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RIVISTA CONTEMPORANEA

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ARCHEOLOGIA — BELLE ARTI—VOLUME OTTAVO - ANNO QUARTO

TORINO

TIPOGRAFIA ECONOMICA DIRETTA DA BARERÀ

Via della posta, n. 1, palazzo dell’Accademia Filodrammatica

1856

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RASSEGNA POLITICA

Ottobre 2019


I fatti proseguono a chiarire la poca efficacia, potremmo dire Vassoiata sterilità della pace intempestiva e precoce conchiusa a Parigi a di 30 marzo dell’anno corrente: in Oriente come in Occidente le difficoltà che quella pace mirava a sciogliere sussistono nella loro pienezza, anzi alle antiche se ne sono aggiunte delle altre: in Oriente come in Occidente si appalesano ad ogni tratto i pericoli che minacciano all’Europa nuove perturbazioni e nuove ragioni di conflitto. La durata della occupazione militare austriaca nelle province danubiane è fra le più recenti e maggiori difficoltà a cui accenniamo. Fin dall’epoca nella quale il Congresso di Parigi era radunato, alcuni statisti antivedevano che il governo austriaco non avrebbe mostrata molta sollecitudine nel dare ordine alle sue truppe di partire dalla Moldavia e dalla Valachia: si sa per esperienza che [Austria è tenace nei suoi propositi, e che tra le sue consuetudini non è quella di abbandonare con prontezza la signoria d’un territorio, che per trattalo o per altra ragione è venuto in sua balia; coloro adunque i quali temevano che l’Austria fosse per non dilungarsi dalle sue tradizioni anche io questa occasione, non arrischiavano un presupposto temerario: ed ì fatti attestano oggidì che non si apponevano male. Non mancò il conte Buoi di fare allora dichiarazioni esplicite e categoriche intorno agli intendimenti del suo governo: ma fin da quel momento coloro che non sono novizi affatto nelle cose politiche erano persuasi che al prometter largo nelle parole sarebbe corrisposto nelle opere l’attender corto. Difatti la Francia, l’Inghilterra ed il Piemonte, appena conchiuso il trattato, spedirono ai comandanti delle loro truppe gli ordini opportuni, affinché queste avessero a sgomberare presto non solo dal territorio russo, ma anche dall’ottomano: le tre potenze confederate e belligeranti arrecarono nell’esecuzione del trattato una precipitazione che è altamente onorevole, e che è stata un altro indizio della loro lealtà scrupolosa e delle loro mire disinteressate. Prima che il termine fissato dal trattato dei 30 marzo fosse spirato, non più un solo soldato inglese, francese o piemontese calcava il suolo dell’impero russo e dell’ottomano.

L'Austria, che durante la guerra serbò quel contegno sui generis che tutti sanno, e che ha protetto l’indipendenza della Turchia a modo suo, non ha voluto nemmen dopo la pace fare come hanno fatto le altre potenze: nei 1854 e nel 1855 non isguainò la spada a difesa de’ suoi alleati, nel 1856 non vuol conformarsi ai patti convenuti fra que’ medesimi alleati: non imitò la loro operosità durante il tempo delle battaglie, non vuole imitare oggi la loro fedeltà nella esecuzione dei capitoli della pace. Poco tempo fa le gazzette austriache officiali e semiofficiali — un po’ più un po’ meno lo son tutte — menarono gran rumore degli ordini ai partenza spediti al generale Coronini, comandante supremo delle truppe di occupazione nei Principati: e difatti questo generale partì da Bucarest e tornò a ripigliare il suo comando a Temesvar, e l’imperatore Francesco Giuseppe fece pubblicare un ordine del giorno alle truppe che stavano in Moldavia ea in Valachia, alla foggia di quelli che si usano allorché un corpo di armata ha compito, ovvero sta per compiere l’impresa alla quale era stato destinato. Tutto dunque pareva finito: i Francesi, i Piemontesi e gl'inglesi eran partiti dalla Crimea e da Costantinopoli; gli Austriaci stavano per partire dai Principati; le difficoltà di traslazione non erano per costoro di tanto momento come per i primi, ma le potenze non belligeranti non sogliono usare nei loro atti quella speditezza che arrecano quelle che hanno combattuto: e poi con certa gente non si va tanto per il sottile: il fatto della partenza degli Austriaci dai Principati non sperandosi fosse per essere così certo, appagava i desiderò di tutti, segnatamente quelli delle popolazioni, e non pareva vero di avere a ripetere in questa occasione il vecchio adagio: meglio tardi che mai. Se non che i trattati prescrivono, le potenze dispongono, le popolazioni desiderano, e l’Austria non è sempre solita a conformarsi alle prescrizioni de’ trattati, alle disposizioni delle potenze, ai desiderii delle popolazioni: un bel giorno, dispacci elettrici giunti da Vienna e dalle Bocche del Danubio recano la notizia che le truppe austriache ingrossano a Galaz, ad Ibraila ed in altri punti del territorio danubiano, e che, invece di partire, ricevono rinforzi. Non è vero, non è possibile; questa notizia è uno di quei tanti palmipedi sciancati, che di tempo in tempo spiccano il volo dagli uffizi della telegrafia viennese: così dicevano tutti; ma la incredulità fu di breve durata: a capo di pochi giorni la notizia, che pareva incredibile e che si giudicava non fosse vera, diventò certa e positiva. Tant'è: l’articolo 31 del trattato di Parigi prescrive che le diverse province dell’impero ottomano abbiano ad essere assolutamente sgombrate dalle truppe straniere a capo di sei mesi dal giorno in cui fu conchiuso il trattato, od anche prima se è possibile: siam giunti alla fine di ottobre; tutte le parti interessate hanno adempito al loro obbligo: tutte, tranne una sola: ed alla fine di ottobre 1856, a dispetto dell’articolo 31 del trattato dei 30 marzo, le truppe austriache stanziano ancora nella Moldavia e nella Valachia a protezione di quei poveri abitanti, i quali di quella protezione farebber senza assai volentieri, e che preferirebbero di poter augurare al più presto il buon viaggio ai loro tenerissimi protettori.

L’annunzio della determinazione del governo austriaco, comeché non fosse né inaspettato, né impreveduto, ha però fatto gran senso in tutta Europa, ed abbiam certezza che il governo francese si è affrettato a chiederne spiegazioni al gabinetto di Vienna. Dicesi anzi, e crediamo con fondamento di vero, che la nota su questo argomento, presentata al conteBuoi dal barone Bourqueney, ambasciadore francese presso la corte d’Austria, sia dettata in termini assai energici e che implicano la disapprovazione più aperta che si possa desiderare del procedere del governo austriaco. Così adoperando il governo francese non solo ba esercitalo un diritto ed adempito un dovere, ma ha pure usato un linguaggio che ben si addiceva a chi ha con tanta esattezza fornito il proprio obbligo nell’adempimcnto delle prescrizioni contenute nei capitoli della pace di Parigi. Le truppe francesi essendo partile dal territorio ottomano entro, anzi prima del termine fissalo dal trattato, il governo imperiale poteva parlare alto e forte al governo austriaco, e richiamarlo, come na indubitatamente fatto, alla osservanza dei patti convenuti nel Congresso parigino. Il conte Buoi non si è dato per vinto, ed ora la controversia è sempre sospesa. Le ragioni che l’Austria allega a difesa del suo procedere sono speciose, ma nessuna di esse regge a pochi minuti di riflessione: l’Europa che ha versato il sangue devsuoi più eletti soldati e spesi tesori immensi per infrenare l’ambizione russa ed impedire la violazione del territorio di uno Stato indipendente, vorrà ora far lecito all’Austria ciò che giustamente non ha voluto permettere alla Russia? Una gazzetta alemanna con rara disinvoltura assevera che l’Austria non intende prolungare l’occupazione militare nei Principati, e che ora quella potenza non ha fatto altro provvedimento se non quello di sospendere la partenza delle sue truppe da quelle province: si può forse supporre che l’Europa sia per menar buono questo genere di argomentazione? Il governo austriaco non solo si studia di difendere la legalità dell’occupazione nei Principati, ma pretende di esserne lodato come di opera giovevole alla Turchia, ed utile, se non necessaria, alla tutela della dignità e dell’indipendenza dell’Europa. I Francesi, gli Inglesi ed i Piemontesi hanno distrutto Sebastopoli ed annientata la potenza navale della Russia nel mar Nero: ma se le truppe austriache vanno via dai Principati, l’impresa dovrà essere ricominciata da capo. Sebastopoli risorgerà dalle sue rovine, le poderose flotte moscovite muoveranno alla conquista di Costantinopoli dal lago Valpuc! Continuando a proteggere gli abitanti delle provincie danubiane, l’Austria protegge l’equilibrio dell’Europa: l’Austria non impedì nel 1853 ai Russi di valicare il Pruth, non entrò nei Principati se non quando le truppe dello czar li ebbero sgomberati, ma oggi è risoluta di opporre valida resistenza ai Russi medesimi, qualora venisse ad essi il ghiribizzo di rinnovare il tentativo dei 2 luglio 1853. Qualche maligno potrebbe aggiungere che ora i Russi non pensano né punto né poco a dar opera al rinnovamento di quel tentativo, e che quindi la resistenza dell’Austria può essere paragonata, senza commettere nessuna ingiustizia, ad una delle tante imprese compite dal famoso hidalgo, di cui Michele Cervantes narrò le gesta: ma come nutrir lusinga di suscitare dubbiezze con questo presupposto sulle intenzioni disinteressate del governo austriaco? non può forse il conte Buoi rispondere vittoriosamente, ricordando le espressioni di una eroina del Teatro Francese: Le ciel n’est pas plus pur que le fond de mon coeur? Noi non crediamo di esagerare affermando che tutta la difesa del governo austriaco, nella contingenza sulla quale versa il nostro discorso, si riduce in sostanza alle celie di cui favelliamo. E che celie, Dio benedetto! Chi ce lo doveva dire? dopo la guerra di Crimea, dopo la pace di Parigi essere condannati ad essere spettatori di un episodio cosi grottesco coi né quello di cui si discorre! Frattanto la commissione incaricata di determinare la nuova linea di frontiera tra la Moldavia e la Bessarabia ha dovuto interrompere i suoi lavori, e quella che deve esaminare le condizioni dei Principati, e proporre in seguilo gli espedienti più opportuni per provvedere all’ordinamento durevole e giusto di quelle province, non ba ancora potuto dar mano ai suoi. L’Austria si avvale del primo fatto per inferirne la necessità della occupazione, la quale alla sua volta è causa del secondo.

La ragione per la quale la prima di dette commissioni ha sospeso le sue deliberazioni è il dissidio insorto a proposito di Bolgrad. 11 Con§resso di Parigi aveva deciso che nella porzione di Bessarabia ceduta alla Russia alla Moldavia dovesse esser compresa la località denominata Bolgrad. La commissione, essendosi recata sopra luogo, ha scoperto che invece di un Bolgrad ve ne sono due, e che uno ai essi, collocato a poca distanza dal lago Valpuch, è punto abbastanza importante. Qual è il Bolgrad che il Congresso ha voluto accennare? il Bolgrad insignificante od il Bolgrad importante? Con le loro carte alla mano i commissari russi dicono: il Congresso ha parlato del primo Bolgrad: altri commissari rispondono: il Bolgrad, di cui favellate voi, non ha importanza di sorta, laddove l’altro ne ha molta: il lago Valpuch comunica col Danubio, sarà quindi facile a chi lo possiede stabilirvi dei battelli a vapore, e cosi rendere illusoria la libertà della navigazione del Danubio decretata dal Congresso: dunque questo ha voluto indicare il Bolgrad del lago Valpuch, e non l’altro. Notisi che il pezzo di territorio, il quale è l’oggetto in controversia, non eccede la lunghezza di tre chilometri. Il governo francese non crede, da quanto ci si assicura, che le domande del commissario russo siano al tutto infondate: il governo inglese all’incontro in questa tenacità della Russia a non voler cedere tre chilometri di territorio ravvisa un motivo di dubitare della premura di quella potenza nel mandare ad esecuzione le clausole del trattato, ed esige cne su questo particolare la Russia sia costretta a rinunciare alle sue pretensioni. Si è perfino proposto che la questione venga sciolta dal Congresso, ma questa sentenza non è stata accolta, e per ora almeno la seconda convocazione del Congresso non sarà fatta. A dirla schietta, sembra a noi che in questa faccenda si voglia fare del chiasso fuor di proposito: much odo about nothing, come dice il poeta inglese, e che ci sia un po’ di torto da tutte le parti, da quella della Russia, che tra due interpretazioni plausibili di un articolo del trattato si appiglia tenacemente a quella che più conviene ai suoi interessi, e porge appicco a dubbii non irragionevoli sulla sua buona fede; e da quella nell'Inghilterra pure, che ravvisa tanta importanza in tre chilometri di territorio in più od in meno. L’Austria non ha perduto tempo ad avvalersi della propizia occasione, e, memore dell’antica massima: fra due litiganti il terzo gode, si è infiammata di repentino zelo per la indipendenza della Turchia, e per la conservazione dell’equilibrio europeo, l’una e l’altra poste a repentaglio da Bolgrad! Che fortuna poter far dimenticare, se non altro per qualche mese, quella molesta questione italiana, poter gittare un po’ di zizzania tra la Francia e l'Inghilterra. Bolgrad è ora nelle mani del governo austriaco ciò che è un terno al lotto per un povero diavolo che vede appropinquarsi inevitabilmente l’ora fatale della bancarotta! Alcuni periodici hanno ricordato con commendevole opportunità gli antichi disegni dell’Austria verso i Principati Danubiani, ed anche noi siam persuasi che quando quella potenza potesse pigliarsi un pezzo di Valachia o di Moldavia senza cedere una spanna di altri territorii, si rassegnerebbe senza fatica a questa eventualità: altro è permutare, altro e ingrossarsi, e quel ministro imperiale che rispondeva non è guari con una lepidezza a chi gli diceva potersi permutare i Principati con altre provincie europee, e che si sdegnava al pensiero di esser sospettato proclive a mettere nella stessa bilancia ii paese delle belle arti con quello che poco cortesemente egli addimanaava dei maiali, non mormorerebbe di certo qualora gli fosse dato acquistare il paese de’ maiali senza perder (niello delle belle arti. Ma nelle odierne emergenze l’ambizione non è la molla principale delle risoluzioni del governo austriaco: la signoria assoluta dei Principati può essere la conseguenza probabile della occupazione attuale, ma per ora almeno non ne è lo scopo diretto ed immediato. A che mira dunque l’Austria con questa occupazione? La risposta a questo quesito è la seguente.

L'Austria ha un bel negare tutti i giorni che la questione italiana è un ente di ragione, un’astrattezza intangibile; in fondo al cuor suo è persuasa invece che quella questione è viva e reale, e dev’essere sciolta un giorno o l’altro secondo giustizia e secondo i desiderii delle nazioni. Dunque l’Austria cerca tutti gli espedienti immaginabili per procrastinare lo scioglimento di quella questione, menando le cose per le lunghe, facendo suonare alto la necessità indeclinabile del maiora premunì. E se il conte Buoi riuscisse nell'intento di annegare la questione italiana nelle acque del lago Jalpuch o di farla andare a secco contro l’arido inospile scoglio delusola de’ Serpenti non avrebbe forse egli il diritto di menar vanto dell’opra sua, come di capolavoro d’arte diplomatica? Anche un semplice aggiornamento è un guadagno di non lieve entità, e gli statisti viennesi sono stati sempre vaghi di quella politica a vitalizio, che si compendia nel famoso molto après moi le déluge. La permanenza della occupazione nei Principati suscita gravi controversie, allarma la Francia, irrita la Russia, infinocchia la Turchia, getta dubbiezze nell’animo dell'Inghilterra, e perciò distoglie l’attenzione dalla questione italiana. Ecco uno dei motivi che, a senso nostro, ha suggerito agli statisti austriaci di appigliarsi alla risoluzione di cui si accenna. Un altro motivo è la pressione che Toccupazione ha esercitato e non Cuò mancare di esercitare sulle popolazioni rumene: la presenza delle aionette austriache toglie ad esse la facoltà di esprimere i loro desiderii con libertà e con franchezza, e colloca il governo turco in condizioni troppo visibili di dipendenza verso la potenza protettrice: di che è indizio significante il decreto di revoca della legge sulla stampa promulgata dell’exospodaro della Moldavia principe Gregorio Ghika, il quale è stato imposto al caimacan di quella provincia dal governo ottomano, che alla sua volta ha obbedito all’impulso che non gli veniva dato occultamente dall’internunzio austriaco a Costantinopoli, barone Prokesch von Osten. I Moldavi non indugiarono ad approfittare della libertà di dire e di scrivere, che ad essi veniva conceduta, ed esprimevano senza mistero la loro brama ardente di congiungersi con la Valachia in uno stato solo. Cessata la libertà di stampa, mancherà alla causa del regno rumeno l’appoggio più gagliardo e più efficace. L’Austria mirava a questo scopo, e l’ha raggiunto: con la permanenza della occupazione vuole renderlo più certo e sicuro. La questione italiana, il cui scioglimento è il più vagheggiato desiderio del Piemonte, che è collocato a piè delle Alpi e sulle rive del Po e del Ticino, aggiornata: la quistione rumena, il cui scioglimento è il più vagheggiato desiderio di quel Piemonte che vuol sorgere a piè dei Carpazii e sulle rive del Danubio e del Pruth, annientata. ecco il duplice scopo che l’occupazione mira a conseguire. Ma proseguiamo. 11 governo inglese è meno confidente di quel che sia il Francese intorno agl’intendimenti del governo russo: la resistenza del commissario russo relativamente alla controversia in Bolgrad porge appicco e fondamento a quella diffidenza: dunque si dice all’Inghilterra: noi stiamo nei principati Danubiani, perché la Russia, d’accordo questa volta con la Francia, vuol valicare il Pruth di bel nuovo, e minacciare una seconda volta la sicurezza e la indipendenza dell’Europa non meno che la integrità dell’impero ottomano. Il barone Bourqueney protesta energicamente: che monta? gli si risponde col parere del suo collega sir Hamilton Seymour, al quale la occupazione non dà tanto fastidio. E poi questa discrepanza di opinioni crescendo può sortire alla fine il bramato effetto di disfare l’alleanza anglofrancese, e di riannodare l’antica alleanza anglo-austriaca. Ecco un terzo e potente motivo dell’occupazione austriaca nei Principati. Nè si dimentica di rivolgere una carezza alla Russia, e sapendo la predilezione di questa potenza verso il regno ellenico, si dice io non vado via da Bukarest e da Jassv, finché Francesi ed Inglesi stanno ad Atene o nel Pireo.

Questi sono i calcoli, questi i disegni del governo austriaco: questa è la significazione politica della occupazione nei Principati. Noi però siamo fermamente persuasi, che il risultamento di questi artifizi sarà diverso, anzi opposto a quello che coloro i quali vi danno opera se ne aspettano. La lega anglo-francese è passata per esperimenti più difficili assai di quelli che siano gli attuali: e da ciascheduno di essi è uscita più forte, più vigorosa che prima: né l’alleanza cementata dal sangue di tanti prodi nei campi dell’Alma, di Balaklava e d’Inkermann. e suggellata dalia vittoria sulle rovine fumanti di Sebastopoli, sarà disciolta in grazia da tre chilometri di terreno in Bessarabia: né tutta la abilità diplomatica del conte Buoi avrà facoltà di dare ad intendere all'Europa, che la potenza la quale non ha osato sparare un sol colpo di archibugio quando era tempo, sarebbe ora risoluta a far la guerra per muovere alla conquista di Belgrad! e col durare della lega anglofrancese le sorti della civiltà e quelle della quistione italiana, le cui attinenze con la civiltà son tante e cosi poderose, non corrono nessuna sorta di pericolo.

Le condizioni di cose finora descritte non ci sembra porgano indizi irrefragabili dell’intima alleanza tra l’Austria e la Francia, né della efficacia tanto meravigliosa e tanto decantata del trattato dei 15 di aprile: né la occupazione militare nei Principati è la sola ragione di dissidio e di malumore tra quei due governi. La questione della navigazione danubiana porge altri e non lievi motivi di controversia; poiché è cosa indubitata cne il governo austriaco fa quanto è in poter suo perché, non ostante le decisioni del Congresso ea a malgrado del significato preciso e chiaro degli articoli del trattato di Parigi, i quali vogliono la libertà assoluta di navigazione a prò di tutte le bandiere, la navigazione da. nubiana sia sempre ciò che è stata per lo passato, vale a aire un privilegio ed un monopolio delle compagnie austriache. Oramai la esistenza della circolare della compagnia del Lloyd ai suoi agenti intorno al viaggio del battello a vapore francese il Lyonnais non è posta in dubbio da nessuno, e le gazzette austriache ne hanno pubblicato il testo. Vi è detto chiaro e tondo che il Lyonnais non deve ricevere nessuno incoraggiamento, nessuna agevolazione e nemmeno aiuti. tranne nel solo caso di pericolo certo ed imminente di vita. E l’argomento di maggiore entità allegato a difesa di quel documento consiste nel dire che era una circolare segreta e confidenziale agii agenti della compagnia del Llovd! Oltre il fatto di quella circolare avvi pure quello della revoca del decreto di privilegio per la navigazione del Sereth e del Pruth, conceduto al capitano Magnan dall’exospodaro Ghika: il governo ottomano ha fatto questo provvedimento per accondiscendere alle vive istanze del console d’Austria a Jassv e del barone Prokesch von Osten, internunzio austriaco a Costantinopoli; e notisi che questo atto è puramente arbitrario e non può essere giustificato nemmen coi cavilli da qualsiasi articolo del trattato de 30 marzo, il quale non fa nessuna menzione de’ confluenti del Danubio. Il signor Thouvenel ha scritto di buon inchiostro al ministro degli affari esteri del sultano, ma senza cavarne nessuna sorta di costrutto: si aggiunge anzi che il diplomatico francese non ha mancato di parlare su questo argomento con risentita franchezza al barone Prokesch von Osten, e che in seguito a ciò e ad altri fattarelli poco edificanti, le relazioni personali fra i due ambasciadori sieno diventate assai poco amichevoli. Dov’è dunque questa portentosa lega austro-francese, che doveva togliere il posto dell’anglo-francese ed essere il talismano salvatore dell’Europa, il suo usbergo contro Russi e contro rossi, contro l’Inghilterra e contro i fautori di scompigli e di disordini? In Oriente non vediamo per fermo vestigio di quella lega: e in Occidente? qui non solo non vediamo cosiffatte vestigia, ma contempliamo con soddisfazione la testimonianza luminosa dell’opposto, vale a dire dell'alleanza anglo-francese. Se sono possibili i dissiuii intorno a punti secondarii tra la Francia e l’Inghilterra, se tre chilometri di Bessarabia paiono cosa di gran momento all’Inghilterra e di poco alla Francia, ciò non muta punto le condizioni dell’alleanza tra le due nazioni, la quale poggia ad un tempo su principii ed interessi comuni, ed è sempre voluta da’ due governi parimente che dalle due nazioni. Certamente sono in Francia alcuni a cui l’alleanza non va a garbo e che non si lasciano sfuggire le occasioni per conseguire il loro intento, come sono in Inghilterra alcuni giornali che non sempre serbano nel loro linguaggio 1 riguardi dovuti ad un sovrano alleato: ma anziché scuotere l’alleanza, queste cose giovano a porne in maggiore evidenza l’utilità e la necessità. Le vecchie alleanze son tutte disfatte: e nell’attuale indirizzo delle cose, degli eventi e dell’opinione pubblica in Europa, una sola alleanza è logica, è naturale, è necessaria, quella tra Francia ed Inghilterra: né una concordanza momentanea sulla questione dell’ordinamento dei principati può rialzare dalle sue rovine l’alleanza angloa-ustriaca, né un accordo su un punto secondario, com’è quello di Bolgrad, può dar vita all’alleanza russo-francese. Ad ogni modo i fatti sovrastano alle dubbiezze ed alle congetture, ed il fallo del modo di procedere concorde della Francia e dell'Inghilterra nelle faccende di Napoli attesta che l’alleanza anglo-francese, checché si dica e checché si faccia, a dispetto delle prave opere di alcuni, dei malvagi desiderii di altri e degl'insidiosi conati di certuni, sussiste, e durando si rafferma e si assolida. Il  governo napolitano ha fatto assegnamento sulla eventualità del disfacimento della lega tra Francia ed Inghilterra; ma ora dev’essere all’intutto disingannato.

La vertenza napolitana è un corollario della tornata del Congresso degli 8 aprile 1856: dopo ciò che in quel giorno memorabile dissero il plenipotenziario francese, conte Walewski, ed il britannico, conte Clarendon, non era lecito accogliere il presupposto, che tutto avesse a Unire con vane parole: e noi siamo persuasi che lo stesso governo napolitano non ha mai nutrito questa lusinga. Due grandi nazioni, due governi come il francese e come l’inglese non parlano indarno, e quando hanno alzata la loro voce, non posano finché lo scopo dei loro discorsi non sia pienamente raggiunto eu attuato. La Francia e l’Inghilterra, appunto perché vollero sinceramente la pace, dichiararono solennemente che puntello, fondamento essenziale di essa pace doveva essere la giustizia: nel regno di Napoli non esiste nemmeno l’ombra della giustizia, anzi impera e comanda l’opposto; dunque, in virtù di logica necessità, le potenze che vollero la pace perché fondala sulla giustizia, non potevano e non dovevano astenersi, e difatti non si astennero, dal far pratiche per promuovere nell'estremità meridionale d’Italia l’attuazione di quei principii, senza cui non è né sicurezza, né tranquillità, né dignità per l’Europa e per il mondo incivilito. La Francia e l’Inghilterra adoperando a questa guisa sono conseguenti con le dichiarazioni de’ proprii plenipotenziari, e non si fermeranno di certo a metà del cammino. La stessa longanimità che esse arrecano nell’attuazione de’ loro disegni, la lentezza con cui procedono, scolpiscono il proposito deliberato e maturo dal quale le loro risoluzioni s’informano. Il Congresso compì i suoi lavori nell’aprile di quest’anno; nel maggio susseguente la Francia e Inghilterra incominciarono le loro pratiche verso il governo napolitano. Queste pratiche sono state proseguite fino ad oggi: con quare risuscitamento non occorre dire, poiché i documenti diplomatici che ne dànno contezza sono stati resi di pubblica ragione, ed oramai ogni uomo imparziale può recar giudizio con piena cognizione di causa sui termini e sulle condizioni attuali di quella vertenza. 11 conte Walewski ed il conte di Clarendon hanno dato, a nome dell’imperatore dei Francesi e della regina d’Inghilterra, consigli savi, umani e prudenti al governo napolitano, e nell’esprimere il loro concetto hanno adoperate le forme più blande, più cortesi e più decorose che possano imaginarsi: hanno additato al governo partenopeo i pericoli e la ingiustizia intrinseca del sistema per esso praticato, hanno ricordato i danni che dalla permanenza di quel sistema possono derivare all'Italia ed a tutta Europa, e muovendo opportunamente dalle premesse enunciate nel Congresso di Parigi, hanno conchiuso esortando quei governo a mutar sistema, a schiudere le porte delle prigioni e delle galere, e segnatamente a provvedere all'equa e regolare amministrazione della giustizia. Non si poteva dir di meno; né si poteva adoperare una forma che fosse più conciliante. Il governo napolitano ha risposto negando alle potenze occidentali il diritto d'ingerirsi nelle sue faccende: le due note diplomatiche, testà pubblicate e firmate dal commendatore Luigi Carafa, non sono se non l'amplificazione più o meno decente, più o meno viziosa dello stesso tema. La vostra casa, dicono il conte Walewski ed il conte Clarendon al governo vesuviano, arde, e noi vi scongiuriamo a spegnere le fiamme, che potranno divampare incendio formidabile in tutta Italia e in tutta Europa. II commendatore Carafa non si cura di rispondere, se la casa arda realmente oppure no. ma dice a chi gli porge il pietoso avvertimento: voi non avete il diritto di veder fiamme ed incendi fuori di casa vostra. Ad un avvertimento autorevole e preveggente si risponde con un’asserzione assurda e gratuita d'incompetenza. Dilungandosi anche nella politica estera da quei principii di morale e di giustizia che da un pezzo ha disertati nella politica interna, il governo napolitano osa dichiarare all’Europa civile che esso ha diritto di adoperare verso i proprii sudditi come meglio stima, e che i difensori debordine e dell'equilibrio dell’Europa, vale a dire i custodi della giustizia, non hanno facoltà di fiatar sillaba, senza rendersi colpevoli del delitto di violazione della indipendenza degli Stati secondari. Non è da stupire di questa tattica del governo partenopeo: reca bensì sorpresa vedere che alcuni statisti stranieri abbiano rimirata la cosa sotto l’aspetto medesimo, e non abbiano saputo cogliere il divario essenziale che corre tra intervento ed intervento, tra quello che è motivato da fine politico e quello che deriva da ragioni di giustizia e di umanità: il primo de’ quali è tanto pericoloso e funesto, quanto il secondo è utile, giusto e, diciamolo senza velo, doveroso. Che cosa si direbbe di quel carabiniere che per malintesa osservanza verso la libertà individuale de'  cittadini non arrestasse un masnadiero colto in flagrante delitto? Si direbbe da tutti che quel carabiniere è pazzo, ovvero che trasgredisce i suoi doveri, poiché la libertà individuale cessa là dove comincia il delitto, e chi manca alle leggi si pone da sé fuori delle leggi medesime, e non ha più diritto d’invocare a suo prò la loro tutela. 1 delitti del governo napolitano sono più che flagranti; ed ora si griderebbe contro le potenze che, stanche di tollerarli, vogliono adempire un atto di pretta giustizia? Che cosa ci ha di comune tra il principio giustamente riverito dalla indipendenza degli Stati secondari e le ammonizioni date ad un governo che si fa beffe di ogni legge umana e divina, e che innalza a dignità di virtù civiche la menzogna, il giuramento falso, l’amministrazione delle bastonate per via economica? che adopera ad istrumenti di regno lo spionaggio e la delazione? che confiscale proprietà de’ cittadini a dispetto dello spirito e della lettera delle leggi? che di ogni prigione fa un supplizio di tutti i momenti, e non uccide le sue vittime ad un tratto, per darsi il diletto di ucciderle ad ogni momento? che del testimonio falso fa un dignitario dello Stato? li governo napolitano richiede il diritto di mal fare, la indipendenza, la impunità e la glorificazione del delitto: è dunque illecito l’intervento della Francia e dell'Inghilterra che vogliono far cessare questa mostruosità? Questo e non altro è il problema.

Frattanto le legazioni di Francia e d'Inghilterra sono state richiamate da Napoli, ed il Moniteur Universel nel suo numero dei 20 corrente ha dichiarato i motivi che hanno suggerito alle due potenze le risoluzioni alle quali si sono appigliate. Quella dichiarazione è importantissima t perché enuncia la quistione nei suoi veri termini e scolpisce sulla fronte del governo napolitano un marchio di vituperio incancellabile. Fedeli interpreti dei decreti dell'opinione del mondo civile, i rettori della Francia e della Gran Bretagna dichiarano oggi solennemente al cospetto del mondo, che il governo napolitano è uno dei perturbatori attuali della pace dell'Europa: in tal guisa la formola del signor Gladstone, essere quel governo la negazione di Dio eretta a sistema, riceve la consacrazione di una sanzione officiale. La dichiarazione del Moniteur adunque è un atto di giustizia solenne: e se è importante assai sotto l’aspetto politico, sotto il riflesso morale è di gran lunga più rilevante. Ea ora vadano le flotte nella baia di Napoli, oppure rimangano nel porto di Tolone ed in quello di Malta, ciò poco monta: gli eventi proseguiranno il loro corso regolare e si andranno svolgendo con la successione lenta ma sicura del sillogismo.

Non occorre dire quale sia stata la parte recitata dall’Austria nelle diverse vicende della vertenza vesuviana: ha voluto accontentare tutte le parti, e non ha appagata nessuna: non aveva autorità per parlare al governo di Napoli a nome dei principii di giustizia, né le sue dichiarazioni potevano ispirare, come non hanno ispirato, fiducia alle potenze occidentali. Il barone Hiibner ed il generale Martini sono andati e venuti giù e su da Vienna a Napoli, e che cosa hanno fatto? Un buco nell'acqua. Nè il governo partenopeo si è arreso ai suggerimenti della diplomazia austriaca, né i governi occidentali hanno dato ascolto alle sue rimostranze. La mediazione austriaca non ha avuto altra esistenza, se non quella che le fantasie compiacenti delle gazzette viennesi le hanno data. Ne crediamo che la circolare del principe Alessandro Gortschakoff, in data di Mosca 2 settembre, della quale si è menato tanto chiasso, possa arrecar mutamenti essenziali nello stato delle cose: se ci è stato qualche diplomatico soverchiamente zelante, il quale abbia stimato interpretare rigorosamente ed alla lettera quella circolare, pare cosa indubitata che lo stesso governo russo non parteggia per questa interpretazione, e che gli schiarimenti dati in proposito dal barone Brunnow al conte Walewski abbiano rimossa qualsivoglia incertezza. Ad ogni modo, se c'è qualche governo che possa lodarsi della circolare moscovita, non sarà di certo l'austriaco. Quella curiosa frase, la Russie ne bande pas, mais elle se recueille, ha dovuto segnatamente somministrare al conte Buoi argomento di lunghe e non sempre consolanti meditazioni, tanto più che ad essa son commento abbastanza significante le parole rivolte dallo czar Alessandro 11 al principe Paolo Esterhazv, e perfino i beauxmots che di tratto in tratto son pronunciati da alcuni de'  personaggi più cospicui della corte di Pietroburgo. Rispetto poi alla vertenza napoli tana, la circolare russa non ha sortito, né poteva sortire alcun effetto sulle risoluzioni delle potenze occidentali, come non ha potuto destare cagioni di eccessiva contentezza nell'animo dei rettori partenopei. Il principe Gortschakoff si restringe a disapprovare in massimali contegno assunto dalla Francia e dall'Inghilterra verso Napoli, ma là sua disapprovazione non oltrepassa i limiti platonici, e se a Gaeta si aspetta che, in seguito alle dottrine svolle nella circolare di cui favelliamo, un naviglio russo sia per salpare da Cronstadt per recarsi a far crociera nelle acque partenopee, con lo scopo di proteggere quella bravamente che tiene a'  suoi stipendi i Jervolino ed i Pierro, e dà al capitano Acuti, che con puntualità li eseguisce, quegli ordini che tutti sanno, se a Gaeta si vive in questa aspettativa, sarà un aspettare alquanto lungo. Crediamo bensì — e ciò si comprende agevolmente — che il governo russo abbia fatto e faccia tuttora molte pratiche per comporre pacificamente la vertenza insorta fra il governo ai Napoli e le due potenze occidentali; ma né la circolare dei 2 settembre accenna alla eventualità di un intervento russo a favore del governo delle Due Sicilie, qualora fossero dichiarate le ostilità, né questa eventualità è fra le cose prevedibili nelle odierne condizioni della Russia e dell'Europa. La Russia che, non è guari, conchiudeva la pace con la Francia e con l’Inghilterra, e che si mostra oggi assai sollecita di stringere vincoli di amicizia intima, se non allo stesso, grado con entrambe quelle potenze, indubitatamente con la prima di esse, non si appiglierà di certo ad opposte risoluzioni per proteggere il governo napolitano. Il solo e vero protettore, e diciamolo senza più, il protettore naturale del governo napolitano è il governo austriaco: per ragioni d'interessi, fra i quali primeggia quello della propria conservazione, l’Austria deve proteggere, come ha protetto finora, il governo partenopeo; e noi dicemmo altra volta, ripetiamo oggi, che fra i motivi che hanno consigliato ai governanti delle Due Sicilie di non accogliere le rimostranze fatte dalle potenze alleate, il maggiore ed il più efficace è appunto quello che scaturisce dalla certezza che essi hanno di poter fare assegnamento sull’aiuto austriaco. Tua resagitur: ha potuto dire, e forse ha detto, il commendatore Carafa al barone Hùbner ed al generale Martini.

Dopo avere parlato della questione dei Principati e di quella di Napoli, rimane a dir poco o niente sulle altre questioni politiche che si agitano attualmente in Europa. Le faccende del Montenegro non hanno fatto un sol passo: la Turchia accenna a preparativi bellicosi contro i Montenegrini, e questi alla loro volta non ristanno dall'apparecchiarsi alle difese: ma non pare sieno imminenti le ostilità. Il Montenegro è uno de’ campi dove più cozzano gl'influssi moscoviti contro gli austriaci. La questione di Neuchatel dà molto da scrivere ai diplomatici prussiani. In Ispagna poi c’è stato uno di quei mutamenti subitanei di scena come non succedono che in quel paese soltanto, il paese privilegiato degli eventi impreveduti. Il maresciallo O’Donnell, conte di Lucena, presidente del consiglio dei ministri, spedi ordine al maresciallo Serrano, ambasciadore spagnuolo a Parigi, di vidimare il passaporto per la Spagna al maresciallo Narvaez, duca di Valenza: questi si avvalse senza indugio della facoltà che gli era conceduta e tornò a Madrid: appena giunto si recò dalla regina che l’accolse affabilmente, ed invitollo ad una festa di corte, dove fu argomento di speciali onoranze. Il conte di Lucena chiese allora alla sovrana se egli oppure il duca di Valenza fosse il primo ministro; e siccome la risposta non fu oltremodo soddisfacente, il presidente del consiglio e gli altri suoi eolleghi offrirono le loro demissioni, le quali vennero accettate. Pochi momenti dopo il duca di Valenza aveva incarico di comporre la nuova amministrazione, Faccettava e lo compiva in brevissimo volger di tempo, scegliendo a suoi colleghi il marchese Pidal, il signor Barzanallano, il generai Lersundi, il signor Nocedal, il generale Urbistondo, il signor Movano ed il signor Sejias Lozano. Il nuovo ministero si affrettava a disfare con la massima celerilà il maggior numero dei provvedimenti fatti dai suoi antecessori; e, per procedere logicamente, incominciava col dichiarare nullo l’atto addizionale alla Costituzione del 1845, rimessa in vigore la legislazione provinciale e municipale di quell’anno, ripristinato nella sua pienezza ed efficacia il Concordato. Ma avendo compito con tanta prontezza tutte queste imprese, gli si chiedeva di non {stancarsi e di prescrivere la restituzione de’ beni ecclesiastici venduti dal 1833 in poi. E qui nuovo colpo di scena: nuova catastrofe finora senza scioglimento. Il  maresciallo Narvaez dice alla regina che un decreto di quella fatta non poteva essere suggerito se non dai nemici della dinastia. Non è possibile, risponde la regina, poiché me l’ha consigliato il re: e questi, chiamato, accorre e conferma le dichiarazioni della regina. Il maresciallo si adira, protesta, offre la demissione; la quale è accettata, come pochi giorni prima era stata accettata quella del maresciallo O'Donnell. Giustizia distributiva! Il marchese di Viluma è invitato a comporre la nuova amministrazione, a patto che quel decreto venga promulgato: ma egli rifiuta, allegando non essere ancora opportuno il momento. Alla regina Isabella non rimaneva altra elezione se non quella di invitare l’arcivescovo di Toledo ad assumere l’incarico di comporre il ministero, oppure di richiamare di bel nuovo il maresciallo Narvaez: per ora tra questi due partiti è stato scelto il secondo: ma il sipario non è ancora calato, e si potranno ancora ammirare nuovi e portentosi effetti scenici. Le tradizioni drammatiche di Lope de Vega e di Calderon de la Barca sono passate in Ispagna dal teatro nelle regioni politiche: ma se alla fine il pubblico perdesse pazienza e chiedesse la catastrofe finale, che direbbero e che farebbero gli autori del dramma attuale? Ma gli autori, di cui discorriamo, appartengono al novero di quei tali che nulla dimenticano e nulla imparano.

La morte ci ha rapilo in questi ultimi giorni uno de’ nostri migliori: quel gran galantuomo che era il generale Giacinto Collegno non e più: la sera de’ 29 settembre scorso, dopo molli mesi di lenta e feral malattia, spirava nella sua villa di Baveno sul Lago Maggiore, dove era andato a cercar riposo e, purtroppo invano! la salute. Noi non diremo di quanta entità sia questa perdita; ci sono dei fatti, che le parole più eloquenti non hanno facoltà di esprimere adequatamente, e quando noi abbiam detto che Giacinto Collegno non e nel numero de’ vivi, non possiamo dir di più. Un giorno speriamo poter narrare per filo e per segno quella nobile vita: oggi, ci si perdoni questo egoismo, non ci regge l’animo a far altro se non a pensare alla grande sventura che ci ha colpiti, alla perdita irreparabile che abbiamo patita. Giacinto Collegno fu durante tutta la sua vita l’esempio luminoso della inesauribile virtù che l’uomo attinge nella coscienza del dovere: questa coscienza fu l’angelo tutelare degiorni di quell’ottimo uomo, la ispiratrice di tutti i suoi atti, lo spirito informatore di tutte le sue parole: dal primo momento in cui nacque alla ragione, fino a quello in cui spirò, la sua vita si raccoglie e si scolpisce in un solo concetto: fedeltà al dovere. Soldato e cittadino, esule e legislatore, scienziato e statista, non conobbe mai, non praticò altra norma se non quella del dovere. Patì ogni sorta di persecuzione e di miseria con serenità invitta: accettò dignità ed onori con ischielta semplicità: sempre per dovere: persecuzione ed onoranza furono per lui mezzo e non fine: ninno più ai lui era alieno da quella rettorie» dell’eroismo che ha travolto tanti intelletti ed ottenebrate tante coscienze. Quindi l’indole sua era ferina e irremovibile, e ad un tempo condiscendente e pieghevole; perché non patteggiò mai con l'ingiustizia né col vizio, anche quando eran potenti; non si lasciò mai soggiogare dal prestigio degli avvenimenti, ma in pari tempo non mancò mai di porre a calcolo la diversità dei tempi, né di far tesoro degli insegnamenti di ciò che aveva veduto. Collegno non dimenticò nulla, tranne le ingiurie, ed imparò sempre, tranne a mancare alla sua fede. Ne’ suoi modi affabili e dignitosi era quella soave austerità che è il privilegio della virtù conscia di se medesima e forte della forza onnipotente che da questa coscienza scaturisce: indulgente e benevolo verso gli uomini, era implacabile nelle sue ire contro il vizio e contro l’ingiustizia. Giovanetto militò con gloria in Russia, e non aveva venti anni allorché Napoleone gli fregiò il petto della stella de’ prodi: reduce in patria, ebbe comuni con Santorre di Santarosa e con Guglielmo Lisio le speranze ed i pensieri; con essi fu costretto ad esulare, ed allora più che mai l’esilio era amarezza infinita: non si lasciò vincere dallo sgomento; fu incessante nelle opere: pugnò per la libertà in Portogallo, in Ispagna, in Grecia; ed in tutti quei paesi, meritando la stima di tutti, fruttò gloria ed onore alla sua patria. Cessata la possibilità di combattere, mutò il campo della operosità, non il desiderio né il proposito di fare. A quarantanni si diede agli studi e diventò geologo di grido e professore in una università di francese. E sempre il dovere 1 per dovere esule, per dovere combattente, per dovere scienziato: e questo dovere non gli era imposto da nessuna causa esterna, non gli era suggerito da nessun consiglio altrui: stava scolpito nella sua coscienza purissima. Sii giusto, gli diceva una voce interna; e il nostro Collegno fu giusto sempre, dovunque, irremovibilmente! Massimo d’Azeglio con molla ragione ha notato che in Collegno era deficienza assoluta di quell7o pertinace, che è la malattia più deploranda dell’età presente. Pochi uomini hanno resi dal 1814 al 1856 tanti servizi all'Italia al pari di Collegno, nessuno per fermo ne ha resi di più: ma nessun uomo ne parlava meno di lui: anzi meravigliava soventi volte con in; genua modestia delle lodi che gli piovevano da tutte le parti: ed oggi se quel caro spirito albergasse fra noi, meraviglierebbe, ne siam certi, dell’unanime cordoglio che circonda la sua tomba onorata e gloriosa. Ci sia lecito ripetere quel verso di Hamlet, che Collegno stesso applicava al nostro Pellegrino Rossi, e che oggi dobbiamo applicare a lui: I shall not look upon his like again.

Ne' campi di battaglia come nell’arringo parlamentare Collegno fu sempre al suo posto: in tutte le sue azioni era la carità infiammata dell’uomo virtuoso e la disciplina ferrea del soldato. Diceva spesso: io ho desiderata sempre la libertà dell'Italia, ed oggi non son più libero di rifiutar la mia opera, quando mi venga chiesta per provvedere alla conservazione di quella libertà: perciò, naturalmente ritroso agli onori ed alle alte dignità, non ripugnò mai dall’accettarle, quando era persuaso che poteva giovare e che accettando correva ad un pericolo od era costretto a far qualche sagrifizio. Il tratto seguente scolpisce la sua indole. Nella disastrosa ritirata di Russia, Collegno fu spogliato dai Cosacchi ed abbandonato su i geli: fece come gli altri, e si diede a cercare Tra i morti che coprivano l'inospite suolo per toglierne le vestimenta e indossarle. Nel procedere a quella operazione, gli parve sentire che il cuore del soldato, di cui pigliava le vestimento, battesse: Collegno non esitò un momento, e non portò via gli abiti. In quei crudeli momenti quell uomo impareggiabile seppe resistere alla voce imperiosa della propria conservazione, e preferì digrignar dal freddo, esporsi alla morte, anziché toglier l'abito ad un uomo semispento, a motivo del sol dubbio che questi potesse ancora riaversi. Questo fatto dipinge e scolpisce l'uomo: questi era, tal fu sempre Giacinto Collegno.

Nel 1848 Collegno salutò con gioia l'èra novella che, auspice Carlo Alberto, s’iniziava per l'Italia; nel luglio di quell’anno si recò a visitare il valoroso principe che combatteva per la indipendenza: erano ventisette anni che non si eran più veduti; e che anni! rincontro fu commoventissimo: Carlo Alberto lo abbracciò e, dopo pochi minuti di pausa, gli disse: N'est-ce pas que cous acez trouvé grandi mon Victor? Collegno aveva veduto nascere l'augusto primogenito figliuolo del re Carlo Alberto, e questi, evocando la grata ricordanza, non poteva dare più delicato né più affettuoso attestato di stima all’antico ed illustre suo amico.

Negli ordini morali di questo mondo si avvera la stessa legge che nei fisici: là dove cioè è atmosfera di vita, le stesse sostanze morte partecipano al movimento del tutto: là dove è la vita della virtù, ivi i pravi istinti sono soggiogati, il vizio si dilegua. La virtù di Giacinto Collegno era impulso e conforto a se medesima ed a quella degli altri; era impossibile stargli vicino, stringergli la mano, udirlo discorrere, senza sentirsene migliore. Nelle tetre ore dello sconforto, negli angosciosi momenti del dubbio, era magico l'effetto che sortiva sull’animo di ehi l'ascoltava quella sua parola onesta e veritiera: parlava con la rettitudine della mente e con la sapienza del cuore.

Giacinto Collegno fu la virtù ed il patriotismo in tutta la pienezza e lo splendore della loro bellezza morale: le sue morali fattezze rassomigliano a quelle statue antiche, in cui la seducente venustà delle forme armonicamente si congiunge con la regolare precisione dei lineamenti. Fu vita esemplare e senza macchia: con essa abbiamo perduto un esempio ed un ammaestramento che non ritroveremo più.

Torino, 25 ottobre 1856.

Gli avvenimenti succeduti dal momento nel quale cessavamo di scrivere la cronaca precedente non porgono argomento ad ampio discorso: molto senza dubbio avremmo a dire, qualora dall’ordine de1 fatti accertati e positivi ci piacesse spaziare nel campo delle congetture, fra le quali non poche sarebbero, se non assolutamente vere, assai verosimili: ma, i nostri lettori lo sanno, noi non siamo punto vaghi di questo genere di ragionamenti politici, e quindi, non potendo accennare «a fatti, stimiamo savio consiglio di serbare il silenzio.

Ci basti accennar brevemente alle condizioni nelle quali trovansi oggidì le diverse questioni politiche che si agitano tra le grandi potenze dell'Europa. Non occorre ricordare che fra esse primeggiano sempre le orientali: quella relativa a Bolgrad, quella che concerne Pisola dei Serpenti e quella che tocca ai Principali danubiani. Ora, fino a questo momento, né su Bolgrad, né sull’isola dei Serpenti, né sui Principati si è potuto addivenire a veruna sorta d’accordo. Tutte le gazzette, e segnatamente quelle che si pubblicano in Alemagna, danno ciascuna una versione diversa su quelle questioni, ed ognuna, com’ è naturale, pretende che la propria versione sia la vera: ma i governi ed i loro organi ufficiali tacciono, e quindi le versioni date dalle gazzette o sono tutte probabili allo stesso grado, o sono tutte assurde: e nell’un caso e nell’altro non ci è criterio sicuro per definire quale sia la verità. Intanto la commissione incaricata di definire la nuova linea di frontiera tra la Bessarabia e la Moldavia ha sospeso i suoi lavori; quella incaricata di esaminare le questioni relative all’ordinamento dei Principati non ha incominciati i suoi; sull’isola dei Serpenti sono ad un tempo Russi e Turchi; le truppe austriache ingrossano nei Principati; il naviglio inglese continua a tenere stazione nel mar Nero, e par certo che debba svernare nel porto di Sinope. Fino a quando durerà cosiffatto stato di cose? quando saranno definite tutte queste controversie? avverrà ciò per opera di un’altra riunione del Congresso, oppure in seguito a negoziati diretti fra le potenze interessate? Gli accennati quesiti si raccolgono in un solo: quando cioè il trattato di Parigi verrà eseguito? Ora su questo punto, nonostante le apparenze, sembra a noi che non ci sia possibilità di dubbio: il trattato dei 30 marzo sarà eseguito nella sua pienezza. E certo che per qualche tempo il governo francese e l’inglese non hanno giudicato alla stessa guisa la vertenza su Bolgrad, poiché pareva al primo che non si dovesse esigere dalla Russia un nuovo sagrifizio, laddove il secondo era persuaso del contrario: ma è certo pure che né la Francia né l’Inghilterra hanno pensato per ciò a disfare l’alleanza. Il viaggio del conte di Persigny a Compiègne, il contegno giudizioso e pacato di lord Cowley, le osservazioni gravi ed assennate del barone Brénier, reduce da Napoli, e del signor Troplong, presidente del Senato, hanno raffermata la risoluzione dell'imperatore Napoleone III, il quale è stato sempre fra’ più calorosi fautori della lega con l’Inghilterra. Non sappiamo adunque in quale guisa, ma possiamo affermare con la certezza di non apporci in falso, che coloro i quali avevano nutrito lusinga di sciogliere l’alleanza anglo-francese, surrogando ad essa la lega franco-russa, hanno fatta opera vana, e a quest’ora debbono essere più che persuasi della insufficienza e della sterilità dei loro tentativi. I discorsi che a poche ore di distanza pronunziavano, non è guari, lord Palmerston a Manchester e Napoleone III rispondendo al conte di Kisseleff, sono l'indizio irrecusabile del fatto di cui accenniamo, il primo ministro della regina Vittoria ricordava ai numerosi ascoltatori della prima città manifatturiera della Gran Bretagna che la pace sarà durevole, qualora i patti rogati nei capitoli della pace di Parigi vengano eseguili con fedeltà scrupolosa: l’imperatore dei Francesi parlava cortesi parole al rappresentante dello czar Alessandro II, ma non mancava di fargli riflettere che il governo francese nel mitigare con le buone maniere il rigore di alcune prescrizioni del trattato dei 30 marzo non intendeva né punto né poco rallentare i vincoli delle sue antiche alleanze. I discorsi pronunciati in occasioni recenti dal signor Rochuck, deputato di Sheffield, ai suoi elettori; da sir Roberto Peel, uno dei lordi dell’ammiragliato, agli abitanti di Stafford, e da altri personaggi ragguardevoli, suonano nel medesimo senso. Il nobile e franco procedere del conte di Persignv ha coronato l’opera: Rien rìexiste désormaìs qui puisse nous diviser, diceva or son pochi mesi l’onorando diplomatico agli Inglesi raccolti al banchetto dal lord mavor di Londra: in questi ultimi tempi il Persigny non ha mancato di mostrare la concordanza perfetta che corre tra i suoi atti ed i suoi detti. Nè la crisi recentemente succeduta nei consigli del Sultano può menomare l'efficacia dell’alleanza: poiché se Aalì bascià ha cessato dall’essere gran visir, il suo successore è Rescid bascià, quello, vale a dire, fra gli statisti ottomani che è nolo da lunga pezza per l’illuminato amore all’Europa civile.

Dalla durata dell’alleanza anglo-francese emerge una nuova e potente ragione contro l’attuazione dell’alleanza anglo-austriaca: a questa fantasmagoria noi non abbiamo mai aggiustato fede; si possono con le arti magiche evocare i morti dalle loro tombe, ma non c’è facoltà umana che possa infondere nei cadaveri gli spiriti vitali che si sono per sempre dipartiti da essi: né il visconte Palmerston avrebbe voluto e potuto fare ciò che il conte Aberdeen voleva e non potè fare in nessuna guisa. Già si erano affrettate alcune gazzette a spacciare che sir Hamilton Seymour, inviato straordinario e ministro plenipotenziario della regina Vittoria presso la corte di Vienna, si sarebbe recato ad accompagnare l’imperatore Francesco Giuseppe nel suo viaggio in Italia, quasi a pegno visibile della riannodata alleanza tra la libera Inghilterra e l’impero austriaco: ma poi quelle stesse gazzette hanno dovuto umilmente confessare che avevano preso un granchio in secco, e che sir Hamilton Sevmour se ne starà tranquillamente nella sua residenza, mentre il giovane imperatore d’Austria andrà raccogliendo gli omaggi di quell'entusiasmo che, secondo le felici espressioni di un documento officiale, le popolazioni della Lombardia e della Venezia hanno l’obbligazione di mostrare alla sua persona. Prescindendo però anche da questi fatti, si può dire, senza tema d'ingannarsi, che oggi le alleanze contro natura non sono più possibili; l’alleanza utile, giusta e vera, ed affrettiamoci ad aggiungere, la sola possibile è l’alleanza anglo-francese. 1 capricci e le male arti degli uomini, la stessa bizzarria degli eventi non avranno di certo la facoltà di cancellare su questo proposito, come su tanti altri, i decreti visibili della Provvidenza.

I dissidii sulle cose orientali hanno distolta alquanto l’attenzione dalle faccende di Napoli; ma sarebbe non lieve errore asserire, che la vertenza partenopea sia stata o aggiustata o vicina ad aggiustarsi, oppure posta in non cale. A dì 28 ottobre il barone Brénier ed il signor Petre, con tutti i componenti delle rispettive loro legazioni, abbandonarono Napoli; pochi giorni dopo il conte di Clarcndon avvertiva il principe di Carini, plenipotenziario napolitano a Londra, che i suoi passaporti erano pronti, ed il conte Walewski faceva una communicazione assolutamente identica al marchese Antonini, plenipotenziario napolitano a Parigi. Non è dunque giusto di dire che la questione napolitana è rimasta nello statu-quo; i fatti teste ricordati attestano invece che essa prosegue lentamente, se si vuole, ma pur prosegue nel suo naturale andamento. Le grazie particolari che il governo napolitano ha stimato dover fare al Duca di Serradifalco ed a pochi altri non intaccano la questione né punto né poco, e non possono avere nemmeno l’apparenza della soddisfazione verso le potenze occidentali. Noi però siam convintissimi, che il giorno in cui tutte le controversie orientali fossero assestate, il governo delle Due Sicilie avrà argomento da pensar seriamente a’ casi proprii.

Nè la vertenza turco-montenegrina, che non ha fatto un sol passo, né quella di Neuchatel, su cui pendono ora i negoziati tra la Prussia e la Confederazione Elvetica possono porgere motivo di gravi timori per la conservazione della pace; il principe Danilo ed il Sultano si acconceranno come meglio sembrerà alle potenze. Il governo prussiano e la Confederazione Elvetica faranno reciprocamente prova di saviezza e di moderazione, e l’invio di quel personaggio autorevole ed assennato che è il generale Dufour a Parigi accenna alla esistenza di queste buone disposizioni negli animi dei governanti della Svizzera. La sola cosa che ci par degna di osservazione nella questione di Neuchatel è lo zelo che arreca l’Austria nel mostrarsi sollecita assai degli interessi della Prussia. Quale sia lo scopo vero di tutto questo eccesso di zelo non è malagevole indovinare, ma portiam fiducia che né la Prussia, né gli altri governi della Confederazione Germanica si lasceranno abbindolare. L’Alemagna sa per lunga esperienza a che cosa si riduca tutta ta tenerezza dei governo austriaco verso gli interessi germanici.

Durano in Ispagna le condizioni precarie ed incerte; si pone in dubbio perfino la convocazione de'  comizi elettorali e quella delle Cortes! e ciò dopo ventitré anni di guerre e di rivolgimenti politici! In Portogallo si fanno le elezioni dei Deputati; le probabilità del trionfo sono per una delle due frazioni del partito liberale; i miguelisti non hanno potuto fare eleggere nemmeno un solo dei loro rappresentanti. La Sessione legislativa è stata aperta nel Belgio. Le Camere annoveresi sono state sciolte per la terza o quarta volta, perché non vogliono in nessun modo sanzionare le modificazioni arbitrariamente arrecate alla Costituzione.

Nello Stato Romano un battaglione di truppe austriache che stanziava a Faenza, Imola, Forlì e Rimini, ha avuto ordine di recarsi per Bologna a Padova: ecco a che cosa si riduce il gran fatto della diminuzione della occupazione austriaca nelle Legazioni tanto trombettata dal Cardinale Antonelli.

Il governo Parmense ha presa l'ottima e commendevole risoluzione di non rinnovare il patto doganale con l’Austria. Giova sperare che compirà l'opera così bene incominciata ordinando un sistema razionale e giusto di tariffe, ed entrando in accordi col governo piemontese, il quale ba tanto interesse a proteggere in tutto e per tutto l'indipendenza dei principi e la prosperità delle popolazioni italiane, quanto interesse ba l'Austria a distruggere l’una e l’altra.

L'Italia lamenta in questo mese la perdita dell'architetto Luigi Canina, e del filologo e fisico Francesco Orioli, già deputato di Viterbo al Parlamento costituzionale Romano nell'anno 1848.

Torino,25 novembre 1856.

GIUSEPPE MASSARI

















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