INTRODUZIONE
Non vi presento un libro di elaborata istoria, ma semplici notizie
raccolte sul luogo de’ tristi avvenimenti, che mi fo a narrare. Non
faccio grandi sforzi per esporle; esse son colte sul fatto. Infiorarle
con rettoriche figure, sarebbe lo stesso che macularle nell’interesse
della verità. Soltanto, siccome parecchie di esse sono state scritte
sotto forma di lettere dirette a degli amici, cosi sotto là stessa
forma presenterò le altre, dirette a lettori, dai quali siami lecito
implorare un compatimento a prò di un inesperto scrittore, che ad ogni
costo ha voluto svelare una pagina ignorata della storia di Napoli.
La verità contemporanea ha sempre un grande interesse. Senza
esagerare l’importanza di ciò che abbiamo a rilevare, credo poter
affermare, che il presente racconto valga ad aiutare alcune persone a
comprendere lo stato delle cose del regno delle due Sicilie sotto il
Governo del Re Ferdinando II. Vi si apprenderà p. e. in che modo la
dinastia Borbonica ha fatto praticar la carità ne’ casi di una pubblica
catastrofe. Nelle pubbliche calamità risplendono gli uomini
caritatevoli, come nelle private avversità si scorgono gli amici; si
potrà dunque constatare quale benevoglienza, e qual genere di amicizia
quel monarca portava a’ suoi sudditi. Vi si vedranno chiaramente i
tristi frutti di una cattiva amministrazione; e da un fatto particolare
ben si può trarre più di un ammaestramento generale sullo stato
amministrativo, religioso e morale del sud della penisola italiana.
Tutto ciò non mancherà d’interesse in un momento sovratutto in cui
l’Europa intera tien rivolto lo sguardo sull’Italia, ed in cui si
decide la sorte della stessa Napoli.
Pur tuttavolta non è la politica quella precisamente di cui
mi fo a trattare; e benché si possano considerare i fatti che seguono
come una delle facce multiformi della quistione napoletana, pur
nondimeno non ho ad altro precipuamente mirato, che a semplice racconto
di un terremoto. Io voglio dire ciò che ho veduto co’ miei propri occhi
nella Basilicata, e nella provincia di Salerno in febbraio del 1858.
E necessario preporre alla narrazione i seguenti fatti.
Ognuno sa che nel dicembre del 1857, nella notte del 16 al 17, verso
le undici ore di sera, uno spaventevole tremuoto scosse quasi tutte le
parti del regno, ed atterri singolarmente la stessa capitale. Lo si è
risentito, si assicura, fin nella Vallachia, e su tutta quella linea di
misteriose correnti, che Umbold pretende passino per la Calabria e la
Sicilia. Esso sagrificò, secondo i miei calcoli, circa quindicimila
vittime.
Questa volta il centro principale del movimento era nella
parte media dell’Italia del Sud, e sul punto che potrebbe appellarsi la
noce di quello stivale, che figura la penisola. La causa probabilmente
va attribuita ai sotterranei movimenti di un Vulcano estinto, il
Volture o Vulture, che si eleva nei dintorni di Melfi. Le due provincie
di Basilicata e di Salerno ebbero a soffrire enormi danni. La stessa
Potenza, capoluogo della prima di quelle provincie, soffrì un disastro.
Pur tuttavia, io non parlerò di questa Città, e nemmen anco di Tito, di
Picerno, di Brienza, imperocché non voglio raccontare, che ciò che ho
veduto coi propri occhi, ed udito colle proprie orecchie.
Posso adunque promettere un racconto degno di fede in tutt’i suoi
punti, e ne’ menomi dettagli. Che se i fatti sembran delle volte
mostruosi ad un lettore abituato ai vantaggi di miglior civilizzazione,
io son pronto a provarne l’esattezza. Quantunque il disastro dati ormai
da tre anni, si vedrà, ohimè! che le conseguenze ne son sempre
palpabili, e mi sarebbe facile, constatare anche oggi sui luoghi ciò
che vi ho veduto io stesso nel 1858. Il soggetto vale la pena di un
viaggio, ed io ho avuto giustamente a sorprendermi del picciol numero
de’ viaggiatori, che sono andati a studiar sui luoghi gli effetti di un
sì grande fenomeno. L’artista, il poeta, il filantropo, ed il filosofo
vi avrebbero trovato egualmente il loro profitto.
Ciò non pertanto non vi ho veduto accorrere che dei fotografi ed un
naturalista inglese. Questi veniva a cercarvi la conferma di un
sistema, che aveva ideato nel fondo del suo gabinetto. I fotografi han
vendute le loro pruove, il sapiente è ritornato deluso nelle sue
speranze, e non v’è altro a dire.
In quanto ai filantropi, essi sono stati ben pochi. A
vergogna della specie umana, non posso segnalare che due inglesi, di
cui tacerò i nomi per riguardi alla loro modestia, e gli sforzi di
alcuni amici, che han fornito a noi stessi il mezzo di esser utili.
Non è già che il governo napoletano non avesse ben tosto mostrata
una gran pompa di pietà. Esso ha pure organizzata un9 ingegnoso modo di
batter moneta da’ proventi della pubblica carità. In verità ben poche
persone 6i son fatte prendere al laccio. Ma se vi sono stati pochi
balordi, sonvi stati però molti timidi; e gli agenti del potere han
potuto raggranellare le più enormi somme. Si vedrà l’uso che n’è stato
fatto.
Da parte nostra, noi che sappiamo a che attenerci, e che d’ altronde
siam seguaci della carità libera, individuale, abbiam fatto correre due
liste di sottoscrizioni. Esse sono state rapidamente coverte dai nomi
di un certo numero di forestieri domiciliati in Napoli. La prima, di
origine inglese, ha riportati più di duemila seicento ducar ti (il
ducato vale quattro franchi e 50 centesimi circa), somma ch'è stata
portata sopra luogo dai due amici inglesi di cui abbiamo testà parlato,
ed affidata sotto le condizioni, che appresso vedremo, agli
ecclesiastici superiori delle due provincie, per esser distribuita
nello spazio di tre giorni. La seconda ha prodotto in diverse volte, la
somma di ducati 7000, di cui una buona parte é stata fornita, debbo
dirlo, dai diversi membri di una ricca e caritatevole casa bancaria
Svizzera residente in Napoli; il resto ci è stato dato da Francesi,
Svizzeri ed Alemanni.
Un uomo versato nella conoscenza del paese, commendevole per
la sua energia, per la sua esperienza, e pel suo carattere, M. Major,
che posso ben nominare dapoiché egli ha lasciato quelle contrade, volle
volentieri assumere il difficile incarico di distribuir quei soccorsi
agli stessi sventurati, e di rimetter direttamente nelle loro mani il
prodotto della soscrizione, che io aveva in parte raccolta; volli, per
aiutarlo, accompagnarmi seco per alquanti giorni, ed oggi non metto in
mostra, che il risultato delle mie oculari osservazioni.
Se per sì lungo tempo ho tardato a dar queste pagine, è stato,
perché motivi di prudenza m’imponevano il silenzio. Sotto il sospettoso
governo, che or ora è scomparso, ogni persona, ogni nome che avrei
indicato, sarebbe stata un’accusa, un certificato di proscrizione a
danno di amici; che io non poteva trasandare di rivelare al lettore. In
quanto a fare un rapporto vago, nudo di circostanziati dettagli, e di
pruove in appoggio, non mi ho sentito il coraggio, né il talento. Si è
per mezzo di cifre, di nomi e di indicazioni precise che desidero di
convincere chi legge. Oggi che quel popolo comincia a respirar l’aura
salutare di libertà, e che l’antico governo sembra divenuto per sempre
impossibile, mi parrebbe negligenza il tacermi. Parlerò dunque con
tutta sincerità dinanzi a Dio, e col desiderio di esser utile.
Ancora un’ultima osservazione. Nei fatti, che mi fo a
raccontare, molte accuse si troveranno contro di preti degradati. Prego
il lettore di non vedervi un attacco contro la religione cristiana,
alla quale appartengo per la mia fede, e per le mie più care speranze.
Io non prendo di mira il clero in generale; lo rispetto come il
rappresentante di una Chiesa, che ha avute le sue glorie. Ma non posso
dissimulare ciò che caratterizza precisamente paese per uno de’ suoi
lati più interessanti: Àmicus Calo, magis amica veritas. Egli è
sempre penoso avere a dir del male di coloro, che si vorrebbero
rispettare. La nostra scusa, se per avventura ne avessimo bisognò,
sarebbe la natura degli stessi fatti.
LETTERA I
Trasportatevi meco col pensiero, mio caro Emilio, sulle rive sì
varie di Salerno. Lasciate sulla dritta la tortuosa strada, che radendo
uno de’ lati del superbo golfo, e traversando per mille graziosi giri,
mena da Vietri sino alle erte balze di Amalfi. Avvanzatevi su quei
piani ora fecondi ed ora abbandonati dall’aria malsana, che si
estendono, a partir da Salerno, lungo il mare verso Pesto, la Greca
città de’ tempi classici. Altra volta l’indolente Sibarita cullava qui
la sua mollezza,ora alcuni grami pastori, divorati dalla febbre d’aria,
vi stendono pietosamente la mano. Ma no, non continuate sino a Pesto;
ed in mezzo ai piani i più ubertosi, voltate a sinistra, lasciate i
verdi aranci della riva del mare, voi vi troverete su di una strada,
che sempre più s’interra segnando le falde di un basso colle,
percorretela e vi troverete ad Eboli, dove invece degli aranci
scorgerete degli olivi dalle forme fantastiche, avoli di quella potente
vegetazione, che nondimeno sembra delle volte malata. Ben tosto vi
arrampicherete per numerosi pendìi per ridiscenderli di continuo,
partecipando alla disperazione dei cocchieri e de’ cavalli. Questa via,
che battete, fu l’antica strada Aureliana. Essa conduce a Taranto. Le
legioni romane han calpestato quel suolo, che calpestiamo. Ma quante
rivoluzioni dappoi! alle larghe selci della via romana son succedute le
pietre focaje roteate, e gl’invischianti fanghi di una strada
abbastanza mal concia. Ai larghi ponti antichi son succeduti quei ponti
ad archi diagonali, che il medio evo ha gittati su tutt’i fiumi, i
quali, curiosi a vedere,son più difficili a passare, perciocché
ciascuno di essi è una vera costa, delle volte torta, che non si può
salire né ridiscendere che a passo. Del resto molto toglie loro l’esser
solidi, dapoiché non si riparano affatto; e più d’ uno sulle strade
vicinali, che traversano la strada maestra, rimane rotto da secoli,
senza che si curi di rialzarli. Evidentemente si lavora a lasciar delle
ruine, se non a procurarne, e ciò par che sia nell’interesse del
pittoresco e della poesia!
O voi felice, se traversate quelle contrade con un bel sole,
giacché il sole d’Italia indora tutte le cose, fregia quelle lande
incolte, dà risalto a quei casolari dai cupi tetti, che vi fan sognare
gl’incendi ed i guasti della guerra.
Delle volte nelle seminude e semideserte campagne un pastore
circondato da grandi buoi grigi, chiacchiera appoggiato sul suo nodoso
bastone, con un giovane garzone, suo domestico obbligato. Non vi
spaventate di quelle figure energiche, che v’incrociano sulla strada.
Son esse della buona gente,che non cammina mai senza il pugnale, e per
quanto vi faccian timore, e delle volte ribrezzo, pur tuttavia,
consideratili nel loro complesso, preferisco il lor rustico vigore alla
degradante pigrizia, di ciò che fu non ha guari il lazzarone
napolitano. Nel giorno essi si spargono in quei campi pietrosi
interrotti da feconde valli; colla vanga in mano essi smuovono quella
terra inesauribile, la quale ha già nutrito tante generazioni; e quando
viene la sera, essi si avviano, arrampicandosi per erti pendìi, verso
quei villaggi pittoreschi, che la mano de’ loro padri ha edificati
sulle sommità le più acute, e sul declivio dei monti.
Cercate all’imbrunir dell’aria un alloggio in alcuna di quelle case,
che circondano la strada, e che non hanno neppur la pretensione di
esser semplici alberghi, a Zoppina per esempio, e l’indomani riprendete la vostra corsa, immergendovi nelle ripiegature di quella vallata, che si biforca ad Auletta, e che da un lato porta sino a Potenza, e dall’altro mena verso la Calabria.
AULETTA
Siamo di già sui luoghi del disastro. Quale più graziosa posizione
poteva scegliersi per edificarvi una piccola città? E una prominenza
verdeggiante, a piè della quale mormora un ruscello. Da lungi, ciò che
si prostende alla falde di quel promontorio, splende al sole, che si
leva fra le balze della vallata. Ma da vicino voi obblierete le grazie
del paesaggio, alla vista di 170 case distrutte; alla vista sovratutto
di quelle povere capanne di paglia di Maiz, che appena ricoverano
famiglie desolate. Il vento del mattino le passa da parte a parte,ed
agghiaccia i tristi loro ospiti. 1 fanciulli, per riscaldarsi, si
stringono gli uni agli altri, e voi che vi siete menato innanzi per la
stretta apertura della porta, là sul limitare, esitate, non avete il
coraggio di penetrare in fondo di quel ridotto jnobigliato di un
pagliericcio sbudellato, di un utensile rotto, e degli avvanzi di ciò
che ha dovuto essere una sedia.
Montate in sull’altura. Un galantuomo di professione
(e si è galantuomo qui quando si ha un angolo di terrea no al sole, un
abito ai panno sulle spalle, ed un fucile da caccia ad armacollo) si
offrirà forse con compiacenza per cicerone. Interrogatelo:
«Quanti morti avete avuti?» — «37 secondo alcuni, 42 secondo altri. La
nostra città non è grande, fa 3mila abitanti. Del resto abbiamo perduto
tutto. Le case rimaste in piedi non sono abitabili. Noi altri, gente
agiata, ci siamo rifugiati sotto delle capanne di tavole, i poveri
sotto la paglia. Più d’uno è morto in seguito alle sue ferite». — Avete
forse ancora dei feriti? — Se ne abbiamo! venite piuttosto a vederli».
— E noi entriamo in una capanna.
Un vecchio sta seduto mesto in un angolo, sua moglie piange in un
altro. Al nostro arrivo ei tenta di alzarsi, ma invano; si scusa, «ed
io non guarisco presto, mi disse, io era capo-urbano (capo della
guardia del luogo), non son più buono a niente. Ma non è questo il più
grande de’ miei dolori!»
Io non osava interrogarlo, egli aveva perduto i suoi tre figli.
«Vedete, Signore, ripigliò il mio obbligante Cicerone, questo fu il
castello del Marchese». Le muraglie per metà abbattute, lasciavano allo
scoperto gli appartamenti ancora tuutti decorati di ritratti di
famiglia, di specchi nello stile di Luigi XV, di forzieri abbastanza
rispettabili. Delle veneri e degli amori sospesi alle mura, sorrido no
stranamente alla desolazione del luogo, e se, affrontando i rollami che
si staccano, alcuno si avventuri sulle travi vacillanti, si troverà tra
i gabinetti di donna di un frivolo secolo, e trai guasti, che hanno
schiacciati i due eredi del Marchese del luogo insieme al loro Mentore,
un povero prete. Del rimanente, non è questo il solo contrasto, che
presenta Auletta. Gittate uno sguardo sul quartiere orientale della
Città, neppure una casa che non sia rovinata, né anche un muto che sia
intatto, neppure un telto che tenga. ancora, e nello spazio di alquanti
passi i drammi i più terribili sono accaduti. Qui tre persone di una
stessa famiglia sono stati bruciati vivi: i panconcelli della soffitta,
caduti sul focolajo, avendo preso fuoco, gli sventurati abitatori di
quella casa son periti nelle fiamme. Alla fucina due operai tenevano
ancora il martello, battendo il ferro caldo sull’incudine, quando la
fucina abbattuta s’incendiò. Non si son trovati più che gli scheletri
di quei miseri. Son desse ben dolorose memorie — Ma ecco a due passi in
là un quadro tutto differente. Sei o sette settimane appena ci separano
da questi orrori, e pur tuttavia delle giovani passano cantando. Esse
trasportano delle pietre sulla loro testa, per sgombrare il suolo, e
delle volte sento rimbombare in quelle ruine il rumore de’ loro scoppi
di risa. Il sole risplende sulle loro teste, come per invitarle ad
obbliar il passato.
Mi avvicinai ad una di esse:
«Voi non avete dunque perduto alcun parente, le dissi. —No Signore,
ma solo abbiam perduto tutto quel che possedevamo. — Allora, cantate,
mie povere figlie, cantate!». Ed esse ripresero, sorridendo, il loro
lavoro di manovali. Felice versatilità del temperamento napoletano, che
dimentica oggi i dolori di ieri, e che si sommette, senza mormorare,
alla volontà di Dio, dovrei dire al voler della Madonna; — che infine
canta su di una tomba. E ch'è mai l’Italia tutta, se non la tomba di un
gran passato, ove molte generazioni successive riposano per l’eternità,
ed al1’ orlo della quale, si è per lungo tempo creduto, che i figli
obbliassero la gloria de’ loro padri? Quando risorgeranno essi dunque?
Io era per continuare l’esplorazione de’ luoghi vicini,
quando il mio Cicerone si mise a gemere; egli era ferito ad un piede.
Ci sedemmo su di un muricciolo, e gli dimandai la sua storia: «Essa
sarà breve, mi disse, perché. ho appena una languida rimembranza de9
fatti. Io era a letto, occupato a leggere, quando un’oscillazione
vertiginosa mi fece tosto balzare, e nello stesso istante muntesi cader
nello spazio, non più luce, un rumore spaventevole, una scossa, io era
ancora sul mio letto; ma qualche cosa mi aveva ammaccato il piede, e
non fu che con pena, che io cercava un mezzo per uscire. Quale non fu
la mia sorpresa! io mi trovava al pian terreno, mentre mi era coricato
al terzo piano. Mi trascinai come potetti meglio sui minati ingombri
sino alla campagna. Fatto giorno, rientrai nella Città, già ognuno era
occupato a disotterrare i morti, a sollevar le pietre, a cercare chi il
suo denaro, chi i suoi amici sotto gli ammassi di travi e di tetti. Fu
1’opera questa di cinque giorni, ed i soldati del governo non arrivarono, che molto più tardi,
per sgombrare le strade. Valutiamo la nostra perdita materiale a 150
mila ducati; ma chi ci pagherà i nostri morti, e le nostre sofferenze?»
«Che si è fatto, domandai, per alleviare le vostre pene? — Son
venuti de’ forestieri, e ci han lasciati 150 ducati, i quali sono stati
distribuiti dai nostri preti in un modo abbastanza arbitrario. Il
governo ha fatto edificare una lunga capanna di tavole, ohe qui vedete.
Essa è divisa in 40 compartimenti, siccome gli stalli di una Scuderia.
Ciascuna di queste camerette non potrebbe contenere che un cavallo, vi
si vanno ad ammucchiare sette persone. Sarebbe ciò stato nondimeno, di
un grande soccorso sei settimane dietro; ora è ben tardi. Bisognerà
ancora, che nel prossimo anno, i privilegiati,che le autorità sono in
via di collocarvi, paghino il fitto di questo meschino rifugio. La
polizia ha stimato questa baracca pel valore di ducati 1200. Io
assumerei ben di farne una migliore per la metà di tal valuta. Ma
gl’impiegati non debbono forse prelevare la loro porzione sulle
limosine? Senza calcolar che noi non sappiamo ancor chiaramente, se il
Comune o il Governo è che pagherà queste spese.
Dopo d’aver ringraziato il compiacente galantuomo delle
notizie di cui m’aveva informato, era per congedarmi da seco lui. Ma la
presenza di un forestiere è una buona fortuna per quei sfaccendati
campaenuoli; quindi ei risolse che mi accompagnerebbe sino a Pertosa,
ad un miglio di distanza.
Mi accompagnerete voi, mio caro Emilio, in un altro giorno, se vi
piace, e non punto questa sera, perciocché la presente lettera è
abbastanza lunga, e troppo forse.
LETTERA II
PERTOSA
Noi c’ intratteniamo in un povero villaggio. Niente affatto che
ricordi il lusso della villeggiatura italiana. Persone e bestie, tutto
doveva esser povero in quelle capanne. Anche quelle muraglie vecchie e
mal costruite son crollate alla prima più leggiera ondulazione. Circa
175 case non offrono più traccia di tettoie, e su d’una popo, lazione
di 1012 abitanti ben 153 han trovata in quella crisi la morte. In un
angolo del villaggio, che or tengo a vista, più di cento persone sono
state sepolte vive, ed una quindicina son rimaste bruciate in un
parziale incendio. Pace a coloro che dormono qui vicino sepolti:
un’elemosina ai superstiti. Non mancano numerosi bisogni; in una
quindicina di nicchie qui soffrono e muoiono malati e feriti, povera
gente, che senza stendere la mano, risponde alle domande del
forestiero. Essi non hanno peranco sempre avuto quel ricovero. Le
coverte, la biancheria sono state loro inviate, bisogna dirlo, ma solo
al 27 gennaio; sei settimane di abbandono! La maggior parie non ha
ancora per ricovero, che delle tende di tela, sotto le quali essi si
ammucchiano nel maggior numero possibile, si stringono gli uni agli
altri per riscaldarsi, giacche è impossibile accender ivi del fuoco, ed
il freddo è piccante. Almanco le avessero avute a tempo!
Voi mi dimanderete, mio caro Emilio, perché questi ritardi? —
La è singolare la vostra dimanda in un tal paese! Forse che è
possibile, che tutto cammini a vapore là dove non sonvi né anche da per
tutto strade? Eccovi, d’altronde una ragione trascendente fornita come
risposta alla dimanda di un mio amico. Questi ch'è passala pei luoghi
del disastro quindici giorni prima di me, domandava ad un impiegato: «Perché le
vostre tende non sono ancora arrivate? Si è fatto presto a trasportare
alcune di quelle tele che servono all’accampamento del1’ armata»? — Eh,
Signore, esse vengono da tanto lontano! —E donde? — Da un paese al di
là del mare... aspettate... dunque dall’Islanda!... Si è là che si sono
ordinate; e voi capite, che prima che siano cucite...
Quale derisione! come se non vi fossero abbastanza tele in Napoli,
come se l’arsenale non ne fosse pieno. Pur tuttavia quella popolazione
ha un tesoro nel suo infortunio, essa ha un buon curato, cosa rara nel
paese. Io non saprei esprimervi con quale soddisfazione ho veduto
quell’uomo in mezzo delle sue stroppiate e sventurate pecorelle, più
polveroso e più lacero che altri, rialzar i lembi della sottana per
correre dall’uno all’altro, e mettere un ordine in quel caos. Aperto di
figura, franco nei suoi modi, egli ci accoglie con cordialità, e
mostrandoci le liste, che aveva fatte di 170 famiglie più povere della
sua comune «Vedete, disse, secondo le disposizioni de’ vostri amici
inglesi, abbiamo distribuito un ducato per ciascheduna di esse. Abbiamo
affìssa la lista delle persone soccorse, tutto ciò si è fatto
pubblicamente per evitare ogni frode, ogni sospetto; siete dunque
contenti di me?». Chi non lo sarebbe stato? Si è innanzi a noi ch’egli
ha voluto distribuire il pane bigio,che lo abbiam pregato di comprare a
nostre spese. Egli ci mostrò come aveva fatto sgombrare le strade dai
materiali che v’eran caduti, facendo in tal modo guadagnare a ciascuna
famiglia i dieci carlini, che le spettavano. Egli ha pure idealo di far
mettere a parte, per ciascun lavoratore, un mucchio di pietre, che gli
serviva per riedificare la sua casa, in modo che il più attivo si trova
possessor di maggior numero di materiali. Carità ben intesa, che vende
l’eleanosina al lavoratore, e la dona all’impotente. Posso dirlo senza
esagerazione, questo eccellente prete mi ha fatto invidia. Ho veduto
nel suo genere di vita, nella sua divozione, nella sua pratica
attività, nel rispetto, che si attirava, quasi un ideale. Ma è stato
più tardi che ho saputo quand’ ei valesse. Il suo superiore, l’Abbate
dei
Benedettini di Cava, mi ha detto, che quell’uomo edificante
coll’aiuto di un solo gendarme, aveva tratto dalle mine più di quaranta
persone. Ebbene! lo si crederebbe? è a grande stento, che si è giunto a
farne inserire una menzione onorifica nel giornale uffiziale.
L’autorità non intende punto, che gli altri facessero un bene ch'essa
non fa. Ce ne siamo ben accorti noi stessi. Uno de’ principali
ostacoli, che abbiamo incontrato nel nostro pietoso viaggio, fu
precisamente quella interessata gelosia degl’impiegati, che incaricati
ad esser soccorrevoli, arrossivano in vedersi avvanzati e corretti da
forestieri. Fa d’uopo dirlo? Molti s’indignavano perché noi non
avessimo abbastanza confidenza in essi per affidar loro la
distribuzione delle limosine, ed un più gran numero ancora
s’indispettiva per non poterne intascare il montante. I fatti che più
tardi vi narrerò, vi faranno abbastanza palese che non è questo un calunnioso supposto.
Ma passiamo oltre, e riprendiamo la strada maestra. Pare, che
in questa parte del nostro cammino, le abitazioni poste in fondo della
valle, siano state risparmiate, mentre che le Città situate su di
superbe sommità han subito una legge comune. Il torrente, lungo il
quale camminiamo, il Campestrino traversa ancora graziosi
molini, le sue onde s’immettono in ridenti cascatene sotto archi
intatti, e zampillano su ruote, che stanno sempre a perpendicolo,
mentre che sulla nostra sinistra Caggiano mostra da lungi la
sua desolazione, sull’incoronamento di un’altura. Caggiano piange una
ventina de’ suoi figli, e più della metà delle sue case. Sonvi dunque
là, su di una popolazione di quattromila abitanti, più di duemila
persone senza asilo.
Su quelle alture, credo, si elevasse ancora il piccolo villaggio di S. Angelo le Fratte. Ci
si racconta una lagrimevole storia dai paesani fuggitivi, erranti nella
montagna. Neppure una casa sola è rimasta in piedi in questo borghetto,
benché esso non avesse a piangere altro che la morte di tre persone. .
.
Ma avrò a menarvi in mezzo a spettacoli ancor più dolorosi. Salile
al passo de’ nostri cavalli il pendio formato a zigzag, che scala il
bastione delle alture, ed arriveremo al di sopra della cascata del
Campestrino. Vedrete aprirsi una lunga e ricca valle, ove prospera
ancor l’olivo, e lungo la quale si scaglionano, sui due declivi del
bacino, Polla, Sala, Padula, Diano e tante altre città, interessanti
per le loro sventure. Voi mi accompagnerete dimani, se pur non vi
manchi la lena.
LETTERA III
POLLA
Alla sommità di una collina tagliata a cono, ultimo pendio verso la
dritta delle montagne, nevose l’inverno, nude l’està, e che formano la
vallata, che rimontiamo, si eleva Polla. A vederla da lontano nelle
ombre di un giorno nebuloso la si trova graziosa. Niente dapprincipio
si para come luttuoso, ed alcune case bianche, scaglionate sui bassi
pendi della collina, fanno volentieri illudere lo spettatore. Qui,
siccome accade bene spesso nelle società, all’avvicinarsi si scorgono
le miserie per metà dissimulate sotto l’aria di non curanza, tutta
quella grazia, che risulta dalla posizione e dalla natura, non è che
l’intonaco esteriore di una tomba.
Sui settemila abitanti che conteneva la città, si contano 867
vittime; 800 case sono letteralmente a terra, e più di 600 altre stanno
là là per rovinare sul capo de’ loro abitatori. Ma andiamo innanzi
passo a passo. Nelle vicinanze della città non vi sono, che poderi
abbattuti, ed alberghi atterrati sulla strada medesima. Vi è stata
innalzata dappresso una grande capanna di legno, che si dice divisa in
70 scompartimenti. Comincia ad esser occupata dalla popolazione, ma da
ieri soltanto, e siamo di già al 1 febbraio. Alcune tende di tela
bianca, sparse sul suolo, o piuttosto sulla neve, non sono che troppo
stivale per la salute di quei miseri, che vi si ammucchiano. Come io
dimandai a quel Giudice Circondariale il numero di queste tende, egli
mi rispose secondo la cifra ufficiale.
«Ve ne sono cento» — Ma, Signore, io non ne vedo più che un
venti — «Ve ne sono ben cento» — Numeriamo, dissi, e ne contai non più
che trenta — «Ve ne sono cento», rincalzò quel miserabile, che aveva
ricevuta la consegna e non poteva dir diversamente. lo aveva il mio
libro di note in mano; chi sa qual impiegalo poteva esser compromesso
da’ miei rapporti? Ecco come riluce e si rispetta la verità in questo
paese! Sotto di una di quelle tele trovai il vecchio Sindaco della
città, povero uomo, malato, coricato, senza riguardi agli anni suoi ed
al suo titolo, su di un cattivo pagliericcio, mal protetto da una
leggiera coperta, e gemente a fianco di sua moglie e de’ suoi
figliuoli, i quali tremavano dal freddo per mancanza di fuoco. Quale
sorte per un Magistrato! Bisogna pur dire, che un Sindaco non è tanto
il mandatario del governo, che il rappresentante del Municipio. Ma
quando i vecchi capi del comune si maltrattano obbliati in una totale
privazione, che non dev’esser de’ semplici privati cittadini? La mia
prima missione era di assicurarmi in qual modo i fondi somministrati
dai nostri amici inglesi erano stati utilizzali. Che far dunque
all’oggetto? Pensai dirigermi alla popolazione, e dimandai a più di
venti persone: «Avete voi ricevuti da’ vostri preti dieci carlini a
famiglia?» — No, mi fu risposto — Allora qualcuno de’ vostri amici?...
—No —Passai ad informarmi in tott’i quartieri della città: «Noi abbiamo
ricevuto qualche cosa, mi si disse infine — E che? — «Chi due, chi tre
carlini —Io poi, ripigliò una donna, non ho ricevuto che un grano — Ed
in nessuna parte si è distribuito per ducati alle più bisognose
famiglie? in nessun luogo si è affisso avviso a tale oggetto? — «No
No!» — E pur nondimeno, noi abbiamo rimessi trecento ducati pei polveri
della città — «A chi?» — Ai vostri preti — «Ah, Signore, si esclamò da
tutte le parti, essi son tutti dei ladri!»
Io rimasi forte sorpreso di questo libero parlare. Siamo noi
bene in Italia, nel paese della sottana? «Voi, buona donna», dissi ad
un’attempata matrona, che ne pensate voi de’ vostri preti? come di
questi per esempio, essendotene qualcuno presente, — «Son tutti cosi, e
questi come gli altri», rispose, scuotendo la testa — E voi buona
giovinetta, che pensate del vostro parroco?—«Quegli, sciamò essa, ben
lo conosco eh... » ed accompagnò la risposta con un gesto di scherno
troppo energico per poter esser tradotto altrimenti che per un’aria
caratteristica napoletana.
Io non ne rinveniva! Quale libertà di parlare, qual maniera di
pensare! Ma un popolo che tutto ha perduto, non simula falsi riguardi,
né risparmia alcuno, e senza dubbio il clero di quei luoghi aveva
dovuto far molto per acquistare una si brillante riputazione. z Ciò che
dicevan de’ preti, lo dicevan pure del governo, che lasciava tanta
gente in abbandono. Si grida altamente: «la polizia ci lascia morir di
fame». Or fa bisogno che un abitante abbia lo stomaco ben vuoto per
aver il coraggio di affrontare pubblicamente così la polizia.
In quanto al denaro inglese, ho saputo che, rimesso allo
stimabile Abate della Cava, questi lo aveva passato nelle mani
dell’arciprete M. il quale ha preteso di aver adempito alla, volontà
de’ donatori. «Ma, Signore, la pubblicità del vostro operato?»
gli dissi, ed ei mi si mostrò molto imbarazzato, indi arrossendo,
confessò, che non aveva affissa la lista delle famiglie, che era ben da
supporsi che aveva soccorse — «Ebbene! soggiunsi, almeno provatemi di
aver fatta una distribuzione qualunque, producete delle persone da voi
soccorse». Una specie di mendicante, dall’ignobile figura, mi seguiva
stendendomi la mano, l’arciprete gli fece un segno, che io sorpresi a
volo; il mendicante apri la bocca. «Parla, ma bada a non mentire», egli
arrossì e non osò parlare.
Permettetemi ora di dirvi, mio caro amico, quale si fosse il
risultato delle mie ricerche su tale oggetto. Al mio ritorno di là non
ebbi niente di più premuroso che correre presso l’Abbate de’
Benedettini di Cava con uno de’ donatori della somma scomparsa. Questo
rispettabile prelato ricevette con rammarico le mie comunicazioni, e ci
promise di prendere delle informazioni. Sventuratamente egli non
credette potere far meglio che chiedere un certificalo al clero di quel
paese. Il certificato arrivò, munito della firma di tute i preti della
contrada, esso asseriva,... che il denaro era stato impiegato — e più
che questo,. , era stato distribuito a norma delle condizioni
richieste. Abbiamo letto il documento giustificativo. È desso un falso
manifesto fatto da tutto un clero di quei paesi, per covrire una
malversazione, ed io ho il dispiacere di dover dire, che il bravo
curato di Pertosa, di cui v’ho descritta la bella condottarsi è
lasciato anch’egli indurre a segnar quell’infamia. Speriamo, che sia
stato tratto in errore,... a meno che gli interessi della chiesa non
gli abbiano fatto, siccome ai suoi confratelli, passar sopra de’ dritti
della verità. L’Abbate di Cava, comunicandoci questa carta, ci diceva:
«Che posso fare dippiù?». Niente sicuramente, se non che comunicare
altri principi a’ suoi subordinati, e sorvegliarli coi propri occhi.
Ma percorriamo le ruine. Più si sale it colle, più la
distruzione è grande; alla sommità del cono formato dalla collina, non
restano più che pietre. Si riconosce per tanto la traccia delle strade,
ma bisogna sormontar mura ad ogni passo. Jn taluni luoghi un puzzo
insoffribile vi fa indietreggiare. «Donde ciò avviene?». Dai morti
animali, vi dicono. «Ma non sonvi più cadaveri umani?» — E chi sa? ieri
ancora se ne son trovati, e dopo sei settimane non si fa che
disotterrarne.
Qui è un prete, ch'è stato bruciato vivo, tristo autodafé, che non era, oso crederlo, una espiazione di quelli di Spagna.
Là si è strappato dai rottami un vecchio di 70 anni; la sua intera
famiglia, i figli fanciulli riposano ora nella fossa comune. Ed ei
resta solo a piangere quelle care vittime! «Mia figlia, mi disse un
dabben uomo, si è per miracolo, che l’ho serbata: la si è tratta dalla
mia casa, vivente, ma tutta pesta, dopo d’aver passato là sotto due
giorni e due notti, orribilmente lunghe a me più che a lei medesima —
Ed io, mi disse il Giudice, posso citarvi il fatto del Brigadiere
Montefusco, il quale è stato disotterrato vivente dopo cinque giorni.
Egli è morto dopo all’Ospedale, in seguito alle sue ferite. — Io mi
trovai in faccia ad una donna, giovane ancora, ma divenuta squallida;
essa stava silenziosa ed in piedi come stupefatta; camminava qua e là
pel cerchio d’alcune ruine; il suo sguardo era smarrito. Mi trassi
fuori la folla, e mi avvicinai a lei. «Che guardate cosi?» le dissi;
essa trasalì, poi parve rassicurata «ed essi eran qui, proruppe, era
questa la mia casa. Noi possedevamo tutto questo quartiere della città,
essi son tutti morti i miei parenti, i miei fratelli, tutti, tutti!» —
E non vi resta più alcuno? — Si, mio tiglio, egli era là, sotto quella
cappa di cammino; vi è rimasto tre giorni! tre giorni, capite? Io lo
cercava, infine lo si è trovato, egli non era ferito; quando l'ho
chiamato, egli si è precipitato presso di me, poi è caduto come
fulminato. Io l’ho creduto morto. Oh! la mia testa si perde. Lasciatemi
andarlo a vedere! «Essa si allontanava spinta dall’amore materno»,
quando tutto ad un tratto, cangiando pensiero: «Vedete, disse, non ho
più che questa veste nera, essa è usata. Non ho più niente... niente
più!». Bisognò allora far l'elemosina a colei, che aveva posseduto un
quartiere di quella bella città!
Io continuava a salir tutto commosso, quando fui attraversato
da un’altra giovine modesta e decente nel bruno vestito. Essa piangeva;
e non osai fermarla. Sonvi de’ dolori, che non si ha mica il coraggio
d’interrogare. Ritornai, e l'accompagnai collo sguardo nella sua
discesa. Non obblierò nella mia vita quel dolce viso della vedovata
donna, nascosto a metà sotto un rustico velo nero.
Arrivammo su d’un’altura, donde si domina la città intera, ed allora
si offri al mio sguardo uno spettacolo più tristo ancora di quello che
aveva immaginato: l'insieme era più espressivo del dettaglio. Delle
case, di cui quella conica collina era coperta, neppur una se ne vede
in piedi sulla sontmità, benché intatte sui fianchi, ed altre son
tuttavia rimaste ferme sui bassi pendi. In somma è un miscuglio di
pietre, di armature di legno, di erte screpolate mura di cui parecchie
non mantengono, che per incanto, di soffitte sfondate e giacenti al
fondo delle cantine. Un vero càos, nel quale nondimeno appare che v’era
altra volta un ordine. Un castello coronava il culmine della collina.
Se ne riconoscono gli avvanzi. Le massicce costruzioni sono state
scosse altrettanto che le più deboli. Nessuno schizzo offrirebbe alla
matita dettagli più pittoreschi che Polla guardata da questo punto; per
modo che non si è mancato di rilevarla in fotografia.
Alcuni dettagli ancora prima di ridiscendere da questo
sorprendente osservatorio. Il Giudice di pace pretende, che siensi
salvate più di 200 persone, le quali eran rimaste chiuse sotto le loro
abitazioni; ma sono stati dei privati cittadini, de’ vicini, che loro
han salvata la vita, giacché nessun soccorso era per anco arrivato da
fuori. Egli aggiunge che non si son trovati che 130 feriti. Queste
cifre, ravvicinale ai dettagli che ho raccolti in altre città, mi
sembra che hanno un grande significato. Evidentemente in tal caso il
numero de’ feriti deve eguagliare quello de’ morti. Inoltre
l’esperienza ha provato, che una quantità di persone ancor vivevano
dopo tre, quattro, ed anche otto giorni di quella spaventevole
sepoltura. Che cosa dunque è da conchiudersi, se nonché dei soccorsi
arrivati l’indomani o anche il posdimani del disastro avrebbero salvato
una grande quantità di quegli sventurati? L’immaginazione non osa
rappresentarsi le angosce di migliaia di persone, che som rimaste sotto
i rottami per non potere trarsene, e che le loro ferite o la frattura
delle loro membra le hanno impedito di fare gli sforzi necessari per la
loro liberazione! Non mi maraviglio dunque che a Polla non siansi
trovati più di 150 feriti, poiché si son lasciali morire tutti gli
altri. 1 tìngente che sono stati tratti vivi dalle mine, non lo sono
stati che per azzardo. Parecchie centinaia solo in Polla, sepellitì
vivi tra i rottami, hanno dovuto sentirsi spirar lentamente. Chi li
avrebbe potuto salvare? Quella popolazione abbattuta, fulminata dal
terrore di sì tremenda sciagura, schiacciata dal suo fatalismo, o
mancante di morale energia, senza un estraneo soccorso? No certamente;
i superstiti erano affascinati dall’idea del pericolo, ed avevano
abbastanza da fare per trarsi dal dolore. Aggiungete a ciò l’egoismo,
che sovente si svh luppa nelle pubbliche calamità, pensate all’apatìa,
nella quale da secoli si sforzano di addormentare questo popolo, e voi
vi meraviglierete meno di quella spaventevole negligenza, ch'è costala
la vita a tante vittime — Solo l’amor paterno o filiale, solo l’amor
coniugale, han fatto qualche prodigio.
Ma chi è stato il gran colpevole? Il governo. Egli ha
lasciato il salvarsi al caso e senza direzione veruna. I soldati non
sono arrivati, che otto giorni dopo il disastro, essi dunque non han
trovati che de’ morti a diseppellire! Diciamolo ad onore degli
Svizzeri, che servivano in quell’epoca il Re di Napoli, essi han
dimandato di accorrere in soccorsole si è loro rifiutato un tal favore.
Alcuni mesi prima non si son mica usati gli stessi ritardi, quando una
banda di malcontenti, sbarcati a Sapri, han minacciata la sicurezza del
trono. Con una rimarchevole sollecitudine si son fatte pervenire delle
truppe nelle stesse regioni oggi neglette. Ma allora si trattava di un
trono, ed ora non si tratta che di alcune migliaia di sfortunati.
Lo dirò? I Galeotti han mostrato in questa circostanza più
filantropia che le autorità. Il detenuto Paolo Rossi, salvatosi, non si
sa come, fece un lodevole uso della sua libertà, dandosi co’ suoi
compagni a ricercar le vittime. Furono aggraziati, mi si è detto,
sarebbe stato meglio imitarli. Le autorità non hanno fatto altrettanto
coi detenuti di Potenza. Si racconta che quei disgraziati, sentendo
vacillare il loro bagno, han supplicato di essere trasportali altrove,
ma siccome in tal epoca niente si osava fare senza l’ordine del Re,
così si ebbe la crudeltà di farli aspettare sino a che il Monarca non
ebbe risposto alle loro suppliche, e la sua risposta era... un rifiuto!
Qualche scettico della vostra tempra, mio caro Emilio, domanderà forse,
com’è possibile che delle persone, ed in sì gran numero, abbiano potuto
vivere si lungo tempo, ferite, mutilate, sepolte sotto un cumulo ai
materiali, senza mangiare né bere? Si è questa una dimanda che molto
sovente ho fatta a me stesso. Ma i fatti parlano più alto de’ dubbi,
essi son numerosi, raccolti in più luoghi, ed i soggetti vivono ancora
per testimoniarlo. Mi si dovesse rispondere col medico di Molière: «è impossibile.»...
Ma è ciò che io so, ciò che ho veduto, lo a me medesimo domando dunque,
se la fisica costituzione dell’uomo non è più atta alla resistenza di
quella degli animali?
Ove mai si consideri che dopo già sette settimane, ed in seguito
durante lutto l’inverno, quei sventurati han dormito a migliaia allo
scoverto, delle volte sulla neve, o poco meno, senza sufficienti
vestimenta, quasi senza nutrimento, si ammirerà senza fallo la forza di
resistenza, di cui il Creatore ci ha dotati. Io discorreva di questi
fenomeni colle mie guide, quando essi mi dimostrarono, con ingenuità
napoletana, che l’uomo non potrebbe lottare, per longevità sotto le
ruine, con certi altri animali. Lascio loro la responsabilità del
paragone, e vengo al fatto.
Si sgomberavano in Polla le Scuderie di una casa, l’odore
infetto del luogo era indizio della morte degli ospiti della statla. D’
altronde si era al 12 gennaio, cioè 29 giorni dopo il disastro, per
tanto si sentiva un sordo grugnito; qualche cosa tentava farsi strada
attraverso una fessura della muraglia. Spaventati dapprima i
lavoratori, si mettono all’opera, e ben tosto la zappa ed il martello
han messo allo scoperto un povero porco, dimagrato, che respirava
l’aria per quella fessura, e che aveva dovuto vivere della sua
grassezza, per tutto quel tempo! Non è questa un’esagerazione
meridionale: la storia del povero animale è scritta in disteso nei
registri ufficiali degl’impiegati, insieme alle avventure di più d’ uno
dei suoi compagni d’infortunio, salvali come esso lo fu, dopo quindici
o venti giorni di assoluta dieta.
Ma ritornando alla nostra nobile specie; avessero pur avuto gli
uomini maggior forza di resistenza, gli sfortunati abitanti di alcune
altre città non sarebbero stati tuttavia salvati; imperocché grazie
alla negligenza del governo, migliaia de’ di loro cadaveri riposano
ancora, senz’ altra sepoltura che le loro crollate abitazioni. Ma
bastano questi orrorosi racconti per oggi, io vorrei potervi
promettere, mio caro corrispondente, quadri più graziosi in avvenire.
Ma Oimè!. . Noi posso!. .
LETTERA IV
ATENA
Sforziamoci d’imitar la facile versatilità del genio italiano:
fuggiamo senza rivolgerci. Lasciamoci a dritta nello stesso modo
rovinati dal disastro, S. Pietro e S. Arsenio, piccioli borghi, ch'eran
troppo vicini alla corrente della tempesta per non esserne gravemente
turbati. Quale impressione fanno sul mio spirito esaltato, alcune
decine di vittime in luoghi diversi, quando ne’ grandi centri bisogna
contare i morti a centinaia ed a migliaia? Avrei nondimeno voluto
visitar Atena. Questa piccola città di 4000 anime si raccomanda per le
sue 50 vittime e per le sue case più devastate ancora di quelle di
Penosa. Si parla di 500 di esse da rialzare. Si parla poi di un più
grande abbandono che per ogni altro luogo. Io non so se questa
supposizione sia vera, ma se il Governo non ha dato niente a que’
disgraziati abitanti, ha però loro promesso molto, ed è già qualche
cosa. Là, siccome altrove, i poveri son divenuti ricchi, perocché essi
han sempre le loro braccia, il loro lavoro, la loro industria, mentre
che i proprietari non hanno più le loro case.
Tutti questi fatti già noti, io voleva verificarli co’ miei
propri occhi. Ma non contava sul mio cocchiere. Felice chi su queste
strade polverose ha un cocchiere a suo servizio, più felice chi non ne
ha, giacché questi signori son de’ despoti. Quando colla frusta in
mano, e col cappello in testa, vengono servilmente allo sportello della
carrozza a fare delle osservazioni a Vostra Eccellenza, allora diffidate.
Il più padrone dei due non è quello che se lo pensa! — «Camminerai
tu? — Non posso. — «Perché?»— Siam troppo lontano di là, un miglio
nella montagna».
«Che m’importa? io ti prego, va innanzi». — «Il giorno declina» —
«Hai paura?» — Sì, vi sono de’ ladri la sera sulla strada» — «Ma questo
importa a me» Non posso.
Durante questa discussione le persone si radunano,vecchi,
giovani, donne, fanciulli gesticolano a chi meglio sa; vi conobbi il
padrone di un albergo vicino, col quale mio cocchiere s’intendeva
meglio a segni che con parole «Fermatevi in casa nostra» — Ah il
terremoto ha lasciati dunque gli albergatori»» — «Scendete, signore,
scendete», e mi tirano chi per un braccio, chi perle gambe.
Feci splendere una piastra agli occhi del mio cocchiere, ed il suo
sguardo brilla, una piastra! se la prende saltando sulla sua sedia, a
galoppo mi mena sulla strada che voleva seguire, ma che non conduceva
ad Atena; a forza di dimenarmi lo fermai. «Elà, prendi la via di
Atena». — «Non posso» — «Ebbene, restituiscimi la piastra» — «Ah
signore, è troppo poco, aggiungetene ancor altre due, e si vedrà.»
Un solo argomento mi restava, il bastone, ma mi ripugnava usarlo,
senza contare, che al bastone questi signori rispondono delle volte con
lunghissimi coltelli. Mi affondai rassegnato nella mia vettura, e
partimmo per Sala.
Comprendo che qualche Parigino, qualche Normanno mi dirà «e che, la
polizia, il giudice di pace non han nulla da fare costì?» Ingenue
osservazioni, i di cui autori per tutto castigo meriterebbero di esser
messi alla pruova.
E che, non si sa forse che in tal epoca a Napoli un briccone
aveva sempre ragione sulla gente onesta? Vi era ben in questo caso
l’argomento pecuniario, che aveva una potenza incontrastabile sulla
polizia. Ma perché comprare con quattro piastre dagli uomini della
giustizia, quello che il vostro avversario vi avrebbe ceduto per due?
Il governo sul suolo è molto mal eseguito in tutto il paese, ma quello
al contrario sulle persone lo è molto meglio; esso è arrivato allo
stato di arte.
Io viaggiava preoccupato da questa sventura; la notte era caduta,
notte abbastanza oscura, che non aveva neppure la poesia de’ fantasmi.
Si lascia in tal caso di girar lo sguardo per la luce dello sportello,
e si trova più semplice di provocare il sonno; e ’l sonno non si fece
lungamente aspettare, ma scene troppo funeste avevano eccitata la mia
imaginazione. Mille apparizioni di crollanti mura, che minacciavano
schiacciarmi, di fanciulli gridanti soccorso, di donne prostese sulle
ruine, soffocate da singulti; mi pareva di essere in una casa che
tremava le di cui travi si distaccassero dalla soffitta, che il
campanile di Polla vacillasse sul mio capo. Ed io par che non potessi
fuggire. Dipoi mi parve che il moto divenisse regolare, che la casa
girasse come un carro tirato da infernali destrieri. Un rumore sordo e
continuo percuote le mie orecchie, è un tremuoto ambulante. Tutto ad un
tratto una parete della casa sprofonda, un freddo glaciale mi penetra
le ossa, e ’l sogno mi figura al vivo una pietra, che cadendomi sul
braccio mi fa mettere un grido... gridai davvero «Chi è?» era il
mio cocchiere, il quale avendo aperto lo sportello, mi aveva preso
rozzamente pel braccio per risvegliarmi. E la veglia non si mostrava
affatto meglio del sogno. «Ah! siam perduti, signore» — «Perduti?» —
«Sì». — «Ma tu sei sulT unica strada della contrada» — «SI, ma non ci
vedo niente» — «Domanda a qualcheduno» — «Non v’è alcuno» — «Allora va
più lungi di qui» — «Sì, lino a dimani, non è vero?» — «Tu dunque non
vuoi camminare?» — «No» — «Allora fermati» — «Voglio invece ritornare —
«No, ti dico» — a Ebbene, datemi la mangia» Non gli doveva dar che dei
colpi di bastone, ma la vista di un manico di pistola produsse un
effetto insperato; i magri cavalli ripresero il loro trotto, un quarto
d’ora dipoi noi salivamo quei rapidi pendi di Sala, sul fianco sinistro
della Valle.
LETTERA V
SALA
Vi ho lasciato, mio caro Emilio, all’ingresso di questo grande paese denominato Sala. Nell’immensità
delle tenebre si scorgeva una luce. Una capanna si apri, e ci lasciò
vedere venti o trenta persone disposte in cerchio intorno ad un enorme
braciere. Un ufficiale in uniforme ci collocò in mezzo ad una riunione
di Dame; l’ospitalità italiana ha le sue originalità, ma il carattere
di tale società doveva essere specialmente bizzarro; nelV assaggiare la
tazza di caffè nero, di cui ci fecero presente, dovemmo nettamente dire
i nostri nomi e cognomi, le nostre intenzioni, e le nostre idee. Madama
la moglie del Sottintendente, in casa di cui eravamo, sembrò rimanere
incantata specialmente nel sentir notizie di suo marito, il quale
avevamo veduto attendere alla distribuzione delle capanne ad alcuni
indigenti di Auletta. Ma la fatica del giorno ci aveva bastantemente
tra pazzati; quindi prendemmo tosto commiato da quelle dame, ed un
gendarme, messosi il fucile sulle spalle, ci precedette sino
all’albergo. Avevamo fame, un mostruoso piatto di maccheroniche avrebbe
satollati venti lazzaroni, servì di base alle nostre operazioni di
cucina. Ma quando cercammo un condimento a si enorme pietanza, ci si
offrì una specie di duro corvo, che nell’osteria portava il nome di
piccioncino. I nostri amici inglesi hanno affermato d’aver trovato due
volte sol da pranzare in otto giorni. Trovar da pranzare era un
azzardo, mi pare, ed io da parte mia, affermo di non aver potuto in
tutto il mio viaggio fare un sol pranzo in regola. Del resto, chi mai
avrebbe il coraggio di gustar la buona carne sì dappresso al luogo ove
gemono tanti affamati? Quante volte non mi è accaduto di dover
sospendere un pasto cominciato, al sentire un gemito di un ferito, o il
grido di un orfano? Non si ha fame su di un suolo coverto da tante
sventure, e che lascia giungere sino a voi il puzzo di tanti cadaveri
in decomposizione.
Ma vorrei distrarvi da queste lugubri scene. Dividete dunque
con me una tazza di vino, che bevo insieme ai numerosi campagnuoli, che
vengono ogni sera ad assidersi intorno al focolaio di questa cucina del
L’Albergo. Ho però torto di dir focolaio, quando il fuoco vien acceso
alla buona in mezzo la sala. Grossi tronchi di alberi bruciano sotto la
marmitta. In quanto al fumo, esso scappa come può, cioè dopo d’ aver
aggiunto piò nero alla nera soffitta, si fa lentamente strada per la
porta. A grande incomodo degli occhi di coloro che si riscaldano, esso
discende giù tanto che bisogna curvarsi molto per non rimanere
asfissiato. Per godere del calorico non v’è mezzo in quella situazióne,
giacché d’avanti vi sentite scottare, il dorso vi sentite gelare,
mentre la testa ve la sentite grave pel fumo. Ecco ciò ch'è un albergo
di provincia durante un inverno. Qui tuttavia si vive ancora,
imperocché la catastrofe non ha prodotto tanti guasti che lo spavento
de’ primi giorni non abbia potuto dissiparsi. La nostra ostessa e sua
figlia, imprigionate in larghi collaretti, i quali sono a quelli di
Errico IV ciò che la crinolina al modesto gonnellino delle nostre
avole, la nostra ostessa, dico, in tuona un canto monotono e stentato,
che esprime altrettanta originalità che ignoranza musicale; così
cullato da questo sonnifero ritornello, guadagno il mio rozzo letto al
fondo di 29 una stanza, che n’era gremita. Le finestre semirotte
lasciano giocar la tramontana a traverso i tarlati paraventi. Ma, dopo
una tale giornata, ove non si dormirebbe?
Ci svegliammo al rumore delle piogge sbattute dal vento. Nembi di
liquefatta neve solcavano ovunque la valle. Ragione di più per
affrettarci. Quei sventurati, che andavano a prestar soccorso
agl’infelici, quanto non dovevano soffrire per si cattivo tempo!. . I
cocchieri poi non amano la pioggia, e bisognò sostenere un assedio in
regola contra del nostro.
Le strade erano impraticabili, egli diceva, il gelo era
dapertutto, fuorché sotto la lingua del nostro uomo. Non pertanto
marciammo, ed un’ora dopo eravamo a Padula. Ma prima di entrare in quel
paese, diamo uno sguardo su quel che lasciamo.
Sala ha sofferto poco. Tre morti ed alcune case abbattute
costituiscono il grosso del danno patito. Tutto non v’è fatto pel
diletto, ma avvi tuttavia molta grazia in questa piccola città, che
giace neglettamente sui pendi di un monte. Vecchi costumi di mezzi
tempi, castelli divenuti inutili, scelta di posizioni inespugnabili,
tutto. vi riporta al secolo XIV. La cupa solitudine di quei luoghi
completa l’illusione. Ma ciascuna città non è almen qualche cosa per se
stessa? Sì, essa dev’esser riguardata per la sua popolazione più che
per la sua importanza. E dove quella popolazione ritrova il suo
commercio, donde trae gli elementi alla sua industria? neppur l’idea di
ciò. L’isolamento ha prodotto qui, ciò che un’esagerata
centralizzazione potrebbe produrre in Francia, esso ha mantenuto in una
completa nullità luoghi, che per la ricchezza del loro suolo, avrebbero
potuto divenir qualche cosa. Ognun conosce, almeno per rinomanza,
Neuchatel, Vevev, e tanti altri piccoli centri della Svizzera, i quali
benché insignificanti per la loro popolazione, son pur tuttavia
rimarchevoli per la loro vita individuale. Ma chi ha mai inteso a
parlar di Sala o di Padula, a meno che non ci fosse tratto, come me, da
uno straordinario avvenimento? La causa è pur troppo da vedersi là nel
sonno generale delle idee, degli affari e delle cose.
LETTERA VI
PADULA
Quando guardate Padula dal basso della Valle, siccome l’han rilevata
i fotografi, voi la credete una grande città,tanti tetti sopraposti o
costruzioni sparse ne’ giardini dei dintorni vi sono. Ma qual è la
vostra sorpresa quando, per salire a questo gruppo di case, non trovate
che un sentiero da capre,, solcato dalle acque e battuto dai piedi de’
passaggieri? È vero che si è promesso agli abitanti di costruire una
strada per la quale potessero più facilmente transitare i muli. Ma Dio
sa quando questo progetto passerà in esecuzione. Pel momento si tratta
di rialzar cento case abbattute. Chiese crollate, e da costruire
altrettante abitazioni, le quali quantunque in piedi pur mancano di
soffitte e di travi. Il duolo non è grande nella città, ma il timor
panico v’è permanente. Ventotto morti non lasciano un gran vuoto in una
popolazione di 9 mila anime; ma si ricordano con terrore due donne cui
è stato d’uopo amputar le gambe, e non si. osa rimanere che solo il
giorno in quelle case piene dt fessure, che le travi soltanto difendono
da una disastrosa caduta. Nella sera si rifuggiano sotto capanne che
ciascuno ha costrutte alla meglio ne’ giardini di quei dintorni. Il
timor panico si manifesta pur anche in un altro modo, voglio dire per
un aumento di religioso fervore. Il viaggiatore resta stranamente
impressionato, quando traversando la sera quelle vie deserte, sente
uscire da ciascuna porta un canto monotono e discordante.
Quegl’inni alla Vergine brillano più pel buon volere che pel
sentimento musicale. Le gole in questa terra delle arti ringhiano delle
volte in un modo più disaggradevole che quel falso violino, che
bestemmiava sotto l’archetto, di cui parla il mordace Boileau.
Nondimeno si è sorpreso dalla stranezza e dal movimento insolito di
quelle preghiere cantate. Quando una porta si schiuda, non è senza tal
quale stupore misto a tristezza che si vede la famiglia intera,
inginocchiata dinanzi ad una moltitudine d’imagini in carte
semilacerate, cantando a pieni polmoni ingenue preghiere. Un piccol
cereo e parecchie lampade bruciano ad onore di quelle imagini; quella
povera gente non ha con che illuminar sé stessa, ma per un sentimento
tanto rispettabile, quanto mal compreso, mantengono quei pallidi lumi
innanzi agli oggetti della loro adorazione meglio che le antiche
Vestali mantenevano il fuoco sugli altari della loro Dea. Commovente
superstizione, che ferisce lo straniero, e che tuttavia si com piange!
Quantunque ricco il Comune, pur sembra che soffrisse per troppo
numerosa popolazione. Lo che si giudica dall’aumento della miseria. Nel
momento attuale (2 febbraio) non si sono ancor date a questi sventurati
che nove povere capanne, a spese dell’Autorità. Si son pure inviali
loro 24 ducati all’occasione della festa dell’erede del trono (il Re
attuale). Ecco tutto ciò che ha ricevuto una città di 9mila abitanti. È
vero che si son promessi degli abiti.
Le promesse però non costano niente, ed a Napoli costano meno che niente.
Se non noiassi col ripetere, vi condurrei nelle case
atterrate. Esse hanno un aspetto molto lugubre quando sono tristamente
battute dal vento e dalla pioggia, e la ritirata di cento famiglie si
fa aspra per la neve semiliquefatta che la solca. Ma non è questo lo
scopo del mio viaggio: noi avevamo formato il piano di portare i nostri
principali soccorsi lungi della strada maestra , nella montagna.
Far preparare un cavallo e trovare una guida non era di
piccol rilievo. Fortunatamente per me il genero dell'amabile Sindaco
del luogo doveva partire quello stesso giorno per Tramutala, più
fortunatamente il cattivo tempo si dissipò, e non lasciava altro vedere
che le ali fugaci di alcune nubi, che solcavano i due Ranchi della
Valle. La partenza fu fissata per mezzogiorno. Seguitemi intanto dalle
alture della città sino al vasto monastero di S. Lorenzo di Certosa che
ben merita di esser curiosato in tutti i suoi particolari.
Entriamo dunque. Evvi dapprima un cortile deserta fiancheggiata da
stalle e da dipendenze disabitate. À gran pena si perviene a destare il
suo portinaio, che sembra sonnecchiare, come il suo Convento. Egli è un
grasso laico la cui paffuta faccia esce, come non si può meglio, sotto
il suo bianco cappuccio. Condotti al Priore visitiamo le abitazioni di
questo dignitario, e colla sua amabile compagnia discendiamo sotto i
maestosi archi, che il tremuoto stesso non ha potuto scuotere. Si
figuri un vasto cortile rettangolare, cinto di un immenso portico, che
sostiene il monumento.
Il monumento stesso ha delle proporzioni sì gigantesche, che nella
sola galleria superiore, al tempo dell’occupazione francese, vi si
aveva potuto alloggiar diecimila soldati. I pochi monaci, che l’abitano
ancora, non possono bastare ad aprir le porte massicce di quella
silenziosa dimora; essi sembrano dei pigmei nelle vaste proporzioni del
casamento, quando accorrendo colle loro chiavi, si affrettano, come lo
possono monaci troppo impinguati, nella distanza dei lunghi portici; ma
io era massimamente preoccupato da un’idea. Diceva tra me: non si
potrebbe riunir qui tutte quelle sventurate famiglie, le quali per
mancanza di asilo dormono sulla neve, e che ho vedute rannicchiarsi nel
lato lungo le mura del monastero? Non dovrebbe consagrarsi per qualche
tempo questo monumento alla popolazione di tutta la valle? Essa vi
starebbe agiata, perocché vi ha posto per trentamila persone, alquante
tavole basterebbero a dividerlo tutto in distinti appartamenti. Si
sarebbe posto così una repubblica di sventurati al coperto dai rigori
dell’inverno.
Quale magnifica occasione per quei Certosini, ritirati dal
mondo, di mostrare la loro carità! — Ma che dico? e perché perdermi in
tali utopie? I monaci non lasciano la presa più che il sorcio della
favola lasciasse suo formaggio: teneri eremiti! dormite in pace nel
vostro palazzo deserto: migliaia di esseri umani muoiono di freddo alle
vostre porte.
Ma mi direte, è possibile, che quei monaci mostrino tanta
indifferenza? — Indifferenza! Oibò, essi anzi sono interessantissimi, e
quando i nostri amici son passati per di qui colla borsa in mano, sono
stati i Certosini che pei primi han chiesto l’elemosina. A noi han
fatto la stessa domanda. Essi non si trovano ancor mica abbastanza
pasciuti. Poveri oziosi, che non hanno, come essi stessi han detto, più
che sette o ottomila ducati di rendile in belle terre del paese, le
quali bisogna dividere tra dodici o quindici di essi! compiangeteli
dunque e fate loro l’elemosina. Ma dimandar loro il convento, e che
sognate voi? È vero che essi ne hanno parecchi simili nel regno, cosi
l'istinto della proprietà si è in loro stranamente fortificato. E poi
pensate ad ammetter delle donne nel sacrato recinto di un chiostro? Là
dove abita la santità de’ solitari eremiti, si vedrebbero collocarsi
de’ semplici profani? — Guardatevi dal proporre loro un tale
sacrilegio, li vedreste, come me, indietreggiare compresi da orrore, ed
alzar le braccia al cielo! Ma la pietà, direte voi, quella virtù se non
cardinale almeno ecclesiastica?— La pietà? Che mai è dessa? I Certosini
non escon punto dalla loro cella, se non per andare al refettorio. Ove
dunque essi avrebbero appreso i sentimenti, che turbano il resto dei
mortali?Essi non conoscono che la quiete,e non si agitano, che per
l’interesse del loro ordine.
Ne dubitate?... Sentite dunque. Uscendo io col cuore
addolorato, visitai le scuderie del Monastero; esse eran vastissime e
vuole. «Ma qui, dico al Priore, non potreste ricettar quelle sventurate
famiglie? esse starebbero fuori clausura, che non offenderebbero
punto». — Eh! fece egli, stringendosi nelle labbra, e spalancando due
grand’occhi, è impossibile! è un terreno sacro, e nessuna femmina può
entrarvi». — «Mai muli e,gli asini del convento vi trovano bene un
ricovero» — «E vero, ma delle donne! — Così vili animali dunque
dormiranno agiati ove de’ miserabili languenti di fame e di freddo non
possono entrare? — Ma, signore, bisognerebbe avere una dispensa dal
Papa» — «Domandatela» —«Oh,signore, del resto è proprietà nostra...
Trovai quest’ultimo argomento irrecusabile. Il convento è rimasto
deserto, inutile. Per circa tre anni un’intera popolazione ha sofferto
alla porta. Ed i monaci domanderanno ancora per sé stessi un poco di
quell’oro, che la carità protestante va a portare ai miserabili. Il
sorcio della favola però non stendeva punto la zampa fuori del suo
buco.
Bisogna convenire, per essere giusto, che questo grande
monumento, non ha potuto sopportare le scosse del tremuoto, senza
esserne alquanto danneggiato. É un capo d’ opera a ripararsi, e lo
merita. Le basi sono solide ma in taluni luoghi vi son sensibili
crepature. La sua architettura modello potrà in tal modo resistere per
secoli; ma ove si voglia ristabilirlo nel suo primitivo splendore, vi
bisogneranno de’ milioni, ed il generale dell’ordine Io sa bene, poiché
fa delle economie, si dice, per impiegarle poi alla restaurazione di
questo monumento. Ma vi e più d’una porta a battere. Egli reclama
fortemente presso il governo, e la sua voce è meglio intesa che quella
di coloro, che hanno fame. I fóndi della carità pubblica andranno in
parte a dissiparsi, ne son sicuro, in quella santa solitudine.
Ferdinando II ha prelevato sulle elemosine del suo popolo una ricca
parte, che dev’esser impiegata a riparare le screpolature del
monastero. Felici le pietre di questo paese, che son trattate meglio
che gli uomini, e mentre che i custodi del santuario fanno delle
economie, il popolo geme, paga e muore.
Una parola sull’istoria di questo Convento. Esso data dal
risorgimento, e ne ha tutto lo splendore. Meno ricco in marmo della
maggior parte de’ suoi rivali, li sorpassa per le dimensioni. I Borboni
di Napoli hanno più volte visitato il santuario, maravigliandosi di
trovar tanta magnificenza in quelle lontane montagne.
Prima dell’occupazione francese, esso possedeva più di centomila
ducati di rendita in beni fondi. Sessanta claustrali si godevano questa
ingente somma: era dunque un maximum di seimila franchi, che riveniva
al godimento di ciascuno, somma forte in quell’epoca. Con una tale
rendita si potevano ben raddolcire gli ozi della reclusione. Ohimè! i
francesi vennero a turbare quella buona vita. La soppressione
dell’ordine fu pronunziata.
Giuseppe e Murat ne vendettero i beni, tranne alcune frazioni, un
decimo circa. Nel 1819 i Monaci dimandarono di rientrare nel possesso
del loro Convento. Il Re Nasone vi consenti, ma a condizione
che non reclamassero i beni di già venduti. Si racconta a questo
proposito un bizzarro aneddoto. Il re era allora rientrato nel regno;
dopo d’aver data quella risposta ai delegati de’ diversi ordini, si
stava nascosto dietro una porta ascoltando ciò che direbbero i più,
delusi nelle loro speranze: «A35 sino era partito, asino è ritornato»
diceva uno di essi. Tutto ad un tratto la porta si schiude, ed il
Monarca mostrando a metà il suo grande naso «Asino e mezzo» replicò
loro ridendo. Compiangete dunque quei di Padula, da grandi signori son
divenuti piccoli censuari, ma la loro salute non ne soffre punto.
LETTERA VII
Mio caro Emilio, se volete meco continuar questo pietoso camino,
munitevi di coraggio, imperocché è qui che cominceranno le fatiche del
corpo, e le più grandi tristezze dello spirito. Io mi sforzerò di
distrarvi con degli episodi meno dolorosi. Mezzogiorno è sonato, ed un
messaggiere, lacché rispettosissimo, ma la cui livrea sembra abbastanza
in cattivo stato, viene ad annunziarmi che la vettura del signore è
pronta. La vettura, credete, che sia. per queste montagne senza strade?
«A meno che non vi piaccia, signore, di andare a piedi». — «No
piuttosto a cavallo». — «Ebbene dunque la vettura vi attende». Che
rispondere ad una tale logica? Seguire lamia guida era il meglio, e mi.
trovai ben tosto in faccia ad un ronzino delle montagne, già carico de’
miei bagagli. Era desso in linguaggio del paese una vettura. Alla
buon’ora ei basta intendersi sui termini, e riflettendovi bene, poiché
in queste regioni elevate, il mezzo più comodo di trasporto è il
cavallo o il mulo, riconosciamo che quei veicoli a quattro zampe son
bene là giù ciò che sono le vetture presso di noi. Tutto occupàto in
questa riflessione iilosofica, io montai sul seggio della sella, vera
piramide di coltri. Dissi addio a’ miei amabili ospiti di Padula, e
sotto la guida del genero del Sindaco, il quale era egli stesso guidato
da un uomo ad hoc m’impegnai ne’ sentieri tortuosi, pietrosi,
ingombri di fango e neve, impraticabili e tuttavia praticati, che
formano l'unica strada per arrivare agl’importanti paesi, di cui d’ora
innanzi avremo ad occuparci. Veramente la nostra guida meritava
attenzione, ed io avrei ben voluto rilevarne il ritratto. Grande,
magro, nervoso, dal naso arcato, dagli occhi penetranti, egli aveva in
testa pittorescamente messo un cappello puntuto, non già quel
formidabile cappellaccio romano, che forma l’arnese caratteristico dei
suoi masnadieri, ma un piccolo e curioso cappello, che covre appena la
sommità del capo, insomma è più bizzarro, che spaventevole. Per veste
una pelle di montone tagliata in forma di abito; per calzoni, una pelle
di capra a lunghi peli, ricadendo su delle grandi calzature di cuoio.
Un piccolo fucile ad una canna, negligentemente portato ad armacollo, e
nel giubbettino un pugnale, di cui appariva soltanto il manico, assai
discretamente del resto, a causa de’ regolamenti di polizia. Tal era in
iscorcio la mia guida. Mezzo villano, mezzo brigante, egli ad un tempo
rassicurava e metteva paura.
L’Appennino non è pittoresco che in pochi luoghi, ma in
questa parte della catena è quasi desolato; la sua nudità, effetto del
disboscamento, piatisce contro l’incuria, che da secoli ha lasciato
devastare le. alture. Le, piogge ed i° declivi han trasportate le terre
nelle valli, e tutte le cime, denudate sino al culmine, sembrano, an.
che nell’inverno, concotte dal sole. Pel momento la neve copre tutta la
catena, e siccome è raro che un viaggiatore abbia l’occasione di
calpestarla sotto questo cielo meridionale, così noi la traverseremmo
con piacere, se non sapessimo che ad alcuni passi essa serve di sudario
a molti morti e di letto ad un gran numero di viventi.
Finalmente dopo parecchie ore di cammino, arrivammo in faccia
ad un lungo bacino circondato di montagne da tutte le parli, e di cui
il collo, che abbiamo ora appunto traversato, è l'accesso più facile.
Si giudichi da questo delle altre vie. Questo bacino non è tuttavia
senza importanza, lungo i suoi fianchi vi stanno a scaglioni una
moltitudine di piccole città. Presso di noi, per la loro popolazione,
esse sarebbero almeno delle sottoprefetture. Tramutala, Saponara,
Montemurro, Moliterno, Marsico vecchio, Marsico nuovo, Viggiano, han
ciascuna, o avevano, ohimè! da cinque a diecimila abitanti. Non
ammirate l'improvvidenza di un governo, che s’ingegna d’isolare una si
considerevole valle dal resto del mondo, e che in un secolo di strade
ferrate la scia una popolazione di circa 150 mila abitanti (parlando
solo di quest’angolo del regno) senza strade, senza communicazioni
ragionevoli, aggiungiamo, senza speranza di mai averne, a meno che non
avvenisse un cambiamento completo nel regime amministrativo.
Ho il dritto di dir «senza speranza imperocché ecco
quel ch'è avvenuto alcuni giorni dopo il terremoto. Gli abitanti han
diretta una petizione all’autorità perché si dasse loro del lavoro,
cioè del pane. L’opera ad intraprendersi si presentava spontaneamente;
far communicare questo bacino, per mezzo di una strada praticabile, col
resto del mondo, col capoluogo dell’intendenza per esempio; quale più
bella occasione di fare la carità con poca spesa, e di compiere
un’opera patriottica in pari tempo éd umanitaria! Ma non era questo
l’affare delle autorità. Le strade in generale facevano paura al
vecchio regime; esse giovano troppo alla circolazione; e pensatevi
bene, colle persone circolano bentosto anche le idee. È vero che si è
dovuto in molti casi uscir di sistema, e tracciare alcune grandi
arterie per mandar nelle Calabrie e nelle Puglie le truppe che servono
a sottometterle. Ma si sono ben guardati a far servire quelle grandi
linee ai bisogni del paese, e finora si è fatto di tutto perché le vie
di traversa restassero nello stato di progetto. Or a che serve una
strada per la quale non possono arrivare dalle vicine campagne né
vetture né carri? Si vedevano in tal andamento di cose molti vantaggi:
tra gli altri quello di non lasciar arricchir troppo quel buon popolo
col trasportare la vendita de’ suoi prodotti agricoli; un popolo ricco
è sempre un popolo libero. Non si menano persone agiate, e per
conseguenza istruite, come si menano i lazzaroni nelle fiere per
predare. La miseria aiutata dall’ignoranza è la salvaguardia del
dispotismo. Per giungere a questo risultato, l’autorità non ha avuti
che due mezzi ad impiegare: la negligenza e l’assorbimento. Mi spiego:
quando si son veduti i comuni dormire e tacersi, si è ben guardato dal
risvegliarli, e dal communicar loro delle idee di progresso e di
miglioramento. Si è infine secondata la naturale apatia di un popolo
schiavo, presso cui l’attività individuale non ha significato.
Quando al contrario lo spirito d’intrapresa in qualche luogo
ha fatti i suoi reclami, gli si è posta la musoliera, incaricandosi il
Governo de’ lavori, ed è bastata una sola amministrazione (la Bonifica)
per la cura di tutt’i miglioramenti a fare. Non neghiamo che
quest’amministrazione abbia in alcuni luoghi compiuta qualche òpera
buona, ma quante volte non ha essa impedito ai privati di far qualche
cosa di meglio? Ogni intrapresa particolare sul terreno pubblico le
sembra un’usurpazione. Essa vi mette ordine, è la specie di monopolio
che si arroga, non già più che ogni altro monopolio, al progresso di
questo paese.
La valle in cui entriamo è abbastanza fertile. Essa potrebbe
alimentare maggior numero di abitanti, ed anche sopportare
un’esportazione di grani pei bisogni del commerciò. Per mancanza di
strade è obbligata a consumar essa stessa tutt’i suoi prodotti,
e siccome l’agricoltura, per prosperare, ha bisogno di esser un poco
industriale, un poco commerciante, così non ci sorprenda se la vediam
deperire in queste contrade. Quando il lavoratore non è sollecitato
dall’esca del guadagno, e di un guadagno crescente, si svoglia e si
addormenta. Ciò che han fatto volentieri gli abitanti della contrada.
Perché procurare la produzione di maggior friimento di quello che può
consumarsi negli anni fertili? E vero che ne’ cattivi anni, se si è
avuta scarsa produzione, si rischia molto di soffrire, come è
precisamente accaduto in quest’anno, in cui la carestia si è aggiunta
allo sconvolgimento della natura, per affliggere vieppiù questa
popolazione. Ma non è questo il necessario risultato di quel sistema
d’impoverimento e di sonnolenza? Quando un governo ha la pretenzione
d’immischiarsi in ogni cosa, di far tutto da se stesso, e d’impedire
l’azione individuale, l’iniziativa della nazione, egli è responsabile
anche del sonno, anche della pigrizia de’ suoi amministrati. Si può a
dritto rimproverargli quel che fa di male, come quello che non fa per
affatto.
In mezzo a tali riflessioni sono arrivato sino a Tramutola, ove v’introdurrò dimani.
LETTERA VIII
TRAMUTOLA
I cinquemila quattrocento abitanti di questa città han perduti
centosettantacinque di loro; vi si contano 500, case abbattute, e le
200 che restano in piedi son talmente rimosse dalla loro verticale, che
debbono tutte ricostruirsi. Si rimane spaventato al pensare che gli
abitanti dormono ancora sotto quelle pareti inclinate, continuamente
minacciati di morte, a ciascuna delle piccole scosse che si fan
sentire. Più d’uno è perito, vittima di quest’imprudenza. Ma che
possono essi fare? Tutt’il paese non può certamente trovare un asilo in
due o tre capanne di tavole, di cui si sono di già impadronite le
autorità. Cosi si riuniscono tutt’il giorno sulla pubblica piazza.
Niente è più affligente che il vedere quei branchi di uomini, coverti
de’ loro grandi mantelli forali, coi piedi nudi nel fango, coi loro
tristi occhi, mezzo nascosti sotto grandi cappelli, sfaccendati,
scioperati appena conversar tra loro, poiché sembrano fatti immobili
dal pensiero del loro infortunio. Guardano passare il forestiere con
uno stupido stupore. Evidentemente lo scoraggiamento regna su quelle
anime. Avvi una paralisi morale. In ogni altro paese dopo una disgrazia
pubblica ciascuno raddoppia di attività, ed il lavoro si rende
proporzionato ai guasti. Le nazioni individualiste, quelle in cui
ciascun uomo ha un valore proprio, e vai qualche cosa innanzi alla
legge, innanzi all’autorità, si rialzano dai loro infortuni con
un’elasticità maravigliosa. Non potrebbe esser cosi sotto il regime
orientale, che ha depresso questo paese. Qui nessuno è abituato a
volare colle proprie ali, per la potente ragione che non si ha facoltà
di spiegarle ove si vuole e come si vuole. Nessuno è abituato a far uso
delle sue abituali energie. Si è inclinato a lasciarsi condurre come un
fanciullo all’orlo. Or nello stesso modo che un fanciullo quand’ è
caduto si contenta di gridare senza fare sforzo veruno per rialzarsi,
cosi questa popolazione sembra aspettare, nella prostrazione in cui è
stata dalla provvidenza gittata, che la mano de’ suoi conduttori
abituali, o se il preferite, de’ suoi tiranni, venga a rialzarla. Ma la
polizia napoletana non ha mai sollevato alcuno, essa non è mossa che
dai colpi che la minacciano, ed è paga che gli sventurati stiano
sottomessi alla sua depressione; poco le importa il resto. Il popolo sa
tutto ciò, lo dice anche altamente, ma sì prende cura che né il Giudice
né il Cancelliere lo sentano; esso gitta le sue lagrime al vento. Non è
questo il fatalismo orientale? A Costantinopoli, quando un incendio ha
divorato un quartiere, lo si ricostruisce di legno, affinché un novello
incendio lo distrugga; questa povera gente rifabricherà le sue città di
pietre, affinché un nuovo terremoto le atterri; ed ancora prima di
decidervisi, rimane per lungo tempo abbattuta, incerta. Si è ciò che
abbiam potuto constatare dapertutto in questo viaggio. Appena arriviamo
in un paese, centinaia di sventurati si raccolgono intorno a noi,
guardandoci, domandandoci, ma del resto sfaccendati come se fosse la
festa del villaggio, o il momento del riposo dopo il lavoro. Chi non vi
riconoscerebbe l’influenza di quel dispotismo, che uccide l’iniziativa
individuale sotto il cielo d’Europa,. come sotto il cielo dell’Asia? Le
autorità si lagnano perché le popolazioni aspettano tutto dal Re. Ma di
chi è la colpa? Se non di colui il quale, uccidendo la libertà di
ciascuno, ha cominciato dal dire: «Son io che penserò, son io che farò
per voi» (Vedete la lettera di Ferdinando II a Luigi Filippo).
Ma almeno qui l’autorità ha fatta qualche cosa. Essa ha
inviato trecento ducati, e siamo al 4 febbraio! I Preti, questi altri
conduttori della nazione, hanno essi precorso? Niente affatto! Quand’
io interrogo le cinque o seicento persone che mi circondano, per sapere
se il denaro de’ nostri amici inglesi è stato rimesso, un grido
generale si eleva: se ne domando conto a due o tre ecclesiastici che mi
seguono e mi osservano confusi nella folla, costoro, tremanti,
inquieti, si scusano dicendo che l’Abbate di Cava ben ha rimessa
all’Arciprete una somma di denaro, che doveva esser distribuita, ma che
né il denaro né l’Arciprete erano arrivati nel paese. Le mie energiche
lagnanze su tal ritardo han tuttavia prodotto il loro effetto, e quel
denaro non è stato perduto.
Passiamo per sopra a tutte queste miserie, procuriamoci a forza di
promesse un ronzino meno estenuato del suo padrone, incamminiamoci, a
malgrado dell’ora avvanzata, nella direzione di Saponara. Si parla di
tre ore di cammino e della notte che si approssima; non importa, è
d’uopo andare innanzi, imperocché più lungi, al centro de’ più grandi
disastri, dobbiamo in preferenza aprire le nostre borse e spandere
qualche elemosina su quel caos di miserie.
Uscendo da Tramatola, il mio cavallo traversa la piena di un'
abbondante fontana in ristagno, la quale si era arrestata durante la
notte del tremuoto. Di poi essa ha vomitato per qualche tempo
dell’acqua sulfurea, ed ora scorre limpida e pura con l’abbondanza di
un ruscello. Non solo qui si è prodotto questo singoiar fenomeno; a
qualche lega da Marsico, una sorgente fin’allora sconosciuta, si è
aperta tutto ad un tratto, ed ora scorre ancora. Dei pozzi si son
ripieni di acqua bituminosa, indi han date delle acque sulfuree.
L’ultimo fatto indica che ai perturbamenti dell’acqua si sono
aggiunti de’ fenomeni ignei. Si riferisce infatti che su tutta la città
siensi veduti spesso nella notte sia da vicino, sia da lontano, de’
vapori azzurrognoli infiammati, simili a de' fuochi fatui. In
nessuna parte è uscito dalla terra un fuoco propriamente detto,
siccome, erasi preteso, ma molti gaz infiammabili si son visti
ondeggiare presso quelle acque sulfuree. Le altre fiamme, osservate da
lontano, non erano che il bagliore degl’incendi. Un fatto più strano è
l’apertura di due bocche tra Viggiano e Marsico vecchio; io non le ho
potuto visitare; esse son mezzo rinchiuse, ma si afferma che una ha
dovuto vomitar dell’acqua calda, e l’altra delle ceneri, siccome lo si
è costatato l’indomani dalla vista delle circostanti vestigia. Non
siamo noi nel raggio di un vulcano estinto? Come sono arrivato a
Saponara? è quello che dimando a me stesso. Era una notte oscura. Dei
burroni a salire, un piccol fiume a valicare in più luoghi, fango,
nevi, torrenti; il tutto su pietre tagliate a roccie sporgenti dalla
terra; senza strade, o per una via cento volte peggiore di un sassoso
torrente; una guida che ogni istante perdeva la vera direzione; v’era
ben da maledire l’amministrazione de’ ponti e strade. Quel di cui mira
mmento è, che il mio cavallo non potendo più andare innanzi, ho dovuto
seguirlo a piedi, salire, discendere, impantanarmi nell’acqua, scivolar
nella neve, e far di equilibrio su di una specie di parapetto formato
di grosse pietre, le quali si erano gittate di passo in passo, per
preservare i pedoni dai bagni de’ piedi; se non che perdendo
l’equilibrio, si correva il rischio di un bagno più completo. Sia detto
tutto ad onore di quella benedetta bonifica, la quale non ha
saputo stabilire migliori vie di communicazione tra le città del regno.
Infine saliamo un’ultima montagna; una specie di basse capanne, poco
riconoscibili, si potevan toccar con mano nella loro altezza. La mia
guida chiama, e delle voci soffocate rispondono dal fondo di
quell’antro con iperbole orientale. «Noi siam tutti morti!».
Essi non eran che storpiati, m’imagino; ma a che evocare quelli che
si credon morti? A chiunque lor parla non rispondono. Quando
incontrammo veri viventi, lo fu per esser introdotti in una capanna di
tavole, ove mi trovai finalmente in paese di conoscenza. M. Major
era là, collocato presso un ricreante braciere, con un degno notaio,
che gli dava ospitalità, e la cui buona accoglienza ben merita di esser
menzionata.
LETTERA IX
SAPONARA
Io non so se vi ho detto che M. Major, avendomi preceduto coi fondi
che custodiva un gendarme a nostro soldo, aveva dovuto arrivare un
giorno prima di me a Saponara. Là dovevamo cominciare la distribuzione
delle nostre elemosine. I paesi di cui prima ho parlato, essendo tutti,
tranne l’ultimo, sulla strada maestra, erano stati verificati dai
nostri confratelli inglesi. Avevamo pure opinato che quello che si
mostra facile alla vista sul pubblico cammino, avrebbe dovuto esser
meglio trattato dalle autorità, non fosse che per rispetto alla
pubblica opinione. Il fatto ci ha provato che se le città del piano
erano state abbandonate, quelle della montagna sono state pur
maltrattate. Voi lo rileverete ad evidenza dal seguito di questo
racconto.
Quando M. Major è arrivato a Saponara, si è presentato alla capanna
la più decente; questa era occupata da preti. Le leggi dell’ospitalità
montanara esiggono che ogni straniero di riguardo sia ricevuto,
alloggiato e nutrito quando arriva in alcuni di quei paesi sprovvisti
di alberghi. Quest’uso è rimasto allo stato di virtù nei costumi delle
persone onorevoli. Quindi il mio amico rimase stupito al vedere che i
preti non gli offrivano neppure un pezzo di pane. Quegl’inquisitori
dalla veste nera si contentavano di domandarlo; bisognò che un vicino
venisse ad offrire al forestiere, alla presenza degli stessi preti, un
ricovero sotto il suo povero tetto, il suo migliOF ietto, e la sua
schietta amicizia. Un nipote dell’ospitale notaio discese in tutta
fretta la montagna per andare ad implorare nel piano presso de' suoi
amici qualche alimento presentabile. Il tutto fu riportato da lui con
una premura piena di delicatezza, senza che fosse possibile fargli
ricevere il prezzo sborsato. Alcuni giorni dappoi ho veduto io stesso
il povero giovine, spinto dal bisogno, vendere ad una specie di ebreo
battezzato, orefice di mestiere, gli orecchini di sua sorella, che gli
furono pagati 30 grana (1 franca e 45 cent.). Si assicura che la sera
stessa una tavola ben servita era apparecchiata pei preti, con un certo
lusso, e dopo pranzo questi signori han fatta la loro partita alle
carte. Quale giuoco, buon Dio! e quale luogo per de’ scoppi di risa!
centinaia di cadaveri imputridiscono a due passi, de’ fanciulli
piangono sulla neve, e la gente in sottana riceve con diffidenza i
forestieri accorsi ad aiutare la greggia del Signore! Si vede che la
parabola del buon Samaritano troverebbe più di un’applicazione in
questo paese. Ma passiamo innanzi e non vedremo che troppo apertamente
i motivi di quell’accoglienza poco graziosa.
Saponara aveva cinquemila abitanti; tutte le case sono giù; le liste
ufficiali portano mille morti, ma se ne posu sono contar 1500. Non
restano in fatti nel luogo che 2000 persone, e non è mica presumibile,
chele altre2000siano spatriate.
Tutto ciò che vi ho descritto è poca cosa in paragone del disastro
di questa povera città. Niente è in piedi sull’altura, quasi niente sui
bassi pendi. Questi guasti si spiegano in parte per la posizione stessa
di Saponara. Edificata sulla sommità di un promontorio, che si awanza
in mezzo del grande bacino, in cui vi ho introdotto, vedeva le città
delle vicinanze formarle una corona. Isolata in tal modo essa ha
sofferto le scosse in tutti i sensi, ed ba oscillato tanto più che il
suolo roccioso sul quale era edificata è pieno di cavità, in cui le
ondulazioni han potato propagarsi con più facilità. Qui la violenza
delle scosse non ha avute eguali in altri luoghi, meno in Montemurro,
dove è stata anche maggiore, causa di tanti disastri, ed in cui il
suolo si è in parte sfondato in un profondo burrone.
Da tale posizione è ancor risultata un’altra disgrazia, cioè
che le Chiese ed i Conventi che occupavano ì punti più elevati, han
rovinato, rotolando e sobbissandosi nei pendi della montagna. Essi
dunque han trascinato o schiacciate sotto i loro guasti centinaia di
costruzioni più fragili, le quali erano scaglionate al di sotto. Si
figuri l’effetto di quei massi rotolanti, che non trovavano altro
ostacolo nella loro caduta che i tetti di una piccola città mal
fabbricata: in una valanga di pietre. Si figuri specialmente la sorte
di coloro i quali dormivano sotto quei poveri ricoveri, allorché, non
solamente le loro case, ma quelle del vicino ed i campanili diroccavano
su di essi.
La parrocchia del luogo non è più che un mucchio di piccole pietre.
Un’ala sola di muro di alcuni metri appena, non ferma in piedi, ma
resistente ancora, è rimasta per mostra della grossezza della muraglia
primitiva; il resto è come polverizzato. Colonne, altari, statue di
santi decapitate, libri di canto, vestimenta sacerdotali, giacciono in
quel polverio confusamente. L’enorme campana che chiamava i fedeli alla
preghiera, dopo d’aver oscillato per qualche tempo, è caduta rotta in
dieci pezzi in una direzione opposta allo stesso campanile. Tanto. le
scosse erano in contrario senso.
Il monastero di donne non esiste affatto più, perocché le
pietre ne sono come infrante, e non si vedono insieme ligate due sole
pietre molli. È stato uopo, per produrre, tale effetto, che i movimenti
avessero agito in sensi molto diversi, ed avessero fatto saltellare. i
monumenti anche dopo d’averli gittar al suolo. Quindi non mi maraviglio
più tanto di quell’istoria grottesca, che mi è stata raccontata sopra
luogo; e che io ripeto ora con una tal quale confidenza. Un vecchio si
è svegliato tutto ad un tratto su di un letto di una monaca
nell’interno di un monastero. Egli si era coricato, si assicura, in una
casa sita uri poco al di sotto, ma ben fuori del convento. Spieghi
ancora chi il vorrà come mai un fanciullo siasi trovato vivo nel
chiostro. Ma gli ospiti della clausura non sono stati sì felici. 25
monache son morte, credo, ed una di esse è stata tratta dopo sette
giorni dai guasti della sua cella, per morir poco dopo incangrenita. Le
ammaccature causate da urti di tal genere facilmente divengono
cancrenosi.
Del resto i casi di salvazione maravigliosa non sono rari. Mi si son
citate qui come altrove delle persone gittate col loro letto da basso
in alto, a più di un tiro di fucile, e che ricadendo sui loro
materassi, o su’ loro pagliericci, non si sono neppure ferite. La
favola in simili rincontri aggiunge qualche cosa di bizzarro. Si dice
che due individui, di cui uno veniva lanciato da una bella distanza,
s’incontrano in aria, si abbracciano. — «Chi sei tu? — E tu?» Si
riconoscono; erano di due differenti quartieri. Vi è forse in ciò
qualche cosa di vero alterato da fantasie vivamente concitate.
Tutti i Cappuccini di un convento, di cui vi parlerò più
innanzi, si son salvati, malgrado le loro pingui corpulenze; solo un
povero detenuto politico ivi rinchiuso è stato trovato schiacciato tra
due mura.
Al contrario il Castellano del luogo, la cui bella abitazione si
elevava sulla sommità di quella prominenza, è morto con tutti i suoi; e
quella famiglia sarebbesi estinta, se per avventura un figlio non si
fosse trovato assente per causa di studi, in un istituto di educazione.
Questo Castello offre allo sguardo dello spettatore un doloroso e
bizzarro spettacolo; una parete crollata lascia vedere gli avvanzi di
un’altissima soffitta, sulla quale sembra girare ancora, dipinto a
fresco, tutto il sistema planetario di Galileo. Parecchie altre
distinte famiglie sonosi estinte, altre son completamente rovinate, e
tra queste il Sindaco della città. Ridotto alla miseria insieme a sua
moglie inferma, egli magistrato municipale, ha dovuto dimandarci
l’elemosina. Qaest’uomo è tuttavia rimarchevole per la sua istituzione.
Dopo di essersi distinto nella carriera dei suoi studi in Napoli, si è
dato alla filosofia, dipoi ha preso il suo grado di dottore in
medicina, ed ha scritto un trattato sulle febbri intermittenti.
Ecco ciò che potrebbe prendersi per un'ironia della
Provvidenza. In una casa un po’ al di sotto della Chiesa diciassette
persone eran perite. A capo di cinque giorni s’intesero de’ gemiti;
tali rumori venivano da profonda cavità, ed era penoso l’ascoltarli
senza aver mezzi sufficienti di soccorso per apprestarli. Infine si riuscì
ad aprire una cava in quelle mine, e se ne estrasse. . , un povero
giovine cieco, il quale ormai non aveva più alcuno per guidarlo.
Ecco un tratto, che mi ha vivamente commosso. Un padre vede in un
tratto la sua abitazione subissarsi a metà, cerca de’ figli, che si
trovavano ad un’altra stanza, dà subito di piglio ad una scure, e ne
sfonda la porta, ch'era chiusa. Sotto le vacillanti travi ei vede
rannicchiato in un angolo suo figlio sano e salvo. Vede che una delle
due sue figlie stava sospesa pei piedi tra due travicelli. Nel primo
impeto corre ad abbracciare il figlio ed a stringerlo al seno pieno di
gioia. Ma tra la gioia si mesce il veleno, si rivolgono entrambi a
mirar pietrificati la figlia in pericolo. Come salvarla? bisognava
sollevar le travi, che sostengono il tetto, ciò porterebbe la perdita
del suo liberatore; d’altronde le scosse continuano, ciascun secondo
perduto può segnar la condanna di morte per tutti. Il padre, il
fratello, le sorelle parlano cogli occhi, colle grida, coi singulti,
vorrebbero tentare, ma il pericolo certo, imminente... Oh Dio!... il
padre si oppone, e tra le gelide lagrime, brontola con voce tremante
«usciamo, figli miei, salviamoci». — Si usciva, ma al momento di
abbandonare la povera fanciulla il cuor gli si spezza, rientra smorto,
confuso, e la saluta di uno sconfortante addio. Spettò allora al figlio
di strapparlo al pericolo; lo si trascinò quasi privo di sensi... e
l’indomani tutti insieme ritornarono per ritrovar la figlia... Oh Dio!
qual notte per essi, qual ansia, quali angosce... Ella era salva!
Volete ora farvi un’idea dell’effetto prodotto ne’ primi momenti del
flagello sull’immaginazione di coloro, che han sopravvissuto? Ascoltate
il mio ospite; in questo paese anche i notai hanno l’immaginazione
poetica. Il nosfro ospite notajo fa de’ versi ammirevoli, mi pare
ancora sentirlo esprimere, con le inflessioni di voce e col gesto
espressivo della razza italiana, il terrore de’ primi momenti.
«Mi era allor allora coricato, disse egli, leggeva nel mio
letto. I miei tìgli già adulti li aveva lasciati nella stanza del
cammino accerchiati intorno al fuoco. Io mi era ritirato a dormire in
un’ala dell'edilizio, che di recente aveva fatto costruire con una cura
tutta particolare. Tale precauzione mi salvò la vita. Piacesse a Dio, e
i miei poveri figli avessero avuta la stessa sorte! Quando la prima
scossa smosse la casa, intesi un gran fracasso. Balzai fuor del mio
letto e volli correre da essi. Ma la seconda scossa, cento volte più
terribile della prima, mi gittò contra la porta, che tentava invano di
aprire. Non potetti uscire, e ben me ne venne, imperocché nello stesso
istante la soffitta del corridoio era crollata. Quella
dell’appartamento, ov’io era, è forse la sola in tutto Saponara, che
sia rimasta intatta. Mi salvai tuttavia per una finestra; tentai
divedere, di toccare... Ohimè! il vecchio mio edilizio era totalmente
abbattuto, e i miei poveri figli v’eran sepolti!... A partir da questo
momento, non so quel che feci. Soltanto intesi un forte dolore al
piede, e qualche tempo dopo mi destai da un letargo sulla pubblica
piazza. Vi era stato trascinato. Un fuoco eravi acceso, una trentina di
persone si riscaldavano; riconobbi degli nomini, delle donne, dei
giovani, e tra noi tutti un solo aveva una copertura; gli altri erano
interamente nudi, io ancora!
Dopo questo racconto, ii mio ospite rimaneva silenzioso, assorto nei
suoi pensieri. Lo lasciai per qualche tempo immerso nel suo duolo;
dipoi gli domandai l’impressione dell’insieme prodotto dalla grande
scossa: «Ecco, egli disse: Uno spaventevole rumore, un urto, un’immensa
polvere, non si distingue più niente; si sente e si respira l’odore
delle sfabricine, indi un silenzio di tomba, dopo il quale alcuni si
rialzano, ed allora delle grida di morenti, grida di spavento. Di lì a
poco si ode gridar confuso: Padre mio! madre mia! moglie mia! figli
miei!... il caos del dolore e della costernazione.
LETTERA X
LA CARITÀ CLERICALE
Vi ho scritto quali sono stati i mali sopportati dalla città di
Saponara. Volete sapere quali rimedi vi sono stati apportati? I primi
medici, in simili casi, debbono essere i preti. E noi non dubitiamo che
il clero francese, per esempio, non si fosse levalo tutto per portar
sui luoghi il tributo della sua devozione. Ne abbiam per pruova il
tentativo delle Suore della Carità francesi residenti a Napoli, le
quali erano già in via per apportare alle vittime infelici il tributo
delle loro potenti cure, ma che l’autorità ha richiamate in tutta
fretta, grazie, m’imagino, agl’intrighi del clero napoletano, il quale,
non facendo niente di buono, non ama che alcuno si mostri migliore di
lui. Diciamo ancora con piacere che i laici di questo regno hanno
ordinariamente più carità che i loro conduttori spirituali; testimoni
quei trecento giovani di medicina, i quali han dimandato il permesso di
andare a curare i feriti, ed a cui un tal permesso è stato rifiutato
sotto lo specioso pretesto che sarebbe bisognato pagar loro le spese
del viaggio.
Ma almeno il clero del paese si fosse limitato a non far niente! I
nostri amici inglesi avevano inviate al Vescovo di Potenza differenti
somme — di cui, per parentesi, egli ha dovuto dare 400 ducati a M.
Major a titolo di restituzione — 200 ducati credo ne rinvenivano a Saponara. Che ne avevano fatto i preti?
Dugento famiglie avrebbero dovuto ricevere ciascuna un ducato,
secondo le condizioni apposte dai donatori. I preti non ne scelsero che
una sessantina; essi fecero altrettanti pacchetti, i quali si supponeva
contenessero ciascuno dieci carlini in piccola moneta. Gl’iscritti
ricevevano i pacchetti bene e debitamente piegati, e i preti si facevan
dare un ricevo per quietanza. Ma gli sventurati se ne ritornavano
dispiegando i loro pieghi, e non vi trovavano che otto, sette, sei, ed
anche cinque carlini. Il fatto è confermato, ci affligge il
denunziarlo; ma tali mostruosità fortunatamente son troppo eccezionali
per non esser menzionate; suum cuique.
Ove passava adunque il denaro di quei buoni inglesi? Ecco: una sera
il gendarme che custodiva il nostro denaro, mi chiamò in segreto; mi
condusse presso la capanna ov’erano i preti, nostri buoni vicini, e
m’invitò a lanciare uno sguardo a traverso la porta socchiusa per
vedere sette od otto di quei Signori, facilmente riconoscibili agli
abiti, in compagnia di. altrettante donne, dediti ad una crapula
notturna, dove lo scoppio delle risa era si frequente; si mangiava, si
beveva e si rinnovavano le orgie poco delicate della reggenza. Lascio
alla vostra immaginazione indovinare quello che tal baccano poteva aver
di edificante a due passi dai cadaveri senza sepoltura! Frattanto
miserabili fanciulli morivano di freddo sulla neve. Eravamo costretti
ad uscire ogni sera in cerca di loro. Uno dì essi piangendo intirizzito
dal freddo, venne a gridar fame a quella porta inospitale; i suoi
gemiti turbavano la festa: un prete uscì, gli tirò un calcio,
proferendo non so qual grossolana ingiuriò Noi l’abbiam veduto,
inteso... . ed io ne fremo ancora! Ecco dunque dove passava il denaro
della carità forestiera. E la cosa non è occulta; la vigilia del mio
arrivo, quando già M. Major era sul luogo, delle donne si son
presentate alla porta di quella sacra capanna, ed hanno gridato alto a
quegli onesti ecclesiastici perché essi prendevano il denaro delle
limosine per mangiarlo colle loro signore! (mitigo i termini).
Credete voi che essi ne arrossissero? No, essi ne ridono; ed
il domestico di M. Major, uomo degno di fede, li ha intesi rispondere
«Bah! questi forestieri pensano di soverchio a poveri, ve ne sono altri
abbastanza che portano del denaro, ma chi v’ha che pensa a noi? bisognò
bene che vi pensassimo noi stessi.» Detto ciò essi han congedate quelle
donne con insolenza.
Non ci maravigliamo dunque, se la popolazione li dice «accasati con figli».
La conseguenza naturale di questi disordini pubblici è l'indiscrezione
di quei fanciulli, i quali spesso, si dice, venissero sino all’altare a
chiamar papà. Ne abbiamo veduto coi nostri occhi, e non dei più
giovani di essi, passar la notte pubblicamente colle loro donne, in
mezzo a venti persone e sotto quelle stesse tende in cui si
ammucchiavano in gran numero nelle prime settimane dopo la catastrofe.
Un uomo d’onore domanderà: come mai il popolo soffre tali disordini?
Noi domanderemo se non se ne soffrivano di simili in Francia prima del
1789?
D’altronde la polizia è là, che quantunque invidiasse il clero, pur
tuttavia ha ordine di sostenerlo. Or la polizia sotto un re, come
Ferdinando II. era la prigione, la confisca, la mina! essa faceva paura
anche a coloro i quali eran già minati. Del resto non si risparmiano le
ingiurie di qualsivoglia natura a tal clero, e mi rammento che una
delle mie guide, presentandomi ad un ecclesiastico, mi disse ad alta
voce «Ecco l’unico prete della contrada che non sia libidinoso e
briccone. Onore a lui.» — Io strinsi cordialmente la mano ad un
personaggio si raro.
Non avendovi parlato di essi che in ciò che concerne il mio
soggetto, non vi riferirò le scandalose istorie, che mi sono state
raccontate sulla loro condotta. Eccone pur tuttavia una che fa al caso
nostro. Un tal prete, che non nomino per decenza, aveva avuto nel
convento medesimo, ch’è stato distrutto, un intrigo scandaloso.
L’intrigo fu divulgato, ma non vi si pose riparo che quando la monaca
fu accusata di avere strangolato il figlio colle proprie sue mani.
Quantunque ordinariamente si sia abbastanza indulgente per questo
genere di peccatuzzi, quando il clero n’è l’autore, nondimeno questa
volta bisognò procedere con rigore. Si trattava di una Vergine del
Signore, e di un infanticidio. Furon dunque condannali all’esilio.
Abelardo seguì la sua Eloisa. Essi eran molto da compiangersi come si
vede. Ma poiché sonvi peccati di ogni sorte — anche di monache — così
vi ha ogni specie di misericordia; i due colpevoli ebbero il permesso
di rientrare in paese a capo di tre anni, essa nella sua famiglia, egli
nella sua dimora. Or la cronaca dice che essi, a malgrado ciò, abbiano
continuato nei loro profani amori, e ciò che mi farebbe credere a
questa voce si è che nel mattino del 20 dicembre il prete innamorato si
è lasciato trovare sotto le mura della sua Dulcinea. Egli aveva avuta
la gamba rotta durante l’appuntamento, e non aveva potuto fuggir più
lungi.
Esso è per altro il solo prete del paese, che abbia sofferto
nella sua persona dal tremuoto; quindi vanno ripetendo da per tutto che
il cielo protegge i suoi, e che non è accaduta disgrazia al buon popolo
che pei suoi peccati! Fra tutto ciò essi non trascurano i loro piccioli
interessi li si sente far nei loro sermoni,in pieno vento, dei
ragionamenti come questi «Voi pensate ai vivi, sta bene, ma i morti? ma
le anime di quei disgraziati, i quali son lì sotto le pietre? Ma a te,
quella di tuo padre, di tua madre, di tuo fratello, di tuo marito?
Sapete voi tutti, ove esse sono? Forse in paradiso? Oibò! essi non
erano abbastanza santi per questo; ma sì che sono in Purgatorio. In
Purgatorio! Bruciano! gridano! ah cattivi tigli, cattive mogli; fate
dunque dire delle messe per quelle anime care! Su via pagate!»
E tale è la credula sensibilità di questo buon popolo, che ciò che
non si sarebbe certamente dato al prete, lo si da al prete istesso
perle anime del Purgatorio. L’ ultimo soldo vi si versa, sino al pezzo
di pane dei superstiti. Ed ecco ciò che aiuta quei signori a menare una
vita allegra. Tutto ciò l’abbiam veduto coi propri occhi ed inteso
colle nostre orecchie. E se voi mi dite di aver incontralo nel vostro
cammino migliori sottane, vi risponderò che non mi fa meraviglia; ancor
io ne ho trovale, grazie a Dio.
Vi siete ora edificato, spero, sulla maniera, colla quale il clero
del paese fa l’elemosina; vi farò apprendere nella mia prossima lettera
come la lascia fare agli altri.
LETTERA XI
SEMPRE DEI PRETI E DEI MONACI
Appena arrivali nel paese, il mio amico ed io ci siamo occupali a
compiere la nostra missione: Qual era il miglior modo a tentare?
Spandere del denaro?ma qui tutti stendono la mano; questo popolo manca
di dignità e d’altronde l’esempio degli ordini mendicanti continua a
mettere in onore la mendicità. La maggior parte del nostro denaro
dunque rischierebbe di passar nelle mani di coloro i quali non ne hanno
un bisogno urgente, e d’altronde la nostra cassa rimarrebbe vuota dopo
alquanti giorni. Noi dobbiamo fare una scelta tra i bisognosi.
Ricercheremo dunque le famiglie, che sono state sempre riconosciute
come povere? Ma la disgrazia pubblica ha quasi invertito l’ordine,
imperciocché colui il quale ha un mestiere, delle braccia e l’abitudine
del lavoro, trova più facilmente del pane che gli altri. Lo s’impiega a
disotterrare morti, a sgomberare il terreno, a coltivare i campi. Al
contrario il piccolo mercante di cui tutta la bottega è scomparsa; il
piccolo proprietario, che viveva giorno per giorno di una magra
raccolta o della pigione di una sua casa, non saprebbe mica ove cercare
un punto d’appoggio. Egli è impossibile il vendere terre per procurarsi
gli alimenti. Chi è che compra in una crisi di tal fatta? Ancor meno
troverà a prendere ad imprestito, anche a smodata usura. Noi sappiamo
che il Barone di Montemario è rimasto due giorni digiuno. Giudicate da
quest’esempio l’imbarazzo dei meno ricchi.
Che fare adunque? Dirigerci agli ecclesiastici perché formassero le
liste delle persone da soccorrere? È quel che abbiam tentato a più
riprese, se non qui, almeno altrove. Ma quando abbiam verificato quelle
liste, vi abbiam trovata la stessa persona sotto differenti nomi, o
anche i membri della stessa famiglia, e in tutt’i casi gli amici del
sig. Curato, i suoi parenti, le sue amanti! Reclamiamo lo stesso
servigio dalla polizia locale, dal Giudice, dal Cancelliere? ma i
medesimi abusi si riproducono; con quest’aggiunta interessante, che per
esser messo sulla lista, ciascun miserabile doveva promettere a quei
signori una grossa parte di quei benefici della limosina. Distribuiamo
colle proprie mani e col nostro solo discernimento? v’era sempre dietro
il nostro protetto qualche agente di polizia, che gli strappava perla
paura sei carlini su dodici. Nessuno si maravigli troppo delle
abbominazioni, che racconto: esse sono negli usi di tutte le
amministrazioni napoletane. La mendicità è proibita nelle strade di
Napoli, e purtuttavia ognun sa che i mendicanti vi formicolano per la
buona ragione che sotto il defunto re, e sin oggi, vi furono colla
polizia degli accomodamenti, mercé i quali ciascun mendico di
professione pagava agli agenti del potere un livello pel quale poteva
occupare il suo posto alla crocevia, mostrare orride piaghe, ed
assordare i passaggieri coi suoi pianti simulati. Ho veduto coi miei
occhi un povero di Posilipo dividere il prodotto della sua giornata con
un agente di polizia il quale piacevolmente sorrideva intascando la
somma.
Noi non ignoravamo tutti questi abusi e pur nondimeno ci
siamo lasciati più di una volta sopraffare in tal modo nel corso del
nostro viaggio, tanta era grande la difficoltà di fare il bene sotto
quel grazioso governo! Ci restava un mezzo di esser utili, che sembrava
infallibile. Un numero di famiglie dormiva sulla neve, ove si
ammucchiavano confusamente sotto alcuni pugnelli di paglia. Qual cosa
più naturale che far loro delle capanne di tavole? Ci mettemmo dunque
all’opera. Si trattava dapprima di trovare un sito convenevole.
Nell’impossibilità di stabilir cosa alcuna sulle accumulate mine, né
sul resto della montagna le cui balze son troppo ripide, pensammo al
terreno sul quale eravamo stabiliti noi stessi ad un quarto d’ora
dall’antica città, vicino al convento dei Cappuccini. Era dessa la sola
posizione esposta al sole, riparata dai venti freddi. Centinaia di
famiglie vi si eran di già collocale. Si cominciò a sgombrare il suolo;
ma noi facevamo i conti senza i monaci.
Sembra che il sito scelto fosse stato un tempo il loro giardino. Si giudichi se essi gittarono fuoco e fiamme! «Ma è per un'opera di carità, lor dicevamo» — Ed essi, Che importa? il nostro ordine anche è povero»
— Ma sapete bene che questo non è che uno stabilimento provvisorio per
l’inverno, per un anno al più, fino a che ciascuno non abbia rialzata
la sua propria dimora. «Noi non ne vogliamo saper niente... È contrario alle regole. Questo suolo ben si appartiene a noi!»
L’indomani quei buoni monaci ci presentarono alcuni ecclesiastici,
tra gli altri l’arciprete P... . di coi la cronaca dice che è stato di
già sottoposto ad un processo per aver cagionato ad una certa Caterina
B. gl’inconvenienti della maternità. Avendo il Vicario generale a forza
di denaro arrestata questa processerà, il nostro uomo ora si rifà delle
sue passate noie coll’offrire pubblica ospitalità — nella notte — a
delle miserabili donne senza asilo. Pura carità, credetelo bene!...
Ecco l’uomo che venne a trattare con noi. A suo fianco eravi pure un
alto ecclesiastico della diocesi di M. , il cui nome non doveva esser
obbliato in questa enumerazione di eroi cristianissimi. Non era stato
egli carcerato per debiti? e non aveva trovato il mezzo di
liberarsi servendo da valletto al Vescovo di Potenza per quattro ducati
al mese? Ma colla servitù si fa la carriera nella Chiesa; ed ora eccolo
quasi che l’eguale del fratello di Monsignore, quell’interessato
canonico il quale dopo d’essere stato arrestato appunto a Potenza, per
aver fatto troppo chiasso in un cattivo luogo, è stato ricompensato di
quell’esemplare condotta col glorioso titolo di Cameriere del Papa.
Tale essendo dunque l’onorevole compagnia, che venne a presentarci
le sue osservazioni sul nostro modo di far la carità, il vicario
generale parlò il primo. Egli ci fece rimarcare con un’aria contrita
ch'era impossibile di far coricare delle donne sul terreno benedetto
del monastero «Delle femmine, ripeteva, delle femmine! pensatevi
dunque!» Noi conoscevamo il loro orrore pel bel sesso, e facemmo
osservare pulitamente che già buon numero di sventurate erano stabilite
sui luoghi, in capanne costruite dai loro mariti o dai loro padri.
Aggiungevamo che qualcheduna di più o di meno non porterebbe gran male
alla santità del luogo. Ah! sapete voi replicò il Vicario che saremo
obbligati a dimandare l’assoluzione superiore per quelle che già vi
sono? — Infatti nel numero di esse ve ne ba parecchie peccatrici, voi
lo sapete meglio che altri, sig. Vicario».
Egli finse di non comprendere, ed aggiunse «Bisognerà
specialmente domandar l’assoluzione per la rottura che avete fatto del
sacro recinto del Monastero (deve notarsi, che avevamo fatte sgombrare
alcune pietre frante). È peccato mortale, ripeteva egli, è peccato mortale il rompere il sacro precinto del monastero!» Noi
non avevamo grande paura di esser dannati per questo delitto, ed il mio
amico indignato rispose molto a proposito: «che egli pregava quei
signori a voler ben anche domandar l’assoluzione superiore pel buon
Dio» — Come! come! — «E senza dubbio, e non è stato egli che col suo
terremoto ha osato rompere il primo recinto sacro del vostro convento?»
I burlatori rimasero dalla parte nostra, siccome ben lo si può pensare,
ma non bisognò meno costruir fuori del sacro precinto. Sfortunatamente
avemmo l’imprudenza di collocare le nostre capanne al di sotto del loro
beato giardino. Vi avevamo veduto il vantaggio di metterle meglio al
coverto fornendo loro l'appoggio di un muro di sostegno, nessuno
soffriva di questa combinazione, e le famiglie che vi collocammo, tra
le altre una povera donna incinta ed affamata rimasta vedova e senza
soccorso, ci benedicevano baciandoci le mani come a degli angeli del
cielo.
Ohimè! noi contavamo senza i rancori monacali. Questa razza non
perdona punto. Partimmo: ma sol due mesi dopo seppi che le capanne eran
vuote ed a metà distrutte: cercammo di prendere informazioni, e quando
il mio rispettabile amico M. Major ritornò in Basilicata, nel mese di
marzo 1859, seppe i seguenti fatti.
I buoni cappuccini avevano ottenuto un ordine superiore per far
evacuare il loro terreno. Quest’ordine essi non hanno mancato di
estenderlo alle vicinanze. Trecento famiglie sono state cacciate senza
pietà dai loro temporanei ricoveri. Si son dovuti riportar quegli
erranti penati lungo una via sassosa ad una distanza media dalla Città
e dal convento, ch'è una posizione detestabile. In quanto alle capanne
che avevamo costruite noi, i monaci le avevan fatte evacuare,
quantunque fossero state costruite fuori del loro terreno. Essi hanno a
tal fine operato in un modo tutto apostolico: salendo sul muro al cui
dorso erano state quelle capanne appoggiate, eglino hanno gittate tante
pietre sui tetti che hanno forzate le persone a sloggiare. Condotta
molto cristiana, come si vede!... S. Paolo è stato lapidato più volte.
E non è egli che ha detto «siate miei imitatori?» Ebbene, è tale la
bonomìa di questo povero popolo, che quando quei caritatevoli
cappuccini fanno i loro giri colla bisaccia sul dorso, io son
perfettamente sicuro che non rientrano colle mani vuote nel convento, e
che la marmitta monacale bolle egualmente bene che per lo innanzi
Vorrei averla finita con tali turpitudini, ma è d’uopo
compiere la mia opera sino all’estremo. Vedrete che in questo paese le
miserie morali sorpassano, e di molto, le miserie fisiche: Udite: Un
uomo di Saponara si trovava nella notte fatale per caso a Montemurro.
Avendo schivato la morte, egli esce nell’oscurità e si dilige di tutta
fretta dalla banda di Saponara. Nell’arrivare, cerca la casa di sua
famiglia. Non ne trova che il sito. Una decina di persone suoi parenti
eran là sotto quell’ammasso di pietre! — Voi v’imaginate forse un
abbattimento indicibile a quella vista, una disperazione a tanta
sventura... Ebbene, niente di tutto ciò; invece la sete di guadagno si
risveglia in quel cuore di bronzo. La casa vicina gli era nota per
esser quella di un capitalista a nome Cenappo, egli penetra in quelle
mura ruinate, scava, solleva delle pietre, scopre un forziere, lo
rompe; e simile al genio del furto, sen fugge perseguitato specialmente
dalla paura. Inciampando in ciascuna ruina, esitando a ciascuna scossa
novella, ei trasporta un sacco di denaro. Tutto ad un tratto lo
s’incontra. Gl’interessati lo arrestano. Il giudice ebbe a trattar
l’affare. Ma come tutto è permesso qui tranne che il fare il bene, non
sarete quindi troppo maravigliato nell’apprendere che il miserabile
potette trarsi d’imbarazzo... dividendo colla famiglia che aveva
rubata. Questa si stimò molto fortunata che la divisione non si facesse
in preferenza tra le autorità ed il colpevole. Una parte di questo
dramma succedeva al momento stesso in cui stridevan le grida dei
morenti, al momento in cui migliaia di sventurati restavano sprofondati
sotto le ruine, e come colpiti dal fulmine! lo dirò chi era quell’uomo?
era un prete. Non credo che sia quello stesso che fu arrestato a
Montemurro per furto nelle ruine e menato nelle prigioni ecclesiastiche
di Potenza.
LETTERA XII
CARITÀ DELLE AUTORITÀ
Vi ho detto nella mia ultima lettera quale fu la carità spiegata dai
preti di Saponara. Vediamo ora quella delle autorità. Vi ho detto nella
mia ultima lettera quale fu la carità spiegata dai preti di Saponara.
Vediamo ora quella delle autorità. Al nostro arrivo abbiamo trovato
alcune capanne costruite a spese del denaro pubblico. Una era occupata
dal clero, un’altra dalla gendarmeria, una terza dal giudice e dal
cancelliere. A qualche distanza in una cattiva esposizione abbiam
potuto vedere alcuni piccoli pali piantati a terra, un pezzo di tela
incatramata simulava il tetto, ma nessuna parete a tale armadura;
«Perché non terminate delle capanne sì necessarie! domandammo agli
agenti del potere» — Perché non vi ha abbastanza tavole, né se ne
posson procurare.
L’indomani del giorno in cui vi si è fatta questa dichiarazione,
avevamo tante tavole quante ve ne bisognavano per costruire venti
baracche. Ce ne venivano portate con premura da un molino da segare
della valle, a noi stranieri che pur tuttavia non avevamo conoscenza
dei luoghi. Quando lasciammo Saponara, la tela incatramata si elevava
sempre sui pali piantati in nome del re; ma la pioggia ed i venti
cominciavano a distruggerla. «Il denaro non arrivava» si diceva.
Quest’ultima scusa ci sembrò più logica, ma meno plausibile ancora che
la mancanza di tavole.
Passando per avanti una gran casa, intesi dei gemiti; entrai, e mi
trovai in mezzo di una trentina di disgraziati, disseccati, putridi.
Uomini e donne si scovrivano per mostrarmi i loro miserabili scheletri;
tutti confusamente gemevano, si morivano. Mi si assicurò che egli non
avevano abbastanza nutrimento; io vidi pur tuttavia medicare una donna
da un chirurgo. Non dimenticherò mai una incantevole fanciulla dagli
occhi neri, dalla carnagione pallida, la quale coi piedi nudi ed appena
mezzo vestita s’introduceva in questo ricovero, e divorava qualche
particella di pane che la fame di una madre poteva abbandonarle! Essa
avea otto anni, gelava, e quell’incantevole viso avea la forza di
sorridere.
Questa specie di ospedale è la sola mostra di carità pubblica che io
abbia incontrata in tutto questo desolante viaggio. M’informai chi ne
faceva le spese; il comune mi si disse. In altre circostanze avrei
trovata la cosa del tutto naturale. Ma quando il comune è interamente
distrutto! ma quando si son raccolti ducati a centinaia di migliaia
precisamente per sopperire a tali bisogni! «Non avete voi ricevuto dei
soccorsi dal governo? domandai; si sono fatte a Napoli enormi collette
per voi.» — «Noi non ne abbiamo inteso parlare.»
Qui, siccome da per tutto, i liberatori non essendo arrivati
a tempo da fuori, le persone che sono state tratte vive dalle ruine non
sono state salvate che per caso. Dio sa il numero di quei che avrebbero
potuto vivere e che hanno aspettato in vano giorni interi, morendo
lentamente di dolore e di fame. Si sono almeno resi gli onori di
sepoltura ai loro cadaveri? Si è sgomberata la città da quei corpi in
putrefazione? No, da tutt’i lati i venti apportano l’odore infetto
delle carni rimaste senza sepoltura. Presso che la metà dalle vittime
giace ancora sotto le ruine, mi si assicura. Son già sei settimane che
vi stanno, e mi spavento pel prossimo stato delle malattie
pestilenziali, che potranno svilupparsi. Ma almeno si continua per
lavoro di becchini? No! le autorità non vi mettono più mano. La
rapacità dei particolari soltanto continua l’opera funebre, scavando
questi ammassi di pietre insanguinate.
Seguitemi, se ne avete il coraggio, sulla sommità di questo
monticello. Sedetevi come me sulla porta spezzata del tabernacolo della
chiesa, a lato di una pietra sepolcrale che ha coverto altri morti.
Ascoltate quel rumore di voci che sale, quei colpi di zappa al di
sotto. Si sgombera una casa. Ne escono, spinti a colpi di pali, due,
quattro, cinque cadaveri! Essi son nudi, senza distinzione di sesso.
Che fossero stati allora svestiti? Noi credo; l’uso del paese è di
dormire del tutto nudo. Coraggio! discendiamo, andiamo a studiare la
disperazione sulla fisonomia dei morti. Li si rigettano in un angolo,
senza rispetto; appena li si covrono di un poco di paglia. Il fetore è
estremo, indietreggiamo. Fo due passi e trasalisco come se avessi
camminato su di un serpente. Ho calpestato un braccio che esce da mezzo
alle pietre! Esso è disteso come per domandar soccorso; le dita sono
increspate, la mano aperta come per afferrare.
Ma che sono quelle grida? perché quella disputa in un tale luogo?
Sento dire che i lavoratori esiggono una doppia paga dagli eredi di
queste spaventevoli ruine. Costoro se la intendono per dividere tra sé
ciò che si dissotterra. Dipoi un nuovo contrasto a proposito di un
treppiè o di una scodella che si è trovata. I lavoratori scoppiano in
ispaventevoli risa respingendo col piede gli avvanzi di una donna!
Ritiriamoci, il puzzo dei cadaveri e la vista de’ viventi desta un
eguale orrore.
LETTERA XIII
ANCOR SAPONARA
La vita rinasce dalla morte, voi lo sapete egualmente bene che me, e
il riso succede alle lagrime. Questa noncuranza, che fa che l’uomo
dimentichi i suoi mali altrettanto presto che le sue gioie,ha bene i
suoi vantaggi quando essa non è il risultato della depravazione morale.
L’uomo sarebbe presto perduto, se la forza vitale, la potenza medesima
dei suoi rinascenti bisogni non lo strappassero al duolo del giorno
innanzi per lanciarlo nelle speranze dell’indomani. La stessa vita
animale colle sue esigenze materiali giova alla trasformazione del
mondo, questo gran cimitero, ove una non curante generazione calpesta
ogni giorno la polvere delle generazioni estinte.
Quindi vedete una fiera su queste ruine; la prosa vivente si colloca a lato della morta poesia.
Il mercato si è stabilito al luogo più devastato. Si veggono
confusamente avvanzi di cappella, rustici calzamenti di pelle di bue;
cammini spezzati e cappelli da vendere; letti bruciati e formaggi di
pecore. Tutt’i mestieri si son dato appuntamento qui, come per
rimpiazzare al più presto quel che è istrutto. Anche il lusso vi è
venuto; ecco un gioielliere. E vero che le parti si son mutate; si è il
mercante che compra invece di vendere. Ohimè! le povere donne del paese
vanno a portare a questo ebreo il loro ultimo orecchino, i loro anelli
nuziali. Il bisogno dev’esser molto grande per far dimenticare a queste
giovani del mezzogiorno le piccole cure della vanità. Fortunate, se non
si profittasse dei loro bisogni, ma è tristamente curioso il vedere
tassare a 4 fr. 50 c. tutte le spoglie di una beltà del paese. La fame
deve contare con la rapacità o coll’usura.
Una parte della città, trovandosi situata più giù, è stata non già
preservata, ma meno terribilmente rovesciata. Avvi ancora qua e là
qualche muro in piedi; e su d’uno di essi leggo questi versi, cattivi
versi in cattiva ortografia, che un prete del paese, spirito
misantropo, m’immagino, avea scarabocchiato con del carbone:
Riparato che ha al suo bisogno A sperarne mercé è vero sogno (1).
e più lungi:
Si lasci però star questa canaglia Che non conobbi giammai uno che vaglia (2).
Ecco tutto ciò che i S. Giovanni del paese sapevan pensare e scrivere in una sacristia della chiesa della Madonna del Rosario. Ohimè! il popolo non potrebbe dire oggi del prete quel che il prete diceva ieri del popolo.
Prima di lasciar la città, ebbi il piacere di constatare che
la nostra presenza era bastata per risvegliare la popolazione e
strapparla dall’apatia. Appena avemmo promesso delle tavole a chi ne
avea bisogno che ciascuno si affrettò di costruire egli stesso
l’armadura delle nuove baracche. Con un’attività sino allora
sconosciuta vedemmo gli abitanti toglier dalle ruine le travi. Gli
uomini sgomberavano il suolo, le donne si caricavano delle some. Strana
particolarità di costumi che si nota presso la maggior parte dei
montanari di queste contrade. Un uomo si crederebbe disonorato se
portasse un carico; si è il destino della donna portar via questi
enormi pesi, sotto i quali piega la sua debolezza. Ma qui almeno la
maggior parte delle femmine son tagliate da cariatidi;ed è cosa
eccitante vedere una o due caricarsi di enormi armadure. Esse le
portano sul loro capo, inciampando su quel suolo ineguale. Già, Io si
vede, la popolazione è come trasformata dopo il nostro arrivo; la vita
è ritornata; tanto è vero che un poco d’incoraggiamento e di esempio
basta ordinariamente per rialzar un popolo.
Non è pur tuttavia scomparso ogni pericolo; durante la notte
sentiamo sovente sordi brontolamenti nel seno della terra; la nostra
capanna screcchiola come se fosse scossa da un vento impetuoso; ci
svegliamo all’improvviso per piccole oscillazioni. Al momento di
lasciar la città io stava in casa del nostro ospite; il mio amico ed io
avevamo messo sulle nostre ginocchia una tavola, per servirci da mensa.
Facevamo colezione alla meglio quando una scossa improvvisa ci fece
balzar dì un piede al di sopra del suolo; ben era dessa una spinta da
basso in alto. Nell’istante medesimo le donne si precipitarono fuori
delle loro dimore, mettendo grida. Si fu un panico, uno spavento
indicibile. Una di esse nel fuggire cadde nel fuoco. Dopo i drammi del
mese di dicembre si spiega questa suscettività d’impressione. Ma si
comprende ancora che una tale facilità a perdere la testa non dovea
contribuir poco a render difficile salvarsi al momento del pericolo.
Del resto, cammin facendo, raccolgo delle pruove dell’incostanza, del
capriccio, direi, di questo flagello. Esso non ha seguito nessuna
regola nel suo procedere. Si vede nella pianura una casa in piedi fra
due altre distrutte. Qua ha fatto un rumore simile ad un giro di carri
sotto terra, colà non si è fatto sentire che appena. Son delle correnti
elettriche? Son de’ gaz imprigionati? Quale è la causa immediata di
tutti questi disordini?
Ecco quel che mi domandava traversando l’antico Aciris (oggi
Agri) piccol fiume che diviene azzurrognolo a ciascuna scossa, un pò
forte, e guardando tutta quella catena di montagne di cui a torto forse
si dice che il livello siasi un poco abbassalo. Avvi in questi misteri
di che turbare non solo le sorgenti ed i fiumi, ma eziandio un poco il
cuore dell’uomo. Il sapiente inglese, di cui vi ho già parlato, e che
era venuto a verificare qui il suo proprio sistema, non ha potuto
constatare che dei misteriosi disordini. Vedendo chele muraglie non si
eran rovesciate tutte da un lato, che le scosse erano state contrarie,
che in fine non eravi alcun mezzo di sommetter questi fenomeni ad una
legge fissa, egli se ne è ritornato molto scoraggiato per la scienza. I
sapienti vedono qualche volta lontano, ma Dio solo vede profondamente.
Amate le anticaglie, credo? La mia guida mi offre di condurmi ai luoghi ove fu Grumentum. Questa
città greca fu una delle principali città della Lucania. Ne rimane
ancora, si dice, un anfiteatro ed un sotterraneo di due miglia di
lunghezza. In tutt’altra circostanza avrei fatto un lungo giro nello
scopo di visitar quelle ruine, ma ve ne sono tante del tutto nuove
sotto ai miei occhi! D’altronde mi si è mostrata sulla piazza di
Saponara una porta maggiore che ne era stata tratta. Essa serviva al corpo
di guardia della città; un’iscrizione ed un pilastro sono ancora in
piedi. Strano destino delle cose umane', le più antiche delle volte
resistono al rovesciamento meglio che le nuove! In quanto ai
sotterranei, di cui vi ho parlato, non posso farne a meno di citarvi
una leggenda che vi si riferisce, e che il nostro ospite ci raccontava
colla più grande serietà. Questo sotterraneo dunque communicava un
tempo con... Gerusalemme, se credo al la tradizione. Si poteva cosi
andar in Terra Santa senza trascinarsi sui continenti né sui mari: «ciò
spiega,» egli aggiungeva, «che la morte di Gesù Cristo ha potuto esser
conosciuta in tre giorni da Gerusalemme a Roma». — Ma, replicammo noi,
su di che è fondata quest’ultima affermazione?— Ah? è articolo di fede.
—In tal caso non abbiamo niente a replicare. Ma come il vostro medesimo
sotterraneo avrebbe permesso agli uomini di quel tempo, i quali non
aveano né ferrovie né vapore, traversare in sì poche ore tutta la
distanza che vi separa da Gerusalemme? Ah! chi sa se i romani non
aveano ancora una specie di telegrafo elettrico? «Ecco ove sono ancora
i sapienti notai del regno. Io parlo di un poeta e di un uomo di
spirito; tanto è vero che, dovunque non esistono la critica, l’esame e
la libertà di discussione religiosa, la stessa istruzione non illumina
punto. Si è questo un fatto abbastanza costante nel regno. Io conosco
delle famiglie di cui tutt’i membri, anche le dame, sanno il greco e
l’ebraico, e non ne son per questo più avvanzate. Non basta aver
gli occhi, è uopo anche servirsene. Dovunque non esiste la libertà in
una certa misura, la vita medesima si ritira.
Una parola ancora prima di prender commiato dal nostro eccellente
notaio. Dopo la nostra partenza egli è stato interdetto dalle sue
funzioni per tre mesi, per avere data 1’ospitalità e per aver mantenuto
con noi la più inoffensiva corrispondenza.
Tanto il dispotismo è sospettoso! Tanto la nostra presenza era sembrata pericolosa alle autorità locali!
LETTERA XIV
MONTEMURRO
Son per introdurvi, mio caro Emilio, in mezzo al più gran càos ch'e'
si)ossa immaginare. Noi ci avviciniamo ad una scala tortuosa, niuna
strada che meni, a Montemurro. Che è quel che scorgo al di sopra? E una
città sepolta, è un mucchio di pietre? A cento passi non si riconosce
niente se non una casa bianca nel centro. Essa si drizza come mostra di
ciò che furono le altre. Si direbbe che un bifolco gigante abbia
passato il suo aratro per colà, e che case, chiese, castello ancora,
giacciono ora distesi nel solco. Questa traccia è la strada maestra non
ha guari ricoverta, ed all’orlo della quale la truppa ha raccolto dei
rottami che l’avevano interamente ostruita. Ecco del resto la sola
buon’opera che abbian fatta quei soldati. Arrivati mollo tempo dopo il
disastro, han costruito due o tre capanne, è vero, ma le autorità le
hanno impiegate al loro proprio uso. In quanto alla popolazione, non se
ne sono affatto preoccupati, sotto lo strano pretesto che essa era
tutta sotto terra, e che 5000 abitanti erano morti sui 7500 che
conteneva la città. Questa cifra è spaventevole, ma dolorosamente vera;
ciò che è vero altresì, è il modo con cui le autorità e la truppa han
reso gli ultimi doveri ai morti, e soccorso i vivi.
Su quelle 5000 vittime, 2000 appena sono state tratte da quel
cimitero; sì son resi loro gli onori funebri, non ne dubitate; si è
fatto loro un cimitero nella vicina città; ma si son sepolti talmente a
fior di terra che abbiam veduto coi nostri occhi i porci del paese occupati a divorarli. Io
non commento, racconto. Le altre 3000 giacciono ancora nel luogo in cui
sono state affogate. Quando si sono sgomberate le loro case per trarne
i valori, si son riggettate ignominiosamente in un angolo o sepolte
sotto altri rottami. Il puzzo è decisamente insopportabile, il cuore
rimane desolato, è uopo fuggire. Ecco pei morti, se non che prima di
morire essi han dovuto per lungo tempo gemere, chiamare e disperarsi
invano. Si è venuto in fine, ma dopo dieci giorni e... per spogliar i
superstiti.
Sì, vorrei che lo si sapesse, per l’eterno disonore di
quell’armata che preludeva così a suoi recenti saccheggi di Catania,
alle selvagge crudeltà di Palermo bombardata e parzialmente incendiata
con un numero di abitanti bruciati vivi. Quegli eroi vestiti di rosso,
di bianco e di bleu, inviati in Basilicata per soccorrer dei fratelli
in affanno, sì son gettati in quel carnaio come altrettanti avvoltoi
affamati. Ma è di denaro che essi han fame. Ciascuna pietra fu
rivoltala e sotto ciascuna pietra si trovarono un cadavere ed alcuni
oggetti di valore. Il cadavere fu sospinto in qualche buco immondo, il
denaro fu preso e nascosto, o diviso con le pietose autorità della
provincia!
Io non vorrei nominar persona che saputamente, così non oso citar il
titolo di un certo impiegalo superiore il quale, secondo la
testimonianza di molte persone, ha dovuto ritirarsi dal saccheggio con
30 mila ducali di sua porzione! Se vi stupite che forti somme si
trovassero in questo paese perduto, sappiate che gli abitanti di
Montemurro erano per la maggior parte mercanti ambulanti o fissi. Or
che fare del denaro aumentato? In un tal paese, non vi ha né azioni di
ferrovie, né associazioni commerciali, né alcuna cosa di quel che
presso di noi fa circolare l’oro. La Banca è lontana. La maggior parte
dunque di quei negozianti arricchiti godono del loro oro alla maniera
degli antichi avari. Aspettando di comprarne terre, essi l’infossano
nascondendolo bene (in altre province), per timore delle concussioni e
delle bande di ladri si conservano grandi valori in olio, in delle
cisterne. Gli sventurati avean faliticato per gli altri, come lo si
vede.
Ma quei buoni profitti non bastando ai predatori, costoro si
son serviti di questi altri piccoli mezzi: Quando si trovava un
disgraziato che frugava nelle ruine, lo si arraffava, si frugava lui
stesso, gli si toglieva tutto quel che avea addosso, e lo si rinviava
nudo con un’accusa di furto. Or queste concussioni sono state
esercitate su di persone che non rimuovevano che gli avvanzi delle loro
case. Ma supponiamo che essi avessero frugato delle ruine estranee ed
abbandonate; il lor preteso delitto dimanderebbe esame, mi sembra. Non
credete poter affermare con me che, in una città di 7500 abitanti, la
maggior parte parenti ed amici, se non se ne salvino che 2500, le ruine
bene e debitamente sono la proprietà dei superstiti? E si deve
desiderare, non è vero?, che eglino ne ritirino il più che possono, per
indennizzarsi della perdita delle loro case, e della ruina delle loro
famiglie.
Ma supponiamo che si risolvesse altrimenti questa quistione di
dritto: Ove dovevano esser consegnati i valori salvati dal naufragio,
ed. ancor quelli tolti ai pretesi ladri? Nelle mani delle autorità, non
è vero? E ciò si è fatto in verità, tranne quando i soldati preferirono
serbar il tutto per loro. — Ma i depositari sono in dritto di
appropriarsi in qualche maniera ciò che è stato lor affidato?O è loro
permesso di lasciarlo imputridire nei forzieri dello Stato e delle
province? Essi avrebbero dovuto renderne conto, mi sembra, sia ai veri
eredi, sia al comune, di cui sarebbe importante riparare i danni.
Ebbene! qualunque supposizione siasi potuto fare, il fatto è che non si
è inteso parlare di quel che era stato tratto dalle abitazioni — e che,
secondo ogni probabilità, non se ne ritroverà giammai niente.
Il barone N., venerabile vecchio, il quale dei suoi cinque figli ne
ha perduto tre nel disastro, e che è stato egli medesimo ferito, non è
stato più che gli altri al coverto delle concussioni di quei signori.
Un’ala del suo castello edificata in volta era rimasta parzialmente
intatta. Era questo un asilo pei suoi e per lui. Nondimeno egli
preferì, per prudenza, andare a stabilirsi in una capanna di tavole ove
l’ho trovato coricato, soffrente. Non essendo custodito il suo
castello, i liberatori del paese non trovarono niente di meglio a fare
che entrarvi, prendere tutto ciò che vi si trovava ed anche toglierne
sino alle ultitime armadure, sia pel loro proprio uso, sia per renderle
ad altri. «Perché non ha egli reclamato, perché non ha fatto un
processo, direte.»
E se vi afferma che il povero barone ha dovuto attendere due anni il
permesso di farsi trasportare a Napoli, per far curare la sua gamba
paralizzata, e che questo permesso medesimo non gli era stato accordato
dapprima che per sei giorni! Tanto gl’impotenti, quando hanno ancora
una lingua, sembrano pericolosi a coloro che regnano col terrore.
Una dama che era sopravvissuta ai suoi, avendo ben nascosto al fondo
della sua cantina una somma di denaro, cercò degli operai che potessero
dissotterrarla. La difficoltà stava nel trovarne che non la serbassero
per loro stessi. Essa non credette potere far meglio che intendersela
con dei montanari delle vicinanze, obbligandosi di rilasciar loro in
compenso delle loro fatiche il quarto della somma... ciocché
era un bel denaro. Ella indicò il luogo ove si troverebbe il tesoro.
Allora i montanari sicuri del fatto loro esiggono la metà. Si discute,
ma la polizia è vicina, bisogna affrettarsi a consentire. Si scava, si
trova; e quegli operai, precipitandosi sulle piastre come su di una
preda, s’impadroniscono di tutto e lo trasportano a casa loro, malgrado
le grida della sventurata donna. Che faceva dunque la polizia si
sospettosa verso i proprietari medesimi? Se alla povera donna non è
venuta idea di dirigersi alla giustizia, si è perché, senza dubbio, in
questo momento ed in questa provincia tale idea non sarebbe venuta a
nessuno. Quando le autorità dividono coi ladri, i derubati non hanno
che a tacersi, ed è il più prudente per essi. Ma, quando esse si
appropriano l’oggetto in contestazione, che bisogna fare? Sommettete
dunque la quistione ai vostri uomini di legge. Sarei curioso di sapere
la loro risposta.
I superstiti si lagnano di due saccheggi, il primo fatto dai
paesani delle vicinanze che la polizia si è ben guardata dal mettere al
dovere, il secondo ed il più irreparabile fatto dalla truppa. Credo del
resto che sia questo il solo luogo nel quale i militari siansi permessi
questi abusi su di una larga scala. Parecchi proprietari sono stati
uccisi, difendendo i loro beni, ma da paesani, mi affretto a dirlo. I
domestici han quasi tutti abbandonati i loro padroni per correre al
saccheggio, ciò che non fa l’elogio della moralità di questa
popolazione; se al terremoto ed al saccheggio voi aggiungete
l’incendio, avrete un9 idea dei disastri di Montemurro. E siccome la
malevoglienza, la vendetta stessa, non sempre dormono per una tomba, si
è potuto veder la casa del notaio prender fuoco parecchi giorni dopo.
Niente può dare un'idea dei disastri di questa disgraziata città. Non
la si può paragonare che ai quartiere più elevato di Saponara. Per
poter trovare e riconoscere le loro case e quelle dei loro amici,
parecchie persone han dovuto cercare e specialmente scalare per ore
intere.
Ecco una piazza pubblica nella quale parecchie centinaia di
persone, che vi eran fuggite alla prima scossa, sono state schiacciate
nella seconda. Non si son data la pena di seppellirle, e noi le
calpestiamo. Se avvi tanti salvati è perché molti di essi eran usciti
dal paese pei bisogni del loro commercio. Finalmente ogni parte della
città, trovandosi edificata su di un terreno mobile e presso di un
burrone a picco come un’alta spiaggia, ha rotolato col suolo stesso nel
fondo del burrone. Parecchie persone hanno pur tuttavia fatto senza
ferirsi quel salto di 100 piedi. Mi si presenta una giovinetta di lo
anni, Maria Donata Attorno; più avventurata di molle altre ha
ricuperato completamente la vita dopo sei giorni di sepoltura. 11 suo
pallido volto dà una idea delle sue sofferenze. Quanti altri hanno
aspettato invano la luce, in cui son morti soffogati respirando il
primo soffio di aria libera, perocché era troppo tardi! Nel numero
delle perdite materiali, si può coniare un piccol tempio antico, il
quale aveva resistito ai tempi, ed in cui mi si assicura che vi si
conservavano delle pitture e degli stucchi disgraziatamente osceni.
Vi ho detto il genere di soccorso inviato al paese e che non fu che
una catastrofe di più. Aggiungo che, per nostro conto personale, non
potemmo spandervi che poco denaro, avendo trovato presso la polizia
anche meno facilità che altrove. Dee sapersi che quindici giorni prima
vi era stato inviato ordine da parte di Ferdinando II di arrestare i
nostri amici, gli Inglesi, se osavano comparirvi e farvi delle
distribuzioni. Quest’ordine è stato rivocato, egli è vero, più tardi,
allorché si è veduto che noi non eravamo degli agenti politici, e che
la nostra missione 68 non era che caritatevole. I nostri passaporti si
fecero nondimeno aspettar lungo tempo, ciocché ci affliggeva,
imperocché avevamo paura che non si morisse di fame là giù prima del
nostro arrivo.
Si temette di disgustar troppo quegli alteri Inglesi che hanno sì
grossi vascelli, ed i passaporti arrivarono prima per i nostri amici,
poi per noi. Ma dell’ordine rivocato rimase sempre qualche cosa. Egli è
evidente ancora che i nostri occhi eran troppo buoni per piacere a
quegli uomini di tenebre, e se ci fu permesso osservare, è perché era
difficile proibircelo. Montemurro, del resto, era stato compromesso
politicamente. Esso passava per ostile al re; il suo liberalismo gli
costò caro, gli sbirri non ebbero alcun impaccio sul suo cadavere, ed
il giornale ufficiale, che non amava citare i suoi nemici, non ha
parlato che una sola volta del di lui infortunio, quantunque
avesse sofferto più di tutte le altre città. — Vi s’impedi M. Major di
costruir delle capanne. Egli si è offerto d’incaricarsi di una
quindicina di orfani, ed è tutto quello che gli è stato permesso di
farvi. In quanto a me, tenterò di raccontarvi le tribolazioni che ho
sopportate. Esse vi ricreeranno forse; sarà la canzonetta dopo la
tragedia.
Saprete dunque che, informandomi di quel che eran divenuti certi
dugento ducati inviati dagl’inglesi, posi in grand’imbarazzo il curato
del villaggio. Questi mi prese da parte, mi condusse a sua casa e mi
spiegò come le nevi della stagione aveano impedito al vescovo di
Potenza di mandargli più presto quella piccola somma. Valga che valga,
accettai la scusa; ma esigei che si facesse la distribuzione sotto ai
miei occhi. Il consiglio municipale era riunito e lo pregai di formar
una lista di 200 persone le più bisognose. Le si chiamarono sulla
pubblica piazza, ed io potei fare la distribuzione colle mie proprie
mani. Ma frattanto gli abitanti del paese si eran raccolti a centinaia
e forse anche a migliaia. Tutti volevano la loro parte di profitto.
Ebbi bello spiegar loro che pel momento non dava che il denaro della
carità inglese, che bentosto verrebbe il loro giro, che avevamo
l’intenzione di fare per la loro città ciò che avevamo fatto per
Saponara. Essi non sentivano ragione, e nella loro disperazione si
elevavano sino alla collera. Allora cominciò una scena, quali non se ne
posson vedere che in Italia e in luoghi simili: uomini mostrarmi i
pugni, le donne strapparsi i capelli, i fanciulli spaventarsi. Ciascun
volto si animava di una passione frenetica; io era circondato,
dominato, incapace di farmi sentire. E frattanto la polizia rideva
nella sua barba o attizzava il fuoco introducendosi nei gruppi. Essa
era scontenta, m’immagino, di non essere stata incaricata della
distribuzione; l’avrebbe fatta, essa pensava, in tutt’altro modo! Ma la
nostra cassa di soccorso era rimasta nelle mani di M. Major, a
Saponara, non fui dunque tentato di attignerne. Non posso pensare a
quell’ora di angoscia senza un fremilo nervoso cui bentosto succede uno
scoppio di risa.
Il grottesco si mischia sovente al tragico negli
ammutinamenti di questi popoli meridionali; fui dunque tratto
d’imbarazzo da un incidente dei più volgari. Lo dirò! e come dirlo?
Qualche cosa mi passò nelle gambe e mancò di rovesciarmi; un grugnito
dominò la folla; era... era uno dei numerosi ospiti del paese, che il
chiasso spaventava, uno di quegli animali il cui nome mal figura in un
dramma e la cui presenza mi fu tuttavia una liberazione in tale
occasione. Mi venne un’ispirazione, e mentre che questo incidente mi
permetteva dire una parola, io alzai la mano e feci prendere lo
sciagurato animale. — A tale atto, si fermano, si stupiscono. —
Annunzio a tutti che si farebbe loro della zuppa, della zuppa di porco!
A questa nuova, le fronti si rasserenano, le voci si calmano, gli
appetiti si aguzzano. Chi sa da quanto tempo quegli sciagurati non
avean punto gustato della carne!
Un porco fu in effetto ucciso; prima di partire pregai l'obbligante
barone N. di far vegliare al di lui uso. Vi dirò ora ciò che avvenne
del povero animale? Appena io era partito la polizia si presentò in
casa del barone: — «Voi avete un porco che quel forestiere vi ha
lasciato. — Si — Voi ce lo rimetterete — Non posso, il mio dovere mi
obbliga darlo ai poveri — I forestieri non hanno il dritto di far delle
distribuzioni. Rilasciate quell’animale.»
Il povero barone dovette eseguire, ed i signori della polizia hanno
fatto eccellenti regali colla carne che dovea nutrire il povero. Egli è
vero, mi si assicura, che essi l’han mangiata alla mia salute, gran
bene lor faccia! Spero tuttavia che il buon popolo defraudato della sua
zuppa non mi abbia credulo capace di averlo mangiato tutto solo.
LETTERA XV
VIGGIANO
Voi non vi maraviglierete, mio caro Emilio, che, dopo essermi
liberato dagli affari di Montemurro, mi trovassi molto contento sul mio
mulo, camminando alla volta di Viggiano. Tre ore di cammino me ne
separano. In questa provincia le abitazioni son ammucchiate in grossi
villaggi? pochissime ne sono disseminate nella campagna, sia a causa
della malaria che regna nei bassi fondi, sia a causa della poca
sicurezza che quivi si gode. Queste città hanno l’aspetto di un’altra
età; parecchie hanno conservato ancora le mura di cinta, e dalle loro
porte centinate si attende sempre vederne uscire degli uomini d’arme. A
dire il vero, persone e case vi hanno appena progredito da secoli: se i
signori del luogo non si fanno più la guerra, il genere di governo di
cui sono state gratificate queste contrade non ha fatto grandi sforzi
per cambiar i costumi, né per ispirar confidenza. Diciamolo nondimeno,
la poesia non vi ha perduto, e i nostri villaggi di Francia, situati
nei fanghi della pianura, fanno infinitamente meno effetto di queste
torri alto locate, di quelle abitazioni sospese su precipizi, e di cui
l’ardita mole si stacca alteramente sul profondo cielo del mezzogiorno.
L’ effetto n’è sorprendente da lontano, ma bisogna non avvicinarsi,se
non si vuole veder dissiparsi le illusioni. Delle strade tortuose,
spesso deserte, fredde in piena està, sporche tutto l’anno , delle
abitazioni triste, massicce, da cui sembra stillar la noia; e
confusamente, a lato delle grandi case, delle capanne senz’aria, senza
luce, al fondo delle quali brillano gli occhi di qualche avola
abbondonata. Sulla soglia si avvoltolano in comune dei fanciulli nudi e
dei porci immondi. Lo vedete, il pittoresco non vi manca.
Tutto ciò sia detto per farvi comprendere ciò che ha dovuto
distinguere Viggiano dalle città vicine. Questa piccola città di 6,700
abitanti, quantunque edificata come tante altre, su un rapido pendio,
avea una fisonomia più moderna. É alla professione della maggior parte
dei suoi abitanti che dee attribuirsi questa particolarità. Avete
incontrato nelle strade di Parigi, di Londra o anche di Boston, una
banda di suonatori italiani, i quali dai loro violini e dalle loro arpe
traevano le nuove arie di Verdi o le sinfonie di Rossini? Li avete
veduti erranti di città in città, raccogliendo in ciascuna strada e
davanti a ciascuna porta qualche somma per prezzo dei loro talenti?
Avvi gran probabilità che la loro patria sia precisamente questa
piccola città di Viggiano di cui vi parliamo. Dalla loro infanzia essi
in questo paese perduto, si son applicati alla cultura della musica; e
veramente puossi dire che finora i figli non hanno demeritato dei loro
padri. Senza servire di geni artistici, hanno acquistato abbastanza
arte per contentare le orecchie delicate. Mezzo mendicanti, mezzo
virtuosi, essi fanno col loro flauto non dico solamente il giro di
Europa, ma bene spesso il giro del mondo. Lasciando al paese le loro
famiglie, essi hanno il buon cuore di inviar loro in tutti gli anni i
prodotti delle loro economie. Altri si maritano allo straniero, e
conducono più tardi nelle loro montagne qualche Americana stupefatta,
qualche Inglese spatriata. Se hanno ammassato molle piastre, loro prima
cura si è di fabbricarsi una casa sul ridotto modello di quelle che han
vedute ed abitate sotto altri cieli. Nessuna cosa è curiosa come quella
di trovar in quest’angolo solitario delle tracce di civilizzazione
diverse, importate da tutti i punti del mondo. Gli abitanti sono
poliglotti, ed appena è necessario parlarvi l’italiano per esser
compreso. Artisti mendicanti a Parigi, son divenuti borghesi e
proprietari nelle loro montagne. Essi darebbero l’ospitalità nelle loro
case a voi che gettavate lòr dalle vostre finestre l’obolo della
carità,se l’ultimo terremoto non avesse abbattuto tutti quei capi di
opera della loro piccola città, e fatto svanire per lungo tempo i loro
sogni di ben essere. Ormai lor non resterà più che lasciar le famiglie
sotto qualche provvisorio ricovero e riprendere i loro violini, se non
sono rotti. Ma noi contiamo senza la polizia napoletana, cui tutto
faceva sospetto, e che è sembrata lungo tempo risoluta a non lasciar
uscir da queste valli un solo di coloro, che vi gemono. I loro lamenti
poterono andare a risvegliare gli echi della pubblica indignazione;
essi non avrebber avuto soggezione di ridire quale è il genere di
limosine, di cui sono stati gratificati i loro poveri figli. Avrebbero
rivelate le malversazioni degl’impiegati, e ciò mi spiega quella strana
notizia da cui non poteva trarre il mio partito per più mesi: a quegli
artisti ambulanti si negava un passaporto, dovrei dire un gagnepain. Dipoi
essi han potuto uscire dalla loro patria, ma grazie al dio Pluto, che
avea lascialo loro, mi penso, di che pagare la venalità dei loro
cerberi.
A questo trasporto per la musica parecchi di essi debbono
d’altronde la loro salute; imperocché nel momento fatale buon numero
era assente. Ma giudicale ancora della disperazione delle loro mogli le
quali, rimaste sole nel paese, non avevano neppure un braccio amico per
istrappar i loro figli alla morte. Una di esse, giovine di venti anni,
si ferma innanzi a me e mi domanda con toccante ingenuità se avessi
incontrato suo marito suo marito partito da un anno per Rio Janeiro. —
«Quando ritornerà, ella mi disse, non troverà più la bambina; povera
creatura, è rimasta là sotto! io non ho potuto farnela trarre da tre
giorni. Mi era salvata col primogenito che ha tre anni, l’altro era
nella sua culla. Ma poiché voi venite da fuori, avreste potuto
incontrare il mio Giovanni?— Eh! mia povera donna, il mondo è sì grande
— È vero, ma se vostra Eccellenza si benignasse scrivergli? — Lo farò
certamente, purché mi diate l’indirizzo. — Ma non so dove ora si trova;
vostra Eccellenza s’informi alla polizia. Scrivetegli dunque che siamo
qui Raffaele ed io senza casa e senza pane. E direte che avremmo potuto
morire senza rivederlo!» La lasciai afflitta per non poter neppure far
questa buona azione.
La distruzione è stata un pò meno che a Saponara; avvi ancora
qua e là qualche porzione di edifici abitabili. Non vi è morto che un
migliaio di persone. Sventuratamente in simil caso più sono i
superstiti, più bocche sonvi da nutrire. È dunque qui che M. Major ha
dovuto lasciar la maggior parte delle sue limosine.
Io lascio di parlarvi della carità amministrativa. Che è il valore
di 500 ducali impiegati in tele, coverte, vestimenti, per una città di
quasi 10 mila anime? Non si è voluto neppure vendere ai ricchi delle
tende per ripararvisi. Tutti sono incomodati, se non affamati. Prestar
dei capitali a basso interesse e su d’ ipoteche sarebbe forse il
miglior mezzo di rialzar le famiglie che si ruinano; non si può dare a
tutti. La carità è molto difficile ad esercitarsi.
Essa l’è sovrattutto quando si è indegnamente ingannato dal clero
del paese. Una parte di questo conviene francamente della sua
abiezione. Si è cosi che un monaco cappuccino, presso cui mi son
collocato, avanti al fuoco, verso la sera, si esprime,in termini molto
energici sulla corruzione del clero: «E, egli dice, a causa di noi che
il flagello è caduto sul paese. I nostri vescovi tengono carrozza,
hanno migliaia. di ducati di appuntamento, ed intanto i semplici preti
rubano la chiesa ed abusano del popolo!» Io mi maravigliava di quella
franchezza e del tuono profetico delle sue maledizioni, quando mi
ricordai del suo abito di mendicante: — «Ed il vostro convento ha
sofferto molto? gli dico. — Vedete, noi non osiamo più dormirvi. Esso
tuttavia non è stato bello, tutto vi è semplice. Non è come nei palazzi
dei vescovi. Noi viviamo di povertà noi. — Volete dire di limosine? —
Sì, noi siamo i veri preti; non havvi che il nostro ordine che valga
qualche cosa.» Due giorni dopo io mi lagnava con un giovine
ecclesiastico dei furti commessi dai suoi confratelli dei denari della
carità forestiera. — Oh! senza dubbio, mi dice, havvi cattivi preti;
sentite: quei di Saponara son dei veri furbi, essi hanno delle donne
nelle loro case; han perduto il loro ministero; pruova n’è che due
confessori dell’ordine dei Passionisti, essendo andati a Saponara per
confessare le persone, han dovuto ritornarsene senz’aver fatto affari
(sic), perché il popolo non vuole più aver a trattare con persone che
tengono delle prostitute in casa loro (cito testualmente). Ma non è lo
stesso dei preti di Viggiano. In quanto a noi, siamo irriprovevoli.»
Sapeva a che tenermene su quest’ultima affermazione. Il
curato della città, d’accordo per altro colla commissione municipale,
aveva fatto distribuire ai suoi parenti ed amici dieci, quindici, venti
ducati del nostro denaro per volta, serbando pochi carlini pei veri
poveri. Quindi, la coscienza di quei signori non essendo molto sicura e
facendo loro temere dei reclami da parte mia, si ebbe cura, quando son
partito dal paese, solo sul mio mulo seguito dalla mia guida,
d’inviarmi all’incontro il giovine ecclesiastico, di cui vi ho ora
parlato, e colle cui minacce si contava intimidirmi.
Egli era montato su di un vigoroso cavallo e portava un bel fucile a
due colpi. Là cintura mal nascondeva un gran pugnale; il suo tricorno
inclinato da un lato lasciava veder un volto abbastanza bello. Da tutta
la sua persona sfuggiva non so quale minaccia o quale bravata. Credetti
veder un abate della Regenza, travestito da brigante calabrese. Alla
riunione di due strade egli mi si presentò tutto ad un tratto: il suo
occhio scintillò, egli evidentemente mi aspettava. Teneva il fucile sul
suo ginocchio e scherzava negligentemente col grilletto. Il suo abito
da prete non m’impedì di cercar le mie armi al fondo delle mie tasche.
In tale attitudine amichevole ci accostammo. Con un’arte tutta italiana
seppe raddolcire la sua voce; essa non divenne rozza che allora quando
mi domandò se io era contento dei preti di Viggiano. Camminavamo l’uno
a fianco dell’altro, sempre spiandoci col1’ angolo dell’occhio. La
risposta era difficile a darsi, lo non amo far supposizioni poco
caritatevoli; ma quel fucile, quel pugnale, quell’occhio minacciante,
aggiunti ai misteriosi avvertimenti che avea ricevuti da alcune persone
sulla strada, mi facevan pensare che s’impiegavan dei mezzi per
intimorirmi. Io mi trassi d’imbarazzo dicendo (ciò che era vero) che
«era meno scontento dei preti di Viggiano che di quelli di Saponara.
«Il fucile fu disarmato ed andò a raggiungere la spalla del prete
cavaliere. La nostra conversazione divenne si intima che le mie pistole
si addormentarono nella mia tasca, li gentile pugnaletto di un piede di
lunghezza fu tratto dalla sua guaina, ma solo per sturar una boccetta
di amarasco, che mi guardai bene dal gustare. Ci separammo da buoni
amici, alla congiunzione di due strade, ciò che non mi impedì di
tenerlo d’occhio sino a che un tiro di fucile ci separasse per sempre;
tanto rammarico aveva di lasciarlo! Potrei indicarlo abbastanza
chiaramente per farlo riconoscere, ma preferisco dire che egli non era
neppur di Viggiano.
Quei buoni preti! mi han fatto rappresentare a Viggiano una
parte abbastanza bizzarra in una specie di commedia che non posso
dispensarmi dal raccontarvi come tratto caratteristico dei paese.
Non vi ha che una sola chiesa in piedi a Viggiano. E una piccola
cappella quadrangolare consacrata a S. Maria del mondo (non si confonde
con la altre Sante Marie!). La prima domenica di settembre, parecchie
migliaia di persone vengono da tutt’i punti del regno a farvi le loro
divozioni. Essa non ha per rivale, pretendono i vicecurati, che la
cappella di Montevergine, a meno che non lo sia quella di S. Gennaro.
L’altare ha questo di particolare che lo si trasporta in ogni anno, per
quattro mesi, su di una montagna a sei miglia di distanza. Le offerte
debbono esser molto ricche, imperocché la cappella pecca pei soverchi
ornamenti. La cupola n’è specialmente sopraccaricata. Ci si mostrò, a
sinistra nell’entrare, un altare ove un angelo di legno, sospeso
all’arco della volta,sostiene col suo debole braccio, indovinate che?
un’enorme trave; sì una trave caduta dalla soffitta nella infausta
notte, e che — con l’aiuto dei sacrestani, m’immagino — è andato a
drizzarsi fra le braccia del cherubino, e senza ancora spezzarlo!
Giudicate della grandez? za del miracolo! Il vescovo di Potenza ha
vietato che si togliesse, e la pietà della provincia avrà un soggetto
di edificazione di più. Se un angelo potesse canonizzarsi, questo lo
sarebbe bentosto; ma, non è stato egli che ha compiuto questo
prodigio,è stato evidentemente S. Prospero, le cui reliquie riposano
sotto quell’altare, non ne dubitate; per pruova vi si mostra la sua
testa, una testa di cera che il buon popolo adora siccome della carne
miracolosamente conservata.
Ma non è questa la maraviglia di quella cappella. Un
sacrestano compiacente mi domanda se volessi vedere la madonna. Veder
la madonna! certamente; una madonna di legno, — di legno dorato — del
terzo secolo — col bambino Gesù sulle sue ginocchia. — Essa è stata
trovata provvidenzialmente da alcuni preti (sempre da preti) sulla
vicina montagna, nell’istesso luogo in cui la si fa abitare quattro
mesi all’anno, perché tiene molto a quella villeggiatura.
Io non sapeva qual favore mi si faceva. Il buon popolo lo sapeva
meglio di me, imperocché accorse in folla; e siccome la madonna si
sdegnerebbe molto se si scovrisse il suo glorioso volto senza ricreare
le sue orecchie con un canto di circostanza, intesi, al trarre della
cortina, una spaventevole discordanza di voci di fanciulli, donne,
preti, tutti inginocchiati, i quali intonavano l’abituale litania.
Credetti dapprima che la statua s’indignasse perché io non mi
inginocchiava come gli altri, imperocché mi guardava con grandi occhi
scintillanti e tutto rotondi. Ma fui ribelle e rimasi in piedi, col
taccuino in mano, prendendo delle note. Bisogna credere che il mio
sangue freddo raddoppiasse il suo sdegno, perocché i spirò ai suoi
adoratori un ritornello abbastanza selvaggio, nel quale si pregava la
vergine di aver pietà degli eretici. Or per questo buon popolo tutt’i
forestieri sono inglesi, e tutti gl’inglesi, sono eretici. Quindi gli
occhi di tutta l’assistenza eran appuntati su me: i preti inginocchiati
avanti l’altare rivolgevan il loro volto verso di me, come per dirmi:
«si è a voi, almeno, che si dirigge questo discorso.» E la litania
ricominciava: a abbiate pietà degli eretici! sterminateli!»
Quale pietà buon Dio! In quanto a me non mi sento mollo
eretico, io non aveva timore; e pur tuttavia quegli sguardi mi
molestavano. Mi venivan ancora come delle velleità di un folle riso,
pensando allo sdegno di quella madonna dalle rozze braccia, dai grandi
occhi, coronata di un diadema di oro e di pietre preziose. Il bambino
specialmente mi avea l’aria di cattivo umore; sia che avesse pianto,
sia che la mia presenza gli fosse dispiaciuta, le sue gote eran rosse;
presi dunque il partito di sottrarmi allo sterminio, facendo
un’onorevole ritirata, non senza tuttavia lasciare la mia offerta al
sacrestano. Ecco, pensava fra me stesso, un singolar voto in favore di
un uomo che porta del pane agli affamati.
LETTERA XV
CASI DI SALVAZIONE
Voi mi domandate dei racconti di private disgrazie; andiamo, ben
veggo che voi siete, siccome i giovanetti e le giovani, desideroso di
emozioni, cercatore di piccoli drammi. Pur tuttavia, a meno di farvi un
romanzo, non veggo guari il mezzo di soddisfarvi. Quando la terra trema
e le case cadono, gli episodi son sempre degli schiacciamenti, delle
ferite, e dei morti. Che saprete di più, quando vi avrò citato Leone
Gailard, musico parigino stabilito a Viggiano e che è morto con moglie,
figlia, genero, nipoti, tranne una nipote di tre anni ed un figlio ché
forse nello stesso momento ricreava gli abitanti di Parigi con degli
allegri ritornelli? — Oppur quando vi avrò detto che una Piemontese è
morta con suo marito? I morti non raccontano la loro storia.
È meglio dunque riferirvi i casi di salvazione di cui ho potuto
segnar l’istoria sul mio libro di note. Io li ho ricevuto per la
maggior parte dal cancelliere del luogo che ne avea fatto un rapporto
dettagliato al governo. Se dunque vi trovate delle circostanze
straordinarie, attribuitele piuttosto alla stranezza del fenomeno che
all’esagerazione italiana, della quale ho tenuto conto.
Il farmacista Vincenzo Dacunto mi raccontò che alla prima scossa
uscì insième con sua moglie dal letto, ciascuno afferrandosi un
vestimento. Ma la seconda scossa Io getta colla sua sedia in mezzo alla
camera; nello stesso tempo le travi della soffitta sfondata gli
lasciano veder il cielo, ed egli si trova, non si sa come, sotto l’arco
della porta, in sicuro. La farmacia, lo si pensa bene, non isfuggì alla
distruzione; e con una compassione un pò comica il povero uomo mi
mostrava da su dei frammenti dei suoi boccali spezzati e delle sue
droghe disperse. Il suo confratello di rito è stato più fortunato:
chiuso nella sua bottega da sfondamenti, ne è stato liberato vivendo di
droghe e di sciroppi per più giorni. All’ora della 1 iberazìone gliene
restava ancora abbastanza per curare lutti i suoi antichi avventori.
Tale è il tema ordinario delle salvazioni di cui mi si è tenuto
racconto, a meno che non mi si dica a un dipresso. La moglie di un
guardiano è stata dissotterrata qui dopo otto giorno. Si trovò un
figliuolo morto sospeso al suo seno. Ella vive ancora. Ma ecco ciò che
vi sorprenderà e v’interesserà dippiù: Un giovine di venti anni è
gettalo col suo letto ad un tiro di fucile, ricade sul suo letto senza
contusione, si rialza e corre tentone a dissotterrare suo padre, sua
madre, i suoi fratelli, due sorelle. La gioia della famiglia sarebbe
stata completa se la terza sorella non fosse morta. Ma egli racconta,
come una disposizione provvidenziale, quel salto senza pericolo che
l’ha conservato per esser il salvatore dei suoi.
La famiglia de Blasis abitava il quarto piano di una casa che
ne avea cinque; il quarto piano si affonda sul terzo, poi il terzo sul
secondo; e tutt’i membri arrivano sani e salvi sino al primo (ciò che
in Italia vuol dire il pian terreno). Si giudichi ael loro stupore!
Raffaele Messina, podagroso col piede e colle mani, abitava il terzo
piano, il muro di occidente cade ed egli ancora. Il terrore gli
scioglie braccia e gambe; egli si ritrova intatto sui suoi piedi, ed
essendosi tosto arrestata la crisi dei suoi dolori, corse a portare i
suoi soccorsi agli altri, egli che per lo innanzi non aveva potuto
camminare. Un terremoto agisce sempre molto sopra i nervi. L’ho provato
io stesso.
Caterina Nicolina era presso al suo cammino. Essa vi si gettò tutta
tremante. La scossa portò via il cammino con essa, e questa vi si
trovò, come in una scatola, sul sito di una vicina abitazione...
Caterina Messina, essendo uscita nella strada, fu trasportata dalla
seconda scossa nella casa dirimpetto, ma ad un piano superiore ove si
trovò sepolta sino a mezzo corpo. Essa gridava: al soccorso, e non era
ferita. Come vi era entrata, non sapeva spiegare; ma evidentemente era
stata lanciata dal basso in alto nella vicina abitazione, ove era
entrata pel tetto sfondato, senza dubbio confusa coi materiali che han
mancato di seppellirla interamente.
Un fratello abbraccia sua sorella; tutti e due si trovano
sepolti, quegli al disopra di questa, ma a fiordi terra. Egli giaceva
col volto sotto. Malgrado questa incomoda posizione, pervenne a
liberare un braccio ed a respingere alcune pietre. Profittando
abilmente delle piccole scosse che si succedettero tutta la notte,
liberò l’altra mano, dipoi il sommo del suo corpo, a forza di
respingere le pietre; nondimeno l’uno e l’altra dovettero aspettare sei
mortali ore per compiere la loro liberazione.
La moglie del musico Prospero Magrone, che ha abitato cinque anni in
Francia, si getta pel terrore dal ter, zo piano (secondo italiano) e
cade sui suoi piedi senza farsi una graffiatura.
Vincenzo S. Lorenzo, musico, cade con un terzo piano, colla testa in
giù; è ritenuto da materiali che gli stringono la testa, e da travi che
lo sospendevano pei piedi. Che fare iu una tale posizione? a forza di
dibattersi, pervenne a togliere una vicina pietra dalla sua testa, ma
inutilmente. Al secondo giorno, disperato, voleva abbreviar le sue
sofferenze rompendosi la testa. Ma non potè nil riuscirvi per mancanza
di spazio. Verso la sera lo si trasse d’imbarazzo.
Gerardo Albano diede un commovente esempio di amore paterno e
di perseveranza. Egli abitava il quarto [i7 piano, la facciata della
sua casa cadde, ed egli insieme. Aveva preso la sua nipote di 4 anni
fra le sue braccia. Per proteggerla,nel cadere, la tenne sotto al suo
stomaco.
Con le mani e le ginocchia in avanti sostenne il peso del le pietre
che la covrivano, ed ebbe la costanza di restar — forse forzatamente
per altro—in quella disperata posizione sino all’indomani,in cui li si
trovarono vivi ambedue.
D. Beatrice Stella è precipitata dall’alto coi suoi figli sur
una casa al di sotto. Tutti periscono, tranne una bambina che,riparata
dal corpo di sua madre, visse così quattro giorni. L’abate, fratello
della fanciulla, viene da Marsico, sgombra i rottami; e vedendo sua
madre immobile, esclama: «Ah! madre, sei morta! — Nè, esclama una,
piccola voce, io son viva e mammà dorme.» Un’altra figlia della stessa
dama, in età di 12 anni, dormiva nel letto vicino; si siede sul suo
letto, coi pugni sotto il mento, tremante di paura. Dei travicelli
cadono su di essa, ma senza schiacciarla. Bimane così tre giorni.
Infine la si sente gemere. La si trasse tutta livida pei freddo e per
l’ammaccatura.
Vincenzo Nicola cadde con sua figlia presso la fogna che dava
scolo alle acque della casa. Vi respirava per ’ ivi. Sua figlia sotto
il suo petto, colle mani appoggiate ’ contro la muraglia, sosteneva il
peso di otto palmi di ma1 feriali. La figlia sciamava: a Io affogo,
lasciami respira re!» L’indomani, nello scavarsi, lo si sgravò da una
parte dei rottami. Egli trasse un braccio, poi la testa. Ei e sua
figlia son vivi, se non in buona salute.
Un disgraziato rimane coricato sul dorso, colla spina dorsale
spezzala. il tetto cade, ed egli si trova nell’angolo formato dalle
armadure. Ei viveva ancora due mesi dopo.
Vincenzo Massimo, col quale ho avuto occasione di parlar lungamente,
ha salvata sua moglie la quale è tuttavia rimasta paralizzata colle due
braccia, sua madre che ha avuta una gamba rotta, e due suoi figli di
cui uno ha avuto il capo contuso. Il pover’uomo è venuto a trovarmi
dappoi a Napoli, ove egli cercava del lavoro come tagliatore.
Voi lo vedete da tutti questi esempi, le salvazioni avvenute
hanno avuto luogo per caso, o per mezzo di persone del paese. Nessun
soccorso fu portato da fuori; neppure un soldato arrivò a tempo per
aiutar alcuno di quei che vi ho citato. E dalla durata del loro
martirio si può giudicare del numero di coloro che sono spirati
lentamente. Quasi da per tutto, mettendo l’orecchio alle ruine, si
sentivano questi lamenti: Ah! ah! ah! Un ultimo fatto, da cui il mio
spirito è stato vivamente colpito, vi darà l’idea di quel che si
avrebbe potuto fare con un pronto soccorso in migliaia di casi.
Pasquale Negri abitava un piano inferiore, le soffitte si affondano su
lui, e lo sventurato si trova preso fra tre travi, di cui uno lo preme
sotto il braccio dritto, e gli altri due sulle due spalle. Nessuna
ferita per altro. Il terzo giorno lo si sente gemere; si arriva, si
esamina , ma le tre travi intralciate non permettono di strapparlo a
quella morsa. Tagliarne uno? ma la soffitta sarebbe crollata bentosto
su lui e su i suoi liberatori. Non si osa toccar niente, lo si
abbandona disperando della sua causa. Il quarto giorno si ritornò, lo
stesso imbarazzo, lo stesso risultato. «Ma almeno datemi del pane!
dell’acqua! io non sono ferito, aspetterò, si può salvarmi.» Lo si
sarebbe potuto certamente, se centinaia di sventurati non avessero
chiamato al soccorso nell’istess’ora, o se l’aiuto fosse venuto da
fuori. Tutti avean fame; gli si portò un pò d’acqua. Al quinto giorno
egli era morto! Ma immaginatevi quelle angosce, immaginatevi
specialmente quel che avrebbe potuto fare per lui e per migliaia di
altri una semplice compagnia di militari, — di militari onesti,
s’intende — muniti di mezzi sufficienti, e capaci di far in simil caso
dei sostegni a delle soffitte, che si sfondano,, non coi corpi dei
morenti! Mi resterebbe dirvi ciò che abbiam potuto tentare di buono per
Viggiano. In quanto a me, incalzato dal tempo, non ho potuto che
distribuire agli affamati qualche alimenti condili di molle promesse.
Ma il mio amico M. Major vi è rimasto molte settimane; ha avuto il
tempo di edificarvi, di distribuirvi dei fondi, ed anche distarvi
malato. Io dunque vi riferirò, riassumendole, alcune delle sue lettere.
LETTERA XVII
M. MAJOR AD ALCUNI AMICI - SEMPRE VIGGIANO
La prima cosa a farsi quando si arriva in un luogo, in cui la
popolazione dorme quasi io pieno vento, è di edificarsi da sé stesso un
quartiere generale. Feci dunque innalzare una capanna di cinque piedi
di larghezza sopra dieci di lunghezza. Non un mobile, se non una tavola
ed un letto. Ad un canto la cassa col suo guardiano sempre armato; in
mezzo brucia, durando la notte, un fuoco di. grasse legna. Ben è
uopo conformarsi all’uso del paese quando non si ha il tempo di.
organizzar un cammino; ma, per verità, vi sarebbe di che disgustar gli
adoratori del fuoco, tanto il fumo è molesto. Quando si attizza il
fuoco, ciascuno si sveglia mezzo soffogato, nasconde il suo volto sotto
la coverta per non essere completamente asfissiato.
Del resto la serata è rallegrata dai trovatori musici. I poveri
artisti han tratto dalle ruine dei frammenti di arpe, di violini, e di
flauti. Gli strumenti restaurati adempiono come meglio possono alle
loro funzioni, ed i concerti che mi si regalano brillano pel sentimento
della riconoscenza altrettanto che per l’armonia. Sovente le melodie
prendono il carattere della tristezza; quelle povere genti sembrano
preferire il modo minore, come se implorassero pietà. Non ne stupiamo
affatto; le economie di tutta la loro vita son per sempre perdute, ed
uno dei medesimi è ancora coverto del sangue di sua moglie, presso la
quale è rimasto tre giorni sepolto.
Prima di coricarsi si fa una sortita; si raccolgono i
fanciulli mezzo addormentati che si muoiono presso fuochi spenti, o che
gridano pel freddo. Li si riuniscono ìq una baracca ben riscaldata; i
poveri sembrano stupirsi di questa simpatia alla quale non sono
abituati; cessano dal piangere e si risvegliano dal loro stordimento,
ma per domandare un pezzo di pane.
Col giorno cominciano i lavori. Dal mattino si pensa a nudrir i
poveri. Due, tre, o anche quattro grandi caldaie di maccheroni son
poste sul fuoco. È la colezione della moltitudine, poi si uccide un
maiale, se ne sala il lardo che si distribuisce per le famiglie, se ne
cuociono i migliori pezzi. Un asino carico di pane viene dal luogo
meglio fornito di comestibili. Suona mezzogiorno, grande distribuzione
di zuppa e di alimenti. Bisogna allora sentire qual chiasso! Il mio
domestico, lo stesso gendarme debbono venirne ai colpi per mettere al
dovere quegli affamati. Ne risultano delle dispute. Le grida (tali
grida che non ne escono che dalle gole dei napoletani) fanno credere a
degli sgozzamenti. Infine ciascuno ha ricevuto il suo tondo pieno di
zuppa, una libra di pane, e mezza libra di carne. Quando viene la sera,
si è spossato. di fatica, assordito dai clamori del giorno, scoraggiato
del tutto. Si giura che è ben per l’ultima volta che si dà a mangiare
ad un tal pubblico. Ma quelle genti han fame, e l’indomani si
ricomincia. D’altronde, Luciano, il mio valletto di camera, cuciniere e
factotum, non è insensibile all’adulazione. Le fatiche gli sembrano più
leggiere quando si sente chiamare: D. Luciano. Gli si farebbero
fare dei prodigi ed obbliar le macchie di cui si covre la sua casacca,
se lo si gratificasse soltanto, siccome il suo padrone, del titolo di
Eccellenza.
Mentre che il buon popolo mangia e digerisce, i legnaiuoli
sono all’opera. Locare un sito di un gran giardino, far constatare
questa locazione avanti notaio affla di evitare le cavillazoni degli
uni e le malversazioni degli altri, dividere questo terreno in un certo
numero di porzioni, e costruire in ciascun compartimento una piccola
capanna ove una famiglia intera possa collocarsi, che cosi deve
trovarsi fornita per due anni di un’abitazione e di un orto — non è
piccola cosa nelle condizioni in cui si trova il paese. Nondimeno gli
abitanti si prestano con premura al compimento dell’opera; dei muli
carichi di tavole arrivano da tutte le parti, i mercanti ancora ce li
vendono a miglior mercato che agl’ingegneri del governo; e noi possiamo
far molto con poco denaro.
Pur tuttavia costoro (parlo degl’ingegneri o piuttosto degli agenti
del potere) si son piccati di amor proprio. L’Intendente o il
Sottintendente è venuto qui, e sotto pretesto di dar me e le mie
capanne in esempio ai suoi subordinati, si è messo a covrirmi di lodi.
Egli è certo che io opero meglio di essi, ma non credo alle sue
sincerissime adulazioni. Adunque le autorità si son messe non dico
all’opera, ma ai progetti gl’ingegneri sono stati invitati a fare
indovinate che? dei disegni! Dei disegni, capile, quando la popolazione
muore di freddo e che la menoma tavola bene o male inchiodata su
quattro piuoli sarebbe un provvidenziale soccorso! Ne son venuti da
Napoli, se ne sono fatti qua, ma tutti questi belli piani restano nei
cartoni, mentre che le nostre baracche s’innalzano, si covrono e vi si
rifugiano già un numero di famiglie. Nel piazzarvi le famiglie abbiam
cura d’imporre a ciascuna di esse, come pigione, l’obbligo di maniere
un orfanello.
Prima di partire dichiarerà che queste capanne sono bene e
debitamente di mia proprietà, affinché nessuno possa mettervi mano,
imperocché io diffido sempre del volgo e di coloro che lo guidano.
LETTERA XVIII
UNA ENORMITÀ DI PIÙ
Permettetemi, mio caro Emilio, di dirvi prima di andar più oltre
quel che son divenute quelle baracche. M. Major è ritornato a Viggiano
in Febbraio 1859, portatore di nuovi soccorsi. Ha cercato le case che
egli avba innalzato colle proprie mani, esse eran scomparse! Chi ha
commesso questo delitto? Ecco il fatto: Durando il soggiorno del nostro
amico, e quasi alla sua presenza, gli agenti del potere avean già
minacciato a più persone di farle imprigionare alla prima occasione, se
accettassero l’ospitalità da uno straniero, un Inglese, un nemico del
governo. Vi ricordate forse che a quel tempo gli ambasciadori francesi
ed inglesi avean lasciato Napoli, in seguilo di una lagnanza con
l’incorregibile Ferdinando II. Ci si faceva dunque l’onore di supporci
spie. Ci s’improntavano dei progetti di rivoluzione, di socialismo!
Evidentemente eravamo inviati dai nostri rispettivi governi per
sollevare le popolazioni. Le nostre limosine non erano che la
corruzione. E ciascuna cucchiaiata di zuppa, che mettevamo nella bocca
di quei vecchi e di quelle donne, era destinata a suscitare dei nemici
a Sua Maestà. Tutte queste assurde supposizioni non eran neppur credute
da quei che le facevano. Ben abbastanza si vedeva che noi non parlavamo
mai di politica; ma si agiva verso di noi come se quelle fossero
fondate. Ed ecco ciò che fa che, dopo la partenza di M. Major, le
minacce raddoppiarono contro gli sventurati che avean cercato in quelle
capanne una risorsa contro il freddo. Esse finirono per portare i loro
frutti. Alcune baracche furono abbandonate; le insinuazioni dei
giudici, del sindaco, del cancelliere forse, fecero vuotare le altre.
In definitivo furono ad una ad una demolite. Chi ne ha preso le tavole?
chi ne ha rubato i materiali? Lo sa Iddio. M. Major ben è stato
tentato, è vero, di metter la cosa in chiaro istruendo un processo; ma
tale intrapresa non poteva menare a gran che. Io non ne ho più inteso
parlare. A che pro d’altronde? Ci basta saper da qual mano è venuto il
colpo.
Tale dunque fu la carità del governo che ha finora retto
queste contrade. A Dio non piaccia che noi credessimo che tali ordini
fosser venuti dall’alto; ma quei che erano in alto lasciavan fare. Essi
non impiegavano per agenti che delle anime venali loro vendute e capaci
di tutt’i delitti per appoggiar l’autorità. Non si domandava agli
impiegati: siete onesti? sibbene: siete realisti? vi ha da stupire in
questo che tali istrumenti facesser delle volte un servizio più aspro
che il re volesse? Dovevano essi sovente far il male che lor non
dimandavasi. È proprio dei governi che vivono di corruzione essere mal
serviti per la corruzione, e perire intanto per essa.
LETTERA XIX
M. MAJOR AD ALCUNI AMICI
Viggiano, aprile 1858
La pioggia è sopraggiunta, e con essa le malattie; le sofferenze di
due mesi han fatto nascere le febbri, come un fiore degno della tomba,
su questi cimiteri impestati, lo non ho potuto sfuggirla più che altri,
e da quindici giorni mi dibatto contro le illusioni del delirio sotto
il fragile ricovero della mia baracca. Molto spesso mi son inteso beato
di poter rinfrescare la mia povera fronte, che brucia, sotto le
spruzzolanti fessure della mia capanna, invasa dall’acqua piovana.
Grazie a Dio, mi sento meglio; ma la difficoltà è stata di trovar dei
rimedi, imperocché in quanto al medico, non ne ho cercato altri che me
stesso. Siccome si teme ancor più dei miei rapporti che della mia
presenza, non oso prender dei medicamenti senza saper d’onde vengano.
Ben mi si potrebbe far passare del veleno per chinino. Sono stato
abbastanza inquieto per la nostra cassa di soccorso, che ben avrebbe
potuto involarsi durando la mia malattia. Adunque non compirò tutto ciò
che contava far qui. Pur tuttavolta ho avuto il tempo di far qualche
corsa nelle città vicine.
È accaduto quindi che a Sarcone mi son trovato distributor di
limosine in condizioni abbastanza penose. Per punirmi di aver voluto
dar i miei fondi colle mie proprie mani, le autorità locali mi han
lasciato alle prese con la rapacità di un popolaccio senza freno. Io mi
era collocato in una chiesa mezzo crollata, una folla stizzita mi
circondava. Aveva lor dato 60 piastre. Non me ne restavano che venti, a
chi darle? Tutti ad una fiata le volevano. Mi saltano sulle spalle, mi
afferrano per le braccia, mi prendono come per assalto. Fortunatamente
io non sono debole , alzandomi tutto ad un tratto detti una scossa ai
miei assalitori; essi caddero rovescioni come delle frutta cascano da
un albero. Ne profittai per presentar i miei grossi revolver a sei canne, la cui vista calmò la loro impazienza.
La fame può scusare tali ossessi. Ma non havvi un doloroso paragone
a fare tra la popolazione di questi luoghi e la grandezza dei suoi
antenati? Quivi era un’antica colonia di Grumentum. Là dove
altra volta i Romani perseguitavano gli avvanzi dell’armata di
Annibale, e dove tante migliaia di abitanti vivevano nell’agio sotto il
dominio del popolo-re, un forestiero che sopraggiunge, colla borsa alla
mano, non trova che una truppa di mendicanti importuni. Pur tuttavia la
terra ed il cielo sono gli stessi, ma la cattiva amministrazione ha
portato la ruina là dove regnava l’abbondanza. E desso un paese che non
ha nulla guadagnato dalla venuta del cristianesimo. Vedete ciò che è
divenuto quell’antico popolo sotto l’influenza della superstizione e
dell’oppressione.
Niente è più affligente che l’idea di queste decadenze
prodotte dai secoli, se non lo è forse la ruina subita da ricche
famiglie. Nella stessa città di Sarcone il castello di una nobile
famiglia è rovinato in parte. Il padre accorrendo per soccorrere le sue
due figlie è stato sorpreso alla morte. Le povere signorine da quel
tempo abitano in un canto di una camera metà abbattuta. Esse vi sono
esposte al freddo ed alla pioggia, assediate dalla miseria e
dall’abbandono. La sola governante è rimasta loro fedele. I loro occhi
bagnati di lagrime sembrano implorar pietà. Poco è mancato che
morissero di fame tanto le si son dimenticate. Ed è bisognato che una
mano straniera facesse la limosina ai discendenti di qualche fiero
barone o marchese!
L’abbandono è quello di cui sembrano lagnarsi centinaia di persone accorse da Spinola,
per esempio. Esse han fatto otto miglia per venire a mendicare qui un
pezzo di pane. Quale scena! Uomini e donne in bizzarri costumi, delle
volte degni dei selvaggi, si precipitano ai miei piedi, mi baciano le
mani, mi abbracciano le ginocchia. Son lagrime, suppliche, lamenti.
Giammai madonna ha ricevuto un culto sì passionato. E quando l’offerta
della carità straniera ha risposto alle loro speranze, è uopo sentir le
benedizioni e i voti. È un diluvio di adulazioni, in cui la parola di
angelo è la meno iperbolica dei nomi che mi piovono sulla testa. Ei non
è sempre cosi: debbo spesso liberarmi colla forza dagli assedi e
dall’ostinazione di alcune persone. Quando fo delle capanne, mi si
domanda denaro; e quando distribuisco dei viveri, mi supplicano per
aver un ricovero. E d’uopo di energia, e specialmente di pazienza.
La più curiosa delle supposizioni, che han fatto su me gli abitanti
di Viggiano, fu quella accreditata da un musico. Il poveri uomo era
andato per lungo tempo colla sua arpa per le strade di Londra, ei vi
aveva inteso parlare: con gran rispetto del lord-maire. Laonde un
prete, a cui egli avea confidato i suoi dubbi, mi penso, venne x
rispettosamente a domandarmi se fossi io stesso quel gran personaggio
in carne ed ossa. Gradite dunque i saluti del lord-maire di Viggiano.
Per completare i dettagli dati da questa lettera, permettetemi di
aggiungervi che M. Major senza lasciarsi scoraggi dalle sofferte
tribolazioni è ritornato un anno dopo in Basilicata con nuovi fondi. In
questo secondo viaggio egli ha pensato di stabilire a Saponara una
fabbrica di mattoni, per la quale ha impiegato 800 ducati. Ha dippiù
organizzato un comitato di soccorso composto dal notaio, dal solo
prete onesto della città, e da un orefice che è stato creato cassiere.
Questa città mancava ancora di una farmacia. Egli dunque ha
costruito e guarnito la bottega di un disgraziato giovine, il quale era
stato ad acquistare i suoi gradi a Salerno, vivendo letteralmente di
due grana al giorno, per mancanza di risorse. Raro esempio di
perseveranza, che è stato ben ricompensato.
Finalmente a Brienza il nostro amico prese il partito di usurpare le
attribuzioni di un governo infingardo, costruendo la traccia di un
tronco di strada. Gli abitanti del paese vi morivano di fame, per
mancanza di lavoro, atteso la stagione invernale. Una compagnia di
proprietari che avea cominciata una via divenuta necessaria all’annuale
scolo dei loro prodotti, non poteva compierla per mancanza di fondi. Si
consegnò quindi loro un migliaio di ducati, perché potessero
momentaneamente procurar del lavoro ai poveri. La carità dei nostri
amici a coverto tutte queste spese. Non puossi d’altronde non
sciogliere i cordoni della propria borsa in faccia a tali miserie.
LETTERA XX
MARSICO
Volete dunque che vi racconti la fine della mia escursione. Pur
tuttavolta dovete essere stanco delle mie lettele siccome l’era io
delle mie corse lasciando Viggiano.
È presso colà che incontrai il rammentato abate-cavaliere che domandò con tanta grazia che pensassi di lui e dei suoi.
Passai dunque in un podere ové mi attendeva il farmacista Decunto,
il quale mostrommi i guasti della sua proprietà rurale, e i suoi bovi
ancora spaventati. Alla prima scossa le povere bestie son tutto ad un
tratto cadute a terra pel terrore; esse soffiavano tanto forte che le
persone del podere sono state colpite più dal loro spavento che dal
terremoto. Alla seconda scossa tutti gli animali sonsi rialzati
subitamente come per un movimento meccanico. Essi sonsi talmente
dibattuti che hanno spezzato i loro legami; la porta essendosi aperta,
han potuto fuggire lontano. Una delle più grandi perdite sofferte da
quelli del paese è quella dei branchi di maiali, che si allevano in
gran numero.
Passai sotto le certezze di Morsico Vecchio, antica città
sospesa come un nido di avvoltoi ai fianchi delle rocce» Tale posizione
l’è stata smessa. Il castello particolarmente, che era a piombo
sull’abisso, è rotolato al fondo di esso coi suoi numerosi abitanti. Un
intero quartiere l’ha seguito nella sua caduta. Ed è veramente un salto
spaventevole, se se ne giudichi dalla grande altezza in cui è posto.
Ignoro il numero delle vittime, la città contava 3500 anime.
Marsico Nuovo, il quale si presenta un pò più lungi, con
delle cupole, con dei monumenti ancora in piedi, ne contiene circa
9000. Vi sono state poche vittime, ma 120 case son giù. Gli abitanti mi
raccontano come un miracolo il dissotterramento di un fanciullo di sei
mesi, che ha vissuto due giorni sotterra, e quello di un fanciullo di
sette anni, che è sfuggito a quattro giorni di sepoltura.
Prima di dire addio al bacino che è stato testimone di tante
miserie, gettiamo uno sguardo su Paterno. E un povero borghetto di cui
tutte le case son giù, ma che non ha l’aria sì desolata delle città,
imperocché i suoi guasti son per così dire dissimulati sotto le
ricchezze di una campagna fertile ed al sole di una ridente
esposizione. Quanto è vero che l’uomo era fatto per la vita dei campi?
Nella campagna le miserie son meno sensibili; il contadino si trae
sempre meglio d’imbarazzo, sia che delle abitudini più dure e più
frugali gli permettono di sottrarsi ad alcuni bisogni che torturano le
persone delle città, sia che là terra, questa buona madre, gli fornisca
sempre qualche radice dimenticata. Egli è certo che quelle buone genti
non mendicano, e si contentano di lavorare quando io mi accosto,
ciocché è poco ordinario in questa patria della mendicità.
Non vorrei raccontarvi degli episodi ordinari in tutt’i viaggi. Non
è tuttavia senza interesse il veder che sono le comunicazioni tra
Marsico ed il resto del mondo. Vogliamo ritornare a Padula, è uopo
salir di nuovo la catena. La mia guida mi assicura che seguiamo una
via; in quanto a me, non veggo altro che delle rocce in sul principio,
dei burroni in seguito, poi della neve la cui spessezza aumenta a
misura che ci eleviamo. Bentosto il mio mulo medesimo non scorge più il
suo sentiere sotto questo letto ghiacciato. Andiamo errando un’ora
prima di incontrar anima viva. Infine alla voltata di una gola, ecco Io
scheletro di una capanna che un giovine ed una vecchia si sforzano di
rialzare. «D’onde venite? perché venite? che volete? ove andate?»
Quelle rozze nature, love dete, mal s’acconciano a ciò che chiamiamo
discrezione.
Il forestiere è spesso colpito da quelle ingenue
interrogazioni, che senza soggezione gli drizza l’ultimo dei
mendicanti. Ma vi si prende uso a lungo, specialmente quando si sa che
non rispondere è mancare alle leggi della politezza locale, e che
rimettere al loro posto gl’indiscreti sarebbe non esser compreso ó
cader nel ridicolo.
Ma in queste montagne la diffidenza si aggiunge alla semplicità; e
non senza ridere io esibii anticipatamente la mancia che il rustico
abitante di quei muccni di neve voleva vedere e toccare prima
d’indicarci la strada. Ma, o potere di quel magico metallo, di cui i
buoni re di Napoli han fatto dei carlini! Vi è a credere che il nostro
grosso garzone non avea mai posseduto del denaro bianco, imperocché
appena rie ebbe toccato, la sua diffidenza scomparve, la sua beata
immobilità diede luogo ad una visibile premura. Egli prese la sua
scure, la drizzò bellicosamente sulle sue spalle, e, col cappello
sull’orecchio, si avvanza a grandi passi. Nè io né il mulo potevamo
seguirlo. Io non so di aver fatta una corsa più pittoresca né più
ardita di questo arruffato seguire un selvaggio conduttore. Torrenti,
ghiacci,. rocce, niente poteva ritardare la sua marcia; mulo e
cavaliere hanno un bel rotolare nei bassi fondi, affondarsi nei mucchi
di neve, egli non si ferma punto per si poco. Ma non era a traversar
che una catena, e questa ricca natura italiana ha ciò di beato che a
ciascun passo cambia come per incanto. Non avemmo disceso due ore che
il versante meridionale mostrò al nostro sguardo i suoi folti boschi di
querce sempre verdi, in cui i fiori già si schiudevano sotto rinascenti
erbette.
Adunque ripassai, senza fermarmi, a Padula ed al suo convento di Certosini.
Se non foste stanco della mia filastrocca, vi farei fermare con me
in un albergo crollante all’orlo della strada per aspettar la vettura
pubblica (perocché ve ne ha una!) che deve passare nella notte. Vi
menerei da una stanza all’altra per farvi scegliere per ricovero quella
che ha le meno larghe fessure, quella in cui entrano meno fortemente il
vento e la pioggia. Spaventato dall’idea di dormire sotto quelle
minaccianti soffitte, ritornereste con me attorno al classico focolaio,
per prender parte alla conversazione, che s’è impegnata tra un monaco
francescano ed un avvocato del paese. I paesani, al numero di una
ventina, riempiono tutti i lati della sala a volta: essi ascoltano
colla bocca aperta. Il monaco, giovine e bel garcon che è stato
per qualche tempo professore a Roma, sostiene una strana tesi: Bisogna,
egli dice, che un prete sia passato per tutt’i vizi dell’umanità, per
esser capace di ben confessare, e ben diriggere i penitenti. — Ed è,
senza dubbio, per questo che i vostri simili danno esempi si
edificanti? —No, ma ciò deve mostrarvi che i nostri vizi non ci rendono
indegni del ministero.»
L’avvocato avea la verità per lui, ma mi stupii al vedere che non
avea per lui l’assentimento dell’uditorio. Infatti il monaco parlava
bene ed assai alto. Egli sosteneva la sua tesi con una drammatica
impudenza, e spesso io osservava i segni di approvazione che
degl’ingenui campagnuoli davano al suo discorso. Una donna specialmente
l’applaudiva con la bocca e colle mani; essa avea nelle sue braccia un
bambino: «E tuo? le domandò il il monaco. — No, ma vado a portarlo a
Napoli, all’Annunziata (stabilimento di trovatelli). — Ah! è un
bastardo, è battezzalo?— Non ancora. — Scellerata! vuoi dunque esporti
al rischio di perder l’anima di questo bambino se morisse per istrada
senza battesimo?»
Ed il suo occhio s’infiammava, un santo zelo accendeva il suo
volto; lo si sarebbe preso per un profeta se la sua precedente
conversazione non avesse resa impossibile ogni illusione. Tutto ad un
tratto torna in se, prende una brocca di acqua, ne inghiottisce un
sorso; poi, fra due giuramenti, sì mette a battezzare il bambino. La
saliera che prese sulla tavola ancora imbandita, lo aiutò a compiere. i
riti della Chiesa; neppure il latino vi mancò, ed il mondo contò un
cristiano di più! La vettura a due ruote ci trasportò tutta la notte
sul1’ unica strada della contrada; rivedemmo nell’oscurità i ritratti
di profilo di Sala, di Polla e di Auletta.
La sera ritrovammo Napoli ed un riposo molto necessario.
Nella capitale almeno il terremoto non ha fatto che scuotere
1’indolenza degli abitanti. Se ne è stato libero per delle scene di
terrore, per delle notti passate ad aria aperta, per dei reumi presi di
passaggio. Mi si assicura tuttavia che non mai a Napoli è scorso tanto
sangue, avendo gl’indigeni l’abitudine di farsi largamente salassare
tutte le volle che hanno avuto la menoma paura. Ma quando la mia
immaginazione si riporta in Basilicata, non posso non fremere; e se
alcuna fiata qualcheduno mi parla del terremoto, mi sorprendo da
trasalire, io che avea riso come molti altri del panico dei Napoletani.
CONCHIUSIONE
La nostra escursione ha avuto termine con queste lettere; ma il
nostro incarico non si è compiuto. Abbiam segnalato invano, cammin
facendo la negligenza delle autorità, la malversazione degl’impiegati,
il saccheggio dei soldati, l’inconcepibile ardore che gli agenti del
potere han messo nell’impedire il bene che altri in loro vece volevan
fare; non abbiam ancora parlato della carità di quel governo che è or
ora scomparso, ma di cui rimangono ancora tracce assai per potersi far
molte illusioni sull’avvenire. È ancor per mezzo dei fatti che vogliamo
farci comprendere.
Adunque ecco quel che il nostro amico M. Major ha riportato come
notizie del secondo suo viaggio in Basilicata, nell’inverno del 1859,
cioè un anno e quattro mesi dopo il disastro; lasciamolo parlare.
«Ho ritrovato il paese, egli dice, nello stesso abbandono
che all’indomani del terremoto. Tale lo abbiam lasciato, tale è ancora.
Le nostre limosine non hanno potuto esser che una goccia d’acqua nel
deserto. Nessuno vi ha aggiunto niente. Appena vi ha qua e là qualche
capanna dippiù, opera dei particolari. 'Una cosa soltanto mi è sembrata
nuova, si è lo spaventevole accrescimento della miseria. I lembi dei
vestimenti, che ciascuno avea tratto da sotto le pietre, son consumati.
Le ultime risorse della maggior parte son completamente esaurite.
L’annata ha mal riparato alle perdite sofferte, imperocché il ricolto è
stato molto scarso, come sapete, ed i piccoli proprietari continuano ad
essere in maggior, imbarazzo dei lavoratori. La carestia del pane ha
ridotto una parte della popolazione alle ultime estremità. Da per tutto
ho trovato delle famiglie in una completa nudità. Nell’andar
cercando le più grandi miserie, ho penetrato particolarmente in una
certa capanna d’onde ho dovuto uscir subito per risparmiare onta: delle
povere donne assolutamente nude che si nascondevano in un canto. Esse
non aveano più neppure un lembo di veste e non osavano mostrarsi.
Soltanto inviavano fuori una fanciulla ed un ragazzo, i quali tentavano
di riportar un poco di pane alle abbandonate. Così si passa questo
inverno (1859) da quelle sventurate creature. E voi sapete se fa freddo
in quelle montagne!
Coloro che hanno più di che covrirsi non hanno più di che
mangiare ed il numero n’è grande! — 11 più ordinario si è veder quelle
povere creature farsi dei calzoni di lembi di panno cuciti insieme. Ho
rimarcato una fanciulla di tredici anni, la quale passava la sua vita a
portar dei carichi al di sopra delle sue forze. Il suo collo, gonfiato
per la pressione e per gli sforzi, gli faceva molto male; il suo petto
ne ha sofferto, e secondo ogni probabilità ella morrà di fatica e per
mancanza di cure.» — Tutti questi fatti sono esatti; si possono
facilmente verificare. E mentre che colà si moriva di fame, il denaro
della carità pubblica si arruginiva negli scrigni o si dissipava in
abominevoli dilapidazioni. Questo pure è un fatto certo.
Ma abbiamo forse cattiva grazia a lamentarci di questi abusi! Non è
una eccezione! Forse che una parte del prodotto delle soscrizioni fatte
per le vittime del terremoto di Melfi non era ancora l’anno passato nei
forzieri dello Stato? Melfi, lo sappiamo tutti, fu distrutta otto anni
prima di Potenza. Il re Ferdinando II, più attivo a quell’epoca ha
visitato egli stesso i luoghi, che avevan sofferto; vi ha ancor fatto
qualche bene, ha specialmente riedificato molte chiese — ciocché era la sua cura principale.
Si è pubblicata una lista officiale, indicante in superbe colonne di
cifre per ducati e per grani l’impiego delle somme raccolte per le
vittime di Melfi. E pur tuttavia ecco quel che so esser accaduto ne’
turò del ministero. Un architetto domandava del denaro al ministero de’
lavori pubblici. «Non ve ne ha pel momento — Ma io ne ho bisogno — Come
fare?». Un impiegato s’ avvicina, e con un tuono confidenziale: a
Eccellenza, non abbiamo in cassa il denaro del terremoto di Melfi? —
Ah! è vero! che buona idea!» — E lo si trae dalla cassa della carità
pubblica, per pagare non so quale lavoro di architettura! Dubiti chi
vuole di questo fatto; nessun Napolitano n’è stato sorpreso. Or ciò
avveniva nel 1859 — e nello stesso tempo circolavano ancora le liste
officiali di soscrizione. Si muovevano a compassione le persone a
profitto dei sciagurati della Basilicata. I fondi raccolti han riempito
i forzieri. A quale somma son montati? So che in Napoli il prodotto
della soscrizione è arrivato a trecentomila ducali (un milione e mezzo
di franchi); mi si assicura, senza che io possa attestarlo, che è stato
triplice nelle provincie. I militari e tutti gl’impiegati han dovuto
soffrire una ritenuta sul loro soldo per aumentare questo inutile
peculio. Il re, che sapeva a che tenersene, si è contentato di gettar
nella cassa la scarsa somma di ottomila ducati. È possibile ancora che
vi abbia messo la condizione, che la sua limosina non s’impiegherebbe
che a riedificare chiese. (Era questi, notatelo, uno de’ più ricchi re
di Europa). I principi reali si sono astenuti, nel timore di svegliar
la gelosia di Ferdinando, il quale non intendeva che gli altri
divenisser popolari quando egli non lo era. Ma il buon popolo, parte
per ingenuità, parte per non rifiutar niente a quei collettori spioni i
quali fissavano la fedeltà de’ sudditi dalla loro generosità, il buon
popolo, dico, avea dato abbastanza, del pari che i forestieri, perché
gli si rendesse un poco conto del suo denaro. Ebbene! dove è questo
denaro?
Io ho preso un particolare interesse a constatare ciò che se
ne faceva. E poiché il governo del fu re non ha reso i suoi conti, ben
sono nel dritto di dire quel che so io! Il denaro non è giunto al suo destino. Ho
incaricato più abitanti delle città distrutte di tenermi al corrente
delle carità governative; ho ricevuto delle notizie da un numero di
quelle persone appartenente a tutte le classi ed alle diverse località
di quelle provincie, tutti i rapporti si accordano: «Non si è
fatto niente per noi, dicono, essi, men che niente!» — «Ma ancora?»
Risponderete? Delle piccole limosine amministrative che mi sono state
segnalate non ho potuto, addizionandole, comporre la somma di 20, 000
ducati. Debbo ancora menzionare qui i seguenti edificanti dettagli:
Quando un impiegato dovea distribuire una somma di... a suoi
amministrati, egli andava a trovare alcuni sventurati e lor diceva
«Vuoi tu esser messo sulla lista degl'indigenti? – Certamente – Ebbene!
io ti iscriverò per 20 ducati. Ma capisci se non ve ne ha che 10 nel
pacchetto, sii discreto.. se no, se no non avrai niente affatto».
V’è ignominia maggiore? No! si potrebbe credere che quelle
malversazioni son il fatto di qualche mostro sviato
nell’amministrazione,... . che so io? vi son tante persone disposte ad
imbiancar come neve un governo cui sono attaccati! Ma ecco un fatto cui
M. Major ed io non abbiam voluto credere che su pruove materiali,
raffermate dalla testimonianza di tutti: Le case abbattute dal terremoto pagano ancora le imposte legali! —
Almeno le pagavano in marzo 18o9, un anno e quattro mesi dopo il
disastro, ed io non so essersi quindi niente cambiato. «Sì, mi diceva,
or è un anno, il nostro amico, a Montemurro, ove niente rimane in
piedi! a Saponara, a Viggiano ove è uopo ricostruir tutto, ciascun
sopravvivente paga ancora le imposte della sua abitazione che non è
più! Povere vedove, poveri orfani han veduto sequestrar le loro robe di
famiglia a profitto del fisco. Essi pagano, pagano per le case che non
hanno più!».
Se alcuno mettesse in dubbio un solo de’ fatti, che attestiamo qui
ed in tutto il precedente racconto, ci obblighiamo a condurlo noi
stessi sui luoghi, ed a fargliene verificar coi suoi propri occhi
l’esattezza. Le pruove sono ancora colà, visibili, palpabili.
Al momento che scriviamo, o che si leggono queste pagine, dopo anni
di sofferenze, niente si è cambiato in quelle disgraziate contrade, se
non che la più grande miseria ammassa ogni giorno odi che potrà appena
spegnere una rivoluzione sociale, io lo temo. Abbiam fatto sforzi per
non parlar di politica in questo racconto. Lasceremo dunque al lettore
la cura di trarre le conseguenze politiche dai fatti che abbiamo
raccontali. Essi l’ajuteranno forse a comprendere gli avvenimenti, che
si compiono o che si preparano. Essi lo meneranno, ci pensiamo questa
conchiusione che un popolo, così trattato da secoli, deve molto
violentemente esser tentato a rivoltarsi un giorno contro la mano che
l’ha schiacciato senza pietà. Lo convinceranno sovrattutto che non è
una mezza riforma che è uopo introdurre in un regime pel quale governo,
amministrazione, clero, armata hanno si mostruosamente abusato della
pazienza di una nazione. La chiesa come lo stato han bisogno di una
trasformazione. Dio voglia che essa possa operarsi senza quelle
sanguinose crisi, da cui è stata scossa la nostra società francese. Noi
abbiam tuttavia confidenza nell’avvenire, imperocché gl’italiani
sentono vivamente le loro miserie e sospirano dopo un rinnovamento. Il
risorgimento della di, gnità nazionale e l’abolizione degli antichi
governi che han regnato finora colla corruzione aiuteranno potentemente
a quella rigenerazione divenuta urgente.
La vita morale rinascerà col divino ajuto, quando l’Italia sarà
divenuta una nazione; ancor la chiesa imparerà a rispettar la sua sacra
missione. Ed in fine, il controllo di una pubblicità indispensabile
rispetto al dritto di ciascuno renderà per sempre impossibile il
ritorno di mostruosità simili a quelle che abbiam dovuto qui
raccontare.
La gelosia dell’assolutismo soltanto ha potuto tenerle segrete per circa tre anni.
POSTSCRIPTUM
Al momento di mettere in torchio, ci si reca nna lista ufficiale che si troverà nel Giornale delle Due Sicilie. ,
n.° del 29 ottobre 1859. Questa lista indica l’impiego di 173,000
ducali. Ma il pubblico non vi ha prestato attenzione più che al
cicaleccio di un ciarlatano. Ciocché ci spiega che nessuno ci abbia
finor parlato di questa fortunata lista! Ecco del resto le nostre
osservazioni su di essa:
1.° Essa constala che spesi quei 173, 000 ducati, non restavano in
cassa che 2948 ducati ai 29 ottobre 1859, ciocché è perfettamente
falso, a meno che gli impiegati non abbian fatto scomparire il resto
del montante della soscrizione.
2.° Vi conto, addizionando bene, pei conventi, pei cappuccini, pei
certosini, pei missionari, per la congregazione di S. Vincenzo di
Paola, per le monache di tutte le denominazioni, pel cambiar casa delle
religiose la bella somma di ducati 20,159. . 65 grana.
Or è ai poveri che i donatori credevan esser utili e non ai
cappuccini. Ma, che dirassi, se provo che, al n.° del 25. giugno 1859,
il Giornale ufficiale porta 11,861 ducati, come spese del ministero de' lavori pubblici
a vantaggio delle chiese di Basilicata; somma quasi eguale a quella che
è stata prelevata a tale oggetto sull'ammontare della soscrizione?
Adunque la carità ha fornito de’ fondi à questo ministero! Ed il
giornale loda il re della sua munificenza.
3.° Vi leggo per colonizzazione sui terreni che son risultati
dalla deviazione di un piccol fiume (ciocche costituisce un lavoro di
utilità pubblica e non di carità privata) 20,000 ducati.
4.° Per lavori di architettura, costruzioni di aquidotti, e dissotterramenti di cadaveri (!): 1217 ducati.
5.° Per creazione di due monti di pietà: 18,000 ducati.
6.° Con 19,479 ducati si è fondato un orfanotrofio a Potenza, ma per
chi conosce quel che si fa in tali stabilimenti, non havvi alcun dubbio
del cattivo impiego di questa somma. L'Albergo de' Poveri, a Napoli, malgrado le sue immense ricchezze, non si è arrestato nel reclamare 2305 ducati per aver albergato alcune orfanelle.
Il resto della somma si suppone impiegata a favore di persone coraggiose, le quali han soccorso le vittime, o per far pervenire prontamente
(!) gli oggetti sui luoghi danneggiati — o anche per quelle belle
baracche di cui abbiam veduto i quattro piuoli, ec. In quanto ai
piccoli soccorsi dati a coloro che morivan di fame, vai tanto meno di
parlarne quanto che abbiam veduto in qual modo son pervenuti al loro
destino!
FINE
(1) C’est folie d’attendre un secours de celui qu’on a rassassié.
(2) Laisson de còtà cette canaille; je n’en connus jamais un seul qui valùt quelque chose.
|
INTRODUCTIONCeci n’est pas un livre, mais de simples notes recueillies en
face des événements que nous avons à raconter. nous ne ferons pas de
grands efforts pour les rédiger. Elles sont prises sur le fait.
Les revêtir de rhétorique serait leur ôter quelque peu de ce qui
constitue la vérité vivante. Seulement, comme plusieurs d’entre elles
ont déjà été écrites sous forme de lettres à des amis, je présenterai
les autres aussi comme des épîtres au public. Qu’on pardonne à
l’inexpérience de l’écrivain d’avoir essayé de faire connaître une page
ignorée de l’histoire de Naples.
La vérité contemporaine a toujours un grand intérêt. Sans
exagérer l’importance de ce que nous avons à dire, nous croyons pouvoir
affirmer que ce récit aidera quelques personnes à comprendre l’état des
choses du royaume des Deux Siciles, sous le régime du roi Ferdinand II.
On y apprendra, par exemple, comment la dynastie des Bourbons a fait
pratiquer la charité dans les cas de calamité publique. C’est dans
l’adversité que les amis se font connaître; on pourra donc constater
quel genre d’amitié ce monarque portait à ses sujets. On y verra les
fruits d’une mauvaise administration. D’un fait particulier on pourra
tirer plus d’un enseignement général sur l’état administratif,
religieux et moral du sud de la péninsule italienne. Tout cela ne
manquera pas d’intérêt, dans un moment surtout où l’Europe entière a
les yeux tournés vers l’Italie, et où se décide le sort de Naples même.
Néanmoins, ce n’est pas précisément de la politique que nous
faisons; et bien qu’on puisse considérer les faits qui suivent comme
une des faces de la question napolitaine, notre principale intention
est pourtant de raconter simplement un tremblement de terre. nous voulons dire ce que nous avons vu de nos yeux dans la Basilicate et la province de Salerne, en février 1858.
Quelques faits serviront de préliminaires à ce récit.
Chacun sait qu’en décembre 1857, dans la nuit du 16 au 17, vers 11
heures du soir, un affreux tremblement de terre a secoué presque toutes
les parties du royaume et singulièrement effrayé la capitale elle-même.
On l’a vu ressenti, assure-t-on, jusque dans la Valachie, et sur toute
cette ligne de courants mystérieux que Humboldt prétend passer par la
Calabre et la Sicile. Il a fait, suivant mes calculs, environ quinze mille victimes.
Cette fois le centre principal du mouvement était dans la
partie moyenne de l’Italie du Sud, et sur le point qu’on pourrait
appeler la cheville de cette botte que figure la Péninsule. La cause en
était probablement dans les mouvements souterrains d’un volcan éteint,
le Voiture ou Vulture, qui s’élève dans les environs de Melfi. Les deux
provinces de Basilicate et de Salerne ont souffert d’énormes dommages.
Potenza même, chef-lieu de la première de ces provinces, a essuyé un
désastre. nous ne parlerons pourtant pas de cette ville, non plus que
des localités de Tito, de Picerno, de Brienza, parce que nous ne
voulons raconter que ce que nous avons vu de nos yeux et entendu de nos
oreilles.
Nous pouvons donc promettre un récit digne de foi en tous points et
dans les moindres détails. Que si les faits semblent parfois monstrueux
à un lecteur habitué aux avantages d’une civilisation meilleure, nous
sommes prêt à en prouver l’exactitude. Quoique le désastre date de près
de trois ans, on verra, hélas! que les suites en sont toujours
palpables, et il serait facile de constater aujourd’hui encore, sur les
lieux, ce que nous y avons vu nous-même en 1858. Le sujet vaut la peine
d’un voyage, et nous nous sommes étonné du petit nombre de voyageurs
qui sont allés étudier sur les lieux les effets d’un si grand
phénomène. L’artiste, le poète, le philanthrope et le savant y eussent
trouvé également leur profit.
Pourtant nous n’y avons vu accourir que des photographes et un
naturaliste anglais. Celui-ci venait y chercher la confirmation d’un
système qu’il avait imaginé du fond de son cabinet. Les photographes
ont vendu leurs épreuves, le savant est retourné, déçu dans ses
espérances, et tout a été dit.
Quant aux philanthropes, ils ont été rares. A la honte de
l’espèce humaine, je ne puis signaler que deux Anglais (je tais leurs
noms pour ménager leur modestie), et les efforts de quelques amis qui
nous ont fourni à nous-même les moyens d’être utile.
Ce n’est pas que le gouvernement napolitain n’ait aussitôt fait un
grand étalage de pitié. Il a même organisé une manière ingénieuse de
battre monnaie avec la charité publique. A la vérité, bien peu de gens
s’y sont laissé prendre. Mais s’il y a eu peu de dupes, il y a eu
beaucoup de peureux; et les envoyés du pouvoir ont pu réunir les plus
énormes sommes. On verra l’usage qui en a été fait.
Pour nous, qui savions à quoi nous en tenir, et qui, d’ailleurs,
sommes partisan de la charité libre, individuelle, nous avons fait
courir deux listes de souscription. Elles ont été rapidement couvertes
du nom d’un certain nombre d’étrangers domiciliés à Naples. La
première, d’origine anglaise, a rapporté plus de 2600 ducats (le ducat
vaut 4 francs 60 centimes environ), somme qui a été portée sur les
lieux par les deux amis anglais dont nous venons de parler, et confiée
sous les conditions qu’on verra, aux ecclésiastiques supérieurs des
deux provinces, pour être distribuée dans l’espace de trois jours. La
seconde a produit, en diverses fois, la somme de 7000 ducats, dont une
bonne partie a été fournie, je dois le dire, par les divers membres
d’une riche et charitable maison de Banque de Naples; le reste nous a
été donné par des Suisses, des Français, des Allemands.
Un homme, versé dans la connaissance du pays, recommandable
par son énergie, son expérience et son caractère, M. Major, que je puis
nommer, puisqu’il a depuis quitté ces contrées, voulut bien se charger
de la tâche difficile de distribuer ces secours aux malheureux
eux-mêmes, et de remettre de la main à la main le produit de la
souscription que j’avais en partie recueillie. L’auteur de ce rapport
l’accompagna pour l’aider pendant quelques jours, et c’est le résultat
de ses observations qu’il veut aujourd’hui faire connaître.
Si j’ai tardé si longtemps à écrire ces pages, c’est que des raisons
de prudence me faisaient un devoir de me taire. Sous le gouvernement
ombrageux qui vient de disparaître, tout nom propre indiqué eût été un
certificat de proscription pour les amis que je devais présenter au
lecteur. Et quant à faire un rapport vague, dénué de détails
circonstanciés, de preuves à l’appui, nous ne nous sommes senti ni le
courage, ni le talent de le faire. C’est par des chiffres, des noms et
des indications précises que nous désirons convaincre le lecteur.
Aujourd’hui que ce peuple commence à respirer et que l’ancien régime
semble devenu à jamais impossible, il y aurait négligence à nous taire.
nous parlerons donc en toute sincérité devant Dieu, et avec le désir
d’être utile.
Un mot encore: on trouvera dans les faits que je raconte bien
des accusations contre des prêtres dégradés. Je prie le lecteur de ne
pas y voir une attaque contre la religion chrétienne à laquelle
j’appartiens par ma foi et mes espérances les plus chères. nous ne nous
en prenons pas non plus au clergé en général. nous le respectons comme
le représentant d’une Église qui a eu ses gloires. Mais nous ne
pouvions dissimuler ce qui caractérise précisément le pays par l’un de
ses côtés les plus intéressants: Amiens Cato, mugis arnica veritas.
Il est toujours pénible d’avoir à dire du mal de ceux qu’on voudrait
pouvoir respecter. Notre excuse, si nous en avions besoin, serait dans
la nature des faits eux-mêmes.
LETTRE I
Transportez-vous avec moi, mon cher Émile, sur les rivages si variés
de Salerne. Laissez sur la droite la route tortueuse qui conduit à
travers mille gracieux détours depuis Vietri jusqu’aux riants
escarpements d’Amalfi. Avancez sur ces plaines tantôt fécondes, tantôt
abandonnées à la Malaria, qui se prolongent le long de la mer, vers
Pæstum, la cité grecque, aux temples classiques. Jadis le Sybarite
indolent berçait ici sa mollesse, maintenant quelques pâtres, dévorés
de la fièvre, vous tendront piteusement la main. Mais ne continuez pas
jusqu’à Pæstum; au milieu de ces plaines, tournez à gauche; laissez les
verts orangers du bord de la mer; vous les retrouverez à Eboli, pour
les voir remplacés bientôt par des oliviers aux formes fantastiques,
aïeuls de cette végétation puissante qui semble pourtant parfois
étiolée. Bientôt vous gravirez de nombreuses pentes pour les
redescendre sans cesse, au grand désespoir des cochers et des chevaux.
Cette route que vous suivez fut l’antique voie aurélienne. Elle conduit
à Tavauta. Les légions romaines ont foulé ce sol que nous foulons. Mais
que de révolutions depuis! Aux larges pavés de la via Romana
ont succédé les cailloux roulants, les boues gluantes d’une route assez
mal entretenue. Aux larges ponts antiques ont succédé ces ponts
ogivalsque le moyen âge a jeté sur toutes les rivières et qui, pour
être curieux à voir, n’en sont pas moins difficiles à passer, car
chacun d’eux est une véritable côte, parfois tordue, qu’on ne peut
monter ni redescendre qu’au pas. Au reste, bien leur prend d’être
solides, car on ne les répare guère, et plus d’un, sur les chemins
vicinaux qui traversent la grande route, reste rompu depuis des siècles
sans qu’on se soucie de les relever. Évidemment on travaille ici à
laisser des ruines, sinon à en faire, et cela dans l’intérêt du
pittoresque, j’imagine, ou de la poésie.
Heureux si vous traversez ces contrées par un beau soleil;
car le soleil d’Italie dore toutes choses, enrichit ces landes
incultes, ces masures aux toits effondrés qui vous font rêver
incendies, ravages de la guerre.
Parfois, dans les campagnes un peu nues, un peu désertes, un pâtre,
entouré de grands bœufs gris, devise, appuyé sur sa houlette, avec un
jeune garçon, son domestique obligé. Ne vous effrayez pas de ces
figures énergiques qui vous croisent sur le chemin. Ce sont de bonnes
gens qui ne marchent jamais sans poignard, il est vrai, mais dont,
somme toute, je préfère beaucoup la vigueur rustique à la dégradante
paresse de ce qui fut naguère le lazarone napolitain. Le jour ils se
disséminent dans ces champs pierreux qu’entrecoupent çà et là des
vallées fécondes; la bêche à la main, ils remuent cette terre
inépuisable qui a déjà nourri tant de générations; et, quand le soir
arrive, ils s’acheminent, en gravissant des pentes escarpées, vers ces
villages pittoresques que la main de leurs pères a bâti sur les sommets
les plus aigus ou sur le penchant des monts.
Cherchez, quand le jour tombe, un gîte dans quelqu'une de ces
maisons qui bordent, la route et qui n’ont pas même la prétention
d’être de simples auberges, à Zoppina, par exemple, et le lendemain
reprenez a votre course, vous enfonçant dans les replis de cette vallée
qui se bifurque à Auletta, et qui porte d’un côté jusqu’à Potenza et de
l’autre vers la Calabre.
AULETTA
Nous sommes sur les lieux du désastre. Quelle plus gracieuse
position pouvait-on choisir pour y bâtir une petite ville? C’est un
mamelon verdoyant au pied duquel murmure un ruisseau. De loin, ce qui
reste debout se montre avec éclat au soleil levant dans l’encadrement
de la vallée. Mais de près vous oublierez les grâces du paysage, en
face de 170 maisons détruites, en face surtout de ces pauvres cabanes
en paille de maïs qui à peine abritent des familles désolées. Ce vent
du matin les traverse d’outre en outre et glace leurs tristes hôtes.
Des enfants se pressent, pour se réchauffer, les uns contre les autres;
et vous qui avez passé la tête par l’étroite ouverture de la porte,
vous n’avez pas le courage de pénétrer au fond de ce réduit meublé
d’une paillasse éventrée, d’un meuble brisé et des débris de ce qui a
dû être une chaise.
Gravissez la hauteur. Un galantuomo de profession (et
l’on est galantuomo ici quand on a un coin de terre au soleil, un habit
de drap sur les épaules, un fusil de chasse à la main) s’offrira
peut-être à vous complaisamment pour cicerone. Interrogez-le: «Combien
avez-vous eu de morts?» — «37 suivant les uns, 42 suivant les autres.
Notre ville n’est pas grande, 3000 habitants seulement. Au reste, nous
avons tout perdu. Les maisons qui sont debout ne sont pas habitables.
nous autres gens aisés, nous sommes réfugiés sous des cabanes en
planches, les pauvres sous la paille. Plus d’un est mort des suites de
ses blessures. — Est-ce que vous avez encore des blessés? — Si nous en
avons! venez-voir plutôt.» Et nous entrons dans une cabane.
Un vieillard est assis dans l’angle, sa femme pleure dans un autre
coin. A notre approche, il essaie de se lever, mais en vain; il
s’excuse: «Je ne guéris pas vite, me dit-il. J’étais capo urbano (chef
de la garde du lieu), je ne suis plus bon à rien. Mais ce n’est pas la
plus grande de mes douleurs!»
Je n’osai l’interroger, il avait perdu ses trois fils.
«Voyez, Monsieur, reprit mon obligeant cicerone, ceci fut le château
du marquis.» La moitié des murailles abattues laissent à découvert les
appartements encore tout décorés de portraits de famille, de miroirs
dans le style de Louis XV, de bahuts assez respectables. Des Vénus et
des Amours pendus aux murs, sourient étrangement à la désolation du
lieu; et si, bravant les pierres qu’on déblaie, on s’aventure sur les
poutres chancelantes, vous vous trouvez entre les boudoirs d’un siècle
frivole et des débris qui ont écrasé les deux héritiers du marquis de
ces lieux, avec leur mentor, un pauvre prêtre. Au reste, ce n’est pas
le seul contraste que présente Auletta. Voyez le quartier oriental de
la ville, pas une maison qui n’ait croulé, pas un mur qui soit intact,
pas un toit qui tienne encore, et dans l’espace de plusieurs pas, les
drames les plus terribles se sont passés. Ici, trois personnes d’une
même famille ont été brûlées vives; les lattes du plafond tombées sur
le foyer ayant pris feu, les malheureux hôtes de cette maison ont péri
dans les flammes. A la forge, deux ouvriers tenaient encore le marteau,
battant le fer chaud sur l’enclume, quand la forge renversée fut
incendiée. On n’a plus retrouvé que leurs squelettes. Ce sont là de
bien douloureux souvenirs. — Mais voici à deux pas de là un tableau
tout différent. Six ou sept semaines nous séparent à peine de ces
horreurs, et pourtant des jeunes filles passent en chantant. Elles
transportent des pierres sur leur tête pour déblayer le sol, et parfois
j’entends résonner dans ces ruines le bruit de leurs éclats de rires.
Le soleil reluit sur leurs têtes comme pour les inviter à oublier le
passé.
Je m’approchai de l’une d’elle:
«Vous n’avez donc perdu aucun parent, lui dis-je. — Non, Monsieur,
mais nous avons perdu tout notre bien. — Alors, chantez, mes pauvres
filles, chantez!» Et elles reprirent en souriant leur travail de
manœuvres.
Heureuse versatilité du caractère napolitain qui oublie aujourd’hui
les douleurs d’hier et qui se soumet sans murmure aux volontés de Dieu,
— je devrais dire de la madone; — qui chante enfin sur un tombeau. Et
qu’est-ce que l’Italie elle-même, si ce n’est le tombeau d’un grand
passé, où bien des générations successives se sont courbées pour
l’éternité, et au bord duquel on a cru longtemps que les fils
oubliaient la gloire de leurs pères. Quand viendra donc la résurrection?
J’allais continuer l’exploration du voisinage quand mon
cicerone se mit à gémir. Il était blessé au pied. nous nous assîmes sur
un mur et je lui demandai son histoire: «Elle sera courte, me dit-il,
car j’ai à peine souvenance des faits. J’étais au lit, occupé à lire,
quand une oscillation vertigineuse me fit bondir sur ma couche; au même
instant je me sentis tomber dans l’espace; plus de lumière, un bruit
affreux, une secousse; j’étais encore sur mon lit, mais quelque chose
m’avait meurtri le pied, et ce n’est qu’avec peine que je cherchai une
issue pour sortir. Quelle ne fut pas ma surprise! Je me trouvais aurez
de chaussée, tandis que je m’étais couché au troisième étage! Je me
traînai comme je pus sur des débris jusque dans la campagne. Dès qu’il
fit jour, je rentrai dans la ville, déjà chacun était occupé à déterrer
les morts, à soulever les pierres, à chercher qui son argent, qui ses
amis sous des enchevêtrements de poutres et de toits. Ce fut l’œuvre de
cinq jours, et les soldats du gouvernement n9 arrivèrent que bien plus tard
pour déblayer les rues. nous apprécions notre perte matérielle à 150
mille ducats. Mais qui nous paiera nos morts et nos souffrances?»
«Qu’a-t-on fait, demandai-je, pour soulager vos peines? — Des
étrangers sont venus nous remettre 150 ducats qui ont été distribués
par nos prêtres d’une manière assez arbitraire. Le gouvernement a fait
bâtir une longue cabane en planches que vous voyez d’ici. Elle est
divisée en 40 compartiments, comme les stalles d’une écurie. Chacune de
ces chambrettes ne pourrait guère contenir qu’un cheval; on va y
entasser sept personnes. C’eût été d’un grand secours néanmoins il y a
six semaines. Maintenant c’est bien tard. Encore faudra-t-il que
l’année prochaine les privilégiés, que les autorités sont en train d’y
installer, paient le loyer de cet étroit refuge. La police a estimé
celte baraque à la valeur de 1200 ducats Je me chargerais bien d’en
faire une meilleure à moitié prix. Mais les employés ne doivent-ils pas
prélever leur cotepart sur les aumônes? Sans compter que nous ne savons
pas clairement si c’est la commune ou le gouvernement qui paiera ces
frais.»
Après avoir remercié le complaisant galantuomo de ses
renseignements, j’allais prendre congé de lui. Mais la présence d’un
étranger est une bonne fortune pour ces campagnards oisifs; et il fut
résolu qu’il m’accompagnerait jusqu’à Pertosa, à un mille de distance.
Vous m’y accompagnerez un autre jour, si vous voulez, mon cher
Émile, mais pas ce soir, car cette lettre est assez longue, trop
peut-être.
LETTRE IIPERTOSA
Ici nous avons affaire à un pauvre village. Rien qui rappelle le luxe de la villégiatura
italienne. Gens et bêtes, tout devait être pauvre dans ces cabanes.
Aussi ces murailles vieillies et mal faites se sont-elles écroulées au
moindre choc. Environ 175 maisons n’offrent plus trace de toitures, et
sur une population de 1012 habitants, 153 ont trouvé la mort. Dans un
seul coin du village que j’ai sous les yeux, plus de 100 ont été
ensevelis vivants, et une dizaine brûlés dans un incendie partiel. Paix
à ceux qui dorment près d’ici; une aumône aux survivants. Ce ne sont
pas les besoins qui manquent: dans une quinzaine de niches de bois
souffrent et meurent malades et blessés; pauvres gens qui, sans tendre
la main, répondent aux questions de l’étranger! Ils n’ont pas toujours
eu cet abri. Les couvertures, le linge, leur ont été envoyés, il faut
le dire, mais au 27 janvier seulement; six semaines d’abandon! La
plupart n’ont encore pour abri que des tentes en toile, sous lesquelles
ils s’entassent en aussi grand nombre que possible. Ils se serrent les
uns contre les autres pour se réchauffer, car il est impossible de
faire du feu là-dessous, et le froid est piquant. Encore s’ils les
avaient reçues à temps!
Vous me demanderez, mon cher Émile, pourquoi ces retards? —
Singulière objection, vraiment, à faire dans un tel pays! Est-ce qu’il
est possible que tout marche à la vapeur là où il n’y a pas même
partout des routes? D’ailleurs, voici une raison transcendante fournie
comme réponse à un de mes amis. Celui-ci, qui est passé quinze jours
avant moi, demandait à un employé: «Pourquoi vos tentes ne sont-elles
pas encore arrivées? On a vite fait de transporter quelques-uns de ces
toiles qui servent au campement de l’armée.» — Eh! Monsieur, elles
viennent de si loin! — Et d’où? — D’un pays au delà de la mer; attendez
donc, de l’Islande! oui, c’est là qu’on les a commandées; et vous comprenez qu’avant qu’on les ait cousues»
Quelle dérision! comme s’il n’y avait pas assez de toiles à Naples,
comme si l’arsenal n’en était pas rempli! Pourtant cette population a
un trésor dans son infortune: elle a un bon curé, chose rare dans le
pays. Je ne saurais exprimer avec quelle satisfaction j’ai vu cet homme
au milieu de ses estropiés et de ses malheureux paroissiens, plus
poudreux et plus déchiré que pas un, relever ses lambeaux de soutane
pour courir de l’un à l’autre et. mettre de l’ordre dans ce chaos.
Ouvert de figure, rond dans ses manières, il nous accueille avec
cordialité, et, nous montrant les listes qu’il avait dressées des 170
familles les plus pauvres de sa commune: «Voyez, dit-il, suivant les
ordres de vos amis anglais, nous avons distribué un ducat à chacune
d’elles. nous avons affiché la liste des gens secourus; tout cela a été
fait au grand jour pour éviter toute fraude, tout soupçon. Êtes-vous
contents de moi?» Qui ne l’aurait été? C’est devant nous qu’il a voulu
distribuer le pain bis que nous l’avons prié d’acheter à nos frais. Il
nous montra comment il avait fait déblayer les rues des matériaux qui
les encombraient, faisant gagner à chaque famille les dix carlins qui
lui revenaient. Il a même imaginé de faire mettre à part, par chaque
ouvrier, le monceau de pierres qui lui devait servir à rebâtir sa
maison; de sorte que le plus actif se trouve possesseur d’un plus grand
nombre de matériaux. Charité bien entendue, qui vend l’aumône au
travailleur et la donne à l’impotent. Je puis le dire sans exagération,
cet excellent prêtre m’a fait envie. J’ai vu dans son genre de vie,
dans son dévouement, dans son activité pratique, dans le respect qu’il
s’attirait, presque un idéal. Mais ce n’est que plus tard que j’ai
appris ce qu’il valait. Son supérieur, l’abbé de la Cava, m’a dit que
çet homme dévoué avait, avec l’aide d’un seul gendarme, tiré des ruines
plus de quarante personnes. Eh bien f le croirait-on? c’est à grand
peine qu’on est parvenu à lui faire donner une mention honorable dans
le journal officiel. L’autorité n’entend pas que les autres fassent un
bien qu’elle ne fait pas. nous nous en sommes trop bien aperçus
nous-mêmes. L’un des principaux obstacles que nous avons rencontrés
dans notre tournée charitable, fut précisément cette jalousie
intéressée des employés, qui, chargés d’être secourables, rougissaient
de se voir devancés et morigénés par des étrangers. Fautil le dire?
Beaucoup s’indignaient de ce que nous n’avions pas assez de confiance
en eux pour leur confier la distribution des aumônes, et un plus grand
nombre encore se dépitaient de ne pouvoir en empocher le montant. Les
faits que je vous conterai plus tard vous diront assez si nous faisons
là une supposition calomnieuse.
Mais passons et reprenons la grand route. Il semble que, dans
cette partie de notre trajet, les habitations du fond de la vallée
aient été épargnées, tandis que les villes perchées sur des sommets
ambitieux ont subi la commune loi. Le torrent que nous longeons, le Campestrino, traverse
encore de gracieux moulins; ses ondes glissent en riantes cascatelles
sous des arcades intactes, et se jouent sur des roues qui pivotent
toujours, tandis que, sur notre gauche, Caggiano montre de loin
sa désolation au couronnement d’une hauteur. Caggiano pleure une
trentaine de ses enfants et plus de la moitié de ses maisons. C’est
donc, sur une population de 4000 habitants, plus de 2000 personnes sans
asile.
Sur ces hauteurs, je crois, s’élevait aussi le petit village de S. Angelo le O'ratte.
On nous conte une lamentable histoire de paysans fugitifs, errant dans
la montagne. Pas une seule habitation n’est restée debout dans ce
hameau, bien qu’il n’y ait eu que trois morts à regretter.
Mais j’aurai à vous promener au milieu d’assez d’autres spectacles
plus douloureux encore. Gravissons au pas de nos chevaux la pente en
zigzag qui escalade le rempart des hauteurs, et nous arriverons
au-dessus de la cascade que forme ici le Campestrino. Voici s’ouvrir
une longue et riche vallée où l’olivier prospère encore, et le long de
laquelle s’échelonnent sur les deux penchants du bassin, Polla, Sala,
Padula, Diano et tant d’autres villes intéressantes par leurs malheurs.
Vous m’y suivrez demain si vous en avez le courage.
LETTRE III
Polla
Au sommet d’une colline conique, dernière pente vers la droite des
montagnes neigeuses l’hiver, nues l’été, qui forment la vallée que nous
remontons, s’élève Polla. A la voir de loin, dans les ombres d’un jour
nébuleux, on la trouve gracieuse. Rien, au premier abord, ne parle de
désolation, et quelques maisons blanches, échelonnées sur les basses
pentes de la colline, font illusion au spectateur. Ici, comme bien
souvent il arrive dans la société, c’est en approchant qu’on voit les
misères à demi dissimulées sous un air d’aisance; toute cette grâce,
résultat de la position et de la nature, n'est que le replâtrage
extérieur d’un tombeau.
Sur 7000 habitants que contenait la ville, 867 ont péri; 800
maisons sont littéralement à bas, et plus de 600 sont prêtes à
s’écrouler sur la tête de leurs hôtes. Mais avançons pas à pas. Aux
approches de la ville ce ne sont que fermes abattues, auberges
renversées sur la route même. On a élevé tout auprès une grande cabane
en bois, divisée en 70 compartiments, diton. Elle commence à être
occupée par la population, mais d'hier seulement, et nous
sommes au 1er février. Quelques tentes de toile blanche parsemées sur
le sol, ou plutôt sur la neige, ne sont que trop occupées, celles-là,
pour la santé des malheureux qui s’y entassent. Comme je demandais au
juge le nombre de ces tentes, il me répondit, suivant le chiffre
officiel:
«Il y en a 100.» — Mais, Monsieur le juge, je n’en vois
qu’une vingtaine. — Il y en a 100. — Comptons. J’arrivais au nombre de
20 ou 30. — Il y en a 100, répéta-t-il avec obstination. Le malheureux
avait reçu la consigne et ne pouvait dire autrement! Je tenais mon
carnet de notes à la main; qui sait quel employé pouvait être compromis
par mes rapports? Voilà comme on fait et comme on respecte la vérité
dans ce pays? Sous l’une de ces toiles, je trouvai l’ancien syndic de
la ville, pauvre homme malade, couché, sans respect pour ses années et
pour son titre, sur une méchante paillasse, mal protégé par une légère
couverture, et gémissant à côté de sa femme, de ses enfants, qui
grelottaient faute de feu. Quel sort pour un magistrat! Il faut dire
qu’un syndic n’est pas tant un mandataire du gouvernement que de la
municipalité. Mais quand les anciens chefs de la commune se consument,
oubliés dans un tel dénuement, que doit-il en être des simples
particuliers? Ma première mission était de m’assurer de la manière dont
les fonds apportés par nos amis anglais avaient été utilisés. Que faire
en pareil cas? S’adressera la population, questionner à vingt endroits:
«Avez-vous reçu de vos prêtres dix carlins par famille? — Non. —Alors
quelqu’un de vos amis! — Non.» Je m’informai dans tous les quartiers de
la ville: «-nous avons reçu quelque chose,» me diton enfin. — Et quoi?
—Qui deux carlins, qui trois. —Moi, dit une femme, je n’ai reçu qu’un
grain. — Et nulle part on n’a distribué par ducats aux familles les
plus nécessiteuses? nulle part on n’a affiché rien à ce sujet?—Non,
non! — Pourtant, nous avons remis 300 ducats pour les plus pauvres de
la ville. — A qui? —A vos prêtres. — Ah! Monsieur, s’écria-t-on de
toutes parts, pourquoi le remette aux prêtres, ce ne sont tous que des
voleurs!»
Je m’étonnais de cette liberté de langage. Sommes-nous bien
en Italie, dans le pays de la soutane? «Vous, bonne femme, demandai-je
à une honnête matrone, que pensez-vous de vos prêtres, de celui-ci, par
exemple? — Comme les autres, répondit-elle en secouant la tête. —Et
vous, jeune fille, que pensez-vous de votre curé?—Celui-là,
s’écria-t-elle, je le connais î» Elle fit un geste de mépris trop
énergique pour pouvoir être traduit autrement que par une physionomie
napolitaine.
Je n’en revenais pas! Quelle liberté de langage, quelle manière de
penser! Mais un peuple qui a tout perdu n'a plus rien à ménager, et,
sans nul doute, le clergé de ces lieux avait dû beaucoup faire pour
acquérir une aussi brillante réputation.
Ce qu’on y disait des prêtres on le dit aussi d’un gouvernement qui
laisse tant de gens dans l’abandon. On crie tout haut: La police nous
laisse mourir de faim. Or, il faut qu’un habitant de ce royaume ait
l’estomac bien vide pour, avoir le courage d’affronter publiquement
ainsi la police.
Quant à l’argent anglais, j’ai su que, remis à l’estimable
abbé de la Cava, il avait passé entre les mains de l’archiprêtre
Medici, lequel a prétendu avoir rempli les intentions imposées par les
donataires. «Mais la publicité?» lui dis-je. Il parut fort embarrassé,
puis avoua en rougissant n’avoir pas affiché la liste des familles
qu’il est supposé avoir secourues. «Eh bien! au moins, prouvez-moi que
vous avez fait une distribution quelconque, produisez quelques
personnes par vous aidées.» Une espèce de mendiant, à figure ignoble,
me suivait en tendant la main, l’archiprêtre lui fit un signe que je
surpris au passage; le mendiant ouvrit la bouche: «Parle, mais prends
garde à ne pas mentir!» Il rougit, se troubla, et n’osa parler.
Permettez-moi de vous dire maintenant, cher ami, quel fut le
résultat de mes recherches à ce sujet. A mon retour, je n’eus rien de
plus pressé que de courir chez l’abbé de la Cava avec l’un des
donataires de la somme disparue. Ce respectable prélat reçut avec
chagrin mes communications, et nous promit de prendre des informations.
Malheureusement il ne crut pouvoir mieux faire que de demander un
témoignage au clergé de ce pays. Le témoignage arriva, signé de tous
les prêtres de la contrée; il disaitque l’argent avait été employé —
plus que cela, distribué suivant les conditions voulues. nous avons lu
la pièce justificative. C’est un faux manifeste fait par tout un clergé
pour couvrir une malversation, et j’ai le regret d’avoir à dire que le
brave curé de Pertosa, dont je vous ai signalé la belle conduite, s’est
laissé aller à signer aussi celte infamie. Espérons qu’il a été induit
en erreur,... à moins que les intérêts de l’Église ne lui aient fait
passer, comme à ses confrères, sur les droits de la vérité. L’abbé de
la Cava, en nous communiquant cette pièce, nous disait: «Que puis-je
faire de plus?» — Rien, assurément, si ce n’est de communiquer d’autres
principes à ses subordonnés et les surveiller de ses propres yeux.
Mais parcourons les ruines. Plus on monte, plus la
destruction est grande; au sommet du cône formé par la colline, il ne
reste plus que des pierres. On reconnaît la trace des rues pourtant,
mais il faut franchir des murs à chaque pas. Par endroits, une odeur
infecte vous fait reculer; qu’est-ce? Des animaux, disent les gens.
Mais n’y a-t-il plus de cadavres humains? Et qui sait? hier encore on
en a trouvé et depuis six semaines on ne fait qu’en déterrer.
Ici c’est un prêtre qui a été brûlé vif, triste autodafé qui n’était pas, j’ose le croire, une expiation de ceux d’Espagne.
Là, on a arraché aux décombres un vieillard de 70 ans; sa famille
entière: enfants, petits-enfants, reposent maintenant dans la fosse
commune. Il reste seul! «Ma fille, me dit un pauvre homme, c’est par
miracle que je l’ai conservée: on l’a tirée de ma maison, vivante, mais
meurtrie, après qu’elle eut passé là-dessous deux jours et deux nuits
qui m’ont semblé plus longs qu’à elle I» — «Et moi, me dit le juge, je
puis vous citer le fait du brigadier Montefusto, qui a été exhumé
vivant après cinq jours. Il est mort depuis, à l’hôpital, des suites de
ses blessures.» Je me trouvai en face d’une femme jeune encore, mais
amaigrie. Elle restait silencieuse et debout, comme stupéfaite. Elle
promenait ici et là, sur le cercle de quelques ruines, son regard
égaré. J’écartai la foule et m’approchai seul: «Que regardez-vous
ainsi?» lui dis-je. Elle tressaillit, puis, se rassurant: «Eux 1 ils
étaient ici; c’était ma maison. nous possédions tout ce quartier de la
ville; ils sont tous morts mes parents, mes frères, tous, tous » —Et il
ne vous reste plus personne? — «Si, mon enfant; il était là, sous ce
manteau de cheminée; il y est resté trois jours trois jours,
entendez-vous? Je le cherchais; enfin, on l’a trouvé, il n’était pas
blessé; quand je l’ai appelé, il s’est précipité vers moi, puis il est
tombé comme foudroyé. Je l’ai cru mort. Oh! ma tête se perd.
Laissez-moi aller le voir!» Elle s’éloignait, conduite par l’amour
maternel, quand tout à coup se ravisant: «Voyez, dit-elle, je n’ai plus
que cette robe noire, elle est usée. Je n’ai plus rien, plus rien» Et
il fallut faire l’aumône à celle qui avait possédé un quartier de cette
jolie cité!
Je continuai à monter tout ému, quand je fus arrêté par une
autre jeune femme, modestement mais proprement vêtue de noir. Elle
pleurait. Je ne l’arrêtai point: il est des douleurs qu’on n’a pas le
courage d’interroger. Mais je me retournai, la regardant descendre, et
je n’oublierai de ma vie ce doux visage de veuve, à demi caché sous un
grossier voile noir.
Nous arrivâmes sur une hauteur d’où on domine la ville entière, et
alors s’offrit à mes yeux un spectacle plus triste encore que je
n’avais imaginé: l’ensemble en disait plus que les détails. Des maisons
dont cette colline conique était couverte, pas une n’est debout sur le
sommet, peu d’intactes sur les flancs; d’autres, pourtant, ont tenu bon
sur les basses pentes Somme toute, c’est un mélange de pierres, de
charpentes, de murs dont plusieurs ne tiennent que par enchantement, de
plafonds effondrés qui gisent au fond des caves. Un vrai chaos dans
lequel on sent pourtant qu’il y a eu un ordre autrefois. Un château
couronnait tout cela. On en reconnaît les restes. Les massives
constructions ont été autant secouées que le voisinage. Nulle esquisse
n’offrirait au crayon plus de détails pittoresques que Polla vu de ce
point. Aussi n’a-t-on pas manqué d’en prendre la photographie.
Quelques détails encore avant de redescendre de ce saisissant
observatoire. Le juge de paix prétend* qu’on a sauvé plus de 200
personnes qui étaient retenues sous leurs habitations. Mais ce sont des
particuliers, des voisins qui leur ont conservé la vie, car aucune
espèce de secours n’était arrivé du dehors. Il ajoute qu’on n'a trouvé
que 150 blessés. Ces deux chiffres, rapprochés des détails que j’ai
recueillis dans d’autres villes, ont une grande signification, ce me
semble. Évidemment, dans un tel cas, le nombre des blessés doit égaler
celui des morts. En outre, l’expérience a prouvé que quantité de
personnes vivaient encore après trois, quatre et même huit jours de
celte affreuse sépulture. Qu’est-ce à dire? Si ce n’est que des secours
arrivés le lendemain, ou même le surlendemain du désastre, auraient
sauvé une grande quantité de ces malheureux. L’imagination n’ose se
représenter les angoisses de milliers de personnes qui sont restées
sous les décombres faute de pouvoir se dégager, et que leurs blessures
ou la rupture de leurs membres ont empêché de faire les efforts
nécessaires à leur délivrance! Je ne m’étonne donc pas qu’à Polla on
n’ait trouvé que 150 blessés, puisqu’on a laissé mourir tous les
autres. Les 200 qui ont été calcinés ne l’ont été que par accident, par
hasard. Plusieurs centaines, dans Polla seulement, ont dû se sentir
expirer lentement. Qui les aurait sauvés? Cette population abattue,
comme frappée de la foudre, écrasée par son fatalisme et son peu
d’énergie morale, sans impulsion étrangère? Non, assurément; les
survivants avaient assez à faire pour se tirer eux-mêmes de peine.
Joignez à cela l’égoïsme qui se développe souvent pendant les calamités
publiques; songez à l’apathie dans laquelle on s’efforce d’endormir ce
peuple depuis des siècles, et vous vous étonnerez moins de cette
effroyable négligence qui a coûté la vie à tant de victimes. L’amour
paternel ou filial, l’affection conjugale, ont seuls fait quelques
prodiges.
Mais qui a été le grand coupable? Le gouvernement. Il a
laissé le sauvetage au hasard, sans direction. Les soldats ne sont
venus que huit ou dix jours après le désastre. Ne nous étonnons pas
qu’ils n’aient trouvé que des morts à sauver! Disons-le à l’honneur des
Suisses qui servaient à cette époque le roi de Naples, ils ont demandé
à courir au secours. On leur a refusé cette faveur. Quelques mois
auparavant on n’a pas usé des mêmes retards quand une bande de
mécontents, débarqués à Sapri, ont menacé la sécurité du trône. C’est
avec un empressement remarquable qu’on a fait parvenir des troupes dans
ces mêmes régions aujourd’hui négligées. C’est le jour même qu’elles
sont parties! Mais alors il s’agissait d’un trône, cette fois il ne
s’agit que de quelques milliers d’infortunés!
Le dirai-je? Les galériens ont montré en cette circonstance
plus de dévouement que les autorités. Le détenu Paolo Rossi s’étant
échappé, on ne sait comment, fit un usage glorieux de sa liberté en
cherchant les victimes avec quelques camarades. On les gracia, m’a-t-on
dit; mieux aurait valu les imiter. Les autorités n’ont pas rendu la
pareille aux prisonniers de Potenza. On raconte que ces malheureux,
sentant leur bagne chanceler ont supplié qu’on les transportât
ailleurs; mais, à cette époque, rien ne se faisait sans l’ordre du roi.
On eut la cruauté de les faire attendre jusqu’à ce que le monarque eût
répondu à leurs supplications. Et sa réponse étaitun refus f Quelque
sceptique de votre trempe, mon cher Émile, demandera peut-être comment
il est possible que des gens, et en si grand nombre, aient pu vivre si
longtemps, blessés, accablés sous une accumulation de matériaux, sans
manger ni boire. C’est une question que je me suis posée bien souvent à
moi-même. Mais les faits parlent plus haut que les doutes. Us sont
nombreux, recueillis en vingt endroits, et les sujets vivent encore
pour en témoigner. Dûton me répondre avec le médecin de Molière: «c’est
impossible!» ce que je sais, c’est que je l’ai vu. Je me demande donc
si le physique de l’homme n’est pas plus propre à la résistance que
celui des animaux?
Si l’on considère que depuis sept semaines déjà, et pendant tout
l’hiver ensuite, des malheureux ont couché fiar milliers dehors,
parfois sur la neige, ou peu s’en àut, sans vêtements suffisants,
presque sans nourriture, on admirera la force.de résistance dont le
Créateur nous a doués. Je m’entretenais de ces phénomènes avec mes
guides, quand ils me démontrèrent, avec la naïveté napolitaine, que
l’homme ne saurait lutter de longévité — sous des ruines — avec
certains autres animaux. Je leur laisse la responsabilité de la
comparaison et viens au fait.
On déblayait, dans Polla, les écuries d’une maison. L’odeur
infecte du lieu indiquait la mort des pauvres hôtes de l’étable.
D’ailleurs on était au 12 janvier, c’est-à-dire vingt-neuf jours de
distance du désastre. Pourtant on entendit un sourd grognement. A
travers une fissure de la muraille, quelque chose essayait de se faire
jour. Effrayés d’abord, les ouvriers se mettent à l’œuvre, et bientôt
la pioche et le marteau ont mis à découvert quoi donc? Un pauvre porc
efflanqué qui respirait l’air par cette fente et qui avait dû vivre de
son embonpoint pendant tout ce temps! Et ce n’est pas une exagération
méridionale: l’histoire du pauvre animal est couchée tant an long dans
les registres officiels des employés, à côté des aventures de plus d’un
de ses compagnons d'infortune sauvés comme lui, après quinze ou vingt
jours de diète absolue.
Mais pour en revenir à une plus noble espèce: Eussent-ils eu une
plus grande force de résistance, les infortunés habitants de certaines
autres villes n’auraient pourtant pas été sauvés; car, grâce aux
négligences du gouvernement, des milliers de leurs cadavres reposent
encore sans autre sépulture que leurs demeures écroulées; mais c’est
assez d’horreurs pour un jour, je voudrais pouvoir vous promettre, mon
cher correspondant, des tableaux plus gracieux à l’avenir. Hélas! je ne
le puis!
LETTRE IV
Atena
Tâchons d’imiter la facile versatilité du génie italien: fuyons sans
nous retourner. Laissons de même à notre droite S.. Pietro et S,
Arsenio, petits bourgs qui étaient trop près du courant de la tempête
pour ne pas avoir été rudement secoués. Que sont maintenant pour mon
esprit troublé quelques dizaines de victimes ici et là, quand, dans les
grands centres, c’est par centaines et par milliers qu’il faut compter
les morts? J’aurais pourtant tenu à visiter Atena. Outre son nom
classique, cette petite ville de 4,000 âmes se recommande par ses 50
victimes, par ses maisons plus dévastées encore que celles de Pertosa.
On parle de 500 d’entre elles à relever. On parle aussi d’un plus grand
abandon que partout ailleurs. Je ne sais si cette supposition est
vraie; mais si le gouvernement n’a rien donné aux malheureux habitants,
il leur a promis beaucoup et c’est déjà quelques chose. Là comme
ailleurs les pauvres sont devenus les riches, car ils ont toujours
leurs bras, leur travail, leur savoir-faire, tandis que les
propriétaires n’ont plus leurs maisons.
Tous ces faits déjà connus, je voulais les vérifier de mes
yeux. Mais je comptais sans mon cocher. Heureux qui sur ces routes
poudreuses a un cocher à son service; plus heureux qui n’en a pas; car
ce sont de terribles despotes que ces messieurs. Quand le fouet en main
et le chapeau sur la tète ils viennent servilement à la portière faire
des observations à Votre Excellence, défiez-vous.
Le plus maître des deux n’est pas celui qu’on pense! «Marcheras-tu!
— Je ne puis pas;—Pourquoi? — C’est trop loin, un mille dans la
montagne. — Que m’importe? je te paie, avance.—Le jour baisse. — As-tu
peur? — Oui, il y a des voleurs sur le chemin le soir. C’est mon
affaire.—Je ne puis pas.»
Pendant cette discussion les gens s’amassent, vieux, jeunes,
femmes, enfants, gesticulent à qui mieux mieux, y compris le maître
d’une auberge voisine avec qui mon cocher s’entendait mieux par signes
que je n’aurais pu le faire avec des paroles. «Arrêtez-vous chez nous.—
Ah! le tremblement de terre a donc laissé des aubergistes?— Descendez,
Monsieur, descendez,» et l’on me tire qui par un bras, qui par les
jambes.
Je fais reluire une piastre aux yeux de mon cocher, son regard
brille. Une piastre! Il la saisit, bondissant sur son siège, il
m’entraîne au galop sur la route qu’il voulait suivre lui-même, mais
qui ne conduisait pas à Atena. A force de me démener, je l’aurais tué.
Il me sourit d’un air narquois.— «Prends le chemin d’Atena.» «Je ne
puis pas». — «Alors rends-moi ma piastre». — «Ah Monsieur, c’est trop
peu, mettez-en encore deux et l’on verra.»
Un seul argument me restait, le bâton.—Mais il me répugnait de m’en
servir, sans compter qu’au bâton parfois ces messieurs savent répondre
par de fort longs couteaux. Je m’enfonçai avec résignation dans ma
voiture et nous partîmes pour Sala.
Mais la police, dira quelque Parisien? mais le juge de paix, dira
quelque Normand? — Questions naïves dont les auteurs pour tout
châtiment mériteraient d’être mis à l’épreuve.
Est-ce qu’à cette époque un coquin n’avait pas toujours
raison contre un honnête homme? — Il y avait bien dans ce cas, diton,
l’argument pécuniaire qui avait une puissance constatée sur la police.
Mais à quoi bon acheter 4 piastres à la justice ce que votre
adversaire vous céderait pour 2? L’exploitation du sol est fort mal
faite dans tout le pays, mais, par contre, celle des gens l’est
beaucoup mieux: elle était passée à l’état d’art.
Je m’en allais rêvant à cette mésaventure; la nuit était tombée,
nuit assez sombre qui n’avait pas même la poésie des fantômes. On se
lasse en pareil cas de regarder à la portière, et le plus simple est de
chercher le sommeil. Je le trouvai; mais trop de scènes avaient saisi
mon imagination. Mille apparitions de murs croulant sur moi, d’enfants
criant au secours, de femmes sanglotant sur des ruines. La maison
tremblait, les poutres se détachaient du plafond; le clocher de Polla
chancelait sur ma tête. Et je ne pouvais pas fuir. Puis le mouvement se
régularise; la maison roule comme un char qu’emporteraient les
coursiers de l’enfer? Un bruit sourd et constant frappe mes oreilles;
c’est un tremblement de terre ambulant. —Tout à coup une paroi de la
maison s’affaisse, un froid glacial me pénètre. Une pierre, en me
tombant sur le bras, me fait pousser un cri.... c’est? c’est mon cocher
qui, ayant ouvert la portière, m’a saisi rudement par le bras pour
m’éveiller. — Le réveil ne valait guère mieux que le songe. «Ah! nous
sommes perdus, Monsieur.— Perdus?—Oui.— Mais tu es sur l’unique route
de la contrée. — Oui, mais je n’y vois rien. — Demande à quelqu’un. —Il
n’y a personne. — Alors va plus loin. — Oui, jusqu’à demain, n’est-ce
pas? —Tu ne veux pas marcher? Non. — Alors arrête-toi. — Je veux
retourner! — Non, te dis-je. — Alors donnez-moi la bonne main.»
Je ne lui devais que des coups de bâton; la vue d’un manche de pistolet
fit un effet inespéré; les haridelles reprirent leur trot, un quart
d’heure après nous gravissions les rapides pentes de la Sala, sur le
liane gauche de la vallée.
LETTRE V
La Sala
Je vous ai laissé aux portes de la Sala. Dans l’intensité des
ténèbres on entrevoyait quelques lumières. Une cabane enfin s’ouvrit et
nous laissa voir 20 ou 30 personnes rangées en cercle autour du
classique braciere. Un officier en uniforme nous installa au
milieu d’une réunion de dames; l’hospitalité italienne a ses
originalités, mais celle d’une telle société devait être surtout curieuse, tout
en savourant la jatte de café noir qu’on nous fit complaisamment
porter, nous dûmes décliner nos noms et prénoms, nos intentions et nos
idées. Madame la sousintendante, chez qui nous étions, parut charmée
surtout d’apprendre des nouvelles de son mari que nous avions vu
distribuant des cabanes à quelques indigents d’Auletta. Mais la journée
avait-été assez fatigante. nous prîmes congé de ces dames; un gendarme
mit son fusil sur l’épaule nous devançant jusqu’à l’auberge. nous
avions faim, un monstrueux plat de macaroni, qui aurait rassasié vingt
lazaroni, servit de base à nos opérations culinaires. Mais quand nous
cherchâmes un assaisonnement à cette lourde pitance, on ne nous offrit
qu’un vieux corbeau raccorni qui dans l’hôtellerie portait le nom de
pigeonneau. Nos amis anglais ont affirmé avoir trouvé deux fois à dîner
en huit jours. C’était un hasard, ce me semble, et, pour ma part,
j’affirme n’avoir pu faire, dans tout ce voyage, un seul dîner dans les
formes. Au reste qui aurait le courage de goûter la bonne chair, si
près des lieux où gémissent tant d’affamés? Que de fois ne m’est-il pas
arrivé, à l’ouïe d’un gémissement de blessé, d’un cri d’orphelin, de
suspendre un repas commencé? On n’a pas faim sur un sol pavé de tant de
désespoir, et qui laisse parvenir jusqu’à vous la puanteur de tant de
cadavres en décomposition.
Mais je voudrais vous distraire de ces scènes lugubres.
Partagez donc avec moi notre vin, avec les nombreux campagnards qui
viennent chaque soir s’enfermer au foyer de cette cuisine d’auberge.
Quand je dis foyer, j’ai tort, car le feu est tout bonnement allumé au
milieu de la salle. De gros troncs d’arbres brûlent sous la marmite.
Quant à la fumée, elle s’échappe comme elle peut, c’est-à-dire qu’après
avoir ajouté à la noirceur du plafond, elle prend lentement le chemin
de la porte. Au grand préjudice des yeux des chauffeurs, elle descend
d'ordinaire si bas, qu’il faut beaucoup se courber pour ne pas être
tout à fait asphyxié. On s’y grille devant; on se gèle le dos, on
s’enfume la tête. Voilà ce que c’est qu’une auberge de province pendant
l’hiver. Ici pourtant l’on vit encore, car là catastrophe n’a pas
produit tant de ravages que l’effroi des premiers jours n’ait pu se
dissiper. Notre hôtesse et sa fille, emprisonnées dans de larges
collerettes qui sont à celles de Henri IV ce que la crinoline est au
modeste jupon de nos grand mères, notre hôtesse, dis-je, entonne un
chant monotone et traînard qui dénote autant d’originalité que
d’ignorance musicale; et bercé par ce refrain somnolent je gagne ma
couche rustique au fond d’une chambre remplie de lits. Des fenêtres
absentes livrent libre passage à la bise à travers les contrevents
vermoulus. Mais après une telle journée, où ne dormirait-on pas?
Nous nous éveillâmes au bruit des pluies battues par lèvent. Des
bourrasques ^chargées de neige fondante sillonnaient de toutes parts ïâ
vallée. Raison de plus pour nous hâter. Les malheureux que nous allons
secourir doivent souffrir beaucoup par un tel temps. Mais les cochers
n’aiment pas la pluie, et if fallut soutenir un siège en règle contre
le nôtre.
Les routes étaient impraticables, disait-il, le verglas était
partout, excepté sur la langue de notre homme. Une heure après nous
n’en étions pas moins à Padula. Mais avant d’y entrer, jetons un regard
sur ce que nous quittons.
Sala a peu souffert. Trois morts et quelques maisons abattues
constituent le gros du dommage. Tout n’y est pas fait pour l’agrément;
mais il y a pourtant beaucoup de grâce dans cette petite ville couchée
nonchalamment sur les pentes d’un mont. Vieilles coutumes du moyen âge,
châteaux devenus inutiles, choix de positions inexpugnables, tout vous
reporte au quatorzième siècle. L’isolement dans lequel vivent ces
localités, complète l’illusion. Mais au moins chaque ville est-elle
quelque chose par elle-même? Oui, par la population, non par
l’importance. Point de commerce, point d’industrie, ni même l’idée de
tout cela. L’isolement a produit ici ce qu’une centralisation exagérée
pourra bien produire plus tard en France; elle a maintenu dans une
nullité complète des localités qui, par la richesse de leur sol,
auraient pu devenir quelque chose. Tout le monde connaît, au moins
de«réputation, Neuchâtel, Vevey et tant d’autres petits centres de la
Suisse; insignifiants par leur population, ils sont remarquables par
leur vie individuelle. Mais qui a jamais entendu parler de Sala ou de
Padula, à moins d’y avoir été amené, comme moi, par quelque événement
extraordinaire? La cause en est dans le sommeil général des idées, des
affaires et des choses.
LETTRE VI
Padula
Quand vous regardez Padula du bas de la vallée, comme l’ont fait les
photographes, vous le prenez pour une grande ville, tant il y a de
toits superposés et de constructions disséminées dans les jardins du
voisinage. Mais quelle est votre surprise quand, pour monter à ce
massif d’habitations, vous ne trouvez qu’un sentier de chèvres, tracé
par les pluies et le pied des passants? Il est vrai qu’on a promis aux
habitants un chemin que les mulets puissent plus facilement gravir.
Mais Dieu sait quand ce projet passera en exécution. Pour le moment, il
s’agit de relever cent maisons abattues et églises écroulées, et de
reconstruire à peu près autant d’habitations qui, pour être debout
aujourd’hui, n’en ont pas moins ni plafonds ni solives. Le deuil n’est
pas grand dans la ville, mais la panique y est permanente. Vingthuit
morts ne laissent pas un grand vide dans une population de9000âmes;
maison s’y souvient avec effroi de deux femmes dont il a fallu couper
les jambes, et l’on n’ose rester que le jour dans ces maisons lézardées
que des poutres défendent seules d’une chute désastreuse. Le soir, on
se réfugie sous des cabanes glaciales que chacun a dressées de son
mieux dans les jardins du voisinage. La panique se manifeste encore
d’une autre façon, par une augmentation de ferveur religieuse, veuxje
dire. Le voyageur y est étrangement impressionné quand, en traversant
le soir ces rues désertes, il entend sortir de chaque porte un chant
monotone et discordant.
Ces hymnes à la vierge brillent plutôt par le bon vouloir que
par le sentiment musical. Les gosiers, dans cette terre des arts,
grincent parfois d’une manière bien plus désagréahle que ce violon faux
qui jurait sous l’archet et dont parle le malin Boileau. Néanmoins on
est saisi par l’étrangeté, par le mouvement insolite de ces prières
chantées. Quand une porte s’entr’ouvre, ce n’est pas sans un étonnement
mêlé de tristesse que l’on voit la famille entière agenouillée devant
les plus ridicules images de saints, et chantant à pleins poumons de
naïves suppliques. Un petit cierge ou plusieurs lampes brûlent devant
l’idole; ces pauvres gens n’ont pas de quoi s’éclairer eux-mêmes, mais
par un sentiment aussi respectable que déplacé, ils entretiennent mieux
ces pâles lumières devant les objets de leur adoration, que les
Vestales anciennes n’entretenaient le feu sur les autels de leur
déesse. Touchante superstition qui blesse l’étranger et que pourtant on
plaint t Quoique riche, il parait que la commune souffrait déjà d’un
trop plein de population. Qu’on juge de l’augmentation de la misère.
Dans le moment actuel (2 février) on n’a encore donné à ces
malheureux que neuf pauvres cabanes, aux frais de l’autorité. On leur a
aussi envoyé 24 ducats à l’occasion de la fête de l’héritier du trône
(le roi actuel). Voilà tout ce qu’a reçu une ville de 9000 habitants.
Il est vrai qu’on leur promet des habits.
Les promesses ne coûtent rien, et à Naples moins que rien.
Si je ne craignais de me répéter, je vous conduirais dans les
maisons renversées. Elles ont un bien triste aspect quand le vent et la
pluie les battent tristement et 3ue la retraite de cent familles se
remplit de neige fondante. Mais là n’était pas le but de mon voyage:
nous avions formé le plan de porter nos principaux secours loin de la
grande route, dans la montagne.
Faire préparer un cheval et trouver un guide était la grande
affaire. Heureusement pour moi, le gendre de l’aimable syndic du lieu
devait partir ce jour même pour Tramutola; plus heureusement encore le
mauvais temps s’envola sur les ailes de certains nuages qui
sillonnaient les deux flancs de la vallée. Le départ fut fixé pour
midi. Suivez-moi en attendant des hauteurs de la cité jusqu'au vaste
monastère de S. Laurenzo di Certosa, qui mérite bien d’être visité en
détail.
Entrons donc. C’est d'abord une cour déserte formée par des étables
et des dépendances inhabitées. A grand peine parvient-on à éveiller le
gardien qui semble sommeiller comme son couvent. C’est un gros lawo
de qui la face rebondie ressort on ne peut mieux sous son capuchon
blanc. Conduits au prieur nous visitons les habitations de ce
dignitaire, et sous son aimable conduite nous descendons sous les
majestueuses arcades que le tremblement de terre n’a pu même ébranler.
Qu’on se ligure une vaste cour rectangulaire, entourée d’un immense
portique 4uî soutient le monument.
Ce monument lui-même a des proportions si gigantesques que dans la
seule galerie supérieure, au temps de l’occupation française, on avait
trouvé place pour dix mille soldats. Les quelques moines qui l’habitent
encore ne peuvent suffire à nous ouvrir les portes massives de leur
silencieuse demeure, ils paraissent des pygmées quand, accourant avec
leurs clefs, ils se hâtent comme peuvent le faire des moines trop
engraissés, dans le lointain de leurs longs portiques. En parcourant ce
désert de constructions, j’admirais bien la majesté des voûtes, je
m’arrêtai bien en particulier à un superbe escalier suspendu avec
beaucoup d’art entre deux portiques; mais j’étais surtout poursuivi par
une idée: Ne pourrait-on réunir ici toutes ces malheureuses familles
qui faute d’asile couchent sur la neige, et que j’ai vues se blottir
dans la boue le long des murs du monastère! Ne devrait-on pas consacrer
pour quelque temps ce monument à la population de toute la vallée? Elle
y tiendrait à l’aise, car il y a place pour plus de 30,000 personnes,
quelques planches suffiraient pour diviser tout cela en appartements
distincts. On aurait mis ainsi une république de malheureux à l’abri
des rigueurs de l’hiver.
Quelle magnifique occasion pour ces chartreux retirés du
monde, de montrer leur charité! — Mais que dis-je? et pourquoi m’égarer
dans de telles utopies? Les moines ne lâchent pas plus' prise que le
rat de la fable ne lâchait son fromage; tendres ermites dormez en paix
dans votre palais désert: des milliers d’êtres humains meurent de froid
à votre porte!
Mais, me direz-vous, est-il possible que ces moines montrent tant
d’indifférence? — D’indifférence? non point. Ils sont au contraire
très-intéressés, et quand nos amis ont passé ici, la bourse à la main,
ce sont les chartreux qui, les premiers, ont demandé une subvention. A
nous, même demande ils ont faite. Ils ne se trouvent point encore assez
bien nourris. Pauvres gens, qui n’ont plus, disent-ils, que 7 ou 8
mille ducats de rentes en belles terres du pays. Il faut qu’ils se
partagent cela entre douze ou quinze; plaignez-les donc et faites-leur
l’aumône. Mais leur demander leur couvent, y songez-vous? Il est vrai
qu’ils en ont plusieurs semblables dans le royaume; aussi l’instinct de
la propriété s’est étrangement fortifié en eux. Et puis, pensez donc,
mettre des femmes dans l’enceinte sacrée d’un cloître! Là où habite la
sainteté des reclus, on verrait s’installer de simples
profanes?—Gardez-vous de leur proposer un tel sacrilège, vous les
verriez, comme moi, reculer d’horreur et lever les bras au ciel f —
Mais la pitié, direz-vous, cette vertu, sinon cardinale au moins
ecclésiastique?— La pitié? qu’est-ce que cela? Les chartreux ne sortent
point de leur cellule, si ce n’est pour passer au réfectoire. Où est-ce
donc qu’ils auraient appris à connaître les sentiments qui troublent le
reste des mortels? Ils ne connaissent que la quiétude et ne s’agitent
jamais que pour les intérêts de leur ordre.
En doutez-vous encore? Écoutez. En sortant, le cœur navré, je
visitai les écuries du monastère; elles étaient aussi vastes que vides.
«Mais ici, dis-je au prieur, ne pourriez-vous pas mettre ces
malheureuses familles? Elles seraient en dehors de la clôture et ne la
souilleraient point. — Eh! fit-il en avançant les deux lèvres et
ouvrant de grands yeux, impossible f c’est un terrain sacré, aucune
femme n’y peut entrer.—Mais les mules et les ânes du couvent y trouvent
bien un abri?— C’est vrai, mais des femmes! —Ainsi de vils animaux
dormiront à l’aise où des malheureux mourant de faim et de froid ne
peuvent entrer? — Mais, Monsieur, il faudrait une dispense du pape. —
Demandez-la. — Oh! Monsieur! Au reste c’est notre propriété.»
Je trouvai ce dernier argument irréfutable. Le couvent est resté
désert, inutile. Pendant près de trois ans une population entière a
souffert à la porte. Et les moines demanderont encore pour eux-mêmes un
peu de cet or que la charité protestante va porter aux malheureux. Au
moins le rat de la fable ne tendait-il point la patte hors de son trou.
Il faut convenir, pour être juste, que ce grand mouvement n’a
pu essuyer de telles secousses, sans s’endommager un peu. C’est un
chef-d’œuvre à réparer, et il le mérite. Les bases sont solides, mais
il y a par places de visibles lézardes. Son architecture modèle pourra
résister ainsi des siècles encore; mais si l’on veut pouvoir le
rétablir dans sa primitive splendeur, il faudra des millions; et le
général de l’ordre le sait bien, puisqu’il fait des économies, diton,
pour les employer plus tard à la restauration de ce monument. Mais il y
a plus d’une porte où frapper. Il réclame bien fort auprès du
gouvernement et sa voix est mieux entendue que celle de ceux qui ont
faim. Les fonds de la charité publique iront en partie s’engloutir, je
m’assure, dans cette sainte solitude. J’apprends en effet que Ferdinand
II a prélevé sur les aumônes de son peuple une riche part qui doit être
employée à boucher les lézardes du monastère. Heureuses les pierres de
ce pays 1 elles sont mieux traitées que les hommes; et tandis que les
gardiens du sanctuaire font des économies, le peuple gémit, paie et
meurt.
Un mot sur l’histoire de ce couvent. Il date de la
renaissance et en a toute la splendeur. Moins riche en marbres que la
plupart de ses rivaux, il les surpasse par les dimensions. Les Bourbons
de Naples ont, à plusieurs reprises, visité le sanctuaire, s’étonnant
de trouver tant de splendeur dans ces montagnes reculées.
Avant l’occupation française, il possédait plus de cent mille ducats
de rentes en biens-fonds. Soixante reclus se partageaient ce lot;
c’était donc un maximum de six mille francs, qui revenait à chacun,
somme forte à cette époque. Avec un tel revenu on pouvait charmer les
loisirs de la réclusion. Hélas! les Français vinrent troubler cette
bonne chère; la suppression de l’ordre fut prononcée. Joseph ou Murat
en vendirent les biens, sauf quelques parcelles, un dixième environ. En
1849 les moines demandèrent à rentrer en possession de leur couvent. Le
roi Nasone y consentit, mais à la condition qu’ils ne
réclameraient pas les biens déjà vendus. On raconte à ce sujet une
bizarre anecdote. Le roi venait de rentrer dans son royaume; après
avoir donné cette réponse aux délégués de divers ordres, il se tenait
caché derrière une porte écoutant ce que diraient les plus déçus dans
leurs espérances: «Ane il était parti, âne il est revenu, disait l’un
d’eux.» — Tout à coup la porte s’ouvre, le monarque montre à moitié son
grand nez: «Ane et démi!» leur répliqua-t-il en riant. Plaignez donc
ceux de Padula, de grands seigneurs ils sont devenus petits rentiers;
mais leur santé n’en souffre pas.
LETTRE VII
Mon cher Émile, vous voulez continuer avec moi ce charitable voyage.
Préparez votre courage, car c’est ici que vont commencer les fatigues
de corps et les plus grandes tristesses d’esprit. J’essayerai pourtant
de vous distraire par des épisodes moins douloureux. — Midi a sonné, un
messager, laquais très-respectueux, mais dont la livrée semble en assez
mauvais état, vient m’avertir que la voiture de Monsieur est prête —
«La voiture, y songez-vous? dans ces montagnes sans routes! — Oui, à
moins que Monsieur ne veuille aller à pied. — Non, mais à cheval. — Eh
bien donc la voiture vous attend.» Que répondre à une telle logique?
Suivre mon guide était le mieux, et je me trouvai bientôt en face d’une
rossinante des montagnes déjà chargée de mes bagages. C’était là, en
langage du pays, une voilure. — A la bonne heure! il suffit de
s’entendre sur les termes, et, en y réfléchissant bien, puisque dans
ces régions élevées le moyen de transport le plus! commode c’est le
cheval ou le millet; reconnaissons que ces véhicules à quatre pattes
sont bien làbas, ce que sont les voitures chez nous. Tout en faisant
cette réflexion philologique, je me bissai* de mon mieux sur le siège,
véritable pyramide de couvertures. Je dis adieu à mes aimables hôtes de
Padula, et, sous la conduite du gendre du syndic, lequel était lui-même
guidé par un homme ad hoc, je m’engageai dans les sentiers
tortueux, pierreux, fangeux, neigeux, impraticables, et pourtant
pratiqués, qui sont l’unique route pour arriver aux importantes
localités dont nous aurons désormais à nous occuper. Certes notre guide
méritait attention et j’aurais bien voulu faire nez arqué, aux yeux
perçants, il était pittoresquement coiffé d’un chapeau pointu, non pas
de ce redoutable feutre romain qui sent son brigand d’une lieue, mais
d’un petit et curieux chapeau, couvrant à peine le sommet de la tête,
et plus bizarre qu’effrayant. Pour veste, une peau de mouton taillée en
forme d’habit, pour culotte, une peau de chèvre aux longs poils,
retombant sur de grandes guêtres de cuir. Un petit fusil à un canon,
porté négligemment en bandoulière, et dans le gilet un poignard dont le
manche se montre seul, assez discrètement du reste, à cause des
règlements de police. Tel était mon guide en raccourci. Moitié rustre,
moitié brigand, il rassurait et faisait peur tout à la fois.
L’Apennin n’est pittoresque qu’en peu d’endroits, mais dans
cette partie de la chaîne il est à peu près désolé; sa nudité, résultat
du déboisement, plaide contre l’incurie qui depuis des siècles a laissé
dévaster les hauteurs. Les pluies et les pentes ont entraîné les terres
dans les vallées, et toutes les cimes, pelées jusque fort bas,
semblent, même en hiver, dévorées du soleil. Pour le moment, la neige
couvre toute la chaîne, et comme il est rare qu’un voyageur ait
l’occasion de la fouler aux pieds sous ce ciel méridional, nous la
traverserions avec plaisir si nous ne savions qu’à quelques pas de là
elle sert de suaire à bien des morts et de couche à nom* bre de vivants.
Enfin, après plusieurs heures de marche, nous arrivons en
face d’un long bassin bordé de montagnes de toutes parts, et dont le
col que nous venons de traverser est l’accès le plus facile. Qu’on juge
par làdesautres
voies. Ce bassin n’est pourtant pas sans importance, c'est le long
de ses flancs que sont échelonnées une multitude de petites villes.
Chez nous, par leur population, elles seraient tout au moins des
sous-préfectures. Tramutola, Saponara, Montemurro, Moliterno, Marsico
Vetere, Marsico Nuovo. Viggiano, ont chacune, ou avaient hélas! de 5 à
10 mille habitants. N’admirez-vous pas l’imprévoyance d’un gouvernement
qui s’ingénie à isoler une si considérable vallée du reste du monde, et
qui, dans un siècle de chemin de fer, laisse une population de 150
mille habitants environ (pour ne parler que de ce coin du royaume) sans
routes, sans communications raisonnables, ajoutons sans espoir d’en
avoir jamais, à moins d’un changement complet dans le régime
administratif.
J’ai le droit de dire sans espoir, car voici ce qui s’est
passé quelques jours après le tremblement de terre. Les habitants
affamés ont adressé une pétition à l’autorité pour qu’on leur donnât du
travail, c’est-à-dire du pain. L’œuvre à entreprendre était toute
trouvée: faire communiquer ce bassin, par une route praticable, avec le
reste du monde, avec le chef-lieu de l’intendance, par exemple; quelle
belle occasion de faire de la charité à peu de frais, et d’accomplir
une œuvre patriotique en même temps qu’humanitaire! Mais ce n’était pas
l’affaire des autorités. En général, les routes faisaient peur au vieux
régime; elles aident trop à circuler; avec les gens, songez y,
circulent bientôt les idées. Il est vrai qu’on a dû, en bien des cas,
sortir du système et tracer quelques grandes artères pour mener dans
les Calabres ou dans les Pouilles, les troupes qui servent à les
assujettir. Mais on s’est bien gardé de faire servir ces grandes lignes
aux besoins du pays, et jusqu’ici on a fait de son mieux pour que les
chemins de traverse restassent à l’état de projet. Or, que sert une
route à laquelle ni voiture ni charrois ne peuvent arriver des
campagnes voisines?K0n voyait à cela plusieurs avantages: entre autres
celui de ne pas laisser trop s’enrichir ce bon peuple par le transport
et la vente de ses produits agricoles; un peuple riche est toujours un
peuple libre. On ne mène pas des gens aisés et par conséquent
instruits, comme on mène des lazaroni après la curée. La misère aidée
de l’ignorance est la sauvegarde du despotisme. Pour arriver à ce
résultat, l’autorité n’a eu que deux moyens à employer: la négligence
et l’absorption. Je m’explique: quand on a vu les communes dormir et se
taire, on s’est bien gardé de les réveiller ni de leur communiquer des
idées de progrès, d’amélioration. On a enfin secondé l’apathie
naturelle d’un peuple esclave chez qui l’activité individuelle n’existe
pas.
Quand, au contraire, l’esprit d’entreprise a fait ses
réclamations ici et là, on l’a muselé en se chargeant du travail à
faire; il a suffi de saisir une administration (la Bonifica) du
soin de toutes les améliorations à faire. nous ne nions pas que cette
administration n’ait accompli par endroit quelque bien; mais combien de
fois elle a empêché les gens de faire mieux qu’elle! Toute entreprise
particulière sur le terrain public lui semble un empiétement. Elle y
met ordre, et l’espèce de monopole qu’elle s’arroge n’aide pas plus que
les autres monopoles au progrès de ce pays.
La vallée où nous entrons est assez fertile. Elle pourrait alimenter
un plus grand nombre d’habitants et même exporter des grains au dehors,
pour les besoins du commerce* Faute de route elle est obligée de
consommer tous ses produits elle-même; et comme l’agriculture, pour
prospérer, a besoin d’être un peu industrielle, un peu commerçante, ne
nous étonnons pas de la voir dépérir dans ces contrées. Quand le
travailleur n’est pas sollicité par l’appât du gain, et d’un gain
croissant, il s’endort. C’est ce qu’ont fait volontiers les indolents
enfants de la contrée. Pourquoi produire plus de blé qu’on en peut
écouler dans les bonnes années? Il est vrai que, dans les mauvaises, si
l’on a produit peu, on risque fort de souffrir. C’est ce qui est arrivé
en particulier cette année, où la disette s’est jointe aux
bouleversements de la nature pour affliger cette population. Mais
n’est-ce pas le résultat forcé de ce système d’appauvrissement et de
somnolence? Quand un gouvernement a la prétention de se mêler de tout,
de faire tout par lui-même, et d’entraver l’action individuelle,
l’initiative de la nation, il est responsable même du sommeil, même de
la paresse de ses administrés. On peut lui reprocher ce qu’il fait de
mal et même ce qu’il ne fait pas du tout.
C’est au milieu de ces réflexions que je suit arrivé jusqu’à Tramutola, où je vous introduirai demain.
LETTRE VIII
Tramutola
Les 5400 habitants de cette ville ont perdu 175 des leurs; on y
compte cinq cents maisons renversées, et les deux cents qui restent ont
tellement dévié de la verticale, que toutes sont à reconstruire. On est
effrayé de songer que les habitants couchent encore sous ces parois
inclinées, sans cesse menacés de mort à chacune des petites secousses
qui se font sentir. Plus d’un a déjà péri victime de cette imprudence.
Mais que peuvent-ils faire? Ce n’est pas dans les deux ou trois huttes
de planches, dont se sont emparées du reste les autorités locales, que
tout le pays peut trouver un asile. Aussi se rassemble-t-on tout le
jour sur ta place publique. Rien n’est plus navrant que de voir ces
troupeaux d’hommes; drapés dans leurs grands manteaux percés, les pieds
nus dans la boue, leurs yeux sombres à demi cachés sous dé grands
chapeaux. Oisifs, désœuvrés, ils conversent à peine entre eux et
semblent immobilisés par la pensée de sur infortune. Ils regardent
passer l’étranger avec un étonnement stupide. Évidemment le
découragement regne sur ces âmes. Il y a une paralysie morale. En tout
autre pays, après un malheur public, chacun redoublé d’activité, et le
travail est proportionné aux dégâts. Les nations individualistes,
celles où chaque homme a une valeur propre et compte pour quelque chose
devant la loi, devant l’autorité, se relèvent de leurs malheurs avec
une élasticité merveilleuse. Il ne pouvait eu être ainsi sous le régime
vraiment oriental qui a écrasé ce pays. Nul ici n’est habitué à voler
de ses propres ailes, pour la bonne raison qu’on n’a pas permission de
les déployer où on veut, ni comme on veut. Nul n’est habitué a faire
usage de ses énergies naturelles. On est dressé à se laisser mener
comme l’enfant à la lisière. Or, de même qu’un enfant, lorsqu’il est
tombé, se contente de crier sans faire effort pour se relever lui-même,
ainsi cette population semble attendre, dans la prostration où l’a
jetée la Providence, que la main de ses conducteurs habituels, ou si
vous préférez, de ses tyrans, vienne la relever. Mais la police
napolitaine n’a jamais relevé personne; elle n’est touchée que des
coups qui la menacent, et il lui suffit que les infortunés soient
soumis dans leur écrasement. Peu lui importe le reste. Le peuple sait
tout cela, il le dit même tout haut; mais il a soin que ni le juge ni
le chancelier ne l’entendent; il jette ses plaintes au vent. N’est-ce
pas le fatalisme oriental? A Constantinople, quand un incendie a dévoré
un quartier, on le reconstruit-en bois afin qu’un nouvel incendie le
détruise; ces pauvres gens rebâtiront leurs villes en pierre, afin
qu’un nouveau tremblement de terre les renverse; et encore, avant de
s’y décider, restent-ils longtemps abattus, incertains. C’est ce que
nous avons pu constater partout dans ce voyage. A peine arrivions-nous
dans une localité, que des centaines de malheureux s’amassaient autour
de nous, nous regardant, nous questionnant, mais du reste aussi oisifs
que si c’était le jour de la fête du village, ou le moment du repos
après le travail. Qui n’y reconnaîtrait l’influence de ce despotisme
qui tue l’initiative individuelle sous le ciel d’Europe comme sous le
ciel d’Asie? Les autorités se plaignent de ce que les populations
attendent tout du roi. Mais à qui la faute 1 sinon ce-lui qui, en tuant
la liberté de chacun, a commencé par dire: «C’est moi qui penserai, qui
agirai pour vous.» (Voyez la lettre de Ferdinand II à Louis-Philippe.)
Mais du moins ici l’autorité a-t-elle fait quelque chose.
Elle a envoyé 300 ducats, et nous sommes au 4 février! Les prêtres, ces
autres meneurs de la nation, on-t-ils pris les devants? Tant s’en faut!
Quand j’interroge les cinq ou six cents personnes dont je suis entouré,
pour savoir si l’argent de nos amis anglais a été remis, c’est un cri
général qui s’élève. On en demande compte à deux ou trois
ecclésiastiques qui me suivent et m’épient, confondus dans la foule.
Ceux-ci, tremblants, inquiets, s’excusent en disant que l’abbé de la
Cava a bien remis à l’archiprêtre une somme d’argent qui devait être
distribuée, mais que ni l’argent ni l’archiprêtre n’étaient encore
arrivés au pays. Mes plaintes énergiques sur ce retard ont pourtant
porté leurs fruits, et cet argent n’a pas été perdu.
Passons à côté de toutes ces misères; procurons-nous, à force de
promesses, un bidet moins efflanqué que son maître; acheminons-nous,
malgré l’heure avancée, dans la direction de Saponara. On parle de
trois heures de chemin et de la nuit qui approche; n’importe, il faut
avancer, car c’est plus loin, au centre des plus grands désastres, que
nous devons de préférence ouvrir nos coffres et répandre quelques
aumônes sur ce chaos de misères.
En sortant de Tramutola, mon cheval traverse le trop plein
d’une abondante fontaine qui s’était arrêtée pendant la nuit du
tremblement de terre. Depuis, elle a vomi pendant quelque temps de
l’eau sulfureuse, et maintenant voici qu’elle coule limpide et pure
avec l’abondance d’un ruisseau. Ce n’est pas ici seulement que ce
singulier phénomène s’est produit; à quelques lieues, près de Marsico,
une source jusqu’alors inconnue s’est ouverte tout à coup; elle coule
encore. Des puits se sont remplis d’eau bitumineuse et ont rejeté des
gaz sulfureux.
Le dernier fait indique qu’aux perturbations de l’eau se sont joints
des phénomènes ignés. On rapporte, en effet, que sur toute la ville on
a aperçu à plusieurs reprises dans la nuit, soit de près, soit de loin,
des vapeurs enflammées, bleuâtres, semblables à des feux follets. Nulle
part il n’est sorti de terre du feu proprement dit, comme on l’avait
prétendu, mais bien des gaz inflammables qui flottaient sur le sol,
auprès de ces eaux sulfureuses. Les autres flammes que l’on a vues de
loin n’étaient que la lueur des incendies. Un fait plus étrange, c’est
l’ouverture de deux bouches entre Viggiano et Marsico Vetere. Je n’ai
pu les visiter. Elles sont à demi refermées; mais on affirme que l’une
a dû rejeter de l’eau chaude, et l’autre des cendres, comme on l’a
constaté le lendemain par la vue des traces environnantes. Ne
sommes-nous pas dans le rayon d’un volcan éteint? Comment suis-je
arrivé à Saponara? C’est ce que je me demande. Il faisait nuit sombre.
Des ravins à escalader, une petite rivière à franchir en plusieurs
endroits, des boues, des neiges, des torrents; le tout sur des pierres
roulantes ou des rocs sortant de terre; sans routes, ou sur un chemin
cent fois pire que le plus rocailleux des torrents; un guide qui
perdait à chaque instant la vraie direction; il y avait de quoi maudire
l’administration des ponts et chaussées. Ce dont je me souviens, c’est
que mon cheval ne pouvant plus avancer, j’ai dû le suivre, monter,
descendre, patauger dans l’eau, tomber dans la neige et faire de
l’équilibre sur une espèce de parapet formé de grosses pierres; on les
avait jetées çà et là pour préserver les piétons des bains de pieds,
sinon de bains plus complets. Le tout soit dit à l’honneur de cette benedetta bonifica,
qui n’a pas su établir de meilleures voies de communication entre les
villes du royaume. Enfin nous gravissons une dernière montagne; des
espèces de huttes se laissent sinon voir, au moins toucher de la main.
Mon guide appelle, et des voix traînardes répondent du fond de cet
antre, avec une hyperbole digne de l’Orient: «-nous sommes tous morts!»
Ils n’étaient qu’estropiés, j’imagine; mais à quoi bon interroger
ceux qui se croient morts? même lorsqu’ils parlent ils ne répondent
pas. Quand nous rencontrâmes de véritables vivants, ce fut pour être
introduits dans une cabane de planches, où je me trouvai enfin en pays
de connaissance. M. Major était là, installé auprès d’un brasier
réjouissant, avec un digne notaire qui lui donnait l’hospitalité, et de
qui le bon accueil mérite bien une mention.
LETTRE IX
Saponara
Je ne sais si je vous ai dit que M. Major, m’ayant devancé avec les
fonds que sauvegardait un gendarme à notre solde, avait dû arriver un
jour avant moi à Saponara. C’est là que nous devions commencer la
distribution de nos aumônes; les localités dont j’ai parlé étant
toutes, sauf la dernière, sur la grand route, avaient été visitées par
nos confrères anglais. nous avions aussi la pensée que ce qui est en
vue, sur le chemin de tous, devait être mieux traité par les autorités,
ne fût ce que par respect pour l’opinion publique. L’expérience nous a
prouvé que, si les villes de la plaine avaient été délaissées, celles
de la montagne ont été souvent maltraitées. Vous ne le verrez que trop
par la suite de ce récit.
Quand M. Major est arrivé à Saponara, il s’est présenté à la cabane
la plus décente: elle était occupée par des prêtres. Les lois de
l’hospitalité montagnarde veulent que tout étranger respectable soit
reçu, logé et nourri quand il arrive en quelqu’une de ces localités
dépourvues d’auberges. Cet usage est resté à l’état de vertu dans les
mœurs des personnes honorables. Aussi mon ami futil étonné de voir que
les prêtres ne lui offraient pas même un morceau de pain. Ces
inquisiteurs à robe noire se contentaient de le questionner; il fallut
qu’un voisin vint offrir à l’étranger, chez ces prêtres mêmes, un abri
sous son pauvre toit, son meilleur lit et sa franche amitié. Un neveu
de l’hospitalier notaire descendit en toute hâte la montagne pour aller
mendier dans la plaine auprès de ses amis quelques aliments
présentables. Le tout fut rapporté par lui avec un empressement plein
de délicatesse, sans qu’il y eût lieu d’en restituer le prix. A
quelques jours de là j’ai vu moi-même le pauvre jeune homme, pressé par
le besoin, vendre à une sorte de juif baptisé, orfèvre de son métier,
les boucles d’oreilles de sa sœur qui lui furent payées 30 grains (1
fr. 45 c. — Le soir même, assureton, une table bien servie était
dressée pour les prêtres, avec un certain luxe, et après dîner ces
messieurs ont fait leur partie de cartes. Quel jeu, bon Dieu! et quel
lieu pour des éclats de rire! Des centaines de cadavres pourrissent à
deux pas, des enfants pleurent sur la neige, et la gent en soutane
reçoit par ces défiances les étrangers accourus pour aider le troupeau
du Seigneur! On voit que la parabole du bon samaritain trouverait plus
d’une application dans ce pays. Mais passons, nous ne verrons que trop
les motifs de cet accueil peu gracieux.
Saponara avait 5,000 habitants; toutes les maisons sont a
bas; les listes officielles portent 1,000 morts, mais on peut en
compter 1,500. Il ne reste en effet dans la localité que 2,000
personnes, et on ne peut guère supposer que les 2,000 autres se soient
expatriées.
Tout ce que je vous ai décrit est peu de chose en comparaison du
désastre de cette pauvre ville. Rien n’est debout sur la hauteur,
presque rien sur les basses pentes. Ces ravages s’expliquent en partie
par la position même de Saponara. Bâti sur le sommet a’un mamelon qui
s’avance au milieu du grand bassin où je vous ai introduit, il voyait
les cités du voisinage lui former une couronne. Isolé de la sorte, il a
essuyé les secousses dans tous les sens et oscillé d’autant plus que le
sol rocheux sur lequel il était bâti est rempli de cavités où les
ondulations ont pu se propager avec plus de facilité. La violence des
secousses n’a donc pu être surpassée que par le désastre de Montemurro
dont le soi s’est en partie écroulé dans un ravin profond.
De cette position aussi est résulté un autre malheur, c’est
que les églises et les couvents qui occupaient les points les plus
élevés ont roulé en s’écroulant sur les 'pentes de la montagne. Ils ont
donc entraîné ou écrasé sous leurs débris des centaines de
constructions plus fragiles qui étaient échelonnées au-dessous. Qu’on
se figure l’effet de ces blocs roulants qui ne trouvaient d’autre
obstacle dans leur chute que les toits d’une petite ville mal bâtie. Ce
fut une avalanche de pierres. Qu’on se figure surtout le sort de ceux
qui sommeillaient sous ces pauvres abris, lorsque non seulement leurs
maisons, mais celles du voisin, mais les clochers s’abattaient sur eux.
La paroisse de l’endroit n’est plus qu’un monceau de petites
pierres. Un seul pan de mur de quelques mètres a peine, non debout,
mais tenant encore, est resté pour échantillon de l’épaisseur de la
muraille primitive. Le reste est comme pulvérisé. Colonnes, autels,
statues de saints décapités, livres de chants, vêtements sacerdotaux,
gisent pêlemêle. L’énorme cloche qui appelait les fidèles à la prière,
après avoir oscillé quelque temps, est tombée en dix morceaux dans une
direction opposée au clocher lui-même, tant les secousses étaient
contradictoires.
Le monastère des femmes n’existe même plus du tout, car les
pierres en sont comme pilées, et pas deux moellons ne tiennent
ensemble. Il a fallu, pour produire cet effet, que les mouvements aient
agi dans des sens bien divers et fait bondir les monuments même après
les avoir couchés par terre. Dès lors je ne m’étonne plus tant de cette
histoire grotesque qu’on m’a contée sur les lieux et que je répète
maintenant avec une certaine confiance. Un vieillard s’est éveillé tout
à coup sur un lit de nonne dans l’intérieur du monastère II s’était
couché, assure-t-on, dans une maison située un peu au-dessous, mais
bien en dehors du couvent. Explique aussi qui voudra qu’un enfant de la
ville y ait été trouvé vivant. Mais les hôtes de la clôture n’ont pas
été si heureux. Vingt-cinq nonnes sont mortes, je crois, et l’une
d’elles n’a été arrachée après sept jours aux débris de sa celIule pour
expirer peu de temps après de la gangrène. Les meurtrissures causées
par les chocs de ce genre deviennent facilement gangreneuses.
Au reste les cas de sauvetage merveilleux ne sont pas rares. On m’a
cité ici, comme ailleurs, des personnes qui avaient été jetées avec
leur lit de bas en haut, à plus d’une portée de fusil, et qui,
retombant sur leurs matelas ou leurs paillasses, ne se sont pas même
blessés. Deux individus, dont l’un avait été lancé de fort loin, se
rencontrent en l’air; ils s’embrassent: —«Qui es-tu? — Et toi?» Ils se
reconnaissent pour venir de deux quartiers différents?
Tous les capucins d’un couvent dont je vous parlerai plus
loin ont échappé malgré leur corpulence; seul un pauvre détenu
politique, qui y avait été incarcéré, a été trouvé écrasé entre deux
murs.
Par contre, le châtelain de l’endroit, dont la belle habitation
s’élevait sur le sommet de l’éminence, a péri avec tous les siens. Ce
serait une famille éteinte si, par bonheur, un enfant n’eût été envoyé
comme écolier dans douloureux et bizarre spectacle: une paroi écroulée
laisse voir les restes d’un très-haut plafond, sur lequel semble rouler
encore, peint à fresques, tout le système planétaire de Galilée. —
Plusieurs autres familles distinguées se sont éteintes, d’autres sont
complètement ruinées, et parmi celles-ci le syndic de la ville. Réduit
à la misère avec sa femme infirme, il a dû, lui magistrat, nous
demander l’aumône. Cet homme est pourtant remarquable par sa science.
Après s’être distingué comme étudiant à Naples, il s’est adonné à la
philosophie; puis il a pris son grade de docteur en médecine et écrit
un livre sur les fièvres intermittentes.
Voici ce qu’on pourrait prendre pour une ironie de la
Providence: Dans une maison un peu audessous de l’église, 17 personnes
avaient péri. Au bout de 5 jours on entendit des gémissements. De tels
bruits sortaient de bien des profondeurs sans qu’on pût les écouter,
faute de secours suffisants. Là pourtant on fit une fouille et on en
sortit.... un pauvre jeune aveugle qui désormais n’avait plus personne
pour le guider.
Voici un trait qui m’a vivement ému. Un père qui venait de voir sa
demeure s’écrouler à moitié, saisit une hache, enfonce la porte de la
chambre où il savait devoir trouver ses enfans. Sous les poutres
branlantes, il voit blotti dans un coin son fils sain et sauf. De ses
deux filles, une était suspendue par les pieds entre deux solives. On
s’embrasse dans un premier mouvement de bonheur. Mais comment délivrer
la pauvre enfant? Il faudrait soulever des poutres qui soutiennent le
toit. Ce serait ta perle du libérateur, et d’ailleurs les secousses
continuent, chaque seconde perdue peut être un arrêt de mort pour tous.
Le frère, les sœurs voudraient essayer; mais le père: «Ne tenions pas
Dieu, mes enfants, sortons.» — On sortait, mais au moment d’abandonner
la pauvre créature, le cœur lui manque, il rentre, l’étreint d’un
douloureux embrassement. Ce fut autour du fils de l’arracher au danger.
On l’entraina, et le lendemain tous ensemble revinrent trouver la jeune
fille.... Dieu l’avait préservée! Voulez-vous maintenant vous rendre
compte de l’effet produit par les premiers mouvements du fléau sur
l’imagination de ceux qui ont survécu? Qu’on écoute mon hôte; dans ce
pays, même les notaires ont l’imagination poétique. Le nôtre fait des
vers admirables, et je crois encore l’entendre exprimer avec les
inflexions de voix et les gestes expressifs de la race italienne, la
terreur des premiers moments.
«Je venais de me coucher, dit-il, je lisais dans mon lit. Mes
enfants, déjà grands, je les avais laissés dans la partie vieille de ma
maison, encore installés autour du eu. Pour moi, j’étais allé dormir
dans une aile de bâtiment que je venais de faire construire avec un
soin tout particulier. C'est cette précaution qui m’a sauvé la vie.
Plût à Dieu que mes pauvres enfants eussent eu le même bonheur! Quand
la première secousse ébranla la maison, j’entendis un grand fracas. Je
bondis hors de mon lit et voulus courir à eux. Mais la seconde
secousse, cent fois plus terrible, me jeta contre la porte que
j’essayais en vain d’ouvrir. Je ne pus sortir et bien m’en prit, car au
même instant le plafond du corridor s’abattait. Celui de l’appartement
où j’étais est peut-être le seul de tout Saponara qui soit resté
intact. Je m’échappai pourtant par une fenêtre; j’essayai de voir, de
toucher. Hélas! le vieux bâtiment était écroulé, mes pauvres enfants
étaient dessous! A partir de ce moment, je ne sais ce que je fis.
Seulement je sentis une forte douleur au pied et quelque temps après je
me réveillai sur la place publique. On m’y avait traîné. Un feu y était
allumé, une trentaine de personnes se chauffaient; je reconnus des
hommes, des femmes, des jeunes filles; et parmi nous tous un seul avait
une couverture; les autres étaient complètement nus; moi aussi!»
Après ce récit, mon hôte restait silencieux. Je le laissai quelque
temps abîmé dans son deuil; puis je lui demandai l’impression
d’ensemble produite par la grande secousse: «Voici, dit-il: un bruit
affreux, un choc, une épaisse poussière; on ne distingue plus rien; on
sent, on respire l’odeur des décombres. Puis un silence de mort. Après
quoi, quelques-uns se relèvent, et alors... des cris de mourants, des
cris d’effroi. Ce n’est que plus tard qu’on entend appeler: mon père!
ma mère! ma femme! mes enfants 1»
LETTRE X
La charité cléricale
Je vous ai écrit quels ont été les maux essuyés par la ville de Saponara. Vous voulez savoir quels remèdes on y a
portés. Les premiers médecins, en pareil cas, doivent être les prêtres.
Et nous ne doutons pas que le clergé de France, par exemple., ne se fût
levé tant entier pour porter sur les lieux le tribut de son dévouement.
nous en avons pour preuve la tentative des Sœurs de charité
françaises, résidant à Naples, qui étaient déjà en route pour‘apporter
aux victimes le tribut de leurs soins, mais que l’autorité a rappelées
en toute hâte, grâce, j’imagine, aux intrigues du clergé napolitain
qui, ne faisant rien de bon, n’aime pas qu’on se montre meilleur que
lui. Disons aussi avec plaisir que les laïques de ce royaume ont
ordinairement plus de charité que leurs conducteurs spirituels; témoin
ces trois cents étudiants en médecine qui ont demandé la permission
d’aller soigner les blessés, mais à qui cette permission a été refusée
sous le spécieux prétexte qu’il aurait fallu leur payer leurs frais de
voyage.
Mais si du moins le clergé du pays s’était borné à ne rien faire!
Nos amis anglais avaient envoyé à l’évêque de Potenza différentes
sommes — dont, par parenthèse, il a dû rendre 400 ducats à M. Major, à
titre de restitution.— 200 ducats, je crois, revenaient à Saponara. Qu’en avaient fait les prêtres?
Deux cents familles auraient dû recevoir chacune un ducat, suivant
les conditions posées par les donataires Les prêtres n’en choisirent
qu’une soixantaine; ils firent autant de paquets qui étaient supposés
contenir chacun dix carlins en petite monnaie. Les inscrits recevaient
les paquets bien et dûment pliés, et les prêtres se faisaient donner un
reçu en décharge. Mais quand les infortunés s’en retournaient en
déployant leurs rouleaux, ils n’y trouvaient que huit, sept, six, ou
même cinq carlins. Le fait est avéré, il nous peine de le dénoncer:
mais de telles monstruosités sont heureusement trop exceptionnelles
pour n’être pas mentionnées: suum cuique.
Où passait donc l’argent de ces bons Anglais? Voici: Un soir, le
gendarme qui gardait notre argent m’appela en secret; il me conduisit
auprès de la cabane des prêtres, nos bons voisins, et me montra à
travers la porte entr’ouverte quoi? Sept ou huit de ces messieurs, fort
reconnaissables à leur costume, en compagnie d’autant de femmes! Un
bruit d’éclats de rire sortait de ce bouge; on buvait, on mangeait, on
renouvelait en laid les débauches de la régence; et je laisse à deviner
à votre imagination ce que celte orgie pouvait avoir d’édifiant à deux
pas des cadavres sans sépulture! Pendant ce temps, de malheureux
enfants mouraient de froid sur la neige. nous étions forcés de sortir
tous les soirs à leur recherche. L’un d’eux, pleurant de froid, vint
crier famine à cette porte inhospitalière; ses gémissements troublaient
la fête: un prêtre sortit, lui lança un coup de pied en proférant je ne
sais quelle grossière injure. nous l’avons vu, entendu, et j’en frémis
encore! Voilà donc où passait l’argent de la charité étrangère. Et la
chose n’est pas cachée: la veille de mon arrivée, quand déjà M. Major
était sur les lieux, des femmes se sont présentées à la porte de cette
cabane sacrée, et ont crié tout haut à ces honnêtes ecclésiastiques,
qu’ils prenaient l’argent des aumônes pour le manger ave deuix
maîtresses! (J’adoucis les termes.)
Croyez-vous qu’ils en rougissent? Non, ils en rient; et le
domestique de M. Major, homme digne de foi, les a entendus répondre:
«Bah! ces étrangers pensent aux pauvres, assez d’autres vous portent de
l’argent; mais qui est-ce qui pense à nous? il faut bien que nous nous
soignions nous-mêmes.» Cela dit, ils ont congédié ces femmes avec un
blasphème.
Ne nous étonnons donc pas si la population les dit «accatati con figlie,»
mariés à des filles. La conséquence naturelle de ces désordres publics
est l’indiscrétion de ces quatre enfants qui s’en venaient souvent
jusqu’à l’autel: chiamare il papa. nous en avons vu de nos yeux, et non pas des plus jeunes, passer la nuit, en plein public, avec leurs femmes,
au milieu de vingt personnes et sous ces mêmes tentes où on s’entassait
en grand nombre, les premières semaines après la catastrophe.
Un homme d’honneur demandera comment le peuple souffre ces
désordres? nous demanderons, nous, si on n’en souffrait pas de
semblables en France avant 1789?
D’ailleurs la police est là, qui, tout en jalousant le clergé, a
pourtant ordre de le soutenir. Or la police, sous un roi comme
Ferdinand II, c’était la prison, la confiscation, la ruine! Elle
faisait peur encore à ceux qui étaient ruinés. Au reste on n’épargne
pas les injures à ce clergé, et je me rappelle qu’un de mes guides, en
me présentant à un ecclésiastique, me dit tout haut: «Voici l’unique
prêtre de la contrée qui ne soit pas un paillard et un coquin. Honneur
à luit» Je serrai cordialement les mains à un personnage aussi rare.
N’ayant à vous parler d’eux qu’en ce qui concerne mon sujet, je ne
vous rapporterai pas les scandaleuses histoires qu’on m’a contées sur
leur conduite. En voici une pourtant qui regarde le tremblement de
terre: Le prêtre dom Pasquale Gilberto avait eu, dans le couvent même
qui a été détruit, une intrigue scandaleuse. L’intrigue s’est ébruitée,
mais on n’y a mis ordre que lorsque la nonne fut accusée d’avoir
étranglé son enfant de ses propres mains. Quoique d’ordinaire on soit
assez indulgent pour ce genre de peccadilles quand le clergé en est
l’auteur, pourtant cette fois il fallut sévir: il s’agissait d’une
vierge du Seigneur. On les condamna donc à l’exil. Abélard suivit son
Héloïse. Ils étaient fort à plaindre, comme on voit. Mais puisque à
tout péché— même de nonne—il y a miséricorde, les deux coupables eurent
la permission de rentrer au pays au bout de trois ans, elle dans sa
famille, lui dans sa demeure. Or la chronique veut qu’ils aient malgré
cela continué leurs profanes amours, et ce qui me ferait croire à ce
bruit, c’est qu’on a trouvé, le 20 décembre au matin, dom Pasquale
Gilberto sous le mur de sa Dulcinée. Il avait eu la jambe cassée
pendant le rendez-vous et n’avait pu fuir plus loin.
C’est du reste le seul prêtre du pays qui ait eu à souffrir
dans sa personne; aussi vont-ils répétant partout que le ciel protège
les siens, et que malheur n’est arrivé au bon peuple que pour ses
péchés! Au milieu de tout cela, ils ne négligent pas leurs petits
intérêts, et on les entend faire, dans leurs prônes en plein vent, des
raisonnements comme ceux-ci: «Vous pensez aux vivants, c’est bien; mais
les morts? Mais les âmes de ces malheureux qui sont là sous les
pierres? Mais celle de ton père, de ta mère, de ton frère, de ton mari,
à toi? Savez-vous tous où elles sont? En paradis peut-être? Nenni f Ils
n’étaient pas assez saints, pour cela; mais bien en purgatoire. En
purgatoire! ils brûlent! ils crient! ah! mauvais fils, mauvaises
femmes! faites donc dire des messes pour ces âmes bien aimées! Allons,
payez!»
Et telle est la sensibilité crédule de ce bon peuple, que ce qu’on
n’eût certes pas donné au prêtre on le donne aux âmes du purgatoire. Le
dernier sou y passe, jusqu’au morceau de pain des survivants! Et voilà
ce qui aide ces messieurs à mener joyeuse vie.
Tout cela, nous l’avons vu de nos yeux, entendu de nos oreilles. Et
si vous me dites que vous avez trouvé de meilleures soutanes sur votre
chemin, je vous répondrai: Ce n’est pas étonnant, et moi aussi, grâce à
Dieu!
Vous êtes maintenant édifié, j’espère, sur la manière dont le clergé
du pays fait l’aumône; je vous apprendrai dans ma prochaine lettre
comment il la laisse faire par les autres.
LETTRE XI
Toujours des prêtres et des moines.
A peine arrivés dans le pays, mon ami et moi, nous nous sommes
occupés de remplir notre mission. Quelle était la meilleure méthode à
essayer? Semer de l’argent? mais tout le monde tend la main ici; ce
peuple manque de dignité, et d’ailleurs l’exemple des ordres mendiants
continue à mettre la mendicité en honneur. La plus grande partie de
notre argent risquerait donc de passer aux mains de ceux qui n’en ont
pas un besoin pressant, et d’ailleurs notre caisse serait vide au bout
de quelques jours. nous devons faire un choix, parmi les nécessiteux.
Rechercherons-nous donc les familles qui ont été toujours reconnues
comme pauvres? Mais le malheur public a presque interverti les rôles,
car celui qui a un métier, des bras et l’habitude du travail, trouve
plus facilement du pain que les autres. On l’emploie à déterrer les
morts, à déblayer le terrain, à soigner les champs. Au contraire, le
petit marchand de qui toute la boutique a disparu, le petit
propriétaire qui vivait au jour le jour d’une maigre récolte ou d’un
loyer de maison, ne saurait où chercher un point d’appui. Il est
impossible de vendre des terres pour se procurer des aliments. Qui
est-ce qui achète pendant de telles crises? Encore moins trouvera-t-il
à emprunter, même à des taux usuraires. nous savons que le baron de
Montemurro est resté deux jours à jeun. Jugez, par cet exemple, de
l’embarras des moins riches.
Que faire donc? nous adresser aux ecclésiastiques pour qu’ils nous
dressent des listes de gens à secourir? c’est ce que nous avons essayé
à plusieurs reprises, sinon ici, du moins ailleurs. Mais quand nous
ayons vérifié ces listes, nous y avons trouve la, même personne sous
des noms différents, ou encore tous les membres d’une même famille, et,
dans tous les cas, les amis de M. le curé, ses parents, ses maîtresses!
Réclamions-nous le même service de la police locale, du juge, du
chancelier? mais les mêmes abus se reproduisaient; avec cette
adjonction intéressée que, pour être mis sur la liste, chaque
malheureux devait promettre à ces messieurs une grosse part des
bénéfices de l’aumône. Distribuions-nous de nos propres mains et avec
notre seul discernement? il y avait presque toujours, derrière notre
protégé, quelque agent de police qui lui arrachait par la peur six
carlins sur douze. Qu’on ne s’étonne pas trop des abominations que je
raconte: elles sont dans les mœurs de toutes les administrations
napolitaines. La mendicité est défendue dans les rues de Naples, et
pourtant chacun sait que les mendiants y fourmillent, pour la bonne
raison que, sous le défunt roi et jusqu’à*aujourd’hui, il y eut avec la
police des accommodements, et que chaque mendiant de profession payait
aux agents du pouvoir une redevance moyennant laquelle il pouvait
occuper sa place au carrefour, étaler de hideuses plaies, et assourdir
les passants de ses plaintes simulées. J’ai vu de mes yeux un impotent
de Posilippo partager le produit de sa journée avec un agent de police
qui souriait agréablement en empochant la somme.
Nous savions tous ces abus, et pourtant nous nous sommes
laissé plus d’une fois exploiter de la sorte dans le cours de notre
tournée, tant était grande la difficulté de faire le bien sous ce
gracieux régime! Il nous restait un moyen d’être utiles, qui semblait
infaillible. Nombre de familles couchaient sur la neige, ou
s’entassaient pêle-mêle sous quelques poignées de paille. Quoi de plus
naturel que de leur faire des cabanes en planches? nous nous mîmes donc
à l’œuvre. Il s’agissait d’abord de trouver un emplacement convenable.
Dans l’impossibilité de rien établir sur les ruines amoncelées, ni sur
le reste de la montagne dont les escarpements sont trop rapides, nous
songeâmes au terrain sur lequel nous étions établis nous-mêmes, à un
quart d’heure de l’ancienne ville, près du couvent des capucins.
C’était la seule position exposée au soleil, à l’abri des vents froids.
Des centaines de familles s’y étaient déjà installées. On commença à
déblayer le sol; mais nous comptions sans les moines.
Il paraît que cet emplacement même que nous avions choisi fut
jadis leur jardin. Qu’on juge s’ils jetèrent feu et flammes! «Mais
c’est pour une œuvre de charité, leur disions-nous. — Que nous importe?
Notre ordre est pauvre aussi. — Mais vous savez bien que ce n’est qu’un
établissement provisoire, pour l’hiver, pour un an au plus, jusqu’à ce
que chacun ait relevé sa demeurenous ne voulons pas. C’est contraire
aux règlements. Ce sol est notre bien!»
Le lendemain, ces bons moines nous amenèrent quelques
ecclésiastiques, entre autres l’archiprêtre dom Francesco P, dont la
chronique dit qu’il a déjà eu un procès pour avoir causé à une certaine
Catherine 3* Brandi les inconvénients de la maternité. Le vicaire
général, à force d’argent, ayant arrêté les poursuites de ce procès,
notre homme se dédommage actuellement de ses ennuis passés en offrant
publiquement l’hospitalité — pour la nuit — à de malheureuses femmes
sans asile. Pure charité, croyez-le bien! Voilà l’homme qui vint
traiter avec nous. A ses côtés était le vicaire général du diocèse de
M. Dom Luigi Carmelo L......, de qui le nom ne devait pas être oublié
dans cette énumération de héros très-chrétiens. N’avait-il pas été
emprisonné pour dettes? et n’avait-il pas trouvé le moyen de se libérer
en servant de valet à l’évêque de Potenza, moyennant quatre ducats par
mois? Mais par la servitude on fait son chemin dans l’Église: et
maintenant le voici presque l’égal du frère de Monseigneur, un
intéressant chanoine, celui-là, qui, après avoir été arrêté à Potenza
même, pour avoir fait trop de vacarme en un mauvais lieu, a été
récompensé de cette conduite exemplaire par le titre glorieux de cameriere del papa.
Telle étant donc l’honorable compagnie qui vint nous présenter ses
observations sur notre manière de faire la charité, le vicaire général
parla le premier. Il nous fit remarquer, d’un air contrit, qu’il était
impossible de faire coucher des femmes sur le terrain bénit du
monastère. «Des femmes! répétait-il, des femmes songez y donc!» nous
connaissions leur horreur pour le beau sexe, et fîmes observer poliment
que déjà bon nombre d’infortunées étaient établies sur les lieux, dans
des cabanes construites par leurs maris ou leurs pères. nous ajoutions
que quelques-unes de plus ou de moins ne feraient pas grand mal à la
sainteté du lieu! «Ah! savez-vous, répliqua le vicaire, que nous serons
obligés de demander l’absolution supérieure pour celles qui y sont
déjà? — En effet, il y a plusieurs pécheresses dans le nombre, vous le
savez mieux que personne, Monsieur le vicaire.»
Il feignit de ne pas comprendre et ajouta: «Il nous faudra
surtout demander l’absolution pour la rupture que vous avez faite de
l’enceinte sacrée du monastère (il faut savoir que nous avions fait
déblayer quelques pierres éboulées). E peccato mortale, répétait-il, è peccato mortale di rumpere il sacro precinto del monistero nous
n’avions pas grand peur d’être damnés pour ce crime, et mon ami indigné
répondit avec beaucoup d’àpropos: «qu’il priait ces messieurs de
vouloir bien aussi demander l’absolution supérieure pour le bon Dieu. —
Comment! Comment! — Eh sans doute, n’est-ce pas lui qui, par son
tremblement de terre a osé rompre le premier l’enceinte sacrée de votre
couvent? Les rieurs restèrent de notre côté, comme bien l’on pense,
mais il ne nous en fallut as moins construire en dehors del sacro precinto,
Maleureusement nous eûmes l’imprudence d’installer nos cabanes
audessous de leur bienheureux jardin. nous y avions vu l’avantage de
les mettre mieux à l’abri en leur fournissant l’appui d’un mur de
soutènement. Nul ne souffrait de cette combinaison, et les familles que
nous y installâmes, entre autres une pauvre femme enceinte et affamée,
restée veuve et sans secours, nous bénissaient en nous baisant les
mains, comme à des anges du ciel.
Hélas! nous comptions sans les rancunes monacales. Cette race ne
pardonne point. nous partîmes. J’appris seulement deux mois après que
les cabanes étaient vides et à moitié détruites: nous allâmes aux
informations et quand mon respectable ami M. Major retourna en
Basilicate, au mois de mars 1859, il apprit les faits suivants.
Les bons capucins avaient obtenu un ordre supérieur pour faire
évacuer leur terrain. Cet ordre ils n’ont pas manqué de l’étendre au
voisinage. Trois cents familles ont été chassées sans pitié de leurs
abris temporaires. On a dû reporter ces pénates errants le long d’un
chemin rocailleux, à moitié distance de la ville et du couvent; ce qui
est une position détestable. Quant aux cabanes que nous avions
construites, les moines les ont fait évacuer, quoiqu’elles fussent hors
de leur terrain. Ils s’y sont pris pour cela d’une manière tout
apostolique: Montant sur le mur auquel nous-les avions adossées, ils
ont jeté tant de pierres sur les toits qu’ils ont forcé les gens à
déguerpir. Conduite fort chrétienne comme on voit! St. Paul a été
lapidé plusieurs fois. Et n’est-ce pas lui qui a dit: Soyez mes
imitateurs? — Eh bien, telle est la bonhomie de ce pauvre peuple, que
lorsque ces capucins charitables font leur tournée besace sur le dos,
je suis parfaitement sûr qu’ils ne rentrent pas au couvent les mains
vides, et que la marmite monacale bout aussi bien que par le passé.
Je voudrais en avoir fini avec ces turpitudes! Mais il faut
achever ma tâche jusqu’au bout, vous verrez que clans ce pays les
misères morales dépassent— et de beaucoup — les misères physiques:
Écoutez: Un homme de Saponara se trouvait par hasard à Montemurro
pendant la nuit fatale. Ayant échappé à la mort, il sort dans
l’obscurité et se dirige en toute bâte du côté de Saponara. En arrivant
il cherche la maison de sa famille. Il n’en trouve que l’emplacement.
Onze personnes, tousses proches étaient là, sous cet amas de pierres! —
Vous vous figurez, n’est-ce pas? un abattement indicible, un désespoir
sans remède. Eh bien 1 non, la soif du gain s’allume dans ce cœur de
bronze. La maison voisine lui étant connue pour être celle d’un
capitaliste du nom de Cenappo, il fouille, soulève des pierres,
découvre un secrétaire, le brise; semblable au génie du vol, il
s’enfuit, poursuivi surtout par la crainte. Trébuchant à chaque ruine,
à chaque secousse oouvelle, il emporte un sac d’argent. Tout à coup on
le rencontre. Les intéressés l’arrêtent. Le juge eut à traiter
l’affaire. Mais comme tout est permis ici, sauf le bien, vous ne serez
pas trop étonné d’apprendre que le misérable put se tirer d’affaire en
partageant avec la famille qu’il avait volée. Celle-ci s’estima fort
heureuse que le partage ne se fit pas de préférence entre les autorités
et le coupable. Une partie de ce drame se passait au moment même où
retentissaient les cris des mourants, au moment où des milliers
d’infortunés restaient affaissés sur les ruines et comme frappés de la
foudre! Le dirai-je enfin, cet homme… était un prêtre! Je ne crois pas
que ce soit le même qui fut arrêté à Montemurro pour vol dans les
ruines et transporté dans la prison ecclésiastique à Potenza.
LETTRE XII
Charité des autorités.
Je vous ai dit, dans ma dernière lettre, quelle fut la charité des
prêtres de Saponara. Voyons celle des autorités. En arrivant, nous
avons trouvé quelques cabanes construites aux frais des deniers
publics. L’une était occupée par le clergé, l’autre par la gendarmerie,
une troisième par le juge et le chancelier. A quelque distance, dans
une mauvaise exposition, nous avons pu voir quelques pieux plantés en
terre, un lambeau de toile goudronnée simulait la toiture, mais point
de parois à cette charpente: «Pourquoi ne terminez-vous point des
cabanes si nécessaires!» demandâmes-nous aux agents du pouvoir. —
«Parce qu’il n’y a pas de Slanches et qu’on ne peut pas s’en procurer.»
Le lendemain du jour où on nous a fait cette déclaration, nous
avions autant de planches qu’il nous en fallait pour construire vingt
baraques. On nous en apportait avec empressement, d’une scierie de la
vallée, a nous étrangers qui n’avions pourtant pas la connaissance des
lieux. Quand nous quittâmes Saponara, la toile goudronnée s’élevait
toujours sur les pieux plantés au nom du roi; mais la pluie et les
vents commençaient à la détruire. «L’argent n’arrivait pas,» disait-on.
Cette dernière excuse nous parut plus logique mais moins plausible
encore que le manque de planches.
En passant devant une grande case, j’entendis des gémissements;
j’entrai et me trouvai au milieu d’une trentaine de malheureux
amaigris, desséchés, purulents. Hommes et femmes se découvraient pour
me montrer leurs misérables squelettes; tous, pêle-mêle, gémissaient,
se mouraient. On m’assura qu’ils n’avaient pas assez de nourriture; je
vis pourtant panser une femme par un chirurgien. Je n’oublierai jamais
une charmante enfant aux yeux noirs, au teint pâle, qui, pieds nus et à
peine demivêtue, se glissait dans ce repaire, et dévorait avec avidité
les quelques miettes de pain que la faim d’une mère pouvait lui
abandonner! Elle avait huit ans, il gelait, et ce charmant visage avait
la force de sourire 1 Cette espèce d’hôpital est le seul échantillon de
charité publique que j’aie rencontré dans toute cette désolante
tournée. Je m’informai qui en faisait les frais: la commune, me diton.
Dans d’autres circonstances j’eusse trouvé la chose toute naturelle.
Mais quand la commune est détruite en entier 1 mais quand les ducats
ont été recueillis par centaines de mille précisément pour fournir à de
tels besoins! «N’avez-vous pas reçu des secours du gouvernement!
demandai-je; on a fait à Naples d’énormes collectes pour vous. — nous
n’en avons pas entendu parler.»
Ici, comme partout, les libérateurs n’étant pas arrivés à
temps du dehors, les personnes qui ont été tirées vivantes des ruines
n’ont été sauvées que par hasard. Dieu saille nombre de celles qui
auraient pu vivre et qui ont attendu vainement des jours entiers,
mourant lentement de douleur et de faim. A-t-on au moins rendu à leurs
cadavres les honneurs de la sépulture? A-t-on débarrassé la ville de
ces corps en putréfaction? Non, de tous côtés les vents apportent
l’odeur infecte des chairs restées sans sépulture A peu près la moitié
des victimes gisent encore sous les ruines, m’assure-t-on. Il y a déjà
six semaines qu’elles y sont, et je m’effraie pour l’été prochain des
maladies pestilentielles qui pourront se développer. Mais au moins,
continue-t-on ce travail de fossoyeurs? Non ! les autorités n’y mettent
plus la main. La rapacité des particuliers continue seule l’œuvre
funèbre, en fouillant ces amas.de pierres ensanglantées.
Suivez-moi, si vous l’osez, sur le sommet de ce monticule.
Asseyez-vous comme moi sur la porte brisée du tabernacle de l’église, à
côté d’une pierre tumulaire qui a couvert d’autres morts. Écoutez ce
bruit de voix qui monte, ces coups de pioche au-dessous. On déblaie une
maison. Il en sort, poussés à coups de pelle, deux, quatre, cinq
cadavres! Ils sont nus, sans distinction de sexe Viendrait-on de les
dépouiller? Je ne crois pas; l’usage du pays est de dormir tout nu.
Courage! descendons, allons étudier le désespoir sur la physionomie des
morts. On les rejette dans un coin, sans respect; à peine les
couvre-t-on d’un peu de paille. La puanteur est extrême, reculons. Je
fais deux pas et tressaille comme si j’avais marché sur un serpent.
J’ai foulé aux pieds un bras qui sort du milieu des pierres! Il est
roidi comme pour demander du secours; les doigts sont crispés, la main
ouverte comme pour saisir.
Mais quels sont ces cris? pourquoi cette dispute en un tel lieu?
J’entends dire que les ouvriers exigent une double paie des héritiers
de ces affreuses ruines. Ceux-ci s’entendent, je crois, pour partager
entre eux ce qu’on exhume. Puis, c’est une nouvelle dispute à propos
d’un trépied ou d’une écuelle qu’on a trouvés. Les travailleurs
éclatent d’un affreux rire en repoussant du pied les restes d’une
femme! Retirons-nous, la puanteur des cadavres et la vue des vivants
font également horreur.
LETTRE XIII
Encore Saponara
La vie renaît de la mort, vous le savez aussi bien que moi, et le
rire succède aux larmes. Cette insouciance qui fait que l’homme oublie
ses malheurs presque aussi vite que ses joies, a bien ses avantages
quand elle n’est pas le résultat de la dépravation morale. L’homme
serait vite perdu si la force vitale, la puissance même de ses besoins
renaissants ne l’arrachaient aux deuils de la veille pour le lancer
dans les espérances du lendemain. La vie animale elle-même, avec ses
exigences matérielles, aide à la transformation du monde, ce grand
cimetière, où une génération insouciante foule toujours aux pieds la
poudre des générations éteintes.
Ainsi voyez une foire sur ces ruines; la prose vivante s’installe à
côté de la poésie morte. Le marché s’est établi au lieu le plus
dévasté. On voit pêle-mêle débris de chapelle, chaussures rustiques en
peau de bœuf; cheminées brisées et chapeaux à vendre; lits brûlés et
fromages de brebis. Tous les métiers se sont donné rendez-vous ici,
comme pour remplacer au plus vite ce qui est détruit. Le luxe même y
est venu; voici un bijoutier. Il est vrai que les rôles sont renversés:
c’est le marchand qui achète au lieu de vendre. Hélas! les pauvres
femmes du pays vont porter à ce juif leur dernière boucle d’oreille,
leurs anneaux de mariage. Il faut que le besoin soit bien grand pour
faire oublier à ces filles du midi les petits soins de la vanité.
Heureux si on ne profitait pas de leurs besoins, mais il est tristement
curieux de voir taxer à 4 fr. 50 c. toute la défroque d’une beauté du
pays. La faim doit compter avec la rapacité ou l’usure.
Une partie de la ville, se trouvant plus bas placée, a été non pas
préservée, mais moins terriblement bouleversée. Il y a encore ici et là
quelques murs debout; et sur l’un d’eux je lis ces vers, mauvais vers,
en mauvaise orthographe, qu’un prêtre du pays, esprit misanthrope,
j’imagine, avait griffonnés avec du charbon:
Riparato che ha al suo bisogno A sperarne mercé è vero sogno (1).
et plus loin: 1 C’est folie d’attendre un secours de celui qu’on a rassasié.
Si lasci però star questa canaglia Che non conobbi giammai uno che vaglia (2).
Voilà tout ce que les St. Jean du pays savaient penser et écrire dans une sacristie de l’église de la Madonna del Rosario. Hélas! le peuple ne pourrait-il pas dire aujourd’hui du prêtre ce que le prêtre disait hier du peuple.
Avant de quitter la ville, j’eus le plaisir de constater que
notre présence avait suffi pour réveiller la population et l’arracher à
l’apathie. A peine eûmes-nous promis des planches à qui en aurait
besoin, que chacun se hâta de construire lui-même la charpente de
nouvelles baraques. Avec une activité jusque-là inconnue, nous vîmes
les habitants arracher les poutres aux décombres. Les hommes
déblayaient le sol, les femmes se chargeaient des fardeaux. Étrange
particularité de mœurs qui se remarque chez la plupart des montagnards
de ces contrées. Un homme se croirait déshonoré s’il portait un
fardeau; c’est le lot de la femme d’enlever ces poids énormes sous
lesquels plie sa faiblesse. Mais ici, du moins, la plupart des femmes
sont taillées en cariatides; et c’est chose émouvante d’en voir une ou
deux se charger de charpentes énormes. Elles les portent sur leur tête,
en trébuchant sur ce sol inégal. Déjà, on le voit, la population est
comme transformée depuis notre arrivée; la vie est revenue; tant il est
vrai qu’un peu d’encouragement et d’exemple suffit ordinairement pour
relever le peuple.
Ce n’est pourtant pas que tout danger ait disparu; pendant la
nuit, nous entendons souvent de sourds grondements.dans le sein de la
terre; notre cabane craque comme si elle était secouée par un vent
violent; nous sommes éveillés en sursaut par de petites oscillations.
Au moment de quitter la ville, j’étais installé chez-notre hôte; mon
ami et moi avions mis une planche sur nos genoux, pour nous servir de
table. Nous déjeunions tant bien que mal, quand une secousse subite
nous fit bondir d’un pied au-dessus du sol; celle-là était bien une
impulsion de bas en haut. Au même instant, les femmes se précipitèrent
hors de leurs demeures, en poussant des cris. Ce fut une panique, une
épouvante indicible. L’une d’elles tomba dans le feu dans sa fuite. On
s’explique cette susceptibilité d’impressions, après les drames du mois
de décembre. Mais on comprend aussi qu’une telle facilité à perdre la
tête ne devait pas peu contribuer à rendre le sauvetage difficile au
moment du danger. Au reste, chemin faisant, je recueille des preuves de
l’inconstance, du caprice, dirai-je, de ce fléau. Il n’a suivi aucune
règle appréciable dans sa marche. On voit dans la plaine une maison
debout entre deux autres détruites. Ici, il a fait un bruit semblable à
un roulement de chars sous terre, là, il ne s’est qu’à peine fait
sentir. Sont-ce des courants électriques? sont-ce des gaz emprisonnés?
Quelle est la cause immédiate de tous ces désordres?
Voilà ce que je me demandais en traversant l’antique Aciris
(aujourd’hui Agri), petite rivière qui devient bleuâtre à chaque
secousse un peu forte, et en regardant toute cette chaîne de montagnes
dont on dit peut-être à tort que le niveau s’est un peu abaissé. Il y a
dans ces mystères de quoi troubler, non seulement les sources et les
fleuves, mais bien un peu le cœur de l’homiue. Le savant anglais dont
je vous ai déjà parlé et qui était venu vérifier ici son propre
système, n’a pu constater que de mystérieux désordres. En voyant que
les murailles ne s’étaient pas toutes renversées du même côté, que les
secousses avaient été contradictoires, qu’enfin il n’y avait moyen de
soumettre ces phénomènes à aucune loi fixe, il s’en est retourné fort
découragé pour la science. Les savants voient quelquefois loin, mais
Dieu seul voit profond.
Vous aimez les antiquailles, je crois? mon guide m’offre de me conduire aux lieux où fut Grumentum.
Cette cité grecque fut une des principales de la Lucanie. Il en reste
encore, dit-on, un amphithéâtre, et un souterrain de deux milles de
long. En toute autre circonstance, j’aurais fait un long détour dans le
but de visiter ces ruines, mais il y en a tant de toutes fraîches sous
mes yeux! On m’a montré d’ailleurs, sur la placé de Saponara, un
portail qui en avait été tiré. Il servait au corps de garde de la
ville; une inscription et un pilier sont encore debout. Étrange
destinée des choses humaines! les plus vieilles résistent parfois mieux
aux bouleversements que les nouvelles. Quant aux souterrains dont j’ai
parlé, je ne puis m’empêcher de citer une légende qui s’y rapporte et
que notre hôte nous racontait avec le plus grand sérieux. Ce souterrain
donc communiquait autrefois avec... Jérusalem, si j’en crois la
tradition. On pouvait ainsi aller en Terre Sainte sans se traîner sur
les continents ni sur les mers:«c’est ce qui explique,» ajoutait-il,
que la mort de Jésus Christ a pu être sue en trois jours de Jérusalem à
Rome. — Mais, répliquâmes-nous, sur quoi est fondée cette dernière
affirmation? — Oh f c’est article de foi. — En ce cas, nous n’avons
rien à répliquer. Mais comment votre souterrain lui-même aurait-il
permis aux hommes de ce temps, qui n’avaient ni chemins de fer ni
vapeur, de traverser en si peu d’heures, toute la distance qui nous
sépare de Jérusalem? — Ah! qui sait si les Romains n’avaient pas aussi
une espèce de télégraphe électrique?» Voilà où en sont encore les
savants notaires du royaume. Je parle d’un poète et d’un homme
d’esprit; tant il est vrai que, partout où la critique, l’examen et la
liberté de discussion religieuse n’existent pas, l’instruction même
n’éclaire point. C’est un fait assez constant dans le royaume. Je
connais des familles dont tous les membres, même les dames, savent le
grec et l’hébreu, et n’en sont pas plus avancés pour cela. C’est qu’il
ne suffit pas d’avoir des yeux, il faut aussi s’en servir. Partout où
la liberté n’existe pas dans une certaine mesure, la vie même se retire.
Un mot encore avant de prendre congé de notre excellent notaire.
Après notre départ, il a été interdit de ses fonctions pendant trois
mois pour nous avoir donné l’hospitalité, et pour avoir entretenu avec
nous la plus inoffensive des correspondances.
Tant le despotisme est ombrageux! tant notre présence avait semblé dangereuse aux autorités locales!
LETTRE XIV
Montemurro
Je vais vous introduire, mon cher Émile, au milieu du plus grand
chaos qui se puisse imaginer. nous approchons d’un escalier tortueux,
unique route qui mène Montemurro. Au-dessus, qu’est-ce que j’aperçois?
Est-ce une ville ensevelie, est-ce un tas de pierres? A cent pas on ne
reconnaît rien, si ce n’est une maison blanche dans le fond. Elle se
dresse comme échantillon de ce que furent les autres. On dirait qu’un
laboureur géant a passé sa charrue par là, et que demeures, églises,
château même, gisent maintenant étendus dans le sillon. Cette trace,
c’est la grande rue naguère recouverte, et au bord de laquelle la
troupe a ramassé des décombres qui l’avaient entièrement obstruée.
Voilà du reste la seule bonne chose que les soldats aient faite ici.
Arrivés longtemps après le désastre, ils ont construit deux ou trois
cabanes, il est vrai, mais les autorités les emploient à leur propre
usage. Quant à la population, on ne s’en est guère préoccupé, sous le
prétexte étrange qu’elle était toute sous terre, et que 5000 habitants
étaient morts sur les 7500 que contenait la ville. Ce chiffre est
effroyable, mais douloureusement vrai; ce qui est aussi vrai et plus
effroyable, c’est la manière dont les autorités et la troupe ont rendu
les derniers devoirs aux morts et secouru les vivants.
Sur ces 5000 victimes, 2000 à peine ont été tirées de ce charnier;
on leur a rendu les honneurs funèbres, n’en doutez pas; on leur a fait
un cimetière dans la ville voisine; mais on les a inhumés tellement à
fleur de terre, que nous avons vu, de nos yeux, les porcs du pays occupés à les dévorer.
Je ne commente point, je raconte. Les autres 3000 gisent encore à la
place où ils ont été étouffés. Quand on a déblayé leurs maisons pour en
tirer les valeurs, on les a rejetés ignominieusement dans un coin ou
enfouis sous d’autres décombres. La puanteur est décidément
insupportable, le cœur se soulève, il faut fuir. Voilà pour les morts,
si ce n’est qu’avant de mourir, ils ont dû longtemps gémir, appeler et
se désespérer en vain. On est venu enfin, mais après dix jourset… pour
dépouiller les survivants.
Oui, je voudrais qu’on le sût, pour l’éternel déshonneur de
cette armée qui préludait ainsi à ses récents pillages de Catane, aux
cruautés sauvages de Palerme bombardée et partiellement incendiée, avec
nombre de ses habitants brûlés vifs. Ces héros habillés de rouge, de
blanc et de bleu, envoyés en Basilicate pour secourir des frères en
détresse, se sont jetés sur ce charnier comme autant de vautours
affamés. Mais c’est d’argent qu’ils avaient faim. Chaque pierre fut
retournée, et sous chaque pierre on trouva un cadavre et quelques
objets de valeur. Le cadavre fut repoussé dans quelque trou immonde,
l’argent fut pris et caché ou partagé avec les autorités secourables de
la province!
Je ne voudrais nommer personne qu’à bon escient, aussi n’osé-je pas
citer le titre d’un certain employé supérieur qui, suivant le
témoignage de maintes gens, a dû se retirer du pillage avec 30 mille
ducats pour sa part! Si vous vous étonnez que de fortes sommes se
trouvassent dans ce pays perdu, sachez que les habitants de Montemurro
étaient pour la plupart des marchands ambulants ou sédentaires. Or, que
faire de l’argent amassé? En un tel pays, il n’y a ni actions de chemin
de fer, ni associations commerciales, ni rien de ce qui, chez nous,
fait rouler l’or. La banque est loin.La plupart de ces négociants
enrichis jouissaient donc de leur or à la manière des anciens avares.
En attendant d5en acheter des terres, ils l’enfouissaient en le cachant
bien (dans d’autres provinces, par crainte des exactions et des bandes
de voleurs, on conserve de grandes valeurs, en huiles, dans des
citernes). Les malheureux avaient travaillé pour d’autres, comme on le
voit.
Mais ces bonnes aubaines ne suffisant pas aux pillards,
ceux-ci ont utilisé les petits moyens que voici: Quand on trouvait un
malheureux fouillant dans les ruines, on l’empoignait, on le fouillait
lui-même, on lui enlevait tout ce qu’il avait sur lui et on le
renvoyait à nu avec une accusation de vol. Or, ces exactions ont été
exercées sur des gens qui ne remuaient que les restes de leurs
demeures. Mais supposons qu’ils eussent fouillé des ruines étrangères
et abandonnées; leur prétendu crime demanderait examen, ce me semble.
Ne croyez-vous pas pouvoir affirmer avec moi que,, dans une ville de
7500 habitants, la plupart parents et amis, s’il n’en réchappe que
2500, les ruines sont bien et dûment la propriété des survivants? Et
l’on doit désirer, n’est-ce pas, qu’ils en retirent le plus possible
pour se dédommager de la perle de leurs demeures, de la ruine de leurs
familles.
Mais supposons qu’on résolût autrement cette question de droit: Où
devaient être consignées les valeurs sauvées du naufrage, et aussi
celles enlevées aux prétendus voleurs? Entre les mains des autorités,
n’est-ce-pas? — Et c’est ce qui a été fait, en vérité, sauf quand es
soldats préféraient garder le tout pour eux-mêmes. —Mais les
dépositaires sont-ils en droit de s’approprier ce qui leur a été confié
en quelque sorte? Ou leur est-il Sermis de le laisser pourrir dans les
coffres de l’État et es provinces? Ils auraient dû en rendre compte, ce
me semble, soit aux vrais héritiers, soit à la commune dont il serait
important de réparer les dommages. Eh bien!quelque supposition qu’on
ait pu faire, le fait est qu’on n’a pas entendu parler de ce qui avait
été tiré des habitations, —et que, selon toute probabilité, on n’en
retrouvera jamais rien.
Le baron N., vieillard vénérable, qui,| de ses cinq enfants, en a
perdu trois dans le désastre, et. qui est blessé lui-même, n’a pas été,
plus que les autres, à l’abri des exactions de ces messieurs. Une aile
voûtée de son château était restée partiellement intacte. C’était un
asile Souries siens et pour lui. Néanmoins il préféra, par prudence,
aller s’établir dans une cabane en planches où je l’ai trouvé couché,
souffrant. Son château n’étant pas gardé, les libérateurs du pays ne
trouvèrent rien de mieux à faire que d’y entrer, d’y prendre tout ce
qui s’y trouvait et même d’en enlever jusqu’aux dernières charpentes,
soit pour leur propre usage, soit pour les vendre à d’autres. «Que
n’a-t-il réclamé, que n’a-t-il fait un procès, direz-vous.»
Et si je vous affirme que le pauvre baron a dû attendre deux ans la
permission de se faire transporter à Naples, pour faire soigner sa
jambe paralysée, et que cette permission même ne lui avait, dans le
principe, été accordée que pour six jours! tant les impotents,
lorsqu’ils ont une langue encore, semblent dangereux à ceux qui règnent
par la terreur.
Une dame qui avait survécu à tous les siens, ayant au fond de sa
cave bien caché une somme d’argent, chercha des ouvriers qui pussent la
lui déterrer. La difficulté était d’en trouver qui ne la gardassent pas
pour eux-mêmes. Elle ne crut pouvoir mieux faire que de s’entendre avec
des montagnards du voisinage, s’engageant à leur laisser pour leurs
peines le quart de la somme.... ce qui était un beau denier. Elle
indiqua l’endroit où on trouverait le trésor. Alors les montagnards,
sûrs de leur fait, exigent la moitié. On discute, mais la police est
voisine, il faut se hâter de consentir. On fouille, on trouve; et ces
ouvriers, se précipitant sur les piastres comme sur une proie,
s’emparent du tout et l’emportent chez eux malgré les cris de la
malheureuse femme. Que faisait donc cette police si ombrageuse envers
les propriétaires eux-mêmes? Si l’idée n’est pas venue à la pauvre dame
de s’adresser à la justice, c’est que, sans oute, dans ce moment, et
dans cette province, elle ne serait venue à personne. Quand les
autorités partagent avec les voleurs, les volés n’ont plus qu’à se
taire; et c’est le plus prudent pour eux. Mais quand elles
s’approprient l’objet en contestation, que faut-il faire? Soumettez
donc la question à vos hommes de loi. Je serais curieux d’avoir leur
réponse.
Les survivants se plaignent de deux pillages, le premier fait
parles paysans du voisinage que la police s’est bien gardé de mettre à
la raison; le second et le plus irréparable fait par la troupe. Je
crois du reste que c’est le seul endroit dans lequel les militaires se
soient permis ces exploits sur une large échelle. Plusieurs
propriétaires ont été tués en défendant leur bien, mais par des
paysans, j’ai hâte de le dire. Les domestiques ont presque tous
abandonné leurs maîtres pour courir au pillage, ce qui ne fait pas
l’éloge de la moralité de cette population; si, au tremblement de terre
et au pillage, vous joignez l’incendie, vous aurez une idée des
désastres de Montemurro. Et comme la malveillance, la vendetta même, ne
sommeillent pas toujours sur un tombeau, on a pu voir la maison du
notaire prendre feu plusieurs jours après. Rien ne peut donner une idée
des désastres de cette malheureuse ville. On ne peut la comparer qu’au
quartier le plus élevé de Saponara. Pour pouvoir retrouver et
reconnaître leurs maisons et celles de leurs amis, plusieurs personnes
ont dû chercher et surtout escalader pendant des heures entières.
Voici une place publique dans laquelle plusieurs centaines de
personnes, qui s’y étaient sauvées à la première secousse, ont été
écrasées dans la seconde. On ne s’est pas donné la peine de les
exhumer, et nous les foulons aux pieds. S’il y a tant de réchappés,
c’est que beaucoup d’entre eux étaient sortis du pays pour les besoins
de leur commerce. Enfin, toute une partie de la ville, se trouvant
bâtie sur un terrain meuble et près d’un ravin aussi à pic qu’une
falaise, a roulé avec le sol même dans le fond du ravin. Plusieurs
personnes ont pourtant fait sans blessures ce saut d'environ 400 pieds.
On me présente une enfant de 15 ans, Maria Donata Altorno; plus
heureuse que beaucoup d’autres, elle a retrouvé complètement la vie
après six jours de sépulture. Sa pâle figure donne une idée de ses
souffrances. Combien d’autres ont attendu en vain la lumière, ou sont
morts suffoqués en respirant la première bouffée d’air libre, parce
qu’il était trop tard.
Dans le nombre des pertes matérielles, on peut compter un petit
temple antique qui avait résisté au temps, et dans lequel on m’assure
que se conservaient des peintures ou des stucs, malheureusement
obscènes.
Je vous ai dit le genre de secours envoyé au pays et qui ne fut
qu’une catastrophe de plus. J’ajoute que, pour notre compte personnel,
nous ne pûmes y semer que peu d’argent, ayant trouvé auprès de la
police encore moins de facilités qu’ailleurs. Il faut savoir que,
quinze jours auparavant, ordre y avait été envoyé de la part de S. M.
Ferdinand II, d’arrêter nos amis les Anglais s’ils osaient y paraître
et y faire des distributions. Cet ordre a été révoqué, il est vrai,
plus tard, lorsqu’on a vu que nous n’étions pas des agents politiques,
et que notre mission n’était que charitable. Nos passeports se firent
longtemps attendre néanmoins, ce qui nous chagrinait, car nous avions
peur qu’on ne mourût de faim làbas avant notre arrivée.
On eut peur de mécontenter trop ces fiers Anglais qui ont de si gros
vaisseaux, et les passeports arrivèrent d’abord pour nos amis, puis
pour nous. Mais de l’ordre révoqué il resta toujours quelque chose. Il
est évident aussi que nos yeux étaient trop bons pour plaire à ces
hommes de ténèbres, et s’il nous fut permis d’observer, c’est qu’il
était difficile de nous le défendre. Montemurro, du reste, avait été
compromise politiquement. Elle passait pour hostile au roi; son
libéralisme lui coûta cher, les sbires eurent les coudées franches sur
son cadavre, et le journal officiel qui n’aimait pas à citer ses
ennemis n’a parlé qu’une seule fois de son malheur, quoiqu’elle ait
plus souffert que toutes les autres villes. — On y empêcha M. Major de
construire des cabanes. Il s’est offert de se charger d’une quinzaine
d’orphelins, et c’est tout ce qui lui a été permis d’y faire. Pour moi,
j’essaierai de vous raconter les tribulations que j’ai essuyées. Elles
vous égaieront peut-être; ce sera le vaudeville après la tragédie.
Vous saurez donc qu’en m’informant de ce qu’étaient devenus certains
200 ducats envoyés par des Anglais, j’embarrassai fort le curé du
village. Il me prit à part, me conduisit à sa demeure et m’expliqua
comment les neiges de la saison avaient empêché l’évêque de Potenza de
lui envoyer plus tôt cette petite somme. Vaille que vaille, j’acceptai
l’excuse; mais j’exigeai qu’on fit la distribution sous mes yeux. Le
conseil municipal était réuni; je m’y présentai et le priai de dresser
une liste de 200 personnes les plus nécessiteuses. On les appela sur la
place publique et je pus faire de mes propres mains la distribution.
Mais pendant ce temps s’étaient amassés par centaines et peut-être
jusqu’à un millier les habitants du lieu. Tous voulaient leur part du
gâteau. J’eus beau leur expliquer que, pour le moment, je ne donnais
que l’argent de la charité anglaise, que bientôt leur tour viendrait,
que nous avions l’intention de faire pour leur ville ce que nous avions
fait pour Saponara. Ils n’entendaient pas raison, et dans leur
désespoir s’élevaient jusqu’à la colère. Alors commença une scène comme
on n’en peut voir qu’en Italie et dans des lieux semblables: les hommes
de me montrer le poing, les femmes de s’arracher les cheveux, les
enfants de s’effrayer. Chaque figure s’animait d’une passion
frénétique; j’étais entouré, dominé, incapable de me faire entendre. Et
pendant ce temps la police riait dans sa barbe ou attisait le feu en se
glissant dans les groupes. Elle était mécontente, j’imagine, de n’avoir
pas été chargée de la distribution; elle l’aurait faite, pensait-elle,
d’une tout autre manière! Un instant je crus ma dernière heure venue.
Mais notre caisse de secours était restée entre les mains de M. Major,
à Saponara, je ne fus donc pas tenté d’y puiser. Je ne puis songer à
cette heure d’angoisse sans un frémissement nerveux que suit aussitôt
un éclat de rire.
Le grotesque se mêle souvent au tragique, dans les émeutes de
ces peuples méridionaux; je fus donc tiré d’embarras par un incident
des plus vulgaires. Le dirai-je! et comment le dire? Quelque chose me
passa dans les jambes et faillit me renverser; un grognement domina la
foule; c’était.... c’était un des nombreux hôtes du pays que le vacarme
épouvantait, un de ces animaux dont le nom figure mal dans un drame et
dont la présence me fut pourtant une délivrance en cette occasion. Une
inspiration me vint, et tandis que cet incident me permettait de
glisser une parole, je levai la main et fit saisir le malencontreux
animal —A cet acte, on s’arrête, on s’étonne. —J’annonce à tous qu’on
va leur faire de la soupe, de la soupe de porc! A cette nouvelle, les
fronts se dérident, les voix s’apaisent, les appétits s’aiguisent. Qui
sait depuis combien de temps les malheureux n’avaient point goûté de
viande!
Un porc fut tué en effet; avant de partir, je priai l’obligeant
baron N. de faire veiller à son emploi. Vous dirai-je maintenant ce
qu’il advint du pauvre animal? A peine étais-je parti que la police se
présenta chez le baron: — «Vous avez un porc, que cet étranger vous a
laissé. — Oui. — Vous allez nous le remettre. — Je ne puis pas, mon
devoir m’oblige à le donner aux pauvres. — Les étrangers n’ont pas le
droit de faire des distributions. Livrez cet animal.»
Le pauvre baron dut s’exécuter, et MM. de la police ont fait
d’excellents régals avec la chair qui devait nourrir le pauvre. Il est
vrai, m’assure-t-on, qu’ils l’ont mangée à ma santé, grand bien leur
fasse! J’espère pourtant que le bon peuple frustré de sa soupe ne m’a
pas cru capable de l’avoir mangée tout seul.
LETTRE XV
Viggiano
Vous ne vous étonnerez pas, mon cher Émile, qu’après avoir échappé
aux affaires de Montemurro, je me trouvasse fort à l’aise sur mon
mulet, en cheminant vers Viggiano. Trois heures de marche m’en
séparaient. nous longions le flanc des montagnes, traversant des
ravins, et suivant un sentier rocailleux. Dans cette province, les
habitations sont ramassées en gros villages; très-peu sont disséminées
dans la campagne, soit à cause de la malaria qui règne dans les
bas-fonds, soit à cause du peu de sécurité dont on jouit par ici. Ces
villes ont l’aspect d’un autre âge; plusieurs ont encore conservé leurs
murs d’enceinte, et, de leurs portes cintrées, on s’attend toujours à
voir sortir des hommes d’armes. A vrai dire, gens et choses y ont à
peine progressé depuis des siècles; si les seigneurs du lieu ne se font
plus la guerre, le genre de gouvernement dont on a gratifié ces
contrées n’a pas fait grand effort pour changer les mœurs, ni inspirer
la confiance. Disonsle néanmoins, la poésie n’y a pas perdu, et nos
villages de France, assis dans les boues de la plaine, font infiniment
moins d’effet que ces tours haut perchées, ces habitations suspendues
sur des précipices, et dont la masse hardie se détache fièrement sur le
ciel profond du midi. L’effet en est saisissant de loin, mais il ne
faut pas approcher si l’on ne veut voir se dissiper les illusions Des
rues tortueuses, souvent désertes, froides en plein été, sales toute
l’année; des habitations sombres, massives, d’où l’ennui semble
suinter; et pêlemêle, à côté des grandes maisons, des cabanes sans air,
sans lumière, au fond desquelles brillent les yeux de quelque aïeule
délaissée. Sur le seuil se vautrent en commun des enfants nus et des
porcs immondes. Le pittoresque n’y manque pas, vous voyez.
Tout cela soit dit pour vous faire comprendre ce qui a dû
distinguer Viggiano des cités voisines. Cette petite ville de 6,700
habitants, quoique bâtie comme bien d’autres sur un penchant rapide,
avait une physionomie plus moderne. C’est à la profession de la plupart
de ses habitants qu’il faut attribuer cette particularité. Avez-vous
rencontré dans les rues de Paris, de Londres ou même de Boston, une
bande de musiciens italiens, qui, de leurs violons et de leurs harpes,
tiraient les airs nouveaux de Verdi, ou les ouvertures de Rossini? Les
avez-vous vus errant de ville en ville, recueillant dans chaque rue et
devant chaque porte, quelques sous pour prix de leur talent? Il y a
grande chance que leur patrie soit précisément cette petite ville de
Viggiano dont nous vous entretenons. Dès leur enfance, ils se sont
adonnés, dans ce pays perdu, à la culture de la musique; et vraiment on
peut dire que jusqu’ici les fils n’ont pas démérité de leurs ancêtres.
Sans fournir des génies artistiques, ils ont acquis assez de
savoir-faire pour contenter des oreilles délicates. Moitié mendiants,
moitié virtuoses, ils font avec leur flûte, je ne dis pas seulement le
tour de l’Europe, mais bien souvent le tour du monde. Laissant leur
famille au pays, ils ont le bon cœur de lui envoyer tous les ans le
fruit de leurs économies. D’autres se marient à l’étranger, et ramènent
plus tard dans leurs montagnes quelque Américaine étonnée, quelque
Anglaise expatriée. S’ils ont amassé beaucoup de piastres, leur premier
soin est de se bâtir une maison, sur le modèle réduit de celles qu’ils
ont vues et habitées sous d’autres cieux. Rien n’est curieux comme de
trouver, dans ce coin solitaire, des traces de civilisations diverses,
importées de tous les coins du monde. Les habitants sont polyglottes,
et c’est à peine s’il est nécessaire d’y parler l’italien pour être
compris. Artistes mendiants à Paris, ils sont devenus bourgeois et
propriétaires dans leurs montagnes. Ils vous donneraient l’hospitalité
de leur propre demeure, à vous qui leur jetiez de vos fenêtres l’obole
de la charité, si le dernier tremblement de terre n’avait abattu tous
ces chef-d’œuvre de leur petite industrie, et fait évanouir pour
longtemps leurs rêves de bien-être. Il ne leur restera plus désormais
qu’à laisser leurs familles sous quelque abri précaire et à reprendre
leurs violons, s’ils ne sont pas brisés. Mais nous comptons sans la
police napolitaine, à qui tout faisait ombrage et qui a paru longtemps
résolue à ne pas laisser sortir de ces vallées un seul de ceux qui y
gémissent. Leurs plaintes pouvaient aller réveiller les échos de
l’indignation publique; ils ne seraient pas gênés pour redire quel est
le genre d’aumônes dont on gratifiait leurs pauvres enfants. Ils
auraient révélé les malversations des employés, et cela m’explique
cette nouvelle étrange dont je ne pouvais prendre mon parti pendant
plusieurs mois: à ces artistes ambulants on refusait un passeport, je
devrais dire un gagne-pain. Depuis, ils ont pu sortir de leur patrie,
mais c’est grâce au dieu Plutus qui leur avait laissé, je pense, de
quoi payer la vénalité de leurs cerbères.
A ce faible (trasporto) pour la musique, plusieurs d’entre
eux doivent d’ailleurs leur salut; car au moment fatal, bon nombre
étaient absents. Mais jugez aussi du désespoir de leurs femmes qui,
restées seules au pays, n’avaient pas même un bras ami pour arracher
leurs enfants à la mort. L’une d’elle, jeune femme de vingt ans,
s’arrête devant moi et me demande avec une touchante naïveté si je
n’aurais pas rencontré son mari son mari parti depuis un an pour Rio
Janeiro.— «Quand il reviendra, me dit-elle, il ne trouvera plus la
petite; pauvre créature, elle est restée à-dessous! je n’ai pu l’en
faire retirer de trois jours. Je m’étais sauvée avec l’aîné qui a trois
ans, l’autre était dans son berceau. Mais, puisque vous venez de
dehors, vous auriez pu rencontrer Jean? — Eh! ma pauvre femme, le monde
est si grand. — C’est vrai, mais si votre excellence voulait bie n lui
écrire? — Je le ferai assurément pourvu que vous me donniez l’adresse.
— Mais je ne sais pas où il est maintenant; que votre excellence
s’informe à la police. Ecrivez-lui donc que nous sommes ici Raffaël et
moi, sans maison et sans pain. Et dire que nous aurions pu19 mourir sans le revoir!» Je la quittai affligé de ne pouvoir pas même faire cette bonne action.
La destruction est un peu moins grande qu’à Saponara; il y a
encore ici et là quelques portions d’édifices habitables. Il n’y a péri
qu’uD millier de personnes. Malheureusement, en pareil cas, plus il y a
de survivants, B lus il y a de bouches à nourrir. C’est donc ici que M.
Major a dû laisser la plus grosse part de ses aumônes.
Je me lasse de vous parler de la charité administrative. Qu’est-ce
que la valeur de 500 ducats employés en toiles, couvertures, vêtements,
pour une ville de près de 10 mille âmes? On n’a pas voulu même vendre
aux riches des tentes pour s’abriter. Tous sont gênés sinon affamés.
Prêter des capitaux à bas intérêt et sur hypothèque, serait peut-être
le meilleur moyen de relever les familles qui se ruinent; on ne peut
donner à tous. La charité est bien difficile à exercer.
Elle l’est surtout quand on est indignement trompé par le clergé du
pays. Une partie de celui-ci convient franchement de son abjection.
C’est ainsi qu’un moine capucin, auprès de qui je me suis installé,
devant un feu, sur le soir, s’exprime en termes fort énergiques sur la
corruption du clergé: «C’est, dit-il, à cause de nous que le fléau est
tombé sur ce pays. Nos évêques mènent carrosse, ils ont des milliers de
ducats d’appointements, et pendant ce temps les simples prêtres volent
l’Église et exploitent le peuple I» Je m’étonnais de cette franchise et
du ton apocalyptique de ses malédictions, quand je me rappelai son
habit de mendiant: — «Et votre couvent, lui dis-je, a-t-il beaucoup
souffert? — Voyez, nous n’osons plus y dormir. Ce n’est pourtant pas
qu’il ait été beau, tout y est simple. Ce n’est pas comme chez les
évêques. nous vivons de pauvreté, nous. — Vous voulez dire d’aumônes? —
Oui, c’est nous qui sommes les vrais prêtres; il n’y a que notre ordre
qui vaille quelque chose.» A deux jours de là je me plaignais à un
jeune ecclésiastique des vols commis par ses confrères dans les deniers
de la charité étrangère. — «Oh! sans doute, me dit-il, il y a de
mauvais prêtres; tenez: ceux de Saponara sont devrais fripons, ils ont
des femmes dans leurs maisons; ils ont perdu le ministère; à preuve que
deux confesseurs de l’ordre des Passionistes, étant allés à Saponara
pour confesser les gens, ont dû s’en retourner sans avoir fait
d’affaires (sic), parce que le peuple ne veut plus avoir à
traiter avec des gens qui tiennent des prostituées chez eux (je cite
textuellement). Mais il n’en est pas de même des prêtres de Viggiano.
Pour nous, nous sommes irréprochables.»
Je savais à quoi m’en tenir sur cette dernière affirmation.
Le curé de la ville, d’accord du reste avec la commission municipale,
avait fait distribuer à ses parents et amis dix, quinze, vingt ducats
de notre argent à la fois, réservant quelques petits carlins aux
véritables pauvres. Aussi la conscience de ces messieurs n’étant pas
fort à l’aise et leur faisant craindre des réclamations de ma part, on
eut soin, quand je partis du pays, seul sur mon mulet et suivi de mon
guide, d’envoyer à ma rencontre le jeune ecclésiastique dont je viens
de parler et par les menaces de qui on comptait bien m’intimider.
Il était monté sur un vigoureux cheval et portait un beau fusil
double. Sa ceinture cachait mal un grand poignard; son tricorne penché
de côté laissait voir une assez belle figure. De toute sa personne
s’échappait je ne sais quelle crânerie ou quelle bravade. Je crus voir
un abbé de la Régence, travesti en brigand calabrais. C’est à la
jonction de deux chemins qu’il se présenta tout à coup à moi: son œil
étincela, il m’attendait évidemment. Il tenait son fusil sur son genou
et jouait négligemment avec la détente. Son habit de prêtre ne
m’empêcha pas de chercher mes armes au fond de mes poches. C’est en
celte attitude amicale que nous nous abordâmes. Avec un art tout
italien, il sut adoucir sa voix; elle ne devint rude que lorsqu’il me
demanda si j’étais content des prêtres de Viggiano. nous marchions côte
à côte, toujours nous épiant du coin de l’œil. La réponse était
difficile à donner. Je n’aime pas faire des suppositions peu
charitables; mais ce fusil, ce poignard, cet œil menaçant, joints aux
avertissements mystérieux que j’avais reçus de quelques personnes sur
la route, me faisaient penser qu’on employait là des moyens
d’intimidation. Je me tirai d’affaire en disant (ce qui était vrai) que
«j’étais moins mécontent des prêtres de Viggiano que de ceux de
Saponara.» Le fusil fut désarmé et alla rejoindre l’épaule du
prêtrechevalier. Notre conversation devint si intime que mes pistolets
s’endormirent dans ma poche. Le gentil petit poignard d’un pied de long
fut tiré de sa gaine, mais seulement pour déboucher un flacon de
ratafia auquel je me gardai bien de goûter. nous nous séparâmes bons
amis, à la jonction de deux chemins, ce qui ne m’empêcha pas de
l’observer de l’œil, jusqu’à ce qu’une portée de fusil nous séparât
pour toujours; tant j’avais de regret de le quitter! Je pourrais le
désigner assez clairement pour le faire reconnaître, mais je préfère
dire qu’il n’est pas de Viggiano même.
Ces bons prêtres! ils m’ont fait jouer à Viggiano un rôle
assez bizarre, dans une sorte de comédie que je ne puis me dispenser de
vous rapporter comme trait caractéristique du pays.
Il n’y a qu’une seule église debout à Viggiano. C’est une petite
chapelle quadrangulaire consacrée à Santa-Maria del mondo (ne pas
confondre avec les autres Saintes-Maries!). Le premier dimanche de
septembre, plusieurs milliers de personnes viennent de tous les coins
du royaume y faire leurs dévotions. Elle n’a de rivale, prétendent ses
desservants, que la chapelle de Monte-Virgine, à moins que ce ne soit
celle de St.Janvier L’autel a cela de particulier qu’on le transporte
tous les ans, pour quatre mois, sur une montagne à six milles d’ici.
Les offrandes doivent être fort riches, car la chapelle pèche par le
trop d’ornements. Le dôme de la coupole en est surtout surchargé. On
nous montra, à gauche en entrant, un autel où un ange de bois, suspendu
à l’arceau, soutient de son bras débile, devinez quoi? une énorme
poutre; oui, une solive tombée du plafond dans la nuit néfaste, et qui,
— avec l’aide des sacristains, j’imagine, —est allée se dresser
précisément entre les bras du chérubin, et sans les casser encore!
Jugez de la grandeur du miracle! L’évêque de Potenza a défendu qu’on la
retirât et la piété de la province aura un sujet d’édification de plus.
Si un ange pouvait être canonisé, celui-ci le serait bientôt; mais ce
n’est pas lui qui a accompli ce prodige, c’est évidemment St. Prosper,
de qui les reliques reposent sous cet autel, n’en doutez pas; pour
preuve on vous montre sa tête, une tête de cire que le bon peuple adore
comme de la chair miraculeusement conservée.
Mais ce n’est pas là qu’est la merveille de céans. Un
sacristain complaisant me demande si je ne voudrais pas voir la madone.
Voir la madone! assurément; une madone en bois — en bois doré — du
troisième siècle — avec l’enfant Jésus sur ses genoux. Elle a été
trouvée providentiellement par des prêtres (toujours par des prêtres),
sur la montagne voisine, à l’endroit même où on la fait habiter quatre
mois par an, parce qu’elle tient beaucoup à cette villégiatura.
Je ne savais pas quelle faveur on me faisait là. Le bon peuple le
savait mieux que moi, car il accourut enfouie; et comme la madone
s’indignerait fort si on découvrait sa glorieuse figure sans réjouir
ses oreilles d’un chant de circonstance, j’entendis, au tirer du
rideau, une affreuse cacophonie de voix d’enfants, de femmes, de
prêtres, tous agenouillés, qui entonnaient la litanie habituelle. Je
crus d’abord que la statue s’indignait de ce que je ne m’agenouillais
pas comme les autres, car elle me regardait avec de grands yeux
flamboyants et tout ronds. Mais je fus rebelle et restai debout, le
carnet à la main, prenant des notes. Il faut croire que mon sang-froid
redoubla sa colère, car elle inspira à ses adorateurs un refrain assez
sauvage et dans lequel on suppliait la vierge d’avoir pitié des
hérétiques. Or, pour ce bon peuple, tous les étrangers sont anglais, et
tous les anglais hérétiques. Aussi les yeux de toute l’assistance
étaient-ils braqués sur moi: les prêtres agenouillés à l’autel
tournaient la figure de mon côté, comme pour me dire «c’est à vous, au
moins, que ce discours s’adresse.» Et la litanie reprenait: ayez pitié
des hérétiques! Exterminez-les!»
Quelle pitié bon Dieu! Pour moi qui ne me sens pas très
hérétique, je n’avais pas peur; et pourtant ces regards me gênaient. Il
me venait aussi comme des velléités d’un fou rire en songeant à la
colère de cette madone aux bras roides, aux gros yeux, couronnée d’un
diadème d’or et de pierres précieuses. L’enfant surtout m’avait Pair de
mauvaise humeur; soit qu’il eût pleuré, soit que ma présence lui eût
déplu, ses joues étaient toutes rouges; je pris donc le parti de me
soustraire à l’extermination, en faisant une retraite honorable, non
sans laisser pourtant mon offrande au sacristain. Voilà, pensai-je en
moi-même, un singulier vœu en faveur d’un homme qui porte du pain aux
affamés.
LETTRE XVI
Cas de sauvetage
Vous me demandez des récits de malheurs privés; allons, je vois bien
que vous êtes, comme les grands enfants et les jeunes femmes, désireux
d’émotions, chercheur de petits drames. Pourtant, à moins de vous faire
nn roman, je ne vois guère le moyen de vous satisfaire. Quand la terre
tremble et que toutes les maisons tombent, les épisodes sont toujours
des écrasements, des meurtrissures et des morts. Que saurez-vous de
plus quand je vous aurai cité Leon Gailard, musicien parisien établi à
Viggiano et qui a péri avec femme, fille, gendre, petits-enfants, sauf
une petite-fille de trois ans, et un fils 3ui réjouissait peut-être au
même moment les habitants e Paris par de gais refrains? Ou quand je
vous aurai dit qu’une Piémontaise est morte avec son mari? Les morts ne
racontent pas leur histoire.
Mieux vaut donc vous rapporter les cas de sauvetage dont j’ai pu
consigner l’histoire sur mon calepin. Je les tiens pour la plupart du
chancelier de l’endroit qui en avait tait un rapport détaillé au
gouvernement. Si donc vous y trouvez des circonstances extraordinaires,
attribuez-les plutôt à l’étrangeté du phénomène qu’à l’exagération
italienne dont j’ai tenu compte.
Le pharmacien Vincenzo Demuto me raconta qu’à la première secousse
il sortit de son lit avec sa femme, chacun se saisissant d’un vêtement.
Mais la seconde secousse le jette avec sa chaise au milieu de la
chambre; en même temps, les poutres du plafond effondré lui laissent
voir le ciel, et il se trouve, on ne sait comment, sous l’arceau de la
porte, en sûreté. La pharmacie n’échappa point, on le pense bien, à la
destruction; et c’est avec un attendrissement un peu comique que le
pauvre homme me montrait d’en haut des fragments de ses bocaux brisés,
et ses drogues éparses. Son confrère de Tito a été plus heureux:
enfermé dans sa boutique par des éboulements, il en a été quitte pour
vivre de drogues et de sirops pendant plusieurs jours. A l’heure de la
délivrance il lui en restait encore assez pour médicamenter toutes ses
anciennes pratiques. Tel est le thème ordinaire des sauvetages dont on
m’a fait le récit, à moins qu’on ne me dît à peu près: La femme d’un
gardien a été déterrée ici après huit jours. On trouva un enfant mort
suspendu à son sein. Elle vit encore. Mais voici qui vous surprendra et
vous intéressera davantage: Un jeune homme de vingt ans est jeté avec
son lit à une portée de fusil, il retombe sur sa couche, sans
contusion, se relève et court à tâtons déterrer son père, sa mère, ses
frères, deux de ses sœurs. La joie de la famille eût été complète si la
troisième sœur n’eût péri. Mais il raconte, comme une disposition
providentielle, ce saut sans danger qui l’a conservé pour être le
sauveur des siens.
La famille de Blasis habitait le quatrième étage d’une maison
qui en avait cinq; le quatrième s’effondre sur le troisième, puis le
troisième sur le deuxième, et tous les membres arrivent ainsi sains et
saufs jusqu’au premier (ce qui veut dire le rez-de-chaussée en Italie).
Qu’on juge de leur étonnement! Raffaële Messina, goutteux du pied et
des mains, habitait le troisième étage, le mur d’occident tombe et lui
avec. La terreur lui délie bras et jambes; il se retrouve intact sur
ses pieds, et, la crise de ses douleurs étant subitement arrêtée, il
court porter secours aux autres, lui qui auparavant n’avait pu marcher.
Un tremblement de terre agit toujours beaucoup sur les nerfs. Je l’ai
éprouvé moi-même.
Catlarina Nicolina était près de sa cheminée. Elle s’y jeta toute
tremblante. La secousse emporta la cheminée avec elle, et elle s’y
trouva, comme dans une boite, sur l’emplacement d’une habitation
voisine.
Cattarina Messina étant sortie dans la rue, fut emportée par la
seconde secousse dans la maison d’en face, mais à un étage supérieur où
elle se trouva enterrée jusqu’à micorps. Elle criait: au secours 1 et
n’était pas blessée. Comment elle était entrée là, elle ne savait
l’expliquer; mais évidemment elle avait été jetée de bas en haut dans
l’habitation voisine où elle est entrée parle toit effondré, sans
doute, pêle-mêle avec les matériaux qui ont failli l’enterrer tout à
fait.
Un frère embrasse sa sœur; tous deux se trouvent ensevelis,
lui au-dessus d’elle, mais à fleur de terre. Il était couché sur le
visage. Malgré cette position incommode, il parvint à dégager un bras
et à rejeter quelques pierres. Profitant habilement des petites
secousses qui se succédèrent toute la nuit, il dégagea l’autre main,
puis le haut de son corps, à force de rejeter les pierres, néanmoins
l’un et l’autre durent attendre sept mortelles heures qu’on achevât
leur délivrance.
La femme du musicien Prospero Magrone, qui a habité cinq ans la
France, se jette de terreur du troisième étage (deuxième italien) et
tombe sur ses pieds sans se faire une égratignure.
Vincenzo S. Lorenzo, musicien, tombe avec un troisième étage, la
tête en bas; il est retenu par des matériaux qui lui serraient la tête,
et des poutres qui le suspendaient par les pieds. Que faire dans une
telle position? A force de se débattre, il parvint à ôter une pierre
voisine de sa tête, mais inutilement. Au deuxième jour, désespéré, il
voulait abréger ses souffrances en se brisant la tête. Mais il ne put y
réussir faute d’espace. Vers le soir on le tira d’embarras.
Gerardo Albano donna un touchant exemple d’amour paternel et
de persévérance. Il habitait le quatrième étage, la devanture de sa
maison tombe et lui avec. Il avait saisi sa petite fille de 4 ans entre
ses bras. Pour la protéger, en tombant, il la tint sous son estomac.
Les mains et les genoux en avant, il soutint le poids des pierres qui
le couvraient, et eut la constance de rester, — peut-être forcément du
reste, — dans cette position désespérée jusqu’au lendemain où on les
trouva vifs tous les deux.
Dona Béatrice Stella est précipitée de haut avec ses enfants
sur une maison au-dessous. Tous se tuent, sauf une petite fille qui,
abritée par le corps de sa mère, vécut 4 jours ainsi. L’abbé, frère de
l’enfant, vient de Marsico, déblaie les décombres;.et voyant sa mère
immobile, s’écrie: «Ah! mère tu es morte! — Non, crie une petite voix,
je suis vivante, et maman dort.» Une autre fille de la même dame, âgée
de 12 ans, dormait dans la pièce voisine; elle s’assied sur son lit,
les poings sous le menton, tremblant de peur. Des solives tombent sur
elle, mais sans l’écraser. Elle resta ainsi trois jours. Enfin on
l’entendit gémir. On l’en lira toute bleue de froid et de meurtrissures.
Vincenzo Nicola tomba avec sa fille près de l’égout qui donnait
écoulement aux eaux de la maison. Il respirait par là. Sa fille sous sa
poitrine, les mains appuyées contre la muraille, il soutenait le poids
de huit palmes de matériaux. L’enfant lui criait: «J’étouffe,
laisse-moi respirer!» Le lendemain, en faisant une fouille, on le
soulagea d’une partie des décombres. Il tira un bras, puis la tête. Lui
et sa fille sont vivants, sinon bien portants.
Un malheureux reste couché sur le dos, l’épine dorsale brisée. La
toiture tombe, et il se trouve dans l’angle formé par des charpentes.
Il vivait encore deux mois après.
Vincenzo Massimo à qui j’ai eu l’occasion de parler longuement, a
sauvé sa femme qui, pourtant, est restée paralysée des deux bras, sa
mère qui a eu une jambe cassée, ses deux enfants dont l’un a la tête
meurtrie. Le pauvre homme est venu depuis me trouver à Naples, où il
cherchait du travail comme tailleur.
Vous le voyez, par tous ces exemples, les sauvetages 3ui ont eu lieu ont été faits par hasard,
ou par des gens il pays. Aucun secours ne fut porté du dehors; pas un
soldat n’arriva à temps pour aider aucun de ceux que je viens de citer.
Et, par la durée de leur martyre, on peut juger du nombre de ceux qui
ont expiré lentement. Presque partout, en appliquant l’oreille aux
ruines, on entendait ce gémissement: Ah! ah! ah t Un dernier fait, dont
mon esprit a été vivement frappé. vous donnera l’idée de ce qu’on
aurait pu faire en des milliers de cas par un prompt secours. Pasquale
Negri habitait un étage inférieur; les plafonds s’effondrent sur lui,
et le malheureux se trouve pris entre trois poutres, dont l’une le
presse sous le bras droit, et les deux autres sur les deux épaules. Du
reste, point de blessures. Le troisième jour on l’entend gémir; on
arrive, on examine; mais les trois poutres enchevêtrées ne permettent
pas de l’arracher à cet étau. En couper une? mais le plafond se serait
écroulé aussitôt sur lui et sur ses libérateurs. On n’ose rien toucher,
on l’abandonne en désespoir de cause. Le quatrième jour on retourna;
môme embarras, même résultat. «Mais au moins donnez-moi du pain! de
l’eau! je ne suis pas blessé, j’attendrai, on peut me sauver.» On
l’aurait pu sans nul doute, si des centaines d’infortunés n’eussent pas
appelé au secours à la même heure, ou si l’aide fut venue du dehors.
Tous avaient faim; on lui porta un peu d’eau. Au cinquième jour il
était mort! Mais figurez-vous ces angoisses; figurez-vous surtout ce
qu’aurait pu faire pour lui et pour des milliers d’autres une simple
compagnie de militaires, —des militaires honnêtes, s’entend, — munis de
moyens suffisants, et capables de faire, en pareil cas, des soutiens à
des plafonds qui s’effondrent, autrement qu’avec le corps des mourants!
Il me resterait à vous dire ce que nous avons pu essayer de bon pour
Viggiano. Quant à moi, pressé par le temps, je n’ai pu que distribuer
aux affamés quelques aliments assaisonnés de beaucoup de promesses.
Mais mon ami, M. Major, y est resté de longues semaines; il a eu le
temps d’y bâtir, d’y distribuer des fonds, et même d'y être malade. Je
vais donc vous traduire, en les résumant, quelques-unes de ses lettres.
LETTRE XVII
M. MAJOR A QUELQUES AMIS - Toujours Viggiano
La première chose à faire quand on arrive dans un endroit où la
population couche presque en plein vent, c’est de se bâtir soi-même un
quartier général. Je fis donc élever une cabane de cinq pieds de large
sur dix de long. Pas un meuble, si ce n’est une table et un lit. A
côté, la caisse avec son gardien toujours armé; au milieu brûle pendant
la nuit un feu de grandes bûches. Il faut bien se conformer à l’usage
du pays quand on n’a pas le temps d’organiser une cheminée; mais, en
vérité, il y aurait de quoi dégoûter les adorateurs du feu, tant la
fumée est incommode. Quand le pontife attise les tisons, on s’éveille à
demi étouffé et l'on cache sa figure sous les couvertures pour ne
pas-être asphyxié complètement.
Au reste la soirée est égayée par des troubadours musiciens Les
pauvres artistes ont retiré des ruines des fragments de harpes, de
violons et de flûtes. Les instruments restaurés s’acquittent pour le
mieux de leurs fonctions, et les concerts qu’on me donne brillent par
le sentiment de la reconnaissance autant que par l’harmonie. Souvent
les mélodies prennent le caractère de la tristesse; ces pauvres gens
semblent préférer le mode mineur, comme s’ils imploraient la pitié. Ne
nous en étonnons guère; les économies de leur vie entière sont à jamais
perdues, et l’un d’eux même est encore couvert du sang de sa femme,
auprès de laquelle il est resté trois jours enseveli.
Avant de se coucher, on fait une sortie, on ramasse les
enfants à demi endormis qui se meurent auprès des feux éteints ou qui
crient encore de froid. On les rassemble dans une baraque bien
chauffée; les pauvres petits semblent s’étonner de cette sympathie à
laquelle on ne les a pas habitués; ils cessent de pleurer et se
réveillent de leur engourdissement, mais c’est pour demander un morceau
de pain.
Avec le jour commencent les travaux. Dès le matin, on songe à
nourrir les pauvres. Deux, trois ou même quatre grands chaudrons de
macaroni sont mis devant le feu. C’est le déjeuner de la bande, puis on
tue un cochon, on en sale le lard qui est distribué par familles, on en
cuit les meilleurs morceaux. Un âne chargé de pain vient de l’endroit
le mieux fourni en comestibles. Midi sonne, grande distribution de
soupe et d’aliments. Il faut entendre quel vacarme, alors! Mon
domestique, le gendarme même doivent en venir aux coups pour mettre à
la raison ces affamés. Des disputes en résultent. Les cris (des cris
tels qu’il n’en sort que des gosiers napolitains) font croire à des
égorgements. Enfin chacun a reçu son assiettée de soupe, une livre de
pain, et une demi-livre de viande Quand le soir arrive, on est épuisé
de fatigue, assourdi des clameurs du jour, découragé de tout. On jure
que c’est bien pour la dernière fois qu’on donne à manger à un tel
public. Mais ces gens ont faim et le lendemain on recommence.
D'ailleurs, Luciano, mon valet de chambre, cuisinier et factotum, n’est
pas insensible à la flatterie. Les fatigues lui semblent plus légères
quand il s’entend appeler: don Luciano. On lui ferait faire des
prodiges et oublier les taches dont on couvre sa jaquette, si seulement
on le gratifiait, comme son maître, du litre d’excellence.
Pendant que le bon peuple mange et digère, les charpentiers
sont à l’œuvre: Louer l’emplacement d’un grand jardin, faire constater
cette location par-devant notaire afin d’éviter les chicanes des uns et
les malversations des autres; diviser ce terrain en un certain nombre
de lots et construire dans chaque compartiment une petite cabane où
puisse s’installer une famille entière qui doit se trouver ainsi munie
pour deux ans d’une habitation et d’un jardin potager, ce n’est pas
petite affaire dans les conditions ou se trouve le pays. Neanmoins les.
habitants se prêtent avec empressement à l’achèvement de l’œuvre; des
mulets chargés de planches arrivent de tous côtés, les marchands même
nous les vendent à meilleur marché qu’aux ingénieurs du gouvernement;
et nous pouvons faire beaucoup avec peu d’argent.
Ceux-ci, pourtant (je parle des ingénieurs ou plutôt des agents du
pouvoir), se sont piqués d’amour propre. L’intendant ou sous-intendant
est venu ici et, sous prétexte de me donner moi et mes cabanes en
exemple à ses subordonnés, il s’est mis à me couvrir de louanges. Il
est certain que je fais mieux qu’eux, mais je ne crois pas ses
flatteries très sincères. Les autorités donc se sont mises, je ne dis
pas à l’œuvre, mais aux projets; les ingénieurs ont été invités à
faire.... devinez quoi? des dessins! Des dessins, comprenez-vous, quand
la population meurt de froid et que la moindre planche, tant bien que
mal clouée sur quatre pieux serait un secours providentiel! Il en est
venu de Naples, on en a fait ici; mais tous ces beaux plans restent
dans les cartons, tandis que nos baraques s’élèvent, se couvrent et
reçoivent déjà à l’abri nombre d’infortunés. En y installant les
familles, nous avons soin d’imposer à chacune d’elles, comme loyer,
l’obligation d’entretenir un orphelin.
Avant de partir je déclarerai que ces cabanes sont bien et dûment ma
propriété, afin que nul ne puisse y toucher, car je me défie toujours
des petits peuples et ' de ceux qui les mènent.
LETTRE XVIII
Une énormité de plus
Permettez-moi, mon cher Émile, avant d’aller plus loin, de vous dire
ce que sont devenues ces baraques. M. Major est retourné à Viggiano en
février 1859„ porteur de nouveaux secours. Il a cherché les cases qu’il
avait élevées de ses propres mains, elles avaient disparu! Qui a commis
ce délit? Voici le fait: Déjà pendant le séjour de notre ami, et
presque en sa présence, les agents du pouvoir avaient menacé plusieurs
personnes de les faire emprisonner à la première occasion, si elles
acceptaient l’hospitalité d’un étranger, d’un Anglais, d’un ennemi du
gouvernement. Vous vous souvenez peutêtre qu’à cette époque les
ambassadeurs français et anglais avaient quitté Naples, à la suite
d’une querelle avec l’incorrigible Ferdinand II. On nous faisait donc
l’honneur de nous supposer espions. On nous prêtait des projets de
révolution, de socialisme! nous étions envoyés évidemment par nos
gouvernements respectifs pour soulever les populations. Nos aumônes
n’étaient que de la corruption. Et chaque cuillerée de soupe que nous
mettions dans la. bouche de ces vieillards et des ces femmes, était
destinée à susciter des ennemis à Sa Majesté. Toutes ces absurdes
suppositions n’étaient pas même crues de ceux qui les faisaient. On
voyait bien assez que nous ne parlions jamais de politique; mais on
agissait envers nous comme si elles étaient fondées. Et voilà ce qui
fait qu’après le départ de M. Major, les menaces redoublèrent contre
les infortunés qui avaient cherché dans ces cabanes une ressource
contre le froid. Elles finirent par porter leurs fruits. Quelques
baraques furent abandonnées; les insinuations des juges, du syndic, du
chancelier peut-être, firent évacuer les autres. En définitive, elles
furent démolies une à une. Qui en a pris les planches? qui en a volé
les matériaux? Dieu le sait. M. Major a bien été tenté, il est vrai, de
mettre la chose au clair en instruisant un procès; mais cette
entreprise ne pouvait pas mener à grand chose. Je n’en ai plus entendu
parler. A quoi bon, d’ailleurs? Il nous suffit de savoir de quelle main
est venu le coup.
Telle fut donc la charité du gouvernement qui jusqu’ici a
régi ces contrées. A Dieu ne plaise que nous croyions de tels ordres
venus d’en haut; mais ceux qui étaient en haut laissaient faire. Ils
n’employaient pour agents que des âmes vénales à eux vendues et
capables de tous les crimes pour appuyer l’autorité. On ne demandait
pas aux employés: êtes-vous honnêtes? mais bien: êtes-vous royalistes?
Qu’y a-t-il d’étonnant à ce que de tels instruments fissent parfois un
service plus rude que le roi ne le voulait? Ils devaient souvent faire
le mal qu’on ne leur demandait pas. C’est le propre des régimes qui
vivent de corruption, d’être mal servis par la corruption, en attendant
de périr par elle.
LETTRE XIX
MONSIEUR MAJOR A QUELQUES AMIS
Viggiano, avril 1858
La pluie est survenue et avec elle les maladies; des souffrances de
deux mois ont fait éclore les fièvres, comme une fleur digne du
tombeau, sur ces charniers empestés. Je n’ai pas pu y échapper, moi non
plus, et depuis quinze jours je me débats sous le fragile abri de ma
baraque, contre les illusions du délire. Je me suis senti bien souvent
heureux de pouvoir raffraîchir mon pauvre front qui brûle sous les
fentes ruisselantes de ma cabane, envahie par l’eau de pluie. Grâce à
Dieu, je me sens mieux; mais la difficulté a été de trouver des
remèdes, car pour le médecin, je n’en ai pas cherché d’autre que
moi-même. Comme on redoute encore plus mes rapports que ma présence, je
n’ose prendre des médicaments sans savoir d’où ils viennent. On
pourrait bien me faire passer du poison au lieu de quinine. J’ai été
assez inquiet aussi pour notre caisse de secours qu’on aurait bien pu
enlever pendant ma maladie. Je n’achèverai donc pas tout ce que je
comptais faire ici. Pourtant j’ai eu le temps de faire quelques courses
dans les villes du voisinage.
C’est ainsi qu’à Savrone je me suis trouvé distributeur
d’aumônes dans des conditions assez pénibles. Pour me punir d’avoir
voulu donner mes fonds de ma propre main, les autorités locales m’ont
laissé aux prises avec la rapacité d’une populace sans frein. Je
m’étais installé dans une église à moitié écroulée, une foule acharnée
m’entourait. Je venais de livrer déjà 60 piastres. Il m’en restait
vingt, à qui les donner? Tous les voulaient à la fois.^On metsaute sur
les épaules, on me saisit par le bras^on me prend comme d’assaut.
Heureusement je ne suis pas faible; me levant tout à coup je secouai
mes assaillants; ils tombèrent à la renverse comme des fruits tombent
d’un arbre. J’en profitai pour exhiber mes gros revolvers à six canons,
dont la vue calma subitement leur impatience.
Il faut la faim pour excuser de telles obsessions. Mais n’y a-t-il
pas un rapprochement douloureux à faire entre la population de ces
lieux et la grandeur de ses ancêtres? Ici était une ancienne colonie de
Grumentum. Là où jadis les Romains poursuivaient les restes de l’armée
d’Annibal, et où tant de milliers d’habitants vivaient dans l’aisance
sous la domination du peuple-roi, un étranger qui survient, la bourse à
la main, ne trouve plus qu’une bande de mendiants imposteurs. La terre
et le ciel sont pourtant les mêmes, mais la mauvaise administration a
porté la ruine là où régnait l’abondance. C’est un pays qui n'a rien
gagné à l’événement du christianisme. Vous voyez ce que ce peuple
ancien est devenu sous l’influence de la superstition et de
l’oppression.
Rien n’est plus navrant que l’idée de ces décadences
produites par les siècles, si ce n’est peut-être la ruine subite de
familles opulentes. Dans cette même ville de Saverne, le château a une
famille noble s’est écroulé en Sartie. Le père, en accourant pour
secourir ses deux lies, a été surpris’ par la mort. Les deux pauvres
demoiselles habitent depuis ce temps un des coins d’une chambre dont la
moitié s’est abattue. Elles y sont exposées au froid et à la pluie,
assiégées par la misère et l’abandon. Leur gouvernante leur est seule
restée fidèle. Leurs yeux en larmes semblent implorer la pitié. Elles
ont failli mourir de faim, tant on les a oubliées. Et il a fallu qu’une
main étrangère fit l’aumône de quelques piastres aux descendants de
quelques fiers barons ou marquis!
L’abandon c’est ce dont semblent se plaindre des centaines de personnes accourues de Spinola,
par exemple. Elles ont fait huit milles pour venir réclamer ici
quelques morceaux de pain. Quelle scène! Hommes et femmes dans des
costumes bizarres, parfois dignes de sauvages. On se précipite à mes
pieds, on me baise les mains, on m’embrasse les genoux. Ce sont des
larmes, des supplications, des plaintes. Jamais madone ne reçut un
culte aussi passionné. Et quand l’offrande de la charité étrangère a
répondu à leurs espérances, il faut entendre les bénédictions et les
vœux! C’est un déluge d’adulations où le mot d’ange est le moins
hyperbolique des noms gui me pleuvent sur la tête. Il n’en est pas
toujours ainsi: j’ai souvent à me défaire, par la vigueur, des
obsessions et de l’opiniâtreté de certaines gens. Quand je fais des
cabanes, on me demande de l’argent; et quand je distribue des vivres,
on me supplie pour avoir un abri. Il faut de l’énergie et surtout de la
patience.
La plus curieuse des suppositions qu’ont faites sur moi les
habitants de Viggiano, fut celle qu’accrédita un musicien. Le pauvre
homme avait traîne longtemps sa harpe dans les rues de Londres et y
avait entendu parler du lord-maire avec un grand respect. Aussi un
prêtre, à qui il avait, j’imagine, confié ses doutes, vint-il
respectueusement me demander si je ne serais pas moi-même ce grand
personnage en chair et en os. Agréez donc les salutations du lord-maire
de Viggiano.— Pour compléter les détails donnés par cette lettre,
permettez-moi d’y ajouter que, sans se laisser décourager par les
tribulations essuyées, M. Major est retourné en Basilicate un an après,
avec de nouveaux fonds. Dans cette seconde tournée, il a imaginé de
mettre en train une briqueterie à Saponara, employant pour cela 800
ducats, il a de plus organisé un comité de secours composé du notaire,
du seul honnête prêtre de la ville, et. d’un orfèvre qui a été fait
caissier.
Cette ville manquait aussi d’une pharmacie. Il a donc
construit et garni la boutique d’un malheureux jeune homme, qui avait
été conquérir ses grades à Salerne, en vivant littéralement de deux
grains par jour, faute de ressources. Rare exemple de persévérance qui
a été bien récompensé.
Enfin, à Brienza, notre ami prit le parti d’empiéter sur les
attributions d’un gouvernement paresseux, en organisant le tracé d’un
tronçon de route. Les paysans y mouraient de misère, faute de travail,
vu la saison d’hiver. Une compagnie de propriétaires qui avait commencé
un chemin devenu nécessaire à l’écoulement annuel de leurs produits, ne
pouvait l’achever, faute de fonds. On leur remit donc un millier de
ducats, pour qu’ils pussent momentanément procurer du travail aux
pauvres. La charité de nos amis a couvert tous ces frais.
Il est d’ailleurs impossible de ne pas délier les cordons de sa bourse en face de telles misères.
LETTRE XX
Marsico
Vous voulez donc que je vous raconte la fin de mon excursion. Vous
devriez pourtant être aussi fatigué de mes lettres que je l’étais de
mes courses en quittant Viggiano.
C'est près de là que je rencontrai, il vous en souvient,
l’abbé-chevalier qui me demanda si gracieusement ce que je pensais de
lui et des siens.
Je passai dans une ferme où m’attendait le pharmacien Decunto, qui
me montra les dégâts essuyés par sa propriété rurale, et ses bœufs
encore effrayés. A la première secousse, les pauvres bêtes sont tout à
coup tombées à terre de terreur; elles soufflaient si fort que les gens
de la ferme ont été plus frappés de leur épouvante que du tremblement
de terre. A la deuxième secousse, tous les animaux se sont relevés
subitement comme par un mouvement mécanique. Ils se sont débattus si
bien, qu’ils ont brisé leurs attaches; la porte s’étant ouverte, * ils
ont pu s’enfuir au loin. L’une des plus grandes pertes essuyées par les
paysans est celle des troupeaux de porcs qu’ils élevaient en grand
nombre.Je passai sous les escarpements de Marsico Vetere, ancienne
cité suspendue comme un nid de vautour aux flancs des rochers. Cette
position hardie lui a été funeste. Le château, en particulier, qui
surplombait l’abîme, a roulé au fond du gouffre, avec ses nombreux
habitants. Tout un quartier l’a suivi dans sa chute. Et vraiment c’est
un saut effroyable, si j’en juge par la hauteur des escarpements.
J’ignore le nombre des victimes, la ville comptait 3500 âmes.
Marsico Nuovo, qui se présente un peu plus loin, avec des
dômes, des monuments encore debout, en contient environ 9000. Il y a eu
peu de victimes, mais 420 maisons sont à bas. Les habitants me
racontent comme un miracle l’exhumation d’un enfant de six mois, qui a
vécu deux jours sous terre, et celle d’un enfant de sept ans, qui a
échappé à quatre jours de sépulture.
Avant de dire adieu au bassin qui a été témoin de tant de misères,
jetons un coup d’œil sur Paterno. C’est un pauvre hameau dont toutes
les maisons sont à bas, mais qui n’a pas l’air si désolé que les
villes, parce qu’il est pour ainsi dire dissimulé sous les richesses
d’une campagne fertile et au soleil d’une riante exposition. Combien il
est vrai que l’homme était fait pour la vie des champs! Dans la
campagne, les misères sont moins sensibles; le paysan se tire toujours
mieux d’affaire, soit que des habitudes plus dures et plus frugales lui
permettent d’échapper à quelques-uns des besoins qui torturent les gens
des villes, soit que la terre, cette bonne mère, lui fournisse toujours
quelque racine oubliée. Il est certain que ces bonnes gens ne mendient
pas, et se contentent de travailler quand j’approche, ce qui est chose
peu ordinaire dans cette patrie de la mendicité.
Je ne voudrais pas vous raconter des épisodes ordinaires à tous les
voyages. Il n’est pas sans intérêt pourtant de voir ce que sont les
communications entre Marsico et le reste du monde. nous voulons
regagner Padula, il faut de nouveau escalader la chaîne. Mon guide
m’assure que nous suivons un chemin; pour moi, je ne vois rien que des
rochers d’abord, des ravins ensuite, puis de la neige dont l’épaisseur
augmente à mesure que nous nous élevons. Bientôt mon mulet lui-même ne
flaire plus son sentier sous cette couche glacée. nous errons une heure
avant de rencontrer âme qui vive. Enfin, au détour d’une gorge, voici
le squelette d’une cabane qu’un jeune homme et une vielle femme
s’efforcent de relever. D’où venezvous? pourquoi venezvous? que
voulezvous? où allezvous?» Ces rudes natures, vous le voyez,
s’arrangent mal de ce que nous appelons la discrétion.
L’étranger est souvent blessé de ces interrogations naïves
que lui adresse sans gêne le dernier des mendiants. Mais on s’y fait à
la longue, surtout quand on sait que ne pas répondre, c’est manquer aux
lois de la politesse locale, et que remettre les indiscrets à leur
place, ce serait n’être pas compris ou tomber dans le ridicule.
Mais dans ces montagnes la défiance se joint à la simplicité; et ce
n’est pas sans rire que j’exhibai par avance le pourboire que le
rustique habitant de ces tas de neige voulait voir et toucher avant de
nous indiquer la route. Mais, 6 pouvoir de ce métal magique
dont les bons rois de Naples ont fait des carlins! il est à croire que
notre gros garçon n’avait jamais possédé d’argent blanc, car à peine en
eut-il touché que sa défiance disparut, son immobilité béate fit place
à un risible empressement. Il saisit sa hache, la dresse
belliqueusement sur son épaule, et, le chapeau sur l’oreille, s’avance
à grands pas. Ni le mulet ni moi ne pouvons le suivre. Je ne sache pas
avoir fait une course plus pittoresque ni plus hardie que cette
poursuite échevelée d’un sauvage conducteur. Torrents, glaces, rochers,
rien ne peut retarder sa marche; mulet et cavalier ont beau rouler dans
les bas-fonds, s’enfoncer dans les tas de neige, il ne s’arrête point
pour si peu. Mais ce n’était qu’une chaîne à traverser, et cette riche
nature italienne a cela d’heureux qu’elle change à cha3ue pas comme par
enchantement. nous n’eûmes pas escendu deux heures que le versant
méridional étala à nos yeux ses bois touffus de chênes toujours verts,
où. déjà les fleurs s’épanouissaient sous des gazons renaissants.
Je repassai donc, sans m’y arrêter, à Padula et à son couvent de chartreux.
Si vous n’étiez pas fatigué de mon verbiage, je vous installerais
avec moi dans une auberge croulante au bord de la route, pour y
attendre la voiture publique (car il y en a une!) qui doit passer dans
la nuit. Je vous promènerais de chambre en chambre pour vous faire
choisir comme abri celle qui a les moins larges lézardes, celle où le
vent et la pluie entrent le moins fort. Effrayé à l’idée de dormir sous
ces menaçants plafonds, vous reviendriez avec moi autour du classique
foyer, pour prendre part à la conversation qui s’est engagée entre un
moine franciscain et un avocat du pays. Les paysans, au nombre d’une
vingtaine, remplissent tous les coins de la salle voûtée; ils écoutent,
bouche béante. Le moine, jeune et beau garçon, qui a professé quelque
temps à Rome, soutient une étrange thèse: «Il faut, dit-il, qu’un
prêtre ait passé par tous les vices de l’humanité, pour être capable de
bien confesser et de bien diriger les pénitents. — Et c’est pour cela,
sans doute, que vos semblables donnent de si édifiants exemples? — Non,
mais cela doit vous montrer que nos vices ne nous rendent. pas indignes
du ministère.»
L’avocat avait la vérité pour lui, mais je m’étonnai de voir qu’il
n’avait pas pour lui l’assentiment de l’auditoire. En effet, le moine
parlait bien et très-haut. Il soutenait sa thèse avec une dramatique
effronterie, et souvent j’observais les signes d’approbation que de
naïfs campagnards donnaient à son débit. Une femme, particulièrement,
l’applaudissait de la bouche et des mains; elle portait un petit enfant
dans ses bras: «Est-il à toi? lui demanda le moine. — Non, mais je vais
le porter à Naples, à l’Annunziata (établissement d’enfants trouvés). —
Ah f c’est un bâtard, est-il baptisé? — Pas encore. — Scélérate! tu
veux donc t’exposer à perdre l’âme de cet enfant, s’il mourait sur la
route, sans baptême?»
Et son œil s’enflammait, un saint zèle illuminait sa figure;
on l’eût pris pour un prophète si sa précédente conversation n’avait
pas rendu toute illusion impossible. Tout à coup il se ravise, empoigne
une cruche d’eau, en avale une gorgée; puis, entre deux jurons, se met
à baptiser l’enfant. La salière qu’il prit sur la table encore servie,
lui aida à remplir les rites de l’Eglise; le latin même n’y manqua pas,
et le monde compta un chrétien de plus! La patache nous emporta toute
la nuit sur l’unique roule de la contrée; nous revîmes dans l’obscurité
les silhouettes de Sala, de Pola et d’Auletta.
Le soir nous retrouvâmes Naples et un repos bien nécessaire.
Dans la capitale, du moins, le tremblement de terre n’a fait que
secouer l’indolence des habitants. On en a été quitte pour des scènes
de terreur, pour deux nuits Bassées en plein air, pour des rhumes
saisis au passage, n assure pourtant que jamais autant de sang n’a
coulé dans Naples, les indigènes ayant l’habitude de se faire largement
saigner toutes les fois qu’ils ont eu la moindre peur. Mais quand mon
souvenir se reporte en Basilicate, je ne puis m’empêcher de frémir; et
si parfois quelqu’un me parle de tremblement de terre, je me surprends
à tressaillir, moi qui avais ri comme bien d’autres de la panique des
Napolitains.
CONCLUSION
Notre excursion s’est terminée avec ces lettres, mais notre tâche
n’est pas achevée. En vain nous avons signalé, chemin faisant, la
négligence des autorités, la malversation des employés, le pillage des
soldats, l’inconcevable acharnement que les agents du pouvoir ont mis à
empêcher le bien que d’autres voulaient faire à leur place, nous
n’avons pas tout dit sur la charité de ce gouvernement qui vient de
disparaître, mais dont il reste encore trop de traces dans le royaume
pour qu’on puisse se faire beaucoup d’illusions sur l’avenir. C’est
encore par des faits que nous voulons nous faire comprendre.
Voici donc ce que notre ami, M. Major, a rapporté comme nouvelles du
second voyage en Basilicate, pendant l’hiver de 1859, c’est-à-dire un
an et quatre mois après le désastre; laissons-le parler.
«J’ai retrouvé le pays, dit-il, dans le même abandon qu’au
lendemain du tremblement de terre. Tel nous Pavons laissé, tel il est
encore. Nos aumônes n’ont pu être qu’une goutte d’eau dans la mer. Nul
n’y a rien ajouté. A peine y a-t-il çà et là quelques cabanes de plus,
œuvre de particuliers. Une chose seulement m'a paru nouvelle, c’est
l’accroissement effroyable de la misère. Les lambeaux de vêtements que
chacun avait retirés de dessous les pierres sont usés. Les dernières
ressources de la plupart sont complètement épuisées. L’année a mal
réparé les pertes faites, car la récolte a été fort maigre, comme vous
savez, et les petits propriétaires continuent à être plus gênés que les
ouvriers. La cherté du pain a réduit une partie de la population aux
dernières extrémités. Partout j’ai trouvé des familles dans un état de nudité complète.
En cherchant les misères les plus grandes, j’ai pénétré en particulier
dans une certaine cabane, dont j’ai dû sortir aussitôt pour épargner la
honte à de pauvres femmes absolument nues qui se cachaient dans un
coin. Elles n’avaient plus même un lambeau de vêtement et n’osaient se
montrer. Elles envoyaient seulement au dehors une petite fille et un
garçon qui essayaient de rapporter un peu de pain aux délaissées. Ainsi
se passe cet hiver (1859) pour ces malheureuses créatures. Et vous
savez s’il fait froid dans ces montagnes!
Ceux qui n’ont plus de quoi se couvrir n’ont pas non plus de
quoi manger, et le nombre en est grand! — Ce qui est plus ordinaire,
c’est de voir ces pauvres créatures se taire des caleçons en lisières
de drap cousues ensemble. J’ai remarqué une enfant de treize ans qui
passait sa vie à porter des fardeaux au-dessous de sa force. Son cou,
gonflé par la pression et les efforts, lui faisait très-mal; sa
poitrine en a souffert, et, selon toute probabilité, elle mourra de
fatigue et faute de soins.» — Tous ces faits sont exacts; on peut les
vérifier facilement. Et pendant que làbas on mourait faute de pain,
l’argent de la charité publique se rouillait dans les coffres ou se
dissipait en dilapidations abominables. Cela aussi est un fait certain.
Mais nous avons peut-être mauvaise grâce à nous plaindre de cet
abus! Ce n'est pas une exception t Est-ce qu’une partie du produit des
souscriptions faites pour les victimes du tremblement de terre de Melfi
n’était pas encore l’an dernier dans les coffres de l’État? Melfi, nous
le savons tous, fut détruite huit ans avant Potenza. Le roi Ferdinand
II, plus actif à cette époque, a visité lui-même les lieux qui avaient
souffert; il y a même fait quelque bien et surtout rebâti beaucoup d’églises — ce qui était son principal souci.
Une liste officielle a été publiée, indiquant en superbes colonnes
de chiffres, par ducats et par grains, l’emploi des sommes recueillies
pour les victimes de Melfi. Et pourtant voici ce que je sais s’être
passé dans les bureaux du ministère. Un architecte demandait de
l’argent au ministère des travaux publics. «Il n'y en a pas pour le
moment. — Mais j’en ai besoin. — Comment faire?» Un employé s’approche,
et, d’un ton confidentiel: «Excellence n’avons-nous pas en caisse
l’argent du tremblement de terre de Melfi? — Ah! c’est vrai! quelle
bonne idée!» — Et l’on puisa à la caisse de la charité publique, pour
payer je ne sais quel travail d’architecture! Doute qui voudra de ce
fait; aucun Napolitain n’en a été surpris. Or cela se passait en 1859 —
et au même moment les listes officielles de souscription circulaient
encore. On appitoyait les gens au profit des infortunés de la
Basilicate. Les fonds recueillis ont rempli les coffres. A quelle somme
ont-ils monté? Je sais que le produit de la souscription est arrivé
dans Naples a trois cent mille ducats (un million et demi de francs);
on m’assure, sans que je puisse l’attester, qu’il a triplé dans les
provinces. Les militaires et tous les employés ont dû faire une retenue
sur leur solde pour augmenter ce pécule inutile. Le roi qui savait à
quoi s’en tenir s’est contenté de jeter à la caisse la maigre somme de
huit mille ducats. Peut-être même y a-t-il mis cette condition qu’on
emploierait son aumône à réédifier des églises seulement. (C’était,
remarquez-le, l’un des plus riches monarques de l’Europe.) Les princes
royaux se sont abstenus, dans la crainte d’éveiller la jalousie de
Ferdinand, qui n’entendait pas que les autres devinssent populaires
quand il ne l’était pas. Mais le bon peuple, moitié par naïveté, moitié
pour ne rien refuser a ces collecteurs espions qui taxaient la fidelité
des sujets à leur générosité, le bon peuple, dis-je, avait assez donné,
ainsi que les étrangers, pour qu’on lui rendît un peu compte de son
argent. Eh bien! où est-il cet argent?
J’ai pris un intérêt particulier à constater ce qu’on en
faisait. Et puisque le gouvernement du feu roi n’a pas rendu ses
comptes, je suis bien en droit de dire ce que je sais, moi! L’argent n’est pas arrivé à sa destination.
J’ai chargé plusieurs habitants des villes détruites de me tenir au
courant des charités gouvernementales; j’ai reçu des renseignements de
nombre de ces gens, appartenant à toutes les classes et à diverses
localités des provinces; tous les rapports s’accordent: «on n’a rien
fait pour nous, disent-ils, moins que rien!» — «Mais encore?»
répondrez-vous? Des petites aumônes administratives qu’on m’a
signalées, je n’ai pu, en les additionnant, composer la somme de 20,000
ducats. Encore dois-je ici mentionner les détails édifiants que voici:
Quand un employé devait distribuer une somme deà ses administrés, il
allait trouver quelques malheureux et leur disait: «Veux-tu être mis
sur la liste des indigents?— Bien sûr. — Eh bien t je t’inscrirai pour
20 ducats. Mais tu comprendss’il n’y en a que 10 dans le paquet, sois
discretsinon, sinon tu n’auras rien du tout.»
Est-ce assez d’ignominie? Nont on pourrait croire que ces
malversations sont le fait de quelques monstres fourvoyés dans
l’administration;.... que saisje? Il y a tant de gens disposés à
blanchir comme neige, un régime auquel ils sont attachés! Mais voici un
fait auquel nous n’avons voulu croire, M. Major et moi, que sur des
preuves matérielles, renforcées par le témoignage de tous: Les maisons renversées par le tremblement de terre paient encore les impositions légales! —
du moins elles les payaient en mars 1859, un an et quatre mois après le
désastre, et je ne sache pas que rien soit changé depuis. «Oui, me
disait, il y a un an, notre ami, à Montemurro, où il ne reste rien
debout t à Saponara, à Viggiano où il faut tout reconstruire, chaque
survivant paie encore les impositions de son habitation absente! De
pauvres veuves, de pauvres orphelins ont vu saisir leurs nippes de
ménage au profit du fisc. Ils paient, |ils paient pour les maisons
qu’ils n’ont plus!»
Si quelqu’un mettait en doute un seul des faits que nous attestons
ici et dans tout le récit qui précède, nous nous engageons à le
conduire nous-même sur les lieux et à lui en faire vérifier de ses
propres yeux l’exactitude. Les preuves sont encore là-bas, visibles,
palpables.
A l’heure où nous écrivons, où on lit ces pages, après des années de
souffrance, rien n’est encore changé dans ces malheureuses contrées, si
ce n’est que la misère plus grande amasse journellement des haines
qu’une révolution sociale pourra à peine éteindre, je le crains. nous
avons fait effort pour ne point parler de politique dans le cours de ce
récit. nous laisserons donc au lecteur le soin de tirer les
conséquences politiques des faits que nous venons de raconter. Ils
l’aideront peutêtre à comprendre les événements qui s’accomplissent ou
se préparent. Ils l’amèneront, pensons-nous, à cette conclusion qu’un
peuple ainsi traité depuis des siècles, doit être bien violemment tenté
de se révolter quelque jour contre la main qui l’a écrasé sans pitié.
Ils le convaincront surtout que ce n’est pas une demiréforme qu’il faut
introduire dans un régime par lequel gouvernement, administration,
cierge, armée, ont si monstrueusement abusé de la patience d’une
nation. L’Eglise, comme l’Etat, ont besoin d’une transformation. Dieu
veuille qu’elle puisse s’opérer sans ces crises sanglantes dont notre
société française a été secouée. Néanmoins nous avons confiance dans
l’avenir, car les populations italiennes sentent vivement leurs misères
et soupirent après un renouvellement. Le réveil de la dignité nationale
et l’abolition des anciens régimes qui ont régné jusqu’ici par la
corruption, aideront puissamment à cette régénération devenue urgente.
La vie morale renaîtra avec l’aide de Dieu, quand l'Italie sera devenue une
nation. L’Église aussi apprendra à respecter sa mission sacrée. Et
enfin, le contrôle d’une publicité indispensable au respect du droit de
chacun rendra à jamais impossible le retour de monstruosités semblables
à celles que nous avons dû raconter ici.
L’étouffoir de l’absolutisme a seul pu les tenir secrètes pendant près de trois ans.
POSTSCRIPTUM
Au moment de mettre sous presse, on nous apporte une liste officielle qu’on trouvera dans le Journal des Deux Siciles,
n° du 29 octobre 1859. Cette liste indique l’emploi de 175,000 ducats.
Mais le public n’y a pas fait plus d’attention qu’aux mensonges d’un
charlatan. C’est ce qui nous explique que nul ne nous ait parlé
jusqu’ici de cette bienheureuse liste! Au reste, voici nos observations
sur elle:
1.° Elle constate que ces 175,108 ducats dépensés, il ne restait en
caisse que 2948 ducats au 29 octobre 1859. ce qui est parfaitement
faux, à moins que les employés n’aient fait disparaître le reste du
montant de la souscription.
2.° J’y compte, en additionnant bien, pour les couvents, pour les
capucins, les chartreux, les missionnaires, la congrégation de
Saint-Vincent-de-Paul, les nonnes de toutes dénominations, les déménagements de religieuses, les églises, les ornements de chapelle, etc., le beau denier de ducats: 20,159. 65 grains.
Or, c’est aux pauvres que les donataires croyaient être utiles et
non aux capucins. Mais que diraton si je prouve que, au n° du 25 juin
1859, le Journal officiel porte 11,861 ducats comme dépenses du ministère des travaux publics,
au profit des églises de Basilicate; somme à peu près égale à celle qui
a été prélevée pour cet objet sur le montant de la souscription? La
charité a donc fourni des fonds à ce ministère! Et le journal loue le
roi de sa munificence.
3.° J’y lis, pour colonisation sur les terrains qui sont
résultés de la déviation d’un petit fleuve (ce qui est un travail
d’utilité publique et non de charité privée): 20,000 ducats.
4.° Pour travaux d’architecture, constructions d’aqueducs et déterrement des cadavres (!): 1217 ducats.
5.° Pour création de deux monts-de-piété: 18,000 ducats.
6.° On a fondé, avec 19,479 ducats, un orphelinat à Potenza; mais,
pour qui connaît la manière dont tout se passe dans ces établissements,
il n’y a pas lieu de douter du mauvais emploi de cette somme. L’Albergo dei Poveri, à Naples, malgré ses richesses immenses, n’a pas rougi de réclamer 2305 ducats pour avoir hébergé quelques orphelines.
Le reste de la somme est supposé employé en faveur des gens
courageux qui ont secouru les victimes, ou pour faire parvenir
promptement (!) les objets sur les lieux endommagés — ou encore pour
ces belles baraques dont nous avons vu les quatre pieux, etc. Quant aux
petits secours donnés à ceux qui mouraient de faim, il vaut d’autant
moins la peine d’en parler que nous avons vu de quelle manière ils ne sont pas parvenus à destination!
(1) C’est folie d’attendre un secours de celui qu’on a rassassié.
(2) Laisson de còtà cette canaille; je n’en connus jamais un seul qui valùt quelque chose.
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