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LETTERE DUE 

dell’onorevole W. E. GLADSTONE a Lord Aberdeen

SUI PROCESSI DI STATO DEL REGNO DI NAPOLI

Estratte dal Risorgimento

TORINO

TIPOGRAFIA FERRERO E FRANCO

1851

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Eleaml.org - Dicembre 2016

LETTERA I

Da Carlton Gardens, pubblicata l’11 luglio 1851.

Caro Lord Aberdeen,

Debbo cominciare una lettera ch'io temo tornerà molto penosa per voi, anzi ecciterà la più alta vostra indegnazione, mentre io vi presento i più sinceri ringraziamenti per la permissione che mi date d’indirizzarvela.

Dopo una residenza di tre o quattro mesi in Napoli, tornai a casa penetrato dal sentimento del dovere di tentare di mitigare in qualche guisa gli orrori (non posso usare parola meno forte), gli orrori dell’amministrazione di quella contrada.

Siccome io avrò da esporvi dei fatti incredibili, e in far ciò non posso a meno di usare il linguaggio più energico, debbo avvertirvi in prima, ch'io non mi portai a Napoli collo scopo di fare una censura politica. Affari puramente domestici mi vi trassero e ritennero. Nè portai con me l’idea che s’addicesse a me l’indagare i difetti dei governi, o propagare idee proprie d’altri climi. Ammetto nel modo più assoluto il rispetto che devesi dagl’inglesi, come da ogni altro popolo, ai governi in genere, siano essi assoluti, costituzionali o repubblicani, come rappresentanti dell’autorità divina e difensori dell’ordine. Ora io debbo dire che non so che siavi altra contrada in Europa, sono anzi certo altra non esservene che l’Italia meridionale, da cui potessi essere tornato colle idee e colle intenzioni che ora fanno forza al mio spirito.

Io vi sono perciò assai tenuto perché ab biate consentito ad accettare questa mia esposizione, perocché questo fatto dà un’autorità alle mie affermazioni, che fui come a forza indotto a trattare questo triste soggetto; ch’io non intendeva punto far una propaganda politica; ch’io non raccolsi senza discernimento le notizie che sono per darvi, di cui parte conosco per osservazione personale, e le altre credo fermamente, dopo averne attentamente esaminato le fonti.

Senza diffondermi nelle ragioni che mi mossero a recarvi disturbo, io stabilisco questi tre punti. Primo, che la condotta presente del governo di Napoli, in ciò che riguarda i veri o supposti rei politici, è un permanente oltraggio alla religione, alla civiltà, all’umanità e alla decenza publica. Secondariamente, che questa condotta Conda certamente ed anche rapidamente la repubblica in quello Stato: forma di governo che è ben poco consentanea all’indole di quel popolo. Finalmente, che io come membro del gran partito conservatore in una nazione europea, debbo rammentare che questo partito, forse senza rendersene contezza, trovasi ora in alleanza virtuale e reale con tutti i governi stabiliti in Europa, coi né questo, e eh essi vengono più o meno danneggiati dalle perdite d’esso: come derivano forza ed incoraggiamento da suoi successi. Questo principio che non ha gran forza quando trattasi degli Stati poderosi, i cui governi sono forti non solo per militare organizzazione, ma per costumi ed affezioni del popolo, è molto rilevante nella pratica quanto al governo di Napoli, il quale, qual che ne sia la causa, si considera posto come all’ombra d’un vulcano, e fa quanto sta in lui ogni giorno per rendere reali i proprii pericoli, e dà nuova intensione, insieme a nuovo argomento, a’  suoi timori.

Anzi tutto io debbo premettere che non farò in via di prefazione alcuna osservazione, e, che pur sarebbe importante, sul fondamento dell autorità presente del governo nel regno delle Due Sicilie. Non cercherò se secondo la ragione e il diritto sociale il governo attuale di quella contrada abbia un titolo o no; se si fondi sulla legge o sulla violenza. Ammetterò che la costituzione del gennaio 1848, data spontaneamente, giurata come irrevocabile colla massima solennità e finora mai non abrogata ( sebbene violata quasi in ogni atto dai governo) non sia mai esistita, non sia che una mera finzione. Non toccherò di questo fatto, perché ciò potrebbe dar corpo all’idea che mio desiderio fosse immischiarmi nelle forme di governo, e far credere che questo desiderio alterasse in me quel puro sentimento di umanità che mi mosse. Doveché io porto ferma opinione che questa tanto importante materia debbasi più sicuramente e convenientemente trattare come questione interna tra il sovrano e i suoi sudditi, escluso ogni nostro intervento: a meno che per avventura non sorgessero questioni derivanti dal trattato del 1844 fra l'Inghilterra e le Due Sicilie, in alcune parti del quale ebbi, come collega di V. S., l’onore di essere impiegato. Perciò io non mi tratterrò ora su tale argomento,  né avrei pur fatto qui allusione alla costituzione napoletana, se non fosse necessario il ricordare qui i (atti principali onde si spieghi la recente condotta del governo napolitano, e si presti fede a fatti cosi incredibili come quelli che sono per esporvi.

Sono persuaso che nel leggere questa lettera voi vorrete domandare come mai si possa senza motivo tenere una condotta si inumana, ansi mostruosa, e qual ne potrebbe essere il motivo. Per rispondere pienamente a tal questione debbo riandare la storia della costituzione di Napoli. Ma pel presente, e finché ho qualche speranza di correzione senza formale controversia, lascierò, anche con mio svantaggio, questa questione senza risposta, quantunque essa occorra all’intiero sviluppo della mia tesi.

Ancora una parola di prefazione. In queste pagine non vedrete fatto cenno della lotta fra il re di Napoli e i Siciliani, o sulla condotta delle parti che direttamente o indirettamente v’ebbero connessione. Diverso affatto é l’argomento che imprendo a trattare. è la condotta del governo di quel sovrano verso i suoi sudditi dei continente, colla cui sommessione e coraggio egli potè soggiogare la Sicilia.

Si crede generalmente difettosa l’organizzazione dei governi dell’Italia meridionale, che l'amministrazione della giustizia non v’è scevra di corruzione, che comuni sono i casi di abuso e di crudeltà fra i pubblici impiegati subordinati, che vi sono duramente puniti i reati politici, senza che s’abbia molto riguardo alle forme della giustizia.

Ho accennato a questa vaga supposizione di un dato stato di cose, il quale ove fosse stato esatto, mi sarei risparmiata questa fatica. Ma queste vaghe supposizioni sulla condizione attuale di cose in Napoli sono cosi lontane dalla pura verità, come un leggero disegno appena abbozzato è da un perfetto riti atto vivamente colorito. Non è una mera imperfezione, non esempli di corruzione in impiegati seconda rii, non qualche caso di soverchia severità che vi ho da narrare: ma l’incessante, sistematica, deliberata violazione d’ogni diritto cui commette il potere che dovrebbe vegliare sopra di esso: egli è la violazione di ogni legge umana scritta, perpetrata collo scopo di violare ogni altra legge non scritta ed eterna, umana e divina; egli è l’assoluta persecuzione della virtù allorché è unita coll’intelligenza, è una persecuzione tanto estesa che niuna classe ne può essere allo schermo. Il governo è mosso da una feroce e crudele, non men che illegale ostilità contro tutto ciò che vive e si muove nella nazione, contro tutto ciò che può promuovere il progresso ed il miglioramento, il governo vi calpesta orribilmente la religione pubblica colla sua notoria conculcazione d’ogni legge morale sotto l’impulso dello spavento e della vendetta. Vi vediamo un’assoluta prostituzione dell’ordine giudiziario, che è stato reso un trasparente recipiente delle più vili e grossolane calunnie che deliberatamente inventarono gl’immediati consiglieri della corona collo scopo di distruggere la pace e la libertà e, con sentenze capitali, la vita delle persone più virtuose, oneste, intelligenti, illustri e raffinate dell’intera società: un selvaggio e codardo sistema di morale, non men che fisica tortura, per mezzo di cui si fanno pronunziar sentenze da quelle depravate corti di giustizia.

Che cosa produsse questo sistema? La sovversione di ogni idea morale e sociale. La legge invece di farsi rispettare v’è divenuta esosa. Il governo non si fonda sull’affezione dei popoli, ma sulla forza. Tra l’idea della libertà e quella dell’ordine non vi è più associazione, ma violento antagonismo. Il potere governativo, che si qualifica immagine di Dio sulla terra, agli occhi dell’immensa maggioranza del pubblico pensante appare come vestito dei più laidi vizii. Udii ripetuta spessissime volte questa forte e pur vera espressione: La negazione di Dio fu eretta in sistema di governo.

Confesso di essere stato maravigliato dalla gentilezza di carattere mostrata dal popolo napolitano in tempo di rivoluzione. Pareva che nei loro petti non potesse allignare l'infornale spirito della vendetta. So che in ogni caso la rassegnazione cristiana, la lieta accettazione della volontà di Dio sostenne delle illustri vittime. Ma la presente persecuzione è più grave ancora che non le precedenti, e differisce da queste in quanto che è specialmente diretta agli uomini d’opinioni moderate, cui un governo, ancorché non guidato che da mondana prudenza, un Macchiavelli, se fosse ministro, si adoprerebbe a conciliarsi e propiziarsi. E contro questi uomini inferocisce principalmente la persecuzione. Si vuole ad ogni costo portar la povera natura umana agli estremi: si mettono in fermento le passioni feroci, le quali, secondo la mia opinione, non ebbero mai, sin dal tempo dei tiranni del gentilesimo, tanto motivo di destarsi,  né destate tanto motivo di palliare la loro furia.

Credesi generalmente che i prigionieri per reati politici nel regno delle Due Sicilie ammontino a quindici, venti, trenta mila. Il governo impedisce ogni mezzo di prendere notizie esatte, e perciò non può esservi certezza su questo punto. Tuttavia scorsi che quest’opinione è comune alle persone più intelligenti, discrete e meglio informate. Risulta ciò altresì da quanto trapelò solle innumerabili turbe di lui sono stivate le prigioni particolari, e principalmente dal numero delle persone che consta mancare in alcuni distretti provinciali. Udii, a cagion d’esempio, allegato questo numero a Reggio ed a Salerno, e, facendo un paragone colla popolazione, io credo che non si esageri portando il numero dei prigioni a ventimila. Nella soia Napoli parecchie centinaia sono in questo momento accusati di delitto capitale; e quando lasciai quella città si credeva imminente un processo (detto quello dei 15 maggio) in cui il numero degli accusati era fra 4 o 5 cento; inclusa almeno una o due persone di alto grado, le cui opinioni in questa contrada sarebbero riputate più conservatrici che non le vostre stesse.

Pare in verità che il governo di Napoli possegga in parte l'arte che il Burke diceva esser oltre il suo potere: egli «non sapeva come formare un atto di accusa contro un popolo.» Pregovi inoltre di considerare che il numero dei rifugiati e delle persone variamente nascoste, probabilmente molto più grande che non è quello dei prigioni, non è ancora constatato. Dobbiamo rammentare inoltre che gran parte di questi prigionieri appartengono alle classi medie ( quantunque sianvi altresì molti operai), e che il numero delle classi medie nel reame di Napoli (col qual nome intendo parlare degli Stati continentali) debb’essere una parte molto minore dell'intera popolazione che non sia fra noi. Poniamo mente eziandio che di queste persone pochissime hanno mezzi di sussistenza indipendenti dalla loro famiglia: per tacere delle confische o sequestri «che qua si dicono frequenti. Sicché generalmente parlando ogni singolo caso di prigioniero o rifugiato diventa una fonte di miseria; ed ora abbiamo qualche fondamento per dire che il sistema, il carattere del quale sto per esaminare, ha per oggetto intere classi di persone, e quelle appunto da cui dipende specialmente la salute, la prosperità, e la sicurezza della nazione.

Ma perché debb’egli sembrare strano che il governo di Napoli sia in aperta guerra con quelle classi? Nelle scuole nazionali,  mi fu detto, è un obbligo Tosare il catechismo politico attribuito al canonico Apuzzi, e ne ho una copia. In questo catechismo la civiltà e la barbarie sono dipinte come due estremi egualmente viziosi, e vi s’insegna che la felicità e la virtù stanno in un giusto mezzo fra essi Poco tempo dopo ch’io giunsi in Napoli udii una qualificata persona accusata con molto vitupero di aver assento che quasi tutte le persone che avevano formato l'opposizione nella Camera dei deputati, sotto la Costituzione, erano in prigione o in esilio. Confesso francamente ch’io credei allora meritevole di riprovazione una persona che asseverava cosa si mostruosa. Credo che ciò accadesse nello scorso novembre. La Camera era stata eletta dal popolo setto una costituzione liberamente e spontaneamente ottriata dal re. Le rielezioni avevano prodotto un piccolo cangiamento in favore dell'opposizione.

Niuno di quel corpo era allora stato prò cessato, credo si bene, posso dirlo per transito, uno di essi era stato assassinato da un prete detto Peluso, ben conosciuto nelle vie di Napoli ov’io mi trovava, e che tuttavia non fu mai interrogato su questo affare e si diceva che ricevesse una pensione dal governo. Sicché io considerai quella notizia come una finzione e almeno un’imprudenza lo spanderla. Qual non fu il mio stupore quando io vidi una lista particolarizzata che provava pienamente la verità dell’asserzione. anzi nei punti più essenziali provava davvantaggio! Risulta, mio caro lord, che la Camera dei deputati era composta di 164 membri, eletti da circa 117 mila elettori, il più gran numero che venisse a Napoli ad esercere l'uffizio di rappresentante fu circa 140. Ebbene, l’assoluta maggioranza di essi, 76, oltre alcuni altri ch’erano stati privati del loro uffizio, erano stati arrestati od esulavano. Sicché dopo la regolare formazioni di una Camera popolare di rappresentanti e la sua soppressione ad onta della legge, il governo di Napoli pose il colmo alla sua audacia col cacciare in prigione o costringere al bando per sfuggirla la maggioranza dei rappresentanti del popolo.  

 Ho già parlato abbastanza sull’estensione di questi atti, e passo ad esaminarne il carattere, e imprima relativamente alla legge, poiché ho accusato il governo di violarla sistematicamente.

La legge a Napoli statuisce che la libertà personale sia inviolabile, tranne per mandato di una corte di giustizia autorizzata espressamente. Non parlo della costituzione, ma del diritto anteriore ed indipendente da essa. Né sono ben certo se questo mandato debba ordinarsi stante attuali deposizioni ed esprimete la natura dell’accusa, o se debba comunicarsi immediatamente dopo.

Conculcando questa legge, il governo, di cui importante, membro é il prefetto di polizia, per mezzo degli agenti di questo dicastero, insegue e codia i cittadini, fa visite domiciliari, ordinariamente di notte, rovista le case, sequestra mobili e carte, tutto questo sotto pretesto di cercar armi; incarcera uomini a ventine, a centinaia, a migliaia, senza alcun mandato, talvolta senza pur mostrare alcun ordine scritto, o altra cosa più che la parola di un poliziotto. Non si dice poi mai quale sia la natura del reato. Né questo è il meno, strano. Si arrestano persone, non già perché abbiano commessi delitti o si suppone che li abbiano commessi, ma perché é utile nasconderle, disfarsene, e contro le quali perciò si dee trovare od inventare qualche capo d’accusa.

La prima cosa pertanto è arrestare e incarcerare, poi sequestrare e portar via libri, carte o checché altro soccorra a quegli sciagurati e venati poliziotti. Si leggono quindi le lettere del prigione, tostoché può sembrare utile, e si esamina poi questo senz’atto d’accusa, la quale infatti non esiste e senza testimoni!, che questi pure non sussistono. Non si permette all’incolpato alcuna assistenza,  né il mezzo di consultare un avvocato. Per dir meglio, egli non e esaminato ma svillaneggiato nel modo più grossolano dai poliziotti. E non crediate già sia per colpa degli individui. È cosa essenziale nel sistema creare un capo d’accusa. Qual maraviglia se chi si sente in tal guisa insultato, e sa donde procedono gli insulti, perda un istante la calma ed esca in qualche espressione poco rispettosa per la sacra maestà del governo? Se ciò succede se ne fa subito menzione nelle minute: se poi l’imprigionato sa contenere sé stesso, nessun detrimento riceve il grande scopo a cui si mira.

Si passa quindi all’esame della corrispondenza. Supponete che si tratti d’un uomo di colta intelligenza: egli avrà probabilmente seguito l’andamento delle vicissitudini pubbliche. Nelle sue copie di lettere o nelle lettere a lui inviate vi saranno allusioni ad esse. Si dovrebbero paragonare tutte queste allusioni onde apprezzarne il vero valore. Ma così non si fa, e qualunque espressione implichi disapprovazione s’inserisce nelle minute. Ora niente é più facile che interpretare la disapprovazione per disamore, e il disamore per intenzione di rivoluzione o di regicidio. Supponete che siavi qualche altra frase che distrugga interamente la forza della prima e dimostri la lealtà della vittima: essa é considerata di niun valore e indarno l'accusato farebbe valere le sue ragioni.

Nei paesi ove si osserva la giustizia si puniscono le azioni ed è riputato ingiustizia il punire i pensieri: ma a Napoli si affibbiano pensieri onde si possa punire, £ qui parlo di quanto consta a me essere accaduto, e dichiaro non aver immaginato od esagerato nulla.

I prigioni, prima di essere giudicati, vengono ditenuti in carcere per parecchi mesi, per un anno, per due, ordinariamente il termine è più lungo. Non m’accadde mai d’udire che alcuno sia stato giudicato per motivo politico prima di 16 a 18 mesi di reclusione. Ho veduti degl’infelici attendere il giudizio dopo venti mesi di prigione: e questa era loro inflitta non in virtù della legge, ma a dispetto di essa. Possono esservi dei casi, e certamente ve ne sono, in cui alcuno sia stato arrestato per mandato e in seguito a deposizioni: ma è inutile il trattenermi sopra questi casi, % quali non sono che eccezionali.

Non dubito asserire, che fatto ogni sforzo per riuscire col mezzo di storte interpretazioni e di parziali produzioni di prove, a formulare un’accusa, se questa fallisce si ricorre allo spergiuro ed alla calunnia. Degli sciagurati che si trovano quasi in ogni terra, ma specialmente là ove il governo è il gran corruttore del popolo, «lei mariuoli presti a vendere la libertà e la vita dei loro simili per danaro, e dar la loro anima giunta, vengono deliberatamente impiegati dal governo per deporre contro l’uomo che si vuole mandare in rovina. Ma quantunque sembri che l’uso abbia dovuto dar loro della pratica in quest’affare, le deposizioni sono generalmente fatte nel modo più rozzo e grossolano, e portano con se tante contraddizioni ed assurdità che stomaca l’udirle. Ma e che? Notate il calcolo. Secondo la frase volgare, nella quantità qualche cosa rimari à sempre attaccata. Nè crediate già ch’io parli leggermente. Dichiaro in fede che tutto si concatena dal principio alla fine: una depravata logica unisce tutto. Gli inventori debbono colpire all’avventura, perciò attaccano molte corde ai loro archi. Sarebbe una cosa veramente strana, contraria al calcolo delle probabilità se tutto l'edificio artatamente innalzato dovesse scompaginarsi e cadere per causa di contraddizioni. Ora consideriamo che cosa ha luogo in pratica. Supponete nove decimi delle asserzioni assurde per fino nanti un tribunale napolitano. Di questa frazione, una parte non viene addotta dalla polizia in giudizio dopo che gli avvocati del governo o quelli dell’accusato ne chiarirono ad essa l’assurdità: al resto non badano i giudici. In qualsivoglia altro paese ciò menerebbe naturalmente ad una investigazione, ad un giudizio di spergiuro. A Napoli succede il contrario: si considera quel fatto come uno sforzo patriotico e da persone oneste che per avverse circostanze mancò d’effetto. Il risultato di tutto ciò è zero. Ma rimane tuttavia delle deposizioni una decima parte in cui non vi sono contraddizioni. Voi crederete che l’accusato possa dimostrarne la falsità col mezzo di contro prove. V’ingannate a partito: degli argomenti in suo favore egli può averne a macco, ma non gli si permette di valersene.

Tal cosa non è certamente credibile, eppure è vera. Le persone stesse che erano accusate mentre io mi trovava a Napoli, nominavano e chiamavano dei testimoni in loro difesa a ventine, a centinaia, uomini d’ogni classe e di ogni professione — militari, ecclesiastici, officiali — ma in ogni caso, fatta una sola eccezione, credo, la Corte, la gran Corte criminale di giustizia ricusò di udirli. Una sola volta il testimonio che si lasciò deporre fece spiccare pienamente l’asserzione dell’accusato.

Naturalmente ciò che assevera l’accusato quantunque giustificato dal suo carattere e dalla sua condizione non si valuta menomamente in paragone della parte non distrutta da contraddizioni delle menzogne della più vile canaglia, quantunque militino contro queste le più grandi presunzioni di falsità. Questo frammento assicurato in tal guisa da contraddizioni forma l’origliere, su cui riposano tranquille e quiete le coscienze dei giudici dopo la condanna.

Per istudio d’esattezza debbo dire che il governo, quando si è procacciato ed ha presentato alla Corte il falso testimonio, ottiene il mandato e rende legale la cattura.

E come vengono trattati questi ditenuti durante il lungo e terribile periodo che passa tra l’illegale loro cattura e l’illegale loro processo? Dire una prigione di Napoli è dire, come ben si sa, l’estremo del sucidume e dell’orrore. Ho veduto alcune di esse e non le peggiori. E vi dirò, mio lord, ciò che vi vidi: i medici d’ufficio non ai recavano a visitare i prigioni malati, ma i prigioni malati, colla morte sul viso, arrancavano sulle scale di quel carnaio della Vicaria, perché le parti interiori di quell'edifizio tenebroso sono cosi immonde, così ributtanti, che nessun medico consentirebbe per guadagno ad entrarvi. Quanto all'amministrazione vi dirò una parola sul pane che vidi. Quantunque nero e grossolano all’ultimo grado esso era sano.

La minestra che forma l’altro elemento di sussistenza è cosi nauseabonda, secondoché mi accertarono, che senza un’estrema fame niuno può vincere la ripugnanza che produce. Non ebbi mezzo di assaggiarla. Le prigioni sono sporche come covili. Gl’impiegati in esse, tranne di notte, non v’entrano quasi mai. Fui deriso perché leggevo con qualche attenzione dei pretesi regolamenti appiccati sopra una parete. Uno di essi concerneva le visite dei dottori ai malati. Tuttavia vidi quei dottori visitati da sventurati che avevano un piede nella tomba v non malati visitati da dottori. Passeggiai fra una turba di 3 o 4 cento prigioni napolitani, assassini, ladri, delinquenti d’ogni specie, alcuni condannati, altri no e confusi cogli accusati politici. Nessuno portava catena, gli ufficiali solo a capo di molti appartamenti, con molte porte chiuse a chiavistello e inferriate tra mezzo: ma non solo non era vi nulla a temere, ma usarono verso me, come a forestiero, molta cortesia. Essi formano una specie di società in cui l’autorità principale é quella dei camorristi, gli uomini più famigerati per audacia di crimini. Non banno nissun impiego. Questo sciame di esseri umani dormirono tutti in una lunga e bassa sala rotata, non illuminata che da una piccola inferriata ad un capo di essa. I prigioni politici potevano, pagando, aver il privilegio di una camera separata lungi dalla prima, ma non v’era divisione fra loro.

Ciò che vi esposi non è certamente un bene, ma è lungi dall’essere il peggio. Darò ora a V. S. un altro saggio del trattamento che si usa a Napoli con uomini illegalmente arrestati e non ancora condannati.

Dai 7 dicembre ai 3 febbraio Pironti, che prima era giudice, e fu trovato colpevole nell’ultimo dei mentovati giorni o in quel torno, passò le intere sue giornate e notti, tranne le ore ch'era menato in giudizio con due altri uomini, in una cella della Vicaria, della superficie di due metri e mezzo, sotto il livello del suolo di essa e non rischiarata che da una piccola inferriata per cui non potevano veder nulla. Entro questo brevissimo spazio Pironti e il suo compagno furono confinati per due mesi, e non ne uscirono pure per andare alla messa, o per altro motivo qualunque eccetto l’accennato. E ciò succedeva in Napoli ove per consenso universale, le cose vanno molto meglio che non in provincia. La presenza dei forestieri, esercita qualche influenza sul governo: l’occhio della curiosità o dell'umanità penetra talora in questi bui recessi. mentre tutto è mistero nelle remote provincie o in quelle solitarie isole, le cui pittoresche e fantastiche forme deliziano il passeggierò ignaro degli immensi patimenti ch'esse racchiudono. Questo, dico, vidi in Napoli e trattavasi di persona educata, d’un giureconsulto, d’un accusato, non d’un condannato. Nè supponete che questa sia un’eccezione. Io non avevo da scegliere se non tra quanto per caso mi si offriva, cosa insignificante verso di quanto mi restava sconosciuto. E dopo questo fatto non comincia a parervi ragionevole l’accusa da me fatta al governo di Napoli che a prima giunta potea parere strana e quasi insensata? Udii pure narrare un altro caso, ch’io credo potervi dar come vero, sebbene non ne abbia una cognizione così piena come del primo. Quando lasciai Napoli, in febbraio, il barone Porcari fu rinchiuso nel Maschio d’Ischia. Accusato di aver preso parte all’insurrezione di Calabria aspettava il processo. Questo maschio è un cassero senza luce e posto 24 piedi o palmi (non so più che cosa) sotto il livello del mare Non si permette mai che ne esca  né di giorno,  né di notte,  né ad alcuno si permette di visitarlo, tranne sua moglie una volta ogni quindici giorni.

Ilo detto probabilmente abbastanza di ciò che si riferisce agli atti anteriori al giudizio. Rimarrebbe tuttavia ancora alcunché da esporre. Se l’arresto è contrario alle leggi, perché, potrebbe domandarsi, non intentar un giudizio per falso imprigionamento? Ho fatta qualche inchiesta relativamente a questo punto. Vidi che, come in altre cose, cosi in questa, la legge non faceva difetto: che tale azione si poteva muovere e forse anche con buon successo: che la difficoltà consisteva solo nel poter trovare un tribunale che le desse corso. Ciò si comprenderà meglio com’io verrò a parlare delle sentenze politiche: per ora me ne passo.

Mi tratterrò ora specialmente del caso di Callo Poerio, il quale merita particolare menzione. Il suo padre era un distinto giureconsulto. Carlo Poerio poi è una compita persona, facile ed eloquente oratore, di specchiata onestà, lo ebbi il mezzo di venir in chiaro della sua posizione politica. Egli è strettamente partigiano della forma costituzionale. Mi rimarrò dall’esporvi il vergognoso capitolo di storia napolitana cui accenna questa parola, facendovi solo notare, che a Napoli quell’espressione ha lo stesso significato che fra noi, significa cioè una persona che si oppone a qualunque violenza e d’onde possa ella provenire, che vuole la conservazione della monarchia sulle sue basi legali, con mezzi legali e con tutte quelle migliorie che possono contribuire alla felicità della popolazione. Il suo modello è io Inghilterra, anziché in Francia o in America. Non l’ho mai udito accusare d altro errore in politica, che quelli che si potrebbero imputare ai più leali, intelligenti e degni nostri statisti. Esaminato accuratamente il caso, debbo dire che condannar per fellonia un tal personaggio è un atto tanto consentaneo alla verità, alla giustizia, alla decenza, come sarebbe il condannar qua i nostri più eccellenti uomini pubblici, lord Russell, lord Lansdowne, sir James Graham, o voi stesso. Non è minore l’oltraggio fatto al senso comune del paese. Non dirò che sia precisamente lo stesso caso per quanto riguarda la posizione e il grado sociale, ma certo non hanno uomo locato più alto,  né dei nomi da me mentoati avvene alcuno più caro alla nazione inglese — forse niuno così caro — come è quello di Carlo Poerio a’ suoi concittadini napolitani.

Lascio altri miserevoli casi, e pur bea memorabili, come quello del Settembrini, il quale, in un grado alquanto meno cospicuo, ma avente un carattere non men nobile e puro, fu processato col Poerio e quaranta altri, e condannalo nel capo in febbraio, quantunque, oltre ogni previsione umana, la sentenza non fosse poi eseguita. Ma egli era riservato, temo, a ben più dura sorte, a doppii ferri a vita, sopra una remota ed isolata rupe. V’è inoltre ogni ragione di credere ch’egli venga assoggettato a fisiche torture. Rispettabili persone mi accertarono che gli si conficcassero acuti strumenti sotto le ugne delle dita.

Toccherò appena della sorte di Faucitano, quale, come Settembrini, fu processato col Poerio durante l’inverno nell’infornata stessa dei quarantadue prigioni. Il suo caso è speciale, poiché l’accusa aveva qualche fondamento. Consisteva questa nell’intenzione di distruggere, col mezzo di qualche terribile esplosione, molti dei ministri ed altre persone. Fondamento dell’accusa fu l’aver egli avuta in iscarsella, in una solenne occasione, una bottiglia che scoppiò senza fargli alcun male! E probabile che avesse meditato qualche scherzo, ma intanto fu condannato a morte. Si credè che venisse eseguita la sentenza fino a poche ore prima ch’ella dovesse aver luogo. I Bianchi erano nelle vie, raccogliendo limosine per far dir messe alla sua anima. Egli stava nella cappella dei condannati assistito da preti, quando nell’aggiornare fu nuovamente discusso il suo caso in un consiglio, e da Caserta venne un messaggere con ordine di soprassedere. Ho udito come ciò accadesse, ma non fa qui al caso.

Carlo Poerio fu «no dei ministri della Corona sotto la costituzione ed occupava uno dei gradi più distinti nel Parlamento. Nella quistione siciliana stava per l’unione dei due regni. Favorevole altresì era alla guerra dell’indipendenza: ma non manifestava pur tanto zelo per essa quanto il re stesso. Ma questa è una materia estranea al nostro argomento. Pareva che il Poerio godesse pienamente della confidenza del re, poiché avendo offerto la sua dismessione, non venne accettata da prima ed anche quando lo fu, si continuò a consultarlo.

Merita attenzione la storia del suo arresto, qual ce la narra egli stesso nella sua allocuzione ai giudici, agli 8 febbraio 1850. La sera prima dell'arresto, alti 18 luglio 1849, fu da una persona sconosciuta lasciata in casa del Poerio una lettera concepita in questi termini: «Fuggite, e fuggite prontamente. Voi siete tradito, la vostra corrispondenza col marchese Dragonetti è già in mano del governo. Uno che v'ama assai.»

S’egli fosse fuggito avrebbe somministrato una prova di colpa molto ampia per la gente di che parliamo. Ma egli conscio di tali cose non fuggi, e inoltre non esisteva corrispondenza. Ai 19, intorno alle quattro pomeridiane, si presentano con falso titolo due persone alla porta, e gli annunziano ch’egli è arrestato in virtù di un ordine verbale del prefetto di polizia Peccheneda. Invano egli protesta, la sua casa è messa sossopra ed egli cacciato in solitaria prigione. Domandò d’essere esaminato e conoscere la causa del suo arresto entro ventiquattr’ore, secondo la legge, ma indarno. Al sesto giorno finalmente fu tradotto innanzi al commissario Maddaloni e gli fu posta in mano una lettera col sigillo rotto. Essa era indirizzata a lui, e gli fu detto esser venuta sotto coperta a un amico del marchese Dragonetti, ma che la coperta era stata aperta per isbaglio da un ufficiale di polizia, il quale per caso aveva lo stesso cognome, ma non lo stesso nome, e che nel veder la lettera racchiusa dentro l’aveva consegnata alle autorità.

Si desiderò che il Poerio l’aprisse e ciò egli fece in presenza del commissario. Nulla poteva essere più artificioso che l’orditura di quest’affare. Ma notate il seguito. L’argomento della lettera implicava naturalmente alto tradimento: vi si annunziava un’invasione di Garibaldi, si fissava un abboccamento con Mazzini, si alludeva ad una corrispondenza con lord Palmerston (il cui nome era goffamente storpiato) che prometteva aiuto per la prossima rivoluzione. «Vidi subito, dice il Poerio, che si era vilmente contraffatta la scrittura di Dragonetti, e ciò dissi osservando che la prova intima della falsità era più evi(lente che non qualunque cumulo di prove blaterali.» Il Dragonetti era uno dei più compiti Italiani: mentrecché questa lettera era piena zeppa di scerpelloni tanto di grammatica che d’ortografia.

Altre assurdità noti sono pur degne di venir menzionate, quali erano la segnatura in disteso del nome, cognome e titolo, e la trasmissione di una lettera di quel genere per la posta ordinaria di Napoli. Aveva il Poerio fra le sue carte delle lettere del Dragonetti sulla cui autenticità non poteva cader dubbio. Esse furono addotte e paragonate con quella, e la falsità rimase tosto chiarita.

Svelata tale enorme iniquità, che cosa fece il governo per vendicare non il Poerio, ma la giustizia pubblica? Niente, pose da lato le carte.

Raccolsi questi particolari dal Poerio stesso, nella sua difesa. Ma tutta Napoli conosce la storia e ne è indegnata.

Le carte di Poerio non fornivano dunque materia di accusa. Era perciò necessario inventar nuovamente, o per dir meglio lavorare sulle falsità già preparate, ma che da prima erano parse men utili della lettera di Dragonetti.

Un tal Jervolino, uccellatore frustrato di bassi impieghi, era stato scelto pel duplice uffizio di spia e di spergiuro. Secondo la deposizione di costui il Poerio venne accusato di essere fra i capi di una setta repubblicana detta dell’Unità Italiana e dell’intenzione di uccidere il re. Domandò d’essere confrontato coll’accusatore. Lunga pezza prima aveva conosciuto Jervolino e additatolo a’ suoi amici come falso delatore di lui presso il governo: ma le autorità non vollero permettere questo confronto: non venne pur detto il nome a lui. Fu tradotto di prigione in prigione, gittate in siti più convenienti a bruti che ad uomini, privato della vista degli amici. Per due mesi non si permise pure di vederlo a sua madre, unica sua prossima congiunta nel paese. Così scorsero sette od otto mesi senza che egli sapesse cosa alcuna delle prove che s’adducevano contro lui e per opera di chi. Io questo venne a lui il sig. Antonio dei duchi di S. Vito a dirgli che il governo sapeva tutto, ma gli farebbe grazia della vita se confessava. Nel processo ei domandò ai giudici che si esaminasse su questo il S. Vito; ma naturalmente non si fece. Oltre a ciò il signor Peccheneda stesso, direttore di polizia, e ministro di gabinetto del re, andò spesse volte alla prigione, interrogò diversi carcerati, e con flagrante illegalità gli esaminò egli stesso, senza testimonii, senza menzione. Uno di questi fu il Caraffa. Per deposizione di questo gentiluomo rimase chiarito che il Peccheneda stesso lo assieme che l’affare verrebbe tosto accomodato, purché testimoniasse che il Poerio conosceva alcuni biglietti rivoluzionari. Ciò non avendo potuto ottenere il ministro, prese comiato dal Caraffa con queste parole: Benissimo, signore, voi volete la vostra rovina, tal sia di voi.

Tal fu la condotta del Peccheneda e il Poerio non dubitò di stimmatizzarla al cospetto dei giudici. Soggiungerò che conosco, per irrefragabili autorità, altre gesta di quel degno ministro dei re di Napoli, le quali rendono l’accusa fattagli dal Poerio onninamente credibile.

Oltre la denunzia od accusa del Jervolino su cui si raggirava ultimamente il processo, militava contro il Poerio la deposizione di un Romeo, pittore e coaccusato, il quale asseriva aver udito un cotale menzionare il Poerio capo di setta. Si può giudicare del valore di questa deposizione dal fatto di venir involti col Poerio nell’accusa due ministri, il cav. Bozzelli e il principe di Torella. Fu quindi abbandonata come inutile perché parlava di Poerio come di caposetta: ma ciò era in contraddizione con quanto asseverava Jervolino e per ciò fu seguita sola l’accusa di partecipazione. Ma il prigione non traeva alcun prò dall’abbandono di un capo di accusa: tutto partiva dal principio che il governo doveva con mezzi veri o falsi provar la colpa e che la giustizia pubblica non ha alcun interesse che si salvi un innocente.

Era vi altresì la testimonianza di Margherita, altro degli accusati. Dopo tardiva riflessione, egli dichiarava che il Poerio assisté ad una adunanza dell’alta congrega della setta. Dichiarò altresì che come membro di questa setta repubblicana e rivoluzionaria, Poerio era uno dei tre che si adoperavano onde si man tenesse la costituzione monarchica e che perciò pe fu cacciato. Per questo motivo, per tacer d’altri, la deposizione di Margherita non giovava.

È facile comprendere il motivo perché questi coaccusati si travagliassero nell’incolpare Poerio ed altri distinti personaggi. Ma questi sforzi non tornarono utili ad essi, forse perché troppo grossolani o perché soverchiamente si mostrasse la falsità. Margherita fu confinato a Nisida nel febbraio, nella stessa camera ove si cacciarono gli accusati da lui. Anzi egli fu poi incatenato con uno di essi. Dirò poi che sia questo unito incatenamento.

Perciò l’accusa del Jervolino formò la sola base reale del processo e condanna di Poerio.

E per deposizione. d’un uomo senza grado e carattere, d’un chieditore frustrato d’un impiego che credeva poter ottenere da Poerio, un personaggio del più alto grado, pur dianzi confidente e favorito del re, veniva posto sotto capitale processo!

La materia dell’accusa era questa. Affermava il Jervolino che non avendo potuto ottenere dal Poerio un impiego, lo richiese di farlo ricevere nella setta dell Unità italiana: che questi io mandò ad un certo Atanasio, il quale doveva menarlo a un altro prigione, detto Nisco, onde potesse venir ammesso. Che il Nisco lo mandò ad un terzo, detto Ambrosio che l’iniziò. Non si ricordava  né delle forme,  né del giuramento della setta. Del certificato o diploma o delle ragunate, che le regole della setta pubblicate (il governo affermava averle trovate) dicevano indispensabili per tutti i membri; di tutto questo egli non sapeva nulla.

Come sapeva, disse il Poerio, ch’io appartenessi ad una setta quando mi richiese ch’io l'ammettessi? — Niuna risposta. — Perché non lo poteva ammettere Nisco, che nell'accusa è qualificato come capo? —Niuna risposta. — Se io in quel tempo ministro della corona ero altresì membro della setta, era egli necessario che lo dirigessi per l’ammessione a un’altra persona, quindi a un’altra ancora ed un’altra? — Niuna risposta. — Perché Ambrosio, che lo ammise, non fu molestato dal governo? — Niuna risposta. — Potevo io esser settario quando come ministro ero vituperato dal partito esaltato perché aderivo strettamente alla monarchia costituzionale? — Niuna risposta. — Anzi tal fu la stupidità ed impudenza di quello spione, che nel particolareggiare le confidenze fattegli, come diceva, dal Poerio, affermò che l’ultima gliela facesse ai 29 maggio 1849; quando il Poerio provò che ai 22, o sette giorni prima, egli era in possessione di una relazione scritta ed accusa fatta dai Jervolino, quale spia delegata per lui, alla polizia, e tuttavia, con questo documento in mano, avrebbe continuato a farne il suo confidente politico? Questo è un saggio dell’orditura delle testimonianze del «Jervolino, un saggio delle sue contraddizioni ed assurdità. Poc’anzi era un mendicante: ora compariva bene in arnese e in buono stato. Ho già narrato come, tranne un caso, mai non si permetteva che deponessero in giudizio i testimonii, e furono molti, che gli accusati allegavano per loro difesa.

Ecco, per quanto udii, l’eccezione da me accennata. Il Poerio sosteneva che un certo arciprete aveva dichiarato che il Jervolino aveagli detto di toccare una pensione di dodici ducati al mese dal governo per le accuse ch’egli faceva al Poerio. Richiedente il prigione, venne esaminato l’arciprete. Confermò questo quanto aveva asserito, e fece anzi menzione di due suoi congiunti che potevano asserire la stessa cosa. Altra volta udii che sei persone, cui crasi appellato un prigione come a testimoni! a sua discolpa, furono per questo stesso motivo arrestate. Niente di più verosimile.

Io stesso udii discutersi molte ore nel tribunale la testimonianza del Jervolino, e parremi che la decima parte di quanto udiva, non solo avrebbe posto un termine al giudizio, ma avrebbe bastato a far punire severamente lo spergiuro.

Ma, tornando al mio assunto, dico che ancorché fosse stata consegnata la deposizione, ancorché non militassero contro essa le più forti presunzioni di falsità, bastava paragonare il carattere di quel teste con quello del Poerio, perché qualunque uomo giusto assolvesse l’accusato. Non credo siavi uomo in Napoli di comunale intelligenza, il quale creda una parola dell’accusa del Jervolino.

Nel corso di questo giudizio sì addussero due eccezioni. Dimostrava l’avvocato del Poe rio colpe la gran corte straordinaria, incaricata del giudizio, fosse incompetente in questo caso, perché l’accusa si riferiva alla condotta del Poerio quando era ministro e membro della Camera dei deputati  e, giusta l’art. 48 dello Statuto, tali accuse devono portarsi innanzi la Camera dei Pari. L’eccezione non fu ammessa, e rigettata nuovamente dopo appello.

La seconda eccezione era questa. Allegavasi distintamente contro i prigioni che la loro supposta setta avesse cospirato contro la vita di alcuni ministri e del giudice Domenicantonio Navarro presidente della corte: primo col mezzo della bottiglia scoppiata nella scarsella del Faucitano; quindi col mezzo di un corpo di pugnalatoti od assassini, che dovevano compire l’opera ove fallisse il mezzo della bottiglia. Dicevasi quest’intenzione fondata sulla crudeltà dei giudizi! che quello aveva pronunziati contro innocenti persone. I prigioni protestavano di non voler essere giudicati da lui, e questi presentò una nota alla corte in cui diceva di sentire degli scrupoli a giudicare in questo caso e desiderava d’essere guidato dal resto della Corte. La corte decise unanime ch'egli giudicasse questi uomini imputati di avere avuto l’intenzione di assassinare lui, e multò i prigioni e i loro avvocati in 100 ducati per avere fatta quest’obbiezione! Anche questa decisione venne confermata dopo appello e le corti notarono, lo scrupolo provato dal Navarro esser anzi una prova dell’imparziale, delicata e generosa tendenza del suo spirito e dover perciò allontanare ogni sospetto di parzialità in esso. Eppure ammettevano che secondo la legge napolitana non avrebbe dovuto sedere se nei cinque anni prima fosse stato implicato in alcun giudizio criminale come parte contro di essi. Cosicché questo delicato, imparziale e generoso uomo sedé e giudicò i prigioni! E quando si addivenne ai voti, Navarro votò per la condanna e per la pena più severa. Mi fu detto, e credo quest’opinione non sia un segreto, che tutte le persone accusate dal governo del re dovevano essere trovate colpevoli. Mi fu detto (e lo credo pienamente) che il Poerio, il cui caso era pur bello anche per giudici napolitani, sarebbe stato assolto in una divisione di 4 giudici contro 4 (tale è l’umana previsione della legge in caso d’eguaglianza) se il Navarro non avesse fatto largo uso dell’intimidazione, minacciato cioè la dismessione ad un giudice, di cui mi fu detto il nome, e procacciato cosi il numero necessario per una sentenza. Ma non ho bisogno di entrare in questi laidi misteri. Insisto sul fatto che Navarro, la cui vita, secondo la testimonianza dell’accusa, era fatta segno dei colpi dei prigioni, sedeva presidente del tribunale che doveva giudicarli: e, domando io, l’umano linguaggio può esagerare lo stato di cose di un paese ove tali enormità vengono perpetrate sotto la diretta sanzione del governo? Questo sulle eccezioni. Debbo notare un altro curioso punto sulla corte di giustizia. Essa non sedeva come corte ordinaria, ma come corte speciale. In questi casi si abbrevia il processo coll’ommissione di molte forme, la maggior parte utili per la difesa dell'accusato. Perciò in questo caso ben quaranta persone furono private de’  mezzi di difesa per lo scopo di far presto, e queste erano state sedici, diciotto e anche più mesi in prigione prima di venire giudicate! Addurrò ora una prova non dell’imparzialità della corte, ma del grado di decenza con cui si velò la parzialità. Occorse due volte che gli avvocati dei detenuti seppero che i testimoni! spergiuri non conoscevano gli accusati pur di veduta. Una volta l’avvocato manifestò il desiderio di chiedere al testimonio che additasse, fra le persone presenti, quella ch’egli accusava. La corte negò questo permesso. Nell’altro caso l’avvocato sfidò il testimonio ad additare la persona di cui stava parlando. Se sono bene informato, il mentovato Navarro, affettando di non aver udita la questione, disse all'accusato: Signor Nisco, alzatevi, la corte ha da farvi una dimanda. Ciò fatto, l'avvocato disse che si poteva continuare l’esame. La corte allora mandò sardoniche risa.

Vi darò ora un saggio dell’umanità con cui sono trattati i prigioni invalidi dalla gran Corte criminale di Napoli. Il fatto me lo espose una distinta persona, un testimonio oculare che conosce perfettamente il linguaggio.

«Il numero originario delle persone sotto processo come membri dell’immaginaria società battezzata dalla polizia dell’Unità italiana, era di quarantadue. A capo della lista vede vasi Antonio. Leipnecher, che ora non è più. La sua malattia impedì alla corte di sedere per alquanti giorni. Finalmente Navarro informò i medici addetti alle prigioni che dovevano trovare nelle loro coscienze i mezzi di attestare che il Leipnecher poteva assistere al giudizio la vegnente mattina.

Al domani mi avviai al tribunale con un amico, quando incontrammo uno dei dottori che conosceva il mio amico. Cominciò a parlare del Leipnecher e disse ch'egli era gravemente malato, ma che la posizione era tale ch'egli non avrebbe potuto attestare senza pericolo sull’impossibilità in che era il Leipnecher di assistere, e che perciò aveva avvertito il presidente che l’accusato poteva tradursi alla corte in portantina, purché gli venissero somministrati dei cordiali e non gli si facesse veruna questione. Entrai nella sala, e dopoché gli altri accusati ebbero occupato il loro posto, venne una portantina donde usci il Leipnecher in uno stato di prostrazione fisica e morale.

Il Navarro cominciò coll’imporre al cancelliere che leggesse l’interrogatorio di Antonio Leipnecher e, come fu finito, l’invitò a far le sue osservazioni. Osservò l’avvocato che invano aveva cercato dì parlargli, ch'egli era incapace a rispondere ed a comprendere. Il Navarro allora si rivolse a lui con tono minaccioso avvertendolo che colla sua finta malattia egli rovinava la sua causa. Il Leipnecher fece alcune osservazioni che non si poterono udire e che vennero ripetute da un altro accusato portanti che i medici non eransi data una pena al mondo per curarlo. Scrivete, disse il Navarro, che egli ha detto che i medici non lo vollero curare. Il procuratore generale Angelillo mostrò desiderio che si richiamassero i dottori per dire il loro parere sullo stato presente dell’accusato. Ciò fecero in un’ora ed asserirono che soffriva per acuta febbre e non era in grado di rimanere. Ma, disse Angelillo, se è qui, perché non può restare? — Non può senza immediato pericolo della vita. La corte allora si sciolse, e quando si riunì nuovamente dopo due o tre giorni, Leipnecher era. nella tomba.» Dopo quanto ho detto sulla gran corte criminale di Napoli, panni che avrò destato un senso d’incredulità nel petto di chiunque é uso a scorgere nei magistrati di una nazione la più alta personificazione dei principii d’onore e di spassionata equità. Non voglio altrimenti asserire che tutti i giudici di Napoli siano mostri: ma sono schiavi. Sono numerosi, mal pagati, e la loro carica dipende dal   capriccio di chi l’ha conferita. Generalmente sono molto men dotti e prudenti, e hanno molto minore moralità che non i membri del foro che avvocano avanti loro. La più alta provvisione che si dia ad alcun membro della magistratura ammonta, credo, a 4000 ducali all’anno. Ma la cosa più notevole è la tirannica severità nel caso in che non secondino le accuse mosse dal governo. Non è già che in questi casi 1 assoluzione significhi molto. Come il governo arresta e caccia in prigione senza mandato e senz'accusa, così, partendo dallo stesso largo ed amato principio d’illegalità, non si fa il menomo scrupolo di tener in carcere degl’imputati che, dopo due o tre anni di reclusione e di terrore, furono solennemente dichiarati innocenti. Dei prigionieri, per esempio, su cui si sentenziò finalmente in febbraio () (ridotti a 41 per la morte di Leipnecher) sei, credo, furono assolti. Ma questi, qualche tempo dopo la sentenza, so ch’erano tuttavia in carcere. Non ecciterà perciò maraviglia l’udire che i giudici, per la considerazione che condannarono 35 a gravissime pene, siano andati impuniti. Ma guai a que’  giudici che dimenticano il grande oggetto della persecuzione!

Nella stessa Napoli un vecchio di 80 anni, che aveva esercitato l’uffizio di giudice per mezzo secolo, fu congedato poco tempo fa per aver assolto alcuno ch’era stato accusato d’aver composto od inserito in un giornale un articolo incriminato. E un caso più notorio occorse poco tempo fa a Reggio. Dei prigionieri accusati di qualche fatto relativo alla malaugurata Costituzione furono tradotti in giudizio. Essi furono assolti, ma la mano della vendetta cadde sui giudici. Dopo un tanto misfatto tutto il tribunale, quasi fosse una stalla d’Augia, fu spazzato. Due giudici soli, credo, — probabilmente la docile minoranza — furono solo nominalmente congedati e posti fra’  disponibili, con speranza di nuovi salari. Ma gli altri sei, la rea maggioranza, furono spietatamente ed assolutamente licenziati. Non vi maraviglierete pertanto se con una sì perfetta disciplina il comando sia, anche dai giudici, sì prontamente ubbidito! Dei 41 accusati nella causa ch’io chiamerò del Poerio, tre furono condannati a morte, Settembrini, Agresti e Faucitano. Il Poerio a 24 anni di ferri. Credo che i voti si ripartissero in questa guisa: tre per l'assoluzione, 2 pei ferri, 3 (compreso il delicato, scrupoloso e generoso Navarro!) per la morte — sulla testimonianza di quel Jervolino che credo avervi abbastanza descritto. Queste due sezioni quindi s’unirono e votarono per la punizione più leggiera, onde s’ottenne la maggioranza. Uno di coloro che prima avevano opinato per l’assoluzione votò poi per la condanna, grazie al sistema d in timori mento che venne affidato al delicato, scrupoloso, imparziale e generoso Navarro.

Dicesi che sia occorso un grave errore. Pare che una legge od usanza napolitana provegga umanamente che quando tre persone sono condannate nella vita non si eseguisca la sentenza che sovra una. Ma se ciò era vero f era stato dimenticato dai giudici e scoperto solo dal procurator generale o talun altro, dopoché la cosa credevasì finita. Udii pure che Settembrini ed Agresti ricevessero, come grazia, una dilazione. Quanto al Faucitano, non entrerò nei particolari di ciò che occorse nel palazzo di Caserta, ma udii e minutamente e con ragioni plausibili che certe minaccie di privare il governo di Napoli d’un utile sostegno anziché l'umanità dettassero in questi ultimi momenti la commutazione della pena.

La pena capitale s’infligge molto raramente nel regno di Napoli in seguito a sentenze giudiziarie: ciò é certo. Ma checché possa dirsi della pena capitale considerata sotto altro punto di vista, non esito a dire ch’essa sarebbe un atto di umanità v in quanto al patimento ch’essa cagiona, in paragone di ciò che si soffre ora in seguito alle sentenze di pena di carcere. G tuttavia anche sulla severità di queste sentenze io non cercherei di rivolgere l’attenzione tanto da distorta dal grande fatto della illegalità, che sembra a me la base del sistema napolitano: l’illegalità fonte di crudeltà, di bassezza, di ogni altro vizio: l’illegalità che perverte la coscienza: quella mala coscienza produce i terrori, questi terrori menano alla tirannide, questa tirannide genera odio, e questo le vere cause del terrore, che prima non sussistevano. E così la paura diventa più pungente e grandeggia, il vizio originario si moltiplica con tremenda celerità ed il vecchio delitto produce la necessità del nuovo.

Parlai di Settembrini e della sua creduta e credibile tortura. Vengo ora a quanto ho veduto o udito secondo la più diretta e incontrastabile autorità.

In fine di febbraio, Poerio e sedici suoi coaccusati (con pochi di cui tuttavia egli avea avuto conoscenza da prima) furono confinati nel bagno di Nisida presso il Lazzaretto. Ogni settimana, per una mezz’ora alquanto prolungata per mitezza del sovr’intendente, permettevasi loro di vedere i loro amici fuori della prigione. Solo allora potevano essi contemplare le naturali bellezze dei luoghi che li attorniano. In diversi tempi furono confinati entro le mura. Essi tutti, tranne credo uno che allora era nell’infermeria, furono giorno e notte confinati in una camera sola lunga circa 16 palmi, alta 8: credo con un cortile per esercizio. Quando a notte s'abbassavano i letti non rimaneva spazio tra loro. Potevano uscire solo incatenati due a due. In questa camera avevano a cucinare o preparare ciò che ottenevano dalla dolcezza dei loro amici. Da una banda il livello del suolo è sopra il pavimento della camera e perciò l’empie di umidità. Oltre a ciò per la lunga reclusione i prigioni lagnavansi di soffrire grandemente. Eravi una sola finestra e naturalmente senza vetri. Nè crediate già, come inglese, che questa continua corrente d’aria in un clima napolitano sia sempre gradevole ed innocua. Al contrario egli é forse ivi più necessario che non qua l’aver il mezzo di poter escludere l’aria aperta, per esempio, prima del tramonto. Le vicissitudini dei clima si sentono a Napoli come qua, e il principio del mattino v’è talora più acutamente freddo.

Le loro catene sono come segue. Ognuno porta una forte cintura di cuoio sopra le anche. A questa sono raccomandati i capi superiori di due catene. Una catena di quattro lunghe e pesanti anella scende ad una specie di doppio anello fissato intorno alla noce del piede. La seconda catena consiste di otto anelli, ciascuno dello stesso peso e lunghezza dei primi quattro, e questa unisce due carcerati insieme, sicché possono star distanti circa sei piedi. Non si slega mai, né il dì,  né la notte questa catena. L'abbigliamento de' rei comuni che, come il berretto dei reo, era allora portato dal già ministro di gabinetto di Ferdinando re di Napoli, è composto di un rozzo e duro. giaco rosso, con brache dello stesso materiale — simile alla tela latta qui da ciò che chiamasi polvere del diavolo (devil's dust): le brache quasi dello stesso colore, sul capo egli aveva un berretto dello stesso materiale. Le brache sono abbottonate per tutta la loro lunghezza e di notte si possono togliere senza rimuovere la catena.

Il peso di queste catene è circa 8 rotoli (più di 7 chilogrammi) la più breve, e questo peso si deve raddoppiare quando ciascun carcerato ha da portar altresì la metà della più lunga. I carcerati arrancavano come se una gamba fosse più corta dell'altra. Ma il patimento é tanto più grande, ché vengono incatenati insieme incessantemente uomini educati con abbietti. Le catene non si slegano per nessun motivo, e il significato di queste ultime parole vuol esser ben considerato: esse si prendono nel senso più strette. Si dirà che l'usanza é barbara e non dovrebbe sussistere, ma che sussistendo egli è difficile l'esentarne   alcune persone, perché più raffinate. Ma questa, mio lord, non e la spiegazione. Anzi egli è per questi due signori che si introdusse nel bagno di Nisida l’uso d’incatenare insieme i carcerati. Mi assicurano che due o tre settimane prima, fra 800 carcerati in quel bagno, questi doppi ferri erano affatto sconosciuti: ed allora v’erano molti condannali politici, ma erano uomini di basso grado, cui questa specie di punizione non avrebbe accresciuto tanto la sofferenza. Ma appunto nel tempo che Poerio e i suoi compagni furono mandati a Nisida venne ordine dal principe Luigi fratello del re, che, come ammiraglio, aveva l’incarico dell’isola, con cui prescriveva che s’usassero i doppi ferri per coloro ch’erano venuti in carcere dopo un certo tempo, credo dai 22 luglio 1850. Così si studiò il mezzo di imporli al Poerio e i suoi amici, e tuttavia poter dire che non s’era dato l’ordine per essi, e collo scopo d’infliggere loro un’estrema morale e fisica tortura. Fra questi, come dissi, era stato incatenato il delatore Margherita con una sua vittima. Vidi pure un carcerato politico, Romeo, incatenato nel modo sopra descritto con un reo comune, un giovane dall’aspetto più feroce e selvaggio che abbia mai visto tra’   delinquenti napolitani.

L’ispettore di questa prigione, il generale Palomba da lungo tempo, o forse giammai non l’aveva visitata. Ma egli era venuto poco prima che non vi foss’io, ed è impossibile non pensare ch’egli fosse venuto onde cerziorarsi che gli ordini di accrescere la severità non fossero elusi o rilasciati. Avevo udito che i rei politici erano obbligati a tosarsi, ma questo non era stato fatto, quantunque fossero stati obbligati a radersi tutta la barba c|ie potessero avere.

Fui maravigliato, debbo dirlo, delta dolcezza con cui parlavano dei loro persecutori, della cristiana rassegnazione, non che della loro propensione al perdono, poiché essi sembravano disposti a sopportar con pazienza, qualunque cosa si ammannisse loro. La loro salute aveva evidentemente sofferto.

Vidi la zia di uno di questi carcerati, uomo sui 28 anni, sospirare quando parlava de' suoi sguardi alterati e dei colori giovanili che solo poche settimane prima ne infioravano le guancie. Avrei detto che aveva 40 anni. Aveva visto il Poerio durante il suo processo, ma non l’avrei riconosciuto a Nisida. Non credeva che la sua salute potesse reggere, quantunque Dio, egli diceva, gli avesse data la forza di soffrire. Gli venne suggerito da persone autorevoli che la sua madre, di cui era solo sostegno, od egli stesso potessero ricorrere ai re per implorare perdono. Ma costantemente ei ricusò. Quando io era a Napoli, la madre soggiogata dal dolore smarriva le sue facoltà mentali. Pare che Iddio, più pietoso degli uomini, ne la privasse pel suo meglio, perché fra le sue angoscie ella aveva delle estasi e delle visioni di riposo. Un tratto disse a un giovane dottore, che aveva veduto suo figlio e seco lui altra persona. Ora quei due carcerati non erano insieme, ed essa non aveva veduto  né l’uno  né l’altro.

Dopoché io lasciai Napoli, il Poerio precipitò in più orrende calamità. Fu condotto da Nisida ad Isida, più lungi dal consorzio umano, e forse a qualche dimora consimile al Maschio di Porcari. Basta quel ch’io vidi. Non conversai mai e probabilmente non converserò mai più con un personaggio sì colto e compito, della cui innocenza, ubbidienza alle leggi e amor patrio sono così certo, e con altrettanta ragione come di V. S. o di qualsivoglia altra più degna persona. Egli stava innanzi a me circondato da mariuoli e vestito delle vili assise dell’obbrobrio e della colpa. Ma egli trovasi ora là, ove probabilmente non avrà pur più il conforto d’una tale conversazione. Non posso onestamente dissimulare ch’io sono convinto che, trattandosi di una persona sì intelligente da esser temuta, si cercò il fine del patibolo con mezzi più crudeli che il patibolo e senza il clamore che avrebbe eccitato il patibolo.

È tempo di finire. Potrei in verità addurre fatti provanti come a Napoli le più alte autorità considerino e puniscano come reato capitale 1 amore alla costituzione, che è la legge fondamentale dello Stato: come degli ecclesiastici, non meno che dei laici, languiscano ivi in carcere, non per avere commessi delitti, o perché pur si sospetti che ne abbiano commessi, ma perché si pensa che in futuro potranno forse trovar il modo d’incolpar alcuno di essi. Ma darò termine a questa ingrata narrazione coll’accennare un fatto, il quale mostra chiaramente qual conto si faccia a Napoli della vita umana.

Ho parlato delle prigioni di Napoli. Lungo tempo fa, esasperati dal modo con che si trattavano, i reclusi nella prigione di Stato d’Isida si rivoltarono e si sforzarono d’impadronirsi di essa. Il modo con che si sedò la sollevazione fu il seguente. I soldati cui era affidata la guardia di essa gittarono colla mano delle granate fra i prigioni e ne uccisero 175, e fra questi 17 invalidi che erano nell’infermeria e non avevano preso parte alla rivolta. E per aver compiuta questa strage, mi fu detto, il sergente comandante le truppe fu decorato, e si può veder ora rivestito del suo ordine militare. Riferisco questo fatto senza dimenticare che una rivolta in prigione è cosa orribile ed esige energia: ma colle soverchiami forse di che dispone il potere esecutivo e il carattere dolce dei napolitani, anche criminali, niuno crederà che fosse necessaria questa carneficina.

Abbastanza, panni, fu detto per mostrare che vi sono le più forti ragioni di credere che sotto il velo misterioso che copre gli atti del governo di Napoli, vi sono gl’incredibili orrori che desolano quel paese, spargono la costernazione fra le intere classi da cui dipende la vita e il progresso delle nazioni: scalzano le fondamenta di ogni reggimento civile, preparano le vie ad una violenta rivoluzione, il potere, che nelle umane società ha la missione di mantener l’ordine e la legge, difender l’innocenza e punire, il delitto, si rende il gran violatore della legge, la peste del paese; il primo in ordine fra gli oppressori, il mortai nemico della libertà e dell’intelligenza, l’attivo fomentatore ed instigatore della più vile corruzione fra il popolo.

Mentre io parlo così liberamente e severamente degli atti del governo di Napoli, mi trattenni deliberatamente (tranne alcuni casi speciali ben accertati) dall’indicare gii agenti o dai fissare la risponsabilità. Oltre i limiti da me posti non conosco e non desidero conoscere cui spetti. So che quantunque sia il re effettivamente il rettore del paese, un velo impenetrabile può frapporsi tra’  suoi occhi e i mezzi attuali con cui s’amministra il suo Stato.

Alcune persone credono anzi che ciò abbia veramente luogo. Debbo anzi soggiungere che una volta s’invocò direttamente e apertamente la sua umanità, e ch’ei diede una risposta evidentemente sincera, quantunque, giusta le ultime notizie che mi pervennero, per causa di straniere influenze, l'esito non sia poi stato felice.

Conchiudo col ringraziarvi che m’abbiate permesso di dirigervi questa lettera. Senza questo permesso mi sarei trovato senza alcuna speranza di potermi efficacemente adoperare per correggere gli atti del governo napolitano. Lasciai Napoli colla fissa determinazione di travagliarmi con ogni mezzo per ottenere prontamente questo scopo. So benissimo quanto pericolosa cosa sia il destar l’opinione pubblica su questo argomento in questa ed in altre contrade, come con questo mezzo si possa avvivare l’azione del disordine sociale e politico. Confesso francamente che il senso che provo pei mali che affliggono presentemente il popolo di Napoli, per altri e contrarii mali cui essi danno rapidamente origine, per le obbligazioni che ne derivano è cosi profondo ed intenso, che solo per la speranza di qualche pronto e caratteristico segno di miglioramento, il quale potrà effettuarsi con quei mezzi che la vostra autorità vorrà procacciarmi, io debbo andar incontro ai pericoli A della pubblicità, quali ch’essi siano, pericoli che in casi che io non ho volontà di contemplar qui, io potrei essere costretto ad affrontare.

Ancora un’osservazione. Nei particolari di ciò che ho narrato possono essere occorsi degli errori di forma od anche di fatto. Se questa narrazione toccasse in qualche guisa la condotta delle persone di che trattasi, egli è possibile che gli errori che per avventura fossero incorsi relativamente ad essa venissero confutati, anche con qualche apparenza di ragione e forse pure con qualche fondamento. Io sono preparato a ciò. In questo caso non imporrei a V. S. il carico di tutte le repliche e risposte cui si facesse luogo. Non imprenderò a provare l’esattezza di ciò che ho esposto colle persone che ne impugneranno la verità, solo perché io non mi trovo negli stessi termini di loro. Primieramente in Napoli il mistero è norma generale del governo, e l’assoluta servitù della stampa toglie ogni mezzo di chiarir le cose contestate, e quindi è chiusa ogni via per giungere alla verità. Secondariamente lo stendermi io sopra tali particolari ecciterebbe sicuramente ingiusti sospetti sopra alcuni individui, e perciò sarei causa di nuove persecuzioni. Finalmente, e questo è il più importante, essendo io convinto dell esattezza di ciò che ho esposto, nel suo aspetto generale e nei generali risultamenti che ne derivano, credo non si possa contestarlo in buona fede, e l’entrare in dispute di questo genere sarebbe ritardare forse indefinitamente il conseguimento di quei pratici fini che io mi sono proposto.

Non ho alcun dubbio nell'impegnare il mio credito in ciò, perché sono convinto d’aver detta la verità. Non in una sillaba ho infoscati più del vero i colori di ciò che ho descritto: ho ommesse molte cose, di cui pur era certo tuttocché breve, per la mia residenza in Napoli, tuttoché breve. Evitai la moltiplicità dei particolari, e parlai specialmente della condanna di Poerio, non perché io abbia la minima ragione di crederla più atroce e ingiusta delle altre, ma perché ebbi più agio di conoscerne i particolari, e perché più delle altre eccita interesse in quel paese. Crimine ab uno disce omnes. Egli è tempo che s’alzi il velo che copre delle scene più proprie dell’inferno che della terra, o si arrecherà volontariamente qualche notevole temperamento. Intrapresi questa faticosa e penosa opera colla speranza di contribuire o scemare una quantità di dolori umani cosi grande e così acuta, per non dir più, come qualunque possa contemplare il cielo. Io credo fermamente che coll’aiuto di V. S. ciò si possa ottenere, prima senza delusione o ritardo, e quindi senza i mali e gli inconvenienti che temo nascerebbero ove io  abbandonato alle pure|inie forze, ciò imprendessi a fare senza altrui soccorso.

Rimango, mio caro lord Aberdeen,

sinceramente tutto vostro

W. E. Gladstone.

LETTERA II

Caro Lord Aberdeen,

La lettera, di cui questa mia non è che una continuazione, aveva un carattere personale e privato, e a voi io la dirigeva con ardente speranza che mai non avrebbe avuto altro carattere. Ero talmente convinto della verità generale e della forza di quanto v’esponeva e della estrema urgenza del caso, e conoscevo cosi bene come conoscono tutti il peso che si dà alle parole di V. S. , anche quando adopera solo da persona privata, che quando, a mia richiesta, consentiste che si facesse conoscere la mia esposizione colà ove più era desiderabile si conoscesse, il mio animo fu liberato da un grave peso. Io lietamente augurai allora alcune pratiche conseguenze, le quali, avvegnaché di lieve momento, mi avrebbero incorato ad aspettare che una più matura e lunga deliberazione producesse più considerabili risultamene.

Era cosa si ragionevole che si cominciasse a tentare la privata esposizione dei fatti che io non mi pento d’aver tenuta questa via, benché necessitasse una più lunga dilazione, onde poteste maturatamele esaminare il caso e farlo conoscere in que’  siti a cui ho fatta allusione. Ma il modo con che fu ricevuta m’ha convinto del tutto che in questo caso io non sarei giustificato ove confidassi ancora nell’efficacia delle mere preghiere. Epperciò, prima anche di abbandonare ogni speranza nel vostro concorso, deliberai di pubblicare la prima mia lettera. Desidero tuttavia di protestare che io solo sono risponsabile di quest’atto.

Ho creduto impertanto che fosse un sacro dovere per me il tradurre la mia narrazione alla sbarra della pubblica opinione, di quell’opinione che circola per tutta l’Europa con una facilità ed una forza che cresce ogni anno e che, quantunque in alcuni casi possa fallire ed in altri eccedere, è animata dallo spirito del Vangelo e sempre si mostra favorevole alla diminuzione delle sofferenze umane.

Può credersi cosa presuntuosa o chimerica lo sperare che una cagione meschina come può essere la mia sperìenza od i miei sentimenti possa produrre alcuna modificazione nella politica reazionaria di un governo. Qual titolo avevo io, si dimanderà, uno fra mille viaggiatori, sul governo napolitano? Si presume forse che le determinazioni onde vien fissata la politica degli Stati, specialmente assoluti, siano proporzionate all’immenso potere che hanno sui destini del genere umano, e non si mutino per deferenza verso i desiderò o le impressioni d’individui od insignificanti, o predisposti contrariamente e in ogni caso irresponsabili? La mia risposta è breve. Io non ho titoli verso il governo di Napoli: ma, come uomo, credei mio debito recar testimonianza su ciò che aveva veduto personalmente o saputo per informazioni, o avea motivo di credere vero intorno a vivissime e non necessarie sventure. Sapendo tuttavia che di tali testimonianze si poteva far uso per ottenere dei fini, cui mai non aveva inteso chi le recava, e che in tempi d’irritazione e di sospetto, come sono i presenti nel continente d’Europa, leggere cause possono per avventura produrre o concorrere a produrre effetti di molta gravità, volentieri posposi ogni appello al pubblico finché il caso non fosse stato meditato da coloro la cui condotta principalmente si toccava. Così fu. Essi fecero la loro scelta, e mentre io riluttante accetto le conseguenze, il non voler essi attuare alcun pratico miglioramento non verrà  mai addotto da me come un aggravamento della loro anteriore risponsabilità.

Rimarranno fors’anche deluse alcune persone, perch’io adoperi soltanto da privato e per meno della stampa, mentreché potrei rivolgere l’attenzione di quella Camera del Parlamento, cui ho l’onore di appartenere, a questa grave e penosa questione. A costoro io direi che a bella posta volli astenermi dall'usare  in questo affare alcun mezzo od influenza britannica di carattere ufficiale, diplomatico o politico. Veramente io avrei potuto, associando la questione agl’interessi dei partili o degl’individui, ottenere maggiormente favorevole attenzione; ma d’altra banda, adoperando in tal guisa, avrei potuto destre le gelosie d’altri Stati d’Europa contro le mie esposizioni, contro ciò ch’io credo essere un sacro dovere d’umanità, e nel regno delle Due Sicilie stesso quei lodevoli sentimenti d’indipendenza nazionale che sono fondamento del patriottismo. Avrei travisato in qualche modo la questione. Gli interessi che ho in vista non sono quelli dell’Inghilterra: poiché essi o sono in ciò nulli, di niun valore, o larghi quanto s’esteade la schiatta umana e duraturi come essa. Veramente sarebbe meglio che s’ottenesse parzialmente almeno un riparo a quei mali, grazie all’influenza e potere di questo. Stato, anziché non ottener nulla: ma sono tanto persuaso dei mali che deriverebbero da questo modo di procedere, e degli ostacoli di cui sarebbe causa, ch’io deliberai al tutto di astenermi dal ricorrere alle generose simpatie, con cui certamente il Parlamento inglese accoglierebbe le mie proposte. E se questo tema sarà in esso argomento di discussione, non fia sicuramente coll’opera od assenso mio.

Nel riandare e ripensare i termini della lettera che diressi a V. S. ai 7 aprile vi trovo «in calore che può lasciar luogo alla critica, ma che parventi e mi pare tuttavia giustificato generalmente dalle circostanze del caso. Vi rinvengo allegati molti fatti che ecciteranno in alcuni l’indegnazione e l’orrore, incredulità in altri, ma indifferenza in pochissimi. Confessai già che mi fu impossibile verificare con precisione i particolari di parecchie delle cose da me narrate, perché a Napoli non si può liberamente discutere; perché se si supponesse che un napolitano avesse talora mandate delle notizie sfavorevoli al suo governo ad un inglese (potrei anche dire, specialmente a me fra gli Inglesi), diverrebbe tosto una vittima dei delatori, un oggetto delle loro ricerche. Sono convinto ora, come allora, di non avere esagerato: d’aver fatto il possibile per riuscire esatto: che le più tristi circostanze sono quelle che constano per pubblica notorietà o di cui ebbi personalmente cognizione: che qualunque tentativo che io facessi di conferire abitualmente con sudditi napoletani, o di far col loro mezzo regolari investigazioni, o di indicar direttamente od indirettamente alcun individuo, come sorgente donde trassi le mie notizie, tornerebbe fatale alla loro personale libertà e felicità. Ma io non mi fondo soltanto sopra queste basi. La certezza ch’io ho sulla verità generale delle mie asserzioni, crebbe assai, il mio timore che fossi incorso in qualche errore nei particolari diminuì notabilmente dopo la data della mia prima lettera. Scrivendo in luglio non ho ancora a fare osservazione di momento su ciò che dissi in aprile. So che avendo io asserito di credere che il numero dei prigionieri politici nelle Due Sicilie ammontasse a 20 mila, si osservò che dai rapporti constava non esservene che 2 mila circa. Ma anche questa cifra non è ancora stata ammessa; poiché mi ricordo che nello scorso novembre un Inglese, molto onorevole e in istretta relazione colla Corte, mi affermava il numero non ascendere che a mille.

Abbiasi pure il governo napolitano il benefizio dell’obbiezione che mi venne fatta. Per me sarebbe una gran consolazione se vi potessi prestar fede. I lettori della mia lettera non saranno sorpresi s’io esito nell’ammetterla. Ma soggiungerò una cosa. A miei occhi il numero dei prigionieri politici, come lo stato delle prigioni, non ha che un interesse secondario. Se essi sono umanamente e legalmente arrestati, umanamente e legalmente trattati prima del processo, umanamente e legalmente giudicati, questa è la principale questione. Ma la mia accusa precipua tende a mostrare che si commise una grossolana illegalità ed inumanità nel giudizio, ed il numero dei prigionieri e lo stato delle prigioni non sono più materia di tant’importanza che come una prova di quanto asserii.

Si sarà notato nella mia prima lettera che io ho parlato di quanto ho veduto io stesso nelle prigioni di Napoli ed anche, in alcuni casi, di quanto ho udito dai prigionieri. Credo necessario l’addurre i motivi per cui cercai di penetrare in esse. Non fui altrimenti mosso da vana curiosità, ma dall’idea del dovere che incumbeva a me di farmi testimonio oculare, per quanto poteva, prima di fare ulteriori passi. Ho pure sacro dovere di affermare che quegli sventurati non sono in alcuna guisa risponsabili della visita che io feci alle loro tristi dimore,  né presero alcuna parte ad essa od a checché possa io aver fatto prima o dopo. Se poscia furono assoggettati, come mi assicurarono, a maggiori sofferenze, a più duri trattamenti, quest’aumento di pena non può essere menomamente giustificato da ciò che abbiano essi potuto operare. Debbo pure aggiungere che quanto io asserisco di concernente al loro processo, lo desunsi da stampate memorie ch’io mi procacciai senza loro aiuto o cognizione. Se ciò ch’io feci col solo scopo di venir in chiaro della verità, coi soli mezzi ch’erano in mio potere, avesse prodotto l’effetto d’aggravare la condizione d’uomini innocenti, ne risulterebbe una novella prova della miserabile tendenza della tirannide a moltiplicarsi e riprodursi, come tutti gli altri mali, da se stessa. La necessità può essere la sola difesa del tiranno: sola difesa, e sola sua ragione: è una dura e crudele guida di condotta: e l’ostinato abuso della nostra alta facoltà di scegliere il male produce tostamente uno stato di cose in cui la comune volizione ben tosto riesce impedita: ed è necessaria una risoluzione quasi eroica per arrestarne il corso fatale.

Non intendo di aggiungere fatti a quelli che sono contenuti nella mia prima lettera, quantunque non siano essi che una parte e neppure i più considerabili. Un motivo che mi indusse è l’essere essi bastanti al mio scopo, e un altro è che, altrimenti facendo, porrei probabilmente in pericolo non veramente le persone che me li fecero conoscere, ma quelle che gli agenti della polizia supponessero o credessero conveniente di supporre che mi li avessero fatti conoscere.

Il mio scopo presente è sostenere la probabilità generale delle mie asserzioni, col riferirmi a fatti fuor di questione, occorsi a Napoli come in altre parti d’Italia; fatti che ci presentano uno stato di cose cui difficilmente c’ induciamo a credere e che sventuratamente è troppo vero e noto a tutti.

Che la mia prima narrazione sia accolta a prima giunta con incredulità non sono scontento. Anzi, per onore della umana natura, credo che debba essere così. Gli uomini debbono essere tardivi a credere che possano intervenire tali cose in una contrada cristiana, sede di quasi tutta la vecchia civiltà europea. Debbono essere inclinati ad attribuire le mie asserzioni a fanatismo e follia da mia parte, anziché crederle un genuino racconto del modo di procedere di uno stabile governo. Ma quantunque tale possa essere la prima impressione, confido che non si chiuderà l’adito alla luce, per quanto penosi oggetti possa ella scoprire. Io stesso provai quell’incredulità e avrei voluto poter continuare in tale stato, ma essa dové gradatamente cedere il posto al convincimento e ad ogni nuova prova evidente provavo un nuovo dolore. Perciò io cercherò di far percorrere allo spirito del lettore la stessa via che percorse il mio, per quanto è in mio potere, e di stabilire alcuni fatti caratteristici, i quali possano, più facilmente che non farebbe un’astratta descrizione, dare un1 idea dell’atmosfera politica d’Italia.

Io parlai, per esempio, ultimamente della polizia napolitana in tali modi che io non potrei senza dolore usare verso coloro che la polizia, quale ce la immaginiamo giusta le nostre idee, é specialmente destinata a reprimere in altri paesi civili. Fra noi il constable (uffiziale di polizia) è oggetto di rispetto generale. La tradizione ispira questo sentimento e la condotta di quei corpo lo conferma, intantoché noi non abbiamo presentemente una parola per esprimere quella professione, che implichi un’idea sfavorevole. Ma la lingua italiana ha le parole sgherro e birro che implicano l’idea di degradazione nelle persone accennate e di ribrezzo in colui che le pronuncia; parole di cui non abbiamo in inglese il perfetto equivalente. Ed ora avendo parlato del modo con cui altri pensano di loro, diamo un saggio di ciò che i poliziotti italiani pensano di sé stessi. Tolge il mio esempio dalla Lombardia: tuttavia sono lungi dal dire che la polizia di quella provincia sia caduta al livello della classe corrispondente a Napoli.

Era vi un famigerato poliziotto a Milano, detto Bolza. Nel tempo della rivoluzione del 1848 furono scoperte le note private del governo sul carattere dei suoi agenti. Il Bolza v è ritratto come un individuo rozzo, falso, tutt altro che rispettabile, fanatico imperialista fino al 1815, poi egualmente caldo partigiano dell’Austria, «e domani turco,se Solimano dovesse entrare in questi Stati», capace d’ogni cosa per danaro, tanto contro l'amico che il nemico. Tuttavia, continua la memoria «egli comprende bene gli affari, e mostra molta abilità. Non si sa nulla della sua moralità e religione.» Ma un’opera pubblicata a Lugano contiene il suo testamento, e questo curioso documento prova l’acuto senso della propria degradazione che provava anche un uomo di quella risma. «Proibisco assolutamente ai miei eredi, dic’egli, di permettere che si metta segno di qualunque sorta al sito ove sarò sotterrato: molto meno iscrizione od epitaffio. Raccomando all’amata mia consorte d’imprimere nei miei figli la massima che, qualora essi siano in istato di dover chiedere un impiego alla generosità del governo, lo chiedano m qualsivoglia dicastero, ma non in quello della polizia esecutiva. E tranne il caso di straordinarie circostanze, non dia essa mai il suo assenso al matrimonio di alcuna delle mie righe con un impiegato di questa classe» ().

Allegherò ora due fatti riferiti nella recente stimata storia dello Stato Romano, dal 1815 al 1850, del sig. Farini. — Esiste una circolare confidenziale del Cardinal Bernetti, in cui ordina ai giudici, che nel caso che i liberali siano accusati di ordinari! reati, s’infligga loro invariabilmente il maggior grado di pena.

Il Bernetti non era partigiano dell’Austria, e dicesi che sia stato esautorato (regnante Gregorio XVI) per mezzo dell’influenza austriaca. La sua idea favorita era Finterà indipendenza dello Stato pontificio, e perciò la circolare cui feci allusione è prettamente italiana.

Ciò accadeva sotto Gregorio XVI. Regnante Leone XII il Cardinal Rivarola andò legato a latore in Romagna. Ai 31 agosto 1825 pronunziò sentenza contro 508 persone. Sette di esse dovevano andare al patibolo; 49 alla galera per diversi tempi, da 10 anni fino alla perpetuità: 52 in prigione per egual tempo. Queste sentenze furono pronunciate privatamente, a semplice volontà del cardinale, per mera presunzione che gl’imputati appartenessero a sette liberali. E, ciò che Stupirà un inglese, dopo un processo semplicemente analogo a quello di un gran giurì (paragono il processo, non le persone), senza lasciare agli accusati alcuna opportunità di potersi difendere.

Accennerò altresì un editto pronunciato dal duca di Modena ai 18 aprile 1832. Si ordina in questo, che gli accusati politici possano essere condannati a qualsivoglia punizione materialmente minore che quella che è prescritta dalla legge, quando il reato é provato, e ciò senz’alcun processo o formalità di sorta alcuna nei casi in che si fosse convenuto di non palesare i nomi dei testimonii, o di non far conoscere la qualità delle testimonianze. Con queste riduzioni di pena ordinavansi solitamente l’esilio e le multe, come altre appendici si potevano aggiungere a talento! L’editto si può leggere nel famigerato giornale la Voce della Verità, num. 110.

Avendo esposto alcuni fatti relativi ai principii con cui fu retto talora un governo italiano, vengo ora a trattare alcuni punti relativi alla posizione politica del presente governo di Napoli. Nella mia prima lettera, mentre esprimevo la brama di evitare una discussione su quel tema, accennai pure che egli era necessario toccarne alcuni punti onde si potesse comprendere la politica presente. Nemo repente fuit turpissimus. Nessun governo potrebbe arrivare a tale estremo di terrore, crudeltà e viltà, quale fu mio doloroso dovere descrivere, a meno che non fosse già pervertito da una mala coscienza e tratto dalla necessità a coprire vecchi misfatti col cumulo di nuovi.

Nel mese di gennaio 1848 fu ottriata una costituzione al regno di Napoli, la quale venne proclamata e giurata solennemente dal monarca fra l’esultanza del popolo. Liberatore, uno dei gesuiti di Napoli, in un sermone pronunciato ai 15 aprile 1848 dice: «Il sovrano si mostrò  né ostinatamente tenace,  né precipitosamente pieghevole. Temporeggiò, anzi respinse la domanda finché non fu chiarito ch’essa derivava da desiderio universale del popolo, e non da isolate affermazioni d’un partito. Degnò di aderire con gioia, mentre era tuttavia in suo potere il resistere. Cosi fu dimostrato chiaramente ch’ei fece quelli l’atto non per violenza od apprensione, ma per propria e sagace volontà.» ()

Ai 15 maggio venne la lotta, la cui origine fu descritta coi più opposti colori da persone di sentimento opposto. Essa terminò colla più certa e compiuta vittoria del re e delle sue truppe, e citerò ora le parole con cui il trionfante monarca reiterò le sue assicurazioni relativamente alla costituzione:

«Napoletani!

«Profondamente addolorati dall’orribile caso del 15 maggio, il nostro più vivo desiderio è di raddolcirne quanto è possibile «le conseguenze. La nostra fermissima ed immutabile volontà è di mantenere la costituzione del 10 febbraio pura ed immacolata «da ogni eccesso, la quale essendo la sola «compatibile coi veri e presenti bisogni di questa parte d'Italia, sarà l’ara sacrosanta «sulla quale devono appoggiarsi le sorti dei «nostri amatissimi popoli e della nostra corona... Ripigliate dunque le consuete «vostre occupazioni: fidatevi con effusione d’animo della nostra lealtà, della nostra religione e del nostro sacro e spontaneo giuramento.»

Darò ora degli estratti di questa costituzione. Essa comincia in tal modo ed io richieggo la vostra speciale attenzione su questo preambolo:

«Visto l’atto sovrano del 27 gennaio 1848, col quale aderendo al vote unanime dei nostri amatissimi popoli abbiamo di nostra piena, libera e spontanea volontà promesso di stabilire in questo reame una costituzione corrispondente alla civiltà dei tempi, additandone in pochi e rapidi cenni le basi fondamentali, e riserbandoci di sanzionarla espressa e coordinata nei suoi principii sul progetto che ce ne presenterebbe fra dieci giorni l’attuale nostro ministero di Stato; Volendo mandar subito ad effetto questa ferma deliberazione del nostro animo. Nel nome temuto dell’onnipotente santissimo Iddio Uno e Trino, cui solo è dato di leggere nel profondo dei cuori, e che noi altamente invochiamo a giudice della purità delle nostre intenzioni e della franca «lealtà onde siamo deliberati di entrare in «queste novelle vie di ordine politico.

«Udito con maturo esame il nostro consiglio di Stato; Abbiamo risoluto di proclamare, e proclamiamo irrevocabilmente da noi sanzionata la seguente costituzione.» Quindi seguono i particolari provvedimenti di cui quattro solo fanno all’uopo.

Art. 1. «Il reame delle Due Sicilie verrà d’or’innanzi retto da temperata monarchia ereditaria costituzionale sotto forme rappresentative.

Art. 4 «H potere legislativo risiede complessivamente nel re, ed in un Parlamento «nazionale composto di due Camere, l’una di pari, l’altra di deputati.

Art. 14. «Niuna specie di imposizione può «essere stabilita, se non in forza di una  legge, non escluse le imposizioni comunali.

Art. 24. «La libertà individuale è garantita.

«Niuno può essere arrestato se non in forza di un atto emanato in conformità delle leggi e delle autorità competenti, eccetto il caso «di flagranza, o quasi flagranza.

«In caso d’arresto per misure di prevenzione, l’imputato dovrà consegnarsi all'autorità competente, fra lo spazio improrogabile delle 24 ore, e manifestarsi al medesimo i motivi del suo arresto.

Coloro che desiderano dei particolari possono consultare le storie di questi avvenimenti (). Io abbozzerò soltanto l’attuale stato di cose.

Quanto all’art. 1, la monarchia di Napoli è perfettamente assoluta ed illimitata.

Quanto all’art. 4, non v’è Camera dei pari, non dei deputati.

Quanto all’art. 14, tutte le tasse sono imposte e levate in virtù della sola autorità reale.

Quanto all’art. 24, furono arrestate persone a centinaia, mentre io ero a Napoli, poco prima di Natale, senza verun mandato legale e senza il più piccolo pretesto di flagranza o quasi flagranza. Non furono consegnate alle autorità competenti entro 24 ore, o in altro lasso di tempo, e furono ditenute nel più rigoroso confino dalla polizia, senz’alcuna relazione colle corti, e senzaché si comunicasse loro in modo veruno il motivo dell’arresto.

Tal è la condizione di cose relativamente alla costituzione napolitano, alle sue prescrizioni, alla condotta attuale del governo, la quale è in ogni punto in contraddizione colla incontestata legge fondamentale.

Da questa comparazione fra la legge di uno Stato e gli atti del governo (non già atti fortuiti, ma gli atti costanti e più essenziali del governo) rimangono spiegati i tristissimi ed appena credibili fatti che raccontavo nella mia prima lettera.

Ma io ho ancora un’altra fonte di prove che vi debbo schiudere, delle prove che spiegano nella forma più penosa e rivoltante la continua, compiuta, perfetta organizzazione del sistema ch'io credei mio dovere esporre e denunciare, per quanto il comportava la limitata mia attitudine.

E inutile l’osservare che nel reame di Napoli, tanto la stampa che l’educazione del popolo sono sotto il sindacato del governo, e che tranne alcune questioni in cui può esser conflitto colla Chiesa, nulla s'insegna o si stampa che non sia sotto la sanzione del governo e secondo il suo spirito.

Farò alcune citazioni di un’opera delle più strane e riprovevoli ch’io m’ abbia mai viste. Essa è detta Catechismo filosofico per uso delle scuole inferiori: ed ha per motto videte ne cuis vos decipiat per philosophiam. Ho due edizioni di essa, una porta la data di Napoli, presso Raffaele Miranda, Largo delle Pigne, n. 60; 1850. L’altra è parte d’una serie intitolata Collezione di buoni libri a favore della verità e della virtù: Napoli, stabilimento tipografico di A, Testa; strada Carbonara, n. 104, 1850. Sono accurato in questi particolari, perché se noi fossi, potrei ancora eccitare il sorriso dell’irragionevole incredulità.

La dottrina del primo Capitolo è che in questi tempi vuoisi insegnare ai giovani una sana filosofia, onde opporsi alla falsa filosofia dei liberali, la quale è insegnata da certi viziosi e cattivi uomini desiderosi di rendere gli altri viziosi e cattivi come essi. Si enumerano quindi i segni di questi filosofi liberali, e uno di essi è «la disapprovazione degli atti energici delle autorità legittime.» Essi producono ogni sorta di male (vi si dice ), e specialmente l'eterna dannazione delle anime. L’allievo domanda quindi con gran semplicità al maestro, non se tutti i liberali siano cattivi, ma se essi siano tutti cattivi ad un modo. E la risposta è la seguente:

«No, mio figlio, perché alcuni sono consci! ed ostinati ingannatori, mentre altri sono sciaguratamente ingannati: ma ciò non ostante te camminano tutti per la stessa via, e se non la cambiano arriveranno tutti alla stessa prigione.»

Il significato di questo, giusta quanto leggo, è che coloro i quali nutrono in Napoli le così dette idee liberali ( e molte sono incluse in questo numero che qua non sarebbero), anche della specie più innocente, delle mere vittime dell'inganno andranno, se non le abbandonano, eternamente perduti per causa di queste loro opinioni.

L’altra inchiesta che fa l'allievo è se coloro che portano barba o mustacchi siano filosofi liberali! Nei capitoli susseguenti l’allievo è ammaestrato sulla vera natura del potere sovrano. L’autore nega decisamente che siavi alcun obbligo d’obbedire alla legge in uno Stato democratico; poiché, egli dice, sarebbe essenzialmente assurdo che il potere governante risedesse nei governati, e perciò Dio non permetterebbe mai tale cosa. Negli Stati Uniti perciò non vi sarebbe potere sovrano. Questa è la dottrina più rivoluzionaria ed anarchica che siasi mai propagata sotto specie di lealtà e di religione.

Il potere sovrano, ci si dice qua, è non solamente divino (non moverò mai lite ad un autore per asserir tale cosa), ma illimitato, e non solo illimitato di fatto, ma per intrinseca natura e per ragione della sua divina origine. Ed ora noi veniamo alla sostanza del libro intero, per amor della quale la filosofia fu dai sapienti napolitani tradotta dall’altezza del cielo al livello delle scuole inferiori. Questo potere naturalmente non può essere limitato dal popolo, poiché il suo dovere è semplicemente ubbidire.

Allievo. «Può il popolo di per se stesso stabilire delle leggi fondamentali in uno Stato?»

Maestro. «No, perché una costituzione o legge fondamentale è necessariamente una limitazione della sovranità: e questa non può venir misurata o limitata che per un atto suo proprio; altrimenti non costituirebbe più quell’alto potere sovrano, che è ordinato da Dìo pel benessere della società.»

Continuerò a tradurre: ne vale la pena. Si scorgeranno accuratamente e in modo non ingannevole ritratte le fattezze del governo napolitano nelle abbominevoli dottrine che si espongono in questo scritto.

Allievo. «Se il popolo, nell’atto di eleggere un sovrano, gli avrà imposte certe condizioni, certe riserve, non formeranno queste la costituzione, la legge fondamentale dello Stato?»

Maestro. «Sì, purché il sovrano le abbia concesse e ratificate liberamente. Altrimenti no, perché il popolo essendo fatto per la sommessione e non pel comando, non può imporre una legge al sovrano, il quale deriva il suo potere non dal popolo, ma da Dio.»

Allievo. «Supponete che un principe, nell’assumere la sovranità di uno Stato, abbia accettata e ratificata la costituzione o legge fondamentale dello Stato, e ch’egli abbia promesso o giurato di osservarla: è egli tenuto ad osservare la promessa, a mantenere la costituzione e la legge fondamentale?»

Maestro. «È tenuto, purché questa non distrugga i fondamenti della sovranità, e purché non sia opposta agl'interessi generali dello Stato

Allievo. «Perché credete voi un principe non tenuto a mantenere la costituzione, sempre che questa impugni i diritti della sovranità?»

Maestro. «Abbiamo già detto che la sovranità è il più alto e sovrano potere, ordinato e costituito da Dio nella società pel bene di essa, e questo potere concesso e reso necessario da Dio debb’esser preservato, inviolato ed intero, e non può venir ristretto o atterrato dall’uomo, seuzaché si ponga in conflitto colle prescrizioni della natura e colla divina volontà. Pertanto, sempreché il popolo avrà proposta una condizione che minori la sovranità e il principe avrà promesso d’osservarla, la proposta è assurda e la promessa nulla. Il principe non è obbligato a mantenere una costituzione che è in opposizione coi comandamenti di Dio, ma è obbligato a conservar intatto ed intero il supremo potere stabilito da Dio e da Dio a lui conferito.»

Allievo. «Perché non credete voi astretto il principe a mantenere la costituzione, quando la crede contraria agl’interessi dello Stato?»

Maestro. «Dio ha istituito il supremo potere pel bene della società. Quindi il primo dovere della persona che ne è investita è quello di promuovere il bene della società. Se la legge fondamentale dello Stato vien trovata contraria al bene di esso e se la promessa data dal sovrano di osservare la legge fondamentale l’obbligasse a promuovere cosa dannosa allo Stato, la legge sarebbe nulla e la promessa irrita: perché il bene generale è l’oggetto di ogni legge, e promuovere quel bene è l’obbligazione principale della sovranità. Supponete che un medico abbia promesso e giurato all’ammalato di salassarlo: ch’egli venga a conoscete che il salassarlo gli tornerebbe fatale, egli ha dovere di astenersene: perché equivalente ad ogni promessa e giuramento è l’obbligazione nel medico di travagliarsi per la salute del malato. In simil guisa se il governo credesse gravemente dannosa al popolo la legge fondamentale, è obbligato a non tenerne conto: perché, non ostante ogni promessa e costituzione, il dovere del sovrano è il bene del popolo. Brevemente, un giuramento non diviene mai un obbligo di commettere il male e non può perciò obbligare un sovrano a fare ciò che nuoce ai sudditi. Inoltre il capo della Chiesa ha ricevuta autorità da Dio di sciogliere le coscienze dai giuramenti, quando crede esservi giusto motivo di far ciò.»

Ora viene la chiave di volta, quella che rende tutto l’edifizio consistente e solido, con tutta la consistenza e la solidità che sono proprie della fraude, della falsità, dell’ingiustizia e dell’empietà.

Allievo. «Chi deve decidere quando la costituzione minora i dritti della sovranità ed è contraria al bene del popolo?»

Maestro. «Il governo, perché l’alto e supremo potere stabilito da Dio nello Stato perché vi faccia regnare l’ordine e ]a felicità, risiede in lui.»

Allievo. «Non può esservi pericolo che il sovrano violi la costituzione senza giusta causa, sotto l’illusione dell’errore o l’impulso della passione.»

Maestro, «Gli errori e le passioni sono i mali della schiatta umana, ma i beni della salute non si debbono ricusare per tema di malattia.»

E così va avanti, lo non esporrò tutte le false, vili ed immorali dottrine, talvolta ridicole, ma più spesso orribili, ch’io trovo artificialmente velate sotto frasi di religione in questo abbominevole libro, perché io non desidero di eccitar meramente l’’indegnazione negli spiriti, ma coll’indegnazione una cognizione chiara e distinta, per quanto è possibile, dell’oggetto che ne è il motore. Dico dunque che qui abbiamo una compiuta filosofia dello spergiuro ridotto a sistema ad uso dei monarchi, un libro consentaneo ai fatti della storia napolitana degli ultimi tre anni e mezzo, pubblicato sotto sanzione e inculcato dall’autorità di un governo, il quale veramente fece quanto stava in sé per esaltare quelle dottrine, giacché se le prese a norma nella pratica.

Questo catechismo non porta nome d’autore: ma mi si dice che sia opera d’un ecclesiastico, cui non disegnerò, perché sarebbe opera inutile al mio scopo: basti ch’egli è, o era alla testa della commissione di pubblica istruzione. Egli dedica il suo lavoro «ai sovrani, ai vescovi, ai magistrati, agli ammaestratori della gioventù, a tutte le persone di buone intenzioni.»

Nella sua dedica egli annunzia che l’autorità sovrana ingiungerà che gli elementi di filosofia civile e politica saranno insegnati in tutte le scuole ed insegnati solo per mezzo di questo libro, onde altrimenti non si corrompa la purezza della dottrina; che i precettori debbonsi attentamente invigilare onde non trasandino il loro dovere, e che a niuno debbasi dopo un anno continuare l’ufficio ove non provi d’averlo adempiuto, che così «il libro potrà moltiplicarsi in mille forme, circolar nelle mani di tutti, ed il catechismo del filosofo imprimersi in tutti i giovani e seguire invariabilmente il catechismo del cristiano.»

Naturalmente debbesi guardare con gran cura che niuno venga iniziato agli ordini sacri senza che siasi imbevuto di queste necessarie cognizioni.

«I vescovi troveranno i mezzi di farlo circolare nei seminarii, prescriverlo ai chierici, raccomandarlo ai parroci, far che diventi l’alimento del popolo. In tutti gli esami si faranno questioni sulle dottrine di filosofia pratica, come si fanno sulla fede e condotta cristiana, giacche niuno può essere buon cristiano se non è buon cittadino e buon suddito!»

V’è della temerità, se non della grandezza, in questo concepimento. Un giuramento rotto, un argomento stillato da un laborioso cervello per provare che il giuramento si debbe violare, la risoluzione di preoccupare con questo argomento tutte le menti nel tempo della tenera ed impressionabile gioventù, e prima che siasi sviluppata la facoltà di ragionare. Non s’immaginò mai da uomo trama più astuta contro la libertà, la felicità, la virtù del genere umano.

L’autore finisce modestamente con questa dichiarazione:

«lo ho piantato, Apollo innaffiò, ma Dio fece crescere.»

Ed è tempo che finiamo noi altresì. Abbiamo visto lo Spergiuro, figlio della frode, parente della crudeltà e della violenza far pompa di sé in un regno cristiano, sotto la sanzione del suo governo. L’abbiamo udito vantarsi modestamente che le sue leggi saranno esposte in tutte le scuole del regno, colla stessa estensione del catechismo della fede cristiana, cui solo rimane secondo in dignità.

Cosi feci quanto stava in me per fornire al lettore una prova evidente e collaterale, la quale parvemi necessaria ond’egli si potesse formare un giudizio sulle accuse così severe e nuove ch’io fui costretto a muovere alla politica presente del governo di Napoli intorno alle persecuzioni di Stato.

Debbo aspettarmi, lo ripeto, delle contraddizioni. ma io declino quelle obbiezioni che non si possono verificare, esaminare o spiegare. È impossibile la confutazione, tranne nei minuti particolari, relativamente alle mie asserzioni sui fatti. Volesse Dio che quello sciagurato governo, e s’altri ve n’ha che gli somiglino, potesse rinsavire a tempo, primaché l’oltraggiata umanità non si rivolga contro l’oppressore e la coppa della giustizia divina non trabocchi. Se dobbiamo citar la Scrittura, questo è il mio testo.

«Per la desolazione dei poveri afflitti, per le strida dei bisognosi, ora mi leverò, dice il Signore: io metterò in salvo quelli contro cui coloro parlano audacemente.

(Ps. XII.)»

E volesse pur Iddio che, se sorgesse una disposizione a cessare quest’abbominazione e temperare gli eccessi, ad instaurare un nuovo stato di cose fermamente ed onestamente, la si accettasse con temperanza e buon volere senza soverchie espettazioni, colla memoria delle difficoltà, con propensione a perdonare e dimenticare.

Da quanto ho scritto si faranno probabilmente due illazioni contro cui debbo premunirvi. La prima è che tutti questi mali ed oltraggi si debbano alla depravazione del popolo. Non nego che siavi infatti in parte ciò che qua qualifichiamo come degradazione:  né ce ne mariviglieremo pensando da quali sorgenti fluiscano le corrotte acque della fraude e della falsità: ma dico che i Napoletani sono giudicati troppo. severamente in Inghilterra. Anche il popolaccio della capitale è troppo duramente giudicato: i suoi vizii predominanti compaiono alla superficie, allo sguardo di ognuno: ma appena rendiamo loro giustizia dicendo quanto meritano per la loro dolcezza, semplicità, fedeltà, calda affezione, sollecitudine a rendere servigii, astensione da’ più grossolani delitti. Che si dirà in Inghilterra quando affermo, sopra decisiva autorità, che durante i 4 mesi della costituzione, quando era paralizzata l’azione della polizia, non fuvvi pur un esempio di alcuno dei più gravi delitti a Napoli con una popolazione di 400 mila anime?

Noi facciamo un’altra ingiustizia quando estendiamo alle varie classi dello Stato ed agli abitanti di tutte le province il giudizio troppo immaturamente formato anche del popolaccio di Napoli. Forse il principale loro difetto consiste nella mancanza di quella pratica energia e ferma perseveranza che si richiede ad incarnar le idee che una viva intelligenza naturale somministra loro in gran copia. Ma, mentreché paiono essi a me mollo amabili per la loro gentilezza, modestia e cortesia, li trovo poi ammirabili nella loro facoltà di soffrire pazientemente, per l’elasticità e facilità con cui lo spirito vive in essi sotto un peso che opprimerebbe delle tempre più maschie e forti, ma dotate di minor potere reattivo.

Ancora una parola. Io scrivo in un momento che l'opinione pubblica è altamente eccitata contro la Chiesa cattolica, e non vorrei che si traessero delle induzioni troppo sfavorevoli al clero del reame di Napoli, e non giustificate dai fatti. Certamente quel clero secolare e regolare è un corpo di carattere misto ch’io non imprenderò a descrivere; ma sarebbe ingiustizia il renderlo solidario degli atti del governo. Una parte di essi lo sono certamente. Da quanto mi risultò, una parte di que' preti abusarono del confessionale per servire il governo: e seppi che si fecero degli arresti che seguirono immediatamente la confessione, ond’è impossibile che non siavi connessione tra questi due fatti. Ma d’altra banda vi sono membri del clero, anche monaci, che sono fra gli oggetti della persecuzione che ho descritta. I membri più illustri del celebre convento dei benedettini di Montecassino furono espulsi dalle loro dimore, ove regnava la pace, la pietà e la dottrina. Molti di essi furono cacciati in carcere mentr’ero a Napoli: altri, non carcerati, tremano ad ogni stormire di fronda.

Uno di essi fu carcerato per aver opinioni liberali, un altro per essere fratello d’uno che aveva opinioni liberali. Non era vi ombra d’accusa contro essi: ma si sperava che per mezzo del primo si potesse saper qualche cosa contro qualche altra persona sospetta. Fra gli arrestati nel passato dicembre ve ne furono 20 o 30 appartenenti all’ordine clericale. Può darsi, e probabilmente è cosi, che la maggior parte di essi stiano in disparte senza mostrar simpatia od almeno efficace simpatia per coloro, che sono oppressi da sì gravi sventure: ma ciò forse non è men vero dei nobili, che generalmente disapprovano gli atti del governo, mentre sono in una specie d’armistizio con esso. Chi sopporta i inali della lotta è la classe inferiore.

La chiesa di Napoli è presieduta da un cardinale arcivescovo di gran pareggio e maniere semplici e devoto del tutto ai suoi doveri. Sono certo che egli è lungi dal partecipare od anche dall’approvare degli atti indegni del suo carattere. I gesuiti sono il corpo che più sta vicino al governo: ma essi furono scacciati dai loro collegio, durante il tempo della costituzione, con flagrante illegalità e considerabile durezza. Anche le loro dottrine non sembrano andar onninamente a grado del potere, poiché un’opera periodica cui compilavano col titolo di Civiltà cattolica ed usavano stampare nelle loro case, fu ultimamente rimossa a Roma. Non dubito, che nel clero siavi una forte fazione pel governo come v’è fra’  lazzaroni, ma non v’è prova della complicità di quei corpo, né chiara prova dell’opposizione di una parte di esso. Benché la professione e le dottrine del clero possono fino ad un certo punto predisporlo innocentemente in favore delle autorità, specialmente sotto un monarca che ha fama di essere molto regolare e stretto nelle pratiche religiose.

Rimango, mio caro lord Aberdeen,

Con molta considerazione sinceramente vostro

W. E. Gladstone.

Carlton Gardens, 14 luglio 1851.























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