGI

I MORIBONDI di MONTECITORIO

L. ROUX E C. Editori

ROMA-TORINO-NAPOLI.

1889

(3)

SEZIONE TERZA  — Il Centro.
§ 1° — Storia Internazionale
§ 2. — Gli ex-Ministri
§ 3. — Gli ex-segretari generali
§ 4. — Gli ex-rassegnati
§ 5. — Gl'indipendenti
§ 6. — I Veterani
§ 7. — I novellini
SEZIONE QUARTA — I Militari
SEZIONE QUINTA — La Destra
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11 Luglio 2013

SEZIONE TERZA

Il Centro.

§ 1° — Storia Internazionale.

Sommario. — L'ospedale degli invalidi— Il romitaggio— L'osservatorio — L'ospizio dei trovatelli —Il coro — Il Centro in"Francia — Il terzo parato in Inghilterra — Seminario politico — L'egemonia del Centro.

Il Centro è un punto di arrivo e di fermata, ed è un punto di partenza. Vi arrivano e vi restano gli annoiati della vita politica, gli spostati, gli sciupati e i sazi. Vi pigliano stanza coloro che non vogliono sposare le ire partigiane dei partiti estremi, e che si rispettano troppo per vincolare, normalmente, la loro libertà. Sono gl'indipendenti e i solitari. Vi vengono, infine, i giovani per osservare, e poi sceglier la strada.

Quindi il Centro è, nel tempo stesso, l'ospedale degli invalidi politici, l’ospizio dei romiti del parlamentarismo, e l'osservatorio dei giovani. Talvolta però, è anche l'ospizio dei trovatelli.

292 CAPO TERZO

Spiego quest'ultima destinazione.

Allorché il capo di un partito entra in relazione col partito avverso, avviene un connubio, non un matrimonio. Da questo connubio nascono figli naturali. Ora, fino a quando il connubio non si legalizza e moralizza trasformandosi in matrimonio, quei neonati sono deposti sui banchi del Centro, che diventa così l'ospizio dei trovatelli. Dagli amori proibiti di Depretis, marito della Sinistra, con quella vecchia imbellettata della Destra, nacquero appunto, come uomini politici, i Piastino, i Fortunato, i Sonnino, i Guicciardini. Mi si potrebbe obbiettare — è vero — che quasi tutti questi deputati vennero alla Camera nel 1880, mentre il trasformismo non successe che nel 1883. Però a tale difficoltà, qualora mi fosse fatta, risponderei: — Nel 1883 fu stretto il matrimonio, con tutte le formalità volute dalle leggi fra il Depretis e la Destra; ma il connubio era già avvenuto e durava sin dal 1880. La povera Sinistra — povera signora! — non se ne accorse che nel 1883, quando, cioè, fu ripudiata. Nel 1883 i Sonnino e compagni furono legittimati.

La funzione normale o missione del Centro nei governi parlamentari è, secondo Guizot, di far la parte del coro delle tragedie greche, di approvare o disapprovare, volta per volta, con criteri spassionati, la condotta dei veri partiti politici, e di dare, coi suoi voti, il tracollo alla bilancia. Tuttavia, non poche volteè successo il contrario, e il Centro, che doveva limitarsi a fare lo spettatore, è diventato attore?

Così, sotto la restaurazione, dal 15 ai 21, il Governo francese stette nelle mani del Centro. Il duca di Richelieu, Dessolles, Decazes, De Serre erano di Centro destro o sinistro. Il loro governo segnò un'epoca di tranquillità e di speranza per la Francia.

293 COLORI E VALORI

Tra la Sinistra antidinastica e la Destra anticostituzionale, il Centro serviva a levigare le angolosità, ad eliminare le animosità. Nel 1828 Carlo X parve volesse tornare sulla buona via, chiamando al potere il Martignac, di Centro destro. In Francia rinacquero le speranze di lieti giorni. Però, licenziato il Martignac e chiamati al Governo uomini di Estrema Destra, la dinastia borbonica precipitò nel baratro rivoluzionario delle giornate di luglio.

Sotto la monarchia di Luigi Filippo, il Centro rappresentò ancora per molto tempo la parte di attore. De Broglie, Mole, Guizot, Thiers erano uomini di Centro. Guizot, se si fosse conservato uomo di Centro, e non si fosse trasformato in un codino autentico, non avrebbe fatto pigliare a Luigi Filippo la via dell'esilio.

Una specie del genere Centro è il così detto TersoFartito. In Inghilterra, senza l'etichetta del nome, se ne sono avuti frequenti esempi. Contrariamente a un pregiudizio molto diffuso nel Continente, la Gran Bretagna non solo ha avuto quasi sempre Ministeri di coalizione, ma ancora, oltre ai due partiti dei Whigs e Tories (che fantasticamente ritiensi siano rimasti sempre distinti fra di loro con matematica precisione), ha posseduto, frequentemente, un terzo e financo un quarto partito. Fin dall'epoca delle lotte di Carlo I col Parlamento, surse un partito di moderati, che non dividevano né gli entusiasmi reazionari dei Cavalieri né lo zelo repubblicano delle Teste Rotonde.

294 CAPO TERZO

Questi moderati non erano pochi: fra gli altri, erano del numero Hollis, Seldeno, Whitelock, Waller, Nor thumberland, Lincoln, Pierrepont, Rudvard, Hol land, Bedford. Sotto Carlo II nacque il famoso partito dei Trimmers o banderuole, guidato dal celebre lord Halifax. I Trimmers avevano una nobile missione: mettersi coi Whigs, quando si avvedessero che costoro correvano pericolo di rimanere schiacciati; abbandonarli e mettersi coi Tories, allorché fossero questi ultimi che correvano l'identico rischio. Verso la fine del regno di Giorgio II e i principii del regno di Giorgio III surse un partito intermedio fra i Whigs aristocratici e i Tories. Tale partito non aveva un nome particolare, ma era comandato dal conte di Chatam. Aveva idee liberali, e non voleva che le grandi famiglie dell'aristocrazia whig seguitassero ad imporsi al Re nella scelta dei ministri e al paese nella scelta dei deputati. Questi due ultimi intenti, senza l'attenuante delle idee liberali, erano pure divisi da un nuovo terzo partito, nato nei primi anni del regno di Giorgio III, e guidato da lord Bute. Costui sosteneva, inoltre, di combattere per la causa dell'onestà. Il suo grido era: Prerogativa e Purità. Il terzo partito di Chatam continuò a sussistere anche dopo la morte del suo fondatore — dalla quale epoca prese a guidarlo lord Shelburne. In seguito, mentre il gabinetto di Pitt sosteneva aspre lotte in Parlamento (1783-1784), riunivansi nella taverna di Santo Albano non pochi proprietari di campagna, deputati alla Camera dei Comuni. Considerato lo stato dei partiti, essi convennero che non potevasi avere un governo esclusivo di Wkigs o di Turics, ma che era necessaria una coalizione fra Pitt e Fox.

295 COLORI E VALORI

Decisero, quindi, d'iniziare una campagna parlamentare per raggiungere il detto scopo. Li guidavano Powis e Grosvener, e furono chiamati gl'indipendenti. Lo scopo propostosi non fu raggiunto; nondimeno, gl'indipendenti impedirono gli eccessi partigiani, e si deve a loro se la Camera non rifiutò di votare i bilanci. Verso il declinare del secolo passato e il principiare del secolo attuale formossi fra i Tories un terso partito, condotto da lord Grenville, che voleva l'emancipazione dei cattolici. Nel tempo stesso Tiernev e Sheridan, antichi amici di Fox, se ne dividevano per avvicinarsi ad Addington, capo degli Amici del Re. Successivamente l'Inghilterra ebbe altrettanti tersi partiti nei canniti giriti, nei peeliti e nei seguaci personali di lord Palmerston dopo il 1860, allorché quel ministro si atteggiò a capo di un partito nazionale (1).

In Italia, il Centro, con l'appendice del Terzo Partito, ha esercitato un'influenza notevolissima. Rattazzi addomesticò molti selvaggi democratici, educandoli, nel seminario politico del Centro sinistro, ai sentimenti monarchici e al rispetto della legalità. A sua volta, Cavour educò ai sentimenti costituzionali, nel seminario del Centro destro, parecchi rispettabili cavalieri di cappa e spada. Avvicinandosi, Rattazzi e Cavour formarono il Terzo Partito.

Rattazzi, pur continuando ad essere di Centro, fondò nel 1861 un nuovo terzo partito con Depretis e Pepoli. La Sinistra pura era. in quell'epoca, imministeriabile.

(1) Anche la Francia ebbe, e più di una volta, il terzo partito. Ne furono duci il Dupin, il Passy, il Dufaure e qualche altro.

296 CAPO TERZO

Con la morte di Cavour s'interruppe l'egemonia del Centro. Essa non ricominciò che con la venuta di Depretis al potere. Negli ultimi dieci anni è stato il Centro il partito più attivo che abbia avuto l'Italia. AI Centro appartenevano ed appartengono Marselli. che ideò il partito nazionale — Berti, che sulla quistione sociale richiamò l'attenzione della Camera e del paese — Sonnino e Franchetti che ruppero una lancia contro l'antica terminologia delle parti politiche — De Zerbi, che osò parlare di gloria e di poesia ai prosatori parlamentari. Con la venuta di Crispi al Governo, il Centro sembra che siasi ecclissato. Ma l'eclissi non durerà molto.

§ 2. — Gli ex-Ministri.

Sommario. — Peruzzi — Il nobile signorino — I calzini e le scarpe di Ubaidino — Il Gonfaloniere — Il  generale d'Aspre — Una lettera si Granduca — La Sfinge e la Volpe — Peruzzi e 1 Piemontesi — Le notizie del Diritto — Peruzzi che fuma il sigaro — Il salon di donna Ersilia — L'opinione del Duca di Wurtemberg — Lo Spirito folletto e Pen;zzì — Ceppino — Se egli poteva chiudere un occhio! — Ceppino poeta — Il  ministro routinier — L'oratore damerino — Il discorso del 1864 — L'interruzione di Bixio — Coppino che sta per piangere — Il giudizio di Bonghi — Fanfulla e il dandysme di Coppino — Baccelli — Il medico rivoluzionario — Le parole di Broussais — Il clinico — Il ministro — Baccelli e Castelar — Berti — Il pontefice massimo del Centro — La Svizera e le intelligenze — Berti attore drammatico — Berti che salta il fosso — Il  ministro socialista — Lo scienziato e l'erudito — Il  ministro della libertà e del benessere — Mordini repubblicano — Mordini prodittatore — Il favoritismo e l'impiegomania — La Farina che schiamazza — Il collare dell'Annunziata per Mordini — Il capo dei garibaldini — Mordini col fez di velluto — Cordova e Mordini — La trasformazione — Genala — Il suo valore politico — Genala e la nuova volontà divina — Il ministro dei lavori pubblici — Un commesso di farmacia — Il ministro delle tombe e dei banchetti — Il migliore allievo di Depretis.

297 COLORI E VALORI

Ubaldino Peruzzi è ingegnere ed avvocato. Sulla scena politica ha fatto tesoro delle doti dell'uno e di quelle dell'altro. Dell'avvocato ha la sottigliezza; dell'ingegnere ha l'esattezza. La sua famiglia è nobile ed antica. Peruzzi ha sposato una sorella dell'onorevole Toscanelli, signora distintissima.

A Firenze, Peruzzi fin da giovine godeva la stima generale, sia per le qualità personali, sia per la condizione sociale della famiglia. Lo chiamavano il nobile signorino. Per ammettere questo titolo lusinghiero senza il beneficio dell'inventario bisogna ritenere che, in quell'epoca, il Peruzzi vestisse in una foggia molto diversa da quella posteriore al 1860. Per lo meno ei non doveva portare quei famosi calzoni e quelle non meno celebri scarpe che, grazie e insieme al loro illustre portatore, passeranno alla posterità. Nel 1848, Peruzzi fu nominato Gonfaloniere di Firenze. Presto ebbe a rimpiangere la vita passata. Infatti, un bel giorno, il Granduca, il quale aveva concesso la Costituzione e poi se n'era pentito, prese il volo da Firenze come una ballerina qualunque, e fuggì a Siena. Figurarsi a quale grado di freddo ascese lo sdegno dei Toscani! Subito il Peruzzi ebbe l'incarico di andare, insieme ad altri personaggi autorevoli, a dar la caccia al Granduca. Peruzzi andò. Vi andò pure Montanelli, Presidente dei ministri.

Sua Altezza Serenissima, saputo l'arrivo degl'ingrati ospiti, si pose a letto, e cominciò a tremare come un febbricitante. La preoccupazione principale dei Toscani era che Leopoldo uscisse dallo Stato per correre nel campo austriaco. Però, se aveva la febbre, come poteva fuggire? I legati del Governo fiorentino e i rappresentanti idem, visto il sovrano in quella condizione patologicamente confortante, dormirono tranquilli e sicuri.

298 CAPO TERZO

Il giorno seguente, svegliandosi, seppero che Sua Bassezza Turbatissima aveva ripigliato il volo.

Durante le tempeste del voluto governo guerrazziano, Peruzzi rimase al suo posto. Quando si avvide che l'aquila austriaca si preparava a riporre sull'indegno capo leopoldino la corona etrusca, egli pensò esser cosa migliore che i Fiorentini richiamassero spontaneamente il Granduca. Pose, però, due condizioni; la Costituzione doveva essere rispettata; l'Austria non doveva intervenire sotto qualsiasi forma o pretesto. Fu servito appuntino. Il Granduca ritornò con la pia intenzione d'inghiottirsi, a tempo debito, lo Statuto. L'Austria intervenne — e nella maniera più blanda che si potesse immaginare. D'Aspre l'aspro generale di Sua Maestà l'Imperatore austriaco, tanto per cominciare, domandò che il Peruzzi con tutti gli altri funzionari municipali andassero a riceverlo alla stazione. La domanda era modesta. Diamine! non si chiedeva che un po' di ospitalità. Peruzzi rispose... dimettendosi. Però rimase in carica fino alla nomina del successore. Nelle sue funzioni provvisorie e involontarie, fu obbligato ad insegnare, quotidianamente, un tantino di legge e di educazione al D'Aspre, che credeva davvero di stare a casa sua. Peruzzi mostrò in tale occasione, dignità di gentiluomo e fierezza di italiano.

Pregato e ripregato, Peruzzi ritirò le sue dimissioni, e continuò nella carica di Gonfaloniere, Ciò, nondimeno, durò soltanto fino al 21 settembre 1850 — giornata famosa in cui il caro Leopoldino inghiottì lo Statuto, come aveva promesso all'imperiai parente. Allora il Gonfaloniere Ubaldino tornò a dimettersi, e questa volta per sempre.

299 COLORI E VALORI

Dal 50 al 59 l'ex-capo municipale si dedicò interamente agli affari, e, come direttore della Società ferroviaria Firenze-Livorno, rivelò una straordinaria abilità pratica. In quest'intervallo non si occupò di politica se non fra due parentesi. Verso il 1858, insieme ad altri, scrisse una lettera al Granduca per dimostrargli i pericoli, ai quali andava incontro se non adottava una politica meno austriaca. Spingendo le cose all'estremo, la Toscana poteva perdere la sua autonomia — ecco un altro pericolo additato dal Peruzzi a Sua Bassezza.

Questa lettera prova, senza incertezza, che la fede del signor Ubaldino nell'Italia non è di data molto antica. Il signor Ubaldino si svegliò unitario in una giornata di aprile 1859. Leopoldo, il papaverico Morfeo, se ne partì lemme lemme, — ed ecco Malenchini, Danzini e Peruzzi che formano un governo provvisorio. Quel caro Granduca non aspettava mai che lo cacciassero. Quando l'ora di un viaggio extra moenia era giunta, pigliava egli stesso la via dell'esilio. Proprio come un signore napoletano, il quale essendo soggetto ad accessi di pazzia quasi periodici, allorché si avvede che la ragione sta per congedarsi, piglia egli medesimo la via del manicomio!

Il Governo provvisorio pose la Toscana sotto il protettorato di Vittorio Emanuele. All'arrivo del Regio Commissario, si dileguò. Peruzzi, tuttavia, non venne lasciato in pace. Siccome Napoleone III, non potendo persuadersi che la corona lorenese dovesse cadere sulla testa del re di Sardegna e non su quella di Plon Plon, aveva manifestato il semivolere d'invitare Leopoldo a rifare la strada della Toscana, così il Ricasoli, dittatore etrusco, pensò di mandare il Peruzzi a parlare con la sfinge delle Tuileries.

300 CAPO TERZO

Peruzzi era soprannominato dai suoi concittadini la volpe — per l'astuzia straordinaria. La missione, perciò, era degna di lui. Per giunta, gli si mise ai fianchi la moglie, la signora Emilia. La missione riuscì. La sfinge parlò. La volpe tornò. col consenso imperiale — in tasca o in testa, poco importa.

Tante buone azioni meritavano un premio: il premio fu un portafogli, e propriamente quello dei lavori pubblici nel primo Ministero Ricasoli. Il nuovo ministro fece ottima prova? Non pare, Petruccelli se ne mostra orribilmente sdegnato:Peruzzi partorì, di un colpo, la concessione di tutta la rete ferroviaria dell'Italia centrale e meridionale. Egli non ismentì punto la sua mirabile facilità nel negozio degli affari. Ma ebbe cattiva fortuna. Egli ha sciupato i danari dello Stato con una prodigalità furiosa; ma giammai ministro produsse risultati più meschini. Tutte le Compagnie, con le quali trattò a condizioni ruinose, per far presto, ed aveva ragione di ciò volere, gli si sono spezzate fra le mani. La parola infedeltà ha ulcerato, a torto forse, il suo segretario generale. La sconfidenza nel successo accompagna ora, malgrado tutto, qualunque suo progetto... Nondimeno, per essere giusti, bisogna soggiungere che il successore di Peruzzi, qualunque esso sia, troverà l'insieme dei lavori necessari all'Italia in parte in atto, e quasi tutti iniziati con sentimento di sintesi oltre ogni dire rimarchevole.

Caduto col Ricasoli, il Peruzzi ritornò semplice deputato. Egli fu il capo del gruppo toscano-romagnolo che innalzò il grido contro il piemontesismo. Quel gruppo fu il nocciolo della Consorteria.

Formatosi il Ministero Farini-Minghetti. Peruzzi ottenne il portafogli dell'interno.

301 COLORI E VALORI

Stette in tale ufficio dal dicembre 1862 al settembre 1864. Egli fu aspro e senza riguardi coi Piemontesi. Disse in pubblica Camera che da Torino non si poteva governare l'Italia, e vagheggiò e condusse ad atto il pensiero del trasloco della capitale. La Convenzione di settembre fu, in gran parte, opera sua. Nondimeno il Peruzzi. nel Consiglio dei ministri, per nascondere il suo amore di campanile, parlò e votò pel trasloco della capitale a Napoli, anziché a Firenze. Egli sapeva che la sua opinione non avrebbe raccolto neanche una minoranza duale: e questa prospettiva lo confortava. Mentre dava il voto per Napoli, faceva voti per Firenze.

Sono note le dolorose giornate di settembre. Peruzzi e il suo segretario generale mancarono di garbo e di tatto. Però, per gentilezza di storico e in omaggio della verità introvabile, non debbo tacere che si esagerò nelle accuse. Getto Arrighi, non sospetto di simpatia per il signor Ubaldino. scrive: Dopo i fatti di settembre 1864. il Diritto tinse Peruzzi di sangue. Secondo quel giornale. Peruzzi per poco non ficcossi travestito da carabiniere, nella folla, a regalare coltellate ai torinesi. Quel misterioso personaggio, che fra le tenebre del Ministero dell'interno, mentre inferociva la zuffa nella sottostante piazza, pacificamente fumava il sigaro, fu detto esser Peruzzi.

Dal 1864 Peruzzi non è più ritornato ai potere. È stato, per molti anni, sindaco di Firenze, ed a lui deve questa città la sua trasformazione edilizia e la chance del fallimento. Peruzzi oggi è un rudere illustre. Oggi gode maggiore influenza la sua signora, donna Emilia.

302 CAPO TERZO

Il salon Peruzzi è stato sempre un gentile ritrovo di persone colte di ogni paese. Il Laveleve ne rimase ammaliato, e, se non sbaglio, fu lui che disse:M. Peruzzi et sa femme ont le genie de l'amabilità. Peruzzi sa di quanta utilità può essere la donna nella politica, e non ha mai risparmiato l'influenza della moglie. Egli, certo, non è dell'opinione di quel duca di Wurtemberg, il quale seccato dai consigli che pretendeva dargli la sua consorte in una faccenda politica, rispose: «Je vous ai épousé pour en avoir des enfants et non des conseils.» No, no; Peruzzi non è di questo avviso, e può congratularsene con se stesso. Spesso una frase di donna Emilia nel salon ha avuto più efficacia di un discorso di messer Ubaldino nella Camera.

Perché il ritratto di Peruzzi riesca il meno possibile dissimile dall'originale, regalo ai lettori amanti delle anticaglie queste poche pennellate dello Spirito Folletto in data del 1863:

«Peruzzi ha la fronte discretamente vasta e ben modellata, con quelle bozze laterali che i frenologhi dicono della osservatività e della causalità; ha la faccia piuttosto corta, terminata da un mento rotondo e dimezzata da baffi neri che coprono un'ironia involontaria e incessante di labbra sottili e poco colorate. L'occhio è nero, acuto, piccolo, guizzante, riparato da lenti di occhiali che gli danno la gravità ufficiale di uomo di Stato. Quell'occhio è un mistero; non è una rivelazione, è una maschera dell'anima. Apertamente e schiettamente fisso sul vostro, con quella ingenua confidenza di chi è lieto di penetrarvi nell'interno, ma di lasciarsi penetrare pur egli del pari, non vi avverrà mai di incontrarlo, se non siete nel novero degli amici suoi.

303 COLORI E VALORI

L'occhio del Peruzzi o vi guata con espressione di superiorità, o si avvolge di una pallida nebbia di diffidenza. Talvolta quest'occhio si arma di un'acutezza penetrativa che è lo strumento del profondo osservatore; allora balena di un lampo vivissimo d'intelligenza, e voi lo sentite penetrare nel vostro cervello e nel vostro petto come una fredda lama di acciaio; riscossi, sollevate i vostri sguardi per incontrare a parare questo fioretto appuntato; ed ecco che la lama è ringuainata di subito che il lampo è sparito; gli occhiali medesimi vi pare si facciano complici di questo sottrarsi e diventino opachi; non vi trovate più innanzi che l'indifferente apatia di un occhio di cristallo,»

Ho parlato di chi godette, e molto, della Convenzione di settembre. Parlerò ora di uno che ne soffrì, e non poco: di Michele Coppino.

E un nome che illustra il Piemonte. Coppino ha sessantasei anni, e nacque ad Alba. È deputato, è stato Presidente della Camera e ministro. Orbene, non lo hanno aiutato a salire sì alto né le ricchezze né la nobiltà della famiglia, poiché egli è figlio di un povero calzolaio. Deve tutto all'ingegno e al carattere. Smiles potrebbe includerlo nel suo Sell’Help.

Coppino non è bello né simpatico. Per giunta, ha un occhio solo. A tal proposito ecco un aneddoto. Nell'ultima crisi ministeriale, insistevano gli amici presso il Coppino perché imitasse i colleghi e ritirasse le dimissioni. Coppino resisteva, adducendo ragioni di dignità e di convenienza. «Via! — soggiunse un postulante alquanto seccato — fate come gli altri: chiudete un occhio». — «Ah, no; — rispose arguto e sorridente il Coppino — gli altri possono chiudere un occhio, perché ne tengono due: io, però, se li imitassi, rimarrei all'oscuro, poiché ne ho un solo!»

304 CAPO TEEZO

Coppino non è un avvocato né un ingegnere. È un professore di rettorica. Cominciò ad insegnare negli istituti secondari; poi, ottenne la cattedra all'Università di Torino. Attualmente gode un meritato riposo. Fra gli studenti ha lasciato ottime tradizioni. Sapeva fare il suo dovere. Poco ha scritto; ma quel poco che di lui abbiamo fa lamentare che l'autore non abbia scritto di più. E stato, in gioventù, anche poeta.

Il Petruccelli, nella sua Storia dell'idea italiana, riportando alcune strofe di una poesia composta da Coppino, nel 1860, allorquando Nizza e Savoia vennero cedute alla Francia, ne rimase entusiasmato, e paragonò l'autore a Tirteo. Tirteo, no. Le poesie di Tirteo spronano alla pugna. Quella di Coppino è malinconica, e fa piangere. Giudichino i compratori:

Addio Savoia! fra le tue rupi

L'aquile nostre posero i nidi;

Corser volando dai tuoi dirupi

Lontani mari, lontani lidi:

Tue buie valli, tue cime bianche

Di neve, asilo furo alle stanche,

Nel tempo bello, nel tempo rio,

Sicura stanza, Savoia addio!

L'onda, che salta con lieto piede

Giù nella valle di balza in balza,

Non è più schietta della tua fede.

L'alpino sasso che al cielo innalza

Altero il capo sicuramente,

Non è più saldo che la tua gente;

Per tempo bello, per tempo rio

Tuo cor non muta: Savoia addio!

305

Congiunti insieme con un sol core?

Lo stesso invito ci trasse all'armi;

Comuni rischi, comun valore,

Uguali glorie dissero i carmi;

Ci che conforto la stessa speme;

Gli stessi mali piangemmo insieme,

Nel tempo bello, nel tempo rio,

Sempre ci amammo: Savoia addio!

Coppino ha tentato anche la poesia giocosa, alla Guadagnoli, e vi è riuscito. N'è prova la composizione poetica scritta per una presa di tabacco ricusata dal Dall'Ongaro. È graziosa e carina assai, e merita di essere letta.

Coppino, ministro della pubblica istruzione, si è limitato a qualche ritocco di decorazione. Ha seguito la routine. Pur conoscendo l'indole dell'ingegno italiano, non ha avuto il coraggio di far ciò che, forse, ila sua niente sagace gli suggeriva.

Come oratore, Fon. deputato di Alba: è lindo, corretto, elegante nella forma. Rassomiglia (sempre come oratore) a quei vecchi damerini che vestono con la più scrupolosa ricercatezza, e camminano toccando solamente coi tacchi il suolo. Non una parola offensiva, non un sarcasmo, non un'insinuazione. Il Galateo parlamentare et extra è per lui conoscenza antica. $ei suoi discorsi si vede chiaro come in un cristallo. Sono limpidi e tersi. Abitualmente l'on. Coppino riesce freddo e monotono. Però, quando l'occasione si presta, egli sa essere caldo e commovente.

Nel 1864, parlò contro il trasloco della capitale a Firenze; e il suo discorso partì dal cuore. Pochi discorsi io ho letto così belli, così poetici. Sì, il Coppino ricordandosi in quei giorni di esser pure un poeta, cantò in prosa quell'addio a Torino che nel 1860 aveva cantato, in versi, alla fedele Savoia.

306 CAPO TERZO

A un certo punto il bravo piemontese si sentì mancare la voce per l'emozione, e dovè fermarsi. La Camera, in maggioranza ostile, si commosse anch'essa, e con affettuosa premura esortò il Coppino a riposarsi. Questo discorso è un po' prolisso; ma in molte parti è di un'eloquenza straordinaria. Non potendo riportarlo intero, ne trascrivo qui qualche brano:

«Io veggo, o signori, io veggo nella vicina Francia, dove il torrente delle idee anticattoliche è passato, dove fu assaltata in tante maniere la dottrina di Roma, veggo in questa vicina Francia, dove il volterianesimo ha deposto i suoi semi, e dove la razionalista Germania versa i principii della sua scienza, io veggo o signori, con singolare stupore, il protestante Guizot dare la mano al cattolico Montalembert, ed il volteriano Thiers unirsi al borbonico Berryer. Io veggo con istupore questa conciliazione di tanti diversi partiti a difendere un principio, che è il principio contro quale noi dobbiamo lottare.

«Signori, permettete ad un piemontese di dirlo, sarà la sola volta che ricorderò in questo Parlamento di essere piemontese. Il giorno in cui l'odierno Stato d'Italia ci stava lontano come un remoto avvenire, come un sogno della nostra giovinezza, come un'aspirazione di quanto è più santo nell'anima nostra; in quel primissimo aprile della mia vita mi capitava per le mani un libretto, che uno degli uomini, che io sono lieto di vedere qui sedere collega nostro, nell'esilio aveva scritto L'autore del libro era il nostro collega deputato Ricciardi; il titolo del libro era: Glorie e sventure; e in quel libro, che si componeva di pochi versi e di poca prosa, io ho letto allora e ho ricordato sempre: nei Piemontesi sta il nucleo del futuro esercito italiano.

307 COLORI E VALOBI

L'esercito piemontese ha tenuto la fede, e l'on, Ricciardi, non sospetto in ciò, se accettò la mia dichiarazione, l'accettò perché è anche una testimonianza che il Piemonte non è venuto meno a quel compito ch'egli fin d'allora gli aveva assegnato.

Bixio. — Gli altri italiani non sono soldati?

Coppino. — Ho inteso un'interruzione, la quale mi suona male. Come se fosse una correzione del mio pensiero, mi parve intendere: gli altri italiani non sono soldati? Io non so di dove sia venuta.

Bixio. — Da me.

Coppino. — L'on. Bixio mi avverte che quell'interruzione è sua. Faceva bene l'on. Bixio a fare quella interruzione, se egli, valoroso, voleva rendere testimonianza al valore del soldato italiano; faceva male, se egli sospettava che un deputato d'Italia non conoscesse la storia contemporanea del suo paese; faceva male, se egli non pensava che quest'uomo, il quale ora parla d'Italia ed ha avuto la sventura di non poter mai operare per essa, tuttavia nel segreto dei suo cuore... (La commozione impedisce all'oratore di finir la frase).

Voci. — Si riposi! si riposi!

Coppino. —... tuttavia, nel segreto del suo cuore, da tempi molto lontani, raccogliendo quello ch'egli credeva il debito che ogni generazione italiana lasciasse alla nuova generazione italiana, raccogliendo la speranza ed il dovere del riscatto patrio, guardava quanto questa speranza fosse confermata dall'ardore anche infelice di quei molti che, nei campi di guerra,

308 CAPO TERZO

in Italia e fuori, con singolare valore rendevano testimonianza all’antico verso del Petrarca, ricordato dall'antico politico fiorentino che

... l'antico valore

Negli italici cor non è ancor morto (Bene).»

Fu dopo questo stupendo discorso che il Bonghi scrisse alla Perseveranza: «L'on. Coppino è oratore di frase copiosa insieme e scelta: a cui non manca vigore di logica ed affetto. Quantunque la sua parola paia scritta, ed egli parli piuttosto come scrive, che non iscriva come parla, non si può dire che mandi addirittura il suo discorso a memoria; giacché, interrotto, ripiglia bene, e, nel rispondere ad interruzioni subitanee, dove improvvisa di certo, tiene la stessa forma che terrebbe se recitasse cosa saputa a mente. Però, in questa maniera eletta, non dice cose che non sieno comuni; lo stampo del suo cervello non pare atto a fargli considerare molto praticamente i soggetti politici. Si vuole sperdere in troppe ragioni; e la forza del suo ragionamento si smarrisce da chi lo ascolta.»

Nel 1867, dopo Mentana, pronunziò un altro memorabile discorso. In seguito, sia come ministro, sia come semplice deputato, ha parlato sempre con correttezza di forma e moderazione di idee; ma non si è elevato più all'altezza oratoria raggiunta nel 1861 e nel 1867.

Eppure quest'uomo così damerino nel parlare, è incomprensibilmente sansfacon nel vestire. Fanfulla, negl'infelici tempi in cui teneva spirito, notava come un fenomeno parlamentare l'avvenimento che il ministro Coppino fosse venuto alla Camera con la camicia bianca di bucato.

309 COLORI E VALORI

E senza dubbio, l'ex-ministro della pubblica istruzione ha dovuto portare per Roma, per molto tempo, un soprabito col bavero ancora netto perché Gandolin si credesse autorizzato a profetizzare nel suo calendario del 1888: «L' on. Coppino incarica il pittore Morelli di eseguirgli alcune macchiette sul bavero del soprabito.»

Del resto, il vestire con trascuratezza non è sempre indizio di animo rozzo. D'altra parte, Robespierre, che vestiva con tanto dandysme, aveva un cuore di tigre. Coppino, invece, ha un cuore delicato, gentile, e pieno di affetti nobili. Per la madre nutrì costantemente un amore rasentante l'idolatria. E come seconda madre ha amato l'Italia, che vede in lui un figlio illustre.

Un altro ex-ministro della pubblica istruzione è l'on. Guido Baccelli. Baccelli è il più illustre deputato e uomo politico dell'odierna Roma. È uno degli oratori più affascinanti della Camera. È un grande cultore della scienza medica.

Nel 1856, quando non aveva che ventiquattro anni, ottenne, dietro concorso, la cattedra di professore supplente di medicina all’Università. Con l'energia proprio romana della sua fibra e con l'ingegno acuto e profondo, egli, a poco a poco, divenne uno dei più eminenti discepoli di Esculapio. In medicina si rivelò rivoluzionario, e gli studi di anatomia patologica e di clinica medica devono, in gran parte, a lui il nuovo indirizzo che oggi hanno.

In politica, sotto il regime papalino, il Baccelli non dette prova della stessa energica arditezza. Non piegò servilmente la fronte, ma neanche rivelò sensi magnanimi e patriottici. Amando molto la scienza, egli non amava la patria che attraverso di quella. L'amava come sogliono, per lo più, amarla gli scienziati.

310 CAPO TERZO

La fama di Baccelli oltrepassò presto le Alpi. Il suo nome divenne europeo. Nel 1869 l'illustre uomo fu fatto vicepresidente del Congresso internazionale medico di Firenze. Parlò con tanta competenza, con tanta scioltezza di eloquio e con arte sì meravigliosa, che i congressisti, non ostante che per indole fossero incapaci di accendersi alla fiamma divina del Bello, ne rimasero affascinati. Quegli speculatori del corpo umano, nel modo stesso che i preti sono gli speculatori dell'anima, quei cuori freddi, lugubri, sepolcrali mandarono scintille di vita. E Broussais, presidente del Congresso, abbracciando Baccelli, gli disse: «Vous aves été aujourd'hui le Démosthène et le Cice'ron de la science».

Broussais disse un grosso sproposito, perché è impossibile che un oratore sia, nel tempo stesso, Demostene e Cicerone — tipi opposti ed inconciliabili: ma, a parte lo sproposito, è indubitato l'effetto stragrande che su quella schiera di cinici produsse la parola di Baccelli.

Con gli anni la fama scientifica dell'ex-ministro della pubblica istruzione è andata sempre più crescendo, e oggi si può dire che il Baccelli sia il medico italiano più conosciuto in Europa. È un medico europeo, come è giureconsulto europeo il Mancini. Come medico clinico ha egli lo stesso valore che come scienziato? Non saprei rispondere con esattezza. Dimandarne agli altri medici, sarebbe stato tempo perduto. I medici fra di loro si dilaniano a vicenda. Petruccelli scrisse, una volta, che Baccelli era il medico curante di Depretis, e che avrebbe, un giorno o l'altro, mandato nel mondo dei più il cliente, nel modo stesso che vi aveva spedito Asproni, Rattazzi e Vittorio Emanuele.

311 COLORI E VALORI

Potremmo starcene all’opinione di Petruccelli, se Petruccelli oltre ad essere un pubblicista, non fosse anche un medico. Depretis, è vero, ha fatto partenza pel regno innominato; ma era vecchio e sfinito, e sarebbe morto ugualmente anche se fosse stato curato da un avvocato. Certo è che Baccelli non voleva che il suo vecchio amico, nello stato in cui si trovava, partisse da Roma per Stradella; e a De Zerbi, che gli chiese che ne pensasse del povero ammalato, rispose: «La è finita per lui!»

Maggior mistero regna intorno alla morte di Vittorio Emanuele. È vero che Baccelli sbagliò il metodo di cura? Sarebbe buono che parlasse qualcuno dotto in medicina ma non un medico.

Baccelli è stato ministro della pubblica istruzione. Aveva idee grandi e ardite. Preparò e presentò progetti monchi e indeterminati. Egli sapeva che l'indole nostra non vuole essere reggimentata. L'italiano rispetta la legge, ma odia il regolamento. Apprezza il magistrato, sprezza il travet. Baccelli poteva riorganizzare le cose della pubblica istruzione. Invece, ebbe paura, e transigendo fra i suoi principii e le esigenze della routine burocratica e parlamentare, presento un progetto sull'autonomia delle università a Dio spiacente ed ai nemici sui. Lo specioso potpourri rimase sommerso nelle acque del Senato.

Come oratore, Baccelli ha un posto a parte nella Camera. Per la forma rettoricamente pomposa, che è espressione sincera di anima classica, per l’abbondanza ciceroniana, la coltura letteraria antica,

312 CAPO TERZO

lagosa naturale, le immagini iridescenti, il cuore esuberante di affetti, la parola facile, elegante e commossa, e il porgere tribunizio, il Baccelli rassomiglia a Emilio Castelar. I suoi discorsi, certamente preparati, sono altrettanti successi oratorii. Quello pronunziato, nel dicembre 1878, in difesa del Gabinetto Cairoli è un capolavoro. Cairoli dovette esser lieto ed orgoglioso di aver avuto a difensore un oratore come il Baccelli. Baccelli conchiuse il suo discorso paragonando i difensori del Gabinetto alla decima legione di Cesare; paragone che era stato già adoperato da Amedeo Ravina nella Camera piemontese.

Baccelli, oggi, è un semplice deputato. Ma è da fare augurii perché egli torni al Ministero, e vi torni col proposito di non ricorrere a mezzi termini. Per riorganizzare la pubblica istruzione in Italia, è necessario un uomo dal polso di ferro; e Baccelli è tale uomo.

Nel collegio pontificale del Centro il gran pontefice è Domenico Berti. Come lord Halifax, capo dei Trimmers, egli è la personificazione scientifica, il filosofo del Centro. È centralista per principii, per sentimenti, per studi, tendenze, indole, costituzione psichica e fisiologica. Mordini sta nel Centro come un annoiato. Egli riposa e dorme su di una poltrona. Berti sta nel Centro come un uomo convinto. Egli veglia e lavora su di una cattedra.

Domenico Berti ha 68 anni, essendo nato a Cumiana nel 1820. Forse, è l'intelligenza più larga e più colta che esista nella Camera attuale, sebbene non sia lanima più ardita. Il suo cervello ama le soluzioni armoniche e conciliative. I più diversi sistemi sembrano conciliabili, quando vengono esposti da Berti.

313 COLORI E VALORI

Nella sua mente le idee più diverse fra di loro vivono in pace e senza molestia reciproca. L'on. Arcoleo si compiace di chiamare il Berti la Svizzera delle intelligenze. Berti, che doveva, poi, dedicarsi interamente agli studi gravi e solenni di filosofia, di storia, e di scienze sociali, esordì, in gioventù, come autore ed attore drammatico. Come autore, non so che cosa abbia scritto. Come attore, ho letto che recitasse le tragedie di Alfieri nella Società filodrammatica di Torino. Laureatosi in filosofia e filologia, si dette all'insegnamento. Nel 1849 fu nominato professore di filosofia morale all'Università torinese.

Mandato alla Camera subalpina, sedette al Centro destro, e vi rimase, anche nella Camera italiana, fino al 1880, quando passò al Centro sinistro. La sua evoluzione politica è stata quindi una passeggiata pel Centro. Non approvò la legge restrittiva della libertà di stampa, proposta nel 1852; ma aderì al connubio di Cavour con Rattazzi. Votò pel matrimonio civile, e, in generale, si palesò propugnatore della formola enunciata poi da Cavour al letto di morte: «Libera Chiesa in libero Stato.» Difensore di tutte le libertà, parlò favorevolmente alla libertà d'insegnamento. Nel 1856, insieme a Boggio, Alfieri e pochi altri, cominciò a distaccarsi da Cavour. Fondarono un nuovo terzo partito (che io ho dimenticato di menzionare nel paragrafo precedente) con elementi di Centro destro, e avente per organo il giornale l'Indipendente. Questa prova di indipendenza dispiacque molto al Cavour, il quale, nel 1857, approssimandosi le elezioni generali, scriveva al Minghetti ch'egli fidava molto nella vittoria delle urne, non ostante l'armeggio dei clericali e la sciocchezza di alcuni liberali, che avevano voluto fondare un novello terzo partito.

314 CAPO TERZO

Berti ricusò di essere segretario generale col Farini, e molti anni dopo, nel 1865, non volle accettare il ministero d'istruzione pubblica con Lamarmora. Fu, bensì, ministro dello stesso dicastero, nel 1866, nel Gabinetto Ricasoli. Non volle essere ministro con Menabrea, e votò contro la Regìa dei tabacchi. Dette il voto favorevole alla legge delle guarentigie papali, e si dichiarò contrario all'abolizione delle cattedre universitarie di teologia. Nel 1880, col suo esempio dette, arditamente, il consiglio alla Destra di smettere il contegno parlamentarmente ostruzionista. Saltò il fosso, votando la legge elettorale, e poi quella per l'abolizione della tassa sul macinato. L'evoluzione gii giovò politicamente. Berti fu fatto ministro d'industria, agricoltura e commercio. In questo dicastero volle essere l'uomo di Stato del problema sociale. Propose i seguenti progetti di legge: Convenzione perla fondazione di una cassa di assicurazioni per gl'infortuni degli operai nel lavoro; — Riconoscimento giuridico delle Società di mutuo soccorso; — Modificazioni alla legislazione sugli scioperi; — Responsabilità dei padroni e imprenditori pei casi d'infortuni degli operai nel lavoro; — Istituzione di una cassa nazionale delle pensioni per gli operai; —Istituzione probiviri. Quasi tutti questi progetti non potettero divenir leggi, sia a causa della forza d’inerzia dominante nella nostra Camera, sia per l'opposizione degli emuli del ministro o di coloro che la pensavano diversamente.

315 COLORI E VALORI

Certo è però che, fra tutti i ministri di agricoltura che ha avuto il Regno d'Italia, il Berti è stato quegli che ha mostrato di ritenere quel dicastero come un organo importantissimo della vita nazionale, e non già come un tappabuchi.

La fecondità meravigliosa della mente dell’onorevole Berti si ammira anche di più nel campo giornalistico e scientifico. Cominciò il Berti a scrivere nella Concordia, il giornale di Valerio, e ne dettò il programma. Scrisse, in seguito, nella Democrazia, nel Risorgimento, nelle Alpi, nella Rivista italiana, nel l'Opinione, nell'Istitutore, nella Nuova Antologia, ecc. Dei suoi libri si tiene molto conto, ma è difficile farne un conto. Libri di argomento scientifico, filosofico biografico, letterario, politico, economico — di che cosa non ha scritto il Berti? (1) Ultimamente ha pubblicato La giovinezza di Cavour ed Il Diario autobiografico dell'illustre conte.

Attende ora alla preparazione delle sue Memorie, le quali, senza dubbio, riusciranno interessantissime dal punto di vista storico e dal punto di vista aneddotico.

(1) Ricordi di conversazioni giovanili. — Il Parlamento sardo e Vincenzo Gioberti. — Pico della Mirandola. — Lettere inedite di Cavour. — La vita di Giordano Bruno. — Luigi Ornato. — La venuta di Galilei a Padova. — La volontà e il sentimento religioso nella vita e nelle opere di Alfieri. — La verità, discorso filosofico» — Copernico. — Il processo originale di Galilei. — Storia dei manoscritti Galileani della Biblioteca nazionale di Firenze. — La critica moderna e il processo contro Galilei. — Cesare Alfieri. — Cesare Cremonino. — La vita e le opere di Campanella. — Della libertà d'insegnamento. — Della riforma elettorale e parlamentare in Francia, Belgio e Spagna. — La questione sociale.

316 CAPO TERZO

Berti, per la larghezza della mente e la profondità degli studi, è rimasto sempre, non già al di fuori, ma al disopra dei partiti. Non avendo mai taciuto la verità ed essendosi costantemente messo per la via che a lui è parsa buona pel paese, è stato successivamente en butte alle critiche malevole dei diversi partiti. Nel 1852, aderendo al connubio, fu gridato traditore dai codini; nel 1856, scostandosi dal partito cavouriano, fu esposto alle censure del celebre conte; in parecchie circostanze della sua vita parlamentare, votando per la libertà della Chiesa (ché egli ha voluto sempre libertà per tutti), urtò l'ortodossia liberalesca e fu chiamato clericale; nel 1880, accostandosi a Depretis, fu dichiarato apostata dalla Destra; nel 1884, proponendo la legislazione sociale fu definito radicale e socialista. Se si dovesse, quindi, definire l'on. Berti a norma delle accuse, bisognerebbe chiamarlo uno statista clericale-conservatore-progressista-radicale-socialista. La verità è che il Berti è il ministro della Libertà e del Benessere.

Come uomo, l'on. Berti, per quanto filosofo, deve essere tuttavia una persona cortesissima, né deve avere in dispregio le conversazioni del mondo o del sesso gentile. Quest'uomo, che ha pensato tanto a Copernico, a Campanella, a Galilei, ha trovato pure il tempo di pensare al miglioramento intellettuale delle discendenti di madame Eva. Quand'era giovine, fondò col Boncompagni, col Valerio e con altri la Società delle allieve maestre con annessa scuola di metodo Vecchio, ha tenuto alla Palombella, sede della scuola femminile di Roma, varie conferenze su Carlo Alberto.

317 COLORI E VALORI

Per la rettitudine dell'animo e la placidezza dell'indole, il generale Lamarmora soleva chiamare il Berti la bontà per eccellenza. Sia per questa bontà, sia per la grande intelligenza, Berti era tenuto in gran conto dal Re Vittorio Emanuele, il quale, secondo dice Petruccelli, lo credeva e lo stimava quanto Lamarmora. Petruccelli aggiunge che le relazioni del Berti con Vittorio Emanuele furono intime. Chissà quanti aneddoti curiosi conterranno, su questo riguardo,, le Memorie dell'illustre uomo!

L'on. Berti non è un grande oratore. Parla con facilità e correttezza, ma non è un atleta della tribuna. I suoi discorsi sono preparati e meditati come i suoi libri. Essi hanno il pregio di resistere alla lettura.

Tutti coloro che hanno scritto del Berti, dall'Illustrazione Italiana al Faldella, si sono trovati d'accordo sulla sua faccia gioviale e quasi canonicale Faldella, tirando fuori dal banco ministeriale il personone di Domenico Berti, così lo presentò alla gentile signora insieme alla quale faceva il giro del paese di Montecitorio:

«E un'amplitudine frettolosa, trafelata, di personaggio togato, una carnagione vigorosa, rossobruna, sudata, una fronte ampia ed alta fino alla calvizie, un mareggiare di occhi chiarognoli, un naso fratescamente aquilino, baffi setolosi, mento e guance sbarbate, che posano sopra un collare di barba fitta come una boscaglia.»

Coloro che avranno commesso l'imperdonabile sciocchezza di comprare questo libro, non si dovranno meravigliare se ad un uomo di tavolino, ad un filosofo, io faccia seguire un uomo di azione, un viveur — blasé da un pezzo.

318 CAPO TEBZO

Chi nel Ì860 avesse profetizzato a Mordini di dover sedere, un giorno, nei Consigli della Corona per finir poi la carriera politica sui banchi del Centro, sarebbe stato trattato per pazzo dall'arguto toscano. Mordini, ardente mazziniano, pieno di fuoco e di attività, sembrava destinato a far compagnia al suo Maestro nel contegno boudeur verso il Regno d'Italia. Le previsioni vennero sbugiardate dai fatti.

Antonio Mordini è nativo di Barga in Toscana, ed ha 69 anni. Laureatosi in leggersi dette, fin dalla prima gioventù, alle lotte politiche. Nel 1848 andò a Venezia, dove fu addetto allo stato maggiore del generale Pepe. Poi tornò a Firenze, e fa tra i promotori della Repubblica, o, meglio, del Governo provvisorio. Ottenne, di botto, il posto di ministro degli esteri. Il suo imperium fu il sogno di una notte di estate. Svanì presto. Mordini emigrò. Nel 1859, andò ad iscriversi fra i Cacciatori delle Alpi. Finita la campagna, venne a Firenze, e pochi mesi appresso, Barga, la sua cittaduzza nativa, lo mandava deputato al Parlamento. Mordini si mise, naturalmente, fra i rompicolli dell’Estrema Sinistra. Egli fa tra i pochi deputati che votarono contro la cessione di Nizza e Savoia alla Francia. Non prese parte alla spedizione dei Mille, ma quando seppe che Garibaldi era entrato in Palermo, corse a raggiungerlo. Garibaldi lo accolse bene, e lo nominò presidente del Consiglio di guerra. Tanta era la fiducia che in lui riponeva che, dimessosi Depretis da prodittatore, egli dette a Mordini quest'alto ufficio. Nella lotta fra gli annessionisti immediati e gli annessionisti a termine, Mordini si pose coi secondi.

319 COLOBI E VALOBI

Depretis aveva giuocato di altalena. Mordini non usò mezze misure, e combattette con accanimento gli avversari. Dimenticando di essere prodittatore, agì da capopartito.

L'amministrazione di Mordini in Sicilia si distinse per le nomine in massa d'impiegati favorevoli all'idea mazziniana: Roma o morte! Il favoritismo apparve nella sua più nuda realtà, non altrimenti che il nepotismo dei papi. Ogni atto di Mordini veniva, quindi, e in parte giustamente, criticato dai lafariniani, i quali agivano sull'animo di Cavour dipingendo il prodittatore a foschi colori.

Mordini, quando vide che bisognava pur venire alla votazione plebiscitaria, cercò d'intorbidare la acque emanando un decreto, con cui ordinava la convocazione di un'assemblea costituente. L'idea era logica, quantunque partigiana e punto patriottica. Era quello appunto il dì della festa, e bisognava regalarsi un po' di liquore costituente. Il popolo, col plebiscito, doveva dire soltanto se voleva o non unirsi alla Casa di Savoia. Sì o No — ecco la sua risposta. Invece, l'assemblea come sopra doveva precisare il come, il quando e tutte le altre condizioni. Figurarsi il chiasso croato dei lafariniani e la preoccupazione di Cavour! Questi scrisse al Persano, esortandolo a consigliare Garibaldi a cassare quel decreto di Mordini, e nel tempo stesso propose al Re d'imporre al dittatore il congedo forzoso del Proidem. La proposta non ebbe seguito.

Quando Vittorio Emanuele entrò in Napoli, Mordini sedette nella stessa carrozza reale, e Garibaldi domandò per lui il collare dell'Annunziata.

320 CAPO TERZO

Il Re rispose con un rifiuto. Garibaldi ne fu oltremodo afflitto, ma Lafarina gongolò. Lo stesso Lafarina, nelle sue lettere, contemporanee alla prodittatura di Mordini, continuava a contarne e a contarne delle belle contro quel toscano che spadroneggiava in Sicilia, E possibile che nelle assertive lafariniane la verità stia a braccetto con la bugia: ad ogni modo, non cadrà il mondo, se riferirò qualcuna di quelle voci, che partivano, se non dal cuore, certo dal fegato di quel siciliano in esilio:

«So che a Palermo intendono organizzare una dimostrazione al grido di Viva Vittorio Emanuele! Viva Garibaldi! Viva Mordini! Mordini, intanto, continua a grandinare decreti. Offre un abbono ai pròprietari che pagheranno un quadrimestre anticipato della fondiaria. So pure che si è fatta una emissione di rendita non autorizzata (metodo viennese).

Mordini, il quale conosceva tutta la benevolenza di cui l'onorava Lafarina, s'irritò molto allorché seppe che Lafarina appunto doveva essere magna pars del governo luogotenenziale, che era destinato a succedere in Sicilia, alla prodittatura. Per fare un ultimo dispetto al suo nemico, volle privarlo della soddisfazione di entrare col Re in Palermo. A tale scopo fece organizzare, in quella città, una forte agitazione contro il Lafarina; poi, con somma abilità, lasciò diffondere per Napoli le voci di una seria dimostrazione ostile che a Palermo preparavasi per dare il saluto all'ex segretario della Società Nazionale. Lo scopo fu raggiunto.

321

Per prudenza, non si permise che il Lafarina accompagnasse il Re. Egli non doveva partire che due o tre giorni dopo. Lafarina ne rimase sdegnato; lo stesso Cavour ne fu addolorato. Ma — questa volta — Mordini gongolò!

Nella Camera italiana, il Mordini si atteggiò a capo del partito garibaldino. Per smania di originalità, volle coprirsi il capo durante le sedute. Non fece uso del cappello, ma di un fez di velluto. Il fez colpì l'attenzione del Petruccelli della Gattina, il quale ne scrisse alla Presse di Parigi, e ne seguì tutta la storia. Storia lagrimosa! perché il fez presto soccombette sotto l'indignazione di una coppia di begli occhi che lo fulminavano dalla tribuna delle dame.»

Mordini brillò come oratore. Combattette strenuamente la Destra, biasimandone specialmente la politica francofila. Propose l'inchiesta sulla voluta partecipazione di alcuni deputati ai grossi affari delle Meridionali. Però, non sempre fu pari alla sua fama. Nel 1861, allorché fuvvi fra lui e il Cordova il celebre duello oratorio sull'amministrazione della prodittatura in Sicilia, l'eloquenza sdegnosa, altezzosa, pretensiosa di Mordini rimase affogata e travolta dall’eloquenza torrenziale del siciliano.

Mordini, fin dal 1862, cominciò a smettere le sue pose repubblicane. Arrestato pei fatti di Aspromonte, egli, dopo la liberazione, venne alla Camera, ascese alla tribuna, e parlò come uomo a cui la coscienza sussurrasse di essere stato bene arrestato. Nel 1864, parlando sulla Convenzione di settembre, a differenza degli altri colleghi di Sinistra, l'approvò, perché era convinto che col trasloco della capitale non si rinunziava a Roma.

322 CAPO TERZO

Aggiunse:Se io credessi che per questa legge fosse lacerato il plebiscito, uscirei da questa Camera, e innalzerei altra bandiera! Naturalmente questo pistolotto non spaventò nessuno. Colpì soltanto il Crispi, il quale ne prese occasione per rispondere con quella celebre frase che ormai è conosciuta financo nella Corte di Don Giovanni d'Abissinia.

Passato Mordini al Centro, cioè nel campo governativo, fu subito utilizzato. Nel Ministero Menabrea ottenne il portafogli dei lavori pubblici. Poi, nel 1872, fu nominato prefetto di Napoli. In quest'ufficio diede prova di mente chiara, di fibra energica e di grandi conoscenze amministrative. Però non si mostrò imparziale.

Da molti anni il Mordini non ha dato più segno di vita politica: ma in lui l'antico uomo non è interamente morto. Sebbene di Centro, egli è rimasto liberale e nemico dei preti. A differenza di tanti altri statisti egli ha percorso la scala politica in senso inverso. Prima prodittatore; poi ministro: poi prefetto; infine sindaco di Barga — se la memoria non mi tradisce. Vecchio e annoiato, Mordini è tuttora un tipo interessante. Un giovane avrebbe molto ad apprendere conversando con lui, dato però che l'onorevole Mordini consentisse a sopportare la fatica di parlare.

Ministro dei lavori pubblici è stato pure Francesco Genala. Pur non conoscendolo personalmente, confesso di aver sempre sentito per lui una forte simpatia.

Dopo il capitombolo ministeriale, il valore politico di Genala fece concorrenza al valore economico della rendita turca. Oggi si è rialzato un poco, sebbene si quoti ancora troppo basso. La riabilitazione finale verrà — se altrimenti non è stabilito nei supposti libri del Destino.

323 COLORI E VALORI

Lombardo di nascita, e propriamente cremonese, Genala pugnò tra le file dei garibaldini. Dedito agli studi di diritto costituzionale, egli si fece, in Italia, banditore dei diritti delle minoranze. Fu uno dei pochi che osarono guardare in viso la pretesa volontà divina della maggioranza, e protestare contro la tirannia del numero. A Genala si deve la parziale introduzione della rappresentanza della minoranza nella formazione organica degli attuali collegi elettorali politici. Alla Camera, si distinse con la relazione dell'inchiesta ferroviaria.

Nel 1883, dopo le dimissioni di Baccarini e di Zanardelli, il Genala prese il posto del primo nel Ministero dei lavori pubblici. La sua amministrazione, durata fino al 1887, suscitò infinite opposizioni e polemiche. Si disse che nelle nomine e nelle promozioni avesse commesso atti d'incredibile e favoloso favoritismo. Qualche giornale pubblicò che un commesso di farmacia era stato ammesso nell'amministrazione ferroviaria e nominato, di botto, ispettore allievo. Certo è che il ministro, per le esigenze parlamentari, fu largo a promettere tronchi di ferrovia i quali, per le esigenze finanziarie, rimasero semplicemente promesse tronche. Inoltre, con grande facilità, mise quasi sempre, nel preventivo di ogni linea da costruirsi, una somma di lire inferiore a quella che la prudenza consigliava di stabilire.

L'on. Genala a tavola fece conoscenza con tutta Italia. Del resto, se accorreva ai pranzi, accorreva anche ai pericoli. Casamicciola fu testimone del coraggio, dell'abnegazione e dell'ardore del giovane ministro. Genala fu il ministro delle tombe e dei banchetti.

324 CAPO TERZO

In complesso, l'on. Genala, come ministro dei lavori pubblici, non fece buona prova. Lui imperante, furono presentate e votate le convenzioni ferroviarie. Nondimeno, in quell'alto ufficio, Genala rivelò valore oratorio e abilità parlamentare. Promettendo, rettificando, difendendosi, replicando, egli si dimostrò esperto conoscitore della tattica delle assemblee. Senza dubbio, Genala è il migliore allievo di Depretis.

§ 3. — Gli ex-segretari generali.

Sommarlo. — Niccola Marselli — Un tic — L'allievo della Nunziatella — La scienza e l'arte che cospirano — Il 1860 — La lettera a Debenedictis — La virtù dei cani — Marselli che non si muove — II trasformismo e il partito nazionale — Valore liquidato — Un discendente di Guicciardini — Il marchese Cappelli — La sua conversione — L'attaché diplomatico e l'attaché amministrativo — Cirillo Monzani — Un cospiratore bizzarro — Del Carretto e Melloni — Un dono al granduca di Toscana — Monzani che aiuta Gioberti — Rara modestia.

Comincerò ab Jove, cioè da Marselli. Si chiama capricciosamente Niccola e non Nicola. E questo un tic come un altro. Un tic perfettamente simile a quello di Fambri, che fa chiamarsi Paulo e non Paolo, e di Bonghi, che vuol essere chiamato Buggero e non Ruggiero. In omaggio, però, del contrario della bugia, devo deporre innanzi al tribunale della Storia che questa osservazione, mediocremente arguta, è stata da me rubata non ricordo più a quale giornale.

Nato a Napoli, Marselli ha tutti i pregi e i difetti dell'indole napoletana. Ora è dominato da una febbrile attività; ora si mostra accasciato, e non fa niente.

325 COLORI E VALORI

A dieci anni entrò nel Collegio della Nunziatella. I maestri lo notarono come un giovanetto d'ingegno ma svogliato. Egli, che doveva poi sfoggiare tanta e così varia coltura, non voleva, in quel tempo, udir parlare di libri. Preferiva, invece, quegli esercizi che rendono il corpo più agile e forte. Quindi, amava il nuoto e la scherma, la ginnastica e l'equitazione.

Eppure, questo giovanetto non era uno dei soliti svogliati. Senza saperlo spiegare a se stesso, egli sentiva la vaga intuizione dell’avvenire e lo sconforto del presente.

Allorquando, nel 1848, scoppiò la guerra nazionale contro l'Austria, Marselli, che aveva sedici anni, chiese di essere compreso fra i soldati che il Borbone doveva mandare in soccorso del Piemonte. Il permesso gli fu negato, ed egli dovette restare in Collegio. Chissà, partendo, quali sarebbero state le sue sorti! Certamente, egli non avrebbe ubbidito all'ordine dato da Ferdinando alle truppe di ritornare in Napoli. Invece, il Marselli avrebbe seguito il generale Pepe a Venezia.

Dopo la giornata sanguinosa del 15 maggio, Marselli sentì più che mai la vergogna di dover servire il Borbone. Fu in mezzo alle sventure della patria che in lui si sviluppò, insieme all’affetto del paese, anche l'amore agli studi. Riparandosi nel sereno campo delle lettere e delle scienze, egli, mentre arricchiva la sua mente, leniva pure gli affanni del suo cuore. Terribile prospettiva! Che cosa poteva egli diventare un giorno? Un soldato borbonico, — un soldato, cioè, destinato a spargere non il sangue straniero, ma quello dei concittadini.

326 CAPO TERZO

Marselli non sapeva abituarsi a questo pensiero, e fra i compagni di collegio cominciò a diffondere pensieri e parole di patriottismo e d'italianità.

Questa cospirazione in collegio, se si fosse prolungata ancora per un altro pezzo, avrebbe, forse, compromesso seriamente il Marselli. Fortunatamente, col 1850, spuntò il giorno in cui il giovane dovette uscire dalla Nunziatella col grado di tenente del Genio. Fu, forse, il soverchio amore delle matematiche che indusse il Marselli a preferire il Genio alle altre armi? No. Il giovane ufficiale, che ricordava la triste condizione in cui si erano trovati i soldati borbonici nella giornata del 15 maggio 1848, temeva che, ripetendosi il conflitto fra Re e Popolo, a lui sarebbe spettato il duro compito d'impiegare il ferro contro i cittadini. Come uffiziale di qualunque arma, egli avrebbe dovuto, in una seconda edizione del 15 maggio, comandare contro il popolo inerme una carica alla bajonetta, una carica di cavalleria o una scarica a mitraglia. Solamente, in qualità di uffiziale del Genio, non correva il rischio di versare il sangue dei napoletani.

Fuori della Nunziatella, egli continuò la propaganda liberale fra i militali e i borghesi. Non più il Collegio, ma la sua casa fu il dispensatolo dei principii di liberalismo in pillole dottrinarie. Marselli, però, non progettava cospirazioni settarie. La sua setta era l'Italia. La sua cospirazione non era diretta ad annebbiare le menti col fumo di formole in decifrabili e di riti misteriosi, ma ad illuminarle con la luce della scienza e dell'arte. Egli e i suoi amici congiuravano studiando. Nè i loro studi erano i soliti. Rompendo le tradizioni paesane, osarono guardare al di là delle Alpi, in Germania.

327 COLORI E VALORI

In filosofia si adorò Hegel. Tuttavia, Marselli studiava sempre con lo scopo remoto e recondito di accelerare la redenzione morale e politica delle provincie meridionali. La scienza e l'arte erano divenute, per lui, cospiratici. In un libro intitolato La ragione della musica moderna, il Marselli esprimeva, con un parlare oscuro ed ambiguo, pensieri, che, detti chiaramente, avrebbero messo in furore tutti i feroci di Sua Maestà borbonica. Col pretesto della musica, l'autore suonava, sotto il naso e in prossimità delle orecchie del Borbone, un inno alla scienza moderna e alla libertà.

Col 1859 crebbe l'attività politica di Marselli. Certamente, egli avrebbe potuto disertare e correre in Lombardia, per arruolarsi nell'esercito regolare piemontese o fra i Cacciatori delle Alpi. Invece, preferì restare in Napoli, — e con maggiore rischio. Perché, sotto gli occhi del Borbone, osava smerciare sensi d'italianità fra gli uffiziali del regio esercito. Sbarcato Garibaldi in Sicilia, Marselli neppur si mosse. Il De Benedictis, anche uffiziale del Genio, disertò e andò nell'isola per servire fra i militi della libertà. Marselli approvò quest'atto di generosa diserzione, e, con altri colleghi, scrisse un indirizzo di approvazione all’amico in viaggio. Però neanche si mosse. Quando Francesco II uscì dalla capitale e molti militari lo seguirono, Marselli, che era direttore del Genio militare a Napoli, continuò a rimanere al suo posto. Dopo il 7 settembre, aderì apertamente al nuovo Governo.

Francamente, questo contegno è censurabile. Bene o male, Marselli aveva giurato fedeltà al Borbone. L'amor di patria non permettevagli più di servire l'antica dinastia?

328 CAPO TERZO

Niente di meno assurdo. La fedeltà è la virtù dei cani. Marselli poteva dimettersi o disertare. La morale politica lo permetteva, quantunque la morale pura e semplice lo vietasse. Egli poteva allontanarsi dal teatro dove maturavasi la rivoluzione, oppure fuggire e raggiungere Garibaldi. Teneva innanzi ai suoi occhi un bivio non tanto meprisable: Pianell o De Benedictis. Ma, restare in Napoli, sino all'ultimo giorno, senza dichiararsi né prò né contro, contentandosi di lavorar sott'acqua, — ecco ciò che non si può approvare. Rasentare i regolamenti e i codici militari senza mai cadervi, è certo un'abilità, ma non è una virtù.

Entrato nell'esercito italiano, il Marselli rimase nel corpo dei Genio, e nel 1866 diede tali prove del suo ingegno da meritare la croce militare di Savoia. Fu fatto, poi, professore di storia nella scuola superiore di guerra, e vi si distinse.

Marselli ha un ingegno profondo e versatile. La sua coltura è vastissima. Le lingue classiche sono da lui conosciute a perfezione. Le scienze hanno in lui un appassionato cultore. I suoi scritti sono tutti dotti ed originali. Le grandi razze dell'umanità; — La natura e l'incivilimento; — La guerra e la sua storia;

La scienza della storia; — Le origini dell'umanità; — Raccogliamoci; — Gl'italiani del mezzogiorno;

La rivoluzione parlamentare del marzo 1876; — La situazione parlamentare;» — ecco le principali sue opere.

Come uomo politico, il Marselli è stato sfortunato. Una delle correnti, che spinsero Depretis a separarsi dalla Sinistra radicale, fu guidata appunto dal Marselli. ii quale, per un momento, parve essere il capo naturale dì Centro.

329 COLOBI E VALORI

Il Centro, che fino al 1652 aveva appoggiato, senza dir sillaba, il Depretis. in quell'anno, grazie al Marselli da una parie e ai così detti giovani dall'altra, cominciò a protestare. Allora nacquero quelle frasi che. a torto, sembrarono titoli o per lo meno temi di farse: La monarchia corre verso il precipizio: — Lo. forza centrifuga dev'essere equilibrata dalla forza centripeta: — Bisogna stringere i freni;— Badate al famoso ponte. La verità semifalsa è che si voleva una separazione personale, se non un divorzio. fra la monarchia e il partito radicale. Caso strano! nel Codice civile la separazione personale e ammessa per causa di volontario abbandono, di adulterio o di sevizie, insomma, per fatti che mostrino mancanza di affatto tra i coniugi. Invece, nel Codice parlamentare, formulato dal Centro e dai giovani, la separazione personale fra la monarchia e il partito radicale veniva imposta perché era troppo il reciproco affetto coniugale. Cosa curiosa è la politica!

Marselli non si contentò della parte che gli si destinava nella commedia di trasformismo. Volle essere nuovo ed originale, ed ideò di fondare un partito nazionale. L'idea era troppo accademica e non dette alcun frutto.

Dopo questo ardito tentativo, a Marselli spettava un portafogli. Non gli si offrì che un segretariato generale.

Marselli è un valentissimo scrittore, ma non è un brillante ed abile oratore. Parla senza difficoltà, ma è noiosamente prolisso. Specialmente nelle repliche è inabile, e scopre vieppiù il fianco all'avversario.

330 CAPO TERZO

L'ex-segretario generale del Ministero della guerra è liquidato. Il suo fallimento politico è stato, da un bel pezzo, dichiarato. Io spero, però, che un uomo di tanto valore vorrà tornare in piazza per commerciare idee nuove.

Più giovani ancora di Marselli e niente affatto annoiati sono gli on. Guicciardini e Cappelli. Sono stati, di già, l'uno segretario generale del Ministero di agricoltura con Grimaldi, l'altro segretario generale del Ministero degli esteri con Robilant.

Guicciardini, discendente dall'illustre storico, nacque a Firenze nel 1851, e si laureò a Pisa in giurisprudenza. Cappelli, più vecchio di tre anni, nacque nel 1848 a San Demetrio dei Vestini, negli Abruzzi. Studiò legge a Napoli, e vi si laureò. Telesforo Sarti afferma che il marchese Cappelli cospirasse contro i Borboni. Questa circostanza, anche se mancassero altri elementi in contrario, non potrebbe ammettersi, ove si prestasse attenzione al solo atto di nascita del preteso cospiratore. Avrebbe mai potuto il Cappelli cospirare a undici anni? Però v'è di più. Il Cappelli appartenendo ad una famiglia di gentiluomini della vietile roche, subì, nei suoi anni giovanili, l'influenza delle tradizioni domestiche. Mentr'era studente in Napoli, mostrò sentimenti borbonici e papalini; entròT anzi, a far parte di un'associazione di giovani devoti,

analoga a quella di Sant'Alfonso dei Liguori, e ne

divenne presidente. Col tempo le sue idee si modificarono, ed egli accettò di entrare nella carriera diplomatica, e di servire così il Governo italiano. Guicciardini, invece, preferì di entrare nelle amministrazioni locali, e fa nominato consigliere e deputato provinciale di Firenze.

331 COLORI E VALORI

Cappelli fu mandato come attaché all'ambasciata di Londra, e poi a quella di Vienna, Nel 1880, promosso a segretario, venne inviato all'ambasciata di Berlino. Ad un tratto, lasciò la carriera diplomatica. Il prestigio acquistato presso i suoi concittadini per la buona prova fatta negli uffici, sebbene modesti, di diplomazia, gli dette animo d'invocare il loro suffragio politico nelle elezioni generali del 1880. Riuscì. Due anni dopo, il Guicciardini, resosi abbastanza noto ed esperto nella pratica amministrativa, si presentò anche lui alla prova delle urne, e fu eletto. Così un giro per l'Europa giovò al Cappelli; la permanenza operosa nella città nativa giovò al Guicciardini. Divennero deputati, l'uno per aver fatto l'attaché di ambasciata, l'altro per esser rimasto attaché alle amministrazioni locali.

Alla Camera sedettero ambidue al Centro. Guicciardini si occupò specialmente di questioni d'indole economica; Cappelli esordì con un discorso sulla marineria militare, e in seguito, preferì di occuparsi quasi sempre degli affari esteri. Guicciardini prese parte al trasformismo; Cappelli l'accettò. Quegli fu un fautore del movimento politico maturatosi nel 1883; questi fu semplicemente un aderente. Il trasformismo fece bene ad entrambi, elevandoli al potere. Fecero buona prova, e confermarono, col loro esempio, ciò che si sente e si pensa dal maggior numero, ma che pur non si osa di confessare, — che cioè il tempo è venuto di cedere il Governo tutto intero ai giovani.

Uno dei pochi vecchi che dopo aver fatto molto per l'Italia nei giorni tristi non pretesero di volerla, ad ogni costo, servire nei giorni lieti, è l'on. Cirillo Mon zani. Monzani ha circa settantanni.

332 CAPO TERZO

La sua vita è una bella pagina della storia italiana. Ho detto una pagina, e mi correggo. La vita di Monzani equivale, piuttosto, a tante note apposte a quelle pagine del nostro libro nazionale che si chiamano Bandiera, Rattazzi, Gioberti, ecc.

Nato nell'Emilia, il Monzani rivelò presto l'ardore patriottico della sua fibra. Spirito un po' bizzarro, invece di rimanere nelle Romagne per cospirare contro il Papa, se ne venne nelle provincie meridionali per dare filo a torcere al Borbone. Forse ebbe mano nello sbarco dei fratelli Bandiera. Senza dubbio il Del Carretto, ministro di polizia, dové sospettarlo. Lo fece arrestare. Il celebre fisico Melloni, con la sua influenza indusse il ministro a scarcerare quel commesso viaggiatore della rivoluzione. Qualche altro figlio di Adamo Esposito si sarebbe affrettato ad allontanarsi da Napoli. All'opposto, Monzani rimase nella città delle Sirene. Del Carretto che lo teneva di mira, e che spasimava di fargli respirare l'aria delle carceri, ne ordinò novellamente l'arresto. Dopo un certo tempo, forse per mancanza d'indizi o per nuova interposizione di Melloni, Del Carretto lo rimise in libertà, sebbene non lo lasciasse libero, perché, con la gentile compagnia di una coppia di sbirri, lo fece imbarcare sul Castore, e portare a Livorno. Così mandava un regalo a Sua

Altezza Serenissima.

Da Livorno il Monzani passò a Firenze. Nella città dell'Arno, egli divenne uomo di penna, e scrisse in varii giornali. Strinse amicizia col Gioberti, che soccorse, poi, con garbo e generosità. Nel 1859 fece ritorno nella vita politica, dichiarandosi unitario.

333 COLORI E VALORI

Dal Rattazzi fu grandemente stimato, e del medesimo fu segretario generale nel 1867.

Molti sono i suoi scritti, e tutti commendevoli. Monzani avrebbe potuto pigliare nella vita politica del Regno d'Italia una parte più brillante ed appariscente. Invece, egli ha voluto rimanere un modesto lavoratore.

§ 4. — Gli ex-rassegnati.

Sommario. — Franchetti e Sonnino — I milionari — I principi! di Franchetti — Le pasquinate e lo scrutinio di lista — L'ambizione di Sonnino — La Rassegna settimanale — La bestia nera dell'on. Sonnino — 11 cieco di Pisa —On. Sonnino la solita!» — Le quattro S del Sonnino — Giustino Fortunato — Il corrispondente della Rassegna — I suoi scritti — L'unico torto di Fortunato — Giuseppe Plastino — Il romanista e l'avvocato — I discorsi di Plastino — Il suo avvenire politico.

Leopoldo Franchetti e Sidnev Sonnino sono un'anima sola in due corpi. Pensano e sentono nel modo stesso. Dettero insieme i primi passi nella vita pubblica, col libro sui Contadini in Sicilia — frutto di forti studii e di personale esperienza.

Entrambi milionarii, nacquero il Franchetti a Firenze nel 1847, il Sonnino in Egitto nel 1849. Ansiosi di far bene alle classi lavoratrici, essi le hanno aiutate col loro ricco patrimonio. L'uno e l'altro coltivano, con amore immenso, le scienze economiche e sociali, e, se la politica non li distraesse dagli studi, potrebbero, nel campo scientifico e letterario, darci altri e più maturi frutti del loro ingegno.

Franchetti è dottore in legge, ma non esercita la professione. Non ne ha bisogno, e non ne sente l'inclinazione.

334 CAPO TEBZO

Forse, egli pensa esser preferibile alla difesa del delinquente la prevenzione della delinquenza con istituzioni che valgano ad attenuare la miseria e coltivare la mente e il cuore dell'operaio.

Egli pensa che un filantropo vale più di un avvocato.

Franchetti ha sempre combattuto l'indirizzo finanziario dell'on. Magliani senza porre però mai la sua candidatura al portafogli delle finanze. Egli è troppo incontentabile per poter essere ambizioso. La politica è per lui un pisaller, o al più, una distrazione dalle noie della vita. I milionari sono una specie curiosa ed originale della razza umana! Molti milionari sciupano il loro tempo, e credono di occuparsi abbastanza con i viaggi, le grisettes, le artiste da teatro, le corse di cavalli al campo, ecc. Ad altri, invece, tutto ciò non basta. Hanno bisogno di emozioni più potenti. Vogliono guardare la miseria per soccorrerla; vogliono ficcarsi nel campo politico per occuparvi un posto, sia pure di spettatore.

Liberale nelle questioni economiche e sociali, il Franchetti è conservatore in politica. Egli fu ostile all'introduzione dello scrutinio di lista. Tutti ricordano le critiche alle quali furono esposti coloro che non appoggiarono quella riforma. Pasquino li mise in caricatura. Così fece parlare, o meglio, cantare uno degli ostinati partigiani dell'antico sistema:

Ah! no!... credetemi, colleghi amati,

Io, noi, voi tutti sarem bocciati,

E quando tutti, dopo lo smacco,

Ci troveremo in fondo al sacco,

Allor soltanto, mondo birbone,

Noi canteremo con Pollione:

335 COLORI E VALORI

Ah! troppo tardi

Ho conosciuto,

Empio scrutinio.

Tu m'hai

perduto!

Il mio collegio

Or chiamo invano...

Un bel baggiano

Conosco in me!

Non ostante il ricordo di tali pasquinate, il Franchetti, due anni fa, secondato dal Bonghi e dal Nicotera, presentò un progetto per ristabilire il collegio uninominale. Il progetto abortì.

Se non è ambizioso il Franchetti, ambiziosissimo è il Sonnino. Questi è nato in Egitto, ma si è acclimatato in Toscana, ed ha l'aspetto di un inglese. E di statura alta, di complessione gracile, di vista miope.

Oltre al libro sui Contadini in Sicilia, ne scrisse un altro sulla Mezzadria in Toscana. Fondò con Franchetti la Rassegna settimanale — rivista di scienze politiche, amministrative ed economiche. Era un bel giornale a cui una più lunga vita avrebbe dato gloria. La Rassegna settimanale sparì per lasciar posto alla Rassegna quotidiana, che venne affidata alla direzione di Michele Torraca.

Sidney Sonnino, alla Camera, gode la stima di tutti sebbene non sia a tutti simpatico. Egli è troppo serio, troppo sicuro di se stesso. Non ha la spina dorsale flessibile. Ha voluto essere capitano senza essere stato mai soldato. Vuole comandare senza essersi abituato ad ubbidire. Questa pretesa, evidentemente napoleonica, urta l'amor proprio della maggioranza.

L'on. Sonnino è il vero tipo dell'oratore di affari o debater — parola diventata noiosa, ma a cui vanamente ho cercato di sostituirne un'altra.

336 CAPO TERZO

Non afferma ma discute. Non sa fare delle frasi, ma sa fare un ragionamento. Ingegno analitico, egli spietatamente anatomizza l'infermo corpo della finanza italiana. Però è un po' monotono. La sua bestia nera è l'on. Magliani. Magliani è. per l'on. Sonnino: la ruina d'Italia. Lo ripete da che è entrato nella Camera, e lo ripeterà fino a quando egli avrà fiato in corpo e Magliani il portafogli delle finanze. Quando si alza per parlare, si può giurare su Roma intangibile che pronunzierà un discorso contro il ministro delle finanze. Ecco perché l'on. Toscanelli. nella seduta de! 2i febbraio ISSO, ebbe a dire spiritosamente: C'era a Pisa un cieco che aveva lo stesso nome dell'on. Simonelli: si chiamava Panieri. Il cieco non sapeva che una sola suonata, talché, quando lo si vedeva, gii si diceva: Ranieri. la solita! — L'on. Sonnino ha ripetuto, quest'anno. le accuse fatte altre volte in altri discorsi Non sarebbe egli il caso di dirgìi: On. Sonnino. li solita? Accantonando lo spirito dell'on. Toscanelli. il quale Toscanelli. non già il suo spirito per voler essere enciclopedico, non è perfetto in niente, non si può se non lodare il Sonnino per essersi dedicato esclusimente ad una sola branca della pubblica amministrazione. Il movimento scientifico odierno richiede la divisione del lavoro, e si oppone, non dico alla creazione ma almeno alla moltiplicazione degli enciclopedici.

Un altro gran merito di Sonnino è la coerenza nei suoi principii. Egli è rimasto costantemente lo stesso, cioè libéralissimo nelle questioni economiche e sociali, conservatore in politica. Liberoscambista. non ha giammai sacrificato i suoi principii sull'altare del protezionismo.

337 COLORI E VALORI

Ha combattuto sempre qualunque specie di dazi sui cereali. Il 20 aprile 1867 egli combattette appunto l'introduzione di questo dazio, sia perché riteneva cosa ingiusta pesar la mano sulle classi povere, sia perché prevedeva che queste, in seguito all'aumento del prezzo sul pane, sarebbero state costrette a cibarsi del pane di granone con grave danno della loro salute. Sotto parvenze fredde, Sonnino fu senza pietà contro Depretis. Grimaldi e Magliani, dei quali dimostrò la contraddizione con le loro precedenti dichiarazioni e coi loro principii. Espresse chiaramente il timore di vedere le nuove tasse destinate, non tanto a coprire le spese di Africa, quanto a coprire il deficit che da gran tempo sussisteva nel nostro bilancio, a causa del cattivo indirizzo finanziario dell'on. Magliani. Aggiunse pure che non poteva ammettere che si ricorresse ai dazi sovra alimenti di prima necessità senza aver prima sperimentato altre risorse. Disse: Avete voi sperimentato tutti gli altri mezzi? E la tassazione dei grandi capitali impiegati in lavori carenti ti dallo Stato, e la nullità degli atti non registrati, e lo spirito, e gli zuccheri, e tanti altri cespiti li avete voi esaminati '? avete voi tentato di sfruttarli prima di venire a disdirvi in questo modo, ad un anno di distanza!

Il programma dell'on. Sonnino si può riassumere così: L'Italia ha bisogno di quattro S: sincerità, sorveglianza, severità e sicurezza: sincerità nei bilanci; sorveglianza della Camera sui medesimi; severità nell'amministrazione; sicurezza all'interno e all'esterno.

Una quinta S è sottintesa: Sonnino.

Se ron. Sonnino avesse maggior foga oratoria e più forte lo stimolo dell'invettiva, e se, scendendo dal suo piedestallo,

338 CAPO TERZO

si mischiasse un poco più con la folla, egli potrebbe chiamarsi il lord Randolfo Churchill dell'Italia.

Io avrei dovuto mettere anche il conte Guicciardini fra gli ex-rassegnati, se non avessi creato la categoria degli ex-segretari generali. In compenso, abbiamo qui l'on. Giustino Fortunato, nobile e colto giovane della Basilicata. Fortunato è ricco di censo e d'ingegno, e non ha che quarantanni. Nato, politicamente, col trasformismo, non è morto con lo stesso. Sia che parli, sia che scriva, non seduce, non abbaglia: piace e convince. La luce della sua eloquenza non acceca né riscalda. E placida e tranquilla come la luce usurpata della luna.

Fortunato è avvocato, ma non esercita la professione. E tutto dedito alla vita politica e agli studii  letterari, storici, economici e di diritto pubblico. Ha scritto i seguenti lavori: Le società cooperative; La Ferrovia da Foggia a Potenza; I Napoletani del 1799.

Ha tradotto pure una parte del libro di Lenormant, su l'Apulia e la Lucania, e pubblicato, per la prima volta, il Te Deum dei Calabresi. Dal 1878 al 1880 fu corrispondente napoletano della Rassegna settimanale di Roma. Le sue lettere erano ispirate da una imparzialità e ad un'obbiettività difficili a trovarsi in noi meridionali. Pubblicate tutte in un volumetto, esse formano uno studio sociale di Napoli.

Alla Camera, l'on. Fortunato ha parlato di varii argomenti: il lotto pubblico, — la carriera di concetto nell'amministrazione provinciale, — la trasformazione dei Monti frumentari in Casse di risparmio, — le leggi di eccezione nel sistema tributario, — lo scrutinio di lista. Quest'ultimo discorso, col quale si combatteva l'ardita innovazione, fece grande impressione sulla Camera, e dette la misura del valore oratorio del Fortunato.

339 COLORI E VALORI

L'on. Fortunato è un gentleman all'inglese che può servire di modello alla nostra aristocrazia. Egli ha un solo torto: quello di aver tolto il posto di deputato a Floriano del Zio (1).

Quasi coetaneo dell'on. Fortunato è Giuseppe Plastino. Nato ugualmente nella Basilicata, il Plastino è uno dei più valorosi romanisti delle provincie meridionali. Non ha come il Fortunato molta coltura letteraria e di diritto pubblico. Non è fatto per le lotte elettorali e parlamentari, né posa ad uomo politico. Si contenta di fare l'avvocato civile, — e per vero, è un civilista stimatissimo nel foro napoletano.

Fornito di voce sottile, gentile, quasi femminile, di persona gracile ma ben proporzionata, di statura giusta, di aspetto simpatico, di maniere affabili, l'onorevole Plastino sembra nato per appianare tutte le difficoltà.

Alla Camera ha parlato poche volte, e quasi sempre di istruzione pubblica. Discutendosi nel 1884 la legge universitaria presentata dal Baccelli, l'on. Bovio era quasi riuscito a convincere la Camera della convenienza di affidare agli studenti l'elezione del Rettore, quando surse il Plastino, e con un assennato discorso fece mutare di opinione alla maggioranza. De Zerbi, nella corrispondenza al Piccolo, lodò molto l'accortezza e l'abilità oratoria del giovane deputato.

Ultimamente ha il Plastino parlato sulla questione del collegio dei Cinesi, mostrando, però, di pensar troppo col cervello governativo. Ha parlato, pure, contro la Cassazione unica, ma senza esporre idee nuove.

(1) Giustino Fortunato chiamavasi appunto un ministro di Ferdinando II di Borbone. È probabile che fra l'eccellenza defunta e l'onorevole vivente, oltre l'omonimia, siavi pure parentela.

340 CAPO TERZO

Plastino non salirà mai ad altezze vertiginose. Rimarrà una stella di second'ordine. L'ufficio di deputato non gli accrescerà l'influenza politica; gli aumenterà, invece, per l'influenza morale che vi è annessa, il numero dei clienti.

§ 5. — Gl'indipendenti.

Sommarlo — Arbib e Martini — Il padre di Martini — Il principio di Fossombroni — Arbib operaio tipografo — II volontario — Arbib giornalista — La nascita e la morte della Libertà — Martini scrittore — L'oratore — La Camera che ride —Tommasi-Crudeli. De Renzi e Cardarelli — Il clinico e lo scienziato — Jomini e Moltke — Gli amici salati — Il ministro del sale — Medici commercianti — Strana concorrenza — Mercato scandaloso — Un conservatore della Rivoluzione — Il medico e il soldato — Arcoleo — La scuola di De Sanctis — Il lavoro su Pulcinella —Il professore e lo scrittore di diritto costituzionale — Il salon all'aria aperta — La voce che ride — U ammiraglio di terra — Arcoleo pubblicista — Il professore di scenografia parlamentare — De Zerbi — Il soldato — La conferenza su Amleto e il giudizio di Tari — Il pubblicista — L'oratore — Il discorso di Milano — Perché De Zerbi preferisce le quistioni tecniche — De Zerbi e Baccelli — De Zerbi e lord Chatam — Lioy e Mantegazza — Lioy che fa arrossire una sposina e che scandalizza Cantù — Un onorevole con le lucertole in tasca — I guanti grìsperk — Sanguinetti — Indelli — Maldini — Lucchini — Luporini — Mariotti — Del Vecchio — Carnazza — Lugli — Barazzuoli — Il Cristo schiodato — De Renzis

Il suo primo articolo di giornale — Il bohémien arrivè — L'oratore — I principi romani — Odescalchi — Ruspoli — La prima edizione del caso Guelielmini — Sciarra — Teano.

Edoardo Arbib e Ferdinando Martini sono due pubblicisti toscani, quasi coetanei (1). L'Arbib è nato nel 1840 a Firenze; il Martini è nato a Monsummano nel 1841.

(1) Per una volontaria distrazione ho posto il Martini in questa categoria anziché in quella degli ex-segretari generali.

341 COLORI E VALORI

L'uno viene da famiglia ebrea; l'altro, da famiglia etrusca.

Il padre di Ferdinando Martini chiamavasi Vincenzo, ed era un valente letterato. Segretario del celebre ministro Fossombroni, sor Vincenzo godeva la fiducia di quel Depretis toscano. Fossombroni era famoso per questo igienico principio: «Non bisogna mai fare oggi ciò che si potrà fare domani.» A domani, a domani — ecco il ritornello della sua canzone politica. Un giorno, il segretario presentò al ministro un fascio di carte per la firma. Ve ne erano delle interessanti, ve ne erano delle urgenti. Segretario e principale apparivano entrambi desiderosi di togliersi l'uno alla presenza dell'altro, e viceversa, per poter andare a pranzo. Quand'ecco — o caso spietato! — che un calamaio, per colpa del signor Martini, si riversa sulle carte, e le imbratta graziosamente d'inchiostro. Figurarsi la muta disperazione del segretario! Questi doveva rifare le carte; ma il ministro doveva aspettare per firmarle. I decreti non ammettevano mora, ma neanche l'ammettevano i rispettivi pranzi. Come Ercole al bivio, Fossombroni pensò un momento. Poi, prese l'eroica risoluzione di andare a mangiare. Li firmerò domani — disse al segretario. I decreti possono aspettare senza il pericolo di farsi freddi. 11 pranzo no.

Grazie alla condizione del padre, Ferdinando Martini non dovè lottare fino dai primi anni. Invece, l'Arbib, giovinetto ancora, mentre faceva i suoi studi, dovette lasciarli per l'immatura morte del genitore. Il povero Edoardo, in un'età in cui aveva egli stesso bisogno di aiuto e di consiglio, fu costretto a pensare al sostentamento suo e della famiglia.

342 CAPO TERZO

Entrò nella tipografia Barbèra come semplice apprendista. Il futuro deputato al Parlamento vestì la House dell'operaio. Da apprendista l'Arbib passò, a poco a poco, a correttore! Chissà, quale sarebbe stato il suo avvenire, se non fosse scoppiata la guerra del 1859. All'appello di Garibaldi, l'Arbib, dimenticando ogni altra cosa, volò in Piemonte, e andò ad iscriversi fra i Conciatori delle Alpi. Combattette. L'anno seguente, andò in Sicilia con Garibaldi, e a Milazzo, sul campo di battaglia, veniva promosso, pel grande valore spiegato, al grado di sottotenente. Entrò, quindi, nell'esercito regolare, fece la campagna del 1866, e poi si dimise. Il semplice correttore di stampa tornava nella città natale col grado di uffiziale e con due medaglie al valore militare.

Uscito dall'esercito, l'Arbib divenne giornalista. Scrisse nella Nazione di Firenze, nel Corriere della Venezia e nella Gazzetta del Popolo. Di questi due ultimi giornali fu direttore. Nel 1870, entrate le truppe italiane in Roma, Arbib pose il suo domicilio nella nuova capitale. Ivi fondò La Libertà, che ebbe gran successo, e per parecchi anni rimase il giornale romano più in voga. La Libertà, col tempo, decrebbe, e infine cessò di esistere. Due anni fa, l'Arbib la sostituiva con una rivista settimanale portante Io stesso titolo. Ne ho letto qualche numero; poi, non ho inteso più parlarne. Credo sia andata a raggiungere la consorella. Così Roma non ha, oggi, né la Libertà quotidiana né la Libertà settimanale.

Alla Camera la parola dell'Arbib è ascoltata con simpatia. Nel cuore di Arbib vibra potentemente la corda patriottica. L'antico ufficiale parla senza sottintesi. È, inoltre, uno dei pochi deputati che hanno idee chiare e precise su tutte le quistioni interessanti la cosa pubblica.

343 COLORI E VALORI

Come parla così scrive. Nel Corriere di Napoli i suoi articoli sono letti con piacere e avidità. Specialmente quelli a tinta francofoba sono accolti con immenso favore.

Tipo diverso dalPArbib è il Martini. Niente egli ha operato per la patria. Gode la fama di esser l'uomo più spiritoso d'Italia, ma, forse, non ne è l'uomo più animoso. Il suo maggior cordoglio è di aver perduto i capelli. L'Arbib ha scritto romanzi. Il Martini ha scritto commedie e proverbi, come; Il peggior passo è quello dell'uscio; L'elezione di un deputato ecc. — Il Martini professa il principio dell'arte per l'arte. Opposto pare che sia il principio dell'Arbib. Martini è sedotto facilmente dal desiderio di fare il calembour g e di dire il motto di spirito o la facezia. Arbib, invece, è sempre serio e composto. Martini è un giornalista; Arbib è un pubblicista.

Come oratore, l'on. Martini vale più dell'Arbib. Egli ha una voce bella, chiara, argentina. Però la sua eloquenza è più colorita che calorosa. All'epoca della famosa guerra parlamentare contro il ministro Acton, Martini s'improvvisò ingegnere navale e costruttore. La Camera, udendolo chieder la parola in una quistione non di pubblica istruzione ma di pubblica distruzione, ebbe un movimento di sorpresa, e si pose a ridere. L'oratore non si perdette di animo per quest'accoglienza tanto benevola, e discusse ugualmente di cannoni, di torpedini, di corazze e di corazzate.

Già professore di Lettere e di Storia, il Martini è stato segretario generale dell'on. Coppino. Il suo passaggio per la Minerva fu un semplice passeggio. Non lasciò tracce.

344 CAPO TERZO

Tutto sommato, l'on. figlio di Monsummano ne potrebbe trarre argomento per una commedia.

Ma se l'on. Martini potrebbe fare una commedia politica, gli onorevoli De Renzi, Cardarelli e Tommasi Crudeli, se volessero, potrebbero scrivere un trattato di patologia parlamentare. Essi formano una triade d'illustri medici. Il più vecchio è il Tommasi-Crudeli, nato nel 1834; il più giovane è il De Renzi, nato nel 1839. Cardarelli e De Renzi appartengono alle Provincie meridionali. Il primo è clinico più valente, il secondo è scienziato più profondo. De Renzi, giovanissimo, ottenne, per concorso, la cattedra ordinaria di clinica medica all'Università di Genova. Durante la sua permanenza in quella città, riuscì a scoprire la cura dell'anemia del Gottardo. Trovò pure la cura della cirrosi epatica. Nel 1881 ottenne, anche per concorso, la cattedra di patologia e clinica medica all'Università napoletana.

Cardarelli non ha il genio inventivo e la profondità scientifica del collega De Renzi. In compenso, egli, al letto dell'ammalato, è, senza paragone, superiore al suo emulo. De Renzi è generale di tavolino. Cardarelli è generale di campo di battaglia. L'uno scopre o crea la teoria. L'altro l'applica, e riporta la vittoria — quando non fa morire. Quegli è Jomini, questi è Moltke.

De Renzi, nella Camera, è una figura incolore. Il Parlamento è un ambiente troppo vasto per lui. Cardarelli, invece, sebbene non sia uno dei deputati più assidui, gode una certa fama politica fra i colleghi. Quando parla, si fa ascoltare con attenzione, perché non annoia.

345 COLORI E VALORI

Egli fa un discreto consumo di arguzie e di sali attici, e poi dà, ogni tanto, una capatina nel mondo classico. Cosa questa, che fa buona impressione, perché trattasi di un medico. Non vi è verve nei discorsi di Cardarelli; ma non vi manca una piccola dose di humour.

Cardarelli pronunziò il suo più felice discorso l'otto giugno 1883 per spronare il ministro Magliani a tassare ancor più gravemente l'alcool e a togliere ogni balzello sul sale. Qualche brano non tornerà discaro ai lettori:

«On. ministro delle finanze, voi avete aggravato ia mano sull'alcool; io, francamente, a nome dell'igiene, ve ne fo i miei complimenti. Nessuna tassa è tanto giusta quanto quella che colpisce il lusso che snerva ed il vizio che abbrutisce e degrada una nazione; come nessuna imposta è tanto esosa, per non dire iniqua, quanto quella che colpisce le necessità della vita e la industre miseria del povero.

Sarete maledetto e benedetto! Ma da chi? L'alcoolizzato non leverà, con mano tremante, il bicchierino del liquore omicida per brindare alla vostra salute (si ride), e nella ubbriachezza, nel delirium tremens, egli maledirà, con voce cadenzata e nasale, il vostro nome; ma la maledizione che esce dalla gorga del forsennato, tra il lezzo del tabacco, del vino e dell'alcool, sarà coperta dalle voci di gratitudine, che, sui campi del lavoro, si leveranno dal desco del povero, tra il profumo dei prati e la pace della famiglia (Bravo! Bene!)...».

Conchiuse così: Narra Tito Livio che, nell'anno di Roma 550, un Marco Livio censore impose una grave tassa sul sale.

346 CAPO TERZO

Il popolo si levò a rumore, Marco Livio fu giudicato, gli fu venduto il cavallo ed il popolo, per imprimergli un ricordo obbrobrioso, gli dette il nome di Salinatore, Salinatoris inditum cognomen. Questo nome di sali nator è poi rimasto, nei nostri dizionari, come cognome dato a Marco Livio.

«I nostri onorevoli colleghi della Camera, quando veggono uniti noi del Comitato del sale, non so perché, ma ci passano dinanzi con un certo sorriso, e, con benevolo scherzo, dicono: gli amici salati. {Ilarità) — L'on. Crispi, che mi onora di tanta amicizia, con questo scherzo, a volte, mi ha chiamato sempre con benevolenza deputato salato. (Viva ilarità)

«On. Magliani, a voi non l'Italia, ma l'Europa intera, il mondo finanziario, tributano lodi giustissime e danno epiteti di alto onore; vogliate, in tanta gloria, sapervi meritare pur l'epiteto modesto di ministro del sale.»

Dopo la lode, il biasimo. Cardarelli differisce da alcuni alti papaveri della scuola medica napoletana per non essere smanioso di reclame americana. Però egli, seguendo l'esempio dei suoi colleghi, medici sommi come lui, ha permesso che l'esercizio della professione di Galeno, nelle provincie meridionali, diventasse un'industria commerciale. È una vergogna per Napoli: i medici illustri non sono ispirati dal desiderio di lenire le sofferenze dell'umanità, ma dalla brama di far quattrini. L'esercizio della così detta arte salutare è divenuto un mestiere, una speculazione. I sommi Dii dell’Olimpo medico napoletano si fanno la concorrenza — caso stranissimo nel mondo commerciale! — non diminuendo il prezzo della loro merce, ma aumentandolo.

347 COLORI E VALORI

Capozzi aumentò, pochi anni or sono, a venticinque lire il prezzo di una visita a domicilio. Subito Cardarelli l'imitò. Cardarelli, se in lui il cuore è così nobile, come forte è l'intelligenza, dovrebbe porre fine a questo scandaloso mercato.

Se De Renzi e Cardarelli sono conservatori per principii e per condotta politica, Tommasi-Crudeli è un radicale inverniciato di conservatorismo. Egli stesso ama chiamarsi un conservatore della Rivoluzione italiana. Il progresso non lo spaventa. Per conservare l'Italia sotto la forma monarchica, egli sarebbe disposto a concorrere coi radicali pel premio della più celere e vasta riforma politica — se mai un tale concorso si bandisse. Un re della repubblica italiana non lo spaventerebbe.

Venuto alla Camera nel 1874 sotto la bandiera della Destra, nel 1876 si dichiarò amico del suffragio universale. E nemico dell'influenza del Vaticano, che vorrebbe combattere con l'istruzione. È uno dei pochi che sinceramente vagheggiano la nobile utopia di un'amministrazione e di una giustizia libere dall'influenza parlamentare.

Tommasi-Crudeli è una nobile figura di uomo politico e di scienziato. Del suo valore scientifico fanno fede varii lavori: quelli, per esempio, sul colera, sul microbo difterico, sulla malaria. Dopo essere stato professore ordinario di anatomia patologica all'Università di Palermo, Tommasi-Crudeli accettò di dirigere, nell'Università romana, l'Istituto fisiologico e patologico.

Tommasi-Crudeli è stato anche soldato. Egli e il Panizza sono, fra i deputati attuali, i soli medici che abbiano combattuto per l'indipendenza nazionale.

348 CAPO TERZO

Nel 1859 fu tra i Cacciatori delle Alpi. Allorquando, nel 1860, si sparse per l'Italia la lieta novella che Garibaldi aveva felicemente eseguito il suo sbarco in Sicilia, l'entusiasmo in Toscana non fu minore che nelle altre parti della penisola. Toscano di nascita, il Tommasi-Crudeli formò con Malenchini un corpo di ottocento etruschi, e s'imbarcò per la Sicilia. In tutta la campagna prestò la sua opera di medico e di soldato. Fu promosso capitano medico a Palermo; fu ferito a Milazzo, e poi, al Faro di Messina, durante il passaggio dei volontari sul continente. Avuta la promozione a maggiore, egli continuò a combattere sino al termine dell'epopea garibaldina. Indi, ritornò alla vita privata, col grado di maggiore onorario del 77° reggimento fanteria, e con la medaglia di argento al valore militare.

Simpatica personificazione della scienza, del patriottismo e della politica fuse insieme, Tommasi-Crudeli non piglia più parte attiva alla vita parlamentare. Non ha che cinquantaquattro anni; eppure, si è di già fatto vincere dalla letargia.

Chi non sa che cosa significhi letargo, è l'on. Arcoleo. È un giovane siciliano che ha già i capelli quasi tutti bianchi. E un giovane canuto. Questa è una punizione meritata. Arcoleo si burla di tutti. I capelli si burlano di lui e della sua età!

Nato a Catania, Arcoleo è piccolo di statura, mingherlino, asciutto, ma, nel tempo stesso, agile e svelto. Non è l'ideale di una fanciulla. Però gli occhi vivaci e maliziosi ne illuminano il viso di una fosforescente luce d'intelligenza. V'è in lui qualche cosa di Adolfo Thiers.

349 COLORI E VALORI

Quando era studente a Napoli, l'on. Giorgio godeva la stima dei rompicolli. Amava i divertimenti e il gentil sesso. Insieme a Francesco Torraca e a Summonte, passava le serate nelle birrerie per fare uso e consumo della sedicente bionda bibita dei tedeschi.

Tuttavia, non tralasciava di frequentare l'Università. Vi si distinse per sveltezza d'ingegno. Era studente della facoltà di giurisprudenza, ma, contemporaneamente, frequentava la scuola di De Sanctis. Celebre era in quel tempo (187174) l'insegnamento dell'illustre critico. De Sanctis aveva saputo attirare alle sue lezioni di letteratura italiana i migliori ingegni dell 'Università. Non erano i soli studenti di lettere che accorrevano a sentirlo. Vi andavano pure studenti di legge e di medicina.

 

Nella scuola di De Sanctis distinguevansi gli allievi propriamente detti dai semplici uditori. Nel 1872, gli allievi arrivavano al numero di ottantotto. Il prof. Torraca, in occasione del secondo anniversario della morte del maestro, pubblicò la lista di quei valorosi giovani, insieme ad alcuni squarci del Libro di scuola che il De Sanctis aveva affidato appunto a lui. Tra gli ottantotto trovo, oltre al Torraca, i seguenti nomi: Giovanni Abignente, Silvio Pallotta, Celestino Summonte, Pietro Pansini, Gustavo Faucher, Raffaele Bonari, Antonio Theo, Lorenzo Zammarano, Antonio Salandra, Francesco Aguglia, Giuseppe De Ninno, Raffaele Palladino, Giuseppe Tammeo, Giorgio Arcoleo, Raffaele Garofolo, Alberto Marghieri, Gennaro Mirabelli, Luigi Marino, Giovanni Lanzalone.

Due volte per settimana il professore spiegava la lezione e clava i temi.

350 CAPO TERZO

Negli altri giorni chiamava i giovani che avevano scritto sovra gli argomenti scelti da lui, e talvolta da loro stessi, e li invitava, successivamente, a leggere i proprii lavori. Dopo tale lettura, egli sceglieva due o tre alunni, e dava loro l'incarico di preparare la critica del lavoro udito, e di esporla nella seduta prossima. Spesso voleva che la critica si facesse all'improvviso. Naturalmente, l'autore rispondeva al critico, e questi replicava. Ultimo, pigliava la parola il De Sanctis, che riassumeva la discussione, e dava il suo giudizio. La sua scuola era, quindi, una palestra non solo di coltura, ma ancora di polemica e di eloquenza. I giovani vi si abituavano non pure a pensare e a scrivere, ma anche a parlare e a discutere. Fra di essi i più distinti erano Torraca, Bonari, Arcoleo, Lanzalone, Marghieri, Salandra, Tammeo.

De Sanctis inaugurò la sua scuola il 29 gennaio 1872. Disse che la sua idea era di fondare una scuola di lavoro comune. Fin dal 31 gennaio cominciò a dar temi. Il 9 febbraio, Arcoleo lesse un suo lavoro sul 1 "intonazione degl'inni del Manzoni. Ecco come ne riferì il De Sanctis stesso:Il professore ha trovato un disegno, copia di concetti e facilità di forme. Si è riserbato di analizzare, venerdì, uno dei monologhi del lavoro.» Viceversa, questo monologo di Arcoleo non dette mai luogo ad un dialogo nella scuola, e rimase semplicemente un monologo del professore.

Quando il De Sanctis diede il tema su Pulcinella, molti furono i giovani che ne scrissero: p. e., Zamniarano, Bonari, Torraca, Arcoleo. Zammarano vide soltanto delle dissonanze in Pulcinella, che giudicava un carattere assurdo. Il professore, dichiarando di non dividere questa opinione, si riservò di confutarla.

351 COLORI E VALORI

Del lavoro di Bonari lodò la serietà e vivacità, quantunque l'autore avesse, in fondo, la stessa opinione del Zammarano. Dello scritto di Torraca disse ch'era architettonico e concepito con serietà. Venne infine la volta di Arcoleo. L'autore lesse il suo lavoro. De Sanctis ne fece la seguente relazione:Il professore nota la buona impressione che la lettura ha prodotto nella scuola: l'impressione è cosa importante nel giudicare di un lavoro. Rispetto alla forma, il professore dice che è un continuo fuoco d'artifizio, perché l'autore cerca di fare effetto. Quella forma è effetto di sovrabbondanza di vita, d'idee, d'immagini nel suo cervello. Ma egli non cerca la verità nel concetto che vuole esprimere; cerca dargli rilievo, méttendogli accanto altri concetti. Però il lavoro è tutto antitesi, somiglianze e raffronti. Come esempi di questo modo di scrivere, il professore cita Victor Hugo e Petruccelli della Gattina. Questa forma è vera, quando le approssimazioni, le antitesi, i paragoni valgono a mettere in luce il disotto del concetto, nascono dall'intimo di esso; falsa, quando si arresta all'esteriorità, alle pure somiglianze. Il professore applica questi principii ad alcuni brani del lavoro. Aggiunge che l'autore non solo ha ricchezza d'idee e d'immagini, ma anche il sentimento del vivo e del contemporaneo; non rimane in un mondo astratto; cita in prova le allusioni politiche e letterarie. Rispetto al merito intrinseco del lavoro, Giliberti osserva che, dopo la lettura, non rimane nella mente degli uditori il carattere di Pulcinella, il quale, egli crede, è piuttosto l'occasione che il fondamento del lavoro. Il professore conferma ed approva questa osservazione. Il Pulcinella, nel lavoro, è svaporato, perché il quadro è immenso.

352 CAPO TERZO

Di più, l'Arcoleo crede che la nota fondamentale del carattere di Pulcinella sia l'esteriorità. Ma anche l'idillio è esteriorità; tre secoli di letteratura italiana hanno questo carattere, che è generalissimo, non particolare del comico e di Pulcinella. Quando Arcoleo parla della trasformazione di questo carattere, dice qualche cosa di profondo. Il dire che il tipo comico dell'avvenire sarà Triboulet, significa che la commedia finisce e il dramma comincia. Quando egli dice che Pulcinella finirà nelle baracche dei burattini, si appone, in parte, al vero. In conclusione, nel lavoro di Arcoleo abbiamo molte immagini, che però non sono il concetto realizzato; c'è tendenza a dir cose profonde, quantunque non sia profondato il concetto. Ma è il migliore dei lavori fatti finora nella scuola. Alla lezione assisteva Angela Camillo De Meis.»

Laureatosi in legge, Arcoleo si ritirò in Catania; però, non vi stette che poco tempo. Aveva respirato troppo l'aria di Napoli per potersi rassegnare al piccolo ambiente della città natale. Ritornò, dunque, a Napoli, e piuttostoché fare l'avvocato, si dette all'insegnamento della letteratura italiana nell'istituto Marciano. Pareggiatosi, in seguito, in diritto costituzionale all'Università, fu incaricato dell'insegnamento ufficiale della detta materia, allorché l'on. Pierantoni, professore titolare, passò all'Università di Roma. Banditosi il concorso, la cattedra spettò appunto all'Arcoleo.

I lavori di Arcoleo in diritto costituzionale sono, forse, i più originali che finora siansi pubblicati su tale argomento in Italia. Originali, però, non tanto per il pensiero, quanto per la forma, per la quale il buon senso piglia spesso la veste del sofisma o del paradosso, Il Gabinetto nei Governi parlamentari, il Bilancio, le Inchieste parlamentari sono i principali scritti politici di Arcoleo.

353 COLORI E VALORI

Il Gabinetto è, tuttavia, incompleto. Non contiene che la parte generale. Se avesse tempo, cioè, se avesse voglia, l'on. Arcoleo potrebbe pubblicare un trattato di diritto costituzionale capace di ecclissare tutti quelli finora messi in luce. Ma... oggi, egli è deputato, e deve fare l'uomo politico. È giusto che riposi sugli allori conquistati.

La maniera in cui Arcoleo fa lezione, merita di essere commentata, quantunque non meriti ugualmente di essere commendata. Prima di salire in cattedra, tiene circolo nell'atrio universitario. Tiene un salon all'aria aperta. Circondato dai giovani, il professore comincia a dir male di tutti gli uomini che sono riusciti ad acquistare un po' di celebrità. Taiani non sa fare altro che discorsi-requisitorie; Buccina è un ammiraglio di terra; il celebre tenore S... ha la faccia del cretino; l'on. F... commette errori di grammatica, ecc. Compiendo tutto questo ben di Dio, Arcoleo non ride mai, e raramente sorride. È serio, terribilmente serio. Il volto è composto a gravità; gli occhi sono freddi e impassibili. E invece la sola voce che deride. Dopo questo antipasto, Arcoleo sale in cattedra, e fa la sua lezione. La lezione non dura molto, ma è ascoltata con attenzione, perché il professore, spesso spesso, come commento al testo, frizza Tizio o Sempronio.

Arcoleo è un parlatore facilissimo e felicissimo; ma non è un oratore nel senso classico della parola. Le sue precipue anni oratorie sono il frizzo, l'arguzia, il motto di spirito, il sarcasmo. Per il vero oratore questi sono amminicoli: per Arcoleo sono la cosa principale.

354 CAPO TERZO

Molti ritengono che Tunica mira di Arcoleo sia quella di far delle frasi. Non è vero. Le frasi argute di vengono spontaneamente sul labbro, ed egli non stenta per trovarle.

Il suo scopo è ben diverso: esso è tutto negativo: è lo scopo di dir male. L'oratore dei trattati di retorica parla per convincere. Arcoleo parla per rompere le scatole al prossimo.

L'eloquenza di Arcoleo è monocorda come la voce di lui. L'onorevole compaesano di Capuana e di Palpi sardi non è prolisso né laconico. La sua parola e rapida. Dopo Filippo Cordova. Arcoleo è il più veloce parlatore datoci dalla Sicilia.

Alla Camera l'on, Arcoleo ha due aspetti. Nell'aula fa l'uomo serio: nei corridoi ritorna ad essere l'antica mala lingua. Potrebbe, coi suoi discorsi parlamentari, suscitare ad ogni frase un fatto personale. E se volesse limitarsi unicamente ad interrompere i discorsi dei colleghi, sarebbe al caso, in una seduta sola, di smaltire tanto spirito quanto non ne smaltisce un venditore dello stesso. Invece, egli si guarda dal fare sfoggio di spirito, per tema di screditarsi. Crede di acquistare la stima dei colleghi — e senza dubbio ha ragione — annoiandoli coi discorsi pesanti. Questo e anche il motivo per cui. quando scrive pei giornali, egli si fa leggere solamente per far dormire. I suoi articoli sono privi di tutte quelle qualità che valgono a rendere meno seccante l'esercizio della lettura. La sua prosa giornalistica fa concorrenza a quella nell'Opinione.

355 COLORI E VALORI

Arcoleo esercita poco la professione di avvocato, e soltanto come civilista. Una sola volta parlò in una causa penale: nel processo Ansaldi. Era rappresentante della parte civile, e parlò bene. L'ucciso era stato suo compagno di scuola: v'era quindi un motivo infinitesimale per spremere qualche lagrima se non ai proprii, almeno agli occhi degli uditori. Manfredi difendeva l'imputato, o meglio, cioè peggio, l'imputata, — la quale, dopo l’arringa del suo difensore, volle regalarsi una tazza di caffè con brioches. Manfredi parlò meravigliosamente. Però Arcoleo sembrava impressionato più della mimica che delle parole del suo contraddittore. E quando il valente penalista, nel fervore della discussione, sbracciandosi come un Cristo crocifisso, colpì, senza volerlo, il viso di Arcoleo, questi, che sedevagli accanto, affrettossi, con comica serietà, a scostare la sua sedia e a situarsi in un punto più al sicuro dai fulmini oratorii. Ora, eccetto che in questo processo, Arcoleo non ha preso altra parte nelle cause penali.

Alla Camera non sono molti coloro che gli vogliono bene: però, tutti lo stimano. È componente della Commissione generale del bilancio, e quasi sempre relatore del bilancio di pubblica istruzione. Coppino fu da lui demolito a poco a poco.

Checché ne dicano gli emuli, bisogna pur riconoscere, in dispregio della bugia, che Arcoleo è un giovane che vale. È superficiale, — è vero; ma la sua è una superficialità originale. Arcoleo ha ingegno vivacissimo e versatilissimo, e coltura svariata, se non profonda. Se oggi gli si offrisse un segretariato di Stato, tout le monde troverebbe l'avventura conforme giustizia.

356 CAPO TERZO

Di qui a un lustro un portafogli sotto il braccio di Arcoleo sembrerà messo con più à propos che nella tasca del medesimo.

Il pregio principale (1) di Arcoleo è lo scetticismo. L'on. di Catania non ha fede, non ha alti ideali. Piglia tutto e tutti dal lato comico. Egli non ha stima neanche della scienza che insegna. Presentato una volta al generale Carlo Mezzacapo, e interrogato sul genere d'insegnamento a cui erasi dedicato, rispose:

«Sono professore di scenografia parlamentare.»

Se sta bene alla Camera, Arcoleo si trova anche meglio in un salon o in una sala da pranzo. In un salon diventa presto l'enfant gate della conversazione. Canzonatore con gli uomini, diventa ossequioso con le donne. Bisogna vederlo, quando fa un complimento ad una signora. Con gli occhi socchiusi ed abbassati, col volto compunto e modesto, col collo lievemente inclinato dall'un dei lati, pare che voglia confessarsi. Guardandolo di profilo, vi sembra un San Luigi Gonzaga qui fait la cour.

Non meno brillante è il valore di Arcoleo in una sala da pranzo. Io non credo di poter fare meglio apprezzare ai Moribondi la modestia mia e l'appetito dell'onorevole professore, se non riportando queste parole che scrissi nel libro dei Banchetti politici (2):

«Tutti conoscono l'arguto Arcoleo. Egli è un uomo di tavolino, ma è anche un uomo di tavola. Perché, se, grazie alla mente, ha molta fama, mercé lo stomaco, ha pure molta fame.

(1) In omaggio della sottintesa, avrei dovuto chiamarlo difetto. Ma... si tratta di un'Eccellenza in pectore di quel Papa infallibile che si chiama il Fato, e... un pizzico di adulazione, non bisogna trascurarlo.

(2) V. Marone e L. Brangi, I Banchetti politici. Napoli. Facco e 0. , 1888.

357 COLORI E VALORI

Arcoleo non si scoraggia di fronte a una montagna di opuscoli, di memorie, di manoscritti, di libri, di brochures; ma neanche si avvilisce di fronte ad una montagna di pigeons aux pois o di perdrix aux choux. Egli divora una pollanca con la stessa benevola premura, con la quale legge l'ultimo libro giuntogli in dono. Taglia un pasticcio di carne con lo stesso sorriso di soddisfazione, con cui taglia i panni addosso alla gente. Apre la breccia in un gateau con quell'abilità, con cui si fa breccia, allorché parla, nell'animo degli uditori. Insomma, egli compone una relazione di bilancio con l'identica facilità con cui scompone una nota di pranzo. Ecco perché, quantunque il prof. Arcoleo sia, nella Camera, relatore a perpetuità del bilancio della pubblica istruzione, un bel giorno gli autori di questa storia gastronomica si decideranno a fare il bilancio della privata distruzione da lui compiuta in tutte le cucine del Regno.» Se Arcoleo ha il piccolo pregio di non avere nessun ideale, De Zerbi ha il grande difetto di averne troppi. L'uno, sebbene meno anziano, conosce la vita meglio dell'altro. Nel tempo studentesco, Arcoleo ha amato se griser e le grisettes. Non fa meraviglia che, oggi, sia un grison — canuto. De Zerbi nei suoi anni giovanili, si è grìsé di grandi ideali. Non deve, quindi, destar meraviglia che oggi, a quarantasei anni, l'argento non abbia ancor fatto capolino fra i suoi capelli. Il tempo rispetta chi sente il pregio della vita, non chi la disprezza. Arcoleo e De Zerbi sono due anime cresciute entrambe sotto i raggi cocenti del sole meridionale; ma questo sole non ha agito su di esse nella stessa maniera: ha disseccato l'una, ha riscaldato l'altra.

358 CAPO TERZO

Rocco De Zerbi, figlio della Calabria, a diciassette anni fuggì dal paese nativo, e corse ad arruolarsi fra i volontari garibaldini. Era allora il 1860. De Zerbi stesso, nel 1883, invitato dall'on. Martini, scrisse alcune belle pagine su quella sua entrée nella vita militare, che fu pure la sua entrée nella vita letteraria:

«Io non posso dire quale fu il mio primo passo letterario, come non saprei dire quale fu il mio primo amore. Si rammenta la prima passione, ma l'amore non è sempre una passione; il primo amore lo è raramente; l'ultimo, invece, è passione sempre.

 «Cominciai la vita letteraria con parecchi aborti; avevo quindici o sedici anni di età: li facevo stampare; ma io stesso, leggendoli stampati, vedevo eh'erano aborti e ne arrossivo e cercavo nasconderli.

«Cosa notevole: erano aborti in prosa. L'aborto in versi non venne fuori che quand'io aveva già venti anni.

«Ma il primo scritto, del quale serbo memoria non ingrata, che mi fece avere le prime lodi e che fece per la prima volta apparire il mio nome in uu giornale, porta la data del 3 ottobre 1860. Questa è la prima pagina che io amo ricordare della mia vita letteraria. La seconda porta una data non meno memorabile per l'Italia: 1866. E di questa seconda pagina parlerò, se me ne capiterà l'occasione, un'altra volta.

«Avevo nel 1860 diciassette anni, ero pallido, magro, piccolo; natura nervosa e delicata. Ero cannoniere garibaldino. Portavo non la camicia rossa, ma un giacchettino bleu co' cannoni ricamati in oro sul colletto, e in capo un berretto bianco.

359 COLORI E VALORI

«Dopo la giornata del 1° ottobre, nella quale fui sotto gli ordini di un valoroso calabrese, l'Angheràr che comandava la batteria sulla strada ferrata presso al cimitero di Santa Maria di Capua, me ne andai, godendo della grande libertà che ci si lasciava, a Caserta...»

Di questo debutto militare del De Zerbi parlò pure il prof. Parisi nella Lega del Bene del maggio 1886. Egli scrisse:» La prima prosa fatta dal De Zerbi fu poetica. Dirigeva un paio di cannoni senza essere artigliere, ed in compenso aveva di scorta un uffiziale di fanteria che non conosceva il fucile. Il fatto lo ha raccontato spesso il professore Turiello, il suo complice di quella notte fra l'1 e il 2 ottobre 1860. Gli italiani vinsero, i borboniani che sapevano maneggiare cannoni e fucili, perdettero. Così fu fatta l'Italia.

«La seconda prosa, fatta dal De Zerbi, non finì meno in poesia. Cominciò con una prosaica parola sporca; finì in metro eroico. Crocco mandò a dirgli per un cafone: Di' a quel figlio del tenente che scenda. Zerbi, giovanotto, rispose: Digli che m'aspetti dieci minuti. Crocco era nella pianura coi suoi, a cavallo, Zerbi non aveva che tredici uomini, tredici soldati di linea. Li raccoglie, li fa girare per una cresta irta di sassi, inizia il fuoco dall'alto. Crocco è costretto a fuggire di galoppo, e lascia alcuni uomini sul terreno. Zerbi ha la medaglia del valore.»

Entrato nell'esercito regolare, De Zerbi vi rimase sino al 1866. Si battette a Custoza. Poi, si dimise. L'anno appresso, entrò nel giornalismo.

360 CAPO TERZO

La figura di De Zerbi è poliedrica. Il romanziere, il novelliere, il critico, il pubblicista, l'oratore, l'uomo politico meriterebbero ognuno un capitolo. Del letterato io qui non posso parlare. Vi sarebbe una doppia ragione d'incompetenza: la prima ratione loci, la seconda ratione materiae. Certo è, però, che lavori come: Il mio romanzo; — L'Ebrea; — L'Avvelenatrice; — Fausto; — Amleto», rivelano una individualità originale. La conferenza sovra Amleto, fatta al Circolo Filologico di Napoli, eccitò l'entusiasmo generale. Antonio Tari, l'illustre professore di estetica, dopo averla intesa, chiamò De Zerbi un genio.

Come pubblicista, De Zerbi occupa uno dei primi posti in Italia. Il giornale Il Piccolo», da lui fondato, e diretto sino all'anno passato, fu, per molto tempo, il giornale dell'èlite del mondo politico e letterario e dei circoli aristocratici. De Zerbi ha portato nel giornalismo una vena di poesia e di sentimento classico. I suoi articoli, mentre svolgono e spiegano con chiarezza e precisione le quistioni più astruse, sono modelli di lingua e di stile. De Zerbi, scrivendo di politica, sa sposare la fantasia dell'artista all'erudizione del dotto, la semplicità della parola alla maestà della frase, l'abbondanza dell'analisi all'efficacia della sintesi. Vera immagine del perfetto pubblicista. De Zerbi può scrivere e discutere di tutto: arte, critica letteraria, filosofia, teologia, scienze sociali, pubblica amministrazione, guerra, marina, diritto pubblico e diritto privato. Il suo forte sta nell'invadere il campo delle così dette persone tecniche, e di conquistarlo.

Polemizza di letteratura col letterato, di arte guerresca col militare, di legge con l'avvocato, e resta sempre o uguale o superiore.

361 COLORI E VALORI

Molti anni fa. ebbe una lunga polemica con Carducci su Catullo e Tibullo. Entrambi rimasero soddisfatti di sé e dell'avversario. In seguito, polemizzò di eserciti e di marina coi redattori tecnici del Diritto e di altri diarii romani, e rimase superiore. Battagliò col Ricciardi e coli' ex-guardasigilli Cortese sovra il terreno degli ordini monastici, e schiacciò gli avversari con la sua vasta erudizione di diritto pubblico e di filosofia del diritto. Quando si approvò la legge sul risanamento di Napoli, attaccò polemica di giure civile con l'on. Spirito, uno dei nostri migliori avvocati, e costrinse l'avversario al silenzio. Quando non bastano l'argomentazione e l'erudizione, lo scrittore ricorre all'ironia, ai sarcasmo e alla caricatura. Gli articoli sul famoso banchetto dei Pentarchi a Napoli sono altrettanti capolavori del genere.

Non è la penna la sola arma di De Zerbi. V'è la lingua. Tutti i pregi dello scrittore si ritrovano nell'oratore, con l'aggiunta della persona elegante e armonicamente proporzionata, del viso che spira nobiltà e simpatia, della voce melodiosa e argentina, dell'accento toscaneggiante, della parola ora piana, ora rapida, ma sempre facile, del gesto artisticamente composto e misurato. De Zerbi è l'oratore perfetto. Egli parla, nel tempo stesso, alla mente, al cuore e all'immaginazione: alla mente con l'argomentazione sottile: al cuore col movimento degli affetti; all'immaginazione col linguaggio figurato. De Zerbi sa essere tribuno e debater. e sa esserlo contemporaneamente. Sta bene nei meetings e nell'aula parlamentare, e farebbe anche ottima prova nel foro, sulla cattedra e sul pergamo.

362 CAPO TERZO

Interrotto mentre parla, l'on. I)e Zerbi risponde con prontezza e à propos, e provoca, strappa gli applausi. A Milano, accennando al fumante bagno di sangue, necessario per la riabilitazione politica e militare dell'Italia, fu interrotto da alcuni uditori radicali che di tali bagni non sentivano bisogno. Rivolgendosi subito agl'interruttori, De Zerbi citò loro le parole con cui un illustre straniero aveva significato che l'Italia si era fatta non col sangue proprio, ma col sangue straniero, e grazie alle tre celebri S: Solferino, Sadowa e Sédan. Le patriottiche parole furono coperte dagli applausi generali.

De Zerbi è uno dei pochi statisti italiani che, alla maniera inglese, abbiano fatto campagne elettorali oratorie. Inoltre, egli ha, finora, preferito di trattare le quistioni di politica generale nei meetings e nelle riunioni elettorali anziché in Parlamento. Alla Camera ha amato meglio di brillare nelle quistioni tecniche.

In Italia si ha il pregiudizio che uomo di Stato non possa essere il cultore di belle lettere. Credesi che la mancanza di studi classici e qualche originalità grammaticale siano i segni caratteristici della potenzialità politica. Orbene, De Zerbi ha dimostrato, coi fatti, il contrario. Lo chiamavano poeta; ed il poeta si mise a discutere di torpedini, di corazze, di tariffe doganali, di agricoltura, ecc. Financo la scienza medica dette agio ai presunto poeta di fare una buona prosa. Nel 1884 discutevasi, alla Camera, il progetto di legge pel servizio ausiliario della regia marina. De Zerbi prese la parola, e discusse con maestria la tesi favorevole all’elemento giovine.

363 COLORI E VALORI

Dimostrò che, meno poche eccezioni, gli ammiragli vecchi non avevano mai carpito la vittoria alla Dea Fortuna, e confutò splendidamente il Baccelli, il quale aveva voluto sostenere l'assurdo scientifico che la vigorìa della mente cresca in ragione diretta della diminuita robustezza del corpo. Ricordò opportunamente come la cellula cerebrale si infiacchisca, col tempo, a somiglianza di qualunque altra cellula. Questa brillante confutazione costrinse il Baccelli a replicare nel giorno seguente. E replicò con più estro e brio della prima volta, ma correggendo appunto la frase, che aveva dato occasione al De Zerbi di confutarlo splendidamente.

L'eloquenza della penna e della lingua non è per De Zerbi una pompa fatta soltanto per abbagliare. De Zerbi sente ciò che dice e che scrive: e ciò che sente, è la grandezza della patria. Nell'epoca nostra, in cui fiacchi sono i caratteri, accese le voglie di personali vantaggi, trionfanti le mire dell'interessato egoismo, De Zerbi rappresenta la poesia dell’ultimo atto del dramma nazionale. Se i partiti si delineassero e si distinguessero, avuto riguardo al concetto di mantenere l'Italia nella condizione di un grande Stato europeo, oppure di ridurla alla condizione della Svizzera e del Belgio, a De Zerbi dovrebbe affidarsi la leadersh del primo partito.

Dopo Walpole, il ministro del quieto vivere, l'Inghilterra ebbe il conte di Chatam, il ministro della gloria. Dopo Depretis l'Italia ha visto il Governo affidato al Crispi, il quale ha risollevato lo spirito del paese. Però Crispi nulla aveva fatto, come semplice deputato, per ringagliardire gli animi degl'italiani. Mentre egli, disgustato, boudait, De Zerbi faceva vibrare la corda patriottica nel cuore nazionale, non altrimenti che il conte di Chatam, col quale egli ha molti punti di rassomiglianza.

364 CAPO TERZO

Il dominio dei vecchi volge al tramonto. L'èra dei giovani si approssima, e la sua aurora non potrà mancare di mettere in piena luce Rocco De Zerbi.

Un Mantegazza veneto è l'on. Paolo Lioy. Nacque a Vicenza, da famiglia siciliana, nel 1836. E un naturalista ed uno scienziato eccentrico — nemico cioè del gergo incomprensibile. Lioy ci fornisce i risultati dei suoi studi scientifici nella piccante salsa di una novella. Ingegno versatile, egli è, nel tempo stesso, un letterato e uno scienziato. Scrive con eleganza invidiabile, con chiarezza e abbondanza. Siede al Centro destro dalla IX Legislatura. Il Centro è la sede naturale degli scienziati, — stavo per dire dei naturalisti. Nella politica il Liov ha portato la serenità del filosofo e l'educazione dell'aristocratico.

Lioy, fin dai primi anni, diede prova di grande ingegno. Suo padre lo considerava come un enfant prodige. Lioy, però, ha due peccati giovanili sulla coscienza: il peccato di aver fatto arrossire una sposina, e quello di aver scandalizzato il Cantù. La sposina arrossì, perché il futuro deputato, che non aveva ancora tre lustri, recitando una sua poesia, osò lodare di una signora fantastica

Del ricolmetto sen le molli nevi.

Il Cantù, poi, si scandalizzò, quando, leggendo il primo libro del giovine naturalista, scoprì che troppo arditamente vi erano svelati i misteri dell'amore. Orrore!

Lioy, fra i varii suoi libri scientifici, ne ha scritto anche qualcuno d'indole politica: p. e. , il lavoro intitolato Elettori e Deputati.

365 COLORI E VALORI

Non parla spesso alla Camera; ma, quando piglia la parola, si fa ascoltare con infinito diletto. Egli è un oratore originale.

Paolo Lioy armonizza in sé il calore siciliano e il brio veneto, l'obbiettivismo dello scienziato e l'elevatezza dell'aristocratico. Nelle tasche porta sempre qualche rarità scientifica. Mentre vi stringe la mano, con tutta probabilità egli tiene in saccoccia qualche dozzina di lucertole trappiste ovvero una piccola riserva di protei, rapiti alle grotte della Carniola. Però, le signore non si spaventino. Perché l'on. Lioy, quando deve ricevere persone di qualità, specialmente se di sesso non forte, usa mettersi un paio di guanti grisperle.

Dal Veneto, in omaggio della fratellanza nazionale, mi sarà consentito di passare in Liguria per trovarvi l'on. Adolfo Sanguinetti. Fratello di Apollo Sanguinetti, l'on. Adolfo idem appartiene al Centro, soltanto per modo di dire. In verità, egli ha tutte le qualità e i difetti della razza ligure portati all'eccesso: attività, petulanza, tenacia, assiduità, acutezza di mente. Nella discussione della legge sulle convenzioni ferroviarie, egli e il Baccarini stettero continuamente sulla breccia, prendendo la parola ad ogni articolo. Sanguinetti fece dell' ostruzionismo ferroviario, nel modo stesso che il Bonghi aveva fatto contro il Baccelli dell 'ostruzionismo universitario. Bonghi e Sanguinetti possono chiamarsi gl'Irlandesi della Camera italiana.

Spiriti arguti sono gli onorevoli Luporini e Barazzuoli. Senonché l'arguzia ha avuto tutto l'agio di vivere e crescere nel Barazzuoli, mentre, per la forza contraria dell'ambiente, è rimasta, fin dai primi passi, soffocata nel Luporini. L'on. Luporini, bravo avvocato toscano, venne alla Camera con una grande voglia non di toscaneggiare ma di toscanelleggiare.

366 CAPO TERZO

Pigliava spesso la parola, e riusciva a sollevare frequentemente l'ilarità dei colleghi. Però, avvedutosi che questi ridevano con soverchia persistenza e quasi in odium personae, se ne offese, e pigliò il broncio. D'allora in poi, brilla pel suo mutismo.

Chi muto non è, e non vorrebbe esserlo a nessun prezzo, è l'on. Augusto Barazzuoli. E della provincia di Siena, dove si parla il più puro toscano. Ha cinquantotto anni. Possiede una parlantina minuta, sottile, penetrante. Quando parla, dice un mondo di belle cose, — delle quali, tuttavia, i colleghi non si avvedono che il giorno seguente leggendo i resoconti parlamentari. Non è già (1) che i deputati si permettano di non prestare attenzione ai discorsi dell'arguto toscano. Tutt'altro! Però l'arguto sullodato ha l'imperdonabile difetto di tenere una voce poverissima. Di più, ha un volto che non ha niente di imponente e di attraente. Arcoleo guardandolo, mentre insieme desinavano al banchetto fiorentino delle associazioni costituzionali, chiamò il Barazzuoli un Cristo schiodato.

Allievo del Salvagnoli, Barazzuoli è, oggi, un illustre avvocato. Ma, prima di diventare avvocato, fu soldato della libertà. Combattette a Montanara e a Curtatone. Fu uno dei pochi toscani che aderirono per tempo al concetto dell'unità italiana con Casa Savoia. Per giovare alla causa nazionale, fece il giornalista clandestino.

Appartenente al Centro destro, è stato sempre un po' frondeur. Così nel 1873 diede il voto contrario alle misure finanziarie proposte dal Minghetti.  

(1) Questa è un'espressione favorita dell'on. Augusto.

367 COLORI E VALORI

Nel 1876 fu uno dei caporioni etruschi che spinsero i malcontenti di Destra di razza omonima a far lega con Depretis e Nicotera. Allor fu (1) che Minghetti, per vendicarsene, lo mise in berlina col sóbriquet di Agonia.

Bravi militi del Centro sono pure Maldini, Lucchini e Indelli. 11 primo è un ex-capitano di marina militare, che nelle quistioni riguardanti la sua arte parla con competenza incontestabile. Scrive di cose marinaresche nella Nuova Antologia e nel Corriere di Napoli. I suoi articoli sono dotti come i suoi discorsi; ma sono privi di brio e di vita. Lucchini, veneto come il precedente onorevole, è stato membro della Commissione pel nuovo Codice penale, ed ha riferito su di una parte dello stesso. È professore di diritto e procedura penale ali1 università di Siena. Indelli è un valore non apprezzato abbastanza. È un lavoratore assiduo ed un parlatore valente. Non sta alla Camera che dalla dodicesima Legislatura; ma è già da un pezzo un parlamentare consommé. Relatore di varie leggi, ha saputo sempre corrispondere alla fiducia in lui riposta.

Lo spazio non mi consente, per ora, d'intrattenermi del valente Lugli e del dotto Carnazza-Amari. Mi permette appena di spendere due parole sugli onorevoli Del Vecchio e Mariotti. Pietro Del Vecchio, piemontese geniale e simpatico, nacque nel 1845. Prima ancora di laurearsi in legge, andò ad esporre la sua vita per la patria. Fece la campagna dei 1866 con Garibaldi, col quale fu, poi, a Mentana nel 1867.

(1) È questa un'altra espressione prediletta dell'on. Augusto.

368 CAPO TERZO

È un ingegno versatile e una indole ardente. Appena entrato nella Camera, vagheggiò una fusione fra il gruppo Cairoli, e il gruppo Sella. Nei primi anni della sua vita parlamentare Del Vecchio prese una parte piuttosto attiva ai lavori e alle lotte dell'Assemblea elettiva. Oggi non brilla quanto prima.

Ugualmente versatile, sebbene molto più dotto e paziente, è Fon. Filippo Marietti. Marchigiano, egli ha cinquantacinque anni. Prima di essere segretario generale dell'istruzione pubblica, era commissario della Biblioteca della Camera. In quest'ufficio seppe dar prova di grande ingegno organizzatore. Egli fu il Carnot (il nonno) della biblioteca.

Non pochi lavori ha scritto l'on. Mariotti. Noto la Sapienza politica di JBismarclc e di Cavour, i Saggi di logica politica Dante e la statistica delle lingue, la traduzione delle Orazioni di Demostene. Questi lavori rivelano non già un ingegno originale, sibbene una grande erudizione e una rara potenza di assimilazione.

In politica l'on. Mariotti è uno strano impasto di tradizioni moderate e di aspirazioni rivoluzionarie. Dopo aver votato contro l'abolizione del macinato, egli vagheggia il suffragio universale, il voto amministrativo per le donne, la riforma del Senato e quella delle Opere pie. Ereditò con Rudinì l'avversione di Quintino Sella contro Depretis. Però il vecchio ministro non prese sul serio tale avversione, e mandò a regalare al nemico Filippo un beli' Orazio con magnifica legatura. Non passò molto, e Filippo divenne tanto amico di Agostino da accettare un segretariato generale.

369 COLORI E VALORI

«Il Mariotti — conchiuderò col Faldella — ha un viso granuloso, aranciato, ed ha, nell'insieme, l'aspetto di un simpatico professore; e come un preciso professore egli fiuta tabacco; perciò ha un naso professorale con lieve sentore di profumo tabaccoso, un frac nero sventolante da professore che si delizia a condurre gli scolari a passeggiate didattiche, e gli scolari si deliziano ad istruirsi passeggiando con lui. Ha poi egli stesso una foresta di capelli da scolaro, da scolaro che perda poco tempo nel pettinarsi, perché è tutto occupato nel prendere il primo premio. Visto ad una certa distanza sul palco della presidenza, abbottonato e morsicantesi i baffi neri, prende la posa e la tinta militare olivastra romagnola del suo conterraneo Domenico Farini.»

Francesco De Renzis è barone di San Bartolomeo, Questo è il titolo che gli viene dal padre. Però i titoli suoi personali sono questi: Letterato poltróne, — giornalista soddisfatto, — uomo politico dormiglione. — oratore melato, — ufficiale al riposo, — bellimbusto in posizione ausiliaria, — gentiluomo in attività di servizio.

E di Capua, ove nacque nel 1830. Era ufficiale dell'esercito borbonico, allorché venne il 1860. De Renzis disertò, e in un articolo pubblicato nel¥ Opinione, incitò i suoi compagni ad imitarlo. Accolto, col grado di tenente, nelle file dell'esercito di Vittorio Emanuele, combattette valorosamente sotto le mura di Gaeta. Grazie al suo valore, fu promosso capitano, ebbe la nomina di uffiziale di ordinanza del re, e meritò di avere la croce di cavaliere dell'Ordine militare di Savoia. Stette nell'esercito fino a poco tempo dopo la campagna del 1866, alla quale prese parte.

370 CAPO TERZO

Lasciate le armi, si diede alle lettere, e scrisse novelle e commedie. Fondò il Fanfalla insieme a Cesana e Piacentini. Il suo pseudonimo giornalistico era Scapoli. Scrisse, in seguito, nel Bersagliere e in altri diarii politici. I suoi articoli erano pieni di brio e di spirito. De Renzis non può esser chiamato pubblicista. Come l'on. Martini, egli è rimasto sempre un giornalista.

Oggi, a dire il vero, l'on. De Renzis non è neppure un giornalista. E un deputato elegante e colto, un bohemien arrivé. Quando lo fanno lavorare, i colleghi ne rimangono contenti. È stato più di una volta relatore del bilancio dell'interno, meritando elogi sinceri. È oratore felice più per Io spirito che per le idee. La voce non è bella, ma non è sgradevole: è un po' papaverica, perché cadenzata. Quando il De Renzis deve biasimare qualche suo collega o qualche ministro, lo fa con la più perfetta gentilhommerie. Depretis, rispondendogli una volta, ebbe a dire:L'on. De Ptenzis sa così bene infiorare le sue censure che le fa sembrare lodi.»

De Renzis gode, dunque, la stima e la simpatia degli onorevoli. Però, egli non può dirsi interamente con tento4. E un valente deputato, non lo nego; ma sarebbe pure un migliore diplomatico. Alla Camera sta Taene; ma starebbe meglio in una Corte. Egli ha tutte le qualità dell'ambasciatore chic. Ignora, forse, la storia diplomatica: però ei saprebbe nascondere tale ignoranza con la prontezza dell'ingegno. Ha maniere signorili, aristocratiche. Se Crispi lo regalasse al Padiscià o allo Czar non farebbe la più grossa delle sciocchezze.

371 COLORI E VALORI

Dopo un barone campano non deve sorprendere l'apparizione di quattro principi romani: Odescalchi, Ruspoli, Sciarra e Caetani. Odescalchi, il più autorevole del gruppo, nacque a Roma nel 1844. Si laureò in legge. Spirito ardente, non seppe celare i suoi sensi d'italianità. In un banchetto fece un brindisi a Vittorio Emanuele.

Il pranzo gli produsse una indigestione... politica. Nel Vaticano si andò su tutte le furie. Odescalchi, per prudenza, usci dallo Stato papale. La lontananza da Roma non fu per lui un esilio autentico. Ricco e influente, domandò di essere ammesso nella diplomazia italiana. Fu esaudito. Nel 1870 era attaché all'ambasciata di Vienna. In quell'anno, poiché l'infallibilità di Pio IX non fu buona a garantire l'intangibilità di Porta Pia, Odescalchi lasciò la diplomazia, e ritornò in Roma. Fece parte del Governo provvisorio, e, poco dopo, fu scelto a componente della Commissione incaricata di portare a Firenze le urne del plebiscito. Entrato a gonfie vele nelle lotte politiche, Odescalchi ebbe un duello con Raffaele Sonzogno, direttore del giornale la Capitale. Mandato alla Camera, sedette al Centro, e votò secondo gli dettava la coscienza o l'impressione del momento. Dicesi che cadesse in molta tristezza per l'esito del processo Luciani. Fu verso quell'epoca che intraprese un viaggio per l'Europa. Dal viaggio trasse non poco frutto intellettuale. Al ritorno, pubblicò varii scritti: Il museo d'Arte e d'Industria a Vienna; —L'Ungheria e Szechenv;— Gli studii di Roma, ricordi artistici. Quest'ultimo lavoro fu assai lodato. L'ultimo scritto di Odescalchi è un articolo pubblicato nella Tribuna, e intitolato: Passeggiando per Roma.

372 CAPO TERZO

Lo stile dell'Odescalchi è maschio e vigoroso, sebbene un po' troppo enfatico e predicatorio. Le idee sono spesso originali. Odescalchi ha una competenza speciale in cose d'arte. Aiuta gli artisti d'ingegno, ed ha una grande simpatia per Ettore Ferrari. Egli vorrebbe vedere il suo amico scultore alla testa di un Ministero delle belle arti. Odescalchi parla con calore e convinzione. Non è dotato di spirito. In compenso, sa usare l'ironia, e usarla con garbo e grazia.

Se il principe Odescalchi è competentissimo in cose artistiche, il principe di Teano, Onorato Caetani, è competentissimo nelle materie geografiche. Il padre, il vecchio duca di Sermoneta, illustre dantofilo, non credeva alla geografia. Il figlio vi crede, ed è presidente della Società geografica. Teano è laureato in legge come l'Odescalchi, e siede alla Camera dalla undicesima Legislatura. Sebbene di Destra, pure, durante il Ministero Minghetti, votò qualche volta in senso contrario al motto d'ordine di quel Gabinetto. Non piglia una gran parte ai lavori della Camera. Egli è piuttosto un valore extraparlamentare.

Il principe Emanuele Ruspoli è una nobile figura di gentiluomo e di liberale. E un ricco signore blasé. Quando a Roma governava Pio IX, il Ruspoli ebbe la gentile idea di fare propaganda unitaria. Dove stava il Papa, egli voleva chiamare il Re. Non so se Sua Santità lo cacciasse o se il principe andasse via spontaneamente. Entrati gli italiani a Roma, il Ruspoli fu eletto deputato al Parlamento. Nel 1874 gli capitò una avventura, analoga a quella capitata l'anno passato all'on. Guglielmini. Perdette il libretto di circolazione ferroviaria. Un signore, desideroso di viaggiare a spese dello Stato, lo trovò. Se ne servì. I soliti puritani in cerca di scandali propalarono l'avventura.

373 COLORI E VALORI

Si fece un processo. Ruspoli fu assolto non altrimenti che l'onorevole Guglielmini. Però l'assoluzione dei giudici togati non gli bastava. Gli bisognava anche quella dei giudici elettorali. Si dimise da deputato. Fu rieletto. Qualche anno appresso, fu fatto sindaco della capitale. Non riposò sugli allori. Lavorò per la trasformazione edilizia di Roma. Attualmente, è uno degli ecclissati.

Il principe Colonna-Sciarra (1) è entrato in Parlamento appena nel 1882. È proprietario della Tribuna — uno dei giornali più diffusi in tutta la penisola. Finora non si è distinto molto nella Camera. Però è giovane ed ha ingegno. Dicesi pure che abbia studii. L'avvenire giudicherà!

§ 6. — I Veterani.

Sommario — Paolo Ercole — Il Times dei deputati — Il Massari del settentrione — Ercole che dice la messa — Teologo e avvocato — Crucifissione a suono di campana — L'abbé récule — Il deputato frustatore — Sul palcoscenico della politica — Pietro Mazza — Mazza a Parigi — La Concordia contro il Risorgimento — Il deputato — Un po' più di luce — L'onorevole Toscanelli — Toscanelli e Fantulla — Tose anelli monaco di San Francesco — La finanza democratica — La onnipotenza della Camera — Il brillante — I ministri che corrompono — Casilda Toscanelli — Mazzarella che molesta Toscanelli — Un consiglio del cardinale di Bernis.

Paolo Ercole è un veterano del parlamentarismo. Nacque, nel 1821, in un borgo di Alessandria. Alla Camera appartiene alla schiera dei lavoratori. Ha appoggiato, successivamente, i Ministeri di Destra e quelli di Sinistra.

(1) Sciarra è di Sinistra, Teano è di Destra. Tuttavia, ho preferito collocarli nel tempio del Centro insieme al Ruspoli e all'Odescalcki. Ho sacrificato il partito, creazione della politica, alla classe, creazione della società.

374 CAPO TERZO

E il deputato ministeriale per antonomasia. È il Times dei deputati. Quando regnava la Consorteria, Ercole divenne un consorte quand-méme, e sebbene piemontese, fu caldo partigiano di Ubaldino Peruzzi. In Piemonte, per questo zelo eccessivo e patologico, diventò impopolare. Fu il Massari del settentrione. Tenuto Depretis al potere, Ercole ne divenne l'Acate. Sentì per lui sincera affezione. Ogni sera andava a pigliar posto nel ristretto entourage del defunto Premier.

Ercole non era destinato alla politica. Suo padre ne voleva fare un prete. Ercole entrò e stette in un seminario. Divenne prete e celebrò messa. Per la morte del fratello maggiore, gittò via la sottana, come Lutero aveva gittata la tonaca, Però Ercole non fece alcuna riforma. Si limitò a laurearsi in legge. Dottore in atroque jure, non si dette alle lotte del Foro. Preferì la via degli impieghi. Cletto Arrighi così narra una parte delle metamorfosi di Ercole:

«Nel 1849 il ministro Mameli lo fece applicato straordinario al Ministero di pubblica istruzione. In abito borghese, egli occhieggiava fanciulle e aspirava a lauti matrimoni. Dopo la spedizione di Crimea, s'immischiò nel comitato promotore per una spada di onore a Lamarmora. Ma quando si trattò di sedere al banchetto, nessuno avrebbe amato di tenerselo al fianco: e fu il vecchio generale Campana, che, con un'amara parola di tolleranza, permise che gli si sedesse vicino. Nondimeno, egli faceva credere nel suo circondario nativo di essere onnipotente presso i ministri. Riuscì deputato ad Oviglio. Come deputato, egli si è distinto per le persecuzioni adoperate, in nome del Governo, contro certi impiegati che non la pensavano come Peruzzi — per la croce dei soliti santi sollecitata da lui e consegnata a suono di campana al sindaco di Refrancore runa, al notaio Dolchi l'altra...

375 COLORI E VALORI

Se v'è pericolo, Io schiva. Non è molto, avendo egli offeso un giovane uffiziale, questi si diede a cercarlo per Torino; ma non poté mai mettergli le mani addosso. Stanco di questa inutile ricerca, ebbe a sclamare: «Sacre Dieu; il faut corriger son noni, et l'appeler non pas l'abbé Hercule, mais l'abbé récule.»

Ercole, dopo tanti anni di servizio, è un repertorio ambulante di giurisprudenza parlamentare. I giovani potrebbero avvicinarlo e interrogarlo con immenso frutto. Un tempo, Ercole appartenne alla categoria di quei deputati che gli inglesi chiamano ivhippers — frustatori. Questi ichippers, alla vigilia delle grandi votazioni, fanno prodigi di attività per chiamare alla Camera gli amici assenti. Ercole era adoperato da Depretis anche come strumento per scandagliare il terreno parlamentare. Quando il ministro non sapeva gli umori della maggioranza rispetto ad una quistione politica, gittava innanzi l'on. Ercole. Ercole era il termometro parlamentare di Depretis.

Adunque Fon. Paolo, se non è stato un grande attore politico, neanche si è limitato alla parte dello spettatore. Egli ha alzato la tela, ha portato le sedie sul palcoscenico, ha incipriato la parrucca del tenore o del baritono, ha messo il belletto sul volto della prima donna. Quasi sempre è stato fischiato, — e s'intende. Il pubblico è solito di accogliere con urli e fischi i camerieri di teatro, i quali, nell'intervallo fra un atto e un altro, si presentano sul palcoscenico per i necessari mutamenti. Eppure, il pubblico ha torto. Quelle operazioni non potrebbero essere fatte dagli artisti.

376 CAPO TERZO

In fondo, l'on. Ercole non dev'essere un uomo cattivo. Egli ha visto i nostri grandi uomini in veste da camera, e non si è spoetizzato. Si suol dire che per sonne rìest grand'homme pour san valet de chambre, e si dice bene. Però Ercole fa eccezione alla regola e al detto. Egli non è divenuto scettico.

Ed ora scopriamoci il capo. Noi passiamo dinanzi ad un compagno dei nostri più illustri uomini politici. Chi nomina Pietro Mazza, deve rammentare, nel tempo stesso, il La Margherita, di cui quegli fu allievo nella pratica forense, — il Valerio, insieme al quale scrisse nella Concordia, — il Depretis, di cui fu intimo amico,il Lanza, del quale fu segretario particolare.

Mazza è deputato dalla Legislatura, ed è, oggi, consigliere di Stato. Nacque nel 1821 a Voghera. A ventun anno era già avvocato. Pare che non avesse grande propensione per la professione legale. Grande era, invece, la sua inclinazione al giornalismo. Nel 1845, a ventiquattro anni, lasciò Torino per ritirarsi a Parigi. Era, allora, ultrademocratico, e fu ricevuto come collaboratore in diversi giornali radicali della capitale francese. Nel 1847 fece ritorno in Piemonte.

Fondatasi dal Valerio la Concordia — che, viceversa, poteva chiamarsi la Discordia, — Mazza entrò a collaborarvi. La Concordia iniziò molto bene la sua vita, mettendosi a battagliare col Risorgimento, l'organo di Cavour. Senza iperbolizzare, si poteva dire che i democratici si mantenessero in Concordia contro il Risorgimento. Il Mazza, trasportato dalla corrente, polemizzò non meno vivacemente degli altri compagni di redazione.

377 COLORI E VALORI

A poco a poco, il Mazza si staccò dal Valerio. Lasciò la Concordia per il Progresso — il giornale di Depretis. Alcuni biografi fanno coincidere questo passaggio da un giornale a un altro con la conversione di Mazza al Centro Sinistro, e aggiungono che, eletto deputato nel 1855, l'ex-amico di Valerio fosse, sul principio, dell'opposigione-ultra, e che dopo il connubio, divenisse ministeriale. Queste assertive non possono essere esatte. Basta osservare che il connubio era avvenuto fin dal 1852 per convincersi della necessità di un po' più di luce.

L'on. Mazza, allorché nel 1860 si discusse il trattato di cessione di Nizza e Savoia, propose che si conservassero agli studenti di quelle provincie i sussidii di cui già godevano, e agl'impiegati le pensioni delle quali fruivano. Nel 1864 divenne segretario particolare del ministro Lanza. Fatta la sua evoluzione verso il Centro, accettò di essere consigliere di Stato. Fu, quindi, più logico di Amedeo Ravina, il quale, mentre era ancora dell'Estrema Sinistra, aveva accettato la stessa carica, per lasciarla pochi anni appresso.

Se l'on. Mazza scrivesse i suoi Ricordi. farebbe opera buona e patriottica.

Chi può definire che cosa sia Pon. Toscanelli? Nel 1862 scriveva di lui il Petruccelli:Il signor Toscanelli, ex-uffiziale di artiglieria all'assedio di Venezia, capo del partito del movimento, giovane ardente e fantastico, molto competente in cose agricole, pubblicava non ha guari un delizioso, spiritoso ed interessante libro sulle cose e classi agricole della Toscana.

Sinistra, pur rimanendo lo stesso in religione. Non potendo ottenere che Roma fosse restituita al Papa.

378 CAPO TERZO

Secondo queste notizie del Petruccelli, l'arguto deputato toscano doveva essere, nel 1862, un fior di liberale. E, infatti, egli apparteneva alla Massoneria. Ma, nel medesimo tempo, apparteneva a un ordine monastico, anzi a due, e propriamente all'ordine benedettino e al francescano. Toscanelli frate? Perfettamente. Un figlio di Adamo con la tunica di uffiziale e la tonaca fratesca, con il medaglino di deputato e la medaglia di San Benedetto, con il grembiale massonico e il cilicio di San Francesco — ecco, in fede di Fanfulla.

Quando popolo era anche un reverendo rappresentante di San Francesco e di San Benedetto, i massoni gridarono come tanti galli calpestati. Un frammassone non poteva essere un frate. La Loggia massonica di Pisa bandì ai trentadue venti:... che il deputato Toscanelli, il quale è membro della Massoneria, ricevuto in una Loggia di Torino, si è reso indegno di appartenervi, non solo per le massime propugnate in Parlamento intorno alla soppressione delle corporazioni religiose, ma più ancora perché risulta, da fonte autorevole, essere iscritto fra i terziarìì degli ordini benedettino e francescano.» Dopo questa condanna il liberalismo di Toscanelli entrò in agonia.

Molti anni sono passati dal 1864 fino ad oggi, e l'onorevole fraticello (fraticello per modo di dire) ha successivamente amoreggiato con la Destra e con la Toscanelli vorrebbe che Umberto I andasse, per le vie della capitale, a braccetto di Leone XIII.

379 COLORI E VALORI

Cattolico di religione, papalino in politica, libero scambista nelle questioni economiche, Toscanelli è radicale nella questione sociale. Parteggia per la finanza democratica. Per lui, chi ha il superfluo dovrebbe darlo forzatamente e per virtù di legge a chi manca del necessario.

Toscanelli, se crede nell’infallibilità del Papa e nell'onnipotenza di Dio, crede pure nell'onnipotenza della Camera dei deputati. Il 23 aprile 1887, appoggiando la proposta dell'Estrema Sinistra per far rimandare al guardasigilli la petizione a favore di Cipriani, aggiunse che non lo spaventava la res judicata. La Camera non è impotente a provvedere. Fuorché cambiare un uomo in donna, essa può tutto. Il potere legislativo è potere sovrano.» Così, secondo l'onorevole Toscanelli, la Camera può cambiare una donna in uomo. La teoria è molto ardita, e bisognerebbe sottoporla all'esame di Sua Santità.

Toscanelli non ha coltura profonda, ma l'ha svariatissima. Possiede un ingegno versatile. Non può esser chiamato dotto in tutto, ma può ben dirsi edotto di tutto. Discute di qualsiasi materia, e appresta alla Camera qualunque vivanda, sempre in una salsa piccante di spirito e di sali attici.

Se l'animo di Toscanelli fosse così maligno come è mordace la sua lingua, — a quest'ora l'onorevole possessore della medesima si troverebbe all’altro mondo. Appunto perché lo si conosce per una buona pasta di uomo, non lo si molesta per l'eccessivo spreco di maldicenza. Toscanelli non ha avuto mai un duello.

Nella Camera fa la parte del brillante, — e i colleghi trovano la cosa abbastanza naturale.

380 CAPO TERZO

Il male succede quando il brillante vuole fare una parte seria, e censurare il prossimo con aria di convinzione. Una volta, nei corridoi della Camera si pose a gridare che tutti i ministri dell'interno avevano usato mezzi di corruzione. — Non tutti — disse pacatamente il Nicotera, che per caso di là passava. — Sì, tutti! — replicò il toscano con maggior furore. Uno scandalo pareva inevitabile; ma, per buona fortuna, s'interposero amici comuni.

Toscanelli è l'oratore più spiritoso e festoso della Camera. Anche altri oratori hanno il dono dello spirito; ma il loro è uno spirito senza frastuono e fronzoli. In Toscanelli lo spirito si rivela come un fuoco di artifizio e con un continuo scoppiettìo. Un discorso toscanelliano fa la sua entrata come quelle carrozze che tornano a Napoli dalla festa di Montevergine, con nacchere, sonagli e tamburelli.

Quando parla Fon. Toscanelli, il Presidente sta continuamente all'erta. L'oratore va di palo in frasca. Il Presidente l'ammonisce. Quegli si scusa, retrocede, si avanza di nuovo, e torna a dire, sotto altra forma, ciò che aveva detto prima. Vi ricordate di Gasilda nel Buy-Blas? Orbene, Toscanelli fa la parte di Gasilda, e il Presidente, quella della vecchia duchessa.

Una raccolta dei discorsi toscanelliani formerebbe un volume pregevole. Saccheggiandoli, un onorevole novellino potrebbe farsi ritenere un uomo di spirito. Quando viveva il brioso Mazzarella, e Toscanelli, chissà per quale motivo, voleva posare da oratore serio, succedevano talvolta scene deliziose. Scelgo la seduta del 5 giugno 1878.

381 COLORI E VALORI

«Toscanelli (che, parlando da un pezzo, ha inteso ma non capito una interruzione del Mazzarella) — Prego l'onorevole Mazzarella a non interrompere (Ilarità)

«Ma che cosa ha fatto la Sinistra per screditare i Ministeri di Destra? Ha detto che la Destra invadeva le prerogative del potere legislativo, esagerando le attribuzioni del potere esecutivo. Ma lo dicevamo sul serio o no? (Ilarità vivissima). Noi combattevamo l'operato della Destra; dunque, dobbiamo guardare al caso in se stesso, e non ci dobbiamo perdere con alcuni atti dei nostri avversari (Interruzione dell'onorevole Mazzarella) Faccia il piacere, Mazzarella, stia zitto (Viva ilarità).

Pres. — Prego l'on. Mazzarella a non interrompere, e, nello stesso tempo, prego l'on. Toscanelli di non apostrofare i suoi colleghi.

Toscanelli. — Eh?

Mazzarella. — Non vuole parlare sul serio.

Pres. — La prego, non interrompa.

Toscanelli. — Io non raccolgo l'interruzione poco conveniente dell'on. Mazzarella, per ragioni che facilmente comprenderà tutta la Camera... Dunque a che punto era? (Ilarità).

Mazzarella. — Un po' di serietà!. . .»

Come Dio volle, il brioso interruttore si rassegna al silenzio, e l'oratore potè continuare la sua arringa.

Oggi Toscanelli non ha più chi l'interrompa, perché il povero Mazzarella è morto. Egli seguita a rallegrare la Camera coi suoi discorsi lepidi. Lepidi sì, ma non vuoti. L'allegria non è un peccato né un malanno.

382 CAPO TERZO

Il cardinale di Bernis raccomandava a Voltaire, che era sempre di buonumore, di custodire la sua verve come la pupilla del suo occhio: Gardez-la comme la prunelle de votre ceil.

§ 7. — I novellini.

Sommarlo. — Summonte — Il fascino degli occhi— Il discendente dello storico e la curiosità dì De Sanctis — il professore — Il conte Giusso — La coalizione del 1S78 — La testa di ferro — Il Banco di Napoli italianizzato — Torraca — La metamorfosi di Torraca — La preoccupazione di Sorrentino — Un colloquio con Depretis — Il dovere degli elettori — Rosa no — La sua giovinezza — Il piccolo Fouché — Rosa no che si dimette — Una lista monstre — Il valore politico di Rosano.

Summonte nacque in Volturara Appula nel 1853. Ha, quindi, appena trentacinque anni. Di statura piuttosto alta, di costituzione snella e magra, di volto regolare e simpatico, cui dà maggiore attrattiva la nera barba, egli esercita su quanti ravvicinano una influenza magnetica col fascino degli occhi. Gli occhi suoi non mandano lampi di sdegno né scintille di orgoglio. Diffondono, invece, un torrente di luce serena — luce d'intelligenza e di bonheur, di benevolenza e di sicurezza. Summonte è di quegli uomini che ispirano fiducia fin dal primo momento.

Giovine ancora, le sventure domestiche sono venute a colpirlo. Pure, il suo animo è rimasto lo stesso. La misantropia non lo ha vinto. Anche presto gli onori son venuti a trovarlo. Ma non lo hanno reso superbo, Summonte sa nascondere i proprii dolori; sa dimenticare la rapida sua fortuna.

383 COLORI F, VALORI

È un allievo di De Sanctis. Il De Sanctis, allorché faceva l'appello dei suoi discepoli, giunto al nome di Summonte, talvolta si fermava per chiedere al giovine se fosse discendente del celebre storico omonimo. E il giovine rispondeva:Così ho inteso dire nella mia famiglia. Contemporaneamente studiava legge. Per accoppiare la pratica alla teoria, mentre era ancora studente, si ascrisse alla sezione giuridica dell'Associazione degli scienziati letterati ed artisti. Era questa una palestra, nella quale i giovani si esercitavano nello studio delle quistioni forensi e nelle discussioni. Summonte fu tra i più assidui, solerti e intelligenti lottatori.

Laureatosi in legge, fece per breve tempo la pratica nello studio dell'avvocato Luigi Janigro. Poi, cominciò ad esercitare la professione per proprio conto. Non incontrò, sul principio, molta fortuna. Un po' seccato e sfiduciato, fece gli esami per essere ammesso in magistratura, e fu nominato pretore. La nuova carriera non gli piacque. Egli era nato per lottare più che per giudicare, per agire più che per guardare. Si dimise da pretore, e ritornò ad esercitare la professione. Nel 1880 si espose a pubblica prova pel pareggiamento in diritto amministrativo presso l'Università di Napoli. Riuscì. Cominciò ad insegnare.

In una Università, dove professore ordinario della stessa branca giuridica era, ed è tuttora, il Persico, l'insegnamento del nuovo professore parve una cosa ardita e indovinata. Persico, bravissimo letterato, conosce, senza ombra di dubbio il diritto, e, forse, sa pure qualche cosa di amministrazione. Però non sa il diritto amministrativo. Il suo è un diritto amministrativo au jus poetique. Summonte arditamente inalberò il vessillo della riforma.

384 CAPO TERZO

Con franchezza disse dalla cattedra quale era lo stato in cui trovatasi l'insegnamento del diritto amministrativo, Non nascose le difficoltà né importanza del compito impostosi. Dichiarò di voler fare cosa nuova, e se ne vantò con giovanile baldanza.

I suoi principali lavori sono: Il discorso di riforma comunale e provinciale presentato dallo? Nicotera: — Le sottoprefetture in Italia: — Il contenzioso amministrativo e le sue vicende: — Annotazioni alla legge comunale e provinciale del 1865: — La riforma della legge comunale e provinciali. Questi due ultimi lavori sono importantissimi. Nelle trentacinque pagine, che compongono il secondo scritto, sono con mirabile sintesi e chiarezza discusse le precipue quistioni riguardanti il nostro ordinamento amministrativo. Summonte parte dal principio che la buona prova degli ordini costituzionali sia in ragione diretta della libertà del Comune e della Provincia, e che una forte e bene intesa organizzazione locale sia la base più solida e sicura di feconde riforme politiche. In concreto. poi. trova che nella legge del 1865. a prescindere dal sistema anfibio che partecipa dell'accentramento francese e del discentramento belga, manchi una base solida per una forte organizzazione amministrativa. Il libro sulle annotazioni alla legge del 1S65 è un commento utile ad essere consultato non solo dallo studente, ma ancora dai cultore di scienza amministrativa. L'autore non si limita alla dottrina e alla giurisprudenza nazionali. Egli spinge il suo sguardo al di là delle Alpi. Appena pubblicato, il commento ebbe un non piccolo successo. Oggi, difficilmente se ne potrebbe più trovare una copia.

385 COLORI E VALORI

Come avvocato, il Summonte ha un non scarso numero di clienti. Discute bene e con garbo. È chiaro, sintetico, preciso. Gli mancano, però, la potenza della voce e la scenografia del porgere. Membro del Consiglio comunale di Napoli, egli fa parte della Giunta, e tiene il ramo dell'istruzione. Dotato di mente fredda, di rara attività, di vedute pratiche, di colpo d'occhio e di squisito tatto, Summonte ha molte delle qualità dell'amministratore.

Nella Camera, nella quale è entrato nel 1886, Summonte gode già la stima dei colleghi. Non ha fatto ancora il suo maiden speech. Egli è prudente. Sa che gli oratori novellini devono misurare e riconoscere bene il terreno.

Dal Summonte i cultori di scienze giuridiche si attendono l'adempimento di una promessa: un trattato completo di diritto amministrativo in cui sia particolarmente sviluppato il concetto delle modificazioni che la pubblica amministrazione arreca agli istituti di diritto privato.

Un altro consigliere comunale di Napoli è l'onorevole Girolamo Giusso. È conte ed è ricco. Ma le sue ricchezze e la sua nobiltà datano dal padre, non dagli avi. Suo padre, oriundo genovese, fu un celebre e fortunato banchiere.

Giusso comparve sulla scena politica nel 1878. In quell'anno, a Napoli, i liberali malcontenti dettero un amplesso ai clericali, e insieme rovesciarono il Sandonato, allora Sindaco della città. Nel nuovo Consiglio municipale, surto dalla coalizione, i voti dei coalizzati si raccolsero sul conte Giusso, che venne scelto ad assessore anziano. Così lo indicavano al Governo come Sindaco. Giusso allora era poco conosciuto.

386

Si disse, e si ripete tuttora, che l'accordo sul suo nome fosse stato motivato dal bisogno di fondare un'amministrazione onesta e corretta. Non è vero. I partiti non hanno mai aspirazioni tanto elevate. Giusso fu portato sugli scudi sia perché, come uomo nuovo, non suscitava gelosie, sia perché, secondo parecchi dei suoi sostenitori, egli doveva essere una marionetta, una testa di ferro. Non lo conoscevano. Del ferro v'era, in Giusso, ma nel carattere. Giusso affermò la sua personalità. Scosse il giogo dei protettori, e volle realmente attuare il programma col quale era salito al sindacato. Diminuì il disavanzo, e aumentò d’assai il credito del Municipio. In quest'opera dimostrò molta abilità finanziaria e amministrativa. Tuttavia, non bisogna esagerare i suoi meriti. Giusso avrebbe operato un miracolo, se, conservando le spese così come le aveva trovate, avesse nel tempo stesso, e senza aggravare di molto i contribuenti, raggiunto lo scopo di colmare il deficit Questo sarebbe stato un miracolo, — e non avrebbe potuto farlo né Giusso né altri. Giusso, invece, diminuì le spese, interruppe i lavori di risanamento edilizio iniziati dal Sandonato, e introdusse il sistema delle economie fino all'osso. Fu il Sella — seconda maniera — del Municipio di Napoli. Egli ebbe il buon senso e l'onesta accortezza di pigliare sul serio quel programma di economie ch'era stato la bandiera ma non lo scopo della coalizione.

Il sindacato rese il Giusso noto a Napoli. L'attentato Mansione lo fece conoscere all'Italia e alla Corte.

Fin allora si era ritenuto che Giusso fosse un timido finanziere, un Colbert municipale, un routinier volontario, un burocratico fuori dei quadri.

387 COLORI E VALORI

Nella colluttazione ch'ebbe coi Mangione apparve sott'altro aspetto. Giusso si rivelò come un gentiluomo inglese a cui non fosse ignota l'arte del boxer.

Nel tempo stesso che gli avvenimenti mutavano l'opinione pubblica verso Giusso, trasformavano pure l'opinione di Giusso riguardo al nuovo ordine di cose. Giusso, il cui padre era stato creato conte per volere di Sua Santità il Papa, entrò nell'amministrazione di Napoli come un clericale. Ne uscì da italiano. E questa italianità egli ha saputo infondere nelle vene di quel vecchio Istituto che è il Banco di Napoli. In qualità di Direttore generale, Giusso ha voluto che il Banco avesse succursali in tutta la penisola. Di più il credito agrario e il credito popolare sono da lui propugnati con assidue cure.

Siede alla Camera da una sola Legislatura. Appena entratovi, fu chiamato a far parte della Commissione generale del Bilancio. Non è oratore. E un elemento utile. Egli e il Branca sono i due finanzieri più noti della deputazione meridionale del continente.

Da una sola Legislatura siede pure nella Camera Michele Torraca. Ha quarantotto anni. E della Basilicata, e propriamente di Pietrapertosa.

E un pubblicista versato assai nel diritto pubblico; ma pare che le sue conoscenze non vadano molto in là. Scrive con correttezza e stile purgato. Però non ha forma smagliante e immaginosa. È monotono, e talvolta noioso. I suoi articoli filano come i sillogismi. Spesso, come i sillogismi, fanno dormire.

Politicamente, l'on. Torraca si è reso celebre come trasformista. Prima di diventare trasformista, egli aveva sùbito ben altre metamorfosi. Doveva esser prete. Il seminario di Matera lo teneva fra i suoi ospiti a corso forzoso.

388 CAPO TERZO

Torraca non volle saperne di servire Iddio. Venne a Napoli. Il mancato servo di Dio si atteggiò a servo del Popolo. Si fece repubblicano. Scrisse nel Popolo d'Italia — giornale di Mazzini. Così fu battezzato pubblicista. Passò nella Nuova Roma; poi nella Libertà. La Libertà non lo contentò. Lo accolse il Pungolo. Frattanto la sua bandiera politica aveva subito parecchi mutamenti di colore. Dopo il nero del prete, il rosso del repubblicano. Dopo il rosso, eccoci al tricolore della dinastia savoina. Torraca era divenuto seguace della Sinistra monarchica. La Sinistra autentica non riusci ad avvincerlo al suo carro. Torraca, seguitando la passeggiata, incontrò una, pseudo-Sinistra. La pseudo-Sinistra era guidata da Sorrentino e da Abignente. Era soprannominata: L'Associazione degli Spagnuoli. Torraca abbracciò gli Spagnuoli.

Nel Bollettino napolitano, organo del neopartito, Torraca sfogò tutta la bile del suo fegato. Vi si perfezionò nell'arte del polemista. In due libri: Politica e Morale e I Meridionali alla Camera, egli completò la manifestazione delle sue idee riguardo agli uomini politici del Mezzogiorno. Disse molte cose inesatte, molte verità. Divenne inviso, odioso al maggior numero. Qualche suo compagno di lotta venne aggredito. Torraca fu minacciato. L'aria di Napoli non era più per lui. Egli stesso desiderava uscirne. Nel 1880 gli fu offerta la direzione del Diritto. Torraca accettò. L'on. Sorrentino si augurò di vedere il suo amico anche a Roma sostenitore degl'interessi di Napoli.

389 COLORI E VALORI

Perché ciò fosse possibile, era necessario che l'amico, pur dirigendo il Diritto, organo ministeriale, non divenisse un depretino anima e corpo. Sorrentino consigliò, quindi, a Torraca di non avvicinare mai Depretis. Torraca conservava ancora le abitudini di un provinciale. Impacciato e rozzo come un seminarista in vacanza, egli poteva, in una sola conversazione col Depretis, vecchio divoratore di uomini politici, perdere tutta la sua ingenuità. Una conversazione poteva equivalere ad una conversione. Sorrentino non disse ma certamente pensò alla frase pronunziata dal conte d'Artois dopo la prima, conversazione con Talleyrand; J'ai perdu ma virginité Torraca andò a Roma. Per un certo tempo si astenne dal vedere Depretis. La cosa non poteva durare. Il direttore di un giornale ministeriale non doveva conoscere il suo ministro? Torraca conobbe l'ingegnere Maraini, ex-direttore del Diritto ed amicissimo del Presidente del Consiglio. Maraini vinse gli ultimi scrupoli del giovine provinciale. Torraca vide Depretis, gli parlò. Ne divenne amico, ma dimenticò Napoli e i Napoletani. Il avait perdu sa virginité.

Quando il Diritto fu venduto ad un gruppo di banchieri francesi, Torraca lasciò quel giornale. Divenne, in breve, direttore della Rassegna — organo di Sidney Sonnino, fratello e compagni. La Rassegna morì nel 1880, e da allora in poi il suo ex-direttore non è entrato a far parte della redazione di alcun altro giornale. Ora è un giornalista nomade (1).

Dall'86 Torraca è deputato. E giunto un po' tardi alla Camera.

(1) Avevo già scritto queste parole quando i giornali hanno annunziato la. sostituzione di Torraca al D'Arcais nella direzione dell’Opinione. Quanto cammino dall'Italia del Popolo al l'Opinione!

390 CAPO TERZO

I suoi compaesani gli fecero soffrire un Purgatorio elettorale così lungo per punirlo delle tra sformatimi a vapore. Repubblicano, nicoterino, spagnuolo, depretino, trasformista, rassegnato, centralista destreggiante,— che cosa non è stato l'on. Torraca? Forse noi lo vedremo percorrere tutta intera la via del conservatorismo. Chissà! Torraca potrà divenire clericale, e, infine, indursi a pigliare quell'abito ecclesiastico che doveva indossare negli anni giovanili. Questo non sarebbe mica un paradosso di Max Nordau.

Si sa bene: On fait toujours retour à son premier amour.

Torraca, alla Camera, è ritenuto un buon giovane. Tale rimarrà. Parla senza grazia di stile e fosforescenza di concetti. La sua parola è lenta e scolorita. Non v'è alcuno che ne contesti l'ingegno. Pure, nessun uomo politico gli affiderebbe un portafogli o un segretariato di Stato. Un Gabinetto, che avesse nel suo seno il Torraca, vedrebbe contro di sé scatenarsi le ire degli stessi amici.

L'antipatia di cui è onorato l'on. Michele, è spiegata dall'indole dell'uomo. L'ex-redattore Italia, del Popolo è orgoglioso e sprezzante. Egli sente la voluttà dell'impopolarità. È un Bonghi in diciottesimo. Senza necessità, egli ama di mettersi contro la corrente. Quando Oberdank fu impiccato a Trieste, grande fu l'indignazione degl'Italiani. Orbene, Torraca scrisse un articolo acre contro gl'irredentisti. Ne segui un duello. Torraca venne ferito gravemente alla testa.

In una nuova convocazione dei comizi, gli elettori faranno bene a non rieleggerlo. Rientrando nella vita del giornalismo, Torraca potrà darci nuove prove del suo valore di polemista, e forse meditare e stampare qualche altro libro fortemente pensato.

391 COLORI E VALORI

Alla Camera si sciuperà. Egli non diverrà un grande oratore né un grande stratega parlamentare. Non sa parlare né sa intrigare. Per lui l'aria della tribuna è troppo alta,, quella dei corridoi è troppo bassa.

Pietro Rosano sta da più di una Legislatura alla Camera. Pure, egli non si è ancora orizzontato abbastanza nel vasto ambiente di Montecitorio. Metterlo quindi, tra i novellini non è uno sproposito troppo grosso dal punto di vista della grammatica parlamentare.

Rosano è uno dei più valorosi penalisti del Mezzogiorno. Eloquenza calda ed enfatica. Voce forte e chiara. Alto e robusto come un granatiere, egli porta sul volto l'impronta di una vita travagliata. Non è bello, ma la sua figura è interessante. La guancia sinistra è antiestetica, e lievemente contorta. Rosano soffre di epilessia, e una volta ne fu colpito mentre parlava sul feretro di Beniamino Caso.

Giovanetto, studiò presso i gesuiti. Giovane, menò vita discola e scapestrata. Stette a Milano, ove fece il giornalista. Tornato a Napoli, s'innamorò di una distinta signorina. La chiese in moglie. La famiglia di lei si oppose. Disperato, Rosano tentò togliersi la vita. Si tirò un colpo di pistola all'orecchio sinistro. Guarì per capriccio della sorte. L'amore lo trasformò. Laureatosi in legge, Rosano entrò nello studio dell'avvocato Amore. Vi si distinse. Vi si ammaestrò. Divenne, in breve, illustre avvocato. È insuperabile nelle arringhe davanti ai giurati.

Dinanzi alla Cassazione non vale neanche un borderò di rendita turca. Tuttavia, anche dinanzi ai giurati, non è sempre uguale a se stesso.

392 CAPO TERZO

Si può sentirlo con piacere al principio dell'arringa, o dopo che si è riposato. Quando, stanco e sfinito, vuole continuare a parlare, la parola gli vien fuori con un po' di stento, e la sua voce acquista quella espressione canina che è così comune fra i penalisti napoletani.

Nell'80 si presentò come candidato alla deputazione politica nel collegio di Aversa. Doveva combattere Golia. Non riuscì. Il suo programma era stato di Destra. L'insuccesso fu semicolossale. Fece concorrenza a quello del famoso Affondatore del 66. Nell'82 si ripresentò. Il suo colore non era più quello di mima. Era centralista. Dopo qualche settimana venne l'annunzio del discorso stradellino. Rogano si dichiarò di Sinistra ministeriale. Entrò in una stessa lista con De Renzis. Pure, non sentivasi sicuro. Secretamente tornò ad amoreggiare con la Destra. Così fruì dell'appoggio del Governo e dell'appoggio dell'Opposizione. Riuscì. Piccolo Fouché egli aveva saputo abilmente giuocare di bascule.

A Roma, Rosano si trovò presto a disagio. Della lista ministeriale non erano riusciti che Rosano e De Renzis. Ora, De Renzis non voleva sentirne di seccature elettorali. Per infallibile conseguenza, gli elettori seccavano, in massa, il neodeputato. Una pioggia di lettere, suppliche et similia si riversò sul capo del povero Rosano. Si aggiunga che fra gli elettori o tra i loro parenti, accadeva non rare volte che si verificasse qualche caso di delinquenza. Orbene, i delinquenti sovrani correvano dal loro deputato per farsi difendere. E la difesa doveva essere gratuita. Non pensavano neanche per ipotesi suborclinatissima al pagamento del compenso.

393 COLORI E VALORI

Pensandoci soltanto, avrebbero temuto di offendere la delicatezza dell'onorevole. Era questo un mestiere che non poteva andare. Rosano si seccò. Un bel giorno si dimise. La Camera non accettò le dimissioni. Preferì somministrare al dimissionario il solito brodetto dei tre mesi di congedo. La rassegnazione non si fece strada nell'animo di Rosano. Questi era deciso di ripresentare la sua domanda di dimissione alla riapertura della sessione. La eroica determinazione si fece strada fra gli elettori. La successione politica di Rosano fu dichiarata aperta. Parecchi eredi si prepararono a raccoglierla. Ma homme propose et Rosano dispose. L'onorevole compagno di De Renzis decise di non pubblicare più la seconda edizione delle sue dimissioni. Però gli avvisi (per così dire) erano stati diffusi. In quale modo giustificare tale changement de scène? Il problema pareva insolubile più della quadratura del circolo. Ciò non pertanto, la via fu trovata. Nel collegio cominciarono e ad un tratto si udirono lamenti, proteste, suppliche. Era l'ouverture del gran pezzo sinfonico intitolato: Il deputato disertore. Rosano voleva dimettersi? —E per ché? — Questo, decisamente, non doveva permettersi! — Il deputato non doveva abbandonare i suoi elettori! — Gli amici, a loro volta, cercarono di commuovere gli operai. Si voleva che piangessero di dolore. Ma gli operai avevano il cuore di pietra. Essi avevano già scelto il loro candidato nella persona del Petronio. Eppure, era necessario che i sodalizi operai pigliassero parte alla grande dimostrazione. Si spedirono ambasciatori presso la Confederazione operaia centrale di Napoli. La Confederazione doveva indurre le Società consorelle di Terra di Lavoro a far quanto non volevano fare.

394 CAPO TERZO

Il tentativo riuscì in parte. Nel collegio di Sessa si formarono liste monstre d'indirizzi. Firmarono financo molti alunni di classi elementari. L'ingerenza dell'elemento operaio napoletano indignò la maggioranza degli elettori. La commedia non riuscì. Tuttavia, Rosano non insistette nel pensiero di dimettersi. Giustificò la sua ritirata, dicendo che rimaneva al posto per disciplina di partito.

Dopo il Calvario, venne la Risurrezione. Non proprio al terzo giorno, ma venne. Oggi il Rosano è il più influente deputato del collegio. Con abile tattica elettorale egli ha spesso procurato di rendere favori financo agli elettori contrari.

 

L'on. Rosano non è uomo politico. Non ha fede in alcun principio. Fra i deputati è rimasto un avvocato; fra gli avvocati, un penalista. La sua coltura è limitata. Alla Camera parla raramente. Il suo recente discorso contro la Cassazione unica ha sollevato molti rumori in Parlamento, ma nessun rumore nel paese. L'oratore ha detto qualche dura verità, ma la mancanza di abilità ha sciupato il buon effetto che le sue parole potevano produrre. Rosano non è oratore parlamentare. Sulla scena politica non rappresenterà alcuna parte importante.

SEZIONE QUARTA

I Militari.

Sommario. — La paura di Joseph Prudhomme — 11 militare italiano — Tradizioni parlamentari — Ricotti e Bertolè-Viale — Il valore brillante di Ricotti — Bertolè organizzatore — Ricotti ministro — L'abolizione del tamburo — Il torto di Ricotti. — L'avvenente ministro — La vieillesse dorét — Gevmet — Zanolini — Gandolfì — I generali africani — Ricci e Pozzo lini— Il fato apatico — Il valore brillante di Ricci — Il maestro del Re — Ricci poeta.

I militari non possono formare un partito, né essere uomini di partito. Così almeno impone l'ipocrisia parlamentare. Ecco perché io li considero indipendentemente dalla divisione topografica della Camera.

Milizia e politica sembrano a molti inconciliabili. Il soldato politico è lo spauracchio di ogni Joseph Prudhomme del costituzionalismo. La paura non è tanto infondata specialmente per noi di razza latina. In Inghilterra il militarismo parlamentare non ha tradizioni. Cromwell, appena, vi s'illustrò. Ma vi s'illustrò in senso negativo. Egli pulì la Camera con la scopa. Il dùca di Wellington fu un uomo politico son malgré, e mai divenne un buon parlamentare. 11 solo colonnello Barre lasciò fama di oratore valente, quantunque prolisso. La Francia è, invece, ricca di militari politici. Chi non rammenta Lamarque, Fov, La Favette, Berton, Sebastiani, Gerard, Mortier, Soult? E come dimenticare Cavaignac, Changarnier, Lamoricière, Oudinot? Oggi è un militare, il Boulanger, colui che fa più parlare di sé. In Spagna, poi, il soldato nasce uomo politico.

396 CAPO TERZO

La spada, pei discendenti armati di don Quichotte, non può servire solamente per la difesa della patria. Questo può essere il lusso dei giorni di festa. Nei giorni di lavoro la spada serve per le lotte interne. Essa è un'arma parlamentare come un'altra. Vale quanto un discorso e più di una votazione. O'Donnell, Espartero, Narvaez, Serrano, Prim, Concila furono tutti generali statisti.

In Italia la milizia ha anche gloriose tradizioni parlamentari. A differenza dello spagnuolo e del francese, il militare italiano in Parlamento non arriva mai a sposare le ire faziose dei partiti. Egli. preferisce il Centro. Sente il rispetto della legalità. Il suo sguardo non spazia oltre i limiti della Costituzione. Non è personale né egoista. Lo spagnuolo e il francese ricordano sempre di tenere una sciabola al fianco. L'italiano, invece, appena entrato nella Camera, dimentica di essere un militare. Egli non fa mai il Rodomonte o l'Orlando Furioso. Cosa meravigliosa! il soldato più impetuoso ed irragionevole, Nino Bixio, resterà nella storia parlamentare non tanto pei suoi discorsi, che pure erano brillanti, quanto per le nobili parole pronunziate nel 1861 per riconciliare Cavour e Garibaldi. Anche nei momenti più aspri e nelle lotte più accanite, il militare italiano non dimentica mai di essere cittadino. Govone, ministro della guerra, attaccato aspramente da Cialdini in Senato, non mandò i padrini al vincitore di Castelfidardo. Si dimise da ministro. Poco dopo, perdette il senno, e morì. In seguito, La Marmora attaccò violentemente Ricotti nella Camera. Ricotti gli rispose per le rime. La maggioranza diè ragione al ministro. Non per ciò La Marmora scese in piazza per fare un pronunciamiento. Prese il broncio, e si ritirò.

397 COLORI E VALORI

La libertà, dunque, non corre, in Italia, alcun pericolo per la presenza dei soldati nella Camera. Avezzana, Garibaldi, Fabrizi, Menabrea, La Marmora, Cugia, Govone, Bixio, Sir tori sono nomi che onorano la storia della milizia e del Parlamento.

Di tutti i militari che attualmente siedono nella Camera io non posso parlare. Mocenni, Pelloux, Araldi, Di Bassecourt, Morra di Lavriano, Corvetto meriterebbero una coppia di pagine per ciascuno in un dizionario parlamentare. Io qui devo accennare solamente a quei portatori di spada e medaglino che nella Camera hanno saputo o potuto crearsi una tradizione.

Primi fra tutti si presentano Cesare Ricotti-Magnani ed Ettore Bertolè-Viale. Ricotti nacque a Borgo Lavezzano nel 1822. Bertolè nacque a Genova nel 1827. Ricotti proviene dall'artiglieria; Bertolè, dall'infanteria. Ciò non pertanto, la carriera militare di Ricotti appare più brillante. . Intelligenti e valorosi entrambi, presero parte alle campagne del 1849, del 55, del 59, del 60 e del 66. Bertolè, nel 59, seppe guadagnarsi la Croce di Savoia. Senonché, egli non brillò per alcun fatto speciale. Ricotti, all'opposto, fin dal 1848, attirò su di sé l'attenzione dei superiori. All'assedio di Peschiera, mentre i cannoni erano puntati contro la piazza, egli si spinse temerariamente nello spazio intermedio per compiere di persona alcune operazioni necessarie alla buona riuscita dell'impresa. Nel 1852, aiutando il sergente di guardia Sacchi, coraggiosamente espose la sua vita per estinguere un incendio scoppiato nella polveriera di Torino.

Nel 55, alla Cernaia, diresse, con mirabile precisione, il fuoco della sua artiglieria contro il fianco dei Russi.

398 CAPO TERZO

Nel 59, capo di stato maggiore del generale Mollard, nella giornata di San Martino, si distinse pel temerario coraggio e per l'abilità delle mosse. Contemporaneamente ebbe da Vittorio Emanuele la Croce di commendatore dell'Ordine militare di Savoia e da Napoleone la stella della Legione di onore.

Bertolè non ha i precedenti brillanti di Ricotti, né come questi (che è un uffiziale di artiglieria horsligne) ha competenza speciale in alcun'arma. Se sia uno stratega, non si può dire con certezza. Certo egli è un valentissimo organizzatore, e, per questo lato, è superiore al Ricotti. Fanti, che lo aveva sperimentato nel 1859, nell'Emilia, come valente segretario generale del Ministero della guerra, lo volle con sé nel 1860 in qualità di capo di stato maggiore, e poi, come segretario. Nel 66, il Bertolè ebbe l'ufficio d'intendente generale, e vi fece ottima prova. Nel 74 fu nominato comandante del corpo di stato maggiore, e, infine, fu preposto, non altrimenti che il Ricotti, al comando di un corpo di esercito.

Sebbene più giovane, il Bertolè è stato ministro prima del Ricotti. Entrato nella Camera nel 67, sedette al Centro. Menabrea, Presidente del Consiglio, lo fece ministro della guerra. Fra il programma di un esercito formidabile e costoso e quello di un esercito omeopatico, Bertolè si pose nel mezzo per contentare tutti i gusti. Quando i mezzi termini non ebbero più libero corso, e il Gabinetto Lanza-Sella si propose il programma delle economie fino all'osso, Bertolè ritornò alla vita militare, e alla Pilotta gli successe Govone.

 Gevone, il ministro economo, stette poco. Il suo posto fu preso dal Ricotti, che dal 70 tenne il portafogli lino al 76.

399 COLORI E VALORI

La venuta di Ricotti fu salutata con speranza. Destra e Sinistra s'inchinarono. Al nuovo ministro si affidò l'incarico di riorganizzare l'esercito. Ricotti fece di più: si spinse fino alle innovazioni. L'échatillon prussien era allora alla moda. Il ministro se ne invaghì. Le tradizioni furono calpestate. La smania dei mutamenti divenne mania. Quale istrumento musicale più bellico del tamburo? Ricotti l'abolì. Tolse di mezzo le fanfare della cavalleria, mandò all'altro mondo la Guardia Nazionale. Però, non avendo a sua disposizione abbondanza di fondi finanziarli, creò non un esercito modello, ma un esercito di espediente. Nè sempre usò bene del danaro dello Stato. Fece delle spese inutili o di lusso. Che bisogno vi era dì mutare tutte le divise militari? Inoltre fu il primo ministro che riducesse la ferma della fanteria da cinque a tre anni, e che non chiamasse la seconda categoria all'istruzione annuale. Insomma, egli aumentò la quantità a scapito della qualità. Venne al Governo con l'opinione di amministratore capacissimo. Invece mostrò di possedere ogni altra dote meno quella di cui tutti lo credevano in possesso.

Ritornato al Ministero della guerra nel 1884, Ricotti non ebbe il coraggio di porre nettamente il problema militare. Si adattò alle proteste finanziarie del Magliani: le adottò. Doveva parlare con franchezza militare, e imitare Luigi Mezzacapo. Tacque, e fece credere al paese che l'esercito di niente avesse bisogno. Questo contegno di Ricotti non è spiegabile che con l'indole dell'uomo. Avendo un ingegno largo e poliedrico, non seppe né volle guardare la quistione dell'esercito dal solo punto di vista militare.

400 CAPO TERZO

Egli ne vide pure il lato finanziario, e se ne preoccupò. Volle essere statista, quando doveva limitarsi a fare il ministro della guerra. Se ciò non è falso da un lato, dall'altro non è men vero che contro del Ricotti si esagerarono gallicamente le accuse. Lo chiamarono disorganizzatore dell'esercito, e peggio. Capro espiatorio di una politica estera indecisa e di un'amministrazione finanziaria amante del buio, il Ricotti merita tutte le attenuanti innanzi all'inesistente tribunale della Storia. Il disastro di Dogali Io fece cadere; ma quel disastro è addebitabile a lui tanto quanto la immaginaria vittoria di Custoza all'arciduca Alberto. La pubblicazione del Libro Verde ha non oscuramente provato che il Ricotti non era poi un Leboeuf italiano.

Al Ricotti successe il Bertolè-Viale. Di costui non si può dare ora un giudizio semiserio. Bisogna aspettare ancora un altro poco. Soltanto si può dire che per la campagna di Africa seppe fare un non méprisable lavoro di organizzazione e di preparazione. Se nonché neanche qualche piatto dogaliano è mancato, — con salsa, questa volta, non italiana ma di lasci bouzule.

Nel mondo parlamentare — un mondo più pettegolo e maligno del demiidem — il Bertolè gode più simpatia del Ricotti. E questo si spiega per varie ragioni. Bertolè si è mostrato sempre meno partigiano del suo emulo. Non è precisamente un ministro comandato alla Piletta; ma non mostra velleità o pretensioni politiche. Ricotti, invece, si atteggia a leader.

Ricordandosi della fortuna parlamentare di La Mar mora e di Menabrea, vorrebbe essere anche lui Presidente del Consiglio.

401 COLORI E VALORI

Di più, a rendere più simpatico il Bertolè contribuiscono le grazie della persona. Ricotti, all'opposto, non è mica un uomo avvenente — come un giorno, nel 68, fu chiamato il Bertolè dal Massari. Oggi l'avvenente ministro del C8 non è più il giovane generale di venti anni fa. Però ei mostra sempre di avere età minore di quella che ha, e conserva tuttora il portamento disinvolto ed elegante. Egli è un ministro fashionable: un ministro de la vieillesse dorée.

Bertolè è un felice parlatore. Ricotti è un valente oratore. Ambidue hanno sangue freddo, prontezza di spirito e parola facile. Ricotti ha maggior tatto e più arte. A lui non sono ignote le malizie della tribuna. Fuvvi un tempo in cui egli era l'unico oratore della Destra. Più di una volta sconcertò l'abile ed astuto Depretis. Ricotti ha avuto torto marcio di farsi soldato. Egli doveva diventare avvocato.

Gevmet e Zanolini siedono da più Legislature alla Camera. Appartengono alle armi dotte: quegli al genio, questi all'artiglieria. Gevmet è piemontese, Zanolini è romagnolo. Il primo studiò nell'Accademia di Torino insieme a Domenico Farini, del quale è rimasto uno dei più cari amici. Ha fatto la carriera, e oggi è maggiore generale. Il secondo ha dovuto cominciare la vita militare da semplice soldato. Giovanissimo, nel 49, prese le armi per difendere la sua Bologna. Nel 59 si fece volontario, e scelse il corpo dell'artiglieria. Non ebbe alcun grado — neanche quello di caporale. Sui campi di battaglia mostrò valore e intelligenza.

Nel 60, sotto Capua, si distinse. Attualmente è colonnello, e dirige la fabbrica d'armi di Terni.

402 CAPO TERZO

Sebbene fossero note le sue opinioni di Sinistra, pure fu adoperato in varie missioni dai Ministeri di Destra. Così, poco prima del 66, fu mandato secretamente nel Veneto per rilevare le posizioni strategiche degli Austriaci. Fu anche in Oriente, e vi organizzò l'artiglieria serba. Ugualmente dotto e valoroso si è sempre mostrato il Geymet. Si distinse in particolar modo, all'assedio di Ancona. Geymet e Zanolini parlano poco. Lavorano piuttosto negli uffici. Le ferrovie e le cose militari sono le quistioni delle quali preferiscono di discutere.

Sugli stessi argomenti piglia non rare volte la parola il Gandolfi, capo di stato maggiore del 9° corpo di armata. Viene pure dalle armi dotte. Oltre ad espsere un colto e intelligente militare, è ancora un distinto scrittore. Valoroso soldato della causa italiana, Gandolfi è nato in quella città di Modena che divide con le città piemontesi la gloria di essere gradita al Dio Marte. Modena, che già dette i natali al famoso Montecuccoli, nel tempo nostro li ha dati al Cialdini, al Ribotti, al Fanti, al Cucchiari, al Fabrizi, all'Araldi, ecc.

Per un po' di variazione occupiamoci di due generali africani: Agostino Ricci e Giorgio Pozzolini. Ricci nacque a Savona nel 1832; Pozzolini, a Firenze nel 1834. Non sono giovani di età. Sono, bensì, giovani parlamentarmente. Nella Camera non entrarono che nel 1885. Entrambi vanno debitori all'Africa di un po' di reclame politica. Ricci fu mandato in Abissinia per fare una ispezione. Pozzolini vi fu spedito per compiere una missione. Ricci, bene o male, ispezionò le truppe, e ritornò in Italia. Pozzolini, invece, riprese la via della penisola senza aver potuto vedere il Negus.

403 COLORI E VALORI

Lo scacco diplomatico gli fece acquistare una fama negativa. Pozzolini fu esposto alle ingiuste critiche dell'Opposizione. La sua reputazione diplomatica restò sciupata. Fu un peccato mortale al di là del settimo. Nel 59 Pozzolini era stato mandato da Ricasoli a Parigi per investigare le intenzioni di Napoleone IIL La missione era riuscita. Sarebbe indubbiamente riuscita anche quella presso don Giovanni, se la miserabile Maestà abissina fosse stata meno irreperibile.

Senza volere appassionarmi per lo scacco africano, non posso non richiamare la distrazione dei lettori sovra una specie di fato apatico o di destino ozioso che ha rivelato la sua potenza nella vita di Pozzolini. Il bravo discendente dei sudditi di Porsenna, fin da giovinetto, ha avuto le più belle intenzioni: Allah lo ha contrariato. A quindici anni (1849) scappò dalla famiglia per andare ad arruolarsi fra i volontari che dovevano combattere contro l’Austria. Fu raggiunto ed arrestato. Aveva sperato di ritornare in patria come un grande eroe. Vi ritornava come un piccolo delinquente. Nel 1860, mentre era uffiziale nell'esercito della Lega capitanata dal Fanti, sentì parlare dei trionfi di Garibaldi. Chiese al Fanti il permesso di raggiungere l'eroe nizzardo. Il permesso gli fu negato. Insistette. La licenza, infine, gli venne accordata. Corse a Napoli, ma... trovò che l'epopea garibaldina era già finita. Si lusingava di poter combattere sotto gli ordini di Garibaldi, invece, si dové rassegnare ad avere a suo comandante il Cialdini, che lo prepose alla direzione di una batteria all'assedio di Gaeta. Nel 1862 andò a combattere i briganti.

404 CAPO TERZO

Si augurava di pigliarne prigionieri una buona quantità. Fu servito secondo i suoi desiderii. I briganti lo catturarono. Nello stesso anno fu incaricato secretamente dal Governo d'intromettersi nel campo garibaldino a Catania, di esplorare che cosa vi si meditasse e d'informarne chi e come di ragione. Doveva scoprire. Invece, fu scoperto ed arrestato — dai garibaldini, s'intende. Fu mandato presso il Negus per vedere di che umore fosse l'imperiale bestia; e Sua Maestà abissina, con procedimento nuovo negli annali della diplomazia, si allontanò dalla sua residenza inoltrandosi nell'interno del paese. Eletto deputato, si presentò a Montecitorio. Fu sorteggiato, e fece fronte en arrière. Si ripresentò. Fu rieletto. Fu di nuovo sorteggiato. Per la terza volta rappresentò la stessa commedia. Infine, la quarta volta, la sorte non gli ruppe più le scatole.

La vita militare di Pozzolini è abbastanza opaca. Quella del Ricci è splendida. A sedici anni, Ricci era sottotenente. Nel 1855, nella guerra di Crimea, ebbe, per il suo valore, la medaglia commemorativa inglese. Nel 1859, nella battaglia di San Martino, fu ferito al passaggio del Redone, e mostrò intrepidezza e intelligenza. Ricci è anche un valente scrittore di cose militari. Egli insegnò l'arte della guerra all'attuale Re d'Italia, allorché questi era principe ereditario. È stato professore alla Scuola superiore, ed ha fatto parte del corpo di Stato Maggiore. Ultima nota caratteristica: il generale Ricci è poeta, ed ha scritta un inno militare.

405 COLORI E VALORI

SEZIONE QUINTA

La Destra.

Sommario. — Spaventa — Il seminarista — Il giornalista — Spaventi precursore di Manin — Un filosofo capocamorrista — Spaventa al Governo — Il suo orgoglio —Siete uno sciocco!» — Spaventa e Foley-Chiaves — Fra Galdino — Una dimostrazione per pubblico istrumento — Il Fischietto — Le preghiere di Cavour — Chiaves in Parlamento — Un discorso elle entusiasma Cavour — Tremila copie — Il ministro — Le sue pappere — Le antipatie di Chiaves — La simpatia per Crispi — Chiaves descritto dal doctor Veritas — Le due commedie a tesi — Bonghi — La petizione — Bonghi nel giornalismo — Le profezìe sulla spedizione dì Crimea — Bonghi a Stresa — Bonghi. Cavour e Sant'Agostino — Bonghi a Napoli — Il suo incubo — Il cattivo genio — L'eterno Crispi — Il letterato — L'uomo enciclopedico — Le doti di Bonghi — L'oratore — Bonghi che saccheggia le idee di Spaventa — I cannoni che scoppiano — Lirista — L'ideale di Bonghi — Tenani e Cadolini — Il giudizio di De Zerbi — Cavalletto e Romano — Chimirri — Luzi e BrigantiBellini — Borromeo Papadopoli — Sala, Taverna e gli altri agrarii — Rudini e Codronchi — Due diverse ambizioni — L'avversione a Depretis — Programma politico — Rudini a Palermo — Le speranze della Destra — «È morto!» Il dissidente — L'ultima crisi — Biancheri — Maurocronato — Luzzatti — Boselli — Bonfadini — Romanin — Rishi — I due Gabelli — Saracco.

La Destra non merita il lusso dei paragrafi. Essa ha un passato glorioso. Ma la sua gloria defunta fa peggio risaltare l'ignavia vivente. I leaders autentici, come Minghetti, Lanza, Sella, Farini, Lamarmora scesero, da un pezzo, nel regno delle ombre. Quelli che ora restano sono capitani senza soldati. La Destra non ha un programma. Ha servito Depretis. Serve ora Crispi. Una maggiore esposizione sia pure parziale, di spirito di partito sarebbe desiderabile. L'esempio dato dà Bonfadini a proposito dei crediti militari può fruttificare. Speriamo.

406 CAPO TERZO

Il primo dei capitani senza neppure una ordinanza è Silvio Spaventa de Laurentiis. Nacque a Bomba, negli Abruzzi, nel 1823. Fu educato dai preti nel seminario di Chieti. Passò, poi, in quello di Montecassino.

Spaventa seminarista era il diavolo in veste di eremita. Non volle ubbidire. Mostrò la forza della sua coltura quando cadde ammalato il Pappalettere, professore di filosofia. Spaventa lo sostituì, e con onore. Nel 47 venne a Napoli col fratello Bertrando. Insieme cominciarono ad insegnare filosofia hegeliana. Silvio fondò pure un giornale con vernice scientifica e fondo politico. La polizia scoprì di che si trattava, e vietò l'ulteriore pubblicazione del giornale, Fece di più. Ordinò l'arresto del proprietario. Spaventa non si spaventò. Non ostante la sua qualità di filosofo, egli sapeva correre, e con la sveltezza delle sue gambe giunse ad imbarcarsi su di un vapore francese. Andò in Toscana. Fece ritorno in Napoli, quando seppe che vi si era proclamata la Costituzione. Eletto deputato, scelse la frazione dell'Estrema Sinistra. Nel 15 maggio, convintosi che la forza stava dalla parte del torto, cioè del Re, invano cercò d’indurre i rivoluzionari di piazza a togliere le barricate. Dopo la catastrofe inevitata ed inevitabile, egli non lasciò Napoli, e continuò a sedere nella Camera. Come direttore del giornale il Nazionale, scrisse articoli ispirati a sensi d'italianità. I militari se ne adontarono. Gli amici lo consigliavano a partire dalla città. Spaventa, imperterrito, volle restare. Prendeva gusto a fare andare in bestia il Re, la Corte, l'esercito. Pareva dicesse: Qui qu'on grogne c'est mon plaisir. Non contento di quest'azione negativa, ideò di fondare una Società in cui potessero convenire mazziniani e monarchici. Lo scopo era di unificare tutta la penisola in un solo Stato. Manin, Lafarina, Pallavicino, allorché fondarono la Società Nazionale, non fecero che copiare il concetto di Spaventa.

407 COLORI E VALORI

Sciolto il Parlamento, Spaventa fu arrestato e sottoposto a processo. Lo condannarono alla galera.

Qui comincia il romanzo. Spaventa, in galera, si rivelò in tutta la sua indole dispotica. Doveva ubbidire. Comandò. Conquistò l'egemonia su tutti i condannati — anche sui condannati per delitti comuni. Il suo primato ebbe origine in questa maniera. Una volta Spaventa scambiò parole vivaci con alcuni camorristi. Dalle parole si passò ai fatti. Il filosofo si distinse per bravura, coraggio e destrezza. Quei nobili personaggi ne rimasero entusiasmati. Neanche la teoria del divenire di Hegel li avrebbe in quella guisa elettrizzati. Dettero al filosofo il grado di capocamorrista, e gli decretarono il mensile di cento ducati — di cui,, senza dubbio, quegli non dové fruire.

Il contegno politico di Spaventa galeotto fa nobilissimo. Spaventa parve un uomo di Plutarco. Fu avverso alle mene murattiste e a qualsiasi tentativo di spezzare l'unione della Sicilia con Napoli. Non ebbe fede che nell'unità d'Italia con la casa di Savoia. Basta leggere il primo volume della Vita di Bertani scritta da Jessie White Mario per convincersi della verità della mia storia.

Nel 1859 Spaventa fu imbarcato con Settembrini,. Poerio ed altri patrioti. Dovevano essere trasportati nella Repubblica Argentina. Fortunatamente il figlio di Settembrini sventò il disegno borbonico, e con abilità e coraggio travestitosi da cameriere, e poi, nel momento psicologico, rivestendosi da capitano di marina mercantile britannica, costrinse il capitano del bastimento a navigare verso l'Irlanda. Così i poveri galeotti furono salvati.

408 CAPO TERZO

Nel 1860 Spaventa, venuto a Napoli, si pose in urto coi radicali che circondavano Garibaldi. Cletto Arrighi riferisce che Spaventa un giorno, presentatosi al Generale, gli tenesse un discorso poco lusinghiero per Bertani e compagni, e che il Generale, sdegnato, rispondesse: «I buoni italiani, oggi, sono esposti al fuoco del nemico. Se, come dite, voi amate svisceratamente la patria, pigliate anche voi un fucile, e venite con noi. Allora potrò credere alla sincerità delle vostre parole.»

Al tempo della luogotenenza di Farini, Spaventa ebbe il Ministero della polizia. Distrusse tutto ciò che aveva fatto Liborio Romano, e licenziò quei camorristi che costui aveva trasformati in poliziotti. Fu energico e violento. Corse pericolo della vita.

Non ostante le prove di devozione verso Vittorio Emanuele, Spaventa, nel 1862, era additato come un fautore dell'abdicazione del Re. Era calunnia; ma era giunta all'orecchio del Sovrano. Ciò conoscendo, lo

Spaventa, allorché nello stesso anno gli fu offerto il segretariato generale dell'interno, rifiutò di accettare, adducendo appunto quella diceria. Un colloquio era necessario. Spaventa ebbe un'udienza dal Re. L'accoglienza non poteva essere più simpatica e cordiale. Vittorio Emanuele, a cui certo piaceva il carattere rude del nuovo segretario generale, appena questi fu alla sua presenza, disse ridendo e ad alta voce: u Ecco chi non mi vuole più come Re d'Italia!» L'equivoco fu chiarito, e Spaventa ebbe la semicroce del potere.

Meglio per lui se non avesse accettato! Nel suo delicato uffizio fu senza tatto e abilità. Credeva di essere un questore o un prefetto di polizia.

409 COLORI E VALORI

La cattiva prova, a cui si collegava il ricordo delle tristi giornate di settembre, impedì a Spaventa di rivedere le scale di un Ministero prima del 1873, quando ebbe da Minghetti il portafogli dei lavori pubblici. Fu un ministro valentissimo. Però, col suo carattere tutto di un pezzo, procurò molti nemici a quel Gabinetto.

Spaventa parla raramente. Ma i pochi discorsi che ha fatto, sia alla Camera, sia agli elettori, sono tutti memorabili. Quello di Bergamo informi. Sono quelle orazioni notevoli non per splendore di forma ma per elevatezza di pensieri. Spaventa fu tra i pochi di Destra che non s'inchinarono a Depretis.

Egli ha l'orgoglio di Crispi. Senonché Crispi si degna di spiegarci la sua superiorità. Spaventa sdegna fìnanco di parlare. L'uno palesa il suo disprezzo con la parola. L'altro lo palesa col silenzio. L'orgoglio di Crispi è loquace. L'orgoglio di Spaventa è taciturno.

Provocato, lo Spaventa esce subito dalle regole del Galateo, e dice insolenze. Così, l'8 giugno 1875, si permise il lusso di chiamare sciocco l'on. Laporta. L'incidente vale la sofferenza di una trascrizione:

Laporta —... Rida, l'on. Spaventa, rida anch'egli a suo turno. Rida pure. Lo so che io a lui non potrò dire ch'egli nulla ha fatto per l'Italia; a lui non potrò rimproverare gli ozi di Parma (Risa a sinistra).

Spaventa — Dica, dica.

Laporta — Pensi, l'on. Spaventa, che non è con la violenza, non è col sangue...

Spaventa — Sono sciocchezze!

Laporta — Pensi ai fatti di Torino, si metta una mano sul cuore...

410 CAPO TERZO

Spaventa — Siete uno sciocco! (Rumori... grida... H Presidente invita il ministro a ritirare la parola).

Spaventa — Se state zitti, parlo: se no, mi taccio. (Sta all'impiedi per rispondere)... Mi lascino dire... All'on. Laporta è piaciuto raccogliere... (Interruzioni a sinistra).

Presidente — On. ministro, o ritiri la parola, o la chiamo all'ordine.

Spaventa — Mi lasci parlare; se no, non ritiro nulla!

Presidente — On. ministro, debbo richiamarlo all'ordine.

Un contegno simile aveva mostrato il Pitt in un vivace diverbio col Tierney.

In complesso, Silvio Spaventa è una nobile figura. Però è troppo orgoglioso, ed eccede nello sfoggiare l'indipendenza del suo animo. Di lui si può dire ciò che il Macaulay scrisse dello statista Foley: His morals were without stain and the greatest fault which could be imputed to him was that he paraded his independence and disinterestedness too ostentotiously, and was so afraid of beeing thought to fawn that he was alwavs growling.»

Un duce senza militi è anche Desiderato Chiaves.

E nato in Torino nel 1825. Suo padre era un vieux grogneur di Napoleone I. Desiderato doveva, naturalmente, diventare un frondeur foderato di spirito.

Non scelse la professione di Marte. Alle armi preferì la toga. Nel 1846 si laureò in legge. Fece la pratica forense col Cornero. Come avvocato, cominciò a farsi nome, difendendo varii giornali processati. Contemporaneamente coltivava gli studi letterari, scriveva poesie, e si esercitava nel giornalismo. Fu tra i principali scrittori del giornale umoristico II Fischietto. Vi collaborò sotto il pseudonimo di Fra Galdino.

411 COLORI E VALORI

Durante il movimento liberale, che precedette il 1848, il Chiaves fu tra i giovani più attivi ed intraprendenti. Fu tra i dimostranti torinesi della sera del primo ottobre 1847. In quella sera si doveva solennizzare dai liberali il genetliaco di Carlo Alberto. Con questo pretesto si voleva celebrare il genetliaco di madama Libertà — che, viceversa, non era ancora nata. Perché le cose succedessero col minore disordine possibile, si andò a domandare il permesso della polizia. La polizia consentì. Il permesso però non era uguale ad una promessa. Così almeno la pensarono in alto. All'ultim'ora, in Corte o nel cortile della stessa si ebbe paura. Fu dato l'ordine, cioè il contrordine. Era troppo tardi. I dimostranti stavano già in piazza. Essi gridavano evviva al Re e all'Italia. Ad un tratto, molti sbirri, guidati dall'ispettore Tosi, fecero irruzione sui fedeli sudditi di Sua Maestà. Successe una fuga universale — più grande ancora di quella di Bach. Ciò era troppo. Fra Galdino, che senza dubbio era stato coinvolto anche lui nell'esercitazione ginnastica a passo accelerato per le vie di Torino, ne rimase più di ogni altro stanco ed indignato. Per vendicarsi, ideò di fare, insieme ad altri amici, una protesta per pubblico istrumento. L'idea venne accolta. I diciassette protestanti, ex-dimostranti, andarono dal notaio Dallosta, e costituitisi come in un contratto di mutuo, sfogarono il loro sdegno sulla carta bollata.

Nel 1848, Chiaves fu nominato commissario straordinario nella divisione d'Ivrea. Lasciato, dopo poco, il detto uffizio, ritornò al giornalismo e al Foro. Il Fischietto, per la valentia dei suoi redattori, cominciò a fischiare anche all'orecchio di qualche personaggio transalpino.

412 CAPO TERZO

Stante l’accordo allora esistente fra il Piemonte e la Francia, lo spirito di Chiaves e compagni diventava molto molesto a Cavour. L'imperatore Napoleone era irritato per le caricature a cui era fatto segno. Durante il Congresso di Parigi, se ne lamentò col conte Camillo. Il conte si vide un po1 imbarazzato. Come poteva invitare il Fischietto a non aprire più il rubinetto dell'umorismo? Ricorse ai buoni consigli. Scrisse perciò a Castelli:Eccomi a richiederla di un altro favore del primo assai maggiore... Preghi a nome mio il nostro collega Bersezio di unirsi a lei, ed insieme vadano dall'avv. Chiaves, e pure a nome mio lo scongiurino di adoperare la sua influenza sul giornale il Fischietto, onde cessi di attaccare, villaneggiare, deridere Napoleone. I nostri nemici mandano a Parigi tutti i numeri che contengono qualche allusione a suo riguardo, e questi cadono sotto i suoi occhi. Ciò lo irrita, e lo rende per noi meno propenso. Il Direttore politico per gli affari esteri, il sig. Benedetti, mi scongiurava di fare che quel maledetto giornale lasciasse tranquillo l'Imperatore. Chiaves è un bravo giovine; capirà l'importanza di quanto le chieggo e non sacrificherà i veri interessi del suo paese al piacere dei frizzi. Si sfoghi il giornale sui ministri, su di me; non me ne lamento; ma lascino stare colui che, volere o non volere, ha la chiave della politica nelle mani.» In omaggio appunto a questa chiave Chiaves cessò di fischiare con la medesima.

Eletto deputato nel 1857, si mostrò molto assiduo nella Camera, dove esordì parlando nella discussione intorno al Codice penale. Nel 1859 fu nominato relatore del progetto di legge, con cui si davano i pieni poteri al Re nell'imminenza della guerra con l'Austria.

413 COLORI E VALORI

Scrisse la relazione in poche ore. Nel maggio 1860, venuto in discussione il progetto per la cessione di Nizza e Savoia, Chiaves si mostrò contrario alla cessione di Nizza. Contrario però nelle parole, non nel voto. Il suo discorso fu notevole per un ricco corredo di cognizioni letterarie, storiche e geografiche. Nell'ottobre 1860, il Chiaves pronunziò un altro importante discorso, e questo senza dubbio fu il più. splendido fra tutti quelli da lui finallora pronunziati. Cavour ne rimase entusiasmato, e in questi termini ne scrisse al Farini:Della Camera vi scrive Borromeo; non ve ne parlo se non per dirvi che ieri fu una splendida giornata per noi. Armalonghi parlò, e parlò molto bene. Chiaves, poi, venne fuori con uno dei più brillanti e spiritosi discorsi che siensi pronunziati nella Camera. Con forme parlamentari disse verità anche ai mazziniani aperti e mascherati che produssero un effetto straordinario. Ne faccio tirare 3000 copie per spargerlo nelle vecchie provincie. Sarebbe bene il farlo ristampare per Napoli.»

La fama oratoria di Chiaves fu, quindi, assicurata fin dal 1860. Il Petruccelli, pochi anni dopo, poté scrivere: «Il signor Chiaves ha degli slanci di oratore politico, la logica fine e serrata, il colpo d'occhio sagace; e sarebbe uno degli uomini più notevoli del nostro Parlamento, se non fosse autonomista, piemontese ed ultracattolico. Lo si ascolta, nondimeno, con considerazione e simpatia.»

Un po' piemontese il Chiaves è stato di certo. Che sia poi stato veramente un ultracattolico, ecco ciò di cui mi permetto didubitare. Nel 1864 egli si dichiarò espressamente per Roma capitale.

414 CAPO TERZO

Divenuto ministro dell'interno nel Gabinetto Lamarmora (dicembre 1865 giugno 1866), Chiaves si mostrò troppo allarmato della presenza di Mazzini in Italia e nel Parlamento. Perciò, quando Mazzini fu eletto deputato, l’ex-Fra Galdino apertamente propugnò l'annullamento dell'elezione, trattandosi di un condannato a morte non amnistiato. Disse: Convalidando l'elezione, la Camera farebbe atto di adesione ai principi! repubblicani (no, no! gridasi da tutte le parti, e più dalla Sinistra)... disdirebbe la felice formola trovata da un illustre nostro collega: La monarchia ci unisce, la repubblica ci divide. Poi, Mazzini 11011 giurerebbe, non verrebbe: tra le 40.000 firme pel richiamo, manca infatti la sua e quella stessa sua assenza è già una prova della incostituzionalità dell'elezione.

In generale, il Chiaves ministro non si mantenne all'altezza oratoria del Chiaves deputato. Perciò il Fortis scrisse:Quando egli rappresentava la parte di ministro in Palazzo Vecchio, a Firenze, mi parve svogliato e convenzionale — pigliava frequenti pappere (in gergo di palcoscenico pappere sono gli errori di frase, di pronunzia, di senso, di memoria), e coltivava il pistolotto. Chiaves è partigiano delle economie, e vede male le troppe spese per l'esercito. Io avrei dovuto situarlo fra i moribondi economi. Nel maggio 18S7, in occasione dei nuovi provvedimenti militari, pronunziò uno splendido discorso. Non è entusiasta della triplice alleanza.

Due grandi antipatie ha avuto il Chiaves in vita sua: Minghetti e Depretis. Tenace negli odii, egli ha mandato frizzi al deputato di Stradella anche oltre tomba. E questo sta male.

415 COLORI E VALORI

All'opposto ha provato sempre una forte simpatia per Crispi.

Chiaves è un simpatico uomo. Ha 63 anni. Però li porta bene. L'età per lui rappresenta semplicemente una commedia.

Il ritratto non è completo. Vi manca il clou. Me lo darà l'ex-dottor Veritas del 1876. Parla il dottore:Chiaves, col cappello a larghe tese tradizionale, la lunga barba un po' incolta, il soprabitone a due petti lungo come la barba e tradizionale come il cappello, il pincenez inforcato maestosamente sopra un naso maestoso (figurino dell'antica opposizione subalpina), alto, un po' grosso, un po' curvo, col passo lento, la voce forte, la parola compassata, l'accento un po' nasale... In questo uomo così tutto di un pezzo non s'indovina l'antico Fra Galdino del Fischietto sì ricco di brio e di souplesse, un dilettante filodrammatico pieno di buonumore e di vis comica, che rende con garbo l'eleganza squisita dello zio Paolo, un autore drammatico che dichiara di avere per suo nemico irreconciliabile chiunque, dopo intese e lette le sue commedie, gli venisse a domandare che cosa ha voluto provare scrivendole. — Io di commedie a tesi, dice Chiaves nella prefazione delle Federazioni di un dilettante, non ne ho scritto che due: l'una s'intitola: Uniformità della Giurisprudenza; l'altra: Crisi di Ministero. Però, non metterò fuori la prima finché vesto la toga in tribunale, né la seconda finché porto alla catenella dell'orinolo la medaglina parlamentare.

Scrittore di una commedia giammai rappresentata è l'on. Ruggero Bonghi. Piccolo, basso, grassotto e tondo, Bonghi è una figura originale.


416 CAPO TERZO

Miope, riservato, circospetto, voi lo vedete camminar sempre lemme lemme, con un libro o un giornale fra le mani.

Oriundo pugliese, il Bonghi nacque a Napoli nel 1827 da Luigi e Carlotta De Curtes. La famiglia era piuttosto agiata. Il piccolo Ruggero fu allievo degli Scolopii: vive ancora in Napoli uno di quei suoi vecchi professori in tonaca. Giovanissimo, il Bonghi stampò la prima parte del Platonismo in Italia, la versione del Filébo di Platone, e quella del libro sul Bello di Plotino. Allorquando, nel 1848, Napoli agitavasi per avere una Costituzione, si fecero varii modelli o echantillons di petizione al Re. Fu preferito il progetto Bonghi. Firmata da moltissimi liberali, la petizione fu presentata al Re.

Bonghi si servì subito della concessa libertà per fondare un giornale, Il Tempo, dove scrisse con Saverio Baldacchini, lo storico Trova ed altri. Non fu attore né vittima delle stragi del 15 maggio, perché a quell'epoca trovavasi in missione diplomatica, come segretario della Commissione incaricata dal Governo d'iniziare trattative con gli altri Stati italiani per una lega contro l'Austria.

Ritiratosi a Firenze, fu invitato a scrivere nel giornae Il Nazionale. Non vi stette molto. La corte borbonica lo fece sfrattare. Bonghi si ritirò a Torino, dove visse scrivendo. Stava, nel 1855, nella capitale torinese, allorché vi capitò Paolo Emilio Imbriani, diretta in Germania. Si tenne in casa di Pisanelli una riunione di esuli napoletani. Vi si discusse delle conseguenze prossime della partecipazione del Piemonte alla guerra di Crimea. Tutti, compreso l'Imbriani. fecero castelli in aria. Il solo Bonghi vide chiaro e giusto nell'avvenire.

417 COLORI E VALORI

Da Torino il Bonghi si ritirò, per qualche tempo, a Stresa. presso il filosofo Rosmini. Ivi conobbe pure il Manzoni. Fino al 1559 non ne uscì. Coltivò la sua mente con gli studi sereni e con la conversazione di quei due grandi italiani. Lontano dalla politica e dalla vira attiva, egli ebbe poca parte nel movimento unitario che andavasi maturando. E. anzi, curioso l'osservare com'egli cercasse d'indurre il Cavour, il quale pensava a fare l'Italia, a leggere un libro sul socialismo stampatosi da poco, sia per alcune idee pratiche che conteneva, sia per un passo apocrifo di Santo Agostino. Cavour, che preferiva di pensare a Sant'Ambrogio e a San Marco, rispose che avendo visto che il libro era di 600 pagine, si era spaventato e non ne aveva letto niente. Lo pregava, perciò di indicargli quelle pagine che potevano interessarlo.

Nel 1557 pubblicò il Bonghi la traduzione dei primi quattro libri della metafisica di Aristotele, traduzione lodata da tutti, e giudicata dal Bovio migliore ancora della traduzione bonehiana di Platone. L'anno seguente pubblicò un libro genialissimo. intitolato: Perché la letteratura italiana non è popolare in Italia. Nel 1859 il Governo austriaco gli offrì la cattedra di filosofia all'università di Pavia. Egli ]a rifiutò.

Nel 1560 rientrò nella vita politica, e venne eletto deputato. Scrisse un saggio biografico, o meglio apologetico del Cavour. Il conte lo ringraziò: ma gli disse pure che bisognava partire per Napoli. Bonghi ubbidì. Ritornò a Napoli. dove Francesco II aveva bandita la Costituzione. A Napoli fondò II Nazionale.

418 CAPO TERZO

Il barone Del Giudice, allora di Destra, gli fornì i denari necessari. Bonghi cominciò, nel tempo stesso o poco dopo, a scrivere corrispondenze alla Perseveranza di Milano. Il Nazionale divenne un giornale di battaglia. Bonghi prese a tirare a palle infuocate contro Bertani, segretario generale della Dittatura. Bertani, seccato, partì. Bonghi mandò un sospiro di soddisfazione. Disse che si sentiva sollevato eia un incubo mortale per la partenza del colonnello. La gioia fu breve. Il successore di Bertani chiamavasi Crispi. E Bonghi tornò alla carica:Il cattivo genio del generoso generale; colui che perverte le sue più nobili intenzioni; colui che fa oscillare la nostra condizione da mane a sera; colui che turba gli animi con le continue sobillazioni susurrate all'orecchio dell’Uomo che nacque per tenere in mano una spada gloriosa — questo cattivo genio si chiamava una volta Bertani, ed ora lo chiamano Crispi. 53 Crispi, in compagnia di Cattaneo, riuscì a strappare a Garibaldi un decreto, con cui, mentre si rispettava la precedente disposizione riguardante il plebiscito, si convocava una assemblea parlamentare d'indole dubbia. Il decreto non era stato ancora pubblicato, quando II Nazionale ne venne a conoscenza. Subito Bonghi scrisse: «Il voto universale e diretto non basterà più a compiere l'annessione. Il 1° novembre si dovrà convocare un'assemblea che la confermi, e ne determini le condizioni. Pallavicino Trivulzio non ha voluto dare il suo assenso a questo assurdo provvedimento, e si è dimesso. Crispi, l'eterno Crispi che ha suggerito questo nuovo sotterfugio per procrastinare l'annessione, ci si dice che resti al potere.

419 COLORI E VALORI

Un mese fa i repubblicani non volevano udire a parlare di annessione; la differivano ad un tempo indeterminato, e già parlavano, sottovoce, di dittatura perpetua. Poi hanno cominciato ad ammetterla, ma subordinandola a condizioni che non hanno mai nettamente formolato. Il rapporto di Cavour, l'imminente arrivo del Re e le franche ed ardite parole di uno dei ministri l'avevano fatto accettare. Ma la calma del paese è il tormento di Crispi. Egli si vedeva sfuggire di mano il potere, e col potere il mezzo di far prevalere i suoi disegni. Pensa e ripensa, e ti cava fuori il nuovo stratagemma della convocazione dell'assemblea. Parecchi fra coloro che parlano di un'assemblea che ponga le condizioni dell'annessione, altra cosa dicono, altra intendono. Sapete che cosa vogliono costoro? Prender tempo e pescare nel torbido...» Il temuto decreto non fu pubblicato. Pieno di odio contro i mazziniani e contro i garibaldini, Bonghi raccoglieva qualunque voce che fosse atta a discreditarli. Così, accusò Bertani di speculazioni ferroviarie, e di aver ordinato al comandante Tripoti di ricevere, i piemontesi a fucilate.

Segretario generale della Luogotenenza Farini, il Bonghi fu, dopo l'abbandono di questo uffizio, eletto deputato di Manfredonia. Divenne direttore del giornale La Stampa di Torino, e continuò a pubblicare libri. Il catalogo delle sue pubblicazioni piglierebbe troppo spazio. Non tutti i lavori di Bonghi sono un'erudizione e di buon gusto. Forse la posterità non ricorderà di lui che la Storia di Roma e la traduzione di Platone. Vastissima è la erudizione di Bonghi. Però egli non può dirsi un lord Brougliam.

420 CAPO TERZO

Gli manca la coltura delle scienze naturali e matematiche.

Bonghi è stato una volta sola ministro: dal 1874 al 1876. Ebbe il portafogli dell'istruzione pubblica. Guidato dal concetto che in Italia si dovesse elevare il livello intellettuale della gioventù, e che allo Stato spettasse tale cura, fece regolamenti draconiani. Forse il Bonghi non vide giusto, allorché volle fare dello Stato il maestro universale. Però ei fu logico.

Le doti principali dell'ingegno e dello stile di Bonghi sono: l'acutezza, l'analisi, la chiarezza, l'abbondanza e la caricatura. Qualunque quistione viene da lui trattata a fondo. Filosofo e letterato, fece nel 1870 una mirabile relazione su di un disegno di legge ferroviaria. In appresso. Baccarini e Grimaldi la chiamarono dotta il primo, stupenda il secondo. Nel 1871, come relatore del progetto di legge sulle guarentigie papali, ebbe la gloria di lottare col Mancini, e di non restarne vinto.

Come parlatore, Bonghi è tra i più valenti debaters della Camera italiana. Ha voce sottile e accento straniero. Pare un inglese che parli italiano. Spesso si ferma per ripetere una parola, che, a torto, crede di aver pronunziata male. Ei tanto in tanto fa sentire un singhiozzo abortito, o meglio, un lieve rantolo. L'argomentazione di Bonghi è affilata come la lama di un rasoio, sebbene, talvolta, sia superficiale. La parola non gli viene mai meno. Non sempre la ragione è dalla sua parte; mai, però, gli mancano le ragioni. Egli è inesauribile ed instancabile. Ne che prova contro Baccelli. Non contento degli argomenti da lui accumulati, si servì pure di quelli che lo Spaventa gli aveva confidenzialmente comunicati, e che proponevasi di svolgere nel suo discorso; sicché il filosofo hegeliano, venuto il suo turno, dové rinunziare a parlare.

421 COLORI E VALORI

Ciò che giova principalmente a Bonghi è l'interruzione. Altri sa interrompere. Bonghi sa rispondere alle interruzioni, e rispondere con prontezza, vivacità e spirito. Dopo, ripiglia il discorso da quella parola pronunziando la quale è stato interrotto.

I discorsi di Bonghi, particolarmente quelli improvvisati, sono sempre tali da aumentare la fama del parlatore. Però non sempre aumentano la fama dell'uomo parlamentare. Per lo più, mancano di abilità. Fanno male a chi li pronunzia e agli amici di lui. Con giustizia disse, una volta, il Cairoli: «I discorsi dell’on. Bonghi, ascoltati con quell'attenzione che meritano, ma anche con molta trepidazione, sono come quei cannoni di grosso calibro, che spesso scoppiano fra le file amiche invece di portare la dispersione tra le file degli avversari.»

Alcuni definiscono l'on. Bonghi un sofista. Bovio, con maggiore verità, lo chiama un erista. Bonghi ama, infatti, la lotta per la lotta. Le quistioni d'impossibile soluzione lo seducono. Ecco perché il problema della conciliazione fra il Vaticano e l'Italia lo appassiona tanto.

Amanti della lotta per la lotta certamente non sono gli on. Cadolini e Tenani. Essi hanno lottato per la patria. Sono due patrioti che sanno dimenticarsi.

Cadolini, di professione ingegnere, è lombardo, essendo nato a Cremona nel 1830. Volontario nel 1848 sì trasformò in eroe, nel 1849, all'assedio di Roma.

E l'unico superstite della celebre difesa del Vascello. Si distinse pure nell'assalto della villa Barberini. Caduta Roma, il Piemonte accolse il milite ramingo.

422 CAPO TERZO

Nel 1859 Cadolini si arruolò fra i Cacciatori delle Alpi. Combattette col solito valore. Nel 1860 fece con Garibaldi tutta la campagna siculo-napoletana. Nel 1866, combatté nel Trentino. Eletto deputato andò a sedere all'Estrema Sinistra. Poi, come tanti altri, divenne di Destra. Nel 1869 fu fatto segretario generale del Ministero dei lavori pubblici.

Tenani, veneto di nascita, è anche lui un soldato della libertà. Pugnò da prode contro l'Austria, Nella Camera, è stato sempre di Destra, ma senza accanimento. Due anni fa, avendo Fon. Pantano chiamato austriaco il Depretis perché questi aveva fatto togliere una lapide con iscrizione patriottica commemorante una vittima dell'aquila grifagna, rispose pel vecchio Premier il Tenani, il quale, a bruciapelo, apostrofò il Pantano domandandogli: «E li avete visti voi, gli Austriaci?» L'oratore radicale, pur troppo, non seppe rispondere.

Guardando Tenani e Cadolini, vi sembrano due tipi diversi. Cadolini è ben costituito ma basso. Tenani è robusto ed alto. Quegli è tutto movimento. Questi ha l'aplomb della maestà impassibile. Tuttavia lo stesso ardore patriottico, più vivace nel primo, più compresso nel secondo, agita le loro anime. Lo stesso disinteresse regola la loro condotta politica. Fanno il loro dovere alla Camera come lo fecero sui campi di battaglia. Parlano bene entrambi: Cadolini è più laconico; Tenani è più facondo ed artistico: nel 1880, sui nuovi provvedimenti militari, fece un discorso che nei resoconti parlamentari occupa quindici facciate. Di lui così parlò De Zerbi nel 1886:Bello e forte uomo, alto della persona, alto d'intelletto, la rettitudine fatta uomo, carattere rispettato, ha parlato com'ei suole, oratore forte, fecondo, penetrante, elegante.

423

La Camera intera lo ha ascoltato con ammirazione. La sua è parola che suona e che crea; se ne beano gli adoratori della forma; si sentono invitati a pensare quelli che nelle parole cercano unicamente il ragionamento che convince e che atterri gli argomentatori avversari.»

Due vecchi giovani sono gli on. Cavalletto e Romano (1). Essi sono esempi di virile vecchiezza, di giovinezza eterna di mente e di cuore.

Cavalletto, sebbene di Destra, non sentì scrupolo di avvicinarsi a Depretis, pur non facendosene assorbire. È rimasto sempre Cavalletto, cioè l'uomo che al disopra dei partiti vede l'Italia. Egli ha ereditato da Bixio la missione di esortare la Camera a dimenticare i pettegolezzi partigiani e personali, e ad immolarli sull'ara della patria.

Romano ha 82 anni. Forse è il Nestore dell'Assemblea popolare. Come Cavalletto, egli non pensa, ma sente; agisce per emozione, non per calcolo.

Cavalletto nacque a Padova nel 1813. Nel 1848 andò a combattere contro gli austriaci. Pugnò a Vicenza e in altri punti, e infine, si chiuse in Venezia col battaglione da lui organizzato. Dopo il 1849 fece ritorno a Padova, dove si dette ad esercitare la professione d'ingegnere.

Anima fiera ed onesta, egli, pur lavorando contro l'Austria, non volle entrare in alcuna setta. Nel 1852 fu arrestato.

(1) È chiaro quanto la schiacciata rotondità della terra che Giuseppe Romano non appartiene alla Destra. Però io doveva metterlo accanto al Cavalletto. Mi si perdoni quest'altro reato contro la legge dei colori politici.

424 CAPO TERZO

In seguito a processo fu condannato a morte. Per grazia, ebbe sedici anni di carcere coi ferri. Dopo aver visto morire Tito Speri, suo compagno, Cavalletto fu condotto a Josephstadt. Vi stette fino al 1857, quando fu amnistiato. Durante la guerra del 1859, Cavalletto, stando a Torino, fu di aiuto e di sprone ai veneti che volevano arruolarsi come volontari. Avvenuto l'armistizio di Villafranca, egli fu uno dei membri del Comitato avente il duplice scopo di mantener viva l'agitazione nel Veneto e di soccorrere gli emigrati indigenti.

Giuseppe Romano, fratello del celebre Liborio, nacque a Patù, in provincia di Otranto. Anch'egli patriota, amò tuttavia più le cospirazioni che le battaglie a viso aperto. Nel 1830 fu tra i fondatori della Giovane Italia nelle provincie meridionali. Nel 1834, scoperto, fuggì. Ritornato dopo pochi anni, fece fino al 1S47 l'avvocato. In quell'anno risorse in lui l'antico uomo. Il 15 maggio 1848, come guardia nazionale, ebbe l'incarico di far da sentinella alla porta della Camera dei deputati. Salvò gli onorevoli da un eccidio, grazie alle sue relazioni di amicizia col comandante degli svizzeri. Cavalletto fu, in Piemonte, l'angelo tutelare dei suoi compatrioti veneti. Romano, a Napoli, fu l'amico e il protettore dei liberali perseguitati. Amico, a sua volta, di lord Tempie, poté salvare Zuppetta, Pisanelli, Imbriani. Pedinato dalia polizia, fuggì. Più fortunato di Cavalletto, non soffrì i ferri.

Simili per giovanile vigorìa di mente e di cuore, per sentimento patriottico a doccia continua e per mancanza di personale ambizione, Cavalletto e Romano differiscono fra di loro per altri riguardi.

425 COLORI E VALORI

Quantunque sieno entrambi credenti nella efficacia progressiva della civiltà, ciò non pertanto, Romano è uno scontento ai Vaccina di rosa, un utopista, e Cavalletto è un contento dell'oggi, un uomo pratico. Romano non dispera di veder realizzati i suoi disegni di riforma sociale e di decentramento. Censura il presente, ma non bestemmia. Sorride, lavora e spera. Cavalletto, che spesso si mostra irritato con gli uomini che lo circondano, è in fondo al suo cuore convinto che il mondo deve andare come va. Romano è un utopista allegro. Cavalletto è un burbero benefico.

Bruno Chimirri non ha superato che di pochi anni la quarantina. Calabrese di forte ingegno, egli è svelto, attivo, laborioso. Svolazza come farfalla intorno alle fiamme della letteratura, del diritto, della politica e delle scienze economiche. Però non è divenuto profondo in niente. È un valente avvocato, non un giureconsulto. E un causeur ammaliante, non un critico. E un cultore di economia sociale, non un economista.

Chimirri è un simpatico uomo. Alto della persona, ben proporzionato, con capelli e mustacchi neri, egli ha l'occhio vivace ed audace, curioso ed investigatore. La sua voce ha un timbro semimetallico. La parola è rapida, facile, fluida. Il tuono è predicatorio. La forma del suo dire è sempre elegante e classica. L'argomentazione è sottile, ma non profonda. Si vede che l'oratore è un po' sofista. Come un prestigiatore, egli nasconde quei lati della quistione che a lui non conviene di discutere.

I suoi discorsi, irresistibili quando vengono uditi, diventano irresistenti quando sono letti.

426 CAPO TERZO

Un gruppo di quattro aristocratici delibanti la politica sono Luzi, Briganti Bellini, Borromeo e Papadopoli. I primi due appartengono alle Marche, il terzo è lombardo, e l'ultimo è del Veneto. Non hanno grande importanza nella Camera, sebbene sieno tutti molto stimati. Luzi e Bellini sono veterani della libertà. Questi servì la patria col braccio. Quegli la servì con la mente: fu cospiratore. Il conte Borromeo, nato a Milano, proviene dall'esercito. Combattette a Castelfidardo e nella campagna napoletana del 1860. Fu aiutante di campo di Cialdini. Egli non ha come il fratello Guido, che rassomigliava al Minghetti in iscorcio, l'incesso e la speranza di futuro ministro. Non ha ambizione. Non si agita. Non fa parte degli agrari lombardi. È un nobile tipo di soldato blasé, che, avendo visto la morte sui campi di battaglia, sorride innanzi alle innocue lotte parlamentari. Il conte Angelo Papadopoli è venuto alla Camera nel 1882. Ha quarantacinque anni. La nobiltà della famiglia è recente. Il conte Angelo è un giovane colto. Ha scritto

sovra argomenti economici. E stato in diplomazia. Potrebbe essere un valente segretario generale degli esteri o dell'agricoltura e commercio.

Anche aristocratici sono i deputati Rinaldo Taverna, Andrea Sola e Rinaldo Casati. Sono tre conti di non poco conto e con molti contanti. Hanno pure vaste proprietà. Insieme ài Carmine — ingegnere d'ingegno — al prof. Colombo e al Lucca formano il nucleo del gruppo degli agrari lombardi. I tre conti provengono dall'esercito. Il Taverna è il più valente della triade.

427 COLORI E VALORI

Nel 1859 fu tra i Cacciatori delle Alpi. Nel 1860 combattette nelle Marche e nelle provincie del Mezzogiorno. Nel 1866 stette a Custoza. Ha varie medaglie al valore militare. Fu segretario particolare di Lamar mora, allorché questi fu luogotenente a Roma. Nel 1872 andò a Berlino come attaché militare presso la nostra ambasciata. È un ex-colonnello molto colto, che ha completato il suo corredo intellettuale con qualche viaggio. È stato più volte relatore del bilancio della guerra. Su gli on. Lucca e Colombo poco posso dire. Il secondo s'illustrò con un discorso sul riordinamento dei tributi locali. Il primo ha un babau nel Grimaldi, e un altro nel Magliani. E tenace e persistente. Tanto il Colombo quanto il Lucca mancano ancora di quell'impercettibile sfumatura che serve a caratterizzare un deputato come uomo politico.

E tempo di occuparci di due pezzi grossi: il conte Codronchi e il marchese di Rudinì; Forse, nel momento in cui questo libro vedrà la luce, il Codronchi avrà già preso possesso della Prefettura di Napoli. Ciò non pertanto, io non posso resistere alla tentazione di stampare quanto aveva manoscritto pria del l'ecclissi del conte dalle lotte di Montecitorio.

Rudinì e Codronchi sono giovani entrambi. Codronchi, romagnolo, è nato nel 1841. Di Rudinì, siciliano, è nato nel 1835. Rudinì è uno degli eredi politici di Sella. Codronchi è l'erede politico di Minghetti. Sono ambiziosi, ma con sfumature diverse. L'ambizione di Rudinì è remuante, irrequieta, impaziente. Quella di Codronchi è tranquilla, dignitosa, tollerante. Rudinì teme sempre di arrivare troppo tardi, e si affretta. Codronchi è sicuro di sé, e aspetta che venga il suo quart d'heure. E capace di aspettarlo anche in una Prefettura.

428 CAPO TERZO

L'uno, che giovanissimo fu ministro, non può comprendere come oggi, a cinquantatré anni, debba rassegnarsi ad essere vicepresidente della Camera. L'altro, che fu segretario generale con Cantelli, non si meraviglia dell'attuale inerzia, e non dispera di arriver a un portafogli. Il primo, per arrivare più presto, urta i passanti e suscita proteste. Il secondo piglia il sentiero meno frequentato. Quegli giungerà stanco al Governo. Questi vi giungerà fresco e vegeto.

Sono tutti e due alti di statura, forti ed eleganti. Il Rudinì ha maggior posa e una certa aria di picciuotto siciliano. Il Codronchi ha minore affettazione di dignità ed una imponenza naturale, quasi inconsciente. Sono di maniere affabili e cortesi, ma di animo vigoroso. L'ingegno è forte in entrambi. La coltura è, nel Codronchi, più larga e con radici più tenaci e vetuste.

Il conte Codronchi si distinse nel movimento del 1859. E dottore in legge, ma non fa l'avvocato. La politica è l'unica sua aspirazione. Entrato nella Camera nel 1875, fu subito chiamato a sostituire il Gerra al segretariato generale dell'interno. La sua nomina piacque anche alla Sinistra. Finché visse il Minghetti, Codronchi ne fu il più fido luogotenente. Lo seguì nell'evoluzione verso il Depretis. Morto Minghetti, Codronchi si rivelò fiero avversario dell'onorevole di Stra della, e fece pendant al Rudinì. Dopo Dogali, fece 1'occhio dolce al Crispi. Il suo programma è molto semplice: —Diminuzione della tassa sul sale; abolizione dei decimi; imposizione di un lieve dazio sui prodotti agricoli esteri; legge che regoli i rapporti fra proprietario e colono; legge sul diritto di associazione; consorzi delle Provincie per le opere pubbliche; riordinamento delle Opere pie.

429 COLORI E VALORI

Di Rudinì cominciò la sua carriera politica in maniera più chiassosa. Nel 1866 era sindaco di Palermo, quando la città cadde in potere di una ciurmaglia infetta di clericalismo, di regionalismo e di mafia. Le autorità brillarono per debolezza e incapacità. Il solo Rudinì levò in alto lo stendardo della resistenza; e prima nel palazzo municipale, poi nel palazzo reale chiamò a raccolta le forze sparpagliate dei liberali. Egli s'illustrò per eroico coraggio, sangue freddo e ingegno organizzatore. Nominato, indi a poco, prefetto di Palermo, fu severo, spietato. Fece bene. Bisognava risollevare il prestigio del principio di autorità. Due anni dopo fu nominato prefetto di Napoli. Si rivelò privo di equanimità. Fu troppo partigiano. Ciò non pertanto, anzi, appunto per ciò, la Destra continuò a carezzarlo. I leaders del partito riposero in lui grandi speranze. Rudinì era il primo e vero uomo politico che il mezzogiorno d'Italia dava alla Destra. Nell'ottobre 1869 venne nominato ministro dell'interno. Cadde nel novembre. Nell'intervallo debutto alla Camera. Certo, il suo debutto non fu quello di Guglielmo Pitt o di lord Grev. Tuttavia, non fu un insuccesso. L'oratore non si manifestò pari all'uomo di azione. Però non fu inferiore agli altri oratori che parlarono in quel giorno; Miceli, Lazzaro, Nicotera, Macchi, attaccando Rudinì, non fecero discorsi meravigliosi. Furono astiosi, personali, provocatori. De Sanctis, è vero, scrisse del Rudinì nel suo giornale: «Ha parlato, ed è morto!»

Ma tutti conoscono che De Sanctis era un grande distratto. Chi sa a che cosa pensava mentre il ministro panava!

430 CAPO TERZO

Rimasto semplice deputato. Rudinì si distinse per straordinaria attività ed assiduità. Rimase a Destra; però fu quasi sempre un dissidente. Nel 1870-1873 fu avverso al ministero Lanza-Sella. Nel 1880 con altri suoi amici, entrò in trattative con Nicotera. Nel 1885 non approvando la condotta politica del suo partito, si dichiarò contro Depretis.

Il marchese di Rudinì espose il suo programma politico nel periodo elettorale del 1556. Giova riportarlo: — Il problema sociale sfugge all'azione dello Stato: l'onnipotenza della Camera deve frenarsi: ii Senato ha bisogno di una riforma in senso conservatore: ie amministrazioni hanno bisogno di giustizia; l'accentramento odierno è vizioso: le imprese africane devono essere abbandonate: le colonie dell'America del Sud meritano protezione: la finanza reclama moralità e forza: l'elettorato amministrativo può allargarsi: maggiori spese sono necessarie per l'esercito e per la marina.

Ritornato alla Camera con questo programma, il Rudinì se lo mise in tasca, e pensò unicamente a combattere il Ministero. Dopo Dogali, tentò con Codronchi e alcuni elementi di Centro di formare una coalizione col Crispi. a danno del Depretis. Ispirato da lui o dal Codronchi fu senza dubbio l'opuscolo Camera e Ministero in cui si citava erroneamente la storia inglese a sostegno del connubio. Crispi non si commosse, e accettò l'amplesso di Depretis.

Rudinì e Codronchi risaliranno, senza dubbio, al Governo. Essi onorano ì" aristocrazia italiana. Solo con la partecipazione intelligente della nobiltà alla vita politica, la monarchia costituzionale potrà mettere salde radici in Italia.

431

Il veterano della deputazione ligure, il Presidente della Camera, meriterebbe uno sproloquio piuttosto lungo, se io non avessi giurato di esser breve.

L'avvocato Giuseppe Biancheri fu avversario del conte di Cavour. Fu tra coloro che votarono contro il trattato di alleanza del Piemonte con le potenze occidentali. Si mantenne in questo stato di opposizione fino al 1860. In quest'anno, parlò contro la cessione di Nizza e Savoia. San Tommaso politico, egli non credette al genio di Cavour se non quando vide fatta l'Italia.

Nella Camera del Regno d'Italia, egli entrò preceduto da una buona fama oratoria. Angelo Brofferio lo chiamava arguto ragionatore. Lo Sconosciuto, scrittore di quell'epoca, scriveva: «Biancheri, se ha la parola precipitata troppo, l'ha però vivace, espressiva, incalzante.» E l'Arrighi aggiungeva:Biancheri, nei suoi discorsi, ci si mostra dotato di retto criterio, ma senza slancio, e un po' troppo minuzioso. Egli ha, però, la dote preziosa di vedere il punto giusto dell'argomento e di attaccarsi ad esso con soda e pertinace insistenza.

Il Biancheri accrebbe questa fama oratòria coi discorsi pronunziati, nel 1864, sulla quistione Susani Bastogi. Col tempo, ei divenne di pura Destra. Crebbe nella stima dei colleghi. A differenza degli apostati, non diede prova di eccessivo zelo per la novella fede politica abbracciata. Conservossi equanime. D'integrità proverbiale, il Biancheri può chiamarsi, per questo riguardo, un Giovanni Lanza meno rude.

Pur non avendo grandi doti intellettuali né coltura enciclopedica, egli divenne uno dei deputati più influenti della Destra.

432 CAPO TERZO

Fu nominato Presidente della Camera. In quest'ufficio stette per tre Legislature di seguito. Dimessosi Farini da speaker, Biancheri fu rieletto Presidente.

Come speaker, Biancheri merita lode per l'arte di dirigere le discussioni e per l'energia non scompagnata dal tratto cortese. Quanto all'imparzialità, se ne mostrò dotato più sotto il Governo della Destra che durante il dominio di Depretis. Il Farini, quand’era Presidente, non era partigiano; tuttavia, non si mostrava sempre imparziale. Egli rallentava i freni quando parlavano gli oratori delle minoranze. Nei battibecchi fra Bonghi e Bovio, protesse il Bovio. Nel celebre incidente fra Bonghi e Mancini, protesse il Bonghi. Nel primo caso era Bovio che rappresentava la minoranza. Nel secondo, la rappresentava il Bonghi. Biancheri non ha di queste sentimentalità. Egli pretende da tutti uguale disciplina. In compenso, è più indulgente del Farini per l'uso di parole, che, pur non offendendo le persone, offendano l'ortodossia monarchica o il Galateo parlamentare. Una volta, il Farini richiamò all'ordine l'on. Arisi, perché costui proponevasi di fare un po' di storia dei cornuti celebri.

Più di Biancheri, l'on. Farini era dotato di percezione acutissima e di acutissimo udito. A lui non sfuggiva alcuna allusione, alcun mormorio. Biancheri non permette che colui, il quale ha chiesto di parlare per fatto personale, esca dai limiti dell'argomento per entrare nel merito. Farini, all'opposto, fingeva di non capire. Bastava chiedere la parola per fatto personale per riaprire comodamente la discussione generale. Tuttavia, ci teneva a che il deputato domandasse la parola usando quella formola sacramentale.

433 COLORI E VALORI

Più ancora di Biancheri, egli sapeva garentire la libertà di parola degli oratori contro le impazienze della Camera.

Biancheri non ha lo spirito di Farini, ed è più irritabile. Essendo vecchio, si stanca e si secca più presto. Però non si offende tanto facilmente, ed è meno corrivo a vedere in ogni frase di colore ribelle un rimprovero alla sua autorità presidenziale. Si crede meno infallibile del Farini. E più umano.

Rattazzi, Farini e Biancheri saranno ricordati come i tre più valenti speaker della Camera italiana.

Veterano anch'esso è l'on. Isacco Maurogonato Pesaro. Ha circa ottant'anni. Tipo senatoriale, starebbe meglio a Palazzo Madama. Di stirpe israelitica, Maurogonato è onore della sua razza e dell'Italia. E del Veneto, e alla Camera, sebbene sia stato sempre di Destra, gode la stima e l'affetto di tutti i partiti. Lavora e discute. Fa il suo dovere, e non s'immischia nei pettegolezzi di commerage e nelle congiure di palazzo. Dedicatosi agli studi e alla pratica delle finanze, Maurogonato è, in tale ramo, un colosso. Alla Camera, pochi sono i finanzieri che l'uguagliano, nessuno lo supera.

Un altro ebreo veneto è Luigi Luzzatti, Presidente della Commissione del Bilancio. Maurogonato ha la semplicità imponente. Luzzatti ha la teatralità magnifica» Perfetto modello della nobile razza israelitica, Luzzatti è, come lord Beaconsfield, un misto di réve e di realtà, d'idealismo e di positivismo di ricordi di un passato glorioso, di melanconie di un presente meschino, di aspirazioni con un avvenire migliore.

434 CAPO TERZO

Nacque a Venezia nel 1841. Ad onta della sua laurea in legge, cominciò ad insegnare nell’istituto tecnico di Milano. Nel 1867, ottenne la cattedra di diritto costituzionale all'Università di Padova. Nello stesso annodando all'Esposizione Universale di Parigi come commissario governativo. Vi brillò. Nel 1869, fu fatto segretario generale del Ministero di agricoltura e commercio, tenuto dal Minghetti. Vi rimase pochi mesi.

Ingegno versatissimo, Luzzatti ha coltivato e coltiva contemporaneamente gli stuoli letterari, le discipline di diritto pubblico e le scienze economiche. Alla Camera, la sua opinione in materie finanziarie è imponente. In materia di giure costituzionale non ha rivali. Sa le consuetudini parlamentari inglesi meglio di qualunque altro in Italia. Bonghi stesso, su tale campo, non può stargli a pari. Quando, due anni fa, si fece in Parlamento un po' di erudizione britannica sulla legge del catenaccio, Bonghi dovette battere in ritirata di fronte a Luzzatti.

Luzzatti è un socialista della cattedra. Vuole che le tasse indirette si limitino a colpire le cose utili o le voluttuose. Ha immensa fiducia nel risparmiò. A lui si deve l'introduzione, in Italia, delle Casse postali di risparmio. Nè solo agli operai, ma ancora ai piccoli proprietari di campagna egli rivolge le sue cure. L'impulso dato al credito agrario è, in parte, opera sua.

Come scrittore, il Luzzatti è prolisso, monotono, e talvolta noioso. Non c'è vita né varietà nei suoi articoli o nei suoi libri. La monotonia è anche il difetto di Luzzatti come oratore. Egli è sempre lo stesso — è troppo subbiettivo. Non sa obbiettivarsi.

436 COLORI E VALORI

Il miglior profilo di Luzzatti come uomo ed oratore fu scritto dal De Zerbi pochi anni fa:

«Luzzatti ha tutte le qualità dell'oratore efficace ed atto a padroneggiare le assemblee, poiché parla ai dotti con le sue idee, ed alle moltitudini con la sua forma, ai pedanti con l'arsenale delle sue cognizioni tecniche, ed agli artisti con l'eleganza del suo periodo e coi ricordi letterari ch'egli sa maestrevolmente innestare sul tronco dei più aridi temi scientifici, finanziari ed amministrativi. I suoi discorsi non hanno bisogno di preparazione. Egli sa tanto da poter improvvisare; anzi, nelle repliche, quando è obbligato ad abbandonarsi alla vena spontanea, è più forte, più arguto, più abbagliante... Fa vita modestissima. È casto, esageratamente monogamo. Ha lunghi baffi biondi e lungo pizzo che finisce come la punta di uno scarpino cinese. Porta i capelli come il Nazareno. Non l'ho mai veduto con abiti nuovissimi.»

Privo affatto di teatralità è l'on. Paolo Boselli, ministro dell'istruzione pubblica. L'inchiesta sulla marina mercantile rese di pubblica ragione l'ingegno e l'operosità di questo ligure che ha appena cinquant'anni. Bisogna dirlo: Boselli alla Minerva si trova un po' spostato. 11 suo posto era alle finanze o all'agricoltura e commercio.

Boselli fu, per la prima volta, chiamato nella vita pubblica, da Quintino Sella, che, nel 1870 lo nominò membro della Commissione permanente di finanza. Divenne, poi, professore di Scienza delle finanze all'Università di Roma, dottore aggregato dell'università di Genova, Presidente del Consiglio di marina mercantile.

436 CAPO TERZO

È pure un cultore di studi storici. Nello scorso anno pubblicò un lavoro biografico su Lorenzo Pareto — Che ho inteso lodare. È oratore felice, quantunque privo di calore e del dono dell'improvvisazione. È il vero tipo del giovine politico. Non è stato cospiratore né soldato. È dotto, laborioso, modesto. Senza animosità personali o tradizioni di partito, egli non è travagliato né legato dai ricordi dèi passato, ed ha l'intuito dell'avvenire.

Se Boselli non ha la coscienza del proprio valore, Bonfadini ne ha troppa. Per carattere l'on. Romualdo è un Bonghi lombardo. Un Bonghi meno enciclopedico, con maggiore prestanza personale e più grande cortesia di modi.

Nacque nella Valtellina, nel 1831. Pubblicista illustre, scrisse, successivamente, nel Crepuscolo, nella Perseveranza, 'nel Politecnico. Di libri, ne ha pubblicati più m uno. Sono notevoli, fra gli altri: Roma nel 1867; — La Repubblica Cisalpina e il Regno di Italia; — Mezzo secolo di patriottismo lombardo.

Quest'ultimo lavoro è davvero stupendo per spirito patriottico, peregrinità di notizie e magnificenza di stile. Bonfadini, infatti, è uno scrittore magnifico.

In Parlamento sedette sempre a Destra. Della Destra si mostrò un ringhioso howledogite. Tanto bouledogue che per essere rieletto fu costretto a ricorrere a un collegio delle Romagne. Dal 1874 al 1876 fu segretario generale con Bonghi. Oggi è un fautore delle economie fino all'osso.

Bonfadini non è un oratore. Bensì, è un aggraziato ed arguto parlatore. Anzi più che un parlatore, egli è un causeur. La conversazione è il suo forte. Nella Assemblea, lo si sente poco. Conservatore nei principii, è anche conservatore della voce.

437 COLORI E VALORI

Come uomo politico, egli affetta disprezzo per il volgo, per le masse. Una volta, disse che non aveva alcuna paura degli elettori, e che si sentiva superiore a qualunque lenocinio elettorale. . Ultimamente, sollevò, con fierezza, la testa contro ii Ministero, e si deve a lui e al Bertollo se i provvedimenti militari ebbero l'onore di una discussione negli uffici.

Quella belva di Senato.

Quella iena di Saracco

Agostino ha macinato,

Agostino ha messo in sacco.

Ed il povero Agostino

È li sotto una ruota di mulino.

Così cantava, alla maniera dei Zoulous, il Pasquino di sei o sette anni fa. Allora. Depretis-Magliani pugnavano per l'abolizione della tassa del macinato; e Saracco, a palazzo Madama, si faceva strenuo oppositore di detta legge. Nell'aprile 1SS7 le cose mutarono. I due Agostini, dimenticando il passato prossimo, dettero l'amplesso di pace al Saracco, che, a sua volta, abbracciò un portafogli.

Saracco nacque a Bistagno in quel di Acqui, nel I82L Laureatosi in giurisprudenza, esercitò poco la professione. Entrò nelle amministrazioni locali. Mandato alla Camera subalpina, aderì al gruppo Rattazzi. Si distinse, fin d'allora, nelle quistioni economiche e finanziarie.

Prima del Magliani, fu Minghetti il bersaglio dei colpi di Saracco.

Questi costrinse l'on. Marco, nel 1861, prima a ritirare il progetto sulle Regioni, e poi a ritirarsi dal Ministero Ricasoli.

438 CAPO TERZO

Nel 1864 pronunziò un grande discorso con cui demolì tutto l'edifizio finanziario dello stesso Minghetti, il quale nel 1862 era tornato al Governo.

Dopo essere stato segretario generale nel primo Ministero Rattazzi, e dopo avere spietatamente combattuto il gruppo toscano-romagnolo, il Saracco, nel 1865, entrò in Senato. Venuta la Sinistra al potere, le acque di palazzo Madama furono intorbidate dall'agitazione partigiana dell'onorevole sindaco di Acqui. Grazie all'antico nemico di Minghetti, il Senato si ridestò a novella vita, e oppose all'abolizione della del macinato una coraggiosa resistenza.

Ai lavori pubblici, Saracco ha rialzato il prestigio di quel dicastero. Egli sa fare i conti meglio di Genala. I meridionali, allorché seppero la sua nomina a ministro, strepitarono. Vani strepiti! Saracco non muore di amore per noi del Mezzogiorno, ma neanche ci odia. Egli farà ciò che sarà giusto fare finanziariamente.

Saracco, pel fisico, è un vecchio dandy, un Thiers meno brutto, ma ugualmente magro, piccolo, pieno di argento vivo. Parla con facilità di eloquio, forza di argomenti, chiarezza di forma. Il suo discorso, in cui fa capolino spesso il sarcasmo, non ha fronzoli letterari: è nudo e povero come un professore di filosofia.

Il Saracco, che ha brontolato e parlato sempre contro i ministri del pubblico erario, sia di Destra, sia di Sinistra, può chiamarsi il Piagnone, il fra Girolamo Savonarola della finanza italiana. Ha pianto continuamente sul consumo dei danari e &ul deficit dei bilanci.

L'on. Saracco ha i difetti e i pregi degli ingegni analitici. E temperamento flemmatico, sebbene sia, in apparenza, dominato dall'irrequietezza.

439 COLORI E VALORI

Però l'irrequietezza e l'ardore di Saraceo sono affatto muscolari. Non partono dal cuore né agitano i nervi. Freddo e calcolatore, egli non sogna una patria gloriosa. La vorrebbe piuttosto prospera e ricca. L'equilibrio del Mediterraneo non gl'importa. Gl'importa, bensì, l'equilibrio nel bilancio dello Stato e in quello della Nazione.

Aristide e Federigo Gabelli sono due grandi ingegni del Veneto. Aristide è un professore, sbalzato all'ultima ora nella politica, in cui si trova come un pesce fuor d'acqua. Federigo, invece, antico deputato e partigiano di Destra, ha molte doti dello statista.

Gli scritti principali di Aristide sono: L'uomo e le scienze sociali; — Il Mio e il Tuo; — Gli Scettici della Statistica; — Pensieri. Ingegno profonda e versatile, l'on. Aristide ha scritto pure di cose penali, e diretto un giornale forense. Ha pubblicato, inoltre, lavori di critica storica, e un libro sui rapporti fra lo Stato e la Chiesa. Nella carriera scolastica è giunto al grado di Provveditore agli studi.

Suo fratello Federigo è un ingegnere di gran nome. In politica è un conservatore accanito. È originale,, ma vuole sembrarlo di più. Fu tra i deputati di Destra che fecero causa comune con la Pentarchia contro le convenzioni ferroviarie. È oratore che si fa ascoltare non per l'arte, di cui manca, ma per la voce cavernosa,, l'acutezza delle osservazioni e il contrasto tra l'aspetto serio e le lepidezze veneziane. Gabelli non ha preso, finora, parte al Governo; ed è un peccato.

Un uomo come lui, dotato, ad esuberanza, d'ingegno, di coltura e di carattere, avrebbe dovuto da un pezzo essere utilizzato a vantaggio del paese.

440 CAPO TERZO

Molti altri elementi preziosi conta la Destra. Romanin Jacour, Maggiorino Ferraris, Galli, Salandrà, Di Camporeale sono giovani d'indiscutibile valore. Pullè, il commediografo, finirà col darci una commedia di soggetto politico. Pavoncella ricchissimo proprietario, è fornito d'ingegno e di coltura. Basteris a differenza di Tondi e di Falcone, magistrati come lui, ha qualche qualità politica. Righi, che ha'  teste riferito sul progetto di legge sulla Cassazione unica, e Spirito, che sullo stesso argomento ha saputo dire qualche aspra verità al guardasigilli, sono due valorosissimi giuristi e valenti oratori. Luigi Ghiaia, il compagno di Lamarmora, uscito dalla milizia, si dedicò interamente agli studi storici. Le sue prefazioni alle Lettere di Cavour sono una fonte inesauribile di notizie preziose e di apprezzamenti spassionati. Il nome di Ghiaia rimarrà legato a quello del celebre Conte, al quale il modesto deputato, con la pubblicazione dell’Epistolario, rese un servigio inestimabile.

CONCLUSIONE

Ora due parole non dì conchiusione ma di prefazione. Che i lettori non si spaventino, né credano che io debba andare a Charenton. In questo momento, almeno, considerato lo stato intellettuale della Francia, non vi troverei un solo posto libero! La prefazione deve sempre mettersi alla fine di un libro qualunque, — come la definizione di una scienza non s'impara che alla coda della stessa. E la prefazione ai Moribondi è questa: Nella Camera attuale manca una razionale distinzione dei partiti. I partiti vi si distinguono per la posizione del sedere, non pel movimento delle idee. Il criterio del maggiore o minore allargamento dei freni neanche può servire per una divisione logica. Qualunque uomo politico, sia pure Rochefort, venuto al Governo, cercherà sempre di stringere i freni. Il cannone e il carnefice — diceva Giuseppe Ferrari — sono stati costantemente gli strumenti di qualsiasi Governo. Bisogna, dunque, trovare un criterio di distinzione più sincero. E il criterio sincero non si può avere se non affidando a un partito la missione di procurare unicamente il benessere agricolo, commerciale e marittimo dell'Italia, e all'altro la missione di procurarne la gloria. Al primo, il compito di combattere la fame: al secondo, il compito di combattere per la fama.

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Nel cuore dell'uomo vibrano egualmente la corda dell’interesse materiale e quella dell'interesse morale. Due partiti che s'ispirassero a tali vibrazioni, sarebbero umani. Senza dubbio, i vecchi e i rivoluzionari non intenderanno questo linguaggio. Tanto meglio! Io non parlo per loro. Io parlo ai giovani, dai quali deve venire la rinnovazione della patria. Due cose sono necessarie all'uomo di Stato del nostro paese: coltura e sincerità. I rivoluzionari difettano dell'una, mancano dell'altra. Essi fecero l'Italia distruggendo i sette regni. Ai giovani tocca di fare l'italiano distruggendo il regno delle sette. Sparirono i sette; spariscano le sette!

INDICE

Capo Primo. — Le regioni.

Rappresentanza nella Camera e nel. Ministero — Una statistica interessante — 145 ministri — Una conseguenza paradossale — L'egemonia dei piemontesi — Diritto e dovere — I quattro fondatori dell'unità —Gl'italiani in Piemonte — Necessità politica — La concorrenza della Toscana e dell'Emilia — Il Mentore — Il Mezzogiorno — Il Veneto ostracizzato — Le tre B della Liguria — I Capopartito in Romagna — Il Centro mobile in Toscana — I toscani apportatori di discordia — I romagnoli senza spleen — Il carattere ed il genio in Piemonte — La specialità — I lombardi — Gli agrarii e il conte Sola — Veneti allegri — II coraggio e la petulanza dei liguri — La regione meno regionale — I deputati della Campania — I paglietti — Il resto del Mezzogiorno — Perché Del Zio fu abbandonato — Siciliani, sardi e calabresi

Capo Secondo. — La età

La vita politica in Italia — La Società e la Legge — Minorità politica — Bonglii che corteggia le signore — L'amico venerando — Varè che giovaneggia — Il vecchio illustre — L'ilotisino politico — Le capacità storiche — Alimena e Disraeli — L'ipocrisia della modestia — Dilettanti routiniers — Il partito dei giovani — La Giovane Sinistra e la Sinistra archeologica — I giovani in Inghilterra e in Francia — La superiorità dei giovani — Vecchi irascibili — Il loro dovere — Statue non portafogli

CAPO TERZO — COLORI E VALORI

Sezione Prima. — L'Estrema Sinistra.

§ 1 — I radicali italiani — Spirito di educazione e spirito di legalità — I girondini d Italia — La Montagna piemontese — La prima evoluzione — L'occhio clinico — Depretis e Brofferio spaventati — La seconda evoluzione — I radicali nel 1613 — Successive metamorfosi — Crispi e Mordini — Inerzia dell'Estrema Sinistra —Programma. Pag. ….......................... 27

§ 2 — Sacelli — Panizza — La figura accigliata — Panizza e Marat—Gattelli — Fazio — L'on. Paternostro o il secondo egiziano della Camera — Caldesi — Pais e Ferri che incanta — Pellegrini e la io rum a delle frasi — Le potenzialità politiche e le potenzi idem — Bovio a Trani — Giovanni Ghiaia — Il letteratone — L'istmo di Suez in versi — Concertisti poetici — lì primo amore di Bovio — Il primo scritto — La scomunica dei preti e quella dei filosofi — Bonghi che regala Aristotile a Bovio — A Napoli con ottanta lire — Un testamento poetico — Un filosofo truffato da un poeta — Il concorso pel Principe Umberto — Le proposte di Scialoia — Rivoluzione regolamentaria — Il pareggiamento di Bovio — I due dispiaceri di Bonghi — Un superstite — I sei filosofi — Le agapi dei pensatori — Bovio professore e scrittore — La stima di Depretis — L'na domanda della Regina — Bovio tribuno — 0 Connel che dice il Tosarlo — Bovio e Brofferio — I tenitori di Marcora — Il volontario del 1S59 — Un medico-avocato — La spedizione dei mille — Marcora sergente — Due volte avvocato — Marcora nel 163 — L'attività parlamentare — Democratici imperiali — Marcora amico della borghesia— L'oratore — Il volto canonicale di Fortis — Il pallore di Cassio ' — Fortis avvocato — Fortis e Orilia — Manuel — La trasformazione — Il nodo della cravatta di Olivier — Mussi federalista teorico — Il brio e le immagini — Mussi, Toscanelli e Siotto-Pintor — Una relazione gioiello

Taddeo e Veneranda — Il reddito dell'orto — I salii di miss Liberty  — Il conte Ferrari discepolo di Bertani — Socialisti prima e repubblicani dopo — Ettore Ferrari — Cavallotti nel medioevo — Il suo carattere — Cavallotti che giura e lo scandalo dì un naturalista — Cavallotti e Depretis — Le braccia di lord Beaconfield — Gli altri militi. Pag..40

Sezione Seconda. — La Sinistra.

§ 1° — I precedenti.  — Sommario. — La Varenne — Il 50 O|O d'inesattezze — Il restaurant della Sinistra — I piatti freddi della Destra — La cucina del terzo Partito — La Giovane Sinistra — Il bagaglio rivoluzionario — Musica centralista — Pentarchi e triarchi — Mitologia politica.

§ 2° — Il Capo.  — Sommario. — Francesco Crispi — I giornalisti — Crispi reporter — L'amicizia di Mazzini — L'idea di Fabrizi — Le gite in Sicilia — I fratelli Di Benedetto — Crispi che modella bombe all'Orsini — Il quarantesimo genetliaco di Crispi — Il grande uomo — L'uomo dalla cravatta bianca — La spedizione dei Mille — Garibaldi garante del mare — Crispi garante della terra— Giuseppe Crispi— Un trono per Garibaldi —Cavour e Crispi — L'influenza del signor Crispi Abbasso Crispi! — Farini e Lafarina — L'appartamento magnifico — Lo Spirito folletto — La barba grigia di Crispi — LaPistola in tasca! — Saint-Just e l'ombra di Bruto — Bonghi e Crispi —,a celebre frase — La lettera di Mazzini — Le tendenze guicciardinesche — La cessione del Piemonte — Le interruzioni indecenti — È pazzo! — La Riforma — All'albergo di New Yorck — Crispi e Garibaldi nel 1867 — La risposta epica di Garibaldi — Le barricate nel 1870 — L'ideale di Gioberti. — I dandoli dell'on. Crispi — Crispi oratore — Crispi e Casimiro Perier — La fortuna d'Italia — Giudizi e profezie.

§ 3. — I Comandanti.  — Sommario. — Zanardelli — L'insofferenza dei guanti — I ministri simpatici — Dupin padre di una scimmia — Zanardelli repubblicano —Francesco I parodiato — Il ministro — Il giudizio di Catone — Le medita zio lidi Zanardelli — Dicasteri accivettati — Le memoriette anemiche — La medicina omeopatica — L'oratore — Zanardelli e Bonghi — Medire, non maudire — Gladstone e Zanardelli — Ciò che Zanardelli non potrà dire — Il Guizot della libertà e il Baiardo della democrazia —L'esposizione generale di cicatrici — Cairoli che arresta il duca di Parma — Il rapimento dell'imperatore d'Austria — I fratelli Cairoli — Il 1861 e il 1878 — La vittima infiorata — Cairoli e Cicerone — Il capitombolo nel Mediterraneo — Il franose di Cairoli — Il bien assez di Mellana — Cairoli e Lafayette — Che cosa dirà la storia — Baccarìni — Gì'ingegneri politici e ingegni omonimi — Il calcio della Fortuna. — IL ministro dei lavori pubblici— La vera Italia irredenta — Baccarini e il problema sociale — L'attività e il riposo della politica — Mancini discendente da Mazarino

— I genitori — L'enfant prodige — Avvocato a diciotto anni — Il lavoro sul Paratremuoto— Le lodi di Macedonio Melloni — Lo scritto sul Colera — L'insegnamento di Mancini — Il professore arrestato — Il colloquio di Mancini col Re Ferdinando — La spedizione in Lombardia — La protesta del 15 maggio— Mancini difensore dei processati politici — L'ordine di arresto — La fuga — La condanna — Esilio glorioso — L'avvocato improvvisatore — Il professore di diritto internazionale — Le proteste austro-borboniche e la risposta di D'Azeglio — Il ritorno a Napoli — Mancini che mette in furore il Papa — Il ministro degli esteri — L'oratore — Un futuro ministro, scrivano di Mancini — Nicotera allievo di Settembrini — Nemico del greco, amico dell'Italia — Il soldato di Napoli e di Roma — Sapri — Rosolino Pilo in convulsioni — Un duello all'americana — Un bagno involontario — Padula — Sanza — Dogali in anticipo — La descrizione del Faldella — Il calamaio di bronzo e la testa di un Procuratore Generale — Il leoncino di Mazzini — Ricasoli che vuole levarsi la maschera — La protesta, — Mazzini che difende Nicotera — Ricasoli che mentisce — L'evoluzione — Nicotera che balla al Quirinale — Bismarck che non sa danzare la quadriglia Brididi — La congiura dei baroni — Il ministro dell'interno — Il melodramma — Le armi di un brigante offerte al Re — Nicotera contro Depretis — Sogni svaniti — La figlia di Pisacane — Nicotera è liquidato? — Sandonato — L'affetto per la madre — Il cospiratore— Il giornalista a Parigi — Sandonato espulso dalla Francia — Colpi di Stato e colpi di scopa — Il giudizio di La Va renne — A Napoli — Sandonato ferito — Sandonato che nasconde Depretis — Vittorio Emanuele che viene nel vicereame del Duca — l difetti di Sandonato — L'onorevole Villa — L'avvocato-letterato — Il giornalista — Il Corriere delle Alpi— Villa e Mazzini — La Permanente — Il viaggio a Londra — Villa ministro — La relazione sul Codice penale.

§ 4. — I Luogotenenti.  — Sommario. — Laporta e Morana — II 1° ottobre 1860 — I declamatori — L,'incontentabilità — Morana e Nino Bixio — Noiose considerazioni — Scalata non scala — Lo zelo quànd mème — li tentativo del 18S1 — L'amministrazione à l'arc-en-ciel — La Porta alla medesima dei ministeri — L'affetto di Morana per Depretis — Un salto non mortale — Salaris irrequieto — A Santa Lucia — Il corpus vile degli esordienti — Dottrinario, non dotto — Polka politica — Salaris ammalato di ciandalismo — Il Cavalletto della Sinistra — L'on. Ferra coi ù — Illustrazione, non uomo illustre— Il capo dei veterani — Spavento e terrore — Il mare in tempesta — Un Topete italiano — I canoni del diritto e i cannoni da cento

— L'aplomb di Ferraccia — Decorazione rifiutata — I cavalieri del colera e quelli dello zucchero — Branca, Giolitti e Seismit-Doda — La Trinità discordante — Doda compagno di Fortis — Le due dame di Francia — Falso profeta — Il ministro rèveur — Branca cospiratore? — Branca giudicato dal barone Savarese — La rapida fortuna di Giolitti — La contabilità — Ma glia ni e Giolitti — L'Arcoleo lucano — Arrivi, non parvenu — Tre valori — L'on. Taiani — Il panetto e l'orbetto — Taiani o la balia svizzera — L'esilio — Il volontario del 59 — Il procuratore generale — I discorsi del 1875 — L'oratore — Il ministro — L'on. Miceli — Il soldato della libertà — Miceli che insegna il diritto — La spedizione dei Mille — Il deputato — Una signora inglese che vuole Miceli per marito — Povertà illustre.

§5 — Lo Stato Maggiore.  — Sommario. Grimaldi e Magliani — La gioventù di Grimaldi —L'allieva degli Scolopii — La carriera di Magliani— Magliani che loda Marena — Il Giovanile candore di Grimaldi — L'inno di Petruccelli — Il giovine Ajossa — L'età dell'oro — La coltura di Magliani e di Grimaldi —John Bught — Le esposizioni finanziarie di Magliani — Il conte Pianciani — Pianciani derubato dai preti — Libri scandalosi — Pianciani che personifica l'Italia — Tastarini-Cresi e Lutero — Lo sdegno dei gesuiti — L'allievo di Casella — Un bacio non perduto — I due migliori discorsi — Marselli che rasenta il regolamento — Vastarini oratore — L'indignazione gutturali dei penalisti napoletani — Vastarini non è umorismi — L'avvocato — La maestra di francese dell'onorevole Tastarmi — il conte Amadei —Il nemico della fillossera — L'on. Angeloni — Damiani e Cooco-Ortu — Il braccio sinistro di Zanardelli — L'alter ego di Crispi — L'affabilità provinciale dell'on. Sorrentino — Il capo degli sjugriuoh'— Il maestro concertatore — L'on. Pasquali — Il procuratore di Brofferio — La disinvoltura di Pasquali — Pasquali è un Utrumenio a corda — Gli occhi vegeti di Cesare — Cuccili e Sprovieri — Sprovieri a Tenezia — Cacchi che entra in Roma — Il banchiere Belinzaghi — Gendarmi burlati! —Lovito e La cava — La mutua gelosia — I cospiratori — Laeava e lo sbarco di Saprì — Lovito che eclissa Lacava — Il disinteresse di Lovito — Un trimmer interno — Amor proprio ed amore proprio — Lazzaro e Comin — L'insegnante cospiratore — Scenografia militare — L'arresto di Lazzaro — Il Roma — La specialità di Lazzaro — Il pubblicista — La fortuna del Roma — Comin signora e Fortis — Il Pungolo — Il giornale ufficioso — Le corrispondenze "della Rattazzi — La gallofobia di Comin — L'egoismo di Lazzaro e di Comin — L'on. Brin —I viaggi all'estero — Il relatore della legge elettorale — Il creatore delle grandinavi —Il dovere di Brin — L'on. d'Arco  —

Il coraggio personale — Risposta eroica — Bario — Gerardi — Ellena — Florenzana — Gìovagnoli — Elia — Nanni — Nocito — Panaitoni — Lanzara,

§ 6. I Militi.  — Sommario. — I deputati della Madonna di Pompei — Marco Rocco — L'on. Della Rocca — La stanza rivoluzionaria — La stanza clericale — L'on. Trinchera — Michele Capozzi — Avvocati napoletani — Placido — Simeoni — De Bernardis — Giovani e vecchi — Nobiltà siciliana — Rassegna a vol d'uccello — Magistrati deputati.

§ 7. Il Gruppo degli Economi.  — Sommario. — Stazione di confine — Cifrario — Frola — Plebano — Il solo economista fra gli economi — Balegno che si mantiene bene — Le melanconia di Piegano — Tegas — Fava le e Orosio — La mancanza di teatralità — Roux — L'uomo elettrico — L'editore — L'uomo politico — Un militare economo — Compans — Un milite sbornialo — Merzario — Faldella — La salita a Montecitorio — Le signore nella politica — L'oratore del Popolo — Ciò che manca agli economi.

SEZIONE TERZA  — Il Centro.

§ 1° — Storia Internazionale.  — Sommario. — L'ospedale degli invalidi— Il romitaggio— L'osservatorio — L'ospizio dei trovatelli —Il coro — Il Centro in"Francia — Il terzo parato in Inghilterra — Seminario politico — L'egemonia del Centro.

§ 2. — Gli ex-Ministri.  — Sommario. — Peruzzi — Il nobile signorino — I calzini e le scarpe di Ubaidino — Il Gonfaloniere — Il generale d'Aspre — Una lettera si Granduca — La Sfinge e la Volpe — Peruzzi e 1 Piemontesi — Le notizie del Diritto — Peruzzi che fuma il sigaro — Il salon di donna Ersilia — L'opinione del Duca di Wurtemberg — Lo Spirito folletto e Pen;zzì — Ceppino — Se egli poteva chiudere un occhio! — Ceppino poeta — Il ministro routinier — L'oratore damerino — Il discorso del 1864 — L'interruzione di Bixio — Coppino che sta per piangere — Il giudizio di Bonghi — Fanfulla e il dandysme di Coppino — Baccelli — Il medico rivoluzionario — Le parole di Broussais — Il clinico — Il ministro — Baccelli e Castelar — Berti — Il pontefice massimo del Centro — La Svizera e le intelligenze — Berti attore drammatico — Berti che salta il fosso — Il ministro socialista — Lo scienziato e l'erudito — Il ministro della libertà e del benessere — Mordini repubblicano — Mordini prodittatore — Il favoritismo e l'impiegomania — La Farina che schiamazza — Il collare dell'Annunziata per Mordini — Il capo dei garibaldini — Mordini col fez di velluto

— Cordova e Mordini — La trasformazione — Genala — Il suo valore politico — Genala e la nuova volontà divina — Il ministro dei lavori pubblici — Un commesso di farmacia — Il ministro delle tombe e dei banchetti — Il migliore allievo di Depretis.

§ 3. — Gli ex-segretari generali.  — Sommarlo. — Niccola Marselli — Un tic — L'allievo della Nunziatella — La scienza e l'arte che cospirano — Il 1860 — La lettera a Debenedictis — La virtù dei cani — Marselli che non si muove — II trasformismo e il partito nazionale — Valore liquidato — Un discendente di Guicciardini — Il marchese Cappelli — La sua conversione — L'attaché diplomatico e l'attaché amministrativo — Cirillo Monzani — Un cospiratore bizzarro — Del Carretto e Melloni — Un dono al granduca di Toscana — Monzani che aiuta Gioberti — Rara modestia.

§ 4. — Gli ex-rassegnati.  — Sommario. — Franchetti e Sonnino — I milionari — I principi! di Franchetti — Le pasquinate e lo scrutinio di lista — L'ambizione di Sonnino — La Rassegna settimanale — La bestia nera dell'on. Sonnino — 11 cieco di Pisa —On. Sonnino la solita!» — Le quattro S del Sonnino — Giustino Fortunato — Il corrispondente della Rassegna — I suoi scritti — L'unico torto di Fortunato — Giuseppe Plastino — Il romanista e l'avvocato — I discorsi di Plastino — Il suo avvenire politico.

§ 5. — Gl'indipendenti.  — Sommarlo — Arbib e Martini — Il padre di Martini — Il principio di Fossombroni — Arbib operaio tipografo — II volontario — Arbib giornalista — La nascita e la morte della Libertà — Martini scrittore — L'oratore — La Camera che ride —Tommasi-Crudeli. De Renzi e Cardarelli — Il clinico e lo scienziato — Jomini e Moltke — Gli amici salati — Il ministro del sale — Medici commercianti — Strana concorrenza — Mercato scandaloso — Un conservatore della Rivoluzione — Il medico e il soldato — Arcoleo — La scuola di De Sanctis — Il lavoro su Pulcinella —Il professore e lo scrittore di diritto costituzionale — Il salon all'aria aperta — La voce che ride — U ammiraglio di terra — Arcoleo pubblicista — Il professore di scenografia parlamentare — De Zerbi — Il soldato — La conferenza su Amleto e il giudizio di Tari — Il pubblicista — L'oratore — Il discorso di Milano — Perché De Zerbi preferisce le quistioni tecniche — De Zerbi e Baccelli — De Zerbi e lord Chatam — Lioy e Mantegazza — Lioy che fa arrossire una sposina e che scandalizza Cantù — Un onorevole con le lucertole in tasca — I guanti grìsperk — Sanguinetti — Indelli — Maldini — Lucchini — Luporini — Mariotti — Del Vecchio — Carnazza — Lugli — Barazzuoli

— Il Cristo schiodato — De Renzis — Il suo primo articolo di giornale — Il bohémien arrivè — L'oratore — I principi romani — Odescalchi — Ruspoli — La prima edizione del caso Guelielmini — Sciarra — Teano.

§ 6. — I Veterani.  — Sommario — Paolo Ercole — Il Times dei deputati — Il Massari del settentrione — Ercole che dice la messa — Teologo e avvocato — Crucifissione a suono di campana — L'abbé récule — Il deputato frustatore — Sul palcoscenico della politica — Pietro Mazza — Mazza a Parigi — La Concordia contro il Risorgimento — Il deputato — Un po' più di luce — L'onorevole Toscanelli — Toscanelli e Fantulla — Tose anelli monaco di San Francesco — La finanza democratica — La onnipotenza della Camera — Il brillante — I ministri che corrompono — Casilda Toscanelli — Mazzarella che molesta Toscanelli — Un consiglio del cardinale di Bernis.

§ 7. — I novellini.  — Sommarlo. — Summonte — Il fascino degli occhi— Il discendente dello storico e la curiosità dì De Sanctis — il professore — Il conte Giusso — La coalizione del 1S78 — La testa di ferro — Il Banco di Napoli italianizzato — Torraca — La metamorfosi di Torraca — La preoccupazione di Sorrentino — Un colloquio con Depretis — Il dovere degli elettori — Rosa no — La sua giovinezza — Il piccolo Fouché — Rosa no che si dimette — Una lista monstre — Il valore politico di Rosano.

SEZIONE QUARTA — I Militari.

Sommario. — La paura di Joseph Prudhomme — 11 militare italiano — Tradizioni parlamentari — Ricotti e Bertolè-Viale — Il valore brillante di Ricotti — Bertolè organizzatore — Ricotti ministro — L'abolizione del tamburo — Il torto di Ricotti. — L'avvenente ministro — La vieillesse dorét — Gevmet — Zanolini — Gandolfì — I generali africani — Ricci e Pozzo lini— Il fato apatico — Il valore brillante di Ricci — Il maestro del Re — Ricci poeta.

SEZIONE QUINTA — La Destra.

Sommario. — Spaventa — Il seminarista — Il giornalista — Spaventi precursore di Manin — Un filosofo capocamorrista — Spaventa al Governo — Il suo orgoglio —Siete uno sciocco!» — Spaventa e Foley-Chiaves — Fra Galdino — Una dimostrazione per pubblico istrumento — Il Fischietto — Le preghiere di Cavour — Chiaves in Parlamento — Un discorso elle entusiasma Cavour — Tremila copie — Il ministro — Le sue pappere

— Le antipatie di Chiaves — La simpatia per Crispi — Chiaves descritto dal doctor Veritas — Le due commedie a tesi — Bonghi — La petizione — Bonghi nel giornalismo — Le profezìe sulla spedizione dì Crimea — Bonghi a Stresa — Bonghi. Cavour e Sant'Agostino — Bonghi a Napoli — Il suo incubo — Il cattivo genio — L'eterno Crispi — Il letterato — L'uomo enciclopedico — Le doti di Bonghi — L'oratore — Bonghi che saccheggia le idee di Spaventa — I cannoni che scoppiano — Lirista — L'ideale di Bonghi — Tenani e Cadolini — Il giudizio di De Zerbi — Cavalletto e Romano — Chimirri — Luzi e BrigantiBellini — Borromeo Papadopoli — Sala, Taverna e gli altri agrarii — Rudini e Codronchi — Due diverse ambizioni — L'avversione a Depretis — Programma politico — Rudini a Palermo — Le speranze della Destra — «È morto!» Il dissidente — L'ultima crisi — Biancheri — Maurocronato — Luzzatti — Boselli — Bonfadini — Romanin — Rishi — I due Gabelli — Saracco.









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