Eleaml - Nuovi Eleatici


STORIA DELL'ITALIA CENTRALE DOPO LA PACE DI ZURIGO

DELLA GUERRA DI SICILIA E DEI FATTI POSTERIORI

CORREDATA DI TAVOLE LITOGRAFICHE E NARRATA

COLL'ESPOSIZIONE DEI DOCUMENTI ORIGINALI

da far seguito alla Guerra d'Italia del 1859

DELL'AVVOCATO DOMENICO VALENTE

SECONDA PARTE - CAPITOLI X - XVII

NAPOLI

STAMPERIA DI A. MORELLI

Strada S. Sebastiano».11

1862

(se vuoi, scarica il testo in formato ODT o PDF)
01 - HTML - PRIMA PARTE - Storia dell'Italia centrale dopo la pace di Zurigo - D. Valente
02 - HTML - PRIMA PARTE - Storia dell'Italia centrale dopo la pace di Zurigo - D. Valente
03 - HTML - SECONDA PARTE - Storia dell'Italia centrale dopo la pace di Zurigo - D. Valente
04 - HTML - SECONDA PARTE - Storia dell'Italia centrale dopo la pace di Zurigo - D. Valente
05 - HTML - SECONDA PARTE - Storia dell'Italia centrale dopo la pace di Zurigo - D. Valente

CAPITOLO X

 La battaglia di Calatafimi — La ritirata dal Parco.

SOMMARIO

Proclama del Comitato di Palermo — Concessioni del Governo di Napoli ai Siciliani — Bollettino del Comitato — Proclama di Castiglia — Alto di probità dello stesso — Riflessioni morali — Atti di Garibaldi in Salemi. Sua lettera a Bertani — Si dichiara Dittatore — Provvedimenti per la milizia — Disposizioni pel primo attacco — La posizione di Calatafimi — Questo primo combattimento era di una grave importanza per le truppe di Garibaldi — La colonna di Garibaldi a Vita — Si avvia a Calatafimi — Attacca i regii — Difficoltà, che incontrano i Garibaldini — Morte di Schiaffino — Garibaldi rianima il combattimento — La posizione è presa — La vittoria è completa. Morti e feriti — Gl'Italiani entrano in Calatafimi — Lettera di Garibaldi a Bertani — Altra sua lettera da Alcamo — Vero concetto di Garibaldi sulle truppe napolitane — Articolo del giornale officiale di Napoli del 18 maggio — Riflessioni politiche — Proclama del Comitato di Palermo — Relazione di Landi a Castelcicala sul combattimento di Calatafimi — Osservazione del Generale Thur — Questo rapporto avrebbe dovuto consigliare maggiore prudenza — Come fossero trattati gl'Italiani a Calatafimi — Ordine del giorno — Effetto di esso — Lettera di Garibaldi a Rosolino Pilo — Lettera di questo ad un suo corrispondente in Palermo — Le schiere italiane s'ingrossano — Partenza per Alcamo — Dimostrazione, che doveva seguire in Palermo da parte del governo — Decreto del governo di Napoli — Proclama di Lanza — Tumulti nel Cassero — L'amministrazione di Lanza cominciava male — Disorganizzazione governativa — La colonna di Garibaldi in Alcamo — Parole di un Capitano garibaldino — Provvedimenti amministrativi — La colonna a Partinico. Spettacolo atroce — Ricevimento degli abitanti — Tratto caratteristico di quella spedizione — Partenza per Borghetto — Voci diverse — Partenza per Perreo — Preparativi di partenza — Si giunge a Parco — Descrizione di Parco — Disegni di Garibaldi — Ritirata da Parco — Articolo del giornale uffiziale di Napoli — Non vi si prestava fede, ma si era in ansia di sapere il vero.

 Il giorno 13 di maggio il Comitato di Palermo divulgava il seguente proclama:

«Al Popolo, alla Truppa.

«Fratelli

«Bando alle pacifiche dimostrazioni.. Desse arderebbero perdute or che Garibaldi seguito da millanta prodi è fra noi, ora che la vittoria è assicurata; bando alle dimostrazioni.. Il Comitato ve ne prega. Si prepari invece ciascuno alla lotta finale, ché la Patria ne appella a più duro cimento.

STORIA DELLA GUERRA DI SICILIA

INCENDIO DEL QUARTIERE DEL PALAZZO REALE DI PALERMO

«Soldati Voi siete stati traditi dai vostri comandanti. Essi s'imbarcheranno, abbandonandovi all'impeto popolare. Finora vi hanno spinto ad una lotta fratricida per conservarsi un pane impastato colle lagrime del popolo e colla loro vergogna. L'onorata divisa del soldato è stata per essi tramutata nella lurida casacca del più vile fra gli sgherri dell'infame gendarme Maniscalco. Noi vi stendiamo nuovamente la mano.. Non vi arresti la larva del giuramento, che fu da voi profferto per la Patria, non mai per la persona del Principe. Deponete le armi, e fraternizzate col popolo. Le milizie delle più grandi nazioni ve ne hanno dato l'esempio.

«Le stesse parole di perdono valgano pei cagnotti della Polizia. Siam tutti fratelli, abbracciamoci sotto un unico vessillo, la bandiera d'Italia Che se le nostre parole andranno perdute... oh guai a chi si attenterà tirare sul popolo.. Non più perdono allora, non più quartiere, ché al sentimento di patria sottentrerà quello di una feroce vendetta. Viva l'Italia! Viva Vittorio Emmanuele! Viva Garibaldi!

Il 15 del detto mese giungeva in Palermo il vapore da Napoli, e recava una diminuzione sul dritto di macino, tolta la carta bollata, un Principe della famiglia reale avrebbe dimorato in Sicilia. Queste concessioni non furono pubblicate; invece il Comitato pubblicava il bollettino seguente: — Garibaldi è con noi; ovunque ei passa riceve ovazioni; con lui si trovano molti dei nostri, fra i quali Carini, Castiglia, La Masa, Cordova, Fardella, Orsini; noi attendiamo impassibili, aspettiamo da lui il comando per le nostre operazioni.

E Castiglia pubblicava questo proclama:

«Alla Marina Siciliana.

«Marinai!

«Il grido d'indipendenza e di libertà rimbomba nelle nostre contrade fra il fragore delle armi. Nostro duce è l'invitto Generale Garibaldi, gran navigatore e prode soldato, Dittatore in nome dell'Augusto Re Vittorio Emmanuele II. I nostri montanari e gli abitanti delle pianure accorrono da ogni parte sotto la tricolore bandiera. Generosi e magnanimi italiani sono accorsi con noi, perché le sventure ed i dolori d'una provincia italiana sono comuni a tutta Italia. Suprema è la lotta, che noi combattiamo, e tutte le forze debbono essere riunite. Abbandonate le navi ed impugnate le armi. Ove si pugna, ivi ci trovate. Voi, sono certo, non mancherete all'appello della patria, perché vi avete sempre risposto.

«Allorché noi marinari solcavamo i mari del nuovo mondo, con orgoglio ricordavamo, che all'ardire ed alla sapienza italiana ciò si doveva; pure ci sconfortava il pensiero, che il gran navigatore per non avere una patria grande e potente dovette servire gente straniera (). Facciamo dunque, che l'Italia sia una, libera, ed indipendente, ed allora la nostra bandiera sarà temuta e rispettata da tutti i popoli. I traffici si accresceranno con la grandezza e colla libertà d'Italia sotto lo scettro di Vittorio Emmanuele II, miracolo di Re — All'armi, all'armi, e grido di guerra sia — Viva Italia! Viva Vittorio Emmanuele Il! — S. Castiglia marinaio.»

Questo Salvatore Castiglia nel 1849 si trovava nell'estero per eseguire una commessione del governo di Sicilia. Rovesciata la rivoluzione prima ch'ei ritornasse, rimasero presso di lui franchi 43 mila di proprietà nazionale. La nazione non era rappresentata dal governo borbonico restaurato, il perché si ricusò egli di versare quella somma nelle casse del governo napoletano. Però si affrettò a dichiarare a tutt'i suoi compagni di emigrazione, tener egli quella somma di conto dei Siciliani, e l'avrebbe versata quando avrebbero essi ricuperata la loro libertà ed indipendenza. Quindi impiegava quei capitali in Torino sopra valide ipoteche, e l'intestava alla moglie per evitare la confusione col patrimonio proprio.

Riscattata la Sicilia, e non appena ebbe egli riveduto le mura della sua patria, si affrettò di restituire quel sacro deposito.

Sono ben tristi i tempi, in cui questi atti di strettissima probità debbono essere registrati; ma intristiti assai sono i tempi nostri, ed è ben raro, che in generale la morale pubblica non vada di accordo con la politica, si che guasta l'una, non si guasti anche l'altra; e nel periodo di transizione dalla corruzione alla riforma dei costumi gli atti di probità divengono atti di virtù, perché chi li professa si è serbato immune dal pervertimento delle nozioni del giusto e dell'onesto. Il signor Castiglia per certo non ha creduto di fare più di quanto ogni altro uomo probo avrebbe fatto, ma per la nequizia dei tempi egli è non nella regola ma nell'eccezione; allora il fatto appartiene all'istoria, perché dipinge i tempi, che descrive.

Garibaldi intanto si occupava in Salemi dei bisogni della spedizione e dell'ordinamento dell'amministrazione. Il 13 di maggio scriveva a Bertani:

«Caro Bertani;

«Sbarcammo avant'ieri a Marsala felicemente. Le popolazioni ci hanno accolto con entusiasmo, e si riuniscono a noi in folla. Marceremo a piccole giornate sulla capitale, e spero, che faremo la valanga. — Ho trovato questa gente migliore anche dell'idea, che me ne facevano.

«Dite alla Direzione Rubattino, che reclamino i vapori Piemontese e Lombardo dal Governo, ed il Governo nostro li reclamerà naturalmente dal Governo napoletano.

«Che la Direzione pel milione di fucili ci mandi armi e munizioni quanto può. Non dubito, che si farà altra spedizione per quest'isola, ed allora avremo più gente.

Scriveteci.

«Vostro G. Garibaldi.»

Ed il giorno appresso pubblicava il seguente:

«PROCLAMA.

«Giuseppe Garibaldi Comandante in Capo

l'armata nazionale in Sicilia.

Invitato dai principali cittadini e sulla deliberazione delle Comuni libere dell'Isola.

«Considerando, che in tempo di guerra è necessario, che i poteri civile e militare siano concentrati nelle medesime mani; a Decreta, che prende la Dittatura in Sicilia in no me di Vittorio Emmanuele Re d'Italia.

«Salemi 14 maggio 1860.

«Certifica conforme

«Stefano Turr aiutante generale.»

In quel medesimo giorno provvedeva all'organizzazione della milizia: a Italia e Vittorio Emmanuele.

«Giuseppe Garibaldi Comandante in capo le forze nazionali in Sicilia.

«In virtù dei poteri a lui conferiti;

«Decreta:

«Art. 1° — La milizia è composta di tutt'i cittadini capaci di portare le armi dagli anni 11 a 50. Non vi faranparte coloro, che per malattie, o fisiche imperfezioni sono esclusi dal servizio militare giusta il regolamento 30 settembre 18. 18.

«Ari. 2° — La milizia sarà divisa in tre categorie:

«I militi da 17 a 30 anni saranno chiamati al servizio attivo nei battaglioni dell'esercito.

«Quei da 30 a 40 anni si formeranno in compagnie per il servizio generale del loro Distretto.

«Quelli dai 40 ai 50 saranno pure formati in compagnie per il servizio interno del loro Comune.

Art. 3° — La milizia della 1a categoria sarà sotto il comando immediato del Capo dell'esercito. Le milizie di seconda e terza categoria saranno agli ordini del Governatore del Distretto.

Art. 4° — La milizia attiva avrà gli Uffiziali nominati dal Comandante in capo dietro la proposta del Comandante il battaglione o la compagnia, i sotto uffiziali nominati da questi stessi comandanti.

Art. 5° — Le compagnie della seconda e terza categoria sceglieranno i loro sottouffiziali ed uffiziali conformemente alle leggi sulla Guardia Nazionale.

Quattordici altri articoli provvedevano ai mezzi della inscrizione mercé Consigli di ricognizione presieduti dal Capo del Municipio, ed all'organizzazione. Si dichiarava quel decreto in vigore sino alla proclamazione di una legge, che adatterà all'isola di Sicilia le leggi ed i regolamenti delle provincie emancipate d'Italia. Firibava Garibaldi, e per copia conforme Crispi Segretario di Stato.

Quindi il Generale dava le disposizioni per proceder oltre ed andare ad attaccare le truppe regie.

Partono da Trapani due strade, che vanno ad incontrare la via, che da Marsala conduce a Palermo; sul punto d'incontro della prima strada più vicino a Marsala vi è Vita; sul punto d'incontro della seconda più vicino a Palermo vi è Alcamo. Tra Vita ed Alcamo ad una distanza forse di un miglio e mezzo dalla prima e di circa quattro miglia forse dalla seconda vi è Calatafimi, non però propriamente sulla strada, ma sul culmine di un monte, difeso da una serie di colline, si che vi si ascende per un malagevole e tortuoso sentiero. I regii l'avevano occupata da quattro giorni; erano 3000 sotto gli ordini del Generale Landi. Eransi ordinati su di un alto poggio denominato il Monte del pianto de'  Romani in memoria d'una vittoria, che i Segestani riportarono sulle legioni romane; i Napoletani vi avevano piazzato due cannoni. I Garibaldini erano 1200 oltre le bande siciliane, che formando forse la riserva, non presero parte nell'attacco che in piccolo numero.

Questa prima fazione era di una vitale importanza per le poche truppe della spedizione, perocché si trattava di conservare o perdere il prestigio, che il nome di Garibaldi aveva acquistato dalla famosa spedizione di Roma sul soldato napoletano. Gli uffiziali di quest'armo si erano a tutt'uomo adoperati per distruggerlo, e qualche bassouffiziale o soldato aveva detto, che Garibaldi sarebbe stato portato morto o vivo ai piedi del Re; ma erano queste spavalderie, che qualche ciarlatano spacciava, e venivano accolte per quanto valevano; presso tutti Garibaldi rimaneva per quello, che era, e presso i gregarii per anche più di quello che era; Calatafimi doveva raffermare o correggere una tale opinione. Ognun vede, che l'esperimento era gravissimo.

I Garibaldini, ch'erano a Salemi ebbero l'ordine di partire, e partirono la mattina del 15 di maggio, ed oltrepassato Vita di un miglio, fecero sosta. Le bande armate dei Siciliani oltrepassavano, e ciò fe' credere, che i Garibaldini fossero destinati alla riserva, il che dispiacque. Anche gli abitanti di Vita, riuniti in piccoli distaccamenti, marciavano alla volta del campo nemico. É scritto di un vecchio canuto, che disse: ho vissuto il mio tempo, e dono alla patria il resto di una logora esistenza, fortunato se la mia morte potrà salvare la vita a qualche giovane, cui sono riservati migliori e più lunghi anni. Pare di sentire a parlare un cittadino dell'antica Roma. L'Italia scavalcando i secoli si scuoteva al fine dal suo letargo.

Circa mezzogiorno la truppa riprese le armi, e si avviò anch'essa verso Calatafimi. Era divisa in due squadre, la prima comandata da Garibaldi, la seconda dal generale Tiirr. Da un colle vide il campo dei nemici e le formidabili posizioni, che occupavano. Pare, che il Generale essendo certo, che i suoi non avrebbero indietreggiato alla vista del pericolo, volle loro mostrarlo, onde si accorgessero di quanta forza di energia e di valore era d'uopo per superarlo.

I regii erano disposti in ordine di battaglia ed aprirono il fuoco, cui immediatamente risposero i carabinieri genovesi. Quindi Garibaldi comandò l'attacco alla baionetta. Il movimento fu rapido per quanto il permetteva il terreno sassoso e pieno di sterpi, ed a misura, che la colonna si avanzava, più vivo si faceva il combattimento. Da parte dei regii vi era il vantaggio della posizione, del numero, e delle artiglierie, ed anche delle armi, perché le loro armi di precisione avevano tiri più lunghi di quelle dei Garibaldini. Costoro però avevano il vantaggio superiore a tutti di un coraggio indomito e di una ferma deliberazione di vincere o morire, sostenuta da una fiducia straordinaria nel Duce, che li guidava. Laonde avevano già valicate le creste dei monti, che li dividevano dai regii, e tentavano di ascendere l'altura da quelli occupata. Coloro, che cadevano o morti o feriti accrescevano l'ardore degli altri, perché la vista del sangue, i lamenti dei moribondi aggiungevano lo stimolo della vendetta in quei giovani cuori, che tutti erano legati dai potentissimi vincoli di uno scopo e di un interesse comune. Prima bisognava vincere pel trionfo della idea, cui si serviva; poi bisognava vincere ancora per coprire cogli allori della vittoria le tombe dei compagni caduti i primi per isgombrare agli altri la via.

Ma le forze fisiche hanno i loro limiti anch'esse, e se si esauriscono in intensità, si accorcia il tempo della loro durata. La corsa precipitosa per una strada difficile e faticosa aveva stancati i Garibaldini; tormentati dalla sete ed affannosi si fermarono dietro di un casino. L'autore garibaldino, che noi seguitiamo per mancanza di relazione napoletana, dice, che la tromba dei regii suonò allora l'attacco, ma l'attacco non seguì. Noi pensiamo che quel momento fosse un momento di esitazione per la colonna italiana prodotta dalla spossatezza, in cui era caduta, perché fu allora che Menotti Garibaldi, preso nelle mani uno stendardo tricolore, si avanzò seguito da pochi sull'altura sino a pochi passi dal nemico, ma ferito nella mano fu obbligato a passarlo al suo vicino, e fu ventura per lui, perché lo sventurato Schiaffino da Camogli, che l'aveva ricevuto, non stette molto a cadere trafitto da una palla nel petto, che gli diresse un cacciatore napoletano. Ferito o morto anche l'altro compagno, che aveva seguito il giovane Garibaldi, questi per non essere fatto prigioniero, ebbe ad aprirsi la strada, e ritornarsene. La bandiera andò perduta, comunque in parte lacerata. Il Generale Garibaldi accorse in mezzo alle file per ridestare l'ardore dei suoi; poche, ma energiche parole bastarono; quei giovani, ripresa lena, ritornarono all'attacco più forti e più risoluti di prima, quella voce aveva loro restituito il vigore del corpo e fatti sparire tutti i bisogni fisici, da cui erano tormentati. Il colonnello Bixio, che immediatamente era accorso ove più fervea il furore della mischia, li animava col suo esempio; imperturbabile in mezzo: alle palle, che gli fischiavano d'intorno, egli additava la via, che bisognava seguire. Sirtori non si mostrava da meno di lui. La carica fu ripresa con un impeto, che compensava oltre misura i pochi momenti di sosta. La settima compagnia (Pavesi) e l'ottava (Bergamaschi), secondate dalla seconda squadra, caricarono con impeto e slancio tale i nemici, che le posizioni furono da loro abbandonate. Il Cairoli, fratello del capitano della settima compagnia, con quattro compagni gettaronsi coraggiosamente contro i cannoni, e furono i primi a prendere il pezzo, che i borbonici perdettero.

«Sapete — dice una corrispondenza del Dritto da Calatafimi in data del 16 maggio — , sapete che ho visto più di un combattimento, ma non mai vidi truppe caricare alla baionetta durante due ore, e prendere sotto il fuoco nemico posizioni fortissime e sì ben munite da mettere in dubbio, se fosse prudenza l'attaccarle e possibile lo sloggiarne le truppe regie. Però i Napoletani combatterono con accanimento incredibile; vi fu un momento, in cui una compagnia di cacciatori napoletani, ai quali erano mancate le cartucce, ricorse ai sassi, e da una sassata fu colpito in una spalla Garibaldi, il quale malgrado tutte le nostre istanze e le nostre preghiere è sempre tra i primi.»

Questo primo esperimento era completamente riuscito. La vittoria era piena, perché la posizione era stata guadagnata. Il luogo, il numero, le armi non erano valute a difenderla; il nome di Garibaldi aveva sostenuta ed anche aumentata la sua primitiva riputazione. Mille avevano combattuto contra 3000 formidabilmente fortificati, ed avevano vinto. Raccolte la compagnie, si trovò, che il numero dei morti non oltrepassava i 18, i feriti erano 128; dei regii si dissero. 6 prigionieri, 36 morti, e 148 feriti; quest'ultimo numero è certamente esagerato, perché il rapporto confidenziale di Landi dice essere i feriti 62.

I regii si erano ritirati a Calatafimi; gl'insorti ed i Garibaldini rimasero sul terreno guadagnato, e stettero in osservazione d'una sorpresa o d'un nuovo attacco, ma nella notte taluni paesani vennero ad avvertire Garibaldi, che Landi con la sua truppa si ritirava verso Partinico al di là di Alcamo, e quindi il giorno seguente rientrava in Palermo. La mattina del 16 il Colonnello Tiirr guidò le schiere italiane a Calatafimi.

In quel medesimo di 16 maggio Garibaldi scriveva. a Bertani:

«Caro Bertani;

«Ieri abbiamo combattuto e vinto. La pugna fu tra Italiani. Solita sciagura, ma che mi provò quanto si possa fare con questa famiglia nel giorno, che la vedremo unita.

«Il nemico cedette all'impeto delle baionette dei miei vecchi cacciatori delle Alpi vestiti alla borghese; ma combatté valorosamente, e non cedette le sue posizioni, che dopo accanita mischia corpo a corpo.

«I combattimenti da noi sostenuti in Lombardia furono certamente assai meno disputati che non lo fu il combattimento di ieri. I soldati napoletani avendo esauste le loro cartucce, vibravano sassi contro di noi da disperati.

«Domani seguiremo per Alcamo; lo spirito delle popolazioni si è fatto frenetico, ed io ne auguro molto bene per la causa del nostro paese.

«Vi daremo presto altre notizie.

«Vostro G. Garibaldi.»

E l'indomani scriveva egli da Alcuno:

«Signori Direttori del milione di fucili.

«Stimatissimi amici!

«Ebbimo un brillante fatto d'armi avant'ieri coi regii capitanati dal generale Landi presso Calatafimi. Il successo fu completo, e furono sbaragliati completamente i nemici. Devo confessare però, che i Napoletani si batterono da leoni, e certamente non ho avuto in Italia combattimento così accanito né avversarli così prodi. Quei soldati, ben diretti, pugneranno come i primi soldati del mondo.

«Da quanto vi scrivo dovete presumere quale fu il coraggio dei nostri vecchi cacciatori delle Alpi e dei pochi Siciliani, che mi accompagnavano.

«Il risultato poi della vittoria è stupendo; le popolazioni sono frenetiche. La truppa di Landi, demoralizzata dalla sconfitta, è stata assalita nella ritirata a Partinico e a Montelepre con molto danno, e non so quanti ne torneranno a Palermo, o se ne tornerà qualcuno.

«Io procedo con la colonna verso la capitale e con molta speranza, ingrossando ad ogni momento colle squadre insorte, e che a me si riuniscono. Non posso determinarvi il punto, ove dovete inviarmi armi e munizioni; ma voi dovete prepararne molte, e presto saprete ove dovrete mandarle.

«Addio di cuore.

«Vostro G. Garibaldi.»

Questo concetto, che Garibaldi si fece delle truppe borboniche a Calatafimi, influì sulla sua posteriore condotta relativamente ad esse. Egli sperò, che guadagnatele alla sua causa, avesse potuto formare con esse un'armata regolare ed agguerrita, sufficientemente forte per eseguire i progetti, che meditava, anche al di là dello Stato napoletano, e giovava inspirare nei suoi amici ed aderenti il concetto medesimo, per cui quelle parole sono del militare e del politico. Gli avvenimenti posteriori hanno smentito quella fiducia mal piazzata, e grave danno n'è venuto. Il governo napoletano, che aveva demoralizzato tutto, aveva per la prima intristita e demoralizzata l'armata, e colpa gravissima aveva con ciò contratto verso la nazione.

Non v'ha cosa, che possa meglio dipingere il governo di Napoli in quei tempi, che l'articolo, che il Giornale officiale pubblicò nel suo numero del 18 di maggio 1860:

«Mentre il Real governo coi più generosi e più perseveranti sforzi e la minore effusione di sangue possibile era pervenuto ad estinguere la rivolta in Sicilia, un atto di flagrante pirateria era consumato il di 11 di questo mese con lo sbarco di gente armata sulla marina di Marsala, come l'abbiamo annunziato nel n. 106 di questo giornale, giusta i primi dispacci arrivati telegraficamente.

«Rapporti posteriori hanno dichiarato, che le bande sbarcate erano di circa 800 uomini e comandate da Garibaldi. Non appena questi filibustieri ebbero preso terra, ch'evitarono accuratamente ogn'incontro con le truppe regie, dirigendosi secondo quello, che cí è rapportato, verso Castelvetrano, minacciando i pacifici abitanti, e non risparmiando né rapine, né incendii, né devastazioni di ogni sorte nei Comuni, che traversavano.

«Essendosi ingrossati nei quattro primi giorni delle loro incursioni di genti, armate da essi e pagate con profusione, si spinsero sino a Calatafimi.

«Il generale di brigata Landi, avendo ciò saputo in Alcamo, la sera di quello stesso giorno, tuttoché alla testa di forze molto inferiori, si mise in movimento per affrontare queste orde, che in uno scontro vivo ed ostinato soffrirono delle grandi perdite tra morti e feriti. Esse furono battute, al grido di Viva il Re ed inseguite sino nelle montagne, ove si misero al sicuro, ed il Brigadiere Landi stabili a Calatafimi il suo quartiere generale.

«Ma siccome fu in seguito avvertito, che gli uomini da lui fugati non ignoravano, che la Città di Alcamo sin dall'uscita delle truppe regie aveva elevato lo stendardo della rivolta, e che i criminali abitanti di Partenico ne avevano fatto altrettanto, egli si rese in questi luoghi, e malmenò con un immenso valore e con uno slancio irresistibile le orde, che occupavano quei comuni. Specialmente a Partenico le orde di Garibaldi attaccate alla baionetta con una foga straordinaria da una parte dell'8° cacciatori ed una parte dei carabinieri a piedi, subirono perdite gravissime. Là un uffiziale superiore, che un prigioniere afferma essere o il colonnello Bixio o il figlio di Garibaldi in persona, mentre teneva la bandiera in mano ed incoraggiava i suoi uomini, fu trapassato da un colpo di baionetta da un giovane soldato dell'8° dei cacciatori, che di saldo fu promosso a secondo Sergente. Questa bandiera ed il cavallo dell'ucciso rimasero in potere dei vincitori.

«Dopo due giorni di gloriosi combattimenti la colonna del generale Landi rientrava in Palermo, ciascuno di quelli, che la componevano, con la coscienza di avere fatto valorosamente il suo dovere.»

Che guadagna un governo nel divulgare simili fole? Forse più presto o più tardi i fatti veri non saranno conosciuti? Ed adesso coi mezzi svariatissimi e facilissimi di comunicazione, quanto non è breve il tempo, per lo quale la verità si può occultare? Quando questa si rende nota, rimane al governo lo sbancamento della disfatta, accresciuto in larghe proporzioni dal ridicolo della vittoria, che si è avuta la sciocchezza di attribuirsi. Nel caso di una sconfitta non rimane, che la dignità della rassegnazione; aggiungervi l'impudenza del ciarlatanismo è discendere bassissimo nella scala della pubblica opinione.

E diffatti il giorno prima di quell'articolo, il 17 maggio, il Comitato Palermitano pubblicava:

«L'invitto Garibaldi, che il mendace governo non ha osato nominare nel suo proclama, ha distrutto tra Calatafimi ed Alcamo una colonna nemica forte di 4000 uomini. Le nostre squadriglie hanno data la caccia a mille fuggiaschi regii; molti dispersi e moltissimi prigionieri.

«In Santo Stefano di Camastra è avvenuto un novello sbarco di prodi. Luigi Laporto, che tanto ha sofferto e meritato della Patria, occupa Termini, ove le soldatesche si sono ridotte nel Castello, facendo un vano cannoneggiamento. I regii hanno toccato ieri un'altra disfatta in Robattone presso di Parco. Da per tutto è entusiasmo, una gara indescrivibile. Muovono da ogni dove squadre armate ed organizzate militarmente verso il luogo ove sventola il maggiore vessillo dell'eroe italiano.

«Finalmente la voce del generoso perdono ha penetrato negli sgherri del Maniscalco. Il formidabile Ispettore di Polizia Francesco di Ferro, che a sua istanza nominiamo, si è posto sotto la protezione del Comitato. Altri, i di cui nomi verranno pubblicati, promettono di rendersi.

«Cittadini! Siate sempre uguali a Voi stessi, la vittoria sarà nostra, ma conviene mostrarsene degni.

«Viva Italia! Viva Vittorio Emmanuele! Viva Ga ibaldi!

«Il Comitato.»

Quando si seppe il vero del combattimento di Calatafimi, si seppe ancora la relazione, che Landi ne aveva mandato in Palermo a Castelcicala. La relazione diceva:

«Urgentissimo.

Calatafimi 15 maggio 1860.

«Eccellentissimo.

«Aiuto e pronto aiuto. La banda armata, che lasciò Salemi questa mattina, ha circondato tutte le colline dal S. al S. 0. di Calatafimi.

«La metà della mia colonna avanzata è stata colta in tiro, ed attaccò i ribelli, che comparivano a mille da ogni dove. Il fuoco fu ben sostenuto, ma la massa dei Siciliani, uniti alle truppe italiane, erano d'immenso numero.

«I nostri hanno ucciso il Gran Comandante degli Italiani, e presa la loro bandiera, che noi conserviamo. Disgraziatamente un pezzo delle nostre artiglierie, caduto dal mulo, è rimasto nelle mani dei ribelli; questa perdita mi ha trafitto il cuore.

«La nostra colonna fu obbligata battere un fuoco di ritirata, e riprendere il suo passo per Calatafimi, dove io mi trovo adesso sulla difesa.

«Siccome i ribelli in grandissimo numero mostra no di attaccarci, io dunque prego V. E. di mandare istantaneamente un forte rinforzo d'infanteria ed al meno un'altra mezza batteria, essendo le masse enormi ed ostinatamente impegnate a pugnare.

«Io temo di essere assalito nella posizione, che occupo; io mi difenderò per quanto è possibile, ma se un pronto soccorso non giunge, io mi protesto, non sapendo come l'affare possa riuscire.

«La munizione di artiglieria è quasi finita, quella della fanteria considerevolmente diminuita, sicché la nostra posizione è molto critica, ed il bisogno dei mezzi di difesa mi mette nella più grande costernazione.

«Io ho 62 feriti, non posso darvi esatto conto dei morti, scrivendovi immediatamente alla nostra riti rata. Con altro rapporto darò a V. E più preciso ragguaglio.

«Finalmente io sottometto all'E. V. che se le cir costanze mi costringono, io devo senza dubbio, per non compromettere l'intiera colonna ritirarmi, e, se posso, in alto.

«Io mi affretto di sottomettere tutto ciò a V. E. perchè sappia di essere la mia colonna circondata da nemici di numero infinito, i quali hanno assalito i molini e preso le farine preparate per le truppe.

«V. E. non resti in dubbio sulla perdita del cannone, di cui ho discorso. Io sottometto all'E. V. che il pezzo fu posto a schiena di mulo, il quale fu ucciso al momento della nostra ritirata, perciò non fu possibile ricuperarlo. Io conchiudo, che tutta la colonna combatté con fuoco vivo dalle 10 a. m. alle 5 p. m. quando io feci la nostra ritirata.

«A S. E.

«Il Principe Castelcicala.

«Il Generale Comandante

«M. Landi.»

Il Generale Tiirr osservò, che il cannone era sulle sue ruote, e che perciò non poteva essere stato caricato sulla schiena di mulo; «il cannone, egli dice, fu preso nella mischia, ed i muli, che lo tiravano, sono in nostro potere. La bandiera non era del battaglione, ma una delle tante, ch'esistono a volontà, e che il bravo Schiaffino recò seco al di là della colonna, ove morì colpito da due palle. Il Generale Landi può mostrare negli annali della guerra un portabandiere simile? Quel rapporto di Landi, ch'era stato seguito dalla pronta ed immediata sua ritirata a Palermo, avrebbe dovuto consigliare maggiore prudenza e più riserbatezza. Ma il governo napoletano era cieco, e credeva tutto il mondo orbo come lui.

«Salivamo per la strada, che mena a Calatafimi, dice lo Storico, che noi seguitiamo, guardando stupiti al castello fortissimo per la sua posizione, stupiti come la truppa regia non avesse pensato a stanziarvisi per impedire almeno su quella via la nostra marcia alla volta della capitale. a Narra poi le ovazioni degli abitanti, ma non vi era un sigaro né alcuno degli altri piccioli conforti della vita, perché le truppe regie avevano o tutto consumato, o consumata una parte, e l'altra asportata. Però il pane e le altre provvigioni di bocca non mancarono. La truppa fece alto sul finire del paese, ove, fatti i fasci d'armi e messe le sentinelle, ciascuno si diresse alla piazza ed alle contrade più abitate. Una fonte di acqua limpida, che era in mezzo del paese, diè un gran conforto a quei giovani volontarii; ivi si mondarono della polvere, che li copriva, e si sentirono rinati. Poi chi nelle osterie, chi nelle case particolari, pensarono alla colezione, e tra le replicate libazioni del buon vino di Sicilia seguirono i brindisi per la vittoria del giorno innanzi.

In questo frattempo si destinava una caserma per alloggiarli, messa in una parte culminante del paese; ivi fu letto il seguente ordine del giorno:

«Soldati della libertà italiana! Con compagni come voi io posso tentare ogni cosa, e ve l'ho provato ieri, portandovi ad una impresa ben ardua pel numero dei nemici e per le loro forti posizioni.

«Io contava nelle vostre fatali baionette, e credete, che non mi sono ingannato.

«Deplorando la dura necessità di dovere combattere soldati italiani, noi dobbiamo confessare, che trovammo una resistenza degna di uomini appartenenti ad una causa migliore, e ciò conferma quanto saremmo capaci di fare nel giorno, in cui l'italiana famiglia sia serrata tutta intorno al vessillo glorioso di redenzione.

«Domani il continente italiano sarà parato a festa per la vittoria dei suoi figli e dei nostri prodi Siciliani.

«Le vostre madri, le vostre amanti superbe di voi usciranno nelle vie colla fronte alta e radiante.

«Il combattimento costò la vita di cari fratelli! Morti nelle prime file quei martiri della Santa Causa Italiana saranno ricordati nei fasti delle glorie italiane.

«Io segnalerò al nostro paese il nome dei prodi, che sì valorosamente condussero alla pugna i più giovani ed inesperti militi, e che condurranno domani alla vittoria su i campi maggiori di battaglia i militi, che devono rompere gli ultimi anelli delle catene, con cui fu avvinta la nostra Italia carissima. a Queste parole toccavano le più sensibili fibre di quella entusiastica gioventù; partivano esse da un uomo, che aveva pieno il mondo del suo straordinario valore, e quei giovani si sentivano maggiori di sé stessi, e veramente divenivano capaci di grandi cose.

Il 16 di maggio Garibaldi scriveva a Rosolino Pilo.

«Caro Rosolino;

«Ieri abbiamo combattuto e vinto. I nemici fuggono impauriti verso Palermo. Le popolazioni sono animatissime, e si riuniscono a me in folla. Domani marcerò verso Alcamo. Dite ai Siciliani, ch'è ora di finirla, e che la finiremo presto; qualunque arma è buona per un valoroso, fucile, falce, mannaia, un chiodo alla punta di un bastone. Riunitevi a me, o ostilizzate il nemico in quei contorni, se più vi conviene; fate accendere dei fuochi su tutte le alture, che contornano il nemico. Tirate quante fucilate si può di notte sulle sentinelle e su i posti avanzati. Intercettate le comunicazioni. Incomodatelo infine in ogni modo. Spero ci rivedremo presto.

«Vostro Garibaldi.»

Ed il Pilo scriveva ad un suo corrispondente a Palermo:

18 maggio 1860.

«Omissis.... Io domani sera marcio alla testa di 1000 uomini verso Partenico per unirmi alle forze comandate dal Generale Garibaldi, onde eseguire gli ordini, che oggi con espresso corriere mi ha fatto giungere. Ti trascrivo il biglietto, che mi ha fatto tenere; non puoi credere come la rivoluzione si è fatta gigante. Ieri una colonna di 5000 croati napolitani sono stati sconfitti in Calatafimi.

«Furono attaccati dalla colonna di Garibaldi e non poterono resistere all'impeto dei nostri, i quali dopo tre scariche hanno sempre caricato i croati succennati alla baionetta. In Partenico le squadre combatterono le truppe, e la strada principale rimase coperta dei vigliacchi soldati, che fuggivano. La cavalleria fu pure battuta, e tutta la truppa, che rimase al numero di 1300, giunta in Montelepre, fu con una imboscata fatta dai Monteleprini martoriata. Il barone Sant'Anna ed il Marchesino Firmaturo con le loro squadre hanno dato molestia somma agli avanzi della colonna di 5000 uomini ridotta a soli 1300, e resi avviliti e malconci i soldati, che sonosi ritirati in Palermo. Io ho rimesso Carini in piena rivoluzione, e già ho stabilito un Comitato rivoluzionario. Sopra tutt'i campanili sventola la bandiera tricolore, la città è in piena festa, e questa giornata non puoi credere a che punto abbia portato l'entusiasmo... omissis..

«La causa nostra la vedo in prosperità, e non passano tre giorni, che saremo tutti a Palermo.. omissis...»

Intanto la vittoria di Calatafimi produceva già il suo effetto sulle popolazioni. Entravano nel paese parecchi attruppamenti dei paesi vicini al grido di Viva Garibaldi, e preceduti da due bande musicali, che andarono a suonare sotto i balconi del Generale. Questi si presentò allora al popolo, e ringraziatolo coi gesti degli attestati di stima, che gli si davano, parlò in brevi parole della necessità di armare la Sicilia per rompere le catene della servitù, e fece appello a tutti coloro che avevano carità di patria, ad unirsi a lui per liberarla. Quelle parole fruttarono, poiché in quel giorno il municipio era affollato di gente, che si andavano ad allietare, onde fare parte della forza attiva del paese. La caserma dei volontarii, che pur era spaziosa, fu tutta gremita di questi nuovi volontarii, che avevano anch'essi forte il proponimento, maschio il coraggio, piena la mente della idea, che bisognava fare trionfare. —

«Dai loro sguardi, scrive il nostro autore, dalle parole, dai movimenti traspariva la maschia vigoria, l'ostinato proposito, e l'energica prontezza dei figli dell'Etna.»

Il 11 di buon'ora si parti per Alcamo.

Il giorno 16 di maggio in Palermo non giunse la posta da Napoli; giunsero invece 600 soldati bavaresi e svizzeri; vi era stato un combattimento al Parco, e Salzano ripristinando lo stato di assedio, annunziava lo sbarco a Marsala di 800 Italiani, tacendo il nome del generale, che li guidava. Trovo scritto, che la mattina del 17 si seppe, che i soldati ed i birri, alludendo alle concessioni, delle quali più innanzi abbiamo parlato, dovessero gridare Viva il Re! Viva la Costituzione! ma che il popolo avendo ordinato si chiudessero tutt'i balconi e le botteghe, e che il Cassero rimanesse deserto, la dimostrazione non ebbe luogo. Il fatto può essere vero oppur no, giacché nelle con dizioni, in cui era Palermo, i balconi e le botteghe chiuse erano uno stato normale; ma indubitatamente lo spirito pubblico era di molto esaltato. La sera giunse Lanza, ed il Luogotenente s'imbarcò. Le cose volgevano al peggio.

La mattina del 18 si leggeva nei soliti luoghi degli affissi degli atti officiali un decreto di Francesco, che in sostanza diceva, che a rimettere l'ordine e la pace aveva spedito Lanza, Siciliano, coll'Alter Ego, ed il di appresso Lanza pubblicava anch'egli un proclama pieno di sensi tra il benevolo ed un tantino il minaccioso e con talune promesse.

«Siciliani !

«Mettendo il piede nella mia terra natale, il mio cuore più che di letizia fu colmo di cordoglio, vedendo la città di Palermo ridotta nello squallore dalle dolorose condizioni, che di presente la premono e la incalzano.

«Pure mi torna consolatore il pensiero d'essere stato qui spedito dall'augusto monarca qual suo commessario straordinario colle facoltà dell'alter ego per la completa pacificazione dell'isola, la quale conseguita, un principe della reale famiglia di già prescelto per Luogotenente generale di S. M. (D. G. ) verrebbe fra voi.

«Verrebbe colla missione di porre ad effetto tuttoché può tornarvi di maggiore utilità. Verrebbe coi pieni poteri di amministrare, per provvedere al resto delle vie rotabili, alle strade ferrate, alle pubbliche opere le più profittevoli. Verrebbe per dare il maggiore sviluppo alle vostre facoltà ed alle vostre industrie e per fornire il paese dei migliori mezzi, che la esperienza indica come i più conducenti allo svolgimento della nostra civiltà e prosperità.

«Se il nostro buon Sovrano fosse non curante dei mali vostri, forte della giustizia della sua causa, aspetterebbe tempo alla ragione dei suoi inconcussi dritti. Ma egli fermo e costante nella decisa volontà di fare quanto di più si può pel vostro morale e mate. riale miglioramento, non disconosce il debito, che ha in questo momento alla maggiore urgenza dell'attualità, quella cioè di tutelare la vostra sicurezza in tante maniere minacciata in questi scomposti tempi, che corrono.

«Nell'accettare l'altissimo mandato io ho obbedito alla mia coscienza, e nell'obbedire ai comandi del Re S. N. ho pure ceduto ai sentimenti del mio cuore, che vorrebbe risparmiare alla patria comune mali, di cui nessuno può prevedere la durata e la misura.

«E voi considerate bene ciò che può spettarvi all'avvenire. Quali destini vi offrono ge invidi della vostra prosperità ognor crescente? Quali guarentigie avete del bene, di cui diconsi portatori? «Prendete consiglio dall'esperienza. Sollevatevi all'altezza della posizione attuale per salvare voi medesimi; ora, che sonosi sbrigliate le cupide passioni, non sapete di quali di esse dovete essere vittima. Nella tempestosa lotta, alla quale vi spingono stranieri aggressori, può solo tenervi incolumi il vostro coraggio civile sorretto dalle reali milizie.

«Nel nome augusto del Re un ampio e generoso perdono accordo a tutti quei, che ora traviati, faranno la loro sommessione alla legittima autorità.»

Se queste promesse non fossero state precedute da tante altre, che toglievano loro ogni valore, sarebbe stata follia il credere, che i Siciliani vi si fossero acquietati. Il Governo di Napoli non sapeva promettere, che qualche soddisfazione a degl'interessi materiali, che da lunghissimo tempo erano in sofferenza, e questo stesso accompagnato da quel tuono d'indulgenza, che dippiù irritava; sì che il dopo pranzo di quel medesimo di il popolo tumultuò nel Cassero, e si tirò su di lui, per modo che vi furono tre morti e parecchi feriti; il popolo a sassate uccise due birri e due soldati (). Il Comitato riprovò questi moti; raccomandò quiete e silenzio; inculcò prepararsi armi e munizioni. L'amministrazione del generale Lanza cominciava male. La truppa aveva preso posizione fuori delle porte, e gran forza concentravasi a Monreale.

Grandi rigori si esercitavano in Palermo. Però il governo ostinandosi a sconoscere l'ostilità delle popolazioni, dava colpa ai suoi agenti di quello, che accadeva. Quindi Castelcicala Luogotenente era stato richiamato; richiamato Salzano Comandante le forze militari, il Colonnello Iauch comandante le armi in Trapani era messo. in Consiglio di guerra, i generali Sury, Wyttembach, Primerano, e Fioranza erano messi alla quarta classe; il generale Landi dimandava la dimessione. Tutto questo dinotava disorganizzazione, debolezza nel governo, incapacità di lottare contro gli ostacoli, che gli sorgevano d'intorno. Esso aveva tutt'i mezzi materiali a sua disposizione; aveva armati, armi, munizioni, artigtieria, marina. Ma ventuno vapori, che incrociavano nelle acque della Sicilia per impedire la spedizione, non vi erano riusciti; numerose truppe regie in fortissima posizione erano state battute, mentre erano tre contro uno, ed il loro generale aveva dimandato soccorsi con l'insistenza di un uomo, che si vede minacciato da un imminente pericolo; e né le promesse né i rigori del governo valevano a contenere le popolazioni, che il comitato rivoluzionario era obbligato a frenare non ad eccitare. Ed intanto il governo è ingiusto contro coloro, che lo hanno servito; degli amici fa dei malcontenti, e mentisce verso del pubblico, poco curandosi del disdoro, e più del disdoro, del ridicolo, che gliene viene. Invece quanta unione, quanta fermezza, quanta abnegazione dalla parte opposta! Una corrispondenza di Palermo in data del 24 maggio 1861 assicura, che il generale Lanza fece di tutto per ottenere, che si firmasse una carta per chiedere delle concessioni, e che tranne tra gl'impiegati, trai quali anche qualcuno si ricusò, trovò da per tutto una ferma volontà di non dimandare nulla. Quando si pon mente a questi fatti, si vede la rivoluzione di Sicilia seguire le leggi morali dell'ordine sociale.

La piccol'armata di Garibaldi il mezzogiorno del 17 maggio entrava in Alcamo; era il di dell'Ascensione; ed il popolo in abito di festa si aggirava pel paese. Molta gente era nel Tempio, ove il generale e lo Stato-Maggiore si diressero a ricevere la benedizione, che l'Arciprete in abiti sacerdotali loro impartiva sul limitare del tempio. La notizia era subito sparsa pel paese, le finestre si aprivano, ed erano occupate da spettatori, le strade si accalcavano, la popolazione si rassicurava, e prorompeva in evviva e gridi di gioja. La truppa era alloggiata nel convento dei Gesuiti. Si riformarono le compagnie, e vi fu luogo a nuova nomina degli uffiziali e bassi-uffiziali, che bisognava rimpiazzare. Un Taddei, nominato capitano, nel prendere il comando della sua compagnia disse:

«Io vengo a voi non siccome capitano, ma qual compagno d'armi; in me avrete uni amico, un fratello. So che abbandonaste la vostra casa pel trionfo di un principio, epperò tengo inutile esortarvi ad esserne degni propugnatori. Ciascuno ponendosi la mano sul cuore ed ascoltandone i generosi slanci, apprenderà quali siano i doveri del soldato, e saprà compierli. Già voi otteneste il battesimo del fuoco e continuerete con perseveranza nell'ardua ma splendida via, sulla quale siete incaminati.»

Quelle parole gli guadagnarono gli animi di tute i componenti della compagnia. Quale contrasto con la disorganizzazione delle truppe regie!

Due Decreti furono emessi dal Dittatore i giorni 18 e 19 di maggio, il primo nel Passo di Renna, il secondo in Alcamo. Col primo si disponeva, che durante la guerra il giudizio dei reati, che si commettessero dai militari o dai semplici cittadini, apparterrebbe ad un Consiglio di guerra. Gl'Italiani del continente rimanevano soggetti alle pene comminate dal Codice penale militare sardo, gl'insulari alle pene prescritte nello Statuto penale militare ed alle leggi in vigore sino al 15 maggio 1849. Pei reati previsti dalle due legislazioni sarà applicata la pena più lieve, il che non avrebbe avuto luogo nei casi di furti, grassazioni, e sequestri di persone. Il consiglio di guerra era composto di un Presidente, quattro Giudici, un Avvocato fiscale, un Uffiziale istruttore, un Segretario. Erano nominali membri del Consiglio di guerra il Colonnello Colone Presidente, i Comandanti Bixio, Carini, Formi, e Santanne Giudici, l’uffiziale dello Stato maggiore Manin Avvocato fiscale, i sottotenenti Salterio e Mazzucchelli, il primo istruttore ed il secondo Segretario. Se la sicurezza pubblica lo esigesse, sarebbe istituito un Consiglio di guerra in ciascuno dei 24 Distretti.

Col secondo decreto s'imponeva al municipio di ogni Comune libero di verificare le casse pubbliche ed assicurarsi delle somme, che vi esistevano. Si aboliva l'imposta sul macinato e qualunque imposta decretata dall'autorità borbonica dopo il 15 maggio 1849. Si aboliva ogni dazio d'immessione pei cereali, granone. patate, ed ogni sorta di legumi. Si ripristinava l'amministrazione dei beni aggregati al demanio dello Stato. Era inibito ai fittuarii ed agli enfiteuti di tali beni o di altri beni appartenenti allo Stato di pagare al governo, borbonico o a qualunque altro illegittimo possessore; concorrendovi dolo o frode. l'enfiteuta od affittatore sarebbe stato punito come reo di alto tradimento e con una ammenda uguale al triplo valore della somma pagata.

STORIA D ITALIA

 CONTESSA LA TORRE

Nei Comuni occupati dalle forze nemiche ogni cittadino aveva l'obbligo di ricusare al governo borbonico il pagamento delle imposte, le quali sin da oggi appartengono alla nazione.

Alle 4 a. m. del giorno 18 la truppa di Garibaldi partì per Partinico. Pervenuta ad un altopiano non molto distante dal paese, vide la via seminata di pezzi di cartucce, e si disse, che ivi la colonna regia in ritirata da Calatafimi era stata attaccata e maltrattata dalle bande Sicule. — «Entravamo in Partinico, dice il a nostro storico, quando uno spettacolo crudele si affacciò ai nostri occhi; in un fosso giaceva presso ad un cavallo morto. e ch'era già in putrefazione, una catasta di cadaveri mezzo abbruciati. Era l'istinto a della vendetta, che aveva indotto i paesani a quella a barbara rappresaglia: i regii, rivolte le armi verso le donne ed i fanciulli, appiccarono il fuoco alle case, derubandole, onde l'ira degli abitanti si rovesciò i brutalmente su di loro e li spinse a quell'eccesso degno della barbarie dei tempi andati. Non vi dirò nulla della impressione penosa, che fece su di noi quello spettacolo, tutti n'ebbimo orrore. Uccidere un nemico in battaglia, nuocergli con tutt'i mezzi possibili era nel buon dritto, ma inveire contro gli estinti, che pagarono di già con la morte la pena di una vita malvagia, è una vendetta bassa e vigliacca. Ma chi mai può mettere argine alle passioni di un popolo furente ed insano.»

Partinico offriva le triste vestigia dei guasti delle truppe borboniche; il fuoco ed il saccheggio vi avevano lasciato i segni delle loro rovine. Epperò il ricevimento di quelle truppe liberatrici fu fragoroso, ma ai gridi di gioia mischiavisi il pianto delle donne, che gemevano sugli avanzi anneriti delle loro case. Si fece alto in un grandioso Palazzo, nel cui cortili; i paesani si recarono con la musica, ed i Cacciatori delle Alpi si misero a ballare tra gli applausi e le risa di tutti. Durava questa festa da oltre mezz'ora, quando fa interrotta da Bixio, che convocati i militi, disse loro: Volete voi andare a Palermo? La risposta non poteva essere dubbia, e fu manifestata con grandi scoppii di applausi. Ebbene, continuò il Colonnello. in breve noi saremo a Palermo o a all'inferno. Nulla meglio di questo valeva a sostenere ed aumentare ancora, s'era possibile, l'entusiastico valore di quei volontarii.

«Non potendo per la strettezza del tempo, dice il nostro scrittore, occuparci nell'apprestare il vincitore, ci fu data la paga. Era il secondo franco, che si riceveva dal di dello sbarco in poi. Alcuno meraviglierà all'udire come così di rado noi toccassimo denaro, ma qual bisogno ci era mai, se eravamo nutriti?

«Nessuno di noi era venuto in Sicilia con l'idea di menare lauta vita; sapevamo, che la fame ed i disagi sarebbero stati nostri compagni indivisibili; nessuno però ebbe mai a muover lagno, perché non era pagato, anzi pareva, che il ricevere moneta ci avvilisse. Del resto pressoché tutti avevamo portato da casa qualche scudo, e coloro. ch'erano assoluta mente privi di denaro, venivano soccorsi da chi ne aveva».

Ecco un altro tratto, che può inspirare un giusto concetto di quella prima spedizione.

Si parti da Partinico dopo il pasto per Borghetto, ma così i garibaldini che le squadre siciliane si fermarono in un altopiano circa un miglio da Borghetto in una posizione fortissima, ma in piena campagna. Ivi si ebbe molto caldo di giorno e sensibile freddo la notte, seguito da abbondante pioggia, dalla quale era difficile di ripararsi, per cui la sera dell'indomani la truppa fu condotta a Borghetto.

Borghetto è un piccolo Comune, che giace tra Partinico e Monreale, più vicino al primo che al secondo.

 Ivi la truppa passò la notte, e la mattina si avanzò verso Monreale. Si sapeva, che qui vi era un forte corpo di truppe borboniche, e tutti quindi erano preparati per una seconda azione. Le squadre siciliane cominciarono il fuoco, e mentre i garibaldini attendevano l'ordine di procedere innanzi, invece ebbero quello di ritornare nella prima posizione di Borghetto. Questo movimento retrogrado fu fatto a malincuore; si comprendeva, che fosse un movimento strategico, ma i cacciatori delle Alpi non avevano mai retroceduto, neppure per strategia.

Tutto quel giorno la truppa di Garibaldi rimase presso le armi senza scostarsene di un passo; i cannoni furono puntati nella direzione della strada; pareva. che il disegno di Garibaldi fosse di attirare i regii in quella ferie posizione; le squadre si erano anch'esse ritirate, appena seppero il movimento dei garibaldini. Alle due si distribuì il pranzo, ed il nostro autore dice, che fu lautissimo. perché ebbero minestra di riso e bollito. Intanto le più contradittorie voci correvano pel campo. Si diceva, che le bande avevano preso Monreale; poi che la battaglia durava ancora; indi che i regii marciavano contro i garibaldini, bruciando per istrada le cascine, che incontravano. Si diceva pure, che in Palermo vi fossero 500 soldati; poi che ve ne fossero 20, 000; una volta la popolazione era tranquilla, un'altra volta era già alle prese con la truppa. Le buone notizie erano credute facilmente, le cattive si rigettavano; però le une e le altre non lasciavano di fare la loro impressione.

Dopo il tramonto del sole si ebbe l'ordine di partire, e si mosse in una linea parallela a Monreale, e dopo alcune miglia, essendo già sera, si fe' alto a Perreo. Nessuno sapeva ove si andasse; si parlò di dover prendere un sentiero remoto, si parlò di S. Giuseppe e di Parco. Intanto nella notte si lavorò a tòrre i cannoni dai carri, per caricarli sulle spalle de'  paesani, che dovevano precedere la piccola armata. Come ben s'immagina, quest'operazione fu lunga e difficile, specialmente per l'oscurità della notte, ch'era fittissima. Garibaldi non solo dirigeva l'operazione, ma vi prendeva una parte molto attiva, dapoiché aiutava con le proprie mani e perfino con le proprie spalle gli sforzi della gente incaricata del n'asporto. È facile di giudicare quanto quella lezione valesse presso i suoi vo lontani.

E ben era necessario, perché il cammino, che la notte si ebbe a fare, fu difficilissimo; si salì su di un altopiano superando cespugli, macigni, e correnti d'acqua; né la discesa fu meno disastrosa. Sovente si sdrucciolava, si cadeva, si rimaneva indietro, e si correva rischio di disperdersi, sicché bisognava dare la voce. A queste difficoltà del suolo si aggiunse un'acqua copiosa, che cadde dal cielo. Cosi si passò tutta la notte, e solamente la mattina si giunse a Parco, laceri, bagnati, pieni di fango sino al naso. Dei grandi fuochi furono accesi sulla pubblica strada, ma era indispensabile, che i panni si lavassero, e così fu fatto. Dopo preso alquanto di ristoro e rindossati gli abiti, si sali sulla vetta di un monte. ove si passò la notte. L'atmosfera era freddissima, ma i fuochi Don mancarono. Le ore della notte furono lunghe; finalmente apparve, e fu salutato il giorno. Era il 21 di maggio.

Parco, messo di su di un monte, quasi dirimpetto a Monreale, dista da Palermo in linea retta quasi un quarto dippiù della distanza, che intercede tra Monreale e la Capitale della Sicilia; però la strada è più lunga, perché è tortuosa, ma la distanza non eccede le cinque miglia. Da Parco quindi si vedeva Palermo ed il suo porto, e quella vista quanti pensieri non infondeva in quell'ardente gioventù italiana Parco è luogo naturalmente fortificato, e si fortificava più con barriere di pietre soprapporte e collocate intorno la vetta del monte, sul quale si era accampati; questo fe' credere, che le lunghe marcie fossero finite, e che di là si dovesse andare a Palermo. Si attendeva per altro di essere attaccati, ed in sul pomeriggio si udirono delle fucilate, provvenienti dalle bande armate. che si battevano coi Napoletani. La sera gli armati, che erano sulla vetta del Monte, discesero alle sue falde, trincierandosi dietro le mura del cimitero; Bixio era con essi.

Il disegno di Garibaldi era di allontanare da Palermo il maggior numero di truppe possibile. Perciò faceva delle dimostrazioni a Monreale ed a Parco. D'altronde i Generali Napoletani intendevano di riunire molte forze in un punto per tentare un energico attacco contro i ribelli. E difatti il 22 e 23 di maggio essi riconcentrarono molte forze, ma Garibaldi non se ne contenta, e tenta ancora di far uscire altre truppe da Palermo. Il giorno 24 più di 10 mila uomini di truppe borboniche attaccano gl'Italiani e le bande Siciliane. Garibaldi ordina i mezzi di resistenza.

I Carabinieri genovesi sostenevano l'assalto dei regii, il resto della truppa attendeva l'ordine di entrare in azione, e difatti ebbe l'ordine di salire, ma non appena toccata la strada, si volse le spalle al luogo del combattimento, e si prese la direzione di Piana. Il Generale non aveva accendo la battaglia, e si allontanava da Parco e da Palermo. Egli dunque rinunziava al suo progetto; trovava le sue forze inferiori a quelle dell'inimico, e cedeva innanzi agli ostacoli, che aveva incontrato. Ma Garibaldi si teneva vinto senza combattere? Montevideo e Roma attestavano il contrario.

Indietreggiando su Piana, s'internava nelle montagne, e si discostava da Parco per più di quanto vi era tra quest'ultimo paese e Palermo. Si era già retroceduto all'altezza di Alcamo; e poiché da Piana la strada conduce a Corleone, a questo punto pareva, che Garibaldi accennasse, tanto più che prima di entrare in Piana, la truppa ebbe ordine di salire sul monte Campanaro, e farsi vedere dai regii, mentre si battevano con le squadre siciliane, le quali ritiratesi, anche i garibaldini si ritirarono. I soldati napoletani sapevano dunque ove i garibaldini si rattrovavano, li vedevano ritirarsi innanzi a loro e internarsi nelle montagne, indietreggiando sino a Corleone. Si che il momento era propizio. e bisognava inseguirli; e ciò era precisamente quello, che Garibaldi desiderava. I regii si credevano vittoriosi, quando invece la manovra del Generale italiano riuscita perfettamente.

Questa volta il giornale uffiziale di Napoli aveva ragione di attribuirsi la vittoria. Se a Parco le truppe italiane non erano state sbaragliate, esse indubitatamente non avevano resistito ai regii, e si erano ritirate. Era questo un risultamento molto più utile del com battimento di Calatafimi, per lo che il Giornale uffiziale di Napoli scriveva:

«Nei rapporti, ieri sera pervenuti. S. E. il. Tenente Generale Lanza annunzia, che alle 1 a. m. del giorno 24 due colonne delle reali truppe spintesi ad attaccare vantaggiose posizioni occupate al Parco e monti circostanti dalle bande di Garibaldi ingrossate da coloro, che per reati comuni espiavano la loro pena nelle carceri, di cui il Garibaldi apre ad essi le porte, scacciaronle dopo 6 ore di valoroso combattimento.»

«Fugate da per ogni dove, le bande anzidette lasciarono morti e prigionieri, e precipitosamente si ritrassero verso la Piana dei Greci.»

«Il Generale Colonna occupa le conquistate posizioni del Parco.

«Siamo lieti nel ripetere, che il valore, col quale le reali truppe affrontano dovunque, combattono, e mettono in fuga le bande degl'insorti, in qualsivoglia numero si presentino, è superiore ad ogni elogio.»

Queste notizie sin dalla mattina eransi divulgate per Napoli, ed erano state accolte con diffidenza: l'articolo del Giornale uffiziale non aveva loro conciliata maggior fede, perché dopo il ratto di Calatafimi non si credeva più a ciò che quel foglio asseriva. Nulladimeno si era in ansia di sapere il vero, e questo vero non tardò molto a manifestarsi.


vai su


CAPITOLO XI

Garibaldi a Palermo.

SOMMARIO

Dopo Calatafimi non vi erano state, che scaramucce — Notizie topografiche; Marineo, Misilmeri — Il 25 la truppa di Garibaldi era a Marineo, e faceva credere di ritirarsi a Corleone — Invece si dirige a Misilmeri — Entrata a Misilmeri. Gibilrossa — Affissi del governo napoletano nei Comuni della Sicilia — Partenza da Gibilrossa — Strada, che si prescelse per andare a Palermo — Piano di Garibaldi per sorprendere Palermo — Disposizione della colonna — Incontro col primo distaccamento regio — Sorpresa, ch'ebbe a destare l'attacco — Il sole del 27 maggio 1800 trova gl'Italiani in Palermo La popolazione si butta nella strada — La truppa regia si ritira — Garibaldi stabilisce il suo quartiere generale nel Palazzo pretorio — Piccolo numero degli armati, che presero Palermo — Morte del Maggiore Tuckery — Supplemento del Giornale uffiziale di Napoli del 27 maggio — Inconvenienza di quell'articolo — Proclama del Comitato Siciliano — Ordinanza di Garibaldi — Bombardamento di Palermo — Corrispondenza da Palermo — Rapporto Alziate del Console svizzero in Palermo — Lettera del Controammiraglio inglese Mundy — Articolo del Giornale ufficiale di Sicilia — 28, 29 e 30 Maggio — Lanza domanda un armistizio; sue rimostranze a Napoli — L'armistizio è conchiuso; Garibaldi lo manifesta al popolo — Proposta di Letizia, che Garibaldi dice umiliante pel popolo — Rinnovamento dell'armistizio; articoli di esso — Proclama di Garibaldi del 1. ° giugno — Altro del Comando generale delle guerriglie — Provvedimenti urgenti — Detti per la sicurezza della città — Ricompense a chi si batte per la patria Articolo del Giornale napoletano del 2 giugno — Induzioni, che se ne trassero — Stampa siciliana e concetto esatto della rivoluzione di Sicilia — L'opinione pubblica cominciava ad avere un indrizzo palese — Prolungamento dell'armistizio — Proclama di Garibaldi del 2 giugno — Sua aringa ai soldati — Capitolazione — I detenuti liberati — Riflessioni sulla spedizione siciliana — Piano strategico di Lanza — Non è approvato dal governo napoletano — Le truppe regie dopo la capitolazione. — Tempo, in cui la spedizione siciliana consegui il suo affetto — Stato maggiore dell'armata napoletana il 27 Maggio in Sicilia.

 Dopo il combattimento di Calatafimi non vi erano state in sostanza, che delle scaramucce nei monti sopra Monreale, alla Grazia, nelle Colline del Parco, al monte Campanaro presso la Piana dei Greci. Indi cominciò l'apparente ritirata, ed i regii seguivano con un giorno di distanza.

Dalla Piana dei Greci per Santa Cristina e per una strada curva si va a Marineo; questa è la strada per andare a Corleone, perché da Marineo per una via poco curva si va in quest'ultima città. A settentrione di Marineo, quasi a mezza distanza tra Marineo e Palermo, vi è Misilmeri, messa sulla via, che viene da Caltanissetta, e su questa via essa è l'ultimo circondario prima di Palermo. Se è esatta una carta, che abbiamo consultata, una breve traversa da Marineo va ad incontrare dopo di Ogliastro la predetta strada di Caltanisetta a Palermo a poche miglia prima di Misilmeri. Adunque da Marineo la strada regolare porta a Corleone, ma da Marineo pure risalendo verso settentrione, si può andare a Misilmeri, e quindi a Palermo.

Il 23 maggio le truppe garibaldine erano a Marineo. Seguendole con un giorno di distanza, le truppe regie vi hanno dovuto arrivare il 26; i garibaldini ne erano partiti la notte; ov'erano andati? Naturalmente avevano seguito il loro movimento di ritirata, e continuando per la strada prescelta, andavano a rifugiarsi a Corleone.

Ma non era così. Pochi uomini con due pezzi di artiglieria, fra i quali quello preso ai Napoletani, per semprepiù ingannare i regii avevano proseguito verso Corleone. Tutto il rimanente, partito la sera da Marineo, dopo alquanto di cammino, ebbe ordine di spegnere i sigari, e serbare il più rigoroso silenzio; quelle truppe si avviavano a Misilmeri, ed i regii credendo inseguire il nemico, se ne allontanavano maggiormente, e mentre si affaticavano a marciare verso il mezzogiorno, lasciavano che Garibaldi alla testa della sua piccola armata percorresse celeremente la via verso settentrione, e si avanzasse sopra Palermo. Da Marineo a Corleone la distanza è pressoché uguale a quella da Marineo a Palermo, ed è quasi il doppio di quella da Marineo a Misilmeri. Quasi a mezza distanza tra Misilmeri e Palermo vi è il convento di Gibilrossa. A mezzanotte del 25 i garibaldini erano a Misilmeri.

«Eravamo vicini al fine della marcia, scrive un cacciatore delle Alpi, quando si vide una miriade di fiammelle; era la luminaria, con cui gli abitanti di Misilmeri celebravano l'ingresso dei cacciatori delle Alpi. Entrammo in paese fra due ali di popolo, assiepato ai lati della strada. mentre dalle finestre uomini e donne facendo sventolare bandiere tricolori, fazzoletti e bianchi lini, ci salutavano.»

Alle 7 a. m. del di 26 si parti da Misilmeri; poco discosto dall'abitato si prese un sentiero alpestre, e si sali su di un monte; ivi si fece alto. All'avvicinarsi della notte si riparti; la truppa era divisa in due colonne, delle quali l'una percorreva il monte, l'altra il sentiere, ch'è alle sue falde. Entrambe si riunirono nel convento di Gibilrossa, ove convennero ancora le bande siciliane. — «Dagli sguardi, dai movimenti appariva l'orgoglio di quella gente desiderosa di prendere parte coi cacciatori delle Alpi al cimento della pugna. — ().»

Si distava da Palermo di qualche miglio.

Non pertanto in quello stesso giorno si spediva da Monreale a Palermo il seguente rapporto uffiziale:

Il Generale Bonanno al Maresciallo Lanza.

«Questa mattina verso le 10 ore una viva fucilata si è fatta sentire a Gibilrossa. Nella credenza, che un impegno aveva luogo su tal punto, la colonna del generale Colonna è stata spedita in questa direzione. Ma ad alcune miglia dal luogo sette persone, due Genovesi e 5 Siciliani si sono presentate innanzi le reali truppe, gridando: Viva il Re! e deponendo le armi. Queste persone hanno riferito, che delle violente risse eransi suscitate a causa della fuga di Garibaldi, il quale cercava la riva per imbarcarsi, chiamando i Siciliani. infami e traditoti, mentreché questi chiamavano i garibaldini briganti ed ingannatori, e che le due parti si erano salutate con dei colpi di fucile. La colonna di Medici è ritornata, riferendo, che tutto va a meraviglia. Effettivamente l'attruppamento degl'insorti, che si era concentrato a Gibilrossa, non esiste più.

«Monreale 26 maggio.»

E da Palermo si spediva in Napoli con quella medesina data un altro rapporto, il cui contenuto si faceva affiggere nello stesso giorno nei Comuni della Sicilia. Il rapporto e l'affisso diceva:

«La banda di Garibaldi incalzata sempre si ritira in disordine, traversando il Distretto di Corleone.

«Gl'insorti, che l'associavano, si sono dispersi, e vanno rientrando nei rispettivi Comuni scorati ed abbattuti per essersi lasciati ingannare dagl'invasori stranieri, venuti per suscitare la guerra civile nella Sicilia.

«Le reali truppe l'inseguono.

«Palermo 26 maggio 1860.

«Il Capo dello Stato Maggiore

«V. Polizzy.»

 

Ma appunto la notte del 26 al 27 maggio le truppe italiane e le bande siciliane si rimettevano in marcia dopo breve riposo a Gibilrossa. Venne ordinato di non profferire parola, di spegnere i sigari, di marciare serrati. Secondo il primitivo piano ideato dallo stesso generale Garibaldi e dal suo primo aiutante di campo colonnello Turr, le schiere dovevano tenere la strada da Misilmeri a Palermo, strada abbastanza larga e comoda. Ma i capitani nativi dell'isola riputarono, che rosse da preferirsi il passo del Mezzagno, che dalle alture di Gibilrossa conduce al piano di Palermo.

Il disegno concepito da Garibaldi si era di sorprendere i posti della più bassa e meno difesa parte della città, gettarsi nella città stessa, e quindi procedere di via in via fino al nerbo delle forze regie. Delle due strade, che menano a questa parte della città, fu scelta come meno pericolosa la interna, la quale mezzo miglio circa dalla città traversa la via del ponte dell'ammiraglio, e sboccando nello stradone, entra. nella città per porta Termini. Su quel luogo i Napoletani avevano innalzata una barricata con sacchi di arena, difesa da due compagnie. Lo stradone era guardato da due cannoni di campagna posti presso la porta S. Antonino. Dall'altro lato dello stradone sorgevano due piccioli forti sino al ponte, al di là del quale erano i posti avanzati. Questo fu adunque il punto prescelto come di men difficile esecuzione.

Adottato sulla via da tenersi il parere dei capitani siciliani, la truppa ebbe l'ordine di concentrarsi sul far della notte alla sommità del passo presso una Chiesa, che ivi si eleva.

Giusta quanto era stato da prima disposto le milizie condotte dallo stesso generale dovevano essere le prime, poi seguire le squadre siciliane, ma taluni capi di queste chiesero come un segnalato favore verso i loro corpi l'onore di essere posti alle prime file nell'entrare in città, sì che variato l'ordine, le guide e tre uomini di ogni compagnia dei cacciatori delle Alpi formarono l'avanguardo affidato al comando del maggiore Tuckery, uffiziale ungherese, che nel settembre 1856 si era distinto a Kars. Dietro quest'avanguardo seguivano i Siciliani comandati da La Masa, profugo siciliano venuto con Garibaldi. Veniva il secondo corpo preceduto dai Carabinieri di Genova armati di carabine svizzere, delle quali sapevano destramente far uso; seguivano due battaglioni dei Cacciatori delle Alpi; indi gli altri Siciliani.

La colonna guadagnando i rapidi sentieri dei Ciaculli alla Favara, giungeva al bivio della Scaffa, ai cui molini portavasi la vanguardia dei regii. Era questo un distaccamento di cacciatori, che, incalzato, retrocesse sino al ponte dell'ammiraglio, ov'erano le due compagnie, di cui più sopra abbiamo parlato.

Ognuno può immaginarsi lo stupore di quest’attacco inaspettato e gagliardo. Garibaldi e gl'insorti si erano dispersi, erano inseguiti, l'insurrezione era ferita nel cuore, ed intanto Palermo era sorpresa, e stava per cadere nelle loro mani. I regii respinti sempre, nonostante una carica tentata da un mezzo squadrone di cavalleria, andarono a ricongiungersi col forte delle truppe stanziate al quartiere S. Antonino, e gl'Italiani e le squadre avviatisi por porta di Termini, ed impassibili alle mitraglie, che un piroscafo regio tirava, sfilarono innanzi Garibaldi messo in mezzo al quadrivio, e penetrarono nella città. I primi raggi del sole del 27 maggio salutavano i Cacciatori delle Alpi e le squadre siciliane in Palermo. Al primo annunzio di quanto era accaduto la popolazione si era precipitata nelle strade, ed armata come meglio poteva di schioppi, pistole, stocchi, pugnali, aveva ingrossato le schiere degli assalitori. Lo scontro fu vivo su due o tre punti, che le truppe di Garibaldi presero alla baionetta; nel resto non vi fu che ritirala, si che i regii abbandonarono successivamente il quartiere S. Antonino, i quattro cantoni, e porta Macqueda, concentrandosi al quartiere generale, ed estendendo la linea per S. Francesco di Paola sino ai Quattroventi. Più tardi nello stesso giorno questa linea era rotta, perché i regii erano respinti da S. Francesco di Paola. Garibaldi stabiliva il suo quartiere generale al piazzo Pretorio. Stando ad una corrispondenza particolare, Garibaldi si sarebbe buttato in Palermo con 3, 000 uomini; per la natura ed il segreto della marcia non doveva averne molti, ed anche dei 3, 000, due mila circa dovevano essere di bande siciliane, le quali giusta la stessa corrispondenza, che non è di Siciliani — «stanno egregiamente al fuoco, e tirano bene, anche quelle armate di fucili da caccia.»

Le manovre del generale avevano allontanato da Palermo circa 5, 000 uomini delle truppe borboniche, e naturalmente dovevano essere delle migliori. Peraltro le altre bande siciliane costituivano una valida riserva, ed in ogni caso assicuravano la ritirata. Avuta una parte della città, si costruirono immediatamente delle barricate, ed una commessione fu istituita a tale effetto.

Il maggiore Tuckery e tre guide furono i primi a giungere alla barricata, che fu attaccata alla baionetta, ma il valoroso ungherese fu ferito al ginocchio, e mori qualche giorno dopo della sua ferita. L'Italia serberà carissima la sua memoria, e la storia registrerà come la comunanza delle idee rende gli uomini di una medesima nazione, e li stringe coi più saldi vincoli dell'amore e delle aspirazioni.

Prima di narrare gli ulteriori fatti di Palermo è d'uopo di riferire un articolo, che il Giornale uffiziale di Napoli scriveva in quel medesimo di 27 di maggio, in cui la capitale della Sicilia era perduta. Un supplemento di quel giornale pubblicava:

«Col real piroscafo la Saetta abbiamo ricevuto altri rapporti, i quali confermano quanto ieri accennammo sui brillanti fatti d'armi seguiti al Parco il dì 24, non meno, che la sconfitta delle bande degl'insorti e di quelle di Garibaldi; aggiungono, che le reali truppe comandate dal generale Colonna e dal colonnello Von Mechel con islancio straordinario cacciarono da quella importante posizione i ribelli. Questi ne occuparono un'altra soprastante alla prima ed anticipatamente trincerata e difesa altresì da cinque pezzi di cannone.

«Il 25 tale seconda posizione venne pure espugnata con impeto eguale, e tolto ai rivoltosi uno dei loro cannoni. L'assalto delle reali truppe fu sì vivo e tremendo, che tutti i ribelli, di unita alle bande, fuggirono scompigliati sino alla Piana dei Greci. Ivi novellamente incalzati dalla colonna de'  Mechel e dal valoroso 9° battaglione cacciatori comandati dal maggiore del Bosco, si diedero pure a precipitosa disordinata fuga, attraversando il Distretto di Corleone in cerca di scampo più che di nuove posizioni.

«Le bande anzidette perseguitate senza posa dalle reali truppe continuarono a fuggire in preda dello scoraggiamento, ch'è il doppio effetto del disinganno in cui sono cadute sin dal loro arrivo in Sicilia. e delle gravi perdite, che in ogni fatto darmi le ha stremate di forze o di speranze.

«Quanto ai Siciliani, che loro associaronsi sedotti dall'oro e dalle lusinghe, si sono pur essi dispersi, e vanno rientrando nei rispettivi Comuni, scorati ed abbattuti non men che dolenti di essersi lasciati ingannare dagl'invasori stranieri, venuti per suscitare la ribellione in quella contrada.

«Lo spirito pubblico disingannato pur esso si rialza di giorno in giorno ai sentimenti dell'ordine legale, e si assicura nel valore e nell'ammirabile contegno delle reali truppe, delle quali non sapremmo lodare abbastanza la bravura, la perseveranza, e la disciplina. Uno in tutti è l'entusiasmo per la causa legittima, che sostengono, uno il grido del combattimento e della vittoria: Viva il Re.»

Quando questo articolo era scritto, già da parecchie ore Palermo era perduta pei Borboni. Nulladimeno noi non lo biasimeremo per le notizie pubblicate, perché le vere non si potevano ancora sapere; ma quel tuono di arroganza e di spavalderia era assai male collocato nelle condizioni, in cui la Sicilia si rattrovava.

La dinastia dei Borboni è caduta per mezzi così straordinarii appunto perché non ha mai avuto il sentimento della futilità delle forze, sulle quali si affidava.

Epperò molte ore prima che comparisse il Supple mento del Giornale napoletano, che abbiamo riportato. un proclama del Comitato Siciliano, sottoscritto dallo stesso Garibaldi diceva:

«Siciliani!

«Il Generale Garibaldi Dittatore in Sicilia a nome di S. M. Vittorio Limarmele Re ci Italia, essendo entrato in Palermo questa mattina 27 maggio, ed occupato tutta la città, rimanendo le truppe napoletane chiuse solo nelle caserme e nel castello a mare, chiama alle armi tute i Comuni dell'Isola, perché corrano nella metropoli al compimento della vittoria.»

«Dato in Palermo oggi 27 maggio 1860.»

«G. Garibaldi.»

Ed un'Ordinanza dello stesso Generale proclamava:

«Articolo unico. I reati di furto, d'omicidio, e di saccheggio di qualunque natura saranno puniti con la pena di morte

«Essi saranno giudicati dal Consiglio di guerra dipendente dal Comandante in capo le forze nazionali e Dittatore in Sicilia.»

«Il Comandante in capo e Dittatore.»

«G. Garibaldi.»

Intanto cominciava il bombardamento della Città, tristissima parte di questa nostra storia. Secondo una corrispondenza del Siècle il Generale Lanza avrebbe sin dal giorno 25 diretta ai Consoli una circolare per prevenirli, che nell'eventualità di un bombardamento eglino ed i loro nazionali potevano mettere al sicuro le loro persone e ciò, che loro apparteneva, ma che nullameno avrebbe fatto ogni sforzo per allontanare dalla città le calamità della guerra. Aggiungeva, che in caso di rivolta non avrebbe fatto cominciare il bombardamento, che due ore dopo che fossero cominciate le ostilità per lasciare ai consoli ed agli esteri il tempo di porsi in salvo.

Se questa circolare è vera, bisogna conchiuderne, che il giorno appresso a quello dei vantaggiosi combattimenti del Parco, in Palermo si vedeva la situazione ben diversa di quella, che l'aveva descritta il Giornale ufficiale di Napoli, e che lungi dall'aversi come vinta la insurrezione, si credeva anzi probabile doversi giungere nella capitale dell'isola sino all'estremo di un bombardamento.

Ed il bombardamento segui nei giorni 27 e 28 maggio, e recò danni immensi alla città. E scritto, che in quei due giorni vi furono uccisi tra cittadini e garibaldini oltre 900. Egli è certo, che dalle note successivamente comunicate dal Pretore di Palermo, Duca della Verdura, al governo risulta, che i cadaveri trovati ed inumati dal 30 maggio al 12 giugno giungono a 573. Il bombardamento della Città, si scriveva il 10 giugno da Palermo, fu tale che non te lo puoi immaginare, e qualunque descrizione ne facciano i giornali non potrà mai adeguare il vero. Le rovine della Città sono immense, e moltissime le vittime rimaste sotto le macerie e sacrificate dai soldati, che nelle strade, da essi occupate, commisero eccessi inauditi.

«La casa, ove abitiamo noi, ebbe in giro da 30 a 10 bombe in uno spazio non più largo di due volle la piazza Campetto, ed una granata trapassò le mura dell'ultimo piano, facendo però poco danno. In una casa confinante con la nostra caddero cinque bombe, che cagionarono un danno valutato a circa 60. 000 franchi. In diverse altre case circonvincine caddero molte bombe, che cagionarono pure gravi danni. Una fra esse fu totalmente rovinata.

«Da questo piccolo saggio figurati quello, che vi fu per tutta la città, che generalmente fu trattata tutta così. Sulla piazza della Matrice i soldati, che occupavano quei punti vicino al Palazzo Reale incendiarono il Palazzo del Principe Carini, che rovinò intieramente, quello di Calò, del quale resta soltanto la metà, il monastero della Badia nuova e quello dei sette Angeli. Le monache fuggirono non so come, né so se sieno tutte salve. La strada di Porta di Castro tutta saccheggiata ed incendiata, lo stesso di molte strade dell'Albergheria. I. 1 Monastero di S. Catterina a fianco del Palazzo Pretorio non esiste più, essendosi ieri fatto atterrare del tutto, perché non rovinasse da sé stesso e non cagionasse altri danni. Le bombe dirette sul pretorio, ove alloggiava Garibaldi, caddero tutte in quel monastero. Se volessi darti una nota delle case atterrate, delle vittime, e delle barbarie commesse dai soldati, non le crederesti. Ritieni per altro, ti ripeto, che quanto sarà narrato dai giornali, sarà inferiore al vero.»

Una corrispondenza particolare ha una autorità, che si può ricusare. Ma la Gazzetta Ticinese pubblicò il rapporto ufficiale, che i Consoli svizzeri di Palermo e di Messina mandarono al Consiglio federale. Il primo riferiva, che tra i danneggiati ed i feriti vi sono degli Svizzeri, e crede, che l'armata, che difendeva Palermo, fosse di 18 mila uomini, oltre di una considerevole forza navale, che bombardava la città ogni qual volta il castello apriva il fuoco.

«Nella città, dice il rapporto, vi è un ordine mirabile, non un caso di furto o di riprovevoli eccessi; i comandi di Garibaldi vengono eseguiti puntualmente.»

«Aveva il console sentito, che anche la casa di uno Svizzero di nome Eicholz, che aveva sposato una Siciliana, fosse stata arsa ed un suo figlio dodicenne, fuggendo dalla casa in fiamme, fosse stato ucciso da una fucilata. Egli si recò sul luogo, ed i vicini confermarono il fatto con molti particolari. Gli fu detto, che la famiglia era stata condotta prigioniera, e che molti prigionieri erano stati arsi nel convento dei Benedettini bianchi. Il Console volendo informarsene, si diresse in un quartiere, ove certamente 300 case erano arse e dalle quali usciva un tanfo pestilenziale, provveniente dai cadaveri abbruciati o giacenti sotto le rovine. Nel convento egli trovò gente, ch'estraeva cadaveri mutilati, e dicevano essere quelli dei prigionieri, che dai soldati napoletani vi erano stati rinchiusi. Essi ne trassero fuori 63, ed una ventina vi sono ancora. Il convento era incendiato quando gl'insorti se ne impadronirono.»

«Simile sorte come Eicholz ebbe un Francese di nome Firet, maestro di lingua, che abitava nel medesimo quartiere. Ad onta che Firet avesse posto sulla sua casa un cartello con scritto a grandi lettere Domicile français la sua famiglia cadde sotto i colpi de'  soldati quando volle salvarsi dalle fiamme. Tutto il quartiere, ch'è di 300 case, venne, in questa guisa immolato.

Alla presenza delle terribili scene, che il Console vide, credette dovere rivolgersi al Generale de'  Michel ed ai di lui officiali, loro esponendo le incredibili crudeltà, di cui era testimone. Egli lo fece con pericolo della propria vita, niuno potendo passare pegli avamposti dei Napoletani. Tuttavia gli riuscì di poter parlare con Michel in presenza del Comandante Bosco: gli disse, che tutte queste sventure erano conseguenze della tirannia protratta da lunghi anni ed opera di una polizia, che spinse la popolazione all'estremo; i soldati di lui sembravano ora destinati a compire il passato, immolando le ultime vittime. La sua esposizione sembrò fare impressione, ma si procurò di rivocare in dubbio i fatti. Il Console l'invitò a venire seco lui per convincersene coi proprii occhi, ma essi non potevano farlo, ed egli dové contentarsi di replicare la sua pittura.

«Un simile invito il console svizzero mandò agli ammiragli, ai comandanti delle diverse squadre, affin che personalmente si convincessero del terribile stato ed interponessero la loro autorità contro iI bombardamento ed il saccheggio.

«La scena è delle più orribili, scrive il contrammiraglio Mundy. testimone di vista. Tutta una contrada di mille jarde di lunghezza sopra cento di larghezza è in cenere. Delle famiglie sono state bruciate vive con le case; le atrocità commesse dalle truppe reali sono terribili. Su di altri punti dei conventi, delle chiese, degli edifizii isolati sono stati schiacciati dalle bombe, delle quali furono lanciate dalla cittadella 1100, e 200 altre dalle navi di guerra, senza contare gli obici e le palle.

Da ultimo il Giornale ufficiale siciliano del 12 giugno scriveva:

«Dopo le vicinanze del Duomo e del Palazzo reale l'attenzione e lo stupore di tutti si arrestano sulle cumulate macerie del monastero di santa Catterina e di quel tratto della via Toledo, che risponde di contro al Monistero della Vergine e alla Chiesa di S. Matteo. Del resto non è strada, non è isolato di case, che non mostri i suoi guasti e le tracce della vandalica rabbia. Tra per le offese nemiche e la calda e provvida cura, che spingeva i cittadini a smuovere i lastricati, ad afforzare di barricate ogni angolo ed ogni sbocco di via; la materiale apparenza della città di Palermo si mostra tale che si direbbe avere subito un cataclisma della natura. Ciò senza dubbio può eccitare dolorose riflessioni, ma può e deve formare l'orgoglio del paese. P, degno di nobili destini un popolo, che sa di tal modo immolare ogni cosa al proprio riscatto. E l'Italia, che un anno addietro mostrava al mondo i campi di battaglia, ove trionfava il valore dei risorti suoi figli, oggi dopo il colle di Calatafimi può con magnanima alterezza additare i ruderi di quest'antica e gloriosa Palermo.

Questi quattro documenti di diverso genere possono valere a stabilire un concetto esatto di ciò, che quella Città ebbe a patire.

I giorni 28 e 29 passarono in fatti d'armi più o meno gravi, ma sempre con la ritirata dei regii. Il giorno 30 quella colonna coloro, che credeva d'inseguire le truppe nazionali sino a Corleone, ritornò, e per Marineo si diresse sopra Palermo. Avanzandosi lungo lo stradale di Porta di Termini, la sua vanguardia era riuscita a sorprendere la prima barricata, mal guardata a causa dell'armistizio. che si trattava, ma datosi l'allarme, si corse a respingere quell'attacco, e ne sarebbe riuscito un caldo combattimento, se l'armistizio non l'avesse reso impossibile.

Sospeso il bombardamento per le rimostranze del corpo consolare e dei comandanti delle squadre estere, il Generale Lanza chiese un armistizio. Secondo le assicurazioni della Gazzetta di Torino, egli avrebbe segnalato a Napoli le condizioni di Garibaldi, e spedito un dispaccio a tutta macchina, col quale esponeva le ragioni, che lo avrebbero indotto a domandare l'armistizio; manifestarsi sintomi rivoluzionarii nelle truppe; queste essere stanche, disordinate; alcuni corpi trovarsi tagliati fuori; l'insurrezione essere gigante, completa; correre rischio di dovere deporre le armi, o continuare a fare scorrere sangue immenso senz'alcun risultato.

Garibaldi accettò la proposizione. L'Annibale, legno inglese, fu prescelto per l'abboccamento. Il Generale vi si recò egli stesso, e Letizia v'intervenne come commessario napoletano. L'armistizio fu conchiuso per 24 ore onde seppellire i morti e raccorre i feriti. Di ritorno dal bordo dell'Annibale Garibaldi manifestò egli medesimo dal balcone del Palazzo pretorio quella breve sospensione d'armi — «Il nemico, egli disse, mi ha proposto un armistizio. Io ne accettai quelle condizioni, che l'umanità dettava di accettare, cioè ritirare famiglie e feriti; ma fra le richieste una ve n'era umiliante per la brava popolazione di Palermo, ed io la rigettai con disprezzo. Il risultato della mia conferenza di oggi fu dunque di ripigliare le ostilità domani. Io ed i miei compagni siamo festanti di potere combattere accanto ai figli dei Vespri una battaglia, che deve infrangere l'ultimo anello delle catene, con cui fu avvinta questa terra del genio e dell'eroismo».

Dicesi, che il Generale Letizia proponesse a Garibaldi di fare dirigere al Re dal Senato di Palermo un'umile supplica, colla quale s'implorassero delle concessioni, ed egli credeva, potersi impegnare di farla accettare di buona grazia. A questa proposizione allude forse il Generale Garibaldi; e se è così, è questo un nuovo argomento dell'assoluta ignoranza nel governo napoletano del vero scopo dell'insurrezione siciliana e delle aspirazioni di quelle popolazioni.

Il 31 di maggio e innanzi che spirasse la prima tregua lo stesso Generale Letizia si presentò al Generale Garibaldi, chiedendone un prolungamento. Il Dittatore lo annunciò da sé medesimo aì Siciliani.

EPISODIO-DELLA-BATTAGLIA-DI-MILAZZO

EPISODIO DELLA BATTAGLIA DI MILAZZO

«Siciliani!

«Il nemico ci ha proposto un armistizio, che nell'ordine di una guerra generosa, qual è quella, che da noi sa combattersi, stimai ragionevole non denegarlo.

— L'inumazione dei morti, il provvedimento pei feriti, quanto insomma è reclamato dalle leggi di umanità, onora sempre il valore del soldato italiano. Per altro i feriti napoletani sono pure fratelli nostri, benché ci osteggino con nimistà crudele, e s'avvolgano tuttora nella caligine dell'errore politico; ma non sarà guari, che la luce del nazionale vessillo gl'induca un giorno ad accrescere le file dell'esercito italiano. — E perché i termini degl'impegni contratti siano mantenuti colla religione di una lealtà degna di noi, si pubblicano i seguenti:

Articoli di convenzione fra i sottoscritti a Palermo

il giorno 31 maggio 1860.

«1. La sospensione delle ostilità resta prolungata per tre giorni a contare da questo momento, che sono le 12 meridiane del di 31 maggio, al termine della quale S. E. il Generale in capo spedirà un suo aiutante di campo, onde di consenso si stabilisca l'ora per riprendersi le ostilità.

«2. Il Regio Banco sarà consegnato al rappresentante Crispi Segretario di Stato con analoga ricevuta, ed il distaccamento, che lo custodisce, andrà a Castellammare con armi e bagaglio.

«3. Sarà continuato l'imbarco di tutt'i feriti e famiglie, non trascurando alcun mezzo per Impedire qualunque sorpresa.

«4. Sarà libero il transito dei viveri per le due parti combattenti in tutte le ore del giorno, dando le analoghe disposizioni per mandare ciò pienamente ad effetto.

«5. Sarà permesso di contracambiare i prigionieri Musto e Rivalsa con il primo Tenente Colonnello ed altro uffiziale, o il capitano Grasso».

«Firmati

«CRISPI.

«LANZA.

Il giorno seguente il Generale Garibaldi pubblicava il proclama, che siegue:

«Siciliani!

«Quasi sempre la tempesta siegue la calma, e noi dobbiamo prepararci alla tempesta, sinché la meta sospirata non sia raggiunta intieramente.

«Le condizioni della causa nazionale furono brillanti, il trionfo fu assicurato dal momento, che un popolo generoso, calpestando umilianti proposte, si decise di vincere o morire.

«Si.. le condizioni nostre migliorano ogni momento. Ma ciò non toglie di fare il dovere e di sollecitare il trionfo della detta causa.

«Armi dunque ed armati; arruola ferri, e prepara ogni mezzo di difesa ed offesa… Per le esultanze e gli evviva avremo tempo abbastanza, quando il paese sia sgombro dei nostri nemici.

«Armi ed armati ripeto... Chi non pensa ad un'arma in questi tre giorni è un traditore ed un vigliacco; ed il popolo, che combatte tra le macerie ed i ruderi delle sue case incendiate per la sua libertà e per la vita dei suoi figli e delle sue donne, non può essere un vigliacco, un traditore».

«Palermo 1 giugno 1860.

«G. GARIBALDI».

Ed un altro proclama diceva:

«Ai Comuni liberi della Sicilia.

«Comando generale della Guerriglia.

«Dal campo di Gibilrossa destinato al glorioso scopo di servire di base di operazione sulla capitale, la fortuna delle armi, inspirata dal valore dei fratelli nostri del continente, ci condusse in una marcia notturna all'alba del 27 maggio vittoriosi In Palermo.

«Un ultimo colpo ancora rimane al compimento della vittoria. I tre giorni di tregua chiestici devono dunque consacrarsi all'ingrossamento della forza nazionale, all'organizzazione più consentanea all'istante solenne».

«Armati delle provincie insorte, volale al patrio appello per distruggere, e presto, dalle nostre terre le orde borboniche. All'invito che dalle montagne di Rocamena e Gibilrossa dopo dodici anni di forzato silenzio rivolsi a voi da semplice patriota, in tre soli giorni forniste di più di 4000 armati le alture designate. Ora all'invito di compiere l'impresa gigante iniziata sotto l'egida formidabile dell'Eroe di Varese, saprete parimente inviare alla patria difesa i figli vostri, che sono figli d'Italia.

«Nei quartieri, che apriremo per concentrarli, amministrati e diretti da persone notabili per amor patrio e dottrina, le nostre guarentigie troveranno l'organizzazione e la disciplina, e nei combattimenti il comando militare e la difesa.

«Questi tre giorni, o fratelli, debbono scavare la fossa alla dinastia borbonica ed alla sua forza brutale. Alle armi dunque, ed i fatti magnanimi coronino le vostre promesse.

«Viva l'Italia! Viva Vittorio Emmanuele II!».

«Palermo 31 maggio 1861.

Si pensò immediatamente ai provvedimenti più urgenti. Il Comitato per l'annona ordinò:

«Il Comitato provvisorio dell'interno, dipartimento annona.

«Affinché la città sia provveduta di generi di annona;

«Ordina

«Che i fornai, pastai, e Unte le botteghe stiano aperte in tutte le ore del giorno.

«Tutti coloro, che contravverranno a quest'ordine, sono dichiarati traditori della patria, ed i loro nomi saranno notati in pubblici affissi.

«Il Comitato

«Vincenzo Cortese Vice-Presidente — Raimondo

Amato Sac. Francesco de'  Stefano.

E dopo di avere provveduto alla sussistenza pubblica, si volle provvedere alla sicurezza della città. Già sin dal 28 maggio si era pubblicato il seguente decreto:

«Italia e Vittorio Emmanuele.

«Giuseppe Garibaldi Comandante in capo le forze nazionali in Sicilia;

«In virtù dei poteri a lui conferiti,

«Decreta

«Art. 1. — istituita una commessione di difesa, la quale dovrà provvedere attivamente a quanto è necessario per costruire le barricate regolari in tutta la città ed a metterla in istato di difesa. indipendentemente dai generosi venuti dalle altre provincie italiane in soccorso della Sicilia.

«Art. 2. Le barricate stabili si formeranno alla distanza di cento passi all'incirca l'una dall'altra. ed alla loro costruzione si adopreranno le pietre del selciato, le gabbionate, le fascine, i sacchi pieni di terra, mettendo alla direzione dei lavori persone intelligenti, che abbiano pratica della costruzione di tali opere.

«Gli oggetti per le barricate mobili si prepareranno nei luoghi ove la utilità lo esiga, e specialmente ove le nostre milizie debbano avanzarsi protette contro il fuoco nemico, carne nel dare l'assalto ai quartieri ed altri luoghi occupati dai regii.

«Queste barricate si formeranno di botti piene di terra, di materassi, pagliarecci ecc. ecc.

«Art. 3. La commessione terrà un deposito di sacchi di terra, che farà senza indugio riempire a migliaia e migliaia.

«Art.. 4: Le barricate debbono essere sempre custodite dalle persone più coraggiose, che si trovano nelle vie, ove sono erette.

«Art. 5. Le porte e le finestre delle case debbono essere aperte sì di giorno che di notte, onde dare ricetto alle persone, che la commessione spedisce per assicurare meglio la difesa.

«Art. 6. La commessione organizzerà un corpo di guardia centrale, che possibilmente risiederà vicino al luogo di sua residenza. Ogni via deve avere un corpo di guardia filiale, che col mezzo di piccole pattuglie si terrà in rapporto col corpo centrale. coll'incarico di mandare un espresso ogni mezz'ora per informarlo dell'andamento della difesa, e di spingere gli abitanti di ogni casa ad adoperarsi per la difesa medesima.

«Art. 7. La commessione si circonderà di un forte distaccamento di uomini armati, onde potere all'occorrenza spedire rinforzi nei sentieri più minacciati.

«Art. 8. Avrà cura di fare preparare della munizione, e specialmente la così detta polvere rivoluzionaria.

«Art. 9. La commessione è composta dai signori:

«1. Duca della Verdura Presidente — 2. Architetto Michele Manzano — 3. Architetto Tommaso Lo Cascio — 4. Architetto Pietro Rainieri. — 5. Barone Michele Capuzzo — 6. Architetto Palermo — 7. Architetto Rubino — 8 Carmelo Trasselli — 9. Architetto Bene detto Seidile — 10. Pietro Messineo — 11 Marchese Pilo — 12. Architetto Patricola — 13. Architetto Girolamo Mondino — 14. Vincenzo Seimeca Segretario.

Art. 10. Il Segretario di Stato è incaricato della esecuzione del presente decreto.

«Palermo 28 maggio 1860.

«Il Dittatore

GIUSEPPE GARIBALDI.

«Il Segretario di Stato.»

«Francesco Crispi.»

Ora il Comitato provvisorio delle barricale pubblicò un avviso, che diceva

«Il Comitato delle barricate, volendo provvedere energicamente ai mezzi più acconci alla tutela della patria, invita i cittadini tutti ad aprire delle comunicazioni fra una casa ed un altra, perché meglio si possa comunicare e più prontamente accorrere alla comune difesa.

«Il Comitato fidente nello slancio generoso del popolo spera vedere coronate le sue brame.

«Palermo 1 giugno 1860.»

Ed in prosieguo invitava i negozianti tutti, che hanno tela atta a fare sacchi, a recare subito nel palazzo del municipio tutta quella quantità di tela e canavacci, che si trovava pronta.

Invitava del pari tutti i negozianti di ferrarecce a recare ad esso Comitato tutte le pale di terra e zappe, di cui potevano disporre, e se mai non ne avessero in prento, li facoltava a farle eseguire.

Ed un altro decreto in data del 2 di giugno da Palermo diceva:

«Art. 1. Sopra le terre dei Demanii comunali da dividersi giusta la legge fra i cittadini del proprio Comune, avrà una quota senza sorteggio chiunque si sarà battuto per la patria. In caso di morte del milite apparterrà al suo erede.

«Art. 2. La quota, di cui è parola all'articolo precedente, sarà uguale a quella, che verrà stabilita per tutti i capi di famiglia poveri non possidenti, e le cui quote saranno sorteggiate. Tuttavia se le terre di un Comune siano tanto estese da superare il bisogno della popolazione, i militi o i loro eredi otterranno una quota doppia di quella degli altri condividenti.

«Art. 3. Qualora i Comuni non abbiano demanio proprio, vi sarà supplito con le terre appartenenti al demanio dello Stato o della corona.

«Art. 4. Il segretario di Stato sarà incaricato della esecuzione del presente decreto.

«Firmato — GARIBALDI

Crispi.»

Intanto il giornale napoletano delle Due Sicilie del giorno 2 di giugno scriveva:

«Dopo quanto annunziammo col supplemento del 27 maggio, riceviamo notizie, che alcune bande di Garibaldini dopo le sconfitte sofferte in Parco e Piana dei Greci, continuarono verso Corleone, e mentre la colonna Von-Mechel, 19° cacciatori, e 3° carabinieri, le inseguiva senza posa, successe a Corleone uno scontro, nel quale riuscì alla prelodata colonna prendere tre bandiere e due cannoni. Garibaldi intanto con parte della gente di Parco, riunendo, nel percorrere le contrade Marineo, Gibilrossa, e Misilmeri, tutte le bande, che vi rinvenne, tentò un colpo disperato sopra Palermo, inoltrandovisi per la parte orientale.

«I distaccamenti di truppe destinati a guardia delle porte di Termini e S. Antonio, attesa la loro poca forza, dovettero ripiegare sopra Palazzo reale e Castellamare, e così riuscì a Garibaldi ed alle sue bande di penetrare in Palermo ed occuparne una porzione.

«La colonna di Corleone, venuta a conoscenza di ciò, corse immediatamente a Palermo, e per la porta di Termini, una di quelle, per le quali il Garibaldi era entrato, forzatala e riconquistatala, entrò in Città ed occupò parte delle posizioni, due giorni prima prese dalla gente del ridetto Garibaldi, entrata per la Porta medesima.

«Forti perdite hanno a deplorarsi per parte delle reali truppe, al cui immenso valore ha reso luminoso omaggio lo stesso nemico, ma tali perdite sono di gran lunga minori di quelle patite dalle bande.

«Una sospensione di ostilità fu stabilita per curare ammalati e feriti non meno che per dare sepoltura ai morti».

Dalla conclusione di quest'articolo ognuno si accorse, ch'esso aveva occultato il vero. Se la colonna, che ritornava vittoriosa da Corleone aveva occupato alcune delle posizioni di Garibaldi, questi si trovava messo nel mezzo tra le truppe regie, ritiratesi dai punti, che la truppa di Garibaldi aveva quindi occupato, e la colonna di Corleone, ch'era entrata dalla medesima Porta, dalla quale lo stesso Garibaldi, era entrato; ed intanto le truppe regie avevano sofferto molte perdite, ed un armistizio aveva avuto luogo; né il foglio diceva, che la sospensione delle ostilità fosse stata dimandata da Garibaldi, il che bastava per desumerne, che fosse stata dimandata dai regii; questi erano i ragionamenti, che si facevano al di qua del Faro, e la posizione del governo diveniva nella opinione pubblica sempre più precaria.

Dall'altra parte dello Stretto non si cessava dai proclami per chiamare alle armi tuti'i Siciliani; erano scritti in uno stile ardente e passionato; il governo di Napoli era trattato per modo da non lasciare luogo a veruna speranza di transazione. La stampa dava opera immediatamente alla sua missione, e definiva nettamente i nuovi destini della Sicilia. L'Unità Italiana, nuovo foglio istituito in Palermo, scriveva:

«Una è la Patria, Italia! — Uno è il Re Vittorio Emmanuele! — Uno è l'eroe, Garibaldi! Fratelli di Sicilia, sono con noi i grandi di Como e di Magenta; gioite, ma combattete. In altro modo non sapremmo inaugurare questo periodico, se non col grido: Viva Garibaldi! Viva l’Italia unita! Lo scopo del nostro giornale si scorge dal suo titolo. Scopo, che Dante rivelò all'Italia, che tutti i grandi si proposero, che Garibaldi ed il nostro Re stan per attuare. Unità d'Italia: Unità d'Italia e quindi forza del nostro paese, sterminio dello straniero, cessazione delle intestine discordie, fine degli odii municipali... e quindi spada invincibile, vessillo nazionale, riscatto, impero. Noi combatteremo gl'Indipendentisti, che spinti da gare municipali, hanno più volte attentato alla libertà di questa misera terra dilaniata dall'Austriaco di Napoli; combatteremo questi traviali patriotti, se pur ve n'ha, che ignorando la posizione fisica e morale della Sicilia, sognano i fanciulleschi vantaggi d'una reggia e di un monarca siculo, e dimenticano, che la Sicilia per la potenza dei suoi figli può bene scacciare un branco di vili servi, un iniarne, ed uno stolto (Maniscalco e Salzano), ma non mai sostenersi contro le armi d'Austria piatite dal Borbone; dimenticano. che lo sviluppo morale d'Italia dopo Dante, Alfieri, e Gioberti tende all'unità d'Italia, che le madri adesso insieme al latte somministrano ai figli pensieri di regno italico, dimenticano che tre cuori infiammano quelli tutti della penisola, che Vittorio Emmanuele, Cavour, e Garibaldi hanno mente e brando per compire la grande impresa.

In cotal modo, dopo appena tre giorni da che le armi italiane erano in Palermo, l'opinione pubblica cominciava ad avere un indrizzo palese e nazionale. Costituivasi pure il Ministero. Orsini alla guerra ed alla marina; Crispi all'interno ed alle finanze; Guarnieri alla giustizia; Ugdulena Gregorio al culto ed all'istruzione. Erano nominati inoltre varai Presidenti di municipii e parecchi governatori di distretti.

La truppa regia erasi riconcentrata nel Palazzo reale e nel Castello; le comunicazioni tra questi due punti erano interrotte; la posizione quindi dei regi era ben difficile; e perciò prima che spirasse col 30 di maggio la seconda tregua, ne fu dimandata. e si ottenne una terza indefinita. Nonostante le difficoltà e le strettezze dei regii, i loro mezzi di offesa erano tuttavia formidabili da terra e da mare. La città aveva sofferto moltissimo, e poteva soffrire anche dippiù; anzi quello, che aveva patito, era argomento a dedurne quello, che avrebbe potuto ancora soffrire. Cosi dall'una e dall'altra parte eravi interesse positivo ad una capitolazione, ed il 4 di giugno Letizia venne in Napoli con dispaccio, e ne ripartì la medesima sera. Al solito corsero molte voci in senso diverso, ma in sostanza si cominciò a parlare di una capitolazione.

Il 2 di giugno il Generale Garibaldi pubblicò questo proclama.

«Siciliani!

«Oggi la Sicilia presenta uno di quegli spettacoli, che giganteggiano nella vita politica delle nazioni, che tutte le generazioni ricordano con entusiasmo e riverenza, e che incidono immortale il marchio di sublime virtù ad un popolo grande e generoso.

«Italia abbisogna di concordia per essere potente, e la Sicilia sola dà il vero esempio della concordia. In questa classica terra il cittadino s'innalza sdegnoso della tirannide, rompe le sue catene, e coi ferri franti trasformati in daghe combatte gli sgherri. Il figlio del Campo accorre al soccorso dei fratelli della città, ed esempio stupendo, magnifico, edificante in Italia, il prete, il frate, la suora marciano alla testa del popolo alle barricate ed alla pugna! Che differenza tra il dissoluto prete di Roma, che compra mercenari stranieri per ispargere il sangue dei suoi concittadini ed il nobile venerando sacerdote della Sicilia, che si getta primo nella mischia, dando la vita al suo paese! veramente immortale il Cristianesimo! e lo provano al mondo questi veri ministri dell'Onnipotente».

«Palermo 2 giugno 1860.

«G. Garibaldi».

Egli pure dopo il terzo armistizio a tempo indefinito si era recato fra i suoi, ed aveva detto: e Amici, sono superbo di avervi a miei compagni, perché avete dimostrato di essere valorosi; mi congratulo con voi della parte luminosa, che prendeste agli avvenimenti di questi ultimi giorni; voi lutti, che meco Intraprendeste la spedizione di Sicilia, avete il dritto di portare alta la testa. Ma non basta essere valorosi, bisogna anche essere disciplinati, perché senza disciplina non vi è forza. I Siciliani hanno stima di Voi, guardate di non demeritarla con un contegno indecoroso ad un soldato dell'Italia. Siete destinati ad essere il nucleo di una parte dell'esercito nazionale, chiamato ad altre battaglie ed altre glorie. Sia dunque la vostra condotta di modello agli altri, onde si possa dire, che i volontarii sono meglio disciplinali delle truppe regolari».

In una corrispondenza del Siècle dicevasi, che Garibaldi avesse detto agli uffiziali napoletani, ch'ebbe occasione di vedere in Palermo: — «Signori, noi dobbiamo creare un'armata di 200, 000 uomini. Apprezzo e mi piacciono molto i volontarii; nulladimeno amo meglio di nominare colonnello un leale capitano, che conosce bene il suo mestiere, che un avvocato; amo meglio fare capitano un sergente, che un medico. Se voi siete realisti, io lo sono del pari, ma Re per Re, io preferisco Vittorio Emularmele, che un dato giorno ci condurrà tutti in faccia degli Austriaci, a Francesco di Borbone, che mette Italiani in faccia d'Italiani. Signori, resta a voi di scegliere. Noi vinceremo senza di voi, ma sarei fiero di vincere con voi».

Procedevano intanto le pratiche per la capitolazione, ed il giorno 6 i patti n'erano già fermati. Questi patti dicevano:

«Saranno imbarcati i malati esistenti nei due ospedali o in altri luoghi con la maggiore celerità.

«Sarà lasciato libero l'imbarco o partenza per terra a tutto il corpo di esercito esistente in Palermo con equipaggio, materiali, artiglierie, cavalli, bagagli famiglie e quanto altro possa appartenergli, secondochè S. E. il Tenente Generale Lanza stimerà, compresovi anche il materiale, che è nel forte di Castellamare.

«Qualora sarà preferito l'imbarco, quello di tutta la truppa sarà preceduto dal materiale di guerra, dagli equipaggi, e da una parte degli animali.

«L'imbarco di tutta la truppa si eseguirà al Molo, poiché il tutto sarà trasferito a Quattro Venti».

«Il forte Castelluccio, il Molo, e la batteria Lanterna saranno sgombrate dal Generale Garibaldi senza fuoco.

«Il Generale Garibaldi consegnerà tutti gli ammalati e feriti, che trovansi in suo potere.

«Saranno scambiati per totalità non per numero tutt'i prigionieri dell'una e dell'altra parte.

«La consegna di sette detenuti in Castellamare si farà, quando tutto l'imbarco o la spedizione avrà avuto effetto con l'uscita della guarnigione di Castellamare. Essi detenuti saranno consegnati al Molo, dove saranno condotti dall'istessa guarnigione.

«Firmati i detti patti, si aggiunge in un articolo addizionale, che la spedizione si farà per mare al Molo di Palermo.

«In vista dell'ampia facoltà concessaci da S. E. il Tenente Generale Lanza, comandante in capo il corpo d'armata del Re.

«6 giugno 1860.

Firmati

V. Bonopane Colonnello Sotto-Capo dello Stato Maggiore. L. Letizia Marchese di Montepellieri generale.

G. GARIBALDI.»

I sette detenuti, di cui parlava l'art. 8, erano Riso, Monteleone, Belfiore, Pignatelli, Lanza, ec. che arrestati nel Palazzo Bufera il 7 di aprile, erano stati condotti nel forte di Castellamare, e v'erano rimasti per circa due mesi.

Così dopo 26 giorni da che 1070 italiani erano sbarcati a Marsala, Palermo era evacuata dalle truppe regie. Al vedere queste marciare per andarsi a riunire nei luoghi designati tutti erano sorpresi del risultamento di quella incomparabile spedizione. Noi non diremo il numero di quelle truppe, perché indicheremmo una cifra certamente erronea, ma il computo più moderato, e noi crediamo al di sotto del vero, ha ritenuto le truppe, che s'imbarcavano, a circa 14 mila uomini, ben muniti ed ottimamente armati. Si è detto sempre, che in Sicilia vi stessero oltre 23 mila uomini.

Varii fogli attribuirono al Generale Lanza un piano strategico, che il governo respinse. Lanza con un uffizio del 23 di maggio, esponendo la situazione di Palermo nel rapporto di una insurrezione cosi formidabile come quella, che vi era scoppiata, aveva proposto di evacuarla senza farle verun danno. Egli avrebbe imbarcato su i legni della squadra gli archivii del governo, il materiale di guerra, gli approrisionamenti della città, e si sarebbe ritirato sopra Messina. Il suo corpo di armata forte di 25 mila uomini avrebbe seguito il mare sino al capo Rosigelbi al di sopra di Cefalù, e si sarebbe situato tra Mistetta e S. Marco nelle montagne di Ciselba. Così mantenendo le sue comunicazioni con Catania, appoggiandosi sopra Messina, Melazzo, e Taormina, evitando i combattimenti in una grande città, sforzava gl'insorti ad affrontare un grosso corpo ben trincerato in campagna. e rendeva pressoché impossibile la liberazione di una parte cosi importante dell'Isola.

Siffatto progetto non fu approvato dai governo napoletano, perché credè, che Palermo avrebbe di molto influito sul resto della Sicilia, e che divenuta il centro del concorso di tutte le forze liberali europee, sarebbesi da essa diramato un governo forte, attivo, intraprendente, che avrebbe a poco a poco allargata la sua sfera di azione, ed obbligata la truppa o ad abbandonare le sue posizioni per cercare una battaglia, o a vivere in condizioni progressivamente difficili, gravitando semprepiù duramente sulle popolazioni, che dovevano alimentarla di tutto ciò, che il continente non poteva fornirle. Questo stato protratto a lungo avrebbe potuto determinare una mediazione delle potenze marittime per fare cessare in nome della civiltà e dell'umanità una posizione, che se poteva creare imbarazzi al nuovo governo, non poteva ristabilire senza un avvenimento straordinario la perduta autorità del discacciato governo nell'Isola. Noi ignoriamo se questi calcoli fossero giusti; certo è però, che a giudicare dagli avvenimenti, il partito prescelto fu il peggiore di tutti.

Dopo la capitolazione i cacciatori, ch'erano in Sicilia, presero stanza a Reggio, e vi formarono un campo trincierato. I reggimenti di linea, pervenuti in Napoli, si recarono a Caserta, Nocera, e Castellamare a rimpiazzare quelli, che ordinati in colonne mobili, si diressero per Auletta e per Salerno. Nell'Isola era rimasto al governo di Napoli solamente Messina, Milazzo, Augusta, e qualche piccolo punto sulla riva orientale. Erano passati appena 16 giorni dallo sbarco a Marsala, quando Palermo fu presa. Se a questi sedici giorni si aggiungono i tre dopo l'entrata di Garibaldi in Palermo, nei quali durò lo stato di guerra in Palermo, si avrà la vera misura del tempo, nel quale la temeraria spedizione di Garibaldi consegui il suo effetto. Nel 27 maggio 1860 lo stato maggiore del corpo di armata napoletana in Palermo componevasi così:

Tenente generale — D. Ferdinando Lanza.

Marescialli D. Giovanni Salzano — D. Ignazio

Cataldo — D. Pasquale Mazza.

Brigadieri — D. Carlo de'  Sury — D. Giovanni Carlo Alberto de'  Wintemback — D. Giambattista Fiorenza — D. Francesco Landi — D. Filippo Colonna — Marchese D. Giuseppe Letizia.

Colonnello — D. Camillo Bonopane.

Tenente Colonnello Francesco Polizzy.

Tralasciamo i capitani e gli uffiziali subalterni.


vai su


CAPITOLO XII

Influenza della presa di Palermo sul rimanente della Sicilia — Opinione pubblica in Europa. — Riordinamento interno,

SOMMARIO

La presa di Palermo accelerò la insurrezione — Il governo napoletano l'aveva presentito. Nota di Carafa — Ma i quindeci giorni interceduti tra questa e la capitolazione avevano modificato la politica del Gabinetto di Napoli — Esso si trovò isolato. Diserzioni nell'esercito — Manifesto di De Benedictis — Diserzione di Anguissola — Considerazioni morali — Diserzione di Pierantoni e Statella — Articolo del Giornale napoletano del 4 giugno 1860 su Catania — Fatti di quella Città movimento di Catania è riprovato da Garibaldi — Danni patiti da quella Città —

Vi s'ignoravano gli avvenimenti di Palermo — Quando furono noti lo spirito pubblico si esaltò. Il Corpo consolare interroga il generale Clary — D 4 di giugno Catania è lasciala dalle truppe borboniche ed aderisce a Garibaldi — Girgenti, Trapani, Isola della Favignana — Condizioni particolari di Messina — Taglia imposta da Clary ad AciReale — Siracusa è minacciata; opinione pubblica s'inasprisce — Fatto, che s'imputava a Rivera Dispaccio telegrafico, che si attribuiva a Severino — Le aspirazioni d'indipendenza si fortificavano — Impressioni in Europa. Articolo del Times Altro del Morning-Post — Articolo della Patrie — Considerazioni italiane — Corrispondenza del Nord — ll Constitutionnel ed il Débats. Altro articolo della Patrie — Induzioni, che se ne traevano Altro importante articolo del Thrieg — La stampa russa — La missione di Do Martino — Il Gabinetto di Torino non accettava la combinazione, che proponeva — Quella missione manca a Parigi ed a Londra — Il governo di Sicilia spedisce il Conte Amari a Torino — Lettera di questo alla Società nazionale — Adesione della Società — Soscrizioni per la causa italiana — Riordinamenti interni — Lettera di Garibaldi alla città di Nolo, Termini, Pantelleria, Mistretta — Lettera di Garibaldi al Municipio di Partitile° — Proclama dei Messinesi ai soldati napoletani — Simili di altre città — Che se ne pensasse nell'Italia superiore — Provvedimenti dittatoriali — Spedizione di Medici, Ordine del giorno — Sbarco di Modici in Sicilia ed arrivo a Palermo.

 In tutt'i rivolgimenti politici avvenuti nel regno delle Due Sicilié le due capitali al di, qua ed al di là del Faro hanno avuto sempre grandissima preponderanza nelle provincie. Per lo che la resa di Palermo ed il suo sgombramento dalle truppe regie fecero ritenere nel rimanente dell'Isola come compiuta la rivoluzione. Noi abbiamo già detto ciò, che in essa tuttavia rimaneva al governo di Napoli.

Questo l'aveva presentito sin dal momento, che gli fu nota la spedizione di Garibaldi. La nota del signor Carafa improntala di termini e frasi, che molto si di scostano dallo stile ordinario di tali documenti, prova quanto il governo napoletano fosse commosso dal pericolo, che lo minacciava. La nota è la seguente:

«Napoli 12 maggio 1860.»

«Un fatto della più selvaggia pirateria si è consumato da un'orda di briganti pubblicamente arrollati, organizzati, ed armati in uno Stato non nemico, sotto gli occhi di quel governo, e malgrado le promesse ricevutesi dal medesimo di volerlo impedire.

«Prevenuto il Real Governo dei preparativi, che facevansi con la più sfrontata impudenza in Genova, in Torino, infilano, in Livorno, ed in Siena, di una spedizione destinata contro i Regii Stati, non tardò a richiamare su tale attentato al dritto delle genti ed agli obblighi internazionali l'attenzione del governo piemontese, le di cui risposte evasive in prima e poi di promesse d'impedire la spedizione avevano dovuto autorizzare il regio governo a non dubitare della ve riti delle assicurazioni di assertive. che venivano a confermare la natura dei rapporti di buon'amicizia e di reciproca non ingerenza, che non abbiamo cessato di avere l'intenzione di conservare. lla nonpertanto il governo del Re proseguito ad invigilare le macchinazioni dei faziosi, che si riunivano in Genova ed in Livorno nel fine ben noto, e ne ha seguito gli andamenti, l'istoria dei quali è compendiata nella qui acchiusa memoria.

«Nella lusinga intanto di vedere, che sarebbe impedita la partenza di quei pirati dopo seguitone lo imbarco in Genova ed in Livorno su tre legni di commercio, dei quali due piemontesi ed uno inglese, i primi di detti legni partiti da Livorno si sono diretti pel porto di Marsala. Dove giunti ieri senz'alcuna bandiera, si accingevano ad effettuare lo sbarco delle bande, che avevano a bordo, allorché i due legni della prossima crociera aprirono contro gli aggressori il fuoco delle artiglierie. Dovette però il fuoco essere sospeso per dare il tempo a due vapori inglesi, colà giunti poche ore prima, di prendere a bordo i loro uffiziali, che si trovavano in terra, e che imbarcati, gli stessi vapori ripresero il largo, ed allora soltanto potè il fuoco ricominciare su quei pirati, senza però poterne più impedire lo sbarco in Marsala, città della provincia di Trapani.

«Con questo cenno dello scandaloso attentato, di cui la brevità del tempo non permette di prevedere i risultamenti nella parte insulare dei Regii Stati, dove l'insurrezione veniva appena di essere repressa, il sottoscritto incaricato del portafoglio del Ministero degli Affari Esteri ha l'onore di far conoscere.. la storia degli avvenimenti, perché voglia informarne il suo governo, e perché qualunque possano essere le conseguenze di un allentato consumato contro ogni dritto, violando le leggi internazionali e pel quale l'Italia può trovarsi gittata nella più sanguinosa anarchia, compromettendo, pure l'Europa tutta, la responsabilità non debba ricadere, che sugli autori, fautori e complici della barbara invasione commessa.

«Il sottoscritto le ripete intanto le assicurazioni della sua distinta considerazione.

Firmato — CARAFA

I quindeci giorni interceduti tra questa nota e la capitolazione di Palermo avevano modificato di molto il concetto del governo di Napoli. Esso aveva dovuto accorgersi, che l'insurrezione non era stata né punto né poco repressa, e che l'ordine politico in Sicilia si disfaceva per le cause morali, che lo avevano minato, e non già per l'attacco di una forza materiale, contro della quale il Re delle due Sicilie poteva opporne altra, che presentava tutt'i vantaggi dalla sua parte. Queste medesime cause esistevano sul continente, e riuscivano tanto più pericolose, quantoché le forze del governo si trovavano peggiorate nel numero, nella morale, e nella disciplina. Il governo non s'illudeva sulla deficienza dei mezzi proprii ad allontanare il pericolo, che lo incalzava. Secondo il Nord il 29 di maggio il signor Carafa riunì i plenipotenziarii esteri residenti in Napoli, ai quali espose lo stato delle cose, domandando, che i Consoli esteri in Palermo s'interponessero fra gl'insorti e le truppe reali. —

«Questa domanda, osservava quel foglio, fatta in questi termini, non poteva avere alcun risultato, e la radunanza si sciolse seni avere adottato decisione alcuna. Le potenze, che si erano decise di astenersi da qualunque intervento isolato, non potevano derogare a questo principio, che a rischio di determinare una conflagrazione, ben più temibile del conflitto localizzato nel mezzogiorno dell'Europa.»

— Una intervenzione secondo quel foglio non poteva essere, che una intervenzione diplomatica e di accordo fra tutte le potenze, non eccettuatane alcuna. Ora essendo nelle attuali circostanze difficilissimo un tale accordo, n'emergeva chiarissimo l'interesse europeo di lasciare circoscritta nei limiti del regno la lotta tra il governo napoletano ed i Siciliani..»

«Il Gabinetti, terminava quel foglio cosi serio e cosi accreditato, al cospetto delle profonde dissidenze, che li dividono in rapporto alla maggior parte delle grandi quistioni del giorno, hanno il dovere di evitare qualunque nuovo conflitto e di mantenere la pace generale, osservando un'attitudine neutra negli avvenimenti, che succedo no nel mezzogiorno della penisola.»

Ma questo isolamento era fatale per la Dinastia, che regnava in Napoli, tutti gli elementi d'ordine, rovesciati da un'amministrazione, che sembrava vivere a danno della morale pubblica, tutte le intelligenze, anche quelle, che per qualche rara eccezione erano rimaste al suo servizio, si levavano contra di lei, e l'attaccavano tanto più vigorosamente, quantoché nell'energia dell'attacco stava la giustificazione dell'abbandono del governo, cui sino allora avevano servito.

Questo fu manifesto nell'esercito, ove le diserzioni erano eseguite da uomini considerevoli ed i più innanzi pel merito e per la istruzione nell'opinione del l'armata. Essi naturalmente giustificavano la loro determinazione col dipingere i vizii del governo, dal quale si saparavano. Il Capitano De Benedictis faceva inserire nel Giornale uffiziale siciliano la seguente dichiarazione:

«Nel porre il piede sul suolo dell'eroica e libera città di Palerino io rigetto lontano da me la ignominiosa taccia di disertore, che taluno potrebbe darmi, Disertore il soldato italiano, che passa nelle file del Lamoricière o nel campo di altra nazione, come l'Austriaco, non quello, che abborrendo dalla più infame guerra fratricida, corre ad offrire la sua spada per la causa nazionale e ad entrare nella italiana famiglia, di cui è capo supremo Vittorio Emmanuele. Forse era più bello e più legale, se avessi chiesto da prima la mia dimissione dalle truppe borboniche, ma in un paese come Napoli, ove il governo ha bandito da sé ogni legalità, sovente i cittadini debbono fare altrettanto per laloro sicurezza e per trovarsi ad armi uguali. Chiesta la dimissione, io non so quali pericoli mi potevano sovrastare.

«La più infausta tirannia ha posto le povere truppe di Napoli nella durissima necessità o di abbandonare le file o di rivolgere le armi non contro i faziosi e i cattivi, ma contro il dritto delle genti, e sventuratamente abbiamo dato lo scandalo in Europa del più abbominevole fratricidio. Difatti non'è egli vergognoso, che mentre da tutte le nazioni incivilite piovono soccorsi di ogni maniera in Sicilia, la sola truppa napoletana debbasi ostinare a combattere le grandi aspirazioni di questo popolo generoso? Ma i cittadini onorati non mancano nelle file borboniche, e tempo verrà, in cui dalle rovine di quel depravato governo i figli del Vesuvio rinasceranno sotto le mura di Mantova e di Venezia a novella vita militare. Voglia la civile Europa, e l'Italia soprattutto, perdonare a soldati vit. time della loro cieca obbedienza e di una ignoranza procurata loro dal governo con la più malvagia e la più operosa ostinazione.

«Non v'ha esercito senza disciplina e obbedienza; e presso ogni onesto governo i doveri di soldato e quelli di cittadino armonizzano mirabilmente insieme. Ma quando il dispotismo apre un abisso tra questi duo doveri, il soldato deve dimenticare di essere tale, e dee portare senza macchia il suo ferro sull'altare della Patria. Or l'anormale governo di Napoli, propugnando a tutta possa l'ignoranza, e abusando sacrilegamente della disciplina delle sue milizie, ha posto i soldati in una terribile contradizione, e li ha scagliati contro i loro fratelli per favorire il regio egoismo. Ma in verità se l'obbedienza dev'essere cieca nei soldati, non dovria essere ciechissima nei capi a segno da fare divenire tutto un esercito istromento dell'assolutismo e dello stolto capriccio di un sol uomo. I capi debbono saper essere soldati e cittadini e pensatori alla tremenda responsabilità, che pesa su di essi. L'obbedienza sia pure interissima, qual dev'essere, nei soldati; ma gli uffiziali generali sappiano, che altro è il dovere delle truppe mercenarie e dei giannizzeri, altro il dovere delle truppe nazionali, cui la Patria ha data la vita, e che la Patria sostenta. Salvate dunque l'onore militare, serbando intatta la disciplina, come han fatto i Toscani, ma non uccidete voi stessi nei vostri fratelli. ché ogni nazione, avendo il dritto di eleggersi il proprio governo, gli eserciti permanenti, che sono il braccio di quella, e che assorbono tanta parte del suo erario, divengono traditori della patria, e macchiano il loro onore, se con cieca ostinazione vogliono separare s è stessi dai destini della loro nazione. E queste cose io dico a quei pochi generali borbonici, che sono degni di tale nome. Che se egli no grideranno alla diserzione, esclamerò: i disertori siete voi!».

Ma una defezione, che fece molto più rumore, fu quella del Signor Anguissola comandante il vapore napoletano, il Veloce. Questo legno trovavasi il 9 di giugno nelle acque di Messina, quando quattro uffiziali, tra i quali il Comandante, formarono il progetto di condursi a Palermo per darsi a Garibaldi. Si dice, che tale progetto fosse stato comunicato all'equipaggio, e che questo lo avesse unanimemente approvato. In ogni modo la sera il legno si mise in cammino, ed alle 9 del 10 giugno era a Palermo. Il Comandante si recò a bordo del Franklin, ove, avvertito, si rese pure il generale Garibaldi; dopoché questi ebbe accolto affettuosamente il Comandante, si recarono entrambi a bordo del Veloce, ed il Generale aringò l'equipaggio, lodandolo della determinazione presa, ma soggiungendo, che se qualcuno di essi intendesse di ritornare in Napoli, era libero di farlo, ed egli gliene avrebbe dato i mezzi. Parecchi profittarono di questo permesso.

Si è disputato, e si disputa tuttavia, anche da coloro che hanno aderito alla causa nazionale, sulla moralità della defezione del signor Anguissola. Si osservava, ch'egli aveva la facoltà di abbandonare il servigio del Re di Napoli ed abbracciare il partito nazionale, ma che non poteva disporre di un deposito, che gli era stato affidato, Questa obiezione, bisogna pur convenirne, è gravissima, imperciocché niuno può disporre di quello, che non gli appartiene, e molto meno di un deposito, che gli è stato affidato; l'obbligazione di restituirlo è assoluta, e trova il suo fondamento nella legge non meno che nella morale.

Ma vi è nella specie una circostanza particolare, che dà alla quistione un aspetto proprio. Il Veloce è quel medesimo legno, che col nome l'Indipendenza apparteneva nel 1849 al governo Siciliano, e che nell'aprile di quell'anno fu sequestrato a Marsiglia sulle istanze del governo di Napoli. Se il solo fatto di essere ridivenuto il Re di Napoli il Sovrano della Sicilia gli aveva potuto attribuire l'opportunità di reclamare quel legno, questo semplice fatto non gliene aveva trasferita la proprietà relativamente ai Siciliani, i quali cedevano alla forza maggiore, e conservavano il dritto di rivendicare la cosa loro, quando lo avessero potuto; per lo che il legno non apparteneva al governo delle Due Sicilie, ma al governo insurrezionale della Sicilia. ed Anguissola non aveva propriamente abusato del deposito, ma l'aveva restituito al vero proprietario. Nelle materie ordinarie del dritto civile il depositatici in questo caso è obbligato a mettere il deposito a disposizione del Magistrato, che, verificato il dritto di proprietà, lo fa consegnare al vero proprietario. Nelle materie del dritto delle genti non vi sono Magistrati.

Ed Adelchi Pierantoni uffiziale di Artiglieria, ed E. Statella, uffiziale dell'undecimo di linea, pubblicavano anch'essi nel passare nelle file italiane i motivi di questa loro determinazione: — «Crescendo pertanto, diceva il primo, alla scuola dei disinganni e delle sventure, io non apostatai, ma fortificai la fede della infanzia. Indossai nel 1856 la divisa di uffiziale di Artiglieria napoletana, non rinnegai l'Italia come patria, non l'onore di famiglia, non quei generosi sentimenti, che sempre mi vennero ricordando i miei fratelli, i miei parenti, quei sentimenti, che trovarono l'era del trionfo ne campi di Magenta e di Solferino. Restai fermo al mio posto sin quando il guanto di una guerra fratricida non fu lanciato all'Italia nelle funeste giornate di Carini e Calatafimi, fin quando il grido del dovere non fu vinto da quello dell'onore. Allora decretai sottrarmi ad una vita, ch'era l'agonomia della mente, perché ad ogn'istante un comando di sangue poteva rendermi infame ed infiggere sulla mia fronte il marchio di un'eterna riprovazione».

E l'altro: — «Compagni! Nel dividermi da voi io compio il più gran sacrifizio impostomi dalla coscienza, dall'onore, e dai miei principii, i quali pria di essere soldato m'impararono, che aveva una patria, e questa sopratutto sin dalla più tenera età formò l'oggetto delle mie più calde passioni, e fece mai sempre palpitare il mio cuore. Ed infatti io scelsi la nobile e brillante carriera delle armi appunto, perché in essa credea confidata la difesa della patria e la custodia dell'onore nazionale; ora che la sventura di una guerra fratricida c'impone invece la sua distruzione e la conculca di tutti i dritti cittadini, mi veggo costretto a spogliarmi delle mie onorate spalline piuttosto, anziché mettere l'opera mia per un ago sì atroce ed infame.»

Sembrava in frattanto, che il governo napoletano fosse da una fatalità condannato a dare le notizie dei vantaggi riportati precisamente in quel giorno, in cui erano spariti. Il giorno 4 di giugno un dispaccio di quel governo annunziava: «Venerdì 4000 insorti con cannoni hanno attaccato Catania. I ribelli sono stati valorosamente respinti dopo otto ore di combattimento colla perdita di tre cannoni e due bandiere.»

«Catania fu posta in istato d'assedio.»

Ora precisamente in quel giorno 4 di giugno Catania era stata sgombrata dalle truppe regie, ed aveva fatta la sua adesione. Il fatto riferito dal dispaccio telegrafico è il seguente.

In Catania l'idea dell'unità d'Italia sotto lo scettro di Vittorio Emularmele, nata sin dallo scoppiare della guerra del 1859, si era mantenuta sempre forte e co stante. Dopo il combattimento di Calatafimi essa era divenuta naturalmente più rigogliosa. L'Italia centrale aveva dato un esempio, che inspirava una energica volontà d'imitarlo; l'insurrezione iniziata in Palermo era ritenuta come un principio d'esecuzione, la spe dizione di Garibaldi era accettata come mezzo efficace a conseguire il bramato scopo, ed il combattimento di Calatafimi era risguardato come un saggio della grandissima superiorità degl'Italiani e Siciliani su i Borbonici. Quindi vi erano state reiterate dimostrazioni, ma non altro, perché molta truppa occupava la città. Vi erano 2000 uomini di fanteria, cavalleria, ed artiglieria sotto il comando del generale Clary, che erano prevenuti, e si mantenevano sulle difese.

Il partito liberale arruolava ed armava alla meglio la gente, che poteva, e la centralizzava in Mascalucia 5 miglia distante dalla città. Inoltre due centri d'insurrezione eransi formati in Caltagirone al sud ed in Nicosia al nord dell'Etna. Da qui il 31 di maggio mossero ad attaccare Catania.

Codesto movimento fu riprovato da Garibaldi; ogni movimento isolato poteva riuscire funesto, e si aggiunge, che gl'insorti eran pochi e male. armati relativamente alla truppa regia. E difatti benché sostenessero ben otto ore di fuoco, pure cominciando a mancare le munizioni, ebbero a ritirarsi, anche perché si trovavano minacciati da un'altra colonna di 2000 uomini, che si avanzava dall'interno dell'Isola. Il dispaccio telegrafico dice, che perdettero tre cannoni e due bandiere; una corrispondenza di Catania afferma, che lasciarono non più di 6 morti e pochissimi feriti, e che invece delle truppe regie ne rimasero fuori combattimento circa 300. Forse vi è esagerazione da entrambe le parti.

Allora Catania ebbe a soffrire gli orrori di una soldatesca sfrenata ed abituata al saccheggio. Dissero, saccheggiare e bruciare le case, dalle quali si era tirai», ma è agevole di scorgere, che le fiamme, il saccheggio, gli oggetti tolti, la sete della rapina e della vendetta erano tali eccitamenti, che sarebbero riusciti potentissimi a sedurre una truppa anche meno indisciplinata e rapace, che non si era mostrata la napoletana. Perciò Catania soffrì danni gravissimi, ed i soldati fecero molto bottino; questo stato di violenza e di furto durò tutto il giorno 31 di maggio e buona parte del I di giugno, né fu prima del 2 di detto mese, che comparve un'ordinanza del generale Clary, che vietava il saccheggio e le devestazioni, minacciando le pene comminate dallo statuto penale militare. Dall'altra parte Catania era messa in istato d'assedio, ordinato il disarmo, ed erano organizzate le commessioni militari.

Ignoravansi allora in Catania gli avvenimenti di Palermo. Il 3 di giugno si vedevano nel porto due legni da guerra napoletani, uno dei quali ritornava da Messina, ove aveva trasportato da Catania 421 feriti e parte di truppa; arrivava pure una fregata inglese da Messina, t recava le notizie di Palermo e l'entrata di Garibaldi in quella città.

Era naturalissimo, che a tali nuove lo spirito pubblico si esaltasse, e che di altrettanto si deprimesse il coraggio del soldato; erano ancora fumanti le case, ed ancor freschi i segni delle rapine e delle devastazioni. Già molto materiale era stato imbarcato, e noleggiavansi altri legni, il che era argomento di una vicina partenza. In vista di questa prossima eventualità il corpo consolare si condusse dal generale Clary per richiederlo delle sue istruzioni, dapoiché essendo seguito il disarmo, che come per l'ordinario aveva colpito gli onesti cittadini, partendo la truppa, bisognava provvedere alla tranquillità della città.

In sulle prime il generale cercò di nascondere le sue intenzioni, ma stretto da incalzanti interpellanze, diè a divedere essere preparato ad evacuare la città. Allora fu pregato di restituire una parte almeno dei fucili presi, onde armarne, la gente proba, e promise di restituirne 80, ma partì la mattina del. 4 senza mantenere la sua promessa. Catania rimase abbandonata a sé stessa, ma la tranquillità e l'ordine vi furono mantenuti, avendo nel momento preso le redini del governo un governatore nominato da Garibaldi.

Sin dal I di giugno questo generale si era messo in corrispondenza con tuW i comitati della Sicilia, che ne avevano riconosciuto l'autorità. Egli esortava tutti i cittadini della costa meridionale a concentrare i volontarii nel campo già formato dagl'insorti fra Milazzo e Castroreale su i monti di Barcellona. Girgenti era sgombra dalle truppe regie e Trapani ugualmente. Gli abitanti dell'isola vicina di Favignana liberarono i detenuti politici, fra i quali il Nicotera, che aveva formato parte della sconsigliatissima spedizione di Pisacane. Cosi tutte le città della Sicilia ad eccezione delle poche già accennate l'una dopo l'altra si redimevano.

Quanto a Messina, le sue Condizioni particolari la facevano rimanere in uno stato anche particolare. Vi regnava sempre la stessa calma fittizia e la medesima tristezza di una città abbandonata dai suoi abitanti. Gl'interessi commerciali refrenavano gl'impeti delle passioni politiche, le quali non erano per questo meno vive. — «Qui, si scriveva il dì 10 giugno da Messina, qui lo spirito pubblico è sempre vivo per la causa nazionale, e se Messina non sembra disposta ad insorgere, come han fatto le altre città sorelle dell'Isola, si è per la sua critica posizione, essendo dominata dalla terribile cittadella e dai forti soprastanti, che in un'ora di fuoco la ridurrebbero un mucchio di rovine. Però ciò, che non si è potuto fare con le armi, non si è mancato di praticarlo colla parola essendo ancora riusciti di fare passare nelle file del nostro esercito nascente molti soldati, bassi uffiziali, ed uffiziali.

Il console svizzero di Messina ad imitazione dal suo collega di Palermo dirigeva il 4 di giugno al consiglio federale il seguente rapporto:

«Sino al 4 giugno non avvennero molte variazioni. L'autorità regia esiste di nome, ma non più di fatto. L'emigrazione tutto trascina, impiegali, giudici, ecc. Questo stato non può durare a lungo. Il comandante militare cercò di guadagnarsi la popolazione, almeno in parte, nello scopo della difesa. Si parlò dell'instituzione di una guardia civica, ma non si potè addivenire ad un accordo, e dopo l'arrivo del vapore da Palermo con notizie sino al i giugno il comandante lasciò cadere le sue proposizioni. Tutti fuggirono alla campagna per timore di un bombardamento; il timore panico è universale. Gli avvenimenti di Palermo o di Catania e le minacce degli 11 aprile giustificano questo spavento, e sembra, che il governo consideri come legali questi mezzi verso i suoi sudditi.

Giungeva intanto il giorno 7 a Messina una colonna di 6000 uomini sotto gli ordini di Clary, composta in parte delle truppe di Catania ed in parte della guarnigione di Girgenti. Delle lettere pervenute da AciReale dieci miglia distante da Catania narravano, che la colonna di Clary avendo fallo alto in quella città aveva imposta una taglia di 8000 onze pagabili sul tamburo pel solo pretesto di averla trovata in istato d'insurrezione. Era impossibile riunire siffatta somma in cosi poco tempo, e non si ebbe poco a pregare, onde ottenere, che si contentasse di onze 2000. Osserva il corrispondente, che il generale Clary aveva bene studiato il generale Giulay.

Anche in Siracusa si temeva per le minacce della truppe il saccheggio ed anche un bombardamento; si che la popolazione si spaventava, e si ritirava nelle campagne. L'opinione pubblica per conseguenza si concitava sempre dippiù contro del governo, e le notizie dei fatti più atroci, che si spargevano nel pubblico, erano più generalmente accolte. Si diceva, per esempio, che persona pervenuta dall'interno denso la, assicurava, che la colonna mobile del generale Man de'  Rivera, ritirandosi da Girgenti, aveva toccato Canicattì. Nel lasciare questo Comune, proseguendo la sua marcia, molta gente uscita dallo proprie abitazioni, seguiva la colonna, allettata da suoni delle bande militari, che erano una novità per quel paesetto, Dicevasi, che il generale scorgendo in quella pacifica ed inerme popolazione una turba di sediziosi, avesse, ordinato il fuoco alla compagnia di retroguardia, e che 32 di quegl'infelici fossero rimasti uccisi oltre un considerevole numero di feriti. Non avendo, questo fatto, che sarebbe oltre ogni dire atroce, altra pruova, tranne quella di una semplice corrispondenza da Messina, non intendiamo punto di darlo come vero, e lo riferiamo a solo titolo di misura della irritazione pubblica. Quella medesima corrispondenza, assi, curava, che il 29 di maggio il maresciallo Busso, riceveva dal colonnello Severino il seguente dispaccio:

«Sapendosi a Messina la caduta di Palermo, chiedersi la città con forza sufficiente ed impedire l'entrata e sortita di tutti indistintamente. Il rimanente della truppa ritirarsi in cittadella ed, in qualunque evento bombardare Messina e non lasciare che pietra sopra pietra. Spaventare il popolo con fucilate, se si muove, ed ai rivoltosi tirare su essi. La flotta di Palermo passerà a Messina.

«Il dispaccio può non essere vero, ma quanto accadde in Palermo lo rende probabile. In ogni modo era creduto, vero, e l'irritazione contro, il governo di; Napoli cresceva, e le antiche aspirazioni d'indipendenza divenivano più gagliarde.

L'impressione, che fece in Europa la presa di Palermo fu uguale all'importanza del fatto, ed alle conseguenze, che se ne prevedevano. In Inghilterra specialmente si attendeva da un pezzo quello, che accadde. Sin dal 25 di maggio il Times scriveva:

«Se si confermano le notizie di Sicilia, essa è perduta pei Borboni. Garibaldi ebbe evidentemente per iscopo d'impossessarsi della più lontana delle, due grandi posizioni militari dell'isola. Nel momento presento Palermo dee essere in suo potere, o almeno egli dee essere padrone del sito, ove può mantenersi senza essere incomodato dal mare. I suoi amici non dicono, che sia ancora successa in suo favore qualche defezione dell'armata napoletana, ma né Palermo, né Messina sono fortificate per modo da difendersi contro un nemico, che viene dall'interno. Se il Re ha perduto Palermo, ne seguirà necessariamente la perdita di Messina, e non havvi molta apparenza, che il Re regnante li riconquisti.

«Qui regna un vero sentimento di gioia. A misura, che le notizie passano di bocca in bocca anche fra i membri più conservatori dell'assemblea o società inglesi, tutti i visi splendono di gioia. Nessuno prende cura di chiedere a che può terminare questo movimento. Ognuno gode al cospetto del semplice fatto, che una. detestabile tirannia crolla e va in polvere. Nel tempo, in cui viviamo, allora quando una nazione deve agire come un uomo forte. e potentemente armato, allora quando nessuno sa ciò, che opererà il giorno dopo, bisogna giudicare i fatti a misura, che si presentano. Fin là il rovescio della tirannia di questo Re di Napoli è in se stesso un bene.»

E tali erano le simpatie di quel foglio conservatore ma popolarissimo in Inghilterra, ch'esse non venivano meno neppure innanzi alle previsioni di una guerra: — «Che ne verrà? proseguiva il Times. Si è quello, che non sapremo dire. È probabile, che noi vedremo forse bentosto le aquile francesi girare e precipitarsi su questa parte del mondo. Quante nuove difficoltà e nuove combinazioni non sorgeranno forse da questo gran trionfo per gl'interessi dell'umanità!

Ciò è possibilissimo. Può darsi che Garibaldi stia ora mescolando gli elementi di quella immensa guerra europea, che lord Granville stesso nella seduta di ieri sera ha fatto travedere da lontano: ma quando Garibaldi combatte contro un dispotismo come quello del Re di Napoli, noi non possiamo rifiutargli le nostre simpatie, non possiamo che rallegrarci del suo successo.»

Ed era il Times, che scriveva in tal modo!

Il Morning-Post, giornale ministeriale, si mostrava più moderato, ma non meno impegnato per le franchigie degl'Italiani, Dopo di avere rammentato gli inutili consigli dati al governo napoletano dalla Francia e dall'Inghilterra, ed espressa la sua sorpresa, che il Re Francesco II abbia pensato di domandare a queste due potenze d'intervenire a suo favore, il giornale inglese continuava così:

«La nazione approverà la decisione adottata dal governo di perseverare nella politica di non intervento, e si conoscerà con soddisfazione, che la Francia seguirà la medesima condotta. L'Austria non potrebbe intervenire, quando anche lo volesse. La rivoluzione è incominciata e deve compiersi.

«In luogo di cercare di ricuperare le sue perdute possessioni il Re Francesco 2° farebbe meglio d'accordare delle riforme ai sudditi, che gli rimangono; forse non è troppo tardi per salvare le sue ultime provincie. Tuttoché meriti le disgrazie che lo sopraffanno, forse la sua caduta cagionerebbe molte complicazioni. L'Inghilterra non domanda punto, che sia detronizzato, ma vuole la libertà del popolo napoletano poco le importa quale sia il sovrano, che regga l'Italia meridionale. Tuttavolta non è lo stesso per la Sicilia. Vittorio Emmanuele avrà egli quest'isola? Le potenze gli permetteranno di prenderne possesso? Il. Re di Sardegna farà in questo caso la guerra a Francesco II? Quali sarebbero i risultati idi questa guerra in quante concerne gli Abruzzi e gli Stati della Chiesa?

«Tali sono le quistioni, che i prossimi avvenimenti scioglieranno. Più noi riguardiamo attorno a noi, più noi crediamo, che il bene dell'Italia richiede, ch'essa sia abbandonata a sè stessa. L'intervento di una potenza qualunque richiederebbe, che altri Stati agissero ugualmente, e quindi ne conseguirebbero nuove complicazioni e nuovi pericoli. Che Francesco II regoli come potrà i suoi affari con i proprii sudditi, ma che non insulti le nazioni libere dell'Europa, invocando il loro aiuto per proteggere la sua tirannia. Noi, che non abbiamo voluto prendere il partito del suo popolo contro di lui, non prenderemo certo il suo partito contro il suo popolo.»

Il giorno prima lo stesso giornale aveva fatto lo specchio delle relazioni commerciali dell'Inghilterra con le Due Sicilie, e ne aveva inferito, che il commercio del rimanente dell'Europa uguagliava appena quello dell'Inghilterra. Dal che ricavava non potere gl'interessi inglesi tollerare, che le relazioni commerciali dell'Inghilterra con quelle popolazioni rimanessero incagliate dagli sforzi di quelle medesime popolazioni per liberarsi dal cattivo governo del loro sovrano, e terminava dicendo, che se lord Palmerston potesse assicurare all'Italia un buon governo e la libertà, egli coronerebbe degnamente la sua carriera.

La Patrie insorse contro quest'ultima proposizione, ed osservò al periodico inglese, altri essersi occupati di dare all'Italia la libertà e dei buoni governi, e che Palmerston poteva benissimo seguire i consigli del Post, ma che non avrebbe giammai persuaso all'Europa ed alla Storia, ch'egli si trovava a Magenta, e che ha guadagnato la battaglia di Solferino.

Questa disputa d'interesse per la prosperità e la libertà della Italia riusciva graditissima agl'Italiani e determinava la loro riconoscenza per entrambi i contendenti, ma se essi accettavano. con trasporto di gratitudine gli aiuti per ricuperare la libertà:e la indipendenza, che una politica di reazione prevaluta in Europa aveva loro tolto, intendevano però riserbare. a sé stessi la. facoltà di stabilire secondo le proprie aspirazioni ed i premili bisogni. dei buoni o un buon governo; ed è da dire immediatamente, che questa facoltà è stata da loro pienamente esercitata.

Tale risultamento è dovuto all'interesse appunto, che le due potenze occidentali mettevano nel riorganizzamento dell'Italia; niuna delle due voleva in ciò essere da meno dell'altra; la Francia, è vero, aveva sparso il suo sangue e speso il suo denaro pel riscatto italiano, ma il suo programma era rimasto incompleto a Villafranca, e l'Inghilterra aveva accortamente ripresa l'opera a quel punto. Da qui l'accordo, onde niuna delle due prevalesse. Difatti il 16 di giugno scrivevasi al Nord da Parigi:

«Malgrado l'interruzione, che ha luogo nel movimento insurrezionale della Sicilia, il trionfo della causa italiana non solo in quell'isola, ma ancora nelle altre provincie del Regno delle Due Sicilie è assicurato. A questo riguardo tutte le informazioni, che mi giungono da Napoli, forniscono dei particolari di tal natura da dare speranza ai patriotti italiani.

«Certi giornali non cessano di porre in campo delle combinazioni per una Sicilia eretta in Stato indipendente. Nulla vi ha di fondato in queste asserzioni. Il completo scacco della missione di Martino prova una volta di più l'accordo, ch'esiste tra la Francia, l'Inghilterra, ed il Piemonte per lasciare alle popolazioni siciliane ogni libertà di decidere esse stesse della loro sorte, come l'hanno fatto quelle della Toscana, delle Romagne, di Parma, di Modena.

«Essendo facile il prevedere, che la caduta della dinastia del Borbone a Napoli deve in modo singolare fare avanzare l'opera dell'unità italiana, questa eventualità sarà forse trattata dall'Imperatore dei Francesi negli abboccamenti coi sovrani alemanni. Il mantenimento della pace in Europa, come i veri interessi dell'Alemagna, esigono evidentemente, che la quistione italiana sia al più presto risoluta.

ll Constitutionnel e il Débats, due giornali importantissimi nella stampa francese, pubblicavano sullo stesso proposito considerazioni ben altro che rassicuranti pel governo napoletano.

«Bisogna, diceva il primo, una causa Serie, qualunque essa si sia, per così gravi accidenti (gli avvenimenti della Sicilia). Nelle circostanze attuali non possiamo più compiacerci di una politica tutta sentimentale, perciocché il nostro secolo, ed è pur d'uopo comprenderlo una volta, non si contenta più di belle parole; ma vuole dei fatti.

«Ora quali sono stati gli atti del governo napoletano dà più di 45 anni? Vi sarebbe adesso una specie di crudeltà a ricordarli gli uni dopo gli altri. D'altronde si conoscono pur troppo, e si sa per effetto di quali colpe accumulale le grandi potenze riunite in congresso si preoccupavano sin dal 1856 dell'anormale posizione del regno delle Due Sicilie. V'ebbero allora, egli è vero, dei diplomatici, che credettero di non doversi associare all'esposizione motivata della Francia, dell'Inghilterra, e della Sardegna, ma neppur uno di essi si elevò, e con ragione, contrada giustizia e la legittimità dei loro unanimi timori.

«Ed è per questo, che adesso non v'ha un Gabinetto, che abbia sentito il coraggio d'intervenire tra il Re di Napoli ed i suoi sudditi. La Francia e l’Inghilterra per rispetto delle loro propria dignità si serio chiuse nella più completa astenzione; la Russia e fa Prussia si ricusano, e l'Austria stessa si tace. Se tal è in Europa la situazione diplomatica del governo napoletano, qual è in Sicilia la sua situazione Militare? Si è di già paragonala a quella, che le crearono gli avvenimenti del 1848, ma in quell'epoca, come ben si ricorda, l'insurrezione di Palermo diede al movimento separatista l'isola intiera, tranne Messina. E vero, che adesso, oltre Messina, sono rimaste in potere delle truppe reali Siracusa, Milazzo, Licata, ed Augu sta, però è facile di prevedere, che queste quattro ultime città non saranno, per cosi dire, che delle tappe di ritirala, e dovranno essere prossimamente evacuate. Resterà dunque Messina, che ad alta voce si dice essere la porta della Sicilia.

«E per vero da Messina dodici anni or sono l'armata napoletana potè rientrare nell'isola e ristabilire la dominazione di Ferdinando II.

«Avrà Francesco II la stessa fortuna del suo predecessore? L'esempio del passato può certamente incoraggiarlo a non disperare dell'avvenire. Ma se tale reminiscenza sostiene il Re di Napoli nei suoi giorni di pruova, bisogna aspettarsi, che la stessa reminiscenza serva pure di lezione ai suoi avversarii in mezzo dei loro trionfi. Già si vede, che il Generale Garibaldi non ha obliato gli errori dei parlamentarli siciliani nel 1848, e la sua prima cura nell'assumere la dittatura è stata evidentemente di tagliar corto alle oziose discussioni ed agl'interminabili dibattimenti, che per due volte hanno compromesso in Sicilia la causa dell'indipendenza.

«È forse quest'attitudine energica del celebre Generale organizzante un governo di circostanza con la stessa risoluzione, con la quale prima organizzava una armata di ventura, ovvero è soltanto lo scoraggiamento troppo visibile del Gabinetto di Napoli quello, che fa credere nel 1860 uno scioglimento diverso da quello del 1848? No l sappiamo, ma la verità si è, che l'opinione generale, anticipando gli avvenimenti, si preoccupa già di sapere quale sarà la diffinitiva organizzazione della Sicilia. Le soluzioni giungono da ogni parte, e se ne sono prodotte sino a tre nel medesimo giorno.

«Si comprenderà, che noi non abbiamo da discutere sopra dati così vaghi e così speculativi, e nel finire vogliamo aggiungere una sola parola sull'effetto prodotto a Parigi due giorni or sono dal dispaccio, che annunziava, avere l'ammiraglio inglese ricevuto in deposito il castello di Castellamare. Noi abbiamo detto immediatamente quello, che pensavamo di questa occupazione parziale e momentanea. Eravi in essa sicuramente, come hanno gridato taluni patriotti del l'ultima ora, di che ferire in Francia le suscettibilità dell'onore nazionale, ma lo sbarco delle truppe inglesi in simile caso non sarebbe stato e non poteva essere, che una misura reclamata da una circostanza imperiosa, e che doveva cessare con essa.

«Nulladimeno abbiamo ricevuto con piacere, né lo dissimuliamo, il secondo dispaccio, che smentisce cosi formalmente i fatti contenuti nel primo. Una occupa zione militare, per quanto sia giustificata e ristretta, è appena un espediente, è sempre un imbarazzo, e dei più gravi, per la potenza, che occupa, e pel paese occupato. D'altronde si sa come comincia, e s'ignora come e quando finisce».

Ed il Débats:

«Eravi un profondo istinto nell'irresistibile movimento, che ha gettato Garibaldi in Sicilia. Nella previsione di uno sforzo futuro Napoli era un pericolo; era il nemico, era l'Austria alle spalle. Era necessario di assicurarsi la sicurezza da questo lato, di avere la certezza, che mentre si farebbe faccia al Nord, non si avesse sul dorso un altro nemico. In una parola è ne cessarlo, che Napoli sia italiana.

«Tal è la quistione, che, secondo noi, domina tutte le altre, ed essa non ci sembra cosi facile a decidere oggi, come avrebbe potuto esserla non più di un anno addietro.

«Noi non siamo per certo sistematici partigiani di una unità assoluta, e crediamo, che una organizzazione federale avrebbe forse meglio di qualunque altra risposto ai bisogni, agl'istinti, ed alla tradizioni dell'Italia. Ma il progetto della confederazione era sin dall'origine viziato da moltiplici cause, delle quali la prima si era l'introduzione di un elemento straniero. La presenza forzata dell'Austria in una federazione italiana non poteva essere, che la perpetuità dello stato di guerra.

«Quello, che noi diciamo dell'Austria, può dirsi dei governi, che sono in. Italia i suoi alleati ed i suoi rappresentanti. Se il Re di Napoli avesse preso parte alla guerra, se si fosse mostrato principe italiano, avrebbe acquistato il dritto di rimanere Re del mezzogiorno, come il Re di Sardegna è divenuto Re del Nord. Ma egli ha serbata una neutralità, che tutti comprendevano doversi convertire in caso di disastro in inimicizia. Questo è ciò che rende anormale la sua presenza nell'unione federativa. L'Italia non può contare su di lui; ella presentiste, che il giorno, in cui fosse chiamata a combattere a Verona o a Venezia, vì sarebbero tuttavia degli Austriaci a Napoli. Ella prevede di dover essere tra due fuochi, e vuole cominciare dall'estinguerne uno.

«Per limitarci al caso attuale ed a quello, che concerne la Sicilia, crediamo, che si possa riguardare questa parte dei dominii del Re di Napoli come diffinitivamente perduta per lui. Il bombardamento di Palermo è un addio, perciocché nor si regna su di una capitale incendiata. Ora vediamo, che generalmente si chiede:

Che si farà della Sicilia? Ci sembra, che la quistione non dovrebb'essere elevale in questo senso; ma invece si dovrebbe dire:

Che:cosa la Sicilia vuoi fare di sé medesima? Forse: ella do sa così bene come tutti gli altri, che lo chieggono per lei, e ci sembra, ch'ella, debb'avere voce in capitolo. Perché non al seguirebbe per la Sicilia il cammino, che si è seguito per Toscana e per le Romagne? Mentreché si cercava laboriosamente quale fingila volesse parlare l'Italia, l'Italia si è messa a parlare da sà, sola, e con grande sorpresa dei più profondi. politici essa ha parlato. l'italiano. Perciò non si lascerà la Sicilia faro da sé stessa i proprii affari? Dopo di avere molto cercato si. troverà forse, che là come. altrove questa è la migliore soluzione e la politica migliore».

E la Patrie, la quale aveva fatto credere, essere stati diplomaticamente assicurati a Francesco II i dominii napoletani al di qua del. Faro menò delle concessioni liberali, e che della Sicilia si sarebbe fatto uno Stato separato, fini col dire:

«Ci si assicura, che le proposte fatte riguardo agli affari di Sicilia siano le seguenti:

«Nessuno intervento armato diretto né indiretto avrebbe luogo da parte di alcuna potenza, e si lascerebbe; che la quistione siciliana continuasse a dibattersi fra il governo napoletano ed il popolo siciliano; «Il principio del non intervento assoluto sarebbe limitato per ora alla Sicilia, perché, la situazione di Napoli e delle varie provincie di terraferma, che continuano ad essere tranquille, non esige di prendere adesso misure di tale genere.

«Si assicura, che Garibaldi continuerà le sue operazioni in Sicilia, e dopo di avere riunito tutte le sue risorse, organizzato l'esercito; istituito il governo, attaccherà i varii punti militari dell'Isola.

«Dicesi pure, ch'eseguita la capitolazione, il governo napoletano metterà il blocco davanti a Palermo ed a tutta la costa nord».

Se ne desumeva, che se le provincie di terraferma cessassero di essere tranquille, il principio del non intervento sarebbe stato esteso ad esse come alla Sicilia, ed un altro articolo del Times esaminando più da vicino le conseguenze della compiuta insurrezione siciliana, incoraggiava il partito italiano nelle provincie continentali.

«Se Garibaldi, scriveva, sopravvive, noi possiamo essere certi, che l'emancipazione della Sicilia è assicurata. Ma che bisognerà fare in seguito? Il Re di Napoli naturalmente va a mendicare presso tutte le corti europee alcuni zuavi francesi, alcuni tirolesi, e forse alcuni marinari inglesi per distruggere alcuni insolenti siciliani.

«ll signor Martino si reca di corte in corte a chiedere questo piccolo favore, e si è inquieti, e si teme che la diplomazia disfaccia quello, che ha fatto il coraggio.

«Il nostro corrispondente ci scrive, che si preparano delle spedizioni per gli Abruzzi e per le Calabrie. Se noi arrestassimo attualmente il braccio di Garibaldi, noi renderemmo inutile quello, che ha già compiuto: La Sicilia per sé stessa non è che un impiccio. Il riconoscerla quale stato indipendente, sarebbe creare in Europa delle complicazioni senza fine. Un'isola del Mediterraneo, grande come la metà dell'Irlanda, quale Stato indipendente, sarebbe invero un assurdo. Alla prima dichiarazione di guerra, essa sarebbe invasa da qualche grande potenza, che se ne impossesserebbe, e non è necessario l'essere profeta per predire quale sarebbe questa potenza. Riunire la Sicilia alla Sardegna, sinché rimane qual è attualmente, non è meno pericoloso. Qualunque grande potenza, che possederà la Sicilia, vorrà dominare l'Italia, o qualunque piccola potenza, che la possederà come lontano appannaggio; non l'occuperà che in qualità di luogotenente d'una grande potenza. Napoli e la Sicilia debbono rimanere unite;esse furono unite nella schiavitù, e non bisogna separarle nella libertà.

«La vera diplomazia nella crisi attuale consiste a non farne punto. Garibaldi solo può sciogliere la quistione, bisogna lasciarlo fare. Un intervento in questi momenti non avrebbe altro effetto, che di arrestare i Siciliani vincitori, e di rimetterli sotto al giogo del loro tiranno. Questa non sarebbe solamente una diabolica malvagità, ma eziandio un atto mancante di ogni senso comune. Con ciò non si otterrebbe altra cosa, che convincere le popolazioni, che la libertà allora quando combatte il meglio che può, e trionfa colla spada alla mano in pieno giorno, non ha alcuna probabilità di raccogliere il frutto delle sue vittorie. I malcontenti si abbandonerebbero a consigli maturati nelle tenebre, a consigli colpevoli, che la disperazione sempre suggerisce».

Nè la stessa stampa russa si asteneva dal riprodurre la impressione, che le imprese di Garibaldi avevano fatto su quelle popolazioni, e la Gazzetta di San Pietroburgo scriveva:

«Sinché le baionette francesi agivano in Italia, si mischiava una certa diffidenza nell'interesse, che si prendeva ai suoi destini; ma ecco l'Italia, che dispone ora della sua sorte; gli avvenimenti prendono un carattere nazionale, ed il mondo incivilito li considera con un vivo interesse. Sotto questo rapporto la nostra società non rimane indietro. Gli affari italiani sono divenuti l'obietto delle giornaliere conversazioni: le notizie delle imprese di Garibaldi passano di bocca in bocca come notizie, che interessano tutto il mondo. Si parla di Garibaldi come di un bravo comandante d'armata, d'un eroe.. La massa del pubblico non comprende sempre di primo slancio l'insieme e la vera importanza di un fatto, ma s'interessa molto più alle individualità, e con l'aiuto di queste individualità, di questi episodii isolati, essa compone dappoi un quadro d'insieme, un fatto generale, e si. dà conto delle cause di un fatto e dello scopo, ove conduce.. Garibaldi è una di queste individualità, le sue imprese sono precisamente i suoi episodii. Una bravura a tutta pruova, una ferma ed incrollabile volontà, la conoscenza perfetta del suo scopo, l'amore dell'opera, cui si è consacrato, ne fanno un eroe, pel quale s'interessano anche le nostre dame e le nostre damigelle, che abitualmente non pensano guari che alle mode ed ai piaceri mondani. Garibaldi ed i suoi alti fatti, con l'attirare l'attenzione anche delle persone poco iniziate alla politica, fanno prendere da loro a poco a poco una parte semprepiù simpatica negli avvenimenti contemporanei».

Intanto il governo di Napoli aveva mandato il Ministro de'  Martino in missione straordinaria a Parigi ed a Londra. Secondo il Globe il re di Napoli s'impegnava di accordare alla Sicilia una costituzione liberale fondata sopra le più larghe basi, la quale avrebbe retto pure il rimanente del Regno. Aggiungeva, che se i Siciliani desiderassero assolutamente una esistenza assoluta ed indipendente, il Re sarebbe anche disposto a collocare la Sicilia in uno Stato analogo a quello del Ducato di Lussemburgo.

Però secondo quel medesimo foglio il governo di Torino non accettava questa combinazione. Nel trionfo di Garibaldi quel governo dimandava al Gabinetto di Parigi di adottare per la Sicilia la politica stessa tenuta per la Toscana, Parma, Modena, e le Legazioni.

Assicurava quel foglio essere stata tale dimanda confidenzialmente diretta al Governo francese. Il conte di Cavour avrebbe spedito al cavaliere Nigra un dispaccio officiale, ch'era stato comunicato al signor Thouvenel, e nel quale il Presidente del consiglio del Gabinetto di Torino esprimeva la speranza, che la Francia non sarebbe intervenuta negli affari di Sicilia, e rammentava al Gabinetto francese, che il principio di non intervento, annunziato nella nota di Russell, era stato accettato dal governo francese.

Comunque sia, la missione de'  Martino non ebbe alcun successo a Parigi, e dopo le dichiarazioni ministeriali fatte nel Parlamento inglese, non poteva averne veruno in Londra.

Il governo di Palermo spediva il conte Michele Amari, esule siciliano residente da parecchi anni in Genova, a rappresentarlo presso il Governo di Torino, e l'Amari partito immediatamente per la sua destinazione recava al Re una lettera di Garibaldi, nella quale il Generale esprimeva i sentimenti del popolo siciliano del tutto favorevole alla causa dell'annessione, ed incaricava il conte Amari di esserne l'interprete».

Per la sostanza e per la forma, scriveva la Perseveranza, questa lettera è degna di colui, che l'ha scritta; essa è piena di sentimenti veramente italiani e di un affettuoso rispetto per l'augusto sovrano, che personifica tutt'i dolori ed anche tutte le speranze dell'Italia. In questa occasione, come sempre, il Generale Garibaldi ha dato pruova della sua illimitata fedeltà e della sua patriottica deferenza verso Vittorio Emmanuele».

Inoltre il conte Amari dirigeva alla società nazionale la lettera, che siegue:

«Torino 21 giugno 1860.

«Illustrissimi Signori Presidenti e componenti della Società nazionale;

«Il Governo provvisorio di Sicilia nominandomi suo incaricato presso il governo di S. M. Sarda, mi ha con particolare cura raccomandato di adoperarmi, onde le somme di denaro, che si raccolgono in soccorso della, Sicilia, si tenessero pronte per supplire a tutte le spese, che in servizio dell'Isola occorrerebbero farsi, sia in questa Torino, sia in altre parti del Regno.

«Non posso né debbo trascurare questa importante parte dell'officio mio, e quindi mi rivolgo alle Signorie vostre, delle quali mi è nota la prontezza in avere saputo aiutare la causa del mio paese, rendo questa causa italiana, e vi prego caldamente di manifestarmi le somme, delle quali potete disporre.

«Con tutta stima saluto le Signorie vostre, e mi raccomando».

«Conte Michele Amari».

E la direzione della Società annui prontamente alla riferita dimanda, e deliberò di trasmettere al conte Amari tutte le somme incassate, onde completamente ne disponesse giusta la prescrizione del Dittatore.

Le quali sottoscrizioni per la Sicilia anche nell'estero si erano notevolmente aumentate, tanta era la simpatia, che quella causa inspirava. Il Siècle in uno dei suoi numeri in sul cominciare di giugno riferiva:

«Una signora veneranda per età, per carattere, e per il nome, che porta, si presentò nel nostro ufficio. Essa è estranea a qualunque politica preoccupazione; essa non è né democratica né legittimista, ama l'ordine, la giustizia, e tutto ciò che è vero, buono, e bello. Ella fu profondamente tocca dai racconti dell'eroe di Sicilia, che rischia valorosamente la vita per salvare un popolo, onde venne a recare la propria offerta a Garibaldi, alla causa della libertà, e della indipendenza italiana. Cavò fuori dalla sua borsa 4000 franchi, e li depose senza ostentazione sulla tavola.»

STORIA DELLA GUERRA DI SICILIA

TRATTO D'EROISMO DI GIUSEPPINA BARCELLONA (IN CATANIA)

Frattanto Palermo a poco a poco si riordinava e riprendeva la sua consueta fisonomia. La guardia nazionale si organizzava, comunque mancassero le armi. Le botteghe si riaprivano, e la circolazione si ristabiliva; delle barricate rimanevano le principali. Si dava opera all'organamento dello esercito, nel che s'incontravano moltissime difficoltà per la mancanza delle armi e degli uffiziali, e per le abitudini poco militari dei Siciliani. Nulladimeno si era giunti quasi a compiere i quadri di tre brigate, alle quali servivano di nucleo i volontarii arrivati con le due prime spedizioni e dell'altra, che si attendeva condotta da Medici. Erano tra costoro parecchi uffiziali e bassi uffiziali dell'esercito piemontese, alcuni dei quali avevano fatta la guerra, e riuscivano quindi utilissimi per l'armata siciliana. Delle squadre siciliane si utilizzava la parte più giovane, organizzandola, ed in pari tempo sottoponendola alla disciplina ed all'istruzione militare, se non che per questa bisognava essere contenti di quella parte che contiene la prima istruzione dei corpi, lasciando alla campagna il resto. Per tal modo l'opera dell'armamento riusciva molto malagevole, dapoiché il nucleo dell'armata componendosi di volontarii, unica mente legati dall'entusiasmo e dalla libera elezione, non si poteva con troppo fondamento stabilire un piano di guerra, che richiede costanza e pazienza nel sopportare e nell'agire. E d'altronde d'intorno questi volontarii bisognava raggruppare le reclute della Sicilia, sì che era d'uopo di molto studio e di maggiore accorgimento, Eppure queste truppe hanno vinto l'armata numerosa e con tanta cura ed ingente spesa organizzata dal defunto Re di Napoli! Il resto della Sicilia si organizzava molto soddisfacentemente. In Catania erano ritornati tutti gli assenti, la guardia nazionale si era organizzata, e faceva il servizio al Palazzo comunale. Si era organizzata pure una guardia municipale composta di 200 individui, e che riusciva utilissima pel servizio municipale.

In Noto vi era molto entusiasmo per l'arrollamento militare; niente quanto questo poteva riuscire gradito al Generale Garibaldi, laonde il Comitato di quella città, avendolo richiesto di accettarne la cittadinanza, il Generale scrisse nel seguente modo:

«Gabinetto del Dittatore.»

«Palermo 4 giugno 1860.

«Miei cari concittadini;

«Io accetto con gratitudine la cittadinanza di Noto.

«Col vostro grido di libertà avete dato l'ultimo crollo al despotismo in Sicilia, e lo slancio generoso di queste belle popolazioni ha sancito l'adempimento dei destini della grande famiglia italiana.

«Il più è fatto; ciò che resta da fare è ben poco, bisogna dunque persuadere ai nostri fratelli, che ciò, che rimane dei nostri predoni, sfumerà davanti alla maschia risoluzione di sbarazzarsene presto.

«All'armi tutti!... Il popolo di Sicilia insegnerà ancora una volta al restò dell'Italia come si disperdano i tiranni col miracolo di ben pochi giorni.

«Io sono con affetto.

«Vostro — G. Garibaldi.

«Al Comitato di Noto».

La Città di Termini spedì la somma necessaria per l'acquisto di 800 fucili, onde armare quella guardia nazionale. Il presidio dell'isola di Pantelleria faceva il 6 di giugno la sua capitolazione; rimetteva al governo 70 fucili, ed al Presidente del Comitato 1600 onze, trovate nelle diverse casse regie, 1000 erano spedite a Palermo.

Il Comune di Mistretta offri ducati 3000.

Il Municipio di Partinico aveva decretata una statua a Garibaldi; egli la ricusò, e scrisse in termini ben diversi da quelli, nei quali aveva scritto al municipio di Noto:

«Palermo 4 giugno 1861.

«Signore;

«Ho letto la deliberazione di questo consiglio civico, che mi avete rimesso con ufficio del 2 giugno corrente, e vi ho trovato, che la Comune di Partinico vorrebbe onorarmi di un monumento.

«Io mentre la ringrazio di tanta cortesia, credo giusto ricordarle, che sono venuto in Sicilia per fare la guerra. Ogni spesa, che a questo fine non è diretta, non mi soddisfa. Lasciale dunque di pensare a statue, impiegate il denaro in compra di armi e di munizioni.

«Concorrete così al sostegno dell'unità italiana, per cui si combatte, ed avrete messa la vostra pietra all'innalzamento del primo tra tutt'i monumenti.

«Il Dittatore — G. Garibaldi.

«Al signor Presidente del Consiglio civico di Partinico v.

Allora il Comune offri la sua cittadinanza, ed il Generale l'accettò.

Le guarnigioni di Trapani, Termini, Agosta, Girgenti, Catania, ed una parte di quella di Palermo si erano portate in Messina, ove erano molti feriti, agenti di polizia, impiegati del governo, sì che credevasi, che vi fossero meglio di 15 mila uomini fautori del governo napoletano. Allora ia nome del popolo di Messina fu diretto alle truppe regolari il seguente proclama:

«Napoletani;

«Voi siete figli d'Italia, l'Italia è dal Cenisio alle onde della Sicilia, che ora sono rosse di sangue. Sollevatevi nel none della libertà!

«I prodi di Como e di Varese sono con voi, e voi combatterete contro di loro? — Iddio disse a Caino: Uomo maledetto, che cosa hai fatto di tuo fratello? e l'Italia dirà a voi; Fratelli maledetti, che cosa faceste dei vostri fratelli? Ogni goccia di sangue sparso nella Sicilia è una maledizione sul vostro capo, sul capo dei vostri figli, e dei figli dei vostri figli Napoletani, l'Italia vi perdona, ma insorgete col fuoco dei vostri vulcani contro chi non vuole l'Italia».

Ed altri indirizzi simili riportava il Giornale uffiziale di Palermo dei Comuni di Barcellona, Pozzo, Gotto, Alcamo, Gibellina, Leonforte, Nicosia ed altri.

Nell'Italia superiore si ammirava questo entusiasmo in parole, in feste ecc. e si osservava, lo stesso essere avvenuto l'anno innanzi in Lombardia, ma si dimandava un entusiasmo più concreto e più utile in armati, armi, e danari.

Garibaldi accordava alle truppe nazionali il soprasoldo di campagna e le razioni dei viveri corrispondenti ai diversi gradi a norma dei regolamenti in vigore negli Stati di S. M. il Re Vittorio Emmanuele, autorizzava i signori Carlo Pisani, Giovanni Corrado, e Ferdinando Firmaturi marchese di Chiosi a formare ciascuno un battaglione di milizie regolari, scioglieva le compagnie dei Gesuiti e dei Liguorini, n'espelleva i membri, e ne aggregava i beni al Demanio dello Stato.

Nel. frattempo Medici si affrettava di condurre in Sicilia la sua colonna di volontari. La società nazionale italiana ne aveva fatta la spesa. Tre legni erano stati acquistati a tal effetto, il Washington, l'Oregon, ed il Franklin, ch'erano costati 800 mila franchi. L'entusiasmo tra i volontari nel momento dell'imbarco in Genova era stato grandissimo. Pervenuta la spedizione in Cagliari, Medici diresse ai suoi un ordine del giorno che per la robustezza dei sentimenti e l’aggiustatezza delle idee merita di essere trascritto:

«Cagliari, sabbato 16 giugno.

«Volontari!

«Siamo a mezzo il cammino! La prima tappa è fatta; resta la seconda, la più difficile. Finora eravate giovani volenterosi, ora siete militi. É dunque tempo, che ci conosciamo; oggi qui con poche parole; domani forse (credo che tutti lo desideriamo) in mezzo all'urto delle armi, tutti combattenti per la madre patria, l'Italia. E là ci conosceremo anche più.

«Bravi camerata! Vi dico prima di ogni altra cosa che siamo contenti del vostro contegno di questi giorni. Esso fu tale, meno Pochissime eccezioni, quale si conveniva a giovani militi della libertà come voi siete. Qualcheduno, che non volle o non potè dividere le nostre sorti, se n'è ito. Cosi saremo più sicuri di noi. Andiamo avanti senza inciampo.

«L'organizzazione difficile sempre, doppiamente difficile nelle condizioni, in cui versiamo, è tuttavia cosa di prima necessità nei corpi militari. Nelle parti più essenziali essa è compiuta, provvisoriamente è vero, mit è compiuta. Vi comunico il quadro dei vostri capi. Vi ho onorato ed a ragione del nome di militi; dirvi quindi, che dovete rispettare e scrupolosamente ubbidire chi è preposto a condurvi dal caporale sino ai gradi superiori, è cosa inutile. Vi hanno tra voi militi educati alle armi ed alle discipline militari. Ad essi in particolare modo raccomando il buon esempio. A ciascuna compagnia è fissato il proprio posto a bordo; è posto di combattimento; chi l'abbandona si disonora.

«Rumori e canti debbono cessare. Un profondo silenzio dev'essere mantenuto. Dobbiamo avere agio di dare gli ordini e d'intenderli. Vi stimo troppo per rammentarvi le severe punizioni disciplinari per le infrazioni di tali ordini. Voi sapete e volete obbedire, La salute della patria lo esige. E tutto è detto.

«D'ora innanzi i pasti saranno parchi e regolati sulla pura necessità, pane, acqua, formaggio, pochissimo vino. Ufficiali e militi avranno tutti lo stesso trattamento. L'acqua anch'essa verrà distribuita per razioni di una borraccia e mezza, non più sarà concessa per ciascun giorno di navigazione a ciascun uomo.

«Uffiziali e militi, noi siamo sotto gli ordini del Generale Garibaldi, andiamo a raggiungerlo, o per dir meglio, andiamo dovunque egli ci ordinerà.

«Dirvi soldati di Garibaldi è dirvi, che non ci ar. resteremo innanzi a stenti ed a fatiche, che supereremo qualunque ostacolo, che in nome della patria andremo a cercare la vittoria dov'è.

«I nostri compagni d'armi, che ci hanno preceduti assieme all'eroico popolo di Sicilia, ci diedero. Splendidi esempi di ardimento e di valore. Superarli è impossibile, ma noi dobbiamo uguagliarli. Questo pensiero sia nell'anima delle nostre azioni a Ricordatelo una volta per sempre.

«I volontarii, appunto perché sono tali, debbono essere militi modèle. Dovete essere spontaneamente, volontariamente disciplinati.

«Contribuiremo cosi meglio che per noi si possa alla grand'opera della redenzione italiana, di tutta Italia, che non è ancora interamente nostra, ma che lo sarà tra breve, se noi ed i nostri compagni saremo forti e sapremo meritarla.

«Allora guai a chi la tocca. G. MEDICI.»

Il giorno dopo della data di questo proclama la spedizione sbarcava a Castellamare, dove pernottarono, l'indomani andarono ad Alcamo, il 19 a Partinico, e con marcia non interrotta nemmeno di notte il 20 giunsero a Palermo. Il giorno dell'arrivo di quegli armali fu per Palermo giorno di festa.


vai su


CAPITOLO XIII

Continuazione dell'ordinamento interno.

SOMMARIO

Il consiglio civico di Palermo al Dittatore — Risposta di questo. — Considerazioni politiche — ;Dimissione di Torrearsa e Nani L'annessione era prevalente in Sicilia — Ma si combinava con l'opinione espressa di Garibaldi — Che cosa dunque agitava gli animi in Sicilia — Determinazione del governo Legge elettorale — Le condizioni amministrative erano difficili — Il Mazzinismo si agitava — Uni gli ordini amministrativi erano disciolti — Intrighi presso del Dittatore Sfratto di LaFarina — Come venne annunziato dal giornale alziate di Sicilia, Spiacevole impressione, che produsse, Opinione. del Corriere Mercantile e dell'Opinion nationale — Dichiarazione di LaFarina — Osservazioni — Dimostrazione, che vi era stata in Palermo e conseguenze di essa — Fu imputata a LaFarina — D Giornale ufficiale contro la Società Nazionale Italiana — Risposta dal Piccolo Corriere d'Italia — Il Deputato Depretis in Sicilia — L nominato Prodittatore — Questa nomina incontra l'assenti mento pubblico Sua missione — Arrollamento militare — Armala siciliana — Provvedimenti amministrativi —

Istruzioni diplomatiche — Funzioni disimpegnate da Garibaldi nella festa di Santa tosarla — Lettera del Papa al Vescovo di Sinope — Non tutto il Clero siciliano divideva l'opinione del Pontefice — Lettera del Vescovo di Ma zara Altra dell'Arcivescovo di Monreale Lettera di Garibaldi a Ruggiero Settimo — Ed al Presidente del Comitato di Londra.

Due giorni dopo dell'arrivo de'  nuovi volontarii condotti da Medici, vale a dire il 22 di giugno il Consiglio civico di Palermo presentava al Generale Dittatore un indirizzo di ringraziamento, nel quale coi termini più lusinghieri il chiamava cittadino palermitano, e manifestava in nome della città il voto di aderire al regno italiano sotto il Re Vittorio Emmanuele.

Il Generale, accettata l'offerta della cittadinanza, soggiunse:

«È ben poca cosa quello, che abbiamo fatto io e questi miei compagni, che meco han combattuto, a petto di ciò, che si è operato dai Siciliani e da questa eroica popolazione di Palermo: e certamente senza quella maschia dimostrazione del sentimento nazionale, cosi lungamente e coraggiosamente sostenuta, io non mi sarei con si poche forze potuto arrischiare ad impresa tanto ardua. Ma mi è caro il potermi trovare qui tra voi, tra questo consesso, che io riguardo come rappresentante dell'opinione saggia del popolo; io lo vidi sagacissimo a comprendere i suoi veri interessi, quando manifestandogli le condizioni umilianti, che gli si volevano imporre, fu proprio il ruggito del leone quello, coi cui si pronunziò per rigettarlo.

«Già quasi tutti i Comuni di Sicilia, meno di qualche oscurissima borgata, si sono pronunziati per l'adesione all'unico regno italico sotto l'invitto Vittorio Emularmele. Signori, fui io, che apersi la campagna del 1859 col programma Italia e Vittorio Emmanuele:, conosco ed apprezzo io personalmente le eminenti qualità del generoso Principe, e mi accorsi fin dal primo istante, che me gli appressai, essere l'uomo chiamato dalla Provvidenza a raccogliere e fondere insieme questa famiglia italiana. Io potrei, appoggiato dalle manifestazioni dei Comuni, per mezzo di un alto dittatoriale proclamare l'annessione e spingere il compimento di questo fatto, ma intendiamoci bene: Io sono venuto a combattere la causa dell'Italia e non della Sicilia sola, e se l'Italia non sarà tutta intera e libera, non sarà mai fatta la causa di alcuna parte di essa.

«Rannodare tutte queste parti lacerate, disperse. e soggiogate, metterle in istato di potere comporre l'Italia una e libera è l'oggetto della mia impresa. Quando saremo in tale stato, quando potremo dire a chicchesia: l'Italia deve essere una, e se non vi piace, l'avrete a vedere con noi, allora sarà il caso di venire all'adesione. Se mai si compisse oggi l'annessione della Sicilia sola, gli ordini dovrebbero qui venire d'altrove; bisognerebbe, ch'io levassi la mano dall'opera, e che mi ritirassi.

Ed ai 22 di giugno 1860 questo programma era vero. L'annessione della Sicilia avrebbe creato un imbarazzo al governo dell'Italia del Nord, ed avrebbe arrestata la rivoluzione. Divenuta parte di un governo regolare, la Sicilia non poteva rimanere il fomite della insurrezione per le provincie continentali senza un'aperta dichiarazione di guerra, che nel dritto diplomatico non avrebbe potuto essere giustificata da parte del Gabinetto di Torino. La dittatura doveva proseguire in Sicilia, perché essa doveva appoggiare l'insurrezione nelle provincie continentali, che non si sarebbero mosso senza l'appoggio del governo, che si era organizzato e si organizzava a Palermo. Epperò il Consiglio civico fu soddisfattissitno dell'accoglienza ricevuta dal Dittatore, ed aderì al sue programma. Bisognava ritenere l'opera iniziata, non già compiuta, e bisognava energicamente provvedere ai mezzi di compierla, anziché fare come se tutto fosse già fatto. Pure l'indrizzo del Consiglio civico fu utilissimo, tra perché espresse Io scopo finale della rivoluzione, e perché provocò la dichiarazione del Dittatore, essere e dover esser quello lo scopo di tutti, ma appunto per conseguirlo fosse mestieri di continuare come si era.

Nulladimeno dopo la risposta data da Garibaldi al Consiglio civico due dei più illustri Segretarii di Stato, il Marchese di Torrearsa ed il Barone Pisani, si dimisero, dichiarando di non potere seguire secondo le loro idee la linea di condotta, che il Generale aveva creduto indispensabile alla salute del paese di dovere adottare. Il Times invece diceva il programma di Garibaldi essere cosi chiaro e cosi consistente, come potrebbe esserlo quello di ogni altro uomo.

Ma l’idea dell'annessione era prevalente in Sicilia. Non vi era bottega o porta di casa, sulla quale non si leggesse affisso un cartello con questa inscrizione: — Vogliamo l'annessione al Regno costituzionale di Vittorio Emmanuele II — ; si che era divenuta questa una manifestazione generale e senza veruna eccezione. Appena il pensiero, osservava un foglio Siciliano, che aveva preso quel medesimo titolo dell'Annessione, ne fu concepito e reso manifesto coi primi esempi, l'attuazione segui spontanea ed immediata, e fu una gara a chi tra i primi potesse decorare la sua abitazione della formola solenne.

Senonché quel voto ardentissimo e generale dei Siciliani conciliavasi in quanto al modo della sua attuazione col pensiero del Dittatore. Quel foglio l'Annessione, che già abbiamo citato, scriveva:

«Quell’indirizzo (l'indirizzo municipale) esprimeva i voti di Palermo, perché i destini del paese fossero tosto fermati....» Riporta poi le parole di Garibaldi nella risposta al Municipio, onde l'Italia fosse tutta riunita e libera, e prosiegue:

«Queste generose parole esprimono il sublime concetto, la grande verità, ch'è nei cuori di tutti, e che l'indrizzo aveva scolpito nella frase unità d'Italia dalle Alpi. a Pachino. Che la quistione italiana non sia integralmente decisa sinché Napoli resti in potere dei Borboni, Roma negli artigli dei Preti, e Venezia del Tedesco, e però che le provincie già affrancate dal giogo servano di base e di, leva a quelle, che tuttavia vi soggiacciono, è il voto di ogni vero italiano, quello, per cui migliaia di prodi delle provincie già emancipate ed annesse accorsero al nostro insorgere, quello per cui noi ardentemente ci armiamo, quello, che rende accetto e simpatie° il nostro moto al mondo civile, che vede nel trionfo della Sicilia la soluzione della grande quistione italiana.

«Ma l'attuazione di questo generoso concepimento sarebbe forse incompatibile col nostro voto per l'annessione? E la espressione di questo voto importerebbe già ipso facto, che l'invitto eroe, la cui spada ci ha redenti, debba levare la mano dall'opera e ritirarsi?

«Se tal conseguenza fosse necessaria, noi spezzeremmo la penna, che, segna queste carte; e piuttosto che separarci dalr uomo, a cui tutto dobbiamo, vorremmo correre con lui qualunque perigliosa avventura, anche a rischio di rimettere in quistione la nostra sorte.

«Ma la Dio mercé due verità non possono essere tra loro siffattamente in antitesi da escludersi con assoluta incompatibilità.

«Volare in soccorso dei nostri fratelli tuttora gementi sotto l'oppressione è debito, è ansia di lutti, ma alla condizione naturale, che lo spingerci innanzi non ci faccia tornare addietro, che la nuova parte da affrancarsi non comprometta quella affrancata, che il rischio a correre sia tutto al più non riuscire a fare, ma non quello di perdere l'acquisto fatto. Fermare solidamente il piede per non più retrocedere, spingersi quindi risolutamente innanzi; ecco i due grandi supremi interessi, non di Sicilia, di Toscana, o di altra parte qualunque, ma d'Italia intera, che vuoi essere libera ed una.

«Sono conciliabili questi due vitali interessi? Sì: ed il Dittatore con la sua grande superiorità d'animo lo ha francamente riconosciuto, pubblicando la legge elettorale. L'elemento concreto del tempo, trascurato nelle due formole apparentemente in antitesi, le concilia mirabilmente.

«A prepararci a nuove intraprese, a compiere i nostri armamenti, ad organizzare le nostre forze ci vuol tempo, ci vuol Garibaldi tra noi Dittatore e sostegno. Ma quel tempo è pur necessario a procedere al voto di annessione ed anche più ad essere questo fatto compiuto con l'accettazione.

«Se da un lato son soldati a descrivere ed organizzare, dall'altro son collegi elettorali a comporre, rappresentanti ad eleggere, voti ad emettere; e forse il suffragio generale a consultare. E poi resta sempre il gran fatto dell'accettazione, che sicuramente non mancherà, ma verrà né inopportuno né intempestivo, per troncare il corso dei successi probabili; verrà all'incontro opportunissimo e pronto per arrestare gli eventi (che pur sono da prevedersi) di contraria fortuna. Avviare dunque con gli apparecchi guerreschi la decisione dei nostri destini politici, tenerci preparati alla buona fortuna ed all'avversa, onde la prima ci trovi pronti per correre innanzi, e la seconda assai prudenti per avere provveduto alla sorte nostra, e dell'Italia; metterci in grado, che al pieno consolidamento delle nostre sorti noia manchi che la sola parola accettazione del gran re, il quale certo colpirà il punto di pronunziarla — ecco il temperamento concreto, che concilia i grandi, interessi d'Italia, o che bene è il dirlo, tanto strettamente rannodasi ai destini di Sicilia. Questo temperamento prudente e salutare noi Io riconosciamo, e con noi tutti han salutato, nella legge elettorale, che la saggezza del Dittatore ha sanzionato e pubblicato su quest'unica considerazione: che il popolo siciliano non tarderà ad essere chiamato a pronunziare il suo colo per l'annessione dell'isola alle provincie emancipate d'Italia.

«Cessino adunque tutte le apprensioni dei buoni, che si conturbano ragionevolmente ad ogni apparenza di discordia; cessino le mal concepite speranze dei malvagi, che anelano quello scisma e vi soffiano dentro; cessino gli esagerati sospetti contro le occulte insidie di un partito tanto odiato quanto temuto, ma sopratutto impotente, specialmente in Sicilia, il mazzinianismo

Queste erano le opinioni della gran maggioranza dei Siciliani; essi non diffidavano di Garibaldi, nel quale l'onestà ed il disinteresse pareggiano il valore e l'amore per l'Italia, ma diffidavano di talune perso ne, che lo avvicinavano e ne godevano la confidenza; il mazzinianismo era impotente in Sicilia, ma però era attivissimo e si agitava per ogni verso; ecco quello che teneva sospesi gli animi, che ingenerava dei timori, e che costituiva quello stato di ansietà, che tormentava. Tutti convenivano della posizione eccezionale, nella quale si dovesse serbare la Sicilia per compiere o per lo meno avanzare di gran lunga l'opera del riscatto italiano, ma non volevano giocare su di una sola carta i loro destini; il buon senso nazionale vedeva chiaramente, che la Sicilia non poteva rimanere isolata, apprezzava i pericoli di questa posizione, e desiderava escludere tutt'i dubbii, tutte le incertezze sulle relazioni politiche dell'isola coll'Italia, e chiudere la porta agl'intrighi ed alle speranze, che, impotenti, che fossero, esistevano ed agivano. Naturalmente si era Inquieti, perché comunque non si cessasse mai dal proclamare negli atti pubblici ed in tutte le solenni occasioni lo scopo della rivoluzione siciliana, pure si dichiarava, che avesse a conseguirsi dopo adempite talune condizioni e verificatesi talune eventualità, che avrebbero potuto rafforzare un partito, che non era né negl’istinti, né nei desiderii dei Siciliani. Fu appunto questa forte pronunziazione dell'opinione pubblica, che decise il governo a pubblicare la legge elettorale. Le popolazioni vedevano l'opera cominciare, ed in quella iniziativa scorgevano un omaggio alla volontà nazionale, per lo che la stampa prese atto di quella concessione, o se ne valse per esporre più risolutamente, rispettando le suscettibilità del Dittatore, i sentimenti delle popolazioni. Ne abbiamo presentato un saggio nell'articolo, che abbiamo riportato.

La legge elettorale fu pubblicata il 23 di giugno 1860 a proposta del segretario di Stato dell'interno signor Crispi, ed udito il consiglio dei segretari di Stato.

Erano dichiarati elettori tutti i cittadini di 21 anni compiuti, ed esercitavano il loro dritto nel luogo del proprio domicilio o della loro residenza; erano eccettuati i regolari, i condannati pei reati cji frode, di furto ecc. sino a due anni dopo l'espiazione della pena o sino alla riabilitazione.

Erano eligibili tutti gli elettori a 25 anni compiuti, purché sapessero leggere e scrivere.

Ogni Comune di una popolazione minore di 10 mila anime aveva dritto di scegliere un deputato; ogni Comune, la cui popolazione oltrepassava le 10 mila anime, ma non giungeva alle 20 mila, ne poteva eleggere due; dalle 20 mila anime in sopra ne eleggeva tre, Palermo eleggeva 10 deputati, Catania e Messina 5 per ognuna, l'isola di Lipari 2.

Era stabilita pei deputati a carico dei Comuni una indennità non eccedente 20 tarì (20 carlini) al giorno.

Seguivano le disposizioni per la formazione delle liste elettorali. La commissione si componeva del presidente del consiglio civico come presidente, del capo del magistrato municipale, dell'Uffiziale comandante i militi della terza categoria, se n'esisteva nel Comune, dell'arciprete o del parroco più anziano di età, e del notaio più anziano di età, ed ove costoro per età avanzata, per malattia, per assenza o per altra causa fossero impediti, erano sostituiti da chi ne fa per dritto le veci, ed in mancanza da un altro eletto dal consiglio civico.»

Le commissioni elettorali dovevano riunirsi il 10 di luglio. Le inscrizioni si ricevevano per tutto il giorno H, le liste erano affisse il giorno 18, e si ricevevano i reclami per tutto il giorno 20. La commessione elettorale pronunziava immediatamente sui documenti e sulla pubblica notorietà.

Pei corpi dell'esercito la commessione elettorale, si componeva del comandante del corpo e di due uffiziali. Infine la legge prometteva di stabilire con un altro decreto il giorno ed il modo della votazione.

Tuttavolta le condizioni amministrative della Sicilia erano difficili, ed un articolo del Corriere Mercantile di Genova del di 11 luglio, poggiandosi su di una corrispondenza di Palermo ne dava un giudizio, che ci sembra esatto. — «Crediamo fermamente, che difficoltà ed indugi ed imbrogli d'ogni specie sorgano dalla situazione stessa, dalla natura delle cose, cioè dall'indole del popolo dell'Italia meridionale, dalla posizione geografica del paese liberato, dalla qualità e dalle conseguenze naturali della impresa, per cui quel paese fu liberato. Crediamo fermamente, che gli errori, e se colsi anche i vizil e le colpe, di qualche uomo poco o nulla aggiungano al complesso della crisi; non faremmo a nessuno tanto onore.

«La Sicilia fu occupata, meno le solite fortezze (vere teste di ponte pei Napoletani) con un colpo di sorpresa, più assai per politico prestigio e per politica demoralizzazione, che per militari operazioni;, fu occupata, ed è tuttora, in modo precario, non essendo né profondamente rivoluzionata né organizzata in guisa alcuna. Il movimento non si propaga ancora in terra ferma. I borbonici tengono ancora posizioni importantissime nell'Isola. Garibaldi non può attaccarle, né può tentare un colpo in terra ferma, finché non ha forze maggiori. L'ordinare queste forze presenta delle difficoltà. Intanto la Sicilia rimane quasi priva di civile governo. Ecco circostanze tutte inevitabili, nessuno ne ha colpa; sgorgarono dalla situazione medesima l'indomani dello sgombro degli stupiditi borbonici da Palermo; esse bastano senz'alcun bisogno di personali accuse a spiegare gl'imbarazzi, che appunto datano da quel giorno, in cui si ottenne la prima vittoria.»

Peraltro non poteva essere a meno, che la ferma avversione spiegata dai Siciliani per ogni aspirazione ed ogni tentativo, che sentisse di repubblicano, non destasse lor contro gli uomini o gli organi di quel partito. — «Si pubblicano, soggiungeva l'articolo, che riferiamo, da qualche tempo molto severi giudizii sul popolo siciliano: osservasi però, che li pubblica specialmente chi nutre palese o segreto dispetto dell'opinione e tradizione monarchica del popolo siciliano, niente affatto inclinato alle formale mazziniane. Ma non contrastiamo punto, che talvolta in quei giudizii siavi tanto di vero, quanto d'inutile, ed anche in molti casi d'impolitico. Nessuno è più persuaso di noi del divario, che corre in fatto di costumi, di educazione, d'indole tradizionale, e di grado di civiltà e di stato sociale fra le popolazioni dell'Italia superiore e quelle dell'inferiore. Certi pubblicisti fedeli solo all'astrazione fantastica accusarono come moderati e dottrinarii negli scorsi anni coloro, i quali come noi, mettevano in luce questo fallo positivo ed importantissimo a conoscersi. Ma simili accuse non ci hanno mai fatto paura...»

«Crediamo certissimo, che adesso. come nel 1818 i tristi vestigi di una lunghissima oppressione, per cui gli animi furono prostrali, per cui rimase arretrato il paese nella via d'ogni progresso intellettuale, economico-politico accrescano in Sicilia le difficoltà di qualunque riorganizzazione. Havvi poi colà questo di particolare, che in tempo di rivoluzione più non rimane vestigio alcuno dell'amministrazione napolitana. neppure nei rami più indispensabili al pubblico servizio ed agli elementari bisogni sociali. Ma ciò non giustifica certi attacchi molto biliosi di fogli ultraliherali contro i Siciliani. Fu lodalo, ed a ragione, Garibaldi, che con un cavalleresco mantello coperse le vergogne dei demoralizzati Napoletani. Potrà lodarsi chi non contento di dire alcune utili verità, disconosce poi quanto i Siciliani hanno fatto? L'Isola è almeno concordissima nel non volere il Borbone; le masse hanno questo sentimento ben forte e fermo anche quando non capiscono perfettamente i principii di unità nazionale; non mai avvezze, alle armi e quasi prive di armi, pure protestarono come meglio potevano contro il regime abborrito con una guerra di guerriglie; bande tumultuose e con pochi e pessimi fucili si mostrarono, su molti punti di un vasto territorio e molestarono molto il nemico; tutte le classi sono di accordo; la fede politica è una nel regno italiano di Vittorio Emularmele».

Nè mancavano gl'intrighi presso del Dittatore, né le influenze palesi od occulte, e neppure le gare personali, che si contendevano il campo: — «Avremmo qui grande bisogno, si scriveva da Palermo, di una dittatura verace, ovvero di un governo regolare con Ministri responsabili. Non v'ha né una cosa né l'altra. Garibaldi non solo ammirato pel suo valore e pel successo dell'ardita impresa, ma dalla popolazione nostra amatissimo per la umanità, la semplicità piuttosto unica che rara del vivere, per l'affabilità somma e la carità verso i poveri, non esercita il potere come Dittatore, perché ammette le pubbliche rappresentanze e discussioni circa il nome ed il colore dei suoi ministri, mentre questi non sono veri ministri, perché molti affari si fanno senza di essi, o ad essi vengono comunicati già risoluti in altro consiglio, che in quello di Ministri. Ora qualunque governo ha bisogno di funzionare con un sistema chiaro e sicuro.

«Però, terminava la corrispondenza, comunque sia, l'opinione siciliana è compatta, salda, energica nella formula proclamata da Garibaldi — Italia e istorio Emmanuele, — né sarà mai per chi volesse tendere al taglio dell'ultima parte o alla disunione fra Sicilia ed il Governo italiano».

Ad uno di quest'intrighi. o di queste influenze fu dovuto lo sfratto di LaFarina dalla Sicilia.

Giuseppe LaFarina esule siciliano, Presidente della Società nazionale italiana, il 1° di giugno pubblicò da Torino un manifesto, col quale dichiarava di partire per la Sicilia per compiere il suo dovere.

Questa partenza destò grandissimi rumori nei fogli ultraliherali. Si diceva, che LaFarina si fosse deciso di andare in Sicilia molto tardi; eppure dal giorno dell'entrata di Garibaldi in Palermo sino al di giugno intercedevano appena l giorni; si diceva, che LaFarina dissentisse nelle opinioni di Garibaldi, e che perciò andasse in Sicilia per paralizzare le operazioni di lui. Ma la Società nazionale italiana aveva di molto cooperato per la spedizione di Sicilia, e LaFarina conveniva perfettamente con Garibaldi nella formola Italia e Vittorio Emmanuele. Si diceva Infine, che il Presidente della Società nazionale italiana fosse ligio del governo piemontese, e se ne induceva non potere essere di accordo con Garibaldi, stabilendo tosi tra questo ed il detto governo un antagonismo, che ogni buono Italiano non doveva né pensare né vedere, e che il grido, sotto del quale si era compiuta l'insurrezione siciliana, escludeva.

Nulladimeno LaFarina giunse in Sicilia, e viti male accolto da chi circondava il Dittatore. Noi, anziché affermare in un affare così delicato dei fatti, dei quali non abbiamo una positiva conoscenza, preferiamo di dichiarare, che manchiamo di dati certi da offrire al pubblico per istituire un giudizio, che non possa cadere nell'errore. Però riserbando il giudizio sulle cagioni, che provocarono quella rigorosa determinazione, il modo come venne eseguita, e più ancora quello con cui venne annunziata, colpi dolorosamente tutti gli amici della causa italiana ed in Italia e fuori.

E difatti dopochè si era già conosciuto, che LaFarina era stato obbligato a partire da Palermo ed a lasciare la Sicilia in poche ore, e dopo che questo fatto ebbe prodotto una penosa impressione, si leggeva nel Giornale Uffiziale della Sicilia la seguente nota:

«Sabato 7 corrente per ordine speciale del Dittatore sono stati allontanati dall'Isola nostra i signori Giuseppe LaFarina, Giacomo Griscelli, e Pasquale Totti. I signori Griscelli e Totti, Corsi di nascita, son di coloro, che trovano modo ad arrollarsi negli ufficii di tutte le polizie del continente.

«I tre espulsi erano in Palermo cospirando contra l'attuale ordine delle cose. Il governo, che invigila, perché la tranquillità pubblica non venga menomamente turbala, non poteva tollerare ancora la presenza tra noi di cotesti individui venutivi con intenzioni colpevoli.

«Noi vorremmo, scriveva il Corriere Mercantile, che il Governo Dittatoriale non potesse dividere la responsabilità del linguaggio sconveniente tenuto dal suo giornale. Lo sfratto di un antico e provato patriotta, del presidente di una Società, che largamente aiutò coi suoi mezzi l'impresa nazionale, d'un deputato, che fu inviato al Parlamento da sei collegi elettorali, era abbastanza grave in sé stesso, senzaché si facesse più grave coll'annunziarlo con modi, che certo meno offendono, il rispettabile cittadino, contro cui sono diretti, che non compromettano la dignità di chi li usa.»

E noi aggiungeremo a questo giudizio giustissimo del periodico genovese, che se realmente i due Corsi erano quali sono descritti, cioè per uomini, che trovano modo di arrollarsi in tutte le polizie del continente, non dovevano nella punizione essere assimilati al Presidente della Società nazionale italiana ed al Deputato, perciocché non era possibile, che potessero cospirare allo stesso modo.

Se il LaFarina, osserva lo stesso Corriere Mercantile, aveva missione officiale od officiosa, l'atto sarebbe stato grave ed impolitico; se vi era come privato, perché si sarebbe negato a lui quello, che si concedeva a tutti gli esuli siciliani? Che se poi il Dittatore era deciso a mandar via dalla Sicilia tutti principali capi delle lottanti opinioni, onde stabilire la concordia e rimuovere ogni causa di agitazione, ed allora, e con maggiore ragione avrebbe dovuto dare lo sfratto a chi cerca agitare la Sicilia in senso diametralmente opposto alla formoia proclamata dal Dittatore, Italia e Vittorio Emmanuele, con la quale indubitatamente LaFarina era di accordo.

L'Opinion Nationale, giornale liberalissimo ed italianissimo fra quanti se ne pubblicano in Francia, annunzia in questi termini il fatto di LaFarina.

«Una grave notizia di Sicilia ci giunge simultaneamente da più parli. Il signor LaFarina in completo disaccordo col Generale Dittatore è stato arrestato per ordine di questo ed imbarcato per Genova in mezz'ora di tempo.

«Ci rammarichiamo di questo fatto senza doverne valutare le cagioni, finora assai oscure.»

E prosiegue dicendo, che la quistione dell'annessione immediata sembrava essere stata la causa del provvedimento, di cui parliamo.

E questa causa appunto è dinotata nella dichiarazione pubblicata dallo stesso Signor LaFarina nel Piccolo Corriere d'Italia, ma non era la sola.

«Arrestato ed espulso dalla Sicilia per decreto dittatoriale del generale Garibaldi io mi sarei taciuto per riguardo alla causa nazionale, che mi sta a cuore più della mia vita, né sarebbero bastati a farmi uscire dalla dignità del silenzio i pettegolezzi inverecondi dei diarii mazziniani, se un articolo del Giornale officiale di Palermo, nel quale si attenta al mio onore, non mi facesse un dovere di protestare contro asserzioni, che scendono sino alla bassezza della più turpe calunnia.

«Le cagioni del mio dissenso col Generale Garibaldi, giacché si vuole che ad ogni costo io parli, furono le seguenti: io credeva e credo unica salvezza per la Sicilia essere l'immediata annessione al regno costituzionale di Vittorio Emmanuele, desiderio ardentissimo di tutt'i Siciliani, manifestato già cogl'indrizzi di più che 300 municipii. Il Generale Garibaldi credeva e forse anche crede doversi ritardare l'annessione fino alla liberazione di tutta Italia, compresa Venezia e Roma. Io credeva e credo, essere una grande imprudenza affidare parte dell'autorità e forza pubblica a ministri come Crispi inviso (non so se a ragione o a torto) alla grande maggioranza dei Siciliani; a ministri come Raffaele, borboniano al 47, repubblicano al 48, deputato a Filangieri e membro del governo municipale borbonico nel 49; o a Mazziniani notissimi come Mario, o a borbonici abborriti, come Scordato e Miceli, che traditori della rivoluzione nel 48, hanno combattuto contro gl'insorti nel 60, o fino ad uomini resi infami in tutta Europa come inventori di atrocissimi tormenti contro i liberali. Il Generale Garibaldi ha credulo e crede, che il concorso di questi elementi possa riuscire utile alla causa nazionale.

«Spiaceva a me che si tentasse ogni via per mettere in discredito presso del pubblico il governo piemontese è gli uomini di Stato, ai quali tanto deve l'Italia; dispiaceva, che gli uomini più devoti alla causa nazionale, e che più hanno fatto e sofferto in Sicilia per la rivoluzione, e che tutti i più intelligenti e capaci fossero esclusi dall'amministrazione della cosa pubblica; che si disciogliesse tutto l'ordinamento amministrativo; che si tenessero chiusi tutti tribunali; che non si volesse alcuna forza tutrice della sicurezza pubblica; che si mandassero a governare i distretti, con pieni poteri, o uomini sconosciuti o tristamente conosciuti (salve tre o quattro onorevoli eccezioni); che si combattesse con grande accanimento l'istituzione della guardia nazionale, unico palladio dell'ordine in un paese, dove non vi sono né magistrati, né carabinieri, né polizia; dispiaceva, che si allarmasse il paese avversissimo alle idee mazziniane con fare di Palermo il nido di tutti i più incorreggibili mazziniani d'Italia; dispiaceva infine, che mentre la stampa s'intimidiva sino al punto di minacciare di morte un giornalista, che aveva scritto un articolo contro Mazzini, si lasciasse pubblicare il Precursore, redatto dagli antichi redattori dell'Italia e Popolo, che nel suo primo numero affermava il governo piemontese volere l'annessione della Sicilia per poi cederla ai Borboni di Napoli, e cosi ottenerne l'alleanza.

«Ecco le ragioni del mio malcontento, che manifestai senza acerbezza e francamente al Generale Garibaldi, il quale nei primi giorni della mia dimora in Sicilia fu con me sempre cortese e benevolo, non ostante mi accusasse d'essere amico del conte di Cavour, d'aver votato il trattato di cessione della Savoia e di Nizza, e di averlo contrariato nella sua tentata impresa dell'Italia centrale.

STORIA DELLA GUERRA DI SICILIA

GIUSEPPINA DI BARCELLONA

 STORIA DELLA GUERRA DI SICILIA

ARRIVO DEL DONAWERTH A PALERMO

Durante l evacuazione delle truppe Napoletane

Prosiegue a dimostrare, che l'opinione pubblica in Sicilia fosse favorevole a lui, e che perciò il partito mazziniano se ne allarmava, di tal ché il 6, la vigilia dell'arresto, un mazziniano scriveva: —

«Bisogna mettere LaFarina e tutti i suoi intriganti in luogo di sicurezza, perché cosi si dissuaderà Lorenzo Valerio di venire anch'egli in Sicilia e d'intrigarvi in favore del suo nuovo amico e patrono Cavour. — «Questo consiglio, dice LaFarina, fu immediatamente accertato. — «E narra come la sera dei 7 di luglio alle 11 la sua casa fu invasa, e dataglisi mezz'ora di tempo, venne accompagnato fino alla fregata Maria Adelaide.

«E cosi, soggiunge, per decreto dittatoriale sono obbligato ad uscire da quella Sicilia, dalla quale tre volte mi cacciarono i Borboni, dove tre volte ho giocato la mia testa per la causa della libertà e della nazionalità italiana, e dove ora non mi fu dato neanche di abbracciare mia madre, che da dodici anni non vede suo figlio!

Noi ripeteremo, che manchiamo di dati certi per emettere un giudizio sulla opportunità o inopportunità della rigorosa misura adottata dal governo di Sicilia, né divideremo l'opinione del signor LaFarina sulle persone da lui indicate, perché non le conosciamo. Però dobbiamo dire, che sino al 48, e forse per un poco pure sino al 55, LaFarina fu repubblicano. Esiliato prima del 48, tenne per poco tempo il portafoglio ed espatriò per la seconda volta. Nel 53 formò con Manin e con Pallavicino la società nazionale italiana, che ha riunito intorno la dinastia di Savoia gl'Italiani di quasi tutte le frazioni liberali. Dal maggio 1859 sino alla pace di Villafranca egli fu segretario onorario del Gabinetto di Cavour, ma rifiutò un portafoglio nella Toscana come un segretariato generale nel ministero in Torino. L'essere stato presidente della società nazionale italiana, e lo essere stato mandato da sei collegi elettorali al parlamento nazionale, prova per certo in qual conto l'avessero i liberali più operosi e gl'Italiani. Pervenuto egli in Sicilia vide il partito mazziniano agitarsi di molto, e Garibaldi non guardarsi abbastanza dalle sue mene, si che procurò di fare pronunziare l'opinione pubblica contro di quel partito, e lo mise a livello dei borboniani. Forse — lo dicono anche i suoi amici — in questa opera mise troppo zelo, né adoprò la necessaria prudenza. Epperò non riuscì difficile al partito mazziniano o al partito così detto di azione di discreditarlo presso del Dittatore, nell'animo del quale le sue strette relazioni col conte Cavour avevano già dovuto ingenerare della diffidenza, e renderlo propenso alle insinuazioni di quel partito, che fece pruova di tutte le sue forze per spingere il Dittatore a dei provvedimenti che ripugnano al suo carattere, attaccandolo per quella parte assai debole, nella quale le virtù del cittadino non hanno potuto vincere la passione esacerbata dell'uomo che ha perduto il suo paese nativo.

E pare, che quel partito siasi abilmente giovato di una dimostrazione, che in sul finire di giugno vi era stata in Palermo.

La sera del 25 giugno vennero arrestati in Palermo il duca di Caccamo, 'Paolo Nicastro presidente della Suprema Corte di Giustizia e suo figlio, Giuseppe Napoletani procuratore generale della stessa Corte di Giustizia, il signor Tamajo, e qualche altro, persone tutte, che godevano di un'alta riputazione nella città e nell'isola. Immediatamente ne furono portati dei vivi reclami al Dittatore, e la risponsabilità ricadeva su Crispi, il quale chiamato ed interrogato, se ne chiamò fuori, ed addossò la colpa a questori. Costoro, che non avevano avuto né richiesto ordini scritti, pensarono nel mettere in libertà i notabili di fare uscire ancora tutti gli sbirri, tutt'i condannati ed i condannabili, che le prigioni contenevano; indi si dimisero. Il fatto, che quella gente sia stata messa in libertà è certo; che ciò sia avvenuto per un semplice movimento d'irritazione del questori, è scritto, ma noi non intendiamo affermarlo. Gl'inconvenienti però ne furono gravissimi, e la popolazione si persuase, che la confusione e la discordia nel governo dovessero aumentare la massa degli errori, che si erano commessi.

Epperò nella piazza Vigliena specialmente e nella via Toledo si gridò: Viva il Dittatore, abbasso i ministri. Indi una deputazione si rese dal Dittatore con una nota di ministri, chiedendo specialmente la rimozione del signor Crispi. Secondo il Precursore, organo di Crispi, il Dittatore vi si negò per quest'ultimo, dicendolo per mente e per cuore degnissimo della fiducia del paese, e ricusando pure Torrearsa e Pisani. Ritornò la deputazione con nuovi nomi, tra i quali il Crispi, ma con la nota — per obbedienza al Generale. — Allora Garibaldi disse: Se il popolo non vuole assolutamente il Crispi, e l'accetta soltanto per obbedirmi, io voglio ciò che il popolo vuole; e cancellò il nome del Crispi. Così furono nominati nuovi ministri Santocanale, Natoli. La Loggia, la Porta, Daita, e Lenza, rimanendo Orsini alla guerra. Erano nomi onorevoli e patriottici, se non. che si era dolente di essersi ceduto ad una dimostrazione pii strada; si sarebbe desiderato, che il cambiamento si fosse fatto, ma che si fosse resistito alla dimostrazione; però i momenti erano difficili, ed i torti del ministero, di cui si dimandava la caduta, molto gravi.»

Il signor Crispi, scriveva l'Italia degl'Italiani, solerte e coraggioso, non ispirava ancora una generale fiducia della sua abilità governativa; la discordia cogli altri colleghi rese infermo il ministero, ed incapace di guarigione.» — Esso dunque cadde al primo urto.

Ora la caduta del ministero e la dimostrazione, che l'aveva preceduto, porgevano occasione di addebitare a La Farina di averli provocali. Garibaldi aveva ceduto al voto popolare, ch'egli rispettava sopra tutto, ma si era diviso da persone, che egll'aveva molto care, e però riusciva più facile di farlo cedere ad un movimento d'impetuosità, adottando una misura, che doveva essere più ponderala, e che in niun caso doveva essere manifestata come il Giornale Uffiziale di Sicilia lo fece. Né di ciò pago, quel medesimo foglio scrisse:

«La Società Nazionale stremata di forze dapoiché il Generale Garibaldi ne ebbe declinata la presidenza, fu d'inciampo anziché di aiuto alla causa, per la quale si è battuta a Calatafimi, a Palermo l'eletta schiera venuta dal continente.»

Onde poi il Piccolo Corriere d'Italia ebbe a dichiarare

«In risposta al Giornale Officiale affermiamo, che la spedizione del Generale Garibaldi fu fatta colle armi e munizioni date dal nostro presidente LaFarina al Generale Garibaldi e per lui al colonnello Bixio, che ne ricevette la consegna; che la spedizione dell'Utile, comandata dal signor Agnessa, fu fatta con le armi, colle munizioni, e con 50, 000 franchi datidalla Società nazionale; che nella spedizione Medici la Società Nazionale concorse per più di 300 mila franchi; che la spedizione Cosenz fu quasi tutta fatta coi mezzi raccolti dalla Società Nazionale e che lo stesso debba dirsi delle spedizioni Siccoli di Livorno» — ; e finiva promettendo di pubblicare nel numero seguente il rendiconto e gli attestati di ringraziamenti dei diversi capi di quelle spedizioni. E nel numero 50 giustificava avere la Società Nazionale somministrato lire 520:930, 60 e che i comitati locali ne avevano per le meno somministrato altrettanto.

Tali discussioni addoloravano ogni animo italiano; le popolazioni italiane avversavano i partiti, quali essi si fossero, perché il trionfo della causa italiana era affidato, non ai partiti ma alla nazione Ei pare, che la opinione pubblica in Sicilia ne fosse scossa; una parte del ministero si dimise. Ne uscirono Natoti ministro degli Affari Esteri, che fu rimpiazzato da La Loggia; Santocanale ministro della giustizia, il ministro del Culto, ed il signor Dalla. Entrarono Amari Michele, Errante, ed Interdonato, perché due portafogli, quello della giustizia e del culto, furono riuniti ed affidati al signor Errante. Tal ministero fu taluni giorni dopo anche modificato, e forse in un senso più annessionista, dapoiché gli avvenimenti, che si svolgevano in. Napoli, gl'indirizzi di annessione, che incessantemente pervenivano dalle varie città siciliane fecero scorgere la necessità di rannodare quei legami, che lo sfratto di LaFarina poteva far credere indeboliti. Otto giorni dopo di quel fatto, vale a dire il 16 di luglio, l'Opinione di Torino annunziava: — «L'onorevole signor Deputato Agostino Depretis è partito ieri, Domenica, da Torino per Genova dove s'imbarca per alla volta di Palermo, chiestovi da Garibaldi, che desidera di conferire con lui. Egli ha avuto prima di partire alcune conferenze col Conte Cavour.»

— Se Depretis partì il giorno 14, bisogna dire, che il desiderio di Garibaldi di averlo fosse stato manifestato quasi immediatamente dopo il rincrescevole affare di LaFarina. Così al di sopra degl'interessi e delle meno dei partiti si elevata sempre il vero e nazionale interesse del risorgimento italiano.

Agostino Depretis, Deputato al Parlamento nazionale e già governatore di Brescia, aveva la stima tatti «II Deputato Depretis, scriveva il Corriere Mercantile, per la sua parlamentare posizione ha eguale fiducia presso varie frazioni del grande partito liberale; e ciò notando non abbiamo punto il merito di rendere giustizia ad un avversario: ma riconosciamo con piacere le buone qualità di un collega d'opinione, perché c. i pare, che almeno quanto alle cose essenziali, e dacché le grandi aspirazioni sono discese nel campo dei fatti decisivi, le idee del Deputato Depretis sulla politica nazionale e generale non differiscano punto da quelle, che abbiamo sempre difese.

Depretis apparteneva alla sinistra della Camera dei Deputati.

Depretis giunse le Palermo il 21 di luglio; e po che ore dopo partì pel campo, ove trovavisi il Dittature, accompagnato dal segretario di Stato signor Crispi. Allora il Ministro era ricomposto:La Loggia agli affari Esteri, Di Giovanni era preposto alle Finanze; Michele Amari ai lavori pubblici ed istruzione pubblica; Interdonato all'Interno; Errante alla Giustizia e Cullo; S. Giorgio alla Sicurezza; Piola alla Marina; Sirtori alla Guerra; Crispi Segretario di Stato senza portafoglio. Il giorno. seguente dell'arrivo di Depretis in Palermo, val dire il 22 di leghe, due decreto erano sottoscritti in Milano dal Generale Garibaldi. Il prirno diceva:

«Il maggiore generale Sirtori dovendo per necessità di servizio recarsi al quartiere generale, è rivocato il Decreto del 18. col quale ei fu investito dei poteri dittatoriali.» Il secondo ordinava: — «L'avvocato Agostino Depretis, Deputato al Parlamento nazionale, è nominato ProDittatore. Egli eserciterà tutti i, poteri conferiti al Dittatore nei Comuni della Sicilia.

E questa nomina otteneva l'assentimento dell'opinione pubblica: — «Pochi uomini, scriveva l'Annessione, possono avere, siccome il signor Depretis, la buona fortuna di ottenere giustizia imparziale da tutt'i partiti politici... Tutti riguardano la sua scelta come la più opportuna nelle attuali nostre contingenze, essa per questo pare debba rispondere a questi due principali bisogni:

«Mantenere il buon accordo tra le vedute del nostro governo provvisorio e quelle del governo di Piemonte. L'Italia ha oggi più che mai bisogno di unione nel volere e nei mezzi di azione. Tutti gli uomini, che sentono vera carità di Patria, e sono disposti à qualunque sacrificio pel trionfo della causa nazionale, debbono cominciare dal chiedere alla propria virtù questo primo sagrifizio delle emulazioni personali ed anche di qualche parte non principale delle proprie opinione...»

Il seconde bisogno non men. rilevante ed urgentissimo, cui pure debba rispondere l'opera del ProDittatore, è quello dell'organamento della sfasciata Macchina sociale.

«Le nostre rivoluzioni sono sempre radicali; sono un uragano, che svelle ed abbatte tutte le istituzioni preesistenti. Gli ordini amministrativi, giudiziarii, e finanzieri, più o meno integralmente scossi, esigono in fine una pronta riorganizzazione. Lo stata provvisorio e di transizione è già da per sé stesso una assai dura prova per la società.

Così si dileguarono le spiacevoli impressioni, che l'incidente LaFarina aveva prodotto.

Riprendendo adesso la nostra narrazione secondo l'ordine del tempo, che abbiamo interrotto per non ismembrare i fatti, che nell'ordine ideologico si collegavano con l'incidente sopraddetto, diremo come l'arrollamento era sempre l'operazione ch'esigeva le più solerti cure del governo, e che presentava molte difficoltà. Non pertanto queste difficoltà erano state di molto attenuate dalle nuove idee, che cominciavano a gettare radice nelle masse delle popolazioni. e che germogliavano aiutate dall'entusiasmo, che il nuovo ordine di cose tuttodì inspirava e mantenevato sul finire di luglio si contavano già 6, 000 arrollati con una ferma di quattro anni. La stampa adempiva benissimo per questo lato la sua missione:ti. Il Decreto del 14 maggio scorso, scriveva l'Unità italiana di Catania, è da riguardarsi come la legge più essenziale, che sia stata emanata sia oggi dal Dittatore; in Sicilia non si conosce la coscrizione, ed in ciò il governo borbonico, profittando dell'antipatia dei Siciliani di servire nelle milizie. che sono state strumento di schiavitù, faceva il suo conto. Rendeva la Sicilia, che sempre ha sturbato il sonno ai Borboni, indisciplinata, e quindi in una sollevazione non atta a battersi ordinatamente contro le milizie borboniche.»

E Unità Italiana di Palermo:

«Il Popolo ha scelto: tra il soldato borbonico e la leva, esso s'appiglia con entusiasmo a questi ultima come brillante orizzonte di libertà assicurata, come mezzo unico di vita morale e civile! Tra il morire incendiato, bombardato, derubato, schernito, tra il vivere affamato, ignorante, vilipeso, questo popolo ha deciso di morire santamente compianto sul campo di battaglia!

Per tal modo e giusta una corrispondenza da Palermo alla Nazione, l'armata siciliana nella metà di luglio si trovava cosi organizzata: Truppa completamente armata, disciplinata, e già in campagna.

1. a Brigata, linea regolare, 4 battaglioni; comandante Bixio.

2. a Brigata id. id,; comandante Medici.

3. a Brigata come le due prime; comandante Cosenz.

1. °, 2. °, 3. ° e 4. ° battaglione dei Cacciatori dell'Etna, tutti di volontarii siciliani col servizio forzato durante la guerra.

Una compagnia di Cacciatori genovesi.

1a e 2. a batteria di artiglieria.

1. ° battaglione del Genio.

Uno squadrone di Guide.

Due battaglioni di Cacciatori delle Alpi scelti.

1° battaglione dei Figli della libertà, forte di circa 900 uomini, formati e comandati dall'inglese Colonnello Dunne, ore erano molti esteri.

Truppa da completarsi in poco tempo.

Due altre brigate di linea regolare. Un reggimento di cavalleria sotto il comando del signor La Cerda, Si attendevano da Francia le Selle ed i fornimenti.

Sei altri battaglioni di Cacciatori dell'Etna a compimento di dieci.

. Due altre batterie di artiglieria a. compimento di quattro.

Vi erano inoltre 200 guardie di sicurezza, uno squadrone di compagni d'armi, e le compagnie mobili della guardia nazionale, che prestavano un servizio utilissimo per la tranquillità interna.

Era poi aperto l'arrollamento pel 1° reggimento di artiglieria di Piazza, pel reggimento di Marina, e pel corpo dei Carabinieri di Sicilia. e si formavano i quadri per un secondo reggimento di cavalleria e per altre batterie di artiglieria.

Quali o ai provvedimenti amministrativi, si tolsero le barriere marittime tra i puri d'Italia. e quelli della Sicilia; fu ripristinato il servizio doganale, e richiamata in vigore l'ultima tariffa, ridotta ed abbassata, ch'era in vigore prima della rivoluzione, ma fu abolito il vergognoso dazio su i libri; fu decretata una ferrovia, che internandosi Dell'isola per Caltanisetta, s conducesse a Catania e quindi a Messina. Il Ministro dei lavori pubblici era incaricato di contrattare con capitalisti nazionali o stranieri. Fu vietata la ricostituzione delle antiche maestranze o giurande. Fu ordinato chiudersi con pietre e calce e solennemente le prigioni destinate all'esercizio delle sevizie della polizia borbonica. Sulla considerazione, che gli eccessi e gli atti crudeli commessi dagli agenti del potere borbonico non autorizzavano alcun privato a trarne da stì stesso vendetta, ma solo a reclamare dal governo il meritato castigo, fu decretato, che ogni individuo, che perseguitasse o eccitasse a perseguitare un individuo qualunque sotto pretesto di essere stato un agente dell'antico governo e dell'abborda polizia, sarebbe stato per questo solo punito come reo di omicidio mancato, e sarebbe punito di morte, se in conseguenza del suo fatto il perseguitato fosse rimasto ucciso o gravemente percosso o ferito. Sarebbe poi punito coll'esilio perpetuo dallo Stato chiunque senz'ordine dell'autorità avesse arrestato o fatto arrestare un cittadino sotto lo stesso pretesto, e purché non si fosse servito dell'eccitamento popolare. Tali reati erano de. feriti alle Commessioni speciali, che procederebbero con rito subitaneo. Però era fatta facoltà a chiunque di riferire all'autorità i nomi di coloro, che con modi colpevoli avevano servito il governo borbonico, onde il Magistrato competente potesse procedere in Via di giustizia. Fu imposte. una contribuzione del per cento sul capitale corrispondente alla rendita imponibile risultante dai catasti fondiarii sopra tutti gli immobili posseduti; 1° Da tutti gli ordini religiosi esistenti in Sicilia.

2° Dai Vescovati, Arcivescovati, Prelature, Abbazie; Priorali, Commende, Benefizii, Prebende, Cappellanie di patronato nazionale, che non siano in sede vacante.

L'ammontare ne doveva essere riscosso in tre rate, la prima alla pubblicazione del decreto (11 luglio 1860); la seconda alla fine di agosto, e la terza alla fine di decembre del medesimo anno.

Tutti questi provvedimenti precedevano la prodittatura Depretis, come la precedevano pure le Istruzioni, che il governo di Sicilia aveva dato agli agenti, che aveva mandato presso alcuni governi esteri. Esse vennero pubblicate dall'Opinion nazionale, e costituiscono uno di quei documenti, che bisogna riferire per intiero.

«La Sicilia, vi era detto, scuotendo il giogo dell'occupazione militare borbonica, onde ha sofferto per undeci anni, ritorna a Odia piena sovranità di sé stessa, in cui la costituiva la rivoluzione del 1848, allorché dopo aver proclamato la decadenza della dinastia dei Borboni, essa chiamava un nuovo Principe sul trono, ed i suoi commessarii erano ricevuti presso i governi di Francia, d'Inghilterra, e di Sardegna, e la sua bandiera salutata dalle due più possenti marine del Mediterraneo.

«La violenza delle armi riconduceva nell'isola quel governo borbonico, illegittimo in dritto, condannato dalla costituzione del paese, e che in fatti non era, che una mostruosa tirannide, un vero anacronismo in mezzo all'incivilimento attuale a tal segno, ch'era divenuto proverbiale in Europa.

«Questo dritto e, questo dovere di regolare i proprii destini, che la violenza sola gli aveva tolti, il nostro paese oggi adunque li riprende con una legittima rivendicazione.

«Nel gennaio del 1848 la Sicilia entrava di proprio moto e con generoso impeto nel movimento italiano, cominciato già da due anni in Roma, in Toscana, in Piemonte, e dal quale l'aveva tenuta in disparte sin allora la politica austriaca e dispotica di Ferdinando II di Borbone.

«In quel tempo in Italia le idee non andavano al di là di un sistema di riforme e di miglioramenti locali per i differenti Stati italiani, e non oltrepassavano il disegno di una lega o confederazione di questi Stati indipendentemente e liberamente costituiti.

La rivoluzione siciliana si appoggiava adunque su i principii seguenti.

«1. ° Ristaurazione della costituzione del 1812, che i Borboni avevano giurata dapprima, e poscia violata, la quale cosa li aveva fatti giuridicamente decadere dal Trono.

«2. ° Autonomia siciliana e separazione dell'Isola dalla corona di Napoli.

«3. ° Il voto solennemente espresso di far parte, essa pure, della lega e confederazione italiana come stato indipendente sotto il proprio Re.

«Da quel tempo gli avvenimenti e le opinioni hanno considerevolmente progredito in Italia. La nazione aspirando a riprendere il suo posto e la sua importanza in Europa, si arrestava dapprima all'idea di una confederazione di Stati, come il solo mezzo, che potesse in quel momento condurla al suo fine, come fase intermedia, che doveva prepararla ad ottenere in un lontano avvenire la sua unificazione completa. Oggi essa ha intraveduto la speranza di giungere più presto a questo supremo scopo dei suoi desiderii.

«D altronde questo progetto di confederazione o alleanza, che or sono dodici anni sorrideva al sentimento pubblico e lo soddisfaceva, questo progetto è oggimai una impossibilità materiale e morale dopo la rottura sl deoisita delle Corti di Roma e di Napoli con la causa e con qualunque idea nazionale, dopo la sparizione dei piccioli Stati, che formavano il centro della penisola italiana.

«Gli è chiaro, che l'Italia desiderando e volendo una esistenza libera ed indipendente in mezzo alte nazioni moderne, non ha ormai, che una sola via di salute; aggrupparsi attorno a quella gloriosa monarchia di Savoia, che ha personificato in sé la vita, la forza e la dignità nazionale. Fuori di questa unica via non si troverebbe, che la dominazione rinascente dell'Austria, la barbarie di ciechi e crudeli governi, la discordia e la debolezza dei piccioli popoli abbandonati ai loro dissidii interni, alle mene, ed all'influenza dell'estero.

«Lo stesso sentimento, che ha spinto la Lombardia a salutare con gioia il trionfo delle armate alleate, che l'ha gettata nelle braccia del Re Vittorio Emmanuele, che ha trascinato la Toscana, le Legazioni ed i Ducati a votare spontaneamente la loro unione sotto lo scettro di quel Principe magnanimo, questo sentimento, che infiamma oggi i cuori di tutto un gran popolo dalle Alpi al Lilibeo, è lo stesso, che anima la Sicilia. La Sicilia, padrona oggi di sé stessa, intende e vuole come sempre essere italiana, ed è perciò, che rimuovendo ogni idea di separazione politica individuale, che sarebbe in disaccordo con la nuova epoca e coi nuovi bisogni, essa intende far parte di quella gloriosa monarchia nazionale, che l'Europa civile vede innalzarsi oggidì, e ohe saluta con gioia, come una nuova base dell'ordine, dell'equilibrio, del riposo, e del progresso del mondo.

«La Sicilia, riposta dalla violenza sotto il giogo del governo napolitano, non potrebb'essere per l'avvenire (come pel passato) che un pericolo permanente per la pace dell'Italia e dell'Europa.

«E se anteriormente la barriera, che separava moralmente l'isola dai Borboni di Napoli, sembrava già insormontabile, come credere ad una possibile conciliazione dopo gli orrori della presente guerra, quando il governo napoletano ha lasciato il paese nuotante nel sangue, saccheggiato, e distrutto a metà.? La Sicilia, isolatamente costituita, sarebbe un controsenso grandissimo, stante il movimento di agglomerazione e di assimilazione, che trascina tutto il resto d'Italia. Essa sarebbe troppo debole per resistere da sé stessa all'attacco di qualsiasi grande Stato, e si troverebbe esposta a divenire la preda di dominatori stranieri. Inoltre la scelta di un Re, che la governasse separatamente, sarebbe una sorgente di difficoltà e di complicazioni infinite, atteso l'odio popolare invincibile contro l'attuale casa regnante di Napoli o le gelosie e le diffidenze, che la scelta di un Principe di un'altra razza creerebbe tra le grandi potenze europeo.

«Col voto nazionale, oggi sl altamente espresso dalle popolazioni dell'isola, trovansi dunque di accordo tutte le considerazioni, alle quali la diplomazia è usa ad avere riguardo, affinché la Sicilia sia soddisfatta col pronto riconoscimento dell'annessione, che ha proclamato alle altre parti d'Italia riunite sotto la casa. di Savoia.

«Questo voto, che fu il primo grido della rivoluzione scoppiata a Palermo il 4 di aprile, è stato eziandio p grido di guerra della bande siciliane, che hanno resistito due mesi alle reali truppe nelle montagne del l'isola; esso ha risuonato per quattro giorni intieri a dove le bombe, la mitraglia, e l'incendio sconquassa vano e divoravano Palermo; esso è r unica conchiusione dei continui, uniformi, e calorosi indrizzi, che giungono a Palermo da tute i punti dell'isola.

«In Sicilia regna la concordia come nel 1848; essa è in tutti i Comuni, in tutte le classi del popolo senza veruna eccezione né differenza.

«Il soccorso paterno e naturalissimo, che gl'Italiani delle provincie continentali sotto gli ordini del Genera le Garibaldi ed a nome della patria comune hanno ap portato all'insurrezione dell'isola, questo soccorso non ha fatto, che assicurare il trionfo del gran principio di unità, in nome del quale la Sicilia si era sollevata e per lo quale essa ha combattuto tutta quanta. I volontarii del continente, che sono venuti a versare il loro sangue nell'isola, hanno dovuto restare meravigliati essi stessi di trovare sì vivo e si possente il sentimento nazionale unitario. !

«È probabile, che un'assemblea di rappresentanti dovrà riunirsi a Palermo per esprimere in una forma legale ciò che vuole, ciò che desidera la Sicilia. Probabilmente anche il popolo sarà convocato nei suoi comizii affine di pronunziarsi col suffragio universale nel modo stesso, come si è praticato nella Toscana e nell'Emilia; nell'uno e nell'altro caso il risultato non lascerà il menomo dubbio.

«Tal è lo scopo, tale il carattere reale della presente rivoluzione di Sicilia, che voi dovrete come in viato speciale del governo provvisorio di Sicilia bene spiegare e far conoscere al governo, presso del quale siete accreditato, aggiungendovi tute i motivi e tutti gli schiarimenti, che il vostro alto patriottismo saprà trovare.

«Il governo napoletano non mancherà certo di fare tutti i suoi sforzi per isnaturare i fatti ed accumulare calunnie sopra calunnie contro la Sicilia. Voi veglierete attentamente a smentirle, a presentare la verità nel suo pieno aspetto, non che a sventare le mene segrete, che saprà mettere in opera un governo essenzialmente corrotto e sleale.

«Con queste istruzioni riceverete i numeri del Giornale Uffiziale contenenti gli atti della Dittatura, del Generale Garibaldi fin dal suo arrivo nell'isola. Farete al bisogno risaltare le necessità estreme, che. accompagnano una sanguinosa rivoluzione in un paese soggetto da lunghi anni ad una tirannia brutale e corruttrice, in un paese, ove tutto il vecchio edilizio è crollato tutto d'un tratto; ed in vista di queste necessità farete notare l'urgenza di pronti ed energici rimedii.

«E inutile di raccomandarvi d'informare esattamente il nostro governo delle disposizioni, che incontrerete a riguardo della causa italiana, così nelle sfere officiali come nell'opinione pubblica.»

Questo documento fece molta impressione in Francia ed in Inghilterra. Ne risultava, che il governo di Palermo riguardava l'annessione come una misura indispensabile al complemento della rivoluzione; il Morning-Post osservava:

«Le istruzioni ricevute dagl'inviati, che il Generale Garibaldi ha incaricato di rappresentare e difendere la sua politica innanzi i governi di Francia e d'Inghilterra, sono state pubblicate; e sebbene il principe di S. Giuseppe ed il principe di S. Cataldo non possano aspettarsi di ottenere da Lord John Russell e dal signor Thouvenel la ricognizione offiziale dei loro titoli per parlare ed agire come gli organi del Dittatore della Sicilia, pure le loro relazioni officiose debbono necessariamente essere facilitate dalla precisione e nettezza degli oggetti, che hanno in vista, ed in ogni caso il mondo politico, il pubblico, ed i giornali dei due paesi posseggono ora dei documenti autentici, sui quali si possono fare una idea dei piani di Garibaldi.

«Noi siamo obbligati a dichiarare, che queste istruzioni tracciano agl'inviati, pei quali sono state scritte una linea di condotta, considerevolmente differente da quella, che il liberatore della Sicilia avrebbe cosi impudentemente progettata, se potessimo aggiustar fede alle asserzioni di La Farina, cosi differente, che siamo obbligati di adottare una delle due ipotesi, cioè o che la politica del governo siciliano ha subito un cambiamento completo dopo il momento, in cui ha tracciato questo programma della politica in progetto, ovvero che il sig. La Farina abbia lasciato imprimere ai suoi rancori ed ai suoi risentimenti personali un troppo oscuro colorito al suo quadro degli affari in Sicilia. Le istruzioni dei due inviati, quantunque scritte da Crispi, l'antico ministro dell'interno del governo di Palermo, sono state, come si dice, redatte sotto la immediata dettatura del Generale Garibaldi, ed in conseguenza meritano tutta l'attenzione, che un tale documento, composto in queste circostanze, deve naturalmente reclamare.»

E dopo di avere riassunto il contenuto di quelle istruzioni, termina osservando:

«Noi non sappiamo quali comunicazioni l'inviato a Parigi può trasmettere sopra questi differenti punti, ma l'inviato in questo paese può assicurare con ogni certezza il governo, dal qual'è accreditato che in tutte le isole britanniche regna la più profonda simpatia per gli sforzi del liberatore della Sicilia, e che niun ministro inglese può andare contro le opinioni ed i voti del popolo inglese.»

Ed il giornale, che così scriveva, era l'organo del presidente del consiglio dei ministri.

Nè le cure del governo e quelle specialmente della organizzazione militare distraevano il Dittatore da quegli atti, che sono di semplice forma, ma che intanto prevalgono molto più di quello, che non si crede nella scienza del governare. Tra questi, per la materia della quale ci occupiamo, merita un posto distinto la funzione disimpegnata da Garibaldi nella festa di S. Rosalia, non per la funzione in sé stessa, ma pel carattere e le opinioni del Generale, che ne costituiva il personaggio principale.

Le feste di Santa Rosalia sono celebri in Palermo e per tutta la Sicilia. In quella solennità il rappresentante del governo si mostra nel tempio rivestito della qualità di Legato pontificio, che sette secoli e mezzo addietro Urbano II concesse al Gran Conte di Sicilia, ed ai suoi successori. Nel 1860 spettava dunque a Garibaldi di mostrarsi nella cattedrale di Palermo qual rappresentante del Papa, ed assumere anche nella gerarchia ecclesiastica il primo posto. La solennità era fissata alle 11; alle 9 la guardia nazionale si schierava innanzi al tempio; più tardi giungeva la guardia dittatoriale, corpo privilegiato, composto dei giovani siciliani, che si erano maggior. mente compromessi sotto il governo dei Borboni per agevolare od aiutare la rivoluzione; essa si dispose ia doppia ala nella navata dell'amplissima chiesa.

Alle 10 il Senato, ossia corpo municipale, si recava al palazzo in forma pubblica. Era abbigliato con la toga alla spagnuola, e veniva tratto in due grandissime e ricche carrozze, preceduto da guardie, da trombe e da tamburi. Il Senato doveva ricevere nella più augusta di queste carrozze il Dittatore, ed intanto l'arcivescovo e gli altri dignitarii ecclesiastici aspettavano, che il Legato apostolico giungesse nella carrozza del Senato.

Ma Garibaldi alle 10 era andato al Molo per assistere all'imbarco delle truppe; il suo abbigliamento è la sua divisa militare; la camicia rossa ed il foulard a cappuccio, alla calabrese. Non appena sono le 11, che monta in una vettura. e dritto poi Cassero si dirige alla capitale. È preceduto ed accompagnato dagli immensi applausi del popolo. le bande suonano, i militi presentano le armi, e l'Arcivescovo ed il capitolo sa, che Garibaldi entra, senza del Senato, dalla grande porta della cattedrale, anziché dalla piccola ov'era atteso. Vi accorrono frettolosamente, si genuflettono innanzi a questo nuovo papa in camicia rossa; Garibaldi li accoglie con la sua solita semplicità ed affabilità, e messo sotto l'ombrello rosso, è guidato dall'arcivescovo e condotto prima al grande altare e poi al trono, ove si asside alla testa di tutte le autorità ecclesiastiche ivi convenute. Intanto il Senato ed i Segretarii di Stato, avvisati, si recano anch'essi frettolosamente alla cattedrale, e la cerimonia comincia. Garibaldi esegue con moltissima precisione il cerimoniale, che il Maestro di Cerimonie gli addita.

Compiuto il rito, il Dittatore entra nella carrozza del Senato, che circondata da cristalli lascia vedere Garibaldi in camicia rossa seduto solo dalla parte del le ruote ritto e col cappello sulle gambe, e di fronte a lui assisi i Senatori. Il popolo applaude, I balconi rovesciano fiori, e l'uomo, nel quale non v'ha. orgoglio, non vanità, non ambizione, ma santo e schiettissimo amore della patria, ritorna al Palazzo nell'assunto Carattere di rappresentante del Papa, che lo di, chiara un nemico di sé e della Chiesa.

E per vero il 9 di giugno il Papa scriveva al Vescovo di Sinope amministratore apostolico della Chiesa Messinese:

«Pio Papa nono

«O venerabile fratello, a te salute e benedizione apostolica. Noi abbiamo ricevute due tue lettere rispettosissime datate il 31 gennaio e 26 febbraio con le quali in tuo nome ed in quello dei Vescovi di cotesta ecclesiastica Provincia ti piacque contestarci confermarci la forza e la grandezza della devozione e reverenza verso di noi e verso questa Santa Sede. Però mentre ti dispiacevi moltissimo in esse lettere, delle nostre calamità ed afflizioni, ansiosi e tremanti temevamo gli audaci sforzi di coloro. che sostenuti dall'aiuto dei potentati. calpestando con una impudenza sinora inaudita qualunque dritto divino ed umano, disegnavano di spingere alla rivolta le altre tranquille regioni d'Italia;

«La Sicilia fu percossa ed afflitta da tale sventura, e poi o venerabile fratello, dolentissimi abbiamo veduto contro coteste regioni una schiera perniciosissima di uomini disperati venuta sopra navi del regno di Sardegna. Sembrerà veramente incredibile ai presenti ed ai futuri l’audacia di tali predoni; ma il silenzio e la connivenza di coloro, le cui navi occupavano il porto, vincono e superano quella scelleraggine. I pirati hanno messo avanti per ragione quella di estendere la unione italica; colle armi atterriscono l'isola, assalgono le regie armate, ed eccitando per ogni dove i popoli alla ribellione, ed irrompendo impadronitisi dei luoghi non fortificati, minacciano la rovina a tutta la Sicilia, se essa non si unisce all'impero del regno subalpine, ed a quello non obbedisce. In verità rovinano tutti i principii, a cui si appoggia;l'umana società, se ognuno può mandare armi e predoni per impossessarsi di ciò, ch'è di altri; ed in tal modo tendere i confini del proprio regno.

«Ma coloro, che sono ingiusti e duri di cuore sappiano, che non tarderà a noi l'aiuto. Quindi confortati, venerabile fratello, e riponi la tua fiducia nel Signore, il quale non manterrà a lungo in tempesta il giusto. Persevera in tutte le orazioni e preghiere a lui,: scongiurandolo acciocché presto venisse in aiuto nostro e di tutta l'Italia. Rivolgiamoci con fiducia al patrocinio della onnipotente padrona del mondo, Regina del Cielo, Maria Vergine Immaculata, la quale stritolò tutt'i mostri degli errori e le eresie.

«Frattanto con grandissimo amore io ti abbraccio unitamente agli altri Vescovi suffraganei di cotesta provincia, pregando efficacemente Dio ottimo massimo, affinché, sotto il patto dei predoni e dei ribelli, custodisca e difenda col suo santo braccio voi, tutto il clero, ed il popolo. Desideriamo, che sia auspice di questa divina protezione l'apostolica benedizione, che con tutto il cuore amatissimamente impartiamo a te, venerabile fratello, ai sopradetti Vescovi suffraganei, e a tutti gli altri».

«Da Roma presso S. Pietro a 9 giugno 1860, l'anno decimoquarto del nostro pontificato».

«Pio IX».

Ma non tutti i Vescovi ed il Clero della. Sicilia partecipavano alle, opinioni del Vescovo di Sinope e dei suoi suffraganei. Molli indirizzi erano presentati dal Clero al Dittatore, e tra essi prescegliamo quello del Vescovo di Mazzara:

«Signor Dittatore;

«Se i gloriosi figli della Sicilia indrizzano caldi voti al cielo per l'esimio restauratore della nazionalità italiana, che sa vincere semprepiù nell'invocazione del vero Dio degli eserciti, anziché, nella materiale forza degli uomini, non è men sentito debito il mio perciò di esprimere a Lei le più vive congratulazioni, e che implori da Dio sul di Lei capo ogni benedizione e conforto da bastare al completo trionfo della gran causa, si che nella s'orla e più meglio in tutt'i cuori dei Siciliani resti perpetua la riconoscenza e la memoria inverso il nome chiarissimo di Lei.

«Avrei ciò praticato, secondo che desiderava, di persona, se da venti giorni non avessi sofferta infermità e mi spero col divino aiuto di adempierlo, rimesso perfettamente in salute.

«Voglia pertanto gradire queste brevi ma sincere parole in vero omaggio di quell'alta ammirazione e rispetto, con che mi tolgo l'onore di essere

Devotiss. ed obblig. mo Servo vero

CARMELO VESCOVO DI MAZZARA,

Mazzara 7 luglio 1860.»

Nè crediamo, che Monsignor l'Arcivescovo di Monreale dividesse nella parte politica gli affetti del Pontefice quando il 20 di giugno dirigeva al Dittatore il rapporto, che inseriamo, anche come irrecusabile pruova degli eccessi commessi dalle truppe regie senza risparmiare neppure i più pacifici ed inoffensivi cittadini:

«Signore;

«Mi è sensibile dovere partecipare a Lei la morte di D. Giovanni Scorza, impiegato presso l'amministrazione di questa Mensa Arcivescovile.

«Se la perdita di un buon cittadino, di un onesto impiegato, di un ottimo padre di famiglia è grave al cuore di chi sente per l'umanità, dolentissima è quella dell'infelice Scorza per le incredibili sventure, che afflissero lui e la desolata famiglia.

«Fiducioso egli nell'ordinanza del cessato governo che prometteva garanzia e difesa ad ogni buon cittadino, chiuso in sua casa, non partecipante ai moti insurrezionali, rinforzavasi nella di lui abitazione, quando il 27 maggio un orda di soldati assaltarono la di lui casa, Via Piazzetta, e bruciandone le porte, irruppero, vibrando fucilate contro una famiglia di ragazzi, donne, ed inermi, e ferirono mortalmente l'infelice; né contenti del saccheggio e del furto, gli rapirono ancora una figliastra di anni diciannove ed. un figlio di cinque, anni.

«La condizione, in cui trovavasi la città, specialmente la strada di porta di Castro, impedì allo sventurato ogni soccorso, e per tre giorni interi ei giaceva mortalmente ferito, privo di aiuto e di cibo con quattro pargoletti d'innanzi, con la moglie incinta negli alti mesi, ed addolorato nel cuore più che nella ferita poi due figli strappati alle sue braccia, e dei quali ignorava la sorte.

«La natura delle ferite, i mancati rimedii, il di lui stato morale esacerbarono il male, onde, appena avuto il conforto del ritorno dei figli, rendeva l'anima a Dio.

«Tante sventure, lo stato di miseria, in cui è rimasta l'afflitta vedova incinta con cinque orfanelli, oltre la figliastra già adulta, mi hanno veramente commosso; e nella fiducia che l'animo generoso e caritatevole di chi sta al governo vorrà coi suoi alti poteri alleviare i mali di tanta sciagurata famiglia, io ardisco proporre, che su i fondi di questa Mensa sia alle tre orfanelle Emilia, Matilde, e Celestina Scorza accordata una pensione di orze venti annuali di netto per ciascuna, per modo che con tale sussidio possano insieme alla vedova D. Angela di Franco in Scorza, ai due ragazzi Goffredo ed Eduardo ed al postumo da nascere, se non vivere, almeno non perire di fame.

«I beni della Mensa sono patrimonio dei poveri, ed io credo, che la famiglia, per la quale mi rendo intercessore, possa meritare l'alta considerazione del governo.

«Monreale 20 giugno 1860.

«L'Arcivescovo

Benedetto d'Acquisto.»

E nove giorni dopo la proposta veniva compiacentemente approvata.

Il 21 di giugno il Dittatore scriveva a Ruggiero Settimo la seguente lettera:

«Stimatissimo e carissimo amico;

«Se vi fu favore della Provvidenza, per cui un uo mo deve umiliarsi davanti ad essa con gratitudine immensa, quello è certamente a me successo negli avvenimenti venturosi succeduti in questi ultimi giorni in Sicilia, e nei quali ebbi la fortuna di partecipare.

«Questo bravo popolo è libero — la gioia è dipinta su tutt'i volti — le contrade echeggiano del grido di gioia, dei redenti — però una voce malinconica s'innalza dalle moltitudini: Non comparisce Ruggiero Settimo! Il padre del popolo siciliano. il veterano dell'indipendenza patria.. il venerando proscritto non divide la contentezza universale! Il focolare del patriarca della libertà italiana è deserto!.. freddo!

«Oh venite!.. uomo della Sicilia.. a completare il giubilo del vostro popolo, che di Voi si mantenne degno, che soffrì per dodici interi anni tutto ciò, che la tirannide ha di più atroce, ma che non piegò il ginocchio giammai davanti al dominatore superbo ed inesorabile.

«Il vostro arrivo in Sicilia sarà la più bella delle nostre feste nazionali.»

«Con affetto

«Vostro G. GARIBALDI.

«A Ruggiero Settimo — Malta.»

«Al Presidente poi del Comitato centrale di Londra lo stesso Garibaldi scriveva:

«Signore;

«Uno dei miei amici mi dà l'idea, che esponendo al vostro Comitato il bisogno urgente, che noi abbiamo d'una flottiglia, sarebbe possibile ottenere una coppia di steamers armati di cannoni Armstrog. Noi abbiamo già ricevuto tante prove della simpatia e della generosità del popolo inglese verso noi, che ho ardito farvi quella dimanda.»

«Vorrete voi compiacervi di far gradire ai vostri onorevoli colleghi l'espressione della mia più viva riconoscenza e di quella di tutta l'Italia.»

GARIBALDI.

 

STORIA DELLA GUERRA DI SICILIA

IL CONVENTO DI S. CATERINA

DOPO IL BOMBARDAMENTO DI PALERMO

CAPITOLO XIV

 Continuazione. — Combattimento di Milazzo.

Sgombro della Sicilia.

SOMMARIO

Discorso di Russell nella Camera dei Comuni il 12 luglio — É applaudito dai Deputati — L'Italia ne traeva argomento per perseverare nella via prescelta — Indirizzi di annessione dei Comuni siciliani, Indirizzo di Caltanissetta — Palermo, rettificazione di una notizia divulgata — Messina — La colonna di Cosenz sbarca in Palermo — Si aumenta pure la flottiglia siciliana — Ma lo stato delle Finanze non era prospero — Officio del Segretario di Stato de!le Finanze — Il Dittatore nasconde accuratamente i suoi progetti ulteriori — La diplomazia;a si ad prava a salvare da una invasione le provincie continentali — Lettera di Vittorio Emanuele a Garibaldi Le condizioni, da cui dipendevano i desiderii manifestati in questa lettera, erano impossibili — Risposta di. Garibaldi — Movimenti militari — Medici a Cefalù — Ed in Barcellona — Suo movimento Proclama di Medici ai Sol dati napoletani Movimento di Bosco — Telegramma del 13 e 14 luglio — Spadafora, Meri, Gesso, S. Lucia — Telegramma del 16 — Avvisi del 17 — Telegramma del detto giorno Combattimenti del 17 luglio — italiani — Dettaglio di quei combattimenti — Essi rendono più animose le truppe italiane — Corrispondenza di Bosco sorpresa — Rinforzi, che giungono a Medici — Lettera di Assanti al Governatore di Cefalù — Battaglione di Siccoli — Proclama di Garibaldi del 18 luglio — Viaggio del Dittatore — Ordine del giorno da Meri — Telegrammi pel combattimento di Milazzo — Due Bollettini del Campo — Lettera di A. Natali sul combattimento di Milazzo — Il Precursore di Palermo — Giornale Officiale di Sicilia — Giornale Officiale di Napoli — Rapporto del Colonnello Roseo — Impossibilità di avere notizie neanche approssimative sul combattenti a Mitezze v Però i Napoletani potevano essere tra i 5 ed i 6 mila uomini — I Garibaldini forse 4 mila;. le squadre siciliane non si possono determinare — Nulla si sa delle perdite — Giudizio sulla strategia di Garibaldi in quel combattimento — Capitolazione del Castello di Milazzo — Convenzione di Messina — La popolazione vi ritorna — Sgombro di Siracusa ed Agosta — Consegna delle batterie del Faro — La Sicilia è perduta pei Borboni — Bivio e Menotti Garibaldi in Catania Commessione di Garibaldi a La Masa — Provvedimenti amministrativi — Depretis riceve il Senato di Palermo — Si decreta il Consiglio di Stato — Si proclama lo Statuto — Commessione per le ferrovie — Offerte volontarie — Garibaldi alle donne siciliane — Passaggio ai capitoli seguenti.

La seduta della Camera dei Comuni inglesi del 12 di luglio manifestò officialmente all'Europa quale fosse la politica, che l'Inghilterra si proponeva di seguire relativamente all'Italia. ed in questa esposizione il Ministero si trovava di accordo con la pubblica opinione.

Roberto Peel dimandò in quella seduta, che il Ministero presentasse tutt’i documenti riguardanti le cose d'Italia, e Lord Russell, esposto prima un sunto della Storia d'Italia dopo il 1815, e dimostrato come l'influenza acquistatavi dall'Austria dovesse portare alla guerra, soggiunse

«Nel 1859, come un giorno o l'altro doveva succedere senzachè fosse possibile di precisarne l'epoca, il Re di Sardegna ha esaltato gli animi degl'Italiani. Egli ha detto, che sentiva la loro agonia, che simpatizzava con le loro sofferenze, ed ha chiesto nel tempo stesso contro l'Austria l’aiuto della Francia.

«L'Inghilterra diretta dal Ministero Derby si è astenuta dal prendere parte alla guerra. Il Parlamento e la popolazione di questo paese ha applaudito a questa neutralità, ma dall'esserci limitati ad appoggiare il ministero ed applaudirlo, noi non potevamo pretendere ad alcuna ricompensa ed a spoglie di sorta della guerra.

«È ora noto, che al principiare della guerra, forse con trattato formale, ma in ogni caso con formali convenzioni, che legavano il Ministro di Sardegna, il quale non poteva liberarsene, era stato convenuto, che nel caso che si costituisse pel Re di Sardegna un gran Regno d'Italia, Nizza e Savoia sarebbero siate cedute alla Francia.»

Siegue l'esposizione della politica del Gabinetto, di S. Giacomo circa l'annessione di Savoia e di Nizza, indi prosiegue: I popoli d'Italia non solo dopo il 1815, ma da secoli, hanno sempre grandemente sofferto. dalle loro dissensioni. Sono stati oppressi da potenze estere. furono posti sotto l'obbedienza di armate estere, ed ebbero per padroni tiranni, che detestavano. Il loro genio così grande e degno di ammirazione è schiacciato. Furono biasimati ed accusati dalle altre nazioni, sentirono vivamente questo biasimo, e compresero, che alle loro dissensioni dovevano le loro miserie ed i loro infortunii.

«Era naturale, che uomini, che desideravano l'indipendenza della loro patria, che facevano voti affinché l'Italia esercitasse una gran parte nel mondo, cercassero l'antidoto, non appena conosciuto il veleno, e si sforzassero di recare rimedio ai loro mali con una stretta unione.

«La tirannia in Toscana non era certamente molto crudele, era un governo dolce e indulgente, e se non si fosse trattato, che di mettere un Sovrano invece di un altro, i Toscani certamente non sarebbero stati disposti a fare una rivoluzione. Ma era opinione in Toscana. che senza unione sotto un solo sovrano non vi sarebbe per l'avvenire né sicurezza né indipendenza possibile.

«Il Re di Sardegna è un galantuomo, è un prode valoroso soldato, che si è non solamente distinto per i suoi meriti personali come sovrano, ma ancora pel suo desiderio di assicurare l'indipendenza d'Italia; e sono le qualità del Re di Sardegna, che hanno stretto gl'Italiani d'intorno a lui, e gli, hanno impegnati a rimettere nelle sue mani la loro sorte.

«Che doveva fare là Francia in tali contingenze? L'Imperatore dei Francesi aveva firmato un trattato, nel quale era detto, che i duchi di Toscana, Modena, Parma conserverebbero tutti i loro dritti. Ma egli aveva nel tempo stesso dichiarato, che non adoprerebbe mai la forza, e che non patirebbe, che fosse adoprata per costringere i popoli d'Italia. Questa dichiarazione ha incoraggiato gl'italiani; essi hanno dichiarato, che desideravano di unirsi al Piemonte.»

L'Austria indebolita dalla guerra, scoraggiata dai rovesci sofferti, ha dichiarato dal canto suo, che riservando i suoi dritti, dritti fondati sulla legittima sovranità e su i trattati, essa non farebbe alcun attacco contro gli Stati rivoltati dell'Italia, ma che si limitava a difendere le proprie frontiere.

«Quale via tenne allora il governo inglese? Egli ha detto, che il governo italiano avendo sofferto sotto l'antico sistema dei regolamenti della Francia e dell'Austria e dalle loro rivoluzioni del 1831 e 1848 ed in altre occasioni, era tempo di vedere se gl'Italiani non potessero governarsi da loro stessi, ed il governo emise quel principio, che il popolo italiano sarebbe lasciato libero di scegliere da sé stesso il proprio Sovrano, senza che le Potenze estere avessero il dritto d'intervenire.

«Il popolo governato dal Re di Sardegna non mostrò sin qui alcuna disposizione al disordine; nell'Italia centrale durante tutte queste rivoluzioni non è stato commesso, che un solo omicidio: tutto questo non somiglia per nulla all'anarchia, il governo civile non cessò mai di funzionare.»

Passa poi a parlare della missione di Lord Minto nel 48; parla delle relazioni dell'Inghilterra colla casa Borbonica di Napoli; poi continua:

«Il popolo napoletano e siciliano dal 1848 al 1859 ebbe non solamente un governo assoluto di un Re, ed una dispotica condotta dei suoi ministri, ma arbitrarie e tiranniche vessazioni della polizia, che faceva leggi, che arrestava a capriccio, che penetrava nella vita domestica, e che rese il paese un esempio di miseria politica e d'odiosa tirannia senza pari.

«Il governo precedente mandò Elliot con istruzione di cercare di ottenere un ministero liberale ed una costituzione pel regno. Prese in mani le redini del governo, le nostre istruzioni furono una politica liberale, istituzioni popolari, ed equa applicazione della legge. I ministri del re di Napoli risposero, che non darebbero costituzione, che avversavano le istituzioni popolari, che avrebbero pensato di applicare la legge. A tali risposte il ministro inglese ha detto: — Se volete applicare la legge, perché conservate contra ogni, legge tanti individui in prigione? — La legge, ripigliò il ministro napoletano, è per il popolo in generale e non pel governo; il governo può fare arrestare chi gli piace; è necessario nell'interesse dello Stato, che il governo non sia punto obbligato ad osservare la legge. —

«Si continuò sempre a consigliare una costituzione liberale, delle concessioni, o che almeno fosse applicata la legge. Se i nostri consigli fossero stati seguiti, non si sarebbe giunti al punto in cui si è; se le concessioni fatte non ebbero risultato, ciò prova, che queste concessioni furono fatte troppo tardi, e noi non avremo a rimproverarci di avere dissimulato al re di Napoli nulla di quello, che avrebbe potuto salvare il sue trono ed assicurare il suo governo. Per ora posso dire, che qualche mese fa il re di Napoli avrebbe potuto salvare Napoli e la Sicilia. Qui voglio spiegare un fatto particolare accennato da Peel; egli ha parlato di una dichiarazione, ch'io ho fatto a Sir Bowyer a riguardo di Garibaldi. Ma egli non ha constatata la data della risposta fatta, ed ora dice, che non la sa. Essa è dell'anno scorso, quando il re saliva sul trono, e che noi desideravamo, che conservasse il trono, concedendo una costituzione liberale. Noi allora abbiamo detto al re di Sardegna, che speravamo, che non avrebbe permesso a Garibaldi di sbarcare in Sicilia.

«Ci fu assicurato, ch'egli non aveva tale intenzione, ma notizie di Napoli c'informavano della positiva esistenza di questo progetto. Ciò che avvenne ebbe luogo a nostra insaputa. Non mi è noto, se lo fosse pure per parte del governo sardo, ma io penso, che il governo sardo lungi dal riguardare la spedizione di probabile riuscita, la giudicava una folle intrapresa, e temeva, che fosse completamente fallita.

«lo ho detto in altra occasione, quando Garibaldi fu chiamato filibustiere, che quello non era un nome da apporsi ad un uomo, che tenta di affrancare il suo paese da servitù, e rivendicarlo in libertà. Garibaldi è uomo di carattere straordinario. Egli sbarca con 1000 a 2000 uomini in Sicilia, ed in 13 giorni costringe un esercito di 18 a 20 mila a capitolare. Il popolo della Sicilia lo siegue come suo condottiero. Forse questo popolo si dichiarerà per la sua unione al Piemonte. Per mia parte io dubito forte, che i popoli dell'Italia settentrionale e della meridionale insieme congiunti formino uno Stato saldo ed unito. Ma questi sono miei dubbii. Se al re di Napoli vien fatto di conciliarsi i suoi soggetti e reggerli con libere istituzioni, il governo della regina non lamenterà un simile risultato. Se alla Sicilia è offerta la costituzione del 1812, e n'è soddisfatta, noi ne saremo pure soddisfatti. Ma d'altra parte noi non perderemo mai di vista il principio da noi dichiarato, principio sacro, inalterabile, che negli affari interni d'un paese il popolo di quel paese ne è il solo giudice, e che gli stranieri non debbono costringerlo, né influenzare la sua decisione. Spetta al popolo siciliano, spetta al popolo napoletano, e; sebbene ciò offenderà taluni, spetterà al popolo romano di dire qual è la forma di governo, sotto cui intendono di vivere. In Italia non abbiamo altra politica, che lasciare le popolazioni libere. Se la loro decisione. condurrà quei popoli alla felicità ed alla libertà, noi ne goderemo assai, non solo pereliè le nostre simpatie suno per la libertà; di cui conosciamo tutto il valore, ma eziandio perché siamo convinti, che per la conservazione dell'equilibrio europeo non vi è, né vi può essere maggiore sicurezza, che la indipendenza d'Italia».

Questo discorso riscosse replicati applausi, onde là mozione di Peel fu rigettata. La camera dei deputati si associava intieramente ai pensieri espressi dal ministro, ed in questo almeno rappresentava esattamente i voti e le aspirazioni del popolo inglese. Il popolo italiano ne traeva argomento per perseverare. nella via, nella quale era entrato, e la lettera di Garibaldi al comitato centrale di Londra veniva ricevuta con grandissimo favore.

Noi omettiamo di riferire i. nomi dei Comuni, da cui pervenivano indrizzi di annessione. Sono tanti, che il nominarli si ridurrebbe ad una sterile enunciazione di nomi; in una sola relazione ne abbiamo. contato venti, in un'altra 60. In Caltanissetta il popolo non si con. tentò né dell'indirizzo del comitato né di quello del consiglio civico, ma volle, che si fosse redatta una formale deliberazione dal detto consiglio civico, e si fosse depositata nelle mani del presidente della camera notariale della provincia, onde munirsi della firma di tutti coloro, che sapevano scrivere, e che accorrevano in folla, per modo che alle ore 24 d'Italia si presentava tuttavia moltissima gente per la sottoscrizione, e la città si vide spontaneamente illuminata; in quella deliberazione fra l'altro si diceva:.

«Non è mai garentita ogni libertà, finché alla costituzione delle proprie forze essa non sí affidi, né vi è forza fuori dell'unità.

«E perciò la grande famiglia italiana, i cui legami più naturali sono assegnati nella lingua e nella storia, nella religione e nei suoi destini, nella razza e nei suoi costumi, ha dritto di riscuotere la dignità nazionale, che le debbe assicurare il suo luminoso ed elevato rango politico fra le nazioni del mondo. a In Palermo le cose procedevano senza nulla di nuovo; una notizia st era sparsa, per la quale si affermava, avere Garibaldi falli uscire dalle prigioni della Vicaria e messi in libertà i detenuti per delitti comuni; questa notizia aveva prodotta una dispiacevole impressione, ma una lettera del Generale Turr diretta al Dritto la smentiva. Narrava egli che nel t giugno essendo col Colonnello Gonzales, delegato di Lana per tracciare la linea, entro cui dovevano restringersi le truppe regie per imbarcarsi, ebbero quei due uffiziali a soffermarsi alla Vicaria, che cadeva nel raggio, da occuparsi dai regii. Ivi il Colonnello Gonzales informandosi da uno dei custodi come le carceri fossero rimaste vuote, gli fu risposto, che i carcerati fuggirono In massa, appena le truppe napoletane abbandonarono il posto.

Le notizie di Messina del 1 di luglio continuavano a dipingere la città come deserta di abitanti, ma piena di soldati, che giravano nelle vie o intorno le mura. Il porto solo era animato dai vapori di tutte le nazioni, che percorrevano quelle acque.

La vicinanza degl'insorti e le. numerose pattuglie napoletane dirette nei dintorni della piazza, avevano già cagionato più volte degli allarmi e delle scaramucce insignificanti. In varie circostanze, particolarmente di notte, si videro soldati napoletani tirare conL tro pattuglie guidate da uffiziali, per cui si ebbero, a deplorare dei morti e feriti.

Frattanto il 6 di luglio sbarcava in Palermo la colonna di Cosenz. che il Washington vi aveva condotto. Componevasi di 1200 uomini, e recava, secondo l'Annessione, 14 cannoni rigati e molte munizioni. Secondo una corrispondenza del Siècle da Genova la spedizione sarebbe stata composta di 2000 uomini, distribuiti 1200 sul Washington ed 800 sulla Provence, ed i cannoni rigati del calibro di 18 sarebbero stati 6. cioè 4 sul primo legno e 2 sul secondo. Tra due notizie, una del luogo, d'onde la spedizione è partita, l'altra di quello, ov'è arrivata, è difficile scegliere l'una piuttosto che l'altra. Quello però, ch'è certo, e ch'è veramente importante, si è, che non mancavano gli uomini, ma i mezzi di trasporto. Quando la spedizione di Cosenz parti da Genova, vi erano 3000 nomini pronti a partire. In una corrispondenza del 6 luglio della Presse di Parigi è detto: — «Ho voluto rendermi esatto conto della partecipazione, di cui si è tanto parlato dell'Università di Pavia alle spedizioni siciliane. Ho veduto i professori, ho conversato con gli allievi. Su 2000 giovani, che, questa Università contava in questo inverno, 950 sono partiti per raggiugnere Garibaldi. Questi giovani si salvano (alla lettera) per andare ad imbarcarsi in Genova. Ve ne sono di coloro, che non hanno ancora 16 anni. Senza gli sforzi dei parenti, senza la sorveglianza dei Direttori, ne partirebbero anche dippiù. Molti genitori sono venuti a riprendere i loro figli, onde condurli lontano da questo contagio di patriottismo, e non li hanno trovati. Sono già venuti 12 a 45 di questi studenti feriti o in convalescenza, e fra loro vi è il figlio di un professore di 16 anni e mezzo.

«Questo trasporto si è alquanto rallentato in questi giorni, perché si è sparsa la voce, che Garibaldi in seguito di quello; che avviene in Napoli non pensa più ad una invasione nella terraferma, ma al primo segno la corrente riprenderà, ed allora sarebbe utile, che fossero giunte le vacanze, perocché penso, che non resterebbe, che un impercettibile numero di allievi in questa Università così frequentata, che giunge sino a contare tre in quattromila giovani.»

Ritornando alla spedizione di Cosenz, Garibaldi andava ad incentrarla alla spiaggia, ed è facile d'immaginare come la popolazione la ricevesse. Dicevasi, che fossero tutti Lombardi e Veneti.

E cime si aumentava l'armata di terra, così pure si cominciava a comporre una marina. L'indomani del giorno, in cui il Veloce entra in Palermo, ossia il di 11 di luglio, ne uscì sotto il comando del sig. Piola, Segretario di Stato della marina, e con equipaggio d'Italiani e Siciliani; vi era pure il signor Anguissola. Il giorno seguente rientrò alle 7 p. m, accompagnato dai Vapori napoletani l'Elba ed il Duca di Calabria (). Giunse pure il Lombardo sollevato sopr'acqua per opera dell'incaricato del governo signor Napoleone Santocanale e col lavoro di 100 uomini e 32 pompe.

Ma ad intrattenere la truppa di terra e di mare fa d'uopo del concorso delle Finanze, e quelle della Sicilia non si trovavano in un florido stato. Da un officio del Segretario di Stato delle Finanze signor di Giovanni del 10 di luglio al Tesoriere si rileva, come fosse imbarazzante la condizione finanziera dell'Isola. — «Fra lo spazio di 15 giorni io debbo contare, che il quadrimestre della tassa fondiaria scaduto con l'ultimo aprile e quanto rimane ancora ad esigersi delle precedenti maturazioni, si trovassero entrati immancabilmente nelle casse degli Agenti della percezione. Mancata con l'abolizione del dazio sul macinato una delle principali risorse dell'Erario nazionale, la riscossione delle altre tasse diviene un urgente necessità nel momento attuale. Conoscendo lo spirito generoso, la nobile abnegazione mostrati dal popolo Siciliano pel trionfo della causa nazionale, non potrei attribuire a tiepidezza dei contribuenti, ma bensì alle condizioni dei primi giorni d'un grande Mutamento politico il ritardo sperimentato sin ora nel pagamento della fondiaria.

«Oggi però siamo giunti al momento, in cui la più piccola remora non avrebbe scusa.»

— E dopo di aver detto come sarebbe incomportevole di non pagarsi al governo nazionale quello, che si era pagato al caduto governo, soggiunge — e Pertanto io non dubito punto, che tutti correranno volentieri all'appello della patria, ed i pochi, che si mostrassero indifferenti agli urgenti bisogni della patria comune, potranno esser certi, che il governo, il quale conosce i proprii doveri e sa adempirli, farà ben com. prendere a costoro, che se nen è intollerante, non è debole; se è conciliante, è pure energico, quanto deve esserlo un governo, che come il nostro, sostituendo all'arbitrio il dritto, è forte dell'amore dei buoni, forte del consentimento di tutti. Nè alla mente illuminata del nostro Dittatore è sfuggito il pensiero di dovere il governo provvedere in modo, che la sua protezione si estenda su tutte le classi dei cittadini, e che l'ordine e la tranquillità siano mantenuti coi mezzi più pronti e rigorosi, per cui truppe nazionali marciano per tutti i punti dell'isola per la tutela dei buoni e per l'esterminio dei tristi.

«Intanto mentre corrono esse per assodare sempreppiù la pubblica sicurezza, hanno d'altro canto il mandato di assicurare l'osservanza della legge ed infondere in tutti, funzionarii e particolari, il coraggio del proprio dovere.»

Ed ordinato al tesoriere di richiamare gli agenti della percezione allo stretto adempimento dei proprii doveri, avvalendosi della forza pubblica, conchiude a Tutti abbiamo dritti e doveri, ed il Governo è deciso a proteggere i primi ed a volere l'esecuzione immancabile degli altri. a Eppure nei rivolgimenti politici è questa la parte più difficile, la più tarda a riordinarsi, e non pertanto la più urgente della pubblica amministrazione.

Intanto, mentre la diplomazia adopravasi a limitare in un dato cerchio r opera di Garibaldi, ed a preservare gli Stati continentali del Regno di Napoli dalla sorte, che gli attendeva, il Dittatore metteva la maggiore riserva nelle sue, manifestazioni, che avessero relazione ai suoi ulteriori progetti, e studiosamente si adoprava a tenerli occulti. Ognuno si adoprava ad indovinarli, ma erano indovini, e nulla più, di tal che la Presse ebbe a confessare:

«I piani ulteriori di Garibaldi sono avviluppati da un gran mistero. Egli rafforza Catania, e ciò può essere riguardato come un assembramento di forze per la Calabria. Si dice, che manderà delle truppe per prendere Siracusa, ma m'immagino, che non perderà tempo ed uomini per fare degli assedii.»

E poi diceva, che Garibaldi sarebbe sbarcata negli Abruzzi o nella Basilicata. A nulla di questo Garibaldi pensava.

Non pertanto incessantemente sollecitato dalla diplomazia, Vittorio Emmanuele si decideva a mandare presso di Garibaldi il conte Lilla Modignani suo uffiziale di ordinanza latore d'una sua lettera. Due giornali francesi l'Opinion nationale ed il Constitutionnel ci hanno dato il contenuto di questa lettera. Quelle due versioni coincidono nel concetto, comunque diversifichino alquanto nella redazione. Noi prescegliamo quella del Constitutionnel, perché la dice una traduzione fedele della lettera del Re, mentre invece Opinion nazionale dichiara di pubblicare, sé non il testo, il senso almeno e la sostanza della lettera medesima; e ripetiamo, che il senso e la sostanza sono nei due giornali la medesima cosa.

«Caro Generale;

«Voi sapete, che allorquando partiste per la Sicilia, non aveste la mia approvazione. Oggi mi risolvo a darvi un avvertimento nelle gravi circostanze attuali, conoscendo la sincerità dei vostri sentimenti per me.

«A fine di fare cessare la guerra fra Italiani ed Italiani, vi consiglio di non passare colla vostra valorosa truppa sul continente napoletano, purché il Re di Napoli acconsenta ad evacuare tutta l'isola ed a lasciare i Siciliani liberi di deliberare e di disporre del loro destino.

«Io mi riserverei intiera libertà di azione relativamente alla Sicilia nel caso, in cui il Re di Napoli non potesse accettare questa condizione. Generale, seguite il mio consiglio e vedrete, ch'esso è utile all'Italia, alla quale voi faciliterete di poter aumentare i suoi meriti, mostrando all'Europa, che come essa sa vincere, sa anche fare un buon uso della vittoria.»

Le due condizioni, dalle quali dipendeva l'adempimento dei desiderii manifestati in questa lettera erano ugualmente impossibili. Il Re di Napoli non avrebbe mai sinceramente rinunziato alla Sicilia, e quando, cedendo alle sollecitudini dei suoi Ministri, dové quasi per forza acconsentirvi, ne fece dipendere la cessione da tale condizione, ch'era impossibile di poterla accettare. Il Re di Napoli sacrificava la Sicilia, ma almeno intendeva assicurarsi il possedimento delle provincie continentali, il perché intendeva stipulare mercé la cessione la garantia delle provincie summentoiate.

Noi crediamo, che tale garantia fosse ingiusta per regola, ed impossibile nella pratica. Lasciamo stare, che la Sicilia era perduta, e che il Re di Napoli cedeva il possesso di dritto, e non di fatto, vale a dire dava non un territorio, ma un dritto politico a ricuperarlo. Ma dava egli forse questo dritto a colui, da cui dimandava la prenda? Della Francia non occorre parlare; la Sardegna nol voleva, né poteva accettarlo.

La Sicilia si era rigenerata da sé stessa e col soccorso dei volontarii italiani; essa era divenuta padrona di sé medesima; ed il Piemonte non poteva acquistarla in contradizione della volontà di lei, e per effetto di una stipulazione diplomatica ch'era la negazione di quei principii di nazionalità, che l'Italia, la Francia, l'Inghilterra avevano proclamato. L'annessione per la volontà nazionale e la cessione diplomatica per la volontà del Principe non potevano logicamente coesistere, imperocché se la nazione aveva legittimamente acquistato il dritto di disporre di sé medesima, aveva dovuto legittimamente affrancarsi dall'autorità del Principe; e se questo Principe conservava tuttavia la facoltà di disporre di quei popoli, questi non avevano potuto sottrarsi dalla sua sovranità né divenire indipendenti. Era poi impossibile nelli pratica, perché se le provincie napoletane fossero insorte, le armi piemontesi avrebbero dovuto soggiogarle, il che sarebbe stato in pari tempo una ingiusti zia ed un atto di follia.

Quanto a Garibaldi egli rispose al Re col rispetto, che il suo entusiastico attaccamento per lui gl’ispirava:

«Sire;

«Voi sapete quale profondo rispetto e quale divozione io ho per V. M. e sento il dolore di non potervi obbedire, come lo desidererei: L'attuale situazione dell'Italia non mi permette di esitare; le popolazioni mi chiamano, ed io mancherei al mio dovere e comprometterei la causa italiana, se non ascoltassi, la loro voce.

«Permettemi dunque di controvenire questa volta ai vostri ordini. Quando avrò adempito la mia missione e liberato le popolazioni dal giogo, che le opprime, deporrò la mia spada ai vostri piedi, e vi obbedirò allora per tutto il resto della mia vita.

«GARIBALDI.»

Cosi quest'altro tentativo della diplomazia rimase inutile, e Garibaldi provvide a discacciare intieramente dall'Isola i soldati di Francesco II.

Chi da Palermo si dirige verso Messina, seguendo la sponda del mare, incontra prima di uscire dalla Provincia di Palermo due Capi Distretto, Termini e Cefalù. In questo secondo Medici con due reggimenti della sua brigata sotto gli ordini dei colonnelli Simonetta e Malenchini giunse il giorno 2 di luglio e vi ebbe una splendida accoglienza, e quello, ch'è più, fu accolto in casa del Vescovo, che l'indomani diede un apposito banchetto, e fece predicare da tutti i Preti della Diocesi l'utilità ed anche la necessità della leva.

Da Cefalù, traversando in tutta la sua lunghezza la provincia di Messina, Medici giunse il giorno 5 in Barcellona, ove precedeva di tre giorni la propria colonna. Barcellona messa sulla strada, che da Patti conduce a Messina, è un Capo-Mandamento (Capo-Circondario) del Circondario (Distretto), di Castroreale il più prossimo al mare. Dista 6 miglia da Milazzo e 30 da Messina. Anche qui l'accoglienza fu magnifica. Tutti i notabili del paese andarono con le loro carrozze all'incontro per forse due miglia fuori della Città. Ivi entrò nella carrozza dei due governatori di Messina e di Castroreale, che risiedevano in Barcellona, e lungo lo stradale vi fu accolto dalle grida di Viva l'Italia! Viva Vittorio Emmanuele! Viva Garibaldi! Viva Medici! La Città era adorna di bandiere tricolori con lo scudo di Savoia, ed erano schierati i militi nazionali, la compagnia di artiglieria, ed i due battaglioni Garibaldi e Cacciatori dell'Etna, che si stavano organizzando. Secondo la corrispondenza, che seguiamo, v'era una forza di circa 600 volontarii con qualche armi, pochissime munizioni, e moltissimo animo. Il Generale diresse al pubblico le seguenti parole:

«Signori, io precedo una schiera di prodi, che sono stati nelle battaglie, di Varese, di Come, di Solferino. Noi siamo venuti per unirci a voi, ed insieme espugnare i nemici di Messina, di Napoli, e del Veneto, e così fare, che la nostra Italia un giorno sia libera ed una.

Dopo ciò tutto rientrò nell'ordine, e la città si preparò a ricevere la schiera, che l'era stata annunziata; e difatti, decorsi tre giorni, giunse la colonna accolta e festeggiata nel modo, ch'è ben facile d'immaginare. Il Generale mise sotto l'amministrazione del Governatore di Castroreale anche i Comuni liberi del distretto di Messina, onde vi fosse maggiore unità nell'azione, e meglio e più facilmente potessero cooperare alla guerra che si doveva combattere contro i regii di Messina. Secondo la già citata corrispondenza credevasi in Barcellona, che vi fossero circa 1000 regii, a Milazzo e 500 a Gesso, ch'è un quattro miglia distante da Messina, e circa 20 da Milazzo. Si riteneva, che ve ne fossero 16 mila in Messina; ognuno vede quanto queste cifre possono essere incerte.

L'indomani del suo arrivo in Barcellona Medici diresse ai soldati napoletani il proclama, che trascriviamo:

«Fratelli!

«Mentre il mondo intiero guarda ed applaude l'Italia, perché voi soli volete rimanere l'obbrobrio dell'Italia e del Mondo? Mentre tutta la nazione è riunita sotto il glorioso stendardo tricolore, perché voi soli volete restare i difensori di una bandiera, sulla quale è scritto da una parte — spergiuro — dall'altra infanzia?

«Mentre i più generosi giovani dell'Italia si fanno i valorosi campioni della libertà, perciò volete voi soli restare gl'ignobili instromenti della, tortura e della cuffia del silenziò?

«Pensatevi; voi siete non pertanto valorosi, ed il più valoroso dei soldati ve lo ha detto; voi avete resistito a Garibaldi. E voi combattete contro l'Italia, madre vostra. Rivolgete queste armi contro lo straniero, contro i nemici dell'Italia, è voi sarete tanti eroi. Pensatevi; — voi potreste insuperbirvi dei nomi immortali, come Palestro, Magenta, San Martino, Como, e Varese, e voi non avete, che il ricordo di lotte fratricide.

«Pel vostro onore, per la vostra salute, sollevatevi, o voi siete perduti, coni è perduta la causa, ch, e voi servite.

«Riscattatevi, combattendo i nemici della patria, venite con noi; — noi vi porgiamo la mano, prende tela; — insieme noi saremo invincibili. Con una sola patria libera e grande l'attività di ognuno troverà un impiego onorevole.

«I vostri gradi vi saranno conservati, voi. ne. ricevarate degli altri. Ai vostri soldati, agli affinali, a tutti eoloro che hanno dei bisogni, sarà immediatamente prestata assistenza.

«Venite a noi come dei fratelli; come tali sarete accolti, come tali protetti.».

«Barcellona 6 luglio 1860.

«G. Medici.»

Un disparere era nato tra il generale Clary comandante le truppe napoletane in Messina ed il generale Bosco; il primo sosteneva non doversi andare ad attaccare i garibaldini, e ciò sembra uniforme alle istruzioni del governo; il secondo affermava. che attaccatili vigorosamente, avrebbero potato facilmente essere vinti, il che avrebb'esaltato di molto il morale del soldato e sconfortata la insurrezione. Bisognò dimandarne in Napoli, e dicesi, che il Re, inconsapevole il Ministero, abbia approvato il parere di Bosco. Così questi cominciò il suo movimento.

Il 13 di luglio giungeva con un espresso in Palermo il seguente telegramma, che il Governatore di Cefalù aveva ricevuto con quella medesima data da Medici «Cinquemila regii muovono da Messina sopra Barcellona, e son pronto a riceverli. Domani forse combatteremo.

L'indomani 14, altro telegramma:«I regii sono a Spadafora. Io con la colonna ed altri corpi di volontarii e buona mano di guardia nazionale a Miri, S. Lucia, ecc. Ho preso le disposizioni per lo scontro, che verosimilmente avrà luogo domani.»

Spadafora, che dev'essere propriamente Spadafora S. Martino, è a mezza strada tra Gesso e Milazzo; tra questo e Barcellona, ma più vicino a Barcellona che a Milazzo, vi è Miri o più propriamente Neri. S. Lucia è un Comune limitrofo a Barcellona dalla parte dl Messina. Barcellona, Meri, e S. Lucia formano i tre angoli di un triangolo, del quale Meri è il vertice dalla parte di Milazzo.

Il giorno 16 un altro telegramma diceva:

«Mi tengo sulla difensiva a Miri per coprire Barcellona. Il nemico è forte di 7000 uomini e 10 cannoni. Doveva attaccarci ieri, ma non osò per l'attitudine nostra. Ritirato a Milazzo, aspetta rinforzi di Svizzeri e Bavaresi. Così sono le informazioni. Sono in vista vapori diretti a Milazzo. Lo spirito di tutta la brigata è ottimo, capace di eroica resistenza.»

Ma i battaglioni dei garibaldini erano di scarsissimo numero, ed in Napoli nel tempo dell'assedio di Capua una brigata aveva appena la forza di un reggimento. Per lo che t due reggimenti della brigata Medici non dovevano essere più di 1700 in 1800 uomini, cui aggiunti i 600 uomini, che si diceva essere in Barcellona ma male armati, il Generale poteva avere in tutto 2300 in 2400 uomini; e Dio sa come armati. Per lo che li 17 di luglio seguirono da Meri tre avvisi circolari per Barcellona, Patti, S. Stefano, Cefalù, nella linea cioè verso Palermo. li primo alle sei p. m. diceva: — «Correte, fratelli! I nemici vogliono aggredirci! Correte all'armi! Correte all'armi! Viva Garibaldi!» — Il secondo alle 8 ¼: — «Si dice che i regii partiti questa mattina da Milazzo per venire sopra Miri, sono ritornati tutti nei loro quartieri.» — Il terzo al l'ora I p. m. — «Truppa nemica marcia per qui (Meri). Barcellonesi, correte tutti! — Viva Garibaldi.»

E veramente giusta le posteriori lettere di Palermo il corpo del generale Medici era gravemente compromesso, atteso il soverchiante numero del nemico.

Ed il ritorno a Milazzo, annunziato dal secondo dispaccio, non era vero, ma era un movimento per girare la estrema destra deg! Italiani. Il Generale Medici lo segnala al governatore di Cefalù in quello stesso di 17 luglio alle ore 7, 15 pom. da Barcellona:

«Il nemico tentò di girare la mia estrema destra. Vi spinsi contro quattro compagnie;

«Combattimento vivissimo. Il nemico forte di 2000 uomini con artiglieria e cavalleria f u respinto. Si ritirò in Milazzo. Perdita nostra sette morti e varii feriti. Quella del nemico assai più rilevante. Lasciò pure cavalli.» E sei ore e tre quarti dopo, vale a dire il 18 Luglio alle 2 antico. da Meni soggiungeva: «L'inimico rinnova l'attacco con maggiore energia e con maggiori forze. Combattono 3000 uomini in tutta la nostra destra contro 500 dei nostri. Il combatti. mento dura meglio di due ore con un noce nutrito, continuato, imponente. L'inimico ha bombe e cannoni.»

«Con posizioni bene scelte resiste energicamente. Due cariche alla baionetta dei nostri decidono della giornata.

«L'inimico si ritira a Milazzo, ha sofferto gravi perdite di morti e feriti. Noi pochi morti ma buona copia di feriti.

«Abbiamo fatto alcuni prigionieri. Lo spirito dei volontarii è ammirabile.

Da un elenco pubblicato dal Corriere Mercantile si rileva, che in quel giorno 17 furono fatti 15 prigionieri italiani, quasi tutti lombardi ed un solo siciliano. Formavano essi una guardia avanzata, che fu sorpresa.

Da una corrispondenza di Messina emergono più circostanziati questi combattimenti del 17: — «Il giorno 17 verso le ore 10 antimeridiane una colonna di truppe borboniche, forse di 1000 soldati di fanteria, di mezza batteria di campagna, e di 50, cacciatori a cavallo, uscita da Milazzo, tentava prendere le alture per circondare l'ala destra delle forze del generale Medici, il quale da qualche giorno teneva il quartiere generale a Meri. In questa manovra i Napoletani fecero prigionieri alcuni avamposti dei nostri soldati degli avamposti, ma indi furono gagliardamente attaccati dalla 5a e 7a compagnia del reggimento Malenchini e da due compagnie di Messinesi, cioè una della legione. Garibaldi e l'altra dei Cacciatori dell'Etna; in tutti meno di 400 uomini senza artiglieria. I borbonici furono completamente disfatti dopo accanita lotta. Noi deploriamo soltanto poche perdite, cioè 7 morti, 13 feriti. e 15 prigionieri.»

«La sera della stessa giornata verso le ore 5 altra colonna usci da Milazzo per riprendere le posizioni perdute la mattina, ma questa venne respinta con maggiore facilità e con minori sacrifizii.

Questa brillante riuscita di combattimenti fatti con molta disparità di numero e senza la presenza di Garibaldi, rendeva anche più animosi i volontarii nazionali, e maggiore fiducia e confidenza inspirava nei loro capi. La stessa corrispondenza di Messina assicura di essersi sorpresa la corrispondenza di Bosco, e che in essa si confessava, che la colonna napoletana era stata costretta a ritirarsi, ed egli ne aveva messo agli arresti il comandante. Vuole mutati gli uffiziali superiori dei corpi che chiama ignoranti e vili; vuole restituire l'80 cacciatori, che dice essere demoralizzato, e minaccia di dare la sua dimissione, se il Maresciallo Clary non gli accorda quello, che chiede.

Noi narriamo il fatto senza dire positivamente, che sia vero. Intanto sin dalla sera del 11 luglio giungevano rinforzi alla truppa nazionale. In quella sera arrivava a Barcellona il colonnello Donne con un reggimento formato di fresco, ma ben disciplinato. Danne aveva militato in Crimea nel 1855, e vi si era distinto. Il brigadiere Cosenz con 100 uomini era partito da Palermo per mare, ed era sbarcato a S. Agata, d'onde si era avviato a Patti per essere presto a Barcellona, ove arrivava tra il 18 ed il 19 luglio: Anche il 18 luglio giungeva in Cefalù il resto della colonna Medici sotto il comando del colonnello Assante, ed immediatamente progrediva verso il campo nazionale. Nel partire dirigeva al governatore di Cefalù la seguente lettera.

«Signor Governati:ire di Cefalù; «Mi è grato esprimerle a nome di tutta la uffizialità i più sentiti sensi di gratitudine e di soddisfazione per le simpatiche, cordiali, e patriottiche accoglienze dimostrate e fatte da questa buona popolazione, segnatamente dal vescovo, alla truppa, che ho l'onore, di Comandare, durante la breve dimora fatta in questa città.

E questo sinceramente lo dico, perché sia di Conforto a lei, che ha saputo si bene mantenere ed aumentare nella popolazione questi sentimenti italiani e nazionali, ed al governo, che ha scelto in lei un fedele interprete della sua politica.

«Protestandomi intanto,

«Della S. V. Illustrissima,

«Cefalù 18 luglio 1860

Divotiss. ed obb. servo Colonnello

Damiano Assanti.»

Ed il giorno 15 luglio giungeva in Palermo un battaglione organizzato dal maggiore Stefano Siccoli, il quale sebbene non constasse di più di 300 uomini, pure erano cosi perfettamente armati ed equipaggiati, che due giorni dopo si poterono mettere in campagna. Molti altri volontarii eranb giunti con la Provati. ce e col Torino, si che si calcolava. che sino al 19 di luglio fossero sbarcati in Sicilia circa 14 mila volontarii.

Garibaldi, ricevuti gli avvisi di Medici, si affrettò o semplicemente eseguì la già presa determinazione di partire. Il 18 di luglio si vide affisso in Palermo il seguente proclama:

«Ai giovani siciliani;

«Il continente italiano c'invia numerosi i suoi figli. Io, chiamato dagli oppressi, marcio con quelli verso Messina. Là io aspetto la numerosa gioventù della Sicilia. Là stringeremo una terza volta il patto tirannicida, che deve infrangere gli ultimi anelli delle nostre catene e posare l'ultima pietra dell'edificio nazionale.

«A Calatafimi, a Palermo non chiamai invano i generosi figli di questa terra.»

G. GARIBALDI.»

Questo proclama diceva chiaro, che l'invasione del continente napoletano era decisa. Garibaldi andava coi volontarii italiani a Messina per attendere ivi i numerosi figli della Sicilia ed andare a posare l'ultima pietra dell'edifizio nazionale, e quest’ultima pietra non si posava certamente a Messina.

Una corrispondenza di Milazzo del 22 di luglio ci narra il dettaglio del viaggio del Dittatore.

«Alle 11 circa del giorno 18 salpammo dal porto di Palermo in numero di 2000 circa, guidati dal Generale Garibaldi alla volta di Patti. Lungo il viaggio incontrammo la fregata Carlo Alberto, alla quale Garibaldi, col portavoce diede la seguente notizia: Oggi combattimento a Milazzo con vantaggio dei nostri..»

La notizia ha dovuto essere data più esattamente di quella, ch'è riferita. — «Quindi, prosiegue la corrispondenza, da un vapore e dall'altro si proruppe in Evviva all’Italia, a Garibaldi, a Vittorio Emmanuele, e noi seguitammo la nostra rotta scortati sempre dalla stessa fregata. Gittossi l’ancora nel porto di Patti alle ore 10 circa della sera del giorno 18 luglio. Sbarcati, passammo la notte sulla spiaggia del mare. Allo spuntare dell'alba partimmo per Barcellona a piedi. Lungo la strada si scambiavano fra noi ed i Siciliani continui evviva all'Italia ed a Garibaldi. La sera al tramontare del sole arrivammo a Barcellona, dove fummo accolti tra gli evviva e fra i fiori, che in copia venivano gittali dalle finestre e dai poggiuoli, e dove pernottammo. La mattina del giorno 20 partimmo pel campo.»

Il giorno prima Garibaldi aveva diretto alle sue truppe quest'ordine del giorno:

«Meri 19 luglio.»

«La brigata Medici ha ben meritato della patria. I suoi soldati, assaliti da forze superiori, provarono anche una volta tutto ciò, che possono le baionette dei figli della libertà.

«I generali di brigata Cosenz, Medici, Carini e Bixio sono eletti al grado di maggiori generali; il colonnello Eber è promosso al grado di generale di brigata.

«L'esercito nazionale in Sicilia si comporrà per ora di quattro divisioni. della 1a categoria, d'una brigata di artiglieria e d'una brigata di cavalleria.

«Le divisioni cominceranno a contare dalla 15a comandata dal generale Turr. Per la formazione delle brigate delle suddette divisioni i maggiori generali mi faranno immediatamente le proposte necessarie per la nomina degli nuziali.

«Quindi innanzi l'esercito prenderà il nome di esercito nazionale. Il capo dello stato maggiore per il segretario della guerra è incaricato dell'esecuzione di ciò, che precede.

«Sottoscritto — Il Dittatore

GARIBALDI.»

Però prima di conoscersi quest'ordine del giorno fu conosciuto in Palermo un dispaccio telegrafico, che pervenuto alle 7 e 35 minuti pomeridiane del di 20, fu affisso in quella medesima sera, e diceva:

«ll Dittatore al Generale Sirtori.

«Presa la Città di Milazzo, escluso il Forte. Forte combattimento.»

— E l'indomani un altro telegramma giunto alle 7 e 30 minuti pom. aggiungeva:

«Oggi nel pomeriggio Milazzo è stata presa dai nostri alla baionetta. Il combattimento fu vivissimo, accanito da ambo le parti. Le perdite ancora s'ignorano. Il Generale Dittatore comandava in persona. I regii, che scamparono alla morte, si sono chiusi nel Castello. Garibaldi si accinge ad investirlo.»

Il combattimento di Milazzo è certissimo negli stupendi suoi risultati, ma nelle circostanze, che l'accompagnarono, è obietto di una grandissima contradizione tra le due parti. La mancanza dei rapporti officiali è la causa di questa incertezza. Le relazioni private abbondano nel senso italiano, ma una relazione del Generale Bosco sostiene, essere tutte inesatte nel numero dei combattenti e nelle perdite di ciascuna delle due parti. Per debito d'istorico riferiremo le une e l'altra, ma cominciamo dai documenti, che hanno qualche sembianza di essere officiali.

Due Bollettini furono pubblicati nel Campo di Mari, il 20 e 21 di luglio. Il primo diceva:

«Stamattina alle 6 ant. cominciava uno scambio di fucilate, che credevasi un affare di avamposti, ma presto si cambiava in un'azione generale; i regii avevano delle artiglierie, delle quali i nostri difettavano. La mischia fu terribile, i regi giovandosi di ripari, i nostri battendosi allo scoperto. Un momento l'azione parve difficile, ma al magico nome di Garibaldi slanciatisi i nostri alla baionetta come leoni, le posizioni erano superate, ed alle ore 3 e 26 pom. entravamo in Milazzo, essendoci impossessati di 5 pezzi di artiglieria. tre dei quali conquistali nel combattimento fuori le porte, gli altri due nell'entrare.

«Il Vapore Veloce (Indipendenza) tirò dei colpi contro il Forte, ove i regii si rinchiusero seguiti sempre alla baionetta.

STORIA D’ITALIA

L’AMMIRAGLIO PERSANO

«I nostri susseguentenente hanno presa la prima porta del Castello ed un bastione, e su di una torre sventola la nostra bandiera.

«Dobbiamo deplorare non lievi perdite, enormi quelle dei regi; domani ritiensi sicura la resa del forte coll'intiera colonna.

«Supunto arriva altra forza nostra con cannoni rigati.

«I soldati di Spadafora si ritirano a Gesso.

«Campo di Meri, 20 luglio, ore 8 pom.»

Il secondo bollettino diceva:

«Ieri alle 6 del mattino s'ingaggiò la battaglia in Milazzo, e terminò la sera alle 6. La mischia fu terribile, si combatteva in tutta la fronte, fuvvi gran macello dei Borbonici, che combatterono con grande ostinazione, sl che il terreno dovette guadagnarsi palmo per palmo sotto grandine della mitraglia. Il campo coperto di cadaveri nemici, d'armi, e di bagagli d'ogni sorta con 5 cannoni fu finalmente acquistato al grido di Viva l'Italia! Viva Garibaldi! u I nostri giovani gareggiavano d'entusiasmo coi prodi della legione Garibaldi, che fu prima a combattere, e prima corse alla baionetta a sforzare Milazzo, e ad impossessarsi anche del primo e del secondo ridotto della fortezza.

«Le nostre perdite non furono soverchie; la legione Garibaldi ebbe 5 feriti leggermente; i nostri giovani soffrirono ben poco; però sensibili furono le perdite dei valorosi deg Continente. Enormi danni, enormi perdite toccarono al nemico, il, quale, fuggendo, accalcossi nei ridotti, e dai ridotti nel rimanente della fortezza, dove fu incalzato. Furongli tagliati i condotti delle acque. Stamane (21) il Rodomonte Bosco si presentò al Dittatore, chiedendo di uscire cogli onori militari. Gli fu risposto col rifiuto.

«Fabrizj ed Interdonato marciano sopra Gesso per ordine del Generalissimo; il nemico, che occupava queste posizioni, si è ritirato impaurito verso Messina.

«Il Dittatore allo scontro della cavalleria nemica con un rovescio della sua sciabola fe' saltare il braccio colla spada al Maggiore di essa; la cavalleria fu tutta dispersa e distrutta. — Viva l'Italia! Viva Garibaldi!

«Dal campo di Meri 21 luglio.»

Niuno dei due bollettini è firmato, e venivano mandati da una corrispondenza di Messina.

Oltre la nota lettera di Alessandro Dumas abbiamo una lettera di A. Natoli diretta a suo fratello il Ministro degli affari esteri sul combattimento di Milazzo. Tralasciando la lettera di Dumas, come quella generalmente conosciuta, riferiamo l'altra:

«Milazzo 21 Luglio 1860.

«Mio caro fratello;

«Più che una lettera voglio scriverti una intera narrazione dei fatti che precessero la memorabile battaglia di Milazzo, e la battaglia stessa della quale io fui, se non parte, spettatore, e ciò per rinfrancarti al meno della noia, che il mio silenzio ti ha dovuto pro cacciare sin ora.

«Ti dirò dunque, che sino allo scorso giovedì qui siamo stati in un gran movimento pel passaggio delle nostre truppe, le quali avevano tanto ardore, tanto entusiasmo, da far onta ad ogni più vecchio ed agguerrito soldato.

L'istesso giorno pose piede in Patti Garibaldi. Del modo, come fu ricevuto, non te ne parla, perché ogni più fervida immaginazione vieti manco al confronto della verità. Non restò che pochi momenti, o parti. per Barcellona. Ivi fecero quello che poterono, scusandosi. per non potere supplire pel tempo alla grandezza della loro volontà.

«Di là partimmo pel campo. Quivi giunti, fu davvero magnifico spettacolo, spettacolo, pel quale vorrei la penna di un Dumas, di un Manzoni per descrivertelo. Figurali più che 6000 dei nostri Palermitani e Piemontesi in bell'ordine schierati, fermi come vecchi soldati, le cui voci unite in una sola, non echeggiavano che un sol nome, ed era quello di Garibaldi, non mettevan fuori, che un solo evviva, ed era per l'Italia e per Vittorio Emmanuele.

«Erano le ore 22 quasi, ed il Generale Garibaldi, dopo averli passati a rassegna ed ordinato il quadralo, disse loro parole cosi commoventi, profferì elogi così entusiastici, che tutta la truppa, levatasi in massa, furentemente era invasa da tanto amore di patria, Cile subito voleva muovere ed andare contro Milazzo, ma il Generale Garibaldi con altre belle parole prescrisse tener fermo sino alla dimani.

«E la dimani fu salutata dal clangor delle trombe e dalle grida e dalle canzoni e dai plausi di tutta quanta l'armata.

«Il campo fu diviso nel seguente modo: Venivano prima i Piemontesi e Palermitani, poscia i Messinesi ed il battaglione di Garibaldi formato in Barcellona, infine i cacciatori dell'Etna. Il fuoco sull'ala sinistra fu attaccato dal battaglione inglese Dunae, tutto composto di Palermitani. I regii opposero loro forte resistenza con vivissimo fuoco di cannoni mascherati e fucileria, che durò presso che tre ore. I nostri però rinserratisi e compatti fra loro, vennero alla baionetta, ed inseguirono il nemico più oltre la casa di Cassisi; ove essendo nascosti soldati napolitani e cannoni, tirarono alle spalle dei nostri, e quel che fecero le mitraglie ed i colpi io non oso dettagliartelo. i nostri erano divenuti leoni, il Generale Garibaldi a piedi e con la sciabola alla mano fece prodigi, e pareva proprio l'Arcangelo nel giorno della distruzione, che indi a pochi momenti venne per i regii, i quali tanti quanti erano in quel ridotto furono presi e scannati.

e In cotal mentre, e quando meno dai nostri si aspettava, la truppa napoletana, ch'era in rotta verso il castello, si apre in doppia fila, viene fuori a precipizio la cavalleria, la quale passando fra mezzo i soldati italiani, cercava rompere la nostra ala sinistra, che già era in città, onde farne strage, ma il battaglione di Malenchini, accortosi dello stratagemma, la cuopre sull'ala destra, e la mette fuori combattimento con altre quattro compagnie di Bavaresi, riducendoli a tiro del Vapore il Veloce, che li regato di cinque cannonate a mitraglia, che fecero l'effetto desiderato, perciò in rotta fuggirono pel castello, menomati nella corsa dalla nostra fucileria e dalle nostre baionette.

In questo primo scontro fu preso il piccolo forte, che domina il mare, e cominciammo dalla parte di dietro il castello ad alzare delle barricate, alle quali ho visto il sudore e la forza del generale Garibaldi che io battezzo per uomo straordinario; figurati col suo revolver ad armacollo e senza cappello in testa mettere il suo braccio ad alzare quanto di più pesante gli veniva sotto per la fortificazione delle barricate. Per queste abbiamo fatto capo di tutte le porte ed utensili di casa Cassisi di esecrata memoria.

«Durante cotal conflitto uscivano da Messina altri 3000 regi, ma arrivati al Gesto una compagnia guidata da Interdonato unitamente ad altri Piemontesi ti attaccarono, e li costrinsero a ritornare nella cittadella. Le nostre truppe correndo la spiaggia di Spadafora, arrivarono al Faro, ov'erano i lancieri, i quali avvistisi dell'appressare del nemico, si rifugiarono al Salvatore.

«Dalla parte di Catania vennero quindi numerosi rinforzi.

«Il Generale Garibaldi, che ha dato più di un fendente, che abbiamo visto in positivo pericolo, che una palla ha sfiorato. il suo stivale, che un'altra di cannone ha spezzato in linea retta due piedi al suo cavallo, e che ha fatto tante pruove di valore, ma tante quante non sono a descriversi in una lettera; abbisognando piuttosto di un poema, è a bordo d'una fregata inglese, si dice per dirigersi... v'ha chi dice in Messina, e chi in Calabria.»

Il Precursore di Palermo del 23 di luglio dava in un supplemento le notizie, che diceva avere ricevute dal campo, ma sono più compendiate di quelle contenute nella lettera di Natoli, alla quale nulla aggiunge neppure di nuova una corrispondenza di Milazzo del 22 di luglio, tranne che uno stato nominativo di taluni feriti.

Queste sono le relazioni, che abbiamo di fonte italiana sul fatto di Milazzo. Il Giornale Ufficiale di Sicilia si limitò a smentire una calunnia, e forse più propriamente un equivoco sorto a danno degli abitanti di Milazzo. Una corrispondenza di Palermo aveva detto, essere stati, a quanto pare, i regii secondati dagli abitanti di Mazzo, i quali dalle finestre tiravano contro gl'Italiani. Noi non sappiamo, se quella corrispondenza sia stata determinata da dispacci telegrafici, o questi da quella, ma il foglio officiale di Sicilia scriveva:

«I giornali della terraferma italiana pervenutici sino alla data del 27 riportano varii dispacci telegrafici relativi agli ultimi combattimenti avvenuti in Milazzo.

«È tuttavia deplorabile, che al racconto vero delle prodezze operate dalle armi nazionali siansi mescolate evidenti bugie, che tenderebbero ad infamare il nome di una città siciliana, ed a gettare un'ombra su quello splendore d'interna concordia, di cui ha dato esempio la Sicilia in quest'ultima meravigliosa riscossa.

«Si è parlato di parecchi abitanti di Milazzo partigiani del Borbone, che uniti a birri travestiti avrebbero dalle finestre gettato addosso dei Garibaldini olio ed acqua bollente. Si è parlato anche della ordinata fucilazione di 39 tra Milazzesi e birri.

«Tutto ciò è compiutamente falso.

«Da qualche casa di Milazzo partirono senza dubbio dei colpi sulle truppe liberatrici, ch'erano penetrate in Città, ma venivano tratti dai regii soldati, che avevano occupato i privati edificii, e che poi ne venivano successivamente snidati dalle baionette dei nostri. È perciò a desiderare, che la stampa, la quale con soverchia precipitazione ha accolto simiglianti rumori, si affrettasse a smentirli.»

Dall'altra parte il Giornale Officiale di Napoli si circoscriveva a dolersi, che mentre prendevano le trattative diplomatiche, e che il Real Governo aveva dato ordine ai comandanti di Augusta, Milazzo, e Messina di tenersi su di una stretta difensiva, onde evitare ogni pretesto di attacco, una parte delle forze nemiche aveva assalito le posizioni di Milazzo, ove le reali truppe si erano difese con onore.

«Ci rincresce, soggiungeva, di dovere annunziare questo novello fatto d'armi, quando già il real governo per evitare la effusione del sangue fraterno ordinava di sgombrare la Sicilia, e nel punto medesimo delle migliori trattative della lega tra il Piemonte e Napoli, lega voluta non meno dai due governi Napoletano e Sardo, che dagl'interessi di tutta l'Italia».

Però il 17 di luglio l'iniziativa dell'attacco era venuta dai Napoletani; e comunque sia vero, che Garibaldi non teneva nessun conto delle trattative diplomatiche, non può dirsi Io stesso delle disposizioni date per isgombrare la Sicilia, se gli fossero state note. Per altro pare, che i fatti de'  17 di luglio siano dipesi unicamente dalla iniziativa di Bosco, il quale perciò si tenne obbligato a pubblicare il rapporto, ch'egli diresse al ministro della guerra.

Questo rapporto fu pubblicato per intiero dalla Presse di Francia, e ne fu inviata copia anche al signor Marco Monnier, che lo inserì nella sua Storia della conquista delle Due Sicilie; quanto ai fatti militari le relazioni italiane ed il detto rapporto concordano presso a poco, ma immenso divario vi è sulle cifre. Il signor Bosco sostiene, ch'egli non aveva che due battaglioni di cacciatori, dei quali presero parte alla lotta soli 1600 uomini; aggiunge di avere perduto solamente un pezzo di artiglieria.

Il combattimento, continua, durò 8 ore e mezzo senza giammai farci perdere le nostre posizioni, e ciò a malgrado dei più grandi sforzi delle nuove masse nemiche, che si succedevano per rompere il nostro centro, impedirci di riunirci, e piegare sopra Milazzo, base delle nostre operazioni.

Nulladimeno, qualunque fosse il valore dei nostri cacciatori, il loro lungo combattimento contro masse, che si rinnovavano continuamente a corti intervalli, e la mancanza di truppe da nostra parte da sostituire a truppe già stanche, decisero il colonnello Bosco a cedere il terreno palmo a palmo, e prendere in Milazzo le già stabilite posizioni.

«Frattanto la fregata il Veloce che per l'intiero giorno si era mantenuta all'altezza del fianco sinistro del nemico, non appena ebbe osservato la nostra ritirata, si avanzò verso la spianata di S. Stipino, e tirando la sua mitraglia, forzò la colonna a rientrare nel forte, d'onde il colonnello signor Pironti, che lo comandava, fece trarre diverse palle da 21 contro il vapore, a fine di facilitare la marcia regolare della truppa.

«Il nemico esitava sempre ad entrare nel paese completamente abbandonate dagli abitanti. Si che ci lasciò il tempo di trasportare coi nostri debolissimi mezzi i nostri 87 feriti senza contare quelli dei nemici, affettuosamente da noi raccolti. Per l'impreveggenza del maggiore Maringh rimasero prigionieri tre dottori dell'ambulanza, non avvertiti a tempo.

«Le nostre perdite furono di due uffiziali morti ed 8 feriti, oltre 38 soldati morti ed 83 feriti. Il numero dei soldati dispersi si eleva soltanto a 31, tra i quali contiamo i morti ed i feriti lasciati sul campo di battaglia.

«Al dire dei prigionieri e dei sottuffiziali disertori, che si avvicinarono al forte nei momenti di tregua, il nemico ha avuto 1, 100 uomini fuori di combattimento, e tra i morti deplora un gran numero di uffiziali.

«Il fatto è stato confermato dal console piemontese all'intendente di Messina, onde partirono molte vetture e dottori dei contorni.

«Finalmente lo stesso Garibaldi ha detto al signor Salvy, comandante del Protys, che aveva perduto più di 800 uomini, e che ne comandava più di 8000, mentreché tutto compreso, i prigionieri sono di accordo nel dichiarare, che noi fummo attaccati da più di 12, 000 uomini.

«Un fatto incomprensibile è la timida entrata dei nemici nel paese. Eglino tirarono senza necessità con le loro carabine dall'alto dei promontorii, che circondavano il forte, e non avrebbero cessato di tirare senza il nostro silenzio tranquillo.

«Il cava Salvy comandante del Protys andò a visitare il Colonnello sig. del Bosco la mattina del 23 nel Forte, e dopo diverse parole, prese a dirgli a nome di Garibaldi, che gli si offriva di. rientrare in Napoli coi suoi uffiziali, tutti con la loro spada, lasciando dietro di lui tutta la truppa. Lo si informava nello stesso tempo, che s'egli si opponesse ad una tale proposizione, il colonnello del Bosco sarebbe saltato con tutta la guarnigione del forte in 48 ore. Senza esitare del Bosco rispose, che preferiva di saltare solo, sedendosi sul ponte, ov'era la mina, piuttosto che accettare condizioni disonoranti, e ch'egli lascerebbe giudicare istoria chi era il più bravo ed il più generoso tra il vincitore ed il vinto, (pesi ultimo trovandosi nel forte, perché era stato respinto da forze quintuple.

«La capitolazione fu fatta l'indomani dal colonnello Anzani dello stato maggiore, mandato da Napoli a tale effetto con quattro fregate per negoziare l'uscita della guarnigione. Si che il colonnello del Bosco ebbe a sottoporsi suo malgrado a ciò, ch'era stato stabilito per ordine superiore. Ed il signor Garibaldi sebbene avesse stipulata l'uscita della guarnigione con gli onori della guerra, dimandò vilmente ed ottenne per condizione espressa, che gli si lasciassero i due cavalli, ch'erano la proprietà esclusiva del colonnello del Boscci.

«Simili procedimenti mostrano la gravità del pericolo, in cui un pugno di bravi Napolitani aveva messo Garibaldi ed i suoi partigiani. Sino alle 11 prima di mezzogiorno il vantaggio della giornata era pel piccolo numero di uomini risoluti, che difendevano Mi lazzo. a Questi dettagli sono sottoposti a S. E. il Ministro della Guerra dal comandante di Brigata del Bosco, passando sotto silenzio molti tratti di bravura e di generosità, che saranno consegnati più lardi nella lista di coloro, che si sono distinti, 2 Agosto 1860.

Sottoscritto — Il Colonnello comandante

DEL BOSCO.»

E’ impossibile di desumere neanche per approssimazione la cifra dei combattenti da una parte e dal! altra, ma è indubitato, che il colonnello del Bosco usci da Messina per attaccare le posizioni degi Italiani a Barcellona. Sarebbe troppa ingenuità il pensare, ch'egli abbia tentato questa impresa con cosi piccolo numero di soldati, tra perché i combattimenti di Calatafimi e di Palermo non gli permettevano di giudicare troppo leggermente del valore delle truppe italiane, e perché, eseguendo quella spedizione in contradizione del Generale Clary, ne rimaneva tutta a lui la responsabilità. E difatti si trova scritto ripetutamente, che del Bosco sia uscito da Messina con circa 5000 uomini; Milazzo, aveva inoltre la sua guarnigione; e nel giorno 17 un pugno di uomini non avrebbe potuto di molto compromettere il generale Bixio, che si trovava in forti posizioni. In quel giorno combatté una parte della colonna del Bosco, e se tutta si fosse composta di due soli battaglioni, la colonna distaccata sarebbe stata molto piccola per potere attenderne del successo, né vi sarebbe stato d'uopo di metterne il comandante agli arresti per essersi ritirato innanzi a forze, che dovevano essere Indubitatamente maggiori. Ove la circostanza della sorpresa corrispondenza di Bosco non fosse vera, la prima difficoltà, rimane sempre in tutto il suo vigore. Quindi può, ritenersi almeno come probabile, che tra la guarnigione di Milazzo t le truppe uscite da Messina i Napoletani fossero tra i cinque ed i seimila uomini, anche perché le truppe uscite da Messina dopo la capitolazione, detratte quelle rimaste nella Cittadella, sorpassavano i 10mila uomini, e si è avuto sempre per vero, che dopo la resa di Palermo Vi fossero a Messina 15mila.

Quanto alle truppe italiane possiamo soltanto istituire qualche calcolo, che potrebb'essere in qualche modo approssimativo. Abbiamo veduto, che nella fazione del 11 luglio Medici poteva avere tutto al più 2300 a 2400 uomini, dei quali quasi un quarto malamente armati. Vi è da aggiungere il reggimento del colonnello Dunne, il quale in sostanza non era, che un battaglione, e si è largo in ritenerlo per 600 uomini. Cosenz ne aveva condotti altri 400; finalmente Assenti guidò il resto della colonna Medici, ch'è molto, se si calcola per 500 uomini. Con tutte queste cifre raggiungiamo appena 3800 uomini. In una corrispondenza del Nord si legge, che. Garibaldi aveva mandato a Medici un rinforzo di 2000 uomini, la quale cifra corrisponderebbe presso a poco alle colonne di Dunne, di Cosenz, e di Assenti, che si possono accrescere di qualche centinaio, e così avere il numero tondo 4000 volontarii. É da notarsi, che queste cifre erano pubblicate prima della battaglia, quando cioè si aveva interesse di accrescere e non di diminuire il numero dei combattenti. Ad esse si debbono aggiungere le squadre siciliane, delle quali è impossibile il dire neanche per approssimazione a che ammontassero, ma per certo non potevano essere di sette in ottomila uomini riuniti nei soli punti di Barcellona e di Milazzo. Perciò ci sembra esagerata la cifra dei 12 mila uomini indicata nel rapporto di Bosco, e ci pare difficile anche quella. degli 8 mila, che lo stesso colonnello Bosco attribuisce alla dichiarazione di Garibaldi. Dal numero totale bisogna poi semine detrarre le guarnigioni dei punti, che bisognava guardare, ed il resto soltanto può figurare nel numero dei combattenti.

Relativamente alle perdite è assolutamente impossibile di poterle conoscere. È indebitato, che le truppe italiane soffrirono molto, perché attaccarono forti posizioni esposte a numerosa artiglieria, mentre ne mancavano, e perché in fine, qualunque ne sia stato il numero, le truppe napolitane si batterono valorosamente, almeno sino a che non vennero attaccate alla baionetta. Secondo l'Annessione di Sicilia le perdite degl'Italiani sarebbero state circa 100 morti e molti feriti; e dei regii circa 300 morti senza conoscersi i feriti, perché trasportati nel castello. L'Unità Italiana pubblicò lo stato nominativo dei morti, feriti, e contusi dei soli Carabinieri genovesi, e questo stato dà 8 dei primi, 29 del secondi, ed 8 dei terzi, in tutto 43 su 85 uomini, dei quali quella compagnia si componeva. Codesta perdita è relativamente enorme; ma è noto, che I carabinieri genovesi hanno in tutti i combattimenti grandemente sofferto, perché erano sempre dei primi e dei più arditi, e con un valore indomabile supplivano alla scarsezza del numero. Anche il battaglione garibaldino Gaeta sofferse molto; il maggiore signor Corte, 4 capitani, e molti uffiziali rimasero. feriti. In una corrispondenza di PalerMo del 2 agosto, mentre si annunzia, che i feriti di Milazzo cu. rati in Barcellona ed adiacenze andavano benissimo (), si soggiugne:

«Tutte le corrispondenze da me lette sul combattimento di Milazzo abbondarono troppo di particolari pittoreschi ed anche romantici, ma non fecero capire abbastanza quanto eccezionali fossero le circostanze, in cui quello scontro avvenne, quanto grande il rischio, che corsero gli assalitori, e quindi quanto singolari l'audacia e la furia, che vinse.

«Si può dire, che contro le posizioni guarnite di artiglieria e naturalmente difficili, in cui si difesero gli scelti soldati napoletani con fermezza al fuoco (benché all'urto dell'assalto subito cedessero, cercando altre posizioni, cioè le case ed il forte di Milazzo) quasi tutta la forza disponibile di Garibaldi venisse lanciata come un proiettile. Quello, che nelle battaglie di ordinata milizia suol fare un corpo esposto su dato punto o destinato a parziale attacco vigoroso, ad un colpo di mano, qui lo fecero quasi tutti i nostri. In difetto di artiglieria ed in una guerra, dove il prestigio politico-morale sull'avversario vuole conservarsi ad ogni costo, non potevasi fare diversamente. Fanno però torto a Garibaldi, il quale ha vero istinto e colpo d'occhio militare, quelli, che suppongono, essere questa l'unica strategia da lui creduta, buona. Se avesse artiglieria e truppe regolari più numerose, non avrebbe bisogno di chi gl'insegnasse a prendere la penisola di Milazzo con perdite molto e molto minori. In prova vi osserverò, ch'egli dopo cresciuto il numero dei nostri capisce molto bene la necessità, p. e. di organizzare un’amministrazione qualunque delle sussistenze in campagna, massime in parti, dove non sempre i piccoli Comuni mostrano attività o possiedono mezzi per nutrire, nemmeno un giorno, 10 o 42 mila uomini.

Non meritano confutazione corrispondenze, che dissero inadeguato il risultato dell'affare di Milano alle perdite sofferte; è visibile, che prima di pensare al continente, dovevasi togliere di mezzo ogni corpo nemico operante alla campagna in Sicilia, e le tre convenzioni per Milazzo, per Messina, per Agosta e Siracusa sono l'effetto naturale della battaglia del 20.»

Niun dubbio adunque che il combattimento di Milazzo costò caro agl'Italiani, e non ebbe per certo ad essere a buon prezzo poi Napoletani; e se fosse vero, come dalle seguenti capitolazioni si può argomentare, che il governo di Napoli si fosse deciso a sgombrare la Sicilia, quel sangue sarebbe sparso a pura perdita. Ma a chi spetta questa gravissima responsabilità? Senza la colonna, che usci da Messina, e senza i fatti del 11 il micidiale combattimento del 20 non sarebbe avvenuto. E indubitato, che Garibaldi non vi era preparato.

Finalmente in quanto concerne la proposizione, che il 2311 colonnello del Bosco avrebbe ricevuto per mezzo del comandante del Protys, non abbiamo elementi né per affermarla né per negarla, ma rileviamo dinne corrispondenza di Messina, che il colonnello Anzani giunse a Milazzo il 22 verso la sera, appunto perché il 21 Garibaldi si era ricusato di trattare col colonnello del Bosco. E se la sera del 22 le facoltà di trattare erano delegate ad Anzani, diviene inesplicabile come il 23 quelle proposizioni siano state fatte al sig. del Bosco.

Comunque sia il 24 di luglio giungeva a Palermo il seguente dispaccio:

«Il Dittatore al Prodittatore.

«Il nemico ha capitolato. Evacua il castello

E secondo la citata corrispondenza di Messina le condizioni della capitolazione furono:

«1. ° Le reali truppe sarebbero uscite dalla fortezza cogli onori militari, eccettuato Bosco, che doveva uscire a piedi e senza spada; però Garibaldi volle essere generoso con lui, accordandogli la sola spada.

«2°. La fortezza sarebbe rimasta con tutta l'artiglieria e munizione da guerra in potere di Garibaldi.

«3. ° I cavalli tutti e metà del numero delle mule, che rimanevano ai Napoletani, da consegnarsi a Garibaldi. Tutto fu eseguito in un paio di giorni. I regii furono imbarcati su i bastimenti a vapore e trasporti mandati espressamente dal governo di Napoli.»

La corrispondente soggiugne, che i Napoletani prima di abbandonare il forte avevano inchiodato 16 cannoni da 30, che lo guarnivano, e di più dal momento, che cominciarono le trattative, trascurarono di nutrire le mule ed i cavalli, si che la più parte di essi sono morti d'inedia.

La prima di queste due cose è probabile, ma la seconda non ci sembra verosimile. le trattative sono cominciate il 23 ed il 24 erano già compiute. La mancanza del nutrimento agli animali non poteva cominciare se non dopo di essersi conosciuto accettato questo patto della capitolazione, e non pare, che sia trascorso tanto tempo da fare morire gli animali d'inedia.

Alla capitolazione pel castello di Milazzo tenne dietro la convenzione per la città di Messina. Il generale Clary, che non aveva approvato la spedizione di Bosco, ma che non aveva potuto impedirla per le istruzioni segrete, che quegli teneva dalla Corte, segui le istruzioni del ministero napoletano, e consenti nella seguente convenzione: a L'anno 1860 il giorno 28 luglio in Messina, Tommaso de'  Clary maresciallo di campo comandante superiore le truppe riunite in Messina, ed il cavaliere maggiore generale Giacomo de'  Medici, animati da sensi di umanità e nello intendimento di evitare lo spargimento di sangue, che avrebbe causato l'occupazione di Messina da una parte, la difesa della città e forti dall'altra; in virtù dei poteri loro conferiti dai rispettivi mandanti sono addivenuti alla seguente Convenzione.

«1. ° Le reali truppe abbandoneranno la città di Messina senza essere molestate, e la città sarà occupata dalle truppe siciliane senza pure venire queste molestate dalle prime.

«2. ° Le truppe regie evacueranno i forti Gonzaga e Castellaccio nello spazio di due giorni a partire dalla data della soscrizione della presente convenzione. Ognuna delle due parti contraenti destinerà due ufficiali ed un commessario per inventariare le diverse bocche a fuoco, i materiali tutti da guerra, e gli approvvigionamenti dei viveri e di quanto altro esisterà nei forti suindicati. Resta poi a cura del governo siciliano lo incominciare il trasporto di tutti gli oggetti inventariati appena verrà effettuato lo sgombro dei soldati, di compierlo nel minor tempo possibile, e consegnare i materiali trasportati nella zona neutrale, di cui si tratterà in appresso.

«3. ° Lo imbarco delle reali truppe verrà eseguito senza Che venga molestato per parte dei Siciliani.

«4. ° Le truppe regie riterranno la Cittadella coi suoi forti Don Blasco, Lanterna, e S. Salvatore, con la condizione però di non dovere in qualsiasi avvenimento futuro recare danno alla città: salvo il caso, che tali fortificazioni venissero aggredite, o che i lavori di attacco si costruissero nella città medesima. Stabilite e mantenute codeste condizioni, la inoffensività della Cittadella verso la città durerà sino al termine della ostilità.

«5. ° Vi sarà una fascia di terreno neutrale parallela e contigua alla zona militare, la quale s'intende debb'allargarsi per venti metri oltre i limiti dell'attuale zona, che va inerente alla cittadella.

«6. ° Il commercio marittimo rimane completamente libero da ambe le parti. Saranno quindi rispettate le bandiere reciproche. In ultimo resta all'autorità dei comandanti rispettivi, che stipulano la presente convenzione, la libertà d'intendersi per quei bisogni inerenti al vivere civile, che per parte delle regie truppe debbono venire soddisfatti e provveduti nella città di Messina.

Fatta, letta e conchiusa il giorno, mese ed anno come sopra nella casa del signor Fiorentino Francesco, banchiere alle quattro fontane.»

Firmato — Tommaso de'  Clary

Maresciallo di Campo.

Cav. Giacomo Medici

Maggiore generale.

Comunque con la data del 28, questa convenzione era già stata consentita il giorno prima, dapoiché un telegramma pubblicato a Palermo il 28 di luglio, ma con la data di Milazzo 27 luglio, ore 4 e 45 pom. e diretto dal Generale Sirtorl al Prodittatore diceva:

«Messina è sgombra, meno la cittadella. Il Cenerale Dittatore è partito questa mattina per quella volta. Noi lo seguiamo.»

Intanto sin dai giorni 21 e 22 la popolazione allontanatasi da Milazzo vi era ritornata, e si era immediatamente tranquillate, riprendendo la cura dei proprii affari. Lo stesso avvenne in Messina dopo la convenzione, se non che la cittadella delle mani dei regii, dalla quale grave danno si, poteva inferire alla città, rendeva quella popolazione meno confidente nella sicurezza delle persone e delle proprietà.

Quattro giorni dopo la data della convenzione di Messina si pubblicava in Palermo il seguente:

«Bollettino ufficiale.

«Il Generale Garibaldi al ProDittatore in Palermo..»

Convenuta col Generale Clary la evacuazione di Siracusa ed Agosta.

«Messina 1 agosto ore 12 m.

«Palermo i agosto.

«Il Segretario di Stato

«Crispi.»

Furono inoltre per effetto di un'altra convenzione tra Clary e Medici consegnati agl'Italiani il forte Torre di Faro con una batteria di 14 cannoni, che tira sullo Stretto, il forte Gonzaga posto a cavaliere della città, ed il forte del Salvatore, che domina il porto.

Così, tranne la cittadella di Messina, nel cominciare di agosto 1860 null'altro rimaneva in Sicilia al governo di Napoli. Allora non erano ancora quattro mesi, da che era scoppiata l'insurrezione di Palermo non riuscita, e cosi facilmente repressa nella città, ed erano appena 2 mesi e diciotto giorni, da che Garibaldi con cosi piccoli mezzi era sbarcato a Marsala. Una popolazione di 1, 897000 abitanti era diffinitivamente perduta per la dinastia, che regnava in Napoli; 6 provincie, 312 città, 107 borghi, 105 villaggi armavano ad ingrandire il regno del Nord e del Centro d'Italia. Quel regno era in popolazione già quasi i& doppio delle provincie rimaste all'erede di Ferdinando II. Tutto questo era il risultamento di pochissimo tempo e di tenuissimi mezzi, perché già da un pezzo la Dinastia dei Borboni non regnava più sulle popolazioni siciliane, che le erano statele più fedeli nei tempi delle sue sventure. Quest'esempio andrà a perdersi come tanti altri nella mente di coloro, che calcano un soglio. Eppure Principi e Popoli non dovrebbero mai obbliarli, i primi per avere un più giusto concetto della loro autorità, i secondi per serbare una più sana idea della loro dignità.

Il 27 di luglio il Generale Bixio e Menotti Garibaldi, seguiti da una forte colonna, entrarono in Catania; il ricevimento e gli applausi furono come altrove; la popolazione si sentiva sgravata da una pressione, che le rendeva quasiché irrespirabile la vita, si che sentitasi libera, prorompeva in espansioni di giubilo e riconoscenza.

Intanto partivano da Palermo verso Messina tutte le truppe ordinate, che vi si trovavano. Ognuno prevedeva, che i riposti disegni di Garibaldi si maturassero. Egli aveva nominato La Masa generale, e gli aveva affidato una commissione concepita nei seguenti termini.:

«Il Generale La Masa è da me incaricato di percorrere l'Italia, la Francia, e l'Inghilterra ad effetto di procurare alla Sicilia le più possibili risorse in denaro, armi, legni da guerra a vapore, e per fare conoscere ai governi ed ai popoli la rivoluzione siciliana sotto il suo vero aspetto, col suo solo spirito, ch'è l'annessione al resto degli Stati del Re Vittorio Emmanuele.

«ll GARIBALDI.»

Dall'altra parte diecimila uomini di truppe napoletane imbarcavansi pel continente. Bosco pel primo sbarcava con la sua brigata il 26 a Castellamare; aveva il 1. 0, il 3. °, ed il 9. ° cacciatori, parte del 15. ° ed il treno. Dicesi, che vi fossero sul Protys circa 120 feriti.

Mentre seguivano le fazioni di guerra, che abbiamo narrate, l'organizzazione civile della Sicilia procedeva nel suo cammino.

Abbiamo già detto, che il Deputato Depretis, nominato ProDittatore, era stato assai bene accolto in Sicilia. Il 27 di luglio il Senato, ossia il Corpo municipale di Palermo, si presentò a lui a fine di offrire gli omaggi della città. Il Prodittatore espose le sue idee sulla quistione politica in generale, ed erano del tutto conformi a quelle manifestate dal Dittatore. Disse, che la Capitale del Regno doveva essere Roma, alla quale per la loro grandezza e splendore avrebbero fatto corona Palermo, Napoli, Firenze, Milano, Venezia, e Torino. Quanto poi all'ordinamento politico del paese, parlò di un Consiglio di Stato, che aveva in mente d'instituire, ad oggetto di elaborare le leggi da adattarsi alla Sicilia.

E difatti con Agi decreto del 3 di agosto, preceduto da un rapporto del Segretario di Stato per gli Affari Interni signor Interdonato, fu istituita in Palermo una Sezione temporanea del Consiglio di Stato. Essa si componeva di un Presidente di Sezione, di sei Consiglieri, tre Referendarii, e di un Segretario di Sezione con un personale di Segreteria. La Sezione dividevasi in tre commessioni o comitati, Affari interni, Finanze, Giustizia ed Affari Ecclesiastici, ma i lavori di questi comitati erano assolutamente preparatorii. Le attribuzioni della Sezione erano consultive o giurisdizionali. Deliberava come corpo consultivo quando una legge richiedeva il suo voto e su tutti gli affari, che il Dittatore le commetteva. In talune materie doveva essere necessariamente inteso il parere della Sezione; tali erano i progetti di regolamenti edilizii, di polizia urbana e rurale, delle carceri, e di altri stabilimenti di pena; le dimande di estradizione; le esecuzioni delle provvisioni ecclesiastiche di ogni natura provvenienti dalla Santa Sede; i richiami al Dittatore contro la legittimità dei provvedimenti governativi di carattere amministrativo; I conflitti di giurisdizione; i dubbii sull'approvazione delle decisioni della G. C. de'  Conti. Deliberava in materie giurisdizionali in prima ed ultima istanza nelle cause prevedute dall'art. 8 della legge del 7 gennaio 1818.

Ma altro più importante proclama pubblicavasi il vegnente di 4 di agosto:

«Siciliani!» — Diceva il ProDittatore;

«L'illustre soldato, onore d'Italia, da Voi acclamato vostro liberatore, vuole aggiungere alla gloria delle armi lo splendore delle civili riforme.

 «Lo statuto del regno italiano, il patto inviolabile ed inviolato, che unisce l'Italia e Vittorio Emmanuele, sarà proclamato in Sicilia.

 «A questa suprema altre leggi susseguiranno. L'interesse della patria comune reclama, che nuove discipline conformi, per quanto è possibile, a quelle di che va lieto il Regno di Vittorio Emmanuele, siano pubblicate nell'Isola. Informati ai principii di libertà, i nuovi ordini cancelleranno le vestigia della funesta signoria, che per tanti anni vi afflisse.

 «Siciliani! Voi avete compiuta una gloriosa rivoluzione. Ora dovete comporvi ordinati e sicuri come si conviene ad un popolo libero e risoluto ad aiutare efficacemente con tutte le forze la grande opera dell'unità nazionale.

 «Che a questo fine santissimo tutti i buoni cittadini aiutino il governo, uniscano le loro forze, e non sia altra gara fra loro, che di abnegazione e di patriottismo.

«Palermo 4 agosto 1860.

 «Il ProDittatore. Depretis.»

Ed il Decreto era il seguente:

«Italia e Vittorio Emmanuele.

«Il Prodittatore:

«In virtù dell'autorità a lui delegata;

 «Udito il parere dei Segretarii di Stato;

«Considerando, che il voto espresso dai Siciliani nella gloriosa rivoluzione del 4 di aprile col grido unanime degl'insorti, al quale unanime rispose quello di tutte le popolazioni dell'Isola con la bandiera, che levarono, combattendo con gl'indrizzi di tutti i Comuni, fu ed è l'annessione al Regno italiano e costituzionale dell'Aguste Vittorio Emmanuele Re d'Italia;

«Considerando, che questo voto è conforme al dritto nazionale superiore ed eterno, che spinge i popoli di una stessa nazione a costituirsi ad unità di Stato, e fu suggellato dal sangue degl'insorti e dei valorosi, che guidar dal Generale Garibaldi portarono vittoriosa e coprirono di nuovi allori la tricolore bandiera, nella quale è impressa la Croce di Savoia;

«Che le altre provincie italiane e tutte le Nazioni civili accolsero con plauso il programma Italia e Vittorio Emmanuele, e la bandiera della rivoluzione siciliana;

«Considerando, che se i poteri straordinarii della Dittatura, intesi a consolidare l'ordine novello ed a conseguire il fine della rivoluzione, non consentono per ora l'attuazione immediata della legge fondamentale della Monarchia Italiana, è necessario tuttavia affrettarne la promulgazione, perché in essa legge s'informa tutto l'ordinamento delle nuove leggi, delle autorità, e delle giurisdizioni, che sono o che debbono entrare in vigore;

 «Decreta

Art. 1. ° Lo statuto costituzionale del 4 marzo 1848, vigente nel Regno d'Italia, è la legge fondamentale della Sicilia.

Art 2. ° Esso entrerà in vigore nelle diverse sue parti all'epoca, che sarà designata con decreto dittatoriale.

Art. 3. ° Sarà pubblicato il detto statuto insieme al presente decreto in ogni Comune. e nel Giornale Uffiziale di Sicilia.

Art. 4. ° Tute i Segretarii di Stato sono incaricati dell'esecuzione del presente decreto.»

«Palermo 3 agosto 1860.»

Ed erano firmati il Prodittatore e tutt'i Segretarii di Stato.

Grandissima letizia produsse questa pubblicazione in Palermo e nella Sicilia; se ne fecero le illuminazioni, ed il contento e la soddisfazione trasparivano nel volto di tutti. — «Se la necessità, si diceva, e le condizioni presenti, ed i poteri eccezionali non consentono per ora l'applicazione immediata nell'isola della legge fondamentale della monarchia, il paese vede almeno brillare ai suoi occhi il faro luminoso, che deve nello avvenire guidare i suoi passi, quando libero padrone di sé, dovrà colle altre parti d'Italia concorrere a formare una illustre e potente nazione.»

Ed affinché semprepiù si allargasse l'animo dei Siciliani ad un migliore avvenire, s'istituiva una commessione tecnica ed economica, cui si commetteva di esaminare e riferire prontamente quale sia la rete più conveniente delle strade ferrate da costruire, indicandone il generale andamento, le principali opere d'arte, le spese approssimative, ed i presumibili prodotti di esercizia.

Nè i privati si stavano dal concorrere coi proprii mezzi ad agevolare al governo il cammino, pel quale doveva avanzare. Nella sola Marsala furono formate 14 commessioni per raccogliere soccorsi da offrirsi al Dittatore. tra le quali una di signore. Il consiglio civico di quel Comune offriva onze 478 e tari 22. 1 cittadini di Siracusa per volontarie oblazioni offrivano onze 559, e d'altronde nella segreteria di Stato, della guerra pervenivano 40 colli contenenti bende, filacce, camicie ed altro per uso dei feriti siciliani raccolti dal Comitato delle signore torinesi, presiedute dalla marchesa Anna Pallavicino Trivulzio, cui se ne deve la fondazione.

Ed alle donne siciliane Garibaldi dirigeva le seguenti parole:

«La libertà, dono il più prezioso, che la Provvidenza abbia dato ai popoli, fu acquistata dalla Sicilia grazie alla maschia risoluzione dei Siciliani ed all'aiuto generoso dei loro fratelli del continente.

«La libertà, difficile ad acquistarsi, è più difficile ancora di saperla conservare; e l'Italia intiera ha provato sovente questa trista verità per lo spazio di molti secoli. a La Sicilia è tale paese, che non abbisogna ricorrere alla storia degli stranieri per trovare esempi di virtù cittadine di ogni genere. Il sesso gentile in tutte l'epoche ha dato prova in quest'isola benedetta da Dio di tale coraggio da stupire il mondo.

«Dalle donne di Siracusa, che tagliavano le trecce pei lavori di difesa aì tempi dei Romani, a quelle di Messina, ch'eccitavano i loro cari ad assalire i bombardatori, molti sono gli atti di valore del bel sesso di quest'isola.

«Il vespro, fatto unico nella storia delle nazioni, ha pure veduto a fianco dei combattenti per la indipendenza patria le vezzose isolane.

«lo, e me lo rammento commosso, dall'alto del Palazzo Pretorio di Palermo, annunziando a quel generoso popolo un'umiliante proposta del dominatore, udiva un fremito tale ripetuto dalle donne, che coronavano i balconi, da far impallidire un intero esercito; quel fremito fu la sentenza di morte alla tirannide.

«La Sicilia è libera; — è vero; una Sola cittadella rimane in potere del nemico. — Ma or sono quindici anni il valore siciliano ottenne lo stesso risultato; eppure questa libera terra per non aver voluto fare un ultimo sforzo fu rigettata nel servaggio — ricalpestata dal piede del mercenario — e ridotta in più miserabile condizione, che non fosse prima della gloriosa sua rivoluzione.

«Donne vezzose e care della Sicilia, udite la voce dell'uomo che ama sinceramente il vostro bel paese, a cui è vincolato di affetto pell’intiera sua vita. Egli non vi chiede nulla per lui — nulla per altri, — ma per la patria comune. Egli chiede il potente vostro concorso. Chiamate questi fieri isolani alle armi! Vergognate coloro, che si nascondono nel grembo della madre o dell'amante.

«La Cairoli di Pavia, ricchissima, — carissima — gentilissima matrona — aveva quattro figli — uno morto a Varese sul cadavere d'un Austriaco, ch'egli aveva ammazzato! Il maggiore Benedetto l'avete nella capitale giacente ancora ferito'a Calatafimi e a Palermo. Il terzo Errico vive col cranio spaccato negli stessi combattimenti, ed il quarto fa parte di questo esercito — mandato da quella madre incomparabile. Donne! mandate qui i Nostri figli i vostri amanti. In pochi la contesa sarà lunga, dubbiosa, e piena di pericoli per tutti! In molti noi vinceremo con l'imponenza, non vi saranno battaglie, presto vedremo realizzate le speranze di venti generazioni d’Italiani ed io vi ridonerò i vostri cari, col volto abbronzato dai campi di battaglia.. coronata la fronte dell'aureola della vittoria, e benedetti da quelle stesse soffrenti e serve popolazioni, che vi mandarono i loro figli al riscatto della vostra terra!

«Messina 3 agosto 1860.

«G. GARIBALDI.»

La Sicilia è liberata; tutte le armi di Garibaldi si concentrano verso il Faro. La guerra è per irrompere nelle provincie continentali. Avvenimenti importanti avevano già ivi cambiato l'ordine politico e lo scopo dell'amministrazione;essi avevan senza dubbio influito nei fatti del governo siciliano, ma noi non li abbiamo narrati nell'ordine delle loro date per non interrompere l'insieme dei fatti dell'isola dal cominciare sino al compiersi della sua rivoluzione. Ora è d'uopo di esporre ciò, che avveniva sull'altra parte del faro.


vai su


CAPITOLO XV

 Il governo di Napoli negli ultimi tempi di Ferdinando.

SOMMARIO

Morte di Ferdinando II. — Considerazioni inondi e politiche — Sguardo retrospettivo — Suo proclama nell'ascendere al Trono — La storia di questo regno non appartiene al nostro piano, se non in quanto svela le cause della rivoluzione Ferdinando II raccoglieva una trista eredità — Pure i suoi primordii furono buoni — V ha chi crede che fosse prescelto a compiere l'unità italiana — Cagioni, che accrescevano la sua fiducia nella politica eletta, ma il principio dell'autorità monarchica si scemava — Come il Re lì suppliva — Sua tenacità e suoi principii politici ricavati dai documenti diplomatici in occasione della rottura delle relazioni diplomatiche con la Francia e l'Inghilterra — Dispaccio di Walewski — Risposta di Carafa — . Impressioni di questa risposta in Parigi ed in Londra — Secondo dispaccio di Carafa — Considerazioni politiche — . Prosieguo dell'istessa politica del governo di Napoli — Rottura delle relazioni diplomatiche con la Francia e l'Inghilterra — Impressioni della partenza delle due legazioni Le relazioni tra il principe e la nazione intristivano — Corrispondenza della Opinione di Torino — Indrizzo di un esule napoletano — Doveva produrre molto effetto — Corrispondenza del Morning-Post — Altra dell'Opinione di Torino — Altra della Presse Altra dell'Independance Belge — Conferma del Daily-News — Tal era l'eredità trasmessa da Ferdinando II Il 22 di maggio 1859 alle 2 p. m.

Ferdinando II soccombeva ad una lunga e penosa malattia; le due passioni predominanti, una volontà assoluta ed una diffidenza degli uomini basata sulla immoralità, che per lui era un attributo naturale della specie umana, lo lasciarono soltanto nell'estinguersi della sua vita. Narra il signor Marco Monnier (), che un medico chiamato a consulto gli aveva detto, essere la morte del Re un suicidio, aver egli voluto governare la sua malattia come il suo popolo, non aver voluto sentire alcuno, ed avere trattato la facoltà medica come già aveva trattato il suo parlamento. Dicesi, che avesse raccomandato a suo figlio di non governare con troppo rigore, poiché i tempi nol consentono, ma non sapendo neanche in quegli estremi momenti liberarsi dalle sue tendenze austriache, lo supplicava di non dipartirsi dai suggerimenti della Regina Maria Teresa. Era così immedesimata con lui la idea della identità degl'interessi dell'Imperatore d'Austria e del Re delle Due Sicilie, che nel momento di lasciare il giovane figlio senza istruzione, senza esperienza, senz'amici lo consigliava di buttarsi nelle braccia della matrigna, non ostante, che questa avesse un proprio figlio da preferirgli; e ciò perché la matrigna era una Austriaca! E non vi era forse tra i più stretti consanguinei del Re un Principe unito pei legami di affinità alla famiglia della Madre del giovane Principe? La memoria di questa Pia Regina non era forse venerata da tutti i Napoletani, e dai più devoti tra essi, e dal Re stesso, divotissimo fra tutti? Non doveva essere tenuta in quell'alto concetto, in che si tiene chi ha raggiunto la perfezione, che gli ha meritato la dimora dei Beati? E perché dunque non ha insinuato a suo figlio i principii e le massime della madre, perché non lo ha esortato di raccomandarsi a lei, egli che negli umani avvenimenti concedeva tanta parte alla protezione diretta degli spiriti abitatori delle sublimi regioni del creato, perché infine non lo ha raccomandato al sito proprio fratello, nel quale suo figlio avrebbe trovato i congiunti della sua Santa Madre? Perché questa madre, tuttoché santa, rappresentava un principio italiano; perciò i congiunti di lei erano gli avversarli dell'Austria, e perché, tra un Principe, che non aveva interesse di detronizzare ìl nipote, e la matrigna, che aveva interesse di detronizzare il figliastro, bisognava scegliere la seconda piuttosto che il primo, dapoiché bisognava anteporre la politica austriaca all'italiana anche quando ne andasse compromessa la sicurezza del figlio. Dalla lettera a Luigi Filippo nel cominciare del suo regno sino alle esortazioni al figlio nel momento di discendere nel sepolcro le convinzioni di Ferdinando II per lo spazio di circa 29 anni erano rimaste immutabili.

E non pertanto dei gravi fatti si erano svolti in questo lungo periodo di tempo. Nell'inaugurare il suo regno il di 8 novembre 1830 egli diceva ai suoi popoli:

«Dio avendoci chiamato ad occupare il trono dei nostri augusti antenati in conseguenza della morte del nostre amatissimo padre di gloriosa memoria, mentre il nostro cuore è vivamente penetrato di questa per dita irreparabile, sentiamo l'enorme peso, che il supremo dispensatore dei regni ha voluto imporci. Siamo persuasi, che investendoci della sua autorità, Dio non ha voluto, che restasse inutile nelle nostre mani, né che ne facessimo un cattivo uso. Egli vuole, che il nostro regno sia un regno di giustizia, di resistenza, di saviezza, e che noi adempissimo i doveri, che la Provvidenza c’impone.

«Intimamente convinti dei disegni di Dio su di noi, faremo tutt'i nostri sforzi per cicatrizzare le piaghe, che da alcuni anni affliggono questo regno.

«In primo luogo essendo convinto, che la nostra Santa Religione Cattolica è la principale sorgente della felicità dei Regni e dei Popoli, il nostro primo e principale dovere sarà di proteggerla e di conservarla intatta nei nostri Stati, e di adoprare tutt’i mezzi in nostro potere per fare osservare i suoi divini precetti. Contiamo su i Vescovi per secondare col loro zelo le nostre giuste prevenzioni.

«In secondo luogo rivolgeremo la nostra ardente sollecitudine sudi un'amministrazione imparziale della giustizia. Vogliamo, che i nostri Tribunali siano tanti santuarii, che non possano mai essere profanati dagl'intrighi, da ingiuste protezioni, né da verun riguardo o interesse umano:

«Finalmente il ramo delle finanze reclama la nostra particolare attenzione. Non ignoriamo esservi in questa parte delle profonde piaghe, che si deve guarire, ed il nostro popolo aspetta da noi qualche sollievo dei pesi, che ci hanno attirato i torbidi passati. Speriamo con l'aiuto e l'assistenza di Dio di soddisfare a questi due obietti così preziosi pel nostro paterno cuore, e siamo pronti a fare ogni specie di sacrifizio per pervenirvi.»

«Quanto alla nostra armata, alla quale da più anni abbiamo dato le nostre cure particolari, riconosciamo; che si è resa degna della nostra stima, e speriamo, che ci darà in tutte le occasioni pruove della sua inviolabile fedeltà, e che non lascerà mai, che si oscuri lo splendore delle sue bandiere.

Come egli abbia. mantenuto queste sue promesse l'Europa l'ha giudicato, né noi scriviamo una storia di quel regno; la quale storia non entra nel nostro piano, se non in quanto rende manifeste le cause della grande rivoluzione, che narriamo.

Non si può negare, che Ferdinando II raccoglieva una ben trista eredità; i due regni del padre e dell'avo avevano seguito un sistema inintelligente, impolitico, ed immorale a tal segno, che la restaurazione si spaventò essa stessa del sistema di demenza, che seguivasi in Napoli, e chiese a Chateaubriand, allora ambasciatore a Roma, delle notizie sugli errori, che si ammassavano a Napoli, e Chateaubriand rispose: — «E’ sventuratamente troppo vero, che il governo delle Due Sicilie è caduto nell'ultimo grado di disprezzo. Il modo come vive la Corte in mezzo delle sue guardie, sempre tremante e perseguitata da fantasmi della paura, non offrendo altro spettacolo, che cacce rovinose e patiboli, contribuisce sempre più in questo paese a rovinare la monarchia.» ().

Non pertanto il regno del giovane Principe cominciò bene per le riforme amministrative. Tre giorni dopo l'atto sovrano, che abbiamo trascritto, rinunziava a favore del Tesoro a 180, 000 ducati della sua lista civile ed il di 11 gennajo dell'anno seguente ne rinunziava altri 190, 000. Aboliva le cacce, che costavano molto. Il 18 di decembre accordava delle grazie politiche, e restituiva ai sospetti i loro dritti civili. Il 30 maggio seguente accordava nuove grazie politiche e richiamava gli esiliali. L’11 di giugno faceva murare i criminali di Castel Capuano, orribili prigioni, sepolcri dei viventi. Faceva sorvegliare e riformare le opere di beneficenza. Nel 1832 visitava le provincie, e vi fondava degli ospedali e degli asili (). Ammetteva senza difficoltà in Napoli il congresso degli scienziati, ed era largo con loro di cortesia e di riguardi. Istituiva in Napoli una guardia cittadina, che ad onta di tutte le restrizioni e la sfiducia, di cui la circondava, riusciva non però al finire del 1847 e nel 1848 di grande utilità per l'ordine pubblico e la sicurezza dei cittadini.

V'ha chi crede, ch'egli fosse designato dal partito italiano per la missione intrapresa poi da Principi della Casa di Savoia; dicesi, ch'egli esitasse e non desse mai né un'affermazione né una negazione. Certo è bene che nel 1848 non dipese; se non da lui di rinnovare la sua già decrepita dinastia, ponendosi arditamente alla testa del movimento italiano, e dando termine ai Borboni di Napoli per costituirsi ceppo dei nuovi Re d'Italia. Ma i principii di politica professati nella lettera a Luigi Filippo erano stati raffermati dall'esercizio di 48 anni di potere assoluto, e la necessità di modellarsi sull'Austria era stata cimentata dai legami di famiglia. Ferdinando II preferì di rimanere Re di Napoli e di Sicilia, purché rimanesse Principe assoluto, né si distaccasse da quella Dinastia e da quel governo, nei quali trovava riassunte le sue tendenze e le sue affezioni. Per riuscirvi bisognava calpestare i proprii giuramenti, punire come reati i fatti, che aveva egli medesimo provocati, demoralizzare sino alla più vile espressione la magistratura, scambiare sinanche il significato delle parole, creare un sistema di arbitrio, di violenza, di terrore, e di diffidenza. Egli elesse il suo partito, e lo fece, ed è evidente, che giunto a tal punto si rendevano impossibili anche le riforme amministrative.

L'energia della sua volontà, il disprezzo, in che aveva tutti gli uomini, una mirabile facoltà di sedurre e demoralizzare chiunque gli si avvicinava (e ne abbiam veduto dei deplorabilissimi esempi) accrescevano la sua fiducia nella politica, che aveva prescelta, il perché se l'Europa incivilita e disinteressata se ne spaventava, egli non se ne spaventava punto, né indietreggiava. Tutti vedevano i segni manifestissimi del fuoco, che ardeva sotto la cenere di una calma apparente, che non era altro, se non la simulazione forzata dei pensieri dei cittadini di ogni classe e di ogni condizione, ma il Re o non li vedeva, o li disprezzava, e frattanto combatteva i fenomeni, che scambiava per la malattia, e questa non curata, s'imperversava. Agesilao Milano mancava il suo colpo, ma la sua fine destava tale un interesse nel pubblico, che il regicida svaniva, e restava il martire; Pisacane tentava una temeraria spedizione, ma le sua morte sul campo di battaglia ed i rigori del governo alimentavano l'odio verso di esso. Mignogna non riusciva nel suo tentativo di cospirazione, ma nella lizza, che si elevava tra la violenza del governo e la fermezza del cospiratore, l'interesse pubblico era per questo e non per quello. Insomma in tutti questi come negli altri simili casi, il governo riusciva nella repressione, ma le fondamenta dell'autorità del principato s'infiacchivano. Il Re vi suppliva con affollamento delle truppe mercenarie, e con l'unirsi strettamente all'Austria per reagire contro la politica piemontese. Dopo le sedute della Conferenza di Parigi dei di 8 e 14 di aprile 1856, il Re di Napoli protestò il 10 di maggio seguente unitamente all'Austria contro l’immistione del governo sardo negli affari interiori dell'Italia. Così si allontanava semprepiù. dall'Inghilterra e dalla Francia, e rendevasi sempre più sensibile la lotta tra le aspirazioni del governo napoletano e quelle delle popolazioni e dei governi più inciviliti dell'Europa.

Conosce ognuno la rottura delle relazioni diplomatiche tra Napoli, la Francia e l'Inghilterra, ma interessa di conoscere le note diplomatiche, che furono scambiate, perché rivelano autenticamente il terreno, su cui fu impiantata la quistione e gli argomenti adoprati da ciascuna delle parti per risolverla nel proprio senso. l'una pruova dippiù della tenacità di Ferdinando II di non prendere consiglio, che da sé stesso.

Il conte Walewski scriveva al barone Brenier, ministro in Napoli, il dispaccio seguente:

«Parigi 21 maggio 4856.

«Signor barone, ho avuto l'onore di farvi, parte delle legittime preoccupazioni, che si sono manifestate nel seno del congresso di Parigi; credo ora di dovere ritornare su quest'obietto a fine di determinare di una maniera esatta il senso. ed il carattere di questo incidente in quanto concerne il regno delle Due Sicilie.

«Come voi stesso l'avrete osservato, i plenipotenziarii riuniti in Parigi si sono mostrati tutti uguale mente penetrati del sentimento di rispetto, che anima i loro governi per l'indipendenza degli altri Stati, e niuno di loro ha avuto il pensiero di provocare una manifestazione o una ingerenza tale da attentarvi. Il governo delle Due Sicilie non può ingannarsi sulle nostre vere intenzioni, ma esso riconoscerà insieme con noi (noi almeno amiamo di pensarlo), che i rappresentanti delle grandi potenze dell'Europa non potevano mostrarsi nell'atto di conchiudere la pace indifferenti al cospetto di certe situazioni, che sono loro sembrate proprie a compromettere l'opera loro in un avvenire più o meno prossimo. Ed unicamente perché si trovava messo su questo terreno, il congresso è state naturalmente indotto ad investigare le cause, che mantengono in Italia uno stato di cose, la cui gravezza non può sfuggirgli.

«Il mantenimento dell'ordine nella penisola italiana è una delle condizioni essenziali della stabilità della pace; sì che è dell'interesse e del dovere di tutte le potenze di non trascurare alcuna cura né alcuno sforzo per prevenire il ritorno di ogni agitazione in questa parte dell'Europa. Su tal subietto i plenipotenziarii sono stati unanimi. Ma come conseguire questo risultamento? Evidentemente non per quei mezzi, la cui insufficienza ci è giornalmente attestata dai fatti. La compressione ha dei rigori, ai quali non è opportuno di ricorrere, se non quando sono imperiosamente comandati da urgente necessità; altrimenti lungi ricondurre la pace e la confidenza, si provocano muovi, pericoli, fornendo alla propaganda rivoluzionata nuovi elementi di successo. Così, secondo noi, il Governo di Napoli s'inganna nella scelta dei mezzi destinati a mantenere la tranquillità nei suoi Stati, e ci sembra urgente, che si arresti nella falsa via, nella quale si è impegnato. Noi crediamo superfluo le misure proprie a conseguire lo, scopo, cui indubitatamente aspira, perciocché troverà o in una amnistia saggiamente concepita e lealmente applicata, o nella riforma dell'amministrazione della giustizia le disposizioni adattate alle necessità, che noi ci limitiamo ad indicargli.

«Noi abbiamo il convincimento, che l'attuale situazione di Napoli e della Sicilia costituisce un serio pericolo pel riposo dell'Italia, il quale pericolo, minacciando la pace dell'Europa, doveva necessariamente fissare l'attenzione del governo dell'Imperatore; in ogni caso essa c imponeva un dovere, quello cioè di svegliare la sollecitudine dell'Europa e la previdenza degli Stati più direttamente interessati onde scongiurare deplorabili eventualità. Questo dovere noi abbiamo adempito nel prendere l'iniziativa nel seno del congresso, e lo adempiamo del pari nel fare appello allo spirito conservatore del governo stesso delle Due Sicilie, che farà pruova delle sue buone intenzioni, dandoci conoscenza delle disposizioni, che stimerà convenevole di adottare.

«Come vedete, i motivi, che c'impongono il passo, che vi è confidato, e che voi dovete eseguire di concerto col ministro di S. M. Brittannica, sono perfettamente legittimi, comeché sono attinti nell'interesse collettivo di tutti gli Stati europei, e siamo quindi autorizzati a credere, che si risolverà in Napoli a prenderli in seria considerazione. Astenendosi dal tener conto dei nostri avvertimenti, si sarebbe esposti a. nuocere ai sentimenti, dai quali il governo dell'Imperatore non ha cessato di mostrarsi animato verso la corte delle Due Sicilie, e conseguentemente a provocare un dispiacevole raffreddamento.

«Vogliate, signor Barone, dare lettura e lasciare copia di questo dispaccio al Ministro degli Affari Esteri di S. M. Siciliana.

«Ricevete ecc.»

«Firmato Walewski.»

Il commendatore Carafa vi rispondeva il 30 di giugno, dirigendosi al marchese Antonini ministro delle due Sicilie a Parigi.

«Signor Marchese;

«Voi già conoscete pel mio dispaccio del 7 di questo mese n. ° 278 il riassunto della comunicazione, che mi è stata fatta dall'inviato di Francia, che nel tempo stesso mi ha rimesso dopo avermene data lettura la copia di un dispaccio a lui diretto a questo effetto, dal suo governo.

«Vedrete dalla copia del documento francese, che credo utile d'inviarvi qui acchiuso, che il governo imperiale ha inteso determinare, facendone l'applicasti me agli Stati del Re, il senso ed il valore delle preoccupazioni, ch'egli dice di essersi manifestate nel seni delle conferenze, che hanno avuto luogo per la pace, e nelle quali i plenipotenziarii si sono mostrati del pari penetrati dei sentimenti di rispetto, che animano loro governi per l'indipendenza degli altri Stati.

«Il Conte Walewski, protestando di non potersi dubitare delle vere intenzioni della Francia a nostre riguardo, ha creduto dovere nell'interesse della conservazione della pace suggerire la necessità di prevenire il ritorno di ogni agitazione in Italia, il che secondo lui non potrebbe essere ottenuto, che adottando delle misure di amministrazione interna giudicate proprie ad allontanare i pericoli, ai quali l'esporrebbe un sistema di rigore, che fornirebbe nuovi cimenti di successo alla propaganda rivoluzionaria, accrescendone il malcontento.

«Agendo in un senso contrario al principio rispettato da tutte le potenze, il governo francese crede di dovere suggerire, che la nostra amministrazione interna dovesse subire dei cambiamenti. che dice essere superfluo d'indicare, non omettendo tuttavia di precisare di quale natura debbano essere quelli, che appartiene al governo del Re di trovare come proprii ad assicurare la conservazione della pace.

Non si può comprendere come il governo imperiale, che si dice ben informato della situazione degli Stati del Re, può giustificare l’inammessibile ingerenza, che prende nei nostri affari per la urgente necessità di riforme, in mancanza delle quali è convinto, che l'attuale stato delle cose di Napoli e della Sicilia costituirebbe un grave pericolo pel riposo dell'Italia.

«Niun governo ha il dritto d'ingerirsi nell'amministrazione interna di un altro Stato e specialmente in quella della giustizia.

«Il mezzo immaginato per mantenere la pace, reprimere e prevenire i movimenti rivoluzionarii, è precisamente quello, che porta le rivoluzioni. E se qualche disordine pubblico potesse avere luogo sia qui, sia in Sicilia, esso sarebbe per lo appunto da tal mezzo suscitato, e lo provocherebbe, eccitando tutti i senti. menti rivoluzionarii, non solamente negli Stati del rei ma ancora in tutta l'Italia mercé questa inopportuna protezione accordata ai, principii agitatori.

«Il Re nostro padrone ha in ogni tempo esercitata la sua clemenza sovrana verso un gran numero di suoi sudditi colpevoli o traviati, commutando la loro pena, o richiamandoli dall'esilio, ed il suo cuore benefico sente il maggiore dispiacere di vedere, che la più parte degli uomini, di questa specie sono incorreggibili, di tal che se il nostro angusto padrone ha potuto per lo passato usare la sua clemenza, egli è adesso ben suo malgrado costretto nell'interesse del bene pubblico di non più esercitarla in seguito della agitazione prodotta in Italia dalle suggestioni mal calcolate dei governi, dal quale i nemici dell'ordine si sentono protetti.

«Se la più perfetta calma regna oggi negli Stati del Re, ove la rivoluzione ha sempre trovato nella divozione dei popoli pel loro Sovrano e nella fermezza. del governo il più potente ostacolo ai suoi tentativi di disordine, egli è del pari certo, che i malcontenti non mancherebbero di riuscire nelle loro audaci mene per dar corso alle folli speranze concepite nello scopo d'immergere nuovamente il paese nel disordine e nella costernazione.

«Il governo del Re, che evita scrupolosamente di ingerirsi negli affari degli altri Stati, intende di essere il sola giudice dei bisogni del suo regno per lo effetto di assicurare la pace, che non sarà turbata, se i male intenzionati, privati di ogni appoggio, si trovanti compressi dalle leggi e dalla forza del governo'; si che in questo modo soltanto si allontanerà per sempre il pericolo di nuove convulsioni, che possono compromettere la pace dell'Italia, e che il cuore benefico del Re, nostro padrone, potrà trovare l'opportunità e la convenienza di esercitare la sua abituale clemenza;

«Voi siete autorizzato, signor Marchese, a dare lettura di questo dispaccio al signor conte Walewski ed a lasciargliene copia in risposta alla suddetta comunicazione.

«Firmato — Carafa.»

Vedremo or ora, che una pari risposta era stata fatta alla comunicazione inglese, simile pel contenuto alla nota francese.

Lo stile ed il senso di questa lettera del Gabinetto napoletano non erano per certo amichevoli verso il governo francese, il quale poteva credere di avere dritto a maggiori riguardi nella risposta ad una comunicazione, che si aveva avuto cura di concepire nei più convenienti termini, per uno Stato indipendente; il governo delle Due Sicilie definiva per una ingiustificabile ingerenza i consigli del governo francese; gli dichiarava apertamente, niun governo avere il dritto d'ingerirsi nell'amministrazione interna di un altro Stato e sopratutto in quella della giustizia; e quasiché non bastasse respingere cosi poco cortesemente insinuazioni, che buone o cattive che fossero, venivano coperte sotto il manto di un'amichevole interesse, la nota napoletana aggiungeva, essere il governo deciso a fare precisamente il contrario di quello, che gli si consigliava, e desiderare solo, che si cessasse da quella inopportuna protezione accordata agli agitatori. Il che importava aggiungere alla sconvenevolezza dei nodi la manifestazione di una volontà determinata non solo a non allontanarsi da quella politica, che i due più considerevoli e più inciviliti governi dell'Europa credevano fatale al riposo dell'Italia e dell'Europa, ma invece d'irrigidire in essa.

I sentimenti destati da questa nota si manifestarono non solo a Parigi ed a Londra ma anche a Vienna; e, due mesi dopo di quella prima nota, e propriamente il 26 di agosto 1856, il commendatore Carafa ne diresse al Barone Brenier una seconda per attenuare la trista impressione della prima.

«Rapporti pervenuti da Parigi e da Vienna hanno rivelato a S. M. il Re, augusto sovrano del sottoscritto. incaricato del portafoglio degli affari stranieri, la disgradevole impressione prodotta sul governo imperiale, e su S. M. l'Imperatore dei Francesi dalla risposta del governo delle Due Sicilie alle comunicazioni fatte in Napoli da parte dei governi francese ed inglese dal cavaliere Tempie e dal barone Brenier inviato straordinario e ministro plenipotenziario di S. N. l'Imperatore Napoleone, risposta diretta al marchese Antonini, che ebbe l'ordine di comunicarla a S. E. il conte Walewski, come dal principe Carini a lord Clarendon.

«Giammai si è potuto avere il pensiero nel dispaccio del 30 di giugno ultimo d'imputare al governo francese delle tendenze, che non sarebbero uniformi alle garentie, che in tante circostanze ha dato all'Europa, e se il governo imperiale ha potuto vedere nel detto dispaccio una tale imputazione, se ne prova più vivo dispiacere.

«Il governo di Francia come quello di Napoli e come ogni altro non ama le rivoluzioni, e su questo punto l'accordo è perfetto, ancorché si possa differire su i mezzi di prevenirle.

«Il governo del Re ha veduto nei consigli dati dalla Francia e dettati dalla sollecitudine per la tranquillità dell'Europa, che potrebbe essere compromessa dai torbidi in Italia, una nuova pruova dell'interesse, che. l'Imperatore Napoleone ha certamente voluto mostrare al Re di Napoli; ma quanto all'efficacia delle misure da, prendere ed alla loro opportunità per ottenere la tranquillità del paese, non era certamente troppo il pretendere, che se ne riserbasse la scelta e l'applicazione al Re, giudice più indipendente e più istruito delle condizioni di governo, che convengono al suo regno; né può esservi dissentimento a tal riguardo, poiché potenze hanno esse stesse proclamato questo principio.

«E inutile di ricordare in questa circostanza, che il regno di Napoli è stato il primo a riprendere la sua tranquillità dopo i tristi Salti passati senza soccorso straniero e per la sola azione del governo del Re.

«Si è sempre riconoscenti agli amici pei loro consigli, ml gli amici stessi debbono comprendere, che non si può indifferentemente applicare ad un paese ciò, che conviene ad un altro. Si può avere sempre confidenza nella saggezza del Re, ch'è in posizione di conoscere meglio di ogni altro il tempo, le circostanze, e l'opportunità; e per certo il governo imperiale non ha mai potuto omettere di riconoscere questa indispensabile libertà di azione.

«Il governo delle Due Sicilie desidera vivamente di cancellare ogni disgradevole impressione prodotta nello spirito del governo imperiale dalla risposta comunicata dal marchese Antonini.

«Egli pone la maggiore premura non solo a conservare col governo di S. M. la più cordiale e sincera intelligenza, ma a stringere inoltre semprepiù I legami dell'amicizia felicemente esistente Ira i due Sovrani, che non possono essere se non perfettamente di accordo per camminare uniti verso il nobile scopo dell'ordine e della tranquillità dei loro paesi, serbando sempre le più amichevoli comunicazioni per ciò, che può interessare quest'oggetto comune.

«Il sottoscritto profitta ecc.

Sottoscritto — Carafa.»

Poiché il governo di Napoli era deciso a seguire lo stesso cammino, questa nota doveva valere unicamente a rattoppare l'errore di avere scritta la prima. Ognuno poteva dimandare perché non si fosse prescelto sin da prima questo tuono più moderato, che non concedeva nulla, ma che non accoppiava almeno l'irritazione alla negativa. Non era mestieri di grande accorgimento politico per prevedere l'effetto, che quella prima nota avrebbe prodotto in ogni governo civile, e per giudicare, che sarebbe poi riuscito difficile di distruggerlo senza modificare l'amministrazione. Siano quali si vogliano le tendenze e le aspirazioni di un governo, esso non avrebbe mai risposto a quel modo, se non avesse ceduto ai suggerimenti del risentimento, che inspirano le passioni politiche, quando resesi indipendenti da ogni analisi delle circostanze dei tempi, degli uomini, e delle cose, costituiscono un partito, che s'irrita della sua stessa imprevidenza o irreflessione, e chiama cospirazione lo sviluppo necessario e naturale dei fatti, che o non ha veduto, o non ha compreso, o Iza negato, credendo, che bastasse negarli, perché scomparissero. Ed in questa circostanza appunto si trovava il governo napoletano: La prima nota era l'espressione vera del suo pensiero; la seconda era una concessione fatta alla pressione diplomatica; e per l'una e per l'altra ne scapitava.

Seguiva intanto lo stesso sistema nell'amministrazione interna. Fedele il Re ai suoi principii politici sinceramente esposti nel cominciare del suo regno ad un altro individuo della sua dinastia, che aveva veduto discendere da un Trono, che non gli spettava per dritto divino, ma che la volontà nazionale gli aveva dato e gli aveva tolto, quando ne aveva abusato, Ferdinando II proseguiva a pensare, che bisognava tener curvati i suoi popoli; e per riuscirvi, da un lato gl'indeboliva, demoralizzandoli, mentre dall'altro accresceva la forza materiale, per la quale negli stranieri principalmente si confidava. Il che rende ragione della rottura delle relazioni diplomatiche. che un mese e mezzo dopo della seconda nota del signor Carafa ebbe luogo tra il Regno delle Due Sicilie, la Francia, e l'Inghilterra. Queste due potenze andando di accordo, basterà riferire la nota del signor Walewski.

«Il conte Walewsky, ai signor barone Brenier

in Napoli.

«Parigi 10 ottobre 1856.

«Signor barone; il governo dell'Imperatore vede con pena, che il governo delle Due Sicilie non sembra disposto a modificare la sua attitudine ed a dare soddisfazione ai voti, che gli abbiamo espresso.

«Io non ritornerò sulle considerazioni, che avevano inspirato al governo di S. M. Imperiale il passo, i cui termini si trovano consegnati nel mio dispaccio del 21 maggio ultimo. Credo di poter dire, che non vi è un solo dei Gabinetti dell'Europa, che non abbia reso giustizia alla lealtà ed alla previdenza dei consigli, che abbiamo fatto sentire in Napoli. Non ve n'è uno, che non sappia avere noi agito unicamente in un elevato pensiero di conservazione d'interesse generale, la cui espressione non aveva per certo nulla di offensivo pel governo al quale ci dirigevamo.

«Il governo imperiale è dispiaciuto, signor Barone, che le sue intenzioni siano state male intese, e che la risposta del governo di Napoli sia stata improntata nella forma come nel fondo, di un sentimento, che mi astengo di qualificare, ma ch'è ben poco in armonia con le disposizioni, che hanno inspirato il nostro passo.

«Ci siamo lusingati, che il tempo decorso dopo la data della nostra comunicazione avesse potuto modificare le prime impressioni del governo delle Due Sicilie, e che richiamato dalla riflessione a più giusti giudizii, avrebbe sentito da sé medesimo l'opportunità di entrare in una via, che il suo proprio interesse ed il bene del suo popolo dovevano invitarlo a seguire anche più de'  nostri consigli.

«La nostra aspettativa è stata ingannata, dapoiché comunque sia vero, che il Commendatore Carafa vi ha diretto il 26 di agosto ultimo una nuova comunicazione concepita in termini più concilianti, pure nel fondo delle cose essa non è più soddisfacente della precedente. In presenza d'una situazione, che noi avremmo sinceramente a cuore di evitare, il governo dell'Imperatore di accordo con quello di S. M. Britannica ha giudicato, non essergli più permesso per tutto il tempo che questa situazione non sarà, modificata, di serbare sullo stesso piede del passato le sue relazioni col governo delle Due Sicilie.

 LA FARINA GIUSEPPE.

Presidente la Società Nazionale Italiana.

«Vogliate dunque, signor Barone, nel ricevere il presente dispaccio mettervi in misura di lasciare Napoli con tutto il personale della vostra legazione. La missione inglese riceve simili istruzioni, e voi rimetterete al Console di S. M. I. gli archivii della legazione.

«Tuttavolta, e nel fine di assicurare eventualmente una protezione efficace ai sudditi francesi residenti nel regno delle Due Sicilie, una squadra francese si terrà in Tolone, ove sarà nel grado di ricevere gli ordini, che vi sarà luogo di trasmetterle nel caso in cui divenisse necessario di confidarle nell'interesse dei nostri nazionali la cura di supplire la mancanza di una protezione officiale. Onde provvedere in tempo opportuno ad una simile eventualità, le istruzioni prescriveranno al comandante di questa squadra d, incaricare di tempo in tempo uno dei legni messi sotto i suoi ordini di visitare i porti di Napoli e di Sicilia, ove il capitano di questa nave si metterà in comunicazione coi nostri consoli. In uno scopo analogo il governo di S. M. Britannica conta di fare stazionare. una squadra nel porto di Malta.

«Vogliate, signor Barone, dare lettura di questo dispaccio al signor Commendatore Carafa e lasciargliene copia.

Ricevete ecc.:

«Firmato — Walewski.»

La partenza delle due legazioni fu una vera dimostrazione, ed il governo avrebbe potuto leggervi espressi i sentimenti nazionali. Ma il governo non se ne diè pena, ed il Re non vide forse senza soddisfazione allontanate due persone, che in qualche modo gli davano soggezione. Il pubblico liberale avrebbe desiderato, che le due Potenze occidentali avessero richiamato il Re ad uscire dal provvisorio, in cui da più di sette anni giaceva. La costituzione del 48 non era stata abolita, ma solamente sospesa per le circo stanze eccezionali, nelle quali il regno si. trovava. Ora queste circostanze eccezionali erano finite, e la Francia e l'Inghilterra, le quali avevano riconosciuto la nuova costituzione della Monarchia delle Due Sicilie, potevano dimandare quale fosse nel pensiero di quel governo la forma attuale del principato, perocchè se questa fosse cambiata, le dette due Potenze avevano il dritto di non riconoscere la monarchia assoluta sostituita alla rappresentativa. Il vero, che tutto questo non avrebbe potuto menare ad altro, che all'interruzione delle relazioni diplomatiche, ma almeno, dicevasi dal partito liberale, le due Potenze rimostranti si sarebbero trovate su di un terreno più legale, il governo di Napoli si sarebbe trovato più imbarazzato a rispondere categoricamente, e non avrebbe potuto fare valere l'eccezione contro l'intervento di una Potenza estera nell'interna amministrazione di uno Stato indipendente. È noto, che le relazioni diplomatiche rimasero interrotte per circa tre anni, ed il governo napoletano proseguì nel suo cammino, ponendo soltanto moltissima cura a rispettare scrupolosamente i dritti dei cittadini inglesi e francesi, ed a risolvere eziandio in loro favore le quistioni, nelle quali o non era certo, che avessero ragione, o era certo, che avessero torto. Ma tutto questo intristiva semprepiù le relazioni tra il Re e la Nazione. La sfiducia e la diffidenza reciproche avevano raggiunto il punto più elevato; il Re non si fidava più di vivere neppure nella Capitale in quei deliziosissimi palagi, che sono l'incanto dell'Europa. La Nazione protestava incessantemente nell'animo suo contro un potere, che riteneva per illegittimo, che mancava sin anche alla condizioni di una Monarchia assoluta, ed al quale cedeva come a forza maggiore. Il prestigio dell'autorità sovrana era tuttaffatto cessato; il Re non. regnava più, ma governa va, e la responsabilità degli alli del governo era rifiutata da tutti gli agenti del potere, tranne quei pochi, che si erano apertamente palesati alla testa di una fazione, che non aveva il suffragio di nessun partito politico, purché fosse onesto. Coloro, che volevano difendere il Re, dicevano, ell'egli ignorava gli abusi e le ingiustizie dei suoi ministri, vale à dire, ammettevano gli abusi e le ingiustizie, ma tentavano di allontanarne dal Principe la risponsabilità, la quale non ne sarebbe stata neppure allontanata, se il fatto affermato fosse stato vero, perché se sarebbe mancata la responsabilità immediata degli atti, sarebbe indubitatamente esistita l'altra di tenere al potere gli autori di quegli atti. Ma il fatto non era vero, e niuno, all'infuori di quei pochi, che l'affermavano, lo tenevano per vero, perché era notissimo, che nelle quistioni di politica ed in quelle più importanti, di amministrazione interna il Ministero non valeva nulla, e ch'esso compensavasi di questa sua nullità nelle dette quistioni col suo dispotismo nelle. quistioni di second'ordine e negli atti di dettaglio. Sapeva ognuno, che, il Re aveva una particolare polizia e ch'egli governava direttamente per mezzo dei favoriti, dei quali si era circondato. Il ministero piegavasi alla sua volontà; cercava anzi con ogni studio di compiacerla, ed era interessato alla conservazione di un sistema, dal quale dipendeva la sua esistenza politica. Cosi il Re ed i ministri. venivano avvolti nella medesima colpa, gratificati delle stesse imputazioni; l'uno e gli altri erano chiariti gli autori dei mali presenti e dei maggiori, che si prevedevano, ma in questo giudizio del pubblico il Re doveva essere aggravato più dei Ministri, perché egli era responsabile dei mali, che, faceva direttamente, ed indirettamente degli altri, che lasciava fare dai detti Ministri. Onde può dirsi senza tema di essere tacciato di esagerazione, che il Principe e la Nazione costituivano due termini opposti. Il che è così vero, che gli stessi atti di clemenza esercitati in occasione del matrimonio del Principe ereditario tornarono inutili a migliorare, anzi deteriorarono le relazioni tra uno e l'altro, comeché riuscendo da una parte stentati e nella loro esecuzione falsati;. ei accolti dall'altra con diffidenza cd ironia, vieppiù palesarono le disposizioni ostili delle due parti.

Una corrispondenza da Napoli all'Opinione di Torino in data del 5 di aprile 1859 delinea un quadro così vero della condizione del Regno in quel tempo, che noi crediamo di riferirla per intiero:

«Qual la situazione politica del regno di Napoli nei suoi rapporti interni ed esterni? Quale avvenire lo attende nella crisi, che si prepara? Volgiamo un rapido guardo sopra questi punti culminanti della nostra situazione per renderci conto della trista realità, che ci circonda e ci minaccia.

«Ognuno ricorda, che prima della guerra d'Oriente la quistione italiana non era né politicamente definita né diplomaticamente posata; l'Europa aveva simpatia per l'Italia e compassione poi suoi martiri politici, ma l'interesse umanitario non aveva ancora dato luogo all'interesse politico. Fu l'ostilità del governo di Napoli mascherata sotto l'apparente sua neutralità durante la guerra, che fece elevare al congresso di Parigi dalla Francia e dall'Inghilterra lo prima idea della quistione italiana. Fu la resistenza di esso governo ai consigli delle potenze occidentali, che fece invelenire la quistione ed interrompere le relazioni diplomatiche. Fu finalmente la sua solidanza con l'Austria, che spinse questa Potenza ad Usare sul Piemonte la rappresaglia di richiamare da Torino il suo ambasciatore, e complicò, viemaggiormente le cose, estendendo la quistione italiana dal Sebeto e dal Tevere al Ticino od al Po, e facendo di una quistione di libertà una quistione d'indipendenza. Ora Napoli si trova in aperta rottura diplomatica con la Francia e con l'Inghilterra, la Russia è collegata col Piemonte, che rappresenta. un principio ostile al governo napoletano, e l'alleanza austriaca è la sola, che gli resta come la camicia di Nesso per istraziarlo e rovinarlo maggiormente. Ecco quello che produce una politica insensata, e mossa da lui., L'altra veduta, che dall'interesse del paese: la perdita di tutte le alleanze utili in Europa a misura ch'esse divenivano più necessarie, ed il rifermamento di quella ch'e più dannosa in un momento, in cui essa riesce più compromettente.

«Nel rapporto interno le condizioni del regno non sono punto migliori. L'Europa forse non crederà quello, che saremo per dire; ma noi protestiamo di restare anche al di sotto della realtà. ll governo di Napoli non esiste né negli uomini né nelle leggi, né nell'amministrazione; esso ha perduto anche la sua forma e la sua fisonomia. Noi non abbiamo ministero, non abbiamo consiglio; direttori provvisorii invece di ministri, funzionanti invece di intendenti, la gerarchia distrutta, la responsabilità annullata. In una provincia gli avanzi del regno militare, in un'altra l'apparenza dell'ordine legale, qui esistenti ancora i comandanti divisionali, là il potere civile dell'Intendente emancipato. Il re ammalato e lontano dal centro e dalla direzione degli affari; l'erede del Trono ignaro di tutto, tenuto in sospetto e in gelosia; non vede, perché inconscio di quanto lo circonda; non è veduto, perché può compromettere chi si avvisasse parlargli; ogni discussione, ogni conferenza di Stato annullata. Le decisioni amministrative sono una divinazione, la corrispondenza officiale è un enigma, la volontà misteriosa, che muove questo caos di elementi inerti si trasmette ai ministri sopra pezzi di carta come gli oracoli della Sibilla sopra foglie volanti. Se dal centro portiamo lo sguardo alla periferia nelle provincie, nei Comuni, noi non, possiamo farci una idea dell'azione amministrativa. Uno studio perenne del peggio, un amore incessante del regresso e del disordine, gli uomini di morale e d'idee eliminati costantemente dalle cariche; la forza pubblica affidata ai più perversi; le fortune e le proprietà dei cittadini date in custodia dei, più audaci e rovinati uomini del paese. I mezzi per formare la rendita pubblica sono sempre quelli, che possono più ledere l'incremento della rendita privata e contrariare la libertà civile dei cittadini; in una Comune abolito per forza il dazio sul macino, in un'altra per forza ristabilito; in una città popolosa stabilite e mantenute le privative, in una campagna povera, e disabitata proclamato il regime di libera concorrenza, dapertutto il regno governato ed amministrato a ritroso dei suoi interessi, dei suoi bisogni, della sua volontà.

«Il paese in questo buio amministrativo non ha altra guida, che l'istinto del bene ed il timore del peggio. Il suo malcontento sa di disperazione, la sua quiete di minaccia. Calpestato all'interno, assalito all'esterno; privato di ogni garanzia, esposto ad ogni sopruso, ora, maledice quanto lo circonda, uomini e cose, ora si agita cupamente tra incomposte speranze di esagerate paure. Con gli occhi fissi sull'Europa attende ansioso l'esito del gran dramma, che si prepara ostile al governo, eccessivo nei desiderii, fluttuante nelle idee.

«Ricapitoliamo. All'esterno tutte le alleanze perdute, all'interno l'anarchia nel governo, il malcontento e l'agitazione nel popolo, ecco il nostro stato presente. Quale sarà il nostro avvenire? Il pensiero rifugge dal fermarvisi. Niuno ignora, che tutta questa calma, che illude, tutte quest'ordine apparente, che regge pel puro, meccanismo della nostra organizzazione amministrativa, copre un incendio, che una scintilla sola può fare avvampare. Il prestigio di un uomo, che ora languo Ira i dolori di una grave malattia, la diffidenza ben naturale ad un popolo, sempre tradito e manomesso, possono fare reggere in piedi un edificio poggiante sul vuoto ed agitato da tutt'i venti. Ma se quest’uomo viene a mancare, se gli avvenimenti sorgono ad infiammare gli animi, non è egli da attendersi, che l'anarchia governativa si trasmuti in piena anarchia sociale, sia che la rivoluzione scoppii, sia che la guerra invada? Un abisso è aperto sotto i nostri piedi, tanto più spaventoso, che la fede negli uomini e nelle cose è perduta, e che le istituzioni e le leggi del regno non sono più in piedi a tutelare l'ordine o raccogliere sotto il vessillo comune del dritto gli elementi vivi ed operosi della società. Ecco a quali lagrimevoli condizioni ha condotto lo stato il governo di Re Ferdinando.»

Quei condannati politici, che tratti dai bagni e dalle galere il 16 gennaio 1859, avevano avuto per effetto di un mal decreto commutata la pena dell'ergastolo e dei ferri in quella dell'esilio, ed erano poi per virtù di una ministeriale deportati in America, essendo per un aiuto della Provvidenza pervenuti sul suolo inglese, si affrettarono di ritornare in Italia. I primi diciotto arrivati a Torino pubblicarono per mezzo di Giambattista Ricci, Maggiore condannato a 30, anni di ferri, ed, uscito dai bagni di Procida, il seguente indirizzo:

«Gli ultimi esuli di Re Ferdinando

ai loro concittadini di Napoli.

«Concittadini; Dei 66 vostri compatriotti, che il Re Ferdinando cacciava dagli ergastoli e dalle galere il 16 gennaio corrente per trabalzarli in America, già 48 con evidente aiuto della Provvidenza siamo giunti in Torino. I rimanenti vi arriveranno tra non guari.

«Dalla [riva] dell’Oceano ritornando, siamo passati a traverso le più affettuose dimostrazioni di simpatia di popoli amici; eppure l'anima nostra non è stata un solo istante distaccata da voi, né sarà, mai soddisfatta finché, sempre più avvicinandoci, non giungeremo ad abbracciarvi costà, o concittadini e fratelli.

«Il dolore, che appalesaste nel giorno della nostra forzata partenza, del quale fummo anche in parte testimoni oculari e commossi noi stessi, scorgendo le lagrime spuntare sul ciglio di quanti incontrammo, ci ha chiaramente dimostrato due cose: l'una che voi disapprovate l'iniqua misura, che da governo non giusto si prendeva su vostri concittadini non colpevoli d'altro, che del delitto di amore di patria, pel quale avevano già trascinata una croce per dieci anni; l'altra, che dieci anni di sventura non avevano punto scemato negli animi vostri quell'affetto, che in altri tempi ci mostraste. Noi ve ne ringraziamo, o concittadini, e facciamo voti, perché il cielo ce ne renda sempre più meritevoli.

«Dopo tanti affanni patiti un giorno di gioia universale si sta appressando, un giorno, in cui potremo dire: gl’ingiusti dolori, che abbiamo sofferto per tanto tempo, non dovremo soffrirli mai più. Un giorno, in cui la parola giustizia non dovrà più servire per una parola d'inganno.

«E questo giorno, che noi tanto avidamente bramiamo, è atteso con ugual desiderio da tutti i popoli civili di Europa secondo le non dubbie prove da noi raccolte lungo il nostro viaggio.

«Solo per ora ci duole, che nella nobile e commovente gara di quasi tutta la gioventù italiana affluente in Piemonte per aiutare i generosi sforzi di questo italiano governo, noi non vi abbiamo veduto ancora i giovani nostri concittadini. Sappiamo, o fratelli, che non è vostra colpa; sappiamo, che costà non v'ha penuria d'anime generose, sappiamo qual è la causa, che arresta i vostri passi. Ma è probabile, che questa causa ben tosto cesserà. Tenetevi dunque pronti al primo appello, onde non accada, che i nemici d'Italia abbiano a rimanere digiuni dei colpi dei Napoletani.

«17 aprile.

Per gli esuli arrivati in Torino.

GIAMBATTISTA RICCI.»

Nella disposizione degli animi questo indirizzo doveva produrre molto effetto. L'ippocrisia dell'amnistia di gennaio 1859 aveva svelato sia dove potesse giungere la mala fede del governo. La pena dell'esilio è definita nelle leggi penali napoletane pel trasporto del condannato fuori del territorio del regno per non rientrarvi durante il tempo della pena, ed intanto i condannati all'esilio si vedevano assoggettati ad una specie di deportazione, che né pel luogo, ove dovevasi espiare, né per la durata, è scritta nel nostro Codice penale. Il Re poteva surrogare all'ergastolo o ai ferri la relegazione in America, perché sarebbe stato questo un compromesso, che i condannali avevano la facoltà di accettare o rifiutare ma commutare la loro pena in quella dell'esilio, e sostituirvi nell'esecuzione una deportazione arbitraria era un farsi giuoco di quanto v'ha di più rispettabile nelle relazioni tra gli uomini. Ora questo concetto, che si era destato generalissimo nell'occasione dell'amnistia, aveva classificato nella pubblica opinione i perseguitati ed i perseguitatori, e quell'indirizzo rafforzava semprepiù questo sentimento quasi avvalorandolo della sanzione della Provvidenza, che aveva distrutto le conseguenze dell'infrazione delle leggi della giustizia e della morale.

Tredici giorni dopo di questo indirizzo degli esuli napoletani si scriveva da Napoli al Morning-Post.

«La salute del Re continua ad essere la medesima con alcuni miglioramenti temporanei, ma la febbre è invincibile nella sua violenza; le forze diminuiscono esauste dal terribile scolo delle materie delle tre piaghe aperte, che non possono venir chiuse. Vi è dall'altra parte un appetito morbosamente vorace. Il partito liberale è attivissimo, ma gli elementi sono troppo eterogenei e le opinioni troppo poco unanimi per una combinazione. Una caricatura fu ieri posta in vendita per la via di Toledo, che nei tempi ordinarii non sarebbe stata permessa. Essa rappresenta l'altro mondo.

«Vi si vede Pignati il Ministro della Giustizia; egli è interrogato dai suoi Giudici perché abbia segnato il decreto per la deportazione degli amnistiati: Non sono stato io, risponde, ma Ferdinando. — Bene, gli dicono essi, mandatelo a chiamare

«Un'altra caricatura rappresenta il ciarlatano dottore Manigrasso, che unge il Re con la sua universale panacea. Egli ha tinto il capo e la faccia di verde, poi il petto di bianca; e sta per Cominciare a tingere le estremità di rosso. S. M. spaventato dice.: Che cosa stare voi facendo? — Sono i soli colori, che salveranno V, M. il rosso, il bianco, ed il verde, i tre colori italiani, risponde il ciarlatano.

«Si dice, che il Venerdì Santo il Re di Napoli abbia ordinato di trasmettere un telegramma al Papa in Roma in questi termini:

«Può S. M. essere tranquillo sulle assicurazioni di S. Santità, che il ritirato giuramento non gli sia mai di peso nell'anima?

«Fu data immediatamente risposta come siegue: — Iddio ha fatto sempre più conto delle intenzioni, che delle parole dei Principi.»

E quattro giorni dopo di questa corrispondenza del foglio ministeriale inglese una corrispondenza dell'Opinione, foglio ministeriale di Torino, soggiungeva:

«Napoli 4 maggio 1859.

«Le notizie della guerra hanno cagionato qui grande. agitazione, quelle di Toscana hanno prodotto una agitazione indescrivibile a Caserta.

«Che si fa? Che si pensa? Le voci più strane corrono, si dileguano, e ne succedono altre non meno strane.

«Il paese è nell'incertezza, ma con poca o niuna fiducia in un mutamento, che possa migliorare le nostre sorti. Tal mutamento non'potrebbe farsi, che a patto di abbracciare francamente la politica italiana e dare istituzioni liberali.

«I consigli sono diversi; frattanto tutto è paralizzato per la malattia o meglio per la lunga agonia del Re.

«Ora è sopraggiunta al Re un'orrida infermità, che chiamasi pedicolare; tutto il suo corpo è coperto di vermi come pidocchi.

«Un illustre medico diceva di lui: è una testa, che assiste alla putrefazione del suo corpo.

«Si pensa a munirsi contro l'interno ed i pericoli dell'esterno. Si è ordinata una leva di 18 mila uomini, richiamata la riserva, dando 60 ducati di premio. I volontarii, che s'ingaggiano per cinque anni avranno 0 ducati di premio, quelli per otto anni 60 ducati. E perché si vegga come era unanime l'opinione in Napoli un corrispondente della Presse nel 1 maggio scriveva:

«Il malato governa la malattia come governa il paese; da sé medesimo e senz'ascoltare nessuno, poscia dando ascolto a tutti, e seguitando a caso il primo consiglio dato. oggi pieno di diffidenza per abbandonarsi domani ad una intera fiducia, capriccioso, incostante e tenace, trattò la facoltà di medicina come aveva trattato il suo parlamento. A Lecce sin dai primi sintomi aveva chiamato da Napoli il suo medico ordinario. Il medico arrivò, ma esso credette di non essere più ammalato, e non volle più vederlo.

«Durante alcuni giorni il medico fu agli arresti e nelle segrete del Palazzo dell'Intendenza. Gli si permise finalmente di vedere il suo angusto cliente, ma si accorse bentosto, che a lui stava l'obbedire, e che malgrado la sua qualità di medico restava pur sempre il suddito dell'ammalato. Più tardi a Bari, vedendo il tumore, dichiarò, ch'era una quistione di Chirurgia, e che bisognava trasportare il paziente in Napoli. — Come, gli fu risposto, volete mettermi nelle mani dei carnefici! Volete dare ai miei popoli la soddisfazione di vedermi in questo stato! Non permetterò mai, che mi si trasporti in Napoli.

«Per decidere il sovrano a questo viaggio fu necessario l'intervento del Monaco di S. Pasquale, che passa per essere ispirato da Dio. Il viaggio e l'operazione furono risoluti, accettati, eseguiti, ma troppo tardi. I tumori si succedettero, e si moltiplicarono l'uno sull'altro. Il malato estenuato dalla febbre, dalla suppurazione delle sue piaghe, e da orribili dolori, non volle più nulla sentire, e. fini col dare ascolto a tutti;. esso chiamò tutti i mezzi al suo soccorso e soprattutto i mezzi soprannaturali; esso fece consultare una sonnambula, appoggiò sulle sue piaghe il bastone di S. Gaetano, si vesti del mantello di S. Gennaro, si abbandonò alle frizioni di un empirico, chiamò degli altri medici, che non volle vedere, e passando dall'estrema diffidenza all'estrema credulità, secondo le fasi della sua malattia, si condannò da sé medesimo ad incessanti torture, a quel lungo suicidio, che impietosisce sin anche i suoi più mortali nemici.

«Un fatto conosciuto da tutta la città può dare una idea di questo trattamento incredibile. Qualche giorno fa dietro consiglio del Principe ereditario quattro professori, come si chiamano qui, che sono fra i primi a Napoli, furono chiamati a Caserta; erano i signori Lanza, Prudente, Coluzzi, Palasciano. Essi furono condotti al primo piano del Palazzo; il Re occupa il pianterreno. Dopo lungo aspettare videro entrare il Dottore Ramaglia coi medici curanti di S. M. Questo pratico, d'altronde distintissimo, molto indipendente, e malissimo visto in Corte, espose lungamente ai suoi confratelli lo stato dell'ammalato. Confessò la piaga alla coscia ed un secondo ascesso al polmone sinistro (un primo ascesso scoppiò giù, d'onde il miglioramento, di cui parlò il Giornale ufficiale dieci giorni sono). Uno dei consulenti indicò la cura del latte umano (è il rimedio, ch'era stato prescritto dalla sonnambula). I tre altri respinsero questo consiglio, ed approvarono la cura seguitata sin allora. Dopo si ritirarono.

«Ora è a notarsi, che in questo consulto non solo il malato restò nascosto ai professori chiamati a Caserta, ma si dissimularono loro tre fenomeni osservati, consultati e confermati da tutti quelli, che poterono vedere il Re; la presenza delle piaghe del decupito, un'affezione pedicolare (non oso esprimere quello ché è; consultate un dizionario di medicina), ed il vero stato del polmone, ch'è tubercolato.

«Malgrado tutto ciò la testa e lo stomaco resistono. Il Re dirige da solo gli affari, esso mangia giornalmente i suoi maccheroni, e fuma. La sua malattia è mortale, non lo nasconde più, ma può trascinare innanzi ancora per del tempo.

«Questa malattia è poi sfruttata da quelli, che menano il popolo. Alcuni giorni sono la Madonna di D. Placido, o per meglio dire, del nipote di D. Placido, successore di suo zio e capo attuale dei sanfedisti, fu portata in processione dalla piccola chiesa, ove si venera. Nel ritorno della processione la Chieia si trovò chiusa, e D. Placido dichiarò al popolo, che la Madonna non rientrerebbe nella sua nicchia, se col mezzo delle sue preghiere non otteneva la guarigione del Re.

«E tosto la plebe costernata si pose a mettere delle grida forsennate, invocando, minacciando la Madonna, e coprendola d'ingiurie e di imprecazioni. Nel più. forte del tumulto sopravvenne un messaggiero con una lettera alla mano. Il nipote di D. Placido prese la lettera, ed aprendola in tutta fretta, annunciò al popolo, che le preghiere erano state efficaci, e che il Re stava meglio. Le porte della Chiesa si aprirono ad un tratto, e la Madonna vi fu reintegrata solennemente in mezzo alle acclamazioni della folla.»

A Termineremo questo quadro delineato dai corrispondenti dei fogli esteri con una corrispondenza dell'Indépendance Belga, foglio al quale non può imputarsi una ostilità sistematica al Re Ferdinando né al governo di Napoli.

«La grande quistione del giorno sta sempre nella cospirazione in favore del Conte di Trani e contro l'erede legittimo; è ormai sicuro, che la polizia vi prese parte. L'uno dei suoi capi, Nicola Merenda, fu arrestato nella notte della domenica al lunedì dietro un ordine giunto da Caserta. Si notò, che quest'ordine non era indirizzato alla polizia ma alla gendarmeria. Merenda condannato senza giudizio, fu imbarcato ieri per la Sicilia, dove lo si chiuderà, a quanto dicesi, in un forte o nell'isola Pantelleria.

«Questa cospirazione lacerò tutt'i veli, e ci mostrò la condizione babelica del governo; il potere militare in lotta colla polizia, il ministero diviso in due campi, gl'intendenti delle provincie, che si denunziano l'un l'altro, il governo cospirando contro sé stesso, l'erede legittimo in lotta aperta contro la sua matrigna e ridotto a disputare il potere al capezzale del Re moribondo.

«Dissipata la cospirazione, quelli, che ne facevano parte si sono rifugiati presso un ministro, che hanno così gravemente compromesso. Se un qualche Re governasse attualmente, vedremmo delle profonde cadute e dei terribili esempi, ma noi siamo in pieno interregno, e la Corte è in piena guerra civile. Dio voglia che non abbia questa a discendere nelle contrade. L'altro ieri la si temeva; era l'anniversario del 15 maggio, e doveva cominciare con un sollevamento dei lazzaroni in favore della Regina; ma la polizia, che doveva proteggere questo movimento, si arrestò al cospetto delle minacce del comandante militare della città, il quale dichiarò, che farebbe fuoco al primo grido.

«Ora vi ha ostilità, diffidenza reciproca, scambio di denuncie e di perfidie fra tutti i rami del servizio.»

Queste medesime cose scriveva a Londra il corrispondente del DailyNews.

Questa era l'eredità, che Ferdinando II trasmetteva a suo figlio; e per vero dire s'egli l'aveva raccolta cattiva, la trasmetteva anche deteriorata.


vai su


CAPITOLO XVI

Francesco II sino all'insurrezione Svizzera.

SOMMARIO

Stato politico del partito liberate nella fine di Ferdinando II — Due opinioni, che vi prevalevano — Obiezioni, che presentavano — Discussione — Opinione prevalente — Determinazione, che fu adottata — È abbandonata dopo il proclama del nuovo Re — Analisi di questo — Giuramento delle truppe — Ordine del giorno al armata — Niun cambiamento nell'amministrazione — Dimostrazione per la battaglia di Magenta — Passi della Diplomazia — Consigli a Francesco II — Ristabilimento delle relazioni diplomatiche con l'Inghilterra e la Francia — Osservazioni di un giornale italiano — Non mancarono i consigli, ma l'intelletto e l'energia — Paragone politico tra Ferdinando II e suo figlio — La condotta del nuovo Principe era inesorabilmente stabilita — Argomento, che n'emerge — Deliberazione del Comitato centrale — Pure una parte del partito liberale ammetteva allora un'altra soluzione — Cortesie della Francia, dell'Inghilterra e della Sardegna — Amnistia del nuovo Principe — Analisi di essa — Decreto per gli attendibili — Falli che svela direttamente — Aneddoto, che si racconta — Analisi di quel Decreto e della circolare — Osservazione particolare — Protesta a Filangieri — Principale sostegno del dispotismo napoletano gli Svizzeri — Capitolazioni relative — Erano onerosissime — Divieto delle Capitolazioni militari in svizzera — Atti diplomatici del. governo svizzero — Dichiarazione del Console svizzero in Livorno — Impressioni nei soldati svizzeri — Indizio dell'insurrezione svizzera — Relazione del Giornale officiale — Essa non sembra, del tutto esatta — Effetti dell'attacco sul Campo di Marte — Dissoluzione dei Reggimenti svizzeri — Una giustificazione del popolo napoletano.

 Quando si vedeva prossima la fine del Regno di Ferdinando II, incalzarono le discussioni sul partito politico, che convenisse di. adottare. Allora, bisogna pur dirlo, gli unitarii non eran molti. La gran maggioranza del partito liberale desiderava l'unità italiana, ed aveva anzi certa fede, che in un dato tempo si sarebbe compiuta, ma non credeva, che vi si fosse potuto pervenire immediatamente. Nè questa opinione può tacciarsi di pusillanimità o di timidezza, perché ogni uomo di buona fede deve convenire, che gravissimi erano gli ostacoli, che vi si opponevano, né tutti erano da vincersi istantaneamente. Questa verità si è manifestata chiaramente anche dopo, che per un concorso di fatti straordinarii, che sfuggivano ai calcoli ordinarii della prudenza, si è compiuta una meravigliosa rivoluzione, rivelando al mondo, che si può con maggiore fondamento di verità intitolare mia rivoluzione per la Grazia di Dio, che un Principe con guair antica formola.

Due erano dunque le opinioni, che si discutevano da coloro, che non ritenevano la fusione di tutte le province italiane come una combinazione, che potesse seguire immediatamente; lo statuto del 48 con Francesco II, e la restaurazione della Dinastia di Murat anche con uno statuto rappresentativo.

Ciascuna di queste due combinazioni presentava delle obiezioni, sulla gravità delle quali nessuno si faceva illusione. Le obiezioni emergevano dalla persona dei due Principi, l'uno noto ed in condizioni, che non potevano destare altro sentimento, che quello della diffidenza e dell'inquietudine; l'altro ignoto e non somministrante veruna specie di logica induzione. I meno riflessivi dicevano:

«Ma si può essere peggiore di colui, del quale si deve diffidare ed essere inquieti? Dunque si può migliorare, ma non peggiorare. Per l'uno v'ha certezza, per l'altro dubbio. Venga diavolo, si starà sempre meglio.» — E preponderavano pel Murat.

Ma gli altri, che penetrando più addentro, valutavano la natura degli ostacoli, ragionavano diversamente. Non v'ha dubbio, essi dicevano, che una monarchia rappresentativa nell'infanzia o anche nell'adolescenza corre grave pericolo della mela fede del Principe, né in Napoli occorre citare degli esempi; ma volgono tempi diversi e l'assolutismo ha finito il suo tempo. Nell'attuale disposizione degli animi la rappresentanza nazionale non potrebb'essere regia. Per mezzo di essa vi potrebbero avete delle buone leggi organiche, che assicurassero la inviolabilità del lo Statuto; merce una Confederazione con l'Italia del nord si potrebbe avere una garentia della costituzione, ed ove il Re la violasse, affretterebbe il tempo della fusione di tutta l'Italia in uno Stato solo, che dev'essere sempre lo scopo più o meno lontano ma sempre costante del partito liberale italiano. D'altronde questa combinazione incontrerebbe il favore generale così nell'interno del regno, che presso le potenze europee, e l'Italia sarebbe affrancata da ogni influenza straniera.

Non può dirsi lo stesso della restaurazione murattista. È molto difficile, che questa possa accadere senza l'aiuto di una forza estera, e l'Italia non fornirà per certo grandi elementi di questa forza aiutatrice. Un ramo della Dinastia, che regna in Francia, deve creare assolutamente un interesse francese nel regno, e questo produce due gravissimi danni; affranca l'Italia da un potere più debole per, assoggettarla ad un potere più forte; allontana indeterminatamente l'Unità Italiana. Nell'interno poi questa combinazione, non potrebbe compiersi senza scosse politiche, perché sarebbe avversata dai Borbonici e dagli Unitarii, e creerebbe nel governo una tendenza piuttosto verso le istituzioni politiche francesi, che verso le italiane. Fuori dell'Italia in Europa non potrebbe riuscire gradita a coloro, che se vogliono libera l'Italia da una influenza austriaca, la vogliono anche più libera da una influenza francese. Aggiungete a tutto questo il dubbio sulla persona del Principe, e la massa delle ragioni contro la restaurazione murattista diviene predominante.

Questo ragionamento era vero, ed era italiano, per cui il partito murattiano si assottigliò di molto; ognuno comprese, che più presto o più tardi l'Italia avrebbe vinto l'Austria ed i Borboni, ma che sarebbe stato imperdonabile errore far. sorgere un nuovo elemento non nazionale, che si sarebbe svolto in un antagonismo col vero principio nazionale italiano. Infine poi non vi era verun atto, che potesse fare giudicare, a posteriori dell'attuale successore al Trono; si sapeva, che non aveva né istruzione né esperienza; si conoscevano pure i principii morali e politici, ai quali era stato educato, ma era sempre il figlio d'una Piemontese ed il figliastro d'una Austriaca, e se poteva mancare d'ingegno e di capacità, poteva avere delle tendenze verso la famiglia di sua madre e delle diffidenze almeno verso quella della sua matrigna. Ciò sarebbe bastato insieme agli ordini politici a modificare il concetto dei suoi dritti e dei suoi doveri.

Determinata da tali considerazioni la gran maggioranza del partito liberale si decise a tentare di fare piegare il Duca di Calabria a. promettere la reintegrazione delle istituzioni nazionali nel salire al Trono, che pel letale morbo di suo padre, gli doveva fra breve tempo ricadere. Due dei suoi zii entrarono a parte delle trattative, l'uno di essi sinceramente; i suoi antecedenti politici erano ottimi; l'altro non pare, che lo sia stato del pari. Il Principe ereditario non prometteva né negava recisamente;traspariva la debolezza del suo carattere, la mancanza di ogni criterio politico. Non però il partito liberale non disperava, né ritirava il suo appoggio; valutava le influenze della cameriglia su di un animo, che le aveva sempre subite, e che non sapeva ancora affrancarsene, sì che attendeva la morte del Re ed i primi atti del suo successore, ed il 23 di maggio Francesco II annunziavasi col seguente proclama:

«Francesco II ecc.:

«Per lo infausto avvenimento della morte dell'augusto e dilettissimo nostro genitore Ferdinando II ci chiama il sommo Iddio ad occupare il trono dei nostri augusti antenati. Adorando profondamente i suoi imprescrittibili giudizii confidiamo con fermezza ed imploriamo che per sua misericordia voglia degnarsi di accordarci aiuto speciale e costante assistenza onde compiere i nuovi doveri, che ora ci impone, tanto più gravi e difficili, in quantoché succediamo ad un grande e pio monarca, le cui eroiche virtù ed i pregi sublimi non saranno mai celebrati abbastanza.

«Avvalorati pure nondimeno dal braccio dell'Onnipotente, potremo tener fermi e promuovere il rispetto dovuto alla nostra Religione, l'osservanza delle leggi, la retta ed imparziale amministrazione della giustizia, la floridezza dello Stato. perché così, giusta le ordinazioni della sua provvidenza, resti assicurato il bene degli amatissimi sudditi nostri.

«E volendo, che la spedizione dei pubblici affari non sia menomamente ritardata;

«Abbiamo risoluto di decretare e decretiamo quanto siegue

«Ari 1. — Tutte le autorità del nostro regno delle Due Sicilie rimangono nell'esercizio delle loro funzioni.

«Art. II. — Il nostro Ministro ecc.:

Firmato FRANCESCO.

TROJA.

Per tal modo ogni illusione venne meno; quel proclama era una disfida buttata a tutto il partito liberale dell'Europa, ed a quei governi ancora, che avevano censurato l'amministrazione del defunto Re, ed avevano cosi vivamente consigliato, che venisse cambiata. Francesco II dichiarava essere l'ammiratore della politica di suo padre, e che tutti i suoi storti tenderebbero ad imitarla. Nessun dritto egli ammetteva nei suoi popoli, e se si credeva obbligato a renderli felici, ciò era unicamente per adempire agli ordini della Provvidenza. È impossibile di esprimere un concetto più assoluto della podestà regia, e più in antagonismo con la pubblica opinione. Ed il governo n'era di tanto convinto esso stesso, che in ogni sito di Toledo, ov'era affissa una copia di quel proclama, v'era un gendarme o una guardia di Polizia, che Io custodiva.

Lo stesso giorno 23 di maggio fu prestato il giuramento dalla truppa; la funzione riuscì freddissima e innavvertita dalla popolazione; il giorno seguente il Re pubblicava il suo ordine del giorno:

«Interprete fedele della volontà espressa dall’augusto nostro amatissimo genitore dal suo letto di dure sofferenze, adempiamo al sacro dovere di trasmettere i suoi ultimi addio ed i suoi ringraziamenti all’armata di terra e di mare, manifestando la piena soddisfazione sotto ogni rapporto, ond'era colino il suo real animo;

«A questa fedele armata, che seppe in ogni tempo ed in ogni occasione e per tutte le vie corrispondere degnissimamente con la sua disciplina e col suo valore alla predilezione del grande Re, che ne fu il fondatore ed il compagno;

«A quest'armata, cui noi stessi andiamo superbi di appartenere e di averne fatto parte sin dai nostri primissimi anni, il che ci ha dato l'agio di conoscerla e valutarla dappresso.

«Cercheremo pertanto con l'aiuto del Dio degli Eserciti, con tutte le nostre forze a continuare in tutto ciò che possa intendere al maggiore incremento, vantaggio, e lustro della nostra armata di terra e di mare, sicuri, ch'essa continuerà sempre a serbare fedeltà inconcussa al real Trono, e ritenere così il nome, che si è acquistato. E che voglia insieme con noi innalzare all'onnipotente Iddio preghiere per la grande anima di quel santo monarca, che sino negli ultimi istanti di sua vita se ne sovveniva, ed Iddio pregava pel paese e per l'armata tutta.

 «Capodimonte 24 maggio 1859.»

Era pressoché un mese, da che il nuovo Re era succeduto a suo padre, e le cose proseguivano allo stesso modo. Si credeva, che la Duchessa di Calabria, divenuta Regina delle Due Sicilie, neutralizzasse il potere della Regina vedova sul figliastro; ma no, il Re si era piegato a quel potere, e lasciava che la matrigna, Troja, e Morena proseguissero a dominare.

Intanto gli avvenimenti della guerra italiana si succedevano rapidamente. La vittoria di Magenta determinò una pacifica ma numerosa dimostrazione sotto i balconi illuminati dei Consoli di Francia e di Sardegna, che fu dissipata dalla forza pubblica. La notte si operarono degli arresti, che irritarono, non intimidirono la popolazione. La guerra, che si combatteva in Italia, era guerra nazionale, e niun potere nel mondo sarebbe stato sufficiente a soffocare le manifestazioni dell'interesse, che destava in ogni parte della Penisola. L'ultimo atto del Re defunto era stato la dichiarazione della neutralità nella guerra italiana, accompagnata dalle liberali disposizioni stabilite nelle Conferenze di Parigi; ma non era un mistero per alcuno, ohe quella neutralità velava le simpatie ed i sentimenti austriaci. Epperò in Napoli solo il governo era in opposizione con le suadditate aspirazioni nazionali, e provvedeva a contrariarle, ma esso non solo non riusciva a contenerle, ma le rafforzava di tutto l'odio o il disprezzo, che inspirava contro sé stesso.

Nulladimeno la diplomazia europea dava opera ad acquistare presso il nuovo e giovane Re l’influenza più conforme ai proprii interessi. Sin dal 21 di maggio l'austriaco Hubner era già in missione in Napoli. Nei primi giorni di giugno seguirono in Londra ed in Parigi le consuete partecipazioni della morte del Re e dell'ascensione al Trono del suo successore con la esibizione delle nuove lettere credenziali, e quindi vennero in Napoli i Ministri inglese e francese a presentare al nuovo Principe le congratulazioni dei rispettivi Sovrani. Sin qui v'ha solamente formalità prescritte dal galateo diplomatico, ma secondo i dispacci diplomatici accennati dal Nord Francesco II riceveva pure dei consigli, che dev'essere ben dolente di non avere accettato.

«Dispacci diplomatici da Napoli, scriveva il Nord del 15 giugno, dicono, che il nuovo Sovrano è circondato da varii consiglieri, che insistono affinché l'armata napoletana si unisca all'armata francese nella guerra contro l'Austria; si fa vedere a Francesco II, che questa condotta sarebbe un mezzo di nobile contrappeso alla preponderanza, che gli attuali avvenimenti attribuiranno in Italia al Re Vittorio Emmanuele; finalmente si aggiunge, come l'Imperatore Napoleone stesso scorgerebbe con piacere, che si stabilisse on equilibrio necessario fra la monarchia italiana del nord e quella del mezzogiorno, ma che questo non può stabilirsi, se Napoli non prende parte alcuna alla gloriosa lotta impegnata per la liberazione dell'Italia.

«I medesimi dispacci dicono, che questi consigli sono accolti con poco favore dal Re, e che si temono prossimi gravi avvenimenti nelle Due Sicilie.»

Ad ogni modo prima della metà di giugno, e quando la vittoria di Magenta aveva cacciato gli Austriaci da Milano, le relazioni diplomatiche della Francia e dell'Inghilterra col Regno delle Due Sicilie erano ristabilite. Quali dovevano essere le conseguenze politiche di questa ripristinazione?

Un giornale italiano osservava, che le relazioni diplomatiche erano state interrotte soltanto per attestare a Re Ferdinando come la Francia e l'Inghilterra condannassero la sua politica e la sua amministrazione. Che la morte del Re aveva tolto l'ostacolo, che impediva di stringersi nuovamente le relazioni internazionali. Che nell'accreditare i loro plenipotenziarii in Napoli i governi di Londra e di Parigi facevano comprendere a Francesco 11 com'essi sperassero non dover egli seguire le orme paterne, e si disponesse invece a romperla con le funeste tradizioni di un passato poco glorioso, e che lascia incancellabile memoria di dolore e di pianto. L'accordo tra Parigi e Londra era pruova non dubbia della insussistenza dei timori, che si erano destati su i veri progetti dell'Imperatore dei Francesi. Gli atti, coi quali il nuovo governo si era inaugurato, nelle condizioni, in cui lo Stato delle Due Sicilie si rattrovava, erano poco rassicuranti; elementi dissolventi erano penetrati nell'amministrazione, sì che era necessario innanzi tutto un regime, che si proponesse di governare il paese secondo la giustizia e la moralità, ed il governo di Napoli non può essere morale, se non è nazionale.

«Un governo, che contrasti agl'istinti del paese ed al sentimento nazionale, non può essere morale, perché esso è costretto a fare assegnamento soltanto sulla forza brutale, a dividere le classi dei cittadini, l'esercito dalla borghesia, mancandogli il solido puntello della pubblica fiducia.»

«Tra poco, diceva il foglio, il corpo diplomatico sarà completo in Napoli, né mancheranno i consigli e gli intrighi; ve ne saranno anzi di troppo, perché l'esitazione della Corte accrescerà il numero dei consiglieri.

«Chi ascolterà il Re? Da una parte è Francesco Giuseppe e dall'altra Vittorio Emmanuele; da una parte il dispotismo straniero, dall'altra l'indipendenza nazionale.

«Forse vincerà il partito della neutralità, ossia il partito britannico, ma la neutralità non impedisce le interne riforme, non mette ostacolo al progresso ed alle istituzioni politiche, che la civiltà richiede ed i voti dei popoli affrettano.

STORIA DELLA GUERRA DI SICILIA

INCONTRO A PALERMO DE GENERALI

INCARICATI DI TRATTARE L'ARMISTIZIO

«Se il Re di Napoli avesse, appena salito sul Trono, messo a disposizione della causa nazionale il suo esercito, la quistione di costituzione o di libertà interna sarebbe stata secondaria e probabilmente differita sin dopo la guerra; ma dacché non ebbe il coraggio di una deliberazione, che poteva essere la sua salvezza, e proclamò la neutralità, altro scampo non gli rimane, che di soddisfare ai legittimi desiderii del paese.

«La Francia e l'Inghilterra non riappiccarono le relazioni, abbandonando ogni pensiero di riparazione ai fondati lamenti, ch'erano sorti in tutta l'Europa: né i popoli delle Due Sicilie sono parati a lasciare continuare un regime, contro cui hanno di quando in quando protestato, ed a sostenere il quale Re Ferdinando dovette fare ricorso ai rigori più esecrabili.

«Le circostanze sono propizie, il Re non cede né alla violenza esterna né alla paura; si finirebbe per cedere alla paura ed alla violenza, se ora desse ascolto all'Austria, e desse ascolto ai consigli dei nemici d'Italia, che non giovarono mai a coloro, che li seguirono» ().

I consigli dunque non mancarono al nuovo Principe, ma gli mancarono la intelligenza e l'energia di scuotere un giogo, che suo padre moribondo aveva legato a coloro, che lo circondavano. Ferdinando II aveva prescelto il regime della forza contra quello del dritto, perciò aveva giudicato, che a quel sol titolo avrebbe potuto essere Re, ma egli aveva un concetto logico della politica prescelta, n'era egli stesso l'autore, e poteva cambiarla, se la scorgeva inevitabilmente pericolosa. Aveva egli in mano le fila della tela, che tesseva, l'aveva ordita egli stesso, ne conosceva la forza e la disposizione, e se qualcuno di quei fili si frangeva, sapeva il discapito, grave o lieve, che all'opera intiera ne sarebbe venuto, e poteva provvedervi, ovvero presagire la totale rovina del lavoro e la necessità di sostituirvi un. altro. Egli insomma era testardo, ostinato, inamovibile nei suoi principii politici, deciso a spingerli sino alle ultime conseguenze, ma i principii politici erano suoi, costituivano una dottrina sua, ed egli piegava ai sillogismi del suo raziocinio e non alla pressione di un sistema empirico, che gli veniva imposto.

Ben altra di questa era la condizione del suo successore. Egli subiva tutto senza rendersi ragione di cosa alcuna. É indubitato, che se Ferdinando II era la negazione di tutte le virtù politiche, sentiva però eminentemente e praticava esattamente le affezioni della famiglia. Il che rendevalo caro a questa, cui inspirava una magnifica idea della sua sapienza politica ed amministrativa; la stessa sua lunga e spaventevole infermità, ch'egli aveva tollerato con rassegnazione e coraggio, doveva aver anche accresciuto questo sentimento di amore e di stima, e maggiormente raffermato il concetto di un uomo, che fosse da prendere assolutamente a modello. Epperò il nuovo Principe riceveva la politica di suo padre come un oracolo, e la praticava come tale; su di uno spirito così debole ed una mente così vuota la memoria di Ferdinando II esercitava un impero anche più assoluto di quello, che vi aveva esercitato la sua persona, e ne derivava quindi logicamente, che coloro, i quali erano stati più addentro nella confidenza del padre, dovevano essere riputati i migliori, i più sicuri, ed i più fedeli consiglieri del figlio. Il solo diversivo avrebbe potuto essere una moglie sagace, a livello della condizione dei tempi, che avesse il sentimento della sua vera posizione, né avesse altre passioni, che quelle inspirate da questa posiziono, e desse al marito una prole, nella quale si concentrassero gl'interessi e le affezioni di entrambi. Ma la nuova Regina delle Due Sicilie non aveva niuno di quegli attributi, e per soprapiù sinché fu Regina e sinora è stata sterile.

Adunque la condotta del nuovo Principe veniva inesorabilmente determinala da un concorso di circostanze, delle quali era la necessaria conseguenza. I consigli, gli avvertimenti, le minacce stesse dovevano tornar vane sino a cel punto, in cui l'evidenza dei fatti non facesse sorgere una necessità imperiosa di piegarvisi. Ma anche allora si sarebbe ceduto per la necessità del momento, non per convinzione, e si sarebbe serbata sempre nell'animo la speranza di riprendere quello, che si era astretti a concedere. Il sistema politico, giusta questa opinione, non era scosso, incontrava solamente degli ostacoli nel suo cammino.; il Re defunto ne aveva incontrato dei simili, e li aveva superati. Per credere, che non sarebbe avvenuto lo stesso, bisognava conoscere la diversità dei tempi, ed accorgersi, che gli ostacoli presenti erano la continuazione dei passati, i quali non erano stati vinti, ma scansati; ossia bisognava avere la intelligenza politica, che non si aveva, ed essere libero delle preoccupazioni delle quali si era radicalmente imbevuto.

Noi scorgiamo in queste necessità cosi strettamente tra loro concatenate il decreto della Provvidenza, che segna il termine di una Dinastia.

Diciannove giorni dopo della morte del Re il Comitato centrale emise la seguente deliberazione:

«Il Comitato centrale dopo lunga e severa discussione unanimemente adottò la seguente invariabile determinazione.

«1. ° Il morto Re sorpassando i suoi avi, che come lui spergiurarono, resse questo misero paese, specialmente dal 1848 in poi con dispotismo feroce e stolto. Per essere logico si servi del potente, mezzo del terrore, e perché non venisse meno con arte infernale studiò il modo di rinnovarlo di tratto in tratto. Uomini onesti non potevansi a ciò prestare, ed egli fe' suo mezzo politico la corruzione, e furono esclusivamente ammessi nella linea governativa uomini o totalmente corrotti, o fiacchi ed imbecilli. Servendosi poi del sistema di terrore, compromise in tutt'i paesi di questo regno una classe ben numerosa di nostri concittadini, i quali atterriti firmarono le petizioni, perché si togliesse lo Statuto, e fecero altri atti abietti e servili. Vi è dunque ora nel nostro regno, non bisogna obliarlo, una classe ben numerosa di compromessi, che per lo stesso sentimento di paura debbono temere ogni mutazione politica. Se ad essi si potesse dire, e se essi potessero credere, che il passato verrà obliato, tutti, non esclusi gli uomini più bassi di polizia, acconsentirebbero non solo ad una mutazione politica, ma alla cacciata dei Borboni, poiché in costoro niuno mette fiducia, e poiché i Borboni non ebbero il segreto di farsi degli amici, ma soltanto dei vilissimi servi, che compromisero pel mantenimento del loro assurdo e feroce dispotismo.

«2. ° Il paese, che amò il presente novello Re nella sua giovinezza, e quando fu Principe ereditario, perciò figlio di una Principessa sabauda, stirpe cavalleresca e morale, Principessa, che lasciò dolcissima ricordanza delle suo tante virtù, l'amò ben anche, perché vide i pericoli, che correva per la gelosia della trista matrigna; mano mano fatalmente ha dovuto persuadersi, che in lui il nobile sangue sabaudo venne neutralizzato dati indomabile sangue borbonico, e quindi fe' suoi tutt'i principii dello sciagurato suo padre, e se ora vi è altro uomo sul trono, vi è però la stessa natura borbonica incorreggibile ed inemendabile. I primi atti del suo regno, i nomi dei novelli ministri, tra quali un Mossa peggiore dei Mazza e dei Peccheneda, il vederlo tenace a mantenere una vergognosa neutralità, mentre si combatte dai nostri fratelli la santa guerra della nostra indipendenza, hanno ormai persuaso il partito liberale, che il figlio è peggiore del padre, e che sarebbe stoltezza e tradimento mettere in lui speranza.

«Il paese potrebbe perdonare tutto ai Borboni, giammai l'intollerabile vergogna di non essersi rigenerata l'Italia nel 1848 per la perfidia di Ferdinando II e per non concorrere ora a rigenerarla la stoltizia del suo successore.

«3. ° Se vuolsi, e noi stentiamo a crederlo, che qualche Gabinetto estero oltre l'Austriaco, il consigli a ciò, noi ne comprendiamo tutta la furberia ed il perfido perché. Si vorrebbe creare un funesto antagonismo fra l'Italia settentrionale e la meridionale, e spingere un giorno a combattere i fratelli contro i fratelli, come ora, e scoppia il cuore, a dirlo, nelle file dell'abborrito tedesco combattono i coscritti lombardi contro gli eroici soldati piemontesi.

«Vorrebbesi mascherare tanta perfidia sotto la simulata apparenza di non rendere in Italia onnipossente l'influenza francese.

«Noi non crediamo a cotesta influenza oltre quella, che nasce da naturale simpatia e da comunanza d'interessi. Noi perciò ponghiamo fiducia nell'Imperatore dei Francesi, e nella lontana ipotesi, che a guerra finita dovesse per qualche tempo l'Italia nostra subire il peso di un'estera influenza, ci piace, ch'essa sia una, e perché non ci divida, e perché cesserà più facilmente, e perché in fine può essere tollerata come tributo di gratitudine a colui, che il solo dei potentati esteri europei, ponendo in pericolo la sua persona e la sua sorte, scese generosamente a combattere con noi in Italia col sacrifizio del sangue e del denaro della nobile cavalleresca nazione francese. Se tanto spaventa la presunta ed immaginaria influenza francese, perché altra potenza, che possiede libere istituzioni, non concorse con la Francia a redimere l'Italia? Ora le sue parole, se anche fossero leali, non vanno credute.

«4. 0 Il solo Principe italiano, che imperturbato, sfidando tutti i pericoli, non cedendo a veruna seduzione, accreditando in Italia il reggimento costituzionale, fondendo cosi i partiti estremi, tenne eroicamente alto il vessillo nazionale, e facendosi generoso interprete dei nostri dolori, preparò e compì il nostro risorgimento, è l'eroico Vittorio Emmanuele Ad esso dunque soltanto ogni Italiano deve volgere lo sguardo; esso invocare, immedesimare la propria alla sua volontà, e tener fermo nel concetto e nel proposito, che senza di lui nelle altre parti dell'Italia nostra non potrà esservi sicurezza alcuna di vera indipendenza nazionale e di vera e possibile libertà. Potrà da altri Principi perfidamente mistificarsi. ama col proposito di rinnovare i funesti avvenimenti del 1848 poiché tengasi per fermo, che qui ed altrove non vi sarebbero state le eccedenze, che si deplorano, se non si fossero promosse e volute dai regnanti di quell'epoca, che se ne fecero mezzo e sgabello per ritornare all'ambito mostruoso dispotismo. Or qui quelle tali eccedenze per le stesse ragioni necessariamente si rinnovellerebbero, né vi è saggezza di reggitori, che potrebbe impedirle. Lo stesso illustre Conte di Cavour vi farebbe naufragio. In vece non una sola eccedenza non un grido tumultuoso si sentirebbe, se il regno fosse retto da un Principe leale. I Borboni hanno perduto il dritto di essere tenuti per tali, ed il presente Re mise ogni cura per accreditare cotesta profonda e coscienziosa sfiducia.

«5. ° Se la Francia ed il Piemonte scesero a com battere non solo per redimere la nostra Italia dall'occupazione dell'abborrito straniero, ma ben antiche perché essa si assestasse in modo da neutralizzare o distruggere i germi d'inevitabili rivolture politiche, per legittima e naturale conseguenza bisogna, o che l'Italia sia una e retta dall'unico Re veramente italiano Vittorio Emmanuele, o se le nostre sorti per ora costanti non acconsentono, bisogna, che in tutte le parti d'Italia vi siano Principi italiani e leali come il Piemontese, i quali reggendo i loro Stati con identico sistema liberale politico, federati tra essi, sentissero e mirassero allo stesso scopo della nostra indipendenza ed all'incremento progressivo della nostra nazionalità, perché essa alla fin fine venisse rispettata in Europa, e non fosse il zimbello, come il fu sinora, degli ambiziosi interessi dello straniero. Or questo salutare e necessario scopo non si raggiungerebbe; germi flagranti ed ardentissimi di rivoluzione qui ed altrove si fomenterebbero, ove qui dovesse regnare il Borbone, ed in altre parti d'Italia quei tanti Principi che come il Borbone tradirono la causa nazionale nel 1813.

«6. 0 Una dunque dev'essere la nostra fede politica, uno il nostro proposito. uno il nostro grido: La nostra indipendenza italiana retta dal generoso ed eroico Vittorio Emmanuele II. Non vi è sacrifizio di municipalismo quando l'Italia tutta si fonda in una. Ogni parte gloriosa ed illustre della penisola andrà superba di dirsi provincia del regno italiano.

«È questo il credo del partito liberale del reame delle Due Sicilie.

«Napoli 10 giugno 1859.»

Eppure vi era anche allora una parte del partito liberale, che unicamente per le gravi difficoltà, che scorgeva nella imminente unificazione della Italia o nella scelta di un altro principe italiano, che non poteva rinvenirsi, che nella casa di Savoia, preponderava per un regno sinceramente costituzionale di Francesco II, restando ferma però l'annessione di quelle parti dell'Italia. che già costituivano un forte regno del nord. Se il provvedimento, al quale il Re di Napoli si decise un anno più tardi, l'avesse adottato nel tempo, del quale scriviamo, od avesse sinceramente accettata la politica italiana, la Dinastia sarebbe stata salvata, ma per questo sarebbe stato mestieri, che il nuovo Principe fosse stato tutt’altro di quello che era.

Il conte di Salmour adempiva intanto da parte della Sardegna alla sua missione straordinaria destinata alle consuete congratulazioni col nuovo Re di Napoli, e scambiavnnsi degli atti di cortesia, che restavano ne puri e stretti termini di alli diplomatici. Il governo di Napoli, nominalmente rinnovato nel nuovo ministero, rispondeva agli alti cortesi della Francia, dell'Inghilterra e della Sardegna, pubblicando il 17 giugno un decreto di amnistia politica:

«Volendo contrasegnare con atti di clemenza il nostro avvenimento al Trono, che la Divina Provvidenza ha affidato alle nostre cure, ci siamo determinati di fare sperimentare gli effetti della nostra sovrana indulgenza ai rimanenti condannati ai ferri, alla reclusione, alla relegazione, ed alla prigionia per reati di Stato commessi negli anni 1848 e 1849, che non vennero contemplati nei decreti di grazia dei 27 dicembre 1858 e 18 marzo ultimo.»

Era questo il primo atto di clemenza del nuovo Re, e doveva dare la misura di quanta parte di questa preziosa prerogativa dei Principi albergasse in lui.

L'analisi, che se ne fece riuscì sconfortante. L'amnistia contemplava i reati commessi nel 48 e 49; dunque gli altri commessi posteriormente n'erano esclusi. Dopo i 120 individui, che avevano formato obietto dei decreti dei 27 decembre 1858 e 18 marzo 1859, i primi erano quasichè esauriti; i secondi invece erano molti, perchè vi erano i condannati pei giudizii di Mignogna, di Pisacane, e di Milano; il decreto parlava di condannati, e però era estraneo ai detenuti per misura di polizia, che da alcuni anni languivano nelle prigioni di Santa Maria Apparente, della Vicaria, di S. Francesco, e nelle altre delle diverse provincie; da ultimo il decreto contemplava le pene dei ferri, della prigionia, della reclusione, della relegazione, e per conseguenza non era applicabile a quella gran parte degli imputati politici, che si erano sottratti ai giudizii, e vivevano da 10 in 11 anni in esilio. È vero, che con un altro atto sovrano fu accordato il permesso di ripatriare a 138 individui, e fu riserbato di provvedere sugli altri in seguito di loro dimande, ma questa con dizione oltre al rendere l'amnistia una disposizione individuale, la rendeva per la condizione appostavi inutile pei più importanti uomini dell'emigrazione, i quali non avrebbero fatto mai una dimanda di grazia per un reato, che non avevano commesso.

Nelle amnistie politiche la quistione dev'essere necessariamente guardata sotto un aspetto particolare. Nei reati comuni l'amnistia assolve sempre da una colpa o verificata o presunta, ma il fatto o giudicato o imputato rimane sempre un reato; avviene lo stesso nelle amnistie politiche, quando i principii del governo non si sono cambiati, ma nelle amnistie, che sono la conseguenza di un cambiamento di politica dalla parte del governo, la cosa procede diversamente, perchè il fatto, che costituiva il reato, perde il significato, che prima aveva, e l'amnistia è piuttosto una transazione che la rimessione di una pena. Epperò è chiaro, che l'amnistia, della quale parliamo, relativa agli emigrati dev'essere giudicata diversamente secondo che si considera nell'uno e nell'altro aspetto delle amnistie politiche. Se il governo di Napoli senza cambiare i suoi principii politici, aveva creduto unicamente di essere generoso, aveva avuto ragione di apporre all'amnistia una condizione, che non cambiasse il significato del fatto costituente il reato. E questo era il caso, ma non si può disconvenire, che l'amnistia era inesistente per quegli uomini, i quali preferivano il rispetto dei loro principii alla cessazione delle amarezze dell'esilio, né consentivano a dichiararsi colpevoli per porre un termine alle loro sofferenze. Nè potrebbe dirsi, che quest'argomento avrebbe valuto a fare ricusare l'amnistia anche a coloro, che vennero liberati dal l'ergastolo e dai ferri, dapoichè in primo luogo essi non l'ebbero mai dimandata, e secondariamente sottraevansi essi mercé l'amnistia a delle violenze di fatt0, alle quali la forza sola li obbligava, e cui avrebbero dovuto o presto o tardi soccombere.

Così l'amnistia del nuovo Re non giovò a nessuno degli emigrati di nome, trasse dai bagni pochi ed oscuri sventurati, ch'erano stati pure in buona parte dimenticati, e fe' rimanere tuttavia nelle carceri quell'ingente numero di persone, che invano avevano di mandato e dimandavano di essere almeno giudicati.

Quanto agli attendibili, numerosa classe di coloro, dai quali la polizia credeva di doversi guardare, un altro decreto diceva:

«Volendo contrasegnare con atto di clemenza il nostro avvenimento al Trono del Regno delle Due Sicilie e prendere in benigna considerazione quei tra i nostri sudditi, che per politiche turbolenze degli anni 1848 e 1849 si trovano compresi nelle liste degli attendibili.

«Abbiamo risoluto di decretare ec.

«Art. 1. D'ora innanzi ogni impedimento è tolto, perchè i cennati attendibili conseguir possano carte itinerarie e fedi per ascendere ai gradi dottorali. Come del pari è permesso, che i medesimi possano essere prescelti ai pubblici uffizi.

«Art. 2. Il nostro Consigliere ec.»

Il decreto primieramente ci svela, che questa numerosa classe di cittadini, unicamente sospetti per le loro opinioni, che non erano mai uscite dalla sfera di semplici idee, non poteva avere carte itinerarie, delle quali si aveva bisogno anche per recarsi dall'una all'altra provincia, non poteva conseguire gradi dottorali, e molto meno pubbliche cariche. E perchè possa aversi una misura della quantità dei cittadini, che erano compresi in questa categoria, narreremo un fatto, che si è sempre affermato per positivo, special mente da coloro, che avvicinavano il defunto Re. Essendo questi in Lecce, vide il Teatro deserto la prima volta, che vi si recò. Ne chiese ragione all'Intendente, e quel zelante funzionario gli rispose, averne egli vietato l'ingresso a tutti gli attendibili. — «Affrettatevi, riprese il Re, a rivocare questo divieto, altrimenti saremo in teatro solamente io e voi.»

Come per l'amnistia questo decreto per gli attendi bili contemplava i soli fatti del 18 e del 49, mentre gli altri posteriori erano numerosissimi. Nulladimeno la polizia trovò, che fosse anche troppo, e con una circolare riserbatissima ed a lui solo, comunicò agli Intendenti le seguenti disposizioni:

«Signor Intendente;

«Ora più che mai bisogna vegliare per prevenire le trame dei cattivi. Epperò avete l'obbligo di conformarvi nell'occasione alle regole seguenti a fin di prendere le convenevoli determinazioni giusta gli ordini sovrani.

«1. Ogni volta che i sospetti in politica dimande ranno carte di passaggio per Napoli o altrove, voi dovete dapprima con tutt'i mezzi scoraggiarli d'insistere per ottenerle, mettendo in vista i pericoli, ai quali si espongono in faccia del governo. Nel caso, in cui si ostinassero, invocando il recente decreto dei 10 del corrente, voi dovrete ritardare la consegna di queste carte, e avvertirmene antecedentemente con la maggiore celerità.»

«2. Nel caso, in cui i sospetti per effetto del citato decreto di mandassero i certificati necessarii per subire i pubblici esami o per ottenere delle carte auto rizzanti l'esercizio di professioni o di arti, o per qual siasi altro scopo; o che sotto il pretesto dello stesso decreto questi uomini fossero proposti per la debolezza dei decurionali o degli altri funzionari municipali a cariche comunali, voi dovete procedere sempre di accordo con me, di maniera che non venga mai spedito alcuno di questi documenti senza di avere prima dimandato ed ottenuto la mia speciale autorizzazione.

«3. Se taluno di essi pensasse d'ora innanzi di rendersi o trasferirsi in paese estero, dovete voi abilmente coi vostri mezzi farlo avvertire, che difficilmente potrà rientrare nel regno, e se tuttavolta persistesse nella sua intenzione, bisognerebbe informarne immantinenti il nostro ministero e quello degli affari esteri.

«4. Resta espressamente sottinteso, che tutte le misure di arresto, allontanamento, domicilio forzato, ed ogni altra misura di polizia restano in pieno vigore per tutte le persone compromesse per effetto di parole e di fatti posteriori al 1848 e 1849, e restano in vigore anche per quelli compromessi nel 1848 e 1849, se sono state ordinate per disposizione speciale, o se d'ora innanzi lo sono per veduta di precauzione.»

«Voi, signor Intendente, sarete strettamente e personalmente responsabile della minima deviazione da questa linea, e voi vi ci conformerete precisamente per evitare energiche disposizioni a vostro carico giu sta la volontà e gli ordini sovrani.

«Sottoscritto — Casella.»

Troviamo nel signor Marc Monnier () in seguito della riferita ministeriale la seguente nota:

«Notate, che Casella è un uomo onesto; egli non ha redatto questa carta, ma gli è stata presentata tutta scritta, e gli si è fatta firmare per forza.» —

Anche noi stimiamo molto il Casella, uomo di grande ingegno e di probità, ma avremmo desiderato, ch'egli avesse resistito alla forza, o che per lo meno si fosse dimesso l'indomani. Ei lo fece più tardi quando si ricusò di firmare gli arresti arbitrarii, che segnarono l'ultimo periodo di un governo, che precipitava sulla propria rovina; sarebbe stato desiderabile, che quella prova di energia fosse stata data qualche mese prima.

L'istoria non avrebbe trovato il suo nome sotto un atto della più insigne mala fede, o accanto ad esso avrebbe trovato un'energica protesta, che ne annulla va la responsabilità.

Ma tutti questi sforzi della polizia per comprimere l'opinione pubblica venivano paralizzati dal coraggio e dall'attività di coloro, che avevano assunto il pericoloso incarico d'incoraggiarla e manifestarla. Il 28 di giugno era diretta al nuovo Presidente del Consiglio dei Ministri Generale Filangieri una protesta, che diceva:

«A Carlo Filangieri Duca di Taormina, Presidente del Consiglio dei Ministri.

«I Napoletani non possono apertamente esprimere la loro gioia in occasione dell'ultima vittoria riportata sugli Austriaci dalle armi liberatrici della Francia e del Piemonte, perchè non hanno baionette da opporre a quelle dei nostri birri e dei nostri mercenarii, e se ne avessero, essi indietreggerebbero a fronte di una guerra civile, che hanno in orrore.

«Voi avete detto, che una faziosa minorità è la so la, che desideri in questo regno l'alleanza col Pie monte e con la Francia e la guerra contro il nostro comune nemico; e vi siete vantato di potere opporre alla dimostrazione fatta il 7 giugno da alcune migliaia di veri Italiani una dimostrazione di 300,000 amici dell'Austria.»

«Voi non avete temuto di profferire una tale asserzione, voi soldato, il cui nome non è senza gloria, voi che siete debitore della vostra fortuna ad una bandiera francese, sotto la quale avete combattuto.

«Credete voi dunque, che la nostra terra non si chiami Italia, se non come semplice espressione geo grafica, e che in questa lotta, la più nobile di quante siensi mai intraprese da Sovrani, la maggiorità dei Napoletani sia indifferente ed inclini verso l'Austria?:

«E come lo sapete voi? Quale via ha potuto aprirsi l'opinione per giungere sino a voi? Voi non lasciate alla stampa alcun mezzo di esprimere il sentimento nazionale; voi perseguitate ad oltranza quelli, che le darebbero corso con apporre la loro firma al più le gale degl'indrizzi.

«Voi non permettete, che passi la frontiera alcuno di coloro, che si presentano volontarii per la causa dell'indipendenza; voi ingombrate di truppe la pubblica via, perchè il Re trovi le popolazioni mute al suo entrare per la prima volta nella capitale. Voi avete con l'ordinanza del 25 giugno aggravato le pene contro chiunque del popolo presenti una supplica a S. M. per invocare la sua clemenza, e voi avete indotto il giovane Principe a credere, che sotto l'abito di ciascuno dei suoi soldati si nascondano l'anima ed il coltello di un assassino.

«Diteci dunque ancora una volta come il pensiero della nazione in circostanze, dalle quali dipendono i suoi destini, possa giungere sino al Trono o sino al l'altezza della vostra seggiola ministeriale? Dalle vostre decisioni noi appelliamo all'Europa ed alla Storia.»

Il principale sostegno dell'arbitrario governo dei penultimi due Re della Dinastia dei Borboni erano state le truppe svizzere. Sette capitolazioni avevano avuto luogo per l'organizzazione di questi corpi tra il governo di Napoli e la Confederazione svizzera. La prima fu conclusa a Lucerna il 3 di luglio 1824 pel primo battaglione del primo reggimento. Aveva la durata di 30 anni, sì che finiva il 3 di luglio 1854.

La seconda fu quella di Uri, Unterwalden, ed Appenzell in data del 15 giugno 1829 pel 2° battaglione del primo reggimento, anche per trent'anni, onde ave va termine il 15 giugno 1859.

A questa seconda capitolazione, che abbiamo riferita non secondo l'ordine della sua data per completare il primo reggimento svizzero, ne precedettero altre cinque.

1. La capitolazione di Fribourg e Soleure pel 2° reggimento con la data del 7 di ottobre 1825 e per l'ugual durata di 30 anni. Termine perciò il 7 ottobre 1855.

2. La capitolazione del Valese pel 1° battaglione del 3° reggimento con la data degli 11 agosto 1826, e conseguentemente col termine degli 11 agosto 1856.

3. Capitolazione di Schwyz con la data degli 8 marzo 1827 per tre compagnie del 2° battaglione del 3° reggimento.

4. Capitolazione dei Grigioni per altre tre compagnie dello stesso battaglione con la data dei 7 dicembre 1828.

5. Finalmente la Capitolazione di Berna con la data del 6 settembre 1828 pel 4° reggimento. Anche que ste tre ultime capitolazioni avevano la durata di 30 anni.

Tutte queste capitolazioni erano onerosissime pel reame di Napoli. Senza entrare in un dettaglio particolareggiato di esse, basterà dire, che il manteni mento di un reggimento svizzero valeva il doppio di quello di un reggimento nazionale; che un colonnello svizzero promosso a brigadiere, riteneva gli averi di colonnello, altrimenti vi avrebbe perduto; e che la liquidazione diffinitiva degli aggiusti e le pensioni svizzere hanno gravato lo Stato di somme considerevolissime.

L'art. 11 della costituzione federale del 12 settembre 1848 dispone: — Non possono essere concluse capitolazioni militari. — La Svizzera ad onta della povertà del suo suolo e di una consuetudine durata per secoli, aveva ceduto alla pressione dell'opinione pubblica presso tutti popoli inciviliti, e si era accorta della necessità di riparare lo scandalo, che la bandiera dell'antica repubblica elvetica fosse al soldo dell'assolutismo europeo per comprimere i generosi sforzi dei popoli, diretti a rivendicare una parte almeno di quei dritti, dei quali gli Svizzeri godevano, e di che erano a giusto titolo così orgogliosi. Una risoluzione della legislatura federale del 20 giugno 1849 ed un'altra del 20 luglio 1855 contenevano rigorose disposizioni proibitive di tali capitolazioni, che ad onta del divieto scritto nella costituzione non si erano del tutto sradicate dalle abitudini dei singoli Cantoni.

L'ultima delle capitolazioni militari venendo a scadere il 15 giugno 1859, il governo svizzero fece le pratiche necessarie presso quello di Napoli, onde i militari svizzeri, che rimanevano al soldo di quel Re, cessassero di portare il nome e qualunque distintivo svizzero, e cessassero del pari gli uffizii ed i depositi di reclutamento stabiliti negli Stati circonvicini. E siccome l'opinione pubblica si commuoveva specialmente in Italia sulla partecipazione che si attribuiva alle truppe svizzere nella repressione dei moti nazionali, il Console svizzero in Livorno con un manifesto del 19 giugno 1859 pubblicò di essere depositato nella Cancelleria del Consolato un dispaccio dell'alto Consiglio federale, inteso a correggere gli erronei concetti dell'opinione pubblica negli altri Stati intorno le Capitolazioni militari all'estero. Enunciò gli atti diplomatici presso il governo di Napoli, ed aggiunse:

«Quanto ai reggimenti così detti Svizzeri assoldati nello Stato pontificio, questi sono composti di persone di molte nazioni, in minima parte svizzere, riunite per volontà individuale, non per virtù di Capitolazioni, che con quello Stato sono da moltissimo tempo cessate, e perciò abusivamente ed erronea mente chiamate truppe svizzere.»

Queste dichiarazioni scuotevano negli Svizzeri al servizio di Napoli il sentimento patriottico. Anche quelli, che non avevano altro, che degl'ingaggi particolari, non intendevano di perdere i distintivi della propria nazione; essi avevano sempre creduto di contrattare come svizzeri, ed è da credere, che gli arrollatori occultassero loro il vero stato delle relazioni, che si stabilivano tra essi ed il governo di Napoli, e le alterazioni, che si producevano nei rapporti con la loro patria. Il perché quando in Napoli si trattò di cambiare la bandiera, si manifestò un malcontento tra i soldati, che più tardi doveva cambiarsi in atti. Gli arrollamenti fatti non ostante il divieto delle capitolazioni avevano introdotto nei corpi svizzeri dei Tirolesi, degli Austriaci, ed altri Tedeschi, per cui in occasione della guerra italiana dei partiti si erano formati tra quei corpi, e già delle risse vi erano state in occasione delle battaglie vinte dalle armate alleate.

Giusta il Giornale ufficiale di Napoli, che pubblicò la sua relazione sette giorni dopo del fatto; osservavasi già da alquanti giorni un cambiamento nel contegno dei soldati svizzeri. Notavasi una inusitata ostentazione nello esalto adempimento delle quotidiane militari discipline, un silenzio concentrato, un aspetto torvo ed in contraddizione dell'abituale fisionomia di quella militar famiglia. Il giornale tace la causa di questo stato inquietante, e si contenta di dire, che quel contegno inusitato sospettar faceva, che gli: animi fossero criminosamente preoccupati, e che meditassero qualche reo disegno, quello che fatalmente essi attuarono. Ma la dimanda, ch'essi fecero dietro i cancelli di Capodimonte, manifesta chiaramente perché concepissero quel reo disegno, e l'attuassero.

«Non un solo, prosiegue il Giornale officiale, delle compagnie scelte del 2° Svizzeri, che stanziavano nel Quartiere del Carmine ebbesi a notar mancante nell'appello vespertino di pochi giorni precedenti a quello del 7 luglio, in cui i soldati del 2° e 3° reggimento trascender dovevano a più riprovevoli eccessi. Presenti tutti anche prima dell'ora consueta dello appello della sera di giovedì 7, si fecero quei soldati specialmente rimarcare per altitudine cogitabonda e severa.

Notiamo, che il 7 di luglio erano già decorsi 18 giorni dal manifesto del Console di Livorno pubblicato immediatamente dai giornali italiani, e che dalle bandiere erano già stati tolti i segni dei rispettivi cantoni. Il movimento iniziavasi dalle compagnie scelte. La sera precedente, il 6 di luglio, il 4° svizzero era rimasto al piedi arma quando era comparsa la nuova bandiera.

«Non molto dopo le 8 p. m. ripiglia la narrazione officiale, presentossi alla porta d'ingresso del quartiere del Carmine un soldato del 3° Svizzeri munito di cuoiame, come se fosse in servizio, ma frettoloso ed ansante da farlo supporre incaricato di missione importante, ed in arrivando consegnava una carta scritta nelle mani di altro soldato non riconosciuto, perché già notte, il quale ivi stavasi senza dubbio in aspettativa.

«Pochi minuti dopo all'udirsi un forte sibilo, molti soldati delle cennate quattro compagnie scelte del 2° precipitosamente indossarono il cuoiame, presero le armi, discesero dalla caserma, tumultuando e tirando fucilate in aria, e con viva voce esortando i compagni a seguirli.

«In tal guisa, forzando la guardia, che Slava a Custodia della porta del castello, evasero da quello circa 160 granatieri e cacciatori, i quali preceduti da tamburi, che battevano il passo di carica, recaronsi al quartiere ai SS. Apostoli, ove hanno stanza le 8 compagnie di fucilieri dello stesso corpo. Sorpresa ivi la guardia di buon governo, la quale debolmente si difese, impadronironsi delle bandiere del proprio reggimento, che stavano nella stanza del picchetto degli uffiziali contigui alla porta d'ingresso.

«Divulgatosi in quelle caserme un tale atto di aggressione, principiossi a far fuoco nei cortili e dalle finestre di quel quartiere, tanto dagli assalitori quanto dai loro complici, i quali al numero di 60 circa in tale trambusto unironsi ai granatieri e cacciatori del Carmine evasi. Così rinforzato quel drappello di agitatori senza il minimo indugio si diresse al quartiere di S. Giovanni a Carbonara occupato dal 3° svizzero. Ivi forzò il cancello d'ingresso, dietro del quale trovatosi il maggiore Wolf con i pochi uomini della guar dia di buon governo onde resistere all'urto degli assalitori, fu da questi gravemente ferito.

«I complici della sedizione plaudirono all'inopinato attacco, e facendo fuoco in aria, testimoniavano in modo non equivoco la loro adesione. Di fatti buon numero di questi soldati armandosi con la massima sollecitudine venne ad unirsi ai congiurati. Cotesta banda di armati noverava già nelle sue file oltre 300 uomini, e cosi forte marciò sempre tumultuando sul quartiere a S. Polito Avi approssimandosi, facendo un vivo fuoco e preceduti sempre da tamburi, che non cessavano dal battere il passo di carica, forzarono la porta di entrata, la quale, poiché la sedizione non trovava complici, fu valorosamente difesa dalla sparuta forza, che vi era a guardia. Ciò nondimeno la porta dovette cedere all'impeto delle forze sempre crescenti degli aggressori; fra mezzo i quali con grave pericolo della vita tentarono di aprirsi il passo con la sciabola in pugno gli uffiziali del reggimento accorsi allo strepito incessante degli spari.

«In tal guisa l'imponente numero dei ribelli penetrava nel quartiere. Rovesciando violentemente ogni ostacolo, impadronivasi delle bandiere custodite nella contigua stanza di picchetto degli uffiziali, e continuando a trarre fucilate, battendo il passo di carica, avviaronsi tutti per la strada S. a Teresa, che mena a Capodimonte.»

Parla poi dei morti e dei feriti nel quartiere di S. Poti to. Caddero morti un. tenente e tre soldati; furono feriti cinque uffiziali e parecchi soldati. Dice ché una delle due compagnie granatieri dello stesso 4° Svizzeri, accasermate in S. Domenico Soriano, accorse sul luogo dell'attacco, ma trovò, che gli assalitori n'erano di già partiti. Indi prosiegue:

«Delirante com'era il 1° Svizzeri nel desiderio di riprendere le sue bandiere, uscirono le compagnie già formate cogli uffiziali, che pei primi erano ivi giunti ed unitamente alle altre compagnie di S. Domenico Soriano si fecero tutti ad inseguire i ribelli, comunque invano, perché eransi dessi allontanati con passo celere.»

Sieguono immediatamente le disposizioni date dal Ministro della Guerra e delle altre autorità militari per ovviare ad un movimento nella città, e ritorna agl'insorti:

«Preceduti dallo strepito delle armi e dei tamburi quella massa incedente verso la reggia di Capodimonte dove teneva stanza il Re con tutta la reale famiglia, a misura che più si approssimava al Parco di Capodimonte faceva in sulle prime nascere ferma credenza nelle mura della Reggia, che per effetto del tristo quanto imprevedibile evento avveratosi nella capitale, un possente rinforzo di truppe venisse colà spedito a maggior tutela del Real Ostello. Comunque fosse questa la ipotesi bene accolta nel momento, pure le militari previdenze, da militari discipline dettate, non permisero, che nell'oscurità della notte una imponente forza armata si avvicinasse ed un posto così rilevante come quello deputato a custodire la Reale Famiglia senza conoscersi prima, lo scopo della sua missione. Epperò fattasi la militare ricognizione, si ebbe scienza, non senza grande stupore, che la forza, dalla quale gperavasi protezione, veniva invece animata da spirito sedizioso.

«Chiusi, i cancelli, le vigili guardie furono tosto messe in ordinanza e pronte a respingere con la forza delle armi ogni stolto e criminoso tentativo.

«Il Retro Ammiraglio signor Del Re, cui era commessa la direzione dello scarso presidio del Real Palazzo, e S. E. il Duca di Sangro, ambedue aiutanti Generali di S. M. il Re N. S. preceduti dal Tenente Colonnello Schumacker, si fecero incontro a quei turbolenti militari armati per conoscere quali ragioni aveanli sin là spinti nello stato della più colpevole e scandalosa attitudine. Alle interrogazioni fatte loro, voci confuse levaronsi ed indistinte da mezzo a quella moltitudine agitantesi in mille guise. Ciascuno adoperava quanta maggior forza raccogliere poteva per levar più alta la propria voce e saperchiare quella degli altri per modo, che suscitossi ben tosto fra essi una strepitosa gara, dalla quale nacque una contradizione si strana ed una manifestazione di pensieri disordinatamente e confusamente espressi, che, in quell'assordante convocio agli enunciati personaggi non altro venne dato di udire, se non incomposte svariate pretese in vani modi articolate.

«Quantunque fosse fermamente imposto a tali faziosi rientrar quieti ai corpi, ed in sulle prime si fossero mostrati voler obbedire, pure poco dopo riprese le grida da alcuni capi, furono seguiti dagli altri, essendo riusciti anche infruttuosi gli sforzi del Brigatiere de'  Riedmalten per moderarli.

«Alla perfine fra gli strepiti ed i clamori sempre crescenti, si decisero quei ribaldi a dirigersi per la discesa, che mena a Capodichino, minacciali come erano alle spalle per la via ond'erano venuti dal movimento del 4° Svizzeri, inteso unicamente a raggiungerli. Di fatti poco dopo pervennero in quel Real Sito un battaglione dello stesso Reggimento comandato dal Colonnello Weiss, ed una sezione di artiglieria, che si fecero a seguire la traccia dei fuggitivi.

«Concentratisi questi nel campo delle manovre a Capodichino, ove rimasero sino all'aurora del seguente di 8. Il brigadiere. Wyttembach, che dirigeva la suddetta colonna; per cagione delle fitte tenebre della notte, divisava essere impossibile di più avvicinarsi a quella posizione, ed invece andò a riunirsi con l'altro battaglione del 4° Svizzeri provveniente dalla via del Reclusorio. Fermaronsi entrambi al bivio dei Ponti Rossi e di Capodichino, aspettando ivi il chiarore del giorno.

«Intanto i sovvertitori dell'ordine e della militar disciplina, radunate avendo come dicemmo, sul campo le loro forze ascendenti a 400 uomini ad un bel circa, trascesero alle più brutali violenze verso gli abitanti di quelle adiacenze sino al villaggio di S. Pietro a Paterno.

IL COLONNELLO DUNN

«Dovunque scassinarono case, involarono oggetti, misero a soqquadro il paese, malmenarono, percossero quanti vennero loro dinanzi, e per colmo d'infamia e di ferocia barbaramente trucidarono il bettoliere sito alla Dogana di Capodichino dopo di essere stati da quell'infelice largamente, provveduti di vino e di commestibili.

«Il movimento concentrico dei vari battaglioni, che militarmente occupavano le diverse strade convergenti sul Campo di Capodichino, non altro scopo aveva, che quello rilevantissimo di precludere ai faziosi ogni via, ogni sestiere, che potesse offrir loro adito facile per irrompere sulla capitale, e spargervi di nuovo il terrore e la costernazione.

«A ben conseguire siffatto precipuo risultamento il Brigadiere Nunziante di concerto coll'altro Wyttembach ed il comandante del 13° cacciatori dispose che ai primi albori della dimane un battaglione del 4° svizzero si trovasse sulla strada vecchia ed un altro del medesimo corpo sulla strada nuova di Capodichino per fare occupare da quest'ultimo la traversa, che pure conduce al campo, mentre lo stesso Brigadiere Nunziante col 13° battaglione di cacciatori svizzeri, diviso questo in due colonne per la via di Poggioreale. dirigendone una sulla strada del nuovo camposanto, sarebbe questa uscita alla porta orientale del campo, e l'altra sboccando e distendendosi pei lati ovest e sud, venivasi a formare nell'insieme un sistema da stringere in una cerchia ben compatta tutta intera l'area del campo.

«Severa ingiunzione fu fatta ai soldati di non rompere il fuoco senz'ordine preventivo dei superiori; ordine, che si tenne fermo a non dare sino alla ripetuta provocazione di fatto da parte degl'insorti nella veduta umanitaria di risparmiare possibilmente lo spargimento del sangue. È ciò tanto vero, che pria di mettersi a vista dei ribelli le forze, che li circondavano, la quale apparizione avrebbe potuto suscitare in essi l'impeto di malnata indignazione o quello di prematura reazione nascente dal pretesto della propria difesa, si volle usare verso quegli uomini pervertiti dalla colpa, e meritevoli soltanto del massimo rigore delle leggi militari, la longanimità, che più regna nel cuore di chi con prudenza e cristiana carità dispone del dritto e della forza. Sicché il Brigadiere Sury, il Brigadiere de'  Riedmatten ed altri uffiziali si adoperarono con orali mezzi di persuasione ad oggetto di distogliere quelli sconsigliati da ogni disperata ed inutile resistenza.

«Ma l'esito di quel nobile tentativo si fu quello, ch'era da aspettarsi dall'esasperazione di gente eccessivamente aberrata.

«Ond'è, che alle pacifiche esortazioni ed alle ammonizioni paterne fatte dai ripetuti uffiziali. quelli sciagurati risposero col fucile, facendo fuoco e minacciando. Ed i pochi, che in sulle prime mostrarono pacifiche determinazioni approssimaronsi sommessi solo per affacciare strane pretese o per meglio colpire al segno con le fucilate, o per dar tempo, che con maggiore sicurezza avvicinar si potessero i compagni per tentare di aprirsi risolutamente il passo.

«Allo scorgersi un'attitudine cotanto sinistra ed incerta, ma che bene intravedere faceva l'indole malvagia ed ostile dei faziosi, i battaglioni preceduti da qualche compagnia disposta da tiragliatori. sboccarono in colonne di divisione da tutte le vie convergenti sul campo, e successivamente spiegandosi le sezioni di artiglieria, ponevano in batteria i pezzi. Non pertanto gli uffiziali anzidetti non cessavano dall'esortare quei ribaldi alla resa. Costoro non seppero altrimenti rispondere che con vivo fuoco contro il 4° svizzeri ed il 43. ° cacciatori in guisa, che caddero feriti il tenente Thormann del 4° e varii soldati e trombetti dell'uno e dell'altro corpo.

«Fu allora, che il sentimento di equità comandava di non tenere più inerti soldati bravi e disciplinati esposti ai colpi micidiali di furenti sediziosi, e nel medesimo tempo far che nel più breve termine avesse fine una lotta, la quale prolungandosi, avrebbe fatto deplorare maggiori perdite.

Il fuoco dunque cominciò su varii punti, e da parte dei ribelli facendosi più vivo, buona mano di essi slanciavasi su i cannoni per impadronirsene.

«Allora tiraronsi coi pezzi due colpi a mitraglia. Caddero al suolo morti e feriti, ed ogni conflitto cessò in quell'istante.

«Abbassarono. cedendo le armi i vinti. I pertinaci fuggirono in poco numero, i quali dopo brevi scorrerie per le circostanti campagne, dove commisero ogni sorta di eccessi, ripetendo gli atti di violenza e di ruberia esercitati la notte precedente a Capodichino, furono quasi tutti dalla pubblica forza disarmati e presi.

«Rimasero sul campo 20 morti e 75 feriti, e 262 dei faziosi tolti prigioni con gli stendardi ricuperati, e consegnati nel momento al 4° svizzeri, furono da questo reggimento scortati nel quartiere di S. Potito.

«Il 13° battaglione rientrò con due soli feriti nel proprio quartiere.»

Ci siamo rassegnati a trascrivere quasi che per intiera questa prolissa e studiata relazione del giornale uffiziale, perché l'attacco degli Svizzeri sul campo di Marte fece una molto trista impressione, ed a torto o a dritto fu annoverato tra gli atti di mala fede del governo caduto.

Nel presentarsi a Capodimonte gli svizzeri gridavano Viva il Re! Viva la Svizzera! ed interrogati di quello, che cercavano, tutti concordemente risposero: — «O che ci si restituiscano le nostre bandiere, o che ci si lasci partire.» — Il Re fece allora ordinare, che si recassero sul campo di Marte, ove l'indomani avrebbero avuto la risposta.

E difatti non è possibile supporre che quei militari nel dubbio, anzi nella certezza di dover essere attaccati da forze superiori, coadiuvate dalla cavalleria e dall'artiglieria, si fossero recati sul campo di Marte, ch'era il luogo, ove meno avrebbero potuto difendersi. Essi, che conoscevano perfettamente tutt'i contorni di Napoli, non avrebbero omesso di assicurarsi una ritirata. Il perché sembra più logica la voce, che allora corse, e che è stata poi sempre ritenuta come un fatto da tutti gli Svizzeri, che hanno gridato al tradimento, cioè che gl'insorti ebbero ragioni di contare sulla parola reale, che la seguente mattina si sarebbe venuto agli accordi, non alle cannonate.

Ad ogni modo il fatto del campo produsse moltissima esasperazione anche nelle truppe svizzere, che non si erano mosse. L'aspetto dei feriti, ch'erano condotti dal campo, e ch'ebbero a passare dinanzi il quartiere di S. Giovanni a Carbonara, vi lasciò una dolorosissima sensazione. Di tal che il giorno 8 dopo il mezzogiorno i colonnelli del 2° e 3° svizzeri fecero sentire al Re, che i soldati tumultuavano semprepiù nei quartieri, che avevano rifiutata la zuppa e che apertamente dicevano voler vendicare il tradimento fatto ai loro fratelli. Il Re ne fu spaventato, e si ritirò con la famiglia in Gaeta. I residui degl'insorti si mantenevano nelle circostanti colline di Napoli; il giorno 9 ebbe a mandarsi un forte distaccamento di 100 uomini al posto della gran guardia, perché il comandante di quel posto aveva fatto avvertire il comandante della Piazza di non essere sicuro della sua gente. Anche coloro, che avevano attaccato i loro connazionali, n'erano pentiti, e si dicevano ingannati. Si era stato obbligato a far venire molta truppa dalle provincie, e si fini con quella disposizione, dalla quale si avrebbe dovuto incominciare. Si bandì, che chiunque degli Svizzeri voleva partire n'era il padrone, e si aprirono delle soscrizioni a tal effetto. Alcuni prima, alcuni dopo, ma tutti si sottoscrissero, tranne pochi, che vennero incorporati nei battaglioni dei cacciatori esteri. Prima di partire vendettero tutti gli oggetti del loro equipaggio per pochissimo prezzo, ebbero le indennità loro promesse, e partirono, dichiarando, che sarebbero ritornati con Garibaldi. L'intervento di un inviato straordinario della Confederazione svizzera, il maggiore Latour, agevolò questa soluzione, che avrebbe potuto essere più semplice e risparmiare al governo il rimprovero del sangue versato, se fosse stata adottata sin da prima.

Cosi si sciolsero quei reggimenti svizzeri, che avevano costato allo Stato tanti tesori ed ai cittadini tante vessazioni; imperciocchè il governo di Napoli fu più ostinato appunto perché si tenne più forte per l'aiuto delle baionette estere; il che risponde in pari tempo a qualche rimprovero fatto al popolo napoletano di non avere saputo profittare della insurrezione svizzera per rivendicarsi in libertà. I Napoletani non conoscevano nulla di quei proponimenti insurrezionali, né si sarebbero accumulati coi più validi sostegni dei loro persecutori.


vai su


CAPITOLO XVII

 Continuazione del regno di Francesco II. — Dall'insurrezione Svizzera sino alla riabilitazione dello Statuto.

SOMMARIO

Impressione della dissoluzione dei corpi svizzeri sulla popolazione napoletana — Feste per la successione al trono — Consuete adulazioni del Giornale officiale — Straordinario miracolo di S. Gennaro — Versi, che chiudono la relazione del giornale — Ragione di narrare taluni fatti poco importanti — Atti della nuova amministrazione — Impressione che fecero — Il Governo prosiegue la stessa politica — Dispaccio — Il Ministro inglese a Lord Russell — I consigli, che aveva dato al Re, trovavano un ostacolo nello stesso Re — Alcuni dettagli della politica di resistenza — Arresto di Antonio Ranieri — Violenza a Bruto Fabbricatore — Arresto di quattro persone senza saperli rei — Impudenza, con la quale si rispondeva agli arrestati — Violazioni delle sentenze dei Magistrati — E non pertanto non si giungeva a soffocare la manifestazione dell'opinione pubblica — Questo stato anormale e non durabile era veduto da tutti — Il Nord ed il Morning-Post — Verità ed aggiustatezza di quelle osservazioni — Un corrispondente del Nord — Il Re ed il governo erano avvisati. e persistevano — Dispaccio di Russel ad Elliot. — Non viene ascoltato — La Cameriglia — Essa si poggiava su sentimenti e le inclinazioni del Re — Continuazione dello stesso sistema — Altri dettagli di violazioni di giudicati e di enorme abuso della forza materiale — Dispaccio di Elliot a Russell del 2 di marzo — Altro del 3 — Risposta di Russell — Da questa risposta all'insurrezione siciliana intercedono solo 15 giorni — Influenza dell'Austria e del Papa — Corrispondenza di Vienna — Essa riflette il pensiero del partito austriaco — Dubbio di una invasione del territorio romano senza l'insurrezione della Sicilia — Modificazione ministeriale — Lettera del Conte di Siracusa al Re — Impressione che fece.

 La dissoluzione dei corpi svizzeri aveva lasciato nelle provincie napoletane una gratissima impressione. Senza contare il rancore, che gli avvenimenti del tristissimo 15 di maggio avevano destato nelle popolazioni contro di quei corpi, vedevasi mancare al governo il suo più fermo sostegno. Speravasi, che le truppe nazionali, le quali per le preferenze e le predilezioni verso le truppe estere, non avevano molto a lodarsi dei reggitori dello Stato, si accostassero alle aspirazioni nazionali, ed imitassero l'esercito toscano. Negli ultimi dodici anni decorsi l'esercito napoletano avrebbe dovuto esso stesso deplorare la faziosa e meschina politica del governo, ed avvedersi, che non avrebbe mai cessato di essere considerato come un materiale istromento di un potere arbitrario e forsennato, né ritrovata la gloria, né conseguito il lustro, cui aveva dritto di aspirare, se non si fosse purgato del concetto, nel quale lo tenevano gli uomini al potere. Non si teneva allora sufficiente conto del perfido lavoro. che pel corso di quegli stessi dodici anni si era indefessamente condotto, e per effetto del quale il soldato napoletano, cedendo materialmente ad una forza bruta, che lo dominava, si era convinto, che per corrispettivo spettasse a lui il dritto di gravare con la sua propria forza sulla nazione, dalla quale si stimava in tutto e per tutto differente. D'onde poi era facile lo inferirne che i disegni del popolo per liberarsi dalla soggezione, che l'opprimeva, avvolgevano nella medesima risponsabililà il Re, i suoi consiglieri, e l'esercito. Gli ultimi avvenimenti hanno mostrato quanto fosse pervertito il sentimento morale del soldato napoletano, quale nozione egli avesse dei suoi dritti e dei suoi doveri, quanto infine fossero mal collocate le speranze, che in lui si riponevano. Niuno più di noi desidera, che questa aberrazione si corregga, e che il soldato napoletano gettata lungi da sé la contaminata veste borbonica, trovi pelle nuove divise italiane le virtù, le opinioni, le aspirazioni italiane. Noi anzi ne abbiamo il presentimento; si può anche dire, che nel campo di S. Maurizio se n'è avuta una soddisfacentissima pruova, ed abbiamo fiducia, che le milizie delle provincie meridionali rivendicheranno la bella fama, che 12 anni or sono seppero cogliere su quel medesimo terreno, ove probabilmente saranno chiamate a farsi ammirare una seconda volta.

Mentre adunque il partito liberale si compiaceva a vedere scemata la forza del governo. questo, compito il tempo del tutto, pensava a circondare il nuovo principe dello splendore della Regia Maestà. Il giornale uffiziale annunziata, che terminando il 23 di luglio il primo periodo del tutto della real Corte e del Regno, nei tre di 24, 25 e 26 sarebbero seguite le gale, con cui giusta le norme sovranamente prescritte doveva essere solennizzato l'avvenimento al trono di S. M. il Re Francesco II. Il primo di questi tre giorni era destinato a rendere grazie all'Altissimo, il secondo al solenne baciamano, il terzo agli omaggi delle dame ed allo spettacolo nel teatro di S. Carlo.

Riputiamo indegna della dignità della storia la narrazione delle consuete adulazioni con le quali il foglio officiale descrive queste funzioni. Aveva già annunziato, che il Re con la Regina Sofia Amalia e con la reale famiglia secondo il pio costume dei suoi reali predecessori si sarebbe condotto nella cattedrale nel più maestoso corteggio di forma pubblica e col maggiore apparato militare. Descrive enfaticamente il corteggio sin dalle scale del real palagio, la parala delle truppe, la gioia del popolo, la funzione nel tempio. — «Terminata la sacra funzione, le LL. MM. si condussero nella cappella del tesoro di S. Gennaro, ove era già esposta la testa del miracoloso Patrono. Mentre le LL. RR. MM. baciavano la sacra reliquia, si vide il prezioso sangue abbassarsi e liquefarsi non ostante, che la testa del Santo fosse sull'altare, avvenimento nuovo a memoria d'uomo, da tutti udito con divota compiacenza ed a ragione riguardato come faustissimo presagio.» — Pochi mesi dopo di questo presagio fermissimo la Dinastia cessò di regnare; però il nuovo avvenimento pubblicato dal giornale prova di quali mezzi gli uomini, che la signoreggiavano, si avvalevano per salvarla; il che è una delle mille pruove ch'essi pensavano di vivere in altri tempi e con altri uomini. Bisogna assolutamente, che sia vera una di queste due cose; essi ignoravano un periodo di 60 anni, il più fecondo di grandissimi avvenimenti, o contavano di fare retrocedere di 60 anni la intelligenza, le passioni, e gl'interessi degli uomini. Epperò lo stesso giornale officiale annunziava, essere giunto in quei medesimi giorni da Roma il Marchese del Vasto latore del decreto, che dichiarava venerabile la defunta Regina Maria Cristina di Savoia, e terminava quella pomposa descrizione con un periodo, che non si deve omettere, comeché descrive meglio di ogni altro quale fosse la coltura, che s'intendeva di fare prevalere:

«A stringere in poche parole lo slancio della gioia accresciuta da tale sublime ricordanza, trascriviamo quattro versi dettati per l'avvenimento al trono della Reale Maestà Sua.»

«NAPOLI ESULTA DI BEN GIUSTO ORGOGLIO,

«GIUBILA DI LETIZIA SENZA PARI,

«VEDENDO IL GIOVIN RE SALIRE AL SOGLIO,

«MENTRE LA MADRE AVVIASI PER GLI ALTARI.

E da credere, che la Regina vedova non accettasse senza riserva questa elegante poesia. Quanto al pubblico gli avvenimenti, che seguirono, attestano in qual conto la tenesse.

Avviene talvolta, che degli atti, i quali sono per sé stessi indegni di prendere un posto nell'istoria, debbono averlo quando è loro annesso un significato importante per dipingere la situazione; allora l'interesse non sta nel fatto narrato, ma nei falli di un ordine più elevato, dei quali il fatto narrato è la espressione.

Si attendeva da più tempo l'indrizzo, che all'amministrazione ed alla politica avrebbe dato il nuovo ministero presieduto dal signor Filangieri. Dopo molto attendere il giornale uffiziale pubblicò undecreto, che conteneva i miglioramenti, che essendo i primi, si erano creduti i più urgenti. Dei magistrati ed altri pubblici funzionarii avrebbero percorse le provincie per conoscere i bisogni dell'amministrazione; questi nuovi Missi dominici avrebbero riferito al governo il risultamento delle loro osservazioni. Se i delegati avessero avuto il coraggio, indipendenza, e l'operosità richieste dal loro mandato, ed il governo la volontà di sentirli, non v'ha dubbio, che questo provvedimento avrebbe potuto esser utile, ma bisognava, che si avesse avuto in animo una riforma seria e nel sistema e nel personale amministrativo; invece le seguenti disposizioni del decreto discoprivano quanto leggermente il governo guardasse la quistione; e difatti non si era trovato niente di meglio da fare, che di ordinare l'imbiancamento delle prigioni e munirle di corrispondenti cappelle, le quali cose, se erano, come effettivamente lo sono. utili non solo ma necessarie, non meritavano per certo il primato nell'ordine amministrativo, né dovevano elevarsi sino a formare obbietto delle occupazioni degli eminenti funzionarii dello Stato, senza che costoro discendessero tanto basso quanto è la categoria di quegli atti inferiori dell'amministrazione. Nè qui si arrestava l'inconvenienza di quell'atto governativo, ch'era stato tanto atteso, ma superando tutti i limiti dell'indecenza e del ridicolo, giungeva a disporre, che i Direttori dei Reali Ministeri dello Interno e della Polizia si fossero messi di accordo per provvedere efficacemente alla nettezza di questa città, e particolarmente per evitare quella inondazione serotina, che seguiva nelle vicinanze di S. Carlo. Meravigliosa abbiezione, nella quale cadeva il governo quando era chiamato a soddisfare la giusta aspettativa del pubblico!

Nelle supreme circostanze in cui versava l'Italia, nei momenti solenni, nei quali tutt'i cuori italiani palpitavano alla lotta diffinitiva tra la indipendenza e la schiavitù nazionale, quale impressione non doveano fare sugli animi napoletani quelle disposizioni del nuovo governo, che venivano a deludere le ultime speranze dei più moderati del partito liberale? Le fluttuazioni quasi quotidiane del Presidente del Consiglio dei Ministri, la cattiva opinione, che per la sua vita privata erasi acquistata, il suo accorgimento nell'assicurare da ogni eventualità le largizioni del governo, che avevano ricompensato la sua spedizione di Sicilia, la sua smodata ambizione, le sue abitudini ed i suoi principii assolutisti, del pubblico, le quali, poiché generali, non potevano rimanere occulte al governo, che se ne adombrava, e ne aveva paura. Per tal modo il detto governo. spingendosi semprepiù innanzi in quelle, che chiamava misure di precauzione, non solo manteneva gll arresti antichi, ma ne faceva dei nuovi. Il principe di Satriano una volta lasciava il portafoglio della Presidenza, e conservava l'altro della guerra; un'altra diceva di lasciare anche questo; talvolta prendeva un congedo, tal altra si diceva ammalato. Tutto andava di male in peggio; il Re si era mostrato in pubblico con quell'aria imbarazzata, che non deponeva troppo favorevolmente della sua sveltezza, né gli conciliava il favore del pubblico.

In queste circostanze il signor Elliot, Ministro inglese in Napoli, dirigeva a Lord Russel il seguente rapporto:

«Napoli 2 ottobre 1859.

«Ho profittato dell'udienza, che mi è stata accordata dal Re per insistere presso Sua Maestà nella più seria maniera sui pericoli emergenti dal modo di amministrazione, che ora si segue nel paese.

«Gli ho dello che il mio convincimento di essere difficile di assicurarsi del vero stato delle cose, e specialmente pel Re, ai quali coloro, che li circondavano, temevano di dire delle spiacevoli verità, mi davano il coraggio di fare conoscere a S. M. i pericoli legati alla condotta, nella quale il governo sembrava deciso a mantenersi. Gli ho detto, che i recenti arresti in Napoli avevano prodotto un sentimento prossimo al panico, accompagnato da un sentimento di profonda irritazione; e quantunque S. M. abbia detto, non considerar egli lo stato interno del paese così critico, come il pubblico lo giudicava, ho fatto rimarcare essere naturale pel pubblico di credere, che null'altro, se non il sentimento di un pericolo imminente, poteva avere consigliato e giustificare i numerosi arresti, che eran seguiti in Napoli, in Palermo, ed in Messina.

«Ho detto saper io, che qualcuno dei suoi Ministri continuava a sostenere non esservi malcontento generale nel paese, ed essere l'inquietudine. mantenuta dall'agitazione di un piccolo numero di spiriti turbolenti; ma l'ho pregato di non lasciarsi fuorviare da allegazioni di tal natura, dapoiché consultando i rapporti, che aveva ricevuto da per ogni dove, non era possibile di mettere in dubbio, che il malcontento non fosse universale, e cosi profondo, che delle misure di conciliazione o di repressione erano divenute necessarie.

«Gli ho esposto, che le prime misure potevano tuttavia essere efficaci, e che delle concessioni fatte alle moderate domande del paese, potrebbero ricondurre la tranquillità nell'interno e la simpatia dell'estero, mentre se era risoluto di respingere i sentimenti dominanti con misure violente, S. M. doveva calcolare la forza, della quale disponeva, e pesare seriamente il rischio, ch'ella correva prima di adottare una politica, che se mancava, doveva condurre a dei risultamenti. dei quali era impossibile di prevedere il peso, e potevano privarlo di ogni probabilità di soccorso o di simpatia dell'estero.

«Ho detto, che se coloro, ch'erano stati arrestati, potevano essere convinti di cospirare contro il trono di S. M. l'irritazione, che ora esiste contro del suo governo, cesserebbe immantinenti, e che perciò la sola politica, che sembrava adesso di poter essere seguita con vantaggio, era di metterli in giudizio senza ritardo. Ho aggiunto, che se potevano essere chiariti colpevoli, la loro condanna sarebbe accolta come una giustificazione del loro arresto; che se erano assoluti, potevano essere messi immediatamente in libertà, e che nell'uno come nell'altro caso il governo sarebbe stato considerato di avere agito giusta il convincimento della loro colpabilità, ma dall'altra parte se queste persone non fossero messe in giudizio, S. M. doveva attendersi, che il pubblico considerasse gli eseguiti arresti come atti puramente arbitrarii, diretti non contra dei cospiratori, ma contra delle opinioni.

«Ho detto ancora, che l'estremo significato annesso da qualche Ministro di S. M. alla parola rivoluzione, aveva creata delle inquietudini nel mio animo, ed ho lasciato a S. M. la cura di giudicare, se fosse giusto ed equo di considerare come cospiratori uomini. che potevano credersi nel dritto di cercare ira loro delle misure à fine di ricondurre la costituzione, ch'era stata loro solennemente garentita, che non era stata mai formalmente rivocata, e che conseguentemente poteva essere considerata essere tuttavia strettamente la legge del paese.

«Ho terminato, pregando S. M. di credere essermi estremamente penoso di toccare a delle quistioni, che gli dovevano essere sgradevoli, e che nulla avrebbe potuto decidermivi fuori del convincimento dell'interesse nutrito dalla Regina e dal suo governo pel benessere del regno, per la prosperità di S. M. napoletana, e della sua Dinastia. Ho dich;arato, che nel vedere, a mio avviso, S. M. napoletana, sul pendio di un abisso, non mi sarei mai perdonato di avere trascurato di avvertirlo sui pericoli, verso dei quali lo spingevano i pareri di consiglieri ciechi.

«S. M. non sembrò offesa del linguaggio, ch'io aveva usato. e si dichiarò pienamente soddisfatta della benevolenza del governo di S. M.

«Spero, che Vostra Signoria mi approverà di essermi espresso così liberamente col Re; ma quantunque S. M. sia cosi costantemente circondata da Consiglieri di viste strette ed ipocrite, che lo menano alla sua perdita, e che non posso lusingarmi della speranza, che i miei consigli abbiano potuto produrre molto effetto, credo di avere ben servito i desiderii del governo di S. M. facendo tutti i miei sforzi per impedire il Re di perseverare in un sistema, che secondo ogni probabilità farà nascere delle complicazioni, delle quali niuno Può prevedere la soluzione.

Il 2 di ottobre, quando già era seguita l'udienza del Ministro inglese, la Sicilia non era ancora insorta ed esistevano soltanto le complicazioni, gravi bensì, ma non ancora divenute insolubili, del governo del defunto Re. Il nuovo Principe non prestò fede al rappresentante di una Potenza, che gli veniva dipinta come nemica; disse al Ministro e credè fermamente, che i pericoli espostigli erano esagerati; che la nazione era contenta e tranquilla, che gli agitatori eran pochi. ed ebbe fermo nell'animo, che bisognava colpirli; giovine, senza esperienza, educato ad una scuola, che ammetteva due soli principii; una assoluta ed indiscussa soggezione da un lato, ed un assoluto ed indiscusso imperio dall'altro, egli sin da che regnava suo padre soleva indicare come rimedio efficacissimo all'agitazione politica due palle in fronte, si che il sistema di resistenza e di rigore, contro del quale il signor Elliot aveva aringato, incontrava l'inclinazione ed il convincimento del Re.

E questo sistema fu usato sopra larghe basi; senza entrare in un dettaglio, che riuscirebbe monotono, basterà dire, che Antonio Ranieri, che da lunghissimi anni si era reso straniero alla politica e viveva dei suoi studii in un modesto ritiro, fu arrestato, perché aveva messo il suo nome tra coloro, che avevano pensato di fare coniare una medaglia in onore di Vieusseux come fondatore dell'Antologia e dell'Archivio Storico. Da treni anni Ranieri era amico di Vieusseux, si che questi gli scrisse da Firenze una lettera di ringraziamento, la quale intercettata alla Posta motivò l'arresto, che durò poco, perché superava in iscandalo tutti gli altri arresti.

Il Console sardo signor Fasciotti, mentre tranquillamente andava pei fatti suoi, è arrestato e perquisito addosso dai gendarmi e dagli agenti di polizia; con dotto sulla prefettura, riceve delle scuse, perché era stato uno sbaglio degli agenti della forza pubblica.

Aristide Fabbricatore cade in sospetto di avere parte nella pubblicazione del piccolo Corriere d'Italia, giornale clandestino, che si pubblicava in Napoli; egli n'è avvertito, e si salva in Firenze. S'ingiunge a suo fratello Bruto di chiudere la sua tipografia insino a che Aristide non si presentasse alla polizia.

Al Re in carrozza è buttato un plico non suggellato; il Re lo apre, e vi trova una collezione di nastri tricolori; ritornato al palazzo, fa chiamare Ajossa, cui ordina fosse arrestato il colpevole, del quale indica presso a poco alcuni connotati. Un uomo che Bitta nella carrozza del Re un plico di quella specie, dev'essersi immediatamente ritirato, ed il Re, che non ne aveva sospetto. e che non ha potuto vederlo, che di sfuggita, ha dovuto ritenerne una idea imperfettissima. Ajossa per altro non si disanima, e fa arrestare quattro persone; e siccome non poteva confrontarle col Re, le fa litografare, e presenta i ritratti, ma il Re dichiara, che niuno di quei quattro ritratti somiglia la persona del plico; si prosieguono le indagini, ma quei quattro rimangono in arresto.

E per terminare non per mancanza della materia, ma per non riprodurre sotto forme diverse gli stessi arbitrii, diremo la impudenza. con la quale si rispondeva alle inchieste di coloro, che dopo di essere stati alcuni mesi in prigione, venivano liberati per grazia del Re. Ad uno di questi, ch'era rimasto da due in tre mesi nelle carceri, nel porto in libertà si disse: «il Re vi fa grazia. — Ma di quale pena? — Di quella, che meritale. — E per quale reato? Voi dovete saperlo». E fu congedato. Si seppe dopo ch'era stato uno sbaglio!!!

E se taluno più fortunato aveva la ventura di essere rimesso al potere giudiziario, e di essere assoluto, la polizia non si dava briga della decisione della G. C. Criminale. e l'assoluto rimaneva nelle carceri, o era relegato in qualche isola. Adolfo Farina, assoluto dalla G. C. criminale, fu mandato a Ponza.

Tutte queste vessazioni, che sarebbero state colpe od errori politici ingiustificabili in tempi ordinarii. divenivano aberrazioni di una mente inferma nelle circostanze, in cui versava l'Italia ed anche l'Europa. La polizia, che si mostrava cosi arbitraria era poi impotente a contenere le manifestazioni delle opinioni, che voleva comprimere, e che irrompevano da tutte le parti. I manifesti ed i proclami del Comitato erano fra le mani di tutti, e quel Piccolo Corriere di Napoli, pubblicazione periodica, che formava la disperazione di Mossa e dei suoi tristissimi coadiutori ed agenti, seguiva imperturbabile le continue sue pubblicazioni anche in quei momenti, nei quali si credeva di averne scoperta la sorgente, né rare volte si rinvenne quel foglio sin negli appartamenti reali.

Questo stato anormale di cose. questo incessante contrasto tra una volontà cieca ostinata e l'inefficacia dei mezzi, che ne attestavano l'impotenza, queste convulsioni di un potere. che si estenuava per effetto dei suoi stessi parossismi, erano un fatto noto a tutti. meno che al Principe ed ai suoi Consiglieri. Tra la stampa estera noi spesso citiamo il Nord, perché oltre all'essere uno dei fogli meglio informati e più meditati, esso come organo russo, stampato a Bruxelles, non può essere tacciato di aspirazioni demagogiche nella manifestazione delle impressioni, che la politica del governo delle Due Sicilia faceva nell'estero. Ebbene nel 1 di febbraio 1859 il Nord riportava il seguente articolo del Morning-Post:

«Il governo di S. M. non è indifferente alla condizione poco soddisfacente degli affari interni ed esterni del regno delle Due Sicilie. Crediamo di sapere, che l'onorevole Errico Giorgio Helliot, nostro Ministro plenipotenziario in Napoli congiuntamente col barone Brenier, che rappresenta la Francia alla Corte medesima, ha ricevuto delle istruzioni, ingiungendogli di attirare l'attenzione del Re e dei Ministri sui cambiamenti politici, che hanno avuto luogo recentemente nella penisola italiana, cambiamenti, che debbono necessariamente influire nel regno, sul quale Francesco II ha cominciato un regno cosi impopolare.

«Nulladimeno non speriamo molto, che le buone intenzioni dell'Inghilterra e della Francia abbiano maggiore successo di quello, che i loro avvisi amichevoli ne hanno avuto nelle precedenti occasioni. Non crediamo, che la fuga dei Sovrani dell'Italia centrale e la crescente popolarità del Piemonte in tutta la penisola siano fatti di tale natura da esercitare in Napoli la loro influenza su di un Sovrano, che inaugura il suo regno senza un solo alto di conciliazione, e si mostra disposto ad eseguire relativamente ai suoi sudditi il sistema di governo, che ha obbligato suo padre Ferdinando II a rinchiudersi per gli ultimi anni della sua vita nel porto provinciale di Gaeta.

«Francesco II non pare, che debba prendere in considerazione il cambiamento di situazione dell'Italia dopo la battaglia di Solferino, non sembra vedere. che tra lui e l'armata austriaca vi sono adesso 50 mila uomini di truppe francesi e le forze nazionali del Piemonte e dell'Italia centrale.

«Le informazioni, che ci pervengono da Napoli, fanno fede di un accecamento ostinato del giovane Re e di coloro, che lo circondano, al cospetto di questi profetici avvertimenti, che cosi evidentemente risultano dal cammino degli avvenimenti.

«Il generale Filangieri, ch'era la speranza dei Napoletani e dei Ministri d'Inghilterra e di Francia in Napoli, quando è entrato in funzioni, ha frustrato tutte le speranze, né è riuscito a persuadere il Re di promulgare il minimo decreto conciliante, né di cambiare la fatale politica di Ferdinando II. Per lo contrario la polizia di Napoli è in questo momento più attiva che mai nel suo sistema di persecuzione, che popola le prigioni di detenuti, che ignorano i loro reati, si che è un periodo di terrore uguale ai più tristi periodi dell'ultimo regno.

«Non pertanto nei circoli della Corte si parla con inquietudine del Piemonte e di Napoleone III.

«L'Inghilterra è lusingata dalle parole cortesi, perché s'intravede la possibilità di avvenimenti, che potrebbero obbligare Francesco II a reclamare l'appoggio del governo inglese a fine di proteggere l'indipendenza del regno delle Due Sicilie.

«Ma temiamo, che queste relazioni siano di poco valore per indurre il Re a governare da sovrano cristiano ed a lavorare per la prosperità del suo popolo, comunque i Borboni napoletani siano debitori all'Inghilterra del loro trono.

«Nè vi sarà più in Inghilterra effettiva simpatia per la famiglia reale di Napoli come non ve n'è per le case ducali di Toscana, di Parma, e di Modena.

«O che il regno di Napoli sia destinato ad essere rovesciato dalla rivoluzione, od ad essere invaso da un'armata nazionale italiana, tranne che l'Austria non venga in aiuto la sorte del Re sarà una fuga ignominiosa dai suoi Stati. Egli non può contare, che su di una legione straniera di tre in quattromila uomini, formata coi resti della sua vecchia armata svizzera e di alcuni banditi reclutati in Trieste ed altrove. Le truppe indigene fuggirebbero innanzi l'armata nazionale probabilmente senza tirare un colpo di fucile. Il governo napoletano disparirebbe in 24 ore, se le forze dell'Italia centrale passassero la frontiera, e si vedrebbe riprodurre la scena della disparizione del governo del gran Duca di Toscana. In Napoli soltanto si crede alla solidità del dispotismo napolitano.»

Quando si richiamano alla mente i tristi fatti, che abbiamo narrati, e si riflette, ch'essi sono una parte sola dei moltissimi espedienti simili della politica del governo delle Due Sicilie, non si può fare a meno di riconoscere la verità e la sensatezza delle cose osservate nell'articolo riferito, né si possono sconoscere i suoi prognostici dopo i fatti accaduti. Da che intendiamo di semprepiù inferire, che la caduta della Dinastia napoletana è stato un fatto non improvisato né accidentale, ma lo svolgimento di cause accumulate nel progresso necessario e naturale del tempo e dell'ordine morale e politico della vita degli uomini e delle nazioni, a tal punto che si è potuto anticipatamente prevedere, avvertirlo, e reiteratamente invitare il governo a scongiurarlo.

Un corrispondente del Nord, che gli scriveva: — «Permettetemi di passaggio di assicurare il Morning-Post, che il nostro Re non è così cattivo cristiano, né la nostra armata cosi poco fedele, che questo giornale sembra credere.» — ; osservava non pertanto:

«Tutti i gravi avvenimenti, che sono succeduti. che succedono, e che si preparano pure in Italia, e quasi alle nostre proprie porte, preoccupano, a quanto pare, seriamente il nostro governo, senza renderlo però più chiaroveggente, più circospetto, né più attivo nella sua politica interna ed esterna. Sempre lo stesso acciecamento, che ha perduto tanti governi, la stess'attitudine di aspettativa a fronte degli avvenimenti, che camminano velocemente, e le stesse illusioni sulla probabilità di un ritorno all'antico stato di cose, se non in Toscana, almeno nelle Romagne. Il nostro governo non giunge mai a convincersi dell'urgente necessità, che ha nell'interesse della propria esistenza, e senza parlare del bene del paese, di spogliare il corso attuale degli affari d'Italia e le nuove tendenze dell'Europa dell'involucro ingannatore del quale si piace di ricoprirle, ed invece porte sul terreno della realità, ove oramai sono state messe dai fatti compiuti nella Penisola, nonché dall'accordo recentemente stabilito per rapporto ad essi tra l'Inghilterra e la Francia.

«Ricondotto in tempo a questi termini di realità e non di finzione, il governo si sarebbe trovato a fronte di una semplice quistione di progresso interno, di miglioramento pratico, e di raddolcimento nel regime pubblico. Questo cambiamento di sistema così sovente annunciato e così sovente smentito dai fatti non è stato, che un inescamento, ed ammettendo pure, che adesso si realizzasse, la quistione sarebbe così semplice come in origine la era? Ciò che avrebbe circondato il cominciamento del regno di Francesco II di un'aureola di popolarità, di simpatia, e di riconoscenza, basterebbe oggi per guadagnare il terreno perduto, e per allontanare i pericoli, che da ogni parte ci premono? Niente di meglio io domando, che d'ingannarmi, ma temo, che gli avvenimenti non vi rispondano in senso negativo.

STORIA DELLA GUERRA DI SICILIA

BOMBARDAMENTO DI PALERMO

«La benda, che accieca i nostri uomini del potere ha poca probabilità di cadere per lasciar loro vedere il pericolo della loro persistenza in un sistema eccessivo ed antiquato. Il paese ne ha la conscienza, d'onde il fastidio, lo scoraggiamento, e l'abbattimento generale, che caratterizzano la fisonomia della capitale e delle provincie; ciocché è visibile e palpabile per tutti, tranne per coloro, che si ostinano a non veder chiaro. Ciascuno vede accumularsi sul nostro orizzonte politico delle minaccianti nubi; ciascuno si rende conto della irresistibile forza delle cose e delle idee, che presto o tardi finiranno col dominare la forza di inerzia e di resistenza, che loro si oppone. Però il governo, se si rende conto dello stato generale delle cose, non prende veruna di quelle misure, che dinoterebbero da parte sua una saggia previdenza. Quale immensa responsabilità assumono innanzi a Dio ed agli uomini i ministri ed i consiglieri del nostro giovane sovrano, che allevato nelle antiche tradizioni della politica austriaca, non ha avuto né il tempo né la possibilità d'innalzare il suo senno politico all'altezza delle circostanze attuali!

«Il male e le abitudini sono troppo inveterate per sperare, che vi sia portato rimedio da passi amichevoli, che le due potenze occidentali hanno fatto presso del nostro Gabinetto in linea di consiglio nella veduta di obbligare il Re a prendere in considerazione i cambiamenti politici sopravvenuti in Italia, e quindi di conciliare la sua politica con le esigenze, che ne sono la logica conseguenza.»

E questo era il linguaggio d'un uomo, che si manifesta per onesto, non affascinato dalle preoccupazioni di partito, a livello delle condizioni dei tempi. madi opinioni liberali temperatissime ed amico della Dinastia o almeno dell'ultimo Principe. Quale più convincente pruova. che Io stato politico ed amministrativo era evidentissimo, che l'ultimo Re non ha sentito nessuno dei replicati avvisi, che da diverse parti ha ricevuto, e che si è ostinato a non vedere e non credere quello, che tutti concordemente, dalla fazione in fuori, vedevano chiaramente, e fermamente credevano? Noi forse cadiamo in ripetizioni, ma la detronizzazione di una Dinastia, che ha regnato 127 anni, è un fatto storico molto importante, ed è di grave interesse l'investigarne e precisarne le cause.

Il 16 di gennaio 1860 Lord Russel scriveva al signor Elliot:

«Può essere utile di spiegare al principe di Satriano, e pel suo intermedio al Re, la politica del governo britannico.

«Noi desideriamo ogni bene alla dinastia napole tana. Noi non abbiamo il desiderio d'intervenire nel governo interno di Napoli e di Sicilia, ma ci è impossibile di chiudere gli occhi su di talune evidenti verità. Egli è certo che le più ordinarie regole della giustizia non sono osservate dal Re di Napoli verso i suoi sudditi, che l'esasperazione cagionata dall'oppressione provoca i complotti, gli assassinii, le cospirazioni, e le insurrezioni; che gli agenti ed i consoli di S. M., tuttochè si astengano religiosamente di occuparsi di questi complotti, hanno nulladimeno pruove evidenti della loro esistenza.

«Se tali conspirazioni mettessero in pericolo il trono di S. M. Siciliana, il governo della Regina non potrebbe, che deplorare l'acciecamento, che dirige i suoi consigli; ma il governo della Regina non accetterà veruna parte di responsabilità a tal riguardo, né intraprenderà di sviare le conseguenze di un cattivo governo, un parallelo del quale difficilmente si troverebbe in Europa.

«Le riforme da farsi non esigono veruna complicata organizzazione né  alcuna profonda meditazione.

«Che il governo napoletano non arresti alcuno senza porlo a confronto coi suoi accusatori; che non sotto ponga niuno ad altre grandi misure senz'avere la pruova di qualche reato o di qualche offesa contra l'ordine pubblico; che la legge, quale essa sia, venga applicata a tutti. Con questi semplici ma considerevoli cambiamenti vi sarà un cominciamento di un nuovo ordine di cose; dell'istituzioni popolari potrebbero seguire, si guadagnerebbe del tempo per deliberare su quello, che resta da fare, ed il governo potrebbe sinanche ottenere una riputazione di giustizia e di onestà. Ma la condotta che adesso tiene, non può che condurlo alla sua perdita.

«Voi parlerete al Principe di Satriano nel senso del dispaccio come ancora al signor Carafa, s'egli eleva la quistione con voi.

Furono voci buttate al vento; la Camariglia le distornava, le diceva consigli di demagoghi, suggeri menti di miscredenti, d'infedeli, di nemici del Re e del Papa. Ma chi era questa Camariglia? Noi ne troviamo una definizione o piuttosto una descrizione energica ed ingegnosa in un autore contemporaneo, nel signor Marc Monnier: —

«La Camariglia è una società segreta e terribile, che composta d'uomini perduti, di vecchi caduti, di cervelli ottusi. di opinioni ridicole ed impossibili, ha non pertanto una tenacità, una forza d'inerzia, che da quarant'anni resiste all'Europa e schiaccia il paese. Alla Francia, all'Inghilterra, all'Italia, al voto nazionale questa società altro non oppone, che se stessa, e trionfa nella sua decrepitezza di tutti gli sforzi giovani e generosi. In Napoli ella ha contra di sé una parte della Corte, la Regina giovane, gli zii del Re, tutti gli uomini di Stato di qualche valore, tutta la diplomazia estera (tranne il Nunzio del Papa ed il Ministro d'Austria), tutte le classi letterale, tutti gli uomini d'ingegno e gli uomini di onore, e sola contra tutti, allontana gli uni, colpisce gli altri, seduce e corrompe i deboli, esilia ed uccide i forti, e dura e regna! ()

Ma quali mezzi essa adopera per conseguire tanto effetto? Com'ella fa a durare a regnare contro avversarii così potenti? L'autore ci dice: «Inviluppa il Re nelle sue tele di ragno e lo spaventa con la sua fantasmagoria rivoluzionaria.» — Ma questo non basta; anche l'Inghilterra, anche la Francia cercavano distorlo dalla via, che calcava, spaventandolo con la rivoluzione; invece la Camariglia distruggeva questi timori. Sono pochi uomini torbidi, che mantengono l'agitazione.

Ecco il mezzo efficacissimo, di cui la Camariglia si valeva. La nazione in massa non partecipa alle aspi razioni del progresso; essa chiede di vivere e s'incarica dei suoi interessi individuali; gl'interessi pubblici li lascia al governò, e se talvolta ne parla, lo fa leggermente, come per accademia, ma senza pretendere di regolarli essa stessa, imperciocchè invece essa vuol essere governata. Inoltre essa è religiosissima, nel più largo significato, nel significato clericale e bigottico. Coloro che ostano al Principe ed all'Altare, che intendono discutere, mentre si tratta di ubbidire e di credere, sono una fazione; sono invero attivi, instancabili, ma voi, o Re, siete più forte di loro; colpiteli, riduceteli alla inazione, ed avrete salvato il trono e la religione, e regnerete tranquillamente come vostro padre, vostro avo, vostro bisavo hanno regnato tra mezzo a complicazioni più gravi delle presenti.

Questo ragionamento guadagnava la mente ed il cuore del Principe. Per tradizioni, per principii, per abitudini egli poneva in cima di tutto il suo potere il limitato, e quindi riteneva la forza bruta come solo e legittimo mezzo da farlo valere; abbiamo già riferita una frase, che è la formola del suo concetto intorno a ciò; quanto ai suoi concetti religiosi, essendogli stato rimostrato, che se la sua armata passasse le frontiere, avrebbe potuto perdere il trono, rispose: Meglio è perdere il trono, che l'anima. La Camariglia dunque era potente, ma gli elementi della sua forza, l'indrizzo dei suoi mezzi di azione li attingeva nella persona del Principe, e stavano nella omogeneità, anzi nell'identità dei sentimenti, delle aspirazioni, e delle idee.

Epperò era logico, che gli atti del potere pubblico si svolgessero nel senso delle massime e del piano adottato. Noi tralasciamo i dettagli, perché aumenterebbero il nostro lavoro di tanta mole, che non potrebbe più essere contenuto nel disegno. che ne abbiamo fatto, ma qualcuno è indispensabile per dare al nostro racconto la solidità e la precisione, che noi vorremmo che avesse.

Il barone Pietro Compagna era stato arrestato; le sue relazioni sociali gli valsero almeno. che venisse rimesso al potere giudiziario, e che il suo giudizio fosse disbrigato. D procuratore generale Nicoletti, uno dei più zelanti ed efficaci agenti del pubblico Ministero presso la G. C. Criminale, non potè né seppe trovare verun elemento di reato, e conchiuse per la libertà immediata. Ma Aiossa non divideva le sue convinzioni, o per lo meno se poteva convenire, che non vi fossero pruove legali per la condanna dell'imputato, aveva per fermo, che ve ne fossero delle sufficienti per provare il reato nel senso della polizia. I Giudici furono spaventati di assolvere colui, che il pubblico accusatore dimandava, che fosse assoluto, e sarebbe stata una enormità il condannarlo. Eglino dunque ordinarono, che venisse messo in libertà, ma sotto cauzione e con residenza in un luogo fisso pei possibili futuri elementi di colpabilità. Compagni aveva pagato la cauzione di Duc. 200, quando la polizia dichiarò, che rimarrebbe arrestato per suo conto.

Nel Decembre 1859 un giovane impiegato nella ferrovia, maritato e con tre figli, ebbe una disputa con un uomo di polizia, e lo bastonò: L'uomo di polizia ricorse al suo Commissario signor Primicile Carafa, e questi fece nella stessa sera arrestare l'impiegato della ferrovia, che fu rinchiuso nel cosi detto Cancello del commissariato. La notte tre birri, ira i quali il battuto, gli furono addosso, e gli fecero subire tali tormenti ed efferate sevizie, che per salvarlo dalla morte si rese indispensabile una terribile operazione, la castrazione l Ebbene dodici volte consecutive quello sventurato si diresse alle autorità giudiziarie ed amministrative per avere giustizia, e sempre inutilmente; alla fine sulla tredicesima richiesta il Commessario della Prefettura signor Lubrano ordinò l'arresto dei tre birri.

 Notate, dice il signor Marc Monnier (), dal quale togliamo il fatto, «notale ch'io non ripeto quello, che leggo nei libri e nei giornali sulle crudeltà della o Polizia. Non confermo né combatto le asserzioni degli altri sulla tortura per esempio in Napoli ed in Sicilia… Dico solamente ciò che veggo, e so pertinentemente.»

Il 2 di marzo 1860 il signor Elliot scriveva a Lord Russell.

«Milord, è qualche tempo, che ho trasmesso a vostra signoria copia d'una circolare del Ministro di Polizia, ingiungente agl'Intendenti di arrestare senza esitazione le persone, contro delle quali vi fossero i più semplici motivi di sospetto.

«Il governo si è mostrato adesso risoluto a fare un passo dippiù e ieri ha fatto arrestare degli uomini, su i quali non può cadere verun sospetto di avere preso parte in una cospirazione.

«Non posso dare a vostra signoria veruna esatta informazione sul numero delle persone arrestate; si dice, che un gran numero appartiene alle classi medie ed inferiori, ma fra i miei amici e conoscenti, appartenenti alle più alte famiglie, ne conto cinque, che sono arrestati o che si nascondono, e sono il Principe di Torella, il Marchese di Bella (fratello del Principe di Torella), il Principe di Camporeale, il Duca Proto, il Marchese Vulcano.

«Il Principe di Torella ha ricevuto una lettera, invitandolo a recarsi nella Prefettura; vi è andato, non dubitando di nulla, e là gli si è detto di considerarsi in istato di arresto e di fare i suoi preparativi per lasciare il paese l'indomani mattina. Egli non fece resistenza, ma dimandò di ritornare in casa per fare i suoi preparativi e congedarsi dalla sua vecchia madre, ma questo permesso gli fu rifiutato. né potè ottenere il minimo informo circa il reato, che gli era imputato.

«Intanto l'arresto del Principe ed il convincimento, che quest'atto non era per alcun verso giustificato, produsse un sì grande effetto su tutte le classi della società, che la notte stessa fu messo in libertà, e potè rientrare in casa sua.

«Ci si è detto, che tutto questo è stato la conseguenza di un errore.

«Suo fratello, il Marchese di Bella eluse le ricerche della polizia, ma fu informato, che avesse a lasciare il paese.

«Anche il Principe Camporeale è riuscito a nascondersi, ma dopo ha ricevuto i. autorizzazione di rientrare in casa sua. Questo affare, come quello del Principe di Torcila, si dice figlio di un errore.

«Il Duca Proto ed il Marchese Vulcano sono stati arrestati, e mandati in esilio senza processo né esame.

«Del pari i due Marchesi Monte-Rosso, i signori Vacca e de'  Simone ed i due de'  Filippi sono stati mandati sommariamente in esilio. Dei due ultimi l'uno è avvocato, l'altro impiegato del governo: lutti due lasciano dietro di loro delle famiglie, che dipendono unicamente dal loro lavoro. e che restano senza fortuna in balla della carità.

«Nelle ore pomeridiane di ieri e nella notte delle pattuglie hanno percorso la città, e le truppe sono rimaste sotto le armi, ma non è avvenuta veruna specie di turbamento dell'ordine pubblico, benché il governo avesse la pruova positiva, che una particolare dimostrazione doveva seguire, e che un manifesto sedizioso era stato affisso.

«Quali si siano le pruove, che il governo riceve sul subietto dell'esistenza dei complotti e delle cospirazioni, è certo, che queste pruove non raggiungono l'evidenza, ma le denunzie degli spioni sono ricevute come cose concludenti, e gli accusati ricevono l'ordine sommario del bando senza essere né giudicati né sentiti.

«Col corriere di martedì informerò vostra signoria dei passi, che ho fatto nella speranza, sinora assai vana, d'impegnare il governo ad arrestarsi in una via. che deve finire col portare la distruzione del Re e della sua Dinastia.

«Ho l'onore ecc.

«ENRICO ELLIOT.

E l'indomani lo stesso Ministro scriveva:

«Napoli 3 marzo 1860.

«Milord, ho colpito la prima occasione, che si è offerta, per vedere il signor Carafa. e dimandargli la causa degli arresti menzionati nel mio dispaccio di ieri; gli ho domandato se il paese fosse in uno stato così solennemente critico, che fosse d'uopo di ricorrere a quest'estreme misure. dirette centra di uomini, che non possono essere seriamente sospetti di cospirazione o di tradimento.

«Il signor Carafa mi ripeté quello, che già così spesso mi aveva detto, che il governo non provava veruna specie d'inquietudine. ma che aveva ricevuto la pruova certa dell'intenzione dei partegiani dell'annessione alla Sardegna di fare una dimostrazione, che sarebbe stato mestieri di reprimere con la forza, e che per impedire appunto l'effusione del sangue si erano prese le misure preventive, alle quali io aveva fatto allusione; e S. E. mi ha dato come una pruova trionfante in favore delle misure adottate la tranquillità serbatasi nel corso della giornata.

«Gli ho detto, che se il governo aveva. com'egli asseriva, la pruova d'una cospirazione tendente a violare la legge, non poteva essere naturalmente biasimato, di avere fatto arrestare le persone implicate; e ch'io era certo non esser vero quello che si diceva cioè, che queste persone invece di essere messe pubblicamente in giudizio, onde la loro innocenza o la loro colpabilità potesse essere provata nella piena luce del giorno, fossero in vece sommariamente deportate od esiliate senza processo né giudizio.

«Però con mio grande dispiacere il signor Carafa mi rispose, tal essere la decisione del governo, perciocché sebbene il governo avesse la sufficiente pruova della loro colpabilità. l'evidenza però non era tale, che potesse produrre una condanna innanzi una Corte di Giustizia.

«Gli risposi: — In una parola avete voi risoluto di accettare come concludenti le denunzie di spie, che non osate confrontare faccia a faccia con gli accusati? — E senza nessun'apparenza di vergogna il signor Carafa ammise, tal essere lo stato della causa, aggiungendo, che ben sapeva il governo di non ottenere una sola condanna in giudizio, ma che però non aveva il menomo dubbio sulla colpabilità degli accusati.

«Gli dimandai. s'egli od alcuno potesse credere, che un uomo come il Principe di Torcila si metterebbe alla testa di una dimostrazione sediziosa nia puerile. Il signor Carafa mi rispose immediatamente, ch'egli nol credeva punto, e che l'arrestazione del Principe era stato un errore. ch'era stato prontamente riparato.

«Pregai il signor Cardi di non dire, che un uomo come il Principe di Torcila fosse stato arrestato per errore, perocché il solo errore in questo affare era stato di essersi mal contato sull'opinione, che questo arresto doveva produrre sul pubblico.

«Gli domandai, se il Principe di Camporeale, che si era nascosto, fosse una persona pericolosa; mi rispose potergli io dire, che non sarebbe stato inquietato, e che poteva ritornare a casa sua.

«Gli dissi in seguito che il Marchese di Bella era stato prevenuto, che se si presentasse, gli si darebbero dei passaporti per le frontiere, ma che però egli non osava affidarsi nelle mani della Polizia. perché l'innocenza non proteggeva più l'uomo in un paese, ove non era permesso di giustificarsi; ed il signor Carafa mi permise di recargli la promessa, che sarebbe libero di lasciare il paese.

«Adoperai tutti gli argomenti, che potei invocare per persuadere il governo ed arrestarsi nella via fatale, nella quale si era impegnato; sopratutto gli feci osservare, che nel momento, in cui l'amministrazione è senza Presidente e senza Capo, tutto l'odioso di queste misure ricaderà direttamente sullo stesso Re, e terminai dicendo, che siccome era convinto, che la perdita di S. M. e della Dinastia è inevitabile, se più saggi consigli non vengono seguiti, lo pregava di sollecitare per me l'onore di un'udienza, affinché quando la catastrofe giungerà, non abbia sulla coscienza il pensiero di non avere fatto tutto ciò, che da me dipendeva, per salvare da una imminente rovina un sovrano senza esperienza.

«Il signor Carafa mi promise di sottomettere la mia dimanda al Re, ma non ho ancora ricevuto risposta.

«I ministri di Francia e di Spagna hanno tenuto lo stesso mio linguaggio.

«Ho l'onore ecc.»

Questo dispaccio pervenne in Londra il 13 di marzo; il giorno 19, or() Russell rispondeva:

«Signore;

«Il governo approva la misura, da voi presa di domandare una udienza al Re nel fine di fare tutto quello, che da voi dipende per salvare un sovrano inesperto da una perdita imminente.

«Non è probabile, non è desiderabile neppure, che il governo delle Due Sicilie continui anche per lungo tempo a formare un evidente contrasto col governo dell'Italia del nord e del centro.

«SI che è dell'interesse del Re delle Due Sicilie di cercare di guadagnare l'affezione dei suoi sudditi, portando la sua attenzione su i mezzi di favorire il loro benessere, e rispettando i principii della legge e della giustizia nella maniera di trattare le persone sospette.

«Io sono ecc.

«G. RUSSELL.»

Dalla data di questa lettera all'insurrezione della Sicilia non intercedono più di 15 giorni; i consigli, le insistenze si continuavano indefessamente.

Del resto bisogna pur dire, che i consigli ed i suggerimenti dell'Austria e del Papa contribuivano moltissimo a raffermare il giovane Re nella politica adottata. Il Papa sollecitava un intervento delle truppe napoletane nelle Marche, ed il Re vi era molto inclinato; la più parte di coloro, che ne godevano la confidenza, preponderavano pel medesimo avviso, e parecchie volte fu detto, e poi smentito, che le truppe napoletane avessero oltrepassato le frontiere. Ma l'Austria, che naturalmente doveva allontanare qualunque specie di influenza della Francia e dell'Inghilterra nel governo di Napoli, non poteva desiderare, che questo si buttasse a capo chino in una guerra col Piemonte, e provocasse una invasione nei proprii Stati, comunque non potesse vedere neanche con soddisfazione, che il Piemonte adoprasse già in Napoli un tuono comminatorio, e si arrogasse il dritto della difesa dei popoli italiani. Una corrispondenza di Vienna del 2 di aprile ci dice, come ivi si giudicassero le cose di Napoli:

«Si è qui molto inquieti degli avvenimenti, che si preparano nelle Due Sicilie. Giusta autentiche notizie ricevute da Napoli, l'attitudine delle potenze occidentali dirimpetto al governo napoletano è assai minacciante, ed il linguaggio dei signori Brenier ed Elliot è tale da far supporre, che si vuol far sorgere ad ogni prezzo un conflitto. Il signor Villamarina si è unito ai suoi colleghi, ed ha notificato categoricamente al Re di Napoli, di doversi astenere da ogni intervento. Ora siccome i negoziati pendenti tra Roma e Napoli per un intervento delle truppe napoletane nelle Marche non sono ancora terminati, così i procedimenti della diplomazia in Napoli non sono altra cosa, che una provocazione per ispingere violentemente il governo napoletano in un conflitto. Se da una parte questo governo deve respingere con una energica protesta l'ingiustificabile ingerenza dell'Inghilterra e della Francia negli affari interni di questo paese, esso si vede dall'altra parte forzato di rispondere all'attitudine com minatoria della Sardegna con misure, che indicano non aversi paura delle minacce sarde. La prima conseguenza di questi fatti diplomatici è la imminente rottura delle relazioni tra la Corte di Napoli e quelle di Parigi, di Londra, e di Torino.»

Questa corrispondenza è evidentemente lo specchio, che riflette il pensiero del partito austriaco nella Corte di Napoli e dei suoi aderenti. Se ne scorge chiaramente l'alterigia e la intolleranza. Il principio del non intervento era stato generalmente adottato, ed a nome di questo principio l'Inghilterra, la Francia, ed anche la Sardegna insistevano presso il governo di Napoli di non intervenire nelle Marche; che cosa adunque vi era di ostile o d'ingiurioso in queste rimostranze, perché il Re di Napoli ne dovesse essere spinto ad un conflitto? Ad arte od insciente si scambiava in una minaccia la semplice richiesta di non violarsi un accordo generalmente ammesso, e sino allora esattamente eseguito.

È difficile di dire se senza l'insurrezione siciliana, che già scoppiava alla data di quella corrispondenza, il Re di Napoli non avrebbe alla pur fine ceduto alle istanze pontificie, ai consigli della fazione clericale ed assolutista, ed alle voci della sua inesperienza, del suo orgoglio, e del suo bigottismo per intervenire negli Stati del Papa a comprimere le popolazioni, e preparare per questa via lo sviluppo della rivoluzione in queste provincie meridionali. Chi sa. che provocata da quei mezzi, e da quel lato promossa, essa non sarebbe riuscita per la unità italiana più completa!

Intanto verso la metà di marzo succedeva una modificazione ministeriale; il Principe di Satriano si ritirava diffinitivamente, ed il Principe del Cassero prendeva la presidenza del Consiglio, ma Aiossa rimaneva alla polizia, il che significava, che questo ripartimento, quasi assorbente nell'amministrazione pubblica, rimaneva diretto dalle stesse massime ed affidato ai medesimi agenti. Ognuno faceva le meraviglie come il Principe di Cassero, che meritamente godeva di un'ottima opinione, potesse stare con Aiossa, che si era di tanto discreditalo. Ma Aiossa (è debito di verità il dirlo) era onesto ed anche giusto nelle materie non relative alle opinioni politiche, nelle quali il suo senso morale si smarriva assolutamente. Il Principe di Cassero il quale era per altro di grave età, e comunque dotato di rettitudine e di sani principii, non era poi un gran liberale, poteva ben trovare qualche punto di contatto con lui. Cosi cambiò la persona del Presidente del Consiglio, ma la direzione e la politica del Consiglio rimase come prima. Filangieri assicurò la sua fortuna pecuniaria ma scapitò nella riputazione, e per una controrivoluzione morale ritornò ad essere quello di prima.

Il Conte di Siracusa Leopoldo di Borbone era senza dubbio il migliore della famiglia; egli si mostrò sempre alieno delle massime di assolutismo, che furono il retaggio dei suoi congiunti, disdegnò gli omaggi dell'adulazione, e si accumulò sempre con la borghesia e specialmente con gli artisti. Egli quindi non tardò molto a vedere il vero stato delle condizioni politiche del reame, e poiché i suoi consigli verbali erano riesciti infruttuosi, pensò di dirigersi al nipote con una lettera. che rimanesse in ogni tempo ineluttabile argomento della incrollabile ostinazione di lui. Ed il giorno 3 di aprile, quel medesimo in cui cominciava il primo agitarsi del turbine, che nel suo vortice assorbir doveva la Dinastia, scrisse al Re la lettera seguente:

«Síre;

«La mia affezione per Voi, oggi augusto capo della nostra famiglia, la lunga esperienza, che ho degli uomini e delle cose, l'amore del paese mi dànno sufficientemente il dritto ne' momenti supremi, in cui ci troviamo, di deporre ai piedi del Trono dei saggi avvisi concernenti i futuri destini del Regno, avvisi, che mi sono inspirati da quel medesimo sentimento, che vi lega, o Sire, alla fortuna dei vostri popoli.

«Il principio della nazionalità italiana rimasto per tanti secoli nel campo delle idee, è oggi vigorosamente disceso in quello dell'azione. Sconoscere noi soli un tal fatto, sarebbe una folle cecità, mentre vediamo in Europa gli uni aiutarlo possentemente, altri accettarlo, ed altri ancora subirlo come una suprema necessità dei tempi.

«Il Piemonte, che per la sua posizione geografica e le sue dinastiche tradizioni tiene nelle mani la sorte delle popolazioni subalpine, nel farsi il difensore del nuovo principio, e rigettando le antiche idee municipali, si serve adesso di questo mezzo politico, e distende le sue frontiere sino alla Valle del Po. Ma questo principio nazionale, sviluppandosi, reagisce ora su tutta l'Europa, com'era d'attendersi, in favore di colui, che lo accetta, e su colui, che lo subisce.

«La Francia deve volere, che la sua opera protettrice non vada perduta, ed ella curerà d'ora innanzi d'ingrandire la sua influenza in Italia, e di non perdere per qualsivoglia prezzo il frutto del suo sangue versato, dell'oro prodigato, e dell'importanza data al Piemonte, suo vicino. Nizza e la Savoia lo dicono sufficientemente. L'Inghilterra, che accettando lo sviluppamento nazionale dell'Italia, deve nulladimeno opporsi all'influenza francese si adoprerà ad estendere anch'essa per le vie diplomatiche la sua azione sulla Penisola, ed evoca le assopite passioni dei partiti a profitto dei suoi interessi materiali e politici. Di già la Tribuna e la stampa inglese fanno sentire, che bisogna opporre alla Francia nel Mediterraneo una influenza ben più importante di quella di Nizza e di Savoia al piè delle Alpi.

«L'Austria, che la sorte della guerra ha respinto nei limiti della Venezia, sente ognora vacillare il suo mal fermo potere; e benché forse comprenda, che lo abbandono di questa provincia potrebbe soltanto restituirle la forza, che ha perduto, pure non ha il coraggio di rinunziare alla speranza di riprendere un giorno la sua dominazione in Italia. È inutile, ch'io parli a V. M dell'interesse, che le Potenze del Nord prendono in questo momento ai cambiamenti sopravvenuti nella Penisola, perciocché la creazione di un polente Stato nel cuore dell'Europa è loro più favorevole che contrario, come una garentia contro le coalizzazioni occidentali, che potessero formarsi.

«In questo conflitto d'influenze politiche qual è il vero interesse del popolo di V. M. e quello della vostra Dinastia?

«Sire, la Francia e l'Inghilterra per neutralizzarsi a vicenda finiranno con l'esercitare qui una influenza cosi vigorosa, che il riposo del paese ed i dritti del trono ne saranno fortemente scossi. L'Austria, cui manca il potere di riconquistare la sua perduta preponderanza, e che vorrebbe rendere il governo di V. M. solidale del suo, ci sarebbe anche più funesta dell'Inghilterra e della Francia, stanteché essa dovrebbe combattere l'avversione nazionale, le armate di Napoleone III e del Piemonte. e l'indifferenza britannica.

«Qual mezzo adunque rimane per salvare il paese e la dinastia minacciata da cosi gravi pericoli?

«Uno solo, la politica nazionale, che poggiandosi sui veri interessi dello Stato, porta naturalmente il regno d'Italia meridionale ad allearsi a quello dell'Italia superiore, movimento, che l'Europa noni può impedire comeché si farebbe tra due parti di un medesimo paese, egualmente libere ed indipendenti l'una dall'altra. Solamente cosi V. M. affrancandosi da ogni straniera pressione, potrà, unito politicamente al Piemonte, essere il generoso moderatore dello sviluppamento di quelle civili istituzioni, che il restauratore della nostra monarchia ci dava, allorquando liberato il regno dal vassallaggio dell'Austria, fondava su i campi di battaglia di Velletri il più potente Stato d'Italia.

«Preferiremo noi alla politica nazionale un fatale isolamento municipale?

«L'isolamento municipale ci espone non solo alla pressione straniera, ma, quello ch'è anche peggio, abbandonando il paese a discordie intestine, ne farà una facile preda pei partiti. Allora la forza sarà la legge suprema, ma il cuore di V. M. respinge certamente l'idea di contenere unicamente pel potere delle armi le passioni, che la lealtà di un giovane Principe può moderare in contrario e far volgere verso il bene pubblico, opponendo l'obblio ai rancori, porgendo una mano amica al Re dell'altra parte dell'Italia, e consolidando il trono di Carlo III sulle basi, che l'Europa incivilita possiede o dimanda.

«Che V. M. si degni di accogliere queste leali parole con tanta benevolenza quanto sincero attaccamento io pongo nel dichiararmi di nuovo.

«Napoli 3 di aprile 1860.

«Di V. M. l'affezionato Zio

«LEOPOLDO, conte di Siracusa.»

La prima impressione, che la pubblicazione di questa lettera produsse in Napoli, fu il dubbio, che non fosse apocrifa. Si conoscevano le opinioni e le tendenze del Principe, e si osservava pure, aver egli un interesse diretto a scongiurare la perdita di una Dinastia, nella quale sarebbe avvolto egli stesso, ma la pubblicazione di quella lettera quando era divenuto certo, essere stata assai male ricevuta e ritenuta come un atto di demagogia, manifestava nel conte di Siracusa una energica risoluzione di porsi pubblicamente in aperta opposizione col nipote e separarsi da tutti gl'individui della propria famiglia.



vai su










Nicola Zitara mi chiese diverse volte di cercare un testo di Samir Amin in cui is parlava di lui - l'ho sempre cercato ma non non sono mai riuscito a trovarlo in rete. Poi un giorno, per caso, mi imbattei in questo documento della https://www.persee.fr/ e mi resi conto che era sicuramente quello che mi era stato chiesto. Peccato, Nicola ne sarebbe stato molto felice. Lo passai ad alcuni amici, ora metto il link permanente sulle pagine del sito eleaml.org - Buona lettura!

Le développement inégal et la question nationale (Samir Amin)












Ai sensi della legge n.62 del 7 marzo 2001 il presente sito non costituisce testata giornalistica.
Eleaml viene aggiornato secondo la disponibilità  del materiale e del Webm@ster.