Eleaml - Nuovi Eleatici


Ferdinando Ranalli nacque nel Teramano il 2 febbraio 1813 da una famiglia agiata, il padre fu sindaco di Nereto, poi funzionario a Teramo e a L’Aquila.

Avviato al sacerdozio, studiò nelle Marche. Visse a Firenze e a Pisa, dove nel 1849 ebbe la cattedra di storia, assegnatagli dal governo di Francesco Domenico Guerrazzi.

Questa sua opera, che mettiamo a disposizione di amici e naviganti, sgradita ai Borboni, costrinse il padre a lasciare gli incarichi pubblici.

Dopo l’unità d’Italia fu membro del Consiglio superiore della Pubblica Istruzione nel 1865, poi deputato nella X legislatura.

Il pregio di quest’opera, al di là del linguaggio erudito e toscaneggiante, è quello di descrivere gli avvenimenti del 1848 nei vari stati italiani, cercando di attenersi ai fatti e alla documentazione in suo possesso.

Affatto tenero con i Borbone, non tralascia però di sottolineare le intemperanze e le velleità dei liberali. Riportiamo un ampio stralcio sugli avvenimenti del 15 maggio a Napoli.

“Erano le otto ore della sera, e i deputati continuavano a disputare. I più erano d’accordo, e cercavano anco le vie della moderazione, ma non sapevano trovarle, o per poco accorgimento, o perché erano sviati da’ pochi deputati senza freno, la maggior parte calabresi; i quali volevano a partiti estremi venire. Alla fine, non sapendo fare altro, deliberarono di mandar fuori un editto dell’assemblea, pregando il popolo a tranquillarsi. E in questa, si davano la posta pel giorno dopo, affine di condursi ordinatamente al luogo della publica adunanza, quando uditosi che i deputati Piccolellis e Cacace erano l’un dopo l'altro chiamati a palazzo, sospesero la publicazione dell’editto, e il dipartirsi dalla sala, aspettando di sentire l’effetto di quella conferenza col re. A mezza notte tornò il Cacace, e disse; contentarsi il re che alla forma del giuramento da lui usata il 29 febraio, si aggiungesse: «salvo lo ampliamento delle leggi dipendenti dallo statuto.»

Intanto il popolo, come interviene in questi casi, e particolarmente in città popolosa e imaginosa, come Napoli, era andato assembrandosi intorno al palazzo di Montoliveto e pingendosi dentro la corte: né mancavano deputati imprudentissimi che di quando in quando gl’indirizzavano parole di concitazione; talché le cose cominciavano a prendere sembiante di tumulto. Il re, a cui non dovevano mancare attenti rapportatori di quanto accadeva a Montoliveto, impaurito (o forse anche per venire ad un esperimento della sua potenza) ordinò, o lo indussero a ordinare, che i principali luoghi della città fossero occupati da milizie regolari, nel tempo che i deputati discutevano se la forma del giuramento colla giunta riferita dal Cacace dovesse accettarsi; ed essendo raccolti da dodici ore, e noiati per lo digiuno e la stanchezza, erano in sull’accordarsi di vincerla senz’altra disputazione, quando entrato precipitoso Giovanni la Cecilia, abbenché deputato non fosse, con voce e gesti da forsennato, grida: «signori, le milizie sono uscite degli alloggi: elle volgonsi ad assaltare il popolo, e i suoi rappresentanti: non altro rimanere che abbarcarsi per le vie e difendersi.»

I deputati da prima allibirono; poi con voto unanime risposero, ch'essi riprovavano quel pensiero: e in pari tempo mandarono alcuni capi della guardia cittadina, che erano altresì deputati, affinché, presa buona informazione dello stato delle cose, adoperassero d’impedire disordini. Ma già lo abbarcarsi delle vie era cominciato, e i militi cittadini, anziché vietare, o non facevano alcuna opera, o davano mano. E ben allora si provò tutto il male fatto da’ primi ministri costituzionali di non ben ordinare a tempo la guardia civica, rimasta un pezzo senza capi; e quando poi definitivamente gli acquistò, aveva fatto l’abito a niuna disciplina: ovvero detti capi non riescirono a dargliela.

Credevano i più che la milizia civile fosse una congregazione di uomini armati da fare ognuno quel che voleva. Né parmi da tacere che la mala composizione di essa servì a mettere sempre più in chiaro quanto rimanesse ancora per forbire quei popoli da’ rei costumi acquistati nella lunga servitù; imperocché se nelle altre parti d’Italia non mancarono ambizioni di gradi, in nessun luogo partorirono i gareggiamenti che in Napoli s’accesero; i quali poi nelle provincie, dove era maggiore bestialità, cambiavansi in risse, uccisioni e tumulti; e mentre nessuno o pochi volevano servire da semplici militi, ognuno di essere graduato spasimava; e in alcuni comuni bisognò accrescere il numero delle compagnie per satollare più cupidigie di comando. Così quelle genti intendevano la libertà.

Al primo asserragliarsi delle strade, preso il re da maggiore spavento, e chiamato il ministro Manna, succeduto nell’erario al conte Ferretti, lo mandò in fretta a’ deputati per dir loro, ch'ei consentiva fare la ceremonia di adunare il parlamento all’ora deliberata senza obligo che giurassero. Del quale annunzio lieti oltre modo i deputati, senza indugio notificarono per bando che, essendo tolta ogni differenza fra essi e il principe, raccomandavano di togliere le sbarre dalle vie, procacciando ognuno che la quiete fosse alla città prontamente restituita. Furono parole vane. Già gli eccessivi uomini eransi intramessi; i quali non so se fossero republicani, ma è certo che erano gente perduta; e per giunta pessima dicono, che vi si accozzassero alcuni Francesi sbarcati dal navilio che sotto il comando del vice ammiraglio Baudin nel porto di Napoli dimorava; e secondando il costume della loro patria, non poco contribuissero a invogliare i Napoletani del subito por mano a’ serragli delle strade. Ma quando poi cominciò la strage dei cittadini, gli aizzatori, ancora in ciò secondando lor costume, rimasero sulle navi spettatori indifferenti.”

Ovviamente consigliamo agli amici di leggere anche altre opere, come “Avvenimenti di Napoli del 15 maggio 1848” di Gennaro Marulli.

Buona lettura e tornate a trovarci.

Zenone di Elea – Ottobre 2019

LE ISTORIE ITALIANE

DI FERDINANDO RANALLI

DAL 1846 AL 1853

VOLUME PRIMO

FIRENZE

TIPOGRAFIA DI EMILIO TORELLI

1855

FERDINANDO RANALLI - LE ISTORIE ITALIANE DAL 1846 AL 1853 VOLUME PRIMO HTML ODT PDF
FERDINANDO RANALLI - LE ISTORIE ITALIANE DAL 1846 AL 1853 VOLUME SECONDO HTML ODT PDF
FERDINANDO RANALLI - LE ISTORIE ITALIANE DAL 1846 AL 1853 VOLUME TERZO HTML ODT PDF
(se vuoi, scarica il testo in formato ODT o PDF)
VOLUME PRIMO AVVERTIMENTO DELL’AUTORE 3
VOLUME PRIMO LIBRO PRIMO 3
VOLUME PRIMO LIBRO SECONDO 81
VOLUME PRIMO LIBRO TERZO 143
VOLUME PRIMO LIBRO QUARTO 185
VOLUME PRIMO LIBRO QUINTO 237
VOLUME PRIMO LIBRO SESTO 309
VOLUME PRIMO LIBRO SETTIMO 365

AVVERTIMENTO DELL’AUTORE

Se io abbia fatto bene a scrivere degli ultimi avvenimenti italiani, giudicheranno gli altri. Ma devo e voglio confessare di aver commesso un grandissimo errore di cominciare a scriverli, e quel che è peggio, consentire che l’Opera si cominciasse a publicare innanzi che i sopraddetti avvenimenti si compissero e se ne chiarissero le ragioni e cagioni per documenti e notizie accertate. Quindi era inevitabile che inesatti e tal volta torti giudizi di uomini e di cose non ne derivassero: da fare per avventura attribuire a mal animo o a passione dello scrittore quel che da non buone o non compiute informazioni proveniva; senza dire che scrivendo mentre le cose avvenivano, e particolarmente in mezzo a quel bollore di spiriti degli anni 1848 e 1849, non era possibile non ritrarre del modo esagerato ed enfatico, con cui allora si favellava e sentenziava de fatti publici, cotanto disdicevole alla gravità delle istorie; che devono procedere temperate, e sfuggire le minuzie, le declamazioni e quanto sappia di satira. Né poteva io altrimenti riparare al mio fallo, che tornando a scrivere l’Opera; quasi facendo conto del publicato come se non fosse, anzi rifiutandolo per la massima parte. E messomi a questa impresa, stimai conveniente di non lasciare la narrazione alle cose del 1848 {colle quali hanno termine i due volumi publicati) ma condurla a tutto il 1853; essendo i fatti di detti anni per modo fra loro connessi da formare un subbietto solo.

Tu, lettore benevolo, conoscerai se io avendo così rifatto e compito il lavoro, né per esso risparmiato cura e diligenza, l'abbia renduto meno indegno della publica grazia.


vai su


ISTORIE ITALIANE

___________________________________________


vai su


LIBRO PRIMO

SOMMARIO

Proposta dell'opera. — Breve esposizione dello stato d’Europa avanti il giugno del 1846. — Beneficii della filosofia del secolo passato. — Inclinazione de' principi alle riforme. — Rivoluzione di Francia del 1789. — Effetti in Italia. — Impero di Napoleone. —Ristorazione delle vecchie monarchie. — Rivoluzione di Spagna e di Napoli del 1820. — Rivoluzione di Francia del 1830. — Inganno funestissimo per l’Italia. — Della così detta Giovine Italia. — Della nuova scuola piemontese. — Fatti di Rimini del 1845. — Morte di Gregorio XVI. — Opinioni diverse intorno a questo pontefice. — Conclave. — Parti che vi dominavano. — Elezione del cardinale Mastai sotto nome di Pio IX. — Desiderio publico d un perdono per colpe di maestà. — Pareri contrari se contentarlo o no. — Liete speranze suscitate dal nuovo papa. —Pubblicazione dell’atto del perdono. — Esultazioni popolari. — Pio IX idoleggiato. — Le dottrine del Gioberti levate al cielo. — Prime parole del papa indirizzate a’ cardinali in concistoro. — Di quanto si fece in Roma e nelle provincie sì per contrariare e si per favorire i benefizi del perdono. — Apparenze di felicità publica. — Elezione del cardinale Gizzi a segretario di stato. — Prove e mostre di riforme. — Ordine a’ capi delle provincie e a’ magistrati municipali per lo miglioramento della educazione popolare. — Attraversamenti e festeggiamenti per quest’ordine. — Festa in Roma del dì 8 settembre. — Consulte e commissioni per una migliore distribuzione di uffici, e per una riforma negli ordini giudiziali e amministrativi. — Solennità del possesso il dì 4 novembre. —Prima enciclica di Pio IX. — Banchetto nel teatro Aliberti. — Inondazione del Tevere. — Principio dello stampare anonimo. — Mormorii per lo indugio a mutare gli ufficiali publici. — Monsignor Grassellini governatore di Roma in luogo del Marini. — Notizia di questi due prelati. — Petizione de’ consigli provinciali di Bologna. — Tumulti e delitti. — Desiderio manifestato d’una guardia cittadina. — Contrarietà per questa guardia. — Scambiamento di legati e delegati. — Pio IX fra chi lo spinge e chi lo trattiene. —

Intendimenti delle corti straniere forme di stato verso le quali più o meno inclinarono le altre corti. Onde mal s'arrogarono alcuni a’ dì nostri la scienza delle rivoluzioni pacifiche, inducendo i re a concedere senza contrasto la libertà a' popoli. Ma gli scrittori fioriti avanti il 1789 ebbono tanto più merito, quanto che dovettero altresì disporre l’animo delle genti a desiderare un bene che affatto ignoravano. ché se in Francia si venne al sangue, fu perché la condizione sua rendeva vano ogni mezzo pacifico; non potendosi che col ferro e col fuoco le cancrene di alcuni Stati guarire. I regni del quarto e quinto decimo Luigi avevano colmo il sacco ad ogni maniera di corruttele; trovandovisi potentissimi il clero e la nobiltà; non di potenza generosa e libera, come nella vicina Inghilterra, ma soperchiatrice e servile; cioè devoti alla monarchia assoluta, per averla larga di futili onori e ingiuste prerogative. Nel medesimo tempo la nazione naturalmente spasimante di novità, massime dopo i gloriosi fatti della guerra americana, accoglieva le filosofiche dottrine, e più insopportabile il tirannesco giogo provava. Né in questo contrasto ci voleva un re debole, incerto, aggirato da malvagi consigli. Onde lo infelice Capoto pagò la non sua colpa di non aver saputo conoscere gli uomini e i tempi; lasciando atroce e tremendo esempio, non esservi di peggio che rintuzzare, anzi che regolare, una mutazione che non si può impedire. Questa politica, che nella debolezza è sospettosa e nella paura è crudele, generò le sette; le quali nel segreto aguzzando l'odio e nel pericolo diventando feroci, condussero all’estremo l’impeto della rivoluzione francese.

Al suo rumore scossa tutta Europa, immenso spavento prese l’animo de’ principi; e credendo che l’esempio delle riforme da essi principiate avesse promosso la gran rivoltura, non andarono piùoltre; e in cambio si levarono tutti d’accordo per arrestare il minaccioso incendio. Ma eglino perseguitando le opinioni di libertà, ch'erano ornai penetrate nelle viscere d’ogni stato, non fecero che renderle più gagliarde e rovinose. Si venne alle armi, e l’Italia fu al solito il primo campo della guerra; e vedemmo scendere dalle Alpi i Francesi che dicevano di portarci la libertà, e i Tedeschi, di restituirci la quiete. Bugiardi gli uni e gli altri; perché i primi venivano a conquistarci e tradirci, i secondi a mantenere la signoria propria e l’altrui. L’Austria aveva il favore dei principi, de’ nobili e de’ preti, che nella rivoluzione vedevano il loro esterminio. Il favor de’ popoli aveva la Francia; facilmente adescati da que’ bei nomi di fraternità e di egualità; tal che mentre i Francesi e i Tedeschi combattevano colle armi, gl’Italiani combattevano fra di loro colle opinioni, e peggiori della guerra sorgevano le ire di parte; in mezzo alle quali tuttavia i nuovi desideri s’abbarbicavano. Se non che la sorte nostra era sventuratamente con quella di Francia collegata; e la sorte di Francia, per grandi scelleratezze, rovinava; sendo apparecchiato chi doveva insieme co’ disordini sbarbare la libertà, e divenire tremendo e meritato gastigo di popoli e di re.

Ma il regno napoleonico non fu a bastanza lungo per distruggere i vestigi della passata rivoluzione, e tirare i popoli ad assonnare novellamente nella servitù: tenendoli pur desti quel continuo strepito di armi e di vittorie; e la gloria militare coprendo le sembianze tirannesche. Né vivente Napoleone, e il mondo empiendo di sì alto stupore, fu veduto il male che fece perché volle, e il bene che non fece, perché non volle; e arrestando i progressi della libertà, non la fece sdimenticare; da potersi dire che il suo imperio, maravigliosamente forte di armi, di leggi e di eccellente amministrazione, indusse nei popoli il pensiero, che un re dispotico, qualora non fosse stato un Napoleone, non era più tollerabile.

Non di meno i re collegati a Vienna nel 1815 giudicarono di potere a poco a poco ricondurre gli uomini a quel che erano innanzi di aprir l’animo agli affetti di libertà, e peggio ancora. Né considerarono (sì la cupidigia del dominare gli accecava) che a volere anzi rendere odiosa la memoria del napoleonico impero, e antivenire (che più importava) a nuovi rivolgimenti, bisognava ripigliare la saggia opera delle riformagioni, cominciata da’ loro antecessori innanzi al 1789. La desiderio che ogni dì maggiormente si spandeva, poteva metterli in pericolo estremo, si fossero piegati a soddisfarlo; e parve la seconda delle due cose verificarsi; né è vano conoscere per quali antecedenti cagioni.

Per quanto i prudenti ammoniscano, le sette e le congiure non condurci mai a buon fine, anzi peggiorare le condizioni della patria; perché, dove pure riescano, guastano l’opera loro cogli stessi mezzi onde la produssero, tuttavia finché vi avrà tiranni nel mondo, non mancheranno sette e congiure, sol mutando nome e forme, come quelle che partorisce più tosto cieca disperazione che accorgimento politico; e converrebbe, più che ad esse, maladire alla causa che le fa nascere. Alla giacobineria e carboneria, venuteci di fuori, successe dopo l’anno 1831 la così detta Giovine Italia, che almeno non ebbe origine forestiera, ma ben ritrasse della vanità d’una generazione che pretendeva rifarsi migliore dispregiando negli studi, nella filosofia e ne’ costumi l’antichità; quasi di servitù e non di libertà fosse stata maestra. Capo di essa fu il genovese Giuseppe Mazzini; ingegno fantastico, presuntuoso, ostinato. Aveva attinto il sapere, come i più del suo tempo, dai libri stranieri; dove forse aveva imparato l’antichità nostrale. In principio o che anch’egli avesse alcuna speranza in Carlo Alberto, principe di Carignano, salito allora sul trono di Piemonte, o, sicuro del rifiuto, volesse renderlo maggiormente odioso e giustificare più l’opera del macchinare cui voleva dedicarsi, indirizzogli una lettera, esortandolo a farsi autore dell’impresa che doveva dare libertà e unità di nazione all’Italia, non senza presagirgli irreparabile rovina, dove avesse ricusato o tentennato. Per la qual lettera, parata arrogante, cacciato in bando, cercò di accontarsi con quanti più poteva fuorusciti italiani, a fin di stringere una società che mai si direbbe segreta, giacché di segreto non altro aveva che un ben determinato proponimento, ignorato forse dallo stesso capo. Il quale con quel suo annugolato intelletto, cercando la novità ancora nel modo di congiurare, e quindi non curando che il parlar poco e operar molto aveva dato potenza di riescita alle sette antecedenti, cominciò dal publicare giornali e libercoli che fossino trombe di sue mal digeste dottrine; presumendo ch'elle dovessino farsi strada nella mente e nel cuore di ognuno. E da prima pel mistico velo ond’erano avvolte, non è maraviglia che avessero seguaci in un secolo si perduto per mala educazione a stimar bello e buono lo strano e lo incomprensibile; e vi si notavano alcuni, che più tardi vergognandosene e negando di averle partecipate, non ritmarono di vituperarle. Forse la gioventù poteva scusarli di averle prima abbracciate; perciocché fra l'altre follie, v’era anche questa, che non poteva esservi ascritto chi avesse valichi i quarant'anni, quasi fosse da escludere l'età più autorevole per esperienza. Finalmente essendosi istituito un concilio a Marsilia, al come a sovrano dovevano far capo tutti gli altri costituiti in altre città d’Italia, la potenza direttrice dimorando fuori e lontana, mal giungeva a serrare le sparse schiere de' seguaci, si che operassino coll'impeto d’un sol volere; e alcuni che il Mazzini stimava pendere da’ suoi cenni, invece travagliavansi per conto e ambizione propria; tanto più che né pur gli legava alcuna di quelle orrende religioni di settari, essendo che voleva apparire cristiano puro, parendogli poter dagli evangeli tirare argomenti irrefragabili di libertà ed egualità democratica. Altri poi si alienavano e sconfortavano dal vedere il principale restar sempre discosto da' pericoli, a' quali i meno cauti erano mandati quasi al macello: non che il Mazzini fosse uom timido o vile; ma suscitando in Italia imprese arrischiate e temerarie, riesciva ognora a sottrarsi alla carcere e a’ supplizi: e fuori dell’esilio, non era esempio d’altra sofferenza. Il quale altresì eragli addolcito e quasi renduto invidiabile dal tenere tutti i potentati d'Europa, forti di poderosi eserciti, in gran pensiero e paura di lui, privato, inerme, fuggiasco, né con altra autorità che la parola e la fama; oltre che il seguitare ancor lontano a travagliarsi per la idea della italiana repubblica, facevalo come godere di averla raggiunta; tenendo in lui luogo del vero una tenace fantasia, nutrita da fanatico orgoglio di stimarsi destinato a grandi opere; mentre la persecuzione, più che una solida scienza lo faceva grande, equasi. convertiva in una potenza da non dispreizare. Poi la favella pronta, le maniere affettuose, i severi costumi, e forse più d’ogni altra cosa i concetti annebbiati, gli procacciavano clienti e ammiratori; a’ quali pareva casa agevole a intendere quella dottrina: che infine si riduceva a sostituire una repubblica a più monarchie; quasi la facilità di 'simili imprese potesse da un astratto concetto argomentarsi.

Con quella sua epigrafe di Dio e Popolo, s’impromettava effettuare quel che Dio lascia fare al popolo, e questo era disposto, tutt’altro secondare che i suoi mai concepiti divisamenti; cominciando altresì ad apparire strana coda una congrega che si proponeva di ridurre a democrazia tutto ’l mondo l’aver capo agli altri, quasi principe, soprastante; e quel che era anco peggio, accusabile di non proporzionar mai i mezzi all’impresa bastando a lui il provare, e non istandogli supremamente in sul cuore la riuscita, coi né quello ohe desiderava bene di fondare una republica reale, da avervi potenza, ma dove non gli fosse venuto fatto, rcstavagìi da satisfarsi a bastanza nella republica immaginaria; nella quale se non governava, esercitava però;tm’autorità da procacciarsi per tutto clientele volontariamente a lui soggette e profittevoli: né sempre onorevoli; 'imperocché avrebbe volute ohe la libertà democratica trionfasse per giustizia e virtù, e non per violenze e delitti, da cui egli naturalmente abborriva; ma come uòmo di parte professava altresì la teorica che ogni mezzo è buono qualora meni ad un fine reputato ottimo; per lo che, sapendo di non aver dal suo la maggioranza degli uomini, tollerava che intorno gli si adunasse la feccia de’ paesi, sperando che la bontà del principio avesse dovuto a poco a poco tirarvi: anche i virtuosi, e col sostegno non fallace di questi, purgarsi de’ malvagi; quando per contrario avveniva che la mescolanza de’ ribaldi non era ultima causa perché ibuoni si allontanassero; In somma giammai setta non s’ordinò peggio di questa, conforme chiarissi dalle prove che fece e che a’ suoiluoghi ricorderemo; e mentre l’altre antecedenti avevano par prodotto movimenti gagliardi, la GiovineItalia non valeva che a sacrificare inutili vittime alla tirannide; essendo che per essa tentare e fare significava la stessa cosa; ché dove Vespe rimetto non fosse riescito, avvisava ohe sarebbe stato seme di altri esperimenti; conducendo così il genere umano di prova in prova, come se il far tingere di sangue i patiboli, e far ribadire le catene della servitù, fosse cosa da non curare t o approdasse l’argomento, troppo e funestamente vagheggiate;, che quanto più crudeli battiture avessono provato i popoli, maggiormente sarebbonsi disposti a volere, quando che aia, libertà piena; conciossiaché tale affetto sia possibile 0 fra genti gagliarde di civiltà, o anche fra genti Selvagge e capaci di spezzare un freno soverchiamente pungente; ma dove è mezzana civiltà e corruzione di morbido servaggio, vie più si prostrano e abbandonano gli animi, conforme sentono maggiore la oppressione.

Fattasi dunque sperienza della balordaggine de’ mazziniani, che senza produrre vera rivoluzione erano cagione degli stessi martori, si andò cercando altro modo di scassinare i governi assiduti, con menò pericolo e più probabilità di suo cesso. Cominciossi a dire: la via delle cospirazioni essere sempre fallace; fallacissima in paese d’inveterata disunione d’animi e di voglie; colle sommosse aprirsi novelle piaghe; aggravarsi il male, già immenso; essere perfidia stolta confidare nelle protezioni di fuori, tante. fiate sperimentate manchevoli all’uopo, e volte a nostro maggiore dannaggio. Non altrimenti potersi acquistare il bene desiderato che con una pacifica rivoluzione di pensieri e di affetti; e coll’adoperare la forza delle opinioni, men risolutiva, ma non men possente che quella delle spade. Piacque al seco! molle e curante di riposo la nuova dottrina, che principalmente li divulgò, col pietoso libro delle di Silvio Pellico; il quale, statode’ più martoriati pe’ tentativi dei 18$ 4, descrivendo la sua cattura, i suoi dolori e la orribile tana dello Spielberg, fosse proponimento o maninconia impadronitasi del suo animo dopo tanto patire, scelse i modi della rassegnazione cristiana, della temperanza politica, e della calma di chi è meglio disposto a perdono che a vendetta; quasi volesse fare accorti gli altri de’ mali suoi, insegnò meglio odiare che irritare la tirannide. Ancora il conte Terenzio Mamiani di Pesaro, filosofo e poeta illustre, quantunque fosse stato parte non piccola e onorevole delle mutazioni del 1834, pure come ammonito dalle sperienze fatte, raccomandava dall’esiglio a’ suoi compatriotti, a bocca e per le stampe, che smettessero le inutili e dannose prove, e studiassero pacifici modi di graduali miglioramenti publici.

Formossi con questo proposito, non una setta, ché tale non si potrebbe dire, ma una scuola chiamata piemontese, avendola come creata e illustrata l’abate Vincenzo Gioberti e il conte Cesare Balbo, entrambi di Torino, a’ quali poi altri si aggiunsero. Il primo, essendo cappellano regio, sospettato di partecipare alle prime macchinazioni della Giovine Italia nel 1833, crestato con molti altri sbandito; e condottosi in Francia, aveva nello studio della filosofia cercato nobile conforto all’esilio e alla povertà. E avendo ingegno sommamente speculativo, non si tenne di seguitare la metafisica de’ trascendentali o antichi platonici, tornata a rinverzire nelle scuole tedesche, e in quelle teste sì sottili inalberatasi alle maggiori astrattezze e più ardite ipotesi: onde le storie, tratte negli spazi delle generalità, erano agevolmente storte a rappresentare quel che non era, e nascondere quel che era. Un linguaggio che meglio si direbbe gergo, composto di segni indeterminati e indeterminabili, aiutava mirabilmente la nuova scienza: quanto più straordinaria e misteriosa, tanto più da trovare nelle fantasie accoglienza; e la Francia che a tutte le novità fa buon viso, propagandola colla facile favella, arrecavate la maggiore celebrità, e ne empiva principalmente l’Italia, destinata sempre mai a spogliare i propri e gli altrui abiti vestire. Cominciammo a vituperare le opinioni de’ passati filosofi. A poco a poco caddero gli ameni e classici studi; s’alzarono i funerei e i romantici. Non più eroi greci e romani, non più rimembranze di paganesimo, non più splendide imagini. Divennero materia degli scrittori crociate, feudi, monisteri, abbadie, eremi, spelonche. Non ci parve di sentire se non quando eravamo usciti de’ sensi: non ci parve di pensare se non quando sciolti da ogni terrena qualità, eravamo assorti nella contemplazione d’inconcepibili spiritualità. Predicavano i savi novelli, doversi aver gli occhi alla idea, simbolo d’intelligenza, e dispregiare le forme, che accennano alla materia. Levavano al cielo il nome di Gregorio VII; additavano il suo regno qual principio di trionfo della civiltà sulla barbarie: dove le genti la buona ragione trovarono. Al nome del settimo Gregorio aggiungevano quello del terzo Alessandro e del terzo Innocenzo, ampliatori della potenza papale; che in tal modo tornava in fama e in amore: e gli animi fra tanto si disponevano al credere che il seme contenesse di quella libertà, cotanto da’ popoli bramata. In alcuni Studi da certi più sacciuti che dotti, sotto colore di libertà, s’insegnava, la potestà ecclesiastica dover essere sciolta da ogni impaccio regio. Le quali cose io noto perché s’intenda meglio più sotto il come le genti si accomodassero a usare il nome del papa per un’impresa che aveva sempre nel papa incontrato il principale ostacolo.

Però ci voleva chi fra noi rendesse universalmente accetto e fruttuoso cotale disponimento; e ciò fece il Gioberti; o ch’ei allora sinceramente credesse il papato capace di trasformazione civile, ovvero argomentasse di poterlo trarre a poco a poco a perire in loco non suo; inducendolo sotto specie di glorificarlo a svecchiarsi, e dar l’esempio agli altri principi di riforme publiche. Forse anche il potersi pregiare degli abiti che vestiva, cercando di acquistare al clero riputazione di civile, potrebbe averlo mosso; ché per quanto l’uomo voglia stimarsi nato di se stesso, pure mal può schivare di riferirsi le qualità dell’ordine cui appartiene, senza rinnegarlo; il che non voleva fare il Gioberti, o per sincera fede di cattolico, o per vergogna di apostasia. Le sue dottrine politiche comparvero nella principale Opera del Primato morale e civile degli italiani, pubblicato nel 1843: alla quale deve la sua maggior fama; giacché le opere publicate innanzi, cioè la teorica del soprannaturale, la introduzione allo studio della filosofia,, d discorso dei bello, e l’altro sogli errori; filosofici del Rosmini, ebbero nomèa dopo ohe la lettura del Primato chiarì che come avevano servito di guida all’autore nello scriverlo, così potevano arrecar lume a’ lettori per intenderlo; il che se fosse non importa cercare; ma si può dire che senza quelle astrattezze e generalità e astruserie, della filosofiakantesca, mal avrebbe potuto dare alle sue sentenze apparenza di vero. Né è da tacere avergli giovato quell’arte tutta sua, di mostrarsi filosofo e insieme cattolico, devoto al principato assoluto e nemico alla tirannide, governandosi m modo, che né la sua filosofia potesse essere dal clero e dai regali accusata di miscredenza o di sedizione, né la sua religione e politica avessero agli occhi de’ liberi intelletti sembiante di fanatica o di servile. Nessuno è stato mai più fortunato del Gioberti nel rendere apparente e credibile l’avvicinamento di cose fra loro contrarie. Da ultimo quel farsi lodatore caldissimo d’ogni gloria della comune patria suggellò autorità a quelle massime che dovevano, farlo reputare primo autore de’ commovimenti del 1847; allora designati col gonfio titolo di risorgimento italiano. Egli è per tanto debite di quest’opera il darne un sunto.

Non per altro Italia avere preminenza morale e aprile sopra tutte le nazioni, non per altro essere stata madre d’ogni scienza e miglioramento umano, non per altro essere la nazione la quale non ha trovato salute che in se stessa che per avere in lei la provvidenza, quasi singolar privilegio, collocato il capo visibile della cattolica religione che abbracciando il creato, ricongiunge l’uomo con Dio. L’errore dì alcuni eletti spiriti cominciate a’ tempi di Arnaldo da Bresciane ripullulato nel passato secolo, avere impedite ohe il papato fruttasse aU l’Italia quella libertà e civiltà di cui aveva in sé ogni germe. Fatto, la disunione civile d’Italia essere opera dei pontefici; i quali giustamente contrariarono l’unità d’Italia che veniva da’ barbari, affine che rimanesse sempre aperta la via ad una unità veracemente italiana. La dittatura del pontefice, dai tempi di Gregorio Magno, e soprattutto di Gregorio VII, fino alla seconda lega lombarda, avere anzi avuto in mira di fondare varie nazioni cristiane, e segnatamente la italica, mercé di una confederazione di popoli e principi sotto la mansueta autorità romana, da cui sarebbe uscita col tempo una republica laicale e guerriera, composta a monarchia,e capitanata da un principe inerme ed elettivo, ma per età grado prudenza santità potentissimo. Sondo questa dittatura pontificia mancata, l’Italia aver perduto il suo primato civile, e le nazioni un vincolo di salda e pacifica unione. Tuttavolta non doversi intendere, la dittatura dei pontefice non avere a modificarsi e conformarsi ai tempi e allo stato delle nazioni. Due grandi spazi nelle società umane doversi distinguere; l’uno formato dall’infanzia, l’altro dalla maturità dei popoli: e come il pupillo abbisognare di chi tuteli sua vita e sostanze dall’altrui violenza, cosi a popolo non ancora adulto essere mestieri di. rettore che lo guardi e difenda dalle prepotenze della tirannide. Né tal santissimo e fortissimo ufficio potersi e doversi meglio esercitare che dal sacerdozio; onde mostrarci le storie d’ogni luogo e d’ogni tempo, la ierocrazia crear le nazioni, e guidandole quasi per mano, addestrarle a correre i primi arringhi civili. E questo per l’appunto avere praticato i pontefici; nella prima età della Chiesa non usarono lor diritto civile di deporto i Cesari, tirannie persecutori, fu perché essendo il Cristianesimo nato dell’imperio romano, doveva rispettare una cittadinanza regolare, e una sovranità nazionale e legittima da lungo tempo stabilita. Ma quando i barbari settentrionali ebbero quella cittadinanza e nazione annullata, e i vincitori furono confusi co’ vinti, la Chiesa essere stata chiamata dalla provvidenza a ereditare fa potestà cesarea, creare novella civiltà, ordinar nuovi popoli e nuove istituzioni, e in fine adempiendo verso la società nascente inficio di tutrice, assumere la civile dettatura, sotto la quale i popoli trovarono schermo e difesa dalle oppressioni e persecuzioni dei potenti. Uscite le nazioni di pupilla, cioè da quello stato di debolezza morale che è il vero tempo dello barbarie, la tutela sacerdotale non dover più rimanere ne’ termini d’una dittatura, conciossiaché mancherebbono le cagioni di esercitarla, e anzi che tornar utile e benefica, sarebbe seme di gravissimi danni, quasi frapponendo un ostacolo alla civile emancipazione de’ popoli. Quindi la prefata dittatura doversi trasformare in arbitrato, cioè in tribunale di conciliazione; il quale acquistando autorità dalla religione, e forza dal voto delle genti, mantenesse il necessario accordo fra principi e popoli, e facesse che i primi procurassero il bene de’ secondi, e i secondi con gratitudine pari all’affetto si stringessero a’ primi; dal che scaturirebbe quella pace universale e universale felicità di cui può essere la natura degli uomini capevole. Così vi fosse stato questo arbitrato de’ pontefici, sostanziale derivazione della loro antica dittatura; ché molte guerre e ribellioni e persecuzioni sarebbonsi agevolmente impedite in Europa. Quindi errare manifestamente chi dice non convenire alla qualità sacerdotale uffici politici: i quali a nessuno conviene meglio di esercitare che al sacerdote da cui scaturiscono. Solo doversi cercare che l’autorità civile del sacerdozio sia modificata secondo i tempi, e sia in guisa esercitata che si mantenga lontana da’ fini e interessi mondani. Quanto alla prima, essere importante verificare la distinzione dal primo al secondo spazio delle umane società, che è quanto dire il tempo in che finisce la minore età de’ popoli, e comincia la maggiore, cioè l’età civile. Il segno di questa distinzione consistere nel sentimento che delle buone arti e delle civili virtù acquistano le generazioni; e per l’ordinario in tale acquisto sorgere dall’ordine de’ laici qualche straordinario ingegno che getta i fondamenti d’una nuova letteratura, da cui s’inizia nuova civiltà. Tale ingegno per Italia essere stato Dante, e quindi dopo quel tempo i papi, deposto l’ufficio di dittatori, col quale davano e toglievano i regni, aver assunto l’altro di arbitri, col quale conservarono, la loro civile autorità (tanto necessaria per l'accordo de’ popoli co’ principi) e nel tempo stesso rispettarono la politica libertà degli Stati. Riguardo all’altra condizione, cioè che l’autorità sacerdotale sia esercitata senza fine e interessi mondani, richiedersi che comenel primo spazio il sacerdozio ha il carico di esercitare e addestrale i laici al governo, e nel secondo spazio i laici sono in grado di vantaggiare i preti nell’esercizio dell'umana sapienza, così non doversi il chericato offendere d’imparare da’ suoi medesimi discepoli ad essere civile, conformandosi a questi ordini, che l’adulta civiltà adduce necessariamente, e persuadendosi che tanto egli eserciterà su quella la sua autorità, quanto potrà e vorrà parteciparne. Né doversi opporre, tale esercizio condurre i preti a intrammettersi degl’interessi temporali, e contraddire alla sentenza di Cristo, non essere di questa terra il suo imperio; conciossiaché potersi saviamente rispondere, siccome la spiritualità del regno ecclesiastico non toglie a’ cherici di godere le ragioni private della società umana, fra le quali è quella del possedere, così né pure ripugnare alla natura del chericato l’uso dei diritti pubblici, quando da questi non nasca dependenza e confusione fra Stato e Chiesa. La quale dependenza e confusione non esser possibile quando il sacerdozio, soprastando allo Stato per via d’arbitrato pacifico, illuminato e dalla religione autenticato, non ad altro obbligasse i rettori de’ popoli che a mantenersi nel doppio freno del vero e dell’onesto. Similmente in detto arbitrato nessuna mistura di terreni interessi poter entrare: essendo tutto fondato in un titolo d’onore, e quindi da star contento a quegli uffici secolari che non accennano a potenza e a guadagno (dal che i cherici doversi guardare come dal fuoco) ma sì bene a quelli che si riferiscono a’ beni morali e intellettuali, la cura de’ quali essere non pur consentanea, anzi dovuta a’ ministri del santuario; esercitando per tal modo una politica speculativa, ben diversa dalla politica praticabile, e tanto più efficace quanto maggiormente lontana da’ negozi publici, che costringono i governi ad arrotarsi troppo fra gli uomini, esercitare brighe terrene, scostarsi da quegli spiriti di clemenza e di mansuetudine da cui non può mai spogliarsi un perfetto sacerdote. L’arbitrato del papa essere opera di moderazione, ristringendosi a far osservane e mantenere il giure parziale de’ vari Stati, e il giure comune delle genti, senza alterare o mutare gli ordini propri di essi. Intorno a che non poter cadere alcun sospetto di perturbazione; perciocché mancando nel papa quelle virtù che bisognano per la detta balia pacificatrice, è forza ch'ella crolli e finisca, avendo tutto il suo fondamento nella perizia riconosciuta di chi deve esercitarla. Ma questo arbitrato del pontefice non poter essere universale finché l’unità cattolica non sarà ristabilita in tutta Europa; potere però effettuarsi in Italia; ed essere ragione che qui si effettui e acquisti più civile autorità, in quanto che l’Italia è la fonte di detto principio unificatore, e più d’ogni altra nazione patisce la sventura di essere smembrata. Tre cose richiedersi perché Italia sia felice: unità di nazione, non dependenza di fuori, libertà civile. A tutte e tre potere arrecare rimedio e riparo il pontificato. Alle due prime poter provvedere col farsi capo e nodo d’una confederazione de' vari Stati della penisola; alla terza, coll’indurre i principi, d’accordo co’ loro popoli, a quelle riforme che mutino lo Stato senza violare essenzialmente la sovranità assoluta. Né doversi dubitare che il pontefice ricusi di esercitare sì nobile e santo ufficio, e che i monarchi italiani ripugnino di migliorare la condizione dei loro governi; conciossiaché il primo non s’arrogherebbe un potere nuovo, e sol rimetterebbe in vigore un diritto antico interrotto non annullato; mentre i secondi darebbero stabilità ai loro seggi, e avrebbero una malleveria per conservarsi l’un dall’altro indipendenti. Non potere in oltre il papa riescire sospetto né a’ regnatori né a’ popoli; perciocché sì come la Santa Sede è stata egualmente amica delle monarchie e delle republiche, ed ba mostrato di starle a cuore così la libertà de’ popoli come la sovranità, de’ principi, e forse più la prima che la seconda, così il suo uficio sarebbe di sua natura imparziale e sempre amorevole, tenendo la bilancia fra principi e popoli senza lasciarla da nessun dei lati inchinare. Ma perché il papa voglia e possa recare a pace e a concordia i principi e i popoli d’Italia, e renderne indissolubili i nodi mediante una lega da lui capitanata e protetta, essere mestieri che i popoli non trasmodino nei loro desiderii, e si guardino da ogni idea di sovversione. La disunione fra i re e i popoli esser nata dalle dottrine eterodosse che seminando discordie e scandoli, hanno rotto ogni vincolo di cattolica conciliazione. Ripigliando negli animi vigore la religione, facendosi l’ordine de' patrizi e de’ cherici (autóre de’ ragionevoli progressi dell’umano ingegno, uscendo da’ chiostri (tanto e indegnamente vituperati) amici non timidi al vero; ornati, come in altro secolo, di molti e buoni studi; ricchi di fama e di autorità civile, i quali abbraccino la causa dell’Italia, e sterpino quella pestilenziale credenza, la fede e la civiltà ripugnarsi; infine tornando il maggior prete ad essere considerato non soltanto come successore di s. Pietro, ma come erede del settimo Gregorio e del terzo Alessandro, non è possibile che Balia non si rialzi al suo glorioso seggio di principale nazione; mentre sarebbe folle e funestissimo pensiero promettersi libertà unione e grandezza di nazione dalle rivoluzioni; le quali o non riescono per non trovarsi tutti gli Stati in egual condizione di sollevarsi, o riuscendo, aprirebbero la via a maggiori guai. Non convenire agli stati italici forma republicana: essere anche soverchio e non necessario un governo di rappresentanza: approdare a noi una monarchia temperata moralmente dall’aristocrazia; monarchia non dispotica; aristocrazia non feudale; che è quanto dire un principe che governi lo Stato conforme al voto sapiente della nazione, espresso primieramente da un’assemblea consultante di ottimati per titoli d’ingegno e di virtù, e in secondo luogo dallo scrivere a stampa, saviamente franco sotto una censura benigna. Così accordarsi principato e libertà; così rendersi stabili e sicure le sorti d’Italia; così la nostra patria, rifortificata da una confederazione di virtuose monarchie sotto la soprintendenza del pontefice, riacquistare quel primato civile e morale che la natura e la prowedenza le avevano conferito.

Per quanto gli animi fossero disposti ad accogliere simili dottrine, pure da prima stentavano. Tanto erano insolite e strane; senza dire che a molti pareva quasi insulto, regnante Gregorio XVI,proporre il papa rinnovatore d’Italia. E dicevasi da’ meno sottili e più alla grossa: In diciotto secoli, che tanti sono dacché il papato s’istituì, in tante trasformazioni che ricevette col mutar dei tempi, non solo nessun papa non diede faccia di nazione all’Italia, né di libertà riesci mai verace fondatore, ma invece a lui principalmente fu la cagione d’ogni interna e esterna servitù attribuita. È mai possibile che tutti abbiano avuto voglie tirannesche e superbe; che a tutti sia fallito lo ingegno e il coraggio per un’impresa generosa? E pure pontefici buoni e scienziati e risoluti ve n’ebbero: e alcuni anche parvero inclinati a sottrarci dalle tirannidi forestiere. Ond’è che o non si provarono o l'opera nel meglio abbandonarono, come un Alessandro terzo e un Giulio secondo, se pure ebbono le intenzioni state loro attribuite, e non furono anzi da interesse proprio stimolati? Forza è dunque inferire, essere nella istituzione un ostacolo insuperabile: intorno al quale, che i saggi da Dante Alighieri infino a Vittorio Alfieri siensi tutti ingannati, e che a un prete d’oggi la scienza delle cose umane e divine siasi rivelata, non è cosa da potersi così di leggieri trangugiare. . Altri più particolarmente e sottilmente esaminando la dottrina del Gioberti, ragionavano: Se il sommo sacerdozio fosse da angeli e non da uomini esercitato, nulla per certo sarebbe più bello, più santo, più utile di quell’autorevole patrocinio che stesse come mallevadoria di civile libertà e concordia; ma la esperienza di tutti i tempi e di tutte le nazioni dimostrare, nessuna signoria inclinar tanto alla usurpazione e all’abuso della potenza, quanto la chericale, come quella che mediante l'autorità sua, esercita maggiore impero sulla mente e sul cuore delle moltitudini; donde nacquero le teocrazie; dalle quali gli uomini, conforme dal barbaro passavano nel civile, cercarono liberarsi. La dittatura papale doversi alla miseranda barbarie di quella età in cui spogliata Italia d’ogni sovranità, e corsa e manomessa da’ popoli settentrionali, non aveva altro capo visibile a cui voltarsi; e certamente se dell’autorità che i papi vennero sempre acquistando dal quarto all’ottavo secolo, avessero usato in benefizio dei popoli, nessuno meglio di loro avrebbe potuto restituire a Roma e all’Italia l’antico splendore; in cambio fatti avidi dalle donazioni e dai possessi, l’adoperarono tutta per combattere, non la tirannide, ma i tiranni che ricusavano loro di sottomettersi: onde mentre colle scomuniche facevano tremare l’occidente, e tanto potere esercitavano sui principi, avevano continuamente nemici e ribelli i popoli, che il loro reggimento provavano fieramente e costantemente avverso alle libertà. Né il papa fu guelfo per seguir la parte popolare e italiana (ché straniera e tirannica al pari della ghibellina fu la fazione de’ guelfi) ma per avere nella parte di Francia, che era la parte guelfa, un valido sostegno contro l’imperio. Male adunque si chiamerebbe guerra di libertà e di nazione quella che fu guerra d’ambizione e di signoria; da cui non altro guadagnarono le nostre province, che di mutar padrone, con questo che dell’ultimo dovevano maggiormente dolersi. E distrutto il regno de’ Longobardi, sotto i quali, come i Greci sotto gli Elleni, saremmo forse divenuti nazione, vedemmo Franchi, Sassoni, Salici, Svevi, Angioini, Aragonesi, Borbonici, Austriaci, succedersi gli uni agli altri, con perpetua divisione e servitù di questa infelicissima terra, verso la quale quanto più era stato benigno il cielo, tanto più crudeli furono gli uomini. Dal che non vuoisi inferire che de’ nostri mali sieno sempre da incolpare le persone de’ pontefici. ché sappiamo ancor noi, alcune volte le provocazioni venivano dall’imperio, e più altre volte il diritto era nella Chiesa, e di quando in quando virtuosi uomini ricopriva il papale ammanto. Ma dallo accoppiamento delle due podestà necessariamente derivavano le deplorate calamità; conciossiaché come alcune fiate gli uomini guastano le cose eccellenti, così altre volte le cose inducono gli uomini a non essere che nocevoli.

Ma a discorrere in questa o simil forma, erano allora, per dir vero, i meno: che si reputavano ostinatamente tenaci delle opinioni del passato secolo, e tinti di pece carbonaresca o giacobinesca. I più accoglievano con maravigliose lodi l’opera giobertiana: alla quale non mancando il favorevole giudizio di una grandissima parte dell’uno e dell’altro clero, era cagione che né pure i principi la togliessero in mala parte. Onde subito altri libri e libercoli della stessa dottrina comparvero: e quanto più prima s’era gridato contro il dominio temporale de’ pontefici, allora si cercava trovarvi una gran miniera di felicità publica, purché si fosse racconciato secondo la mente de’ riformatori; che per altro poco graditi riescivano alla corte stessa che esaltavano: la quale gran parte della sua conservazione (come tutte le teocrazie) riconoscendo dall’antichità, non voleva né poteva essere che quel che era stata sempre mai.

Né furono meno alle nuove opinioni di quel tempo accomodate le scritture del conte Balbo; che dopo il 1821 cacciato in bando, erasi vissuto privatamente a’ confini, dedicando l’animo, naturalmente quieto, allo studio delle storie. Sul volgere del 1844 pubblicò il libro col titolo «Speranze d’Italia» consuonando col Gioberti ne’ punti principali: se non che adombrava più specialmente in Carlo Alberto il principe che doveva essere sostegno militare alla nuova impresa, mentre dal papa dovevasi attendere la forza religiosa. Le quali Speranze vennero presto anch’esse in gran fama e favore, non ostante fossero per ischerno chiamate disperazioni da coloro che persistendo nell’antica massima de’ congiuramenti, non sapevansì condurre a sentir parlare di rivoluzioni pacifiche e legali, di libertà col papato, di lega di principi, di accordi di governi e popoli, ed altre simili fantasie. Ma a’ più gradivano i novelli argomenti, sì per non avere in sé alcun pericolo, e sì perché fino allora erano stati in Italia provati fallaci gli antichi. E accoglimento favorevole dovevano pure trovare anco fra que’ nobili ed ecclesiastici che non fossero stati del numero degli ostinati avversari a qualunque specie di novità; imperocché tanto il Gioberti quanto il Balbo di gratificarsi al patriziato e al chericato non mancarono; e il Balbo specialmente; il quale, dopo aver chiamata la democrazia odiatrice, usurpatrice e incendiatrice, predicava necessario ed utile alla società il mantenere certe divisioni e distinzioni di ordini e di gradi. Quasi né pur la corte d’Austria doveva crucciarsi di queste speranze; per le quali o sarebbe rimasta dominatrice in Italia, o le s’imprometteva ingrandimento in Oriente, affinché senza contrasto, e come di buon grado, dovesse lasciare il lombardo-veneto.

Col Gioberti e col Balbo s’univa altro illustre piemontese, il marchese Massimo d’Azeglio, ornato gentiluomo, che dipingendo paesi per diletto, gareggiò co’ migliori artisti; e fu scrittore di romanzi che per gli argomenti tratti dalle nostre storie gli diedero riputazione di caldo italiano. Viaggiando per Toscana e Romagna con intendimento di aiutare colla voce l’opera che gli altri due avevano cominciata cogli scritti, mostrava e divolgava una medaglia improntata di allusioni gloriose al re sardo e alla liberazione d’Italia. V’era intagliato il leone di Savoia che stringeva fra gli artigli l’aquila imperiale, e nel rovescio era scritto nell’idioma franzese il motto: aspetto la mia stella. Everso quella stella cercava drizzar gli animi, predicando Specialmente in Romagna, che non s’avventurassero a cimenti sconsigliati; non volessero con vani movimenti indebolire maggiormente la patria, già sanguinosa per antiche e recenti ferite; aspettassero tempi opportuni; corroborassero l’animo di civile coraggio; serbassero il valore al momento del comune riscatto; seguissero i modi testà insegnati da celebratissimi compatriotti suoi; sperassero nell’avvenire; riguardassero nel Piemonte, dov’era nerbo di armati, e un principe d’italiani spiriti.

Un primo indizio che i nuovi ammaestramenti non dovessero rimanere senza frutto, si ebbe nel piccolo moto di Rimini dell’anno 1845: il quale se bene prodotto anch’esso da segrete macchinazioni, non potendosi in altro modo, pure i sollevati protestavano con publico bando ch'essi non innalzavano stendardo di guerra, ma sì di pace; né miravano ad abbattere la signoria temporale del pontefice, ma sì di renderla a tutti venerabile coll’invocare migliori leggi e più retta amministrazione. Concedesse il santo padre (così lor domande formavano) pieno e generale perdono a’ condannati per maestà dall’anno 1821 in fino a quel giorno; desse un codice civile e criminale che somigliando quelli de' paesi meglio governati d’Europa, rendesse publiche le discussioni; istituisse giudici di fatto; cassasse la pena della confisca e della morte per casi di stato; il tribunale del S. Uffizio non esercitasse alcuna autorità sui laici, né su questi avessero giurisdizione i tribunali ecclesiastici; le cause di maestà dovessero da indi innanzi presentarsi a’ tribunali ordinari, e da essi giudicarsi; la elezione de’ consigli municipali fosse libera ne’ cittadini, e solamente approvata dal principe; da’ consigli municipali si formasse un consiglio provinciale, e da questo un supremo consiglio di stato, sedente in Roma, che soprintendesse al debito publico, avesse voto deliberativo sulla entrata e uscita dello stato, e consultivo per l’altre bisogne; tutti gli uffici e cariche civili e militari e giudiziali fossero de’ laici; le scuole publiche fossero tolte dalla soggezione de’ vescovi e del clero, cui doveva essere riservata la educazione religiosa; la censura anticipata dello scrivere a stampa stesse contenta a ingiurie contro la divinità, fede cattolica, principe, vita privata de’ cittadini; fosse licenziata la milizia forestiera; si ordinasse una guardia cittadina, a cui fosse confidato il mantenimento della quiete publica e la custodia delle leggi; infine si «desse opera a tutti que’ miglioramenti che il secolo e l’esempio d’altri paesi richiedevano.

Forse domandavano troppe cose a un tempo; ma che le domande fossero giuste e moderate, non si potrebbe da chicchessia negare, da poi che tre anni dopo fu concesso assai più. E pure come fossino accolte, mostrarono i tribunali soldateschi istituiti nelle Romagne sotto la feroce balia del cardinal Massimo, legato di Ravenna; dove alcuni furono giustiziati, altri messi tra ferri; bastando indizi di complicità al condannare in que’ subiti e arbitrari consigli. Commossero queste crudeltà ancor quelli che dalle rivoluzioni abborrivano, e ne’ diari francesi più moderati si leggevano parole acerbe contro al governo papale, che a’ giusti richiami de’ sudditi rispondesse colla mannaia e col carcere. E parve buona occasione al marchese d’Azeglio di scrivere intorno a quei casi, con proposito di raffermare la dottrina di coloro che il pacifico rinnovamento degli Stati predicavano: acquistandosi tanto maggior merito quanto che ogni men servile parola reputavasi in quel tempo gran prova di coraggio publico. Accrebbegli poi fama l’essere della Toscana cacciato, dove quasi fermo domicilio per amore alle arti belle aveva.

E rinforzava pure la comune opera il Gioberti con quell’altro volume de’ Prolegomeni al Primato: i quali, perché il titolo corrispondesse, avrebbero dovuto precedere e non succedere. Ad ogni modo valsero a rendere il libro del Primato più efficace a commovere; non solo per le libere parole contro le crudeltà de’ governi, de’ quali innanzi era apparso quasi piaggiatore, ma ancora più per la guerra mossa a’ gesuiti; tanto più inaspettata quanto che nello stesso Primato erano della ignaziana compagnia esaltati i meriti. Né cercheremo se personali inimicizie lo spingessero, potendosi credere ch'ei s’inducesse a stimar vano il gittare semi di libertà senza prima combattere chi con arte e autorità segreta era sempre presto a soffocarli; e in oltre non potere mai giungere del tutto a procacciare opinione di civile al papato senza rappresentarlo separato da chi lo faceva maggiormente apparire tirannesco. Sapeva ben egli che i gesuiti furono sempre amici e sostenitori del papa: il quale ancorché talora s’accorgesse di essersi imposto un terribile giogo, pure o fosse paura di loro o fiducia della loro operosità, gli protesse e conservò, parendogli, come parve a papa Bezzonico che non li volle cassare, e a Pio VII che li restituì, che senza di essi la sedia apostolica sarebbe presto rimasa inerme, e quasi rocca smantellata; talché nel concetto de’ popoli papato e gesuiti sonavano la stessa cosa. Il Gioberti, destramente non curando la quasi continua colleganza, e facendo conto della momentanea nimicizia, ne trasse ingegnoso argomento, che come i gesuiti riescirono pestiferi al governo degli Stati, così non furono punto giovevoli alla Chiesa, né del pontificato amici. Averli il papa (diceva) protetti quando attendevano ad opere di cristiana carità, e a dilatare la fede di Cristo nelle regioni degl'infedeli; averli per prudenza tollerati quando dalla loro prima istituzione allontanandosi, gittaronsi a cercar potenza e fortuna nel mondo: averli cassi poiché né ammonizioni né minacce valsero a richiamarli ai santi uffici del loro istitutore; averli restituiti colla speranza che emendati dalla esemplare punizione, avrebbero adoperato il loro zelo operosissimo per distruggere gli effetti d’incredulità prodotti dalla francese rivoluzione dell’ottantanove. Invece tornarono ai subiti guadagni e all’audace potenza, donde nuovamente furono turbati i regni e travagliati i popoli. Cercò pure di liberare da ogni sospetto le accuse, col nuovamente celebrare ed esaltare gli altri claustrali, sperando che là più parte di essi, astiando i fortunati ignaziani per gelosia alle loro ricchezze e potenza, dovessero far lieto viso alle sue parole. Con tutto ciò l’opera del Primato, dopo quella giunta de’ prolegomeni, cominciò venire in sospetto a’ preti; e dove prima vogliono che fosse piaciuta per fino a papa Gregorio, dopo si trattò di notarla all’Indice de’ libri ereticali.

Ma quanto più la inimiciza co’ gesuiti scemò al Gioberti il favor chericale, tanto più gli fece acquistare là osservanza popolare: non rimanendo più dubbio che nelle sue dottrine non fosse il germe della libertà d’Italia. Pure la principal ventura per la sua gran fama, e pel credito della sua scuola, fu che morto in que’ giorni Gregorio XVI, omai provato ripugnante ad ogni novità, salì sul trono de' pontefici un uomo di natura pieghevole, il quale non sapendo o non considerando a qual materia appiccava il fuoco, mostrò di secondare i primi voti de' popoli; senza di che gli scritti giobertiani sarebbono rimasti seme infecondo; se pure non sarebbero parati delirii di mente inferma, come ben chiarirono la fallacia ne’ finali successi, da quasi potersi inferire che i pacifici novatori non fecero molto miglior prova di quelli che a congiuramenti e ribellioni attendevano; conciossiaché lo scoglio non fosse di cominciar bene col nome del papà, ma sì di ben finire; e nelle mutazioni civili, comunque elle s’indirizzino, è tanto possibile restare a mezzo quanto un fiume trattenere in sul pendio; mal presumendosi che a’ primi segni di novità s’acqueti un popolo, e non più tosto si pinga per natural legge a volere franchigie maggiori: dove sarebbesi trovato lo intoppo, e di nuovo sperimentato il papato necessariamente ripugnante; quindi il conflitto tanto più rovinoso quanto più aspro il disinganno. E vogliamo fin da ora mettere in sodo questa verità, che non fu tanto per cagione della licenza che il pontefice s’arrestò, quanto che la licenza nacque, crebbe e guastò ogni cosa per essersi il pontefice arrestato nel meglio; impedito dalla sua qualità a favoreggiare un’impresa che prima o poi lo avrebbe fatto rovinare. Se pure non sia anco da confessare, per essere compiutamente veritieri, che forse poteva tornare profittevole il nome del papa, dove in sul cominciare fosse stato usato con maggior circospezione e prudenza, contentandoci che avesse destato le prime brame di riforme, e indotto col suo esempio gli altri principi a dotare i popoli di civili larghezze. Ma il credere che col favor di lui si potesse al sommo dell’impresa, cioè alla liberazione d’Italia pervenire, ce io fece spingere troppo più oltre che non poteva e non voleva condirsi; donde nacquero i primi contrasti, le prime sfrenatezze e il seme delle calamità che daranno alle presenti istorie lacrimatoi materia. Premesse queste noti rincomincio la narrazione.

Ilprimo di giugno dell’anno 1846 moriva Gregorio XVI, venuto a noia agli stessi suoi creati; che dicono l’avessino nelle ultime ore quasi abbandonato: tanto più vituperevoli (se è vero) quanto che con pari danno publico e vantaggio proprio, l’avevano fatto cotanto odiare. Nato di bassi parenti a Belluno nel territorio veneto, vestì l'abito de’ monaci camaldolesi, e nel convento dell’isola di Murano fu maestro e superiore. Andato a Roma e ricévuto nel monistero di san Gregorio, sostenne ancor ivi i primi uffici dell'ordine, acquistandosi fama di teologo; per la quale Leone XII lo fece cardinale, e poi nominollo prefetto della sacra congregazione di propaganda. Nel conclave del 1831 fu assunto al sommo pontificato, dopo che il cardinal Giustiniani, eletto innanzi, fu dalla corte di Spagna, dove era stato nunzio, escluso. Godette il regno anni quindici, mesi due, giorni ventinove. La consuetudine fece i soliti elogi. Lui disse dotto nelle scienze sante; sostenitor gagliardo dei diritti della sedia romana; in pari tempo conciliabile e indulgente; onde alle querele del re de’ Francesi contro a’ gesuiti, aperse benigne le orecchie, se ben della compagnia tenerissimo. Ma nel difendere e propagare la fede, non conobbe ostacoli: né mai pontefice parlò sì severo a potentissimo principe com’ei a Niccolò di Russia, per le tribolazioni fatte patire a’ cattolici. Non aver notrito pensiero che non fosse a vantaggio della religione: alla quale diede settantacinque colonne in tanti cardinaliche fece. Di giustizia e rettitudine aver dato prova col non aggrandire suoi parenti, dove pur la più parte de’ pontefici avevano peccato. La clemenza, la moderanza, la pietà furono sue doti; e nel tempo che ebbe grandissima cura della dignità ond’era rivestito, fu modestissimo, e ne’ familiari colloqui e nelle domestiche conversazioni umano cortese giocondo. Quanto a lui debbano le scienze, le arti e le lettere, non è angolo di Roma che non l’attesti. Aver creato musei, protetto accademie, onorato dotti, largheggiato in magnificenze publiche. La pace de’ regni essergli stata a cuore, e aver sempre mantenuta fedele amicizia co’ principi secolari. Avere poi prudentemente remossi i pericoli delle ribellioni, antivenendole o spegnendone le faville in sul nascere. Nessuno meglio di lui aver saputo col rigore di principe accoppiare la mitezza di sacerdote, facendo dell’uno e dell’altro ottimo temperamento; onde potè al suo successore far passare integra la sacra eredità confidatagli. Purissimo di costumi, d’animo forte, gentile di modi, d’aspetto maestoso, ben aitante della persona, amadore del publico bene, fece uno de’ più lunghi e gloriosi pontificati.

Ma l’ira popolare, non potuto sfogarsi prima, scoppiò in satire e motti, tanto più Acerba quanto era stata daidesiderosi di novità sobillata. La sua dottrina (gridavano) essere stata in quelle sottigliezze teologiche che il rendevano caparbio crudo vendicativo. Non così giovò alla fede cattolica difendendola da lontani potentati, che maggiormente non la pregiudicasse facendola odiosa a’ vicini popoli con vieti rigori. Tollerando che in Francia fossero cassi i gesuiti, quasi facendo di necessità virtù, maggiormente li rese potenti e funesti in casa. Né favellando severo al russo scismatico in Roma, cancellò la vergogna di aver pure con esso parteggiato contro la Polonia cattolica, e aver tenuto più tosto col turco oppressore che colla Grecia oppressa. Per antica arroganza ecclesiastica, non per alcuna buona ragione, avere contrastato e minacciato alla podestà regia. Se vivendo non aggrandì i nipoti, fu perché altrove, e peggio, aveva i suoi amori rivolti. Basti il Moroni; giovine di barbiere, mentr’egli era monaco: entrò a’ suoi servigi da cardinale; assunto al maggior seggio, divenne de’ suoi pensieri ed affetti arbitro tanto più assoluto quanto più scaltrito: di che fanno testimonianza le mal accumulate ricchezze. La clemenza, la moderanza, la pietà furono virtù ignote al suo cuore. Crudele anzi per paura, non fece in quindici anni di regno che sottoscrivere condanne di morte: né mai ascoltò prieghi e pianti di madri, di mogli, di amici supplicanti pe’ loro figliuoli, mariti e compagni. Tanto fu tenero della papale dignità, quanto a lui fruttasse non cure e carichi penosi, ma volgari diletti e ricreamenti. Non volle concedere udienza publica; e chi avesse chiesto di presentarsi a lui, doveva promettere che non andava per parlargli di affari, ma per sola divozione di baciargli il piè. Il che profittò a’ cortigiani e a’ ministri, che fecero ciò che vollero, dacché il pontefice non godeva che a fare ciò che essi volevano. Fu umano, cortese, amorevole e anche benefico con quelli che andavano a versi al suo mal governo. Per ciò gli fu sì caro il cardinal Tosti, che per gratitudine di avergli fatto straziare le ricchezze dello stato, contaminò i monumenti publici di bugiarde iscrizioni. Divenuto per innumerevoli ingordigie di clienti, e pasciona di spie e di scherani, esausto l’erario, trovossi compenso in un debito di venti milioni di scudi; a togliere il quale soleva dire: ci penscrà il successore. lo fino che le scienze, le lettere e le arti lusingarono e onorarono lui, e stettero contente all’antiquaria, alla teologia e alla metafisica delle scuole, le amò e protesse: fu di quelle implacabile avversario, qualora, civili affetti e generosi pensieri avessino ispirato. Non volle mai strade ferrate, non congressi scientifici, non asili d’infanzia. In ogni novità vedeva nemici dello stato e della religione; temeva d’ognuno e di tutto; e di niente più si compiaceva che di rigori stranissimi contro lo scrivere a stampa. Caldeggiò la pace, come necessaria alla sua tirannide e all’altrui, e fu amico e collegato co’ principi per aver da essi aiuto a opprimere, e mezzanità a punire. Messosi nelle braccia dell’imperatore di Austria, a lui tanto più si teneva avvinghiato, quanto che nel suo animo pauroso ogni giorno le spie sedizioni e pericoli figuravano.

A me che scrivo de’ tempi susseguenti non corre obbligo di cercare quanto sia di vero nelle laudi e quanto di falso ne’ biasimi, bastandomi di aver riferito il vario concetto che se ne aveva: quantunque gli uomini senza parte non tutto’l male dicevano, né tutto’l bene consentivano. Ma i più (separando il principe dal pontefice) convenivano in questo: che per quindici anni (fosse colpa di lui o de’ ministri o forse anco della natura di quel reggimento) i pontifica ebbero pace senza quiete, sonno senza riposo, regno senza governo. Pessima l’amministrazione; l’erario esausto; protetti, i malfattori e gli onesti uomini perseguitati; nessuna sicurezza nelle città e nelle campagne; i piati continui e perpetuati dalla confusione delle leggi e ingordigia de’ curiali; giunte militari in luogo de’ tribunali ordinari; misteriose le condanne, ingiuste le pene, scomposti i giudizi, la milizia corrotta a forestiera e fomentatrice di civili discordie. Le tasse enormissime; violato il segreto delle lettere; gli uffici e gli onori premio della malvagità e dell’ignoranza; da per tutto abusi, arbitrii, corruzione. Viziosi i costumi, contaminata la morale, scaduta la religione, l'edilizio civile minacciante da ogni lato rovina.

Fatte le consuete novendiali esequie, e celebrata la invocazione dello Spirito Santo, i cardinali entrarono in conclave il giorno 44 del mese di giugno. Non ci sono ben noti i discorsi che tennero fra loro nelle diverse congregazioni preparatorie. Fu detto che il cardinal Micara, decano del sacro collegio, uomo che per la sua natura impetuosa e infrenabile non sarebbe per avventura riuscito il papa che i tempi volevano, ma meglio di ogni altro intendeva qual papa in questi tempi abbisognava, dicesse gravi e libere parole; annoverasse le pia. ghe molte e profonde dello Stato; mostrasse la necessità di ravvicinare alla Santa Sede i popoli che ogni dà maggiormente se ne scostavano; provasse che tutto sarebbe andato in fascio, religione e stato, se il nuovo papa non avesse provveduto con più savio e civile governamento. Questo è certo che a tutti parve necessità il far presto; non solo per la noia del caldo, che ad uomini abituati alle morbidezze di splendidi palagi, si rendeva insopportabile in quelle anguste celle del conclave, ma ancora per il pericolo in che si sarebbe trovata la Santa Sede lungamente vacante in tanta avversione di animi. Il discorso del cardinal Macchi, sottodecano, li raffermò in questo proponimento. Lette le bolle apostoliche sulla elezione del sommo pontefice, giurata la osservanza di esse, e compiute le altre molte ceremonie, vennero agli squittinì.

Due parti primeggiavano nel conclave; l’una genovese, romana l'altra. La parte genovese era per il cardinal Lambruschini, di cui darò breve notizia. Nacque nel 1776, e rendutosi barnabita, conciossiaché mostrasse ingegno e dottrina di cose sacre, non iscompagnata da severi costumi, non cercò invano la via che mena alle maggiori dignità della Chiesa. Nel 1849 fu eletto arcivescovo di Genova. Leone XII lo mandò nunzio a Parigi, dove divenuto intimissimo di Carlo X, fomentò con ogni arte e potere ciò che doveva restituire alla Francia e conservare all’Italia l’assoluto impero; non men per sincera fede di crederlo legittimo che per naturale superbia e cupidigia di dominare. Fu detto, e si può credere, ch'e consigliasse Carlo a promulgare quelle leggi che furono la sua rovina; e caduto, mantenne sempre con esso lui affettuosa corrispondenza, apertamente pregiandosene, non tanto per rispetto alla sventura, quanto per amore alla così detta legittimità. Né lasciò di osservare i discendenti, chiamando il duca di Bordeaux figliuolo non della Francia ma dell'Europa. Fu il primo cardinale che facesse papa Gregorio; senza che per la porpora si saziasse la sua ambizione; meglio appagata quando ebbe il seggio di primo ministro, poiché il cardinal Bernetti fu remosso (secondo che trovo scritto) per maneggi della corte d’Austria, non provatolo ligio quanto ella voleva; se pure fatto infermiccio, e con tanta piena d’odio publico addosso, non fosse agevolmente scavalcato dallo stesso Lambrusehini, del cuor del papa impadronitosi. Montato in maggior superbia, vedovasi in lui questo strano accoppiamento di puri e austeri spiriti ecclesiastici con più che mondana alterigia; forse avvisando di rendere più autorevole e venerata la podestà, mostrandola più contegnosa. Ma nel medesimo tempo era uomo intero e da non fingere; e quel che mostrava di essere, era veramente; né di mal tolto o ipocrisia o viltà si potria tassare; e tal ora aveva concetti d’uomo da reggere lo stato, se non gli avesse guastati con quella sua tenacità di massime d’altra generazione. Governò o più tosto regnò dieci anni, mentre visse Gregorio XVI: favoreggiando con particolar cura prelati e cardinali genovesi; e conciossiaché mirasse a quella cima di sacerdozio verso cui lo sospingeva antico amore di regno, adoperò che il sacro collegio a poco a poco di suoi amici e obligati si empisse: onde non è da maravigliare se nel conclave del 1846 molti per lui parteggiassero.

La parte romana si volgeva al cardinal Giovanni Maria Mastai Ferretti. Era egli nato in Senigallia di nobile famiglia nel 1792, e fino dall’adolescenza mostrando certa disposizione agli studi, era stato da’ parenti mandato al collegio toscano di Volterra, allora fiorente di buoni ammaestramenti. Qui studiò le umane lettere, la razionalfilosofia, le matematiche, nò trascurò d’ingentilirsi l’animo con alcuna cognizione delle arti belle, prendendo particolar diletto nella musica e nella declamazione. Visse in collegio fino al1809. Terminati gli studi, andò a Roma dove era un suo zio prelato. Ma cambiamenti di governo obbligarono zio e nipote a tornare in patria. A un tratto sparito, e chiestone gli amici, seppero ch’erasi di nuovo condotto a Roma. Avrebbe voluto entrare al servigio delle guardie nobili, ma il padre negò il consenso per cagion del mai caduco; la cui malattia principiata a manifestarglisi in collegio, allora più frequentemente lo assaliva. Non potendo avere nella milizia una occupazione gradita, sperò trovarla nelle cure di famiglia, e chiese in donna una ricca signora romana che non l’accettò per la stessa causa della spaventevole malattia. Vedendosi contrariato nelle sue più naturali inclinazioni, soprappreso più del solito dal crudel malore, e costretto a menar vita parchissima e lontana da ogni lieto ricreamento, deliberò quasi per un rifugio de’ suoi mali, di vestir l’abito ecclesiastico, confortatovi dalle amorevoli ed autorevoli parole del pontefice Pio VII, cui era stato raccomandato e dal quale subito era stato preso in affezione. Accettati gli ordini sacri, non mancò a se stesso; e fu sinceramente prete; senza che per altro giungesse mai a divenire profondo nelle scienze per le quali i sacerdoti si dicono maestri in divinità; se nonché inclinando agli esercizi di misericordia fu eletto a dirigere il nuovo ospizio degli orfanelli, che ritrovarono in lui un secondo padre, ridottosi ad abitare in quelle loro misere e incomode stanze per meglio assisterli e vegghiarli. Ciò gli accrebbe la benevoglienza e la estimazione di Pio VII, che dieno compagno e consultore all’arcivescovo Muzzi mandato al Chili a tenere in quella remota regione per la Santa Sede lo spirituale governo. U viaggio di mare vogliono lo guarisse del mal caduco. Sopraggiunte gravi differenze fra il vicaria pontificio e i governatori del Chili, fu ben tosto forzato di ricondursi a Roma; dove in premio di sue apostoliche fatiche, fu da papa Leone XII nominato prelato e presidente del grande ospizio di S. Michele. E vacato nel 1828 l’arcivescovado di Spelati, gli fu conferito, e rimasevi in fino al 1832; nel quale anno fu da Gregorio XVI trasferito alla sede episcopale di Imola, e otto anni dopo innalzato alla dignità di cardinale.

Non appariva dunque il Mastai agli occhi del conclave che un uomo di chiesa, zeloso della fede cristiana, buono per indole, d’ingegno pieghevole, né mai avuto co’ suoi coreghi alcuna gara d’uffici, rimasto sempre alla pastoral cura delle anime. Acquistavangli in oltre merito i provvedimenti fatti nella diocesi imolese, sapendosi non piccole somme avere speso per abbellimenti di chiese e opere di pietà. Sopra tutto piaceva che si era mostrato favorevole alla compagnia di Gesù: e que’ padri aggrandivano i ricevuti benefizi per rendertelo maggiormente benevolo dove al sommo pontificato fosse giunto. Falsa voce corse che il cardinal Micara favoreggiasse palesemente la elezione del Mastai, e aggiungevano che interrogato dal Lambruschini: chi faremo papa? rispondessegli: o voi o me, se il diavolo c’ ispira, ma se dal cielo saremo ispirati, sarà questo buon Mastai. Per contrario nel tempo degli squittinì il superbo frate se ne stette chiuso in cella, e andato poscia il cardinal Amat a recargli la nuova della elezione, come a decano, né pur domandò chi fosse l’eletto: né l’Amat, crucciato di quel manifesto dispregio a tutto ’l collegio, gliene disse. Accertano che la corte d’Austria avesse data commessione al cardinale Gaysruch, non giunto a tempo al conclave, che dove fosse stato eletto il Mastai, dovesse presentare la esclusione; forse per indizi che potesse riescire un principe quale a lei non gradiva: o mirasse a favoreggiare la elezione del Lambruschini, con cui da luugo tempo s’intendeva.

Aperto il primo squittinio il dì 15 del mese di giugno, pareva che la parte genovese vincesse; perciocché al Lambruschini toccarono i maggiori suffragi, avendone guadagnati quindici, mentre il Mastai ne ebbe tredici. Nello squittinio della sera, ne perdè due il Lambruschini, e ne acquistò nove il Mastai. Al terzo della mattina del giorno 16, il Lambruschini rimase con tredici, nel tempo che il Mastai toccò il numero di vensette. La sera il Lambruschini non aveva più che dieci voti, quando nell’altro se ne accumularono trentasei; co’ quali fu gridato papa nella fresca età di cinquantaquattro anni. Contano che nell’ultimo squittinio, essendo a lui toccato l’ufficio di aprire e leggere le schede, di mano in mano vedeva scritto il suo nome, impallidiva, perdeva la voce, pareva non potesse proseguire. Giunto al compimento de’ voti, gittando languido sguardo intorno, dicesse: «Signori, cosa hanno fatto che venne meno. Riavutosi e richiesto dal sotto decano, secondo la ceremonia se accettava, egli in mezzo alle lacrime rispose: Poiché è piaciuto alla provvidenza di chiamare il più umile de’ suoi figliuoli alla maggiore dignità della terra, assuefatto da gran tempo a fare annegazione della volontà mia, obbedisco a quella di Dio, nella fiducia ch'egli mi darà forza sufficiente a sostenere sì grave peso. Assunse il nome di Pio IX per dolce memoria del settimo Pio, al quale portava la più affettuosa venerazione.

Frattanto la sera del dì 16 si sparse per Roma la voce che il papa era fatto. Da prima la maraviglia di tanta sollecitudine comprese ognuno: poscia alla maraviglia successe la curiosità di conoscere chi era l’eletto. In generale fu subito creduto il Gizzi; non che indizi di lui si avessero dal conclave, ma perché il Gizzi era il cardinale indicato dal voto publico; avendogli procacciato non piccolo favore le lodi riferitegli dal marchese d’Azeglio nei suo libretto sui casi delle Romagne. La mattina del 17 empiutasi di popolo la piazza di Montecavallo, e publicato il nome del papa, non fu così piena e impetuosa la gioia come sarebbe stata per avventura se la elezione fosse caduta nel Gizzi. Non era molto noto all’universale il Mastai, dimorato quasi sempre fuori di Roma, e tenuto uffici puramente ecclesiastici. Pure al mostrarsi in sulla loggia del Quirinale, applausi non mancarono; che furono più vivi e reiterati il giorno che conforme alla consuetudine, dal Quirinale trasse al Vaticano per ricevere la seconda e più solenne adorazione dei cardinali; perciocché il popolo aveva avuto più tempo di ricercare la sua vita, e conoscere com’e’ nascesse di famiglia che aveva riputazione di cittadinesca; e uno de’ suoi fratelli era stato per la rivoluzione del 1834 bandeggiato: lui stesso, tenendo il vescovado di Spoleti, mentre altri mitrati fomentavano i crudeli sospetti dei capi del governo, avere in cambio colla moderanza e colla dolcezza acquistato l'affettò di quei medesimi che tante ragioni d’odio avevano contro la romana corte. Ancora il buccinarsi che la corte d’Austria l'avrebbe voluto escluso, pareva titolo per essere amato dagl’italiani. Poi dà quelli che l’avevano più da presso conosciuto, era predicato affabile, indulgente, misericordioso, caritatevole. Infine datasi ìa pinta a gli encomi, s’inventava e diceva ancor quello che non si sapeva.

Ma le cose pontificie erano giunte a tale estremo che bisognava il nuovo papa apparisse migliore. I vari moti del trentuno, del quarantatré e del quarantacinque, giù noti per altre istorie, avevano lasciato un fuoco coperto di cenere; il cui divampamento era rattenuto da desiderio di vedere a quali consigli sarebbesi appigliato il successore di Gregorio XVI. Le provincie romane anzi che usare la occasione dolio interregno per sollevarsi, come nel 1831, stimarono di volgersi al conclave con tali petizioni che i cardinali ammoniti del soprastante pericolo, dovessero aprire bene gli occhi sulla scelta del nuovo pontefice, e questi altresì informato innanzi di salire in trono, di quel che i popoli domandavano, dovesse più facilmente assumere le qualità di principe clemente e riformatore. Bologna, fra le città italiche generosissima, diè il primo esempio: promotori della petizione, sottoscritta in breve tempo da molti e ragguardevoli cittadini, si fecero Augusto Aglebert, Berti Pichat, Marco Minghetti, Luigi Tanara, Giovanni Marchetti e Gioacchino Popoli. Le stesse istanze, seguendo l’esempio bolognese, fecero le altre città dello Stato; oltre di che alcuni fra’ molti fuorusciti che poco lietamente vivevano in terra straniera, allargando anch’essi l'animo allo sperare nel nuovo papa, facevano da lontano istanza perché non tenesse loro più a lungo serrate le porte della patria, promettendo sulla lor fede che mai più non avrebbero dato opera a civili mutazioni. Divenne adunque sì gagliardo negli Stati della Chiesa il desiderio del perdono per i condannati di maestà, che ognuno aspettava vederlo satisfatto il dì della incoronazione, seguita cinque giorni dopo la elezione; onde quella festa riesci splendida meglio per pompe che per dimostramenti di popolare contentezza. Tanto è vero che la volontà publica quasi imponeva a Pio LX. di cominciare il suo regno con solenne riparazione ai danni dell’antecessore.

Ma se bene egli di ciò al pari d’ogni altro andasse persuaso, e desiderasse eziandio con qualche atto di acquistarsi sul principio fama splendida, pure trattandosi di cosa molto grave, e presentendo le querele che avrebbe suscitato, volle prima richiedere il parere del sacro collegio; il quale non si potrebbe dire,come allora fu supposto, che fosse tutto contrario: e se le informazioni procuratemi non fallano, potrebbesi in tre ordini distinguere. Alcuni più pertinaci, nessuna specie di perdono avrebbero voluto, sotto pretesto d’inopportunità: avvertisse (dicevano) il sovrano pontefice che dall’essersi tante volte perdonato, avere maggiore ardimento acquistato lo spirito della ribellione. Si dice bisogno de’ tempi quel che è desiderio di sediziosi: i quali col rigore è possibile tenere in freno e impedire che nel precipizio non trascinino i molti incauti; ma se usi indulgenza, non essere più riparo: prima o poi saremo tratti a doverli contentare in tutti i loro scomposti desiderii di novità; sempre crescenti in fino che non si saranno condotti a rovesciare tutti i troni e tutti gli altari. Sarebbe bene poter usare misericordia; e certamente all’abito che vestiamo, meglio d’ogni altra virtù quella converrebbe: ma se l’altrui sfrenatezza non cel consente; se mostrandoci pietosi ci esponiamo a far più grave e forse non riparabile il male, non ci sembra che resti a dubitare quale debba essere il dover nostro. Se i tempi volgeranno migliori, se cesserà questo soffio malefico che agita le menti e i cuori, se gli uomini una volta si quieteranno e tornerà l’amore alla religione e il rispetto verso le legittime podestà, ci stimeremo beati di poter consigliare la clemenza e il perdono. Né sappiamo in cifre quanto sarebbe giovevole alla religione e onorevole alla Santa Sede, il vedere così a un tratto distruggere le ponderate risoluzioni del morto pontefice, quasi ohe il successore volesse dichiararle ingiuste e crudeli; e senza volere, fomenterebbe le false voci che la malignità va spargendo contro quel santo uomo; il quale sarebbe stato clementissimo se i tempi malvagi non l’avessero forzato ad essere severo. Rammentiamoci che una delle pietre angolari della sedia apostolica è di mantenere in onore e osservanza la memoria de’ pontefici, ancorché nello esercizio del difficile ministero avessino fallato. Consideri bene il santo padre quel che fa; e più tosto che lasciarsi vincere alle intempestive domande d’un popolo riscaldato, ascolti i maturi consigli di persone che al pari di lui hanno a cuore di mantener salda la fede, e intera la temporale podestà de’ papi.

Altri, e forse erano il maggior numero, consentivano che un perdono si publicasse, ma parziale e ben cautelato. I quali argomentavano: pericolosa cosa essere il restituire alla libertà e alla patria tanti uomini travagliatisi in opere di ribellione: increscioso forse a’ partigiani della Santa Sede veder liberi coloro che pochi mesi innanzi videro in arme contro il sovrano legittimo: né breve o facil opera essere discernere i veri esuli per cause di stato dai sicari delle sette: si facesse un primo passo nella via della clemenza, graziando i corretti dall’età dalla sperienza e dalla lunga pena, e accogliendo le domande di grazia con agevolezza di soddisfarle a poco a poco. Ve n’erano alcuni altri, e questi erano i meno, che opinavano; se grazia deesi fare, convien che sia piena e generale; mal potersi fare distinzioni; malagevole il giudicare in colpe di maestà se gli ultimi condannati non abbiano patito troppo,, e meritato di patir meno de’ primi; le grazie parziali aver sempre apparenza di favore e d’ingiustizia; una perdonanza piena ammollire molti cuori, consolare molte famiglie, essere atto magnanimo, dare glorioso principio al novello pontificato.

Da questi contrari avvisi dibattuto l’animo di Pio IX, non sapeva che risolvere, accorgendosi per altro di questo, che non era ancora passato un mese dacché era stato eletto, e già provava di dover procedere in opposizione con molti di quelli che l’avevano creato papa, o di scontentare e maggiormente irritare i popoli, ansiosissimi di vedere la piega che il nuovo regno avrebbe presa. Ciò rendendogli altresì malagevole la sollecita elezione d’un segretario di stato, credette di provveder meglio creando in cambio una temporanea congregazione di sei cardinali, che furono Macchi, Lambruschini, Mattei, Amat, Gizzi e Bemetti, sortendoli fra’ più autorevoli e altresì conosciuti per rigidità di massime, e mescolandovene alcuni di spiriti più miti e civili, colla speranza forse che questi tirassero gli altri, e dal parere di tutti tanto più dovesse afforzarsi quanto meno sospetto di favore alle novità. Ma fatta la prima prova, col subito commetter loro di studiare l’affare del perdono, s’accorse di essersi ingannato; e per quanto le cose trattate nelle consulte cardinalizie è dato sapere, di sei, due, cioè il Gizzi e il Bernetti si dichiararono apertamente favorevoli; se non che il secondo metteva restrizioni non poche e cautele assaissime.

Fra tanto alcuni fatti o indici animavano il popolo a liete speranze. Ottimo segno fu la riformazione che il nuovo papa fece della propria casa, togliendo alcuni eccessi di lusso. Nel comunicare a’ suoi fratelli in Senigallia la sua esaltazione al trono, ingiunse loro che se mai il comune volesse fare qualche dimostranza di onore, dovessero impedirla, e il denaro ordinato spendere in cose utili alla città. Pochi giorni dopo che era stato fatto papa, fu veduto a piè e accompagnato da due preti, andare a una prossima chiesa di monache per ascoltare la messa; il che tanto più piacque al popolo, quanto che era disusato vedere il papa in sì umile e modesto aspetto. La udienza a tutti, e il potersi a lui richiamare de' passati arbitrii, parve altro segno di benevolo cuore e liberale animo. Accrebbegli il publico amore l’aver subito tolto le giunte militari di Romagna, che movevano il maggior odio publico. Fece grazia ad alcuni condannati per cause di stato. Remosse da uffici alcuni che più sfacciatamente ne abusavano. Proibì certe vessazioni di agenti di buongoverno; concesse agl’israeliti il privilegio de’ dodici figliuoli, e nella distribuzione de’ sussidi agguagliolli agli altri sudditi. Non era povero o infelice che a lui ricorrendo non ne partisse consolato; né passava giorno che non fosse da qualche opera di beneficenza o di giustizia illustrato. L’ordine cavalleresco di san Gregorio magno, stato insozzato da un Nardoni, da un Aliai, e da altre simili lordure, forbì co’ gentilissimi e riveriti nomi d’un Giovanni Marchetti, d’uu Salvatore Betù, d’un Giuseppe Venturoli e d’un Emiliano Serti, non per altro trascurati in fino allora, che per la dignità, che mostrarono di dotti e di cittadini. Formò un consiglio di prelati e di gentiluomini per dire il loro parere intorno alla costruzione delle strade ferrate ne’ domini della Chiesa, le quali era poco men che sacrilegio nominare due mesi addietro. Promise favore alle ragunanze scentifiche, e protestò di voler proteggere l’antica e venerabile Accademia de’ Lincei, stata un tempo segno di persecuzione iniquissima Per queste ed altre cose, il popolo s’imprometteva che 1’alto del perdono sarebbe quanto prima comparso, e corrisposto avrebbe alte continue dimostrazioni di bontà fatte dal pontefice.

Tuttavia ogni indugio pareva grave; tanto più che già in Roma si mormorava, a torto o a ragione, essere i cardinali contrari; e non piaceva la congregazione de’ sei; perché se bene vi fosse l’Amat, che meritamente aveva fama di buono, e il Gizzi stimato allora ottimo, pure il contrapposto degli altri quattro, e particolarmente del Bernetti e del Lambruschini, ingenerava inquietudine; accresciuta dal sapersi o sospettarsi che la corte d’Austria, mediante il suo ambasciatore, faceva opposizioni. Era un’ansietà mista a speranza e a timore. Speravano nel pontefice, temevano della sua corte; e ogni dì che passava, crescevano i pericoli al nuovo regno. Ultimamente Pio mal satisfatto degli altrui pareri, vogliono che ritiratosi in camera, e chiamato a se monsignor Corboli Bussi; il solo che potesse allora porgergli consigli accomodati alla necessità dei tempi;dessegli commessiono di compilare il decreto con quel più largo concetto natogli da pietà d’animo, o forse ancora da desiderio di cominciare a risplendere per un atto di grande magnanimità; stimando per avventura il pericolo, che i perdonati abusassero della ricuperata libertà, più incerto e remoto, che l’altro di esporre la Santa Sede a qualche nuovo urto popolare che avrebbe potato trarla a rovina estrema. Fu adunque dal buon Corboli fatto parlare in questa forma. Mentre da una parte la publica letizia per la sua esaltazione al pontificato lo commoveva nel profondo del cuore, angosciarlo dall’altra il pensiero che non poche famiglie de’ suoi sudditi non potevano a quella comune gioia partecipare, portando nella privazione dei conforti domestici gran parte della pena da alcuno de’ loro meritata per aver offeso l'ordine detta società o i sacri diritti del legittimo principe. Avere altresì volto lo sguardo a molta inesperta gioventù che trascinata a’ civili tumulti da follaci lusinghe, parevagli meglio sedotta che seduttrice; per lo che essersi risoluto di stendere la mano e profferire la pace del cuore a que’ traviati figliuoli che volessero mostrarsi sinceramente pentiti. L’affezione dimostratagli dal popolo, e i segni di reverenza fotti replicatamente alla Santa Sede nella persona di lui, averlo persuaso di poter perdonare senza pericolo publico: onde ordinare che i principii del suo pontificato siano solenneggiati con questo atto di grazia; che a chiunque per cagion di maestà dimorasse in carcere o in esilio o sotto ammonimento, fosse ogni resto di pena condonato, purché dichiarasse in iscritto di non volere in nessun modo né tempo abusare di detta assoluzione, e anzi di voler adempiere tutto le parti di suddito fedele. Volere per altro da simil perdono esclusi gU ecclesiastici, gii ufficiali militari e civili, i rei di colpe ordinarie.

Non appena l’editto fu a’ canti di Roma appiccato, il popolo quasi da sovr’umana voce destato, levossi a festeggiarlo; e alla piazza del Quirinale trasse in folla per salutare e ringraziare il pontefice; il quale, benché ora tarda fosse e fuor degli usi di quella corta, fra’ lumi s’affacciò per tre volte a benedire tanta moltitudine inebriata che non si saziava di mettere il suo nome in cielo. Il tripudiare seguitò a notte alta, e rinnoveliossi il dì appresso, e divenne maggiore al terzo giorno che andò ad ascoltar la messa ridia chiesa de’ padri della Missione. La via per la quale doveva passare era coperta di mortelle; dalle fenestre piovevano ghirlande di fiori; in petto ad ognuno spuntava il pacifero olivo, e mescolate a lagrime di affetto le festevoli voci di Pia IX assordavano Faria. Nel ricondursi a palazzo, il fervore traboccò. Tolti a viva forza i cavalli dal cocchio, una eletta di giovani sobbarcavansi per trarlo co’ petti, ripugnante lo stesso pontefice. Né l’allegrezza terminava colla luce del dì; e splendor di faci, danze e canti rompevano l’oscurità e i silenzi della notte. Il qual giubilo popolare, sì continuo e universale, quanto piaceva a’ desiderosi di libertà, altrettanto crucciava la parte Contraria; che avendo tutt’ora in mano il governo e gli uffici, non si tenne dal subito tempestare gli orecchi del nuovo papa: che simili assembramenti e clamori, come che di gioia, pure potevansi convertire in tumulti e sedizioni; si dovevano perciò frenare in sul principio se non si voleva che diventassero cagione di perigliose novità. Pio IX, che pure gran diletto pigliava a que’ festeggiamenti, dovette notificare per bando: essere lui vivamente commosso alle spontanee dimostrazioni di filiale affetto che i romani avevano voluto dargli, né potersi rimanere dal manifestar loro il suo pieno gradimento. Ma come ad ogni bella opera accresce pregio la moderazione, così desiderare che nel mettere il popolo romano un termine alle straordinarie allegrezze, gli porga novella testimonianza del suo amore e ubbidienza. Ma le allegrezze non cessarono, bastando ogni più lieve cagione a farle nascere; conciossiaché il popolo festeggiasse per Pio IX; ma chi il popolo accendeva, mirava a più alto segno.

Divenuto idolo di Roma, non tardarono a idoleggiarlo eziandio le provincie; dove l’atto del perdono con tanto maggior gaudio doveva essere accolto, quanto che a chi il figliuolo, a chi il marito, a chi il fratello, a chi l’amico restituiva. Già la fama lo aveva precorso, e con ansietà pari al grandissimo desiderio, aspettavano i corrieri che lo recassero. Appena affisso e letto fra lagrime e voci di popolo commosso, correvano a cingerlo di fiori che di tratto in tratto rinfrescavano; le case si coprivano di tappeti; le campane sonavano a festa; ad ogni passo s’incontravano imagini del pontefice inghirlandate; per lo gridare viva Pio IX diventavano fioche le voci. La sera le più remote contrade, i più umili abituri s’alluminavano. Le campagne con fuochi è lumi rispondevano alle allegrezze delle città. In Rimini fu uno spettacolo di pietà che fece piangere ognuno. Dato ordine che si aprissero le carceri, ecco i padri correre al collo de’ figliuoli; questi cercare l’amplesso delle madri; i fratelli andare incontro a’ loro fratelli, e gli amici abbracciarsi co’ loro amici. v’ebbe un momento che non s’udivano più parole, troncate dalla piena degli affetti, ma un singhiozzare dirotto.

Né il culto per questo pontefice si restrinse in Roma e nelle terre della Chiesa; anzi per tutta Italia, per l’Europa, per lo mondo tutto s’allargò, come d’un miracolo; non mancando la solita vanità nell’universale di fare quel che è in voga. Le donne fregiavano le loro vestimenta dei colori papali; i ritratti di Pio IX moltiplicavano insieme col desiderio di averlo sempre e da per tutto presente. I discorsi cominciavano e terminavano colle sue lodi. Da esso traevano ispirazione i poeti, materia i prosatori, e sì gli uni come gli altri, col nome del pontefice congiungevano quello d’Italia. Insomma quel maggior pro si poteva cavare dal decreto del perdono papale, a fin di suscitare desiderii di cose nuove, fu cavato dalle genti, che lo accolsero non come uno de’ soliti indulti regi ma sì come augurio e cominciamento di novello stato. Di che i seguaci della novella scuola piemontese menavano vanto come di segnalato trionfo delle saggio dottrine da essi predicate; e il nome del Gioberti era levato alle stelle; gridavanlo profeta e precursore del pontefice riformatore; lui solo aver saputo conoscere la medicina per guarire Italia da inveterati malori, e quel che è più mirabile, averla trovata là dove da cinque secoli ognuno aveva anzi scorta la cagione della infermità. Non fu mai alcuno che maggiormente per fama popolare primeggiasse: e da indi innanzi non si festeggiò unqua per onore del pontefice che col nome suo non si congiugnesse quello altresì del Gioberti; e ingrossando la schiera de’ seguaci suoi, s’assottigliava quella de’ mazziniani; che rimasti pochi bagaglioni e disperati, non avevano più faccia di mostrarsi: e lo stesso capo, fosse anch’egli confuso, o volesse aspettare a che riescisse l’opera giobertiana per giovarsene quando gli fosse parato tempo, pareva eclissato.

Fra tanto Pio IX adunati in segreto concistoro i cardinali, e desideroso quanto più poteva di renderseli benevoli, così toro favellò: All'aspetto del vostro ragguardevolissimo consesso, e al pensiero di dovervi da questo luogo per la prima volta favellare» o venerabili fratelli, proviamo nell’animo la stessa commozione che vedeste io noi il giorno che co’ vostri suffragi concorreste per darci successore ai sedicesimo Gregorio di gloriosa memoria; conciossiaché ci torna di nuovo alla mente esservi pure altri più cardinali di santa romana Chiesa, per eccellenza di senno e di consiglio, per esperienza di cose, e per ogni ornamento di virtù, ovunque chiarissimi, i quali avrebbero potuto il conceputo dolore per la perdita del passato pontefice rattemperare, e degnamente succederli; ma voi, postergato ogni umano rispetto, e solo guardando alla vedovanza detta Chiesa Cattolica, vi uniste con zelo singolarissimo a consolarla e rallegrarla; e non senza arcano consiglio della divina provvidenza, accozzando mirabilmente i vostri voleri, dopo due giorni di comizi,, sceglieste al supremo pontificato noi che certamente ce ne reputiamo incapaci, massime in questi tempi per la cristiana e civile republica luttuosissimi. Ha sapendo che il Signore Iddio talvolta addimostra la sua potenza in quelle cose ohe sono nel mondo le più inferme, affinché gli uomini nulla a se stessi attribuiscano, ma ne riferiscano la gloria e l’onore a chi solamente è dovuto, venerando gl’imprescrutabili suoi consigli sopra di nei, ci confortammo netta forza del celeste aiuto. Mentre per altro rendiamo, né cesseremo mai di rendere le debite grazie a Dio onnipotente per averci innalzati, se bene indagai, a tanta altezza di dignità, professiamo ancora a voi la nostra gratitudine, che, dei divino volere interpreti e ministri, portaste della nostra pochezza un sì onorevole, quantunque non meritato, giudizio. Nulla pertanto avremo mai maggiormente a cuore che di dimostrarvi co’ fatti la grandezza della nostra particolare benevolenza inverso di voi, non lasciandoci sfuggire occasione alcuna in cui ci sia dato sodare i diritti e la dignità del vostro ordine, e provarvi per quanto potremo la nostra riconoscenza. Del resto, dall’affetto che portate alla nostra persona, ci promettiamo con certezza (e ciò a voi particolarmente si addice) che sa rete sempre apparecchiati a sorreggere coi consigli, colf opera e collo zelo la nostra debolezza acciò le cose tanto sacre quanto civili non abbiano a ricevere dannaggio alcuno da que sto nostro innalzamento. Uguali devono essere in noi gli sforzi dell'animo nel procurare con ogni maniera il bene e la gloria della Chiesa comune madre, nel sostenere con fermezza e costanza la dignità della sede apostolica, nel contribuire affa quiete e alla vicendevole concordia del gregge cristiano, sì che colla benedizione del Signore cresca ogni dì più e per merito e per numero.

In nome di tutto ì sacro collegio rispose il cardinal Macchi sottodecano, presso a poco in questa sentenza: Ringraziavano Iddio di averli spirati a mettere suda cattedra del principe degli apostoli una sì cospicua virtù; da cui la Chiesa avrebbe certamente ricevuto quel valido sostegno che le bisognava in mezzo alle orribili tempeste che d’ogni parte la minacciavano. La licenza delle opinioni, l’arditezza dello scrivere a stampa, la depravazione de’ costumi, la ignoranza fomentatrice dell’errore, vorrebbero abbattere ogni podestà, e la stessa Chiesa Cattolica. Mestieri era. scegliere un pontefice, che emulo de’ suoi predecessori, opponendosi con invincibile coraggio a’ nemici irreconciliabili della società religiosa e civile, fosse qual muro di bronzo e qual colonna di ferro, stabilita da Dio per la pubblica felicità, e contro cui venissero a frangersi gli empi conati. A tanta impresa avrà primieramente il soccorso divino, né gli mancherà quello dell’augusto ordine de’ cardinali, pronti a versare il sangue per la religione, per la chiesa, per la sede apostolica, per lo vicario di Gesù. Dalle quali parole pareva rilucere come un avviso di quel che lo avrebbono desiderato, se voleva stare con esso loro. Ma Pio IX o non se ne addasse, o non sapesse rendersi capace di adoperar male per quelle sue prime concessioni, o forse i popolari festeggiamenti lo tirassero più d’ogni altra cosa, seguitò a farsi credere quel ohe egli non poteva essere, e non era. Di che forte si crucciavano i tenaci dell’antico governo, e cercavano quanto più potevano di frastornare o menomare il fervore prodotto coll’atto del perdono. In Roma il cardinal vicario Patrizi non volle consentire una festa che nella chiesa di S. Pietro in Vincoli volevano fare gli usciti dalle carceri per ringraziare Iddio della ricuperata libertà; dicendo che in quella falsa divozione nascondevasi una satira, quasi paragonar si volessero le catene spezzate dai santo con quelle di antichi macchinatori. Al che se realmente pensassero, non so, parendomi più manifesto che volessero sempre più l’animo del pontefice cattivarsi con quelle dimostrazioni di santimonia.

Peggio era nelle provincie, dove rimanendo legati e delegati i creati da papa Gregorio, alcuni di loro indugiarono a publicare il benigno editto; altri nelpubblicarlo ne alterarono e guastarono il senso; quasi tutti s’ingegnarono di ritardarne o scemarne l’effetto. Appiglio non lieve riusciva quell’obligazione d’onore, che i condannati o esiliati dovevano sottoscrivere; scusandosi la maggior parte de’ legati, nunzi e consoli di non avere per anco ricevuto intorno a ciò speciali commissioni da Roma. Aggiungevano pure alcuni che bisognava prima si certificassero che non fossero macchiati di delitti privati. Ma avvenne che molti trovandosi rifugiati nella vicina Toscana, senza domandar permesso né sottoscrivere la condizione imposta, per vie traverse rimpatriavano; e subito provocati o provocanti, appiccavano riotte coi così detti gregoriani; onde seguivano ammazzamenti e vendette. Quasi il perdono che doveva arrecar pace, pareva in civil guerra dovesse convertirsi. Nella quale non mancava opinione che soffiassero alcuni vescovi; avendo quello di Todi publicata una pastorale in cui il novello pontefice era adombrato poco men che eretico. E dove la natura dei tempi l’avesse consentito, e la stagione delle seismo non fosse stata impossibile a tornare, avremmo forse ascoltato dagli altari (come fu detto in tenebrose conventicole) che il vicario di Cristo era un sedizioso, e non legittima la sua elezione. Nella provincia di Pesaro e Urbino andava attorno, una scritturar senza nome, che diceva: la religione di Cristo presso a sprofondare; lo intruso Mestai esserne il conculcatore; volerne lui, qual capo di sette, la finale distruzione; da chiunque ancora sia adoratore del vero Dio, non doversi un tal vitupero tollerare; avere essi clientele e forze: a destra Ferdinando d’Austria, a manca Ferdinando di Napoli, sostenerli: doversi il germe della libertà soffocare, e fare la vendetta colle armi; questo giorno, che sarà fatto conoscere, riuscirà tremendo per la giustizia, arrecando eterna gloria nella memoria de’ posteri.

Non vietandosi la diffusione di tali obbrobri, dubitassi che ne fosse autore o consapevole lo stesso cardinal legato della Ganga, nipote di Leone XII; da cui non amato nò osservato, pure aveva redato il feroce odio ad ogni novità: riconficcatogli dai gesuiti, sotto i quali nutrì l'adolescenza, e rimase loro affezionatissimo. Gregorio XVI lo innalzò o per le sue massime o anco per cerimonioso atto di rendergli il cappello, avuto dallo zio papa. Né per questo l’ebbe a se e al suo governo a bastanza devoto; non giudicandolo a bastanza rigido; e fattogli rinunziare il vescovado di Ferrara, dove si svergognò, e non di meno mandato a reggere la pesarese provincia, si scoperse de’ più arrabbiati contro a’ mansueti principii del regno di Pio IX, fino a farsi sospettare favoreggiatore di macchinazioni straniere.

Né per siffatti attraversamenti, veniva meno lo zelo dei fautori delle novità; i quali seguitavano a glorificare l’atto del perdono per trame sempre nuove occasioni da commovere: e come allora ogni cosa si faceva con sembiante di religione e di pietà, da per tutto si andava limosinando per una gran parte di quelli che uscendo dalle carceri si trovavano senza pane o mancavano del come fare il viaggio per restituirsi alle loro patrie. E considerevoli somme in pochi dì furono raccolte: oltre che padroni di vetture e di navili ne trasportarono gran numero, gareggianti in tale dimostrazione di carità. Era pure commovente spettacolo il continuo ritorno degli esuli; festeggiandolo le città come ventura publica, e nell’abbracciarsi e rammentarsi gli anni del dolore, si accendevano a desideri! di cose nuove, non senza mescolare benedizioni a Pio IX; il quale guardando allora a tanto giubilo universale di popoli, né presentendo forse a che mirava o poteva riescire, avrà dovuto per avventura rallegrarsi con se stesso del promulgato perdono.

Sogliono i comuni dello Stato, nella elezione del nuovo papa, inviare a Roma ambascerie per protestargli fedeltà; le quali d’ordinario non sono che cerimoniosi atti, comandati dalla consuetudine. Ma quelle per Pio IX furono accompagnate da speranze e augurii lietissimi: e tornando a casa gli ambasciadori, e narrando l’affettuosa accoglienza, i cortesi modi, i benevoli consigli, le generose promesse, la bontà singolare del pontefice, accrescevano il fervore già tanto; veggendosi, o parendo di vedere, in men d’un mese, qua’ luoghi delle Romagna e delle Marche, dove non regnava che terrore, sospetto, rancore e tristezza, a un tratto mutar faccia e rinnovellarsi. Roma stessa non si riconosceva più. Vi si conducevano e stabilivano uomini che due mesi addietro se vi fossero stati, ne sarebbono partiti. Lo ingegno e la parola cominciavano ad essere tollerati: non era più colpa desiderare la felicità d'Italia: non era più interdetto di amare la patria, favellarne, gloriarsene. E come fra noi si formano subito fazioni e prendono un nome, si chiamarono piani i secondatori, e gregoriani gli sturbatori delle civili riforme; e quelli altresì vennero nominati progressivi e liberali, e questi retrogradi e oscuristi; le quali appellazioni più tardi furono con altre scambiate, conforme le cose ingrossarono o straboccarono.

Fra tanto stavasi in grande aspettazione sulla scelta non anco fatta del Segretario di Stato; per argomentare quanto si dovesse sperare dal pontificato novello: avendo il Segretario di Stato nelle mani la somma di tutte le cose e di tutti i poteri; talché a chi avesse dilettato maggiormente il comandare, doveva questo ufficio essere più a grado dello stesso papato. Pio EX da più d’un mese, da che era stato eletto, dimorava in forse, e n'aveva ben donde, nell'affidare lo importantissimo magistrato. Eragli dal voto publico indicato il cardinal Gizzi per lo stesso favorevole concetto che lo aveva fatto desiderar papa; onde a lui finalmente si rivolse, pregandolo, benché ripugnante per salute o altro, ad accettar la carica, e compiacere non solo a lui che si lo amava e stimava, ma ancora al popolo che il chiedeva con tanta istanza. Ma il papa e il popolo assai male fondavano le speranze: non che il Gizzi fosse de’ peggiori; ma nato di rozzi parenti in. rozza provincia presso il confine napolitano, sortì natura tapina e impacciata, senza che l’aver tenuto uffici di diplomazia fuori, lo rendessero acconcio alle grandi faccende di stato; per le quali lo ingegno che pur valeva nelle discipline ecclesiastiche, non era fatto. Contano che dimorando nunzio a Torino notasse i difetti del papale governo e il modo di correggerli; ma tornato a Roma e fatto cardinale, se ne mostrasse sì sgomento da parergli impresa da non tentare. A vie più svigorirlo aggiungnevasi la grave età e continua infermità che lo sforzava la più parte dell’anno dimorarsi in casa. Ma essendo cominciata l’usanza di lodare tutto quello che Pio IX avesse fatto, la elezione del cardinal Gizzi fu levata alle stelle. Piacque altresì che la Segreteria di Stato, spartita in due sotto Gregorio, tornasse a riunirsi in lui solo, non perché fosse meglio, ma per tòrsi in buon agurio qualunque rimutamento del passato: oltre di che non parea vero che il cardinal Mattei, odiatissimo, cessasse da ogni ingerimento ne’ publici affari. Né piacque meno che restasse Sostituto nella Segreteria per le cose esterne Monsignor Corboli Bussi; il più intendente di materie civili che fosse in quella corte, e de’ non molti a desiderare sinceramente le riforme; aggiungendogli non piccolo favore il sapersi che aveva con sì umane parole disteso l’editto cotanto festeggiato del perdono.

Raffermandosi così per lo innalzamento del Gizzi e conferma del Corboli, la opinione della buona volontà del pontefice, rinfocolavansi i già accesi spiriti nello sperare gran cose; e in vero con quella disposizione publica ad accogliere per miracoli ogni inezia, splendido arringo di gloria al nuovo papa e al nuovo ministro si dischiudeva. E se i gravi disordini, le atroci ingiustizie del passato reggimento facevano loro vedere in qual campo di spine e di triboli dovevano camminare, anhtor. Ital. tom.I. 4 cora il contrapposto di quello avrebbe alle loro opere più splendore procurato; conciossiaché ne’ governi la cui felicità è principalmente fondata nella opinione, assai importa che il paragone del presente col passato, non che scemare, accresca riputazione. Però è anche da notare che nello Stato romano non si poteva riformare senza mutare: al che infine intendevano quelle soddisfazioni e allegrezze popolari, meglio che da generale e spontaneo sentimento, prodotte da studio della parte che voleva col nome del papa distruggere i vecchi ordini; e del mutare non erano Pio IX e il cardinal Gizzi né vogliosi né atti; onde più tosto si misero a far le prove o mostre del riformare, di quello che realmente alcuna sostanziale riforma facessero.

Così eglino si accorsero subito (e poco ci voleva) che la principal radice del male era nella pessima educazione popolare, che generando ignoranza e ozio, produceva la miseria, madre di delitti; e quindi era mestieri dare un po’ d’istruzione alla minuta gente, e ovviare col lavoro a’ tristi effetti della mendicità. Ma credettero di fare la bisogna collo indirizzare a’ capi delle provincie e a’ magistrati comunali un ordine col quale lamentando il troppo frequente imperversare de’ delitti in alcune provincie dello stato romano, gl’invitava perché d’accordo co’ vescovi e co’ parrochi, e giovandosi altresì de’ consigli de’ savi e probi cittadini, indicassero al santo padre quegli espedienti che fossino più acconci a conseguire il doppio fine di rendere più estesa e migliore la educazione civile e religiosa del minuto popolo, e di ritrarre la gioventù dall’ozio, e per conseguenza dalla miseria, abituandola a’ lavori di publica utilità ed esercitandola nelle armi. Dopo ciò quasi paresse loro di aver detto troppo, e posto mano a un’opera di pericolo, cercavano come di correggersi con dichiarare, non doversi però il presente atto accogliere per segno di favore a certe teoriche e innovazioni non conciliabili colla natura del governo della Chiesa, e tali da mettere a repentaglio la interna ed esterna quiete. Il quale avvertimento bastò a’ capi delle provincie, sempre quasi tutti avversi, per render vano l’ordine ad essi indirizzato con incerta e tremante voce; e qualcuno più zeloso lo rese non pur vano, anzi amaro; sì come fece in Bologna il cardinal Vannicelli; il quale chiosandolo a suo modo, ne cavò che bisognava rinforzare i rigori di vigilanza, e promovere ed estendere il numero e l'opera delle spie, quasi con questo mezzo disonesto s’avesse dovuto por mano a una riforma di morale. Non di meno i piani divulgavano l’ordine, lodandolo e predicandolo per un primo avviamento alle bramate riforme; e guai a chi non avesse lodato e festeggiato; e ancora i gesuiti con publica accademia festeggiarono.

Solendo il papa il dì 8 settembre, sacro alla natività della Vergine, andare alla chiesa di S. Maria del Popolo, attraversando per lo mezzo la città, alcuni popolani apparecchiarono un magnifico arco alla imboccatura del tempio, ornato di emblemi e di simulacri ripresentanti le virtù attribuite al pontefice; il quale nel passarvi sotto, apparve non più ammirato che commosso. Nel ricondursi al Quirinale, le ghirlande di fiori, le salutazioni, gli applausi, i felici augurii lo accompagnarono per tutto il cammino parato a festa e splendente di banderuole, stemmi e pacifiche allegorie. Vedevi per ovunque un sorgere su’ piè, urtarsi, sospignersi, spenzolarsi, ondeggiare d’immenso popolo festante. Il quale, come fu notte, tornò fra lo splendor di luci e i musicali suoni a nuovamente domandare al santo padre la benedizione ricevuta la mattina. E Pio IX che con lieto volto accoglieva quelle ovazioni, non gliene faceva aspettare; e usciva spesso di palazzo, or andando a visitare ospitali basiliche, monisteri e luoghi pii; e ora conducendosi alle amene ville di Albano, Castelgandolfo, Tivoli e Frascati, sempre seguito dalle festeggienti turbe capitanate d’ordinario da un cotal Angelo Brunetti, soprannominato Ciceruacchio. Il quale era un rozzo carrettiere, fatto più tosto ricco per traffichi, e acquistatosi gran favore nel minuto popolo ora con beneficii, e più spesso col bere e gozzovigliare ne’ raddotti. Né di certo coraggio, consueto nella plebe romanesca, era privo: come altresì avea talora istinti generosi che sopra la sua condizione lo innalzavano. Ma lo ingegno aveva grosso, e da essere di leggieri tratto a sconsigliatezze e avventataggini per cieca boria di primeggiare o anche per desiderio grossolano di libertà. E come allora era somma lode il temperarsi, anch’egli ambiva di usare le parti di temperature; che lo fece a poco a poco osservare anche dalla gente colta ed elevata, disposta in quel tempo ad accomunarsi co’ plebei, chi per paura, chi per vanità, e molti per averli aiutatori nell’acquisto delle desiderate franchigie. Per lo che la fama del carrettiere crebbe a poco a poco, e molto maggiore del merito: che doveva chiarirsi nullo quando ne’ successivi tempi a più difficili prove fosse stato messo; divenendo stromento d’altri più superbi e meno onesti sommovitori.Ma quanto più nel principio del 1847 i popoli s’infervoravano per Pio IX, tanto meno si faceva opera di rinnovare il governo, seguitando il cardinal Gizzi a travagliarsi in vani simulacri di miglioramenti publici, e il tempo che allora doveva reputarsi preziosissimo, consumava in consulte e commessioni. Una di queste fu data a diversi prelati, perché proponessero una migliore divisione di uffici e di attributi, e insiememente La istituzione d’un consiglio di ministri, nel quale a similitudine degli altri governi civili, si dovessero in comune discutere le varie faccende di stato, innanzi di essere alla sovrana approvazione sottoposte. E in vero la maggiore difficoltà a procacciare nell’amministrazione pontificia qualunque più lieve miglioramento nasceva dalla confusione delle varie podestà; che prodotta e mantenuta da arbitrio, cominciava dai primi seggi, e agli ultimi si comunicava; onde non a torto fu detto, in Roma' la metà comandare e l’altra metà non obbedire; conciossiaché nel mescolamento degli uffizi facilmente si usurpasse, e facilmente si schivasse l’impero.

Pensato alla distribuzione degli uffici, era da pensare agli ordini giudiziali e municipali. Nessuna nazione piccola o grande, aveva bisogno d’una riforma nel civile e nel criminale quanto lapontificia: rettasi con leggi non proprie: dettate da due e più mila anni; in lingua a’ più ignota; per altri popoli, credenze e costumi; raffazzonate e moltiplicate da un giureconsulto malvagio sotto imperatore imbecille; imbavagliate e scommesse dal giure ecclesiastico; contaminate e imbarbarite da’ resti di giurisprudenza baronale. Ilregno italico di Napoleone fece assaggiare un po’ di legislazione a quelli che non ne avevano. Pio VII, distratto a un tratto ogni cosa francese, buona o rea ch’ella fosse,rinnovò le vecchie leggi: se non che essendosi la gente adusata a’ nuovi ordinamenti, e provandoli migliori, fu forza lasciar qual cosa: che produsse un accozzo informe e discorde, da essere mestieri di continue dichiarazioni e notificazioni. Ma Leone XII, vagheggiatore inflessibile delle più abborrite consuetudini del medio evo, tolse anche quel poco. Cassò per la prima istanza i tribunali collegiali; proibì ne’ giudizi l’uso della favella nativa; ampliò la giurisdizione de’ vescovi ne’ giudizi civili: concesse il potere d’istituire fidicommissi e primogeniture in perpetuo e per qualunque picc ola quantità de’ beni stabili; confermò la sempre minore età ed agnatizia esclusione delle femmine; rese ancor più incerta la misura delle doti; la paterna podestà coi suoi effetti ne’ discendenti perpetuò; sconvolse maggiormente l’ordinamento ipotecario; de’ codici non ebbe pensiero alcuno. Pio Vili, vissuto poco e inutilmente, lasciò le cose come le aveva trovate; onde si eternavano le liti, traboccavano le spese, e il più delle volte metteva conto più tosto abbandonare le cause che vincerle. Peggio era nel criminale; in cui segreti i processi, segreti i giudizi, la libertà e la vita umana dependevano da pròcessato e da giudici corruttibili e corrotti; i quali esaminavano i testimoni, interrogavano gli accusati, verificavano il delitto, sentenziavano, senza che fosse loro prescritto alcun tempo. Senza che udienza publica o altra vigilanza gl’infrenasse. Nei delitti di maestà era più oscuro il procedere, più feroce il punire. Lasciata all’arbitrio degli esaminanti e de’ giudicanti, la graduazione ne’ gastighi; il carcere l’ergastolo il supplizio estremo prodigati infruttuosamente. I tribunali straordinari erano iniqui; non meno iniqui erano gli ordinari. Passavano molti anni fra l’accusa e ’l giudizio; spesso i rei andavano impuniti; non di rado gl’innocenti si punivano; sempre la pena rimaneva a vendetta, non mai ad esempio. Per nessun paese avevano sì indarno scritto il Beccarla e il Filangieri come per lo stato della Chiesa. Le amministrazioni provinciali e comunali non davano meno da lagrimare. Si adunavano le pevere comuni il meglio che potevano, e facevano lor deliberazioni, che sottoposte all’approvazione de’ legati e delegati, venivano travolte o annullate. Qui giova avvertire che fra gl’inconvenienti era anche questo: che il reggimento delle provincie, anzi che ultimo, era primo arringo alla prelatura romana; e v’entravano, quasi in un tirocinio, talora abatini discoli o ignoranti, che tra le adulazioni i conviti e le lascivie passando il tempo, commettevano la cura degli affari a’ segretari generali, che più istrutti o più pratichi, facevano e disfacevano secondo che loro fosse parato meglio.

La rivoluzione del febraio del 1831, effetto di tutti questi disordini, fu cagione che le potenze estere indirizzassero alla corte di Roma un memoriale, dove ricordando lo stesso editto del cardinal Bernetti, segretario di Stato (che nel frangente della sommossa aveva promesso e assicurato a’ popoli pontifìcii una età novella) fra le altre riforme indicavano quelle de’ municipi, co’ parziali consigli di elezione popolare, e con un consiglio generale sedente in Roma. La corte romana non accettò quel memoriale, parendo che ne andasse della sua dignità; ma fece intendere per via di lettere che non sarebbe stata lontana di concedere miglioramenti poco dissimili da quelli proposti: e il dì 5 di luglio del 1831 fu pubblicato l’editto per l’istituzione de’ consigli comunali e provinciali, senza alcuna delle sicurtà accennate nel memoriale. Il diritto della elezione popolare era escluso: al capo d’ogni provincia si rimetteva la facoltà di nominare i consiglieri: nessuna proposta poteva farsi al consiglio senza essere prima acconsentita dal papa. Le cose discusse e le deliberazioni dell’assemblea dovevano essere vedute ed approvate dallo stesso capo di provincia. Per lo consiglio di stato sedente in Roma, e per lo conferimento dei magistrati ai laici (altro articolo del memoriale) non si fece parola.

Nominati i consiglieri, piovevano le rinunzie; e fu costretto il papa dichiarare con enciclica che non sarebbe stata accettata alcuna rinunzia, e che le adunanze de’ consigli sarebbero valide, qualunque fosse il numero de’ consiglieri presenti; e quando i consigli ricusassero di dare il loro voto sulle spese e imposizioni, ciò farebbe la congregazione del governo. Rispetto agli ordini della giustizia, tornò in vigore il poco concesso da Pio VII nel 1816, e casso da Leone XII: se non che confermava il foro misto; onde i laici avevano a sottomettersi al giudizio ecclesiastico ancora in faccende civili; il segreto nelle discussioni de’ tribunali, il processo sommario nei casi di stato; i tribunali privilegiati; il santo uffizio. Poi a un consiglio di tre prelati e di due avvocati commetteva la compilazione de’ codici, che non fu mai condotta a termine. Nacquero nuovi e disperati tumulti nelle Romagne, soffocati da nuovi intervenimenti di soldati austriaci: né i rettori di Francia altramente s’opposero che facendo occupare la città di Ancona, affinché lo stato romano m cambio d’uno avesse due flagelli. Pure per adonestare la subita e frodolenta occupazione, dichiaravano di voler caldeggiare le istanze dei pontifìcii, e facevano sapere al papa che per la quiete dei suoi popoli bisognava si risolvesse a contentarli colle promesse e non concedute istituzioni. Rispose il papa scomunicando gli anconitani, e rafforzando sotto la tedesca protezione i rigori in tutto lo Stato.

Pio IX cercando sempre di rendere manco odiosa che si poteva la memoria del suo predecessore, si contentò di chiamarsi continuatore dell’ordinamento gregoriano, e confermò per la compilazione de’ codici il medesimo consiglio, annestandovi altri e migliori nomi; tra’ quali furono debitamente graditissimi quelli del Silvani di Bologna, del Pagani d’Imola e del Giuliani di Macerata. Per le amministrazioni comunali e provinciali assicurava che quanto prima sarebbero stati invitati i presidi delle provincie, perché udito il parere delle rispettive congregazioni, indicassero i miglioramenti da fare conforme all’editto del 5 luglio del 1831. Solo domandava tempo, perché maturo consiglio rendesse la bramata opera profittevole; e creava intanto un’altra congregazione di prelati e insieme di gentiluomini con l’ufficio di raccogliere dalle proposte fatte e da fare l’ottimo, e riferirne a lui.

Ma tanta era la disposizione de(1) popoli a rendersi favorevole e giovevole il nuovo pontefice, che delle promesse si congratulavano ed esultavano come di cose già effettuate. Né occasioni a festeggiamenti mancavano; e una sopra ogni altra splendidissima parve quella della solennità del possesso. Quando i papi, come vescovi di Roma, dimoravano nel patriarchio lateranense, la ceremonia dello incoronamento congiungevasi con quella del possesso; poiché cinta la tiara in Vaticano, se ne tornavano alla primitiva e legittima lor sede con modestia religiosa, che si chiamò processione o processo, donde vogliono sia nato il nome di possesso. Ma tramutata la dimora pontificale nel palazzo di San Marco, e poscia in quello del Quirinale, non parve più necessario unire le due solennità; e prima di alcuni giorni, poi di qualche mese, fu dall’una all’altra intervallo. Variò pure la pompa: che secolaresca divenuta, chiamossi cavalcata. Pio IX incoronatosi il di 21 giugno, aveva differito il possesso all’ottavo di di novembre; il quale giorno era dal popolo romano e(da’ forestieri, corsi in folla a Roma, aspettato come la maggior festa che mai si potesse vedere; e gran festa fu veramente; della quale, da altri descritta, non dirò i particolari; ma non parmi da tacere, che solendo i pontefici dopo quella solennità (colla quale raffermano nell’antico episcopio la spirituale potenza) indirizzare a tutti i patriarchi, primati, arcivescovi e vescovi una lettera enciclica, che si ha come vera e solenne dichiarazione dei principii del nuovo reggitore della Chiesa, Pio IX, non che accennare in essa ad alcuna di quelle riforme che da lui si aspettavano, maladisse anzi a quel che chiamavasi progresso, si come seduttore, bugiardo, ingannevole, macchinatore, pervertitore, sedizioso, maligno, insensato, distruggitore in fine della società religiosa e della civile. Più spezialmente si mostrò acceso di sdegno contro a’ libri e agli scritti, confermando tutte le condannagioni lanciate da’ suoi predecessori, ed esortando i pastori sacri a predicare sommissione e obbedienza a’ pastori profani; come quelli la cui podestà era data da Dio. Certamente i monitorii di papa Cappellari, pur cotanto vituperati, non sarebbono apparsi più severi se con questa enciclica fossero stati raffrontati; e non di meno i popoli, inebriati per Pio IX, non ne fecero caso. E poiché la festa del possesso aveva tirato a Roma molti non solo dalle provincie ma d’ogni parte d’Italia, fece nascere il pensiero che mai occasione più bella non poteva presentarsi per un ritrovo cittadinesco. Fu deliberato splendido convito che nell’ampia sala dell’antico teatro Aliberti, cinquecento romani offrivano a trecento italiani, parendo gran cosa che in Roma potessino raccogliersi ottocento persone e pronunziare discorsi e auguri in onore dell’Italia; oltre di che quel mescersi e confondersi nobili e popolani alla stessa mensa, com’era una straordinaria novità, giudicavasi dimostrazione di concordia ne’ medesimi desiderii.

E fino alle disgrazie parevano allora segno di amore e di concordia civile. Avevano le grandi e continue piogge ingrossato per modo il Tevere che principiato a traboccare il dì 9 dicembre, ne’ giorni 10 e 14 allagò quasi tutti i piani, e Roma ne andò sotto gran parte; sollevandosi le acque ad un’altezza di cui dopo il memorabile diluvio del 1805 non si aveva memoria. La piazza del Popolo e la via di Ripetta erano tutto un fiume che le onde spingeva con furia contro le case e le persone. Né si potrebbe imaginare lo spavento del popolo, trovandosi ciascuno improvvisamente impedito a soccorrere e ad essere soccorso. Fra’ più minacciati era il sopra notato Ciceruacchio che abitava in principio di via Ripetta. Levatosi per tempissimo la mattina del 10, e veduto dall’altura della sua casa l’immenso allagamento della città e della sottoposta campagna, senza metter tempo in mezzo, si getta in una barchetta, e parendo più curante dell’altrui danno che del proprio, attraversa piazza del Popolo, si spinge fuori della città infino a pontemolle, entra nelle stalle, recupera molti buoi, arreca pane e denaro alle desolate famiglie; quindi rientra Roma; continua per le vie inondate, appresta ovunque soccorso di viveri e di confortevoli parole; né cessa dalla pietosa opera finché le acque a poco a poco ritirandosi, non tornano nel loro letto. E se i popolani onorava Ciceruacchio con quell’esempio, faceva onore al patriziato il principe Borghese, non rimastosi inoperoso a quella calamità pubblica; largheggiando di aiuti ovunque il bisogno li avesse richiesti; stimolato dalla gara in quei dì a far opere lodevoli. Finalmente avendo il pontefice invocata la misericordia de’ romani in sollievo dei danneggiati, e non essendo questa riescita né tarda né scarsa, raffermò l’ottimo concetto che di quel popolo ogni dì più le genti acquistavano. E le provincie che rammentavano quel che fece Roma per soccorrere a’ graziati bisognosi, raccolsero e mandarono somme pe’ danneggiati dal Tevere.

Ma in mezzo a’ sopraddetti rallegramenti e dimostramenti di civile concordia, una stampa segreta e frequente di brevi scritture era cominciata in Roma; e ogni dì meglio allargandosi garriva uomini e cose; e come turpitudini grandi erano da mostrare, così lo scandolo di metterle in luce senza freno, diventava maggiore. Né a quelli del governo, cominciato a scompaginarsi per le insolite speranze nate col nuovo papa, rimaneva più sufficiente balia per comprimere ciò che si scriveva e divulgava di celato. Aggiungevasi l’arte di que’ romoreggiatori coperti di accompagnare co’ più vivi biasimi Scardinali e a’ prelati, le maggiori lodi al pontefice e a que’ pochi che si chiarivano o reputavano suoi amici, per ingenerare nell’universale la opinione che non da livore alcuno, ma da amore del ben publico erano mossi: quindi ne’ loro cartelli pigliavano titolo di amici della verità; che verità pur troppo era il più delle volte. Ma quello era uno stato sopra ogni altro pericolosissimo, non traendo vigore dalla civile libertà, che di tutto si faceva per contrariare, né dall’assoluto impero, che di per se iva disfacendosi. E si notavano fino alcuni prelati di corte e familiari del papa far buon viso alle novità, non per desiderarle, ma per paura che prima o poi, per la forza dei tempi, non trionfassero. Più vivo mormorare facevasi per la contraddizione (pur troppo notevole) che fra tanta letizia di promesse o sperate larghezze, seguitassero a tenere i principali uffici dello Stato uomini che maggiormente le abborrivano. Ma tra per non sapere e per non volere, allungavasi il provvedimento di scambiarli, che avrebbe forse dovuto antecedere ad ogni altro. Maggiormente scandolezzava che alla interna sicurezza de’ cittadini, o come oggi dicesi polizia, soprintendessero creati e affezionati del reggimento gregoriano. E fra questi a diritto o a torto additavasi monsignor Marini, governatore di Roma. Al quale, mentre fu auditore della sacra Rota, avevano acquistato riputazione d’uomo franco lo ingegno non comune, una certa scienza delle cose civili, il conservarsi laico sotto il mantello prelatizio, e più il frequente censurare le deliberazioni e i portamenti di coloro che la potenza esercitavano. Ma avuto egli alla fine il tanto ambito comando, lo tenne come la perversità de’ tempi gl’imponeva, quasi non d’altro gli calesse che di essere fatto presto cardinale. Né venuto Pio IX, s’«costò con quelli che mostravano di secondarlo; o ch’e’ non credesse a’ successi di quelle innovazioni, o che si fosse ornai troppo colla parte contraria congiunto. Tuttavia non era piccolo impaccio il dargli in quei tempi sì commossi, un successore che sapesse allentare senza lasciar le briglie: e parve da nominare monsignor Gaspero Grassellini siciliano, già decano de’ cherici di camera e presidente del censo, e allora commessario straordinario della città e delegazione di Ancona. Faceva a lui merito l’avere riordinato il romano censo così da potersene ogni più civile nazione pregiare. Se gli attribuivano ancora concetti liberi, o perché ne avesse dato sentore quando gli tornava bene apparir franco, o pel solito vezzo di stimare cittadinesche tutte le elezioni fatte da Pio IX.

Fra tanto colla lentezza del riformare il governo, augumentava la impazienza de’ popoli, conforme alle speranze fatte loro concepire dai desiderosi di novità; i quali non meno collo scrivere permesso che col vietato, cercavano ogni dì più maneggiare e volgere le publiche opinioni; né solamente col potere ornai acquistato sulle moltitudini, ma ancora con quello che procacciavano acquistare sui magistrati civici; i quali se bene formati sotto il passato reggimento, pure o per non essere legati con istipendio, o per ritrovarvisi alcuni uomini probi e della patria amanti, o forse anche per quella disposizione a trasformarsi col variare dei tempi, erano sempre o almeno si credevano fossero i più pieghevoli a secondare le novelle idee. Per tal modo in sull’entrar di dicembre i consigli provinciali di Bologna, togliendo occasione di rispondere al primo ordine del cardinal Gizzi sui provvedimenti di educazione popolare per ovviare a’ delitti nascenti da ozio e da ignoranza, rappresentavano al principe che a favoreggiare la educazione del popolo, bisognava ampliare gl’istituti che già vi erano; caldeggiare gli asili dell’infanzia; istituire scuole di agricoltura e di arti; riformare la casa di lavoro e l’ospizio di correzione pe’ discoli; facilitare i commerci e le industrie; ordinare una milizia civile. Il quale ultimo desiderio più d’ogni altro s’accese, parendo che ottenuto i cittadini le armi fosse più agevole sgarare la parte alle civili istituzioni contraria.

Né mancavano gravi cagioni di come giustificarlo; conciossiaché le campagne e terre fossino più che mai da ladroni e micidiali travagliate, senza che la milizia assoldata opponesse sufficiente difesa. Ferimenti e ammazzamenti in oltre per ire di parte succedevano. In Bologna di pieno giorno fu dato del pugnale al commessario di buongoverno, che l’accarnò senza ucciderlo. Gregoriani e piani (o almeno facinorosi designati con questi nomi) venivano a parole, e dalle parole spesso trascorrevano al {sangue. Forse anche di tafferugli si facevano nascere per meglio colorare la necessità di armare i cittadini. Grande quindi era la costernazione delle città, e molti, senza spirito alcuno di fazione, bramavano una milizia che della vita e delle sostanze de’ cittadini fosse scudo. Il papa desideroso allora di rendersi grato, avrebbe acconsentito, ma gli altri della corte che non si lasciavano adescare dagli applausi insidiosi, mettevano in campo difficoltà e pericoli: Non potersi aspettare da’ cittadini ciò che alla milizia assoldata e avvezza alle fatiche non riesce; spento il primo ardore, non sopporterebbero le noie e i disagi che seco trae necessariamente una guardia notturna. Poter divenire in oltre occasione di gara e contesa fra’ cittadini e soldati, da turbare anzi che assicurare la quiete publica: né potersi prevedere à quali abusi sia da far luogo il portare le armi.

Primo a mostrarsi contrario era il cardinale Gizzi, che perseverò in questa sua massima fino a ritrarsi più tosto dal governo che abbandonarla. Onde non era tanto da stupire se i cardinali Vannicelli e Ugolini, legati della provincia bolognese e ferrarese, dove più fervea la brama delle guardie civiche, facessero ogni opera di contrariarla, sapendo che né pure a chi teneva il primo potere dello Stato, era a grado. Ma l'odio cresceva e con esso i richiami contro a’ presidi, attribuendosi a loro mal animo quel che in gran parte derivava da ordini e ingiungimenti difformi, e talora contrari, che ricevevano da Roma: dove una cosa desiderava il papa, o meglio chi il papa moveva, e un’altra la corte e i magistrati; e se bene il Gizzi fluttuasse or di qua e or di là, pure secondava meglio i disvolenti che i volenti cose nuove. Ultimamente parve da venire a questo con più istanza allora domandato scambiamento di legati. In luogo del Vannicelli, chiamato in Roma a presiedere la congregazione del censo, fu mandato il cardinal Amat. Al cardinal Della Genga, che proverbiato e maledetto da’ popoli della provincia pesarese, erasi fuggito a Roma, e poi ritiratosi ne’ suoi possessi dell’Umbria, veniva surrogato il cardinal Ferretti. Ancora Ferrara tramutò il cardinale Ugolini col cardinal Ciacchi. Alcuni altri scambiamenti di legati e delegati avvennero successivamente; i quali accolti dalle provincie con presagio di futuro bene, ne pigliavano conforto a maggiormente sperare.

In questo modo se ne andava l’anno 1846; cioè con grandi speranze e desiderii da parte de’ popoli, o de’ movitori de’ popoli; e con nessuna o poca disposizione della corte romana a satisfarli: e Pio IX nel mezzo, fra chi lo spingeva e chi lo ratteneva; non piccola parte avendo in questa tenzone la diplomazia straniera; de’ cui intendimenti e pratiche favelleremo più oltre; bastando qui notare che i rappresentanti delle corti d’Austria, di Napoli e di Russia non potevano dare né davano che consigli contrari ad ogni sorte di novità. Le altre corti o non davano alcun consiglio o di sterili conforti erano larghi. Forse quella d’Inghilterra, che nella riforma de’ governi dispotici vedeva un possibile rattento alle rivoluzioni, avrebbe con più risolutezza stimolato il pontefice, se avesse avuto presso la S. Sede un ambasciadore, e se per cagioni religiose non si fosse continuata fra le due corti poco buona intelligenza. Né a bastanza sopperiva la corte di Francia, sempre ondeggiante fra tirannia e libertà, e più spesso alla prima che alla seconda inchinevole: e se pure da essa alcun conforto buono venne al pontefice, fu per senno e industria del suo oratore Pellegrino Rossi: il quale rappresentando, non senza pregiudizio della sua fama, un governo straniero e infido, pure non sapeva sdimenticarsi di essere italiano. Nell’autunno di quell’anno erasi condotto a Parigi con animo d’informar meglio i rettori francesi sul vero stato delle cose romane; delle quali o erano al buio o fingevano di essere; e tuttavia non gli successe di persuadere al suo amico Guizot, primo ministro, che col rintuzzare giusti e temperati desiderii si facevano sorgere gl’ingiusti e immoderati; che sarebbono stati tizzoni a’ rivolgimenti. Continuarono adunque le incerte e vaghe commessioni; le quali il Rossi, tornato a Roma, in sullo scorcio dell’anno, modificando un poco con quell’arte di stato che possedeva, rendeva più confortevoli che non erano: e nell’ultima udienza avuta a’ primi di dicembre con Pio IX, così trovo che a lui favellasse: avendo vostra Santità dato principio a un grande pontificato, son certo che non lascierà una sì bella opera senza condurla a termine: della quale tanto più il mio augusto re prende allegrezza quanto che a lui dev’essere sommamente accetto tutto quello che è libertà di stati, prosperità di nazioni, pace universale. Ma in questo medesimo tempo scriveva a Parigi al ministro Guizot: nulla in Roma esservi di compiuto: ma solamente promesse disegni e giunte che dovrebbero fare studi di riforme, e nulla studiano: né dover fare maraviglia di sentire che il popolo cominci a diffidare e sdegnarsi; non che esso accusi di doppiezza il papa, ma lo crede debole e da lasciarsi vincere e aggirare da’ tristi che ancora il circondano. Quindi col diffidare e irritarsi, diviene più impaziente d'indugio; il che rende ancor più impacciato e ritroso il papa, che a maturare le deliberazioni avrebbe bisogno di tempo e di quiete. E questo, e non altro, era lo stato di Roma allo spirare dell’anno quaransei; per lo che il troppo caldo de’ sudditi non andando del pari coll’opera agghiacciata de’ rettori, s’ammannava più tosto materia a futuri e prevedibili conflitti, di quello che alcun fondamento di salutare riforma si gittasse: e si può in ultimo affermare, che le concessioni di Pio IX essendo fatte meglio per aguzzare le voglie che per contentarle, dovevano più pericolose che benefiche tornare.

In questo anno morirono due illustri italiani, Giacomo Tommasini, e Giuseppe Venturoli: l’un dopo l’altro rapiti all’onore delle scienze e all’amore della comune patria. La quale come di averli perduti provò acerbo dolore, così non cesserà di annoverarli fra le sue principali e più care glorie.

Spuntava l’anno 1847: e i primi auguri erano per l’amato pontefice. Incamminavasi, secondo il solito, alla vetta del Quirinale la popolar processione; bandiere sventolavano; canti musiche suoni voci di allegrezza d’ogni parte risuonavano. E colle feste continuavano pure a tralucere intenzioni di riforme in erba, dacché mancava la voglia o il coraggio o forse la possibilità del riformare con frutto. Un ordine modificando la costituzione de’ tribunali di Roma, primieramente riuniva nel solo tribunale del governo gli altri due dell’auditore della Camera e del Campidoglio; dal che almeno si aveva questo vantaggio, che la giustizia punitiva manco lenta e implicata procedesse; secondamente poneva i tribunali delle provincie sotto la vigilanza del supremo maestrato della sacra Consulta; da ultimo provvedeva al cominciamento d’uno specchietto dei delitti che si commettevano per regola di meglio poterli antivenire. Queste cose per se stesse piccole, ma grandissime rispetto alle speranze che ogni giorno più svegliavano, erano celebrate dagli scrittori de’ giornali, divenuti liberi per desiderare e sperare il bene, magnificando le intenzioni del principe. Come e con quai propositi questi giornali nascessero allora nello Stato della Chiesa, non è da pretermettere, essendo stati parte principalissima degli avvenimentiI foglietti proibiti da noi sopra notati, mescolando vero con falso e il vero amplificando, seguitavano a rivelare disonestà e oscenità molte; delle quali prima si sapeva o buccinava; ma non si vedevano scritte e lette in publico. Parve quindi agevole ad alcuni, fra tanta sfrenatezza, di far parere tollerabile un diario che mostrando i nomi de’ compilatori, e sottoponendosi alla ordinaria censura, parlasse in generale di ammaestramenti popolari, di prosperità civile, di ben publico senza offendere le persone o trascorrere in desiderii smodati. E se bene sapessero quanto poco questa loro impresa fosse conciliabile colla romana censura, pure vollero provare, confidando nella sperata felicità de’ tempi, e nella confusione grandissima del governo stesso; i cui ordini, per disaccordo, vero o apparente, fra ’l papa e i ministri, andavano ogni dì meglio scompigliandosi. Intitolarono il novello giornale coll’ampio nome di Contemporaneo; e fu il primo giornale politico che non pure in Roma ma in Italia si vedesse; mentreché in Francia da più anni questa specie di giornali erano in vigore; e non solamente valevano a dar notizia quotidiana degli avvenimenti, come è da credere facessero le antiche effemeridi o diari, ma assumevano ufficio di ammaestratori e accusatori publici; quasi praticando quello che nelle prischerepubbliche usavano il magistrato dei censori, e la viva voce degli arringatori; colorandosi secondo le diverse parti che vi signoreggiavano, e ognuno cercando di promovere e accreditare la opinione della parte sua, sì che dovesse prima o poi prevalere nelle elezioni, ne’ consigli e nei magistrati. Laonde una gran potenza formavano, e l’averla voluto rintuzzare o infrenare costò a Carlo X la perdita del regno. E poi che in Italia oggi non si sa far nulla se non s’imitano i francesi, ancora in questo volemmo imitarli; con quale e quanto profitto, apparirà dalle cose degli anni susseguenti. Ma allora i nostri giornali cominciarono con grande moderazione; e a quello pubblicato in Roma col nome di Contemporaneo, se ne aggiunsero altri in altre città dello Stato, cospiranti nel medesimo proposito di vincere i principi colle laudi.

E siccome i fatti allontanandosi dalla loro sorgente s’aggrandiscono, le prime opere di Pio IX acquistavano maggior fama e splendore pe’ giornali d’oltralpe; a’ quali tanto più fede si prestava, quanto che potevano esercitare pienissima libertà di giudizi. Fu notato che al cominciare de’ parlamenti inglese e franzese, le prime lodi fossero per Pio IX: e quei liberi oratori da lui, come da inaspettato miracolo, si promettessero beneficii grandissimi ‘non solo per l’Italia, anzi per tutto l’orbe cristiano. Non mai per alcun papa fu sperato tanto e sì universalmente. Ma nello stesso tempo il cruccio de’ nemici delle novità cresceva conforme per quelle i popoli maggiormente s’accendevano: né lasciavano occasione da renderle odiose al minuto volgo, non per altro capace d’intenderle e amarle che per uno più abbondante e lieto vivere. Abbattessi per mala sorte che l’anno antecedente era stata generale scarsità di raccolte; e la penuria de’ grani, causata altresì dagli estremi bisogni dell’Irlanda e dalle domande d’altri paesi d’Europa, facevasi sentire in Italia coll’avanzare dello inverno. Quindi il pregio de’ viveri augumentava, il pane rimpiccoliva. Ma il caro non sarebbe stato sì straordinario da costernare e sollevare le moltitudini, se prezzolati o interessati perturbatori non le avessero subornate. Vero è che l’odio in che erano venuti i così detti gregoriani, faceva loro attribuire ogni male publico: e quasi ancora della temuta carestia si avrebbe voluto accagionarli. Ma non rimane dubbio che nella più parte di quei tumulti, nati qua e là per timor del caro, non soffiassero; come quelli che sapevano non potere altrimenti risorgere che ingarbugliando e da per tutto la civil discordia fomentando. Nelle provincie di Macerata e di Sanseverino la plebe abbottinata impediva a viva forza di trasportare grani. E la stessa violenza facevasi poco dopo in Ancona e in Osimo. Nel Cesenatico una turba di malfattoriprecipitatisi nel porto, votavano le barche, facevano bottino de’ grani, mettevano a ruba i magazzini, e troppo più oltre sarebbero trascorsi se gente armata non si fosse levata a raffrenarli. Ancora le Alfonsine, terra ravegnana, furono minacciate di sacco e di ferro. Né da cotali furori restarono libere le terre di Recanati, di Tolentino, di Santanatolio e di Montemilano. Manomesso a Temi e a Norcia fu il publico mercato. A Piedivalle fermavasi per via il grano da trasferire a Spoleti. Rubamenti e risse successero pure a Iesi e a Fiume Esino sotto pretesto di fame. I quali misfatti poi da’ partigiani della tirannide, che in gran parte li promovevano o secondavano, erano designati quali conseguenze del commovimento dal novello pontefice suscitato. Pure fra sì ribalde opere spesseggiavano occasioni e stimoli alle publiche gioie. Rallegrò che fosse tolto il barbaro costume di solenneggiare l’annual tributo che gl’isdraeliti, per testimonianza di abbiettissima umiliazione, pagavano al cominciare del carnevale alla Camera Capitolina. Volendo il popolo di Bologna dare al popolo di Roma un segno cittadinesco di quella concordia che dicevano stretta coll’atto del Perdono, mandava ricco stendardo che fu lietamente accolto, e come dono ricordevole, serbato. Viaggiava per l’Italia l’inglese Riccardo Cobden, rendutosi famoso per essere stato principal promovitore in patria di quella lega che doveva francare la Gran Brettagna da’ monopoli della vecchia aristocrazia, procacciandole libertà ne’ commerci. Nel condursi in Italia, dove da più d’un secolo fa, era stato insegnato quel ch'egli allora iva predicando, non fu città che noi festeggiasse e onorasse. Se non che in Roma tanto più l’accoglienza parve da rammentare, quanto che più straordinaria riusciva. Gli fu fatto sontuoso convito nella sala di Campidoglio, e recitati discorsi; a’ quali lo inglese rispose con auguri che negli Stati della Chiesa la libertà de’ commerci dovesse prosperare sotto il benefico regno di Pio IX. Quindi a Pio IX le più vive salutazioni. Alquanti giorni dopo, con altro convito, fu nella stessa Roma festeggiato dagli americani che vi si trovavano, l'anniversario del loro gloriosissimo cittadino Giorgio Washington: e si notò che insieme con le lodi dell’eroe della moderna libertà, si pronunziassero da bocche libere quelle d’un papa. Chi non sa quanto odioso fra’ protestanti e scismatici sonasse il nome del romano pontefice? E pure a Pio IX indirizzavano laudi e protestavano reverenza; dal che si facevano presagi che avrebbe avuta la gloria di riunire tutti i dissidenti. Ma più d’ogni cosa riesci nuovo che il Sultano mandasse un suo oratore a fargli omaggio. Introdotto alla presenza del pontefice Chékib Effendi, disse: averlo il suo augusto padrone inviato per congratularsi del suo felice esaltamento al pontificato, di che tutto ì mondo si rallegrava. Se fra la sublime Porta e la Santa Sede non era mai stata amicizia, porgersi a lui la prima volta l’occasione di stringerla: beneficio del secolo civile ed umano, e della splendida virtù de’ due principi. Rispose il santo padre: essere lui sommamente grato a’ sentimenti di leale benevolenza che sua Altezza imperiale si compiaceva per suo mezzo significargli. Aprirglisi il cuore a lieta speranza che l’amistà fra la Corte di Costantinopoli e quella di Roma tornerebbe utile ai cattolici che dimorano nel vasto impero ottomano, e procaccerebbe ch'essi dovessino migliorare lo stato della loro religione. Il simile fu praticato dalla nazione Equatoriana, che in tanta lontananza di paese, volle che il rappresentante don Ferdinando Lorenzana, in nome del suo presidente e magistrato supremo, facesse onore e lieti auguri di felicità al sommo pontefice.

Per tanto applaudere d’ogni parte e d’ogni gente sarebbesi invanita qualunque più inflessibile natura, non che quella cotanto debile di Pio IX; non essendo ornai forestiero di qualità che venendo in Italia, non volesse condursi a Roma a venerare chi era si idoleggiato: e tirato da quell’ammirazione partivasi dell’Irlanda, grave d’anni e mezzo infermo, celebre O’Connel. Ma il contento di veder Roma e baciare i piè al supremo gerarca, gli fu tolto dalla morte che lo colpì a Genova; e gli onori non potuti tributare alla persona, furono fatti alla memoria: e grandi esequie si celebrarono nella chiesa di s. Andrea della Valle. Il padre Ventura disse la orazione, piena di allusioni politiche. Tutta Roma vi corse; non senza rincrescimento della vecchia curia, la quale più che amare in O’ Connel un fervido sostenitore della fede cattolica, odiava un sollevatore di popolo.

Se bene i nuovi giornali politici consentiti o meglio sopportati, ottenessero di pur parlare fra' continui impacci della censura, pure era più quel che non potevano dire che quel che dicevano; e quindi come per supplire di tratto in tratto ricomparivano i foglietti vietati, a fare strazio non sempre onesto dei rettori e ufficiali pubblici. Di che si prevalevano i desiderosi di mutazione per dare ad intendere al papa che a volere ovviare allo scrivere celato non ci era di meglio che sottoporrescrivere scoperto a una legge più equa e ragionevole che valesse di freno sì agli scrittori e sì a' censori. Nessuna cosa è certamente più malagevole che ’l fare una buona legge di censura per gli scritti. Non dicendo della ingiustizia d'incarcerarepensiero innanzi di rendersi colpevole, non è possibile circoscrivere e determinare per canoni quel che dev’essere consentito o vietato; e bisogna necessariamente rimettere il giudizio all’arbitrio del censore. Non di meno la legge pontificia, pubblicata a dì 4 5 del mese di marzo, arrecò notevole vantaggio per la istituzione d'un collegio di censori e d’un tribunale d’appello; di sorte che mentre per lo innanzi gli scritti di argomento civile erano censurati dagli ufficiali di buongoverno, e tutti gli altri avevano per censore un frate, acquistarono certa malleveria, commettendosi a speciali esamine, e dando allo scrittore facoltà di appellarsi ad un consiglio superiore che fosse giudice de' giudizi di ciascun censore. Ma incominciando un poco a straboccare i desiderii, v'ebbero segni di mala contentezza, subitamente raffrenati da coloro che perseveravano nel formato divisamente di ricevere in buona parte tutto ciò che usciva dagli oracoli di Pio IX; parendo questo un mezzo di conservarlo fermo in sulla via del riformare, e incuorarlo a cose maggiori: Tacendo essi o dissimulando gl’intralciamenti, e tirando a più largar sentenza le concessioni, dicevano: essere la nuova legge manifesto segno di civile progresso; l’avere il pontefice provveduto alla stampa degli scritti con regolamento, indicareche comincia riconoscerne la importanza: l’averla tolta dalle mani di uno, e data a giudicare a un concilio di più persone, dimostrare che alla onesta libertà del dire non vuol contrastare; doversi grandemente sperare da questo primo passo, e contentarsene, se non si vuol precipitare desiderando più che al buon Pio non è dato concedere. Particolarmente si rallegravano della facoltà di poter trattare materie di storia contemporanea e di publica amministrazione; non ostante la proibizione d’ogni discorso che rendesse direttamente o indirettamente odioso il governo. Vero è che il detto provvedimento nella esecuzione si allargò, non solo per la benignità dei censori, ma ancora per i arte degli scriventi; i quali nelle eccessive lodi continuamente largite al pontefice, eclissavano i biasimi riferiti agli atti e istituzioni publiche. Maggior destrezza di scoprire abusi lodando, non s’era mai usata.

Fra le inclinazioni d’un popolo che aspira a libertà, primeggia quella dello assembrarsi; donde si creano società e conventicoli; che in sul principio comunicandosi idee e affetti, par che mirino a tener desto e operoso il santo amore di patria. Ma in processo, infiammandosi in comune le passioni, e aizzandosi le cupidigie, divengono nidi di sedizione; perciocché usurpano a chi governa poteri e autorità, di qualità che a poco a poco nessun governo può durare, se non si trova modo d’infrenarli; che non sempre riesce: onde si nota quasi per miracolo, che riescisse alla singolare virtù di Giorgio Washington; che così salvò la libertà della sua patria. In Roma prima della morte di Gregorio XVI, appena si tolleravano alcuni luoghi di lettura, vigilati dal governatore. Allargate le cose sotto Pio IX, correndo a Roma, come al paradiso d’Italia, esuli illustri, non pur dello Stato ma d’altri paesi, si formarono compagnie e ritrovi. Se non che in aprile del 1847, volendosi far luogo a una ragunanza che meglio corrispondesse a’ suscitati desiderii di novità, se ne formò una col voto di centocinquantatrè cittadini, da avere le leggi di ordinaria assemblea e le tornate; chiamata circolo romano. Né alcuna deliberazione da indi innanzi si fece, che prima non fosse ventilata da quella congrega: che per dir vero si conservò a bastanza saggia, ancor quando per altre congreghe popolaresche, create successivamente e fatte ricettacoli de’ più avventati, ogni cosa s’intorbidò.

Ma il commovimento romano, come che formato di feste e di tripudi, pure era per modo cresciuto, che agli stessi rettori parve da fare qual cosa di più sustanziale, se non volevano che i lieti onori si convertissero in tristi lutti. Onde a dì 4 9 aprile il cardinale Gizzi notificava che per meglio aggiungere il fine; di migliorare gli ordini della publica amministrazione, il santo padre si proponeva di eleggere da ogni provincia un uomo ragguardevole per beni di fortuna e d’ingegno, provato, per affezione e divozione al governo pontificio, non privo della fiducia de’ suoi concittadini; il quale dimorando nella capitale almeno per due anni, s’apparecchiasse a prestargli l’opera de’ suoi consigli. Dopo il perdono accolsero i popoli questo atto come il più importante del pontificato di Pio IX: né guardando che la promessa de’ publici miglioramenti fosse annunciata dentro confini giudicati convenienti e giusti dalla mente assoluta e non libera del pontefice: né pure sfiduciandosi che la prosposta de’ novelli deputati non venisse da elezione popolare, ma dipendesse da’ medesimi capi del governo, e non fosse in proporzione della grandezza di ciascuna provincia, giudicarono invece che un grande avanzamento era l’avere un segno di rappresentanza pubblica. Ripensarono agli scritti del Gioberti, e a quella monarchia consultativa ch'ei proponeva; parve a molti che fosse come un cominciare a mandare in esecuzione dottrine cotanto magnificate. A’ più sporti della politica parve ancor più; doversi poi dalla consulta, cosa sempre precaria e insufficiente, passare a una vera popolar rappresentanza. Così il Gioberti acquistava sempre più titolo di profeta e di precursore, come allora dicevano; e il popolo s’allegrava e infiammava a voglie maggiori. Circa ottantamila persone si adunarono la sera del 22 aprile nella piazza dei Quirinale; e meglio che cinquemila cittadini d’cigni ordine vi si trasferivano con torce e suoni, recando la notificazione scritta a grandi caratteri sopra bianca stoffa dispiegata al vento. Le grida festose chiamarono sulla loggia il pontefice; al cui apparire una gran luce di più colori, accesa di artificiali fuochi, da tutti i lati fiammeggiò, e lui benedicente irraggiò. Alle allegrezze di Roma rispondevano con gara le provincie, contente di aver nella capitale un cittadino che potesse farsi delle loro ragioni rappresentatore e patrocinatore autorevole, e di sapere altresì che il principe erasi condotto finalmente a volerle in certo modo partecipi nelle riforme generali dello Stato. E gli scrittori commendando la istituzione, cercavano di apparecchiar l’animo de’ futuri deputati, per guisa che una semplice consulta dovesse acquistare la importanza di un’assemblea popolare.

. Allo editto per la istituzione della consulta tenne dietro il già designato ordinamento del consiglio de’ ministri, che in quel fervore per Pio IX fu accolto come un altro testimonio del suo ben disposto animo; e parve benefìzio che non più disgiuntamente ed arbitrariamente si espedissero gli affari da’ ministri pontifici, ma fosse obligo di ventilarli in comune consiglio; il che avrebbe arrecato una certa unità nella publica amministrazione, e posto un freno al favorire negli uffici e nelle paghe quelli che la grazia del particolare ministro avessero saputo guadagnarsi. Apparve eziandio un benefizio che gli attributi fossero manco assurdamente compartiti, e che non dovesse un ministro rivestirsi dell’autorità dell’altro. Finalmente fu stimato gran bene che s’istituisse un ministero per gli ordini della giustizia, e si togliesse all’auditore della camera e al governatore di Roma la facoltà di giudicare le cause civili e criminali, e al tesoriere le controversie di amministrazione. Ma questi provvedimenti rendeva vani o inefficaci il conferire al medesimo consiglio che doveva eseguir le leggi, il potere di crearle. Accoppiamento strano, pericoloso e condannato dagli autori. Similmente la soverchiante potenza del Segretario di stato seguitava ad avere tale balia da facilmente dominare gli altri magistrati. Oltre che non un solo laico era chiamato ad alcuno de’ sopraddetti ministeri, di qualità che il cambiamento essendo più nelle forme che nella sostanza, piccolissimo e quasi nessun vantaggio poteva aspettarsene. Si era voluto a vecchio tronco putrido annestare giovine ramo: il quale non era mai possibile che attecchisse e germogliasse. Documento non disutile a riformatori degli Stati, nessuna impresa riescire più vana quanto l'accoppiare novello bene con inveterato male.

Volgendo l'anno da che Pio IX era stato al maggior seggio innalzato, riducendosi i devoti popoli alla mente le cose da lui operate o promesse, si levavano di nuovo a festeggiare, traendo dall’antico foro sulla piazza del Quirinale. Spartivasi la moltitudine secondo le quattordici regioni della città: ognuno mostrava la sua insegna; se non che i vari drappelli raccogliendosi sotto l'ampio vessillo già donato da’ bolognesi a’ romani, pareva segnale di unione fra le provincie e la metropoli. Al mostrarsi il pontefice e largire la solita benedizione, fu da mille voci e da mille affetti salutato. La sera, lumi e canti rallegravano la città. Né dall’onorare quel dì rimase terra e castello, non solo dello stato ma d’ogni altra parte d’Italia; gareggiando le popolazioni in solenni e affettuose dimostrazioni di universale esultazione. Noto, quantunque non senza tedio, tutti questi festeggiamenti, avendo servito a consolidarel’opinione dell’accordo fra ’l pontefice e i popoli, che fu il primo seme di quelle novitadi; né mai per alcun regnante fu oosì diligentemente tenuto conto de’ giorni che o al suo nascimento o al suo nome o al suo esaltamento al trono o a qualunque altra congiuntura si riferissero, come i romani facevano per Pio IX: anzi non fu principe, come lui, adulato da’ popoli per cagione e sotto specie di libertà.

E non solamente i pontifici! ma quanti in Italia erano desiderosi di migliori governi, la sua protezione invocavano; alzando forte e concorde la voce verso i principi: non istessero più immobili in quel loro inesorabile rigore; intendessero una volta che a voler mantenere nella obbedienza i popoli, bisognava non opprimerli; concedessero reggimenti più larghi e più dolci; osservassero come il pontefice, sempre avverso alla libertà de’ popoli, allora era primo a riconoscere la necessità di mostrarsi padre e non tiranno; seguitassero il suo esempio autorevole; non essere questo il grido sanguinoso della ribellione, ma umile e pacifica petizione: né domandarsi cose ingiuste o impossibili, ma vivere più conforme alla civiltà dei tempi: avvertissero che, resistendo, resisterebbero ai volere di Dio, che mediante il suo vicario chiamava i popoli a libertà. Veramente i principi non avevano mai udito la voce dei loro sudditi chiedenti franchigie con parole sì temperate ed autorevoli; e quantunque stimassero che il nome del papa servisse di pretesto ad altri desiderii, pure non dovettero dissimulare che in quel nome diventavano questi desiderii più arditi e più gagliardi: né ad essi era facile il rintuzzarli senza far onta al capo della religione. Non mancarono di rivolgersi allo stesso papa, pregandolo a non permettere che in suo nome si gridasse libertà; volesse ripigliare i modi tenuti da’ suoi predecessori: osservasse che ogni concessione sarebbe stata esca a volerne delle altre; non dimenticasse che poteva divenire scintilla a un incendio da ridurre in cenere troni ed altari. Alle quali istanze, dicevasi che Pio IX presso a poco rispondesse: avere lui fin dal momento che era stato assunto al seggio pontificale, cercato e cercare tuttavia di formare a’ propri sudditi un più sopportabile reggimento, togliendo alcuni abusi di civile amministrazione che maggiormente ’l deturpavano. Né essere stata intenzion sua d’innozzolire i popoli a desiderare cose nuove: anzi avere più volte detto che a lui non gradivano adunamenti popolareschi e clamori publici. Avere altresì dichiarato che i suoi popoli non s’imaginassero di ottenere mai cosa che non fosse co’ diritti della Santa Sede, e colla doppia podestà de’ pontefici conciliabile: nella qual dichiarazione sembrargli di aver tutto espresso il voler suo; ed essere certissimo ch’egli non sarebbe mai per fallire a sé stesso. D’altra parte se le genti superavano colla imaginazione le cose fatte e da fare: se col suo nome gridavano la libertà dell’Italia, qual colpa averne lui, unicamente desideroso di fare il bene de’ suoi soggetti, fino che non gli fosse impedito dagli ostacoli interni, ché pur ne aveva mille intorno? Né credere che sarebbegli ornai più possibile il rintuzzare colla forza desiderii sì replicati e universali; e ove il tentasse, il rimedio tomeria assai peggiore del male, poi che ne seguirebbe conflitto rovinoso per tutti. Non essergli ignoto, aver luogo un po’ d’abuso; vedere ancor lui lo scrivere a stampa, quantunque raffrenato da una legge di censura, pure eccedere alquanto quasi fuoco troppo per l'addietro tenuto compresso. Ma qual è nel mondo il bene che non abbia suo rovescio? Abbisognare un po’ d’indulgenza; ed essere più facile ovviare agli eccessi colla dolcezza che colla violenza. Facessero ancor essi altrettanto: allentassero alquanto le briglie; rendessero manco dura la sferza; avvertissero che i doni spontanei giungono più graditi e paiono maggiori che non sono. Non aspettassino di essere forzati a concedere; ché oltre a non farsene merito, non di leggieri contenterebbero. Non seguitassero a pensare che a consolidare i troni giovi più il terrore che l’amore de' popoli: e dall'altro canto notassero con quanto poco si acquista un tale amore; concludere, lui più che dalle sue concessioni innocue, temere dalle loro ripugnanze pericolose, che sorga un incendio divoratore de’ troni è degli altari.

Ma vero o no che così favellasse Pio IX, certo è che i principi, alcuni per natura superba, altri per essere aggirati da consiglieri che negli abusi riconoscevano la loro potenza, non sapevano inghiottire che si dovessero, poco o molto, alle istanze de’ popoli piegare. Principalmente la corte d’Austria, da cui allora più o meno pendevano gli altri principati di Italia, insisteva perché il romano pontefice non facesse né pur sospettare di essere inclinato a favorire desiderii di mutazione. E per dir vero la condizione dell'imperatore in Italia era tale, che bisognava o egli stesso assumesse l'opera de' civili rinnovamenti, o impedisse che altri a quelli ponesse mano; perché mentre nel primo caso avrebbe potuto risuscitarvi la parte dell'Impero, doveva per contrario parere incomportabile il suo dominio ogni qual volta per altrui opera si fosse cominciato a innovare.

Verrebbe desiderio di conoscere in qual modo una potenza, stata nel passato secolo esempio agli altri d’ogni maniera di civili franchigie, si conducesse a dovere allora abbracciare l'odioso partito di rintuzzarle, se non fosse noto il cangiamento della sua politica dopo Fanno 1814: non sappiamo se più per colpa dei tempi o degli uomini, ma certamente per colpa degli uni e degli altri. E come tenesse il regno lombardo-veneto, sarà detto in altro libro: bastando qui notare che più d’una volta disprezzo occasioni di acquistarsi l’affetto e il desiderio degl’italiani; le quali avrebbero potuto farle strada a notevoli ingrandimenti di dominio. E senza far conto d’una setta che col nome di ferdinandea si scoperse in Bologna, non essendomi ben chiare le sue intenzioni finali, certo è che dopo gli avvenimenti del 1831 i popoli delle Romagne sarebbero volentieri passati sotto l’austriaco impero, parendo loro più sopportabile dell’ecclesiastico; il quale, oltre ad essere vessatore, era scomposto di leggi e di amministrazioni, da mostrare che di tutti gli stati il peggiore è quello che colla crudeltà congiunge la debolezza. Ma la corte d’Austria, che pur tanto desiderava accrescimento di territorii in Italia, sdegnò di ottenerlo per favore popolare, quasi migliori e più legittimi e più sicuri giudicasse gli acquisti fatti per occupazioni o per trattati; e lasciò fra tanto ravvivare sotto altre forme e sotto altro nome la parte della Chiesa; che senza arrecare a noi libertà, avrebbe a lei scompigliato l’impero; essendo che quel nome di papa, se bene scaduto dall’opinione volgare, tuttavia congiunto coll'altro sempre vivo e lusinghiero di libertà, avrebbe avuto gran potenza a movere: di che si avvide quando era tardi e odioso il riparare; mentreché facendosi l’imperatore modello di civili larghezze, avrebbe forse col tempo potuto coronarsi della gloria di condurci a quella grandezza di nazione che in vano speravamo da chi seguitò a provar vera la sentenza del Machiavelli, non essere il papa a bastanza valido a recare Italia a unità di nazione, né a bastanza debole per non impedire che altri ve la recasse. E sarebbemi apparso stolto o malvagio italiano chi avesse dubitato di gittarsi nelle sue braccia, dove di avversario delle nostre libertà, fosse tornato fautore; conciossiaché a lui non sarebbero mancate le forze alla grande impresa necessarie; nel tempo che mancavano a noi per removerlo come ostacolo: e se ci proponevamo col papa cacciar l’imperatore, non è dubbio che meglio sarebbe stato fare al contrario. Il che poteva tornar con vantaggio non più nostro che della stessa casa d’Austria; perché in uno scompaginamento irreparabile de’ propri domini, avrebbe qui avuto modo di rifondare la migliore e più splendida sede d’un impero, vigoroso per nuove forze e illustre per antiche memorie, quasi tornandolo a casa sua, e rendendolo novellamente latino, di bizantino e poi germanico ch'esso divenne, e riacquistando all’Italia la corona di signora delle genti, perduta e non mai recuperata, da che i seguaci di parte guelfa la fecero divisa, discorde, debole e facile preda a tutti i transalpini. Né varrebbe allegare il fatto dell’avere in fine trionfato gli austriaci tutte le ribellioni; perché avrebbero potuto non vincere; e forse non avrebbero vinto se non erano gli errori grandissimi e appena credibili de’ popoli, e l’appoggio mal fido e pericoloso de’ Russi. Mi perdoni il lettore questa digressione, non inutile per maggiore intelligenza delle cose da narrare. Ora ripiglio l’ordine.

Appigliatasi dunque la corte imperiale al partito del resistere alle innovazioni, e sapendo che il papa per le armi dei principi e massimamente delle sue si reggeva, non a torto pretendeva che dovesse essere quale a lei piaceva: e come altre volte lo avea rimproverato che sì mal governasse, non desiderando occasioni di sommosse vicino a’ suoi Stati, allora maggiormente si sdegnava per quelle mostre dicivil reggimento onde i popoli degli altri paesi s’innuzzolivano a domande insolite. Laonde Pio IX dovette cominciare ad accorgersi di essersi messo fra due incendii, e mal sapere rattemperar l’uno senza rendere più impetuoso l’altro. E nel tempo che giudicava ingiuste le pretensioni regie di non doversi nulla concedere a’ popoli, avvisava come davvero i popoli volevano valicare i segni d’una semplice riforma nelle amministrazioni, e del suo nome usando, forzare i principi a civili mutamenti. Stimò per tanto necessario tornare a chiarire e raffermare le sue vere intenzioni con un bando, nel quale annoverati gli atti benefici del primo anno del suo pontificato, conchiudeva: essere lui fermamente deciso di migliorare, quelle parti di amministrazione publica che possono ricevere miglioramento; ma essere del pari deciso di far ciò a gradi e con ponderato consiglio e dentro a’ limiti determinati dalle condizioni essenzialmente proprie della sovranità del capo della Chiesa Cattolica: a cui non possono addirsi certe forme che la distruggerebbero, o per lo meno le scemerebbero quella estrinseca libertà per la quale Iddio dispose ne' profondi suoi consigli che la Santa Sede avesse temporale principato. Non potere in oltre dimenticare i doveri che lo stringono a mantenere intatto il deposito che gli venne affidato; per lo che non senza grande dolore aver potuto scorgere alcuni spiriti inquieti volersi giovare dello stato presente per esporre e far prevalere dottrine e pensieri totalmente contrari alle sue massime, per ispingete le genti a novità interamente opposte all’indole tranquilla e pacifica e al sublime costume di chi è Vicario di Gesù Cristo, rappresentante d’un Dio di pace, e padre di tutti i cattolici, a qualsivoglia parte del mondo appartengano.

Ben era in questi detti un chiaro avviso che Pio IX non si sarebbe mai lasciato trarre a far mutazioni sostanziali, e molto meno a partecipare o favoreggiare, quando che fosse, alcuna guerra contro la dominazione austriaca in Italia. E poi che i meno pazienti cominciavano a mormorarne, eccoti i moderati ne’ loro diari cercare con acconce parole di raddolcire e rassicurare gli spiriti. L’avere (dicevano) dichiarato il pontefice di non voler migliorare le amministrazioni dello Stato che dentro a’ limiti determinati dalla condizione del governo temporale del capo della Chiesa Cattolica, non dover essere cagione di scoramento, né far dubitare intorno a’ propositi di lui, non essendo tra’ progressi della civiltà moderna alcuno ordine che disconvenga essenzialmente alla sovranità del capo della Chiesa. Né pur dover turbare le nostre speranze la esclusione di forme che distruggerebbero la pontificale potenza, o sminuirebbero l’estrinseca sua libertà nell’esercizio del primato supremo; conciossiaché ciò dicendo il santo padre, non ha potuto mirare ad un consesso di consultori, avendo formato diverse congregazioni per discutere proposte di nuovi ordini, e ultimamente chiamato dalle provincia i più reputati per senno e probitade, a fin di valersi dell'opera loro nel correggere la publica amministrazione. Non ha né pure potuto mirare ad un assemblea deliberante; essendo chiaro che tal forma nulla torrebbe alla libertà e dignità sovrana, come fanno fede i diversi principati civili d’Europa; molto meno pregiudicherebbe alla sua qualità di pontefice sommo; perciocché bisognerebbe che temesse che una forma di reggimento civile fosse sostanzialmente non conciliabile colla religion cattolica, che è fonte di civiltà; il che come non poteva cadere in mente d’alcuno, cosi non si può supporre che cadesse nell’animo di chi n’è capo e maestro: e sarebbe contraddizione che mentre nelle cose spirituali l’autorità del vicario di Cristo non resta offesa dalla convocazione degenerali concili, i quali deliberano unitamente col papa, e formano di due volontà una sola, dovesse quell’autorità essere offesa nella trattazione di terreni affari, qualora il pontefice si conducesse a voler chiamare la nazione a partecipare al potere di fare le leggi. Certo, se privar si volesse il papa del temporale impero, la libertà di lui nel mondo cattolico verrebbe lesa: ma non che essere questa la intenzione de’ popoli, desiderarsi anzi e farsi opera, perché si rifortifichi nelle civili riforme di stato. Quindi i doveri di esso pontefice a mantenere il deposito affidatogli doversi riferire alla conservazione della potenza temporale, e non mai alla forma di detta potenza: la quale può e dee variare conforme richieggono i tempi. e i bisogni publici, Ciò essere stato già riconosciuto dallo stesso papa, affermando nell’editto per la creazione del consiglio de’ ministri, i modi di amministrazione variare secondo la varietà de’ tempi e delle cose. Onde potersi inferire che quanto più importa che laestrinseca libertà del capo della Chiesa Cattolica sia assicurata dalla potenza temporale, tanto più è necessario dare a questa quel fondamento civile che valga a conservarla ne’ presenti tempi, ne’ quali ogni giorno più il regnare assoluto diventa incomportabile. Finalmente non possono arrecar noia le parole, il santo padre essere addolorato per la diffusione di certe dottrine e pensieri contrari alle massime e alla natura tranquilla di chi è vicario d’un Dio di pace e di moderazione: non potendosi credere ch'elle sieno rivolte al presente commovimento, d’indole affatto diversa da’ passati. Oggi prevalere l’idea di concordia, ed essere generale persuasione potersi colla monarchia accordare la libertà, colla religione la civiltà. Ma poi che non mancano di quelli i quali, mossi da perversi fini, vorrebbero con teoriche inopportune e con esagerati e scomposti desiderii turbare la moderazione civile del secolo, e così impedire che si acquisti quella onesta libertà, desiderata da’ buoni, aver voluto il savio pontefice contro questi cotali premunirsi, avvertendo i popoli a non lasciarsi prendere alla fallacia maligna de’ loro argomenti. Non resti dunque dubbio intorno alle intenzioni purissime di Pio IX: stringia. moci sempre più a lui che fermamente vuole il bene nostro: e anzi che aumentargli le difficoltà co’ nostri timori e diffidenze, aiutiamolo dell’opera nostra e della nostra fiducia, acciò più sicuro e spedito possa al termine della grande impresa pervenire.

Con questi discorsi brigavasi a dileguare le dubbiezze e far rinverdire le speranze: colle quali più s’infiammavano le voglie: e sin d’allora, cioè a mezzo dell’anno 1847, i chiedenti riforme facevano chiaro vedere ch'essi volevano la costituzione de’ reggimenti detti rappresentativi; e il papa non men chiaro protestava di non potere e non volere concederla. Come poi la concedesse, sarà detto in altro luogo.


vai su


LIBRO SECONDO

SOMMARIO

Condizione della Toscana dai tempi medicei fino al 1846. — Ricomposizione del ministero toscano dopo la morte di Don Neri Corsini. — Restituzione di Pietro Renzi agli agenti del governo pontificio. — Dimostrazioni di mala contentezza. — Principio della stampa segreta. — Pratiche de’ gesuiti per introdursi in Toscana. — Protesta dei professori dello Studio pisano. — Rigori insoliti. — Domande di riforme publiche. — Sospetti er le dimostrazioni popolari in onore di Pio IX. — Terremoto del 15 agosto. — Disordini nella Romagna toscana. — Nuove pratiche de’ gesuiti e nuovi pretesti di commozione. — Divulgamento di foglietti sediziosi. — Turbolenze promosse non meno dai settari della tirannide forestiera che dai fautori della licenza paesana. — de’ nuovi ambiziosi di salire al governo. — Assembramenti e tumulti in Pisa e in Livorno. — Pratiche per avere il permesso di pubblicare un giornale politico. — Nuova legge per l’allargamento della censura degli scritti. — Raguni di popolo dove per festeggiarla, dove per tumultuare. — Annunzi di riforme civili. — Trattato fra la corte di Toscana e quella di Lucca. — Costituzione dello stato lucchese. — Cominciamento de’ giornali politici in Toscana. — Notificazione contro le ragunanze popolari. —Morte del professore Gazzeri. — Prova del telegrafo elettrico. — Atto di clemenza del principe. — Istituzione della guardia civica negli stati romani. — Rinunzia del cardinal Gizzi. — Allegrezze popolari. — Attraversamenti dei nemici delle riforme. — Supposta lega fra la corte d’Austria e la compagnia di Gestì. — Dello stato parmense dal 1814 fino al giugno del 1847. — Principii di commozione. — Partenza della duchessa. — Furori della soldatesca. — Arbitrarie condanne e rigorosità. — Agitazioni lucchesi. — Crudeltà de’ carabinieri. —Domande popolari. —Rifiuti del principe. — Inquietudine publica. — Perturbazioni senesi. — Ferimento e morte del giovine Petronici. — Opera d’intorbidare in Roma. — Speranze e timori di parti nemiche, e querele d’entrambe. — Voce sparsa d’una gran congiura de’ cosìdetti gregoriani. — Orrenda pittura della medesima. — Chi fossero l’Alpi, il Freddi, l’Aliai, il Nardoni, il Minardi, il Bertola con altri di tal risma. — Sospetti che costoro ingeneravano. — Commovimento del giorno 15 luglio. — Armamento subitaneo della guardia civica. — Caccia fatta a’ vociferati macchinatori e loro imprigionamento. — Celebrazione dell’anniversario del Perdono. — Favore per la guardia civica. — Elezione del cardina i Ferretti a segretario di stato. — Sua natura e accoglienza lietissima avuta in Roma. — Grida contro a’ gregoriani. — Altri indizi di perturbazione. — Regolamento per la guardia civica. — Fervore pubblico per la medesima. — Sollecitudine ne’ capi del governo nell’accattare il fervore popolare. — Segni di perturbamenti civili in altre città dello stato. — Occupazione della città di Ferrara fatta dagli Austriaci. — Proteste del cardinal Ciacchi. — Richiami del cardinal Ferretti alla corte di Vienna. — Risposte del principe di Metternich. —

Mentre in Roma si accendevano faville di libertà, nelle diverse partid'Italia erano fra tanto aumentate le disposizioni per accoglierle; e trattandosi di rivoluzione pacifica, o almeno dicendosi che la forza delle opinioni doveva, senza scotere troni e altari, operare la mutazione felicemente, i Toscani, negli altri commovimenti rimasti fermi o mostratisi manco inclinati a novità, levavansi con più ardore, come quelli che a sanguinose imprese non sarebbonsi mai gittati: ripugnavano gli affievoliti costumi, la tanto tempo goduta pace, il non avere mai avuto un principe che con feroce impero gli aspreggiasse. Conciossiaché sotto i vecchi Medici passarono della libertà alla servitù senza avvedersene, cioè non per violenze di tirannide armata e usurpatrice, ma per lenta mutazione ne costumi, operata da que’ valentissimi artefici di popolare corruzione, Cosimo e Lorenzo vecchi. Né valse che per due volte occasioni di fuori (la passata di Carlo VIII e la prigionia di papa Clemente) facessero a’ fiorentini ripigliare la libertà; ché presto tornarono a mano della fortunata e lusinghiera famiglia. La quale ancora nell’assoluto principato, se bene acquistato col favore straniero, pure tenne modi diversi dagli altri principi d’Italia; che essendo più o meno luogotenenti di Spagna, in nome e in servigio di quella martoriavano i popoli, non solo spogliandoli d’ogni franchigia, ma ancora con accatti e balzelli sperperandoli. Il che provocava spesso ire disperate e impotenti; ed era cagione che si mantenesse vivo ed operoso un certo odio, se non alla tirannide, sì bene alle atrocità della tirannide.

Ma Cosimo I, che di accorgimento superò Carlo V, e sottraendosi alla sua autorità molesta, potè formarsi un regno da padroneggiarlo egli solo; sapendo di dover governare un popolo, stato l’ultimo a perdere la libertà, sfuggì ogni dura oppressione; ricordandosi che Tiberio quanto più voleva la publica servitù, tanto maggiormente si mostrava tenero della civile libertà. Né i successori di Cosimo tennero via diversa: e quanto più in sozzure e delitti si avvolgevano, tanto più la popolare letizia promovevano, nella quale le genti corrotte dimenticavano ogni amore delle cose publiche, e d’una operosissima fierezza cittadina precipitavano in un languore di morte. Veramente se alcun dubitasse che i vizi de’ tempi non si rinnovellino, bisogna che se ne accerti, considerando quelle corti: e qualora sia lecito con le grandi città ragguagliare le piccole, ben Fiorenza può dirsi viva imagine di Roma antica; conciossiaché non ricordando le discordie e fazioni cittadine fra la plebe e i grandi, il vecchio Cosimo e il nipote Lorenzo, furono per la republica fiorentina quel che Cesare e Ottaviano per la romana. In Cosimo I rinacque Tiberio; i successori dell’uno non furono molto da quello dell’altro dissimili. E nessuno ignora quale ostacolo fosse a Leopoldo I di Lorena, così svigorito e addormentato popolo ridestare e richiamare agli ordini civili. E tutta via il buon principe non si sconfortò; sperando che un più largo riordinamento di municipi avesse dovuto a poco a poco invogliarlo e ammaestrarlo per una rappresentanza di tutto lo stato. Ma destini maggiori, non migliori, chiamatolo altrove, non gli fecero che sbozzare la benefica opera: ita dispersa per lo sopraggiungere de’ mutamenti francesi: onde nuove leggi e nuovi ordini da per tutto introducendosi, divenimmo più effigie d’altrui che nostra.

E quando il principato lorenese si ristorò, in cambio di ripigliare e compiere la impresa leopoldina; (il che sarebbe stato non pur ottimo ma agevole, essendosi in Toscana meno che altrove appresa la franceseria) ovvero accettare gli ordinamenti del governo napoleonico (come il regno delle due Sicilie praticò), non si fece né l’uno né l’altro; derivandone mescolamento di vecchio, che non pareva buono, e di nuovo che pareva cattivo, da rendere sempre più confuse ed incerte le parti della publica amministrazione. Del qual disordine vuoisi accagionare principalmente il principe Giuseppe Rospigliosi. Il quale educato alla cortigianeria, non aveva appreso che ad essere servile, e nella servilità superbo. Né per altro odiava le novità francesi, che per amore alle feudali e chericali soperchierie. E quanto era indegno che un figliuolo di Leopoldo I, il migliore fra quanti principi allora ricuperavano il trono, avesse per rappresentante un ignorante, vano e superstizioso nobile romano, altrettanto fu vera calamità che il paese più d’ogni altro atto a ricomporsi con buone leggi e civili istituzioni, dovesse averlo a reggente. Accrebbe la indegnità che uomini saliti negli uffici e ne(1) magistrati per opera di rettori francesi, e per ingegno e gradi, divenuti autorevoli, mutato vento, si volgessero a incoraggiare il tapino intelletto del Rospigliosi nel distruggere ogni frutto delle avvenute mutazioni, per rendersi propizio e proficuo il ritorno delle vecchie monarchie, e gratuirsi quella lega che i conculcatori d’ogni libertà chiamarono santa.

Al male fatto dal cortigiano Rospigliosi, e secondato da quelli che avevano interesse di far dimenticare i toro servigi al reggimento napoleonico, avrebbe potuto in gran parte rimediare il conte Vittorio Fossombroni (fin dal 1796 innalzato al ministero sopra gli affari stranieri, e rimasto sempre alla casa Lorenese fedele) se la voglia del ben publico fosse stata in lui eguale alla potenza. La quale ebbe smisurata mentre regnò Ferdinando III, morto nel 1824; e ne’ primi anni del regno di Leopoldo II. A cui vogliono il padre dal letto di morte raccomandasse di affidarsi al vecchio e provato ministro; che gli diè subito una molto splendida testimonianza di fedeltà e di accorgimento, facendo pubblicare la sua successione al trono, senza aspettare gli ordini da Vienna, come voleva il rappresentante austriaco, forse per esercitare vecchie ragioni di superiorità, o per acquistare nuove pretese sulla corona di Toscana, da fruttare col tempo. Né si può dubitare che non sia dovuto allo ingegno del Fossombroni che questa provincia non divenisse vassallaggio austriaco, e quel che è ancor più maraviglioso, che in mezzo a’ legami di famiglia colla corte imperiale, vi si conservasse in ogni tempo certa libertà e indulgenza alle opinioni. Raro scrivendo, e dando mezze e buone parole, tal ora colla facezia condendo le risposte, e i sospetti maligni col piacevoleggiare dileguando, vinceva spesso l'accorto ministro le arti diplomatiche. Vero è che non riuscendo co’ sopraddetti modi, anteponeva il cedere al porre a repentaglio la sua quiete e ì comando. Pure dove altri che il Fossombroni avesse retto la Toscana, ben altra maggioranza vi avrebbero acquistato le potenze di fuori. E altro e forse maggiore obligo dobbiamo avergli per la costante opera d’impedire che il governo ecclesiastico di Roma vi si rafforzasse; se è vero, com’è senza fallo, che la maggiore civiltà di Toscana sia in gran parte frutto della minore autorità esercitatavi dal sacerdozio; che nel regio diritto trovava un freno salutare.

Ma per le interne amministrazioni dovettero i Toscani più tosto rammaricarsi che lodarsi di lui. Non dicendo qui dello ingegno e valore nelle scienze, celebrati in tutta Europa, era fornito d’un finissimo giudizio naturale, forse unico, certamente raro. Ma nel medesimo tempo aveva natura, come nessun uomo, arbitraria; e come nessun uomo inclinava al gaio e ricreato vivere. La natura arbitraria faceva ch’egli a tutto quel che non sapeva (e sapeva molto ma non sapeva tutto) ripugnasse, e dove una novità, ancorché buona, non veniva a lui in mente, adoperava ogni possa ed ogni arte per istornarla. L’amore poi al sollazzo lo riteneva da tutto che avessegli potuto accrescere le cure e i fastidii dell’operare, e non volendo far egli, non consentiva che altri facesse; abbonendo dalle riforme non solo per timore che per esse non gli si aumentasse la fatica, da cui per indole rifuggiva, ma ancora perché con nuovo e migliore ordinamento di cose, non avrebbe potuto favorir le persone, come a lui meglio piaceva e pareva. D’altra parte presumeva colla pratica, cioè con quel suo celiare e lusingare e poi fare a modo suo, di correggere gli abusi provenienti dalle istituzioni e dalla tollerata negligenza e rilassatezza degli ufficiali publici. E in gran parte vi riusciva: aiutato e secondato dall’indole dello stesso popolo toscano, che non molto più di lui appariva desideroso di riformagione: forse per mollezza, e forse anco perché quel certo senso di bene acquistato dalla natura faceva che gli effetti del mal governare non sentisse; e spesso collo intendimento suo suppliva al difetto de’ provvedimenti, e col poco osservare, o derogare le leggi non buone, otteneva che si raddrizzassero o innocue divenissero: senza dire che la indulgenza per le opinioni (ancor questa dovuta alla indole umana del paese e del principe, e tutta di fatto anzi che di ragione) reputavasi sufficiente compenso al male prodotto dall’amministrazione delle cose publiche. Là onde la Toscana, in mezzo a cattivi ordini, appariva, e non a torto, la più felice fra le italiche provincia; e delle commozioni degli anni venti e ventuno quasi non s’accorse; e nel 1831 accesa la rivoluzione nel modanese e negli stati della Chiesa, e penetratavi qualche favilla, fu tosto spenta, da mostrare che a far sollevare i popoli non basta impero assoluto, ma le asprezze della tirannide abbisognano. Le quali erano state in Toscana meglio tentate che aggiunte: per essersi la presidenza del buongoverno affidata a Torello Ciantelli, avuto in fama di abile criminalista. Ma era uomo ingordo, avventato, soverchiente e bassamente crudele: che di leggieri guadagnato da coloro che la Toscana a similitudine del ducato di Modena volevano ridotta, non indugiò a divenire incomportabile al paese, dove lo ingrato ufficio doveva esercitare: e per le grida del popolo, ascoltate dal principe, fu casso; e benché vestigi del mal reggimento durassero per ancora, essendo che certi mali lasciano semi che non si sbarbano agevolmente, pure a’ modi arbitrarii e odiosi di colui non si tornò più mai; non solo perché la presidenza del buongoverno fu conferita a un da bene uomo e di miti costumi, qual era Giovanni Bologna, riputato giureconsulto, ma ancora per avere il principe decretato che da indi innanzi i processi di maestà dovessero esser fatti e giudicati da’ tribunali publici.

Ma la potenza del conte Fossombroni cominciava a venir meno: destinato a provare a danno suo gli effetti del male che aveva procurato al publico; non solo ricusando di por mano egli (che meglio d’ogni altro sapeva e poteva) ad ogni specie di riforma, ma empiendo gli uffici di uomini più spesso dal favor suo che dal merito loro raccomandati. La più parte dei quali, ambiziosi di fama e di potenza, sotto colore di promovere miglioramenti publici da lui contrariati o trascurati, apparecchiarono, con brutto esempio d’ingratitudine, il suo abbassamento; e la sopraggiunta vecchiaia e inferma età velarono alcun poco del suo ritirarsi dal governo le cagioni. Se non che ancora ecclissato continuava ad avere una certa autorità: perciocché il ministro sopirà le cose interne, Don Neri Corsini, che gli succedette nel supremo ufficio, come era stato devoto ed ossequioso a’ consigli di lui, mentre tenne il comando, così continuò a osservarlo e consultarlo finché visse. Professava il Corsini quasi le stesse massime del Fossombroni: educati amendue nella medesima età; e cresciuti fra le opinioni e le mutazioni del passato secolo. Ma quanto il Corsini era migliore dell’altro nell’animo, Tettassimo e lealissimo, altrettanto era minore nello ingegno: non privo di eletta istruzione, ma sfornito di vigore, e incapace di pronte e proficue risoluzioni. Lo avresti detto più faticante che operoso, miglior esecutore che ordinatore, e tale da favoreggiare gli abusi non desiderandoli. In due sole cose riuscì a mantenere un qualche legame di continuazione della sapienza leopoldina, camminando sulle orme del suo antecessore: e fu nell’opporre un resto di argine alla podestà ecclesiastica, che, morto il Fossombroni, faceva sforzi per risorgere, e nel seguitare una certa indulgenza per le opinioni; lasciando per quanto ei poteva che in Toscana trovassono rifugio uomini cui tirannide spietata di altri paesi avrebbe voluto esiliati dal mondo. Né chi dovrà scrivere più particolarmente la istoria di quel tempo, mancherà di riferire questa gloria all’onesto ministro e al principe benevolo.

Vivevasi dunque in Toscana sul principio del 1845 tranquillamente; i forestieri vi accorrevano, vi si fermavano, e facendo paragone del nostro con altri governi d’Italia, ne magnificavano la mitezza e la felicità. La morte del ministro Don Neri Corsini fece presagire un mutamento di governo in peggio: né i presagi furono del tutto vani. Era stato il consiglio de' ministri ricomposto in questo modo. Alla direzione delle reali segreterie era stato promosso, come più vecchio, Francesco Cempini, conservando l’ufficio di tesoriere. Il cavalier Giuseppe Paver, che un tempo aveva servito per supplire temporalmente agli altri consiglieri, e alla morte del Fossombroni era passato ministro sopra le cose interne, fu nello stesso posto raffermato. Per l'amministrazione delle cose esterne fu chiamato il cav. Alessandro Humbourg stato già governator di Pisa: e nel luogo che al tempo del Fossombroni occupava il Paver, fu posto con più autorità d’un mero supplente, Giovanni Baldasseroni, direttor generale delle dogane.

Venne presto l’occasione di assaggiare questo consiglio; e il pubblico stava con gli occhi aperti per vedere come si sarebbe governato; perché se bene composto di tutti uomini onesti (ché la disonestà difficilmente si potrebbe appuntare ne’ ministri toscani di nessun tempo) pure del loro ingegno e delle loro massime molto si diffidava. Represso il moto riminese del 1845, gl’infelici autori di esso, laceri, stanchi e cacciati come belve per l’Appennino, ripararono nella finitima Toscana per quinci trasferirsi in Francia. Fra questi, come capo della sollevazione, era Pietro Renzi, che insieme cogli altri si ridusse a Marsilia. Dopo poco lo prese incauta vaghezza di tornare in Toscana; se per rannodare le fila della rivoluzione, o per suoi diletti particolari, non è chiaro; ma è certo ch'ei non si fece reo di nuove colpe verso la Santa Sede. Fu preso non di meno, posto in prigione, e della sua cattura renduto consapevole il rappresentante della corte romana. Il quale non mise tempo in mezzo a chiedere che fosse consegnato, mercé del trattato, chiamato di estradizione con voce barbara, come è barbaro il trattato. Era opinione d’ognuno che si consegnava un uomo al patibolo: al che veramente ripugnava l’animo compassionevole del Granduca, nuovamente impietosito dalle lagrime della moglie del Renzi, padre di alquanti figliuoli. Se viveva il Fossombroni, o anche il Corsini, avrebbero facilmente trovato l’espediente di non porre il principe in sì penoso impaccio, o di cavamelo nel miglior modo possibile, procurando che l’accusato fosse fatto evadere. Ma il nuovo ministero o non sapesse o non volesse, lasciò che la diplomazia avesse campo di operare contro allo sciagurato prigione. Ne fu rimesso il giudizio alla Consulta: i cui membri non trovatisi d’accordo, e qualcheduno nelle sottigliezze legali affogando il sentimento umano, furono cagione che le difficoltà di salvarlo si accrescessero. Dopo contrasto durato infelicemente più d’un mese, non ostante il voto contrario della stessa Consulta, venne il Renzi conceduto a chi lo richiedeva. Il che produsse un grandissimo dolore e dispetto nell’universale; non per la persona del Renzi, che già (non so se per dappocaggine o per difetto di virtù) non era più accetto a’ buoni; ma perché ognuno vedeva in quell’atto una deliberazione che toglieva al governo di Toscana il pregio che gli restava di umanità e di clemenza.

Questo accidente profittò a quelli che al poter ministeriale aspiravano: e quanto più erano stati scornati dal vedervi saliti altri, tanto più nel vituperarli e screditarli s’afforzarono: e per meglio riuscire, cercarono copertamente sommover loro contro la turba de’ vogliolosi di novità più giovani e più avventati: se non che di quando in quando del loro impeto spaurendosi, adoperavano di raffrenarlo, come uomini che desideravano ciò che temevano di volere. Divisandosi da’ più vivi un assembramento di popolo che al ritorno del principe dalla Maremma (dove erasi condotto subito dopo il fatto del Renzi) domandasse gridando la mutazione de’ ministri, tanto dissero e fecero che non ebbe effetto. In cambio sostituirono di coniare una medaglia al morto ministro Don Neri Corsini colla lode di aver la dignità del principe e della patria mantenuta; quasi per pungere gli altri di averla conculcata. Né vedevano i commovitori, o forse non curavano di vedere, ch'eglino a mire di ambizione novella servivano, guerreggiando il vecchio ministero. Il quale non aveva né pure il favore della nobiltà; astiandolo questa per vederlo composto d’uomini sorti da basse origini.

A poca scintilla gran fiamma secondando, cominciò il popolo a sospettare: cominciò il suo amore verso il principe a venir meno; si giudicavano avverati i prognostici, che mancati il Fossombroni e il Corsini, la Toscana non avrebbe avuto più pace: conciossiaché scaduti i rettori dalla publica osservanza; vociferati di continuo dalle male lingue per codardi, disumani, inetti, ligi della corte d’Austria: qualunque cosa facevano, era con sospetto e odio ricevuta. Venne il dì ultimo di carnevale; e desiderarono alcuni (non occupati che a sollazzarsi) di renderlo ad imitazione di Roma, lieto e vivace col rumore di trarsi confetti di gesso, e al sopraggiunger della notte alluminare le vie a fin di prolungare lo spasso. I rettori credendo di gratificarsi alla città che sì a loro mostravasi avversa, concessero lo ignobile trastullo romanesco che pochi nobili fiorentini avevano chiesto. Ma non era terminata la festa che vennero fuori pasquinate: le quali fin piovvero nella stessa carrozza del principe, che credendo di partecipare alla comune allegria, si conduceva per il popolar corso. Fu quello come un principio dello stampar segreto, che andò sempre rafforzando e dilatandosi.

In tanto a vie più accendere i già disposti animi, nuova occasione si porse: della quale rileva conoscere i particolari. Morto il Fossombroni e il Corsini, i gesuiti che in quasi tutte le città d’Italia erano tornati, e che da tanto tempo desideravano di entrare altresì nella Toscana e avervi stanza, stimarono essere venuto il tempo propizio. Non che realmente potesse dirsi che i rettori toscani gli desiderassero; essendo che in Toscana lesoperchierie del clero più forse a’ vecchi uomini che a’ nuovi dispiacevano. Ma credevasi che per servilità o debolezza avrebbero secondato, dove così fosse piaciuto in corte. Né mancava opinione (forse erronea) che in quella avesse la compagnia valevole patrocinio. Pure sapendo i padri quanto era ne’ Toscani l’avversione per loro, non vollero apertamente affrontarla, e adoprarono in modo che il popolo a poco a poco e quasi senza avvedersene, dovesse trovarseli in casa: dopo di che essi avrebbero bene colle loro arti provveduto di mantenervisi. Fra’ modi usati dalla compagnia per insinuarsi ne’ paesi, era quello di procacciare che innanzi vi si stanziassero le così dette suore del sacro cuore; le quali non potendo, per istituzione, confessarsi che da’ gesuiti, né con altri se non con loro conferire, obligavano i padri a condursi nel luogo dove si trovavano, e quindi a lasciarvi il seme, e a poco a poco a formarvi il nido. Queste gesuitesse (come allora si chiamavano) era fama che da qualche tempo si dimorassero in Firenze, raccettate sotto il gradito e onorevol nome di suore della carità. Fu creduto altresì che ancora in Siena e in Pistoia il medesimo inganno si ripetesse. Se non che gli amici e protettori della compagnia, i quali notte e giorno mulinavano come aprirle una via nella Toscana e darle un primo asilo, stimarono Pisa a ciò il luogo più acconcio, sì pel gran favore che s’impromettevano dall’arcivescovado, e sì per credersi quella città più delle altre facile alle intrusioni. Ma appena si sparse che era stato conceduto alle sorelle del sacro cuore di stabilirsi nella detta città, e di aprirvi una scuola di bambine, si cominciò a romoreggiare. Prima le mura con iscrizioni parlarono del soprastante pericolo. Poi si passò a più grave manifestazione di mala contentezza. Dicendosi che il canonico Fanteria, vicario capitolare, avesse comperato in proprio nome il palazzo Schipis per albergarvi le dette suore, buon numero di persone, raccoltesi nella piazza della cattedrale, Ravviarono alla sua casa; contro la quale alcuni più sbrigliati schiamazzando scagliarono sassi alle fenestre, e trassero colpi di pistola alla porta.

Posato il tumulto, e adunati presso Giuseppe Montanelli, professore di diritto patrio commerciale nello studio pisano, fecero consulta sul come provvedere! e fra’ vari partiti, deliberarono di mandare per mezzo del governatore conte Luigi Serristori un richiamo al principe: che sottoscritto da quasi tutti i professori, e secondato da molti e ragguardevoli cittadini, in cima a’ quali era il gonfaloniere, giunse assai molesto ai rettori fiorentini; i quali non sapendo né rintuzzarlo né approvarlo, e appigliandosi alle solite mezze vie, fecero ammonire i professori: che replicarono e confermarono il loro richiamo; onde maggiormente confusi i ministri, rimisero l’affare ai segretario dei regio diritto Bani; uomo intero e nelle cose civili riputatissimo. Il quale vogliono facesse intendere, che se contro sua opinione avevano avuto buone ragioni di concedere quel permesso, le stesse ragioni dovevano valere per non ritirarlo; e tuttavia fu ritirato.

Così l'atto pisano, magnificato fino ne’ diari francesi, fu come un primo addentellato alle susseguenti commozioni, fatte sotto colore di domandare riforme; parendo che bastasse un po’d’ardire per isgarare la ripugnante volontà de’ rettori: e giovanetti imberbi, e con loro uomini fanciulleschi, tutti educati alle romantiche scuole e di romantiche fole imbevuti, si credettero capaci non pur Toscana, anzi Italia e il mondo riformare. Lo scrivere a stampa segreta raddoppiò, togliendosi da ogni cosa argomento di querele. Raddoppiarono altresì i sospetti e le persecuzioni: i commissari accoglievano le accuse, cominciavano disamine, compilavano processi, adoperavano monitorii; stampatori e supposti autori di foglietti s’imprigionavano; a vari letterati forestieri s’imponeva di partirsi della Toscana. Ognuno deplorava lo inquieto vivere: i più temevano qualche grave perturbazione.

Nel mese d’aprile mediante scrittura senza nome furono dirette al principe alcune domande per se stesse moderatissime, come l’ampliamento della Consulta di stato, che distinta in due parti, l'una per le cose legislative, l'altra per le amministrative, avesse poi facoltà di riunirsi a fin di esaminare gli annui rendiconti e procurare la formazione de’ codici criminale e civile; una riforma del giuoco del lotto, affinché meno rovinoso per la gente povera dovesse essere: l'abolizione delle gabelle alle porte delle città, restringendole alle sole cose di consumo, come in altri paesi era praticato: finalmente la sollecita istituzione de’ licei e dello insegnamento popolare in tutte le comunità del Granducato. Non parendo che si facesse segno di volere soddisfare queste domande, altre e più importune se ne compilavano: che né pur soddisfatte, valevano a vie più commovere gli animi;specialmente alterati dalla opinione che il rappresentante austriaco, barone Neuman, operosissimo e accortissimo negli uffici della diplomazia, mandato in Toscana quando pareva divenuta fucina di opere sediziose, padroneggiasse l’animo del granduca; il quale dall’altra parte non sapeva intendere come a un tratto avesse perduto l’affetto e la confidenza de’ suoi popoli.

Ma la commozione crebbe assai pià dopo eletto Pio IX, e promulgato quel suo perdono che tante speranze accese, come sopra abbiamo riferito; parendo che i rettori fiorentini invidiassero alla supposta gloria del pontefice, o se ne mostrassero avversi per paura che quel nome di Pio IX non dovesse ancora a’ Toscani servire di pretesto a domandare riforme che loro non gradivano. Quindi le stesse feste per il nuovo papa erano come tolte in sospetto, e se apertamente non se ne faceva delitto, ogni mezzo si adoperava per frastornarle. Similmente ad alcuni graziati pontificii che venendo di Francia si tornavano alle loro case, vietavasi di passare per Toscana: ad altri imponevasi la dimora di poche ore: scandolezzando che dove prima si dava rifugio a’ sudditi del papa reputati rei, negassesi ospitalità mentre erano assoluti.

Co’ mali civili si congiungevano i naturali. A’ 45 d’agosto un’ora dopo il mezzodì un vento, come di lontana bufera, annunziava il flagello che non piccola parte di Toscana doveva contristare. Al cupo rumore che andò sempre crescendo, succedeva uno scotimento di terra che con vario e prolungato moto partendo da ponente, diffondendosi lungo la costa, rinforzando in parte della Maremma pisana, seguitando con pari violenza nelle sue colline, e quinci a poco a poco declinando, empiva di terrore e di rovine quel tratto di paese che fra Orbetello, l’isola dell’Elba, la Lunigiana e la montagna di S. Marcello si distende. La terra di Orciano, popolata di ottocento abitanti, divenne un mucchio di sassi. In Castelnuovo della Misericordiatrentatré case rusticali si nabissarono. Non lungi di Guardistallo, una casa che era sul dorso d’un poggio, fu inghiottita insiem con bestie ed uomini. Altre rovine e morti efediti in altri luoghi si additavano. Né di questa calamità erano per ancora cancellati i vestigi, quando nella Romagna toscana nuovi tumulti, in parte provocati dalla, insolenza de’ gabellieri, succedevano. I quali erano rappresentati al principe per tentativi di sedizione; cui mancava forza di reprimere, né si pensava a togliere le cagioni o pretesti Quindi gli umori s’inacerbivano, gli scrittori celati più forte garrivano, e il sapere di potersi rumoreggiare impunemente, accresceva l’audacia. Gran pretesto erano i gesuiti; e dicevasi che ricominciassero le loro pratiche, e sventata la prima trama, ottenessero di rappiccarne le fila con fare che le stesse dame del sacro cuore, cacciate di Pisa, e mascherate coll’onorevole titolo di suore della carità, si stanziassero in San Miniato, e sotto la soprintendenza di una cotal Anna Lapini cominciassero una scuola par le bambine povere. Spargevasi pure, essere stato tratto in inganno il buon parroco di San Freddiano, affinché permettesse alle stesse suore d’introdursi con mutata veste in una scuola notturna di popolani da lui fondata; ed era opinione, che esse prendendo ora il nome di terziarie dell’ordine di San Francesco, e or quello di sorelle di Santa Dorotea, travestite si mantenessero in Firenze, si trasferissero nel contado, e avessero eziandio albergo in Pistoia, Certaldo, ed altre terre. Vero o no tutto questo moto gesuitico in Toscana, giovava divulgarlo e ingrandirlo per accendere gli animi nel desiderio delle cose nuove.

E altre occasioni di commozioni sopravvenivano. Avendo la città di Genova celebrato il dì 5 dicembre, che un secolo compivasi dalla memorabile cacciata de’ Tedeschi, ancora in Toscana, come pure in Romagna, si fecero fuochi, lumi ed altre allegrezze publiche: dimostranti odio alla potenza a cui principalmente la servitù d’Italia si attribuiva: e furono parecchi messi in carcere, altri ammoniti, altri notati al libro dei malcontenti.

Peggio poi d’ogni cosa era che la stampa vietata, insieme con richiami e desiderii moderati, divulgava cartelli sediziosi, e tal ora minaccienti incendi, saccheggi, uccisioni, ed ogni sovvertimento d’ordini publici: e a ree parole seguivano qua e là rei fatti, sotto pretesto, come negli stati papali, del timorc del caro; e se ne riferivano gli eccitamenti a’ partigiani della tirannide forestiera: mentre questi ne incaricavano i desiderosi di libertà. Notavano i primi, che le turbolenze ne’ mercati di Monsummano, Borgo a Buggiano e Pistoia furono mosse da uomini che pochi giorni appresso ricomparvero a S. Casciano e in altri luoghi, aizzando e persuadendo sì i venditori e sì i compratori del grano, affinché gli uni alzassero i prezzi, e gli altri pretendessero che fossero stranamente rinvilisti; aggiungevano, che fra le folle commosse vagavano dove laici vestiti da preti, e dove preti che coll’abito proprio incitavano contro a’ possessori e a’ ricchi i contadini e i bisognosi: e nelle pubiche vie che mettono a’ vari mercati, si trovavano ignoti uomini levando falsi terrori, e facendo tornare addietro vetturali che portavano grano a vendere. Dai secondi per contrario dicevasi: cominciare già a germogliare il mal seme gittato da’ settari della licenza: i miglioramenti publici essere le belle scuse: sfrenata cupidigia d’intorbidare e spogliare, stigar gli scellerati; e se non si mette subito un argine, andarne patria, religione e società.

Probabilmente il male veniva dagli uni e dagli altri: ma difficil cosa era discernere quando e fin dove si traboccasse per colpa de’ troppo impazienti e sfrenati di libertà, o de’ prezzolati agenti della tirannide di fuori: essendo che questi intramettendosi mascherati nelle ragunanze e commozioni, che cominciavano festive e temperate, pingevano destramente i più ardenti o meno cauti (che sempre ve ne ha) affinché in tumultuazioni e sedizioni si convertissero. Vociferavasi che il principe di Metternich, gran cancelliere anzi anima dell’impero austriaco, mandasse in Italia sommovitori. A me di ciò mancano prove certe, e non l’affermo. Ben credo sì rea politica fossegli attribuita per giudicarsi consentanea ad alcune sue massime non ignorate. Soleva egli distinguere le rivoluzioni dalle sommosse; riferendo le prime a impresa civile di libertà, apparecchiata da lungo tempo e da grandi cause; e le seconde a parziali e sconsigliate opere di sediziosi. Quindi nel giustificare alla corte di Francia la sua opposizione alle prime riforme papali, diceva: essere più agevole raffrenare le sommosse, che sono come corpi palpabili, di quello che le rivoluzioni, somiglievoli per la loro natura agli spettri; doversi pertanto aspettare che queste piglino forma di corpo, per mettere loro le mani addosso: che in fondo chiudeva il concetto: doversi le rivoluzioni convertire in sedizioni per aver modo di spegnerle. E se il ministro aulico non mandò gente a scombuiare, non è temerario il giudicare eh ei confidasse negli eccessi da lui facilmente sperati dalla troppo fervida e discorde natura degl’Italiani.

Fra tanto gli ambiziosi di salire poi che s’avvidero essere in Toscana ben preparato il terreno, e largamente seminato, cominciarono a mettersi innanzi per cogliere il frutto. Di questi ambiziosi non è male innanzi tratto rammentare le qualità e le cure. Un tempo amanti di libero stato si mostrarono più per vaghezza di fama che per sentimento profondo. Non volgendo dopo il 1834 più le cose prospere alla libertà, bisognando correre pericoli e patire umiliazioni, non ressero; e ripiegando prudentemente le vele, rawicinaronsi a quel porto da cui eransi allontanati quando pareva bello cercar fortuna in altomare. Alcuni furono chiamati agli uffici publici; altri a quelli della corte, e quasi tutti di titoli e insegne fregiati. Se qualcuno non ebbe nulla, fa perché ambiva troppo. Trovarono essi poscia un bel modo per ottenere che di questi loro cangiamenti il publico non si scandolezzasse, dicendo di servire un principe liberale, e quindi potere da lui accettare onori e benefizi senza contraddire alle loro massime. E in effetto dentro a un certo confine, non fu loro vietato di mostrarsi desiderosi di civili ordini, ch'eglino allora si contentavano di caldeggiare mediante i congressi scientifici, le accademie agrarie, la istituzione di asili à’ infanzia, le scuole popolari e altre siffatte opere, che procacciavano buona fama a’ promotori, anche perché le stesse istituzioni trovavano ostacoli e punizione negli 'altri paesi d’Italia. Ma paghi non essendo in fino che non giungevano ad avere nelle mani il governo, si valsero delle svegliate speranze di libertà per mettere i vecchi ministri in necessità di deporsi: non essendo possibile che questi non incespicassero quando nuovi ordini fossero stati introdotti; onde non dee far maraviglia che le riforme abbonissero, e forse ostacoli ponessero, perché il principe non si piegasse a effettuarle. Ma gli altri che avevano interesse di desiderarle, come l'unica via che avesse potuto condurli a comandare, non si restavano di operare indirettamente sull’animo di lui per disporlo a cedere.

Le cose in tanto incalzavano; gli esempi pontifici con arte magnificati acquistavano maggior peso. Venuto in Toscana lo inglese Riccardo Cobden, e fatti, per la solita imitazione, splendidi conviti e ritrovi, i nuovi desiderii col franco manifestarsi in dicerie sulla libertà de’ commerci, maggiormente si accendevano. Lo scrivere e stampar di celato più importuno diveniva. Fogli, avvisi, libercoli succeàevansi con rapidità maravigliosa. Né d’altro parlavasi che di confische di libri, di visite per le case, di strane proibizioni, d’ingiurie personali. Le leggi non pur inosservate giacevano, ma schernite; muta freddezza di affetti accompagnava da per tutto il principe; orribili dispregi accompagnavano i ministri. Non restava ai rettori che o puntellarsi con le armi di fuori, o cedere: e pure né l'uno né l'altro facevano, per timore di far peggio; e continuavano non retti da amore publico; non forti per milizia; vilipesi da ognuno.

La sera del 5 maggio, non ostante le proibizioni, vollero i Pisani festeggiare il giorno onomastico del novello pontefice. Una turba di gente d’ogni qualità, raccoltasi al piaggione, e preceduta da bandiere col nome di Pio IX, movevano verso il palagio arcivescovile, forzando l’arcivescovo a mostrarsi. Le lodi al papa mescolavano con vituperi alla casa d’Austria e alla compagnia di Gesù. L’auditor del governo avrebbe voluto dissipar colla forza quel raguno; ma il governatore conte Serristori si oppose, affinché non divenisse sanguinoso tumulto. Di maggior commozione fu esempio la città di Livorno: dove il popolo condottosi festante alla casa del rappresentante pontificio, e forzandolo a spiegare dalla fenestra la bandiera romana, alcuni de’ più agili balzando l’uno sulle spalle dell’altro, sì che chi era al sommo potesse afferrare lo stendardo, incontanente lo staccano, e discesi corrono con quello inalberato la città, gridando viva Pio IX. Nel passare dinanzi alla casa del rappresentante austriaco, mandano urli di maledizione che in breve si mutano in colpi di sassi alle fenestre. Questi fatti erano nuovo argomento di querele alla corte austriaca; nuovo impaccio ai ministri toscani. Nel cui consiglio regnava più sgomento che conformità di pareri; dicendosi il Cempini inclinato al concedere non solo per giovanili rimembranze di libertà e bonaria natura, ma ancora perché fino a un certo punto stimava che i chiedenti avessono ragione, e soprattutto perché vedeva cotanto acceso il figliuolo suo unico, e da lui sommamente amato. Il maggior odio andava addosso al cavalier Paver; che per la qualità di ministro sopra le cose interne era costretto a metter fuori il viso, già divenuto esoso. Finalmente s’accordarono, consenziente il principe, di modificare e allargare la censura degli scritti con una legge, intorno alla quale giova conoscere alcuni particolari.

Abbiam notato in generale come gli animi commovesse lo stampare segreto; del quale principal promotore era il professor Montanelli: e lo dico, perché egli stesso publicamente se ne vantò, quasi fosse stato autore e direttore del commovimento non pur toscano, anzi italiano o europeo. Essendo in quel tempo tutto amico e accontato colla parte de’ moderati, o tale al meno addimostrandosi, sol differiva in questo, che a lui pareva, non potendosi ottenere libera facoltà di scrivere, fusse necessario e buono espediente parlare a viso nascosto; mentre che gli altri, meno infervorati di lui, o più prudenti, opinavano che le stesse cose più o meno si dovessero dire, ma con legittimo permesso. Fra’ quali per autorità di nome primeggiavano il marchese Gino Capponi, il marchese Cosimo Ridolfì e il barone Bettino Ricasoli. Al primo avevano acquistato osservanza la celebrità del casato, la rettitudine dell’animo, il sapere svariato, la presenza maestosa e la lunga amicizia mantenuta con uomini che maggiormente per la libertà avevano scritto o patito. Ma sconfortato da sperienze dolorose; afflitto da sventure private (e dalla maggiore, che è di non vedere) era fatto meglio per aiutare co’ desiderii che coll’opera; e ancora nel consigliare riusciva tal volta dubbioso e non a bastanza efficace. Il Ridolfi era certamente vago di civili larghezze; né d’ingegno e di cognizioni era privo: e d’uomo onesto altresì aveva meritata fama; ma vivendo in corte aio del principe erede, non poteva molto scoprirsi; di che ammoniva in confidenza coloro che l’avrebbono desiderato più operoso; promettendo per altro ch'ei, dove gli si fosse porto ’l destro, non avrebbe mancato di ben disporre l’animo del principe. Più libero per condizione privata, e altresì più balioso mostravasi il Ricasoli; che per altro avendo la stessa onestà, non aveva l’autorità del nome degli altri due; e tuttavia non restò d’indirizzare ai capi del governo petizioni per indurli ad allargare la censura degli scritti, e riformare la civile amministrazione. In oltre per afforzarsi meglio in tali pratiche, cercò la compagnia di Vincenzio Salvagnoli, facondo avvocato, e dell’abate Raffaello Lambruschini, chiaro per iscritture e opere in servigio della publica educazione; e il Salvagnoli, quasi per mostrare che si poteva ammonire a viso scoperto, stampò col suo nome un lungo discorso da chiarire il principe di quel che, secondo lui, avrebbe dovuto farsi per contentare civilmente la parte saggia e moderata del paese.

Ma costoro se bene fossero d’accordo ne’ principi!, non s’accordavano tutti nel modo di ridurli in pratica. Alcuni (ed è superfluo notare i nomi) volevano domandare il permesso d’istituire un giornale di politica temperata, sulla foggia del Contemporaneo di Roma, ma con censura per essi più benigna. Altri notavano per contrario, che ciò era un volere il bene per privilegio, e quasi fare della libertà monopolio: il che quanto sarebbe sconvenuto ad uomini di civili desiderii, altrettanto era più onorevole chiedere e caldeggiare un allargamento di censura per tutti. In fine prevalse la prima sentenza per tema forse che il domandare un generale allargamento di censura dovesse a quelli del governo parere più pericoloso, e quindi manco facile ad ottenere. E sul finire di marzo mandarono la petizione sottoscritta da Gino Capponi, Vincenzio Antinori, Cosimo Ridolfi, Guglielmo Digny, Ferdinando Andreucci e Marcò Tabarrini; nella quale dichiararono le materie che avrebbono trattato, e i fini che nel trattarle si proponevano. Ma grande fu, e doveva essere, la loro maraviglia quando ebbono in risposta, non potere il principe fare una eccezione odiosa; essere apparecchiata una nuova legge di censura, che quanto prima publicata, avrebbe soddisfatto al bisogno e desiderio di tutti. La qual legge, se fosse stata realmente innanzi deliberata, non potrei accertare; questo è certissimo, che saputasi la cosa, fece un poco dire che i rettori si mostrassero più liberali di coloro che a studi di libertà intendevano.

Fatta dunque e publicata a dì 7 maggio del 1847 la nuova legge per l’allargamento della censura degli scritti, fu variamente accolta. Chi se ne contentava e chi no. S’istituivano paragoni colla legge pontificia; giudicavasi questa vantaggiar la toscana per aver affatto escluso ogni ingerimento del presidente del buongoverno, e per recare pene manco severe pei trasgressori; essere dalla toscana vantaggiata per l’articolo che esplicitamente concedeva l'esamina delle leggi e degli atti del governo. In tutto il rimanente potevansi le due leggi stimare come una di quelle cose il cui bene depende dalla scelta delle persone che devono metterle in esecuzione. Se non che il citato articolo della legge toscana, concedente facoltà di esaminare gli atti del governo, accortamente taciuto nella legge pontificia, includeva cosa, che non ostante la condizione posta del debito rispetto a’ magistrati, portava necessariamente una sostanziale alterazione negli ordini del principato assoluto; conciossiaché potendosi sindacare, e per conseguenza giudicar difettose le leggi, dopo che l’autorità del principe le aveva publicate, ne doveva nascere che detta autorità avrebbe a poco a poco perduto ogni potere, e sarebbesi ridotta ad essere insufficiente moderatrice. Strana cosa, che non essendosi voluto concedere che le leggi, innanzi di essere approvate, fossero da un consiglio d’uomini da ciò esaminate e discusse, si lasciasse che ogni privato se ne facesse giudice, dopo approvate e promulgate.

La nuova legge si volle in Firenze festeggiare con un ragunamento di popolo che sotto la reggia gridasse viva la stampa, viva Leopoldo II, viva Italia; probabilmente non sapendo i gridatori cosa volesse dire stampa: e si sentiva che i più vociavano imboccati: onde a grida generose si mescolavano di tratto in tratto parole sconce e beffarde, suggerite da ignoranza o forse da agenti segreti: forte scorrucciati di quella prima ragunanza popolare che non potendosi impedire, sondo fatta in onor del principe, cercavasi intorbidare. Nelle provincie dove la legge piacque meno, provocò assembramenti confusi e più tosto a chi governava sfavorevoli. In Livorno, seguito non lieve contrasto fra alcuni che volevano festeggiare, e altri che non volevano, s’accese un gran baccano, che raffredato per allora, fu seme ad altri nuovi e maggiori subbugli. Ne’ quali, replicati a Pisa a Siena e fino in Maremma, con pretesto di celebrare gli atti del pontefice, il popolo cominciò il pessimo esempio di abituarsi a dispregiare la milizia: i cui capi senza usar la forza, minacciandola, rimanevano publicamente beffati.

Il primo di giugno il diario del governo recava gli ordini per la esecuzione della legge di censura, i nomi de’ componenti il consiglio principale, e i particolari uffici di revisione. Oltre a ciò, una lettera al presidente del consiglio principale, e a’ presidenti degli uffici di revisione, un’altra a’ capi de’ reali uffici, che pure si riferiva alla esecuzione della legge per la censura degli scritti; un editto per la formazione d’un consiglio per compilare il codice civile e criminale, colla promessa d’un ampliamento della R. Consulta di stato; finalmente una ingiunzione al soprintendente delle comunità, che accennava a riforme e miglioramenti da fare nelle municipali amministrazioni. Sorprese da prima vedere tanti atti a una volta; parve buono indizio che si rendesse il publico consapevole d’informazioni, che riferendosi ad esecuzione di leggi, solevano farsi in segreto. Quanto alle cose contenute nelle commissioni e nell’editto, furono vari i giudizi, varie le opinioni. Il primo ordine sembrava ad alcuni, meno contentabili, recasse nuovi attraversamenti allo stampare, quasi fossero pochi quelli nella stessa legge contenuti. Le persone elette a comporre il consiglio principale e i minori uffici di revisione, non tutte dispiacevano, e né pur tutte piacevano. Pure dai più notavasi che le dichiarazioni sul modo di esercitare la censura facevano sperare una buona esecuzione. Lodavasi in oltre l’editto per la compilazione de’ codici; se non che essendosi altre volte posto mano alla stessa opera, senza che ne uscisse il frutto desiderato, rimaneva il dubbio che ancora in questa non dovesse l’impresa andare a vuoto; tanto più che gli uomini a ciò novellamente deputati erano occupatissimi o in uffici publici, o in affari propri. L’ordine finalmente riguardante le comunità, non rallegrò punto quelli che nella riforma municipale ponevano il primo e principale fondamento d’ogni civile libertà; conciossiaché il chiamare a riferire i provveditori delle Camere, che erano come i despoti de’ comuni, mostrava che non si voleva stirpare il male dalle sue radici.

Coll’entrare dello stesso mese fu conchiuso un trattato col duca di Lucca, per il quale il duca dava in appalto per sé e pe’ suoi successori al granduca di Toscana l’amministrazione delle dogane, del sale e tabacco e della lotteria di quel ducato. Questo trattato ci sforza a dire le condizioni del principato lucchese, nelle quali si parranno le prime cause onde fu accelerata la sua ricongiunzione colla Toscana. Quando Lucca nel 1805 cessò di essere republica, ebbe da Napoleone in compenso una costituzione: la quale se bene fosse ima larva di libertà in mezzo a quell’arbitrio imperiale, pure una qualche sicurtà a’ diritti civili ella era; di cui goderono i Lucchesi fino al 1844. Caduto Napoleone, e cominciato nel congresso viennese il traffico de’ popoli, volendosi dare uno stato all’arciduchessa Maria Luisa d’Austria, già imperatrice de’ Francesi, parve fosse da anteporre ad ogni altro l’antico ducato di Parma; e per compensare la casa di Borbone, cui quel ducato per deplorabili ragioni di eredità spagnuole apparteneva, fu temporalmente assegnata Lucca sotto condizione che lo statuto del 1805 si conservasse. Alla morte poi dell’austriaca Maria Luisa, mentre Parma sarebbe tornata a cui aspettava, Lucca, naturalmente toscana, sarebbesi col toscano regno ricongiunta.

Ma nelle mani borboniche la costituzione lucchese fu aperta menzogna; e cominciato a violarla la infante Maria Luigia, che ricevette la investitura del ducato, quasi può credersi che il figliuolo di lei Carlo Lodovico salisse al trono ignorando per fino ch'ei non cingeva corona di assoluto signore, e che doveva esservi un senato, al quale apparteneva l’approvazione dell’annuo conto delle spese e dell’entrate publiche, e di tutte le leggi; la elezione de’ giudici criminali e civili; la vendita delle cose possedute dalla nazione; e i cambiamenti da fare ne' tributi, dazi e gabelle. v’avea bene un consiglio di stato, il quale eletto dal principe, o non veniva convocato o convocato serviva più tosto di mantello alle scioperatezze ducali che di tutela a’ diritti de’ cittadini. Pure straziando il duca ogni dì più il tesoro lucchese per soddisfare a’ vizi propri e de’ suoi male affezionati cortigiani, avendo domandato al granduca di Toscana di riconoscere un supposto suo credito, e questi avendo dinegato, indotto per ciò da disperato bisogno di ammassar danaro, creò un debito publico di ottocentomila scudi; contra il quale lo stesso granduca protestò allegando la costituzione del 1805; e la protesta ebbe effetto; da che al debito lucchese mancato il credito publico, mancò il modo di essere trafficato da chi voleva farne bottega regia.

Amministrava l’erario Tommaso Ward, condotto a Lucca dal conte di Lewemberg in qualità di mozzo di stalla. Come fantino aveva più volte corso in Firenze, e riuscito vincitore, erasi acquistata la grazia del duca bestiereccio, dal quale fu chiamato a regolare la interna amministrazione della sua casa; e in verità lo stallone mostrò più intendimento che dalla sua vile condizione non si sarebbe aspettato. Il duca lo consultava ne’ suoi bisogni continui, e a poco a poco ne faceva il suo principale e più fidato consigliere. Nella creazione del nuovo debito il ministro dell’erario Torselli, che non aveva saputo efficacemente contrariar le voglie principesche, né aveva avuto cuore di secondarle, rinunziò, e in suo luogo fu posto il Ward, che ancora putiva di stalla. La destrezza del nuovo ministro apparve nel rimovere gli ostacoli a procacciar danaro al suo padrone, conforme alla urgenza. Furono messi in opera da una parte alcuni rappresentanti di corti straniere, dall’altra i più sperti mezzani ed usurai; e quelli e questi per diverse vie operando trassero facilmente chi reggeva la Toscana a prendere in fitto l’amministrazione delle dogane lucchesi insieme con quella del sale tabacco e lotteria, facendosi altresì mallevadore del debito publico che da ottocentomila scudi fu a secentomila ridotto. La qual convenzione tornò gravosa allo stato di Toscana che doveva dar più che non ritraeva delle nuove entrate: non fu molto proficua al duca, essendo il convenuto debito, non ostante la malleveria toscana, caduto nelle mani di mercanti che ne fecero monopolio; in fine il vero utile ebbero quelli che indirettamente brigarono per la stipulazione del trattato.

Appena in Toscana la nuova legge sulla censura andò in esecuzione, cominciarono i giornali politici co’ diversi e lusinghieri titoli di Alba, Patria, Italia, Popolo; i quali come che non tutti parlassero egualmente libero, tutti apparivano indirizzati a stirpare vecchi abusi e aprir la strada a un nuovo ordine di reggimento. Può quasi dirsi la riforma della censura in Toscana non aver fatto che legittimare quel che si stampava di celato; poi che gli stessi desiderii, avvertimenti e biasimi degli scrittori ignoti continuaronsi da’ noti, con questo che avendo più autorità, riuscivano più efficaci; e sì efficaci che non solamente operarono dentro a’ confini della Toscana, ma 1ardore acceso in Roma sarebbesi illanguidito e venuto meno, innanzi che a tutta Italia si appiccasse, dove essi non l’avessero di continuo rinfocolato. Conciossiaché in Roma non piccoli né radi seguitavano gl’impacci della censura: i quali ancora in Toscana non mancavano; e quasi subito dopo pu

blicata la nuova legge, si mandarono segrete commissioni ai censori perché di certe cose o fatti non lasciassero parlare. Ma accadeva che i censori stessi rivelavano dette commessioni agli scriventi, per tòrsi l'odio della proibizione; e questi allora protestavano; i ministri fingevano di non saper nulla, e forse qualcuno nulla ne sapeva; il presidente del buongoverno querelavasi col principe di essere così da’ ministri messo al berzaglio; il principe non avea che rispondere; e fra questo tirare da una parte, e allentare dall’altra, i censori presero il partito di permettere ogni scritto. Il che dimostrerebbe che in Toscana un governo tanto vale quanto è accetto all’universale, se non rivelasse ancor meglio la comune mollezza, e quel vizio in ogni cosa, del lasciar correre.

Avevano gli ultimi tumulti di Pisa Livorno Siena e Maremma messo grave costernazione, tanto più che indizi che quelli si ripetessero, non mancavano. Si diceva che per l’anniversario della elezione del pontefice vi sarebbero state feste cittadinesche, che sarebbonsi cangiate in tumultuazioni pericolose. Credettero i rettori di antivenirle con un decreto del principe che proibiva le ragunanze popolari sotto pena di essere sciolte colla forza, e incarcerati i promotori. Il qual ordine appena comparso fu nei novelli giornali proverbiato e produsse effetto opposto a quello cui mirava; essendo stato cagione che le ragunate non solo accadessero, ma tumultuarie divenissero. Parve da indi innanzi che per dispregio alla legge stessa si tumultuasse, senza che i capi del governo, che avevano minacciato l'uso della forza, la forza usassero, sì per non volere e sì per non potere; onde maggiormente la loro autorità s’indeboliva e quasi annullava, mentre l’ardire ne' chiedenti istituzioni nuove aumentava.

Perdevano in quei giorni le scienze chimiche un illustre e celebre professore nella persona di Giuseppe Gazzeri, che per lunghissimo tempo, e con grande onore di sé e di Toscana, le aveva insegnate; essendo morto vecchissimo, e avendo fino all’ultimo conservata invidiabile freschezza d’intelletto. Le sue esequie testimoniarono come un affettuoso maestro moriva lacrimato da’ molti suoi discepoli, un mentissimo scienziato da tutti i dotti uomini, un cittadino virtuoso dall’intero popolo. Un mirabile esperimento il dì 23 giugno fu per la prima volta fatto in Toscana da Pisa a Livorno, per cura del chiaro professore Matteucci; voglio dire il telegrafo elettrico; la cui invenzione quanto onora la scienza de’ fisici, altrettanto è giovevole al governo degli stati per la istantanea comunicazione delle notizie e degli ordini. Spirava il mese con un atto di clemenza del principe verso gli accusati per il tumulto popolare di Modigliana del settembre del 1846. Ma il mese di luglio cominciava torbido in Toscana e fuori.

Se la corte d’Austria s’era alterata per li primi atti di Pio IX, assai più alterata apparve per la domanda della milizia cittadina in tutto lo Stato, fatta con più istanza da’ popoli pontificii. Il papa al solito ondeggiava fra ’l sì e ’l no; né sapeva persuadersi che vi fosse male in una istituzione avente per fine di mantenere la quiete interna. Ma non sapeva altresì cacciar dell’animo la paura che gli era stata messa di crescer forze a quelli che a maggiori larghezze agognavano. L’ambasciadore austriaco conte di Lutzoff, uomo pratico degli avvolgimenti delle corti e delle arti della diplomazia, aveva saputo prendere l’animo del cardinal Gizzi. Il quale forse anche di sua massima odiava le milizie civili; onde se nelle altre concessioni, di buona o mala voglia, secondò il pontefice, per la istituzione della guardia cittadina dichiaravasi assolutamente avverso. Se non che molto allora potevano sull’animo di Pio IX questi due ecclesiastici; il buono e dotto sacerdote Graziosi, statogli maestro di giure divino, né alieno da’ civili miglioramenti; e il padre Gioacchino Ventura di Sicilia. Il quale cacciato dalla compagnia di Gesù insieme con altri chiari uomini che la volevano riformata, abbracciò l’ordine de’ teatini, dove era de’ primi, né per ingegno e dottrina era fra’ claustrali di Roma alcuno più reputato. Da prima gran fautore della podestà assoluta de’ re; poi a poco a poco piegando alle idee del secolo, divenne caldo difenditore delle libertà dei popoli, chiamandole evangeliche. Più tardi si scoperse inclinato alla teocrazia, cui per altro voleva rammorbidita da civili istituzioni; se bene il sublime della civiltà per lui era il medio evo. Ancora l’essere stato perseguitato sotto il governo di Gregorio XVI, lo aveva renduto più avverso alle tirannidi e voglioso di novità.

Ma il Graziosi per la sua indole rimessa e prudente, più tosto che sospingere Pio IX a politiche riformazioni, valeva a removere i ritegni che teologi di parte contraria gli ponevano. Chi veramente lo spronava, era l’ardente frate siciliano. Al quale davano il merito che il papa si fosse ultimamente indotto a concedere la guardia cittadina. Comunque sia, il dì 6 luglio venne pubblicato il decreto, e fu altresì l'ultimo decreto cui il cardinal Gizzi sottoscrivesse; perciocché il giorno appresso rinunziò definitivamente al potere di Segretario di Stato, mostrando di non curare né meno che si scoprisse il suo animo nemico a quella concessione; che non appena conosciuta, rasserenati gli animi, di presente sollevaronsi a più smisurata allegrezza, parendo per la detta istituzione dovesse nascere un vero e non manchevole affetto di fiducia fra principe e popolo. A drappelli ordinati e con torce accese, cantando lodi a Pio IX, in fino ad alta notte percorsero la città illuminata le genti; le quali sarebbonsi, secondo il consueto, condotte al Quirinale, se la volontà stessa del pontefice, quasi ornai sazio e stanco di tanti applausi, non le avesse ritenute. Finì la festa colla medesima letizia ond’era cominciata, non restando altro desiderio che di veder presto messa in opera la desiderata milizia; e le genti già si disponevano volontariamente allo esercizio delle ardii. Era per le piazze e per le case un parlar continuo di guardia civica; un correre alle militari scuole, nessuno facendo della età o delle proprie occupazioni scusa all’onorato ufficio. Se doglienza s’udiva era di quelli cui la legge dispensava o escludeva. Né gli scrittori publici mancavano ne’ diari di annoverare e magnificare i vantaggi che dalla milizia cittadina sarebbero derivati. Per verità l’acquisto d’una guardia di cittadini se da per tutto doveva parere gran cosa, un miracolo rassembrò in Roma; onde non più si dubitò che l'animo di Pio IX non si fosse risolutamente deliberato a cangiar forma al principato papale.

Ma nel tempo che i vaghi di novità rinforzavano gli sproni, i contrari altresì apparecchiavansi a mettere innanzi formidabili impedimenti; bastando loro che Pio IX restasse o tentennasse; perché crescendo in tal modo la impazienza de’ popoli e a poco a poco traboccando, fosse agevole constringerlo a tornare indietro. Facevasi allora gran dire che la corte d’Austria avesse fatto una lega co’ gesuiti, conoscendoli spertissimi dell’arte di guerreggiare per fraude, e questa lega designavasi colla composta e gonfia denominazione di lega austrogesuitica. Della quale nulla possiamo dire di autentico: e certamente sarebbe strano supporre che accordi formali stanziassero. Ben crediamo che commissari austriaci intelligenza segreta, prodotta da conformità di massime e di desiderii, mantenessero colla compagnia: di che non mancano testimonianze: una delle quali (trovata con altre carte negli archivi del buongoverno di Milano e stampata) è una lettera del padre Vigna al conte Bolza, che in tal sentenza gli scriveva: Affliggere in Piemonte la veneranda compagnia innumerevoli mali: colpa la inettezza di chi governa, e ’l numero strabocchevole de’ traviati; apprezzarsi per ciò maggiormente i beneficii che ad essa compagnia venivano dalle paterne cure e dal patrocinio del grande imperatore. Non doversi quindi maravigliare se nelle presenti occorrenze i gesuiti cercavano di spendere l’opera loro in sostegno di quella stessa potenza in cui avevano l'unico sostegno. Amareggiar crudelmente la loro anima il veder quella sì oltraggiata e odiata. Doversi sperare che Iddio non indugi a farne vendetta: pure se nella potenza divina è da confidare, non volersi trascurare la umana cooperazione. A tal fine dirigergli quella lettera. Avere in un suo viaggio da Torino ad Alessandria conosciuto un tal Maurizio Toscano, professore di lingue e di matematiche, uomo dotto, amante di cose nuove, ardimentoso, fornito di molta e valevole clientela; ma in mediocrissima fortuna collocato, e quindi facile ad essere tratto all’esca del guadagno. Costui essere uomo da servire alla comune causa; né doversi lasciare intentato. Parergli bene di chiamarlo in Lombardia col pretesto di affidargli la educazione di qualche signorino; non tarderebbe a farsi cliente della compagnia: riuscirebbe ottimo stromento per rappiccare le fila col Piemonte: essere Alessandria lvogo importantissimo, e il Toscano persona attivissima.

E se bene i gesuiti portassero allora il carico di tutte le trame (essendo loro per gli scritti del Gioberti cresciuto l’odio e quasi dileguatosi per gli altri claustrali), pure ancora in altri munisteri qualcosa da alcuni si mulinava; e particolarmente fra’ domenicani; forse per antica tradizione (dalla corte spagnuola passata con Carlo l nella tedesca) de’ servigi dal santo uffizio renduti alla tirannide secolare. Sicuramente il fatto è testificato da una lista di spie, dette ufficiose, della media e bassa Italia; anch’essa trovata fra le carte del buongoverno di Milano, e da’ raccoglitori di memorie di quel tempo publicata.

Ma comunque fra loro s’intendessero gli avversari delle nostre libertà, non potevano lor mancare partigiani e stromenti da mettere discordie e suscitare tumulti, celandone l’origine; senza che ancor qui possa affermarsi essere stata convegna fra chi operava e chi faceva operare; ma sì arte efficace ne’ movitori, e corrispondenza fedele in quelli che si lasciavano movere o per ignoranza o per cupidigia. In fine servendo ognuno al proprio interesse, era facile che senza accordo, e quasi senza che l’uno sapesse dell’altro, si travagliassero con pari intendimento, da produrre i medesimi effetti. Tuttavia questi fraudolenti sommovitori, avrebbero operato in vano, o forse non avrebbero operato, se non avessero loro dato di spalla, senza sapere, i troppo spasimanti di novità; onde si continuò in questo crudelissimo dubbio di non conoscere quanto a’ primi e quanto a’ secondi fosse da attribuire de’ disordini quasi a un tempo scoppiati a Parma a Lucca a Siena e a Roma. Dei quali rileva fare particolare menzione.

Le cose che turbarono Parma vogliono che io, tornando un po’ addietro, mostri, come ho fatto di Toscana, le condizioni di quel paese. ché se a qualcuno parrà per avventura distendermi io troppo a narrare di ciascuno stato le cose avvenute in altri tempi passati, consideri che con sì fatte rimemorazioni le presenti istorie saranno meglio intese, e più sicuro profitto, se io non m’inganno, arrecheranno. Più tosto vassallaggio austriaco che stato italiano era il parmense: dato, come è stato detto, nel 1814 alla vedova di Napoleone, perché senza una corona non rimanesse chi era stata imperatrice di tanto mondo. La quale tenne il nuovo e piccolo seggio come la corte che glie l'aveva procurato desiderava; bastando a lei che la real dignità, poi che la natural bellezza veniva meno, la facesse bramosa a quanti avevano la fortuna di piacerle. E di costoro si valse chi aveva interesse di cancellare nel buono e arrendevole animo della principessa ogni ricordo che di sé avesse potuto lasciarvi l’uomo che in tanta superbia di fortuna invidiabile l’aveva avuta consorte. Nella storia de’ suoi amori adunque è pure quella del suo regnare: conciossiachédalla persona che le stava a fianco ritraesse, quasi creta disposta a ricevere tutte le impronte. Nel tempo che dimorò in braccio a Neipperg, splendida reina apparve, come splendido cavaliere era colui, e a sontuosità di opere publiche inclinò: di che fanno fede i ponti del Taro, della Trebbia, e il teatro di Parma. Umano e indulgente era altresì il Neipperg: onde mentre egli visse, nessuna crudeltà di governo provarono i parmigiani: i quali anzi furono sì lieti di quel vivere, che lungamente ne portarono il desiderio.

Colla morte del Neipperg, e colla esaltazione del Werklein, lini la loro felicità. Questo Werklein venne in Parma nel 1820, come segretario di corte. Acquistò potere quando il già ministro Magawlv, allora custode del sigillo, se ne tornò in Irlanda sua patria, dacché il Neipperg, divenuto marito della sovrana, mal vedeva chiunque da lei era stato amato. Avarissimo com’era il Werklein, facilmente accontatosi colla Scarampi, dama d’onore, e mezzana de’ piaceri ducali, avevano del danaro publico fatto monopolio, e tenutosi il sacco: mirando lo ingordo uomo a insignorirsi del governo; e cogli uffici di fuori, e coll’amicizia della stessa Scarampi, che tutto poteva colla duchessa, ebbe l’intento in opposizione a’ ministri Cornacchia e Toccoli; i quali si divisero da lui, e nascosamente divulgando la fama delle sue ruberie, gli suscitarono contro la città; ed egli per vendicarsi, pensò di smembrare il governo in quattro direttori da lui dependenti. Né gli uomini che lo servissero, mancavano; destinati ad entrare in ufficio il dì 15 di febbraio del 1831, mentre il Cornacchia, che era ministro sopra le cose interne, doveva passare alla presidenza del consiglio di stato, affinché senza onore alcuno non rimanesse un nome autorevole.

Ma i disegni del Werklein distrusse la rivoluzione che ai primi di febbraio successe in Bologna e in Modena. Della quale i nemici di lui si giovarono per farlo cadere, procacciando che il moto bolognese e modanese ancora a Parma si comunicasse. E già i primi segnali apparivano, e la soldatesca si apparecchiava a reprimerli, quando i capi del municipio domandarono udienza alla sovrana. Non fu data, perché il Werklein, temendo di sè, s’oppose. Crescendo il pericolo, la duchessa aduna il consiglio di stato; poi chiama a sé gli anziani, che d’accordo col consiglio chiedono sia tolto il Werklein; il che rifiutato, la città comincia romoreggiare; e la duchessa spaurita sarebbesi fuggita se il popolo non l’avesse ritenuta, assicurandola che non contro lei erano gli odii rivolti, ma bensì contro il Werklein. Il quale allora licenziato, durò fatica a sottrarsi al furor popolare. In tanto i cittadini, preso coraggio, stimarono da una vendetta particolare avere occasione di mutare in libero l'assoluto reggimento, e siccome la duchessa di partire aveva desiderio, lasciarono ch’ella con sicurtà della sua persona si partisse, e un govemamento temporaneo s’istituisse. Solito errore di quelli che con modi civili, e come dicono legali, pretendono togliere a’ principi lo stato.

Ma trasferitasi Maria Luigia a Piacenza, e circondatasi di armi tedesche, aspettò di essere da quelle ricondotta a Parma; mandando innanzi a ricomporre lo stato il Mistrali, cui aveva eletto ministro dell’erario, in ricompensa dell’essersi a lei conservato fedele. Il Mistrali era uno di quegli uomini, che sarebbono svisceratissimi della libertà, se potessero farne scala a salire; e questi cotali la libertà abbandonano, quando s’accorgono che profitto da quella non possono più cavare. Né l’ambizioso uomo, che un tempo di liberi sensi aveva fatto mostra, andò errato; e mentre il Cornacchia più sincero o meno accorto, cadde, l’altro salì; e con esso lui salì, ministro per le cose interne, il crapulone e furioso avvocato Cocchi, soprannominato bue da Copernio per la smisurata ed esosa ignoranza.

Veramente fino al 1831 propria tirannia in Parma non si era sperimentata. Le istituzioni civili erano quelle del tempo napoleonico; conservate quasi intere dalla saviezza del Magawlv; gli ufficiali di buongoverno non inquietavano; le parole e molto meno i pensieri non facevano pericolo: si leggeva e si stampava come se libertà vi fosse stata. I buoni preti, che tali erano quelli usciti del collegio alberoniano, favorivano il civile progresso: né potere alcuno avevano i cattivi, che produceva il seminario. Dal 1834 in poi il ducato di Parma e Piacenza tanta ebbe pace quanta piacque concedergliene alle corti di fuori. Era stato mandato a reggere l’animo della duchessa in qualità di maggiordomo, il fiammingo Marshall: e costui era uomo che avrebbe voluto il ben publico se il bene publico gli fosse stato possibile di operare. Sdegnò di essere amato da chi era stata di tanti amori nobili e ignobili spettacolo: disprezzo la corte e i suoi miseri gareggiamenti; e sicuro in sua virtù, restrinse la eccedente provvisione della corona, detta Usta civile, e in modo l’amministrazione publica racconciò, che alle ingiustizie e ruberie fosse chiusa la via. Doleva a’ cortigiani questo governo: e soprattutto alla Scarampi divenuta maggiordoma: onde quanto più era dal virtuoso Marshall vigilata, tanto più essa, collegatasi col Mistrali (primo ministro e quasi duca di Parma) adoperava contro di lui; il quale non potendo più reggere a quella guerra donnesca e peggiore, né provvedere a rimoverne le cause, chiese licenza, e dalla corte viennese fu mandato ambasciadore in America. Gli fu surrogato il conte Carlo di Bombelles; di origine lorenese; di parenti fuggitivi di Francia nel 1789, e tornativi nel 1844. Servì nella milizia Carlo X; la cui caduta obligollo ad abbandonar la Francia: e riparatosi in Austria, ottenne di esser adoperato in affari publici. Costui a meglio sottomettere l'animo della duchessa, non ricusò godersi'gli avanzi del suo corpo, che scaduto e mal sano, quasi più nulla riteneva dell’antica bellezza: e al fianco dove erasi giaciuto Napoleone imperatore, giacquesi quarto o quinto marito di quella infelice; che sposata a un fariseo, divenne pinzochera; e d’ipocriti fu piena la corte, movendo a stupore, o meglio a sdegno, che scrupoli albergassero dove tante lascivie avevano albergato.

Fra tanto il governo appariva ogni dì peggiore e tirannesco. Bombelles, prima nominato maggiordomo maggiore, poi ispettore delle cose militari, finalmente primo presidente del consiglio intimo delle conferenze, da lui stesso creato, a poco a poco tirò tutto nelle sue mani, avendo tutti alla sua cupidigia obedienti: e principalmente i ministri del tesoro e delle cose interne, che o per paura di non perdere il seggio, come l'ambizioso Mistrali, o per divozione alla tirannide, come il bestialissimo Cocchi, ogni vessazione e ingiustizia favoreggiarono, E delle vessazioni era stromento Eduardo Sartorio bergamasco: mandato a Parma per gastigo di un popolo che aveva osato desiderare libertà; ligio al Bombelles che lo proteggeva e incoraggiva; temibile agli stessi ministri, che non arrossavano di lasciarsi soperchiare da chi aveva sciolte le mani e lo ingegno ad ogni più scellerata violenza. Non potendosi più sopportare tanta nefandigia, fu dopo due anni ucciso di pugnale, mentre entrava in teatro, senza che mai l'uccisore si conoscesse; e la città se ne rallegrò; non del proditorio atto, ma dell’essersi liberata di quella belva. La morte del Sartorio fece aumentare i rigori senza che nulla sapesse, e nulla potesse la regnante; alla quale fu per fino tolto di concedere udienza al publico come soleva per l'addietro, affinché il conte di Bombelles avesse più libero potere d’imperversare.

E nel modo sopraddetto vive vasi in fino al giugno del 1847: in cui uditasi alla fine un po’di quella squilla che dal Vaticano pareva dovesse i morti di tutta la penisola richiamare a vita, ancora i Parmigiani diedero segni di resurrezione; e gli affetti al pontefice accoglievano con ardore pari alla generale illusione, che dovesse essere liberatore dell’Italia. Tutto ciò dava noia al Bombelles; né sapendo celare l’animo suo, più d’una volta si era lasciato uscir della bocca: «perché cotanto infiammarsi per questo Pio IX? Che aver fatto lui, che debbano desiderare i popoli di Maria Luigia, provveduti di leggi e d’istituzioni che ancora i pontificii aspettano?» Era vero; ma le sue parole mirando a soffocare que’ primi desiderii di libertà che nel nome del pontefice si erano destati, maggiormente gli accendeva. Sperò di rintuzzarli cóli’ autorità della duchessa; alla quale faceva proibire di leggere ogni giornale, qualunque frisse il titolo o il paese da cui provenisse, non eccetto i diari austriaci. Il che appena si seppe (conciossiaché fosse costume di non publicare i decreti, ma di solamente comunicarli a’ capi degli uffici, a’ giudici, a’ commessari) grande fu la popolare indignazione. Ecco, ognun diceva, come siamo trattati: ci si vieta per fino di sapere quel che il sommo gerarca e gli altri principi fanno in benefizio de’ loro sudditi; così mentre altrove si sciolgono le catene, o si alleviano i ceppi, qui vie più si stringono. E che, siamo noi destinati a tollerare questa sozzura dì governo, che di virile non ha altro che ’l tirannico arbitrio?Ne’ quali pensieri rinfiammandosi la gioventù, cresceva delle cose pontifìcie e toscane il desiderio quanto più contrariato; facendone testimonianza, così in Parma come in Piacenza, le mura con iscrizioni di laude a Pio IX e all’Italia, e di vituperio a’ gesuiti e a’ nemici delle franchigie. Il giorno anniversario della elezione di Pio IX approssimavasi. La duchessa col suo maggiordomo partiva per la Germania. Avanti di partire, il Bombelles, chiamati a sé i ministri, ordinò loro che ogni festeggiamento in detto giorno fosse impedito. . Ordini segreti e più iniqui diè a’ capi della milizia; esortandoli a star vigilanti per il dì 16: e alle sue ingiunzioni volle che si unissero quelle della sovrana, facilmente ingannata, perché meglio sortissero l’effetto. Ma questi divieti furono anzi cagione che il numero de’ vogliosi di rallegrarsi per la elezione di Pio IX aumentasse. I quali in principio divisarono di celebrarla con un convito campestre; ma chiesto il permesso e dinegato, pensarono di convertire l’allegrezza profana in festa sacra, accompagnata da limosine a’ poveri; e nel tempio de’ minori osservanti, intervenendovi cavalieri, magistrati, professori, artigiani, medici, avvocati e dame, si cantò solenne messa con la propagazione delle imagini del pontefice, aventi queste parole scritte: giorno di gaudio, di voti, di speranze. Terminata la messa, e dispensato il pane a’ poveri, non parendo che si fosse festeggiato a bastanza, volevano che al venir della sera la città s’illuminasse. Ma quelli del governo non consentivano quest’altra dimostrazione; e la milizia,comandata dal Salis colonnello svizzero, preparavasi a impedirla o tramutarla in tumulto. Si sparse, che di acquavite era stata fatta straordinaria dispensagione a’ soldati, perché nella ubbriachezza il furor militare divenisse più cieco. Cominciava fra tanto a imbrunire; ed ecco una mano di giovani più risoluti andare per le vie, gridando lumi, lumi, viva Pio IX. A un tratto botteghe, fenestre, facciate di chiese coprirsi di torce accese, e la città risplender tutta. Scandolezzò che il palagio del vescovo, straniero e tedesco, si mantenesse in quella occasione tenebroso, e contr’esso alcune voci s’alzarono: alle quali fu detto che seguitassero alquante pietre scagliate da mano ignota, cui nessuno vide; e certamente fu pretesto al colonnello Salis per far irrompere la cavalleria. Uscirono fuori i gendarmi, e le spade ignudo rotando intorno, sbaragliarono la moltitudine. La quale indi a poco raggruppatasi continuò a correre per la città, chiedendo lumi, e applaudendo o proverbiando, secondo che quelli apparivano o disparivano. I capi della milizia erano deliberati di caricarla; opponevasi protestando il direttore di buongoverno Ottavio Ferrari; il quale men tristo che il suo ufficio non consentiva, era stato di parere che la illuminazione si permettesse. In questo mezzo essendo incominciato a piovere; e i cittadini a poco a poco diradando, tutto sarebbe stato tra poco terminato se non sopraggiungeva il Salis e gli altri, ordinando a’ gendarmi di dare addosso al popolo, sgominarlo, far ritirare i lumi e serrare le botteghe. A quella furia inaspettata, alcuni rimasero calpesti da’ cavalli che fin entro a’ fondachi si pingevano; ed altri furono malamente feriti; tra’ quali erano vecchi e fanciulli, che per la debole età poterono meno sottrarsi air orribile scombuiamento.

Il giorno di poi la città apparve silenziosa, non tranquilla. La duchessa era assente e lontana: governava una reggenza odiata e odiosa: la soldatesca feroce e fedele agli ordini ricevuti, non da’ ministri, ma da chi i ministri, la sovrana e il popolo tiranneggiava. Maggiori guai si presagivano. Il direttore Ferrari domandava di ritirarsi dal vilipeso ufficio. Il podestà Cantelli invocava riparazione da’ presidenti del governo, i quali rispondevano non potere essi far nulla. Consigliaronlo a convocare il corpo degli anziani, rappresentante la città; ma era vietato da una legge del 1827. Altri propose che a nome della città partisse per Ischi, e alla duchessa che colà si trovava, riferisse i fatti e chiedesse rimedio. Gli fu prima negata la patente di viaggio; poi trattenuta di cinque giorni, a fine che altre informazioni del comando militare precedessero. Nello stesso tempo gli odii fra cittadini e soldati, maggiormente inaspriti da una notificazione del Salis in encomio della milizia, prorompevano sì fieri e inestinguibili, che se in una bottega o altro luogo publico entrava un graduato tutti quelli che vi erano, di presente n’uscivano. Ciò vie più accendeva le soldatesche rabbie: né passava giorno che qualche insulto o sopruso non commettessero; nel tempo che investigamenti d’armi per le case e per le botteghe si facevano, e a’ fabbricatori e mercatanti si proibiva di venderle senza speciale permesso. Cominciarono pure i tribunali il giudizio degl’incarcerati la sera del 16 giugno; querelati di aver fischiato alla forza armata, è mostrato ripugnanza a ritirarsi. Si tennero le porte chiuse, con violazione delle patrie leggi, che il segreto della discussione non consentivano che nelle cause di pudore violato: e tuttavia non resultando nulla di sedizioso dalla esamina, venne in aiuto l’arbitrio prepotente del conte di Bombelles, che fattosi conferire poteri straordinari dalla duchessa moglie, tornò a Parma quasi a comprimere una sommossa; e dopo avere lodato e ringraziato a nome di lei i capi della milizia, e ammoniti gli ufficiali civili, alcuni cassò, altri sbandì, più tosto accrebbe di quello che mitigasse lo sdegno publico.

La stessa mano che agitava Parma pareva riconoscere nelle agitazioni lucchesi: alle quali un addentellato avevano lasciato le cose da noi sopra raccontate. Facevasi, secondo antichissima costumanza plebea, uno schiamazzo fanciullesco, che chiamavano scampanata, per funestare le disgradevoli nozze a una vedova sessagenaria maritatasi con un giovanetto, quando sopravvenne un ubriaco, che urlando sconce cose, e poi gettandosi per terra, rialzandosi, e qua e là dimenandosi, si tirò intorno alquante persone: alle quali, essendo stato comandato di sciogliersi, e quelle avendo ricusato, escono addosso carabinieri a piè e a cavallo e in sembianza di furibondi percuotono, calpestano, le botteghe mettono sossopra, gridando con orribili voci: vogliamo romperla, vogliamo romperla. Chi ebbe tagliata una spalla, chi le dita delle mani; altri in altro modo offeso. Il giorno appresso tutta la città si turbò, e correvano a richiamarsi al ministro di sicurezza interna, Giovanni Vincenti; che niuna cognizione avendo degli uomini, e meno anche del modo di governarli, massime in tempi di commozione publica, appariva tentennante fra la paura di perdere l’amore del duca che l’aveva fatto ministro, e quella di essere segno all’odio di chi ministri e duca poteva disfare; e come ingegno e destrezza non aveva per tenere il piè in due staffe, gli avvenne di cadere in sospetto del popolo senza meritare del principe. Il quale avendo inteso dalla gente assembrata gridare la cassazione della milizia de’ carabinieri, la istituzione della guardia cittadina, e una migliore censura per la stampa degli scritti, mandò fuori un superbissimo bando, col quale in fine dichiarava, ch'egli era principe assoluto, e voleva fare quello che gli fosse paruto e piaciuto. Onde rigonfiarono le ire popolari; tanto più che ne’ giornali toscani, dov’era cominciata libertà di scrivere, rifrustavasi la storia della monarchia lucchese, e com’ella secondo lo stesso trattato viennese del1845, non era assoluta, ma doveva essere imbrigliata da una costituzione. s’aggiunse che nel medesimo giorno il granduca di Toscana publicando un editto in sensi affatto diversi, era stampato e divulgato a fronte con quello del duca, perché il linguaggio dell’uno, amorevole e dolce, facesse più apparire quello dell'altro, baldanzoso e crudo: e i Lucchesi accogliendolo con segni di grandissimo onore, lo leggevano ad alta voce nelle botteghe e per le strade, talché la commozione ogni dì più aumentava; e quantunque il duca avesse con tanta superbia parlato, pure cominciava presentire il pericolo che gli soprastava; rappresentatogli da quei medesimi che pochi dì innanzi lo avevano confortato a mostrare il viso; onde si risolvè di cassare l’odiato corpo de’ carabinieri: il che non bastò più: conciossiaché negli animi si fosse giù messo il desiderio delle civili riforme, cominciate a godere dalla prossima Toscana e dalla non lontana Roma.

Queste cose succedevano in Lucca quando Siena vedeva in tristi lutti cangiarsi i lieti onori del patrio Studio; dove splendidi esperimenti scolastici avevano avuto luogo al terminare dell’anno: né la gentilezza sanese, com’era costume, mancava di festeggiarli. La sera del 6 luglio i giovani laureandi in compagnia d’altri condiscepoli per meglio gli uni cogli altri della felice prova fatta congratularsi, si raccozzavano ad un banchetto; terminato il quale traevano verso sera cantando alla così detta Lizza, passeggiata publica posta negli spaldi dell’antica fortezza. Eccoti alcuni carabinieri con piglio minaccioso impor loro di dividersi, e poi che v’ebbe chi rispose male, un di quelli snudato la spada e rotandola in mezzo, ferì profondamente nel capo un certo Lodovico Petronici di Rocca San Casciano, che vuoisi non fosse né pur colui che avesse risposto. L’infelice cadde boccone a terra dove ricevette altri colpi; mancatogli il soccorso de’ compagni dispersi oferiti anch’essi, e sanguinando per la via, si condusse allo spedale. Il tristo caso saputosi la mattina mise dolore e sdegno nella città: e subito ne tirarono partito coloro che volevano intorbidare: e cominciarono a spargere che il capitano de’ carabinieri Manganaro, già odiato pe’ suoi modi aspri, avesse minacciato di fare uscire i suoi soldati provveduti di spade arrotate e di pistole cariche: onde l’ira popolare voltatasi principalmente contro lui, bisognò farlo partire; e pareva la quiete tornata: ma a nuovamente turbarla fu occasione la morte seguita dopo pochi giorni del giovine Petronici; perciocché la città adottandolo per figliuolo, volle di splendide esequie onorarlo. La pietosa processione che formata de’ fratelli della Misericordia, degli scolari, de’ professori, de’ sacerdoti e d’un gran numero di cittadini d’ogni ordine, lo accompagnava alla sepoltura, aveva fatto due terzi del cammino, quando s’intese un forte scoppio prolungato, che fece voltar tutti gli occhi verso la viuzza detta di Malagnese, contigua al palazzo granducale. Lo sgomento prese ognuno: chi fugge da una parte e chi dall’altra, ignorando ognuno la causa del rumore. Non vedendosi altro, a poco a poco la processione si riordina, e prosiegue al suo termine. Finita la ceremonia, e cominciate le voci sull’accaduto, dicevasi che alcuni sconosciuti sbucando dopo il rumore dal chiassuolo del Malagnese, avevano dato principio al susurro; e alquante monete e fogli stampati si erano veduti gittare nella folla. Certo apparve l’animo d’ingarbugliare, se la disposizione nell’universale a lasciarsi trarre nel disordine non fosse mancata. Onde la vigilanza de’ cittadini s’accrebbe: ognuno teneva d’occhio alle persone sospette, e il popolo stesso ne dava ragguagli: pe’ quali si fecero varie carcerazioni, affratellandosi cittadini e milizia nell’intento d’impedire che i cattivi gittassero semi di perturbazione.

Ma la perturbatrice opera, da qualunque parte nascesse, doveva maggiormente dimostrarsi là, donde sembrava partissero le faville di quello che allora chiamavamo italiano risorgimento. Era in Roma nell’entrare di luglio grande ansietà, prodotta da due contrari affetti: speranza e timore; e sì gli avversari come i desiderosi delle novità speravano e temevano secondo lor natura. Intenzione de’ primi era di frapporre indugi e impacci all’ordinamento della milizia civile, sì che nessun bene da quella avessero potuto trarre i secondi; i quali alla lor volta stimavano, che acquistate le armi, avrebbero signoreggiato e trionfato il governo, quasi tutto ancora nelle mani de’ partigiani dell’antecedente pontificato. Cagioni di timori abbondavano eziandio agli uni e agli altri. Vedevano i tiranneschi che ogni dì meglio diventava segno di mutazione il nome del nuovo papa: néconfidavano che Pio IX sarebbesi rimasto dal concedere, se non quando avesse provato che ne scaturivano sedizioni e perturbamenti. E se (dicevano) vi avessino partecipato le Sicilie e il Piemonte, chi avrebbe più questo incendio fermato? Non per altro gli altri commovimenti d’Italia erano stati facilmente soppressi, che per essere riusciti parziali, ed erano stati parziali, perché gli aveva prodotti meglio lo impeto della disperazione che la efficace prudenza. Ora altra via si è presa: gratificandosi a’ principi, e chiedendo loro moderate e oneste franchigie, cercasi di avere quanto basta a fare di molte volontà una sola, fortissima e concorde, che costringerà finalmente gli stessi principi a deporre l’assoluto impero: e quasi senza sapere, e come presi alla trappola, vi si troveranno dentro avviluppati ancor quelli che il miglior degli stati reputano il principato assoluto. Molto può nell’animo del papa il teatino padre Ventura, che tirandosi dietro altri ecclesiastici, non fa che incuorarlo; dandogli a credere che dall’andare egli innanzi o in dietro, può dependere che la religione rifiorisca o si perda affatto; e Pio IX con quella sua coscienza involta negli scrupoli, e in oltre allettato dalla fama popolare, se ne persuade, e seconda un’impresa di cui ignora la natura, e che vorrà raffrenare quando per avventura non sarà più il tempo.

Per contrario i bramosi di libertà ragionavano: Egli è già compiuto un anno e sustanziali riforme non si vedono. Il governo è sempre in sullo stesso piè; sempre amministrato da uomini esosi. Fanno presagire poco bene le pastoie e tranelli posti a’ compilatori de’ codici. Si sa che si vuol confermare qualche tribunale di eccezione; mantenere le giurisdizioni de’ tribunali sacerdotali; conservare la barbarie de’ fìdicommissi; non consentire l’affrancamento delle decime e de’ livelli ecclesiastici. È noto pure essersi negato che sieno publiche le discussioni nelle cause criminali; che s’istituiscano giudici dei fatto; che si crei un ministero publico di giustizia. Aspettavasi che tolti i privilegi odiosi e sbassate le gabelle, la industria e il commercio dovessono rialzarsi e prosperare; in cambio si aumentano i privilegi, non iscemano le gravezze. La costruzione delle strade ferrate è stata sì approvata, ma per tenebrose brighe è sempre contrariata in segreteria di stato sotto pretesto di mancanza di capitali o di mallevadorie. Che ci possiamo promettere dal riordinamento del publico ammaestramento, commesso a teologi tenacissimi de’ vieti metodi e delle gesuitiche scuole? Non s’ignora che il decreto per la convocazione dei deputati delle provincie in Roma è da ordine segreto in guisa storto, che restringendo le loro facoltà, li riduce a commessi di curiali e di notari. Similmente alla istituzione degli asili d’infanzia s’aggiungono nuovi impacci e prescrizioni, che fanno perder la voglia di essere benefici. Per la stampa degli scritti poi sono le maggiori tribolazioni, e avvertimenti e rampogne, a istanza della corte d’Austria, tempestano gli orecchi a’ censori: alcuni de’ quali più inclinati ad essere indulgenti, confessano di avvolgersi in un letto di spine. Ma dove pur buoni ordini si facessero, chi pon mano ad essi? Ogni decreto del principe muore nella esecuzione; ed egli d’altra parte non ha cuore di sbrattarsi de' ricalcitranti, o per dabbenaggine, o per paura di dovere da cima a fondo capovolgere la già scommessa macchina dello stato, dove non è membro che non sia infetto, e da recidere. Quale opposizione non si è levata contro l’assenso dato agli ebrei di albergare fuori del ghetto? Quanto non si è fatto perché la guardia civica non si approvasse, e quanto ora non si fa per istomarne l'ordinamento? I gesuiti ama ed apprezza il papa, ed essi lui visitano, e forse consigliano; ma dove pur noi visitassero e consigliassero, hanno tanto in mano per impacciarlo. Che diremo finalmente del misero stato delle provincie, dove ogni dì soprusi e violenze si fanno? Dove da tutto si trae cagione d’intorbidamento? In Bologna sappiamo essere il cardinale Amat sgomento per le contrarietà di coloro che stando ne’ publici uffici lo vorrebbero men corrivo a dare esecuzione a’ decreti papali. Che non osano i padri gesuiti nella povera città di Camerino, la quale è stata costretta a richiamarsene allo stesso pontefice, e questi a inviare colà visitatori apostolici? Sacerdoti di perdizione e di stragi traviano il volgo, e lo infiammano a’ delitti. In somma non è luogo dove al comun bene non sorgano avversari o audaci o insidiosi.

Accresceva la tenzone dello sperare e del temere sì de’ cittadineschi e sì de’ tiranneschi, l’equivoco e incerto dichiararsi delle corti di Francia e d’Inghilterra. Chi spargeva che queste due potenze avessero assicurato il pontefice della loro protezione e incuoratolo a proseguire ne’ civili miglioramenti; altri affermava più tosto ritegni che sproni avessero dato, credendo di scorgervi un principio d’italiana unione, contrario alle loro massime e a’ loro interessi. Fra tanto gli uni stavano in guardia degli altri; aspettanti occasion favorevole per isgararsi: se non che il vincere di quelli o di questi dependeva dal retrocedere o proseguire il papa nelle riforme; non per valore che in sé elle avessero, ma per la strada che aprivano a sustanziali mutamenti: e conciossiaché già conoscessero la flessibile natura di Pio IX, si persuadevano di piegarlo secondo a’ propri fini collo spavento di grandi scompigli, che si attribuivano a vicenda. Dal che per avventura surse e propagossi la voce d’una gran congiura, da scoppiare il dì 4 6 luglio. La quale non fu così vera come era vero che si voleva farla credere; e dipingevasi sottosopra in questa forma: che allor quando sarebbesi straordinariamente ragunato il popolo romano a festeggiare l’anniversario del Perdono, leverebbesi rumore: uomini e donne senza distinzione passerebbonsi col pugnale e lascerebbevisi immerso col motto inciso nella impugnatura di viva Pio IX, per render dubbia la mano de’ sicari. Si troncherebbero in oltre le redini a’ cavalli legati a’ cocchi, perché nella folla accrescessero il trambusto.

In pari tempo appiccherebbesi il fuoco a’ fenili che sono dentro Roma, acciò lo incendio più spedito divampasse, aiutato da altre materie infiammabili, in altri luoghi riposte. In questo mezzo una porzione di milizia apparecchiata e corrotta uscirebbe per fermare il moto, come se fosse ribellione. Il conflitto sarebbe sicuro, e con esso gli eccessi di antica e feroce inimicizia. Darebbesi addosso al popolo inerme: il sangue inonderebbe le vie: non sesso non età non dignità si risparmierebbe; e fra le stragi, gl’incendi e la rapina, quasi l’agonia di Roma sonasse, costringerebbesi il papa a lasciare il seggio. In tanto sopraggiungerebbero gli Austriaci, e col solito pretesto di restituir la pace, restituirebbero la tirannide. Se la orrenda pittura provenisse da’ supposti macchinatori, perché il terrore de’ mali estremi fosse esca a produrli agevolmente, ovvero dai desiderosi di mutazione per avere il destro di svellere quanto ancora rimaneva d’uomini e di cose del regno gregoriano, e più specialmente costringere il papa ad armare la guardia cittadina, decretata, e pur indugiata, con forse disegno di non mai ordinarla del tutto; mal potremmo accertare: essendo stato detto l’uno e l’altro, e l’uno e l’altro essendo secondo ragionevole conghiettura. Né il processo, fieramente invocato, e dopo nove mesi venuto in luce, chiarì a bastanza. Pure leggendolo e giudicando dalla vita de’ processati, dalle accuse, rivelazioni, detti, ritrovi, colloqui, millanterie, viaggi, corrispondenze, assoldamenti, presagi, clientele, era certamente voglia d’intorbidare, mancando per altro ordinamento di esecuzione; cioè fermare il tempo, il luogo, l’opera; se pure gli accusati, spertissimi de’ processi e delle inquisizioni, non riuscissero a frodare di leggieri ogni diligenza di processatori, e intricare per modo la matassa da non essere mai possibile trovare il bandolo; o che altresì le fila si annodassero là dove la stessa mano che le avrebbe dovute sciogliere, avviluppassele. Io narrerò ciòche fu veduto o sospettato; perciocché i sospetti furono parte principale della commozione.

Era continuo dire di coloro che le cose publiche maneggiavano, non potersi così andare innanzi; bisognar finalmente una volta romperla; non potersi senza sangue restituir la quiete. Uomini ignoti, o noti per clientela alla fazion tenebrosa, spesseggiavano da parecchi giorni in Roma. Notavasi principalmente un Virginio Alpi, nato in Faenza, domiciliato in Forlì, e primo nodo di quella lega di sanfedisti onde alle povere Romagne derivava ogni discordia e danno. Né più ardito né più operoso satellite di questo Alpi ebbe forse la tirannide. Il quale fin dal 1831, entrato ne’ publici uffici, dove da più lungo tempo trovavasi il padre, eragli successo di rendersi autorevole agli stessi magistrati sì civili e sì militari; essendo a lui dato l'entrare per tutto: favellare a’ legati, a’ prolegati, a’ governatori; leggere le più segrete carte; avere intelligenza coi capi della milizia austriaca di Ferrara, di Verona e di Milano: da per tutto paure e speranze suscitare. Suo principale appoggio era negli uomini che vivono di contrabbando; i quali egli proteggeva, e de’ quali, come di arrischiate spie si circondava nel frequente correre di paese in paese, or vestito da prete, or da graduato svizzero, di rado co’ propri abiti, spesso di notte. Nel settembre del 1846 era stato in Roma; tornowi, per fuggire l’odio de’ suoi compatriotti, nell’aprile dell’anno appresso, e fu allora che si trovò insieme cogli altri suoi amici romagnoli, anch’essi per le medesime cagioni e co’ medesimi fini, convenuti in Roma. Fra questi erano un Matteo Ricci di Meldola capitano de’ centurioni, un Francesco Fabbri del Borgo di Faenza tenente dello stesso corpo, un prete ancor esso faentino per nome Domenico Violanti, già vicario generale di Rieti, che diceva dimorare in Roma per essere di altro uffizio provveduto, e quel Francesco Bissoni cavaliere, stato segretario comunale di Faenza,, poi direttore di buongoverno, zelantissimo e odiatissimo sanfedista. Rivide altresì il colonnello Freddi, il capitano Aliai, il colonnello Nardoni, i tenenti Sangiorgi, Sagretti e Redini, e il cavalier Minardi; de’ quali tutti, poi che famosi nelle miserie dello stato romano, dirò i costumi.

Il Freddi, soldato fin dal 1805 della Santa Sede, passato nel 1808 a’ soldi di Napoleone, poi tornato a’ servigi del pontefice, innalzato al grado di capitano, fregiato della insegna di S. Gregorio Magno, da ultimo fatto colonnello e mandato a tenere il commessariato delle quattro legazioni, ebbe di tutti gli affari di Romagna, in fino alla morte di papa Gappellari, la balia: né fu vessazione, crudeltà e ingiustizia che non operasse; vero flagello di que’ paesi, che ancora rammentano con orrore il suo imperio ferocissimo. Il capitano Aliai militò anch’esso negli eserciti napoleonici: quindi si pose a’ servigi della Santa Sede, esercitando commissioni odiose negli spessi giudizi di maestà; per le quali fu stimato meritevole della stessa insegna cavalleresca di San Gregorio Magno. Uomo vizioso, aspro, colleroso, calunniatore, nemico d’ogni legge che non fosse tirannica. Cima di furfante era il Nardoni; e bastava guardarlo, per vedere in quel viso ferino, apertamente sfacciato nel delitto, impavido nelle crudeltà, l’effigie d’uomo nato al capestro. E pure chi nel febraio del 184 2 era stato dalla corte di giustizia della prefettura del Tronto, punito di galera, e bollato per ladro e falsario, aveva ottenuto i primi gradi nella. milizia, e quel che era peggio, poteri amplissimi di codiare, perseguitare, incarcerare, maltrattare, calunniare e commettere ogni altra ribalderia. Degno sozio gli era il Sangiorgi; fedele amico il Sagretti per conformità di massime tirannesche, e per isperanza di avanzamento negli uffici militari. Di costumi non diversi appariva il Bedini, tenente de’ carabinieri, collegato co’ maggiori settari della tirannide, rendutosi odiosissimo in Romagna per tenebrose opere. Altro fautore gregoriesco era Paolo Galanti, capitano de’ bersaglieri; uomo corrotto e congiunto di amicizia co’ pessimi. Vecchia fama in Roma e nelle provincie chiamava spia il Minardi; che nato in Faenza, da trent’anni si dimorava in Roma come agente di affari. Gli fu conferita la insegna cavalleresca dello spron d’oro, e la infamò. Stomacava il suo aspetto brutto vituperoso, e di costumi sì laidi, che gli furono per fin trovate carte da giuoco impiastrate di schifose oscenità. Quanti si conoscevano scherani e birri, conferivano con esso lui, che d’ogni arcana scelleratezza aveva le fila.

Tutti costoro ed altri simili di minor fama, e di stato più abbietto, si trovavano (fosse caso o malizia) raccozzati in Roma fra il giugno e il luglio del quaransette: e dicevasi, che con altri, sozzi della stessa pece, tenessero congressi notturni e segrete conferenze: dandosi per l’ordinario la posta in casa Minardi, e quivi come in fidato luogo, facendo de’ lor disegni consulta; fra’ quali, di raccogliere in Roma tutta la forza de’ carabinieri. Ma l’Alpi dopo la metà di giugno tornò a Forlì con patente sottoscritta per Parma, e vi rimase non ostante gli aumentati pericoli di perdervi la vita. Né mancavano rivelazioni di un cotal Morini arciprete, che avesse in animo di accendere guerra civile fra la città di Faenza e il Borgo, e sollevare il contado, perché gli sdegni publici negli odii privati rigonfiandosi, facessero che ogni cosa di spavento e di confusione si empisse. Parlavasi ancora d’un Saverio Bertola, ed era designato capo d’una seconda congrega, avendo il medesimo fine d’ingarbugliare. È certo che la vita di lui, nobile riminese, formava un laido viluppo di venture e di menzogne stranissime. Di quindici anni abbandonò la casa paterna e si diè a viaggiare. Provò la carcere per tre mesi a Rovigo; un anno dopo provò l’ergastolo in Civitacastellana per arma proibita e scritti sediziosi. Nel 1834 involto da improvvida legge nella stessa misawentura degli altri condannati di stato, fu sbandito, e vagò di paese in paese, seguitandolo da per tutto la voce che fosse un traditore, e vivesse di baratterie e di vili e tenebrosi uffici, mentre a sua posta titoli e onori e fortune di gran personaggio spacciava. Narrava di essersi ritrovato in battaglie, aver frequentato corti, acquistato aderenze, adesso appartenere alla milizia inglese, col grado di colonnello. Maggiore ardimento al mentire non si vide giammai in altr’uomo. Pare anche certo che tornato in Roma, s’accontasse con un Vincenzio Micucci, altro ribaldone, dandogli a intendere ch'ei veniva per fare la proposta di un nuovo ufficio di buongoverno simile a quel d’Inghilterra; del quale sarebbe stato facilmente direttore, e a lui non sarebbe mancato ingerimento con istipendio. Poscia entrato a parlargli delle cose di Roma, e infingendosi grande amadore di Pio IX, e fiero odiatore de’ suoi nemici, cominciasse a sbuffare di sì scellerato governo, che ostacoli continui poneva a §ì buon pontefice; ma avere trovato lui il modo di vendicarlo: essere mestieri d’una rivoluzione che disfaccia cardinali e gesuiti: la gioventù e i graziati, che in gran numero erano in Roma, la prenderebbero co’ denti; seconderebbe senza fallo il popolo, ardente di azzuffarsi con questi perfidi gregoriani. Del resto lasciassero la cura a lui, che di queste cose s’intendeva ed era sicuro del successo. E poi che l’ebbe così ben riscaldato, aggiungesse: mettessecisi ancor egli: tirasseci uomini gagliardi e coraggiosi e pronti a dar mano: e in oltre per facilitare l’opera procurasse da qualche intagliatore suo amico un sigillo che fìngesse quello della segreteria di stato, col quale avrebbe improntato tanti pieghi, per aprirsi con sicurezza la via ne’ luoghi dov’erano le persone da trucidare, e in ispezialità il cardinal Lambruschini, primo avversario di Pio IX e delle buone riforme. S’ebbero indizi che i frodolenti ordini del Bertola cercasse. di eseguire il Micucci, o che gli credesse, o aspettasse di essere guiderdonato; se bene o per non trovare buoni cooperatori, o per diffidenza entrata ne’ medesimi, a nulla riuscisse.

Ma di qualunque generazione fossero i perturbatori, e quali fini si proponessero, questo è fuor di dubbio, che non ordinari subbugli nascevano in Roma. Cocchieri paesani con istravaganza non più veduta appiccavano riotte co’ cocchieri regnicoli, co’ quali, stanziati da molti anni in Roma, non avevano mai avuta nimicizia. Riottavano altresì i lanaiuoli con quegli arpinati che negli stessi opifici lavoravano di panni, minacciando di rovinar le macchine e mandar tutto in fascio. Altrove più scandalosi fatti accadevano. Avendo le istanze fatte dagl’isdraeliti di Roma al pontefice fruttato loro un maggiore allargamento di abitazione, se ne valsero i malevoli per sommovere contro di essi la superstiziosa plebe, la quale sarebbe corsa a feroci atti, se di frenarla non avessero fatto opera uomini umani e civili. In oltre vedevansi per le mura cifre misteriose che davano luogo a interpetrazioni di minacce crudelissime. Correva voce di assoldamenti segreti e di fabbriche d’armi vietate. Assicuravasi (come nelle gran paure si fa) che uomini armati e fatti per dar di piglio nel sangue e nella roba vomitava a Roma da parecchi giorni il borgo faentino. Gli scrittori de’ giornali, dove tutto s’aggrandiva e esagerava, non lasciavano di rappresentare il cielo annugolato, e vicino a dovere scoppiare una gran tempesta: sì che all’appressarsi del dì 4 6 luglio, vie più le fantasie si commovevano. Già s’indicavano i luoghi dove i supposti settari si congregavano; già i loro nomi si vociferavano; sospetti a sospetti aggiungevansi; i freschi esempi di Parma di Lucca e di Siena valevano a rafforzarli; e più valeva il vedere il governatore starsene inoperoso e come spettatore indifferente della popolare costernazione; onde fin si dubitò che avesse egli stesso le mani nella trama.

Il giorno 15 fu giorno pauroso: liste di proscrizione apparvero in più canti della città: vi si leggevano nomi di cardinali, di prelati, e d’uomini d’alto grado nella milizia. La vita passata e i recenti sospetti erano norma alle indicazioni. E senza che si venisse alle mani, o grave disordine succedesse, pure la città commovevasi tutta; e per le piazze e strade era un accorrere, un accostarsi l’un l’altro, un chiedere ansioso, un fare inattese rivelazioni, un rammentarsi antichi odii e offese nuove, un argomentare e consultare intorno alla propria salvezza. E in vero se tutto quel commovimento fu per opera dei desiderosi di novità a fine di avere le armi e ordinarsi a milizia civile, convien dire che essi riuscirono in questa prima prova felicemente: tanto più che il primo ardore per la guardia civica, scoppiato al publicarsi del decreto, erasi non poco rattiepidito; e in cambio erano cominciate le ambizioni de’ gradi e i gareggiamenti. Ma in quel dì 15 luglio non fu mestieri d’invito; bastò si divulgasse che bisognava armarsi per salvare la patria, perché gente d’ogni ordine s’affollasse a scriversi; e in poche ore ogni rione ebbe la sua guardia. Né si potrebbe dire come al mostrarsi in ischiera questi nuovi militi, il popolo, che per ogni cosa allora s’adunava, li festeggiasse; e avvenne che quel che pareva dovesse terminare con un gran macello e soqquadro, finì in popolare allegrezza e tripudio. Il che mostra che istinti sanguigni non erano nel popolo; il quale, abbandonato a sé stesso, mentre poca favilla sarebbe bastata a vendette estreme, pure nessuno di que’ tanti odiatissimi uccise: quantunque stigatori popolareschi non mancassero; che messisi d’accordo co’ carabinieri (i quali fosse paura o rimorso voltaronsi di presente alla parte del popolo) corsero a imprigionare quanti non poterono fuggire quel più apparente che reale furore. Primo a involarsi fu il governatore Grassellini: se costretto o consigliato, non ho di chiaro; ma il suo uscire improvviso di Roma e dirigersi a Napoli, raffermò il sospetto ch'ei s’intendesse con quella corte. Fu in sua vece posto, con titolo di progovernatore, il fiscale Morandi: a cui il popolo, sempre corrivo ad applaudire i nuovi, per necessità o leggerezza, diè segno di rallegrarsi, andando in sulla sera in gran folla e con torce accese a salutarlo a casa. E d’ordine suo stesso fu preso il Bertola e condotto alle carceri fra molte guardie frenanti la gente che voleva metterlo in brani, e insiem con lui erano imprigionati i suoi aderenti e compagni, il Micucci e il Franchi. L’assessor di governo Benvenuti, tolto d’uffizio e partito di Roma per alla volta di Firenze,' fu a Viterbo fermato e anch’egli condotto in carcere; e incarcerati pure furono molti borghigiani faentini; a’ quali fu detto essere stati trovati pugnali e monete. Il popolo era corso alle case del Freddi e dell’Aliai; i quali fuggiti verso il confine napoletano, innanzi che il varcassero,’ furono presi e condotti a Roma. Era quasi cessato il frugare e cercare i ribaldi, quando voce si levò starsi il Minardi nascoso in una casa presso S. Andrea delle fratte. Accorrono popolo, civici, carabinieri, chi per isfogare, e chi per raffrenare gli eccessi del furore. Tanto era lo sdegno contro lo spione; il quale dopo aver vagato intorno a’ confini toscani erasi riparato a Firenze, dove preso e richiesto, fu consegnato per la stessa legge di estradizione: se non che questa volta si consegnava un uomo meritevole di qualunque maggior gastigo. Altre fughe, altre incarcerazioni seguitarono. Il cardinal Lambruschini contano che avvertito del soprastante pericolo, fu per una scala interna del palazzo della Consulta fatto discendere nella sottoposta stalla; in cui stato nascosto mentre la popolar furia passò, indi quasi solo si partì per Civitavecchia sotto colore di andare a prendere possesso di quella sede vescovile, a cui dalla sabinese era stato traslatato. In somma tutti i così detti gregoriani, colpevoli o no di congiura, ma giustamente odiati per fatti antecedenti, ebbero una battisoffiola; intorno a cui ci siamo alquanto intertenuti, perché appaia più la ragione de’ successivi e maggiori sconvolgimenti dello stato romano; il seme de’ quali fin dal 1847 sì manifesto pullulava.

E come allora era continuo mescersi di amaro e di dolce, celebrossi il giorno 48 l’anniversario del Perdono nelle sale del cerchio romano, mediante splendido banchetto; dove apparve un’altra volta, e ancor più solennemente, il romano patriziato co’ popolani addimesticato; il che reputandosi segno di verace e non più manchevole concordia, assai conferì al più sollecito armamento della milizia cittadina; avendolo quasi con gara favoreggiato la nobiltà, allora ambiziosa o trascinata a mostrarsi cittadinesca. Notavansi più segnatamente i principi Odescalchi, Corsini, Aldobrandini, Borghese, Massimo, Rospigliosi, Gaetani, Gabrielli e Barberini; alcuni de’ quali avendo avuto i primi gradi largheggiavano in danaro per provvedimenti di armi e di vestiti. E poi che in quei primi spaventi, i più avevano creduto alla congiura, era la guardia civica venuta in sommo credito ancora appo quelli che non la desideravano, quasi per opera sua fosse stato il tremendo pericolo remosso. Finalmente gran festeggiare si fece per l’avvenimento in Roma del cardinal Ferretti; chiamato a prendere il luogo lasciato dal Gizzi.

Nato il Ferretti nella città d’Ancona di famiglia nobile e rendutosi prete, divenne famoso nel febbraio del 1834 per lo impeto con cui in Rieti promosse la resistenza a’ ribelli delle Romagne condotti dal Sercognani ad assaltar Roma. Andato poi in Napoli nunzio, non mostrò meno ardore e coraggio nel tempo che in quella grande e popolosa città faceva mortalità orribile il morbo indiano; e lasciò sì onorevole memoria della pietosa opera, che valse ad ecclissare i grossi errori commessi in diplomazia; pe’ quali fu tolto: e parendo riuscisse meglio da vescovo, fu mandato a reggere la diocesi di Fermo; dove trovato clero corrottissimo e viziosissimo, pretese di riformarlo d'un colpo, e fu violento; da farsi odiare non solo da’ cherici ma ancora da’ laici. Costretto a renunziare, e tornato a Roma, per l’antica consuetudine ebbe la porpora; indi dal nuovo papa ebbe il governo della provincia di Pesaro; che tenne con fermezza e giustizia. Né sapendo Pio IX a cui voltarsi per avere in que’ frangenti un ministro risoluto e da potersene fidare, lo nominò segretario di stato.

Entrava la città di notte in mezzo a numeroso popolo che andò a incontrarlo parendo che venisse a sostegno del pontefice in pericolo. Sdimenticati i fatti del 1831, e il balzano cervello, e i superstiziosi istinti, apprezzavasi la lealtà, la pietà, l'energia, la nessuna boria, e più l’essere parente e amico di Pio IX. Né per avventura poteva cominciare il magistrato con più lieto presagio; confidandosi non tanto in lui, buono di cuore, ma d’ingegno guasto o facilmente guastatale, quanto nel suo fratello Pietro, che sinceramente lo amava, e l’osservanza aveva de’ buoni. E in effetto mentre nel fratello s’affidò, fece cose da lodare; errò o incespicò quando di suo capo o d’altri operò; tornando da ultimo quasi quel di pria; fantastico, superstizioso, stravagante, da passare per momentanee impressioni da estremo coraggio a somma codardia, da voglie civili a voglie arbitrarie; e da queste tornare a quelle con pari sincerità di affetto e inconsiderato impeto d’imaginazione.

In tanto sperperati o imprigionati i creduti rei di macchinazione contro Pio IX, sorgea clamoroso desiderio che la severità delle leggi si sfoderasse contro quelli, parendo fosse stato ottenuto l’intento di voltare loro addosso la piena dell’odio publico, e quindi venire a capo della vagheggiata impresa di tutto riformare, e in progresso di tempo rimutare lo stato. Con segrete e publiche scritture si gridava: Compilavansi più tempo fa i processi contro a’ cittadini con modi misteriosi, sommari, risolutivi. In piena luce, in faccia a tutto ’l mondo, colle leggi ordinarie il processo de’ nemici della patria si compia; e come altezza di grado non li salva dall’infamia, così la giustizia non gli lasci senza il meritato gastigo. Troppo si è tollerata la loro audace malvagità, che non è mai restata di scombuiare l'opera de’ buoni, e rattenere il pontefice dal riordinare la publica amministrazione. Volevano far l’ultima prova, e prova da disperati, col mettere Roma a ferro e a fuoco, e gavazzare nel nostro sangue; e per gli ufficiali di governo, potevano pur compiere l’impresa. Ma il popolo, quasi angoscioso presentimento lo spingesse, provvide da sé stesso, con tale esempio di moderazione, che in vano se ne cercherebbe un altro nelle antiche e moderne istorie. Ora non sarebbe egli un farlo ripentirò d’essere stato sì temperato nella giusta sua ira, se rispetto di persone o pietà crudele facesse tutto abbuiare? Se si terminasse dicendo; non si è trovato nulla: ovvero: la giustizia si è fatta? Abbiam pur veduto e tocco con mano quanto costi l’indulgenza a’ delitti, quanto male sia stato lasciare negli uffici coloro che nel passato governo si erano maggiormente tirato addosso il publico odio. Egli è ornai tempo di usare il ferro dove è cancrena inveterata che minaccia lo intero corpo civile disfare.

Queste cose si scrivevano ne’ giornali, si ripetevano ne’ cerchi, e ogni dì meglio divulgavasi il pensiero che senza purgare gli uffici de’ ripugnanti a’ civili ordinamenti, non vi sarebbe stata pace né bene durabile. Il progovernatore Morandi metteva fuori un bando come per rattemprare gli agitati animi, e lodando il popolo di moderazione e di giustizia lo invitava ad essere moderato e giusto. Il minacciar gastighi principiava ne’ magistrati a non essere più in uso. Ancora il cardinal Ferretti cominciava il magistrato con parole di esortazione alla quiete; promettendo giustizia, per rattenere il popolo dal farsela da sé tumultuando. Non essere, diceva, lui nuovo in Roma: avere in altri tempi e per altri uffici di chiesa ricevuto solenni testimonianze di affetto, e avergliele confermate l’accoglienza lietissima fattagli al suo giungere in Roma. Sperare che lo esercizio del nuovo ministerio, dalla clemenza del principe affidatogli, sarà a lui renduto agevole dallo stesso popolo, dimostrandosi degno della religione santissima che professa, della moderazione onde si è fatto esempio, e della divozione che nutre verso chi è suo più padre che sovrano.

Questi editti magnificati ne’ giornali più che non meritavano valsero a raffrenare la commozione degli spiriti; ma non così che non durasse ancora certo turbamento, come di chi uscito, o paratogli di essere uscito d’un gran pericolo, si volge in dietro sospettoso a ragguardarlo: tanto più che i cattivi umori non quietavano del tutto; né del tutto si dileguavano i sospetti: e nuove congiurazioni e commozioni si annunciavano; sì che ad ogni foglio che si vedeva comparire, affollavansi le genti, e presagi e auguri e conghietture facevano. Si aggiunse che publicato in que’ giorni il decreto di regolamento per la guardia civica, dava motivo a’ meno fidenti o contentabili di appuntarlo in vari luoghi, e spezialmente in ciò che si riferiva alla concessione delle armi, essendo ambiguo se ad ogni milite nella propria casa sarebbero state consegnate. Alle diverse censure e mormorii rispondevano acconciamente gli uomini di mezzo: Essere il regolamento pontificio quasi tutto foggiato sopra quello di Francia: e non bisognare pretender troppo, né mostrarsi ingrati con un principe di cui niuna promessa fallisce, e un beneficio non aspetta l’altro. Ecco, dopo il decreto che scema il pregio del sale, venir subito il tanto desiderato regolamento per la guardia de’ cittadini: e si dovrà al primo e tumultuoso leggerlo levar subito grida inconsiderate di biasimo, fermandoci ad alcuni punti e non guardando a tutto il resto? Se rispetto alla consegnazione delle armi la legge non è a bastanza chiara, esser vano e imprudente farne lamentazione, massime al presente: ché dove pure il pontefice volesse, non avrebbe tante armi pronte quanti sono i militi.

Se non che il popolo ovviava col fatto al mancamento della legge; e armatosi per necessità, vera o imaginata, riteneva le armi: e chi fosse giunto a Roma in que’ giorni, sarebbesi ammirato di tanto fervore militare. Non meno di cinquanta scuole di esercizio d’armi si formarono, frequentatissime di genti d’ogni grado e condizione. Già in poco tempo maneggiavano gli archibusi e le marciate eseguivano. Udivansi da per tutto tamburi, vedevansi drappelli, allietavasi il publico a quella vista d’armi imbrandite a difesa, non ad oppressione della patria. Che più? Il cardinal vicario, che soprintende agli uffici del chericato dirigeva a’ sacerdoti un invito perché con offerte pecuniarie contribuissero al suo più sollecito ed esteso armamento. Erano lustre: ma in fine giovavano, o almeno indicavano necessità di cedere: e lo dico ogni volta mi viene ’l destro, per togliere scusa a coloro che più tardi, per lo troppo spingere guastarono que’ lieti principii: o diedero pretesto e occasione di guastarli a chi di mal animo secondava.

Rallegrò ultimamente la città che il nuovo segretario di stato Ferretti, visitando gli alloggi della guardia civica, la confortasse a ben meritare della patria: e in quello del rione di Pigna, dicesse: Mostriamo all’Europa che bastiamo a noi stessi. Le quali magnifiche parole, stampate negli animi, durarono lunga pezza a suonare sulle labbra degl’Italiani; e accrebbono rinomanza al cardinale; che desideroso di sempre nuovo favore popolare, accattavalo da quelli che più sul popolo potevano. Quindi fece di mezzo baiocco per libbra scemare il pregio del sale; a chiunque con riputazione di uom libero a lui andava, faceva buon viso. Avendo il conte Terenzio Mamiani (che ricusò di tornare per la via dischiusa dal Perdono dell’anno avanti) domandato di temporalmente rimpatriare per suoi affari particolari, non solo consentì, ma ito il conte a Roma, lo accolse amorevolmente, e lasciò che fosse dal popolo festeggiato. Né restava di chiamare spesso a sé Ciceruacchio, e con lui alla dimestica intertenersi. Ancora il progovernatore Morandi vedevasi questo popolano (non più dal minuto volgo, che da gente d’alto affare osservato) corteggiare. Onde venuto in gran rinomo, non si ritmava nei giornali e ne’ ritrovi di levarlo al cielo con adulazioni stranissime, quasi fosse una gran maraviglia dell’età nostra, e una virtù da non fallire a qualunque maggiore esperimento: e d’ogni parte d’Italia gli giungevano lettere con titoli di gran personaggio; alcune delle quali domandavano che a’ mali publici ponesse rimedio: altre lo esortavano a mandar consigli; alcune altre con lusinghieri nomi lo pregavano per conferimento di gradi e di stipendi; e altre finalmente lo richiedevano di autorevoli uffici presso il governatore o presso il segretario di stato, o anche presso il papa. Ben misero concetto convien fare di quel tempo che tanta importanza si acquistò questo Ciceruacchio. Il quale più tardi gli stessi encomiatori dovevano vociferare gran fautore di ribalderie, mostrandosi forse nelle accuse non più giusti che nelle laudi.

Passando da Roma nelle provincie, pareva trovar la riprova che qual cosa si macchinasse, e altrove le fila della trama si distendessero, non essendo forse città dello stato dove all’approssimarsi del dì 46 luglio qualche turbolenza non si manifestasse. Ma nulla avvalorò tanto gli atroci sospetti quanto la occupazione della città di Ferrara per mano degli Austriaci, accaduta nello stesso giorno che dicevasi destinato allo eccidio: parendo che sapessero della sommossa da scoppiare, e volessero tenersi pronti ad accorrere: ovvero si proponessero con quella mostra armata di abbassare l’ardire de’ chiedenti riforme e crescerlo a’ contrari; o anche per la nuova istituzione della milizia civile (che sopra ogni altra cosa li coceva) stimassero da maggiormente afforzarsi in una città di cui fin dal 1845 erano come possessori. Ma qualunque fosse il proponimento loro nel fare una più formale occupazione di Ferrara (il quale non fu mai a bastanza svelato) non li ritenne che Pio IX, allora in balia di coloro che desideravano innovare, sarebbesene publicamente querelato; confidando essi non a torto nell’amicizia non mai interrotta della corte di lui, la quale non avrebbe mai consentito che la rompesse con una potenza il cui soccorso poteva pur venire un’altra volta a bisogno. E in effetto il principe di Metternich aveva ferma persuasione (com’ei stesso fece intendere al visconte Ponsonby, ambasciatore inglese a Vienna), che il papa sarebbe stato quanto prima costretto a chiedere aiuto all’imperatore per far argine alla cominciata rivoluzione; indottovi non solo da quel che giudicava egli stesso, ma ancora da ciò che gli rappresentavano il nunzio pontificio monsignor Viale, e l’ambasciatore austriaco a Roma conte Lutzow; i quali non cessavano di ripetere al gran cancelliere, l'uno a bocca, l’altro per lettera, che prima o poi lo intervenimento de’ soldati austriaci nello stato romano era necessario: anzi da parecchi giorni bisbigliavasi, che i rettori di Roma, inconsapevole il papa, avessero pregato la corte d’Austria a tenersi apparecchiata per entrare al primo invito nello stato. Né mancava la voce che gli Austriaci ingrossassero a’ confini; e s’aggiungeva che fin dal mese di giugno il maresciallo Radetzky era stato a Modena, e aveva conferito con quella corte per provvedere al passo delle milizie nel ducato. Ma il giorno 16 luglio ottocento Croati, e sessanta Ungheri, stanchi e trafelati per lo gran caldo e cammino, giunsero con tre cannoni a Polesella: presero i due passi del Po, Lagoscuro e Francolino; e la mattina entrarono per la porta San Giovanni a Ferrara con sembiante di guerra: avendo i fanti le baionette sulle canne degli archibusi, e le bandiere spiegate; la cavalleria le vedette innanzi, e dietro carabine appuntate, e i cannonieri le miccie accese. Il popolo ferrarese che era tutto in festa, e occupato a scriversi nelle liste della guardia civica, rimase come da fulmine percosso a quella vista insolita, di cui non sapeva rendersi ragione. Furono domandati al legato e al municipio alloggi, e amendue negarono. Il legato dichiarò in oltre essere ciò violazione di trattato,, e scriverne incontanente a Roma per aver ordini opportuni. Era legato il cardinal Luigi Ciacchi pesarese; uomo di non gran levatura, ma di cuor retto, affabile e inclinato a’ civili miglioramenti più che non si sarebbe aspettato da chi tenne il governo di Roma sotto papa Gregorio. Amava la beata vita, e più per istar meglio che per bieca ambizione desiderò il cardinalato, e ottenutolo e avvenutosi a un pontefice migliore, stette piuttosto con lui che con quelli che ’l contrariavano. Mandato legato a Ferrara, seppe farsi amare da quella provincia, cui resse con dolcezza e dignità: procacciando che esecuzione avessero i decreti di Pio IX, che a riforme accennavano. Ma alla violenza tedesca, e al suo nobile e replicato protestare dovette la maggiore e miglior fama.

Venti giorni erano passati dal primo entrare degli Austriaci, e nessun altra mostra soldatesca era stata fatta; se bene lo straordinario rinforzo della guarnigione non lasciasse quieti gli animi de' cittadini, i quali fra tanto raddoppiavano di fervore nell’armarsi, e di ardire nel dimostrare odio all’occupatore. Una di dette dimostrazioni fu di fare solenni onori alla memoria de’ fratelli Bandiera; i quali benché figliuoli di ammiraglio austriaco, e addetti alla stessa armata l’uno col grado di alfiere di vascello, e l’altro di alfiere di fregata, pure avuta notizia della Giovine Italia, fosse generosità d’animo o bollore di gioventù o fato infelicissimo, a quella si voltarono, e fuggiti a Corfù aspettavano che alcuno indicio di sollevazione in qualche parte d’Italia rilucesse, per gittarvisi. Ma come sbarcassero con diciotto compagni nella spiaggia calabrese; cercassero indarno di sollevar quel popolo; e avviluppati e presi da’ soldati del re di Napoli, fossero con sentenza militare giustiziati, diremo più innanzi. Parve adunque che non si potesse dare più acconcia testimonianza di avversione agli Austriaci e a’ partigiani loro che facendo religiosa rimemorazione di questi Bandiera; della quale un primo esempio aveva dato la città di Pisa; dove nella chiesa di S. Sebastiano, presente il gonfaloniere, furono celebrati i funerali. Ma in Ferrara quella dimostrazione diveniva più significativa. Né il comandante tedesco mancò di querelarsene prima col legato, e poi coll’arcivescovo. Dal. quale fu detto che avesse in risposta: non potere impedire che si preghi per le anime de’ trapassati, qualunque sieno le loro opinioni. Aggiunsero per tanto questo agli altri pretesti, perché fatto il primo passo, e non sapendo più tornare addietro, ne facessero un secondo più ardito. Un loro graduato per nome Jankowich riferì, che nel tornare la sera in città gli era stata fatta villania. Prove e testimoni mancavano, quasi chiarivasi il pretesto, e tuttavia bastò perché il comandante Ausperg dichiarasse al legato, essergli mestieri per la sicurezza de' suoi mandar sentinelle notturne a vigilare quella parte che racchiudeva i diversi alloggi, il castello e l’ufficio del comando della fortezza; che è quanto dire quasi tutta la città. Né valsero le risolute parole del cardinal legato; che come rappresentante della sedia apostolica, aggiunse solenne protesta per man di notaio, chiamando quel fatto contrario agli accordi stipulati e alla lunga consuetudine: né il caso del capitano Jankowich giustificarlo, per non essere provato; e dove anche ’l fosse, non darebbe quel diritto.

Uscivano la sera le tedesche scolte qual più qual meno numerose; qualcuna di venti uomini, tutte con antiguardo e retroguardo: marciavano come a battaglia: accelerato il passo, minaccioso il piglio, e tal ora le punte de’ moschetti dirizzate alle faccie de’ cittadini. Alle sentinelle de’ corpi di guardia pontificia, contro la militar disciplina non rispondevano, e se rispondevano, erano insulti. Udivansi altresì qua e là scoppi d’arme che mettevano insolito spavento nella città, ed erano cagione che a un tratto si chiudessero le botteghe, vecchi donne e fanciulli fuggissero atterriti, nessuno più si credesse della vita sicuro.

Aumentava poi il general turbamento che dopo la recente dissoluzione delle compagnie de’ centurioni, erasi nella città gran parte di quella feccia travasata: spesseggiando messaggi intesi a rimestarla; a’ quali aggiungevansi gran numero di ammoniti. Paurose voci correvano rispetto alle carceri; prima speranza de’ perturbatori: onde il legato consentiva che a guardia di esse stessero i cittadini, che avvisati del pericolo, si erano da loro stessi profferiti. In questo, notizie di Roma recavano, Pio IX approvare e confermare le proteste del cardinal Ciacchi, e farne comunicazione all’ambasciator d’Austria, e a’ rappresentanti delle altre corti. Nel medesimo tempo il cardinal Ferretti, segretario di stato, imboccato dal fratello Pietro, dignitosi richiami volgeva alla corte di Vienna. Fatto gran preambolo di sua lealtà e franchezza e proposito fermo di fedelmente secondare i generosi istinti del sovrano pontefice, e bene augurato altresì dalle presenti disposizioni de’ popoli a non patir più dependenza alcuna da’ reggimenti esterni, passava a lamentare lo ingresso improvviso e minaccevole delle milizie austriache a Ferrara; notando le funeste conseguenze che da sì fatta provocazione sarebbero nate, qualora chi reggeva la città non avesse fatto opera di ricondurre subito nella calma gli animi gravemente commossi. Ma quel che non era accaduto (terminava il cardinale) poteva accadere, se tosto gli occupatori non si ritiravano. I quali nessuna ragione buona, nessun pretesto ebbero di fare quell’atto, contrario al trattato di Vienna e alla lunga consuetudine. Rispondeva il cancelliere dell’impero principe di Metternich. Essere ben noto avere l’imperatore d’Austria diritto di mantenére un presidio in Ferrara e in Comacchio; e questo diritto avere esteso più o meno secondo le occorrenze; talché ridotta in tempi di quiete la guarnigione piccolissima, veniva rinforzata in tempi di agitamento, com’erano quelli per l’appunto; ne’ quali le riforme di amministrazione e il civile progresso s’aveano in bocca; ma in cuore era perfidia di sommovere; vagheggiato da’ conventicoli segreti, né a bastanza contraddetto dal pontefice.

Ma nel tempo che le due corti così si scrivevano, i soldati nuove e maggiori violenze commettevano in Ferrara. La mattina del giorno 13 sulla spianata della fortezza che guarda la città si schierarono in battaglioni; tutti i generali maggiori si regimarono a consulta; e poco dopo il comandante Ausperg fece sapere al cardinal legato, avere avuto ordine dal maresciallo Radetzky di occupare la piazza e le porte della città murata, conforme al militare bisogno, e al pieno diritto dell’imperatore. Risposto il legato, che avrebbe rinnovato le sue protestazioni, l’Austriaco tornò a replicare che facesse pure: ma egli intanto adempirebbe all’ufficio impostogli: e senza metter tempo in mezzo, di pieno giorno, con apparecchio di guerra, ordinò che fossero presi i luoghi designati, lasciando alle guardie cittadine le carceri e il palazzo publico. Non è a dire quanto fosse il turbamento de’ Ferraresi; a’ quali pareva non più da dubitare che con la occupazione della loro città non si annodassero le fila della trama che si diceva ordita in Roma. Cominciarono quindi le militari vessazioni; dovevano i cittadini camminare quaranta passi discosto dalle sentinelle; a nessuno era lecito entrar di notte in Ferrara senza assoggettarsi a una visita; le guardie ronzavano dentro e fuori della città; i corrieri di Verona non più al1’uffizio della posta s’indirizzavano; tutto era usurpazione e prepotenza. Il cardinal legato faceva una seconda e più gagliarda protestazione; nel diario pontificio si leggevano richiami e querele del pontefice: il cardinal Ferretti tornava a scrivere al nunzio a Vienna monsignor Viale, perché con la corte viennese adoperasse suoi uffici, persuadesse il gran cancelliere che s’ingannava a credere il santo padre favoreggiare desiderii di novità perigliose. Se vi ha smoderati, oltre che sono il minor numero, nulla essere stato fatto o promesso per innuzzolirli. E qualora i lamenti imperiali si riferissero alla ricomposizione ultimamente decretata della guardia cittadina, considerasse, come non era solo convenevole l’appagare questo ardente e unanime voto de’ sudditi pontificii, anzi era dalla presente gravità de’ casi ingiunto. Nell’assidersi Pio IX sul seggio de’ pontefici coll’animo di cominciare savie riforme, avere bene antiveduto i grandi ostacoli che avrebbe incontrato; e tuttavia non isconfortatosi di poterli superare, avere avuto mestieri innanzi tratto di guadagnarsi la confidenza e l’affetto de’ popoli con atti di clemenza. Il che avergli spianata la strada; ma non del tutto affrancatolo dalla molestia delle parti estreme; avendo dovuto tal ora contrastare cogli eccessi della stessa gioia popolare ond’era festeggiato, e tal altra con disordini suscitati da que’ medesimi che maggiormente poi contro a’ disordini gridavano. Ma qual è impresa grande che non sia accompagnata da amarezze? E se per turbolenze, che son opera di pochi, s’avesse a restare, nessuna riforma publicar si compirebbe. Non essere dunque questo il caso, che per allontanare l’imperatore gravi pericoli, sia stato costretto il presidio ferrarese rafforzare che alleghi un sol fatto sanguinoso d’alcuna provincia o città o terra de’ pontificii dominii, che dimostri le milizie proprie insufficienti a comprimere o antivenire, sì che fosse mestieri di aiuti di fuori. Se villanie furono dette o scritta contro la corte d’Austria (di che essere il santo padre forte addolorato) non però alcuno insulto ricevettero i suoi soldati, non ostante i continui provocamene, e ne faccia fede la pazienza degli stessi Ferraresi dopo la occupazione, che pur tanto irritò. Nulla adunque giustificando quel militar provvedimento, è da sperare che una potenza amica non voglia seguitare a farsi mallevatrice de’ tristi effetti che ne potrebbono derivare, e costringere il sommo pontefice a richiamarsi nel cospetto delle nazioni pel libero esercizio della sua podestà. Ma (conchiudeva) più che principe a principe, il padre de’ fedeli favellando al suo figliuolo apostolico, non dubitare che la sua voce non sia ancor questa volta per essere ascoltata dalla pietà di Cesare e della religiosissima moglie e di tutta la imperiai casa, che ben vorranno del presente affanno liberarlo; se non richiamando di presente tutto ’l rinforzo mandato a Ferrara, almeno restringendolo nella fortezza, e restituendo a’ soldati pontifìcii la custodia della città.

Ma la corte di Vienna, o per meglio dire il principe di Metternich, replicava con questo avviluppato discorso: Dopo le mutazioni di stati avvenute in Italia durante la republica e l’impero francese, il sommo pontefice nel recuperare i suoi dominii aver trovato distrutte le antiche usanze, e in vece appigliate idee nuove: che per accordarsi coll’antico ordine di cose, era mestieri che più generazioni si succedessero; potendo il solo tempo risarcire quel che l’impeto spaventevole delle rivoluzioni abbatte. Ma volendosi in Roma tutto ristorare, l'opera doveva necessariamente riuscire imperfetta e cotale da far luogo a molti sconci: i quali era pur sostanziai cosa levare; onde l’imperatore, dopo i moti del 1831 avere alla corte romana non solo rappresentata la necessità di riforme giudiziose, anzi indicato cliente dovessero essere; di che gli archivi della legazione austriaca in Roma e quelli del Vaticano potere testimoniare. Nulla quindi essere più ingiusto che accusar la corte d’Austria di nemica alle riforme dello stato romano, e riferire il rinforzo della guarnigione ferrarese a intendimento di frastornare al santo padre la cominciata opera di migliorare il suo reggimento. Ma quanto l’imperatore era favorevole a veder tolti abusi inveterati, altrettanto non poteva favoreggiare dottrine ancor più dannose. Riformare per migliorare quel che era, commendevole; non così il sostituire novità non aventi radice nel tempo passato, e niuna sicurtà nel futuro. Di tal sorta mutamenti essere maggiormente a temere negli stati pontificii, dove la doppia natura delle due podestà richiede fermezza d’istituzioni sì per la dignità della Chiesa, e sì per la quiete dell’intero mondo cattolico. Rispetto alla occupazion di Ferrara, non poter dare maggiori e migliori dichiarazioni delle già date. Dispiacere nel vivo dell’anima a sua Maestà imperiale, che il cuor del santo padre ne sia stato contristato; la stessa Maestà assicurare, non aver avuto intendimento alcuno di usurpare l’altrui; ma sol di esercitare un diritto acquistato col trattato di Vienna. Né mai entrerebbero milizie austriache negli stati della Chiesa se non fossero dallo stesso sommo pontefice chiamate. Se qualche inconveniente o durezza militare ha avuto effetto, doversene dar carico agli esecutori. Da ultimo riducendosi la controversia a ben deffinire la voce francese place, e conoscere se con quella debbano intendersi le sole fortezze, o anco le città dove le fortezze son poste, dichiararsi contenta che fosse rimesso il giudizio ad un arbitro in Roma stessa.

Così il cancelliere imperiale cercava di aggirare la corte pontificia, pensando forse che dove ogni altro frutto fosse mancato, avrebbe almeno acquistato tempo, se per avventura qualche cosa negli stati della Chiesa accadesse da trarne pretesto o necessità d’intervenire.


vai su


LIBRO TERZO

SOMMARIO

Effetti della occupazione della città di Ferrara. — Quistioni che si agitavano: discorsi prognostici che si facevano: commozioni che si promovevano: delitti che si commettevano: semi di mali publici che si gittavano. — Difficoltà dei rettori a frenare la libertà dello scrivere. — Nuove dichiarazioni di Pio IX. — Speranze più tardi svanite d’una lega doganale italiana. — Viaggio di Lord Minto per le principali città d’Italia, e commissioni ricevute dalla regina d’Inghilterra. — Viaggio del conte di Bresson con commissioni diverse ricevute dal re de’ Francesi; e sospetti che ne nascevano. — Commovimento in Toscana ne’ mesi di luglio e di agosto. — Desiderio ancora in questa provincia acceso per la guardia civica. — Soscrizioni per chiederla al principe. — Ripugnanze a concederla. — Perturbazioni e disordini in vari luoghi del Granducato. — Maggiori istanze per la guardia civica. — Assembramenti popolari prima in Livorno e poi in Firenze. — Paure e costernazioni. — Riforma della consulta di stato, e parziale rinnovamento del consiglio de’ ministri. — Potere conferito alla nuova consulta di proporre al principe la istituzione della guardia civica. — Novità lucchesi. — Lettera del presidente Fornaciari al duca; effetti da quella prodotti. — Sollevamenti di popolo. —Concessioni fatte dal principe. — Allegrezze publiche. — Presagi di tradigione. — Aumenti di commozione in Toscana per la guardia civica. — Nuovi assembramenti in Livorno. — Ambascerie e minacci e ai ministri del principe. —Publicazione del decreto reale che dichiarava la sopraddetta guardia istituzione dello stato. —Straordinarii festeggiamenti nelle principali città. — Festa celebre del di 12 settembre. —Legge d’ordinamento per la conceduta guardia civica. — Malevolenza dimostrata a’ ministri. — Proposta di costituzione fatta dal marchese Corsini. — Mala accoglienza avuta in corte e disgrazia incontrata. — Altro rinnovamento del consiglio de’ ministri. — Nuovo regolamento per la guardia civica. — Lentezza e tiepidezza nell’ordinarla. — Editto del pontefice per ricostituire il municipio di Roma, e creare la consulta di stato. — Feste ed allegrezze che ne fecero i popoli. — Nuove protestazioni di Pio IX intorno a’ suoi intendimenti. —Profitto che ne traevano gli avversari delle novità. — Pratiche diverse per comporre la quistione della occupazione di Ferrara. — Lettere e risposte fra la corte di Vienna e quella di Roma. — Accomodamento fra le due parti. — Anticipato ricongiungimento dello stato lucchese con la Toscana. — Scontentezze de’ Lucchesi. — Lamenti de’ popoli della Lunigiana. — Tumulto in Firenze contro a’ birri. — Occupazione della Lunigiana fatta dal duca di Modena. — Commovimenti che produsse nelle città toscane. — Principio solenne in Roma della consulta di stato. — Parole dette dal pontefice a’ consultori, e risposta dei medesimi. — Altra solennità per lo principio del consiglio municipale romano.

La occupazione della città di Ferrara produsse effetti contrari a ciò che per avventura gli occupatori s’impromettevano: e quanto più di odio a sé procacciarono, tanto più fecero crescere di amore al pontefice; oltre che insieme’ col desiderio delle interne franchigie cominciò a favellarsi della liberazione d’Italia dal dominio straniero, parendo che l’offesa alla sovranità d’un papa, il quale da un anno tutti i popoli idoleggiavano, non potesse passare senza gravissima indignazione, e quindi dovesse riuscire un gran mezzo per eccitare i tiepidi, rafforzare i volenterosi, persuadere i titubanti, confondere gli avversari, assicurare i paurosi, rendere finalmente ogni dì più esteso e concorde il numero dei volenti la civile libertà e la italiana grandezza. Laonde gli scrittori romani e toscani non rifinivano di agitare ne’ giornali la quistione dell’occupazione ferrarese, e mostrare quanto cavillosa fosse la interpretazione della voce francese place per la intera città; e quanto ingiusto l’allegare, essere la città continuazione delle opere militari della fortezza; non avendo Ferrara muraglie che le diano un recinto di difesa; e non potendo promettersene alcuna da’ bastioni parte cadenti, parte rovesciati; e né pure da’ fossati ripieni e non compiti; da ultimo fra la città e la cittadella non trovarsi mura, né essere luoghi nella città più elevati della cittadella, onde per tener questa, convenga aver quella.

E siccome tornava bene che apparisse discordia fra il papa e l’imperatore, colla solita arte di attribuire al primo forti e libere intenzioni, divulgavano, avere coraggiosamente rifiutata la risposta del secondo di compromettersi in un arbitro, e minacciato che dove la occupazion di Ferrara continuasse, sarebbe forzato di pronunziare la fatale parola di cui altre volte i re hanno sentito il terribile suono. Affermavasi pure deliberato Pio IX a non volere gli Austriaci né pur dentro le cittadelle, parendogli venuto il tempo di vendicare l’antica ragione della S. Sede, in vano sostenuta nel congresso viennese dal cardinal Consalvi. Fu voce per fino, che a persona sua intima dicesse: Io sarò costretto a vedere il mio povero stato pieno di armi, ma antepongo che i miei figliuoli caggiano combattendo all’impor loro un giogo iniquo. Dal riferirgli detti gagliardi, si passava a riferirgli non meno gagliarde deliberazioni. Avere già ordinato un campo a Forlì; già partire le milizie, le artiglierie, i carriaggi, e forse lui medesimo, quasi un altro Giulio II, trasferirsi a Bologna, a fine che la sua presenza accresca valore a’ combattenti.

Pareva che Pio IX dovesse una crociata all’imperator d’Austria bandire: al che tanto egli pensava quanto i suoi antecessori avevano mai di render libera Italia pensato. Pure non dispiacevagli sentirsi chiamare liberatore e salvatore della patria comune; non preveggendo forse, che le apparenze sarebbonsi fra non molto convertite in reali avvenimenti; e allora sarebbe apparso, senza essere, contraddicente a sé stesso. Le felici speranze si rinforzavano eziandio dall’altra voce, che il re di Sardegna avessegli di sua mano scritto e proffertogli armi ed aiuti. A stringere questa lega si annunziava partito per Torino monsignor Corboli Bussi, e notavasi che il ministro sardo, signor Pareto, era spesso in conferenza col papa. In oltre si prendeva per buono agurio che della insegna cavalleresca di S. Maurizio e Lazzaro fosse fregiato il cardinal Ferretti segretario di Stato. Da ultimo metteva il colmo al giocondo sperare, che un trattato amichevole di commercio fosse stato allora fra la corte piemontese e la pontificia stipulato. Sorgevano poi le conghietture e i prognostici. Chi diceva che gli Austriaci sarebbero venuti innanzi e gli stati romani e toscani occupato per soffocare quel po’ di seme di libertà che era principiato a germogliare: senza di che la loro mossa non avrebbe avuto fine alcuno. Altri sosteneva, che non chiamati non uscirebbero di Ferrara, dove con un’apparenza di diritto dimoravano; néporto il funesto scandalo di apertamente le ragioni dell’altrui sovranità violare. In questo avvicendarsi di paure, di speranze e di desiderii contrari, i popoli ogni dì più al pontefice si stringevano, profferendo per mezzo de’ consigli municipali di dare beni e sangue per la sua difesa e libertà, quasi fosse stata in pericolo. Né fu mai provata tanto la necessità di provvedere allo interno armamento quanto allora. In Roma cominciate in più luoghi della città soscrizioni, correvano migliaia di giovani volenterosi di marciare contro il vociferato nemico. Onde Pio IX impaurito di quel primo impeto, faceva conoscere: essere a lui gratissimo il benevolo e devoto animo de’ suoi fedeli sudditi: ma desiderare che si tranquillino e contentino di confidare nelle ragioni della giustizia, e nella sua volontà del comun bene desiderosissima; esortarli in fine a serbare il valore a tempo più opportuno.

Dal che è chiaro che fin d’allora Pio IX avrebbe sopito quel vero o apparente ardore di libertà italiana, se i movitori de’ popoli non avessino seguitato ad operare come se egli ne fosse stato realmente acceso. Era bello vedere nelle Romagna la gioventù non più dimorarsi oziosa nelle botteghe e ne’ raddotti, ma da mane a sera affaticarsi ne’ militari esercizi. Avevano in pari tempo fra città e città formato corrispondenza di sì celere efficacia, che in poche ore potevano conoscere i movimenti delle milizie austriache. Le quali dicevasi, e anco credevasi che se per avventura fossero procedute innanzi avrebbero trovato uomini pronti a disperata guerra, e sperimentato quali sdegni avesse nelle genti svegliato la occupazione di Ferrara. Certamente giungevano al papa da più luoghi delle provincia offerte spontanee di danaro per l’armamento sollecito della milizia civile: né mancavano eccitamenti fervorosi da ogni parte; venendone ancora da’ preti e da’ frati. Un frate perugino mandava fuori questo infuocato e mistico discorso: Ancora gli ordini regolari sentire di essere cittadini, e intendere il grave debito di giovare alla comune patria. Se a’ religiosi non è concesso cingere al fianco la daga, e vestire il capo dell’elmo, non essere loro disdetto di salire l'Orebbo per sorreggere le braccia al gran sacerdote, e implorare aiuti dal cielo a sterminio di nuovi Amaleciti che volessero contendere la via a’ figliuoli d’Isdraello. Rammentarsi, che le preghiere sollevate e i crocifissi inalberati da’ capuccini nella gran giornata di Lepanto giovarono a rintuzzare la musulmana ferocità. Non ignorare che non fu di piccol pro al Paoli il grande esercito di frati; e in Legnago e in Genova non essere il clero, sì regolare come secolare, rimasto spettatore ozioso di quelle segnalate vittorie. A un grido del magnanimo Pio non saranno men pronti e solleciti a salvare le belle contrade, e a’ rumori di tamburi i rintocchi delle campane mesceranno e il salmo delle vittorie canteranno, mostrando al mondo che fu grande ingiustizia il sospettarli poco amici a Pio e alla patria.

Né senza qualche frutto e imitazione rimanevano questi esempi: quantunque la più parte del clero, e specialmente quello che aveva più autorità, tutt’altro che di favorire quei movimenti desiderasse. E qua e là in vece si facevano dimostrazioni contrarie; né cessavano motivi e appiccagnoli a tafferugli; tra’ quali uno non lieve era lo scioglimento delle compagnie de’ centurioni, decretato dopo la istituzione della guardia civica; ma nella esecuzione avvenivano scandali e atrocità, mal riducendosi a lasciar le armi tranquillamente que’ saccomanni stati per tanto tempo flagello de’ paesi. Ancora l'ordinamento della stessa guardia civica era in alcuni luoghi cagione di turbazione o per gara di gradi, o per elezione di qualche odiato ufficiale de' tempi gregoriani. In somma quanto accadeva in que’ mesi negli stati romani, somigliava a un rimestare e cozzare di elementi oppostissimi; e se dalle cose vedute o conghietturate si può formare alcun concetto vero, parmi esser questo: che i popolani spingevano il pontefice col festeggiarlo: i fautori della tirannide gli si attraversavano, gittando semi di civili tumulti; i vaghi di mutazione altresì ne traevano partito per più incalzarlo, esagerando le costoro macchinazioni, e incaricandoli di subbugli fatti nascere o fomentati ad arte. E fra queste lotte insidiose più tosto cagione di futuri mali ammannavasi, che alcun fondamento al presente bene si ponesse. Non potendo gli scrittori quotidiani sfogarsi a bastanza colla stampa permessa, aiutavansi colla vietata, che per ciò più acerba vomitava i soliti veleni contro qualunque fosse in ufficio o degnità costituito: onde il progovernatore Morandi mandò fuori un secondo editto, con cui riduceva alla più stretta osservanza non solo la legge sulla censura fatta in quell’anno, ma tutte l’altre leggi antecedenti e non mai cassate. Levossi un mormorio che chiamava ferreo il bando, e di troppo severi e troppo estesi gastighi accusavalo: se non che alle querele de’ più accesi opponevano i prudenti la necessità di temperare gli affetti, e riuscivano per ancora a mantenere nello stesso credito di riformatore il pontefice. Il quale nel medesimo tempo non si lasciava fuggire occasione per dileguare ogni dubbio intorno a’ suoi proponimenti finali. Condottosi al romano Studio il giorno della solenne dispensagioue de’ premii, dopo aver lodato ne’ giovani l’amore’ alle scienze, e confortatili a temperare i desiderii soverchi di cose nuove, aggiungeva ch'egli avrebbe conceduto a’ suoi popoli tutte le istituzioni che non fosserominimamente contrarie alla natura del principato ecclesiastico, cui voleva serbare integro e incorrotto. Ma i commotori de’ popoli o non intendevano o fingevano di non intendere: e a far osservare in Pio IX il segno maggiore della libertà italiana seguitavano. Il che pur ci dimostra quanto ne’ rinnovamenti delle nazioni sia necessario un uomo, nel cui nome si lascino tirare e guidare le moltitudini, che tanto amano e apprezzano le cose quanto le veggono incarnate nelle persone. Gran peccato di fortuna che gl’Italiani fossino costretti a prender per guida il papa; senza il cui favore mal aremmo forse dato cominciamento alla nostra impresa, e col favor suo non era da sperare di darle compimento.

Facevasi a que’ giorni gran dire e gran sperare d’una lega doganale fra ’l pontefice, il re di Sardegna e il granduca di Toscana; quasi presagio di confederazione di stati cui allora erano i maggiori desiderii rivolti. Né si trascurava di attribuirne il primo pensiero a Pio IX, cresciutogli dopo la occupazione ferrarese, per amore che alle civili rinnovazioni non cessava d’ispirargli opportunamente monsignor Corboli Bussi. Al quale fu data commessione di condursi in Toscana e in Piemonte per trattare con Leopoldo e con Carlo Alberto; che per la parte loro deputarono l’uno il cav. Giulio Martini, l’altro il conte di san Marsano, facendo luogo delle conferenze la città di Torino; e dicevasi essersi già intorno alla proposta accordati. Ma poscia o fosse per mutazione ne’ tre principi o pe’ sopraggiunti avvenimenti, ancor quel debole segno d’unione italiana non fu mandato ad esecuzione; dal quale c’ impromettevamo in quel tempo di sognate felicità, notabilissimi vantaggi naturali e civili.

Occupava pure gli animi, ad ogni cosa allora attentissimi, il viaggio per le nostre principali città dello inglese lord Minto, membro del consiglio privato di Sua Maestà Britanna, e tutto cosa di lord Palmerston, ministro sopra gli affari esterni. Né sono da ignorare le commessioni che gli furono date conforme le troviamo nelle relazioni per cura del parlamento inglese publicate. Scrivevagli lord Palmerston innanzi di partirsi: che dopo aver conferito in Svizzera co’ capi delle due fazioni, e conosciuto le mire di ciascuna, dovesse trasferirsi a Torino, Firenze e Roma, mettersi in corrispondenza con quelle corti, incoraggirle a fare tutte le mutazioni o riforme di governo che reputassero utili alla felicità de’ loro popoli, assicurarle d’ogni favore, amistà e sostegno della regina d’Inghilterra; la quale non avrebbe mai tollerato che l’imperador d’Austria o altro potentato occupasse i loro stati o le loro deliberazioni disturbasse.

Non molti giorni dimorò in Torino lord Minto. Parvegli conoscere che senza gravi disordini avesse potuto in quella provincia compirsi il primo termine della civile rinnovazione d’Italia. Giudicò pure remosso il pericolo d’una occupazione austriaca, né prossima la cagione di farlo rinascere; nel tempo che gli sembrava un bene il minaccioso accrescimento di milizie fatto dall’imperadore in sul confine, quasi a contenere le voglie cittadinesche dal troppo chiedere a’ principi. Più lunga dimoranza fece il legato inglese in Roma, reputata allora capo del commovimento italiano; e quantunque l'opera sua ancora in questa città fosse la stessa, cioè di confortare il papa a riordinazioni civili, pure appo lui divenne più speciale, avendo non lievi uffici fatto perché la publicazione degli atti della consulta di Stato consentisse, credendo che da questo potesse derivare gran bene e quiete. Secondo le relazioni di quel diplomatico, pare che le corti di Roma, di Torino e di Toscana conferissero insieme per andar d’accordo in sì fatta bisogna, e il papa mostrasse in principio non essere alieno dal consentire, purché gli altri approvassero, ma l’ostacolo venisse di dove meno era ragione di aspettarlo, cioè dalla Toscana: facendo maraviglia (se pure non doveva fare scandalo) che ove nel fatto era più libertà, quasi da scambiare tal ora colla licenza, si cercasse porre maggiori limiti alle prime concessioni. Non è da tacere una voce, che in Roma pur corse, comecché da atti autentici non certificata, che lord Minto, quasi gittando semi di futuri mali, spaurisse il fìebole spirito di Pio IX con sinistri presagi s’ei più oltre delle riforme d’interna amministrazione fosse proceduto, e fattosi movitore di guerra contro l’imperator d’Austria.

E nel tempo che viaggiava per l’Inghilterra lord Minto, viaggiava per la Francia il conte Bresson, non con le medesime ingiunzioni; conciossiaché il re Luigi Filippo, indettato colla corte viennese, e da quella d’Inghilterra maggiormente diviso dopo i parentadi colla casa di Spagna, ragguardava con dolore e sospetto lo scotere che ogni dì più si faceva il giogo delle vecchie signorie; e per quanto biasimare apertamente le riforme operate dagli stessi principi non osasse, anzi di confortarle protestasse direttamente, non lasciava tuttavia di adoperare indirettamente ogni sua autorità perché effetti importanti non producessero; non potendo desiderare la libertà altrove chi per tante vie la tarpava in casa. Oltre di che, e sopra ogni altra cosa, temeva che non divenissero seria occasione di guerra fra il pontefice e lo imperadore; nel qual caso mal avrebbe saputo da qual parte tenere, e a cui meglio desiderar la vittoria. Ciò era cagione che ogni dì maggiormente fosse preso in odio il conte Pellegrino Rossi, oratore del re in Roma; non ostanteche procacciasse di rendere anzi confortevoli che no gli offici di Francia. Ma il publico che di ciò non sapeva o non credeva, per subillamento di malevoli, facendo di lui e del ministro Guizot una cosa stessa, ne mormorava e levava i pezzi; e forse gittavasi il mal seme di quelle ire di parte, che dovevano l’anno appresso farlo tristamente cadere per man di sicario, e rendere la sua morte cominciamento de’ precipizi della patria, come sarà detto a suo luogo.

Non passavano in tanto le cose pontificie senza maggior commozione nel rimanente d’Italia, svegliando da per tutto più vivo odio contro il dominio austriaco, e più intenso amore al pontefice. E la Toscana, che si era o credeva di essersi già messa in sulla via del riformare, levavasi con più fervore a farne dimostrazione. Vero è che in Toscana ne’ mesi di luglio e d’agosto era notabilmente cresciuto il commovimento per lo scrivere ne’ giornali: a’ quali ogni dì il numero de’ leggitori di qualunque età e condizione più grande diveniva. Vedevansi per le mani del minuto popolo; le botteghe e le case erano fatte camere di novelle; in ogni paese, e quasi in ogni villaggio istituivansi officine di lettura publica. E ben si conobbe qual potere avesse il favellare a stampa; ché magnificando i benefizi del romano pontefice, valeva a scassinare lo assoluto impero: di che accorgendosi i rettori, e ogni giorno più avvisando, non essere lunge la fine della loro potenza, facevano gli ultimi sforzi per puntellarla, e in peggiori partiti, come suole chi è vicino a perdersi, incespicavano; quasi piloti che non avendo più direzione né cognizion de’ venti, e non sapendo più maneggiar le vele, menano la nave al naufragio per quella medesima via onde vorrebbero salvarla. E peggio d’ogni cosa era quello spesso minacciar gastighi senza alcuna o lievissima esecuzione; onde non altro ottenevano che di fornire materia agli scrittori de’ giornali per incolparli e schernirli, prendendosi occasione fino dagli stessi benefizi: perché avendo il principe cassa la pena di morte, accusavano i ministri di avere umanissimo decreto annunziato in modo nel diario delle leggi, che quasi non sarebbe stato avvertito se negli altri diari non ne fosse stata fatta splendida menzione. Maggior occasione a far romoreggiare fu che volendosi innalzare ne’ templi publiche grazie a Dio per aver salvato Pio IX dalla vociferata congiura, e parendo a’ rettori fiorentini che in quelle preci si nascondessero (come si nascondevano) altri intendimenti, mal sapevano apertamente rintuzzarle, per evitare lo scandolo di contrariare onori religiosi renduti al capo della Chiesa, e nel tempo stesso avrebbero voluto non permetterle: onde mandarono ordini e contrordini, e in alcuni comuni si celebrò quel che in altri non si potè, giocando più l’arbitrio de’ vicari, dei gonfalonieri e de’ vescovi, di quello che non avesse esecuzionecomando. Così in Toscana diveniva uso o necessità il dispregio alle leggi. Similmente volgendo il dì anniversario della morte di Francesco Ferruccio, una eletta di giovani pistoiesi la mattina del 3 agosto trasferivansi a Gavinana, e qui con prose e versi rimemoravano la gloriosa e infelice giornata, nella quale l’eroe toscano, più ardito che fortunato, con disperato valore combattendo, e con immortal gloria cadendo, seco traeva i fati estremi della libertà fiorentina. Se a’ rettori davano noia le feste mantellate col nome del pontefice, assai più doveva pungerli quella indirizzata a onorare un nome di republicana ricordanza. E in effetto il solito perséguito e minaccia di gastighi non mancò: designandosi qual congrega di tumultuosi e di perturbatori i giovani che avevano festeggiato alla memoria del Ferruccio. Il cui nome tuttavia d’allora innanzi, accanto a quello di Pio IX (strano accozzamento) suonò in tutti i popolari rallegramenti, e in onor suo furono divulgati scritti ed epitaffi, e alla sua statua rendute publiche onoranze; da mostrare che il vietato era maggior esca a farlo volere.

Verso il fin d’agosto, ancora in Toscana orasi messo il desiderio della milizia cittadina, e tanto più vivo manifestavasi quanto che era stato appagato in Roma; dove pareva certe istituzioni avessero dovuto maggiori difficoltà incontrare; senza dire che la occupazion ferrarese non aveva per le toscane provincie minore importanza di quel che ne avesse per le pontificie, dicendosi offesa e minacciata tutta Italia. Finalmente i giornali di Toscana, non appena nati, avevano cominciato a parlar d’arme cittadine, e allora con più caldezza ne predicavano la utilità, allegando i servigi che ne «aveva ricevuto la città di Roma in que’ giorni di creduto turbamento, e mostrando come altresì in Toscana, dove pure dimoravano nemici delle libertà poteva sorgere il medesimo pericolo, né trovarci provveduti a removerlo. Che se poi (aggiungevano) una guerra italica s’accendesse, e faville per avventura si veggono qua e là, quanto non sarebbe infelice la condizion nostra, deboli e senz’arme? Quali difese opporremmo a’ nostri confini? Quale tutela avrebbero le città? Chi guarderebbe la dignità del principe? Chi assicurerebbe la libertà del governo? Ben d’ogni cosa è suprema necessità lo apparecchiarci alla guerra, se la pace vogliamo, e se vogliamo altresì rimaner quieti dentro, rispettati fuori.

Con questi replicati eccitamenti degli scrittori, vie più commovendosi gli spiriti, alcuni giovani studenti cominciarono a fare sottoscrivere una petizione al principe, che il desiderio di avere una guardia civica esprimesse. Né ricusarono di promoverla e caldeggiarla i professori Zannetti e Pellizzari; i quali sapendo che le leggi condannavano petizioni publiche, andarono al ministro sopra gli affari interni per significargli, che a volere antivenire a tumultuari e perigliosi assembramenti, era stato avviso ad alcuni buoni cittadini di ricorrere a quello espediente; e lo pregavano a interporre la sua autorità affinché il popolar voto fosse esaudito. Il ministro, che in cuore non era favorevole, e temeva apertamente contraddire, più peritoso che sincero rispose: che veramente il mezzo della soscrizione non era molto legittimo; pure non ricusava di presentare al granduca le note sottoscritte. Le quali in Firenze furono assai meno abbondanti di nomi che non fossero nelle provincie. Di che varie possono essere state le cause. E primieramente il maggior numero degli stipendiati; i quali udendo da’ capi degli uffici vituperare la istituzione, e da ciò argomentando cliente dovesse essere l’animo de’ rettori, temevano di pregiudicarsi: e dello stesso timore era altresì compreso tutto lo immenso stuolo degli aspiranti ed aspettanti. In oltre nelle metropoli quanto è meno facile il turbare la quiete, altrettanto il maggiore abbondare degli agi, degli svagamenti e de’ piaceri, scema nerbo e ardenza negli spiriti, e fa crescere la schiera degli indifferenti o avversi ad ogni novità. Da ultimo l’essere state, le note da sottoscrivere messe in giro più tosto rifusamente, e senza che tutte le persone offertesi di mostrarle si conoscessero, dava sembiante di qual cosa d’illecito: il che apparve meno agli abitatori delle provincie, indirizzatisi a’ gonfalonieri, affinché del voto publico facessero essi al principe presentazione e raccomandazione autorevole.

Né a rendere in Firenze il numero de’ soscritti più proporzionato alla quantità della popolazione, giovò che ne’ giornali fosse replicatamente avvertito, avere il ministro delle cose interne benignamente ricevuto le note presentate né essere più a temere di far cosa non conforme alle leggi. Per lo che i disvolenti la istituzione della guardia civica, attribuendo a contrarietà generale ciò che era effetto o di paura o di malignità o più ancora d’indifferenza, tempestavano gli orecchi del principe, perché non volesse concedere cosa da pochi fanatici e ambiziosi desiderata. E i ministri, che nell’ordinamento d’una milizia civile scorgevano nuova sorgente d’impacci e di fatiche per loro medesimi, anzi che disporre la mente di lui a contentare quella voglia, bene o male suscitata, lasciavano che si raffermasse a discredere che realmente la Toscana abbisognasse d’una guardia cittadina, e quella vivamente bramasse. Onde a chiunque di guardia civica gli favellava, rispondeva contrariamente.

Fra tanto perturbazioni e disordini succedevano in diversi luoghi del granducato, da’ quali i desiderosi della guardia civica traevano maggiore argomento della necessità di detta istituzione. Ma i ministri seguitavano a mantenere il principe nella persuasione che i più non la desiderassero, e dovesse anzi tornare di aggravio al publico che di benefìcio. Laonde parve agl’innovatori non restasse che tirare il minuto popolo nelle piazze a gridarla; affinché la paura vincesse la contrarietà di chi aveva il comando; porgendo al solito il primo esempio la città di Livorno; che la sera del 23 agosto con assembramenti e clamori di popolo chiedeva la pronta istituzione della guardia civica: e il governatore don Neri de’ principi Corsini fattosi alla fenestra del palagio, notificava di aver già compito l’ufficio suo, e dependere dal principe che i loro desiderii fossero satisfatti. E già gli stessi raguni popolari cominciavano in Firenze. Alcune migliaia di persone, ordinate a quattro a quattro e ingrossate cammin facendo, conducevansi sotto la reggia, e il medesimo grido levavano. E questi assembramenti rinnovavansi, con sembiante di convertirsi in tumulti; non mancando uomini perduti e prezzolati, che nella folla intramettendosi, ed eccitando a dar di piglio nell’altrui roba, tentavano, comecché vanamente, d’ingarbugliare: onde sorgevano le costernazioni e gli affanni dei paurosi: ecco, dicevano, terminato il quieto vivere in Toscana: $cco cessata ogni sicurtà interna, e creati pericoli esterni. Poiché il popolo si è aperta la via allo assembrarsi nelle piazze e a chiedere co’ gridi le franchigie, non si può dir più dove andremo a riescire. Ora domanderà la guardia civica; ottenutala, a più ardite istanze alzerà la voce; e in ultimo saremo tratti a dover temere che le ragunanze non si cangino in rapine e stragi, senza che sieno da sperare dal governo debole provvedimenti alla difesa delle nostre sostanze e delle nostre vite.

Era già voce che presto sarebbe stata annunziata al publico la riordinazione della consulta di stato; né liberi e savi scrittori mancavano di far presentire che ragione e utilità publica volevano dovesse antecedere l’ordinamento de’ municipi, donde lo stato avrebbe potuto trarre consultori meritevoli della generale fiducia. Ma reputando i rettori cotali ammonimenti vanità di fantasie stemperate, fecero tal ricomposizione della Consulta, che di non salariati del governo o della corte, il solo marchese Gino Capponi notavasi: e più tosto agli uffici che alle persone pareva la qualità di consultore conferita. Questo rinnovamento fu causa in pari tempo della creazione del ministero di giustizia e grazia; il quale alla vecchia Consulta apparteneva. Due altre variazioni furono altresì fatte nel consiglio de’ ministri. Tolto al vecchio Cempini il peso della speciale amministrazione dell’erario, venne al cavalier Baldasseroni affidata, restando esso Cempini capo e principal direttore di tutte le segreterie di stato. Similmente all’Hombourg ministro sopra degli affari esterni e direttore della segreteria di guerra, fu surrogato don Neri Corsini, allora governatore della città di Livorno.

Co’ sopraddetti atti e provvedimenti, speravano i rettori di acquetare le popolesche brame, e a poco a poco dileguare quella che loro pareva fantasia della guardia civica. In vece continuavano e più minacciosi divenivano i notturni assembramenti: le soscrizioni aumentavano; incalzavano le petizioni; e principiava essere generale il timore di qualche prossima e grave calamità. Di che il popolo dava il più terribile segno diffidando che il suo danaio raccolto con civil parsimonia e deposto nella publica cassa de’ risparmi, non fosse più sicuro; e in folla correva a richiederlo; e bisognò destinare alle riscossioni anco i giorni ne’ quali non sarebbe stato obligo di soddisfarle. Messi così alle strette i ministri, publicarono per bando, che dopo la recente ampliazione della R. Consulta, e l’ufficio ad essa conferito di dire il parere sopra la formazione di nuove leggi d’importanza somma, era stato disposto di lasciarle esaminare, se la domanda della guardia civica fosse o no da contentare. Parve stoltezza, che d’una concessione, la quale non si poteva più rifiutare o indugiare, si volesse fare alla nuova Consulta acquistare il merito, anzi che farlo tutto al principe riferire, e metterlo almeno nell’apparenza di spontaneo e volenteroso conceditore. Ma se bene i nuovi consultori, già avuti in sospetto, non avrebbero allora osato pronunziar voto contrario, pure non era da sperare che risoluti e solleciti in tanta bisogna si espedissero. E già cominciava dar noia il loro allungare e consumar tempo in ceremonie e adunanze preparative. A troncar quelle vane dimore sopravvennero più incalzanti adunanze popolari, promosse da’ nuovi fatti di Lucca del primo dì di settembre, de’ quali importa avere particolare notizia.

Erano le cose del ducato di Lucca venute a tale, che poco più abbisognava perché al loro termine precipitassero. Una gran pinta fu l'atto coraggioso del presidente della rota criminale Luigi Fornaciari. Il quale, dopo avere replicatamente e sempre indarno procacciato d’infondere nell’animo del duca sentimenti di umanità e di equità, veggendo che chi avrebbe potuto e dovuto con più efficace coraggio ammonirlo, ancora non si attentava; e d’altra parte giudicando che il più temporeggiare era non solo esporre la patria a nuovi travagli, ma sé stesso mettere in pericolo di cambiare in istromento di ferocia il magistrato della publica giustizia, deliberò di scrivergli per lettera publica, e rammentargli che era stato investito della signoria lucchese con leggi che la limitavano e volevano anzi benigna che aspra. Ma il duca, non che ascoltare ammonizioni, cassò il degno magistrato; il quale venne in tanto favor popolare, che gli bisognò non solo in Lucca ma ancora in Firenze fuggire i festeggiamenti per non cadere in sospetto di promoverli. L’ esempio del presidente Fornaciari mosse finalmente il marchese Antonio Mazzarosa: di cui non era in Lucca il più autorevole per nascita, grado, età, ricchezza, e fama che che di gentil letterato godeva nel resto d’Italia. Il quale pure scrisse al duca, che dimorava nella villa di S. Martino, esortandolo a seguire l’esempio del granduca di Toscana, e a largire anco la costituzione se i trattati l’obligavano. Non ebbe il Mazzarosa alcuna risposta; e in tanto moltiplicavano gli atti dispotici del duca padre, le crudeltà sfrenate del principe figliuolo, e le audaci provocazioni della gente pagata a movere garbugli.

Ma il sacco essendo ornai colmo, ciò che doveva farlo traboccare non mancò. La notte del 26 agosto per ordine e opera del principe erede furono in Lucca dal seno delle loro famiglie strappati sette giovani, e senza metter tempo in mezzo trasportati e chiusi nel forte di Viareggio. Col fatto crudele sorgevano crudeli novelle, che la città tutta contristavano; dicevasi di altri da essere incarcerati, e insieme co’ primi consegnati al duca di Modena, o all’imperador d’Austria. La bestialità del principe rendeva credibile ciò che per avventurà non era vero. Il popolo comincia a romoreggiare, e pingendosi ora sotto il palazzo ducale, or sotto quello degli ufizi, solleva risoluto grido: Vogliamo fuori i nostri fratelli imprigionati; vogliamo la guardia civica; vogliamo la stampa libera. Il duca spaurito, aduna il consiglio di Stato, e non avendo coraggio di presiedervi, prega il Mazzarosa a volerlo rappresentare. Insiememente si aduna in piazza numeroso e minaccioso il popolo, aspettante le risoluzioni; le quali tardando (essendo il consiglio composto di uomini la più parte servili e avvezzi a non formar pensiero che non fosse secondo il cuor del principe), alcuni de’ più arditi salgono in palazzo, e in nome dello stesso popolo, non più tollerante d’indugio, minacciano che dove incontanente non fusse deliberato lo scarceramento de' sette prigioni, la concessione della guardia cittadina, e le altre larghezze ottenute da’ Toscani, la città sarebbe andata sossopra.

Questa suprema ragione, avendo persuasi e messi d’accordo i consultori, mandarono lo stesso presidente Mazzarosa con altri due, il Fascetti e il Brancoli, deputati al duca a comunicargli le loro deliberazioni. Se non che il popolo, poco fidando nella risposta del principe, volle in gran numero accompagnarli infino alla villa ducale di S. Martino in Vignale, dove stavasi Carlo Lodovico, anch’esso, e con diversa intenzione, aspettando ciò che il consiglio di Stato avesse risoluto. Fattosi alla fenestra, e veduta la gran folla che verso il suo palazzo giungeva, fu assalito da quello spavento che serbano i cieli a’ principi quando sanno la pazienza de’ popoli vicina a cangiarsi in furore. Tutto avrebbe in quel momento sottoscritto; e di leggieri sottoscrisse l’editto delle nuove leggi, che i deputati, dopo averlo essi medesimi compilato, gli presentarono. A un tratto lo sdegno popolare cangiossi, come suole, in grande allegrezza. Provvedutisi di rami di querce tolti a’ vicini boschi, fra lieti canti, quasi in trionfai festa, tornarono aLucca. Sonavano le campane a gioia: gli spalti delle mura formicolavano di gente; da per tutto si accesero lumi; le grida di viva Italia, viva Pio IX, viva Carlo Lodovico, empivano la città, e le sottoposte campagne facevano risonare. Solo fra quelle allegrie dava noia l’allontanamento del duca, quasi presagio di tradigione. Costui appena segnato il,decreto delle franchigie, erasi volto agli Stati Estensi con sì precipitosa fuga, che dal gran correre scoppiò un cavallo: entrò in Massa a piè; e avvenutosi subito al figliuolo del già ministro Raffaelli, gli si gittò al collo, dicendo che Lucca era in rivoluzione. Ma il procacciare che tornasse parve allora prudente partito, acciò la piccola Lucca non fosse quella che per prima il predicato accordo de’ principi co’ popoli rompesse. Eletti cittadini pertanto gli furono inviati; a’ quali gentili donne s’accoppiarono, affinché l’ambasceria in quel debole ed effeminato animo più facilmente l’effetto d’indurlo a tornare in patria sortisse. E così fu: né mai principe quanto meno meritava di applauso, ne ricevette maggiore. La città fu nuovamente in festa: non più alle stelle erano levati i soli nomi di Pio e di Leopoldo, ma con essi andava altresì quello di Carlo Lodovico. Il quale non rattenuto da sì lieta accoglienza, tornossene poco stante a Massa, aspettando consigli e conforti accomodati a’ suoi disegni.

Avendo Lucca ottenuto la guardia cittadina, non è maraviglia che in Toscana, dove già gli animi erano disposti a volere detta istituzione, ogni maggiore indugio per essa divenisse incomportabile; essendo che in quei primi commovimenti le voglie de’ popoli s’accomunavano e accrescevano di mano in mano erano disbramate. Nella città di Livorno, la più inclinata a desiderare novità, e la più pronta e acconcia a sollevazioni popolari, la mattina del 3 di settembre eransi levate voci diverse sul deliberar della consulta fiorentina, e il popolo dietro a quelle assembrato e tumultuante, volle che fossero mandati al principe ambasciatori il gonfaloniere de Larderei, Giuliano Ricci, Luigi Giera, Giovan Paolo Rartolommei, Michele Palli, Francesco Pachò, Giovanni Fanelli, Andrea Sgarallino: i quali partiti per Firenze e giunti a notte avanzata, andarono subito a casa il Cempini, capo de’ ministri, a rappresentargli la commessione che avevano ricevuto, e come era urgente il provvedere che altro giorno non passasse senza che fosse la istituzione della guardia cittadina decretata. Fu detto che il Cempini, non avvezzo a udire di quelle istanze, e in quell’ora, da prima com’uomo soprappreso si sbigottisse, poi facesse risentimento che così d’assalto il governo si prendesse; e avuto brusca risposta da un de’ deputati, che era un popolano, raumiliatosi dicesse: che già il principe deliberato era la domandata guardia concedere, e il voto aspettarne dalla consulta, che fra due giorni l’arebbe dato. Replicarono i deputati che non era senza pericolo lo indugio d’altri due giorni, atteso il grande commovimento degli animi in cui essi avevano lasciato Livorno, aspettante con insolita impazienza che i suoi inviati recassero risposta della ottenuta concessione. Era la prima volta che il popolo faceva intendere ch’ei domandava per ottenere. Onde il vecchio ministro, stretto dalla paura, e tutto confuso corse tostamente alla reggia, notificando al principe il caso, e la mattina fu mandato ordine che la consulta senza altra dimoranza si adunasse, e l’aspettata deliberazione pronunziasse: essendo altresì voce che dove in quel giorno non fosse stato il popolar desiderio contentato, il giorno di poi gran numero di Livornesi sarebbero venuti a Firenze, e avrebbero colle armi alla mano domandato al principe ciò che allora pacificamente chiedevano.

Stavasi così aspettando, e per la città, oltre il solito popolata, era un agitamento, come di chi attende imminente risoluzione che può essere di gran festa, o di gran lutto cagione, quando s’annunzia che la consulta ha dato voto favorevole, e dopo alcune ore si publica il decreto del principe, che in solenni detti dichiara la guardia civica istituzione dello Stato. Mal si potrebbe con parole ritrarre il vivace commoversi e il tranquillo sollevarsi degli animi a nuova e insolita letizia. In men che non si dice le botteghe fanno mostra di nappe e nastri del doppiò color toscano bianco e rosso: la gente vi corre a provvedersene, e ognuno si affretta a fregiarne il cappello o il petto; e quindi un andare e venire, un aggrupparsi qua e là, un congratularsi l’un coll’altro. Non pareva che più fosse alcuno che la guardia civica non desiderasse, costretti i contrari da timore o da vergogna a nascondersi, o a gioire col festante popolo.

Ma il maraviglioso spettacolo fu la mattina del giorno appresso 5 settembre. Era nato la sera facilmente il pensiero di rendere solenne e popolare ringraziamento al principe per la fatta concessione. Ecco nel corso della notte un continuo darsi attorno, e provvedere perché la festa, come che improvvisa, riuscisse splendidissima, e mostrasse allo stesso principe quanto male il consigliavano coloro che dal fare quel decreto l’avevano ritenuto. Meglio che venti mila persone d’ogni età e condizione, col fregio de’ colori toscani in petto ordinate in fila di sei, marmanti a suon di musiche in drappelli; e ogni drappello portante una banderuola con iscrizioni e motti cittadineschi, dopo avere percorsa la miglior parte della città, gli si schierarono sotto gli occhi nella eminente piazza de’ Pitti: e ben a quella vista e allo scoppio delle tante voci che il suo nome levavano al cielo, dovette pensare che se pochi erano stati i suscitatori del desiderio, della guardia civica, non di meno era successo loro di procacciarsi in un modo o in un altro l’universal consentimento. Tutto il giorno e gran parte della notte fu un tripudiare continuo per la città; conciossiaché il popolo ritrattosi dalla piazza dei Pitti, colla medesima ordinanza con cui vi si era condotto, e scioltosi per poche ore, raccozzavasi di nuovo la sera per celebrare nel tempio il felice avvenimento. Al quale ufficio richiesto lo arcivescovo di Firenze, perché volesse egli stesso lo inno di santo Ambrogio intonare, non si negò, come negato si era quando un mese addietro si voleva Iddio ringraziare per aver salvo il pontefice da quella vera o supposta macchinazione. Il che dava indicio di trionfo de’ nuovi desiderò. E altro indicio era che tutte le milizie, e la stessa real casa, abbandonando gli odiati colori austriaci, assumessero i graditi colori toscani: e con questi il principe e il suo corteo si mostrassero in publicoil giorno della natività di Maria Vergine, nell’andare, secondo il costume, alla chiesa della SS. Annunziata: onde il popolo fiorentino al vederlo, fatto due ali di sè, che dalla chiesa anzidetta in fino alla piazza de’ Pitti si distendevano, per tutta la via con voci e salutazioni straordinarie lo accompagnò.

Andato a Pisa e a Livorno la nuova della promulgata istituzione della guardia civica, queste città si levarono l’una dopo l’altra festeggiarla con impeto di affetti pari al lungo desiderio. Se non che ne’ festeggiamenti pisani e livornesi (dove intervennero i medesimi Lucchesi) cominciò vedersi la mostra de’ tre colori, verde, bianco e rosso; che dicevano in testimonio d’italianità. Ma parendo a molti pericoloso segnacolo, e di republicana memoria, fu avviso a’ prudenti di provvedere così, che un quarto colore dichiarasse la differente indole del presente dai passati moti d’Italia: e scelsero il giallo, traendolo dallo stendardo pontificio, affinché il colore del governo della Chiesa attestasse meglio, come pacifico e religioso intendimento era allora ne’ popoli. Né Pisa e Livorno soltanto festeggiarono la nuova che il principe avesse conceduto la guardia cittadina, ma non fu città, non terra, non villaggio, che secondo la sua grandezza non facesse altrettanto. E tuttavia non pareva a bastanza, se tutti i popoli di Toscana, convenuti in Fiorenza, non vi avessero avuto parte; quasi presagio (dicevasi) di quel più ampio e felice abbracciamento che i popoli d’Italia dovevano un giorno solenneggiare in Roma. Questa festa fu la tanto celebrata del 4 2 settembre, la quale così splendida memoria lasciò di sé, che ancora l’abbiamo viva nel pensiero.

Albeggiava appena, e per la città era gran movimento, annunziatore di straordinaria gioia. Da tutte le porte entravano popoli interi, insieme mescolati, quasi ogni vecchia raggine fra loro fosse tolta. I ricchi in mezzo a’ popolani; i padroni co’ contadini; avviandosi ciascuno al luogo assegnato per mettersi in cammino sotto la propria bandiera; e s’aggiungevano Italiani e forestieri di più altre nazioni, raccolti anch’essi sotto le patrie insegne: notandosi l’alemanna, quasi indizio che Austria e non Germania ci fosse nemica. Le compagnie de’ cittadini formate secondo le loro professioni, o i loro uffici, o altro vincolo, tutte numerose, e con belli e favellanti vessilli, facevano di loro due ali lungo le vie per le quali le speciali ambascerie di ciascuna provincia dovevano procedere per condursi dal duomo alla reggia. Né è possibile descrivere la maestà di quella processione, e l’ordinato spiegarsi in lunghissima serie di file di tanta e sì varia gente, e le innumerevoli bandierole che somigliavano a una selva, e l’addobbamento delle case, e le fenestre piene di persone plaudenti. Ancor meno possibile è riferire le grida e i fremiti di gioia, e il lanciarsi l’uno al collo dell’altro, e baciarsi e piangere di allegrezza. I nomi di Pio IX e del Gioberti, colla mescolanza di quelli del Ferruccio, di Pier Capponi, e d’altri antichi e moderni, andavano alle stelle. Commoveva particolarmente la vista de’ preti e de’ frati, insolita in così fatte allegrie; e anco i meno inclinati a novità erano come tratti a riconoscervi la mano di Dio. Lo spettacolo divenne maggiore nella piazza de’ Pitti; dove non si raccolsero meno di cinquantamila persone salutanti il principe con voci altissime; nel tempo che i deputati della città entrati nella reggia il ringraziavano della istituzione della guardia cittadina, e quello mostrava congratularsi di averla decretata. Si seguitò tutto ’l giorno e buona parte della notte a festeggiare per le piazze e per le vie, rallegrate da splendida illuminazione, da parere che un solo pensiero, un solo affetto, una volontà sola fosse in tutti: né imagine di popolo sì concorde erasi mai veduto, o parato di vedere: né dubbiamente giudicavasi che tutta quella popolare esultazione non significasse il solo rallegramento per la guardia civica, ma sì altri e maggiori desiderii: e si disse che fosse stata intenzione in molti di gridare sulla piazza dei Pitti il governo colla costituzione, ma ad altri paresse che non convenisse in quel giorno, e si dovesse ancora aspettare qualche altro mese per non precipitar troppo le cose, che sì bene s’incamminavano.

Né gli scrittori de’ giornali si stettero dal magnificare con parole gonfie e nuove la importanza della sopraddetta festa: rappresentandola il principio della resurrezione delle genti, che dopo letargo di secoli, alla fine si destavano. Per certo maraviglia faceva che un popolo come il toscano, apparso sei mesi addietro indifferente e quasi svogliato d’ogni cosa publica, mostrassesi in que’ giorni cotanto acceso di novità. Se non che i fatti successivi mostrarono che quell’ardore non era sì profondo e da durare come le apparenze facevano credere: quantunque bisogna dire che ad alimentarlo e promoverlo, nulla o pochissimo fosse fatto in processo di tempo da coloro che le cose publiche timoneggiarono. Ben seguitò lunga pezza il tripudiare, massime nelle terre e villaggi circonvicini; e da ogni solennità religiosa si prendeva occasione di assembrarsi con bandiere e suoni; e quantunque quegli assembramenti festivi non si macchiassero, per vero dire, di alcun delitto, pur tuttavia davano vista di popolare leggerezza; e cominciava sembrare desio di svagamento e di sollazzo ciò che da principio erasi reputato segno di libertà.

Ma la grande e continuata allegrezza per l’acquisto della guardia civica cangiossi in rammarico e lamento il giorno che venne in luce la legge di ordinamento della medesima: parendo che i rettori diffidassero nel concedere le armi a’ cittadini. Gli scrittori de’ giornali si levarono, chi più chi meno, a dire che il fine e gli uffici della istituzione, sotto forma ambigua e oscura, erano adulterati: onde tornava il popolo ad assembrarsi e disporsi a quelle commozioni per le quali sapeva di aver ottenuto la prima vittoria. Tutto l’odio andava addosso a’ vecchi ministri: e dicevasi che insulti e minaccie al ministro Paver e a qualche altro si facessero. Certo è, che contro quelli si mormorava e strepitava da per tutto, e sfacciatamente. Il che dovette chiarire l’errore di por mano a riforme e istituzioni nuove innanzi di aver in modo rinnovellato il governo, che al timone di esso fossero uomini i quali conoscessero il mare in che dovevano navigare. Si cercò di rimediare a questo errore: se non che il provvedimento fu a mezzo, e non come bisognava per avventura prenderlo: onde più tosto diventò sorgente di scandali e di aizzamenti a personali ambizioni, che di mezzo a ben comporre le cose publiche. Duolmi dover parlare di queste miserie, e volentieri me ne passerei, se non avessero dato occasione a cose maggiori e importanti.

Il marchese Corsini, avendo tenuto per qualche tempo il governo di Livorno, e seguitando, ancorché chiamato al seggio di ministro, a tenerlo infino che non gli fosse stato eletto il successore, conosceva meglio d’ogni altro le disposizioni di quella città, che la guardia cittadina aveva accolta e festeggiata più 'come mezzo che come fine; e dalle disposizioni livornesi più o meno argomentava del rimanente della Toscana. E oltre a ciò, mentre in Livorno era, fosse vaghezza o necessità, amava di apparir libero, e co’ liberi uomini conversava e s’intendeva. Per la qual cosa aveva potuto, e per proprio convincimento, e per altrui insinuazione, persuadersi che le concessioni della più larga censura negli scritti e della guardia cittadina, avrebbero più tosto nociuto che giovato, e sarebbono tornate occasione meglio di agitamento che di quiete, se non venivano tosto coronate e raffermate da una costituzione di governo con rappresentanza. Non mancò chi movesse il dubbio, se il Corsini desiderasse questa specie di reggimento, o più tosto volesse aver il merito di proporre egli ciò che vedeva non potersi più cansare. Vero è che da parecchi giorni iva coraggiosamente come preparando e disponendo il principe a sentirsi fare una sì importante proposta. Ma dopo la festa livornese dell’8 settembre, in cui parvegli vedere il prenunzio d’una rivoluzione, nel renderne conto al principe, più apertamente dichiarossi, e così a lui scrisse: La consulta di Stato, in quel modo istituita, non avere prodotto l’effetto desiderato, e le opinioni di libertà avere sì fattamente avanzato, che una magistratura meramente consultiva non bastava più a soddisfarle: né avere procacciato alcun merito la concessione della guardia. cittadina, strappata fra le grida e i tumulti popolari. Essere pertanto in lui ferma persuasione, non restare altra via per ricomporre e rassodare il governo, che quella di passare dalla monarchia assoluta alla monarchia temperata, qualora ostacoli insuperabili non vi s’inframmettessero; e tanto più confermarsi in questo suo avviso quanto che aveva ragion di temere, che dove spontaneo il principe non concedesse alla Toscana una costituzione saggia, nella quale fossero giustamente bilanciate le forze dello Stato, sarebbesi per avventura esposto a vedersene imporre una, nella quale il principio della popolarità avrebbe ricevuto tutto quel maggiore allargamento di cui piò essere suscettivo in un reggimento di rappresentanza. In fine, qualora questi suoi pensieri fossero stati bene accolti, doversi considerare che i vecchi ministri non avrebbero mai avuto favore nella maggioranza di un’assemblea deliberante, e quindi esser necessità, dando loro onorato riposo, scambiarli con altri più accetti: senza le quali condizioni dichiarare, la sua coscienza vietargli di prender parte in un governo di principii ai suoi contrari.

La proposta di costituzione fatta dal Corsini offese per modo, che fu deliberato di removerlo dal governo; e chiamato in presenza del principe, questi lo ammoniva, che il dare la costituzione era un chiamare in Toscana armi straniere per le pretensioni che diceva avervi l’imperio austriaco. Replicava il Corsini, che restando salda la monarchia, e sol modificandosi la forma, non aveva l’imperatore ragione alcuna di richiamarsene. Oltre di che, i trattati assicuravano piena libertà al principato toscano: la quale libertà non sarebbe stata, se il principe non avesse potuto egli stesso variar te forme del suo governo secondo le necessità de’ tempi e i bisogni de’ popoli. Ma il granduca mostrando di non assentire, lo accomiatò, con rammentargli come egli avesse manifestato, che dove le sue idee non fossero state accolte, sarebbesi ritirato dagli uffici. Chiarito così della sua sorte, trovò in anticamera il conte Luigi Serristori e il generale Sproni che, l’uno per la carica di ministro della guerra, e l’altro per quella di governatore di Livorno, dovevano succedergli; i quali aspettavano di ricevere la conferma de’ loro gradi Tanto allora il parlar di costituzione era quasi come fu alquanti mesi dopo il parlar di republica; e i più acerbi avversari divennero poi sostenitori caldissimi della monarchia costituzionale: il che dimostrerebbe che o mentivano avanti o mentivano dopo, se non apparisse chiaro che mentivano sempre: perciocché se alcuni in processo tolsero la veste di costituzionali, ciò fu perché stimavano che non era più possibile tornare al principato assoluto, e perché temevano che non si dovesse andare anche più oltre.

Rigettato adunque il Corsini perché la costituzione proponeva, parve al principe, o a chi lui più intimamente consigliava, che era mestieri non di meno qual cosa concedere a’ popoli, che tornavano ogni dì maggiormente a mostrarsi avversi a chi governava, e diffidenti delle sue concessioni. Onde nuovo cambiamento ministeriale fu stanziato e in poche ore decretato. Eletto ministro sopra le cose della guerra e gli affari esterni il conte Luigi Serristori, fu nel ministero degli affari interni chiamato il marchese Cosimo Ridolfi con licenza al cav. Paver; cui venivano conservati tutti gli onori, titoli e stipendi. Al ministero dell’erario rimase il cav. Baldasseroni; e presidente de’ vari ministeri fu altresì mantenuto il Cempini. In pari tempo cassato l’ufficio di presidente del buongoverno, in quella vece fa posto temporalmente il consigliere Pezzella con titolo di direttore generale: bastando spesso allora cambiar nome alle cose per sedare le fantasie de’ chiedenti riforme. In fatti annunziate tutte insieme le dette novità nel diario delle leggi, si fece gran presagire miglioramenti di stato; non dubitandosi che col Ridolfi e col Serristori nel governo non si dovesse ognor procedere di bene in meglio. La prima cosa che fecero, fu la rinnovazione della legge sulla guardia civica, stata l’ultima pinta al loro inalzamento. Né passarono molti giorni che l’atto desiato comparve, e quantunque seguitasse a parer difettoso per non essere stata la parte attiva, e quella che si chiamava di riserva, ordinate più tosto per ragione di età che per ragion di condizione, né provveduto al modo più facile di mobilitarla in caso di guerra, pur tuttavia si stimò da' più discreti un miglioramento della prima legge, il concedere le armi a’ militi, e rendere le elezioni de’ secondi capitani, tenenti e minori graduati più popolane che non erano per lo innanzi. S’aggiunse a fare accetto il nuovo regolamento, che in pari tempo fu veduto cominciare la guardia i suoi servigi: il che parve segno(1) di operosità in quelli che dovevano armarla e esercitarla per forma che potesse efficacemente provvedere alla quiete interna, e non riescire vana a qualunque difensione esterna. Ma la speranza fallì, e con tanto più rammarico quanto che lo zelo di armarsi e di esercitarsi nelle armi, non era tanto lieve in quei primi tempi; e si videro i cittadini spontanei, e a loro spese formare compagnie private ed amichevoli per ammaestrarsi nelle armi, da che i rettori indugiavano a formare scuole di militare istruzione.

Né il temporeggiare e allungare fu solamente per lo ammaestramento alle armi, ma eziandio per le elezioni de’ capi, per l’ordinamento delle compagnie, per l’acquisto degli archibusi, pel vestire de’ militi, e in fine per tutto ciò che riferito si fosse a mettere in piè nel migliore e più sollecito modo questa guardia, che pur dagli stessi ministri era allora di continuo chiamata fondamento delle comuni libertà. Onde quando poi d’una milizia civile ben ordinata cominciò il bisogno, trovandosi essa mal provveduta di armi e di esercizi, niente valse per la difesa esterna, e poco ancora per la quiete interna. Il che fu grande argomento agli avversari per vituperare e accusare la istituzione.

Tornando ora a Roma, nell’entrare del mese di ottobre, maggiori e più fondate speranze suscitava il pontefice che appellavasi riformatore, e tale da ognuno in quel tempo si credeva. Essendo continuo discorrere ne’ giornali che bisognava riordinare i municipii, e dar loro una rappresentazione autorevole, finalmente s’indusse a rifondare il municipio romano; il quale era in sì misera condizione, che né pure la poca e incerta autorità esercitata dai comuni delle provincie aveva, chi non volesse tenere che quella mostra di senato e di conservatori, senz’altra facoltà e dignità che di mostrarsi spettacolo alle genti nelle festive comparse, fosse degna rappresentanza. La nuova legge publicata il 2 ottobre ordinava che l’amministrazione della città di Roma non dovesse più vagare smembrata in tante mani diverse, ma sì bene dovesse essere confidata a un consiglio di cento cittadini di età non minore di venticinque anni, sessantaquattro de' quali possidenti; gli altri provveduti di qualche civile professione. I quali la prima volta dovessero essere nominati dal pontefice, ed eglino poi divenissero elettori de’ nuovi entranti in consiglio nella rinnovazione che di esso aveva a farsi ogni due anni. Dal loro grembo poi dovesse uscire il maestrato per la esecuzione delle deliberazioni del consiglio, composto d’un senatore eletto dal papa, e di otto conservatori eletti da’ consiglieri. Quanto poi agli attributi (che è l’importante di sì fatte istituzioni) non altra balia dovevano avere che di soprintendere all’amministrazione del comune di Roma secondo le leggi e regolamenti fatti o da fare dal principe.

Alla legge che rinnovava il municipio romano seguitò quasi subito l'altra più importante per l’ordinamento della consulta di Stato, conforme all’atto del dì 19 aprile onde erano convocati i deputati delle provincie. La consulta doveva avere stanza in Roma; comporsi d’un cardinale presidente, d’un prelato vicepresidente, amendue eletti dal pontefice, e di ventiquattro consultori; quattro per Roma e Comarca, due per la provincia di Bologna, e gli altri diciotto per ciascuna delle altre provincie dello Stato; ancor essi eletti dal principe fra persone da’ consigli provinciali e comunali proposte. Ufficio I070 doveva essere di aiutare l’amministrazione delle cose publiche; compilare riformare e modificare le leggi: creare debiti, imporre o sminuire dazi; vendere beni appartenenti allo Stato; concedere nuovi appalti e confermare i già fatti; determinare le tariffe doganali e stabilire trattati di commercio: esaminare l’entrate e spese tanto generali di tutto lo Stato quanti parziali d’ogni provincia; finalmente provvedere a una migliore ricomposizione de’ comunali e municipali consigli.

Chi avesse detto che questa non fosse una benefica istituzione, da ovviare a una parte de’ tanti abusi, e un primo passo a rendere i laici partecipi del governo, avrebbe mal giudicato: ma non giudicavano secondo il vero né pur quelli che la reputavano fondamentale istituzione di libertà. Perciocché lasciando dall’un de’ lati ogni altra considerazione, bastava a dimostrarne la insufficienza il modo della elezione dei deputati, e l’essere le deliberazioni meramente consultive. Tuttavia i popoli pontificii ne fecero gran festa ed allegrezza, e non meno se ne allietarono e congratularono gli altri popoli d’Italia, non ostante che il papa ad ogni occasione seguitasse a manifestare l’animo suo circa le cose d’Italia. E nel concistoro per la elezione del patriarca di Gerusalemme tenuto il dì 4 ottobre, forte si querelò di coloro che il nome suo abusando, non si mostravano a bastanza sommessi a’ loro principi: a’ quali (aggiungeva) dovevano essere in ogni cosa obbedienti, eccetto quando avessero comandato di non piegare il collo a’ comandamenti della Chiesa romana. Di che si valse subito il vescovo di Massa per autenticare colle parole dello stesso pontefice da lui non amato, una sua acerba invettiva contro alle prime novità di Roma e di Toscana. Né il cardinal Monico, patriarca di Venezia e alla casa d’Austria naturalmente ligio, mancò d’ingiungere subito a’ parrochi di quella provincia a bene travagliarsi di far entrare nell’animo de’ popoli que’ sentimenti del nuovo pontefice, e ritrarli dalla falsa opinione che volesse concetti di novità favoreggiare. E per non dire di altri, l’arcivescovo di Udine Zaccaria Brigido, suddito e creato dell’imperatore, così a’ suoi parrochi scriveva: Considerando le protestazioni del sommo pontefice e le purissime sue intenzioni, io v’invito, o venerabili fratelli, a mettere opportunamente nell’animo de’ fedeli la vostra dottrina in conformità di quella che dal trono apostolico il gran sacerdote ha manifestata. Guardate i semplici dalle fraudi, dalle illusioni, dalle chimere: smentite i protervi, che a rotti desiderii e a sciagurate macchinazioni non arrossano di porre innanzi il nome venerabile di quel pontefice che li condanna, e a tutti i popoli del mondo grida, non obbedire a Dio chiunque non obbedisce al principe, è contraddire al Signore chi a’ potentati contraddice.

Così di quel che faceva e diceva Pio IX si giovavano a un tempo le due parti contrarie. Ma le corti non avevano pace in fino che non ottenevano che le differenze fra lui e l’imperatore per la occupazione di Ferrara, in qualche modo si componessero. E del modo di quell’accomodamento poco o nulla allora seppe il publico; e forse né pur oggi si potrebbe dire con certezza, per essere (come più altre volte è stato notato) nel pontificio governo teste e voglie oppostissime: onde non tutto quello che appariva, era in effetto; e spesso trattavasi e risolvevasi non come gli atti e i documenti rivelavano. Tuttavia dovendosi le storie fondare su questi, ne darò quella maggior contezza che potrò.

Il cardinal Ferretti, che in detto affare travagliava con lealtà, aveva dato commessione al suo fratello Cristoforo, dimorante in Milano, che facesse quegli uffici privati ch’ei reputasse più acconci ad onorevole componimento. Nel medesimo tempo l’ambasciadore di Prussia conte Usedom andando a Vienna per ridursi in patria, profferiva al cardinale la sua mezzanità, e quegli per cortesia, o per crederla sincera non la rifiutava. Cominciati i trattati, il conte Usedom, accontatosi col principe di Metternich, proponeva che le milizie imperiali si ritirassero nella cittadella e negli alloggi, con facoltà per altro di mandare scolte per le strade che mettono alla cittadella e agli alloggi: che il papa si astenesse dall’istituire la guardia cittadina in Ferrara, mandandovi in vece soldati di milizia esterna per guardia della città; che da ultimo il comando avessero gli Austriaci. Il nunzio monsignor Viale, più tenero della potenza tedesca che della dignità di Roma, benché ordini non avesse ricevuto, accoglieva le dette proposte, e ne faceva consapevole il segretario di Stato. Il quale crucciato gli rispondeva: maravigliarsi che il conte Usedom, che non aveva avuto formale commessione, e sol per cortesia erano stati accettati i suoi uffici, da lui stesso profferii, mettesse innanzi condizioni di tal fatta: contradittorie fra loro stesse, e offensive alla libera sovranità del pontefice. Più ancora maravigliarsi, com’ei, rappresentante pontificio, contro agli ordini avuti, le avesse accolte.

In questo stesso tempo il generale Fiquelmont mandato a Milano commessario austriaco per gli affari d’Italia, scriveva al conte Lutzow, ambasciadore presso la Santa Sede, dolendosi con esso lui delle invettive che ne’ giornali romani si leggevano contro agli Austriaci, e delle dimostrazioni di odio fatte per le piazze e ne’ templi: alludendo a’ cartelli ingiuriosi, e all’esequie celebrate pei fratelli Bandiera; onde ne inferiva il buon diritto di essere stata rafforzata la guarnigione in Ferrara, e di tenere scolte e guardie non meno per sicurezza che per disciplina de' soldati. Non s’adoperava con maggior frutto il conte Cristoforo Ferretti presso la corte del viceré in Milano, quantunque esso viceré e il medesimo Fiqueìmont facessero protestazioni di amicizia e di concordia, quasi la difficoltà venisse da durezza militare del maresciallo Radetzkv, dichiaratosi di abbandonare il comando, dove fosse fatta ragione al papa, da andarne l’onor suo proprio e dell’esercito. E avveniva in questo mezzo, che in Ferrara soldati austriaci e cittadini a caso o a malizia si offendessero e la colpa del provocare si attribuissero a vicenda. Il che faceva crescere la difficoltà dell’accordo, e la mala intelligenza. Da prima la corte d’Austria voleva che milizia civile non si ordinasse in Ferrara; poi pretendeva tenervi un presidio numeroso quanto quella: finalmente sul diritto di mandar sentinelle ed esercitare il comando della città tergiversava, mentre il papa chiedeva di rimetter le cose com’erano avanti luglio. Andavano e venivano lettere e lamenti e proteste da una parte e dall’altra, che sarebbe lungo e fastidioso a riferire; sì dopo qualche mese si convenne che le porte della città fossero guardate da milizia stanziale pontificia, eccetto quella che guarda il Pò; dove insieme con una sentinella romana dovesse stare una sentinella austriaca; che i soldati imperiali non dovessero ronzare a guardia della città; bensì avessero libero e sicuro transito dagli alloggi di S. Benedetto e di S. Domenico alla cittadella, e da questa a quelli; né il nerbo delle forze loro dovesse essere fuori della cittadella, contentandosi di guardare gli alloggi. Questo per la sostanza; per l’apparenza fu dall’imperadore richiamato il tenente maresciallo Auesperg, e dal papa data licenza temporanea al cardinal Ciacchi, come per ristorare la sua salute. Tal termine ebbe una controversia, che secondo le fantasie degli scrittori de’ giornali pareva dovesse mettere in conquasso il mondo, e raccendere l’antiche guerre dell’imperio col sacerdozio. In vece rinnovò un piccolo esempio di quell’antico tenzonare che cessava e in amicizia si convertiva quando temevano che avessino potuto valersene i desiderosi di novità. Ma seguitiamo l’ordine.

Importanti novità succedevano in questo mezzo in Toscana. Il trattato di giugno col quale il duca di Lucca aveva dato in fitto al granduca di Toscana l’amministrazione delle dogane lucchesi, tornando ogni dì più gravoso all’erario publico, che doveva pagare tanto più di quello che ritraeva, indusse il secondo a procacciare di togliere la insopportabile gravezza coll’anticipare la ricongiunzione dei due Stati, che secondo il congresso di Vienna doveva esser fatta dopo la morte della duchessa di Parma: ma per lo trattato del 1844 poteva effettuarsi avanti quel tempo, dove i principi interessati avessino consentito, con questo che alla Toscana nell’acquisto di Lucca, in vece di Pietrasanta, toccasse perdere Pontremoli. Né il consentimento mancò per parte del duca di Modena, che acquistava nuovo possesso: non mancò per parte della duchessa di Parma, che non provava alcuna variazione; e non dovette essere difficile a vincere il duca di Lucca, che il privato erario in quel modo risarciva. Il giorno 5 ottobre adunque Carlo Lodovico di Borbone rinunziò la sovranità del ducato di Lucca, perché passasse immediatamente nel granduca di Toscana, non temendo di affermare ch'ei con quest’atto posponeva ogni particolare rispetto al desiderio che lo aveva sempre infiammato di fare il maggior bene del popolo lucchese, a cui altresì raccomandava di essere obbediente, rispettoso e affezionato al nuovo principe. Il quale accettando i nuovi sudditi mandò il marchese Pier Francesco Rinuccini a prenderne in suo nome la possessione, e ricevere i soliti omaggi e giuramenti; dichiarando di confermaretutti gli ufficiali publici, e mantenere ad ognuno le onorificenze acquistate.

Fu detto che non tanto la cagion del debito inducesse il granduca ad avacciare il ricongiungimento lucchese quanto che Carlo Lodovico, allontanatosi da Lu cca sotto pretesto di salute, avesse chiamato i soldati austriaci. Il che se bene non appariva per testimonianze autentiche, era non di meno facilmente creduto per la natura del duca: onde gran merito fu per quel cambiamento ai toscani rettori in sulle prime riferito, e molte migliaia di cittadini con torce accese la sera dell’11 ottobre andarono sotto la reggia per ringraziare il principe; per quanto paresse a molti che in cambio di derivarne sollievo a’ Toscani sarebbesi aumentata la gravezza, se provveduto quasi subito non avesse la morte della duchessa di Parma; perciocché avrebbero continuato a pagare al duca gli antichi stipendu, e più la somma di novemila scudi al mese, nel tempo che perdevano i domimi di Pontremoli e della Lunigiana. E né meno dal lato della libertà era vantaggio come a prima giunta sembrava: perché la Toscana colla perdita di Pontremoli e di Fivizzano, restava senza le sue migliori e naturali difese esposta ed accessibile ad ogni men gagliarda occupazione. E in oltre il fare che di detti luoghi diventassino signori il duca di Modena e il già duca di Lucca nel tempo che scintille non mancavano ad una guerra fra l’imperatore e gli stati d’Italia, era lo stesso che dare al primo la chiave di tutta la media Italia, cui natura volle fronteggiata da quelle montagne della Lunigiana e Garfagnana. Pure il più de’ Toscani, guardando meglio all’apparenza che alla sostanza, si rallegrarono; mentre i Lucchesi guardando meno alla sostanza e più all’apparenza se ne dolsero e rammaricarono. Le maggiori doglianze e rammarichìi facevansi da coloro a’ quali dispiaceva di perdere quel misero bagliore di trono lucchese. Né senza dispiacere altresì apparivano gran parte de’ cittadini, sì per il dolore di vedere la loro città di capo convertirsi in provincia, e sì perché essendo stato in que’ giorni rimesso in luce l’antico loro diritto ad una costituzione, notavano che col congiungersi con Toscana, la quale si reggeva a stato di monarchia assoluta, anzi che acquistare, scapitavano. Il che sarebbe stato buono argomento, se essi non avessero avuto un principe che di questo loro diritto si faceva beffa. Onde quando il giorno 4 4 ottobre il granduca insieme con la sua famiglia si trasferì a Lucca per mostrarsi a’ nuovi soggetti, e il gonfaloniere con una eletta di cittadini fatta dal comune andò ad incontrarlo, non fu per avventura sì grande e generale la esultazione come sarebbe stata se l'amor municipale non prevaleva ad ogni altro. Pure applauso non gli mancò, per quanto gli venisse meno da coloro che sogliono più applaudire ai principi: e fu notato che molti nobili si erano condotti nelle loro viHe, dando così tacita vista di non approvare il cambiamento; e avendo il principe formata una giunta di governo dei signori Giorgini, Mazzarosa e Guinigi, questi ultimi che alla principale nobiltà appartenevano, incontanente rifiutarono e vennero loro surrogati i cittadini Antonio Ghivizzani e Serafino Lucchesi.

Meglio fondate e più giuste erano le querele de’ poveri Fivizzanesi e Pontremolesi, che non mutando in meglio, avevano ragione di non volere quell’anticipazione. Dicevano essi, o meglio coloro che a nome loro parlavano: Perché ci volete così vendere innanzi il tempo? Sapevamo bene il mercato che di noi, contro ogni legge di natura e di civile giustizia, aveva fatto il congresso di Vienna, ma sapevamo altresì che prima della morte di Maria Luigia d’Austria dovessimo rimanere toscani; e quando si ha da sopportare un male, nessuno può volere che questo sia affrettato. Oltre di che potevamo ancor nutrire la speranza, che in questo mezzo potesse cominciare a valer qualcosa la ragione de’ popoli, e non dovessimo più essere considerati per greggio da mercati, ma uomini da dire almeno sotto quale sferza (giacché è destino che una ve ne debba essere) volevamo stare. Giustamente si è gridato contro la domestica servitù dei tempi pagani. Nieghisi che la condizion nostra non sia anco peggiore, dacché non particolari uomini, ma popoli interi per bestiame si considerano. Ecco, noi dopo avere festeggiato le toscane franchigie, e unito i nostri auguri a quelli de’ nostri fratelli, perché fruttificassero libertà e prosperità vera, dobbiamo ora smembrarci da loro, co’ quali da più secoli fummo congiunti, e avemmo comuni memorie patimenti e speranze, per passare sotto principi odiatissimi, e perversamente ostinati a nulla voler concedere ai loro sudditi. Ma quale giustizia umana può ciò imporci? Forse quella de’ trattati? Ma tanto il trattato viennese quanto il trattato del 1844 furono fatti in tempo che le condizioni della Lunigiana erano assai diverse dalle presenti, perciocché allora sostanziale differenza di governo non era fra gli stati italiani: né si può pretendere che gli uomini cangino pensieri e affetti come se cangiassero vestito. Veramente non c’aspettavamo questo compenso all’aver più volte il nostro sangue sparso per custodire queste vette da infamia di straniero servaggio; all’aver dato sicuro asilo ai moderatori delle sorti fiorentine da nemica fortuna combattuti, e all’esserci mostri sempre fedeli osservatori delle patrie leggi. Ma noi resisteremo con tutte le nostre forze; farem vedere che non in vano natura ci ha collocati in questi monti; e piuttosto ci seppelliremo sotto le nostre case, che farci schiavi d’un Austriaco e d’un Borbone.

Intanto petizioni e protestazioni giungevano al principe toscano che si trovava in Lucca festeggiato da quella città: e fu spettacolo che tutti commosse il giorno ch’egli uscendo della chiesa di S. Martino, turbe di Lunigianesi gli si affollarono intorno, scongiurandolo che non volesse consentire di abbandonarli; rammentasse averli per dugento anni vincoli di sangue e di commercio colla famiglia toscana congiunti, né potersi ora senza funestissime conseguenze troncare; pensasse che sarebbe troppo grave danno e dolore per essi, appena cominciato gustare il frutto delle novelle istituzioni, doverlo perdere, e da un vivere civile e pieno di allegre speranze, ad un vivere di costringimenti e di paure passare. Sapesse in fine che sono pronti a dare per il loro riscatto sostanze e vita. A’ prieghi e pianti de’ Lunigianesi univansi quelli dei Luechesi, e lagrime traevano sugli occhi del granduca; il quale colla soddisfazione d’un signore che s’accorge d’essere amato, rispondeva, che si tranquillassero, non mancherebbe di fare in loro vantaggio tutto quello che era in poter suo. Commovevansi nel medesimo tempo le altre città, e da per tutto collette e soscrizioni e profferte si facevano. Dava Livorno il primo esempio; secondavamo Siena, Pisa, Firenze, dichiaranti di mettere a disposizione del principe gli averi e le persone, purché la crudele separazione di que’ fratelli non si effettuasse. Alla fine divenne maggior fervore per la causa de’ Fivizzanesi e de’ Pontremolesi nel resto di Toscana, che non era per avventura nelle stesse lor sedi: conciossiaché le moltitudini di quel contado, non bene intendendo cosa volessono riforme significare, e misurando i benefizi civili dalla materiale prosperità, a poco a poco si condussero a non reputar poi un gran disastro quel mutamento di padrone: né forse Toro estense aveva lasciato di procacciarsi partigiani e fautori ancora fra quelle montagne.

Mentre la quistione sulla Lunigiana si agitava nelle piazze, ne’ cerchi, ne’ giornali, nella corte, un tumulto inaspettato costernò la città di Firenze. Era stata tolta l’antica presidenza del buongoverno, ma era stato lasciato ciò che l’aveva maggiormente renduta odiosa. Questi erano i birri; che senza abito militare, facevano il servigio di vigilare e tutelare la sicurtà publica. Gente più vituperevole non era nel paese; parendo indegno che la feccia delle città fosse chiamata ad esercitare sì civile ministerio: e se i rei di furti o d’altri delitti perseguitavano, spesso anco perseguitavano gl’innocenti; e con egual crudezza trattavano i notati di leggerissimi falli; mostrandosi indulgenti e anche umani con chi avesse avuto mezzo di redimersi. Fra i più ingordi e bestiali notavasi un certo Paolini, che alla crudeltà degli atti congiungeva l’audacia. L’odio publico contro costui era sì grande, che non molto abbisognava per farlo traboccare, e il giorno 25 ottobre traboccò. Afferrava un misero cieco che chiedeva l’elemosina, e a furia di spinte e percosse lo cacciava nel guardiòlo del commissariato di Santo Spirito. Gridava il cieco; alcuni del popolo accorrevano; biasimavano i mali trattamenti: la liberazione dell’infelice mandavano. Lo abbraccio con superbia minacciosa rispondeva. Scoppia come un urlo d’indignazione. Si fa maggiore la folla; le antiche ire pigliano coraggio; con più impeto si grida fuori il cieco; che è tosto liberato. Ma la moltitudine infuriata, e non più soddisfatta, chiede di avere nelle mani esso Paolini: né successo al commessario di acquetarla, ordina che posto in una carrozza sia alle carceri condotto. La gente che per via era sempre cresciuta, gli tien dietro, e col narrarsi l’un l'altro il fatto, s’inacerbiscono e infiammano gli sdegni. Giunto alla porta del Bargello, non fu più freno alla collera. Gli si gittano addosso, lo percuotono e malmenano così che l'arebbono finito, se la guardia cittadina tostamente accorsa e trattolo entro alla prigione, non l’avesse dal furor popolare salvato. Ilquale non per questo si arresta, e come se un grido di guerra a tutti i birri si fosse levato, uno stuolo di gente corre alla casa contigua al Bargello, credendo che altri birri stessero ivi rimpiattati. Alcuni guardici sono presi, e le masserizie e le carte incendiate. Tutta la città è in subbuglio: sì la milizia civile e stanziale vi ricondusse a poco a poco la quiete. Allora i rettori con tardo rimedio, quasi cedendo al tumulto, dichiararono per decreto del principe casso il corpo de’ birri. Il cui sperperamento se fu un bene, il modo fu un primo segnale delle popolari violenze, che in processo replicandosi per altre cagioni e occasioni, dovevano render paurosa la libertà ancora a quelli che l’avevano desiderata.

Cominciava in tanto il duca di Modena a impossessarsi della Lunigiana. Fin dal giorno 5 ottobre aveva fatto sapere al granduca che mandasse commessari per la debita consegnazione; e il granduca non aveva ricusato: se non che temendo, che quella consegnazione non avesse potuto essere causa di commovimenti maggiori in tutta la Toscana, erasi rivolto alle corti interessate, e cominciato pratiche per un possibile accomodamento. Le quali nessuno effetto avendo sortito, il duca di Modena, annunziato che avrebbe preso possesso il 22 ottobre, puntualmente in quel giorno entrava in Gallicano co’ suoi commessari, senza che alcun commessario fosse giunto per parte del principe toscano, né alcun ordine fosse dato; onde il paese fra il cedere e non cedere ondeggiò; finalmente si rese. Così fu altresì occupato Montignoso; e dopo pochi giorni Fivizzano. E se bene ognuno conoscesse che per i trattati aveva ragione il duca di Modena, tuttavia per le cose succedute, per la ritrosia de’ popoli, e per le istanze che si supponevano essere state fatte per parte del granduca, quella occupazione stimavasi come atto di violenza proditoria; e se ne gridava per tutto, e protestazioni popolari faceva Livorno, Pisa, Siena, Lucca, bramose di correre in aiuto de’ fratelli lunigianesi, e l’onta fatta al nome toscano vendicare.

Ma in nessun luogo il popolo apparve sì commosso, come in Firenze: non tanto per amore alla Lunigiana, quanto per eccitamento di coloro, che usare volevano quella occasione per accendere affetti di libertà. La sera del 9 novembre gran numero di gente si adunò in piazza di S. Marco, donde poi si condussero fuori di porta S. Gallo nel luogo detto il parterre. Qui furono fatti discorsi e aperte liste per coloro che volevano marciare in aiuto de’ Fivizzanesi. Molti si scrissero; poi andarono in maggior folla a casa il gonfaloniere per domandare armi e munizioni, dichiarando che più di mille si profferivano volontari alla difesa dell’onore comune. Il gonfaloniere dopo aver dato alla moltitudine benevoli parole, adunò senza frapporre indugio il civico magistrato, e dal medesimo ebbe commessione di parlare la stessa sera al principe. Il quale dopo breve stante per mezzo del ministro Baldasseroni rispondeva, che aveva, secondo che la gravità del caso e l’onore della patria richiedeva, provveduto, e in tanto i generosi cittadini per l’offerta che del loro braccio e della loro vita facevano, ringraziava; se non che sperava ancora di non doversi ricorrere all’uso delle armi. E in questa, leggevasi nel diario delle leggi una sua protesta per la subita e violenta occupazione di Fivizzano. Ma la mattina appresso avendosi ragguagli di atrocità commesse in quella terra da’ soldati del duca, ecco di nuovo molto popolo ragunarai intorno palazzo; pingersi dentro, empir la corte, chiedere armi. Il ministro Ridolfi fattosi in mezzo, e chiesto e ottenuto silenzio, parlò in questi sensi: Volgendo a voi la mia voce non solo come cittadino della stessa patria, ma come ministro altresì del comun principe e padre, vi do nuova e solenne assicurazione, che agli eventi di Fivizzano il principe nostro ha non men gagliarda che prudente sollecitudine rivolto; e posso dichiararvi che abbiamo fondate speranze di un successo conforme a’ miei e vostri desiderii. Volete or voi con avventate e intempestive deliberazioni guastar l’opera cominciata, e frapporre ostacoli perché non sia condotta a buon fine? Volete porre a repentaglio non solo la causa de’ Lunigianesi, anzi la sorte di Toscana, e forse quella ancor d’Italia in questi momenti di grandi e solenni speranze? Prendete le armi e varcate i confini. Ma io son certo che a moti sconsigliati non vi lascerete traportare; e anco i generosi impeti della virtù frenerete, persuadendovi che al trionfo del nostro buon diritto contro ogni avversario esterno, nulla può meglio che la conservazione della quiete interna condurci. Bastano al principe le testimonianze già da voi date; e se intervenisse di tentare in vano (che Iddio non voglia) i mezzi di concordia e di pace, egli per il primo il coraggio e valore de’ Toscani invocherebbe, e me stesso, abbandonata la seggiola di ministro, vedreste discendere nelle vostre file, e condurmi dove l’onore e l’interesse di questa parte d’Italia ci chiamassero.

Tutti assentirono e l’adunanza col grido di viva Leopoldo II, viva il ministro Ridolfi si sciolse: facendo maraviglia, alcuni che la sera innanzi erano stati più caldi nell’eccitare alle armi, non minor caldezza nel trattenere mostrassero; e fu giudicato, non parere lor vero di potersi sotto colore di prudenza publica ritrarre da una impresa di guerra, nella quale per vanità o improntitudine si erano posti. Tuttavia non si era veduto ancora in Firenze maggiore disposizione a prendere le armi, come nel movimento di quel giorno: il che dava buon presagio a molti, che dove la guerra per la libertà italiana si fosse accesa, l’opera de’ Toscani non sarebbe, conforme alle loro forze, mancata. Era quello delle liete speranze e de’ lieti auguri il tempo.

Il giorno 15novembre sorgeva per la città di Roma solennissimo, essendo principio alla istituzione della consulta di Stato: nella quale allora le genti raffiguravano come un’imagine delle assemblee, che altrove il governo con rappresentanza costituivano. Municipio, nobiltà, popolo s’accozzavano perché di quella metropoli la festa fosse degna. I consultori, presieduti dal cardinale Antonelli, la mattina si conducevano al Quirinale e i primi loro omaggi al pontefice riferivano. Il quale parlò loro sottosopra in questa sentenza: Ringraziarli del buon volere e farne assai conto pel bene publico. A fin di procurare questo bene aver fatto dal primo momento della sua elezione, secondo i consigli ispiratigli da Dio, quanto poteva, ed essere collo stesso divino aiuto a far tutto per l’avvenire disposto, senza per altro menomar mai d’un apice l’autorità del pontificato; la quale avendo ricevuto da Dio e da’ suoi antecessori piena ed intera, dovere e volere così far passare ai successori; onde ingannerebbesi grandemente chi nella nuova consulta di Stato vagheggiasse alcuna di. quelle istituzioni inconciliabili colla sovranità de’ pontefici. Le quali ultime parole pronunziò più scolpite, quasi sdegnoso di dovere ad ogni occasione le sue intenzioni tante volte manifestate ripetere. Poi ricompostosi e non volendo che gli ascoltanti se ne offendessero, avvertiva non a loro avere inteso riferirle, ma sì a quelli, che delle sue concessioni abusando, turbolenze e sedizioni promovevano. Finalmente gli accomiatò, dicendo che andassero colla benedizione del cielo a cominciare il loro ufficio.

La prima deliberazione fu di fare una risposta al discorso del papa, quasi a imitazione delle assemblee ne’ governi rappresentativi: la quale però dovettero chiamare atto di ringraziamento affinché di costituzione non sapesse. E nel compilarla usarono gran destrezza per dire al principe più di quello che non aveva in animo di ascoltare. Le materie importanti di publico reggimento verrebbero da essi francamente e imparzialmente esaminate, tenendosi dalla timidità inoperosa, e dalle smodate pretese del pari lontani. Procurerebbero che la giustizia e la civile eguaglianza fossero il fondamento delle leggi; proporrebbero modi da bilanciare le spese colle rendite publiche; cercherebbero che queste da una più equa spartizione d’imposizioni derivassero, e che scemare si potessero o togliere certe tasse troppo gravose a’ poveri o d’impedimento alla ricchezza di tutti; vorrebbero cassi i monopolii profittevoli a’ particolari, dannevoli all’universale; favoreggerebbero la lega doganale, aiuterebbero ógni progresso nella libertà de’ commerci; darebbero opera perché negli uffici fosse semplicità e parsimonia, né per brighe o favori, ma per merito conosciuto si ottenessero. Non resterebbero di suggerire quanto potesse far fiorire l’agricoltura, le industrie e l’altre arti buone. Promoverebbero il perfezionamento d’una milizia propria, fortemente ordinata per difendere la quiete interna, e ove bisogni, la libertà dello Stato. Porrebbero ogni cura perché le carceri e i luoghi di condanne, anzi che essere scuola di perversità, mezzo di emendazione divenissero. Intenderebbero sommamente alla riordinazione de’ municipi, fondamento d’ogni altra istituzione, studiando di fare tali proposte, che a conciliare il massimo allargamento della libertà de’ comuni colla suprema dominazione del governo generale, valessero.

Tanto più i desiderosi di cose nuove si sbracciavano nell’accrescere importanza ed efficacia a questa Consulta, quanto gli avversari cercavano di sminuirla. Nuova festa il giorno 24 di ottobre, che il novello municipio cominciava il magistrato, si celebrò in Roma: quasi uguale all’antecedente per la pompa, più scolorata per la letizia, sì perché cotali feste troppo vicine e frequenti si succedevano, e sì finalmente perché la scelta de’ cento consiglieri era generalmente dispiaciuta. Dicevano, che la nobiltà vi prevaleste troppo: la cittadinanza vi fosse debilmente rappresentata; né mancavano ne’ giornali le solite e inutili querele. Anco la presidenza del (Consiglio, conferita al cardinale Altieri, cui davasi nota di speciale clientela colla corte d’Austria, faceva sbottoneggiare. Questi centumviri traevano al Quirinale per fare col papa quel che fatto avevano i deputati alla consulta di Stato: e il pontefice umanamente gli accoglieva, e con quelle parole che usano i principi in cosiffatte solennità, confortavali. Poscia verso Campidoglio s’incamminavano. La strada riboccava di popolo più curioso che contento. Precedeva sfolgorante d’oro il presidente: in altri ventiquattro cocchi seguitavano i cento consiglieri, e dietro a loro quattordici popolani con le bandiere de’ rioni spiegate al vento. Giunti in Campidoglio, presero possesso nella sala de' conservatori, in municipio romano costituendosi. Fu eletto senatore il principe don Tommaso Corsini con soddisfazione de’ Romani, che si ricordavano con quanto splendore altra volta aveva assunto questo ufficio, e con quanta dignità l’aveva deposto. Né piacque meno che a conservatori fossero scelti l’avvocato Armellini, Antonio Bianchini, il principe Borghese, il cavalier Vincenzio Colonna, il marchese della Farnia, il principe Doria e gli avvocati Sturbinetti e Saramucci. Ancora la consegnazione delle bandiere, e il sapersi che il papa aveva fatto coniare medaglie improntate del suo volto per fregiarne i promotori, fu di festa e di lodi cagione. Così le nuove istituzioni, create da Pio IX, importanza acquistavano assai meglio per così fatti accessorii che per la loro intrinseca virtù.


vai su


LIBRO QUARTO

SOMMARIO

Principio della commozione in Piemonte. — Storia sommaria di questo regno dalla sua origine in fino al 1846. — Miglioramenti negli ordini della interna amministrazione. — Desiderii di governo più largo. — Primi semi di nimicizia fra la corte d’Austria e la piemontese. — auguri di bene che ne traevano i desiderosi di cose nuove. — Carlo Alberto infra duo. — Gridori contro il nuovo papa. — Governo di Torino. —Potenza del conte Solaro della Margherita. — Potere del clero nel contrariare le voglie d’istituzioni nuove. — Brighe e trame della setta ferdinandea. — Vituperi publicati contro Carlo Alberto. '— Congresso agrario di Mortara. — Congresso scientifico di Genova. — Festeggiamento del 5 dicembre. — Rigori strani del governo torinese. — Trattati di commercio colla Svizzera col granduca e col pontefice. — Guerra de’ tiranneschi, ai nuovi desiderii. — Incertezze e contraddizioni e cozzamento di speranze e di timori. —Festa di Casale. — Commovimenti popolari in Genova e in altri luoghi. — Agitazione popolare in Torino. — Caduta contemporanea de' ministri Della Margherita e Villamarina. — Nuovi assembramenti e tumulti e scandoli. — Publicazione del decreto delle riforme di governo. — Feste e rallegramenti in tutto il regno. — Importanza di dette riforme. — auguri di bene che se ne facevano per tutta Italia. — Stato di Roma nel novembre e dicembre del 1847. — Effetti prodotti dalle cose della Svizzera. — Nuova opera del Gioberti contro a’ Gesuiti. — Festeggiamenti per la resa di Lucerna. — Morte dell’avvocato Silvani. — Prime deliberazioni della consulta di Stato. — Rigori e indugi ai desiderati provvedimenti. — Querele e commozione d’animi. — Riordinamento del consiglio dei ministri romani. — Effetti delle nuove riforme in Toscana. — Fervore de’ cittadini per la guardia civica. — Indolenza e lentezza nell’ordinaria. — Spartizione delle compagnie. — Rallegramenti e disordini publici. — Gara fra Lucca e Pisa. — Riordinazione de’ municipi e del buongoverno trascurata. — Eccitamenti inutili perché si provvedesse a un migliore ordinamento militare. —Freddezza nelle elezioni degli ufficiali della guardia civica. — Risoluzione della quistione lunigianese. — Morte del gonfaloniere Peruzzi e dello statuario Pampaloni. —

Le cose della media Italia, cresciute per le concessioni del pontefice e del granduca di Toscana, non passavano senza che maggiormente i reami estremi della penisola si commovessero, sperandosi che dove questi avessero ceduto, la impresa sarebbe stata tanto più avvantaggiata quanto che la potenza armata vi dimorava. i Sopra tutto era importante acquistare il re di Piemonte, in cui le maggiori speranze non a torto si riponevano: senza dire che il suo indugiare noceva alla riputazione di coloro, che per campione d’Italia lo aveano additato. Ma come egli cominciasse ultimamente a riformare lo stato: quante concessioni facesse: in quali condizioni si trovasse quella provincia d’Italia, rileva tanto più particolarmente dimostrare quanto che negli avvenimenti, che formano soggetto di queste istorie, fu la più considerabil parte; onde non paia fuor di luogo, se io intorno alla rimemorazione de’ fatti antecedenti alquanto mi distendeva, quasi mi proponessi di narrarli.

Chi ragguagliò il Piemonte col rimanente d’Italia, quasi come l’antica Macedonia col resto dell’antica Grecia (salvo che al Piemonte mancò un Alessandro, di cui tanto più faceva mestieri quanto che la nostra debolezza era maggiore), non fece cattivo ragguaglio: imperocché mentre tutte le provincie italiche prima o poi, e chi più lungamente e chi più brevemente il reggimento popolare provarono, il solo Piemonte, come l’antica Macedonia, si resse a stato di monarchia, e in minor civiltà più guerrieri spiriti conservò. Cominciato con un aggregato di feudi acquistati dalla casa di Savoia per via di parentadi, o di successioni, o di servigi militari renduti agl’imperatori alemanni nel loro frequente passare e dominare in Italia, que’ primi conti savoiardi dovettero star di continuo sull’armi, e fra’ nativi monti difendere le ottenute eredità contro vicini arditi, e di numero e di forze moltiplicati. Se non che in queste guerre, non grandi ma continue, vennero sempreguadagnando e allargando dominazione, e poterono dare al regno piemontese quella estensione che lo costituisse potente dirimpetto agli altri stati, e tale da venire alle mani anche colle maggiori nazioni. Né fu guerra in Italia, anzi in Europa, che le armi piemontesi combattessero, o a cui partecipassero, senza che in fine un qualche nuovo acquisto di territorio non facessero. E gli stessi avvenimenti, pe’ quali la fortuna di altri regni si tramutava o precipitava, portavano ingrandimento alla casa di Savoia, che non più col valore che colla prudenza guerreggiando, arrisicava sempre meno di quello che otteneva; e quando le sue forze colle altrui collegò, fosse sorte o consiglio, stette con quelli che il finale trionfo riportarono. Nell’ottantanove tenne da' monarchi vecchi contro la republica e il nuovo imperio, e l’una e l'altro in meno di venticinque anni caduti, ne guadagnò il dominio di Genova; e fu veduto col paese più monarchico d'Italia la città più lungamente e più popolarmente d’ogni altra conservatasi republicana congiungersi.

Ma non ostante gli accrescimenti successivi, la monarchia piemontese ritrasse sempre degli ordini ond’erasi originata; i quali modificandosi secondo le variazioni de' tempi, non le fecero mai perdere la doppia qualità di religiosa e di armigera, con l'altra eziandio di ligia al clero e alla nobiltà. Ofide, quando dopo la rivoluzione di Francia del 1789, fu da per tutto cominciata la guerra a’ privilegi portati dalle conquiste e dalle superstizioni, nessun regno italiano conservava, come il piemontese, sembianza di origine feudale. Imperocché i principi lorenesi Giuseppe II e Leopoldo I, l’uno per la Lombardia austriaca, e l'altro per la Toscana; e i principi borbonici Carlo III e l'infante don Filippo, il primo pel reame di Napoli, e il secondo per gli stati di Parma, facendo mutazioni o riforme, non avevano in fine oblighi, che particolarmente li legassero agli eredi dell’antico patriziato: da cui, come re nuovi e venuti di fuori, nessun servigio aveano ricevuto. Il che per verità non poteva dire il re di Piemonte, la cui potenza nata qui, e da' feudi, fu dalla spada non vile de' nobili in ogni tempo aumentata e illustrata. Laonde tutti i pensieri della casa di Savoia dovevano ridursi a questi tre sommamente: vegghiare al mantenimento integro del reame, con tanto maggior sollecitudine quanto più esposto ad essere percosso: non isfuggire di ampliarlo, ma con prudenza e senza gravi rischi, e quasi per beneficio di avvenimenti: sostenere tutta la dignità della monarchia con soddisfare il più che fosse possibile alla nobiltà e al sacerdozio.

In effetto, Amedeo, terzo di questo nome, regnando avanti a(1) mutamenti francesi del 1789 (principe che non mancava di perizia nelle faccende di stato, e aveva pure certa non ordinaria vivezza d’ingegno), quanto meno accolse nell’animo, tutto cavalleresco, le idee filosofiche del secolo, tanto più diè favore e potenza eccessiva a’ nobili e agli ecclesiastici, ammettendo solamente i primi a capitanare le soldatesche, delle quali era tenerissimo, e a’ primi e a’ secondi facendo godere i principali onori e le principali entrate del regno. Né volle mai implicarsi in controversie con la corte romana, vietando che nel suo Stato si parlasse o scrivesse della famosa bolla Unigenitus, contro cui gli altri principi del suo tempo si erano sollevati; né si trattasse de’ quattro capitoli della chiesa gallicana; e poiché questi venivano insegnati e difesi nello Studio di Pavia, proibì ad istanza del cardinale Gerdil, che i suoi sudditi vi andassero a imparare. E la tenacità de’ reali di Piemonte agli ordini feudali non apparve meno, dopo il ristoramento delle vecchie monarchie. Vi si trovava su quel trono Vittorio Emanuele, avendo fin dal 1802 rinunziato la corona suo padre Carlo Emanuele IV, sì tenero de’ gesuiti che volle morire de’ loro abiti vestito. E il figliuolo, che pur aveva non poche parti buone, era anch’esso preso da superstizione, quantunque da eccesso di religione sincera movesse. E poi che i partigiani de’ vecchi ordini volevano, tutto quel che era avanti la rivoluzione ristabilito, in cui sapevano di essere potentissimi; e i fautori de’ governi francesi volevano conservate le leggi e istituzioni nuove, vinsero i primi, come quelli che altri e recenti meriti verso la monarchia aveano acquistato; imperocché ancora in que’ giorni di rovesciamenti di troni, e fughe ed esilii di principi, la nobiltà piemontese offerse sostanze e vita in soccorso del legittimo re; e alla scrollata grandezza di Savoia serbò quella fede che altrove alla fortuna de’ vincitori fu data. Quindi tanto più superbi erano divenuti i nobili, quanto più pareva loro di aver meritato; avvisando, non dover essere altra cosa il Piemonte fuorché un re che comanda, una nobiltà che lo circonda, un popolo che obedisce; e così fu: e mentre altri stati d’Italia ritenevano fedelmente gli ordini della giustizia e dell’amministrazione francese, nel Piemonte rivivevano leggi fruttifere a pochi, dannose all’universale. Furono risuscitati i diritti delle primogeniture e de’ fidicommissi. I primi gradi dell’esercito e le maggiori cariche civili riebbero i nobili. Molte viete e odiose franchigie rifiorirono. Il chericato si rafforzò. I gesuiti ripullularono tanto più insolenti, quanto più il favore de’ gentiluomini e della corte avevano, e quanto che gli uni apparivano profittevoli agli altri. In somma il regno di Piemonte tornò quasi com’era avanti la rivoluzione di Francia, e peggio. Cosa tanto più mostruosa dopo quarantanni di guerra e di esterminio a tutte le istituzioni derivate dal medio evo.

Però questo continuato spirito feudale e contrario al secolo, mentre da un lato ritraeva la monarchia piemontese dalle riforme civili, e più verso l’assoluto la spingeva, dall’altro le arrecava più gagliarda fermezza che in alcun’altra non si vedeva. La qual dota, comunicandosi, come sempre addiviene, dal principe al popolo, ne conseguitava che quanto meno i subalpini le lusinghe e gli allettamenti moderni provavano, tanto più vigorosi e atti alle armi riuscivano, e vi si vedevano quasi contemperati il male e il bene de’ secoli di mezzo: barbarie nelle istituzioni, balia negli animi; ruvidezza negli studi, potenza negl’intelletti: fede religiosa con mischianza di superstizione.

In oltre, per quanto il ristabilimento degli ordini feudali avesse la ristorazione della monarchia piemontese accompagnato, quasi l’una cosa tirando l’altra, pure non la stessa reverenza a quegli ordini accompagnata 1’aveva. v’erano altresì co’ nuovi governi entrate le opinioni nuove, le quali maggiormente facevano apparir ostiche le antiche; e la cittadinanza illustrata dalle scienze e dalle lettere ogni dì acquistava forza, e tirava ad accomunarsi con esso lei la parte più giovine e più colta della nobiltà, vergognosa di più nutrire affetti e pensieri che l'età non comportava. Cominciava per tanto la nobiltà piemontese a scindersi in due; l’una pertinace nel vecchio ordine, l’altra vagheggiente il nuovo; quella più numerosa, afforzavasi dell’appoggio del clero e de’ gesuiti; questa più scarsa di numero aveva con sé i dotti e le inclinazioni del secolo. Il popolo non era più tanto addietro da incurvarsi alla prima; e né pure tanto avanzato da seguitare la seconda. L’esercito più alla seconda che alla prima inclinava; perciocché quantunque ricomposto sulle norme dell’antico, pure aveva in 6è, come il napoletano, molti ricordi lasciati dagli ultimi mutamenti, che gli rendevano odiosa la vecchia gerarchia. Il re sarebbe stato da qual delle due parti avesse trionfato.

Era in queste disposizioni il Piemonte quando a’ dì 13 di luglio 1820, dietro alla rivoluzione di Spagna, per la stessa opera della carboneria, si mosse Napoli, e quel principato cambiò forma, i magistrati sardi tanto più raddoppiarono la loro vigilanza, e in rigore la convertirono, quanto che avevano sentore che ancora in Piemonte, dove ogni giorno più i segni di mala contentezza si facevano manifesti, quel grido di libertà sarebbe stato accolto; e una prima favilla apparve nello Studio di Torino il 12 gennaio 1824: essendosi gli scolari condotti al teatro mostrando insoliti colori, e levando alcune voci di gioia pe’ fatti napoletani, le quali col voler reprimere furono cambiate in tumulto. S’azzuffarono studenti e carabinieri, gli uni colle pietre, gli altri colle armi, e de’ primi ne rimasero venticinque feriti, alquanti morti, gli altri dispersi. La città si crucciò; più crucciate apparvero le provincie. Se la rivoluzione non avesse dovuto succedere, per quel fatto atroce (bene usato da’ movitori) scoppiò; facendosi esempio e fomite la città di Alessandria; il cui presidio fu primo a levarsi in capo e la costituzione di Spagna gridare. Altre milizie di altri luoghi seguitarono, altre restarono neutrali, poche e insufficienti si mostrarono avverse. Onde la sollevazione ingrossando, la sede dei governo minacciava. Tornato il re e adunato in fretta consiglio straordinario, intervenendovi oltre a’ ministri, la regina moglie, il cugino Carlo Alberto principe di Carignano, e alcuni notabili della corte e del regno, chiedeva parere accomodato alla gravità del caso. Interrogato singolarmente il principe di Carignano, disse: doversi qual cosa concedere. Ma i più furono di opinione contraria; e si stanziò di publicare un bando, a nome del re, per gli animi quietare: il quale poco o niente fruttò, come quello che in suon minaccevole rivelava paura. Saputasi, due giorni dopo, la risoluzione del congresso di Lubiana di tornare nell’assoluto impero le due Sicilie, un altro bando del re dichiarò, essersi Austria Russia e Prussia convenute e obligate di vendicare colle armi ogni offesa o sovvertimento di ordini legittimi, stabiliti già in Europa: sperando con questo avviso la foga de’ bramosi di novità sedare; e in cambio Tacerebbe; e poiché anche la città di Torino si sollevò e gridò la costituzione di Spagna, non altro più restava che o secondare o le armi austriache invocare. La vecchia nobiltà che conosceva l'animo debole e incerto di Vittorio Emanuele, e non atto alle violenze della tirannide, e temendo che potesse il partito della repressione ricusare, o non compiutamente prenderlo, operò in modo che egli senza indugio si conducesse a quel riparo ultimo e consueto dei principi di Savoia, quando son costretti di porre a repentaglio le sorti del domestico trono; e la corona piemontese, destinata a continue rinunziazioni, passò nel minore fratello, Cado Felice: il cui animo ben conoscevasi incrollabile in tutte le voglie e rigori del dispotico impero. Trovavasi egli a Modena, e nell’assenza sua era stato nominato reggente il principe di Carignano Carlo Alberto, con tanta maggior soddisfazione de’ sollevati, quanto che da lui, che di nutrire sensi liberi e italiani aveva nome, s’impromettevano favore e sostegno: l’uno e l’altro necessari, dacché la rivoluzione, come disse un narratore di que’ fatti, aveva molti capi, e non già un capo solo. Il reggente che pur non dinegava il suo assenso, titubante addimostravasi; e se è lecito i segreti del cuore d’un prence indagare, titubava primieramente per la difficile riuscita: titubava in oltre perché gli parava esorbitante lo statuto di Spagna; e forse avrà titubato perché un giorno doveva egli stesso salire su quel trono, di cui allora si voleva cotanto la possanza attenuare. D’altra parte non sapeva dissentire, perché troppo gli piaceva di mantenersi in voce di principe generoso: perché il grido di guerra alla casa d’Austria, che i sollevati congiungevano con quello di costituzione, fin d’allora sonava gradito al suo animo, e perché in fine dove quella impresa fosse stata ben condotta, e per qualche accidente si fosse in favore della libertà risoluta, poteva prima o poi porgergli la occasione di acquistar lustro al suo nome, e maggior grandezza al futuro regno.

Ma i movitori piemontesi non guardarono alle sue titubanze: né pure fecero conto alcuno delle replicate proteste; non essere lui re, e dovere e volere gli ordini di Carlo Felice e attendere e quelli eseguire. I quali ordini erano come poteva mandarli un principe d’animo avverso a qualunque novità, dimorante nella corte di Francesco IV di Modena, e già consapevole che le potenze mandavano eserciti per annullare la costituzione di Napoli, e di fare altrettanto in Piemonte s’apparecchiavano. Quindi non meno illusi che impronti, credettero di avere il reggente per forma guadagnato che avrebbe presa co’ denti la rivoluzione, e come avea promulgata la costituzione spagnuola, così l’avrebbe con ogni sforzo sostenuta; onde, quando dopo pochi giorni lui sfiduciato d'ogni buon successo per le nuove sopraggiunte videro abbandonar l’impresa e ritirarsi coll’esercito, lo gridarono traditore, e come avviene, quando si spera più di quello che non è dato ottenere, quel grido si ripeté lungo tempo, e non senza pregiudizio delle cose ultime, conforme noteremo.

Spenta la rivoluzione di Piemonte da quei medesimi che la napoletana avevano estinta, senza che l’una giovasse all’altra per essere intelligenza reciproca ed effetto contemporaneo mancati, tornò la monarchia sarda a raffermarsi negli antichi ordini, secondo che a’ fautori della vecchiaia feudale, era grato, e l’animo superbo e assoluto di Carlo Felice inclinava. Ebbero i Piemontesi quasi dieci anni di regno come il peggiore non avevano mai avuto. I gesuiti vi si abbarbicarono profondamente, collegandosi con quella terribile e famosa congrega torinese, chiamata Cattolica: della quale importa conoscere l’origine e l’indole. Quando il re cacciato dagli occupatori di Francia, rifugiossi in Sardegna, non pochi della vecchia nobiltà, che fedeli e devoti lo seguirono, strinsero in quell’isola un primo nodo del loro sodalizio; il quale poi trapiantatosi in Torino, si allargò e ordinò colle leggi di una consorteria operatrice, avendo a un tempo il vantaggio del segreto, e il favore di chi governava. Quindi il numero de’ soci crebbe sempre, potendovisi con nessun pericolo, e anzi con grande utile appartenere. Intendimento determinato della Cattolica era di mantener salda la monarchia assoluta, signoreggiandola e a suo maggior profitto volgendola. Mezzo, il mostrarsi di lei in palese ossequiosa e bassamente devota per insegnare sommissione alla plebe; ma in segreto usare audacia, superbia e impero inflessibile. Nel che è da credere andasse assai oltra, avendo lo stesso Carlo Felice voluto scioglierla, e non essendo riuscito. Sì profonde barbe aveva poste. Per tanto né grazie, né benefizi del re poteva mai sperare chi non fosse stato cliente di questa Cattolica, e da lei per ordinario uscivano ministri, consiglieri di stato, capi di esercito, governatori, vicari, e tutta la turba degli ufficiali publici; i quali, se non vi erano ascritti, bisognava ne avessero almeno la protezione. Sì come il papa era dominato dalla corte de’ cardinali e de’ prelati, e lo imperatore dal consiglio aulico, così il re di Sardegna era a questa congrega soggetto; da mostrare quanto sia poco vero che principi assoluti sieno coloro che assoluti si appellano.

Alla morte di Carlo Felice, e all’assunzione al trono del principe di Carignano, avvenuta per essersi la linea primogenita estinta, i liberi uomini di Piemonte ingrossati di numero, di qualità e di sapere, ringavagnarono le antiche speranze, o meglio le non soddisfatte brame; perciocché se bene dai fatti del ventuno la fama di Carlo Alberto fosse rimasta offuscata, pure argomenti a bastanza onesti per iscusarlo non mancavano, e nell’animo di molti era sempre opinione che dove migliore occasione gli si porgesse, tornerebbe ad essere quel principe italiano e magnanimo che nella sua gioventù erasi non dubbiamente mostrato. Nella quale opinione concorrevano anche i più spasimanti di novità, non tanto forse per sentimento quanto perché nell’ambizione stessa deire confidavano: e come sopra notai, lo stesso Giuseppe Mazzini ebbe o mostrò di avere in lui questa confidenza. Ma Carlo Alberto che non ignorava le potenti insidie a lui tese nella corte di Modena perché fosse dichiarato indegno del trono, sì come intinto nella Carboneria del 21: e oltre a ciò aveva veduto poco innanzi di cingere la corona, un’altra infelice prova di libertà nella rivoluzione dei modanese, del parmense e degli stati pontificò, soppressa in men di quaranta giorni, e le condizioni di que’ paesi miseramente peggiorate, se da privato principe erasi da prudenza lasciato governare, molto più da re volle che la prudenza lo governasse; e poiché trionfava la parte, che voleva i rigori dell’imperio assoluto, e lo smembramento e abbassamento d’Italia, tenne da questa. Quindi i medesimi ordini nell’amministrazione publica; i medesimi uomini nella corte, nel ministero, nella milizia; la stessa potenza ne’ gesuiti e nel clero; lo stesso favore a’ nobili. E d’altra parte esausto era per le passate guerre l’erario: misero e guasto l’esercito; gare e odii fra le diverse provincie; abbietto il publico Studio: incerte e perigliose le relazioni colle corti esterne; senza fede la Francia; minacciosa l’Austria; il. pontefice in lor balia; il resto d’Italia in servaggio. Prima che la luce desiderata apparisse, erano cresciute le vecchie tenebre.

Sorta allora la setta della Giovine Italia, di cui ho già dato contezza, e ita distendendosi con segrete ed operose clientele, e con publici e privati scritti, se ogni altro principe si mise per quella in su’ rigori, maggiormente ciò fece il re di Piemonte, da cui era uscito lo istitutore, e dove per conseguenza supponevasi dovesse avere più numerose e gagliarde aderenze. E poiché nella state del 1833 parve il seme gittato cominciasse germogliare, severissimi bandi furono fatti contro chiunque fosse della nuova setta chiarito proselite; l’estremo supplizio era a’ promotori minacciato: il possedere una copia del giornale che la Giovine Itaìia s’intitolava, era peccato di oltraggiata maestà. Si cominciò a incarcerare. In alcuni luoghi l’opera di quelli del governo fu sanguinosa. A Genova due sergenti Miglio e Biglia furono giustiziati, e della stessa pena finì un Gavotti, già graduato, con molta età e famiglia; e un Giacomo Ruffini, certo di essere condannato all’estremo supplizio, per fuggire la vergogna, si uccise nella prigione. La memoria rifugge dagli spietati atti commessi in Alessandria. Furono messi a morte cinque sergenti, Marini, Costa, Ferrari, Menardi, Rigazzi, e il causidico Vocchieri: il quale nell’andare al supplizio, fu, per estremo di ferocità, fatto passare dinanzi alla casa, dove la moglie e i figliuoli si disperavano. Le stesse crudeltà fecersi in Ciamberì, dove a morte andarono, per dire de’ più noti, un tenente Tolla, un Tamboretti, e un Degubernatis. Degli ammoniti, imprigionati, sbanditi fu ancora maggior numero. L’anno appresso di nuovi martòri fu causa la malaugurata spedizione di Savoia: promossa e partecipata dalla stessa Giovine Italia, i cui capi dimoranti in Franeia non pensavano che quei che a loro istigazione operavano in Italia, andavano incontro a persecuzioni e supplizi estremi.

Alquanti esuli polacchi, tedeschi e italiani, capitanati dal generale Ramorino, e provveduti d’armi raccolte ne’ cantoni di Vaud e di Ginevra, con manifesti republicani, deliberarono la impresa in questo modo: eccitar prima una rivoluzione popolare in Svizzera, e da quella spalleggiati e rafforzati entrare in Savoia e finalmente nel Piemonte per compire il resto. La republica elvetica sventò il primo disegno, e tuttavia di mandare ad effetto il secondo gl’incauti non si rimasero. Entrati in Savoia, e saputo come già un corpo di milizie piemontesi andava loro contro, ripiegaronsi sul borgo d’Annecy: dove inalberarono il vessillo dei tre colori, e cartelli di libertà appiccarono: ma né quello né questi alcun effetto nelle popolazioni produssero. Pure ripigliato cammino, s’avanzarono verso Thonon: né andò guari che il misero esercito ridotto a quattrocento uomini, male armati, stanchi, e senza alcuna arte di guerra, fu rotto avanti il sopraggiungere della notte. Parimenti l’altra banda di cento uomini circa, la maggior parte savoiardi, che da Grenoble colle grida inutili di viva la Giovine Italia marciavano sopra Ciamberì, quasi a fare nuovo e ancor più strano tentativo, affrontata da’ soldati regi, dopo breve combattimento, fu messa in fuga, e costretta a riparare nel territorio di Francia.

Queste imprese svergognavano i movitori, infamavano i capi del governo; gli uni per tentare cose sì in aria e colpevoli; gli altri per punirle con eccessi di crudeltà. Solamente profittavano a’ sostenitori della tirannide interna e forestiera, per alienare sempre più il nuovo re da’ desiderosi di cose nuove, quasi da apparecchiati carnefici di lui, e sovvertitori di ogni buon ordine; e in pari tempo tirarlo a restringere il reggimento ne’ termini dell’ultimo rigore. Vogliono che la corte d’Austria avessegli mandato sotto veste di ambasciadore il conte di Bombelles, come a spiarlo. Né gli teneva meno d’occhio internamente il ministro La Scarena; creato della Cattolica; il quale per arroto s’era tirato nel vituperoso ufficio il già prelato Tiberio Pacca; svergognato rifiuto della corte romana. E quantunque Carlo Alberto s’avvedesse essere costoro stromenti di chi lo desiderava tiranno odiosissimo, pure non s’attentava di allontanarli, quasi di scrollare il seggio temesse: onde più ardire amai fare acquistavano; che in ultimo traboccando, e svelandosi troppo, lo fecero risolvere a deporli. Se non che restava il conte Solaro della Margherita, ministro sopra gli affari esterni; anch’egli stato eletto, non per volontà del re, che avrebbe anzi voluto il conte di Sambuy, ma per autorità della Cattolica, che o non gli lasciava eleggere ministri a modo suo, o non cessava di vituperarli e scassinarli. Né certamente il conte Solaro era da mettere con que’ disonesti e vituperosi delLa Scarena e del Pacca, essendo anzi di costumi severo, e gentiluomo onorato; ma era altresì così caparbio e costante nell'amore della tirannia secolaresca e chericale, che prima sarebbesi fatto strangolare che un suo servigio fraudarle: e di servigi potè rendergliene molti e segnalati; fra quali, di ristabilire la nunziatura pontificia in Torino, cui per lungo tempo la casa di Savoia aveva cercato di non ripigliare; non per poco affetto e divozione alla Santa Sede, ma per paura che non divenisse fomite di brighe curialesche. E altro sostegno della parte che voleva signoria tirannesca era monsignor dei marchesi Franzoni genovese; anch’esso per istanze e pratiche della Cattolica, dalla sedia vescovile di Fossano traslatato all’arcivescovile di Torino: sapendolo svisceratissimo de’ gesuiti e avente fratello cardinale in Roma; il quale benché non avesse lo stesso ingegno fanatico e le stesse voglie turbolente, pure speravano che non sarebbegli riuscita del tutto vana quell'aderenza.

Ma in questo medesimo tempo gli scritti del Gioberti e del Balbo, levando grido per l’Italia, non erano né potevano essere indifferenti a Carlo Alberto, rappresentatovi eroe della futura liberazione d’Italia. Onde si trovò subito infra duo. l'animo suo, secondo più riscontri, sarebbesi piegato alla parte vogliosa d’innovare, che lo lusingava ridestandogli antichi e non soddisfatti desiderii di grandezza, senza mettergli più le solite paure di sollevazioni e di cambiamenti di stato. Ma non cessava del pari di rattenerlo e impacciarlo la parte contraria, composta della vecchia nobiltà, de’ gesuiti, dell’episcopato, della corte, de’ ministri, e della diplomazia di fuori. Né lo incoraggiava a sufficienza lo esercito: perciocché, quantunque da lui cominciato a riordinare, pure non aveva potuto impedire che i primi gradi in esso non conseguissero gli stessi nobili; e giustamente doveva dubitare che più affezionati al re, che a lui dovessero essere. Lo sbrogliarsi a un tratto di tutti costoro, non era del suo animo, sempre titubante, più che religioso, profondamente monarchico. Fu detto che parlandogli il Balbo della stampa delle sue Speranze, si mostrasse contento dell’opera e de’ sentimenti dello scrittore, e non di meno lo consigliasse a farne fuori di stato la publicazione. Così pure era voce che all’esule Gioberti avesse scritto lettere di amicizia e di congratulazione per l’Opera del Primato: la quale nel tempo stesso trovava impedimenti per entrare nel regno. Contradizioni che rivelano la fiera tenzone, a cui il povero capo di Carlo Alberto sottostava; da far più maraviglia ch'ei non perdesse la ragione, di quello che non si liberasse degli scrupoli e paure, onde per quattordici anni continui U suo non forte intelletto era stato tempestato.

Infino che adunque la opinione de’ ritrosi ad ogni rinnovamento prevalse sopra quella di coloro che lo innovare caldeggiavano, secondò la prima. Quando le due opinioni fra loro si bilanciarono, vacillò, facendo atti che apparivano, ed erano contradittorii. Finalmente rimasta vincitrice la seconda, pose mano alle riforme: poscia diè lo statuto; indi fece la guerra di Lombardia. I quali tre tempi del regno di Cariò Alberto si chiariscono, il primo fino a’ principii dell’anno quaransei; il secondo fino all’ottobre del quaransette; il terzo fino che discese onoratamente dal trono. Spetta a queste istorie parlare del secondo tempo, e del terzo; fortunate che del primo non debbano fare un più particolare ritratto.

Non era per verità rimasto molti anni Carlo Alberto, dopo fatto re, senza procacciare almeno di migliorare gli ordini della interna amministrazione, dacché gli era tolto di rendere libero lo Stato. Prime sue cure furono l’erario, l'esercito, gli studi. Quanto al primo, non era stato contento a grette parsimonie, che temporalmente e senza vera utilità dell’universale fanno empire le‘ casse del governo: ma aveva cercato favoreggiare commerci, industrie e istituzioni d’agricoltura, onde il danaro fosse nello Stato come il sangue nel corpo umano. Quindi dischiusi cammini tra provincia e provincia: la banca di Genova d’un prestito di quattro milioni avvantaggiata: cassa la gabella del macinato e de’ mulini: nella vendita del pane conceduta libera concorrenza: il servizio delle poste e delle vetture allargato: trattati egualmente proficui alla navigazione e al traffico conchiusi coll’impero delle Russie e col regno delle due Sicilie: convenzioni vantaggiose stipulate colla Francia: dato il maggior favore alla costruttura delle strade ferrate: creati istituti, permessi comizi e società agrarie: adoperato che d’ogni natural prodotto il maggiore e miglior profitto si ottenesse. Rispetto all’esercito, aveva procacciato che, mentre in fino allora non era stato che vana pompa, stromento di oppressione, e bottega di ambizioni e di guadagni, cominciasse divenire una milizia da stare per disciplina e per valore con le meglio ordinate di Europa, e potere con notevoli aumenti a’ bisogni della guerra servire. Non erano mancati benefizi al publico ammaestramento; e in ispezialità lo Studio torinese, caduto sì in basso, fu di nuove e utili cattedre provveduto; e nel medesimo tempo aperte scuole popolari, eretto un collegio politecnico, ordinati speciali insegnamenti di agraria e di veterinaria, arricchiti i musei di storia naturale e i giardini botanici di Torino e Ciamberì; creato un magistrato per la conservazione de’ monumenti antichi; caldeggiati con particolar favore gli studi istorici; chiamati uomini dotti; accolti e protetti i congressi scientifici; meglio provveduto alle arti e agli artisti; allargate le accademie di scienze; ordinate fabriche di magnificenza e utilità publica: i ponti sulla Sesia, sulla Bormida, sul Tanaro, sul Po, sul Chisone, sulla Dora; il carcere penitenziario di Oneglia; il bacino di carenaggio in Genova; il prolungamento de’ moli di Genova e di Nizza; il grande ospitale del Valentino; il nuovo collegio delle province; gli accrescimenti dell’accademia Albertiana; la città ampliata di nuove vie e di nuovi edificii, e in borgo nuovo di due templi arricchita. Nessuna impresa che avesse potuto arrecar lustro e comodo alla patria, era stata trasandata.

Ma tutto questo giovando visibilmente alla materiale prosperità del vivere, poco o nulla i beni civili promoveva: onde gli occhi erano rivolti a vedere, se Carlo Alberto s’inducesse a rinnovare gli ordini dello Stato, senza di che tutti gli altri provvedimenti non conducevano al fine di dar libertà al Piemonte, e meno ancora di affrancare l’Italia. Più spezialmente si guardava al suo modo di governarsi colla corte d’Austria; e se mai desse vista di volere scotere il giogo della sua autorità, alla quale il dimorare i nostri principi nell’assoluto si attribuiva. Occasioni non gli mancavano in que’ giorni, e una grandissima gli fu dalla stessa corte viennese presentata. Erasi già manifestata amarezza fra(1) due principi per cagione delle strade ferrate che i rettori austriaci, invece di dirizzare al congiungimento de’ due mari che bagnano la penisola, con grandissimo vantaggio del porto di Genova e dell’Italia tutta, avevano in cambio prescelta la linea bergamasca per conservare la signoria ne’ commerci, dacché la signoria de’ governi avevano nelle mani. Al che pure aggiungevasi che l’imperatore cominciava guardar bieco il Piemonte, veggendolo maggiormente armato, e pretesti di urtarlo, colla speranza di spaurirlo, e quindi dominarlo, di continuo cercava. Fin dal 1754 era stato stipulato fra le due corti un trattato, per cui libero transito in Lombardia si concedeva ai sali che la republica diVenezia mandava al Piemonte; il quale in ricambio renunziava di avere traffico attivo di sali co’ cantoni svizzeri. Mancata quella republica, cessò il Piemonte di provvedersi de’ sali veneti, e quindi restava la causa della convenzione annullata. Pure il congresso viennese, che qualunque cosa avesse potuto dare appiglio a controversie, accettava, volle tornarla in vigore, non badando o non importandogli, che essa più scopo alcuno non avesse. Ricerco in quel mezzo il re di Sardegna dal cantone ticinese per una quantità di sale, aveva ricusato per osservanza all’imperatore:'ma non credette di potere e dovere ricusare, senza offendere alla ragione delle genti, quando lo stesso cantone, fattone acquisto altrove (chiedeva che il passaggio libero per gli stati piemontesi almeno gli si concedesse. La corte di Vienna, movendone subito querela, oppose il trattato del 4754, per il quale i Piemontesi s’obligavano di non avere commercio attivo di sali colla Svizzera: non guardando che dove pure quella convegna avesse dovuto valere, non si poteva mai un semplice transito, senza alcun benefizio e profitto delle regie gabelle, tenere per traffico attivo. Onde il re di Sardegna stette fermo, e non volle acconsentire che gli venisse imposta quest’altra soggezione, di mancare a’ naturali rispetti verso le nazioni vicine. Non parendo alla corte imperiale di entrare in guerra per cosa, dove anco le più remote apparenze di ragione mancavano, e d’altra parte non volendo che il rifiuto passasse senza vendetta, giocò di rappresaglia. Un decreto dello imperatore aumentò il dazio d’ingresso ai vini comuni dello stato sardo, che nel regno lombardo-veneto s’introducevano. Il che di non lieve danno e aggravio alla nazion piemontese tornava. Il re non tacque, né si ritenne di svelare pubicamente, l’atto dell’imperadore essere una rappresaglia. In pari tempo concesse a’ commerzi colla Francia importanti diminuzioni di gabella, e permise che a Torino una compagnia per il traffico de’ vini nativi si ordinasse, affine di riparare il danno che dall’accrescimento del dazio tedesco ne poteva derivare.

Sì la coraggiosa risposta del re, e sì il provvedimento accennato furono da tutta la nazione accolti con grandi allegrezze e speranze, quasi indicio e presagio a rinnovamento di governo. Il quale tuttavia seguitò ancora per altro buon pezzo a rimaner lo stesso, quantunque il re scrivendo a qualche intimo dicesse: Nulla più vivamente desiderare che di vedere l’amore della dignità e della libertà della patria ridfestarsi; né per alcuna cosa sarebbe sì felice come per difenderla e vendicarla. Ma in publico, fosse prudenza o paura, o l’una e l’altra, peritoso sempre si addimostrava, e conoscendo e detestando le tirannesche voglie de’ suoi ministri, pur non le rintuzzava; anzi talora a quelle sottostava. Volendo a’ primi del mese di maggio passare a rassegna le milizie; e rappresentatogli che si voleva festeggiarlo per manifestare desiderii di mutazione, benché egli dello inganno s’accorgesse, e di far la rassegna desiderasse, tuttavia non la fece.

Ma di questi tenzonamene fu Carlo Alberto ancor più misero spettacolo dopo la elezione di Pio IX; conciossiaché avendo questo pontefice, suo malgrado, messo tutto quel bollore negli spiriti dall’un capo all’altro dell’italiana penisola, nuove e continue occasioni si presentavano a Carlo Alberto per metter mano a rinnovazioni di governo. Né egli in cuore rimaneva freddo: e tornava a scrivere in confidenza a’ suoi intimi: Rallegraci dello esempio dato dal nuovo papa; e del vederlo risoluto a riformare il suo Stato; il che parergli come principio di guerra agli Austriaci; né poter significare a parole quanto ciò lo conforti ed esalti, lodando così in altrui quel che ancora non s’induceva a fare egli stesso; conciossiaché quanto più intorno iva afforzandoglisi la parte che voleva le riforme, tanto più la opposta faceva gagliardi sforzi di attraversarla; non essendosi mai sì audace e insolente e vituperosa mostrata, come allora che più da presso il precipizio vedeva. E sopra tutto maladiva al nuovo papa: dicendo i meno arrabbiati, che era stato fatto pontefice un ragazzo, e i più, furenti un settario facinoroso. Corse fama che alcuni fra’ gesuiti, deposte le melliflue maniere, e messa giù la maschera della mansuetudine, da’ pergami, dagli altari e più da’ confessionali lo svillaneggiassero e infamassero: al che di leggieri non aggiustiamo fede, e ci è avviso che assai più accorgimento a dir male di Pio IX usassero i gesuiti di quel che a metterlo in credito non facessero i desiderosi di novità: non potendo sfuggire al cupo giudizio del Sinedrio, che dove fosse successo di spiccarlo dagli amori’e speranze popolari, e nel sentiero de’ predecessori ricondurlo, non conveniva all’occhio de’ divoti e dei timorati apparisse indegno del supremo grado, e nemico del più benemerito degli ordini religiosi. d’altra parte avevano ’l destro di frastornare gli effetti di quel popolaresco affetto al pontefice, senza che avessero necessità di movere troppo aperta nimicizia. Affratellati com’erano colla Cattolica, potevano così operare sui capi del governo temporale e spirituale di Torino da menarli a loro piacimento.

Di questo governo (importando ora dire più particolarmente) dividevano palesemente il maggior potere il conte Clemente Solaro della Margherita e il cavaliere Emanuele Pes di Villamarina. Segretamente il maggior potere era nel conte. Del che l’altro tanto più aveva dispetto, quanto che il conte per soperchiare aveva mestieri di usurpargli le speciali facoltà di amministratore della guerra e della sicurezza interna. La città conosceva questa gara, e ne traeva argomento che il Villamarina per non sottostare al collega, s’appiglierebbe al partito di caldeggiare con effetto le riforme; onde tanto più egli acquistava il favor popolare, quanto più l’odio s’accumulava sopra il conte Solare: il quale spalleggiato internamente da’ gesuiti e dalla Cattolica, ed esternamente dal principe di Mettermeli, reggeva sempre la puntaglia. Se non che per durare nella resistenza, bisognava che potesse a sua volontà disporre degli uffici della milizia e della sicurezza interna. E trovò modo di averne egli il potere, e lasciarne al collega il nome: sendo il comando soldatesco della città di Torino nel conte Sallier della Torre, e il magistrato della sicurezza interna nel marchese Michele Benso di Cavour. Nei quali mal si direbbe, se maggiore fosse la superbia o l'ignoranza, ma certo più sviscerati servidori la tirannide non aveva: senza dire che la schiera minore de’ governatori, de’ comandanti, de’ commissari era tutta o in gran parte disposta a stare co’ ripugnanti a’ nuovi desiderii. A’ quali non minor favore veniva dal reggimento spirituale, tenuto da monsignor Franzoni. Il quale appena eletto arcivescovo di Torino, era montato in tanta superbia che stima vasi da mettere paura al re: né si riguardava di vantarsene; e il re che tutto risapeva, andava in collera, e a qualche suo intimo scriveva: «Convien dire che monsignore è impazzato, quando crede di far paura a me, che non mi terrei dal romper guerra all'imperator d’Austria.»Pure non si potrebbe dire che Carlo Alberto non temesse affatto: se non di monsignor Franzoni, bensì della parte, di cui egli era principale stromento, sapendola rafforzata non solo da altri vescovi, e particolarmente da quello di Cagliari, ma ancora dalla potentissima setta, costituita nella prossima Milano, sotto il titolo di ferdinandea; protetta, o almeno creduta protetta dal principe di Metternich. Alla quale egli le maggiori tribolazioni del suo regno riferiva; dolendosi e sdegnandosi in private confidenze, che parte della nobiltà piemontese vi fosse intinta, e prometteva voler dare un qualche esempio di gastigo; che però non dava. Né io di questa setta, che sotto lo stesso nome più d’una volta cambiò capi e propositi, dirò le brighe e le trame, potendosi tanto più di leggieri scambiar vero con falso, quanto che allora era interesse di aguzzare tutte le ire publiche contro la corte d’Austria. E se dopo gli sconvolgimenti, non fu delitto che non s’ascrivesse al Mazzini e a’ suoi seguaci, allora non era male piccolo o grande, prossimo o remoto, che non se ne incolpassero gl’Austriaci o i gesuiti. Tuttavia di questi ferdinandei, così chiamati dal nome dell’imperadore, ben traluceva di tratto in tratto l’opera insidiosa, rivolta] non più ad attraversare il nuovo papa in Roma che a minacciare Carlo Alberto in Piemonte. Del quale quando e come potevano, levavano i pezzi, e libelli infami sotto colore di libertà per fare più effetto divulgavano. Ma come le sette d’ogni generazione son cieche, e fanno riescir le cose a diverso fine che si propongono, col travagliarsi di toglier fama a Carlo Alberto, gliene accrescevano, e quel che è più, procacciavano che alla fine per intero e deliberatamente nella parte contraria si gittasse: conciossiaché o non sapessero bene la mano nascondere colla quale l’offendevano, o fra loro pure avessevi traditori, risapeva il re donde movevano questi oltraggi al suo nome e con quai fini movevano; e non parendogli ancor tempo di smascherarli in publico, ne faceva consapevoli al solito i suoi intimi: aggiungendosi pure i rappresentanti della corte britanna a rivelare sì fatte ribalderie. Le quali divulgandosi, e sapendosi che il re n’era informato, non pareva vero a’ vaghi di novità di usarle a lor pro, coll’aggrandirle e fame credere altre inventate o forse da loro medesimi ordite. E non potendo eglino altramente, si facevano vivi nei comizi agrarii e ne’ congressi scientifici, per esprimere liberi concetti sotto l’ampio e non sospetto nome di promovere le prosperità del vivere materiale; essendo le idee di libertà, come i fiumi, che tolti dal natural corso, s’aprono altre vie. Il congresso di Mortara tenuto nel settembre del 1846, e più del solito, e non men di Lombardi che di Piemontesi frequentato, fuori dell’apparenza non ebbe altro di campestre: e vi ebbono conviti, salutazioni, motti, abbracciari, auguri, rinfocolamenti di italiane speranze. I quali aumentarono nel congresso scientifico di Genova fatto pure a que’ giorni: anzi qui si favellò con libertà da parer troppa ancor quando il parlare a stampa divenne sbrigliato: essendovi convenuti uomini ambiziosi e da natura fatti per recare ovunque lo scompiglio; de’ quali daremo a suo luogo notizia. Più ancora significativo nella stessa Genova fu il popolar festeggiamento del dì 5 dicembre per la centenaria rimemorazione della cacciata dei Tedeschi. E di questi fervori cittadineschi, mentre Carlo Alberto in publico non faceva segno di approvarli, come quello che ognor peritoso procedeva, mostravasene lieto nelle intime confidenze, quasi stimandoli presagi di futuri e gloriosi fatti per la patria.

Ma i ministri suoi che tiranneschi erano, ed ei non lo ignorava, anzi se ne crucciava, ma non avea cuore di removerli, dimostravano ognor più le loro mal celate ire; e bastava che alcun libro nuovo venisse in luce, o si lodasse in qualche giornale lo istitutore degli asili d’infanzia Ferrante Aporti, o si divulgasse intagliata la effigie di Vincenzo Gioberti, o si celebrasse Giuseppe Garibaldi che in America aveva sostenuto con gloria il nome della sua patria, o si onorasse la presenza dell’inglese Riccardo Cobden, che allora viaggiava per l’Italia, o finalmente (che più irritava) si festeggiasse per Pio IX, perché divieti e gastighi e persecuzioni non mancassero: senza che per questo il fervor popolare s’attutasse: cui anzi maggiormente rinfiammava la nuova delle prime riforme cominciate dal granduca di Toscana. Le quali come per la maggior larghezza dello scrivere a stampa, erano state cagione che la commozion romana s’aggrandisse, così e per la stessa larghezza dello stamparee per la cresciuta potenza dell’esempio, porgevano materia a vie più commovere il Piemonte. Laonde aumentando il coraggio ne’ cittadini, e più feroce divenendo l’opposizione de’ rettori, maggiore per conseguenza appariva il tentennare del re.

Soddisfacevano a’ desiderosi d’innovare i tre trattati di commercio stipulati dal re sardo l’uno dopo l’altro, il primo coi cantoni elvetici di S. Gallo, Grigioni e Ticino per lo stabilimento, costruttura e uso d’una strada ferrata che il lago Maggiore con quelli di Wallestad e di Costanza congiungesse; il secondo col granduca di Toscana, per il quale le navi de’ due stati dovevano essere ne’ rispettivi porti accolte e trattate come se alla stessa nazione appartenessero; il terzo colla corte di Roma, il cui fine pure era la navigazione sarda e pontificia migliorare, estendendone ed aumentandone i vantaggi e interessi vicendevoli. E quantunque questi trattati volgessero a prosperità naturali, pure facevano bene sperare ed augurare, che il re con legami di commerzi s’accostasse a una potenza libera com’era la Svizzera, e mostrasse in oltre di stringersi e collegarsi co’ due principi italiani che avevano posto mano alla riforma de’ loro governi, quasi accennando che fra poco anch’egli sarebbesi messo nella stessa impresa, e con esso loro accomunatosi: ma nel tempo stesso dava noia il continuato succedersi delle contradizioni. Nota vasi che mentre i gesuiti lacera la fama del Gioberti, e alcuni vecchi nobili contro l’Azeglio sbraitare liberamente potevano, il re con parole di affetto l’esilio del primo consolava, e il secondo accoglieva e festeggiava. Similmente nel tempo che ogni più sozza calunnia gittavasi addosso al venerabile Aporti, Carlo Alberto lo avrebbe veduto volentieri vescovo di Genova, se la corte romana non avesse frapposto ostacolo invincibile; quasi chi la vita e lo ingegno aveva in benefizio de’ poveri e degl’infelici dedicato, avesse dovuto reputarsi indegno dell’episcopato. A sempre più intricar la matassa delle incertezze piemontesi sopraggiunse la notizia della occupazione di Ferrara: per la quale si facevano giudizi conformi a’ popolari desiderii. Dicevasi, che ira e brama di vendetta mostrassero le milizie sarde, e il re sopra ogni altro apparisse sdegnoso; scrivesse di suo pugno al papa: promettessegli aiuto d’armi e di danari, confortasselo a non cedere; protestasse contro l’atto violento. Se Carlo Alberto facesse quanto gli si attribuiva, non posso accertare; ma certo è che dopo i casi di Ferrara, parve più al pontefice e a’ desiderosi di riforme accostarsi; forse argomentando che se bene aperta qualità d’intervenimento in casa d’altri la occupazione ferrarese non avesse, pure poteva essere favilla a una guerra italica; la quale tanto più sarebbe stata impresa di buon augurio, quanto che le benedizioni del capo della Chiesa avrebbe avuto.

Pur tuttavia non lasciavano d’impacciarlo e ritenerlo con ispaventosi presagi gli amatori de’ vecchi ordini: Il Piemonte (susurravano) andare incontro a tremendi pericoli: il pontefice per eccessiva bontà farsi travolgere da coloro che lo esaltano per più facilmente rovesciarlo. Conseguenza di tutto ciò essere la torbida licenza; alla quale nessun argine potere quandochessia opporre i principi. I turbini del 99 essere vicini a rinnovellarsi. La Italia somigliare a un oceano in tempesta, che troni e altari sommergerà se il Piemonte non resiste, la infievolita amicizia coll’imperator d’Austria rassodando. Le quali cose in corte e ne’ cerchi si ripetevano e divulgavano: e quantunque il re non le accogliesse tutte nell’animo, in parte le accoglieva. Che oltre alle difficoltà che accompagnano simili imprese, non poteva ignorare essere Pio IX come un simulacro per quelli che a mutazioni intendevano; e forse non avrà a se medesimo dissimulato che secondando il nuovo pontefice, correva risico di aggiungere forza ad alcuni desideri! di libertà, verso i quali il suo animo non si sentiva per anco inclinato. Così la compagnia di Pio IX gli piaceva in quanto che poteva prima o poi essere occasione e aiuto supremo alla guerra italica; non gli era egualmente grata in quanto dubitava potesse alla fine trarlo a menomare la regia podestà, e forse pingerlo a vedere i funesti presagi de’ suoi consiglieri verificati. Donde nascevano sempre nuove perplessità e contradizioni e bisogno di compiacere ora a’ volenti e ora a’ disvolenti mutazione. Un dì pareva che la censura degli scritti principiasse a largheggiare; un altro tornava a incrudelire. Si vedevano i diari di Torino e di Genova quando accogliere notizie e scritture tratte dai toscani e dai romani) e quando rifiutarle. Correva anche voce sarebbesi ritirato dagli affari il Villamarina.

Altri in cambio affermava che vi sarebbe solo rimasto e indotto il re alle riforme. L’ essere il marchese di Cavour uscito dell'ufficio di vicario di Torino, e Tessergli stato surrogato il conte Galli, di ottime parti, rallegrava ognuno. Ma seguitava a dar noia che il marchese della Torre e il comandante Buri a’ loro posti rimanessero. In oltre pigliavasi per buono augurio l'andata di monsignor Corboli a Torino e il suo intertenervisi: non buono augurio, che la commessione ricevuta per la lega doganale così spedita come in Toscana non procedesse. Allettava la fama che il consiglio del re studiasse e preparasse le leggi per regolare la censura degli scritti, riformare i municipi, rinnovare i tribunali: contristava insiememente il rifiuto alla salutare proposta d’una corte di cassazione, a giudicati piemontesi mancante. Rinvigoriva le speranze il vedere movimenti di milizie che diretti a sostegno del pontefice s’interpretavano, e finalmente un dono che quasi pegno di nuova amicizia il santo padre aveva fatto a Carlo Alberto di due ricchissimi arazzi, con pitture tratte da’ freschi di Raffaello. In pari tempo scandolezzava che fosse interdetto il nome di Pio IX festeggiare, e la nappa pontificia mostrare.

Né questo ondeggiar piemontese faceva dir meno fuori che in casa: perciocché quanto più sarebbe stato importante che il governo piemontese si riformasse, tanto maggiormente venivano in Roma, in Toscana, e altrove i procedimenti del re sindacati. E già dove era meno la libertà del parlare e dello scrivere imbrigliata, i sospetti e i contrasti cominciavano. I più stemperati o particolari nemici di Carlo Alberto andavano rivangando le cose del ventuno, i servigi resi alla causa dei despoti a Trocadero, le crudeltà del trentatrè e del trentaquattro, tirandone argomento a non doversi alcuna lieta speranza di lui nutrire. Ma quelli che altra salute non vedevano (e di questi in Toscana e in Romagna era un certo e autorevole numero), non lasciavano ne’ loro giornali d’inspirar conforto; e mentre a’ gesuiti e a’ nobili attribuivano il lento ocontraddittorio procedere del re, esaltavano e talora esageravano la generosità de’ suoi atti e pensieri. E da sì varie opinioni e giudizi avvicendavasi nelle moltitudini affetto e avversione al Piemonte. Certo a’ più dava noia quel disforme e irresoluto modo: né mancarono poesie e satire che il real tentennio dipingessero.

Ma a dare il tratto alla bilancia, che per la quasi uguale potenza degli amici e de’ nemici della libertà, non piegava, nuove e più gagliarde commozioni di popoli sopravvennero. Cominciò la città di Casale; Genova seguitò; Torino compì; le altre provincie non restarono indifferenti. Di che, tornando un po’ in dietro, non fia vano conoscere i particolari. Tenevansi in quell’anno in Casale i comizi agrari che a poco a poco, e quasi senza che chi governava se ne avvedesse, la georgica vesta in vesta politica erano andati cangiando. Il 30 agosto era la solenne tornata, non mai stata tanto di soci e di auditori numerosa. Cominciarono i dotti a ragionare di agricoltura, e terminarono parlando della libertà d’Italia. Applausi, gridi, auguri accompagnarono i discorsi: la città prendeva parte a’ tripudi del congresso; gli ospitali conviti ogni giorno si ripetevano; le allegrie cittadinesche spesseggiavano. Pose il colmo alla festa casalese una lettera del re al suo intimo segretario conte di Castagneto, che al congresso si trovava. Avere (gli diceva) la corte d’Austria scritto a tutte le potenze di ritenere Ferrara per diritto. Tornando da Racconigi, aver trovato gran folla di popolo per festeggiarlo senza clamori e con modi civilissimi. Se la provvidenza mandasse la guerra per liberare Italia, monterebbe a cavallo co’ suoi figliuoli, e porrebbesi innanzi al suo esercito, facendo come Sciamil in Russia. Che bel giorno esser quello (conchiudeva) che si potrà la guerra della liberazione d’Italia annunciare. Giammai Carlo Alberto non aveva parlato sì franco e sì acceso: e ben è da credere se alla lettura che il Castagneto ne fece in pieno congresso, dovesse essere straordinario commovimento di affetti e fragore di applausi: onde tosto di fargli, a nome di tutta la nazione, la seguente risposta deliberarono: «Un’età di pace e di prosperitade comincia a’ popoli italiani: perciocché all’antica e malaugurata diffidenza fra essi e i principi loro, da’ nemici d’entrambi alimentata, succedeuna concordia e unione di desideri i, che a un tempo procaccia a’ popoli miglioramenti civili, e rafforza la monarchia, recandole per fondamento non cieca e paurosa obbedienza di sudditi, ma riverente amore e intera fiducia di cittadini. La maestà vostra, prima fra’ regnatori d’Italia, con forte e risoluto atto di libertà, comincia gloriosamente il moderno principato civile nella nostra Penisola. Di tanto beneficio sinceramente i vostri soggetti riconoscenti, fanno voto perché la generosa opera del loro re sia recata a compimento, e porti i suoi frutti. Al qual uopo essi con tutte le loro forze intendono a rannodare sempre più quei saldi vincoli di fiducia e di amore, che cittadini e principe stringono fra loro. Ne recenti e dolorosi casi voi deste, o sire, novelle prove dell’amore, con cui vi adoperate in vantaggio della italiana liberazione, protestando con solenni parole contro la ingiuria fatta alla veneranda maestà del pontefice. Alle laudi di tutti gl’Italiani unirono le loro i vostri popoli; i quali per la difesa della religione cattolica, della patria e del trono, continuamente minacciati, sentono più che mai di doversi alla vostra persona accostare. Comandate, o sire; non vi trattenga pietoso pensiero de’ vostri popoli. Vita e averi non sono privazioni per noi: si tratta di libertà o di schiavitù; si tratta dell’onore italiano. Imponete, e Dio è con essonoi. E nel tempo che il magnifico vostro esercito, gloria e onor vostro, chiamato a divenir propugnacolo della patria, rinverdirà, voi duce, gli allori di Assietta e di Guastalla, e uscirà vittorioso dal cimento, noi co’ voti e colle preghiere avacceremo il desiderato giorno, e spontanei assumeremo la impresa di vegghiare in cittadina milizia raccolti alla interna tranquillità.»Questa risposta fu da molti sottoscritta e mandata al re, come per addimostrargli, sotto specie di ringraziamento, quali cose bramassero e aspettassero. La commozione di Genova, non mai restata dal pungere il governo a riformarsi, fu anche maggiore. E poi che di questa città, siccome allora vennero i più gagliardi eccitamenti alle franchigie, così più tardi uscirono le faville di perigliose novità, andando innanzi alle altre provincie che nelle libere voglie, non è fuor di proposito toccar particolarmente del suo stato e delle sue memorie.

Se fra le italiane republiche superstiti nel cominciare de’ francesi rivolgimenti, alcuna meritava di non cadere, era certamente la genovese; dove, meno che altrove eransi cancellati i vestigi dell’antica libertà, ritraenti la imagine di quel popolo operosissimo, e più a rozzezza che a mollezza vicino. Né veramente si potevano dire i Liguri progenie affatto tralignata da quei, che, per usare le parole dello storico, avevano resistito a’ Romani, combattuto i Saracini, posto agli estremi Venezia, distrutto Pisa, conquistato Sardegna, prodotto Colombo e Doria, cacciato della sua città principale i soldati d’Austria. Vi volle prima la menzogna francese che gli allettasse; poi la prepotenza napoleonica che li costringesse; e da ultimo la colleganza di tutti i despoti a rovina di tutte le libertà, perché dovesse soggiacere. Ma chi affermasse che volentieri il nuovo stato accettassero, e la dolcezza del vivere libero obliassero, direbbe per avventura il falso. Vivevano sempre coloro che avevano assistito a’ funerali della republica, udito le ultime voci della boccheggiante libertà, mirato la fuggente imagine della diletta patria; e a figliuoli, ne’ domestici ragionari, di queste venerate e care memorie pascevano gli animi recando loro in testimonio que’ palagi, que’ templi, que’ baluardi, quel porto, quelle navi, que’ traffichi, quella venerata grandezza di città posta sul fronte del nostro Appennino, perché chi mette piè in Italia vegga subito se di migliori destini saremmo degni.

Pure dopo il 1815, ricomposta quasi tutta Europa a monarchia, in mezzo a regni vastissimi e poderosi eserciti, con una diplomazia insidiosa e prepotente, con trattati pieghevoli a tutte le voglie e facilmente violabili, non avrebbe potuto avere che breve e perigliosa vita una piccola republica; la cui libertà sarebbe facilmente perita fra gl’interni dissidii e le armi forestiere: conciossiaché il secol nostro abbia ben mostrato questo, se io non fallo: non essere le republiche più possibili che confederate e costituenti una forte nazione. Genova adunque poteva quasi trovare un compenso alla perdita sua, congiungendosi con reame armato, che ancor più possente diveniva coll’acquisto della più forte città del Mediterraneo, del più ricco porto, del più attivo popolo; ma faceva d’uopo che il congiungimento fosse tale, che non solo le terre ma gli spiriti si stringessero, e vera unione facessero. Al che per altro ripugnava l’indole del principato assoluto; il cui costume è di unire i territori, disgiungere gli animi, recando tutta la potenza, e con essa i principali benefizi, nella metropoli per meglio stare a cavaliere sul rimanente della nazione.

Che nelle altre provincie piemontesi a poco a poco annestate al reame, senza che mai avessesi provato cosa fossero franchigie, l’amor municipale potesse poco o nulla, non è a maravigliare; ma in Genova per le cose dette di sopra era ragione che gagliardissimo e come forse in nessun’altra parte d’Italia signoreggiasse; quindi tanto più faceva mestieri concedere larghezza al suo municipio, quanto meno bisognava fargli sentire lo scapito d’essere passata dalla republica alla monarchia: e in vece la signoria torinese non che privilegiarla, le negava talora o indugiava quello, di cui la città di Torino ed altri luoghi godevano. Aggiungevasi certa maggior severità di governo, quasi paresse che una città stata tanto tempo e tanto fieramente republicana, fosse come cavallo bisognevole di maggior freno. Né il predominio acquistato dagesuiti, e la intramettenza che avevano o che loro si attribuiva ne rigori di quelli che reggevano, massime per lo stampare e vender libri, era piccolo fomite di mala contentezza.

Adunque la sera del dì 8 settembre le vie della città fiammeggiavano di lumi, ed empivasi di popolo d’ogni condizione gridante viva Pio IX, viva Carlo Alberto, viva Italia. Nelle piazze accampavasi la milizia, la cui vista non che frenare o rallentare, accresceva il festivo agitarsi. Bastò una voce dicesse: In Portoria, in Portoria; perché l’affollata moltitudine commossa si travasasse nella prediletta contrada, ricercasse il memorando mortaio, l’abbracciasse e baciasse, e il cielo ferisse colle incessanti voci di viva Balilla. Così in Genova, più forse che in ogni altra parte, le commozioni di popolo non erano mai scompagnate da patrie ricordanze; non che l’altre città d’Italia memorie gloriose eziandio non avessero, ma ne’ Genovesi erano più fresche e più scolpite, e meglio colle nuove idee di libertà italiana consuonavano. La sera appresso il popolar commovimento ancor più numeroso e gagliardo rinnovossi, e fece temere che non procedesse oltre que’ confini di moderazione, che allora pareva il miglior mezzo per trionfare. La narrazione delle feste fiorentine e livornesi accresceva la voglia; le botteghe facevano ricca e vaghissima mostra di nappe toscane pontificie e anche tricolorate. Le dame e i giovani se ne fregiavano il seno e il capo, e ne’ magnifici diporti genovesi ne menavano come vanto. Quanto più queste cose parevano lecite e lontane da turbolenze, tanto più era fermo proposito nel popolo di volerle fare, e maggior dispetto e timore arrecavano ai capi del governo. Il giorno 11 il comandante militare di DeSonnaz, in luogo del governatore assente, publicava, essere proibito a’ sudditi piemontesi di fregiarsi di colori che non sieno quelli dello stato, come pure esserne vietato lo spaccio. Succedeva altro bando del magistrato di Torino, che a nome e per volere del principe, raffermava e a tutto il reame estendeva la stessa proibizione.

Fra tanto una petizione, sottoscritta dall’arcivescovo e dai sindaci del municipio genovese, era stata inviata al re, contenente i medesimi sensi che aveva espressi il congresso di Gasale. Trasferivansi nello stesso tempo a Torino, i marchesi Doria, Balbi Raggi; i quali accolti benignamente dal re, lo pregavano di soddisfare ai popolari desiderii, e quello rispondeva colle solite parole generali; che avrebbe fatto que maggiori provvedimenti che si potevano; che stessero tranquilli, e si rendessero certi non istare a lui meno a cuore il vero bene e onore del regno. Nuovo colloquio i medesimi ebbero col ministro Villamarina: il quale vuoisi che si manifestasse più, o perché a un ministro disdicesse meno far palesi a privati cittadini le sovrane intenzioni, o perché volesse gratificarsi a’ genovesi, e aver nelle riforme un mezzo valevole a sgarare ilconte della Margherita. Disse, che avrebbe mandato una let— tera con facoltà di poterla mostrare, in cui sarebbe stato dichiarato il volere del re, e risposto alla istanza dei Genovesi. Così con più speranza che certezza di essere riusciti nel carico tolto, i tre oratori tornarono in patria: dove non è a dire con quanta ansietà fossero attesi. Udita l’accoglienza ricevuta, e le promesse fatte, piacque la prima, sembrarono troppo vaghe le seconde. Meno ancora soddisfece la risposta giunta alquanti giorni dopo del marchese Villamarina, il cui sunto era questo: Il re essere fermissimo nel proponimento di far causa comune col papa: in caso soltanto di guerra consentirebbe la guardia cittadina, e di quella userebbe. Pensare adesso a molte riformagioni amministrative e giudiziali: ma andare assai a rilento in ciò che riguarda lo scrivere a stampa per timore che pericoloso non diventi.

Tornarono a replicare a questa risposta i Genovesi, recandosi principalmente a onta che l’uso d’un. più libero stampare, non istimato pericoloso in Roma e in Toscana; dovesse tale reputarsi in Piemonte. E se tumulti non avvennero, né pure posavano gli animi, aspettanti che le dubbiezze e avvolgimenti terminassero una volta, e le promesse reiterate in fatti si convertissero. Alle dimostrazioni popolesche di Genova si aggiunsero quelle di altre città del Piemonte, pigliandosi occasione o pretesto dal festeggiare e pregare per la salute del pontefice. Né ad amareggiarle mancava il piglio oltraggioso delle soldatesche; come in Novara e peggio ancora in Sarzana. Andando verso la metà di settembre Carlo Alberto a vedere i nuovi ponti sulla Bormida e sul Pò, quel viaggio fu nuovo motivo di assembramenti in quelle città per le quali passava. Tutta la popolazione di Acqui e vicinità gittavasi in sulla via, di trionfali archi adorna. Alessandria a insolita festa sollevavasi. Né altrimenti facevano Valenza ed Asti, e quanti luoghi erano da Torino alle sponde eridane. In fine dall’un capo all’altro del regno, in Savoia, nell’isola di Sardegna, così nelle grandi come nelle piccole terre, così nelle lontane come nelle vicine provincia, le ragunanze popolari seguitavano, pacifiche sì, ma incalzanti. Se il governo fosse stato in mano di gente che avesse avuto a cuore l’onore e l’utile del principe, facenp di necessità virtù, avrebbe ornai ceduto a sì universale piena, che non era più in poter d’alcuno fermare.

Restava che la città principale del regno, mantenutasi infino allora silenziosa, facesse movimento, e il primo di ottobre si mosse. Ricorreva il dì natale di Carlo Alberto, opportuno al festeggiare; né mancavano inviti al popolo, perché onorando il re in quel giorno, non dimenticasse le solite benedizioni al pontefice. Il vicario conte Galli chiamò i promotori della festa, ammonendoli, non dispiacere al re gli onori fatti al pontefice; giungergli cari quelli fatti a lui medesimo: né reputar colpevoli quelli diretti all’Italia: ma stargli altresì a cuore la quiete e dignità del suo popolo, né poter consentire che immoderate grida offendano il governo. In pari tempo il comandante Buri così loro parlava: Essere ornai tempo che i canti e i clamori abbiano una fine: dispiacere questi al monarca, né poterli tollerare. Allegavano quelli le parole benigne del vicario; alle quali il comandante, con piglio crudele, replicava: non entrarci per nulla il vicario, essere ufficio del governatore, e chi disobedito avesse, sarebbe stato di carcere o d’altra pena gastigato. Così dove assoluto signore dicevasi essere, i diversi magistrati stranamente si contrastavano. Pure la festa ebbe luogo, quasi a dispetto di chi non la voleva, e con animo di romperla con quelli del governo e por termine a sì lunghi ondeggiamenti; non parendo da tollerare più che le dottrine giobertiane e balbiane dovessino in Roma e in Toscana fruttificare, e rimanere senza frutto nel paese che le aveva prodotte. Tutta la città di Torino traeva al publico passeggio; cominciavano i canti in lode di Pio IX e del re: di tratto in tratto s’udivano insidiose voci di morte agli Austriaci, morte a’ Gesuiti, mandate da’ prezzolati intorbidatori della popolare letizia, affinché in lutto il gaudio si convertisse. Ecco in effetto a un tratto da fronte, e da tergo come d’un agguato, irrompere birri e soldati sotto il comando del commessario Tosi. Lampeggiano le nudate spade; minacele feroci, urti e percosse da una parte; grida lamentevoli di donne e fanciulli dall’altra. Qualcuno è rapito in prigione. Tutto è terrore e scompiglio; e se non corse sangue, fu per moderazione del popolo.

Non di meno un grido d’indignazione suonò dall’un capo all’altro della città, che si ripeté dall’un capo all’altro del regno: e d’ogni provincia e particolarmente di Genova giungevano protestazioni e conforti a seguitare nella cominciata impresa. Né il municipio di Torino restava di mandare a nome della città offesa querele al principe; dolente ancor esso per le succedute cose. E affinché le contraddizioni in Piemonte continuassero, furono a un tempo remossi i due ministri Villamarina, e della Margherita, l’uno favorevole, l’altro avversissimo alle riforme: e da prima si giudicò che il re noiato e stanco di essere da uno punzecchiato, dall’altro rattenuto, ricorresse al partito di disfarsi di tutti e due; poi ricercando meglio la cagione, si credette che avendo il Villamarina domandato licenza, e temendo Carlo Alberto che l’altro restando solo e come vincitore, maggiormente soverchierebbe, ancor lui licenziasse; e vogliono che il sospettasse provocatore o aiutatore di fastidiosi richiami di corti esterne, e particolarmente della russa per gli encomii fatti a Sciamil, quasi offesa all’autocrate. Ma i rettori surrogati al Villamarina e al Della Margherita non piacquero a quelli che speravano una mutazione di cose: onde seguitavano le commozioni col pretesto solito di festeggiare il pontefice, e collo scandolo che l’arcivescovo di Torino e altri vescovi s’opponessero: senza dire che la resistenza minacciosa e talora offensiva fatta dalla soldatesca a quelle radunate in apparenza pacifiche, era cagione che più frequenti e clamorose divenissero. Onde a’ savi uomini pareva che così non si potesse più a lungo durare: minacciando la pazienza publica di convertirsi in furore, e se furore diveniva, non sarebbesi per avventura a quelle prime domande acquetata. Cominciava il re a credere il popolo cupido di tumulti, e il popolo a sospettareil re contrario al riformare il governo. Se Carlo Alberto temporeggiava ancora, forse i popoli subalpini avrebbero fatto quello che i popoli delle Sicilie fecero tre mesi dopo. Ma il dì 30 ottobre il diario publico recò l'annunzio delle nuove leggi.

Vedere la città dal turbamento passare alla contentezza, dal sospetto alla confidenza, dalla collera all’affetto, dalla tristezza alla gioia, era spettacolo maraviglioso, e da chiamare la vergogna in sul viso di chi l'animo del re aveva in fino allora con figure di pericoli ritenuto. Già Roma e Fiorenza avevano porto l’esempio a’ festeggiamenti popoleschi per applaudere a’ principi che si riformavano. Torino non fece meno; e tutta levavasi con bandiere, musiche, canti e ringraziamenti al principe. Il quale quattro giorni dopo soscritto i decreti, partì per Genova: e se altra volta le feste che accompagnarono il suo viaggio per Àsti, Alessandria e gli altri luoghi erano stati sproni, ora erano ringraziamenti. Genova lo accolse come se risuscitato fosse Andrea Doria. Né fu città borgo e villaggio in tutto il Piemonte che alla notizia delle franchigie acquistate non festeggiasse: e m’immagino che gli stessi principi che si vedevano allora cotanto e sì universalmente celebrare insino al cielo, avranno dovuto maravigliare del come la importanza delle loro concessioni fosse di leggieri superata dalla popolare allegrezza, che in ogni cosa non conosce mezzo: e forse aranno provato rammarico dell’essersi per vane paure indugiato cotante adorazioni: se pure a chi siede in trono non debbano tornar discari anche i festeggiamenti, non potendosi mai dire dove popolo affollato e inebriato possa riuscire. Comunque sia, prolungandosi il festeggiare in tutte le provincia di Piemonte, il re, come pur usato avevano il pontefice e il granduca, fece da’ governatori delle popolazioni notificare, che mentre rendeva grazie di tante reiterate dimostrazioni di affetto, voleva che queste avessero un termine, e intendeva che le leggi intorno agli assembramenti e festeggiamenti publici fossino rimesse in osservanza. La qual notificazione contristò, non tanto per la cessazione delle feste quanto perché rinvigoriva leggi che si credevano casse dopo i nuovi ordinamenti promulgati. de' quali è pregio di quest'opera dire la importanza.

Se Carlo Alberto fosse da vari mesi ito preparando e maturando, come era stato buccinato, le sopraddette deliberazioni, o avesse voluto promulgarle tutte insieme, perché meno apparisse che gli venissero strappate, non sappiamo bene. È certo che non piccolo merito gli acquistò il darle come se prodotte fossero da anticipato e uniforme divisamente di racconciare tutti gli ordini dello stato: cominciando da quelli della giustizia; i quali dopo il notato in principio di questo libro, non dee far maraviglia che fossero pessimi Non solamente le ragioni de’ privati si giudicavano diversamente da quelle de(1) grandi, quasi vi fosse una giustizia pe’ nobili, pe’ sacerdoti e per il principe, e un’altra per la università de’ cittadini; ma tortamente si giudicavano. Segreti erano i giudizi, interminabili i piati, i diritti mal deffinitl Chi altra religione che la cattolica professava, non poteva liberamente possedere; la podestà paterna rimaneva senza confini; l’ordine delle successioni ineguale; la Chiesa s’intrametteva in giurisdizioni che della Chiesa non sono; in fine nella giurisprudenza piemontese mancava unità semplicità egualità. Se a tutte queste cose non rimediavano gli ultimi decreti, a una gran parte e alle più mostruose rimediavano col recare miglior forma a’ giudizi criminali rendere publiche le discussioni de’ tribunali creare un magistrato per cassare le sentenze difettose, finalmente levar via i tanti e diversi tribunali di privilegio e di eccezione, quali erano quello dell’ordine di S. Maurizio e Lazzaro, dell’Auditore generale di corte, delle Regie Cacce, dell’Economato, della Sanità della Regia Camera de’ Conti, e via dicendo. L’amministrazione de’ municipi non era in miglior condizione: essendo in due ordini d’uomini nobili e cittadini spartita, come di due diverse qualità di merci una scelta, l’altra vile; impediti al proporre come al fare; senza autorità né importanza alcuna; vietato che del proprio danaro potessino disporre al di sopra della somma di cinque lire.

Aggiungevasi la spartizione pessima delle provincie, cagione d’infinite spese e disastri, mancando ogni unità di giurisdizione: e interveniva che tal ora un comune appartenesse a una provincia per lo civile e dependeva da un’altra per lo spirituale, né sempre tutte le parti della amministrazione si compivano nel medesimo distretto. In oltre erano provincie e diocesi smisurate sì per troppa come per poca latitudine, sì per ricchezza esorbitante come per povertà incomportabile. La nuova legge municipale, venuta in luce qualche mese dopo le altre, fu variamente giudicata. Alcuni per satira la dicevano più lunga che larga: ad altri pareva sufficiente. Forse i troppo e i poco contenti avevano torto. Né molta larghezza di facoltà a’ comuni era concessa, né con ottima chiarezza erano determinati i poteri e i modi di. eleggere i consigli. Ad ogni modo non leggermente riparava al male, ed era seme di bene, se non altro per lo esempio di una qualche rappresentanza, quasi a compenso d’un governo con costituzione, che ancora i popoli non domandavano. Minor cosa forse erano le leggi per la libertà e sicurezza delle persone. Pure l’avere disgiunto dal ministero sopra la guerra il magistrato d’interna vigilanza, l’avello tolto ai comandanti militari e affidato a’ governatori, e da ultimo l’averlo per forma circoscritto che potesse fare l'ufficio suo di antivenire delitti senza più trascorrere in arbitrari! e violenti atti, fu certamente non piccolo benefìzio. Quanto alla legge per la censura degli scritti, dovremmo sottosopra ripetere quel che della romana e della toscana abbiamo detto; sendo sì fatte leggi del tutto sottoposte all’arbitrio di chi le esercita, e solamente da commendare per la intenzione di allargare la libertà del dire.

Ma ne’ giornali pontificii e toscani, allora trombe di encomii alle deliberazioni de’ principi, gridavasi vittoria. Il Piemonte (dicevano col solito stile gonfio) avere finalmente cominciato a riformare; non doversi guardare quali e quante sieno le riforme; dover bastare che un altro principe d’Italia, e il più forte altresì, abbia riconosciuto il bisogno di nuovi ordini; messosi in questa via, non volere né potere fermarsi, essendo l’avanzare condizione inseparabile dal riformare. Acquistare in oltre la causa italiana chi ha forze e voglie di difenderla e condurla al trionfo; i dubbi, i sospetti, i timori dileguarsi: circa nove milioni d’italiani avvicinarsi e affratellarsi, e le comuni speranze e desiderii colla parola, non più interdetta in Piemonte, rinforzarsi. Chi non vede l’ampiezza delle piemontesi riformagioni, l’unità del principio e del fine, l’addentellato che lasciano a miglioramenti futuri? Per esse le grandi questioni italiane risolversi, la nostra felicità compirsi. Vi fu che scrisse, le riforme di Carlo Alberto valere quanto un intero esercito di soldati. Le parole degli scrittori provocavano assembramenti di popolo. In Firenze, non appena seppesi la fausta nuova, gran tratta di gente andò a casa il ministro sardo, e con alte voci Carlo Alberto salutò riformatore, non senza mescolarvi l’altre grida di viva Pio IX, viva Leopoldo II, viva la lega de’ principi, viva la libertà d’Italia. Somiglianti cerimoniose feste si fecero pure in Roma, e nelle provincie de’ due stati. Se gl’innovatori predicavano, le riforme piemontesi non essere un benefìcio soltanto per il Piemonte, anzi per Italia tutta, i popoli mostravano di persuadersene. Tanto allora era potente la parola: la quale non fomentava discordie, odii e malivoglienze, come più tardi avvenne, ma gli animi empiva di liete e troppo liete speranze. Ad esse venne come a porre un suggello l’essersi finalmente Carlo Alberto col papa e col granduca di Toscana accordato per la lega doganale, e avere i primi convegni publicato con preambolo, per il quale dicevano, che il collegarsi per cagione di commerci publici sarebbe stato presagio e fondamento di una più ampia unione di stati, che facesse all’Italia l’essere di nazione acquistare. Tutto in somma pareva andasse, e andava a seconda degl’italiani desiderii. Il municipio torinese stanziò doversi rizzare un monumento che tramandasse a’ posteri la memoria del 29 ottobre; doversi altresì celebrare in chiesa un atto di ringraziamento a Dio per tanti benefìcii; doversi finalmente inviare a Genova otto oratori che a nome de’ Torinesi, attestando a’ Liguri sentimenti di fraternevole amicizia, fosse seme fra’ due popoli di vera unione e durabile concordia. Non indugiarono altresì a venire in luce giornali politici, pure con nomi simbolici di Risorgimento, Concordia, Opinione, Lega Italiana, e simili; colorandosi per modo in principio da non essere dall’uno all’altro sustanziale differenza di massime, e tenendosi in tutti questo canone di sospingere innanzi i principi meglio colle lodi a quel che fa cevano, che co’ biasimi a quel che non facevano. Né mai i troni furono cotanto esaltati, e mai non sitrovarono in maggior pericolo di crollare.

Fra tanto come le commozioni del romano e toscano stato avevano fatto crescere il moto piemontese da tirare il re agli stessi allargamenti, così la commozione piemontese cresciuta aggiunse lena e afforzamento a quelle di Roma è di Toscana, divenendo in tal modo, come per l’ordinario suole, gli effetti cause di altri e maggiori effetti. Chi guardava Roma in quei due ultimi mesi del quaransette, non altro vedeva che un sempre maggiore contrasto tra’ tenacissimi del vecchio, e gli spasimanti del nuovo; e quanto più questi facevano forza di pingere innanzi il pontefice, tanto più quelli sorgevano pronti a ricacciarlo in dietro; e Pio IX nel mezzo ondeggiava miseramente, provandosi accordare quel che per legge di natura doveva rimanere in guerra. Sperava egli di contentare gli uni colle nuove largizioni; non iscontentare gli altri col replicato dichiarare, che da quelle non si dovesse mai alcun cambiamento alla natura immutabile del papato argomentare. In vece disgustava tutti, e sé e lo stato a lagrimevoli sciagure esponeva. Veggendo i più impazienti o precipitosi che l’adunanza detta del circolo romano, a bastanza temperata, riusciva poco acconcia a’ loro propositi, brigarono di raccozzarne altra col nome di cerchio popolare; e si notò che detta congrega, da divenire la principale commovitrice del paese, sorgesse con permesso e favore di monsignor Savelli, dalla città di Forlì, dov’era prolegato chiamato governatore in Roma; parendo volesse così acquistarsi la grazia del popolo, cui sapeva esser odioso, ovvero (se unavoce, che allora si divulgò, non è falsa) per malizioso disegno di suscitare scandoli e discordie, contrapponendola all’altra congrega, che per la sua maggior prudenza dava più noia agli avversari delle riforme. Questo Savelli era un còrso, che, fattosi prete, andò, come molti di quell’isola fanno, a Roma, per cercar fortuna; e la trovò, avendo ingegno cupido, destro e al fingere e disfingere attissimo. Per favore di cardinale, al cui servigio s’acconciò, non istette molto a divenir prelato: e com’è uso, mandato subito a reggere prima la provincia di Perugia, poscia quella di Macerata, lasciò fama di rapace e di lussurioso; andando attorno questo motto, che a Perugia scorticò i vivi, a Macerata spogliò i morti; perché a un condannato all’estremo supplizio dicevano avesse ritenuto alquanti scudi donati da papa Cappellari alla famiglia di lui per essersi convertito. Durante il conclave fu commessario della città di Bologna, cui vogliono tenesse colla stessa cupidigia di danaro: e tuttavia in quello spesso e improvvido scambiettare di governatori in Roma, parve da questo ufficio; tanto più allora malagevole a tenere quanto più sorgevano occasioni e voglie di turbare la quiete publica. ‘Gran mormorio facevasi, né solamente in Roma ma ancora in Toscana, contro il diario romano (il che voleva dire contro il governo stesso, a cui apparteneva) per recare alterati o falsificati gli atti publici qualora non fossero stati conformi ai disvolenti le riforme. Crebbero i lamenti per avere divulgato una lettera di Pio IX al padre Perrone gesuita, in cu f dopo avergli rendute grazie per un suo libretto teologico sulla concezione di Maria Vergine, scrivevagli smisurate lodi della compagnia, chiamandola inclita e sopra ogni altra della republica cristiana benemerita: quasi volesse sbugiardare coloro che dei gesuiti volevano farlo apparire nemico. Ma niente fu acconcia materia di agitamenti e di querele come le cose della Svizzera, delle quali non passando senza commovere notabilmente Italia, non paia inutile aver qui alcuna notizia.

Se luogo era in Europa dove alla discordia intestina fosse un fomite inestinguibile, la Svizzera era dessa: divisa di schiatta, di favella e di religione; e artificialmente congiunta con una costituzione federale di republiche, nella quale oltre alla soverchia libertà di ciascuna rispetto alla dieta comune, i grandi cantoni avevano un sol voto come i piccoli: il che produceva che la maggioranza poteva essere ed era sovente dalla minorità di leggieri soperchiata. Da ciò primieramente nascevano continue cagioni d’interna perturbazione con profitto incessante ora degli aristocratici e ora dei democratici per isgararsi a vicenda, e occupare il dominio dello stato. Pure i amore di libertà potentissimo fra que’ monti e severi costumi, fu causa che l'essere di nazione libera si conservasse in paese, che per le sue condizioni meno d’ogni altro l’arebbe comportato: laonde la Svizzera può addursi per esempio rarissimo, se non unico, che la libertà non sia stata divorata da più secoli di guerre civili. Delle quali ultimamente erano divenuti stromento e pretesto i gesuiti col loro entrare in Lucerna e afforzarsi di clientele sediziose in Friburgo e nel Vailese. Conciossiaché, essendo Lucerna a vicenda con Berna e Zurigo sede del governo comune, metteva forte sospetto che i padri non potessero di là tutta la confederazione aggirare. Per la qual cosa la dieta ne fece argomento di grave quistione, ma per la sua costituzione difettosa le mancò secondo il solito la maggiorità che bisognava, affinché i gesuiti fossino di Lucerna rimandati. Allora si venne alle armi, e i civili tumulti ricominciarono con tanto maggior impeto, quanto che alle vecchie cagioni d’inimicizia s’aggiungevano nuove differenze religiose. Sette cantoni cattolici, Lucerna, Friburgo, Vailese, Uri, Zug, Schwvtz e Unterwald, strinsero lega fra loro, chiamata Sonderbund, con animo risoluto di guerreggiare il resto della confederazione. Era una parte, che mirava a innalzare l’aristocrazia sópra la democrazia, e restrignere e conculcare la libertà dello stato. La dieta s’armò, e in poche settimane divenuta forte di poderoso esercito cittadino,combatté la ribelle lega, sottomise i cantoni divisi, cacciò i perturbatori gesuiti, e allo stato il primiero ordine restituì. Né qui terminò la vittoria; anzi più gloriosa divenne pel magnanimo rifiuto alla mediazione annata, che sotto i nomi di amicizia e di conciliazione, le aveano proferto le cinque maggiori potenze d’Europa, per intervenire a sostegno dei dissidenti, o forse ad ultimo esterminio della elvetica libertà.

Non è a dire se la quistione svizzera fusse un bel tema fra noi per accendere sempre più a liberi desiderii, quasi nella causa della confederazione si dovesse quella d’ogni popolo deliberato di affrancarsi riconoscere. E né pure è da dire se valesse altresì a far Podio traboccare contro a’ gesuiti, allora cotanto rinfocolato da un nuovo libro dell’abate Vincenzio Gioberti col titolo di Gesuita moderno. Nel quale prendendo occasione di rispondere a’ padri Pellico eCurci, che avevano difeso l’Ordine dalle accuse fattegli ne’ prolegomeni al Primato, e lui punto con acerbi e ingiuriosi modi, accumulò in parecchi volumi quanto avesse potuto maggiormente infamarli: rifrustando cose dette e ridette, e altre nuove e più recenti ammassandone, da ingenerare sazietà se de’ gesuiti non avesse detto male. A questo attese bene l’autore, che la compagnia non amica alla Santa Sede, infausta alla religione cattolica apparisse, non solo per ottener meglio l’intento, ma ancora per non contraddire a sé stesso. Né mai alcun libro, benché grave di mole e di erudizione diversa, si divulgò tanto e in minore spazio di tempo; sendo andato in mano di donne, di fanciulli, di vecchi, e d’una gran parte del clero, contenta di vedere la causa della Chiesa da quella degl’ignaziani separata. Né solamente acquistava all’opera giobertiana così rapida, estesa, efficace fama il dire obbrobri de’ gesuiti, ma eziandìo la grande ira, onde in più luoghi appariva infiammato, contro ad ogni forestiera dominazione e particolarmente contro alla casa d’Austria, pennelleggiatavi con tali colori che giammai i più accesi non furono adoperati per concitarle lo sdegno de’ popoli.

Più innanzi ci accadrà riferire gli effetti da questo gesuita moderno prodotti, e dimostranti che allora facevano i libri quel che in altri tempi le spade. Ora diremo che nel tempo si leggeva e celebrava infino al cielo, giungevano le notizie delle sconfìtte del Sonderbund e delle vittorie della confederazione elvetica: per le quali, come di vittorie comuni, mandavamo ne’ giornali e ne’ cerchi, altissimi gridi di gioia; e il tripudiare fu grande e generale quando seppesi presa Lucerna. In Roma numeroso popolo con musiche e faci e bandiere corse a festeggiare il consolo svizzero: né a ciò contento passando per piazza di S. Ignazio, levò grida di morte a’ gesuiti. E dopo queste improntitudini pretendevasi (tanta era la cecità) che Pio IX contrario al Sonderbund e partigiano della dieta si dichiarasse, e a que’ clamori contro un ordine religioso da lui amato dovesse quasi godere. Laonde crucciato, e forse cominciato a pentirsi di essersi lasciato andare alle prime concessioni, ammoniva nel diario publico: Avendo lui concesso più ampia libertà di manifestare ognuno le proprie opinioni, non avere inteso di comportare eh ella si disfrenasse a offendere in qualsivoglia guisa le religiose credenze. Essergli per ciò saputo assai male che in alcuni giornali fossero magnificati i successi de’ radicali di Svizzera, mostrando così di parteggiare per essi; senza pensare che le costoro imprese traevano seco i miserandi effetti d’una guerra civile, da cui maggiormente dovevano i cattolici essere afflitti e la religione santissima danneggiata.

Andarono alle stelle per questa dichiarazione le querele: i meno prudenti sciamavano: «Quando Grecia e Polonia l’una contro il turco, l'altra contro il russo scismatico guerreggiavano, il pontefice romano teneva dal turco e dal russo, perché allora la libertà era in piazza, e la tirannide in trono. Nel caso della Svizzera, che la libertà è in trono, e la tirannide in piazza, il papa tiene col Sonderbund, come se question religiosa e non civile fusse quella che move una parte contro al legittimo governo. Ben la religione essere da’ gesuiti turpemente agitata qual fiaccola di scellerata ribellione, e quindi obligo del pontefice avrebbe dovuto essere di adoperare la sua autorità, affinché l’opera loro non più a lungo sì grave onta alla comune religione facesse.» Ma i più prudenti, intesi sempre a impedire che l’affetto popolare a Pio IX non iscemasse, s’ingegnavano nel medesimo tempo di attribuire (secondo U solito) a malignità della sua corte quel favore alla causa del Sonderbund; e lui dicevano più tosto paziente che partecipe; ché mai non si usò più industria a tenere in fama un principe, non che un papa, per amore di libertà.

In que’ giorni contristò Roma, lo Stato e Italia la morte improvvisa del prof. Antonio Silvani; dotto giureconsulto, buon cittadino, caldo italiano. Fu ministro nella rivoluzione del 1834; poi visse nell’esilio per quindici anni, accrescendo il proprio sapere con maggiori studi. Tornò in patria nel luglio del quaranzei; e fu dal nuovo pontefice prima chiamato ad essere del numero de’ compilatori de’ codici, poscia a sedere nella consulta di stato. Si diceva che grande stima facesse di lui Pio IX. Certo era il più autorevole fra tutti i consultori per sapienza nelle leggi e per fama di vecchio amico di libertà. La sua perdita fu lagrimevole a tutti, e tanto più faceva increscere, essendosi levata una voce che fosse morto dr veleno, datogli da coloro che temevano della sua autorità sull’animo del pontefice. Accreditavasi detta voce per il genere di malattia subitaneo, con dolori di ventre acutissimi e vomito. Pure sufficienti ragguagli non la chiarivano; e Tessersi sparsa dimostra che gli avversari del bene operavano in modo da essere creduti deliberati a fare qualunque eccesso. L’esequie al chiaro uomo furono grandi e pietosissime: e quel tanto commoversi di tutta Roma per onorare la spoglia del giureconsulto bolognese testimoniava che ogni sentimento di virtù non era morto. Gli fu surrogato nella carica di senatore il conte Giovanni Marchetti; e certo più degno successore non poteva essergli dato, non avendo le lettere italiane un più gentile e dotto cultore, e le virtù cittadine un più intemerato esempio.

Costituita la romana consulta, gli avversari de’ mutamenti viepiù mettevano in opera lor arti tenebrose; perciocché, se bene sapessero non esser quella che una istituzione di mero consiglio per le cose dell’ amministrazione interna, pure temevano che nella pratica non acquistasse più autorità che non era stato in animo del pontefice concedergliene, e il suo voto quantunque consultivo non valesse a rendere più gagliardo e invincibile l'animo popolare ne’ desiderii di libertà. Disputava intorno agli articoli del suo regolamento, fra quali erano questi due: se gli squittinì dovevano essere aperti o segreti, e se le deliberazioni dovevano o no publicarsi. Ognuno stava in espettativa per far presagio secondo che in un modo o nell’altro avesse risoluto. Né gli scrittori de’ giornali si stavano dall’innuzzolire, filosofando quanto importante e util fosse il fare ogni cosa in cospetto del publico: quasi mirassero di avvicinare questa consulta ad un parlamento alla inglese o francese. Se non che i preti, che stavano con cent’occhi, e altrettanti orecchi, non si lasciavano prendere al laccio. Messo in deliberazione il primo articolo, cioè la manifestazione del voto, fu approvato: e da ogni parte suonavano applausi, quasi stimolo perché l’altro più importante della publicazione degli atti fosse altresì consentito. Si levò per questo più tosto viva discussione, opponendosi il consultore Luigi Mastai, nipote del papa, e fino allegando la stessa volontà del zio. Non di meno fu vinto.

Quanto per questo primo segno di libertà la nuova assemblea era commendata, e dava luogo a far di sé presagire ottimi successi, altrettanto l'ansietà e inquietezza publica si palesavano, appena si seppe che la deliberazione della consulta non sarebbe stata consentita dal pontefice trattenuto da coloro, che avvezzi a dimorar nelle tenebre, sdegnavano e per nemica avevano qualunque luce. Aggiungevasi lo indugio ai provvedimenti più allora reputati salutari; fra’ quali l’armamento della milizia civile, che lento, ineguale, e non come alla difesa è sicurtà dello stato sarebbe stato mestieri, procedeva. A che serve (piò o meno ragionavasi) aver chiamati a consulta in Roma rappresentatori delle provincie, quando le loro proposte o deliberazioni non vengono mai o quasi mai ridotte a leggi? Essere quasi peggio avere creata quella rappresentanza; facendosi sempre più la ripugnante natura del governo papale a qualunque civil riformagione, manifesta; onde non fia maraviglia se negli animi s’accenda la voglia d’una costituzione che costringa il pontefice ad accettare e conservare buone leggi. Ma la cagion principale del rimanere infruttuose le concessioni, doversi ripetere dall’essere i più importanti uffici ognora in mano d’uomini alla vecchia tirannide avvinghiati; che vogliono seguitare a rubare il publico, e tenersi il sacco. E chi dubiterebbe la più parte de’ presidi, delegati e governatori non sieno cotali, e che il governo non ammorbano sempre le stesse sozzure? Onde ogni mutamento si faccia,riesce se non in peggio, certamente non in meglio; e par che svelto un ramo guasto, rimetta un altro, e tosto si corrompa, per la ornai insanabile putredine di tutto ’l tronco. Tolto il Marini, rendutosi odioso (e per premio fatto cardinale e mandato a reggere Forlì) il successor Grassellini, di cui tanto bene si sperava, non poteva dare di sé peggiore sperienza; e in luogo del Grisellini, messo il Morandi, e ricevuto con generale allegrezza, né pur costui fece buona prova. Ora che si puote aspettare da monsignor Savelli; il quale ovunque per danari e femine ha fatto della giustizia bottega sordida? E andando più su, chi non giubilò per la elezione del cardinale Gizzi a segretario di stato, e chi non dovette poscia gravemente rammaricarsene? Parve gran ventura che gli fusse il cardinal Ferretti surrogato, per la speranza del fratello Pietro, buono, generoso, illuminato. Ma egli sembra che possano più in quel fanatico e sconvolto cervello i consigli degl’ipocriti e de’ malevoli. Che dir finalmente dello stesso Pio IX? Ei per certo ama e desidera il bene e la contentezza de’ suoi popoli: ma accora e sconforta quel vederlo di continuo ondeggiare; porgere parole lusinghevoli a’ disiosi di libertà, e poi fare a modo de’ contrari; e quando mostrare di procedere innanzi, e quando far vista di ritrarsi in dietro. Per lo che i sospetti s’appigliano e divengono certezza, che dove così prosegua, non tarderà lungo tempo la setta de’ cattivi a rimetterlo sulle non mai cancellate orme del predecessore.

Commovendosi per sì fatti parlari gli spiriti, era disegno il giorno del nome del papa, di fare tanti cartelli appiccati a tante insegne; ne’ quali fossero scritte a cubitali lettere le domande che il popolo voleva soddisfatte, e con quelle inalberate andare in pricissione per la città. Ma persone autorevoli e prudenti poterono dissuadere questa avventataggine, e ottenere che le stesse domande si mettessero in iscritto, e al pontefice si porgessero.

Il dì 30 dicembre venne in luce un decreto del pontefice, che riformando il consiglio de’ ministri, e dandogli ordinamento quasi a similitudine degli stati retti con costituzione rappresentativa, sorgeva un primo esempio di lasciare aperta la via anco a’ laici per salire alla direzione de’ ministeri, e di procacciare che i ministri dessero malleveria del loro operare, ancor questa secondo l’esempio de’ liberi governi. Egli è vero che per allora la mutazione fu più ne’ nomi e nella forma che nella sostanza; perciocché quasi tutti i medesimi prelati che con altri titoli si trovavano negli uffici delle amministrazioni interne, degli affari stranieri, del comando militare e dell’ammaestramento publico, furono nominati ministri: senza dire che la presidenza del collegio doveva essere conferita a un cardinale: né poteva mai credersi che volesse assumere obligo di rispondere de’ suoi atti, e meno ancora di quelli, de’ colleghi. Ma parve grande acquisto vincere la massima; e se ne attribuiva il merito alla sopraddetta recente Opera del Gesuita moderno: perché ivi l’abate Gioberti andando più oltra cogli argomenti, appena adombrati nel libro del Primato, erasi studiato di attenuare il grande ostacolo del dominio temporale de’ papi; al quale i preti romani non avrebbero giammai rinunziato, facendone essi argomento di religione con quel solito ricantare, che senza un regno di questo mondo la Chiesa non avrebbe libertà; mentre da un’altra parte si diceva, e quel che era ancora peggio, si stampava, dovere anzi a questa libertà tornare in pregiudizio il temporale reggimento, non essendo possibile a chi regge un popolo di non contrarre oblighi con altri potentati, che facilmente in dependenze scambievoli e dannose si mutano; massime per un piccolo principato come il pontificio; il quale assai poco tempo starebbe in piè, se le armi de’ principi secolari non vel tenessero: il che se non vuol dire dependenza, non sapremmo che altro mai volesse significarla.

Ma al Gioberti non parendo ancora da oppugnare la podestà regia del pontefice: sì bene, onorandola e lusingandola, trarla a certe inusitate riformagioni, per le quali sarebbesi a poco a poco e come di per sé annichilata; sfuggì opportunamente la malagevole quistione, se alla libertà della Chiesa giovasse o no il temporale governo: e mise in luce, o almeno magnificò con quella sua abbondanza di dire, quest’altro espediente, da altri pure indicato, di rendere secolare il governo, lasciando alla persona del solo pontefice lo esercizio supremo delle due podestà. Né io potrei dire se Pio IX chiamando ai primi uffici dello stato uomini laici, volesse cominciare a mettere ad effetto la sentenza dello scrittore torinese; ma è certo che la dottrina giobertiana, aiutata dal favor publico e dalla voce di altri scrittori, non poteva passare senza indurre nell’animo di lui la persuasione che ornai non era più da lasciare non soddisfatto questo qualunque fosse desiderio; non accorgendosi per avventura che egli era uno sdrucciolare maggiormente nella via di que’ mutamenti che dovevano tirare il papato a scoprirsi colla civile libertà inconciliabile.

In Toscana accadeva quasi il contrario che in Roma: perciocché quivi le istituzioni bene o male venivano decretate, ma nella esecuzione erano sì rintuzzate che poco o nessun frutto producevano: là dove in Toscana fuori della milizia civile (che non avrebbe dovuto essere fra le primissime innovazioni) tutte l’altre cose, sustanziali negli ordini del governo, o erano solamente designate, come la riordinazione de’ municipi, o imperfettissime, come la consulta di stato, fatta meglio per impacciare chi governava, che alcun vantaggio al publico partorire. E non di meno in Toscana trovavano minori ostacoli i desiderii di novità. I quali seguitavano a manifestarsi non solo ne’ discorsi de’ giornali, ogni dì più liberi, ma ancora in un certo fervore per la guardia civica: all’ordinamento della quale fatte le liste, non fu per avventura né lento né scarso il numero di coloro che andarono a scriversi: e in alcuni luoghi v’ebbono richiami di chi non alla guardia attiva ma bensì alla riserbata era destinato. Maggior lentezza e scarsità mostrarono gli uomini delle campagne: del che oltre a quella naturale avversione che i campagnuoli toscani hanno per le armi, accagionavansi i nobili e i preti, e si mormorava che non potendo più essi apertamente la istituzione contrariare, sì ’l facevano copertamente col dissuadere i contadini a prendervi parte. Ma nelle città era zelo di cittadini procaccianti che anzi il maggiore effetto sortisse; facendosi diverse e speciali comitive per agevolarne l’armamento: senza dire che indugiando quelli del governo a provvedere alla istruzione de’ nuovi militi, essi medesimi s’univano, e scegliendo un ammaestratore dalla milizia stanziale, or ne’ chiostri de’ monisteri, or ne’ cortili de’ palazzi e or ne’ giardini andavano in diverse consorterie ad imparare l’uso delle armi. Nel tempo medesimo largizioni notabili si facevano da ogni ordine di persone, e non meno da’ corpi morali che da’ particolari. Se prima le musicali accademie e rappresentanze ne’ teatri si facevano per vantaggio degli asili d’infanzia, da indi in poi apro della guardia civica si fecero. Le gentili donne vollero anch’esse meritare, non solo offerendo ma ancora le offerte raccogliendo. La granduchessa regnante di ricamarne colle sue mani le insegne desiderò: e può dirsi che altra differenza non fosse che nelle intenzioni: dando alcuni per amore, altri per paura, altri per vergogna, altri per vanità, altri per far quello che è in voga. Colle profferte si congiungevano le esortazioni, e ogni giorno si compilavano e stampavano libretti, dove discutevasi della miglior qualità delle armi, della più bella e comoda assisa, del modo più sollecito d’apparare i militari esercizi, e dell’opera più efficace per la esterna difensione.

Non dirò che fosse tutto quell’ardore che da’ giornali allora si diceva per metter legna al fuoco: tuttavia disposizioni non ordinarie alle armi si manifestarono; le quali, ripeterò ancora, se fossero state meglio da chi doveva e poteva secondate, non sarebbe si mai procacciato di fare della Toscana un paese armigero, come alcuni pazzamente pretendevano; e forse né pure si sarebbe formato un esercito da sostenere così la guerra italiana che in favor nostro si risolvesse, ma un primo e non infruttifero seme di buona e valevole milizia si poteva gittare; il quale se altro frutto non avesse partorito che di togliere ragioni a querele e ad accuse, non sarebbe stato di piccolo vantaggio, e forse sarebbesi il principale appicco delle future discordie e precipizi remosso.

Ma nel tempo che ogni dì venivano fuori ordinanze, regolamenti e ingiunzioni per la guardia civica, non si era potuto ancora ottenere la formale spartizione delle compagnie. Né dava piccolo segno che i rettori non avessero tolto in sul serio la detta istituzione, la scelta da essi fatta de’ principali graduati, come colonnelli, maggiori e capitani; la più parte de’ quali o movevano riso per la nessuna disposizione corporale alle cose militari, o facevano dubitare, tutt’altro che amore per le nuove cose nutrissero. Mormoravasi per tanto ne’ giornali, e di soverchia lentezza e indifferenza erano i ministri di continuo proverbiati; se non che la inerzia poteva più che gli sproni. Ultimamente, a forza di punzecchiare e garrire furono in loco publico ragunati i novelli militi per essere in battaglioni e compagnie ordinati. E abbattendosi in quello stesso dì la festa del nome del principe, il ministro Ridolfi,dopo avergli arringati e di grandi lodi e speranze pasciuti, invitavali a prendere in custodia il regal palazzo di residenza, come il maggior pegno della sovrana fiducia. Ancora lo annuale riaprirsi de' tribunali fu da splendide orazioni accompagnato, come se già un’età migliore e tutta civile cominciasse. Finalmente fece rallegrare e altresì commovere il popolo il vedere la sera del dì 13 novembre le toscane milizie andare al confine di Pietrasanta a sostenere (dicevasi) la dignità della patria contro alle modanesisoperchierie; non altro più parendo a quelle mancare, che l’assisa di color tedesco spogliare: né indugiò il decreto del principe che altri colori e altra forma negli abiti della soldatesca ordinava. In somma al gioire e festeggiare or per una causa, or per un’altra non mancava che l’avere un limite; cominciandosifin d’allora a dubitare, che tanto fervore per la causa della libertà italiana, in tripudii e allegrie e sventolamenti di bandiere non isfumasse, quando supremo e incalzante bisogno era l’armarsi e fortificarsi.

Ma co’ gaudii non cessavano di mescolarsi rammarichìi e perturbamenti. In Pisa al palazzo dell’arciduca d’Este da gente abbottonata furono scagliate pietre e rotti vetri; attribuendosi tale atto di barbarie a insidiosa opera di chi cercava pretesti da infamare que’ primi movimenti, quasi occasioni a’ delitti. In Livorno alcuni bagaglioni, traendo per le vie, insultavano ora a questo e ora a quello, ed essendo accorso un caporale con alcuni militi, gli fu dato del pugnale nel collo che lo stramazzò, e fu segnale perché in tutta la città si levasse rumore e corresse a oltraggiare e. manomettere il regio commissario; né la popolar furia passò, sì questi, insieme coll’auditor regio, fu partito. E parve al gonfaloniere da impetrare dal principe un governamento straordinario per Livorno, quasi l’ordinario (che pur sotto principato assoluto è sempre straordinario) non bastasse. Fu pure seme di scandolo un gareggiamento inaspettato fra Pisa e Lucca in tempo che ogni maggiore concordia si diceva fra le nostre città ritornata. Querelavasi la prima per avere una corte di appello; non rimaneva quieta la seconda, che aspettando di giorno in giorno il dono della corte regia, qual compenso della perduta sovranità, temeva che la giurisdizione non le fosse ristretta. Così le leggi da fare osservar non facevano le antiche, e il bene futuro accresceva il male presente: da che il popolo che ascoltava quella continua paedicazione di libertà, senza guardare che ancora istituzioni libere non v’erano, credevasi come in potestà di fare a modo suo: per lo che speranze vane di felicità imaginate producevano giusti timori di calamità vere; mormorando ognuno che tanto s’indugiasse a provvedere: né ancora si riordinassero i municipi e desse miglior forma al buongoverno. Da più mesi era stato decretato che i gonfalonieri e i provveditori delle comunità dovessero insieme consultare intorno al municipale riordinamento; ma la consulta, per non avere quelli la materia studiata, non si fece; onde bisognò al principe mandare altro ordine; aggiungendo a’ gonfalonieri e a’ provveditori alcuni cittadini non dependenti dal governo, fra’ quali il marchese Carlo Torrigiani, il commendatore Lelio Franceschi, e gli avvocati Vincenzio Salvagnoli, Leopoldo Galeotti, e Giuliano Ricci. Rinverdirono le speranze, che finalmente si potesse ottenere una pronta legge municipale: la quale né pure questa volta si fece, non ignorandosi che principale cagione ne fosse il non essersi i sopraddetti consultori trovati d’accordo, avendo alcuni un proponimento e altri un altro, e chi di allargare e chi di stringere, secondo glì’ingegni e gl’interessi, opinando. Tanto più urgente ancora stimavasi la legge di buongoverno quanto che la quiete interna era sì spesso perturbata. Si diceva essere stata già compilata e mandata a rivedere alla consulta di stato: la quale non che provvedere essa, cagionava continuo indugio ai provvedimenti de’ ministri. ne' diari poi si facevano lamenti che una legge di sicurtà publica com’era quella, si compilasse nel segreto: onde fra per questi clamori e per la inerzia dei magistrati, nulla venne in luce.

E non solo era mestieri di provvedimenti di quiete interna, ma per la sicurezza esterna faceva d’uopo d’un maggiore e migliore ordinamento militare. L’essere stato nominato ministro per le cose della guerra un uomo da ciò, quale reputavasi il conte Luigi Serristori, aveva fatto alcun bene della toscana milizia sperare. Ricevasi esso conte fermo, risoluto, travagliativo. Ma contro ogni espettazione, entrato nel ministero e divenuto mutolo e inoperoso, fu tutt’uno; facendo maraviglioso contrapposto col ministro delle cose interne, il quale né voce, né opera, né comparse risparmiava. Laonde non che formarsi soldatesche nuove, non si pensava a mettere ordine e disciplina nelle vecchie, tanto più di ordine e di disciplina bisognose quanto che infino allora non avevano provato che ozio e i vizi dell’ozio. Tutto si restrinse a ordinare un accrescimento di novecento uomini; a mandare un invito per la formazione di altre quattro compagnie; a commettere al piemontese Giacinto Collegno di visitare, i luoghi di Toscana meglio atti a militari fortificazioni, ed alcune altre mostre di provvedimenti, che nulla o quasi nulla avendo approdato, non è degno che sieno in queste istorie rammentate. Se non che l’anno dipoi, nell’assemblea de’ deputati, il medesimo Serristori dichiarò con grave e ripetuto accento, come chi aveva bisogno di levarsi una gran macchia di dosso, che fra’ colleghi e nella consulta di stato aveva incontrato impedimenti a fare secondo che stimava per non trovarci sprovveduti al sopraggiungere della guerra, da lui fin da quel tempo previsa. Ma il popolo, che allora non sapeva la cagione, e ne’ giudizi va sempre al peggiore, attribuiva quella sua inflessibile e inerte taciturnità, ora a maninconia naturale, ora a stranezza d’ingegno, e finalmente a gelosia di vedere il collega Ridolfì in ogni cosa primeggiare e risplendere. In tanto gli scriventi ne’ giornali s’arrabattavano a gridare essere mestieri provvedere all’esercito e fortificarsi: da un momento all’altro poter la guerra scoppiare: già un lampo essere apparso nella ferrarese controversia: altre faville sorgere qua e là: senza dire, non potersi alla stipulata lega doganale degnamente e utilmente partecipare, con nessuno o scarso esercito: non essere da confidare in alcuna potenza di fuori, che appoggio non darebbe che a quello stato si mostrasse armato; essere i deboli popoli abbandonati da ognuno, quasi bestiame da padroneggiare. Le quali cose erano vere: e bisognava che o chi governava facesse più, o provvedesse che ne’ giornali si declamasse meno: affinché non fossero suscitate e aguzzate voglie che poi rimanevano non soddisfatte; e mentre da una parte si adoperava a far cadere i vecchi ordini, dall’altra non egual opera si faceva a far sorgere i nuovi: onde la nave dello stato perigliava ondeggiando, senza potersi ben dire dove ella andasse a riuscire. Certo il dispregio alle leggi era grande; accumulandosi materia a quella che più tardi chiamossi anarchia da que’ medesimi che l’avevano ammarinata.

Cominciarono le elezioni degli ufiziali e sottoufiziali della guardia civica. Non erano mancati per parte de' reggitori esortamenti, che forse sarebbero stati profittevoli, se colle parole si fossero buoni provvedimenti congiunti. Procedevano lentamente e radamente: ne’ primi giorni mancò il numero degli elettori dalla legge richiesto: di che varie possono essere state le cagioni: il niun uso di comizi publici: il tornare in alcuni luoghi le non mai del tutto forbite ruggini fra nobili e plebei; l'allungarsi il definitivo ordinamento: il modo incomodo e intralciato di eleggere, e in fine un resto dell’antica svogliatezza alle cose publiche. Fu pure in questo mezzo terminata la controversia fra il granduca di Toscana e il duca di Modena per la occupazione di Fivizzano, essendovisi intramessi il papa e il re di Sardegna: i quali di salvare le apparenze si appagarono; e chiarissi che se bene il duca entrando bruscamente e senza anticipato accordo nei novelli possessi, mancò di riguardo alla corte di Toscana, mostrò non di meno che in questi casi giova sopra tutto lo incominciare dallo impadronirsi. Restando ancora pendenti le pratiche per Pontremoli e Bagnone, si convenne che dovessino alcune terre rimanere temporalmente alla Toscana, senza alcuno aggravio ricevere.

Due morti notevoli avvennero a quei dì. Morì il gonfaloniere Vincenzo Peruzzi, cui successe il barone Bettino Ricasoli, come quello che fra’ gentiluomini fiorentini distinguevasi per zelo cittadinesco richiesto da’ tempi. Passò pure di questa vita il celebre statuario Luigi Pampaloni: e l’occupare allora le cose politiche ogni pensiero e ogni affetto, fece che con manco lagrime e onori fosse al sepolcro accompagnato.


vai su


LIBRO QUINTO

SOMMARIO

Natura della diplomazia moderna, e intendimenti diversi delle corti sulle cose d’Italia. — Apparenze di concordia italiana. — Stato della Lombardia dai tempi di Giuseppe II fino al cominciare del 1846. — Primi commovimenti per le riforme fatte in Roma, in Toscana e in Piemonte. — Rigori del governo austriaco. — Provvedimenti di resistenza a’ desiderii di novità. — Discorso del deputato Nazzari alla congregazione centrale di Milano. — Effetti notabilissimi di questo discorso. — Altro discorso alla congregazione centrale di Venezia diretto dall’avvocato Manin. — Domande che i lombardi veneti facevano allora all’imperadore. — Lutti de’ primi giorni dell’anno 1848, e lor conseguenze. — Continuanza di rigori in Parma e in Piacenza. — Morte della duchessa. — Provvedimenti fatti. —Breve istoria del ducato di Modena dal 1789 fino all’anno quaransei. — Persecuzioni e fatti atroci per causa de’ festeggiamenti a Pio IX e alle riforme toscane e piemontesi. — Lega fra l’imperador d’Austria e i duchi di Parma e di Modena. — Ingresso di Carlo Lodovico a Parma e sue deliberazioni. — Principio de’ commovimenti napoletani. — Cagione del troppo rapido passare da semplici riforme di governo alle costituzioni con rappresentanza. — Condizione del regno delle due Sicilie. — Storia de’ fatti precedenti le cose del 1847. — Imagine del popolo, dell’esercito e del governo di Napoli. — Rigori al cominciamento delle agitazioni degli altri stati d’Italia per le riforme. — Decreti di diminuzioni di gabelle. — Memoria del marchese Basilio Puoti e del barone Pasquale Galluppi. — Stampa segreta nel regno delle due Sicilie d’indole diversa da quella degli altri paesi d’Italia. — Sommossa di Calabria e di Messina nel settembre del 47. — Consigli militari e condanne. — Atti crudelissimi del general Vial in Palermo. — Incarceramenti in Napoli. — Voci varie e sinistre. — Morte del conte di Bresson ambasciadore di Francia. — Consulta: de’ ministri. — Pareri diversi. — Divisione del ministero delle cose interne in tre parti. — Deposizione del ministro Sant’Angelo. Nuovi ministri Parisio, Spinelli e D’Urso. — Prolungamento dell partito di resistenza. —Supposta disparità di consigli in corte e nella diplomazia. — Opinione del re.

Meglio che in ogni altra parte d’Italia, o almeno più gagliardemente procedevano le cose in Piemonte sul finire del 1847: ché se bene gli avversari alle riforme non si stessero dallo attraversare la vittoria a’ rinnovatori, pure la potenza di soverchiare non avevano più, e più tosto di celato, e per le tortuose vie diplomatiche si mostravano. Era voce che gli ambasciadori delle corti d’Austria, di Napoli e di Francia avessero contro le esultazioni de’ popoli piemontesi protestato, e il re crucciato rispondesse: Italia farà da sé. Il qual motto, forse superbo, certamente generoso, ripetuto senza fine, più amare derisioni attirò sul capo d’Italia quando fu veduta alla propria opera mancare. E poi che dalla diplomazia dobbiamo i maggiori danni riconoscere, non fia inutile investigarne un poco la origine. Diplomazia vera e propria, come ne’ tempi moderni, ignorarono gli antichi: non che appo quelli mancassero legami e intelligenze fra stato e stato, ma erano ambascerie e legazioni temporarie e determinate, e maggiormente colle armi adoperate in aperta guerra, che con arti segrete vendicavano le ragioni, e risolvevano le differenze. Ma dopo il quinto Carlo, di memoria infaustissima, fatte più assolute le monarchie, e volgendo ad oligarchie le republiche, andarono componendosi questi sterminati reami, e poche privilegiate stirpi ebbono, quasi d’una gran preda, la possessione dell’Europa; onde pensarono non solo a trovar modo in tanta ampiezza di sovranità fra loro bilanciarsi, ma eziandio i piccoli dominii signoreggiare e anco, dove fosse venuto ’l destro, ingoiare. Di questa novella politica è da riconoscere principale e solenne maestro il cardinale di Richelieu; al cui ingegno, non so se più scaltro o ambizioso, dee la Francia il fondamento di sua maggior potenza, e l’Europa il seme d’interminabili calamità. Così a poco a poco ogni corte ebbe in ogni stato un proprio magistrato, che spiasse, sindacasse, tal ora ammonisse, sempre informasse, e in fine una autorità arcana esercitasse: la quale meglio ancora delle palesi, alla conservazione e al prosperamento delle monarchie servisse; e in breve acquistò tanta importanza publica, che la diplomazia fu ridotta a una scienza, ad apparar la quale valse più ingegno destro e voltabile, che forte e diritto; né a ben praticarla altri uomini riuscirono che i fatti ad accomodare la coscienza propria alla ventura dei tempi.

Era per tanto naturale che di mano in mano le cose d’1talia ingrossavano, e di convertirsi in guerra di libertà contro alla dominazione austriaca minacciavano, maggiormente alterata e pronta a rintuzzare la diplomazia si mostrasse: di sorte che guardando alle corti d’Europa in sul fine del quaransette, potevamo dire di averle tutte avverse. Se non che la loro contrarietà seguitavano non tutte negli stessi termini a manifestare. Gl’intendimenti della corte d’Austria, governata dal principe di Metternich, erano aperti, espliciti e consentanei alle sue massime; e dove un qualche ragionevol pretesto avesse avuto; o forse ritenuta non l’avessero i richiami della Regina d’Inghilterra, siamo certi che non avrebbe fatto varcare il sopraddetto anno senza intervenire negli stati di Roma e di Toscana a. fin di spegnere un fuoco ogni dì più di appiccarsi a’ suoi domimi minacciante. Di che ci fa assai chiara testimonianza la lettera che il principe di Mettermeli per mezzo del conte di Ficquelmont, cui erano state speciali e straordinarie commissioni per l’Italia conferite, scriveva al maresciallo Radetzkv. Deplorando il vecchio ministro gli avvenimenti italici, conchiudeva: «Noi due abbiamo attraversati tempi difficili: abbiamo nel maggiore accordo operato grandi cose, e siamo dalla provvidenza destinati a non godere in pace gli ultimi nostri giorni. Se ne’ passati tempi abbisognarono grandi sforzi, furono tuttavia men cattivi de’ presenti: ché noi sappiamo bene coi corpi lottare, ma contro larve e fantasime non ci è agevole; e pure contro queste dobbiamo adesso di continuo guerreggiare, essendoci incontrato che al mondo venisse un papa liberale.»Ma quello che il ministro aulico non poteva fare colle armi, faceva con quelle che in diplomazia si chiamano note, affinché Italia non altro seguitasse ad essere considerata che una significazione geografica, come esso medesimo per beffa la chiamava. E ben si può imaginare quanto allora di simili oltraggi, che per la commozione degli spiriti più ci pungevano, si facesse risentimento ne’ giornali e ne’ cerchi, da mostrare che ogni ora ci tardava di vendicarli col sangue. E conforme agl’intendimenti della corte d’Austria erano quelli della corte di Prussia che sentiva in casa propria (e prima ancora si fosse risvegliato in Italia) ogni dì più il desiderio di libere istituzioni farsi vivo: alle quali Guglielmo IV, per amore di assoluta podestà e per rispetto di antiche colleganze e parentele, niente inclinava. Colle corti d’Austria e di Prussia congiungevasi finalmente lo imperadore di Russia, non tanto per sincera amicizia con quelle due potenze; le quali avrebbe volentieri abbassate perché effetto col tempo avessero gli estremi e smisurati ricordi di Pietro. il grande, non bassamente cupido di padroneggiare a un tempo Europa ed Asia: quanto per conservar salda la lega, che come aveva rimessi in trono i vecchi principi nel 1815, e sorrettili nei successivi moti del venti e del trentuno, non doveva mancare allo stesso ufficio nel 1847, tanto più che la libertà sotto onesti e legittimi nomi pareva dovesse risorgere. E quelle lettere, già publicate fra il ministero viennese, russo e inglese, ci rivelano come la corte di Niccolò, forse più d’ogni altra d’Europa preveggente, non dubitando che quei primi nostri desiderii non accennassero a vicino cambiamento di forma nei principati italiani, e giudicando altresì questo cambiamento un principio di rivoluzione, da risolversi in una guerra di nazione, proponevasi fin d’allora a non restare, quando il bisogno lo richiedeva, di mandare i suoi eserciti in soccorso dell’imperator d’Austria, e della monarchia assoluta pericolante. La Francia, questa superba e fraudolenta promettitrice ad altri d’una libertà, che non ha mai saputo a sé stessa acquistare, condotta allora a servire alle tre potenze sopraddette, e d’altra parte volendo apparire di non parteggiare per esse, meno scopertamente, ma non meno contrariamente, operava verso di noi, quasi che l’operare scopertamente avesse dovuto essere serbato alla Francia republicana. Affatto coperto poi era l’operare dell’Inghilterra; la quale non curando la libertà che in casa propria, né volendo altro bene che il bene proprio, seguitava a. mostrarsi amica delle franchigie italiane, sapendo che a impedirci di salire all’altezza di libera nazione, Austria e Francia avrebbero fatto quello che a lei tornava odioso di fare; e alcuni in Italia, o perché sei credessero, o perché sperassero di movere la corte inglese piaggiandola, dirizzavano verso lei le speranze, quasi all’unica potenza disposta a sostenerci. Era quello il tempo de’ felici allucinamenti; fra’ quali non so, se fosse maggiore lo imprometterci libertà dal papa, o il credere la Gran Brettagna inclinata a veder l’Italia una grande nazione divenire.

Ma più stupore deve fare che la corte di Vienna e quella altresì di Pietroburgo reputassero i ministri inglesi disposti a secondare il risorgimento de’ popoli italiani. Onde la prima per la voce del principe di Mettermeli, scriveva loro: Trovarsi la mezzana Italia in preda a un commovimento di rivoluzione, capitanato da’ principali delle sette civili: i quali usando il nome del pontefice, che per soverchia bonarietà ha fatto a’ suoi popoli alquante largizioni, mirano ad un’impresa da non potersi altrimenti compire, che tutta o la maggior parte d’Italia congiungendo in una republica confederata a similitudine dell’America o della Svizzera; non aspirare l’imperadore a divenire potenza italiana, bastandogli esser capo dell’impero: ma poiché alcune parti di esso oltr’alpe si distendono, volerle ad ogni costo conservare.

Lord Palmerston a nome della regina faceva bilanciata risposta. Riconoscere pienamente le ragioni della casa d’Austria di possedere in Italia: né parergli essere gli avvenimenti rivolti a spossessarla. Nel tempo medesimo non potersi negare pieno diritto ai vari principi italiani di riformare utilmente i loro stati, anzi essere desiderabile che l’autorità, giustamente dallo imperadore esercitata nella Penisola sia nel confortarli a sì lodevole opera impiegata. Ignorare d’altra parte che si macchini rovesciamento di troni e stabilimento di confederazione republicana: più tosto sapere, che in alcuni stati, e particolarmente ne’ romani e ne’ siciliani, faccia mestieri di riforma, senza cui mali grandissimi sovrasterebbero: avere il papa cominciato; madre di Napoli ancora ripugnare; e dovere la corte di Austria usar con quello la sua amicizia, perché non faccia che la mala contentezza de’ popoli giunta al colmo non trabocchi.

Ma la corte di Russia mediante il conte di Nesselrode più apertamente scriveva a lord Palmerston. Maravigliarsi che i rettori inglesi non s’avveggano dell’errore d’indebolire la casa d’Austria, sua naturale amica e vecchia alleata, e fortificare la Francia, sua rivale antica e naturale nemica. La quale in breve si troverebbe da tutte parti circondata di stati liberi e conformati al suo; e se prima o poi quella voltabile nazione rimutasse stato, e le idee democratiche vi trionfassero, non sarebbe più possibile tenerla in briglia e impedire che non dominasse. Seguitava lord Palmerston a rispondere: Che non intendeva né punto né poco di promovere lo affrancamento della italiana penisola, ma sì bene desiderava che ogni principe italiano non dovesse essere da altri impacciato a fare in casa sua quel che avesse reputato meglio: né la regina d’Inghilterra avrebbe comportato che l’imperador d’Austria facesse violenza al pontefice e al re di Sardegna: i due nomi che allora maggiormente campeggiavano. Laonde, volendo quasi a un punto solo raccogliere, come le dette cinque maggiori potenze nelle cose d’Italia si governassero, è da dire, che avendo il sopracciò le corti d’Austria e di Russia da una parte, e quella d’Inghilterra da un’altra, differenza fra le prime e la seconda era più ne’ mezzi che ne’ fini. Quelle stimavano che il principiare a concedere avrebbe condotto a rivolgimenti e guerre questa per contrario avvisava, che le concessioni fatte a tempo e spontanee avrebbono anzi ovviato. La Prussia teneva colle prime: la Francia teneva in apparenza colla seconda, ma in effetto stava più colle prime. Né gli avvenimenti hanno forse giovato a chiarirci del tutto da qual delle due opinioni fosse la ragione; essendosi seguitato a dire da una parte, che dove il primo concedere fosse stato spontaneo e sollecito, non sarebbe quel sovvertimento di tutti i regni avvenuto: e dall’altra, se in sul principio si teneva il fermo e adoperava la forza, non sarebbesi l’ordine antico degli stati sgominato.

Ma a rintuzzare allora la guerra aperta e simulata della diplomazia, assai valeva mostrare che la impresa di riformare i governi italiani era capitanata da un papa, secondata da due principi. Né gli scrittori nostri, alle accuse fatteci ne’ diari francesi o austriaci, quasi fossimo licenziati ad ogni sfrenatezza, mancavano di rispondere con esempi di non più veduta concordia fra principi e popoli. E come fia giusto confessare che colla moderazione giungemmo allora a vincere nemici interni ed esterni, non è men giusto riferirne il merito a’ seguaci delle massime del Gioberti e del Balbo. A’ quali realmente era successo di creare un accordo nelle opinioni, che, vero fosse o apparente, tuttavia giovava: vedendosi gli amanti stessi de’ vecchi ordini desiderare i nuovi, chi per pudore e chi per cortigianeria a’ principi che si riformavano. Né a rorùpere detta insperata unione sursero allora i democratici, forse per non reputare le cose siffattamente maturate da poter essi entrare in campo, e il frutto dell’altrui opera carpire. In somma parca fosse una volontà sola: che altresì parea miracolo in questa terra di eterne divisioni; notandosi che non si era mai veduto in Italia volere un popolo quello che l’altro aveva ottenuto, e col continuo protestare osservanza alle leggi e amore a’ principi, mutar quelle e abbassar questi. E in vero noi italiani, che non abbiamo né forze né arte per le rivoluzioni gagliarde, e come dicono radicali, non potevamo andare che per questa via: lunga sì e da non menare a grande libertà; ma più sicura, manco pericolosa, e tale da farci uscire della servitù in che eravamo, e disporci a maggiori cose.

Tre stati italici, il Tornano, toscano e piemontese, prima che spirasse il MDCCCXLVII si erano rinnovellati. Altri quattro, il lombardo-veneto, il parmense, il modenese e il napoletano, persistevano ne’ vecchi ordini. Già per lo detto fin qui sanno i lettori quali propositi avesse ornai la corte imperiale, e come a’ primi indizii delle novità romane e toscane si turbasse, e ogni mezzo per contrariarle adoperasse. Qui più particolarmente cade notare quel che facesse ne’ paesi da lei governati. Il che richiede che un poco le passate istorie del regno lombardo-veneto riandiamo per meglio intendere le presenti. Noto è per altri scrittori in qual modo Lombardia in podestà della casa d’Austria venisse: né è manco noto come questa parte d’Italia fosse stata sopra ogni altra retta civilmente da quel modello di buoni e savi principi, che fu Giuseppe II: conciossiaché giammai i liberali studi, le scienze naturali, le industrie cittadine, le prosperità campestri, i caritatevoli ospizi, e tutte le leggi di civile eguaglianza non ebbero maggiore e migliore proteggitore di lui; quanto severo colla nobiltà e col clero, altrettanto amico e provvido co" popoli; nella memoria de’ quali suonerà sempre benedetto il suo nome e laudata la sua opera; avendo egli nella oscurità de’ suoi tempi effettuato in Lombardia quel che più d’un secolo dopo parve colla libertà difficile e pericoloso operare in altri paesi. Sopraggiunto il turbine della rivoluzione di Francia, vedemmo ogni cosa scompigliarsi: da che que’ falsi republicani, condotti dal superbissimo Bonaparte, non che acquistare all’Italia la libertà che audacemente le impromettevano, la spogliarono violentemente di quella che pur le restava, dagli stessi monarchi rispettata. Così Venezia, dove un’ombra dell’antica republica ancora grandeggiava, assaltata in nome della republica francese, e in nome pure di quella messa a sacco e a sangue, quasi cadavere da seppellire fu data all’imperadore, in compenso del perduto possesso di Lombardia. Fatta la restorazione delle antiche monarchie nel 1814, il congresso viennese, mirando sempre a ingrandire in Italia la sua potenza, gli compose delle venete e lombarde provincie un reame: aggiungendosi così a’ possedimenti vecchi i novelli, acciocché un buon quinto della penisola avesse. I tempi cangiati e cangiati in peggio, o più tosto gli uomini superbi e dallo inaspettato mutamento accecati, volevano il terrore, e da per tutto gli ordinamenti civili cospirarono a mantenerlo: e quei vecchi che si ricordavano ancora degli ultimi tempi del regno di Giuseppe e di Leopoldo, paragonandoli con quello di Francesco, dovevano deplorare quanto fosse diversa la sorte publica: che se bene il nuovo imperadore, dopo aver dichiarato il lombardo-veneto incorporato per sempre coll’impero, gli avesse altresì dato un viceré; spartita in due governi, de’ quali fosse confine il Mincio, l'amministrazione; istituito due congregazioni centrali, una in Milano, l’altra in Venezia, e una provinciale per ogni capo di luogo, con balia di rappresentare al principe i desiderii e i bisogni de’ popoli, e propórre quanto paresse tornar loro vantaggioso; se bene avesse decretato che la censura per gli scritti non fosse impedimento alla stampa di opere che prendessero ad esaminare la particolare e generale amministrazione dello stato, scoprissero mancamenti o errori degli amministratori, proponessero miglioramenti, delle passate cose pronunziassero giudizio, ancorché non conforme a quello dei rettori; e in oltre avesse notificato di voler buoni giornali publici, da non far nascere il desiderio de’ forestieri; e a queste istituzioni e leggi avesse aggiunto generose promesse di aver rispetto alla lingua, a’ costumi, alle tradizioni de’ novelli domini; non di meno la più parte di queste cose non ebbero esecuzione. Cominciato dall’allontanare da’ magistrati e uffici publici gli uomini che avessero avuto alcuna parte o inclinazione alle cose del caduto reggimento italico, furono in iscambio riempiti o di Austriaci, o d’Italiani, che assai meno degli Austriaci si erano del nome italiano mostrati degni. In breve la potenza militare soverchiò ogni altra e le città strinse per modo che parevano assediate. I quali rigori producevano le macchinazioni, e le macchinazioni (divenendo cause gli effetti) rendevano più aspro il governo. E quantunque negli anni venti e ventuno non avvenisse nelle città lombarde sollevazione, tuttavia pratiche e intelligenze e convegne co’ motori del prossimo Piemonte non mancarono; onde crebbono ancor più i sospetti, raddoppiarono le vigilanze, di nomini chiari si empirono le prigioni e i confini,l'estremo della ferocia videro le città, non so se più atterrite o indignate. Fra’ primi incarcerati per sospetto furono Melchiorre Gioia e Giandomenico Romagnosi: ma più crudele destino nelle tane dello Spielberg incontrò al Gonfalonieri, al Pellico, all’Oroboni, al Maroncelli, al Pallavicino, al Borsieri, al Villa, al Moretti, al Solerà, al Castiglia, e ad altri più, addetti alla cosi chiamata confederazione italiana: congregazione capitanata dal Confalonieri; per la cui opera principalmente doveasi fare in Lombardia movimento, giovandosi delle mutazioni compite nel regno napoletano e cominciate nel Piemonte, e nell’uno e nell'altro luogo troppo rattamente fallite. Né di tante miserie atrocissime accade di fare maggiore ricordazione in queste istorie, destinate a descrivere particolarmente più freschi avvenimenti. Solo vogliam notare che a rendere maggiormente grave il dominio austriaco in sul cominciare del 1846, sera aggiunto che per riparare al conquassato erario imperiale, aveva la camera aulica con nuovi e odiosi aggravi molestate le provincie italiane; e specialmente faceva mormorare che il debito publico del regno lombardo-veneto fosse stato augumentato, e di tratto in tratto nuove polizze del così detto Monte Napoleone si publicassero per essere in vantaggio della tesoreria viennese trafficate. Né si taceva, vero o no, che i ministri cesarei sarebbono anco iti più innanzi, fino a por le mani ne’ luoghi pii, sotto colore di tutelarli, se le congregazioni provinciali chiamate a dire lor parere, noni’avessero manifestato contrario. IL che prova che affatto inutili quelle non erano. Ma nulla aveva tanto aspreggiato gli animi, e fatto luogo a querele, quanto la legge detta del bollo proporzionale, non meno scura che ingiusta.

Non è per tanto da maravigliare,se le genti lombardo-venete vivendo in tali costringimenti, a quei gridi e allegrezze che ne’ vicini stati di continuo ascoltavano, non restassero quiete o indifferenti. E giù una prima testimonianza ne diede la città di Milano nel dicembre del 1846 co’ funerali a Federigo Gonfalonieri, celebrati il dì 28 nella chiesa di san Fedele, dopo tant’anni vedutasi riempire di cittadini. Chè non pure i parenti e amici del defunto assisterono alla funebre festa, ma quanti facevano professione di libertà; per la quale il Gonfalonieri aveva sostenuto sì lungo e crudele martirio: e allora moriva nell’esilio, non sappiamo se più sfortunato di non condursi a rivedere la diletta patria, o più felice di essersi risparmiato lo spettacolo di novelle sciagure. Quelle esequie turbarono i capi del governo, che divenuti più sospettosi, divennero altresì più vigilanti: e avendo presentito che dalla società de’ nobili e de’ cittadini si voleva innalzare un monumento al Confalonieri, furono chiamati i promotori e minacciati di gastigo dov’ei non desistessero. Indi si raddoppiarono i rigori per i libri e scritti che s’introducevano da altre parti d’Italia. E tuttavia non giovava; perché le notizie non v’entrassero, e da per tutto delle italiane cose non si favellasse; e dove prima gli ufficiali austriaci erano accolti nelle case milanesi, e qualche volta festeggiati, cominciarono a non essere più ricevuti. Si notò che nessuna delle famiglie intervenute al mortorio del Confalonieri ebbe più invito a corte, e altre che invitate furono, non andarono. Perturbazioni in oltre avvenivano altrove: e nello stesso modo che nelle Romagne e in Toscana si spargevano falsi rumori di carestia: se ancora in Lombardia da prezzolati pervertitori di popolo non possiamo accertare: ma certamente ne’ mercati di Varese, di Sestocalende e di Laverno si tumultuò, e dalla sfrenata plebaglia si misero a ruba i magazzini: né mancava d’ingombrare le agitate fantasie pauroso pensiero che ciò fosse adescamento per inimicarla co’ gentiluomini e co’ possessori. Nel medesimo tempo bastava che in alcun teatro o in alcuna via si pronunziasse il nome di Pio IX, perché la soldatesca si mettesse in sulle minaccio di soffocare quelle voci quasi di sedizione. E tuttavia le voci si rinnovavano con maraviglioso coraggio dove tante armi e brame di adoperarle erano adunate.

Essendo morto l’arcivescovo di Milano Gaysruk, non malvoluto per essere stimato poco amico a’ gesuiti; ed essendo in loco suo eletto un italiano, monsignor Romilli, presero i Milanesi quella occasione a festeggiare nel rappresentante spirituale del pontefice il nome di Pio IX, e nel nome di Pio IX le speranze della liberazione d’Italia. Fu ricevuto con gran solennità: il municipio ordinava luminarie e feste, né il viceré ostava. Ma rinnovatisi gli stessi adunamenti di popolo e gli stessi gridi di viva Pio IX e di viva Italia, pure col pretesto di onorare il Romilli, il conte Bolza, terrore de’ Milanesi per venticinque anni, uscito fuori colle sue guardie, assaltò improvvisamente la folla, isgominolla e dove trovò resistenza, dove no: e fu mestieri che lo stesso arcivescovo, in onor del quale si faceva la festa, apparisse di notte sulla porta dei palazzo, a predicare obbedienza e quiete, perché il trambusto cessasse. Ed essendosi il conte Gabriele Gasati presidente della congregazione municipale querelato dell’abuso della forza armata, fu insieme cogli assessori di municipio Crivelli e Greppi ammonito. Ancora Venezia, in fino allora tenuta la città del regno men gagliarda e disposta a’ movimenti, pur ne aveva dato segni in que’ giorni che gli scienziati italiani vi celebravano il loro nono ed ultimo congresso; e non ostante le vigilanze e proibizioni si fecero conviti, adunanze, discorsi, mal celati auguri di libertà: onde alcuni furono incarcerati, altri minacciati, qualcuno sbandito: la letizia del congresso turbata.

Ma ancor più crebbe la commozione nella Lombardia e nella Venezia dopo che il Piemonte anch’esso fu tratto a riformarsi; conciossiaché maggiormente il pensiero che Carlo Alberto potesse liberarle dal dominio straniero si divulgasse. Egli ènotevole come in questo desiderio, assai più del popolo s’accendessero la nobiltà é la cittadinanza. Non fa maraviglia della cittadinanza, la quale in ogni luogo suol contenere la parte più inclinata a libertà. Ma là corte d’Austria più curante di gratificarsi alle moltitudini, e particolarmente alle campagnuole, nulla o poco aveva fatto da rendersi devoto e amico il patriziato; e né pure il clero gli era affezionatissimo, dacché negli stati austriaci aveva meno potenza che altrove, pe’ salutari freni posti da Giuseppe II e in gran parte conservati da’ successori. Commovendosi ogni dì più gli spiriti, aumentavano gli apparecchi di resistenza. Si mandavanorinforzi a’ presidii, incamminavansi, o dicevasi che s’incamminavano, nuove milizie verso l’Italia, ordini severi si bandivano, moltiplicavano le incarcerazioni, senza che età o grado fossero schermo, spesseggiavano le spie, ingrossavano i processi, a’ teatri era vietata qualunque rappresentazione che potesse alludere a novità: anco i parrochi dovevano dagli altari astenersi dal fare alcuna allusione di onore al nuovo pontefice.

Sul finire dell’anno quaransette, accadeva un fatto di grandissima importanza. Notammo sopra come di liberali istituzioni era stato nel 1815 dotato il regno lombardo-veneto, e cotali erano le congregazioni provinciali, che facendo capo ad una detta centrale, costituivano quasi una rappresentanza di stato con facoltà d’investigare i bisogni de’ popoli, e indicare provvedimenti al principe per soddisfarli. Se non che infino allora erano dimorate quasi mutole, e più tosto a vanto che a benefìzio si conservavano. Ma entrato negli spiriti quel fervore che abbiam detto, anco le congregazioni provinciali e centrali si fecero vive, mostrando che a render valevoli le istituzioni, è mestieri che gli animi sieno volti a cose publiche. Il primo esempio di questo coraggio, del quale devono le istorie serbare assai chiara memoria, fu porto dal deputato Nazzari, che nella congregazione centrale rappresentava la provincia di Bergamo. Dirigeva questo egregio cittadino alla detta congregazione le seguenti parole, pronunciate quando non pur le parole, anzi i pensieri si punivano.

Non è mestieri, inclita congregazione, di molto accorgimento per discernere come da alcun tempo in qua sieno in questa provincia manifesti segni di mala contentezza, dimostrata da tutti gli ordini de’ cittadini, come gli stessi rettori hanno dovuto conoscere ogni qual volta di rintuzzarla si sono provati. E donde nasce egli così fatto agitamento che aumenta quanto più si vuol raffrenare? donde codesta universale inquietudine? donde il sospetto fra chi governa e coloro che sono governati? Avrebbero forse essi giuste ragioni di querelarsi? e avendole, chi può farle presenti al principe? Io per me non vedo che altri possa i desiderii della patria nostra interpetrare meglio di noi; i quali nella condizione di privati siamo partecipi de’ beni e de’ mali, che sono il frutto delle buone o delle ree istituzioni: e in oltre ci è concessa la preziosa facoltà di scoprire le bisogne delle popolazioni e infine allo imperial trono rappresentarle. Quindi affinché fra il regnante e i popoli torni quell’accordo che solamente assicura la quiete della città, mi sono risoluto di fare la istanza, che Voi vogliate tanti deputati scegliere quante sono le provincie, e dar loro commessione di specialmente disaminare le presenti condizioni de’ paesi, e conosciute le cause di mala contentezza riferirne a tutta la congregazione per far luogo ad acconce petizioni. Ciò dico e consiglio per desiderio di publico bene, per affezione al mio principe, e per sentimento di dovere. Imperocché come cittadino amo la mia patria, come suddito desidero che l’imperadore sia da per tutto adorato e benedetto, e come deputato crederei mancare al mio ufficio e a’ miei giuramenti, se non dicessi quel che la coscienza di non tacere m’impone.

Questa protestazione sì dignitosa e sì onesta, presentata il giorno 11 dicembre 1847, fece andare in furore quelli del governo non avvezzi a sentirsi fare osservazioni e richiami d’alcuna sorta. Tuttavia i tempi ogni dì più minacciosi non consentivano disprezzarla: dolendo a’ rettori di non potere condannare un atto ch'eglino stessi stimavano legittimo: senza dire che recava loro sdegno lo sperimentare che dopo tanti terrori, anzi che venir meno, cresceva il publico coraggio. Né potrei dire con quanta festa e commendazione fosse accolta da’ popoli di tutta Italia la protesta del Nazzari: il cui nome in que’ giorni andava per le bocche di tutti, e quel che è più, non rimaneva senza imitazione il suo esempio. Da tutte le congregazioni provinciali giungevano petizioni e suppliche al viceré. Una molto significativa ne fece quella di Milano, colla quale dopo avergli ridotto a memoria la legge del 4 6 aprile 1845, dichiarante che il regno lombardo-veneto sarebbe stato amministrato con ordinamenti del tutto appropriati all’Italia, e dimostratogli inoltre come la detta legge fosse rimasta senza effetto, parecchie e importanti domande di riforma gl’indirizzava.

Né in quel medesimo tempo Venezia se ne stava. L’avvocato Daniele Manin fece alla congregazione centrale veneta quel che pochi dì innanzi aveva fatto il Nazzari alla lombarda; se non che il Manin à maggior pencolo si metteva, in quanto che, non essendo deputato, compiva un atto che d’illegittimo poteva essere tassato: quantunque il nobile Morosini, uno dei deputati della città di Venezia, lo autenticasse sottoscrivendolo, e nuovamente presentandolo. Petizioni altresì mandavano i collegi provinciali di Udine, di Treviso, e d’altri luoghi. Levò pure gran rumore, e fu per ogni dove commendato un discorso letto nell’ateneo veneziano da Niccolò Tommaseo, in cui dopo aver favellato delle lettere italiane più da politico che da letterato, passò a dire della libertà nello scrivere a stampa, citando la stessa legge austriaca del 1815, per la quale la censura era stata in modo ordinata, che a renderla pari e anco più liberale di quella nuova del Piemonte e degli stati riformati d’Italia, non mancava che eseguirla. Per questi atti al certo non sediziosi furono il Manin e il Tommaseo imprigionati. Qui voglio trascrivere in sommi capi le varie domande che i Lombardi e i Veneti d’accordo allora indirizzavano al trono cesareo, perché si conosca non essere state tali che satisfarle in parte o in tutto non si avesse potuto. Il che forse importava il risparmiare a sé stesso una rivoluzione e a noi orribili calamità. Chiedevano adunque: Che il viceré dovesse avere tutti i poteri che per le italiane provincie esercitavano gli uffici aulici di Vienna, né dovesse mancare di un proprio consiglio di ministri, e dovesse dal solo imperadore dependere: Che si ampliassero le facoltà delle congregazioni provinciali, e le centrali si trasformassero in consigli di stato: Che le entrate e spese publiche fossino da’ consigli di stato esaminate, e vietato altresì di aumentare o variare tributi, e far nuove dette senza il loro assenso: Che tutte le cariche, eccetto quella del viceré, fossino agl’italiani conferite: Che le milizie assoldate in Italia rimanessero in Italia, e le altre fossero rimandate, con ridurre altresì a cinque anni l’obbligo del servire: Che s’infrenasse con legge l’arbitrario potere de’ governatori e de’ comandanti militari, né senza ordine scritto fosse lecito incarcerare alcuno, e incarcerato dovessesi porre senza dimoranza nelle mani de’ tribunali ordinari, e in fine abbisognassero reiterati avvisi al popolo prima di far violenza colle armi: Che i giudizi sì civili e sì criminali fossero publici, e le carceri di penitenza si riformassero, e fosse cassa la pena di morte, almeno pe’ delitti di maestà: Che si facessero migliori leggi, e diverse da quelle che v’erano, intorno alle dogane, patenti, bollo di carta, posta, dazio di consumo, compagnie industriali, fallimenti, e simili: Che si provvedesse meglio per ciò che spetta alle così dette mani morte, corpi religiosi, ordine gerosolimitano e resto di privilegi feudali: Che i comuni dovessino godere maggior libertà di amministrazione: Che si entrasse nella lega doganale italiana, e tutte le mercatanzie potessero trasportarsi liberamente nello interno dello stato: Che fosse dato il permesso per la formazione d’una strada ferrata da Milano a Piacenza, e da Milano al Ticino verso Novara, e si prolungasse quella di Como fino al confine svizzero: Che fosse libertà di viaggiare per tutto lo impero austriaco senza altro bisogno che d’una patente di sicurezza, e che non si dovessero rifiutare né ritardare patenti d’uscita per fuori: Che il publico insegnamento fosse riordinato: Che la stampa avesse larghezza simile a quella concessa in altre parti d’Italia.

In questo modo terminava per i lombardo-veneti l’anno quarantasette: cioè fra deboli speranze e forti timori; fra desiderii vivi, e volontà inflessibili; fra domande coraggiose e minaccievoli ricuse. Ma il quarantotto cominciava torbido e sanguinoso. Brasi formata in Milano una congrega di giovani: alla quale si attribuiva la principale direzione de’ movimenti: onde il viceré ingiungeva al governatore di tenerla d'occhio, fare inquisizioni, sapere come e quando si adunassero, cosa dicessero e scrivessero, in fine quali macchinazioni ordissero. Tanto più premeva di scoprire, quanto che i macchinatori avevano trovato un modo assai ingegnoso e risolutivo per far guerra: conciossiaché si fossero voltati a impoverire l’erario, rammentandosi come d’un simile espediente si valsero molto efficacemente gli Americani quando deliberarono di rinunziare all’uso del thè per non pagar la tassa posta da’ loro oppressori. Divulgarono per tanto un assai fiero invito alla gioventù lombarda, perché chiunque la dominazione austriaca aveva in odio, e la libertà italiana aveva in amore, dovesse dal fumare e dal giuocare al lotto astenersi; due cose che alla tesoreria imperiale formavano importantissime entrate. Il giorno 2 gennaio la trama fu manifesta. Pochi uscivano per le vie fumando, e que" pochi o ignari del fatto o ligi 'al governatore erano da nodi di popolo avvertiti che non fumassero, e se ricusavano, erano proverbiati e anco ingiuriati. Queste manifestazioni non passavano senza rumore: il quale crescendo, e guardie di buongoverno venendo innanzi, tosto si appiccò contenzione fra' soldati e i cittadini, dando gli uni addosso agli altri, e percotendo e ferendo come può gente armata e nemica. Il podestà conte Gabriele Gasati, posponendo la sicurezza della sua persona a quella della città da lui rappresentata, correva per le vie dove esortando i cittadini a ritirarsi, e dove garrendo i soldati perché dalle violenze restassero; ed essendo stato preso e tratto in prigione, turbossi maggiormente la città, che in concetto d’uomo temperatissimo e probo lo aveva; né s’indugiò a venire al sangue.

Trovo scritto che il governatore, quasi dubitando che la milizia non adoperasse le armi contro il popolo com’ei si proponeva, cercasse di aizzarla, facendo spargere negli alloggi che era stato scoperto una gran congiura di cittadini contro di lei, e in oltre inebriandola di acquavite perché meglio si disfrenasse. Ma io credo che molte di queste cose fossero più tosto dette che fatte, e assai malagevole è sceverare il vero dal falso, o il vero dall’esagerato; da poi che per quanto i governatori e comandanti austriaci commettessero allora atti di crudeltà, assai più anco se glie ne attribuivano da coloro che avevano interesse di concitare l'odio de' popoli contro quella potenza, giudicata sommo ostacolo alla italiana libertà. Senza dubbio è, che il viceré scrivesse al conte Spaur, che per cogliere in delitto i perturbatori, vietanti il fumare, fosse buon provvedimento mandare attorno travestite alcune guardie di buongoverno col sigaro in bocca, e farle seguire da altre guardie in distanza, pronte a incarcerare quelli che insulti avessino fatto. In effetto nella giornata del 3 gennaio vedevansi soldati a venti e quaranta mostrarsi per le strade fumando, e non contenti di questo entrare nelle botteghe, e provocare quelli che non fumavano. Erano stati nel medesimo tempo publicati bandi minacciosi; i quali anzi che sedare, accesero maggiormente le ire. In sul far della sera divenuti più spessi e offensivi i provocamene, cominciò pure la zuffa. Colle spade in pugno i soldati assaltavano e percuotevano, non guardando a persone, a età, a grado. La notte cominciata e la nebbia assai folta in quella stagione accrescevano il terrore e lo scompiglio, e la soldateria più cieca e feroce rendevano. Trovo essere stati sessant’uno i morti, sei dei quali non avevano più di quindici anni, cinque toccavano i sessanta, e qualcuno passava i settanta. d’altre atrocità parateci incredibili non diremo: come quella d’impedire che i feriti tratti nelle prigioni tassino medicati, onde alcuni perirono di cancrena. E gli stessi lutti e crudeltà di Milano, in altre città lombarde e venete si successero. In Pavia s’ingaggiò micidiale zuffa fra studenti e soldati, gli uni menando le mani, gli altri usando le anni; e si diceva i primi tassino stati da' secondi insultati, mentre un loro condiscepolo morto accompagnavano in folla al camposanto: se bene mal si potrebbe dire donde fra tanto sdegno acceso i provocamene cominciassero.

Protestavano e riparazione domandavano alle città insanguinate i rettori municipali. Ancora l’arcivescovo non si rimaneva, e di pregare Iddio perché umani consigli a chi governava ispirasse, invitava i fedeli. E contano che il vecchio e venerando parroco della cattedrale monsignore Opizzoni, parlasse al viceré in questa forma: Io ho più di ottanta anni: ho veduto diverse e strane soldatesche, ma di simili orribilità non ho mai veduto; onde come prete e parroco devo contro a sì fatte enormezze protestare. Il viceré dopo questi richiami e querele, publicava un bando assai benigno: confortando i popoli di Lombardia ad aver fede in lui, e sperare che presto i loro voti sarebbero stati dall’imperadore esauditi. Ma le parole di lui, benché rivelassero addolcimento di animo in quelli che governavano, pure non fecero l’effetto. Già guasti erano gli animi, commossi gli umori, accesa la discordia; né forse a' desiderosi di novità quei lutti publici dispiacevano, perché maggiormente impossibile ogni riconciliazione fra gli Austriaci e i popoli italiani a loro soggetti si rendesse. Certamente non fu giornale d'Italia che non ne divulgasse e qualche volta esagerasse la fama odiosa: oltre che in tutte le principali città furono celebrate esequie per i morti, quasi martiri della comune patria. E in Milano e altrove si formarono compagnie di gentili donne, che, facendo capo in casa Borromeo, raccoglievano denaro per soccorrere alle famiglie degl’infelici trucidati. Né alcuno più andava a’ teatri, per fuggire la presenza de’ soldati tedeschi; e chiamarono corso scellerato dove il sangue cittadino fu sparso: senza dire che molti gentiluomini, i quali fregiati erano d’insegne imperiali, si deponevano. Finalmente correva una voce forse maligna, certo paurosissima, che si volesse far credere al minuto popolo essere di quelle rigorosità cagione i nobili e i ricchi, promotori di publici sconvolgimenti.

In questo mezzo, quasi a recare al colmo l’odio già cotanto, così l’imperadore scriveva da Vienna per bando: essergli già noti i casi di Milano: mostrargli questi, dimorare nel regno lombardo-veneto una setta disperduti uomini che mira gli ordini publici distruggere: avere lui fatto quel che necessario era al bene dei suoi soggetti, né essere disposto a fare altro: contare nella maggioranza de’ cittadini; ad ogni modo affidarsi al suo esercito. Al quale volgeva in pari tempo infiammato discorso il maresciallo Radetzky: Brandire lui tutt’ora ben ferma quella spada, da sessanta anni con onore provata in battaglie diverse: con essa in mano proteggerebbe la publica quiete minacciata dalle improntitudini di una stolta fazione. Non ci costringano (terminava) a spiegare i vanni dell’austriaca aquila, non per ancora tarpati. Dicono, che a queste parole i soldati austriaci applaudessero; gl’italiani a’ servigi dell’imperadore tacessero. Ma se il vecchio maresciallo non faceva bene di rammentare la sua spada di onore per affogare nel sangue cittadineschi desiderii, né pure saggiamente adoperavano gl’italiani nello svillaneggiarlo quale insensato millantatore, innanzi di aver fatto esperienza di quella spada. Credessi in quel tempo, le parole dovessero fare quanto le armi: e molto per verità facevano: ma per la finale vittoria ottenere, armi e non parole abbisognavano. Alzavasi adunque ne’ giornali toscani, romani e piemontesi la voce, perché da un capo all’altro fosse ascoltata, e si credesse essere ornai nelle lombarde e venete provincie l’ira e l’odio a tale giunti da doversi d’ora in ora un grande rivolgimento aspettare; e nel tempo stesso con ismisurate e acconce lodi si esaltava la loro virtù, che a un avversaria armato e potente sapevano con tanta dignità e costanza tener fronte, e se ne tiravano argomenti non dubbi che presto lo straniero giogo avrebbero dal collo gittate via. Così con vociferare e credere quel che non era, o meno assai di quel che era, ci andavamo disponendo a una guerra della cui perdita principal cagione fu l’averla troppo avacciata.

. Non altrimenti si diportavano i duchi di Parma e di Modena, che messisi in balia dell’imperadore, dovevano non solo correre la sorte di lui, lieta o avversa che ella fosse, 'ma il loro reggimento al medesimo esempio conformare. Più sopra toccai delle cose di Parma e de’ furori di quella soldatesca e de’ superbi comandari del Bombelles. Sospetti e rigori crebbono dopo che ancora nel vicino Piemonte furono cominciate le riforme, da tanta esultazione popolare accompagnate. Speravano tuttavia i Parmigiani nel ritorno della duchessa: il cui animo facile alla pietà non avrebbe patito che i suoi occhi vedessero tante abominazioni. Se non che a quella infelice (misero esempio della incostanza delle regie fortune) non restava che di sottoscrivere gli altrui decreti; e tornata in Parma, trovò nella reggia più tosto un carcere che un asilo; non potendosi andare a lei senza farne domanda, che il più delle volte non era accolta, quasi le si volesse togliere di compiangere almeno alle afflizioni publiche, da che impedito le era di consolarle. E fin si disse e credette che nella malattia (onde poi il dì 47 dicembre fu spenta), le venisse negato o amareggiato iL conforto della figliuola; che delle massime del marito conte Sanvitali imbevuta, pregava la madre ad ascoltar le voci de’ popoli, e alle istanze loro compiacere. Il che l’arebbe fatta trapassare non solo con lagrime alla memoria della sua bontà, ma ancora con tutte quelle lodi, onde allora i principi riformatori si celebravano. In cambio, fuori di pompe richieste dalla solita adulazione, e ancor queste dalla presenza contristate di soldati stranieri, che dicevano essere venuti per custodire la sua spoglia e trasportarla a Vienna, non ebbe altro compianto publico. Nata ella di Francesco I imperadore d’Austria, fu imperadrice de’ Francesi anni cinque: duchessa di Parma e di Piacenza anni trentadue. Bellissima di corpo, cortese di modi, d’animo buono e agl’infelici compassionevole. L’aresti detta nata al regnare più dalla sua presenza, veramente di maestà, che da’ suoi affetti donneschi e volgenti in basso. Giammai a donna reale più alta fortuna non aperse il grembo, né minore a sé stessa la provò: come colei che per oscure ragioni o palesi cupidigie di regno fu a Napoleone disposata. Infauste nozze ad amendue; avendo all’uno voltati in sinistri i troppo amici destini, e condotta l’altra a bruttare in misero stato la sua fama; da lasciare incerto il giudizio, s’ella sia stata meno degna del primo marito, o più degna dell’ultimo.

Mutarono padrone i popoli parmensi, non fortuna. Il conte Bombelles, che ugual favore dal successore della moglie s’imprometteva, si costituì in compagnia co’ ministri in concilio di reggenza: a nome della quale furono rafforzate le guardie della città, e aspri e minacciosi editti publicati. Non di meno volendo i parmigiani e i piacentini conoscere, se col mutato principe la sorte loro erasi mutata, mandarono a lui, che si tratteneva a Genova, il conte Linati e il tenente Simoni, con commessione di supplicarlo a voler porre un termine a tanti mali, e far lieti i novelli suoi popoli con quelle riforme, che negli stati romani, toscani e piemontesi si praticavano. Ricevuti detti ambasciadori cortesemente, quando a favellar cominciarono dei voti de’ popoli, furono accomiatati dal duca, dicendo, quasi beffar li volesse, essere aspettato a mensa. Ed essendo quelli dopo poche ore ritornati, seppono che erasi partito per Milano. E in questo stesso tempo essendo altri ambasciadori iti a lui per ordine di coloro che temporalmente reggevano Parma, questi non pur accolti ma soddisfatti, tornavano con decreto di esso duca, che la reggenza del Bombelles e degli altri confermava. Giungeva pure per conferire colla medesima il noto ministro Tommaso Ward; il quale, veggendo il popolo mal contento, cercava di quietarlo e fargli credere che il duca avrebbe quando che sia i publici desiderii contentato. Nasceva quindi nelf universale grande ansietà mista di mai fondate speranze e di ben fondati timori. Sapevasi il duca vagare fra Milano, Mantova e Modena, avvilupparsi nel mistero, non promettere, né negare, come principe che aspettava consigli da chi doveva mantenerlo in trono. E chi doveva mantenerlo in trono aveva mandato milizie ad occupare gli stati di Parma e di Modena. Né fia vano ancora delle cose modenesi rinfrescare le. passate memorie a fin di meglio colle presenti congiungerle.

Fra’ principi italiani che allo scoppiare della rivoluzione francese del 1789 si trovavano in trono, uno de’ più avversi agli ordini feudali e alle soverchierie del clero, e quindi più disposto alle riforme civili, era il duca Ercole Rinaldo d’Este: ultimo rampollo d’una famiglia che tanto benefica a’ gentili studi erasi mostrata in quei secoli sì fiorenti per le italiane lettere. £ nel duca Rinaldo notavasi particolarmente una singolare prudenza, quasi più degna di filosofo che di principe; la quale gli faceva come scusare quella eccessiva e talora sordida voglia di ammassare tesori, che poi doveva la francese rapacità sperperare. Riferisce lo storico, ch'ei parecchi anni prima dell’ottantanove predisse il gran rivolgimento che mise sossopra l’Europa, aggiungendo che la Francia avrebbe perduto, il suo primato, e tutte le potenze contro lei si sarebbero collegate. Morto questo principe nel 1803, e in lui mancata la linea agnatizia della casa d’Este, quasi fosse destino che ne’ reggimenti nostri dovesse andare spento ogni sangue italiano, gli stati di Modena passavano al marito della figliuola, ohe era un arciduca d’Austria; al quale, non vissuto che tre anni, succedeva il primogenito e famoso Francesco IV.

Dopo la ristorazione delle vecchie monarchie entrava esso negli estensi domini, allargati dal viennese congresso, col doppio vanto di erede e di conquistatore: più l’uno o l’altro menando, secondo gli tornava meglio per tenerli, come i tempi volgenti a novella e più cruda tirannide richiedevano. Accesa negli anni venti e ventuno in Napoli e in Piemonte la rivoluzione, e prima che al resto d’Italia s’appiccasse, conculcata, se i carbonari e lor partigiani furono alle carceri e a’ supplizi condotti dove avevano fatto il movimento, non furono meno cerchi e martoriati dove ij movimento era nel desiderio e nella speranza rimasto; e la fama celebrò come uno de’ più acerbi persecutori il duca Francesco; il quale non ignorava fra’ suoi sudditi contarsene parecchi, affratellati con altra setta chiamata di adelfì. A un tratto le prigioni modanesi furono piene di carbonari e di adelfì, con ordine che il governatore Giulio Basini, uomo ignorante, di pravi costumi, avaro, ambizioso, e appartenuto anch’esso a quelle sette, compilasse i processi. Il che eseguì con sì scellerata arte, che creduto umano da quegl’infelici, e anche benevolo, ebbe rivelazioni che gli aprirono la via ad essere più crudele: onde di nuovi lutti e terrori si empivano le famiglie, di nuovi sdegni la città. Un giovanetto di nome Morandi fermò di ammazzare chi a tutti era divenuto tremendo; e compiuta l’opera arrischiata in publica via, quasi sotto gli occhi della soldatesca, si fuggì in Spagna. Né tolto il Basini, cessò lo inferocire; e anzi per la costui morte tanto più crebbe quanto che pareva che i perseguitati a partiti estremi si appigliassero. E fra le morti più ricordevoli è quella del sacerdote, Giuseppe Andreoli da stare per la intrepida fine e santa innocenza col Pagano, col Conforti e col Cirillo. Se non che nel 1830 commossa Europa novellamente, provò che le ferocità (dette da alcuni rigori necessari) non sono buon rimedio per ovviare alle rivoluzioni.

Ma i popoli italiani mossi dagli eccitamenti e promesse della Francia, non fecero che pagare un’altra volta la pena del loro inganno; il quale più crudele e forse meno scusabile toccò a’ movitori. della sommossa modanese: lasciatisi prendere a questa smisurata illusione, che lo stesso duca, per sete di più vasto regno, volesse farsi capo dell'impresa. E mal si potrebbe chiarire fin dove egli realmente questo disegno facesse tralucere, o i vaghi di novità travedessero. Forse dove le cose fussino andate secondo la mente di quelli che desideravano mutazione, avrebbeli secondati per allargare dominio; come non è dubbio al mondo, che sendo ogni cosa ita a rovescio, divenne tanto più spietato gastigatore, quanto che voleva ogni sospetto dissipare che mai gli fosse passato per l’animo di favorire novità per cupidigia di maggiore grandezza. E quasi fra’ suoi sudditi non avesse trovato ministri di crudeltà, chiamò, o forse anche gli fu mandato il principe di Canosa: la cui fama è così alta in tutte le scelleratezze, che non si potrebbe con parole aggrandirla. Vituperevol rifiuto della corte napoletana, che tanto tempo e con tanto lutto publico l’aveva adoperato, può annoverarsi fra quegli uomini che più hanno questa umana razza svergognato, da farla quasi tenere sopra tutte la peggiore. Né a me tocca di sì orrenda istoria riferire i particolari; e con quali inganni tradito, e pietà publica accompagnato, Giro Menotti, uno dei principali autori della mutazione modanese, lasciasse la testa nelle mani del boia e quanto altro sangue fosse straziato di cittadini innocenti o di desiderii solamente rei. Conciossiaché il Canosa erasi tolto in aiuto del feroce governo il conte Girolamo Riccini, che diventò nome non sappiamo se più infame o tremendo: al quale per odio privato fu attribuito l’essere stato mozzo il capo al cavalier Giuseppe Ricci onoratissimo, né d’altro colpevole che di benefici e servigi di fedeltà renduti al duca.

Tante morti, fughe, prigionie e povertà contristavano ognuno, quasi tutti temere o del padre o del figliuolo o del consorte o dell’amico dovessero. Né mancarono le adulazioni de’ cortigiani e del clero, che ne’ templi e ne’ diari ringraziavano Iddio di avere dalle continuate insidie de’ nemici del trono e dell’altare preservato l’amatissimo principe; sì accecato, che non vedeva i veri suoi nemici essere coloro che alle crudeltà il tiravano. Le quali non lasciarono gradire le sue maniere, sotto quello aspetto burbero cortesi e talora amabili; né apprezzare alcune buone opere, che pur fece o a conforto degl’ingegni, o a sollievo de’ miseri, o a vantaggio de’ commerci; e morì odiatissimo come forse nessun altro principe moderno; e con questa fama, che non avendo potuto farsi di tutta o di gran parte d'Italia padrone, volle essere principale agente di quelli che la universale tirannide promovevano. Nel che mostrò sì tenace fierezza di propositi da quasi farlo sopra la schiera dei despoti volgari innalzare, o almeno da scusargli l’ambizione di avere a più alto trono aspirato.

Morto lui, speravasi regno migliore dal figliuolo: e sul principio, o fosse intenzione del giovine principe, o fede in ciò che si desidera, o pure arte di chi prende corona, parve che le formate speranze e i facili desiderii dovessino in parte satisfarsi. Gran ragione ad augurar bene pareva l’aver subito tolto di ufficio l'esecrato Riccini. Ma presto dell’animo ducale s’impadronirono altri non men potenti e perversi consigliatori: che mancar non gli potevano dove avea tenuto scuola di governo un Canosa. de’ quali, non so se più infesti alla libertà o al principato, meglio è non curare che favellare, per non riuscire troppo increscevoli a noi, e a chi legge queste non felici istorie. Verrò a’ fatti più recenti. Poiché cominciava Pio IX a levar fama di sé, e la povera Italia a lui, come 9 tavola di salute, dopo tanti naufragi, si volgeva, ancora in Modena suonarono inni e benedizioni al pontefice, creduto rinnovatore di secolo migliore. Il ministro Disperati, odiatissimo per nota inclinazione alla crudeltà, facilmente persuadeva il duca essere quegl’inni, motti di nefande congiuro, segnali di rovesciamenti di troni, semi nascosti di stragi e di rapine. Principiano le persecuzioni: alcuni sono posti in carcere; altri sbandeggiati; altri per sospetti, invigilati Se non erano puniti i pensieri, certo i più innocenti atti erano puniti; e bastava dire una lode del papa per esser guardato in cagnesco: bastava desiderare una franchigia per aver nota e gastigo di ribelle. A Castelnuovo, avendo alcuni festeggiato il nome di Pio IX, furono dalla soldatesca assaliti, e colle spade percossi. Per la stessa causa fu imposto nuovo tributo a’ popoli di Garfagnana; e avendo i Massosi inviato ambasciadori al principe per chiedere armi cittadine, fu loro risposto incarcerandoli. Più atroci fatti, e violenze soldatesche sopportò Carrara; dove sangue cittadino fu sparso, querelandosi in vano i rappresentanti della città; anzi furono cagione d’un fiero rabuffo del principe, dichiarante che ogni peste di rivoluzione voleva spegnere: né avrebbe mai ceduto, e sarebbesi difeso a guisa d’un capitano di fortezza, ricorrendo ad ogni più violento modo; e dove le sue forze non fossero bastate, l’avrebbero soccorso trecento mila uomini apparecchiati oltre Po.

E non s’ignorava d’altra parte che verso il Po ogni giorno più ingrossavano soldati austriaci, e movimenti facevano. Sapevasi pure che due de’ quattro fortini di Brescello, fabricati dal vecchio duca dopo la rivoluzione del 31, erano stati dalla milizia tedesca occupati. Né contristavano meno le voci, forse levate ad arte, di soldare uomini di campagna, quasi per creare una guardia di fidi da lanciarli più facilmente addosso a’ vogliosi di cose nuove. Laonde quanto più i vicini stati di Toscana e di Roma s’allargavano e addolcivano, tanto più il modanese restringevasi e incrudeliva. Notte e giorno le città erano percorse da genti d’arme: non concesso di entrare a’ giornali degli altri paesi; silenzio e ignoranza di tutto: solitudine, quale sogliono produrre il sospetto e il terrore. Ma non ostante le proibizioni e le vigilanze, qualcosa sempre delle novità romane e toscane trapelava: e i capi del governo che nella stessa baldanza non lasciavano pur di temere, adoperavansi con vane e lusinghevoli speranze di raffrenare gli sdegnosi desiderii: quasi ancora in quel ducato di cupe tenebre, presto si dovesse far luce. Divulgare facevano, essere vicino a comparire un codice più alla civiltà de’ tempi accomodato, né lordo, come l’antico, della infamia della tortura: prepararsi altresì riforme negli ordini della amministrazione, con licenza a’ più odiati magistrati. Ecosi la pazienza publica fra mali certamente sentiti, e beni vanamente sperati, si prolungava e infrenava.

Il giorno 8 novembre il duca proibiva ogni sorte di assembramenti e dava balia alla soldatesca di usar le armi per disperderli. Comandava altresì che alle ore otto della sera fossero le botteghe serrate, dovessero i cittadini ritirarsi a casa. E nello stesso tempo aumenti di milizia per tutto: sentinelle di continuo ronzanti e insultanti. Onde molti abbandonavano la patria; altri per paura o sdegno si nascondevano. Di gran sospetto era cagione la presenza di monsignor Corboli Bussi. Il quale, avendo stretto in nome del papa il primo accordo della lega doganale fra Cario Alberto e il granduca di Toscana, erasi trasferito a Modena per provare se il duca anch’esso aderiva. Seppesi, o almeno divulgossi, che in principio consigliato dal conte Lodovico Poppi, ministro dell’erario, non si mostrasse alieno, e facesse sperare che avrebbe acconsentito; ma l'esservi giunto quasi a un tempo il conte Ficquehnont i avesse distolto, e Monsignor Corboli stato più volte a corte, si partisse senza conclusione alcuna, anzi con certezza che il duca non intendeva più di accordarsi. £ poi che le genti modanesi avevano straordinariamente onorato quel prelato come se fosse riuscito nella commissione, o più tosto per onorare Pio IX, di cui era ambasciadore, ciò fu qua e là appicco a nuovi furori della soldateria. La quale in Reggio per dare addosso a’ gridatori di viva Pio IX e viva monsignor Corboli, percosse gente imbelle e spettatrice: e avvenne che, sendo stato ferito a morte un giovanetto Maioli di famiglia nobile, la madre, che alti sensi e più che donneschi chiudeva in petto, presentatasi al governatore, così esclamava: Non vengo a chiedere vendetta, che è da vile: né imploro giustizia, qui muta. Vengo a portare le voci della natura, che gridano al cuore di una madre, cui si uccidono i figliuoli da’ vostri vili scherani prezzolati.

Dopo questi fatti parve al duca da non più indugiare a munirsi di aiuti stranieri, e chiesto soldati allo imperadore, questi non indugiò a mandargliene, avendo ornai fatto cosa sua il reggimento dei due ducati: e alfine che detta unione e dependenza vie più si stringesse e consolidasse, fu stipulata una lega, per la quale lo imperadore potesse far marciare negli stati di Modena e di Parma le sue milizie e prendere i luoghi fòrti, caso che fossero assaltati di fuori: e qualora nello interno degli stessi ducati scoppiassero indizi di sommosse, avesse altresì facoltà di mandar genti a sopprimerli: né i due principi potessero stipulare alcun convegno con altra potenza senza aver prima il consenso dello stesso imperadore ottenuto. Si rise di questa lega, fatta dopo che gli Austriaci avevano le terre ducali occupate: se pure non si facesse per lo gridare continuo ne’ giornali, essere la nuova occupazione contraria a tutti i trattati: quasi bastato non fusse a legittimarla che i due principi, d’amore o a forza, l’avessono richiesta.

Fra tanto Carlo Lodovico da Modena, dove erasi alquanti giorni intrattenuto, conducevasi a prendere possessione del suo Stato, facendosi precedere da un editto, col quale notificava ai novelli sudditi: Stimare buono e utile tutto quello erasi dall’arciduchessa Maria Luigia: volere sul medesimo piè continuare, per bene de’ popoli alla sua cura dalla provvidenza divina affidati; e in argomento di queste sue sovrane volontà, i ministri e tutti gli ufficiali publici sì civili e sì militari confermare. Se prima i Parmensi avevano dubitato ch'ei non volesse allargare il governo, dopo quel bando furono certi del suo animo deliberato a nulla concedere: e ne mormoravano più o meno apertamente, e suppliche e petizioni facevano, di più non osando da che lo stato era da milizie austriache guardato. Lo ingresso del principe fu silenzioso, notturno, e come di chi sapeva di giugnere in paese non amico. Avanti ogni altro provvedimento, stanziò la sua provvisione, o lista civile; allargandola a dugentomila franchi per ogni mese: secentomila franchi di più. che non prendeva Maria Luigia. In quel tempo pure fu il tenitorio pontremolese consegnato: il che avvenne senza resistenza di que’ popoli, che secondo gli scrittori de’ giornali parevano due mesi addietro deliberati a più tosto seppellirsi sotto le ruine delle loro case, che nella soggezione del duca di Parma passare. v’ebbero alcuni che a nome dell’universale indifferente, protestarono e querele mandarono; ma il duca, rispondendo con privarli delle armi concedute loro dall’antico principe, li sottomise. Altra trasformazione di stati pure accadde per la cessione di Guastalla fatta da Carlo Lodovico al duca di Modena, secondo il trattato del 1844.

Ma se l’imperadore d’Austria, e con esso i duchi di Parma e di Modena potevano tener fronte in fino che maggiori e stranieri avvenimenti non sopraggiunsero, non così doveva accadere del re delle due Sicilie; dove paesane erano le forze militari e civili: e come che di parti disformi e non tutte buone si componessero, pure in quel generale commovimento dell’Italia di sopra non poteva essere che non si agitassero, e ancora quel reame non tirassero a mutazione. Pure i napoletani reggitori mal sé stessi e le cose di fuori giudicando, vollero resistere in fino che per la propria resistenza non furono rovesciati; da farci dire aver loro obligo dell’essere passati da semplici riforme di governo alle costituzioni libere con insperata sollecitudine. Il che se bene in que’ giorni di grandi illusioni parve somma felicità, più tardi si giudicò troppo precipitoso il passaggio; richiedendosi che le riforme allignassero alfine che le costituzioni facessero buona prova. Ma incolpare primieramente si deve quel lento e incerto e incompiuto riformare i governi di Roma, di Toscana e di Sardegna: non tanto perché i popoli mal si potevano soddisfare di cose, delle quali non provavano utilità e importanza alcuna, quanto perché era pretesto di sommovere a’ desiderosi di maggiori e stemperate novità: né ultimo pregio dell’arte di governare è di removere pretesti di mala contentezza. ché per quanto in pace e d’accordo le rinnovazioni di stato si operino, non è possibile che non sorgano e non s’intramettano uomini ambiziosi e turbolenti, che per aggiungere i loro fini non restano di spingere agli eccessi le moltitudini; e quando costoro non si possono o non si vogliono spegnere, uopo è render vana la loro autorità, con procacciare il maggiore e più pronto contentamento dell’universale. Che come la libertà così la licenza non mette radice se non in terreno acconcio. Ma avendo i principi, mal consigliati, anteposto il lasciarsi trascinare allo indirizzare eglino stessi e regolare e preservare dalle sedizioni il cominciato rinnovamento, la piena li soverchiò e portò dove fu poi agevole il torcere le opinioni e ingannare i popoli, non ancora bene esperti delle libere istituzioni. E quando è certo, che per la inesplicabile resistenza de' rettori delle due Sicilie alle prime domande di riforme) si passò a un tratto alle costituzioni, non può essere più un dubbio al mondo, che del primo passo trascendente la moderazione, cui tennero dietro tutti gli altri, non sia da accagionare la parte che poi ne fece maggiormente espiare il fallo. Non so se è vero che il re di Napoli dicesse degli altri principi, che allora facevano vista di riformare: essi mi spingono, io li precipiterò. Ma se nol disse, il fece: e principi e popoli precipitammo; e perdemmo la quiete senza acquistare le franchigie, ponendoci nella condizione sopra ogni altra infelicissima di quelle nazioni, che non seppero ottenere compiuta libertà, né seppero star contenti a libertà limitata.

Per conoscere particolarmente onde in Napoli le riforme si convertirono subito in costituzioni, è da mostrare qual fosse lo stato delle due Sicilie: come animate le milizie: come stessero le provincie: che di buono, che di rio per tutto si trovasse, a fin d’intendere non pur le cose, il più delle volte fortunevoli, ma le ragioni e cagioni di esse. Nelle istorie di Pietro Giannone e del continuatore Pietro Colletta abbiamo de’ fatti di quel regno in fino al 1825 notizia. La quale per la fama di sì chiari scrittori è sì divulgata, e ornai impressa nella memoria di tutti, che riuscirei vano, se io prendessi a rinfrescarla. Né dopo l'anno venticinque ci presenta quella parte d’Italia avvenimenti grandi; e nelle lacrimevoli prove che fece, mostrò più voglia che potere di scuotere il giogo, riportandone maggiori travagli e più lungo servire. Pure quel continuo agitarsi nella oppressione non fu Senza addentellato alle cose del1848: e se io non devo ripigliar la storia della fondazione della doppia monarchia siciliana per opera de’ Normanni; e de’ successivi regni svevi, angioini, e aragonesi; e del vicereame austriaco-spagnuolo; e della venuta del borbone Carlo III; e dei mutamenti del novantanove, del sei, del quindici e del venti;ho bisogno non di meno da siffatti reggimenti diversi e disformi, trarre alquante notizie e considerazioni di uomini e di cose per apparecchiare il lettore a’ tempi che descrivo, e chiarirlo, che se in Napoli le cose andarono più precipitose che altrove, fa secondo la natural condizione, in cui quel reame sul principio dell’anno quaransette si trovava.

Al primo guardare le due Sicilie, direbbesi che i cieli avessero loro quel paradiso di natura conceduto a prezzo di civili patimenti e calamità. Spente, quasi appena nate, le republiche di Napoli e di Amalfi, per sette secoli non ebbero impero proprio, e l’altrui non fu durevole; e fra continue mutazioni, dovettero sempre dell’ultima maggiormente crucciarsi La monarchia che vi fondarono i Normanni, e colle armi illustrarono, trapassò dopo cinquantanove anni nella tedesca casa degli Svevi, che non la tennero più di anni settantasette; e mentre lumi di grandezza civile v’accendevano, venne di Francia la pestilenziale signoria degli Angioini, che ogni cosa per centosessantacinque anni fra guerre esterne e intestine rabbuiò. Non meno funesti per guerre e tristizie successero gli Aragonesi; i quali meno di sessantanni dominarono; e finalmente surse quella turpitudine del dominio vicereale, di cui il sole non vide mai il più sozzo; che per due secoli di servitù provinciale mise ad ogni miseria il colmo. Volubilità di destini infelicissimi, da accagionarne oltre alla natural postura agevole alle conquiste le pretensioni della curia romana, che contro gli uni chiamando gli altri, investivali e svestivali della corona, secondo che più o meno ad essa obbedivano. Laonde i principi che dai papi riconoscevano il regno, e sapevano quanto quelli fossero pronti ed audaci a romper guerra, e togliere quel che avevano dato, cercavano di empire da una parte le voglie chericali, e fomentare dall’altra mostruose superstizioni, facili ad apprendersi in quelle mobili e calde fantasie di uomini nati sopra vulcani accesi. Né alcun bene arrecavano certe franchigie, quasi di signoria limitata, poste da’ Normanni, e lasciate da’ successori; le quali più tosto che assicurare la publica prosperità, erano occasione di furiosi odii e guerre atroci fra la monarchia e la feudalità; non potente la seconda a vincere come in Inghilterra, e occupare il governo, ma potente a costringere i re a lasciarle spogliare e opprimere i popoli sotto l'usbergo di leggi confuse, arbitrarie, usurpatrici; di sacro e profano mescolate; accozzamenti deformi di secoli barbari fra generazioni corrotte.

Un lampo di bene, che ruppe tante e inveterate tenebre, balenò colla stirpe borbonica sul cominciare del decimottavo secolo; quando i monarchi per togliersi la gravosa e ingiuriosa autorità chericale e baronale, erano forzati a unirsi co’ popoli, e giovarli. E Carlo III, per consiglio e opera del ministro Tanucci, fu se non il principale, certo a nessun altro secondo, a infrenare il clero, e le libertà della corona vendicare. Ottimi ordinamenti fece, più cresciuti sotto il re Ferdinando, che ogni altro vergognoso resto di vassallaggio sbandì, le enormezze feudali moderò, la crudele natura dei baroni ammorbidì, e più ancora avrebbe fatto, se chi dato a reggere la sua giovinezza, non l’avesse anzi educato a’ diletti del corpo che agli esercizi della mente, o se tanto subito non gli fosse stato tolto il ministro Tanucci: il quale quanto più alle civili riforme inclinava, tanto maggiormente dispiaceva allo imperioso ingegno della fresca sposa di Ferdinando: che fin d’allora soggiogato l’animo del re, contento della caccia, della pesca e di altri simili godimenti, surrogò il marchese della Sambuca, e poi Acton: uomini secondo il cuor suo, e intenti a far nel regno più tosto le vecchie che le nuove dottrine prevalere.

Ma i semi sparsi e le introdotte riformagioni impedirono ohe lo intento ottenessero: e le massime di libertà ebbero in Napoli prima che altrove accoglienza, e più che altrove fruttificarono onorevolmente: non tanto per stabilità di governo libero, quanto per esempi di virtù e di sapienza, per maravigliose prove di coraggio e di valore, e per martiri che formano la più lagrimevole e insieme la più gloriosa materia delle moderne istorie italiane. Ché giammai a ordinamento di stato nuovo non furono veduti uomini più virtuosi e sapienti di coloro che la costituzione della partenopea republica compilarono; giammai città non combatté per la propria libertà con più invitto ardore di Napoli contro l’efferate genti dell’efferatissimo cardinal Ruffo; giammai morti più chiare non tinsero di sangue i patiboli; e solo quelle di Mario Pagano, di Domenico Cirillo, e di Francesco Conforti valgono quanto tutte l’altre d’ogni altra regione d’Italia, niuna senza onorati supplici rimasta.

Meglio sotto i regni napoleonici di Giuseppe e di Gioacchino i Napoletani ottennero ordinamenti civili e franchigie conciliabili con impero assoluto: e in que’ dieci anni altresì le milizie si ordinarono per modo, che lungi dalle patrie terre poterono acquistarsi gloria. E convien dire che le leggi e istituzioni napoleoniche vi si apprendessero, dacché nella ristorazione de’ vecchi reggimenti furono conservate come in nessun altro stato d’Italia: e furono altresì causa, perché ivi maggiormente si desiderasse una costituzione, quasi per mallevarle. Così la mutazione del 1820 fu operata facilmente dalla Carboneria per lo esercito più murattiano che borbonico, e per disposizione nelle genti, che fresche di governi civili erano più che mai cupidissime di novità.

Ma uopo era che la setta carbonaresca, fatta la rivoluzione, e costituito il nuovo governo e parlamento, non avesse seguitato a dominare, e guastato ella stessa la propria opera con deliberazioni spesso eccessive, talora incaute, e sempre rovinose alla patria; che vide in quel nuovo e brevissimo risorgere della libertà migliorate le leggi, nod egualmente difese dall’esercito e dal popolo, ingannati e traditi, e da prepotenza straniera superati; e cadde un’altra volta con tanto più dolore, quanto che a stato troppo franco, e maggiore del bisogno, successe più lunga e crudele servitù. La quale tuttavia non valse a sconficcare dal petto de’ Napoletani e de' Siciliani la memoria e il desiderio di libero stato: il che dimostrarono i novelli conati che nel 1828, nel 1832,nel 1833, nel 1837, nel 1841 e nel 1844 furono fatti in diverse provincie del regno; i quali poiché meno noti, e ancora mancanti di speciale istoria, non si reputi inutile che io qui, le sparse notizie da’ vari scritti raccogliendo, ne lasci breve ricordo, quasi anello fra gli avvenimenti del ventuno e quelli del quarantotto.

Mancato l'anno 1825 Ferdinando, prima quarto, e poi primo, e succeduto il figliuolo Francesco, se si potesse mai con fondamento sperare nei grandi, avrebbero dovuto i Napoletani imprometterselo se non più generoso, almeno più benigno; sendo pur quello, che aveva per la libertà del venti non solo abbracciato i giuramenti paterni, ma incuorato i popoli a difenderla, quando era noto, milizie straniere movere a conculcarla. Né doveva ignorare altresì che molti vi si erano intinti, per affidarsi in lui, che il vedevano sì ardente, e incessante promettitore di sostenere la costituzione. E quando pure i più indulgenti giudicatori e scusatori delle opere d$i principi volessero perdonargli di non aver impedito, che il padre annullasse quel che amendue avevano giurato innanzi a Dio e agli uomini di conservare, per essere così voluto là dove tutto si poteva; e di non avere almeno rattenuta la mano paterna dal sottoscrivere tante sentenze di morti e condanne di esilii, di carceri e di confino pronunziate dalle giunte di scrutinio (perciocché Ferdinando era tornato in tutto l’assoluto potere, e il cuor suo, destinato a non avere affetti propri, avevano occupato prima il crudelissimo Canosa, poi l’avarissimo Medici); non so come potrebbe essergli perdonato, che divenuto egli re, avendo rimandato i soldati austriaci, e veduto anco senza quella forza il trono delle Sicilie star fermo, non volesse arrecare un qualche alleviamento a tanti mali, indegnamente tollerati, con un governo più provvido nelle amministrazioni, più mite ne’ giudizi, più civile ne’ decreti; e da mostrare che se i tempi forse non gli facevano ripigliare la costituzione, non però l’animo suo dimenticava di averla con replicati sacramenti accettata.

Ma in cambio i destini del reame più tosto peggiorarono in quel miserando quinquennio; in cui preti, servidori e birri ebbero maneggio d'ogni cosa; e le gravezze aumentarono; crebbe il debito publico; cogli scialacquamenti dell’erario si congiunsero le maggiori crudeltà; ché se bene non vi fosse più ilCanosa, innanzi che si morisse Ferdinando, cacciato per opera del Medici, che l’odiava, o che ancora a lui facesse paura quel truce animo, o volesse solo il monopolio del regno, restavano tuttavia i seguaci e discepoli, potenti e operosissimi: fra i quali primeggiava lo intendente di Cosenza Niccola de’ Matteis, sì sfrontato nelle ribalderie, che non poterono i suoi protettori salvarlo dal giudizio de’ tribunali, e impedire che non fosse almeno dannato a dieci anni di confino chi pena: assai maggiore avrebbe dovuto espiare. Tutto il ministro Intontì aveva pieno di spie e di terrori, e nelle provincia la birraglia poteva e ardiva tutto. Né alcuno, coricandosi la sera, era sicuro che la mattina sarebbesi levato libero. Tempi di vera disperazione eran quelli, e le prove furono da disperati.

La provincia di Salerno l’anno 1828 fece movimento e nella piccola terra di Bosco non mancò ardire di gridare la costituzione: al cui grido si mossero le altre terre di Cetola, Cammarota, Licusati, Rocca Gloriosa, S. Giovanni a Piro. La qual congiura, nata con piccole forze, non altro fine proponendosi che di avere lo statuto di Francia, fu mandato a reprimere con pieni poteri Francesco Saverio del Carretto, che pochi anni avanti aveva fatto il carbonaro, e poi mutato veste, e chiamato a capitanare la così detta gendarmeria (milizia destinata singolarmente alla sicurezza interna) sfoderò tutta la terribilità dell’animo crudele: né fu eccesso ch'ei non facesse, quasi da oscurare tutti gli eccessi ohe da altri in quel regnò, in tempi più procellosi, erano stati operati. Cominciò dal publicare un perdono per avere alle mani i ribelli, che tutti; fece prendere e incatenati condurre dal Cilento a Salerno; alcuni de’ quali, un Bonifazio Oricchio di Vallo di Nuovo, padre di cinque figliuoli, un Donato de Mattia, padre anch’esso di famiglia, e un Angelo Mazzarelli, vecchio uffiziale, vinti dalla stanchezza e dal soverchio patire morirono per istrada, e di quelli che arrivarono, parecchi dietro giudizio militare furono uccisi, altri condannati a’ ferri, a molti confiscato i beni, nessuno uscì illeso. Non età, non grado, non sesso si risparmiarono, Fra gli altri morirono per mano del carnefice un canonico de Luca ottagenario, un nipote di lui guardiano dei cappuccini di Cammarota il curato del villaggio di Abatemarco, un Domenico de Luca e un Angelo Levo, amendue di Cosati, un Ricci di Pellara, e un de' Dominicis avvocato. Scrivo questi nomi per toglierli dalla oscurità non degna della fine che fecero; e alcuni altri ne aggiungerò. Un Alessandro Ricci fu ammazzato da’ gendarmi mentre fuggiva; e dato agli ucciditori mille ducati di premio, acciò di altre morti s insanguinassero. Perirono altresì un Michele Bertona, un Emilio de’ Mattia e un Bianco di Montana. Un cotal Cirillo del villaggio di Perito ebbe la morte per aver recato del pane a’ suoi contadini: imperocché Del Carretto, che si era posto dinanzi agli occhi l’esempio del ferocissimo Manhès, e voleva superarlo, aveva proibito che vettovaglia uscisse dai paesi, per affamare quelli che si erano dati alla fuga, e trarli così in suo potere. Nel numero immenso de’ torturati e condannati a’ ferri si contavano parecchie donne, fra le quali la moglie di Antonio Galotti, che, stato de’ più attivi, gli era successo di fuggire. Ma dove la crudeltà del commissario non ebbe limiti, fu nella terra di Bosco, cui, per essere stata la prima a sollevarsi, spiantò dalle fondamenta, e rizzovvi a perpetuo terrore una colonna, che disse d’infamia, quasi fosse stato in poter suo lo infamare, com’erano lo ammazzare e il distruggere.

Per compenso di sì fatti servigi fu creato marchese, e sollevato al grado di maresciallo. Onori, o meglio oltraggi alla sventura publica, che gli lastricarono la via al sommo potere di ministro. Dove fu assunto l’anno 1834, un anno dopo che era salito in trono Ferdinando IL Né vogliamo qui tacere che vi era salito accompagnato da liete speranze, che avrebbe fatto regno migliore. La sua giovinezza, la recente rivoluzione di luglio in Francia, i cominciati movimenti di Romagna erano cause a bene sperare. Le rassodava ch'ei s’annunziasse con un editto biasimante il governo dell’antecessore, e promettente giustizia; e giustizia fece, richiamando dall’esilio e togliendo dalla carcere e a’ maggiori uffici innalzando parecchi di coloro che avevano avuto parte nelle cose del 1820. Poi fu detto che questa fosse arte del ministro Intontì: il quale sentendosi aborrito da tutti e mal sicuro, e temendo forse che altri per salire avesse fatto generose proposte, consigliasse il re a governo più largo, ampliando il consiglio di stato, rifacendo tutta l’amministrazione, conferendo cariche a uomini onesti e dotti, richiamando ufficiali cacciati, formando una guardia cittadina; provvedimenti che equivalevano quasi ad una costituzione; e il re da prima abbracciasse i suoi consigli, lodandoli, e promettendo di togliere gli altri ministri, e i designati da lui eleggere. Ma cambiate Tanno appresso le cose d’Italia e d’Europa, sperimentata al solito fallace la Francia, compressi i moti delle Romagne, del Modanese e del Parmigiano, e tutto rassicurando sostegno a’ vecchi troni, lo Intontì vide rovesciare sopra di sé la macchina, che aveva contro gli altri apparecchiata; i quali, come suole, tutti si congiunsero, e ogni mezzo adoperarono a scassinarlo, non mancando chi al re lo dipingesse partigiano del nuovo governo francese. Fu ordinato che ip ventiquattr’ore uscisse del regno, e gli fossero tutte le carte sequestrate, rallegrandosi ognuno che quel crudele uomo, mostratosi benigno per più cupa ambizione, fosse caduto.

L’allegrezza cessò quando si seppe che in luogo di lui saliva il distruttore di Bosco, giunto a tempo a trar profitto dei già sventati commovimenti dell'Italia superiore, per crear nuovi sospetti di ribellioni e di congiure nella Italia inferiore, e fondare un governo, dove la sua potenza dovesse ogni altra soperchiare, conforme appariva il bisogno di usarla. Ma quel ch’ei cercava di far credere, avvenne; e negli anni trentadue e trentatré si congiurò in modo, che il publico se ne accorse, e il ministro ebbe occasione di raffermarsi la fama di crudele. Fu chiamata la prima, congiura del Monaco, perché un frate la ordì; a cui ne seguitò altra che ebbe nodo nell’esercito, avendola cominciata dieci giovani fra uffiziali e sottuffiziali del secondo reggimento della guardia reale. Il frate e un tal Vitale furono per la prima condannati a morte; un Rossaroll e un Ancillotti per la seconda. Il re cambiò la pena estrema in ergastolo, ordinando che di questa sua grazia il Rossaroll e l’Ancillotti fossero consapevoli quando erano sul palco. Può dirsi non essere passato anno, che qualche più o meno palese congiura or qua or là non si facesse; e quanto più i tribunali di stato inferocivano, tanto più i popoli di congiurare s’invaghivano, meglio per moto di cieca disperazione, ché per alcuna speranza di acquistare libertà.

Ma fra tutte le provincie del regno la più disposta a ribellarsi era Sicilia: della quale, stata somma parte de’ presenti avvenimenti d’Italia, dirò ancor più particolarmente. Terra più illustre per antichissime memorie, e più dalla natura di tutti i suoi doni arricchita, non ha Italia. La prima civiltà nostra che abbellì la Grecia, e di Grecia tornò a rifiorire l’Italia, uscì di Sicilia; la seconda civiltà, pure italiana, per la quale Europa cominciò a disnebbiarsi della barbarie settentrionale, uscì anch’essa di Sicilia; e di questo idioma, che in Toscana grandeggiò e illustrò il mondo, furono siciliani i primi suoni. Ricchezza principale di Roma antica fu Sicilia; che non impinguò meno i dominatori moderni, e in compenso nuovi Verri, che la straziassero, non le mancarono. La prima luce di libertà dopo la lunga notte del medio evo sfavillò in Sicilia; dove i parlamenti publici nacquero colla monarchia, e se fondati erano negli orfani feudali, noto è avere allora là feudalità signoreggiato tutto, e d’ogni reggimento stata nerbo e potenza.

La costituzione data da’ re normanni allargarono gli Svevi, sotto i quali l’isola fiorì d’ogni bene, e quasi toccò l’apice di sua grandezza: onde non è maraviglia, se più d’ogni altra insegna, l’aquila imperiale abbiano fino a’ nostri giorni careggiato i Siciliani, memoria per loro, e forse per l’Italia, di potenza e di gloria. Né gli Angioini che per vendetta e cupidigia de’ pontefici se ne impadronirono, e la tiranneggiarono come la superbia e rapacità francese sapevano meglio, pagarono della loro oppressione sì vile il pregio che non dovessono ricordarsene per lunghezza di secoli. Pure i due re francesi non osarono formalmente cassare la siciliana costituzione; rispettata altresì dagli Aragonesi, sotto i quali anzi il potere della corona s’indebolì per cresciuta autorità ne’ baroni e nel clero. Onde chi volesse dalla istoria di Sicilia argomentare le inclinazioni di quel popolo, di leggieri lo giudicherebbe fatto per la monarchia più o meno temperata dall’aristocrazia; e la fine del passato secolo e il principio del presente con due notissimi avvenimenti fecero di ciò assai viva testimonianza; perciocché nel novantanove, mentre nel desiderio di distruggere gli ordini aristocratici e monarchici s’invasò quasi tutta Italia, e più particolarmente il regno di Napoli, la Sicilia servì anzi di rifugio al re e alla corte. Ma lo stesso rifugio era per cangiarsi in guerra di ribellione l'anno 1842, se a frenare il governo assoluto de' Borboni, distruggitori dell’antica costituzione siciliana, non accorreva sollecito e risoluto lord Bentink con una nuova costituzione su quella d’Inghilterra foggiata. Deplorabil dono, perché di stranieri: perché dato per frode e mantenuto finché fu interesse inglese padroneggiare l’isola: e perché cagione di turbolenze e dissidii interni; e tuttavia sufficiente a dimostrare quanto mal disposta regione a monarchia dispotica fosse Sicilia. Del che non parve si persuadesse Ferdinando, di quarto divenuto primo; e tornato sul trono di Napoli, pagò a’ Siciliani l’averlo due volte accolto fuggitivo, togliendo loro quella costituzione da lui giurata, dall’Inghilterra assicurata. Il quale atto non fu meno sconsigliato che ingiusto: perciocché a voler fare di Napoli e di Sicilia un regno solo, e mantenerlo in pace, era da lasciare alla seconda la propria costituzione, come per circa sette secoli avevano trentuno re praticato. Ma la signoria napoletana, sol nella forza delle armi di fuori, aiutata dalle arti diplomatiche, confidando, ridusse l'isola in condizione di provincia, salvo alcune prerogative, lasciate per maggiore inganno. Di che la conseguenza non fu solo che Sicilia perdesse le sue vecchie e nuove libertà, ma che alle gare antiche e sdegni recenti s’aggiungesse novello e implacabile odio fra i due popoli, surgente da funesta persuasione ne’ Siciliani, che il re non avrebbe fatta quella deliberazione, se non ve lo spingevano con mille arti, e col mezzo de’ ministri gli stessi Napoletani per vendetta del non aver saputo evoluto sopportare il loro superbo imperio, quando nell’isola ripararono.E di quest’odio gli effetti furono veduti nel 1820, e non furono ultima parte delle calamità dell’anno appresso. Imperocché, avendo i Napoletani carpita dallo impaurito re la costituzione spagnuola, e affrettandosi di chiamare a parteciparla anco i Siciliani, per averli compagni nell’impresa, non ancora bene assicurata, i Siciliani sospettosi e diffidenti, quasi quel dono venisse loro da nemici, accettarono sì la costituzione, ma con patto di avere un parlamento e un governo a parte, come per tanti secoli avevano avuto, e come nell’ultima riforma del 1842 era stato statuito. Se i Siciliani fecero male a impor condizioni a’ Napoletani per una libertà, di cui ancora né gli uni né gli altri erano sicuri, peggio ancora fecero i Napoletani a rifiutarle: né potrebbe mai essere abbastanza deplorata la guerra che si ruppero: tanto più odiosa quanto che non a nome del re, ma della nazione si faceva. Né s’accorgevano i due popoli, che colle loro civili discordie, fomentate da chi non voleva né la costituzione di Napoli, né quella di Sicilia, agevolavano il ritorno della comune servitù: mostrandosi la signoria borbonica più aspra verso quella delle due regioni, a cui avrebbe dovuto essere più obligata: conciossiaché essendo napoletani gli uomini che tenevano il governo, e partecipando, come suole, dell’odio divenuto profondo e universale fra’ due paesi, non che pensare ad addolcire alla Sicilia la perdita della libertà, la trattarono come se fosse stata terra nemica. Per lo che in gran sospetto si viveva: cui fece traboccare in furore la pestilenza del 1837; la quale cominciata nel Bengala nel 1847, e portata da’ Russi in Europa nel 1834 col nome inglese di cholera morbo, da due anni travagliava le principali città d’Italia, e Napoli principalmente; da cui si comunicò a Palermo per una nave (secondo che fu opinione) ivi approdata, carica di assise militari che soldati morti in Napoli aveano indossato; onde i Siciliani dicevano, che dopo aver loro i Napoletani portato guerra e fame, ancora di questo terzo flagello furono apportatori. Come il crudel morbo si apprendesse a quella città calda e popolosa, e quale mortalità vi facesse, e di quanta perturbazione fosse cagione, rifugge il pensiero di raccontare. Svscitaronsi le solite maligne voci di avvelenamenti e maleficii, che facilmente divolgate e credute dove tanti semi di odii e di nimicizie erano stati gittati, fecero trascorrere il popolaccio ad ogni eccesso; e non pochi furono trucidati per sospetto di avvelenatori; tra’ quali governatori, giudici ed altri ufficiali publici. Del qual disordine credettero prevalersi i desiderosi di novità, e in Siracusa levato rumore gridarono una costituzione da alcuni improvvisata, senza che le interrotte comunicazioni permettessero al resto dell’isola di parteciparla. Ma il re volle come di piena ribellione farne gastigo; e con assoluti poteri e milizie mandò il del Garretto, sapendo che chi aveva spianato la terra di Bosco, non avrebbe fatto l’umano in Sicilia. La quale piange ancora le atrocità crudelissime del ministro napoletano; avendo veduto senza giudizio né sentenza, e per sospetto, e come in massa, ammazzare gran numero dei suoi migliori cittadini, non perdonandosi alla imberbe adolescenza e al gentil sesso. Circa centocinquanta teste furono messe a prezzo de’ condannati a morte da’ tribunali soldateschi otto furono a Catania, dodici a Siracusa, diciassette a Misilmeri, nove a Floridia, otto a Marineo, e quattro a Canicattì; fra’ quali alcuni erano rei d’altri delitti, ma non sarebbono andati al supplizio senza l'accusa di oltraggiata maestà. Fra i diciassette morti a Misilmeri, notavasi un giovanetto di anni quattordici; e in ferri fu posta una donna accusata di aver sonato a stormo. Quasi era da invidiare chi moriva di peste, che non vedeva coll’ira del cielo la rabbia degli uomini gareggiare. Né vedeva chi aveva insanguinato il giorno con tante morti, la sera nel palazzo del comune invitare a danza; e più pago che sazio, tornare a Napoli a ricevere le insegne dell’ordine di San Gennaro, come se dall’aver acquistato al regno nuove città o beneficato vecchi popoli fosse tornato. Quasi più delle scelleratezze offendevano i premii agli scellerati, sì come in tempi corrottissimi. E per contrapposto agli onori dati al ministro, fu per decreto tolta la sede del capo di provinciaalla città di Siracusa; e ridotta qual misero villaggio la un tempo emula di Atene, onor principale d’Italia, ricca e beila città; teatro di glorie antiche, e di sventure moderne.

Se innanzi al trentasette la Sicilia era stata angariata e oppressa, maggiormente patì dopo, per la vendetta degli ultimi fatti, e per la paura, cambiata in ferocia, di crederla sempre disposta a sollevarsi. Vi fu ordinato un governo detto di promiscuità; per il quale i Siciliani erano chiamati agli uffici di Napoli, e i Napoletani a quelli di Sicilia: diportandosi i secondi colla insolenza più di vincitori che di stipendiati publici: e guai a chi avesse ricorso o fatto lamentanza; la perdita dell’ufficio, se ufficiale; la prigionia, se privato, erano apparecchiate. A rovinare uno bastava che una spia accusasse, un commessario credesse; e vedevansi a un tratto scomparire onesti cittadini o confinati o cacciati in esilio o rapiti in carcere, spesso per private vendette e gare di chi voleva male o aveva interesse di non aver compagno o competitore ad agognate fortune. E poiché vi aveva chi per carità di patria osava ammonire i più imperiosi a non andare tant’oltre, se non volevano che da sì fatto costringimento scoppiasse qualche gran calamità, quelli rispondevano: essere mestieri di umiliare quella canaglia di Siciliani. E altri più insolenti aggiungevano: essere venuti a incivilire que’ barbari. Dalle quali parole replicate da altri, nascevano riotte e duelli, e ciò che più era danno, le piaghe che [F odio vecchio e nuovo fra Napoletani e Siciliani aveva aperte, maggiormente inciprignivano, e quasi non più possibile diveniva il saldarle, come più tardi la esperienza addimostrò.

Nel medesimo tempo moltiplicavano le tasse; più esorbitanti divenivano i tributi; più crudeli le riscossioni; maggiormente indignando, che si tassasse, imponesse e riscuotesse sotto colore di bisogni straordinarii dell’Isola; conciossiaché non s’ignorasse, che le somme raccolte andavano a en pire le casse di Napoli, non per benefizio di quell’altra parte del regno, forse più aggravata, ma sì dei ministri avari e rapaci. E intanto nell’isola trovavasi quasi abbandonata l’agricoltura, misero il commercio, impacciata l’industria, non strade fra città e città praticabili o libere da’ ladroni, le amministrazioni sconvolte, la morale publica svillaneggiata, la religione invilita, e ciò che in altri tempi egualmente scellerati diceva lo storico, la virtù rovina certa, i premii delle spie abominevoli quanto i delitti, riportandone chi vescovado e magistrato, chi maneggi e potenza intima; onde ancora fra gli Stessi Siciliani parecchi adescati s’unirono a servire e maggiormente incoraggire quelli che forse meno arditi sarebbono proceduti nell’imperversare l’isola, se negli stessi suoi figliuoli non avessero talora trovato assistenza e sostegno. Tanto è potente la corruzione che move dall’alto.

E per finire la trista dipintura, increscevole non meno a ehi scrive che a chi dovrà leggere, restava quasi ombra dei passati tempi un ministero siciliano non dependente dal napoletano; fu ancor questo casso, e ordinato che gli ufficiali publici dovessino col ministerio di Napoli dirittamente corrispondere. Da ultimo il luogotenente del re venne spogliato delle non molte facoltà lasciategli da chi pure non aveva usato grande generosità nel concedere. Vi era stato parecchi anni luogotenente il principe di Siracusa, fratello del re, e co’ suoi modi cortesi, più che colla autorità, era riuscito a farsi amare dove ogni altro procacciava di essere odiatissimo. Per gelosia o sdegno che apparisse buono a petto a chi voleva essere il contrario, fu tolto: e la real luogotenenza fu a tale ridotta, che fra gli stessi gentiluomini napoletani, in tanta corruttela di animi, e appetito di danaro publico, non si trovò che volesse quella carica accettare altri che un balordo, il quale o per vergogna, o per ordini ricevuti, dimoravasi gran parte dell’anno in Napoli, dove colla data di Palermo sottoscriveva i fogli; e in quella città si conduceva quando le pompe e comparse lo richiedevano, più a ludibrio e dispregio, che ad onore della sovranità. Costretti per tanto i Siciliani a chiedere e cercar tutto a Napoli, era spettacolo compassionevole vederli di continuo attraversare il mare, che per più calamità li disgiungeva dalla tirannide; empire le sale de’ ministri, già per altri popoli del regno affollatissime; rimanere più giorni senza poterli vedere, e spesso, se Foro dato a custodi ingordissimi non aiutava, tornarsene in patria come si erano dipartiti. Non posso qui fare a meno di notare: se poi i popoli chiedevano riforme, non s’hanno a maravigliare né dolere coloro che da quel chiedere riforme ripetono la prima radice de’ successivi sconvolgimenti; massime in Napoli dove incontanente si mutarono in costituzioni, come più sotto sarà dimostrato. Ora è da seguitare la dolorosa istoria degli anni che le domande di riforme precedettero.

E di Sicilia tornando nel continente, nuove congiure, nuovi martori, nuovo sangue, e non dissimili oppressioni in altre provincie del regno contristano i nostri occhi. Negli Abruzzi la città di Aquila nel 1841 fece movimento; ammazzò il comandante della provincia, Gennaro Tanfano, compagno nel novantanove del cardinal Ruffo; poi spia e cagnotto di Carolina in Sicilia; finalmente parte della giunta di scrutinio per le cose del 21, e sempre codardo e crudele e infamissimo. Ma il grido di libertà non appena pronunziato colla morte del Tanfano, fu tosto spento, e quattro ebbero il supplizio estremo, cinquansei dannati a’ ferrico bandeggiati. E quasi tante morti accrescessero coraggio e voglia di morire per la libertà, le Calabrie tre anni dopo si mossero anch’esse: e fra quelle feroci e ardite popolazioni gittato il seme, fu anche meno facile di soffocarlo. Inalberato Cosenza la insegna della ribellione, non mancarono petti che la difendessero, e un Francesco Saffi, un Michele Musachio, un Emanuele Mosciaro, un Francesco Coscarella, un Giuseppe de Filippis caddero combattendo dopo avere pure combattendo ucciso il capitano dei gendarmi Galluppi. I morti per sentenza di consigli militari furono più, e la storia non dee tacere i nomi di Niccola Corigliano, Antonio Rao, Pietro Villacci, Giuseppe Camodeca, Giuseppe Franzesi, Santo Cesario. Ad altri quattordici pure dannati a morte fu la pena scambiata in ergastolo; altri in altre guise puniti e perseguitati. Ma quei moti calabresi, che altrimenti non si potrebbero chiamare, che effetti di disperata voglia di morire, furono fatale allucinamento ad altro successivo fatto, che la vita costò a’ due fratelli Bandiera: de’ quali toccammo altrove, e qui più particolarmente cade il racconto della loro fine.

Era stato sparso ad arte, che ribelli di Cosenza raccolti sulle montagne, e apparecchiati a combattere per la libertà, aspettavano chi volesse e sapesse guidarli. Aggiungevasi, essere i siti non più guardati del solito, e agevole il passare. Qualcuno affermava, che in un bosco distante mezz’ora dalla città di Rossano, buona mano di sollevati quasi ogni notte assaltavano la gendarmeria. Altri raccontava, più centinaia. di sbandati essersi' mostri a Cotrone, averli la soldatesca rincacciati, non distrutti, e correre le campagne, predando a’ ricchi, e spargendo oro fra’ contadini. Di queste notizie, o false o esagerate, erano pasciuti i creduli animi de’ fratelli Bandiera, che insieme con altri diciotto fuorusciti di altri paesi d’Italia si trovavano inCorfù, vigilati da’ ministri delle corti d’Austria e di Napoli, che sapevano tutto, e il momento aspettavano di trarli nel laccio. Conciossiaché fra di loro già nascondevansi i traditori: Pietro Boccheciampi, di origine corso, e nato inCefalonia, e un bandito calabrese, detto il Nivaro, che si trovava in Corfù, e doveva servir loro di guida. I diciotto traditi erano, oltre i due Bandiera, Domenico Moro e un tal Manessi veneziani, Niccolò Ricciotti di Frosinone, Francesco Berti di Ravenna, Anacarsi Nardi di Modena, Jacopo Rocca di Lugo, Domenico Lupatelli di Perugia, Giovanni Venerucci, un colai Miller e Luigi Nanni forlivesi, Francesco Tesei di Pesaro, Pietro Piazzoli, Tommaso Mazzola e Giuseppe Pacchioni di Bologna, Carlo Osmani d’Ancona, e Paolo Mariani di Milano.

Partirono di Corfù la sera del dà 42 di giugno, e nella notte del dà 46 sbarcarono a manca della città di Crotone. Appena preso terra, contano che s’inginocchiassero e la baciassero gridando: Tu ci hai dato la vita, e noi per te la spenderemo. Poi verso i monti s’incamminarono, chiamando fratelli quanti in loro s’avvenivano, e aggiungendo: essere venuti a liberarli, secondassero il nobile ardire di scuotere l’odioso giogo. Nessuno rispondeva; il calabrese che li guidava erasi dileguato; e il vedere dieciannove ignoti, arrivati di fuori, senz’armi e seguito, pretendere di accendere rivoluzione dove cruda e armata signoria albergava, pareva più tosto delirio che ardimento; e i popoli non che muoversi alle loro parole, in alcuni luoghi li presero in sospetto, e non che aiutarli, renderono più facile alle soldatesche regie il catturarli. Pure non mancò chi sentendo di loro compassione, awisolli del pericolo che correvano, e dietro alla scorta d’un villano imboscatisi, dopo molto errare, giunsero in sull’albeggiare presso la terra di San Severino; dove s’accorsero che il Boccheciampi erasi già spiccato per correre a Cotrone a informare i magistrati. Ecco in fatti d’ogni parte uscire cacciatori, gendarmi e militi urbani; dei quali settanta scontratisi presso a Spinello co’ fuorusciti, e azzuffatisi, furono vinti e fugati. Seguitavano quelli lor cammino verso San Giovanni in Fiore, nel tempo che da Cosenza, da Napoli, e da altre parti più numerose movevano le milizie. Avviluppati, uno fu ucciso, varii feriti, tutti presi, battuti, spogliati, rubati, e con catene condotti alle carceri di Cosenza. I cui abitanti commossi al tristo caso, affollavansi lagrimosi intorno a’ cancelli, mandavano rinfreschi e parole di conforto, le donne li richiedevano de’ loro capelli, e altre dimostrazioni di affetto erano fatte a quegl’infelici. Le quali noto, perché ora mi convien riferire la barbarie de’ giudici, non sì feroce che non fosse vinta dalla generosa fierezza degli accusati. Avvocato fiscale di quella corte militare era un tal d’Aglia, cima di manigoldo; che avendo interrogato un de’ Bandiera, se era barone, quegli rispose: non me ne pregio; e richiestolo più volte di qual paese fosse, costantemente replicò: d’Italia; e da ultimo domandatogli come fosse venuto a Cosenza, indignato disse: a cavallo a un mulo, e in messo a tanti ladri. Fu insieme col fratello sentenziato a morte, né vollero essere difesi, per minor vituperio della giustizia. La stessa sorte ebbero i compagni. Il solo che meritasse il supplizio, cioè il Boccheciampi, il quale per meglio tradire s’era fatto incarcerare, usci salvo; non difeso da liberi avvocati, che onorevolmente ricusarono, ma da uno prezzolato.

Menati fra guardie nel cortile del carcere, e letta loro la sentenza, gridarono a una voce: viva Italia; poi entrati in cappella, a’ sacerdoti che intendevano convertirli, rispondevano: avere essi praticato la legge del Vangelo, e cercato propagarla anche col prezzo del loro sangue; speravano di essere raccomandati a Dio meglio dalle loro opere, che dalle altrui parole; serbassero i loro uffici per predicare agli oppressi fratelli in Gesù la religione della libertà e dell’eguaglianza. Né mancarono a loro stessi nell’ora del supplizio. La mattina che doveva essere per essi l’estrema, furono trovati tranquillamente dormire; e destati dal carnefice, s’abbigliarono con eleganza, quasi ad una festa dovessero andare: e giunti fra popolo mesto e sbigottito al luogo di morte, si abbraccia rono e baciarono, e replicando il motto di viva Italia, ultime voci, esposero il petto agli archibugi. Primo a cadere fu Emilio Bandiera; lo seguitò il fratello Attilio, che non colpito diritto; sentì più gli strazi dell’agonia. A loro tennero dietro Domenico Moro, Niccola Ricciotti, e gli altri 14. Narrano che il popolo co sentine raccogliesse le palle, e serbassele quasi reliquie. È certo che l’essere stati ammazzati giovò alla loro fama; perciocché lo intrepido coraggio con cui abbracciarono la morte, ecclissò la follia della loro impresa, e non meno pianti che ammirati trapassarono; mentre nessun atto di crudeltà infamò tanto chi opera tanto in aria, di giovani inesperti e ingannati, più degna di compassione che d’ira, puniva colla ferocità dell’estremo supplizio. Fu questo l’ultimo sangue sparso per colpe di maestà nel regno di Napoli, innanzi al commovimento degli anni quaransette e quarantotto; non senza provare, non essere in Italia popolo che abbia più lunghe e crudeli battiture sopportato, e meno da quelle siasi lasciato domare.

Coll’animo angosciato dalla narrazione di sì lagrimevoli fatti, ci soffermiamo, per trarne le seguenti imagini del popolo, dell’esercito, e del governo. Non era in Italia luogo, dove fosse sì grande e spaventevole distanza fra la parte civile e la non civile, come nel reame di Napoli; perciocché in nessun luogo d’Italia la parte civile era tanto civile, né tanto imbestiata la non civile; intervallo che nasceva dal fare le buone istituzioni negli animi educati e addetti a' liberali studi quel maggior prò che desiderare si possa; e le stesse istituzioni rimanere affatto inutili per le moltitudini abbiettissime e corrotte. Quindi estremi il bene e il male, ed estremi i resultamenti. Facile a trovare chi spiri da eroe sul patibolo, e chi faccia volentieri da carnefice; non difficile aver popolo coraggioso e risoluto che gridi e voglia libertà piena; egualmente non difficile aver popolo vile e codardo che gridi e voglia servaggio intero. Così dove scrisse il Filangieri, e dove morirono il Pagano, il Cirillo, il Conforti e il Caracciolo, inferocirono il Vanni, lo Speciale, il Guidobaldi, l'Artali, il Canosa, e il Del Carretto; dove invitte schiere propugnarono in fino all’ultimo sangue per la libertà, le masnade del cardinal Ruffo anch’esse fino all’ultimo sangue propugnarono per la tirannide. Dove fu possibile nel 1821 mettere in piè in pochi mesi settanta coorti di milizie civili, poterono i nemici farsi aprir le porte dal tradimento: e dove la più nobile eloquenza illustrò il nuovo parlamento, la più audace e insidiosa e cieca improntitudine rovinò ogni cosa. Così la giacobineria, la carboneria e l'altre sette ebbero nel reame di Napoli il maggior nutrimento: ed ivi altresì il così detto brigantaggio ebbe il maggior nerbo; e dove fu in tanta abominazione il Santo Uffizio, trovarono i gesuiti maggior clientela; e dove più fiorì la filosofia, e la curia romana ebbe più validi e dotti oppugnatori, la superstizione fanatica e ambiziosa maggiormente signoreggiò. In fine dove il bene fece più frequenti e gloriose prove, il male potè più lungamente e crudelmente abbarbicarsi. Civiltà adunque e bestialità, amendue nell’estremo grado, spiccavano nei napoletani popoli come in nessun altro d’Italia.

La porzione civile apparteneva quasi intera all’ordine mezzano, in piccol numero alla nobiltà e al clero, la più parte tutt’uno colla plebe. E poteva dirsi il napoletano popolo dividersi in una cittadinanza potente d’ingegni e di studi, e sopr’ogni altra desiderosa di libertà, e in un volgo di ricchi e di poverissimi, ignorante, superstizioso, codardo, volubile, sfrenato, e in fondo di tutte le viltà, che farebbero onta alla razza de' bruti, non che alla nostra umana. Conseguitavane per tanto che questa plebe divenuta sarebbe facile stromento di qualunque avesse trionfato, come quella che con pari facilità si lasciava persuadere ad essere libera o schiava, ignorando egualmente i beni della libertà e i mali della schiavitù, e facendosi tirare al momentaneo diletto di schiamazzare, banchettare, veder cose nuove, e forse svaligiare e rubare. Onde se da per tutto e sempre le moltitudini riescono instabile e infido appoggio a’ governi, molto più poteva della napoletana affermarsi, quasi costretta dalla stessa bollente natura del suolo ad essere mobilissima e leggieri.

Ma la parte civile non tutta in egual modo intendeva e desiderava la libertà; e rileva assai indicare i vari ordini degli uomini che liberali si appellavano: anch’essi ritraenti delle condizioni publiche. Primieramente v’avea di coloro che cercavano libertà più o meno alla forestiera, e di quelli che la cercavano alla italiana. Negli uni non era quasi amore alcuno della liberazione d’Italia, e quindi poca e instabile inclinazione, se pure non era contrarietà, a congiungere e regolare la libertà propria con quella degli altri stati della penisola; quasi loro bastasse di avere una costituzione alla francese o alla spagnuola o all’inglese, nulla o poco importando se la medesima costituzione al resto degl’italiani si confacesse. In fine in questo primo ordine di cittadini, era più bramosia di libertà che d’unione italica. Esso però in altre due ben distinte schiere suddividevasi; di uomini che avrebbono voluto una libertà, la quale fosse civile, ma rasentasse collo imperio assoluto; e di questa voglia erano, i così detti murattiani e napoleonici, o seguaci e affezionati a’ due governi francesi, che in Napoli più che altrove avevano lasciato desiderio di loro, per essere stati più tosto benefici in pace, non ingloriosi in guerra. Altri poi volevano una libertà che non sapesse punto di assoluto potere; e di questi alcuni inclinavano alla costituzione monarchica del 1820, ritratta dalla Spagna, cui già Napoli aveva veduto mettere in atto; alcuni altri ammoniti dalla non felice riuscita, per soverchio di libertà popolare, dove mancava popolo educato alla libertà, reputavano migliore l’ultimo statuto di Francia, praticato con quella rimessa politica, di cui il re Luigi Filippo e il ministro Guizot porgevano allora esempio: e pareva buono esempio, da che i più non vedevano o fingevano di non vedere qual fìne sciagurato era apparecchiato a sì fallace e ingannatrice maniera di reggere le nazioni. Forse vi avea che la republica vagheggiasse, ma per dir vero, di republicani napoletani pochi si potevano contare. Del novantanove o non restava alcuno che seguitasse a nutrire le stesse opinioni, o era vecchio, e rimaso inoperoso e ritroso a far movimenti dopo tanta sperienza di mali. E dei novelli republicani quelli, che potevano operare vivevano fuori della patria e lontani e non ascoltati, avendosi più tosto in opinione di pazzi che di uomini atti ad affrancar la patria. Dell’ordine di coloro che volevano libertà di foggia italiana, erano i nuovi politici, che delle dottrine uscite recentemente del Piemonte innamorati, argomentavano non poter mai alcuno stato d’Italia conseguir franchezze civili, senza che tutta Italia altresì le conseguisse. E ancora in questa schiera, secondo l’età, complessione, costume e ingegno, v’era chi più avrebbe desiderato, e chi a procedere più temperatamente era disposto; ma tanto i più moderati, quanto i meno, reputavano la liberazione d’Italia supremo benefizio, e a quello i loro fini e brame dirizzavano.

Se vogliamo anco le inclinazioni della parte non civile investigare, non è difficile notare, non tutti in egual modo appetire la tirannide; e alcuni più dolce e lusinghiera, perché più durasse, la bramavano; e costoro alle prime riforme non per amore ma per lusinga sarebbonsi in parte piegati. Oltreché odii e gareggiamenti personali in corte e nel ministero facevano sì, ché alcuni non volevano quel che volevano altri, e qualcuno avrebbe anco abbracciato la libertà per rovinare l’emolo, con cui aveva pur comune il desiderio e l’abito di servire. E non s ingannerebbe per avventura chi credesse, che queste private ire, prodotte da superbia di aver più potere nelle consulte del principe, o più guadagno ne’ maneggi del governo, aiutassero e quasi facessono risolvere il cambiamento nel gennaio del quarantotto. Quei cortigiani, dignitari e ministri s’odiavano e vituperavano per insaziabile voglia di stare uno più alto dell’altro, e aver più cagione di profìtto. Più tosto che tenersi il sacco degli onori e del danaro publico, ognuno avrebbe voluto ingoiar tutto; e da questa estrema ingordigia nacque la rovina degl’ingordi, senza che per altro si spegnesse il seme.

Non è maraviglia che l’esercito e il governo, che in fine scaturiscono dal popolo, ritraessero più o meno di tutte le sopraddette qualità e differenze. Quanto all’esercito, esso era stato principale e assidua cura del giovine re, quasi per trastullo proprio e vaghezza il tenesse; onde tanto più la nazione se ne querelava, quanto che la maggior causa degli aggravi publici riconosceva dalla enorme spesa che le costava quel regio sollazzo. Ma per lode del vero è da dire, che chi pareva non mettesse in piè che milizie da teatro e da finte battaglie, per godimento proprio, e spettacolo del volgo, riuscì a ordinare un esercito non solo da movere finte battaglie, ma da sostenere quandoché fosse anche battaglie vere. Né altra poteva essere la sua indole, che sommissione cieca a chi lo comandava e pagava, come per l’ordinario di tutte le milizie stanziali: se non che quello che nelle altre milizie era effetto di severa disciplina e morale dependenza degl’inferiori da’ rispettivi superiori, nelle napoletane, per un bizzarrissimo contrapposto, la stessa corruzione (temendo e sospettando uno dell’altro) giovava a mantenerle fedeli. Il che dovrebbe far maraviglia, se i modi coi quali furono ricomposte, non ce ne porgessero assai naturale spiegazione. Dopo il milleottocentoquindici la Carboneria cotanto travagliatasi nel regno, veggendo che mutazione non era da fare senza voltar l’esercito, e renderlo vago di novità, a questo principalmente attese e potè, essendo più allora fattura de’ napoleonici, già caduti, che dei vecchi Borboni risuscitati: come provossone l’effetto nella mutazione del venti: la quale nessuno ignora essere stata opera della milizia, divenuta quasi tutta carbonaresca.

Tornato l’imperio assoluto colle forze straniere, giudicato sommo provvedimento sciogliere lo esercito infedele e gastigarlo, la corruzione publica si manifestò, e molti fra’ capi anteposero la infamia del tradimento a’ travagli della vita: e i traditori tanto più trovarono grazia e premio, quanto che a processare e sentenziare soldati giovava aver fiscali e giudici gli stessi loro complici. In tal modo si formarono i consigli di scrutinio: i quali non so, se più la crudeltà del governo, o il publico pervertimento rivelassero. Venuto il tempo della ricomposizione di essa milizia, e fatta durante la occupazione straniera, non ebbero gradi che gli antichi devoti alla casa borbonica, i carbonari, e i murattianj ripentiti e quell’accozzaglia d’uomini che niuna fede a niun principio buono avevano mai dimostrata. E da prima le compagnie anzi che per costringimento si formavano per volontarie descrizioni, mezzo generoso se un turpe fine non l’avesse accompagnato; perciocché l’arrolare, eseguito per premio, valeva meglio a istigare la ingordigia degli arrolatori, che a procacciare buoni soldati: come provarono due reggimenti siciliani fatti a prezzo di uffici publici, conferiti a quelli che un numero di scritti presentavano; i quali ben cercarono di raccogliere la feccia delle città. S’aggiunse che di mano in mano partivano gli Austriaci, giungendo gli assoldati reggimenti svizzeri, questi coll’esempio insegnarono la servilità, e coll’autorità, che più specialmente acquistarono, quasi di guardia pretoriana, la promossero.

Né in processo di tempo, come che l’esercito fosse aumentato, e meglio ordinato, la vera e morale disciplina acquistò; seguitando a tenerlo unito e obbediente non tanto il sentimento d’onore, quanto l’abbiezione, in che era nutrito. Così con capi la più parte o inetti o perversi, e masse bestialissime, la napoletana milizia riesciva meglio disposta a sostenere assoluto principato, che governamento civile. E quantunque pur vi si nascondesse qualcuno meno alla casa borbonica, e più alla memoria di Murat affezionato; e qualche altro non amasse sinceramente la persona del re, pe’ suoi modi talora sprezzanti, come di chi si stimava sommo nell’arte militare o per quel dover continuo tollerare fatiche e disagi di vera guerra per armeggiamenti simulati e sollazzevoli; e potesse altresì quasi supporsi un numero non piccolo che odiasse il governo, principalmente per astio che la gendarmeria (spiccata dal corpo dell’esercito, non soggetta al ministero della guerra, e sol dependente dal ministero di sicurezza interna, che a tutti soprastava, e quasi in sé ogni potere e autorità raccoglieva) fosse il corpo più osservato, temuto, e altresì beneficato; pure nessuno dava segno di mala contentezza, non solo per sicurezza maggiore di lor fortuna, ma eziandio per terrore de’ passati esempi, e particolarmente di quello assai fresco del 1821, che rammentava qual benefizio sortissero le soldatesche dall’essersi ribellate, e come ne pagassero lo scotto quelli che il peccato colla tradigione non espiarono.

E dovendo finalmente parlare del governo, non potrei nascondere quel che sa tutto’1 mondo, e di replicarlo m’iucresce. Dirò il meno che mi è consentito dalla qualità di questa opera, senza storcere la verità per paura o adulazione. Era il consiglio de’ ministri composto di uomini, che non potrei dire se più il disprezzo del principe o l’odio del publico avessero; ma certo l’uno e l’altro provavano grandissimi; e per giunta poi fra loro si astiavano, godendone lo stesso re, che argomentava d’essere così meglio servito, e potere con minori riguardi fare a modo suo: passione in lui signoreggiante, sortita da natura, fomentata da educazione; avendolo la prima provveduto di non ordinaria perspicacia e direi astuzia d’ingegno; e la seconda (esercitata da preti che la sua adolescenza, avevano ammaestrata) trattolo a persuadersi, essere un re di natura diversa dal comune degli uomini; avere da Dio la podestà: doverla esercitare assoluto; potere e sapere far tutto da sè; i popoli esser fatti per obbedire e sottomettersi; e nella obbedienza e sommissione trovare lor felicità; ed altrettali massime, da dovergli quasi far tenere a vile la stessa natura umana, e togliere a noi ogni maraviglia, se a poco a poco si conducesse ad avere cattivo concetto non solo de’ suoi popoli, reputandoli d’ogni maggior freno meritevoli, ma altresì dei ministri così propri come esterni, degli uomini della sua corte e della più parte degli ufficiali publici. Nel qual giudizio veramente mostrava Ferdinando più accorgimento che mal animo; e più tosto peccava di non conoscere così il buono della sua nazione, come sapeva avvedersi del reo; se pure non gli si dovesse rimproverare, che non volesse i troppo valenti per paura di essere dominato, e odiava gl’inetti o malvagi, come vergogna publica.

Ma ciò che la corte, il consiglio de’ ministri e la diplomazia non poterono, riuscì a poco a poco a’ preti; nel cui dominio incappò colui che ogni altro ne rigettava, o per non sospettarlo, o per reputarlo il solo, cui potesse con onore sopportare un re; non iscorgendo che per questa via i cortigiani, i ministri, e gli stessi diplomatici sarebbono giunti a imporgli quella signoria, da cui egli a buon diritto rifuggiva. E l’arte loro tanto più successo ebbe, quanto più nascosta: non parendo da prima che d’altro s’ingerissero che delle cristiane virtù della reggia. Ma se piaceva al publico vedere la napoletana corte divenuta casta, e il re e la reina amarsi fra loro, e con amore trattare i figliuoli, e bandeggiare certe superbie, che venute dalla corte di Spagna privavano gli stessi principi di ogni dolcezza domestica, altrettanto dispiaceva che i preti vi dominassero; i quali a poco a poco dalla religione sarebbero nel governo sdrucciolati. Primo sentore del loro acquistato potere ebbesi quando per opera dell’abate Olivieri, stato precettore del re, caduto lo Intontì, e abbassato il Filangieri, salì al ministero il del Carretto. Ma in cima a quella signoria chericale di corte presto fu Monsignor Celestino Cocle, frate liguorino, arcivescovo di Patrasso, confessoro del re. Sotto la cui protezione, mentre il minor clero appariva sì povero e affamato, che spesso offendeva la bruttura di preti laceri e abbietti, ridotti ad accattare o altri laidi servigi usare, il maggior sacerdozio collegato co’ gesuiti, venne in gran favore e ricchezza; e si vedeva all’onnipossente Cocle prostrarsi non dirò governatori, magistrati e chiunque d’indulgenza o di grazia regia avesse avuto bisogno, ma gli stessi ministri di stato corteggiare il confessore per isgararsi fra loro, e il vincitore dominare il principe; che credeva far da sé e pur faceva a modo d’altri. Né diversamente il destro del Carretto, scavallato gli altri, giunse a tirar tutto nelle sue mani, maravigliando, che delle cupidigie, ingiustizie e ruberie di tutti Ferdinando s’avvedesse, eccetto di chi n’era in corte il fomite principale, e più maravigliando che la pietà cristiana, onde si mostrava sì tenero, gli consentisse di tollerare che in suo nome e colla sua potenza i popoli cotanto si aspreggiassero; se pure la religione amministratagli dal furbissimo Cocle, lusingandogli, anzi che infrenandogli, la passione del dominare, non gli rendesse conciliabile la santimonia colle rigorosità, quasi per bene publico.

E i ministri d’altra parte, che di continuo il dispregio del re per viltà d’animo e avarizia sopportavano, credevano come rinfrancarsene, trattando con pari dispetto i loro sottoposti; i quali poi usavano modi parimente dispettosi col publico; ultimo a patire gli effetti di quelle mal celate rabbie. Onde vedevi tal ora consiglieri di stato raumiliati e curvi nella reggia, superbiosi e minacciosi fuori; e capi di uffici, e minori ufficiali non fiatare dinanzi a’ ministri e superiori, e con insolenza feroce accogliere i cittadini. A’ quali spesso incontrava, che se il re decretava non secondo avevano proposto i ministri, e ciò interveniva sovente, i decreti erano in quel vorticoso mare de’ ministeri agevolmente privati o lungamente indugiati di esecuzione, senza che fosse dato venirne in chiaro, per la difficoltà di andare e parlare al principe. Dal quale, anche chiarito, non era il più delle volte da aver giustizia per la protezione del Cocle, sotto il cui manto i ministri scoperti si ricovravano. Peggio accadeva per le cose, della cui risoluzione avevano gli stessi ministri balia; e se uno proponeva il bene, gli altri per malignità se gli opponevano; e se proponeva il male, divenivano virtuosi per impedirlo; onde in comune né bene né male facevano, e ogni ministro poi da sé faceva di rado il bene, e spesso il suo contrario, con grave e continua ingiuria alla consulta di stato; la quale o non era richiesta, o consigliava come i rettori volevano, perché al popolo quest’ultimo esempio di servilità non mancasse: e non mancasse altresì la riprova che nulla valgono le buone istituzioni e le buone leggi, quando gli uomini pongono ad esse mano con animo di pervertirle.

E di buone istituzioni e ottime leggi era stato provveduto il regno di Napoli. Né è inutile rammentarle, affinché sia più chiaro quale doveva essere, e quale era quel governo. Nel civile, salvo poche variazioni, si reggevano i Napoletani colle leggi che la sapienza de’ più grandi giureconsulti moderni aveva ne’ tempi napoleonici ordinate secondo la sapienza antica. E nel criminale altresì possedevano un codice, che se avesse avuto il benefizio de’ giudici del fatto, qualunque più incivilita nazione avrebbe potuto pregiarsene. E tuttavia per la ingordigia curialesca, alimentata dalla facile corruzione dei giudicanti, era lungo e grave il piatire, pericolose e spesso ingiuste le sentente. Maggiormente facevano lagrimare i giudizi dei delitti e delle pene, ne’ quali, massime se a cose di maestà si riferivano, quelli del governo s’ingerivano: non che il diritto ne avessero, conciossiaché in nessun luogo era meglio e con più savia legge circoscritta la loro podestà, acciò nessuna malleveria publica agli accusati di qualsivoglia delitto mancasse. Non di meno libertà, fama e vita erano a discrezione di birri, commessari, e gendarmi. I quali, avendo lor capo il ministro stesso, e autorità segreta più che gl’intendenti e i magistrati, potevano e osavano tutto; e una loro testimonianza, sovente frutto di privato odio e vendetta, o di zelo feroce, serviva, perché un uomo fosse perseguitato, rapito in carcere, e talora fattogli processo fra’ tormenti.

Rispetto alle amministrazioni, aveva il regno un ordinamento municipale da non esservi altro migliore da contrapporre; perciocché ogni comune aveva un consiglio di dieci, e sulla proposta fatta di tre il principe eleggeva il sindaco; e da’ consigli comunali si formavano ogni anno con libera elezione i consigli provinciali: i quali dovevano rivedere e sindacare l'amministrazione delle provincie, tenuta dagl’intendenti, e riferirne al re, affinché dietro parere della consulta di stato, deliberasse i necessarii provvedimenti. Le quali cauzioni distruggeva E arbitrio de’ ministri, e le comuni e le provincie avevano quest’ultimo dolore, di conoscere il male delle loro amministrazioni, e non potervi rimediare; vedere languire l’agricoltura, inceppare i commerci, moltiplicare le gravezze, lasciar fiumi senza ponti, città senza comunicazioni di strade praticabili, gli studi abbandonati, le industrie non incoraggite, ogni sorgente di publica felicità chiusa; e non aver modo di provvedere. Né le facoltà della consulta di stato erano scarse o mal determinate; istituzione data come alla maggiore sicurtà possibile dove assoluto signore imperava. Ma in quella chiamavansi uomini alla corte ligi per ricevuti benefìzii, o per isperanza di maggiori onori: e il loro parere o non era domandato, o era conforme talentava a’ ministri, acciò l’arbitrio avesse anche le apparenze del diritto. Né mai furono uomini più di quei napoletani consultori, pigri a trattare del bene publico, pronti a secondare le voglie del principe; il quale, se non li consultava, o radamente li consultava, aveva ragione: dovendo tanta loro servilità stomacare ancor chi non voleva la publica libertà.

Non mancava a’ Napoletani né pure una guardia cittadina, ma era chiamata a prendere le armi quando e come piaceva a’ rettori, e nessun vantaggio publico arrecava, e quasi né pure dava segni ch'ella fra le patrie istituzioni dovesse annoverarsi. E se in oltre si consideravano gli ordinamenti de’ vari ministeri ed uffici, una più ragionevole e vantaggiosa spartizione e circoscrizione di poteri e di attributi non si poteva desiderare, da far credere che gli affari non pur presto, ma bene s’avessero dovuto espedire. Ma poi entrando in quelle vaste officine di negozi publici, pareva di essere in un oceano in burrasca; un andare, un venire, un urtarsi continuo; chi domandava, chi non rispondeva, chi romoreggiava, chi non ascoltava. La maggior confusione vi regnava.

Adunque le leggi e istituzioni del regno erano le più civili che mai sotto principe assoluto si potessero desiderare, e v’era forse più di quello che l’anno quarantasette negli altri paesi d’Italia si domandava. E tuttavia nessuno stato era dopo il pontificio in più misera condizione; il che chiariva doppiamente perversa la natura degli uomini, e disponeva più che altrove gli animi cittadineschi a volere uno statuto, che imbrigliasse la potenza di chi, non che fare nuove leggi buone, guastava le antiche, che erano eccellenti.

Era così disposta tanta moltitudine di uomini e di cose nel regno delle Sicilie, quando cominciò nella mezzana Italia quel commovimento per le riforme d’amministrazione, e per una più benigna censura degli scritti, e finalmente per la istituzione d’una milizia cittadina, come abbiam raccontato. E se altrove si era vietato il fare dimostrazioni di onore a papa Pio IX, con più rigore si vietò in Napoli. Primieramente fa ordinato che i giornali pontificii, continui e sazievoli portatori di lodi a quel pontefice,non entrassero nel regno; e quando fu anco in Toscana allargata la censura delle stampe, ancora i diari di quest’altra parte d’Italia non ebbero permesso di entrare. E con tutto che i divieti fossero grandi, e con ferocità puniti, le cose dell’Italia superiore non s’ignoravano ed effetto producevano.

Stimarono i rettori di raffrenare i desiderii di libertà con alcuni decreti, pe’ quali si toglieva il così detto dazio fiscale sul macinato ne’ dominii di quà dal Faro; e quello imposto dai comuni riducevasi, e meglio se ne regolava la riscossione; era pure d’un terzo scemata la tassa sul sale, e sminuita altresì quella posta per la introduzione in Napoli de’ vini siciliani. Se non che questi benefizi non sortirono alcuno effetto, palesando la cagione dell’esser fatti; e quasi a più ingiuria si recavano ciò che pur sembrava dovesse la più gradita delle concessioni riuscire. Tanto è necessario fare il bene publico in tempo acconcio.

Qui facendo breve digressione, piacerli rendere. un qualche tributo di onore alla memoria di due chiari e benemeriti uomini: il barone Pasquale Galluppi, e il marchese Basilio Puoti; mancati in quel tempo con intervallo di pochi mesi l’uno dall’altro, e con dolore di quanti avevano in pregio la filosofia e le lettere umane. Il Galluppi nato in Tropea città delle Calabrie, aveva fino da’ primi anni atteso alla razionai filosofia, con assiduo studiarne le varie scuole; e divenuto professore publico, scrisse anch’egli opere ideologiche, che non solo nel regno, ma per tutta Italia gli acquistarono fama e riconoscenza: non tanto perché si rendesse inventore di alcuna nuova teorica di filosofare, quanto per essersi guardato dagli estremi dei due più. famosi metodi de’ Lockiani e de’ Kantiani, e comecché più alla sperimentai filosofia de’ primi inclinasse, non aborrì di rattemperarla colle spiritali ragioni de’ secondi, quasi col buono preso dagli uni correggendo quel che non era ottimo negli altri. E dove il Galluppi non avesse altro merito, che di aver messo in chiaro le opposte sentenze e dottrine de’ diversi filosofi, e mostratone il buono e il rio d’ognuno, perché a’ giovani fosse nota la storia dell’umano ragionare, non avrebbe per certo piccolo merito conseguito.

Nato il Puoti in Napoli di nobile e agiata famiglia, rinunziò i benefizii di primogenito, perché sciolto dalle cure domestiche potesse tutto dedicarsi agli studi, riservandosi di fortuna, quanto gli bastasse a professare nobilmente le lettere, ed esercitarle quasi unicamente in profitto della gioventù. Alla quale volle che fosse di continuo, e senza distinzione di ordini e di opinioni, aperta la sua casa, dischiusi gli armadii de’ suoi libri, occupata in tutti i giorni e quasi in tutte le ore la sua persona, non altro compenso desiderando, che l’affetto degli stessi scolari, non altro ristoro volendo, che il frutto di vederli innamorati, com’era egli, della toscana favella e de’ classici autori. Né le sciocche risa di coloro che negli oziosi cerchi il beffavano come pedante, lo ritrassero dalla magnanima impresa: e mercé di lui videsi a guisa di giovine pianta, che a poco a poco distende i suoi rami, risorgere e propagarsi il gentile idioma in Napoli: dove più che altrove aveva suono di cruda barbarie. Tanto vale l’esempio e il buon volere d’un uomo solo: onde il giorno della sua morte tutta Napoli si commosse e lacrimò; e la gioventù più particolarmente, che s’accorgeva d’aver perduto il vero padre e maestro e benefattore, fece tal corrotto, che mai non fu veduto il più pietoso e solenne: da mostrare quanto possa, anche in tempi guasti, e in città mal ordinata, una intemerata e operosa virtù.

Ricreati un poco dal favellare di filosofi e filologi, torniamo alle tempeste civili. Chi considera in qual modo la commozione cominciata in Roma e in Toscana, si comunicasse al regno delle Sicilie, s’accorge che fin dal cominciamento prese figura di rivoluzione, minacciante variazione di forma nel governo, quasi da far temere, che a rovesciamento di trono si potesse condurre. Non che ancora in quel paese, non ostante gli ostacoli e le censure fierissime, non entrassero i libri del Gioberti, del Balbo, dell’Azeglio, e degli altri della novella scuola piemontese, e non vi facessero nell'animo di molti, e de' più autorevoli amadori di libertà, germogliare il pensiero di usar modi pacifici e legittimi, e trarre il principato a riformarsi piaggiandolo. Ma per le cose succedute, e da noi sopra rimemorate, erasi fra’ cittadini e chi reggeva sì mortale nimicizia accesa, che impresa non che difficile, anzi impossibile stimavasi il riconciliarli. Diresti che il sangue sparso e ancor caldo li dividesse, e i vicendevoli odii eternasse; giudicando il principe atto di ribellione qualunque popolesco desiderio; e alla lor volta i cittadini stimando atto di tirannia ogni volere del principe; e per la natura eccessiva degli uomini m quella estrema regione d'Italia, entrambi si dipingevano e rappresentavano il male ancor più orribile di quel che per avventura fosse: e a rendere più feroci e rovinose le ire, non era ultima tiranna la immaginazione. Onde che ragguagliando le scritture prodotte dalla stampa segreta in Roma e in Toscana, con quelle divulgate nel regno, mentre le prime mostravano in fine pacata espressione di temperatissimi desiderii, accompagnati da speranza di vederli satisfatti, e nel vituperare gli uomini e gli atti de’ governi, non pur eccettuavano, ma con lodi antiche e nuove innalzavano le persone de’ principi; le seconde invece facevano del principe e de’ ministri un fascio, rammentando diritti calpestati, fedi spergiurate, crudeltà sanguinose: e parevano più grida di disperati, che incitamenti a civili riforme. I Siciliani, dopo eletto Pio IX, furono primi ad alzar la voce così: dovere essi vendicare diritti publiciincontrastabili; oltre a quelli comuni colle altre genti italiane, possederne di più speciali già scritti, e solennemente pattuiti: leggi osservate per sette secoli e mezzo concedere alla Sicilia governamento proprio e con rappresentanza, prolungatosi per successive riformagioni e infino agli ordini che reggono oggidì le nazioni meglio incivilite: a mutare cotali leggi essere nel 1813 mancato fino il pretesto di occupazione straniera, o di rivoluziono domata; né il re, sol vestito della podestà esecutrice, avere avuto alcuna balia di alterarle; e né meno averla avuta il congresso di Vienna, che in fatti le rispettò: essere quindi nulle le nuove leggi dettate nel dicembre 1816, e rei d’alto tradimento i ministri che le sottoscrissero; e il sindacato giungere in questo caso in fino al trono. Né potersi allegare la sottomissione, o quietanza de’ Siciliani; i quali nel 1820 protestarono con una rivoluzione, e il loro sangue versato da’ consigli militari seguitò essere continua protestazione de’ loro diritti.

Con siffatti sensi e propositi i Siciliani cominciavano a moversi; ne’ quali oltre alla tenacità delle patrie consuetudini, appariva risoluzione a vendicarsi in libero reggimento. Né i foglietti e i libelli, che di nascosto si publicavano in Napoli, erano meno acerbi: fra’ quali uno intitolato: Protesta del popolo delle due Sicilie che per aver tocco più nel vivo, ed essersi divulgato fra quella superstiziosa gente sotto il titolo di Cuore trafitto, suscitò maggiormente le ire di chi governava; e se fiere parole vi erano scritte, non meno fieramente i sospettati autori furono perseguitati.

Ancora quelle che allora si chiamavano dimostrazioni, ebbero indole diversa nel regno; e se bene talora minaccevoli divenissero nell’Italia di sopra, e in alcune parti facessero luogo a conflitti fra soldati e cittadini, pur tuttavia giammai in aperta sommossa e ribellione non si mutarono, come quasi subito, e fra l’agosto e il settembre del quaransette, accadde in Calabria e in Sicilia. Dei quali fatti, come parte importante di queste storie dobbiamo fare speciale ricordanza. Fino dal mese di giugno nelle vicinità di Cosenza bande armate di ladri correvano le campagne, saccheggiando, sforzando, e per quei paesi e casolari terrore e desolazione spargendo. Richiesto chi reggeva di mandar soldati, o che non ne mandasse conforme al bisogno, o che in quell’antico e inespugnabile nido di assassini, non riuscissero a fronte di centinaia d’uomini bene armati e risoluti, e aventi per fortezze inaccessibili monti e altissimi boschi, i furti, i taglieggiamenti, e gli omicidi continuavano, e in grande sgomento mantenevano magistrati e popolo. Al finire del mese d’agosto cominciarono altresì i Calabresi a far movimento, al solito intempestivo: o che volessero usare quello sgomento che arrecavano i ladroni per meglio i capi del governo sopraffare, o maggior disgrazia facesse che si levassero nel medesimo tempo; onde fu agevole confondere e mettere in un mazzo gli uni e gli altri: chiamando ribelli gli assassinatori, e gli assassinatori ribelli. Ben fu detto, che i ladri profferissero a’ ribelli di unirsi con esso loro, e valevolmente spalleggiarli, ma questi ricusassero, e giammai nulla di comune con quelli volessero avere, perché un mezzo empio non disonorasse un fine generoso.

Ingrossati sotto la condotta de’ fratelli Gian Andrea e Domenico Romeo, che misurando l’impresa dal loro desiderio, credevano essere tutto ben disposto a farla riuscire, s’accostarono alla città di Reggio, mirabile per bellezza e fortezza di sito; e quel popolo sollevato fece parecchi gendarmi prigioni, ammazzò il capitano, occupò la fortezza, e la bandiera dei tre colori dopo averla fatta benedire dal vescovo, piantò sulla torre. I Messinesi che al di là del Faro la videro sventolare, e contavano le ore, che le Calabrie sorgessero, non misero tempo in mezzo. Frotte di giovani entrando da diverse porte con insegne spiegate, e gridando viva la libertà, viva l’unione d’Italia, viva la costituzione, viva Pio IX, viva la Sicilia, viva la Madonna della Lettera, (strano mescolamento di nomi e di cose) si assembrarono nella strada Ferdinanda sotto il palazzo del senato; d’onde poi si riducevano a un magazzino che doveva loro essere aperto, e ministrare armi. Trovarono chiusa la porta; tentarono atterrarla, intanto che la soldatesca regia, che era nella cittadella, sonando a raccolta, marciava a disperderli. Fu gridato all’arme. Accorrono alcuni che poterono trovare un archibugio. Non erano più di venti armati, e nondimeno spinti più da ira del fallito colpo, che da speranza di vittoria, ingaggiarono la mischia, e per tre volte caricarono milizie provvedute di armi e di munizioni. Due di loro restarono feriti, nessuno morto. de’ soldati regi otto morti e altri venti feriti, fra’ quali era il generale Busacca odiatissimo. Gli altri si fuggirono e presero le alture de’ vicini colli, lasciando più rabbiosa che sazia la soldateria reale; la quale il giorno appresso disfogossi traendo sull’inerme popolo, per subbuglio eccitato da timore di mancanza di pane.

Mentre queste cose succedevano a Messina, giungeva a Reggio un navilio di guerra, comandato dal conte d’Aquila fratello del re. Traeva alquanti colpi di artiglieria: ai quali la città non rispose, dacché i sollevati conoscendo la loro debolezza, l'avevano abbandonata ecl eransi riparati nelle montagne. Onde i regi vi entrarono senza resistenza alcuna. E volgendosi poscia a Messina, trovarono ancora questa città abbandonata da’ sommovitori; i quali veduto dall’alto l’assalto fatto a Reggio e la impossibilità di far fronte, anch’essi eransi ne’ campi e ne’ monti rifuggiti. Inaudite crudeltà, se la fama non mentì o non amplificò, furono commesse dalla soldatesca, che andando per que’ paesi e villaggi, e da per tutto scorgendo mal repressa disposizione al sollevarsi, bastava una voce o un segno o un’arme che in dosso a qualcuno trovasse, per incarcerare, bastonare, ammazzare, trafiggere con chiodi le tempie, strappar peli tirando a pezzi la carne, ed altre crudeltà che non saprei con quai nomi chiamare.

Vinte le città, la ribellione calabrese e siciliana si ridusse e maggiormente afforzò fra gli orrori delle montagne e la oscurità de’ boschi; nel tempo che gli assassini non rimettevano d’infestare le campagne, quasi gli uni e gli altri correndo la stessa sorte; se pure la sorte de’ secondi non fn migliore; perciocché a sconfiggerli si mandò il generale Statella, d’indole non eccessiva; e colla stessa podestà fu mandato a sconfiggere i ribelli per le Calabrie il general Nunziante, e per la Sicilia ebbe più assoluto comando il maresciallo Landi, amendue ferocissimi.

Non battaglie vere, ma piccoli e feroci azzuffamenti seguirono fra' soldati regi, e i sollevati; meno armati i secondi, e meno esperti del combattere, ma più arditi e pratichi de’ luoghi, che non erano i primi: e la guerra facile a nutrirsi fra que’ monti e fiere popolazioni, durò quasi tutto il settembre, con dubbia fortuna, e forse con perdita maggiore de’ regi, come i più esposti. Sanguinoso fu l’ultimo affronto. Erano i regi comandati dal general Nunziante, e i ribelli guidati dai fratelli Romeo, Giovanni Andrea e Giovanni Domenico; i quali dalle alpestri cime scorto i nemici apparecchiati a circondarli, piombarono loro addosso in piccoli drappelli, e gli avrebbero per avventura sbaragliati, se un rinforzo di altri soldati non giungeva a rinfrescare la pugna: la quale tuttavia continuarono i calabresi a sostenere con disperato coraggio, finché stretti da ogni lato, stanchi e vinti dal numero, fu forza che nuovamente quanti più poterono salvarsi, ne’ prossimi dirupi si rifuggissero. Fra’ morti rimase Gian Domenico Romeo, più a tradimento ucciso che in aperta zuffa; conciossiaché ridottosi col nipote Pietro in una capanna per essere caduto di cavallo, e feritosi un ginocchio, una spia avvertì le guardie, che li circondarono. Quelli colti alla sprovveduta, ressero un pezzo e si difesero, sì il numero superò il coraggio estremo, e Gian Domenico cadde trafitto. Non pochi prigioni furono condotti a Reggio, più infelici del Romeo, che moria combattendo. Aggiungono altra scelleratezza: avere i soldati la testa del Romeo spiccata dal busto, e a portarla fin dentro la città di Regioobligatouno de’ suoi nipoti, il quale arditamente ricuso, e potè sottrarsi.

Finita la guerra, se guerra può chiamarsi, cominciarono i supplizi, peggiori della guerra. Nella provincia di Messina, a nome del re, e per ordine del maresciallo Laudi, furono sentenziati a morte il sacerdote Giovanni Krymii, con altri due, Giuseppe Sciva di mestiere calzolaio, e Giuseppe Pulvirenti, fabbricatore di paste, tutti per delitto di maestà. Pochi giorni dopo, a' canti della città di Messina, lo stesso Landi, come commessario del re, appiccava un bando, co’ nomi di Antonio Bracanica, Antonio Caglià, Paolo Restuccia, Antonio Miloro, Andrea Nesci, Girolamo e Vincenzo Mari, Luigi Micali, Salvatore Sant’Antonio e Francesco Saccà, tutti di famiglie o nobili o civili, dichiarando che sarebbono stati assoluti della pena di morte, qualora si fossero spontanei dati in potere della giustizia nel termine di tre giorni; passati i quali le loro teste erano messe a prezzo, con una taglia di mille ducati a chi ne prendesse uno vivo, e di trecento a chi lo recasse morto. Né alcuno si presentò, né alcuno, che si sapesse, fu tratto vivo o morto. Altro bando con altri capi pure messi a prezzo, fu publicato in Calabria. In Gerace si uccisero cinque giovani, buoni e valorosi, che spirarono con sui labbri le usate parole d’Italia e di Pio IX, assistente il sottintendente Bonafede, pochi dì innanzi caduto in man de’ ribelli, e a libertà da’ medesimi restituito: atti generosi con atti barbari. E dei supplizi di Gerace richiede che sia piò particolarmente rammemorato quello dei due giovani Bello e Mazzoni; i quali, uniti in vita di amicizia e amore alla patria, incontrarono insieme cop gara di forte cuore la morte. Il Bello chiedea perdono al Mazzoni d’averlo tirato nella congiura, e l’altro lo ringraziava d’avergli procurato quella gloria. Era Bello nativo di Sidereo, distretto di Gerace, provincia di Reggio. Aveva sufficiente istruzione di lettere, e ne aveva dato non ispregiabili testimonianze. Quando fu spento, compiva appena il quinto lustro, e il padre per lo dolore impazzò.

Altri furono di morte puniti a Reggio per decreto degli stessi tribunali soldateschi, aiutati da un cotal Cioffi, de’ più malvagi, mandatovi dal ministro del Carretto, che lo aveva cacciato di Napoli, parendogli troppo avventato, e allora dicono che si pregiasse, che senza gli arbitrii de' suoi commessari, e la fierezza de’ suoi gendarmi, la calabrese rivoluzione non sarebbe stata soffocata. E altri macelli sarebbero stati fatti, come incredibili tormenti patirono i chiusi nelle carceri, da farli gridare: dateci la morte; se d’ordine del re non tornava il procurator generale della corte criminale di Reggio, il general Libetta, che si trovava con licenza a Castellamare; ij quale ordinò che la giustizia già troppo abusata ripigliasse il suo ufficio; e d’allora innanzi i processi furono mandati a Napoli al competente ministero di grazia e giustizia. Nel medesimo tempo il generale Vial, con titolo di commessario, tiranneggiava la città di Palermo, e secondo che i movimenti delle Calabrie e di Messina erano andati crescendo, o nel sangue si comprimevano, aveva maggiormente condotta la città peggio che in condizione di guerra, affermando di avere scoperto una macchinazione partecipata altresì da alcuni della milizia; e vennero incarcerati parecchi, fra cui due fratelli di cognome Gallo. Ai quali innanzi fu messo a soqquadro la casa; onde la figliuola di un di loro poco stette che non morisse di spavento; e ripigliato coraggio, e uscita di casa coll’ava sua, veduto in cocchio il Vial, l’ira aiutata dal dolore sì la traportò, che gittatasi contro lui gridava: infame, che mi uccidi il padre. Sapeva che in carcere era cogli altri iniquamente torturato, affinché rivelazioni facesse di altri sospettati rei. Né bastò che la corte criminale, esaminato i processi, sentenziasse non chiarirsi delitto di stato: ché per una legge arbitraria del 1828 si ottenne che fossero ritenuti in carcere quelli che i publici tribunali assolvevano. Intendo che lo scrivere siffatte indegnità non migliora questa razza umana perversa; e molti forse le scherniranno come ciance tante volte e tanto inutilmente narrate. Ma che altro è dato a noi poveri scrittori di non felici istorie, che d’infamare co’ detti coloro che non dubitarono d’infamarsi co’ fatti?La città, capo del regno non si trovava meglio; e tutto dì onorevoli cittadini, padri di famiglia, poveri manuali per sospetto s’imprigionavano: fra' quali il barone Carlo Poerio, Marianod'Ayala, Domenico Mauro, Francesco Trincherà, il professore Simonetti, ed altri più. Sapevasi che i forti della città, tutti contro lei fabricati, avevano cannoni carichi, e ordini di trarre sul popolo, se movimento facesse. Era in pari tempo un andare e venire di soldati fra Napoli e le provincie, per lo più di notte, perché la incertezza del numero, e il segreto rendessero più paurose le forze. Spargevasi per giunta rumore di pestilenza a Malta e Livorno, e aggiungevasi altresì essere pretesto a troncare le comunicazioni: nell’uno e nell’altro modo cagione d’inquietudine. Voci vaghe e varie, e per lo più sinistre acquistavano fede, e il male già grande facevano immenso.

Sopravvenne in que’ dì caso atroce, e per molti significativo. Il nuovo ambasciadore di Francia presso la corte di Napoli, conte di Bresson, fu trovato morto nella sua stanza, tagliatosi con rasoio la gola: e la giovane sposa era stata prima a vederlo. Colla pietà del tristo fatto univansi le conghietture; e dicevano alcuni, che avesse avuto in corte per causa de’ matrimoni spagnuoli mala accoglienza e dispregi, che lo toccarono nel vivo. Altri affermava, aver dato altre volte segno di furiosi accendimenti di cervello, e minacciatosi la vita. Né mancavano giornali francesi che divulgassero maligno sospetto che fosse assassinato. Io credo sia meno oscuro ch'ei di sua mano s’uccidesse, che il motivo che a quello eccesso lo pinse.

Fra tanto correva opinione che i ministri veggendo ciascun dì più le cose del regno precipitare, s’assembrassero per consultare quel che era da fare; e a qualcuno paresse da venire a concessioni; altri giudicasse doversi tenere il fermo; onde s’arguiva prossimana una compiuta o parziale rinnovazione di governo. Quel che veracemente si dicesse e stimasse, non è facile sapere. Riferirò ciò che allora fu scritto, e da molti non discreduto, perciocché i detti e le credenze furono parte principale di questo commovimento. Assicuravano, che il presidente de' ministri Pietracatella, di tutti il più onesto e inchinevole a giustizia, ma d’indole assoluta, di chericali soperchierie imbevuta, e tanto tenace del passato, quanto alla moderna civiltà sinceramente attribuiva i mali publici; onde con bizzarra contraddizione avrebbe desiderato il progresso nelle scienze, di cui egli stesso onoravasi, e nel rimanente abborriva da ogni novità; non di meno o per paura che da quel troppo ostinato resistere non sorgesse qualche fiera e a tutti rovinosa tempesta, o per afferrare quella occasione a sgarare il Santangelo e il del Carretto, e colla grazia publica acquistare maggior potere, o per altro qualsivoglia fine, facesse in consiglio accomodata diceria: mostrasse lo stato de’ popoli,notasse le difficoltà dello impero austriaco, i pericoli del trono di Francia, la preponderanza della corte inglese: rammentasse in oltre le concessioni fatte dal pontefice, dal granduca di Toscana, e ultimamente dal re di Sardegna: facesse osservare l’abbandono in che sarebbe stato posto il governo napoletano, la brutta fama che dalle interne guerre acquistava, il nuovo seme a nuove ribellioni, il profitto che ne avrebbero tirato i vagheggiatori dei siciliani mari. Conchiudesse con la necessità di cangiar modo di governare, cessare la guerra civile, accogliere i voti de’ popoli, effettuare civili riforme.

Si credette riformare, spartendo in tre parti l’amministrazione interna; la quale con quella immensa macchina, innumerevoli e odiosissimi abusi raccettava. Il che fu cagione perché Niccolò Santangelo uscisse del consiglio ministeriale. Di costui, non prima portomisi il destro, darò alcuna notizia. Era figliuolo d’un avvocato di scarse fortune, e la professione paterna abbracciato, né in quella acquistatosi gran nome, per non so quale balzo o favore, divenne governatore in provincia; se pure non gli valse il mostrarsi acconciamente ripentito d’aver parteggiato per la mutazione del 1820 che gli aveva fruttato perdita di ufficio e prigionia. Poi a un tratto, e quando nessuno se l’aspettava, fu chiamato ministro sopra gli affari interni; e in breve divenne ricchissimo: comperò sontuoso palagio; l’addobbò come principe; ornollo di preziose anticaglie e rare suppellettili; ne fece spettacolo di fasto e di ammirazione a’ nostri e agli strani, tirandolo più la vanità che la fama. ché uomo altresì più vano e presuntuoso di lui non era da vedere. E poiché non suole la natura nostra essere sì guasta che non vi sia altresì mescolata alcuna parte di buono, dalla stessa sua arroganza traevano talora benefizio non piccolo gli studi: tanto più mostrandosi volenteroso di onorare e favoreggiare gl’ingegni, quanto che dalla loro amicizia maggior lode e splendore si arrogava. Scusabile e forse desiderabile ambizione in un ministro; non iscusabile viltà in quelli che il favore di lui acquistavano corteggiandolo, e a tutto quel ch'ei diceva applaudendo.

Non sapendo il borioso suo animo comportare di aver per terzo ciò che aveva avute e straziato per intero, gli fu data licenza, e in compenso alla sua vanità fu creato marchese; e a’ tre nuovi ministeri si chiamarono Parisio, Spinelli, e d’Urso. E quantunque con liete speranze da’ popoli delle Sicilie fosse stato accolto questo primo mutamento, come è uso di tutti i popoli quando vedono uomini nuovi salire in autorità, non perciò le disposizioni del governo napoletano migliorarono: perché non ostante lo Spinelli inclinasse per generosa indole alle concessioni, il Parisio, benché fosse un dabben uomo, nutriva viete massime: e il d’Urso, ancor più partigiano d’assoluto impero, meglio forse che non aveva fatto il Santangelo, sostenne il partito della resistenza; e dicono che giungesse fino a spaventare il re col rammentargli la sanguinosa fine di Carlo I d’Inghilterra per aver ceduto; storcendo l’opportuno esempio,che mostrava anzi per troppa superbia della regal podestà, essere stato il re inglese dicollato.

Supponevasi altresì disparità di consigli in corte e nella stessa famiglia del principe. La mogliera austriaca incoraggirlo a non cedere; la madre, fatta pietosa dalla debolezza degli anni e dei dolori, esortarlo a mitezza. Il confessoro e qualcuno de’ fratelli dirgli: nessun patto co’ novatori; il zio principe di Salerno, e il fratello principe di Siracusa, in cambio, imitasse il pontefice, il granduca e Carlo Alberto, né di troppo la pazienza de’ popoli inasprisse. Eguale disparità dicevasi nella diplomazia.

Lo inglese ministro sospingerlo alle rifarne: lo austriaco, russo e prussiano rattenerlo; il francese or sospingerlo, or raffrenarlo, secondo la natura di quella nazione volandola. Dava pure a dire e pensare variamente che navi da guerra francesi, sotto il comando del principe Joinville figliuolo di Luigi Filippo, da lungo tempo stessero dirimpetto a Napoli ancorate, argomento ad alcuni di speranza, ad altri di maggior timore. Discorrevasi anche che la corteinglese avesse formalmente domandato ragione alla corte di Napoli de’ conculcati diritti della Sicilia, de’ quali erasi fatta mallevadrice. Né mancava chi pur credesse, che papa Pio IX, qual padre de’ fedeli, intercedesse appresso il re, perché cessasse dalle rigorosità, e con lui e con gli altri principi si congiungesse nella riforma e nella lega: e portatore de’ prieghi papali andasse a Napoli il conte Pietro Ferretti. Altre cose si divulgavano, e conghietture e prognostici più chiari e più scuri si facevano, come. interviene nelle commozioni di popoli oppressi e imaginàtivi, dove il credere è facile quanto il mentire.

Ma se è vero che questi contrari consigli tempestavano l’animo del re, dava in fine il tratto alla bilancia l’opinione sua propria, non potersi le genti delle due Sicilie tenere e governar meglio che col più stretto rigore: quasi la cotidiana sperienza di vedere tanta cattività ne’ capi del governo, e tanta abbiezione negli ordini del popolo, lo inducesse a credere che dovendo disperare del bene, era forza attenersi al suo contrario.

Se pure anco in lui non potesse la scusabile ambizione di non farsi omai più merito a por mano a riforme di governo, dovendo apparire più tosto dallo esempio di altri principi tirato, ch'ei primo e spontaneo largitore. Ma i ministri temendo maggiormente, dopo la cresciuta commozione dell’Italia superiore, di qualche scoppio irreparabile nel regno, si ragunarono tutti, dal D’Urso in fuori, disposti di proporre alcuna modificazione negli ordini del governo. Pure di parlare al re (solito di aprirsi poco co’ ministri) non attentandosi; e (secondo che fu detto) accordati che lo Spinelli, più coraggioso, conoscente del principe fin dall’infanzia, e altresì più inchinevole a riforme civili, dovesse in consiglio rompere il silenzio, e i colleghi l’appoggerebbero, quegli cominciò: Che dice vostra maestà di questi nuvoloni che girano attorno?

Il re, come crucciato, non rispose: agli altri cadde il fiato; indi a poco rizzatosi e ito in altra stanza, chiamò ad uno ad uno i ministri, eccetto lo Spinelli, che restò solo per pena di aver diretta quella parola a chi non voleva l’odio di ricusare, né era deliberato di acconsentire.


vai su


LIBRO SESTO

SOMMARIO

Nuove commozioni popolari nel regno delle due Sicilie. — Rintuzzamenti della soldatesca. — Costernazione per si fatta resistenza. — Supplica de’ piemontesi al re di Napoli. — Cause di maggiore irritazione publica. — Deliberazione concordata fra’ movitori di Napoli e di Sicilia. — Patto di separazione di questa dal continente. — Avviso dei Siciliani al governo napoletano. — Sollevazione di Palermo del di 42 gennaio. — Formazione di quattro comitati. — Moderazione de’ Palermitani nella vittoria. — Atti di pietà e generosità — Invito del luogotenente del re a sospendere la guerra. — Risposta coraggiosa de’ Palermitani — Primi effetti della rivoluzione di Palermo in Napoli. — Concessioni fatte il giorno 18 gennaio. — Rifiuto del popolo. — Umiliazione de’ rettori. — Apparecchiamenti alle domande d’una costituzione. — Varietà di pareri. — Partenza improvvisa del già ministro del Carretto, e fuga di monsignor Cocle. — Diffidenza sì del re e sì de’ movitori, delle proprie forze. — Assembramento del dì 27 gennaio. — Consiglio regio. — Vita e costumi del general Filangieri. — Lodi del general Ruberti. — Aumento di commozione publica prodotto da equivoco. — Dissoluzione del vecchio e composizione del nuovo Ministero. — Decreto di Costituzione. — Allegrezza publica. — Rimescolamento de’ lazzeroni. — Illusioni de’ popoli napoletani. — Continuazione della rivoluzione di Palermo. — Istituzione d’un comitato generale. — Vita di Ruggiero Settimo. — Progressi di vittoria popolare. — Consulta de’ comandanti regi. — Fuga delle milizie napoletane. — Occupazione del palazzo reale. — Furore contro a’ birri. — Inutili proposte d’accordo. — Errori militari e confusione de’ comandanti regi. — Notizia del general Desauget e accuse fatte al medesimo. — Ritirata sanguinosissima de’ regi. — Apertura delle carceri. — Imbarco dell’esercito napoletano. — Considerazioni sulla vittoria palermitana. — Sollevazione delle altre città di Sicilia. — Fatti di Messina. — Fatti di Catania e di altre terre. — Difficoltà per la città di Trapani. — Primo movimento. — Espugnazione del castello. — Stato di Siracusa. — Desiderii de’ Siracusani. — Concordia di tutta l’Isola. — Governo temporaneo istituito in Palermo. — Accoglienza fatta in Sicilia alla costituzione napoletana. — Risposta del comitato generale di Palermo. — Grido di guerra. — Apparecchio fatto contro al castello. — Dedizione del medesimo. — Feste per la vittoria. — Provvedimenti di sicurezza interna. — Spensieratezza al subito provvedere per la difesa esterna. — Accoglienza fatta alla costituzione nelle provincie di qua dal Faro. — Assunzione del cav. Francesco Paolo Bozzelli al ministero delle cose interne. — Allegrezza per questa elezione. —Mostre abbaglianti di libertà. — Natura del Bozzelli. — Commissione datagli di compilare lo Statuto. — Amore del re per la costituzione. — Differenza fra le cose del 1820 e quelle del 1848. — Alterazione e querele della vecchia diplomazia. — Discorsi nel parlamento francese intorno alle cose d’Italia. — Disposizioni ne’ Piemontesi a voler la costituzione. — Nuove titubazioni di Carlo Alberto. — Adunanza del corpo de' decurioni. — Discorso del Santarosa. — Domanda formale di costituzione. — Ansietà popolare. — Publicazione delle norme dello Statuto. — Esultazione in tutte le città. — Atti benefici del re. — Costituzione del principato di Monaco.

Sconfortati i popoli delle Sicilie per lo infelice fine delle cose di Reggio e di Messina: e sperimentando che colla forza non si vinceva, e adoperavasi anzi peggio, voltaronsi a partiti manco ostili, imitando più le pratiche apparentemente pacifiche degli stati romani, toscani e piemontesi; quasi dopo i sanguinosi fatti di Calabria fosse stato più agevole metter pace e accordo, dove tante cagioni di nuova guerra e di più implacabile odio fra principe e popolo eransi accese. Reputandosi quindi segno di debolezza e di scoramento ciò che era ultima prova di pazienza, non solo furono rigettate le istanze popolari, ma quali atti di ribellione, anco le grida in lode del re gastigate. La direzione di siffatti movimenti avevano alcuni cittadini, che in Napoli, nelle Calabrie e in Sicilia, ancor prima che Italia cominciasse a svegliarsi, andavansi fra loro segretamente e in case privatissime raccozzando, da eludere le vigilanze de' magistrati. Se non che in detti adunamenti, chiamati comitati, le discussioni erano più tosto vane; e proposte o futili o intempestive, e sempre perigliose si facevano; e gli uomini di quelle congreghe giungevano quasi da loro medesimi a ingannarsi, assicurandosi l’uno all’altro disposizioni gagliarde e pronte in ogni provincia a sollevamento. Per lo quale inganno certamente inescusabile e ognor rinnovato tutti que’ movimenti andavano male e con rovina publica. Ma nell’anno quaransette tanto più efficacemente si travagliavano quanto che dalla cominciata commozione dell’Italia di sopra erano incoraggiti.

Del comitato, che più operasse in Napoli, era capo Francesco Paolo Bozzelli; quel medesimo che divenuto poi ministro operò in servigio del principato quanto prima si era mostro cospiratore di libertà; e altri vi si annoveravano; i quali non serviva imprigionare: poi che nella stessa carcere con procacciate corrispondenze e valevoli clientele seguitavano a promovere e infuocare la impresa; il che particolarmente notavasi del barone Carlo Poerio, figliuolo di chi solo nel 1821 ebbe coraggio di protestare in publico e agonizzante consiglio contro il violato sacramento della napoletana costituzione: e da prigioniero facendo come se libero fosse stato, di tutto s’informava, cogli amici s’intendeva, porgeva conforti, annodava fila, aggiungeva ardire o ritegno, secondo faceva mestieri. Il comitato di Napoli poi manteneva continue e attivissime corrispondenze con altri di Messina e di Palermo; dispostissimi a secondare e caldeggiare nell’isola il movimento che d’accordo si voleva fare.

La sera del 22 novembre il popolo napoletano raccogliendosi in maggior folla del solito sotto palazzo, terminato l’usato suono musicale, gridava replicatamente viva il re, viva Pio IX, viva la lega doganale. La guardia reale a quelle voci nuove prendeva le armi, ma di adoperarle non s’attentava: sapevasi essere allegria particolarmente fatta in quel giorno per la uscita del Sant’Angelo dal ministero. La sera appresso rinnovossi il raguno popolare, ma con animo altrimenti disposto; essendo stato in quel giorno publicato un perdono assai circoscritto per gli accusati di maestà, mentre se ne aspettava uno ampissimo: onde il nome del re tacendosi o meno pronunziandosi, più forte e ripetuto gridavasi quello di Pio IX: e scorrendo la gente per le principali piazze raccozzavasi finalmente presso la casa del nunzio pontificio, per quivi più romoreggiare: onde alquanti giovani furono incarcerati, si rinforzarono le guardie, ordini alle soldatesche di tenersi pronte furono dati, il prefetto notificava: le grida, viva il re, potendo cagionare sommossa, essere proibite: caso che si ripetessero, sarebbero i gridatori e gli assembrati gastigati severamente. E non di meno le ragunate seguitarono, con tanto più coraggio (pianto più aspre erano le minacce dei gastighi.

Queste prime cose conosciute a Palermo, furono da quella città imitate; dove ancor più che di quà dal Faro era odiato il tolto ministro Sant’Angelo, reputandosi autore della legge di promiscuità, cotanto infausta alla siciliana amministrazione La sera del 27 novembre in teatro, dov’era il fior della città, furono fatti applausi al nome del principe, annodati veli in segno d’unione, e sparse dalle logge immagini del pontefice, e cartelli con iscrizioni. Il giorno appresso le stesse ragunate, accorso maggior numero di popolo, si rinnovarono nella villa Giulia, dove in petto dell’aquila che stà accanto alla statua di Palermo, si leggeva questa epigrafe; viva Ferdinando II, viva Pio IX, viva la lega de principi e de popoli, cadano tutti i nemici delle riforme: e ciò che si leggeva, si replicava dalle voci: e se alcuni giovani si lasciavano più andare in quei gridi, v’erano uomini maturi che gli esortavano a temperarsi, perché figura di tumulto non acquistasse una cittadina allegrezza. Pareva nello stesso tempo buono agurio il caldo protestare che i Siciliani di continuo facevano, che più odio alcuno contro l’altra parte del regno ne’ loro petti non albergava, quasi persuasi si fossero alla fine, che del loro astiarsi e nimicarsi non traeva profitto che la tirannide comune. Se non che le prove pacifiche, e come dicevano legali, non riuscivano al di qua e al di là del Faro più felici che le sommosse armate. E poi che la sera del 4 dicembre alquante persone si erano in Napoli presso la casa del nunzio assembrate, tutte inermi per far onore al pontefice, e in quell’onore esprimere il desiderio di vedere anco il loro governo riformato, una frotta di gendarmi, di commessari, e di birri la più parte senza veste militare e niuno ammonimento facendo, gittaronsi loro addosso rabbiosamente, e con spade, baionette, stili e bastoni manomisero non solo i regimati, ma quanti per loro particolari faccende passare in quel luogo s’abbattevano.

Una sì prolungata resistenza cominciava a costernare i paesi d’Italia, che si dicevano riformati; e fuori de’ piùardenti e precipitosi, che per questa via speravano di giungere più presto alle costituzioni, e forse andare più oltre, in tutti gli altri era timore e sgomento. Temevano e si sgomentavano i partigiani de’ reggimenti assoluti, i quali se di mala voglia avevano veduto l’allargamento di censura negli scritti, la guardia civica, e l’altre concessioni, assai più li turbava il pensiero d’una costituzione; ed ere maravigliosa cosa udire alcuni, che sei mesi addietro raccapricciavano alla parola di riforme, e talora la guardia civica mettevano in canzona, poi far delle une e dell’altra panegirici, e apparire dolenti che per volere davantaggio, non si dovesse perdere quei già acquistatibenefizi. E costoro costituzionali svisceratissimi divennero, quando cominciarono a sentir romoreggiare di republica. Insieme co’ partigiani degli assoluti governi, si peritavano e sbigottivano i così detti moderati; alcuni de’ quali avendo promosso e caldeggiato le riforme qual fine e meta a’ loro desiderii e ambizioni, temevano di perdere la potenza, o a quella non pervenire se oltre alle riforme si fosse proceduto, non solo perché avrebbero dovuto con altri dividere quel che volevano aver soli e godere tranquillamente e lungamente, ma ancora perché sentivano che la fama di uomini liberi avrebbero per avventure messa a periglio, se l’avessero dovuto a maggiori e piùdifficili sperimenti sottoporre. Pure non mancavano di quelli che si contristavano per sincera persuasione che il passaggio troppo repentino nelle costituzioni non dovesse essere malaguroso a popoli usciti da lunghissima servitù, e con tante e inveterate divisioni, e facilità a creare parti da rovinare un’impresa, che sembrava tanto bene avviata. Non nomino alcuno, perché è difficile conoscere chi fossero i sinceri, e chi no. Ben mi accade riferire che in Piemonte la parte che aveva più promosso le riforme, capitanata da Cesare Balbo, indirizzò al re di Napoli una petizione, supplicandolo con quello stile mistico allora in voga, che volesse la resistenza abbandonare: lo esempio di Pio IX, di Leopoldo II e di Carlo Alberto seguire: Italia tutta consolare: le sorti di ventiquattro milioni d’uomini assicurare: ai decreti della divina provvidenza che invitava i popoli a’ governameli civili e cristiani, obbedire; e da ultimo non essere cagione che il risorgimento italico, maravigliosissimo per temperanza de’ desiderii, non dovesse la moderazione trascendere.

Questa supplica, oltre il Balbo, sottoscrissero il Galvagno, il Santa Rosa, l’Azeglio, il conte Alfieri, Silvio Pellico, il Durando, e il Cavour; e i giornali piemontesi, pontificii, e toscani incontanente la divulgarono e magnificarono. Ma non mosse l’animo del re di Napoli: e nel modo stesso che i principi riformati si dolevano di lui, che, per lo suo tanto tenere, avrebbe condotto tutti al precipizio, egli querelavasi di loro, che lasciatisi vincere alle istanze popolaresche, punzecchiavano lui a commettere l’errore che non avevano saputo essi causare. Onde i suoi ministri s’affaticavano a far dire e ripetere al giornale publico: che stranezza colpevole nei Napoletani essere mai quella di chiedere cose che avevano; né potere il re concedere il già largito da’ suoi augusti predecessori e da lui mantenuto: codici civili e criminali, ordinamenti municipali, legge di sicurezza interna, guardia civica, consulta, milizia, esservi ogni cosa di ciò che altrove si chiedeva, o si aspettava. Che altro più desiderarsi? Che mancare per dovere l’altrui sorte invidiare? Se maggiori cose si vogliono, gittisi la ipocrita maschera di domandare quel che gli altri Italiani domandano. I quali vantamenti più irritavano, perché rammentavano che leggi buone e ragionevoli istituzioni v’erano, ma pessimi uomini facevano come se non vi fossero state.

Chiudevasi così per le due Sicilie l’anno quaransette, e col sorgere del quarantotto maggiormente le cose s’intorbidavano. Non più copertamente, rimessamente, quasi l’uno diffidando o temendo dell’altro, si parlava delle cose italiane, e delle riforme da procacciare. Ma nel foro, nelle accademie, ne’ consigli di stato, ne’ publici ritrovi, ne’ teatri, e sotto le oscure volte delle stesse prigioni se ne favellava, e gli animi d’ogni condizione se ne accendevano. Per lo che i movitori tanto napoletani quanto siciliani cominciavano stimare venuto il tempo opportuno di mandare ad effetto i loro divisamenti. Era stato da’ principali di essi, secondo che ho potuto raccogliere, statuito; doversi ancora attendere qualche altro giorno, perché maggiormente prolungandosi la pazienza publica, più giustificata la necessità di sollevarsi apparisse; poi la città di Palermo sorgere per prima, e gridare la sua costituzione del 1812: Napoli secondare, gridando la sua costituzione del 1820; non solo per procacciar meglio autorità di rivoluzione legittima, secondo che allora si predicava, vendicando ragioni già acquistate, ma ancora perché condizione della colleganza fra Napoli e Sicilia era stato il separamento dell’isola dal continente, nel tempo che gli uni agli altri protestavano che non sarebbesi la discordia dell’anno 1820 rinnovata. Infelice patto, che mentre rivela la condizione dei due popoli, mostra quanto sia difficile a noi italiani lo stare uniti; conciossiaché a stabilire un accordo fra Siciliani e Napoletani per un’impresa comune ad entrambi, fosse stato mestieri anticipata separazione patteggiare.

Determinarono i Palermitani sollevarsi il dì 12 gennaio, festivo al nome del re; annunciandolo tre dì innanzi con cartelli a stampa quasi per avvertire i capi del governo. I quali stimarono di rintuzzar quell’audacia col fare di notte imprigionare alquante persone delle più stimate del paese o per casato o per ingegno o per amicizia col popolo. Fra loro si contavano i professori Emerico Amari e Francesco Ferrara, e il duca di Villarosa. Né per questa nuova mostra di terrore i movitori si arrestarono: ma, usando la maggiore commozione prodotta, mandarono fuori altri inviti di sollevazione più infuocati. In oltre, a nome d’un comitato direttore, non ancora istituito, arrogandosi autorità popolare, davano ordini, spartivano uffici, indicavano provvedimenti: confidando meglio nella preparazione degli animi che nell’apparecchiamento delle forze, rispondenti alla impresa. E parve esempio nuovo vedere città sprovveduta di armi e di vettovaglie, e senza soccorsi di fuori, ribellarsi, dopo averne anticipatamente e replicatamente avvisato il principe, armato e deliberato a usar forza: indicandogli il giorno, l'ora e il luogo, quasi a singolar tenzone lo disfidasse. Né a tanto ardimento mancò splendida vittoria: e il dì 12 parve davvero che sonassero un’altra volta le campane del vespro, e il grido di morte alla mala signoria rimbombasse da capo.

Sul principio non era che un branco di pochi giovani dei più coraggiosi, che con insegne levate e voci di libertà cominciarono il movimento. La cavalleria corse loro addosso; e se quelli si fossero ritratti, o se la milizia regia avesse ripigliata la battaglia con maggiore e più pronto ordinamento di armi, certamente la palermitana ribellione per quella volta non sarebbe riuscita. Ma né quel fiore di gioventù valorosa piegò al primo offendere della soldatesca; cui anzi tenne fronte e sbaragliò, e fu causa che la moltitudine popolare, stimolata altresì da antichi odii e ingiurie recenti, accorresse e ingrossasse; né i comandanti dell’esercito napoletano osarono adoperar le forze come faceva mestieri, o per codarda ignoranza o per quello sbigottimento di spiriti che sogliono in sul primo tutte le sollevazioni produrre. La mattina del giorno appresso, non si vedevano più milizie per la città, tornate agli alloggi. Più tardi quantunque spicciolato, ricominciò più aspro il combattimento; stigando i soldati la vergogna, e rincorando il popolo il continuo sopraggiungere di genti dalle campagne e terre vicine. I primi novellamente cederono e sbandaronsi; e quei che per eccesso d’ignoranza militare gli aveano condotti come a un macello, ricorrevano alla vile barbarie di comandare alle artiglierie del castello di travagliare la città. Non di meno la sommossa, fortunata alle prime prove, non che allenare, viepiù si fece grande, aumentando di ora in ora uomini e coraggio; rinfiammato altresì da prestigi, fra’ quali è notevole quello che di sé diede un cotal Giuseppe Scordato: fratello di uno che essendo stato assai manesco e feroce, e spesso rissando co’ gendarmi, e di quelli facendo uccisione, finalmente egli era rimaso morto, e avea lasciato nel popolazzo un nome di spavento e insieme di pregiata fierezza. Entrato Giuseppe in Palermo con una schiera di prigioni fatti combattendo in Bagheria, sua terra natale, né il volgo inebriato facendo distinzione dal fratello, e credendolo alcuni non morto, altri risuscitato, tanto più che il vedevano aspramente combattere, divenne in breve sì formidabile non più colla mano che col nome, che gli stessi soldati ne cominciarono a trepidare come d’un fantasima, e gli si attribuivano tutte le maggiori prodezze, maravigliandosi lui stesso di tanta sua fama.

E conciossiaché fosse giunto il momento che il popolo avrebbe scoperto, nessuno de’ sopra annunziati provvedimenti essere stato fatto, si diè opera perché in piazza, detta di Fiera Vecchia, quasi in mezzo al trar delle palle, si formasse come meglio si poteva un comitato temporaneo. Il quale, fatto sì improvviso e alla rinfusa, venne dopo due giorni surrogato da un altro, meglio ordinato e in quattro più speciali collegi spartito. Il primo, presieduto dal pretore della città, e composto di senatori e decurioni, dovesse provvedere a’ bisogni dell’annona: il secondo presieduto dal principe della Pantelleria, e composto de’ signori duca di Gualtieri, Iacona, Riso, Bassano, Vergara, Calona, Gravina, Rammacca, La Masa, Porcelli, Pilo, Capece, Bivona, Villafiorita e Castiglia, dovesse far provvisione di armi e di munizioni, e di quant’altro potesse richiedere la sicurtà publica; il terzo, presieduto dal marchese di Budini, e composto de’ signori Stabile, Villa, Riso, Anca, Sommatino, Santoro, avesse speciale cura di ricevere tutte le somme disponibili, e nel miglior modo distribuirle; il quarto sotto la presidenza di Ruggiero Settimo, formato de’ signori duca di Terranova, Calvi, Errante, Beltrani, Pisani, Manzone, dovesse raccogliere le notizie di tutti gli avvenimenti che si sarebbero succeduti, e colla maggiore esattezza divulgarle.

Questi quattro comitati formarono alloggi, istituirono ospitali, prepararono soccorsi, publicarono avvisi, impedirono disordini, fecero riaprire botteghe e chiese, state chiuse nel trambusto, ripigliare i commerci, non interrompere i misteri sacri; e provvedendo sempre secondo i particolari uffici, adoperarono perché il popolo non si lasciasse vincere e scompigliare dalle incendiatrici bombarde, né traportare all’impeto della collera in colpevoli eccessi. Il che procacciò in sul principio a quella rivoluzione la grazia di tutta Europa, facendo maraviglia che una moltitudine sollevata e infuriata, non solo la disciplina di ordinate milizie osservasse, ma nello stesso bollore facesse atti di pietà e di generosa virtù; e mentre i soldati regi, assaltando il monistero de’ padri Benedettini, lo svaligiavano, e altre enormezze commettevano, il popolo che li rincacciò e fugò, prese i sacri arredi rimasi, e religiosamente recolli a capi, perché in luogo santo fossino riposti. E non che predare il danaro publico, come nelle sommosse è tal ora crudele necessità, i particolari d’ogni condizione, i maestrati, i corpi religiosi profferirono del proprio; e quanto l’esempio fosse grande, basti notare che i padri gesuiti, bisognosi sopra ogni altro di grazia popolare, furono tra’ primi a donare. Altre provvisioni si fecero, come di fissare un pregio moderato al grano, e obligare i possidenti ad aprire i magazzini per benefizio del popolo in quelle angustie. Avendo dato il primo esempio il pretore, seguirono altri della principale nobiltà: onde vigore alla sollevazione cresceva; e prima si videro impaurire i rappresentanti del governo regio, possessori della rocca, che venir meno nelle strade la popolare intrepidezza. Imperciocché, seguitando a trarre le artiglierie, protestando i consoli stranieri, il luogotenente del re scriveva al pretore e prometteva di far cessare il fuoco del castello, purché ancora dalla parte del popolo cessasse, e nello stesso tempo fossa fatto noto in termini moderati quel che la città di Palermo desiderava, affinché egli, che nulla da sé poteva risolvere, ne avesse senza indugio riferito al principe, e supplicatolo a contentarla. La risposta del pretore fu: Il popolo coraggiosamente sollevato non poserà le armi, né sospenderà la guerra, se non quando Sicilia raccozzata in general parlamento, acconcerà a’ tempi quella sua costituzione, che giurata da’ suoi re, riconosciuta da tutte le potenze, non si è mai osato di togliere apertamente. Né da questa vigorosa deliberazione, che incessantemente ripeterono, come sacramento publico, nulla mai più valse a spuntarli.

In questo mentre, essendo giunta in Napoli la notizia della sollevazione di Palermo, il re aveva mandato su’ navigli a vapore rinforzi continui sotto il comando del maresciallo di campo Desauget, accompagnato da uno de’ suoi fratelli. Ma, veggendo tuttavia che, la ribellione non pur si reggeva, anzi ogni dì acquistava forza, e nelle altre città e terre dell’isola si allargava, condussesi a fare quello che dieci giorni innanzi sarebbe stato forse efficace rimedio, e allora non servì che ad accrescere gli sdegni. Il giorno 18 gennaio il diario officiale del regno divulgava alquanti decreti intorno alla censura degli scritti e alla consulta di stato. Insiememente un atto d’incompiuto perdono per accusati di maestà publicavasi; e in ultimo alcuni particolari decreti per la Sicilia vedevano la luce: con uno de’ quali si cassavano le così dette leggi di promiscuità, e nominavasi un ministero separato per l’isola, e luogotenente generale il conte d’Aquila fratello del re. Fu gridato in Napoli il fatal motto; è tardi: e con più ira fu ripetuto in Palermo, già sollevata. Le concessioni vennero ricusate, quasi atti di scherno alla troppo abusata pazienza publica, senza che i reggitori napoletani trovassero appoggio né scusa presso le corti italiane, già riformate, né presso i rappresentanti della diplomazia esterna; perciocché colle prime non si erano mai voluto collegare, e di mal occhio le riguardavano; e dei secondi o avevano rifiutato i consigli, se erano per le riforme, o se per le riforme non erano, non potevano farne capitale; non tanto perché allora gl’Inglesi non avrebbero forse consentito che gli Austriaci intervenissero negli stati napoletani, quanto perché gli Austriaci stessi non si sarebbero attentati di attraversare gli stati romani e toscani che vedevano contro loro sì concitati, e lasciare sguarnita la Lombardia, che sapevano impaziente di quel freno. Oltrediché la esperienza del 15 e del 21 doveva far accorto il re di Napoli, che quando colle proprie milizie non avesse potuto resistere, era meglio allargare il governo che chiamare soldati stranieri. Deplorabile condizione di principe, umiliato fino a dover tollerare il rifiuto de’ propri doni; ai quali mancando anche l’apparenza della spontaneità, ogni pregio tollerabile mancava; e i cittadini napoletani argomentavano: a che approdare sì fatte concessioni? Il regno già avere leggi di stato, le migliori che in regno assoluto si possono desiderare. Mancarci ordinamenti che ne assicurino la esecuzione; né i decreti testé publicati a ciò sopperire.

Così andavano gli animi apparecchiandosi alla domanda di una costituzione, quasi d’un bisogno supremo; non già nel popolo, che nulla ne intendeva (come d’ogni moltitudine), ma sì negli uomini civili, per opera de’ quali, che pur sono i meno, si operano quasi tutte le mutazioni di stato. Imperocché se si aspettasse che i popoli desiderassero istituzioni libere, non si procaccerebbe giammai di averle, non potendo essi desiderar cosa di cui non stimano il benefizio, né possono stimarlo, per difetto di publica educazione. La quale d’altra parte setto assoluta signoria non volta che a servii pazienza: laonde per educare gli uomini a libertà, mestieri è cominciare dal dar loro libertà, sì per altro la grandezza di questa sia alle loro forze proporzionata. Nel che veramente consiste tutto lo accorgimento e la virtù degli autori di novità; come per dire un esempio antico e celebratissimo nelle storie, fece il primo Bruto in Roma; il quale nel fondare la libertà dopo cacciati ire, prescrissela in modo che da prima la differenza era più nei nomi che nella cosa, quasi bastandogli per allora che il popolo prendesse più in abominazione la tirannide, che troppo cupido dei liberi ordini addivenisse. Ma in Napoli nel gennaio del quarantotto, era ancor più specialmente la difficoltà di trarre in un sol volere tanta moltitudine di animi, variamente e contrariamente disposti, che toglieva alla rivoluzione quel pronto effetto che aveva avuto in Palermo, dove un solo desiderio moveva tutti. E chi d’una costituzione e chi d’un altra favellava: chi proponeva quella de’ Belgi, chi quella di Spagna del 1820, chi la stessa siciliana del 1812; e così disputandosi e nessuna cosa che veramente approdasse trovandosi, si allungò in fino al 27 gennaio: quando saputasi la sollevazione della provincia di Salerno, e come quella popolazione armata e ardita minacciava di venire a Napoli, non parve più tempo da indugiare, e si diè opera ad apparecchiare quell’assembramento che doveva essere l’ultima pinta.

In tanto al ministro del Carretto, contro cui l’odio publico maggiormente inviperiva, fu dato ordine di partirsi. Il quale la sera innanzi, quasi presentendo la burrasca, chiamò in casa sua Mariano d’Ayala uno de’ principali a far nascere e propagare il desiderio di costituzione: cui pochi mesi addietro aveva fatto imprigionare; pregandolo a consigliarlo in quel frangente: e il d’Ayala con onesta franchezza lo esortò a deporsi del ministero, non potendo altrimenti provvedere all'onor suo, e a quello del principe: sendo ornai le cose tratte sì innanzi che il popolo non si sarebbe acquetato finché al governo vedeva lui sì odiato. Rispondeva l’altro: non intendere come potesse essere in tanto odio: non avere rimorsi di coscienza; aver tenuto il potere per impedire che altri lo esercitasse con più violenza: essere vicino a publicarsi una legge di buongoverno: delle crudeltà fatte sin qui, non averne lui colpa; ché anzi avere cercato impedirle, e non sempre essere riuscito. Discolpe forse in parte vere, in gran parte suggerite dalla paura, che lo faceva pentire di non essere stato migliore. Finalmente ringraziò il d’Ayala del consiglio portogli, e disse: ci penserebbe; mancandogli virtù di ritirarsi da dove fra poche ore doveva precipitare. Sì lo tiranneggiava ’ l'amor del comando. Aggiungono che avesse chiesto di essere mandato ambasciadore presso qualche corte, e scegliesse quella di Torino; poi si ritraesse da quel pensiere: onde il re ne ombrò, e si dispose ad accettare i consigli di quelli che aspettavano il destro di rovinare un uomo, in cui tanta e gravosa potenza si accoglieva; fra’ quali era lo stesso presidente de’ ministri Pietracatella.

La commessione d’intimargli il bando fu data al general Filangieri: lieto di eseguirla, non per amore di libertà, ma per antico odio contro chi l’aveva più volte sgarato: e per meglio fare il colpo, fu d’ordine del principe chiamato a corte, dove seppe la pena che gli avevano i cieli serbata: tanto più crudele quanto meno se l’aspettava in quel luogo di liete memorie. Né valsero proteste, scuse, umiliazioni: che più inasprivano in bocca di colui, in fino allora così superbo e inflessibile addimostratosi. Chiese di parlare al re, e gli fu negato: e negatogli altresì di andare a casa a mutarsi gli abiti, per la interna via di palazzo che mena alla darsena fu imbarcato in fretta sopra una nave a vapore, che doveva trasportarlo in Francia; incontrando ovunque passava la stessa ira di popolo, alla quale in patria era stato sottratto. Per lui furono commessi atti di barbarie, indegni della italiana civiltà. A Livorno gli fu rifiutato acqua e fuoco: a Genova gli fu negato sbarcare; e a stento e con pericolo potè il viaggio continuare. Quasi la stessa sorte toccò al vescovo Code; anch’egli costretto a fuggire con dietro le maledizioni della città, senza che fossegli usbergo la potenza del principe che aveva servito. Terribili esempi, se gli esempi giovassero.

A precipitare le cose napoletane al termine, avvenne ciò che non dee far maravigliare nelle subite rivoluzioni. Tanto il re, quanto i movitori diffidarono delle proprie forze. Il re credette che il moto fosse più gagliardo e universale che non era, e le milizie insufficienti o disvolenti a comprimerlo. Scusabile in questo timore, dacché vedeva in Sicilia, non ostante i rinforzi mandati, la ribellione seguitare e vincere; onde spaventato preparavasi a tutto concedere, come è natura de’ borboni; facili a lasciarsi incoraggire a proponimenti di rigore, e a lasciarsi altresì atterrire all’appressarsi del pericolo. Alla lor volta i movitori non mancavano di buone ragioni a temere, essendo che da parecchi giorni andava intorno la voce d’una proposta fatta al re di non so qual nuova consulta con voto deliberativo; la quale in un popolo sì scomposto di voglie e di desiderò, e con una plebe cotanto voltabile e perversa, poteva pur essere una via per mandare a vuoto i disegni di quelli che un governo di rappresentanza volevano, non ignari, che non potendosi promettere alcuno appoggio dalle guaste moltitudini, era giuocoforza il carpire una vittoria qualunque per trarsi dietro il popolazzo. Altrove per vincere si faceva uso del popolo; in Napoli bisognava prima vincere per aver l’aiuto popolare. Aggiungevasi pure a non bene assicurare l'animo de’ chiedenti una costituzione lo brigare de’ rappresentanti delle corti straniere, perché il re a tanto non si lasciasse vincere: e se non s’ignorava a questo fine un memoriale alla corte napoletana indirizzato dai ministri di Russia, di Austria e di Prussia, era pure noto che l'ambasciadore di Francia non faceva buon viso a Quella novità.

Messi adunque alle strette sì il re, e sì i desiderosi di costituzione, ne resultò che l'uno diè più di quello che avrebbe voluto; e gli altri ricevettero meno di quel che desideravano. Varie petizioni si fecero, né a me è riuscito chiarire quale di esse giungesse al trono. Trovo che il così detto comitato ne compilasse una, in cui si chiedeva la costituzione del 20, ma con modi sì vaghi ed ambigui, che in fine appariva che sarebbero stati contenti a qualunque altra, purché costituzione fosse: e la recassero al principe di Salerno, zio del re, il quale più del nipote impaurito, corresse incontanente alla reggia, raccomandando che venisse accolta e nel migliore e più sollecito modo soddisfatta. In questo mezzo le piazze e le strade si empivano di popolo, non rattenuto da pioggia, che aiutò anzi il movimento; perché si videro spiegare ombrella di tre colori, segno di libertà, sotto la reggia. Il re adunò subito consiglio; al quale dicono intervenisse anche il general Carlo Filangieri.

L’avere nominato due volte questo uomo, il più prestante che fosse per avventura in quella corte, e il doverlo più altre volte ricordare, vuole che io tocchi alquanto di sua vita e costumi. Nato di antica e illustre famiglia, con quel nome paterno congiunto a potenza non ordinaria di naturale ingegno, avrebbe sopra ogni altro potuto le cose publiche indirizzare a buon termine, se non l'avesse ritenuto eccessivo amore della sua fortuna. E se bene mostrasse tal ora di osservare i valorosi di mano e d’ingegno, carezzando maggiormente quelli che avevano con lui servito i napoleonici, e a chi gli avesse ragionato di civile libertà non contrastasse, pure non era da sperare che mai una parola libera al principe dicesse, per paura di non pregiudicarsi, o perché la vanità della corte lo tirava più d’ogni altro affetto. La fama lo diceva altresì cupido di lautezze, che non gli facevano dubitare di recar detrimento alle industrie publiche, per avvantaggiare le proprie; e confessava ei medesimo, nessuna ricchezza sapergli più dolce dell’acquistata senza fatica: e per lo troppo bramarla, fu in pericolo di cader povero, se il principe non lo rialzava per ricompensa a’ servigi veramente segnalati che da lui riceveva nella milizia; dovendosi alla sua abile operosità il tanto accrescimento e miglioramento delle artiglierie napoletane; di che il re più particolarmente. si compiaceva: e vogliono che, tolta la sua grazia al ministro del Carretto, dopo che per i replicati assembramenti provò insufficiente il suo potere (che Ferdinando amava gli uomini secondo li stimava), la voltasse tutta al Filangieri, che entrò nelle confidenze regie più intime, servendolo coll’autorità che per gli acquistati gradi aveva nell’esercito.

Dibattutosi adunque, se era o no da rintuzzare colle armi e col sangue le domande di costituzione il dì 29 gennaio, non mancò fama che il Filangieri consigliasse la resistenza: come che domandato poi da alcuni suoi amici, protestò che anzi aveva sostenuto la opinione contraria. Certo la prima deliberazione fu per lo resistere, dacché in castel Sant’Elmo s’inalberò la bandiera rossa, signacolo di guerra; più volte tuonò il cannone; e più di dieci mila uomini di varie armi occuparono in breve ora le piazze e i luoghi più acconci della città. Chiamato poi in corte il general Ruberti, comandante in Sant’Elmo, e richiesto qual conto era da fare sul presidio di quella rocca, che sta a cavaliere a Napoli, ho buono in mano per poter conghietturare, ch’egli da quel prestante e leale uomo che era, rispondesse: che dove il forte venisse da qualunque siasi parte assaltato, difenderebbelo come deve soldato d’onore, ma non comanderebbe mai che sul popolo si traesse; e qualora ciò fosse ne’ decreti del principe, domandava licenza. Né voglio tacere quel che pure mi fu accertato, avere il re lodato questa sua onestà, trovatala inespugnabile. Imparino quei vili, che, potendo, ricusano parlar franco ai principi.

Intanto la folla non ispaurita a quella minaccia, ingrossava; moltiplicavano i segni tricolorati; le fenestre dell’ampia via di Toledo si empivano di persone d’ogni sesso, età e condizione. La curiosità e apparato degli spettatori faceva, come suole, parere più gagliardo e quasi generale il sollevamento. Né deve ignorarsi, come un equivoco servisse mirabilmente a mostrare unanime la città. Essendosi sparso, non so se a caso, o per arte degli stessi movitori, che il re aveva già decretata la costituzione, la nobiltà che in grandissima parte contraria o indifferente era, a quella notizia facilmente creduta, divenne tutta favorevole, e per paura o adulazione si congiunse col popolo a batter le mani, e festeggiare quel che ancora doveva essere conceduto. Allora il generale Statella comandante la guarnigione di Napoli, scórso la città e vedutala sì commossa, e da ogni parte sentendosi giungere agli orecchi la parola di costituzione, tornato a palazzo vogliono che persuadesse il re a cedere. Al che seguì, com’era di ragione, la dissoluzione del vecchio ministero, e a comporre il nuovo fu invitato il duca di Serracapriola. Il quale, assumendo l’amministrazione degli affari esterni, scelse compagni per le cose interne il cav. Carlo Cianciulli; per la grazia e giustizia il consultore Cesidio Bonanni, che doveva temporalmente provvedere agli affari ecclesiastici;per l’erario il principe Dentice; pe’ lavori publici il principe Torella; e per l’agricoltura il consultore Gaetano Scovazzo con commissione pure di soprintendere a’ publici studi. Mancava il ministro della guerra, di cui per allora non si parlò, forse per non toccare in quel momento l’animo del re nel suo maggior debole, vantandosi di continuo ministro della guerra essere lui. Tutti uomini, o la maggior parte più amanti della corte che della libertà, più superbi che sapienti: i quali avrebbero desiderato di salire col mezzo di semplici riforme, e accettavano il ministerio colla costituzione, perciocché le riforme erano divenute cattivo espediente ad acquetare: e forse tra loro stessi avranno dovuto stupirsi di essere chiamati fra tante difficoltà a fondare governo nuovo; e poiché deliberato era che una costituzione bisognava dare, non altro restava che risolvere in quali termini convenisse darla. E dalle cose dette non è maraviglia che si trovassero facilmente d’accordo nello scegliere fra tante costituzioni la meno buona, quella di Francia del 1830. Dolorosa e vergognosa cosa, che in Italia stata in altri tempi ad altre genti esempio di leggi e di libertà, non si sapesse creare uno statuto più conformato all’indole nostra, e meglio rispondente alle condizioni in che allora eravamo: sì che restasse la monarchia, già sperimentata sì mal disposta, il più che fosse possibile infrenata, senza che troppo dovesse prevalere la popolarità, anch’essa provata funestissima alla conservazione de’ liberi ordini: niuno pensando alle municipali istituzioni, quasi queste non potessero e non dovessero essere fra noi il migliore e più solido fondamento d’una legge di stato.

In fretta e furia il giorno 29 gennaio si notificarono della napoletana costituzione i canoni con queste parole del principe. Sapendo essere voto generale una costituzione di stato conformata al presente incivilimento, ed essendo sua volontà il soddisfarlo, avere data commessione a nuovi ministri di farne non più tardi di dieci giorni la compilazione ne’ seguenti termini: l’autorità legislativa doversi esercitare dal re e da due assemblee, una di ottimati, l’altra di deputati; i primi da lui nominati; i secondi eletti dalla nazione conforme al loro censo; sola religione dello stato dover essere la cattolica apostolica romana, né altro culto tollerarsi; la persona del principe essere sacra e inviolabile, e i ministri tenuti di tutte le deliberazioni di lui. Le milizie di terra e di mare dipendere dal re. Doversi in tutto il regno ordinare la guardia cittadina. Potersi stampare senza censura per gli scritti, ma essere soggetti a punizione coloro che alla religione, alla morale, alla quiete publica, al re, alla famiglia reale, a’ sovrani esterni, e all’onore e interesse de’ particolari cittadini offendessero.

I popoli, facili sempre a sdimenticare il passato, e affidarsi al presente, ne fecero festa, come se il supreme de’ beni avessero acquistato. Più tosto frenetici di gioia che accesi apparvero gli animi; e in quella vasta e popolosa metropoli, l’agitarsi per ogni via, fregiarsi di segni tricolori, ornare di varie bandiere le fenestre, gridare come sa la gente napoletana, era spettacolo non possibile a ritrarre. Crebbe il delirio quando viddono il re a cavallo uscir subito della reggia, e i luoghi più usati della città attraversare. Avvi chi racconta che in alcuni canti gli si affollassero intorno, levassero il suo nome alle stelle, baciassero le mani, i piè, gli abiti, e quei che non potevano giungere a toccar la persona, baciassero la testa del cavallo. Altri testimoni riferiscono, che il suo passare non destasse da per tutto piena gioia, quasi rattenuta dal pensiero che il dono non era spontaneo. Né è facile oggi conoscere il vero affetto movitore di quella sì repentina esultazione, che poteva essere conseguenza naturale del lungo ritegno a contentare moderati desiderii: avendo dovuto a molti parere come un sogno in poche ore da tanta strettezza passare a quello che allora giudicavasi colmo di libertà. Certo è che il re mostrò non gradirgli tutto quello sfoggio di tricolore, sembrandogli forse di scoprirvi più un’allegrezza italiana, da lui non partecipata, che un segno di gratitudine napoletana alla concessione fatta; e pregò volessero deporlo, allegando non convenirgli far sospettare che ambizione sull’intera Italia lo avesse mosso, e dilettargli anzi il rosso della sua insegna, che rappresentava altresì il colore del cuore. Allettati dalla poetica imagine, e da quella generale ebrietà, tutti a poco a poco obbedirono.

Ma sì subito cambiamento di affetti varii, in quella singolare città, non poteva passare senza che si rimestasse e agitasse il marciume plebeo de’ così detti lazzeroni. Gente codarda a chi le mostra il dente; feroce, se non è rintuzzata; né d’altre voglie piena che di schiamazzare e rubare sotto qualsivoglia pretesto. Nel passato non che pensare a togliere tanta lordura era stata più tosto nutrita, provandosi non disutile strumento di tirannide; e quantunque per beneficio del tempo fosse di gran lunga diminuita, pure qua e là ve ne rimaneva, da essere tirannescamente adoperata. Sbalorditi da quella inattesa mutazione, né rinvenendo come il re concedesse tanto più di quello che in fino allora aveva dinegato, fu loro facilmente persuaso che fosse effetto di violenza fattagli: onde alcuni de’ più audaci gli vanno incontro, chiedendogli se era stato sforzato: e non sempre bastando ch'ei rispondesse avere spontaneamente conceduto, s’intramettono fra’ festeggiane la costituzione, gridano con quanto hanno in gola, essere il re in pericolo; poi contro quelli s’avventano: tentano strappar loro i nastri de’ tre colori, aggiungono villanie e strapazzi, e forse avrebbero manomessa la città, se la guardia cittadina, di cui era in Napoli un’ombra d’ordinamento, non avesse quella vile plebaglia affrontato, e in gran parte presa e tolta in carcere. E quantunque allora sì fatta bestialità non partorisse alcun disastro, né cosa grave si reputasse, tuttavia testimoniò da una parte la selvaggia indole di quel popolazzo, e dall’altra, i benefizi stessi di libertà convertirsi di leggieri in disordini, quando vengono subitanei, e col segno di essere carpiti per forza, né trovano le moltitudini in qualche maniera apparecchiate con precedenti esempi a riceverle.

In tanto l’allegrezza cittadina per la costituzione, non rattenuta dagli schiamazzi de’ lazzeroni, continuò; la sera d’innumerevoli faci s’illuminò la popolosa città, e di festivi canti riempissi. Comparso nel maggior teatro il principe, ebbe applausi come non gli aveva mai avuti. Fu visto ringraziare, volgendo la mano al cuore, e col volto atteggiato a ineffabile gioia: di cui non era sembiante che non isfaviilasse; quasi nobile orgoglio accendesse i Napoletani dell’avere ogni altro popolo italiano vinto negli acquisti della libertà, ed essersi collocati alla cima di più vasta impresa. Rafforzarono le disposizioni alla contentezza i giornali politici, che non misero tempo in mezzo a comparire, e sciamare con rimbombante stile: la somma felicità essere stata acquistata; doversi far monte del passato: da quel giorno cominciare la storia di Napoli; il re spontaneo, e non violentato avere largita la costituzione: fino da’ primi momenti del suo regno essersi mostrato disposto a sì fatta concessione, se perfidi ministri non avessero ritenuto il generoso suo animo; né avere voluto fare le riforme che allegravano Roma, Toscana e Piemonte per poca fede nella durevole efficacia di quelle: in cambio aver aspettato l’occasione di potere il suo popolo a vera e ben mallevata libertà innalzare: e non per altro lo apparecchio minaccioso di milizie essere stato comandato, che per mostrare com’egli avrebbe di leggieri potuto negare ciò che pur concedeva. E dove co’ suoi propri occhi avesse potuto vedere la rivoluzione di Palermo, e certificarsi dello stato degli animi, le napoletane allegrezze non sarebbono da lutti siciliani contristate.

Con queste ed altre magnifiche parole i civili animi si affidavano, e misurando il beneficio dal desiderio, credevano davvero il regno della libertà fosse cominciato, né dovesse più finire; il principe non pur sincero, anzi acceso egli stesso: la milizia favorevole; il governo generoso;la maggioranza de’ popoli ben disposta. Maravigliose illusioni, e pur consuete in quella provincia d’Italia, pagate sempre col sangue, e con maggiori patimenti e servaggio.

Fra tanto i Palermitani, rigettate le concessioni di riforme del 18 gennaio, avevano seguitato a combattere, e perché più ordine e forza fosse nlle deliberazioni, avevano deliberato, che i quattro collegi, da noi sopra notati, potessero assembrarsi in uno generale per deliberare intorno a materie che non fossero di speciale balia di ciascuno. E di questo collegio generale, regolatore delle più importanti provvisioni, fu per voto unanime eletto presidente Ruggiero Settimo. Nato dei principi di Fitalia, una delle più ragguardevoli case di Palermo; allevato nell’accademia di marina che fondò in Napoli il generale Acton; trovatosi nel 1793 al ferocissimo assalto de’ republicani francesi alla città di Tolone, sotto gli ordini dell’ammiraglio inglese Hood: avuto gradi e sostenuto cariche publiche mentre al di qua dello stretto ressero il fratello e il cognato di Napoleone, e la Sicilia si tenne per i Borboni; nel 1811 del numero di quelli che di vendicare gli antichi diritti del parlamento siciliano, sotto la protezione inglese, maggiormente s’adoperarono: l’anno appresso deputato del nuovo parlamento, poi anche ministro, nelle discordie cotanto all’isola calamitose, fra il principe di Belmonte e il principe di Castelnuovo, tenne sempre dal secondo, cui rimase congiuntissimo nel costante desiderare la libertà della Sicilia. Tornato dopo il 1812 alla vita privata, quantunque richiesto dal re di Napoli di amministrare le cose della guerra, ricusò; e solamente per l’ordinario corso degli avanzamenti, salì al grado di retroammiraglio. Trattolo novellamente fuori della quiete domestica la rivoluzione del 1820, fu della giunta di governo creata dal popolo, né accettar volle la dignità di luogotenente dell’isola proffertagli dal re; e recuperata la dolcezza del vivere privato, dopo che la città di Palermo fu dalle milizie napoletane occupata, in quella dimorò fino al 1848; senza che gli anni e la lunga servitù gli raffreddassero l’animo, che parve come ringiovanire al novello commovimento, non essendo giovine forse più ardente di lui, già settuagenario. Destinato dai cieli a capitanare o partecipare tutte le infelici rivoluzioni della sua terra natale, senza che gli valesse la quiete dell’uomo cui nessuna ambizione stimolava. Mettevalo innanzi un nome non mai macchiatosi, e da tutti amato e venerato. Il quale dimostra quanto nelle mutazioni valga più una solenne probità che un peregrino ingegno.

Adunato con solennità publica il sopraddetto collegio nel palazzo pretorio, deliberossi di fare un manifesto a tutte le città di Sicilia per informarle della pugna sostenuta dalla città di Palermo fin dal giorno 12 di gennaio e della risposta data al luogotenente regio, unica significatrice dello scopo della palermitana rivoluzione; invitarle a seguire quell’esempio, e congiunte di volere e di opera, concorrere al finale compimento della comune impresa. Verso la quale seguitava a mostrarsi prospera la fortuna: e mentre i Palermitani avevano preso il quartiere del noviziato, l’ospedale civico, il ministerio di S. Elisabetta e il palazzo della tesoreria: luoghi dove da più giorni le milizie borboniche si erano affortificate, e ad espugnare i quali, massime l’ultimo, avevano dovuto non leggiera resistenza superare; il comandante supremo De Maio chiamava a consulta altri generali Merola, Giudice, Pronio e Vial, e deliberavano, che dopo perduto que’ posti importantissimi, consumate le munizioni, i soldati stanchi e scorati, con pochi viveri e in mezzo a nemici imbaldanziti e che ferivano celandosi, era necessità estrema ritirarsi e raccozzarsi colla milizia accampata al luogo detto de’ Quattro Venti. Se non che dopo poche ore lo stesso comandante dichiarava, essere impossibile ancora fare detta ritirata con donne, ragazzi, ammalati,fediti, bagaglie immense, senza vetture, e incalciati da numerose bande di popolo; e proponeva con segni di confusione orribile di lasciare per convegna, quasi rimedio unico in caso estremo, il palazzo e il forte in mano de’ ribelli,conciossiaché egualmente difficile e pericoloso fosse il reggersi e il ritirarsi. Sopraggiunta la notte, infrenabile spavento prese la soldatesca, che sperperata si diè a fuggire con intenzione di ricongiungersi coll’esercito attendato a’ Quattro Venti. La dimane il palazzo regio fu assalito, e distrutta con tre cannoni posti sul baluardo di porta Montalto, una parte dell’edifizio, fu dal popolo senza resistenza alcuna acquistato, avendolo già le milizie abbandonato; e i pochi soldati rimasti dentro a inutile gaardia, si diedero a mercé de’ vincitori, con quelli abbracciandosi, e fratelli chiamandosi.

Ben la collera popolare non conobbe freno verso i birri: che rinnegando lor patria eransi co’ soldati regi congiunti per guerreggiarla: e parecchi ne furono sotto il palazzo pretorio uccisi, e più aspro macello ne avrebbono fatto, se il venerando Ruggiero Settimo non s’intratteneva dicendo: la magnanimità dimostrata dal popolo verso i prigioni di guerra, e l’uso moderato d’ogni sua vittoria, non doversi ora macchiare coll’uccisione di alcuni birri, quantunque rei; contro ai quali avrebbono fatto il loro ufficio i tribunali.

Era in poter del popolo gran parte della città, quando ancora palle dal castello si scagliavano. Il giorno 27 il comandante del vascello inglese ancorato nelle acque siciliane, ad istanza del maresciallo Desauget aveva fatto sapere al comitato generale che sarebbe cessato il fuoco qualora si concedeva potersi le milizie regie senza molestia imbarcare. Al che fu risposto, che la sorte della città di Palermo sendo collegata con quella delle altre città di Sicilia, anch’esse sollevate col medesimo grido di libertà, era dovere impedire il più che si poteva, che i soldati, partendo di Palermo non perseguitati, non andassero con più forza a travagliare i loro fratelli in altri luoghi dell’isola; pur tuttavia consentirebbero alla proposta sospensione di armi sotto tre condizioni: che si rendessero i cittadini imprigionati per sospetto il dì 9 gennaio; che si mettessero in poter loro le prigioni, per aver essi la custodia dei rei de’ veri delitti, e liberar quelli incarcerati per arbitrio; e che prima di venire alla espugnazione, il castello si arrendesse. Desauget replicò: tali condizioni passando le sue facoltà, non poterle accettare; nel tempo che ogn’ora più provava impossibile raffrenare la sollevazione ornai trionfante.

E qui non vuoisi tacere, che alla facile vittoria de’ Palermitani, oltre agli effetti di scoramento che producono in sul cominciamento tutte le sollevazioni, ancorché mosse da pochi, assai contribuirono gli errori militari e appena credibili e inescusabili de’ comandanti regi: i quali essendo parecchi, mancava forse quella unità d’impero, sì necessaria in somiglianti casi. Comandavano in città con diversi gradi De Maio, Vial Merola, Giudice e Pronio: e se tra costoro il Pronio avesse primeggiato di grado come primeggiava di sapere, le cose non sarebbero per avventura andate in quel modo. Comandava di fuori il Desauget: a cui si riferì la maggior colpa, o perché in lui erano riposte le maggiori speranze, o perché rimase ultimo a sopportare i disastri della rotta. Era il Desauget reputato uno de’ migliori generali che avesse la milizia napoletana: era stato col Pepe nella spedizione contro. Sicilia del 1820; aveva scritto con onore di cose militari, e pareva nessuno dovesse meglio quella impresa condurre. Ma i fatti lo dimostrarono assai più nelle teoriche valente che nella pratica; e fra’ partiti peggiori, s’appigliò al pessimo; conciossiaché non avrebbe mai dovuto accamparsi al luogo detto de’ Quattro Venti, dove non avrebbe mai potuto reggersi lungamente, né adoperare in nessun verso le sue forze; e fatto il primo errore, non doveva poi commetter l’altro più micidiale di ordinare che le milizie in cambio di ritirarsi nel prossimo mare, con nessuno o piccol danno, tanto più che ancora aveva in mano il castello, attraversassero il lungo tratto che a guisa di conca a piè de’ monti circonda la città di Palermo; dove il danneggiarle tanto più facile fu a’ Siciliani quanto che essi dalle mura degli spessi orti traevano sopra genti ignare de’ luoghi e scompigliate. Alcuni dicono, che il Desauget avesse in animo di prendere la città per sorpresa in qualche altro luogo, e simulato avesse di fare imbarcare i soldati, ma, quasi subito richiamatili, facesse far loro quella ignominiosa e tanto dannosa ritirata per terra. Forse anche accortosi dell’errore commesso, voleva ripararlo andando ad accamparsi nella opposta piaggia di Solanto, dove in principio avrebbe dovuto fare lo sbarco e porre il campo. Comunque sia, quel movimento lo fece acerbamente odiare dalla milizia, che lo incaricava di tanto suo inutile esterminio, e di non aver usate le forze a tempo, e come bisognava. Né parendo poterglisi attribuire ignoranza eguale agli errori, fu anche sospettato d’infedeltà, quasi favoreggiar volesse indirettamente la rivoluzione siciliana, come dicesi facesse nel 1820 il general Carascosa co’ sollevati di Monteforte. La qual voce credo spargesse la malignità, non tanto in odio a lui quanto a’ Siciliani, per iscemare il pregio di lor vittoria. Publicò dopo alquanti giorni una difesa di sé, che non gli tolse le accuse, né gli riamicò la milizia, soffiandovi anche la invidia di chi voleva salire più di lui nel favore del principe.

Ma tornando alla sanguinosa notte del 27 gennaio, mal si potrebbe narrare coi né le genti regie, seguitate da ogni parte e confuse, si disperdessero per le campora e vicini colli senza sapere dove potessono riuscire. Alquanti furono morti più che d’archibusate, da sassi e grossi macigni dalle alture rotolati, né mai forse fu guerra in cui più imprudentemente e infruttuosamente si vedessero soldati messi al macello; aggiungendovisi l'ira feroce de’ campagnuoli, provocata, se non è detto il falso, dalle enormezze che gli stessi soldati passando ne' villaggi commettevano. Contano che a Bocca di Falco, terra di circa duemila abitanti, cominciando a predare, que’ fieri terrazzani si sollevano, s’armano di quanto vien loro alle mani, escono fuori, assaltano i predatori, li mettono in rotta, ne ammazzano, ne feriscono, ne fanno prigioni, e conducono a Palermo insieme con muli, cavalli, stromenti da guerra, e alcune artiglierie prese. E tutto il giorno 28 la soldatesca fu costretta, sempre incalciata, a errare per le campagne della Grazia e di S. Ciro, empiendo il terreno di cadaveri e feriti. In questa fazione speciale onore si acquistò Pasquale Bruno, capo di squadra del quartiere esterno di porta Macqueda; il quale, appena veduto disordinato il nemico, non rimettendo mai della sua operosità, ancorché dirotta pioggia non gli arrecasse lieve impaccio, aveva colle sue squadre rafforzato gli acquistati posti di S. Lucia, e potè tagliar fuori e separare dal resto dell’esercito uno squadrone di cavalleria. Altro e grave fatto che rallegrò e commosse, avvenne in quella notte. Accortisi gl’incarcerati che la custodia delle prigioni era stata in quel generale sbaragliamento abbandonata, rompono le imposte, scassinano le mura, spezzano i ferri, saltano fuori, e nell’abbracciarsi agli amici e congiunti, narrano i lunghi patimenti, la crudeltà de’ custodi; «da sedici giorni non essersi cibati che di poche fave e d’un po’ d’acqua; e chi lamentava la fame, eccoti gli sgherri flagellarlo e togliergli quel po’ di fiato che gli restava.» E l'aspetto macilento e gli estenuati corpi aiutavano il dire che straziava e nuove ire accendeva; e non che temere di quella gente, fra cui erano pure delinquenti, la pietà publica li accompagnava, mentre appena reggendosi su’piè entravano in città benedicendo ai loro liberatori, e gridando viva Palermo, viva Pio IX, viva Santa Rosalia. Onde poi si divulgava ne’ giornali che ancora i malfattori, i quali nelle sollevazioni sogliono essere infami stromenti, fecero onore alla causa palermitana.

Seguitava intanto fuori più tosto la uccisione de’ soldati regi, che il combattere: camminando essi come in una continua imboscata, e perdendovi tutte le artiglierie; delle quali se alcuni piccoli pezzi non avessero per caso recuperati, non avrebbono potuto né pur compire quella tanto micidiale ritirata. Così l’esercito napoletano rotto, invilito, bezzicato, imbrattato di sangue fraterno, e quasi avanzo del siciliano furore, trovava un ultimo scampo ne’ legni a vapore, che da tre giorni lo attendevano nel golfo di Solanto, e a Napoli si riconduceva, portando con sé la vergogna e i rimorsi del male speso valore, quasi a raffermare l’antico e abominevol rimprovero, che a fare gl’Italiani splendidi di prodezze abbisogni la rabbia civile.

Restava ultimo, e non più temibile vestigio del potere borbonico, il castello: alla cui espugnazione apparecchiavansi le artiglierie tolte all’esercito fuggitivo: e già col pensiero fatto sicuro dalla vittoria, si anticipava l’allegrezza di vedervi la bandiera della libertà sventolare; e pareva gran trionfo che navigli italiani, scoprendola da lontano, dovessino gridare: ecco la patria nostra. E per certo trionfo italiano sarebbe stato, se la successiva discordia con Napoli non l’avesse anzi volto a dannaggio d’Italia: rinnovandosi quasi (come per quel che segue apparirà) il fatto del 1820, mentre Napoletani e Siciliani protestavano di voler mostrare, non avere indarno fatta quella sì dolorosa esperienza. Tanto son ciechi i municipali odii invecchiati e fomentati da lunga tirannia. Ma se la palermitana vittoria, dacché non fu trovato modo di mantener concorde col continente l’isola, non fece all’Italia quel pro che in principio c’impromettevamo, restò documento del come condurre una sollevazione: avendo mostro che a fare un cambiamento di stato probabilmente riuscibile, oltre al saper cogliere occasione di generale scontentezza, è da brigare con ogni industria e lusinga di tirarvi dentro i ricchi e i potenti: a’ quali che che si dica, il volgo d’ogni specie crede sempre e porta osservanza: né in città divisa, e dove l’ordine di chi ha ricchezze e antichità di nome è avverso, difficil cosa è che una mutazione si faccia, impossibile che effetto durevole sortisca. Di poche verità quanto di questa le istorie sì antiche e sì moderne fanno maggior testimonianza.

Colla vittoria di Palermo si congiungevano e insieme rafforzavano le vittorie delle altre parti dell’isola. La città di Messina, dove più che in ogni altro luogo di Sicilia bollivano gli umori di ribellione dopo le sanguinose cose del passato mese di settembre, appena sentì Palermo rivoltata, non stette, alle mosse. Giuntovi il general Nunziante con forte soldatesca per antivenire il movimento: schierato il dì 25 gennaio le sue genti nella strada principale, quasi a terrore; mostrato al popolo le artiglierie; questo non che spaurirsi, levò feroce grido di sollevazione, che d’ogni lato risuonò. «Gente poca e già vinta abbiamo a combattere: confidiamo in quel Dio che gli eserciti de’ tiranni sperde come polvere: confidiamo altresì nella nostra madre santissima della Lettera, che ha sempre mai procurato vittoria a’ Messinesi non sopra vile turba mercenaria, ma sopra potentissime nazioni.» E terminavano: viva la Madonna della Lettera: alla vittoria, alla vittoria. E quasi vittoria fu, che per altro a caro pregio i Messinesi acquistarono; essendo che subito la formidabile cittadella, che sta contro Messina baluardo inespugnabile, comandato dal general Busacca, cominciò vomitar palle infuocate. Il console francese per sicurezza di sé e de’ suoi naturali, d’accordo con gli altri consoli delle altre nazioni, fece grave risentimento al comandante della provincia, da cui era stato per due volte assicurato, non sarebbesi usata violenza se non per necessità estrema e con anticipato avviso. Rispondeva il comandante: essere colpevole arbitrio del Busacca, contro a’ suoi ordini; e mandarlo a Napoli per essere da un consiglio di guerra giudicato: e nuovamente dar sua fede che la cittadella non trarrebbe più sopra la città, salvo che non fusse mestieri d’una formale dichiarazione di assedio, che sarebbe prima al corpo de’ consoli comunicata.

Le milizie regie in tanto eransi riparate negli steccati di Terranova, e volendo tentare dalla porta Saracena una sortita con artiglieria per introdursi nella contrada de’ Pizziilari, accorso con due cannoni il caposquadra Francesco Munafò, le rincacciò, non senza grave danno dalla parte di esse; e il giorno appresso cadde in poter del popolo il castello di Rocca Guefonia, guardato da’ gendarmi, che aveva sopra la città lanciato fuoco. E nella sera dello stesso giorno fu dalla squadra del posto di Portalegna assaltato il grande ospedale, alla cui custodia erano settanta soldati: i quali scorati e affranti posarono le armi, e si diedero in mano de’ cittadini. Onde il i di febbraio anche il quartier di S. Girolamo abbandonarono i regi, ritraendosi nelle trincee di Terranova, spaventati dalle frotte di armati che a torrenti e d’ora in ora discendevano in città da’ sobborghi, da’ casali, da’ comuni di tutto il vallo messinese, gridando a una voce: viva la costituzione. Fu altresì nel medesimo giorno acquistato dal popolo il car stello di Gonzaga; e poiché all’avvicinarsi della sera i soldati, avidi di rapina, rompendo i muri di Terranova, sopra i quali è il monastero di santa Chiara, e con profanazione di quel luogo santo, s’introducevano nelle celle delle sacrate vergini, e dalle logge e grate cominciavano vivo fuoco di moschetti, levossi gente armata d’ogni parte, e in varie guise e da vari lati sicombatté ferocemente: sì gli assalitori furono ripinti, e molti morti, e in maggior numero feriti. Un solo de’ Messinesi, Tommaso Azena, intrepido cannoniere, perde la vita; né la patria riconoscente mancò di provvedere alla orbata famiglia. Ne’ quali scontri altresì bella fama di valore nel maneggio delle artiglierie riportò Antonio Lanzetta; e meritò di essere particolarmente rammentato Antonio Mutrigno, coraggiosissimo; e fra tanti valorosi, ebbe il sesso gentile Rosa Donato, che in due fatti d’armi mostrò ardimento e valentia da essere il suo nome con quello delle antiche e chiare donne messinesi Dina, Clarenza e Turinga congiunto.

Era vista da recare ammirazione negli stessi nemici, che un popolo sì a un tratto sapesse armarsi e combattere e vincere. Furore somministrava armi: amore di libertà insegnava guerreggiare.

Insieme con Messina, sollevossi Catania; il cui popolo il dì 27 venuto alle mani colla soldatesca sostenne per alquante ore acceso combattimento, e poiché l'ebbe rotta e scompigliata, caddero in poter suo il collegio Culelli, dov’era la granguardia, il quartiere generale della gendarmeria, il forte di S. Agata, e gli altri luoghi affortifìcati e difesi dalle armi regie, apparecchiandosi finalmente alla espugnazione del castello, dove la milizia, abbandonata la città, erasi tutta rinserrata. Lo stesso esempio tirò AciReale, Castrogiovanni, Alia, Roccapalumba, Caltanissetta, Salemi, Mussomele, Castettermini, Vicari, Leonforte, Aci S. Filippo Catena, Montemaggiore, Trabia, Adernò, Nissoria, Acquaviva, Ciminna, Marineo, Castelvetrano, Nicosia, Marsala. Le quali città e l'altre terre dell’isola, sollevate alcune prima, alcune poi, tutte il loro grido al grido di Palermo congiungevano. La rocca di Girgenti, affamata e ridotta all’estremo, capitolò, guadagnando il popolo armi, munizioni e altri stromenti da guerra; come non istette guari di tempo a rendersi altresì quella di Termini. Gravissime difficoltà di postura aveva Trapani, tutta intorniata di baluardi e di castelli, che poca milizia regia accoglievano. Pure gli ostacoli non la sconfortarono; e solo di pochi dì fecero il sollevamento indugiare. Ne’ quali né cure, né fatiche, né contribuzioni, né approvvigionamenti si risparmiarono, perché all’uopo bastasse l'apparecchio: tutto operandosi sotto gli stessi sguardi del nemico armato e minaccioso. Ma quando fu udito il prode Enrico Fardella, dopo aver combattuto in Palermo, e piantato il vessillo di libertà in molti paesi della circostante valle, approssimarsi con grossa banda di valorosi alla terra natale, la città più non si tenne; ognuno mostra il segno de’ tre colori; a’ soldati si volgono e gl’incitano a unirsi; non accettano; sì tenaci erano della fede data; ma scorati lasciano la città e i forti, rinchiudendosi nel castello di terra, con patto che non avrebbero fatto offesa alla città. Questo trionfo senza sangue inebriò tutti d’inaspettata gioia. Con solennità, preceduta da musiche, e seguitata da immenso popolo festante e gridante, viva Palermo, Sicilia, Pio IX e la costituzione, fu la tricolorata bandiera portata in chiesa a benedire dal vescovo, e quindi inalberata sull’alto del palazzo del comune; giurando tutti che non sarebbe stata svelta finché braccia e petto avevano i trapanesi. Poscia ad esempio e per consiglio della città di Palermo, fu istituito un collegio temporaneo delle più reputate persone, presieduto da Tommaso Staiti, per provvedere alla difesa, all’annona, all’erario, e alla generale amministrazione.

Ma trafiggeva la soldateria rinchiusa in castello, che la città di Trapani dovesse della vittoria cotanto allegrarsi, o vergogna sentisse di avere sì facilmente ceduto: ed eccola il giorno appresso, rotta la fede data ai cittadini, trarre colpi di archibuso a coloro che v’entravano. Il levarsi del popolo e assaltare co’ moschetti e colle mani il castello, fu tutt’uno. Erano i regi difesi dalle mura e feritoie fra mezzo alle quali colpivano più sicuramente; e tuttavia gli assalitori che rimanevano da ogni banda scoperti, non si perdevano d’animo. Traevano anch’essi e ammazzavano. Alcuni più intrepidi s’aggrappano alle stesse feritoie, affrontano grandine di palle e bombe; chiedono scale altri, l'ardire aggiunge ardire. Il presidente del comitato diè ordine che si adoperassero i cannoni lasciati da’ soldati regi, e sì fu l’ardor popolesco, che non era ancora avanzata la notte, e già artiglierie di varia grandezza munivano le imboccature delle strade, e altre fortificazioni si facevano. I regi novellamente sbigottiti mandarono a chiedere sospensione di guerra; cederebbero tutto, salvo bagaglie e armi. Fu risposto, concedersi le bagaglie, non le armi: diffidenza causata dalla fede violata il giorno innanzi. Ricomincia la battaglia più aspra, le artiglierie apparecchiate da’ cittadini l’aiutano; la ferocità de’ nemici vinta, profferiscono di consegnare l’armeria; di cui impadronitosi il popolo, ne fornì a Palermo e ad altri luoghi della Sicilia. Ancor più gravi difficoltà incontrava la città di Siracusa, che sola nell’isola non era riuscita a far mutazione, avendo dugento e più bocche di fuoco, che sopra inespugnabili baluardi, minacciavano incenerirla, o più di mille soldati, che l’avevano ridotta una chiostra. Pure alle nuove del sollevamento delle altre città, i Siracusani non quietavano, e, come potevano, facevano dimostrazione di voler seguire l’esempio di quelle, e fervorosi lamenti di non ancora la loro alla libertà del resto dell’isola accomunare, mandavano a’ capi della rivoluzione palermitana. I quali rispondevano: che stessero fermi; non procurassero con inutile prodezza rovina certa alla loro patria; bastare gli altri al bisogno della comune vittoria.

Trionfante in tal modo la rivoluzione in tutta l’isola, giungevano ogni dì al comitato generale di Palermo lettere di città e comuni protestanti unione e sottomissione. Differenza notabile dal 1820: nel qual anno Messina e con essa altri comuni si spiccarono da Palermo, e con Napoli parteggiarono. Almeno nel quarantotto, se non fu superata la discordia col continente, mostrossi tutta l’isola concorde. Per lo che fu stanziato doversi costituire un govemamento temporaneo siciliano da meglio provvedere, e con più sollecitudine, alla convocazione del general parlamento, che a’ tempi presenti la costituzione riformata del 1812 conformasse; e insiememente furono creati quattro magistrati per le varie parti della publica amministrazione, da avere giurisdizione su tutta l’isola, serbando il nome e la forma di comitati. E quello per la guerra e marina fu presieduto dal principe di Pantelleria; presiedette l’ufficio della tesoreria il marchese Torresana; rettore per le cose della giustizia, culto e sicurezza interna fu Pasquale Calvi; e per gli studi, comunità e commercio presiedè il principe di Scordia.

Le cose di Sicilia erano in questi termini quando la notizia della promulgata costituzione di Napoli vi giunse: né dee far maraviglia che fosse in mala parte ricevuta. Dicevano: in questa promessa del re non parlarsi de’ nostri diritti, né della nostra costituzione; e apparir chiaro che un sol parlamento da convocarsi in Napoli seguirà i due regni ad accomunare. In oltre dalle publicate norme non potersi aspettare mai buono e durevole stato: non porgendo alcuna sicurtà una assemblea di ottimati eletti dal principe; né dandola molto maggiore l’assemblea dei deputati, potendo il censo da statuirsi essere sì enorme da limitare il libero volere del popolo nella scelta de’ rappresentanti. Se i Napoletani se ne volevano appagare, facessino pure: ne arebbono il contento, che il siciliano sangue avesse fruttato loro cosiffatto benefìzio. Finalmente stimavano (e ciò era il più) che accettando quello statuto, anzi che ripigliare e modificare le antiche istituzioni, avrebbero il fine della loro rivoluzione falsato, e a loro stessi mentito. Funesta persuasione e scusabile a un popolo che per trentacinque anni aveva sopportato come giogo durissimo il governo di Napoli, ed era finalmente giunto col proprio sangue a liberarsene. Prima a ricevere il decreto reale fu la città di Messina che non volle publicarlo dichiarando di attendere le risoluzioni di Palermo; il cui comitato, adunatosi come in cosa di grande momento, senza lungo discutere (tanto erano gli animi volti a una sola idea) deliberò e rispose: essere stato dichiarato non deporre Sicilia le armi, né sospendere la guerra, se non quando il general parlamento, assembrato in Palermo, abbia fatto propria de' tempi la costituzione, da essa per tanti secoli avuta, e nel 1812 sotto la protezione della Gran Brettagna riformata; solo notificare, essere altresì voto generale di congiungersi con Napoli mediante leggi da approvarsi dal prefato parlamento, e così formare insieme come due anelli della confederazione italiana.

In pari tempo il popolo affollandosi nella via principale, e la risposta data festeggiando, gridava: guerra, guerra. Al qual grido, quasi di più felice augurio, seguitò il compimento della palermitana vittoria per lo subito arrendersi del castello: il cui assalto deliberato pel di 4 febbraio, non valse al comandante regio Gross pregare che d’alcuni giorni fosse differito. Chiedevate il popolo vincitore, chi per virtù, chi per ferocità, chi per impazienza a cogliere di tante fatiche il premio. Era un antico magazzino fuori di porta Doganella, chiamato la Lupa, le cui grosse mura sporgenti sopra un seno di mare, chiamato la Gala, fronteggiavano il castello: e parendo quello assai acconcio luogo per piantarvi artiglierie, e ferire di dentro quasi al coperto d’ogni offensione, vi furono accomodate bombarde come seppero meglio la industria cittadina e la perizia militare di Giacomo Longo. Al quale deesi riferire la principal gloria di quel mirabile apparecchiamento in città di bellici stromenti sprovveduta. Questo Longo, nipote del generale Desauget, e de’ più intendenti maneggiatori di artiglierie nella milizia napoletana, era stato coll'altro valoroso graduato Orsini, ritenuto in carcere per arbitrio del Vial, non ostante che la corte criminale gli avesse ohiariti innocenti d’ogni congiurazione. Giunto lo zio a Palermo, e accampato a’ Quattro Venti, fu posto in libertà, sperando forse di averlo intorno a sè, e adoperarlo in favore della causa regia. Ma il prode giovane, cui altri affetti bollivano in petto, sopra piccolo legno imbarcatosi, e girando verso l’altra banda della città, tornò dentro a sostenere nella vittoria palermitana la creduta causa della libertà; e di grandi e segnalati servigli rendette, come colui che colf amor cittadinesco congiungeva scienza di guerra: e oltre al sopraddetto apparecchio nel magazzino della Lupa, procacciò che si fortificassero eziandio il Castelluccio e il Molo, e quadriglie di armati di archibugio guarnissero le circostanti case, pronti a tirare. Così disposto, fu presentata la battaglia: sendo da ambe le parti eguale la rabbia, maggiore ne’ Siciliani il coraggio, dalle cotidiane vittorie rinfocolato. Voglio riferire, che un certo Ondes, primo a dar fuoco alle bombarde, avvertito essere nel castello fra’ prigioni un suo germano da lui amatissimo, non per questo si restò, dicendo ogni altro affetto doversi a quello della patria posporre. Cominciarono le attestate batterie a tonare, rintronandone la città, e ogni cuore battendo per la vita chi del consorte, chi dell’amico: né solamente dovevano temere per lo fuoco nemico, ma per quello altresì scagliato da’ Siciliani, che poneva in grave pericolo gl’incarcerati del castello. A un tratto si fece silenzio, ognuno ansioso presagendone disastro o compiuta fortuna. Il comandante della rocca, o vedesse la indomabile risoluzione ne’ Palermitani di espugnarla, o avesse, come da alcuni fu opinato, ricevuto da Napoli ordini segreti di capitolare, aveva chiesto di arrendersi, e sventolava segni di pace. Da prima balenato sospetto di tradigione, tentennarono; ma, intramessosi il capitano del navilio inglese ancorato nel porto, oratori siciliani si trasferirono al castello, e fermarono questi convegni. Il comandante abbandonasse il forte con l’arme e colle munizioni; gl’incarcerati del 9 gennaio si restituissero; lasciasse il popolo imbarcare senza molestia il presidio regio; dei prigioni si desse libertà a quelli che di tornare a Napoli domandavano.

Terminata la guerra, furono ordinati i ringraziamenti nel tempio. Uomini, donne, vecchi, fanciulli, patrizi, plebei in gran folla accorrevano: mescolati co’ capi del nuovo governo, che in solennità vi si trasferivano; seguiti da’ militi cittadini sotto il vessillo tricolore maestosamente raccolti. Al giungere del venerando Ruggiero Settimo, nessuno tenne la voce e le lagrime. Il sacerdote Gregorio Ugdulena disse infiammata orazione di mistici sensi, che più toccano quelle calde fantasie; il cardinale arcivescovo benedisse le bandiere; le musiche suonavano l’inno a Pio IX. Poi per le strade, piazze, fenestre un festivo agitarsi, che la penna mal potrebbe riferire. Abbracciavansi gli uni cogli altri; raccontavansi le prodezze, le partecipate fatiche, i generosi atti; rammentavano i caduti morti; la pietà accorava; la gloria che i loro nomi ne riportavano, rallegrava; la libertà acquistata pareva compenso. Chi avesse veduto Palermo il giorno 5 di febraio, sì potente della vittoria avuta, e sì concorde di magnanimi affetti, avrebbe giurato che mai più assoluta signoria non vi avrebbe riposto piè.

E perché rimanessero della rivoluzione e della guerra meno che fosse possibile le vestigia, si ordinava: che la giustizia fosse temporalmente esercitata da’ tribunali criminali e da’ giudici de’ comuni; e nelle città di più distretti, da’ giudici di quartiere, e finalmente da’ supplenti comunali: che infino ché la nuova podestà legislativa della nazione non fosse costituta, dovessino rimanere in vigore le leggi e disponimenti vecchi, eccetto le ordinanze fatte per soffocare ne’ popoli ogni sentimento generoso; che le decisioni, sentenze e atti de’ tribunali dovessero avere questa semplice intitolazione: in nome della legge; che luoghi più acconci alla custodia dei delinquenti si dovessino stabilire; che le riscossioni delle publiche entrate dovessino regolarmente ricominciare. Altre provvisioni per ottenere che i privati commerci e traffichi lor corso ripigliassero, e che al minuto popolo non mancasse da lavorare, furono fatte. E più ancora delle cose erano magnifiche le parole; e ne’ giornali di Palermo si scriveva, e in quelli del resto d’Italia, si replicava: essere nelle città siciliane non pur tornata la quiete, anzi più bella tornata che non era prima della rivoluzione: i delitti ordinari, le risse, gli omicidii, i furti, sì frequenti e infesti per l’addietro, scemati: ne’ vasti territori d’Aidone, Piazza, Castrogiovanni, Caltagirone, nidi perpetui e inespugnabili di assassinatori, dopo il 12 gennaio, se bene non più guardati e scorsi da’ gendarmi, non essere più stato commesso un rubamento: potersi camminare quaranta e più miglia per lo, deserto e formidabil piano del Simeto, senza incontrare che pastori fregiati di nastri tricolori, e festeggienti i nomi degli eroi di Messina, Catania e altre città, sulle lor labbra facendo insiememente suonare quello di Pio IX e della religione.

Vero è che giammai alcun principio di rivoluzione non fu più felice, e a’ un tempo più puro di delitti: ma è vero altresì che mai popolo vincitore non s’inebriò e affidò cotanto della vittoria: avendo da indi in poi i Siciliani atteso maggiormente a goderne i frutti che ad assicurarla da disordini interni e da esterni assalimenti: gli uni e gli altri non indugiati a sopraggiungere come a più opportuno luogo sarà riferito, bastandoci fra tanto notare che lasciarono il nemico riavere da quel primo scoramento, per certo grandissimo, e apparecchiare meglio alla resistenza nella cittadella di Messina: Intorno a cui era mestieri tutte le genti dell’isola (in cambio di starsene per l’altre città a festeggiare i trionfi avuti, e a cominciare la gara degli uffici e de’ gradi) si accogliessero, campeggiandola con ogni maggiore impeto. Qualche opera fu fatta colla direzione del valente capitano Longo. E in effetto poco stette che non si arrendesse: del che accortosi il re di Napoli, mandò subito il colonnello Pronio: il quale meglio che non faceva il comandante della cittadella, provvide alla difesa; mentre dall’altra parte non era in Messina un esercito a bastanza valido per continuare la espugnazione: oltre che mancavano artiglierie sufficienti a un’impresa di tanto momento.

Tornando ora al di quà del Faro, aveva il primiero annunzio della costituzione napoletana prodotto nelle provincie effetti diversi, e in parecchi luoghi servito di appicco a tumultuazioni. Conciossiaché o i rettori napoletani mancassero di mandare solleciti e sufficienti ordini, che facessero in ogni città e comune la nuova libertà accogliere con sicuro e lieto animo, o che gli ufficiali di buongoverno e i capi di milizia non curassero quegli ordini, e meglio lor natura ritrosa a favoreggiare la mutazione secondassero, avvenne che in più provincie il decreto reale fu di alquanti giorni celato, e in altre, dove alcuni più vivi vollero ad ogni costo festeggiarlo, incontrarono feroce opposizione, non restando i sostenitori della vecchia tirannia di spargere, il re essere stato costretto, e sotto quel nome, minacciare, intimorire, percuotere, e fare ogni opera, perché la nuova legge fusse, innanzi di essere mandata ad effetto, revocata. E natural cosa d’altra parte era ch'eglino quanto avevano amato il vecchio stato, altrettanto il novello odiassero e temessero, argomentando gran parte di loro, che dove la libertà si fosse radicata, non potevano più negli uffici rimanere e della passata fortuna e potenza seguitare a godere. E molti in oltre sentendo sì repentino e inaspettato passaggio da tanta strettezza a tanto allargamento, e per ciò discredendo che avesse di buona voglia consentito il principe la costituzione, dovevano essere ritenuti da quasi scusabile temenza, che il fare a quella buon viso non arrecasse loro perdita di ufficio e perseguito; rammentandosi bene, che nel 1820, quantunque ancora a nome del re promulgata, e da lui stesso comandata e giurata, pure toccò prigionia, esiglio, povertà e morte a quanti avevano per quella mostrato di parteggiare. In tal modo un benefizio che avrebbe dovuto allegrar tutti, partoriva amarezze o per non essere inteso, o per essere frastornato: e in alcune terre porgeva occasione a sbramare odii e vendette private, più cieche e feroci dove era più selvaggia ignoranza. Pure ad alcuni buoni e civili uomini quando cogli esortamenti e quando colle armi alla mano venne fatto reprimere que’ moti tiranneschi, non preveggendo forse che il giorno, in cui non sarebbe stato possibile infrenarli, non era lontano.

In tanto annunciata la costituzione, e restando la più difficile opera di scriverla, né i nuovi ministri stimandosi da tanto, cercarono tirarvi dentro qualcuno che avesse potuto servirli orrevolmente: e poiché l’essersi deposto dal ministero delle cose interne il Cianciulli, dava luogo a un successore, fecero eleggere al re il cav. Francesco Paolo Bozzelli, il quale, avendo avuto alcuna parte nelle cose del 1820, era rimasto sempre lontano dagli uffici, e in concetto di macchinatore: argomentando forse che con costui avrebbono meglio soddisfatto alla popolare espettazione, e forse sperando che la dolcezza del grado lo avrebbe fatto a’loro desiderii piegare. Certamente per quella elezione fu grande allegrezza e speranza ne’ cittadineschi animi, che vedevano salito al governo uno, che con esso loro aveva ne’ passati tempi cospirato, stato in esilio e in carcere, e dato non ultima opera al commovimento che recò la costituzione. Oltre di che gli attribuivano grande scienza di governo, acquistata nelle sue dimore in Francia, Belgio, Inghilterra e Svizzera, e dimostrata con opere filosofiche e politiche messe a stampa. E finalmente s impromettevano di poterlo volgere secondo che desideravano, avendolo, quando era privato e misero, conosciuto nelle conventicole e ne’ familiari ragionamenti un grande esempio di docilità e pieghevolezza, non pensando che di questa sua indole, o meglio debolezza, ben altri che essi avrebbe usato.

Accresceva fidanza, che il giorno appresso al suo salire al governo, il re decretasse ampio perdono a quanti per maestà fossero incolpati, o incolpar si potessero dal 1830 in fino al primo febraio del quarantotto; e quattro giorni dopo fosse eletto presidente di buongoverno Carlo Poerio, e prefetto Giacomo Tofano, anch’esso avuto in concetto di grande amadore di libertà: e quasi subito dopo si vedessero nominati a governatori nelle provincie un Imbriani un d’Ayala, un De Tommasis, un Vircillo, un Di Cesare e un Saliceti, tutti conosciuti per libere opinioni; né molto altresì indugiassesi a removere degli uffici di sicurezza interna i commessari Morbillo, Campobasso, e De Cristoforo, e gl’ispettori De Maio e Cioffi, vituperoso retaggio della caduta tirannia. Conciossiaché paresse che la mutazione delle cose si volesse accompagnare con quella degli uomini atti a governarle; senza cui o torna vano, o è anco peggio, concedere franchigie. Per altro non è da nascondere, che in questa bisogna talora o per cupidità privata o per improntitudine publica, si pretendeva più che non era forse secondo ragione; non guardandosi che nelle mutazioni di stato, le quali fa il popolo con dare sangue e vita, non è solamente giusto, anzi necessario gli uffici publici svecchiare. Ma quando conceditore di libertà apparisce il principe, è da perdonargli, se ricusa di togliere in un baleno la fiducia a tutti quelli che in fino allora servito l’avevano, conformandosi il meglio che sapevano a’ suoi desiderii e comandamenti. Non di meno ho di certo che in Napoli allora sarebbe stato fatto da vantaggio nel rinnovamento degli uffici, se il debole animo del Bozzelli non avesse soverchiamente temuto che il chiamare a un tratto troppi uomini nuovi ne’ magistrati, non avesse turbato il re. Il quale, a dir vero, facendo sulle prime maravigliosa prova di docilità (di cui i Napoletani non seppero opportunamente valersi) aveva mostrato la rinnovazione degli ufficiali. civili dispiacergli manco, che quella de’ militari. Per la quale a qualcuno che osò parlargliene, si protestò fermamente avverso, dicendo le milizie non dovere parte alcuna avere ne’ civili mutamenti: della cui massima era imbevuto altresì il general Filangieri, o al re l’aveva egli istillata.

E che nulla si volesse fare nella milizia, che rispondesse meglio alle novità introdotte, raffermossi non solo colla elezione a ministro della guerra del brigadiere Garzia (uomo a cui mancava il vigore dell(1) animo per abito fatto alla servilità, e né pure gli abbondava quello del corpo per età grave e affievolita), ma ancora conservando l’ufficio di capo del così detto stato maggiore: col quale il re, in cambio di mandare suoi ordini alla milizia per via del consiglio ministeriale, più spesso, e più speditamente s’intendeva. Il che se era comportabile sotto monarchia assoluta, dove anche i ministri sono della volontà regia servidori, non si poteva comportare quando essi dovevano degli atti del principe rispondere. Laonde in Napoli non potendo la libertà entrare ne’ costumi, era destinata a figurare negli editti; essendosi per amor di apparenza permesso d’indirizzare a tutta la milizia un ordine a fin di esortarla ad amare e sostenere la costituzione, non fu comunicato: e fu mestieri di rinnovarlo, senza che frutto alcuno producesse. E poi che non meno della milizia reputavasi avverso a quella novità il clero, ancora a questo si mandarono ordini ed esortamenti, affinché coll’autorità delle sacre parole mettesse in grazia e reverenza del popolo una costituzione che fra’ molti beni assicurava, non doversi altra religione tollerare nel regno dalla cattolica apostolica romana in fuori.

Di altre apparenze di libertà in que’ giorni del febbraio non mancarono in Napoli. Fu allargata la censura nelle rappresentazioni de’ teatri. Toglievasi la così detta soprattassa dai giornali, libri, stampe, ed opere. Era in oltre cagione continua di festivi commovimenti il ritornare o convenire in Napoli, e in altre città del regno di quelli, che fino allora avevano patito nelle orrende prigioni di stato, o in terra straniera avevano il dolore dell’esilio lungamente sopportato. Similmente ogni dì comparivano nuovi giornali con diversi e lusinghieri titoli, e con iscritture più o meno infìammative, ma non ancora sediziose. Anco le brigate politiche si travagliavano con ardore, e tanto più vivo quanto che dallo stato di regno assoluto erasi così subito nelle larghezze della costituzione trascorso. E allegrie e conviti si facevano in più luoghi, secondo l’esempio de’ banche Iti romani, dove nobili e popolani talvolta si mescolavano. Né altri Italiani di nome altresì vi mancavano: fra cui distinguevasi la principessaBelgioioso di Milano: calda e animosa partigiana di libertà, che di provincia in provincia correndo, seguitava i mutamenti politici; e nelle case, botteghe, e ritrovi, fatta sicura dalla grazia che il sesso, il casato e la singolarità le procacciavano, accendeva gli animi con più affetto che prudenza. In somma tutto in Napoli era immagine abbagliante di libertà, e d’ogni cosa o realmente o apparentemente buona facevasi merito al cavalier Bozzelli. La cui assunzione al ministero dicevano maggiore e migliore sicurtà che la costituzione stessa: e quanto s’ingannassero, per le cose che restano a raccontare, conosceremo; pochi uomini essendo saliti con più bella fama, e caduti con maggior vitupèro: da provare ch’egli o non seppe o non volle fare il bene; ovvero né il sapere né il volere gli abbondavano quanto e come faceva mestieri, quasi nocendogli la troppo favorevole opinione che di lui s’aveva; la quale, venuta al terribile cimento de’ governi, e rimasta vinta, doveva tanto più farlo apparire inetto o tristo, quanto che maggiormente s’aspettava: né molto indugiò a chiarire la superba vanità del suo ingegno, e l’animo miseramente cedevole e meglio tetragono a’ colpi della fortuna avversa che alle lusinghe della prospera. Conciossiaché, non capendo in sè dell’essere non pur eletto ministro, anzi dell’avere ricevuto speciale commessione di compilare lo statuto, non volle con altri consultarsi, e tanto più dell’opera sua s’invanì quanto meno fece cosa da fruttare il bene della patria; avendo in fine copiato lo statuto francese, peggiorandolo in più luoghi; e tuttavia palesemente compiacevasi e congratulavasi, che fattone lettura al re, fossegli successo d’invaghirlo di costituzione, con mettergli particolarmente sott’occhio gli articoli, che le forze di terra e di mare dependevano da lui solo, e in oltre poteva far leghe e trattati di pace e di commerci. La qual cosa, mentre dimostra il tapino animo del Bozzelli, piegatosi a sì misera adulazione, rivela che Ferdinando tanto appariva lieto della concessione fatta, quanto s’imprometteva che non gli avrebbe menomato il piacere di continuare a fare a modo suo; da rendere quasi credibile ciò che allora fa pure detto, che richiesto dopo di avere nunciata la costituzione, di nominare un ministro mallevadore per le cose della guerra, rispondesse maravigliandosi non poter lui stesso seguitare in quell’ufficio, interpretando forse per questo verso l’articolo che lo lasciava disponitore delle milizie. Sì pratico delle costituzionali ragioni era egli, e sì inclinato a sottomettervisi. Onde per quanto è lecito scrutare la natura de’ principi; non sapendosi mai quanto sia a loro stessi da attribuire, e quanto a’ loro consigli; si può quasi credere, che Ferdinando avrebbe voluto non dare la costituzione (chi non supponesse che volentieri desse il più quegli che aveva rifiutato il meno), ma poiché l’ebbe concessa, immaginandosi avanti di provarne l’amaro della esecuzione, che nulla della sua potenza avesse perduto, dovette trovare da soddisfarsene maggiormente, che se fosse rimaso all’opera delle riforme fatte dagli altri principi: non solo perché colla costituzione entrava innanzi a tutti, che era la sua ambizione, ma eziandio perché vendicavasi di quelli che suo malgrado ve l’avevano spinto. E se la costituzione fosse stata cosa da figurare unicamente ne’ decreti, ovvero gli avesse potuto recare un qualche aumento di potenza o di gloria, l’amore per essa, onde allora mostravasi acceso, non che scemargli, sarebbeglisi col tempo agumentato. Il che noto qui, perché innanzi non paia strano il rimprovero a quelli che, potendo per questo lato di vanagloria prendere l’animo di lui, e forse volgerlo a benefìzio d’Italia, non seppero o non vollero, anzi adoperarono per forma, da fargli contro la libertà conceduta novelli odii rincappellare.

Volte ornai le cose alle costituzioni libere, e quasi in rivoluzioni tramutate nel regno di Napoli, tornavano sotto questa forma a commovere i paesi, che parevano a semplici riforme di amministrazione acquetarsi. Differenza notevole fra l’anno 1820 e l’anno 1848: sendosi allora acquistato maggiore libertà, e la forma della costituzione, anziché dal re concessa, al re dalla nazione imposta. Se non che rimase acquisto napoletano per quasi un anno; e quando l’esempio mosse i Piemontesi, già le cose del regno volgevano in rovina, e gli stranieri eserciti varcavano i confini. Nell’anno quarantotto per converso, di minor libertà si contentarono i popoli, e lasciarono pure che il principe, benché forzato, apparisse egli largitore, ma la costituzione non rimase dentro il regno, e in men di due mesi Piemonte, Toscana e Roma l’acquistarono. Del qual divario volendo pur dire una cagione, parmi da ripeterla dall’essere stata la mutazione nel 1820 opera d’una setta, potente, estesa, efficace; laddove nel 48 fu o apparve opera della nazione. Non che ancora nel quarantotto non fossero i disvolenti che mutamento di forma nella monarchia avvenisse. Ve ne aveano, ed erano i più, ma costoro si tacevano, e anche affetti civili mentivano; da che, essendo la commozione proceduta sì pacifica e temperata, aveva potuto meglio dilatarsi, e da per tutto acquistare partigiani: mentreché i settari del 20 e poi quelli del 31, operando di nascosto, con diffidenza e terrore dei più, e forse con ignoranza di ben determinati proponimenti, giovarono meglio col preparare gli animi degli avvenire a volere più concordemente migliorate le condizioni publiche, che per le loro imprese. Vero è che dopo la ribellione di Palermo, onde nacque la mutazione di Napoli, cominciò scadere nella opinione delle genti il troppo vantato insegnamento delle rivoluzioni pacifiche e legali, e parere giustificabile il modo tenuto dalle sètte; provandosi come in alcuni stati, senza ricorrere alle congiure e alle armi, non era da sperare di ottenere né poca né molta libertà. Ma quantunque nelle due Sicilie gli avvenimenti rassembrassero quelli del 1820, quasi rinnovandosi le stesse scene, le stesse minacce, la stessa paura nella reggia, pure non lasciarono mai certa apparenza legittima, acquistata sin da quando i popoli parevano contenti a semplici riforme di amministrazione; e la stessa rivoluzione palermitana giudicavasi effetto di estrema necessità preceduta da continue e replicate istanze al principe di non volere più di quello che altri principi italiani concedevano: e operata non per segreta macchinazione, ma a viso aperto, annunciata avanti e diretta a vendicare antichi diritti. Né si temeva che le discordie con Napoli dovessino risuscitarsi; credendosi alle prime protestazioni de’ Siciliani e de’ Napoletani, che fatti bene accorti dalla esperienza passata non guardavano che all’Italia e alla fratellanza comune. ché mai per verità non ci eravamo tanto chiamati fratelli quanto in quel principio del 1848; e giammai da per tutto più nascosti semi di fraterne discordie non si covavano. Ma ancora quelle vociferate benevolenze e assicurazioni di amicizia giovavano a mantenere alle cose nostre la fama di temperate; e se il troppo breve esperimento delle prime riforme non apparecchiò gli stati in modo, che le sopravvenute costituzioni vi potessero fruttificare, servirono non di meno perché i principi italiani si mettessero in sulla necessità di concederle, i potentati esterni non avessero occasione o pretesto di rintuzzarle colle armi; e né pure riuscissero coll’opera segreta e insidiosa della diplomazia. La quale non era mai restata di opporre ostacoli di mano in mano vedeva le cose ingrossare, e in costituzioni di limitata signoria convertirsi. Né paia inutile al proposito di queste istorie il seguitare a conoscere partitamente suoi maneggi e intendimenti.

Tornando a premettere che mentre tutti i potentati esterni erano d’accordo nel non voler libera Italia, temendo per questa via non giungesse a costituirsi nazione, non tutti adoperavano gli stessi mezzi, anzi appariva che fra loro medesimi si diffidassero e astiassero. La corte d’Inghilterra voleva parere di favoreggiare le nostre libertà: e forse stata sarebbe sincera se fin da principio non le avesse vedute accompagnate da desiderio di unità di nazione: il che sapevate male; non tanto forse per invidia a una possibile grandezza italiana, quanto per paura che non fosse occasione a una guerra di tutta Europa. D’altra parte i diplomatici inglesi, o sei credessero, ovvero simulassero di credere, avevano intorno al gennaio del quarantotto acquistato del nostro commovimento una maggiore opinione che non meritava. Ed essendosi in quel tempo la corte di Torino per via del ministro degli affari esterni conteS. Marzano, rivolta a Ralph Abercromby per significargli (quasi volesse giustificare quel suo maggiore pensare ad apparecchiamenti militari) che non poteva starsi tranquilla e riposata intorno a’ disegni di occupazione dell’imperador d’Austria, sir Abercromby gli rispondeva rassicurandola e tranquillandola, non parendogli possibile, non che probabile, che gli Austriaci volessero cimentarsi ad occupare stati dove era sì grande commovimento di animi, mentre doveva star loro sommamente a cuore di removere impacci e pericoli al vacillante impero. Ancora lord Palmerston, scrivendo a’ suoi rappresentanti presso le corti di Torino, di Napoli e di Fiorenza, giudicava le cose d’Italia sì gravi e sì colla pace d’Europa collegate, da doversi fare ogni opera d’indirizzarle a un pronto e felice termine; procurando che i principi da una parte e i popoli dall’altra, quelli col procedere lealmente e generosamente nella riforma de’ loro stati, e questi col temperarsi e fiducia mostrare, causassero che i nemici degli uni e degli altri non avessero ’l destro di tirare le cose a’ precipizi: e forse gittar semi da turbare la pace di Europa, che importa con ogni studio mantenere.

Così la corte d’Inghilterra faceva sempre credere di operare con fine diverso da quel che per avventura operava: conciossiaché desiderasse che i governi d’Italia si riformassero, e quello di Vienna altresì, per timore che continuando essi ne’ vecchi abusi e strettezze, non dovesse avvenire qualche grande scombuiamento; per il quale non fosse possibile più agli Austriaci conservare la signoria del lombardo-veneto, e dar luogo o pretesto alla guerra. E che di questa sottil malizia seguitassero a non avvedersi gl’italiani, cotanto allora inebriati, e sempre aperti alle fraudi straniere, non è maraviglia alcuna ma è sommamente da stupire che ancora le corti di Austria, di Russia e di Prussia perseverassero a non punto mostrarsi tranquille e sicure del procedere de’ rettori britanni, quasi accenditori per tutto di rivoluzioni fossero. Onde non appena giunse a Vienna e a Pietroburgo la nuova degli avvenimenti di Sicilia e di Napoli, il ministro russo Nesselrode tornava a scrivere a lord Palmerston ne’ medesimi sensi, coi quali pochi mesi avanti gli aveva scritto; conchiudendo che se le offese alla dominazione austriaca fossero sostenute da qualche potentato esterno, lo imperatore delle Russie non dubiterebbe un istante a farne caso di guerra europea, e usare tutte le sue forze in difesa dell’imperadore d’Austria.

Le stesse doglianze risentimenti ripeteva pure il principe di Metternich: «I suoi presagi essersi avverati: i fatti di Sicilia e di Napoli fame testimonianza: ora non potersi più dubitare che la rivoluzione non sia accesa e non minacci ogni regno: dovere quindi lo imperadore pensare a casa sua, e protestare contro qualunque voglia nei negozii del suo governo impacciarsi e incoraggire desiderii di novità:» alludendo ai reggitori britanni: non senza parere una strana superbia della vecchia diplomazia di volere la libertà d’ogni stato per vantaggio proprio, e la stessa libertà disvolere a profitto de’ popoli. Né mancava chi spargeva avere lo imperadore novellamente domandato al re di Sardegna la cittadella di Alessandria, allegando ragioni cavate dal trattato di Vienna; e di questa notizia facevasi ne’ giornali grande strepito, quasi pretesto che cercasse la corte aulica per romperla col Piemonte. Ma se non vogliamo negar fede a una lettera di lord Minto scritta da Roma a lord Palmerston, è certo che l’ambasciatore austriaco presso la santa sede conte Lutzow, più volte tastasse il cardinal Ferretti, segretario di stato, se qualora la corte di Vienna avesse chiesto un passaggio di milizie ne’ dominii della Chiesa per andare a soccorrere il re di Napoli, il pontefice consentirebbe; e pare che sì il Ferretti e sì Pio IX rispondessero costantemente del no, o perché allora temessero di qualche interna perturbazione, o forse perché, non essendosi ancora il papa sottratto a’ consigli de’ promotori di riforme, e sperando sempre che questi si sarebbero contentati a quel poco ch'egli aveva concesso, non volesse nimicarseli. Ad ogni modo, intenzione del principe di Metternich era di congiungere colle querele diplomatiche la violenza delle armi e l'avrebbe forse fatto, se il moto ingrandito con rapidità maravigliosa non avesse condotto l'impero d’Austria a puntellare più tosto sé stesso in casa propria, che andare ad aiutare gli altri fuori.

Avrebbe Francia potuto far piegare la bilancia, se già non fosse stata ridotta a non aver più autorità prevalente ed onorata ne’ consigli di Europa: e nel tempo che il ministro Guizot, non più felice profeta che abile ministro, dalla tribuna francese diceva, altri venti anni restare all’Italia innanzi di acquistare un reggimento con rappresentanza, i Napoletani lo avevano ottenuto, e i Piemontesi e i Toscani erano in sulla via di ottenerlo. Temeva egli che avendo Italia istituzioni civili, la Francia, per non rimanerle uguale, non si pingesse più innanzi: massime che gli umori erano allora più che in alcun altro tempo commossi: e vergognandosi di farci male apertamente, non sapeva per la usata leggerezza adoperare tanto accorgimento, che i suoi disegni d’ogni parte non rilucessero. E un’assai viva manifestazione ne fecero alquante lettere più o meno intime, scritte al conte Rossi ambasciadore di Francia in Roma; nelle quali fra l’altre cose era un replicato dimostrare al pontefice, che il mover guerra all’imperadore sarebbe stato con rovina della religione cattolica, essendo natural custode della medesima in Italia. La qual tenerezza d’un protestante per la fede cattolica, non derivava che da interesse di mantenere quella politica di servitù, che chiamava di giusta moderazione: né parevagli di poterla conservare, se contro lo impero austriaco le armi de’ popoli si fossero levate. Quindi scriveva all’amico: noi siamo in pace e amicizia colla casa d’Austria, e desideriamo di rimanervi, perciocché se con quella giammai la rompessimo, accenderemmo una rivoluzione generale di tutta Europa. Ma i giornali nostri per l’acquistata larghezza di scrivere a stampa, non si tacevano, e il loro gridare non poco contribuiva a commovere sempre più la nazione francese contro chi l’aveva sì basso fatta scadere, e dar pretesto a quelli che volevano monarchia più larga, o in luogo della monarchia, la republica. Grande materia al loro dire arrecarono in que’ dì i ragionamenti fatti nelle assemblee francesi sulle cose d’Italia, nel discutere la risposta al solito discorso del re. I quali ragionamenti è prezzo di quest’opera riferire, perché, oltre al collegarsi co’ nostri avvenimenti, avendo in quel tempo accresciuta la commozione degli animi, restano come testimonio a sempre più giudicare quella nazione, colla quale un fato infelicissimo da secoli ci stringe.

Non aveva mai Luigi Filippo parlato così scarso e avviluppato alle assemblee, come in quella volta che doveva essere l’estrema. Mal dichiarò le cose interne, peggio le esterne; dell’Italia, in cui allora erano gli occhi di tutta Europa dirizzati, non fece motto. Un solo pensiero scaturì chiaro dal suo discorso, volere mantener la pace ad ogni costo, fosse pure con disonore della Francia. Strepitarono i giornali francesi, più strepitarono i nostri. Già prevedevasi gran tempesta nei parlamenti. La quale il ministro Guizot, anima e corpo del re, credette antivenire o facilmente dissipare, presentando le lettere da lui scritte a’ rappresentanti francesi tanto per gli affari di Svizzera, quanto per quelli d’Italia. Le quali lettere, già note per averle divulgate la stampa forestiera e nostrale, non altro rivelavano che un governare incerto, vacillante, ambiguo, e quale si richiedeva a chi facendo protestazioni di libertà, adoperava per basse ambizioni e codarde paure in vantaggio della tirannide: e mostrando di approvare le riforme e franchigie italiane, riprovava tutte le quistioni che avesino distrutto o alterato i trattati viennesi del 1815. Tutto ciò meglio manifestossi nelle discussioni del parlamento. Nell’assem» blea degli ottimati favellarono in onor d’Italia il conte di Montalembert e il conte Pelet; dolendosi il primo che nel discorso del re non si facesse menzione alcuna di lei, e dell’opera gloriosa cominciata dal pontefice. Rispondeva il ministro Guizot, protestando che mentre aveva care le istituzioni largite dal pontefice e dagli altri principi, non poteva consentire alcun mutamento di territori a cui parevagli che i desiderii delle genti italiane sott’ombra di civili miglioramenti mirassero. Più grave e importante fu la tornata dell’assemblea dei deputati. Sermoneggiò per il primo il deputato Lamartine, e trattandosi di parole, ne disse tante e cotali, che se di detti e non di fatti avesse avuto mestieri l’Italia, per la costui diceria sarebbe fin d’allora salita al colmo della sua grandezza; non senza stupore che quando egli avrebbe di fatti anziché di parole potuto soccorrerla, non seppe o non volle. Replicò il Guizot, e per modo scandolezzò, che fu spesse volte e fieramente interrotto e rimbeccato da coloro, che l’anno appresso si mostrarono cotanto sdegnosi delle interruzioni e opposizioni della parte estrema nell’assemblea republicana. Tra’ più ostinati interrompitori e oppugnatori si notavano i due deputati Adolfo Thiers e Odilon Barrot. Il primo fra l’altre cose, all’udire dal ministro che la Francia aveva accettato i trattati dei quindici, gridò: imposti, non accettati. E quando disse, che bisognava essere scemo d’ogni ragion publica per dubitare che le potenze tutte non fossero d’accordo a conservare alla casa d’Austria i possessi d’Italia, eccoti Odilon Barrot sciamare: mandate il vostro esercito in Lombardia, e innalzatevi la bandiera tricolore. Sì teneri e accesi erano allora della liberazione d’Italia quegli uomini che un anno dopo le fecero tanta guerra, collegandosi con quella stessa potenza che allora volevano espulsa dalle nostre contrade. £ quando l’uno e l'altro oratore alla lor volta parlarono lungamente, pronunziarono parole di tanta libertà e affetto per l’Italia, che i loro discorsi furono da noi celebrati infino a cielo, mentre quelli del ministro Guizot furono publicamente sbeffati e bruciati.

Ma per quantunque ostacoli mettesse la diplomazia straniera, non ottenne che l’esempio napoletano non traesse gli altri governi d’Italia a cangiar forma. Nel mese di gennaio lo scrivere a stampa divenuto quasi libero in Piemonte, aveva per modo disposto gli animi che al giungervi l’annunzio della promulgata costituzione di Napoli, fu grande il commovimento. Gli stessi moderati che pochi giorni innanzi avevano mostrato dolore pel rifiuto fatto da’ popoli delle due Sicilie alle concessioni di riforme del 18 gennaio, parendo loro non doversi, né più né meglio desiderare, mutato voce gridavano ne’ diari, essere la publicazione della costituzione napoletana il maggior successo, la più splendida vittoria, il colmo delle italiane felicità. E dalle scritture de’ giornali l’esultazione publica passando nelle strade e nelle piazze, grandi allegrezze e ragunanze popolari si facevano in ogni città del regno. Le quali erano come un domandare indiretto la costituzione: e meglio avrebbe adoperato Carlo Alberto a non aspettare che gli fosse indirettamente domandata. Ma ricominciarono le solite titubazioni, durate questa volta assai meno per la minore potenza rimasta a quelli che ritenere il re di continuo brigavano: oltre che non doveva essere senza effetto sull’animo di lui il vedersi nelle concessioni avanzato da un principe che il più vasto regno e il più armato aveva in Italia. Ragunandosi il dì 5 di febbraio il magistrato dei decurioni della città di Torino per deliberare che fosse domandata la istituzione della guardia cittadina, Pietro Santarosa, congiunto del Santarosa, non ultima parte della rivoluzione del 1821, levatosi dal seggio, parlò in questa sentenza:Noi viviamo in un’età sì straordinaria e piena di avvenimenti, che accade spesso non ritrovarci più oggi nella stessa condizione di ieri. Onde quel che in un giorno poteva esser buono ed opportuno, nell’altro dee men buono, e forse anco sconveniente parere. Così la proposta testò annunciata dal sindaco per la domanda della guardia cittadina, era non solo opportuna, anzi necessaria lunedì scorso, ma dopo le grandi novità succedute in sì breve spazio di tempo, diviene imperfetta e forse dannosa, se non è con un’altra ancor più solenne congiunta. Io vi prego, onorandi colleghi, ad ascoltare con benevola pazienza quel che io intendo dimostrarvi. Dissi già che noi viviamo in tempi straordinarii; nò a farvene capaci è mestieri d’altro che ripensare le cose succedute in meno d’un anno; anzi bastano questi tre ultimi mesi, ne’ quali, lasciando del resto d’Italia, le sorti del Piemonte sono affatto cangiate per le recenti concessioni regie della libertà dello scrivere a stampa, e dell’ordinamento municipale; il quale, inchiudendo il principio delle popolari elezioni, ha indotto una mutazione negli ordini antichi, e gittato il seme di ordini nuovi. Né si può dubitare che i desiderii del publico non siensi perciò a bastanza dimostrati; conciossiaché tanto e universale applaudere al principe riformatore non era che un quasi confortarlo ad appagare quando che sia una speranza, già viva in ogni cuore. Oltreché lo stampare divenuto libero più per indulgenza, che per autorità di legge, suscitando voglie che non trovano da soddisfarsi, potrebbe riuscire a distruggere la tanto benefica congiunzione di principe e popolo, e con essa ogni autorità legittima. Non è possibile far durevole questa condizione di cose: la quale, essendo di sua natura transitoria, bene è che finisca il più tosto possibile, e al nuovo stato sia con buoni provvedimenti antivenuto. Io potrei oppormi alla domanda della guardia cittadina, come quella che deesi reputare conseguenza necessaria del reggimento rappresentativo, ma voglio pur concedere che sia plausibile proposta dacché si teme che un nemico potente ci minacci. Pure nella presente quistione prenderebbe luogo secondario, essendo il principale e importante per noi di rassodare gli ordini nuovi con quella istituzione che sola può mettere mi termine alla incertezza de’ reggitori; i quali quasi mostrano di non saper bene se debbano procedere avanti, o ritrarsi addietro. Fino che Roma, Toscana e Piemonte erano i soli regni d’Italia riformati, potevasi per avventura indugiare; ma poi che la commozione da Roma si propagò fino a noi, e da noi a Napoli, e quivi fece la costituzione accettare, non è possibile ch'essa non torni inquesto stato a produrre il medesimo effetto. Ecco la gran parola che io doveva pronunciare a voi, signori, e che stimo doversi prendere ad argomento della solenne proposta, da sottoporre alla vostra deliberazione. Preveggo le difficoltà che mi saranno fatte, alle quali mi sia lecito anticipatamente rispondere. Si dirà in primo luogo che non abbiamo balia per chiedere la costituzione. Rispondo che l’abbiamo né maggiore né minore che per domandare la guardia civica, e se volete domandar questa perché la vedete nel desiderio di molti, io vi dico che la costituzione è da un assai maggior numero di persone desiderata; né dubito affermare, che dove si chiamasse la nazione a dar voto all’una o all’altra, i maggiori suffragi sarebbono per la seconda: e se a molti sta a cuore anche la guardia civica, sappiano che ottenendo la costituzione, diverrebbe conseguenza necessaria; mentre intanto aremmo provveduto al massimo bisogno dell’età nostra, e al più segnalato beneficio della nostra patria. Mi si opporrà in oltre che noi procureremmo al principe nostro un grande impaccio e disturbo per parte della corte d’Austria. Al che replicherò colle parole testé pronunziate nell’assemblea francese dal ministero Guizot, che l’imperadore userà ogni sforzo per conservare i suoi possessi in Italia, e avere autorità ne’ consigli de’ governi italiani, ma non vorrà mai né potrà ostinarsi a impedire qualsivoglia nuovo ordinamento, che i principi riformatori italiani stimassero bene introdurre ne’ loro stati per lo maggior bene de’ popoli. Finalmente mi sarà messo contro, che la nazione non è per anco a bastanza educata alle forme di reggimento con rappresentanza. Il qual giudizio io dico falso assolutamente: e il modo col quale il popolo chiese e domandò che il governo si riformasse, testimoniò senza fallo quanto esso fosse atto a ricevere questo compimento: né può essere dubbio che noi non siamo a ciò educati del pari che i Napoletani; a’ quali possiam dire francamente di entrare innanzi per moderanza, ci vii sapienza, bontà di costumi, unione di popoli, e amore al principe che ci regge. Ho già detto, o signori, che i tempi spingono; e pure v’ha chi vorrebbe aver la guardia civica avanti la costituzione. Volete sapere il perché? Costoro, secondo che ne ho avuto indicio da alcuni giornali, pensano che né i Napoletani dovrebbero accettare uno statuto di foggia straniera, né dovremmo noi affrettarci ad imitare quello esempio, e invece dovremmo fondar la rappresentanza della nazione negli ordinamenti municipali, più alla civiltà e alla storia del nostro paese conformati. Ma dovrà dunque nel reame di Napoli continuar la ribellione, e con essa le stragi e il terrore? Io stimo che tornerà sommamente utile all’amministrazione de’ comuni l’ordine di elezione dalla nostra recente legge municipale statuito, ma non lo credo altresì utile ed opportuno per una rappresentazione politica. Ad ogni modo perché aspettare? Vogliamo che chi governa indebolito e trasportato ognor più, sia ridotto finalmente a dover contentare qualunque più strabocchevole domanda? Vogliamo innanzi a tutto la guardia civica per essere armati contro di esso, e potergli fare violenza? Ma Dio mi guardi che io supponga mai queste intenzioni in chicchessia. Franco io e leale nel mio dire, ho degli altri il medesimo concetto; se non che nel loro consiglio io veggo la patria in periglio; nel mio invece è salvezza e stabilità per la monarchia, renduta più forte dagli ordini rappresentativi. Né io che appartengo al patriziato, favellando di costituzione, nutro il pensiero di acquistare privilegii col favore d’una assemblea di aristocratici: al che so bene quanto l’indole democratica dei tempi si opporrebbe. Laonde conceda pure il principe la costituzione più popolare; ché io per il primo(1)1 ringrazierò. Solamente desidero che a questo si venga mercé d’una sollecita e spontanea concessione: e il nostro re, coronandosi di nuova gloria, sia il più grande benefattore de’ suoi popoli salutato. Né venga mai tempo che si dica avergli la violenza carpito ciò che era degno del suo animo largire, con iscapito della grandezza a cui si è innalzato. Porgiamo adunque, o signori, questo esempio di publico coraggio, domandando al principe l’atto supremo da compiere. La qual petizione sarà l’opera più luminosa che giammai questo nostro municipal magistrato abbia fatto da che è nato. Con essa finiremo con gloria, e alla stessa morte soprawiveremo.

Il discorso del Santarosa fu con grande attenzione ascoltato, e da ogni parte commendato: onde per parere dell’altro decurione conte di Collegno si deliberò di chiedere senza più al re formalmente la costituzione. E a fare la stessa istanza mandava pure oratori il municipio di Genova e altre città. Il re adunò straordinariamente consiglio; a cui volle non solo i ministri intervenissero, ma altresì i capi de’ magistrati e i più notabili della sua corte. In pari tempo il popolo, che da siffatta conferenza aspettava il sì o il no con quell’ansietà che in simili casi suole svegliarsi secondo gli animi, gl’interessi e gl’ingegni diversi, ora di fiducia che il suo voto sarebbe esaudito empivasi, e or di paura che la setta dei propugnatori del regno assoluto non vincesse nella regia consulta. Furono due giorni di grande commovimento, e voci contrarie, or liete or malùriose andavano intorno. Spargevasi, il re essere disposto ad abbracciare la costituzione, ma ritenerlo l’aver giurato a Carlo Felice in punto di morte, che non avrebbe mai fatto simile concessione, né avere detta cosa taciuto in consiglio. Qualcuno aggiungeva, essersene confessato, e il confessoro averlo sciolto dal giuramento per la sopravvenuta necessità publica, che va innanzi a tutto. Da ultimo dicevasi, che, chiamato a sé la moglie e i figliuoli, proponesse di rinunziare alla corona, perché il popolo avesse la costituzione, ed egli non dovesse alla promessa mancare; ma i figliuoli lagrimando lo pregassero a non abbandonare il trono, e il duca di Savoia spezialmente dichiarasse, che non l’accetterebbe, vivente suo padre. Quanto di ciò veramente accadesse non potrei accertare: meglio so che seminatori di discordie non restavano dal far credere la diplomazia opporsi e minacciare; i vecchi nobili e il clero dissentire; il re non poter far nulla, quando pur nell’animo suo fosse la stessa bramosia. Per lo che nella piazza di castello e presso a’ reali cancelli gruppi di gente, aspettanti le risoluzioni del consiglio, si formavano; altri assembramenti in altri luoghi della città si facevano: e fu mirabile che in tanta agitazione di menti, la voce di alcuni più temperati bastasse a mantenere la moltitudine quieta, e meglio volta a sperare che a diffidare. La mattina del giorno 8 febraio cessò il trepidare, e in sommo gaudio mutossi; essendo stato annunciato lo statuto con queste parole del re.

Avere i popoli, per disposizione della divina provvidenza da lui per diciassette anni con amore di padre governati, provato mai sempre il suo affetto, siccome egli cercò le loro bisogne conoscere. Avere costantemente desiderato che il principe e la nazione fossero strettamente congiunti per beneficio della patria comune. Della qual congiunzione ognor più salda, essergli stata splendida testimonianza l’accoglienza lieta fatta alle recenti riforme, da lui annunciate per migliorare le diverse parti dell’amministrazione, e avviare i suoi popoli alla discussione de’ publici affari. Se non che, volgendo ora i tempi a cose maggiori per le mutazioni seguite in Italia, non dubitare di porgere la prova più solenne che per lui si possa, della fede che ha nella loro devozione e nel loro senno; publicando le norme d’uno statuto di vero governamento rappresentativo. Adunossi novellamente il corpo dei decurioni per decretare solenni ringraziamenti al re; il quale fece intendere di non volerli, come colui che aveva fatta la concessione per solo desiderio di giovare a’ suoi popoli; anzi pregava che da quel tanto festeggiare cessassero; non senza dissimulare il dispiacere provato al vedere in publico da alcuni surrogarsi all’azzurro della patria insegna altri colori nuovi. Ma non era possibile che alla gente inebriata e Che tanto aveva celebrato le riforme, non si concedesse l’esultare per cosa che allora formava l’apice de’ voti. Quindi il giorno 27 febraio, gran festa si fece in Torino; rinnovandosi più o meno le cose fatte in altre simili allegrezze sì nel Piemonte come altrove: moltitudine di popolo curioso,drappelli di cittadini in processione, migliaia di bandiere sventolanti, schieramento di milizie d’ogni arma, preghiere nel tempio, apparizione del principe, applausi a lui fuor di misura, interminabili canti e suoni per le vie, luminarie, abbracciamenti, e d’ogni maniera auguri di felicità. In Genova appena giunse la notizia, furono chiuse le botteghe, interrotti i traffichi, ognuno era per le piazze e per le vie a congratularsi. E senza particolareggiare, in tutte le città, in tutti i borghi, in tutti i villaggi la medesima esultazione fu veduta: da per tutto il clero, la nobiltà, la milizia, la plebe mescolandosi, quasi da un medesimo volere fossero mossi. Apparenze di concordia, che dovevano far tornare più amare le risorgenti parti dell’anno appresso.

In mezzo a’ detti tripudii il re fece alcuni atti degni di memoria. Avendo alleggerito la tassa del sale, e gli abitanti dell’isola di Sardegna, che a vile pregio l’acquistavano, non provando vantaggio, compensolli con facilitare i loro particolari commerci, togliendo una parte de’ tributi che li gravava. Similmente mentre tutto il reame rallegravasi del publicato statuto, né potendo di quell’allegrezza partecipare i ventidue mila valdesi abitanti le tre valli nella provincia di Pinerolo, e quanti ebrei si trovavano sparsi in Piemonte, conciossiaché né agli uni né agli altri la nuova legge recuperava i civili diritti, il 17 febraio un decreto reale agguagliava i primi agli altri cittadini, e faceva sperare che anco i secondi fra breve dello stesso benefizio avrebbero goduto.

Alla costituzione data da Carlo Alberto tenne subito dietro quella del piccolo e quasi sdimenticato principato di Monaco, posto dentro il Piemonte sotto la protezione del re sardo, che aveva diritto di guarnirlo di sue milizie. Or questo minuzzolo di regno, di settemila abitanti circa, imagine di antico feudo, dalla famiglia Grimaldi passato per donnesca eredità in un principe francese, che di rado vi dimorava, e la corona teneva meglio a frutto che a grandezza, non restò quieto quando tutte l’altre provincie d’Italia si commovevano, eccetto la republica di S. Marino, che nella sua intemerata piccolezza non aveva nulla da invidiare ai grandi stati che ottenevano libertà. Da tre mesi la città principale era in sommossa, inutilmente il principe comandando al presidio sardo di far forza contro al popolo; onde costretto a seguire i esempio del suo protettore, publicò anch’egli uno statuto,. dichiarando nel solito preambolo, che la natura del suo stato non permettendogli di accettare una costituzione al tutto simile a quella che possono a più vasti reami convenire, e mosso sempre dal desiderio di fare il bene de’ suoi sudditi, in quella proporzione che meglio rispondesse alla loro condizione, stabiliva una sola assemblea di dodici, metà eletta dal popolo e metà dal principe, col nome di consiglio; e al solo principe faceva appartenere la proposta delle leggi, e al consiglio le deliberazioni. Veramente allora di questa mutazione del principato di Monaco non si fece caso, essendo i pensieri a più grandi cose rivolti Pure mostrò come il commovimento nostro così i piccoli come i grandi stati agguagliava nelle istituzioni.


vai su


LIBRO SETTIMO

SOMMARIO

Accrescimento di commozione in Toscana coll'entrare del 48. — Fatti della città di Livorno. — Semi di discordia gittati. — Lamenti per la indolenza in quelli che governavano. — Consiglio per riformare la legge sulla stampa degli scritti e la Consulta di Stato. — Divisamenti di detto consiglio. — Impazienza popolare. — Publicazione dello Statuto. — Festeggiamenti e trasformazioni. — Paragoni fra’ tre statuti; e differenza d’ognuno in meglio o in peggio. — Indizii di turbolenze. — Onori fatti a’ rappresentanti del governo inglese. — Accettazione del segno tricolore. — Solenne giuramento del re di Napoli al mantenimento della costituzione. — Commovimento in Roma dopo la costituzione di Napoli. —Autorità benefica esercitata dal municipio romano. — Lodi per tirare il papa a maggiori concessioni. — Istanze per armamenti. —Feste in Roma per la notizia della costituzione di Napoli. —Agitazione del dì 8 febraio. —Cambiamento di ministri. —Benedizione del papa all’Italia. — Sue parole al corpo della guardia civica. — Fervori in Roma per la costituzione di Piemonte e di Toscana. — Dispute e discorsi per provare che il papa poteva e doveva anch’esso largire la costituzione. — Consiglio particolare per ampliare e migliorare le riforme fatte. — Sentenze diverse sul modo di compilare lo statuto papale. — Rivoluzione di Francia del 24 febraio 1848. — Origine e natura del così detto socialismo. — Spavento delle corti d’Europa per la rivoluzione di Francia e loro contegno. — Più particolare terrore della corte romana. — Maggiori commozioni in Roma perché non fosse più indugiata la publicazione dello statuto. — Supplica del municipio romano al papa e risposta del medesimo. — Composizione del nuovo ministero. — Concistoro per approvare lo statuto. — Difficoltà pe’ compilatori di esso. — Publicazione e feste. — Segno tricolore decretato per gli stati romani. —

Avuto la costituzione gli estremi regni d’Italia, non poteva più essere che quelli di mezzo, dove era cominciato il movimento, ne rimanessero privi; e tosto l’acquistarono i Toscani. Come in questa provincia si travagliassero le cose negli ultimi mesi dell’anno 47, abbiamo dimostrato; e rappiccando ora il filo, nel gennaio del 48 maggiori erano divenute le voglie, conforme lo scrivere e parlar libero le infiammava: senza che le istituzioni, le quali continuavano ad essere in erba, valessero a temperarle, contentandole. La licenza cominciava ad avere il di sopra, non infrenata più né dai vecchi ordinamenti, già caduti, né dai nuovi, che s’indugiava a mettere in opera. Consiglio di ministri, consulta di stato, giunte speciali nominate per l’ordinamento municipale tutti i giorni si adunavano, proponevano, discutevano, pareva che ad ogni momento qualche gran cosa dovesse uscire in luce, e la publica espettazione, rimanendo delusa, faceva che il popolo si voltasse a’ tumulti, ai frastuoni, alle intemperanze, non senza profitto di quelli che miravano ad aprirsi il varco agli uffici publici, e forse al supremo magistrato. Il maggior lamento era per la lentezza a provvedere di armi, di vestiti e di regolare istruzione la guardia cittadina: verso la quale, per essere giusti, non si dee tacere che anco il publico fervore era di alquanto sminuito; di mano in mano alle feste per averla ottenuta succedevano i fastidii del servigio. Forse chi più si lamentava non altro aveva in animo che cercare pretesto a far rumore, e vituperare gli uomini che allora le cose publiche reggevano, perché altri uomini fossero al timone dello stato chiamati. Ambizioni vecchie e comuni a tutti i tempi e a tutti i paesi: effetto di questa nostra superbissima natura. Ma in piccolo stato, come la Toscana, e con governo debole per essere sprovveduto di forze, e più debole per difetto di autorità, dovevano riuscire ancor più funeste, da condurci a poco a poco a vedere le riputazioni delle persone distruggersi secondo che si assaggiavano. Tristo ufficio ma pur salutare è quello delle istorie, di dover ricercare le cause de’ malori publici, de’ quali sovente ci dolghiamo senza ben sapere da cui dobbiamo riconoscerli.

In nessun luogo per altro i semi di perturbazione pullulavano così, come nella città di Livorno; di cui l’avere parecchi disordini narrato, e doverne altri più narrare, mi sforza a toccare de’ suoi costumi. Cagion principale de’ subbugli livornesi era ignoranza; della quale principal carico davasi apassati reggimenti, che poco o nulla avevano fatto per incivilire Livomo. La cui gente nuova, addetta a’ guadagni, con mescolamento di popoli d’ogni paese, fiera di lingua e di mano, non si riduceva agevolmente a quei modi pacifici e civili, coi quali in quel primo tempo il rinnovamento d’Italia condurre si voleva. In oltre, sendo in Livorno consorterie diverse di minuto popolo secondo i varii traffichi, con ognuna un capo della stessa condizione, bastava che i sommovitori di città, che in ogni luogo ve ne ha, guadagnassero detti capi per trarre il volgo a tumultuare. Onde quanto meno i Livornesi erano fatti per valere in quelle battaglie, dove più l’arte e la disciplina che la passione e l'ira menano a vittoria, tanto più coraggiosi negl’interni corrucci e sommosse riuscivano. Adunque la sera del 6 gennaio fu levato gran rumore da una moltitudine sfrenata di genti, che affollatesi intorno al palazzo publico, furiosamente gridavano arme. La voce del governatore non sedò il tumulto; fu chiamato il gonfaloniere, che né pure riuscì: altri pure arringarono, ma vanamente, e qualcuno sconciamente. Chiesto con replicate grida l'avvocato F. D. Guerrazzi, trattosi in mezzo alla folla, parlò e potè ottenere che l’assembramento si sciogliesse. La mattina appresso si rifece; e gli stessi gridi per lo pronto armamento della milizia civile (come se le armi s’avessero potuto in un baleno fabbricare, o far venire di fuori) risuonavano. Alcuni d’accordo col governatore avendo proposto di creare un consiglio esponitore al principe de’ popolari desiderii, s accozzarono i cittadini Larderei, Guerrazzi, Fanelli, Bartelloni, Frangi, Giera, Bartolomei, Malenchini, Crecchi, Mastacchi e Guarducci; i quali subito bandirono: avere assunto animosi il carico imposto loro: esortare il popolo livornese a mostrarsi civile cessando dai tumulti che turbano la quiete della città, scemano il credito, e scompongono per modo gli ordini publici, che ogni governo diviene impossibile.

Ma qual fine gli eccitatori della riferita sedizione si proponessero, mal si potrebbe giudicare, se già non fosse di usare quello stato di prolungata incertezza, che non contentava alcuno, per mover turbolenze e occupare il governo. Aveva infiammato la turba sediziosa uno scritto, che con gonfie e minacciose parole invitava i Toscani a prender le armi; chiamava i ministri traditori, codardi, inetti; diceva la Toscana vicina ad essere occupata dal Tedesco; e per rimedio proponeva, che uomini coraggiosi si ponessero, d’accordo col principe, al timone dello stato, si dichiarasse la patria in pericolo, si ordinassero preghiere publiche a Dio, si creassero giunte di governo da sedere permanenti, si togliesse danaro in prestanza, si mandassero genti a comperare armi con la celerità del pensiero, si lavorassero picche con un braccio di ferro a due aste, si fabbricassero fornelli da fondere cannoni, si prendesse rame, bronzo e ottone dalle case, e le campane dalle chiese, lasciandone solo una per i divini uffizi, si scrivessero sopra gli altari i nomi de’ militi volontari da marciare contro il nemico, si pregassero le donne a preparare fasce e fila pe’fediti, si raccozzassero cavalli dai ricchi per trasporto delle artiglierie, ed altri simili provvedimenti si facessero, pe’ quali dove pur non toccasse il vincere, morrebbesi con onore, e lascierebbesi a’ posteri un legato di vendetta e a’ nepoti un esempio di gloria.

Spaventò questo cartello, che parve fatto per mettere a soqquadro la Toscana senza riuscire nell’intento: e fu cagione che i rettori fiorentini, venuti in grande costernazione, giudicassero il disordine livornese assai più grave che per avventura non era, e si conducessero a riparare con modi che dovevano più tosto rinforzare che togliere la cagione; conciossiaché mettessero in bocca al principe questo editto: avere la indulgenza del suo governo abusato in Livorno alcuni nemici della quiete publica, e con la più odiosa scrittura, e susseguente tumulto, messa in periglio la maestà del trono, la sicurezza del paese, la tranquillità de’ cittadini; invocare per tanto la valorosa fedeltà di tutti i Toscani a stringersi a lui, e dargli in tal frangente novella prova di quel reciproco affetto, di cui egli non aveva mancato porgere continuate testimonianze. Affidarsi per tanto alle armi cittadine, e più che se stesso, affidar loro la salute della patria. Siffatte parole, e più la invocazione dell’aiuto di tutti i Toscani, come in supremo pericolo, suscitQ in tutti i comuni grande agitamento; e paragonando il caso del trono toscano con quello del pontificio, quando pareva la occupazione di Ferrara lo minacciasse, stimarono dovere altresì imitare l'esempio di quei municipi, che uomini e sostanze profferirono al pontefice per la sua difensione e libertà; non guardando che allora si trattava di un potentato esterno, che giovava farlo credere nemico al pontefice, e ora d’un tumulto interno, che si doveva reprimere, ma era da cansare di farlo servire di mantice a civile discordia. E in effetto le profferte di soccorso al trono, che fecero tutti i municipi della Toscana, dopo l'esempio del fiorentino, furono prese da’ Livornesi come una lega d’inimicizia contro di loro, e nella imaginazione de’ popoli s’aggrandì per forma il pericolo, che mai non fu veduta tanta inquietudine publica come in quei giorni: massime che in alcuni di questi che si chiamavano indirizzi, non mancavano parole acerbe, che in vece di saldare, inasprirono maggiormente le ire livornesi. Voglio, per amor di verità, notare, che più prudente e dignitoso apparve il principe nel rispondere, di quello che i magistrati civici nello scrivere. Né i compilatori de’ giornali colle loro parole che apertamente ferivano persone, arrecarono miglior servigio a quel fatto; imperocché dalle costoro predicazioni, quasi l'opinion publica esprimessero, incoraggiti i rettori, mandarono milizie a Livorno capitanate dal ministro degli affari interni marchese Ridolfi, cui facevano compagnia il generale dell’esercito toscano, e il regio procuratore. Stimò prudenza il ministro di fermarsi a Pisa e farsi precedere da un editto, fra rigido e indulgente. Giunto a Livorno ne fece altri due più severi, con invito alla milizia civile di secondarlo nel rintuzzare disordini, caso che si rinnovassero.

Fin qui profusione di editti, di parole e di acclamazioni. La notte seguente cominciarono le dolenti note. Furono imprigionati parecchi, fra’ quali l'avvocato Guerrazzi, e incatenati trasportati al forte di Portoferraio. Fu detto che alcuni tentassero di resistere a’ carabinieri, e si trovassero loro lettere e carte che indicavano mutazione di stato. Anche in Firenzequasi a un tempo si fecero incarcerazioni, indicanti che il tumulto livornese aveva fila altrove. Il giorno appresso vergendo il ministro che gli umori della città cominciavano a commoversi per queste rigorosità, giudicate tanto piò crudeli quanto che pareva fosse tornata in Livorno la quiete, credette di sedarli, e antivenire novelli e più gravi perturbamenti con una notificazione che scusava la severità de’ suoi ordini; ma non giovò. Particolarmente gli amici delGuerrazzi menavano gran rumore e lamento. Dicevano: il nostro più illustre concittadino, uno de’ più splendidi ingegni d’Italia, essere stato tratto in catene, come un malfattore, quasi ricompensa dell'avere colla sua parola sciolto l’assembramento e rattenuto il popolo dagli eccessi. Se entrò nel consiglio creato dallo stesso popolo, ne fu pregato dal governatore, né fu solo ad entrarvi: oltre che quel consiglio, eletto d’accordo con gli assessori del governo, non fece atti deliberativi né sediziosi Essere altresì noto com’egli chiamato in conferenza col governatore e cogli assessori, e scoperto le origini di que’ tumulti, e i modi generosi di prevenirli, si mostrasse sollecito di adoperarsi a pacificare gli animi. E né pure poterglisi apporre di essersi voluto ostinare a rimanere in carica dopo l’ordine del ministro di sciogliere il consiglio: perciocché gli stessi rappresentanti del principe lo pregarono a rimanervi Finalmente col suo libro, testé publicato sotto titolo il principe e il popolo, aver solennemente dimostrato non essere né sediziosi né republicani i suoi intendimenti, ma sì di procacciare allo stesso principato toscano una forma di civile reggimento, come per esempio agli altri principi.Io non potrei affermare qual parte il Guerrazzi avesse in quel trambusto livornese: e se, come alcuni affermavano, l'avesse egli suscitato per mezzo de’ suoi cagnotti, a fin di rendersi necessario a sedarlo, e avere occasione di signoreggiare il governo, e tirarlo dov’ei bramava. Certamente in lui i maggiori sospetti di quelli del governo s’appuntarono: non solo per reputarlo uno già in altre congiurazioni implicato, e scrittore di libri ereticali, ma ancora perché gli attribuivano ingegno torbido, stravagante, ambizioso, lusinghiero, e da valere nelle sedizioni. Se bene innanzi a quei fatti non aveva seguito, e meglio che apparir capo di parte, vivevasi quasi dalle politiche faccende ritirato. Tornò a rimetterlo in fama e in amore la prigionia apparsa ingiusta. ché o non bisognava incarcerarlo o provarlo reo. In cambio dopo due mesi un decreto del principe dichiarando il tumulto di Livorno altro fine non avere avuto che di procacciare allo stato quella forma di reggimento che eventi successivi dimostrarono accettabile, annullava i processi cominciati, e la libertà rendeva agli accusati. E come non è maraviglia che la patita oppressione fruttassegli favore e clientela, ancor meno è da stupire che se ne valesse per ritorcerla contro cui l’aveva offeso, con danno gravissimo del comune; conciossiaché da un atto che si diceva di giustizia publica sgorgassero ire personali inestinguibili: le quali produssero le parti; in mezzo a cui il ministero, divenuto mallevadore, e quasi nella persona del marchese Ridolfi identificato, non che acquistar forza in quel momento che più ne abbisognava, trattandosi di fondare ordini nuovi, andò ogni di più infievolendosi e scadendo fra continue e gagliarde opposizioni, come a suo luogo sarà dimostrato.

La tempesta livornese, qualunque fosse il fine de’ suscitatori, benché riuscisse dissiparla, doveva non di meno essere ammonimento a non più temporeggiare e tentennare a mettere ad effetto le promesse riforme con tutta la maggior larghezza possibile, a fin di removere più smodati desiderii, e togliere pretesto a quelli che sott’ombra di accusare i ministri d’inettezza e mislealtà, volevano mandar sossopra ogni cosa. Ma i rettori, quasi nulla fosse accaduto, seguitavano secondo il solito a rimanere al bersaglio de’ maldicenti: fra’ quali erano quei medesimi, da cui il ministro Ridolfi sperava maggior sostegno, avendoli avuti per amici e concordi colle sue opinioni. E in effetto sulle prime non gli furono avari di lodi straordinarie; ma, o che alcuni di loro si fossero trovati delusi o mal soddisfatti nelle concepite ambizioni, o che ancora ad essi venisse meno la pazienza, cominciarono a voharglisi contro, traendo occasione da un suo bando, col quale rammentava benefizi tutt’ora in aria: Essere stato affrancato lo scrivere a stampa, provveduto allo insegnamento, dilatato i commerci, affidate le armi a’ cittadini, frenato l'odioso potere del presidente del buongoverno, ordinato la compilazione de’ codici, divisata la emancipazione de’ comuni. Conchiudeva: essere grave ingiuria sospettare che a gloriosa meta fallisca chi ha fatto tante concessioni. Ma gli altri più acciriti rispondevano: fino allora non essere che magnifiche parole e promesse e artificiose amplificazioni. Doversi co’ fatti e non co’ detti rassicurare i buoni, e gl’ingiuriosi sospetti dileguare: e mal convenire favellar delle cose da fare come se fossero fatte. Lo scrivere a stampa sarà libero quando non vi sarà più censura; sarà provveduto allo insegnamento quando la proposta legge sarà compita; le armi saranno affidate a’ cittadini, quando i cittadini avranno ricevuto le armi; il potere della presidenza del buongoverno sarà infrenato, quando vi sarà un ordine, che non muti soltanto i nomi di detto potere, ma sì la natura. Manco poi fra le cose da tranquillar gli animi potersi allegare la compilazione de’ codici e la riforma de’ municipi, conciossiaché, argomentandole dalla qualità delle persone a questo ufficio chiamate, forse la generazione futura vedrà qualche frutto.

Rimproveri amari che cercavano in ultimo addolcire col protestare che essi intendevano porgere al ministro testimonianza di loro antica amicizia, schifando di essere annoverati fra’ suoi peggiori avversari che sono gli adulanti. Tuttavia le notate accuse e querele raffermavano, nulla essere più pericoloso che smovere desiderii di novità, e smossi non appagarli sollecitamente: onde si ha quello stato di generale inquietudine, da ogni menoma cosa fomentato. E benché lo scrivere a stampa avesse ancora una censura anticipata, pure come sciolto da qualunque vincolo procedeva; cominciando a essere da ognuno sentito il grande inconveniente che la libertà di fatto soperchiasse quella di diritto, e gli scrittori favellando quasi tutto quel che volevano, senza esserne tenuti, potessero sotto la protezione stessa delle leggi peccare. Laonde i medesimi avversari della libertà, apertamente mormorandone, consigliavano essere meglio concedere per legge la libertà dello stampare, affinché ognuno rispondendo de’ propri scritti, possa andar sottoposto a un giudizio di punizione; né appaia più oltre il principe mallevadore di quel che alla stampa diurna piace divulgare. Le quali ragioni se bene forse nella mente de’ ministri entrassero, non di meno o per paura della corte d’Austria o per naturale irresolutezza, non sapevano ridursi ad abbracciare quel rimedio; e continuavano a governarsi in modo che la sempre crescente libertà di fatto rendesse men vivo il desiderio deliberi ordinamenti: sperando acquetare le bramosie popolari con promesse ed esortazioni. Avendo saputo come in Napoli erano state rifiutate le concessioni regie del 18 gennaio, e come le cose s’ingarbugliavano ogni dì più, notificarono per decreto del principe, essere stato eletto uno speciale consiglio, composto del cavaliere Niccolò Lami, del marchese Gino Capponi, del cavalier Leonida Landucci, del professor Pietro Capei e dell’avvocato Leopoldo Galeotti, con balia di proporre nuova legge per la stampa degli scritti, e una riforma della consulta di stato, da accordare con quelle novità, che nell’ordinamento municipale dovessono introdursi, a fin di giungere più presto a perfezionar l’opera che deve la prosperità della patria assicurare. Egli parve che si volesse fare quel che sarebbe stato bello e salutare concedere qualche mese addietro: tal che i partiti diventavano ottimi quando non erano più in tempo: e i lavori cominciati (sì come quelli dell’ordinamento municipale) s’interrompevano innanzi che al termine venissero.

In questo mezzo giunse la notizia della già promulgata costituzione in Napoli: la quale scompigliò nuovamente l’opera de’ chiamati a proporre più fondata ricomposizione delio stato, nel tempo che gli animi a maggiori desiderii sollevò. Il popolo già avvezzo a ragunarsi, fu incontanente tratto in piazza e in chiesa a festeggiare l’avvenimento: né i magistrati sì civili e sì ecclesiastici impedirono, non parendo più tempo di opporsi a una moltitudine che avea vinto la mano. E conciossiaché i rettori si fossero lasciati sopraffare dagli avvenimenti,innanzi che una riforma più acconcia alla provincia toscana compissero, sarebbe stato miglior partito promulgar subito la costituzione: e non potendo essere primi, almeno procacciare di non esser terzi nella mutazione; ma ancora di essere secondi parve che temessero, e fu detto che il granduca giudicasse necessario aver l’esempio di qualche altro principe italiano, che più spontaneamente, che non era apparso il re di Napoli, facesse il gran dono. Egli è credibile nondimeno che le persone che dovevano fare la proposta d’una nuova consulta di stato, dopo quell’incalzare di successi, allargassero per forma il concetto, da avere tutte le parti d’un reggimento rappresentativo. Intanto ogni dì più la commozione cresceva, e la libertà ingrossando nelle piazze e ne’ raddotti, tanto più dava segni di convertirsi in licenza quanto il governo indugiava a divenir libero, quasi paresse di ovviare a’ tumulti con fare nuovi e più lusinghieri inviti alla milizia cittadina, perché vegghiasse alla conservazione della quiete publica mentre le grandi riformazioni si apparecchiavano. E vedevasi con publico scandalo ogni sera ne’ teatri interrompere le rappresentazioni: e in alcuni conviti trascorrevasi in discorsi, come se già la costituzione fosse data: trovandosi mescolati moderati e smoderati, uomini di qualità e da tafferugli, non sì in quel tempo di apparente concordia chiariti, che gli uni sdegnassero la compagnia degli altri, per preparare in comune quello che in processo di tempo doveva in più fazioni mortalmente nemiche dividerli.

Ma di più gravi turbolenze seguitava essere spettacolo la città di Livorno; la quale non aveva mai del tutto quetato, e bastava un’occasione qualunque si presentasse perché i commovitori della plebaglia incontanente Fafferrassero. E la milizia civile, non che impedire i disordini, li secondava, ricusando con grande scandalo di obbedire a quelli del governo. Non era per tanto da stupirsi, se commossi in tal guisa gli spiriti dal predicare de’ giornali (che divenuti quasi tutti quotidiani, non si potrebbe dire quanto in quei giorni si travagliassero) facessesi luogo a sempre nuove vociferazioni. Dicevasi fra l’altre cose, che i ministri non fossero d’accordo, e variamente il principe consigliassero; onde stimarono necessario di protestare che le risoluzioni prese o consigliate al principe erano effetto di maturo consiglio e voto unanime.

Venuto il decreto della costituzione piemontese, e ancor più che la napoletana festeggiatala il popolo per le vie e per le chiese, più non si contenevano gli spiriti, e mille timori e sospetti sorgevano, pronti a cambiarsi in tumulti. Né giovò a prevenirli che i ministri scrivessero nel diario delle leggi: vedersi con soddisfazione l’esempio toscano seguito in Piemonte, e le persone destinate a fare analoga proposta al principe essere già vicine a compiere il loro ufficio. Quasi volendo far credere che avessero avuto ordine di proporre una vera e formale costituzione di governo rappresentativo. Il che non credo che fosse. Ben credo che di mano in mano che giungevano nuove di mutazioni in altri stati, variassero divisamente, e aspettando quel che avrebbe fatto il re di Piemonte, appena videro che anch’esso aveva accettate le norme della costituzione francese, mutassero proposito, e l’opera cominciata interrompendo, si volgessero al medesimo esempio: anche per secondare la natura di quel rinnovamento che pareva fatto per accomunare le condizioni di tutta Italia. Certo è che di qualche altro giorno fu indugiata la publicazione del toscano statuto a fin di vedere com’era stato compilato il napoletano; e vogliono che alcuni cambiamenti e modificazioni si effettuassero per sempre più a quello conformarlo. Né cotali indugi erano senza scandoli, seguitandosi ne’ giornali a tempestare il principe con importuno chiedere quel che ognuno sapeva aver ornai deliberato di concedere. Finalmente venuto il giorno che la costituzione toscana doveva essere publicata, la sera innanzi se ne faceva gran favellare per tutto; chi diceva essere larghissima e migliore della napoletana e della piemontese; chi, da non contentar tutti. A qualcuno, cui era stata innanzi fatta leggere da’ compilatori, spargevasi essere parata non buona; rispondevasi da altri ch'e’parlava per astio di non essere stato invitato a prendervi parte. E il publico intanto non ignorava i già cominciati dissidii e amarezze ira’ capi della parte che voleva nome di temperata; ma l'esservi in mezzo il marchese Gino Capponi, rassicurava i più, che lo statuto non potesse non soddisfare.

La mattina del 17 febraio erano le strade della città più del solito frequentate; sventolava sulla torre del vecchio palazzo dellasignoria la bandiera toscana; di ora in ora aspettavasi il patto di libertà. Il gonfaloniere i aveva annunziato per bando, e invitava il popolo a festeggiarlo insieme col civico magistrato, prima in chiesa con ringraziamento a Dio, e poi sotto la reggia con ringraziamento al principe. E in effetto appena il trarre del cannone e il sonar delle campane notificarono che era stato publicato, frotte di giovani con quello in mano correvano per le piazze a farne lettura alla moltitudine ragunata, che, senza forse nulla intendere, rispondeva con vivissime acclamazioni, parendo in quei primi fervori che fossevi più. larghezza che negli statuti di Napoli e di Torino. Poi d’ogni parte della città cominciò lo scoppiettare de’ moschetti e pistole in segno di gioia: stravagante modo di rallegrarsi, molestando la quiete publica. A mezzo giorno il maggior tempio fu pieno della moltitudine festante; la quale dopo cantato l'inno di grazie trasferivasi alla piazza de’ Pitti, per far onore al datore dello statuto. Presentatosi a lui il gonfaloniere col magistrato e coi capi della guardia cittadina, gl’indirizzava queste parole, a I tempi sono grandi, ma l'animo vostro agguagliandoli, ha potuto soddisfarli coll’ampiezza delle sovrane concessioni: le quali se il nostro paese era apparecchiato a ricevere, anco la bontà e sapienza vostra erano preparate a largirle. Questo municipio che vide l'estremo della libertà e della servitù, ora è sicuro che la servitù è impossibile quanto la licenza; e avendo altresì per tanti secoli mirato tante mutazioni di signorie, provò principi che gli rapirono la libertà, e principi che glie la promisero. Voi glie l'avete donata per forma che la libertà della Toscana è malleverìa a quella d’Italia, e pegno che voi e la vostra prosapia sarete in qualunque tempo e in qualunque evento custodi dell’una e dell’altra.» A questo discorso magnifico dava il granduca apparecchiata risposta: «Le generose parole del municipio fiorentino risvegliargli nel petto sensi di nobile orgoglio, assicurandolo che le novelle istituzioni abbiano acceso nel suo popolo affetto e riconoscenza. La stessa fidanza nel senno dei Toscani, che lo consigliò a concedere quelle franchigie, renderlo certo che a vantaggio della patria comune le useranno.» In vero allora popoli e principi facevano a chi più protestarsi amicizia e confidenza, e mal si direbbe se maggiormente gli uni o gli altri si mostrassero teneri del nome d’Italia. L’esempio della città di Firenze seguirono tutti gli altri municipi, fatti per approvare tutte le mutazioni, e festeggiarle a nome d’un popolo che poco o mal rappresentavano. E ringraziamenti giungevano al trono da altri corpi morali. Uno de’ più accesi fu quello della comunità degl’isdraeliti, i quali collo statuto erano stati agli altri cittadini parificati Difficile poi sarebbe a descrivere le subite e maravigliose trasformazioni. I nobili e i preti a un tratto divennero tutti costituzionali, e non era luogo dove non s’udisse dire: gran bella cosa essere la costituzione; doversi a quella volgere ogni pensiero e ogni affetto, e aspettarsene innumerevoli benefizi di generale prosperità. La più parte non sapevano quel che celebravano, o non vedevano le conseguenze che da quella mutazione sarebbero necessariamente derivate.

Passato il primo fervore per le acquistate costituzioni, si cominciò con più freddo consiglio a vedere quale e quanta cosa elle fossero. Notavasi essere tutte di origine francese: non senza ingenerare negli animi più esperti il dubbio, che fra noi potesse riescir bene ciò che gli stessi Francesi in quel medesimo tempo provavano non buono. Poi si facevano paragoni fra' tre statuti. Pareva il napoletano vantaggiasse gli altri due per la condizione che la legge de’ comizi, fondamento principale, dovesse essere fatta definitivamente dalla prima assemblea, convocata con regolamento transitorio; il che aveva sembiante d’una quasi costituente, come dicono i moderni; ma in pari tempo ne scapitava a petto allo statuto toscano, perché dove nel napoletano, e anche nel piemontese il diritto di elezione era ristretto a chi aveva censo, nel toscano confermasi anche agli uomini che la ricchezza del sapere possedevano. Alcune altre differenze in meglio o in peggio fra’ tre statati acquistavano importanza, e mostravano che nessuno era senza vizi. Migliore di tutti reputavasi il toscano per la parte religiosa, e piaceva assai l’articolo che i Toscani, qualunque fosse il loro culto, avessero gli obblighi e i diritti degli altri cittadini: mentre che nello statuto piemontese era solamente concessa indulgenza per gli altri culti, e nel napoletano ancora questa indulgenza era negata. Lo statuto toscano si stimava inferiore agli altri due per la dichiarazione ch'essi facevano, dovere il principe avanti di stipular leghe e trattati di commercio ottenere approvanza delle assemblee: come il piemontese scapitava col toscano e col napoletano per la mancanza dell’articolo, che nessuna milizia esterna potesse esser chiamata senza legge. Stimavasi difetto nello statuto toscano, non essersi fatto parola di reggenza, caso che il principe trapassasse avanti che l’erede della corona fosse uscito di pupillo: al che la costituzione partenopea distesamente provvedeva, come altresì la piemontese. Né a bastanza conveniente i più severi giudicavano che il principe da sé la provvisione si stanziasse: la quale nel solo statuto napoletano era rimessa al giudizio delle assemblee. Rispetto a’ senatori, o Pari, in tutti e tre gli statuti erano designati certi ordini privilegiati, nei quali il principe gli avrebbe eletti; ma nel piemontese, e più anche nel toscano, destinavasi altresì quell’onore agli uomini che con servigi utili e meriti eccellenti avessero illustrato la patria. Era commendato l’articolo dello statuto napoletano, che vietava al principe di far grazia a’ ministri, stati condannati dalle assemblee: il quale articolo assai importante non avevano gli altri due statuti. Gran cosa parve che nello statuto piemontese fosse concesso il diritto dello assembrarsi: del che non facevano menzione il napoletano e il toscano. Certa differenza finalmente riscontravasine proemii. Tutti e tre i principi dichiaravano, che spontanei e liberi e sinceri davano la costituzione, riconoscendone i popoli meritevoli, e alle libertà pienamente maturi; ma il re di Sardegna e il granduca di Toscana, e ancor più il secondo che il primo, incominciavano dal lodare il loro passato, quasi arra del bene presente; il che forse non era dalle fresche memorie consentito a Ferdinando di Napoli; e se bene ognuno il nome di Dio invocasse, pure il re delle due Sicilie ne fece più diretta e solenne appellazione, quasi d’un primo giuramento: come quello che più aveva mestieri di liberar gli animi da odiosi sospetti.

Nelle altre cose i tre statuti erano l’uno ritratto dell’altro, e tutti poi peccavano di soverchia minutezza, disdicevole a una legge fondamentale, che dee con sicura lucidità stabilire le grandi massime, da cui necessariamente scaturiscano le speciali effettuazioni; conciossiaché col soverchio particolareggiare, si corre pericolo, che non potendosi tutto annoverare, si lasci all’arbitrario potere le cose trasandate; e sappiamo quanto la sapienza degli antichi sia stata sobria nella fattura delle leggi di stato, argomentando per avventura dalla stessa brevità e chiarezza una più sicura osservanza di esse; e se è vero che le libertà furono meglio e più lungamente guardate nelle antiche republiche, che ne’ tanti reggimenti a diverse fogge dell’età nostra, è da inferire che le lunghe e minuziose leggi non sono la migliore sicurtà; se pure non costringesse i compilatori degli statuti italiani a cotanto particolareggiare, la sperienza degli abusi: come nel napoletano, ove leggevasi per fino dichiarato inviolabile il segreto delle lettere, quasi il violarlo non fosse stato dei delitti ordinarli il più laido.

Ma se bene difetti si scoprissero ne’ festeggiati statuti, e quasi già cominciassero le mormorazioni, pure a’ soliti prudenti veniva fatto per ancora di mantenerli in credito. Però il volgo o mosso da propria ignoranza, o attizzato da altrui malignità, cominciava dar testimonianza, che esso non altro aveva inteso per costituzione, e non per altro erasi assembrato a festeggiarla, che per cangiare quello stato di miseria in un altro di migliore fortuna: onde in mezzo agli stessi festeggiamenti lampeggiavano segni di turbazione. In Napoli una turba di manuali affollavasi sotto palazzo, e con clamori e cartelli domandavano da lavorare. Facilmente la guardia d’interna sicurezza sgominò quel branco di sussurratori plebei, e a prevenire di sì fatte ragunanze, lievi allora, ma da potere diventar gravi rinnovandosi, il prefetto ammoniva per bando, che senza mantenere la quiete publica, non era possibile che le novelle istituzioni di libertà mettessono radice, e i desiderati frutti producessero. Verità che non bisognava solamente dire cogli editti, anzi con saggi e gagliardi provvedimenti sostenere. Nello stesso tempo in Torino, mentre il popolo in calca congratulavasi della costituzione, alquanti del popolazzo con cenci tricolorati in capo, scorrazzando a mo’ di briachi, profferivano grida sconvenevoli e fra loro contrarie. Più vivi questi dimostramenti di turbazione apparvero in Genova, e udivansi qua e là voci sediziose e offenditrici, e vedevansi per la città andare visi nuovi e odiosi; onde il popolo si levò e corse a imprigionare parecchi sospettati accenditori di tumulti. Né la Toscana in que’ medesimi giorni era esente da qualche indizio che si volessero le sue allegrezze per la nuova franchigia in qualche modo contristare. Fu pretesto o occasione, che nella città di Firenze è costume in febraio anticipare di otto mesi i fitti delle case; che la legge comporta per lasciare a’ privati libera la trattazione de’ loro interessi. Cominciò bisbigliarsi fra la minuta gente, cui più gravava la sopraddetta usanza, che non si sarebbe pagata la pigione più di un mese o due innanzi, e parendole per la costituzione venuto il tempo di mostrare il dente, e farsi far ragione, s’aduna, va più volte a casa ih gonfaloniere, grida che provvegga perché non seguiti quell’aggravio, e la cosa poteva divenir sorgente di disordini, se onesti e probi cittadini non s’intramettevano e non persuadevano il popolo, che non era per colpa de’ rettori del governo ch’esso pativa quella gravezza, né avrebbe potuto rimediarvi senza violare la libertà de’ contratti. Ma non giovò: e molti possessori di case spauriti tollerarono che i pigionali indugiassero a’ pagamenti. I quali indizi di licenza avrei stimato non doversi rammentare in queste istorie, avendoli ecclissati maggiori cose, se quel che seguì di poi non fosse stato riprova, che fin d’allora semi a sconvolgimenti da per tutto si gittavano.

E parmi altresì da notare, che fra le feste fatte in onore della costituzione ne’ vari stati italiani che l’avevano ottenuta, si volle più particolarmente applaudere a’ rappresentanti del governo inglese: attribuendosi a questi da molti allora il merito di aver favoreggiato e caldeggiato la creazione in Italia delle libere istituzioni. Nella città di Torino numerosa schiera di cittadini presentossi a lord Abercromby. Parlarono alcuni acconciamente, e non meno acconciamente rispose il ministro, terminando la festa con iscambievole contentamento. Le stesse dimostranze d’onore alla corte britannica si fecero in Napoli; dove pure con bandiere e voci di popolo curioso andarono a casa il rappresentante lord Napier, che affacciatosi, disse parole da star bene in bocca di qualunque più acceso italiano. Se non che l’accorto inglese facendo auguri di felicità alla libertà nostra, intendeva sempre che ogni principe fosse libero di riformarsi; e noi per lo contrario intendevamo o fìngevamo d’intendere, che liberata Italia da ogni straniera dominazione, potesse al grado di libera nazione sollevarsi. Proprio allora lo equivocare e lo infingersi erano parte o aiuto di que’ rallegramenti. I quali tuttavolta sempre nuovi effetti producevano; e uno assai notevole fu che i principi cominciarono per legge ad accettare la mostra dei tre colori, da essi infino allora tollerati, quantunque ci sbracciassimo a dire, che non di republica, come in altri tempi, ma di unione italiana erano simbolo. Il primo esempio fu dato dal re di Napoli, il quale il giorno avanti (23 febraio) che doveva condursi in chiesa a fare sugli altari solenne giuramento per lo mantenimento della costituzione, decretò che alla bandiera borbonica fosse il segno tricolore annestato. Né è da guardare se ciò facesse spontaneo o spinto dalle usate istanze popolari, perciocché nessun principe senza queste istanze sarebbesi condotto più o meno a contentare cittadinesche voglie. Ben per altro appariva maraviglioso, che chi nelle cose minori non s’era lasciato tirare dagli altri compagni di trono, nelle maggiori tirasseli egli; seguitando così a testimoniare, che se in processo di tempo fosse stato meglio trattato e lusingato dagli Italiani, anzi che infesto alla loro causa, avrebbela forse potuto validamente giovare.

Il segno tricolore dovette non poco disporre gli animi dei Napoletani ad accogliere con lieto augurio la solennità del giuramento. Altra volta avevano veduto quella scena, e i più, come di cosa non più lontana di vent’otto anni, dovevano conservarne fresca memoria. Pure la stessa gioia rinnovossi, sperandosi che gli stessi lutti non la dovessino seguitare. L’essere tutta Italia in commozione, sapersi già come altri due stati erano divenuti liberi, e vicino a entrarvi anco il pontificio, né quieti gli altri regni d’Europa, facevano l’anno quarantotto dall’anno ventuno assai diverso giudicare. Forse ancora da alcuni si pensò, che dagli esempi dell’avo e del padre avrebbe ritratto il giovine principe l'onta perpetua che dal violato sacramento quelli si procacciarono. In fine è natura dei popoli festeggiare tutte le solennità per vaghezza o speranza di bene futuro, Esciva il re con gran pompa dalla reggia, accompagnato da’ capi de’ corpi militari e civili, e attraversando la piazza che è avanti palazzo, dove stavano schierate le milizie, entrava nella chiesa di S. Francesco di Paola, che aveva fatto edificare l'avo suo in ringraziamento al santo di avergli colle armi tedesche recuperato il regno. Qui erano pronti a riceverlo e onorarlo i sacerdoti, i ministri esterni (eccetto quelli di Austria, Russia e Prussia) e molto popolo. Accostatosi agli altari, e stesa la mano sui vangeli, lesse con voce alta, e sembiante né lieto né triste, la forma così decretata: Prometto e giuro innanzi a Dio e sopra i santi evangeli di professare e difendere e conservare nel regno delle due Sicilie la religione cattolica apostolica romana, unica religione dello stato. Prometto e, giuro di osservare e far osservare inviolabilmente la costituzione della monarchia promulgata ed irrevocabilmente approvata da noi nel di 40 febraio 1848 per lo reame medesimo. Prometto e giuro di osservare e far osservare tutte le leggi attualmente in vigore, e le altre che successivamente saranno fatte ne’ termini della nunciàta costituzione del regno. Prometto e giuro anco di non mai fare e tentare cosa alcuna contro la costituzione e le leggi sancite tanto per le sostanze, quanto per le persone de’ nostri amatissimi sudditi. Così Iddio mi aiuti, e mi Mia nella sua santa custodia. Finito di leggere, sottoscrisse; e uscito e montato a cavallo, fece in piazza alle milizie giurare, che anch’esse avrebbero conservata la costituzione.

La città fra tanto era tutta in festa: archi trionfali in vari canti, le fenestre adornate di arazzi, le vie sparse di fiori,bandiere di colori diversi da per tutto sventolanti. Fino a’ gesuiti furono veduti festeggiare. All’approssimarsi della notte fu luce per ogni dove, come di pieno giorno, e dalla piazza di Mercatello un gran carro di trionfo, opera di studenti, tirato da quattro buoi, movea maestoso verso la reggia. Agli angoli di esso splendevano le imagini del Pagano, del Cirillo, del Caraffa e d’altri morti per la libertà del 1799: e vogliono che di tale rappresentazione si turbassero i devoti della monarchia, quasi scoprendovi in quelle memorie republicane un indizio di maggiori desiderii: e v’ebbe un punto che si tentò o temè subbuglio, acciocché niuna festa di libertà in quel paese dovesse passare senza qualche segno di turbazione. Finalmente nel magnifico teatro S. Carlo la napoletana allegrezza, di cui scrivevano nop ricordarsi la più splendida, ebbe compimento, e quasi sepoltura, perché d’allora in poi mancate alle genti del reame occasioni di rallegrarsi, sopraggiunsero quelle che lungamente e profondamente il regno e l’Italia contristarono. La stessa ceremonia del giuramento fu fatta nelle provincie, e tutti gli ufficiali sì civili e sì militari giurarono per quella libertà, che avevano veduto giurare al principe. E in ogni luogo feste e gaudii più o meno concitati, secondo l’indole dei vari paesi, e la natura de’ magistrati che vi dimoravano. In pari tempo i giornali della capitale non finavano di contar maraviglie di quella solennità:Pareva (dicevano) che Dio avesse parlato colle labbra del principe, quando giurò: in quel volto d’ogni maestà irraggiato scoprivasi il cuor sincero, acceso di libertà: doversi i popoli aspettare da lui ogni maggior bene: non essere mai tanta la gratitudine che basti: né di più lieti affetti fra popolo e principe potevansi più saldi legami annodare. Tanto più ammassavano adulazioni quanto da indi a non molto de’ maggiori vituperii dovevano caricarlo, mostrandosi bassamente lusinghieri avanti, e non sempre giusti dopo.

Dopo avere i Napoletani, i Piemontesi e i Toscani veduto decretare gli ordini della nuova libertà, subitamente tutti gli animi a Roma si voltarono, con tanta più cura e ansietà quanto che i più accorti non ignoravano essere ivi il maggiore intoppo da superare. Veramente in Roma la parte cittadinesca aveva sempre acquistato potere, non solo pel tollerato concorrervi e dimorarvi d’uomini di franche opinioni, ma anche per le continue disputazioni di cose politiche che si facevano ne' cerchi, nelle botteghe, e ne’ diari: le quali grande autorità esercitavano sull’animo del popolo, e gran noia per conseguente arrecavano a’ reggitori del governo romano: i quali conforme ogni giorno più sentivano di essere sbattuti, maggiormente di resistere nuovi sforzi facevano. E altro più temibile avversario avevano nello stampare segreto: rafforzato di mano in mano che la libertà dello scrìvere in publico incontrava impacci, meno tollerati dacché maggiore appariva il trionfo delle nuove idee. Onde prima o poi un gran cozzo fra chi voleva, e chi disvoleva, i savi e imparziali presagivano. Il novello anno era spuntato torbido: perciocché i sospetti seminati dagl’intesi a spaurire il pontefice, cominciavano fruttare amara diffidenza fra lui e il popolo. E credevasi altresì che fosse disegno di segreti macchinatori far nascere sanguinoso conflitto fra la milizia e i cittadini per trarre il papa a invocare aiuto straniero. Della quale opinione, fra le persone più notevoli, era lord Minto, che trovandosi in Roma, scriveva ai ministri del governo inglese: Non dubitare non esservi macchinazione per accendere intestina discordia: aggiungendo questealtre parole: difficile è dire quanta sia la negligenza, inettezza, e imprudenza di tutti gli amministratori delle cose romane. Per fortuna in quel tempo il consiglio municipale, avendo la stima e confidenza publica, sì per le ragguardevoli persone che il componevano, e sì per essere una delle più fresche e più festeggiate istituzioni di Pio IX, non senza frutto s’intrametteva a sedare commozioni, che o per altrui malignità o per popolana intemperanza si suscitavano. Volendosi quel principio d’anno co’ soliti assembramenti celebrare, ed essendo stato con apparecchi di terrori soldateschi vietato ad istanza del governatore Sàvelli (timoroso che la festa non si voltasse in collera contro di lui, ogni dì più rendutosi odiosissimo), ecco il popolo correre a richiamarsene al senatore don Tommaso Corsini, e pregarlo di condursi al papa, e fargli conoscere il publico rammarico, sì che più gravi scandali non dovessero seguitare. Né al senatore riuscì solamente di far capace Pio IX, non essere ne’ festeggiatori altro fine che di aggirargli prosperoso il cominciamento del nuovo anno, ma altresì d’indurlo a mostrarsi al popolo stesso, perché paresse che alcun sospetto nell’animo suo più non albergava. Onde per quella volta l’apparecchiata burrasca, disfogatasi in gridi di viva Pio IX solo, passò: quantunque rimanesse come un indizio, che il papa e la corte de’ cardinali non facilmente sarebbonsi piegati a concedere quel che i Napoletani, i Piemontesi e i Toscani avevano ottenuto.

Ma gl’innovatori d’ogni parte d’Italia vollero e seppero dissimulare; avendo ben essi provato com’era loro successo di tirare colle lodi il pontefice dove le antecedenti congiure e ribellioni non avevano potuto: e qui le solite trombe spandevano: Restare che compia e coroni l’opera chi l’ha cominciata, né potersi dubitare che la magnanima virtù di Pio IX manchi al grand’uopo, e disvoglia il fine chi ha sì generosamente favoreggiato i mezzi per conseguirlo. Fino dagli stati uniti d’America gli erano indirizzati encomii e incitamenti; festeggiandolo in private adunanze, e pregandolo che non si lasciasse spaventare dagli ostacoli, e come aveva cominciato,recasse a termine la grande impresa. Che molti di quei buoni Americani credessero il papa fautore di libertà, non è da maravigliare in tanta lontananza di paese e ignoranza delle cose nostre; maraviglia è che molti fra noi sei credessero: quantunque i veri movitori non avevano in mira che il seguitare a giovarsi del suo nome in paese, dove sì potente e invincibile provavano la chericale potenza. Basti, che lo stesso Giuseppe Mazzini, reputato principe de’ settari moderni, scrivesse dal suo esilio a papa Pio IX, per esortarlo colle usate mistiche parole a farsi capo e autore dell’impresa, per la quale Italia dovesse diventar libera e unita. Quasi diresti che se per lo innanzi era stato congiurato di rovesciare il papato colle armi, allora si congiurasse di rovesciarlo colle laudi. Se non che essi gabbavansi nel credere, che come Pio IX erasi infino allora mostrato pieghevole alle popolari istanze, avrebbe così continuato ad essere in fino che non fossero al colmo dell’opera pervenuti: né era lontano il tempo da provare, che nel maggiore uopo, sarebbesi non pure arrestato, anzi ritratto addietro.

Fra tanto coll’essere le cose cresciute, era altresì divenuto più vivo o più impronto il desiderio di cacciare gli Austriaci dall’Italia: tempestandosi di continuo gli orecchi de’ principi riformati, che l’imperadore meditava assalirci e ingoiarci, e quindi era da armarsi e prepararsi alla difesa. Ma se queste istanze poco valevano a promovere ordinamenti armigeri in altri stati d’Italia, ancor meno riuscivano profittevoli nel romano: e non di meno le genti pontificie, ora colle deliberazioni de’ municipi, or con le domande dei ritrovi, or coi sermonare de’ giornali, apparivano le più clamorose nel chiedere armamenti. Né a questo stavano contente, ma dimostrazioni di odio continuamente facevano contro la casa d’Austria; le quali in Toscana e altrove si ripetevano: da non potersi ben dire, se più noi eravamo ridicoli a svillaneggiare quella potenza schiamazzando (quando in cambio dovevamo metterci in condizione di vincerla in buona guerra) o essa appariva tollerante di tanti provocamene. Il che mostra che o le corti di Europa, e specialmente la inglese e la francese, non fossero per anco d’accordo nel consentirle intervenimento armato negli stati del papa e del granduca, o lo stesso imperadore delle sue forze diffidasse, reputando il concitamento dei popoli contro lui più gagliardo che non era. Rispondevano a tante e sì inquiete improntitudini i diversi principi e particolarmente il papa, che nulla era da temere, che nessuno minaeciava, che non si turbasse la quiete. Pure la ressa continuava: e ne’ giornali lunghe scritture si leggevano sul modo di riordinar presto e bene gli eserciti. Anco per la milizia cittadina non mancava zelo di consigli e di esempi. In somma di parole e di eccitamenti non era penuria, ma a scuotere i governi e le moltitudini, sempre ritrose ai guerreschi esercizii, non bastavano.

Rallegraronsi un poco i pontifici quando fu chiamato al ministero delle armi il principe Pompeo Gabrielli, antico capitano; ma poi veggendo che ancor con lui poco o nulla si faceva, tornavano all’assalto, vociferavano nuovi pericoli, nuovo bisogno di difesa. In nessuno stato (gridavano) trovarsi la milizia in maggior disordine: il molto danaio che si spende per essa, essere gittate, mentreché, bene speso, servirebbe a mantenere in ottimo arnese un esercito tre volte più grande. Nelle quali accuse e altre simili più coraggio pigliavano, dacché era venuta la notizia della costituzione di Napoli; che in Roma, in Bologna, ed altre città dello stato per invito de’ civici magistrati, fu nelle chiese e per le vie festeggiata quale avvenimento, di cui la principal gloria dovesse riferirsi a Pio IX che le prime faville accese. Pure convenne in Roma velare il pensiero della festa per urtar meno chi altramente aveva sentito quella mutazione; e tacendosi la parola costituzione, il bando del senato fu che i Romani si dovessino congratulare della pacificazione del regno delle due Sicilie. Con queste artifizio di prendere l’effetto per la causa, il popolo dimostrò quanto più seppe e potè la sua gioia per le costituzioni; ed eccolo il giorno 8 febraio nuovamente gridare armamento e mutazione di ministri preti in ministri secolari. Per impedire maggior tumulto alcuni di commessione del popolo andarono ai senatore Corsini, pregandolo a interporre i soliti suoi uffici col pontefice, acciocché i manifestati voti accogliesse: e intanto la moltitudine adunavasi in piazza per aspettare la risposta; la quale indugiando di alquante ore, cominciavano i più inquieti a romoreggiare dicendo: andiamo da noi stessi a Montecavallo a farci far ragione dal pontefice; quando per buona sorte arrivò il vecchio senatore, seguito da altri gentiluomini, e trattesi in mezzo alla folla, riferì: aver parlato al santo padre, palesatigli i desiderii del popolo romano, supplicatolo a volerli contentare; e averne avuto risposta, che fidassero nel suo amore e nella sua indefessa cura di provvedere secondo il bisogno alla sicurezza de"suoi stati: essere lui già disposto a mettere uomini secolari al governo, e procacciare una milizia quanto più si può disciplinata ed esercitata: e dell’una e l’altra cosa averne fatto argomento di discussione nel consiglio de’ ministri. Scoppiò tuono d’applausi, accompagnarono il senatore con torce a casa, e a poco a poco avanzando la nétte, l'assembramento si sciolse: senza che si tranquillassero gli animi; né mancarono altre voci gridanti: giù il ministero, fine alla moderazione, vogliamo cannoni, viva Pio IX solo. Arte consueta di attribuire tutto il male a ministri per tenere in credito chi si voleva far servire di mantello a desiderii di maggiori novità. Dopo questi clamori fu tenuto consiglio straordinario, e chiamativi altresì il senator Corsini, il principe Rospigliosi, generale delle guardie civiche, il duca di Rignano, e il principe di Teano. Dicono che questi gentiluomini, e segnatamente il Corsini, usassero franche parole, dimostranti la necessità di rinnovare il ministero. Per lo che si ottenne, che governatore di Roma fosse fatto il duca don Michele Gaetani, noto per ingegno pronto e spiritoso; all’amministrazione dei lavori publici fosse chiamato l’avvocato Sturbinetti; e il ministerio per le cose del commercio e dell'agricoltura fosse al conte Pasolini di Romagna confidato.

Quantunque dette elezioni facessero nascere più tosto liete speranze, pure non lasciava di dar noia, che gli aitai ministeri seguitassero ad essere in mano degli ecclesiastici; conciossiaché in loco del cardinal Ferretti, mandato legato a Ravenna, fosse messo il cardinale Bofondi, già decano della sacra Rota, buon sacerdote, dotto in giurisprudenza, ma di poca pratica ne’ governi e manco balia di spirito; é alla soprintendenza degli studi rimanesse il cardinal Mezzofanti, celebre per quella quasi intera cognizione di tutte le favelle e dialetti, che lo fecero meritamente osservare come miracolo; e la tesoreria fosse lasciata ad amministrare da monsignor Morichini, stato un tempo in voce di amante d’istituzioni caritatevoli; e finalmente per l'amministrazione della giustizia e per gli affari interni continuassero a soprintendere i prelati Roberti e Amici, amendue di poco conto: e il secondo fu presto surrogato da Monsignor Pontini più atto al governare. Tuttavolta fu questo come un primo passo a rendere secolare il governo papale. In pari tempo il pontefice volgeva al popolo di Roma queste già famose parole.

A’ desiderii vostri, o Romani, e a vostri timori non essere sordo il pontefice, che in sì poco tempo ha da voi tanti e così splendidi segni di amore e di fede ricevuto. Esso di continuo meditare come, salvi restando i suoi doveri verso la Chiesa, possano più utilmente allargarsi e perfezionarsi i civili istituti da lui fondati, non da alcuna necessità costretto, ma dal desiderio indotto di rendervi felici, e dalla persuasione che voi ne siate meritevoli. Avere altresì vólto i pensieri a riordinare la milizia, prima ancora che la voce publica glie ne richiedesse, chiamando di fuori condottieri per aiuto degli addetti a’ servigi della santa sede. Similmente ad accrescere il numero di coloro che coll’ingegno e coll’esperienza potessero concorrere a migliorare le cose publiche, aver dato nel consiglio de’ suoi ministri maggior luogo alla parte secolare. In oltre, se il concorde volere de’ principi, da’ quali riconosce Italia le nuove franchigie, è sicurtà al mantenimento di ciò che con tanto applauso e gratitudine accoglieste, lui fomentare detta concordia, serbando e raffermando con esso loro amichevoli corrispondenze. Né alcuna cosa che giovar possa alla quiete e dignità dello stato, trasandarsi dal padre e principe vostro: il quale della sua sollecitudine per voi aver dato le più certe riprove, ed essere pronto a darne ancora, se sarà fatto degno, che Iddio infonda ne’ cuori vostri e degl’italiani tutto lo spirito pacifico della sua sapienza. Ma essere nel medesimo tempo pronto a resistere con la virtù delle già date istituzioni agl’impeti disordinati e alle domande non conformi a’ suoi doveri e alla vostra felicità. Ascoltate adunque la voce patema che vi assicura; né vi commova questo grido che esce da ignote bocche per agitare i popoli d’Italia con lo spavento d’una guerra straniera, aiutata e preparata da interne congiure o da malevola inerzia di reggitori. Questo sì è inganno, spingervi col terrore a cercare la publica salvezza nel disordine: confondere col tumulto i consigli di chi vi governa: e con la confusione apparecchiare pretesti ad una guerra, che con nessun motivo potrebbe esser fatta. Qual pericolo in vero poter soprastare all’Italia finché un vincolo di gratitudine e di fiducia, non rotto da alcuna violenza, congiunga insieme la forza de’ popoli colla sapienza de’ principi, e colla santità del diritto? E lui specialmente, come capo e pontefice supremo della santissima cattolica religione, non aver forse a sua difensione, quando fosse ingiustamente assalito, innumerevoli figliuoli che sosterrebbero, come la casa del padre, il santuario della cattolica unità? Gran dono del cielo, fra’ tanti largiti all’Italia il maggiore, che tre milioni appena di sudditi abbiano dugento milioni di fratelli d’ogni nazione e d’ogni lingua. Ciò essere stato in altri tempi, e nello scompiglio di tutto ’l mondo, la salute di Roma. Per questo non essere stata mai intera la rovina d’Italia, e seguiterà ad essere la sua rocca infino che nel suo mezzo arà sede il pontefice. (E qui con una esclamazione di fervore terminava).

Oh! perciò benedite, gran Dio, l’Italia, e conservatele sempre questo dono di tutti preziosissimo, la fede. Beneditela colla benedizione che umilmente vi domanda, posta la fronte per terra, il vostro vicario. Beneditela colla benedizione che per lei vi domandano i santi a cui diè vita, la reina de’ santi che la protegge, gli apostoli di cui serba le gloriose reliquie, il vostro figliuolo umanato, che in questa Roma mandò a stare il suo rappresentante sopra la terra.

Chi avesse cercato freddamente l’intimo significato di questa dichiarazione di Pio, avrebbe scorto ch'egli due cose volea far sapere; primieramente che non poteva mutar forma al suo governo; in secondo luogo, che a tutt’altro egli sarebbesi mai disposto che a favorire una guerra di libertà italiana. Ma questi sensi rimasero come ecclissati da tanto splendore e benignità di parole, e dal testificare antichi e nuovi benefizi, e soprattutto da quella invocazione di celeste benedizione sull’Italia, per la quale pareva non dovessimo più temere di vincere tutti i più grandi nemici, interni ed esterni. Tanto fu il rumore che ne menarono ne’ giornali gli scrittori d’ogni opinione, così in Roma come fuori. Ed era maraviglioso equivoco, che mentre allora gl’Italiani credevano, che dicendo Pio IX di avere innumerevoli figliuoli disposti a sostenerlo, accennasse a una difesa di popoli per la causa italiana, che in lui vedevano come incarnata; nell’aprile dell’anno appresso lo stesso Pio rifugiato a Gaeta, in una sua enciclica famosissima, appellando intendimento di sediziosi la guerra di Lombardia, ci chiarì ch'egli in quel suo tanto festeggiato sermone del 40 febraio dell’anno quarantotto, accennava, quasi con profetica voce, al sostegno che le armi tedesche, francesi, spagnuole e napoletane dovevano arrecargli tutt’altro che a liberazione d’Italia.

In tanto, così equivocando, il popolo romano levavasi tutto a festa, e correva al Quirinale a ringraziare il pontefice. Il quale mostratosi raccomandò nuovamente concordia e temperanza: e chiamati intorno a sé i capi della milizia cittadina, così a loro favellò: Essere i tempi sì gravi, e gli avvenimenti sì accelerati, ch'ei stima doversi rivolgere alla fedeltà della guardia civica; e a questo suo corpo, che gli aveva dato tante prove di affetto, affidare la sua persona, il sacro collegio dei cardinali, la vita e sostanza di tutti i cittadini, e la quiete universale. Aver dato commessione perché sia bene studiato quale allargamento possa esser fatto alle riforme da lui introdotte, da contentar meglio i nuovi desiderii. Volere aumentare di membri la consulta di stato, e più ampie facoltà conferirle. Aver promessole voler mantenere,. di porre altri laici nel ministero: il che forse avrebbe già mandato ad effetto, se coloro a’ quali aveva profferte detto grado, non avessero poste condizioni non accettabili: e lui condizioni non ricevere giammai, e voler esser libero nelle risoluzioni, né avvenir mai ch'ei sia tratte a consentir cose contrarie alla Chiesa e a’ principii della religione. E dove lo si volesse forzare, né fosse chi l'aiutasse, pur non cederebbe, e in braccio alla provvidenza si metterebbe.

Ma giunta in questo mezzo la nuova che il re di Sardegna aveva seguite lo esempio di Napoli, e a fare il simile era presto il granduca, rinfocolaronsi i fervori per le costituzioni; i quali, se bene dimostrati con pacifiche e giulive ragunate di popolo, non di meno era chiaro che in tumulti e sedizioni sarebbonsi cangiati, dove co’ desiderii non si fosse congiunta la speranza, che fossero di presente appagati: non parendo possibile che chi aveva benedette l’Italia, non dovesse la costituzione accettare;e più tosto che diffidare di lui, si dava opera a levare dal suo animo timorato gli scrupoli, che più l’altrui che la propria teologia vi avesse suscitati. Già si antivenivano le quistioni, e ogni studio ponevasi a ribattere le difficoltà dei teologi, e a dimostrare che il papa poteva dare una costituzione senza offendere punto le ragioni della Chiesa e del temporale dominio; anzi con argomenti nuovi e speciosi si pretendeva provare, a nessun principe convenir meglio temperare la signoria quanto al pontefice, a fin di togliersi la soma delle amministrazioni civili, e maggiormente nella purezza del regno celestiale grandeggiare.

Anche tal ora preti e frati di autorità, ma che dimoravano fuori de’ magistrati, si univano a filosofare, che il dogma non solo non pativa, anzi acquistava gloria e solidità, se il pontefice si faceva re costituzionale; mentre, stando fermo nell’assoluto imperio, correva pericolo di rendere odiosa la Chiesa e la religione, facendole reputare non conciliabili colla libertà, che allora era nel desiderio de’ più. «Essere obligo (scrivevano) del vicario di Cristo levare gli scandali, e procacciare che gli uomini non debbano prendere in odio la Santa Sede, ma sì in maggiore affezione. Averlo già Pio sperimentato alle sue prime riforme, e veduto quanto fervore d’ogni generazione di persone si accendesse per la pontificale dignità. I tempi avanzare; non dovere la Chiesa rimaner ferma; le istorie mostrare di avere i suoi istituti e governi variato e modificato secondo che i secoli volgevano più verso una forma di stato che verso un’altra: e questa stessa variazione aver servito a fare immutabile e inconcusso il dogma. Del quale d'altra parte che sarebbe, se apparisse contrario a ciò che i tempi adducono?» Non fu mai posta in campo tanta erudizione ecclesiastica, anco da' non ecclesiastici, quanto per quella bisogna, e quasi volevasi far credere, che le istituzioni pontificie innanzi a papa Sisto l'fossero d’un principato civile.

Ma la più parte de’ cardinali e de’ prelati che sapevano come le cose stavano, né ignoravano che, andando più oltra a toccare la macchina pontificale, era un mandarla in pezzi, argomentavano diversamente; e tutt’altro pareva loro che la sede apostolica acquistasse in gloria e grandezza accettando moderna costituzione; oltre che eran certi, che la potenza da essi goduta sarebbesi in breve tempo al niente ridotta. Non di meno non poteva la corte romana dissimulare che se era pericoloso largire la costituzione, pericoloso altresì era ricusarla, dopo che gli stati di Napoli, di Piemonte e di Toscana l’avevano già acquistata. Né mai il papa si trovò in maggiori angustie da non sapere quale de’ due partiti fosse peggiore. Quelli che più da presso gli stavano, e che si dicevanointendersi un poco più di cose politiche, si restrinsero insieme, e studiarono di trovar modo a contentare i popoli, senza mettere in periglio la podestà temporale de’ pontefici. Fu a tal fine creato uno speciale consiglio de’ cardinali Ostini, Castracane, Orioli, Altieri, Antonelli e Bofondi, e de’ prelati Corboli Bussi, Bernabò e Mertel: e nel giorno stesso tennesi concistoro segreto, e s’annunziò nel diario publico: avere il sopraddetto consiglio ricevuto commessione di fare una proposta di quegli stabili miglioramenti di stato, che producendo il vero ben essere de’ popoli, fossero coll’autorità pontificale conciliabili. Se con ciò significar si volesse una costituzione di signoria temperata, non potrei del tutto affermare o negare. Pure stimo che il dare vera e propria costituzione non fosse stato ancora ben risoluto, e più tosto si brigasse di far qual cosa che a quella il più che era possibile si avvicinasse. Ma gli scrittori de’ giornali non fecero dubbio: divulgarono come se già fosse decretata. E co’ giornali si univano i municipi: i quali ringraziavano il santo padre della risoluzione fatta, e pregavanlo ad avacciare a’ popoli quest’altra felicità, la maggiore di tutte; con che gli accrescevano la difficoltà di più negarla. Ed era l’ardore non più negli stati della Chiesa, che negli altri della penisola: perciocché a tutti pareva che dove il pontefice avesse accettato la costituzione, avrebbe colla sua autorità consacrata e per sempre consolidata questa nuova forma di reggimento per tutta Italia; e mentre forse i consiglieri di Pio IX disputavano ancora se dovesse o non concedersi, gli scrittori publici cominciavano a disputare del modo con cui era da ordinarla.

Lungo e facilmente noioso riuscirei, se volessi tutte riferire le disputazioni agitate ne’ diari, ne’ cerchi, nelle case, e nelle piazze sol modo, col quale il papa doveva compilare il suo statuto. Chi una proposta e chi un’altra faceva: e siccome la maggior difficoltà era di acconciare in qualche maniera il collegio de’ cardinali, alcuni proponevano che si dovessero lasciare unicamente custodi e ministri delle cose spirituali, altri suggerivano di farne una speciale consulta del pontefice, a cui potesse più intimamente riferirsi avanti di prendere alcune più gravi deliberazioni. v’avea che consigliava, doversi dei cardinali formare un’assemblea superiore, da equivalere a un consesso di Pari o di senatori. E di questa sentenza, contro cui si levarono la più parte degli scrittori, era il teatino padre Ventura; il quale, avendola difesa con iscrittura a stampa, fu causa che scadesse dal concetto che di lui s’aveva: conciossiaché rivelasse sempre animo inclinato a favoreggiare il potere teocratico. E grande oppositore alla opinione di lui era Pietro Sterbini, capo assai destro della democrazia romana, e avido di costituzione, sperando in maggiore larghezza acquistare maggiore potenza. Costui, esiliato per le cose del 1834, era vissuto in Francia facendo il medico: non amato pe’ suoi modi superbi dagli altri fuorusciti, che altresì il sospettarono spia della corte di Napoli; mentre in pari tempo mostravasi con quelli sempre più acceso del congiurare, per tenere il piè in due staffe, e gittarsi dove meglio fossegli tornato. Certo d’uomo falso ebbe nome allora e poi. Tornato in patria per quell’ampio perdono del luglio 1846, da lui stesso fervorosamente implorato, e messosi dopo qualche tempo a scrivere nel giornale detto il Contemporaneo, era stato di coloro che più avevano spinto il pontefice al precipizio, esaltandolo. Egli adunque andando nelle proposte più innanzi d’ogni altro, con quella impazienza propria degli odierni democratici, voleva un’assemblea sola popolare, lasciando a’ cardinali di costituirsi in un consiglio di censura per quella parte di leggi che a’ negozi ecclesiastici si riferisse, e aggiungeva (poco felice, se non era bugiardo vaticinatore) che il papa non doveva temere che la democrazia prevalendo sarebbe mai venuta in guerra con esso lui, traendone argomento nuovo e maraviglioso da non so quale testimonianza di storie passate: le quali anzi, non istorte, provavano il contrario. Tagliò le dispute e le dimore la sopraggiunta rivoluzione di Francia del 24 febraio: della quale, poiché fu causa che il commovimento d’Italia, fin qui descritto, cangiasse natura, farò quel racconto che più serva al bisogno.

Molte e da lunga pezza preparate furono le cagioni, onde nacque la francese rivoluzione del 1848; ma la più prossima e altresì la più palese fu la legge de’ comizi. La quale come è fondamento di libertà quando è buona, così diviene il principal fomite di turbazione quando è difettosa. E cotale era la francese; avendo pochi e per privilegio di ricchezza il diritto di eleggere. Il che se potevano comportare gl’Inglesi (dimorando appo quelli il maggior nerbo della libertà nel consesso degli ottimati, i quali, sendo uomini potenti per fortuna propria, contrappcsano l’autorità regia) mal era tollerabile a’ Francesi, che nella prima delle assemblee avevano un parlamento necessariamente ligio del principe, da cui era eletto; ed oltre a questo il loro stato civile differiva affatto da quello della Gran Bretagna, in cui la popolarità, raffrenata dalle leggi che regolano la ricchezza de’ privati, non aveva mai fatto quel progresso che per le antecedenti mutazioni di stato si notava in Francia. E se bene la generazione de’ mercatanti, sì cresciuta in questo secolo, pigliasse il luogo della vecchia nobiltà, e cercasse di usurparne i privilegi, tuttavia non salì mai a quelF altezza onorevole; e più tosto attraversò la libertà di quello che impedisse che le idee democratiche, buone o ree, germogliassero e si dilatassero. Le quali aiutate da certa universalità d’istruzione in paese, dove il sapere si allarga conforme alla poca profondità, dovevano naturalmente far desiderare che il diritto di eleggere i rappresentanti della nazione fosse maggiormente esteso. Ma dall’altra parte Luigi Filippo; che quasi subito dopo posto in trono, bilanciato se gli conveniva meglio stare colla nazione che lo aveva eletto re, o co’ principi delle altre nazioni che dubitavano di legittimarlo, avea creduto più savio tenere con questi che con quella, o per non reputarla mai fido sostegno di alcun reggimento, o perché il regno tira sempre verso l’assoluto potere; doveva ripugnare ad ogni riforma di comizi; perché dove fosse sorto un parlamento diverso da quello che facilmente corrompeva e dominava, non avrebbe più potuto colle potenze di fuori tranquillamente intendersi, e all’ombra delle stesse leggi fatte per custodia della libertà, servire alla tirannide. Né guardò in pari tempo (sì fu accecato dalla subita prosperità) quanti e quali vulcani cominciavano intorno a bollire: e com’egli aveva da fare con una nazione, nella cui stessa mutabilità e leggerezza le gare e cupidigie private avevano sì forti appiccagnoli di publico sconvolgimento. In effetto non il bene di tutti, ma la mal celata sete che alcuni avevano di acquistare, e altri di ripigliare i supremi magistrati, apparecchiò la grande mutazione.

Costoro gran rumore facevano, e facevan fare, essere indegnità una riforma tanto giusta e tanto salutare come quella de’ comizi negare; essere altresì vergogna quel timido governo, che aveva fatto alla nazion francese perdere ogni suprema autorità nelle cose d’Europa. Schiamazzato un pezzo in parlamento, e fatte di assai lunghe e strepitose dicerie, che nei giornali si divulgavano e commentavano, cominciarono a discutere per le piazze, e commovere il volubile popolo per via di conviti. Il re, ombroso e avvezzo a resistere, tentò con apparecchiamenti d’arme e mostre di guerra contrariare quegli assembramenti che pur troppo lo minacciavano; e fu il suo tracollo; perciocché gli avvenimenti d’Italia, che essendo, o credendosi mossi da un papa, facevano grande effetto per tutto, e maggiore da lontano, sollevando i già commossi umori de’ Francesi, aggiungevano ardire e potenza a’ gridatori di riforma, e quasi gli spingevano a compire la loro impresa. Furono allora i principali chiamati dal re a consulta. Delle diverse proposte fatte nessuna a lui piacque, non credendo tanto soprastante il pericolo o sperando sostegno nella soldatesca. Sì l’abito, fatto a vedersi ogni cosa succedere prospera, Io traeva di senno. Ma divenuta di otta in otta minacciosa la sommossa; le milizie stanziali come sbalordite più tosto guatare che reprimere: le milizie civili, divise di opinioni o nulla opporre o secondare; preso ultimamente da paura, tardo gastigo de’ re, e messosi nelle braccia de’ suoi stessi avversari, conforme s’avvedeva che la nazione non l’osservava più, con velocità pari al pericolo, disponevasi a cedere a tutto, fino a rinunziare alla corona per salvare almeno la eredità del trono a’ suoi discendenti. Ma non fu più a tempo. Già il sangue, fosse caso o malizia, era stato sparso; la zuffa cominciata: l’odio trasceso in furore; messo a fiamma e a ruba il palazzo reale, antico albergo de’ principi d’Orleans: nessun luogo rimaneva più aperto alla, pace. I republicani, e con loro mescolati i fautori della licenza, padroneggiavano la moltitudine, e quel che poche ore innanzi poteva mettere un freno alla rivoluzione, non servì allora che a trarla all’estremo. Fu vano per tanto annunziare nuovi e più democratici ministeri; non meno vano bandire, il re avere rinunziato alla corona, e istituito reggente la duchessa d’Orleans, madre dell’inutile erede; e né pure giovò, in quel paese cotanto cavalleresco, la pietà veramente gentile che colei, divenuta maggiore del sesso e del pericolo, cercò di movere, presentandosi co’ figlioletti in mano, quasi a rattenere il precipitante trono, all’assemblea dei deputati. La cui sala (cominciatosi a pena a disputare della sua sorte con varia e infelice sentenza) come d’un turbine fu da popolari furie investita, e di schiamazzi republicani fatta echeggiare; nel tempo che Luigi Filippo col resto della famiglia, non rea che d’appartenergli, erasi fuggito: provando più l’odio che l’ira del popolo; e videsi prima sdimenticato che partito chi per diciotto anni aveva tenuto regno e potenza di quasi re assoluto: indicio di avere meglio per la publica corruzione che per la propria virtù dominato.

Fra tanto quelli che avevano gridato la riforma non per altro che per salire (bastando loro forse rinnovare il ministero o al più chiamare al trono con reggenza il figliuolo del duca d’Orleans) trovarono di avere appiccato un incendio non più v estinguibile, da divampare più gagliardo che non erano state le loro intenzioni, affinché a’ tanti esempi passati s’aggiungesse quest’altro, trascorrere quasi sempre le rivoluzioni più oltra che non miravano i primi commovitori, e trame prò chi meno si stimava. Così fra le varie parti, ond’era allora divisa la nazione francese, trionfò quella de’ republicani: pochi di numero né fortunati. Se non che fra le contenzioni delle altre parti, e col continuo sperimentare quanto fallace cosa fosse la monarchia limitata, eransi andati allargando e afforzando più che i monarchici non credevano. Pure trionfato non avrebbero, se primieramente non avessero giocato di sorpresa; facile a riuscire dove la città principale è tutto, poco o nulla le provincie; e secondamente, se trasportate le cose a quelle estremità, non fosse apparso a tutti partito sopra ogni altro pericolosissimo il chiamare prontamente nuovo regnadore: onde più con paura dell’avvenire che con allegrezza del presente piegaronsi i Francesi alla republica: diventando, per accidente insperato,

sola possibile a praticare quella forma di stato in fino allora la più impossibile giudicata. Salirono al governo, o meglio del governo s’impadronirono quelli che opinioni estreme professavano: parecchi de’ quali più ancora della republica, mulinavano lo scompiglio della civile società. Se non che in principio, sapendo in quanto poco credito erano, cercarono la compagnia e l'appoggio di alcuni più noti per antica fama di onesti, preclaro ingegno, e temperanza di desiderii. I quali, non ricusando, o per isperanza che minor male dovesse per loro mezzo incogliere alla sconvolta patria, o anch’essi s’apponessero essere venuto il tempo opportuno al trionfo della republica, ebbero non di meno bisogno in quella prima concitazione di spiriti, di pigliare il popolo con un’esca potentissima quanto fallace: che la novella republica, avente per fondamento inconcusso questi tre nomi sacrosanti di libertà, egualità e fraternevolezza, avrebbe assicurato alle moltitudini bisognose il diritto al lavoro, e provveduto alla universale ricchezza, alla universale istruzione, e a tutti gli altri beni sociali, non mai infino allora provati. Speciosa dottrina, la quale come s’originasse, e in Francia s’appigliasse e allargasse, dirò brevemente; non solo per aver prodotto quella sì a noi infausta republica, ma ancora perché altrove e in Italia altresì fu cagione di grande spavento, e di più grande pretesto a farci tornare nell'antica servitù.

Senza cercare nelle istorie greche e latine le tracce di quello che i moderni con vocaboli nuovi chiamarono socialismo o comunismo, e volendo solamente dire come in questi nostri tempi simili pesti tornassero di lor veleno ad attossicare l’umana società, piacemi ripeterlo primieramente dall’essere pure tornati a rivivere i vecchi errori di quella filosofia, che impropriamente è chiamata platonica, e più propriamente vuoisi a’ seguaci di Platone riferire. Per la quale, trascendendo i termini dell’umana ragione, siamo tratti a supporre nell’uomo tali straordinarie e incomprensibili potenze, da sollevarlo a una sempre crescente e progressiva perfezione: e dagl’individui passando alle società, formarci imagini di civili perfezioni, anch'esse affatto prive di ogni realtà. Non è maraviglia che con questa forma di filosofare, agevolmente si creassero teoriche di felicità non mai provata dagli uomini; né possibile a provare. Le quali fino che fossino rimaste nella mente di filosofanti, sì come in Alemagna, dovei cominciarono, potevano fare strabiliare, e anche ridere, senza alcun danno partorire. Ma passate in Francia, e qui dall’astrazione tirate verso la pratica, divennero semenza di mali nuovi, anzi che mezzo a togliere o minorare quelli che si tolleravano; nulla di peggio e di più pericoloso essendo, che mettere negli uomini accomunati in civil consorzio, la voglia d’un bene non possibile a ottenere. D’altra parte era quasi ragione che la riferita dottrina avesse in Francia successi cotanto straordinari, come di produrre una rivoluzione, rovesciare un trono fondato ne’ vizi stessi della nazione, gridare una republica, e imporla a un popolo, che meno per ingegno, costumi, interessi, memorie era a riceverla disposto. Conciossiaché, fondandosi essa in questo principalmente, che lo stato dovesse essere mallevadore del modo di provvedere a tutte le bisogne d’ognuno, non già. spogliando delle loro terre i possessori, e de’ loro capitali i mercatanti, ma sì vietando il poterne disporre a loro piacimento, doveva acquistare gran valore, dove nel governo della città principale accumulandosi l’amministrazione delle cose publiche, le genti avevano fatto l’abito a dover riconoscere tutto da quello, e quindi a poco a poco disporsi a pretendere di volerlo quanto più largo del bene, altrettanto riparatore del male: pretensione, che nelle moltitudini, stimolate dalla fame e dalle altre miserie, non poteva non tramutarsi in sentimento di ragione feroce. E se bene non ogni massima de’ socialisti fosse da riprovare, pure l’essere alcune poche cose buone e praticabili mescolate con altre molte fatte per capovolgere la civile società, produceva che di tutte si facesse concetto pessimo e spaventosissimo; senza dire che pareva scoprire negli autori e divulgatori malvagio appetito di farsi strada al governo, lusingando vanamente le turbe miserabili. E in vero non erano passate ventiquattr’ore dopo la mutazione parigina, che nuovamente il popolazzo sollevandosi schiamazzava per non vedere ne’ sommi uffici e magistrati i capi socialisti; minacciando così distruggere la teste nata republica que" medesimi che l’avevano gridata.

La rivoluzione francese quanto commosse le genti, altrettanto atterrì le corti d’Europa, con quell’inaspettato grido di republica, e peggio ancora di republica democratica e sociale. Se non che i principi, traendo dagli esempi passati miglior documento, che non fecero i popoli, non rinnovarono l’errore dell’ottantanove di collegarsi e assalire i Francesi: sapendo come quelli, non fatti uniti da guerra esterna, avrebbero colle intestine discordie consumata la loro opera, e quindi meglio colle arti diplomatiche che colle armi sarebbe riuscito di tornarli a favorire più tosto la causa dei re che quella delle nazioni. Mostrarono di appagarsi dell’editto de’ nuovi ministri che dichiaravano, la nuova repubblica francese non uscirebbe dei suoi confini né con armi né con incitamenti a rivoluzione, se non fosse assalita. E quantunque aggiungessero: «se non si trattasse di soccorrere a que’ popoli che da loro stessi non bastassero a sostenere la libertà di lor nazione:» non si brigarono di quest’altra condizione, giudicandola una di quelle solite spavalterie francesi di promettere ciò che poi mantenuto non avrebbero; anco perché dallo stesso bando traspariva incessante paura d’imprender guerra, o per difficoltà di erario o per intestini gareggiamenti, o anche perché fosse avviso ai nuovi rettori republicani di farsi continuatoli del governo del re che avevano cacciato. Non di meno le potenze monarchiche non restavano di temere; primieramente perché con que’ cervelli francesi, che non s’acquetano che nel cangiar proposito ad ogni istante, da non inspirare fiducia né agli stati liberi né a tiranneschi, non era da fondarsi molto; e in oltre argomentavano, che quando anche s’ottenesse che i Francesi non facessero fuori propagazione d’idee republicane, pure il solo esempio di sì allettatrice rivoluzione avrebbe nuovi e maggiori desiderii altrove suscitato. Conciossiaché lo stato di Europa non fosse più coi né nel 1789; in cui quel vulcano della prima rivoltura gallica scoppiò mentre tutti gli altri popoli intorno sonnecchiavano, e bisognò quindi conquistarli colle armi per volgerli a republica: ma nel febraio del 1848, in cui non era regno d’Europa che o non fosse commosso, o più o meno apparecchiato a grandi commozioni, anche un lontano rumore poteva essere sufficiente a mettere in pericolo i troni. E più particolarmente dovevano stare in forse i principi d’Italia, dove il commovimento era in guisa aumentato, dopo la ribellione di Palermo, che aveva potuto dar l’ultima pinta forse alla stessa mutazione di Parigi: e natural cosa per tanto era che ne dovesse risentire nuovamente l’effetto, quasi di rimbalzo.

Ma nessuno aveva dello spaurirsi più ragione del papa: il quale, quanto allungava e titubava a publicare la costituzione, tanto più, come suole, aveva fatto crescere la impazienza popolaresca; e l'avvenimento parigino giungeva proprio a tempo a recarla al colmo. I romani con torce e bandiere tricolori andarono a salutare i Francesi dimoranti in Roma, i quali in congrega politica si raccozzavano nel palazzo Mignatelli: dove furono fatti discorsi, auguri, giuramenti, e quanto valesse a infiammarsi gli uni insieme cogli altri. Quale paura prendesse i cardinali della corte di Roma, non saprei dire; ma è certo che dovette essere smisurata, dacché fu allora voce che tutti d’accordo corressero al papa, e pregasserlo a non solo publicare il domandato statuto, anzi a far presto in ogni modo. E senza negar fede alle affermazioni dello stesso papa fatte nel concistoro di Gaeta l’anno di poi, dobbiam credere che ebbevi altresì chi fatto più ardito dagli eventi, in vece di costituzione monarchica, gli facesse proposta di non so quale forma di republica. Se pure il buon Pio, non molto aperto d’istituzioni politiche, non equivocasse, l’una cosa scambiando coll’altra; perché in verità nulla allora di ciò fu detto o sospettato, né alcuna dimostrazione verso la republica era stata fatta in alcuna parte d’Italia. Ma o fosse, o il credesse, dovette crescergli per ciò lo spavento, quasi da reputarsi fortunato, se collo statuto avesse potuto contentare. E aggiungevasi, che dette cose per l’appunto si travagliavano in quegli ultimi giorni del carnevale, che in Roma produce straordinario inebriamento popolesco, e più facile appicco a commozioni tumultuose. Similmente dalle provincie giungevano al papa petizioni e ambascerie: e in Roma stessa ivasi apparecchiando una supplica sottoscritta da migliaia di cittadini. In vero non fu mai fatta ad alcun principe cotanta ressa per istrappargli quello che meno d’ogni altro avrebbe potuto concedere. Impaurito ogni dì maggiormente, faceva divulgare: che si dava l’ultima mano alla costituzione del reggimento con rappresentanza, e a tenere il ministero sarebbero stati chiamati uomini secolari e di massime cittadinesche. E da qualche tempo aveva scritto al re di Sardegna per avere uffiziali esperti e capaci a riordinare la milizia pontificia: né il re sardo aveva posto indugio a dar gli ordini, perché i desiderii suoi fossero soddisfatti. Mentre tutti questi movimenti si facevano da una parte, dall’altra il municipio romano, o volesse (come avevano dato esempio il torinese e il fiorentino) acquistarsi un merito postumo, chiedendo quel che sapeva essere già vicino a largirsi, o che lo stesso pontefice lo richiedesse a ciò, per avere in cosa di tanto momento ancora quel suffragio, o finalmente gli paresse essere mestieri aggiungere l’opera sua per vincere la titubanza di chi in fino all’ultimo non sapeva, se bene o male adoperava, congregavasi in fretta la mattina del 6 marzo, e senza indugio vinceva il partito, che il senatore accompagnato dai conservatori dovesse presentarsi al papa, e indirizzargli le seguenti parole.

La sapienza che guida le vostre opere, e spira nelle vostre parole certificava a noi per tal modo il compimento delle riforme cominciate, che raffrettarlo con suppliche ci pareva finora alieno dalla fedele riconoscenza che ad una voce vi professiamo. Ma il cuore di vostra beatitudine, che dal primo salire al pontificato prevenne in ogni bene i nostri desiderii, aspetta forse tra’ tanti popoli, i quali invocano ordinamento più stabile delle cose publiche, udire anco una voce del senato e del consiglio di Roma. Eccovi dunque in cospetto, o padre e signore degli animi, quella Roma che molti secoli addietro cessò le stragi cittadine e le correrie barbaresche sotto l’usbergo dell’apostolica protezione. Oggi da’ suoi bisogni stimolata e fatta pe’ vostri benefizi animosa, prega che il suo governo sia da indi innanzi costituito per forma rappresentativa, convenevole alla presente civiltà, e durabile quanto non pur la vita, ma il nome e la gloria vostra. Voi con esempio inusitato stringeste i principi in amicizia co’ sudditi, gl’invitaste a nuova temperanza d’impero, non li voleste precedere sino al termine, perché ognuno liberamente potesse o giungerlo o rimanersi. Piacque a’ principi italiani ciò che conobbero a voi, padre, non dispiacere, e la vostra parola bastò a removere le violenze delle armi, e i pericoli delle sedizioni. Deh i confermate e santificate la impresa da voi cominciata. ché la potenza pontificale non si restringe a’ confini dello stato che governate; sondo a voi devoti e figliuoli quanti il mondo ha credenti. Né alcuno oserebbe contrariare quel che la Chiesa consente, e il successore di Pietro benedice.

Il papa rispose presso a poco in questa sentenza: Gli avvenimenti che non dirò si succedono, ma precipitano, rendere a bastanza giustificata quella domanda. Essere a tutti noto, lui da molto tempo occuparsi indefessamente per dare al popolo una forma di reggimento meglio alle presenti necessità consentanea: ma ciò che in regno secolare può in una notte effettuarsi, nel pontificio richiedere grave e lunga ponderazione, sendo assai malagevole il ben definire i termini delle due podestà. Pure avere speranza fra pochi giorni, compita l’opera, poterla annunciare. Né sparar meno che sia per riuscire di speciale contentamento del municipio e del senato, che più da presso conosce le condizioni publiche. Iddio benedica (così terminava) questi miei desiderii e fatiche, e se ne tornerà utile alla religione, io starò a’ piè del Crocifisso per ringraziarlo di tutti gli avvenimenti che ha voluto far succedere; de’ quali io più come capo della Chiesa che come principe mi terrò satisfatto.

Accertavano, che Pio IX aveva richiesto qualche tempo innanzi il conte Pellegrino Rossi di scrivergli una proposta di costituzione; e quantunque il Rossi cercasse da prima di scusarseae, sapendo le difficoltà che avrebbe incontrato, pure nuovamente pressato accettò la grave commessione, e fece la preposta come: sapeva e poteva un dotto uomo, e delle materie politiche intendentissimo. Ma l’opera del Rossi non essendo piaciuta alla corte romana, e sopraggiunta alsì la necessità di concedere uno statuto, e concederlo rattamente fu data balia allo stesso concilio di prelati e cardinali, istituito già da qualche tempo per esaminare e proponere possibili miglioramenti negli ordini del reggimento pontificale. Nel medesimo tempo fu il consiglio de’ ministri così riformato. In cambio del cardinale Rotondi fu eletto presidente e ministro, sopra gli affari esterni il cardinale Antonelli: del quale, destinato a dare il nome e l'opera sì al cominciamento e sì all’annullamento della costituzione, importa avere alcuna notizia. Nato in Terracina, sortì da natura non ordinaria destrezza d’ingegno, che meglio del sapere gli giovò per aver grazia in Roma. Dove ito giovanetto, presto giunse a vestir l’abito dei prelati. Mandato governatore a Viterbo, cercò farsi ben volere da quelli che il reggimento papale non amavano, designati col nome di liberali; ma per la sommossa del 1837, più che della stima loro, glìcalse fossi merito presso la corte di papa Gregorio con zelo di accusatore e di persecutore; se bene egli, come dissimulator sommo, cercasse di addossar l’odio delle molte e atroci condanne a’ processanti e a’ giudici. E tosto mandato a reggere la provincia di Macerata, tenne governo più civile. Piacendo la prontezza dello ingegno, i modi franchi, e la molta operosità, fu chiamato in Roma all’ufficio di sostituto nella segreteria di stato. Messo ultimamente nella tesoreria, lasciata in tanto disordine dal cardinal Tosti, se non valse a riordinarla, amministrolla con più senno e vigilanza.Eletto cardinale, e veggendo le cose volgere a libertà, fece buon viso alle riforme cominciate da Pio IX: e prima scelto a presiedere la novella consulta di stato, indi parve degno che sotto la sua balia il governo di rappresentanza cominciasse. Quanto agli altri ministri, fu sopra gli affari interni nominatoGaetano Becchi; per la grazia e giustizia l’avvocato Francesco Sturbinetti; pe’ lavori publici Marco Minghetti: per le cose della guerra il principe Aldobrandini: per gli affari di commercio il conte Giuseppe Pasolini; per la sicurezza interna l’avvocato Giuseppe Galletti; per i erario restava monsignore Carlo Morichini, e per gli studi il cardinal Mezzofanti. I preti, in tanto naufragio di poteri, avevano serbato queste tre cose; diplomazia, tesoro e istruzione; che per certo sono le più importanti e la chiave del resto. Tuttavia il vedere di nove ministri, sei laici, e tutti più o meno di opinioni libere, soddisfece al publico, e più ancora lo soddisfece il discorso che appena eletti volsero al papa: nel quale non solo invocavano la sollecita publicazione dello’ statuto, ma augurando che avrebbe avuto quella civile larghezza da contentare i popolari desiderii, promettevano di dargli la maggiore e migliore esecuzione, col riformare gli uffici, riordinare e accrescere la milizia, dare un sesto alla tesoreria, rafforzare l’amicizia e colleganza cogli altri principi costituzionali d’Italia, e da ultimo la quiete e sicurezza interna procacciare.

In questo, i cardinali s’adunavano in segreto concistoro per leggere e approvare definitivamente lo statuto. Quali osservazioni o modificazioni si facessero, non so. Non mancarono presagi d’uomini pratichi di cose costituzionali (fra’ quali lo stesso Pellegrino Rossi) che dicevano, essere compilato in modo da mettere il pontefice in guerra colle assemblee, e far nascere quella confusione di cose, che in effetto avvenne appena cominciato il parlamento. Quantunque molto erano altresì da scusare i poveri compilatori dello statuto romano, che dovevano render possibile quel che impossibile ad ogni mente sana e consapevole degli ordinamenti pontificii addimostravasi. Fra le tante, quattro somme difficoltà e insuperabili frapponevansi all’opera loro: il trovar modo di acconciare il sacro collegio e salvare le sue giurisdizioni: determinare la sovranità del principe in modo che restasse libero a usare quella politica che più avesse creduto vantaggiosa agl’interessi della santa sede; rendere franco lo scrivere a stampa senza togliere la censura consacrata dalla Chiesa; e in fine, che era la più grave, limitare l’opera legislativa delle assemblee così, che non dovesse trascorrere a quelle cose che avessero avuto più o meno congiunzione o relazione co’ canoni, bolle e statuti apostolici. Quanto alla prima, se ne spacciarono con questo articolo: «Il sacro collegio de’ cardinali elettori del sommo pontefice, essere senato inseparabile da lui.» Il che nella pratica voleva dire, creare due governi, uno in agguato e in contrasto coll’altro. Rispetto alla persona del principe, trasandarono di farne un capitolo a parte, come in tutti gli statuti si legge, per non essere forse costretti a dire quella parola d’inviolabilità, che nell’uso delle costituzioni moderne significa dependenza: oltre che doveva parere strano dichiarare inviolabile chi si stima infallibile. Lo intoppo della libertà dello scrivere a stampa credettero appianare dichiarando cassa la censura laicale, lasciata, intatta la ecclesiastica, e tuttavia gli scriventi e stampanti esserne tenuti; onde i pontificii invece d’una acquistarono due censure, anticipata, e punitiva. Alla terza difficoltà poi ripararono statuendo, che si potesse far proposta e discussione di leggi dalle assemblee, eccetto per quelle che riguardassero affari ecclesiastici o misti; che fossero contrarie a’ canoni e alle discipline della Chiesa; e che mirassero a variare o modificare lo statuto. E conciossiaché poche e mal determinate erano le cose negli stati romani, che non fossero di materia mista, interveniva, che con una mano quasi toglievasi que. che con l’altra si largiva. E non di meno quello statuto papale fu accolto con una di quelle grandi feste, alle quali la città di Roma erasi da quasi due anni accostumata. Tutto il maestrato civico andò la mattina al tempio di Araceli in vetta al Campidoglio, a ringraziare Dio del beneficio ottenuto: e il giorno stesso trasferì vasi a ringraziare il suo vicario che aveva fatto la concessione: seguito sempre da moltitudine di gente, conbandiere, musiche, guardie civiche e altre milizie. Gli scritto de’ giornali, che sì allo encomiare come al vituperare avevan Ja bocca ogn’ora aperta, ne fecero gran loda e presagio onon più veduta felicità; notandosi maggiori lodatori coloro che l’anno appresso più accesi di republica si mostrarono.

Pure più che le città pontificie (le quali per certo gran cosa non avevano acquistato, e forse avevano acquistato nuovo fomite d’interne perturbazioni) s’allegrarono gli altri paesi d’Italia, reputando ognuno lo statuto papale ima specie di consacrazione e raffermamente degli ordini di libertà, da che ancora il papa, bene o male, era entrato quarto fra’ principi di signoria temperata. Quindi fu nelle chiese e nelle piazze di quasi tutta Italia, e in modo straordinario e solennissimo festeggiata quella quasi pietra angolare che doveva reggere tutto l'edifizio costituzionale della penisola, non cadendo ad alcuno il dubbio che mai potesse essere revocato dopo le parole scritte in principio, e. nella fine, cioè dopo tante riserve e solennità. Nel proemio così papa Pio IX parlava.

Nelle istituzioni, di cui fin qui arricchimmo i nostri sudditi, era nostra intenzione ravvivare alcuni ordinamenti antichi; i quali furono lungamente specchio della sapienza degli augusti nostri predecessori, e poscia col volgere dei tempi richiedevano che fossero acconciati alle mutate condizioni, affinché a mostrare seguitassero quel maestoso edifizio che avevano in principio significato. In questa via procedendo ci eravamo condotti a fondare una rappresentazione di consultori di tutte le provincie, che dovesse aiutare i nostri ministri nell’opera delle leggi e nel governo dello stato; e aspettammo che la bontà del frutto fosse stata lode all’esperimentoche primi facevamo in Italia. Ma poiché i nostri vicini hanno giudicato i loro popoli maturi a ricevere il benefizio d’unarappresentazione non consultiva soltanto, anzi deliberante, non vogliamo noi fare de’ popoli nostri minore stima, né confidar meno nella loro gratitudine, non già verso l’umile nostra persona che nulla vale, ma verso la Chiesa, e questa apostolica sede, di cui Iddio ci ha commesse le inviolabili e supreme ragioni, e la cui presenza è stata e sarà mai sempre ad essid’infiniti beni cagioni. Ebbero in antico i nostri comuni il privilegio di governarsi ciascuno con leggi scelte da loromedesimi sotto l’autorità del principe: ma non consentendo la presente civiltà, che con le medesime forme si rinnovelli un ordine, in cui usi differenti separavano spesse volte un comune dall’altro, ci siamo consultati di affidare questa prerogativa a due consigli di cittadini probi e prudenti; nel primo nominati da noi, e nel secondo deputati da ogni parte dello stato, mediante una forma di elezioni attamente stabilita. I quali rappresentino le ragioni particolari di ciascun luogo de’ nostri dominii, e saggiamente le contemperino con quella grandissima di tutti i comuni e provincie, che è la ragione generale dello stato. E siccome nel nostro principato sacro, non può essere disgiunto dal bene mondano della interna prosperità, l'altro più grande della politica libertà del capo della Chiesa, onde stette altresì la libertà: di questa nazione d? Italia, così non solamente riserbiamo a noi e a’ successori nostri la suprema approvazione e publicazione di tutte le leggi che da' predetti consigli saranno vinte; insieme al pieno esercizio della sovrana autorità nelle parti, di cui col presente atto non è disposto; ma intendiamo eziandio di conservare intera la podestà nostra nelle cose che sono colla religione e morale cattolica naturalmente congiunte. Il che dobbiamo dire per assicurare tutto il mondo cristiano, che per questa nuova forma di reggimento, nessuna diminuzione patiscono le libertà e i diritti della Chiesa e della santa sede: né veruno esempio debbe mai violare la santità di questa religione, che noi abbiamo obligo e ufficio di predicare a tutto l’universo, come unico simbolo di colleganza fra Dio e gli uomini, e come unico pegno di quella benedizione celestiale, per la quale vivono gli stati e fioriscono le nazioni.

E dopo aggiunto di avere udito unanime il parere dei cardinali, a tal fine congregati, e annoverati gli articoli dello statuto, terminava: «Vogliamo e decretiamo che niuna legge o consuetudine antecedente, o diritto acquistato, o diritto dei particolari, o vizio di orrezione o surrezione, possa allegarsi contro le disposizioni del presente statuto: il quale intendiamo che debba essere quanto prima inserito in una bolla concistoriale, secondo l’antica forma, a perpetua memoria».

Alla publicazione dello statuto tenne subito dietro il decreto, pel quale la bandiera pontificia dovesse fregiarsi del segno tricolore: non senza maraviglia che il papa accettasse quella mostra avanti che il granduca di Toscana e il re di Sardegna l’avessero accettata, se non si sapesse che di queste cose erano autori i novelli ministri; la più parte de’ quali, desiderosi che lo stato si rinnovasse, traevano il cedevole spirito di Pio IX a consentire quel ch'e non avrebbe né per proprio, né per altrui consiglio voluto. Ad ogni modo tra per una ragione o per l'altra, o per molte insieme, in que’ primi mesi dell’anno quarantotto si giunse a questo, che parve miracolo: vedere tutta Italia, eccetto la parte di dominio straniero, acconciata a monarchia temperata. Qual frutto poi al bene degli stati e alla libertà d'Italia portassero le ottenute costituzioni; e come alle speranze succedettero i disinganni, alla imaginata unione le vere discordie, alle allegrezze fanciullesche i lutti serii, conosceremo ne’ seguenti libri; ai quali si apparecchia materia più grave, non migliore.

FINE DEL PRIMO VOLUME
































vai su









Ai sensi della legge n.62 del 7 marzo 2001 il presente sito non costituisce testata giornalistica.
Eleaml viene aggiornato secondo la disponibilità del materiale e del Webm@ster.