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CENNI SUL BRIGANTAGGIO

RICORDI DI UN ANTICO BERSAGLIERE

1897

ROUX FRASSATI e C° EDITORI

TORINO

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Ottobre 2018

Al Lettore,

Nel pubblicare questo piccolo mio lavoro non ho avuto altro scopo tranne quello di ricordare in qualche modo alla giovine generazione quei giorni funesti e pericolosi attraversati dall’Italia, quando ad un tempo, guerreggiando contro lo straniero e rovesciando troni, al grido dì Vittorio Emanuele Re d’Italia agognava all’unificazione della Patria.

Senza note, ho scritto ciò che è rimasto più impresso nella mia mente, per cui spero essere perdonato se dopo tanti anni fossi incorso in qualche errore di cronologia, ed avessi errato talvolta nell’apprezzare le cose accadute.

Giudichi benignamente il Lettore l’opera mia e riponga nella memoria quegli aneddoti, che per quanto interessanti ed istruttivi, la storia troppo spesso trascura.

Se questo riuscirò ad ottenere sarà largo compenso alla per me non poca fatica.

L’Autore.

I.

Dopo la morte del più grande statista dell’epoca nostra, il brigantaggio, che già infestava le provincie meridionali, fomentato e protetto da partiti avversi all’unificazione d’Italia, riprendeva maggior forza e coraggio.

Le truppe spedite colà erano insufficienti, né potevano essere aumentate, essendo l’esercito italiano in formazione e dovendo questo tener forte presidio sul Mincio e sul Po contro l’Austria.

Principi reali, uomini eminenti erano stati spediti al governo di quelle provincie, ma sempre con pochi risultati.

Le bande, spargendo il terrore nelle Calabrie, ingrossavano sempre più, ed aspettavano il generale Borgies, che, con alcuni uffiziali spagnuoli, doveva mettersi alla testa della rivolta.

Nelle terre napoletane i briganti, scorrazzando per ogni dove, commettevano impunemente ogni sorta di prepotenze e crudeltà.

La banda Cipriano la Gala, la più numerosa e la più audace, scesa a Caserta, sbaragliava pochi militi della Guardia Nazionale ed apriva le porte ai numerosi detenuti nelle carceri.

Il barone B. Ricasoli, successore del conte di Cavour, esauriti tutti i mezzi legali, proponeva al Consiglio dei Ministri o di abbandonare quelle province al loro destino o di inviare colà un Commissario Regio con poteri illimitati.

Prevalse, dopo lunga discussione, questa seconda proposta, e l’importante e difficile incarico fu affidato al generale Cialdini.

Promosso maggiore il 25 aprile 1861, presi il comando del 18° battaglione bersaglieri, di stanza a Borgo San Donnino. Provenendo questo dal già esercito Toscano, ebbi non poco da fare per ridurle simile agli altri battaglioni.

Dopo due mesi ricevetti dal Ministero della Guerra il seguente telegramma: «Si tenga pronto a partire col battaglione al «primo cenno»; e dopo tre giorni ebbi l’ordine dal Comando della Divisione di Piacenza di partire per Napoli agli ordini del generale Cialdini.

Sbarcato a Napoli, il battaglione prese quartiere ai Granili, poi a Pizzofalcone, pochi giorni dopo a Piedigrotta, quindi a Santo Spirito.

Non sapendo spiegare questi ordini di movimento continuo da una caserma all’altra, ne riferii al capo di Stato Maggiore, generale Piola-Caselli, il quale sorridendo mi rispose:

«Ha ella mai veduto delle battaglie al teatro delle marionette?... Ebbene avrà osservato che pochi combattenti figurano molti, facendoli entrare ed uscire più volte da parti diverse.

Così è del suo battaglione, che, muovendo sovente da un punto all’altro della città, può far credere alla gente che siano arrivati molti Bersaglieri di rinforzo, mentre che, come ella sa, coll’arrivo del generale Cialdini non sbarcarono che il suo battaglione e quello del maggiore Galletti (13° battaglione).

«Ora poi che ha toccato diverse parti in Napoli, ella partirà col battaglione domattina e da Cancello, per la valle Caudina, a Benevento rimetterà in ordine il telegrafo, stato interrotto dai briganti, quindi, senza curarsi d’altro, farà sollecitamente ritorno in Napoli ed occuperà Pizzofalcone.» Ciò fu fatto in pochi giorni.

Due giorni dopo ebbi l’ordine dal generale Cialdini di correre in soccorso del colonnello Lopez, che domandava rinforzo perchè gli abitanti stavano per far causa comune coi briganti, i quali avevano circondato Sora.

Autorizzato di servirmi di qualunque mezzo di trasporto, giunsi per via ferrata a Capua alle 11 antimeridiane e mi misi subito in marcia.

Eravamo nei primi giorni d’agosto. Sole ardente, calore deprimente, polverio denso in quella pianura rendevano la marcia così penosa per giovani soldati non abbastanza rotti alla fatica, che fui costretto a dare alcune ore di riposo.

Ordinato all’avanguardia di fermare vetture, carri, per caricarvi zaini e soldati i più sofferenti, al tramonto riprendemmo a marciare ed arrivammo a Teano, paese che, posto su erto colle, offriva una buona difesa contro un attacco.

I soldati, stanchi, sfiniti, si buttarono a terra e dopo poco erano immersi in profondo sonno. Intanto a poca distanza da noi s’udiva un confuso rumore di passi e di voci, ed il sindaco veniva ad avvertirmi che sullo stradale i briganti avevano sequestrato un carro d’utensili militari, scortato da pochi soldati del genio, che per miracolo erano riusciti a mettersi in salvo: volli interrogare quei soldati, che, ancora sotto l’impressione dello spavento, mi confermarono il fatto.

Impensierito dello stato in cui si trovava il battaglione, riflettendo che questo s’era anche mal nutrito, spendendo per la grande sete una parte del danaro avuto per i viveri in limonate gelate, invitai il sindaco a far portare sulla piazza pane, formaggio e vino in abbondanza, quindi ordinai ad alcuni graduati di far mangiare e bere, per amore o per forza, i soldati, e sopratutto di far bere loro molto vino, e poi cogli ufficiali entrai in un’osteria, ove avevo ordinata una cena.

Dopo un pajo d’ore tutti erano arditamente in piedi ed a suon di tromba, cantando e sfidando i briganti, il battaglione, malgrado l’oscurità della notte, marciava allegramente alla seconda tappa.

Nelle prime ore del giorno arrivammo a Mignano, ove gentilmente furono aperte le porte della villa del generale Nunziante agli uffiziali, e verso la mezzanotte partimmo per San Germano. Quivi giunti, ricevei da Gaeta l’ordine del generale Govone di sostare, poiché i briganti, avvertiti del nostro avvicinarsi, avevano sgombrato i dintorni di Sora ed avevano passata la frontiera pontificia, guardata dalle truppe francesi. In pari tempo il generale mi invitava ad esporgli un progetto per impedire questo continuo scorrazzare dei briganti dalla frontiera a Sora.

Riuniti i sindaci ed i capitani della Guardia Nazionale dei vicini villaggi, prese tutte le informazioni necessarie, persuaso che per far cessare questo stato intollerabile di cose non vi era altro mezzo che quello di traversare, per passi quasi inaccessibili, le giogaie dette le Majnarde, e di cacciarmi tra i briganti ed i francesi, proposi al generale questa operazione, faticosa e pericolosa sì, ma operazione che io mi sentivo in grado di portar a buon termine in una diecina di giorni.

Approvò il generale la mia proposta, ma grave essendo la responsabilità, ne volle prima riferire al Comando, il quale, fosse bisogno di soldati in Napoli, o fosse dubbio che ne potesse nascere qualche conflitto coi francesi, mi telegrafò di ritornare immediatamente a Napoli, ove arrivammo quando si parlava e si leggeva sui giornali che gli abitanti di Casalduni e Pontelandolfo, unitisi a 400 briganti, dopo le più crudeli sevizie, avevano infamemente massacrato una mezza compagnia e due uffiziali del 36° reggimento di linea.

II.

L’indomani, con un battaglione della Guardia Nazionale e due cannoni, eravamo di guardia al palazzo reale. Persuaso che nulla poteva accadere d’importante, alla sera mi recai all’adiacente teatro San Carlo, prevenendo il capitano più anziano che, in caso di bisogno, mi avesse fatto chiamare.

Ammiravo la splendida e grandiosa sala, i dorati palchetti guerniti di belle ed eleganti signore, e mi compiacevo di poter assistere ad un magnifico spettacolo, come se ne soleva rappresentare in questo gran teatro; la numerosa e buona orchestra cominciava ad accordare gli strumenti, quando, volgendo lo sguardo al fondo della platea, vidi un tenente del battaglione che, alzando la destra, indicava volere parlarmi.

Lasciata la poltrona, rincontrai nel vestibolo: «il generale Cialdini, mi disse, la vuole subito al Comando».

Accorsi e trovai invece il generale Piola-Caselli, che, un poco contrariato per il mio ritardo, mi ricevé con queste parole:

«Ella avrà senza dubbio udito parlare del doloroso ed infame fatto di Casalduni e Pontelandolfo; orbene, il generale Cialdini non ordina, ma desidera che di quei due paesi non rimanga più pietra sopra pietra.

«Avverta che a Maddaloni vi è un partito che s’agita per insorgere, che a San Lupo il comandante la Guardia Nazionale, essendo proprietario di cave nei dintorni ed impresario di un ponte, ha molto interesse a mantenere l’ordine in quei luoghi; ella potrà avere informazioni dal medesimo, però non se ne fidi di troppo.

«Ella è autorizzata a ricorrere a qualunque mezzo, e non dimentichi che il generale desidera che siano vendicati quei poveri soldati, infliggendo la più severa punizione a quei due paesi. Ha ella ben capito?...».

«Generale, risposi io, so benissimo come si devono interpretare i desiderii del generale Cialdini: ho fatto la campagna della Crimea e quella del 1859 sotto i suoi ordini, e so per prova come egli sia uso a comandare e ad essere ubbidito»; ciò detto m’accomiatai e ritornai al teatro, ove potei ancora godere di due atti degli Ugonotti e del grande ballo I Bianchi e i Neri.

Il battaglione non essendo stato rilevato che l’indomani nel pomeriggio, non potei arrivare a Maddaloni che a notte inoltrata.

Informato dal Sindaco e dal comandante la Guardia Nazionale che il partito sovversivo era incapace ad agire alle nostre spalle, mi misi in marcia per Solopaca.

Sul far del giorno il tenente d’avanguardia mi riferiva aver fermata una vettura con persone molto sospette; avvicinatomi a questa e sceso da cavallo, scorsi nell’interno due donne ed a loro dirimpetto un popolano ed un borghese con distintivi di capitano sul berretto, con un pugnale alla cintura ed un fucile fra le gambe. Appena questo mi vide, furibondo scese dalla vettura e mi rivolse queste parole: «Maggiore, io sono capitano della Guardia Nazionale; arrestate quel furfante, quell’assassino, indicando il popolano; egli porta manifesti a stampa ai compagni di Maddaloni per eccitarli alla rivoluzione.» Quindi rivolto a lui, che a bocca aperta, ad occhi stralunati dalla sorpresa, non poteva profferire parola, agitato gli disse: «Ali!... brigante... assassino!... tu mi hai fatto soffrire pene d’inferno... Ebbene sappilo: io mi sono finto borbonico per sapere da te chi eri, cosa facevi, dove andavi; ma oramai per te è finita... Maggiore, colui è un brigante, una spia; fucilatelo, fucilatelo, altrimenti l’uccido io...»

«Calmatevi, dissi allora, e datemi qualche prova di quanto asserite.» Ed egli pronto: «Le prove sono sull’imperiale della vettura: dentro due ceste, sotto stoffe e nastri, vi troverete i manifesti e 70 piastre» ().

Intimato al popolano di scendere, con lui scendevano le due donne, spaventate, piangenti. Frugati i loro abiti e le ceste, si trovarono infatti le piastre ed i manifesti, in cui, in nome del loro legittimo Sovrano, si eccitavano i popoli di Terra di Lavoro alla rivolta contro gli abborriti Piemontesi!!

(Per il partito borbonico l’Esercito Italiano continuò per molto tempo ad essere Piemontese.) Pensai allora di trarre partito dalla triste condizione in cui si trovavano le donne ed il brigante, per discoprire i loro complici. Imposi loro di palesare coloro cui dovevano essere consegnati gli stampati e le piastre; ma il brigante, tremante, inebetito, persisteva nel silenzio, e le donne, urlando e smaniando a miei piedi, giuravano che il danaro era frutto di mercanzie vendute e che gli stampati erano stati loro consegnati da persona sconosciuta, senza che ne conoscessero il significato, giacché nessun di loro sapeva leggere.

«Insomma, finiamola, dissi; per l’ultima volta, o egli parla o lo faccio fucilare.»

Le intimazioni, le minaccie riuscendo inutili, irritavano maggiormente il capitano, che soggiungeva:

«Maggiore, le mie due canne sono cariche a palla: io che ho scoperto questo brigante, questo assassino, io lo ucciderò»; e spianato il fucile, avrebbe fatto fuoco, se col braccio non l’avessi obbligato a rialzarlo con queste parole: «No, egli deve essere fucilato in tutta regola»; e chiamati a me due bersaglieri ed un caporale, ordinai ad alta voce di bendargli gli occhi e, dopo l’atto di contrizione, di far fuoco...

A questo punto, piegate le ginocchia, cadde a terra livido dallo spavento, e portando la destra alle labbra convulse, indicava che non poteva parlare; le donne, disperate, supplicavano, scongiuravano per la Madonna della Carmela di sospendere, poiché, cessato lo stato spasmodico in cui si trovava, esse l’avrebbero costretto a confessare tutta la verità.

Stanco oramai di questa lunga ed angosciosa scena, consegnai quel miserabile al vetturino ed al capitano, con ordine di condurlo all’Autorità giudiziaria di Maddaloni e di far fuoco qualora avesse tentato di fuggire.

Proseguimmo quindi la marcia, e di buon mattino giungemmo a Solopaca.

Verso sera riprendemmo a marciare per Guardia; strada facendo, i fuggitivi che venivano arrestati ci consigliavano a non avventurarci più oltre, giacché i briganti e gli insorti erano molti, erano tanti assai, ed avevano cannoni, bombe ed avamposti. (A questi sopratutto davano la maggior importanza: chi sa che cosa mai intendessero essi per avamposti!...)

Soggiungevano che noi, essendo ben pochi (il battaglione non contava più di 250 uomini), nelle vicinanze di Casalduni, saremmo stati massacrati tutti, come erano stati massacrati i nostri compagni.

Giunti a Guardia, ci venivano ripetute queste ed altre voci allarmanti, che su noi facevano poca impressione, poiché conoscevamo già quanto facili alle esagerazioni fossero gli abitanti di quei paesi, sia per paura, sia per proposito d’ingannarci per favorire i briganti.

L’indomani ordinai la partenza in modo da arrivare nel maggior silenzio possibile verso le 2 dopo la mezzanotte, a San Lupo, villaggio vicino a Casalduni; quivi giunti, feci svegliare il comandante la Guardia Nazionale, che, fattosi poco dopo alla finestra, m’invitava a salire le scale, e venutomi incontro nientemeno che con i distintivi di colonnello sul berretto, passando per un elegante salone, m’introduceva nel suo studio, ove sopra una lunga tavola era spiegata una carta geografica.

Anch’egli agitato parlava d’avamposti, di bombe e di cannoni, e voleva spiegarmi un piano d’attacco che aveva preparato.

«Colonnello, l’interruppi allora, niente di tutto questo: so io quel che devo fare; di quanti uomini potete voi disporre? In quanto tempo potete voi riunirli?» «Ecco, mi rispose, in meno d’un’ora io posso riunire quasi 200 armati.» «Bene, soggiunsi, mettiamo che siano 60, voi ordinerete loro di occupare questo promontorio, appuntando l’indice sulla carta, quivi, a tempo debito, riceveranno i miei ordini. Il tempo stringe e voglio, prima d’avanzare il battaglione, verificare la posizione occupata dai nostri nemici. Volete voi venire con me?...»

«No, mi ripeté, io mi metterò alla testa dei miei militi ed aspetterò i vostri ordini.»

«Sta bene ed a rivederci.»

Spuntava appena il giorno che il battaglione si trovava schierato di fronte a Casalduni. Immantinenti ordinai di circondare il paese, posto in basso, e di aprire il fuoco di fila fino al mio segnale di cessat-il-fuoc; quindi d’entrare, bajonetta in canna, di corsa, compagnia per compagnia per i diversi sbocchi, onde concentrarsi sulla piazza del paese vicino alla chiesa.

Le campane suonavano tristemente a stormo, pochi colpi di fucile partivano dai campanili e dai terrazzi. Dato il segnale di cessat-il-fuoc e di carica alla bajonetta, le quattro compagnie irrompevano nel paese senza incontrar resistenza alcuna.

Fui sorpreso di trovare le vie deserte ed un silenzio sepolcrale nelle case.

I briganti e gli abitanti, avvertiti dell’avvicinarsi dei bersaglieri, sperano rifugiati sulla cresta d’un monte distante qualche chilometro dal paese. Ordinai allora ad una compagnia di prender posizione di fronte a quel monte, che brulicava di gente, e di far fuoco appena qualcuno avesse accennato di scendere verso noi; in pari tempo mandai avviso al colonnello d'entrare in paese con i suoi militi, che poi, ben contati, non erano più di 40.

Era giunto finalmente il momento di vendicare i nostri compagni d'armi, era giunto oramai il momento del tremendo castigo.

Chiamati a me gli uffiziali delle tre compagnie che si trovavano riunite sulla piazza, ove s’ergeva anche la casa del sindaco, ordinai loro di far atterrare le porte e di appiccare il fuoco alle case, a. cominciare da quella del sindaco,

In breve dense nubi di fumo s’elevavano al cielo e l’incendio divampava in diverse parti del paese.

Nella casa del Sindaco già le fiamme, irrompendo dai vani del pian terreno, a guisa di serpenti s’allungavano ed invadevano il piano superiore. Alcuni bersaglieri, udendo strepiti e nitriti, entrati nella scuderia ne tiravano fuori due cavalli furiosi dallo spavento; altri, saliti al primo piano, buttavano giù dalle finestre bandiere borboniche, uniformi, razioni di pane, anni, e fra queste i fucili con le cinghie bianche insanguinate appartenenti ai poveri soldati sopraffatti a tradimento e trucidati barbaramente.

A tal vista sentii affluirmi il sangue alla testa dalla collera, e mi parve tenue il castigo inflitto a quella turba crudelmente sanguinaria; tuttavia, essendo dopo poco venuto a me il colonnello ed avendomi fatto osservare pietosamente che non tutti erano colpevoli, che in paese vi era pure qualche buon italiano, lo invitai a mettere un milite dei suoi in fazione a quelle abitazioni che dovevano essere risparmiate dai bersaglieri, ai quali avrei dato ordini in proposito.

L’incendio continuava l’opera sua di distruzione e da una casa si propagava facilmente all’altra, quando il capitano della 3a compagnia mi presentò un vecchio simpatico in volto, civilmente vestito, che, scovato dai bersaglieri in casa sua con due vecchie donne, aveva pregato, insistito per parlare col Maggiore.

Lo ricevei in sulle prime bruscamente, quindi gli ingiunsi di parlare; allora egli, pallido, tremante, cominciò così: «Maggiore, il castigo che voi infliggete a questo disgraziato paese è meritato, è giusto; ma permettete che io vi dica che non tutti noi siamo responsabili del fatto esecrando, e per provarvi la verità di quanto io vi dico, è necessario che voi sappiate come il Sindaco ed il parroco, avversi all1 unità d'Italia e partigiani del Governo borbonico, abbiano coltivato e fomentato sempre negli abitanti lo spirito di ribellione contro il Governo Piemontese (?). Per quanto io mi adoperassi per distoglierli dai loro ambiziosi ed insensati progetti, per quanto li consigliassi a rispettare la volontà della Nazione, essi non solo non mi davano ascolto, ma mi trattavano anche malamente qual vecchio rimbambito.

«Ai miei compaesani si dava ad intendere che presto il Ile di Napoli, alla testa di 30.000 uomini, sarebbe sceso da Roma per conquistare il suo regno.

«Più di 400 briganti invasero il nostro territorio, e furono i benvenuti in Casalduni e Pontelandolfo.

«Il distaccamento, composto solo di 45 soldati e due ufficiali, doveva fatalmente subire le conseguenze d'una ribellione.

«Raccapriccio al solo pensiero di quel giorno nefando, per cui m’astengo dal parlarne...»

«No, dissi io, voglio conoscere il fatto in tutti i suoi dettagli:, continuate...»

«Voi lo volete, riprese, ebbene io vi ubbidirò; ma notate che, non essendo io presente alla rivolta, potrei incorrere in qualche inesattezza, ciò che però non credo, giacche in paese non si parlava d’altro e l’udii raccontare più d’una volta.

«I due uffiziali, vista l’impossibilità di mantenere l’ordine e di resistere all’imminente sommossa, avevano, la sera del 10 (agosto), d’accordo, stabilito di partire l’indomani all’alba per prendere una posizione più elevata tra Casalduni e Pontelandolfo, ove avrebbero potuto opporre una maggior resistenza.

«Le precauzioni prese per tenere segreta la partenza non bastarono: la si venne a sapere in paese e ne fu avvertito Pontelandolfo; allora dai due partiti si combinò le cose in modo che, giunto il distaccamento a metà cammino, i briganti e gli insorti di Casalduni l’avessero assalito alle spalle, mentre quelli di Pontelandolfo gli sarebbero piombati addosso di fronte.

«Così sventuratamente avvenne. I soldati, circondati da migliaia di forsennati, opposero bensì una disperata difesa, ma sopraffatti, sfiniti, caddero in mano d’una turba selvaggia e sanguinaria, che, non sazia di trucidarli, commetteva su di loro, fra i più atroci tormenti, le più oscene sevizie. I due ufficiali, legati nudi agli alberi, costretti prima ad assistere all’eccidio dei loro soldati, venivano poi torturati in tutti i modi: le donne, furibonde, conficcavano loro ferri negli occhi, e tutte le membra del corpo erano barbaramente flagellate e mozzate ().

«Ad un sergente solo fu risparmiata la vita dai briganti, imponendogli il giuramento che egli avrebbe combattuto con loro per la santa causa, e quest’infelice deve ora trovarsi chiuso nella torre di Pontelandolfo.

«Imbaldanzito il partito borbonico del trionfo proclamò il Governo provvisorio issando la bandiera borbonica.

«Ed ora che siete informato di tutto fatemi fucilare, siete nei vostri diritti, ho più di 80 anni, morire un anno prima, morire un anno dopo non è grande sventura, ma vi prego, vi scongiuro in nome di Dio, in nome di quanto avete di più caro al mondo, perdonate alle mie due sorelle, salvatele, esse sono innocenti, ve lo giura questo povero vecchio, che con un piede nella fossa non può mentire».

A questo punto commosso l’interrogai così: «Credete voi che basti il castigo inflitto ai Casaldunesi? Come voi vedete vi sono ancora non pochi fabbricati intatti, solo pochi individui, che dopo aver fatto fuoco contro noi tentavano fuggire, furono colpiti a morte dai bersaglieri; gli insorti che hanno assistito da lontano all’incendio, appena noi saremo partiti, ritorneranno senza dubbio in paese, credete voi che possano commettere ancora qualche disordine?

«No, mi rispose, ne sono sicuro. Il Sindaco, il parroco ed altri più compromessi informati del vostro arrivo fuggirono di nottetempo, ed a quest’ora essi sono a Roma a far valere i loro meriti, Quando i miei compaesani ritorneranno, sono persuaso che saranno ben pentiti di quello che hanno fatto, e se voi mi fate grazia della vita, essi ascolteranno, ne sono certo, la mia voce, ed i miei consigli.»

Chiamati a me due militi, dissi allora al povero vecchio: «ritornate presso le vostre sorelle, di guardia alla vostra casa mettete questi due individui, e state tranquillo che non correrete più pericolo alcuno. «Fu tale l’emozione da lui provata a queste mie parole, che non potè profferire motto per ringraziarmi, s’inchinò colle lagrime agli occhi in atto di baciarmi la mano, lo rialzai e lo mandai con Dio.

Era tempo di agire su Pontelandolfo.

Dato il segnale della raccolta disponevo il battaglione a muovere a quella volta, quando vidi col binoccolo due Compagnie di bersaglieri ed altra truppa comandate da un ufficiale a cavallo schierarsi sulle alture sovrastanti al paese. Mi premeva conoscere quale incarico avessero queste ricevuto; offrii il mio cavallo al tenente Mancini, che partì, revolver alla mano, di carriera; di ritorno mi riferì, che il colonnello Negri comandante quella truppa aveva dal gran Comando ricevuto l’ordine di fare su Pontelandolfo quanto io avrei fatto su Casalduni. Pensai allora, che probabilmente il generale Cialdini giudicando che la forza d’un battaglione era scarsa per affrontare e sottomettere i due paesi, aveva disposto per l’invio di quella colonna mobile sul luogo d’azione.

Presi perciò posizione in modo da poter, in caso di bisogno, accorrere di rinforzo al colonnello, e poco dopo colonne di fumo annunziavano che anche per Pontelandolfo era cominciato il meritato castigo, nel mentre che alcuni bersaglieri accorsi alle grida che partivano dalla torre avevano liberato il povero sergente.

Compiuta oramai la mia missione, date le volute disposizioni per ritornare e pernottare a San Lupo salii in carrozza col colonnello della Guardia Nazionale che strada facendo invitò me e gli uffiziali a pranzo in casa sua.

Durante il desinare, signorilmente servito, si parlò allegramente di tutto un poco, alla frutta il colonnello portò un brindisi ai bersaglieri ed all’Esercito; risposi ringraziando e proponendo un brindisi al Re d’Italia, alla Guardia Nazionale e specialmente alle Legioni di Napoli, che prestando buon servizio sapevano mantenere l’ordine nella città.

Caduto quindi il discorso su Casalduni, rivolto al colonnello ad alta voce gli dissi: «Sapete voi, che cosa dovreste fare?... Far attaccare i cavalli alla vostra carrozza, salirvi con quattro bersaglieri, recarvi a Casalduni, fare un giro per le vie, e così imporre moralmente la vostra autorità a quelli abitanti, son persuaso che sareste ricevuto con tutti i riguardi dovuti alla vostra condizione, al vostro grado.» Mi guardò stupefatto e rispose: «Maggiore, voi scherzate?...». «No..., parlo sul serio, voi non avete nulla da temere, poiché sapendo essi, che i bersaglieri sono ancora vicini, non oserebbero certamente farvi qualche sfregio.» Allora egli più che mai mortificato ripeté:» Sarà benissimo come voi dite, ma nessuno in paese avrebbe il coraggio di accettare la vostra proposta.»

Ma dunque, alquanto alterato soggiunsi io, dunque non reagirete mai contro un’accozzaglia di malfattori, che approfittando della vostra vigliaccheria, e spargendo il terrore per le vostre contrade, come ai tempi del cardinale Ruffo, faranno atroce scempio delle vostre famiglie è s’impadroniranno delle vostre proprietà?...»

«Sarà come piace a voi, riprese egli, noi saremo tanti vigliacchi, ma io per tutto l’oro del mondo non andrei a Casalduni.»

«Sia pure, dissi, fate attaccare e vi farò vedere quanto immaginari siano i vostri timori.»

Fatto venire un caporale svelto in presenza di tutti gli parlai così: «bevete questo bicchiere di vino alla salute del colonnello, salite con la vostra quadriglia nella carrozza che troverete giù nel portone, andate a Casalduni, fate un giro per le vie a piedi, osservate cosa fanno gli abitanti, e venite a farmene rapporto, andate, noi vi aspettiamo qui.»

Prima di notte il caporale era di ritorno e riferiva, che gli abitanti scesi in parte in paese erano intenti a spegnere l’incendio, che quelli che aveva incontrati per le vie, e sulle botteghe al suo passaggio, s'inchinavano e salutavano rispettosamente, e che risalito in carrozza trovò sparse su per i cuscini molte carte, che mi consegnò. Queste in forma di suppliche erano più o meno dello stesso tenore. Si domandava perdono, si inginocchiava ai piedi di Vittorio Emanuele, si giurava per l'avvenire fedeltà ed ubbidienza al Re d'Italia. Riconobbi da queste espressioni la parola e l'influenza del povero vecchio scampato per avventura dalla morte.

AI colonnello, che stupefatto aveva ascoltato il rapporto del caporale e la lettura delle suppliche, domandai allora, se dubitava ancora che io avessi avuto ragione, e se era egli sempre dello stesso parere; ma egli stringendosi nelle spalle non pronunziò parola. Tentai allora di rimuoverlo dalla sua convinzione con altri ragionamenti, e gli domandai se conosceva la storia dei briganti ai tempi del cardinale Fabrizio Ruffo, e visto che questa mia domanda aveva destata in lui e negli uffiziali una certa curiosità, cominciai così:

«Nel 1799 (se non erro) il reame di Ferdinando si era sollevato, ed alcune provincie avevano proclamato la Repubblica. Il cardinale Ruffo sguainata la spada si era messo alla testa dei realisti e percorrendo le Calabrie 'metteva a ferro e fuoco quanto poteva contrastare ai suoi disegni. Intimata la resa alla città di Altamura, gli fu risposto dagli abitanti che preferivano morire piuttosto che cadere nelle sue mani. La città fu sterminata, ed i difensori, dopo i più crudeli tormenti, dopo orribili oltraggi alla pudicizia, dopo lo scherno e le risa dei disumani che applaudivano a tanto orribile supplizio, furono tutti messi a morte al cospetto del cardinale.

«Ora sapete voi chi era accorso a rinforzare l'esercito del cardinale?

«Le bande dei briganti, comandate da certi Proni, Sciarpa, Fra Diavolo, De Cesari e Mammone.

«Sapete voi che cosa facessero costoro?...

«Ascoltate la storia d'orrore del più feroce fra questi capi briganti, quella di Mammone.

«Era costui un mugnaio; fattosi capo del moto di Sora, uccise con palle soldatesche più di cento prigionieri di guerra, saccheggiò, incendiò lui solo terra e castelli più che tutti i capi insieme della sollevazione. Le più orribili carceri rinchiudevano le sue vittime, inventava tormenti e supplizi nuovi, per avvezzarsi al sangue beveva il proprio che usciva dal salasso, si cibava al cospetto di teschi sanguinolenti, beveva in un cranio, si dilettava ai lamenti d'uomini torturati, e la libidine di sangue di questa belva feroce non era mai sazia.

«Tali erano i compagni, che aiutarono il cardinale Buffo a riporre sul trono in nome di Dio il suo Re.

«Ora sapete voi come furono dal governo rimunerati i loro segnalati servizi?... Colle ricchezze e le proprietà delle loro vittime. Che ne dite colonnello?»

«Sì, mi rispose sorridente, tutto ciò sarà verissimo, ma in quei tempi non vi erano ancora i bersaglieri.» Ci congedammo più tardi da lui con ringraziamenti e strette di mano, e prima che spuntasse il giorno eravamo già in marcia per Napoli.

III.

Per le disposizioni energiche date dopo il famoso proclama del generale Cialdini: Quando il Vesuvio rugge Portici () tremi, per lo zelo spiegato dalla Guardia Nazionale nel concorrere colla truppa a tenere in soggezione i lazzaroni ed i partiti sovversivi in Napoli, potè in allora il gran Comando ordinare di tempo in tempo rassegne e sfilamenti di parata tanto graditi dalla cittadinanza, per cui più d’una volta toccò al battaglione intervenire ad una di queste mostre e partire subito dopo per dar la caccia ai briganti che scorrazzavano sui vicini monti della valle Caudina.

Era rimarchevole come gente di tutti i ceti si affollasse alle parate militari, e come entusiasta assistesse allo sfilare delle schiere, specialmente dei bersaglieri, che appena spuntavano al passo di corsa erano salutati con sventolar di fazzoletti, con cappelli in alto, e con fragorosi battimani. Vi era pure gran concorso sulla piazza del Plebiscito, avanti il palazzo della Foresteria, quando la musica militare suonava durante i pranzi d'invito dati dal Generale, ed allorché egli compariva sul balcone fra gli invitati era sempre ricevuto con calorosi applausi. Invitato più volte osservai che piaceva a Lui di mostrarsi fra due o tre Maggiori dei bersaglieri, quasi volesse far capire alla popolazione, che aveva sempre alla mano buon nerbo di questi soldati scelti per reprimere qualunque disordine in città.

Ammirabile fu poi la sera che Egli intervenne per la prima volta al teatro San Carlo. La platea era al completo, i palchettierano tutti occupati da numerose signore in splendida toeletta.

Appena comparve in un palchetto della Corte, tutti si rizzarono in piedi ed agitando i fazzoletti e battendo le mani, tutti con grande entusiasmo salutarono in Lui il Luogotenente-Generale del Re, ed il Comandante le truppe.

Queste spontanee ed imponenti dimostrazioni affidavano il Governo, che oramai la grande maggioranza dei Napolitani desiderava l’ordine ed il trionfo della causa italiana.

IV.

Mentre che il terribile generale Ferdinando Pinelli, percorrendo gli Abruzzi, vi reprimeva il brigantaggio, e schiacciava le turbe d’insorti, mentre Civitella del Tronto, rocca di rifugio a soldati borbonici, e ad avanzi di rivoltosi, si arrendeva alla truppa che l’aveva stretta d’assedio, mentre che il partito borbonico, arrestati e fucilati i capi della ribellione, non s’attentava più d’insorgere, bande di briganti ingrossavano ed infierivano sempre più nelle provincie del Molise, della Capitanata e della Basilicata.

Quella di Terra di Lavoro che all’avere facili comunicazioni con Napoli riuniva il vantaggio di essere fiancheggiata da lunga e doppia catena di monti, i quali avvicinavano alla frontiera pontificia, fu dai comitati dirigenti le mosse dei briganti preferibilmente scelta a teatro d'aggressioni, rapine, incendi, ricatti, omicidi.

Fra le diverse bande segnalate in quella provincia, quella comandata da Cipriano La Gala era la meglio ordinata, la più numerosa e la più temuta.

Giona, fratello del La Gala, alcuni parenti per nome Papa, ed un ex-furiere del già esercito borbonico formavano una specie di Stato Maggiore.

Giona feroce, crudele, era specialmente incaricato della disciplina, che manteneva barbaramente salda nei suoi dipendenti, punendone le infrazioni con colpi di verga sulle spalle nude, tanti da far sangue e da distaccarne brandelli di pelle; l’ex-furiere fungeva da segretario.

La forza numerica di questa banda si faceva ascendere talora a 300 uomini, a questi s’erano uniti una quarantina di soldati sbandati del disciolto esercito Napolitano, bene armati, che il Cipriano chiamava i suoi cacciatori volontari. Da lui dipendevano le bande secondarie, che in caso di bisogno dovevano rinforzare la banda principale, così, che fu visto più volte alla testa di 400 o 500 briganti scendere dai monti su casolari e villaggi, e ricattando alcuni abitanti i più agiati, imporre tributi di grosse somme.

Le poche truppe frazionate lungo la valle Caudina a stento potevano difendere i paesi dalle invasioni, e non sempre riuscivano a proteggere i veicoli e le vetture postali dalle aggressioni nel tratto dello stradale che da Cancello volge a Benevento.

Movevano bensì quelle truppe di quando in quando per i monti all'incontro dei briganti, ma questi, evitavano quasi sempre gii scontri, essendo loro tattica di farsi inseguire per monti e valli a voluta distanza onde stancare e scoraggiare i soldati.

Le loro vedette dai punti elevati potevano scorgere tutti i movimenti che si facevano in basso, inoltre le spie, ed i numerosi manutengoli, che essi avevano acquisito non solo nella plebaglia, ma anche nei benestanti, rendevano inutili le precauzioni per i movimenti di sorpresa, mentre che i comandanti di distaccamenti non potevano far assegnamento alcuno sulle autorità locali, giacché quando non parteggiavano per il Borbone, adempivano fiaccamente alle loro attribuzioni.

Preoccupato il generale Cialdini di sì deplorevole stato di cose, pensò di richiamare dagli Abruzzi il generale Pinelli per affidargli il comando delle forze che occupavano Terra di Lavoro, ed intanto di valersi del mio battaglione per battere i monti della valle Caudina.

Chi partendo da Arienzo (dai Latini detto Caudinum) prende per lo stradale che per Montesarchio volge a Benevento, dopo pochi chilometri alla sinistra arriva ad un piccolo colle che, tagliato a metà quasi ad arco, forma uno stretto, in questo stretto i Romani vinti dai Sanniti furono obbligati a passare sotto il giogo, per cui ne va sempre celebre nella storia il nome delle Forche Caudine. Quasi dirimpetto, a destra dello stradale, trovasi il paesello di Borchia; proseguendo e passato un piccolo ponte si entra in Arpaja d’onde si apre il largo piano della valle Caudina. A poca distanza da Arpaja si giunge ad un trivio; prendendo a sinistra si va per Airola a Santa Agata de’ Goti dalle cui alture scesi i Romani sconfissero alla loro volta i Sanniti nei terreni caudiniani. Tenendo la linea retta del trivio, dopo alcuni chilometri si vede di fronte Montesarchio; volgendo invece a destra e descrivendo una piccola curva divergente, si trovano distanti pochi chilometri uno dall’altro alle falde degli Appennini i paeselli di Paolise, Rotondi e la città di Cervinara, e poi vicino allo sboccò della valle il villaggio di San Martino, da cui si apre una strada, che porta anche a Montesarchio. A sinistra di chi entra in questo paese, per il grande stradale s'eleva all’altezza di metri 1400 circa il monte laburno, che si estende al sud declinando fino a Valle Oscura nelle terre di Cerreto Sannito.

Questo monte, fitto d'alberi e di cespugli, era riservato per le caccie Reali, e sul piano che si trova alla sua sommità si vede ancora qualche casotto die serviva di ricovero ai guardacaccia. Alle falde e più verso Montesarchio, sparsi qua e là, si trovano non pochi tuguri e casupole i di cui abitanti, minacciati sovente d'incendio e di morte, dovevano necessariamente parteggiare per i briganti.

Informato che la banda di Cipriano era stata veduta sul monte laburno, partimmo di notte tempo da Arienzo per Montesarchio. Ai primi albori, fiancheggiati a destra e sinistra dalla la Compagnia, con la 2a e 3a Compagnia in ordine sparso a forma ili semicerchio e la 4n di riserva cominciammo a salire il monte. Sì marciava, si saliva sempre e da due ore non s’incontrava anima viva, ogni passo coperto, ogni antro era ben visitato, ma niente, sempre niente. Arrivammo all’altipiano, nessun indizio, nessuna speranza di veder briganti. Dopo breve riposo ordinai ai trombettieri di dare il segnale della raccolta, che risuonando nelle selve si ripercosse tutt’all’intorno nella valle.

Disposto il battaglione in ritirata cominciammo a discendere, e quando eravamo per toccare le falde incontrammo alcuni contadini, in volto più rinfrancati, i quali ci informavano che i briganti nella notte precedente avevano preso per i monti di Cervinara.

Fummo bene accolti dagli abitanti di Montesarchio, ed io alloggiato in casa del sig. Dei-Balzo; ricordo ancora le tante gentilezze ricevute in questa ed in altre circostanze simili da tutta la sua famiglia. Alla sera, per tener possibilmente segreto il movimento che intendevo fare, diedi le disposizioni necessarie ai capitani fissando la partenza per le 2 dopo mezzanotte.

Giunti a San Martino lasciai la 4'1 Compagnia che dopo una data ora doveva per erti e difficili sentieri salire i monti sovrastanti, quindi mi avviai per Cervinara da dove spinsi avanti la la Compagnia per Rotondi.

All’ora stabilita le quattro Compagnie cominciarono la salita, e dopo faticoso cammino raggiungevano le sommità dei monti e convergevano al monte Major punto di concentramento.

Dopo un’ora di riposo riprendemmo a discendere i versanti settentrionali per salire i monti che ci si paravano davanti, ma superati questi, altri, e poi altri ancora comparivano avanti a noi.

Da Quest’altezza potei comprendere come fra quelle giogaie fosse facile ai briganti, signoreggiando in quei luoghi, sfuggire agli scontri ed agli inseguimenti della truppa.

Oramai non rimaneva altro a fare che ritornare ad Arienzo per essere, secondo gli ordini ricevuti, il giorno seguente a Napoli.

Lo stesso giorno del nostro arrivo nel far rapporto al Capo di Stato Maggiore delle operazioni eseguite dal battaglione, non esitai ad esternare il mio parere circa la poca utilità dell’impiego delle truppe in colonna mobile per inseguire briganti, che trovavano essere loro tornaconto fuggire sempre avanti di noi, e solo cimentarsi quando erano sicuri di poter circondare e soverchiare con forze preponderanti qualche reparto di soldati isolati.

Ne convenne il Generale, ma si affrettò a dirmi che per ora era impossibile fare altrimenti, che sperava però di poter quanto prima fissare una zona di operazione al battaglione.

V.

Due giorni dopo ricevetti l’ordine del generale Cialdini di partire per Benevento ove il Prefetto reclamava rinforzi perchè le bande a cavallo di, Caruso e di Schiavone, dopo aver terrorizzato nella provincia, minacciavano anche la città, tempo a me otto giorni per far ritorno a Napoli.

A tal effetto, giunti con treno speciale a Cancello, nello stesso giorno eravamo a Montesarchio d’onde ripartimmo nella notte per Benevento.

Già ci avvicinavamo alla città, ma come fitto velo, la nebbia la celava ai nostri sguardi finché a poco a poco squarciata dai primi raggi del sole potemmo scorgere le brune torri del castello, e l’antica città, che dalla sua altezza superbamente domina le ghiaiose pianure del Sabbato già bagnate da tanto sangue francese, tedesco, italiano, ed ove trovò morte nel 1265 Manfredi sconfitto da Carlo d’Angiò.

Sotto l’impressione di questi ricordi entrai in Benevento ed incontrando abitanti invasi da timor panico, il mio pensiero correva a quei tempi in cui quelle vie erano percorse da valorosi anelanti alla pugna, da eroi, che affrontavano la morte per l’onore della bandiera, per l’amore della gloria, ed ora erano percorse da gente infingarda, e sgomentata per la vicinanza di una masnada dì malfattori, i quali attingevano la loro forza e la loro superiorità solo dal timore delle rapine, degli incendi, e degli omicidi... Quale contrasto fra i tempi remoti ed i tempi presenti!!...

Deposte le armi in castello mi recai dal Prefetto, buon patriota calabrese, che malgrado fosse affetto da oftalmia spiegava energia non comune nelle sue funzioni e ne ebbi le informazioni seguenti.

Numerosi preti, frati e monache legavano molte famiglie al passato regime della Chiesa, per cui il partito retrivo era in grande maggioranza nella città. Pochi militi della Guardia Nazionale appartenevano al partito liberale, non si poteva dunque contare su questa per mantenere l’ordine. Il presidio era insufficiente per agire efficacemente contro i briganti, il numero dei quali era incerto, facendolo ascendere taluni a 200, altri a 300 cavalli. Molti erano i manutengoli nella campagna, non tanto per le loro tendenze al mal fare, quanto pel timore di essere puniti di morte e d’incendio dai briganti. Mancavano informatori segreti poiché due di questi essendo stati uccisi, più nessuno osava fare questo servizio. I briganti qualche giorno prima erano stati veduti in buon numero sfilare a poca distanza dalle mura, ed alle voci che correvano in paese questi dovevano ora aggirarsi verso Paduli a pochi chilometri dalla città.

All’albeggiare del domani sortimmo da Benevento e varcato il Calore ci trovammo in un terreno ondulato che di tratto in tratto rialzandosi offriva ricchi vigneti e fertili colline, il tutto solcato da sentieri che davano facile passo a piccoli casolari» sparsi qua e là.

Marciavano da due ore le Compagnie, tre in lunga catena, una in riserva, quando da una collina a noi di fronte, distante poco più d’un chilometro, vedemmo spuntar fuori una lunga fila di briganti che salivano per guadagnarne la vetta.

Serrate le file accelerammo il passo, ma essi s’erano di già allontanati di molto da noi.

Giunti ad una grossa cascina sostammo; quivi, energicamente minacciando i contadini, venni a sapere, che il giorno prima avevano veduto passare in senso opposto alla nostra direzione una banda di 60 cavalli comandata da Schiavone, e che quella che avevamo veduto noi poco prima era quella di Caruso. Noi avevamo dunque a che fare con due bande una di fronte, l’altra alle spalle. Dopo esserci abbastanza riposati riprendemmo a marciare prendendo per obbiettivo Castelvetere, che ci offriva buona posizione per agire tanto contro una quanto contro F altra banda. Vi arrivammo al tramonto stanchi, affranti dalla fatica, senz'altra soddisfazione che quella di sapere che anche i briganti a cavallo sfuggivano i nostri scontri.

Le informazioni raccolte in paese concordavano con quelle avute dai contadini; il Sindaco poi ed il capitano della Guardia Nazionale erano d’avviso che la banda Caruso fosse passata nelle terre di Campobasso, c che quella di Schiavone si aggirasse tra San Marco de’ Gavoti e San Giorgio la Molara, per conseguenza diedi le dovute disposizioni al battaglione per metterci sulle traccie della banda di Schiavone.

Sotto fitta e continua pioggia l’indomani perlustrammo in lungo ed in largo quei luoghi, e non avendo potuto avere indizio alcuno sui briganti, riparammo a San Bartolomeo.

Nel dì seguente, sempre accompagnati da dirotta pioggia, fecimo altrettanto nelle terre e nei boschi di San Marco de’ Gavoti, e San Giorgio la Molara, e visto che tante fatiche erano inutili, per sentieri già malagevoli resi quasi impraticabili dalle acque, ci avviammo per quel paese che s'erge su ripido colle, e che per ironia del caso fu denominato Buon albergo.

Arrestato il battaglione a poca distanza da questo, incaricai il tenente che mi seguiva a cavallo di precedere per gli alloggi. Qualche tempo dopo venutomi all'incontro mi riferiva che il Sindaco ed il segretario erano irreperibili, che per i bersaglieri non vi era altro che una chiesa da tempo non consacrata, che a stento aveva potuto indurre alcuni abitanti a ricevere gli uffiziali, e che per me, il tenente medico, e per lui aveva trovato una buona casa, segnandomi colf indice posto in alto un caseggiato bianco d'apparenza signorile, che io guardavo con compiacenza lusingandomi di poter fra poco trovar là un buon fuoco per asciugare i panni inzuppati dalla pioggia, ed un buon pranzo per soddisfare alla fame, che sentivo farsi vieppiù prepotente.

Giunti per stretti viottoli a gradinate sul piano della chiesa, non fu possibile trovare qualche addetto municipale, nè il custode delle chiavi, ed intanto continuava a piovere della grossa. Perduta la pazienza feci atterrare le porte e messo al coperto il battaglione e destinati 10 bersaglieri per Compagnia alla ricerca di paglia, legna, e del necessario per i? rancio, mi avviai col medico e col tenente alla casa bianca.

Entrati in vasto cortile ci venne all’incontro il padrone, giovane sui 26 anni, d’ignobile fisionomia, seguito da un gobbo piccolo sulla trentina, dall’occhio malizioso. Cominciò il padrone a fare le scuse alla mia Eccellenza se non poteva esser servita come meritava, avendo egli dovuto mandar altrove le persone di servizio. Malgrado che io rispondessi che ci saremmo contentati alla meglio, egli insisteva sulle difficoltà di poter offrire conveniente ospitalità, mentre che, secondo lui, le cose si potevano conciliare meglio se io mi fossi contentato di andar all’osteria; e messa la mano in tasca stava per presentarmi una moneta di due lire, quando, sfrenata la mia collera, irruppi in questi termini: «Sapete voi come risponde un uffiziale nei nostri paesi ad un insulto di simil genere?» ed alzata la mano gli avrei stampate le cinque dita sulla guancia, se pronto non si fosse intromesso il gobbetto con queste parole: «Maggiore, voi lo dovete perdonare, egli è confuso e non sa quel che si dica; mancano le persone di servizio, ebbene noi vi serviremo; ecco là le scuderie per i vostri cavalli e voi favorite da questa parte.»

Entrammo in casa dove potemmo asciugarci gli abiti e dopo aver sfogato la nostra rabbia d’affamati, passammo in elegante salone a prendere il caffè, quindi ci ritirammo nelle camere a ciascun di noi assegnate.

Cessata la pioggia nella notte, ci svegliammo l’indomani alla luce d'un bel ciel sereno per perlustrare poco dopo quei dintorni, e quindi ritornammo a Benevento, ove giunto informai il Prefetto del nostro operato. Se ne dimostrò egli soddisfatto poiché credeva che per qualche tempo i briganti non avrebbero osato avvicinarsi alla città, ed intanto sarebbero arrivati i rinforzi di truppa promessi dal Comando di Napoli.

L’indomani partimmo per Montesarchio onde essere a Napoli il giorno fissato, ma colà giunto trovai il colonnello Negri che preso il comando del presidio mi ordinava di unirmi a questo per agire sotto i di lui ordini contro la banda di Cipriano sul Taburno; gli feci bensì osservare che ciò era in contradizione con l’ordine che m’era stato dato dal Gran Comando, ma egli forte dell’ordine ricevuto dal generale Vinelli, di valersi, cioè, di qualunque truppa, che avesse trovato sul suo cammino, non ammetteva altra ragione.

Mi fu ordinata nello stesso giorno una ricognizione limitata a pochi chilometri sul monte, ciò che feci di malavoglia, poiché, supposto che vi fossero stati i briganti, era un dir loro che se ne andassero, giacché l’indomani saremmo venuti con forze considerevoli ad attaccarli.

L’operazione combinata con altro rinforzo che era giunto nella notte fu eseguita sotto gli ordini del colonnello colla maggior diligenza, ma, come prevedevo, non ci fu fatto di vedere ombra di briganti.

Una seconda operazione sui monti di Cervinara combinata dal colonnello pel giorno seguente impediva ancora la mia partenza; a scagionare il mio ritardo feci allora rapporto al capo di Stato Maggiore di quanto mi era accaduto a Montesarchio, esprimendogli in pari tempo la poca fiducia mia nelle operazioni ordinate dal colonnello, operazioni informate a dettagli pedanteschi ed a manovre inutili. Nella notte ricevei il seguente telegramma:

«Non ascolti alcuno — ritorni subito a Napoli»

«Cialdini.»

Con questo telegramma in tasca ini recai all’alloggio del colonnello, e fattolo svegliare gli dissi: «Sai? ben pensato, fra due ore io parto per Napoli». Come? rispose sconcertato tra la sorpresa ed il che io volessi reagire contro i suoi ordini… «Si, ripetei, io devo ritornare a Napoli…».

Allora egli alquanto alterato soggiunse: «Hai tu ben riflettuto a quello che fai?...». «Ma certamente... leggi», e gli presentai il telegramma.

Un poco mortificato allora profferì solamente queste parole: «Oh! quando è così, io nulla ho a ridire», e strettagli la mano lo lasciai nelle sue illusioni battagliere.

Presentatomi nel dì seguente al generale Cialdini, ebbi in sulle prime qualche rimostranza per il ritardo, ma informatolo poi minutamente di tutto, non potè fare a meno che disapprovare la condotta del colonnello.

VI.

Per ragioni politiche facili a comprendersi il Governo italiano non potendo considerare di fronte all’Europa il brigantaggio come manifestazione di partiti politici avversi all’unità d’Italia, faceva specialmente assegnamento sull’Esercito per la repressione dei malfattori senza dar troppa importanza ai numerosi partigiani ed aderenti di tutte le classi, che li alimentavano e li sostenevano moralmente e materialmente, così che l’azione della milizia riusciva poco efficace ad estirpare questo malanno, a risanare questa piaga.

Gli inseguimenti, le scaramuccie, i fatti d’armi parziali potevano bensì paralizzare gli sforzi, che i partiti reazionari facevano per rovesciare il Governo, ma dopo poco essi rialzavano la testa, e là dove i briganti erano stati battuti e dispersi, ritornavano più numerosi e più crudeli di prima; d’altronde le condizioni in cui si trovava l’Italia in faccia alle Potenze, e specialmente in faccia alla Francia, non permettevano alle autorità d’inasprire maggiormente il partito ancora potente che aspirava al ritorno del regime borbonico.

Il sistema adunque di progredire a poco a poco nella via della libertà, e di ripetere dal tempo l’ordine e la tranquillità, parve agli uomini politici italiani il più razionale, il più pratico, per conseguenza le truppe destinate nelle provincie meridionali dovevano ancora andar soggette a più lunghe privazioni, a più dure fatiche.

Non così l’intendeva il generale Pinelli, che, posto il suo quartiere a Nola, domandava al Comando di Napoli un altro battaglione Bersaglieri per agire con maggior vigore, e con massimo rigore nel territorio dipendente dalla sua zona.

Da quel giorno il 18° battaglione passò sotto gli ordini suoi con facoltà di comunicare all’occorrenza direttamente col Gran Comando.

La sera stessa che arrivammo a Nola mi veniva ordinato dal Generale di andare alla ricerca d’una banda composta d’una trentina di briganti che, secondo informazioni avute, dovevano pernottare in un casolare distante dalla città cinque o sei chilometri.

Ci mettemmo in marcia alle 9, e dopo aver perlustrato nel silenzio e nell’oscurità della notte i dintorni, circondammo il casolare, e fattene aprire le porte non trovammo che una famiglia di contadini, che stragiuravano che da molti giorni non s’erano veduti briganti da quelle parti; perquisiti tutti i locali non trovammo indizio alcuno contrario alle loro affermazioni.

Riprendemmo quindi a perlustrare in direzione di Nola ove giungemmo poco prima delle 2.

Trovammo la città immersa nel silenzio e nel sonno, e fatte deporre le armi sulla piazzetta fiancheggiata da piccoli portici, mi recai all'abitazione del Generale. Al fioco chiaror d'una lucerna, seduto vicino ad un tavolino, sonnecchiava nell'anticamera un graduato di piantone, che si scosse, e balzò in piedi appena io toccai la porta; chiestogli del Generale mi rispose che dormiva, ma che aveva avuto ordine di svegliarlo a qualunque ora io fossi arrivato; infatti, bussato leggermente alla porta, una voce robusta rispondeva: «avanti, avanti.» Sedutosi sul letto ascoltò il rapporto soggiungendo: “ va bene, li prenderemo un'altra volta», e voltosi verso il comodino ove vicino al revolver oravi l’orologio, continuò: «sono le 2, vada a riposarsi, ed alle 4 parta per Palma onde dar la caccia ad una quarantina di briganti, che jeri l'altro tagliarono la testa a due guardie campestri; in caso riuscisse a sorprenderli, od a raggiungerli non risparmi la polvere... ha capito?...». «Sì Generale», ed inchinatomi gli diedi la buona notte.

Giunto sulla piazzetta, meno due sentinelle, che muovevano lentamente su e giù lungo le file d’armi deposte a terra, tutti, ufficiali e soldati, chi disteso al suolo, chi appoggiato colle spalle ai pilastri, tutti dormivano saporitamente, tutt’all’intorno buio e silenzio, ed io rannicchiato nel vano d’una porta chiusa ripetendomi: «sono le 2, vada a riposarsi ed alle 4. parta per Palma!...» finii per addormentarmi. Svegliatomi poco dopo feci dare da un trombettiere il segnale attenti, quindi quello della raccolta, e suonavano le 4 dal campanile d’una chiesa fuori porta che già marciavamo per Palma.

Verso le 8, per via piana ed abbastanza larga, fiancheggiata a destra e sinistra da piccole case dipinte a vivi colori, entrammo in questo pittoresco paese ove per cortesia della contessa Pandola gli ufficiali trovarono posto negli appartamenti, ed i soldati nel vasto cortile del suo palazzo.

L’indomani, un’ora prima dell’albeggiare, ci mettemmo in marcia, e per ripidi e malagevoli sentieri giungemmo a Carbonara appena fatto giorno; trovammo questo paesuccio deserto in cui non vedemmo che qualche gatto fuggire spaventato, e non udimmo che qualche cane ad abbaiare dalle porte chiuse; gli abitanti, temendo forse di essere da noi puniti per essere in quei pressi stata uccisa una delle due guardie campestri, l’avevano abbandonato.

Riprendendo cammino dovemmo passare per un crepaccio profondo sì, che per lungo tratto non vedemmo che terra la quale, come alto muro, si elevava ai nostri fianchi.

Se i briganti si fossero appostati in quella località, se fugati i pochi nostri fiancheggiatori i quali muovevano a stento in quel terreno accidentato, si fossero quindi arditamente avanzati sul margine di quel terrapieno, avrebbero di noi potuto far strage prima che fossimo sortiti da questa strada incassata; ma è inutile il dirlo, essi fuggivano sempre innanzi al 18° battaglione bersaglieri.

Venuti all’aperto proseguimmo fino alla sommità del monte Sant’Angelo dalla di cui altezza (800 m. circa), spaziando lo sguardo tutt’all’intorno, non vedemmo che qualche campagnuolo nella pianura, lontano lontano, occupato a lavorare la terra.

Disceso il monte prendemmo la direzione delle alture di Castello, qui giunti e compiuta la perlustrazione del semicircolo di monti che sovrastano il paesaggio, verso mezzogiorno discendemmo in Palma.

Nelle ore pomeridiane ricevetti l’ordine dal Generale di ripiegare su Nola e di presentarmi al Comando subito dopo il mio arrivo..

Vi trovai infatti il Generale il quale mi ordinò di mandar immediatamente due Compagnie a pochi chilometri da Nola in una borgata cui una torma di malandrini avevano appiccato il fuoco, quindi di partire colie altre due Compagnie col primo treno per Cancello, di qui per San Felice onde rilevare il reggimento di linea e prendere dal colonnello la consegna ed il comando della sotto-zona della valle Caudina.

VII.

Finalmente!... finalmente avevamo finito discorrere monti e valli di paesi diversi. Con questa determinazione il battaglione veniva a svolgere la sua azione in località definite, nelle quali, mettendosi in relazione cogli abitanti, e stabilendo un continuo servizio di vigilanza, poteva ottenere qualche buon risultato contro il brigantaggio.

Fu poco lusinghiera l’impressione che provai nel prendere il comando della sotto-zona della valle Caudina. Il reggimento frazionato in tante e diverse parti, più che ad agire contro i briganti pareva disposto alla difensiva. La stato maggiore, i musicanti, i convalescenti ed i volontari veneti, arruolati per la campagna del 1859, guardati da sentinelle agli sbocchi delle vie, parevano bloccati a San Felice, e benché il colonnello, distinto ufficiale, muovesse di quando in quando con pochi soldati all’incontro dei briganti, non riusciva a rianimare quei volontari, che refrattari alla disciplina ed alle fatiche, volevano ritornare alle case loro, malgrado che il Veneto fosse ancora soggetto alla dominazione Austriaca.

Armati in bando dell’esercito napolitano disciolto per improvvido decreto dittatoriale, malfattori, manutengoli erano validi ausiliari dei briganti. La camorra, mala erba trapiantata dagli Spagnuoli, aveva con maggior scaltrezza e corruzione stese le sue radici nelle alte sfere come nelle prigioni. I Sindaci, i Giudici (Pretori) neghittosi subivano queste tristi condizioni, quando non ne approfittavano per favorire i loro interessi.

Da Roma il Re di Napoli ed il Papa mantenevano viva la speranza nei partiti, e nella maggior parte della popolazione vivo il timore d’una controrivoluzione, che avrebbe rimesso sul trono Francesco II, ed avrebbe obbligato i Piemontesi (?) a ritornare al loro paese.

Non era dunque facile impresa reprimere tanti mali e combattere tante avversità senza ricorrere ai mezzi i più severi ed i più energici, e tali erano per conseguenza gli ordini comunicati dal generale Pinelli ai comandanti delle truppe da lui dipendenti.

Partito il reggimento e rimasto io con due sole compagnie in San Felice non feci altro che dividerle in 4 plotoni con ordine a ciascuno di correre subito là dove vi fosse minaccia di disordine, o timore di briganti, e di battere nella notte con pattuglie le vie e le vicinanze del paese.

L’indomani, giunte le altre due compagnie, disponevo il battaglione nell’ordine seguente.

Il Comando e la 1a compagnia a San Felice; la 3a ad Arienzo; la 2a ad Arpaia; la 4a a Cervinara.

Prima mia cura fu di liberarmi dagli sbandati che in armi girovagavano per i paesi; con intimazioni, minaccie ai loro parenti, in una quindicina di giorni riuscii a spedirne più di 200 al deposito dei Granili in Napoli, quindi di riordinare la Guardia Nazionale, eliminando i pregiudicati, e poi di procurarmi informatori segreti per poter agire severamente contro i manutengoli.

Prese queste disposizioni mi misi in campagna contro le piccole bande che s’erano formate col favore della confusione e dell’anarchia, e così le cose andavano nei paesi da noi occupati prendendo una piega migliore.

Informato che nei pressi di Caianello, paesello di montagna sopra San Felice, erano stati veduti una quarantina di briganti, nelle ore pom., con una compagnia mi avviai a quella località. Giunti al declinare del sole sull’altipiano vidi un pastore senza gregge, che se la diede a gambe appena gli intimai di arrestarsi, un colpo di carabina partì al suo indirizzo, ma scomparve nei burroni. Osservato, che alla nostra destra vi era un argine lungo quanto il piano ed alto quasi a coprire un uomo, ci dirigemmo da quella parte, un bersagliere di punta arrivatovi pel primo rivolto a me accennava di far silenzio e di accelerare il passo; corsi a lui vicino, e vidi a pochi metri dall’argine colle spalle a noi rivolte una vedetta ritta colf arma al piede, a pochi passi dalla sua destra sul pendio del monte sdraiati a terra i briganti e fra loro una donna, che con la fronte verso noi curva parlava ora con uno ora con l’altro di loro. Fatti avanzare subito i bersaglieri questi non ebbero il tempo di spianar la carabina, che già i briganti come un lampo erano scomparsi, girammo furiosi l’argine, ci precipitammo per inseguirli, visitammo burroni, cespugli, ma inutilmente.

Senza dubbio la donna prima a veder spuntar le penne dei bersaglieri li aveva avvertiti e salvati.

Avendo il Gran Comando disposto di spedirmi due compagnie di Guardie Mobili autorizzandomi altresì a valermi del battaglione di linea distaccato a Montesarchio quando l’avessi creduto opportuno per quelle operazioni che io intendevo di fare sia nella mia zona, come nei territori vicini, decisi di fare una ricognizione per Airola a Sant’Agata dei Goti. Quivi giunti e schierato il battaglione sulla piazza vicino al Vescovato, mi si fece all’incontro un galantuomo (così detti nel sud i benestanti di condizione civile), alto, tarchiato, dalla barba nera fitta, e lunga fino al petto, incaricato dal Vescovo di invitar me ed i capitani all’asciolvere; ne fui un poco sorpreso, ma non esitai ad accettare.

I discorsi si aggirarono naturalmente sulle condizioni in cui si trovava la città, e tanto sua Eminenza quanto il galantuomo barbuto asserivano, che quei disgraziati che s’erano banditi alla campagna, non avrebbero ritardato a ritornare alle case loro, purché i bersaglieri si facessero vedere di quando in quando da quelle parti. Dopo l’asciolvere il Vescovo, bramoso di avere con me un colloquio, m’invitò a fare due passi nel giardino. Cominciò col confidarmi che Egli e tanti altri vescovi erano stati chiamati a Roma, ad audiendum verbum; «ora capirete, diceva egli, caro Maggiore, che se vado a Roma sono obbligato a far visita a Francesco II da cui fui beneficato, ed allora urto col Governo italiano, se non vi vado manco agli ordini del Papa; credetelo, io come altri saremmo disposti a far adesione al nuovo Regno, ma quel Garibaldi!...». Lo consigliai a staccarsi dall’ex Re di Napoli, da cui non aveva più nulla da sperare, mentre che giovane, dotto e liberale quale egli era, tutto poteva sperare dal Re d’Italia. Parve persuaso, malo spauracchio del generale Garibaldi lo trattenne dal prendere una pronta determinazione.

Accomiatatomi da lui nei migliori termini mi promise di venir a rendermi la visita a San Felice quando le strade fossero più sicure.

Lasciata la città perlustrammo i dintorni e non vedemmo che qualche gruppo di caffoni (contadini) fuggire e precipitosamente cacciarsi nei boschi.

Riunito il battaglione, e rifacendo cammino per Airola, nelle prime ore della notte ogni compagnia rientrava al suo quartiere.

Ben risoluto oramai di occuparmi specialmente della banda di Cipriano, che commettendo ogni sorta d’iniquità aveva ultimamente catturato due preti e due ricchi galantuomini, diedi ai comandanti la compagnia dei bersaglieri e delle Guardie Mobili le volute disposizioni per muovere contro il grosso della banda che, a quanto mi era stato riferito, da due giorni s’aggirava sul monte Laburno.

Riunito il battaglione a Cervinara muovemmo di notte tempo in quella direzione passando per San Martino, mentre le due compagnie delle Guardie Mobili dovevano sorvegliare lo stradale ed i passi che potevano facilitare ai briganti la ritirata.

Sul far del giorno ascendevamo il Laburno in ordine sparso in modo da tenere il maggiore spazio di terreno possibile, lo percorremmo in lungo ed in largo senza trovare indizio alcuno che marcasse la presenza dei briganti in quei luoghi, ordinai allora di salire il monte per congiungersi sull’altipiano. Qui giunti, proprio al centro, vedemmo elevarsi poco fumo da un fuoco, che stava per ispegnersi, ed un grosso cane che ululando veniva ed andava da noi al fuoco; a pochi passi di distanza sul basso finestrino d’un casotto da guardacaccia ci apparve una testa con capelli lunghi, con barba fitta, troncata dal busto, il collo aveva insanguinato, gli occhi stravolti, e dalla bocca convulsivamente stretta pendeva una striscia di carta su cui stava scritto: Così si puniscono le spie dei briganti!... Era una vista ributtante!... Presa la testa per i capelli la gettai in un fosso, e la feci coprire di terra e di fogliami.

Verso le 2 pom., indicate ai capitani le strade diverse che dovevano prendere, le compagnie si mettevano in marcia per i loro accantonamenti..

Non erano trascorsi che pochi giorni quando si. presentò al mio ufficio un prete a nome Don P..., alto di statura, magro, smunto, il quale assicuratosi che non poteva essere inteso da alcuno, cominciò a parlare così: «Maggiore, io sono uno dei due preti che furono sequestrati dai briganti. Legato e strascinato su per i monti mi trovai in balìa della banda di Cipriano la Gala. Insultato, maltrattato da uno stuolo di beffardi, mi calarono con una corda o piuttosto mi lasciarono cadere in un profondo fosso ove già vi erano altre loro vittime e fra queste il prete Don V... che pel peso degli anni, e pei patimenti sofferti, sembrava più morto che vivo. L’indomani sul finir del giorno ci fecero con corde rimontar al piano per marciar in mezzo a loro.

«Temendo essi di essere sorpresi lungo il cammino precipitavano il passo giù per i monti, ed il vecchio prete che, affranto, sfinito, non poteva seguirli, era spinto a calci, percosso coi fucili sì, che più volte cadeva a terra; contrariati, irritati per il ritardo, i briganti senza pietà alcuna per il povero agonizzante, percuotendolo con sassi al petto ed al capo lo finirono del tutto, ed una grossa pietra fatta rotolare sul suo corpo fu la sua tomba.

«A notte inoltrata eravamo giunti sull’altipiano del Taburno; spuntato il giorno vidi tutto l’orrore della mia situazione. Cipriano pretendeva per il mio riscatto L. 10 mila... dove... come potevo io averle? Mi obbligarono a scrivere ai parenti per avere questo danaro; ma io sapevo bene che essi erano ben lontani dal possedere una tal somma!... Dirvi quanto mi fecero soffrire quei scellerati è più facile immaginarlo, che spiegarlo...»

A questo punto l’interruppi così:

«Eravate voi presente quando uccisero quell’individuo la di cui testa fu trovata da noi sul finestrino d’un casotto?... Conoscete voi questo fatto?...»

«Oh! sì, mi rispose prontamente.

«Vi era fra i briganti un delinquente, certo Don Cesare, già confinato dal Governo borbonico come guardacaccia sul Taburno, costui s’era messo al servizio di Cipriano il quale fu avvertito da un agente stesso della Polizia che il Cesare manteneva relazioni con la Questura di Napoli. Cipriano aveva decretato di sopprimerlo, e ne aveva incaricato il feroce fratello Giona, ma non era cosa facile. Il Cesare, uomo forte e coraggioso, stava sempre all’erta, e non abbandonava mai il fucile, né la pistola, né il pugnale che teneva alla cintura, di più era guardato da un grosso cane, che s'avventava a chiunque si fosse avvicinato al suo padrone. Ala Giona lo voleva vivo nelle sue mani, e messosi d'accordo con quattro suoi compagni forti, colto il momento opportuno per tirare il cane col laccio, e prendere Cesare alle spalle, in un istante gli furono addosso, avvinghiatolo lo stramazzarono, e disarmatolo lo legarono ad un albero.

«In presenza di tutti i briganti schierati, Cipriano dichiaratolo traditore e spia lo condannava al supplizio. S'avanzarono allora Giona ed i quattro manigoldi, e dopo averlo strozzato, con una ben affilata accetta gli tagliarono la testa.

«L'indomani, acceso un gran fuoco, e tagliato a pezzi il corpo lo diedero alle fiamme conservandone però alcune parti che fecero arrostire, quindi novelli antropofaghi si diedero al fero pasto costringendomi ad assistere a quella terrifica, ributtante scena. Mi presentò un pezzo di questa carne il Giona, ed essendomi scusato col dire che non avevo fame... ah! ah! soggiunse, ho capito, ti fa ribrezzo, e chi sa, che se non giunge domani il danaro, non facciamo altrettanto del tuo corpo; è vero che sei molto magro, ma prendendo le parti nelle coscie si potrà ancora avere delle buone braciuole.

«Mente umana non può comprendere tutte le angoscie ed i tormenti che ho provato in quel momento. Oh’... mille volte sarebbe stato meglio morire, che esser fatto segno a tanti oltraggi, a tanto strazio!

«Nella notte seguente, nel febbrile orgasmo pensavo e ripensavo al modo di togliermi la vita onde scampare a tanti osceni insulti, a tanti dolori, ma era impossibile; legato per le gambe ad un albero ero ben guardato dai miei crudeli custodi, dovendo dunque rassegnarmi al tremendo martirio, pregai Iddio.

«Cominciava appena ad albeggiare, che un vociare sommesso, un rumorìo confuso scorreva per il campo, ed al mio orecchio giungevano queste parole: presto, presto che arrivano i bersaglieri.

«Si presero in fretta le armi, e tra lo spavento e la furia i ricattati furono cacciati alla rinfusa tra le file dei briganti, e si cominciò a scendere giù per la china del monte a passi precipitati... Un raggio di luce, di speranza balenò alla mia mente... approfittare di questa confusione e fuggire... mi raccomandai a Dio, alle mie gambe, e via... presi subito a sinistra, mentre i briganti correvano diritti verso Cerreto... sentii fischiare qualche proiettile all’orecchio; ma in pochi momenti ero fuori tiro, e da loro lontano sì, che, preso fiato, potei esclamare... Dio ti ringrazio!... sono salvo...»

«Come mai, gli domandai allora io, come mai i briganti, che, secondo loro, combattono perla Chiesa e per il loro Sovrano, poterono fare di due sacerdoti sì atroce scempio?»

«Perchè, mi rispose, nel paese eravamo in voce di liberali, e come tali per noi più terribile doveva essere il castigo, ma viva Dio ora sono liberò, e giuro sull’onor mio, che mi vendicherò... Maggiore, io sono buon camminatore, buon cacciatore e difficilmente sbaglio il colpo, or bene, io mi metto a vostra disposizione, io farò di tutto affinché quelli assassini, quei cannibali cadano nelle vostre mani.»

«Sta bene, soggiunsi, ed io vi prometto all’occorrenza di valermi dell’opera vostra, ma ancora qualche domanda.

«Ove credete voi che siano andati i briganti quando noi ascendevamo il Taburno?

«Quale credete sia la loro forza numerica?»

«Maggiore, è molto difficile tener dietro ai movimenti, che essi, cambiando da un momento all’altro di direzione, eseguiscono colla massima celerità. Innumerevoli sono i manutengoli, molte le loro spie, per cui sono sempre avvertiti delle mosse della truppa.

«Sostenuti e diretti da comitati, che ricevono istruzioni da Napoli e da Roma, essi non si cimentano coi soldati se non sono sicuri di poterli soverchiare col numero.

«La forza della banda di Cipriano varia da un giorno all’altro; si direbbe, che egli, oltre avere buon nerbo di briganti effettivi, ne abbia molti aggregati sparsi qua e là, i quali ad un suo avviso lo seguono, agiscono con lui, e ritornano poi alle case loro, quando in piccoli gruppi non scorrazzano per proprio conto. Così estendendo per ogni parte la sua autorità egli è temuto da tutti.

«Conoscono i briganti tutti in ascondigli che si trovano nella valle, e quando si vedono a mal partito, nascondono le armi, si separano, si rifugiano nei paesi, nelle borgate, o si mettono a lavorare la terra per poi riunirsi al luogo convenuto appena i soldati sono rientrati ai loro quartieri; ma io, sì io vi aiuterò e spero di riuscire un giorno o l’altro a sorprendere quell’infame accozzaglia di selvaggi».

Ciò detto si accomiatò rianimato dalla speranza di vendetta, e sollevato dallo sfogo che aveva fatto con me, non senza indicarmi il luogo ove giaceva schiacciato il povero prete al quale feci dare pietosa sepoltura dai bersaglieri.

VIII.

Correndo voce in paese che la banda di Cipriano s’aggirasse di bel nuovo sui monti a noi sovrastanti e, probabilmente all’altezza solo di 600 metri sul monte Veccio, tra Arienzo e Cervinara, disposi che le quattro compagnie per sentieri diversi muovessero verso quella località.

Appena una vedetta ci vide comparire, due colpi di fucile partirono in aria, e la banda si mise in ritirata; solo la 4a compagnia partita da Cervinara potè ancora scambiare qualche fucilata coi briganti, i quali si diedero a precipitosa fuga appena videro arrivare le altre tre compagnie. Visto che sarebbe stato inutile l’inseguirli per la grande distanza che ci separava, ordinai al battaglione la ritirata.

Arrivati all’altipiano ci arrestammo al margine d’un lungo fosso in cui si vedeano sparsi qua e là molti fogli di carta unti di grasso, ossa spolpate, bottiglie vuote. Senza dubbio Cipriano con i suoi più fidi aveva fatto poco prima in quel luogo un buon pasto e quivi anch’io cogli ufficiali volli fare il nostro asciolvere.

Mi venne in mente, mangiando, la lettera che avevo ricevuto alcuni giorni prima per mezzo dell’uffizio postale firmata: Cipriano la Gala, capitano generale di S. M. legittima Francesco II Re di Napoli, in cui era scritto, che rinunciassi ad inseguire i briganti, poiché mentre i bersaglieri avrebbero inutilmente sputato sangue dai polmoni, io sarei caduto nelle loro mani, ed egli Cipriano avrebbe portato in giro la mia testa per tutti i paesi da me usurpati.

Persuaso che i briganti sarebbero ritornati in quel luogo, feci piantare un paletto portante un foglio di carta su cui. scrissi a grossi caratteri:

«Briganti, arrendetevi ed avrete salva la vita, altrimenti io vi inseguirò con i miei bersaglieri tanto, che cadrete nelle mie mani.

«Il Maggiore dei Bersaglieri».

Intanto alcuni bersaglieri, girando fra gli alberi, scorsero legati a due tronchi, a poca distanza uno dall’altro, due fucili, dal di cui grilletto pendeva uno spago lungo fino quasi all’altezza d’un uomo, da qui erano dunque partiti i due colpi, che udimmo al nostro avanzarci. L’astuto mezzo era ben trovato, le vedette tirando lo spago davano l’allarme e poi si mettevano a lavorar la terra, in tal modo avevano anche il vantaggio, passando i bersaglieri, di conoscere la direzione che prendevano per dare altri segnali ai briganti.

Più che mai premeva al generale Cialdini, che stava per toccare il termine della sua missione, di battere la banda di Cipriano, ed ordini pressanti venivano a questo riguardo comunicati a me dal generale Tinelli.

Escogitai allora un altro progetto per sorprendere ed attaccare la banda Cipriano che in quei giorni se la spassava volentieri sui monti di Cervinara.

La Compagnia ivi distaccata non doveva prender parte al movimento, anzi doveva ignorarlo, così pure le due Compagnie delle Guardie Mobili. La Compagnia di San Felice e quella D’Arienzo dovevano partire di notte tempo, appiattarsi con ogni precauzione in una località da me indicata, arrestare chiunque fosse passato da quella parte, e non muovere se non quando avessero sentito che io avevo impegnato il fuoco con i briganti. Colla Compagnia d’Arpaja io doveva salire su per i monti da Rotondi e tentare così di trarre in inganno le vedette, cioè che, attaccato, non avrei avuto alla mano che 60 bersaglieri circa per difendermi. All’ora fissata prendemmo a salire i monti per un sentiero che distava alquanto da quello che avremmo dovuto prendere per andar direttamente contro i briganti, e ciò per far credere che io eseguivo quel movimento più per formalità, che per volontà d’aver con loro uno scontro. Percorremmo buon tratto di cammino senza che le vedette dessero l’allarme, raggiunta la sommità calcolai a colpo d’occhio che mi trovavo ad ugual distanza fra le due Compagnie appiattate ed i briganti. Mossi allora lentamente contro essi che cominciarono a far fuoco; avanzammo, e giunti a tiro ordinai di rispondere al fuoco, ma dopo pochi minuti i briganti, visto spuntar le altre due Compagnie, a salti come caprioli si diedero a fuggire, li inseguimmo di corsa; ma oramai avevano guadagnate le alture a grandi distanze da noi. Stanchi, quasi senza fiato, ci arrestammo sul terreno da loro abbandonato, e vi osservammo qualche traccia. di sangue; avevano dunque avuto qualche perdita, ma a tanta distanza non potevano essere che insignificanti, e così il fatto d’armi da me progettato si cambiò in una semplice scaramuccia.

Dopo un’ora di riposo le Compagnie ritornavano ai loro quartieri. Nel discendere per San Felice fui sorpreso di trovare le prime case chiuse, abbandonate, e crebbe la mia sorpresa quando entrando in paese trovai le vie deserte, le botteghe e le case tutte chiuse. Venutomi incontro l’aiutante maggiore mi narrò come in San Felice e nei paesi vicini, alle fucilate che si udirono dai monti, erano corse voci allarmanti e spaventevoli. I briganti dopo aver ferito il maggiore avevano fatto strage dei bersaglieri e dovevano scendere nei paesi per vendicarsi di tutti quelli che avevano parteggiato per i Piemontesi (sic). E dire che la grande catastrofe si riduceva a qualche ferita nei briganti e a due contusioni nei bersaglieri! Ricorsi ai consigli del prete Don R..., a quelli del buon patriota Abrosio, capitano della Guardia Nazionale d’Arienzo, mi valsi di loro come guide per i monti molto bene da essi conosciuti, combinai mosse di concentramento con altri battaglioni, ma non mi riuscì mai e poi mai di sorprendere la banda di Cipriano, che il volgo credeva inspirato dalla Madonna, tanta era la sua abilità nello sfuggire alle nostre ricerche.

Fattosi persuaso il generale Cialdini delle difficoltà che io incontravo per secondare i suoi desiderii, invitò il generale Pinelli a proporgli un piano qualunque pur di riuscire nel di lui intento.

Allora il Pinelli, oltre i due battaglioni di bersaglieri già dipendenti dal suo comando, ne domandò altri tre, domandò una sezione di pezzi di montagna, ed uno squadrone di cavalleggeri con piena libertà d’azione.

Giunti da Napoli questi rinforzi, chiamati a rapporto i cinque maggiori dei bersaglieri, assegnò a ciascuno un capitano di stato maggiore, meno a me, che, come ebbe a dire lo stesso generale, non ne avevo bisogno, quindi impartì ordini buoni e precisi per le mosse che ogni battaglione doveva eseguire, onde snidare e circondare la banda di Cipriano.

Ognuno credeva ad un risultato definitivo, non però vi credeva.

L’indomani appena fatto giorno i monti erano diligentemente battuti da ben 1200 bersaglieri che, prese le mosse da lontane località diverse, venivano a poco a poco serrandosi per convergere verso piano maggiore, mentre due cannoni battevano le roccie, ed i casolari sparsi per i monti, ed i cavalleggeri battevano al piano le strade da esploratori.

Si marciava, si faticava da sei ore, finalmente da un trombettiere all’altro ci giunse il segnale di concentramento, e dopo un’ora il piano maggiore era letteralmente chiuso da un cerchio di bersaglieri senza che si fosse veduta l’ombra d’un brigante. Riuniti a rapporto i maggiori, il generale non dissimulando il suo dispetto per l’operazione fallita, encomiò i bersaglieri per il modo con cui questa era stata eseguita, ed ordinò che ogni battaglione ritornasse ai propri accantonamenti.

Nessuno può certamente dubitare della maestria nell’arte militare del generale scrittore storico, critico militare (); questo fatto prova dunque che in questo genere di guerra poco o nulla giovano la strategia e la tattica.

Stavo da qualche tempo pensando e ripensando a quale stratagemma avrei potuto ricorrere per disfarmi della, banda del Cipriano, quando venne da me l’accorto reverendo Don R… a farmi una pro posta;si trattava nientemeno che di avvelenare tutta la banda. A quanto mi diceva aveva egli un colono di cui poteva fidarsi, il quale, colto in campagna dai briganti, potè aver salva la vita col prender impegno di portar in un dato luogo ogni settimana un barilotto di vino, e ciò aveva già fatto due o tre volte.

«Or bene, soggiungeva egli; a voi, maggiore, non sarà difficile di procurarvi una buona dose di veleno, io poi m’incaricherò del resto.»

A queste sue parole risposi: «sentite, Don R..., se ascoltassi solo la voce della mia coscienza, io, che so tutto il male che hanno fatto e possono fare questi cannibali, non esiterei per il bene dell’umanità ad accettare la vostra proposta; ma vi sono delle opinioni, dei pregiudizi, se così vi piace, che io devo rispettare, vi sono delle esigenze sociali cui non devo mancare, per conseguenza rifiuto di ricorrere a questo mezzo estremo, e vi propongo invece di sostituire al veleno una forte dose d’oppio, con questo espediente potremo forse sorprenderli ed infliggere loro il meritato castigo.»

«Sì, ben pensato, ripeté egli allora, ben pensato, voi avete ragione, ebbene resta inteso che voi mi procurerete l’oppio, e che io m’incaricherò di fare il resto; ma vi raccomando di agire colla massima prudenza e segretezza, giacché lassù per i monti il Cipriano non solo è temuto, ma è anche rispettato ed amato dai suoi partigiani, che da lui protetti e sussidiati con buone piastre lo inchinano e salutano con tanto d’eccellenza; ora, se qualcuno di costoro venisse a penetrare questo segreto, certamente ne andrebbe di mezzo la vita del povero mio contadino, ed il mio piccolo podere e la piccola casa non sarebbero risparmiati dall’incendio.» Tranquillizzatolo a questo riguardo, preso fucile, che non abbandonava mai, si accomiatò colla speranza che fosse finalmente giunto il giorno in cui egli avrebbe potuto vendicarsi delle angoscie, delle torture e degli oltraggi patiti quando si era trovato nelle mani dei briganti.

Chiamato da Cervinara un sergente di mia fiducia lo incaricai di recarsi a Napoli per far la compra dell’oppio e consegnarlo quindi a Don R...; ma egli avendomi fatto osservare come conoscendo il farmacista del paese gli sarebbe stato più facile fare l’acquisto sul posto senza destar alcun sospetto, acconsentii, raccomandandogli la maggior segretezza; e così fu fatto.

Aspettavo da un momento all’altro ravviso del prete per muovere insieme, come eravamo stati d’accordo, sulle traccie dei briganti, invece nel terzo giorno egli comparve da me tutto sconcertato ed irritato per annunziarmi che il nostro progetto era andato fallito. Il contadino aveva bensì portato il barilotto di vino oppiato al solito luogo, ma quivi giunto sbucò un gruppo di briganti i quali gridando al tradimento lo percossero di santa ragione e lo minacciarono di morte se non avesse bevuto pel primo del vino avvelenato; dopo aver resistito protestando che egli era ignaro di quanto era incolpato, piuttosto che essere ucciso, sapendo d’altronde che il vino era solamente oppiato, trangugiò la coppa che gli metterono alla bocca i briganti, i quali sturato il barilotto lasciarono scorrere il vino per terra dicendogli! «vedi che cosa facciamo noi del tuo vino?adesso va che i tuoi momenti sono contati, va e corri al tuo padrone Don R...; che si guardi bene dal cadere nelle nostre mani, giacche questa volta non ci sfuggirebbe più, e pagherebbe ben caro il suo tradimento «.

Scrivo quanto mi raccontò il prete, ma non escludo la probabilità che il contadino, per timore di essere scoperto, dopo aver inventata questa storiella, avesse invece del sonnifero portato ai briganti del buon vino.

IX.

Informato il Governo del Re che ogni pericolo di rivolta era ornai scongiurato, e che in Napoli si andava a mano a mano ristabilendo l’ordine pubblico, deliberò di richiamare il generale Cialdini, e di affidare i poteri civili e militari a S. E. il generale La Marmora, il quale si affrettò a diramare circolari improntate a spirito di moderazione e di legalità.

Al comando della zona di Nola veniva conseguentemente destinato, in luogo del generale Pinelli, il generale Franzini.

Le cose procedevano abbastanza bene nei Comuni dipendenti dal mio Comando, solo Cervinara era refrattaria ad ogni progresso. Città importante per la sua popolazione e per la sua situazione topografica, continuava ad essere la più reazionaria della provincia di Terra di Lavoro.

Le famiglie, le di cui case sorgevano a piè delle montagne, erano manutengole dichiarate della banda di Cipriano La Gala; il Sindaco stesso, d’accordo con qualche consigliere, era accusato di connivenza coi briganti per usufruire delle proprietà del Comune, le cui rendite si facevano ascendere a 20. o 30 mila lire all’anno.

Per quanti rigori. avesse usato il capitano del presidio, composto di tre plotoni di bersaglieri e d’una compagnia di Guardie Mobili, non era riuscito ad interrompere le comunicazioni degli abitanti con i briganti.

Mi risultava in modo positivo che la famiglia più ragguardevole per censo e per posizione sociale, composta di tre vecchi galantuomini e due vecchie sorelle, somministrava per vie sotterranee, che davano accesso ai monti, viveri e munizioni ai briganti.

Era dunque tempo di ricorrere a mezzi i più energici. Ordinai al capitano di far arrestare i tre fratelli e di farli tradurre alla prigione della Guardia Nazionale d’Arienzo; ma due di questi erano scomparsi, in casa non rimanevano che il fratello Vescovo in partibus e le due vecchie sorelle. Ordinai allora di procedere senz’altro all’arresto di lui. Propose il capitano a Monsignore di servirsi della sua carrozza, ma egli preferì passare per le vie a piedi fra due bersaglieri ed un caporale, forse credendo di eccitare la popolazione a qualche dimostrazione in suo favore; invece questa fu meravigliata bensì dell’arresto di sì alto personaggio, ma si mantenne indifferente al di lui passaggio.

Fattone rapporto al generale mi venne ordinato di farlo tradurre alle carceri d'Avellino a disposizione del Procuratore del Re.

Ciò non impediva che la famiglia continuasse tuttavia a proteggere i briganti, giacché il fratello primogenito, sottraendosi alle ricerche dei bersaglieri, abitava ancora in casa. Più volte all’improvviso fu minutamente perquisito il domicilio, ma inutilmente. Si diceva per la città che egli avesse di notte tempo raggiunto il fratello a Roma, eppure io ero convinto, che l’astuto campione del partito borbonico non aveva per anco abbandonato il suo posto; la cosa si passava dunque, come suol dirsi, da galeotto a marinaro.

Col pretesto di completare la Compagnia spedii da Arienzo a Cervinara un plotone; questo, per mancanza di locale, doveva installarsi fino a nuovo ordine nella casa stessa del vecchio galantuomo, e secondo le istruzioni date al tenente, doveva essere attivata la maggiore vigilanza dai bersaglieri per discoprire il nascondiglio del medesimo. Passarono cinque e poi sei giorni ed ogni luogo del vasto caseggiato era ben tenuto d1 occhio dai bersaglieri, ma giammai un indizio che potesse metterli sulla traccia del nascondiglio; al settimo giorno finalmente un caporale, passando da una camera all’altra, s’accorse che una delle due sorelle portava un involto a forma rotonda come contenente piatti da tavola; la seguì facendo lo gnorri colla coda dell’occhio, e s’avvide che s’era fermata su un pianerottolo e poi era scomparsa; ne riferì al tenente, e visitato insieme il luogo, scoprirono in un sottoscala, chiuso da pareti sotto la tappezzeria, leggiere fessure, che delineavano una porta, bussarono e sentirono il rumore d’un interno vuoto.

Fatte chiamare le sorelle le invitarono ad aprire, ma esse spaventate, tremanti, rifiutandosi, negavano che là vi fosse una porta; quando questa apertasi dall’interno comparve sulla soglia imbacuccato in lunga veste da camera, pallido in volto, ma dritto e fiero nella persona, il vecchio gentiluomo pronunciando queste parole: «Ma infine, che cosa si vuole da me?» «Nient’altro, rispose il tenente, che il vostro arresto.» Non fece opposizione alcuna il vecchio gagliardo, e solo domandò un poco di tempo per fare la sua toeletta, e dare alcune disposizioni in famiglia.

Scendendo le scale il tenente gli proponeva di salire nella sua vettura per evitare qualche sfregio dagli abitanti, ma l’altero barone rispondeva: «Ah! tenente, voi non conoscete questi paesi, io andrò a piedi e vedrete come si deve trattare con questa sorta di gente»; infatti proseguendo per le vie a passo lento e maestoso fra due bersaglieri, porgeva la mano ai passanti che riverenti si avvicinavano a baciarla.

Non fu così per le vie d’Arienzo, dove gli abitanti lo videro passare con qualche sorriso di compiacenza, e salutarono anche con qualche fischio la sua entrata nella prigione della Guardia Nazionale. L’indomani, percorrendo lo stesso cammino, andò a tener compagnia al fratello nelle carceri di Avellino.

Era l’11 novembre del 1861, e l’ameno villaggio di San Martino celebrava il suo Santo Patrono. Avevo io allora 33 anni, ed oggi che scrivo, sul finir del cammino di mia vita, ricordo ancora quel giorno, che scendendo dai monti vidi gli abitanti vestiti dai gai colori sortire dalla chiesa e fermarsi a capannelli sulla piazzetta, ove fra banchi di caramelle e pasticci dolci erano preparati de’ fuochi d’artifizio; ricordo ancora d’aver visto al balcone quella Fiammella che mi avrebbe abbruciate le penne del pennacchio se i suoi genitori non fossero stati per interessi troppo legati ad una potente famiglia borbonica. Salito in casa, fui al solito colmato di gentilezze così insistenti da tutta la famiglia, che non potei esimermi dal rimanere a pranzo con loro.

Solevo per esigenze di servizio recarmi sovente da un luogo all’altro in vettura con un bersagliere a cassetto e due nell’interno di scorta, e per evitare sorprese dai briganti piccole pattuglie dovevano battere le strade che io dovevo percorrere, così pensai di far quel giorno onde le Compagnie potessero ritornare ai loro quartieri, per cui a San Martino non rimaneva che un plotone ivi in distaccamento da un mese.

Terminato allegramente il pranzo mi disponevo a partire per San Felice, la vettura e la scorta erano pronte, ma tante furono le ragioni e le preghiere dei parenti della Fiammella, la quale con uno sguardo penetrante ed eloquente aspettava ansiosa la mia risposta, che mi decisi di rimanere alla festa.

Si combinò allora di far partire nella vettura un individuo ben noto alla casa per la sua fedeltà coll’incarico di avvertire le pattuglie, che avrebbe trovato lungo il cammino, di ritirarsi, poiché io avrei passata la notte a San Martino.

Erano da poco terminati i fuochi artificiali, che fra un confuso romorìo corse la voce che la vettura era stata aggredita dai briganti. Infatti accompagnato da un famiglio della casa comparì il messaggiero pallido, tremante, più morto che vivo dallo spavento, il quale rianimato da buona dose di rhum, stentatamente ci spiegò il fatto avvenuto così;

«Mentre la vettura stava per passare sopra un ponticello distante poco più d’un chilometro dal paese, molti briganti saltarono fuori, e circondatala spianarono i fucili contro il vetturino e per gli sportelli nell’interno; sconcertati, irritati di non trovarvi che me solo, m'intimarono di palesare la ragione per la quale non vi era il maggiore dei bersaglieri. Ebbi ancora tanta forza da poter rispondere, che niente io sapevo del maggiore, e che avendo io trovata la vettura vuota ne avevo approfittato per recarmi ad una masseria vicina per trattare la vendita d’una pecora col compare Gennaro.

«Mi fecero scendere dalla vettura, che lasciarono progredire liberamente, mi maltrattarono, mi percossero coi calci dei fucili, e m’avrebbero ucciso se un di loro, che forse era il caporale, non si si fosse opposto dicendo; «Lasciatelo andare; non vedete che costui è un imbecille? «M’imposero di rifar il cammino colla minaccia di far fuoco se io mi fossi voltato indietro».

Partì subito il distaccamento con alcuni militi della Guardia Nazionale alla ricerca dei briganti, ma dopo aver perlustrato i luoghi indicati, ritornò in paese senza novità alcuna.

L’indomani, prima di partire per San Felice, volli interrogare il povero uomo, ma egli giaceva a letto in preda al delirio della febbre a 40 gradi di temperatura.

L’agguato era stato ben preparato, e Cipriano La Gala avrebbe potuto far portare in giro la mia testa nei paesi da me usurpati, se le preghiere dei parenti, il presentimento, e forse il sospetto della bella Fiammella d’una grande sventura non mi avessero trattenuto alla festa di San Martino.

Passando sul ponticello sotto cui si erano nascosti i briganti pensai, che forse questi erano stati d’accordo col vetturino, altrimenti avrebbero fatto fuoco sui cavalli e non avrebbero lasciato partire liberamente il vetturino colla vettura, caso che si era già verificato per due o tre uffiziali rimasti vittima dei briganti.

Ad ogni modo il colpo era andato fallito e Cipriano La Gala ai suoi tanti fasti di sangue non potè aggiungere questo, se non quale agguato teso ad un maggiore dei bersaglieri; ma per Dio, non l’avrebbe preso vivo!…

X.

Chi avesse osservato l’andirivieni di gente al mio ufficio avrebbe forse creduto che questo si fosse mutato in ufficio di questura. Erano domande di impieghi, di sussidii, erano querele d’interessi e perfino le donne venivano a reclamare per i torti del loro marito. Avevo io un bel dir loro che si rivolgessero alle Autorità competenti, tutti con una stretta di spalle dimostravano la poca fiducia che avevano nelle Autorità civili, ed in vero era stato così sensibile lo sbalzo da un Governo assoluto militare, ad un Governo liberale democratico, che il popolo conservava ancora più considerazione per un veterano con larghe spalline e cappello a punta, che per un borghese fosse stato anche un Prefetto.

Ripetutamente si reclamava contro il Sindaco di Cervinara che spaccandola da gran patriotta commetteva prepotenze, ingiustizie; ma nessuno aveva il coraggio di presentar documenti o deporre contro lui, perchè lo si diceva protetto dalla Prefettura di Avellino. L’avrei volentieri fatto arrestare perchè mi risultava che era d’accordo coi briganti per defraudare il Comune delle sue forti rendite, ma mi mancavano prove e documenti in appoggio.

Pensando a questo furfante mi venne in mente una buona idea.

Mi recai a Nola e pregai il generale Franzini, già informato di tutto, di venir a far colazione con me a San Felice per fare quindi una visita ai paesi dipendenti dalla mia sottozona.

Accettò il generale l’invito, e venne il giorno dopo accompagnato dal maggiore dei bersaglieri Migliara facente funzione di capo di Stato Maggiore e dal suo aiutante di campo. Terminata allegramente la colazione salimmo in carrozza.

Avevo preventivamente disposto, che i capitani dei bersaglieri, della Guardia Mobile, della Guardia Nazionale, i Sindaci, i consiglieri, i giudici (pretori) e quanti altri l’avessero desiderato si fossero trovati nelle sale dei rispettivi Municipii al nostro arrivo onde essere presentati al generale comandante la zona di Nola.

L’aiutante di campo introduceva uno dopo l’altro quelli che aspettavano in anticamera annunziandoli col nome e qualità, io allora riferiva quanto riguardava l’individuo che stava per entrare al generale, il quale faceva elogi o rimostranze secondo le informazioni da me avute.

Dopo aver così passati diversi paesi venimmo a Cervinara. Primo ad essere annunziato dopo gli uffiziali fu il giudice, di lui dissi al generale: «Egli è sui 35 anni, non possiede per un soldo, ha lire 800 all’anno di stipendio, ed i lucri, mantiene una bella donna e due cavalli da tiro, ne deduca lei le conseguenze».

«.Povera giustizia!...» esclamò il generale.

Venne il turno del famoso Sindaco, pezzo d’uomo alto, tarchiato, dai capelli neri come la barba lunga e fitta, dagli occhi grossi, mobili e dallo sguardo truce; bene osservato lo si giudicava a priva vista di carattere tutt’altro che sincero.

Facendo ogni passo un inchino s’avvicinò al tavolino presso cui dalla parte opposta, ritto in piedi, stava il generale alla di cui destra, alquanto indietro, si stava il maggiore Migliara come io mi stavo a sinistra, e fatto il solito saluto: «Eccellenza bacia a manu, si ritrasse un poco; allora il generale cominciò così: «Mi rincresce, signor Sindaco, dover usare colla prima Autorità cittadina espressioni poco benevole e poco lusinghiere, ma il dovere me lo impone. Ella, a quanto pare, sarebbe troppo severo e qualche volta ingiusto con i suoi amministrati. Vi sono molte lagnanze e reclami contro lei. Se ella non è apertamente avversa alle nostre istituzioni, pare che non sia molto amante del Governo attuale. Noi rispettiamo l’opinione di tutti, ma non è permesso ad un funzionario pubblico essere ostile al Governo; se lei non ama troppo l’unità d’Italia perchè rimane in carica? Perchè non domanda la sua dimissione?»

A questo punto il Sindaco, alzando le braccia e la testa, con voce profonda e commossa esclamò:

«Io non amare il mio paese! Io non amare la nostra bella Italia!» e volgendo gli occhi al Cielo, e portando la destra sul cuore...» Dio onnipotente!...

Tu che vedi nell’anima mia, io non amo l'Italia!... Io che darei le mie sostanze, la mia vita per la patria, per ramatissimo nostro re Vittorio Emanuele,… io non amo l’Italia!… Ah! Sono dunque tanti i miei nemici? Sono tanti gli intriganti che con menzogne e con calunnie vogliono denigrare la mia riputazione, la mia onestà?...» e quasi con le lagrime agli occhi rivolto al generale continuò:

«Giuro sull’onor mio che io sono un buon patriota, un vero liberale...» Girando il generale lo sguardo verso me, parve volesse dirmi: «ma lei si è dunque ingannato?...»

Ma con un segno degli occhi, e muovendo la testa da destra a sinistra gli feci capire che quell’uomo mentiva, e che da buon commediante sosteneva bene la sua parte.

Prese allora la parola il maggiore Migliara cominciando così: «Ascoltate, signor Sindaco, noi piemontesi siamo buoni, troppo buoni, ma non siamo minchioni, stupidi come voi credete. Fra noi la parola d’onore, il giuramento sono cose sacrosante; fra voi le avete continuamente sulle labbra come frasi oratorie, dunque è inutile che voi proseguiate su questo tono; pesano su voi gravi accuse, e voi dite che non siete colpevole, ebbene difendetevi con buone prove, oppure date la vostra dimissione.

A questo punto iroso, pallido, egli esclamò:

«Ah! si vuole la mia dimissione ebbene l’avranno, ma se ne pentiranno...» Ciò detto se ne andò.

Ma la dimissione non venne mai, tanto che un bel giorno giunse da Napoli un agente della Polizia con un mandato d'arresto. Tradotto alle carceri di Avellino, ritornato dopo una diecina di giorni, riprendeva la sua carica passeggiando baldanzoso per le vie di Cervinara; ma qualche tempo dopo fu trovato freddo cadavere a pochi passi dalla sua casa.

Dopo Cervinara passammo a San Martino e così di seguito fino ad aver compito il giro della valle Caudina.

Accompagnai quindi il generale alla stazione di Cancello ed in attesa del treno, mi ripeté l'incarico di manifestare la sua soddisfazione ai miei dipendenti per la lodevole loro condotta nel disimpegnare sì complicato e penoso servizio. Raccomandò poi tanto a me di fargli sentire presto le fucilate aggiungendo: «mi domandi tutto quello che vuole, io le do carta bianca; intanto, siccome ella scarseggia di truppa le manderò due compagnie del 12° fanteria ed un piccolo drappello di cavalleggeri per facilitarle la trasmissione degli ordini; se poi per qualche operazione contro la banda di Cipriano ha bisogno d'altro battaglione, si valga di quello di Montesarchio, oppure mi avverta, che io le manderò da Nola un altro battaglione di bersaglieri.» E salito in treno, nello stringermi la mano, ripeté ancora: «Mi raccomando, mi faccia sentire presto le fucilate.»

Premeva anche a me, oramai stanco di testa e di gambe, di venire alle prese con la banda di Cipriano, ma come fare?.. Tutti i mezzi fin allora tentati erano andati a vuoto; si tentò perfino di tenere sui monti giorno e notte qualche quadriglia di bersaglieri vestiti da caffone (plebeo), ma inutilmente; i contadini, i pastori, quando passavano loro vicino, li salutavano sorridendo.

Non vi era dunque da sperare che nell’inverno. L’inverno!... ed il mio pensiero si fermò su questa parola e pensando e ripensando formai un nuovo progetto. Richiedeva questo la maggior segretezza, e per riuscire bisognava giuocar d’astuzia onde trarre in inganno il Cipriano: bisognava aver pazienza ed aspettare il momento opportuno, chè in questo tratto di tempo un’imprudenza qualunque avrebbe sconcertato il mio piano.

XI.

Trasferito il comando della sotto zona ad Arienzo ove per cortesia del proprietario il Municipio metteva a mia disposizione una casa signorile con utensili di cucina e servizio da tavola, si potè combinare una discreta mensa per gli uffiziali, i quali non mancavano di approfittare delle circostanze per passare l’inverno nel miglior modo possibile, ed io pel primo, non solo davo loro la spinta, ma anche prendevo l’iniziativa ogni qual volta si presentava l’occasione di dare pranzi e feste d’invito.

Fra noi non erano proibite le brigantesse che venivano da Napoli a tenerci compagnia, a godere dei nostri pranzi e dei nostri allegri passatempi, insomma si faceva del nostro meglio per trovare un compenso alle tante privazioni e fatiche sopportate fino allora.

D’altronde ne avevamo ben ragione, tutti i rapporti che avevo fatto sull’operato del battaglione al comando di Nola e di Napoli avevano incontrato l’approvazione del generale Pinelli, del generale Cialdini e del generale Piola-Caselli, il quale nell’ultimo colloquio avuto con lui a Napoli, si compiacque nel dirmi come meritato elogio: «Finalmente. abbiamo trovato un battaglione che contenta il generale Pinelli.» Le perlustrazioni venivano fatte a mano a mano più raramente da qualche compagnia nelle località che distavano considerevolmente dalle alture di Cervinara su cui si teneva a preferenza la banda di Cipriano, e distruggendo ed abbruciando su e giù per i monti quanto poteva dar ricovero ai malfattori, si cercava di spingerli verso Cervinara.

Del resto le gesta dei briganti si limitavano a ricattare qualche dovizioso galantuomo cui tagliavano la parte superiore d’una orecchia e la mandavano in lettera con richiesta di somme rilevanti ai parenti, sistema barbaro che non si riusciva ad impedire essendo essi ben serviti da intermediari segreti non solo, ma anche garantiti dal silenzio dei parenti del ricattato, che preferivano mandar il danaro senza palesare il fatto, piuttosto che mandare a sicura morte il disgraziato caduto nelle mani dei briganti.

Passarono così parecchi giorni, ed i manutengoli vedendo che non erano più molestati, cercavano di accostarsi sempre più ai briganti, i quali lasciati tranquilli dai bersaglieri si adoperavano ad attirare a loro maggior numero di partigiani dai paesi sottostanti.

Cipriano aveva occupato sopra Cervinara una forte posizione dalla quale, sul principio dell’anno, aveva respinto con gravissime perdite due compagnie di fanteria e cominciava forse a penetrare nella sua mente, che io stanco, scoraggiato, avessi rinunciato a perseguitarlo.

Ad arte emisi allora la diceria, che sia per il lungo servizio prestato, sia per avere le armi in cattivissimo stato, il battaglione sarebbe quanto prima partito per le provincie settentrionali e probabilmente per Torino. Questa voce, passando di bocca in bocca, fu creduta anche dagli uffiziali e prendendo sempre più consistenza giunse alle orecchie del generale che mi invitò a dargliene schiarimenti.

Mi recai allora a Nola ed avendolo trovato un poco contrariato a questo riguardo, non esitai a confidargli che questa notizia era di mia invenzione, e pregandolo a non smentirla, ne seguì fra lui e me questo dialogo: «Va bene, mi dica allora perchè ella ha sparso questa voce, che riconosciuta falsa, può recare del malcontento nel suo battaglione.

«Generale, questo è un mio segreto.

«E sia pure, perchè non può palesarlo a me, crede lei che io non sia capace a mantenere un segreto?

«Generale, lei sa, che un segreto in due non è più un segreto, mi permetta dunque di tacere.

«Ebbene, non le domando neanco più la ragione di questi suoi scrupoli, purché mi faccia sentire presto le fucilate.

«Pazienza, generale, ancora un poco di pazienza, non è tempo ancora, un passo falso può mandar in fumo tutto quanto mi frulla pel capo da qualche tempo.

«Tutto come vuole lei, ma mi raccomando di far presto, giacché il generale La Marmora, ora che siamo vicini alla leva, desidera avere buone notizie sul brigantaggio.

«Generale, anche il generale Cialdini aveva questo desiderio prima di lasciar Napoli. Lei, lo sa, il generale Pinelli, forte di cinque battaglioni di bersaglieri con due cannoni ed uno squadrone di cavalleria, con manovra abilmente combinata mosse contro la banda di Cipriano, e non riuscì ad appagare il desiderio del generale Cialdini…

«Sì, sì, lei ha tutte le ragioni del mondo, ma in un modo o nell’altro bisogna agire, faccia dunque presto e mi faccia sentire le fucilate.

«Generale, farò tutto il possibile.»

Ciò detto presi congedo, sempre fermo di attenermi alle mie prime inspirazioni.

XII.

Le simulate tendenze alla quiete avevano prodotto gli effetti che io prevedevo.

I briganti accampatisi sulle alture di Cervinara famigliarizzavano cogli abitanti, i quali andavano su e giù portando vivande e vino in abbondanza, e passavano con loro lassù allegramente molte ore del giorno e della notte.

Una sera Cipriano, invitato, era sceso con pochi suoi fidi in un maniero tra Nola e Cancello, ove si festeggiavano le nozze di due giovani campagnuoli. Sua Eccellenza era stata ricevuta con tutti i riguardi dovuti alla sua alta posizione. Dopo la cena cominciarono le danze al suono d’una piccola fanfara composta di musicanti ambulanti. Terminato il ballo il Cipriano avvicinatosi ad essi prima colle buone e poi colle minaccie intimò loro di seguirlo al suo campo. Quasi tutte le sere si gozzovigliava, si ballava lassù così spensieratamente che dal basso si vedevano i lumi, i fuochi, si udivano i suoni della musica, le canzoni ed il vociare gioioso del baccano brigantesco.

Era oramai giunto il giorno di mettere in esecuzione il vagheggiato mio piano, ma a completarlo mi mancava ancora un coefficiente necessario, cioè una buona nevicata, e questa, come Dio volle, venne.

Prese le mie precauzioni, mi recai due giorni dopo a Cancello (stazione di coincidenza per cui vi era sempre una locomotiva di riserva) e domandai d’urgenza un treno speciale per Nola, ma il capostazione non volendo assumersene la responsabilità, telegrafò alla direzione di Napoli, die rispose: «Date treno speciale, pregate Maggiore ritornare presto».

Giunto a Nola mi presentai al generale con queste parole:» Generale, domani attacco la banda di Cipriano, ma importa che ella faccia salire di qui su per i monti un battaglione di bersaglieri per occuparne le creste all’albeggiare, questi dovranno tenersi ben nascosti fino ai mio segnale di dritti, sempre quando, s’intende, i briganti non tentassero fuggire da quella parte».

«Benissimo, bravo maggiore, rispose il generale, dunque domani sentiremo le fucilate, anzi dovendo io andare a Benevento, passando sullo stradale, le sentirò più da vicino, buona fortuna dunque ed a rivederci domani».

Appena ritornato ad Arienzo impartii gli ordini ai capitani. La 2a Compagnia di bersaglieri partendo da Arpaja a mezza notte, allo scopo di tener occulta la marcia, doveva prendere la via più lunga per Montesarchio a San Martino, di là salire i monti e muovere quindi in direzione dell’altipiano occupato dai briganti. La 2a Compagnia della Guardia Mobile da Forchia doveva salire alle 7 e prender posizione in modo da chiudere il passo da quella parte. La 4a Compagnia bersaglieri ed una Compagnia del 12° Reggimento da Cervinara dovevano salire alle ore 8 di fronte all’altipiano. La la Compagnia della Guardia Mobile doveva chiudere il passo del vallone a poca distanza da Cervinara e non muovere fino ad ordine in contrario. La 1a e 3a ai miei ordini muovendo da Arienzo dovevano salire da Rotondi alle 7, l’altra Compagnia del 12mo muovendo da Paolise doveva salire pure alle 7 e come riserva seguire poi a voluta distanza le due Compagnie bersaglieri. Un caporale e quattro cavalleggeri appiedati dovevano aspettare i miei ordini a Cervinara.

Erano dunque sei Compagnie, 370 baionette circa che marciavano contro i briganti, che si diceva ascendessero a 400, ma che io credevo non arrivassero a 300.

L’indomani alle ore stabilite cominciò il movimento generale.

Le mosse parziali per ripidi e malagevoli sentieri in terreno accidentato non potevano essere eseguite con maggior diligenza.

Verso le 11 serravamo da vicino le posizioni occupate dalla banda, ed ancora non s’era visto un brigante, nè sentito un colpo di fucile; continuammo a marciare convergendo, e stringendoci sempre più entrammo sull’altipiano ridotto a vasto e regolare accampamento.

Sparsi quà e là si vedevano sacchi di paste, recipienti e bottiglie di vino, ceste di carne, utensili di cucina e fra i giacigli coperte e qualche oggetto di vestiario. Ad ogni baracca e capanna si vedevano affisse dentro e fuori immagini di Madonne e di Santi.

Questo abbandono di cose dinotava che i briganti avevano da poco tempo ed in fretta lasciato quei luoghi per ritirarsi da qualche parte, ma dove potevano essere andati? Forse avevano preso per i monti di Nola? Ordinai allora al trombettiere di dare il segnale di dritti ed in un momento da tutte le creste dei monti spuntarono fuori bersaglieri. Per i briganti dunque non vi era altro scampo che la via verso San Martino, giacché la 2a Compagnia, in ritardo probabilmente per i passi difficili che doveva superare fra la neve, non aveva ancora chiuso il passo da quella parte, ed in questo caso la banda poteva incontrarsi colla Compagnia che sola avrebbe dovuto sostenere lo scontro di forze preponderanti.

Fatte queste riflessioni chiamai a me il maggiore dei bersaglieri (Robaudi) e gli dissi: «Riunisci il tuo battaglione, ritorna a Nola e riferisci al generale che il piano ben concertato (come tu stesso puoi vedere) è stato ben eseguito, che anche questa volta il Cipriano mi è sfuggito, che però mancandomi tuttora la Compagnia partita da San Martino io vado all’incontro di quella colla speranza ancora di trovare i briganti».

Lasciai indietro di riserva le due Compagnie del 12° Reggimento, e colla 1a e 3a bersaglieri appoggiate a sinistra dalla Compagnia continuammo a marciare, ora salendo ora discendendo per i monti verso quelli di San Martino.

Avevamo fatto appena un’ora di cammino, che passando poco lungi da piccolo tratto di terreno coltivato, vidi due individui che colla testa bassa zappavano la terra, cosa poco naturale pensai fra me, poiché in questi luoghi remoti coloro avrebbero dovuto sospendere di lavorare, e guardare lo sfilare di soldati, dunque quelli non potevano essere che due briganti o due spie.

Arrestati e tratti a me davanti intimai loro di indicarmi dove erano andati i briganti; ma essi cominciando al solito a fare gli stupidi, protestavano e giuravano di nulla saperne, essi che in coscienza non erano che poveri contadini intenti al lavoro.

Irrompendo allora con maggior violenza dissi loro: «i briganti sono passati di qui, io lo so, indicatemi la strada che hanno presa, o io vi faccio fucilare sul momento;» intimoriti, tremanti, pure persistevano a giurare singhiozzando che nulla sapevano dei briganti, allora il capitano Abrosio che come guida stava vicino a me:

«Maggiore, esclamò, costoro sono due briganti di Cervinara, io li conosco, bisogna fucilarli „ e spianato il fucile contro uno di essi, soggiunse: «infame assassino, voltati, e scostati che io ti devo fucilare» e questi voltatosi e fatti pochi passi salterellava sul posto come si, aspettasse da un istante all'altro la palla nella schiena, ma non parlava; scagliandomi io allora sull’altro «insomma, gli dissi, o parla, o ti faccio fucilare» ed in ciò dire gli vibrai tale una bastonata sull’orecchia sinistra, che stordito, piagnoloso, proferì queste parole: «Ebbene, io vi dirò dove sono andati i briganti, ma, per l’amor di Dio, non vi andate... quelli sono tanti, tanti assai, e vi ucciderebbero tutti».

Ordinai subito ad alta voce al tenente d'avanguardia di far marciare come guide fra bersaglieri i due individui, e che fossero loro fatte saltar in aria le cervella qualora avessero tentato di farci deviare d'un passo dal cammino che avevano preso i briganti.

Marciavamo così da due ore quando udimmo ripetuti colpi di fucile, ci precipitammo giù per balze e dirupi, e risalendo alla vetta del colle che mi stava dinanzi vidi in basso che la 2a Compagnia (capitano Bonacorsi), presa posizione, aveva aperto il fuoco contro la banda di Cipriano, il quale gridava: «Bersaglieri fermatevi!Miei cacciatori avanti!» Strana per non dire ridicola intimazione!... Forse che il Capitano generale di S. M. legittima il Re di Napoli pretendeva di battagliare contro i bersaglieri qual duce di antica legione romana....

Osservato che il grosso della banda aveva presa una buona posizione, e che alcuni gruppi di essa si erano appiattati nei fossi contro la 2a Compagnia, ordinai subito alla P Compagnia (capitano Paselli) di scendere dalla nostra destra per prendere i briganti alle spalle; alla 3a (capitano Capanna) di scendere di fronte per prenderli di fianco; alla 4a (capitano Cartacei) di correre in rinforzo alla 2!a Compagnia, quindi dopo lo squillo d’attenti diedi il segnale di carica alla baionetta; pochi momenti dopo i bersaglieri combattevano corpo a corpo coi briganti.

Intento alla mischia non mi ero accorto che un brigante si era nascosto in un grosso cespuglio pochi passi da me distante; un bersagliere, che l’aveva tenuto d’occhio, s’avanza a passo lento come se desse la caccia a qualche lepre, s’accosta al cespuglio, vibra fra i rami due o tre colpi di baionetta, ne salta fuori il brigante che punta il fucile contro lui, manca il colpo, cade in ginocchio e per la Madonna della Carmela domanda pietàAh per la Madonna della Carmela, ripete il bersagliere!... spiana la carabina, fa fuoco e stende a terra il brigante...

«Hai fatto bene» gli dico allora io, ed egli calmo mi risponde:» Maggiò chillu vulea fa male a vui, e io l’aggio accise...». «Bravo, ed io ti prometto la medaglia...» e l’ebbe.

Un dopo l’altro mi venivano poi presentati da bersaglieri individui che tenevano in mano una tromba, un trombone, ecc., ecc. Gli uffiziali sapendo che m’interessavo per avere una buona fanfara nel battaglione, risparmiandoli, li mandavano a me col loro istrumento, erano essi quei tali musicanti sequestrati da Cipriano quella certa sera delle nozze dei due campagnuoli.

Breve fu la lotta; i briganti, mal resistendo agli intrepidi attacchi dei bersaglieri, gettate via le armi e perfino le scarpe, fidando nelle accidentalità del terreno, presero a fuggire parte per guadagnare i monti verso Avellino, parte con Cipriano, Giona ed i cugini Papa alla testa per guadagnare il vallone presso Cervinara.

I bersaglieri in numero inferiore non poterono impedire la fuga che con fare parecchi prigionieri; ma a me importava sopratutto che non mi sfuggisse Cipriano con i suoi più fidi, e questi fuggendo per il vallone andavano a cadere nelle mani della Compagnia della Guardia Mobile che avevo lasciato allo sbocco di questo vallone con ordine di non muovere senza un mio comando.

Percorsi rapidamente il terreno ove più fiero era stato lo scontro, di tratto in tratto trovavo macchie di sangue, morti giacenti lunghi e distesi cogli occhi stravolti, colla bocca contorta, quali colpiti da proiettile, quali da baionetta; fra questi mi fece impressione il corpo d’un giovanetto bello in volto, vestito civilmente, con la camicia bianca macchiata solo dal sangue che gli sgorgava dal petto, e più in là tra i feriti gementi e contraffatti in volto dal dolore, un individuo dalle forme erculee, con capelli lunghi fino alle spalle e barba fitta e lunga fino al petto; come i suoi compagni, oltre allo scapolare che gli pendeva dal collo insanguinato, aveva egli sul calcio del fucile distesa una sacra effigie che, a quanto mi disse, gli aveva sempre fatta la grazia di mirar giusto.

Provveduto per i pochi bersaglieri feriti e con segnati i prigionieri alla 1a Compagnia da tradursi ad Arienzo, mossi ansioso colle altre tre Compagnie per Cervinara.

Ma quale non fu la mia sorpresa quando arrivato al fondo del vallone trovai il passo libero, e sgombro di militi? E quando passando per il borgo vidi le vie deserte, le finestre e le porte delle case chiuse?...

Appena entrato in Cervinara venne il capitano della Guardia Mobile a riferirmi che, impressionato, allarmato dalle voci corse in città, cioè che i bersaglieri erano stati sconfitti, e dal fuggi fuggi degli abitanti, che spaventati correvano a chiudersi nelle case e nelle chiese, egli aveva pensato bene di ritirarsi e di abbarrarsi in caserma per opporre valida resistenza agli invadenti briganti.

Biasimai vie più la condotta di questo capitano quando fui informato che Cipriano e compagni erano passati precisamente per il vallone e per le case del borgo fuggiaschi, ansanti, gridando: «fratelli... fratelli aiuto... che i Piemontesi ci assassinano!!» Tentai rimediare a questa grave mancanza mandando da due cavalleggeri avviso al battaglione di Montesarchio d’inseguire i fuggitivi, ma questi traversando lo stradale, a pochi passi appunto avanti la carrozza del generale, avevano cercato rifugio nelle terre di Caserta.

Ad ogni modo coi provvedimenti che intendevo io di prendere per trarre partito della sconfitta toccata ai briganti in quel giorno 18 dicembre 1861, considerai come debellata la banda di Cipriano la Gala, e mandai due telegrammi uno al generale La Marmora, l’altro al generale Franzini, concepiti in questi termini:

«Banda Cipriano la Gala distrutta, 50 briganti morti o feriti, 60 fatti prigionieri. Spedirò rapporto».

Molto gradito pervenne al generale La Marmora l’annuncio di questo fatto d’armi, che oltre a liberare finalmente la provincia di Terra di Lavoro dalla banda tanto temuta, scongiurava il pericolo che i chiamati alla nuova leva si bandissero ai monti piuttosto che andare a fare il soldato.

E graditissimo pervenne al generale Franzini che finalmente aveva sentito le fucilate non solo, ma aveva anche visto da vicino fuggire i briganti.

Giornali più o meno bene informati pubblicarono articoli su questo avvenimento, considerandolo come uno dei fatti d’armi più importanti contro il brigantaggio. L'Opinione riportò semplicemente il telegramma da me spedito al Comando.

Il più male informato di tutti fu un giornale ufficioso di Napoli il quale attribuiva il merito della disfatta della banda di Cipriano al prefetto d’Avellino, mentre che egli con una Compagnia della Guardia Nazionale non aveva fatto altro che arrestare una parte e metter in fuga l’altra d’una piccola raunata di briganti che s’erano rifuggiti nel suo territorio.

Si risentirono gli uffiziali del battaglione del racconto erroneo pubblicato in quel giornale, ed avendo trovato giusti i loro reclami, incaricai un tenente di recarsi a Napoli presso quella direzione onde invitarla a rettificare il fatto, ma l’impiegato, in assenza del direttore, pregò il tenente a ripassare più tardi. Poco dopo chiamato al gran Comando, capo di Stato Maggiore (colonnello Bariola) lo consigliava a sospendere l’inserzione dell’articolo da me scritto, ed a ritornare al battaglione ove avrebbe ricevuti dal maggiore ordini in proposito.

Infatti il dì seguente il generale La Marmora mi scriveva che, pur riconoscendo giusti i reclami degli uffiziali, trattandosi di cose delicate riguardanti un’Autorità, li invitava a desistere dal proposito di fare pubblicità. E noi ubbidimmo... Così si raggiunse lo scopo di fregiare il petto dell’Autorità prefettizia col distintivo dei valorosi.

Fu anche scritto Panno 1894 nel necrologio del Corriere della Sera di Milano che era morto il signor Del Balzo, liberale, buon patriota, ecc., ecc., cui io doveva molto di essere riuscito a debellare la banda del Cipriano la Gala. Che il sig. Del Balzo m’abbia data cortese ospitalità ogni qual volta ebbi a recarmi a San Martino, questo è verissimo, ma che egli abbia contribuito alla disfatta della banda, credo che vivente non l’abbia mai pensato.

Ben differente fu in questa come in altre circostanze il mio modo di pensare e di agire. «Ad eseguire gli ordini ricevuti dalla S. V. ordinai la sera del 17 dicembre 1861, ecc., ecc.» Così cominciava il mio rapporto che doveva per via gerarchica passare dal generale Franzini al generale La Marmora, e da questi al Ministero della guerra.

Come era da prevedersi, i profughi della banda battuti, girovaganti, dovevano poi avvicinarsi alle loro case spinti anche dall’attrattiva di passare le feste natalizie in famiglia.

Feci allora affiggere alle cantonate delle vie ed alle porte delle chiese manifesti stampati a grossi caratteri in cui esortavo i mal consigliati dal partito nero-borbonico a consegnarsi nel termine di otto giorni alle autorità civili o militari, ed avrebbero così avuta salva la vita non solo, ma si sarebbe anche per loro invocata la clemenza della legge; ingiunsi ai parroci di leggere e spiegare in dialetto dopo la messa il contenuto di questo manifesto e ne ottenni risultati tali, che se anche Cipriano fosse ritornato in Terra di Lavoro, non sarebbe più riuscito a formare una qualsiasi banda di malfattori.

XIII.

La stagione invernale, poco propizia a coloro che si erano banditi ai monti, rendeva meno difficile alla truppa il compito di mantenere l’ordine pubblico. Carabinieri, guardie di questura non avrebbero potuto fare un servizio migliore di quello che facevano allora i bersaglieri, tuttavia mi risultava che. due piccole bande, aggirandosi nelle vicinanze dei casolari, commettevano ogni sorta d’iniquità.

Un bel giorno l’aiutante maggiore mi annunziò un individuo, che, ricusando di dare il suo nome, voleva parlare con me segretamente d’affare di somma importanza; introdotto, si presentò un pezzo d’uomo sulla quarantina, con modi circospetti e misteriosi, che fatto il solito servile saluto: Eccellenza bacia a manu, cominciò così:

«Maggiore, io sono un vero italiano, un patriota veramente liberale, tanto è vero che io tengo un fratello carabiniere al servizio (inchinandosi) del nostro re Vittorio Emanuele, io darei il mio sangue tutto per il nostro Re, per la nostra bella Italia;» ed avrebbe continuato cosi ben alla lunga se non l’avessi interrotto dicendogli: «Va bene, veniamo al fatto, che cosa volete?» Allora egli con intonazione di voce e con gesti da far invidia ad un artista drammatico continuò:

«Maggiore, quando vedo voi ed i vostri bravi bersaglieri affaticare tanto per i monti, sudare, rovinare la vostra salute per liberarci dai briganti, mi addolora, mi piange il cuore sapendo che vi sono dei miei compaesani, dei birbanti, degli scellerati che proteggono e mantengono quelle canaglie, quelli assassini. Maggiore, io tengo un piccolo podere ed una casetta sulla montagna vicino al paesello di Castelletto sopra San Felice, ebbene è più d’un mese che vedo il compare Cecillo portar vivande e vino ai briganti non solo, ma anche sfacciatamente gozzovigliare con loro nel piccolo terreno, che egli possiede vicino al mio. Tutte le volte che vede arrivare i bersaglieri da quelle parti corre subito ad avvertire i briganti, oppure fa loro dei segnali convenzionali. Questo è troppo, maggiore, ed io per debito di coscienza, per quell’amore che porto ai soldati del nostro Re sono obbligato ad informarvi di tutto ciò, ma per l’amor di Dio, io vi raccomando il segreto, sull’onor mio quel birbante, che ha fatto il soldato nell’esercito borbonico, sarebbe capace di farmi freddo».

Gli domandai allora se i compagni del Cecillo erano anche manutengoli, ed egli pronto rispose: a Ah di questo non ne sono sicuro, io riferisco solo quello che ho veduto e quello che posso provarvi con due testimoni, i quali sono pronti a giurare come giuro io adesso e sull’onor mio ed in faccia a Dio che vede nel l’anima mia, che quanto vi ho raccontato è la pura verità».

....Prese le note necessarie, tanto riguardanti l’accusatore quanto quelle riguardanti l’accusato, lo licenziai.

L’indomani sul far del giorno con due Compagnie arrivai al luogo designato e vidi infatti l’indicate manutengolo che con due contadini lavorava o fingeva di lavorare la terra.

Arrestato e tratte a me davanti da due bersaglieri cominciai ad interrogarlo con calma e poi gradatamente con maggiore vibrazione di voce, e con minaccio tentai di renderlo reo confesso, ma egli pallido sì, ma tranquillo, rispondeva con parole tronche d’un dialetto di cui non potevo afferrare bene il senso. A un mio cenno il tenente d’avanguardia lo trasse in disparte dicendogli: «venite che è tempo di finirla, è tempo che io vi faccia fucilare», ma egli lo seguiva e si taceva sempre.

Ordinai allora al tenente d’invigilare su lui nella marcia poiché ad esempio dei traditori suoi pari l’avrei fatto fucilare in paese; così parlavo, ma avevo il presentimento che quel disgraziato non fosse poi tanto colpevole quanto me l’aveva dipinto il suo accusatore.

Giunti al paese le due Compagnie si schierarono sulla piazzetta nell’ordine stabilito per simili tristi circostanze, a maggior effetto della lugubre scena feci portare un tavolo presso cui dovevano sedere a Consiglio di guerra tre ufficiali, intanto mandai alla Chiesa per un prete che venisse a confessare il colpevole; comparve poco dopo il parroco piccolo, magro, dai capelli lunghi e bianchi come la neve, seguito da uno stuolo di curiosi; avvicinatomi a lui gli domandai se conosceva quell’individuo arrestato come complice dei briganti, ed egli, dopo averlo osservato da capo a piedi, mi rispondeva che essendo parroco da 50 anni in quel villaggio, conosceva molto bene tutti i suoi parrocchiani, che aveva sempre conosciuto l’arrestato per un buon uomo, per un uomo onesto.

«Sta bene, dissi, allora voi foste sempre ingannato poiché quello ò un birbante, manutengolo e spia dei briganti, confessatelo dunque, giacché appena pronunziata la sentenza, egli sarà fucilato.»

«Maggiore, egli soggiunse, voi comandate ed io ubbidisco», e ritiratosi in disparte col colpevole rimase breve tempo con lui e quindi venne a me con queste parole:

«Maggiore, il penitente si è confessato, ma prima che voi pronunciate l’ultima parola permettete a me povero ottuagenario che, autorizzato dal penitente, vi dica quanto ho saputo dal medesimo in confessione; l’accusatore dell’infelice Cecillo non può essere che il compare Gennaro, uomo tristo quanto mai, capace di qualunque misfatto pur di vendicarsi di chi lo contraria nei suoi progetti.» A questo punto interruppi il venerando sacerdote per dar ordine che immediatamente fosse arrestato il Gennaro, il quale in quel momento si trovava certo in casa per udire i colpi di carabina, che dovevano compiere la sua ben ordita trama di vendetta; quindi accennai al parroco di continuare.

«Per avere a suo profitto un piccolo corso di acqua che bagna il terreno attiguo del Cecillo fece di tutto e non vi riuscì; per isfogare le sue libidinose voglie con la di lui moglie tentò tutti i mezzi, ma fu sempre respinto, da ciò Podio, la smania di vendetta contro il povero Cecillo; se poi questi non seppe difendersi spiegando a voi queste cose, lo dovete attribuire alla paura ed alla difficoltà che egli provò nel parlare altro linguaggio di quello che si usava nell’esercito napoletano, ove servì molti anni quando ne facevano parte gli Svizzeri.» Giunto il Gennaro fra quattro bersaglieri, fatte le sorprese per il suo arresto, giurava per tutti i Santi del Paradiso che egli aveva detta la verità, che era pronto a presentare testimoni, e colle lagrime agli occhi giurava che il parroco era sempre stato suo nemico perchè egli era liberale, ed aveva un fratello al servizio del Re d’Italia ed avrebbe continuato a recitar la commedia se non gli avessi imposto silenzio.

E dopo tutto ciò a chi credere? Per non sbagliarmi ordinai che accusato ed accusatore fossero legati braccio a braccio e tradotti nella prigione d’Arienzo a disposizione dell’Autorità giudiziaria.

Scorrazzava da qualche tempo nei terreni fra Santa Maria a Vico ed Arienzo una piccola banda di circa 20 manigoldi comandati da certo Caporale Antonio, la di cui ferocia ed audacia l’avea spinto ad omicidi, a stupri, ed incendi quasi alle porte d’Arienzo.

Più volte con mosse repentine, con appiattameli si era tentato di sorprendere questa banda, ma sempre inutilmente, finalmente un plotone di bersaglieri guidato da due militi della Guardia Nazionale riuscì a circondarla in una piccola masseria.

Oppose il Caporale Antonio con tre compagni fiera resistenza, ma i bersaglieri loro furono addosso sì tosto, che se ne impadronirono mentre gli altri della banda nell’oscurità della notte riuscirono a mettersi in salvo.

Tradotti in prigione furono consegnati alla sorveglianza della Guardia Nazionale.

Conosciuto l’arresto gli abitanti ne esultarono poiché prima continuamente dovevano temere e per la loro vita, e per le loro proprietà.

Nel mattino seguente feci chiamare il prete Don Cesare, che fungeva da cappellano, buon tempone che godeva sovente dei nostri pranzi e delle nostre feste, e gli ingiunsi di recarsi nella prigione per confessare i colpevoli poiché dopo le 24 ore li avrei fatti fucilare, lo pregai inoltre d’insistere presso il Caporale Antonio per conoscere il luogo ove erano state nascoste molte armi, che secondo lui, dovevano essere riprese appena sarebbe scoppiata la rivolta contro i piemontesi ma il cappellano concitato mi rispondeva che la sua coscienza gli proibiva di svelarmi quanto avrebbe detto l’Antonio in confessione, al che alquanto contrariato saggiunsi io:

«Oh! oh! s' Don Cesare non ci confondiamo, siamo qui a quattro occhi e potrei dirvi, che conosco al pari di voi come il Concilio di Laterano, per volere del celebre Innocenzo III, abbia istituita la confessione, ma io non intendo già che voi svegliate cose che riguardano la coscienza del peccatore, ma bensì cose che riguardano la sicurezza pubblica, cose che voi potete sapere altrimenti, che non come ministro di Dio, cose che umanamente parlando voi potete palesare per risparmiare sangue e vittime innocenti; se poi fosse vero, che egli preferisse morire col segreto in corpo, egli deve sapere che morendo in peccato mortale sarà dannato all’inferno invece di andar in paradiso, come si dà ad intendere agli ignoranti scellerati pari suoi.»

Parve persuaso di queste mie confutazioni il reverendo, e calmo mi rispose: «Ebbene, io credo che voi abbiate ragione, perciò procurerò, riconciliando i miei doveri di sacerdote con quelli di buon cristiano, di farvi conoscere il luogo ove sono depositate quelle armi».

Venne verso sera a riferirmi il risultato delle pratiche fatte presso il capo banda, e queste essendo riuscite assolutamente inutili, ordinai che il famigerato Caporale Antonio fosse l’indomani fucilato nella schiena e che gli altri tre briganti rimanessero in prigione a disposizione dell’Autorità giudiziaria.

All’ora fissata una Compagnia si trovava schierata sulla piazza del paese a forma di quadrato con un lato aperto ove colla fronte rivolta al muro doveva prender posto il brigante.

Molta gente assisteva silenziosa alla tragica funzione; comparve il condannato fra quattro bersaglieri ed un caporale, che dopo avergli bendati gli occhi fece retrocedere di pochi passi i quattro bersaglieri e quindi comandò il fuoco.

Cadde boccone lo sciagurato, e fra gli astanti si udì con qualche battimano scorrere un rumorìo di soddisfazione, ciò che provava che il castigo era stato necessario, e che l’esempio sarebbe stato salutare in avvenire.

XIV.

Risultandomi che Cipriano la Gala con il fratello Giona ed i cugini Papa per sottrarsi alle ricerche della Polizia andavano nascondendosi di casa in casa nelle terre di Caserta, decisi di trasferire il Comando della sotto-zona ad Airola, posizione adattata per impedire loro il passo, sia che avessero tentato di scendere nella Valle Caudina, sia che avessero tentato per i monti di guadagnare la frontiera pontificia.

Volgeva intanto l’inverno al suo termine, e se la truppa non era ancora riuscita a schiacciare l’idra brigantesca, aveva però su questa menati colpi tali, che difficilmente avrebbe potuto risorgere con quella forza che aveva manifestato in sul principio della sua irruenza.

Una grossa banda era stata battuta nel mese di maggio dai bersaglieri a Lenola, e nei mesi seguenti il 31° battaglione ne aveva dispersa un’altra sull’Ofanto.

Una Compagnia del 24° con frazioni di linea e Guardia Nazionale aveva messo in rotta i briganti che si erano trincerati in Auletta e Boragino sulla strada di Potenza.

Il 29° li aveva battuti nel territorio di Nola, ove rimase ferito il maggiore E. Rossi.

A Ruvo e poi a Sant’Ilario nelle Puglie erano stati battuti dal 31° e di nuovo ad Orcello dal 29°.

A Somma, alle falde del Vesuvio, quasi alle porte di Napoli, una piccola ma temuta banda era stata sorpresa e battuta dal 20° battaglione.

Una Compagnia del 24° dopo varie scaramucce aveva raggiunto un’altra banda e l’aveva battuta a Montoro e Torchiaro sulla strada di Policastro.

Altri briganti erano stati battuti da reparti del 24° battaglione ad Amalfi e dal 33° a Torretta in Capitanata.

Furono pure messi in fuga e battuti dal 3° battaglione a Castello di Palma, ove trovava morte il tenente Roberto Castelli.

Un distaccamento dello stesso battaglione aveva liberato 17 uomini della legione ungarese assediati da centinaia di malfattori in Bella.

Ingrossati i briganti di bel nuovo a Castello di Palma erano stati sbaragliati dal 3° e 13° battaglione.

A Resigliano erano stati sconfitti dal 5° battaglione.

Nella Basilicata una Compagnia del 2° battaglione aveva messo in fuga una piccola banda, che si era trincerata in una masseria, ove un brigante avrebbe ucciso il sotto-tenente Sapelli, se un bravo caporale, dopo aver deviato il colpo, non avesse steso a terra il malfattore.

In Calabria i briganti erano stati battuti dal 32° e la banda di Chiavone era stata sconfitta al Monte delle Fate dal 28°.

L’intrepido maggiore Franchini con pochi bersaglieri del 1° battaglione aveva raggiunto nelle vicinanze di Tagliacozzo il generale spagnuolo Borgies col suo stato maggiore, venuti in Calabria per mettersi alla testa degli insorti; dopo breve ma disperata resistenza, presi prigionieri, li aveva fatti senz’altro fucilare.

Questi i risultati più rilevanti ottenuti dai bersaglieri, altri non pochi ne avevano ottenuti i battaglioni di linea. Le perdite inflitte ai briganti furono abbastanza gravi, mentre che se nei battaglioni destinati a sì penoso e faticoso servizio si ebbero a deplorare non pochi morti e feriti, fu piuttosto negli agguati e negli scontri di piccoli reparti con forze soverchianti, che in fatti d’armi collettivi.

XV.

Eravamo già in primavera inoltrata del 1862 e le provincie meridionali relativamente tranquille andavano a poco a poco accostandosi al nuovo regime, ma non vi era da illudersi, giacché i campioni del partito borbonico, incoraggiati dalla presenza del loro Re a Roma, dalla permanenza della francese fregata Orenoque nel porto di Civitavecchia, e favoriti dalla politica del Vaticano, il quale, col beneplacito di Napoleone III, imperante in Europa, ricorreva a qualunque mezzo pur d’avversare l’unificazione d’Italia, avrebbero senza dubbio reagito quandoché sia contro l’usurpazione dei Piemontesi!!

Tentarono intanto di rovesciare tutto l’odio della dolorosa lotta sulla milizia, trasmettendo alle autorità suppliche, reclami per abusi di potere, per prepotenze, ingiustizie e danni; ma La Marmora fermo e giusto procurava di difendere i suoi dipendenti e come prefetto e come generale.

Non s’acquietavano tuttavia i partiti ostili, e con parvenza di verità ricorrendo a scaltre insinuazioni a maliziosi intrighi, clamorosamente insistevano onde giustizia fosse fatta, mettendo a carico di questo o quell’altro ufficiale fatti ben orditi e gravi sì da impensierirne lo stesso generale.

Venivano perciò di tempo in tempo dal gran comando trasmessi anche a me reclami di questo genere con domande di schiarimenti.

Fu accusato il capitano comandante il distaccamento di Cervinara di percosse ai detenuti, di sevizie ai manutengoli, di favoritismo odi violenza alle loro mogli e sorelle, ed il documento d’accusa era convalidato da una ventina di firme dichiarate di persone oneste e distinte; ma recatomi sul posto per appurare i fatti, mi risultò che le persone citate nel reclamo non esistevano in paese, e che per conseguenza le firme erano false.

Sventata questa ed altre trame di simil genere venne il mio turno.

Fui accusato d’aver ordinato il disarmo della Guardia Nazionale, mentre che io non avevo fatto altro che prescrivere ai capitani di fare ripulire le armi e tenerle deposte sulle rastrelliere dei corpi di guardia, con un milite di sentinella, allo scopo di conservarle in buono stato, e facilitando la riunione dei militi, togliere l’abuso di allarmare gli abitanti, sparando di giorno e di notte colpi per le vicine campagne.

Fui accusato di aver imposto gravi spese ai Comuni obbligandoli a prendere abbonamenti a giornali dell’Alta Italia, ed invece io non avevo che consigliato i Sindaci a far ciò con poca spesa onde smentire le tante fiabe che si davano ad intendere nella sua grossa ignoranza al popolino, come per esempio, quelle che il Re di Piemonte avrebbe messa un’imposta di grossa somma sugli sposi por impedire il matrimonio fra popolani e permetterlo solamente V ai ricchi galantuomini, e che quanto prima Francesco II sarebbe venuto nella provincia di Terra di Lavoro mascherato da Vittorio Emanuele per vedere coi propri occhi quei sudditi infedeli che fossero accorsi a festeggiare il Re usurpatore, fiaba messa in giro affinché il popolo si astenesse dall’accorrere alla venuta del Re d’Italia a Caserta.

Fui pure accusato di avere con indignazione di tutti gli abitanti fatto fucilare sulla piazza d’Àrienzo un ladruncolo qualunque di campagna; per tutta risposta a quest’accusa mandai al generale La Marmora una dichiarazione firmata da due capitani della Guardia Nazionale, in cui era detto: essere stato l’individuo fucilato un temuto capobanda, un famigerato assassino reo d’omicidi, di stupri e di incendi.

Oh che! Speravano forse gli istigatori di queste accuse di vedermi condannato come lo era stato qualche mese prima quel capitano dei bersaglieri? Fu questi mandato colla sua Compagnia a sottomettere un paese in rivolta, ed aveva fatto fucilare i capi degli insorti, ad istanza delle Autorità civili sottoposto a processo per abuso di potere fu condannato a morte, ma il generale Cialdini, dopo avergli scritto che restasse pur tranquillo, giacché non gli sarebbe toccato un capello, né avrebbe perduto un giorno d’anzianità, ottenne la grazia sovrana.

Da quanto venne fin qui accennato si può facilmente arguire in quali deplorevoli condizioni si trovassero gli ufficiali impegnati nell’ingrata e penosa lotta.

Ma ben altri pericoli sovrastavano all’Italia.

Quell’uomo prodigioso, che tanto aveva fatto per l’indipendenza italiana, ribelle alle leggi dello Stato ed ai consigli del suo Re, spinto dalla Massoneria, tentava di sollevare le genti al grido di Roma o morte.

S’agitava a Palermo ed a Napoli il partito mazziniano, e nella confusione d’uomini, di principii e di avvenimenti, che potevano provocare una guerra disastrosa colla Francia, fu messa a repentaglio 1’esistenza della nazionalità italiana.

Fu proclamato lo stato d’assedio, e l’insurrezione si faceva sempre più pericolosa; ma a Napoli comandava un La Marmora, che non esitò a fare arrestare i tre deputati al Parlamento Mordini, Fabrizi e Calvino, indicati come capi dell'agitazione, e a dare le più severe disposizioni per reprimere qualunque moto rivoluzionario.

In Sicilia accorreva un Cialdini, il quale informato che il generale Garibaldi dopo aver deluso con offerte di tregua il generale Cugia che lo stringeva da vicino con forze considerevoli, aveva sorpresa Catania, e di là era passato colla falange di insorti in Calabria, ordinava al colonnello Pallavicini, comandante una colonna mobile di 1500 uomini circa, che passasse lo stretto, inseguisse Garibaldi l’assalisse, e lo facesse prigioniero.

Quest’ordine fu abilmente eseguito ad Aspromonte e la stella d’Italia spuntata nel 1848 al Nord, percorreva ascendente la curva tracciatale dal destino.

L’agitazione provocata dall’Eroe popolare, estendendosi dai grandi centri alle campagne, aveva aumentato il disordine nei piccoli paesi, ed i malfattori rianimati dalla confusione si arrabattavano per pescare nei torbido, mentre i briganti, rinforzate le file, s’apprestavano a nuovi misfatti.

Era dunque stato considerato giusto ed opportuno lo stato d’assedio, che conferendo maggiori poteri alle Autorità militari, queste avrebbero potuto. più facilmente rimediare a tanti mali.

Da San Felice, ove ai primi sintomi della sollevazione in Sicilia avevo trasferito il comando della sotto-zona, diramai ordini ai comandanti dei distaccamenti che procurassero di far mettere dai rispettivi Comuni qualche fanale per le vie fin allora rimaste al buio; che obbligassero i venditori di vino e di liquori a tener acceso un lume alle porte delle loro botteghe ed a chiudere alle 11 di notte; che i malfattori e manutengoli fossero trattati col massimo rigore; che dessero corso a qualunque reclamo che venisse loro fatto dagli abitanti, e che infine adottassero tutti quei provvedimenti che avessero creduti necessari per mantenere l’ordine e tutelare la sicurezza pubblica.

Conviene credere che i capi dei partiti sovversivi avessero giudicato che la Valle Caudina non era più terreno propizio alle geste brigantesche, giacché i mesi d’autunno scorrevano uno dopo l’altro, benché fosse cessato lo stato d’assedio, senza notevoli avvenimenti.

Solo un giorno mi fu segnalata in una località confinante col territorio di Benevento una banda di una quarantina di briganti parte a piedi, parte a cavallo, che probabilmente battuti ed inseguiti provenivano da Benevento o da Campobasso, ove il brigantaggio era risorto con maggiore vigore ed audacia.

Date le volute disposizioni al capitano della 4a Compagnia, consigliai il tenente di questa (Mondrone) ad approfittare dell’occasione, giacché desideravo che anche egli, come già tanti altri avevano ottenuto, avesse una giusta ricompensa al valore ed alle tante fatiche sopportate fin allora.

Partita di notte tempo, la Compagnia riuscì a sorprendere la banda, che messa in rotta lasciò sul terreno non pochi morti e feriti.

Compiuta così l'operazione con diligenza e coraggio potei proporre ed ottenere la medaglia al valore militare pel tenente, un graduato ed un bersagliere che maggiormente si erano distinti.

Il galantuomo barbuto non aveva mai tralasciato di venire da Sant’Agata dei Goti di quando in quando a vedermi, portandomi i saluti del Vescovo, di cui un bel giorno mi annunziò la visita.

Infatti due giorni dopo Monsignore, in pompa magna, scendeva alla casa da me abitata. Scambiateci le cortesie d’uso, mi rammentò il discorso tenuto fra noi nel suo giardino sul generale Garibaldi, ed io mi affrettai a rispondere che se egli non si era sbagliato nel prevedere la sommossa dal medesimo provocata, io mal non m’ero apposto quando asserivo che il governo avrebbe saputo reprimere qualunque disordine, anche se provocato dal più grande cittadino d'Italia; ne convenne Sua Eminenza, e da buon diplomatico evitò di esternare la sua opinione circa il decreto del governo, che impediva il passaggio nel Regno ai Vescovi che volessero recarsi a Roma, ove, prendendo occasione della festa per la canonizzazione dei Martiri Giapponesi, si voleva fare una grande dimostrazione contro l’ordine di cose che prendeva vita in Italia.

Accompagnato e salutato alla carrozza da me e da due ufficiali partiva prima di sera Monsignore, scortato da un bersagliere a cassetta e da un piccolo drappello di cavalleggeri agli sportelli.

Questi onori resi al capo della diocesi dai Piemontesi^ creduti eretici, fecero buonissima impressione nella popolazione, che religiosa a suo modo, rispettava e temeva molto le Autorità ecclesiastiche.

Ne fu soddisfatta Sua Eminenza, e più di tutti ne furono soddisfatti i soldati della scorta d’onore, che scesi al palazzo vescovile ebbero una buona cena, un buon letto, e al domani prima di partire dalle mani stesse del Vescovo una gratificazione di L. 2 per ciascuno.

XVI.

Sorrideva poco a me ed agli uffiziali la prospettiva di passare un altro inverno nella Valle Caudina, e questo essendo ormai vicino senza indizio alcuno di cambiamento, nelle frequenti gite che facevo a Napoli tentavo di essere destinato di guarnigione in questa città.

Sottoponevo alla considerazione del capo di Stato Maggiore che oramai quella Valle era libera dai briganti così che il battaglione aveva poco o nulla da fare in quei luoghi, che questo essendo frazionato da tanto tempo aveva bisogno di essere riunito per curare la disciplina e l’istruzione specialmente delle reclute, che per il lungo e faticoso servizio molti erano gli ammalati ed i convalescenti, che le armi per mancanza d’armaiuoli erano quasi inservibili, che il corredo tutto era in pessimo stato, e che infine era pur necessario attendere a quei benedetti lavori di contabilità per i quali arrivavano sovente rimproveri dai superiori, che, commodi in buone guarnigioni, non avevano riguardo alcuno per quei poveri battaglioni che erano continuamente in moto.

Trovò il colonnello giustissimo quanto nell’interesse del battaglione io gli aveva esposto, e mi assicurò che ne avrebbe riferito a Sua Eccellenza il Generale.

Da quel momento mi lusingai di passare l’inverno nella bella Napoli, invece alcuni giorni dopo ricevei l’ordine di partire per Caserta ove avrei potuto rimediare ai lamentati inconvenienti, ed all’occorrenza agire contro i briganti.

Benché il presidio sotto gli ordini d’un generale (Quintini) in questa piccola città si componesse d’un reggimento d’artiglieria, d’un reggimento di cavalleria e d’un battaglione di fanteria, pure mi fu assegnata una caserma abbastanza conveniente. In meno di due mesi il battaglione era ben riordinato e quasi, dirò così, rimesso a nuovo.

Era bello il vederlo passare pei’ le vie con la fanfara dei briganti alla testa (così detta volgarmente perchè di questa facevano parte quei tali musicanti che fatti prigionieri nella disfatta della banda di Cipriano erano stati arrolati nel battaglione). Era pur bello il vederlo sfilare nelle parate altero di quanto aveva fatto, e dei molti decorati che aveva fra le sue file, ma questo stato di quiete non doveva durare molto tempo.

Si manifestò una recrudescenza nella piaga del brigantaggio in diverse provincie e specialmente in quella di Benevento da dove arrivavano notizie gravi ed i giornali pubblicavano fatti inauditi di sangue e di crudeltà commessi quasi alle porte della città. Un distaccamento di 35 uomini e d’un uffiziale circondato dalle bande di Caruso e di Schiavone sarebbe stato massacrato a Francavilla a poca distanza da Benevento.

Dal Generale comandante la zona di Caserta mi fu allora comunicato l’ordine del gran Comando di partire sollecitamente a quella volta onde combattere i briganti e vendicare quei poveri nostri compagni.

Nel dì seguente di buon mattino entravamo in» Benevento, ed alle 11 ore sortivamo per perlustrare le località vicine ove, a quanto affermavano alcuni contadini, erano stati veduti il giorno prima i briganti, e dopo esserci assicurati che questi si erano allontanati di molto rientravamo verso le 3 in città.

Date le debite disposizioni al battaglione per partire l’indomani all’alba, mi recai dal Prefetto dal quale non potei avere che informazioni incerte essendo le comunicazioni state interrotte dai briganti stessi e quando gli chiesi come mai a pochissima distanza dalla città i briganti avevano potuto compiere l’eccidio di tanti poveri soldati, egli mi rispose così:

«Questo fatto doloroso è difficile a spiegarsi, pare che i manutengoli dei briganti con false indicazioni avessero attirata la poca truppa del presidio nei boschi e nelle macchie più lontane dalla città, che in questo mentre le bande di Caruso e di Schiavone appiattatesi in prossimità di Francavilla avessero spinto avanti un gruppo di loro ad attaccare il distaccamento. Furono pronti i soldati a prendere posizione ed a rispondere al fuoco, allora, a poco a poco i briganti simularono una ritirata ed i soldati animosi si diedero ad inseguirli finché caddero nell’agguato. Ad un tratto sbucò fuori da una parte la banda di Caruso, dall’altra, quella di Schiavone che circondando i soldati li massacrarono barbaramente sotto gli occhi dell’uffiziale ultimo ad essere crudelmente trucidato». Era appena tramontato il sole, che un lanciere a spron battuto entrava in Benevento per avvertirmi che il generale La Marni ora scortato da due squadroni di lancieri s’avvicinava alla città.

Fatto insellare un cavallo gli mossi incontro che già faceva la salita della porta principale di Benevento. Presentatomi a lui per ricevere i suoi ordini mi disse di buonumore che erano stanchi perle lunge trottate fatte nel lungo cammino, che avevano molto appetito e che dopo aver pranzato avremmo parlato d’affari di servizio, però strada facendomi fece non poche domande cui potei facilmente rispondere.

Giunti sulla piazza e messo piede a terra licenziò la scorta, ed entrammo nella vicina trattoria, mi invitò con il tenente-colonnello (Suardi) comandante i due squadroni (lancieri di Milano) con il capitano di stato maggiore (Ceresa) e l’aiutante di campo; ma avendo io pranzato poco prima lo ringraziai, e gli domandai il permesso di assentarmi onde provvedere il necessario ai nuovi arrivati; «va bene, mi disse egli, allora l’aspetterò qui a prendere il caffè con noi».

Al mio ritorno volle il Generale fare un giro per la città, ma le vie essendo quasi al buio, ritornammo’ presto sulla piazza e fermatici all’entrata del palazzo vescovile licenziò gli uffiziali del suo seguito, quindi salimmo nelle camere destinategli, e quando gli domandai se aveva altri ordini da darmi, mi rispose: «Sì, prima di tutto desidero avere domani uno scontro coi briganti».

«Ma, Generale, soggiunsi subito, questa è cosa difficile assai, come già le dissi, conosco bene il terreno per averlo battuto in lungo ed in largo altre volte, per arrivare alle macchie ed ai boschi, ove probabilmente s’aggirano in questo momento i briganti, bisogna percorrere lungo e malagevole cammino, e poi bisognerebbe far precedere d’una giornata almeno due o tre Compagnie per combinare un qualche movimento con probabilità di successo, si potrebbe ciò tentare fra due o tre giorni?».

«Eh no! rispose il Generale, io non posso rimaner tanto tempo fuori di Napoli,’ ma vi sarà almeno il modo di vederli in lontananza questi briganti? «Si può tentare, risposi, ma probabilmente faremo il cammino inutilmente». «Non importa, ripetè egli; faremo dunque così; ella verrà qui domattina alle 6, sortiremo insieme per vedere la città e la posizione ove furono massacrati quei poveri soldati, quindi monteremo a cavallo ed entreremo in campagna j ma si ricordi che mi rincrescerebbe di ritornare a Napoli senza avere almeno veduti i briganti.

«Generale, non ne sono sicuro, ma lo spero», ciò detto presi commiato.

Eravamo nella seconda quindicina di febbraio per cui alle 6 era ancora scuro, tuttavia all’ora fissatami bussai alla porta del Generale che pronto per uscire mi intrattenne fino allo spuntar del giorno su cose riguardanti la provincia di Benevento, quindi uscimmo.

Al fondo delle scale ci aspettavano il capitano di stato maggiore e l’aiutante di campo. La città era ancora immersa nel sonno e nel silenzio, le porte e le finestre delle case erano chiuse e per le vie deserte non si vedeva che qualche cane raspare nelle immondizie per isfamarsi e qualche maiale nei vicoli cercare cibo col muso nel sudiciume. A questa vista il generale rivolto a me disse: «Pare che la pulizia sia molto trascurata in Benevento?».

«Generale, risposi, ciò non deve farle meraviglia, una città che porta nello stemma un maiale non considera le immondizie come cose indecenti e dannose alla salute». «Come? interruppe il Generale, lei scherza!» ed in ciò dicendo passavamo avanti un lungo casamento in cui alla sommità della porta si scorgeva dipinto nell’arme un maiale dal di cui dorso da una parte e dall’altra pendeva una stola; «osservi» dissi al Generale, ed egli; «Oh questa è bella, esclamò, oh questa è bella! ma che cosa significa cip?».

«Ciò significa, risposi, l’abbondanza sotto la protezione della Chiesa». «Bella davvero, ripeté, oh! se lo sapesse il Fischietto! (giornale umoristico).

Voltando a sinistra della via principale, dopo breve salita, ci trovammo su d’un bastione da dove si poteva vedere il corso del Calore e buon tratto della campagna beneventana. I)a questo punto vedemmo le tre compagnie del battaglione partite un’ora prima, marciare in direzioni diverse per trovarsi al luogo da me stabilito quando io sarei sortito dalla città con l’altra compagnia insieme al Generale. Dopo ciò invitai il Generale a salire sopra un terrazzo d’una casupola a poca distanza da noi, da questo luogo elevato gli indicai la posizione di Francavilla; vedendo che egli era poco soddisfatto del suo cannocchiale, gli offrii il mio binoccolo, che trovò buonissimo. — Lo credo, dissi io, questo appartenne al generale Montevecchio.

«Ne abbia, mi rispose, ben cura, anche come ricordo prezioso di quel bravo soldato, che, colpito in petto alla battaglia della Cernaia, dopo tre giorni spirò nella sua tenda sulle mie braccia con queste ultime parole sulle labbra... Evviva il Re.

Nel ritornare sulla piazza per montare a cavallo il generale mi domandò se era da molto tempo che il battaglione prestava servizio contro il brigantaggio; presi la palla al balzo e gli risposi: che da 20 mesi il battaglione prestava quel penoso e faticoso servizio, che molti erano gli ammalati, che essendo stato per. lungo tempo frazionato, aveva ancora bisogno distruzione e di disciplina; rivolto il generale al capitano di stato maggiore a bassa voce gli disse qualche parola, che ritenni di buon augurio, quando vidi il capitano estrarre il taccuino e prender nota di quanto gli aveva detto il generale.

Preceduti da una compagnia e seguiti da uno squadrone, verso le 8 sortimmo dalla città. Più per inspirazione che per calcolo ordinai all’avanguardia di marciare verso Pietrelcina. Si marciava da due ore fiancheggiati dalle altre compagnie per aspri sentieri, ora salendo ora scendendo irti colli, ed il generale cominciava ad impazientarsi quando scorgemmo lontano lontano una trentina di briganti a cavallo che salivano lentamente una collina quasi a noi di fronte.

«Eccoli, esclamò il Generale».

«Sì, risposi, quelli sono incaricati di spiare le nostre mosse, marciano in direzione di Castelvetere, probabilmente per riunirsi al grosso della banda.

«È molto lontano di qui Castelvetere?, domandò il Generale».

«Oh sì, risposi, però ci potremmo arrivare prima di notte».

«Allora è inutile, egli soggiunse, che io prosegua, ella può continuare col suo battaglione e se potrà mi mandi nella notte un rapporto sull’operazione che avrà eseguita verso Castelvetere. In quanti giorni crede lei di poter percorrere utilmente il territorio infestato dai briganti?».

«In non meno di otto giorni, risposi».

«Sta bene, ripeté Sua Eccellenza, domani arriverà a Benevento il generale Quintini, procuri di tenerlo informato di quanto può avvenire in questi giorni affinché egli possa mandarmene rapporto a Napoli, quindi ella ritornerà a Caserta ove riceverà altri ordini dal medesimo». Ciò detto mi strinse la mano e ritornò a Benevento scortato dallo squadrone di lancieri.

Riunito il battaglione continuammo a marciare in direzione di Castelvetere; ma per quante domande facessimo colle buone e colle minaccie lungo il cammino, non si riuscì a metterci sulle traccie dei briganti. Giunti a Castelvetere, il sindaco ed il capitano della Guardia Nazionale non seppero dirmi altro che in paese si supponeva che i briganti s’aggirassero nei pressi del monte Guardia; decisi perciò di volgere le nostre ricerche da quella parte col proposito di spingerle poi nel territorio di San Bartolomeo.

Avendo potuto avere dal sindaco un messo, che mediante un compenso di L. 10 s’incaricava di andare a Benevento, nella notte mandai al Generale il rapporto della giornata e di quanto intendevo di fare nel dì seguente.

Partiti sul far del giorno, dopo qualche ora di marcita il tenente d’avanguardia veniva ad avvertirmi, che a considerevole distanza si era veduta una banda salire il monte; mandai subito due Compagnie alla sinistra per tagliarle la strada, ma queste giunsero appena a tempo a scaricare le carabine nella schiena dei briganti che di galoppo fuggivano dalla stessa parte d’onde noi eravamo venuti, ciò che mi fece supporre che essi avrebbero passata la notte nel bosco di Castelvetere, e così dopo aver perlustrato i boschi e le vicinanze del monte la Guardia, ritornammo a Castelvetere.

Al domani, poco prima di giorno, una parte del battaglione stava appiattata nei luoghi ove probabilmente sarebbero passati i briganti, col rimanente entravo nel bosco a snidarli, ma fu tempo sprecato, fatica inutile, giacché nella notte essi avevano sgombrato di là per portarsi ad altri luogo più sicuri.

Le informazioni avute per la campagna e per il paese variavano una dall’altra; chi diceva che una grossa banda era stata veduta sulle alture di San Bartolomeo, chi credeva invece che questa fosse passata sui monti della Molinara; dedussi da questo divergente referto che probabilmente io aveva da fare con due bande una di fronte, l’altra alle spalle, manovra sovente messa in uso dai capibanda Caruso e Schiavone.

Avrei voluto, dividendo il battaglione, operare contemporaneamente verso le due bande, ma le compagnie essendo ridotte a non più di 50 uomini presenti, preferii prima agire verso San Bartolomeo e poi verso la Molinara, tanto più che queste due località distavano parecchi chilometri una dall’altra. Per conseguenza mandai rapporto al Generale che l’indomani mi sarei messo sulle traccie della banda di Caruso per attaccarla o quanto meno per cacciarla fuori dei limiti della provincia, e poi avrei fatto altrettanto contro quella di Schiavone.

E così avvenne difatti. La banda di Caruso appena ci vide comparire prese la direzione di Campobasso, inseguita passò nel territorio di questa provincia. La banda di Schiavone, incontrata due giorni dopo fra la Molinara e San Giorgio, si diede a fuggire pure in quella direzione, inseguita riuscì a passare i limiti delle terre beneventane.

Persuaso, che con briganti a cavallo che fuggivano sempre, il battaglione che non contava più di 200 uomini non avrebbe potuto far di più, decisi di sostare a San Marco de’ Gavoti e quindi di ritornare a Benevento per essere a Caserta il giorno stabilito.

Essendo il generale Quintini partito il giorno prima del mio arrivo, mi recai a conferire col Prefetto, il quale si mostrò sollevato da un gran peso quando seppe che il territorio era liberato, almeno per ora, dalle bande di Caruso e di Schiavone. Avendogli poi il generale La Marmora personalmente promesso che quanto prima avrebbe spedito forze considerevoli non già in via provvisoria come altre volte, ma in modo permanente, egli sperava che non si sarebbero più ripetuti i fatti di sangue e di terrore che desolarono e rovinarono moralmente e materialmente la provincia di Benevento.

Ritornato a Caserta il battaglione fu destinato a percorrere diverse provincie in colonna mobile. Partito nei primi giorni di marzo ritornò a Caserta nel mese di giugno. Non ricordo più tutte le operazioni eseguite in questo, periodo di tempo, ricordo solo d’aver battuto le terre ed i monti di Piedimonte, di Ponte Corvo, d’Ariano, Bovino, Greci ed il tavogliere delle Puglie, e d’aver incontrato in due di questi paesi la Commissione parlamentare che visitava le provincie infette dal brigantaggio per istudiarne le cause e proporre i rimedi al Governo per poterlo sradicare. In questo frattempo al Comando della zona di Caserta veniva destinato il generale Burnod.

Passammo i mesi di maggio e giugno a Caserta senza avvenimenti notevoli, solo toccò al battaglione di agire contro piccole bande di malfattori, che s’aggiravano fra i monti Vigo e San Michele al disopra di Maddaloni, e di rimettere l’ordine in quei luoghi con frequenti perlustrazioni.

Su per le montagne sovrastanti a Caserta Vecchia si esercitava da squadre armate in grandi proporzioni il contrabbando; toccò ai bersaglieri fare anche da doganiere, ed in pochi giorni, sbaragliati i contrabbandieri, poterono sequestrare una grande quantità della merce di contrabbando specialmente tabacco.

XVII.

Nel mese di marzo il brigantaggio infieriva di nuovo nella provincia di Benevento. Le bande di Caruso e di Schiavone, ricomparse più numerose e più feroci, spargendo il terrore ovunque andavano guadagnando al loro partito molti campagnuoli ed abitanti dei piccoli paesi. Il presidio, rinforzato da un battaglione di bersaglieri, due battaglioni di linea e due squadroni di cavalleria, operando energicamente contro le grosse e piccole bande ne aveva ottenuto i risultati seguenti:

25 marzo. — Il comandante il 6° battaglione bersaglieri (maggiore Giolitti) in perlustrazione con due Compagnie verso Buonalbergo, incontrava e metteva in fuga la banda di Schiavone.

30 marzo. — I briganti sorpresi dal medesimo maggiore presso il bosco San Giorgio, fuggivano lasciando sul terreno un cavallo e trasportando con loro quattro compagni feriti.

15 aprile. — Una Compagnia del 6° battaglione bersaglieri (capitano Arrigosi) riusciva a circondare una masseria ed a sorprendervi undici briganti. Avendo questi opposto disperata resistenza, ed avendo già ferito un caporale ed un bersagliere, a snidarli si era dovuto appiccare il fuoco alla masseria. Dieci briganti rimasero uccisi sul posto, e l’ultimo caduto nelle mani dei bersaglieri fu fucilato.

17 maggio. — Quindici briganti a cavallo attaccati nelle macchie di San Giorgio da una Compagnia del 45° reggimento e da una Compagnia di bersaglieri, vennero messi in fuga ed inseguiti fino a sera avanzata.

9 giugno. — Questi stessi briganti incontrati dalla 3* Compagnia bersaglieri (capitano Gazzoletti) nel bosco della Barrata, dopo pochi colpi di carabina, fuggirono abbandonando una giumenta.

16 giugno. — Il maggiore Giolitti con 70 bersaglieri e 40 cavalleggeri aveva attaccata la banda di Caruso in un bosco presso Riccia, ma favorita dalla qualità del terreno era riuscita a fuggire.

4 luglio. — Il tenente Alliano con 18 bersaglieri, 25 soldati del 2° reggimento e 25 cavalleggeri aveva attaccata la banda di Caruso, ma questa col favore della notte era scomparsa.

5 luglio. — La 2a Compagnia (capitano Cassano) postasi in agguato, vide sfilare fuori tiro la banda di Caruso, la inseguì fino alla masseria Sferracavallo. Un brigante rimasto indietro fu fucilato, e cinque cavalli rimasero nelle mani dei bersaglieri.

Questi ed altri simili fatti compiutisi dai battaglioni di linea, considerati parzialmente, acquistavano una qualche importanza; ma considerati complessivamente lasciavano desiderare maggior efficacia.

Si pensava dunque al gran Comando, che dal colonnello comandante la zona, il quale aveva ai suoi ordini un battaglione di bersaglieri, tre battaglioni di linea e due squadroni di cavalleggeri, si potesse pretendere qualche cosa di più, che scontri di riparti, inseguimenti e scaramuccie, che i briganti evitavano con perdite insignificanti.

Intanto correvano voci allarmanti sulle condizioni di quella provincia: molti contadini di connivenza con i briganti s’apprestavano a marciare con loro su Benevento, ove un partito s'agitava in loro favore, i briganti avevano circondata la città e con minaccie d'incendiare le masserie e di uccidere i coloni di tre ricchi cittadini, avevano loro imposta una contribuzione di lire 50 mila.

Fu allora che ricevetti il seguente telegramma: Parta col suo battaglione. Prenda comando della sona di Benevento. Spero sarà più fortunato.

Alfonso Lamarmora.

Un'ora prima che spuntasse l'alba dell'8 luglio eravamo già arrivati vicino a Benevento, ma essendo i soldati stanchi dalla marcia accelerata arrestai il battaglione per dare loro un’ora di riposo.

Nell'oscurità e nel silenzio della notte le lunghe file nere dei bersaglieri sdraiati per terra da una parte e dall'altra dello stradale, bianco dal polverio, le armi e gli zaini deposti accanto a loro, gli alberi della vasta campagna che si confondevano nelle tenebre coi casolari vicini; le vetuste mura e la tetra torre della città in altri tempi rinomata per geste guerresche offrivano un non so che di romantico, che mi disponeva più a fantasticare passeggiando su e giù, che a desiderare nel riposo un poco di sonno. Un calpestìo di cavalli che si avvicinavano a noi mi richiamò alla realtà dei fatti e delle circostanze. Era un maggiore con alcuni uffiziali, il quale giunto ai primi bersaglieri d’avanguardia domandava ad alta voce di me; ci incontrammo a metà delle file, e dopo essersi egli meco congratulato per l’importante missione affidatami, cominciò a censurare la condotta delle autorità cittadine, ed in ispecie quella del Prefetto, il quale, secondo lui, aveva fatto male a permettere il pagamento delle lire 50 mila ai briganti, e peggio a farlo col danaro del governo; lo invitai a tacere, giacché, come egli poteva ben capire, queste dicerie non potevano certo fare buon effetto fra i miei soldati; quindi, montato a cavallo, dopo il segnale d’attenti, feci dare quello di marcia avanti, ed ai primi crepuscoli dell’aurora al suono della nostra buona fanfara entravamo in Benevento.

Schierato il battaglione sulla piazza di fronte al palazzo vescovile, e dato ai capitani gli ordini necessari per la giornata, mi avviai all’alloggio del colonnello; lo trovai mortificato, abbattuto per gli ordini ricevuti dal gran Comando e feci del mio meglio per mitigare la pena, che egli provava nel consegnarmi le carte d’ufficio, e nel cedermi il comando della zona.

Mi fu assegnata una parte del palazzo vescovile per sede del Comando, e per il mio alloggio, invece delle poche e modeste camere che occupava il colonnello; ciò che combinava colle mie idee, poiché l’economia e la modestia non erano cose ben intese in quei paesi, che tenevano ancora molto alla parvenza ed al lusso spagnuolo.

Esaminata la corrispondenza e presa cognizione del modo con cui si faceva il servizio, non tardai ad accorgermi che il sistema adottato dal colonnello non corrispondeva ai dettami di buona guerra contro briganti a cavallo.

Valoroso soldato e buon cacciatore moveva egli il più delle volte con 40 o 50 soldati in cerca dei briganti, come avrebbe fatto a dar la caccia alla selvaggina. I maggiori agivano ciascuno per loro conto, i capitani, ed anche gli uffiziali inferiori di loro iniziativa correvano alla ricerca dei briganti, e s’arrestavano in quel villaggio e per quel tempo che loro pareva meglio; in questo modo si riusciva bensì alle volte ad avere qualche scontro, qualche scaramuccia con i briganti ed a metterli in fuga, ma perdendo il vantaggio delle forze numeriche, e delle mosse combinate si ottenevano risultati di poca importanza, mentre che i briganti, sfuggendo i combattimenti, corrispondevano, con perdite insignificanti, alla volontà di quei partiti che facevano di tutto per demoralizzare l’esercito, e rovinare le oramai esauste finanze del nuovo Regno. La sera stessa mi recai dal Prefetto, dal quale ebbi la più lusinghiera e cordiale accoglienza, e pregatolo a darmi tutte quelle informazioni che potrebbero essermi utili nel disimpegno dei miei doveri, egli così mi disse:

«Caro maggiore, voi già conoscete i nostri guai, voi sapete in quali tristi condizioni si è trovato questo povero paese, io già prevedevo che si andava di nuovo incontro a qualche sciagura, ne preveniva a più riprese il colonnello, ma egli buono, fidente forse troppo nell’azione dei suoi subordinati, mi rispondeva tranquillo, che nulla di grave poteva accadere, e che col tempo e colla pazienza la provincia sarebbe stata liberata dal brigantaggio; invece il numero dei briganti e dei loro aderenti sia nella campagna come ne’ paesi aumentava di giorno in giorno, finché un mattino ci svegliammo sorpresi, spaventati al vedere i briganti sfilare quasi sotto le mura, postandosi in modo il più minaccioso contro la città, ove i loro partigiani cominciavano ad agitarsi per fare causa comune con loro».

«E la truppa?» domandai io.

«La truppa, mi rispose, come altra volta, era stata forse attirata per false informazioni dei manutengoli nei boschi e sui monti ben lontani, dal momento che i briganti non si impensierivano del suo sopraggiungere.

«Il colonnello, rimasto senza soldati alla mano, fuori di se dalla sorpresa, disperato voleva avventarsi contro i briganti coi soldati di guardia alle carceri e con quei pochi di servizio in caserma; ma io lo distolsi, ed il Procuratore del Re lo consigliò a desistere da questo pericoloso proposito, giacché dei guardiani vi era poco da fidarsi, ed i detenuti cominciavano a tumultuare, e se questi fossero riusciti ad aprirsi un varco qualunque, centinaia e centinaia di malfattori, irrompendo per le vie, si sarebbero uniti ai briganti ed avrebbero messo a ferro e fuoco la città.

«Perduta la speranza di veder accorrere qualche reparto di truppa a difesa della città, si presentarono a me il marchese P... ed i baroni C... e E... con tre lettere minatorie di Caruso, in cui era scritto che essi gli mandassero subito lire 50 mila, altrimenti i suoi briganti avrebbero ucciso i coloni ed abbruciate le vicine masserie di loro proprietà.

«Che cosa dobbiamo noi fare sig. Prefetto?

«Dobbiamo noi mandare il danaro, o dobbiamo lasciar uccidere i nostri poveri contadini ed abbruciare le nostre masserie?

Queste parole mi misero in una crudele alternativa, e credei cosa equa ed umana dare questa risposta:

«Come Prefetto devo consigliarvi a rifiutare il pagamento della somma richiesta dai briganti, come S... per risparmiare quelle povere vittime e maggiori calamità al paese sono costretto a consigliarvi rinvio delle 50 mila lire».

«Ed avevano i tre signori, domandai io, la somma lì per lì pronta?...».

«Ah!... ah!... ho capito, rispose egli, mi si fa colpa di aver loro imprestata detta somma coi fondi della tesoreria; ma quando essi mi dichiararono che non possedevano pel momento somma sì considerevole, potevo io umanamente parlando far altrimenti? Io ho la coscienza d’aver fatto il mio dovere e come rappresentante del governo e come cittadino, e non credo che il Ministro possa biasimare questa mia azione non dirò generosa, ma necessaria».

«Erano dunque molti, a questo punto esclamai, erano molti i briganti per imporsi ad un città di 25 mila abitanti con un battaglione della Guardia Nazionale?».

«Parmi avervi già detto altre volte, rispose, che la più gran parte della popolazione, legata per tradizione e per interesse al passato regime della Chiesa, era contraria al nuovo governo, che poco o nulla si poteva contare sulla Guardia Nazionale, tanto è vero che tempo fa, la maggior parte degli uffiziali rinunciarono al grado, ed i militi si sciolsero per non prestare servizio. Quanto poi al numero dei briganti è da ritenersi che i capi delle bande reclutano per le campagne quanti individui possono loro convenire; li obbligano per amore o per forza a prender parte alle operazioni in cui hanno bisogno di mostrarsi con molta gente, i cavalli poi li prendono dove si trovano ed abbandonano quelli che non sono più atti al loro servizio».

Concluse infine che occorrendomi qualche cosa contassi su lui liberamente, come egli contava su me per rimettere l’ordine e dare un poco di tranquillità a quel disgraziato paese.

L’indomani, chiamati a rapporto i quattro maggiori ed i due capitani di cavalleria, diedi loro lettura del telegramma ricevuto dal generale La Marmora, accentuando le parole spero sarà più fortunato, ed esprimendo la mia ferma volontà di corrispondere alla fiducia in me riposta dal generale.

Descrissi quindi sulla carta geografica alcune linee curve in modo da formare quasi un semicircolo coll’apertura volta alla città, e diviso questo circolo in quattro piccoli dipartimenti ne assegnai uno a ciascun maggiore, che mantenendo una Compagnia nel paese da lui occupato doveva distaccare le altre tre a destra e sinistra nelle borgate o masserie a distanze tali che con pattuglie potessero collegarsi colle Compagnie del dipartimento vicino, assegnai a tre Compagnie del mio battaglione tre posti più vicini a Benevento, così che il terreno ove solevano signoreggiare i briganti veniva ad essere circondato da 19 Compagnie. L’altra Compagnia del mio battaglione ed uno squadrone di cavalleggeri rimanevano a’ miei ordini alla sede del Comando.

L’altro squadrone, diviso in piccoli drappelli, doveva alle nostre spalle dalle ghiaie del Sabbato battere lo stradale che volge a Montesarchio per proteggere anche il transito delle vetture postali.

Gli ordini, i rapporti, sì verbali che in iscritto dovevano da una Compagnia all’altra essere trasmessi al maggiore più vicino. Erano i comandanti i dipartimenti autorizzati in caso di bisogno ad eseguire movimenti parziali ed anche collettivi, ma dovevano sempre informarne il comando della zona.

Tenuto calcolo delle distanze varie e delle difficoltà pel trasporto dei bagagli, accordai tre giorni di tempo, cioè fino all’11, affinché tutti fossero a loro posto.

Infine avvertii i maggiori che a tempo opportuno sarei sortito dalla città colla Compagnia e collo squadrone per rintracciare ed inseguire i briganti fino a tanto che questi fossero stati costretti ad entrare nel terreno delfinio o dell’altro dei quattro dipartimenti.

Nel dì seguente con lettera del gran Comando mi si domandavano informazioni sulle condizioni della provincia, schiarimenti su quanto intendevo di fare contro i briganti, e mi si raccomandava di agire contro questi sollecitamente.

Risposi che la popolazione sia in città come in campagna era tranquilla, che per conseguenza era scongiurato il pericolo d’un movimento qualunque di reazione, e che per quanto riguardava i briganti aveva già date le necessarie disposizioni, ma che non poteva agire con qualche probabilità di successo prima di quattro o cinque giorni.

Ed in vero non fu che il giorno 13 che cominciò un’azione vigorosa contro la banda di Caruso, che attaccata da due Compagnie comandate dal maggiore Giolitti, nelle adiacenze della masseria Meraviglia, intoppava in un’altra Compagnia partita dalla Molinara che l’inseguiva fino a notte. Dai rapporti che mi pervenivano poi da diverse parti risultava che tanto la banda di Caruso quanto le altre bande secondarie avevano in varii scontri subito gravi perdite d’uomini e cavalli.

Ma il giorno 14 passò senza novità alcuna, aspettai fino a tarda notte e ancora niente. Questo silenzio mi diede molto da pensare e tanto pensai che mi resi convinto che la banda di Caruso doveva trovarsi vicino alla città e con tutta probabilità a Francavilla, ove egli per l’eccidio di quei poveri soldati poteva ancora contare sulla fedeltà de’ suoi manutengoli.

Mandati a chiamare a mezzanotte i due capitani ordinai loro che alle due si trovassero colla Compagnia e collo squadrone alla porta occidentale della città per sortire con me in perlustrazione, ma lo squadrone ritardò quasi d’un’ ora, ritardo che il capitano cercò di scusare col dirmi che questo era stato cagionato da un suo ordine mal inteso per dare la biada ai cavalli, ritardo che sconcertò il mio progetto, che era quello di arrivare di notte tempo nel maggior silenzio a metà della collina, sul di cui piano s’ergeva la masseria, ove supponevo che i briganti passassero la notte, ed ivi appiattati i bersaglieri saltar fuori all’alba per sorprendere i briganti, che pur riuscendo a fuggire sarebbero stati sciabolati da cavalleggeri appostati dalla parte opposta ai piè della collina.

Invece arrivando noi sul far del giorno fummo veduti a distanza dalle vedette che con alcuni colpi di fucile diedero Fallarmi, e per quanto accelerassimo il passo i briganti fecero a tempo a saltar a cavallo e mettersi fuggendo al sicuro dal tiro di carabina non solo, ma anche dal pericolo di essere raggiunti dai cavalleggeri.

Nel vasto caseggiato non trovammo anima viva. Vedemmo tutto all’intorno e nell’interno di questo molti giacigli di paglia, qualche benda con filaccie macchiate di sangue, e sparsi qua e là rimasugli di cibo e di bevande; perlustrammo bene i dintorni della campagna, ma non ci fu fatto trovare un qualche individuo cui chiedere conto dei fuggiaschi.

Acquistata la certezza che Caruso si trovava nella nostra zona d’operazione riprendemmo a marciare diagonalmente a destra colla speranza di poterlo spingere contro qualche Compagnia delle tante che agivano contro di lui. Verso le 4 pom. udimmo ripetuti colpi di fucile dalla parte di San Giorgio la Molara; marciammo in quella direzione e verso sera riparammo a San Marco de’ Gavoti.

Dalle informazioni prese lungo il nostro cammino mi risultava che molti briganti intimoriti dai pericoli cui andavano continuamente esposti avevano abbandonato i loro capi, che la stessa banda Caruso ridotta a poco più di 50 individui erasi probabilmente rifugiata nei boschi vicino a San Giorgio la Molara.

Deciso a non darle tregua ai primi albori del giorno 16 da San Marco de’ Gavoti, paese posto su erto colle, scendemmo per lo stradale per dirigerci alla località indicata; dopo breve tratto dal zoppicare del mio cavallo, fortissimo di gambe, mi accorsi che quel birbante di maniscalco che l’aveva ferrato la sera prima a San Marco l’aveva inchiodato nell’ugna maliziosamente in modo, che io non potessi servirmene contro i briganti, montai perciò il cavallo del trombettiere che si contentò di seguirmi a piedi.

Non avevamo ancora fatto un’ora di cammino che udimmo sulla sinistra e dietro di noi continuati colpi di fucile, ci arrestammo e vedemmo in basso i briganti che inseguiti a breve distanza dalla seconda Compagnia traversavano a tutta corsa il torrente Tammaro per salire la riva vicino a San Marco.

Chiamato subito a me il capitano dei cavalleggeri gli dissi queste precise parole:

«Vede, capitano, laggiù i briganti inseguiti dai bersaglieri? Vede? ecco uno è caduto a terra; vede un altro è caduto, ma rimonta a cavallo; vede quel tenente (Amari), che raccoglie una pezzuola caduta dalla druda di Caruso? Osservi, porgendogli il mio binoccolo».

«Oh sì, mi rispose il capitano, ho veduto benissimo anche ad occhio nudo».

«Va bene, soggiunsi io, sa lei che cosa vuol fare Caruso? Salita la riva vuole traversare lo stradale per guadagnar la pianura, ed allora addio briganti. Parta dunque collo squadrone per tagliargli la strada, non risparmi le sciabolate e noi verremo subito a fare il resto».

Ora discendendo ora salendo noi basse colline parallelamente allo stradale rifacemmo cammino per prendere i briganti di fianco; dopo qualche tratto di faticosa corsa udimmo una scarica di fucileria. «Presto presto,» dissi allora al capitano (Paselli); ma egli ansante, colla lingua fuori della bocca, mi fece segno che era impossibile ai bersaglieri correre di più. Mi venne in quel momento una buona idea; preso il pistolone dal cavalleggero che a stento mi seguiva a piedi, di galoppo guadagnai la vetta d’una e poi d’un’altra collina, e visto che i briganti erano alle prese coi cavalleggeri, feci fuoco. Il colpo attirò su me l’attenzione dei briganti, che temendo ravvicinarsi dei bersaglieri rimontarono a cavallo e fuggirono.

Giunti subito dopo sul luogo dello scontro, sorpreso dello scompiglio dello squadrone, ordinai ai bersaglieri di prender posizione avanti per dar tempo ai cavalleggeri di riordinarsi e mandai ad avvertire la compagnia più vicina a San Marco d’inseguire i briganti.

Mi si presentò intanto il capitano perplesso per riferirmi su quanto era accaduto, ma l’interruppi dicendogli:

«Prima di tutto riordini il suo squadrone e poi parleremo del resto».

Incaricato un sergente con quattro bersaglieri di recarsi a San Marco per requisire un carro e gli utensili necessari a scavare la terra, mi misi col medico del battaglione (Violini) alla ricerca dei feriti.

A prima vista osservai un cavallo morto, qualche coperta bianca (sottosella) macchiata di sangue. Più in là il soldato Incarbone ferito da una palla nella coscia, più vicino allo stradale, in un lago di sangue cogli occhi stravolti e la bocca contorta, il caporale Maronna ed il soldato Ciardi stesi a terra da una palla nel petto, a pochi passi di distanza il soldato Lanfredi col cranio fracassato da una palla in fronte, e vicino ad un cespuglio il sergente Brondello gemente a terra colpito da due quadrettonì di trombone alla spalla destra, ferito da fendente al polso destro, e da un colpo, di lancia nel petto. Interrogato come mai si trovasse li solo in quello stato, egli mi rispose così:

«Dopo una scarica di fucileria sullo squadrone, rimasto solo fui circondato da quattro briganti, mi difendevo contro costoro menando sciabolate a destra e sinistra, ma questo colpo di trombone a bruccia pelo, e questo fendente al polso mi fecero cadere la sciabola di mano, mi furono addosso quei furibondi, mi scavalcarono nel momento che comparve Caruso, il quale mi vibrò questo colpo di lancia qui nel petto e poi mi domandò di qual paese io fossi; ebbi la buona ispirazione di rispondere che ero veneziano, chè se avessi detto che ero piemontese mi avrebbe certamente ucciso. Corse in questo punto fra loro la voce dell’arrivo dei bersaglieri, montarono a cavallo e fuggirono. Mi strascinai allora qui per morire all’ombra di questo cespuglio, ed ora soffro tanto, ma tanto che ella, maggiore, farebbe un’opera di carità se mi facesse dare una carabinata per finirla del tutto».

Il medico, che aveva visitate e medicate le sue ferite, giudicato il caso disperato, rivolto a me pareva che col suo tetro silenzio acconsentisse alla lugubre proposta.

«No, soggiunsi subito, non sia mai detto, coraggio, sergente, fatevi coraggio, io ne ho veduti altri in peggiore stato del vostro, eppure sono guariti, coraggio e contate su me, voi avrete la medaglia che avete ben meritata. Fra poco verrà qui un carro, sarete trasportato con un altro ferito al paese qui vicino, disporrò che là siate curato con tutti i riguardi, e state tranquillo, che con un poco di pazienza guarirete anche voi. Intanto che aspettiamo il carro potete voi spiegarci come lo squadrone non sia riuscito a sopraffare pochi briganti già in dirotta?

«Fu la sorpresa, maggiore; Caruso vistosi perduto, ricorse al solito stratagemma. Mandò subito un gruppo di briganti colla sua donna a postarsi bene in vista su d’un piccolo promontorio, e col rimanente della banda si appiattò dietro un rialzo di terreno vicino al quale bisognava passare per arrivare a quel promontorio. I cavalleggeri, che erano alla testa dello squadrone, appena scorsero quel gruppo, si slanciarono verso il promontorio, gli altri cavalli troppo animati li seguirono così, che tutto lo squadrone passando vicino al rialzo ricevette in pieno una scarica di moschetteria che colpì qualche cavaliere ed atterrò qualche cavallo. Sconcertato dalla sorpresa lo squadrone si sparpagliò appunto allora che i briganti colle armi scariche non avrebbero più potuto fare gran resistenza e noi non avremmo avuto altro da fare che sciabolare a destra e sinistra onde sconfiggere completamente la banda. Rianimatisi i briganti s’avventarono contro qualche disgraziato che si trovava sui loro passi, s’impadronirono di due cavalli abbandonati, e sentito ravvicinarsi dei bersaglieri si. ritirarono precipitosamente».

Arrivato il carro, adagiativi sulla paglia i due feriti, questo mosse lentamente per San Marco,

Scavate quindi le fosse e data mestamente sepoltura ai tre soldati morti sul posto, feci dare il segnale della riunione ai bersaglieri ed ai cavalleggeri, e ci mettemmo in marcia per Benevento ove arrivammo al tramontare del sole.

XVIII.

Trovai nell’ufficio, fra altri rapporti, quello del capitano della seconda compagnia. Descrivendo egli lo scontro colla banda di Caruso nelle vicinanze del bosco San Giorgio e l'inseguimento fino al torrente Tammaro, calcolava le perdite dei briganti a 12 tra morti e feriti, a due cavalli morti e cinque abbandonati. Ne conseguiva pertanto che le due bande, ridotte a minimi termini, sarebbero state costrette o a sciogliersi, o a rifugiarsi in terre lontane prima di essere completamente debellate.

Verso le 10 mi recai dal Prefetto, che mi aspettava ansioso per conoscere da me quanto vi fosse di vero nelle voci sinistre che correvano per la città, voci che avevano acquistato un qualche valore quando la gente accorsa alla nostra entrata in Benevento vide sotto le selle qualche coperta macchiata di sangue e tre cavalli condotti a mano dai cavalleggeri.

M'avvidi subito che egli era impensierito su quanto era accaduto nella giornata, ma quando gli feci la narrazione dettagliata ed esatta dei fatti, delle perdite continue subite nei tre giorni dai briganti, e delle condizioni cui erano ridotte le bande di Caruso e di Schiavone, rianimandosi esso disse:

«Maggiore, vi ringrazio, ora spetta a me di rialzare il morale della popolazione, riordinare la Guardia Nazionale e mettere un poco d’ordine in questo paese», quindi mentre gli stringevo la mano per licenziarmi soggiunse:

«Maggiore, favorite di venire a pranzo da me domani a mezzogiorno e così avremo tempo di discorrere anche di altre cose, che forse vi faranno piacere». Lo ringraziai e mi ritirai per andare a riposarmi, che ne avevo proprio bisogno.

Al domani, durante il pranzo, nel discorrere di quanto intendeva egli fare per l’ordine ed il bene della provincia, nominò ad una ad una le famiglie sul di cui concorso poteva contare, lo interruppi, quando pronunciò il nome del marchese X..., con queste parole: «Conosco bene il marchese e la sua famiglia, fui già d’alloggio in casa sua, e frequento volentieri le loro piacevoli serate, peccato che questa distintissima famiglia appartenga al partito borbonico!...».

«È vero, disse il Prefetto, il marchese ha uno zio ricchissimo, camerlingo presso Pio IX, ed un fratello che era maggiore d’artiglieria nell’esercito napoletano, però, a parte i principii politici cui è legato per parentela e per interessi, egli è gentiluomo perfetto e desidera l’ordine e la tranquillità al pari di qualunque altro buon cittadino».

«Deve allora avere, dissi io, in paese molti nemici, poiché ricevo sovente rapporti, che lo citano nemico del Governo attuale e protettore dei briganti. Ultimamente ricevei una denuncia in cui si preveniva che un gruppo di briganti sarebbe stato ricoverato nella notte in un suo maniero. Sapete voi che cosa ho fatto per togliermi da quest’imbarazzo? Mi recai la sera stessa a casa sua, trovai la famiglia ed i suoi amici riuniti nel salone; dopo un poco di conversazione fui invitato dall’ex maggiore a passare nella sala da bigliardo per fare qualche partita in presenza di tutta la comitiva. Il contegno altero quanto gentile della marchesa, la rara bellezza delle due signorine, lo spiritoso conversare armonizzavano così bene con quell’ambiente aristocratico, che mi rincresceva rompere quella armonia deliziosa con una nota stonante, tuttavia ad un certo punto, lasciata la stecca sul bigliardo, e preso l’orologio alla mano, dissi ad alta voce: «marchese, sono le undici, in questo momento i miei bersaglieri fanno una perquisizione nel vostro maniero poco distante dalla città».

Sorpreso, ma senza punto conturbarsi, il marchese mi rispose:

«Maggiore, se il dover vostro vi ha consigliato a dar tal ordine, io nulla ho da ridire, spero bene che nessuno dei miei coloni sia in relazione coi briganti; se però qualcuno di essi avesse trasgredito i miei ordini, allora compiacietevi di avvertirmi onde io possa rimediare alla malefica azione.

«Le indagini fatte in quella sera, come in altre circostanze, essendo riuscite infruttuose, dovei supporre ingiuste le accuse che si facevano al marchese, che forse non aveva altro torto che quello di ricevere cavallerescamente in casa sua gli ufficiali piemontesi??» «Oh! cesserà, disse il Prefetto, quest’astio alimentato dai nemici d’Italia contro il nostro bravo esercito; oramai voi siete dei nostri, e rimanendo qui a comandare il presidio vedrete presto migliorare le relazioni fra i beneventani ed i vostri bravi soldati».

«Ciò non è possibile, soggiunsi io, la mia missione in questa provincia è oramai terminata; dai rapporti ricevuti stamane risulta che Caruso e Schiavone con pochi seguaci si sono rifugiati nelle terre di Campobasso, perciò telegrafai al colonnello (Mazè de la Roche), comandante quella zona nei termini seguenti:

Caruso sconfitto — risultami rifugiatosi nella zona da V. S. comandata.

E n’ebbi la seguente risposta:

Ringrazio avviso — confermo il fatto — già provveduto al riguardo.

«Ho poi qualche speranza che il mio battaglione sia compreso nei cambi di guarnigione che comincieranno nei primi giorni d’agosto, domani farò rientrare in Benevento le altre tre Compagnie e quindi aspetterò gli ordini del Generale, giacche al comando di questo presidio si richiede un colonnello od anche un generale, ed io non sono che maggiore, giovane d'età e di grado».

Che importa a me, alquanto eccitato esclamò il Prefetto, che m'importa d’un colonnello, d’un generale! A me basta anche un caporale quando questo abbia fatto buone prove contro il brigantaggio».

«Capisco, ripetei, ma la disciplina e la gerarchia militari hanno pure le loro esigenze, ed è inutile illudersi; io sarò surrogato quanto prima, dove andrò, non lo so, ma spero in una buona guarnigione dell'Italia settentrionale».

«Oh!... è ciò che vedremo, ripeté egli, voi sapete, maggiore, che dopo la mezzanotte il telegrafo è riservato alle autorità politiche, io sono in buona relazione, anzi un poco parente con Spaventa, segretario generale al Ministero degli interni; or bene stanotte telegraferò a lui e lasciate fare a me...» ed in ciò dire si alzò invitandomi a prendere il caffè sul terrazzo ove si godeva d'una bella vista; alzato e disteso il braccio, indicando la campagna lontana: «Vedete, maggiore, disse, vedete, laggiù voi avete guadagnato le spalline da tenente-colonnello».

— Tutto è possibile, risposi io, ma ne dubito assai» ed egli:

«Potete voi venire domattina verso le IO a vedermi?...»

«Domani, ripetei, non ho gran cosa da fare, sono dunque a vostra disposizione».

«Va bene, a rivederci domani alle 10.

«A domani», e con una cordiale stretta di mano presi commiato.

All’ora convenuta lo trovai meno di buon umore che il giorno prima; dalle poche parole che pronunciò potei facilmente capire che la risposta avuta dallo Spaventa non era quale se l’aspettava, ed in vero, che cosa poteva mai fare con tutta la buona volontà del mondo il Segretario generale in negozi, che sotto ogni rapporto erano di competenza di S. E. il generale La Marmora? Rimasto qualche momento pensieroso, mi rivolse poi queste parole:

«Desidero di andare a Napoli, potete voi fra qualche giorno favorirmi una scorta?»

«Volentieri, risposi, vi farò accompagnare da un drappello di cavalleria fino a Cancello».

«Maggiore, vi ringrazio e mi riservo di farvi conoscere il giorno e l’ora della partenza».

Ciò detto ci lasciammo cordialmente come il giorno prima.

Persuaso dai miei rapporti il generale La Marmora, che la provincia di Benevento era oramai liberata dal brigantaggio, per mezzo del comandante la zona di Caserta mi mandò ordine di far partire due battaglioni da me dipendenti in modo che uno si trovasse a Capua pel 2, l’altro a Isernia pel 5 agosto.

Quest’ordine contrariò e scosse un poco il Prefetto, che si decise a partire per Napoli. Ritornato dopo due giorni, con un certo tono di compiacenza, mi disse essere soddisfatto della visita fatta al generale La Marmora, e d’averlo trovato ben disposto in favore della provincia di Benevento.

Pochi giorni dopo il comandante la zona di Caserta (generale Burnod) mi avvertiva di tener pronto il mio battaglione a partire per Napoli ove doveva imbarcarsi per Genova e di là proseguire a tappe per Torino sua nuova destinazione. E facile immaginare con quanto piacere io abbia letto queste disposizioni. Di guarnigione alla capitale!... Riveder li amici!... M’era pochi giorni prima pervenuta una lettera privata, che cominciava così:

«Forse non conoscerai più il mio carattere... «guarda la firma...» voltai il foglio... «Angiolina!...».

Angiolina che da ufficialetto avevo conosciuta trepidante nei giorni della difesa di Milano contro gli Austriaci nel 1848!...

Essa scriveva che finalmente era riuscita venire a Genova per prendere i bagni, e che sarebbe ritornata alla fine d’agosto a Vienna.

Questa lettera inaspettata me ne ricordò un’altra ben triste, chiusa in busta coperta di timbri postali, che aveva ricevuto ranno prima nella Valle Caudina... Ahimè troppo tardi!... Maledizione ai briganti!... Ahi doloroso ricordo che mi rattrista ancora dopo tanti anni! Ma lasciando il passato per riflettere sul presente, rilevai che l’ordine di partenza parlava del battaglione, ma niente di me, niente del comandante la zona... Che il Prefetto avesse ottenuto di farmi restare a Benevento!... Scrissi allora al generale Burnod per avere schiarimenti, cioè se dovevo partire col mio battaglione, oppure rimanere al Comando della zona di Benevento.

Dopo alcuni giorni d’ansietà il Generale mi rispondeva che avendo riferito quanto formava oggetto del mio foglio 5 agosto al gran Comando, S. E. il Generale d’armata mi autorizzava a fare la scelta, di partire cioè col battaglione per Torino, oppure di rimanere al Comando della zona di Benevento.

Pensai e ripensai prima di prendere una risoluzione; e malgrado le insistenze del Prefetto, che mi faceva luccicare le spalline del grado superiore, decisi di seguire la sorte del mio battaglione. D’altronde ero stanco, affranto, e presentivo che senza un cambiamento di clima e di regime di vita avrei fatto qualche grave malattia. Scrissi dunque in questo senso al Generale pregandolo di appoggiare la mia domanda presso S. E. il generale La Marmora.

Qualche giorno dopo ricevei l’ordine di rimettere il comando della zona al colonnello Fontana, il quale sarebbe arrivato a Benevento il giorno 15, e quindi di trovarmi col battaglione il giorno 18 a Napoli onde salpare per Genova il giorno 20.

Arrivò infatti nel giorno indicato il nuovo comandante della zona. Nel dargli la consegna delle carte d’ufficio, e qualche informazione circa il genere di servizio, mi accorsi, che egli, antico soldato che aveva guerreggiato sotto la bandiera francese contro i Beduini in Algeria, dava poca importanza al servizio contro il brigantaggio, ciò che mi fece pronosticare che l’ordine e la tranquillità non avrebbero durato lungo tempo nella provincia di Benevento.

XIX.

L’indomani del nostro arrivo a Napoli presentai gli uffiziali per la visita di congedo al generali del presidio. Furono questi larghi di elogi per la lodevole condotta del battaglione durante un si lungo e penoso servizio; il generale La Marmora specialmente si compiacque di esternare la sua alta soddisfazione con parole d’encomio tali da lasciare in noi la più gradita impressione. Licenziati gli uffiziali, egli mi invitò a passare nel suo gabinetto. Cominciò col domandarmi quale fosse la mia opinione sulle condizioni del brigantaggio, ed io non esitai a rispondere che credevo che i briganti sarebbero di bel nuovo comparsi nei luoghi da me lasciati, allora egli alquanto indispettito disse queste precise parole:

«Oh là!... adesso perchè lei va via, i briganti spunteranno come i funghi».

«Generale, risposi, posso sbagliarmi, ma questa è la mia opinione». Ed egli pronto: «E le autorità che cosa fanno?».

«I Prefetti, soggiunsi, colle leggi vigenti sono impotenti a colpire i comitati che segretamente reclutano malfattori per formare delle bande, e basta che un rinomato masnadiero si metta in campagna per trovarne altri pronti a seguirlo, e se qualcuno da lui scelto si rifiutasse, allora questo viene costretto, pena la vita, a commettere qualche reato, e così messo contro la legge è obbligato a seguirlo. Altri disgraziati danno un considerevole contingente alle bande; quelli spinti dalla miseria, poiché i proprietari, per troppa avidità di accumulare ricchezze, lasciano i loro coloni in una indigenza tale, che un povero padre può lavorare da mattina a sera e non riesce ad alimentare la famiglia.

«Il brigantaggio poi per tradizione antica è considerato dalla plebe non tanto un delitto un’infamia quanto una speculazione, un mestiere di uomo forte e coraggioso; così quando questo ritorna al casolare, egli è non solo temuto, ma anche rispettato, e le più belle ragazze vanno orgogliose di avere un amante, le donne un marito che abbia fatto il brigante.

«I sindaci, i giudici non sapendo a qual partito attenersi, adempiono debolmente alle loro attribuzioni, temendo per la loro vita per le loro sostanze, sono molto indulgenti coi colpevoli, e sovente mettono in libertà delinquenti consegnati con buone prove dalle autorità militari».

Osservai che mentre così io parlava, il Generale scriveva di quando in quando appunti in un memoriale die teneva aperto sulla scrivania, appunti che senza dubbio hanno giovato alla legge eccezionale proposta dall’on. Pica, ed approvata dal Parlamento.

Dopo ciò volle il Generale essere informato sullo scontro dello squadrone coi briganti, senza reticenze e senza riguardi, e quando ebbi terminato dì esporre il fatto in tutti i suoi dettagli, egli mi ammonì amichevolmente con queste parole: «Ho ben capito dai suoi rapporti in iscritto quale era la di lei intenzione, ma, creda a me, maggiore, creda alla mia lunga esperienza, nel nostro mestiere non bisogna mai cercare di coprire le mancanze altrui, poiché non si possono avere che disinganni e dispiaceri; si ricordi di questo mio consiglio e se ne troverà contento».

Quindi mi chiese notizie del sergente Brondello, il quale era stato ricoverato in un convento di frati vicino a San Marco dei Gavoti.

Curato con erbe e medicamenti a loro speciali, egli, malgrado la gravità delle ferite, era in via di guarigione, e sperava di potere presto fregiarsi il petto della medaglia al valor militare, come io gli avevo promesso.

Chiesto al Generale se aveva altri ordini a darmi, egli mi congedò colle più lusinghiere parole per la mia carriera, e con franca stretta di mano da soldato mi augurò il buon viaggio.

XX.

Nelle prime ore del dì seguente c’imbarcammo su di una pirofregata pronta alla partenza. Già i bersaglieri, deposte le carabine e le sciabole-baionette nella sala d’armi, occupavano a prua i posti loro assegnati; già alcuni marinai lavoravano all’argano per levare l’àncora, già la macchina dal tubo di scarico con fischio stridente di tratto in tratto emetteva sbuffi di vapore quasi fosse impaziente di spingere la nave in alto mare, quando un marinaio venne ad annunziarmi la visita di due signore. Mossi loro incontro, e con mia grande sorpresa mi trovai dinanzi alla madre ed alla zia della bella Fiammella; non ebbi tempo di profferire parola, che la madre mi apostrofò vivamente così:

«Come, maggiore, voi partite?...».

«Pare di sì, risposi sorridendo, voi lo vedete, tutto è pronto...».

«Ma ciò non può essere... la Fiammella non vi ha mai dimenticato, e quella povera mia figliuola ora sta piangendo... piangendo a strappare il cuore...».

«Che colpa ne ho io? La mia condotta fu più che corretta, me ne dispiace per lei, ma la consolerà il padre suo quando ritornerà il Re di Napoli».

«Maggiore, questo non è il momento di scherzare; se veramente voi dovete partire, voi dovete promettermi di scrivere appena sarete arrivato a Torino».

«Vedrò... ci penserò... voi mi domandate cosa che in questo momento così su due piedi io non posso decidere... vi ripeto che ci penserò...»

«No, ciò non mi basta, voi dovete darmi la vostra parola d'onore, che scriverete subito».

Questo dialogo fra me e la madre fu interrotto da una potente voce, che dal ponte di comando ordinava che si facessero scendere le persone che erano salite a bordo per salutarci, si alzassero le scalette e si chiudessero i boccaporto.

Non vi era un momento da perdere, accompagnai le due signore alla scaletta, mentre esse continuavano a ripetere:

«Dunque voi ci scriverete... non è vero? Promettetecelo... buon viaggio... ci raccomandiamo... buon viaggio... scrivete...»

Qualche momento dopo, con lenta manovra, sortivamo dal porto, ed il buon umore, e l’ilarità dei bersaglieri aumentavano in ragione della velocità che acquistava la nave in alto mare. Erano contenti i settentrionali di rivedere i luoghi nativi, i meridionali paesi nuovi, per cui in tutta la giornata di navigazione non si verificò mancanza o lagnanza alcuna.

I raggi del sole dardeggiavano ancora verticalmente la nave, ma una brezza fine ne temperava il calore. Sul cader del giorno due ragazzi abbandonati dai loro parenti, alimentati da lungo tempo dai bersaglieri, ed affezionatisi al battaglione tanto che lo seguivano anche nel viaggio, accompagnati da instrumenti montanini e da un piccolo coro di bersaglieri, intuonavano la canzone popolare:

Addio mia bella Napoli... Addio, ecc. Quanti pensieri!... Quante reminiscenze in quella semplice melodia!...

Due ore dopo, dato dalla campana e dalla tromba il segnale del silenzio, non si sentiva che il monotono rumore dell’elica ed il mormorio delle onde solcate dalla nave.

Il mare calmo, liscio come uno specchio, l’azzurro senza nube, il cielo stellato ci promettevano un tragitto buono e sollecito; infatti l’indomani, verso l’una pomeridiana, cominciammo a scorgere sull’orizzonte, lontano lontano, una serie di punti oscuri, i quali dilatandosi a mano a mano che la fregata filava maestosamente dai 10 ai 12 nodi al l’ora, descrivevano un grande semicircolo, che col nostro avvicinarsi, prendendo forme diverse, ingigantiva ai nostri sguardi. Già discernevamo, posta in alto alla nostra destra, la chiesa di Carignano, alla sinistra l’altissimo pilastro della Lanterna, e dopo non lungo tratto vedevamo distintamente i suntuosi palazzi della superba Genova.

Breve era oramai la distanza che ci separava dalla terra, per cui a bordo si attendeva allegramente alla pulizia e si facevano ansiosamente i preparativi per lo sbarco. Entrammo in porto poco dopo le tre, ed appena il comandante diede dal portavoce al macchinista il comando di stop, la nave fu circondata da molte barchette: vidi subito in una di queste la cara madre mia che agitava in aria il fazzoletto, ed in un’altra a questa vicina l’Angiolina... Ahimè!... Come si vedevano sul suo volto le traccie dei due lustri passati da quel dì che l’avevo lasciata, lo sguardo raggiante di bellezza affascinatrice!...

Sollecitati gli incombenti per prender pratica, venne il momento delle strette di mano e degli abbracci, momento di consolanti emozioni, più facili ad immaginarsi che a descriversi.

Scesi a terra gli ufficiali si affrettarono ad eseguire gli ordini ricevuti, onde il battaglione fosse provveduto d’ogni cosa, e pronto alba partenza pelle due dopo la mezzanotte; quindi alle 8 convenimmo a pranzo nel giardino del grandioso Caffè Ristorante d’Italia illuminato da centinaia di fiamme, e rallegrato da buona e scelta musica.

Preoccupato il Ministero della guerra del fatto, che le truppe provenienti dalle provincie meridionali, dopo breve soggiorno nelle settentrionali, davano uno straordinario contingente d’ammalati, incaricò il Consiglio di Sanità di studiarne le cause e di proporne i rimedi. Il Consiglio credè ravvisarne la causa principale nel cambiamento repentino di clima, e come rimedio proponeva i cambi di guarnigione gradatamente a piccole tappe anziché per via ferrata.

Fu perciò dato a me l’ordine di fare questo esperimento, e così partiti da Genova, marciando sempre di notte, sostammo a Pontedecimo, Ronco, Novi, Alessandria, Felizzano, Asti, Poirino e Moncalieri, senza gran che di rimarchevole in questo itinerario tranne qualche piccolo aneddoto così frequente a quei tempi nella vita militare.

All’albeggiare dell’ottavo giorno già ci avvicinavamo a Torino, quando venutomi incontro il tenente, che era stato incaricato di recarsi al gran Comando per prendere gli ordini, mi riferiva, che il capo di Stato Maggiore (colonnello di Robilant) aveva ordinato che il battaglione non entrasse in città che alle ore 8 precise, passando per la piazza Vittorio Emanuele I, via Po, e prendendo a destra per la piazza Castello s’arrestasse sul piazzale dinnanzi al palazzo Reale, e rendesse gli onori... A chi?... Non si seppe e non si saprà mai... Fatto si è, che preceduti da una turba di ragazzi, ed accompagnati da molta gente, entrati in città all’ora fissata, e percorso il cammino indicato, ci arrestammo di fronte al palazzo Reale mentre le due gran guardie schierate una alato del palazzo Madama, l’altra del palazzo Reale presentavano le armi, ed i tamburini battevano al campo, che a mia volta fatte al suon di tromba presentare le armi, alzai gli occhi e vidi quasi tutte le persiane chiuse... Forse qualcuno della famiglia reale, non visto, volle vedere da vicino quel battaglione che aveva presa tanta parte nella repressione del brigantaggio.

XXI.

Quasi tutti i giornali della capitale nell’annunziare il nostro arrivo avevano per noi parole d’encomio. Carlo Pisani, l’arguto ed elegante scrittore delle lettere aperte a Camillo Cavour, ed a John Bull scrivendo nella Gazzetta del Popolo delle nefandità e dei misfatti di sangue commessi dai briganti, soggiungeva presso a poco così:

«Se poi questi fatti da noi narrati sembrassero a taluno esagerati ne domandi allora ai valorosi bersaglieri da pochi giorni giunti fra noi, e gliene diranno ben altri da farlo inorridire».

A. Dumas nell’intento di scrivere: Cento anni di brigantaggio, m’invitava a comunicargli i fatti da me compiuti e quanti altri fossero stati a mia conoscenza, ma con un pretesto qualunque mi tacqui sull’argomento, preferendo, come suol dirsi, lavare gli stracci in famiglia.

Ricordo infine che, alla seconda domenica che il battaglione si recava alla messa (come era prescritto dai regolamenti allora in vigore) nella Basilica dei Ss. Maurizio e Lazzaro, fui obbligato a mettere due sentinelle all’entrata, tanta era la gente che faceva ressa nella chiesa per udire la fanfara dei briganti, che suonava dietro l’altare.

Allorquando, interpellato, manifestai al generale La Marmora l’opinione, che il brigantaggio avrebbe di bel nuovo infestato la provincia di Benevento, non credevo certamente che il tempo avrebbe così presto dato ragione alle mie previsioni.

Già si parlava di bande che scorrazzavano in quel territorio, già i giornali annunziavano scontri colla truppa, disastri, rapine, incendi, omicidi mentre la banda di Caruso ingrossava di giorno in giorno.

Venne pertanto il generale La Marmora nella determinazione di inviare in quella zona buon nerbo di truppe, affidandone il comando al brillante generale Pallavicini, il quale, valendosi rigorosamente. dei poteri eccezionali che accordava la legge Picca, riuscì dopo qualche mese a debellare i briganti, ed a ripristinare l'ordine in quella disgraziata provincia.

Nel mese di febbraio 1864 comparve un bollettino di ricompense per la repressione del brigantaggio nel Beneventano; stupito di non vedervi comprese quelle che io avevo proposte per via gerarchica prima di lasciare il comando di quella zona, ne domandai schiarimenti al generale Burnod, il quale mi rispondeva nei termini seguenti;

«Non appena mi cadde sottocchio il bollettino n. 12, e prima ancora di ricevere il di lei foglio contrasegnato, fui sommamente sorpreso di non vedervi comprese le ricompense dalla S. V. proposte, proposte che io appoggiai caldamente presso S. E. il Generale. Scrissi tosto a tal fine al capo di Stato Maggiore, il quale rispondendomi con lettera particolare, che qui appresso le trascrivo, m’informava come i fatti compiuti ultimamente dal generale Pallavicini, meritando agli occhi del generale La Marmora una considerazione speciale, questi abbia sollecitato la pronta approvazione delle relative ricompense dal Ministero, e ciò senza pregiudizio delle proposte fatte dalla S. V. le quali seguono il loro corso regolare.

La fine dei famigerati fratelli La-Gala.

Debellata la banda (18 dicembre 1861) Cipriano e Giona La-Gala, dopo aver errato per qualche tempo come belve selvaggie per monti e valli, riuscirono a guadagnar la frontiera pontificia protetta da truppe francesi.

E’ noto che costoro, vestiti da signori con lunga catenella d’oro al collo e anelli parecchi alle dita, se la spassavano in vettura per le vie, e nei pubblici ritrovi di Roma, ma pratiche diplomatiche indussero il governo pontificio a mandarli in America muniti di passaporto pontificio e spagnuolo.

Imbarcatisi sul piroscafo francese Aunis a Civitavecchia, nel toccare il porto di Genova, il prefetto Gualterio, col consenso del console di Francia li fece arrestare. Il popolo francese eccitato dalla stampa si agitò tuttavia per lo sfregio fatto alla bandiera imperiale, ed il governo protestò energicamente presso quello d’Italia, per avere questo violato le leggi internazionali, e quasi quasi ne faceva un casus belli. Fu allora diplomaticamente combinato che il governo italiano avrebbe consegnato alla frontiera i due briganti ai gendarmi francesi, e che il governo francese, esaurite le formalità d’uso, li avrebbe restituiti alla frontiera ai carabinieri italiani.

Comparsi dinanzi alla Corte d’Assise di Santa Maria di Capua vennero condannati a morte, senonché per riguardi dovuti al governo della Chiesa, della Spagna ed al partito legittimista, Napoleone pretese che fosse risparmiata per grazia sovrana ai due famigerati briganti la pena di morte. Per conseguenza Cipriano e Giona La-Gala furono condannati alla galera a vita.

Il primo fu rinchiuso incatenato in una cella della Foce a Genova, l’altro a Portoferraio, ove morirono ora son pochi anni come bestie feroci chiuse in una gabbia di ferro.

La fine del famigerato Caruso.

Nel 7 dicembre 1863 il tenente Alliaud con 25 bersaglieri e 30 militi della Guardia Nazionale, circondava di notte tempo in territorio di Foiano nel Beneventano un pagliaio ove giaceva il capobanda Caruso con otto dei suoi; ma il Caruso con un suo fido riusciva a fuggire, gli altri sette invece, dopo breve resistenza, furono arrestati e fucilati.

Due giorni dopo il sindaco di San Giorgio la Molara, coadiuvato da una ventina di Guardie Nazionali, sorprendeva ed arrestava in un tugurio, intanatisi come lupi, il Caruso ed il suo fido. Tradotti a Benevento, e condannati dal Consiglio di guerra, furono fucilati nella schiena da un drappello di bersaglieri.

E qui, o lettore, o lettrice che tu sia, avrei alcune riflessioni da svolgere, direi quasi, in tono filosofico, ma, dubitando di averti sufficientemente annoiato, pongo termine ai Cenni sul brigantaggio, che se per avventura venisse a risultarmi che questi furono da te benevolmente accolti, allora non esiterei a scrivere ed a presentarti altri Ricordi d'un antico bersagliere.


























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