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I BRIGANTI E LA CORTE PONTIFICIA

OSSIA LA COSPIRAZIONE BORBONICO CLERICALE SVELATA

RIFLESSIONI STORICO-POLITICHE DELLA STORIA COMPLETA E DOCUMENTATA SUL BRIGANTAGGIO PEL

DOTT. EMIDIO CARDINALI DI ROMA
VOLUME PRIMO (02)

LIVORNO

A SPESE DEGLI EDITORI L. DAVITTI E C.

1862.

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I briganti e la corte pontificia ossia la cospirazione borbonico... - VOLUME PRIMO-HTML-01

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XXI

L'abjetto stato adunque delle provincie napoletane sotto lo scettro borbonico; gl'imbarazzi reditati dal nuovo governo italiano, e i suoi errori fornivano gli elementi principali alla reazione. Francesco II colla sua corte li raccolse.

Nell'alea sanguinosa degli eventi trovò il clero, che seguendo l'impulso di Roma, pel primo assunse le redini dell'ampia cospirazione, e il fatto proverà che in quasi tutte le fazioni di essa, tanto i comitati che i suoi agenti, s'ebbero dipendenza dai preti signoreggianti il movimento.

- Fin da principio ho esposto che i fatti precedenti la capitolazione di Gaeta non erano da considerarsi un vero brigantaggio, ma piuttosto una cooperazione armata colle mosse strategiche dell'esercito, il quale stante la presenza del re Francesco non per anco esautorato, pur levava una bandiera, per cui i conflitti potevano in qualche senso meritare il nome di guerra.

È vero altresì che da questa cooperazione ha originato il brigantaggio vero e proprio, quale appunto segui dopo il 16 Febbrajo 1861. Quindi é che ai cenni già dame dati dalla pag. 24 al 28, aggiungerò solamente quanto è rigorosamente necessario alla intelligenza de' fatti susseguiti.

L'identità di molti capi e delle persone, che proseguirono l'opera brigantesca dopo aver seguito la milizia o difeso a lor modo il paese, non mi dispensa da questa benché breve rassegna.

- Dal maggio 1860, epoca della occupazione di Palermo per parte di Garibaldi, fino al 20 ottobre 1861. giorno precedente il plebiscito, la reazione non avea dato segno di vita.

Le rapide marce de' volontari; la defezione pressoché unanime del!' esercito, della marina borbonica, e de' pubblici funzionari; non escluso perfino qualche ministro dello stesso re Francesco, aveano sbalordito e messo in timore i partigiani della dinastia, qualunque essi si fossero.

Nessuno osò contendere il libero corso alla rivoluzione, lusingandosi forse che colle milizie rimaste fedeli al re, in una battaglia decisiva o col favore del tempo, sarebbesi potuto riguadagnare quanto per sorpresa s'era perduto.

La resa di Capua però; l'arrivo di Vittorio Emanuele colle agguerrite truppe della Cernaja e di Palestro, ritenevasi indubitato in seguito al plebiscito; l'insurrezione decise adunque d'affrettare le mosse.

Nel centro del regno il sollevarsi era pericoloso e quasi impossibile. Allora la reazione scelse a punto strategico gli Abruzzi, dove la copia de' montanari e de' contadini, il forte di Civitella del Tronto, e la prossimità agli stati pontifici rendevano più probabile la riuscita, o per lo meno, preparavano nello stato papale medesimo una ritirata, colla quale avrebber potuto ritentarsi con migliore apparecchio le sorti del brigantaggio.

Il popolo delle due Sicilie disponevasi a deporre nell'urna elettorale il voto di annessione al regno italiano. Era la prima volta dopo replicati secoli che ad esso concedevasi interloquire su i propri destini.

Già soggetto a greci, romani, goti, ostrogoti, avevi, normanni, angioini, ungheresi, spagnuoli, francesi, per la prima volta dal nobile al lazzarone, tutti erano ugualmente invitati al grande atto nazionale.

In Napoli e nelle provincie, dove più dove meno, non si ragionava; l'entusiasmo e la esplosione libera dell'anima non usa a siffatti soavissimi moti, dominava le ovazioni di giubilo e le feste che per ogni dove apparecchiavansi per celebrare i solenni comizi.

Come pel resto del regno libero, così pure negli Abruzzi il popolo era chiamato a dare il suo voto. Però alquanti giorni prima di tale avvenimento, i capi della fazione regia avevano quivi istigato e messi in accordo i contadini e quanti altri di mal affare abitavano lungo la linea degli Appennini, che partono la provincia di Teramo da quella d'Aquila.

I primi per zelo; i secondi per depredare e far bottino impunemente, si tennero pronti.

Uno o due dì anteriori al plebiscito, parte della guarnigione di Civitella del Tronto sbucò inaspettatamente dal forte. Fu dato il convenuto segnale, e uno sciame confuso, in quantità considerabile, dai monti si riversò nelle pianure.

I militari facevan testa, seguiva la torma indecente, armata di scuri, bastoni, pugnali, o di malconci fucili, assetati tutti d'insana voglia di sangue.

Eran i più contro i pochi; erano in misura di forza maggiore; tanto bastava perché appalesassero la loro indole crudele.

Assaltarono alla spartita piccole borgate e villaggi; le autorità novelle furono balzate; installate le antiche; i liberali malmenati e uccisi; rapine e saccheggio erano il tributo al loro signore e il premio della devozione.

L'armata italiana non poteva trovarsi in numero in tutti i punti, mentre una parte era intenta all’assedio di Capua, ed altra, riassettate le sue fila dopo Castelfidardo, allora appunto disponevasi a marciare sul napoletano. Però fu breve il folleggiare di quella scapigliata moltitudine.

Un nucleo di volontari e un battaglione di linea bastarono da principio per gittar quivi il terrore e lo scompiglio.

Con abile manovra i contadini furono disgiunti dalle milizie borboniche, e inseguiti su pei monti, furono taglieggiati o dispersi le une e gli altri.

Se i primi risultati avevano imbaldanzito i contadini, il il sopraggiungere delle truppe italiane li disilluse dalla falsa aspettativa delle milizie di Francesco II ed anche di austriaci, come loro erasi dato ad intendere.

Nel vedersi poi assottigliata considerevolmente la loro banda, non si credettero abbastanza forti, e moltissimi si ritrassero. I furfanti, i malandrini, i fuggiaschi delle galere bisognava però che si battessero o morissero.

Questa disperata condizione li costrinse a resistenza accanitissima. Quinci è che riordinatisi costoro come potevano, si diedero a scorrerie e a spogli parziali, battendosi alla circostanza con quel coraggio che suol infondere l'estrema gravità de' pericoli.

Informavansi della postura della truppa e dove trovavano terreno scoperto, irrompevano, rubavano, uccidevano, e disparivano. Anche dal chiuso delle foreste imponevano taglie, e riscuotevano ricatti sotto comminatorie di strage o d'incendio.

L'esito fortunato di tali esercizi innocui per l'autorità, ma fatali alla sicurezza de' cittadini, invitava all'esca del lucro ancora quelli, che per timore o per iscoramento avean cessato di appartenere alle comitive, t soldati poco o niun danno potevano arrecare ad un nemico, che fiutava da lungi, fuggiva e si nascondeva. Laonde accresceansi con orribili misfatti le proporzioni numeriche de' malfattori.

Era urgentissimo contrapporre un argine potente a tali escursioni; dacché sovrastavano gli stessi orrori del 1809 e 1810 all'epoca celebre del generale Manhès.

Dovea provvedersi a tempo e con quella stessa energia, che l'esperienza avea mostrato efficace in altre circostanze.

Colui avea profondamente studiato la qualità de' briganti napolitani, e dové dedurne che in quello stato di vita essi abbandonano il carattere umano, assumendo senza ribrezzo l'istinto delle fiere più snaturate.

Quindi pensò che come tali dovessero esser trattati.

Giurò distruzione e sterminio; non indietreggiò dinanzi a qualunque conato o violenza reputata nel caso necessaria e opportuna.

I complici ne' luoghi abitati si ritennero come altrettanti assassini della stessa tempra, e quelli che anche per timore di peggio, somministravano viveri e munizioni, rei di colpevole egoismo.

Il general Manhès pretese che gl'individui e perfino interi paesi dovessero esporsi ad essere assaltati dai briganti, col niegare il vitto e le armi, piuttostoché colla salvezza propria preparare infinite altre ruine.

Fucilate, incendi di villaggi, castighi inesorabili inflitti collettivamente ad intere popolazioni, fruttarono con tremenda economia la distruzione del brigantaggio. ( [68])

Ne' reazionari Abruzzesi già subodoravasi la stessa indole, per nulla temperata dalla mitezza de' tempi, che Napoli, pei suoi Borboni non conobbe mai. Le stesse previdenze adunque dovevano adottarsi.

Pasquale De Virgilii governatore di Teramo n'era pienamente convinto.

Egli per domare questo flagello che sotto forme inusitate; col favore aperto, dell'oro e della riconoscenza di Francesco; infine cogli ajuti 'e colle indulgenze di Roma, minteciava non che la stabilità degli ordini politici, la vita e le sostanze di tutti.

Il general Pinelli ancora adattando i mezzi all'intento, non s'attenne a mezze misure.

Si provò dapprima in espugnare Civitella del Tronto, utilissima ai reazionari nelle loro guizzanti comparse; ma solidissima e formidabile per posizione, ([69]) dopo infruttuosi sforzi si persuase che valeva meglio stringerla d'assedio per impedire le sortite o le ritirate, in quella che buon nerbo di truppe si sarebbe dato ad inseguire gli assassini rimasti specialmente nella Valle Castellana.

De Virgilii investito di pieni poteri, emanò una legge terribile, la quale a chi non avesse da vicino conosciutole incredibili atrocità commesse e che sovrastavano, sarebbe al certo sembrata eccessiva e crudele.

È un compendio il tratto presente, che io tesso, e non mi permette di estendermi troppo ne' ragguagli lagrimevoli che bruttarono quelle contrade; diversaniente credo che la più assegnata moderazione non ne avrebbe abborrito.

Quanto altresì son per narrare mi lusingo basterà all'uopo.

Il proclama del governatore di Teramo, e le misure straordinarie del general Pinelli, furono soggetto di reclami veementissimi per parte di alcuni periodici eziandio di Londra e di Parigi.

Il governo di Vittorio Emanuele nella sua novità obligato a rimuovere possibilmente le eccezioni, che nel caso gli venivano da filantropi indiscreti e parziali, dové richiamare, come vedremo, il Pinelli, quantunque il ritenesse per uno de' più bravi uffiziali italiani, e fosse persuasissimo che i rigori trovavano lor piena giustificazione negli orrori nefandi della reazione.

Ai cenni di questi terribili eccidi premetto il testo del proclama De Virgilii, affinché il lettore venga in grado d'aver sotto occhio i termini di confronto necessari al retto giudizio in un fatto gravissimo, che menò tanto rumore e che dagli avversari veniva esagerato quale attentato non dissimile dalle ordinanze sommarie di Vienna, o dalle carneficine dell'austriaco Urban.

Ecco le parole del testo.

«1. Tutti i comuni della provincia dove si sono manifestati e manifesteranno momenti reazionari e briganteschi, sono dichiarati in istato d'assedio, o vi saranno sottoposti di diritto al primo manifestarcisi del minimo disordine.

«2. In tutti i detti comuni fra le 24 ore dall'affissione della presente ordinanza, sarà eseguito un rigoroso e generale disarmo da' comandanti de' distaccamenti in essi accantonati.

«3. I cittadini che mancheranno alla esibizione entro il detto spazio di tempo, delle armi di qualunque natura, di cui sieno detentori, saran puniti con tutto il rigore delle leggi militari, da un consiglio di guerra subitaneo, che verrà stabilito dai respettivi comandanti.

«4. Gli attruppamenti saran dispersi colla forza. I reazionari presi colle armi alla mano saranno fucilati. Gl’illusi e i sedotti che al giungere delle forze nazionali depositeranno le armi e si renderanno, avran grazia. Ai capi e promotori non si accorderà quartiere, purché non si rendessero a discrezione e senza la minima resistenza; nel qual caso avran salva la vita e saranno rimessi al poter militare.

«5. Gli spargitori di voci allarmanti, e che direttamente o indirettamente fomentano il disordine e l'anarchia, saran considerati come reazionari; arrestati e puniti militarmente e con rito sommario.

- Il Generai Pinelli maggior generale comandante la colonna mobile della provincia di Aquila, in seguito della problamazione dello stato d'assedio, da sua parte stabilì una corte marziale, dichiarandolo immediatamente, nel distretto d'Aquila, pei comuni di Arischia Pizzoli - Barete - Cagnano - )Monreale e circondario - Lucoli - Preturo - Rocca di Mezzo - Rocca di cambio - Ocre - S. Demetrio. Nel distretto di Civita Ducate - Civita Ducati - L'intero circondario di Fiamign ano - L'intero circondario di Borgo Colle Fegato. Nel distretto di Avezzano, l'intero distretto. Finalmente dovea intendersi, ipso facto proclamato lo stato d'assedio in tutti gli altri comuni, in cui si sollevassero disordini per parte de' reazionari.

La corte marziale doveva prender cognizione «di tutti i delitti commessi dagl'individui appartenenti alle sedicenti bande borboniche, e giudicare tutti coloro che a causa di reazione trovavansi o eran stati tenuti ed accusati di avere attentato e cospirato contro il governo e l'ordine stabilito; di avere illegittimamente riunita ed usata la forza armata; di avere scientemente e con volontà somministrati mezzi od altrimenti cooperato; di averne taciuta la rivelazione: di aver distrutto, abbattuto od in altro modo sfregiato lo stemma sabaudo; l'imagine o la statua del re Vittorio Emanuele II, o la bandiera nazionale italiana; di aver portato le armi contro le truppe del re Vittorio Emanuele II, od i rappresentanti o partigiani della causa nazionale, o di aver commesso violenze e rapine ne' comuni della provincia, o di essere stati fautori o promotori dei disordini.»

I colpevoli doveano esser giudicati colle pene comminate nello statuto penale militare pel regno delle Due Sicilie.

Un dettaglio cotanto elaborato in tèma odiosissimo, specialmente dopo i severi proclami de' governatori, finiva di urtare la tenerezza di chi non sentiva sul cuore il coltello de' sicari abruzzesi.

Il governo, che non tardò a risentire le accuse di soverchio rigore, che già romoreggiavano in proposito, s'affrettò spedire al governatore d'Aquila una misura attenuante interpretativa delle istruzioni generali attribuite ai capi delle provincie civili e militari.

«Le competenze de' consigli di guerra subitanei (scriveva il ministro della guerra in Napoli) è limitata a quelli tra gl'insorti, che sono stati colti colle armi alla mano, o sorpresi con oggetti di convinzione, o di alcuno degli altri casi di flagranza, contemplati dagli articoli 50 e seguenti delle leggi di procedura nei giudizi penali. Per tutti gli altri incolpati procederà il magistrato, ordinario.»

Di questa tempra eran le misure repressive imposte da una dolorosa necessità; misure diametralmente opposte alla benignità altronde spiegata nel complesso delle istituzioni liberali italiane.

Nel farmi a indicare alcuni tratti di una reazione sanguinosissima, m'affretto di osservare preventivamente che i borbonici, o che almeno tali s'intitolavano, erano divenuti furibondi non già per un principio che li guidasse; dacché essi non sapevan che si facessero; ma il fascino della novità e i vantaggi, che ciascuno imprometteva a se stesso a carico di chi era designato alla strage o alla vendetta, facevan levare il grido più sonoro, che loro ne agevolasse la via.

Erano rozzi montanari che tali enormezze operavano e non le popolazioni incomparabilmente più colte delle pianure, le quali invece al sopraggiungere del glorioso re Vittorio Emanuele fremettero di gioja, e ben può dirsi deliranti con tutta la foga della esaltazione meridionale, salutarono commosse il re d'Italia, che per la prima volta da Chieti per Teano a Popoli ec: calcava il bel suolo napolitano.

Il re, come appunto Garibaldi entrò in Napoli, era circondate da pochissimi, tra cui il ministro Farini e il general Fanti, tutti a cavallo.

Egli era nelle mani del popolo, e il popolo riconoscente inviò drappelli eletti di guardie nazionali; sindaci, notabili, magistrature, e perfino gran parte dell'alto clero, che non avea ancora sicuramente ricevuto istruzioni da Roma, spontaneamente s'aggiunse ad onorare il passaggio del re.

Nominerò alcuni. A Chieti l'arcivescovo fu a mensa con lui insieme a vari canonici. In Sulmona il vescovo alla testa del clero andò a incontrarlo a quattro miglia dalla città.

Il vescovo di Larino anch'esso col suo clero votarono solennemente pel re.

Il vescovo di Penne parimenti col clero, lo attese lungo la via presso il Salino, in un padiglione reale.

Altre ed altre collegiate seguirono l'esempio. In somma tutte le classi v'erano rappresentate.

Gli stessi contadini dai prossimi villaggi con donne e fanciulli mossero in frotta per festeggiare l'eletto della provvidenza.

La forza brutale che precipitava dai monti era il partito borbonico; il suffragio di Francesco e della sua dinastia!

Codesto contrapposto spiegava evidentemente fin da allora la spontaneità del moto nazionale per parte degli italiani, e la compra violenza de' sordidi seguaci del Borbone imprigionato in una fortezza, da cui dové finalmente sgombrare, messo in bando per decreto di quello stesso popolo, prima calpesto e ricolmo d'obbrobri; indi ossequiato vilmente ne' reazionari e ne' briganti - In retta linea a Civitella del Tronto trovasi controguerra ch'è un punto finitimo collo stato pontificio.

I reazionari già di concerto coi gendarmi, che doveano far sortita dal forte, tolsero occasione dall'affollamento straordinario di popolo in tempo di fiera.

Il tumulto reso cosi più facile, si propagò. In questo luogo ebbero origine le prime agitazioni. Nel tempo medesimo scoppiarono in Cellino, comune di Atri, e altrove.

Orde estranee ai respettivi paesi comparivano all'improvviso per destare confusione, che isolatamente sarebbesi indarno tentata.

Per opposto da altre borgate, dove il moto non s'era esteso, le guardie nazionali accorsero coraggiosamente per impedire l'espansione dell'incendio, e riparare alle stragi. che commetteansi senza ritegno.

Le guardie nazionali di Penne e di Cermignano dierono egregio esempio di valore, e poterono in un subito sedare il disordine.

Da un lato fugati i ladroni, raccoglieansi di nuovo per ripetere gli assalti in altri luoghi, sempre sulla direzione di Civitella. Da Controguerra la rivolta si comunicò a Corropoli, Nereto, S. Omero, Bellante, S. Egidio, Campli, Tortoreto ec.

Il movimento combinato quasi simultaneamente, sorprese que' poveri paesi, e la forza non trovatasi in misura di resistere, gli assalitori s'ebbero tutto l'agio di poter dare il saccheggio.

La imminenza di mali più gravi scosse quanti ma i erano abili a trattare un arme. Colle truppe italiane, che per buona sorte aggiravansi in que' dintorni, s'unirono ben presto guardie nazionali, commissari militari e civili, altre autorità e particolari. armati il meglio che potevasi.

I reazionari furono battuti aspramente e respinti su tutti i punti. A Corropoli in ispecie, dove riportarono una completa sconfitta, appresero a non avventurarsi in poco numero ne' luoghi abitati, e ripararono in forti masse presso Nereto, da dove al sopraggiungere d'altre milizie gli fu giuocoforza sloggiare.

In questo modo furono in breve dovunque. dissipate le prime bande, ma non isgombrati i timori; avvegnaché l'onda insurrezionale sospinta dal gove4no di Gaeta, che in vedersi secondato da pochi scherani prendea coraggio, preoccupava grandemente le popolazioni.

Mi dispenso qui dal ripetere gli orrori, di che furono capaci qué' selvaggi nelle loro escursioni.

Le pagine già da me citate altrove dal 24 al 28 sono piene de' fatti atrocissimi, che si rapportano a quest'epoca. Accennati colà in gran parte per documentare la complicità di Francesco in quelli, stimo superfluo ritesserne il racconto.

Ne aggiungerò qualcuno sullo stesso tenore, e credo riescirà sicuramente giustificata l'estrema severità delle misure adottate dal governo o dai suoi delegati.

Un infelice padre di famiglia, accorso con altre guardie nazionali per reprimere i reazionari di Avezzano nel combattere valorosamente, cadde estinto.

Una donna per nome Antonia Matteo, non so se per odio privato o per pazzo fanatismo, a' era impigliata nella mischia, e appena scorse in terra cadavere il suo avversario, non abbrividì di denudarlo e praticarvi sopra la più oscena mutilazione, mentre un secondo ne avea troncata la testa, e un terzo inzuppando pane nel sangue fumante, che sgorgava dagli aperti seni della vittima, satollavasi nel fiero pasto.

Non basta: la donna da un canto, e l'altro che avea divelto il capo, infilzate su due picche le membra lacerate, andavano menando per la città l'empio trofeo, accompagnati dal fragore assordante di canti inverecondi.

Francesco II animato per cotanto zelo, si provò a fondare un governo sulle basi della insurrezione e del terrore, accettando ogni sorta d'individui, qualunque si fossero. Un apposito decreto h titolava uomini della causa dell'ordine e della monarchia gli avanzi delle galere o i rifiuti della società. ( [70])

Uno de' nuovi funzionari del re fu il già altrove menzionato Giacomo Giorgi nominato sott'intendente di Avezzano, per ristabilire il governo del buon dritto e dell'ordine nelle fedeli provincie. Ecco i termini coi quali costui esordì la 'sua nobile carriera.

«Sono pregati i cittadini di Avezzano di non tormentare il ceto de' cafoni ([71]) perché se ritornano i Garibaldini; essi suonano le campane e si danno allo sfascio delle case de' signori, e sfasciano tutte le botteghe, e se ne vanno dopo dato a sacco e a fuoco dentro e fuori le abitazioni».

- Coerentemente al volere del re, gl'istigatori della reazione solevan dare ai loro proseliti alcuni brani di carta bianca per indicargli la piena libertà di poter commettere qualunque eccesso senza tema di esserne redarguiti.

Quella carta pareva dovesse essere a matrice per confrontarsi, occorrendo, e riconoscere la legittima provenienza degli adepti.

Nella inchiesta giudiziale ordinata dal luogotenente cavalier Farini in Napoli, tra i documenti comprovanti gli eccitamenti della corte napolitana nelle desolanti stragi degli Abruzzi, leggeri la seguente lettera.

È un soldato che scrive in Aquila a sua madre

«Dovete conoscere (le dice) che io mi trovo in Venafro, e sono stato in Sangermano, vicino a Sora di Campagna... spero venire dentro otto o dieci altri giorni, perché andiamo facendo il disarmo; siamo cominciati da Teano, e quanto prima verremo in Aquila, e faremo lo stesso disarmo. Mare (guai) a quello, che non consegna l'arme; il nostro sovrano ha dato CARTA BIANCA al popolo basso, e il popolo basso fa gli stragi degli innocenti ai rivoltosi. »

Eccone gli effetti.

In un paese presso Gaeta gendarmi e plebaglia saccheggiarono, e incendiarono vari palazzi di agiate persone. In mezzo agli orrori delle rapine e del fuoco, due nobili persone vennero tra le altre trucidate.

Le loro teste si esposero sopra picche alla porta del corpo di guardia. iscrivendoselo a debito, l'autorità giudiziaria, avrebbe voluto procedere contro gli autori del misfatto.

Il governo di Francesco peraltro, stimando di scoraggire i suoi difensori col torgli fede nella impunità de' delitti, ordinò immediatamente che non solo non si procedesse; ma invece tutti coloro del popolo, che avessero preso parte negl'incendì, ne' saccheggi e nelle uccisioni necessarie, dovessero retribuirsi con grana venticinque per giorno, in premio dello zelo dimostrato.

In Isernia fu parimeute messo a sacco e a fuoco il palazzo dell'egregio cittadino Iadopi, gia deputato al parlamento napoletano nel 1848. Al di lui figlio, giovine di circa ventidue anni furono estratti gli chi, indi scannato, fatto in pezzi.

Ove coll'aperta crudeltà de' mezzi non poteva conseguirsi l'intento reazionario, l'astuzia e la menzogna vi suppliva.

In quindici o sedici comuni delle provincie di Salerno e Basilicata, si appiccò la rivolta eccitata dal Vescovo di Tursi monsignor Acciardi (è bene che certi nomi escano dalla loro oscurità) fattosi istrumento degli stessi intrighi diffusi dalla corte borbonica tra gli abruzesi.

I cennati comuni trovavansi tutti nella diocesi dell'Acciardi. E chi n'erano i complici?

I parrochi coi più abborriti antichi poliziotti s'aggiunsero a monsignor vescovo, uno de' più empi e sanguinari agitatori; non pastore, ma lupo ingordo e famelico dell'ovile affidato alle sue cure.

Le popolazioni, come nella massima parte del regno, teneansi quivi tranquille; i parrochi peraltro e gli agenti di polizia Insinuarono sordamente nel volgo che il paterno cuore di Francesco, commosso a tanti disastri de' suoi figli, avea loro inviato danaro e riso per essere ripartito tra contadini e i poveri del paese; ma che i signori del nuovo governo ed altri suoi seguaci s'erano tutto appropriato.

Il parroco parlava; il contadino e il proletario giuravano sulla sua parola. La mormorazione e il malcontento aveano ripiene le plebi di sinistre disposizioni, quando il dì sopravvenne del plebiscito.

Com'era da attendersi, le masse rurali e il basso popolo erano diffidenti e intiepiditi. Allora gli ex-militi borbonici, cui era stato permesso da Garibaldi il ritorno ne' propri lari, vollero spezzar l'incanto: tentarono mettersi alla testa del popolo; ma l'idea del danaro e del riso usurpato lo fece da principio renitente; indi a nuove insistenze successero le irritazioni, finché montato in furore, s'accese una zuffa tremenda.

Le grida di vendetta contro il governo e i liberali ferivan le stelle. Viva Francesco II; Viva l'Immacolata Concezione furono il segnale dell'attacco.

In un subito, incendi e rovine contro i supposti autori del male del popolo, funestarono quei paesi, dove con un pretesto o coll'altro s'era dai preti aizzato il fuoco della ribellione.

A Castel Saraceno una donna fu obbligata sotto pena d'esser massacrata, di gittare dalla finestra il proprio fratello vecchio ed infermo, ravvolto ignudo in un lenzuolo.

A Carbone fu trucidato un capitano della guardia nazionale. Una donna ebbe il coraggio di sgozzare un cadavere, e succhiarne il sangue; indi strappatasi la cuffia di capo, la immerse nella ferita, e così colla bocca orridamente intrisa, có capelli scarmigliati, colle mani ancor fumanti e cruente, levando in aria quella orribile bandiera precipitavasi pazzamente pel paese gridando alla vendetta, alla distruzione.

A Montezano (provincia di Salerno) moltissimi cittadini sospetti alle turbe insorte, eransi raccolti in una casa assai solida e ben chiusa. Fu risaputo; ed ecco il popolo all'assalto. Volavano i sassi da per tutto contro le finestre e sul tetto. I più però si dierono a scalzar le fondamenta perché colla ruina l'edificio scosso seppellisse quanti v'erano per dentro.

Un prete prevedendo troppo lungo e difficile il travaglio, istigò da un canto molti fanatici a scorazzare le contrada colla bandiera bianca (era una camicia da donna); fè d'altra parte suonare a stormo le sue campane per raccogliere maggior quantità di operai e affrettarne il precipizio; ma invece, per sua mala sorte, le campane trasmisero la notizia in Tramutola, ch'era presso, e in cambio de' contadini, si presentarono le guardie nazionali, le quali rimossi gli scavatori, levarono l'assedio ai liberali trepidanti quivi da più ore.

A San Quirico ripeteronsi altre scene di sangue. L'arciprete n'era a capo. Anche qui la bandiera bianca sventolava. Era un panno lino o serico tolto a presto da un altare della Vergine.

Come soleva sempre accadere, la sommossa fu momentanea, ma terribile. L'apparire di poca truppa e di guardie nazionali valse a dissiparla. Que' poveri contadini illusi dai loro preti, si videro battuti e imprigionati.

Il vescovo Acciardi promotore di stolti quanto inumani tumulti, potè campare dalle mani della giustizia colla fuga.

In Cervinara, (principato ulteriore) come preludio de' torbidi, ch'ivi scoppiarono, apparve il seguente caratteristico manifesto.

«1. Tutti i sovrani debbono ritornare ai loro posti.

«2. Compenso delle spese a chi spetta.

«3. Entrati i respettivi re nei loro troni, si stabilirà un anno di governo militare, e sarà deciso dallo stesso potere «delle forme di governo.

«4. Napoleone si chiamerà re di Francia e non de' francesi.

«5. L'Inghilterra sarà incaricata a richiamare le truppe rivoltose e portarle nei loro paesi.

«6. Le nazioni estere non possano ricevere gli emigrati.

«7. Una forte squadra russa va in Sicilia per fare evacuare i piemontesi, e restituirla a S. M. Francesco II.

«8. Riguardo gli affari di Napoli, rimarrà Francesco II per combatterli, e laddove soccomba si procederà come in a Sicilia.»

Poco dopo tali balordaggini, che significano perfettamente lo stadio di crassa ignoranza più o men dominante ne' luoghi, dove attecchì la reazione, un orda di contadini si gittò nel paese al grido di Viva Francesco II.

I terrazzani sorpresi da numero troppo forte, non poterono opporre resistenza. La guardia nazionale minacciava essere aggredita nella stessa caserma; ma i militi più solleciti la barrarono ritirandosi nella casa del giudice locale.

I contadini speditamente vi salirono, e richiesti se cosa pretendessero, risposero pel loro capo «Vogliamo le armi di Francesco II, che stavano nel posto di guardia, essendo questo il nostro re, e dobbiamo fare la guardia»

In così dire s'impadronirono di varie armi esistenti nella casa, ne uscirono, misero a ruba il comune, e mentre si atteggiavano a nuovi delitti; un battaglione garibaldino sopravvenne. Dopo pochi colpi, parte furono arrestati;. alquanti fuggirono, e vari rimasero uccisi sul campo.

La corte di Francesco II sapeva che la razza mercenaria de' suoi propugnatori non possedeva altro stimolo che la moneta e la speranza di godersi il frutto delle rapine.

Essa dovea fomentare al possibile questa lusinga, e allontanare la probabilità de' pericoli ne' tentativi di ghermirla. Ebbene un'astuzia novella sopperì all'uopo.

Una quantità di corazze erano state inventate e spedite specialmente negli Abruzzi, le quali potevano attillarsi alla vita e soprapporvisi gli abiti consueti per celare così la viltà della paura.

Erano costole alquanto inflesse di ferro in istriscia, congiunte insieme da piccoli ganci mobili, sovraccoperti da un solido tessuto in tela. Due allacciature di nastro grossolano eran disposte alle estremità in guisa che la corazza potesse raccomandarsi al collo ed alle anche.

Buon numero di questi arnesi furon rinvenuti in dosso ad alcuni prigionieri; altri se ne requisirono nella provincia di Napoli, ma i più nei distretti abruzzesi.

Il governo di Gaeta mostravasi in vista schivo in ammettere l'incoraggiamento e l'influenza nel favorire la reazione.

Avrebbe amato che questa apparisse un parto meramente spontaneo e non una istigazione diretta o indiretta verso le popolazioni. In fatto verificavasi l'opposto.

I ministri di Francesco furono cotanto ciechi e insieme audaci da non aver difficoltà di avventurare autografi ufficiali, che li posero nella più brutta contraddizione.

L'indole di questi uomini non può mascherarsi; la posterità non deve ignorarla.

Potrei qui riportare una seguenza di documenti, dimostranti l'asserzione sopra esposta; non debbonsi peraltro eccedere i limiti della moderazione, né abusar troppo della pazienza di chi legge.

Mi restringerò a due soli; il primo de' quali riporto specialmente, perché ivi son riferiti vari fatti, che mi dispensano dalla mia narrazione.

Tra il ministero borbonico e i suoi affiliati reazionari ormai non v'era più mistero. Questi conosceano preventivamente le disposizioni del re; a giuoco aperto osavano menar vanto de' misfatti più abominevoli e chiederne mercé; i ministri del re in concambio assumevanli in considerazione, e li retribuivano.

Tra le numerosissime dimande avanzate in questo senso, ed accolte in Gaeta, avvene due in istile al tutto originale e caratteristico. Queste parvero al cavalier Ulloa ministro di polizia degne di premio, e rimisele per informazione alla respettiva intendenza. Però siccome troppo evidentemente traspariva in esse la connivenza con persone le più basse e volgari, ( [72]) esso mostrossi sollecito di ordinare che gli venissero restituite.

Il rescritto apposto alle dette istanze fu il seguente.

«Ministero e Segreteria di Stato dell'interno;

«Ramo di polizia N.221.

«Al Signor Sottintendente d'Isernia.

«Signore

«Le rimetto due suppliche di Pietro Vinditti e Vincenzo di Ciurcio, ond'ella se ne informi pel contenuto di quelle, e me ne faccia rapporto. Quindi sarà compiacente di restituirmi le dette suppliche.

«Il ministro segretario di stato della polizia

«Ulloa.

La prima delle due è del tenore come appresso.

«A Sua Sacra Real Maestà Francesco II Re del Regno delle due Sicilie

«Sire

«Il contadino Vincenzo di Curcio alias Pagano d’Isernia fedelissima, suddito devotissimo ed attaccatissimo alla Maestà Sua (D. G.) l'espone ch'egli ha mossa la popolazione, e messosi alla sua testa, non escluso l'artigiano signor Raffaello Senape, che molto si è cooperato, si assaltò li 30 a sera il corpo della guardia nazionale: vi si tolsero le armi: si ruppero le corde elettriche: e si pose la publica sicurezza a nelle mani de' contadini per opera dell'esponente.

«Il giorno seguente primo ottobre la popolazione distrusse a qualche individuo della Maestà Sua. Furono arrestati i corrieri e le corrispondenze dei garibaldini da esso esponente, il quale fece pure aprire il commercio de' generi per Capua stato impedito dai detti garibaldini, onde far morire di fame i regi; ripristinò gli stemmi e la bandiera borbonica; attivò a il servizio urbano al numero di circa mille scelti tra i migliori pagando grana venti al giorno per ognuno di danaro tolto dalla cassa, che si sapeva essere stata fatta per mantenimento del corpo della, guardia nazionale: accompagnò a due ufficiali, un soldato ed un signore di Sulmona già presentitisi alla Maestà Sua, liberati dalle carceri da lui, fino in Venafro al comandante delle reali truppe, da cui l'umiliante fu nominato capo urbano, e fece accompagnare anche «da Venafro dagli urbani volontari otto gendarmi, ch'erano a stati arrestati in quartiere per. molti giorni.

«Nei giorni due e tre ha vegliato a mantenere la publica a sicurezza, specialmente la sera del tre, in cui venne una forza in ajuto di cento gendarmi.

«Nel giorno quattro si è cantato l'inno ambrosiano in onore di sua Maestà, ed il popolo era pieno di gioja quando a alle ore dieciannove giunse uni colonna di circa mille garibaldini a piedi ed a cavallo, e fu attaccato fuoco circa due miglia fuori l'abitato, particolarmente dall'esponente, dal nominato signor Senape, dai gendarmi, dagli urbani volontariamente; fuoco proseguito sino alle ore ventitré circa dentro il paese, allorché finita la munizione si dovette retrocedere ed essere in Venafro per avere forza maggiore dalle reali truppe.

«Nel giorno cinque queste ultime ajutate dall'esponente, dal detto signor Senape da costui nominato sotto capo urbano confermato anche dal signor maggiore Gardi comandante superiore delle truppe qui riunite, e dagli urbani volontari, si fugarono i garibaldini, nella massima parte fu arrestato e spedito alla Maestà Sua insieme ai sospetti del paese, ed altra parte fu ammazzata; lasciandosi in pace i contadini, pochi artigiani, e pochi galantuomini stati fedeli alla Maestà Sua: cose che sono durate sin oggi dal giorno sei, nel quale si stabilirono anche agli avamposti e sono rimasti fissi cento dieci urbani volontari, che si pagano col detto danaro della cassa nazionale ritrovata dall'esponente e dal detto sotto capo urbano, che è prossima a terminare e non si sa come pagare in appresso.

«Ora è pregata la lodata Maestà Sua dare gli ordini necessari su ogni punto umiliato, e più di tutto come deve farsi per gli esiti urgenti dei corpi di guardia disarmati, e se si compiace Sua Maestà che l'esponente col sotto capo proseguano nel loro impegno, come pure se in caso di bisogno possano attendersi altre truppe reali.

«Umilmente le bacio i reali piedi.

«Isernia 11 Ottobre 1860

«Vincenzo Ciurcio - Capo Urbano

«Raffaello Senape - Sotto capo urbano

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La seconda istanza, che segue è assai più breve ed espressiva.

«A Sua Rea! Maestà.

«Sire

«Pietro Venditti fu Giuseppe del comune di Carpinone calzolajo, l'espone divotamente quanto appresso.

«Il petente nel giorno quattro stante, funzionava da capo urbano in detto comune e venti paesani di mia fiducia, feci. arrestare undici rivoltosi e li consegnai al tenente di gendarmeria in Isernia. Nel giungere i garibaldini furono posti in libertà.

«Il giorno cinque corrente ammazzai un tenente garibaldino e lo disarmai, ed il fucile colla bajonetta per ora dine del maggior Gardi lo consegnai al comandante d'Isernia.

«Il petente a tal bravura non può più avvicinarsi alla sua famiglia, temendo di perdere la vita, e rimanere la sua famiglia desolata in mezzo d'una strada di tenera età: un figlio solo potrebbe dare un tozzo di pane alla famiglia, ma rattrovasi al servizio della M. S. nel reggimento d'artiglieria nella decimo ottava compagnia.

«La beneficenza della M. S. mi dia ordine onde poter a arrestare coloro, che si rattrovansi latitanti, che sono rivoltosi contro la real corona, e mi limito una forza per agire contro i medesimi.

«La clemenza della M. S. mi fa la grazia' di potermi a lucrare un tozzo di pane per la famiglia, sarebbe la seguente.

«In Carpinone un venditore patentato di sale e tabacco rattrovasi arrollato coi garibaldini, e non può più far parte della M. S.

«Il petente bramerebbe occupare un tal posto per sostenere la sua famiglia, se S. M. li fa la grazia. Tanto supplica e lo avrà.

A questo genere d'individui o a ignoranti contadini facevano appello il re e la sua corte nella loro agonìa.

Del resto la parte eletta del popolo, respirando le novelle aure di libertà, esultava in presenza del capo veramente legittimo eletto dal plebiscito.

Il motivo di questa reazione (opinavasi saggiamente nel serio giornale des Debats) non è stato l'attaccamento per la famiglia de' Borboni.

Francesco II destava alcune simpatie personali a causa della gioventù e delle sue sventure; ma la dinastia è abborrita.

Si vede a traverso la polizia di Ferdinando II; s'identifica coi Mazza, gli Ajossa, i Governa, ed altri carnefici: Era la fame, la speranza d'una larga ricompensa, la durezza di alcuni gentiluomini campagnuoli, l'avidità di alcuni borghesi che cagionò la sommossa.

Il movimento alla perfine è stato al tutto parziale; ma il malcontento o piuttosto l'espettativa d'un ordine di cose migliore era universale.

I provinciali aveano la fibra politica poco trattabile; il popolo non intendeva nulla.

Per attaccarlo alla rivoluzione o alla reazione, bastava interessarvelo.

Per renderlo unitario, costituzionale; ovvero francescano e reazionario, bisognava essere il primo per restituire al comune i demani respettivi, o a sopprimere la tassa su i salumi e sul macino.

Il popolo nelle provincie non suol mangiar carne tre giorni della settimana per devozione, quando pure potesse cibarsene.

Una diminuzione opportuna del dazio sui pesci salati provenienti da Francia o d'Inghilterra, li avrebbe allora assai opportunamente sollevati e ben disposti.

I beni publici erano in parte posseduti dai borghesi, di guisa che il contadino non avea dove andare in traccia d'un ramo di legna per iscaldarsi o pascere una pecora.

Questi beni resi ai comuni in un modo o nell'altro, avrebbero migliorato la condizione del popolo completamente, e l'avrebbero affezionato al paese come a cosa propria. Indipendentemente da qualunque considerazione, nella massima parte i popolani sogliono acclamar quello, col quale Anno di conservare non solo, ma di accrescere le loro tenui risorse. Allorché il governo giungerà ad accordare agli operaj delle provincie queste soddisfazioni, si porrà sopra una base incrollabile ( [73]).

Il carattere del. contadino nel napoletano è in fondo eccellente. Egli ha una sobrietà da camello; è lavoratore e avvezzo al rispetto della legge; è ignorante, ma modesto ed anche voglioso d'istruirsi; la natura lo ha ben dotato pel sentimento dell'ordine e della famiglia.

Le provincie erano abbandonate all'anarchia, difettavasi di forza publica, tranne poca guardia nazionale, organizzata sopra un ordinanza di Francesco II, emanata specialmente per Napoli: non giudici regi ne' comuni, non tribunali: i sindaci e i decurionati senza autorità, senza istruzioni; essendoché fossero nominati dagli intendenti di Francesco II prima della costituzione. Tutti erano armati, mentre il potere del governo centrale era debole e spesso disconosciuto.

Malgrado tuttociò in generale l'ordine era mantenuto; le persone e le proprietà rispettate. V'erano malcontenti, ma pur, subivano le difficoltà, aspettando gli oracoli del parlamento.

Dapertutto se ne invocava caldamente la convocazione.

È incredibile! In mezzo ad una ignoranza profonda, nel conflitto atroce degl'interessi e delle vendette, in tanto scompiglio burocratico, un sentimento indefinibile latente nel recesso degli spiriti, ispirava longaminità e simpatia pel nuovo regime.

In Vittorio Emanuele riconoscevasi il padre della patria italiana; nel parlamento un consiglio di famiglia. Le privazioni non atterrivano; dopo queste s'avea fidanza in un avvenire maraviglioso.

- Gli urgenti bisogni, che scaturivano dallo sfacelo de' vecchi ordini; la condizione infelice delle classi operaje specialmente, non isfuggirono ad un partito, che lungi dal seguire il progresso naturale e legittimo delle umane cose, preferiva l'andare avventurato e precipitoso di moti impreparati; anteponeva la sorpresa alla coscienza razionale degli atti, e confondendo le teorie pure colla pratica, pretendeva raggiunger di netto l'equazione perfetta del diritto col fatto.

Questo partito che chiamavasi repubblicano o mazziniano dal suo capo, avea tratto maisempre colpi vacui e sterili d'effetto sull'Italia, quantunque nel processo liberale non infecondi di vantaggio. Oggi nel restaurarsi le condizioni novelle, pretendeva disputare alla monarchia la sua influenza e la prerogativa di reggimento, niegando in lei la sufficienza nell'anizzare le sorti italiche.

In tal ragguaglio, per forza di logica, questo partito bilicava colf' estremo opposto delle fazioni borboniche e in qualche senso preponderava (certo senza volerlo ) nell'imbarazzare il governo, e in far profitto alla reazione.

I partigiani esagerati compresero assai bene che gli operaj di classe media ed infima formavano una massa enorme, non in peso ma per numero, inframittenza e attività, soverchiante il ceto più agiato e meno intraprendente.

A quelli rivolsero le lor cure principali, e seguendo l'attrito delle circostanze, all’ombra delle nuove istituzioni imprecate, tentavano piantare le tende.

Mazzini malgrado tanti sforzi vani e sanguinosi per conseguire l'unità italiana, oggi era costretto pedinare le orme di chi era già riuscito a conseguirla pressoché intiera.

Tuttavia, nel ricusarsi a partire di Napoli, lorché dal prodittatore Pallavicino vi era invitato, fin da principio, nel fragore di veementi declamazioni, parea inviluppasse una negazione quanto all'avversare le recenti istituzioni, senza che dal suo discorso potesse arguirsene una nitida conclusione.

«...Ecco le ragioni del mio rifiuto (egli scriveva al citato prodittatore) Rifiuto, perché non mi sento colpevole, né cagione di pericolo pel mio paese, né macchinatore di progetti, che possano essere ad esso funesti, e crederei confessarmi tale se io cedessi.…

«Perché il desiderio (della sua partenza) non deriva dal paese che pensa, opra e combatte sotto le bandiere di Garibaldi, ma dal ministero torinese, verso il quale io non ho alcun obbligo, e che io credo fu vesto all'unità della patria; ma da reggitori e gazzettieri privi di coscienza, di onore, di moralità nazionale, alieni da ogni culto, se togli quello del potere esistente, qualunque ei si sia, e che pertanto io disprezzo; ma dal volgo dei creduli a oziosi, i quali giurano senz'altro esame, per la parola dell'onnipotente e che per conseguenza io compiango...

«Il massimo de' sacrifizi ch'io potessi fare, l'ho fatto, quando interrompendo per amore dell'unità e della concordia civile l'apostolato della mia fede, dichiarava ch'io accettavo non per rispetto pei ministri o pei monarchi, ma per x la maggioranza illusa (e parmi dire assai), del popolo italiano, la monarchia pronto a cooperare con essa, purché fondasse l'unità, e che se mai uscissi un giorno sciolto dalla coscienza, a riprender la nostra vecchia bandiera, l'annunzierei lealmente e subito e publicamente ai miei amici ed ai miei nemici.

«Non posso adunque compiere un altro sacrifizio spontaneamente....

Non ostante tali sonori concetti, che quest'uomo infaticabile credeva in buona fede posseder privilegiatamente contro la maggioranza illusa del popolo italiano, il vero si è che cooperatore al certo ferventissimo per le italiane franchigie, s'era abituato a scorgere intorno a se solamente i resultati avversi o fortunati delle varie vicende liberali, senz'addarsi che mentre sommi ingegni come il Vico, Gioberti, Balbo cc: aveano preparato i termini speculativi, egli colle sorprese d'azioni inopportune, ha attribuito a virtù delle sue cospirazioni i divisamenti altrui e la efficacia reale ed effettiva della scienza, di cui egli non ha sfrondato che pratiche intempestive, inacconce e fatali.

Anche questa volta Mazzini aveva salvata l'Italia; se non che libero era disceso nella terra de' già liberi per fondare la nuova associazione dell'Unità Nazionale, già più che a mezzo fondata per ben altre vie che le sue, avente il triplice scopo

1. Di secondare il compimento dell'unità in conformità del programma del generale Garibaldi.

2. Di riunire ed esprimere i voti e la volontà della nazione.

3. Di studiare il benessere politico e sociale delle classi operaje.

I primi due articoli avviticchiati alla coda de' vincitori, eran destinati a rappresentare il tratto d'unione col terzo, inchiusivo de' problemi più brocardici e pregnanti, e che contenne in se il vero pendio republicano, nel quale isdrucciolò ancora, senza saperlo, l'egregio cuore di Garibaldi.

Per amore e per la pietà delle classi operaje, egli finì coll'accettar la presidenza di tante congregazioni, comitati o fratellanze, le quali non tardarono per l'influenza derivata e imprudente de' loro capi, a travolgere il concetto artistico, che avrebbe dovuto informarle, in sedicenti assemblee politiche, da cui, coni' era facile prevedere, ne seguirono contese e scandali a pregiudizio de' più profittevoli istituti.

I fautori, di Mazzini in Napoli, i quali veramente giuravano per la sua parola, non fecero lungamente attender il frutto de' suoi precetti. Quanti mai avevano iniziato e condotto il moto nazionale al punto in che era, o che avessero appoggiato cogli scritti o colle parole il governo, erano dichiarati nemici del paese, il flagello d'Italia.

L'immortale conte di Cavour non credè, prudente avvicinarsi in Napoli, o comparire qual primo ministro a fianco del re Vittorio, allorché fece il suo ingresso trionfante in quella capitale, temendo provocare delle suscettibilità irrequiete, in allora potenti troppo, ma non certo in sostanza dissimili dal volgo de' creduli oziosi ravvisati dal fiero repubblicano nel partito governativo.

Io era in que' dì in Napoli con Garibaldi, e cessato il cannone di Capua, talvolta pigliava sollazzo nell'intervenire a qualche rappresentazione teatrale.

Or bene l'inno e gli osanverso del più benemerito restauratore della nazione italiana, erano morte a Cavour, ripetuto con intercalari sconvenevoli e nauseanti, indegni d'un popolo risorto a libertà; disdoro in cospetto degli stranieri, invidi censori degli atti non che delle nostre intenzioni.

Gli stessi schiamazzi echeggiavano nelle piazze, e in ogni ricorrenza dove udivasi risuonare questa iniqua imprecazione; simbolo eloquente d'insensatezza e d'ingratitudine.

Invece sotto il grido di Viva Garibaldi, coll'eterno suo inno, venivano i forieri larvati del partito estremo.

Il nome veramente sacro all'Italia di Garibaldi usurpato per fini, che non eran certo del suo programma, giunse per colpa d'illusi (e ne par di dire assai, diremo a nostra volta) a farsi segno di sedizione e di tumulti; talché il governo astretto a tener saldo l'ordine publico, era obligato spesso apparire avverso a quel Sommo, di cui certo non avea obliato né le glorie né i meriti preclarissimi verso la patria.

L'essenziale del partito che dicevasi d'azione, era di guadagnare specialmente 'i soldati di Garibaldi, dove ravvisavasi la vera forza necessaria, per contrapporla, quando che si fosse, al governo, e moltissimi di questi, sebbene nella ignoranza, proclivi a sentimenti slanciati e generosi; erano caduti nella rete.

Lo stesso ex-prodittatore della Sicilia, e comandante l'esercito meridionale G. Sirtori, videsi forzato ammonire severamente i suoi militi, avvertendoli del risico che correauo di confondersi coi nemici della nazione. Egli dirigeva loro queste poche, ma significanti parole in un ordine del giorno.

«Uffiziali e soldati dell'armata meridionale!

«Si vocifera di dimostrazioni provocate dai nemici d'Italia, alle quali siete sollecitati di far parte voi, che dell'Italia siete sì benemeriti. Voi primi avete il merito e la gloria d'aver col vostro sangue inaugurato in queste provincie il governo voluto dalla nazione. Italia e Vittorio Emanuele è il motto della vostra bandiera. A Vittorio Emanuele, che vi ama siccome figli, dovete amore e riverenza filiale, e gli dovete l'onore, che si deve al re d'Italia desiderato da tanti secoli.

«Soldati!

«Se alcuno tra voi profittando delle difficoltà inerenti alla situazione, cerca di eccitarvi a dimostrazioni di malcontento, consideratelo come nemico vostro e nemico della patria. L'abnegazione e la disciplina sono le prime virtù del soldato.

«La disciplina esige che ogni ufficiale e soldato si renda al proprio posto. Chi dimentico dell'onore e del dovere se ne allontanerà, verrà punito colla massima severità.

«Napoli 26 Novembre 1860

«Il comandante dell'esercito meridionale

«G. Sirtori»

Ecco in qual maniera i così detti republicani o mazziniani facevan causa comune coi cospiratori borbonici, e gli uni più degli altri rendevansi giovevoli alla reazione, debilitando il governo, nel quale in ultima analisi non riconosceasi che un compenso transitorio e utilissimo a spianare la via della republica per una parte ( [74]), e per l'altra la restaurazione de' Borboni.

Di fatti erano contemporanei in Napoli ammutinamenti e disordini di un colore misto, ed ambiguo, ma che lasciavano intravedere tenebrosi concerti. Per riferire qualche esempio, un Giuseppe de Luca, distinto uffiziale è pugnalato; altri vuoi soccorrerlo, ed è parimenti ferito.

Il general Longo di marina e un Ferdinando Mascilli vengono gravemente minacciati di vita.

Il ministro Conforti, nome popolarissimo, aggredito da un incognito, si vede impugnata una pistola sul petto; l'altro ministro Giura, personaggio onorando come privato e come uomo di stato, è investito nella stessa sua carrozza dai malandrini a colpi di bastone; i cristalli cadono infranti, il cocchiere è ferito, e se un pronto accorrere di popolo non lo avesse tostamente involato al pericolo, forse ne sarebbe perito.

Era cosa ben dolorosa non poter definire in mezzo ai tumulti se prevalesse l'odio eccessivo di Francesco, o la disordinata tenerezza di Mazzini, o l'avversione de' più miti contro Cavour, La Farina ec: o finalmente il partito di Garibaldi.

I mazziniani pronti sempre a sfruttar come propria l'opera altrui, affettavano secondare il compimento della unità italiana in conformità del programma di Garibaldi, mentre questi avea scritto sulla sua bandiera— Italia una sotto la monarchia costituzionale di Vittorio Emanuele ( [75]) — e quelli ripudiando monarca, monarchia e i suoi ministri, ricantavano in sostanza l'antico motto—Dio e Popolo — Garibaldi risalendo all'altezza de' principii, senza il volgarismo di sterili passioni, era indifferente verso le persone, e predicava sinceramente che si bandissero dispute di ministero: i republicani scorgevano invece nelle persone gli ostacoli all'attuazione de' principi, e scartando Garibaldi dove lor non ne tornasse conto, si stempravano in laide diatribe e in disseminare odi di parte.

In fondo però considerate tutte queste divisioni, tranne i borbonici, nelle frazioni liberali, tutti eran d'accordo. La differenza era di parole e non di sostanza; di mezzi e non di fine.

Cavour, Garibaldi, e i democratici tutti aveano un sol pensiero; l'Italia: una sola bandiera; la tricolore; un sol capitano, Vittorio Emanuele. Mazzini unicamente con pochissimi seguaci assertori di forme astratte governative, ammettendo e rigettando il programma Garibaldi; maledicendo o impartendo grazia alla monarchia, secondo il vento; affermando insomma e niegando a un tempo, dall'idea di tutti allontanavasi, e mentr'egli superbamente dispregiava e condannava tutti, nel suo isolamento spoglio di qualsivoglia risultato, era tenuto generalmente come certissimo restauratore delle spente tirannidi.

Egli nutriva una speranza; ed era che il programma monarchico-costituzionale venisse manco, per propinare agl'italiani, quale unico scampo, il farmaco della unità republicana.

Coll'urna elettorale apparecchiavano i settari novelle disfide al governo. In questo campo essi sentivano il bisogno di reclamare contro la soverchia ristrettezza della legge sulle elezioni; e quantunque stemprati propugnatori dell'idea, avean d'uopo soffocarla invocando il ribobolo del suffragio universale.

Cominciarono a spargere che il popolo non era legalmente rappresentato in parlamento; dacché i voti limitati a pochi cittadini rispetto alle masse, non potevano avere l'efficacia d'esprimere la volontà delle maggioranze.

In cotal guisa scambiando il numero col peso, studiavansi defraudarne le maggioranze vere e legittime, ed immolare all'influenza dei parrochi o de' feudali la verità e la giustizia pel trionfo ambito d'una chimera, d'un partito esclusivo, egoista.

Non potendo però alterare la legge fondamentale, si volsero a soffiar come lo si poteva nel fuoco vivo delle lotte elettorali.

Il senso retto degl'italiani anche in questa occasione ebbe agio di manifestarsi splendidamente. I democratici, che Mazzini forse imaginava nelle sue fila, furono eletti, se non in maggioranza, in buon numero; ma dové avvedersi una volta di più che al paragone di una disputa seria e ben nudrita, a nulla vale l'intrigo, il sofisma o l'ostinarsi in utopie d'astrazione.

— In seno a tante agitazioni era maravigliosa e superiore ad ogni elogio l'operosità e lo zelo delle guardie nazionali. Senza tema di esagerare può dirsi che a questa parte, la più culta delle popolazioni napolitane, devesi specialmente la conservazione dell'ordine e l'incolumità publica in tanti pericoli, di che senza il loro intervento autorevole e omogeneo, di fronte alle truppe di linea o di polizia, sarebbe stata minacciata. La costanza e l'assiduità nel servizio diurno e notturno, successivo, incessante, lungi dallo scemare, pareva gareggiare colla gravezza de' patri bisogni.

Chi avesse scorto que' cittadini accorrere ad ogni urgenza non solamente di ordine, ma di carità publica o privata, avrebbe veduto lo spettacolo di un popolo abbandonato a se stesso, anelante in dar saggi di virtù e civile coraggio, e in vegliare alla custodia di quelle leggi, che s'era imposte spontaneamente col deferirne l'autorità all'eletto dal plebiscito.

Questo ardore della esemplarissima guardia nazionale napoletana non s'intiepidì già coll'andare del tempo; ma invece s'accrebbe maravigliosamente fino all'eroismo, mentre gran parte di essa non dubitò uscire in aperta campagna a combattere i briganti, e suggellare col martirio l'affetto immenso portato al proprio paese ed al consolidamento delle liberali istituzioni.

In Napoli erano più che dodici mila giovani, padri di famiglia e negozianti, i quali tutti messi in seconda linea i propri affari, divertimenti, piaceri, famiglia, votaronsi al bene comune, e all'interesse reciproco di loro stessi e del governo.

Nelle caserme, nei forti, ne' palazzi, nelle prigioni, ne' tempi e ne' luoghi tutti ch'avean d'uopo di gelosa vigilanza, erano drappelli e battaglioni di questa guardia.

Negli esercizi militari sembrava eletta milizia regolare, dove ammiravi la nobiltà e la eleganza del portamento, senza il cipiglio troppo disdegnoso e marziale del campo.

Nelle parate o nelle ricorrenze, la tenuta era brillautissima. Uno squadrone di cavalleria sopratutto formato a proprie spese da ricchi possidenti, spiccava per tale sontuosità di abbigliamento co' suoi fogosi destrieri, che in nessuna parte d'Italia se ne vide giammai l'uguale.

Tutte le fazioni più onorifiche nel ricevere alti personaggi o nell'incontrare il re, erangli riserbati.

Ne' momenti più gravi e pericolosi, dove la cavalleria era vantaggiosa, a preferenza de' fanti, questa accorreva prontamente con egregio successo. Non v'eran riguardi tra gli alti uffizi o i più umili; tra le comparse o i perigli.

Giammai un popolo si dimostrò più sollecito e compreso dalla propria dignità, quanto il popolo napolitano.

A capo di queste scelte schiere nazionali stava il venerando generale marchese O. Tupputi, vecchio militare e liberale valentissimo.

Ha retto egli e regge a tutt'oggi con infaticabile operosità la milizia cittadina di Napoli. È a lui che meritissimamente si diressero dal re medesimo confortanti parole di elogio ed onori singolari; come in qualunque altra occasione, in cui cotanto degnamente, nella sua qualifica, rappresentava il paese.

Colla solerte vigilanza dell'ordine publico, egli non omise di curare che l'accordo più perfetto regnasse tra la milizia cittadina e la truppa regolare, non troppo altronde benevisa.

Un solenne banchetto fu imbandito splendidamente nel teatro S. Carlo ad onoranza della ufficialità italiana, e quivi tra i brindisi all'Italia e al gloriosissimo re Vittorio, si confermò il patto di fratellanza e di amore tra il popolo e i' armata.

Lo spirito eccellente della guardia nazionale nella capitale scosse una generosa emulazione nella popolazione delle campagne.

Una circolare del governo raccomandava alle classi agricole questa istituzione, affinché i coloni armati dell'auto rità della legge avessero pei loro campi, e pel frutto de' loro su dori quella tutela efficace, che fino allora invano erosi reclamata dai passati governi, e che erano stati costretti ad esercitare da loro stessi clandestinamente come un atto vietato e col timore d'andare incontro a spiacevoli e dolorose conseguenze.

Non mancarono sinistre voci, colle quali s'insinuava che questo invito non era che un modo subdolo per preparare una nuova leva o una forzata mobilizzazione.

Le classi agricole mostrarono una inaspettata intelligenza; non valsero le mali arti adoperate, né le abitudini rurali più lente e meno fervide bastarono a ritrarvele.

Esse si organizzarono, e ne' dì festivi s'addestravano esemplarmente al maneggio delle armi, il che tanto dovea ridondargli utile ne' conflitti sanguinosi, che dovettero indi subire in difesa delle cose proprie dalla mano rapace degli assassini di Francesco II.

Altri battaglioni di guardie nazionali volontarie scambiavano i loro servigi e le lor visite nelle diverse città da Napoli a Milano, a Torino, a Firenze e viceversa.

In tal guisa nell'interno del regno, le città e le campagne tutelavano per ogni dove la proprietà e l'ordine publico;. di fuori al contatto svariato di usi e costumi di una stessa patria, riforbivasi l'educazione, lo spirito civile e militare de' popoli testé risorti a vita novella.

Non parvemi dicevole tener parola sulle cose napolitane senza rendere un tributo di lodi a coloro, che ne arrestarono i più perniciosi progressi.

Quest'atto di giustizia attende la sua conferma nei fatti che seguiranno; né sarò ripreso come indiscreto, se vi spesi qualche parola.

— Assai cose narrammo e tali da far raccapricciare il cuore più inumano e indurito nella violenta passione de' partiti; assai oltre, e più orrende seguiranno. Tranne poche digressioni, che toccano solo indirettamente i fatti della reazione, abbiamo pur gittato un guardo sugli effetti terribili del governo di Gaeta: abbiamo notato il proposito protervo e crudele di Francesco nel voler ad ogni costo incaponirsi in combattere il suo popolo, non ostante l'inutilità della protezione francese, la quale vera maggioranza fornita di zelo e di effettivo coraggio, pur doveva dar agio, nell'intervallo delle trattative, a mostrarsi, se non coll'apparato della violenza, almeno con dimostrazioni pacifiche e solenni, non già di compra feccia di plebe, ma di popolo vero ed eletto.

Ebbene nel pien meriggio di tanta luce, in cospetto dell'Europa stupefatta, e nell'atto stesso che il sangue degli oppressi pretesi suoi sudditi e figli, ascendeva disdegnosamente fumante dinanzi all'ara del Signore, con ampio manifesto, osava indirizzarsi ai popoli delle due Sicilie, nella mira di risuscitare l'ardore della devozione o vellicar l'ingordigia de' suoi partigiani; ma vili questi e spento quel fuoco supposto, alimentato appena poco dianzi dall'adulazione o dalla paura, era ridotto in isterile cenere accumulata con quelle degl'incendi e delle rovine feconde sol di vendetta e di superna punizione.

Cotesto manifesto inascoltato, fu come arringo nel deserto; anzi fornì un argomento di più, che si aggravò sulle già mentite querele della corona.

Un documento qual'è questo, che indignò l'opinione universale; documento proprio di una livida e bassa polemica; colmo d'ingiurie disdicevoli ad un linguaggio ufficiale, di bugiarde promesse mille volte rinnegate da una casa, in cui lo spergiuro tornava gradito come le torture di Sicilia, i moschetti di Cosenza, i massacri di Napoli o le bombe di Palermo; misto di eccitamenti a discordia e rivalità, di confessioni mezzo tra ippocrite e umilianti, finalmente infarcito della mendace fraseologia de' tiranni pericolanti; un tale documento non può esser passato in silenzio senza lasciar cadere a vuoto una prova validissima delle miserabili contradizioni di questo fanciullo coronato non solo colle millanterie precedenti, ma con atti anco più ciechi e sconsigliati che seguiranno.

Se il documento è alquanto prolisso, i lettori ne andran compensati dalle verità ch'ivi possonò ritrarsene; come parimente purgherà me dall'accusa di gratuito declamatore di cose, che in vero vidcono ogni credibilità.

Eccone adunque il tenore.

«Gaeta 8 Decembre 1860

«Popoli delle Due Sicilie!

«Da questa piazza, dove io difendo più che la mia corona, l’indipendenza della patria comune, il vostro sovrano alza la voce per consolarvi nelle miserie e per promettervi de' tempi più felici.

« Traditi ugualmente ed ugualmente spogliati, noi risorgeremo insieme dai nostri infortuni.

«L'opera dell'iniquità non durerà giammai lungo tempo, e le usurpazioni non sono eterne.

«Io ho lasciato cadere nel disprezzo le calunnie; io ho guardato con indignazione i tradimenti, finché i tradimenti e le calunnie si riferivano solamente alla mia persona. Io. ho combattuto non per me, ma per l'onore del nome, che portiamo.

«Ma quando io vedo i miei sudditi affezionati in preda a tutti i mali della dominazione straniera, quando li vedo popoli conquistati, portare il loro sangue e i loro averi in altri paesi, conculcati da un popolo straniero, il mio cuore napoletano batte d'indignazione nel mio petto, ed io sono consolato soltanto dalla lealtà della mia brava armata, dallo spettacolo delle nobili proteste, le quali da ogni punto del regno si alzano contro il trionfo della violenza e dell'astuzia.

«Io sono napoletano; nato tra voi io non respirai altr'aria; io non ho veduto altri paesi, io non conosco altra terra che la terra natale. Tutti i miei affetti sono nel regno; i vostri costumi sono i miei; la vostra lingua è la mia; le vostre ambizioni sono le mie.

«Erede d'un'antica dinastia, la quale nel corso di lunghi anni regnò su queste belle contrade, dopo averne ricostituito l'indipendenza e l'autonomia.

«Io non vengo, dopo avere spogliato gli orfani del loro patrimonio, e la chiesa de' suoi beni, a impadronirmi colla forza straniera della più deliziosa parte d'Italia.

«Io sono un principe, ch'è vostro e che ha tutto sacrificatoal suo desiderio di conservare tra i suoi sudditi la pace, la concordia e la prosperità.

«Il mondo iutiero l' ha veduto; per non versare il sangue, io ho preferito rischiare la mia corona. I traditori pagati a dal nemico straniero, sedevano nel mio consiglio ( [76]), accanto a de' fedeli servitori; nella sincerità del mio nome io non poteva credere al tradimento.

«Mi costava troppo il punire; io soffriva d'aprire dopo tante disgrazie un'era di persecuzioni; e quindi la slealtà di qualcuni e la mia clemenza facilitarono l'invasione, la quale prima si è operata col mezzo d'avventurieri, poi paralizzando la fedeltà de' miei popoli, e il valore a de' miei soldati.

«Esposto a continue cospirazioni, io non no FATTO VERSARE UNA GOCCIA Dl SANGUE, e si è accusata la mia condotta a di debolezza.

«Se l'amore il più tenero pe' miei sudditi, se l'orrore istintivo del sangue, meritano quel nome, sì certamente io fui debole. Al momento, in cui la rovina de' miei a nemici era sicura, io fermai il braccio de' miei generali per non consumare la distruzione di Palermo ( [77]).

«Io preferii abbandonare Napoli, la mia casa, la mia capitale amata, senza esser cacciato da voi, per non esporla agli orrori d'un bombardamento, come quelli, i quali hanno avuto luogo più tardi a Capua e ad Ancona.

«Io ho creduto di buona fede che il re di Piemonte, il quale si diceva mio fratello e mio amico, che mi protestava di disapprovare l'invasione di Garibaldi, che trattava col mio governo un'alleanza intima per i veri interessi dell'Italia, non avrebbe stracciato tutti i trattati e violate tutto le leggi per invadere i miei stati in piena pace; senza motivi, né dichiarazione di guerra.

«Questi sono i miei torti: io preferisco i miei infortuna ai trionfi de' miei avversari. Io avea dato un amnistia; io aveva aperto le porte della patria a tutti gli esiliati, io aveva accordato a' miei popoli una costituzione; io non ho mancato certamente alle mie promesse.

« Io mi preparava a garantire alla Sicilia delle istituzioni libere, le quali avrebbero consacrato con un parlamento separato la sua indipendenza amministrativa ed economica, e tolti d'un sol colpo tutti i motivi di diffidenza e di malcontento.

«Io avea chiamato ne' miei consigli gli uomini, i quali mi sembravano i più accetti all'opinione pubblica in queste circostanze, per quanto me lo permise l'incessante aggressione, di cui io sono divenuto la vittima; io ho lavorato con ardore alle riforme, al progresso, alla prosperità del nostro comune paese.

«Non son già le discordie intestine che mi strappano il mio regno, ma io son vinto dall'ingiustificabile invasione d'un nemico straniero.

«Le Due Sicilie ad eccezione di Gaeta e di Messina, questi ultimi asili della loro indipendenza, si trovano nelle mani del Piemonte.

«Cosa questa rivoluzione ha procurato ai popoli di Napoli e di Sicilia? Vedete la situazione, che presenta il paese. Le finanze non ha guari a tanto fiorenti, sono completamente rovinate ( [78]), l'amministrazione è un caos, la sicurezza individuale non esiste.

«Le prigioni sono piene di sospetti; in luogo della libertà, lo stato d'assedio regna nelle provincie, e un generale straniero publica la legge marziale, decreta la fucilazione immediata per tutti coloro de' miei sudditi, i quali non s'inchinano davanti alla bandiera di Sardegna ([79]).

«L'ASSASSINIO E’ RICOMPENSATO, il regicidio ottiene un apoteosi; il rispetto al culto santo 'de' nostri padri è chiamato fanatismo ([80]); i pro motori della guerra civile, i traditori del loro paese ricevono delle pensioni, le quali paga il pacifico contribuente.

L'anarchia è dappertutto. Avventurieri stranieri hanno messo la mano su tutto per soddisfare l'avidità o le passioni de' loro compagni.

«Uomini che mai videro questa parte d'Italia, o che in una lunga assenza ne obliarono i bisogni, costituiscono il vostro governo. In luogo delle libere istituzioni, che io vi detti e che desiderava di sviluppare, voi avete avuto la dittatura la più sfrenata, e la legge marziale surroga presentemente la costituzione.

«Sotto i colpi de' vostri dominatori sparisce l'antica monarchìa di Ruggiero e di Carlo III, e le Due Sicilie sono state dichiarate provincie d'un regno lontano. Napoli e Palermo saranno governati da prefetti venuti da Torino.

«V'è un rimedio a questi mali e alle calamità più grandi ancora che io prevedo: la concordia, la risoluzione, la fede nell'avvenire.

« Unitevi intorno al trono de' vostri padri. Che l'oblio ricopra per sempre gli errori di tutti; che il passato non sia giammai un pretesto di vendetta, ma una lea zione salutare per l'avvenire.

«Io ho fiducia nella giustizia della Provvidenza, e qualunque sia la mia sorte, io rimarrò fedele a' miei pojoli, come a alle istituzioni, che io ho loro accordato.Indipendenza amministrativa e economica fra le Due Sicilie,mediante parlamenti separati; amnistia completa per tutti i fatti politici, tale è il mio programma. Fuori di queste basi non rimarrà al paese che dispotismo e anarchia.

«Difensore dell'indipendenza della patria, io resto e combatto qui per non abbandonare un deposito così santo e così caro. Se l'autorità ritorna nelle mie mani, ciò sarà per proteggere tutti i diritti; rispettare tutte le proprietà, garantire le persone e i beni de' miei sudditi contro ogni sorta d'oppressione e di saccheggio.

«Se la provvidenza ne' suoi profondi disegni permette che l'ultimo baluardo della monarchia cada sotto i colpi d'un nemico straniero, io mi ritirerò colla coscienza senza rimprovero, con una fede inalterabile e attendendo l'ora vera della giustizia, io farò voti i più ferventi PER LA PROSPERITA’ DELLA MIA PATRIA, PER LA FELICITA' DI QUESTI POPOLI i quali formano la più grande e la più cara parte della mia famiglia.

«Dio onnipotente, la vergine immacolata e invincibile, protettrice del nostro paese, SOSTERRANNO LA NOSTRA CAUSA COMUNE.

«Firmato — Francesco»

— Siamo ormai in sul cadere dell'anno 1860 nella esposizione de' fatti che precedettero il vero brigantaggio accesosi propriamente dopo la resa di Gaeta.

La narrazione, come ho superiormente indicato, è un mero compendio di fronte alla enorme involuzione delle vicende, che s'accumularono nel regno in poco tempo; né era debito mio sindacarle tutte; procurai altresì tener tal via media che il lettore venisse a portata di non ignorare coi fatti principali le cause motrici e gli ostacoli, che li accompagnarono.

Il seguente anno fu grave di avvenimenti; fu quello che vide le stragi, anzi gli eccidi più sanguinosi e terribili per parte de' briganti, mentre la corte pontificia di conserva colla borbonica avevano di già apparecchiato nuovi impedimenti e disastri nelle vie intricate delle questioni politiche, diplomatiche e religiose.

Delineo in iscorcio vari sintomi che si rapportano al nostro argomento prima di quest'epoca, a migliore intelligenza di quanto seguì posteriormente.

— La presenza della squadra francese nelle acque di Gaeta colle istruzioni contradittorie, che tralucevano dall'azione inqualificabile dell'ammiraglio Barbier-le-Tinan e la protezione contemporanea troppo prolungata di Roma, accresceano ogni dì vive diffidenze verso il governo di Francia rapporto all'Italia e la publica opinione divisa in mille conghietture, che neppur fin qui seppero determinarsi, levava oramai la sua voce in Europa.

La più ardita opinione spingevasi in affermare che Napoleone dopo aver cangiato in mano agl'italiani il programma dell'Italia libera dall'Alpi all'Adriatico in seguito della pace di Villafranca, volesse tentare un colpo per incoraggire la reazione, acciocché vincitrice o almeno considerevolmente minacciosa, potesse aprirsi la strada ad un riparto federativo nella penisola.

La più mite non volendo vedere leso il principio del non intervento negl'impedimenti contesi colla forza dalla squadra, tentava di conciliarvi anche l'assenso dell'Inghilterra, che parea favoreggiare l'unità italica, col supporre il timore che una flotta russa potesse sostituirsi alla francese in caso di evacuazione dalla piazza.

Ovvero opinavasi che l'Imperatore avesse voluto sperimentare se veramente l'indirizzo delle cose nel regno napolitano corrispondesse alle intime intenzioni de' suoi abitatori.

Quest'ultima però era la meno probabile, giacché qualunque fossero state le tendenze de' napolitani, coll'esercito scompaginato, colle forze vincitrici e le sopravvenute di fresco dall'alta Italia, una contromossa sarebbe stata nemmen verosimile.

La seconda, cioè la più mite era un mero pretesto e riproduceva il patrocinio imperiale. Rimaneva la prima come più vera, conforme al complesso de' fatti, alle mire della Francia sull'Italia, e quel che è più a' suoi interassi (checché dicasi) contrari maisempre all'unità troppo forte ed assoluta.

Intanto la resistenza di Gaeta protratta, ogni giorno più persuadea all'Europa la pervicacia di Francesco, raffermava l'odio delle popolazioni alla sua dinastia, e ridusselo agli estremi tentativi con Roma e l'Austria interessate a sostener le vecchie ragioni.

La Russia e la Prussia vedendo scadere ogni giorno l'influenza austriaca, eransi rimesse di animo, né davansi pensiero di cospirare.

L'Austria stessa occupata nel bisticcio di una specie di ricostituzione consigliata dalle minacciose condizioni interne, non poteva spiegare tutto il suo buon volere per Roma e per Napoli.

Il partito tedesco seminato negli stati secondari della Germania, non era uniforme, né troppo ligio alla via del regresso, tra cui la Baviera più se ne allontanava.

— Il governo di Roma adempieva alla sua parte. Dopo la battaglia di Castelfidardo, era naturale che s'installasse nelle vinte provincie il governo italiano. Or siccome i commissari regi aveano intrapreso a divulgare i decreti relativi alla loro gestione, comparve su tutti i punti dell'antico stato pontificio, una protesta collettiva direttacontro l'intrusa podestà in onta ai diritti della chiesa, firmata dai prelati diocesani delle Marche. ([81])

Il papa in Francia, Antonelli in Inghilterra, i Gesuiti in Napoli, in modo più peculiare aveano aperto l'avverso loro animo, quasi a giustificazione preventiva di que' mali infiniti, di che andavano empiendo l'Italia.

I romani, che dovevano prepararsi a tollerare innanzi a se lo sviluppo dell'Immondo dramma brigantesco, venivano per tempo 'ristretti da nuovi rigori dalla polizia.

I francesi che ad ogni giorno cominciavano a mostrare una nuova fronte ora ai preti, ora ai liberali, ora al governo italiano, ora all'Europa, eran venuti sospettissimi a tutti.

Le dispute acri tra il generale in capo francese, le autorità e taluni de' principi romani, erano i sintomi sicuri di una posizione imbarazzante, mal sostenuta dal conte di Govon, tra i francesi già leggeri, leggerissimo e vanitoso.

Gli opuscoli affluivano a centinaja in Francia, in Inghilterra, nella Germania, in Italia e fino in Russia, tutti in diversi sensi dissertavano in materia mista politico-religiosa, proponendo soluzioni per le quistioni romana e veneta.

Codesti opuscoli supplivano alle infinite polemiche de' giornali d'ogni colore, e riportati separatamente ottenevano il duplice scopo di riportare una impressione più permanente, e di trarne cospicui guadagni, massimamente lorché aveasi studio di farli subodorare al publico quali emanazioni ufficiali indirette. ( [82])

Mentre nelle provincie napolitane davasi opera dai consiglieri di luogotenenza in riordinare le cose dopo le furiose agitazioni politiche, lo stato della publica quiete aggravavasi in modo particolare pel ritorno alle case respettive di circa trentamila borbonici ell'erano rifugiati nello stato pontificio.

L'ex-re avea detto loro.

«Io sono obbligato di sciogliere provvisoriamente i corpi, di cui voi fate parte. Io ho ferma fiducia che tra poco voi sarete riuniti, forse per combattere ancora e accrescere la gloria delle truppe napolitane.

« Voi porterete su i vostri petti una ricordanza del vostro valore colle medaglie, che rammenteranno tutti i combattimenti, ne' quali avete dato sì belle prove di coraggio e di bravura.

« Voi ritornate per il momento alle vostre case, ove ritroverete i vostri compagni d'arme, i quali avendo combattuto va lorosamente nel 1848 e 1849 seppero guadagnare le medaglie di fedeltà dell'assedio di Sicilia e di Roma.

« Unitevi a loro e sarete com'essi rispettati e onorati da tutti i buoni e onesti cittadini.

«Il giorno verrà certamente, in cui voi saprete riprendere li armi, che impugnaste per la salute del paese, delle vostre famiglie e de' vostri beni.»

Essi aveano motti d'ordine e segrete istruzioni; erano muniti di commendatizie o di segnali per collegarsi coi preti e con vecchi impiegati borbonici; seminavano dovunque mal contento ed eccitamenti con danaro e seducenti promesse, svegliando colle più feroci passioni il popolo a tumulto.

Costoro ingombravano le publiche vie, assalivano i viandanti e spargevano il terrore nelle città, dove transitavano con ricatti e saccheggi.

Per questo potente sussidio i tiepidi invero scaldavansi, e già i principi di vaste cospirazioni facevan quà e là trasentirsi. Un certo Cantalupi venne arrestato in Napoli; furono a lui rinvenuti documenti gravissimi coartanti la prova di ampia congiura a danno del governo.

Egli era munito di oro e di varie specie di diplomi, che lo investivano di autorità ufficiale in caso che la rivolta da scoppiare, fosse riuscita felicemente.

— La luogotenenza Farini, che aveva affrontato i primi urti del ricomponimento politico, s'era inevitabilmente procacciata de' nemici, e nella quantità di decreti, di misure e d'innovazioni, non era potuta riescire a contentar tutti.

Egli s'avvide di non essere abbastanza gradito, e siccome più che mai era tempo colà di tener a conto l'opinione del paese, quando pur non fosse stata rettissima, ma invalsa sufficientemente, divenne dimissionario.

Civitella del Tronto era assediata dal generale Pinelli. La sorte di Messina, giusta la capitolazione tra i borbonici e Garibaldi, doveva far seguito a quella di Gaeta. Quest'ultima fortezza stretta da terra e sorretta dalla malferma protezione di Francia dal lato di mare, contava le ore della sua caduta.

Sotto questi auspici chiudevasi l'anno 1860.

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XXII

— Quante meraviglie eransi avvicendate in breve periodo di tempo! L'Italia del centro annessa tutta al regno costituzionale di Vittorio Emanuele; il primo parlamento italiano s’era raccolto provvisoriamente nella capitale del Piemonte; la bandiera italiana da Sicilia a Capua avea percorso una via di glorie e di trionfi, mercé il coraggio di pochi volontari in mezzo alle acclamazioni de' popoli; sconfitte e disperse le crociate mercenarie di Lamoricière; il re sabaudo, valicati gli Appennini, disceso a soccorso dei popoli napolitani, indi acclamato il duce e il rigeneratore d'Italia.

I pericoli passati però, le agitazioni e i dolori sofferti non accennavano a fine; tuttavolta dopo successi cotanto propizi, le speranze erano vive, quanto gli spiriti incoraggiti, ed ogni italiano benediva al patrocinio visibile della Provvidenza.

In men di due mesi il re di persona aveva visitate tutte le popolazioni a lui spontaneamente dedicatesi. Dovunque era stato accolto e festeggiato qual padre, che dopo lunga stagione rivegga gli amati suoi figli.

Egli disceso modestamente in mezzo al popolo, permetteva che tutti gli si avvicinassero; con ansietà desiderava conoscere direttamente i suoi più urgenti bisogni; come pure godeva ammirare da vicino la vivacità e la garrulità briosa di quelle fervide popolazioni cotanto diverse dalla tempra pacifica e mansueta de' settentrionali italiani.

Giusta le informazioni delle autorità, rilasciava ingenti somme di danaro per sollevare d'alquanto la squallida miseria, che per tanti disastri avea orridamente rincrudìto.

Tutti confortava, e ridestando in ciascun municipio le gloriose memorie, che lo distinguevano, gittava le basi di una proficua emulazione, scuoteva le fibre intorpidite, da pertutto accendea le scintille della novella vita nazionale.

Niuno degli avversi partiti osò mostrarsi nell'augusto passaggio; l'unanimità. e l'espansione giuliva degli animi parve assopire un istante 'i lunghi gemiti di que' miseri popoli; una mano benefica sembrò raddolcire l'acerbità di tanti dolori.

Il re pieno il cuore di un'arcana consolazione, che difficilmente è dato sperimentare a chi regna, facea ritorno alla principal sua sede in Torino in sul cominciare del nuovo anno 1861.

Egli vi tornava onusto di recenti allori, più glorioso signore di ben più ampio territorio.

Garibaldi pel primo nel suo incontro a Teano salutò Vittorio Emanuele Re d'Italia; oggi nessun altro titolo pareva dicevole al capo di ventidue milioni d'italiani, e tale infatti fu acclamato dai Genovesi e dagli abitanti di Torino entusiasticamente nelle vie, nel teatro, e come occasione occorse di contemplare l'amato volto di un tanto sovrano.

In Napoli era rimasto il cavalier Farini luogotenente, ma come avvertimmo poc'anzi, ogni giorno egli riesciva men gradito e insufficiente a reggere una provincia, che ben poteva dirsi sentìna di mille mali. Non era già abilità o buon volere che difettassero nell'altronde egregio uomo di stato, ma la difficoltà contradittoria e inconciliabile ne' primi scontri del riassetto governativo, avrebbe tolto riputazione al più esperto statista.

Pel regno di Napoli, sulla cui fronte Ferdinando II avea scritto — IL MIO POPOLO NON HA BISOGNO DI PENSARE ( [83]) — esigevasi una pratica e un tatto speciale r orse un napolitano per questo lato avrebbe quivi fa buona prova; ma il timore che potesse divenire esclusivo o poco subordinato al governo principale, distolse il conte di Cavour da qualunque che non rappresentasse là sua idea nel riordinamento politico di tutta Italia.

Farini, come ogni altro nel suo caso, si trovò di fronte alla dura alternativa o d'esser giudicato inetto dai buoni per debolezza e soverchia benignità; ovvero deteriore ai Borboni se avesse adottato il rigore necessario ad infrenare l'audacia de' partiti, e l'ardimento de' cattivi.

Il mezzo termine era impossibile in quel primo stadio; poteva serbarsi a più mature operazioni a prezzo di veder intanto sfruttati nomi cospicui, quanti appunto nel giro di quattro mesi ne consunse il vorticoso succedersi di dittature, segreterie di stato, luogotenenze e ministeri.

Devesi aggiungere a tali riflessioni che egli si circonda di personaggi eminenti per ingegno, dottrina e patriottismo, ma desituiti di criterio locale e pratico, che in momenti transitori ed eccezionali sovrasta al principio stabile e permanente sì che un analfabita bene informato riesce più assai giovevole di un uomo erudito e sapiente.

— A Farini era designato successore, nella qualifica di luogotenente generale, S. A. R. il principe Eugenio di Savoja Carignano investito del potere esecutivo, colla facoltà di far grazia, e commutare le pene; di nominare e revocare gli impiegati e i funzionari; di far decreti e regolamenti per l'esecuzione della legge ; avea il comando delle forze di terra e di mare; di più i pieni poteri riserbati allo stesso re negli articoli 2 del decreto del 17 Decembre, e 82 dello statuto del regno.

Presso il Luogotenente generale era stabilito un segretario generale di stato per le provincie napoletane, nella persona del cavalier Costantino Nigra, inviato straordinario e ministro plenipotenziario.

Il giorno 12 Gennajo questi due personaggi approdarono in Napoli. Erano nell'illustre comitiva gli ajutanti di campo marchese Ercole Roero di Costanza, conte Pocchettini di Serravalle, e cavalier Cavalchini di Garofoli; gli uffiziali d'ordinanza marchese Federigo di S. Marzano, signor Paolo Crespi, il cavalier di Sartirana; il segretario particolare del principe barone Ferdinando Perrone di S. Martino.

Al seguito di S. A. R. trovavansi il conte Cesare Bandesone intendente di Faenza, e il marchese Einardo di Cavour, segretario di legazione.

Furono tutti ricevuti dal cav. Farini, salutati dalla squadra inglese e dalle autorità marittime, il municipio, il consiglio di luogotenenza, lo stato maggiore della guardia nazionale e del presidio unitamente alla popolazione, fecero solenne accoglienza all'augusto cugino del re ed al suo ministro.

Se non che tristi presagi accompagnarono in Napoli i due personaggi quanto alla riuscita della missione loro affidata. Il principe Eugenio destinato all'alta direzione degli affari manteneva le stesse proporzioni dei re rappresentato co' suoi ministri. Laonde era a farsi conto quasi esclusivamente sul Nigra.

Questi assai giovine, non poteva possedere tale sperienza da bastare a carico cotanto difficile e intricato.

Giammai avea risuonato la sua voce se non per l'eco delle cancellerie diplomatiche, dove era non mediocremente versato. Nessuna fama precorrealo quanto all'amministrazione dello stato.

Per il che i più ritennero che il conte di Cavour in questa scelta a null'altro mirasse che a contr'effigiare il proprio pensiero del suo gabinetto nel napoletano.

Il Nigra era allievo di Cavour, e sotto questo rapporto egli non s'ebbe buon viso; dacché prevalendo allora colà gli elementi esagerati, come il conte noi iscorgevasi di buon occhio, qualunque persona che il rappresentasse doveva subire la stessa misura.

Il re non poteva ignorare fino a qual punto sarebbe giunto il gradimento di questa nuova luogotenenza; quindi è che volle corredarla di una sua parola di raccomandazione, certo che pei recenti onori ed omaggi tributatigli dai popoli meridionali, sarebbe stata ascoltata.

Napoli assuefatta in veder sfolgorare innanzi a suoi occhi una splendida corte, avrebbe. creduto spaziare in un deserto, ove ne fosse stata priva per lungo tempo il re non poteva separarsi per sempre dalla sua primitiva residenza, tentò pertanto supplirvi con un suo reale congiunto, e presentarlo al popolo napoletano come un altro se stesso, da cui avrebbe riportati i medesimi effetti.

«Le cure dello stato (egli diceva agl'italiani delle provincie napolitane) mi costrinsero a separarmi con rammarico da voi. Non saprei darvi maggior prova d'affetto che inviandovi il mio amato cugino principe Eugenio, al quale soglio affidare in mia assenza, il reggimento della monarchia.

«Egli governerà le provincie napolitane in mio nome e con quei poteri, ch'esercitai io stesso e delegai all'illustre uomo di stato, cui grave lutto domestico ritrae dall'onorevole ufficio. ( [84])

«Ponete nel principe Eugenio quella fiducia, della quale mi deste prove non dubbie, e mentre attendo i vostri rappresentanti al parlamento, agevolate colla vostra concordia e col vostro senno civile l'opera di unificazione, ch'egli viene a promuovere.

«L'Europa che da due anni guarda maravigliando i grandi fatti che si compiono in Italia, apprenderà dalla vostra condotta che le provincie napolitane se più tardi vennero nel consorzio delle liberate sorelle, non perciò sono meno ardenti nel volere fortemente l'unità della patria comune.»

Il principe Eugenio per sua parte diresse un altro manifesto parimente agl'italiani delle provincie napolitane, del quale, per non istancare soverchiamente il lettore, riproduciamo i brani più interessanti, che segnano la nuova linea di condotta, quale il governo intendeva adottare, e sono i seguenti.

«Queste provincie separate da lungo tempo dal resto d'Italia, manifestarono con unanimi suffragi la ferma volontà di far parte indivisibile della patria comune sotto lo scettro costituzionale della dinastia di Savoia. Spetterà al parlamento di dar l'ultima sanzione, all'ordinamento amministrativo del regno italiano, ma intanto è compito nostro spianargli la via prima ch'esso si raduni continuando e sollecitando l'applicazione a queste provincie di quelle misure legislative, che non si potrebbero differire senza nuocere all'unità ed all'assetto costituzionale di tutta la monarchia.

«L'unificazione, in quanto possa essere immediatamente applicabile, sarà dunque il primo concetto che informerà gli atti del governo.

«Ma perché i nuovi ordini possano mettere radici, e perché il popolo possa provare i benefici effetti di libero reggimento, prima e necessaria condizione è il mantenimento dell'ordine, l'osservanza della legge.

«Il paese può esser convinto che il governo non verrà lai a transazione col disordine e che ogni tentativo d'agitazione illegale sarà prontamente e severamente represso....

«E’ intenzione del governo che la chiesa e i suoi ministri sieno rispettati e che nessun incaglio sia posto al libero esercizio del culto. Ma nel tempo stesso egli si ripromette dal clero l'obbedienza al re, allo statuto ed alle leggi.

«Il governo volgerà tutta la sua attenzione sulla condizione economica del paese e sul modo di migliorarla, sullo 'sviluppo, di cui sono suscettibili le grandi risorse della sua agricoltura., del suo commercio e dell'industria, e su i lavori di publica utilità, ai quali sarà posta mano senza indugio.

«Sarà pure principal sua cura di promuovere il publico insegnamento e sopratutto l'insegnamento popolare e tecnico. Istruzione e lavoro sono le due fonti di moralità e della ricchezza; i due cardini, su cui si appoggiano le società liberali e civili.

«La finanza di questa parte del regno italiano scomposta dai rivolgimenti politici e da esigenze straordinarie, abbisogna di un pronto ordinamento... Nobile ufficio della stampa sarà quello d'indicare al governo con calma e schiettezza gli abusi da togliere, le riforme da introdurre in questo, come in ogni altro ramo dell'amministrazione.»

Conchiude poscia così

«Io mi chiamerei fortunato se caduto in breve, come non dubito l'ultimo propugnacolo della signoria borbonica, io potrò dire al re e all'Italia — Se vi occorrono le guarnigioni e le leve delle provincie napolitane, chiamatele pure ai nuovi cimenti: questa parte d'Italia può anch'essa, al pari di ogni altra, governarsi senza soldati».

Un tal programma fu accolto generalmente con favore da tutti i partiti. Sopra ogni cosa l'energia promessa dal governo, riscuoteva le più lusinghiere speranze; imperocché la tolleranza passata avea reso vivissimo il desiderio della repressione di abusi e disordini, che ostinavansi ormai di perdurare troppo lungamente.

Il principe Eugenio e Nigra animati dal miglior buon volere di apportar vantaggi efficaci alle provincie loro affidate, si circondarono d'uomini pratici del paese e di nomi tali, che non potessero dispiacere.

In breve il vecchio consiglio di luogotenenza, che avea funzionato sotto Farini si dimise, e della ricomposizione furono incaricatiLiborio Romano, Giovanni d'Avossa, Paolo Emilio Imbriani e Silvio Spaventa.

Dopo lunghe discussioni il nuovo consiglio di luogotenenza componevasi così.

Liborio Romano pei dicasteri dell'interno e dell'agricoltura, industria e commercio.

Giovanni d'Avossa pel dicastero di grazia e giustizia.

Commendator Pasquale Stanislao Mancini pel dicastero degli affari ecclesiastici.

Paolo Emilio Imbriani pel dicastero della istruzione publica.

Silvio Spaventa pel dicastero di polizia.

Antonio La Terza pel dicastero delle finanze.

Luigi Oberty pel dicastero de' lavori publici.

Fu anche istituita una commissione di finanza, che dovea esser consultata dal consigliere relativo in tutti gli affari, ch'egli stimasse opportuno.

Nominavasi in questa commissione, Giovanni Manna direttore generale dei dazi indiretti; CasimiroDe Lieto; Luigi Balsamo; Mariano Arlotta; Luigi Rossi; Niccola Gambardella; Domenico Ferrante.

Le varie luogotenenze, che si successero in Napoli segnano diversi stadi, come nel progresso degli affari politici italiani, così nelle agitazioni de' partiti, sieno borbonici, radicali, separatisti ec: Quindi è che sebbene di passaggio, ho tracciato con qualche esattezza i nomi de' personaggi componenti il governo, il loro programma politico, e le riflessioni, a cui per gli aggiunti del tempo, soggiacquero.

A costoro toccò in sorte imbattersi in una congiuntura felicissima, che mentre rassodava il potere, agevolava di gran lunga lo sviluppo de' principi proclamati.

—Il giorno appunto in che il principe Eugenio e il commendator Nigra apparvero nella rada di Napoli, in Gaeta avveniva il fatto rilevantissimo dell'armistizio tra Francesco II e il general Cialdini comandante l'armata d'assedio; armistizio fatto proporre dall'imperatore Napoleone III, ed accettato dalle parti fino al giorno 19 Gennajo. Ciò equivaleva che spirato questo termine, un attacco simultaneo da terra e da mare per parte degl'italiani, avrebbe spazzato definitivamente Francesco dal regno.

Il dì 12 dello stesso mese i due capi militari nemici Cialdini e Ritucci luogotenente generale comandante la piazza di Gaeta rimisero al viceammiraglio Barbier-Le-Tinan le respettive assicurazioni che fino al cadere del giorno 19 ninna delle parti avrebbe commesso ostilità.

Il tempo accordato trascorrea senza indizio di remissione e per parte del re di Napoli. Allora fu che scorgendo certissimo il riprendersi delle ostilità, una nota del Moniteur ruppe il silenzio e per soddisfare ai reclami, che d'ogni parte eransi levati contro il principio della non intervenzione poco prima nella identica causa fermato dallo stesso imperatore, rendeva conto de' movimenti dalla squadra in queste espressioni utilissime pel nostro argomento «L'invio della squadra di evoluzione davanti Gaeta avea per oggetto d'impedire che il re Francesco II si trovasse subitamente investito per terra e per mare nella piazza dove si era ritirato. L’imperatore voleva dare un attestato di simpatia ad un principe messo a cruda prova dalla fortuna; ma Sua Maestà fedele al principio del non intervento, che ha diretto tutta la sua condotta riguardo all'Italia dopo la pace di Villafranca, non pretendeva, prendere una parte attiva in una lotta politica.

«Prolungandosi al di sopra delle previsioni, che l'aveano motivata, questa dimostrazione mutava forzatamente di carattere. La presenza della nostra bandiera destinata unicamente a coprire il ritiro di sua maestà siciliana in condizioni proprie a proteggere la sua dignità, passò per un incoraggiamento alla resistenza e divenne un appoggio materiale. Ne risultarono ben tosto incidenti tali, che imposero al comandante in capo della squadra l'obligo di ricordare ora ai napolitani, ora ai piemontesi la parte di stretta neutralità, che gli era prescritta, e nella quale gli fu presso a poco impossibile mantenersi. importava adunque al governo dell'imperatore non accettare la responsabilità d'una simile 'situazione, tantopiù che dichiarazioni franche e reiterate non autorizzavano alcun errore sulla natura delle sue intenzioni.

«In fatti sin dalla fine di Ottobre il viceammiraglio De Tinan era invitato a non lasciar ignorare al re Francesco II che le nostre navi non potevano rimanere indefinitamente a Gaeta per assistere impassibili ad una lotta, che non dovea riuscire se non a più grande effusione di sangue. I medesimi avvisi furono ripetuti più volte a sua maestà siciliana, il cui coraggio avea completamente salvato l'onore.

«Frattanto essendosi fatte più gravi le circostanze, che abbiamo indicate e volendo conciliare le esigenze di una politica di neutralità col primo pensiero, che lo avea mosso a procurare al re Francesco II il mezzo di operare liberamente la sua partenza, il governo dell'imperatore si è fatto l'intermediario di una proposta di armistizio, che è stata accolta dalle due parti belligeranti. Cessate di fatto fin dall'otto di questo mese, le ostilità restano sospese fino al diecinove gennajo, e a questa data egualmente il viceammiraglio De Tinan si allontanerà da Gaeta. »

Tale nota racquetò in molta parte le diffidenze contro l'imperatore; in chi però scorgea le cose più sottilmente, ravvisò nella partenza della squadra oltre alla necessità logica di un principio recentissimo suggellato col sangue de' figli della Francia, un tentativo fallito. Era questo uno di que' ballon d'essai sventato per l'aria, che Napoleone ha in costume avventurare in mezzo alla palestra degli eventi prima di adottare una risoluzione d'importanza. Verso il Borbone poi non si struggeva al certo di pietà un Napoleonide, la cui dinastia era sorta dalle rovine del soglio di quella vetusta reale famiglia, e che non valeva a nascondere i suoi timori destati dallo spettro irrequieto de' pretendenti agitanti nell'ombre il pallido vessillo della legittimità. Non era simile al vero che Napoleone volesse participare alla riedificazione del trono semispento di un campione del diritto divino, discendente per li rami di una schiatta, che l'eletto per volontà della nazione, doveva desiderare spodestata e impotente in qualunque angolo del mondo.

Non va lunge dalla realtà chi pensasse l'imperatore in questo caso, come in tanti altri, aver ostentato tanta sollecitudine, appunto per celare la tradizionale antipatia verso un rampollo borbonico ( [85]), illustre vittima dannata dal nuovo codice de' popoli. Egli sdilinquiva nel commiserar la sventura, ma vaporando in parole o proponendo condizioni inacettabili, risolvevasi in nulla, costringeva a dura gratitudine il suo avversario, finendo di schiacciarlo nell'atto di serrarselo al seno per focosa tenerezza.

Nè altri furono gli effetti di questa ibrida protezione. La squadra francese con apparato, che avea tutte le sembianze di una difesa efficace, costatò una volta di più all'Europa ed al mondo la volontà unanime del popolo napolitano, quanto iscornò le tumide millantazioni della corte borbonica, da dove era nato il vanto che se un sol mese il re avesse potuto resistere in un punto qualsiasi del suo regno, l'avrebbe tostamente riguadagnato.

Invece egli si tenne fermo cinque mesi, attirando sopra Capua e Gaeta tutte le forze regolari e irregolari; vi si aggiunse il patrocinio francese; e nove milioni d'individui (tranne pochi militi sparsi nell'interno del regno dopo l'entrata 'del re) s'erano retti da se soli, provvedendo colle proprie guardie nazionali all'ordine publico.

Se veramente la volontà de' napolitani fosse stata devota a Francesco II, la sua espettativa poteva sortire tutti gli effetti; ma egli s'ingannò. L'avvilimento e una forzosa soggezione fu interpretata per attaccamento al suo trono; le mire ambiziose e l'adulazione de' suoi cortigiani, suonavano per lui quali inni di gloria e di plauso al suo governo.

Per rendere più certa la riconquista del territorio perduto, egli vi aggiunse una spietata reazione alimentata dall'oro, dall'impune speranza del saccheggio e della rapina. Roma soccorreva il re periclitante con tutti i suoi mezzi morali e materiali. Nondimeno ogni cosa fu inutile.

Quanto più completi, energici e artificiali furono gli apprestamenti, tanto più si di segnò scolpitamente l'aperta volontà de' popoli delle Due Sicilie, i quali non men nello scacciare il Borbone che in perseverare nel loro proposito, scopersero al vivo la vanità de' progetti reali, e l'abominio contro una corona macchiata di spergiuri e di sangue. Per contrario acquistava vigore e fondamento il governo nazionale, che in grembo a tante ruine sorgeva più bello e glorioso.

— L'opinione publica dopo la partenza dalle acque di Gaeta per. parte del viceammiraglio Barbier Le Tinan, s'era alquanto rappaciata col governo dell'imperatore, non solo obliando lo scopo, che avea potuto indurlo a tergiversare colà, ma menandogli buone eziandio, per amor di concordia, tutte le ragioni addotte nel foglio ufficiale, che poco sopra abbiamo notate.

In Roma il fatto diametralmente opposto della occupazione, contradiceva a quel principio di non intervento, che avea diretto tutta la condotta dell'imperatore riguardo all'Italia dopo la pace di Villafranca..

Per quanto si volesse contorcere il vero senso delle quistioni, o vi s'introducessero distinzioni per sottrarsi alla diritta conseguenza dell'ammesso principio, il governo di Francia non giunse, né giungerà mai a giustificare la sua occupazione contraria onninamente al diritto internazionale, e qualificata in parlamento solenne da un ministro straniero amico di quel governo medesimo, come INGIUSTA e CRUDELE ( [86]).

In questa guisa siamo astretti da duro fato di logica ammettete nel governo imperiale non già tredici coscienze, siccome sono lui attribuite dai preti e legittimisti; ma per esser discreti non possiamo disdirgliene una doppia, per la quale l'Italia era a un tempo con una mano, protetta; coll'altra veniva ferita nel cuore.

E quel che è più rimarchevole Iil papa alla sua volta ritenevasi ugualmente circuito.

Egli vedeva una mano armata e furtiva che lo aveva piagato, in Romagna e nelle altre provincie perdute; altra ne ravvisava in vista amica nella stazione in Roma de' soldati francesi.

Ad ambedue le parti Napoleone era propizio ed avverso, inviso e fino a certa misura accetto. Se non che, dopo l'abbandono di Gaeta, la vicenda corrucciosa toccava in suo torno al papa.

Egli, come sempre, ravvisava più che mai nella protezione francese, una serpe nel seno, un nemico larvato, che carezza la vittima per meglio aggiustarle il suo colpo.

Alla prima occasione il pontefice non si astenne dal mostrare abbastanza esplicitamente il suo risentimento, e il conto in che teneva l'imperatore di Francia.

Per le relazioni di Gaeta, Pio IX conosceva l'imminente partenza della squadra. Or bene il dì primo dell'anno, nella consueta visita di augurio 'praticata dalla officialità francese, le rese grazie pe' voti che gli umiliava, per l'interesse ch'essa e la nazione francese poneano nel propugnare la causa della santa sede e della religione.

Lodò l'armata francese tutelatrice de' minacciati cristiani nella Siria, e quella che rialzava la croce sulla chiesa di Peckino nella Cina. Da ultimo a marcare l'ambiguo servigio delle cause che Napoleone mostrava difendere a un tempo, volle (certo ironicamente) commendare la bravura della squadra francese posta a salvaguardia del potere legittimo innanzi a Gaeta (la partenza di essa fu fissata officialmente il dì 12 Gennajo, ma era precedentemente conosciuta, né poteva ignorarsi nella corte pontificia).

In mezzo altresì a tanti elogi e benedizioni il nome dell'imperatore e della famiglia imperiale, non furono neppur mentovati dal sommo pontefice.

Al general Govon non isfuggì il significato eloquente, di questo silenzio; ma siccome non è insolito che nella corte pontificia si contravvenga a riguardi d'uso e di ceremoniale, il conte volle assicurarsi che il nome dell'imperatore fosse a bella posta pretermesso dal papa per testimoniar la poco benevola disposizione dell'animo suo verso Napoleone.

Quindi il generale tolse adire d'esser riconoscente per parte de’ suoi uffiziali per le amorevoli parole del santo padre; ma che s'essi aveano potuto operare cosi belli vantaggi, quanti dalla santità sua venivano enumerati, dovevasi precipuamente all'adempimento degli ordini del suo sovrano, cui non poteva disdirsi il merito della protezione delle armi francesi verso la santa sede.

Il pontefice, conforme abbiamo testé riflettuto, avea veramente omesso una menzione diretta all'imperatore nell'intendimento d'Apporgli un'amara dimostrazione. Per il che il generale e' ebbe assoluta certezza del fatto dall'ostinata conferma nel silenzio, dopo aver il papa significantemente volto il guardo al crocifisso, e proseguito il pristino assunto, come se dell'imperatore mai fosse caduta parola.

— Altra, ben altra più cordiale accoglienza venne prestata agli ufiiziali dell'esercito di Merode dal capo supremo della chiesa cattolica. Allorché trattavasi della, sacra guerra della italica indipendenza contro di noi, avevamo acconciato le orecchie in udirci ricordare i precetti solenni' di giustizia e di pace, che debbono investire la missione del rappresentante di Dio su questa terra

«Noi abborriamo totalmente (esclamava Pio IX nella famosa allocuzione del 29 Aprile) da questa guerra, tenendo noi, benché indegni su questa terra, il posto di colui che è il padre della pace, dell'amore e della carità, e conformemente quindi ai doveri del nostro supremo apostolato, riguardiamo ed abbracciamo con eguale paterno amore tutte le tribù, popoli e nazioni».

I vescovi parimenti raccolti in Roma da tutte le parti del mondo in epoca recentissima, considerarono nello stato del papa «il centro quasi d'universale concordia: un luogo, dove è sconosciuta l'umana ambizione, dove nessuno briga per territoriale dominio.»

Ora però che, a verso della mondana ambizione, era disputa appunto di territorio, o. di principi meramente convenzionali ed umani a carico della corte supernamente ispirata, il sangue diveniva acqua lustrale, le stragi e le carneficine, tributo di devozione; l'accoppiarsi co' briganti, merito celeste.

Di fatti il fanatico Mérode, in costume ecclesiastico, nella qualità di ministro della guerra, presentò la sua uøìzialità al S. Padre, e questi non esitò esporre l'alta sua soddisfazione in riceverli; anzi nell'emergenze correnti espresse la sua strordinaria compiacenza dopo tanti travagli e pericoli incontrati in difesa. del santo seggio e della giustizia; encomiò vari tra gli uffiziali stranieri, che ivi trovavansi per essere accorsi a propugnare anch'essi la causa santa.

Da ultimo paternamente invitolli a continuare con coraggio il loro dovere, ove dalla provvidenza a novelle prove fossero destinati.

Pochi giorni prima di codeste congratulazioni ( [87]), il santo padre confortò di sua mano del pane degli angeli le anime purissime di circa dugento zuavi, e dopo la ceremonia fe loro presente di centellini e sorbetti.

Al generale di brigata Antonio Schmidt ( [88]), sua santità. con ordine del ministero delle armi del dieci gennajo, concesse la giubilazione e intiero soldo, sanandogli la mancanza degli anni di servizio, ed in pari tempo il decorò della grancroce di S. Gregorio Magno, in vista dei distinti e fedeli servigi prestati alla santa sede.

Finalmente per lasciare un attestato permanente di felicitazione per le tanto gloriose gesta, il papa fe coniare appositamente una medaglia colla seguente epigrafe — Ai cattolici, che strenuamente hanno difeso il loro pontefice sovrano —

— Il medesimo spirito trasfondevasi dalle aule vaticane nei difensori della giustizia; vale a dire del potere legittimo del re di Napoli non meno inviolabile delle sacrate ossa de' SS. Pietro e Paolo, né meno augusto del domina religioso.

Non bastavano gli eccidi inauditi di Perugia, le spavalderie di Lamoricière in Castelfidardo rese impotenti nel volger' di pochi dì; tanto sangue versato in Roma e nelle Romagna per conto di tribunali iniquissimi; i divini precetti della concordia e del perdono, la pietà almeno per tante sventure verso gli umani, non ebber valore di satollare queste romane tigri ornate d'ammìtto e di stola.

Vinti, dispersi, odiati da' propri sudditi, flagellati dalla universale reprobazione, i sacerdoti della comune madre de' fedeli, armati sempre di vendetta e di diabolica ostinazione, apparecchiavano nuovi armamenti e nuovo esercito, quasiché, dopo la più decisiva sconfitta, potessero restaurare le sorti della pugna.

De Merode altro de' più dissoluti fra i paladini della babelica Roma, raccoglieva le reliquie dell'espugnato esercito pontificio, e lunge dal attenuarne le fila per rispetto alla esinanita finanza, tentava riannodare i battaglioni degli stranieri Irlandesi, o de' Francobelgi, de' quali attendevansi rinforzi dai respettivi paesi.

La minuscola armata dalle somme chiavi era venuta inabile fino alla difesa del proprio territorio (benché diminuito di quello vinto sul campo) contro i sudditi del governo: la presenza dell'armata francese n'era prova incontestabile.

Or che dovea inferirsene per l'offesa da riprendersi contro eserciti agguerriti e animatissimi, quali appunto erano gl'italiani di Vittorio Emanuele?

Niuno s'ingannò sull'indole del risorto movimento guerresco. Le nuove reclute, i nuovi campioni attesi d'oltremonte e d'oltremare, erano soccorsi da allestire per un dato momento opportuno in favore del Barbone; era in somma l'ala destra dell'esercito di Chiavone, che si costituiva.

— Interessava ai sacri agitatori d'aver con se almeno apparentemente l'opinione de' romani, affinché i più timidi si associassero, diffidando del futuro, e perché tanto enormi non aprissero all'estero le mene ordite.

A conseguire tale scopo essi accamparono argomenti dentro e fuori di Roma.

Di fuori l'austriaca Armonia (giornale) cominciò dal calunniare i romani prevenendo il publieo che una grande dimostrazione dovea aver luogo, operata dagli stessi liberali romani.

Alla croce di Savoja e ai colori azzurri (asserivasi ) sarebbe stata incastonata l'epigrafe — Evviva Pio IX papa-re —

Dentro Roma, coerentemente alle accoccate mosse dell'Armonia, ragunavasi clandestinamente quanto v'era di minutaglia nel volgo tra i borbonici ed esteri, perché simulati que' strani emblemi, potessero i semplici dar nella impannata.

Di più mercé un'artefatta opposizione dovevano provocarsi i francesi, per far prova d'alienarli dalla simpatia verso i cittadini, ritraendoli altrettanto alla parte del governo.

Il comitato romano vide per tempo tutta la distesa della trama, a sollecitamente divulgò due manifesti; l'uno ai romani, nel quale respingeva gagliardamente le menzogne dell’Armonia, dicendo che come giornale austriaco quando esso mentiva, facea il suo dovere: distraeva dalle violenze, l'animo di essi già esulcerato appunto perché non si ponessero in falsa posizione co' francesi; l'Italia e l'Europa non esser ciechi; pochi fanatici d'ogni lingua e paese, gli sgherri papali e borbonici gridanti il papa-re non avrebbero dato ad esso il regno, né la dignità di Roma venir compromessa.

Altro manifesto o protesta il comitato inviò al general Govon, e ridondando ad elogio di fermezza e di prudenza de' miei concittadini, mi saprebbe grave non recitare le stesse loro parole concepite ne' termini seguenti.

«Quando le armi italiane e francesi vincevano in Lombardia, voi severamente c' impediste di mostrare la nostra gioja e i nostri sensi di riconoscenza verso l'augusto vostro imperatore, e ciò come dicevate per non turbar l'ordine. Ora l'ordine fu più volte turbato da dimostrazioni indecenti fatte dl papa-re da una squadra di legittimisti stranieri, uniti ai dipendenti della polizia papale; né voi l'avete mai impedite; anzi l'opinione publica ve ne chiama quasi complice.

«La esiguità di queste dimostrazioni era tale che i promotori han devoto cercare altri ajuti, e voi tutori dell'ordine in Roma, avete pur tollerato che questa città si empiesse di tutta la feccia e del rifiuto di Napoli, non ripugnante per istinto e per educazione borbonica a qualsivoglia delitto. Con queste schiere e coi tremila birri e poliziotti di Roma si prepara una dimostrazione al papa, e si vuoi togliere questa oceasione per suscitare tumulti a sfogo di miserabili vendette, non risparmiando insulti e provocazioni al partito nazionale, onde impegnarlo in una lotta, che finirebbe col tirare su d'esso la forza delle armi francesi.

«Poiché il papa obliando, il suo ministero di pace, non abborre dal prestarsi a scene, che potrebbero riuscire sanguinose, né voi pensate di prevenirle, il comitato nazionale di Roma, dopo aver fatto dal canto suo quanto poteva per inculcare la moderazione e la calma nel popolo giustamente irritato, sente il dovere di protestare pubblicamente, e chiamarvi solo, responsabile innanzi all'imperatore e alla nazione francese dell'insulto che si fa alle convinzioni di Roma, e d'ogni disordine e sciagura, che potrebbe in ogni caso funestare questa città affidata alla tutela delle armi francesi da voi comandate.»

L'effetto dell'opportuno zelo del comitato fu eccellente; imperciocché, prevenuta la farsa, veniva destituita del pregio di una spontanea novità, né poteva sorprendere alcuno. Dimostrazioni, che avrebbero dovuto sorgere dal cuore impensatamente, mostravano un nudo artificio, che le trasferiva nel campo del ridicolo e cangiavate in mera comparsa comica.

Non ostante gl'inviti e i garbugli, il buon Pio IX dalla sua berlina (le balordaggini del partito antiliberale autorizza questo confronto) non udì, com'altra volta, mille e mille voci di sudditi sinceramente devoti acclamare il padre del popolo e della patria; ma pochi gridi sguajati di compri satelliti furono gli osanna al vicario di Cristo alleato col capo de' briganti.

La dimostrazione completamente fallì e degli stessi partigiani scoperti nel loro concerto, niuno aveva voluto essere il primo, a recitare la sua parte prestabilita.

Alcuni caporioni però detter sulle furie, e qualcuno di essi, come certo Ravaglini, prese ad arringare fervidamente gli astanti; ma indarno, che la cosa rimestata, nauseava di più. Gli onest'uomini, e i francesi presenti a tali fagli soffrivano nel veder così avvilita la condizione morale del pontefice, su cui perfino versavansi le stille amarissime del ridicolo.

Il furioso abate Ricci faentino, era più persuadente e conciliativo. In un negozio socchiuso presso al luogo della dimostrazione, stavano pacificamente conversando il padrone ed alcuni suoi amici. Ad un tratto il Ricci v'irruppe dentro con alquanti gendarmi; li saziò di contumelie, minacciando colpi di bastone ove non uscissero ad applaudire il papa-re. Quelli ricusavansi con pretesti, che nella circostanza di una dimostrazione, cui sovrastavano tumulti, non potevan mancare; ma allora il Ricci ordinò ai gendarmi d'inscrivere i nomi di chi rifutavasi. Sopraggiunto per sorte un capo di gendarmeria; udito il fatto, lacerò la nota, e sperdé la baruffa.

Non ostante quanto abbiamo prenarrato, la calunnia, con cui, avea esordito l'Armonia, venne coronata dal giornale di Roma, che nelle sue beate visioni avea scorto «il concorso del popolo veramente straordinario, e sua santità nell'uscire la chiesa (del Gesù) ricondursi alla residenza del vaticano, oggettodelle manifestazioni le più vive ed entusiastiche per parte d'ogni ceto di cittadini.

Le voci, che imploravano l'apostolica benedizione e che facevano apertol'amore e la devozione più sincera de' sudditi verso il loro padre e sovrano e dichiaravano gli auguri di felicità per lui nudriti, risuonarono altissime, e fra l'agitare dei bianchi fazzoletti e di quanti altri segni testimoniano le interne affezioni, dalla piazza del Gesù si prolungarono per tutta la via papale fino alla contrada del Borgo, lungo i quali luoghi la moltitudine erari accalcata.»

Eran queste le manifestazioni unanimi per parte d'ogni ceto di cittadini: ma quelle de' romani, che raccolsero enormi somme ora per la guerra, ora per le spade di onore a Vittorio Emanuele e Napoleone (dove notaronsi oltre quattordicimila sottoscritti), ora per le oblazioni spedite in soccorso della guerra di Sicilia; e più tardi pei danneggiati dal brigantaggio ec: ec: ma quelle manifestazioni, che apparvero ne' due notissimi indirizzi al re d'Italia, e all'imperatore riportati alle pagine 152, e 153, dove 9588 cittadini non dubitarono segnar l'atto in cospetto della feroce polizia di Dandini e Pasqualoni: ma quelle (seppur volessero tenersi in poco conto le enumerate fin qui) emergenti dalla stessa posizione violenta de' soggetti pontifici; dal rigurgitare delle prigioni e delle darsene; dai precetti conflitti a migliaja per solo sospetto di avversione al governo; dalle altre tante migliaja di combattenti nell'esercito italiana e di esuli; infine dalla indispensabile necessità, ormai presso a TRE LUSTRI, di una guarnigione straniera, senza quasi presidio proprio, contaminato da soldatesca d'ogni parte di mondo, e d'ogni fede o meglio di nessuna credenza; ma quelle manifestazioni, dico, furono e sono giudicate agitazione di pochi faziosi!!..

La menzogna, l'ippocrisia, e la calunnia sistematica giammai prevarranno a contraffare il buon senso, né a spegnere la folgore della publica opinione, che tranne l'agitarsi passione#o di ambizioni periclitanti in Europa, fu ed è veramente unanime e concorde su i destini del papato temporale e spirituale del pari che su quelli d'Italia e sulle dottrine della pura legittimità ne' reggimenti politici.

— Il generale de Govon testimone di tutte codeste miserie, scorgeva. uno strano movimento non solo nelle dimostrazioni di piazza, quanto nel nuovo reclutamento delle truppe pontificie. L'aumentare il numero de' soldati dopo la dispersione di Castelfidardo era venuto meritamente sospetto, imperocché tutte le ragioni militavano per la diminuzione, ninna per l'accrescimento. Altronde un arrolameato arbitrario a troppo imprudentemente operato per fomentare il brigantaggio, non poteva esser tollerato, ed esigeva una spiegazione. Govon, trattandosi specialmente di misure militari, che lo interessavano almeno indirettamente, si credè autorizzato interrogarne il ministro De Merode. Costui in parte disdegnava comunicare i suoi piani, massime per ciò che riferivasi a strategia militare; in parte poi questa volta tornavagli imbarazzante la dimanda; avvegnaché il bellicoso ministro disegnava colpi di mano, e rioccupazioni di territori perduti, nell'atto stesso che avrebbe voluto dar mano alla reazione napolitana col riguadagnare punti importanti limitrofi al regno. Il manifestare i suoi disegni al generale, poteva darsi che nelle eccezioni probabili di lui incontrassero disapprovazione o impedimento; altronde egli dovea tentare il fatto compiuto, e disimpacciarsi da un incomodo sindaca to di ogni operazione. Al ministro del papa per la sua stessa impotenza fortissimo tutto era permesso impunemente.

Quindi il partito di Merode era già preso. Rifiutò nettamente al generale di dare delle spiegazioni. Può imaginarsi quanta fosse l'ira di Govon, e quanto acerbe le sue osservazioni; ma il ministro, che non ignorava la sua posizione e quella della Francia in Roma, resisté invittamente all'attacco, e per ora il generale dové chinare il capo e passarsela.

Era in fatti presumibile che Merode potesse partecipare al rappresentante francese l'intendimento di varcare il limite italiano, che tutto facea credere fissato dopo la battaglia di Lamoricière, rioccupare forse Pontecorno, aprirsi passi agevoli e spediti per operare congiungimenti di truppe coi briganti? Qualunque fossero le istruzioni equivoche degli agenti francesi, certi progetti non consentivano esser nemmen seriamente proposti, senza offendere la moralità ed un tal qual reciproco rispetto, per cui spesso anche i cattivi debbono intendersi fra loro senza scolpire i nomi delle cose meditate.

La campagna di Castelfidardo pareva dovesse ridurre all'inerzia il ministro Merode. Egli, dopo quella giornata, in un momento si vide circondato da genti chiamate da tutte parti per popolar le crociate del poter temporale pontificio; altre tante fatte reclutare specialmente in Irlanda, attendevale, e fors'erano in cammino quando si perdeva quella battaglia, cui erano destinati pigliar parte. Il rinviarli tutti sarebbe stato pericoloso; il ritenerli partoriva un soverchio aggravio; non v'era adunque migliore avviso che cangiar metro serbando la stessa poesia: combinare una quantità di mosse, per le quali, senza quasi avvedersene, il nucleo cosmopolita si trovasse a fianco de' briganti; cooperando con loro, tentare, il sollevamento del reame napolitano, e così tra l'allettamento alle rapine e ai furti, di cui gli esteri specialmente davano esempi stupendi ( [89]), e tra la maggiore estensione del movimento, fornire un utile impiego ai venuti, saggiare sorti novelle, molestare ad ogni modo l'inimico.

Il piano era stabilito, irretrattabile. Quanto si oprasse in Roma in questa cospirazione, è accennato già ne' primi capitoli dell'opera; ora ne incombe solo narrare fatti, che preparati colà, portarono i tristi loro frutti al di fuori.

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XXIII

Il disegno era duplice, ma convergente; l'uno tratteggiavasi dai ministro della guerra; l'altro tramavasi dal conte di Trapani, il quale coi reazionari pontifici e borbonici, avea stretto alleanza per la vita. Ora del primo.

De Merode di concerto con Becdeliévre colonnello comandante il battaglione de' zuavi pontifici, stavano ordendo un attacco dal lato di Corese per aprire in quello sbocco importante un passo necessario e coordinare le mosse, che come or ora vedremo, andavansi organizzando preso Subiaco, Vicovaro, Casamari ed altri luoghi della Comarca di Roma.

Per mendicare. pretesti all'offesa, sostenevasi che il ponte di Corese apparteneva alla Comarca stessa rimasta al papa, e non alta Sabina restata in potere degl'italiani ( [90]).

Inoltre il detto comandante, nel rapporto del glorioso fatto al proministro delle armi, narrava così

«La gendarmeria pontificia da un'altra osteria, che trovasi al di qua del ponte, mi faceva apprendere tutti i giorni che i piemontesi dall'osteria vicina non cessavano di tender loro degli agguati, di eccitarli alla diserzione, di offrir loro del danaro, e di spander pel paese la voce ch'essi andavano quanto prima ad occupare militar mente in nome del Piemonte la intiera provincia. In presenza di questo sistema di corruzione in faccia dell'armata pontificia e di minaccia contro lq quiete del paese, ha dovuto il posto piemontese esser tolto.»

Tali impostare, che quando fossero state pur vere non potevano autorizzare i pontifici a delimitare i confini senza preventivo avviso e nel più fitto delle tenebre notturne, si vollero far valere dal comandante a velame di ragioni all'assalto.

Di fatti alle ore due dopo la mezzanotte dei Gennajo 1861, circa tre centinaja di zuavi discesi da Monterotondo s'avviarono silenziosamente verso Corese. Si approssimarono quanto loro fu possibile furtivamente, affinché la sentinella del ponte ritardasse l'allarme.

Giunti in vista, la fazione, conforme l'uso, gridò chi viva; ma in luogo della risposta, a rapidissimo passo di corsa, il ponte fu traversato in un balenò; la sentinella venne pugnalata e morta, in quella che la massa degli assalitori investì il corpo di guardia, menando grida e colpi sopra circa quaranta militi, che ignari di un pericolo, che non dovevano aspettare, riposavano tranquillamente.

Rimasero feriti quattro o cinque militi, uno ucciso, é gli altri in numero di trentasei sopraffatti dalla quantità e dall'impensato assalto, cessero le mani inermi alla masnada pontificia.

Ad accrescere l'importanza del fatto col numero de' prigionieri, fu trascinato via l'oste, la moglie, altri addetti alla casa, gl'impiegati del telegrafo, di cui ruppero i fili, affinché non traspirasse troppo presto l'avviso del caso dalla parte degl'italiani, finalmente un vetturale proveniente da Poggio Mirteto, qualificato nel rapporto per ispione portatore di carte sospette, che fu invece l'indomani rilasciato.

All'uffiziale del picchetto di guardia furono divelti i bottoni portanti la croce di Savoia, e strette le mani in durissimi ceppi.

Tutto ciò in compenso della generosità del nostro re nel trattare i prigionieri di Castelfidardo, cui ridonò la libertà, e volle fidare sulla loro parola d'onore che non avrebbero ricombattuto contro gl'italiani. Eppure nel fatto figurava il colonnello di artiglieria Blumenthil francese, il quale avea prestato siffatto giuramento a Loreto!!....

Poggio Mirteto prossimo al luogo invaso, temé che la truppa papale proseguisse oltre la marcia, e presenti un istante tutti gli orrori della restaurazione. Mentre i cittadini di quel luogo animatissimi avrebbero voluto aggiungersi alle poche truppe del. maggiore Vincentini, un suo dispaccio ordinò loro di ripiegare sopra Rieti, non reputandosi in misura sul momento contro un nemico troppo numeroso.

A tale annunzio intiere famiglie emigrarono immantinente, e chi era impossibilitato a tal passo, rimase in paese trepidante della propria sorte per l'opera temuta di stranieri avidi e insolentiscimi.

Non andò guari per altro che la notizia pervenne alle autorità italiane. Un movimento rapidissimo e straordinario si manifestò ne' paesi limitrofi, nel militare, e nel governo. Le guardie nazionali delle città umbre offrironsi tantosto per esser mobilizzate e tradotte a combattere; un battaglione tosano, i cacciatori del Tevere capitanati da Masi, e il secondo battaglione pure umbro, comandato dal maggior Vincentini, erano già in punto per coprir Rieti. Il governo in pari tempo faceva muover da Alessandria per la via di mare il reggimento 37. brigata Ravenna.

Cotanta energìa mantenne perfettamente, là fiducia e la tranquillità in que' paesi, cui nell'ardito slancio di Becdelièvre pareva rivedere l'abborrito aspetto degli stemmi papali. In realtà i pontifici dopo essersi rinforzati di artiglieria, nelle quarantott'ore dall'occupazione di Corese, previa una ricognizione opérata dallo stato maggiore sulle alture vicine, credeano poter marciare verso Fara e Poggio Mirteto. Un messo altresì sgominò il progetto. Le truppe italiane avanzavano appunto a quella volta, mentre dal lato di Scandriglia, il maggior Vincentini spingeva anch'esso una ricognizione, che produsse la fuga di alquanti carabinieri pontifici, i quali, passando. il confine s'erano quivi appostati.

Allora Becdeliiere veggendosi prevenuto, sospese la partenza, tenendosi altresì sempre fermo al suo posto.

Il generale Govon non appena reso consapevole di quel fatto d' armi, capì ad un tratto perché Merode avea rifiutato dare spiegazioni intorno ai nuovi apprestamenti belligeri, e memore dell'affronto patito, si volse alla rivincita. Fece aspre rimostranze al governo romano; spedì nel tempo medesimo un ajutante di campo presso Rieti per acquietare gl'italiani, e ne risultò in breve che gl'invasori richiamati dalle loro stesse autorità, dovettero sgombrare il confine e colle pive nel sacco riguadagnar la posta di Roma. Gl'italiani rioccuparono la posizione abbandonata, e i francesi si stabilirono all'albergo detto del Grillo a sette miglia dal ponte di Corese.

Di tanti commuovimenti non rimase che la proditoria uccisione, e il ferimento di pochi uomini; uno spoglio completo commesso dai soldati del papa a carico del povero oste di Corese, il quale trovavasi in Roma insieme agl'altri prigionieri, che il governo del re reclamò sollecitamente.

Non possono omettersi alcune espressioni, che nella circostanza de' pochi prigionieri tradotti nella capitale, furono pronunciate dal lepidissimo D. Giovanni de' principi Chigi, riportate fedelmente da una corrispondenza di colà.

— I sanfedisti aveano menato lietissimo romore per la gloriosa impresa di Corese. Fra costoro il deitto D. Giovanni escì in dire che il governo doveva considerarli come ribelli e fucilarli. Egli come fratello della compagnia di S. Giovanni Decollato sarebbe andato a fare da confortatore. Lo spirito di alcuni nostri patrizi è raro, ma arguto, sapido, significante!!...

— Questo primo progetto merodiano si dissipò al vento; non caddero però d'animo i propugnatori del secondo. I Giorgi, iLuverà, i Lagrange, ([91]) iVilmotta, i Baldani, l'abate Ricci, ([92]) il Chiavone, il De Christen ed altri erano in Roma, e col conte di Trapani alla testa s'imprometteano il ristabilimento del trono delle Due Sicilie, mediante il feroce flagello del brigantaggio.

Del Villamotta capita il nome per la prima volta in questo libro. Egli era un colonnello al servizio di Francesco II, venuto da Gaeta; conversava intimamente col conte di Trapani, e proponevasi francamente di operare a beneficio della causa del Borbone. A quest'uomo non era distetto ardire ed abilità.

Per chi si proponesse di voler tentar l'assalto di Rieti, e di lì traversare nell'Aquilano per sostenervi la reazione; ma certo il contegno delle popolazioni e de' soldati italiani, ne lo distolsero, almen per allora.

Un Giuseppe Baldani era compagno del Giorgi e del Ricci, aggregato alle loro masnade. Già complice di grassazione col terribile Passatore, oggi era ricevuto con plauso qual novello atleta della restaurazione.

De Christen tenea fervidamente pei legittimisti. Egli comparve sul campo contro gl'italiani, e come tanti altri dopo una sconfitta, avea giurato sul suo onore di non più servire contro l'Italia; ma infranta la sua fede in poche altre fazioni, volle avventurarsi di passare in Napoli sotto mentito nome per eccitare disordini.

Diè però nella pania; fu scoperto, imprigionato, e come vedremo, venne condannato nel processo di monsignor Cenatiempo, dove si trovò complicato.

Gli altri occorrerà mentovare respettivamente a suo luogo.

— Il piano borbonico era vastissimo, e fors'anco ben concepito, se fosse stato possibile alla menzogna aprirsi libero il varco nella coscienza di un intiero popolo. Da tutti i motivi, che le tristi circostanze potevano offerire, dovevano trarsi argomenti di malcontento, attribuendone la sorgiva del male al l'usurpatore del legittimo sovrano Francesco II.

Il rincaro de' viveri, parte natural conseguenza del tempo di guerra; parte effetto di sordido monopolio, che suole menar la danza e allegrarsi degl'infortuni del publico, mirabilmente serviva le mire desiderate.

Il volgo, per cui l'aumento o la diminuzione della moneta nella propria tasca, forma il buono o il cattivo delle notizie politiche, era un partito spontaneamente amico del disordine e del rivolgimento pel primo, che ne levasse un segnale.

Sotto la luogotenenza Farini varie provvidenze furono adottate, senza rilevante utilità, dal consigliere Scialoja; anzi lo stesso Farini inclinava ad una commissione d'inchiesta per infrenare il monopolio delle derrate.

Liborio Romano, sotto la luogotenenza Carignano e Nigra, propose una soscrizione nazionale per sovvenire ai più urgenti bisogni del popolo, e specialmente per ottenere il ribasso de' generi di prima necessità, pane, olio ec.

Tutti i ceti erano invitati a parteciparvi. Ingenti somme invero si videro versate per uno scopo cotanto commendevole.

Dal solo consiglio di luogotenenza escirono presso a ducati tremila. Ma a che pro?

Erano anfore d'acqua gittate nel mare. Rimedi scarsi e precari troppo, di fronte ad un mali gravissimo e continuato.

A poco o nulla valsero adunque il primo e secondo spediente, e se per contro, la virtù e la longanimità de' buoni, la potenza delle armi, e l'attiva operosità della polizia italiana, non avessero occorso alle angustie terribili della patria, era cosa ben lieve collocare altrove le speranze.

Con questa potente leva di discordia congiunta alle altre compagne inseparabili ne' cataclismi politici, dovevano agitarsi profondamente le provincie di Napoli.

Una sommossa generale poi doveva scoppiare in un giorno determinato, e questo dovea appunto combinarsi coll'ingresso di un corpo di truppe nel regno, proveniente dagli stati pontifici, comandato dal conte di Trapani fratello del re Francesco.

Questi da Gaeta avrebbe fatto impeto e sforzi straordinari contro gli assedianti sbigottiti dalla generale sollevazione, e costretti fors'anco ad alleggerire il blocco per correre a spegnere la reazione. In tal modo, speravasi che il governo italiano con tutto il suo partito, dovesse divenire impotente a Conservarsi nelle provincie del mezzogiorno.

Un comitato centrale in Napoli era in corrispondenza con Roma e Gaeta. Altri ve ne aveva dipendenti a quello nelle minori provincie.

Manifestissimi erano gl'indizi per la formazione di varie bande nello stato pontificio, dirette ad un intento alto e misterioso. Se non che per la loquacità de' napolitani, diveniva impossibile il serbarne segreto.

L'accordo peraltro era generico e non determinava stabilmente i modi e i luoghi precisi.

Ogni capo formava un centro a se stesso, creavasi una volontà e un ambizione tutta propria; la gelosia di mestiere. era prepotente tra codesti sicari.

Ciascuno rifletteva che avendo soci o competitori, minore doveva tornargliene la divisione della preda, e minor lustro e guiderdone sarebbe per derivare a chi avesse avuto troppi cooperatori nella impresa.

Questo disaccordo nelle operazioni ha reso meno temibili la irruzioni de' briganti, militarmente parlando, perché più deboli e disparate, potevano alla spicciolata raggiungersi in diverso luogo e tempo; ma quanto alle stragi e ai delitti il numero e l'Intensità dovea risultar maggiore, poiché contavano di satollarvisi tanti, quanti erano i principali condottieri o capisquadra, rei nella più parte di omicidi e di grassazioni, sozzi di ogni libidine e nefandezza.

Il difetto di un piano strategico non permette alla storia un esatta descrizione di queste bande irregolari, né de' loro movimenti.

Esse tutto al più conservano l'impronta di un progetto generalissimo quanto allo scopo; un ravvicinamento poi alquanto più rigoroso per le ricongiunzioni necessarie alla loro salvezza, era indispensabile e coerente alla cupidigia di proteggere possibilmente colla propria vita il bottino della vittoria.

Da principio Francesco II volgea sicuramente in pensiero animar la reazione con una grossa avanguardia militare, la quale sostenesse i movimenti incomposti delle masse.

Profittò a tal uopo del soverchio ingombro di truppe, che eransi radunate nel forte di Gaeta. Ne lasciò andar fuori buon numero (circa trentamila), ed ove non riescissero collegarsi coi reazionari, dovevano gittarsi nel territorio pontificio, invocando la protezione del papa.

Il generale italiano De Sonnaz inseguendo questo corpo errante lo ridusse a Terracina. Allora il duce napolitano general De Ruggero propose una capitolazione. Govon fatto avvertito di tante genti prossime ad inondare il piccolo stato papale, inviò il capitano Momonay per esaminare le cose.

Un consiglio di guerra si adunò dal De Ruggero; v'intervennero De Sonnaz e Mamonay, ma le condizioni proposte dal primo tendevano a serbare appunto per la reazione le sue genti, giusta la mente del proprio sovrano, sia che rimanessero sul territorio italiano; sia che in quello penetrassero del papa.

Di fatti De Sonnaz conoscendo che la forza dell'armata napolitana consisteva negli stranieri, che v'erano immisti, dimandò che questi dovessero arrendersi quali prigionieri di guerra. Il general italiano avea colto nel segno: bastò questo perché tutto fosse risoluto nel nulla.

Mamonav allora, inteso in Roma il suo generale e questi preso concerto coll'Antonelli, consentì l'ingresso dell'esercito regio nello stato pontificio, previo disarmo.

Non v'era tempo da perdere. Bene o male, piccole o grandi, tre armate trovavansi sullo stesso territorio, la francese, la napolitana, e la romana.

I foraggi per tanti cavalli e i viveri per tanti uomini, dovevano ben presto far risentire il caro. Inoltre se voleva trarsene profitto, conveniva tenersi amici i soldati napoletani con uno stipendio corrente. ([93])

Per quanto sollecitamente si adoperasse, due mesi circa andarono prima che una risoluzione definitiva potesse maodarsi ad esecuzione.

Finalmente il dì 28 Dicembre 1860 fu redatto un ordine del giorno dal conte di Trapani, col quale veniva dispensata dal servizio militare tutta l'armata; ma s'invitavano senza mistero i soldati e gli uffiziali di buona volontà a portarsi negli Abruzzi per soccorrere i VOLONTARI della santa causa di Francesco II.

L'ordine del giorno fu letto in Velletri dal maggiore d'infanteria di marina M... P... (taciamo questo nome; dacché dopo lunga prova sembra oggi tornato a resipiscenza tra i nostri).

Non parve vero a que' poveri napolitani di vedersi a un tratto liberi dal più opprimente servigio.

Gran parte di essi corse col pensiero immantinente alla propria famiglia (quest'esercito era anco quello di Ferdinando II, il quale desiderava i suoi soldati possibilmente vincolati con moglie e figli) e non avrianli rattenuti né Franceschi, né sante cause da difendere. Dì questa specie d'uomini il paese in un subito fu libero; ognuno raggiunse direttamente i propri lari.

Per gli esteri la bisogna non correva ugualmente.

Il generale De Sonnaz avea accortamente previsto ch'essi sarebbero divenuti l'elemento più attivo del brigantaggio. Nè accadde altrimenti.

I soldati esteri con vari loro uffiziali troppo lontani dalle loro case, o forse compromessi ne' paesi, da cui provenivano, accettarono, come un ripiego della disperazione, il sottoporsi agli ordini de' carne fini del regno.

Questi pertanto, e i napolitani senza le attrattive di famiglia, o comecché si fosse, desiosi di avventure, seguirono le insinuazioni di molti intriganti, che nell'atto della risoluzione de' corpi regolari procacciaronsi un numero d'individui, quanti ne fossero sufficienti per ottenere dai capi un grado in ragion diretta della quantità raccolta.

Un maggiore che veniva chiamato il capo de' saccheggiat ori, certo De Merich, offeriva paoli cinque per giorno per chi avesse voluto arruolarsi con lui.

L'altro maggiore M... P... sopra cennato, propose agli ufficiali e soldati del suo reggimento di rimanere ai loro posti per marciare negli Abruzzi. Egli avea notato che il desiderio d'abbandonare il servigio militare era superiore alla voglia di battersi per una causa caduca e alla fin fine contraria agl'italiani, che coi loro fratelli di Napoli festeggiavano il patrio riscatto; sforzavasi quindi in esagerare ampie condizioni.

L'orizzonte delle notizie però era assai oscuro; i fondi molto in ribasso, per cui nessuno o pochi prestavano orecchio alle sonore promesse, di cui nulla faceva isperare una probabile guarentigia.

A paralizzare tali impressioni, le più strane voci si metteano ad arte' d'attorno. Garibaldi morto; Vittorio Emanuele prigioniero; vittoria della reazione in Sicilia; austriaci a torrenti già in cammino per soccorrere Francesco II ed altre fiabe simili.

Frattanto, siccome tra Velletri e Cisterna nello stato pontificio, i napolitani quivi rifugiati erano stati disaumati, v'era penuria di munizioni e di armi per ripigliare le offese.

Gli agenti borbonici furon presti in provvederne da Gaeta. Molle casse, alcune delle quali portavano l'indirizzo de' sali e tabacchi, erano affidate alla custodia di Gregorio Antonelli germano del cardinale.

Queste comparvero in Terracina, e di notte tempo, trafugate pei canali delle paludi pontine, vennero occultate presso Forappio, tenuta condotta appunto dai fratelli Antonelli e Cortesi.

Govon era sempre memore del rifiuto di De Merode nel dare schiarimenti intorno ai preparativi misteriosi, che stava elaborando; per la qual cosa era stimolato a spiegare un'azione più energica contro il ministro.

Ordini rigorosi avea anche impartito ai suoi uffiziali di vegliare ogni mossa e di provvedervi direttamente ove se ne reputassero autorizzati; in caso. diverso, munirsi sollecitamente d'istruzioni dirette.

In conformità ditali disposizioni, il colonnello francese di stazione a Velletri era venuto in cognizione che armi affluivano da Gaeta, e che se ne celavano in vari punti presso la frontiera napolitana, specialmente a Forappio.

Immantinente una compagnia partita per colà, dopo poche indagini giunse a scuoprire le casse indicate, che furono sequestrate.

Altre casse giungevano in Sezze. I francesi riseppero dové si trovavano, e si presentarono pel sequestro anche qui; ma pochi di numero contro i detentori di esse; non furono ubbiditi, e poterono esser condotte in salvo.

Drappelli di uomini cominciavano a raggranellarsi per essere armati ed operare il ricongiungimento colle bande degli Abruzzi. Varie centinaja di Svizzeri erano tra Sezze e Piperno diretti per Frosinone. Altre centinaja di napolitani disciolti a Velletri muovevano verso Subiaco.

Ivi De Christen aveali preceduti. Egli investito di poteri dalle autorità borboniche, la faceva da organizzatore in capo; nominò gli uffiziali, diè loro tutte le disposizioni necessarie per armarsi, ed esser pronti ad ogni cenno da un istante all'altro.

Sembra che Subiaco da una parte, Frosinone dall'altra e poi il convento di Casamari e Trisulli, come luoghi centrali ed opportuni fossero destinati a punti di riunione principale per indi scaricarsi negli Abruzzi.

Becdelievre anch'esso con parte del suo corpo erasi incamminato per Frosinone. Nelle alpestri e scoscese montagne di Norcia e Cascia si aggiravano emissari, i quali profittando del favore di que' luoghi inaccessibili studiavano d'appiattarvi delle genti d'armi Giorgi e Luverà con una forte banda doveano tener gli ultimi Abruzzi, Ricci, Baldani e Chiavone accennavano d'immetter le loro in Tagliacozzo, Sora ed altri dintorni.

Duemila borbonici da Velletri erano in disponibilità tra Albano e Frascati.

Altri mille soldati circa comparivano a Terracina mandati ultimamente da Gaeta, a cui s'aggiunse qualche centinajo di galeotti messi in libertà a condizione che si portassero a combattere.

Taluni di questi fidando nella grazia reale, si provarono di rientrare nel regno; ma a Fondi furono di nuovo arrestati come infingardi e poco zelanti.

Il conte di Trapani incessantemente travagliava per dare in luce questo parto mostruoso di reazione, che pareva dovesse inghiottire 1 neonato regno d'Italia.

Tra i degni servitori di S. A. R. affezionati alla dinastia e che in questa suprema condizione di cose esibiva il valido suo braccio, si presentò un Nusco proveniente da Messina (ne sia dato riportare questo piccolo annedoto, del resto assai significativo).

Egli si fece a descrivere la fedeltà de' suoi servigi resi al governo borbonico in Messina, e come sempre fosse stato il terrore della giustizia contro ai liberali; agli umili uffizi di lui esser debitrice la monarchia della sua vita precedente e del publico ordine; in ogni paese retto sulle norme del saggio sistema borbonico tenersi in pregio altamente la sua carica, ma oggi all'opposto egli trovarsi d'ogni sussistenza al tutto privo, senza speranza sull'istante di ripigliare gli arnesi di sua professione quantunque fervidissimi voti porgesse all'Altissimo, perché i dì ne affrettasse: finalmente conchiudeva o che da S. A. un collocamento venissegli assegnato nella milizia de' volontarj; o che di pronto contante fosse sovvenuto.

Il sinistro visitatore, la tetra fama del quale era stata al conte rammentata dal ministro Carbonelli quivi presente, avea abbujato la serenità di S. A., cui repugnando ora troppo gli strani servigi di costui, benché per l'innanzi fossero stati delizia di sua famiglia, diè ordine al Carbonelli stesso che sporto al tristo personaggio un qualche soccorso, il congedasse; come appunto segui.

Quell'uomo truce e pestifero era il BOIA DI MESSINA! Niuno di questi illustri cortigiani mancava al convegno.

Di sopra ne accadde mentovare anche il carnefice di Napoli e Caserta alla pag.114, e quello di Palermo alla pag.342 Sostegni egregi di più nobil patrocinio!!

— Intanto lo sventurato Francesco si rodeva dentro la fortezza di Gaeta: or baldanzoso, or supplice: or superbo, ora umile, gridava per cento bocche ai quattro venti; ma dapertutto non udiva che un eco languida di voce o di consigli ( [94]).

Mendicava un qualche soccorso dall'imperatore Napoleone, e questi rispondeva — La migliore sarebbe, io credo, nell'interesse della maestà vostra, ch'ella si ritirasse con gli onori della guerra, poiché si vedrà costretta a farlo; la catastrofe è inevitabile. ( [95] )

Allora con impeto eroico e cavalleresco transvolò coll'imaginoso pensiero dall'orrore del carcere ai campi acherontei «Posso morire, (dicea) posso esser fatto prigioniero. Ma i principi danno morire come si deve morire.» ( [96] )

Come Geremia nelle solitudini di Gerosolima, dalle brecce di Gaeta commoventi lamentazioni inviava al suo popola per intenerirlo — lo sono napolitano (esclamava); nato tra voi io non respirai altr’aria: io non ho veduto altri paesi; io ma conosco altra terra che la terra natale.

Tutti i miei affetti sono nel regno; i vostri costumi sono i miei; la vostra Lingua è la mia; le vostre ambizioni sono le mie. ([97]) — Anzi avea pur tentato di proporre un modello di re in se stesso, accusando implicitamente i suoi padri, spergiuri, con queste parole —Io non ho mancato certamente alle mie promesse. — ( [98])

Le continue cospirazioni, e l'abbandono de' suoi sudditi lasciarono inesaudite figure e parole così belle. Insomma tutta Europa in preda ad un indifferentismo politico, assisteva impassibile alla caduta di una Monarchia secolare. ( [99])

Oggi Francesco tornava al cimento, e per erompere dalla riserva promessa nel— far qualsivoglia sacrificio per evitare uno spargimento di sangue e risparmiare al regno delle Due Sicilie inutili agitazioni ([100]), appianava la via della reazione, che il conte di Trapani andava intessendo in Roma.

Egli si dirigeva agli Abruzzesi col seguente proclama

«Abruzzesi!

«Allorquando lo straniero minacciava distruggere i fondamenti della nostra patria; allorquando egli non risparmiava nulla per annientare, la prosperità del nostro bel regno, e far di noi suoi schiavi, voi mi avete dato prove della vostra fedeltà.

«Grazie alla vostra severa e nobile attitudine, voi avete scoraggiato il nemico comune e rallentata la marcia rapida d'una rivoluzione, la quale s'apriva la via colla calunnia, col tradimento e con ogni genere di seduzioni.

«No; io non l'ho dimenticato!

«Leali Abruzzesi, ridiventate quel che foste; che la fedeltà, l'amore del vostro suolo, l'avvenire de' vostri figli armino di nuovo le vostre braccia. Noi non possiamo un solo istante lasciarci prendere alle insidiose perfidie d'un partite, ché vuoi tutto rapirci. Non ci assoggettiamo alla sua volontà; rivendichiamo piuttosto la libertà delle nostre leggi, delle nostre costumanze e della nostra religione.

«I miei voti vi accompagneranno sempre e dapertutto.

IL CIELO BENEDIRA' LE VOSTRE AZIONI.»

(firmato) Francesco.

— Il moto disegnato con tanta cura, dovea collegarsi con quello di Napoli, dove il comitato segreto avea disposto che alla quantità di borbonici ivi esistenti, altri del disciolto esercito ne affluissero, affinché con manovra più misurata potessero tener fronte ai corpi regolari, mentre il popolo s'impegnava in lotte meno perigliose.

Ma che! Era riescito alla polizia tra gli altri indizi, intercettare una lettera da Gaeta in idioma tedesco, e che tradotta recava il seguente avviso.

Gaeta 9 del 1861.

«Io spero che in breve le cose prenderanno un altra piega; giacché, come pare, de' piemontesi si è sazi.

«Oggi, o domani si proromperà di certo nelle provincie. Si spediscono di qui molte armi per imbarcare, ma dove?

Io congetturo, se non isbaglio, nelle Calabrie, e la insurrezione verrà fatta dal general Bosco.

Avrà luogo in breve una reazione, ed io spero che tutta la faccenda prenda una diversa posizione. Volesse il cielo che si facesse caccia dei piemontesi, e si dichiarasse la republica.

Codesto sarebbe da desiderare per tornare da capo a Napoli, ben inteso quando i francesi aspettino. Così non può più andare; in un modo o nell'altro deve accadere un mutamento.

«Or mentre parea già al partito della reazione stringer in pugno la vittoria, allorquando con risoluzione, quanto energica audacissima, il consigliere di polizia Spaventa giunto a risaper la trama, fe in in punto imprigionare varie migliaja di borbonici, tra cui oltre mille ex-ufficiali regi, e cinque o più ex-generali; cioè i due fratelli Marra ([101] ) De Lignori, D' Ambrosio, Palmieri ed altri.

Nel tempo medesimo arresti numerosissimi praticavansi in Isernia e paesi circonvicini, Teramo, Lanciano, Vasto, ed anche in Avellino, Ariano, Puglia, Sala, Calabria, Terra di Lavoro ec.

La cospirazione aborti, ma lungi dal piegare a rassegnazione, ingerì orrendamente dalla parte dello stato papale.

Il conte di Trapani, tuttoché avesse veduto cadere a vuoto la trama dal lato delle provincie di Napoli, non volle che con perniciose dilazioni o peggio con ritrattare il movimento concertato, qui pure s'attiepidissero gli animi, e così si precludessero del tutto le speranze dell'avvenire.

Prima che la notizia del colpo di mano operato dalla polizia italiana in Napoli si divulgasse soverchiamente, egli si affrettò di penetrare nel regno dal lato di Sora con tre battaglioni, favorito dai festosi clamori di piccoli paesi, che non possono evitare il plauso ad ogni forza che passa.

Il governo però mentre vegliava attentamente in città, non trascurava la campagna.

Un reggimento di cavalleria, un altro di linea, e un battaglione di bersaglieri si fecero incontro al conte; ma questi in luogo di accettar franca battaglia, sparpagliò le sue forze, sciogliendo libero il freno a quelle orde, affinché (come un dì la terra di Faraone) le povere provincie napolitane, dove l'augusto fratello del conte non aveafatto versare una goccia di sangue ( [102]), fossero coperte di piaghe.

— Le notizie più audaci ed allarmanti non tardarono in farsi udire nell'Ascolano. Quivi la posizione era fortissima, ed assai aggiustata per una guerra di briganti. Il baluardo naturale di monti aspri e selvosi, Civitella del Tronto verso il mare in mano ai regi di Francesco II; dalla parte dell'Appennino la comunicazione con Frosinone per la valle del Velino.

Queste condizioni rendevano arditi assai. fanatici o malviventi, che facilmente fidavansi di far numero nelle bande borboniche, comandate in specie dal Lagrange.

I preti con un nipote del cardinale De Angelis alla testa fomentavano discordie allegramente, incoraggiti da Roma e Gaeta.

Non poco influivano ad una seria resistenza le tradizioni di que' luoghi ritenuti, pel vantaggio della situazione favorevole a' suoi abitatori, quale altra Vandea italiana.

Un valido nucleo di forze regolari apparecchiavano intanto gl'italiani nella valle del Tronto; un commissario straordinario, Lorenzo Valerio, era stato spedito colà appositamente; grandi apprestamenti, che in Napoli faceva il general De Sonnaz destinato a combatter la reazione; tutto faceva credere imminentissimo un acerbo confitto.

Tra i monti diCivitella, d'Ascoli, Mozzano, Amandola, Arquata, Acquasanta ec: eransi fortificati i briganti.

Le truppe italiane, che impresero a combatterli, s'ebbero sorte or trista, or lieta, ma non giunsero completamente a distruggerli, se non dopo la resa del forte di Civitella del Tronto, che loro serviva di efficacissimo appoggio.

I fatti d'armi, che si rapportano a quest'epoca, sono vari, e per quanto riescissero faticosi e molesti alla nostra truppa, non ebbero mai grande importanza, risolvendosi il più delle volte in un circolo di perdite e guadagni vicendevoli, finché tolto l'appoggio della piccola, ma formidabile fortezza, la vittoria si aggiudicò al governo col resto del territorio.

Per foggiarsi una idea di questa spezie di guerriglie; riportiamo uno de' fatti, che più colà si distinsero dagli altri.

Mozzano trovasi a poca tratta da Ascoli; ivi era attesa una compagnia, che appunto da questa città dovea muovere per dare il cambio colà.

In questo mentre, i nostrj venivano attaccati in Ascoli, fu dimandato rinforzo; ma pria ci giungesse, dovettero essi piegare su Venarotta.

Il maggior Lodigiani Intanto muoveva al soccorso, colla facoltà di prendere il comando della compagnia, che già s'era incamminata per dare la muta, e di quella che supponevasi in Ascoli.

In questo modo, computando la propria, egli avrebbe avuto tre compagnie per operare e tenersi forte.

Si approssimò a Mozzano, cacciandone i briganti; ma quivi giunto, seppe che la compagnia di presidio s'era ritirata sopra Venarotta; l’altra in cammino, avendo appreso lo sgombro dl questa da Mozzano, avea fatto ritorno In Ascoli;. perloché videsí isolato e In pericolo imminentissimo.

Non si perdé d'animo; spedì in Venarotta con ordine di occupare Tronzano, da dove minacciava un attacco, e quel ch'è più ogni ritirata sarebbe stata interclusa; In pari tempo informò il maggior comandante superiore Finazzi della sua critica posizione.

I briganti discesi dai monti di Rosara aveano già guadato il Tronto; che scorreva a' piè di Mozzano; ed avevano quasi circondato la compagnia intera.

Niun rinforzo giungeva, e il sostenersi diveniva ognora più difficile.

Allora vista inutile altra difesa, il maggior Lodigiani si aprì uno scampo col ritirarsi, come meglio potè, sopra Ascoli, attraversando ben due miglia di cammino tra un fuoco micidiale, che. spense alcuno de' nostri, altri ferì; circa dieciotto rimasero prigionieri.

Udì il disgraziato caso il generale Pinelli, e di conserva coi. tenenti colonnelli Pallavicini e Gircana; i maggiori Finazzi e Lodigiani, raccolsero tutte le loro truppe per dividerle in colonne, ed avviluppare i briganti.

Difatti Pallavicini attacco di fronte Mozzano colla sua colonna, e i briganti parte colla fuga si salvarono; altri rima«ero vittime. La colonna Lodigiani eseguiva lo stesso movimento controTronzano, e il nemico fu ricacciato sul torrente Fluvione.

Gircana occupò Rosara e i monti circonvicini; Finazzi l'avea raggiunto. Pinelli e Pallavicini proseguivano la loro marcia per Acquasanta. Giunti però presso ad Arli in un punto dove la valle si restringe In mezzo a scoscendimenti d'irte roccie, una viva fucilata sbucata improvvisamente da quel recessi, li accolse. Inutilmente furon tratti alcuni colpì di 'cannone, stante la soverchia elevazione.

La notte avanzava, e se al generale arrideva inseguire i briganti; la prudenza comandava d'abbandonare, nella oscurità, quelle gole perigliose.

Ordinò pertanto di proseguire per Acquasanta, ma poche miglia prima di raggiungnerla, dal burroni fiancheggianti e dai lati della via, un nembo di palle tornò a grandinare su i nostri, i quali per ben quattro miglia esposti ad un fuoco continuato senza potervi rispondere, s'ebbero delle perdite, che solo il favor delle tenebre cadenti rese men gravi e numerose.

Mozzano era il luogo più opportuno e prossimo per una ritirata; no& offrendo peraltro agio sufficiente per ristorarsi dopo tanto travaglio, Pinelli risolse di guadagnare decisamente Ascoli col proposito di ripigliare l'offesa in altro giorno, come di fatti presso alla mezza notte potè eseguire.

Gincana non aveva sperimentato nella sua marcia meno inciampi de' loro compagni. Abbandonò esso I monti per tenere il fondo della valle, lambendo le ripe del Tronto.

A Pedana da una casa e dalle altare occupate dai briganti si scaricò una pioggia di fuoco, che divenne più assai terribile non appena giunta la colonna presso al ponte di Arli, dove la via scavata nel sasso, si restringe nelle angustie de' monti.

La posizione impossibile ad essere attaccata, consigliò Gircana a retrocedere; ma bene a stento potè rifarsi sopra Mozzano, attesa la molestia non interrotta, che s'incontrava in su la strada sparsa di briganti.

Al ponte di Cavaceppo Finanzi ricongiunse le sue colle milizie di Gircana, e di lì mossero insieme verso Ascoli senz'avere ottenuto vermi risultato dopo lunghe marcie e pericoli.

In molti di que' luoghi disastrosi e impraticabili come al di sopra S. Vito, Mozzano e Rosara, i briganti non aveano altro a fare che svellere enormi sassi dalla punta o dagli aggetti de' monti, e lasciarli andare a precipizio con rovina delle abitazioni e delle persone.

La pioggia e le nevi rendevano più orrido l'aspetto di quelle romite valli, e il cammino più aspro e penoso per le vie guaste e melmose.

Altre operazioni d'esito migliore ne verrà dato narrare in appresso di queste parti; ma per ora non potè pensarsi che a rafforzar l'assedio di Civitella, incoraggiante colla sua resistenza le genti annidate ne' dirupi Ascolani.

Scontri ebbero luogo pur ne' dintorni di Chieti, dove i briganti facevan man bassa taglieggiando e derubando dapertutto.

In Anello ve ne aveva buon numero: ivi s'erano fortificati; ma assaltati petto a petto sulle barricate da due compagnie, dovettero que' ladroni abbandonare il paese lasciando circa venti morti sul terreno; il rimanente si volse in fuga, perseguitato senza posa.

Il general Pinelli dopo dura sperienza s'avvide della inutilità degli sforzi impiegati dalla valorosa truppa italiana contro un nemico, che poteva offendere non offeso.

Per mettere un confine a tanti misfatti impuni, con che i briganti andavano affligendo quelle contrade, egli non ravvisava migliore espediente che incutere un terrore tanto più straordinario, quanto meno era probabile conseguire la tranquillità desiderata per vie più ordinarie e temperate.

Un tremendo ordine del giorno, col quale specialmente veniva comminata la fucilazione a chiunque di qualsiasi condizione fosse stato colto colle armi alla mano, sparse in quelle selvaggie montagne una influenza salutarissima.

Lo spavento s'impossessò di tutti.

I preti, che avevano fino allora eccitato i contadini e il volgo ad insorgere, adesso erano divenuti invece gli apostoli del governo del re Vittorio Emanuele.

Deputazioni d'insorti erano rappresentate da' prevosti e parrochi, le quali accorrevano sollecite al quartier generale italiano per deporre le armi e impetrare il perdono, facendo atto di sottomissione al governo, medesimo.

L'ordine del giorno, come altri atti dei risoluto generale, commossero i legali e il malinteso moderatismo, il quale non si faceva ragione di una eccezionalissima necessità, e non volle intendere che dieci esempi di rigorosa giustizia valevano ad involare mille sostanze al ladroneggio, mille vite alla strage.

Le crudeltà commesse in questi tempi non invidiano punto alle età più barbaresche e inumane. Le due parti s'erano talmente accanite fra loro che ormai i borbonici facevan terrore per la smodata cupidigia di grassare e appropriarsi violentemente l'altrui; negl'italiani paventavasi una giusta irritazione suscitata da eccessi nefandi contro di loro. Chi poteva impromettere a se stesso nel frangente d'esser distinto dai tristi?...

Ad esempio della ferocia spiegata in queste circostanze, vaglia la carneficina operata su quattro uffiziali piemontesi, che capitati nelle mani de' briganti, furono squartati orribilmente presso Acquasanta. Un onesto cittadino semplicemente sospetto di piemontesismo (era questo il titolo di sua condanna) fu nientemeno che croci fisso.

La storia è venuta in possesso d'un documento prezioso, dimostrante quali e quanti fossero gli eccessi, ehé eommetteansi dai facindrosi di Ascoli.

Non è testimonio di dubbia fede quello, che ora induciamo; è un capo de' briganti medesimi che rampogna aspramente i suoi stessi consoci; è il sedicente maggiore Giovanni Piccioni, che per tanto tempo infestò l'Ascolano colla sua banda.

Al solito questo genere dl documenti serbano l'impronta della loro origine nelle forme e nella sostanza. Il Piccioni però militante sotto l'insegna borbonica pareva simpatizzasse meglio con Pio IX che con Francesco.

Ecco la mescolanza ch'egli ci regala.

«DAL QUARTIER. GENERALE DI S. GREGORIO

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«17 Gennajo 1861.

« Per la diramazione e pubblicazione all'illustrissimo

signor Alessandro Vanarelli, capitano

del primo battaglione di riserva in montagna»

« STATO DELLA CHIESA

«RELIGIONE CATTOLICA

«Ordine del giorno

«Soldati!

«Nel mentre debbo rallegrarmi seco voi delle grandi «prodezze già operate contro l'inimico, e lodare il vostro so umo valore, sono costretto con sommo mio dispiacere e rammarico, per le lagnanze di molti buoni e fedeli al nostro legittimo sovrano Pio IX, a rimproverarvi delle soperchierie e disturbi che fate a questi patire per i vivevi e per tanti altri tedi, che a loro di continuo voi date.

«Ricordatevi che assoldati vi siete per difendere la religione di un Cristo. Egli è il vostro sommo padrone, il vostro primario condottiero, ed è però che lungi dovete es sere e dalle ubbriachezze e dalle bestemmie, e da qualunque discorso maldicente e immodesto.

«Rispetto dovete avere alla santa chiesa, rispetto ai ministri di Dio, a pro de' quali dobbiamo esporre le nostre sostanze e le vite nostre.

«Miei prodi!

«Il coraggio che. avete dimostrato nelle passate battaglie, mi dà a sperare la vostra vittoria e la distruzione degl'inimici di Dio.

«Coraggio!

«Mentre risorgeremo dalle nostre miserie,. dimenticheremo le nostre sventure, e fiduciati nell'ajuto del sommo Iddio e dell'immacolata concezione d! Maria santissima, e del nostro inclito protettore S. Emidio ([103]), seguire mo con maggior forza, con maggior valore a battere e conquistare il nostro nemico..

«Il Maggiore

«F. Io Giovanni Piccioni.

«Per copia conforme all'ufficio del capitano.

«Alessandro Vanarelli.

All'udire costui sembra il Lojola ne' suoi spirituali esercizi ; ma chi avrebbe creduto che tanta moderazione più tardi (senza ora rammentare altre ribalderie) si levasse in furore, quando in un ordine del giorno minacciò di morte qualunque osasse arrendersi o disertare la bandiera borbonica?

XXIV

Se per l'asprezza do' luoghi le cose italiane non potevano in un subito fiorire dalla parte di Ascoli, il simile non accadeva in altre provincie dove l'autorità militare poteva regolarmente venire in soccorso della civile e in appoggio agli onesti cittadini, che desideravano respingere le rapaci aggressioni de' campioni di Francesco II.

Il governo del re non ignorava i muovimenti, che da Roma apportavano i loro effetti fatali nelle provincie di Napoli. Quantunque ancora inteso con forze numerose all'assedio di Gaeta, e distratto in forti presidi, massime negli Abruzzi, dove pure progrediva energicamente l'altro assedio di Civitella, avea allestito in Napoli buon nerbo di truppe sotto la scorta dell'intrepido general Maurizio De Sonnaz, dirette a reprimere le orde di Giorgi, Luverà, Ricci, Chiavone, De Christen ed altri fanatici, che dovevan riempiere di pianto, di miserie e di sangue tanti infelici paesi del reame napoletano.

La spedizione era attesa ansiosamente; dacché ogni giorno dilatavasi la perniciosissima influenza di Roma per i suoi reazionari.

Le bande organizzate presso Subiaco e Vicovaro impazienti di contenersi anco un'istante nell'inazione, andavano depredando or l'uno or l'altro territorio.

Tra gli altri Carsoli fu designato ad una scorreria passeggera per allora, ma che rinpovata in appresso dovea centuplicare i suoi terrori.

Da Pere!o, Poggio Ginolfo, Monte Sabinese, luoghi circonvicini a Carsoli convenne in un dato punto una frotta di borbonici con monsignor Penna ed un arciprete alla testa. Affissero una informe notificazione, colla quale ordivansi requisizioni di oggetti e di danaro.

Effetto di questa spezie di bando fu l'imposizione di più migliaja di scudi ripartiti in correspettività di patrimonio, tra le famiglie De Luca, i fratelli Marca geli, Mari ec: più fu prelevata grande, quantità di cereali.

Nella sera si eseguì l'elegante saccheggio; indi il paese fu abbandonato con promessa di tornarvi quantoprima.

— Il dì 13 Gennajo le forze borboniche regolari e irregolari trovavansi presso Tagliacozzo occupato dagl'italiani.

Le regolari erano dirette da un uffiziale superiore bavarese; le irregolari erano appunto le bande di Giorgi e di Ricci organizzate da De Christen; in tutto circa duemila armati.

In detto giorno parlamentari borbonici si presentarono arditamente al comando del presidio italiano intimandogli di rendersi a discrezione. L'insolente proposta fu sdegnosamente rigettata, quantunque di fronte ad un nemico ben sette volte maggiore, avrebbe un istante potuto esitarsi (la guarnigione italiana componevasi di duecento cinquanta uomini); ma l'italiano offeso nel suo amor proprio non conta il numero degli avversari, combatte e sa morire.

Immediatamente gli avamposti italiani dal monte Calvario, che domina Tagliacozzo, attaccarono il fuoco. In pochi istanti forti masse nemiche coronando i culmini de' monti circostanti, minacciavano tagliare la ritirata. Laonde dopo qualche ora di combattimento, fu battuto a raccolta per guadagnare l'interno di Tagliacozzo.

. Onta e vergogna qui ricopre un tratto del nostro risorgimento L... Una massa di pessimi uomini di quel paese (ché tutti chiamarli conniventi o attivi nel fatto, non reggo nel cuore) poterono giungere alla viltà di ritardare la ritratta de' soldati italiani, esplodendo dalle finestre archibugiate, traendo sassi, masserizie, immondezze, uccidendo e ferendo così parecchi di loro.

La vendetta di cotanto oltraggio verso prodi soldati della nazione dovea rimettersi ad altro momento; ora era impossibile, ed urgeva proseguir oltre la ritirata per non perdersi tutti in mezzo e due fuochi terribili. I nemici proseguivano ancor essi ad incalzarli, ma battendosi gl'italiani in fuoco di ritirata pervennero presso Scurgola.

A poca distanza da questo paese altri borbonici accennavano togliere anche qui la ritirata; ma 1 nostri. addoppialo il passo, riescirono attraversare Scurgola (fortunatamente questo paese rimase tranquillo) e guadagnare la porta verso Avezzano prima che truppa nemica giungesse.

Da qui, soffermatisi un istante a Cappelle, verso le prime ore della notte furono in Avezzano, e uniti col presidio, si posero a bivacco nella parte più minacciata dai regî.

La situazione era oltremodo critica. La stagione rigida per le piogge e nevi quasi continue; la stanchezza e i disagi patiti per una enorme soverchianza di numero nell'inimico e per la codardia degli abitanti di Tagliacozzo, rendevano urgentissime truppe fresche, che rilevassero o soccorressero le prime.

Si spedì in fretta a Celano, a Capistrello e Civuella, e nulla stessa notte sopraggiunsero prontamente tre compagnie, completandosene così sei, tutte dei 40. mo di linea. Queste di buon mattino si trovavano già schierate in battaglia lungo la linea verso Scurgola.

In caso di sinistro, Celano presentava il luogo opportuno per una ritirata; colà quindi furono spediti gl'infermi, la cassa del distretto e quella dell'esercito; ì prigionieri sbandati, e i politici di Avezzano.

Celano, a differenza di Tagliacozzo, prestò ogni maniera di soccorso ai soldati italiani, e i depositi che a quel paese vennero affidati, erano gelosamente custoditi con vero spirito patrio dai Celanesi uniti a pochi militi, che avevan servito di scorta ai prigionieri.

Lode meritata dee tributarsi ancora a' cittadini di Avezzano, la cui popolazione co' suoi contadini comportaronsi assai esemplarmente. Essi mostraronsi compresi davvero da egregie disposizioni pel nuovo governo, quanto avversi contro gli avanzi dell'antica dominazione.

Parve un istante diffidassero di chi reggeva il loro paese in nome del re, allorquando videro ad un tratto asportare i prigionieri politici verso Celano.

Temerono che gli amici o i congiunti detenuti fossero, nella furia del momento, trascinati alla fucilazione. Fremettero per dolore e le donne specialmente, cui appartenevano, levarono urli e grida disperate.

Ben tosto però ebbero a serenarsi: imperocché sospintosi nel mezzo della folla il vicegovernatore del luogo, dichiarò come la misura adottata per gli arrestati risolvevasi in semplice precauzione, in vista di una possibile ritirata strategica, a cui potesse esser costretta la truppa di fronte a momentanea. soverchianza dell'inimico: il mite governo del re non discendere a rappresaglie o precipitanza di giudizi senza regolare processo: reputare niuno de' prigionieri reo di morte; egli darne un qualche pegno col dimettere sull'istante in libertà cinque di loro men degli altri sospetti.

L'effetto di tali parole accompagnati dal fatto anche più eloquente di esse, fu mirabile.

I pianti e le strida si volsero in gioja ed applausi. Alla moltitudine si congiunsero i contadini, i quali dierono segni non dubbi di fiducia e di pentimento per qualche dimostrazione poco pacifica non molto dianzi commessa.

Scurgola era rimasta scoperta e i regi poterono agevolmente impossessarsene senza trar colpo.

Qui Giorgi rassicurato per l'assenza del nemico, novelloMurat dal profumati crini, si ritrasse alquanto nel suo cabinet de toilette, si raffazzonò bellamente, e così tutto azzimato, rinfronzito e olezzante volle fare il suo ingresso solenne in Scurgola, fregiato della gloriosa fascia di S. Gennaro, e moderando il freno di generoso destriero gentilmente rubato ad un tal Botticelli di Collelongo ([104]).

Pochi regolari Giorgi avea seco, i più erano avvenitieci, ceffi patibolari male in arnesi, e nella cui lurida figura eran dipinte le abitudini dell'ozio e le tracce, della fame.

Gli abitanti ne furono atterriti, e siccome l'abbarbagliante aspetto del loro duce era in opposizione colla splendida miseria de' suoi seguaci, non sì lasciarono troppo allucinare.

Avevano cominciato costoro a raspollare or qua or là; quando, assembratisi subitamente i paesani al grido. via i ladri — tutta la carovana stimò cosa prudente ripiegare sopra Tagliacozzo.

Qui i borbonici avevan partigiani, e trovando minor resistenza, non potè disdirsi alla masnada di Giorgi di darsi al saccheggio di varie case, che volevansi sospette di favore pe' liberali o poi piemontesi.

Esso per suo conto andava imponendo contribuzioni d'ogni genere sotto mentiti pretesti; anzi profittando della lontananza del suo capo Luverà, fece una escursione sul Carsolano, lasciando pochi uomini in Tagliacozzo.

Gli abusi e le depredazioni commesse da questo pessimo soggetto vennero a nausea (non è poco a ridire) allo stesso Luverà, il quale se ne svelenì in una risposta all'abate Ricci, da noi riferita alla pagina 111.

Nel frattempo da ambe le parti si pensava ad altri combattimenti. Bavaresi, Svizzeri ed altra poltiglia straniera e nostrana si disponeva a ritentare il confitto verso Scurgola; gl'italiani l'occupavano con una sola compagnia; però nove altre eran raccolte in Avezzano con due squadroni di cavalleria rinforzati poco. dopo da un battaglione di 500 uomini, e due pezzi rigati di artiglieria.

Da un dì all'altro sospiravasi l'arrivo del generale De Sonnaz coll'intiera spedizione.

La sera del giorno 22 gennajo appunto ecco apparire su pei monti di Scurgola una massa ben numerosa dl borbonici.

Questi assalsero bruscamente il presidio, il quale vedendosi in iscarsissimo confronto, si divise metà sostenendo il fuoco e metà accennando verso Avezzano, per tenersene aperta la via.

Dato immantinente avviso in Magliano, dov'era un presidio di due compagnie con alquanta cavalleria spedita colà per tema che vi discendessero i Cecolani, accorsero quelle in un baleno insieme a parte della guardia nazionale.

Girarono abilmente la montagna e restaurarono la pugna, dando sicurtà ai militi, che proteggevano la ritirata di ripigliare l'offesa.

In breve il nemico sloggiato dal moàte e gittato sulla pianura, trovossi di fronte alla cavalleria, che seminò strage de' regi, alcuni de' quali soltanto camparono fuggendo in rotta verso Tagliacozzo.

Altra milizia sopraggiunta da Avezzano finì di raffermare il fatto d'armi, chiudendo possibilmente ogni varco alla fuga.

Circa sessanta individui, disperando di potersi involare, eransi racchiusi nel corpo di guardia in Scurgola.

Il lagno d'un ferito li scoverse; l'uscio fu atterrato e tradotti tutti prigioni.

Nella scarsezza presentanea delle milizie di fronte ad una folla di borbonici molestanti d'ogni parte, que' prigionieri imabarazzavguo.

Cosa farne? Ucciderli? Era crudeltà. Rilasciarli? Sarebbersi di nuovo imbrancati co' nemici.

Or siccome erano in gran parte ignoranti, si pensò indurli a pentimento collo spaventacchio della morte fattagli annunciare ad arte da un parroco nella chiesa.

Furono di fatti tutti quivi raccolti. Una tetra eloquenza facea già presentire a' suoi uditori la fatale conclusione.

Allorché li confortava a volgersi a Dio per implorare il perdono de' loro falli, indovinarono la feral sentenza; agghiacciarono per lo spavento e poco mancò che in taluno, per forza d'imag inazione, si anticipassero gli effetti della fucilata.

Allora il curato, cangiando tuono; li assicurò che, veggendosi in loro indizi certi di emenda, egli sarebbesi interposto per liberarli, purché giurassero di non ripigliare le offese contro la loro patria italiana.

Non parve vera la cosa, e se in quell'istante avriano giurato di toccare il cielo colle dita, non dubitarono sacramentare colla più viva espansione.

Furono così prosciolti e rilasciati; ma dalla chiesa al ritorno colle loro bande fu un breve passo... Ecco come la superstizione in concorso dell'interesse, perde tra i grossolani maliziosi di quelle regioni.

Non guari lungi da Scurgola, Giorgi e Luverà (ormai tornato al suo posto) riseppero la sconfitta al convento di S. Antonio verso Tagliacozzo, e se al più presto non si davano a gambe, erano anch'essi in sul rimanere prigionieri.

Fu in questo scontro che ai borbonici venne tolta una magnifica bandiera, che si disse data loro in dono dalla ex-regina di Napoli, la cui descrizione insieme ad altri importanti particolari vengonci somministrati da testimone di veduta colle seguenti parole riferite da Marco Monnier sul brigantaggio delle provincie napoletane pag. 30, 1862 — ivi — «(La bandiera) era un magnifico quadrato di seta bianca adattissimo per una processione. Da un lato vi si scorgeva Maria Cristina (madre di Francesco II e principessa di Carignano) in ginocchio davanti ad una madonna, nell'atto di calpestare la croce di Savoja. Dall'altro lato eravi una Immacolata Concezione. Quello stendardo era. stato benedetto dal papa, e se ne attendevano miracoli. Cominciò assai male con questa sventurata spedizione.

«Con Giorgi e Luverà marciava vestito da colonnello alla pari di Giorgi quel famoso Veneziano, che dapprima ai credè un cardinale, e che alla fin de' conti non era che un semplice monsignore di corte. Tra i prigionieri si trovavano molti antichi soldati e furono graziati; ma ai partigiani non si concesse quartiere.

«Uno de' loro capi, il medico Mauti di Luco, è stato fucilato, e, affrettiamoci a dirlo, è morto coraggiosamente. Gli fu promessa la vita se avesse fatto rivelazioni. Rifiutò: si contentò di rispondere che per caso trovavasi in mezzo agl'insorti: stretto dalle domande,; da uomo d'onore si tacque. Avrebbe meritato la grazia: ma per sua mala ventura avea in dosso testimonianze terribili (Fu richiesto, se liberato, a qual partito inclinasse: rispose, a quello di Francesco II; allora non vi fu più scampo): è stato fucilato dinanzi al castello.

«A Sora sono stati inviati tre prigionieri singolari, i tre individui, che aveano portato a Tagliacozzo al maggior piemontese Ima intimazione assai audace delle bande borboniche. Uno era uffiziale de' cacciatori napolitani; un altro era caporale dello stesso corpo, e il terzo zuavo del papa, oriundo spagnuolo, antico capitano carlista. Questi tre disgraziati hanno narrato la loro storia, ch'è una lunga sequela di disinganni. A Roma erano stati assicurati che negli Abruzzi esisteva realmente un'armata; che le popolazioni li attendevano con entusiasmo, e che in quindici giorni sarebbero giunti a Napoli.

«Hanno trovato cinque o seicento soldati sbandati, duemila contadini male armati, e una plebaglia o indifferente o impaurita. A Carsoli si attendevano armi per tutta questa gente, ma i francesi hanno arrestato, il convoglio. —

«Tra i fucilati, della Scurgola figuravano due preti, un monsignore e il curato di Monte Sabinese. A Poggio Filippo, villaggio vicino, è morto un disgraziato, in seguito delle sue ferite. Spogliandolo, hanno scoperto che portava calze violette.»

— Il colonnello Quintini avea bravamente condotto le operazioni, e rassicurata alla fine quella parte col distribuire le sue truppe poderosamente tra Scurgola e Avezzano.

Il generale ])e Sonnaz fin dal 15 Gennajo avea mosso da Napoli con tre reggimenti di linea, e con una batteria.

Erasi diretto appunto sopra Sora ed Avezzano per iscàglionare le sue forze ne' punti più minacciati. Sapevasi da più tempo, come ne abbiamo date cenno, di sopra, che nelle vicinanze di Trisulti, nel convento. Liguorino di Scifelli e specialmente presso al sacro monastero di Casamari, raccoglievansi in sul confine romano, le masse reazionarie.

Quivi facendo capo, venivano organizzate sotto gli ordini degli ufficiali superiori di Francesco II.

Componeansi queste particolarmente di contadini guadagnati a forza di danaro in Sora, Isola, e Castelluccio, luoghi finitimi. Con costoro si macchinava fortificare le uscite appunto di Castelluccio e di Sora.

Vi s'incamminò in fatti parte delle turbe; ma rese avvertite che gl'italiani erano grossi a Sora, si rifece sul cammino, per aggiungersi un numero maggiore e varcare altrove il confine.

Il dì appresso a mille passi da Castelluccio ne praticarono il passo, senza però inoltrarsi.

Il vescovo di Sora monsignor Montieri, l'abate di Casamari Michele Angiolo Gallucci, l'abate Ricci faentino, erano promotori, ed avevan fatto del chiostro un quartier generale di briganti, mentre De Christen, e il così detto Chiavone (di cui in più importante fazione per lui promettiamo i ragguagli) teneansi presso Veroli.

Il Monastero alla giusta distanza con avamposti regolari era guardato dalle mosse dell'inimico.

Il general De Sonnaz per bene accertarsi dello stato delle cose, spinse una ricognizione là presso. I regi erano alle vedette e una scarica di moschetteria avvisò gl'italiani della presenza de' briganti.

Il fuoco si aprì in un subito, i cannoni furono appostati contro l'edificio, mentre la campana batteva a stormo a gran distesa.

La celerità de' suoi rintocchi esprimeva la stretta della paura, e invece di chiamar gente, a tempo di musica segnava la rapidità della fuga, che dalla parte opposta del chiostro coraggiosamente andavano eseguendo i frati, il vescovo, e l'abate Gallucci.

Vedere il luogo del combattimento e vincere, fu tutt'uno. La truppa in seguito ad un fuoco ben nutrito di fucileria e di cannoni irruppe nel chiostro, scacciandone gli occupanti, ch'erano in numero di mille all'incirca.

Colti per certo all'improvviso o almen più presto di quello che si aspettassero, dovettero abbandonare gran quantità dl viveri, polveri, forme da fusione per palle di cannone, cartucce, armi, consistenti in fucili, daghe, sciabole; vestiario completo con abbigliamenti da uffiziali.

Inoltre proclami stampati a migliaja e fotografie (cosa confermata da testimoni concordi) di figure oscene desunte da pose plastiche di bordello.

Nel fervor della mischia e per accrescer lo spavento, fu appiccato l'incendio a qualche fienile sul di dietro dell'edifizio principale, senzaché danno notevole ne venisse.

Tra le carte rinvenute nel perquisire il locale, in usa lettera rivelante gli ordimenti reazionari con Roma, leggevasi così

«A sua paternità reverendissima il padre Don Michele Angelo Gallucci, abate del venerando monastero di Casamari.»

«La sua del 17 fu consegnata a S. A. la stessa mattina del 19, in cui mi giunse, e la spedii al principale, come già avevo fatto dell'antecedente del 16, e come farò di questa del 19, ricevuta questa mattina, e delle altre, qualora non le dispiaccia, secondoché le scrissi di qui sabato scorso.

«De Rustow, sì signore; è quel zuavo, di cui le parlava alcuni ordinari fa, bellissimo, bravissimo e coraggiosissimo gioviate; io lo vidi dal conte il 20 decembre, quando Il conte partiva per Francia, ed esso per Gaeta.

«Il sacerdote Ricci, avvocato criminale, partì da Roma per dirigere la reazione, animare ec: ( [105])

«Anche costui può far molto col suo coraggio e con la sua eloquenza. Giovine alto, di bella presenza, imponente, attaccatissimo alla buona causa, potrà far molto. Se passa per costi, e forse ci passerà, me lo saluti.

«Già s'intende che avrei scelto un giorno feriale per vederci la sera a Picchiena, e per esempio giovedì prossimo a sera; ma posso saper io se la S. V. ha qualche impedimento? In questo dubbio non vorrei gittare il viaggio. Si potrebbe però combinare in modo che l'abboccamento fosse di mattina; ossia, io arrivar la sera, e la S. V. venir di buon ora la mattina seguente, in cui, dopo aver parlato, ella potrebbe tornare dl monastero nella stessa mattinata, ed io per Roma.

«Se tutti questi difensori, di cui mi parla, non attaccano presto alle spalle i piemontesi assedianti. a Gaeta, non si conclude nulla.

«Il conte partì jeri con un vapore espresso in un quarte d'ora, appena ricevute le carte del principale. Preghiamo caldamente che riesca ciò, che va a fare.

«Roma 21 del 1861

— Il giornale di Roma, dopo il fatto di Casamari non mancò di bandir la croce addosso contro il governo del re e i suoi soldati, quali sacrileghi invasori di luoghi sacri alla religione, accusandoli perfino d'aver trucidato i ministri del signore sepolti nell'incendio e della totale distruzione di un monumento cotanto rispettabile qual era il venerando monastero di Calamari.

A tali improntitudini, fecero eco i giornali clericali col soprassello di chiose amarissime, se non fosser stata ridicole e infondate. È però da stupire certamente come lo stesso superiore del monastero, in nome de' suoi religiosi, in una lettera de' primi Febbrajo diretta al general De Sonnaz, rendevagli grazie pei trattamenti appunto di umanità e di moderazione adoperati nell'attacco.

Egli in questi preludi, facevasi strada per augurarsi che il generale volesse consentire loro in avvenire un DOMICILIO SICURO, dicendo «Siccome Gesù Cristo calmò la tempesta con una parola, voi potete calmare le nostre ansietà col promettercelo.»

Ogni qualvolta è tornato a grado de' nostri avversari, essi hanno fatto appello ai sentimenti di generosità e di liberalismo del nuovo regime italico, sotto pena di gettare la contraddizione quanto alla benignità e larghezza de' suoi principi. Essi non si sono ingannati, non tanto per necessità di sistema, quanto per cordiale tendenza di magnanimità verso i vinti, o perché il liberale, indipendentemente dalla intemperanza delle passioni, riconosce con ischiettezza in ogni nomo' un fratello.

Il re Vittorio a richiesta di Francesco II inviava in Gaeta medici riputati per curarlo da un malore sopragiuntogli.

Garibaldi dopo la giornata del primo ottobre, a dimanda di un generale borbonico, inviò a Capua sessantamila sanguisughe e faldelle, di cui difettavano i feriti: così oggi De Sonnaz pregiavasi di riscontrare la lettera di quel superiore, professando il più alto rispetto per la religione, che certamente non s’intese di offendere nell'attacco de' borbonici accovigliati nel monastero; prometteva ai monaci tutta la tranquillità, sicurezza, e libertà, che dee godersi dai buoni cittadini e sudditi rispettosi; anzi in segno effettivo della verità di sue parole, impegnò la sua fede di praticare indagini severe intorno ai vasi sacri od altri arredi ecclesiastici, che potessero mancare, quali avrebbe, puntualmente restituiti.

I briganti evasi da Calamari eransi nella maggior parte ritirati in Bauco, paese di montagna, poco lungi da quel monastero.

Prima che dal disordine patito nella cacciata potessero rimettersi, De Sonnaz l'inseguì colà con buona porzione de' suoi, forniti eziandìo di cavalleria e artiglieria.

Verso l'alba del 28 Gennajo, gl'italiani attaccarono gagliardamente il paese. Gli assediati reazionari risposero con pari vivezza. La posizione favorevole e fortissima triplicava gli effetti de' loro sforzi. Ma' De Sonnaz insisté, e adducendo nel campo d'azione opportuni rinforzi, li strinse in guisa 'ch'essi videro scampo solamente in una sollecita resa.

Il fuoco di fatti fu sospeso e venne fermata una capitolazione, la cui base era lo sgombro immediato dal paese e il giuramento di non prestare ulteriori servigi a danno dell'Italia.

A che però parole di onore o invocazioni celesti con briganti?

Come se la fede della promessa, la religione del giuramento, e la moralità degli atti in quel tempo avesse perduto ogni efficacia, costoro come Schmidt, i contadini di Scurgola, e i capitolati di Ancona, nessuno si tenne vincolato dalla parola di onore consacrata dalla testimonianza di Dio.

— I difensori di Bauco sgombrando il paese si ritirarono verso Santa Francesca, accennando parte per Arcinazzo a Subiaco, parte verso Sezze e Piperno.

Frattanto una colonna di truppa italiana staccata dall'Isoletta presso Sora, passò il confine pontificio presso Ceprano, soffermandosi verso Strangolagalli e Falvaterra.

Le autorità e la poca forza del papa venne rispettata, dichiarandosi dal colonnello Barra! che nel farsi in sul limitare dello stato pontificio non aveva per iscopo di occupare, ma solamente d'inseguire alcuni capi de' briganti.

Stante peraltro la urgenza di altri movimenti, 'si stimò meglio non perdere il tempo nel dar la caccia a chi sguisciava tra le maglie, e si risolvé di non tenervi impiegate delle milizie, che potevano più utilmente operare in altri punti.

Quindi, è che dopo essersi approvigionate, senza più abbandonarono il paese.

— Il beneficio reso dal general De Sonnaz in quelle parti travagliate dalla presenza di tanti malviventi, fu veramente grandissimo. Le popolazioni mostrarono sommo gradimento, ed ispecie il municipio di Sora volle offerire al generale un indirizzo, nel quale esprimeagli la propria gratitudine.

— Le genti difese dalle armi. italiane benedicevano ai loro salvatori non solamente perché allontanavano la peste del brigantaggio, ma ancora perché sotto il vessillo di Savoja andavasi ergendo un monumento politico di libertà, una novella èra di riparazione.

Le torme di malfattori però scacciate dalle armi vincitrici, respinte nel microscopico stato papale, inondavano necessariamente le campagne, i villaggi e le città, e dapertutto rendevano la publica tranquillità degl'infelici soggetti al pontefice mal sicura e travagliata.

Mentre avvenivano i fatti di Casamari e di Bauco, De Christen capitolava colle' truppe di Sonnaz presso Veroli, giurando anch'esso non imbrandire più le armi contro le milizie italiane.

Ivi era anche Chiavone, ma i giuramenti di costoro, come gli altri, perdevano d'efficacia vicino alla corte di Roma legante e solvente, la quale sembrava avesse nel caso adottato quell'antica massima quanto alla validità intrinseca degli atti, giudicati non peccaminosi ove alla formula delle parole non corrispondesse l'intenzione.

Chiavone in onta alle sue promesse seguiva senza interruzione il proprio compito. Da Veroli passò a Vico, e a Guarcino. Quivi s'ebbe gli onori soliti tributarsi nel transito de' grandi viaggiatori. Dal vescovo di Alatri, monsignor Rotolozzi, e dalle notabilità del clero s'ebbe visite di sincera congratulazione e fausti auguri per la sua gloriosa campagna.

De Christen da Santa Francesca, per dove avevano traversato le bande di Bauco, in tutta fretta si recò in Frosinone; ivi colloqui per pochi istanti col delegato pontificio; indi con una scorta, mosse di nuovo per la volta di Roma, soffermandosi fra Sezze e Piperno, ne' quali paesi, come abbiamo veduto, s'era incamminata parte degl'individui di Bauco.

Giorgi già ingrossava nuovamente co' suoi presso Carsoli. Ricci anch'egli divorava là via tra Roma e Frosinone. Qui mulinava concerti colle autorità locali e con altro faentino Carlo Fabrà degnissimo corrispondente di lui.

Un progetto cadeva a vuoto, mille altri ne sorgevano spesso isolati o disparati, quanti erano i cervelli de' rimestatori.

Intanto che per le sofferte dispersioni, codesti capi andavano raggruzzolando le squadre, e disponendosi a riprender l'offensiva, come suole accadere dove nessun ordine o disciplina regge masse di uomini facinorosi, chi non s'accontentava di un capo, disertava dalle sue fila, e arruolavasi in altre; molti realmente fuggitivi vagavano senza direzione, e scontrandosi fra loro, ne nascevano altre combinazioni di bande volanti, che un po' per necessità, un pò per abitudine, pigliavan vezzo in ispogliare i viandanti e dilapidare le comuni.

Dalla provincia pontificia di Viterbo giungevano, per esempio, notizie tristissime di orrendi misfatti commessi dalla banda di un Gavazzi, il quale traendo profitto dalla moda, osava colorare con 'pretesti politici l'antico suo mestiere d'as sassino.

Ma cosa dovevan fare i briganti, se gli stessi agenti ufficiali del governo papale eran modelli di pessimo esempio?

I soldati di Becdelièvre, che dovettere abbandonare Corese, nel retrocedere, fecero sosta a Monterotondo, dove non isplende al certo il meriggio del secolo decimonono, e che perciò meritava da loro un qualche riguardo.

Non ostante, siccome trattavasi di avventurieri senza nome, né principi di sorta, non miravan essi in faccia gli amici o nemici del governo; che parevano adorare; i servigi resi a Merode e Antonelli svariavano per loro tra la campagna e la città, le orgie e le gozzoviglie, i soprugi e le soperchierie, e alla fin del salmo mostravan costoro le fiche ai loro padroni.

Or bene non appena giunti in Monterotondo penetrarono in un magnifico palazzo rispettabile specialmente per la sua vetustà, spettante al principe di Piombino.

Cominciarono dal porre tutto a soqquadro, adattarsi la mobilia, ch'ivi esitevano pei loro usi particolari; in luogo delle legna per far fuoco, le porte e le imposte fornivano i tizzoni da ardere; il custode del locale o chiunque avesse ardito opporsi ai loro ordini, venivan minacciati di morte.

— Uno degli addetti al palazzo irritato dai modi inurbani e selvaggi de' marchesi e conti belghi o franchi (in tale reputazione eran tenuti i zuavi dell'esercito pontificio) volle azzardare qualche parola, che per essi suonava men rispettosamente, e in un istante trapassato da varie palle di moschetto, fu morto nell'atto.

— Di vita fu minacciato il fornitore di pane, carne, biade ec e dové camparla con involarsi a precipizio e scomparir dal paese. Il municipio venne costretto ad indossar l'abito di rispetto per prestare omaggio al comandante Becdeliévre — Il palazzo comunale e le case de' privati dovettero risplendere di festose faci per rallegrare non solo, ma mostrar gradimento per la presenza de' più nobili difensori della santa sede.

Le taverne scambiate da codesti eroi cogli agi delle abbandonate, delizie domestiche, esaurivano le prove tutte della loro temperante sobrietà.

Appo la visita di que' tempi generosi, le grida di morte a Napoleone III,, a Vittorio Emanuele, a Garibaldi ec: armonizzavano colle voci giulive e ruttanti di viva Pio IX e Francesco II.

Veniva poi la volta pel sollazzo.

Monterotondo è situato in cima a ripida montagna.. Al suo piè scorre il fiume Aniene, e da ambe le rive estese amenissime pianure allegrano la veduta del viaggiatore.

Quivi di, scendevano a diporto or gli uni or gli altri de' zuavi. E come se il canto innocente della vispa contadina e de' semplici garzoncelli pei campi dorati dal sole italiano fosser cagione d'invidia a codesti insolenti, divertivansi in far esperimento del tiro delle loro carabine rigate al bersaglio de' loro cqrpi. Lo stento praticavano presso Nazzano e Turrita al di là del Tevere.

A Vîgnanello in prossimità di Viterbo, adoperando lo stesso passatempo, uccisero un povero contadino nell’atto che inaffiava la terra col sudore della propria fronte.

L'autorità governativa papale rappresentata da un tal Fontana, sendo venuta in cognizione che il fatto emanava dagl’inviolabili zuavi, fè che si dileguasse col vento.

A Toscanella posta pare presso Viterbo furono collocate guarnigioni di svizzeri, tedeschi cc: i quali non conoscendo la lingua, tutto origliavano con sospetto.

Le sentinelle frequentissime esplodevano per nulla contro i cittadini; alcuni ne uscirono feriti, ed era tale il furore che v'incappò perfino uno de' loro, al quale per una fucilata si dove amputare il braccio. Non si risparmiò neppure un cavallo, che mentre stava pascolando di buon mattino, da un’archibugiata fu rotolato sul suolo.

Al generale francese si reclamò per cotanti eccessi e scandali che quell'abjettissima feccia di gente commetteva sotto l’egida dell'uniforme militare.

Egli ne riconobbe la giustizia, e si rapportò al Merode con analoghe osservazioni. Questa volta il furente ministro non seppe abbastanza schermirsene, e men tre spediva opportuni ammonimenti al comandante Becdelivre, un messo ufficioso partecipava pure al signor di Piombino parole di scusa.

Questi peraltro, non mettendo tempo in meno, rispose coraggiosamente. che siccome non si era nel caso di soldati, ma di vandali o masnadieri, sarebbe stato da maravigliare che le cose fossero passate altrimenti.

La menzione, che incidentalmente ricaddà su i trionfanti zuavi dì Corese, ne richiama alla mente i prigionieri da loro spediti in Roma, dalla sollecita riconsegna de' quali può ben argomentarsi quanto l'atto fosse ingiusto e fraudolento.

Essi furono restituiti entro i giorni quindici dalla loro cattura. Le. energiche rimostranze del governo del re unitamente a quelle del generale Govon, se operarono lo sgombro Istantaneo dal posto occupato, il renderli era natural conseguenza.

Nel tempo della detenzione, non gli fu permesso ritenere la divisa, ed eran guardati con somma custodia, perché non traspirasse dal carcere un alito italiano, che accontagiasse i sudditi fedelissimi del santo padre.

Quattro feriti erano nell'archiospedale di S. Spirito in Sassia. Può imaginarsi che gli assistenti temevano por di curarli, dubitando divenir sospetti e perdere l'impiego.

Un bel giorno riescì di avvicinarsi e parlargli a tre signore romane. Spedite dal comitato nazionale erano latrici, di una lettera e lire quattrocento da offerire a. que' buoni soldati.

Poterono esse con buon garbo non solo adempiere alla loro missione, ma a maggior compitezza v'aggiunsero del proprio confetture gentili e saporose, che sogliono apportare conforto e gradimento agl'infermi.

Riferiamo qui in calce ( [106]) le amorevoli parole, a cui di è luogo scambievolmente un primo incontro de' romani in casa propria con i pochi soldati di Vittorio Emanuele, e senza soffermarsi troppo in questa onorevole corrispondenza procediamo oltre nella nostra esposizione.

Giorgi e Luverà ormai avevan preceduto a Carsoli le bande di De Christen, e Chiavone, i quali, dopo gli onori di Guarcino, ricongiunto col suo camerata avevano in animo muovere per Subiaco, ma invece si diressero altrove.

La distrazione di questa mossa arreca sommo elogio alla insigne città di Subiaco, e deve segnalarsi.

Sapevasi colà che i briganti romoreggiavano ne' paesi circonvicini; la truppa papale vi avea lasciato un leggerissimo presidio appunto per non trovarsi in forza, ed evitare la responsibilità di non averli re. spinti. Reputava si che la popolazione si tenesse muta e temente colla sola idea del ritorno,. che il presidio avrebbe potuto fare da un istante all'altro, mercé un semplice richiamo del governatore.

Invece que' cittadini, i quali nella massima parte, dierono in ogni tipo attestati splendidissimi di un risoluto patriottismo, si assembrarono, e congiunti insieme in numero imponente presentaronsi all'autorità locale, esponendole che, in assenza della forza regolare, era necessità pel paese e debito di buoni cittadini il difendere se stessi e le loro famiglie da un aggressione imminente d'assassini.

Il governatore interpretando i sentimenti de' suoi principali, cansava la quistione, insinuava che i volontari di Francesco II o non sarebber passati per Subiaco; ovvero il loro passaggio sarebbe stato momentaneo e da non paventare inconvenienti.

La popolazione, che nel pericolo afferra il lato più sicuro con una logica inflessibile, si fè senz'altro a richiedere bruscamente le armi per opporsi ai briganti: in caso diverso essi di per se avrebbero provvisto all'istante.

Il governatore conosceva dall'esperienza che gli abitanti di Subiaco non indietreggiavano per fermezza e coraggio; dové quindi dare assicurazioni formali che i volontari non avrebber toccato Subiaco.

Trasmise avviso al governo, e sicuramente non potè esimersi dal parteciparlo ai briganti di Giorgi a Chiavone, a fine di evitare spiacevoli conseguenze.

Il fatto mostrò che le bande, stornato il cammino di Subiaco, si volsero a Civitella per recarsi di là a Carsoli, dove poc'anzi i lor capi avevano giurato di far ritorno.

I ministri pontifici ogni giorno più s'avvedevano d'incorrere in quella responsabilità, che volevano appunto evitare. Essi desideravano schivare un'aperta connivenza col brigantaggio, conformemente alla parola del!' Antonelli e consorti, che l'impugnavano.

In tale proposito avevano adottato un sistema di comparso e di ciurmeria, che peraltro non riesciva ad ingannar felicemente alcuno. Allorché agitavasi il fatto di Bauco, il conteCarpegna comandante le milizie pontificie fè le visted'intimare a quel corpo di militi di sciogliersi ed andarsene disarmati; alla quale intimazione si rifiutarono di aderire (giornale di Roma del 30 Gennajo 1861) — in tal guisa il governo del papa preferiva accusare la propria debolezza, anziché adoperare con buona fede nell'allontanare i briganti, come altronde sforzavasi dare a credere ai grulli.

L'identico tatto tennesi in Subiaco. Nel giorno dieci circa il generale pontificio Zappi giungeva in Civitella colle stesse disposizioni de' suoi superiori; intimare cioè alle bande che aggiravansi per. que' paesi, di sciogliersi.

Un uffiziale in missione col Zappi si spinse perfino a Subiaco per esaminare se entro il confine dello stato fossevi ingombro d'armati; ma, come poteva attendersi, non v'era un individuo, ché tutti avevano già ricevuto opportune istruzioni dal conte di Trapani, per tempo fatto avvertito in Roma dal dicastero militare.

In vece le bande stavano commettendo misfatti inauditi a Carsoli, che non poteva nel momento esser soccorso dalle nostre milizie occupate in altra fazione, e gli stesi pontifici minacciavano un altro tentativo per oltrepassare il confine verso Poggio Mírteto.

ll fatto d'armi quivi accaduto è narrato accuratamente da un rapporto ufficiale del colonnello Masi comandante generale militare dell'Umbria, da Narni il 12 Febbrajo 1861, in questi termini.

«Il giorno 8 Febbrajo il delegato di pubblica sicurezza di Poggio Mirteto mi fece rapporto che i pontifici, malgrado il divieto del generale francese, avevano occupato nella nostra sinistra riva del Tevere la Mola di Nazzano; che riunivano barche, minacciando di passare in numero; che a guarentire le popolazioni, nuovamente allarmate, era necessaria forza pronta. La mattina del 9 mandai la compagnia dei cacciatori del Tevere con queste istruzioni al suo capitano, signor Giuseppe Albertini.

«Tenersi rigorosamente dentro iJ nostro confine: ricacciarne i pontifici, se violato. Stare in perfetto accordo coi francesi, ovunque vi avesse contatto.

«Questo giusto accordo coi francesi (ed essi lo sanno) ho praticato ed ingiunto ai soldati ed ai borghesi durante tutta la campagna.

«Il giorno 10 da Stimigliano in marcia — Questa sera occuperò l'alture sopra Mola di Nazzano, e spero domani di buon ora cacciarli al di là del fiume o sorprenderli nella notte.

«La sera era a Montopoli, e alle ore 6 conferiva con un ufficiale francese venuto a cavallo con due lancieri per ordine del generale Govon a verificare la violazione di territorio. E il capitano Albertini dopo mezzanotte attaccò i pontifici nella Mola di Nazzano.

«S'impegnò viva fucilata coi zuavi pontifici, i quali più numerosi anche dalla destra bersagliavano.

«Il capitano Albertini spintosi con molto valore, fu colpito mortalmente, e spirò dicendo: coraggio e aranti.

«Facendosi più spesso il fuoco nemico, la compagnia prese il corpo del capitano e si pose fermamente nel bosco contiguo. Sull'alba riattaccò i pontifici, che prestamente ripas. sarono sulla destra riva, da dove anche gli altri attendati si rifuggirono a Nazzano.

«I nostri bruciarono la barca di porto e tornarono a.. fontopoli. Le popolazioni sono rassicurate. La compagnia ebbe alcuni feriti.

«Il capitano Albertini veronese di ventisei anni, era dotato di singolare ardimento; fece la campagna del veneto 1849 coi bersaglieri lombardi, e la campagna del 1859 nel 6. to bersaglieri della divisione Cialdini; sergente nel 22. mo, fu ferito a Palestro, e decorato della medaglia francese.»

Questo nuovo attentato de' confini italiani gittò uno sconcerto abbastanza complicato tra il capo della forza pontificiaBecdeliivre, monsignor De Merode, il general Govon, e lo stesso papa Pio IX.

Non saprebbesi ben definire per quali intelligenze, Becdelitvre non credendosi in forze sufficienti, spedì un suo ajutante al general Govon partecipandogli il suo desiderio che un paese verso Turrita venisse occupato dalle sue truppe.

Non lo avesse mai fatto! Il giusto rispetto alle aquile imperiali si ritenne offeso, il vessillo francese umiliato dinanzi ad un uffiziale papalino (veramente il papa militareggiante quasi sempre ha eccitato le risa, massime ne' tempi nostri) che osava abbassare ordini o cosa simile ad ordini, alla suprema autorità militare rappresentante la Francia. Di qui scalpore e reclami.

De Merode fosse o no complice nell’operato di Becdelièvre, s'accorse che l'arbitrio commesso non pativa difesa; e atteggiavasi a ripararvi coll'inveire contro Becdelièvre. Questi, che autore o strumento della cosa, portava su di se tutta l'apparente responsabilità, venne in urto col ministro, né molto andò che la disputa non degenerasse sugli errori di massima del piano generale strategico.

De Merode dal quartiere della Pilotta in Roma sognava battaglie e battaglieri, vittorie e conquiste.

Becdelièvre, che ad ogni passo sperimentava un inciampo, non solamente pel numero e valore de' suoi nemici, quanto per lo spirito delle popolazioni, che poteva rassomigliarsi all'accoglienza degli austriaci belligeranti in mezzo alle popolazioni lombardo venete, opinava che ormai l'esercito pontificio dovesse tenersi ben contento di serbare la difensiva, senza pretendere di offendere o varcare il proprio confine.

I1 fervore della discussione allontanava i contendenti da una amichevole ricomposizione quanto maggiore era l'ostinazione piccante, che ormai s'era impadronita d'amendue. Becdelièvre, però sorpassando a piè pari i riguardi gerarchici, a dispetto del rabido ministro, richiese l'udienza diretta del papa, cui intendeva appellare.

Dopo tante sconfitte e tato rabbuffo di cose, non era difficile persuadere Pio IX sulla impossibilità di ripigliare le offese; Becdelièvre ne riportò agevolmente vittoria; ma l'irrequieto belga suo superiore non cedendo una spanna di terreno nel campo dell'ira e della vendetta, volle infligergli almeno vari giorni di arresto, a titolo d'insubordinazione.

Becdelièvre a sua volta, altro de' stranieri pronto sempre cum sacco et pera, non tollerando una punizione, che non sentiva meritare, imprecando ai preti e a tutti i loro seguaci, giurò di abbandonarli uscendo dallo stato il più sollecitamente possibile. Raccolse la propria famiglia, da Civitavecchia mosse per la Francia, e disparve.

— Le bande di Giorgi, che abbiam lasciato in Carsoli, dopo aver depredato, saccheggiato, e commesso altre escursioni ne' prossimi villaggi, non parvero satolle.

Il sangue sparso di tanti innocenti e valentuomini non aveva saziato queste ingorde tigri, le quali (rabbrividisco in rammentarlo) dopo avere, tra numerose altre uccisioni, nel più barbaro modo trucidato un distintissimo cittadino capitano della guardia nazionale, attinente alla famiglia Mari, lo ridussero in quarti e ne fecero PASTO DE' CANI!!

Da Carsoli si ditessero a Collalto In numero di mille cinquecento circa. Costretto a funestare di continuo la mente de' miei lettori con imagini tetre e luttuose, debbo ora più che mai invitarli al pianto e alla pietà verso tremende sventure, che la stirpe maladetta de' tiranni di concerto co' più scapigliati profanatori del tempio scaricò sulla misera Italia.

Lungo la linea di confine del territorio rietino lasciato al pontefice, sorge un piccolo castello presso Collalto, vetustissimo feudo de' Barberini.

Edificato il paese a difesa dagli antichi baroni, con una cinta di mura abbastanza solida ed un forte in favorevole posizione valeva a schermirsi dall'assalto improvviso, che i vassalli o le fazioni de' tempi feudali, avessero potuto tentare.

I cittadini atterriti dalle notizie orrende, che dai prossimi luoghi con ispietata celerità diramavansi incessantemente, per disgraziato consiglio, stante la valida situazione locale e la imminenza delle circostanze, unironsi in proteggere colla forza il paese fidando specialmente negli avvisi comunicati a' dintorni e alla milizia regolare. Armati come poterono il meglio si chiusero i più animosi nel castello, attendendo con intrepidezza d'essere aggrediti.

Ed ecco il giorno 13 Febbrajo apparire le orde di Giorgi e Luverà sotto il castello di Collalto.

Una zuffa terribile si accende, gli assalitori difendendosi da prodi li respingono più volte, ma al rallentare del fuoco da parte de' Collaltesi, dedussero i briganti che lo scoraggiamento si fosse impossessato di loro, o che le munizioni scemassero.

Fosse l'uno o l'altro caso, rinfrancarono essi lo spirito quasi estenuato tornando all'assalto con vigorìa disperata. Ajuti esterni non giungevano, e attesa la soverchianza del numero, le scarse genti di quel circondario, non avrebbero potuto cimentarsi senza pericolo certissimo; le truppe erano ancor lungi; le condizioni ormai estreme...

Dio mio dové cedersi a discrezione di un nemico offeso, potentissimo rispetto a settecento anime, di che componesi la popolazione di Collalto, e quel ch'è più, insolente, distruggitore, inesorabile!!

L'imagine del dì finale s'affacciò in Collalto con tutti gli orrori suoi. Irruppe furibonda l'orda borbonico-pontificia.

Le ultime prove di resistenza erano state esaurite; quindi l'invasione delle abitazioni era sicura, il saccheggio, lo stupro, l'incendio, la morte passeggiavano impunemente contro vittime inermi. Atterrati i limitari, o insalite le finestre, in un punto ogni casa aveva cento assalitori.

Qui sbramavasi la sete dell'oro, là folleggiava la pazza lussuria tra l'insulto de' carnefici e il tremito mortale delle spose e delle donzelle assiderate per lo spavento.

Il dottor Latini scontrato da un Celani brigadiere della gendarmeria pontificia, memore di pretese ingiurie, coglie il momento della mischia, in pochi colpi ho già prosteso il suo avversano.

Accorre una misera congiunta di lui alle grida, ma una palla di pistola la ferisce mortalmente. Boccheggiante il sindaco: uccisi in altra parte padre e madre, un bambino di due anni rimane per poco superstite a quella strage; ma infilzato in una bajonetta è fatto il gonfalone della 'strage, il trofeo, il trastullo di quegli scherani erodiaci.

Un tribunale sommario sullo stile di Marat e di Robespierre, procedeva a condanne e ricatti.

Venti giovani delle primarie famiglie sequestrati in ostaggio trepidavano della loro sorte. L'arciprete Latini fra questi, infantocchiata con uno straccio di uniforme militare, come il divino maestro vestito di porpora e armato di una canna alla mano, fu tratto pel paese tra i fischi, i dileggi e le risa immonde de' superbi vincitori.

I fratelli del capitano Mari già tolto ai vivi dai reazionari di Carsoli, ebbero sorte di redimere la propria vita con duemila ducati sborsati nell'atto, e altri due mila promessi.

La lugubre scena veniva illuminata col sole dalla pallida fiamma di fienili incendiati, e di fuochi sparsi, che quà e là scorgevansi di casolari e capanne nell'adjacente campagna, dove (ah! pietosa vista!) fuggenti vedeansi gruppi di poveri contadini, madri piangenti con pargoletti seminudi, armenti erranti e sgominati.…

Collalto rappresentò in quel dì un episodio miserando degli ultimi giorni della sepolta Pompei!! Il romore sinistro di tanto tristi novelle si diffuse intorno, e già accesa di patriottico amore la generosa gioventù reatina accorreva dove più fervea il pericolo per vendicare le vittime fraterne, in quella che i briganti, antiveggendo il rischio sovrastante, fortitîcavansi entro Collalto, erigendo barricate ed altre opere di difesa. Una parte di loro frattanto s'era gittata sopra Pelesoia, dove dopo aver ripetuto gli orrori dei dì precedente, si ritrassero col cader della notte.

Tardi, ma pure a tempo in prevenire un nuovo dramma di sangue, a grandi marcie innoltravansi le milizie reggolari di Masi e Vincentini.

Più sollecito altresì da Roma giungeva un ordine alle torme brigantesche, fra cui noveravansi gendàrmi; zuavi, e svizzeri pontifici, ingiungendo loro di ritrarsi sopra Ascoli e disciogliersi.

I capi Luverà, Giorgi, De Christen e Chiavone conoscevano per prova che tal genere di ordini o era simulato o forzato da influenza estranea alla volontà di che l'inviava. Quindi le sentenze si divisero. I più, anche per non precludersi la via al comodo vezzo della rapina, s'attennero in sul rifiuto; altri stanchi o più peritosi, obbedirono.

De Christen con molti de' suoi era fra gl'insubordinati, e in luogo di cedere le armi, pensò bene di proseguire le sue tappe.

Carsoli era guardato da pochi soldati italiani. Inaspettatamente un assalto di forze triple con artiglieria li sorprese. I nostri con abile manovra, in fuoco di ritirata abbandonarono le posizioni, nelle quali surrogaronsi facilmente i briganti.

Masi e Vincentini non eran molto lungi. Accorsero immediatamente, e attaccandoli in tutti i punti, s'impegnò una lotta vivissima. I briganti ripiegavano tentando di girare sulla sinistra; ma spostati in breve da per tutto, concentraronsi nel paese.

Masi non diè loro agio di ordinarsi, e assaltatili violentemente, li costrinse a fuga precipitosa, indi inseguìlli infaticabilmente fino ad Oricola.

Refrattari in parte agli ordini, che comunque si fosse, da Roma eran pervenuti, convinti dalla logica del cannone, i fuggiaschi accennavano verso la capitale passando per Tivoli.

Questa famosa città avea più volle scorto fremendo il transito di tanti malfattori, e spesso tra mal celate provocazioni i tiburtini avevano frenato il loro sdegno contro costoro. Ora la prossimità delle milizie di Masi, e talune mosse retrograde de' francesi, fecero con fondamento supporre che gl'Italiani avanzassero.

Non è ridirsi se a quante e quali speranze non aprissero gli animi que' valenti cittadini. L'impazienza e l'ardore s'impossessò degli spiriti, e quantunque mal sicuri fossero gl'indizi, con cupa operosità apperecchiavansi per ispacciarsi degli stranieri ed inaugurare il vessillo di Savoja.

La polizia vi diè dentro, e consapevole appieno che Tivoli non sarebbe stato smembrato dal governo pontificio, aizzava il subbuglio, affinché i liberali incautamente discovrendosi, incappàssero nell'inganno.

Per sorte Influiva ne' consigli del comitato nazionale nel paese l'egregio cittadino Luigi Coccanari, oggi in esilio, già deputato al parlamento romano nel 1848, il quale benché nutrisse anch'egli ottime speranze, tuttavia potè penetrare l'astuzia. Laonde con ogni sollecitudine si diè attorno per mettere a parte dell'insidia i suoi confratelli, insinuando caldamente calma e tranquillità.

Anzi temendo che, nella foga del desiderio, seducenti voci o mal riferite potessero illuderli, consigliò il seguente manifesto diretto a moderare l'impeto del momento, ch'era in sul punto di scoppiare, chiamando forse sulla misera città Dio sa quali gravi sciagure.

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« Tiburtini!

« Non pochi fra voi credendo riconoscere in alcuni fuggitivi i capi della reazione ladra e feroce degli Abruzzi, non poterono trattenersi da un atto d'indignazione e disprezzò:

«Chi sa tener conio dì una improvvisa e forte impressione sul senso morale ed offeso d'un popolo onesto ed italiano; chi sa ricordare il vostro contegno generoso verso i prigionieri napoletani, che rimasero lungamente tra voi; chi ammirò le dimostrazioni, che in questi ultimi giorni faceste de' vostri patriottici sentimenti senza turbar l'ordine publico, e senza offesa ad alcuno; chi finalmente ben vi conosce, ha potuto giudicarvi come si conviene.

«Non così coloro, che si compiacevano della reazione quasi ostacolo al trionfo d'Italia, e vollero trarre da quell'occasione a misure di rigore per atterrirvi o provocarvi! È deplorabile é doloroso che a ciò più si adoperi chi meno lo dovrebbe pel suo ministero di abnegazione e di pace, e che più avversino la causa nazionale, e senza ragion d'uilcio pochi non nati fra voi.

«Tiburtini guardate a costoro come ad insetti molesti, come a dementi. Voi non sarete mai né imprudenti né timidi.

«Chi veglia sull'onor vostro in questi supremi momenti,. brama elevar questa città a condizione più degna, vi esorta pur sempre alla saggia moderazione ed alla viril pazienza.

«Mentre l'Italia si alza forte e gloriosa fra le nazioni, e finché chiami voi pure a libertà, cercate sfogo al nobile entusiasmo in atti generosi, in esempi di virtù, in parole d'amore cogl'ingannati e cogl'incerti.

«Se gli eventi corrono ognor più favorevoli al votò nazionale, voi non abusandone, avrete provato ai nemici quanto siate migliori di loro, ed alla Francia, che vi osserva come siete degni d'esser liberi.»

Quanto il Coccanari avea previsto, avvenne puntualmente.

La truppa italiana chiamata altrove. dové allontanarsi, e i tiburtini rimasti quali erano, furono campati alle persecuzioni della polizia e alle tristi conseguenze di una reazione in procinto d'esser provocata senza frutto.

— Le sorti supreme di Gaeta affrettavano: il blocco serrato da mare, una cinta formidabile di batterie e di armati da terra, facevan presentire non lontano il momento della resa.

Varie erano le impressioni che scaturivano da questo avvenimento rapporto al governo di Roma e a quello morituro di Francesco, ambedue interessati a sostenere attivamente la lotta del vecchio principio, che la torva Europa della santa alleanza avea sancito nel congresso di Verona. ([107])

Francesco II benché dalle potenze fosse stato fin qui abbandonato, eccetto l'effimera comparsa della squadra francese; tuttavia non avea chiuso l'animo a sperare da loro qualche soluzione, anche in via di vantaggiosa transazione.

Avea ormai esaurito il lecito e l'illecito; tutto poteva velarsi sotto la considerazione dell'eroismo nel salvar l'onore della dinastia, difendendosi fino all'estremo.

Il cumulo di stragi, i mali della corruzione più nefanda, di cui per lunga pezza dovrà risentirsi l'afflitto regno napolitano, l'incoraggiamento de' misfatti più abominevoli, protetti sotto l'orifiamma del giglio borbonico, tutto era compreso in quelle frasi ampollose.

Da oggi in poi doveva affettarsi rassegnazione e ossequio ai potenti, da cui v'era motiva a lusinghe.

Francesco non doveva parere di procedere oltre in vano spargimento di sangue, e da presso ai motivi generali di restaurazione, doveva presentare in se medesimo il doppio merito d'esser caduto da valoroso, e di serbarsi moderalo in portar pazientemente la sventura....

Egli e la sua corte in una parola col veleno nel suore (i fatti posteriori il provarono assai) tteggiavasi al menzognero sorriso della serenità e della temperanza, nella longamine aspettativa degli eventi.

— Non così Roma di Antonelli e Merode. Questi nel rover scio compiuto non iscorgevano che danni irreparabili. Le offerte di transazione da parte di Francia e della stessa Italia, rendevanli certissimi che tutto non era perduto per loro: qui adunque era quistione di sostenere l'integrità del terreno più che fosse possibile.

L’ostinarsi e il non cedere, l'infuriare, l'arrovellarsi era l'eroismo della loro difesa, il merito della protezione.

Le disfatte sofferte, l'odio sempre crescente delle popolazioni, lo spirito centrifugo degli elementi stranieri inoculati nel governo, inasprivano i reggitori di Roma invece di mitigarli e ridurli a temperanza.

La discordia aumentava tra i difensori armati dell'altare e del trono, coll'impiccinire della preda. Becdelièvre irato coa De Merode avea già gittato lungi da se la spada brandita per la santa fede.

Luverà aveva intitolato ladro e spione il Giorgi.

Oggi nuovamente Luverà e Lagrange erano alle prese fra loro. In presenza del conte di Trapani, ognuno di questi due campioni magnificava a suo modo le gloriose gesta operate in servigio della causa borbonica.

Lagrange forse rammentava le sue imboscate negli Abruzzi coi briganti di S. Emidio: Luverà le vittime umane a pasto de' cani, e i fanciulli impiccati sulle bajonette, quando. quest'ultimo che non voleva comparir da meno del primo, usci in dar del pauroso a Lagrange, perché era fuggito dagli Abruzzi; a suo turno Lagrange diè del vigliacco a Luverà.

Questi rispettosamente innanzi al conte suo superiore, (in decadenza di autorità; dacché nella sua pienezza, non lo avrebbe osato) levò il bastone, che si trovava alle mani, e ne aggiustò un magnifico colpo sul Lagrange.

Una rissa era per accendersi, e a stento l'augusto germano del re riesci a separare i contendenti.

— La polizia romana indurava i suoi rigori; esilii sommari, precetti, prigionie di nobili o ignobili senza numero o riguardo. Tra questi noveravasi il dottor Gaetano Antonella, segretario del principe Gabrielli, affine de' Bonaparte. Fin la censura teatrale era divenuta oltremodo irritabile; le più remote allusioni fornivano argomento di ammonizioni e di divieti ( [108]).

La polizia francese diretta da un prefetto Mangin, tranne rarissime dissonanze, andava all'unisono colla pontificia. Egli, benché in linea secondaria, aspirava per certo a guadagnarsi col suo zelo la simpatia de' preti, i quali ben si conoscono che, nel lato debole, è d'uopo fortificare le soglie dell'edilizio, serrando con pingui offe le fauci de' molossi custodi dell'ingresso.

Se Mangin in genere giudicava i liberali. diversamente dai cortigiani del papa, nell'involucro delle quistioni, v'erano tali lati elastici da mercare onori per ambe le parti, e per tre, occorrendo.

De Merode, nelle bellicose ispirazioni fecondissimo, oppositamente ai consigli di Becdelièvre approvati dal santo padre, di tenersi sulla difensiva, riordinava un nuovo corpo di armati per ispingerlo sopra Frosinone. Erano circa quattromila uomini, nella più parte zuavi e svizzeri, comandati dal francese Blumensthil.

Il papa anca' egli accettava il tono di vari cannoni rigati, e mentre i sovrani più restii, non esclusa l'Austria, facevan discendere su i loro sudditi la parola del perdono, Pio IX riceveva in tributo di devozione squisiti strumenti distruggitori, avea l'aria d'ordinare eserciti, e benedire, non più all'Italia,, come or ha tre lustri, ma a' suoi nemici; benedire uomini di professioni religiose disparatissime e perfino pagani, augurandogli la buona ventura in esterminare cristiani e cattolici, che pur teneansi stretti al seno materno della primogenita di Gesù Cristo.

Le deità allegoriche degli antichi era creduto si propiziassero coll'olocausto di una vittima pura,.. l'idolo del vaticano non placavasi neppure a prezzo di torrenti di sangue, né per cataste di cadaveri!! —Verso il cader dell'anno 1861 un generale Francese comandante nella piazza di Roma ( [109]) in occasione di una pacifica dimostrazione, ebbe a dire le' seguenti testuali parole — Je sais que les romains veulent (aire une démonstration pacifique ! Ça n'est rien: NOUS LES SABRERONS TOUT DE MÊME ( [110] ).

All'attitudine abbastanza ostile delle autorità francesi, Antonelli beffardamente applaudiva, e gridava bisogna atterrare:De Merode traduceva il satanico motto nel suo idioma, — il faut ecraser tous.

Quanto adunque la corte borbonica sembrava rimetterci, altrettanto inferociva la pontificia, la quale così diveniva il veicolo o la traccia e l'addentellato di opportunità per contenere o rilassare il freno reazionario.

— Sotto queste impressioni, la fine attesa dell'ultimo propugnacolo borbonico accelerava gl'istanti pel disastro impensato dello scoppio spaventevole di un deposito di polveri presso al bastione detto S. Antonio, il quale saltando in aria aperse la breccia della fortezza, e decise la reddizione.

Il re Francesco chiudeva finalmente un gran periodo istorico col seguente ondine del giorno.

« Generali, ufficiali e soldati dell'armata di Gaeta!»

« La fortuna della guerra ci separa dopo cinque mesi, ne' quali abbiamo sofferto per la indipendenza della patria, dividendo gli stessi pericoli, le stesse privazioni. È giunto per me il momento di metter termine ai vostri eroici sacrifizi.

« Era divenuta impossibile la resistenza, se il mio desiderio di soldato era per difendere come voi l'ultimo baluardo della monarchia, fino a cadere sotto le mura crollanti di Gaeta, il mio 'dovere di re, il mio dovere di padre mi comandava oggi di risparmiare un sangue generoso, la di cui effusione nelle circostanze attuali non sarebbe che l'ultima manifestazione di un inutile eroismo.

« Per voi miei cari fidi compagni d'arme, per pensare al vostro avvenire, per le considerazioni, che meritano la vostra lealtà, la vostra costanza, la vostra bravura, per voi rinunzio all'ambizione militare di respingere gli assalti di un nemico, che non avrebbe preso la piazza difesa da tali soldati, senza seminare di morti il suo cammino.

« Militi dell'armata di Gaeta, da di i mesi combattete con impareggiabil coraggio. Il tradimento interno, l'attacco di bande rivoluzionarie straniere, l'aggressione di una potenza, che si credeva amica, niente ha potuto domare la vostra bravura, stancare la vostra costanza.

« In mezzo alle sofferenze d'ogni genere traversaste i campi di battaglia affrontando i tradimenti, più terribili che il ferro e il piombo.

« Siete venuti a Capua ed a Gaeta seguendo il vostro eroismo sulle rive del Volturno e sulle sponde del Garigliano, sfidando per tre mesi dentro a queste mura gli sforzi di un nemico, che disponeva di tutte le risorse d'Italia.

« Grazie a voi è salvo l'onore dell'armata delle Due Sicilie; grazie a voi può alzare la testa con orgoglio il vostro sovrano, e sulla terra d'esilio, in che aspetterà la giustizia del cielo, la memoria dell'eroica lealtà de' suoi soldati, sarà la più dolce consolazione delle sue sventure.

« Una medaglia speciale vi sarà distribuita per ricordare l'assedio, e quando ritorneranno i miei cari soldati nel seno delle loro famiglie, tutti gli uomiL i d'onore chineranno la testa al loro passo, e le madri mostreranno come esempio ai figli i bravi difensori di Gaeta.

« Generali, uffiziali e soldati vi ringrazio tutti; a tutti stringo la mano con effusione di affetto e riconoscenza.

« Non vi dico addio, ma a rivederci. Conservatemi intanto la vostra lealtà, come vi conserverà la sua gratitudine e la sua affezione il vostro re.»

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XXV

Il giorno quindici Febbrajo 1861 Gaeta capitolò. L'ex-re, la sua famiglia, come, appare ne' primi capi di questo libro, trasferironsi in Roma. L'aspetto delle cose da questo dì erasi sostanzialmente cangiato nel regno, nell'interno e fuori d'Italia.

Nel regno la resistenza, creduta generalmente assai più lunga secondo l'esperienza di altri assalti subiti dal forte, sorprese, i partiti nell'atto che andavano meglio allestendo le loro trincee; gli tolse il coraggio, li sbalordì con quell'universale impeto di gioja, che levossi d'attorno in tutta Italia a favore del governo nazionale di Vittorio Emanuele; impeto sincero, reale, non compro, avente la virtù d'abbattere effettivamente la temerità degli avversari, che nella espansiva spontaneità delle popolazioni non potevano scuoprirvi nemmen l'ombra dell'artificio.

Erano cuori di uomini redenti da duro servaggio, che batteano d'amor di patria; era l'umana coscienza che rinasceva alla dignità propria; come poteva non accogliersi con tripudio?

L'era della libertà sostituivasi al bastone, alle torturo alle mannaje.

I più fausti presagi circondavano l'augusto soglio del re eletto, l'aureola della sua corona non isplendè giammai d'una luce più pura ed immortale!

La causa italiana coll'annessione inattesa delle provincie napolitane, pareva guadagnata definitivamente, la reazione e il brigantaggio destituito de' suoi baluardi in Capua e Gaeta, dove si appuntava, sembrava avesse perduto ogni ragione ed ogni modo di esistere.

Dall'estero non eran men lieti gli auguri; la prosperità de' successi forniva i cortigiani del tempo felice. Francia già annunziava come prossimo l'adempimento del programma francese — l'Italia libera dall'Alpi all'Adriatico.

Altri con gelosa circospezione veniva pretessendo le conseguenze della capitolazione. S'imaginava pacificata la tempesta reazionaria e guerresca; un forte contingente prelevabile dal napolitano e dal siculo; un contraccolpo sulla quistione. romana, nella quale ritenevasi necessario lo sgombro delle truppe francesi da Roma, come era avvenuto quello delle acque di Gaeta per parte del viceammiraglio Barbier Le-Tinan.

Udìvasi già il giulivo rintocco della campana capitolina annunziante l'ascensione del primo re italiano, e l'installamento quivi del gran parlamento nazionale. Di là lo spaventoso grido di mortal guerra all'Austria.

Dall'isolamento di questa potenza o dalla compartecipazione germanica deducevasene la localizzazione in Italia, ovvero un nuovo intervento francese che conflagrasse l'Europa.

Tutto altresì cangiò, quando s'udì l'arrivo di Francesco II in Roma, e l'accoglienza, che il papa aveagli fatto nel Quirinale.

Ognuno si persuase che il domicilio della reazione e del brigantaggio avesse mutato di luogo, ma serbati i propositi. Le ree speranze si riaccesero alle impudenti macchinazioni tra occulte ed aperte, che abbiamo narrate nella parte della organizzazione operata in Roma sotto l'egida e la connivenza di quell'aborrita dominazione.

Fatti gravissimi però, in istretto rapporto cogli ultimi avvenimenti, paralizzavano la riassunzione troppo spedita di atti ostili all'Italia; tristi preoccupazioni sottraevano lena ed ardimento in tutto lo sciame servile de' despoti, ne' progetti degli estremi partiti.

L'apertura del primo parlamento italiano era per inaugurarsi nella provvisoria, principal sede del governo, in Torino. L'inviare a questo solenne consesso nomi abili d'elevarsi all'altezza delle immense difficoltà che le circostanze presentavano, era cosa sommamente ardua.

Uomini impazienti d'indugio, vittoriosi di splendida rivoluzione, trionfatori di una lenta diplomazia rimasta a mezzo il corso di peritose trattative e malevole minacce, di fronte alla prepotenza di un generoso ardire sorto puramente dal popolo, esercitavano naturale influenza sulle 'elezioni.

Altronde usciti appunto pur allora da lotte tremende, le quali avevano allarmato molteplici interessi, più che mai esigevasi temperanza e calma or che rientravasi nello stato normale, e che, tolte di mezzo l'eccezioni, ogni atto indi innanzi diveniva sindacabile, e dovea risponderne il governo depositario de' plebisciti.

I republicani d'ogni colore, i quali non sogliono, ascendere gradualmente per gli stadi di moti preparati e regolari, ma sforzare a scosse le opportunità, questa volta, non padroni dell'epoca, volevan divenirlo e ad ogni costo vi si cacciavano tanto più ostinatamente, quanto era minore la lor legittima ingerenza.

Quindi è che con programmi e insinuazioni sommuoveano i diversi comitati elettorali riuniti nello scopo di convenire sulle qualità des diversi candidati; anzi nelle provincie napoletane, dove le menti scaldate o sbalordite erano chiamate all'esercizio del diritto prezioso di elezione, e dove i deputati eran per uscir più numerosi delle urne elettorali, corrispettivamente all'ingente numero delle popolazioni, ivi era maggiore l'indirizzo e l'operosità

Però, non ostante la speciosa prevalenza de' fatti, e l'eccitamento generale delle rigogliose opinioni, l'Italia e le stesse provincie di Napoli dierono tale esempio di senno in questa prova suprema, che nella storia per lo meno hassene rarissimo riscontro.

Acri, contradette, furiose se vuolsi, furon le dispute elettorali (il che peraltro torna a maggiore elogio e peso delle risultanze): Il Piemonte la Toscana e Romagna specialmente, che nel civile ordinamento eran più innanzi d'altre parti d'Italia uscite di fresco dal servaggio, non occupavansi di quistioni subalterne relative ad individui o a modi di amministrazione; trattavasi di vivere avanti tutto, e la massima parte degli elettori studiavano con zelo imparziale le persone, dalle quali potesse attendersi una guarentigia circa i fondamentali principi del risorgimento nazionale, sulle basi della fede monarchica ed unitaria.

I paesi tocchi dal torrente rivoluzionario, benché la contesa elettorale fosse quivi più aspra e saliente, tuttavia erano generalmente avversi sia a candidature mazziniane, sia legittimiste.

La fiducia illimitata nel re Vittorio, la manifesta contrarietà di Garibaldi in tutto ciò che se ne allontanava, ritraeva dalle esorbitanze, ed approssimava le opinioni alla moderazione.

Anzi tal era la rettitudine degli spiriti che tenendosi alcuni in sospetto, come senatori del conte di Cavour, (il quale per le recenti cessioni di Nizza e Savoia massimamente riscuoteva il broncio di moltissimi) venivano appositamente lasciati in disparte, ed elette invece persone meno attive nel movimento politico, purché devote sinceramente alla nazione e scevre fossero da libidini di sfiata o di partito.

Il retto senso radicato nella coscienza delle popolazioni fruttò alla patria un parlamento composto, ad enorme maggioranza, di uomini in perfetto accordo colle istituzioni governative, e dai quali non che eccessi o velleità intempestive; fosse da aspettare prosperità e salute nell'interno, rispetto e aumento d'autorità all'estero.

Il giorno 18 Febbrajo 1861 Vittorio Emanuele aperse 'solennemente il parlamento italiano. Coperto egli di gloria e della simpatia universale si presentava a quell'eminente consesso per annunciare la tanto temuta e sospirata UNITA' D'ITALIA quasi raggiunta. Era tempo di fermezza, di energia, di dignità, ma a un tempo di saggia moderazione e di prudenza. Tutti gli occhi della livida Europa erano intenti alla nuova attitudine dei governo italiano. Dal novello indirizzo delle cose ogni partito pendeva per attemperarvi il respettivo programma.

Le sublimi parole del re, ch'ebbero il vanto di camminar ritte in un sentiero scosceso e spinosissimo; sono le seguenti.

«Signori Senatori e Deputati!»

«Libera ed unita quasi tutta, per mirabile ajuto della Divina Provvidenza, per la concorde volontà de' popoli, e per lo splendido. valore degli eserciti, l'Italia. confida nella virtù e nella sapienza vostra: A voi si appartiene il darle istituti comuni e stabile assetto.

«Nello attribuire le maggiori libertà amministrative ai popoli ch'ebbero consuetudini ed ordini diversi, veglierete perché la unità politica, sospiro di tanti secoli, non possa mai esser menomata.

«L'opinione delle genti civili ci è propizia: ci sono propizì gli equi e generali principi, che stanno prevalendo ne' consigli d’Europa.

«L'Italia diventerà per essa una guarentigia di ordine e di pace, e ritornerà efficace strumento della civiltà universale.

«L'Imperatore de' Francesi mantenendo fermo la massima del non intervento, a noi sommamente benefica, stimò tuttavia di richiamare il suo inviato. Se questo fatto ci fu cagione di rammarico, esso non alterò i sentimenti delta nostra gratitudine, né la fiducia. La Francia e l'Italia ch'ebbero comune la stirpe, le tradizioni, il costume, strinsero su i campi di Magenta e Solferino un nodo, che sarà indissolubile.

«Il governo ed il popolo d'Inghilterra, patria antica della libertà affermarono altamente il nostro diritto ad esser arbitri delle proprie sorti, e ci furono larghi di confortevoli uffici, de' quali durerà imperitura la riconoscente memoria. Salito sul trono di Prussia un leale ed illustre principe, gli mandai un ambasciatore, a segno di onoranza verso di lui, e di simpatia verso la nobile nazione germanica, la quale io spero verrà sempre più nella persuasione che l'Italia costituita nella sua unità naturale, non può offendere i diritti, né gli interessi delle altre nazioni.»

«Signori Senatori, Signori Deputati,»

«Io son certo che vi farete solleciti a fornire al mio governo i modi di compiere gli armamenti di terra e di mare. Così il regno d'Italia, posto in condizione di non temere offesa, troverà più facilmente nella coscienza delle proprie forze la ragione della opportuna prudenza.

«Altra volta la mia parola suonò arditamente, essendo savio così lo osare a tempo, come lo attendere a tempo. Devoto all'Italia, non ho mai esitato a porre a cimento la vita e la corona; ma nessuno ha il. diritto di cimentare la vita e le sorti d'una nazione. Dopo molte segnalate vittorie l'esercito italiano, crescente ogni giorno in fama, conseguiva nuovo titolo di gloria, espugnando una fortezza delle più formidabili. Mi consolo nel pensiero che là si chiudeva per sempre la serie dolorosa de' nostri conflitti civili.

«L'armata navale ha dimostrato nelle acque di Ancona e di Gaeta che rivivono in Italia i marinari di Pisa, di Genova e di Venezia. Una valente. gioventù condotta da un capitano, ché riempì del suo nome le più lontane contrade, fece manifesto che né la servitù, né le lunghe sventure valsero a snervare la fibra de' popoli italiani. » Questi fatti hanno ispirato alla nazione una grande confidenza ne' proprii destini.»

«Mi compiaccio di manifestare al prime parlamento d Italia la gioja che ne sente il mio animo di re e di soldato.»

Questo discorso librato e preciso fu letto con quell'alto interesse che conciliavasi naturalmente l'imponente novità d'una Italia rigenerata.

I nuovi cogli antichi bisogni della nazione venivano quivi abilmente compendiati. Nessuna legittima speranza era offesa; la temerità e gli eccessi erano ugualmente condannati.

I servigi di Francia e i buoni uffici dell'Inghilterra s'intrecciavano ad una dignitosa apprezziazione de' loro consigli. I desideri pacifici, le suscettibilità respettive, secondati i loro timori di guerre o di attacchi inopportuni, banditi. Minacciati gli estremi partiti, trovavano anticipata condanna uell'impugnare a chicchesia ildiritto di cimentare la vita e le sorti di una nazione; il che non significava abdicare alla causa di Venezia e di Roma; anzi riunendo il re in se medesimo l'alta direzione delle cose, voleva evitare il rischio di avventurarla imprudentemente, e fuori di tempo, mediante un'azione eccentrica dalle vedute del governo.

In tal guisa, se espressamente non tenne parola di Venezia e Roma, avea, detto abbastanza indirettamente, senza ledere le viste intralciate de' gabinetti europei, e de' partiti su questo punto, del pari che la delicatezza irritabilissima delle quistioni per se stesse. Diffondersi men laconicamente sarebbe stato vano o dannoso; era d'uopo piuttosto scongiurare le possibili eventualità, assettare l'amministrazione generale, equipaggiare eserciti, mettersi in somma a portata di esiger rispetto colla concordia, lolla saldezza di tutti gli ordini, e occorrendo far ischermo alla ragione colla forza.

In tutto questo il re concentrò saggiamente 'il suo discorso accolto con entusiasmo dal maggior numero degl'italiani, commendatissimo dalla stampa straniera, non che accetto alle potenze, colle viste di cui erasi studiato armonizzare e approssimarsi.

Atteso il prodigioso riavvicinamento delle distanze, le nazioni e il mondo tutto è divenuto solidale della politica generale, le più vecchie tradizioni son forzate a decomporsi ed aggiustarvisi; sicché spesso è mestieri rinunciare o differire almeno la pratica attuazione di diritti e legittime aspirazioni locali, in grazia altrui.

Oggi Vittorio Emanuele era nel caso. Spinto a comprimere in cuore lo spedito progresso di cause nazionali a' suoi soggetti non men che a lui carissime, non poteva altrimenti vulnerare l'ordine europeo, mezzo, che fra i trattati e le nuove combinazioni, andavasi restaurando, ma che sarebbe stato improvvido e prematuro. l'attaccar troppo direttamente e da solo.

Può dirsi senza inesattezza che nell'apparizione di Vittorio Emanuele al primo parlamento italiano $i confuse iI programma di tutti i partiti patriottici, le cospirazioni perderono lor ragione di esistere, si verificò la fine di tutte le parziali agitazioni, il principio, il vero momento primo della nuova vita nazionale. Un publicista inglese riproduceva il concetto egregiamente.

«Il mistico veltro di Dante (diceva in questa occasione) ha corso dietro alla sua preda; il nuovo principe, da cui Macchiavelli aspettava la liberazione delta sua patria, è finalmente apparso. Il giorno che grandi pensatori e poeti sublimi tante volte sospirarono e cantarono; quel giorno, pec affrettare il quale tanti valentuomini trascinarono la vita nelle prigioni, o versarono il sangue sul patibolo, albeggia finalmente per l'Italia, e dalla bellezza di quell'alba, l'Europa può augurarsi un grande splendore meridiano.»

Il contegno pacifico, assegnato ed ossequente del re popolare raffermò la convinzione nella pace, contradisse le paure specialmente della Francia, e riempiè i suoi avversari di confusione. L'azione borbonico-pontificia, che ispiava da Roma l'opportunità per ispingersi in mezzo agli errori, quali dal brillante stato di cose per l’Italia estimavansi inevitabili, rimase paralitica.

I preludi dell’assemblea italica secondavano abilmente i poligoni del discorso imperiale francese, poc'anzi pronunciato da Napoleone nell'apertura della camera legislativa.

Sotto l'incubo di soluzioni non previste, e di precedenti recentissimi, la parola dell'imperatore dovea suonare questa volta lusinghiera in parte alla ulteriore definizione della causa italiana, e quindi altrettanto ingrata all'orecchio de' borbonico-papisti, sebbene, nella imprecisigne de' termini, ogni partito studiava spigolarvi una sufficiente latitudine per consolarsene.

All'estero (così Napoleone) io mi sono sforzato di provare nelle mie relazioni colle potenze straniere che la Francia desiderava sinceramente la pace; che senza rinunziare ad una legittima influenza, essa non pretendeva ingerirsi in guisa alcuna, ove i suoi Interessi non erano in giuoco; finalmente che se essa nutriva delle simpatie per tutto ciò, che è nobile e grande, essa non esitava punto a condannare tutto ciò, che offendeva il diritto delle genti e la giustizia.

Avvenimenti difficili a prevedersi sono venuti a complicare in Italia una posizione già così imbarazzata.

Il mio governo d'accordo con i suoi alleati ha creduto che il miglior mezzo di scongiurare i pericoli fosse quello di ricorrere al principio del non intervento, che lascia ogni paese libero de' propri destini, localizza le quistioni, e loro impedisce di degenerare in conflitti europei.

Certamente io punto non ignoro che questo sistema ha l'inconveniente di sembrare che autorizzi dei ben ispiacevoli eccessi, e che opinioni estreme preferirebbero, le une che la Francia prendesse fatto e causa per tutte le rivoluzioni: le altre ch'essa si mettesse alla testa di una reazione generale.

Io non mi lascerò svolgere dal mio cammino da nessuno di questi opposti eccitamenti. Basta alla grandezza del paese il mantenere il suo diritto là ov'è incontrastabile; il difendere il suo onore là ov'è attaccato; il prestare il suo appoggio, or' è implorato in favore di una giusta causa.

A Roma ho creduto dover aumentare la guarnigione, allorquando la sicurezza del S. Padre sembrò minacciata.

A Gaeta ho inviato una flotta nel momento ch'essa sembrava dover esser l'ultimo rifugio del re di Napoli. Dopo avervela lasciata quattro mesi, io l'ho ritirata; tuttoché degno di simpatia fosse un reale Infortunio, così nobilmente sopportato. La presenza dei nostri vascelli ci obligava ad allontanarci ogni giorno più dal sistema di neutralità, che io area proclamato, ed essa dava luogo ad erronee interpretazioni. Ora voi sapete che in politica si crede poco ad un'azione puramente disinteressata.

Queste ultime espressioni diffidarono la publìca opinione quanto alla schietta deferenza dovuta agli atti politici de' grandi corpi dello stato. La presunzione di assoluta lealtà e di ottimismo, che suolsi arrogare l'autorità, veniva confusa colla fragilità e colla viziosa tendenza dell'umana natura. Egli è ciò a scapito invero della intangibilità sacra di chi domina, mentre reputasi d'ordinario più che uomo: è questa una confessione preziosissima e intrinsecamente verace, che in altri tempi un regnante sarebbesi ben guardato di emettere; confessione che rivela altresì una nuova conquista della ragione umana fondata sull'equilibrio apportato tra il potere assoluto e la pubblicità degli atti controllata dai popoli.

Questa sentenza napoleonica trovava dimostrazione a se stessa nell'atto medesimo, sotto cui era inscritta. Forse la coscienza di chi l'avea vergato intendeva alludere ad una vantaggiosa prevenzione a proprio favore. Se non che il contrappeso dinamico del publico, a cui finalmente tributavasi omaggio, quivi come in tutti gli atti de' governi spinti a compartecipazione forzosa di autorità e di gloria, subcontrapesato da una latitudine interpretabile, che mentre accontenta gli alleati na' turati del potere, e mette a cimento la discrezione de' sospettosi, tende a ritirarsi continuamente verso la vecchia presunzione prediletta, e lasciare intatta ne' termini generali la controversia elastica di future combinazioni.

A costo di venire in voga d'uomo bieco e mal fidato, debbo confessare d'esser tra coloro che non credono in politica ad azioni puramente disinteressate.

Io nego in principio l'esistenza pratica della virtù negl'individui, e a più forte ragione l'impugno ne' grandi corpi che li rappresentano, i quali ne sono il riepilogo, col soprassello di un interesse proprio prevalente per forza di unità e di concentramento.

La parola che dal cuore esca pel labro, è appena ammissibile ne' slanci primoprimi di un popolo, che dal duro giogo di servitù riesca alla sospirata rigenerazione.

I moti generosi e concitati del cuore senza speciali rapporti cogniti cogli altri, strappati quasi all'entusiasmo invasivo, dominante, erompente, e ad una coscienza prepotentemente estrinsecata, possono produrre l'eccezioni miracolose e privilegiate, e da non addursi in esempio di azioni puramente disinteressate; ma normalmente parlando, siamo in tema di caso pensato; è il primo amor dell'io; è il calcolo assorbente dell'egoismo; è la guerra di tutti contro tutti; è il mondo che peggiorando invecchia, che governano le azioni dal lare domestico al ciclo più esteso e complesso della umana famiglia, nello stato.

L'apparecchio della moralità publica e internazionale, che mostra la società, è un avanzo della tempesta, è un aborto della vittoria, è il risultato (ahi pur troppo avaro e sdegnoso!) di un equilibrio violento, che assonna nella calma e fa pompa di sue bellezze per riconquistare il perduto. L'apologismo della virtù quanto più effrene a stemperato, è in [arto tanto meglio interessato e e menzognero. Roma papale che nelle orgie predica castità, n'offre esempio stupendo!

Non si bevon col latte queste idee malaugurose, son cileno che per disavventura dopo il sommesso fermento della prima età, divengono adulte e solide al contatto degli uomini, considerato in se stesso, e sulla altrui sperienza vetusta e quotidiana.

— Queste riflessioni, che di passaggio sono state motivate dalle parole dell'imperatore sul valore intrinseco da attribuirsi agl'intendimenti o all'azione politica de' governanti, non soffriva al certo una mentitadalle simpatie per tutto ciò che nobile e grande, o dalla condanna in tutto ciò che offende il diritto delle genti e la giustizia; espressioni vicendevolmente e relativamente usurpabili.

Conservare inoltre diritti ove siano incontrastabili; prestare appoggio ove sia implorato a favore di una causa giusta, ripetevano l'indeterminata vaghezza delle ipotesi da mettersi in giuoco secondo le vedute e le opportunità.

Il principio del non intervento, accettato dalla Francia per impulso della Gran Brettagna, dopo essersi esaurito da quella ogni mezzo per violarlo in Sicilia colla invocazione formale d'intervento armato collettizio insieme all'Inghilterra medesima, a fine d'attraversare a Garibaldi lo stretto di Messina ( [111]), oggi spingevasi a tale affettata osservanza da volere evitato eziandio lo scrupolo di erronea interpretazione quanto alla supposizione possibile di allontanamento dal sistema neutrale già proclamato.

In Roma le tante dichiarazioni esplicite e miste sulla conservazione dei potere temporale, riduceansi oggi ad aumentar la guarnigione perché la sicurezza del S. Padre sembrava minacciala.

Checché si fosse però di cotante anfibologie sottostanti, il discorso imperiale non dispiacque in Francia, né in Italia. In Roma altresì agghiacciò sulle prime il cuore de' ministri pontifici, non meno che della corte borbonica racchiusa ancora in Gaeta.

La nuova conferma di quel principio di non intervenzione realmente fatale per chi vive di altrui pane quotidiano, rodeva intimamente coloro, i quali non ignoravano l'impossibilità di sostenersi con forze e risorse proprie.

Il che convalidavasi dalla stessa necessità riconosciuta indispensabile per la sicurezza del S. Padre, altrimenti minacciata.

Attenuate d'alquanto le impressioni del momento, la corte pontificia e i suoi alleati andavano illudendosi colla speranza di una prossima guerra distruttiva del nuovo meccanismo politico, ed intanto ivan ruminando che collo stesso favore dell’armata francese (durante la cui stazione in Roma nulla eravi a temere, sia per la sicurezza del S. Padre, o vuoi per l'incolumità de' suoi domini materiali) avrebbero potuto architettare una resistenza, serbando illeso il focolare reazionario a disposizione d'ogni evento propizio.

Le simpatie degne del reale infortunio di Francesco II eran formule da ceremoniale, e vicino alla meticulosa coscienza napoleonica nell’aver allontanato la flotta da Gaeta per timore di parer disertore de' proclamati principi, credo non valessero a ingenerare in Francesco neppur l'illusione per tanta tenerezza.

Il più duro per questo sciagurato re era dover seguire l'uso, e corrispondere al complimento, col mostrarsene gratissimo, tributando alle sollecitudini dell'imperatore singolare encomio in mezzo alla universale apatia delle altre potenze europee.

— La proscritta famiglia borbonica scossa e perturbata dal recente disastro, cercava consolazione e sollievo nelle braccia del sovrano di Roma.

Questi non era meno attristato dalla propria situazione giammai definibile nettamente per l'importuno tramezzo del!' azione francese inuguale sempre e cangiante, come i fenomeni variabili dell'atmosfera.

Se il primo tentativo d'intervento nello stretto di Messina avea fatto sperare inutilmente la circoscrizione rivoluzionaria abbastanza lungi dalle terre pontificie da non paventarne la prossima influenza, le lusinghe eransi rinfrancate coll'intervento quadrimestre di Gaeta. Questa larva eziandio il dì appresso disparve, incalzata anzi dalla conferma della massima di non intervento ribadita nel discorso al corpo legislativo.

I progetti adunque, qualunque ne fosse la comprensione sella mette de' papisti o de' borbonici, rimanevano o conquisi per la efficacia de' fatti compiuti, o almeno ristretti da risorse limitatissime eperimentabili col rimestare disperatamente strumenti vieti e condannati.

Pareva venuto il tempo di sfruttare questo ribasso morale, e carpire una riconciliazione tra il papa e. l'Italia; riconciliazione che sostenuta dalla inframittenza di Francia, avrebbe al certo partorito qualche bastarda combinazione non estranea agl'interessi tradizionali degli augusti mediatori.

Il celebre opuscolo del visconte di Laguerronière, intitolato La Francia, Roma, e l'Italia — da romorosa espettazione preconizzato in Europa, avea tolto l'assurto.

I concetti brillanti, esposti con bella eloquenza, cosparsi di verità giudiziose, toccanti maestrerolmente le attualità, soprattutto il carattere ufficiale dello scrivente, che rifletteva sulle opinioni di lui, benché annunciate individualmente, riscossero plauso e sorpresero grandemente.

Il difetto altresì di una conclusione nitida e, secondo lo stile francese, lasciata a balia della discrezione respettiva de' partiti, offeriva salutari riserve per risussumere e inquartarvi i lati polinomici di possibili contingenze.

Il governo pontificio era stato efficacemente assistito ne' suoi
funerali dal primo opuscolo dello stesso signor di Laguerroniere — Il papa e il congresso — il quale autenticò in certa guisa la perdita della metà degli stati papali abbandonata dagli austriaci, sia guadagnati colle armi italiane.

Se però in questo caso dové la Santa Sede soggiacere alla forza di un fatto compiuto, non era così in Roma, dove erale consentita la condizione potestativa della sua accettazione.

Essa non adoperò qui né più né meno di que' creditori, i quali avendo certa e spedita la sentenza per conseguire il proprio, non inchinano certamente a spontanea largizione.

Roma ributtò le considerazioni dello scrittore francese con tanto maggior disdegno, quanto più era elevato il carattere dello spositore, godendo anzi di abbattere, alla libera, nel supposto interprete del governo imperiale, il governo medesimo, da cui non intendeva accettare né il poco né il molto, ove accennasse ad una sottrazione qualunque delle antiche prerogative.

Napoleone risenti il colpo indiretto del Vaticano, non si scosse, dissimulò e passò oltre.

— L'assunto titolare di questa opera ne permette quelle riflessioni, che scaturendo dai fatti, accompagnano in certo modo la filosofia istorica di essi. Una descrizione sfinita e sterile, che non eccederebbe la periferia di un semplice racconto, parvemi men soddisfacente di una scorta indaginosa, da cui l'epoca si colori nelle sue fasi e valga ad ispirar ne' leggitori, congiuntamente alla notizia, un beninteso interesse tratto dalla scienza e dalla sperienza insieme.

Nell'immenso volume delle idee diramanti da opposti principi, ognuno de' quali si contende il primato, è oltremodo difficile contenersi temperatamente sì che la storia non ismarrisca il suo filo, soffocata dalla farragine di osservazioni soverchiamente estranee o divagate.

Io mi studio con tutta l'anima evitar lo scoglio, compatibilmente alle mie forze, infrenando al possibile quel vigore e giovanile trasporto che dalla complessa analisi degli eventi, ne trascina sovente alla sintesi recondita di principi: — Il discorso imperiale napoleonico suscitò, credo, delle giuste riflessioni intorno alla fede da attribuirsi all'azione politica.

Trattando altresì in genere l'argomento; colle analoghe sue applicazioni al regime di Francia, stimerei ingiustizia se orrevolissime eccezioni io intralasciassi, suggerite dal sistema al tutto nuovo adottato da una potenza, cui sarebbe ingratitudine disdire il merito eminentemente benevolo verso la grande nostra causa italiana; voglio dire della nobilissima Inghilterra.

Anche da questa nazione. illustre, in occasione di apertura del suo parlamento, ci venivano attestati di amistà e simpatia. La formola del non intervcnto dalla regina inauguratrice della sessione di quest'anno Febbrajo 1861, era così concepita. In Italia si vanno compiendo avvenimenti di grande importanza.

«Nella persuasione che gl'italiani si devono lasciar comporre i loro proprii affari, io hostimato giusto di non esercitare nelle loro cose nessuno intervento attivo.»

Se non che questa dichiarazione più semplice forse delle frasi imperiali, conteneva la virtù effettrice e reale de' precedenti, per la quale dopo sapiente disamina delle condizioni nostre politiche, i ministri britanni si pronunciarono francamente per la nessuna ingerenza di forze straniere negli affari interni d'Italia: ove altrimenti avesse oprato la Francia, era minacciata di protesta; sarebbe incorsa nella disapprovazione del gabinetto e del popolo inglese.

Ecco la risposta data dal governo di S. Giacomo all'invito fattogli da essa per intervenire in Sicilia

«Il governo della regina è di parere che niente sia avvenuto che consigli dipartirsi dal principio generale del non intervento. Le forze di Garibaldi non sono sufficienti a rovesciare la monarchia napolitana. Se l'esercito, se la marina, se il popolo di Napoli sono collegati al re, Garibaldi sarà sconfitto; nel caso contrario i popoli lo accoglieranno volenterosamente.

«Nell'uno o nell'altro caso la nostra intervenzione sarebbe un atto estraneo negli affari interni del regno. Se la Francia e l'Inghilterra contrastassero a viva forza l'impresa di Garibaldi, sorgerebbe una controrivoluzione, e noi saremmo responsabili de' mali, che ne seguirebbero.

«Se la Francia decidesse d'intervenire, noi disapproveremmo la sua determinazione, e protesteremmo contro.

«I napolitani debbono a nostro parere esser lasciati liberi di respingere o di accogliere Garibaldi.»

La politica inglese ha mai sempre gelosamente custodite nel suo reggimento la iniziativa de' suoi atti. Senza indietreggiare od osteggiar di soverchio bisogni sentite generalmente dalla parte eletta della nazione, con savio accorgimento li ha fatti propri, moderandoli, senza scapito di autorità o della dignità sua.

Non ha paventato di moti ordinati del progresso commerciale o politico: mantenendo ognor salde in sue mani le redini, lo ha dominato guadagnando gradatamente in grandezza e dovizia pel paese, in simpatia e attaccamento pel governo, in influenza grandissima verso gli estranei.

Allorché questo sistema, per la lontananza de' britanni dal resto d'Europa ([112]), era quasi circoscritto da' suoi lidi del mare, seppe il governo, benché in disparte conservare la sua libertà e invigilare alla sicurezza propria, allontanando al di fuori i pericoli ne' modi conformi alle varie istituzioni vigenti.

L'egoismo, l'interesse, la prepotenza erano validi mezzi per vincere la vecchia Europa, ed esso accettava le cose come trovavansi, senza pretendere di rinnovarle.

Quando l'umanità stanca dal diuturno soffrire, si scosse, reclamò il proprio diritto, e nello sviluppo delle scienze e delle franchigie si riavvicinarono i popoli riconoscendosi per fratelli; era tempo che la per fida Albione smettesse i mali suoi vezzi, e si riforbisse ai benigni influssi delle età ringiovanite.

Era tempo che il vieto sistema da indigeno addivenisse cosmico: l'Inghilterra antiveggente e per nulla ostinata, di fronte all'imperiosa necessità, cangiò stile, sorprese i suoi emuli, non che i propri nemici.

Se però nel duro passaggio essa veniva cedendo a palmi il terreno reclamato dai spaventosi cataclismi delle rivoluzioni, l'avvenimento inatteso del secondo impero napoleonico ridestò la sua attenzione, scosse ceneri spente, provocò tutta la sua suscettività, sapendo d'avere incontro tale avversario, che bisognava spegnere o vincere, sotto pena di decadere dal proprio lustro in mezzo al fulgore abbarbagliante delle aquile successo, al fiordaliso, delle tradizioni di conquista e di domestica vendetta.

L'epoca del regno morale sulla forza bruta era spuntata; l'opinione complessiva degli uomini già mancipe e serva della gleba, o infarcita ne' protocolli, era ascesa ne' sogli e siadeva regina sui i troni accanto agl'inviolabili semidei della terra, minacciando altrimenti d'abbattere i loro tabernacoli a colpi di scure infasciata di verghe.

L'Inghilterra comprese il suo tempo, e svincolata da legami religiosi, da pretensioni di partiti, libera d'impegni, integra di forze, bandì senza ritegno quegli eterni principi, che erano stati un privilegio della scienza più che una realtà; col peso della ufficiale autorità li emancipò dalle sette, li tradusse sul terreno legale e internazionale; fu la prima a mostrare benigno il viso senza diffidare de' popoli.

Essa accogliendo le varie formole del codice liberale, ne annunciò con coraggio le norme; svelolle per intiero e con effetto; squarciò i veli della politica senza riguardo, senza reticenza, propugnando con rettitudine e fervore tutte le cause della libertà, dovunque sorgessero.

L'imperatore Napoleone che disponeva in Europa di risorse potentissime, con tratti stupendi del senno e della mano, sembrava per un istante volesse, come Orfeo, attirare presso di se anche i tronchi e i passi; ma ben presto tra le viste personali, in disaccordo cogl'interessi della nazione, le mene de' partigiani, la soggezione de' legittimisti, clericali, e gl'impegni impopolari contratti, cominciò il sospetto e la diffidenza, costretto a non iscattar la bilancia verso un estremo o l'altro per esser pronto a tutti gli eventi possibili, divenne necessariamente debole, e forzato a tergiversare o contraddirei indecorosamente; il che, se noi tolsero al tutto, sminuirongli certamente gran fatto il suo ascendente.

La sagacità de' ministri britannici seppe cogliere il destro, e senza tema di esagerare, può dirsi aver essi lasciato indietro a se gli oracoli sibillini del delubro imperiale, e adombrato perfino il merito intrinseco del soccorso materiale prestato agl'italiani in Lombardia.

Il gabinetto napoleonico non credeva né voleva forse innoltrarsi troppo; anzi avrebbe fatto prova aggiustare i conti di casa propria co' fondi altrui. Allorquando avrebbe desiderato ritrarsi, l'Inghilterra lo condannò a subire gli effetti delle sue voglie, e a serrarsi nella fossa scavata colle proprie. mani.

L'unità italiana era pressoché formata, ed era 'difficile impedirla; ebbene l'Inghilterra non si tenne paga a mezzo; energicamente sostennela, non secondò, anzi respinse in tutte le guise accordi tendenti a menomarla o ad insidiarla; malmenò la sua emula, dichiarandola ingiusta crudele e causa de' mali della povera Italia minacciata, da chi parea si struggesse per lei, di farla servir sempre vincitrice o vinta.

Dee ammettersi che la conversione inglese è stata motivata da impulso estraneo e non da spontanea virtù, ma saper cogliere opportunamente le occasioni; rispettare senza ostinazione il progresso legittimo, senza i superstiziosi timori delle innovazioni; enunciare con parola franca, piena e senza restrizione, principi temuti o sol biascicati da altri gabinetti, è tale elogio di sapienza e di lealtà che l'Italia non oblierà giammai. ( [113])

S ien pure nei governo britannico preoccupazioni di una Francia conquistatrice, o gare gelose dì materiale prosperità che lo abbiano indotto a rinunciare alla sua politica tradizionale, pertinacemente altronde invocata da Parigi in casa propria, a sbandir dal commercio l'odioso equilibrio privilegiato dall'aristocrazia, sostituito alla politica del libero:cambio, inauguratrice di ricchezza e di pace; ma oltrecché è spesso del saggio cangiar docilmente consiglio, non può impugnarsi nel popolo inglese fino al suo governo una simpatia sincera e disinteressata per la giustizia e pel diritto. Esso giunto all'apice della fortuna e della felicità, non l'invidia altrui.

Se in antico non sapevasi nemmeno imaginare un pensiero inglese che sostenesse con disinteresse un principio; se per rintracciare i suoi nemici, abitualmente ci volgevamo alla Manica citeriore; oggi la moralità nazionale adottata e invalsa, non consentirebbe la riproduzione di taluni atti inonorati della sua storia, e disdegnerebbe che la corona della virtù non fregiasse i più reconditi intendimenti delle sue risoluzioni.

Se la discesa de' francesi nel 1859 fruttò alla Italia la Lombardia e la perdita di Nizza e Savoja; il principio del non intervento osservato saldamente in Sicilia dall'Inghilterra contro la volontà della Francia, ha permesso l'annessione del regno delle Due Sicilie all'Italia; ha fondato l’unità, non per anco integra pel trattato di Villafranca, che immolava la Venezia; per l'intervento continuato di Roma, e per l'inqualificabile tolleranza del brigantaggio ordito all'ombra del vessillo francese.

— Se però sulla Francia pareva ricadesse la. responsabilità di una politica instabile e indistinta, in realtà le cagioni principali di tante ambagi si appuntavano nella persona di Napoleone, il quale sostenendo, può dirsi da solo, l'indirizzo supremo delle cose, mirava a consolidare se stesso, a predisporre giganteschi e misteriosi progetti, i quali spesso scontrando ostacoli per via, dovevano rifarsi sul cammino percorso tra il disordine e la confusione.

V'era un partito liberale in Francia (deesi imparzialmente confessarlo) che, al di sopra dell'egoismo, metteva generosamente la virtù de' principi.

Gl'italiani noi disconobbero, e per attestare con giustizia la sua simpatia e gratitudine verso sentimenti di abnegazione e di magnanimità, unironsi fra loro i principali organi della stampa liberale di Milano, Firenze, Torino, e stabilirono di offerire a L. Havin direttore politico del giornale il Siede una statua, in contrassegno di riconoscenza per quanto erasi esso adoperato in pro della causa italiana.

Nel signor Havin veniva in realtà personificata tutta la stampa liberale francese, e volevasi in lui simboleggiare il legame, con cui cementare e raffermare l'unione politica delle due nazioni sorelle, equilibrando possibilmente l'attitudine non di rado esclusiva di Napoleone.

Dopo aver enumerato le tristi conseguenze risultate dalla ingerenza d'oltralpe in Italia, mi gode l'animo poter alquanto rasserenare il lettore con i veraci sensi di amicizia espressi dalla opinione liberale di Francia per organo del sullo dato signor L. Havin, nella circostanza del dono offertogli da' suoi confratelli al di qua delle Alpi.

«Gl'italiani (ei scrive da Parigi il dì 6 Gennajo 1861) di Milano, di Firenze e di Torino avendo conferito grandissimo segno di onoranza alla stampa liberale francese, io riunirò, per ricevere degnamente i loro rappresentanti e il Sig. Fraccaroli (autore della statua), tutti gli scrittori, che pili si distinsero per la loro devozione alla, causa italiana.

«I miei corrispondenti mi avevano già fatto consapevole dei cortesi intendimenti de' vostri compatriotti; io conserverò, come un prezioso deposito, quella statua, che ricorderà a coloro che verranno dopo di noi la grandezza della vostra rivoluzione, i magnanimi vostri sforzi e lo spontaneo e devoto soccorso della stampa liberale francese all'opera d'indipendenza dell'eroica vostra nazione.

«Tra tanti uomini d'ingegno e di merito, che brillano nella nostra stampa nazionale, voi sceglieste un veterano della libertà, il quale non avea altro titolo di fronte a voi, se non il suo patriottismo e il grande amore alla vostra santa causa.

«L'insigne onore che mi faceste nel designarmi come la personificazione della stampa liberale. del mio paese, mi ha vivamente commosso; ma non mi sono fatto illusione, ed io ho riversato su i miei onorevoli confratelli, e su i miei cari collaboratori tutto quanto in questa onoranza eravi di troppo lusinghiero per me; l'ho riversato innanzi tutto sull'opinione politica, di cui sono umile e fedelissimo discepolo, sull'opinione che dal 1789 in poi lotta con energia e con perseveranza per la libertà di coscienza, per la libertà civile e politica del cittadino, per il rispetto delle nazionalità, per la indipendenza dei popoli.

«La fotografia che rappresenta talvolta duramente gli oggetti d'arte, ha conservato alla statua del signor Fraccaroli una poesia, che dà un alto concetto di quest'opera magistrale, ed io credo che l'aurora dell'indipendenza italiana (la statua rappresentava questa idea) accrescerà ancora la fama dell'eminente artista.

«Vogliate far aggradire ai signori soscrittori, ed ai comitati di Milano, Firenze e Torino l'omaggio della mia rispettosa e profonda riconoscenza.

«Dite a tutti che la stampa liberale francese ogni dì più si riavvicina alla idea della unificazione, che fu patrocinata da Manin, uno fra i più. gloriosi figli della vostra Italia sì fertile in eroi, e in grandi uomini di stato.

«Io vi sarò tenuto se vorrete trasmettere ai redattori della Gazzetta di Milano, della Nazione e del Diritto le espressioni de' miei sentimenti. Dite ad essi ch'essi possono cogli altri giornali liberali d'Italia rivendicare una parte di gloria nella emancipazione della loro patria, e rammentate loro la nostra antica divisa francese — l'unione fa la forza

«L. Havin».

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Era questo uno de' primi saggi consigliati dalle vicende propizie all'Italia. Lo spirito publico finché avea ragione di dubitare circa l'esito fortunoso della guerra, che per un disastro avrebbe potuto ricondurre le vecchie signorie, non erari ancora manifestato con quella espansione e sicurezza apportata dalla cessazione delle ostilità, da cui a buon diritto attendevasi la consolidazione de' nuovi istituti, nell'atto medesimo che allontanavasi il panico delle restaurazioni.

Il rispetto in che per l'accresciuta grandezza gl'italiani erano ormai venuti all'estero, incoraggivali a scambiare con personaggi stranieri un saluto di fratellanza, certi che se poc'anzi eran tenuti in tenue conto, oggi valeva l'omaggio di cittadini di una grande nazione ricca di temute tradizioni aspiranti al lor lustro primiero.

Era occorsa in questo tempo anche l'apertura del parlamento prussiano. Trattavasi di rispondere al discorso della corona, e siccome dagli ostina ti conservatori colà paventavasi il risorgimento dell'Italia, correva opinione che questo ostasse agl' interessi germanici e prussiani, come appunto in Francia temevasi per gl'interessi francesi.

La parte liberale, che suole rispettare il diritto alla prosperità di tutti, a dispetto di usurpazioni esclusive e parziali larvate col nome d'interessi propri, per organo del deputato G. Wincke propose che nell'indirizzo in risposta al re venisse dichiarato— essere nell'interesse non solo della Prussia, madella Germania il non opporsi in alcun modo ai progressi della consolidazione d'Italia.

I patriotti della penisola commossi da questo virtuoso atto di simpatia, si riunirono per raccogliere, mediante soscrizione, una somma di danaro, col cui prodotto far coniare appositamente una medaglia commemorativa da offrirsi all'egregio deputato, in attestato di riconoscenza nazionale.

Wincke ritenevasi modestamente immeritevole di questo contrasegno di affetto, adducendo di aver inoltrato quella proposizione, non già nello scopo meschino d'esprimere una simpatia, ma di aver parlato come deputato prussiano nel vero interesse della Prussia e della Germania.

Quindi risolse di rinunciarvi per se, e invece dedicare il ricavato della soscrizione medesima per le famiglie più povere degli estinti tra gli espugnatori di Gaeta. Le gentili espressioni dirette agl'italiani in questa circostanza, tanto come espressione del liberalismo germanico, quanto come atto non comune in quelle regioni di sincera cordialità verso di loro, merita essere ricordato. Egli publicò la seguente lettera il di 21 Febbrajo 1861.

«I giornali riportano che in Italia fu fatto un appello per dedicar è un attestato di ricordanza al sottoscritto, in segno di riconoscenza per la sua proposizione in occasione dell'indirizzo de' deputati al parlamento prussiano, — essere nell'interesse non solo della Prussia, ma della Germania il non opporsi inalcun modo ai progressi della consolidazione d'Italia. — Animato dal più vivo desiderio per l'unità costituzionale d'Italia nel più breve tempo possibile sotto lo scettro del valoroso suo re Vittorio Emanuele, il sottoscritto credesi obligato di ricordare che la sua proposizione — atteso il luogo ed il motivo che le hanno dato origine — non poteva al certo avere per iscopo d'esprimere una simpatia, cosa assai sterile in fatto di politica, ma d'indicare nell'interesse della Prussia e delta Germania, la linea che il governo prussiano non dovrebbe mai perdere di vista, secondo l'opinione della camera dei deputati: cioè di astenersi da ogni ingerenza, quand'anche semplicemente diplomatica, negli affari interni d'una nazione altrettanto grande, quanto bene intenzionata (com'io debbo supporlo) per la Prussia, d'una nazione che combatte per l'unità, la cui realizzazione coi mezzi pacifici corrisponde agl'interessi dell'Europa, di una nazione che la, Germania spera poter contare fra i suoi potenti alleati, se un giorno si trattasse d'opporsi vigorosamente, in nome dell'Europa all'abuso di forze di qualunque potenza.

«Per ciò il sottoscritto vedrebbesi col suo più vivo rincrescimento nella impossibilità d'accettare un attestato di riconoscenza provenentegli dall'Italia, per una proposizione da lui promossa nella sua qualità di deputato prussiano e nell'interesse ben inteso della nazione prussiana.

«Dunque, nell'esprimere i più sinceri ringraziamenti per l'onorevole distinzione che tanti ragguardevoli patriotti italiani gli hanno destinato, e che di molto sorpassa il poco merito della proposta in quistione, il suo autore invita ed impegna i signori soscrittori a volersi compiacere di dedicare il prodotto della soscrizione alle famiglie dei bravi soldati, che espugnarono or ora la fortezza di Gaeta, sotto la reale bandiera di S. M. Vittorio Emanuele.»

«G. Wincke»

«Berlino ec:»

— D'altra parte le popolazioni lombarde, col mezzo della rappresentanza municipale di Milano inviavano in dono all'illustre maresciallo di Francia Vailldut un elegantissimo Album, in riconoscenza del valore spiegato da questo egregio militare nell'ultima guerra contro l'Austria.

Non è la ricchezza de' donativi, od altre circostanze, che si desiderano notate in questi casi, ma la franchezza inusitata de' sentimenti degl'italiani, specialmente di fronte ad uomini d'altre nazioni, e la straordinaria cortesia della loro accoglienza.

«Gli è nel più splendido periodo nella nostra rivelazione nazionale (scriveva enfaticamente la municipalità milanese al prelodato maresciallo sul cadere dell'anno 1860) che la città di Milano si richiama alla vostra memoria. Il voto di tanti secoli, il sogno di tanti nobili spiriti, l'aspirazione di tanti martiri della più santa fra le cause, stanno per compiersi. L'Italia esce finalmente dalle ruine del passato per rioccupare il posto che le spetta nel mondo de' vivi.

«Qualunque sia nondimeno la grandezza dei destini che l'aspettano, essa non dimenticò; essa non dimenticherà mai che la messe d'indipendenza e di libertà ch'essa ha raccolto fa seminata nelle pianure di Magenta e di Solferino, e bagnata nel sangue de' vostri prodi.

«Possano queste pagine, in cui sono ritratte alcune memorie del nostro paese e della gloriosa campagna, che suggellò al tempo stesso la vostra liberazione e l'eterna amicizia delle due nazioni degne di camminare a fianco uno dell'altra nelle vie del progresso; possano queste pagine dedicate dalla città di Milano all'illustre capo dell'esercito francese in Italia essere al tempo stesso un pegno di riconoscenza per il passato e di fiducia per l'avvenire.

«Possa il pensiero della nostra incrollabile alleanza consolare quei nostri fratelli che soffrono ancora ed aspettano. Il maresciallo Vaiilani dopo contrasegni amplissimi di stima verso gl'italiani, e più espliciti rendimenti di grazia, concludeva la sua risposta così

«Dite loro (ai Milanesi) finalmente che nessuno più di me fa voti ardenti perché la città di Milano, ora restituita a se medesima ed all'Italia, goda in pace, sotto lo scettro nazionale di re Vittorio Emanuele della sua liberi e della ma prosperità riconquistata.»

In simili scambi solenni di amicizia andava eccitandosi lo spirito delle popolazioni. Mercé una contribuzione nazionale, si offerse una corona al prode general Enrico Cialdini. Esso altresì, come già vedemmo del deputato prussiano Wincke, non la volle ritenere in dono, ma piacquegli generosamente mutarne lo scopo e destinarne il prodotto qualunque alle famiglie de' soldati morti nell'assedio di Gaeta.

Al general Garibaldi i mille di Marsala inviavano una stella in brillanti, col mezzo dell'illustre general Thurr; così pure da' suoi e dagli stranieri testimonianze di onore giungeangli d'ogni parte, che sarebbe lunghissimo ridire.

La città di Torino, allorché il re Vittorio ritornava dalle provincie meridionali, volle per la prima intitolarlo re d'Italia, e per simboleggiargli l'affetto suo, gli offerse una ricchissima corona di oro sormontata da una stella in diamanti, accompagnando il dono con poche, ma significanti parole, le quali non riporteremmo, se la rinomanza del cavalier Cìbrario, che le dettava non rendessele degne di memoria speciale. Sono le seguenti.

«Sebbene Vostra Maestà per naturale inclinazione e per eccelsa missione, che ha ricevuto dalla divina provvidenza sia cittadino d'Italia, nondimeno i torinesi non possono dimenticare che questa città le fu culla; che qui si è maturato nel generoso animo suo l'affetto per la gran patria italiana; che qui si sono maturati i vasti disegni per la compiuta indipendenza della gloriosa penisola.

«Ond'è che gli abitanti di questa città, teneri di queste glorie, hanno creduto ora che l'ardua missione è ormai compiuta che a loro l’appartenga d'offrire a Vostra Maestà reduce dalle provincie testé aggiunte alla monarchia una corona, che simboleggi il nesso delle virtù guerriere, per cui si è tanto segnalato l'ereditario valore de' principi di Savoja con quelle civili virtù, che sono richieste a compiere in ogni sua parte la grand'opera della unificazione italiana.

«Noi deponiamo o Sire ai piedi di Vostra Maestà quest'omile omaggio supplicandola di guardare non alla tenuità dell'oggetto, ma all'animo devoto e riconoscente degli oblatori, e più ancora all'alta sua significazione.

«Viva il Re d'Italia»

Leggevasi nel mezzo questa iscrizione

« Victorio Emanueli II Italici Imperii Restitutori, Cives Taurini 1860,

E l'altra

« Lucem redde tuae, dux borse patriae

« Aug. Taur 1860

— Lo spettacolo inusitato dell'appoggio consentito dalle due più grandi potenze europee al movimento italiano, e la gara fraterna, che sulla scorta di verità dannosissime al decrepito dispotismo, andava collegandosi fra cittadini di diverse nazioni, il contegno pacifico e conciliativo, ma energico ed animato degl'italiani pronti a qualsivoglia sacrifizio, purché l'opera patria potesse asseguire la sua perfezione, avevano gittato Francesco II e i suoi consorti in seri pensieri.

D' altro canto se queste disposizioni suscitavano idee torbide e piene d'incertezza, rinfrancavasi la speranza per l'austerità e l'interesse specialmente delle potenze settentrionali di Europa, le quali, disimpacciate quasi dalla compartecipazione del popolo né resgettivi governi, avrebbero potuto bilanciare l'influenza stelle altre, od almeno promuovere qualche utile transazione in un congresso, che la Russia con ogni sollecitudine tentava riunire in Varsavia.

Nella molesta tenzone tra il si e il no, Francesco II mostrò un istante inclinazioni rimesse e benigne.

A questa ispirazione momentanea deesi il richiamo del De Christen, le intimazioni alle bande di sciogliersi o alle soldatesche pontificie di retrocedere, ordinate dal conteCarpegna comandante le forze papali in. Neroli, e dal general Zappi presso Subiaco. Sembrava ancora in genere che il governo pontificio volesse disfarsi di tutti gli esteri al suo servizio; dacché, oltre la ragione suindicata, i reclami della loro insubordinazione, do' soprusi e delitti commessi per ogni dove passavano, costringevano ad una determinazione risoluta.

Milizia pontificia e francese in fatti si diresse sopra Anagni per disarmare buon numero di zuavi. Questi ricusando, di deporre le armi, né sorsero scandali ch'eruppero in aperto conflitto e da cui i francesi riportarono morti e feriti.

— La corte borbonica fino dal suo ritiro in Capua e Gaeta avea con troppa veemenza eccitato la reazione, avea compromesso troppe persone, destato interessi, seminato corruzioni, e messo in movimento i contadini, le feccie del volgo di tutto il reame, camorristi e briganti domestici, fuorusciti, fuggitivi dalle galere ec: ai quali tutti non pareo, vero di cercar ventura, o di velare con uno straccio di bandiera le aggressioni e, gli spogli soliti prima a commettersi nel più chiuso della foreste, e perseguiti dal timore delle polizie.

Oggi, non era essa più in tempo di ritrarsi, od almeno era gravemente tentata a profittare di elementi lusinghieri, che non poteva respingere senza inimicarseli, né abbandonarli sotto pena di cederne il guadagno al nuovo governo italiano.

I passeggeri propositi di Francesco, collo svanire la favorevole espettativa del congresso, si riaccesero agevolmente nel suo pieno ardore, e in breve si parve dal fatto che il tempo da lui preconizzato a' suoi popoli di combattere, era giunto, o a meglio dire dovea proseguire inesoratamente.

Si riassunse l'organizzazione brigantesca di Roma. Nelle provincie gli ordini, i messi, e gli arruolamenti ricominciarono più numerosi, il tesoro reale estratto dall'intero popolo del regno, riversavasi sulla parte più vile ed abjetta di esso, e può veramente dirsi che i buoni cittadini, in forza delle contribuzioni e imposte sborsato nell'erario vuotato dal governo borbonico, (non volendo) assoldarossi a loro danno gli assassini stipendiati dalla profuga famiglia di Napoli.

Gli stessi comandanti le fortezze di Civitella del Tronto e dì Messina che per la capitolazione di Gaeta dovevano abbassare le armi e assoggettarsi a quelle di Vittorio Emanuele, alle intimazioni di resa si ricusarono adducendo di non tenersi legati dalle stipulazioni di Gaeta; che avrebbono resistito fermamente a qualunque costo fino a che l'onor militare fosse salvo.

Era facile pensare con quale animo i vincitori di Gaeta accogliessero le minaccie impotenti sbucate da questi due covigli militari. Nè men fervide furono le dimostrazioni della popolazione Messinese nell'udire la folle resistenza, che volevasi opporre dal general Fergola racchiuso nella cittadella.

Quell'ardente popolo, in luogo d'abbattersi all'idea del pericolo, che in realtà sovrastava gravissimo alla città per la postura della fortezza, si compose a festa, esultando per le vie al Buono di concerti musicali, e nello sera una brillante luminaria rallegrò il paese mostrando agli attoniti assediati lo spirito imperterrito degli abitanti; ne' teatri affollati echeggiavano gli evviva all'Italia e al re.

Invano erano state colà ordite fila reazionarie per agire sulla Sicilia od in Calabria, appoggiandosi alla cittadella, ad imitazione degli abruzzesi sul Tronto. Vani stranieri, tra cui qualche francese o prussiano sospetti di corrispondenza troppo intima col capo della guarnigione, vennero arrestati; né Messina, tuttoché in posizione importantissima e tale da ispirare coraggio ai partigiani del Borbone, diè tristi esempi di cospirazioni o di maneggi retrivi; anzi per la presenza appunto del valido presidio del forte, l'essersi serbata sempre animata da spirito patriottico eminentemente, le cattivano massimo elogio.

Il general Fergola avea ricevuto una lettera autografa del re Francesco nella quale dicevagli:

«Dopo tre mesi di glorioso combattimento, diverse breecie aperte rendevano impossibile la difesa della piazza. Sono sicuro che codesta guarnigione si farà ammirare dall'Europa intera, siccome quella di Gaeta.

«Il resto lo saprete a voce da Luigi Gaeta.»

Per tale arcana comunicazione, Fergola ostinavasi in voler resistere: ma il presidio era scisso, reputando molti fra gli uffiziali più assennati che ormai, caduta Gaeta, l'occupazione non avea più alcuna ragione strategica, e che la convenzione dello stesso Francesco II poneva al sicuro l'onor militare mercé un atto accettato e solenne del sovrano, dai cui cenni dipendevano: opinavano rettamente che scomparsa dal territorio l'autorità legittima, ogni protezione veniva manco con quella, e che caduto il paese sotto la dominazione d'altro signore, essi sarebbero rimasi in uno stato di ribellione, e così irritando il governo colla resistenza, male sarebbesi provvisto al loro avvenire. Da ultimo tutta la guarnigione di Gaeta era in ostaggio finché non fossesi evacuata Messina e Civitella, e parea non si dovesse protrarre la prigionia de' propri fratelli.

Il comandante che ambiva far risuonare attorno il suo nome, cadendo fragorosamente, o piuttosto trar buon partito da una calcolata capitolazione, lungi dal prestare orecchio a suoi colleghi, occultò la lettera del re non solo, ma comminò la fucilazione a chiunque avesse parlato di resa, o insinuato la sfiducia tra i militi.

Il presidio era venuto in cognizione della notizia, la quale, benché sembrasse indeterminata, pure alludendo alla capitolazione col governo italiano, parea inchiudere l'obligo immediato della reddizione, e se il timore di un gastigo inevitabile nel chiuso del forte, imponeva il silenzio, i propositi di diserzione cominciavano a produrre tali effetti, che ormai non potevano fasciarsi uscire i soldati o gli uffiziali per vettovagliare o per altre ingerenze, senza la certezza che non sarebbero rientrati.

L'avveduta caparbietà di Fergola, l'ardor disdegnoso di Cialdini giustamente altero per la recente campagna di Gaeta, e circondato dal favore della popolazione, presto condussero i due capi a tale irritazione, che fu sull'orlo di provocare terribilissime conseguenze.

Fergola, che dominava la città e voleva far pagar cara la sua resa, minacciò di bombardare, se venissero disbarcate munizioni da guerra oppostamente alla prima capitolazione del general Medici, che guarentiva reciprocamente i. contraenti.

Cialdini a sua volta diè in un tratto impetuoso di furore, e senz'altro vergo la seguente lettera memoranda, diretta al generale borbonico.

«In risposta alla lettera ch'ella mi ha fatto l'onore dirigermi quest'oggi, devo dirle:

1. Che il re Vittorio Emanuele essendo stato proclamato re d'Italia dal parlamento italiano, la di lei condotta sarà ormai considerata come aperta ribellione.

2. Che per conseguenza non darò a lei, né alla sua guarnigione capitolazione di sorta, e che dovranno arrendersi a discrezione.

3. Che s'ella fa fuoco sulla città, farò fucilare dopo la presa della cittadella tanti uffiziali e soldati della guarnigione, quante saranno state le' vittime cagionate dal di lei fuoco sopra Messina.

4. Che i di lei beni e quelli degli ufficiali saranno confiscati per indennizzare i danni recati alle famiglie de' cittadini.

5. E per ultimo che consegnerò lei e i suoi subordinati al popolo di Messina.

«Ho costume di tener parola, e senza essere accusato di jattanza, le prometto ch'ella e i suoi saranno quanto prima nelle mie mani.

«Dopo ciò faccia come crede. Io non riconoscerò più nella signoria vostra illustrissima un militare, ma un vile assassino e per tale lo terrà l'Europa intera.

Il comandante napolitano sulle prime irritossi, e considerò che se in seguito di una resistenza, quale pretendeva ascriversi a debito di onore opporre, avesse dovuto escire dalla fortezza per correre a certa morte, avrebbe potuto prima spianare la città.

Tremendi apprestamenti intanto in Napoli disponeansi per l'attacco della piazza. La flotta col viceammiraglio conte Persano, che avea diretto stupendamente l'assalto marittimo di Gaeta, già salpava per Messina; uomini, munizioni e gran parte degli approcci già serviti pel primo assedio, ora doveano impiegarsi contro la cittadella.

Il porto era stato evacuato dai navigli stranieri per disposizione di Fergola. La famiglie più agiate, come suole accadere, avean riparato in villa; tutto in somma era pronto per un assalto ed una difesa formidabile, da cui poteva seguire la ruina della città.

Cotanta durezza avversa omninamente alle leggi di buona guerra ed alla gravità ufficiale di chi l'adoperava, mosse degli autorevoli personaggi ad interporsi fra i due comandanti, affinché, temprata l'effervescenza, tornassero alla moderazione.

Fergola diè l'esempio. Rispose al general Cialdini che se il suo onore vietavagli l'evacuazione pura e semplice della fortezza, egli sarebbesi contenuto in fare opposizione alle batterie nemiche, senza danneggiare la città.

Cialdini non attese un momento in replicare, e con quella magnanimità, che senz'alterigia modifica l'escandescenza delle prime impressioni vivamente sentite, ricondusse la calma necessaria a prevenire conseguenze, le quali sarebbersi aggravate sulle già tristi circostanze, per cause meramente personali o o per sola asprezza di parole.

Riferimmo la prima lettera del generale italiano, nella quale leggevasi l'espressione trascendente dell'ira; è ben diritto che l'altra facciasi di pubblica ragione, nella quale ci fa onorevole ammenda di quella.

«Son lieto (Cialdini scriveva a Fergola da Messina il giorno 10 Marzo 1861) di vederla ritornare a sentimenti più miti, e di veder ricondurre la quistione sul suo vero terreno.

«Le di lei minacce mi avevano irritato e costretto a risponderle con altre più gravi ancora.

«Ci eravamo impegnati tutti e due in un falso sentiero, e sono lieto di tornare addietro, e far la guerra anche con l'E. V., com'ebbi costume di farla sin qui; cioè a dire, nel limiti della cortesia e della umanità.

«La città di Messina innocente delle nostre querele, resti salva dai nostri fuochi. La lotta sia fra le mie e le di lei batterie. In tal caso io non saprei offendermi della resistenza che trovo; potrò combattere l'E. V., rispettare i di lei principi, e darle la mano alla fine dell'assedio, come sogliono gli onesti militari, che fanno la guerra senz'ira, e la finiscono senza rancore.»

In questa intelligenza, l'uno certo di vincere, e l'altro di cadere, apparecchiavasi la strage inutile di tante vite, le quali non erano che vittime di una formalità o di una pretesa dimostrazione di onore.

Francesco II da una parte, non isperimentando in sel'orrore istintivo del sangue, né ricusando di fermare il braccio de' suoi generali, col mezzo del sopra nominato Luigi Gatta, avea dato istruzioni verbali a Fergola di resistere onde farsi ammirare, e spedito buona somma di danaro per pareggiare l'arretrato e proseguire i pagamenti per altro tempo.

L'armata italiana dall'altra atteggiavasi ad un assalto così violento che la quantità degli uomini e delle artiglierie di terra ed in mare accorciassero l'assedio, per ispacciarsi tinalmente delle pretese borboniche in qualsiasi angolo del vecchio reame.

Fu stabilita una ristrettissima sorveglianza affinché gli assediati serbassero assoluto isolamento, né potessero ricevere soccorsi dal di fuori. Un vapore prussiano, che tentava eludere la vigilanza del porto per comunicare colla piazza, fu ammonito bruscamente, e dové allontanarsi.

Un esploratore borbonico uscito dalla cittadella cadde in mano della truppa. Il popolo avverti il fatto, e con quel furore ispirato dai presentanei pericoli, volea metterlo in pezzi. Mal reggendo i soldati italiani all'impeto, consegnarono l'arrestato alla guardia nazionale, sperando fosse meglio rispettata. Ma cieca d'ira quell'onda tempestosa di popolazione, a viva forza divelse l'individuo dalle guardie opponentesi a rilasciarlo, e in men che non si dice, il mal capitato fu messo in brani.

Le ostilità erano cominciate; i pochi colpi però che di tanto in tanto venivano tratti, facevano argomentare da ambe le parti la vigilanza continua nel rimuovere possibilmente a vicenda opere d'assedio. Del resto non si verificavano fatti rilevanti. Un attacco gigantesco s'andava bensì disponendo: gli assediati lasciavan fare, poiché colla maggiore imponenza delle forze, volevan meglio giustificare la resa.

Francesco II, perche paresse ogni atto fino all'ultimo dipendere dalla sua volontà, quantunque espulso dal suo territorio, premunì Fergola dell'autorizzazione per iscritto, a fin di poter legittimamente trattare colf' inimico.

Il dì 10 Marzo l'ex-re al governatore della piazza di Messina scriveva così:

«L'onore dell'armata napolitana essendo stato salvato dall'eroica difesa di Gaeta e dalla condotta della guarnigione di Messina, credo inutile di prolungare la resistenza di questa cittadella; resistenza che potrebbe cagionare dei grandi danni alla città e sacrificare la vita di codesta guarnigione fedele, che sostiene con tanta costanza, in codesta parte del Faro la bandiera reale.

«Quanto a voi, generale Fergola, che avete dato un si nobile esempio di attaccamento, di fermezza e di coraggio, vi confido la cura di trattar col nemico le condizioni della resa. Fate in guisa che ridondino in onore e vantaggio della guarnigione. Voglio conservare il sangue de' miei soldati; ma voglio nel medesimo tempo preservare il loro onore ed assicurare il loro avvenire..

Il giorno 12 Marzo era stabilito l'assalto. Cialdini e l'ammiraglio Persano tenevansi in perfetto accordo circa il piano da effettuarsi. Allo scomparire diverse fregate estere per sottrarsi al tiro del cannone, la città argomentò imminente il combattimento. La popolazione che non vi avea parte, sgombrò sollecitamente per ischivare inutili pericoli.

La mattina del 12 la flotta italiana ordinata a battaglia in cospetto della cittadella, salutò il sole nascente. Al mezzodì dovea succeder l'attacco.

Non appena dato il segnale, si scoversero a un tratto tutte le batterie, che in un punto solo vomitarono un fuoco spaventevole sulla cittadella.

Un vento oltremodo gagliardo agitando fieramente il mare, avea spostato i legni della flotta, e non ostante che le macchine fossero sforzate a gran vapore per ispingersi oltre, nessun naviglio potè stabilirsi a portata di tiro, ed entrare cosi nella lotta.

Finalmente la pirofregata ammiraglia Maria Adelaide riescì a superare gli ostinati marosi, guadagnò le acque a circa mille metri del forte, aperse un fuoco terribile proseguendo senza posa per più ore.

Dai bastioni e dalla batteria della lanterna rispondevasi frequentemente dai borbonici or verso l'artiglieria terrestre, or sull'unica fregata combattente, se pur non vi si voglia noverare l'altra Vittorio Emanuele giunta in faccia alla piazza verso la fine del dramma. Dopo cinque ore circa di combattimento, tra il rimbombo de' cannoni, il fragore delle acque, e la confusione del campo s'udì uno scoppio spaventevole nell'interno della città della, al quale successe tosto il silenzio, e poco stante un rapido incendio, tra densissimi globi di fumo, accennò che un deposito di granate, dopo esser Saltato all'aria, avea appiccato il fuoco ne' punti adjacenti.

Come in Gaeta l'esplosione della polveriera, così qui il guasto prodotto dalle granate, determinò la resa.

Un armistizio di ventiquattr'ore fu implorato da Fergola; ma Cialdini non ne consentiva che dieci. Allora, ritenuta vana ogn'altra opposizione, o almeno soddisfatta la dimostrazione pretesa di onore, fu trattata. la resa a discrezione.

Il generale italiano avea saputo col mezzo de' disertori i dispareri già agitati nella fortezza tira la resistenza; come pure riseppe che un colonnello per nome Villazmat con altri pochi ufiziali n'era stato acerrimo propugnatore, al segno di minacciare più o meno espressamente lo stesso Fergola che, ove avesse ceduto, la resistenza avriano opposta ugualmente a proprio conto. Cialdini volle umiliare costui ed ordinò che gli si fosse fatto venire d'innanzi, Villamat si presentò: gli venne ingiunto di deporre la spada unitamente a suoi complici; il che non appena seguito, furono tutti tradotti in prigione.

Il general Chiabrera venne incaricato dell'atto di capitolazione, e il dì 15 Marzo la novella della dedizione di questa importantissima piazza era divulgata da per tutto.

Una fortezza, che ben a ragione può dirsi di primo rango, cadde in poche ore in mano degl'italiani.

La facilità dalla sua presa è al certo sproporzionata alla difficoltà della posizione; ma le forze e i ripari divengono manchi e caduchi allorquando non si difendono cause giuste, o quando diletta l'energia del convincimento in chi si studia di foggiarselo artifiziosamente.

Come potevano sperimentare in se ardore bellicoso que'militi, che dopo aver assistito fino all'ultimo atto delle successive sconfitte del loro sovrano, oggi volevan costringersi a vendere per nessun prezzo la vita, a solo fine di somministrargli agio d'aggiungere un articolo di più a qualche effimera protesta?

Quel tempo non ritorna, in che gli uomini, a mò di armenti, venivano ammonticati per esser condotti al macello oggi che, la Dio mercé, il sentimento della propria dignità comincia a ridestarsi generalmente, si ha diritto sapere dove, perché, e per chi dee versarsi il sangue, per chi deve sacrificarsi il migliore de' beni che s'abbia sulla terra.... la vita.

— Il forte di Civitella del Tronto riproduceva le stesse scene di Messina.

Fin dal novembre 1860 era stato colà posto l'assedio. Per quanto si fossero tentati assalti parziali, stante la somma asprezza de' luoghi, tutti eran riesciti vani. Nondimeno siccome quel luogo offeriva un pronto e sicuro ricetto pei briganti, non si potè a meno di mantenervi buon numero di truppa a fine di rendere più difficile l'accesso, ed impedire le sortite.

II presidio non superava i quattrocento individui tra artiglieri, veterani e malandrini riparati là dentro dopo il saccheggio. La fortezza era guernita di circa venticinque cannoni, la più parte di grosso calibro, ma era talmente estesa e montuosa la linea di assedio che senza gli approcci regolari, avrebbe richiesto l'impiego di molti battaglioni per essere espugnata, nel tempo stesso che sarebbe stato inevitabile un eccidio prima di raggiunger lo scopo.

Quindi si tentò di risparmiare il sangue de' soldati coll'attendere la caduta di Gaeta. Di fatti non appena seguita quella capitolazione, fu stabilito un armistizio, che si protrasse ad otto giorni, e parea esser luogo a sperare una dedizione spontanea.

In questo tempo si suscitarono nel forte gravi dissensioni. Il comandante avrebbe voluto cedere, ma vi si opposero altri, istigati in specie dalla parte pontificia che v'influiva potentemente. Si rammentarono indarno perfino le parole autorevoli del vescovo di Ascoli, il quale aveva consigliato a desistere da conati impotentie intempestivi nel patrocinare;una causa, che per quanto buona e santa, sarebbe stato un tentare Dio volerla da se soli appoggiare.

Intanto il governo del, re affrettavasi per ispazzar via dal napoletano quest'ultimo asilo, che conservava ancora un fomite potente di reazione in quelle selvatiche contrade. Il generale Mezzacapo giunse in Ponzano, e spedì immantinente parlamentari nel forte ad offrire le stesse convenzioni, che l'ex-re avea segnate in Gaeta; ma non vennero accettate.

Si vide adunque la necessità d'imprendere un assedio più stretto e risoluto. Furono coronate le alture delle rocce circostanti di varie batterie, altre opere andavano ugualmente apparecchiandosi per aprire in un dato punto un fuoco regolare contro la piazza.

In vedendo tali preparativi, che avrebbero fatto indubitatamente necessaria la resa, il disaccordo crebbe nell'interno del forte.

Il comandante proseguiva alacremente ad opporsi; ma siccome non era più tempo d'invocare la disciplina per riscuotere obbedienza, esso con altri de' suoi non si credettero altrimenti sicuri, e per fortuna riescirono ad evadere. Dieronsi così agli assedianti, rimanendo padrone del forte certo Don Zilli ex-frate domenicano vari briganti e contrabbandieri.

Il giorno 24 Febbrajo le artiglierie italiane cominciarono a tuonare sopra il forte di Civitella, e il di 13 Marzo vi sventolava lo stendardo di Savoja.

L'onore delle armi napolitane ché si voleva difeso dall'ex-re poteva tutt'al più restringersi nell'arduo cimento di Capua e Gaeta; ma come sarebbe stato ridicolo dopo la cessione de' maschi principali, proseguire la difesa ne' fortalizi accessori, così cadute quelle piazze, era assurdo e crudele spargere altro sangue, e andare in traccia più lungamente di onore da salvare sopra altri punti d'importanza.

Il vero si è che Francesco II nel prolungare la dedizione de' forti di Messina e di Civitella del Tronto, sotto vani pretesti, avea in mira di guadagnar tempo a riflettere; desiderava proseguire tentativi diplomatici colle potenze, in gran parte irresolute ancora di reagire su i fatti tanto gloriosamente compiuti a favor dell'Italia; in ogni caso eragli grave abbandonare del tutto centri di valido appoggio, per allorquando le mene compre da' suoi tesori avessero maturato i loro effetti.

La stagione peraltro volgeva sinistra a progetti di restaurazione; anzi era in voga la tendenza contraria, che ogni giorno andava raffermandosi più pertinacemente.

Per esempio nelle camere legislative di Francia, per quanto gli oratori avessero patrocinato passionatamente gl'interessi temporali del papa, ne' quali tornava il medesimo che difendere quelli della legittimità, tuttavia era evidentissimo che la divergenza delle opinioni loro consisteva non già nella quistione di principio, ma circa l'opportunità, e i modi convenienti di conciliare la causa del papato colle recenti istituzioni d'Italia.

Qualunque incertezza poi di massima, che potesse ravvolgere il senso delle parole pronunciate in senato e nella camera de' deputati, veniva largamente compensata dalla focosa e facile eloquenza (che l'argomento rendeva anche più brillante) del principe Girolamo Napoleone, il quale con franchezza somma e libertà sostenne le ragioni della causa italiana, e condannò i vieti sofismi del potere temporale del papa.

Questi discorsi altresì, che gli valsero immensa popolarità ( [114]), non avrebbero significato che l'espressione di una opinione individuale; ma l'imperatore l'accrebbe indefinitamente d'autorità, convalidandoli colle seguenti parole dirette al suo cugino in questa circostanza.

«Mio caro Napoleone

«Quantunque io non sia del tutto d'accordo con te sopra tutti i punti, tengo molto ad essere il primo a rallegrarmi con te per i sentimenti sì nobilmente patriottici, che hai testé espressi con tanta eloquenza e dell'immenso successo oratorio, che hai avuto nel senato.

Le quali espressioni facevano, preponderare la rigida bilancia, in che il ministro Billaut poneva il governo dell'imperatore.

Esso non disconosceva l'altezza del successo politico avvenuto in Italia, da cui egli riteneva sovrastar pericoli al temporale reggimento de' papi. Frapponendosi tra l'Italia e Roma, il ministro non voleva sacrificata né l'unità al papa, né il papa all'Italia: riteneva che il regime federale colla combinazione sancita a Villafranca valessero a risolvere la quistione.

Rifiutata però quella dal papa; altre combinazioni respinte dall'Italia, la disputa tornava allo stato primiero.

Sosteneva essere estrema difficoltà trattare con Roma e con Torino; coll'Inghilterra e coll'Austria; non violentare le popolazioni nella loro volontà, e non imporre al papa, altronde ostinato, e fatto segno d'intrighi di parte, centro di mene per e contro la Francia.

Diceva i francesi discendenti de' crociati, ma figli in pari tempo del 1789: la bandiera della Francia proteggere la fede e la libertà.

Se tra le geremiadi interminate degli oratori francesi, e la opposizione del principe Napoleone, l'Imperatore s'apprese a muover plauso a quest'ultimo, non parea dubbia per esso la predilezione dell'un partito sull'altro, né era poco per la corte romana e per coloro che speravano da lei, un elogio esplicitamente manifestato da chi colla volontà propria prepoteva sulla grande nazione protettrice.

L'orizzonte si oscurava ancor più per talune circolari che divulgavnnsi nelle prefetture francesi divietanti gl'ingaggi o arruolamenti pel governo pontificio.

Una di esse, dopo aver rammentato l'articolo 21 del codice Napoleone, nel quale è comminata la perdita della nazionalità francese a chiunque senza autorizzazione dell'Imperatore prenda servizio all'estero, o si affilii ad una corporazione militare straniera; come pure è vietato di ritornare in Francia senza autorizzazione dell'imperatore medesimo; né può ricuperarsi la nazionalità, se non colle condizioni imposte allo straniero per naturalizzarsi cittadino, é ciò senza pregiudizio delle pene pronunciate dalla legge criminale contro i francesi che si armino a danni della patria; dopo avere, dico, rammentato tutto ciò, inculcava alle autorità subalterne così Vi prego ricordare quest'articolo agli amministrati vostri, e richiamare nettamente la loro attenzione sulle pene da esso pronunciate.

«Gli arruolamenti o ingaggi nell'armata pontificia costituiscono una contravvenzione a tale articolo. Fa d'uopo che gl'individui che potrebbero esser trascinati a contrarre cosiffatti ingaggi sappiano a fondo ch'eglino perderanno la loro nazionalità, né potranno rimpatriare se non con l'autorizzazione dell'imperatore.

«La legge non è vuota parola, e senza distinzione di sorta verrà fermamente e con prontezza applicata.

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Pareva che codeste disposizioni facessero eco fino in Roma tra la guarnigione francese. Questa sembrava eccellentemente animata nel respingere i briganti. Anzi giuns'essa a tal punto che forse mai più vi pervenne, malgrado millantati accordi col governo italiano in nome della umanità.

I francesi adunque aveano in questo tempo adottato concerti strettissimi colle autorità militari di Vittorio Emanuele, che sembrava veramente aversi in mira distruggerli ed impedire in futuro ulteriori progressi.

Un fatto il dimostri. In un paese non lontano da Roma presso Tivoli, alla guarnigione francese di confine fu fatto invito colla italiana per intervenire ad un banchetto, nell'intento di scambiare vicendevolmente parole di amicizia, e come già le due armate si trovarono congiunte pochi anni prima in Lombardia contro l'austriaco, così oggi avrebbero ambito riserrarsi le destre contro masnade di gente perduta seguace di un principe in nulla diverso dal nemico, che aveano insieme combattuto.

Le espressioni più cortesi e fraterne annodarono rapporti amichevolissimi tra i rappresentanti militari delle due nazioni. Se v'era notizia intorno le mosse da imprendersi contro i briganti, erano mutuamente annunciate; la caccia che loro davasi era fervida, zelante, attivissima, e se la cooperazione francese fosse stata simultanea e seguìta, come allora lo fu pur troppo parzialmente, in breve tempo il brigantaggio, che nello stato del papa trovava ricetto e protezione, avrebbe cessato di nuocere.

Tutti questi tratti avevano un cotal poco affranto lo spirito ardito e intraprendente del ministro delle armi pontificie Merode, il quale sotto l'aspetto di voler purgare i suoi zuavi dai fiacchi e ingenerosi, stimò bene aprir la via ai congedi e allo scioglimento loro.

Un ordine del giorno abbastanza espressivo mostrava sottilmente lo stato di dissoluzione necessaria, in che trovavansi gli avanzi di Lamoriciére.

«Voci sparse da lungo tempo (leggevasi quivi) con insistenza obligano i sottoscritti ad indirizzare alcune parole agli ufficiali, sottoufficiali e soldati che compongono il battaglione.

«Il reclutamento del loro corpo avea per base un nobile e generoso attaccamento, di cui non hanno cessato di esibire le più splendide prove. Sarebbe possibile tuttavia che ci sieno fra loro de' cuori, la cui costanza e fermezza venga scrollata dalle difficoltà ognora crescenti della situazione.

«Saranno accordati congedi a chiunque reputasse i pericoli futuri superiori alle sue abnegazioni, o temesse di dividere le gloriose umiliazioni, da cui è minacciata in questo moìento la corona del vicario di Gesù Cristo.

«Il battaglione de' zuavi pontifici non deve contare ne' suoi ranghi altro che uomini disposti a non isgominarsi di fronte a qualsiasi sorta di prove.»

Altro battaglione di stranieri; vale a dire svizzeri, tedeschi, irlandesi, veniva disciolto senza riguardo.

Questi poveri illusi in mezzo alle loro ribalderie, in Roma eran divenuti perfino spettacolo di compassione. Abborriti dalla popolazione per vizi, e principio; beffeggiati pel loro ridicolo abbigliamento, tolto a presto da scimierìe straniere sì che parevano una mascherata di pagliacci ([115]), tenuti a vile dalle milizie francesi; invisi alle indigene per diversità di lingua, costumi, nazionalità, e pel trattamento privilegiato; sottoposti alla verga ed ai gastighi resi necessari dalla indisciplina e dalla maniaca pretensione di padroneggiare in casa altrui; sfuggiti come malfattori rifiutati da' loro paesi, dacché nessuno aggiustava fede alle jattanze di zelo per la causa del pontefice; jattanze esagerate e interpretate solamente dai fanatici commissari esteri da cui erano stati raggracimolati ( [116]).

Per le quali cose tutte, generalmente ritenevasi che qualche rilevante cambiamento fosse per avvenire. I meno veggenti, ed erano i più, opinavano che un accordo fosse stato prestabilito tra le potenze e il governo italiano, e che con un pretesto o coll'altro l'armata piemontese sarebbe discesa in Roma per istallarvi la capitale del regno.

L'opinione così invalsa pascevasi di desideri, senza troppo investigare le ragioni contrarie; l'illusione arrideva in mezzo allo stato desolante delle provincie romane. Pareva già che Vittorio Emanuele, preceduto dal glorioso suo esercito, ascendesse trionfalmente il Campidoglio, e che, alla fine gli aspettati destini della infelicissima Roma dovessero compiersi colla beata apparizione del vessillo savojardo.

Nessuno preoccupavasi del come sarebbersi concertati gl'interessi religiosi del pontefice colle aspirazioni liberali ed assorbenti della grande assemblea nazionale.

Tra gli stessi preti, i quali esageravansi il lato opposto della quistione, aggiravasi il dubbio fatale, se veramente le voci persistenti del prossimo ingresso del re in Roma, fossero solide, o muovessero da qualche accordo a loro ignoto.

Figuravansi anch'essi a lor volta che un bel giorno, come gli austriaci da Bologna e Ferrara, i francesi lasciassero con buon garbo la parola d'ordine alle sentinelle italiane, disparendo dai loro quartieri.

Innoltravansi le congetture a tal grado di certezza che designavasi a condottiero dell'esercito il generale La Marmora, e indicavasi perfino il giorno; vale a dire il primo di Aprile di quest'anno. I romani stessi assicuravano d'avere fra loro uffiziali, piemontesi celati nella città per intendersi col comitato e predisporre convenevolmente l'ingresso del sospirato re d'Italia.

La Romagna e la Toscana nell'epistole e ne' giornali avvaloravano potentemente queste voci, spacciandole non già come un fatto probabile, ma positivo, certissimo.

Codeste visioni eccitate, nella maggior parte, da tanti fatti contradittori, etano l'effetto di una crisi momentanea della politica generale, per la quale mentre i rappresentanti de' governi discutevano per decidersi a qualche partito, e la publica opinione seguiva o avversava le loro mosse, ne derivavano interpretazioni altrettanto dubbie e contradittorie quanto i fatti da cui deducevansi, e così bene spesso il probabile confondevasi col sicuro, il dubbio colla certezza.

Come peraltro avviene nell'azione de' gabinetti, ai popoli, al trar de' conti, non rimaneano che le miche della mensa diplomatica, e disinganni amarissimi eludevano l'aspettazione loro.

In verità, tratto tratto che la calma successe alle scosse violente della rivoluzione, e che i diversi governi poterono ripristinare normalmente i rapporti consueti, l'entusiasmo appariscente delle simpatie iva rattemprandosi; elaborate frasi e clausole riservate cominciavano a limitarlo, ritirandosi possibilmente sul sentiero de' vecchi diritti, e allegando eziandio, ove utilità il portasse, il testo de' protocolli le tante volte laceri e scontrafl'atti, su cui tuttodì declamasi riposare il giure costituito europeo.

Questa tendenza connaturata in coloro, che credendo di potere, non vogliono perdere, benché paralizzata da una vigile opposizione, tenevasi a calcolo da chi in Roma studiavasi di rifare il passato; certo che, se fossesi riescito ad ottenere un `atto compiuto colle forze della reazione, ai diversi governi non sarebbe mancato un nuovo formolario per appoggiarlo, ripudiando di assai buon volere le conquiste della libertà.

Finché il tempo di questa specie di transizione andava trascorrendo, il brigantaggio non venne. per lo meno spinto oltre troppo attivamente, abbandonandosi dai capi supremi le cose alla discrezione degli agenti subalterni.

Oggi però ch'erasi risolto di ripigliare le mosse, si riassunsero con queste gl'intrighi e la corruzione; incoraggiamento a resistere veniva fatto a quei briganti, che senza interruzione avevano tenuto la campagna; sì che ricominciò più che mai spaventevole la catastrofe de' mali destinati a consumare il martirio delle povere popolazioni meridionali.

— La curia romana avea esplorato attentamente tutti i movimenti, pesato tutte le opinioni, udite tutte le proposizioni di conciliazione, non ad altro scopo se non a quello di meglio investigarle per combatterle più da vicino direttamente.

Ora cadeva opportunissimo levar la voce; ora che respinta ogni trattativa, le ostilità della corte pontificia si raffermavano contro l'Italia, e che dovevano riarmarsi le braccia de' briganti, indiretti difensori del regno papale.

L'allocuzione pontificia recitata da Pio IX il giorno 18 Marzo 1861 (quest'uomo cereo, salvo il debito ossequio al supremo seggio ecclesiastico, dello strepito e delle novità amantissimo, né ha recitate in ogni tempo in più sensi) ritraeva in se medesima l'effigie vera e fedele della bassezza, in che era caduta miseramente la chiesa romana, rappresentata da uomini passionati e luridi d'ogni immondezza terrena.

Dopo aver ricotto il vieto pasto della ricantata fraseologia biblico-curiale, il papa per tutta risposta alle elucubrazioni di tante assemblee, alle opinioni di tanti scrittori ed alla voce quasi universale delle popolazioni, anatemizzò quella ch'egli appellava civiltà moderna, e senza più dimandavasi enfaticamente — Cosa vi può esser di comune fra l'ingiustizia e l’iniquità, o quale associazione della luce colle tenebre?

Quale patto tra Cristo e Belial? — ( [117])

E inferiormente applicò alla società attuale quel detto del profeta Isaia (cap. 24, ver. 4,5) deplorante la corruzione de' suoi tempi

«Ahimè (esclamava Pio IX) or sì che veramente crollò e si conquassò la terra, e più non si regge su i cardini, e si è conquassato l'orbe, e si è indebolita l'altezza del popolo della terra. E la terra è stata infettata da' suoi abitatori, perch'essi han trasgredito le leggi, han mutato il diritto, han dissipato il patto sempiterno.»

Nella detta allocuzione stabilivasi erroneamente che il dominio temporale era il fondamento di quella disciplina morale, della quale egli (il papa)è riconosciuto come la prima orma e «l'immagine.» ( [118])

Couchiudeva nello stato delle cose intendeva dichiarare
chiaramente ed apertamente innanzi a Dio e agli uomini non
esservi a l'alto causa
veruna perché si dovesse riconciliare con alcuno.

Mentre così rimandava asco il fumo d'ogni accomodamento, escludendolo in massima, inviava un insolente perdono a chi coscienziosamente non riteneva per veruna giusa d'aver commesso peccato; se pur non era tale la continuata protesta di devozione e di ossequio verso la sede suprema della chiesa; e il voto de' suoi figli per isceverarla dai secolari negozi.

Le parole non dir& del capo della chiesa cattolica, ma della corte romana furono il punto di partenza, il segnale d'incoraggiamento pel partito clericale, che piaggiato nel lato più séducente delle sue voglie, fè prodigi di gara per distinguersi pomposamente nelle grandi lotte politiche, contraendo o rilasciando il freno alla publica morale, secondoché meglio arridesse alla inesauribile sete di dominare su tutte le dominazioni della terra.

Si raggrupparono intorno ai preti tutte le gradazioni reazionarie, le quali potessero affigere sulle loro insegne un tralcio qualunque di legittimità tolta a prestanza da vetusto protocollo, o da qualche polverosa pergamena. In genere gli oppositori sistematici del rinnovato diritto popolare, erano naturali alleati della sètta.

Le encicliche e le lettere pastorali, più che altrove, addoppiarono di energia e vigore in Francia, dove era d'uopo imporre maggiormente e tenere a bada il recente imperatore, interessato a porre in sodo la dinastia propria; renderlo diffidente di sua autorità in contrapporsi ad un partito sostenuto da uomini intelligenti, doviziosi, e, quel ch'è più, cui non poteva disdirsi quella reale efficacia di verità, che racchiusa nella complicanza de' principi, poteva a loro talento essere usata od abusata, giusta la buona o mala fede di chi li trattava sopra le masse, alla fin fine tutte risolventesi in volgo.

Di portentoso effetto ravvisavasi inoltre far centro la Francia della più compatta resistenza del clero; avvegnaché quivi serbando in iscacco il governo, veniva per necessaria conseguenza inceppata Roma colla forza, e con Roma l'Italia, sì che questa senza Roma albergasse il germe corruttore fecondo di discordia, per la quale un raggio ristoratore riflettesse sulla luce opaca delle perdute corone.

Abbiamo spesso accennato come il governo imperiale, tuttoché tollerantissimo e determinato a far carolare i suoi veltri per meglio forse accalappiarli ne' lacci, sia stato soventi volte costretto ad uscir dalle riserve per invocare la salvaguardia della legge a fin di contenere l'audacia dell'episcopato, che sotto colore di evangelica libertà, e all'ombra delle istituzioni stesse del paese, non rifiniva mai di far guerra a que' principi, i quali in sostanza non erano che corollarì delle dottrine cattoliche da essi professate, ma per riguardi castali miserabilmente smentite.

Nel suo interno la libera Italia risentiva l'influenza fatale di questo mercato dell'umana ragione; anzi il clero italico illascivito dagli eleganti vezzi e dal lustro ultramontano, scuoteva più altero la cresta; vedeausi qua e là riprodotte affettate parodie di zelo e d'ippocrita virtù; idonea solamente ad uccellare i grulli e i mogi, a falsificare il puro concetto religioso, e a pervertire il retto criterio sociale.

Antesignani delle trame universali, come ognuno di leggieri s'aspetterebbe in siffatte materie, erano i degeneri seguaci, d'Ignazio Lojola.

Se v'ha tempo, in che l'opera, l'ingegno, e gli artifizi furono adoperati con ardente intensità, lo si. fa certo l'epoca di cui. trattiamo.

Fattori indefessi del regresso civile, quanto zelatori fanatici e prosuntuosi di massime religiose, s'accorgeano venirgli manco sotto i piè le posticce basi dell'indoleggiato lor culto, cader sfrondati a terra gl'incantati tronchi succisi dalla scure della indignata coscienza sollevatasi in nome di quella eterna immutabil legge, che non soffre perenne la frode, né diuturno il delitto della oppressione. I loro sforzi benché aumentassero in ragione inversa del successo, non conteneano la virtù d'isterilire le speranze dell'avvenire; prepotenti per mezzi, aderenze, e notabilità ne' più remoti lidi non ometteano cure e travagli per far valere il loro influsso, dovunque alitasse uno spiracolo di libertà.

Essi che sogliono, come il traditore, aprire letali ferite occultando la mano vibratrice, questa volta imprudentemente senza nemmanco lusinga di risultato, fecero udire lor voce tra i più virulenti reclami, mezzo tra sarcastici e burbanzosi, contro il re Vittorio Emanuele, in occasione delle ingiurie o ingiustizie che i melliflui padri, e per essoloro il preposito generale della Compagnia di Gesù, sostenevano aver patito ne' regi stati.

Costui tra le proteste e le suppliche, non dissimulava il suo rancore, e meritamente lasciava supporre quale sarebbe stato per esser l'animo de' suoi strumenti nelle vicende che volgevano per l'Italia.

La vendetta più furibonda che s invocava in quest'atto, non soffriva d'esser coagustata dai limiti mondiali; essa ne irrompeva fuori violentemente, e se avesse potuto sforzare i fulmini celesti, quel mansueto frate ([119] ) l'avria a piene mani dispensati sulla Maestà Sua,persecutore de' suoi figli (degli altri frati) con odio calunnioso e feroce, e sopra i seguaci suoi.

Ove l'atto non fosse troppo esteso, mi renderei certo di non dispiacere a chi fosse per apprenderlo, riportandolo nella sua integrità; non reggo peraltro al desiderio di riprodurne un qualche brano, affinché possa dedursi che se costoro attoscano quand'anche pel labro fluiscano miele, cosa dovrà dirsi oggi che per abbondanza del cuore projettau dalla bocca strali avvelenati?

Il rappresentante de' gesuiti esordiva col ricorrere rispettosamente a sua maestà per ottenere giustizia e riparazione delle gravi ingiurie ricevute in Italia; diversamente non curante della giustizia non ottenuta, intende protestare.

Dopo essersi querelato delle spogliazioni eseguite sulle case e collegi della compagnia, in nome degli autori della bontà de' mezzi ragguagliati alla santità del fine, soggiungeva

«Tutti questi atti si sono consumati senz'apporre a coloro che ne furono vittima, nessun atto colpevole innanzi alla legge, senz'alcuna forma di giudizio, senza lasciar modo di giustificarsi; insomma si è proceduto dispoticamente alla maniera selvaggia.»

Quindi è che «nella qualità di capo supremo dell'ordine, sento Io stretto debito di domandare giustizia e soddisfazione, o certo di protestare innanzi a Dio ed agli uomini, affinché la rassegnazione della mansuetudine e della pazienza religiosa non sembri degenerare in debolezza, che possa interpretarsi o confessione di colpa, o abbandono di diritti.»

Dopo avere protestato contro la soppressione delle case e collegi, contro le proscrizioni, gli esili, le prigionie, le violenze e gli oltraggi fatti soffrire a suoi religiosi fratelli, mercé uno slancio rapido sulla prima sede di Pietro, protestava «innanzi tutti i cattolici in nome dei diritti della Santa Chiesa sacrilegamente violati.»

Protestava ancora «in nome del diritto di proprietà vilipeso e calpestato colla forca brutale.... in nome del diritto di cittadinanza ed inviolabilità personale, di cui nessuno può esser privato senza colpa, giudizio e sentenza.... in nome dei diritti dell'umanità oltraggiata svergognatamente in tanti vecchi infermi, impotenti, scacciati dal loro pacifico asilo, abbandonati d'ogni necessaria sussistenza, gittati sulla pubblica via, senza ricovero, senza mezzi di sussistenza.»

Formalizzavasi inoltre come Vittorio Emanuele II non avesse seguito le orme di Carlo Emanuele IV morto tra i gesuiti vestito dell'abito e legato dai voti della compagnia, professando nel noviziato di Roma, dove ora riposano le benedette sue ceneri, quella maniera di vita, cui Vittorio Emanuele invece «vitupera e persegue con odio così calunnioso e così feroce.»

Disperando poi di trovare tribunali in terra che proteggessero le pretese querele, facea il consueto appello «a quel tribunale supremo e tremendo di un Dio santo, giusto ed nnipotente, dove l'innocenza oppressa sarà immancabilmente. rivendicata dal giudice eterno, Re dei Re e padrone dei dominanti.»

Suggellava da ultimo il suo discorso, di religiosa modestia palliato, ribadendo il menzognero proposto di voler soffrire qualche cosa in nome di Gesù, asseverando di non aver dato altra occasione «a questa recrudescenza degli antichi odii, salvo quella di predicare la croce di Gesù Cristo; il rispetto e l'obbedienza alla Santa Chiesa ed al capo di lei il sovrano pontefice, la sommissione e la fedeltà ai principi, ed a tutte le autorità da Dio costituite.»

Queste ultime parole caratterizzavano il principio dai gesuiti patrocinato; considerava cioè i principi quali autorità costituite da Dio. È appunto sotto questi sacri unii, che essi confidavano solamente di veder rifiorire per loro migliori età, dove í vecchi fossero rispettati, la proprietà sicura, il diritto di cittadinanza e l'individualità inviolabile.

Finché non raggiungessero questa meta sospirata, la propria coscienza pareva dettare alla loro morale di perseguitare, trucidare, intendere, appiccare donne, vecchi o fanciulli in Italia o dovunque non allignasse l'arbore annosa de' principi costituiti da Dio.

Vittorio Emanuele adunque per questa genia doveva esser ibrido e costituito da Dio sul trono di Sardegna, non sembrava poter transustanziarsi nel resto d'Italia, senza ledere la coscienza irritabile di questi padri, che oggi, dopo il vilipendio della proprietà, e l'uso della forza brutale sopra i loro fratelli, recavansi a dovere di predicare l'inobbedienza e la ribellione ad un principe costituito sacrilegamente dal popolo, a cui giammai Dio concesse facoltà di eleggersi né capi, né condottieri, né re.

Era quella l'essenza della morale sovversione, la più perniciosa e profonda; l'abuso cioè del carattere sacerdotale prestigiato da un parvente apparato di austera virtù, pel quale da chi fa professione d'illudere i semplici di spirito, si cerca di cattivare le convinzioni, opponendole artificialmente ai spontanei suggerimenti della retta ragione, illuminata dalla luce evangelica spesso incomoda a questi rabbujati mestatori.

In assai parti d'Europa oggidì arrabattano costoro e l'infelicissima Italia, cotanto afflitta da questo tristo influsso, da tempo, ne porta ancor pelato il mento e il gozzo né si riavrà finché la virtù opposta delle civili istituzioni, santificate cordialmente pel legittimo intervento spassionato e sincero della religione, non riaddurrà la luce in mezzo alle tenebre, che copersero il candido aspetto della verità.

Senza tema d'errare o di calunniare odiosamente, siccome i gesuiti spacciarsi pei difensori più infiammati della Santa Sede, e professano la più cieca sommissione ai dettati di lei (a meno che non sia il caso di atti ferienti le loro pretensioni, come qualche bolla alla Ganganelli e simili; dacché allora un altra coscienza gli permette la disobbedienza e la rivolta); sommessione e patrocinio esteso specialmente in propugnare la necessità del temporale dominio, che con un circolo di termini avrebber fatto prova d'elevare alla inappellabilità del domma; così senza tema d'errare o calunniare, dico, che ad essi è in modo priucipalissimo imputabile la controversia ostinata che agita gli ordini ecclesiastici.

La chiesa, la quale pur s'immedesima e confonde colla corte romana pel duplice diadema, di che s'incorona, è sostenuta da codesti paladini nella forma e modi intesi da lei; anzi essi stessi in realtà ritraggono in se il rigiro, il ritorno di certe massime già anticipatamente fazionate da loro. Or bene se a questo scopo coordinano ogni cura; se v'impiegano la maggior parte degli ingegni, per numero e relativo peso estesi al di sopra di qualsivoglia altra consorteria; se per quella pervicace fidanza, di che giammai valsero ad emendarli neppure i colpi della quasi universale riprovazione, contribuiscono eziandio potentemente nelle spese della lite pendente, convien concludere che i lojolitidi siano i nervi, le fibre, e l'anima della coalizione ecclesiastica.

Il raziocinio che parer potrebbe sottile ai non ben disposti in siffatti temi, è per avventura confermato dalla sperienza.

I gesuiti se trattasi per loro di espulsioni, prigionie, persecuzioni, quanto più son gravi e generali, tanto è maggior l'onore compartito dalla provvidenza di patire qualche cosa pel nome di Dio; è per essi un saggio di compenso per la virtù.

Se li odi declamare contro i patriotti che colle proprie mani tentano cancellar dalla fronte il marchio dello schiavo per sostituirvi lo stimma d'uomo; siccome in questo caso la morale de' padri non consente che le sieno opere, di giustizia da trattarsi in nome di Dio, ma opere di Belial; quindi è che le persecuzioni cangian natura, e perfino ogni disastro di guerra, ogni accidentalità di morte, ogni infortunio, tuttoché naturalissimo e ordinario, come la pioggia, il tuono, la siccità, il tremuoto divengono per essi il pabolo inesauribile della superstizione, la befana de' pusilli, vanno ariolando fulmini dell'ira divina a punizione de' seguaci di Satana, a pena del vizio.

Chi oserebbe inoltre impugnare la loro inframittenza importuna, intrigante, procellosa?

Se v'ha uomo influente o per autorità o per ricchezza nella città, viene alle loro mani.

Non parlo di tempi o di paesi più remoti, Pio IX, il cardinale Antonelli, la più parte del sacro collegio, de' monsignori candidati nella gerarchia clericale o di aspiranti pretonzoli in pagonazzo, Francesco II, patrizi ignoranti o ambiziosi, non escluso nemmeno qualche generale francese, non sono forse preda del loro confessionale?

Qual è il segreto per far carriera, se non la frequenza della compagnia, e l'ossequio ai suoi moniti?

Ovvero qual è il 'modo per tirarsi addosso la persecuzione divina per l'istromento delle loro mani, se non il tenersene lontano, o cadere solamente in sospetto d'indifferentismo, o di reo conato di emanciparsene?…

Ma io parlo cose notissime, e trattate magistralmente da scrittori di merito superlativo, che mi dispensano dall'indugiare sull'argomento; né sarebbe luogo l'intrattenervisi di più.

Piuttosto, inseguendo il nostro tema più da presso vediamo l'effetto delle dottrine di questi biechi individui svolte con quella piena operosità di mezzi, che difficilmente sono consentiti anche alle più cupe polizie; dacché queste, fuor della respettiva periferia, incontrano spesso ostacoli nelle diverse giurisdizioni territoriali, o nella dissimiglianza delle istituzioni, ma i frati della compagnia sono come gli ordigni e le ruote poste in movimento da uno scatto di molla dell'artefice.

Il caposcuola della sètta in Roma dà l'impulso al macchinismo ed è certissimo che, a mò d'un cronometro, tutto obbedisce e si piega al suo cenno; avvegnaché chi capita tra i gesuiti o dee depositare, giusta il gergo loro, la testa presso il portinajo; ovvero se pretende di serbarsela sul busto nell'interno del chiostro, può chiamarsi fortunato di riportarla in casa, seppur un bel dì, come pianta parassita della vigna del signore, non isdruccioli nel sepolcro.

Può ritenersi per indubitato che nessun atto di rilievo si compie nèlla curia pontificia senza l'intervento e il consiglio diretto de' padri o indiretto de' loro allievi gesuitanti.

Una promozione a cardinale, a nunzio, a legato, a vescovo; una nomina a presidente di tribunale, di congregazione, di governo; un'enciclica, una pastorale., un'allocuzione, non si compiono senza l'escussione e il voto di quei religiosi.

E a dire il vero, il clero romano, tranne eccezioni rarissime, è composto d'ignoranti, presuntuosi, infingardi, ambiziosi, smanzieri; gli altri ordini frateschi o regolari tra gli ozi beatissimi se la passano poco men che in refettorio o in frullare il cioccolatte.

I gesuiti sono indefessi, raccolti, e bene o male lucrano i loro talenti; essi per antica abitudine sono quasi i depositari tradizionali del sistema disciplinare e liturgico della chiesa, come pure de' suoi rapporti col principato civile.

Dove vuolsi che il papa o i cardinali, come individui della genìa poc'anzi enunciata, stirpe per lo più ingrata e traligna del ceppo cristiano; dove vuolsi dieno la testa per uscir d'impaccio e per istrigarsi dal prunajo di tanti casi, che non ben compresi o maturati, potriano ammaccare gli ordigni e scassinare la macchina?

Il rinnovamento italico pregno della disputa religiosa, ingigantita da Roma, corredata di tutte insieme le pretese della vecchia sua corte; ringarzullita dalla nuova formola del PAPA-RE, avea eccitato la vena del casismo, col quale i gesuiti pretendevano di rovesciare o sgominare almeno per indiretto gli ordini recenti d'Italia, sotto il pretesto di esercitare la propria giurisdizione ecclesiastica:

Dalla sacra penitenzieria di Roma fluivano a migliaia le risposte ai così detti quesiti, parte de' quali erano spontaneamente previsti d'officio; altri riscontravano dimande particolari avanzate da un vescovo o dall'altro per norme da osservarsi còl respettivo gregge affidato alle loro cure.

Infiniti sono i documenti di questo genere venutimi alle mani, dai quali risulta come sia difficilissimo in ogni stato cattolico l'accordo delle istituzioni civili con pretese cotanto esorbitanti, quali sono quelle innoltrate da Roma, e come pressoché impossibile fosse nel nuovo regno di Vittorio Emauuele la tanto invocata e sperata conciliazione.

Tutta la struttura civile era minata, l'obbedienza e i doveri di cittadino revocati in dubbio, o disconosciuti ne' casi più importanti; la' virtù della legge spregiata, inosservata, contradetta apertamente, o minacciata in segreto; scossa in somma la sicurezza, la stabilità e i fondamenti della vita sociale in Italia, in Francia, o dovunque si osasse levare objezioni contro la caparbia, proterva e irosa scuola romana.

La penitenzierìa aveva specialmente in mira di sconvolgere le provincie napolitane, vittime le più miserande della superstizione pretesca, di mal governo, e d'ignoranza. Sotto le forche di queste dottrine passava non solo immune il brigantaggio; ma diveniva un merito e quasi un dovere.

Ecco come i gesuiti si vendicarono e vendicano tuttavia delle patite ingiurie; ecco come la corte romana faceva pagare le pretese usurpazioni degl'italiani.

Tra tutti i documenti, mi limiterò a due; l'uno de' quali, sebbene alquanto prolisso, contiene articoli e periodi d'interesse sempre crescente, e di cui la storia deve procacciarne la maggior publìcità possibile.

Siccome poi compendia il resoconto sostanziale di quanto si operò e si opera dal clero per suscitare la reazione generale d'Italia, e parziale del vecchio reame delle Due Sicilie, l'offro a' miei lettori, anche perché non ritengano davvero calunniose o da astio suggerite le mie osservazioni poco amichevoli.

La sacra penitenzierìa (si legge nel primo de' détti documenti) sempre sollecita per la salute delle anime, e desiderando provvedervi nel miglior modo per essa possibile, in vista delle speciali circostanze, e col benigno assenso del S. Padre Pio papa IX, trasmette a tutti i singoli i reverendissimi padri in Cristo, e ordinari in quei luoghi ove i territori furono occupati dal governo invasore, le seguenti risposte e dichiarazioni, che già altre volte furono date da questa penitenzierìa sopra argomenti dubbi, e di più concede loro tutte le facoltà speciali, perché tanto essi medesimi, quanto i loro vicari generali, e anche altri ecclesiastici idonei, e scelti secondo le esigenze di questi tempi, se ne servano contro i confini delle respettive diocesi, e a vantaggio del gregge loro commesso per la durata di sei mesi, purché facciano in ogni caso espressa menzione dell'autorità apostolica delegata loro in virtù del presente documento.

— Casi dubbii —

« Tesi 1. Se possano invitarsi dal clero le autorità governative alle funzioni ecclesiastiche, o invitate recarvisi.»

«Risposta. Rispondiamo negativamente per ciò che riguarda la prima parte: quanto alla seconda parte il clero tenga un contegno passivo e negativo.»

«T.2. Se possano riceversi in chiesa i magistrati municipali, e prestar loro gli atti come sopra.»

«R. Si risponde affermativamente; purché i magistrati non abbian compiuti gli atti condannati, in virtù delle lettere apostoliche del 26 Marzo 1860.»

«T.3. Se possa recitarsi cella messa e nelle altre funzioni la colletta pro Rege, qualora venisse ingiunta dal governo.»

«R. Rispondesi negativamente.»

«T.4. Se sia lecito cantare il Te Deum in occasione della proclamazione del nuovo governo, od altra simile circostanza.»

«R. Negativamente.»

«T.5, Se sia lecito prender parte alla funzione religiosa ordinata dalle leggi subalpine nell'anniversario dello Statuto.»

«R. Negativamente.»

«T.6. Se sia lecito illuminare la propria abitazione in occasione della inaugurazione del nuovo governo, od altra simile circostanza.»

«R. Negativamente; purché non ne provengano gravi danni, e si possa evitare Io scandalo.»

«T.7. Se sia lecito indossare segni del nuovo governo, come coccarde, fascie tricolori ec:.»

«R. Negativamente; sempreché però si possa astenersi senza incorrere in grave danno e senza provocare scandali.»

«T.8. Come gli ordinari e confessori debbano regolarsi con quei penitenti, che avessero preso parte alla invasione e ribellione.»

« R. I delinquenti facciano prima penitenza e riparino lo scandalo, a tenore delle lettere del sommo pontefice 26 Marzo 1860; indi ricorrano alla penitenzierìa con commendatizia del confessore, se le loro colpe sono occulte; e con commendatizia del vescovo locale, se le colpe sono publiche.»

«T.9. Come debbano i parrochi regolarsi nella celebrazione de' matrimoni di coloro che avessero incorso nelle censure ecclesiastiche.»

«R. Si dovrà far tutto il possibile, perché coloro che sono Incorsi in censura si riconciliino colla chiesa; ma se non vogliono riconciliarsi, e se il parroco sia minacciato da gravi danni, qualora non assista alla celebrazione del matrimonio, il parroco potrà assistere al matrimonio, e il vescovo darà il permesso di assistervi.»

«T.10. Come debbano gli ordinari regolarsi intorno al regio placet ed ex-equatur che il governo pretende intorno alle alle bolle e rescritti pontificii.»

«R. Non si dovranno inquietare quei privati che per non incontrar danni hanno ricorso al governo pel regio placet e per l'ex-equatur; ma i vescovi in questa faccenda si terranno più che sia possibile in disparte, e qualora fossero interpellati dal governo intorno a così fatte suppliche, risponderanno secondo le leggi di giustizia, e a tenore de' sacri canoni renderanno la loro decisione.»

«T.11. Se gl'impiegati possano rimanere al loro posto sotto il governo intruso.»

«R. Si potrà tollerare che gl'impiegati rimangano al loro posto, purché non si tratti di quegli uffici che risguardano direttamente l'usurpazione, o vi riferiscano dappresso, e che si possano sostenere senza pericolo di offendere le leggi divine od ecclesiastiche.»

«T.12. Se gli ecclesiastici od altri amministratori di luoghi pii già stabiliti dagli ordinari, possano continuare nell'amministrazione sotto la dipendenza del governo che si è impossessato de' medesimi luoghi pii..»

«R. La sacra penitenzieria per ispeciale ed espressa autorizzazione apostolica concede a tutti e singoli gli ordinari dei luoghi sopraenumerati la facoltà di conservare le sopradette persone nell'ufficio di amministratore, purché non debbano prestare alcun giuramento di fedeltà e di adesione al detto governo, allo scopo ed al patto che prendano a cuore il vantaggio degli stessi luoghi pii; che si astengano ed impediscano la vendita degli stessi beni, sempre però sotto la dipendenza del vescovo o dell'ordinario del luogo, al quale siano tenuti a render ragione. Esse potranno ritenere ed esercitare queste amministrazioni lecitamente e coll'espressa autorizzazione apostolica. I vescovi poi e gli ordinari si tengano affatto a parte nell'amministrazione de' luoghi pii, e non diano al governo indizio alcuno di accordo con lui, e quando interrogati fossero, gli rispondano acerbamente.»

«T. Come debbano regolarsi gli ordinari in caso di soppressione di monache, e di concentrazione delle medesime in monasteri di diverso ordine.»

«R. Al primo caso la sacra penitenzierìa risponde che si dovrà fare tutto il possibile perché le monache non vengano separate o col raccoglierle in un altro monastero del loro ordine; ovvero col trasceglier loro un altra casa da destinarsi dal vescovo, affinché siano tutte insieme raccolte e per quanto sia possibile non omettano di osservare la regola da loro professata, il che se non si possa ottenere, e le prefate monache siano costrette a ritirarsi in un monastero di ordine diverso; allora l'istessa sacra penitenzieria per ispeciale ed espressa autorizzazione benignamente accordata da nostro signore papa Pio IX, accorda la facoltà all'ordinario di permettere sull'autorizzazione apostolica che sieno raccolte queste monache nel monastero, in cui vengono trasferite, che vi rimangano e vi seguano le regole dell'ordine di quel monastero, dispensandole dalle regole del proprio ordine, purché cerchino di mantenere anche queste fin dove sia possibile, che ubbidiscano ai comandi di questi superiori di questi monasteri, e alle altre persone, af lnché le accolgano e le trattino con carità.

Che se alcune di queste monache per giuste cagioni, le quali saranno da esaminarsi dall'ordinario, non possono esser trasferite nel monastero loro designato; ovvero in altre case a ciò destinate dal vescovo; allora l'istessa sacra penitenzieria concede all'istesso ordinario la facoltà di accordare a que= ste monachelle che vivano fuor del monastero, in abito decente presso i loro parenti, o presso altre oneste matrone, serbando però sempre il voto di castità, e osservando parimenti in sostanza gli altri voti, come quello di povertà e simili, e adempiendo ogni giorno alle opere di pietà e alle pie preghiere, non che alla recitazione delle ore canoniche, sotto l'obbedienza dell'ordinario, nella cui diocesi esse dimoravano, col beneplacito della santa sede dispensate, in virtù dell'autorità apostolica, dr qualunque irregolarità.»

«T.14. Qual norma debbano tenere gli ordinari intorno all'abolizione del foro ecclesiastico e consegna di processi esistenti nelle loro curie, se venissero richiesti dal governo?»

«R. La sacra penitenzieria per ispeciale e benigna concessione di Sua Santità nostro signore, concede agli ordinari, nei luoghi di loro giurisdizione le seguenti facoltà.»

«(a) Di accomodare senza strepito e senza intervento di giudice le controversie tra le persone ecclesiastiche o le secolari, previo però esame delle ragioni e de' documenti, e salva sempre la giustizia.

«(b) Di concedere a qualsivoglia persona che possa citare l'amministrazione de' luoghi pii e gli ecclesiastici presso ì tribunali laicali per causa civile e anche per causa criminale, purché non ci sia pericolo alcuno di pena capitale, e sempreché gli accusatori non abbiano altro modo a indennizzarsi.

«Qualora gli accusatori sieno ecclesiastici, dovranno far prima a tenore de' sacri canoni la regolare protesta.

«(e) Di abilitare gli eccesiastici ed i luoghi pii a presentarsi in giudizio con laici tanto come attori, quanto come rei convenuti, purché solo in cause civili e profane.

«(d) Di conceder loro che compariscano dinanzi a tribunale secolare, anche in cause criminali, e di difendersi colle loro ragioni.

«(e) Di permettere che estraggano dai registri ecclesiastici, e consegnino alle autorità laicali copia di atti o documenti, anche di curia vescovile, che si riferiscono a cause profane, purché però l'autorità locale ne abbia fatto domando ex officio nel migliore e più decente modo dovuto, sicché si veda che l'autorità ecclesiastica in quella occasione cede alla gravità delle circostanze, e a tenore delle istituzioni impartite dalla santa sede.

«T.15. Se gli ordinari, parrochi, beneficiati ed altri amministratori di beni ecclesiastici, qualora sotto gravi pene fossero richiesti, possano consegnare al governo l'inventario delle respettive rendite.

«R. Si permette (sempre sotto la clausola di comminatoria di gravi pene) purché ogni singola amministrazione. emetta una protesta in ognuno di questi casi, nella quale si faccia resultar la necessità subita per non incontrare maggiori mali; e per assicurare i diritti ecclesiastici è intenzione del S. Padre di provvedere che gli ordinari prima o dopo la consegna degl'inventari, se sia possibile, raccolgano appo il governo le proteste Bolle solite formalità, con riverenza bensì, ma con evangelica libertà.

«Le presenti lettere siano custodite da ciascheduno, a cui arrivano sotto il più geloso segreto (strictiori secreto) e coll'avvertenza che sieno messe in pratica, sempreché ne occorra la necessità; ognuno poi che è abilitato agli atti, di cui sopra, eviti ogni cagione di scandalo, manifestando con prudenza l'indulto apostolico a lui concesso.

«Dato in Roma dalla sacra penitenzierìa il giorno 6 ottobre 1860.

«A. M. Cardinal Cagiano

«L. Peirano S. P. segretario.

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Rispondendo questo dicastero ad infiniti altri dubbi proposti da vescovi e cardinali, prescelgo i più brevi e quei che più ci riguardano.

Per esempio all'eminentissimo Carafa, dietro interpellazione di lui, la sacra penitenziaria risolse le tre seguenti quistioni.

«D.1. Se nella occupazione dei beni e dei redditi dei luoghi pii delle corporazioni religiose e d&le chiese fatta dal governo (il governo nazionale) possano i luoghi pii, le chiese e i religiosi ec: accettare pel loro sostentamento quello che pretendono di assegnar loro' gli usurpatori tanto sul territorio romano, come sul napoletano?

«R. Si accetterà all'estremo, quando non si possa altrimenti provvedere.

«D.2. Se ecclesiastici addetti ad offici, e tutti gli altri impiegati possano prestar giuramento al nuovo governo, tanto nel territorio romano, quanto nel napoletano?

«R. Si dia qui la risposta data dalla sacra penitenzierìa al vescono Soanen, il 13 luglio 1860, concepita in questi termini — Che poteva con una formola di giuramento restringersi alla sola fedeltà e obbedienza passiva; cioè di sottomissione e non di opposizione, in tutto ciò che non è contrario alla legge di Dio e della Chiesa —

«D.3. Se sia permesso benedire le bandiere sieno militari o politiche del nuovo governo fatte col danaro dei cospiratori nell'uno e nell'altro territorio, come sopra?

«R. Non si permette in alcun caso.

Finalmente la penitenzierìa rispondendo al vescovo d'Imola nel novembre 1860 accordavagli le seguenti facoltà in tre casi, pei quall'erasi appunto avanzata dimanda.

«La sacra penitenzierìa, sempre intenta alla salute delle anime, e studiandosi di provvedere in ogni miglior modo ella medesima per ispeciale ed espressa facoltà apostolica, e colla benigna approvazione del sommo pontefice Pio IX, accorda al reverendissimo cc. cc. cardinale vescovo d'Imola, per termine di sei mesi, le infrascritte facoltà, delle quali o per se, o per mezzo di confessori benerisi, potrà valersi nella propria diocesi; cioè:

«1. Di assolvere per autorità apostolica dalle censure e pene ecclesiastiche tutti quei penitenti, i quali cooperarono alla ribellione dei dominii pontifici e vi fecero adesione, od in qualsiasi modo si adoò erarono per la medesima, o la favorirono; ovvero votarono per l'unione dell'Italia sotto un solo re, e violarono le ecclesiastiche immunità; sempreché dieno prova di vero pentimento, riparino in qualche modo, secondo il prudente giudizio dell'ordinario lo scandalo cagionato, e con giuramento promettano per l'avvenire obbedienza alla santa sede, e a suoi ordini, e non altrimenti; ingiungendo però a ciascuno una congrua e salutare penitenza in ragione della gravità delle colpe.

«Saranno tuttavia eccettuati i capi (magistri) della ribellione, i complici, gl'istigatori e i pubblici funzionari, e tutti coloro che violarono l'ecclesiastica immunità, concorrendo all'arresto dei cardinali, vescovi, od altri ecclesiastici costituiti in dignità, pei quali si dovrà in ciaschedun caso ricorrere alla sacra penitenzieria.

«2. Di assolvere colle sopradette condizioni ed eccezioni gli ecclesiastici che si sono resi colpevoli di alcuni de' fatti sopra menzionati, dopoché abbiano atteso in qualche casa religiosa agli esercizi spirituali.

«3. Di assolvere, come sopra dalle censure e pene ecclesiastiche i soldati, i quali abbiano prese le armi e combattuto contro il governo pontificio PURCHE’ Si MOSTRINO DISPOSTI, NON APPENA LO POSSONO FARE SENZA PERICOLO DI VITA, AD ABBANDONARE L'INGIUSTO SERVIZIO (injustam militiam deseerere) E FRATTANTO ASTENERSI DA OGNI ATTO OSTILE CONTRO 1 SUDDITI E DI SOLDATI DEL LEGITTIMO PRINCIPE, o contro ì beni, i diritti e le persone ecclesiastiche, prescrivendo loro parimente, secondo le colpe, una penitenza coll’obligo di riparare i danni che abbiano arrecato in proprio e special caso: eccettuati però i comandanti ed uffiziali, i quali, fuori del pericolo di vita o di gravissime pene, avessero potuto dimettersi ed abbandonare il servizio militare, ed esclusi pure coloro che avessero violato l'immunità ecclesiastica coll'arresto de' cardinali, vescovi,:ed altri ecclesiastici in dignità costituiti, dovendosi in ogni simil caso ricorrere alla sacra penitenzieria.

«N. B. Si raccomanda il massimo segreto possibile e la massima riservatezza riguardo al presente foglio, come conviene alle cose 4 spettanti alla sacra penitenzieria. L'uso poi delle facoltà incomincierà a farsi; in questa diocesi, il giorno primo decembre, e durerà fino al giorno ultimo di Maggio 1861 inclusive.

— Se non temessi la taccia d'indiscreto, sarebbero a riferirsi i quesiti de' vescovi delle Marche, i quali faceansi solleciti interrogare la sacra penitenzieria se fossero incorsi nella scomunica maggiore gl'impiegati ch'ebbero la debolezza di lasciare la propria adesione scritta; ovvero di concorrere alla vo tazione coi sì; coloro che, quantunque abbiano dato voto negativo, sono semplicemente acceduti all'urna per votare il plebiscito per umano rispetto o per timore; coloro che abbiano votato favorevolmente, serbando in cuore UNA VOLONTÀ' CONTRARIA; uomini, donne, artisti al servizio de' rivoluzionari; lavoranti di coccarde, stemmi, e bandiere; i concertatori musicali, i campanari, i fuochisti o gli sparatori di mortari; donne e giovani minorenni per fogli sottoscritti di adesione o istanze al re Vittorio Emanuele; i cursori ed altri simili ufficiali; i secondini delle publiche carceri nel ritenervi gli eccelesiastici rinchiusivi dall'usurpatore governo; i militi che si batterono contro le truppe pontificie; i militi della guardia civica o nazionale ( [120]) ec. ec.

— 553 — E così altri ed altri infiniti che ciascun vescovo, per dare almeno segno di vita, veniva spedendo a quell'ecclesiastico ufficio fucina ferace di materie duttili, dove i padri reverendi, per nulla invidiosi de' decreti di Gusman, andavano in solluchero nell'imitarne il tenore, e. seminare di spine il sentiero calcato dai vincitori italiani, a danno della indipendenza e della felicità della nazione.

Atti puramente civili frastornati da ingerenze ecclesiastiche al tutto estranee ad essi; leggi esclusivamente laicali dichiarate per lo meno materia mista, a fine d'usurparne la competenza; disaccordo, anzi antagonismo rabbioso tra le due potestà, a pregiudizio della religione, della civiltà e delle coscienze; in voga la superstizione, intiepidimento ne' fedeli; beffe per parte di miscredenti, trionfante l'errore: acco i consettarii dell'abusata autorità della corte romana, disnaturata, evirata traligna, profanata da mondano capriccio, e per opera principalissima del gesuitismo ( [121]): ecco il frutto, il retaggio raccolto dalle audaci innovazioni di Carlo V, delle quali i discepoli di Lojola assunsero l'indirizzo e il magistero.

Antesignani del regresso umanitario, fautori del brutale dispotismo, antropofagi indiscreti, spietati, crudeli delle persone, della libertà e della eccellenza umana, sotto forme ippocrite e lusinghiere, furono maisempre a vicenda i servi e i dominatori del monarcato e del papismo assoluti; forti d'una barattata protezione brillarono lunga pezza d'una infausta luce al di sopra d'altri ordini insigni e venerandi, e benché balestrati, ecclissati, conquisi dallo splendor sempiterno della irritata ragione, non sapevano per anco divezzarsi dal tristo giuoco, e scagliavano una volta di più fra noi, che fecero miseri tanto, la fiaccola fumosa della discordia, speratori impronti, imperturbabili d'un'empia rivincita di pretese ingiurie.

L'alto e il medio clero subordinato a queste influenze inevitabili per esso, giurava senza meno nelleparole de' maestri, ed era una pietà udir ne' diversi luoghi d'Italia e fuori le più strane interpretazioni degli ordini di Roma, e le più assurde e contradittorie applicazioni derivate dalle opposte apprezzazioni, varianti giusta il, saggio e temperato discernimento degli uni, e la frenesia concitata dell'ignoranza o d'un esagerato zelo degli altri; di sorteché una stessa massima, uno stesso principio, che pretendeva indistintamente alla immutabilità delle sue origini, o ad una competenza ineccezionabile e santa, diveniva il trastullo, il balocco, il diverticolo profano della cronaca meglio aggiustata e rimessa. Al solito una congerie di fatti si affollano in dimostra., re questa malaugarata verità. Ci accontenteremo d'un solo esempio passato in Avellino.

Il vescovo di colà monsignor Gallo fu uno de' tanti preti che, dopo la caduta di Gaeta, si ricusò di renderne grazie all'Altissimo, divietando il canto dell'inno ambrosiano, mentre a cagion d'esempio, il piissimo arcivescovo di Capua cardinal Cosenza, il vescovo di Lanciano v'aveano di persona assistito, conforme molti altri vescovi aveanlo spontaneamente permesso.

Il popolo, che come l'ebraico, liberato dal giogo faraonico, avrebbe anelalo levate al cielo i gloriosi cantici mosaici, mormorava per tale malintesa proibizione, la quale alla fin fine non era che il riconoscere dalla mano della provvidenza il trionfo civile del'popolo sopra la tirannide borbonica generalmente detestata.

Ma il prete, per non turbar la logica romana disconoscente alla cieca l'ammenda veramente divina della rivoluzione, concessa ai popoli contro i re dimentichi del debito loro, mentre invece tenacemente proteggeva i rimedi reazionari costituenti al postutto la rivoluzione de' principi, fido alla le{tera delle ingiunzioni della sacra penitenzierìa, in onta al fremito, che già ribolliva in mezzo alla popolazione, ostinavasi in sul diniego.

Il capitolo riunito considerò l'imminenza del pericolo, la gravità del caso, e col mezzo dell'amministratore delegato diocesano, rappresentò al vescovo che pareva dovesse esser luogo ad un tratto di quella savia prudenza spesso raccomandata dallo Spirito Santo in circostanze di due mali cozzantisi tra loro; anzi lo stesso amministratore reputava esser così urgente la condizione delle cose che ove monsignore non desistesse, sarebbesi dimesso dall'officio.

Fu tutto inutile. Allora in fretta reso avvertito il consigliere del culto in Napoli, questi immediatamente diresse d'officio al vescovo apposita lettera, nella quale in seguito a rimostranze piene di moderazione e dignità, osservava che ordini di Roma destituiti del regio ex-equatur, non avrebbero potuto ingiungersi senza contravvenire alla legge, la quale altronde, imparziale per tutti, avrebbe dovuto esser rispettata anche da S. E. il vescovo d'Avellino.

Costui che avea in mira, invece di sedare, accrescere il tumulto per, favorire la reazione brulicante in diversi Punti del regno, esultava anzi nel contrapporre cosa mal gradita al governo del re, sì che più d'innanzi resosi baldo niegò recisamente obbedienza alle parole del consigliere, persistendo nella sua ostinazione.

Allora il delegato vescovile effettivamente rassegnò le sue dimissioni; gli atti tutti di giurisdizione ecclesistica rimasero in sospeso; i matrimoni non potevan celebrarsi; il disordine minacciava seriamente. Si ricorse all'autorità del capitolo per la nomina d'un vicario, il quale amministrasse le cose ecclesiastiche in difetto della prima loro autorità.

Cotesta però in realtà non era vacante, ma rifiutavasi di eseguire cosa spettante al servigio divino per causa civile.

Quindi il capitolo interpellato in proposito, non si reputò autorizzato in nominare un vicario capitolare; invece il capitolo medesimo spedì nuovamente una deputazione, la quale ebbe per la terza o quarta volta a sperimentare la tanto benevisa formula del non possumus contratta parodiacamente nel vescovado avellinese.

Fu mestieri adunque dar mano al rispetto della legge. Dietro reclamo di Napoli, un ordine di Torino, invitava monsignore, per udire, come dicesi, la regia parola. Il prete più incaponito che mai, era renitente: venne allora finalmente posto agli arresti, e spedito tantosto nella capitale.

La popolazione fu satisfatta di questo atto energico; il tumulto fu calmato, e cantato il Te Deum.

— Il clero era meno avverso, anzi della causa nazionale amico e protettore nella Sicilia. Quivi cause particolari rendevanlo tale; tanto è vero che non è il più delle volte il rigor del principio, pel quale la schiva coscienza sacerdotale estima pronunciare la sua fiera astensione.

Circostanze propizie, animo calmo e ben disposto, ove il cielo benigno ai ministri dell'altare infondesse questo spirito, gl'indicherebbero quelle vie di prudenza e di giustizia, che il rancore, il puntiglio, l'odio, la vendetta, la sete di ricchezze, e di dominio non valgono a consigliare.

In Sicilia, per eccezione singolarissima, il clero regolare benché da lunghissimo tempo godesse pingue possesso di stabili urbani e rustici; nella più parte trascuravali, o per lo meno una oscitante amministrazione era indizio evidente di poco attaccamento, per cui esso avrebbe certo men rinteso la disposizione governativa, che in estensioni più o men grande, dovea colpire gli ordini religiosi inutili alla società.

I conventi che accoglievano monache od alunne di educazione eransi affidati a protettori, economi ed avvocati con pieni poteri, senza curare direttamente i proprii interessi; sicché per costoro il demanio governativo era un pensiero di meno, una sicurezza maggiore.

Oltrediché ne' frati, preti, ne' regolari o secolari l'avversione per la casa de' Borboni era indiviso coi siciliani, l'odio de' quali per quella dinastia discendeva tradizionalmente pei rami delle famiglie e degl'individui.

Non usi poscia a comunanza di abusi colla corte romana, stante i privilegi della corona sicula, i loro costumi volgevano a maggiore indipendenza, alla lealtà, e alla dignità propria del sacerdozio.

Non dee però credersi che questo clero in tutto differisse dall'indole degli altri; era ben impossibile moralmente che sotto regime dispotico eminentemente devoto alla chieresia di Roma, un paese soggetto a quello scettro andasse immune dalle male influenze dell'elemento più vivo di conservazione assoluta; è un fatto altresì che i conati governativi e le insinuazioni clericali giunte colaggiù più languide, o seminate almeno su di un terreno men fecondo e restìo, hanno prodotto in quelle contrade maggior copia di uomini sinceramente affezionati alla causa nazionale; anzi hanno olfer:) esempi non infrequenti di fervore e di entusiasmo alla testa del popolo, glorificando con lui Iddio misericordioso verso gli oppressi.

— Queste leggiere differenze non isgomentavano punto il piano generale tessuto nel convegno delle prime autorità ecclesiastiche. Esse contavano sulla massa, senza peraltro ismarrir di vista coloro, che inchinevoli al nuovo stato delle cose italiane, venivano definiti apostati o rinnegati, e come tali, assoggettati a censure, sospensioni ed altre pene spirituali e temporali; il che non poco influiva a tenerli compatti fra loro in onta al convincimento individuale.

Sotto gli occhi del governo, l'altro de' preti agitava temerariamente la sua bandiera, senzaché sull'istante potesse con risolutezza divietarglisi una ingerenza preponderante, stante la diversità delle giurisdizioni non per anco determinata, e limitata dalle leggi.

Adoperavano essi in questi tempi, come presso il moribondo, dicesi soglia Satanasso affrettare e ingagliardire le tentazioni, sapendo che rimangli poco tempo da lucrare (sciews quod modicum tempus habet).

La sentenza per loro era già pronunciata nel parlamento italiano dal conte di Cavour; studiavasene l'esecuzione, e stavano per questa abbondanti argomenti in ritenerla imminentissima, sì pel desiderio e voto degl'italiani, come per le disposizioni del gabinetto francese stanco ormai dal proporre accordi e riportarne costantemente rifiuti.

Il conte di Cavour, malgrado il fiero atteggiamento de' legittimisti francesi, che avevano esalato dalle aule del senato specialmente il loro veleno, non si peritò dichiarare che sul territorio italico non doveva regnare che un principe solo — Roma dover esser la capitale di questo regno — Volervi andare consenziente la Francia — Entrato bensì in Roma il re d'Italia, la libertà più ampia sarebbesi proclamata per la chiesa; libertà guarentita da uno statuto speciale.

— Codeste franche dichiarazioni emanate da un ministro, oltre ogni credere avveduto e circospetto, avean l'aria d'una disfida contro l'impotente attività del partito cattolico enervato appunto dalla stessa sua effervescenza e da turbolente dispute, riproducenti la espressioni, l'imagine estrinseca delle agitazioni più o men segrete di Roma.

Gli assertori del sistema ecclesiastico, finché avvolgeansi nelle caliginose nubi del mistero, dove non era dato ad occhio profano penetrare, potevano forse sostenersi e folleggiare impunemente; ma sollevare una cortina in faccia a codesti infermi, tornava il medesimo che porre al nudo le loro piaghe, e argomentare dalla profondità di esse prossima la dissoluzione.

L'Italia sinceramente convinta del proprio diritto; rispettosa verso le giuste prerogative della chiesa e de' cattolici; riconoscente verso la Francia; assegnata ne' modi di esecuzione, nulla avea a temere dalle vaporose declamazioni degli oratori francesi.

Quelle lotte parlamentari non aveano etTetto maggiore di una scena fragorosa, dove gli attori iracondi, ribollenti d'ira spumeggiante, commuovono momentaneamente e sorprendono; ma all'indomani, dopo la brezza notturna, tutto è dissipato ai primi tepori del sole.

L'imperatore era al certo persuaso quanto gl'italiani di tutto questo; egli però non era libero di seguire le determinazioni proprie, o d'attendere i suggerimenti della giustizia; ma era astretto a seguire le esigenze della necessità.

Una impressione troppo violenta e repentina contro la coalizione clericale-legittimista, di fronte all'opinione impreparata o sorpresa, avrebbe potuto addurre l'aborto di fatti e di verità, che insinuate col benefizio del tempo, e discusse ultroneamente, avrebbero asseguito l'intento senza scosse, col plauso de' timorati soddisfatti pel rispetto verso di loro, e quiescenti in una coscienza almeno più escussa.

Napoleone, a prevenir la tempesta, vide la necessità di frenare le speranze degl'italiani, e rattemprare alquanto le diffidenze della corte dì Roma, le quali inducevanla a farneticare tra le smanie di sforzi supremi, inferocendo ciecamente da per tutto co' suoi commissarii. In mezzo alle divergenze di opinione agitate acremente tra gli ambasciadori, i capi dell'esercito spedizionario, e i ministri del gabinetto romano, intervenne l'imperatore a rassicurare il pontefice, ch'egli non rimuoverebbe le sue milizie dalla città eterna, finché un amichevole componimento dalle parti discusso pacatamente, adducesse la concordia, e allontanasse il timore di una rivolta; la quale dopo tanta compressione, per l'abborrimento de' romani al governo e alle persone de' suoi rappresentanti, sarebbe riescila fatale e sanguinosissima.

La corte di Roma, nelle minacce di Napoleone, come nelle sommesse modificazioni della sua politica alternata o inuguale, ravvisava un uomo versipelle e pieghevole, che dimentica se stesso per ire in traccia del suo intento: non l'ebbe mai a cuore; il ritenne ognora sospetto, e grazie alla smisurata potenza di lui, non irruppe giammai in atti decisivi, e perentori, per non provocare sopra di se tutta la portata delle sue risorse.

Benché la camarilla romana paresse alquanto sedata in vista, e con lei sminuita l'intensità de' moti briganteschi trattati dall'altra consorte di sventura, la corte napolitana; tutto fu una passeggera illusione; dacché né l'una, né l’altra avevano smesso giammai le feroci idee di resistenza, e l'apparente rallentamento inchindeva interiormente una operosità assai maggiore, tendente a preparare con opportunità di modi i movimenti; provocare accordi; esplorare le intenzioni; raccozzar genti; intendersi coi capisètta di tutti i partiti, purché olezzassero di reazionario.

La stagione inoltre fvedda e nevosa rattemprava i suoi rigori al sorriso del benigno sol di primavera, foriero della state; tempo assai propizio per tenersi in campo. Qual spezie di brigantaggio in queste parti dell'anno dieevasi estivo.

Intanto l'azione aperta de' briganti già premunita dell'appoggio de' ministri pontifici, i quali con circolari, istruzioni, o pastorali disponeano e concitavano le popolazioni, veniva maturata precedentemente nel chiuso della cospirazione sordamente romoreggiante.

Il piano sebbene più misurato e riflesso, era il seguito di quello già riescito a vuoto al conte di Trapapi, lorquando, durante ancora l'assedio di Gaeta, volle irrompere negli Abruzzi per sostenervi la reazione.

Se non che allora si profittava de' tumulti presentanei della guerra, e tentavasi incominciare dalle masse; oggi invece l'accordo partiva dal clero combinato col patriziato uapolitano credente nella restaurazione, partigiano dell'autonomia, o finalmente avido di novità e di gloria.

In questo movimento intrudevansi stranamente alcuni innovatori, i quali, abbandonata o respinta l'idea borbonica, parteggiavano pel principe Luciano 1Ffurat, reputando forse d'essere appoggiati nella loro idea dagli autonomisti anche liberali, e dal partito francese, il quale avrebbe veduto con compiacenza Napoli confederata sotto lo scettro di un principe franco.

Alla pagina 64 e seguen. abbiamo parlato degl'impotenti conati di codesti individui, i quali al certo sì per la scarsità del numero, come per la niuna ragione di merito o di convenienza del candidato (eccetto fugàcissime tradizioni) giammai poterono giustamente conseguire il nome di partito.

Vedemmo con quale pompa, con quale jattanza e con quanta asseveranza, quel tronfio principe accettasse la candidatura, presumendo perfino di dettarne il programma, se non ostile apertamente, almeno contrario al concetto unitario, e ciò in grazia de' suoi proponenti, i quali volevano in lui personificata l'idea autonomica, e il gretto egoismo di questa parte delle genti partenopee.

Sembrava strano che un programma inchiusivo del perpetuo ostracismo borbonico potesse far causa comune col partito dinastico testé espulso. Il momento era altresì considerato supremo; Napoli, il trono, la religione, l'altare e i suoi sacerdoti eran dichiarati in pericolo; tutte le frazioni reazionarie doveano essere accettate, non escluso il partito esagerato di Mazzini che nella estremità delle sue viste e de' suoi tentativi ricongiungevasi agli effetti della opposizione diametrale.

Tutti miravano a scuotere gli ostacoli possenti della monarchia italiana, che gravavangli sopra; indi in cum suo ciascuno confidava abbatter l'altro, e così sgombrando gradatamente le difficoltà, ognuno imprometteasi la palma de' propri sforzi collettivi e parziali.

— Il fatto che siam per narrare relativamente ad 'una delle tante cospirazioni intessute dalla pertinace disperazione di Francesco II di concerto coi dominatori di Roma, ha l'aspetto di un apparecchio scenico, d'un giuoco imaginoso, o meglio di una fantastica combinazione non dissimile da quei tumultuosi sollazzi, di che suole sbizzarrirsi talfiata l'indisciplinata opulenza, piuttosto che di una cosa seria e reale. Nondimeno è desso uno de' più brillanti tentativi reazionarii, che compendiano il parto diretto ed elaborato de' più elevati comitati borbonico-clericali.

Per dar corpo alla idea di usurpazione, con che il disdegnoso legittimismo piacevasi calunniare la redentrice casa di Savoja, divulgavasi che una forza prevalente piemontese conteneva in un deplorabile stato di oppressione le provincie napolitane, devote del resto al loro legittimo sovrano, e che il numero prepotente delle truppe fosse il solo ostacolo opponentesi alla sincera espressione de' voti delle popolazioni.

Nulla dì più inesatto e falso; avvegnaché l'esercito nazionale in questo tempo non ammontava nelle Due Sicilie neppure ai ventimila uomini sparsi su tutto il reame, e accantonativisi poco a poco senza veruna necessità d'affrettare le spedizioni de' corpi militari.

Alle guardie nazionali è stato affidato pressoché intieramente l'ordine publico, e se l'infestare de' briganti non avesse resa indispensabile l'uscita in campagna, la guardia nazionale medesima sarebbe stata sufficiente in provvedere alla sicurezza de' cittadini e alla esecuzione della legge.

Solamente aggravatisi col tempo i disordini derivati precipuamente dalla malignità dell'espulsa tirannide, che non sapeva darsi pace, i soldati italiani in maggior copia venivano affluendo.

Non erano inoltre incognite alla polizia le mene imminenti degli avversi partiti, a sventare le quali e scoraggiare i tristi che avessero potuto parteciparne, era misura di prudenza e di dignità adunare una quantità di forza, la cui imponenza avesse risparmiato ai poveri napolitani gli orrori preparatigli dalla reazione.

I cortigiani di Francesco sapevano quanto valessero i soldati di Vittorio Emanuele, e sapevano pure che vicino a loro i patriotti e le guardie nazionali avrebbero operato prodigi non solo ma avriano pagato ben caramente lo scotto degli attentati.

Ad evitare un concentramento di truppe, il cui solo numero, ove pur della virtù loro non volesse tenersi conto, avrebbe atterrito il più audace, non che persuaso all'astensione il più stolido fra gli uomini, ebbesi ricorso alla indiretta protezione dell'Austria, che macerando se stessa corrodevasi in un fremente silenzio.

Le armi inperiali austriache avrebbero dovuto romoreggiare nel veneto, e allo studiato agitarsi de' movimenti militari, di guarnigioni aumentate, approvigionamenti di viveri ec. Dovevano ingerire il sospetto di un attacco imminente in Lombardia, onde attrarre l'attenzione degl'italiani colà, e attenuando almeno la quantità delle spedizioni in Napoli, agevolarsi potesse il colpo meditato.

Poco costava alla più accigliata nemica dell'Italia codesta diversione, e grande era il vantaggio da trarsene in caso di riescita. Essa vi si prestò con tutto il buon volere, e ne compartì gli ordini opportuni al generale in capo dell'armata imperiale Benedek.

Questi recitando abilmente la sua parte, intraprese una serie di movimenti straordinari, rafforzò Verona; la linea, i cacciatori e l'artiglieria occuparono, le vicinanze di Mantova e la destra del Po.

Altre truppe marciavano verso la frontiera italiana, tra le quali erasi ad arte sparso che in breve sarebbersi battuti di nuovo, ed avrebbero dato così la rivincita di Solferino; riguadagnando sull'istante Milano e Modena; i soldati di riserva vennero richiamati per completare i battaglioni de' reggimenti e porre in perfetto assetto di guerra l'armata di occupazione: alloggi militari, numerosissime razioni, foraggi ed altre provvisioni commissionaronsi in istrabocchevole quantità.

Altra milizia disposta fra Vicenza e Bassano pareva accennare ad un colpo di mano sulla Lombardia, nell'atto medesimo che sorvegliava i passi delle Alpi, della Valtellina e del Bergamasco; e così via via andavasi operando quanto in realtà avrebbe dovuto farsi, se una guerra dovesse riprendersi entro pochi giorni.

Si osservò ancora in questo tempo l'arrivo in Venezia dell'ex-duca di Modena, che non poteva resistere alla voglia di fiutare attorno ai perduti stati. Egli conservava ancora qualche migliajo di suoi fidi rattenuti da pingui stipendii, e dalla infingardaggine loro. Si tolse anche qui il destro di sollevarli nella prossima speranza di ripigliare il comando de' propri paesi, ed uscire così da una vergognosa inerzia.

Correano tali tempi che in politica nulla poteva conghietturarsi con certezza, e quantunque potesse da molti subodorarsi l'artifizio, non osavasi peraltro dissimulare la possibilità di una guerra, e certamente nel dubbio era indispensabile al governo italiano il dividere la propria attenzione in ambo le parti. In questo modo l'Austria e la corte borbonica ottenevano l'intento, ma non ponevano mente che Napoli e il resto d'Italia non reggevasi già per combinazione studiata di mosse strategiche, ma sibbene per sincero impulso del cuore, il quale in una data occasione qualunque avrebbe pur sempre rinnovato i portenti di chi veracemente convinto della giustizia della propria causa sa difenderla fino all'estremo, e suggellare la sua fede col sangue.

L'Austria adunque giuocò di prestigio; l'Italia non si sgomentò; anzi ebbe il vantaggio di somministrare novelli argomenti della propria forza, indurata a prove terribili. Che se non avesse avuto una consistenza effettiva nella concordia degli animi e nell'affezione al governo sarebbe venuta meno inesorabilmente.... Dio sa cosa sarebbe stato de' nostri avversari, se avessero versato nelle condizioni nostre! L'ex-re di Napoli (senza rammentare il fiero duchino di Modena e di Toscana, Maria Luisa di Parma, e il papa) l'avea sperimentato, e nondimeno insisteva. Vedremo però or ora gli effetti.

Il gabinetto italiano costretto a scindere il suo esercito, il fece senza preoccuparsene; anzi s'impegnò in guernire diligentemente le frontiere contro i movimenti austriaci, e poco o nulla curò di fortificare il napolitano, persuaso che la milizia in paese nuovo e vittorioso, senza un fermo e determinato buon volere delle popolazioni devote al principe che le regge, torna non che inutile, dannosa. La reazione sfruttò tutti i suoi sforzi, e quasi prima di nascere, se ne morì.

— L'azione segreta de' commissari borbonici cominciava a germogliare al di fuori in Napoli e ne' suoi dintorni. I parrochi avevano catechizzato i loro clienti; i capi de' comitati eccitato e predisposto in ordine i respettivi affiliati; era altresì impossibile che in mezzo a tanto ignobile turba, a cui gli uni e gli altri s'eran rivolti, potesse tenersi il segreto.

Così era un sussurrarsi da un orecchio all'altro che fra pochi dì il re Francesco sarebbe risalito trionfante sul trono, scornati i piemontesi, scacciati i garibaldini. Alcuni uffiziali e soldati reduci da Gaeta, che avevano intenzione di prestar cordialmente servigio al re Vittorio, denunziavano volontieri all'autorità politica le trame de' loro compagni,; cotalché entrato il governo nel sospetto fondato della reazione, si pose in guardia, senza adottare peraltro misure di rigore straordinario, sinché la provocazione e i fatti non l'avessero giustificata.

Il contegno passivo del governo avea l'aria di soverchia condiscendenza, e da molti anche non immoderati veniva tacciato di debolezza, o d'imperizia. Non istette guari però che tale opinione dové cangiarsi, e rendersi ampia giustizia al consigliere Spaventa che sopra di se avea tutta la responsabilità de' gravi avvenimenti sovrastanti.

Profittando di questa prudente benignità, interpretata per timore dai reazionari, agivasi quasi alla scoperta, parlando e insolentendo, come se fossesi alla vigilia d'una vittoria certissima.

Coll'appressarsi del giorno destinato, le voci di un esercito austriaco pronto a muoversi alla chiamata del popolo, di soccorsi potenti da Roma, di mosse austriache sul Mincio e sul Po, reiteravansi con tumida asseveranza.

I comitati delle città vicine dipendenti dai cenni di Napoli, agitavano anch'essi sordamente per le voce de' preti, e per le menzogne de' fanatici.

Ex-ufficiali borbonici, altri in borghese; altri colla vecchia uniforme, ma svelte le insegne di Savoja dal berretto, aggiravansi, con istrana operosità; altri sebbene non iscritti nella guardia nazionale, s'eran muniti di falso caschetto, o aveano indossato la camicia rossa per meglio illudere la forza legale, ed immischiarsi nel tumulto. Dal giorno tre al dieci aprile sembrava destinato il corso della rivolta.

Vari incendii da appiccarsi in differenti punti di Napoli dovevano richiamare l'attenzione della guardia nazionale, e concentrare il popolo, mentre intanto i reazionari d'altra parte avrebbero dato assalto alle caserme, e divenutine padroni, avrebbero diramato la sedizione.

I secondini della vicaria erano già guadagnati col danaro: in un dato punto i carcerati sarebbero stati liberati ed armati, e come cerberi sospinti alla preda e al saccheggio.

I briganti di Chiavone e di De Christen erano in sulle mosse per far seguito nelle provincie alle aspettate vittorie di Napoli.... La montagna era gravida..., il ridicolo topo era per isbucarne fuora....

— Nelle ore pomeridiane del giorno sette aprile un incendio gravissimo si manifestò nell'immenso locale l'albergo dei poveri, dov'esisteva un ingente deposito di tabacco.

Il fuoco appiccato in più punti contemporaneamente, escludeva il caso fortuito, e diè la certezza che quello fosse il segnale della rivolta.

La polizia s'accorse esser tempo di agire: diè tantosto mano all'opera coll'atirontare la reazione ormai discesa in piazza.

Altri incendi tentati in più punti non riescirono, ma intanto alla vicaria, dischiuse alcune porte, i prigioni eran sul punto d'evadere, quando la guardia nazionale opportunamente rafforzata, giunse in tempo ad impedire la fuga; anzi ne accrebbe il numero, rinchiudendovi tutti i secondini complici del fatto.

Nella sera un ampia rete di arresti colpì gli autori primari, o almeno, gravemente indiziati di corrispondenza con Roma, e istigatori della sedizione. Noveravansi fra costoro il duca di Cajanello già ministro di Francesco II in Parigi ([122]) il vescovo monsignor Trotta, cui fu, rinvenuto il seguente brano di lettera diretta in Roma al general Bosco.

«Caro generale»

«Le tengo ragguaglio della mia attività nella cooperazione della nostra santa causa. Sono giunto ad armare diecimila operai bravi e volenterosi, e questo al modico prezzo di seimila ducati. A tale scopo ho venduto quanto m'apparteneva. Il movimento deve scoppiare il giorno 3 corrente mese. lo fo questo, perché tanto esige la mia coscienza. Le raccomando la più stretta segretezza, e che non lo sappia neppure il nostro padrone.»

Il duca della Regina e il principe di Montemileto visitati dalla forza, erano coraggiosanmente fuggiti.

Intanto dal cinque al sei l'infaticabile guardia nazionale di Napoli vegliò tutta notte. Una parte di questa recossi in Cisterna, dove sapevasi che il parroco era alla testa dei movimento. Di fatti l'abitazione del parroco fu circondata, e questi vistosi ristretto, cominciò a suonare a stormo mediante la fune della campana maggiore della chiesa, la qual fune ad arte prolungata faceva capo nella casa di lui.

I militi recidendola in tempo, impedirono l'accorrere de' contadini, misero agli arresti il parroco ed altri preti con lui. In un subito operaronsi altre perquisizioni, e se ne trassero cassette di revolvers e pugnali d'apposita fabrica, timbrati col giglio.

Da Cisterna si passò a Pomigliano d'Arco, dove pure fa arrestata una guardia d'onore dell'ex-re, ed altro sacerdote.

A Lucignano un canonico Fontana fu trovato possessore di stili col giglio. La fattura del fabricante accusavano circa seicento, e dal non essersi quivi tutti rinvenuti, si suppose essere già stati dispensati.

Ne' dintorni di Caserta, Nola ecc. vennero tradotti alla questura meglio che duecento detenuti.

Ex uffiziali borbonici e guardie di publica sicurezza del vecchio servizio erano stati arrestati nelle vicinanze di Pozzuoli; in una casa a Forìa la forza riceveva altri ex-ufflziali che, senza conoscere l'agguato, accorrevano a convegno; circa settanta militi e sott'ufliziali dell'ex-armata borbonica furono tradotti dalle vicinanze di Napoli in castello dell'Uovo.

Eran latori costoro di munizioni, mazze ferrate, ed anelli di piombo fusi con quello delle palle raccolte in Gaeta.

Nel molo alcuni impiegati erano stati corrotti, ma scoperti in tempo., s'ebbero la sorte de' precedenti:

La mattina del giorno 8 si videro sventolare qualche istante delle bandiere bianche in alcuni punti, tra cui al Salvatore sotto il Vesuvio. Durante la giornata, un enorme deposito di armi, circa duemila fucili, berretti militari e giberne alla piemontese, si rinvennero in una rimessa vicino al palazzo municipale, tenuta da uno svizzero.

Nel monastero di Santa Maria Nuova ritrovaronsi uniformi borboniche, registri e carte sospette.

In altra casa religiosa, credo de' Vergini vennero sequestrate corrispondenze coll'ex-re fin da quanto seguiva la guerra di Gaeta.

Alcune signore da poco tempo giunte in Napoli da Roma si diedero a fuga precipitosa.

Mentre queste cose accadevano, le popolazioni e massime quella di Napoli v'assistevano senza punto commuoversi; anzi d'ogni parte per lo contrario sorgevano dimostrazioni precedute dalla bandiera tricolore colle consuete e più che mai cordiali acclamazioni al re ed all'Italia.

Nella notte del cinque, per tutta la via Toledo le signore e i più pacifici cittadini agitando panni lini e illuminando le proprie finestre, applaudivano la guardia nazionale e incoraggiavanla contro i nemici della patria, resuscitatori della guerra civile.

Io sotto l'uniforme di uffiziale garibaldino mi trovava in questo tempo in Napoli, e posso attestare che tutti que' fatti furono repressi con tale facilità da non provocare il menomo disordine.

Un viaggiatore inteso alle cose proprie, non avrebbeli neppure avvertiti.

Tanto agitarsi de' borbonici di fronte ad una popolazione impassibile per loro, anzi manifestamente contraria dovevano fornir materia di serio disinganno pei nemici della concordia italiana racchiusi in Roma, ma sventuratamente a cimenti assai più duri era serbata la patria nostra, vittima designata dalla ostinazione e dalla perversità.

La cospirazione con sommo studio avea intessuto le sue fila; le altre provincie napolitane in minori proporzioni dovevano seguire l'esempio della capitale, ma possibilmente attendere l'esito felice della rivolta, a fine di non compromettersi indarno.

Sia però l'impazienza de' capi o la fidanza soverchia nella prevenzione di riuscita, in varie città e paesi d'attorno a Napoli scoppiarono li stessi disordini, che sperimentarono altresì la medesima sorte.

In Terrà di Lavoro, presso Vico di Pantano, Vitulaccio, S. Niccola alla Strada, sollevaronsi momentaneamente piccole' reazioni: in Salerno benché tranquilla, le stesse trame di Napoli colà diramate vennero scoperte e disperse.

In Chieti fu tentato di forzare le carceri per estrarne i prigionieri. In Volturara, Sorbo, Salsa (Principato ulteriore); in Avigliano (Basilicata); in Faviano Racale, Alliste (Terra di Otranto), piccoli luoghi dove domina il parroco o qualche intrigante, fu facile il sollevare come spegnere fa reazione.

L'ignoranza e la buona fede insinuata dai tristi agitatori borbonici avea ispirato tale certezza nell'avvenimento del ritorno di Francesco II al trono che in più di un luogo gli abitanti, memori del divieto di Ferdinando II, s'erano abrasi la barba, per dare di se a colpo d'occhio un indizio prossimo di non appartenere ai liberali.

Nel comune di Poggiomarino veniva preconizzata la restaurazione in questi termini affissi per avviso in istampa nella pubblica piazza — Viva il nostro re Francesco II; questa è la volontà del popolo, e se no, sangue correrà a fiumi per la difesa del nostro re Francesco II. Fuori l'Italia, sangue, sangue sangue —

I governi locali erano già dapertutto facilmente vincitori di codesta strana congiura, che Dio sa quanto danaro, quanta corruzione, e quanti sudori dovea costare agli stolti moderatori di essa in Roma.

Benché senza necessità, ma solamente per rendere l'autorità più rispettata, per fiaccare ne' perfidi l'ardimento di nuovi tentativi, giunsero opportunissimi diecimila uomini di milizia regolare, la quale più che prender parte in reprimere moti ormai spenti, doveva ben presto essere impiegata a combattere il brigantaggio.

— Nella evoluzione di tanti disordini e di sì gravi perigli, come in tutte le fasi della nostra rivoluzione, si distinse la guardia cittadina per coraggio non solo, ma per sincerissimo attaccamento alle istituzioni del paese e per amor vero alla patria.

La cooperazione assidua, incessante, disinteressata in tutti i paesi d'Italia e in ispecial modo in Napoli, della parte più eletta delle popolazioni armate è argomento incrollabile della volontà intima della nazione, anima e scudo de' plebisciti, costituenti il punto di partenza del conquisto popolare.

Quanto più tal verità raffinasi all'evidenza de' fatti, altrettanto s'assottiglia e scompare il valore delle opposte pretensioni; sfolgora in piena luce l'impudente menzogna de' nostri avversari.

Bene a ragione, dissipati i timori reazionari, le autorità preposte alla direzione del napolitano, rallegravansi della concordia e dello spirito mostrato da tutti gli ordini de' cittadini, ma sopratutto dalla guardia nazionale, che in queste circostanze ripeté le prove luminose della sua attività e devozione.

Il luogotenente generale marchese O. Topputi agli elogi amplissimi da se direttile, aggiunse ancora quelli del governo, che compendiavansi in questi termini.

«Occulti tentativi di reazione, che proruppero in qualche a luogo anche in atti aperti, opera di soldati borbonici sbandati, e di pochi tristi cospiratori contro il nazionale governo del re, occasionarono in questi giorni parecchi arresti, perquisizioni ed altre misure di cautela.

«La guardia nazionale da V. S. Ill.ma comandata diede anche in queste circostanze concorso efficacissimo al governo, e mostrossi custode gelosa delle pubbliche libertà. Mi è grato dovere d'esprimere a lei per la parte principale che a gliene spetta, ed ai signori uffiziali e militi la soddisfazione del governo del re e del principe luogotenente pel contegno tenuto, e pel concorso prestato.»

La cospirazione adunque avea completamente fallito nel centro delle città; rimanevano le forze armate de' malfattori di fuori.

Or poteva tentarsi un colpo inverso. Se erasi imaginato col mezzo della congiura, eludendo la vigilanza de' respettivi luoghi, aprir la via ai briganti per convertirli in milizie regolari d'un sognato governo; oggi erano gli stessi briganti che dovevano precedere la restaurazione.

Se nel caso l'aristocrazia e il clero napolitano eransi avventurati in modo diretto alla testa del cimento; ora attendevasi salute da CROCCO, e da CHIAVONE.

— Nulla è stato risparmiato: la serie miseranda di novelle sventure sovrastava a questi miseri popoli; altri torrenti di sangue dovevano disserrarsi: il genio della distruzione e della strage scuoteva più che mai orribilmente i suoi flagelli; il delitto, la rapina insaziabile, e la mietitrice inesorabil Parca pregustavano già le loro prede.

Lasso nel rimembrar casi dolorosi tanto, mi poso alquanto nel conforto di una lacrima, raffidato che pel favore di Colui che tutto muove, mi sarà dato ripigliar tra poco lena e coraggio nelle pagine susseguenti.

FINE DEL TOMO PRIMO.

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SOMMARIO

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VOLUME PRIMO

Protesta dell’autore — Dedica dell’opera ai Romani
I

Compito rigoroso dell’opera — Fatti appartenenti alla reazione — Questa non dee propriamente confondersi col brigantaggio politico — Fatti urgenti necessari alla intelligenza dell’opera — I briganti de’ passati tempi — La configurazione del suolo e la solitudine de’ luoghi alimentava i loro disegni — Il brigantaggio eretto in sistema — La Camorra — I dominatori stranieri del regno si prevalgono de’ briganti e de’ camorristi — Ferdinando II e Francesco II si valgono anch’essi de’ briganti — Il silenzio contro gli atti nefandi di Francesco II, non ostante la sventura di lui è ingiustificabile — Esso è l’autore del brigantaggio odierno — Si prova con fatti la proposizione — Francesco II non si riforbisce secondo le esigenze de’ tempi, ma ostinasi a proseguire il passato — Garibaldi interrompe la sua carriera col cannone di Palermo Francesco imperversa e gli si oppone — Filangieri e Nunziante apparecchiano la riscossa, mentre il re implora interventi da tutte parti — Il principio del non intervento osta alle sue dimande — Francesco II gareggia d’influenza con Garibaldi — Ferdinando Lanza promette in nome del re amnistia ed altre franchigie — Lanza, Letizia, Laudi e Cataldo sottoposti a giudizio — La capitale delle Due Sicilie minacciata; nuove promesse inutili, anzi perniciose — Napoli in istato d’assedio — Tentativi di confederazione con Torino — Lettera esemplare del conte di Siracusa zio del re — Il re abbandona Napoli, e si ritrae col resto dell’esercito dietro il Volturno — Garibaldi entra in Napoli — L’improbabilità della vittoria consiglia a Francesco il rimedio estremo d$lla reazione — La reazione nelle provincie limitrofe allo stato romano — Stato di assedio ne’ paesi occupati dai borbonici — Il furto e l’assassinio è impune' e si commette in nome del re — Il maresciallo Douglas percorre il distretto di Piedimonte e d’Isernia — Cialdini lo fa prigioniero co’ suoi — Il governo stesso di Gaeta arrota banditi e galeotti sotto il nome di saccheggiatori — Biglietti reali, e carta bianca per la impunità dei delitti — Il palazzo Jadossi bruciato, e suo Aglio fatto in pezzi — Cosimo De Bagis trucidato con altri — Un sacerdote messo a morte a Civitanova — Prodotto del furto di due vetture inviato a Gaeta — Francesco II autore di codesti orrori — Il vescovo d’Isernia proclama dal pergamo i diritti di Francesco ed eccita la reazione — La plebe concitata commette eccessi e incendi — Il generale Alberi passa a Teano; l’abitazione di D. Tommaso Fumo è incendiata, e minacciate di morte le persone ivi domiciliate — I fratelli Rosselli decapitati, e bruciato il loro palazzo — Innumerevoli cittadini trascinati in prigione a Gaeta — Francesco II impedisce di procedere contro gli assassini de’ Rosselli — Il re fa un vigoroso appello alle potenze invocando il diritto divino — Parlasi di un congresso a Varsavia — Barbier Le-Tinan a Gaeta — L’Inghilterra biasima Francesco e applaude all'Italia — Il parlamento di Prussia fa voti che l’unità italiana non trovi opposizione — La Spagna borbonica è commossa dalla sventura del suo congiunto — L’Europa in genere è impassibile — Francesco II medita andarsene in Roma dopo la caduta di Gaeta — Il brigantaggio è proclamato — Se ne apparecchiano gli elementi — De Merode, Antonelli, il clero, i republicani — Circostanze favorevoli desunte dagli avvenimenti europei — Il governo italiano addoppia di attività e di energia.....................…………………...................................................………...........pag. 13

II

Francesco II parte da Gaeta per Roma — É alloggiato al Quirinale............................. pag. 33

III

L’ex-re dichiara che non avrebbe provocato agitazioni nel regno — Ordini alle bande di deporre le armi — Antonelli e De Merode ridestano le speranze di Francesco………….................. pag. 37

I romani abborrono le trame de’ borbonici e de’ clericali — Apparenze di devozione al governo pontificio dichiarate — Situazione morale de’ romani descritta da Odo Russel………..... pag. 40

V

Francesco II attende le risposte de' gabinetti europei — Giudizio del governo inglese su i governi di Napoli e di Roma — Le risposte sono dilatorie o negative, quindi l’exre si atteggia a riassumere il brigantaggio e a turbar la pace — La causa pontificia e borbonica si collegano — Descrizione del cardinale Antonelli — Descrizione di monsignor Saverio De Merode — Giudizio su Pio IX....pag. 46

VI

Il partito di Murat evocato — Argomenti in proposito sommistrati dal general Bosco — Il principe Luciano Murat accetta la candidatura — Suo programma — Le intenzioni di Murat dichiarate individuali nel Moniteur — Lettera dell’imperatore di Francia al medesimo........................pag. 64

VII

I profughi napolitani più doviziosi in gran parte si riducono a Marsiglia e Parigi — I più meschini si stringono alla corte napolitana — Sono spediti a rinfocolare la reazione — Altri mandati a Roma — Comincia l’emigrazione di malfattori, di evasi da galera, di vagabondi e di militari sbandati verso Roma — Merode congeda gli stranieri per dar loro agio a formare 1 ruoli briganteschi — Legittimisti, sanfedisti e borbonici si organizzano — Consiglio dell’ex-re — I papalini e i vecchi reazionari di Roma si aggiungono ai cospiratori — Monsignor Guglielmo De Cesare — Antonio Fiore suo segretario — Programma borbonico firmato da Antonio Fiore — Alto consiglio o comitato borbonico clericale, tra cui alcuni ministri stranieri — Maria Sofia consorte di Francesco li — Maria Teresa d’Austria vedova di Ferdinando II — Il generale conte Statella — Cardinale De Andrea — Francesco Paolo conte di Trapani — Colonnello Luverà — Monsignor Antonio Matteucci direttore generale della polizia pontificia — Salvo Maria Sagretti presidente della S. Consulta pontificia — L’ambasciatore austriaco De Rach — Il ministro Spagnuolo De Souza — Il marchese Rargagli ex ministro di Leopoldo lì — La porta Pia in Roma — Palazzo Patrizi e convento di S. Agnese scelti a luogo di convegno dall'alto comitato — Scopo de’ congregati formulato da Bosco — Rivelazione estesa dell’intero piano borbonico — Alcuni brani dell’opuscolo di Perego in Verona contro Napoleone III....…....................................pag. 83

VIII

Fiore e Statella — Il Cardinal De Andrea tentato da Fiore — Dialogo fra loro...................pag. 98

IX

Casse di pagamento nella segreteria dell’ex-re — Classi Oca delle istanze e segni convenzionali di ricognizione — Istanze comuni presso il De Cesare, regolarizzate dal Fiore — Istanze per richiesta di servizio militare o brigantesco — Pagamenti pei nobili decaduti — Commissione di sussidio — Avvocato Bajula — Giacomo Giorgi — Monsignor Ferlisi — Cavalier Bonamici — Barone Trasmondo — Monsignor Monaco — Monignor Carlo Borgnana — Monsignor Niccolò Di Marzo Monsignor Domenico Guadalupi...............................................................................……...........pag. 106

X

Modo di esecuzione ne’ pagamenti — Audizione della messa di monsignor De Cesare in S. Andrea della Valle — De Cesare traslocato — I borbonici in piazza Farnese — Uffizio presso gli Ulloa — Le ciurme borboniche descritte — Pio IX in S. Spirito in Sassia — Vagabondaggio di Roma — Annedoto di un beccajo romano — I mendici borbonici in lotta con quelli di Roma presso le porterìe de’ frati — Bizzarre scene de’ francesi — L'assessore conte Dandini — Avvocato Pasqualoni — Luigi Pelagallo — Cavalier Severi — Proseliti della polizia pontificia......…...............…………................pag. 113

XI

Una cricca sanfedistica segnala alla polizia pontificia i nomi de’ patriotti — Rigori della polizia — Esilii — Precetti politici — Furti e rapine inondano Roma — Gomitato nazionale romano — Gravi difficoltà, cui è sottoposto — L’occupazione francese le aggrava-La missione francese riguardata dal lato religioso, politico e militare — Il nome di Napoleone acclamato o depresso secondo gli avvenimenti — Il governo italiano richiede da Francia un accordo simultaneo per estinguere il brigantaggio — La Francia senza osteggiare apertamente V invito, in fatto poco o nulla conclude per estinguerlo — Nessuno soddisfatto della condotta de’ francesi….................................pag. 126

XII

Opuscolo La Guerronière ritenuto quale emanazione ufficiale del governo francese — Il principe Napoleone nel senato francese — Opposizione gagliarda dell’episcopato e del clero di Francia — Monsignor Dupauloup — Le istituzioni italiane prendono consistenza — Vittorio Emanuele Re d’Italia — Apparecchio di dimostrazioni — La polizia romana invoca il soccorso del generale francese per impedirle — Preparativi militari del general Goyon — I Romani eludendoli, eseguiscono la dimostrazione — Conseguenze — Controdimostrazione organizzata da De Merode — Il comitato ad infrenare gl’imprudenti, raccomanda moderazione e pazienza — Il conte Brunet — Iscrizioni presso l'università romana-Lotta colla gendarmeria; feriti ed arrestati — Soscrizione volontaria e clandestina per Vittorio Emanuele, e Napoleone — Dato statistico contro il governo pontificio — Testo degl 9 indirizzi — Riflessioni in proposito — Il principe di Piombino e il duca Fiano compromessi per aver firmato l'indirizzo — Dialogo di Piombino col papa — Piombino e Fiano sono scacciati da Roma...........................................................................................…………..............pag. 137

XIII

Combriccola borbonico-clericale nel palazzo Braschi — Duca Salatati — Barone Pio Grazioli — Marchese Capranica — Principe Orsini Gravina — Luigi Bariletti e Graziosi — Il duca Braschi — Distribuzione di armi e denaro in una taverna — Annedoto nel palazzo Braschi — Disordine negli arruolamenti — Yagnozzi farmacista in campo di Fiore — Il vescovo d’Aquila, uno Spagnoletti di Sora, e Laverà arruolatori — Il colonello Courtandon — De Merode furtivamente somministra armi e munizioni — Contegno ambiguo de’ fraucesi — Un Anlonelli germano del cardinale arruolatore in Terracina — Depositi di armi — Modo tenuto nello ingaggiare i briganti.....….................pag. 163

XIV

Associazione religiosa — Club Brunet in via Frattina — Claudina Minart — Le suore di carità — Formula solenne di giuramento — Denegazioni di connivenza col brigantaggio — Subdola circolare di Francesco II — Antonelli ancora niega connivenza per sua parte..........…………........pag. 179

XV

Francesco II e il Papa — Obolo di S. Pietro — Moneta falsa — Il marchese Giovanni Campana…...........................................................................................................pag. 192

XXI

Medaglie commemorative — Annedoto del ritratto de’ conjugi Borbone — Segnali; anelli di piombo e zinco — Il municipio romano accorda a profusione fa cittadinanza a' nemici della patria — Il dottor Diomede Pautaleoni espulso con altri cittadini romani........…………………………..............pag. 210

XVII

Il caffè di piazza di Sciacca, punto di convegno per l'aristocrazia della lega — Caffè di Campo di Fiore per preti ed altri di classe media — Osservatore Romano (giornale) — Farmacia Vagnozzi — Altro caffè in Piazza Farnese ricettava le più intime masse — Scene e costumi de’ briganti — Il Boja di Napoli capitano di una squadra di cavalleria — Porte di Roma frequentale dai briganti — Brano di una circolare di Antonelli ai Parrochi di Marittima e Campagna diretta a raccomandar loro asilo pe briganti — Fogli di via — Antonio Fiore ordisce una trama per tradire i suoi borbonici c volgersi al governo di Vittorio Emanuele con una mendace denunzia de’ suoi complici — Rettifica sul Cardinal De Andrea........................................................................................,........................pag. 221

XVIII

Civitavecchia — Ivi comitati borbonici e clericali — Elogio pei buoni cittadini di quella città — Malta — Ivi comitati borbonici e clericali — Festività di S. Paolo tolta a pretesto di dimostrazione reazionaria — Maniglia — Comitato borbonico clericale — Castellamare — Fatto di terribile reazione Carlo Mazzetti di Livorno rimasto vittima del movimento — Sofia Rigarci di lui consorte......pag. 225

XIX

Cause remote e prossime del brigantaggio — Parole di Vittorio Ugo sulle torture napoletane — Concetto della unità patria nella coscienza publica — Garibaldi in Sicilia — Cangiamento neir esercito borbonico dopo le prime vittorie di lui — Il plebiscito — Difficoltà del riordinamento interno del regno — I cosi detti piemontesi in Napoli — Opinione su di essi — La disputa sulla capitale d Italia — Mazzini in Palermo — I garibaldini — Il conte di Cavour — L’esercito meridionale disciolto.................……………………........................................................................pag. 260

XX

Risorse del partito borbonico — Decreti conilo la soppressione delle corporazioni religiose — Richiamo dell’arcivescovo di Napoli — Immobilità del pretismo — Gravi parole di Macauly in proposito — Il consigliere Mancini — L’invito dignitoso e cortese al clero di desistere da una reazione dissennata riescito vano — Giudizio sul clero — Legione di preti armata — Monsignor Sibour — Il miracolo di S. Gennaro — Fantasmagorie pretesche.........………………........................pag. 305

XXI

Reazione negli Abruzzi — Il general Manhès Pasquale De Virgilii — Il general Pinelli — Legge marziale — La luogotenenza ne attenua il rigore — Accoglienza fatta al re Vittorio Emanuele — Rivolta sulla direzione di Civitella del Tronto — Annedoti terribili — Giacomo Giorgi in Avezzano — La carta bianca — Monsignor Acciardi vescovo di Tursi — Ridicolo manifesto di Cervinara — Documenti comprovanti l’incoraggiamento dato alla reazione dal così detto governo di Gaeta — Veri motivi della reazione — I mazziniani nocivi all’Italia quanto i borbonici — Gridi di morte contro Cavour – Garibaldini attratti, al disordine ammoniti — Pretensioni de mazziniani, sebbene sostanzialmente d’accordo nelle basi fondamentali della rigenerazione patria — Preparativi per le lotte elettorali — Suffragio universale — Guardie nazionali — Specialmente quelle di Napoli — O. Topputi generale — Guardie mobilizzate — Manifesto di Francesco II ai popoli delle Due Sicilie — La squadra francese nelle acque di Gaeta — Opinioni su questo punto — Protesta della polizia romana — I francesi divenuti sospetti a tutti i partiti — Effluvio di opuscoli — Esercito borbonico disciolto – Parole direttegli da Francesco II — Farini dimissionario……..............................................................................………...pag. 322

XXII

Breve rivista del 1860Eugenio di Savoja succede al luogo tenente Farini in Napoli — Nigra segretario generale — Giu disio su lui — Consiglio di luogotenenza — Il Moniteur annunzia il ritiro della flotta francese da Gaeta — Opinioni in proposito — Risentimenti del papa — Accoglienza dell’esercito di De Merode presso il pontefice — L’Armonia (giornale) calunnia i romani — Il comitato romano sventa trame ordite dentro e fuori di Roma — Protesta inviata al general Goyon — Visioni del giornale di Roma — Goyon dimanda spiegazioni a Merode su i nuovi reclutamenti — Merode rifiuta nettamente — Nuovi apparecchi di guerra per parte di Roma………………………………………………pag. 377

XXVIII

Disegni segreti di Merode — Piano borbonico diretto dal conte, di Trapani — Nusco (il boja di Messina) e il conte di Trapani-Proclama di Francesco li agli abruzzesi — Avviso in idioma tedesco intercettato dal governo italiano — Cospirazione fallita — Arresto di varii ex generali borbonici — Il conte di Trapani irrompe nel regno per la parte di Sora – Recrudescenza reazionaria nell’Ascolano — Ordine del giorno del general Pinelli — Grida de’ filantropi europei — Caratteristico documento di Giovanni Piccioni…................................................................................................. pag. 403

XXIV

Bande presso Subiaco e Vicovaro ec. — Tagliacozzo resiste ai soldati italiani — Elogio de’ cittadini di Avezzano — Borbonici alla Scurgola — Una bandiera tolta ai borbonici — Il general De Sonnaz presso Casamari — Dispersione de’ briganti – Lettera dell’abate di Casamari — Attacco di Bauco — De Christen capitola presso Veroli — Giorgi a Carsoli — Ricci e Carlo Fabri — Banda Gavazzi — I soldati di Becdelièvre a Monterotondo, a Vignanello e a Toscanella presso Viterbo – Reclami al generale francese) e di questo a De Merode – Quattro feriti italiani in S. Spirito in Sassia — Dono del comitato nazionale — Loro risposta — Gli abitanti di Subiaco e il loro governatore — Zappi in Civitella di Subiaco Fatto d'armi in prossimità di Poggio Mirteto Confini italiani violati — Becdelièvre e De Merode si urtano — Becdelièvre ricorre al papa, indi parte da Civitavecchia per la Francia — Un Mari di Carsoli dato pasto ai cani dalle bande di Giorgi — Collalto resiste ai briganti — Collalto è espugnata — Ivi scene tremende di sangue — Masi e Vicentini disperdono e inseguono i briganti fino ad Oricola — Passaggio de’ briganti e di milizie papali per Tivoli — Luigi Coccanari — Il comitato di Tivoli raffrena lo sdegno de’ cittadini pronti a far man bassa sugli stranieri e su i briganti – Francesco II accenna rimettersi dai primitivi propositi – Non cosi Antonelli e Merode, che raddoppiano i rigori di polizia — Gaetano Antonelli scacciato da Roma — Mangin prefetto di polizia francese — Detto del general francese De Noue........................................................................................pag. 433

XXV

Antitesi dell’ex-regno con quello di Vittorio Emanuele — Inattesa accoglienza di Francesco II al Quirinale — I repubblicani nelle elezioni — Vittoria del partito governativo — Apertura del parlamento italiano — Osservazioni ed opinioni — Detto di Napoleone III nell’apertura dell’assemblea legislativa — Riflessioni — Opuscolo del visconte Laguerronière: La Francia, Roma e l’Italia — Politica inglese verso l’Italia — Partito liberale in Francia — Direttori de giornali soggetto di riconoscenza per gl’italiani — Statua a L. Havin direttore del giornale il Siècle — G. Wincke deputato prussiano — Album donato dalla rappresentanza municipale di Milano al maresciallo francese Vaillant — Corona al general Cialdini — Stella in brillanti al general Garibaldi — Corona di oro sormontata da una stella in brillanti a Vittorio Emanuele – Scoraggiamento de' nemici dinanzi ai trionfi italiani – Non ostante si riassume l’organizzazione brigantesca in Roma — Fergola resiste a Messina — La guarnigione di Civitella del Tronto segue 1 esempio — Resa d’ambedue le fortezze — Il principe Napoleone sostiene vigorosamente le ragioni della causa italiana nel senato francese — Lettera di congratulazione dell’imperatore di Francia — Politica imperiale esposta dal ministro Billaut — Ravvicinamento dell’armata di occupazione francese cogl’italiani — Ordine del giorno di Merode in cui vengono disciolti gli zuavi, per accrescere T arruolamento de’ briganti — Ridicola uniforme dei zuavi e di altri stranieri presso il papa — Timori in Roma di occupazione per parte degl'italiani — Il papa nell’allocuzione del 18 marzo 1861 impreca alla civiltà moderna – Il partito clericale indigeno e oltramontano si rianima — I gesuiti — Importanti documenti della Sacra Penitenzieria – Monsignor Gallo vescovo di Avellino — Il clero di Sicilia -Cavour dichiara in parlamento Roma capitale d’Italia, malgrado le più fiere opposizioni delle due corti ivi raccolte — L’imperatore di Francia rassicura il pontefice sul prolungamelo della occupazione francese — Brigantaggio detto estivo viene ripreso colla primavera — Altro piano borbonico — Partito «li Luciano Murat — Tentativo di esecuzione in Napoli e «olle provincie — Monsignor Trotta al general Bosco — La cospirazione fallisce completamente…………………. Pag. 444


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NOTE


[67] Anche presso noi romani i preti non rifinano dal desiarci l'ilarità con siffatte fantasmagorie.

A S. Rosa di Viterbo crescono prodigiosamente le unghie —

S. Chiara di Montefalco, all'approssimarsi di una sventura, si agita e contorce nella propria urna —

A S. Niccola di Tolentino le braccia sudano sangue: nella chiesa poi dedicata ad onore dello stesso santo, in un buco misterioso, dove si ode bollirne il sangue, risanano dall'emicranie i creduli, che vi ficcano il capo

In altro paese, di cui non ricordo il nome, è in onore il sacro prepuzio di N. Signore —

In Frascati presso Roma nell'atrio dei zoccolanti, un crocifisso dicesi da que'frati dipinto dal diavolo per comandamento di S. Francesco —

In Assisi, i religiosi di S. Francesco del convento detto le carceri, sono obligati di annunciare a Roma quando nel torrente fatidico sottoposto, disseccato per suo comando, riappariscano le acque; indizio di malo augurio pi ù o men grave giusta l'affluenza o il fragore di esse

Presso alla porticina corale di detto convento, certo luogo cavernoso, ch'ha le sembianze d'un cratere vulcanico estinto, è spacciato da que' frati per un baratro in feriale —

E poi la Vergine santissima trasportata a cavalcione su i monti da contadini Titoli usurieri, igienici di diverse imagini in fronte agli altari, a m ò di farmacia Crocifissi sospesi in aria o sudanti sangue

Altre imagini giranti le pupille o piangenti — Luoghi inaccessibili, sotto pena di perdere gli occhi —

Case o macigni volanti. a guisa di globi areostatici —

Sudari, amuleti portentosi; oli o acque restitutrici della sanità; corde e cordoncini contro le fiere o i fulmini a guisa de' scudi medusei o degli anelli magici d'Ariosto —

E poi violini e contrabassi angelici in paradiso; ovvero oli, stagni bollenti, forconi e uncini demoniaci nell'inferno ec: ec: —

Io dimando, in luogo di trovarci nell'augusto tempio della religione, madre di verit à e di candore, non sembra d'essere nelle moschee di Maometto; nelle piazze co' cerretani, o nel teatro co' prestigiatori?

Non par di vivere tuttavia a' tempi de' capuomantici, degli astrologi, degli aruspici o de' maliardi?'

Dio buono! Progredendo di questo passo, donde trarrem coraggio per menar addosso le forbici ai protestanti, che gridano al fanatismo, alla superstizione e all'idolatria di noi cattolici??...

[68] Colletta. era nemico di Manh è s, tuttavia dice di lui « Io non vorrei essere stato il generale Manhès; ma nemmeno vorrei che il generale Manhès non fosse stato nel regno nel 1809 e nel 1810. Fu per opera sua, se questa pianta venefica del brigantaggio venne alla perfine sradicata.»

[69] Questo castello con meno di dieci soldati sul princi piare del secolo, resistémolti mesi contro i francesi, non ostante unregolarissimo assedio. In epoca più remota avea respinto il Duca di Guisa.

[70] Il decreto dello stesso re Francesco, era così concepito. L'accrescimento che si nota ogni giorno nell'armata de’ volontari, che spinti dalla loro aóezzione alla causa dell'ordine e della monarchia, vengono in molti paesi per arruolarsi sotto le bandiere del re ci ha deciso dopo aver già completato i quattro battaglioni di volontari indicati nel decreto reale del 15 Settembre, a raccoglierne altri. Abbiamo quindi decretato, e decretiamo — Coi volontari che si presentano giornalmente si riorganizzerà l'11.° reggimento di linea distrutto a Palermo.

[71] Sembra che per cafoni intendisi pel dialetto napolitano quella classe di persone che tramezza il celo medio e l'infimo, e par che codesta razza, se urtata sia nociva, come lasciata in pace tenda ad esser neutrale. A dir vero per ò confesso d'ignorare questa singolare fraseologia.

[72] A Mola tra circa quaranta prigionieri fatti nel battaglione SACCHEGGIATORI — sirinvenne il BOJA diPalermo, ed altri poliziotti siciliani della stessa risma. Allorché furono consegnati al piroscafo l'Indipendente per esser trasferiti in Napoli, la ciurma li riconobbe. Oltre le villanie e gli spregi, che piovvero loro addosso, furono minacciati di getto nel mare, e se la scorta armata che li avea in custodia non vi si fosse opposta energicamente, sarebbero periti.

[73] Dopo lunga altalena fra il sistema di concentramento e discentramento amministrativo, protetto o respinto, giusta i diversi intendimenti politici, a cui è sottoposto, par che il governo abbia oggi adottato liberalmente il principio di un saggio discentramento cotanto reclamato dalle condizioni del nostro paese.

[74] Il giornale l' Unità Italiana di Genova riassumeva francamenteil concetto in questi termini da considerarsi attentamente; dacché esprimono le vere intenzioni de' republicani, che il gover no perciò teneva meritamente in sospetto.

«Riassumiamoci (ha quel giornale): l'Italia vuole l'unità e la libertà; ma il bisogno dell'unità essendo istintivamente più urgente, invoca l'ajuto di tutti i suoi, e starà con chi l'avrà meglio promossa, fosse anche la monarchia. Ma le sue tradizioni sono repubblicane, e allorché il bisogno dell'unità sarà soddisfatto, alle antiche tradizioni ritornerà. Il partito monarchico lo sa, e perciò impaccia per quanto può l'unità, o v'introdurrà una mano straniera che renderà impossibile questa unità nazionale.»

[75] Il giuoco non abbastanza leale in Mazzini di servirsi di Garibaldi, come d'un fantoccio, è antico. Nel 14 Decembre 1859 e gli scriveva a' suoi amici «Garibaldi, di pui non ho tempo parlarvi, è debole come un fanciullo, e ci ha fatto per fiacchezza verso il re un male immenso; ma bisogna nondimeno incalorirlo e trarlo a noi. Cosa ottima la sottoscrizione (del milione de' fucili), per servirsene di arme per fargli sentire i suoi doveri.... Se gl'italiani fossero capaci di, passare al di là dell'assurda frontiera attuale senza Garibaldi ; se io come un tempo, potessi unirmi ai vostri armati di Rimini e di S. Arcangelo, dir loro — andiamo fratelli, ed esser seguito — non mi occuperei di Garibaldi. Ma finora Garibaldi è potenza. È debole? Bisogna cercare di trarne quel tanto di bene che insistendo, potrebbe trarsene. Fate che gl'italiani migliorino, non avremo bisogno di lui. »

[76] Allude specialmente a Liborio Romano, il quale il giorno 6 Settembre era suo ministro dell interno e polizia, e il giorno 7 scrivendo — all'invittissimo generale Garibaldi dittatore delle Due Sicilie — attendeva — ordini suoi con illimitato rispetto — Checché voglia dirsi di Liborio Romano, la defezione pressoch é in massa della marina, dell'esercito, de' funzionari publici, e del popolo non dee battezzarsi per tradimento, m'altro non è che una giusta rivoluzione, per la quale si niega sudditanza al tiranno. È precisamente la vox populi, vox Dei.

[77] Bugiardo! Quando già il sangue era corso a torrenti; il corpo consolare avea spento le miccie delle bombarde su Palermo; quando il general Lanza bloccato in palazzo reale era per morir di fame con diecimila de' suoi; quando ci ò non ostan te, il giorno 3 giugno, il Borbone spedivagli per mezzo del general Letizia l'ordine furioso di distruggere la città pinttostoché trattare con Garibaldi — quando la diserzione avea talmente assottigliato le fila dell'esercito regio da dover temere che i renitenti venissero tutti passati per le armi; allora Francesco, ma allora soltanto, NEL SUO ORRORE ISTINTIVO PEL SANGUE, FERMÒ IL BRACCIO DE' SUOI GENERALI PER CONSUMARE LA DISTRUZIONE DI PALERMO.

[78] Bisognava piuttosto ripeterne unadelle principali cause dall'asciugamento delle casse publiche in Palermo s in Napoli massimamente, per alimentare prima l'esercito di Capua e Gaeta, e per arma poscia i briganti.

[79] Fa allusione alla creazione della corte marziale nella provincia d'Aquila ordinata dal generale piemontese Ferdinando Pinelli, in seguito dell'energico manifesto di Pasquale De Virgilii.

[80] I documenti riportati alla pag.24 a 28, e nelle altre dal 342 al 345 mostrano chi è il ricompensatore dell'assassinio. Questo titolo è inflitto da Francesco agl'italiani che si difendono dai reazionari; da lui che li istiga e corrompe. Fra noi e costoro v'ha il giudizio de' posteri.

Nell'apoteosi al regicidio son figurate le lodi quà e là attribuite al tentativo di Agesilao $ulani contro Ferdinando I!.

Il culto de' padri chiamato fanatismo appella sicuramente allo spregio, in che tieni la famosa decozione del sangue di S. Gennaro. Accuso il mio peccato... io sono fra i più fieri conculcatori di questo santo culto!!

[81] I segnatari di questa estesissima protesta furono il cardinal vescovo di Senigallia; i cardinali arcivescovi e vescovi di Tesi, Osimo, Cingoli ed Ancona; l'arcivescovo di Urbino; i vescovi di Cagli e Pergola, di Urbania e S. Angelo in Vado, di Gubbio, Fossombrone, Fano, Pesaro, e Monte feltro; l'arcivescovo di Camerino; i vescovi di Recanati, Loreto, Montalto, Macerata e Tolentino; l'amministratore apostolico di Ripatransone; i vescovi di Ascoli, Sanseverino, Fabriano e Matelica, e il provveditore generale dell'arcivescovo di Fermo.

[82] Fra la quantità di opuscoli prendo nota di alcuni, i quali sotto pretesto di confutazione, porgevano alimento alle parti avverse di generalizzare le massime, e d'ingerir confusione nella teoria e nella pratica. Il signor di Cayla ne stampò uno a Parigi, intitolato l'Imperatore e l'Italia. Non s'era mai udito che di privata opinione si facesse capitale in una pubblica allocuzione pontificia, come si fu quella di papa Pio IX, tenuta il 17 Decembre 1860, dove la più virulenta confutazione quivi è scagliata contro la dottrina del Cayla, che non era forse in animo di nessuno ricevere; tuttavia il papa si piacque di ritenerla come norma di condotta di tutti gli avversari del suo terreno dominio. Riporto alcune parole dell'allocuzione, le quali riferisconsi al proposito

«Mentre ancora sentivamo tutto il cordoglio del «nuovo sconvolgimento degli affari ecclesiastici.... altra cagione a di molestia ci sopravvenne per parte di un iniquissimo libello recentemente pubblicato in Parigi, nel quale l'autore accozzò tante cose repugnanti al vero e tanto assurde e in lotta fra loro stesse, che sembra piuttosto da disprezzare e ributtare che da confutare.

«Questo però non è da tollerare ch'egli sia giunto a. tanta audacia ed empietà, che dopo avere ardito di attaccare il principato sacro e civile della chiesa romana, si abbia anche imaginato doversi a suo avviso costituire nella Francia. una chiesa speciale e di nuovo genere, totalmente sottratta e divisa dall'autorità del pontefice romano. E questo che cos'é se non turbare e scindere l'unità della chiesa cattolica?....

«Non è poi a dire quale ingiuria l'autore del detto opuscolo faccia all'illustre popolo di Francia, stimando possa mescersi fra gli errori e gli scismi esso, ch'è saldissimamente attaccato all'unità cattolica.

«Non è a dire quanto sia temerario cotestui, che spera potersi ritrarre dall'ossequio e dalla fedeltà verso la sede apostolica quel clero e specialmente que' rispettabilissimi prelati che fra loro predecessori contano un Ireneo vescovo di Lione, che egregiamente scriveva

«Alla chiesa romana, come alla principale è necessario che si accostino tutte le altre chiese; cioè i fedeli di qualunque luogo; que' vescovi, diciamo non vinti da timore alcuno, né rattenuti da alcun pericolo e colla voce e cogli scritti, sempre han pro pugilato i nostri diritti e della santa sede; né han mai la sviato un istante di darci sicurissimi attestati della loro devozione verso di noi.

«Alla cura pastorale, alla vigilanza e fermezza de' quali e degli altri vescovi dell'orbe, mentre rendiamo i dovuti encomi, per quanto da se stessi li vediamo ardenti e presti nel difender la cattolica fede; tuttavia non cessiamo di esortarli e di eccitarli in tanta perversità di tempi, acciocché quanto più forte sia ogni giorno l'impeto de' nemici, con tanta maggior fermezza d'animo proteggano a resistergli e dominarlo, e così non cessino di scoprire ai fedeli alle loro cure affidati gl'inganni e le insidie, colle quali uomini iniquissimi si sforzano di strapparli dal seno dì santa madre chiesa.

«Imperocché per quel detestabile opuscolo, quasi strappata la maschera, intendiamo manifestamente quali sieno i propositi dell'autore, e di tutti gli altri, che alla santa sede si sforzan di togliere il principato civile. Null'altro cioè intendono, e meditano che ROVESCIARE I FONDAMENTI DI NOSTRA RELIGIONE. E questo certamente è quel che a sommo nostro dolore «vediamo con ogni studio e colle arti più perfide tentarsi nelle a provincie ingiustamente tolte al nostro dominio e negli altri a paesi d Italia...

«Però tutto questo cumulo di mali da coloro massima mente proviene, i quali per estendere il loro dominio per l'Italia, ogni diritto divino ed umano audacemente pervertono, si spacciano autori di publica felicità, mentre dovunque passano, imprimono, a guisa di fierissima tempesta, vestigia di furore e di eccidio...»

Un altro opuscolo divulgato in Roma da monsignor Nardi ex-ponente della Sacra Rota romana, per la corte austriaca; indi rimestatone indefesso nelle brighe reazionarie. Egli pretese d'intessere l'apologia del governo papale e del temporale dominio, rispondendo agli attacchi di Lord Busse!

Confronti strani e inapplicabili del regime papesco coll'inglese; erudizione indigesta e fuor di proposito; stolto patrocinio de' mercenari pontifici accorsi in difesa del papa PER AMOR DELLA FEDE (con sessanta od ottanta scudi d'ingaggio); bugiardi elogi del governo, superato da pochi in mitezza e libert à ; pessima fede 'nel giudicare la legislazione, buona perch é retta dal diritto comune (come se nulla fossero le correzioni del diritto canonico, cui la legislazione è subordinata); eran questi in sostanza i pregi dell'aureo libercolo, prodotto dall'ex-professore dello studio di Padova.

Al Signor di Fonton gi à diplomatico russo in Francoforte veniva attribuito un altro opuscolo trattante Sugl'interessi europei in Italia la cui conclusione era L'Italia dev'essere tutta indipendente ed unita. Un opuscolo tedesco anonimo sul riscatto della Venezia, fu causa di infiniti commenti, e fe strepito specialmente presso i difensori austriaci e germanici del quadrilatero veneto Intitolavasi L'Imperatore Francesco Giuseppe e l'Europa. Altro fu quello dei conte d'Hamel col titolo Venezia complemento della quistione Italiana e via dicendo altri molti di minor rilievo, che non occorre mentovare. Cosa alla tenzone armata intrecciavansi dispute per lo pi ù acri e passionale, che tanto in fluivano nel sottrarre la calma necessaria alla solu zione delle ardenti quistioni.

[83] Questa frase fu vergata da Ferdinando II in una lettera responsiva a Luigi Filippo suo zio, che lo consigliava alle riforme.

Poco sopra a detta lettera egli scriveva «La libertà è fa tale alla casa di Borbone, ed io sono deciso di evitare a qualunque costo il fato di Luigi XVI e di Carlo X. IL MIO POPOLO OBBEDISCE ALLA FORZA E SI PIEGA; ma guai se risorge a sotto gl'impulsi de' suoi sogni, che sono così belli nelle orazioni de' filosofi, e così impossibili nella pratica! Coll'ajuto di Dio, io darò al mio popolo la prosperità e l'onesta amministrazione, alla quale esso ha diritto: MA IO SARÒ RE. RE SOLO, E SEMPRE.»

[84] Il grave lutto domestico, cui alluda il manifesto è la morte del cavalier Riccardi genero del Farini avvenuta la notte del 24 al 25 Decembre 1860. Il re desider ò evidentemente velare le intime ragioni, che causarono il ritiro del Farini; giacch é è durissimo a credere che la morte di un alfine porti seco tale perturbamento e scompiglio da conquider la sanit à , ed opporre una eccezione perpetua nel disimpegno delle pubbliche funzioni... Il Farini pot è ricevere gl'inviati suoi successori, e la fama del suo ritiro era precedente alla morte del cavalier Riccardi.... Egli divenne segretario particolare del re.

[85] Non è per anco cancellata dalla memoria la solenne sentenza del primo Napoleone, allorch é nel 1806 con decreto del 30 Marzo innalz ò al trono di Napoli il suo fratello Giuseppe, specialmente « perché la dinastia de' Borboni non era compatibile COLL'ONORE DELLA CORONA IMPERIALE E COL RIPOSO DELL'EUROPA.»

[86] Lord Russe!! alla Camera dei Lord, nella tornata del 17 Febbrajo 1863.

[87] La vigilia del natale nella cappella Sistina.

[88] Il massacratore di Perugia.

[89] Erano frequentissimi gli arresti e i processi praticati dallo stesso governo papale contro irlandesi, svizzeri, austriaci, per frodi amministrative, sottrazioni di somme, baratterie e simili abusi.

[90] Il ponte di Curese sulle piante topografiche, non che su quelle descritte dalla direzione del censo dello stesso governo pontificio, é posto costantemente e senza contestazione nella provincia di Sabina.

[91] Una lettera riportata dall'Armonia in data di Roma, del barone De Klitsche de Lagrange, già comandante di una brigata napolitana, dice ch'egli dimor ò in Roma sin dalla metà di Novembre 1860, senza aver mai avuto incarico nessuno o missione, e che intendeva protestare contro il nome di De Lagrange usurpato da uno «de' vari avventurieri, che hanno intrapreso di render gli Abruzzi il teatro delle loro gesta.»

Se non si trattasse di una semplice rettificazione, la quale lascia inulto l'argomento, non avrei riportato questo brano, tratto da fonte altronde sospettissima.

[92] Questo indegno prete nel suo effrenato fanatismo, si erge a vantarsi d'essere stato tra i reazionari e i briganti: sol si duole dell'epiteto di rinnegato, con cui taluni giornali l'avean qualificato. Ecco le parole sue stesse, che si rapportano al proposito.

«L'abate Ricci ha avuto altre volte l'onore di odiose menzioni da parte di questo ben noto corrispondente del di lei giornale (l'abate scrive al direttore del giornale La Nazione il 25 Gennajo 1861), ma non si è curato di rispondervi, come non se ne curerebbe ora se non si trattasse di rettificare una menzogna, la quale consiste nella parola rinnegato usata là dove, prima di annunziare la sua dipartita per ajutare nel regno di Napoli la cominciata reazione in favore del legittimo suo sovrano, si pretenderebbe alludere ai suoi antecedenti.

«Per di lei norma, signor direttore, e per ricacciare in gola al ben noto corrispondente romano la pronunciata menzogna, l'abate Ricci non ha mai rinnegato i suoi principi politici. Nacque sotto il regno papale, e spera morire sotto questo regno, alla barba di tutti i di lui nemici, ed in altri tempi non lontani mostrò di aver cuore e risolutezza di combatter la rivoluzione. Sente di esser lo stesso anche oggi, ove venga lo stesso bisogno...»

Il Ricci in un senso ha ragione: Egli fu un reazionario; oggi è un brigante; non ha mai cangiato; sempre uguale a se stesso, non è un rinnegato. Ma colui che dopo aver prescelto la via del santuario, si tramuta in uno scherano armato di stiletto e di pistola e che con Chiavone grassa e rapina, come si chia ma? Il Ricci ambisce alla gloria d'essere stato sempre coerente nella sua condotta; aspira ad esser sempre lo stesso furfante. Non vogliamo essere ingenerosi nel concederglielo volentieri e gratuitamente sulla sua stessa parola, colla sola modificazione da noi falla.

[93] In questa circostanza non considerando ne' militi napolitani che la durezza di una sventura, i francesi si prestarono esemplarmente in contribuire una parte delle razioni giornaliere. I cavalli eran serbati per esser venduti, e dovevano col relativo prezzo alimentare i loro cavalieri.

Il santo padre improntò una forte somma, che facevasiascendere a centocinquantamila scudi, de' quali se ne sarebbe praticata la restituzione colla vendita degli e f 'etti dell'annata.

L'Ami de la religion, giornale non sospetto ai clericali dà un cenno del trattamento, che fu allora necessario alla truppa napoletana, come ancora non dubita significare la loro destinazione.

«Il trattamento (ha quel diario) de' soldati napolitani, costa circa duemila scudi al giorno (10,700 franchi). È un aggravio pesante, specialmente nelle circostanze presenti. Infrattanto è stato risoluto d'allegerirlo al possibile colle misure seguenti — Vendita di 3500 cavalli per mantenere i soldati — Tutti i soldati, che vorranno rientrare alle loro case, riceveranno il loro congedo, e de' soccorsi sufficienti per provvedere alle spese di viaggio. Gli altri continueranno a restare sul territorio pontificio, o sono state prese delle disposizioni, affinché niente manchi ai loro bisogni. Essi riceveranno il medesimo nutrimento e trattamento che i soldati francesi. — Già buona parte di questi soldati sono rientrati alle loro case, ripassando la frontiera napoletana.Altri si sono recati negli Abruzzi, ove si trovanodelle colonne de' volontari, i quali sostengono la causa reale. »

Qui l'appellativo volontari fa velo caritatevole a quello di briganti...

[94] Dispaccio del ministro degli esteri Casella ai rappresentanti di Francesco II presso le corti di Europa, da Gaeta in data 12 Novembre 1860.

[95] Lettera de' primi Decembre 1860 spedita da Napoleone a Francesco II.

[96] Risposta a Napoleone.

[97] Manifesto ai popoli delle Due Sicilie riportato alla pagina 361 e seguen.

[98] Manifesto citat.

[99] Dispaccio Casella qui sopra citato.

[100] Circolare del ministro Del Re ai rappresentanti esteri del Febbrajo 1860.

[101] Un di costoro per nome Bartolo Marra è quello stesso vecchio strumento del terrore di Ferdinando II. Allorché comparve Garibaldi egli richiese al ministero borbonico pieni poteri per fucilare e massacrare, come unico modo per contenere in dovere le Calabrie.

Ricusataglisi tal facoltà dal ministro Pianelli, si levò in furore, e per essergli venuto meno di rispetto, venne rinchiuso in castello S. Elmo, da dove non uscì che all'arrivo di Garibaldi in Napoli.

Com’egli era urtato coll'estinto governo, si prestò incautamente fede alle ampie parole di adesione al nuovo ordine di cose.

S'inchinò a Pallavicino, al re, a Della Rocca, a Farini, e a Fanti; indossava uniforme italiana; e così fu incaricato di far parte della commissione pel riordinamento del disciolto esercito borbonico.

Il governo italiano però fu tratto in errore; egli era sempre lo stesso persecutore de' buoni, un nemico d'Italia.

[102] Manifesto sopra citato pagin. 361.

[103] Sant Emidio é il protettore di Ascoli. È ormai inteso che i Superi, i quali non parlano, sono fatti i lenoni diluiti i partiti. Ognuno canta inni e Te Deum a fine di avvolgere nelle splendenti nubi della religione sovente le pi ù strane innovazioni, ed è curioso il vedere spesso in diversi luoghi contemporaneamente intuonarsi.

Oggi a S. Emidio toccava far la parte di protettore de' briganti, mentre noi invocavamo il Dio degli eserciti per abbattere i suoi protetti...

Que' silvestri abitatori sono stati trovati possessori di un amuleto appeso al collo colf' effigie del santo o di qualche reliquia piamente creduta di esso.

I preti nel benedire quest'incantesimi, li spacciavano per un preservativo da ogni pericolo, per cui il devoto portatore sarebbe riuscito invulnerabile. N è i prodi di Ascoli venivan manco al loro zelo. Nelle grotte incassate ne' monti, dove solevano r í covrarsi i briganti, furono rinvenute lampadi, ostensori ed altri molti arredi sacri, religiosamente rubati nelle chiese o ne' conventi.

Bizzarrìa di circostanze! Un EMtnto SANTO era invocato protettore de' briganti; un altro Eutnto, POVERO PECCATORE, sta oggi segnalando al mondo con orrore le loro gesta malvagie!!...

[104] Giorgi dopo le sue braverie, ebbe il coraggio presentarsi m Roma nel pubblico passeggio. I romani, rendendo lode al merito, lo sbalordirono di fischi, ed egli dové gloriosamente ritirarsi.

Costui avea sempre con se il cavallo derubato. Botticelli avea promesso un premio a chi il riscattasse (era unode' più belli cavalli della provincia). Certo tale nel dirigersi a Roma, volle provarvisi. Richiese a Giorgi il cavallo a buonissimo patto. Giorgi consenti; e l'altro.., alla prova; visitiamolo... ma nell'esaminarlo si fe a dire: per Bacco.... il cavallo è spanato.

Come! esclamò Giorgi... non ne sapete niente.. Non lo saprete voi, ripigliò il primo: dopo due passi, questocavallo si protesta... Bufone, disseallora Giorgi indignato, provatevi a passo dicorsa... Badate, dissel'altro, ci farete cattiva figura, ascendendo intanto il cavallo.

Quando vi s'era bene inforcato, gli diè ben di sprone ne' fianchi; staccò un galoppo velocissimo, e Giorgi in mezzo ai curiosi accorsi al diverbio, tra le risa indicava a tutti... guardate... è spallato... è spallato?

Lo seguì cogli occhi quanto potè; ma invece l'animale avea spiegato la virtù di fuggir dai ladri e tornarsene al suo padrone... Giorgi, allungando il naso, ancora aspetta il ritorno del cavallo spallata.

[105] Nella lettera del 25 Gennajo 1860, di cui abbiamo tracciato un brano alla pag.408 il Ricci voleva impugnare la sua presenza nelle bande reazionarie dicendo

«Quanto all'andata R nel regno di Napoli, il corrispondente della Nazione, il quale si vanta di esser informato sempre bene, vegga se anche in questa volta, od in questa volta almeno non lo sia davvero, perchè chi le scrive la presente rettifica è lo stesso abate Ricci ec.»

La lettera qui sopra citata é in data del 21; l'abate scrive il 25. Il fatto di Casamari avvenne il 22. Qual difficolt à che l'abate Ricci fosse in Roma il 25, come il Giorgi vi si trovava pochi di dopo la rotta di Scurgola?

Egli non seguì i fuggitivi di Bauco, e tornò veramente in Roma a ruminare nuove smargiassate. Vuolsene una testimonianza per nulla sospetta?

Il sette febbrajo l'Armonia contiene la seguente corrispondenza da Roma, in data del 1 Febbrajo 1861

«Il prete faentino ch'erasi unito a questa colonna prima che questa, si rifugiasse a Bauco, si ritirò e tornava in Roma. Ha fatto benissimo ad allontanarsi, e giova sperare che non penserà più a siffatte cose, le quali, se sono lecite ai laici, poco convengono agli ecclesiastici.»

Il Ricci alla umiliazione de' vinti ha preferito che al titolo di rinnegato quello s'aggiungesse d'impostore.

[106] (1) «Fratelli Italiani»

« Se una parola di conforto, se un dono benché tenue può esservi di qualche sollievo nella sventura, in cui cadeste, ricevetela con lieto cuore dai vostri fratelli romani, de' quali il comitato nazionale si fa interprete presso di voi rimettendovi lire quattrocento. Essi al pari d'ogni onesto italiano maledicono l'atto fraudolento che fu cagione del:ostro danno e come attestato d'aborrimento al governo clericale, siano queste parole un testimonio ancora dell'interesse e della simpatia che voi c'ispirate.»

«Viva Vittorio Emanuele Re d'Italia»

«Roma 4 Febbrajo 1861»

« I quattro militi sottoscritti, non appena ridonati a libert à , si espressero cos ì nella loro risposta. »

«Romani fratelli!»

« Dopo l'atto fraudolento e codardo, con che a Corese gl'infami sgherri del clericale dominio ci trassero malati e feriti a Roma; oggi finalmente eccoci restituiti nelle nostre libere terre.

«Primo pensiero pertanto è ringraziare voi tutti, che italianamente sentite, e che tante squisite gentilezze, cortesie e cure ci prodigaste nell'ospedale di Santo Spirito, saremo sempre memori del generoso comitato nazionale, e rammenteremo con infinita dolcezza sempre quelle tre gentilissime signore, angeli di vera carità che vennero a presentarci di biscotti, di confetture, di danaro, e d'ogni sorte di cristiana, civile, e non papale sollecitudine.

«Qual contrasto tra le soavi vostre dolcissime visite, o romani, e quella che sogghignando con satanica pietà ci fece lo straniero De Merode, archimandrita di que' belgi ed altra feccia europea costì annidatasi a vostri vampiri. Noi che vedemmo in tutti voi romani o dai sguardi sommessi o dalle furtive strette di mano o dalle parole fuggevoli quanto intenso e profondo sentite il disdegno per la teocrazia abborrita e per tutto il putridume, che combatte per essa. Noi nel ringraziarvi di quanto ci faceste a testimoniare l'affezione, non possiamo altro dirvi che ornai sendo tornati sotto i ranghi del nostro battaglione sentiamo più assai di prima esser avidi del battesimo patriottico del fuoco nella speranza di presto vendicarci e vendicarvi purgando le vostre terre da quel lezzo, che tanto le ammorba.

« Il tempo s'affaccia gigante, preparatevi a ricever l'idolo d'Italia; il miracolo dei re Vittorio Emanuele in modo che l'eterna Roma possa tornare con esso per la terza volta regina.

« Terni 17 Febbrajo 1861

«Carlo Menzini sergente

«Rinaldo Fiorani caporale

«Ferdinando Galli comune

«Agostino Prietti comune

[107] Quivi fu stabilito che ciascun sovrano avrebbe potuto, nella periferia del proprio stato, introdurre que' cangiamenti che avesse creduto meglio nella propria politica amministrazione; ma era assolutamente vietato accettare in nessun caso l'iniziativa di qual siasi riforma proveniente DA PARTE DEL POPOLO.

É facile scorgere in questa massima la consecrazione del diritto divino, la diseredazione de' popoli dal diritto proprio, e la congiura violenta per impedire la rivendicazione contro l'usurpazione.

[108] Per esempio la noia musica del Trovatore che ha assordato tutti i teatri del mondo, in questi giorni era stata cassata da) repertorio dal censore politico, insieme col Marino Faliero, Ernani cc: proibite precedentemente. Fu permessa la Violetta, i romani ne studiarono le parole e trovarono che l'espressione del medico nel visitarla, allorch é dice «la tisi non le accorda che poche ore» era un adattato pronostico di circostanza: gli applausi rimbombarono, e Violetta fu sepolta.

Per impedire ulteriori disordini accorse Govon coi suoi soldati. La polizia aveagli dato ad intendere che i romani con pugnali nascosti avrebbero, in un dato punto, fallo impeto su i ponti feci. Govon bevve grosso, circond ò , assedi ò gli sbocchi 'e il teatro dentro e fuori (era il pi ù bello spettacolo!).... Ma nulla v'era di nuovo, e i soldati delle imperiali truppe poterono tornare sani e salvi alle respettive caserme sans coup ferir.

[109] Il general De Noue.

[110] Venga ora il Petruccelli della Gattina a sentenziare in parlamento che — i romani hanno nelle vene lo sciroppo invece del sangue — o altri sostenga che i francesi non si batterebbono in caso di una insurrezione.

[111] Ecco succintamente quanto scriveva in proposito il ministro degli esteri di Francia Thouvenel al conte di Persigny in Londra il 24 Luglio 1860.

«La questione che si propone è questa. Convien'egli alla Francia e all'Inghilterra d'assistere senza far niente per moderare il corso degli avvenimenti di natura da recare il più serio attacco all'ordine europeo; di sopportare l'aggressione di un paese, col quale esse mantengono de' rapporti regolari per parte di un esercito composto di elementi rivoluzionari e stranieri; di permettere infine che si venga a impedire la prova costituzionale, alla quale il re Francesco II si è lealmente sottoposto?

«Il governo dell'imperatore, signor conte, pensa che questa attitudine passiva non sarebbe d'accordo né coll’interesse, né colla dignità della Francia, né dell'Inghilterra, ed ho detto a Lord Cowley che mi sembrava desiderabile dal punto in cui le cose sono arrivate che i comandanti delle nostre forze navali fossero immediatamente autorizzati a dichiarare a Garibaldi ch'essi avevano l'ordine d'impedirgli di passare Io stretto. Tutte le quistioni politiche riservate, noi proclameremo che là quistione deve risolversi fra il re Francesco II e il popolo napoletano, senza nessuna intervenzione di fuori.»

Se l'Inghilterra non si fosse energicamente opposta., minacciando perfino di protestare incaso d'ingerenza per parte della Francia,il principio DEL NON INTERVENTO sarebbe forse divenuto UNA INFLUENZA LEGITTIMA, UNA CAUSA GIUSTA da difendere.

[112] Prima de' facili mezzi di trasporto si disse degli inglesi esser dessi quasi disgiunti dal mondo toto penitus divisus orbe Britannos.

[113] Per dare un saggio delle massime liberalmente professate specialmente in questi ultimi tempi dal governo inglese, ne addurrò talune, che provino la mia asserzione. A cagion d'esempio lord John Russell nel consigliar l'Austria a restringersi ne' propri confini esca in questi sublimi concetti

«... Il governo austriaco ha fino ad ora creduto poter schivare la verità nascondendola o soffocandola colla forza delle armi. Ora dovrebbe riguardare nel viso alla situazione. Se cosi farà si avvedrà che un trattato è agevolmente mantenuto, se è raffermato dal sentimento e dalla opinione nazionale; ma se manca di questa condizione, è come albero corrotto che non ha da attendere che un soffio di vento per crollare... È forse disaggradevole agli uomini di stato austriaci notare il contrasto fra i suddetti fatti e lo stato d'Italia, ma la lezione può essere ancora utile. L'autorità del papa, quella del granduca di Toscana, quella del re di Napoli non avendo radice alcuna nel cuore dei loro soggetti, è caduta al primo urto della procella... Nel 1815 Genova fu data alla Sardegna; Venezia all'Austria... Dopo quarantacinque anni cosa vediamo noi che avviene? Il dominio dell'Austria nella Venezia è precario e impopolare: l'unione di Genova e Torino è cementata, è rassodata indissolubilmente... mentre il governo austriaco ha fatto tutto per opprimere, irritare, umiliare il sentimento nazionale; il governo piemontese ha posto tutto in opera per accarezzarlo, per lusingarlo, per esaltarlo.»

In Francia era sbucata l'idea peregrina di uncongresso europeo permanente da istituirsiper decidere le più grandi controversie di Europa, Russel nel combatterla, disse

«Non è malagevole scoprire sotto il velo benevolo delle frasi, la proposta d'un antico nemico della indipendenza de' popoli.

«Un consiglio che si assumesse la pretensione di rappresentare tutte le nazioni, di trattare tutti gl'interessi, diverrebbe ben tosto il centro d'ogni intrigo e l'organo della potenza la meno scrupolosa e la più audace. I suoi decreti sarebbero rivolti contro tutte le istituzioni diverse dalle sue, e contro la libertà pur del pensiero; le antiche salvaguardie dell'ordine e della libertà sarebbero denunziate, come barbare e feudali; la manifestazione dei concetti individuali sarebbe condannata come pervertitrice dell'ordine e della tranquillità generale. Per buona ventura dell'Europa le tendenze dell'anno che corre, sono a ciò contrarie.»

Finalmente, per non dilungarci troppo, argutissima e libera del pari è la di lui distinzione opposta alla diversa indole delle rivoluzioni.

« Desidero (ei dice) protestare contro l'uso indiscriminato delle parole rivoluzioni e rivoluzionari.»

« Una rivoluzione può esser la più grande della calamita; può essere il più grande dei beni. In Inghilterra le frasi rivoluzionedal tempo della rivoluzione: il governo che ha prevalso dalla rivoluzione in quo: indicano il cambiamento sopravvenuto fra la servitù verso la Francia, fra la tirannia arbitraria degli Stuardi pensionati, e l'indipendenza nazionale, il dominio della legge e della libertà, il quale ebbe principio da Guglielmo III e dalla casa di Annover.

« In Francia la parola rivoluzione è comunemente applicata all'anarchia democratica, o alla convenzione giacobina.

« I partiti oppressori del continente hanno il vezzo d'usare di questi termini indiscriminatamente, e gli avvocati dell'assolutismo parlano. col medesimo orrore del passaggio dal peggiore dispotismo alla vittoria déll'ordine e della legge; come dalla sovversione d'un governo temperato ad una licenza democratica. Cosi quando il governo dalla tortura e dalla oppressione trapassa ad un altro governo regolare e libero; tale fatto è dagli assolutisti detto rivoluzione; ma questo cambiamento chiamisi esso come si vuole, d un gran bene, non una calamità. »

[114] Ringraziamenti, elogi, e dimostrazioni di affetto piovvero sul principe dall'Italia, col mezzo di privati cittadini e de' giornali. In una risposta ch'egli indirizzava ad un suo amico, esprimevasi così:

«Facendomi alla tribuna del senato francese il propugnatore della causa d'Italia, sono stato ispirato dalla mia profonda simpatia pel vostro paese, e da una sincera convinzione.

«Gl'interessi della Francia e dell'Italia sono comuni; sono quelli della civilizzazione e della libertà. Desidero ardentemente che il trionfo della vostra causa sia prossimo, perché ho la certezza ch'esso stringerà fra il vostro paese ed il mio vincoli più intimi nell'avvenire.

[115] Detti altrimenti ancora campioni di Lamoricière (campion-chantillon).

[116] Fu scritto di costoro — esser buoni per far la guerra ne' quartieri

E l'assennato autore del Papato, l'Impero e il Regno d'Italia monsignor Francesco Liveranialla pag.224 di detta opera stampata in Firenze an. 1861, ediz. quarta, li qualifica così

« Si suol dire: sono i figli che corrono a sovvenimento del padre; sono fedeli, son cristiani che dei loro petti fanno scudo al pastore universale... Il nerbo dell'armata era di veri mercenari corsi dietro al bagliore del gaggio, del soldo, dello stipendio e del bottino: era ciurmaglia raccogliticcia e prezzolata, da prezzolati commissari sorpresa e ingaggiata. Che figli! Che fedeli! Fin due pagani furono trovati nella legione straniera.»

L'arguto scrittore antivide quello che sarebbe avvenuto di questi eroi. Oggi che lo stesso governo pontificio dov é disbrigarsene, orna spediente il richiamare la profezia, che nella opera citata troviamo alla pagina 218 — ivi — «Questa gioventù vinta dall'abbaglio di Roma lontana, troverà quivi scandali stomachevoli persin di preti, nelle case, nelle taverne: ascolterà nei ridotti, nelle bische, nelle bettole maledire e imprecare a pieno coro al clero, ai cardinali, al papa, a S. Pietro, e a quanto v'è di più augusto in cielo e in terra. Dapprincipio sentirà orrore a quelle voci: poi si addimesticherà ad udirle, gradirle, a pronunziarle: intanto la disciplina militare, il mestiere penoso di soldato, il danaro profuso e biscazzato, la patria e parenti lontani gli renderanno insoffribile ciò che il fanatismo gli dipinse altra volta tanto desiderabile e caro: troverà la realtà romana non rispondere alla idealità, mostratagli magicamente dal curato, dal missionario, dal prete del suo paese: farà un'orribile e stomachevole contrasto nella sua mente, che una stessa mano si stendesse fino nelle sue montagne a ricevere l'obolo della vedova e del mendico, e quivi in Roma ordisse primogeniture, fedecommissi, maggioraschi e prelature... Quindi succederà il disinganno, l'abominio, la detestazione,la delazione: venne soldato cristiano etornerà scredente e apostata tra i suoi paesani. »

[117] Questo linguaggio allegorico era ancora in moda tra gli eleganti monsignori avvocatidella reazione. Il vescovo di Poitiers in una sua pastorale area simboleggiato Napoleone per Pilato che si lava le mani. Qui pure la societ à mostravisi divisa in due grandi parti di Dio e della Chiesa, e quella dell'anticristo, dell'eresia e della rivoluzione.

Il ministro Persigny che defer ì come d'abuso al consiglio di stato il prelato, disse personalmente del vescovo ch'egli non abborrì dal far servire l'autorità del suo carattere a passioni estranee agl'interessi della religione.

Defin ì poi le sue parole un documento, in cui si rivela con tanta audacia il segreto pensiero di quel partito, che sotto il velo della religione, non mira ad altro che ad osteggiare l'eletto del popolo francese.

[118] Deh non m'opprimano le timorate coscienze s'io meschinello osi redarguire d'errore il pontefice romano. La di lui infallibilità, giusta i dettati della chiesa,restringesi agli oracoli solenni pronunciati ex-cathedrae non alle opinioni individuali di una semplice allocuzione.

La folgore si svierà alquanto dal mio capo, ove sappiasi che Pio IX medesimo in altra posteriore allocuzione, (pormi in occasione della beatificazione de' martiri giapponesi) dichiar ò che la sovranit à temporale non era essenziale alla religione, ma che nell'attuale stato di provvidenza era necessaria.

[119] Padre Pietro Beckx generale preposito della compagnia di. Gesù.

[120] La sacra penitenzieria il giorno 5 Novembre 1860 ha risposto NON ESSER LECITO FAR PARTE DELLA GUARDIA CIVICA O NAZIONALE.

[121] L'eccessivo fanatismo, di che abbiamo pur non molto superiormente accennato, s'apprese in ispecie all'episcopato fran cese, e il governo, benché professasse pel capo della chiesa cattolica un attaccamento vivo e diretto in Roma,era costretto opporsi agli effetti della suaprotezione medesima, per la quale appunto pi ù inorgoglivano i preti, denunziando il falso loro zelo, mediante publiche sentenze, e per forza di resistenza ad un'audacia ognora crescente. Lascio la condannapronunciata il 30 marzo 1861 contro la pastorale del vescovo di Poitiers per ec cesso di potere, contravvenzione alle leggi dell'impero, e per un procedere allo a turbare le coscienze de' cittadini; lascio altre condanne e ammonimenti parziali propriamente strappati di ma no alla soverchia indulgenza e moderazione di quel governo; mi ridurrò una volta per tutte a riferire un brano di circolare diretta dal guardasigilli, ministro di grazia e giustizia ai procuratori generali dell'impero.

Da qualche tempo (ivi leggeri) mi vengono indicati alcuni membri del clero cattolico, i quali oralmente o in iscritto, trattano in publico, e nello esercizio delle funzioni loro, materie che la legge lor vieta espressamente di discutere.

Gli uni dimenticando la missionedel prete esser lo invi gilare alla religiosa istruzione de' fedeli, si danno a criticar gli atti del governo, e si sforzano d'attrarre sulla politica dello imperatore la sfiducia od il biasimo: gli altri cedendo al trasporto di cieco zelo, prendono di mira la persona stessa del sovrano, e sotto un velo più o meno trasparente, tentano oltraggiarlo; altri ancora traendo partito dalla debolezza di spirito e dalla crudelità, si compiacciono turbare le coscienze coll'annunzio d'imaginarie sventure.

Tali abusi sono previsti dalle leggi (artic. 201, e 204 del codice penale)....

«Se queste disposizioni, la previdenza delle quali addimostrano le circostanze presenti, rimasero prive di applicazione, e' fu perché fino ad ora l'attitudine del clero si tenne generalmente nei limiti del rispetto; e' fu pure perché il governo, nella sua indulgenza ha prediletto tollerare qualche isolato smarrimento, di quello che perseguitare innanzi ai tribunali, a danno forse della religione istessa, sacerdoti imprudenti. Esse però non perdettero l'autorità loro, e il governo tradirebbe il dover suo, ove non impiegasse, contro LA SISTEMATICA OSTILITÀ' direttagli contro quelle armi, che la legge gli consegnava a tutela della pace e dell'ordine.»

«In conseguenza, incarico voi, signor procuratore generale, di farvi rendere esatto conto di ogni maniera d'infrazioni; che saranno per accadere nella vostra giurisdizione, e dove i fatti sieno giudicialmente constatati, deferirne gli autori, chiunque eglino fieno, al tribunal competente.

«Egli è tempo che la legalità riprenda il suo impero.»

[122] Nel convento delle Vergini fu sorpreso un rapporto dettagliato sullo stato del regno, redatto da un Giuseppe Litrat , agente borbonico tra Roma Malta e Napoli.

In detto rapporto risultano vari abboccamenti col duca di Cajanello; alcuni messaggi dello stesso Francesco II, e la confessione del Litrat sull'invio d'armi e munizioni come pure erano annunciati gli avvenimenti di Napoli.






















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