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SULLO STATO POLITICO DI NAPOLI

 LETTERE

M. O. SIG. W. E. GLADSTONE

AL CONTE DI ABERDEEN.

MALTA
1851.

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Eleaml.org - Dicembre 2016

PREFAZIONE.

Le lettere di E. W. Gladstone sul Governo di Napoli toccarono il segno, a cui nel dettarle, mirò l’autore. Ornai, se qualche timoroso di Dio e delle sue leggi curvatasi silenziosamente al preteso dritto divino di macellare gli uomini, l’orrore e il raccapriccio pel consacrato tiranno, somigliantissimo nepote al vecchio Ferdinando, è cosiffattamente diffuso, che tornerebbe impossibil cosa rinvenire al mondo un solo, cui, per onesta fede, le scelleratezze di colui sembrino e dubbie, e—-quando vere—inflitte per divino suggello.

Seguaci e fautori di questo preteso dritto—quantunque lo miscredino—sono solamente i complici dello spolio, dell'eccidio, della tirannia, quali a nome di Dio, e per vigore del dritto stesso, detto in egual modo paternale, vanno imposti ai popoli—troppo sciagurati per aver creduto finoggiil delitto, siccome una emanazione di Dio, e suo sacerdote colui, che peggio lo abusa, lo disforma e disnatura. A costoro, pur tròppo materialisti, perché guardino più oltre al loro giocondo e osceno vivere—riesce non disagevole il simulare di comprendersi, nella immensità dei poteri di Dio, il consentimento allo spergiuro, al furto, al massacro, all'incesto, al tradimento, alle cannibalesche loro orgie, sui contributi di popoli, deprivati di azione, di parole, di pensiero—curvi dall'improbo ed inumano travaglio—lontani ai piaceri, ai sollazzi—e, sempre, macilenti, taceri, trepidi, grami permanente negazione della indeclinabile giustizia di Dio! Ma chiunque abbia una ragione ed una coscienza, ambe non corrotte, non deturpate, non asservite al vizio; chiunque vada informato dalla rettitudine, dalla verità, ch’emanano dalla religione del Cristo, spirato per moralizzare gli uomini, per santificameli—non del Cristo del chiericato, mito di scandalo, di violenza, di epicureismo; chiunque, insomma, tenga in si ferma la convinzione, che, laddove il giusto e l'onesto si manifestino, può colà essere per avventura, che Dio vi abbia concorso, che Dio v'influisca sopra; e che, all'inverso, ave meglio si adagino il delitto e la colpa, vi si trovi piuttosto ogni negazione di Dio... avrà un grido di maledizione pella tirannide in generale, una più intensa esecrazione per il papista albergatore del mansuetissimo Pio.

E, se sir Gladstone avesse mirato unicamente di dipingere alle sua Inghilterra, e al mondo più materialmente i guai che il dritto paternale e divino a sofferire ad un popolo, “dolce, semplice, fedele, caldamente affettuoso, sollecito a render servigi, astinente si dei più grossolani delitti”'—se per questo unicamente si fosse recata in Napoli una notabilità inglese, ed avesse tanto frugato e veduto per sola curiosità, anzi per una curiosità, molto al di là di quanta sogliono averne gl’inglesi, benché n’abbiano molta, e spesso inconcludente—non solo il Napolitano, ma gli abitanti di tutta Italia, ma l’umanità stessa dovrebbero sapergliene grandemente grado; essendoché l’’opera di lui concorra ad infamare, nelle più solenni forme, un immane mostro di rapacità e. di sangue.

Ma le gravi considerazioni, —che l’onorevole inglese non abbia esteso la sua filantropica missione agli altri stati di Italia, e precisamente a quella Roma, ove per essere un principe, sedicente vicario del Creatore, e quasi-Dio, il popolo risente, meglio che altrove, i salutiferi effetti del sopra citato dritto—che, limitandosi al solo governo di Napoli, di proposito e ad arte abbia taciuto della Sicilia, ove gli orrori e le nefandezze del Governo vincono ogni raffronto, e sorpassano ogni misura—sembrano pruovar meglio, o anzi mostrare più insistenti, in oggi, le antiche miro dell’Inghilterra sulla Sicilia—di farne, cioè, un suo paese protetto. — Esso ha voluto, crediam noi, con il lavoro dell'onorevole Gladstone, non radicale, non riscaldato, ma un onesto membro del partito conservatore, popolarizzare il discredito e l'infamia del Borbone; conciliarsi in ciò lo spirito del suo, popolo, e prevenire così, innanzi tempo, la gagliarda opposizione—Tacere sul conto della Sicilia, era uno indispensabile requisito, per non andarne additata di parzialità e d’interesse—Se ciò non fosse, perché non dirsi in che barbara guisa va tiranneggiato un popolo di due milioni, due anni di crescente ferocia, di dilapidazione generale e e di completa anarchia?—Perché, non dirsi, che il governo napolitano, dietro essersi impadronito degli attrezzi di guerra, cioè cannoni, fucili, altre armi, munizioni, viveri in gran copia—dei vapori o altri legni—del tesoro nazionale... impose a debito pubblico della Sicilia 20,000000 di ducati, strano composto delle spese di guerra, e del contingente ordinario di quell’isola al tesoro napolitano? Sui contributo debbono andar pagati, la truppa di guarnigione, i pubblici funzionari e qualunque altra spesa di governo a riguardo della Sicilia— Ora nel 48, e in parte del 49, quali militi, quali impiegati pagò re Ferdinando, per volerei il contributo di quel tempo? Perché non dirsi, che, mentre il Governo ristaurato dichiarò non riconoscere il mutuo coattivo del milione e mezzo, costringe violentemente oggi al pagamento delle rate, non versate, immuti, al Governo Provvisorio?— Perché non dirsi, che lo stesso paternale governo di Napoli, presi 100,000 once ed un grande e nuovo vapore in Inghilterra, per consegna fattagli da talune coscenze deboli— molte migliaja fonce in Malta—altro vasto vapore in Marsiglia—ed altre armi ed altri capitali—tutto di proprietà della Sicilia—non isgravi in nulla poi l’enorme suo debito, arbitrario, ingiusto e capriccioso?Se, per sola umanitaria febbre, l'Inghilterra, cioè il governo inglese, prende a riguardar gravemente le lettere di sir Gladstone, e le spedisce officialmente a tutti gl’incaricati della Gran Brettagna presso le corti straniere; se le feroci crudeltà del governo napolitano valgono tanto ad interessarla—quanto non avrebbe dovuto operare il gabinetto di S. James, perché non fossero avvenute, o almanco arrestate, le ultravandaliche scene del 15 maggio in Napoli, del 7 settembre in Messina, del 6 aprite in Catania, operate sotta gli occhi, e diremmo con la stoica e monacale indifferenza dei suoi incaricati, e comandanti dei guerreschi legni?—Se così la muovono grandemente a sdegno le barbariche prigioni, i giudizi irriti, le persecuzioni arbitrarie, la confisca dei beni nei sospetti perseguiti—come, e quanto non avrebbero dovuto commuoverla i saccheggi, gl incendi, le devastazioni di grandi, ricche e belle città, i massacri orrendi, fatti eseguire, per calcolo ed a cenno, da una truppa regolare e disciplinata, a cui tentassi infondere la demoralizzazione, ubriacandola, e spingerla così alla carneficina—inutile, perché dopo finita la lotta—rempia, perché centro inermi e imbelli, contro a donne, a vecchi, a bambini?—Se ai traditosi mia Sicilia tanta mano prestarono gl’incaricati del governo inglese—se il tradito popolo di Palermo aggiunse fede alle ordite mene, grazie ai buoni offici, che intromisero all’uopo gl9incaricati stessi—se ricadde in tanta miseranda schiavitù la più bella isola d’Italia, perché gli agenti inglesi promisero tempi miti e dolce governo nella restaurazione di un tiranno—può agevolmente concepirsi, che, trattandosi di mostrare, e barbaro, e feroce, e, nello stesso tempo, insano il governo di Napoli, si dimentichino tutti i servigi, resigli innanzi—e per conseguenza la Sicilia stessa, il cui reggimento attuale è un delitto permanente. Noi non sappiamo, che maniera di macchinamenti vada ordendosi—ma, sibbene, reggiamo fissarsi il gabinetto in-, glene sul governo napolitano. Ed é veramente strano, che un gabinetto, il quale mirò indifferentemente lo spegnimento di parecchie nazionalità, con una patente infrazione dei Trattati internazionali, si convella oggi per il mal governo di un picciolo stato—La Romagna, la Toscana, la Lombardia, l’Ungheria non soffrono forse altrettanto, per trarsi sopra la compassione inglese? Noi rammentiamo i tempi discorsi, eie antiche attrattive, che la sventurata Sicilia destò ognora alla Gran Brettagna—Abbiamo sottocchi quanto alla volta loro vi operarono di berte i due famosi A’ Court e lord Castlereagh—gli ultimi oracoli, sempre equivoci, non mai pronunciati del! onorevole lord Palmerston, gli agitamenti dei capi del ex-governo siciliano del 48-49, di cui, per filo e per segno, veggansi i dettagli nel National del 10 settembre, ultimoed. alziamo un grido di allarme per la italiana Sicilia—sventurata per una casta feodale, onninamente simpatica a quella, che predomina nella Gran Brettagna—sventurata per aversi visto i soprannaturali sforzi, a sottrarsi da un feroce tirannide, cadere tutti nel carcame di un cadavere, senza cuore, senza mente, che la scisse, gliene fermò le tendenze, la mostrò sorda all9appello dell’Italia, sola patria sperabile, sola possibile, sola duratura!sventurata, perché, sopraffatta dai modi, ora dolci e insinuanti, ora freddi, ed ora desolanti di un governo, apparentemente libero, apparentemente prospero, che prodiga la sua simpatia, come inconcepibile, è il calcolo delle sue egoistiche aspirazioni.

Noi, italiani, alziamo l’allarme, che il cittadino é in debito di metter fuori, quando scorge in pericolo la nazionalità del suo prediletto paese=FUORI LO STRANIERO!

LETTERA I.

Da Cardens, pubbl. l’11 luglio 1851.

Caro Lord Aberdeen,

Debbo cominciare una lettera ch’io temo tornerà molto penosa per voi, anzi ecciterà la più alta vostra indegnazione, mentre io vi presento i più sinceri ringraziamenti per la permissione che mi date d'indirizzarvela.

Dopo una residenza di tre o quattro mesi in Napoli, tornai a casa penetrato dal sentimento del dovere di tentar di mitigare in qualche guisa gli orrori (non posso usare parola meno forte), gli orrori deli’ amministrazione di quella contrada.

Siccome io avrò da esporvi dei fatti incredibili, e In far ciò non posso a meno di usare il linguaggio più energico, debbo avvertirvi in prima, ch’io non mi portai a Napoli collo scopo di fare una censura politica. Affari puramente domestici mi vi trassero e ritennero. Né portai con me l’idea che s'addicesse a me l’indagare i difetti del governo, e propagare idee proprie d’altri climi. Ammetto nel modo più assoluto il rispetto che devesi dagl’inglesi, come da ogni altro popolo, ai governi in genere, siano essi assoluti, costituzionali o repubblicani, come rappresentanti della pubblica, anzi, dell'autorità divina e difensori dell’ordine. Ora io debbo dire, che non so che siavi altra contrada in Europa, sono anzi certo altra non esservene che l’Italia meridionale, da cui potrei ritornare colle idee o colle intenzioni che ora fanno forza al mio Spirito.

Io vi sono perciò assai tenuto perché abbiate consentito ad accettare questa mia esposizione, perocché questo fatto da una autorità alle mie affermazioni—che fui come a forza indotto a trattare questo triste soggetto; ch’io non intendeva punto far una propaganda politica; eh io non raccolsi senza discernimento le notizie che sono per darvi, di cui parte conosco per osservazione personale, e le altre credo fermamente, dopo averne attentamente esaminato le fonti.

Senza diffondermi nelle ragioni che mi mossero a recarvi disturbo, io stabilisco questi tre punti. Primo, che la condotta presente del governo di Napoli, in ciò che riguarda i veri o supposti rei politici, è un permanente oltraggio alla religione, alla civiltà, all’umanità e alla decenza pubblica. Secondariamente, che quella condotta fonda certamente ed anche rapidamente la repubblica in quello Stato: una credenza politica che ha naturali e abituali radici nell’indole di quel popolo. Finalmente, che io come membro del partito conservatore in una nazione europea, debbo rammentare, che questo partito, forse senza rendersene politezza, trovasi ora in alleanza virtuale e reale con tutti i governi stabiliti; in Europa, come tali; e che questi vengono più p meno danneggiali dalle perdite d’esso, come derivano forza ed incoraggiamento da’ suoi successi. Questo principio che non ha gran forza quando trattasi degli Stati podorosi, i cui governi sono forti non $o!o per militare organizzazione, ma per costumi ed affezioni del popolo, è molto rilevante nella pratica quanto al governo di Napoli, il quale, qual che ne sia la causa, si considera. posto come all’ombra d’un vulcano: e fa quanto sia in lui ogni giorno per rendere reali i proprii pericoli; e dà nuova intensione, insieme a nuovo argomento, a’ suoi timori.

Anzi tutto io debbo premettere, che non farò in via di prefazione alcuna osservazione, e che pur sarebbe importante, sul fondamento dell’autorità presente del governo nel regno delle Due Sicilie. Non cercherò se secondo la ragione e il diritto sociale il governo attuale di quella contrada abbia un titolo o no; se si fondi sulla legge o sulla violenza. Ammetterò, che la costituzione del gonfio 1848, data spontaneamente, giurala come irrevocabile colla massima solennità, e finora mai non abrogata (sebbene violata quasi in ogni atto del governo), non sia mai esistita—non sia che un mera finzione. Non toccherò di questo fatto; perché ciò potrebbe dar corpo all’idea, che mio desiderio fosse immischiarmi quelle forme di governo, e far credere, che questo desiderio alterasse in me quel puro sentimento d’umanità che mi mosse: doveché io sporto ferma opinione, che questa tanto importante materia debbasi più sicuramente e convenientemente trattare, come questione interna tra il sovrano e i suoi sudditi, escluso ogni nostre intervento: a meno che per avventura non sorgessero questioni {derivanti dal trattato del 1844 fra l’Inghilterra e le Due Sicilie, in alcune parli del quale ebbi, come collega di V. S., l'onore di essere impiegato. Perciò io non mi tratterò ora su tale argomento, né avrei pur fatta qui allusione alla costituzione napoletana, se non fosse necessario il ricordare qui i fatti principali onde sì spieghi la recente condotta del governo napolitano, e si presti fede a fatti cosi incredibili come quelli che sono per esporvi.

Sono persuaso che nel leggere questa lettera voi vorrete domandare, come mai si possa senza motivo tenere una condotta si inumana, anzi mostruosa—e qual ne potrebbe essere il motivo. Per rispondere pienamente a tal questione debbo riandare la storia della costituzione di Napoli. Ma pel presente, e finché ho qualche speranza di correzione senza formale controversia, la-scierò, anche con mio svantaggio, questa quistione senza risposta: quantunque essa occorra all’intiero sviluppo della mia tesi.

Ancora una parola di prefazione. In queste pagine non vedrete fatto cenno della lotta fra il re di Napoli e i Siciliani, o sulla condotta delle parti che direttamente o indirettamente v'ebbero connessione. Diverso affatto è l’argomento che imprendo a trattare: è la condotta del governo dì quel, sovrano verso i suoi sudditi del continente, colla cui sommissione e coraggio egli potè soggiogare la Sicilia.

Si crede generalmente difettosa l’organizzazione dei governi dell'Italia meridionale; che l'amministrazione della giustizia non sia scevra di corruzione; che comuni siano i casi di abuso e di crudeltà fra i pubblici impiegati subordinati; che vi siano duramente puniti i reati politici, senza che si abbia molto riguardo alle forme della giustizia.

Ho accennato a questa vaga supposizione di un dato stato di cose, il quale ove fosse stato esalto, mi sarei risparmiata queste fatica. Ma queste vaghe supposizioni sulla condizione attuale dj cose in Napoli sono così lontane dalla pura verità, come un leggero disegno appena abbozzato è da un perfetto ritratto vivamente colorito. Non è una mera imperfezione, non esempli di corruzione in impiegali secondarii, non qualche caso di soverchia severità che vi ho da narrare: ma l'incessante, sistematica, deliberata violazione d'ogni diritto, cui commette il potere che dovrebbe vegliare sopra di esso: egli è la violazione d'ogni legge umana scritta, perpetrata collo scopo di violare ogni altra legge non scritta ed eterna, umana e divina: egli è l'assoluta persecuzione della virtù allorché è unita coll'intelligenza: è una persecuzione tanto estesa, che niuna classe ne può essere allo schermo. Il governo è mosso da una feroce e crudele non men che illegale ostilità contro tutto ciò che vive e si muove nella nazione, contro tutto ciò che ne può promuovere il progresso ed il miglioramento, li governo vi calpesta orribilmente la religione pubblica, colla sua notoria conculcazione d'ogni legge morale sotto l'impulso dello spavento e della vendetta. Vi vediamo un' assoluta prostituzione dell'ordine giudiziario, che è stato reso un trasparente recipiente delle più vili e grossolane calunnie che deliberatamente inventarono gl'immediati consiglieri della corona, collo scopo di distruggere la pace e la libertà e, con sentenze capitali, la vita delle persone più virtuose, oneste, intelligenti, illusi ri e raffinate dell'intera società: un selvaggio e codardo sistema di morale non men che fisica tortura, per mezzo di cui si fanno pronunziar sentenze da quelle depravate corti di giustizia.

Che cosa produsse questo sistema? La sovversione di ogni idea morale e sociale. La legge invece di farsi rispettare v’è divenuta esosa, li governo non si fonda sull'affezione dei popoli, ma sulla forza. Tra l'idea della libertà e quella dell'ordine non vi è più associazione, ma violento antagonismo. Il potere governativo, che si qualifica immagine di Dio sulla terra, agli occhi dell'immensa maggioranza del pubblico pensante appare come vestito dei più laidi vizii. udii ripetuta spessissime volte questa forte e pur vera espressione: La negazione di Dio fu eretta in sistema di governo.

Confesso di essere stato maravigliato dalla gentilezza dì carattere mostrata dal popolo napolitano in tempo di rivoluzione. Pareva che nei loro petti non potesse allignare l'infernale spirito della vendetta. So che in ogni caso la rassegnazione cristiana, la lieta accettazione della volontà di Dio sostenne delle illustri vittime. Ma la presente persecuzione è più grave ancora che non le precedenti: e differisce da queste in quanto che è specialmente diretta agli uomini d'opinioni moderale, cui un governo, ancorché non guidato che da mondana prudenza, un Macrhiave. li, sé tósse ministro, si adoprerebbe a conciliarsi e propiziarsi: e contro questi uomini inferocisce principalmente la persecuzione. Si Vuole ad ogni costo portar la povera natura umana agli estremi: à mettono in fermento le passioni feroci, le quali, secondo la mia opinione, non ebbero mai. sin dai tempo dei tiranni del genrilesimo, tanto motivo di destarsi, né destale tanto motivo di palliare la loro furia.

Credesi generalmente che I prigionieri per reati politici nel regno delle Duo Sicilie ammontino a quindici, venti, trenta mila. Il governo impedisce ogni mezzo di prendere notizie esatte, e perciò non può esservi certezza su questo punto. Tuttavia scorsi che quest'opinione è comune alle persone più intelligenti, discrete e meglio informate. Risulta ciò altresì da quanto trapela sulle in numerabili turbe di cui sono stivate lo prigioni particolari, e principalmente dal numero delle persone che consta mancare in alcuni distretti pro inviali. Udii, a ragion d’esempio, allegato questo numero a Reggio ed a Salerno: e, facendo un paragone bolla popolazione, io credo che non si esageri portando il numero dei prigionieri a ventimila. Nella sola Napoli parecchie centinaia sono in questo momento accusali di delitto capitale: e quando lasciai quella città si credeva imminente un processo (detto quello del 10 maggio) in cui il numero degli accusati era fra 4 o 5 cento, inclusa almeno una o due presone di alto grado, le cui opinioni in questa contrada sarebbero riputate più conservatrici che non le Vostre stesse.

Pare in verità, che il governo di Napoli possegga in parte l'arto che il Buike diceva esser oltre il suo potere: egli “ non sapeva come formare un atto di accusa contro un popolo.” Pregovi inoltre di considerare, che il numero dei rifugiati o delle persone variamente nascoste, probabilmente mollo più grande che non è quello dei prigioni, non è ancora constatato, dobbiamo rammentare inoltre, che gran parte di questi prigionieri appartengono alle Classi medie, (quantunque stativi altresì molti operai. E che il numero delle classi medie nel reame di Napoli (col qual nome intendo parlare degli Stati continentali debb’essere una parie molto minore dell'intera popolazione che non sia fra noi. Poniamo mente eziandio, che di queste persone pochissime hanno mezzi di sussistenza indipendenti dalla loro famiglia; per tacere dello confische o sequestri, che qua si dicono frequenti. Sicché generalmente parlando ogni singolo caso di prigioniero rifugiato diventa una fonte di miseria: ed ora abbiamo qualche fondamento per dire che il sistema, il carattere del quale sto per esaminare, ha per oggetto intere classi di persone, e quelle appunto da cui dipende specialmente la salute, la prosperità e la sicurezza della nazione.

Ma perché debb’egli sembrare strano che il governo di Napoli sia in aperta guerra con quelle classi? Nelle scuole nazionali, mi fu detto, è un obbligo l'usare il catechismo politico attribuito al canonico Apuzzi, e ne ho una copia. In questo catechismo la civiltà e la barbarie sono dipinte come due estremi egualmente viziosi, e vi s'insegna che la felicità e la virtù stanno in un giusto mezzo fra essi.

Poco tempo dopo ch'io giunsi in Napoli udii una qualificata persona accusata con molto vitupero di aver asserito, che quasi tutte le persone che avevano formato l'opposizione nella Camera dei deputati, sotto la Costituzione, erano in prigione u in esilio. Confesso francamente, eh io credei allora meritevole di riprovazione una persona che asseverava cosa sì mostruosa. Credo che ciò accadesse nello scorso novembre. La Camera era stata eletta dal popolo, sotto una costituzione liberamente e spontaneamente concessa dai re. Le rielezioni avevano prodotto un piccolo cangiamento in favore dell'opposizione.

Niuno dì quel corpo era allora stato processato: credo sì bene, posso dirlo per transito, uno di essi era stato assassinato da un prete detto Peluso, ben conosciuto nelle vie di Napoli ov’io mi trovava, e che tuttavia, non fu mai interrogalo su questo affare ne si diceva che ricevesse una pensione dal governo. Sicché lo considerai quella notizia come una Unzione, od almeno un imprudenza lo spanderla. Qual non fu il mio stupore quando io vidi una lista particolarizzata, che provava pienamente la verità dell'asserzione, anzi nei pillili più essenziali provava d'avvantaggio! Risulta, mio caro Lord, che la Camera dei deputati era composta di 161 membri, eletti da circa 117 mila elettori. Il più gran numero che venissero a Napoli ad esercere l'ufficio di rappresentanti fu circa 140. Ebbene, l’assoluta maggioranza di essi, 76, oltre alcuni altri eh erano stati privati del loro uffizio, erano stati arrestati od esulavano. Sicché dopo la regolare formazione di una Camera popolare di rappresentanti e la sua soppressione, ad onta della legge, il governo di Napoli pose il colmo alla sua audacia, col cacciare in prigione o costringere al bando per sfuggirla la maggioranza dei rappresentanti del popolo.

Ho già parlato abbastanza sull'estensione di questi atti, e passo ad esaminarne il carattere, ed imprima relativamente alla legge, poiché ho accusato il governo di iolarla sistematicamente.

La legge a Napoli statuisce, che la libertà personale sia inviolabile, tranne per mandato di una corte di giustizia autorizzata espressamente. Non parlo della costituzione, ma del diritto anteriore ed indipendente da essa. Né sono ben certo se questo mandalo debba ordinarsi stante attuali deposizioni ed esprimere la natura dell'accusa, o se debba comunicarsi immediatamente dopo.

Conculcando questa legge II governo, di cui importante membro è il prefetto dì polizia, per mezzo degli agenti di questo dicastero insegue e insidia i cittadini, fa visite domiciliari, ordinariamente di notte, rovista le case, sequestra mobili e carte, tutto questo sotto pretesto di cercar armi: incarcera uomini a ventine, a centinaia, a migliaia, senza alcun mandato, talvolta senza pur mostrare alcun ordine scritto o altra cosa più che la parola di un poliziotto. Non si dice poi mai quale sia la natura del reato.

Né questo è il meno strano. Si arrestano persone, non già perché abbiano commessi delitti o si suppone che li abbiano commessi, ma perché è utile nasconderle, disfarsene, e contro le quali perciò si dee trovare od inventare qualche capo d'accusa.

La prima cosa pertanto è arrestare e incarcerare, poi sequestrare e portar via libri, carte 0 checché altro occorra a quegli sciagurati e venali poliziotti. Si leggono quindi le lettere del prigione, tostochè può sembrare utile, e si esamina poi questo senza atto d'accusa, la quale infatti noti esiste, e senza testimonj, che questi pure non sussistono. Non si permette all'incolpato alcuna assistenza, né il mezzo di consultare un avvocato. Per dir meglio, egli non è esaminato ma-svillaneggiato, nel modo più grossolano dai poliziotti. E non crediate già sia per colpa degli individui. È cosa essenziale nel sistema creare un atto d'accusa. Qual maraviglia se chi si sente in tal guisa insultalo, o sa donde procedono gli insulti, perda un' istante la calma, ed esca in qualche espressione poco rispettosa per la sacra maestà del governo? Se, ciò succede, se ne fa subito menzione nelle minute, se poi l’imprigionato sa contenere sé stesso, nessun detrimento riceve il grande scopo a cui si mira.

Si passa quindi all'esame della corrispondenza. Supponete che si tratti d’un uomo di colta intelligenza: egli avrà probabilmente seguito l’andamento delle vicissitudini pubbliche. Nelle sue copie di lettere o nelle lettere a lui inviale vi saranno allusioni ad esse. Sì dovrebbero paragonare tutte queste allusioni onde apprezzarne il vero valore. Ma così non si fa, e qualunque espressione implichi disapprovazione si inserisce nelle minute. Ora niente è più facile che interpretare la disapprovazione per disamore, e il disamore, per intenzione di rivoluzione o di regicidio. Supponete che siavi qualche altra frase che distrugga interamente la forza della prima, e dimostri la lealtà della vittime: essa è considerata di niun valore e indarno l’accusato farebbe valere le sue ragioni.

Nei paesi, ove si osserva la giustizia si puniscono le azioni, ed è riputate ingiustizia il punire i pensieri: ma a Napoli si affibbiano pensieri onde si possa punire. E qui parlo di quanto consta a me essere accaduto, e dichiaro non, aver immaginato od esagerato nulla. I prigioni, prima di essere giudicati, vengono detenuti in carcere per parecchi mesi, per un anno, per due: ordinariamente Il termine è più lungo. Non m’accadde mai d'udire che alcuno sia stato giudicato per motivo politico prima di 16 a 18 mesi di reclusione. Ho veduti degli infelici attendere il giudizio dopo venti mesi di prigione: e questa era loro inflitta non in virtù della legge, ma a dispetto di essa. Possono esservi dei casi, e certamente ve ne sono, in cui alcuno sìa stato arrestalo per mandato e in seguito a deposizioni: ma è inutile il trattenermi sopra questi casi, f quali non sono che eccezionali.

Non dubito asserire, che fatto ogni sforzo per riuscire, col mezz0 di strette interpretazioni e di parziali produzioni di prove, a formulare un accusa; se questa fallisce, si ricorre allo spergiuro ed alla calunnia. Degli sciagurati che si trovano quasi in ogni terra, ma specialmente ove il governo è il gran corruttore del popolo, dei mariuoli presti a vendere la libertà e la vita dei loro simili per danaro, e dar la loro anima per giunta, vengono deliberatamente impiegati dal governo per deporre contro l'uomo che si vuole mandare in rovina. Ma quantunque sembri che fuso abbia dovuto dar loro della pratica in quest’affare, le deposizioni sono generalmente fatte nel modo più rozzo e grossolano, e portano con sé tante contraddizioni ed assurdità, che stomaca l’udirle. Ma e che? Notate il calcolo. Secondo la frase volgare, nella quantità qualche cosa rimarrà sempre attaccata. Né crediate già che io parli leggermente. Dichiaro in fede, che tutto si concatena dal principio alla fine: una depravata logica unisce tutto. Gli inventori debbono colpire all’avventura, perciò attaccano molte corde ai loro archi. Sarebbe una cosa veramente strana, contraria al calcolo delle probabilità, se tutto 1’edifizio artatamente innalzato dovesse scompaginarsi e cadere per causa di contraddizioni. Ora consideriamo che cosa ha luogo in pratica. Supponete nove decimi delle asserzioni assurde per fino nanti un tribunale napolitano. Di questa frazione una parte non viene addotta dalla polizia in giudizio, dopoché gli avvocati del governo o quelli dell’accusato ne chiarirono ad essa l'assurdità: al resto non badano i giudici. In qualsivoglia altro paese ciò menerebbe naturalmente ad una investigazione, ad un giudizio di spergiuro. A Napoli succede il contrario: si considera quel fatto come uno sforzo patriotico e da persone oneste, che per avverse circostanze mancò d’effetto: il risultato di tutto ciò è zero. Ma rimane tuttavia delle deposizioni una decima parte in cui non vi sono contraddizioni. Voi crederete che l'accusato possa dimostrarne la falsità col mezzodì contro prove. V’ingannate a partito: degli argomenti in suo favore egli può averne a macco, ma non gli si permette di valersene.

Tal cosa non è certamente credibile, eppure è vera. Le persone stesse che erano accusate mentre lo mi trovava a Napoli nominavano e chiamavano dei testimonii in loro difesa a ventine, a centinaia, uomini d’ogni classe e di ogni professione—militar, ecclesiastici, ufficiali: ma in ogni caso, falla una sola eccezione credo, la Corte, la gran Corte criminale di giustizia ricusò di udirli.

Una sola volta il testimonio che si lasciò deporre fece spiccare pienamente l’asserzione dell'accusato.

Naturalmente ciò che assevera l'accusato, quantunque giustificato dal suo carattere e dalla sua condizione, non si valuta menomamente in paragone della parte non distrutta da contraddizioni delle menzogne della più vile canaglia, quantunque militino contro queste le più grandi presunzioni di falsità. Questo frammento assicurato in tal guisa da contraddizioni forma l’origliere, su cui riposano tranquille e quiete le coscienze dei giudici dopo la condanna.

Per istudio d'esattezza debbo dire che il governo, quando si é procacciato ed ha presentato alla Corte il falso testimonio, ottiene il mandato e rende legale la cattura.

E come vengono trattati questi detenuti durante il lungo e terribile periodo che passa tra l’illegale loro cattura e l'illegale loro processo? Dire una prigione di Napoli è dire, come ben si sa, l'estremo del sucidume e dell’orrore. Ho veduto alcune di esse, e non le peggiori: e vi dirò, mio lord, ciò che vi vidi. I medici d’ufficio non si recavano a visitare i prigioni malati: ma i prigioni malati, colla morte sul viso, arrancavansi sulle scalo di quel carnaio della Vicaria; perché le parti interiori di quell’edilizio tenebroso sono cosi immonde, così ributtanti, che nessun medico consentirebbe per guadagno ad entrarvi Quanto all’amministrazione vi dirò una parola sul pane che vidi. Quantunque nero e grossolano all’ultimo grado, esso era sano.

La minestra che forma l’altro elemento di sussistenza è così nauseabonda, secondoché mi accertarono, che senza un’estrema fame niuno può vincere la ripugnanza che produce. Non ebbi mezzo di assaggiarla. Le prigioni sono sporche come covili. Gl’impiegati in esse, tranne di notte, non v’entrano quasi mai. Fui deriso perché leggevo con qualche attenzione dei pretesi regolamenti appiccati sopra una parete. Uno di essi concerneva le visite dei dottori ai malati. Tuttavia vidi quei dottori visitati da sventurati che avevano un piede nella tomba, non malati visitati da dottori. Passeggiai fra una turba di 3 o 4 cento prigioni napolitani—assassini, ladri, delinquenti d’ogni specie—alcuni condannati, altri no, e confusi cogli accusati politici. Nessuno portava la catena, gli ufficiali solo a capo di molti appartamenti, con molte porte chiuse a chiavistello e inferriate tra mezzo; ma non solo non eravi nulla a temere, ma usarono verso me, come a forestiero molta cortesia. Essi formano una specie di società in cui l’autorità principale è quella dei gamorristi, gli uomini più famigerati per audacia di crimini. Non hanno nessuno impiego. Questo sciame di esseri umani dormivano tutti in una lunga e bassa sala voltata, non illuminata che da uua piccola inferriata ad un capo di essa. I prigioni politici potevano, pagando, aver il privilegio di una camera separata lungi dalla prima, ma non vera divisione fra loro.

Ciò che vi esposi non è certamente un bene, ma è lungi dall’essere il peggio. Darò ora a V. S. un altro saggio del trattamento che si usa a Napoli con uomini illegalmente arrestati e non ancora condannati.

Dai 7 dicembre ai 3 febbraio Pironti, che prima era giudice, e fu trovato colpevole nell’ultimo dei mentovati giorni o in quel torno, passò le intere sue giornate e notti, tranne le ore ch’era menato in giudizio, con due altri uomini in una cella della Vicaria, della superficie di due metri e mezzo, sotto il livello del suolo di essa e non rischiarata che da una piccola inferriata per cui non potevano veder nulla. Entro questo brevissimo spazio Pironti e il suo compagno furono confinati per due mesi, e non ne uscirono pure per andare alla messa, o per altro motivo qualunque eccetto l’accennato. E ciò succedeva in Napoli ove per consenso universale, le cose vanno molto meglio che non in provincia. La presenza dei forestieri esercita qualche influenza sul governo: l’occhio della curiosità o dell’umanità penetra talora in questi bui recessi: mentre tutto è mistero nelle remote provincie o in quelle solitarie isole, le cui pittoresche e fantastiche forme deliziano il passaggiero ignaro degli immensi patimenti ch’esse racchiudono. Questo, dico, vidi in Napoli e trattavasi di persona educata, d’un giureconsulto, d’un accusato non d’un condannato. Né supponete che questa sia un’eccezione, lo non avevo da scegliere se non tra quanto per caso mi si offriva, cosa insignificante verso di quanto mi restava sconosciuto. E dopo questo fatto non comincia a parervi ragionevole l’accusa da me fatta al governo di Napoli che a prima giunta potea parere strana e quasi insensata?

Udii pure narrare un altro caso, ch’io credo potervi dar come vero sebbene non ne abbia una cognizione così piena come del primo. Quando lasciai Napoli, in febbraio, il barone Porcari fu rinchiuso nel Maschio d’Ischia. Accusato di aver preso parte all’insurrezione di Calabria aspettava il processo. Questo maschio è un cassero senza luce e posto 24, piedi o palmi (non so più che cosa) sotto il livello del mare Non si permette mai che n’esca né di giorno, né di notte, né ad alcuno si permette di visitarlo, tranne sua moglie Una volta ogni quindici giorni.

Ho detto probabilmente abbastanza di ciò che si riferisce agli atti anteriori al giudizio. Rimarrebbe tuttavia ancora alcunché, da esporre. Se l’arresto è contrario alle leggi, perché potrebbe domandarsi, non intentar un giudizio per falso imprigionamento? Ho fatto qualche inchiesta relativamente a questo punto. Vidi che, come in altre cose, così in questa, la legge non faceva difetto: che tale azione si poteva muovere e forse anche con buon successo: che la difficoltà consisteva solo nel poter trovare un tribunale che le desse corso. Ciò si comprenderà meglio come io verrò a parlare delle sentenze politiche: per ora me ne passo.

Mi tratterrò ora specialmente del caso di Carlo Poerio, il quale inerita particolare menzione. Il suo padre era un distinto giureconsulto. Carlo Poerio poi è una compita persona, facile ed eloquente oratore, di specchiata onestà, lo ebbi il mezzo di venir in chiaro della sua posizione politica Egli è strettamente partigiano della forma costituzionale. Mi rimarrò dall’esporvi il vergognoso capitolo di storia napolitana cui accenna questa parola, facendovi solo notare, che a Napoli quell’espressione ha Io i stesso significato che fra noi, significa cioè una persona che si op-! pone a qualunque violenza e d’onde possa ella prevenire, che vuole a conservazione della monarchia sulle sue basi legali, con mezzi j legali e con tutte quelle migliorie che possono contribuire alla! felicità della popolazione. Il suo modello è in Inghilterra, anziché in Francia o in America. Non l’ho mai udito accusare di altro errore in politica, che quelli che si potrebbero imputare ai più leali, intelligenti e degni nostri statisti. Esaminato accuratamente il caso, debbo dire che condannar per fellonia un tal personaggio è un atto tanto consentaneo alla verità, alla giustizia, alla decenza, come sarebbe il condannar qui i nostri più eccellenti uomini pubblici, lord Russell, lord Lansdowne, sir James Graham. o voi medesimo. Non è minore l'oltraggio fatto al senso comune del paese. Non dirò che sia precisamente lo stesso caso per quanto riguarda la posizione e il grado sociale, ma certo non hanno uomo locato più alto; né del nomi da me mentovati avvene alcuno più caro alla nazione inglese—forse niuno così caro —come è quello di Carlo Poerio a' suoi concittadini napolitani.

Lascio altri miserevoli casi, e pur ben memorabili, come quello del Settembrini, il quale, in un grado alquanto meno cospicuo, ma avente un carattere non men nobile e puro, fu processato col Poerio e quaranta altri, e condannato nel capo in febbraio, quantunque, oltre ogni previsione umana, la sentenza non fosse poi eseguita. Ma egli era riservato, io temo, a ben più dura sorte, a doppii ferri a vita, sopra una remota ed isolata rupe. V'è inoltre ogni ragione dì credere ch'egli venga assoggettato a fisiche torture. Rispettabili persone mi accertarono, che gli si conficcassero acuti strumenti sotto le ugne delle dita.

Toccherò appena della sorte di Faucitano il quale, come Sette i brini, fu processato col Poerio durante l'inverno nell'infornata stessa dei quarantadue prigioni. Il suo caso è speciale, poiché l’accusa aveva qualche fondamento. Consisteva questa nell'intenzione di distruggere, col mezzo di qualche terribile esplosione, molti dei ministri ed altre persone. Fondamento dell'accusa fu l'aver egli avuta in iscarsella, in una solenne occasione, una bottiglia che scoppiò senza fargli alcuno male! È probabile che avesse meditato qualche scherzo, ma intanto fu condannato a morte. Si credè che venisse eseguita la sentenza fino a poche ore prima ch'ella dovesse aver luogo. I Bianchi erano nelle vie, raccogliendo limosine per far dir messe alla sua anima. Egli stava nella cappella dei condannati assistito da preti, quando nell'aggiornare fu nuovamente discusso il suo caso in un consiglio, e da Caserta venne un messaggere con ordine di soprassedere. Ho udito come ciò accadesse ma non fa qui al caso.

Carlo Poerio fu uno del ministri della corona sotto la costituzione ed occupava uno dei gradi più distinti nei Parlamento. Nella quistione siciliana stava per l'unione dei due regni. Favorevole altresì era alla guerra dell'indipendenza: ma non manifestava pur tanto zelo per essa quanto il re stesso. Ma questa è una materia estranea al nostro argomento. Pareva che il Poerio godesse pienamente della confidenza del re, poiché avendo offerto la sua dìsmessione, non venne accettata da prima, ed anche quando lo fu, si continuò a consultarlo. .

Merita attenzione la storia del suo arresto, qual ce la narra egli stesso nella sua allocuzione ai giudici, agli 8 febbraio 1850. La sera prima dell’arresto, alti 18 luglio 1849, fu da una persona sconosciuta lasciata in casa del Poerio una lettera concepita in questi termini: “Fuggite, e fuggite prontamente. Voi siete tradito, la vostra corrispondenza col marchese Dragonetti è già in mano del governo. —Uno che v'ama assai"

S’egli fosse fuggito avrebbe somministrato una prova di colpa molto ampia per la gente di che parliamo. Ma egli conscio di tali cose non fuggì, e inoltre non esisteva corrispondenza. Ai 19, intorno alle quattro pomeridiane, si presentano con falso titolo due persone alla porta, e gli annunziano ch'egli è arrestalo in virtù di un ordine verbale del prefetto di polizia Peccheneda, Invano egli protesta, la sua Casa è messa sossopra ed egli cacciato in solitaria prigione. Domandò d’essere esaminato e conoscere la causa del suo arresto entro ventiquattr’ore, secondo la lèggo, ma indarno. Al sesto giorno finalmente fu tradotto innanzi al commissario Maddaloni, e gli fu posta In mano una lettera col sigillo rotto. Essa era indirizzata a lui, e gli fu detto esser venuta sotto coperta a un amico del marchese Dragonetti, ma che la coperta era stata aperta per isbaglio da un ufficiale di polizia, il quale per caso aveva lo stesso cognome, ma non lo stesso nome, e che nel veder la lettera racchiusa dentro l'aveva consegnata alle autorità.

Si desiderò che il Poerio l’apprisse e ciò egli fece in presenza del commissario. Nulla poteva essere più arteficioso che l’orditura di quest’affare. Ma notate il seguito. L’argomento della lettera implicava naturalmente alto tradimento; vi si annunziava un’invasione di Garibaldi, si fissava un abboccamento con Mazzini, si alludeva ad una corrispondenza con lord Palmerston (il cui nome era goffamente storpiato) che prometteva aiuto per la prossima rivoluzione. “Vidi subito, dice il Poerio, che si era vilmente contrafatta la scrittura di Dragonetti, e ciò dissi osservando che la prova intima della falsità era più evidente che non qualunque cumulo di prove materiali.” Il Dragonetti era un dei più compiti Italiani: mentrecché questa lettera era piena zeppa di scerpelloni tanto di grammatica che d’ortografìa.

Altre assurdità non sono pur degne di venir menzionate, quali erano la segnatura in disteso del nome, cognome e titolo, e la trasmissione di una lettera di quel genere per la posta ordinaria di Napoli. Aveva il Poerio fra le sue carte delle lettere del Dragonetti sulla cui autenticità non poteva cader dubbio. Esse furono adotte e paragonate con quella, e la falsità rimase tosto chiarita.

Svelata tale enorme iniquità, che cosa fece il governo per vendicare non il Poerio ma la giustizia pubblica? Niente; pose da I ito le carte.

Raccolsi questi particolari dal Poerio stesso, nella sua difesa. Ma tutta Napoli conosce la storia e ne è indegnata.

Le carte di Poerio non fornivano dunque materia di accusa. Era perciò necessario inventar nuovamente, o per dir meglio lavorare sulle falsità già preparate, ma che da prima erano parse men utili della lettera di Dragonetti.

Un tal Jervolino, uccellatore frustrato di bassi impieghi, era stato scelto pel duplice uffìzio di spia e di spergiuro. Secondo la deposizione di costui il Poerio venne accusato di essere fra i capi di una setta repubblicana detta dell’Unità Italiana, e dell’intenzione di uccidere il re. Domandò di essere confrontato coll’accusatore. Lunga pezza prima aveva conosciuto Jervolino e additatolo a’ suoi amici come falso delatore di lui presso il governo: ma le autorità non vollero permettere questo confronto: non gli venne pur detto il nome a lui. Fu tradotto di prigione in prigione, gittato in siti più convenienti a bruti che ad uomini, privato della vista degli amici. Per due mesi non si permise pure di vederlo a sua madre, unica sua prossima congiunta nel paese. Così scorsero sette od otto mesi senza che egli sapesse cosa alcuna delle prove che s’adducevano contro lui e per opera di chi. In questo venne a lui il Sig. Antonio dei duchi di S. Vito a dirgli che il governo sapeva tutto, ma gli farebbe grazia della vita se confessava. Nel processo ei dimandò ai giudici che si esaminasse sa questo il S. Vito, ma naturalmente non si fece.

Oltre a ciò il signor Peccheneda stesso, direttore di polizia, e ministro di gabinetto del re, andò spesse volte alla prigione, interrogò diversi carcerati, e con flagrante illegalità gli esaminò egli stesso, senza testimonii, senza menzione, Uno di questi fu ii Caraffa. Per deposizione di questo gentiluomo rimase chiarito che il Peccheneda stesso lo assicurò che l’affare verrebbe tosto accomodato, purché testimoniasse che il Poerio conosceva alcuni biglietti rivoluzionari. Ciò non avendo potuto ottenere H ministro, prese comiato dal Caraffa con queste parole: Benissimo signore, voi volete la vostra rovina, tal sia di voi.

Tal fu la condotta del Peccheneda, e il Poerio non dubitò di stimmatizzarla al cospetto dei giudici. Soggiungerò che conosco, per irrefragabile autorità, altre gesta di quel degno ministro del re di Napoli, le quali rendono I accusa fattagli dal Poerio onninamente credibile.

Oltre la denunzia ed accusa del Jervolino su cui si raggirava ultimamente il processo, militava contro il Poerio la deposizione di un Romeo, pittore e co-accusato, il quale asseriva aver udito un cotale menzionare il Poerio capo di setta. SI può giudicare del valore di questa deposizione dal fatto di venir involti coi Poerio nell'accusa due ministri, il cav. Bozzelli e il principe di Torella. Fu quindi abbandonata come inutile, perché parlava di Poerio come di capo-setta: ma ciò era in coutraddizione con quanto asseverava Jervolino e per ciò fu seguita sola l’accusa di partecipazione. Ma il prigione non traeva alcun prò dall’abbandono di un capo dì accusa: tutto partiva dal principio che il governo doveva con mezzi veri o falsi provar la colpa, e che la giustizia pubblica non ha alcun interesse che si salvi un innocente.

Era vi altresì la testimonianza di Margherita, altro degli accusati. Dopo tardiva riflessione, egli dichiarava che il Poerio assisté ad un'adunanza dell’alta congrega della setta. Dichiarò altresì che come membro di questa setta repubblicana e rivoluzionaria, Poerio era uno dei tre che si adoperavano onde sì mantenesse la Costituzione monarchica e che perciò ne fu cacciato. Per questo motivo, per tacer d'altri, la deposizione di Margherita non giovava.

È facile comprendere il motivo perché questi co-accusati si travagliassero nell'incolpare Poerio ed altri distinti personaggi. Ma questi sforzi non tornarono utili ad essi, forse perché troppo grossolani o perché soverchiamente si mostrasse la falsità. Margherita fu confinato a Nisida nel febbraio, nella stessa camera ove si cacciarono gli accusati da lui. Anzi egli fu poi incatenato con uno di essi. Dirò poi che sia questo unito incalenamento.

Perciò l'accusa del Jervolino formò la sola base reale del processo e della condanna di Poerio.

E per deposizione d un uomo senza grado e carattere, di un chieditore frustrato d un impiego che credeva potere ottenere da Poerio, un personaggio del più alto grado, pur dianzi confidente del Re, veniva posto sotto capitale processo!

La materia dell’accusa era questa. Affermava il Jervolino che non avendo potuto ottenere dal Poerio un impiego, lo richiese di farlo ricevere nella setta dell'Unità italiana: che questi lo mandò ad un certo Atanasio, il quale doveva menarlo a un altro prigione, detto Nisco, onde potesse venir ammesso. Che il Nisco lo mandò ad un terzo, detto Ambrosio, che l’iniziò. Non si ricordava né delle delle forme, né del giuramento della setta. Dei certificato o diploma o delle ragunate, che le regole della setta pubblicate (il governo affermava averle trovate) dicevano indispensabili per tutti i membri; di tutto questo egli non sapeva nulla. Come sapeva, disse il Poerio, ch’io appartenessi ad una setta quando mi richiese che io l'ammettessi?—Niuna risposta. —Perché non lo poteva ammettere Nisco, che nell’accusa è qualificato come capo?—Niuna risposta. —Se io in quel tempo ministro della corona era altresì membro della setta, era egli necessario che lo dirigessi per l’ammissione a un’altra persona, quindi a una altra ancora ed un’altra?—Niuna risposta. —Perché Ambrosio, che lo ammise, non fu molestato dal governo?—Niuna risposta. —Potevo io esser settario quando come ministro era vituperato dal partito esaltato perché aderiva strettamente alla monarchia costituzione?— Niuna risposta. —Anzi tal fu la stupidità ed impudenza di quello spione, che nel particolareggiare le confidenze fattegli, come diceva, dal Poerio, affermò che l'ultima gliela facesse ai 29 maggio 1849: quando il Poerio provò che ai 22, o sette giorni prima, egli era in possessione di una relazione scritta ed accusa fatta dal Jervolino, quale spia delegata per lui, alla polizia; e tuttavia, con questo documento in mano, avrebbe continuato a farne il suo confidente politico?

Questo è un saggio dell'orditura delle testimonianze del Jervolino, un saggio delle sue contraddizioni ed assurdità. Poe anzi era un mendicante: ora compariva bene in arnese e in buono stato. Ho già narrato come, tranne un caso, mai non si permetteva che deponessero in giudizio i testimoni!, e furono molti che gii accusati allegavano per loro difesa.

Ecco, per quanto udii, l’eccezione da tue accennata. Il Poerio sosteneva che un certo arciprete aveva dichiarato che il Jervolino aveagli detto di toccare una pensione di dodici ducati al mese dal governo perle accuse eh egli faceva al Poerio. Richiedente il prigione, venne esaminato l’arciprete. Confermò questo quanto aveva asserito, e fece anzi menzione di due suoi congiunti che potevano asserire la stessa cosa. Altra volta udii che sei persone cui erasi appellato un prigione come a testimonii a sua discolpa, furono per questo stesso motivo arrestate. Niente di più verosimile.  Io stesso udii discutersi molte ore nel tribunale la testimonianza del Jervolino, e parvemi che la decima parte di quanto udiva, non solo avrebbe posto un termine al giudizio, ma avrebbe bastato a far punire severamente Io spergiuro.

Ma, tornando ai mio assunto, dico che ancorché fosse stata consegnata la deposizione, ancorché non militassero contro essa le più forti presunzioni di falsità, bastava paragonare il carattere di quel testo con quello del Poerio, perché qualunque uomo giusto assolvesse 1 accusato. Non credo siavi uomo in Napoli di comunale intelligenza, il quale credea una parola dell’accusa di Jervolino.

Nel corso di questo giudizio si addussero due eccezioni. Dimostrava l’avvocato del Poerio come la gran corte straordinaria, incaricata del giudizio, fosse incompetente in questo caso, perché l’accusa si riferiva alla condotta dei Poerio quando era ministro e membro della Camera dei deputati, e, giusta l’articolo 48 dello Statuto, tali accuse devono portarsi innanzi la Camera dei Pari. L’eccezione non fu ammessa, e fu rigettata nuovamente dopo appello.

La seconda eccezione era questa. Allegavasi distintamente contro i prigioni che la loro supposta setta avesse cospirato contro la vi!a di alcuni ministri e del giudice Domenicantonio Navarro presidente della corte: primo col mezzo della bottiglia scoppiata nella scarsella del Faucitano; quindi col mezzo di un corpo di pugnalatori od assassini, che dovevano compire l’opera ove fallisse il mezzo della bottiglia. Dicevasi quest’intenzione fondata sulla crudeltà dei giudizii che quello aveva pronunziato contro innocenti persone. I prigioni protestavano di non voler essere giudicati da lui. e questi presentò una nota alla corte in cui diceva di sentire degli scrupoli a giudicare in questo caso e desiderava d’essere guidato dal resto della Corte. La corte decise unanime ch’egli giudicasse questi uomini imputati di aver avuto l’intenzione di assassinare lui, e multò i prigioni e i loro avvocati in 100 ducati per aver fatta quest’obbiezione! Anche questa decisione venne confermata dopo appello, e le corti notarono lo scrupolo provato dal Navarro esser anzi una prova dell’imparziale, delicata e generosa tendenza del suo spirito e doversi perciò allontanare ogni sospetto di parzialità in lui. Eppure ammettevano che secondo la legge napolitana non avrebbe dovuto sedere se nei cinque anni prima fosse stato implicato in alcun giudizio criminale come parte contro di essi. Cosicché questo delicato, imparziale e generoso uomo sedè e giudicò i prigioni ! E quando si addivenne ai voti, Navarro volò per la condanna e per la pena più severa. Mi fu detto, e credo quest’opinione non sia un segreto, che tutte le persone accusate dal governo del re dovevano essere trovate colpevoli. Mi fu detto (e lo credo pienamente), che il Poerio, il cui caso era pur bello anche per giudici napolitani, sarebbe stato assolto in una divisione di 4 giudici contro 4 (tale è l’umana previsione della legge in caso d’eguaglianza) se il Navarro non avesse fatto largo uso dell’intimidazione, minacciato cioè la dismissione ad un giudice, di cui mi fu detto il nome e procacciato così il numero necessario per una sentenza. Ma non ho bisogno di entrare, in questi laidi misteri. Insisto sul fatto che Navarro, la cui vita, secondo la testimonianza dell’accusa, era fatta segno dei colpi dei prigioni, sedeva presidente del tribunale che dovea giudicarli; e domando io, l’umano linguaggio può esagerare lo stato di cose di un paese ove tali enormità vengono perpetrate sotto la diretta sanzione del governo?

Questo sulle eccezioni. Debbo notare un altro curioso punto sulla corte di giustizia. Essa non sedeva come corte ordinaria ma come corte speciale. In questi casi si abbrevia il processo coll’ommissione di molte forme, la maggior parie utili per la difesa dell’accusato. Perciò in questo caso ben quaranta persone furono private de’ mezzi di difesa per lo scopo di far presto, e queste erano state sedici, diciotto e anche più mesi in prigione prima di venire giudicate! Addurrò ora una prova non dell’imparzialità della Corte, ma del grado di decenza con cui si velò la parzialità. Occorse due volte che gli avvocati dei detenuti seppero che i testimoni! spergiuri non conoscevano gli accusati pur di veduta. Una volta l'avvocato manifestò il desiderio di chiedere al testimonio che additasse, fra le persone presenti, quella ch’egli accusava. La Corte negò questo permesso. Nell’altro caso l'avvocato sfidò il testimonio ad additare la persona di cui stava parlando. Se sono bene informato, il mentovato Navarro, affettando di non aver udita la questione, disse all’accusato: Signor Nisco alzatevila Corte ha da farvi una dimanda. Ciò fatto, l’avvocato disse che si poteva continuare l’esame. La Corte allora mandò sardoniche risa.

Qui darò ora un saggio dell’umanità con cui sono trattali i prigioni invalidi dalla gran Corte criminale dì Napoli. Il fatto me lo espose una distinta persona, un testimonio oculare che conosco perfettamente il linguaggio.

Il numero originario delle persone sotto processo come membri dell’immaginaria società battezzata dalla polizia dell’Unità italiana, era di quarantadue. A capo della lista vedevasi Antonio Leipnecher, che ora non è più. La sua malattia impedì alla Corte di sedere per alquanti giorni. Finalmente Navarro informò i medici addetti alte prigioni che dovevano trovare. nelle loro coscienze i mezzi di attestare che il Leipnecher poteva assistere al giudizio la vegnente mattina.

Al domani mi avviai al tribunale con un amico, quando incontrammo uno dei dottori che conosceva il mio amico. Cominciò a parlare del Leipnecher e disse ch’egli era gravemente malato, ma che la sua posizione era tale ch’egli non avrebbe potuto attestare senza pericolo sull'impossibilità in ch’óra il Leipnecher d’assistere, e che perciò aveva avvertito il presidente che l’accusato poteva tradursi alla Corte in portantina, purché gli venissero somministrali dei cordiali e non gli si facesse veruna questione.

Entrai nella sala, e dopoché gli altri accusati ebbero occupato il loro posto, venne una portantina donde uscì il Leipnecher in uno stato di prostrazione fisica e morale. Il Navarro cominciò coll’imporre al cancelliere che leggesse l’interrogatorio d Antonio Leipnecher e, come fu finito, l’invitò a far le sue osservazioni. Osservò l'avvocato, che invano aveva cercato di parlargli, che egli era incapace a rispondere ed a comprendere. li Navarro allora si rivolse a lui con tono minaccioso, avvertendolo che colla sua finta malattia egli rovinava la sua causa. Il Leipnecher fece alcune osservazioni che non si poterono udire e che vennero ripetute da un altro' accusato portanti che i medici non eransi data una pena al mondo per curarlo. Scrivete, disse il Navarro, che egli ha detto che i medici non lo vollero curare. Il procuratore generale Angelillo mostrò desiderio che si richiamassero i dottori per dire il loro parere sullo stato presente dell’accusato. Ciò fecero in un’ora ed asserirono che soffriva per acuta febbre e non era in grado di rimanere. “Ha, disse, Angelillo, se è qui, perché non può restare? Non può senz’immediato pericolo della vita. La Corte allora si sciolse, e quando si riunì nuovamente, dopo due o tre giorni, Leipnecher era nella tomba.” Dopo quanto ho detto sulla gran corte criminale di Napoli, parmi che avrò destato un senso d’incredulità nel petto di chiunque è uso a scorgere nei magistrati di una nazione la più alta personificazione dei principi! d’onore e di spassionata equità Non voglio altrimenti asserire che tutti i giudici di Napoli siano mostri: ma sono schiavi. Sono numerosi, mal pagali, eia loro carica dipende dal capriccio di chi l’ha conferita. Generalmente sono molto men dotti e prudenti, e hanno molto minore moralità, che non i membri dei foro che avvocano avanti loro. La più alta provvisione che si dia ad alcun membro della magistratura ammonta, credo, a 4000 ducati all’anno. Ma la cosa più notevole è la tirrannica severità nel caso in che non secondino le accuse mosse dal governo. Non è già che in questi casi l’assoluzione significhi molto. Come il governo arresta e caccia in prigione senza mandato e senz’accusa, così partendo dallo stesso largo ed amato principio d’illegalità, non si fa il menomo scrupolo di tener in carcere degl’imputati che, dopo due o tre anni di reclusione e di terrore, furono solennemente dichiarati innocenti Dei prigionieri, per esempio, su cui si sentenziò finalmente in febbraio (ridotti a 41 per la morte di Leipnecher) sei, credo, furono ascolti. Ma questi, qualche tempo dopo la sentenza, so ch’erano tuttavia in carcere. Non ecciterà perciò maraviglia 1 udire che i giudici, per la considerazione che condannarono 35 a gravissime pene, siano andanti impuniti. Ma guai a que’ giudici che dimenticano il grande oggetto della persecuzione! Nella stessa Napoli un vecchio di 80 anni che aveva esercitato l’uffizio di giudice per mezzo secolo fu congedato poco tempo fa, per aver assolto alcuno ch’era stato accusato d’aver composto od inserito in un giornale un articolo incriminato. E un caso più notorio occorse poco tempo fa a Reggio. Dei prigionieri accasati di qualche fatto relativo alla malaugurata Costituzione furono tradotti in giudizio. Essi furono assolti, ma la mano della vendetta cadde sui giudici. Dopo un tanto misfatto tutto il tribunale, quasi fosse una stalla d’Augia, fu spazzato. Due giudici soli, credo, —probabilmente la docile minoranza—furono solo nominalmente congedati e posti fra’ disponibili, con speranza di nuovi salari. Ma gli altri sei, la rea maggioranza, furono spietatamente ed assolutamente licenziati. Non vi maraviglierete pertanto se con una si perfetta disciplina il comando sia, anche dai giudici, si prontamente ubbidito! Del 41 accusati nella causa ch’io chiamerò del Poerio, tre furouo condannati a morte, Settembre, Agresti e Faucitano. II Poerio a 24 anni di ferri. Credo che i voti si ripartissero in questa guisa: 3 per l'assoluzione, 2 per ferri e 3 (compreso il delicato, scrupoloso e generoso Navarro!) per la morte—sulla testimonianza di quel Jervolino che credo avervi abbastanza descritto. Queste 2 sezioni quindi s’unirono e votarono per la punizione più leggiera, onde s’ottenne la maggioranza. Uno di coloro che prima avevano opinato per l’assoluzione votò poi per la condanna, grazie al sistema d’intimorimento che venne affidato al delicato, scrupoloso, imparziale e generoso Navarro.

Dicesi che sia occorso un grave errore. Perché una legge od usanza napolitana provegga umanamente che quando tre persone sono condannate nella vita non si eseguisca la sentenza che sovra una. Ma se ciò era vero, era stato dimenticato dai giudici, e scoperto solo dal Procuratore generale o talun altro, dopoché la cosa credevasi finita. Udii pure che Settembrini ed Agresti ricevessero, come grazia, una dilazione. Quanto al Faucitano, non entro nei particolari di ciò che occorse nel palazzo di Caserta, ma udii e minutamente e con ragioni plausibili che certe minaccie di privare il Governo di Napoli d’un utile sostegno anziché l’umanità dettassero in quest’ultimi momenti la commutazione della pena.

La pena capitale s infligge molto raramente nel regno di Napoli in seguito a sentenze giudiziarie: ciò è certo. Ma checché possa dirsi della pena capitale considerata sotto altro punto di vista, non esito a dire ch’essa sarebbe un atto di umanità, in quanto al patimento ch’essa cagiona, in paragone di ciò che si soffre ora in seguito alle sentenze di pena di carcere. E tuttavia anche sulla severità di queste sentenze io non cercherei dì rivolgere l’attenzione tanto da distorta dal grande fatto della illegalità, che sembra a me la base del sistema napolitano: l’illegalità fonte di crudeltà, di bassezza, di ogni altro vizio: l’illegalità che perverte la coscienza: quella mala coscienza produce I terrori, questi terrori menano alla tirannide, questa tirannide genera odio, e questo le vere cause del terrore, che prima non sussistevano. E così la paura diventa più pungente e grandeggia, il vizio originario si moltiplica con tremenda celerità, ed il vecchio delitto produce la necessità del nuovo.

Parlai di Settembrini e della sua creduta e credibile tortura. Vengo ora a quanto ho veduto od udito secondo la più diretta ed incontrastabile autorità.

In fine di febbraio, Poerio e sedici suoi coaccusati (con pochi di cui tuttavia egli avea avuto conoscenza dapprima) furono confinati nel bagno di Nisida presso il Lazzaretto. Ogni settimana per una mezz’ora alquanto prolungata per mitezza del sovra-lntendente, permettevasi loro di vedere gli amici fuori della prigione. Solo allora potevano essi contemplare le naturali bellezze dei luoghi che li attorniano. In diversi tempi furono confinati entro le mura. Essi tutti, tranne credo uno che allora era nell’infermeria, furono giorno e notte confinati in una camera sola lunga circa 16 palmi ed alta 8: credo con un cortile per esercizio. Quando a notte s’abbassaano i letti non rimaneva spazio tra

loro. Potevano uscire solo incatenati due a due. In questa camera avevano a cucinare, a preparare ciò ottenevano dalla dolcezza dei loro amici. Da una banda il livello del suolo è sopra il pavimento della camera, e perciò Tempie di umidità. Oltre a ciò per la lunga reclusione i prigioni lagnavansi di soffrire grandemente. Eravi una sola finestra e naturalmente senza vetri. Né crediate già, come inglese, che questa continua corrente d’aria in un clima napolitano sia sempre gradevole ed innocua. Al contrario egli è forse ivi più necessario che non qua l'aver il mezzo di poter escludere l'aria aperta, per esempio, prima del tramonto. Le vicissitudini del clima si sentono a Napoli come qua, ed il principio del mattino v’è talora più acutamente freddo.

Le loro catene sono come segue. Ognuno porta una forte cintura di cuoio sopra le anche. A questa sono raccomandati i capi superiori di due catene. Una catena di quattro lunghe e pesanti anella scende ad una specie di doppio anello fissato intorno alla noce del piede. La seconda catena consiste di otto anelli, ciascuno dello stesso peso e lunghezza dei primi quattro, e questa unisce due. carcerati insieme, sicché possono star distanti circa sei piedi. Non si slega mai, né il dì né la notte, questa catena. L’ abbigliamento de’ rei comuni che, come il berretto del reo, era allora portato dal già ministro di gabinetto di Ferdinando re di Napoli, è composto di un rozzo e duro giaco rosso, con brache dello stesso materiale—simile alla tela fatta qui da ciò che chiamasi polvere del diavolo (devil’s dust): le brache quasi dello stesso colore; sul capo egli aveva un berretto dello stesso materiale. Le brache sono abbottonate per tutta la loro lunghezza e di notte si possono togliere senza rimuovere la catena.

Il peso di queste catene è circa 8 rotoli (più di 7 chilogrammi) la più breve, e questo peso si deve raddoppiare quando ciascun carcerato ha da portar altresì la metà della più lunga. I carcerati arrancavano come se una gamba fosse più corta dell’altra. Ma il patimento è tanto più grande, ché vengono incatenati insieme incessantemente uomini educati con abbietti. Le catene non si slegano per nessun motivo e il significato di queste ultime parole vuol esser ben considerato: esse si prendono nel senso più stretto. Si dirà che l’usanza è barbara e non dovrebbe sussistere: ma che sussistendo egli è difficile l'esentarne alcune persone, perché più raffinate. Ma questa, mio lord, non è la spiegazione. Anzi egli è per questi due signori che si introdusse nel bagno di Nisida l'uso d’incatenare insieme i carcerati. Mi assicurano che due o tre settimane prima, fra 800 carcerati in quei bagno, questi doppi ferri erano affatto sconosciuti: ed allora vi erano molti condannati politici, ma erano uomini di basso grado, cui questa specie di punizione non avrebbe accresciuto tanto la sofferenza. Ma appunto nel tempo che i suoi compagni furono mandati a Nisida venne ordine dal principe Luigi fratello del re, che, come ammiraglio, aveva l’incarico dell'isola, con cui prescriveva che s usassero i doppi ferri per coloro eh erano venuti in carcere dopo un certo tempo credo dai 22 luglio 1850. Così si studiò il mezzo di imporli al Poerio e suoi amici, e tuttavia poter dire che non s’era dato l’ordine per essi, e collo scopo d’infliggere loro una estrema morale e tisica tortura. Fra questi, come dissi, era stato incatenato il delatore Margherita con una sua vittima. Vidi pure un carcerato politico, Romeo, incatenato nel modo sopra descritto con un reo comune, un giovane dall’aspetto più feroce e selvaggio che abbia mai visto tra’ delinquenti napolitani.

L'Ispettore di questa prigione, il generale Palomba, da tango tempo, o forse giammai, non l'aveva visitata. Ma egli era tettato poco prima che non vi foss'io: ed è impossibile non pensare che egli fosse venuto onde cerziorarsi che gli ordini di accrescere ta severità non fossero elusi e rilasciati.

Avevo udito che i rei politici erano obbligati a tosarsi, ma questo non era stato fatto, quantunque fossero stati obbligati a radersi tutta la barba che potessero avere.

Fui maravigliato, debbo dirlo, della dolcezza con cui parlavano dei loro persecutori, della cristiana rassegnazione, non che della loro propensione al perdono, poiché essi sembravano disposti a sopportar con pazienza qualunque cosa si ammanuisso loro. La loro salute aveva evidentemente sofferto.

Vidi la zia dì uno di questi carcerati, uomo sui 28 anni, sospirare quando parlava de’ suoi sguardi alterati e dei colori giovanili che solo poche settimane prima ne infioravano le guancia. Avrei detto che aveva 40 anni. Aveva visto il Poerio durante il suo processo, ma non l’avrei riconosciuta a Nisida. Non credeva che la sua salute potesse reggere, quantunque Dio, egli diceva,

gli avesse data la forza di soffrire: Gli venne suggerito da persone autorevoli che la sua madre, di cui era solo sostegno, od egli stesso potessero ricorrere al re per implorare perdono. Ma costantemente ei ricusò. Quando io era a Napoli, la madre soggiogata dal dolore smarriva le sue facoltà mentali. Pare che Iddio, più pietoso degli uomini, ne la privasse pel suo meglio, perché fra le sue angoscie ella aveva delle estasi e delle visioni di riposo. Un tratto disse a un giovane dottore, che aveva veduto suo figlio e seco lui altra persona. Ora quei due carcerati non erano insieme, ed essa non aveva veduto né l'uno né l’altro.

Dopoché io lasciai Napoli il Poerio precipitò in più orrende calamità. Fu condotto da Nisida ad Ischia, più lungi dal consorzio umano, e forse a qualche dimora consimile al Maschio di Porcari. Basta quel ch’io vidi. Non conversai mai e probabilmente non converserò mai più con un personaggio sì colto e compito, della cui innocenza, ubbidienza alle leggi e amor patrio sono così certo, e con altrettanta ragione, come di V. S. o di qualsivoglia altra più degna persona. Egli stava innanzi a me circondato da mariuoli e vestito delle vili assise dell'obbrobrio e della colpa. Ma egli trovasi ora là, ove probabilmente non avrà pure più il conforto duna tale conversazione. Non posso onestamente dissimulare ch'io sono convinto che, trattandosi di una persona sì intelligente da esser temuta, sì cercò il fine del patibolo con mezzi più crudeli che il patibolo, e senza il clamore che avrebbe eccitato il patibolo.

È tempo di finire Potrei in verità addurre fatti provanti, come a Napoli le più alte autorità considerino e puniscano come reato capitale l’amore alla costituzione, che è la legge fondamentale dello Stato: come degli ecclesiastici, non meno che dei laici, languiscano ivi In carcere, non per avere commessi delitti, o perché pur si sospetti che fie abbian commessi, ma perché sì pensa che in futuro potranno forse trovar il modo d’incolpar alcuno di essi. Ma darò termine a questa ingrata narrazione colf accennare un fatto, il quale mostra chiaramente qual conto si faccia a Napoli della vita umana.

Ho parlato delle prigioni di Napoli. Lungo tempo fa, esasperati dal modo con che si trattavano, i reclusi nella prigione di Stato d’Ischia si rivoltarono e si sforzarono d’impadronirsi d'essa. Il modo con che si sedò la sollevazione fu il seguente, i soldati cui era affidata la guardia di essa gittarono colla mano delle granato fra i prigioni e ne uccisero 175, e fra questi 17invalidi, ch’erano nell'infermeria e non avevano preso parte alla rivolta. E per aver compiuta questa strage, mi fu detto, il sergente comandante le truppe fu decorato, e si può veder ora rivestito del suo ordine militare. Riferisco questo fatto senza dimenticare che una rivolta in prigione è cosa orribile ed esige energia: ma colle soverchianti forze di che dispone il Potere esecutivo, ed il carattere dolce dei napolitani, anche criminali, ninno crederà che fosse necessaria questa carneficina.

Abbastanza, parmi, fu detto per mostrare che vi sono le più forti ragioni di credere, che sotto il velo misterioso che copre gli atti del Governo di Napoli vi sono gl’incredibili orrori che desolano quel paese, spargono la costernazione fra le intere classi da cui dipende la vita ed il progresso delle nazioni, scalzano le fondamenta d’ogni reggimento civile, preparano le vie ad una violenta rivoluzione. Il potere, che nelle umane società ha la missione di mantenere l’ordine e la legge, difendere l’innocenza e punire il delitto, si rende il gran violatore della legge, la peste del paese: il primo in ordine fra gli oppressori, il mortai nemico della libertà e dell’intelligenza, l’attivo fomentatore ed istigatore della più viva corruzione fra il popolo.

Mentre io parlo così liberamente e severamente degli alti del governo di Napoli, mi trattenni liberamente (tranne alcuni casi speciali ben accertati) dall’indicare gli agenti o dal fissare la risponsabilità. Oltre i limiti da me posti noi) conosco e non desidero conoscere cui spetti. So che quantunque sia il Re effettivamente il rettore del paese, un velo impenetrabile può frapporsi tra fi suoi occhi ed i mezzi attuali con cui s’amministra il suo Stato. Alcune persone credono anzi che ciò abbia veramente luogo. Debbo anzi soggiungere che una volta s’invocò direttamente ed apertamente la sua umanità, e ch’ei diede una risposta veramente sincera, quantunque, giusta le ultime notizie che mi pervennero, per causa di straniere influenze l’esito non sia poi stato felice.

Conchiudo col ringraziarvi che m’abbiate permesso di dirigervi questa lettera. Senza questo permesso mi sarei trovato senza alcuna speranza di potermi efficacemente adoperare per correggerti gli atti del governo napolitano. Lasciai Napoli colla fissa determinazione di travagliare con ogni Olezzo per ottenere prontamente questo scopo. So benissimo quanto pericolosa cosa sia il destare l’opinione pubblica su quest’argomento in questa ed in altre contrade, come con questo mezzo si possa avvisare l’azione del disordine sociale e politico. Confesso francamente che il senso che provo pei mali che affiggono presentemente il popolo di Napoli, per altri e contrarii mali cui essi danno rapidamente origine, per le obbligazioni che ne derivano è così profondo ed intenso, che solo per la speranza di qualche pronto e caratteristico segno di miglioramento, il quale potrà effettuarsi con quei mezzi che la vostra autorità vorrà procacciarmi, io debbo andare incontro ai pericoli della pubblicità, quali sbe essi siano, pericoli che in casi ch’io non ho volontà di contemplar qui, io potrei essere costretto ad affrontare.

Ancora un’osservazione. Nei particolari di ciò che ho narrato possono essere occorsi degli errori di forma od anche di fatto. Se questa narrazione toccasse in qualche guisa la condotta delle persone di che trattasi, egli è possibile che gii errori che per avventura fossero incorsi relativamente ad esse venissero confutati, anche con qualche apparenza di ragione e forse pure con qualche fondamento. Io sono preparato a ciò. In questo caso non imporrei a V. S. il carico di tutte le nemiche e risposte cui si facesse tango. Non imprenderò a provare l’esattezza di ciò che ho esposto colle persone che ne impugneranno la verità, solo perché io non mi trovo negli stessi termini di loro. Primieramente in Napoli il ministero è norma generale del governo, e l’assoluta servitù della stampa toglie ogni mezzo di chiarir le cose contestate, e quindi è chiusa ogni via per giungere alla verità. Secondariamente lo stendermi io sopra tali particolari ecciterebbe sicuramente ingiusti sospetti sopra alcuni individui, e perciò sarei causa di nuove persecuzioni. Finalmente, e questo è il più importante, essendo lo convinto dell’esattezza di ciò che ho esposto, nel suo aspetto generale e nei generali risultamenti che ne derivano; credo non si possa contestarlo in buona fede: e l’entrare in dispute di que sto genere sarebbe ritardare, forse indefinitamente il conseguimento di quei pratici fini che io mi sono. proposte.

Non ho alcun dubbio nell'impegnare il mio credito in ciò, perché sono convinto di aver detta la verità. Non in una sillaba ho infoscati più del vero i colori di ciò che ho descritto: ho ommesse molte cose, di cui pur era certo per la mia residenza in Napoli, tuttocché breve.

Evitai la moltiplicità dei particolari e parlai specialmente della condanna di Poerio, non perché io abbia la minima ragione di crederla più atroce e ingiusta delle altre, ma perché ebbi più agio di conoscerne i particolari, e perché più delle altre eccita interesse in quel paese. Crimine ab uno disce omnes. Egli è tempo che s’ alzi il velo che-copre delle scene più proprie dell’inferno che della terra, e si arrecherà volontariamente qualche notevole temperamento. Intrapresi questa faticosa e penosa opera colla speranza di contribuire a scemare una quantità di dolori umani cosi grande e così acuta, per non dir più, come qualunque possa contemplare il cielo. Io credo fermamente che coll’aiuto di V. S. ciò si possa ottenere, prima senza delusione o ritardo, e quindi senza i mali e gli inconvenienti che temo nascerebbero ove io, abbandonato alle pure mie forze, ciò imprendessi a fare senza altrui soccorso.

Rimango, mio caro lord Aberdeen,

sinceramente tutto vostro

W. E. Gladstone.

LETTERA II.

Caro Lord Aberdeen,

La lettera, di cui questa mia non è che una continuazione, aveva un carattere personale e privato, e a voi la dirigeva con ardente speranza che mai non avrebbe avuto altro carattere. Ero talmente convinto della verità generale e della forza di quanto vi esponeva e della estrema urgenza del caso, e conoscevo cosi bene, come conoscono tutti, il peso che si dà alle parole di V. 8. , anche quando adopera solo da persona privata; che quando, a mia richiesta, consentiste che si facesse conoscere la mia esposizione colà ove più era desiderabile si conoscesse, il mio animo fu liberato da un grave peso. Io lietamente augurai allora alcune pratiche conseguenze, le quali, avvegnaché di lieve momento, mi avrebbero incorato ad aspettare che una più matura e lunga deliberazione producesse più considerabili risultamenti.

Era cosa sì ragionevole che si cominciasse a tentare la privata esposizione dei fatti, che io non mi pento d’aver tenuta questa via, benché necessitasse una più lunga dilazione, onde poteste maturatamele esaminare il caso e farlo conoscere in que’ siti a cui ho fatta allusione. Ma il modo con che fu ricevuta m’ha convinto del tutto, che in questo caso io non sarei giustificato ove confidassi ancora nell'efficacia delle mere preghiere. Epperciò, prima anche di abbandonare ogni speranza nel vostro concorso, deliberai di pubblicare la prima mia lettera. Desidero tuttavia di protestare che io solo sono risponsabile di quest’atto.

Ho creduto impertanto che fosse un sacro dovere per me il tradurre la mia narrazione alla sbarra della pubblica opinione, di quell’opinione che circola per tutta l’Europa con una facilità ed una forza che cresce ogni anno e che, quantunque in alcuni casi possa fallire ed iri altri eccedere, è animata dallo spirito del Vangelo, e sempre si mostra favorevole alla diminuzione delle sofferenze umane.

Può credersi cosa presuntuosa o chimerica Io sperare che una cagione meschina, come può essere la mia sperienza od i miei sentimenti, possa produrre alcuna modificazione nella politica reazionaria d’un governo. Qual titolo avevo io, si domanderà, uno fra mille viaggiatori, sul governo napolitano? Si presume forse chele determinazioni onde viene fissata la politica degli Stati, specialmente assoluti, siano proporzionate all’immenso potere che hanno sui destini del genere umano, e non si mutino per deferenza verso i desiderii o le impressioni d’individui od insignificanti, o predisposti contrariamente ed in ogni caso irresponsabili.

La mia risposta è breve. Io non ho titoli verso il Governo di Napoli: ma, come uomo, credei mio debito recare testimonianza su ciò che aveva veduto personalmente o saputo per informazione od avea motivo di credere vero intorno a vivissime e non necessarie sventure. Sapendo tuttavia che di tali testimonianze si poteva far usa per ottenere dei fini, cui mai non aveva inteso chi le recava, e che in tempi d’irritrazione e di sospetto, come sono i presenti nel continente d’Europa, leggere cause possono per avventura produrre o concorrere a produrre effetti di molta gravità; volentieri posposi ogni appello al pubblico, finché il caso non fosse stato meditato da coloro la cui condotta principalmente si toccava. Così fu. Essi fecero la loro scelta, e mentre io riluttante accetto le conseguenze, il non volere essi attuare alcun pratico miglioramento non verrà mai addotto da me come un aggravamento della loro anteriore risponsabilità.

Rimarranno fors’anche deluse alcune persone, perch’io adopero soltanto da privato e per mezzo della stampa, mentreché potrei rivolgere l’attenzione di quella Camera del Parlamento, cui ho l’onore di appartenere, a questa grave e penosa questione. A costoro io direi, che a bella posta volli astenermi dall’usare in questo affare alcun mezzo od influenza britannica di carattere officiale, diplomatico o politico. Veramente io avrei potuto, associando la questione agl’interessi dei partiti o degl’individui, ottenere maggiormente favorevole attenzione. ma d’altra banda, adoperando in tal guisa, avrei potuto destare le gelosie d’altri Stati d’Europa contro le mie esposizioni, contro ciò ch’io credo essere un sacro dovere d’umanità, e nel regno delle Due Sicilie.

Stesso quei lodevoli sentimenti d indipendenza nazionale che sono fondamento del patriottismo. Avrei travisato in qualche modo la questione. Gli interessi che ho in vista non sono quelli dell'Inghilterra: poiché essi o sono in ciò nulli, di niun valore, o larghi quanto si estende ia schiatta umana e duraturi come essa. Veramente sarebbe meglio che s’ottenesse, parzialmente almeno, un riparo a quei mali, grazie all'influenza e potere di questo Stato, anziché non ottener nulla: ma sono tanto persuaso dei mali che deriverebbero da questo modo di procedere, e degli ostacoli di cui sarebbe causa, ch’io deliberai al tutto di astenermi dal ricorrere alle generose simpatie, con cui certamente il Parla mento inglese accoglierebbe le mie proposte. E se questo tema sarà in esso argomento di discussione, non fia sicuramente coll’opera od assenso mio.

Nel riandare e ripensare i termini della lettera che diressi a V. S. ai 7 aprile vi trovo un calore che può lasciar luogo alla critica, ma che parvemi e mi pare tuttavia giustificato generalmente dalle circostanze del caso. Vi rinvengo allegati molti fatti che ecciteranno in alcuni l’indegnazione e l'orrore, incredulità in altri, ma indifferenza in pochissimi. Confessai già, che mi fu impossibile verificare con precisione i particolari di parecchie delle cose da me narrate, perché a Napoli non si può liberamente discutere, perché se si supponesse che un napolitano avesse talora mandate delle notizie sfavorevoli al suo governo ad un inglese (potrei anche dire, specialmente a me fra gli Inglesi diverrebbe tosto una vittima dei delatori, un oggetto delle loro ricerche. Sono convinto ora, come allora, di non avere esagerato: d’aver fatto il possibile per riuscire esatto: che le più tristi circostanze sono quelle che constano per pubblica notorietà o di cui ebbi personalmente cognizione: che qualunque tentativo che io facessi di conferire abitualmente con sudditi napoletani, o di far col loro mezzo regolare investigazione, o di indicar direttamente od indirettamente alcun individuo, come sorgente donde trassi le mie notizie, tornerebbe fatale alla loro personale libertà e felicità.

Ma io non mi fondo soltanto sopra queste basi, La certezza ch’io ho sulla verità generale delle mie asserzioni crebbe assai, il mio timore che fossi incorso in qualche errore nei particolari diminuì notabilmente dopo la data della prima lettera. Scrivendo in luglio non ho ancora a fare osservazioni di momento su dò che dissi in aprile, So che, avendo io asserito di credere che il numero dei prigionieri politici nelle Due-Sicilie ammontasse a 20 mila, si osservò che dai rapporti constava non esservene che 2 mila circa. Ma anche questa cifra non è ancora stata ammessa; poiché mi ricordo che nello scorso novembre un Inglese, molto onorevole e in istretta relazione colla Corte, mi affermava il numero non ascendere che a mille.

Abbiasi pure il governo napolitano il benefizio dell’obbiezione che mi venne fatta. Per me sarebbe una grande consolazione se vi potessi prestar fede. I lettori della mia lettera non saranno sorpresi s’io esito nell’ammetterla. Ma soggiungerò una cosa. Ai miei cechi il numero dei prigionieri politici, come lo stato delle prigioni, non ha che un interesse secondario. Se essi sono umanamente e legalmente arrestati, umanamente e legalmente trattati prima del processo, umanamente e legalmente giudicati, questa è la principale questione. Ma la mia accusa precipua tende a mostrare, che si commise una grossolana illegalità ed inumanità nel giudizio, ed il numero dei prigionieri e lo stato delle prigioni non sono più materia di tant’importanza che come una prova di quanto asserii.

Si sarà notato nella prima mia lettera, che io ho parlato di quanto ho veduto io stesso nelle prigioni di Napoli ed anche, in alcuni casi, di quanto ho udito dai prigionieri. Credo necessario l’addurre i motivi per cui cercai di penetrare in esse. Non fui altrimenti mosso da vana curiosità, ma dall’idea del dovere che incombeva a me di farmi testimonio oculare, per quanto poteva, prima di fare ulteriori passi. Ho pure sacro dovere di affermare# che quegli sventurati non sono in alcuna guisa responsabili della visita che io feci alle loro triste dimore, né presero alcuna parte ad essa od a checché possa io aver fatto prima o dopo. Se poscia furono assoggettati, come mi assicurarono, a maggiori sofferenze» a più duri trattamenti; quest'aumento di pena non può essere menomamente giustificato da ciò che abbiano essi potuto operare. Debbo pure aggiungere, che quanto io asserisco di concernente al loro processo lo desunsi da stampate memorie, ch’io mi procacciai senza loro aiuto o cognizione. Se ciò ch’io feci col solo scope di venir in chiaro dèlia verità, coi soli mezzi ch'erano in mio potere; avesse prodotto l’effetto d’aggravare la condizione di uomini innocenti; ne risulterebbe una novella prova della miserabile tendenza della tirannide a moltiplicarsi e riprodursi, come tutti gli altri mali, da se stessa. La necessità può essere la sola difesa del tiranno: sola difesa, e sola sua ragione: è una dura e crudele guida dì condotta: e l’ostinato abuso della nostra alta facoltà di scegliere il male produce tostamente uno stato di cose, in cui la comune volizione ben tosto riesce impedita: ed è necessaria una risoluzione quasi eroica per arrestarne il corso fatale.

Non intendo d’aggiungere fatti a quelli che sono contenuti nella mia prima lettera, quantunque non siano essi che una parte, e neppure! più considerabili. Un motivo che mi indusse è l’essere essi bastanti al mio scopo, e un altro è che, altrimenti facendo, porrei probabilmente in pericolo, non veramente le persone che me li fecero conoscere, ma quelle che gli agenti della polizia supponessero o credessero conveniente di supporre che me li avessero fatti conoscere.

11 mio scopo presente è sostenere la probabilità generale delle mie asserzioni, col riferirmi a fatti fuor di questione, occorsi a Napoli come in altre parti d’Italia; fatti che ci presentano uno stato di cose, cui difficilmente c’induciamo a credere, e che sventuratamente è troppo vero e noto a tutti.

Che la mia prima narrazione sia accolta a prima giunta con incredulità non sono scontento. Anzi, per onore dell’umana natura, credo che debba essere così. Gii uomini debbono essere tardivi a credere che possano intervenire tali cose in una contrada cristiana, sede di quasi tuttala vecchia civiltà europea. Debbono essere inclinati ad attribuii e le mie asserzioni a fanatismo e follia da mia parte, anziché crederle un genuino racconto del modo di procedere di uno stabile governo. . Ma quantunque tale possa essere la prima impressione, confido che non si chiuderà l’adito alla luce, per quanto penosi oggetti possa ella scoprire. Io stesso provai quell’incredulità, ed avrei voluto poter continuare in tale stato: ma essa dové gradatamente cedere il posto al convincimento; e ad ogni nuova prova evidente provavo un nuovo dolore. Perciò io cercherò di far percorrere allo spirito del lettore la stessa via che percorse il mio, per quanto è in mio potere, e di stabilire alcuni fatti caratteristici, i quali possano, più facilmente che non

farebbe un'astratta descrizione, dare un'idea dell’atmosfera politica d’Italia.

Io parlai, per esempio, ultimamente della polizia napolitana in tali modi che io non potrei senza dolore usare verso coloro che la polizia, quale ce la immaginiamo giusta le nostre idee, è specialmente destinata a reprimere in altri paesi civili. Fra noi il constale (uffiziale di polizia, ) è oggetto di rispetto generale. La tradizione ispira questo sentimento e la condotta di quel corpo lo conferma, intantoché noi non abbiamo presentemente una parola, per esprimere quella professione, che implichi un’idea sfavorevole. Ma la lingua italiana ha le parole sgherro e birro che implicano l’idea di degradazione nelle persone accennate e di ribrezzo in colui che le pronuncia; parole di cui non abbiamo il perfetto equivalente Ed ora avendo parlato del modo con cui altri pensano di loro, diamo un saggio di ciò che i poliziotti italiani pensano di sé stessi. Tolgo il mio esempio dalla Lombardia: tuttavia sono lungi dal dire che la polizia di quella provincia sia caduta al livello della classe corrispondente a Napoli.

Eravi un famigerato poliziotto a Milano, detto Bolza. Nel tempo della rivoluzione del 1848 furono scoperte le note private del governo sul carattere dè suoi agenti. Il Bolza v'è ritratto come un 'individuo rozzo, falso, tutt'altro che rispettabile, fanatico imperialista fino al 1815, poi egualmente caldo partigiano dell’Austria, “e domani turco, se Solimano dovesse entrare in questi Stati," capace d’ogni cosa per danaro, tanto contro l’amico che il nemico. Tuttavia, continua la memoria, "egli comprende bene gli affari e mostra molta abilità. Non si sa nulla della sua moralità e religione.” Ma una opera pubblicata a Lugano contiene il suo testamento; e questo curioso documento prova l'acuto senso della propria degradazione che provava anche un uomo di quella risma. “Proibisco assolutamente ai miei eredi, dic’egli, di permettere che si metta segno di qualunque sorta al sito ove sarò sotterrato: molto meno iscrizione od epitaffio. Raccomando all'amata mia consorte d'imprimere nei miei Agli la massima che, qualora essi siano in istato di dover chiedere un impiego alla generosità del governo, lo chiedano in qualsivoglia dicastero, ma non in quello della polizia esecutiva. E tranne il caso di straordinarie circostanze, non dia essa mai il suo assenso ai matrimonio di alcuna delle mie figlie con un impiegalo di questa classe ().

Allegherò ora due fatti riferiti nella recente stimata storia delle Stato Romano, dal 1815 al 1850, del sig. Ferini. —Esiste una circolare confidenziale del Cardinal Bernetti, in cui ordina ai giudici, che nel caso che i liberali siano accusati di ordinarli reati, s’infligga loro invariabilmente il maggior grado di pena.

Il Bernetti non era partigiano dell’Austria, e dicesi che sia stato esautorato (regnante Gregorio XVI) per mezzo della influenza austriaca. La sua idea favorita era l'intera indipendenza dello Stato pontificio, e perciò la circolare cui feci allusione è prettamente italiana.

Ciò accadeva sotto Gregorio XVI. Regnante Leone XII il Cardinal Rivarola andò legato a latere in Romagna. Ai 31 agosto 1825 pronunciò sentenza contro 508 persone. Sette di esse dovevano andare al patibolo: 49 alla galera per diversi tempi, da dieci anni fino alla perpetuità: 52 in prigione per egual tempo. Queste sentenze furono pronunciate privatamente, a semplice volontà del Cardinale, per mera presunzione che gl’imputati appartenessero a sette liberali. E, ciò che stupirà un inglese, dopo UH processo semplicemente analogo a quello di un gran giurì (paragono il processo, non le persone;, senza lasciare agli accusati alcuna opportunità di potersi difendere.

Accennerò altresì un editto pronunciato dai duca di Modena ai 18 aprile 1832. Si ordina in questo, che gli accusati politici possano essere condannati a qualsivoglia punizione materialmente minore che quella è prescritta dalla legge, quando il reato è provato; e ciò senz’alcun processo o formalità di sorta alcuna, nei casi in che si fosse convenuto di non palesare i nomi dei testimoni i, o di non far conoscere la qualità delle testimonianze. Con queste riduzioni di pena ordinavansi solitamente l’esilio e le multe, come altre appendici si potevano aggiungere a talento! L’editto si può leggere nel famigerato giornale la Voce della Verità, num. 110.

Avendo esposto alcuni fatti relativi ai principii con cui fu retto talora un Governo italiano, vengo ora a trattare alcuni punti relativi alta posizione politica del presente Governo di Napoli. Nella mia prima lettera, mentre esprimevo la brama d'evitare ima discussione su quel tema, accennai pure che gli era necessario toccarne alcuni punti onde si potesse comprendere la politica presente. “Nemo repente fit  turpissimi”—Nessun Governo potrebbe arrivare a tale estremo di terrore, crudeltà e viltà, quale fu mio doloroso dovere descrivere, a meno che non fosse già pervertito da una mala coscienza e tratto dalla necessità a coprire vecchi misfatti col cumulo di nuovi.

Nel mese di gennaio 1848 fu ottriata una Costituzione al Regno di Napoli, la quale venne proclamata e giurata solennemente dai Monarca fra l'esultanza del popolo. Liberatori, uno dei gesuiti di Napoli, in un sermone pronunciato ai 15 aprile 1848 dice: “Sovrano si mostrò né ostinatamente tenace, né precipitosamente pieghevole. Temporeggiò, anzi respinse la domanda finché non fu chiarito eh essa derivava da desiderio universale del popolo, e non da isolate affermazioni d’un partito. Degnò d’aderire con gioia, mentre era tuttavia in suo potere II resistere. Così fu dimostrato chiaramente ch’ei fece quell’atto non per violenza od apprensione, ma per propria e sagace volontà. ()

Ai 15 maggio venne la lotta, la cui origine fu descritta coi piè opposti colori da persone di sentimento opposto. Essa terminò colla più certa e compiuta vittoria del Re e delle sue truppe, e citerò ora le parole con cui il trionfante Monarca reiterò le sue assicurazioni relativamente alla Costituzione:

“Napoletani! Profondamente addolorati dall’orribile caso del 15 maggio, il nostro più vivo desiderio è di raddolcirne quanto è possibile le conseguenze. La nostra fermissima ed immutabile volontà è di mantenere la Costituzione del 10 febbraio pura ed immaculata da ogni eccesso, la quale essendo la sola compatibile coi veri e presenti bisogni di questa parte d'Italia, sarà l’ara sacrosanta sulla quale devono appoggiarsi le sorti dei nostri amatissimi popoli e della nostra corona.  Ripigliate dunque le consuete vostre occupazioni: fidatevi con effusione d'animo della nostra lealtà, della nostra religione e del nostro sacro e spontaneo giuramento.”

Darò ora degli estratti di questa Costituzione. Essa comincia in tal modo, ed io richieggo la vostra speciale attenzione su questo preambolo:

“Visto l'atto sovrano del 27 genn. 1848, col quale, aderendo al voto unanime dei nostri amatissimi popoli, abbiamo di nostra piena, libera e spontanea volontà promesso di stabilire in questo reame una Costituzione corrispondente alla civiltà dei tempi, additandone in pochi e rapidi cenni le basi fondamentali, e riserbandoci di sanzionarla espressa e coordinata né suoi principii sul progetto che ce ne presenterebbe fra dieci giorni l’attuale nostro Ministro dì Stato;  

“Volendo mandar subito ad effetto questa ferma deliberazione del nostro animo;

“Nel nome temuto dell’onnipotente santissimo Iddio Uno e Trino, cui, solo è dato di leggere nel profondo dei cuori, e che noi altamente invochiamo a giudice della purità delle nostre intenzioni e della franca lealtà onde siamo deliberati d’entrare in  queste novelle vie d’ordine politico;

“Udito con maturo esame il nostro consiglio di Stato:

“Abbiamo risoluto di proclamare, e proclamiamo irrevocabilmente da noi sanzionata la seguente costituzione.”

Quindi seguono i particolari provvedimenti di cui quattro solo fanno all’uopo.

Art. 1. “Il reame delle Due Sicilie verrà d’ora innanzi retto da temperata monarchia ereditaria costituzionale sotto forme  rappresentative.

Art. 4. “Il potere legislativo risiede complessivamente nel re, ed in un Parlamento nazionale composto di due Camere, l'una di pari, l’altra di deputati.

Art. 14. “Niuna specie d’imposizione può essere stabilita, se non in forza di una legge, non escluse le Imposizioni comunali.

Art. 24. “La libertà individuale è garantita. Niuno può essere arrestato se non in forza di un atto emanato in conformità, delle leggi e delle autorità competenti, eccetto il caso di flagranza.

“In caso d’arresto per misure di prevenzione, l’imputato dovrà consegnarsi all’autorità competente, fra lo spazio improrogabile delle 24 ore, e manifestarsi al medesimo i motivi del suo arresto.

Coloro che desiderano dei particolari possono consultare le storie di questi avvenimenti (). Io abbozzerò soltanto l'attuale stato di cose.

Quanto all’art. 1. la monarchia di Napoli è perfettamente assoluta ed illimitata.

Quanto all’art. 4, non v’é Camera dei pari, non dei deputati.

Quanto all’art. 14, tutte le tasse sono imposte e levate in virtù della sola autorità reale.

Quanto all’art. 24, furono arrestate persone a centinaia, mentre fio era a Napoli, poco prima di Natale, senza verun mandato legale e senza il più piccolo pretesto di flagranza o quasi flagranza. Non furono consegnate alle autorità competenti entro 2i ore, o in altro lasso di tempo, e furono detenute nel più rigoroso ronfino dalla polizia, senza alcuna relazione colle corti, e senzachè si comunicasse loro in modo veruno il motivo dell’arresto. Tal, è la condizione di cose relativamente alla costituzione napolitana, alle sue prescrizioni, alla condotta attuale del governo la quale e in ogni punto in contraddizione colla Incontestata legge fondamentale. Da questa comparazione fra la legge di urto Stato e gli alti del governo (non già atti fortuiti, ma gli atti costanti e più essenziali del governo) rimangono spiegati i tristissimi ed appena credibili fatti che raccontavo nella mia prima lettera.

Ma io ho ancora un’altra fonte di prove che vi debbo schiudere: delle prove che spiegano nella forma più penosa e rivoltante la continua, compiuta, perfetta organizzazione del sistema ch’io credei mio dovere esporre e denunciare, per quanto il comportava la limitata mia attitudine.

É inutile l’osservare, che nel reame di Napoli tanto la stampa che 1 educazione del popolo sono sotto il sindacato del governo, e che, tranne alcune questioni in cui può essere conflitto colla Chiesa, nulla s’insegna o si stampa che non sia sotto la sanzione del governo e secondo il suo spirito. ' Farò alcune citazioni di un’opera delle più strane e riprovevoli ch’io m’abbia mai viste. Essa è detta Catechismo filosofico per uso delle scuole inferiori: ed ha per motto videte he quis vos decipiali per philosophiam, Ho due edizioni di essa, una porta la 'data di Napoli, presso Raffaele Miranda, Largo delle Pigne, n. 60; 1850. L’altra è parte d’una serie intitolata Collezione di buoni libri a favore della verità e della virtù; Napoli, Stabilimento tipografico di A. Testa; strada Carbonara, n. 104, 1850. Sono accurato in questi particolari, perché se noi fossi, potrei ancora eccitare il sorriso dell'irragionevole incredulità.

La dottrina del primo capitolo è, che in questi tempi vuoisi insegnare ai giovani una sana filosofia, onde opporsi alla falsa filosofia dei liberali, la quale è insegnata da certi viziosi e cattivi uomini desiderosi di rendere gli altri viziosi e cattivi come essi. Si enumerano quindi i segni di questi filosofi liberali, e uno di essi è “la disapprovazione degli atti energici delle autorità legittime.” Essi producono ogni sorta di male (vi si dice), e specialmente l'eterna dannazione delle anime. L’allievo domanda quindi con gran semplicità al maestro, non se tutti i liberali siano cattivi, ma se essi siano tutti cattivi ad un modo. E la risposta, è la seguente:

“No, mio figlio, perché alcuni sono conscii ed ostinati ingannatori, mentre altri sono sciaguratamente ingannati: ma ciò nonostante camminano tutti per la stessa via, e se non la cambiano arriveranno tutti alla stessa prigione.”

Il significato di questo, giusta quanto leggo, è che coloro 1 quali nutrono in Napoli le cosi dette idee liberali (e molte sono incluse in questo numero che qua non sarebbero), anche della specie più innocente, delle mere vittime dell’inganno andranno, se non le abbandonano, eternamente perduti per causa di queste loro opinioni.

L'altra inchiesta che fa l'allievo è se coloro che portano barba o mustacchi siano filosofi liberali!

Nei capitoli susseguenti l’allievo è ammaestrato sulla vera natura del potere sovrano. L'autore nega decisamente che siavi alcun obbligo d'obbedire alla legge in uno Stato democratico; poiché, egli dice, sarebbe essenzialmente assurdo che il potere governante risedesse nei governati, e perciò Dio non permetterebbe mai tale cosa. Negli Stati-Uniti perciò non vi sarebbe potere sovrano. Questa è la dottrina più rivoluzionaria ed anarchica che siasi mai propagata sotto specie di lealtà e di religione.

Il potere sovrano, ci si dice qua, è, non solamente divino non moverò mai lite ad un autore per asserir tale cosa ma illimitato, e non solo illimitato di fatto, ma per intrinseca natura e per ragione della sua divina origine. Ed ora noi veniamo alla sostanza del libro intero, per amor della quale la filosofia fu dai sapienti napolitani tradotta dall'altezza del cielo al livello delle scuole inferiori. Questo potere naturalmente non può essere limitato dal popolo, poiché il suo dovere è semplicemente ubbidire.

Allievo. “Può il popolo di per se stesso stabilire delle leggi fondamentali in uno Stato?’’

Maestro. “No, perché una costituzione o legge fondamentale è necessariamente una limitazione della sovranità: e questa non può venir misurata o limitata che per un alto suo proprio; altrimenti non costituirebbe più quell’alto potere sovrano, che è ordinato da Dio pel benessere della società.”

Continuerò a tradurre; ne vale la pena. Si scorgeranno accuratamente e in modo non ingannevole ritratte le fattezze del governo napolitano, nelle abbomtnevoli dottrine che si espongono in questo scritto:

Allievo. “Se il popolo, nell’atto di eleggere un sovrano, gli avrà imposte certe condizioni, certe riserve, non formeranno queste la costituzione, la legge fondamentale dello Stato?”

Maestro. “Sì, purché il sovrano le abbia concesse e ratificate liberamente. Altrimenti no, perché il popolo essendo fatto per la sommessione e non pel comando, non può imporre una legge al sovrano, il quale deriva II suo potere non dal popolo, ma da Dio. ”

Allievo. “ Supponete che un principe, nell’assumere la sovranità di uno Stato, abbia accettata e ratificata la costituzione o legge fondamentale dello Stato, e ch'egli abbia promesso o giurato di osservarla: è egli tenuto ad osservare la promessa, a mantenere la costituzione e la legge fondamentale?”

Maestro. “É tenuto, purché questa non distrugga i fondamenti della sovranità, e purché non sia opposta agl’interessi generali dello Stato:

Allievo. “Perché credete voi un principe non tenuto a mantenere la costituzione, sempreché questa impugni i diritti della sovranità?”

Maestro. “Abbiamo già detto, che la sovranità è il più alto e sovrano potere, ordinato e costituito da Dio nella società pel bene di essa, e questo potere concesso e reso necessario da Dio deve esser preservato, inviolato ed intero, e non può venir ristretto o atterrato dall'uomo, senzaché si ponga in conflitto colle prescrizioni della natura e colla divina volontà. Pertanto, sempreché il popolo avrà proposta una condizione che minori la sovranità e il principe avrà promesso d’osservarla, la proposta è assurda e la promessa nulla. Il principe non è obbligato a mantenere una costituzione che è in opposizione coi comandamenti di Dio, ma è obbligato a conservar intatto ed intero il supremo potere stabilito da Dio e da Dio a lui conferito.”

Allievo. "Perché non credete voi astretto il principe a mantenere la costituzione, quando la crede contraria agl'interessi dello Stato?”

Maestro. “Dio ha istituito il supremo potere pel bene della società. Quindi il primo dovere della persona che ne è investita é quello di promuovere il bene della società. Se la legge fondamentale dello Stato vien trovata contraria al bene di esso e se la promessa data dal sovrano dì osservare la legge fondamentale l'obbligasse a promuovere cosa dannosa allo Stato, la legge sarebbe nulla e la promessa irrita; perché il bene generale è l'oggetto di ogni legge, e promuovere quel bene è l’obbligazione principale della sovranità. Supponete che un medico abbia promesso e giurato all’ammalato di salassarlo: ch’egli venga a conoscere che il salassarlo gli tornerebbe fatale, egli ha dovere di astenersene: perché equivalente ad ogni promessa e giuramento è l'obbligazione nel medico di travagliarsi per la salute del malato In simil guisa se il governo credesse gravemente dannosa al popolo la legge fondamentale, è obbligato a non tenerne conto: perché, non ostante ogni promessa e costituzione, il dovere del sovrano è il bene del popolo. Brevemente, un giuramento non diviene mai un obbligo di commettere il male e non può perciò obbligare un sovrano a fare ciò che nuoce ai sudditi. Inoltre il capo della Chiesa ha ricevuta autorità da Dio di sciogliere le coscienza dai giuramenti, quando crede esservi giusto motivo d far ciò.”

Ora viene la chiave di volta, quella che rende tutto l'edilizio consistente e solido, con tutta la consistenza e la solidità che sono proprie della fraudo, della falsità, dell’ingiustizia e dell’empietà.

Allievo. "Chi deve decidere quando la costituzione minora ì dritti della sovranità ed è contraria al bene del popolo?”

Maestro. “Il governo, perché l’alto e supremo potere stabilito da Dio nello Stato perché vi faccia regnare l’ordine e la felicità, risiede in lui.”

Allievo. “ Non può esservi pericolo che il sovrano violi la costituzione senza giusta causa, sotto l’illusione dell’errore o l'impulso della passione?”

Maestro. “Gli errori e le passioni sono i mali della schiatta umana: ma i beni della salute non si debbono ricusare per tema di malattia.”

E cosi va avanti. In non esporrò tutte le false, vili ed immorali dottrine, talvolta ridicole, ma più spesso orribili, ch’io trovo artificialmente velate sotto frasi di religione in questo abbominevole libro: perché io non desidero di eccitar meramente l’indegnazione negli spiriti, ma coll’indegnazione una cognizione chiara e distinta, per quanto é possibile, dell’oggetto che ne è il motore. Dico dunque che qui abbiamo una compiuta filosofia dello spergiuro ridotto a sistema ad uso dei monarchi, un libro consentaneo ai fatti della storia napolitana degli ultimi tre anni e mezzo, pubblicato sotto sanzione e inculcato dall’autorità di un governo, il quale veramente fece quanto stava in sé per esaltare quelle dottrine, giacché se le prese a norma nella pratica.

Questo catechismo non porla nome d’autore: marni si dice che sia opera d’un ecclesiastico, cui non disegnerò, perché sarebbe opera inutile al mio scopo: basti che egli è, e era alla testa della commissione di pubblica istruzione. Egli dedica il suo lavoro “ai sovrani, ai vescovi, ai magistrati, agli ammaestratori della gioventù, a tutte le persone di buone intenzioni.”

Nella sua dedica egli annunzia, che l’autorità sovrana ingiungerà che gli elementi di filosofia civile e politica sieno insegnati in tutte le scuole ed insegnati solo per mezzo di questo libro, onde altrimenti non si corrompa la purezza della dottrina: che i precettori debbansi attentamente invigilare onde non trasandino il loro dovere, e che a niuno debbasi dopo un anno continuare l'ufficio ove non provi d’averlo adempiuto; che cosi il libro potrà moltiplicarsi in mille forme, circolar nelle mani di tutti, ed il catechismo del filosofo imprimersi in tutti i giovani e seguire invariabilmente il catechismo del cristiano.

Naturalmente debbesi guardare con gran cura che niuno venga iniziato agli ordini sacri senza che siasi imbevuto di queste necessarie cognizioni.

“I vescovi troveranno i mezzi di farlo, circolare nei seminarli, prescriverlo ai chierici, raccomandarlo ai parroci, fare che diventi l'alimento dei popolo. In tutti gli esami si faranno questioni sulle dottrine di filosofia pratica, come si fanno sulla fede e condotta cristiana, giacché niuno può essere buon cristiano se non è buon cittadino e buon suddito!'’

V’è della temerità, se non della grandezza, in questo concepimento. Un giuramento rotto, un argomento stillato da un laborioso cervello per provare che il giuramento si debba violare, la risoluzione di preoccupare con questo argomento tutte le menti nel tempo della tenera ed impressionabile gioventù, e prima che siasi sviluppata la facoltà di ragionare. Non s’immaginé mai da uomo trama più astuta contro la libertà, la felicità, la virtù del genere umano.

L’autore finisce modestamente con questa dichiarazione:

“Io ho piantato, Apollo inalbò, ma Dio fece crescere.'’

Ed è tempo che finiamo noi altresì. Abbiamo visto lo Spergiuro, figlio della frode, parente della crudeltà e della violenza far pompa di sé in un regno cristiano, sotto la sanzione del suo governo. L’ abbiamo udito vantarsi che le sue leggi saranno esposte in tutte le scuole del regno, colla stessa estensione del catechismo della fede cristiana, cui solo rimane secondo in dignità.

Così feci quanto stava in me per fornire al lettore una prova evidente e collaterale, la quale parvemi necessaria ond’egli si potesse formare un giudizio sulle accuse cosi severe o nuove ch'io fui costretto a muovere alla politica presente del governo di Napoli intorno alle persecuzioni di Stato.

Debbo aspettarmi, io ripeto, delle contradizioni: ma io declino quelle obbiezioni che non si possono verificare, esaminare o spiegare. È impossibile la confutazione, tranne nei minuti particolari, relativamente alle mie asserzioni sui fatti. Volesse Dio che quello sciagurato governo, e s’altri ve n’ha che gli somiglino, potesse rinsavire a tempo, primaché l'oltraggiata umanità non si rivolga contro l'oppressore, e la coppa della giustizia divina non trabocchi. Se dobbiamo citar la Scrittura, questo ò il mio testo.

“Per la desolazione dei poveri afflitti, per le strida dei bisognosi, ora mi leverò, dice il Signore: io metterò in salvo quelli contro cui coloro parlano audacemente.

(Ps. XIL.)

E volesse pur Iddio che, se sorgesse una disposizione a cessare quest’abbomìnazione e temperare gli eccessi, ad instaurare il nuovo stato di cose fermamente ed onestamente, la si accettasse con temperanza e buon volere, senza soverchie aspettazioni, colla memoria delle difficoltà, con propensione a perdonare e dimenticare.

Da quanto ho scritto si faranno probabilmente due illazioni contro cui debbo premunirvi. La prima è che tutti questi mali ed oltraggi si debbono alla depravazione del popolo. Non nego che siavi infatti in parte ciò che qua qualifichiamo, come degradazione; né ce ne maraviglieremo, pensando da quali sorgenti fluiscano le corrotte acque della fraude e della falsità: ma dico che i Napoletani sono giudicati troppo severamente In Inghilterra. Anche il popolaccio della capitale ò troppo duramente giudicato: i suoi vizii predominanti compaiono alla superficie, allo sguardo di ognuno: ma appena rendiamo loro giustizia dicendo quanto meritano per la loro dolcezza, semplicità, fedeltà, calda affezione, sollecitudine a rendere servigli, astensione da’ più grossolani delitti. Che si dirà in Inghilterra quando affermo, sopra decisiva autorità, che durante i 4 mesi della costituzione, quando era paralizzata razione della polizia, non fuvvi pur un esempio di alcuno dei più gravi delitti a Napoli con una popolazione di 400 mila anime? Noi facciamo un’altra ingiustizia, quando estendiamo alle varie classi dello Stato ed agli abitanti di tutte le provincie il giudizio troppo immaturamente formato anche dei popolaccio di Napoli. Forse il principale loro difetto consisté nella mancanza di quella pratica energia e ferma perseveranza che si richiede ad incarnare le idee che una viva intelligenza naturale somministra loro in gran copia. Ha, mentreché paiono essi a me molto amabili per la loro gentilezza, modestia e cortesia, li trovo poi ammirabili nella loro facoltà di soffrire pazientemente, per l’elasticità e facilità con cui lo spirito vive in essi sotto un peso che opprimerebbe delle tempre più maschie e forti, ma dotate di minor potere reattivo.

Ancora una parola. Io scrivo in un momento che l’opinione pubblica è altamente eccitata contro la Chiesa cattolica, e non vorrei che si traessero delle induzioni troppo sfavorevoli al clero del reame di Napoli, e non giustificate dai fatti. Certamente quel clero secolare e regolare è un corpo di carattere misto ch’io non imprenderò a descrivere; ma sarebbe ingiustizia il renderlo sondarlo degli atti del governo. Una parte di essi lo sono certamente. Da quanto mi risultò, una parte di quei preti abusarono del confessionale per servire Il governo: e seppi che si fecero degli arresti che seguirono immediatamente la confessione, onde è impossibile che non siavi connessione tra questi due fatti. Ma d’altra banda vi sono membri del clero, anche monaci, che sono fra gli oggetti della persecuzione che ho descritta. I membri più illustri del celebre convento dei benedettini di Montecassino furono espulsi dalle loro dimore, ove regnava la pace, la pietà e la dottrina. Molti di essi furono cacciati in carcere mentr’ero a Napoli: altri, non carcerati, tremano ad ogni stormire di fronda. Uno di essi fu carcerato per aver opinioni liberali, un altro per essere fratello d’un che aveva opinioni liberali. Non eravi ombra d'accusa contro essi: ma si sperava che per mezzo del primo si potesse saper qualche cosa contro qualche altra persona sospetta.

Fra gli arrestati nel passato dicembre ve ne furono 20 o 80 appartenenti all’ordine clericale.

Può darsi, e probabilmente è cosi, che la maggior parte di essi stiano in disparte senza mostrar simpatia, od almeno efficace simpatia per coloro che sono oppressi da si gravi sventure: ma ciò forse non è men vero dei nobili, che generalmente disapprovano gli atti del governo, mentre sono in una specie d’armistizio con esso. Chi sopporta i mali della lotta è la classe inferiore.

La chiesa di Napoli ò presieduta da un cardinale arcivescovo di gran paraggio, maniere semplici, e devoto del tutto ai suoi doveri. Sono certo che agli è lungi dal partecipare od anche dall’approvare degli atti indegni del suo carattere. I gesuiti sono il corpo che più sta vicino al governo: ma essi furono scacciati dal loro colleggio, durante il tempo della costituzione, con flagrante  illegalità e considerabile durezza, Anche le loro dottrine non sembrano andar onninamente a grado del potere, poiché un'opera periodica, cui compilavano col titolo di Civiltà cattolica ed usavano stampare nelle loro case, fu ultimamente rimessa a Roma, non dubito, che nel clero siavi una forte fazione pel governo, come v'è fra i lazzaroni; ma non v’è prova della complicità di una parte di esso. Benché la professione e le dottrine del clero possono Ano ad un certo punto predisporlo innocentemente in favore delle autorità, specialmente sotto un monarca che ha fama di essere molto regolare e stretto nelle pratiche religiose.

Rimango, mio caro lord Aberdeen,

Con motta considerazione sinceramente vostro

W. E. Gladstone.

Carlton Gardens, 14 luglio 1851.





















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