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RIVISTA CONTEMPORANEA

FILOSOFIA — STORIA — SCIENZE — LETTERATURA POESIA — ROMANZI — VIAGGI CRITICA — ARCHEOLOGIA — BELLE ARTI

VOLUME OTTAVO - ANNO QUARTO

TORINO

TIPOGRAFIA ECONOMICA DIRETTA DA BARERÀ

Via della posta, n. 1, palazzo dell’Accademia Filodrammatica

1856

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Ottobre 2019

LA SARDEGNA E LE DUE SICILIE

L'opinione pubblica è ormai stanca della vertenza napoletana, senzaché questa sia né esaurita né sciolta. Già si poteva credere onninamente devoluta al dominio dei fatti, allorché la circolare del principe Gorschakoff agli agenti diplomatici dello Czar l’ha richiamata sul terreno delle teorie.

Le dispute sull’esistenza di un diritto d’intervento, che imporla a questi od a quegli di esercitare, furono molle e continue, senza detrimento di tutte le diversità di parere che sorsero circa i limiti e l’opportunità di quell’esercizio. Non sappiamo che neppur una delle potenze che tentarono di contendere in qualche circostanza il diritto alle altre, si sia poi fatto scrupolo di prevalersene secondo il proprio interesse. Che più, la dimostrazione più energica in favore del sistema di non intervento fu d’intervenire da un altro lato.

In presenza delle costanti lezioni della storia ci sarebbe malagevole di riporre grande importanza nel ragionamento che, sotto questo o quello aspetto, una cancelleria imperiale verrebbe ad emettere. Per quanto logica e giusta riescisse, una simile dimostrazione non varrebbe a indurre in noi la fiducia che quello stesso potere sarebbe deciso a mantenerne le conclusioni in un caso identico in quanto al punto legale, ma diverso per le considerazioni dei suoi interessi.

Non possiamo a meno però di lamentare l’abuso che si fa in codesta guisa della verità, delle parole di giustizia, di diritto, di equità, di rispetto all’autorità. Son questi esempi di menzogna e lezioni di sofismo che è indegno e pericoloso pei governi di dare ai popoli.

Lasciamo le grandi potenze che sono nel caso di operare interventi, dibatterne la legittimità o l’iniquità, la convenienza o l’inopportunità, l’estensione o i limiti. Il sentenziare non ci compete; il nostro parere non sarebbe ascoltato. Quel che pur troppo ben sappiamo si è che la diplomazia europea, in fatto d’interventi, ha plagiato, riguardo all’Italia, il detto usuale dei vecchi professori di fisica: Faciamus experimenlum in corpore vili. E riputiamo che sia difficile il rinvenire una specie di ingerimento negli affari d’Italia che non si sia praticato da questi o da quegli, in una od in un’altra epoca della nostra storia. Pacifici o bellicosi, materiali o morali, operativi o dimostrativi, per intervenire o per non intervenire, nella Penisola, gl’interventi si sono fatti lutti e sempre. Chi li ha fatti ne avrà senza fallo tratto vantaggio alcuna volta; ma non si potrebbe accertare che ne sia giammai risultato verun benefizio durevole, reale ai paesi che li ebbero a sopportare.

Siamo anzi persuasi che il volo delle popolazioni, e quello stesso dei Governi, anche dei cattivi, sarebbe opposto in Italia ad ogni intervento. Nè ad infirmare il nostro concetto basta l’asserzione opposta degli intervenuti; di essere cioè stati chiamati. Essendoché in primo luogo casi d’intervento erano stati determinali a priori nei congressi (Tale è sempre stato considerato lo spirito del trattato della Santa Alleanza, e sarebbe difficile, anche allorché non si avrebbero le successive prove di fatto, di rinvenire altrimenti un significato politico nelle forrmole teologiche di quegli atti diplomatici. ); secondariamente le domande erano per guisa suggerite dal somigliare moltissimo ad accettazione di offerte; e finalmente si potevano in certo modo raffigurare come precauzioni di legittima difesa, e risposta ad aggressioni morali o materiali anteriori. Le circostanze cui alludiamo sono abbastanza note perché non torni a proposito il descriverle più partitamente.

Gl’Italiani sembrano impertanto ridotti in quella parte di schermirsi come meglio sanno dall’ingerimento che le grandi potenze, ora per una ragione ora per l’altra, s’arrogano di praticare nei loro affari, coll’unica diversità nei modi, che dipende dalle massime diverse alle quali s’informano gii ordini di questo o di quello dei grandi Stati d’Europa. Se pure non è anche meno indipendente la politica imposta ai governi della Penisola, e se invece di poter sperare di rimaner scevri da ogni immistione estranea, non sia loro unicamente concesso di contrapporre l'uno all’altro predominio in modo di neutralizzare, quanto più è possibile, l’azione di tutti.

Questa triste condizione di cose, che toglie a chi la produce ogni vanto di giustizia suprema e di grandezza; che impedisce a chi la subisce i portamenti esclusivamente nobili e generosi, è per altro conforme all'andamento comune dei negozi umani. Rara quivi l’applicazione larga e piena di un principio giusto e supremo, non si tende per lo più ad un bene assoluto, alla pratica di una virtù morale: per contrasto di due tendenze opposte ma eccessive, ciascuna nel senso proprio, il mondo viene spinto in una via mezzana e mediocre di bene relativo.

Il Governo Sardo ci sembra avere, talora per calcolo e talora per istinto, seguita questa strada; né facilmente, pei motivi che venimmo or ora esponendo, appare che ne avrebbe potuto tenere una diversa. Vi sarebbe argomento e utilità di studio a ricercare se nella vertenza napoletana esso abbia camminato sin qui di giusto passo, ed in qual modo egli possa trarre partito di ciò che volontà più potenti ed efficaci della sua sono per produrre, e volgerlo al meglio del proprio stato e dell’Italia.

La condizione delle cose nella Penisola costituisce un pericolo per la tranquillità generale, ed esso è originato in massima parte dalla condotta di certi governi; questa è la conclusione delle parole e dei silenziii dell’ultimo congresso e del protocollo dell’otto di aprile 1856. Non abbiamo la menoma velleità di contendere agli augusti segnatarii del trattato di Parigi la competenza del loro giudicato. Ma quel medesimo stato di cose, quella stessa condotta di certi governi, costituiscono uno dei due più gerii impacci, il secondo pericolo imminente pel Governo Sardo. Questi era nel suo diritto, anzi nel suo dovere, essendosene con onorati sacrifizi procacciata l’occasione di far sentire le sue lagnanze; tanto più che quelle risoluzioni medesime che egli invocava a suo prò erano tali da corrispondere maggiormente alla necessità di assicurare la pace d’Italia e la tranquillità d’Europa. Per altro il Gabinetto di Torino non ha egli usato del suo diritto ed adempiuto il suo dovere con una gagliardia di parole alquanto esuberante? Ci era stato detto che in un documento diplomatico diretto dalla cancelleria sarda a potenze amiche, ed emanato in tempo d’alquanto anteriore alla riunione dei plenipotenziarii in Parigi, fosse sfuggito il vocabolo sforzare, parlando dell’azione da esercitarsi sovra un governo italiano dagli alleati occidentali. Fummo lieti di non rinvenire quella formola arrischiata nelle note rimesse dai plenipotenziarii sardi alla Francia ed all’Inghilterra dopo il Congresso. Ma ci rincrebbe che non vi si fossero fatte riserve speciali riguardo all’indipendenza di ciascun stato, e, astrazione fatta dell’uso che taluno può fare della regia autorità, non vi si fosse dato maggior attestato di rispetto al principio monarchico ed all’inviolabilità della corona. Formole oratorie! Parole vuote di senso! Dirà taluno? Tutti i documenti diplomatici sono formole e parole; ma formole e parole preziosamente serbate, e sulle quali ciascuno sa ritornare all’uopo e farne suo prò.

Sarebbe troppo facile ritorcere contro alle libertà nazionali del Piemonte le massime invocate contro gli eccessi dell’assolutismo in Napoli, perché non sia ben chiaro che l’intenzione del conte di Cavour si limitava ad alludere a quella azione sola di grandi potenze sovra un governo di second’ordine che è circoscritta dal sistema inglese, detto di non intervento; e respingeva quell’ingerenza e partecipazione agli affari interni di altri  Stati che venne professata e praticata dalla Santa Alleanza. Ma le distinzioni in questa materia possono farsi molto sottili; ed i mezzi materiali di difesa sono già di troppo ristretti negli Stati minori, per trascurare di circondare almeno la loro indipendenza di tutta la forza del diritto, invocato, proclamato, riconosciuto. A dirla in breve, il concetto politico era sagace e pel Piemonte e per l'Italia, lo spirito di quei documenti era buono; la formola era avventata, la parola, più che toccare, feriva. La sagacia, lo spirito, il detto vibralo e precipitoso; nei pregii come nei difetti questa era pretta maniera dell'autore. Intemperanze oratorie e giornalistiche falsarono l'interpretazione ed esagerarono il valore di quegli atti diplomatici del Governo del Re, di cui i discorsi del Presidente del Consiglio nelle due Camere vennero avventuratamente a limitare il significato ed a chiarire il concetto.

Il Conte Solaro della Margherita non falli al destro che gli veniva offerto, e rimprovero al Primo Plenipotenziario Sardo in Parigi di avere, invocando l’intervento straniero in affari interni di uno Stato indipendente, tradita la dignità nazionale, e smentite le tradizioni gloriose della diplomazia della Casa di Savoia.

Se il conte di Cavour avesse bramato di provare che non faceva mai che quello che già era stato fatto da altri, e particolarmente che Ja sua politica era identica a quella di uomini di Stato di vaglia,ma rappresentanti idee e sistemi di governo diversi od opposti a quelli che egli rappresenta, avrebbe potuto insistere sull’argomento dei suo avversario e chiedergli se la condotta del Governo Sardo, circa gli affari di Napoli e di Piemonte nel 1820 e 1821, o l'appoggio dato al Pretendente di Spagna ed al Sonder-bund erano precisamente proteste o smentite al principio d’intervento? Ma quello che importava assai più, che queste gare di parte, era lo stabilire che il Gabinetto di Torino aveva unicamente eccitato le Grandi Potenze a dare al Sovrano delle Due Sicilie quei consigli che difficilmente gli si potevano far giungere in altro modo; ma che dati da chi ha ristaurato l’ordine in Francia e dal governo mallevadore della ristorazione borbonica e della costituzione siciliana, avrebbero, a giudizio universale, dovuto riuscire autorevoli.

Si possono prevedere due obbiezioni di genere diverso al nostro modo di considerare questo argomento. «Perché parlare?» dirà taluno. «Se le Grandi Potenze hanno a dare consigli, lo faranno da sé; ne occorre che le stimoliate voi. Ma conviene rammentare che il disagio ed il pericolo sono permanenti pell’Italia e pel Piemonte tanto nello stato presente delle cose, quanto e più se venisse a scoppiare una rivoluzione. Che se potentati animati da uno spirito diverso non prevengono le eventualità, che il Congresso di Parigi ha dichiaralo e probabili e temibili, queste eventualità provocheranno un intervento che il Piemonte, dalla storia contemporanea non meno che da quella del passalo, può riputare non avere da essere egualmente conforme alle sue mire riformatrici e liberali, né parimenti giovevole ai suoi interessi.

Altri invece addimostrerà stupore perché vogliamo tanta riserbatezza e tante precauzioni nel trattare degli affari di Napoli, nei quali essi non intendono scorgere che la necessità di sottrarre un popolo martoriato ad una efferata tirannide. A costoro rispondiamo che non abbiamo qui a ricercare qual sia lo stato reale delle cose nel Regno; ma unicamente trattiamo di ciò che è nel diritto e nella convenienza del Governo Sardo di fare in tale vertenza. La distinzione fra le cose intime e quelle che si riferiscono alle relazioni esterne od all’indipendenza sovrana vuol essere accuratamente mantenuta.

In simili contingenze un governo ci pare assomigliarsi ad un individuo affetto dai primi sintomi di una malattia contagiosa. I parenti e gli amici gli suggeriranno dapprima precauzioni per rimuovere il pericolo di ammalarsi; ma se fa il sordo, ed anzi si espone vieppiù al contagio, lo si metterà in quarantena e si veglierà perché nessuno ravvicini. Se il malanno gli sopraggiunge e lo opprime, non avrà che ad incolparne la sua ostinazione. Gli uomini dell’arte son sempre pronti ad accorrere alla sua chiamata per aiutarlo a combattere il morbo esiziale, e se fosse troppo tardi, almeno a confortargli l’anima e fargli fare testamento. Ma il pubblico si tiene in disparte, e gli amici aspettano di essere chiamati a rallegrarsi della guarigione del rinsavito, od a consolare e confortare gli eredi. È forse d’uopo di squarciare il velo di si trasparente apologo? Non lo crediamo.

Certo che il rinvenire la giusta misura, mantenere il proprio posto, senza invadere i diritti altrui, preservare la dignità propria e rispettare le suscettibilità legittime in altri, far cedere l’ostinazione dell’individuo senza abbassare l’autorità monarchica ch’egli riveste, tutto ciò non è facile. Ma l’ingresso nelle vie del giusto e dell'onesto non è mai molto largo; innoltrati una volta, il cammino si fa spazioso ed agevole; né l'arte politica e gli uomini veri di Stato son fatti per i casi ovvii e comuni, ma per le vertenze intricate e per le delicate circostanze.

Tant’è che le Potenze Occidentali hanno nell’interesse del loro alleato, ma molto più nel loro proprio e della tranquillità generale, rivolto al Governo Partenopeo avvertenze e consigli. Per una successione di fatti, che i diarii di tutta Europa hanno reso noti a tutti, si venne all’annunzio di una decisione presa dalla Francia e dall’Inghilterra di spedire una squadra combinata nel golfo di Napoli. Questa novella ha suscitato sottosopra altrettanti clamori nelle fde degli assolutisti del Continente, quanti ne destò nei rivoluzionarii del 1849 l’annunzio della spedizione francese in Roma. Senonché ora si tratta di una dimostrazione morale pacifica; allora si fece un’operazione delle più materiali e guerresche. Allora una repubblica andava a punire una sua figlia d’essere nata da lei e di plagiare le sue dissennatezze; ora governi ordinati, monarchici e civili cercano trarre pacificamente a miglioria uno Stato col quale non hanno nessuna comunanza né di origine, né di condotta politica. Il che conferma il nostro asserto che la politica degl’interventi ha trovato fautori in ogni sorta di governi. I nostri affetti son tutti raccolti nel rispetto alla monarchia e nell’amore della libertà; nessuna tenerezza scema quindi il nostro giudizio dell’arbitrio che compromette in Napoli l’autorità regale, come altravolta non fummo offesi in nessuna simpatia per i repubblicani che manomettevano nel 1849 la causa delle libertà italiche. Quel che ci è cagion di cordoglio è il vedere le patrie terre essere falle ognora teatro di si tristi casi. Del rimanente, invece di fantasticare sullo scopo dell’annunziata dimostrazione di gridare alla prepotenza, come certi uni, od alla inefficacità della misura, come certi altri, ci atteniamo fino a nuovo ordine all’interpretazione datacene dagli organi semi-officiali del gabinetto di Londra; nella quale ci pare ottimo consiglio l’astinenza da ogni atto di guerra ed il limitarsi alla tutela dei sudditi, ed a impedire che altri intervenga colle armi. La voce del cannone può ridurre al silenzio la voce della ragione, ma non può farne le veci ( Il procedere delle potenze alleate, dice il Globe, considerato come il più «officiale dei giornali ministeriali inglesi, è negli stretti limiti del loro diritto come potenze europee. Elleno non si propongono punto, almeno per ora, un intervento. Elleno stanno contente di rompere ogni relazione con un sovrano che si fa pericoloso e compromettente, e provvedono a proteggere i proprii sudditi, e guarentire i Napoletani da interventi stranieri.»

«Intanto, scrive lo stesso giorno il Morning Post, inviamo una squadra nel golfo di Napoli per proteggere i nostri concittadini e per antivenire la possibilità di qualunque intervento straniero »).

Se buona ventura d’Italia volesse che tra le diverse sue parti fosse lega ed amicizia, i consigli di un governo della Penisola tornerebbero probabilmente più graditi all’altro, anziché quelli di potentati stranieri. Ma tali non sono le relazioni fra il Piemonte e le Due Sicilie. Non sapremmo scorgere che autorità avrebbe il Gabinetto Sardo di imporre al Re di Napoli questa o quell’altra linea di condotta, e qualunque sieno i danni od i pericoli ai quali si ha da riparare, la pressione anche solo morale (che pare le Potenze Occidentali non possano a meno di esercitare sopra uno Stato indipendente) porta con sé indubitabilmente una odiosità alla quale sarebbe per lo meno strano che il Governo del Re Vittorio Emmanuele gratuitamente partecipasse.

Si è parlato dell’invio di navi sarde nel golfo di Napoli, né vi sarebbe nulla che di naturale nella presenza del padiglione sardo per dare protezione e ricovero ai sudditi del re in qualunque emergenza. Ma non si saprebbe del pari giustificare una dimostrazione identica nell’indole e nei portati a quella che si presume combinata dalle flotte alleate. A voler supporre, il che ne pare assai arrischiato, che fosse possibile al Piemonte di aver parte deliberante nello scioglimento della vertenza napoletana, è egli da presumersi che la sua sentenza prevarrebbe? Che egli sarebbe in grado di far trionfare quelle massime di governo che quegli Italiani da uno Stato italiano e parlamentare si aspetterebbero?

I popoli delle Due Sicilie aggradirebbero eglino dal Re di Sardegna ciò che terrebbero largo risultamento di una pratica condotta sotto gli auspicii di Napoleone III? Nello stato presente delle cose uno degli alleati può rispondere a chi si lagnerebbe di soverchia larghezza ottenuta nelle concessioni: «Che volete? È ben d'uopo che mi accordi colla costituzionale Inghilterra.» L'altro a sua volta può far tacere gli smaniosi di maggiori libertà colla necessità di non contraddire all'imperatore dei Francesi. La Sardegna, come volgarmente si suol dire, sarebbe, a nostro avviso, la quinta ruota del carro: non vediamo come gioverebbe ad altri od a se stessa; ma avrebbe quasi certezza di spiacere a tutti. L'essenziale per lei è di procacciarsi amici in Italia, ed ella deve con somma cura evitare tuttociò che può insospettire ed ingelosire gli altri governi della Penisola. Oltrecché ella si riacquistò non ha guari l'amicizia della corte di Pietroburgo, che le fu in altre epoche più d’una volta giovevole, sarebbe stoltezza raffreddarne le simpatie, offendendo quelle che tenerissime essa mantenne ognora per la dinastia borbonica. Chi consigliava la cooperazione di una squadra sarda nella dimostrazione annunziala nel golfo di Napoli si appoggiava sulla presunta apparizione di vascelli austriaci sulle medesime coste. Ma, o l'Austria invia le sue navi semplicemente per proteggere i suoi sudditi, come intendevamo poc'anzi che si spedissero colà vascelli piemontesi, e non vediamo né diritto, né motivo, né mezzo d'iinpedirla; oppure la squadra salpata da Trieste verrebbe ad operare d'accordo coi navigli di Francia e d'Inghilterra, e converrebbe dire che, o le potenze occidentali vanno a fare a Napoli qualche cosa che conviene ben poco a noi, ed a cui non dobbiamo quindi cooperare, ovvero piuttosto elio la politica viennese aiuta ancora dessa a compiere ciò che il Piemonte desidera. Se finalmente le navi di S. M. I. A. muovessero per opporsi ai disegni della Francia e dell'Inghilterra, ci sembra che la Sardegna non perderebbe nulla ad aspettare che il dio delle battaglie avesse compartite le sorti ai vincitori ed ai vinti ( A far intendere come l'effetto più sicuro di una risoluzione ostile alle squadre alleate, o di un indirizzo opposto alla politica occidentale nella vertenza napoletana, sarebbe di far mutare in guerresche le dimostrazioni attualmente pacifiche, citiamo l’apprezzazione fatta dal Times dell'intenzione supposta alla Russia di inviare navi nel Mediterraneo.

«Quella dimostrazione o significherebbe qualche cosa, o nulla. Se nulla, la vana mostra sarà presto scoperta; se qualche cosa, tutto che possiamo dire si è che si vedrà con piacere i Russi salpare pel golfo di Napoli quando vorranno e fermarvisi quanto potranno.»).

All’infuori della sua azione navale sui lidi partenopei, è da presumere che il governo del re Vittorio Emmanuele II può avere le sue simpatie ed il suo modo di vedere gl’interessi ed il maggior bene proprio e d’Italia nello scioglimento della vertenza napolitana. Non sarebbe egli possibile di apporsi al vero per mezzo di alcune induzioni, a coloro cui non è dato di acquistare quella certezza concessa soltanto agl’iniziati nei segreti delle cancellerie? Dalla considerazione di ciò che egli è e fu non si potrebbe presumere ciò che egli brami che altri sia e faccia?

Il regno di Sardegna è Stato indipendente, italiano, retto a ordini rappresentativi stabiliti per buon accordo e tacito consenso di principi e di popolo, sotto il monarcato della successione dinastica, legittima e regolare, della Casa di Savoia. Il principio monarchico non fu mai per avventura consacrato da si lunga tradizione di giustizia e di saviezza principesca, di affetti e devozione di sudditi. Le libertà pubbliche forse non mai con tanta generosità riconosciute, con tanta scarsezza di inutili e pericolose discussioni teoriche stabilite, con tanta lealtà reciproca usate, mantenute.

Se si pone mente che le presunzioni al trono delle Due Sicilie poggiano sul capo di un principe, nelle cui vene scorre sangue sabaudo, sembra che ben potenti ed a noi sconosciuti motivi occorrerebbero per indurre la politica piemontese a vagheggiare altre speranze sulla eventualità napolitano che il raddrizzamento e le riforme del governo esistente, per modo che venissero colà riconosciute per buone quelle massime liberali, e riconfermalo quel principio monarchico che sono le basi di lutto l’edificio politico del Regno Subalpino. Che se il lungo abuso dell’autorità despotica, l’indole instabile e focosa, la scarsa educazione della plebe, la diffidenza pur troppo indubitabile tra governanti e governali, l’esperimento poco felice fatto delle leggi e più dei costumi di un governo parlamentare, e la moltiplicità e tenacità degli antichi e perseveranti abusi, ed in ispecial modo la corruttela degli ordini di giustizia danno tutta ragione di credere ad ogni assennato che l’immediata ripristinazione della costituzione concessa e soppressa nel 1848 debba essere, più che pericolosa, esiziale alla quiete e prosperità del Regno; si deve pel contrario confidare che la Sicilia, mostratasi a più riprese degna mantenitrice di quelle libertà, di cui l’amore è tradizionalmente serbato in tutti gli ordini dei suoi cittadini, ottenga quella giustizia che le venne negata dalla fede sovrana, e fu derelitta dalla infida malleveria britannica.

Quelli sono voti che s’acconcierebbero all’indole ed alla condotta del Governo Sardo, quelle le probabilità di benessere delle Due Sicilie, di sicurezza pei Borboni, di vantaggio all’Italia ed in ispecie al Piemonte, e finalmente di mantenimento della pace generale.

Postosi al riparo dalle insanie dei settarii Mazziniani, è ben da supporre che il Governo del Re non intenda contraddire per nulla a se stesso, colla benché menoma apparenza anche di lontanissima adesione ai programmi ed alle incoerenti proposte degli unitarii, alle vaporose e indefinite aspirazioni del rispettabile ed onesto Manin, ed alle velleità senza tradizioni e senza scopo logico dei Muratisti.

Di quando in quando i diarii vanno accennando ad una combinazione che da lungo tempo abbiamo motivo di credere sia stata accolta con favore e ponderata dai Governi alleati. Si trattava di una abdicazione del re Ferdinando II in favore del Principe Reale, Duca di Calabria. L'assolutismo, se ha pel sovrano il pregio di concentrare in lui tutto il merito di ciò che si fa di bene nel suo impero, ha molto più il danno di richiamare sul suo capo la risponsabilità di tutto il male che si commette in suo nome, e di suscitare contro la sua persona tutti gli odii e lutti i malcontenti. Il re di Napoli ha poi individualizzato in sé, più di qualsiasi altro principe, il concetto di un governo insopportabile ai popoli e severamente condannato dai potentati europei. Egli si è mostrato e si mostra tuttora così immedesimato con tutti gli atti di autorità e di amministrazione disapprovati dalle potenze occidentali, tanto infatuato della propria politica, che non si riesce a concepire come gli alleati possano meglio che i suoi sudditi confidare di vederlo a praticare rettamente un sistema diverso, o come egli si possa adattare a governare altrimenti (   «La Dynastie fut plus fière et peut être plus sage; car à ce point des événements, ce qui, pendant 15 ans, eut été raisonnable devenait folie; une rétractation de mauvaise foi ne pouvait que déshonorer sa chute, et d’une royauté absolue on ne fait pas une royauté nationale le pistolet sur la gorge. » (Rémusat, Passé et Présent. Casimir Périer, II,116). ). Una delle maggiori difficoltà sarebbe di-vederlo circondato da consiglieri cui egli ha già altre volte reso malagevole il reggimento della cosa pubblica, o ch’egli ha lungamente perseguitati nella persona, negli affetti e nelle opinioni. Imperocché la scelta pei pubblici uffizi di uomini integri, di animo forte, d’ingegno retto, i quali non sono impossibili a rinvenire fra gli ottimati e nelle classi medie delle Due Sicilie, è atta più d'ogni altra cosa ad avviare con fermo e deciso passo nel cammino del progresso civile e morale una nazione lungamente avvilita e corrotta da un despotismo non solo acerbo ma insipiente. Vorremmo quasi arrischiarci ad affermare che nello Stato al di qua del Faro si deve desiderare un governo illuminato prima di esigerlo liberale ( Rimandiamo coloro che ci troverebbero troppo diffidenti nelle attitudini liberali del regno di Napoli alle narrazioni di Colletta e di Ranalli, scrittori certo non caduti in sospetto di poco liberalismo e di poca italianità.). E ci sembra che sarebbe questo precisa-mente lo scopo essenziale che verrebbe raggiunto, senza cadere in altri molti e gravi inciampi, colla sostituzione pacifica e regolare di una all’altra persona sovrana sul trono delle Due Sicilie.

Non essendo depositari) dei segreti del Governo, né avendo mandato ed attitudine a dargli suggerimenti, ci pare che abbiamo raggiunto i limiti che conveniva porre alle nostre ricerche ed alle nostre considerazioni. Tuttavia una avvertenza sopra l’influenza della stampa quotidiana nelle relazioni diplomatiche della Sardegna con altri Stati della Penisola non sarà per avventura fuori di proposito.

Nessun diario in Piemonte non fu finora riconosciuto come organo semi-officiale del Governo del Re; varii fogli di tinte ministeriali, ora assai fosche, ora pallidissime, contesero fra di loro in varia guisa del primato nell’uflìciosità verso il gabinetto del conte di Cavour, senzaché consti alcuno essere mai stato eretto confidente dei disegni adombrati da chi regge la somma delle cose in Torino. Non è certo la riservatezza ed il silenzio dei ministri in affari diplomatici che verrà fatta per parte nostra argomento di biasimo. Bensì potrebbe darsi che vi fosse maggior intelligenza politica e più illuminati servigi in chi scrive i fogli anzi accennati, maggior prudenza e maggior probabilità di buon successo in chi accetta o tollera quei servigi, se si largheggiasse un po’ meno nelle interpretazioni d’ogni documento diplomatico, d’ogni menomo cenno vero o supposto, che emani dalle regioni del potere; sopratutto dovrebbero certi governi della Penisola nell’essere italiani e nel non essere stranieri trovare un titolo perché fossero scarse e raddolcite le censure anche le più giuste, le più meritate, le più legittime dirette contro di loro. Non ci pare che la violenza della espressione sia un bisogno imperioso e vitale della libertà della parola. La verità, una volta tratta dal pozzo agli occhi di tutti, non potrebbe ella essere vestita a foggie nobili e decenti, anziché mostrarsi ognora o nuda, o col viso dell’armi ed in assisa di battaglia? Senza dubbio i dolori, gli strazii della patria italiana hanno acceso ire ben naturali e cumulato gli odii nel cuore dei suoi figli: ma non vi si potrebbe trovare altro bastante sfogo, e avere tutta indulgenza e perfino alquanta debolezza per tutto che si riconosca figlio — del bel paese — Ch’Apennin parte e ’l mar circonda e l'Alpe? Narra la parabola che il padre di famiglia imbandiva immantinenti la mensa del festino al prodigo, e senza rinfacciargli in quali estreme tristizie l’avessero precipitato i suoi errori e le sue dissolutezze, raccoglieva nell’abbraccio del perdono e dell’affetto. I primogeniti figli d’Italia rammentino l’alta lezione, ben degna di memoria e di rispetto.

Carlo Alfieri













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