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I BRIGANTI E LA CORTE PONTIFICIA

OSSIA LA COSPIRAZIONE BORBONICO CLERICALE SVELATA

RIFLESSIONI STORICO-POLITICHE DELLA STORIA COMPLETA E DOCUMENTATA SUL BRIGANTAGGIO PEL

DOTT. EMIDIO CARDINALI DI ROMA
VOLUME SECONDO (02)

LIVORNO

A SPESE DEGLI EDITORI L. DAVITTI E C.

1862.

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I briganti e la corte pontificia ossia la cospirazione borbonico... - VOLUME PRIMO-HTML-01

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La conchiusione compie il prezzo dell'opera.

«Tale orribile stato di cose, quivi è scritto, non ha mai esistito sotto il governo de' Borboni!

«I tempi di Attila impallidiscono a paragone di quelli del Piemonte. La forza brutale della più inqualificabile conquista vuoi sottomettere la forza intellettuale d'un popolo, il quale sostiene la propria dignità e scuote il giogo della tirannia, portata sotto la maschera della libertà, e sviluppata in seguito colla ferocia dell'assassinio.

«Il popolo delle Due Sicilie combatte dunque spontamente e finora senz'alcun impulso, per rivendicare la sua grandezza; esso reclama il ritorno di quello splendore impresso alla sua fronte dall'immortale Carlo III, che lo trasse dal suo stato di provincia; esso domanda in fine il rispetto e la conservazione della religione de' suoi padri in tutta la sua purezza, cui l'intrigo, la viltà, e il tradimento. hanno voluto strappargli.

Prima di tener parola sulle apprezziazioni relative all'importante documento del barone Ricasoli, stimiamo opportuno riprodurre altri documenti che lo stesso ministro mise in campo successivamente quasi a risposta indiretta de' reclami di Roma. Codesti documenti tendevano a satisfare e compiere le giuste doglianze degl'italiani cotanto irritati per le stragi napolitane e sicule prodotte specialmente dal brigantaggio.

Facciam precedere una memoria ossequiosa ma ferma del sopra lodato ministro, diretta al sommo pontefice ed è la seguente.

«Beatissimo Padre,

«Compiono ormai dodici anni dacché l'Italia, commossa dalle parole di mansuetudine e di perdono uscite dalla vostra bocca, sperò chiusa la serie delle sue secolari sciagure, e aperta l'era della sua rigenerazione. Ma poiché i potenti della terra l'avevano divisa fra signori diversi, e vi si erano serbato patrocinio ed imperio, quindi l'opera della rigenerazione non si potè svolgere pacificamente dentro i nostri confini; e fu necessità ricorrere alle armi per emanciparsi dalla signoria straniera accampata fra noi, perché le riforme civili non fossero impedite, o sino dai loro esordi soffocate e distrutte.

«Allora voi, Beatissimo Padre, memore di essere in terra il Rappresentante di un Dio di pace e di misericordia, e padre di tutti i fedeli, disdiceste la vostra cooperazione agl'italiani nella guerra, ch'era sacra per essi, della loro indipendenza; ma poiché voi eravate pure principe in Italia, così quest'atto arrecò loro una grande amarezza.

«Se ne irritarono gli animi, e fu spezzato quel vincolo di concordia che rendeva lieto ed efficace il procedere dei nostro risorgimento. I disastri nazionali, che quasi immediatamente susseguirono, infiammarono vieppiù l'ardore delle passioni, e attraverso un funesto alternarsi di avvenimenti deplorabili, che tutti vorremmo dimenticati, s'impegnò fino d'allora fra la Nazione italiana e la Sede Apostolica un conflitto fatale, che dura pur ancora, e che certo riesce ad ambedue del pari pregiudicevole.

«Una battaglia si finisce sempre o colla disfatta e la morte di uno dei combattenti, o colla loro riconciliazione. I diritti della nazionalità sono imperituri, come imperitura per promessa divina è la Sede di San Pietro.

«Poiché pertanto niuno degli avversari può mancare sul campo, è necessario riconciliarli per non gettare il mondo in una perpetua ed orribile perturbazione.

«Come cattolico ed italiano, riputai doveroso, Beatissimo Padre, di meditare lungamente e profondamente l'arduo problema che il nostro tempo ci propone a risolvere; come ministro del regno italiano, reputo doveroso sottomettere alla Santità Vostra le considerazioni, per le quali la conciliazione fra la Santa Sede e la nazione italiana dev'essere non pure possibile, ma utilissima, mentre apparisce più che mai necessaria.

«Così operando, non solo io seguo l'impulso del mio intimo sentimento e degli obblighi del mio ufficio, ma ubbidisco alla espressa volontà di S. M. il Re, che, fedele alle gloriose e pie tradizioni della sua Casa, ama con pari ardore la grandezza d'Italia e la grandezza della Chiesa cattolica.

«Questa conciliazione pertanto sarebbe impossibile, né gi' Italiani eminentemente cattolici oserebbero desiderarla, non che demandarla, se per ciò fosse d'uopo che la Chiesa rinunziasse ad alcuno di quei principii o di quei diritti che appartengono al deposito della fede ed alla istituzione immortale dell'Uomo-Dio.

«Noi chiediamo che la Chiesa, la quale, come interprete e custode del Vangelo, portò nell'umana società un principio di legislazione soprannaturale, e per quello si fece iniziatrice del progresso sociale, segua la sua divina missione, e mostri sempre più la necessità di sé stessa nella inesauribile fecondità dei suoi rapporti con ciò ch'Ella ha una volta iniziato ed informato.

«Se ad ogni passo della società procedente, ella non fosse atta a creare nuove forme, sulle quali far consistere i termini successivi dell'azione sociale, la Chiesa non sarebbe un'istituzione universale e sempiterna, ma un tatto temporale e caduco.

«Dio è immutabile nella sua essenza, eppure è infinitamente fecondo in creare nuove sostanze e in produrre nuove forme.

«Di questa sua inesauribile fecondità diede fin qui la Chiesa splendidissime testimonianze, trasformandosi sapientemente nelle sue attinenze col mondo civile ad ogni nuova evoluzione sociale. Quelli che oggi pretendono ch'ella rimanga immobile, oserebbero essi affermare che non ha mai cambiato nella sua parte esterna, relativa e formale?

«Oserebbero dire che la parte formale della Chiesa sia da Leone X a noi quale fu da Gregorio VII a Leone X, e che questa già non fosse mutata da quella che durò da San Pietro a Gregorio VII?

«Sul principio fu bello alla Chiesa raccogliersi nelle catacombe alla contemplazione delle verità eterne, povera ed ignorata dal mondo; ma quando i fedeli per la conseguita libertà uscirono all'aperto e strinsero nuovo vincolo fra loro, allora l'altare si trasportò dalla nudità delle catacombe allo splendore delle basiliche, e il culto e i ministri del culto parteciparono a. quello splendore, e all'ascosa preghiera aggiunse la Chiesa il pubblico e solenne eloquio del magistero, che già cominciava ad esercitare splendidamente sulle genti.

«Nella confusione e nel cozzo dei vani e spesso contrarii elementi, coi quali si preparava nel medio evo l'èra moderna, mercé della Chiesa, il concetto cristiano si realizzò nelle relazioni di famiglia, di città, di Stato; creò nella coscienza il dogma di un diritto pubblico, e nella sua legislazione ne chiarì l'uso, e fe' sentirne i vantaggi: e allora la Chiesa divenne anco potere civile, e si fe' giudice dei principi e dei popoli.

«Ma quando la società si fu educata ed ebbe ammaestrata ed illuminata la sua ragione, cessò il bisogno, e col bisogno si sciolse il vincolo della tutela clericale; si ricercarono e si ripresero le tradizioni della civiltà antica ed un Pontefice meritò per quell'opera di dare il suo nome al suo secolo.

«Se dunque la Chiesa imitando Di6, sua archetipo,11 quale, benché onnipotente ed infallibile, pure modera con sapienza infinita l'esercizio della Sua Potenza in guisa che non ne soffra scapito la libertà umana, seppe finora contemperarsi, conservando intemerata la purità del dogma alle necessità derivate dalle varie trasformazioni sociali, coloro che la vorrebbero immobile ed isolata dalla società civile, nimicandola allo spirito dei tempi nuovi, non sono essi che le recano ingiuria, non sono essi che la danneggiano anziché noi, i quali solo le domandiamo ch'ella conservi l'alto suo magistero spirituale, e sia moderatrice nell'ordine morale di quella li, bertà, per cui i popoli, ormai giunti alla maturità della ragione, hanno diritto di non ubbidire né a leggi, né a Governi, se non consentiti da loro nei modi legittimi?

«Come la Chiesa non può per suo istituto avversare le oneste civili libertà, così non può non essere amica dello svolgimento delle nazionalità.

«Fu provvidenziale consiglio che la gente umana venisse così a ripartirsi in gruppi distinti secondo la stirpe e la lingua, con certa sede dove posassero e dove, quasi ad un modo contemperati in una certa concordanza di affetti e di istituzioni, ne disturbassero le sedi altrui, né patissero di essere disturbati nelle proprie.

«Quale sia il pregio in che debbe aversi la nazionalità,l'ha detto Iddio quando, volendo punire il popolo ebreo ribelle alle ammonizioni ed ai castighi, metteva mano al castigo più terribile di tutti, dando quel popolo in balia di gente straniera.

«Voi stesso l'avete mostrato, Beatissimo Padre, quando all'Imperatore d'Austria scrivevate nel 1818 esortando a s cessare una guerra che non avrebbe riconquistato all'Impero gli animi dei «lombardi e dei veneti, onestamente alteri della propria nazionalità.

«Il concetto cristiano del potere sociale, siccome non porta la oppressione d'individuo a individuo, così non la comporta da nazione a nazione.

«Nè la conquista può mai legittimare la signoria di una nazione sovra un'altra, perché la forza bruta non è capace a creare il diritto.

«Non voglio in appoggio di questo vero autorità migliore, Beatissimo Padre delle parole solenni del vostro predecessore nella Cattedra di San Pietro, Gregorio XVI:

«Un ingiusto conquistatore con tutta la sua potenza non può mai spogliare la nazione, ingiustamente conquistata, dei suoi diritti. Potrà con la forza ridurla schiava, rovesciare i suoi tribunali, uccidere i suoi rappresentanti, ma non potrà giammai, indipendentemente dal suo consenso tacito o espresso, privarla dei suoi originali diritti relativamente a quei magistrati, a quei tribunali, a quella forma cioè che la costituivano imperante.

«Gl'Italiani pertanto, rivendicando i loro diritti di nazione, e costituendosi in regno con liberi ordinamenti, non hanno contravvenuto ad alcun principio religioso o civile nella loro fede di cristiani e di cattolici non hanno trovato alcun precetto che condannasse il loro operato. �" Che essi mettendosi sulla via che la Provvidenza loro schiudeva davanti non avessero in animo di fare ingiuria alla religione, nò danno alla Chiesa, lo prova 1 esultanza e la venerazione di cui vi circondarono nei primordi del vostro pontificato; lo prova il dolore profondo e lo sgomento col quale accolsero la enciclica del 29 aprile. Essi ebbero a deplorare che nell'animo vostro, anzi che consentire, miseramente fra loro si combattessero i doveri dl pontefice con quelli di principe; essi desideravano che una conciliazione si potesse ottenere fra le due eminenti qualità che si riuniscono nella sacra vostra persona.

«Ma sventuratamente per proteste ripetute, e per fatti non oscuri essi ebbero a persuadersi che questa conciliazione non era possibile; e non potendo rinunziare all'esser loro ed ai diritti imprescrittibili della nazione, come non avrebbero mai rinunziato alla fede dei padri loro, crederono necessario che il principe cedesse al pontefice.

«Non potevano gl'Italiani non tener conto delle contraddizioni nelle quali, a causa della riunione di queste due qualità nella stessa persona, frequentemente incorrreva la Sede Apostolica.

«Queste contraddizioni mentre irritavano gli animi contro il Principe, certo non giovavano a crescere riverenza al Pontefice. Si veniva allora ad esaminare le origini di questo potere, i suoi procedimenti e l'uso; e bisogna pur confessare che quest'esame non gli tornava sotto più riguardi favorevole.

«Si considerava la sua necepità, la sua utilità nelle relazioni colla Chiesa.

«L'opinione pubblica non rispondeva favorevolmente neppure sotto quest'aspetto.

«Porgendo il Vangelo molti detti e fatti di spregio e di condanna dei beni terrestri, né meno porgendo Cristo molti avvertimenti ai discepoli, che non si abbiano da dar pensiero né di possesso, né d'imperio, non riescirebbe agevole trovare anche un solo dei dottori e dei teologi della Chiesa il quale affermasse necessario all'esercizio del suo santo ministero il principato.

«Fu tempo forse, quando tutti i diritti erano incerti e in balìa della forza, che all'indipendenza della Chiesa giovò il prestigio di una sovranità temporale. Ma poiché dal Caos del medio evo uscirono gli Stati moderni, e si furono consolidati colle successive aggregazioni dei loro elementi naturali, e il diritto pubblico europeo si fondò sopra basi ragionevoli e giuste, che giovò alla Chiesa il possedere piccolo regno, se non ad agitarla fra le contraddizioni e le ambagi della politica, distrarla colla cura degli interessi mondani dalla cura dei beni celesti, farla serva alle gelosie, alle cupidigie, alle insidie dei potenti della terra?

«lo vorrei, Santo Padre, che la rettitudine del vostro intelletto e della vostra coscienza e la bontà del vostro cuore giudicassero soli, se ciò sia giusto ed stile o decoroso alla Santa Sede e alla Chiesa.

«Intanto questo deplorabile conflitto arreca le più tristi conseguenze non men per l'Italia, che per la Chiesa. Il clero già si divide tra sè, già si divide il gregge dai suoi pastori.

«Vi hanno prelati, vescovi, sacerdoti che apertamente ricusano associarsi alla guerra che si fa da Roma al regno italiano; molti più vi ripugnano nel loro segreto.

«Le moltitudini veggono con indignazione ministri del santuario mescolarsi in cospirazioni contro lo Stato, e negare al voto pubblico la preghiera dimandata dalle autorità; e fremono impazienti quando odono dal pergamo abusata la divina parola per farne strumento di biasimo e di maledizione contro tutto ciò che gl'Italiani appresero ad ammirare e benedire.

«Le moltitudini, non use a distinguere troppo sottilmente le cose, potrebbero alla Bue essere indotte ad attribuire il fatto degli uomini alla religione di cui sono ministri, ed alienarsi da quella comunione alla quale da diciotto secoli gi' Italiani hanno la gloria e la fortuna di appartenere.

Non vogliate Santo Padre, non vogliàte sospendere sull'abisso del dubbio un popolo intero, che sinceramente desidera potervi credere e venerarvi.

«La Chiesa ha bisogno di esser libera e noi le renderemo intera la sua libertà.

«Noi più di tutti vogliamo che la Chiesa sia libera, perché la sua libertà è garanzia nella nostra; ma per esser libera è necessario che si sciolga dai lacci della politica, pei quali finora ella fu strumento contro di noi in mano or dell'uno, or dell'altro dei Potentati.

« La Chiesa ha da insegnare le verità eterne coll'autorità Divina del Suo Celeste Fondatore che mai non Le maoca di sua assistenza; Ella dev'essere la mediatrice fra i combattenti, la tutrice dei deboli e degli oppressi: ma quanto più docili orecchi troverà la sua voce, se non si potrà sospettare che interessi mondani la ispirino!

«Voi potete, Santo Padre, innovare anco una volta la faccia del mondo; Voi potete condurre la Sede Apostolica a un'altezza ignorata per molti secoli dalla Chiesa.

«Se volete essere maggiore dei Re della terra, spogliatevi delle miserie del regno che vi agguaglia a loro. L'Italia vi darà sede sicura, libertà intera, grandezza nuova.

«Ella venera il Pontefice, ma non potrebbe arrestarsi innanzi al principe; ella vuoi rimanere cattolica, ma vuoi essere libera e indipendente Nazione. Che se Voi vorrete ascoltare la preghiera di questa figlia prediletta, guadagnerete sugli animi l'impero che avrete rinunziato come Principe, e dall'alto del Vaticano quando Voi leverete la mano per benedire Roma e il mondo, vedrete le nazioni restituite ai loro diritti curvarsi riverenti annanzi a Voi, loro vindice e patrono.»

Il cardinale Antonelli come primo ministro dei governo pontificio era invocato a cooperatore delle combinazioni proposte dal gabinetto italiano.

Ecco le parole dirette all'Antonelli, nelle quali riassumesi la conciliazione delle grandi lotte agitate tra i due governi:

«Eminenza

« Il governo di S. M. il Re Vittorio Emanuele, gravemente preoccupato delle funeste conseguenze che, tanto nell'ordine religioso, quanto nell'ordine politico, potrebbero derivare dal contegno assunto dalla Corte di Roma verso la nazione italiana e il suo governo, ha voluto fare appello ancora una volta alla mente ed al cuore del Santo Padre, perché, nella sua sapienza e nella sua bontà, consenta ad un accordo, che, lasciando intatti i diritti della nazione, provvederebbe efficacemente alla dignità e alla grandezza della Chiesa.

«Ho l'onore di trasmettere alla Eminenza Vostra la lettera che, per ordine espresso di S. M. il Re, ho umiliata alla Santità del pontefice.

«Per l'eminente sua dignità nella Chiesa, pel luogo cospicuo che ha nell'amministrazione dello Stato, non meno che per la fiducia che S. S. in lei ripone, ella meglio di ogni altro potrebbe porgere in questa occasione utili ed ascoltati consigli.

«Al sentimento dei veri interessi della Chiesa non, può non accoppiarsi nell'animo dell'E. V. il sentimento della prosperità di una nazione, cui ella appartiene per nascita, e quindi spero che si studierà di riuscire in un'opera che la farà benemerita. della Santa Sede non solo, ma di tutto il mondo cattolico.

«Art. I. Il sommo pontefice conserva la dignità, la inviolabilità e tutte le altre prerogative della sovranità, ed inoltre quelle preminenze rispetto al Re ed agli altri sovrani, che sono stabilite dalle consuetudini.

«I cardinali di Santa madre Chiesa conservano il titolo di principi e le onorificenze relative.

«Art. 2. Il governo di S. M. il Re d'Italia assume l'impegno di non frapporre ostacolo in veruna occasione agli atti che il sommo pontefice esercita per diritto divino come capo della Chiesa, e per diritto canonico come patriarca d'Occidente e primate d'Italia.

«Art. 3. Lo stesso governo riconosce nel sommo pontefice il diritto d'inviare i suoi nunzi all'estero, e s'impegna à proteggerli, finché saranno sul territorio dello Stato:

«Art. 4. Il sommo pontefice avrà libera comunicazione con tutti i vescovi e i fedeli, e reciprocamente, senza ingerenza governativa.

«Potrà parimenti convocare, nei luoghi e nel modi che crederà opportuni, i concilii e i sinodi ecclesiastici.

«Art. 5. 1 vescovi nelle loro diocesi e i parrochi nelle loro parrocchie saranno indipendenti da ogni ingerenza governativa nell'esercizio del loro ministero.

«Art. 6. Essi però rimangono soggetti al diritto comune quando si tratti di reati puniti dalle leggi del Regno.

«Art. 7. S. M. rinuncia ad ogni patronato;sui benefiti ecclesiastici.

«Art. 8. Il Governo italiano rinuncia a qualunque ingerenza nella nomina dei vescovi.

«Art. 9. Il Governo medesimo si obbliga di fornire alla Santa Sede una dotazione fissa ed intangibile in quella somma che sarà concordata.

«Art. 10. Il Governo di S. M. il Re d'Italia, all'oggetto che tutte le Potenze e tutti i popoli cattolici possano concorrere al mantenimento della Santa Sede, aprirà con le potenze istesse i negoziati opportuni per determinare la quota, per la quale ciascheduna di esse concorre nella dotazione di cui è parola nell'articolo precedente.

«Art. 11. Le trattative avranno altresì per oggetto di ottenere le guarentigie di quanto è stabilito negli articoli antecedenti.

«Art. 12. Mediante queste condizioni, il Sommo Pontefice verrà col Governo di S. M. il Re d'Italia ad un accordo per mezzo di commissari che saranno a tale effetto delegati.

La mancanza assoluta di rapporti diplomatici colla S. Sede, rendeva necessario un intermediario riconosciuto; pel quale i due documenti potessero giungere nelle mani di coloro, cui erano diretti. Il rappresentante italiano in Parigi fu scelto all'uopo, affinché il governo francese, col mezzo del suo ministro in Roma, si compiacesse farli pervenire al loro destino.

Nel tempo medesimo avvaloravansi le dimande, mercé la mediazione francese, dalla quale imploravasi appoggio e patrocinio. Le istruzioni seguenti in proposito inviate al commendator Nigra compiono la serie de' principati documenti trasmessi dal ministro Ricasoli sotto la sua presidenza.

« Illustrissimo

« Signor Ministro,. Dalle ultime comunicazioni che ho avuto l'onore dii cambiare colla S. V. Illustrissima, ella avrà potuto rilevare come siano incessanti e ognora più gravi le preoccupazioni f nei Governo dei Re intorno alla questione Romana:

«Mentre il Governo non si dissimula le molte difficoltà che si oppongono ad una soluzione, quale i diritti e le necessità italiane la vogliono per la moltiplicità e la grandezza degl'interessi che sono implicati, non può d'altro canto dissimularsi i pericoli d'una troppo lunga dilazione, i quali per varie cause si vanno facendo di giorno in giorno più urgenti. Non vi è quasi difficoltà interna di cui l'opinione pubblica fra gl'Italiani non riferisca l'origine alla mancanza della capitale, Roma.

«Nessuno è persuaso che possa stabilirsi un assetto soddisfacente dell'amministrazione dello Stato, finché il centro dell'amministrazione non sia traslocato a Roma, punto_ egualmente distante dagli estremi della Penisola.

«La logica dell'unità nazionale, sentimento che oggi prevale fra gl'italiani, non comporta che l'unità sia spezzata dallo inframmettersi nel cuore del regno di uno Stato eterogeneo, e per di più ostile. Poiché bisogna pur dire che le impazienze legittime della nazione pel possesso della sua capitale sono attizzate dal contegno della curia romana nelle cose di Napoli.

«Non insisterò su questo punto, sul quale la S. V. ebbe le più ampie informazioni nel mio dispaccio circolare del 24 agosto decorso, ma richiamerò la sua attenzione sugli argomenti che ne emergono in favore di una pronta risoluzione degli affari di Roma.

Il Governo dei Re peraltro se da un lato sente questa urgenza, non ha dimenticato dall'altro gl'impegni presi con sé stesso e in faccia all'Europa colle sue. solenni dichiarazioni.

«E se anche queste non fossero, egli già sarebbe per proprio sentimento persuaso del dovere di procedere con ogni rispetto verso il pontefice, in cui venera il capo della cattolicità, e con ogni riguardo verso S. M. l'Imperatore dei Francesi nostro glorioso alleato, il quale colla presenza delle sue truppe intende guarentire che la sicurezza personale del papa e gl'interessi cattolici non soffrano alcun nocumento.

«Ritenuto pertanto negl'Italiani l'incontestabile diritto di aver Roma che appartiene alla nazione, e per conseguenza nel governo italiano l'imprescindibile dovere di condurre le cose a questo termine; dirimpetto all'attitudine della unanime pubblica opinione; per evitare gravi disturbi ed impeti inconsiderati, sempre deplorabili anco se prevenuti o repressi, il governo ha stimato di fare un ultimo appello alla rettitudine della mente e alla bontà del cuore del pontefice per venire a un accordo sulle basi della piena libertà della Chiesa da una parte, abbandonando il Governo italiano qualsivoglia immistione nelle materie religiose, e della rinuncia dall'altra del potere temporale.

«La S. V. troverà allegata in copia la lettera che, per ordine espresso di S. M., ho avuto l'onore d'indirizzare su questo proposito alla santità del Papa Pio IX.

«La S. V. si compiacerà comunicare questo documento al Governo di S. M. l'Imperatore dei Francesi, presso il quale ella è accreditato, pregandolo innanzi tutto che voglia commettere al rappresentante del governo imperiale a Roma di far pervenire alle mani di Sua Santità l'indirizzo qui acchiuso e il capitolato annesso.

«La mancanza di ogni rapporto diplomatico fra il Governo italiano e la Santa Sede non ci permette di far pervenire al Santo Padre in modo diretto questi due documenti.

«Nè la irritazione degli animi che disgraziatamente esiste a Roma verso di noi, permette nemmeno d'inviare colà a questo fine una missione straordinaria, con la quale la corte romana ricuserebbe probabilmente ogni specie di rapporto.

«La benevola mediazione della Francia è adunque indispensabile affinché i due documenti sopraccennati possano giungere fino alle mani di Sua Santità, e possa in tal guisa sperimentarsi anche questo modo d'intelligenza e d'accordo.

«I benefizi di una conciliazione sono tanto grandi ed evidenti per tutti, che io nutro fiducia che, iti contemplazione della possibilità dei medesimi, il Governo di S. M. l'Imperatore si compiacerà di aderire al desiderio del governo italiano.

«Ella vorrà inoltre ricordare che nella mia nota del 21 giugno al conte di Gropello io dichiarava, che lasciando all'alto senno dell'imperatore di stabilire il momento opportuno, in cui Roma senza pericolo potesse lasciarsi a sé stessa, noi ci saremmo fatti un dovere di facilitare la soluzione di quella quistione, colla speranza che il Governo Francese non ci avrebbe rifiutati i suoi buoni uffici, per indurre la Corte di Roma ad accettare un accordo che sarebbe fecondo di fauste conseguenze alla Religione e all'Italia.

«Ella è incaricata pertanto d'invocare i buoni uffici cui qui si accenna, non solo perché la nostra preghiera pervenga al Santo Padre, ma eziandio perché sia presso di lui efficacemente patrocinata. Nessuna voce può essere più autorevole a Roma, né con più condiscendenza ascoltata, di quella della Francia, che veglia colà da dodici anni colla sua possente e rispettata tutela.

«Mentre la S. V. avrà cura di esprimere al Governo di S. M. I. quanto sia piena la nostra fiducia nelle sue benevole. disposizioni e nella efficacia della sua intromissione in questo rilevantissimo affare, ella vorrà ancora far sentire che il Governo del Re, se quest'ultimo tentativo per disavventura venisse a fallire, si troverebbe avvolto in gravissime difficoltà, e che, malgrado tutto il suo buon volere per temperare le dolorose conseguenze che potessero emergere da un rifiuto della Curia Romana, sia nell'ordine religioso sia nell'ordine politico, non potrebbe impedire però che lo spirito pubblico degli italiani non venisse vivamente e profondamente a commuoversi.

«Gli effetti di una ripulsa si possono più facilmente prevedere che calcolare; ma è certo che il sentimento religioso negl'italiani ne riceverebbe una grandissima scossa, e che le impazienze della Nazione, che finora sono contenute dalla speranza di una risoluzione più o meno prossima, diverrebbero molto difficilmente frenabili.

«Innanzi di por fine al presente dispaccio, io credo non inutile prevenire un obbietto che forse potrebbe venirle fatto, riguardo alla forma seguita in questa grave occorrenza.

«Può sembrare a taluno non conforme agli usi, alle tradizioni e forse anche alla riverenza che l'indirizzo rivolto al Sommo pontefice sia firmato da me, anziché da S. M. il Re nostro.

«Questa deviazione dalle pratiche generalmente accettate riconosce due cause. Prima di tutto è da sapersi, e V. S. Ill. ma non lo ignora per certo, che in altre occasioni analoghe a quella in cui ci troviamo, S. M. si è personalmente indirizzata al Papa, e, o non ne ha ricevuto risposta, o ne ha ricevuto di tal genere da recare offesa alla dignità regia.

«Non era dunque possibile dopo tali precedenti esporre a nuovo pericolo di offesa il decoro del nostro Sovrano. È sembrato di più al governo del Re che in una occasione in cui rispettosamente si rivolge la parola al Sommo pontefice a nome della Nazione Italiana, l'interprete consueto delle deliberazioni del Potere esecutivo, che soprattutto, in assenza del Parlamento Italiano, si è quello che rappresenta la Nazione medesima, dovesse pure esser quello che si faceva interprete dei suoi voti e de' suoi sentimenti.

«Autorizzo la S. V. a dar lettura e rilasciar copia del presente e della lettera per S. S. a S. E. il ministro degli Affari esteri.

Questi documenti eminentemente politici spargono vivissima luce sulle più grandi quistioni italiane. Essi interessano in modo principalissimo alla storia, e sono destinati a delineare nettamente le fasi intricate della politica italiana cozzante con forze a se superiori e indipendenti da lei.

Il vessillo borbonico sollevato in più parti dell'antico regno delle Due Sicilie ornai troppo lungamente menava intorno all'Europa e fuori romore di se.

Ove i fatti non fossero stati posti nel suo vero aspetto, dichiarate le cause e le ragioni di tanta persistenza, l'opinione, in mezzo alla esagerazione de' partiti correva rischio d'essere alterata, o per lo meno di errare tra le ambagi di dubbi fatali all'Italia ed alle stesse popolazioni napoletane; imperciocché la prima era accusata di tener violentemente soggiogati popoli, i quali col resistere al suo dominio quanto pareva mostrassero attaccamento alla infranta dinastia; altrettanto interpretavansi avversi all'usurpazione e agli ordini novelli: riguardo alle popolazioni napoletane, cominciavano di già ad accusarsi di spirito contrario alla unità ed ai proclamati principi.

Il plebiscito in tal guisa residuava una sorpresa, un effetto della paura; l'edificio tutto della ricostituzione italica minacciava vacillare sotto l'incubo di trame colossali e di fatti prepotenti.

Il barone Ricasoli con senno e somma abilità seppe cogliere l'opportunità per esonerare il governo del re da tanto imbarazzo. Egli nel succedere al conte di Cavour erasi impigliato in troppo grandi promesse, e per declinare una responsabilità inattuabile, vide la necessità di segnalarne le alte cagioni eccedenti la volontà propria, e sovrimposte da influenze al tutto straniere.

La precisione, l'energia e la dimostrata verità delle sue parole toccate maestrevolmente, dettagliate senza esuberanza, libere insieme e moderate, franche senza contumelia, dignitose senza alterigia, inflessibili senza ostinazione, arrestarono d'alquanto la fogosa espettativa originata dal primitivo suo programma, e diffusero per ogni dove una fama chiarissima di lui, che il resero vieppiù autorevole e rispettato.

La precipua distinzione ch'avea d'uopo esser solidamente stabilita era tra il brigantaggio politico e il banditismo, quasi direi, tradizionale di Gaetano il Mammone.

Fatti incontestabili dimostrarono con pienezza di evidenza, cui fe' plauso, può dirsi, unanimemente la stampa europea, che il brigantaggio politico non alimentavasi altrimenti in Napoli o in Palermo; ma avea piantato le sue tende in Roma, e che i briganti, i quali a sciami contristavano l'antico regno, erano veramente un mezzo preordinato dai congiurati di Roma, un mezzo vile e mercenario, con cui teneansi assoldati i perenni assassini delle campagne.

Tolto in costoro il fondamento di un convincimento di buona fede nella loro azione, rimaneva un artifizio, una combinazione vergognosa e crudele, la quale in luogo di favorire i suoi autori, vituperava la causa, cancellando in pari tempo il compianto solenne della sventura.

Roma che dal seggio di S. Pietro tendeva le braccia a tante ignominie col mezzo della sua corrottissima corte, presieduta da sacerdoti furiosi e sanguinari, spaziava superbamente per l'abisso lotolento, da cui non sapeva né voleva rilevarsi.

L'incorregibilità de' ministri romani creava una posizione ognor più difficile al loro governo, alla Chiesa, alla religione ed alle stesse pretensioni temporali del primo gerarca.

Una politica (se pure tal nome può meritare il reggimento degli stati papali) sistematicamente antiitaliana; abborrente da qualsivoglia progetto di conciliazione; anelante a stolte e ridicole guerre, che un lampo di polvere risolve; la vivente contraddizione del capo supremo di questa politica offrivano campo ubertosissimo al presidente del consiglio italiano per corroborare i suoi argomenti e coronare le sue conclusioni.

Quanto alla Francia proteggitrice in Roma di una gotica diametralmente repugnante alla propria, e tendente a distruggere un opera fatta da lei, benché nella circolare diplomatica dovesse tenersi una prudente riserva; tuttavia traluceva per entro non dubbiamente che la bandiera francese era il solo ostacolo per far rispettare la volontà nazionale, e che pel vessillo di Francia veniva protetto é preparato l'assassinio e le miserande stragi del brigantaggio.

La tolleranza in in Roma de' capi della reazione napolitana, i quali ad ogni istante rompevano impunemente la neutralità che il governo papale erasi imposta, e che sola poteva far qualche diritto a reclamare la reciprocità di quella italiana, veniva indirettamente accusata.

Il mistero insomma della occupazione con molta abilità era quivi disegnato in iscorcio, senza dar campo a recriminazioni di lesa alleanza ([30]).


Gl'interessi religiosi erano stupendamente compendiati nel proclamare che il compito del governo italiano era di rendere l'Italia a se stessa e di restituire nel medesimo tempo alla Chiesa la sua libertà e la sua dignità; anzi come punto sostanziale nella grande disputa, più tardi l'egregio ministro stimò bene trattarla in modo il più diretto possibile collo stesso capo della Chiesa cattolica, cui indirizzò la memoria già sopra riferita, che forma un altro documento storico uscito con magnifico elogio dalla cancelleria italiana.

A complemento di questi importantissimi atti facemmo seguire la lettera spedita contemporaneamente al cardinale Antonelli, e le istruzioni in proposito all'ambasciadore italiano in Parigi cavalier Nigra.

Codeste riproduzioni noi abbiam fatte senza tema d'indiscrezione, persuasi ch'esse formino essenzialmente la base del criterio filosofico relativo alle ardue quistioni, che dominano nel corso della presente opera.

L'esposizione di questi fatti posti in evidenza dalla coce autorevole del barone Ricasoli, il quale non si peritava di appellarsene al sentimento morale di tutta Europa, era divenuta indispensabile dopo l'illimitata fiducia ch'egli avea riposto nello stato degli avvenimenti; fiducia che avea ispirato il suo programma, e che a mezzo corso sperimentando ostacoli inattesi, stimolava il ministro a render conto alla nazione sulla inefficacia delle sue promesse.

Una voce che circolava cupamente da tempo in Italia sulla cessione ovvero vendita della Sardegna, a favore della Francia, in correspettivo della sua protezione o di ulteriori mediazioni per la integrazione dell'Italia del centro e forse anso della Venezia; voce accreditata da un discorso tenuto a Sheffield dall'inglese Roebuk; pareva dileguata.

Denegazioni e rettifiche afrettaronsi a dichiarare erronea tale asserzione. Fosse vera o no tale notizia; fosse o no uno de' soliti ballon d'essai alla napoleonica, il rumore suscitatosene in Italia distolse pur la probabilità del progetto.

Ormai tentativi che vulnerassero menomamente il principio rigoroso di nazionalità, o che tendessero ad aveller qualsivoglia parte del territorio, su cui trovava la sua materiale applicazione, sarebber riesciti non solo inutili ai proponenti;, ma avrebber segnalato una sordida avidità in onta alla proclamazione de' principi disinteressati e umanitari del diritto publico.

L'Italia che prodigiosamente era uscita immune dalla tempesta scatenata per la cessione di Nizza e Savoia, stavasi in orecchio per rintuzzar anche il fumo del sospetto.

L'idea di correspettività nell'azione francese veniva adunque distrutta dalla disposizione degl'italiani e devesi aggiungere dalla fermezza del barone Ricasoli; le quistioni agitate in Italia rimaneano dunque in balìa del vero diritto e della giustizia.

Or quale assegnamento poteva farsi sulla virtù degli uomini divisi da mille fazioni, e in preda alle più furiose passioni di partito? La sottile flessibilità, e la espugnatrice perseveranza del conte di Cavour veniva oggi surrogata dalla franchezza e dal coraggio di Ricasoli, il quale tentava per tutta Italia la stessa fortuna, di cui avea fatta buona prova in Toscana come governatore: anzi, siccome il compianto ministro negli ultimi tempi di sua vita subiva uno stadio d'isolamento e di malcontento per parte di Francia, e in conseguenza sentiva più da presso le minacce austriache, forte solamente di una labile simpatia per parte dell'Inghilterra, il Ricasoli credè venuto il momento di scuotere codesto generale torpore, e forse reputò cop un tratto straordinario d'energia esser salutato degno successore del grand'uomo.

Per grave sventura altresì urtò in quegli scogli che non già l'insufficienza, ma per la cognizione profonda della causa trattata, Cavour avea accuratamente evitato.

I rapporti tra il governo italiano e francese rincrudirono a un tratto; per gli organi ufficiosi traspirava l'irritazione prodotta da tal discorso che per uno stato nascente e non ancora formato si giudicò esigente e presuntuoso: esso troncava troppo recisamente gli ostacoli, perché potesse in pace tollerarsi che una nazione sorta provvidenzialmente più che per determinata volontà di chi la soccorse, si consolidasse troppo presto, senza speranza di farla retrocedere, impigliata nelle interne difficoltà della sua posizione.

Anzi mentre il ministro italiano con tanto fervore e nella espettativa di ampio successo,. adoperavasi tutt'uomo per conseguire il desiderato intento di uniformare e perfezionare le membra disgiunte della nazione italiana, il livore de' gabinetti veniva stemprandosi più acre contro di lui.

Per esempio esso avrebbe desiderato Roma sgombrata da' francesi e resa come sua capitale all'Italia; invece la stampa governativa fece abbastanza intendere che la truppa francese avrebbe indefinitivamente prolungata la sua occupazione.

La disputa sul dominio temporale era riguardata sotto i vieti e rancidi argomenti della necessità di salvare l'indipendenza spirituale del capo della chiesa cattolica.

Nessuna guarentigia facevasi sperare per la cessazione del brigantaggio sia nella cooperazione militare colle truppe italiane; sia coll'allontanamento di Francesco II che stante la sua presenza istigatrice, o meglio per la virtù del suo oro corruttore, niuno ignorava esser lo spirito vero delle agitazioni napolitane.

Strano a dire! Rimestaronsi persino ad arte i cascanti affetti di pietà per l'augusta sventura dell'espulso re, tanto poco pensavasi a rimuoverlo, e a far cessare gli orrori dell'assassinio signoreggiante mercé l'aperta correità del governo pontificio e l'indolenza per lo meno delle autorità francesi.

La stampa liberale per contra?io usa a discutere con sincerità e disinteresse elevava alle stelle le parole del ministro italiano, appoggiandoli vivamente.

Un giornale francese amò d'esempio (l'opinion nazionale) della circolare soprascritta diceva che la nota Ricasoli netta, concisa, energica, è un vero capolavoro, e riunisce all'importanza di un documento diplomatico di una grande rilevanza tutto l'interesse di un quadro storico tracciato da mano maestra.

Non escono che rarissimamente dalle cancellerie documenti tali da colpire tanto vivamente l'attenzione del publico e da produrre una convinzione cosi completa.

Nel conflitto di queste nuove disposizioni eccitate dall'indirizzo del Ricasoli ogni supposizione diveniva probabile, la diffidenza come la speranza, il sospetto come la fiducia erano ugualmente autorizzate; la politica napoleonica senza determinato programma, come sempre occupatrice di eventi, ravvolta nel mistero, di cui velavasi all'occhio delle indiscrete moltitudini, era più che mai in aguato.

Malgrado il sapiente, ed attuoso operato del barone Ricasoli, le difficoltà italiche raddoppiarono dentro e fuori. Fuori per tutto ciò, di che abbiam discorso fin qui; dentro, perché quantunque la sosta fosse stata. abilmente preoccupata, nullameno in onta ai fatti ed ai sacrifici presentanei aggravantisi sulle masse, la persuasione diveniva restia, e già l'opinione volgevasi ad accusare il ministro d'impreveggenza e d'aver molto osato di promettere senza poter pdi attendere.

Lo statu quo prolungavasi indefinitivamente su tutti i punti, e creava imbarazzi novelli, non eran però così potenti i motivi che sorreggeanlo da scoraggire i patriotti e gli amici d'Italia.

Anzi per opposto, sebbene la vita artificiale del poter temporale sostenuta dalle baionette francesi in Roma, e le turbolenze delle provincie napoletane apportassero danni e pericoli notabilissimi, tuttavolta il tempo evidentemente trascorrea a scapito di tutti meno che dell'Italia.

La Francia propugnatrice animosa in vista della indipendenza italiana, di cui fu partecipe effettiva; cooperatrice validissima de' suoi nuovi destini, di cui non poteva ignorare il confine; esattrice eziandio di correspettivo per l'azione materiale spiegata, ogni giorno che tramontava comprometteva viemeglio l'opera propria paralizzandone la virtù; compromettendo la propria convenienza coll'assistere impassibilmente ai disordini cagionati dalla importuna presenza delle sue armi.

Il papa per amor di tenersi avvinto al poter temporale, provava sempre più la sua caducità, e la miserabile influenza che questo esercita a danno della podestà spirituale inceppata e ottenebrata dallo spirito mondano che la investe.

L'allocuzione pontificia impetuosa, irritante, tronfia, scevra pur anco dell'accento di una nobile passione sinceramente sentita; senza misericordia e carità contro cittadini della stessa patria, e confessori della stessa religione; senza nemmeno l'assegnamento imposto al linguaggio officiale, non sono forse argomenti questi che tornano a disdoro e a perdizione della causa difesa, quanto a vantaggio di noi avversari?

Il pretendente di Napoli parimenti nell'ostinarsi in molestare il governo italiano col brigantaggio, e prolungare mezzi iniquissimi per indi ottener nulla, dava agio a sindacare successivamente il suo operato; a noverare un per uno tanti delitti; a pesare sull'infuocata bilancia della vendetta ogni stilla di sangue spremuta dal pugnale de' sicari borbonici.

Cotal semenza di esorbitanze e di misfatti non potea germinare che frutti amari e fecondi sol di sventura e di maledizioni; laddove per gl'italiani, messe in disparte le passeggere difficoltà di transizione, dovea ridondarne plauso al governo protettore de' cittadini e delle proprietà contro gl'invasori, e dovea agglomerarsi intorno ad esso la speranza viva per la consolidazione della publica sicurezza fine al conseguimento di una perfetta indipendenza e libertà.

Fortunatamente in seno al conteso avanzamento della causa italica, il maggior bene, come sempre avvenne fin d'origine, derivavaci dagli stessi nemici nostri, i quali nella mania d'avversarla, urtavano nella legge inesorabile del progresso scientifico e pratico, e ne' reclami irresistibili della coscienza universale, che lasciata a se stessa e protetta, formava la suprema regola di esistenza malgrado i patimenti, gli errori degl'individui, e la pugnace contraddizione delle ambizioni personali.

Se questa norma inalterabile di giustizia non avesse influito essenzialmente su i destini della nostra patria, oh mille volte tra il livore degli stranieri e le discordie intestine saremmo ripiombati nel baratro della schiavitù!

Ricasoli nel succedere al celebre conte di Cavour, difettoso di abilità e destrezza pratica necessaria a combattere cotanti avversarii politici, e che nutlameno facilissima riesciva al suo antecessore, non curò tanto prevenire quest'ostacolo, ma volle piuttosto sollevarsi all'altezza, quasi direi, astratta del concetto, disdegnando nella sua fiera personalità di preoccuparsi di ambagi tortuose, quali forse non osava supporre nel patriottismo e nella virtù degli uomini, con cui avrebbe avuto a fare «All'Italia (egli diceva) è toccato l'in carico di porre le basi non solo del suo avvenire, ma di tutto quanto il genere umano.»

Pieno di questa idea sublime egli fe' veramente il grande esperimento con sommo ardire; ma, nella evoluzione concreta dei suoi principi, ebbe malauguratamente ad incontrare tali immensi imbarazzi da potersi dir di lui «Che non mancò viri tutte al gran pensiero».

Allorché l'onorevole presidente del consiglio ascese al ministero, la parte più scabrosa e difficile, quella cioè del portafoglio degl'interni, non seppe sull'istante cui affidarla, non già per mancanza di uomini politici, ma perché era sommamente arduo rintracciare una coincidenza coll'elevato ed azzardoso programma novello.

La difficoltà coll'avanzare del tempo in. luogo di scemare, aumentava, e per quanti tentativi il ministro si facesse, tutto riesci inutile sì che fu esso costretto a riunire alla presidenza anche la carica di quel ministero, e in questa guisa manco e imperfetto dové presentarsi al parlamento.

Per foggiarsi una idea della più diretta opposizione che subiva il programma Ricasoli, rammentiamo le objezioni di un sol uomo fra tanti, cui fu offerto l'incarico.

Era questi il reputatissimo conte Ponza di S. Martino, che già vedemmo luogotenente del re in Napoli.

Egli e i suoi amici politici opinavano, che nello stato attuale delle cose, l'Italia fosse ben lungi dal poter far fronte ai propri nemici; ne deduceva quindi che stoltezza fosse volger l'animo alla guerra; che si dovesse disarmare più che armare, e provvedere così piuttosto a riorganizzare le finanze in pericolo di bancarotta; lo spirito ibrido tra la rivoluzione e la stabilità doversi sopprimere per far luogo ad un lavoro completo e senza inciampo nel sentiero della interna amministrazione; le masse e il paese dovessero disilludersi da speranze esagerate e irrealizzabili, mercé un indirizzo di paziente aspettativa; impossibilitati insomma ad imprese attuali, preparare mezzi per essere in grado d'intraprenderne in avvenire.

Questo sistema che supponeva la virtù assoluta nel governo di poter a libito rallentare e tendere le redini alla opinione, e comprimere a propria voglia lo spirito che avendo addotto la nazione fino al punto in che era, oggi potesse volgersi a tal freddezza di raziocinio il quale valesse arrestare ad un tratto la marcia rivoluzionaria; questo sistema che finalmente tendeva ad un cambiamento formale del programma nazionale, presentava al certo maggiori ostacoli da vincere che quelli non fossero, cui miravasi a togliere.

Non dissimili per altre eccentricità comportavansi i diversi partiti, i quali traendo ciascuno dalle circostanze il proprio vantaggio, contribuivano necessariamente a indebolire l'autorità governativa, e tutto ciò non ostante il voto di 0 dacia che i ministeri sogliono provocare per assicurarsi d'essere appoggiati dalla maggioranza nell'assemblea.

Il voto ottenuto dal ministro fu questa volta, come tante altre, suggerito da convenienza e da rispetto per la somma stima ch'ei riscuoteva, e perché non sapeva ravvisarsi in lui se non una vittima insigne d'aver nobilmente tentato di precidere le lotte italiane; ma che in effetto veniva attenuato nel suo vero significato.

Di fatti il dì appresso a tal voto gli uni gridavano che fosse stato suggerito dalla paura o in odio della opposizione più che in ossequio del governo; altri vi ravvisava meschinità nel numero e debolezza nelle Convinzioni di coloro stessi che aveanlo prestato; altri interpretavanlo come una transazione per evitar soluzioni peggiori; tra quelli medesimi che erano stati partecipi della votazione diffondeansi voci incerte e peritose presagitrici di avverse conseguenze.

L'equivoco, l'incertezza, la diffidenza prevalevano in sul finir di quest'anno 1861.

Ambizioni spostate, puntigli, posizioni indeterminate di destra, sinistra, centro, terzo partito, opposizione, e via discorrendo. La crisi politica infuriava in un colle passioni di partito: una prova di più si aggravava sulla misera Italia; questa volta il suo patire non trovava sollievo neppure da' suoi più cari... Per mala giunta una così detta Associazione unitaria erasi raccolta in Genova dove dilaniandosi tra loro i componenti i comitati detti di Garibaldi e gli antesignani di Mazzini arrogavansi a vicenda una specie di autorità sovrana.

Un potere centrale e un semenzaio di comitati subalterni si corrispondeano fra loro, la opposizione radicale s'era quivi tutta fusa sdegnando perfino gli elementi di moderatismo men puro; tutti costoro pretendevano sovrimporsi al governo, rampognandogli il difetto di patriottismo e di energia; senz'addarsi che per tal scissione, dividendosi le forze, veniva ad operarsi un dualismo fatale abilissimo a procacciare la ruina del recente edilizio.

Le condizioni politiche, sotto il cui influsso chiudevasi quest'anno erano assai più ubertose dell'anno precedente, ma non men difficili e pregnanti per l'avvenire.

L'Italia di fronte alla famiglia europea non avea ancora né personalità, né nome, perché non riconosciuta diplomaticamente. Sul territorio napolitano Gaeta, Messina, e Civitella del Tronto occupavansi dalle armi di Francesco II; la flotta francese cuoprendo di sua protezione la resistenza di Gaeta insinuava seri timori che la Francia volesse estenderla fino alle dispute di legittimità pel trono borbonico.

Dileguatasi la protezione francese, cadde Gaeta, Roma n'accolse i profughi vinti, ospitò la famiglia regia, che non'tardò ad ottenere possente alleanza di scopo e di mezzi, come indivisa era la causa perduta a Gaeta, e minacciata a Roma.

Restaurato il brigantaggio ottenne facilmente dal capo de' credenti benedizioni ed auguri; la bianca stola del primo sacerdote fu macchiata di sangue.

La morte di Cammillo Cavour troncò il faro più luminoso della patria neonata. Questa celebrità negli affari di stato. cadde quando appunto era più stringente il bisogno; smarrita con lui l'unità del concetto trovaronsene degli imitatori, e tuttoché autorevoli e saggi, dee confessarsi, fecero a più riprese rimpiangere la mente che l'iniziò e tutto quanto il comprendeva.

Oggi i riconoscimenti ufficiali di alcune tra le più potenti nazioni di Europa illustravano la grand'opera unitaria; l'Italia con più solidità intese all'interno suo ordinamento, dava opera in accrescer l'esercito, restaurare la finanza, e quel ch'è più fondeva abilmente le differenti tartaree tempre di tante passate corruzioni, quanti erano stati i diversi proconsolati austriaci nella penisola e senza perder di vista le due regine della terra e del mare, diessi mano dal primo parlamento italico all'immenso lavoro della ricostituzione nazionale.

Lentamente al certo processe il nostro riorganamento civile; ma quando rielettasi che altre nazioni oggi fiorentissime v'impiegarono secoli, prive, del soccorso delle recenti scoperte, il tempo si raccorcia mirabilmente tanto pel sussidio prepotente di quelle, quanto di fronte all'enormi difficoltà nell'eliminare il tristo dal buono.

La principalissima causa di un ritardo sì pregiudicevole lo si fu appunto l'iniqua guerra mossa da Francesco II, la quale nel rinfocolare l'ardente corruzione di tanti anni precedenti, intralciò la speditezza del compito nazionale.

Nell'anno 1862 per somma disavventura non era per anco cessato il flagello, né possiamo promettere ai nostri lettori di non funestare il loro animo mediante la narrazione di altre nefandità e di mille ingiustizie che pure in quest'epoca intrecciarono nuovi serti di spine sulla martirizzata Italia, ribaditi dall'idolatrato campione della legittimità, l'ex-re delle Due Sicilia, e dal Vicario di Cristo, ognor protetti entrambi visibilmente dalle gloriose armi di Francia.

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XXX

La corte romana segnava in quest'anno oziando lo stadio di progresso o regresso delle più vitali lotte della nazione. Il papa n'era l'interprete: l'eterna teoria della 'immobilità veniva confermata con parole, giusta il solito, acri e disdicevoli. Suol egli, tra il confine dell'anno morente e il principiar del nuovo, tener parole di felicitazione o di rammarico, secondo i casi, in occasione della presentazione del S. Collegio, e de' corpi ufficiali. D'indi traggonsi gli auspici e il punto di partenza per dedurne la norma approssimativa almanco della condotta entro l'anno.

Incaponita maisempre la corte romana a non accettare la distinzione tra le due potestà spirituale e temporale, deplorava per bocca del suo capo promiscuamente l'attentato contro gli stati papali, e come se la religione cattolica fosse stata minacciata da chi proclamava di voler restituire alla Chiesa la sua libertà e dignità, anatemizzava furiosamente gli autori e i proseliti del movimento italiano presso a poco ne' termini guarentiti da una esatta corrispondenza romana

«Il Dio umanato avea già prevedute tutte le future persecuzioni della sua Sposa, le persecuzioni de' tiranni, le persecuzioni della Chiesa, e quindi ancora le persecuzioni checolla più raffinata ipocrisia gli empi muovono contro il papato. Costoro s'argomentano di meglio riescire nel lor disegno, preferendo di combattere il papato non più colle carceri e le mannaje, e neanche cogli esilii; ma obligandolo a morire d'inedia e di angoscia nella sua sede medesima.

«Ma c'ingannano altamente, se credono di poter giungere, anche con questo nuovo modo, a distruggere il papato; conciossiaché il papato sia d'istituzione celeste ed opera divina, contro la quale tutto le forze del mondo e dell'inferno non prevarranno. Apparecchiatevi a sostenere il papato con tutte le vostre forze, come il vostro capo è fermo e risoluto a tollerare ogni pena con coraggio prima di cedere.»

Questo discorso era una risposta ad alcune parole che il cardinal Mattei a nome del sacro collegio avea dirette al pontefice, il quale, rafforzando la feconda sua vena, con tuono eminentemente profetico arringò l'ufficialità presentatagli dal Merode.

«Voi sapete (egli disse) quello che accadde al re David, al re profeta, di cui cantiamo giornalmente i salmis Quel santo re fu spogliato del suo regno e scacciato dalla sua capitale in seguito di una iniqua ribellione, e fu uno de' suoi figli che spinto da scellerati consiglieri si pose alla testa della rivoluzione.

«Che fece allora Davidde? Egli sopportò con calma la sul sventura, deplorò una sì grande iniquità, e quando dalla sua fedele armata fu costretto a combatter l'armata dei ribelli, egli raccomandò colle lacrime agli occhi di risparmiare suo figlio. ( [31])

«Ma Dio volle punire il grande delitto; voi sapete la fine miserabile di quel figlio ribelle. Così Dio vendicherà nella sua giustizia le persecuzioni e gli oltraggi che patisce la Chiesa. I nemici della Chiesa saranno puniti; ma la Chiesa non può perire.

«Simone è morto, ma Pietro vive, e vivrà sino' alla fine de' secoli ne' pontetlei romani.

«Verrà il tempo, in cui dovrete precedere o seguire il papa, e se non sono io che vi conduco alla vittoria, saranno i miei successori, perché la Chiesa trionferà sempre. Gesù Cristo le disse; il cielo e la terra passeranno, ma le parole di Gesù Cristo non passeranno mai. Con questa certezza io vi do di tutto cuore l'apostolica benedizione; atlinché siate sempre più fedeli alla causa della Chiesa che è quella della giustizia.

Tali enfatiche espressioni bellicose, nelle sue mistiche allusioni; sorpresero, ignorando gli astanti se fossero una deduzione. ispirata dalla sua fede; ovvero se si riferissero a concerti già presi e determinati.

Le allocuzioni troppo facili, frequenti, e a cui bisognava sottrarre pur quell'aria di mistero, che sparge nel vólgo e ne' profeti di buono o sinistro augurio una serie infinita di versioni, ormai non teneansi più in verun conto, e reputavansi pronunciate per dire alcun che nelle ricorrenze indispensabili in riscontro alle proposte de' complimetari del Vaticano. Già conoscevasi per antica fama l'ostinazione de' preti che la carica di primo tra essi impone. all'uovo che l'occupa, e che indipendentemente da Gregorio XVI o da Pio IX o chi vogliasi, è la massima tastale, la. qual predomina nell'insieme del corpo, senza poter contar determinatamente sulle disposizioni più o men buone o ree di qualche distinta personalità.

Posto un tal criterio era inutile vellicare la suscettibili la ambiziosa e vana della persona di Pio IX, come talvolta soleva: pare il conte di Cavour, ed oggi Ricasoli il ricantava, mostrando sperare: nella iniziativa liberale di questo papa; iniziativa che appunto perle cose testé dette gli valsero il ludibrio della contraddizione e dello scorno, se pur persistendo, non avess'egli voluto dar di cozzo nelle ire gesuitiche e compendiar la propria azione co' suoi giorni pontificali.

Meglio adoperarono que' ministri che, senza guardar in viso persona, trattavano la causa per se stessa, esplicando le teorie e i principi senza rapporto a quello o quell'altro che li manometteva.

— Abbiam già veduto che i reclami del barone Ricasoli riescirono sgraditi al governo francese e frustranei in Roma: nullameno quel gabinetto non voleva parer troppo tenace dinanzi a rimostranze che se offendevano fini più occulti e remoti, non potevan non riscuotere plauso per la forza degli argomenti e per la evidenza delle addotte ragioni. Si restrinse avaramente, anche a costò di un rifiuto certissimo, a tentar la dimanda di allontanamento aperto di Francesco II da Roma, con che invero rendeva una qualche giustizia alla sposizione del ministro italiano, ma era facilmente a prevedersi che aiun profitto sarebbegli ridondato.

L'ambasciatore di Francia in Roma Lavalette s'ebbe questo incarico: espose al governo pontificio che la presenza dell'ex-re in Roma somministrava per lo meno ragionevole sospetto che le atrocità delle Due Sicilie venissero istigate dalla corte di lui sotto pretesto di esercitare un diritto proprio nell'usurpato regno; il vessillo francese coprendo di sua protezione il governo papale, sembrava (almeno Indirettamente) favorire gli atti nefandi del brigantaggio, contro cui tutta Europa e l'umanità indignata sollevavan la voce; che la facile ospitalità quale avrebbe potuto l'ex-re trovare altrove, poteva esonerare la Francia dall'accusa di complicità in abominevoli maneggi, e lavar la taccia di sanguinario e crudele apposta a Francesco lI che ogni dì più perdeva titoli alla pietà della sua sventura, ribadiva il marchio della tirannide che i suoi nemici volevangli impresso, sulla fronte, e rendendosi ai suoi pretesi popoli esossissimo di una luce tetra e spaventevole spargeva qualsivogliano speranze dell'avvenire; che il contagio di tali conseguenze apprendevasi soprattutto allo stesso governo pontificio, sotto i cui occhi i briganti menavano allegramente le loro tresche: concludeva quindi esser desiderio dell'augusto suo signore l'imperator Napoleone III che Francesco di Borbone venisse persuaso ad allontanarsi da Roma.

L'Antonelli, com'era regolare, fu l'intermediario di tal domanda fra l'ambasciatore francese e il papa: ma chi poteva attendere da questo o da quello un sentimento mite e pacifico, un consiglio che mostrasse una qualche remissione nel fatal sentiero pel quale la corte pontificia colla borbonica precipitavano scompigliatamente?

Il cardinale perentoriamente rifiutò la dimanda di Francia, e ciò che nella cieca tronfezza di tal ricusa irritava maggiormente, si era la stoltissima serie di ragioni ch'esso invocava per giustificarla.

Il Sonninese, se lui tolga tu l'astuzia e l'abilità a mal fare, non seppe mai alcuna cosa, e se seco lui impegnassi disputa eziandìo remota di nozioni scientifiche di storiche apprezzazioni, il vedresti disciolto come la neve.

Cominciò egli a magnificare che la Santa Sede imparziale e amorosa verso tutti ugualmente, avea sommamente a caro il porgere ospitalità-

Che il capo della cattolica chiesa, alieno sempre dalle lotte civili e politiche non poteva respingere veruno che a lui ricorresse; e a più forte ragione un principe qualunque espulso dal suo trono, il quale alle comuni ragioni aggiungeva quelle della umanità e della compassione.

Che tali principi erano stati costantemente adottati a favore della famiglia Bopaparte, e malgrado che fosse posta al bando d'Europa, il governo pontificio gli offerse sicura dimora. Tutto ciò risultare da atti incontestabili esistenti nella cancelleria della legazione francese.

Cotali impronte menzogne pronunciate imperturbabilmente dal segretario di stato di S. Santità, arrestarono un istante l'ambasciatore francese, il quale se non ebbe a maravigliare del rifiuto che ben poteva attendersi, reputò sul momento stringente il confronto della ospitalità accordata ai Bonaparte, sebbene le medesime ragioni non vi concorressero.

Mentre andavansi. verificando le asserzioni del ministro pontificio, vide la luce una lettera del ch. , avvocato Achille Gennarelli diretta a S. E. il sig. marchese Lavalette, nella quale venivano inserite prove irrecusabili di tutto precisamente il contrario esposto dall'inverecondo porporato; anzi risultava da quelle che sotto la larva di ospitalità, il papa avea assunto l'incarico a conto dell'Europa alleata di guardar a vista l'uno o l'altro membro della famiglia imperiale, cangiando il suo stato in una vera prigione. Quanto poi all'attuale imperatore de' Francesi la cosa è vieppiù curiosa; dacché sia governo pontificio, in luogo di ospitalità gli spiccò un ordine d'arresto rigorosissimo.

Questi documenti valgono a smentire formalmente le ragioni addotte dall'Antonelli per esimersi dal pur consigliare la partenza dell'ex-re; in pari tempo mostrano come la corte pontificia si rida beffardamente delle minaccie napoleoniche, sieno queste esposte sotto il velo della persuasione, della preghiera o del comando. Napoleone, piaggiando i preti; fè palese non già il sue 'rispetto per loro, ma il suo timore, il bisogno prestigioso di essi; fra ambedue esiste un correspettivo tacito e sottinteso, sì che la potenza materiale del dominatore di Francia si collide col mutuato lenocinio religioso e politico del protoprete romano.

Non vogliamo lasciare andar sterilmente senza prova tutte codeste asserzioni come però non interessano al tutto direttamente, riassumiamo in calce alcuni periodi riferentisi ai sopradetti documenti ( [32]).


Non ostante la futilità delle assertive Antonelliane, l'ex-re proseguì pacificamente a rimanere in Roma, ed a elaborare il suo piano reazionario; anzi sminuita già la prima impressione delle rimostranze del gabinetto italiano, 'attesa specialmente l'attitudine contraria di Francia, gli affari del brigantaggio ripigliarono nuovo vigore, mentre da suo canto il governo pontificio addoppiava sforzi pernon mostrarsi da meno del suo zelante alleato.

Presago certo di una fine più o men lontana, quanto ponea cura. nel provvedere al presente e possibilmente al futuro, altrettanto non era guari scrupoloso nel creare imbarazzi al governo italiano, nella ipotesi che la soluzione della disputa fosse rieccita a suo favore.

Il debito pontificio già enorme in tempi, anco normali, oggi era montato a cifra esorbitante. Malgrado ciò, instando sempre nuove straordinarietà, coppe imagini guerresche, colpi di mano, spionaggio, briganti, infine la necessità di progredire tra le angustie di uno stato microscopico, emissioni sempre nuove di consolidato aggravavano il passivo incredibilmente.

Il comitato nazionale interpretando le disposizioni ragionevoli del governo italiano volle porre un argine alla mole immensa di debiti che sarebbe ricaduta sulla finanza nazionale, e avvedutamente per distorse l'acquisto emise la seguente diffidazione.

Il comitato sottoscritto è in dovere di richiamar l'attenzione del publico sull'incessante aumentarsi del debito pontificio per mezzo delle sempre nuove emissioni di vendita consolidata; dichiarando che in seguito di autorevoli informazioni avute, ha fondata ragione di credere che le emissioni fatte posteriormente al 27 marzo 1861 non saranno riconosciute dal governo italiano.

«Dal momento infatti che il parlamento sovrano interprete della volontà nazionale dichiarava innanzi all'Europa, Roma esser la capitale dell'Italia unita, il poter temporale dei papi cessava di esistere giuridicamente, ed il governo ponticio destituito di ogni legittima autorità, diveniva ingiusto occupatore di stati non suoi.

«Non potrebbe pertanto il governo italiano riconoscere quei debiti senza contradire mapifestamente a se mdesimo, senza violare il principio vitale e costitutivo della sua esistenza, la volontà nazionale. D' altronde sarebbe un atroce insulto alla nazione il chiederle il pagamento dei debiti della corte pontificia contratti ad eccitare e mantenere il brigantaggio nelle provincie meridionali, ad impedire le leve pelle Marche, nell'Umbria e nelle Romagne, a creare imbarazzi al governo del re all'interno ed all'estero, a ritardare in somma per quanto è da lei, la completa unificazione e costituzione dell'Italia.

«Il comitato sottoscritto si è creduto in obligo di fare tal dichiarazione nell'interesse di coloro che allettati dal prezzo ognor decrescente della rendita consolidata pontificia, potrebbero per avventura illudersi quanto all'avvenire.

«Roma ec:

«Il Comitato nazionale Romano»

Le incessanti emissioni di rendita consolidata benché fluissero a milioni di scudi romani non erano giammai sufficienti a satollare,la voragine delle fauci aperte per ingojare. L'obolo di S. Pietro indecorosamente encomiato dal santo. padre nelle sue allocuzioni ribadite con estremo fervore dai vescovi, nunzi, delegati ed altre autorità ecclesistiche all'estero, faceva novelle prove, e riportava di tanto in tanto qualche frutto agl'l'importuni pitocchi del primo seggio romano. Cattolici di buona fede forse versavano codest'obolo pei bisogni decantati della chiese, ma invece, interpretandosi il brigantaggio come una necessità almeno indiretta per ridonar vita ad un campione della chiesa medesima, non sì tosto giungeva l'una somma o l'altra che destinavasi ad. impinguare la cassa di Chiavone o di qualche altro scellerato.

De Merode era consuetamente l'amministratore di questo sacro tesoro: può di leggieri imaginarsi quale ne fosse l'uso e l'impiego. Oggi più che in altro tempo abbisognavan danari per guadagnarsi gli animi invero abbattuti dei briganteggianti; imperocché l'esempio terribile di Borjès, e le e le continue sconfitte toccate dalle bande, rendevan men baldi gli affezionati seguaci di Francesco. Però come se lo spirito infernale vegliasse' incessantemente sulle sue vittime, gl'instancabili autori delle stragi napolitane dallo stesso avvilimento toglievano nuova esca a ridestarle.

Ai fatti s'aggiungevano le istigazioni e scimiottando l'andazzo dei comitati segreti, la patte sanfedistica anch'essaspidrgeva i suoi eccitamenti con proclami 'divulgati del publico, mentendo a ]or posta i sentimenti di devozione dei' romani verso la santa sede, non che la sudditanza: riverente al papa non come comune padre de' fedeli, ma come sovrano temporale.

La ricorrenza della cattedra di S. Pietro solita a celebrarsi il di 18 Gennajo che occasione a costoro di promuove dimostrazioni e retribuzioni a cui si prestasse; il governo poi non intralasciava far intendere la sua segreta minaccia, ove l'uno o l'altro do' cittadini soggetto più o men direttamente all'azione del governo ricusasse associarsi all'opera prestabilita.

Conosciamo già lo stile de' nostri romani; è bene s'abbia notizia di quello de' romani d'altra schiatta, se pur tali e non stranieri vogliansi intitolare. Il proclama da costoro emessi in questa circostanza è il seguente:

«Romani!

«Le tante e tante prove d'affetto e d'inalterabile devozione e sudditanza al S. Padre, nelle quali coraggiosamente gareggiaste in ogni circostanza e bene addimostrarono in faccia all'universo che non avete punto degenerato dai principi sacrosanti della cattolica religione. Roma regina di tutto l'orbe cattolico e depositaria fedelissima della cattolica fede sdegna le mene de' tristi, le abborre, le detesta, e non si stancherà giammai di profondere il suo oro, e se fia d'uopo il suo sangue ancora per alleviare la gloriosa povertà del Vicario di Cristo e per difendere l'indipendenza della Santa Sede.

«Romani!

«La cattedra del. principe degli apostoli fu sempre Il baluardo inespugnabile che difese la vostra dignità, la vostra gloria e dessa sola ora vi serba illesi dagli avidi artigli de' vostri nemici.

«Coraggio adunque: la sua prossima festa che ricorre ai 18 del corrente, vuoi esser quest'anno celebrata con istraordinaria pompa e magnificenza, onde dare in quel giorno nw velia prova del vostro amore di religione e di patria.

«Accorrete dunque unanimi in questo fausto di alla cattedra di S. Pietro, ed ivi da voi s'innalzi fervida preghiera, peschi, cessata ornai la procella, sorga un'era felice, in cui dall'eccelso Iddio venga glorificato ed esaltato il giusto;, e gli empi si convertano e ritornino all'ovile del successore di Pietro.

«Festeggiate inoltre questa felice ricorrenza col muto ma eloquente spettacolo di una splendida illuminazione emula del 12 Aprile del decorso anno 1861.

«Romani!

«Uniamoci sempre più e gridiamo all'orecchio di chi, ci crede ribelli.

«Viva il Pontefice; viva il vicario di Cristo.»

Gli agitatori del partito opposto a quello nazionale non era credibile trovassero eco fedele alle loro mene nel centro dei romani, i quali nella generalità abborrivano in realtà il regime clericale, rimanendo i pochi che pareano fargli buon viso, costretti da convenienza o da necessità d'uffizio; la dimostrazione, come le precedenti, si risolse in una ridicola scena, dove pochi attori rappresentavano tutte le parti, figurando in più punti contemporaneamente, collo scorazzare da un trivio all'altro, e levando gli stessi schiamazzi di convenuti osanna.

Nè quello che avvenne in tal circostanza, estimo avrebbe raggiunto il poco che s'ebbe, se già non fossersi costoro inebriati dell'attitudine assunta In questi dì dalla corte pontitìcia contro gli sperimenti tentati dalla Francia quanto ad una conciliazione degli affari italiani; sperimenti promossi ancora per non abbandonare in troppo aperto oblio le continue istanze del ministero italiano, di cui superiormente si è detto.

Si è da noi veduto l'esito delle pratiche riescite frustranee quanto alla partenza di Francesco II, da cui sicuramente il brigantaggio avrebbe riportato un colpo fatale: il rifiuto evasivo, della corte romana era il preambolo di quelli assai più rilevanti che indi a poco ebber luogo e dierono a disperare assolutamente fino a nuove contingenze di una soluzione pacifica della quistione romana e quindi della cessazione del brigantaggio, elemento conservatore delle ostilità sistematiche coll'Italia. É questo un altro punto eminentemente istoricd che impone il suggello alla dimostrazione più esplicita della ostinata immobilità di un governo condannato e decrepito, non che delle perverse inclinazioni del tempo, nel quale gli annali ecclesiastici raramente segnano il simile per raccolta d'uomini e per gesta abominevoli.

Nel tener conto de' vituperi briganteschi, tolsi a tema di far parole eziandio della corte pontificia ne' suoi rapporti diretti o indiretti coi fatti napolitani, e non posso dispensarmi dal registrare nel mio libro questa fase importante che rende conto eloquentemente della situazione.

Non istarò a riprodurre letteralmente le prolisse istruzioni date dal governo francese all'ambasciatore marchese Lavalette, restringendomi a cennarle in iscorcio, e solamente darò per esteso il risultato significantissimo della difficile missione del prelodato ministro.

Il gabinetto francese avea già confidato verbali e discrezionali istruzioni al Lavalette, il quale, spiato il terreno dovesse abilmente infietterle e riferire. Da suoi primi rapporti il governo avrebbe spedito un progetto di conciliazione più o meno determinato. Di fatti non andò guarì che informazioni aspettate susseguirono alle istruzioni imperiali relative alla condizione respettiva della santa sede e dell'Italia, in quanto specialmente riferivasi all'antagonismo riverberato in Francia dal conflitto, delle due cause, il quale rendeva pericolosa e nociva: l'esistenza troppo prolungata di una. rato. di essa vst go troppo e innormale.

Dolevasi il ministro imperiale degli avvenimenti compiutisi nel 1860; insistendo su i fatti come giacevano, inculcava, al suo legato persuadesse il ministero romano che la ragione dovesse cedere all ordine de' sentimenti.

Che si dimandasse nettamente «se il governo pontificio intendeva ancora di recare nel'assetto delle sue relazioni col nuovo reggimento stabilito nella penisola quella inflessibilità ch'è il primo de' suoi doveri, come il. più incontestabile de' euoi diritti nelle cose dommatiche, o se qualunque fosse del reato il suo giudizio intorno alla trasformazione operata in Italia, esso si decide ad accettare le necessità che emanano da quei sto rilevante fatto».

Studiavasi inoltre lo stesso ministro promuovere una risoluzione col far riflettere alla corte papale l'isolamento per esterni ajuti o interventi, e significando che il governo dell'imperatore appunto Brasi indotto a riconoscere i fatti compiuti, perché convinto della impossibilità di una restaurazione, specialmente dopo gli onciali riconoscimenti delle maggiori potenze, e. tra cui se taluna noi fece, lo si fu per particolari e specialissime posizioni o per guareutire contesi diritti dinastici. Il principio proclamato del non intervento, e la impossibilità di provocare un conflitto europeo, cui ninno avrebbe assistito indifferente, speravisi avessero eccitato miti consigli.

Conchiudevasi col seguente quesito. «Le lezioni dell'esperienza e insieme le considerazioni più idonea a muover la. santa aedo, non le impongono esse per conseguenza di rassegnarsi, senza rinunziare a' suoi diritti; a transazioni dl fatto che ripristinirebbero la calma in seno al mondo; cattolico, rannoderebbero le tradizioni del papato, che ha coperto per si lungo tempo della sua egida l'Italia e vi collegherebbere i nuovi destini di una nazione crudelmente provata e restituita dopo tanti secoli a se stessa?»

Il merito della soluzione era rilasciato intieramenie libero al giudizio e all'azione dì due governi, restringendosi, al presente a sapere «se noi (esprimevasi il ministro francese) dobbiamo audrire o abbandonare la speranza di veder la ansia sede prestarsi, tenendo conto de' fatti compiuti, allo stadio di un componimento che assicurerebbe al sommo pontefice le condizioni permanenti di dignità, di sicurezza e d'indipendenza necessarie all'esercizio del suo potere. Ammesso quest'ordine di cose noi intenderemmo coi più sinceri ed energici sforzi a far accettare a Torino il piano di conciliazione, di cui avremmo gettate: le basi col governo, di Sua Santità.

«L'Italia e il papato cesserebbero allora di trovarsi in campi nemici; ripiglierebbero immediatamente entrambi le loro relazioni naturali, e mercé oblighi d'onore guarentiti dalla parola della Francia, Roma troverebbe al bisogno un appoggio necessario dalla parte istessa, in cui pare che il pericolo la minacci di presente.

«Siffatto risultamento ecciterebbe ne siam convinti ttn vivo senso di soddisfazione e di riconoscenza in tutta quanta la cattolicità.»

L'ambasciatore Lavalette adempieva l'arduo mandato studiandosi interpretarne gli articoli con sagacità ed eloquenza, la quale al certo non ispirata da speranza di successo, dovea divenir peritola, languida e troppo elaborata.

In verità l'esito previsto di tale missione si riepiloga nel rapporto da noi promesso e inviato da Roma al governo francese il di 18 Gennajo 1882.

Il marchese de La Valeste al ministro degli affari esteri.

«Signor Ministro,

«Ho ricevuto il dispaccio che V. E. mi ha fatto l'onore di scrivermi in data dell'11 corrente. Mi è venuta, il dimani stesso,l'opportunità di tener discorso col cardinale segretario di Stato le considerazioni che vi si trovano svolte.

«V. E. ben sa che, mosso dalle parole che io aveva potuto raccogliere dalla bocca istessa dell'Imperatore, cercai fin dalla mia prima conferenza col Santo Padre di farmi presso di lui il fedele e rispettoso interprete dei sensi di profondo interesse, di cui io doveva recargli l'espressione. Senza lasciare illusioni di sorta a Sua Santità sovra una ristorazione del passato, senza obliare le esigenze di un presente si intimamente collegato a' nostri propri interessi, lo non aveva trascurato occasione alcuna di preparare la Santa Sede, in termini generali, ad una transazione che corrispondesse, al nostro desiderio più sincero, quello di riconciliare Roma coll'Italia. Io aveva trovato per altra parte, nell'accoglienza affatto benevola di cui io era l'oggetto, il diritto di far appello alta fiducia di Sua Santità, e di provocare, dal canto suo, l'espressione di speranze o di voti, alla effettuazione dei quali il governo dell'Imperatore sarebbe stato felice di poter contribuire.

«V. E. sa altresì dalle mie relazioni precedenti che, ascoltandomi colla più affettuosa condiscendenza, il Santo Padre aveva costantemente conchiuso con queste parole che appena velavano i suoi rifiuti — Aspettiamo gli eventi — e che, più esplicito nelle sue parole, il cardinale segretario di Stato erasi pronunziato contro qualsiasi transazione che implicasse in fatto l'abbandono di una parte qualsiasi dei territori! perduti. Io mi rimasi per conseguenza più afflitto che sorpreso allorquando a tutte le considerazioni ch'io ho presentate, inspirandomi alle viste istesse di V. E. , il cardinale segretario di Stato non ha creduto poter rispondere che con un diniego il più assoluto.

«Qualsiasi transazione, mi ha detto il cardinale, è impossibile fra la Santa Sede e coloro che l'hanno spogliata. Non dipende dal Sommo Pontefice più che non sia in facoltà del Sacro Collegio il cedere la menoma particella del territorio della chiesa».

«Ho fatto osservare a S. Eminenza ch io lasciava da parte affatto la questione di diritto; che risovvenendomi delle sue precedenti affermazioni, non mi aspettava per certo di vederlo transigere su i principii da cui esse mi aveva dichiarato non volere dipartirsi.

«Il mio solo scopo era quello di trarlo sul terreno pratico dei fatti, d'offerire al governo pontificio l'occasione d'uscire, riservandosi tutti i suoi diritti, da uno stato di cose tanto rovinoso pe' suoi interessi, quanto minaccioso per la pace del mondo cristiano. Questo scopo, ch'io aveva lasciato intravedere così al Santo Padre come a Sua Eminenza stessa, era sovra ogni altra cosa quello a cui tendeva l'Imperatore: si fu in questo senso che le mie prime istruzioni vennero concepite; si fu nello stesso spirito che il governo imperiale me le aveva di recente rinnovate. Io non aveva ricevuto l'ordine, soggiunsi, di comunicarle testualmente al. cardinale segretario di Stato: esse erano nullameno tanto conformi ai sentimenti di cui io mi era fatto sì spesso interprete, da credermi implicitamente autorizzato a metterle sotto i suoi occhi. lo di infatti lettura al cardinale del dispaccio di Vostra Eccellenza.

«Trovo in questo dispaccio» mi disse Sua Eminenza «l'espressione dell'affettuoso interesse che non cessaste di di. mostrarci. Ma non è esatto il dire che slavi disaccordo tra il Sommo Pontefice e l'Italia. Se il Santo Padre è in rottura col Gabinetto di Torino, non ha coll'Italia che relazioni eccellenti. Italiano esso stesso e il primo degl'Italiani, soffre delle sofferenze di essa, assiste con dolore alle dure prove che colpiscono la Chiesa Italiana.»

«Quanto al patteggiare cogli spogliatori, non lo faremo giammai. Non passo che ripeterlo, qualunque transazione su questo terreno è impossibile; quali che fossero le riserve con cui si accompagnasse, quali che fossero i temperamenti di linguaggio che si usassero, dal momento in cúi l'accertassimo, parrebbe che la consacrassimo. Il Sommo Pontefice prima della sua esaltazione, come i cardinali alla loro nomina, si obbligano per giuramento a non cedere nulla del territorio detta Chiesa. Il Santo Padre non farà dunque alcuna concessione di questa natura: un conclave non avrebbe diritto di farne; un nuovo pontefice non ne potrebbe fare: i suoi successori di secolo in secolo non sarebbero liberi di farne.»

«Per altra parte la gran calma del cardinale segretario di stato annunziava una risoluzione incrollabile, principalmente perche' traeva la sua ragione di essere da un ordine d'idee che sfugge alla discussione. Mi limitai a far notare al cardinale Antonelli che il carattere stesso della sua dichiarazione m'imponeva il dovere di domandargli se io potessi considerarla e trasmetterla al governo dell'Imperatore come la risposta definitiva della Santa Sede. Dopo un momento di riflessione Sua Eminenza offerse di riferirne al Santo Padre, quantunque, secondo il suo convincimento, tale passo fosse superfluo. Il profondo sentimento di doveri e di obbligazioni sacre aveva dettato a Sua Santità le solenni dichiarazioni con cui le sue encicliche ed allocuzioni avevano si sovente trattenuto la cattolicità intiera. Il cardinale prevedeva dunque facilmente una risposta, cui obbligavisi per altra parte 'a trasmettermi al domani stesso o per iscritto o per mezzo di uno de' suoi prelati.

Infatti ho ricevuto stamane dal cardinale segratario di Stato il biglietto di cui Vostra Eccellenza troverà qui unita la traduzione. Dopo aver preso gli ordini del Santo Padre, Sua Eminenza mi disse non aver nulla ad aggiungere, nulla a togliere alle sue dichiarazioni della vigilia.

in sostanza, signor Ministro, Vostra Eccellenza poneva questa questione, di cui riproduco i termini stessi:

— «Dobbiam noi nutrire speranza di vedere la Santa Sede acconciarsi, tenuto conto dei fatti compiuti, allo studio di un componimento che assicuri al sommo Pontefice condizioni permanenti di dignità, sicurezza ed indipendenza necessarie all'esercizio del suo potere?»

«Con profondo ramni trico sono costretto a rispondere negativamente; ma crederei mancare al mio dovere lasciandovi una speranza che non ho neppur io.

segnato: LA VALETTE.

(Annesso al dispaccio del 18 gennaio)

Copia di una lettera di S. Em. il card. Antonelli

«S. Ecc. il march. di Lavalette.

«Signore e carissimo marchese,

«Per sodisfare alla promessa che vi feci ieri nella visita onde m'onoraste al Vaticano, mi fo un dovere dl dichiararvi che non ho nulla da aggiungere né da ritirare alla risposta che dovetti fare alla comunicazione che V. Eec. ma fece, dandole le forme più cortesi.

«Colgo con piacere questa occasione per rinnovarvi l'assicurazione della stima più vera e sincera con cui ho l'onore di essere di V. Ecc. il servitore.

« segnato: ANTONELLI

I passi fatti dai legati francesi; benché eccitati dal gabinetto italiano, tuttavolta non giungevano a Roma come sua dimanda, ma come proposizioni dirette del governo imperiale nell'interesse ch'egli vi aveva per la connessione delle cause.

Questi non istimò ben fatto incaricarsi di trasmetterli a Roma; dacché (come il ministro Thouvenel in proposito scriveva all'ambasciatore francese in Torino)

«Le circostanze non sembravano favorevoli per l'apertura d'un negoziato tra il governo italiano e la santa sede, quando sì l'uno che l'altra con reiterate dichiarazioni, si mantenevano sul terreno ch'essi aveano adottato, e che li metteva sotto punti di vista diametralmente opposti. La combinazione sottoposta non era d'altronde di natura tale da ravvicinare le distanze, e noi non potevamo, incaricandoci trasmetterla alla santa sede, mosttar speranze d'accomodamento che non dividevamo sopra un progetto di soluzione d'un carattere troppo radicale, avuto riguardo alla condizione degli animi, perché potesse servir 'di base ad un accordo.»

Queste espressioni furono per lungo e per largo disputate in seno alla publica opinione; alcuni vi ravvisavano che il mantenimento del poter temporale dovesse maisempre essere il mostrato di una condizione essenziale per la riconciliazione del papato coll'Italia: altri distinguendo accuratamente l'intimo desiderio:dalla Francia dalla possibilità della cosa, non iscorgeva nella nota imperiale se non che una contestazione d'opportunità, e implicitamente ammetteva la rassegnazione del governo francese alla caduta del poter temporale, il quale se non era assentito attualmente da lui, avuto riguardo alla condizione degli animi, ne seguiva che cangiata questa condizione, altronde mutabilissima, e verso, cui moltissimo era stato già fatto, egli, qualunque fossero le sue particolari convinzioni, vi si sarebbe sottomesso.

Ad ogni modo non s'indebolì negl'italiani la fiducia nella propria e usa, e conoscendo pur troppo quali e quante difficoltà si parassero innanzi alla tanto desiderata soluzione, non già considerata in se stessa, ma relativamente agli ordini vecchi che avrebbe distrutto e ai nuovi che meditava edificare. L'Italia fatta prudente e tollerante da diuturno soffrire concentrò le proprie forze in se stessa col proposito di maturare i suoi destini colla irremovibilità de' propositi e colla saggezza de' modi.

S'essa però nel corso di queste trattative tutto seppe tragugiare e immolare sull'altare della patria, le fu impossibile contenersi all'impudente menzogna scagliata dal primo ministro della santa sede contro gl'Italiani, asseverando non essere esatta l'espressione della nota imperiale che vi fosse « disaccordo tra il sommo pontefice e l'Italia e che se il santo padre era in rottura col gabinetto di Torino, non ha coll'Italia che relazioni eccellenti. Italiano esso stesso e il primo degl'italiani, soffre delle sofferenze di essi, assiste con dolore alle dure prove che colpiscono la chiesa italiana. »

Impugnare la verità conosciuta è uno di quei peccati privilegiatamente colpiti dalla maledizione di Dio. Commesso da persone che non si peritano trasmetterci insegnamenti in suo nome, l'eccesso diviene più grave: la dignità profanata da coloro che la rivestono perde ogni ragione al rispetto; provoca anzi l'ira, la santa indignazione de' sinceri credenti.

Non saprebbesi ben definire se le impressioni testè ricordate offrissero uno slancio poetico dell'altronde prosaico cardinale, per affettare arguzia al di sopra della seria esposizione francese, o una beffarda ironia suggerita dalla impune sicurtà di discussione impegnata viso a viso colla Francia supplichevole.

L'Italia non sofferse cotanto sfrontate asserzioni, e sebbene per la mala riputazione del proferente avesse fondato motivo a pensare che ninno vi avrebbe prestato credenza o avriale accolte col sorriso del disprezzo, pure sorse virilmente a proteste e denegazioni, le quali appigliatesi di paese in paese, divennero unanimi e imponentissime.

Siccome però la rettificazione che intendevasi contrapporre alle parole dell'Antonelli, in fondo dovea riferirsi al sommo pontefice, verso il quale Italia devotamente giammai cessò dal riconoscere il capo della chiesa cattolica, cosa si tolse motivo da tale incidente per rinnovare i sentimenti di ossequio verso di lui, e distinguere con diligenza la soggezione al pontefice, quanto l'avversione pel governo laicale, che oggimai le cangiate condizioni di tempi, di persone e di progresso consolidavano di diritto colla corona del re d'Italia intessuta dai plebisciti.

Se non erro grandissima fu la moderazione degl'italiani in siffatta circostanza; imperciocché ai detti perfidi e insolenti del Sonninese, essi opposero termini pacifici e supplici verso il pontefice per dimostrargli totalmente il contrario di quanto erasi asserito in suo nome.

Pressoché da tutti i municipi italiani fu emessa una speciale dichiarazione o protesta con termini più o men rimessi, ma rispettosi. Ne offriamo qualche esempio a piè di pagina, affinché non manchino documenti, da cui risulti in ogni caso il nobilissimo e longamine contegno degl'italiani verso gli inflessibili nemici di Roma ( [33]).


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Il governo seguiva attentamente il carattere e l'estensione di queste dimostrazioni, ma temendo che per trama di opposti partiti, potessero degenerare in biasimo verso di se medesimo per non potersi spingere nel risolver la questione romana, o in eccessi che giammai mancano quando sovrabbonda numero di patrocinatori della causa reclamata, tentò reprimere con prudenti modi il dilatarsi delle proteste e degli assembramenti che pigliavano ogni dì proporzioni pericolose. I reclami altresì non erano in verità diretti a sospingere il governo in altro sentiero da quello scelto da lui, ma smentire nettamente la svergognata supposizione dell'accordo degl'italiani colla corte di Roma asserito inverecondamente dall'esoso ministro.

Qualunque si fossero le suscettibilità poste in movimento dai dibattimenti sulla quistione romana, non solo ne' conflitti della opinione, ma ancora nell'interno de' gabinetti governativi, giammai videsi con maggior calore agitata la disputa.

La morte del conte di Cavour e la successione di Ricasoli disquilibrarono il naturale andamento di essa; il cambiamento di persona e un modo diverso, sebbene possibilmente sullo stesso terreno, dové alterare i negoziati confidenziali e quasi direi personali di chi li trattava, e sia per la scossa ingrata di pretese. reputate esorbitanti, audaci o troppo radicali; sia perché l'indole della cosa, per se stessa di accordo difficile e restia al consentimento delle parti soccombenti, volontieri inclinasse le volontà a sciogliere o a differire, s'ebbe prova per fatto che dessa segnò per lo meno un doloroso stadio dì svista, senza potersene facilmente prevedere lo scioglimento.

Una singolare coincidenza pressoché contemporanea alle proposte Ricasoli si fu quella delle animatissime discussioni sorte nell'assemblea legislativa francese, le quali erano destinate anco nna volta a mettere in chiaro il furore del partito clericale, la debolezza e l'artificio delle ragioni che da taluni fanatici oratori imbeccati da Roma venivano colà accampate a favore del poter temporale del papa, come necessaria guarentigia del suo potestà spirituale.

Non è strettamente nostro compito rassegnare l'andamento di queste procellose disputazioni, e ne basterà indicarne un cenno sol perché dall'attitudine di Francia e dal progresso o regresso della quistione romana se ne trae di riverbero una luce quanto alle determinazioni della corte borbonica e di Roma nel persistere o abdicare dalle loro pretese; il che equivaleva la rassegnazione del papa e la cessazione del flagello del brigantaggio che Francesco lI avrebbe dovuto abbandonare in qualsivoglia progetto di conciliazione del papa stesso coll'Italia.

Roma era quivi rappresentata in senato da vari cardinali e da pochi, ma furibondi oratori.

La commissione scelta a redigere l'indirizzo all'imperatore, sforzavasi esprimere la opinione media del senato; altronde scisso così da non potersi nettamente stabilire.

La opinione più estesa e dominante interpretassi dal principe Napoleone.

Il governo avea il ministro senza portafoglio, che parlava in suo nome.

—La parte romanesca dopo aver ricantato gl'inni consueti e tristissimi sul vetusto potere del papa e sopra la necessità pessoché dommatica della sua coesistenza col temporale, per luogo comune estremo di rifugio conchiudeva colla imprecatoria espressione; attendiamo le profonde decisioni della Provvidenza; il che faceva eco all'altra: attendiamo gli avvenimenti; nella qual frase racchiudevasi senza dubbio una impotenza fremente che rassegnavasi violentemente, e una speranza che, cangiandosi le condizioni politiche sia nella dinastia imperiale, sia per rovescio di guerra, sia per coalizioni potenti atte a spegnere nella Francia e nell'Italia il focolare del nuovo diritto proclamato, aspettava indefinitamente la satisfazione de' propri voti basati sulla possibilità delle restaurazioni o di un disastro nazionale.

— La commissione si attenne al sentimento dominante esclusivamente nel senato; vale a dire ad una somma moderazione. Essa in fondo considerava, conformemente allo nota Thouvenel, le pretensioni del gabinetto italiano come spinte troppo e immoderate, non già in massima, ma per l'imbarazzo, che nello stato attuale degli spiriti e nelle condizioni generali, sperimentavasi in realizzarle; come appunto avrebbe potuto dirsi cosa intempestiva l'aprire una guerra coll'Austria pel riacquisto della Venezia, finché o i trattati glie la garantissero o non esistesse tale potenza di armi da esser reputato prudente e agevole il contenderla.

Se però risultava dall'esposizione sfavorevole all'Italia, l'inopportunità de' suoi desideri, la corte romana non riesciva illesa dal saggio relatore sig. De Rover; esso non omise rimproverarle i suoi ostinati e continui rifiuti ad ogni transazione, e quella immobilità, contro la quale non si facevan valere né le condizioni mutate de' tempi, né i buoni uffici della Francia, né la pietà di tante miserie o di tante funeste conseguenze, quante producevaue la pervicacia di Roma; né — gl'interessi stessi religiosi compromessi dai ministri pontifici nel trattare furentemente le quistioni più delicate, sottomesso al loro giudizio, dove in luogo di addurre la calma, l'abnegazione, il decoro e il rispetto pe' sommi veri affidati al sacro, ministero ecclesiastico, formalizzavano i credenti collo scandalo di una irragionevole inflessibilità e colla durezza della loro cervice.

Sebbene non fossero questi i precisi termini. del relatore; nondimeno, salva la riserva e la gravità dello scritto preposto, era tale il senso delle sue parole. Una politica franca, che non dissimulavasi le difficoltà; desiderosa di risolverle; prudente oltremodo e rispettosa eminentemente pei sacri interessi ch'iscorgea contenuti nelle quistioni proposte.

— Il governo rappresentato dal ministro Billaut non fu meno esplicito, né mostrossi inferiore alla grave situazione. Quest'oratore oltre ogni dire assegnato, e circospetto non tacque i pericoli di un differimento troppo prolungato, nel quale non era permesso sperare da chicchesia; dacché l'inesorabile legge del progresso rendeva moralmente certa l'impossibilità di un regresso o la probabilità di reazioni efficaci. Altronde l'incertezza di una risoluzione che segnasse lo svolgimento di un progetto, sosteneva il saggio ministero, avrebbe irritato gli animi, aggravate le condizioni politiche ed economiche, e avrìa fatto provare per ogni dove il desiderio e la necessita di determinarsi ad un partito finale e conforme ai tempi.

L'acciecamento della corte romana non fu risparmiato; la tenace inflessibilità della sua condotta, le sue stolte speranze negli aventi, quasi auspici di sinistro augurio, vennero delineati da mano maestra.

Nondimeno trattandosi di causa non comune ed ordinaria, opinavasi da lui aggiornare spiacevoli crisi, mantenendo uno statu quo, entro il quale l'incalzare degli eventi, o una resipiscenza nel senso comune dei ministri ecclesiastici potesse risolverli a quelle saggie trasazioni che soddisfacendo all'onesto desiderio de' popoli, tutelassero convenientemente gl'interessi religiosi. Le conclusioni del ministro non rispondevano adequatamente alle sue stesse premesse; l'indole del soggetto che. avea tra mani e la difficoltà di adoperare quegli energici spedienti, che avrebbe potuto armonizzarle, giustificavano l'incongruenza logica dei ragionamento.

— Il principe Napoleone fu in senato anche in quest'ava no il più caldo interprete del comune desiderio degl'italiani; l'oratore facondo, felice, e simpatico che avendo seco il favore spontaneo e naturale dell'argomento, traeva d'ogni lato scintille vivissime di luce che illustravano il suo parlare; un eco di sinceri plausi nella stessa Francia e in Italia rendevano lui il premio meritato.

Il principe Napoleone poteva tenere una via franca, diritta e rigorosamente logica nelle sue conclusioni; possessore d'importanti e opportunissimi documenti che 'coronavano le sue parole, eroi il solo uomo, per autorità e per eloquenza altissimo a sollevare il velo delle ambagi diplomatiche e delle speranze occultate nel subdolo desiderio delle aspettative.

La ferma sicurtó. de' suoi accenti che antivenendo il futuro, sembravano già averlo raggiunto, scuoteva i torpidi seggi dei vieti partigiani devoti ad altri culti, e proni solamente al nuovo perché la statua del nume che l'investiva, giganteggiava in cospetto de' loro occhi.

«Dinanzi al rifiuto della corte di Rama (dimandava argutamente il lodato principe) che resta a fare... Il ritiro delle truppe francesi da Roma.

«Si è rimproverato alla mia soluzione d'esser l'espressione di una opinione radicale... Si consiglia il governo ad attendere; ma attendere che cosa? aspettar forse che gli spiriti si siero inaspriti di più, che l'agitazione sia più grande in Italia? Che sia più grande auto in Francia e in tutta Europa? É in nome della pace che si danno tali consigli al nostro governo, che non sono buoni, e che io lo scongiuro costantemente di non seguire?

«Ciò che bisogna si è render la calma agli spiriti e perciò convien risolver la quistione romana. Questa quistione romana ha prodotto bastanti mali; bisogna che abbia un termine. Se la Francia, mediante l'imperatore, prende una decisione netta, l'emozione cesserà.

«Io non veggo infatti che sia un'agitazione vera, che eccita il paese; il partito (io adopero la parola sotto cui viene designata) il partito clericale si serve del pretesto della religione per agitare gli spiriti. Se io volessi citare le parole di alcuni vescovi, si potrebbero vedervi alcune faci di discordia; ma, lo ripeto, quest'agitazione non è profonda; non è che superficiale.

«Se l'imperatore mettesse lo scioglimento che noi domandiamo in applicazione, la pace sarebbe ristabilita nelle ti menti, e sarebbe questo il miglior servigio che rendersi possa alla Francia ed all'Europa intera. L'agitazione artificiale che segnalò, cadrebbe, quanto più non avrebbe verun oggetto...

«Si diceva l'anno scorso — bisogna aver pazienza, con della perseveranza si verrà a capo delle resistenze — ebbene! L'imperatore non fece egli tutto per raggiungere una soluzione? Pur nulla. da Roma si ottenne.

«L'anno è decorso; l'anno venturo passerà del pari; si seguiranno gli anni, anzi i secoli, ma nessun cambiamento s'otterrà da Roma, perché il governo pontificio, quando nulla teme, nulla cede mai. ( [34])

(Qui citando il dispaccio Thouvenel che consiglia a La Valette proposte di conciliazione, e la risposta di Antonelli l'oratore prosegue.)

«Ecco la risposta perentoria e definitiva pel presente, ma benanco per tutti i secoli avvenire. Che nón s1 parli adunque più di concessioni; la corte di Roma non può farne, non vuoi farne.

«Quali sono pertanto le conseguenze a dedurne. Ah sono facili a indicarsi! La corte di Roma pel suo poter temporale, profitta di nostra presenza, si serve de' nostri soldati, ed ai,postri consigli non vuoi cedere menomamente.

«Dessa attende! Ecco il suo potere, ecco la sua forza. Perché l'Non è già che speri sia la Francia per ajutarla a conquistare il suo territorio. No; troppo ella conosce i sentimenti della Francia per conservare questa illusione.

«Conosce troppo bene altresì la sua debolezza per non sapere che ha bisogno dello straniero, ond'esser reintegrata ne' suoi temporali possessi; ma dice a se stessa manteniamo lo statu quo, favoriamo l'agitazione italiana, verrà tempo in cui l'attuale stato di cose non potrà più durare, ed allora, nella procella, un esercito straniero, dopo aver battuto l'Italia, fora' anche la Francia, potrà rendermi gli stati miei.

«Non havvi illusione a farsi, è l'espettativa dell'austriaco che serba la corte di Romanelle indomite sue resistenze. ( [35])

Questo non possumus il quale ha ben qualche cosa di grande in se, bisogna saperlo comprendere! Ebbene sapete voi la corte di Roma a chi l'oppone?

L'oppone a quei che l'amano, o quei che le consigliano delle concessioni; ma quando, essa si trova sotto il colpo della necessità, non se ne preoccupa più. Il trattato di Tolentino non è là per provarlo?

I giuramenti non vigevano allora, come oggigiorno? Non è questo: ma è tale l'abitudine della corte 'di Roma: darezze, rifiuti ostinati per quei che la sostengono; moderazione umiltà quando la necessità le sta sopra.

...«Questa situazione è impossibile, fa d'uopo finirla, non è un argomento da tribuna; si tratta d'un alta necessità politica. La situazione è intollerabile per l'Italia, intollerabile per la Francia, intollerabile per l'Europa.

«Convien calmare le agitazioni; ebbene se volete vederle sparite, non vi ha che un mezzo... SGOMBRAR ROMA: altrimenti voi non calmerete l'agitazione degl'italiani. Lo statu quo sarà un pericolo permanente, una emozione incessante ec:»

Questo memorando discorso, di cui ho riportato soltanto alcuni periodi, compié, può ben dirsi, un avvenimento.

Declamazioni, frasi oratorie, concetti brillanti, appariscenti ed anche orazioni profonde e veementi spesso tuonarono dalla tribuna francese; ma una serie di verità svelate senza ritegno innanzi a. chi stava in allora elaborando nel proprio cuore il modo di orpellarle e nasconderle; verità non asserite o lasciate nel dubbio della, esagerazione passionata di colui che le profferiva, ma provate con una serie di scritti diplomatici, e di argomenti di fatti irrecusabili posti in luce affine Ira foro, fornivano la più sublime delle prove, e quasi direi la confessione stessa degli accusati.

Il publico applaudì alla saggia esposizione del principe e qualunque fossero le segrete intenzioni che taluni si piacquero apporgli in questa come in altre circostanze, tutti considerarono non già l'individuo, ma la virtù de' veri pronunciati, quali, siccome erano la espressione istintiva delle masse, nello sperimentare la simpatia cordiale e universale di quelle, vi si leggeva per entro un terribile vaticinio pel futuro.

É facile imaginare che la più diretta ripercussione di questa disputa dovea risentirsi in Roma, dove giaceva il soggetto e l'oggetto di quella. La corte romana e i romani guardavansi cola a vicenda, e a vicenda tremavano od esultavano, schiavi gli uni e l'altra di mosse operantesi al di sopra del loro capo, e dipendenti o dalla vittoria combinata delle fazioni, ovvero dalla prevalenza de' principi.

Al comitato romano parve grave la situazione in tanto pinto, e stimò bene far udire la sua voce, affinché la efficacia de' principi non venisse ottenebrata dalle mene di cupe agitazioni, le quali per la vita che, comunque fossesi, spirava il governo papale non potessero pigliare il di sopra contro la oppressione della polizia.

Per queste ragioni videst apparire dai tipi clandestini una ben dettagliata istruzione del comitato nazionale romano sul modo da contenersi in tali difficilissime emergenze.

Le parole de' miei concittadini, cui la presente opera è dedicata, non debbono esser trascurate, almeno negli argomenti più seri. Come ho potuto in. passato e come potrò del decorso di questo scritto mi pregerò farne tesoro, tramandando ai posteri colla nobiltà de' loro sentimenti il loro instancabile zelo, e la più sincera interpretazione de' loro confratelli sofferenti. Ecco adunque come esprimevasi in proposito il prelodato comitato nazionale.

«Romani!

«Dalla nota diretta dal Governo dell'Imperatore dei Francesi al suo ambasciatore a Roma avete appreso come la questione del potere temporale dei papi sia giunta a tal termine da potersene prevedere lo scioglimento in un tempo non lontano.

«Sebbene il Comitato nazionale abbia piena ragione di credere che voi che sapeste esser saggi nel periodo trascorso, in cui al cumulo de' mali si aggiungeva l'angosciosa incertezza del fine, saprete essere ugualmente saggi ora che vi è dato il conforto della speranza; pur tuttavia ha creduto dovervi "indirizzare alcune parole convenienti alla situazione.

«Già altra volta il Comitato ebbe occasione di dichiarare che il sacrificio, che l'Italia chiedeva ai Romani, era un sacrificio di pazienza e di longanimità. Tal, sacrificio voi l'avete saputo compiere sino ad ora con esemplare abnegazione, e l'Italia ve n'è grata: ma tornerebbe a nulla il passato se non sapeste per l'avvenire mostrarvi degni degli alti destini che vi attendono; il compimento dei quali dipenderà in gran parte dalla saggezza della vostra condotta.

«O che la Corte di Roma tornando a più miti consigli accetti la mediazione del Governo dell'Imperatore per trattare col Governo italiano, o che persistendo nella sua ostinazione rifiuti, come sembra, ogni giusta e ragionevole composizione, in guisa che si renda necessario pervenire allo scioglimento della questione per altra via; nell'uno e nell'altro caso è di assoluta necessità che Roma sappia contenersi in modo da dimostrare al tempo stesso e la piena ed inalterabile fiducia che ha nell'avvenire, ed i sentimenti di devozione onde è animata verso il capo supremo della Chiesa.

«Trattandosi di una questione la cui importanza principale consiste negl'interessi religiosi, che i partigiani della Corte di Roma vogliono far credere compromessi colla cessazione del dominio temporale, il Governo del Re deve rassicurare su tal punto i popoli ed i governi cattolici; non solamente offerendo garanzie da potersi formulare e stipulare in un contratto, ma deve anzi tutto rassicurarli mostrando loro col fatto che i popoli della penisola, lungi dal rinnovare alla lor volta la confusione fatta dalla corte di Roma fra la religione,e la politica, mentre son fermi e concordi nel volere ad ogni modo riacquistare la loro nazionalità unendosi sotto lo scettro di un solo Re, d'altra parte sono altrettanto fermi e concordi nella volontà di conservare intatte le credenze religiose dei loro padri, e che nutrono pel Capo della religione e pei sinceri ministri di questa i più caldi sentimenti di venerazione.

«Roma è la sede del cattolicismo, ed è quindi ben naturale che la massima parte di questo compito sir assegnata a voi, o Romani: tocca a voi più che ad ogni altro popolo d'Italia il fornire al Governo del Re la più salda prova delle garanzie da presentarsi all'Europa, la prova più efficace a rassicurare le timide coscienze. Importa pertanto alla salute d'Italia, che i romani si astengano da qualsivoglia atto che potesse parere meno che riverente alla religione ed al Capo visibile della Chiesa Cattolica. Importa insomma che ogni vostro atto sia una prova novella che voi vi mantenete sinceri cattolici, mentre volete che non si contrasti al vostro diritto di essere Italiani.

«Certo non potrebbe né pretendersi, né sperarsi ragionevolmente, né punto si vorrebbe, che i Romani, i quali gareggiarono con altri popoli d'Italia nel concorrere cogli effetti e colle opere alla redenzione della patria comune, avessero a rimanersi freddi ed indifferenti spettatori ora che si è posto mano efficacemente a definire una questione, dallo scioglimento della quale, se dipendi in gran parte la salute d'Italia, quella di Roma le è totalmente subordinata.

«Qualora dunque l'occasione portasse di fare pacifiche dimostrazioni di spiriti nazionali, e l'occasione per fermo non tarderà, il Comitato, anziché disapprovarle, v'inviterà egli stesso a farne. Ma voi, venendo il caso, dovete ricordarvi che gli encomi, che meritaste da ogni parte d'Italia per la dimostrazione del giorno 18 del passato gennaio, li meritaste appunto, perché dimostraste di aver conciliato e congiunto nell'animo vostro la Chiesa e la Nazione, la Religione e la Libertà.

«Devono insomma i Romani condursi in modo da far persuasa l'Europa che quand'anche al Santo Padre dovesse mancare il presidio dei nobili soldati della Francia, egli troverebbe piena sicurezza nella venerazione che i Romani nutrono tanto pel Capo che pei ministri della Chiesa.

«Il Comitato stimerebbe di farvi ingiuria se vi esortasse a deporre gli odi e di rancori, che la lunga soggezione ad un Governo avverso potrebbe avervi messo nell'animo.

«Poiché oltre al conoscere l'indole vostra generosa, egli è ben persuaso che voi non vorrete esser da meno delle altre città italiane, le quali, alla scomparsa dei Governi che le dominavano, seppero tutte, senza eccezione, dare all'Europa un esempio di moderazione e di generosità unico nella storia; esempio che è non pure il più bel vanto dell'Italia risorta; ma eziandio una fra le principali ragioni del suo risorgimento.

«Grandi, magnifiche, non minori certo delle passate sono le nuove sorti, alle quali è serbata Roma, che la volontà della nazione ha designata a sua capitale: ma grandi del pari sono i doveri che la nuova condizione impone al suo popolo. Voi dovete mostrare che saprete compierli dando si da ora prova di fortezza d'animo, di senno e di rettitudine.

«Del resto il Comitato avendo la coscienza di aver compito il suo dovere, e di poterlo compiere finché giunga il momento, in cui Roma sarà resa all'Italia, crede di aver diritto di chiedervi che abbiate in lui piena ed illimitata fiducia.

«Restringete pertanto le vostre file, mantenendo la più esatta disciplina, guardatevi dal ricevere insinuazioni e dall'eseguire ordini che non vi giungono per mezzo dei capi riconosciuti dell'associazione nazionale.

«Romani! Per ben meritare della nostra nazione, per trionfare delle ipocrite arti de' nostri nemici, perché Roma, sede della religione cattolica, divenga presto anche di fatto, qual è già di diritto, la capitale d'Italia, ecco la nostra parola d'ordine, la nostra bandiera!

«Viva il Pontefice non re

« Viva Vittorio Emanuele Il, Re d'Italia

« Roma, li 6 febbraio 1862.

«IL COMITATO NAZIONALE ROMANO.»

I Romani accettarono di buon grado le parole di questo comitato e se mai ripiegarono un istante dalla più prudente condotta, in questa circostanza dierono altro argomento di fiducia verso que' zelanti cittadini che studiavansi uniticare il sentimento nazionale non solo nelle menti, ma eziandio ne' fatti interni a Roma, in rapporto all'Italia ed al resto d'Europa.

Aggiunsero un nuovo dolore al loro martirio nell'intravedere in mezzo alle speranze il ritardo nella soluzione della loro sorte. Chinarono il capo attendendo a lor volta gli avvenimenti.

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XXXI

Un fatto gravissimo ebbe luogo in quest'anno nella capitale italiana; fatto che preoccupò non poco gli scrittori, e cultori della politica, non che destò una straordinaria sospizione ne' gabinetti. Ventitre martiri giapponesi elevati alla beatificazione, oggi volevano dalla curia romana sublimarsi alla santificazione (sommo grado nella carriera celestiale).

Ciò era consuetissimo in Roma e non avr'ìa scosso veruno; peraltro l'inesaurabil vena de' pensatori papeschi. impinguata precipuamente per le cure lojolitiche avea edificato su questa base un progetto vastissimo, nel quale trattavasi nullameno d'invitare a nome del pontefice tutti i vescovi dell'orbe cattolico sotto pretesto di assistere ai concistori da tenersi in occasione delle ceremonie di santificazione, e affinché non trovassero difficoltà d'imprendere lunghi e disagiati viaggi, fu inventato di assolverli dall'obligo che corre ai vescovi, di visitarà i sacri limitari, vale a dire la Roma santa e cattolica, dove giacciono le tombe venerate de' SS. Pietro e Paolo. Riportiamo in calce l'invito che segnò il primo passo di questo memorabile fatto.

Nel tenore di esso, in mezzo alle espressioni d'indulgenza e di cortesia, si fa risplendere la volontà reiterata del pontefice che niuno manchi al gran convegno; l'interesse straordinario vela quivi a mala pena il pretesto della canonizzazione. ( [36])


In effetto era questa una cupa manovra per tentare una discussione sulla necessità del poter temporale del papa in ordine alla potestà spirituale, raffazzonarne un bisticcio, e nell'impeto appunto delle passioni flagranti, strappare una dichiarazione che esaltasse a DOMMA la giurisdizione temporale del pontefice romano.

Per tal modo la parte mutabile e mobile come tale esercitata fin quì, giusta le vicissitudini politiche, avrebbe acquistato un carattere intangibile e inviolabile come una sacra cosa; dal che avrebbe dovuto trarsene che la stessa reverenza professata incontestabilmente verso il capo 'della chiesa cattolica dai suoi fedeli sarebbe stata applicabile indistintamente alla dominazione laica parificata in tutto e. per tutto alla religiosa: i martiri giapponesi presso a queste viste meramente secondarie e profane divenivano gl'innocenti lenoni della curia, strumento d'errore e d'inganno.

Nè a questo scopo arrestavasi la straordinaria ragunanza de' mitrati apostolici.

L'ex-re di Napoli era in Roma, e, come si sa, riunendo in se stesso tutti i titoli di legittimità sanciti dalla vecchia Europa, rappresentava un campione eventuale, su cui esercitare e tener viva la ricotta discussione dei principi tramontati.

I vescovi che aderendo in gran parte ai paladini di Roma, nelle respettive diocesi erano stati fino allora le manovelle e gli esecutori di Roma temporale e legittimista, portavano seco l'ordito misterioso degli avvolgimenti di quel partito, e tendevasi ad inchiudervi una seria dimostrazione della parte cattolica verso la famiglia reale proscritta, prodigandole compassione e auguri perché cessassero le diuturne tribolazioni de' principi cristiani.

Ognuno iscorge di per se che nell'apparecchiare un plauso od un omaggio al Borbone di Napoli ne conseguiva indectinabilmente un incoraggiamento e un elogio ai seguaci e difensori di lui, i briganti.

Il sistema delle soscrizioni private a proteste o memorie dirette a provare avversioni o tendenze politiche delle popolazioni, in questi tempi specialmente, adottavasi dalle parti contendenti a fine d'imporsi e scoraggiarsi a vicenda, ovvero per influire nelle risoluzioni internazionali pendenti innanzi i gabinetti.

Codesto metodo che i giuristi appellerebbero volontieri capzioso o captatorio non si è mai ritenuto dai saggi come atto a testificare la volontà vera delle masse espressa nella formola intestata alle enormi liste de' sottoscritti.

Le qualità idonee di costoro non possono apparire, i nomi non sono per solito verificati, l'età non viene descritta; quindi è che non rimane di tanta mole che una quantità di fogli od anche volumi imbrattati d'inchiostro da non poterglisi attribuire nessun valore giuridico, omesso pure che spessissimo tali scartabelli altro non contengono in sostanza che maneggi, sorprese, o tratti evasivi de' soscriventi per compiacere all'amico che prega, ad una riguardo che affoga, o alle circostanze che impongono; ma se a tali argomenti volesse poggiarsi l'espressione della publica opinione, si correrebbe risico di veder proclamato il papa in Roma, Francesco II in Napoli, ed anche qualche simpatico Bev re d'Italia.

Di fatti Mazzini compilò nello stato romano durante la republica di 69 giorni nel 1849 i suoi protocolli di più volumi contenenti l'adesione di tutti i municipi; il papa ha più frequentemente redatto i proprii negli stati medesimi; i liberali dello stesso stato hanno frequentemente avanzato soscrizioni di masse al re Vittorio Emanuele, dove più o meno implicitamente tnacciavansi concetti tutt'altro che republicani: anche in questi ultimi tempi per opera di eminenti ecclesiastici propensi all'attuale ordine di cose volumi di firme apparvero per determinare il papa alla abdicazione temporale.

Ad imitazione di tal vezzo i gesuiti di Roma tentarono una soscrizione di vescovi preceduta anzi dalle consuete declamazioni sulla convenienza della potestà laicale, affinché appunto il consentimento di essi apparisse non concesso per uso, ma determinato da motivi ragionati.

Tali scritti in SEI grossi volumi e in numero circa SEI MILA pagine, vennero raccolti e publicati dalla Civiltà Cattolica.

Se avesse dovuto darsi retta a costoro, era più agevole per noi sovrimporglisi con altrettanti volumi di ecclesiastici e di laici, ed allora, ove volesse attribuirsi un valore efficace a codesti riboboli, come sostenere la conseguenza logica di tal tentativi, senza ammettere la coesistenza della contradizione?

I gesuiti non disconoscevano forse il peso di queste ragioni, le cui deduzioni potevano rimandarsi e ritorcersi; ma contenti di spargere nella opinione, massime degli stranieri, una luce qualunque genericamente sulla materia, miravano parzialmente a compromettere il voto, de' vescovi, affinché poscia interpellati ne' concistori, dov'erano invitati, il sostenessero e potesse scaturirne una,dichiarazione dommatica da stiracchiarci un obligo pei cattolici, unsi necessità di fede, uno scrupolo, un incubo per le coscienze, una tortura di confessionale.

La aspettativa de' gesuiti, come vedremo verso il confine di quest'anno quand'ebbe luogo la ragunanza de' vescovi, fu bruttamente tradita: i vescovi seriamente interrogati sul viso e in pericolo di compromettere veramente la coscienza propria colla fede cattolica cominciando dal sommo pontefice fino all'ultimo di loro esclusero il carattere dommatico alla dottrina contingente e mutabile della potestà temporale, e al certo quivi si parve evidentissimo l'alito vivificatore del Santo Spirito, il quale dal vortice romoreggiante e impetuoso delle passioni seppe trarre illesa la verità contro i tenebrosi conati de' melliflui padri di Lojola.

L'eruditissimo monsignor Francesco Liverani di cui altra fiata ne accadde tener parola, ha maestrevolmente discorso nella sua opera — La Dottrina Cattolica e la Rivoluzione Italica; Firenze, Le Monnier 1862 — di questi apparecchi gesuitici, e siccome nella sua esposizione contengonsi sagge riflessioni, particolari proprii e il vaticinio della sconfitta clericale, di cui, come ho detto parlerò tra breve, non ometterò un tratto di detta opera pag. 120, dove ragionasi in proposito così:

«Ognuno sa qual libertà avessero quelli che erano invitati a scrivere e spedire quegli indirizzi: i gesuiti gridava. no a pieno coro apostasia ed eresia il sentire diversamente da loro e spacciavano per scomunicato chi pur dubitasse del la nuova dottrina.

«Io dettai quello del capitolo liberiano ed ho sottoscritto (senza leggerlo) l'altro del Collegio dei sette protonotari, che è un capolavoro di eloquenza della Segreteria di Stato ( [37]); e potrei dire le arti e le sorprese usate per carpirli: sono cose pubbliche, perché i bidelli e gli officiali della basilica e di monsig. Berardi li portavano publicamente attorno per Roma. Ma tacerò per riverenza, facendo notare al lettore le sevizie usate contro di me e il padre Passaglia, sol perché egli revocò in dubbio la necessità del dominio temporale, ed io proclamai invece la necessità di trasformarlo e ridurlo alle sue origini.


«Monsignor Campodonico, rettore della Università romana, fu casso d'officio e respinto dalla presenza del papa e satollo d'obbrobri, non già perché si rifiutasse egli di soscrivere, ma solo perché la scolaresca romana si ammutinò e lacerò le carte.

«Il santissimo e vecchio nostro Padre e Pontefice bramava di esser consolato con indirizzi: e qual cuore fedele si sarebbe rifiutato di dirgli Sì, voi siete il mio Padre.

«Signore, e per tale io vi onorerò finché abbia vita. Io sono pronto a sottoscriverne mille di queste proteste, insieme cogli altri, e forse a differenza di tutti mi sento cuore eziandio di mantenerle.

«Il santo Padre ne ha dunque fatto quell'uso che doveva; ha regalato tutte queste carte alla Civiltà Cattolica; la qual cosa significa, ch'egli non se ne varrà mai per imporre nuove dottrine ai fedeli.

«Se tanto fosse possibile, seconde le tradizioni romane e cattoliche, e questa fosse stata la sua intenzione, non avrebbe loro scemato il credito, affidandole a mani gesuitiche.

«I gesuiti però non si perdono d'animo e stampano e scrivono e commentano questo suffragio universale della Chiesa, ed in primavera allo spuntare dei fiori e delle foglie.

«Cogliendone occasione dalla canonizzazione dei nuovi santi sperano di tirare un ultimo colpo sul cuore dell'angelico Pontefice e sull'episcopato che gli farà corona.

«Gli antichi teologi eziandio gesuiti, negano la possibilità di deffinire tali pazzie: i teologoni e politici e moderni della Compagnia non si vergognano di manifestarne la speranza e di cantare sin d'ora trionfo. Là il Signore ha detto chesperderà la scaltrezza dei furbi ed i cavilli dei dottorastri di quaggiù. Il mondo sarà spettatore della visibile assistenza dello Spirito Santo sulla sua Chiesa.

«Si ricordi il lettore il mio vaticino! Anziché permettere un fatto, che sarebbe scintilla di discordia e germe di scissura nel mistico corpo di Cristo, o Iddio chiamerà il Pontefice nella sua gloria, o guiderà la mente e il cuore dei suoi unti così, che neppure uno di quelli, che per cortesia e riverenza affermarono la necessità del dominio temporale, interrogato per dovere e per coscienza, consenta a farne un dogma e un giogo insopportabile pel popolo cristiano.»

Sebbene audaci e per la cattolica religione perniciosiasimi codesti bassi maneggi posti in giuoco a sostegno di causa disperata, pur non dubitavasi spingerli oltre in mezzo al caos delle idee e degli sconvolgimenti a fine di provarsi pescare in torbido quando il chiaro appariva inutile o dannoso.

La notizia di questa grande riunione che non avea carattere determinato, ma eccezionale e straordinario, si divulgò in breve nelle più lontane regioni; arsero vivissime le discussioni e le polemiche, e gli spiriti di già allarmati e mal prevenuti, atteso il predominio di passioni disordinate, vennero in timore che davvero per fanatismo o per errore si osasse intrudere tra i dommi della sacrosanta fede cristiana anche la credenza sulla dominazione papale come una necessità indispensabile per l'esercizio della potestà spirituale.

Già le preoccupazioni che ricercavano i più ascosi recessi della conturbata coscienza, rendevano gli animi farnetici e titubanti, già sulle labra de' credenti trepide e scosse per tanti scandali che da tempo, i ministri del signore non si rista vano dal perpetrare, posavasi la terribile voce dello scisma, un fatale smembramento era minacciato alla unità della chiesa non già per i veri assoluti di cui è madre e maestra, ma per l'abuso satanico di chi sacrilegamente in questa circostanza come in tante altre precedenti tendeva a manomettere, spostare, deturpare il sacro carattere di tanto ministero.

Mentre l'invito pontificio andava attorno al Mondo e fermentava sotto il peso della corruzione e dell'artificio, altri fatti compievansi in Italia pure in malaugurata armonia cogli istancabili conati della falange ostile al perfetto conseguimento della patria indipendenza.

Intanto che quelli obbedienti all'impulso originario di Roma ivano propagando la lor trista influenza, altri fatti procedevano; noi procederemo nel nostro compito, pronti a ripigliarne la narrazione lorché il turno loro verrà.

Il brigantaggio, durante l'aspra stagione d'inverno,avea necessariamente rallentato, non già per buon volere di vederlo estinto, o perché le speranze avessero cessato di esistere nella corte borbonica; ma bensì perché le nevi e la difficoltà di tener la campagna di fronte all'esercito ben munito e al coperto dal rigore del freddo nelle caserme e nelle città, consigliavano astensione e riserbo per poter irrompere con maggior violenza nel tempo propizio della primavera.

Quest'epoca dell'anno passava intanto proficuamente pei cospiratori in apparecchi e in disporre altre risorse agitatrici, le quali più tardi ajutate dalle armi de' briganti producessero un effetto più completo.

Molti fra costoro impazienti dell'indugio, o mal tollerando la loro insigne miseria venivano giornalmente sottomettendosi alle autorità italiane, implorando perdono e protezione.

Qualche centinajo se n'ebbe da Potenza; altri, più che dugento, disertati dalla banda di Crocco aveano pure offerta la loro dedizione, ve n'erano altresì parecchi della banda Caruso, e Ninco Nanco, che, abbandonato il lor capo, si ricongiunsero a Crocco protestando che se fra pochi giorni non fossero giunti sussidi da Roma o da altre parti, essi ancora sarebbersi presentati alle autorità.

Chiavone armeggiava presso Sora,dove pareva avesse posto le sue invariabili tende. Nelle fila di costui ch'era più presso al confine, scapicavansi da Roma tutti quelli che non potevano contenersi in dovere; in tal guisa ottenevasi di mantenere con sicurezza un fomite sempre vivo, e, come tratto d'unione tra l'inverno spirante e la primavera che si approssimava.

Fin dal Decembre perduto il sant'uomo di Chiavone (cosi appellavasi questo assassino dai sanfedisti romani) non potendo inoltrarsi e compire fatti d'arme, davasi attorno, come lo spirito maligno, cercando chi divorare. I casolari campestri, e i poveri contadini erano il soggetto del malo esercizio brigantesco.

Le aggressioni cominciavano a divenir frequenti sì che i prossimi distaccamenti d'Isola, di Sora e di Castelluccio si mossero contro; ma all'apparire della forza regolare tutto era gia previsto; i briganti o inerpicavansi su pei monti, rotolando enormi macigni nelle gole di passaggio, o trafugavansi per le foreste; ovvero per ultimo rifugio, guadagnavano la frontiera romana.

Se quivi i francesi avessero mantenuto un cordone militare, e ne' punti conosciuti avessero fatto impeto su i briganti respinti dalle nostre truppe,l'infame giuoco non si sarebbe ripetuto, né i campioni borbonici avrebbero potuto farvi assegnamento.

Invece qualche battaglione compariva di tanto in tanto risolvendosi né più né meno che in una passeggiata militare destinata a schivare una troppo aperta connivenza (che tale dee nominarsi la tolleranza di chi potendo non impedisce un male flagrante) coi fatti dal brigantaggio, i quali, come altra volta ho riflettuto, sembravano appunto tollerati e voluti in contemplazione di misteriosi avvenimenti meditati da qualche mente privilegiata.

— Un delitto fra i tanti commessi dai chiavonisti, merita esser segnalato per le sue circostanze. Il sindaco di Mola per nome Francesco Spina era stato catturato dai briganti. Avea questi un fratello sacerdote chiamato D. Pietro, il quale essendo in amichevoli rapporti col vescovo di Frosinone, il supplicò affinché si degnasse farsi intercessore presso Chiavone per la vita del mal capitato sindaco.

Il vescovo assunse il caritatevole ufficio, e senza dissimularsi l'armonia che passava tra le autorità ecclesiastiche e i capibanda di Francesco II, gli diresse un pressante dispaccio, a cui Chiavone replicò esser dispiacente che la preghiera di S. E. fosse giunta troppo tardi; dacché la testa del povero Spina era già stata spiccata dal busto.

Il brigante Giuseppe Gallozzi faceva rapporto a Chiavone sulla uccisione del Sindaco nel seguente modo qui riferito colla propria ortografia.

«Stimatissimo D. Luigi

«Francesco Spina sindaco e commissario di guerra nel comune di Mola gli è stata recisa la testa. La moschetta (ossia la piccola barba del mento) del defonto è stata dal Cucitto portata in Roma, o Piazza alias Cucitto, al mio sentimento bene che il suddetto ha reso un servizio.

«Il defonto sindaco chiamò il Cucitto, egli voleva obligare di fargli formare una mossa, promettendogli una gran somma di dennaro che nella detta mossa doveva andare contro noi per distruggerci, e poi doveva obligare che doveva ammazzare anche voi; ma il Cucitto invece di farci il tradimento, gli ha ucciso; per cui credo bene che ha adempito al sacro dovere di ciò che bà praticato.

«Il fornitore diete il pane, per quel giorno che fu il combattimento ascende a scudi 11 e baj. 40. La persona che diete i fucili domanda il dennaro, non altro, con profondo rispetto mi segno per la vita

«D. mo Obl. mo Servitor vero

«Giuseppe Gallozzi

— Del resto disperse e rare andavano vagando poche comitive, commettendo qua e là misfatti e soprusi più per insaziabile voglia di rapina che per commissione diretta de' regolatori politici di Roma, i quali, come ho detto, facevano occultamente serpeggiare nelle fibre del governo del re d'Italia altro veleno di discordia, altri approcci di guerra.

— É costantemente da Roma che le insidie movevano a carico delle povere provincie napoletane. I preti che male avrebbero potuto dissimulare la opinione loro dopo le ripetute istruzioni della Sacra Penitenzieria del Concilio e di altri dicasteri ecclesiastici, profittando del conflitto delle opinioni lasciate libere a pronunciarsi in virtù dello statuto costituzionale, più ormai non si nascondevano.

Non sapendo che farsi, o cosa imprendere di nuovo in seguito della mala riuscita di tanti tentativi, risuscitarono asco una volta lo spettro murattiano, insinuando che la illustre città di Partenope doveva ormai far senno, istrutta dagli eventi male augurati che l'aveano afflitta e degradata; il vetusto spendore essere stato oscurato e depresso da una mano di avventurieri, rafforzata da insolenti stranieri al paese, dagli orridi alpestri gioghi approdati nelle amene sponde di Napoli per imporsi ai popoli meridionali, soppiantare le barbare leggi alle sagge e paterne, di cui era ricco il codice delle Due Sicilie; sconvolgere gli ordini tutti sotto pretesto di assurde liberali istituzioni e della idea unitaria anco più effimera e caduca; ridurre insomma a stato servile e meschino di soggezione provinciale una città degna d'esser ancora capitale dell'Italia a preferenza ancora della tanto vantata Roma inferiore nel numero delle popolazioni almeno tre volte; il principe Luciano Murat aver già publicato il suo programma, pel quale corretto il terrorismo e l'l'esclusivismo della feroce polizia borbonica, il regno autonomizzato avrebbe potuto riambire al suo grado in Italia, ricostituire una splendida corte soccorrevole sempre e presentaneamente agli ingenti bisogni del popolo, e del regno che riabilitato all'esercizio dei suoi plenari diritti non savia stato soverchio pretendere se un dì; stante la somma importanza della sua posizione, colla saviezza di accorti regolamenti, colla portata de' suoi scrittori e di uomini politici, colla virtù ritemprata all'esigenze de' tempi, avesse ambito assorbire l'Italia in luogo di restarne miseramente assorbito da un audace regolo o dall'impercettibile angolo piemontese,l'estensione del cui territorio in ogni combinazione sarebbe rimasta ultima e negletta nella grande famiglia italiana.

Mural, cui se togli la prosunzione e la cieca dabbenaggine dei reputarsi circondato dalla forza di un partito, null'altro resta; Murat il cui nome è ricordato sol nella storia dei suoi avi per gesta gloriose, se vuoi, ma spesso sultuarie e difformi; il cui lustro spicca specialmente pei lampi fugaci dei capricci di Marte, senza nemmanco una straordinaria personalità che valga a creare un merito privilegiato, rappresentava l'appariscenza di un termine medio atto da un lato a lusingare gli autonomisti, ed a sedare dall'altro le ritrosie del mal governo borbonico troppo compromesso anche all'effetto di una transazione, che non avrebbe riscosso la fede e l'amore di popoli traditi, e crocifissi; Murat era il pallio, la figura, l'uomo di paglia, il zimbello de' furbi che sotto i veli e l'orpello della gloria napolitana ascondevano colla rovina di lei il disdoro della patria, il rovescio delle nuove istituzioni, é miravano ad 'isterilire il frutto di tanto sangue versato, strappare la palma immarescibile di tanti martiri, e coll'aureola immortale svelta dal capo degli apostoli della italica redenzione fregiare l'aborribile corona di qualche tiranno.

Certo lo stato d'ignoranza in che erano stati gettati quei popoli dal più immorale de' governi (se ne eccettui quello romano che a nessuno la cede); il divampare delle passioni e degli offesi interessi; l'efficacia dell'oro prodigato da Francesco per satollare quella stessa fame ell'era l'inevitabile conseguenza del regime borbonico, ispirava grande fidanza ne' mestatori di restaurazione; un'abile sorpresa, un errore, un colpo di mano, poteva ripigliare lo stato a beneficio di cui era guizzató di mano; nulla si ometteva per istrano che fosse, ma costoro ebbero a convincersi che il sentimento di libertà e d'indipendenza possiede tale arcana ispirazione che ratto si apprende all'anima umana, e che piacevole; lusinghiero e spontaneo balena pure agli occhi del selvaggio, a cui alla fin fine non manca che una scossa generosa atta a sviluppare la virtù potenziale del suo cuore.

Che dovea pensarsi adunque delle popolazioni napolitane, intorno a cui poco o molto avean rombato sensi liberali e che s'eran veduti a un tratto spezzare i ceppi del servaggio?

Può dirsi che i moti primo-primi delle infelici masse di que' popoli verso il liberatore delle Due Sicilie non dessero ad arguire il sentimento liberale estrinsecato dall'intimo dell'anima?

L'arte, l'insidia, il maneggio potè forse in seguito alterarlo ma spegnerlo era impossibile.

Quest'effetto indeclinabile del 'senso morale ebbero a sperimentarlo prima di tulio i sinderesifagi direttori di Roma espertissimi nell'alchimizzare le coscienze; ogni qual volta si provarono a violare questo santuario, ne furono scacciati col flagello di Cristo a mò de' profanatori del tempio; il sentimento nazionale eminentemente amplessativo dell'idea civile e religiosa fu, è, e sarà sempre al di sopra d'ogni tentazione, d'ogni patimento; le sventure parziali, procurate o reali, gl'incidenti personali le eccentricità della crisi sono come insetti natanti e agitantisi in onda limpida e pura, dove una rete serica abilmente scossa per entro, tutti facilmente li accalappia e purga la massa cristallina.

É altresì incredibile la pertinacia della romana corte divenuta ormai folle e briaca di voglie terrestri.

Nel 26 marzo 1860 il santo padre avea emanato fulminanti disposizioni relative alle assoluzioni da impartirsi dai confessori verso i rei di ribellione contro lo stato pontificio; alcuni regolari muniti di taluni vetusti privilegi non credeansi colpiti dagli ordini papali, e sia per onesto convincimento o,meglio per interpretare benignamente per se i privilegi che non avrebbero voluto derogati, assolvevano liberamente, secondo i casi, in virtù di lettera apostolica del predetto giorno ed anno cominciante colle parole — Cum catholica ecclesia —

Ebbene pareva anche troppo larghezza che ai fedeli (si parla di coloro che ignorando le norme della confessione secondo il rito cattolico, non sapevano il debito loro accusandosi nel tribunale di penitenza di fatti che sarebbe ridicolo dirli peccaminosi ( [38]) rimanesse aperto un uscetto troppo facile pel paradiso, quantunque guardato da fiammeggianti cherubini, con paterna sollecitudine pensò bene dl togliere ogni dubbio in proposito revocando qualsivoglia disposizione o dichiarazione in contrario, annullando privilegi e pretensioni a favore di chicchesia.


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Il fatto risulta da una lettera sorpresa ad un tal padre Isaia provinciale de' Cappuccini in Teramo diretta al padre Anastasio da Catignano, la quale per non incorrere nella. taccia d'averne scambiato il senso, riproduco ne' suoi termini testuali.

«Al Rev. P ne P. ne Col. mo P.

Anastasio da Catignano pred. G. no Cap. ai Cappuccini.

Teramo.

«Rev. P. G. Col. mo,

«Avrà la bontà di far nota, con modo secreto e privato ai confessori dei secolari di codesta famiglia, la copia autentica dell'ufficio, che fedelmente le trascrivo, fatto dal Santo Padre alla Sacra Congregazione dei vescovi e regolari; la Sacra Congregazione al nostro P. Gen., e questi a noi a quello scopo che in detta copia conoscerà.

«La copia è la seguente:

(Num. 10311)

«Dalla segreteria della Sacra Congregazione dei vescovi e regolari.

«Roma, 3 luglio 1860.

«Essendo stato riferito alla Santità di N. S. che alcuni confessori regolari sostengono di potere in forza dei loro privilegi assolvere dalle censure, di cui si fa menzione nelle lettere apostoliche — Cum catholica eclesia, — emanate il giorno 26 del mese di marzo del corrente anno, ha nell'apostolica sua autorità disposto e dichiarato, che niuno, fuori del sovrano pontefice, eccetto in articulo mortis, come si prescrive nelle suddette lettere apostoliche, può sotto qualunque pretesto assolvere dalle censure, nonostante qualunque facoltà concessa in passato per assolvere i rei di ribellione contro lo Stato pontificio, la quale dalla stessa Santità sua è stata revocata.

«Ha il S. Padre ordinato a questa S. C. dei vescovi e regolari di partecipare ai superiori generali degli ordini regolari e degli altri istituti e congregazioni, di qualunque natura desse siano, tale pontificia disposizione e dichiarazione, acciocché per mezzo dei provinciali, o di altri superiori sia portato a notizia dei confessori dei rispettivo ordine, istituti, e congregazione.

«Tanto si dovea partecipare a V. S. R. ma e Dio la guardi — al piacere di V. S. R.ma

«Roma, 24 luglio 1860.

«G. card. DELLA GENGA Prefetto.

«An. arciv. di Filippi Segr.

«Concorda coll'originale ec. In fede ec.

«F. Eugenio da Plonghe Segr. Gen. Cap.»

« É volere del nostro superiore gen., che nel manifestare tale disposizione pontificia si pratichi la più fina prudenza, e non sia penetrata da' secolari, onde scansare qualunque danno, che potrebbe avvenire all'Ordine nelle presenti circostanze. Ripeto, imporre silenzio a tutti i confessori, e nulla far conoscere a chi non è confessore dei secolari. Tanto le dovea notificare; e salutandola nel Signore mi confermo con tutta stima.

«Penne,17 agosto 1860.

«Aff. mo servo nel Signore

«f. ISAIA M.ro Prov. Capp.

Nel convento di Teramo, ove questi documenti furono requisiti, erano precedentemente avvenuti gravissimi scandali, i quali aveano attratto l'attenzione del governo; molti frati vennero messi agli arresti, ed indi, minacciandosi colà cose anche più serie, il governo dové risolversi, a chiudere il convento e disperdere que' cattivi religiosi aggregatisi zelantemente alla fazione borbonica.

Vicino a questa setta cospiratrice, per fato della legge dialettica degli estremi, figuravano i republicani, i quali per via opposta procacciavano al paese gli stessi se non peggiori disturbi.

Era deplorabile il vedere ambedue nella loro ultima divergenza convergere a danno della patria; ambedue tenuti in mira dal vigile occhio del governo, che pur rade volte aveali invitati a concordia e a pace, in grazia del bene comune, reagire spietatamente con tutte lor forze, brandendo perfino l'arme terribile della contumelia e della maldicenza.

I ministri del gabinetto italiano erano sistematicamente vituperati, e fra questi a colui che per aver contribuito, può dirsi da solo, alle mene di tutti, toccava la parte più amara e pungente; l'università, i collegi, i licei, tutte in somma le istituzioni insegnanti, le quali dovettero necessariamente subire una scossa nel nuovo ordine di cose, eran fatti segno d'Imprecazioni e di diatribe, delle quali empievansi i giornali e gli opuscoli: gli esonerati o i non ammessi all'ufficio di professori abbaiavano contro coloro che aveano rimpiazzato le cattedre ambite. In questo fatto scorgevano costoro non solamente la perdita di un posto luminoso e lucrativo; ma quel ch'è più, toglievasi un mezzo facile per volgere la gioventù a loro talento, e foggiarsene cittadini grulli, insipidi, eunuchi, degni sol di servire la casta gesuitica, nelle cui avide mani l'istruzione era da gran pezza peggio che veleno serpeggiante nelle fibre vive della nazione.

In questa lotta il merito veniva disconosciuto; le opinioni erano tassate e censurate aspramente; gridavasi al favoritismo e all'ingiustizia. I borbonici avriano desiderato l'apoteosi de' vecchi insegnanti; i republicani per contrario non
iscorgevano negli eletti il loro colore: così entrambi coi loro
clamori assordavano l'universo, e ferivano ugualmente il governo.

I borbonici scientemente e per impulso proprio, i republicani (se pure una turba di mal contenti e di fanatici accalcati colla folla potevan meritare tal nome) nella più parte per ignorante o per seduzione involontaria ere no lo strumento più propizio de' nemici della causa italiana. Ve ne avea per lo mezzo di quelli espressamente stipendiati all'uopo, i quali recitandola da energpmeui e da ultraliberati, non erano effettivamente che bordaglia al soldo di Roma ( [39]).


La stagione de' fiori amica e del campo a' approssimava: se non che, come negli anni precedenti, auto nella primavera del 1862 le amene valli meridionali di Napoli e il il sublime orrore delle foreste non offerivano al tranquillo viandante le loro delizie natìe.

Quelle mute solitudini destinate dalla provvida natura a inebriar l'anima di fecondi pensieri, eran rotte dal. frastuono di armi scellerate; e l'odorato profumo di quell'aere balsamico spirava il contagio mortale della polvere e de' cadaveri insepolti di assassini bruttamente commisti alle salme benedette de' martiri italiani immolati dalla ferocia barbarica dell'ultimo Borbone, in lega sacrilega col dominatore di Roma.

Il putrido fermento che avea brulicato al tepore delle aule vaticane germinava dalla sua corruzione. Instancabili come il tempo, i truci cospiratori dell'eterna città con novelli auspici di sangue salutavano la malinconica primavera di quest'anno.

Un deputato dell'assemblea legislativa francese, sopra ogni dire impetuoso e fanatico per la causa cattolica, che reputava ardentemente patrocinare dalla tribuna di Parigi, pareva eletto in questo tempo ad esplodere il primo colpo di moschetto che i briganti aveano per un istante deposto nella rigida stagione delle nevi.

Il deputato Keller non contento di sprigionare i suoi strali infuocati dalla bigoncia francese, imboccando la tuba evangelica, il cui fragor mimalloneo avea dalla Senna echeggiato alle colonne di Ercole, mosse come io santo pellegrinaggio a sciorre il voto presso la tomba del principe degli apostoli.

Lo strepito immondo de' baccanali sacerdotali che aveano fin qui profanato il silenzio venerando delle sante sue ceneri, parvegli lieve e temperato troppo; egli s'accinse a ridestarlo, e a vita più rigogliosa e operativa volle richiamata l'empia orgia romana.

Com'è agevole il pensarlo, il campione cattolico venne accolto teneramente nelle sale del Vaticano,. e poscia in istraordinario abboccamento in qúelle del Quirinale presso Francesco di Borbone.

L'eletto comitato facea corona alleire, i rappresentanti del chiericato e della legittimità non lasciavan desiderarsi. Consesso illustre, che mai forse non vide il simile la più cospicua emigrazione!

Suol dessa nell'abbandono dell'esilio riandar le proprie sventure, e di soccorsi priva e di consolazioni invocare nel pianto il sacro postliminio della patria perduta; non così nel caso.

L'infortunio sollevato da vive ed attuali speranze, in mezzo all'opulenza di due corti, oltre. la dovizia propria, coadjuvate da generali contribuzioni; un attiva corrispondenza ufficiale e diplomatica indirettamente sostenuta dal possente ospitatone della raminga augusta famiglia; una selva di braccia che, comunque si fosse, accingevasi in suo nome alla difesa dei trono scrollato; l'eco di mille interessi incarnati nel patrocinio della causa religiosa e insieme della legittimità europea, rendevano 1 avvenimento singolarissimo e imponente.

Quivi, in quell'ubertoso campo d'idee e di fatti spaziava senta limite l'inesausta vena dell'oratore francese. Assunta io prima e riepilogata la situazione, noverati i mezzi e le forze di tutte le parti, Keller ravvisò che lo scoraggiamento e l'inerzia s'era alquanto impadronita degli animi, e confldentissimo nella frenetica sua mente in un avvenire non lontano, quando sorretto fosse da perseveranza e da ordine, con quella virtù di parola che taumaturgica suona quando scende all'orecchio improntata di accento straniero, restaurò le speranze abbattute; valevoli ajuti promise di uomini e di danaro che per suo mezzo sarebbersi raccolti dai comitati legittimisti francesi, mentre egli avrebbe potentemente perorato nel corpo legislativo per la integrità del dominio temporale.

Tutto ciò avrebbe nel medesimo tempo tutelato il sacro palladio dei legittimismo; inculcava altresì fervorosamente essere necessarie un colpo risoluto e simultaneo da tutte parti, eccitato e sostenuto personalmente dallo stesso ex-re, senza di che né le masse paralizzate dalla influenza dei governo Italiano avrebbero all'uopo corrisposto, né ti movimento avrebbe potuto assumere degnamente il carattere politico.

Dal tema generico passandosi al pratico e concreto, un piano completo si discusse e approvò.

Dagli emissari consueti; vale a dire Malta, Trieste, Marsiglia e Civitavecchia avrebbe dovuto farsi Irruzione; le bande gia esistenti avrebberdo rafforzarsi e munirsi d'ogni occorrente, guarnendole eziandio di uniformi si ché possibilmente assumessero aspetto militare.

Le particolarità di questo progetto in modo assai più dettagliato vuolsi giungessero misteriosamente per intiere al governo del re d'Italia, il quale così avea agio di prevenire e sventare gli stolti tentativi.

Il Keller dopo essersi assicurato che i suoi consigli sarebbero stati adottati, massime quanto al comando dell'esercito da prendersi direttamente da Francesco II (nella qual cosa peraltro la corte fu in vista favorevole, ma in realtà di contrario avviso contro gli ultramontani che il ponevano a condizione sostanziale dell'intrapresa) ripigliò la volta di Parigi.

. —Un commuovimento straordinario fu notato dopo la partenza dell'onorevole deputato; grossi drappelli di uomini cominciavano di già a prendere il loro posto accantonandosi in punti strategici.

Certo Di Cavi negoziante di provenienza da Roma fu scoperto in Vizzioí circondario di Caltagirone, portatore di circa un milione di capsule, di una quantità di bottoni e spille, che per la forma e qualità deducevasi facilmente esser quelle alcuni de' consueti segnali borbonici, per riconoscersi fra loro.

Lettere importanti vennero anche sequestrate, le quali, coerentemente alla prevenzione del governo, confermavano l'ampia rete che ancora quest'anno tendevasi d'attorno all'ex-regno.

Già le provincie allarmavansi delle nuove mosse, alle quali tostamente avrebber voluto accorrere per evitare maggiori proporzioni; un brano di lettera di testi nzrne vivente ne' luoghi stessi minacciati così riepilogava la posizione: Il brigantaggio risorge; ciò fu preveduto, e dalla stampa proclamato a sufficienza.

In Basilicata vi ha briganti; in Lagopesole briganti; nel bosco di Tricarico briganti; tra Pisticci e Montalbano, tra Pomarico e Bernalda briganti; una banda di 150 capitanata da Crocco si aggira da circa 15 giorni tra il golfo di Taranto e quello di Manfredonia.

Pure è a confortarsi che l'insieme degli assassini non sorpassa che di poco la cifra di 300; è a confortarsi che Crocco dopo aver toccato la Basilicata, Terra di Bari, e Terra di Otranto non non ha potuto rinvenire che pochi per quanto caparbi altrettanto miserabili sbandati.

«Nondimeno queste fatali reliquie, trattengono il commercio, corrompono i campagnuoli, destano apprensioni e seminano nelle borgate lo spavento e il terrore.»

I briganti così disseminati, più che ne'l'arruolamento interno, confidavano nelle promesse del comitato borbonico di Roma, ed invero questo ogni dì veniva dispiegando alacrità sempre maggiore. Un manifesto incendiario apparve dagli emigrati napolitani ai loro fratelli; opuscoli borbonici che annunziavansi come stampati all'estero, uscivano dai tipi di Roma; la stamperia della reverenda camera apostolica, e certo Cesaretti in via delle Vergini non era estraneo a siffatte operazioni: un De Angelis. gesuita, e l'uditore dell'eminentissimo R... venivano designati dalla publica opinione come autori di codesta effluvie di scritti: da Fiumicino (porto) sotto bandiera spagnuola muovevano bande dirette in Sicilia: Velletri ed altri luoghi di Marittima e Campagna da parte di terra rigurgitavano di malviventi in attesa di destinazione.

La polizia, tra cui il rinnegato Pasqualoni, era tutt'attività, il Pelagallo indivisibile da lui regolava i passaggi.

Avvicinavansi i consueti divertimenti del carnevale, e i romani forzosi spettatori di tutti codesti maneggi scorsero in tal circostanza una occasione per dimostrare aperta riprovazione contro la mala autorità che a' infrenava, non che contro il rifiuto d'Italia e d'Europa che insolentiva impunemente al loro cospetto rendendo più dolorosa e intensa la sventura che li opprimeva.

Un manifesto del comitato romano, benché danno dovesse ridondarne ai materiali interessi, inculcava l'astensione dai sollazzi carnevaleschi, e ne regolava il modo col seguente indirizzo:

«Romani!

«Il Governo Pontificio vuole che vol diate spettacolo di voi stessi nel prossimo carnevale frequentando il corso e i festini, per aver nuova occasione di mentire e ripetere che voi siete felicissimi di essergli sudditi. Ma il Governo Pontificio non troverà certo fra i veri figli di Roma chi si presti a dar colore di verità all'impudente menzogna.

«Mentre la sua ostinata cupidigia di potere toglie ancora a Roma quella prosperità onde sarà lieta la capitale d'Italia, mentre tante oneste famiglie piangono ancora i loro cari quale in esilio, quale in carcere, quale privato d'impiego da una trista censura; mentre di queste vittime s'accresce ogni giorno il numero; mentre invece di dar pane al popolo si scialacqua il danaro per riordinare il brigantaggio borbonico, il governo pontificio c'invita a far baccanali perché l'Europa ci creda o stupidi o contenti, e lasci così prolungare la nostra sciagura. É un'amara derisione, e Il popolo romano tollera con dignità i propri mali ma non si lascia deridere.

«Il corso ed i festini saranno frequentati dai borbonici che attendono la nuova stagione per tornare agl'incendi ed alle rapine del brigantaggio, da' zuavi e da sgherri ai quali De Merode permette di mutar tante fogge di vestiario quante son le comparse ch'e' debbono fare da quegli impiegati o pusillanimi o disonesti o ignoranti che temono più un'occhio bieco de' loro attuali padroni che non l'avvenire delle loro famiglie; dal servidorame prelatizio, dagli affigliati dei gesuiti che in grazia del poter temporale hanno convertito oggi . in indulgenza quello che prima vietavano come peccato; a tutti farà la spesa 1 obolo di san Pietro e il prestito de' cinque milioni che l'onesto borbone va ora emettendo in cartelle da 100 franchi stampate in Roma colla data di Gaeta: prestito così immorale che certo il governo italiano non sarà mai si stolto da riconoscere.

«Romani!

«Lasciate pure che frequenti il corso ed i festini chi si sente degno di sì nobile e scelta compagnia! Per chi ama il proprio decoro; per chi si sente all'altezza delle sorti che la Provvidenza ha riserbato all'Italia e alla sua Capitale, l'antico Foro di Roma ed ogni altro luogo dove sono memorie della nostra antica grandezza offre gioie degne di lui. Là ricordando quanto furono grandi i nostri maggiore ha d'onde rallegrarsi il vero cittadino di Roma, poiché vi trova le ragioni del vicino nostro risorgimento dopo tanti secoli di sventure.

«Viva il Pontefice non Re

«Viva Vittorio Emanuele Il Re d'Italia.

«Roma 20 febbraio 1862

Questo manifesto fu sparso copiosamente fra i romani, e siccome era ben ragionevole che non potesse ridersi, laddove v'era motivo grandissimo di piangere, corrispose all'impero naturale delle circostanze.

Convenzionalmente fra loro que' poveri nostri fratelli stabilirono di abbandonare la popolosa via del corso, non che il ridente Pincio per ridursi in mezzo alle rovine de' Cesari, e per le deserte vie del Colosseo, dove il luogo e l'antica maestà di que' resti stupendi della grandezza nostra avrebbero ridestato degnamente le imagini avite in opposizione a quelle imposte dall'intollerabile giogo sacerdotale.

Il brio del tanto famoso carnevale romano suol maggiormente dispiegarsi nel giovedì che chiamasi grasso. Questo dì appunto fu fissato a solenne dimostrazione contro la polizia papesca e gl'insolenti ospiti napoletani.

Nelle ore pomeridiane pertanto consuete al divertimento, dalle contrade che mettono al Campo Bovario ovvero Fòro Romano affluiva grande quantità d'individui.

Le vette capitoline che contornano a declivio spirale gli ampi scavi sottoposti, disegnavan da lunge una zona variopinta di eleganti persone pacificamente discendenti, in quella che numerose coppie sboccavano sull'inuguale spianata del Fòro da S. Maria della Consolazione, dalla via di Marforio, dal tempio di Giano, e da altre adjacenze.

Tutti poi dopo aver formicolato per l'amplissimo campo, convergendo all'arco di Tito portavansi verso le vie di S. Gregorio o su per quella di S. Giovanni andando e riedendo in vaghi e simpatici giri; spettacolo magnifico a se stessi, esempio ammirabile agli stranieri, e a' loro nemici.

In sulle prime ore la placida moltitudine quasi muta seco stessa rompeva appena sommessamente il silenzio scambiando parole ciascuno colla propria comitiva: nulla turbava l'andare dignitoso e calmo de' cittadini romani; quando in sull'ora più tarda gli emissari della polizia papale cacciatisi per entro alla folla, invidiando quella compatta e irreprensibile dimostranza, tentarono con impudenti sibili frastornarne l'ordine e la quiete; risico al certo gravissimo dove il gentil sesso sovrabonda; ma di già prevenuti gli astanti e, quel che meglio favoriva nel caso, certi allo scampo nel recinto vastissimo, non si rimossero dalla piacevole gita, e serenamente sul far di sera ciascuno si ritrasse nella respettiva abitazione.

Quel gradevol sequestro dalla inopportuna e immonda esultanza della ricorrenza carnovalesca, invitava nuovamente a simili dimostrazioni in qualcuno de' giorni residuali; ma preveggendosi dal saggio comitato che qualche trama si ordisse per disturbarle, una nuova disposizione rendeva avvertito il publico a non ragunarsi altrimenti in troppa massa di gente, segnalando in pari tempo il fatto del di precedente.

«Colla dimostrazione di jeri (diceva un nuovo avviso del già detto comitato) al Foro Romano deste tal luminosa conferma de' vostri sentimenti, che avrà all'estero l'eco che si conviene.

«A rompere quell'ordine veramente maraviglioso in sì grande moltitudine, non mancarono le arti della polizìa papale per dar pretesto ai nostri nemici di gridare non esser voi degni di quella lode di saggezza che la stampa d'ogni paese vi prodigava.

«Il vostro buon senso deluse quelle arti; ma per impedire ai tristi d'intromettersi fra le vostre fila, il comitato nazionale crede consigliarvi a non più riunire tanta massa di popolo in un sol luogo.

«Roma offre luoghi bastanti per onesto diporto, seguitando dunque nell'astensione di divertimenti a voi estranei, portatevi in luoghi diversi, senza attrupparvi, serbando ordine e tranquillità.

«Il vostro contegno giudicato dall'Europa civile proverà che siete degni cittadini della capitale d'Italia.

— Se la parte eletta di Roma obbedendo al savio con ciglio del comitato dirigente onorava col pianto il lutto domestico; una porzione di gente sfrontata e perduta tentava paralizzare l'effetto sorprendente del Fòro Romano.

In tempi tranquilli e normali nella città nostra per la tratta di circa due miglia un doppio ordine di vetture,, regolate ne' loro turni dalla forza armata si distende in tutta la portata del corso e nelle prossime vie; ascende il Pincio, e in ameni frastagli intersecandosi ne ridiscende aggirandosi ne' limiti d'ineguale periferia.

Il numero suol montare a presso due mila: or bene quest'anno ne apparvero sol presso a un centinajo; quivi scorgeasi una turba d'ignobil volgo manifestamente prezzolato dalla polizia, a fine d'attenuare la vigorosa impressione che in altro lato della città iva verificandosi.

Fu segnato a dito qualche nobile romano, il quale non ebbe difficoltà di aggregarsi a codesta feccia compra dagl'intriganti e dai broglioni. A cagion d'esempio (e ne duole il rammentarlo) il duca di Sora primogenito dell'egregio principe di Piombino, di cui superiormente abbiam menzionato l'esilio da Roma, figurava in mezzo a codesta plebe; il duca Salviati meno impudente o forse più timido, si limitò a spedire la comparsa di una vettura ripiena de' suoi famigli.

Bello ara poi il vedere moltissimi balconi ripieni di preti e di canonici che fra loro s'eran proposti di accrescere lo scarso numero de' presenti ([40]).

Può dirsi veramente che in questa circostanza i pagliacci e i brighella escissero dalle sagrestie e dalle parrocchie, da dove somministravasi danaro come per causa pia: i poveri e le vedove, gli orfani venivan defraudati; ma il danaro dicevasi non ostante erogato seconda la santa intenzione de' benefattori e de' contribuenti, stipendiando mascalzoni, i quali ornassero di lor presenza lo spettro indiscernile dell'autorità politica del papa.

I pulcinella sopra tutto abbondavano: buona parte dell'aristocrazia napoletana ne forniva a dovizia.

Codesta gente infingarda e senza pudore, insensibile all'idea della dignità propria, mentre facevan vista di professare devozione e compianto verso la sciagura del loro re; mentre lontani dalla patria, per le loro cospirazioni, colle stragi e cogli eccidi solamente se le rammentavano; mentre forse i loro stessi congiunti avean trapassato il cuore pei patimenti e per ambascie codesti giullari in costumi buffoneschi vedeansi saltare e schiamazzare per le vie dell'afflitta Roma; come se si festeggiassero nozze; come se d'ogni cura l'animo scevro si rifugiasse al sollazzo per uccidere il tempo.

— Malgrado tutte le sollecitudini e prodigalità del sanfedismo per impedire una sconfitta completa, la scena riesci meschina, e comprovante appunto il contrario di quello che intendevasi dimostrare. L'artifizio, e l'affaccendarsi attorno a cosa che lungi dall'aver d'uopo d'impulso, ha bisogno per consueto, di ritegno e di temperanza, rivelavasi il carattere fattizio ed alterato della contro dimostrazione.

L'autorità ritenendosi scornata, ne volendo apparire inferiore a' propri soggetti, concepì un disegno orrendo, attribuito al Merode (la stranezza e la crudeltà del fanatico suggerimento rendono il sospetto 'assai verosimile, il giorno susseguente al giovedì grasso, non saprei por quali indizi, s'imaginò da alcuni zelatori che una nuova passeggiata avrebbe confermato e rafforzato la dimostrazione del dì innanzi; appunto per contrapporre un antitesi netta alle consuetudini del carnevale; dacché come il giovedì grasso il corso è gremito, il venerdì successivo è deserto in grazia della commemorazione ebdomadale della passione di Gesù Cristo.

Ora supponevasi che invece solesse invertirsi l'ordine abituale e colla semplice presenza fare il venerdì quello che fin qui solevasi . nel giovedì.

Quì però gli autori del progetto governativo vollero trovarsi in misura. Uno squadrone di gendarmeria era stato appostato dal Merode alla Pilotta; altro era accampato sulla piazza del Popolo; tutti i zuavi erano in armi e pronti ad ogni cenno.

Non basta: la schiuma borbonica vi si voleva cacciata in mezzo; varie centinaja di costoro imbeccati alla spartita dal loro capi, s'ebbero pugnali e distintivi rivoluzionari, affinché spintisi tra la moltitudine, facilmente eccitabile con qualche incidente procurato, menassero le mani senza misericordia, finché la truppa appostata giungesse sul luogo a compiere il massacro.

Il direttore di polizia monsignor Matteucci, che da qualche tempo rugumava, sinistramente l'inframittenza merodiana, riseppe la mina, e parendogli eccessiva e scellerata; (dovendosi codesto direttore noverare tra i più moderati e sottili di tatto, conforme già se ne è discorso a pag. 90 tom. 1) o non volendo lasciare al Merode stesso il vanto di una esemplare vendetta, pare che cautamente facesse penetrare la cosa al generale francese; descrivendogli a tetri colori le conseguenze terribili di un attentato alla fin fine contro pacifici cittadini i quali non danneggiavano alcuno, ma usavano del loro diritto di camminare sulle vie publiche.

Il generale fu compreso dall'ardimento di tali apparecchi, e dimentico de' limiti giurisdizionali imposti ad una semplice guarnigione straniera, che estranea dovria essereagli affari interni del governo, imaginò uno de' soliti campi di battaglia.

Raccolse più migliaja de' suoi senza interessarsi se vera fosse la dimostrazione organizzata dai romani, o la misura repressiva del Merode, nelle ore precisamente che l'una o l'altra, od ambedue avrebbero dovuto compiersi; occupò impensatamente tutti gli sbocchi del corso, ordinando a chi che si fosse di sgombrare; ingiungendo in pari tempo alla gendarmeria pontificia e agli altri militi di ritrarsi in caserma in sull'istante.

Gli uni e gli altri rimasero così delusi, e fu bene; imperciocché la mala prevenzione di ambedue avrebbe potuto addurre un eccidio, ove ai clericali e borbonici fosse riescito il progetto; disdoro e tumulto e tristissime conseguenze avrebbe incolto ai buoni romani, se avesser dovuto ritrarsi.

L'invasione giurisdizionale dal generale francese adoperata nello scacciare la forza publica pontificia in servizio non poteva a meno di commuovere la suscettibilità del governo.

Antonelli protestò energicamente, affinché illesi mai sempre restassero i diritti politici della S. Sede, ed anche perché in altra occasione non osasse troppo temerariamente ingerirsi l'autorità francese destinata a guardare il dominio papale da esterni assalitori.

Mentre in Roma davasi opera attivissima a porre in esecuzione il disegno del Keller concordato coi borbonici e coi più influenti rappresentanti della potestà temporale del papa, un nuovo cambiamento di scena avveniva in Italia, pel quale sostanzialmente il progetto de' vari partiti subì una scossa; la la politica e l'amministrazione dovettero sottostare ad altre modificazioni e ristagni che incagliavano la compattezza e l'integrità dell'autorità del governo; mobilizzavasi la forma dei programmi ministeriali, e con essa perdeva più o men direttamente la stabilità de' principi.

I quali sebbene non potessero allontanarsi da un dato punto di partenza incardinato nello statuto costituzionale del regno, pure sopra interpretazioni più o men late, aggiustate alle diverse combinazioni occorrenti da differenti capi di parte soggiaceva ad una discontinuità perniciosa alla speditezza dell'azione governativa, al giro degli affari, e alle necessità preseutanee, di cui profittavano ad oltranza i partiti medesimi.

Il barone Ricasoli dopo aspra lotta sostenuta nel difendere il proprio programma, veniva quotidianamente perdendo l'appoggio di quella maggioranza che pure avea votato in favore di lui.

L'essersi proposto assunti delicatissimi e gravi a risolvere senza averne sperimentato esito favorevole gli attribuiva sommo elogio di fermezza e di patrio amore; d'altro canto l'inattuabilità già dimostrata del suo sistema poneva il ministro nella necessità di rinunciarvi per non contraddirsi o cadere in debolezza; poneva poi il parlamento nella dura alternativa o di seguire un programma impossibile, o di dividersene risolutamente.

Ricasoli previde il caso e per conservare fino all'ultimo la propria dignità, volle prevenirlo con riferire le sue dimissioni.

Benché si antivedesse da molti questa determinazione che la forza delle cose rendeva inevitabile, nessuno attendevasi fosse così impensata e sollecita.

Ecco frattanto ridestarsi tutte le velleità delle diverse parti; si pensava seriamente quale indirizzo dovesse prendersi nella somma trepidazione delle cose.

Differenti Combinazioni offerivansi come possibili alla omogeneità de' poteri dello stato in armonia colle disposizioni della publica opinione.

O un ministero chiamato di coalizione dove il potere fosse bilanciato tra persone influenti su diversi partiti.

O una combinazione nella quale potesse fondersi lo stesso barone Ricasoli e variando parte de' ministri potesse modificasi il programma ministeriale a tenere delle imponenti circostanze.

Ovvero finalmente designavasi il commendatore Rattazzi capo, del terzo partita, come ministero di transazione.

La prima combinazione più andavasi trattando e meno diveniva realizzabile per la difficoltà di riunire insieme uomini di viste differenti se non nella sostanza, almeno nel modo, il che formava la maggior difficoltà di questi tempi; imperciocché non tanto difettavano le istituzioni o le leggi, ma l'arduo si era farle valere applicandole alle nuove popolazioni annesse, e armonizzare la politica cogl'impegni espressi o taciti verso la Francia.

La seconda non incontrava minori ostacoli; dacché qualunque si fosse il colore da attribuirsi ad altri uomini conciliabili col Ricasoli, non era evitabile la contraddizione o lo scemamento di autorità e di dignità per parte di lui avendo avventurato delle promesse, sarebbe stato costretto ritirarle, eomunque sott'altra forma o sotto altri nomi.

Rimaneva Rattazzi capo di una parte anfibia o ibrida del parlamento, senza programma determinato, ma duttile facilmente ed estensibile; uomo che, volentieri direi, facea professione di liberale, e che alla personale ambizione avrebbe sacrificato lo stesso parlamento e la patria; uomo da cui la nazione altro non avria potuto attendere che misure sterili, eunuche, insufficienti, e il quale avrebbe potuto trascinarsi nella breve sua carriera, lusingando tutti senza contentare veruno.

Però correa un tempo in che era prudente non affrontar troppo le volontà popolari, quando pur fossero men calcolate e sagge, a fine d'impadronirsene e temperarle con freno opportuno.

Se da Rattazzi tutti avean motivo a sperare per le parole e pei principi generali fatti lanciare nel publico, niuno peraltro n'era persuaso, né rendevasi conto del come potesse avvenire.

Chi si aspettava di più da lui era la parte democratica estrema, la quale minacciosa ergeva la testa contro 1 autorità italiana accusandola di servilità, di dappocaggine e di mala fede. ( [41])


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La maggioranza dell'assemblea digrignava i denti, ma pareva disposta a transigere per amor di concordia.

Rattazzi adunque ricettacolo di tutte le cause perdute pareva il sol uomo che nel momento valesse a succedere al barone Ricasoli.

Egli ebbe infatti l'incarico dal re della nuova formazione ministeriale, e dopo spinosissime dispute con tutti i lati della camera uscì la seguente composizione.

Rattazzi presidente del consiglio, esteri, e incaricato adinterim degl'interni — Cordova, grazia e giustizia— Pepoli, commercio — Petitti, guerra —Persano, marina Depretis, lavori publici — Sella, finanze.

Il giorno sette Marzo il nuovo ministero presentossi al parlamento, e Rattazzi espose il seguente programma.

«Ho l'onore di comunicare alla Camera che venerdì il ministero dava la sua dimissione. Sabato, il Re mi chiamava a comporre un nuovo gabinetto, ed io accettava questo mandato, e nominaronsi i ministri che conoscete.

«Io sento che il mio dovere è di farvi conoscere i nostri principii politici.

«Io parlerò francamente e brevemente.

«Credo poter parlare brevemente perché il mio nome. è abbastanza conosciuto dal paese. É facile d'altronde fare un programma vago ed elastico. Il difficile è di agire, ed il paese vuole dei fatti.

«Noi comprendiamo la gravità della nostra responsabilità. Si tratta di unificare provincie che hanno avuto sempre leggi particolari. A questo dovere di unificazione si unisce il dovere di completare l'Italia, riscattando le provincie che non fanno ancora parte del Regno.

«Appunto perchè le circostanze sono difficili il dovere dei cittadini è di non retrocedere innanzi lo scopo. Ma noi attingeremo la nostra forza nella fiducia che ci accorda il Re, in quella che speriamo da voi e nella nostra coscienza.

«Noi speriamo condurre la politica in guisa da non isolarci dalle altre potenze d'Europa. Colla politica dell'isolamento noi non arriveremo mai allo scopo che ci proponiamo. L'Italia ha oggimai il diritto di esser contata tra le grandi nazioni. Il nostro pensiero costante sarà di farle. prendere nel mondo il posto che le danno il numero, la% natura ed il genio dei suoi abitanti.

«Noi dobbiamo coltivare sovra tutto l'alleanza della Francia. Noi siamo uniti a questa potenza non solo dai vincoli della riconoscenza, ma da interessi comuni. Noi non dimenticheremo mai quello che ha fatto per l'Italia il sovrano della Francia, ma non dimenticheremo mai neppure che siamo una nazione indipendente.

«E noi sappiamo che non vi ha alleanza sincera senza indipendenza reciproca. Il Parlamento può esser tranquillo su questo particolare.

«Noi sappiamo pure che dobbiamo coltivare i nostri rapporti coll'Inghilterra, a cui ci legano tante simpatie.

«Se noi sappiamo affermare i nostri diritti con atti, non con parole; se noi sappiamo governare noi medesimi, npu tarderemo ad esser riconosciuti da tutte le potenze d'Europa.

«Vengo alla questione romana. Essa deve risolversi con mezzi morali e con mezzi diplomatici. Il mondo cattolico comincia ad esser convinto che il potere temporale non è necessario al potere spirituale. Oggi le coscienze allarmate cominciano a rassicurarsi: specialmente in Francia si manifesta questo movimento degli spiriti.

«Voi non avete che da leggere la discussione che ebbe luogo al Senato francese.

«Voi vi convincerete del gran progresso che da un anno ha fatto la questione. Questo progresso lo dobbiamo in parte all'eloquenza del principe che si è fatto l'avvocato ispirato della nostra causa.

«La verità riesce a farsi chiara e dissipare tutte le nubi.

«Accanto a mezzi morali, v'hanno i negoziati diplomatici. Noi vogliamo andare a doma, ma vogliamo andarvi d'accordo colla Francia. La Francia ha lo stesso interesse di noi a risolvere la questione temporale.

«Ma, vi ripeto, noi risolveremo la questione di Roma e quella di Venezia organizzandoci all'interno. Noi abbiamo dato al mondo uno spettacolo unico nella storia, quello di un popolo che si unifica senza disturbi né disordini. Bisogna completare la nostra opera.

«Passo alla questione interna. lo ho dato la prova del mio spirito di conciliazione, formando il ministero e dando la mano a tutte le opinioni liberali.

«Noi siamo d'accordo sui grandi principii. Togliamo tutti la stessa cosa. Non bisogna escludere nessuno; bisogna che tutte le capacità possano contribuire all'opera nazionale. Tale fu il pensiero che mi diresse nella formazione del ministero.

«Noi siamo convinti che tutte le provincie, soggiacendo agli stessi oneri, hanno diritto agli stessi benefizi. Io spero che presto si dimenticheranno i nomi delle provincie, e che si farà per gl'impiegati ciò che si fa per i soldati, che si chia mano tutti soldati italiani.

«In amministrazione io sono pel decentramento aniministrativo, pur mantenendo il principio dell'unità.

«Io respingo la taccia di centralizzatore che m'è stata apposta. La legge del 1859, di cui mi s'è fatto un rimprovero, ha finito coll'essere adottata da tutti; e questa è la migliore replica ai rimproveri fattimi.

«Io sono pronto ad accettare tutte le modificazioni in favore del discentramento, ognoraché l'unità nazionale sia rispettata.

«Ecco i miei principii.

«In fatto di finanza la nostra divisa è la parola economia.

«Economia rigorosa, e ne daremo la prova nello stesso bilancio pel 1862.

«Noi prepareremo il bilancio del 1863, introducendovi tutte le economie compatibili col buon andamento del servizio, e noi non sottoporremo alla firma reale che le spese indispensabili.

«Noi vi presenteremo del pari le leggi che devono completare il nostro sistema finanziario.

«Ma la sola cosa, in cui non penseremo all'economia, sarà l'armamento del paese. Fa d'uopo che il paese sia forte ed armato se si vuole che sia rispettato. Si attueranno le leggi e gli ordini del governo votati dal Parlamento sull'armamento nazionale.

«Ma il Governo prenderà sempre l'iniziativa perché è responsabile. della difesa della patria.

«Quanto ai lavori pubblici noi penseremo soprattutto alle provincie meridionali e alla Sardegna. Queste sono le parti d'Italia più trascurate, e che hanno maggiori bisogni. li ministro espose in seguito le idee relative alla marina e al commercio. Egli proseguì:

«Noi sappiamo quanto arduo sia il nostro assunto.

«Noi sappiamo di adempire a un dovere; ed è questa coscienza che ci sostiene contro ogni insinuazione. Noi siamo tranquilli. Noi sappiamo che i nostri atti ci proveranno esser noi animati da spirito sincero di conciliazione, e dal desiderio di provvedere ai bisogni del paese.»

Le parole di Rattazzi, comecché producessero movimenti di applauso per qualche frase fragorosa, non s'ebbero al certo quelle sincere manifestazioni di stima e di rispetto dovute alla nobiltà del carattere e al grande patriottismo di Ricasoli. É singolare che la voce del ministro caduto suonava infinitamente più grave e gradita di quella del suo successore.

Questi in sostanza nulla disse che non si soglia da tutti i ministri, in tutte le circostanze. Nessun equivoco veniva diradato; nessuna espettativa vinta.

In somma niuno scorgeva in questo cangiamento una vera e soda ragione e ciascuno anzi riguardavalo sospettosamente talché se il Rattazzi giunse a raccorre una debole maggioranza, lo si fu perché le gravi condizioni del potere esigevano abnegazione patriottica, spirito di transazione e concordia; e tale fu in realtà il voto di un numero imponente di deputati il quale dopo lungo e agitato dibattimento adottò il seguente ordine dei giorno:

«Attendendo gli atti dei ministero, l'adunanza dichiara che lo appoggerà nella esecuzione del suo programma.»

Il Barone Ricasoli a sua volta dichiarò di non volere uscire dai fatti puramente parlamentari in risposta ai tanti personali sollevati dal Rattazzi; disse che l'ordine del giorno del 10 o 11 Decembre sembrava sufficiente a dare piena autorità nella coscienza publica, e nella coscienza innanzi tutto del parlamento italiano «soggiunse che mancarono in breve le occasioni per le quali esso ministro dovesse dubitare della sua credenza, e senza trovarne la causa, doveva dirsi che l'intento prefissosi non era conseguito; nondimeno egli proseguì con alacrità la trattazione degli affari del paese, fondandosi sulla coscienza di se stesso e la sua fiducia, da cui traeva la forza; ch'ei credeva dover andare per una strada e che questa aveala percorsa col guardo fisso alla meta e nel modo dettato dalla propria coscienza.

Dopo due mesi il ministero non godeva più in fatto quella pienezza di autorità avvalorata dall'intera fiducia che faceva d'uopo alla dignità del governo.

Frattanto una discussione fu agitata nel senato, ove il governo medesimo dichiarò i propri intendimenti e lo sviluppo che intendeva dare all'amministrazione, non essendo il ministero completo, e parve che in quel recinto eziandio non mancasse quella pienezza di voto atto a confermare la fiducia della camera de' deputati.

«Nel fatto poi (proseguiva) nella coscienza del parlamento e nella coscienza publica questa fiducia vi era? Egli asseriva apertamente non saperne trovar la prova. Disse aver proseguito a trattare gli affari con zelo ed interesse, sebbene fosse convinto che non fosse cosa aurabile. Altronde l'opinione sulla durabilità essere condizione essenzialissima per l'autorità preposta ai negozi publici tanto per gli ordinamenti interni, quanto per i rapporti all'estero; quale durabilità era d'uopo avesse fondamento nella fiducia di tutti, nella coscienza universale.

Il voto de' 25 Febbrajo fu de' più solenni. Nella discussione il ministro avea espresso la sua soddisfazione nell'esprimere idee e teorie sulla libertà della nazione, accolte con somma approvazione dalla camera. Non ostante però parve al ministro che quel voto si volesse notevolmente diminuire nella sua importanza.

Per le quali cose egli interrogava vivamente — Qual'è la ragione di questa apparente contraddizione, cioè di voti dichiaranti fiducia, mentre la fiducia non era nella coscienza, e ai voti espressi non rispondeva il vero sentimento degli animi?

È vero che il ministero non era completo, e il ministero avea tutta l'intenzione di soddisfare il giusto vo'o del parlamento; ma sebbene dal parlamento stesso si conoscessero le gravi difficoltà per operare siffatto completamento; tuttavia non ristavasi dall'insistere, sebbene il tempo assegnatogli dalla maggioranza per completarsi, non fosse per anco giunto.

Quanto era palese il difetto del ministero; altrettanto una voce cupa e misteriosa sufficientemente esternata e che non isfuggiva a cui avea il debito investigarla, romoreggiava in seno de' deputati, che cioè il ministero non fosse omogeneo, e che fra se non fosse concorde.

Tale voce che non avea nessuna consistenza nel fatto, dacché di disparità di vedute, o discordia non v'era traccia in grembo del consiglio, le cui deliberazioni erano tutte quietamente discusse e unanimemente deliberate.

Affinché alcun dubbio od alcuna oscurità fosse bandita su di un argomento gravissimo, sul quale la nazione o i suoi rappresentanti per essa avea diritto a prender cognizione delle prove di quanto veniva asserito, il barone aggiungeva che in sole due deliberazioni del consiglio vi fu discrepanza; l'una sulla esclusione od ammissione della pena di morte, in cui era permesso a ciascuno opinare giusta le sue convinzioni, le tradizioni e le abitudini proprie.

(Qui il ministro volle far onore ai suoi toscani asserendo che non usi essi a vedere applicata la detta pena ne' propri paesi, opinarono pel nò, e gli altri pel si, talché il progetto de' nuovi codici videsi presentato al Senato, grave di questa misura)

La seconda discrepanza avvenne allorché trattavasi di presentare la legge che dava corso legale alle monete di oro, nella quale sperimentaronsi contrari i Toscani. ( [42])

Quali divergenze non autorizzavano a dire che il ministero fosse scisso per mancanza di omogeneità di vedute; come del pari la convergenza in tutte le quistioni di politica i cui principi direttivi dell'amministrazione provò un accordo completo, e perfetto.

Non ostante questa esposizione le impazienze esistevano quanto alla completazione del ministero, ed in onta alle publiche dichiarazioni del ministero persistevasi dai più in piegare codesta omogeneità fra i ministri della corona.

Codeste disposizioni non permettevano al ministero, benché forte potesse parere dei voti ottenuti di tenersi fermo; imperocché se il tenore di questi esprimeva fiducia, non erano però tali nelle loro conseguenze da crescere l'autorità morale del ministero medesimo.

«Qual'era adunque il partito da prendersi, (dimandava il ministro) dal presidente del consiglio in previsione del futuro, e rispetto al bisogno di completare il ministero!»

La causa per la quale i voti di fiducia non fosser tali nel pensiero come nei loro effetti e nella loro espressione sembrava esser che restasse continuamente nella coscienza di chi li emetteva la scontentezza di non vedere il ministero completo.

Cosi si dava un voto di fiducia perché il 'ministero si completasse; ma siccome questo restava incompleto, il parlamento si lagnava, e questo lagno era altresì cagione per cui il ministero non si poteva completare; imperciocché era difficile che alcuno potesse con coraggio e con fiducia entrare a far parte di un ministero, mentr'egli nel suo cuore e nella sua coscienza partecipava appunto al dubbio comune.

In ultimo l'egregio barone con franche parole protestavasi così:

«Bisognava pure uscire, o signori da questa situazione ed io tanto più vedeva con soddisfazione il modo di uscirne; imperocché in una posizione equivoca, per carattere, non sono fatto a stare.

«Nacque allora in me, e francamente accolsi nell'animo il pensiero che il Ministero dovesse dimettersi; a seguito di che la Corona, usando delle sue prerogative, avrebbe fatto quello che avesse meglio creduto.

«Io riteneva che non si dovesse restare più a lungo fra la difficoltà di completare il ministero e la difficoltà di rimettere nella coscienza della camera la fiducia che mi era necessaria; e non vidi altro scampo tranne quello delle nostre dimissioni.

«Fu portata in consiglio questa proposta; il consiglio vi aderì ed io la compiei; e poiché si. è parlato della insistenza nell'atto della dimissione, bene si spiega il perché di questa insistenza, la quale partiva da profonda convinzione.

«Io era persuaso che un lungo trattenersi in quella posizione non avrebbe potuto far altro che sciogliere, disfare maggiormente il consenso della maggioranza; il parlamento si sarebbe diviso e suddiviso; già se ne vedevano i sintomi e non fa d'uopo indicarli.

«Conservare in nostre mani il potere sarebbe stato atto colpevole, perché contrario ai dettami della coscienza; e sarebbe stata vera ostinazione, della quale avrebbe potuto rigentir danno il regime parlamentare.

«Rassegnate le dimissioni al re, egli ebbe la bontà di domandare che si attendesse la riunione del parlamento; ma io aveva già la profonda convinzione che la riunione del parlamento non avrebbe mutata la condizione delle cose. Ecco il perché pregai di nuovo la maestà del re di voler accettare la mia dimissione ed insieme quella de' miei colleghi. Il re l'accettò, fece uso, della sua prerogativa; e su questo fa duopo ch'io mi fermi.

«Credo aver dato pieno discarico al parlamento del come procedettero le cose; quindi dichiaro non aver altro da aggiungere a questo riguardo.»

Con codeste franche e leali dichiarazioni déll'eaministro poste in raffronto alla esposizione del nuovo programma ministeriale si compiè l'inesplicabile passaggio da una amministrazione all'altra. Tutti ormai erano in attenzione di ciò che sotto di questa sarebbe per compiersi, e come negli altri cambiamenti, così in questo, ciascuna delle parti perdenti ridestava le proprie speranze, e apparecchiava novelle disposizioni all'indirizzo respettivo. Francia, Austria, Roma, Francesco II, Mazzini, ciascuno a loro posta auspicavansi novelle intraprese.

L'imperatore Napoleone che guidato dal proprio interesse sagacemente usufruttato dal conte di Cavour era stato attratto a surrogar l'Austria in Italia togliendo a quella quanto colle armi e coll'entusiasmo avesse potuto guadagnarsi in questa a pro della Francia, s'avvide Villafranca della illusione, cercò uno scampo ne' due punti di resistenza Roma e Venezia, ma Cavour nel far le viste di adempiere a suoi segreti impegni, tra cui primeggiava il patto di Nizza e Savoja, non perdeva di mira il bene della propria patria e del suo re; favoreggiava l'unità italiana avversando le mene napoleoniche in Toscana, soccorrendo potentemente l'impresa di Garibaldi, e servendosi delle arti della diplomazia per abbatterla e riedificare cogli stessi suoi strumenti la grandezza e l'integrità della nazione.

Era l'astuzia armata contro il mendacio, la frode e il vecchio artifizio della decrepita diplomazia riforbita in parte dal recente tatto napoleonico.

Cavour la vinse su tutti; e pratico eminentemente degli uomini e delle cose, fu secondato mirabilmente dal successo de' suoi elaborati divisamenti; la gloria universale e le benedizioni de' suoi compatriotti hanno reso il guiderdone a lui vivente; la più splendida apoteosi aperse a quell'anima benedetta l'eterno suo soggiorno della immortalità.

La delusa espettativa napoleonica, seguita da successi portentosi, di cui non potevasi agevolmente prevedere il confine, da tempo già gravava sull'animo del monarca francese, il quale per cosa del mondo non avrebbe ceduto un lembo di quella invincibilità, e dittatura materiale e morale che intendeva esercitare non che verso le più rispettate e grandi nazioni, sulla misera, divisa, e serva Italia.

Cavour ormai era fatto l'incubo napoleonico, e certo in più d'un cuore francese non dové la sua morte fornire argomento di pianto.

Ricasoli succedeva a Cavour e al programma di questo corroborato dalla fortuna degli eventi, aggiungeva una franchezza ed un ardire più ingenuo, benché meno effettivo; saldo propugnatore di conseguenze che la Francia per una forza irresistibile ed equilibrata di logica subiva, dovea pesare non meno sul cuore dell'imperatore cui già aggiugnevansi aperti abbastanza i clamori degl'interessi francesi che andavano sempre meglio vulnerandosi o attenuandosi almeno per lo sviluppo incredibile di una nazione vicina virtualmente potentissima e che la storia ostinatamente accennavala come vetusta maestà della civiltà francese.

L'uno e l'altro ministro doveano essere intimamente esosi a vicini, i quali per quanta fosse l'ostentazione loro virtù, erano gli emuli naturali di una potenza nascente che quand'anche modesta e assegnata fossesi tenuta in angusti confini, col peso delle sue risorse e colla sua posizione naturalmente prevalente avrebbe in breve, se non voglia dirsi superato, scosso d'alquanto il. privilegio cosmopolita di Francia; di una potenza che colla lealtà de' suoi inconcussi principi, colla libertà de' suoi ordini, sarebbe in breve stata là dov'era una causa legittima e giusta da difendere.

Rattazzi pareva che nel momento fosse il solo da soddisfare più che qualunque altro.

Egli qualche tempo innanzi avea fatto un viaggio a Parigi, dove s'ebbe lunghi colloqui con influentissimi personaggi, non che collo stesso imperatore.

La publica opinione scorse in quella mossa uno scopo politico individuale, o in termini più netti suppose ch'egli per colà si fosse diretto nell'intento di mendicare favore pel conseguimento di un ministero. Egli impugnò tale asserzione sforzandosi provare l'opposto; ma, quali che si fossero i suoi intendimenti, il fatto sopravvenne a rafforzare le prevenzioni del publico.

Unanimemente ritennesi che il Rattazzi ligio a Napoleone mettesse la sua opera per farne l'Italia dipendente da lui e delle voglie francesi, e che la sua successione a Cavour e Ricasoli significasse appunto una soddisfazione per la Francia medesima, la quale sia per la destrezza del primo, sia per la energia del secondo era costretto a continue preoccupazioni; ora stante le intelligenze e le ispirazioni assorbito tra il profumo delle aule parigine, le suscettibilità imperiali venivano immensamente sollevate per tale nomina, e avendola a fare con tal uomo che non sostenea il confronto de' precedenti, il gabinetto imperiale respirava, augurandosi eziandio di corregare la durezza inesorabile delle conseguenze, di cui il conte di Cavour avea gittate le fondamenta.

— In Roma l'effetto fu vario ed opposto nei diversi campi delle opinioni. I liberali tra i precedenti di Rattazzi, le conferenze imperiali recenti, l'ambiguità elastica o generica del suo programma speravano e temevano a vicenda senza quella securtà che solamente può formare la tranquilla acquiescenza degli spiriti.

I preti se la godevano coll'Austria, e conoscendo la violenza adoperata dal partito estremo contro l'autorità del governo italiano, lusingavansi in parte che la inevitabile deferenza verso quello dal lato del governo medesimo; in parte per l'audacia ed esorbitanza de' capi, le cose sispingessero oltre, e provocassero tale conflitto da ricondurre alla fine il vecchio ordine col ritorno de' rigori giustificati dagli eccessi di piazza e dal furore demagogico. ( [43])


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Il Borbone di Napoli a sua volta si rianimava per le medesime ragioni per cui i preti e l'Austria pigliavano motivo a lusinghiere espettazioni.

Per lui l'operosità e il coraggio ispirato dalle circostanze o dal riflusso degli eventi al governo di Roma e consorti, la confusione,l'imbarazzo, i tentativi estremi ed eroici offerivano il partito migliore ed una pingue messe di progetti.

Francesco II, come altre volte abbiamo avuto occasione di notare ere un punto di diversione strategica; per la quale venivano attratte sul napolitano contro i briganti le forze militari, mentre movimenti guerreschi operavansi sul Mincio; per contrario, a rendersi scambievoli vantaggi, le truppe imperiali austriache si destreggiavano in tortuose manovre, perché attratti anche da questa parte i soldati italiani, meno gravasse il loro numero sulle Due Sicilie, e un campo più facile rimanesse all'ex-re per dar sviluppo alle reazioni secondate dal feroce brigantaggio di quelle provincie.

In mezzo a tanto rimescolamento fra i timori e le speranze, un altra combinazione già nuovamente modificavale; il ministero al primo tocco delle sue discussioni svelò le scissure contenute virtualmente nel suo seno, e l'artifizio caduco, di che componeasi.

Verso la fine aprile il presidente del consiglio già annunziava la dimissione data da alcuni ministri, e la sostituzione di altri, tra cui l'egregio generale Giacomo Durando agli esteri, e all'istruzione publica il senatore Matteucci; uomo reputato per ispeciali dottrine, ma strano, sguajato, volubile coll'atmosfera, presuntuoso quanto ignoto alla politica; uomo che con disposizioni inopportune ed eccentriche pose in iscompiglio varie università, ed empiè di ordinanze e di decreti gli atti del suo ministero, che posero in non lieve imbarazzo il successore che dové racconciarfi, revocarli o sospenderli per ovviare al disordine prodotto da lui dovunque avea cacciato le mani.

Rattazzi era costretto scegliere i suoi colleghi dal terzo partito della camera, e questo siccome veriacavasi quivi soverchiamente ristretto, tornava il medesimo che stirarli sul letto di Procuste, e improntarne de' ministri per forza e quasi a dispetto della opinione.

In una parola il terreno su cui posava il ministero era
fragile e caduco, egli non poteva tirare, oltre che avventurando qualche passo straordinario e inatteso verso Roma e Venezia, e così fondarsi una riputazione che in se non aveva.

Ridotto l'attuale gabinetto a vivere di spedienti, cominciò tale una fantasmagoria di atti e di fatti pugnanti e contradittori da far così smarrire l'orizzonte e divagare l'attenzione generale. In seguito alle scompigliate recite dall'assemblea genovese ed alle discussioni del governo sulla libertà di riunirsi più o meno limitata, a fine di arrestarne gli effetti, era misterioso e inesplicabile il giro impreso formalmente dal generale Garibaldi nelle città più importanti d'Italia sotto il pretesto di promuovere l'istituzione del tiro provinciale o mandamentale, ma in realtà per ridestare gli spiriti e apparecchiarli ad una riscossa che dovea prima abortire a Sarnico, indi da Ficuzza finire ad Aspromonte.

Diamo qui a piè di pagina un esempio delle parole che l'illustre nizzardo andava disseminando nel suo viaggio. ( [44])


É incredibile quanto da questi pregni avvenimenti togliessero motivo i borbonici a raffinare i loro progetti. Essi studiavausi di porre possibilmente in armonia la coincidenza degli estremi, e mentre il partito d'azione minacciava scuotere il governo, il partito d'azione borbonico (se così è lecito chiamarlo) addoppiava le sue congiure senza troppo mostrarsi inopportunamente.

In queste pericolose condizioni un maggiore Italiano destinato alla organizzazione della guardia nazionale, stimò ben fatto mettere in circolazione indiretta col mezzo de' sindaci, senza neppure la solennità della stampa, un terribile manifesto, destinato ad intimidire i fautori del brigantaggio e ad evitare mali ognora crescenti, e pronti a rincrudire col favore delle circostanze.

Tal misura, di cui era autore l'uffiziale maggiore Fumel fu stimata necessaria specialmente perchè alle ragioni comuni aggiungevasi il tristissimo effetto prodotto da un amnistia procacciata ai briganti dal generale Cialdini, a fine di tentare vincere codesta razza colla generosità e con prometter loro di rivedere impunemente le respettive famiglie.

Costoro invece avean profittato della parte favorevole del perdono accordato, senza smettere il malo pensiero di tornare al pristino mestiere.

Moltissimi fra quelli eransi iscritti ne' battaglioni delle guardie mobilizzate; dopo aver esaurito il frutto de' loro assassini, vedeansi disparire dai ruoli e nuovamente ricorrere ai vecchi capi di banda. In altro modo i malandrini raccoglievansi tra loro a piccoli drappelli e suddivideansi in altre bande, le quali infestarono specialmente il Cosentino, e lasciando il contagio tra le guardie mobilizzate, col mezzodi soci o di complici inutilizzavano quanto a se l'utilissima istituzione di questa guardia destinata appunto a reprimere il flagello.

Infiniti furono i mezzi adoperati per reprimere codesti abusi; però infide le guardie di polizia infette ancora delle vecchie abitudini e non abbastanza riformate, riuscivano frustranei o almeno di scarso profitto.

Allora fu divulgato il suddetto manifesto, nel quale, rammentati i tremendi spedienti di Manhes, minacciavansi punizioni incredibili.

Come altra volta in occasione di un severo proclama del generale Pinelli negli Abruzzi, così ora la parte più tenera e filantropica delle opinione europea si conturbò, e nel parlamento inglese in ispecial modo se ne tenne proposito, e venivano rampognati gl'italiani di eccessivo rigore quale non s'addiceva alle miti e liberali tempre del recente governo italico.

— Qui riede il medesimo argomento agitato all epoca del manifesto del generale Pinelli. Se il rigore del governo fosse stato adoperato per l'osservanza normale delle sue leggi, certo sarebbe stato cattivo indizio in governo liberale l'esser costretti a farle così eseguire; nel caso però la severità era eccezionale e imposta vivamente dalla gravezza de' misfatti che la giustificavano nella economia di un danno maggiore.

I signori componenti l'opposizione inglese in questo fatto erano troppo distanti per conoscere con precisione quale e quanta fosse la ferocia degli assassini di Francesco II.

Certo s'essi non avessero dovuto dirsi passionati e da spirito di partito invasi, avrebbero meritato l'accusa non già di umani e filantropi, ma di disumani e crudeli, mentre studiavansi (certo noi volendo) di aumentare il male senza una adeguata sanzione che valesse a distruggerlo.

Urban che fucila una intiera famiglia (Cignoli) tra cui cinque giovinetti, perché detentori di poche munizioni da caccia, in onta pretesa alle leggi marziali; Mourawieff' che sgozza i polacchi, batte le donne e commette atti da disgradarne la barbarie, forse non comrnosse cotanto le tenere suscettibilità di taluni censori, i quali stimavansi autorizzati alla sferza secondo la potenza più o meno temuta dal paziente.

Italia fu povera, indifesa, divisa, impotente e scherno dello straniero; suona aspro ed acerbo cangiare il gradito vezzo, e disabituare l'accento sprezzante di un orgoglioso magistero.

Non è nuovo per noi codesto trattamento, e finché il prestigio effettivo della nostra potenza non concilii più rispettosi sentimenti, è vano attendersene de' più giusti e misurati.

— Suoi dirsi più conoscerne il pazzo in casa propria che il savio in casa altrui. Se i filantropi d'Europa o di Londra ci tenevano il broncio per!e rigide disposizioni che straordinariamente le autorità politiche erano costretti a prendere, noi a nostra volta diciamo che tuttavia erano insufficienti e che la sicurezza publica troppo frequentemente violata promuoveva ogni giorno pressantissimi reclami d'ogni classe di cittadini affinché energicamente vi si provvedesse dal governo.

L'indole appunto di esso mite e liberale, come altra olla abbiam considerato, o non atterriva, o ispirava fiducia di un facile perdono. Per la qual cosa i partiti senza riguardo tenevano alta la testa, e commettevano atti di tale audacia, che nessuno de' nostri censori non avrebbe consentito chiamarla un oltraggio, un vero insulto permanente all'autorità.

Ci asteniamo dal narrare lacrimevoli annedoti che poco più, poco meno da tutte parti del regno quotidianamente giungevano. Erano dessi la consueta riproduzione di assalti, e devastazioni; ci restringeremo ad un fatto avvenuto nella stessa Napoli sotto gli occhi del governo.

Da questo risulterà quanta sia l'imprudenza e la temerità della perversa genia rugiente contro la più santa delle cause; quella della Nazione!

Presso la regia università dl Napoli sorge il tempio di San Severino. Ivi un prete che domandavasi Giuseppe Cocozza, invasato strumento degli ordini indirettamente emanati dai misteriosi dicasteri di Roma, cominciò senza ritegno ad uscire dal pergamo in una diatriba contro il nuovo governo.

Passando in rivista partitamente i fautori di questo, accusò come i più fervidi seguaci gli studenti della prossima università.

Mista com'era l'udienza d'intelligenti e di volgo, varie furono le impressioni suscitate dal fanatismo delle sue parole. 1 primi sdegnaronle e senza curar di lui guardarono:e passarono.

Nella plebe altresì si fè che ad arte s'insinuasse gli universitari avere in animo di perseguitare il predicatore già cognito per le sue dottrine, e che al povero popolo ( [45]) sarebbegli indi innanzi mancato il pabolo della divina parola; dacché al certo costoro richiamandosi alle scomunicate autorità civili, ne avriano procacciato la destituzione e peggio ancora.


Le parole per l'attrito di bocca in bocca fatte più ardenti, fomentarono repentini timori, e con questi aguzzaronsi le ire.

Ben presto una turba di uomini si adunò munita di pietre, di bastoni, e di materie incendiarie; d'un tratto penetrò furiosamente nella università, ed assalse gl'inermi studenti, i quali non attendevensi al certo quella visita indiscreta.

Costretti que' giovani dalla presenza del pericolo a difendersi opposero resistenza come il potevano meglio, e già scorreva il sangue nelle pacifiche oasi di Minerva; quando dalla folla e dalle grida avvistasi la forza publica del tumulto, accorsero prontamente soldati e guardia nazionale, e siccome trattavasi di un moto isolato e che per fortuna restringevasi a pochi sciagurati illusi dalle insinuazioni pretesche, facile fu l'impedire un disordine più serio, restituendo la calma e la tranquillità.

Gli studenti per quanto comprendessero bene l'incauto e malinteso zelo degl'invadenti; non potevano frenarsi ripensando agl'istigatori, che n'erano la vera ed occulta cagione.

Il sangue versato de' loro compagni e l'onta patita nel tempio degli studi fean ribollire gli sdegni e reclamavano vendetta.

Quell'animata gioventù gia vi si apparecchiava, allorché la voce dell'amato loro rettore Giuseppe De Luca li rattenne col seguente proclama.

«Una mano di uomini compri o fanatizzati è entrata con armi violentemente nel recinto della nostra Università, per sacrificarvi al furore dei nostri nemici, motori infaticabili del disordine e della guerra civile.

«Voi eravate intesi ai vostri studi, ed eravate inermi; ed essi vi lanciarono contro e ingiurie e pietre, e vi produssero ferite con armi da fuoco.

«Un pugno di voi resistette anche senza armi; e di maggiori cose voi siete certamente capaci. Voi potreste vendicare l'onta ricevuta; ma è bene che serbiate il vostro braccio a più nobili pugne.

«Questa causa non è soltanto vostra, è di tutti i giovani Italiani, è di tutta Italia.

«il Governo informato di questi fatti, che sono manifestazioni di più vasti ed infernali disegni, già colpisce i manifesti istigatori, ed è sulle tracce degli occulti; alcuni di essi sono già in potere della giustizia, ed altri vi cadranno indubitatamente.

«Il che io posso dirvi anche io nome del Ministro dell'Istruzione Pubblica, il quale, mentre dal canto suo vi prometto di fare che sieno severamente punite cosiffatte violenze, dall'altra parte si promette d a voi che continuiate ad esser tranquilli e dignitosi, siccome si conviene a giovani di paese libero e civile.

«Le nazioni d'Europa, o giovani, ci guardano con diverso pensiero: la nostra maggiore forza finora è stato il senno e la concordia degli Italiani.

«Continuiamo l'opera bene incominciata: e voi, o giovani, dimostrate all'Europa, che sapete contenere il bollore delle vostre passioni d'innanzi ai supremi bisogni della patria comune.»

Que' giovani egregi ossequenti alla parola del loro superiore, non che rimessi alquanto dopo i primi risentimenti desistettero dai loro propositi, abbandonando ogni idea di vendetta.

Non era peraltro questa specie di baldanza de' briganti di città che provocasse soltanto i rigori adottati nelle provincie; le autorità militari doveano disporsi a combattere gli sforzi riuniti de' briganti indigeni e de' forastieri che apparecchiava tuttodì Roma e l'Austria.

L'imponenza di codesti ajuti infondeano un tristo coraggio, addoppiavano le speranze e l'audacia de' malfattori seducevano i borbonici, i quali con maggior fondamento cospiravano a danno dell Italia; talché era d'uopo rafforzar la sanzione della legge per atterrire e sventare codeste forze, collegate di dentro e di fuori, e colla vigilanza e perseveranza insieme proteggere la sicurtà de' cittadini, salvare la dignità della legge e dei paese.

Di fatto alla energia di questi provvedimenti deesi se tante spedizioni organizzate da venturieri esteri specialmente non seguirono effetto. Sapevasi per esempio con puntualità che un deposito clandestino di uomini appiattavasi nelle vicinanze di Trieste, i quali erano cortesemente ospitati ne' conventi circonvicini.

Nel cantiere di Torcello altro deposito raccoglievasi. Quivi il principe di Petrulla ministro di Francesco II alla corte di Vienna animava i suoi campioni esortandoli fervidamente alla grande impresa della restaurazione, e incitandoli a guadagnarsi onore e gloria sercendo il migliora dei re. Designavansi perfino i nomi de' condottieri di costoro, un Ginze, un Selce, e un tal veneto.

Il centro reazionario raccolto nelle provincie austro-itale era a Corfù, dove un Engelbert de Brakel presiedeva, e corrispondeva col comitato di Trieste.

Conoscevasi che il numero delle reclute ascendeva oltre a trecento, e che altri molti erano attesi. Un vapore inglese noleggiato per Malta dovea fornire il trasporto di costoro.

Però gli amici degl'italiani tenevano avvertito il governo d'ogni mossa ostile, e siccome 'nemico scoperto è mezzo vinto, i più ameni progetti per solito svanivano nella leggerezza dell'aria.

Codesta spedizione fu di questo numero: ad evitare troppo aperte compromesse il piano fu cangiato, e non più il vapore inglese, ma alcuni piccoli navigli romagnuoli furono in fretta noleggiati, ed ivi scaricatisi alla rinfusa circa un centinajo e mezzo tra spagnuoli e bavaresi tentarono disbarcare in S. Benedetto.

Avendo altresì saputo che colà l'attendeva una conveniente accoglienza de' soldati italiani, si diressero alla peggio verso l'emporio brigantesco; a Roma per Civitavecchia, dove è agevole imaginare che ben venuti strinsero le destre amiche alle autorità pontificie, si rifocillarono pei disagi del penoso cammino, e accrebbero il numero dei mille eroi del migliore dei re.

— Gli affari delle provincie napolitane, checché ne mormorassero gli stranieri, erano in verità al colmo del pericolo, e da tutte parti si reclamavano urgenti provvedimenti.

Le difficoltà interne e che sogliono accompagnare i grandi mutamenti agglomeravansi con quelli artifiziosamente procurati dai preti, dai borbonici, dai legittimisti, autonomisti, republicani d'ogni colore e via dicendo; le lotte d'impieghi e di cariche pugnavano colle mene d'antichi poliziotti ch'era impossibile conoscere e svellere in un punto; la lentezza della esecuzione ritardava l'energia e la speditezza delle disposizioni governative; la tenacità dello stesso governo in racchiudersi nella stretta periferia delle istituzioni ordinarie costituzionali eccitava la giusta impazienza de' danneggiati continuamente dalle vastazioni de' briganti e dal pernicioso arretramento del commercio.

Se il governo ascrivessi a scrupolo il determinarsi a misure eccezionali, la popolazione stessa che direttamente risentiva il peso de' danni e ne portava la pena pigliava l'iniziativa per rimuovere le autorità dal loro proposito, altronde lodevole, di ristarsi soverchiamente tra i cancelli della legalità.

Una petizione andava coprendosi d'innumerevoli firme, per la quale chiedevansi pronti provvedimenti e straordinari per conquider l'idra del brigantaggio, la cui settemplice testa schiacciata in una parte rinasceva rigogliosa da cento altre.

I deputati dell'assemblea nazionale venivano sollecitati dalle stesse impazienze, e tutto, giorno erano pressati da richiami e da rimostranze, in cui i popoli delle Due Sicilie l'imploravano mediatori presso il governo del re.

La parte più avanzata della rappresentanza accolse i ricorsi vivissimi che affluivano da ogni lato, e unissi in seduta straordinaria.

Erano dessi quarantuno e dopo serio dibattimento convennero nel seguente ordine del giorno

«Sia nominata una commissione, la quale chieda al ministro Rattazzi d'invio a Napoli del generale Garibaldi coi poteri opportuni.»

I deputati Bixio, Miceli e Riccardo Sineo vennero eletti interpreti del voto di quel cospicuo numero.

Il dì 20 circa del mese di Marzo di quest'anno 1862 presentaronsi al sopra lodato ministro, e lui esposero il mandato conferito dalla ragunanza de' quarantuno deputati; rappresentarono vivamente lo stato miserando di quelle provincie, i ricorsi che a migliaja quotidianamente pervenivano in termini disperati e minacciosi; descrissero ancora il pericolo che il go verno avrebbe potuto correre nel lasciar più a lungo fermentare il mal contento di contro alle trame de' preti e all'oro del Borbone; conchiudevano che ad un provvedimento immediato e perentorio avrebbe dovuto appigliarsi il governo, e questo poter consistere nell'inviare con poteri adeguati alle circostanze il generale Garibaldi, il quale per la sua rinomanza, pei recentissimi suoi meriti, e per l'egregia impressione lasciata in quelle provincie sarebbe riescito meravigliosamente accetto, e le cose più dure sanano venute dolci ed agevoli per la sua bocca; gli straordinari spedienti che avesse egli creduto adottare sarebbersi ricevuti come una emanazione delle inesorabili sue risoluzioni; il di lui nome solamente avrebbe gittato lo sgomento ne' tristi, e sopra ttutto spaventato i preti, i quali non avrebbero potuto concepire idea di transazione, o tratto d'inopportuna cortesia con Garibaldi.

Il ministro Rattazzi non potea disconoscere totalmente il peso di queste proposizioni, le quali pur contenevano qualche fondamento di verità nel fatto; tuttavia senza prender di fronte una illustre personalità che formava e forma tuttavia uno degl'idoli meritamente a dorati del secolo, declinò il merito della quistione, e rispondendo evasivamente disse che appunto l'estremo provvedimento d'inviar Garibaldi in Napoli avrebbe potuto mostrare l'impotenza di rimedi più temperati; potersi argomentare da questo che il governo si trovasse alle ultime prove, ed egli (il ministro) aver tali notizie da credere esagerate le novelle delle provincie napolitane, e doversi giudicare effetto naturale degli eventi, piuttostoché efficacia degli artifici clericali o borbonici la grande agitazione di quel paese. ( [46])


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Le risposte del ministro fortunatamente per lui coincidevano cogl'intimi suoi intendimenti, e quelli, per vero dire. del governo.

Non era mestieri opporsi all'idea progettata, né porre in rilievo l'incapacità personale di Garibaldi, o comunque sminuire l'importanza della sua dittatura in Napoli; le più volgari ragioni di prudenza e della politica sconsigliavano l'adozione di un partito dove non avresti saputo scorger meglio se la debolezza sovrastasse al pericolo, o questo a quella.

La maraviglia e la quasi generale disapprovazione destataci nella stessa Napoli fecero un eco di plauso alle parole di Rattazzi.

Anzi siccome il tentar l'azione degli estremi inopportunameute suol condurre al punto opposto, Rattazzi scòrse il pericolo che avrebbe potuto seguire da una dimanda che, per l'autorità delle persone, conteneva un peso non comune, e si affrettò a togliere di mezzo il centro di forza, su cui potevasi far assegnamento per far valere violentemente una richiesta fallita.

Profittò della irritazione suscitata nella opinione dall'eccentrico progetto per determinarsi a sciogliere il vecchio corpo de' volontari che erano rimasti raccolti partitamente dall'esercito, e fonderli con esso disperdendoli nell'ampio corpo dell'armata nazionale.

Di fatti un decreto del 27 marzo ordinava lo scioglimento; gli ufficiali col grado respettivo venivano trasferiti nell'esercito regolare con anzianità dal dì del decreto; la bassa forza era libera di congedarsi con sei mesi di stipendio, ovvero incorporarsi colla ferma legale, ed altre disposizioni, le quali oltre allo sparpagliare l'unione tra le fila militari, tendessero a scevrarne gli elementi eterogenei mercé il ritiro, ovvero una spontanea adesione.

Da ultimo a non rendere troppo brusco il commiato, il governo dichiarò «che per l'avvenire era chiusa l'eventualità delle fusioni; con ciò altresì non intendeva privarsi del concorso de' volontari in caso . di guerra; ma che cessato il bisogno i corpi volontari dovevano esser disciolti. Gli splendidi fatti compiuti dall'esercito meridionale giustificare la eccezzionalità della misura.»

— La situazione del vecchio regno era sicuramente complesssa e piena di pericoli; ma non tanto i fatti di brigantaggio, quanto la congerie smisurata d'interessi e di bisogni pugnanti offeriva esca facilissima ai partiti per esagerarne la portata e spargere la diffidenza ne' buoni da un lato; l'audacia e la speranza ne' tristi dall'altro. ( [47])


Alla citazione di alcuni fatti ed alle mie parole subordino l'autorità di personaggi che per officio e destinazione sogliono attingere a buone fonti le loro notizie, né vi prestano fede se non sieno giunte al più alto grado possibile di certezza morale. Riproduco tra le altre le parole del console inglese residente in Napoli, il quale ripone in livello lo stato del brigantaggio di questo tempo.

«Una grande incertezza (egli scrive al suo governo) continua a prevalere nella provincia di Capitanata. Vi ha in essa parecchie bande di briganti che tengono il paese nel terrore, e deludono con successo la caccia che loro danno i soldati.

Dei rinforzi sono stati mandati ed un nuovo ed attivo generale è stato messo al comando.

Delle relazioni sul brigantaggio esageratissime sono sparse generalmente ad industria e con perseveranza nel paese, con l'ovvia intenzione di cagionare l'allarme e il disgusto.

Il brigantaggio esiste senza dubbio sopra una larga scala, e finora non ha avuto nessuna seria disfatta in Capitanata; nia in altre provincie, sino ad oggi almeno, questo flagello non è punto quello ch'e gli era l'anno scorso, ed in parecchie non esiste punto.

Per quanto io sappia, le Calabrie sono tranquille e gli Abruzzi del pari. Eppure queste provincie erano abitualmente le più perturbate.

Negli Abruzzi si aspetta ora una invasione di avventurieri, i quali si organizzano senza molestia o impedimento a Tivoli, negli stati romani.

Gli agenti reazionari qui si affaccendano non solo a spargere notizie allarmanti, ma a tentare di sedurre e corrompere i soldati napolitani ( [48]) i quali sono ora incorporati in numero considerevole e servono nei reggimenti italiani in queste provincie; però io sono assicurato che questi soldati si comportano eccessivamente bene e che i tentativi di questi agenti non hanno punto successo.


L'illustre Sir James Hudson ministro inglese in Torino segnala anch'egli al suo governo aver buone ragioni per credere che il brigantaggio si stia organizzando dietro ordini dell'ex-re di Napoli e sotto il patronato della corte di Roma per operare in ampie e sanguinose proporzioni nella prossima primavera.

Aggiunge esser suo dovere sottoporre la questione del brigantaggio alla seria considerazione del governo di S. M. perché se il brigantaggio dev'esser di nuovo organizzato e tollerato porrà per la forza delle circostanze il governo italiano tra i due fuochi; infonderà forza nelle fila del partito d'azione, e dall'altro canto porrà il governo italiano nella necessità di mantenere la sua autorità a rischio della guerra civile; perciò, se è al brigantaggio di nuovo permesso di far Roma il suo quartier generale, può obligare questo governo ad adottare un muovimento in avanti, e quel muovimento può accendere le fiamme della discordia per tutta Europa...

Il pericolo non dice consistere nella riunione (di associazioni patriottiche, massime del partito di azione) ma nel gran fatto politico della continuata occupazione di Roma da truppe straniere, quando la necessità di questa occupazione è assolutamente cessata, e questo pericolo sarà tanto più annientato dal fatto che il brigantaggio che è costato le vite di molti onesti coscritti e buoni soldati, che ha reso vedove alcune persone, e ridottene altre alla miseria; ell'è un grave carico per l'erario pubblico, e che è tanto più detestato in quanto che sarebbe represso se non fosse coperto della presenza degli stranieri, e costituito e guidato da stranieri, e composte principalmente dalla schiuma della società straniera, è di nuovo restaurato, riordinato e fiorente nella città' stessa che la nazione italiana chiama sua capitale.

Coerentemente a queste gravi asserzioni che mentre convalidano la narrazione, dimostrano eloquentemente il fatto della connivenza delle due corti borbonica e romana, non che l'impaccio e l'ingiustizia della occupazione francese, esporrò brevemente quanto fossero in realtà potenti in Roma i borbonici, e quanta sollecita protezione riscuotessero dalle stesse autorità pontificie.

— In questo tempo i briganti raccolti in Roma in predisporre i nuovi movimenti non furono mai cotanto audaci e impudenti. Una disputa tra l'ambasciatore francese signor di Lavalette e il general Govon aveano attratto l'attenzione diretta dei governo francese.

Non sarà inutile un breve cenno su questo fatto che dimostra una volta di più la difficoltà della posizione della Francia in Roma e ad un tempo l'instabilità della missione sostenuta.

1l marchese di Lavalette era successo ad altri ministri francesi, i quali per le loro istruzioni indeterminate o manche avean dovuto stemprarsi in vane minacce, o in riflessioni inutili, subendo tali risposte dalle insolenti autorità pontificie, che non sarebbersi menate buone al più potente signore di Europa.

Pareva che sulle orme del passato dovesse trarsene norma pel futuro, e che il nuovo ministro dovesse esser munito di poteri precisi a fin di portare onorevoli ammende sugli antecedenti, e rendere rispettata la bandiera francese.

Invece non guarì dopo il suo arrivo, Lavalette s'avvide che la sua azione veniva paralizzata da quella del generale in capo dell'armata di occupazione; ravvisò di più che le viste di lui erano sostanzialmente difformi dalle sue.

In tal guisa il rappresentante diplomatico sottostava al capo della milizia, che circondato d'altronde dei prestigio militare rendeva più dura la condizione del primo e in ogni caso inefficace.

Codesta anomalia delle due rappresentanze non era nuova per Roma, il ministro Lesseps e il generale Oudinot nel 1849 ne offersero esempio memorando; rovesciata la naturale gerarchia degli ordini vidersi allora come oggi le attribuzioni militari pretenderla sulle ragioni della politica e pressoché imporle.

Sembra che il governo francese quando non sappia cosa si faccia o voglia tenersi al coperto in espettativa di eventi possibili, sparga nelle istruzioni de' suoi rappresentanti un germe fecondo di polisensi interpretabili e arrendevoli a mo' degli oracoli pitonici, affinché intanto in mezzo al fervore delle eterne dispute diplomatiche giunga il tempo dell'avvenimento atteso, ovvero una luce maggiore sia fatta sulle determinazioni da prendere.

Lavalette non appena addatosi del contegno del general Govon non mise tempo in mezzo per reclamarne al governo, attaccando il generale tanto nell'estrinseco quanto nell'intrinseco. Estrinsecamente osservava che il capo di un corpo spedizionario non doveva avere udienze dirette col sovrano o del segretario di stato; che qualunque misura di ordine, di tranquillità; o di massima doveva preventivamente esser con cercata col ministro.

Intrinsecamente sosteneva il Lavalette che le sue idee, conforme alle sue istruzioni, erano in conflitto con quelle del generale, che regolarmente il capo della forza deve sottostare come esecutore delle risoluzioni dirette o indirette del governo, né dee pretendere di politicare né di sovrimporsi alla mente ordinatrice senza scuotere la normalità della gerarchia officiale; che ad ogni modo la sua inerzia nel reprimere la reazione napolitana che cospirava sotto il vessillo francese, i frequenti colloqui coll'ex-re di Napoli, mostravano una deferenza indecorosa quanto inqualificabile.

Govon a sua volta diffondeasi in risposte evasive, che, senza svelarlo intieramente, ammettevano un manifesto antagonismo.

Ogni dì più inacerbivasi la disputa, finché in una lettera all'ambasciatore il generale francamente espose presso a poco ch'egli non intendeva censurare le sue idee; ma che il proprio convincimento politico e religioso comandavagli difendere il poter temporale del papa come ancora elemento d'interesse per la dinastia imperiale e per la missione della Francia.

Non è mestieri ricordare qui che nel patrocinio del conteso potere papale implicitamente trovava spiegazione la indifferenza adottato nel respingere il brigantaggio considerato sicuramente quale elemento politico in difesa di quello.

La quistione ormai era più chiara e spiccata; il capo della forza era divenuto giudice e parte, potenza deliberatrice ed esecutiva; il rappresentante della mente governativa in effetto censurato e messo in disparte; la più difficile ambascerìa soggetta alla critica e al disprezza.

Govon venne chiamato a Parigi sotto colore d'interrogarlo sull'andamento delle cose. Ivi lo scandalo aumentò; pacché sorsero difensori governativi da ambe le parti e nell'accapigliarsi fra loro confermavano la elasticità delle istruzioni commesse all'uno e all'altro; d'altronde oggi era. assai imbarazzante pel governo rimuovere l'un dei due; dacché darla vinta a Lavalette era far troppo contro la corte papale; per contrario aderire a Govon era pregiudicare soverchiamente una quistione che si voleva indecisa.

Al solito le paro!e furono molte; frattanto il giornalismo che avea piene le sue pagine di questo fatto, veniva raffredando i suoi fervori, finché un mezzo termine ricondusse Govon in Roma e Lavalette, il quale altresì poco dopo, a cose tranquille, fu surrogato da altro ministro.

Mentre tutto ciò andava sviluppandosi Govon a mostrare il contrario della sua indifferenza nelle mene napoletane, fe' operare degli arresti borbonici, rilegando àncora a Civitavecchia taluni ufficiali del disciolto esercito fra cui il general Clary; qualche passeggiata militare veniva e andava presso il confine.

Però i borbonici persuasi in fatto della tolleranza del governo francese, da cui emanava indirettamente la impotenza dell'ambasciatore, insolentivano impunemente. Stranieri spagnuoli, francobelgi e bavaresi affluivano più che mai per regolare e dirigere le bande; le squadre formavansi in pieno giorno, e potevano per la via di Tivoli portarsi a Subiaco e per la parte di Palestrina dirigevansi alla Colonna e Ferentino, al Piglio, quindi a Ceprano e Vallecorsa.

Le strade maestre dove di tanto in tanto sono caserme di gendarmeria pontificia non aveano occhi per vedere; i distaccamenti francesi non aveano mani per impedire.

Da una vigna fuori la porta S. Lorenzo dov'erano occultati fucili e. vestiario, poterono partirne liberamente carri alla volta de' briganti già in cammino verso Tivoli, ed ivi essere ascosi in un collegio gesuitico; altri carri di fucili dalla porta Maggiore trovavano adito facilissimo, come uno spettro impalpabile.

Due brevi annedoti proveranno viemeglio la baldanza di questo tempo de' briganti in Roma.

Un tal Domenico Lanza che facevasi appellare invece Antonio Manzèra o Nanzina era l'assassino dello sventurato sindaco di Borghetto; aveva egli accusato un individuo di liberalismo; in seguito di che venne arrestato; poco dopo però trovato innocente da colpa, fu posto in libertà.

Praticava questi una farmacia, il che saputosi dal Lanza, si fe' colà per insultarlo, ma non avendolo quivi rinvenuto, uscì in pazze imprecazioni contro l'Italia, il suo re, e l'imperatore di Francia, gridando coi presenti, cui non interessava nè. punto né poco il motivo del suo accesso nella farmacia, che in Roma commetteansi ingiustizie liberando dal carcere i liberali scomunicati; che alla fin fine in , Roma non comandava né il papa, né Francesco II né Napoleone, né il diavolo ma che comandava la reazione«noi chiavonisti (gridava con voce meridionale ) noi si, e ne volete la prova? Guardate...» e in così dire si rivolse a due gendarmi pontifici, dicendo loro che andassero pure, dacché egli non abbisognava più di loro, e quelli con un cenno rispettoso se ne partirono.

Dopo pochi dì, la polizia francese fè porre agli arresti l'individuo accusato non d'altro che d'ingiurie scagliate contro l'imperatore de' francesi, e benché lo si sapesse l'uccisore del sindaco suddetto, non glie se ne diresse nemmanco parola, anzi non molto appresso, venne rilasciato liberamente...

Si crederebbe? Il brigante osò di ripresentarsi al farmacista, minacciandolo di morte.

Il pover'uomo non ignorando l'impunità goduta da que' furfanti, si atterrii e volle ricorrere alla polizia francese, dalla quale s'ebbe in risposta che alla persona contro cui ei aveva ricorso non poteva farsi di più, e che, in vista delle minacce e del pericolo, la polizia medesima concedevagli il porto di armi per difendersi in caso fosse aggredito.

— Il Boja di Napoli venne a contesa con un calzolajo in Piazza Farnese, e senza più con pochi colpi lo rese cadavere. I gendarmi papali accorsero immantinente; ma riconosciuto il personaggio che avea imbrandito il coltello e percosso, sì arretrarono, a a scherno della giustizia e dell'umanità, l'ucciso rimase inulto sulla terra e il boja potè proseguire tranquillamente il suo cammino.

— Dirò di più che i francesi ormai subodorati dai briganti, eran tanto lungi dall'incuter timore che ne venivano beffeggiati e vilipesi, sapendo ch'eglino mai avrebbero opposto una seria resistenza.

Di fatti agli abitanti di Terracina piacque indirizzare loro un addio in occasione della partenza da quella città, rendendogli grazie per avere specialmente consegnato alle autorità italiane un Conti assassino di due terracinesi.

Frattanto alcuni drappelli di cacciatori venivano spediti per occupar Sonnino, il che risaputosi dai briganti, pensarono di ridersi di loro col gittare sulla publica via, e precisamente presso il ponte dell'Amaseno a Fossanuova, un capo reciso dal busto di un proprietario di Sonnino catturato, e cui arcano imposto un ricatto di 1500 scudi.

Tutti codesti movimenti mal repressi o fortunati cominciavano a produrre i loro effetti fatali, e varie bande già seminate lungo la frontiera o accozzatesi di dentro, mercè l'opera de' comitati raccoglievansi In forte numero e cominciavano ad operare fatti più rilevanti.

Adduciamo pochi esempi; ma tremendi: il maggior generale Govone narra in un suo rapporto il fatto d'armi avvenuto in Luco; gradita e autorevole al corto risuonerà la voce di lui medesimo che fu parte e testimone.

«Il 30 marzo (ci scrive ai distaccamenti posti sotto i suoi ordini) partiva da Roma una banda di 200 briganti la quale per Subiaco e Filettino ([49]) penetrava in Valle Roveto il 6 aprile prima di giorno, e traversato il Liri, si gettava sopra Luco.


«Informate le truppe partivano da Valle Roveto ed Avezzano per seguirne le tracce. Luci) era intanto invaso da ogni lato:parte della masnada ne occupava gli sbocchi, i più gettavansi sul cuore del paese per sopraffare il piccolo distaccamento del 41 fanteria che vi stava a presidio.

«Il sergente Pasolini di Cesena aveva tempo d'impugnare il fucile o sparare a dieci passi su due briganti che primi giungevano, ferirne uno,. e chiudersi col suo drappello di 15 uomini nell'angusta caserma.

«Qui cominciò una lotta feroce. I briganti cercavano sfondare la porta, sparavano contro le finestre, mettevano fuoco ad una camera a pianterreno, scassinavano il muro dietro alla caserma congiunta ad altre case più alte, e mettendo per la breccia fascine, appiccavano fuoco anche al tetto.

«Il piccolo drappello circondato dalle fiamme rispondeva ai colpi, sparava contro gli aggressori per il tetto, per la porta, per le finestre, e rispondeva degnamente all'intimazione di rendere le armi Non pochi briganti furono feriti in quest'attacco che si prolungò dalle 10 del mattino all'1 ½ pomeridiane.

«Mentre la compagnia del capitano Galli accorreva da Avezzano, una pattuglia di tre uomini comandata dal caporale Fantuzzi Silvestro, veneziano, era sortita per informazioni da Frasacco: Al suono della fucileria aveva progredito a Luco. Il rumore dei colpi, il fumo delle fiamme mostravano il pericolo de' compagni racchiusi in paese. L'intrepido caporale disse ai suoi: od aiutare i nostri o morir con loro; e senz'altro al passo di corsa, al grido di Savoia, Savoia, penetrò nel villaggio. Tutto cede all'impeto di quattro valorosi che sono, oltre al caporale Fautuzzi Silvestro, i soldati Castagnoli Sebastiano della terza compagnia del 41.° reggimento di Meldola, Laurenti Giacomo, di Cento, della suddetta compagnia e reggimento, e il milite Rampana Antonio della quinta compagnia, guardia mobile d'Avezzano.

«L'orda dei briganti s'aperse fuggendo. Credè senza dubbio che le truppe numerose tenessero dietro a loro. Fu dato il segnale della fuga, il distaccamento fu salvo, ed il villaggio risparmiato al sacco, all'incendio, all'assassinio.

«Il sergente Pasolini al giungere di quest'aiuto spalancò la porta, e col suo drappello irruppe sui fuggiaschi.

«Venti minuti dopo giunse il capitano Gatti che prendeva ancora presso il paese uno dei capi che portava insegne di capitano. Fu fucilato, e la compagnia si metteva sulle tracce dei fuggitivi.

«Un'altra colonna condotta dal maggiore Marsuzi per le alture avrebbe tagliata la via di scampo all'intiera orda, se una falsa notizia non la faceva deviare.

«La banda ebbe tre morti trovati finora ed otto feriti. Seguita senza posa dal capitano Galli, dal maggiore Marsuzi e dal capitano Besozzi del 41.° reggimento, priva di viveri, estenuata si disperdeva gettando armi, cappotti e zaini. Una quindicina furono già arrestati in varie direzioni dalla truppa, dalla guardia nazionale e dai contadini. Una cinquantina di briganti ripassarono il Liri la mattina del 1 inseguiti dal luogotenente Polidori del 41.° reggimento che raccolse armi e vestiario gittati nella fuga.

«Alle truppe che ho l'onore di comandare sulla frontiera rendo noto la fermezza del distaccamento di Luco, e l'eroica abnegazione della pattuglia di Frasacco; ch'esse tutte, lo so, dall'uffiziale al soldato, imiteranno al caso.»

Altri fatti di qualche importanza andavansì succedendo; però l'energia delle truppe italiane, specialmente del generale Franzini in Capitanata e in Basilicata opponevano una tale barriera da togliere speranza ai briganti d'imprese decisive, sebbene parziali.

I francesi ancora di tanto in tanto, dando segni di vita, accresceano l'imbarazzo. Un distaccamento francese ricevuto a fucilate verso i prati di Campoli presso Veroli di è in sulle furie, ed uscito risolutamente in campagna fugò al primo apparire i briganti, s'impadronì di viveri, munizioni e vestiario, ed affinché in seguito non si verificassero offese verso i francesi (i quali già molto operavano a prò de' briganti, tollerando e dissimulando) un loro comandante in Veroli publicò un bando terribile, pel quale veniva comminata la fucilazione a chiunque venisse còlto colle armi alla mano, o che prestasse viveri ai briganti.

In tal guisa, come le altre bande, anche quella di Chiavone forte di oltre a duecento uomini, era impedita nelle sue preconcette operazioni; essa difettava perfino di viveri; dacché per quanto Roma contribuisse soccorsi, la massima parte degli approvvigionamenti doveva riscuotersi dal sacco e dai ricatti, i quali se fossero venuti per avventura a mancare o ritardare, facevasi in sull'istante sentire l'inopia e la fame ([50]).


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Tra gli stranieri menò immenso rumore l'arresto seguito in Gaeta di un tal Bishop inglese.

Costui se la passava tra Napoli e Roma apportatore di lettere e dispacci reazionari, abusando sicuramente del suo accento straniero, pel quale era men sospetta l'ingerenza, massime come nemico, in affari di altra nazione.

Mala sorte per lui volle che in una corsa da Napoli a Roma s'imbattesse in una vettura dove erano amici del governo italiano, e udendolo parlare in lingua tedesca, sembra che qualche motto fosse compreso dagli astanti.

Da Capua fu telegrafato a Gaeta; ivi là questura perquisì il Bishop, che fu trovato possessore di molte lettere suggellate, come per le ulteriori indagini fiscali si scoperse in seguito, dirette a reazionari, un ritratto di Francesco II colla sua stessa firma, una lista delle forze, le quali dovevano operare il primo grande movimento della restaurazione: ammontavano esse in cifra a ben 80,000 uomini, ed altre carte di rilievo.

Egli veggeodosi sospeso, malgrado la creduta sua inviolabilità, oppose ogni maniera di resistenza, la quale gli meritò in Mola un trattamento men gentile di quello che indi si avesse a Napoli, lorché egli stanasene da buon prigioniero; invocò la mediazione dell'autorità diplomatica inglese, la quale, avuti schiarimenti in proposito dalla giustizia, lasciò ch'ella seguisse il libero suo corso.

Nell'amarezza del suo dolore e parendogli impossibile non trovar protettore tra suoi connazionali (come in verità ne trovò anche in parlamento nella persona di Lord Normanby) vergò una lunga lettera, nella quale, lasciando stare quanto non ci appartiene strettamente, egli confessava aperto la mala accoglienza ricevuta da tutte parti, per dove transitava «Vile realista (egli stesso narra gli si dicesse ) ti faremo conoscere il valore del prezioso sangue sparso dai garibaldini.» ( [51] )


Questo straniero dopo la più scrupolosa procedura venne condannato alla galera insieme con Tristany, monsignor Cenatiempo, Caracciolo ed altri insigni briganteggianti.

In queste proporzioni agitavasi il brigantaggio, mentre da mille inciampi veniva conquiso, disperso, e illusi rimaneansi gli augusti cospiratori di Roma. Due fatti altresì suscitavano nell'animo loro nuove visioni, per le quali lusingavansi che o le forze reazionarie vincitrici progredissero, ovvero risorgessero oppresse.

Garibaldi dopo il lacrimevole incidente di Brescia e di Sarnico, avea corso trionfalmente molte città d'Italia; il marchese Pallavicino Trivulzio intrinseco di Garibaldi, era stato nominato prefetto di Palermo; l'illustre generale con molti de' suoi in pieno giorno riconvocava da ogni lato i suoi, e ordinavali ad ignoti conflitti appunto nella giurisdizione palermitana; il governo per mezzo de' suoi rappresentanti o plaudente o silenzioso, o incerto sul consiglio da prendere; pareva che di concerto col ministero Rattazzi un gran colpo dovesse riversarsi su Roma.

Di qui un nuovo movimento di truppe distrasse i progettati piani di repressione del brigantaggio, e i briganti quantunque presentissero che sieno le forze militari del governo, sieno le irregolari rivoluzionarie sarebbergli riescile del pari fatali, si restrinsero generosamente sulla difensiva, né osavano innoltrarsi troppo, studiando altresì le alternative del tempo per cogliere l'opportunità che ben a ragione potevano veder sorgere dallo straripamento di eventi novelli.

Garibaldi venne arrestato ad Aspromonte e le inique speranze de' nemici d'Italia di veder la patria lacerata nel terribile cozzo degli estremi, si dissiparono in quella giornata ad un tempo fortunata e dolorosa.

Anzi rimasto nelle mani del governo italiano il frutto della disputa, un trionfo di più si aggiunse alla causa italiana; il ministro Rattazzi vittima della viziosa sua origine, dopo avere inutilmente lottato con elementi eterogenei, al grido pressoché generale di riprovazione cadde per far luogo ad un periodo di politica, che messe in disparte le personalità e i prestigi, venisse più accetta all'universale.

— L'altro fatto che richiamò per poco l'attenzione di tutti fu la grande convocazione dell'episcopato di Roma per la canonizzazione de' martiri giapponesi.

Questa occasione, come gia accennammo, toglievasi a pretesto, mentre la vera cagione di tale ragunanza, era dommatizzare la disputa eterna del temporale dominio, di guisaché tolta essa dalla terra e traslocata nella periferia spirituale, sarebbe sfuggita al dominio politico per occupare i penetrali della teologia.

Divinizzando il dominio terreno del papa era indiane specialmente il diritto dei re confondendo le origini e i principi; ma la serie terribile delle conseguenze che sarebbono derivate da una abnorme dichiarazione indusse il papa a stabilire che la S. Sede non sosteneva come dogma di fede il poter temporale ma che, ritenevalo necessario nell'attuale ordine della Provvidenza.

Il gran consesso si disciolse senza aver conseguito l'intento, e non potendo far meglio l'uno o l'altro da più intenti membri dell'episcopato tentarono di seminare nuove scissure nella opinione, e volgendosi direttamente all'ex-re Francesco ed alla sua consorte, inviarono numerosi e fervidi indirizzi, pei quali tra il velame degli auguri della restaurazione veniva iniquamente incoraggiato il brigantaggio.

XXXII

L'impegno contratto nell'annunciare al pubblico il mio lavoro è compiuto. Non potevasi prevedere che un flagello cotanto desolante, qual è il brigantaggio perdurasse così che il numero di pagine promesso non fosse capace contenerne la descrizione; né era da presagire agevolmente che il principalissimo sostegno delle pretensioni di Francesco II, il governo pontificio, da parecchi anni agonizzante e percosso dalla costante indignazione dell'Europa civile, valesse ancora ad alitare posando il capo e i fianchi sulla punta delle bajonette francesi, per le quali eziandio un tempo congruo a matura discussione avrebbe dovuto persuadere che in Roma non v'era più una causa giusta da difendere.

Il fatto superò l'espettativa ed io costretto tra l'obligo assunto e l'argomento, debbo imporre per ora fine al mio dire, augurandomi tra poco di completare questa storia miseranda con impegno distinto dal presente.

Prima però di lasciare il mio lettore, io vuò schierarle sott'occhio e in un sol punto di veduta i punti sostanziali a conoscere, per foggiarsi un giusto criterio in una quistione interessantissima a cui non è estranea l'Europa, non che l'intiera umanità. Godo altresì che guida a questo intento non sieno già le parole mie incomposte e che debbono risentirsi de' vizi di una opera istorica contemporanea; ma sibbene le indagini autorevoli praticate dalla commissione pel brigantaggio scelta all'uopo dal nostro parlamento italiano.

La relazione prodotta all'assemblea è soverchiamente lunga per esser contenuta nel resto di questo libro; ond'è ch'io più aggiustatamente ch'il possa, riporterò in compendio, o testualmente all'occorrenza, quanto crederò giovare in modo rigoroso, al mio tema; rimettendo il cortese leggitore per uno studio e informazione più precisa alla relazione stessa che già vide la luce.

Ciò che direttamente colpisce il nostro scopo è la prova della complicità della corte pontificia e borbonica col brigantaggio; prescelgo gli argomenti più stringenti che ciò provano, e quantunque talvolta la relazione riferisca qualche fatto o concetto non diversamente da me, l'importanza del rapporto ufficiale accrescerà autorità a quanto scrissi e renderà più fermo, sicuro e confermato il giudizio.

Ecco i brani che ho stimato opportuni alla dimostrazione in proposito:

«Se Francesco II ha abusato ed abusa della ospitalità largitagli dalla persona del pontefice, non può essere addebitato della stessa colpa verso il governo pontificio. Discorrendo in modo generico, si può inferire la connivenza dalla tolleranza, la complicità dalla inerzia nell'impedire il male; ma i fatti chiariscono che la connivenza e la complicità del governo pontificio col brigantaggio non si restringono negli accennati confini; poiché sono connivenza sciente e deliberata, complicità attiva, perenne, efficacissima.

«Francesco II, ci veniva detto a Sora, è il perno del brigantaggio, ma il governo pontificio palesemente lo tutela.

«La radice del brigantaggio, ci diceva il senatore Ferrigni, avvocato generale presso la Corte di Cassazione di Napoli, è a Roma; finché quella non sia tolta, non sarà estirpato il brigantaggio.

«Da Roma, ci diceva il senatore Niutta, presidente di quella stessa Corte, viene il principale alimento al brigantaggio.

«L'incitamento massimo, ci diceva l'illustre Luigi Settembrini, viene da Roma; di dove più che il danaro viene l'idea che li è il re delle Due Sicilie che può tornare. I fatti dimostrano che queste opinioni autorevoli hanno fondamento nel vero.

«A Roma havvi un ordinamento regolare di bande, come di esercito che si ammannisca per combattere nemici. I conventi di Trisulti e di Casamari sono ricettacoli notissimi di briganti; sono i loro quartieri di predilezione.

«Nel 1861 monsignor Montieri, vescovo della diocesi di Sora, ora defunto, aveva fissato stanza nel convento di Casamari, ed ivi con I assistenza del padre abàte di detto monastero e di parecchi legittimisti forestieri organizzò quella banda di briganti, capitanata dal De Christen, che venne sconfitta ed inseguita dalle truppe comandate dal nostro valoroso collega, il generale Maurizio di Sonnaz.

«Naturalmente, la polizia pontificia adopera tutte le scaltrezze immaginabili, perché manchino le prove dirette e giuridiche della sua connivenza con i masnadieri. Le astuzie però, le cautele, le accortezze sono tradite dai fatti.

«Le bande si organizzano sul territorio romano senza molestia di sorta alcuna. Il Tristany fa forniture di pane e di viveri dentro i paesi senza che le autorità pontificie trovino nulla a ridire.

«Nel mese di marzo 1862 si spedivano da Veroli 121 razioni di pane al giorno ai briganti raccolti nel convento di Trisulti; né ostacoli di sorta erano frapposti a quest'invio quotidiano. Due volgari grassatori nativi della Selva di Sora abitano a Veroli; e fanno da guida e a Tristanv e ai gendarmi pontifici.

«Le provincie di Frosinone e di Velletri sono quelle dove più d'ordinario le bande si formano; nessuno dei contadini di quelle due provincie vi prende parte; sono avventurieri forestieri, oppure malviventi e miserabili provenienti dalle provincie napoletane.

«I componenti della banda di Tristany sono per la maggior parte vestiti con la divisa militare, e coloro che recitano la parte di ufficiali recano i distintivi dei rispettivi gradi. La polizia pontificia non ha occhi per vedere que. i apparati di guerra, e li lascia compiere tranquillamente senza arrecare ad essi il più lieve disturbo.

«Alla fine della stagione estiva dell'anno 1861 la banda capitanata dal Chiavone, che, tante volte disfatta, erasi altrettante volte rifornita e rifatta, raggiunse proporzioni rilevanti.

«Si partiva in otto compagnie di 50 uomini ciascuna, ed annoverava i suoi capi con le denominazioni di gradi tolti dalla gerarchia militare.

«Fra suoi componenti, massime tra' sedicenti capi, erano avventurieri spagnuoli, francesi, svizzeri, irlandesi ed il belga Trazeignies. Cotesta banda accantonava impunemente verso la frontiera di Sora, tra Santa Francesca e Casamari; aveva persino gli avamposti e le vedette; né mai ebbe a patire molestia alcuna, Onchè essendosi risoluta l'11 novembre 1861 a passare la frontiera si ebbe dalle nostre truppe il meritato castigo nei combattimenti d'Isoletta e di San Giovanni Incarico.

«Ogni qualvolta i briganti valicano la frontiera sono incontrati dalle nostre truppe e sbaragliati, ma poi hanno avuto sempre agio di rifarsi e di riordinarsi ripassando tul territorio romano. A Campo di Fiori e a piazza Montanara in Roma vi sono persone, le quali notoriamente ingaggiano chi possono trovare per le orde brigantesche.

«Scelgono e trovano le loro reclute fra' contadini dell'Abruzzo Aquilano che sono fuggiti per tema della leva, oppure per delitti. Il governo pontificio sovviene con aravi e col danaro, e per non essere scoperto adopera ogni sorta di artifizio. Una volta, a modo d'esempio, fornì parecchie centinaia di cappotti militari,, e per riuscire nell'intento il ministero delle armi annunziò una vendita all'asta pubblica di quei cappotti. Un prete francese si presenta,. a all'incanto, faceva mostra di comperarli.

«Una volta in poter suo, li consegnava puntualmente a coloro ai quali erano destinati. I comitati borbonici di Alatri, di Frosinone, di Ceccano, di Velletri, di Pratica si adoperano senza posa a sovvenire in ogni maniera i briganti. Del comitato di Frosinone fanno parte un giudice, il cancelliere vescovile, due canonici ed il curato; di quello di Ceccano una persona addetta al servizio della casa del cardinale Antonelli; di quello di Alatri fanno pure parte dei canonici; di quello di Pratica l'arciprete, che talvolta accompagna di persona i briganti.

«All'abbadia dei Passionisti in Ceccano risiedono un gendarme pontificio e due gendarmi pensionati che servono da guide ai masnadieri. Nè il Tristanv si da nessuna briga di mascherare il suo scopo; assume palesemente il titolo di maresciallo di campo comandante le regia truppe del regno delle Due Sicilie.

«Abbiamo veduto in proposito un documento originale che qui trascriviamo:

« Comando supremo delle regie truppe del regno

« delle Date Sicilie.

«N. 41.

«Spedisco a bella posta il mio quartier mastro con in
carico di riscuotere delle somme da taluni signori che bus;
a 'cui sono diretti li uniti ufficii, ed alla ricevuta della moneta di detto quartier mastro consegnerà agl'interessati la regolare ricevuta.

«Impegno lei di adoperarsi a tutt'uomo per lo adempimento di questo affare, facendolo certo di tutta la mia considerazione.

«Dal quartier generale di Rendinara, 15 luglio 1861.

« Il Maresciallo di campo

« R. TRISTANY.

«Al signor Isidoro Borselli, capitano, in Ceprano.»

«Accanto alla firma del Tristany è l'impronta del suggello borbonico, identica a quella della quale abbiamo accennato a proposito della lettera del brigante Tardio in provincia di Salerno.

«Dalle deposizioni fatte e giuridicamente raccolte da due fratelli Colafella, ex-soldati borbonici, dinanzi al presidente della gran Corte criminale di Chieti il giorno 21 gennaio 1862, risulta: che gli arrolati borbonici, e volontarii ed ex-soldati, fossero acquartierati parte fuori, parte dentro Roma, e questi ultimi a San Sisto vecchio, che i loro ufficiali fossero parte napolitani, parte stranieri, che essi fossero calabresi, abruzzesi, siciliani e napolitani, che ricevessero gli ordini da Francesco II, che, prima di essere acquartierati, avessero per parte di lui 25 grana al giorno, e dopo acquartierati, pane e truppa, oltre abito bigio, fucile, baionetta e sciabola, e che vi fosse tempo nel quale erano costretti a far gli esercizii militari.

«La notte del 5 al 6 di aprile dell'anno 1862, un duecento briganti, che al solito si erano accozzati ed impunemente ordinati sul territorio pontificio, valicavano il Liri, ed alle 10 antimeridiane del giorno 6 piombavano inaspettatamente sopra Luco, paesello collocato sulle sponde del lago Fucino nei circondario di Avezzano il presidio era composto da un distaccamento di uomini del 41.° di fanteria, cinque dei quali per ragioni di servizio erano assenti.

«Nel volgere di pochi momenti i briganti baldanzosi per il soverchiante numero occuparono tutto l'abitato. Il sergente, che comandava il distaccamento, si asserragliò nella caserma risoluto a vender la vita a caro prezzo.

«Lunga ed accanita fu la lotta: la porta della caserma non potè essere atterrata; ed allora i briganti, saliti sul tetto, si diedero a rovinar le tegole ed a gettar fascine, alle quali appiccarono il fuoco. I soldati non posavano dal combattere; sparavano dai fori del tetto, dalle finestre; alle intimazioni di resa rispondevano con rifiuto sdegnoso.

«L'accanita lotta durava da tre ore: già il tetto ardeva, e minacva di seppellire sotto le fumanti rovine l'eroico drappello; allorché una pattuglia di cinque uomini ed 'un caporale, uscita dal vicino paesello di Trasacco, in perlustrazione, udito il rumore della moschetteria, accorreva al passo di carica ad aiuto degli assediati.

«Quel caporale, prese incontanenti disposizioni militari opportune ed ingegnose, sì avanzi impavido verso Luco al grido di Savoia; i briganti che stavano in vedetta alla punta del villaggio stimarono che quei pochi soldati fossero l'avanguardia di una colonna di truppe che muovesse ad assalirli, e perciò, dato il fiato alle trombe per avvertire i compagni del creduto pericolo, la comitiva tutta si diede alla fuga.

«Il capo, che era un Pasquale Mancini, di Pacentro, luogotenente di Chiavone, veniva preso e fucilato. La stessa sorte toccò ad altri: la banda fu decimata e dispersa.

«Fra gli arrestati era un tal Paduli, ex-sergente borbonico, il quale, interrogato, dichiarava: gli arruolamenti farsi a Roma, presso il farmacista Vagnozzi, a Campo di Fiori; essere la sua banda (forte di 200 uomini) partita da Roma il 30 marzo a piccoli distaccamenti da 15 a 20 uomini l'uno, essersi radunata il 4 aprile nel piano di Arcinazzo non lungi da Trovi, vicino ad un'osteria: aver ivi incontrato un carro carico d'armi, che aspettava la banda, le armi essere state distribuite da un prete per nome don Luigi, il quale compartiva loro la benedizione e poi li diresse alla volta di Anticoli; più lungi aver trovato in una masseria gli abiti militari, e tutti i briganti aver ricevuto un cappotto grigio sul modello francese con i colli gialli ed i rispettivi sacchi.

«Permessi gli arruolamenti, gli esercizi militari degli arruolati, lasciata piena libertà alle bande in tal guisa organizzate di percorrere senza molestia il territorio romano e di cercarvi scampo sicuro dalla giusta punizione, che senza alcun dubbio riceverebbero dalle truppe italiane, qualora queste potessero oltrepassare la frontera; data piena balla ai capi delle masnade di far forniture di viveri nei paesi: dare i gendarmi per guida ai briganti: non torcere neppure un capello a nessuno dei componenti i diversi comitati borbonici: e che cosa potrebbe fare di più il governo pontificio per mettere in piena luce la sua cooperazione incessante al brigantaggio?

«Nè, a malgrado delle astuzie e delle precauzioni della polizia pontificia, mancano documenti autentici a corroborare materialmente il convincimento morale che risulta dal complesso dei fatti e della logica stessa delle cose.

«Le due lettere che qui trascriviamo ( [52]) vennero scritte da un brigadiere dei gendarmi pontifici, vale a dire da un individuo che non poteva certamente aver carteggio e relazioni con. i briganti, se non ne avesse avuto il beneplacito dai suoi superiori od almeno non fosse stato certo di non incorrere nel loro sdegno. Ora cotesto brigadiere era in carteggio con Chiavone, e gli dava dell'eccellenza.

«In quell'andar di tempo Chiavone stava sulla montagna tra Veroli e Sora; i soccorsi in uomini ed armi gli pervenivano da Roma e da Velletri, ma per salvare le apparenze, gli uomini che dovevano raggiungerlo evitavano di battere le strade principali, e per Vallecorsa prendendo il confine e lasciando a destra Terracina si recavano alla residenza del ladrone, la cui banda erano chiamati ad ingrossare.

«A Sezze poi teneva domicilio un Gallozzi, famiglio e colono della casa Antonelli, il quale fu nominato da Chiavone tenente prima e poi capitano con l'incarico di radunare ed indirizzare i briganti, e provvederli dell'occorrente.

«Sembra che un incarico dello stesso genere venisse affidato al gendarme che scriveva la lettera, e che quegli, rispondendo, accettasse.

«Ecco questa lettera:

«Li 5 settembre 1861,

«circa le ore 16 italiane.

« Gendarmeria pontificia

« Comando della brigata di Vallecorsa.

«(D'UFFICIO)

«Eccellenza,

«Contro ogni mio merito nell'ora suindicata ho ricevuto il di lei dispaccio in data di ieri per mezzo di due di a lei corrieri; dai suddetti due corrieri ho inteso tuttociò che. brama l'E. V. che io eseguisca.

«Dal canto mio l'assicuro, signor generale, che farò del tutto, anche a costo della vita, onde poter appagare alle brame dell'E. V., e la prego a stare tranquillo che il tutto sarà provveduto colla massima tranquillità e segretezza.

«Mentre con sensi della più alta stima e profondo rispetto passo a rassegnarmi

«Dell'Eccellenza Vostra.

« Il comandante della brigata ([53])

«GAETANO BOLOGNESI, brigadiere

«Un altro artificio usato dal governo pontificio per favorire e coadiuvare il più che può il brigantaggio è il seguente. 1 comitati borbonici residenti di là della nuova frontiera hanno naturalmente de' mezzi di frequenti comunicazioni con i loro aderenti che sono di qua, ma adoperano il meno che possono la scrittura e preferiscono trattare le loro faccende oralmente per mezzo di persone che s'incaricano di fare l'ufficio di corrieri.

«La linea della frontiera è abbastanza lunga ed il passaggio è continuo: né riesce molto agevole invigilarlo od impedirlo. Per meglio riuscire nell'intento, le autorità pontificie usano non restituire i passaporti esibiti da persone che esse sanno non parteggiare per casa Borbone.

«Il viaggiatore che presenta all'ufficio pontificio d'Isoletta il suo passaporto in regola ne riceve in cambio un altro. In tal guisa tutti quei passaporti, regolari servono poi a far passare la frontiera, senza destar sospetti, le persone che vanno e vengono, per mantenere le comunicazioni fra i cospiratori ed i briganti.

«In pari tempo i borbonici residenti in Roma hanno una officina di spedizioni e di passaporti. Noi stessi abbiamo avuto occasione di veder parecchi di cotesti passaporti, i quali recano tutti la intestazione Regno delle Due Sicilie, l'impronta del sigillo borbonico e tutti vidimati con firma e bollo dalle autorità pontificie.

«Queste autorità pontificie accettano dai briganti persino la consegna dei prigionieri che essi fanno. Rarissimi sono i casi, nei quali sia riuscito ai masnadieri di fare prigioniero qualcuno dei nostri soldati, e quando ciò è avvenuto, la proporzione numerica dei briganti ai soldati era almeno di cinque ad uno.

«Laonde a noi sembra dimostrato che le relazioni, le quali corrono tra il governo pontificio ed il brigantaggio nelle provincie meridionali non sieno né la connivenza inerte della tolleranza, né la connivenza platonica della comunanza di desiderii, principii, di scopo, ma bensì la complicità effettiva e reale della cooperazione. É il nesso che stringe l'effetto alla causa, la conseguenza alle premesse. E questa complicità si manifesta in tutti i modi e ad ogni occasione, con i mezzi morali parimenti che con i materiali.

«Il governo pontificio sovviene ed agevola in tutte le guise l'opera del brigantaggio; col danaro, con la protezione visibilmente accordata in Roma agli arruolatori di briganti, e con, le istruzioni all'episcopato napolitano, le quali (e gli atti del processo di monsignore Frapolla, vescovo della diocesi di Foggia, non consentono di dubitarne) sono informate da senso di non dissimulata profonda avversione contro il Governo italiano.

«Tant'è, o signori! le mani sacerdotali si levano a benedire gli assassini; la croce è profanata a simbolo di eccidio e di rapina. Fra tanta luce di civiltà, la potestà temporale dei papi, quasi a confermare con la propria testimonianza il presagio della sua fine, stringe intima alleanza col brigantaggio il quale da un prelato di santa Chiesa in un documento, che non era destinato a venire alla luce, è definito la reazione salutare delle provincie napolitane!

« Comportandosi a questo modo, il governo pontificio non solo offende la morale e commette la violazione manifesta dei principii del diritto delle genti, ma provvede anche assai male ai proprii interessi; e mentre si studia di avversare il consolidamento dell'unità italiana, corrobora semprepiù negli animi degl'Italiani il convincimento della necessità di ricuperare la loro alma capitale. Diffatti, se in qualsivoglia condizione di cose l'Italia vorrebbe ad ogni patto, com'è suo diritto, acquistare la sua naturale metropoli, oggi il volere è stimolato ed infervorato dalla condizione di cose che sussiste in Roma: basterebbe l'istinto della propria conservazione a far desiderare agl'italiani il ricupero di Roma, poiché in tal guisa sarebbe tolto il massimo alimento alla cruenta piaga del brigantaggio.

«Dell'esistenza di questo convincimento negli animi delle popolazioni meridionali noi abbiamo avute cont'nue occasioni di persuaderci. É un convincimento universale, che ha radici profondissime.

«A voce e per iscritto ci è stata ripetuta la medesima cosa. Uomini di tutte le condizioni e di tutte le opinioni politiche, dalle più temperate alle più superlative, dissenzienti pressoché in tutto, sono stati consenzienti su questo vitale argomento.

«L'alleanza tra il brigantaggio e la potestà temporale dei papi ha posto in risalto maggiore la necessità della restituzione di Roma all'Italia.

«Havvi dunque sulla superficie del suolo italiano un pezzo di territorio, dove accorrono gli avventurieri e i ribaldi di ogni risma, ed ivi impunemente apparecchiano offese e danni all'Italia. Frattanto su quel territorio spande la sua ombra formidabile il vessillo glorioso della Francia.

«A noi non compete in questo momento farci ad indagare ed a giudicare i motivi politici, che determinano il governo imperiale a conservare le sue truppe in Roma, né di esaminare fino a qual segno questa determinazione concordi con l'amicizia della quale la Francia ci ha doto luminose prove, e quanto sia conforme all'osservanza del principio di non intervento dalla Francia medesima confessato e propugnato dopo la pace di Villafranca; dobbiamo perciò restringerci a considerare l'occupazione, francese nelle sue attinenze con l'argomento del quale trattiamo. Le quali attinenze sono di doppio genere, morali, cioè, e materiali.

«Per quanto concerne le prime, non è mestieri lunga riflessione per convincersi che la permanenza delle truppe francesi in quella parte centrale della penisola italiana, porge pretesto ai nemici dell'Italia e dell'alleanza francese di toglier fede ai destini di quella ed alla virtù di questa.

«Il tema prediletto dei borbonici è che la Francia sia avversa all'unità italiana e voglia ad ogni costo il ritorno ai patti di Villafranca.

«L'imperatore Napoleone, essi dicono, conserva i suoi soldati in Roma, perché non vuole che l'Italia sia una.

«Questo ragionamento poggia su di un fatto senza alcun dubbio male interpretato, ma vero; e ciò basta perché produca grande impressione sugli animi delle popolazioni del mezzodì, e contribuisca ad avvalorare quel sentimento di sfiducia e di dubbiezza, a cui esse sono tanto naturalmente proclivi. Nè sotto l'aspetto materiale gli effetti sono di minore entità, poiché indubitatamente la giusta riverenza in che tutti teniamo la bandiera della Francia, i vincoli che ci stringono al suo potente sovrano, ci tolgono assolutamente la libertà d'azione, che sarebbe necessaria per recidere di un so) colpo, come agevolmente potrebbe farsi, il nerbo del brigantaggio.

«Le bande brigantesche vengono ad infestare e devastare le nostre provincie; le truppe italiane accorrono ad interrompere quest'opera di sterminio, e non durano fatica ad aver ragione dei malviventi, ma quando sono sul punto di infliggere ad essi il meritato castigo e di collocarli nell'impossibilità di rinnovare i nefandi tentativi essi hanno già toccato il suolo, dove sventola lo stendardo francese ed i nostri soldati non possono procedere oltre.

«I masnadieri tornano in tal guisa sicuri là dove tranquillamente e sicuramente si accozzarono per venire a predare di qua del Liri; ed io cosiffatta guisa le bande, cento volte disperse e fugate, cento volte si riordinano, si riforniscono e tornano alle consuete imprese di devastazione e di sterminio, e della protezione che le armi francesi conducono al papa si avvalgono e si vantaggiano Chiavone e Tristany.

Vero è che le truppe francesi si comportano verso le truppe italiane come verso antichi fratelli di arme, e che i generali francesi hanno sempre usato ed usano ogni maniera di riguardi all'illustre vincitore di Traktvr ed ai suoi luogotenenti: vero è che quante volte i Francesi hanno incontrato i briganti, li hanno dispersi, fugati od arrestati; ma è parimenti vero che i Francesi, avendo da fare con un governo che, a ricambio della protezione, cerca tutti i mezzi di comprometterli, sono non di rado ingannati intorno alla. vera indole delle cose; e generosi e leali quali essi sono, aggiustano fede alla furberia ed alla scaltrezza della curia romana, e son proclivi a credere che nei racconti di partecipazione del governo pontificio al brigantaggio slavi per lo meno molta esagerazione; è parimenti che per combattere con efficacia il brigantaggio avrebbero d'uopo del concorso della polizia locale, e che questo concorso non solo non l'hanno, ma hanno l'opposto; tutte le volte difatti che essi si mettono in movimento e divisano fare qualche operazione, i briganti ne sono incontanente informati dalla polizia pontificia.

«Tempo fa, a cagion d'esempio, era deliberata l'occupazione dei convento di Trisulti, nido e ricettacolo di briganti: la vigilia già quei frati, complici e manutengoli dei masnadieri, facevano partire questi, e apparecchiavano allegramente gli alloggi per le truppe francesi. Vero è parimenti che i Francesi procedono nelle loro operazioni con quella gaia disinvoltura che è l'attributo dei prqdi, ma che toglie dall'usare quelle precauzione che seno indispensabili nella guerra contro i briganti: il suono delle trombe, la stessa romorosa giovialità da cui il soldato francese è compreso al momento in cui sa che va ad affrontare un pericolo sono tanti avvisi dati ai briganti, i quali ne traggono profitto e non si fanno più trovare: vero è parimenti che i Francesi stimano loro debito assoluto d'impedire la violazione della frontiera, e che lo esagerano al segno da allarmarsi, se veggono nelle acque di Terracina qualche nave italiana in crociera, il cui scopo non è né può essere altro se non quello di vigilare i possibili tentativi di sbarco dei malviventi sulla costiera di Gaeta.

«I danni che da ciò risultano alle operazioni della truppa italiana sono evidenti: i briganti, non astretti dalle leggi dell'onore, passano la frontiera, eludendo facilmente la vigilanza dei Francesi, laddove i nostri soldati, fedeli al loro dovere ed alle loro istruzioni, appena raggiunto il confine si fermano; ai briganti, vale a dire, rimane la libertà dell'offesa, ai soldati italiani è tolta quella della difesa. E quando è avvenuto che, o per imperfetta cognizione delle località, o per mancanza di determinazione pratica nella linea di frontiera, o per necessità ineluttabile i nostri soldati abbiano oltrepassato il confine, il comando francese in Roma ha abbondato nelle rimostranze e nelle proposte.

«In una occasione anzi tre briganti nativi della selva di Sora, essendo stati catturati dai nostri soldati di là dal confine, le autorità francesi ne chiesero la consegna, la quale non potè essere negata.

«I particolari del fatto sono i seguenti: il giorno 24 gennaio 1862 il comandante d'Isola, avendo avuto avviso che alcuni briganti solevano passare la notte in una capanna da pecoraio nella località Vallata di Sant'Elia, prossima alla frontiera pontificia, diede gli opportuni ordini per catturarli.

«La operazione venne eseguita di nottetempo, ma l'abbaiare di un cane diede l'allarme ai briganti, i quali si diedero alla fuga. Per meglio inseguirli il comandante divise i suoi uomini in tre drappelli, uno dei quali dopo breve corsa si imbatté in una casetta, che stimò opportuno perquisire, e dove trovati tre individui Antonio Caschera detto il Tartaro, Donato Caschera il di lui figlio, e Loreto Capobianco, e riconosciutili per briganti, li arrestò.

«I due primi facevano parte della banda di Chiavone, il terzo era uno sbandato. Essendo stati presi senz'armi, vennero consegnati al potere giudiziario.

«In seguito si venne a sapere che la casetta dove i malviventi avevano trovato asilo, era collocata sul territorio pontificio a pochi passi dalla nostra frontiera; ciò bastò perché fossero reclamati dal comandante francese; e difatti il giorno 19 marzo 1862 vennero consegnati. In altre occasioni i comandanti italiani hanno chiesta ai Francesi la estradizione di assassini ricoverati sul suolo pontificio, e la domanda dopo lunghe preghiere è stata esaudita!

«Dal complesso di questi fatti e di queste considerazioni chiaro si scorge come il concorso delle truppe francesi alla repressione del brigantaggio non abbia la efficacia che a noi tornerebbe di tanta utilità, e che i Francesi desiderano si abbia. Sarebbe mestieri che la vigilanza dei Francesi sulla frontiera fosse maggiore di quella che è, e segnatamente che vi fossero accordi positivi tra essi e la nostra truppa per conseguire l'unità di azione, senza di cui non è lecito sperare utili pratici risultamenti.

«Sul finire del 1861 fuvvi speranza di addivenire a questi accordi; ma le pratiche intavolate tra il generale Govone, comandante la zona di Gaeta, ed il Generale Govon, e l'invio in Gaeta del capitano di stato maggiore francese Parmentier non sortirono l'effetto desiderato. In guisa che mancano anche attualmente norme positive e ben determinate per regolare l'azione simultanea e concorde delle truppe italiane e delle truppe francesi, e tutto è in balia dello zelo dei comandanti francesi e del buon volere del conte di Montebello, generale in capo, il quale mostra molto ed usa tutti i riguardi ai nostri ufficiali.

«Fra gli antichi commilitoni di Crimea, di Palestro, di Solferino, a malgrado della difficile e delicata posizione nella quale si trovano reciprocamente collocati gli uni verso degli altri, non sono rallentati i vincoli della fratellanza stretta nelle gloriose battaglie, nei pericoli comuni.

«Rallegrandoci di questo fatto, noi dobbiamo alta mente deplorare che possano sussistere tuttavia ragioni politiche, per le quali è serbato ai più pertinaci nemici della Francia e dell'Italia il privilegio di potere congiurare impunemente contro l'Italia all'ombra de:la bandiera francese. ([54])


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«A Roma adunque è l'officina massima del brigantaggio, in tutti i sensi ed in tutti i modi, moralmente e materialmente: moralmente, perché il brigantaggio indigeno alle provincie napoletane ne trae incoraggiamenti continui ed efficaci; materialmente, perché ivi è il deposito, il quarti ere generale del brigantaggio d'importazione.

«Fra le sorgenti di questo brigantaggio non annoveriamo gli sbarchi, poiché se se ne eccettua quello del Borjès sulle coste di Calabria, non pare ve ne siano stati altri. Ne furono temuti nelle vicinanze di Taranto sul littorale del mar Jonio, ed in alcuni paesi dell'Adriatico, ma non si avverarono.

«Qualche barca forse con pochi uomini, procedente da Corfù, riuscì ad approdare furtivamente in qualche punto dell'Adriatico e del mare Jonio, ma fu cosa di poco momento. Fu pure supposto che la recrudescenza dei brigantaggio succeduta in Terra di Otranto nell'autunno scorso fosse dovuta a sbarchi; difettano le prove per giudicare se cotesto presupposto abbia oppur no fondamento di vero.

«Per qualche tempo fu veduto un bastimento austriaco stazionato nelle acque di Gallipoli sul mar Jonio, ma senza nessuna conseguenza. Da Barcellona sono partiti talvolta degli individui per ingrossare la banda di Tristany, ma sbarcarono a Civitavecchia.

«L'attiva vigilanza delle nostre navi lungo il littorale del Mediterraneo da Civitavecchia in giù ha senza dubbio impediti i tentativi di sbarco nelle vicinanze di Gaeta, ed i briganti hanno sempre preferito di gittarsi in Terra di Lavoro per la frontiera terrestre. È chiaro che gli avventurieri ed i malviventi che si addicono al mestiere di briganti fanno tutti capo a Civitavecchia ed a Roma, e che di là, a preferenza di qualsiasi altro punto, muovono per dare opera alle loro gesta.»

É del nostro assunto cumulare quanti più argomenti si ponno relativamente al clero, nel quale deve ravvisarsi un ampliamento delle prove di complicità della corte romana; la complicità poi complessiva colla corte borbonica corona l'edificio, e queslo mirabilmente si ottiene dalle conchiusioni della commissione intorno ai detti due punti, come segue.

«In quegli animi ottenebrati (de' briganti) dalla ignoranza e pervertiti dalla consuetudine del male, lo stesso sentimento religioso non penetra se non per mezzo della paura: è il solo ritegno che può alquanto infrenarli: tolto anco cotesto ritegno, ogni freno è rotto, la propensità al delitto non è più contrastata da nessun ostacolo.

«Il brigante non ha paura del codice penale, perché gli hanno assicurato che al ritorno di Francesco II otterrà la impunità; non ha paura delle pene di un'altra vita, perché il ministro della religione gli ha assicurato che uccidendo, saccheggiando, stuprando, egli serve. una giusta causa.

«Ond'è che pur troppo ci è mestieri affermare che una parte del clero non rifugge dal far la parte di manutengolo morale dei briganti, parte peggiore di quella stessa di manutengolo materiale, perché i soccorsi che questi presta finiscono coll'esaurire, laddove quelli che presta il manutengolo morale lasciano tracce profonde ed indelebili, e per mezzo del fanatismo e della superstizione tengono più salde le armi omicide nelle mani dei malfattori. E pur troppo dobbiamo anche aggiungere che preti e religiosi non hanno nemmeno rifuggito dall'essere anche manutengoli nel senso più stretto e più materiale della parola.

«In provincia di Salerno, a modo di esempio, vennero, in marzo del 1862, arrestati cinque frati cappuccini perché prestavano ai briganti ogni maniera di assistenza. Per coglierli in fallo alcuni de' nostri soldati si travestirono da briganti, ed in quell'arnese si ebbero dagl'indegni monaci le più umane accoglienze, viveri in quantità, e la dichiarazione che il convento era fornito di vettovaglie in guisa da poter accogliere una comitiva di 400 briganti. Nel convento dei Padri liguorini in Pagani, in provincia di Salerno, si facevano arruolamenti di briganti.

«Nella città di Andria, in Terra di Bari, furono diffuse nel popolo nello scorso mese di agosto molte cartelle che recavano queste parole: I briganti sono benedetti dal papa, ed ogniqualvolta si battono si attaccano a nome di Dio, e vinceranno. Che si formi allora una deputazione e li vada incontro con una bandiera bianca facendoli entrare in paese, e tutto sarà finito.

«In quella città che annovera oltre a 20 mila anime sono un 300 tra preti e frati. Vi sono perfino dei casi, come si avverò nella disfatta che ai primi di novembre 1862 una grossa banda toccò dai lancieri di Montebello nelle vicinanze di Lucera, nei quali si sono veduti sacerdoti far parte delle masnade. Laonde è pur forza conchiudere che il brigantaggio nelle provincie meridionali ritrova in una parte del clero fomite incessante ed incoraggiamenti di ogni maniera.

«Nè gl'incoraggiamenti che provengono dalla parte borboniana sono minori Quella parte che nel 1860 lasciò coprire di obbrobrio la propria bandiera, che non seppe difendere né i suoi principii, né il suo Re, che non seppe arrendersi con dignità, né cadere con gloria, non ha saputo trovare altro espediente per pigliar la rivincita se non quello di collegarsi con gli assassini, di aiutarli col consiglio, con la direzione, col danaro, di infervorarli alle opere inique. La partecipazione, la complicità al brigantaggio dei comitati borbonici è fatto che non patisce contradizioni: i processi di monsignor Cenatiempo, del Bishop, del Cosenza le pongono in piena luce. Altre processure da poco iniziate ed ora in via d'istruzione, quella, per esempio, intorno ai complici del sergente di Gioia, l'altra a carico della principessa Sciarra le confermano in modo incontrastabile.

«Le indagini, alle quali si è proceduto in seguito al marchese Avitabile ed alla cattura di parecchi seguaci di Pilone, hanno sortito lo stesso risultamento. Il malfattore Pione s'intitolava comandante il corpo di operazione nelle vicinanze di Napoli a nome di Francesco I1, e sulle vesti brigantesche recava le insegne di cavaliere borboniano. L'altro malfattore Pizzichicchio faceva il suo ingresso in Grottaglie inalberando bandiera bianca, e gridando: viva Francesco II! Un borboniano, non ha guari arrestato deponeva avere il comitato borbonico di Napoli spedito ordine al Crocco di catturare i componenti la commissione d'inchiesta al loro passaggio per le Puglie.

«Ora è chiaro che ordini s'inviavano a subordinati od almeno a gente con la quale si procede d'accordo.

«Un Giuseppe Tardio, di Centola, provincia di Salerno, giovino di anni, di condizione civile, già studente di leggi nel liceo salernitano, fece un viaggio a Rom. , e reduce andò difilato ai suo paese, dove si mise a capo di una banda di malviventi, la quale infesta il circondario di Vallo. Senza darsi nessun fastidio di occultare a nome di chi turbasse la pace pubblica, emanava in luglio scorso il seguente proclama:

«AI POPOLI DELLE DUE SICILIE.

«Cittadini

«Il fazioso dispotismo del subalpino regime nel conquistare il regno vi sedusse con promesse fallaci. Amari frutti ne avete raccolti. Riducendo quelle belle contrade a provincie, angariandovi di tributi, apportandovi miseria e desolazione. Inaugurando il diritto della fucilaziope a ragione di Stato (che re galantuomo!) 1 più arditi orinai è un anno da che brandirono le armi. E l'ora di fare l'ultimo sforzo è suonata. Non tardate punto ad armarvi e schierarvi sotto il vessillo del legittimo sovrano Francesco II unico simbolo e baluardo dei diritti dell'uomo, e dei cittadino, non che della prosperità commerciale e ricchezza dei popoli. Esiterete voi ad affrontare impavidi gli armati Piemontesi, onde costringerli a valicare il Liri?

«Pubblicato in... e per copia conforme in questo comune affisso.

«Luglio 1863.»

«Al principio dell'anno corrente, in seguito a ricatto con, sequestro di persona fatto dalla banda Crocco, nel circondario di Sant'Angelo dei Lombardi, il delegato di pubblica sicurezza di Bisaccia procedeva all'interrogatorio del giovane sequestrato e di un contadino inviato dalla famiglia a ricercarlo; e l'uno e l'altro concordi deponevano che, trovandosi fra i briganti, avevano veduto sopraggiungere un'altra banda guidata da un tale Teodoro, il quale diceva a Crocco:

«Due giorni dietro uno dei nostri amici è venuto a dirmi che il nostro re Francesco nella primavera ci manda rinforzo di soldati con capi esteri, munizione e danaro. E facilmente si mette egli stesso alla testa dei soldati del Papa e dell'Austria per entrare nel regno.»

Uno degl'interrogati deponeva pure aver chiesto ad uno dei compagni di Crocco per nome Sacchitiello:

«Che fai più in campagna; ora ti hai fatto i danari; perché non cerchi ritirarti?» ed il Sacchitiello avergli risposto: «lo fui invitato da parte del nostro re Francesco, e perciò mi riunii colla banda. Ora ci è stato riferito, precisamente ieri, dal capo della banda Teodoro che venne a ritrovarci, assicurando che egli aveva ricevuto notizia dal re che in primavera ci avrebbe mandato sicuramente gran forza con capi esteri, e danaro, ed egli stesso sarebbe entrato. Noi dunque attendiamo tale sua promessa. Allora mi vedrai, caro paesano, in altro stato. Basta, ci rivedremo.»

«Il capitano comandante le armi borboniche

« GIUSEPPE TARDIO.

« Accanto alla firma è il suggello con lo stemma borbonico.

« Il Tardio intimava ricatti a nome di Francesco ll.

« Eccone il documento:

FRANCESCO II

RE DEL REGNO DELLE DUE SICILIE

«Si fa ordine a don Raffaele Salerno, del comune di Camerota, consegnare al latore, senza punto esitare la somma di ducati 120 ducati da servire per paghe agl'individui componenti la colonna di formazione sotto il mio comando.

«E glielo partecipo per intelligenza.

« Il capitano comandante le armi borboniche

«GIUSEPPE TARDIO.

«E trovava complici nei componenti il municipio di Camerota, come risulta dalla seguente lettera:

«Camerota, 4 luglio 1862.

«AMMINISTRAZIONE DEL COMUNE DI CAMEROTA.

«Al sig. assessore don Paolo Ambrosano

«Signore, «Le si spediscono due donne, che con tutta premura le caricarete ai più che possa di pane da servire per la gente armata prossima a giungere in questo comune, nell'intelligenza che il valore sarà pagato da questo comune.

« Il municipio.

«Ai primi di febbraio testà scorso un brigante per nome Francesco Gambaro si costituiva in Sant'Angelo dei Lombardi, ed interrogato per qual fine si fosse associato ai malfattori, rispondeva:

«Mi unii alla banda di cui capo erano Andreotti e Sacchitiello fin dal 16 agosto dello scorso anno, giorno di San Rocco. La banda era di circa 40. Io, qual pastore, ero sempre a contatto coi briganti, ed in tale occasione m'illusero che loro erano protetti da Francesco II, che gli mandava danaro, munizioni, ed armi, e che fra breve sarebbe entrato n nel regno, ed a noi ci avrebbe dato molti terreni del comune e denari; mi dissero pure che il re è figlio di una santa che protegge lui e noi... La banda ora è ristretta a pochi, perché i capi dissero ai briganti che il re Francesco gli aveva fatto sapere che a primavera mandava soldati, danaro e munizioni per entrare nei paesi, ed egli stesso sarebbe entrato in Napoli, e perché in tempo d'inverno non a potevamo mantenerci noi e cavalli, così ci disse ritirarci ed alla meglio nasconderci nelle case nostre e masserie degli amici per poi ritornare in primavera.

«Le recenti irruzioni di bande con capi esteri dal territorio pontificio in provincia di Aquila sono illustrazioni e conferma di queste deposizioni; qualsivoglia commento tornerebbe inutile.»

Assai opportunamente una nota del deputato Castagnola qui riferisce i seguenti documenti.

«Il sergente Romano, di Gioia, mentre teneva la campagna, scrivea pietose giaculatorie, ed intitolava gli assassini che dipendevano dai suoi ordini giurati della fede cattolica; essi prestavano giuramento, la cui formola fu rinvenuta nei suoi portafogli quando venne ucciso, e che merita di esservi integralmente riferita:

Atto di giuramento e di fedeltà

« Nel momento medesimo di disposizione superiore si conferma che nell'anno, mese e giorno noi tutti in unanimità di voti contestiamo il presente atto di giuramento e di fedeltà con le seguenti condizioni da noi stabilite con i presenti articoli.

«Promettiamo e giuriamo di sempre difendere con l'effusione del sangue Iddio, il sommo pontefice Pio IX, Francesco II, re del regno delle Due Sicilie, ed il comandante della nostra colonna degnamente affidatagli e dipendere da qualunque suo ordine, sempre pel bene dei soprannominati articoli; e così Iddio ci aiuterà e ci assisterà sempre a combattere contro i ribelli della santa Chiesa.

«Promettiamo e giuriamo ancora di difendere gli stendardi del nostro re Francesco II a tutto sangue, e con questo di farli scrupolosamente rispettare ed osservare da tutti quei comuni, i quali sono subornati dal partito liberale.

«Promettiamo e giuriamo inoltre di non appartenere a qualsivoglia sfitta contro il voto unanimemente da noi giurato, anche con la pena della morte, che da noi affermativamente si è stabilito.

«Promettiamo e giuriamo che durante il tempo della nostra dimora sotto il comando del prelodato nostro comandante di distruggere il partito dei nostri contrari, i quali hanno abbracciato le bandiere tricolorate, sempre abbattendole con quel zelo ed attaccamento che l'umanità dell'intiera nostra colonna ha sopra espresso, come abbiamo dimostrato e e dimostreremo tuttavia sempre con le armi alla mano, e star pronto sempre a qualunque difesa per il legittimo nostro re Francesco II.

«Promettiamo e giuriamo di non appartenere giammai per essere ammesso ad altre nostre colonne del nostro partito medesimo, sempre senza il permesso dell'anzidetto nostro comandante per effettuarsi un tal passaggio. Il presente atto di giuramento si è da noi stabilito volontariamente a conoscenza della intiera nostra colonna tutta e per non vedersi più abbattuta la nostra santa Chiesa cattolica e romana, e la difesa del sommo pontefice e del legittimo nostro re.

«Così abbracciare tosto qualunque morte per quanto sopra si è stabilito col presente atto di giuramento.

«Fatto e stabilito nel giorno, mese ed anno, oggi 20 agosto 1862 e firmato dal proprio pugno del signor comandante della colonna nella nostra presenza.» ([55])

«IL COMANDANTE SUPERIORE.»

Nè meno significante di questa formula di giuramento sono le confessioni che un capo brigante, per nome Pasquale Forignone, faceva il giorno 23 febbraio dell'anno corrente in seguito ad apposito interrogatorio in Gesualdo, provincia d'Avellino.

Siccome il brigante mostrava esser persuaso di aver fatto male e di aver meritato l'odio delle popolazioni, gli si chiedeva perché non si fosse presentato; le sue risposte furono le seguenti:

«Domanda. Con questi convincimenti perché non vi siete presentato voi ed i vostri compagni, persuasi che odiati da tutte le popolazioni la vostra vita era in pericolo Ogni momento? Storno stesso intimorito dall'esagerato numero di briganti, che si diceva, circondavano il paese, appena che era sgombro di due malfattori che vi entrarono, rialzava i stemmi di Vittorio Emanuele, e benediceva il suo nome e la unità italiana.

«Risposta. Noi combattevano per la fede.

«D. Che cosa voi intendete per la fede?

«R. La santa fede della nostra religione.

«D. Ma la nostra religione non esecra i furti, gl'incendi, le uccisioni, le sevizie e tutti gli empi e barbari misfatti che ogni giorno consuma il brigantaggio, e voi stesso coi vostri compagni avete perpetrati.

«R. Noi combattevamo per la fede, e sfamo benedetti dal papa, e se non avessi perduta una carta venuta da Roma vi convincereste che abbiamo combattuto per la fede.

«D. Che cosa era questa carta?

«R. Era una carta stampata venuta da Roma.

«D. Ma che conteneva questa carta?

«R. Diceva che chi combatte per la santa causa del papa e di Francesco II non commette peccato.

«D. Ricordate che cosa altro conteneva detta carta?

«R. Dicea che i veri briganti sono i Piemontesi che hanno tolto il regno a Francesco II, che erano scomunicati essi, e noi benedetti dal papa.

«D. In nome di chi era stata fatta quella carta, di quali firme era segnata?

«R. La carta era una patente in nome di Francesco II e firmata da un generale che aveva un altro titolo, che non ricordo, come non ricordo il nome; vi era attaccata una fettuccia con suggello.

«D. Di che colore era la fettuccia e il suggello, e che impronta il suggello offriva?

«R. La fettuccia era color bianco come la tela; il suggello era bianco coll'impronta di Francesco II r, delle lettere che dicevano Roma.....

«D. Non potendo ammettere né consentire che il papa possa benedire tante iniquità, né che Francesco II abbia potuto vilipendere la dignità di re, ordinando omicidi, grassazioni, incendi, quanti anche questi mezzi. l'umanità disonorando, avesser potuto fargli sperare il riacquisto del trono, pera non può essere che una favola la vostra assertiva!

«R. Essendoché avete fatto venire i bersaglieri e che sarò fucilato, persuaso come sono di morire, vi assicuro che ho tenuto quella carta e che è verità tutto quello che vi ho detto contenere, e se altri, come me, sarà arrestato, vi convincerete allora che non ho mentito... .

«D. Che abbiate tanto ben ligata al petto con un nastro una piastra di Francesco II come medaglia non fa meraviglia, perché credevate, uccidendo, grassando, rubando, combattere per lui. Ma come, consumando tante scelleratezze potete tenere a testimone di esse, e direi anche a complice, se scempia non fosse questa parola, la Vergine santissima, portando appeso al petto questo insudiciato abitino colla sua effigie del Carmine? É cosa che fa credere la. vostra religione più empia e scellerata di quella che potrebbe avere un demone, se i demoni potessero avere una religione! Non è questa la più infernale derisione che possa farsi a Dio?

«R. Io ed i miei compagni abbiamo la Madonna nostra protettrice, e se aveva la patente colla benedizione non sarei stato certamente tradito.

«Ed essendogli annunziato che si approssimava l'ora per lui fatale, risponde:

«Confermerò anche queste stesse cose al confessore, che spero mi sarà accordato.»([56])

«Tutte le irruzioni di briganti dal territorio pontificio sono promosse ed apparecchiate dai comitati borbonici qua e là sparsi fuori del nostro Stato, di concerto con quelli che hanno stanza al di dentro. Ve ne ha a Marsiglia, a Parigi, a Malta; abbondano a Roma e nelle località più vicine alla nostra frontiera. Il comitato di Alatri è presieduto e diretto dal vescovo di quella diocesi. Ed allo stesso modo con cui sono innegabili le frequenti e strette relazioni tra briganti e comitati borbonici non possono nemmeno essere rivocati in dubbio le relazioni fra queste ed il principe che già fu sovrano delle provincie del mezzodì dell'Italia. I capi di quei comitati residenti in Roma fanno notoriamente parte della corte di Francesco I1, e le comunicazioni per via di corrieri di ogni condizione, di ogni nazione e di ogni sesso con le provincie napolitane sono incessanti. Francesco II adunque è consapevole di tutte le macchinazioni, e non tollera, ma vuole che la sua causa sia rappresentata e servita dai masnadieri e dai predoni. Alla sventura anche meritata si deve rispetto; né mai noi vorremmo sfuggisse dalle nostre labbra una sola parola che suoni insulto ai caduti. Come fu eroica nel soffrire, l'Italia è magnanima nel perdono agli offensori. Ma il principe, che all'ombra di un vessillo glorioso ed amico all'Italia non ha ribrezzo di scatenare orde di ribaldi per arrecare la desolazione in quelle provincie, che non seppe conservare alla sua I dominazione col valore, ha con ciò rinunziato allo stesso diritto della sventura, e dispensa dall'. obbligo di qualsivoglia riguardo e compianto. Egli non è più il principe esautorato e nemmanco il pretendente, ma il complice, l'istigatore, il mauutengo!o di Crocco, di NincoNanco e di ogni maniera di volgari e miserabili scellerati.

«I soccorsi materiali che il soggiorno di Francesco II nella eterna città procaccia al brigantaggio nelle nostre provincie non ne sono però la peggiore né la più dannosa conseguenza. Gli effetti morali e politici sono di gran lunga più nocivi alla pace, alla sicurezza ed alla prosperità di quelle provincie: sicché quand'anche quel principe non inviasse né un sol quattrino, né un sol uomo alle orde dei malviventi, il solo fatto della sua permanenza in Roma sarebbe fomite grandissimo del brigantaggio. Allo stesso modo con cui durante il decennio dell'occupazione militare francese il soggiorno di Ferdinando I e della sua corte in Sicilia, oltre alle continue spedizioni di briganti nelle Calabrie, manteneva viva la speranza dei partigiani della dinastia borbonica; il soggiorno attuale di Francesco II in Roma è, se non argomento, certo pretesto plausibile e non destituito dalle apparenze della verosimiglianza, a colpevoli speranze, a pronostici protervi. Nel decennio il buon senso popolare aveva battezzato coloro che aspettavano il ritorno di casa Borbone con la espressiva locuzione di speranzuoli: ed oggi non ne mancano. Costoro fanno assegnamento sulla ignoranza e sulla credulità delle moltitudini, sulla difficoltà delle comunicazioni, e divulgano di continuo le più insigni fandonie, le più grossolane fole, le quali naturalmente non si avverano mai, ma sortiscono l'effetto che se ne ripromettono coloro che le diffondono, quello vale a dire di commuovere, di agitare, di impaurire. Ieri erano gli Austriaci che avevano occupato parte dell'antico reame; oggi sono i Francesi che hanno costretto il Re Vittorio Emanuele a spezzare l'italica corona, ed acconciarsi alla confederazione; domani è Francesco II che preceduto da immenso corteggio di soldati e di diplomatici sta per riporre il piede negli antichi dominii. Tutte queste dicerie derivano dalla facilità con la quale sono credute per la presenza di Francesco II in Roma: il giorno in cui egli fosse in Ispagna, in Baviera od in qualsiasi altra contrada di là delle Alpi nessuno più vi aggiusterebbe fede. Durante il decennio i Borbonici ricoverati in Sicilia millantavano l'amicizia palese ed efficace dell'Inghilterra; oggi ? il Borbone ricoverato a Roma non può di certo vantare l'amicizia della Francia, ma dal contegno di questa trae a suo pro maggiore utilità di quella che i suoi antenati ricavassero dagli Inglesi nell'epoca lestè rammentata. Francesco II, vanno susurrando tuttodì fra le moltitudini i suoi fautori, non è l'ospite dei Francesi, ma del Santo Padre; quelli non sono amici; ciò non ostante sono costretti a rispettarlo tanto egli è forte, e rispettandolo dimostrano essere persuasi che l'unità italiana non può reggere, e che un giorno o l'altro Francesco II tornerà, anche loro malgrado, nei suoi stati. Così ragionano costoro, ed il ragionamento colpisce le moltitudini, le quali non vanno tanto per il sottile, non sono iniziate agli andamenti misteriosi della politica, e vedendo che quei discorsi concordano con i fatti apparenti, di leggieri si persuadono che hanno fondamento di vero, e senza più credono l'incredibile, I assurdo come articolo di fede. Francesco II a Roma, ospite del papa, non molestato dai Francesi, circondato da una corte alla spagnuola, con diplomatici accreditati pressp di lui come se fosse nel pieno esercizio degli attributi della sovranità, libero di fare quel che meglio gli aggrada e di ordire qualunque macchinazione a danno dell'Italia, è tal fatto il quale anche senza tanti commenti colpisce profondamente quelle popolazioni immaginose, e valga il vero, colpirebbe anche altre metro di esse fantastiche e proclivi a credulità. La conseguenza morale del sentimento di sfiducia e di dubbiezza intorno all'avvenire che questo fatto genera ed alimenta è di per sé sola un male gravissimo, ed una delle più salde radici del brigantaggio.»

— Il rapporto tesse un elogio meritatissimo all'esercito nazionale, considerandolo specialmente nella guerra ai briganti come privo delle attrattive use a destar l'entusiasmo, mentre ivi si combatte un nemico che risponde sol quand'è costretto a fuggire, ovvero quando si affidi all'eccesso del numero; rilevando ancora che trattandosi di un esercito in formazione e che avea d'uopo dell'immediato contatto de' capi de' respettivi corpi, è tanto maggiore il suo elogio d'aver serbato disciplina e coraggio iu mezzo alla dispersione e allo sparpagliamento; encomia la tolleranza ne' disagi per le privazioni e le malattie prodotte dalla vita faticosa e dal clima, il quale, massime nella Capitanata, è micidiale nella stagione estiva. Una testimonianza vale per tutte; quella del commendatore Antonio Spinelli già presidente del consiglio de' ministri di Francesco II.

«La truppa (ei diceva) nel combattere il brigantaggio è stata veramente eroica. Ha reso immensi servigi; ha fatto prodigi di valore; senza di essa ci sarebbero 20,000 briganti. Ha un'abnegazione senza esempio. Sono virtù di tutte le armi dell'esercito.»

Il nome di Alfonso La Marmora cui è affidato il comando del sesto dipartimento militare e proposto alla riconoscenza della nazione.

Si passa a considerare la tattica de' briganti. Adunansi in piccole bande per noti incontrare una resistenza compatta; non aggrediscono; se aggrediti fuggono sempre; tendono agguati ed imboscate, lorché son certi dello scampo e della ritratta; assalgono solamente iu proporzioni di cinque ad uno;predare, uccidere, fuggire, stancare la truppa il più che è possibile; questa e non altro è la strategia de' briganti.

Sulla loro indole è detto che i vilissimi sono i ferocissimi... che sono rotti ad ogni lascivia e turpitudine, pronti ad ogni delitto; che bevono il sangue, mangiano le carni umane; che sono rozzi, superstiziosi ignorantissimi.

Alcuni nomi de' capi vengono segnalati per dimostrare la origine facinorosa de' briganti ed escludere il brigantaggio politico che tutt'al più vive in Roma ne' suoi dirigitori

«Caruso di Torre Maggiore, era un pastore del principe di Sansevero; sostenuto in carcere per delitti comuni, ebbe agio di scappare e si diede in campagna. Ninco Nanco è un miserabile contadino di Avigliano, il quale custodiva private proprietà nel bosco di Lagopesole: fu condannato nel 18i6 per omicidio, scappò dalle carceri nel 1860; andò a Napoli a presentarsi al generale Garibaldi; gli fu ingiunto di tornare in paese, ed allora si diede in campagna. Crocco, nativo di Rionero, era vaccaro: fece parte dell'esercito borbonico; perseguitato dalla giustizia prima del 1860, in quell'epoca si ebbe il gran torto di ammetterlo nelle file degl'insorti per la causa della libertà, e sperava l'impunità; ma quando seppe che gli spiccava contro il mandato di cattura, si diede a fare il reazionario ed il brigante. Arrestato e tradotto nelle carceri di Cerignola trovò mezzo di fuggire. Coppa da San Fele in Basilicata, è uno sbandato. Paolo Serravalle, di Marconi, in Calabria Citeriore, è un omicida scappato due volte dalle galere. Tortora, di Ripacandida, è uno sbandato. Marsino da Marsico Vetere, è anch'egli uno sbandato. Pilone era un mastro scarpellino di Bosco Tre Case, che per dissidii avuti col capo urbano di quel paese fu posto in carcere; poi liberato per la protezione del capitano Caracciolo.»

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— Ad un brigante, il sergente di Gioia, fu sorpreso un diario ché avea intitolato — le mie disgrazie — Ivi si legge

«In questi, cioè tredici masnadieri qualificatisi per difensori di Francesco II e della santa Chiesa romana, esisteva il solo sentimento di rubare e non mai quello di farsi onore... noi siamo usciti (dicevano) in campagna e siamo chiamati ladri e dobbiamo rubare, e se il nostro capo non fa come noi diciamo, mala morte farà, oppure resterà solo.»

«I briganti forastieri (proseguesi) sono avventurieri i quali si vorrebbero spacciare come campioni del principio legittimista, ma in realtà altro non sono fuorché gente che va in busca di lucri e di ricchezze. Tal è, a modo d'esempio, lo spagnuolo Tristany il quale si atteggia a capo di truppe regolari e fa pompa del titolo di generale di Francesco II, senza però impedire a quelli che chiama suoi soldati di comportarsi da veri briganti. Alla schiera di avventurieri stranieri appartenevano il De Christen, il Lagrance, il Langlois, lo Zimmerman, ed il più infelice di tutti lo spagnuolo Borjès, il quale troppo tardi si avvide che le decantate falangi di Francesco II erano torme di volgari assassinii. »

— Le cagioni dei brigantaggio presso a poco sono quelle da me enumerate nel principio del mio libro; la commissione nota altresì per una delle principali cagioni, che chiama predisponenti, lo stato economico del campagnuolo, pel quale stato il brigantaggio si è verificato in maggiori proporzioni dove l'influenza del bisogno era più intensa. La sola miseria peraltro si asserisce che non avrebbe sortito effetti cotanto perniciosi, se non fosse stata congiunta ai tanti mali lasciati in retaggio alle povere provincie napoletane dalla infausta signoria de' Borboni.

Ascrivesi ad altra causa di brigantaggio la tradizione traente la sua origine da vetusto sistema feudale tardi contrastato, e sempre malamente vinto dalla potestà regia. Inoltre lo stato topografico e stradale del paese; il contraccolpo della rivoluzione politica del 1860. Queste sono cause più remote: le più prossime sono costituite dalla cooperazione del clero, da quella di Francesco ricovrato a Roma e finalmente: dalla connivenza e complicità del governo pontificio; alla quale io aggiungerò la connivenza almeno per la inerte tolleranza dell'armata francese di occupazione in Roma.

— Dopo infiniti sacrifici di vite preziose; dopo cumuli di rovine e di sangue per ridonare alle provincie delle Due Sicilie la publica sicurezza, il brigantaggio a più riprese ha accennato vacillare, perseguitato senza posa e sconfitto. Per fiaccarlo però definitivamente fu decretata dal parlamento una legge eccezionale, di cui riportiamo qui sotto le norme di applicazione.

Dio voglia che il novello rigore reclamato dalla durezza delle circostanze sorta il desiderato effetto; ma temo forte che il male curato nelle conseguenze in luogo delle cause riesca ognor manco e precario. Il cancro è a Roma... ivi è la sentina di tutti i mali e la pietra dello scandalo! Ecco il testo delle disposizioni ministeriali, colle quali impongo per ora fine al mio libro.

Norme per l'esecuzione della legge

sul brigantaggio nelle provincie napoletane.

«La legge per la repressione del brigantaggio essendo stata inserta nella Raccolta degli atti del Governo, come da analogo avviso, stato pubblicato dal Giornale Ufficiale del Regno in data d'oggi, deve essere posta in esecuzione il primo del prossimo mese di settembre.

«E siccome la sostituzione della giurisdizione militare a quella dei tribunali ordinari venne essenzialmente determinata dalla riconosciuta necessità di rendere più pronta, più esemplare ed energica l'azione della giustizia, mi reco a premura di far noto a tutte le autorità militari quelle disposizioni che mi parvero più appropriate a raggiungere un tale scopo, e di ricordare in pari tempo quelle peculiari norme del codice penale militare, che, a termini della legge istessa, dovranno ricevere la loro applicazione immediata.

«1. Sarà stabilito un tribunale militare di guerra in ciascuna delle località infraccennate, cioè: uno in Potenza per la Basilicata; altro in Foggia per la Capitanata; altro in Ave!lino per la provincia di Avellino e pel circondario di Nola; altro in Campobasso per il Molise; altro in Gaeta per i circondarii di Formio, Sora ed Avezzano; altro in Aquila per i circondarii di Aquila e Cittaducale; altro in Cosenza per la provincia di Cosenza.

«I detti tribunali saranno composti di un colonnello o luogotenente colonnello presidente, e di cinque giudici, due dei quali uffiziali superiori, gli altri capitani, oltre a quattro supplenti da designarsi tra i maggiori o capitani.

«Se però le esigenze dei servizio non consentiranno a che si distraggano dalle loro funzioni più uffiziali superiori o più capitani rispettivamente, come egualmente nel caso id cui non ve ne sia in numero sufficiente nel luogo in cui deve aver sede il Tribunale di guerra di supplirà con uffiziali di grado inferiore, con che il presidente sia sempre il pii elevato in grado, e nel caso di parità di grado, più anziano.

«Tutti indistintamente saranno nominati dai generali comandanti le zone o sottozone territoriali col mezzo della scelta a farsi tra gli uffiziali che si trovano presso le truppe distaccate nella divisione o sottodivisione da essi rispettiva comandata.

«3. Presso ciascuno di detti tribunali vi sarà un ulHziale istruttore, un uffiziale del pubblico ministero militare, ed un segretario; il primo sarà scelto fra gli ufiìziali subalterni, e quanto all'avvocato fiscale ed al segretario il ministero della Guerra farà compilare apposito elenco di impiegati d'ambe le categorie che trasmetterà ai respettivi comandi.

«4. Occorrendo di stabilire tribunali di guerra nelle località ove siedono tribunali militari territoriali, i comandanti, cui ne spetta la nomina, potranno utilizzare ii personale sì militare che civile, di cui si compongono li detti tribunali territoriali, seguendo nel resto le norme superiormente indicate.

«5, Qualunque autorità militare che venisse a scoprire ricettatori di briganti, manutengoli, somministratori di viveri, notizie ed aiuti di ogni maniera dovrà ordinarne senz'altro l'arresto.

«6. L'uffiziale comandante le truppe, presso cui è stabilito un tribunale di guerra, non appena cadrà in arresto un imputato di brigantaggio, dovrà immediatamente ordinare l'istruzione del processo; per la quale si seguiranno le norme prescritte dagli articoli 5. 8 e 59 del codice penale militare, avvertendosi specialmente di non compromettere il servizio coll'invio al tribunale di un soverchio numero di testimoni militari

«7. Ogni qualvolta verrà arrestato un brigante, il quale armata mano abbia opposta resistenza alla forza pubblica, e l'arresto sarà seguito in luogo ove non esista un tribunale di guerra, l'uffiziale, sotto le cui dipendenze si troveranno le truppe colà stanziate, convocherà immediatamente un tribunale militare straordinario, in conformità degli articoli 534 e seguenti del codice penale militare.

«8. Questo tribunale sarà composto di un presidente, che sarà il più elevato di grado dopo quello che lo ha convocato, e di cinque uffiziali dei gradi stabiliti pel tribunali di guerra, a partire dai più anziani.

«9. Gli uffiziali che dovranno compiere le funzioni d'istruttore, di pubblico ministero e di segretario respettivamente, saranno immediatamente nominati dalla stessa autorità che ha convocato il tribunale straordinario.

«Essi presteranno il giuramento innanzi al presidente di quel tribunale di fedelmente adempiere le rispettive loro funzioni.

«10. Sarà cura dei generali comandanti le divisioni e sottodivisioni di sopravvegliare al sollecito disbrigo delle cause. Essi daranno quelle speciali direzioni che riconosceranno necessarie o potranno essere consigliate dalle circostanze.

«11. L'avvocato generale militare indirezzerà a sua volta gli uffiziali del pubblico ministero con tutte quelle avvertenze che stimerà necessarie per l'esatta ed uniforme applicazione della legge tanto in punto di penalità, come in ordine alla competenza.

« Il ministro della guerra

« A. DELLA ROVERE.

FINE

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SOMMARIO

VOLUME SECONDO

XXVI

Nigra mal riesciTo nella luogotenenza di Napoli — Scissioni nel consiglio di Luogotenenza — Dimostrazioni di fatto contro Silvio Spaventa — I briganti appariscono in Basilicata — Assalto di Ripacandida — Crocco in Venosa — Morte di Francesco Nitti — Gabriele Bachiccbio — Crocco in Lavello; indi in Melfi — Aquilecchia e Colabella trionfanti con Crocco; indi arrestati al sopraggiungere delle milizie italiane — Crocco si ritira sopra Monteverde e Carbonara — Cani in cerca di fuggenti; un prete ucciso barbaramente — Chiavone in Fondi – Indole e titoli di costui — Bastimenti di reazionari io Civitavecchia — Piccioni in Ascoli — Il principe di Carignano chiede la sua dimissione — É nominato il conte Gustavo Ponza di S. Martino — Suo programma alle provincie napolitane — Preludi della sua luogotenenza — Il partito mazziniano tenta ridestarsi — I borbonici emettono nuovi sforzi – Proclami sorpresi in Napoli — Processione di S. Restituta in Sora — Disordini in Catania – Il clero io prossimità della festa dello Statuto — Risposta della Sacra Penitenzierìa alla proposta de’ vescovi rapporto alla festa dello Statuto — Circolare del vescovo di Colle — Risposta del capitolo — Morte pel conta di Cavour — Compianto universale in Europa — Proclama del comitato romano in questa occasione — Parole di sollievo agl'italiani deliberali francesi -I preti in solluchero.....………...........................................................................…….................pag. 5

XXVII

Il barone Bettino Ricasoli successore di Cavour — Cialdini spedito in Napoli con giurisdizione indipendente dalla luogotenenza — Coesistenza impossibile del duumvirato nella luogotenenza — Indebolimento d’autorità nella contesa col governo centrale — Ponza di S. Martino si dimette — Il generale Enrico Cialdini nominato luogotenente effettivo — Suo programma — Stato del paese al sopraggiungere della nuova luogotenenza — Il fratello di Cipriano La Gala liberato con frode ingegnosa — Salza invasa — Governo provvisorio borbonico in Montefalcione — Il governatore di Avellino De Luca — Eroica difesa di Montemiletto — Invito di Cialdini a tutte le frazioni del partito liberale — Detto di Cialdini avverato; Quando il Vesuvio rugge, Portici trema — Arresto di aristocratici, preti, monsignori e vescovi — I fautori del partito d’azione applaudono Cialdini — Pinelli a Nola — Terribile giustizia fatta dal colonnello Negri in Pontelandolfo e Casalduni — Spaventevole morte del luogotenente Bracci livornese — Nuovi fomenti al brigantaggio provenienti dallo stato pontificio -11 marchese Alfredo De Trazeignies di Namour belga — Un maggiore francese a nome del general Goyon ed un prete belga dimandano alle autorità italiane il cadavere del conte di Trazeignies — Il prete ne fa ricevuta — Lo spagnuolo General Borjès — Indole di quest’uomo — È accettato dal comitato di Marsiglia — Il general Clary lo insignisce di amplissimi titoli in nome di Francesco II — Istruzione del general Clary al Borjès — Borjès in Malta — Rapporto di Borjès al general Clary — Giornale di Borjès dal 22 Settembre 1861 a tutto il Decembre — Altri documenti requisiti a Borjès dopo la sua cattura — Altri rapporti al general Clary — Lettere di Bosco a Borjès — Lettere di una dama al medesimo — Rapporto del maggiore Franchini sulla fucilazione eseguila sopra Borjès e compagni in Tagliacozzo — Preziose confessioni di Borjès prima della sua morte — Tra le carte sorprese agli spagnuoli trovasi una curiosa orazione, per la quale il portatore credeasi invulnerabile — Altra superstiziosa orazione trovata in dosso ad un brigante ucciso — Sgomento in Roma per la fucilazione degli spagnuoli — Il principe di Scilla dimanda al general La Marmora il cadavere di Borjès — È accordato — Nella chiesa del Gesù di Roma se ne celebrano i funerali — Riflessioni intorno a Borjès.......………………..................………………………….…………..……….........… pag, 52

XXVIII

Fatti più rilevanti in tempo della luogotenenza Cialdini — Mosse de’ briganti Cipriano La Gala, Crescenzo e Centrillo — La banda Chiavone presso S. Giovanni — Specie di brigantaggio nelle Romagne — Coincidenze cogli apprestamenti di Roma — Riunioni frequenti in Frascati presso Roma sotto la direzione del conte di Trapani — Progetto quivi discusso — Eccitamenti alla diserzione — Proclama di Chiavone al Popolo delle Due Sicilie pubblicato in Sora — Castelluccio invaso dai briganti di Chiavone — Il general francese De Gerandon si pone in accordo colle autorità italiane per isperperare i briganti — Scontro in Scifelli coi francesi — Prepotenze chiavoniche verso i suoi stessi colleghi — Lettera di rampogna diretta da Chiavone al comandante francese — I francesi non rispondono che duplicando le loro operazioni militari — Vana lusinga di Cialdini d’avere estinto il brigantaggio — Partiti estremi — Annedoto per una dimostrazione ad onor di Garibaldi — Cialdini si oppone — Il governo pensa di abolire la luogotenenza in Napoli — Cialdini ne annunzia prossimo il decreto, e lascia belle memorie di se con generose largizioni — Sontuoso banchetto offerto dà lui alla guardia nazionale — Addio di Cialdini ai Napoletani — Sua lettera alla società degli operaj — L’illustre general la Marmora destinato come prefetto a succedere al luogotenente Cialdini — Opinione sull’idea di governo militare suscitata dalle successioni de1 militari nella reggenza di Napoli — Proclama La Marmora ai Napoletani — Altro del medesimo al sesto dipartimento militare — Cenni su i mezzi di brigantaggio in questa epoca — Piciocco Paris arrestato in Napoli — Interessante annedoto intorno a lui e ad una fanciulla sedotta dal medesimo — Fatti importanti seguiti dopo le rivelazioni del Paris — Cipriano La Gala isolato dopo dette rivelazioni — Gran parte de’ suoi presentansi alle autorità e dimandano istantemente il perdono — Lo stesso Cipriano e Crescenzo a patti indecorosi dimandano darsi al governo italiano — Questo recisamente rifiuta patteggiare con essoloro — Il governatore di Avellino De Luca annuncia orribili, fatti della banda Crocco — Fatto tremendo presso Cervinara in prossimità di Benevento — Tristany surroga Borjès — Nuovi eccitamenti in Roma verso Francesco II per incoraggiare i briganti — Mene di borbonici per distrarre la leva operata nel regno italiano — Maneggi di confessionale in proposito — Eccitamenti de’ preti verso le donne per influire sopra i respettivi uomini — Lettera significante di una moglie a suo marito — Diserzioni procurate anche in Torino col mezzo de’ camorristi — Tentativi in Savigliano — Nuove rimostranze della Francia per l’allontanamento di Francesco Il basate su recenti e gravi documenti — Inutilità degli sforzi del gabinetto francese — Confermasi questa opinione mercé l’allocuzione pontificia del 30 Settembre 1861...........…….....................……………………............pag. 184

XXIX

Condizioni delle provincie meridionali sul finire del 1861 — Celebre circolare del presidente del consiglio barone Bicasoli sul brigantaggio — Il giornale di Doma risponde in proposito — Brani di un memorandum indirizzato alle potenze europee da Francesco II — Altra celebre memoria Ricasoli al Santo Padre sulla cessazione del poter temporale – Parole al cardinale Antonelli affinché interceda per l'effetto della dimanda avanzata al papa — Istruzioni inviate all’ambasciatore italiano cavalier Nigra in Parigi — Riflessioni sugli atti del Ricasoli — Effetti sinistri di tali atti – Gelose del governo francese — Sincerità della stampa liberale — Difficoltà duplicate in Italia e fuori relativamente alle grandi questioni patrie — I liberali non si scoraggiscono, e traggono ottimi effetti anche dall’avversità delle circostanze] — Ostacoli per la carica di ministro degl’interni — Opposizione del conte Ponza di S. Martino — I partiti estremi per giovare a se stessi indeboliscono il potere colla loro opposizione — Voto di fiducia dell’assemblea nazionale al Ricasoli — Associazione unitaria raccolta in Genova — Il brigantaggio non ancora cessato nell’anno 1862…………………………………………. pag.225

XXX

La corte romana arbitra nel 1862, come negli anni precedenti del progresso o regresso delle lotte nazionali — Essa ostinasi in non accettare la distinzione tra la potestà spirituale e temporale — Parole presso a poco testuali del papa in proposito — Motivi per non attribuir loro troppa importanza — Il gabinetto francese, malgrado il suo segreto livore, rinnova la dimanda di allontanamento di Francesco II da Roma — Lavalette è destinato a tale incarico, ed espone al governo pontificio i motivi della sua dimanda — Il cardinale Antonelli intermediario ufficiale della richiesta francese niega recisamente di accordarla — Egli esalta soprattutto la generosa ospitalità dello stato pontificio — In ispecie egli asserisce essere stata accordata ospitalità ai Bonaparte — Egregia lettera del eh. avvocato Gennarelli comprovante il contrario dell’assertiva del cardinale; — Il brigantaggio raddoppia i suoi tentativi — Il debito pontificio aumenta — Il comitato romano diffida il publico sulla emissione del consolidato pontificio — Si riproduce l’obolo di S. Pietro — I sanfedisti eccitano i loro a controdimostrazione — Rapporto del ministro Lavalette sul frustraneo esito della sua missione presso il governo pontificio — Parole dell’Antonelli in risposta — Egli asserisce che il santo padre se è in rottura col gabinetto di Torino, è però in eccellenti relazioni coll’Italia — Vivissima impressione destatasi in Italia per tali impudenti e menzognere asserzioni del cardinale Antonelli — Dimostrazioni generali — Si riportano a ragion d’esempio le parole del Municipio livornese-Il governo italiano studiasi raffrenare l’eccitamento delle popolazioni — Animate discussioni nell’assemblea francese sulla questione romana — Roma rappresentata da pochi ma furenti oratori — Il principe Napoleone patrocinatore della causa italiana — Termini medii della commissione — Opinione del ministro senza portafoglio, rappresentante il governo — Assennate istruzioni del comitato nazionale al popolo romano — I romani, sobbarcandosi al loro destino, attendono gli Avvenimenti………………………..…………….........................................…………...pag. 202

XXXI

Convocazione di vescovi pe’ martiri giapponesi — Intime ragioni di tale convocazione — Soscrizioni de’ vescovi estorte privatamente da Roma — Dottissime riflessioni in proposito di Monsignor Francesco Liverani — Durante i tristi maneggi coll’episcopato, altri gravi fatti compionsi rapporto al brigantaggio — Tacita connivenza de’ francesi — Francesco Spina sindaco di Mola catturato e trucidato dai briganti — Il partito murattiano ridestasi — Il principe Luciano Murat — Alcuni documenti sulla corte romana — Nuove mene de’ republicani, e de’ borbonici — Keller deputato dell’assemblea legislativa francese — Progetti di costui nelle due corti borbonica e romana — Movimento straordinario dopo la sua partenza da Roma — Ricasoli offre le sue dimissioni — Difficoltà per rimpiazzare il ministero — Rattazzi ministro —Suo programma — È freddamente accolto — Proteste e spiegazioni del barone Ricasoli nella camera — Riflessioni, e impressioni diverse in Italia — Imbarazzi del ministero Rattazzi — Corsa trionfale di Garibaldi per Italia — Misure terribili per la repressione del brigantaggio — Querele de’ filantropi di Europa — Disordini in Napoli, e nelle provincie — Alcuni deputati al parlamento offrono provvedimenti al ministero Rattazzi — Rattazzi evasivamente rifiuta — Incorporamento de’ volontari coll’armata regolare — Autorevoli opinioni sulla condizione delle provincie napolitano — Straordinaria audacia de’ briganti in Roma — Il ministro di Francia La Valette e il general Goyon — Due annedoti provano la baldanza de’ briganti-I francesi beffeggiati dai briganti — Fatto d’armi di Luco — Il general Franzini in Basilicata e Capitanata — Chiavone imbarazzato — Due sue lettere originali — L’inglese Bishop — Nuove speranze de’ cospiratori di Roma — Garibaldi arrestato in Aspromonte — Dichiarazioni del papa nella convocazione de’ vescovi — Indirizzi di commiato de’ legittimisti a Francesco II, in cui contengonsi auguri e incoraggiamenti al brigantaggio.......……………………………...........................................……...............pag. 327

XXXII

Alcuni brani autorevolissimi del rapporto sul brigantaggio emanato dalla commissione d’inchiesta del parlamento italiano — Norme per la esecuzione della legge sul brigantaggio......................……………...................................................................pag. 417

Fine del Sommario

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NOTE

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[30] La violazione della neutralità permessa a Roma senza ritegno dalle autorità francesi, è stata rigorosamente disdetta al governo italiano. Esso in ogni circostanza ha subito una sinistra interpretazione nelle frequenti dispute, che per la mal determinata limitazione delle frontiere avvengono di tanto in tanto. Lascio altri fatti, e mi residuo ad uno recentissimo e inedito.

Nello scorso mese di Giugno di quest'anno 1863 un milite de' cavalleggeri Lodi disertò; poco dopo fu arrestato e sembra appunto lo fosse sulle controverse frontiere. Erasi già iniziato processo in Livorno di Toscana a carico di quello: il governo pontificio il reclamò perché sosteneva invalida la cattura sul proprio territorio; niegavano la restituzione le autorità italiane; ma un dispaccio francese al general Fanti comandante in capo le truppe italiane in Toscana, ordinò l'immediata restituzione del disertore.

Non dissimile da tal fatto è la soperchieria della polizia romanesca quanto al ritiro de' passaporti italiani, e alle tasse imposte ai passeggeri. Il governo italiano reclamò alla Francia; ma dopo l'affettata impotenza delle rimostranze di lei a Rema, quel governo medesimo dové ricorrere disperatamente alla rappresaglia. Ecco in qual modo l'armata francese in Roma spaccia l'alta protezione del papa senza immistione; in dati casi ei s'intrude ed eleva un impedimento effettivo all'esercizio de' diritti, internazionali, senza che la parte offesa sappia o possa contro cui appellare... Quando sarà che non ne tocchi pili in sorte di «servir sempre o vincitori o vinti?»

[31] Qui i' allusione non torna. Perugia, Castelfidardo e Ancona sono tutt'altro che lacrime agli occhi. Il vezzo di manifestare la buona intenzione nel disarmare il braccio de' propri generali DOPO LA SCONFITTA il papa l'avea comune con Francesco II.

[32] L'ospitalit à accordata al principe Luciano Bonaparte nella seguente lettera ufficiali del cardinal Consalvi si risolse nell'impegno assunto dal santo padre verso le potenze di farsene il CARCERIERE; eccoil testo diretto al cardinal legato di Forlì .

«E. mo e R. mo signor mio ossq.mo

(Riservata.)

« Quantunque Sua Santit à non abbia luogo,a credere che il principe di Canino Luciano Bonaparte sia per mancare all'impegno contratto sulla sua parola, presso le significazioni fattegli nel riammetterlo nello stato pontificio di non sortirne; cioè n é egli medesimo, n é alcuno della sua famiglia; pure ad oggetto di rendere maggiormente sicure le potenze, verso le quali il Santo Padre siè impegnato, per quanto da lui dipende, a impedire la sua partenza, sulla quale non sono intieramente tranquille, ha creduto opportuno d'incaricare per mio mezzo l'Eminenza Vostra d'invigilare e far invigilare che il suddetto principe di Canino o sott'altro nome, o con qualunque passaporto, non sorta dal confine pontificio, e nel caso che tentasse di eseguirlo, se si venisse a conoscerlo, ne sia impedito, e si oblighi a tornare indietro, facendolo scortare fino a codesta città dove Vostra Eminenza lo faro rimanere sotto custodia, dandone immediatamente parte alla segreteria di Stato.

«Di tanto debbo incaricare per comando di Sua Santità l'Eminenza Vostra, cui rinnuovo le proteste del solito profondo ossequio, baciandole umilissimamente le mani.

«Di Vostra Eminenza

«Roma li 13 Gennaio 1817

U. mo e Dev. mo Servo servo

«E. Card. Consalvi

Pel figlio dei primo imperatore Napoleone si fè un caso di stato, non dirò di riceverlo nel territorio papale; ma di eliminarne perfino il ritratto.

Il commissario straordinario di Rimini scriveva in propo sito al Delegato Apostolico di Forlì.

«Eccellenza Reverendissima

«Mi viene supposto che certo signor Rosaspina figlio del celebre incisore di tal nome abbia negli scorsi giorni spacciato in questo comune, dietro pagamento, dei ritratti del tiglio Napoleone Bonaparte.

« Avendo io verificato che uno dei ritratti stessi, ritenevasi esposto fuori della bottega di questo librajo Lanfranconi, ed attraeva la curiosità di molti, ho riservatamente disposto che venga tolto alla pubblica vista, senza che ciò abbia urtato menomamente alcun individuo.

« Riguardo però allo spacciatore, trattandosi di un personaggio ora addetto alla casa d'Austria, e figlio di una sovrana d'Italia, io non ho creduto determinarmi a veruna provvidenza senza il superiore di lei oracolo; che nella via più riservata vengo ad implorare, ed in attesa del quale io andrò a procurarmi le più esatte verificazioni per potere in seguito farne a V. E. lima un ben dettagliato rapporto.

« Di V. E. R. mo

« Rimini li 6 Giugno 1816.

« U. mo e D. mo, Ob. Mo

« Il Commissario straordinario

« Serras

Il cardinal Consalvi informato in proposito rispondeva:

« Loda la vigilanza e la prudenza del commissario pontificio di Rimini nell'aver fatto ritirare, senz'urto, dalla publica vista i ritratti, dei quali ella mi parla nella sua N. 124 prossima scorsa. Anche in Bologna furono per qualche giorno esposte alla vendita simili stampe, e con eguale saviezza furono fatte sparire.

«Ella invigilerà attentamente per mezzo della polizia che in qualunque altro luogo della sua delegazione non sitengano in mostra, né si spaccino detti retratti, sapendosi che un numero non piccolo n'è uscito dai torchi del Rosaspina, e con sincera stima mi confermo

«Di V. S. Ill.ma

«Roma 19 Giugno 1816

«Aff. mo per servirla

«E. Card. Consalvi.

Il principe Girolamo Napoleone ex-re di Westfalia, dopo avere formalmente ottenuto dal governo pontificio di prendere stanza nel suo territorio, un bel giorno ad istanza del Re di Napoli che richiese l'allontanamento di quel principe francese, Girolamo Napoleone videsi intimato a partire. immediatamente, ingiungendosigli perfino la vendita del palazzo, acquistato in Fermo dal conte Luigi Pela gallo per scudi dieci mila, mentre ne costava almeno cento.

Le autorit à pontificie credettero accresciuti di gran lunga i loro impegni verso le potenze, nella circostanza della fuga dal castello di Ham eseguita da un altro principe Bonaparte. Ecco la circolare che il governo pontificio si fe sollecito inviare ai governatori delle provincie.

«Si annuncia anche dai publici fogli la fuga del principe Napoleone Bonaparte dal castello d'Ham, dov'era detenuto, e si pretende che tenti penetrare occultamente nello Stato pontificio, per adoprarsi a promuovere dei disordini.

«Ne dò avviso a V. S. Ill. ma, affinché, giusta gli ordini che ho ricevuti dalla superiorità, faceva vigilare accuratissimamente in codesta sua giurisdizione per arrestare il soggetto medesimo, ove ardiscadi penetrarvi, trattenendolo sotto sicura custodia fino a nuova disposizione.

«Il Commissario straordinario Era questo principe il figlio del già re d'Olanda — LUIGI NAPOLEONE III attuale imperatore de' Francesi.

Gli ordini d'invigilare il mandato fulminante di arresto coltro l'attuale imperatore da monsignor Marini governatore di Rema; passarono,a monsignor Gaspare Grassellini, il quale il richiamò in vigore. Varie parole del suo dispaccio fanno allusione ad ordini consimili emanati, in Toscana, e sono diretti a prevenire il possibile ingresso del principe Luigi nello stato pontificio.

« Essendo giunta notizia (ivi si ha) che circa il giorno 6 del corrente. mese di maggio il principe Luigi Napoleone Bonaparte siasi imbarcato a Genova. per introdursi in Toscana, ove si. conosce essersi rinnovati gli ordini del governo, toscano per il di lui arresto, e potendo supporsi che il suddetto principe voglia penetrare anche nello stato pontificio; quindi ec:

E veramente l'ordine esisteva anche in Toscana, il cui governo, come agente dell'Austria, era subordinatissimo non men che Roma ai cenni del suo, signore. e padrone

« ... Il governo della Toscana (scriveva il principe di Metternich al ministro austriaco in Firenze) rifiutandosi oggi a permettere al principe Luigi Bonaparte l'ingresso nel suo territorio, ha non dolo preso una misura consigliala dalla prudenza e che è sovrabbondantemente giustificata dagli antecedenti di questo avventuriere; ma ha operato conformemente ai protocolli del 1815, le cui disposizioni hanno costantemente servito di regola alle corti d'Europa relativamente alla famiglia Bonaparte.

...E ' questa l ' ospitalit à accordata ai Bonaparte millantata dall'Antonelli!... Giudizi di Dio! chi avrebbe creduto che la regola costante di Europa contro i Bonaparte dovesse fallire al segno che un solo dei Bonaparte dovesse poco tempo appresso formar invece esito medesimo regola costante verso tutta Europa; che il Grassellini segnatario dell'ordine d'arresto dovesse indi a poco presentarsi nella regia della sua vittima; che l'AVVENTURIERE gittato nelle prigioni balzato quà e l à , e scacciato da ogni domicilio, potesse disporre di tanti domicilii reali, cui spedì gli atti di evacuazione?

[33] In Milano, malgrado i consigli della Giunta, un indirizzo al governo coprivasi di numerosissime firme, e una publica dimostrazione lo confermava: i cittadini percorrevano le strade recando su i cappelli e berretti, l'iscrizione— Viva il papa non re — Viva Vittorio Emanuele Re in Campidoglio Torino, Napoli, Firenze cc: e le altre principali citt à d'Italia fecero eco ciascuno alle parole delle consorelle. In Napoli specialmente la cosa fu imponente oltremodo. Un immenso popolo dopo aver percorso le vie principali, volle attestare il suo animo sotto le abitazioni medesime de' consoli francese ed inglese, i quali dalla grandissima quantità di popolazione furon costretti presentarsi ai balconi ed esser testimoni della espressioni de' loro voti.

Nella città partenopea una memoria coperta di firme innumerevoli esprimevasi così

«Se il santo padre ha rotto col gabinetto di Torino, e trovasi in eccellenti rapporti col popolo italiano? «Abbasso il papa re — Viva Roma capitale d'Italia. «II popolo italiano geloso custode della sua dignità e de' suoi sacrosanti diritti protesta altamente contro le parole del cardinale Antonelli e dichiara

«1. Che il suddetto cardinale è reo di calunnia contro la nazione.

«2. Che il popolo italiano è solidale col governo nel volere l'Italia tutta degl'italiani, abbattendo il massimo ostacolo all'unità nostra, la podestà temporale dei papi.

«3. E che s'arresterà dal combattere il papato solo quando sarà ricostituita l'Italia in Roma sua legittima capitale.

La speciale deferenza per la citt à che mi raccoglie, mi sprona ad offerire a' miei lettori (molti de' quali qui appunto mi onorano coll'essersi iscritti in tal novero) la soggia protesta coll'osseguioso indirizzo che il consiglio generale del comune di Livorno nell'adunanza de' 20 Febbrajo 1862 deliberava e grandissima maggioranza.

La temperanza delle espressioni e la soavità de' modi con che la protesta e l'indirizzo sono foggiati, presentano uno dei pia belli esempi due dimostrazioni ch'ebbero luogo in questa circostanza in Italia. Eccone il tenore

PROTESTA

«L'anno milleottocentosessantadue, e questo dì venti del mese di febbraio.

«Il Consiglio Generale del Comune di Livorno (Toscana), mosso dalla coscienza propria e dal volo de' suoi concittadini emesso per via di petizione, protesta altamente contro il cardinale Antonelli che asseriva rispetto all'Italia il 17 del decorso gennaio al marchese di Lavalette, ambasciatore di Francia a Roma, e segnatamente contro quelle di lui parole che il Santo Padre trovavasi in eccellenti rapporti col popolo Italiano.

«Il Consiglio medesimo dichiara anzi, quanto al popolo di Livorno, elio esso nella questione politica discorda apertamente dal Governo Romano; e che aderisce invece al Programma del Governo del Re e del Parlamento Nazionale, che proclamò Roma Capitale del Regno d'Italia.

«E mentre professa ossequio e venerazione altissima al Sommo Pontefice, siccome Capo Augusto della Fede Cattolica, deplora, nel doppio interesse della Religione e della Patria, il danno morale e politico di quella signoria mondana, che mai si connubia al rappresentante in terra di colui, il quatei te, stimone il Vangelo, disse non aver regno nel mondo.

«Lo stesso consiglio generale finalmente invita il Parlamento Nazionale ed il governo del re a prendere atto della presente protesta, affinché essa rimanga ad attestazione del vero ed a confusione di cui lo falsava.

INDIRIZZO

«Beatissimo Padre,

«Il più fervente voto della nazione italiana, testé riunita in un solo corpo, dopo più secoli di una violenta e dolorosa divisione, è, che Roma, rimanendo sempre il centro dell'unità cattolica, divenga la sua città capitale. E già tale è stata proclamata. dal Parlamento del nuovo Regno. Ma il principato civile dei papi è ostacolo al conseguimento del legittimo desiderio.

«Nè però è gran tempo che Vostra Beatitudine insegnava dall'alto del Vaticano, i Romani Pontefici intendere i desiderii, k cure e tutti gli studi loro all'incremento del Regno di Cristo cheè la Chiesa, e non apprezzare la sovranità temporale, se non perché conferisce alla dignità della Santa Sede, ed assicura il libero esercizio dell'Apostolato supremo. — Laonde ora che Re Vittorio Emanuele 11, ed il Parlamento, in cui si personifica la nazione, inspirandosi alla coscienza cattolica del popolo italiano, promettono e guarentiscono, che non sarà diminuito lo splendore della sublime cattedra di Pietro, né inceppata minimamente, anzi vieppiù agevolata l'azione dei sommi pontefici quant'allo spirituale rifiuto di abbandonar la signoria terrena per parte del successore degli Apostoli parrebbe informato da tini mondani che non possono sull'animo di lui. Di che, confondendosi facilmente la questione politica colla religiosa, si fanno smaniosi gli animi, le coscienze si turbano, e scema la fede.

«Il Consiglio Comunale della Cattolica Livorno sì rivolge a Vostra Beatitudine, capo venerato del cattolicìsmo, affinché vogliate ovviare al pericolo che sovrasta, e che a voi solo é dato di rimuovere.

«Rinunziate, Beatissimo Padre, al dominio temporale ché vi richiama alle cose di questo mondo, dove non è il vostro remo; conservate il preziosissimo dono di tutti, la fede; e benedite all'Italia unita con Roma capitale; sicché si ri componga veramente quel vincolo di pace, di cui Iddio vuole che sieno stretti insieme il padre coi figli.»

[34] Principalissima e vera ragione della resistenza della corte papale. Spogliarsi di comode ambizioni, rinunciare al dilettoso comando, presentare la mascella destra a cui ti percosse nella sinistra, non sono virtù de' tempi e molto meno de' preti di Roma.

[35] Altra incontestabilissima verit à , la vera, ed unica cagione della longanime espettativa della corte romana mascherata colla rassegnazione ai voleri di Dio. Quale diversità tra la cupa elaborazione de' concetti artificiali, tra gli stiramenti procustè i de' sostenitori di labili e bugiarde dottrine, e tra coloro che colla serenità della fronte e col sorriso sul labro, estrinsecano l'accento sincero, del cuore! Questi tratti del principe Napoleone sono tali che„ feriscono per evidenza, e non ne rammento di cos ì chiari, inconcussi ed espressi con tanto profonda cognizione di causa. Sebbene non nuovissimi, pure il luogo e gli aggiunti li rendono ammirabili, e di un effetto prodigioso.

[36] «Monsignore,

«Non v'ha missione per me più gradita elio quella che mi viene ordinata, di annunciare a Vostra Grandezza che Sua Santità ha deciso di convocare pel mese di maggio prossima, due concistori semipubblici, in seguito dei quali avrà luogo il giorno delle Pentecoste la canonizzazione dei ventitré beati martiri giapponesi dell'Ordine di San Francesco dei minori osservanti; cioè del beato Pietro Battista e dei suoi compagni, e del beato Michele de Sanctis confessore dell'Ordine della S. Trinità per il riscatto degli schiavi.

«Sua Santità, seguendo l'esempio dei suoi predecessori, avrebbe desiderato di far venire a Roma di propria autorità i vescovi italiani per intendere la loro opinione in un affare di sì grande importanza, e per accrescere colla loro presenza la pompa di questa solennità. Ma considerando le calamità che colpiscono la maggior parte dell'Italia e non permettono a tutti i pastori di separarsi dal loro gregge, ella ha creduto per questa volta di deviare dall'uso stabilito.

«Perciò il sovrano pontefice si è degnato di ordinarmi di spedire questa lettera, non solo ai vescovi d'Italia, ma pure a tutti quelli del mondo cattolico, per annunziar loro la felice notizia della canonizzazione, e per dichiarar loro al tempo stesso che quelli che credessero di poter fare il viaggio a Roma, sia d'Italia, sia d'altre parti senza pericolo pel loro gregge, né inconveniente particolare, onde assistere ai concistori ed alla canonizzazione solenne, farebbero cosa aggradevole a Sua Santità.

«Del resto questo viaggio a Roma, se può effettuarsi, secondo le intenzioni di Sua Santità, servirà come se fosse fatto per compiere l'obbligo della visita sacrorum liminum. lo vi annuncio tutto ciò per ordine di Sua Santità.

«Profitto dell'occasione per esprimere a Vostra Grandezza i miei profondi sentimenti di rispetto, ed augurandovi tutte le prosperità divine.

«Roma,18 gennaio 1862.

« Cardinale Caterini

«prefetto della Congreg. del Concilio.»

[37] Per ver dire nel leggere che l'esimio monsignor liverani, il quale m'avvenne fin qui nominare sol per causa d'onore, ha dettato l'indirizzo del capitolo liberiano, e sottoscritto quello del collegio de' sette protonotari apostolici, sperimentai una spiacevole impressione; dacché il dettare o redigere uno scritto contrario al convincimento proprio, par faccia supporre qualche cosa di più che soscrivere pro forma.

Il soscriver poi l'altro senza leggerlo, parrebbe far lecito il demandare: come dunque può giudicarsi ch'esso è un capo lavoro di eloquenza della segreteria di stato?

E se fu letto posteriormente, quella lettura prepostera non avrebbe avuto forse meno ragioni d'essere considerata dopo più che prima?

[38] Un N. N. cui il confessore suggestivamente richiese se avea preso parte nella ribellione contro il papa, rispose ch'egli adempieva al precetto ecclesiastico della confessione per accusare i propri peccati e rifiutava scegliere quel tribunale di penitenza per menar gloria e vanto di fatti che non solo non riteneva coscienziosamente peccaminosi, ma che, l'avervi partecipato, sarebbesi ascritto a debito di buon cittadino e a merito verso il padre de' popoli.

Il confessore opponevasi, come un mercatante cui venga per ispregio. deprezziata la propria merce; il penitente replicava, si che in breve la voce soffocata e sibilante del reo e del giudice si cangiava in voce sonorae spiccata; e già il cozzar colla testa sullagratella del confessionaleper parte del penitente, e il cupo agitarsidel ministro di Dio nell'interno del suo chiusino, come in un bussolo, faceva presentire una conclusione tute' altro che pace e perdono con iscandalo degli astanti: quando a un tratto il penitente levatosi, abbandonò l'udienza lasciando su due piedi l'indiscreto confessore, il quale a dieci passi bofonchiando ancora, spirava fuoco a traverso i fori della gratella.

[39] Non è nuovo questo stile nelle arti di partito. Io ricordo casi simigliantissimi avvenuti in Roma nel 1849. L'assemblea titubava sul modo da tenersi dopo la fuga del papa: alcuni opinavano pel governo provvisorio proposto dal presidente dell'assemblea medesima avvocato Sturbinetti; siccome peraltro questa misura sarebbe riuscita imbarazzante e non decisiva, i partigiani de' prati guadagnarono uno sciame di vociatori, i quali nell'assemblea, nel circolo popolare, o in altre riunioni gridassero a piena gola— Viva la Republica per imporre all'irresoluzione, e precipitare una determinazione suprema, nella quale già soffiava potntemente Mazzini.

Uno di quali sciagurati mio compagno nel seminario di Frascati mi confessò il suo peccato d'aver accettato la commissione di gridare per parte della prosegreteria di stato in Gaeta.

Parve temere di qualche vendetta nella restaurazione, e consigliato anche da me sembrava volesse sciogliersi dai suoi impegni. Siccome possedeva costui qualche titolo di nobiltà , dimand ò essere ascritto nelle guardie nobili del papa, ma rifiutato e stretto a guadagnarsi la vita per lungo tempo proseguì bellamente a far la spia, e quel che è pi ù singolare, io sapeva ch'egli segretamente, era il relatore della mia condotta alla polizia, da cui ero guardato come precettato politico.

[40] Fu notato il gravissimo monsignor Nardi autore di opuscoli politici, ponente di Rota, già professore di giurisprudenza ec: ec: folleggiare da un balcone con alcune signorine romane C. agitando il moccolo.

[41] Al Teatro Paganini in Genova s'era adunata una cos ì detta assembla intitolatasi Emancipatrice Italiana composta di deputati eletti dai vari comitati democratici sparsi per l'Italia. Quivi tutte' le più grandi questioni politiche venivano rivedute,e corrette; lo statuto proclamato insufficiente, ristretto, indegno d'un popolo veramente libero; il governo era minacciato di assembramenti di piazza e del ricorso alle armi ove non avesse fatto senno.

Impone vasi poi con modi imperiosi e perentori il ritorno dell'illustre esule Mazzini; le discussioni erano ardenti, affluivano votazioni d'ogni genere, pressoché tutte all'unanimit à , e nel fervore inaudito delle Catilinarie erompenti dalla tribuna democratica, obliavasi ogni rispetto all'autorità costituita e a coloro che ce la eravamo imposta; in somma invaso il terreno legale, quegli uomini aveano apertamente dichiarato la rivoluzione subordinata ai loro voleri, ai quali volevasi soggetto e ligio il governo svillaneggiato con ogni maniera di vitupero.

In questo modo parsa lecito il dubitare ove risiedesse la rappresentanza nazionale, o al teatro Paganini in Genova, ovvero al palazzo Carignano in Torino. A tale erano giunti taluni sconsigliati che sotto il velo della democrazia disfogavano le loro impazienze, e che si contendeano col governo il primato dell'autorità .

Malgrado per ò codesto eccentrico antagonismo, quelle associazioni dopo aver rapidamente camminato, s'erano rese imponenti e temibili; l'illustre generale Garibaldi trascinato a cuoprirle del suo nome accresceva autorità ed imbarazzi.

Per queste ragioni il potere governativo inascoltato di fuori e indebolito di dentro da difficoltà sommamente complesse, avea d'uopo resistervi con abile temperamento che non irritasse con soverchia preci né che cedesse per fiacchezza.

Rattazzi vide ch'era tempo di guadagnarsi le cose coi nomi, e pose nella sua composizione non uomini di vari partiti, ma nomi ch'erano in voga di rappresentarli.

[42] Questa rassegna pure alquanto di municipio e di campanile; dacché la classificazione di opinioni giusta la variet à de' paesi componenti le membra d'Italia, sebbene abbia un fondo di verità nelle tradizioni e nelle abitudini, pure dalla voce autorevole di un ministro mal si ricevea tutto quanto non tendeva a sostenere l'unità , e che anzi influiva a rilevarne sottilmente differenze date solo al tempo di risolvere.

[43] Cotali eccessi erano in quel tempo veramente temibili. Per dare una idea di tal lato minaccioso che radicava specialmente nella così detta assemblea emancipatrice italiana, ne giova accennare alcuni brani de' suoi furiosi oratori, cominciando dalle parole dell'insigne generale Garibaldi, il quale (tranne un fondo di rettitudine e di onestà nelle sue patriottiche intenzioni) allorch é parlamenta in politica, giusta l'espressione di un publicista inglese, vi fa cadere le braccia.

Egli il giorno 9 marzo di quest'anno 1862 apri la sopradetta assemblea. Disse dapprima di sentirsi fortunato nel veder riuniti i rappresentanti di un popolo libero; di un popolo che ha avuto la felicità di vedere Id sua condotta approvata dalla intera umanità, di cui avea coraggiosamente abbracciato i principi...

... Soggiunse che il principale oggetto, per cui il comitato centrale delle associazioni di Provvedimento avea convocato l'assemblea era stato per coordinare in un sol centro tutte le associazioni liberali... ; che l'idea di riunire in uno tutti gli elementi liberali del paese, di fare una società sola delle societ à liberali tutte, dovea meritare l'approvazione di tutti i rappresenti dell'assemblea «Riunirsi e coordinare insieme tutte le nostre forze ( sclamava il generale) è la mia opinione. Io sono di opinione di tutto raggranellare... formare il fascio romano... fascio dinanzi a cui s'inchineranno tutte le prepotenze.

«... Emetto ancora, sottoponendolo alla vostra determinazione che il concetto di riunire in una tutte le forze popolari si , estendesse anche ad altri popoli; andasse anche oltre la penisola... vorrei che gl'italiani porgessero la mano agli schiavi del mondo intero.

Un avvocato Campanella che ben poteva dirsi il Keller della democrazia, proclamò che le parole del generale avrebbero annunziato all'Europa come la concordia regni nel campo della Democrazia; che l'assemblea era destinata a gettare le fondamenta di quelle formidabili falangi popolari che operarono i portenti del 1848 e maravigliarono ai nostri giorni colla marcia dalla Villa; di Quarto a Gaeta; a capo delle falangi dover essere il gran capitano...« Gli uomini della democrazia (ei diceva vivamente) sono fermi e non cederanno mai.»

Venendosi di poi alla proposta di richiamo di Mazzini,. Mordini aveaproposto per la commissione di rinnovare le istanze col mezzodi petizioni al parlamento; Borsa però Campanella e disse non averfede nel ministero, che aveapromesso di occuparsene; indi proseguì «Il ministero comincia assai, male. Mi affligge la risposta ministeriale non per Mazzini, che conosco quell'anima sdegnosa come apprezzi la disgrazia ministeriale; ma sono sdegnato come italiano della risposta dal ministro Rattazzi; sono sdegnato con quell'anima piccina da legulejo del Sig. Rattazzi, anima arida e secca come, una mummia d'Egitto. Quest'uomo non è degno di presiedere i destini di un gran paese.

Una maggioranza inetta e servile insultò a tanti cittadini respingendo l'urgenza: il ministero risponde con un articolo di procedura... Si vuole che portiamo la questione sulla publica piazza?... Noi la porteremo. Avanti di ricorrere a queste ultime misure vogliamo dare ancora una lezione d'ordine a questi storditi ministri.»

E poco dopo « Respingo le conclusioni della sommissione, perchè non ci esporrebbero che a nuovi insulti, e siamo già stati troppo insultati. Facciamo sacramento se sì rifiuta la domanda di Garibaldi (che avea assunto farla presso il ministero) di portare la quistione in piazza.»

Di questa tempra erano sossopra le moderate voci dell'assemblea genovese!

[44] Ecco quanto profferì egli in Piacenza dal balcone dell'albergo d'Italia, dove si soffermò arringando il popolo:

«Sono stato veramente addolorato di non potere essere con voi il giorno 20, come era mio desiderio. Circostanze imperiose me lo impedirono: oggi finalmente ho il grandissimo conto d'essere fra questo bravo popolo, fra cui veggo tanti miei prodi compagni d'armi.

«Non è la prima volta che il popolo di Parma ha date prove di eroismo, e quando l'occasione si presenti, sono persuaso che queste si centuplicheranno.

«Sì, a migliaia sorgeranno coloro che di nuovo verranno con me, e col nostro prode esercito a togliere il velo a quella bandiera (additandola bandiera della emigrazione veneta).

«Si, noi toglieremo il velo dalla bandiera di Venezia.

«Sì, Venezia, la redimeremo fra le sorelle, e vedremo una volta chi saranno gli insolenti che calpesteranno la terra nostra. Alla prodezza degl'italiani non v'è nulla da aggiungere.

«Tutti in armi, tutti destri alle armi perché persuadetevi, se oggi ci è dato di liberamente parlare, ciò non è per volere degli oppressori, ma perché siamo forti.

«In armi dunque, in armi tutti, e tutte le quistioni del nostro paese spariranno. Sparirà quella di Roma, sparirà quella di Venezia; spariranno tutte e senza il soccorso della diplomazia.

«La diplomazia la faremo noi colle nostre armi; la faremo colle nostre carabine.

«La missione principale del mio giro è quella di vedervi e di istituire il tiro nazionale, onde esercitarvi al maneggio della carabina.

«Benché io sappia che sapete bene maneggiare la baionetta, desidero anche che sappiate colpire il nemico come si deve. Colla carabina e destri a maneggiarla noi otterremo tutto.

«Popoli di Parma, io vi ringrazio della vostra viva accoglienza, e vi saluto.»

[45] POVERO POPOLO!... Espressione veramente elastica che coperse maisempre l'egoismo de' tristi, e che alimenta tuttavia l'insaziabile sete dell'umano orgoglio. Altri lo pesa; altri lo conta; tutti si struggono per esso, ed esso inveceè l'innocente strumento di tutte le passioni.

Oggi stesso, mentre io scrive, l'imperatore Francesco Giuseppe d'Austria, demofago personale e tradizionale per eccellenza, nella compartecipazione delle prerogative popolari nell'assemblea di Francfort si fa l'eroe della causa nazionale edel popolo!?

I pi ù teneri del popolo lo affogano aprendogli dinanzi l'inesauribile e sconfinato sacrario de' suoi diritti nel SUFFRAGIO UNIVERSALE, ch'è l'inganno, generalmente parlando, il pi ù scaltro e seducente; frequentissimo strumento di tirannide; mezzo assai sovente suicida della stessa volontà popolare, che si millanta largamente sostenere e difendere… Un plebiscito libero, spontaneo, ragionato è un ' ambita visione della virt ù , è un tesoro elle non si trova ad ogni pi è sospinto!

[46] Sembra incredibile la cecità di coloro i quali in buona fede, dopo il ritiro di Garibaldi e lo scioglimento dell'esercito meridionale, facevansi a chiedere al governo d'innalzare nuovamente a potenza l'ex-dittatore delle Due Sicilie.

Come mai costoro non si avvidero che da Cavour in poi il governo area inteso a consolidare in se la missione nazionale e che ha maisempre schivato, a costo di rendersi impopolare, una controbilancia sia militare sia amministrativa di altre influenze?

L'Italia e dirò anche l'Europa si credè liberata da un pericolo, lorché la somma delle cóse torni intiera nelle mani del monarca italiano, non tanto per la persona di Garibaldi o poi suoi principi sempre modificati saggiamente coll'epoca ma pei leziosi amori di un partito raccolto intorno a lui, non ugualmente candido e sincero come la bell'anima di quel raro uomo: or come dopo aver tanto dello ed oprato per disarmare la rivoluzione della rivoluzione, sarebbe tornato il governo stesso a troncarsi definitivamente le gambe col risollevarne la testa?

Qualunque poi fosse il personale convincimento di Rattazzi, la massima del gabinetto doveva prevalere, e in ogni circostanza Garibaldi sia direttamente sia indirettamente fallirà ai suoi progetti; quando voglia emancipare la sua influenza dal consenso e dalla dipendenza del governo.

Del resto non doveva dolersi Garibaldi di non esser spe dito al timone del governo di Napoli. Gl'interessi non guardano in viso alcuno; essi cercano la loro satisfazione assoluta sotto pena di spietata reazione. Se Domeneddio avesse in questi tempi retto quel paese non avria potuto renderlo contento; dacché il contentar dieci era scontentarne di manco cinque. Ne discendeva quindi che il tempo solo poteva venire assottigliando il dissesto; ma farlo disparire era pronunciare una contraddizione.

Garibaldi con tutto il suo buon volere, concessagli pure una dose di criterio politico, avrebbe perduto la sua popolarità; si sarebbe confuso colla critica, colla maldicenza, ed avrebbe oscurato con minuti e odiosi accessori quella splendida individualità destinata solamente ad informare i tratti magistrali e artistici di una grandiosa epopea, lasciando poi alla longanime industria delle dottrine normali il relativo sviluppo.

[47] Perch é possa formarsi una idea della quantit à de' briganti in questo tempo, riporto un piccolo riassunto che lo dimostra.— Diversi nuclei di assassini uniti ad una compagnia venuta dalla Basilicata composta di circa novanta individui a cavallo armati di fucili a doppia canna svaligiarono delle vetture a Vallo di Bovino con sequestro di persone, uccisero cinque pastori sotto Troia. Aumentarono indi a centoventi circa, infestarono le campagne, al solito devastando, rubando o uccidendo; tentarono congiungersi ad altre bande del Gargano e fare qualche colpo di mano sopra le carceri che racchiudevano molti malfattori e reazionari.

Un capitano Richard di Chambery venne colto alla sprovvista presso la masseria Petrulla da codesta banda, fu assalito; circondato e assassinato con tutti i suoi compagni. Il general Doda accorse sul luogo con lancieri e guardia nazionale; ma tardi; dacché i briganti, consumato l'assassinio poterono denudare i cadaveri e fuggire.

In Santa Maria Vico una pattuglia di guardia nazionale fu aggredita da una banda di otto briganti circa, la pattuglia rispose vigorosamente al fuoco; fugò i briganti, e n é arrest ò due; uno de' quali fu riconosciuto per un Gennaro Di Lucia compagno di Cipriano La Gala, ed uno fra coloro che nell'anno precedente uccisero un foriere di artiglieria sulla strada diNota. In Caserta veniva arrestato un brigante Pascarella, ed altri molti in Cervino.

In una perlustrazione una pattuglia del secondo battaglione della guardia nazionale di Caserta incontrò una comitiva abbastanza numerosa di uomini, armata; attaccatili, li pose in fuga, ne fece quattro prigionieri e sorprese una quantità di munizioni.

Da Sora Chiavone reduce da Roma si era recato al consueto rifugio nel convento di Scifelli. I briganti accampavano tra i prati di Campoli, Scifelli e Casamari; altri verso campo di Mele; altri a Terracina; in tutto ascendenti a poche centinaia.

Il punto objettivo de' briganti accennava all'Abruzzo aquilano verso Valle Oscura.

Le provincie più molestate erano Capitanata e Basilicata. La banda Crocco trovavasi non molto numerosa presso Guaragnone aggirandosi tra Gravina e Altamura. il numero de' briganti componeasi in grandissima parte di forestieri.

[48] Mercato di seduzione, di corruttela e di spionaggio era fatto, al solito il confessionale. Parecchi vescovi, in ossequio alle circolari della Sacra Penitenzierì a, non abborrivano d ' ispirare il veleno de' loro rancori nelle faccende puramente civili, traendolo artificiosamente da apparenze religiose, straziando così le credenze e le tradizioni originarie della Chiesa.

Alcune parole di Monsignor Antonio Canzio canonico della metropolitana bolognese e vicario capitolare persuaderanno i lettori della verità , amando io cos ì sottoponendomi al loro giudicio, offrirgli documenti testuali. Ecco qualche brano della circolare spedita in Bologna da detto vescovo nelle circostanze, in che siamo.

«Desiderando provvedere, per quanto è in noi alla salute delle anime, a te, diletto fratello in Cristo... coll'autorità apostolica a noi data dal nostre Santo Padre Papa Pio XI con lettere della Sacra Penitenzierìa, facciamo a te facoltà per uso di coscienza e non altrimenti

«Di assolvere ec....

«Di assolvere ugualmente sotto la condizione espressa nel numero i (che cioè i pentiti di aver cooperato alla ribellione abbiano dato segni non dubbi di vero pentimento, riparato nel miglior modo possibile al dato scandalo, e promesso con giuramento fedele obbedienza alla S. Sede e alle sue prescrizioni, previa salutare penitenza secondo il grado delle loro colpe) dalle censure e pene ecclesiastiche i militari che combatterono contro il governo pontificio, sempreché dichiarino di esser pronti a disertare le bandiere come appena il potranno senza pericolo di vita, ed intanto dichiarino di astenersi da tutti gli atti ostili contro i sudditi e le truppe pontificie, non che dagli atti contro i beni, i diritti e le persone ecclesiastiche; sia inoltre loro ingiunta una congrua e salutare penitenza e l'obligo di risarcire i danni recati.

«Sono poi eccettuati quei capi ed ufficiali, i quali sexxxxxxxx di vita potevano o dimettersi, od abbandonar le bandiere ed eccettuati come sopra coloro che violarono l'immunità ecclesiastica dei cardinali, vescovi, od altri dignitari ecclesiastici.

Per questi l'inferno era irrevocabilmente aperto! La stessa disposizione per interpretazione benignamente estensiva mercè il favore della causa pia, veniva applicata in tutto il regno d'Italia dove trovavansi ex-militi al soldo papale ed in ispecie a Napoli dove a causa dell'ex-re diveniva quella stessa del suo alleato il papa, e questo apprestava a quello la compenetrabilità de' privilegi clericali.

[49] Questa banda doveva penetrare negli Abruzzi. Si ebbe da carte rinvenute presso un tal Padulli arrestato nel fatto che il capo era un Pasquale Mancini; che gli arruolamenti eran seguiti in Roma nella nota spezieria Vagnozzi in campo di Fiore, che la banda partita da Roma il 30 marzo in piccoli drappelli di dodici a quindici persone, erasi riunita su i piani di Arcinazzo. Quivi le armi furono distribuite da un prete, il quale bendi le turbe, e promise loro che più oltre avrebbero trovato molti stranieri in soccorso loro e i paesi in piena rivolta per Francesco II. In una casa colonica erano celati vestiario, cioè cappotti grigi con mostre gialle, sacchi a pane, e zaini vecchi acquistati nel ghetto di Roma.

Sulla montagna di Luco si rinvenne il cadavere dell'infelice Micarelli d'Avezzano catturato dai briganti.

[50] Sono classiche e da registrarsi nell'epistolario brigantesco due brevi lettere che si querelano di tal difetto. L'una è di una straniero, il quale per tempo avea appreso lo stile de' briganti, guasto pur anco dall'innesto bastardo di accento oltramontano, la seconda è dello stesso Chiavone.

Non sar à fuor di luogo regalare al lettore codesti modelli di lingua e di virtù : la prima, che è diretta al sindaco di Anzano, ha questi termini: «D. Sebastiano Vassallo al momento devi mandare la spesa, viveri, 4 molgue, Pane 112, Panetti formaggio quanto voi volete,12 paccotti di sigari, e vi raccomando subito mandare della spesa, conosciuta la vostra buona amicizia; se poi non volete la nostra amicizia, non mandate la spesa che al momento fa io una grande necessità per le nostre mani. che verrò al momento al paese, per cui mandate subito che la truppa ha travagliato, ora vole mangare — Sano Sente Levami Capo Banda.»

«P. S. Mandate una bottiglia di Quesito Marena»

Ecco la seconda lettera di Chiavone sullo stesso tenore:

«Al Sig. Giuseppe Ratangeli

«Veroli

«Cari Giuseppe.

«Fatemi il favore pei presente mi mandate la somma di scudi trenta che altromente nella nostra tragita nello Regno vi farò distrugge tutto quello che avete in Sora e per questo che vi prego di mandammi la somma richiesta vi saluto.»

«Oggi 97 Aprile 1861.

«Il vostro amico

«Luigi Chiavone»

[51] Se non le stesse parole, almeno il senso preciso di tre lettere principali rinvenute a Bishop fu il seguente:

Lettera di Francesco II a Bishop

«Non mandate più degli uomini qui, perché noi non abbiamo i mezzi per mantenerli. Essi muojono di fame.

«Per la vostra duchessa di M... e suo fratello noi abbiamo trovato dell'occupazione.»

Lettera di Bishop al principe di Torella

«Vi mando la lettera di Roma. lo non so se vostra sorella non abbia esagerato le vostre buone intenzioni, dicendo che voi volete cooperare per la ristorazione del nostro re.»

Risposta del Principe Torella a Bishop

« lo non conosco l'autore della lettera che m'inviate. Suppongo essere un malinteso. lo mi dichiaro interamente estraneo a quanto voi dite o cui supponete.»

[52] Ne trascriveremo invece per brevit à una sola, paghi di un esempio che vale per molti.

[53] Molti altri esempi sono addotti oltre il presente; ma li omettiamo per brevità .

[54] Tutto questo tratto che riguarda l'occupazione francese di Roma,è toccato assai maestrevolmente. Una relazione ufficiale non poteva, senza compromessa, aprire svelatamente quella verità ch' è in fondo alla coscienza di tutti. Se in politica specialmente, la parolaè fatta per nascondere il pensiero, era anche qui giuoco forza seguire il vezzo; il redattore altresì , con abile unzione, ha saputo parlare al convincimento di tutti, ed evadere a un tempo il broncio di qualche nota possibile.

Se una effettiva complicità non può impugnarsi a carico del governo pontificio, chi... chi mpi oserebbe niegare per lo meno la connivenza inerte della tolleranza per parte dei francesi?

A chi si direbbe che i vincitori del vecchio e nuovo mondo fossero divenuti in un punto mogi, grulli, scogliati, orbi, acefalochiri dinanzi a un pugno di fango?

Cos'è poi cotesto sacrario di cagioni recondite e inscrutabili, per cui non si osano indagare i motivi politici che determinano il governo imperiale a conservare le sue truppe in Roma?

V'ha ancora in terra un nome che trae lustro nel pregno tenebrose de' misteri, innanzi a cui s'inflettano i raggi penetranti della luce del secolo? 0 v'ha un convegno tartareo dove si rimesti il causis nobis notis delle orgie poliziesche de' preti... Se togli il meticoloso andazzo ufficiale gli stessi signori deputati della commissione sarebbero i primi a convenire della ingiustizia flagrante e crudele della occupazione di Roma, e della inqualificabile connivenza col brigantaggio.

[55] Alla pagina 186 tom. 1 si è riportata un altra formula di giuramento da prestarsi dai componenti i comitati borbonici. La sostanza altresì è la stessa colla presente formola assegnata agli affiliati delle bande.

[56] Quanto alla insigne superstiziosa ignoranza delle masse borboniche ed alla cieca credulità anche di alcuni fanatici stranieri, sonosi addotte riflessioni e documenti alle pagine 213 tom,1; 319 tom. 1; 431 tom. 1; 51 tom. 11; 177 tom. Il cc:


























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