Eleaml - Nuovi Eleatici

Raffaele De Cesare - LA FINE DI UN REGNO

Parte I - FERDINANDO II

Parte II - FRANCESCO II

Parte III - DOCUMENTI

RAFFAELE DE CESARE

(MEMOR)

LA FINE DI UN REGNO

Parte III

DOCUMENTI - INDICE DEI NOMI

TERZA EDIZIONE CON AGGIUNTE, NUOVI DOCUMENTI E INDICE DEI NOMI

CITTÀ DI CASTELLO - CASA TIPOGRAFICO EDITRICE S. LAPI

1909

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DOCUMENTI VOL. I
DOCUMENTI VOL. II

Parte III - DOCUMENTI

Documenti I, Volume I, Cap. I

Ritrattazione dei Pari e Deputati di Sicilia dopo la riconquista dell’Isola
SACRA REAL MAESTÀ
Sire,

Il frutto dei passati sconvolgimenti politici non è stato per tutta Sicilia che il furto e la intera depauperazione.

Ogni buon cittadino, tutt’uomo onesto (sic) che per principii e per dovere era rispettoso alla vostra Sacra Persona ed ubbidiente alle vostre leggi, era obbligato dalla forza ad agire contro il proprio pensiero.

Una lunga serie di fatti pubblici, che nel corso di sedici mesi di perfetta anarchia giornalmente si osservavano, fanno chiaramente vedere che l’uomo onesto, l’uomo devoto alla vostra Dinastia, era assalito nel suo tetto, spogliato interamente, ed alle volte impunemente trucidato, e quindi gli era forza di tacere, ed obbligato dalla forza a manifestare la sua adesione contro la propria opinione.

La formola rivoluzionaria del Comitato misto, ove le Camere non erano d’accordo, propenderà va sempre a favore dei Comuni; dapoiché quantunque dello stesso numero i componenti delle due Camere, vi era addipiù (sic) il Presidente dei Comuni con voto, che faceva parte e presiedeva nello stesso Comitato misto; come in fatti tutte le volte che la Camera dei Pari rigettava il messaggio, nella parità dei voti del Comitato misto, il Presidente dei Comuni decideva la questione, per cui la contraria opinione dei Pari era sempre rifiutata.

Xxxxxxxxx abbio che l’Atto della Decadenza, ove non si volesse xxxxxxxx modo e la forza usata per trascinarci a quest’atto ilxxxxxxxx farebbe avere la taccia di sudditi ingrati, che hanno manxxxxxxxx ai doveri di fedeltà verso il proprio Monarca. E regolare che tutto si metta in chiaro, perché ognuno possa da sé stesso rimanere ben persuaso, che non mai per la libera opinione e volontà si divenne ad un atto cosi insussistente.

Il giorno 13 aprile 1848, si sciolse la Camera alle ore 6 p. m. ed ognuno era ritornato nel seno della propria famiglia per godere un momento di riposo, un momento di tranquillità, unico conforto che in quei giorni di sommo trambusto l’uomo onesto trovava.

Non erano scorsi che pochi minuti allorché fummo obbligati a ritornare nella Camera, ignorandosene il motivo. Si temeva della propria esistenza. Quando arrivati nella via di S. Francesco, dove era per l’apunto il locale delle riunioni delle Camere, s’intesero delle grida spiccate da una folla di persone armate, che a stento permettevano il passaggio; i corridori, e le ringhiere delle Camere occupate erano intieramente.

S’ignorava fino a quel momento l’oggetto che doveva trattarsi, quando il Capitano di Ambasciata annunziò di essere la Camera in numero legale, e sul momento si presentarono alcuni deputati della Camera dei Comuni, consegnando al signor presidente una deliberazione già presa da quella Camera.

Eravamo tutti nella massima perplessità, non sapendosi il contenuto di quel messaggio, del quale, datasene lettura, si aprese con stupore essere la macchinata deliberazione della Decadenza.

Si voleva da alcuni manifestare qualche ragione per non aderire a quest’atto per tutti i modi illegale: ma sopraffatti dalle grida di tutti gli astanti nelle ringhiere, non fu permessa la menoma discussione, mentre tutti concordemente imponevano ad alta voce di annuire, minacciando la vita.

Quale asilo vi era in quel cimento per esimersi dal far palese la nostra adesione, allorché fu impedito colla massima resistenza ad ogni componente di potersi allontanare, se prima non si fosse la Camera uniformata al messaggio ricevuto? L’indomani si trovò nella Camera il verbale, e con atto rivoluzionario fummo obbligati i presenti a munirlo della firma.

Per quelli ch’eravamo lontani, ancorché non fossimo intervenuti alla seduta, fummo al domicilio forzati per firmare la deliberazione.

Di un atto consumato con tanta violenza non può darsene a noi la colpa.

Il delitto stà nella volontà; ove questa non concorre, e che laforza vi obbliga ad agire diversamente dalla volontà; non vi è colpa, né può riputarsi delitto.

Questa enarrazione di fatti generalmente noti contesta la verità dello esposto.

Poteva mai da noi soli farsi fronte a tanta gente armata, mentre non vi era forza che potess’essere di scudo a sostenere la nostra volontà?Sarebbe stato un passo molto imprudente il perdersi la vita, senza ottenere alcun vantaggio.

V. R. M. che con tanta demenza e paterna affezione si è sempre degnata di colmarci di munificenza, in vista del nostro fedele attaccamento alla vostra Sacra Persona, ed a tutta la Real Famiglia, saprà nella sua somma saggezza ben ponderare le nostre esposte ragioni, ed accogliere le nostre discolpe.

Nessun timore, nessun dubbio ci fa oggi apertamente dichiarare di volere essere governati da Ferdinando II, Re del Regno delle Due Sicilie, e della sua Dinastia, e di essere pronti a sostenerla, e protestandoci di non essere menomamente concorsa la nostra libera volontà nell'adesione di quell’Atto per ogni modo illegale, ma di esservi stati portati con tutta la possibile violenza.

Sicuri quindi che V. R. M., convinta del nostro fedele attaccamento, sarà per raccogliere colla sua innata clemenza questa nostra sincera e veridica manifestazione con cancellare dal suo benefico onore qualche idea di sospetto sulla condotta da noi tenuta, a' piedi del vostro Real Trono ci protestiamo.

Duca di Caccamo.

Duca di Monteleone.

Principe di Niscemi.

Ciantro Salvatore Fontana, Vicario-Generale.

Antonio Parisi, Marchese dell’Ogliastro.

Monsignor Domenico Ciluffo.

D. Pietro Tarallo, Abate di S. Martino.

D. Gio. Battista Tarallo, Priore di S. Maria La Nova.

Francesco Tarallo e Borgia, Duca della Ferla.

Francesco Notarbartolo, Principe di Soiara.

Francesco Trigona Gravina, Principe di S. Elia.

Pietro Sgarlata, Abate di S. Maria la Grotta.

Ignazio Pilo e Gioeni, Conte Capaci.

Alessandro Migliaccio, Principe di Malvagna.

Ignazio Agraz, Duca di Castelluccio.

Pietro Sgarlata, procuratore dell’Abate di

S. Nisandro P. D. Paolo Vagliasindi Basiliano.

Pietro Valguarnera, Principe di Valguarnera.

Francesco Brunacoini, Arcivescovo di Monreale.

Stefano Sammartino, Duca di Montalbo.

Giacomo Brunaccini, Principe di S. Teodoro.

Salvatore Papè, Principe di Valdjna.

Emanuele Lucchesi Palli, Principe di Furnari.

Monsignor D. Visconte Proto, Vescovo di Patti.

Filipo Cultrera, Abbate Cassinese.

Duca di Gualtieri.

Principe di Rbsuttana.

Emanubllb Mblazzo, Principe di Alminusa.

Calogero Amato Vetrano.

Conte d’Almerita D. Luoio Mastrogiovanni Tasca.

Sacerdote D. Giusepe Castiglione.

Beneficiale D. Paolo d’Antoni.

Duca di Cesarò.

Abate Evola.

Principe di Paterno.

SACRA REAL MAESTÀ
Signore,

Quegli enormi delitti politici, che non hanno esempio nella storia di un popolo, non sono mai l’opera che della concentrata nequizia dei pochi, i quali per arti infernali, pria di seduzioni, poscia di violenza e di terrore, insignoritisi di un irreffirenato potere, impongono ai riluttanti istinti dei molti un fittizio assentimento.

Tale è la storia di eccessi cosiffatti, antichi e nuovi, tale è pur quella del nefando Atto seguito in Palermo a 18 aprile 184S.

Ma se in quello stolto ed esecrabil Atto, altri hanno a deplorare la miserabil condizione di esser concorsi, benché repugnanti alla sua formazione, ai già pari temporali elettivi di Sicilia, che or riverenti alla M. V. s’inchinano, toccò minore sventura, quella solo di aver patito la violenza di dover soscrivere separato Atto adesivo a quanto e Rapresentanti e Pari ereditari e spirituali aveano già consumato. Imperocché assunti alla Paria il di 15 aprile 1848, in quei primi bollori della setta trionfatrice, solo a pareggiar le condizioni di tutti i sedenti in Parlamento, fu loro imposto che esplicitamente al nuovo atto assentissero, e nella prima seduta ne venne loro anche ingiunta la formola.

Ma, Sire, qual via di scampo offrivasi allora ai collocati in quel misero stato? Rinunziare alla Paria dopo la nominazione dei Comuni, reiezione dei riprestinati Pari, era un fare atto di fatale oposizione contro chi poteva ed aveva osato ogni cosa; era un designarsi infruttuosamente e senza asilo pei pres enti, al facilmente incitabil odio di una affascinata moltitudine. E d’altra parte a che avrebbe riparato il martirio dei nuovi eletti? Allora nella Camera, lo ripetiamo, l’opera parlamentaria era compiuta, Rapresentanti e Pari l’avevano già consumata. Pure i fatti posteriori meglio di ogni parola qualificano i precedenti. Quali furono la condotta, le idee, le tendenza de' già Pari elettivi? Basti il dire che in quindici interminabili mesi di reggimento rivoluzionario, quando noti ed ignoti erano a fascio chiamati al Ministero, niun di loro fu mai, nonché assunto, ma né ad esso invitato. E non di meno, poiché il voto di due Camere legislative era solennemente concorso alla loro elezione, è a presumere aver collocate fra essi più di un’assennata capacità.

Ma agli occhi di una fazione, che non vive se non di sistematica esagerazione, non ha alcun peso quel merito che non sia stemperatezza di voti, esaltazione, fanatismo. Né questa volta, a dir vero, andava errata, che i già Pari temporali elettivi di ben altro amore amavano il paese, né sapean per esso vedere che sciagure, ruine, e turpe assoggettimento, ove dal suo Re e dalla legittima Dinastia si dipartisse.

Quindi, apena certa maturità di tempi ne offerse loro il destro, potentemente concorsero ad abbattere la incomportabile dominazione di una perfidiosa monomania («io). E però l’ultimo Ministero dei 15 aprile 1849, il solo, dopo quindici mesi, Ministero di reazione, inteso a restaurare le smarrite idee della legittima Monarchia, si compose sopra tre Ministri, di due fra Pari elettivi. Ed in mezzo a pericoli di ogni specie, di ogni intensità non si sarebber essi rimossi dall’opera da loro cominciata, se non avessero stimato miglior consiglio il dare un primo esempio di obbedienza agli ordini precisi di V. M. che l’amministrazione delle cose passasse al Municipio di Palermo.

Ecco i già Pari temporali elettivi a piè del Real Trono in quel rigore di verità, siccome sarà per giudicarli la storia. Pur tali quali essi sono, non dissimulano a se medesimi il grande uopo (rie) in che stanno della Clemenza Sovrana per sentirsi sicurati nella lor coscienza di fedele sudditezza (rie). Ma il nipote di S. Luigi e di Enrico IV ha già dimenticato fatti più gravi, perché abbiano a sconfidare i sottoscritti non voglia ora far scendere su loro la magnanimità che oblia, e la grazia che riconforta.

Umilissimi devotissimi sudditi

Barone di Canalotti — Cav. Giovanni Calefati

Marchese di Villarena, Vincenzo Mortillaro.

SACRA REAL MAESTÀ

Cessata oramai per la Divina Grazia la oscillazione politica, che per ben sedici mesi travagliò Sicilia tutta, riputiamo nostro dovere rassegnare alla M. V. quanto segue.

Sin dal principio delle passate vicende non vi era alcuna circostanza che potesse incoraggiare i suoi fedeli sudditi, ed ognuno che riputato era alla M. V. attaccato, dovea tenere una condotta molto cauta e circospetta.

La forma del Comitato misto in Parlamento era tale, che rendea nulla la Camera dei Pari, e ligia al volere di quella dei Comuni, come in varie congiunture si conobbe: che non ostante il dichiarato dissenso della prima, tanto nella seduta dell’intiera Camera, quanto di tutti i suoi membri nel Comitato misto, il volere di un solo, cioè del Presidente della Camera dei Comuni, decidea le più importanti e positive materie, che somma influenza avevano nello andamento del corso della rivoluzione; e moltissima ne ebbero nello svilupo della stessa, in cui si ottenne nulla di bene, che anzi molte dispiacevoli conseguenze.

Il giorno 13 aprile 1848, dopo lunga seduta parlamentaria, che era terminata alle ore 22, fummo inaspettatamente dopo pochi momenti che rifiniti eravamo tornati alle nostre case, chiamati nuovamente, e colla massima premura chiamati in Parlamento.

La ignoranza dell’oggetto per cui si chiamava, l’ora e la premura con cui fummo apellati, non ostante essere già sera, non ci fece mettere in dubbio di dovere andare. Ma che, o Sire? Cominciava dalle strade che conducono a S. Francesco, luogo delle sedute parlamentarie, a conoscersi che affare di sommo rilievo si doveva trattare, e nel quale molti prendevan parte.

Nello entrare e nel salire in Parlamento la folla delle persone era significante, e l’affluenza nelle ringhiere era della massima imponenza. Fin qui tutto destava grave timore, ma si era nell’ignoranza dell’oggetto della nostra straordinaria riunione accompagnata da si imponente spettacolo.

Poco dopo venne un messaggio della Camera dei Comuni, recando la deliberazione di quella Camera sulla Decadenza.

Allo avviso dello stesso gli animi nostri, intimiditi di già vi si resero di più; scorgendo la importanza dell’oggetto ed il momento in cui dovea discutersi con una»forza imponente che mostrando l’unità del suo pensiero toglieva l’adito a qualunque osservazione, che in omaggio alla M. V. ed alla regolarità si avesse voluto fare e ancor nel senso della patria stessa.

Tolto il libero arbitrio, in oposizione a quella libertà che come oggetto della rivoluzione si era proclamata, non era ad alcun permesso di fare delle osservazioni che nella sua coscienza avesse voluto fare anche per patrio bene. È principio inconcusso che ove non vi è libertà di volere, non vi è imputabilità.

Nostra opinione è stata, e sarà sempre di volere essere governati da V. M. (D. G. ) e sua Dinastia.

Se ogni Siciliano, qualunque fosse stata la sua condotta politica, e anche privata, durante la Rivoluzione, dorme tranquillo all’ombra di quella generalissima Amnistia dalla clemenza della M. V. accordata, sicurissimi gl’infrascritti dei loro principii, non resta loro altro a sperare che la M. V. si degni allontanare dal suo benigno cuore qualunque sinistra idea sul loro conto, per essere stati necessitati a dare consentimento a degli atti senza loro libero arbitrio, e che voglia degnarsi reputarli quali sempre si vantano di essere.

Palermo, 18 novembre 1849.

Umilissimi e devotissimi sudditi

Giusepe Lanza, Principe di Trabia. 

Non intervenni nella seduta del 13 aprile 1848, ma in quella dell’indomani 14, quando erano firmati tutti che erano intervenuti nel giorno precedente; le ringhiere, gli aditi, le scale erano piene zepe di gente; intesi delle proposizioni tali che, reluttante il mio animo, fui astretto a sottoscrivere mio malgrado.

Ciandro Epifanio M. Turrisi, Vescovo di Flaviopoli. Non intervenne la sera del 13 aprile alla votazione della Decadenza; fu obbligato a sottoscriverla dopo un bimestre.

Giulio Maria Tommasi, Duca di Palma.

Francesco di Paola Gravina, Principe di Palagonia. Ipolito Pape Cassinese, Abate della Maddalena di Messina.

Padre Abate D. Paolo Vagliasindi Basiliano. Baroncello Francesco Vagliasindi.

Pietro Riso, Barone di Colobria. Nominato Pari elettivo dopo il 13 aprile 1848, fu obbligato a segnar posteriormente l’Atto di Decadenza.

Alessandro Alliata. Comunque eletto Pari dopo il 13 aprile, pure gli fu forza segnare dopo l’Atto di Decadenza.

Stefano Bonelli Pari, eletto dopo il giorno 18 aprile 1848, obbligato ad aderirvi.

Angelo Filipone, già Vescovo di Nardò, si astenne di recarsi in seduta quando ebbe luogo il Decreto; però fu poi necessitato di aporvi la firma.

Mariano Abbate e La Grua, Marchese di Lungarini. Gol nome proprio, e quale speciale procuratore del signor D. Pietro Settimo, Marchese di Giarratana, Principe di Fitalia.

Alessio Santo Stefano, Marchese della Corda.

Vincenzo La Via, Barone di Fioilino. Eletto Pari dopo il giorno 18 aprile 1848, obbligato ad aderire.

Parroco Buggero D’Angelo.

Canonico Baldassare Palascotto.

Francesco Notarbartolo e Moncada, Duca di S. Giacomo Villarosa, e per la signora Principessa di Furnari, che rapresentava con procura.

Canonico Francesco Bagnara.

Giusepe Pilo.

Giovan Battista Scasso, Parroco di S. Margherita. Vincenzo Mortillaro. Comunque eletto Pari dopo il18 aprile, tuttavia fu obbligato alla adesione dell’atto consumato in quel giorno.

Monsignor Crispi, Abbate di S. Maria di Gala.

Canonico Salvatore Ragusa per l’Abate di S. Maria delle Giummarre.

Canonico Giovanni Cirino per la precettoria di S. Calogero di Agosta.

Sacerdote Domenico Turano.

Gaetano Starabba, Principe di Giardinelli. Sottoscrisse l’esecrando decreto per le minaccie di fatto, a cui non poteva oporsi; però trascurò la firma qual procuratore del Principe di Alcontres da Messina.

Parroco Giovanni Aleozer.

Sacerdote Giovanni De Francisci.

Sacerdote Nicolò De Carlo.

Guglielmo Baimondo Monoada, Principe Monforte, Conte Sampieri.

Nunzio Spadafora Duca, Principe Spadafoba.

Benedetto Grifeo e Gravina, Principe di Partanna tanto col nome proprio, quanto qual procuratore della Baronessa di Mulino Vecchio, contessa Grifeo. Seggio.

Domenico Spadafoba Colonna, e Principe di Moietta. Firmò la carta di adesione all’atto di Deoadensa del 18 aprile 1848, malgrado che non inteso mai nellesedute, e perché preso da timore per un articolo scritto contro di lui nel giornale l’Indipendenza e la Lega. Più segna presente qual procuratore della Principessa di Belvedere.

Francesco Mabletta. Chiamato alla Camera dei Pari, come Pari temporale elettivo dopo molti giorni del 18 aprile 1848, fui negativo alla iniqua votazione della Decadenza, e non sottoscrissi.

Sac. Mario Turrisi. Nella qualità di Pari elettivo non solo non firmai l’Atto ingiusto del 18 aprile, ma lo disaprovo e lo detesto.

Sao. Antonio Coli. Nella qualità di Pari elettivo non solo non firmai l’Atto ingiusto del 13 aprile, ma lo disaprovo e lo detesto.

Salvadore Vigo.

Francesco Abate Salvo. Non intervenne allo ex-Parlamento, ma per la imponenza di quei tempi fu rapresentato dal Principe di Lampedusa: disdice colla sua firma in ogni miglior modo l’Atto nefando di Decadenza, che il suo procuratore senza mandato di sorta potè firmare nel 18 aprile 184S.

Mone. D. Visconte M. Proto cassinese, Vescovo di Cefalù. Dichiaro di aver sottoscritto il nefando atto spaventato dalle minacce di vita; pe rò non intesi aderire.

Antonio Soudchi, qual procuratore speciale del parroco D. Gaetano Messina giusta il brevetto del 9 marzo 1850 in not. Buscemi di Messina.

Antonino De Spuoches Brancoli, Duca di Cascamo, qual procuratore speciale del Marchese della Sambuca, come per procura del 6 febbraio 1850 data in Napoli e riconosciuta dal notaro D. Ferdinando Cacace.

Sao. Luigi Ventura. Soscrivo per dichiarare che nella seduta del 18 aprile 1848 non vi fa libertà né nella discussione, né nella votazione, e quindi il Decreto, di cui sopra è parola, è per me irrito e nullo.

SACRA REAL MAESTÀ

Signore,Penetrati dalla immensa responsabilità che sul capo dei colpevoli autori ha rovesciato l’improvvido e fatale Decreto di Decadenza proferito la notte del 18 aprile 1848, trepidi del severo giudizio della sto ia, che sino alla più tarda posterità ne spingerà l’orrore e l’esacrazione, noi qui sottoscritti ex Deputati della Camera dei Comuni sentiamo il dovere di umiliare ai piedi del reai Trono la più formale dichiarazione, che in nessuna guisa concorse il nostro libero arbitrio ad un atto imposto alla maggioranza della Camera dalle móne segrete, e dalla violenza di un pugno di demagoghi che nel silenzio e nel mistero ne ordirono l’infame disegno.

Noi non volemmo, poiché eccedeva i limiti del mandato ricevuto dagli elettori. Non volemmo, poiché non era desso il voto della nazione di cui eravamo gli interpetri. Il popolo attonito sepe e tollerò la gravità di questo politico misfatto, quando la fazione che lo avea strapato alle Camere, la bandiva quale suprema necessità di Potenze proteggitrici.

Noi non volemmo da ultimo, perché moderati per principii e per condotta, e solleciti del vero bene del paese rifuggivamo dal fraporre un abisso tra il Trono e i sudditi, dal rendere impossibile qualsiasi pacifico scioglimento.

Questa solenne manifestazione che il solo grido della coscienza ci detta, mentre servirà a giustificare la nostra condotta in faccia all'intera Sicilia, speriamo possa venire accolta dalla clemenza della M. V. cui Iddio ha affidato i destini e lo avvenire dell’isola, quale irrefragabile argomento di nostra fedele sudditanza, e sincera devozione.

Giusepe Pinelli.

Fortunato Jannelli.

Pasquale Maimone. Giusepe Calici Galletti.

Mercurio Ciminna. Vincenzo Grimaldi. Barone Francesco Ventura.

Giusepe Arone di Bertolino.

Giovan Calogero Nicosia.

Giusepe Randazzo. Francesco Paolo Orlando.

Giusepe Bonfiglio. Tommaso Glorioso.

Vincenzo Calcagno.

Vincenzo Grimaldi, Barone Calamezzana.

Giacinto Agnello. Federico Lancia, Duchino di Brolo.

Emanuele Cammarata.

Giusepe Tebaldi.

Paolo Barile, Barone Furolifi.

Sacerdote Onofrio Tagliavia, Canonico e Parroco della Cattedrale di Monreale.

Gaetano Picone.

Nicola Zito, Arciprete di Chiusa.

Giusepe De Spucches Ruffo, Principe di Calati. Prete Giacomo M. Meli, dell’Oratorio di Palermo. Barone di Canalotto, Cav. Giovanni Calafati.

Angelo Marrocco. Avendo nella tornata del 13 aprile cercato di distogliere la Camera dal decretare la proposta di Decadenza, soscrive non per confermare le cose sopra allegate, ma per attestare solamente il suo costante rispetto a V. M. e Dinastia.

Pietro Riso Barone di Calabria.

Giovanni Bruno.

Vincenzo Spanò.

Giusepe Pucci, Barone di S. Giuliano. Mi sottoscrivo abbenché assente dalla Camera il giorno 13 aprile avendo firmato venti giorni dopo l’Atto di Decadenza, giusta come dichiarai con mia suplica presentata a S. E. il 12 novembre.

Placido Notarbartolo.

Giovanni Siracusa.

Giovanni Girolamo Gagliardo, 9° barone di Carpinello. Canonico Giusepe Parroco Virgilio.

Arciprete Francesco Canonico Avila, Mi soscrivo con tutta l’effusione del mio cuore, e nella mia coscienza anche giuro innanzi a Dio, ed innanzi il mio adorato Padre e Sovrano che il Signore conservi felicissimo con la Real Sua Dinastia, e lunghissimi anni sempre prosperi e lieti.

Michele Sostino, Arciprete di Sciacca. Giusepe B. Brago, Deputato del distretto di Girgenti. Canonico Giusepe De Castro da Girgenti. Giusepe Serroi.

Giusepe Ferruggia.

Gaetano Lo Bue. Mi soscrivo perché estorto il mio consenso; tanto ciò vero che non coscrissi l’elezione del nuovo Principe, ed abbandonata in segno la rapresentanza, fui dichiarato dimissionario della Camera.

Nicolò Bara.

Barone Salvadore La Lumia.

Beneficiale Calogero Curto. Umilio con tutta la possibile devozione al Trono della Maestà del nostro14 —pietoso Monarca (D. G. ) di essere stato obbligato ad accettare la rapresentanza del Comune di Ravanusa mia patria dopo di essermi negato per parte del Comitato in detta mia comune istallatosi, e finalmente dopo quattro mesi di essere stato a mio malincuore spettatore delle scelleratezze e prepotenze di pochi demagoghi che sfortunatamente reggevano per allora i destini di questo Regno, abbandonai Palermo, e fili dichiarato dimissionario volontario, ed altri invece mia eletto.

Vincenzo Di Tiglia, Barone di Gianano. Dichiaro che allorquando firmai l’Atto di Decadenza fu per semplice errore d'intelletto, e mai per prevaricazione d’animo.

Achille Paterno, Marchesino Spedalotto, qual procurator di mio Sig. Padre Marchese di Spedalotto, come per procura privata del 21 dicembre 1819 data in Malta. Giusepe Gage. Dichiaro che il sopra indicato Atto del 13 aprile fu proclamato alla mia insaputa e a sorpresa in modo da non potersi dar luogo discussione alcuna: perciò non vi prestai giammai sentito il libero consenso. Questa dichiarazione è un omaggio alla verità, alla M. V. (D. G. ) e Dinastia,Giusepe Mantegna.

Francesco Accordino. Nel soscrivere l’Atto in parola non fo che apagare i miei desideri, poiché io non amava di farsi alcuna novità per la Dinastia Borbonica, sì che ebbi la fermezza di proporre in uno dei miei scritti pubblicati per le stampe che fosse sostenuta la Dinastia regnante, e ciò il maggio 1848, tempi in cui ninno osava senza grave rischio della vita di esternare tai sentimenti di moderazione e di attaccamento al Re.

Ganonico Anselmo Gatto.

Francesco Marletta qual Deputato distrettuale nella Camera dei comuni eletto da Catania. Non sottoscrissi l’iniquo decreto della tenebrosa sera del 13 aprile per la Decadenza,Giusepe Catalano. Dichiaro che l’Atto di Decadenza del 13 aprile 1848 avvenne con mia sorpresa, e mio malgrado, e lo ritratto pienamente.

Francesco Gravina, Detesto e disdico l’infame Atto della Decadenza firmato colla forza mentre in cuore stava la gloria del nostro augusto Re e Padre Ferdinando e sua Real Dinastia.

Giovan Battista Gallerame. Dichiaro che la sola violenza del tempo m’indusse ad esser Deputato, ma per mio intimo sentimento non già, poiché ho rispettato le leggi e la reggenza dello augusto nostro Sovrano. Aggiungo che detesto e disdico l'Atto infame nella Decadenza.

Benedetto Privitera. Dichiaro che io nell’Atto 13 aprile aposi una semplice firma di concorso senza la mia volontà per le imperiose circostanze in cui in quel momento mi trovai.

Paolino Riolo Parroco. Disdico l’infame atto della decadenza che sottoscrissi per le circostanze infauste dei tempi, e colla forza.

Decano Rosario D. Castro, ex Deputato della Comune di Biancavilla. Spontaneamente confesso ed innanzi Dio giuro che l’esacrando Atto da me firmato il 18 aprile nella Camera dei Rapresentanti è stato estorto dalla forza, che per timore di non perdere la vita firmai: ma giuro che ho tenuto sempre nel mio cuore, mio legittimo Sovrano Ferdinando II, e prego Dio per le sua eterna conservazione.

Francesco Pisani Ciancio. Disdico l’inforno Atto della Decadenza, che qual Deputato firmai contro la mia volontà, e per l’impero della forza di allora.

Pietro Dilettoso. Disdico l’infame Atto della Decadenza, che qual Deputato firmai contro la mia volontà per l’impero della forza di quei tempi.

Francesco Scriffignani Alberti. Dichiaro di aver firmato l’infame Atto della Decadenza per la forza che mi atterriva, ma lo detesto e lo disdico.

Antonino Vecchio Majorana. Dichiaro che nello avere aposto la firma all’Atto del 13 aprile vi venni indotto dal timore; sicché ritratto e disdico quell’insussistente ed infame scritto.

Giovanni Vaina. Dichiaro nulla la mia firma nell’Atto del 13 aprile avvenuta per effetto di quelle imperiose circostanze, e quindi ritratto e disdico quanto in quell’infame Atto si contiene.

Domenico Gabagano Barbagallo. Dichiaro insussistente e nulla la mia firma aposta nell’infame Atto del 13 aprile 1848, e fu solamente cagionata dalla violenza e da quelle infauste circostanze.

Cobrado Pintaur. Ritratto e detesto l’ingiusto Atto del 13 aprile, che firmai costretto dalla forza.

Leonardo Vico Fucoio. Fui sempre avverso all’illegale nefando Atto del 13 aprile 1848, pur lo firmai perché era inevitabile in quel tempo e in quel giorno.

Ignazio Romeo. Fui nel caso e della opinione stessa del precedente sig. Vigo.

Mariano La Rosa. Dichiaro che la mia firma dell’Atto del 13 aprile fu effetto della violenza e della condiscendenza dei tempi, ma che io fin d’allora lo riprovai e riprovo.

Leonardo Vigo Calanna. Io mi oposi quanto potei all’atto del 13 aprile.

Salvatore Majorana. Dichiaro che aposi la mia firma all’Atto del 13 aprile attese le circostanze di allora, e contro al mio sentire e senza la mia volontà.

Alessandro D. Coniglio. Dichiaro che firmai l’Atto del 13 aprile senza concorso della mia volontà, e solo per essere stati i Deputati presi alla spensierata, e senza farvi alcuna riflessione.

Pompeo Interlandi, Principe di Bellaprima. Dichiaro che l’Atto di Decadenza del 13 aprile 1848 da me sottoscritto è quell’Attj esecrando, che io ho detestato e detesto, e che firmai per la violenza di uomini che imponevano colle armi, e contro i sentimenti del mio cuore che sentiva immensi rispetti per la regnante Dinastia.

Giusepe Trigona, Marchese di Canioarao. Dichiaro con tutta la serenità della mia coscienza che nel firmare il fatale Atto del 13 aprile 1848, non vi fu il concorso della mia volontà, ma vi addivenni solo per salvare la vita, come condiscesi a tanti altri atti, cui ripugnava il mio cuore per cedere alla forza brutale che dominava in quei tristissimi tempi.

Pietro D. Zuccaro. Mi uniformo alla superiore dichiarazione in tutto e per tutto.

Innocenzo Fronte. Dichiaro io sottoscritto che il Decreto del 13 aprile 1848 fu da me sottoscritto per non farmi segno alla opinione esaltata della universalità. Raffaele Mucoio.

Salvadore Cantarelli.

Corrado Aoezzo De Spucches, Barone di Donnafugata. Dichiaro di avere con sorpresa e a malincuore firmatolo sciagurato Atto del 13 aprile come superiore al mandato datemi dagli elettori, contrario ai miei particolari sentimenti.

Giusepe Schirinà, Barone di S. Filipo.

Giusepe De Leva Gravina.

Salvatore Vaccaro. Non per sentir proprio ma perché obbligato a sorpresa dall’imponente illegittima forza, fui costretto mio malgrado a firmare il nefando Atto del 18 aprile 184S.

Mario Cultrera Ascenso.

Gesualdo M. Libertini.

Silvio Bonanno Chiaramonte, Principe di Linguaglossa.

Paolo Barone Nicastro.

Giovanni D’Ipolito Ciapino.

Pietro Trigona b Stella, Principe di Calvaruso.

Giusepe Vizzini. Ritratto la soscrizione all’Atto del 13 aprile 1848; a cui il luogo ed il tempo obbligavano non mica il convincimento che animo pacato richiede e non fuoco d’entusiasmo.

Francesco Salvo, qual procuratore speciale del D. Carmelo Greco giusta la procura in brevetto del 20 gennaio 1850 in notar Cardinale di S. Marco.

Sacerdote D. Francesco Giambalvo, qual procuratore speciale del Canonico D. Antonio Piattini come per brevetto del 3 dicembre 1849 in notar Caciopo da Memfì.

Claudio Arezzi qual procuratore speciale del Barone D. Placido Citelli in virtù di procura del 18 dicembre 1849.

Giusepe Pinelli, qual procuratore speciale di D. Giusepe Vita, come per procura in brevetto del 4 marzo 1850, in notar Raguta da Caltabellotta.

Paolo Ortolani, Barone di Bordonaro. Formalmente dichiaro, prostrato dinanzi al real Trono, che la mia firma nella qualità di Deputato alla Camera dei Comuni aposta all’insussistente Atto del 13 aprile riguardante la decadenza dell’Augusta Dinastia Borbonica, essere stata estorta dalla imponenza dal timore né mai consentita dai miei naturali principi di attaocamento leale alla Corona, ed alla detta Dinastia legittimamente regnante.

Placido Arezzi, qual procuratore speciale di D. Antonino M. Bellone giusta la prcoura del 13 marzo la dicui firma è riconosciuta da notar Patrizio Simili da Mineo.

Baronello Francesco Polizze Mi soscrivo in nome e parte del sedicente deputato di Calascibetta cav. D. Mariano Corvaja, giusta la procura speciale del 12 marzo 1850 per lettera.

Guglielmo Capozzo, qual procuratore speciale del sig. Basilio Carella ex deputato di Leonforte come per procura 18 marzo 1850.

Filipo Fazello, qual procuratore speciale del Canonico Vincenzo Stajar. o come per procura 16 marzo 1850.

Claudio Arezzi, qual procuratore speciale del sig. D. Giusepe Albergo,come per procura in brevetto 10 marzo 1850.

Antonino Canzano, qual procuratore speciale del sig. D. Giambattista Lombardo in virtù di procura in brevetto del 18 marzo 1850.

D. Giusepe Bandiera, qual procuratore speciale del sig. D. Pietro Federigo, come per procura in brevetto 4 aprile 1850 in notar De Lisi da Messina.

Gaetano Mastrogiovanni Tasca. Dichiaro che nella seduta del 13 aprile 1848 non vi fu libertà né discussione nò nella votazione; che perciò non ebbi la facoltà di astenermi dal votare, né di votare in contrario senso.

Ignazio Vasari.

Gaetano Zapulla, qual procuratore speciale del dott. D. Francesco Calammo, giusto il brevetto del 4 aprile 1850 inno tra Carmelo Lanzara di Francofonti.


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Documenti II, Volume I, Cap. II

La seconda venuta di Ferdinando II in Lagonegro

.... “Giunse il corteo reale in Lagonegro verso le 4 pom. di quello stesso giorno 29 settembre. Già lungo la via, fuori l’abitato, erasi fatta incontro numerosa folla, nella quale non mancavano i soliti monelli, che, correndo dietro la carrozza reale, acclamavano con evviva e con schiamazzi, di che il Re pareva non poco seccato.

“In città i preparativi del ricevimento erano stati assai modesti, anche perché era fresca la ricordanza che le spese fatte in occasione dell’altra venuta del Re nel 1833, erano state imputate agli amministratori del Comune. Ivi da circa 5 anni vacava il posto di Sindaco, ed il Governo non si decideva a nominarlo, respingendo parecchie volte le terne di coloro che venivano proposti dal Decurionato, sicché funzionava il 2 eletto D. Antonio Cascini, un pittore di certo merito, ma insufficiente alla circostanza.

“Un grande arco trionfale era stato eretto fuori della città, alla prima taverna, decorato di foglie di quercia e di lauro, di panni scarlatti, e tele variopinte; altro arco consimile era stato posto allo sbocco della strada Napoli sulla piazza grande, e presso di queste erano aggrupate le autorità civili e militari, i galantuomini ed i popolani. Giunse il Re in carrozza scoverta, nella quale erano pure il duca di Calabria ed il conte di Trapani, ricevé dall’arciprete e dal sindaco gli omaggi dovuti della città, e si mostrò a preferenza prodigo di cerimonie verso un frate capuccino, Padre Alfonso da Lagonegro, che aveva conosciuto nel chiostro di Capodimonte e che tosto chiamò per nome. Indi, preceduto processualmente dalla croce astata e dal Clero in sacri paramenti, attraversò lentamente in carrozza la piazza per recarsi nella Chiesa della Trinità, giusta le usanze della Corte Borbonica.

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“Il Re Ferdinando — alto ed obeso della persona, circondato il grosso viso, al collo ed alla tempia, da un filo di barba, che era detta alla lione od a fettuccia, e che solo era permessa dalla polizia in omaggio alle sembianze ed alla moda reale — indossava con pochissima cura la divisa di colonnello del Reggimento Re o 1° di linea, col berretto rosso e la tunica bleu; e tuttoché avesse raggiunto i 42 anni di età, pareva assai disfatto e stanco. Le tristi emozioni del periodo della rivoluzione, e forse anche i rimorsi per le feroci persecuzioni, cui aveva dato luogo, avevano impresso sul suo viso profonde tracce: sospettoso ed irascibile pareva annoiato di ogni cosa, perfino delle acclamazioni e delle dimostrazioni popolari, che in fondo pretendeva non per affetto, ma per soggezione.

“Giunto il corteo reale davanti la Chiesa matrice, dov’erano stati distesi per terra vari tapeti e panni colorati, il Re ricevè dall’arciprete Sabatino l’acqua santa e la benedizione, ed indi entrò nel tempio, dove il cantore del Clero intuonò solennemente a più riprese il mottetto ad multoi annoi, quale augurio al Sovrano. Presso il pulpito era stato eretto un ricco trono — preso in prestito dalla chiesa del Rosario di Rivello e adatto all’esposizione dei Santi — ma il Re, invitato a prendervi posto, si schernì, e sorridendo disse all’arciprete in dialetto napoletano, che egli parlava a preferenza20 —d’ogni altra lingua: Arciprè, m’hai pigliata pi santa e andò ad inginocchiarsi al faldistorio.

“Dopo che fu cantato solennemente il Te Deum, il Re co’ principi, i ministri ed i generali si recò a piedi nel palazzo della Sottointendenza, mentre la folla acclamava, chiedeva grazie e presentava supliche. In quel rincontro attirò l’attenzione sovrana una donnicciuola, che implorava, ad alta voce, grazia pel fratello capuccino. Il Re la fece avvicinare, e quando sepe che il frate, per bassi intrighi di convento e per pretesi sensi liberali, era perseguitato e fuggiasco: Fatelo venire a me, disse.

“— Sarebbe subito arrestato, Maestà — soggiunse la donna — da questi che vi circondano.

Non abbiate paura — soggiunse il Re con un sorriso, e diede ordine che un suo segretario accompagnasse la donna per rilevare il capuccino, il quale era nascosto in paese, non ostante le accanite ricerche da parte della polizia.

Qual fu la generale maraviglia quando, di 11 a poco si vide comparire in piazza, a scorno dei gendarmi, il frate, lacero e smunto? Lo stesso Re ne rise, e rivolto al capitano della gendarmeria, che era qui di guarnigione, gli disse: Che bella polizia esercitate voi...

“Il frate fu tosto graziato, ma stanco della persecuzione fratina, entrò nel clero secolare, e riprese il suo nome di battesimo Filipo Falabella.

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“Nel mattino seguente, 80 settembre, il Re co’ principi e col seguito ascoltò devotamente la messa, celebrata dall’arciprete Sabatino nell’oratorio, che fu eretto apositamente nello stesso palazzo, ed essendo rimasto viepiù compiaciuto dai tratti affabili e generosi, dalla dottrina, della bontà d’animo e dello zelo religioso di quell’ottimo sacerdote, stabili di proporlo alla Santa Sede per la nomina di vescovo, come in effetti fece nell’anno stesso, nel quale il Sabatino fu nominato vescovo dell’importante diocesi di Valva e Sulmona.

“Dopo gli uffizi divini il Re ricevé l’autorità cittadine, il sindaco con tutti i decurioni, il giudice istruttore Pettinicchio, il ricevitore distrettuale Giovanni Aldinio, il giovane conciliatore Nicola Pesce ed i galantuomini. Chiese minuto conto dell’amministrazione e dell’azienda comunale, e volle fra le mani il bilancio, nel quale fermò la sua attenzione su di una partita di 85 ducati per manutenzione di fontane, osservando che, nel passare per la piazza, aveva notato che la fontana circolare era completamente all'asciutto. Il sindaco fe’ riflettere che in paese eranvi altre fontane, alle quali bisognava provvedere, e per accomodare il condotto di quella, che aveva richiamato l’attenzione reale, chiese al Re un congruo sussidio.

“Nella stessa udienza reale fu pure dimandato che l’ospedale di Maratea — dichiarato già distrettuale nel 1831 con 6 letti giornalieri, oltre gli straordinari — fosse stato traslocato a Lagonegro come capoluogo, ma il Re tenne duro, e: Nonè lecito disse, spogliare un altare per vestirne un altro, ed al sindaco funzionante Cascini, che insisteva su questo argomento, rispose scherzosamente: Pittò va pitta!...

“Durante tutto il ricevimento, fece poca gradita impressione agli intervenuti il contegno distratto e indifferente del quindicenne Principe ereditario Francesco, il quale si divertiva a far roteare sul suo piede la sciabola, che gli cingeva il fianco, sicché pareva bene apropriato il nomignolo, che gli dava il padre, di Lata o Lasagna, che pare alludesse alla timidezza ed alla insipienza di lui.

“Dopo i ricevimenti, il principe Francesco, montato a cavallo, passò in rivista l’esercito che era allineato su due file nella piazza e che poscia prosegui la marcia per la strada delle Calabrie. Il Re assisté dal balcone della Sottointendenza allo sfilamento delle trupe, e quando passarono i Cacciatori reali, gridò in tuono marziale: Cacciatori reali, pochi, ma buoni! Questi risposero con sonore acclamazioni ed evviva.

“Ad ogni cittadino era accordato libero accesso fino al Re, sicché molti gli si presentarono per chiedere grazie ed elemosine, che furono accordate direttamente su larga scala. Al padre Alfonso, suo amico personale, il Re accordò un lauto sussidio pel ristauro del convento di S. Francesco, e tutta la spesa per la costruzione della strada a gradini d’accesso sull’amena collina del Monastero. Altre somme furono lasciate all’arciprete per la distribuzione ai poveri del paese.

“Dopo un giorno di sosta, nel mattino del 1° ottobre il Re col seguito prosegui il viaggio per Lauria e Castelluccio Inferiore, dove pernottò nel monastero dei Frati.

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“Ritornato il Re in Napoli dalle Calabrie per mare, le principali disposizioni, da lui date in occasione di quel viaggio, furono inserite nel Giornale Ufficiale del Regno, e fra esse è notevole questa che riguarda la città di Lagonegro: “S. M. dispose che in Lagonegro fosse richiamata un’antica fontana da lungo tempo essiccata” — L’ordine era ben dato, ma le finanze del comune non consentivano alcuna spesa, sicché il Decurionato nella seduta del 7 luglio 1858, si fe’ a suplicare la S. M. ad avere la degnazione che la spesa bisognevole per animare la fontana sia prelevata dai fondi del Real Tesoro.

“Nulla però s'ottenne né per la fontana, né per la chiesa; pare che sia stata triste fatalità sempre per Lagonegro chieder molto e non ottener nulla”!Avv. Cablo Pesce(Dal giornale il Foglietto di Lagonegro).


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Documenti III, Volume I, Cap. VI

Lettere diplomatiche inedite di Ferdinando II al Cavaliere Antonini
IL RE

Istruzioni, che Voi cavaliere D. Emidio de' Baroni Antonini dovrete tener presenti ed osservare nello esercizio delle funzioni di Nostro Inviato Straordinario e Ministro Plenipotenziario presso Sua Maestà il Re di Prussia, al quale posto vi abbiamo destinato.

Avendo stimato di meglio convenire ai Nostri interessi di richiamare ad altro destino il cavaliere D. Carlo Ruffo di Castelcicala, Nostro Ministro Plenipotenziario in Berlino; ed essendoci sommamente a onore di coltivare la buona intelligenza, ed i raporti di sincera e leale amicizia, che felicemente ci uniscono a S. M. Prussiana, abbiamo risoluto di accreditarvi altro soggetto, che maggiormente rispondesse alle dette Nostre Sovrane intenzioni. Ed avendo Voi cavaliere D. Emidio de' Baroni Antonini saputo riportare la Nostra piena soddisfazione per le prove di abilità, e di attaccamento alla Nostra Persona nelle varie Missioni, in cui Ci avete servito, e soprattutto in quella di Spagna, ove in epoche difficilissime la purità de' Vostri principi e la caldezza del Vostro zelo hanno grandemente campeggiato, Ci siamo determinati a spedirvi in Berlino rivestito del carattere di Nostro Inviato Straordinario e Ministro Plenipotenziario, non dubitando, che, mediante la Vostra saggia, onesta e prudente condotta nonché col carattere conciliativo, che v’è sì proprio, la Real Corte Prussiana si convincerà sempre più della lealtà ed intensità de' cennati Nostri sentimenti verso di Essa e viepiù si stringano i legami di amicizia e di perfetta armonia tra la Nostra Real Corte e quella di Prussia

1° — L’essere Voi stato in altre Missioni ci dispensa dall’additarvi ciò che vi converrà fare, giunto apena in Berlino, convinti che non mancherete ad alcuna etichetta di visita e di convenienza, e contenti a ciò solo, che a tutto potere procuriate non solo nella prima udienza, che vi sarà accordata, ma tutte le fiate ancora che in acconcio vi cadrà, di palesare nelle espressioni, e nella condotta la veracità dei menzionati sentimenti, conforme al senso delle Nostre Beali Lettere di Credenza, che vi saranno consegnate, e di evitare ogni più lieve motivo di doglianza per parte di quella Corte, con cui viver vogliamo nella migliore possibile armonia.

2° — Lo stato attuale di Europa gravido più che mai Ci sembra di avvenimenti, quanto incerti, pericolosi altrettanto per la quiete pubblica, e per la floridezza degli Stati, scopo precipuo di ogni buon Governante. Imperocché principi assurdi di liberalismo, sbrigliate passioni, brame immoderate, di potere, un fatale dispregio dei Capi (funesti e miserandi avanzi delle passate turbolenze politiche), son’oggi in pieno fermento, hanno invasato i popoli. Le sette poi, da condannarsi ad ogni tempo dai Governi tutti di qualunque forma e denominazione, come veleno il più potentemente dannoso alle sociali esistenze, presentemente sono tollerate presso di alcuni, o riluttanti ad ogni repressione apo altri; esse aggiungono sempre nuovo alimento all’incendio rivoluzionario; esse rendono vane ed inferme le forze impiegate ad estinguerle; da esse amuovonsi insensibilmente gli animi della ignorante moltitudine, facile ad esser sedotta, dalla debita devozione verso i loro principi; ed esse infine sbarbicano dalla radice ogni buon seme di religione, di probità, di onesto vivere; una nuova opinione formando contraria a quella, onde le ben ordinate società si sostengono; e distruggendo con ciò il più saldo fondamento dei troni, al cui annientamento certo è, che mirino.

Né può dubitarsi, che delle male pratiche rivoluzionarie non sia centro e fucina Parigi, donde muovono, come da venerata sorgente, nelle altre contrade le idee sovvertitrici, gl’incitamenti d’insurrezioni, i mezzi da soqquadrare. E quel Governo stesso senza forza morale, infermo per la sua politica costituzione, trascinato bene spesso, si vede, dal torrente furioso dei liberali ad agir contro sua voglia, a seconda del Comitato motore, fatto a poco a poco gigante d'immense forze. Quindi le recenti convulsioni politiche in parecchi Stati d’Europa; quindi cangiamenti di forme governative che succedonsi alla giornata; quindi perplessità grandissima nei potentati; incerta la pace; facile ad ardere incendio di guerra, apena che un inpreveduto accidente, effetto delle succennate cause, vi apresti le faville.

In si luttuoso frangente però necessaria del tutto è l’unione intima e perfetta delle grandi Potenze del Nord, la quale formata in spoca per sempre memorabile, consecrata di poi dalle più solenni transazioni, è stata, diremo cosi, cementata d avvenimenti stessi che a distruggerla tendevano più che mai; essa sola equilibrar può le forze immense della rivoluzione e dei Governi miseramente trascinati dalle fazioni; il palladio essa è, e l’unica guarentia della paoe generale, ancora, e sostegno dei sani principii.

Dalle quali cose non è malagevole il rilevare di quanta diligenza e di quanto zelo vi faccia mestieri per fomentare la divisata unione dei potentati, per chiarirvi delle importanti scoperte sulle pratiche dei settari, di cui sono vasti i progetti, grandi i mezzi, propizie le circostanze, e per osservare quali rimedi si aprestino ai mali, o quali vie si tentino a prevenirli.

Ed acciocchè siate in grado di regolare fondatamente i vostri passi in quel senso, che crediamo vantaggioso alla prosperità ed al riposo dei Nostri Popoli, in che unicamente ed incessantemente Ci affatichiamo, vogliamo che siate certo nissun’altra politica volersi da Noi seguire, se non quella, che ai due mentovati oggetti dirittamente conduce; aborrendo Noi da ogni falso spirito di disordine, e da qualunque cambiamento, ancorché lieve nelle forme governative del Nostro Regno, le quali, quanto è da Noi, serbare intendiamo decisamente nella purità istessa che in retaggio ne hanno trasmesse gli Angusti Antenati. Circondati dall’amore dei Nostri Sudditi, con fermezza ed inalterabilità, che esser debbono le massime di ogni saggio governo nell’usare energia contro i felloni, e nutrendo e riscaldando anche la devozione dei buoni, speriamo di salvare i Nostri amati popoli dallo spirito di vertigine, e di non lasciarli corrompere da uomini meritevoli della universale esecrazione.

Questa chiara manifestazione delle vedute dei voti e delle intenzioni nostre Ci dispensa di scendere alle più minute eventualità, trovando Voi colla saggezza e prudenza che vi distingue nella facile aplicazione dei divisati principî, la norma certa da seguire in ogni caso, in cui crederete oportuno di dare o di mandare spiegazioni, e di agire per servigi nostri.

3° — Le fallaci mire dei rivoluzionari nel sostituire al ramo primogenito dei Borboni di Francia quello di Orleans non ci sono ignote. Hanno essi voluto gittar polvere sugli occhi dell’universale, e addormentare le menti delle Grandi Potenze Alleate, perché una imponente forza non venisse a sparpagliare le fila della gran trama, che ordiscono, dello scrollamento di tutti i Troni, e fortificarsi intanto ed avere agio a progredire nelle loro infernali macchinazioni, che son quelle di disseminare da per tutto le ingannevoli dottrine di fellonia, d’irreligione, di libertinaggio, e rendendo ribelli ai loro padroni gli eserciti e i popoli, troncare a poco a poco i nervi del potere, e liberamente poi operare l’universale insurrezione. Ma per quanto si può nei futuri accidenti spinger lo sguardo colla scorta della ragione, e della sperienza, e pare che la Regnante Dinastia Orleanese non possa a lungo conservare lo scettro di S. Luigi; imperocché priva è di ogni forza per la dissenzione dei potenti contrari partiti, chi tenendo colà per la legittimità com’è tutta la sana parte della Nazione, chi stando per la Repubblica; quasi tutti poi riguardando e sprezzando l’attuale Regnante, come esurpatore illegittimo del Trono; e generale oltre a ciò essendovi l’insubordinazione; corrotti gli animi da pessimi esempi, dalle tumultuose declamazioni della tribuna e dalle armi avvelenate della libera stampa, e più da sfrenate cupidigie; vive il fuoco delle sette, e per tali ragioni facendo di di in di Gasa Orleans deplorabile jattura della opinione, sostegno primo e più forte del Potere. Alchè se aggiugnesi, che quel Governo nato dalla rivoluzione, e presentato dal capriccio di una efferata fazione, destituito è di ogni base monarchica, e quindi non offre guarentia veruna ed in se medesima racchiude il germe di sua distruzione, non può non aversi ragione di forte dubitare nella sua durata. Né la congiunzione coll’Inghilterra, alleata, come in diplomazia si apella non naturale di Francia, frutterà gran fatto a Luigi Filipo. E una fazione di dottrinari la sostenitrice di siffatta alleanza; e chi non sa, che incerte e non durevoli sono le opere dei partiti? Tanto più che contrari affatto sono gli interessi di quelle due Nazioni, caldo è ancora l’inveterato odio tra di esse, e semi esistono in amendue d’inimicizia e di dissenzione. Né la ricognizione unanime e pronta fatta dalle Grandi Potenze al Duca d’Orleans messo sul soglio del Ramo primogenito, è di alcun momento; dapoiché ogni avveduto politico deve considerarla come un mezzo prescelto ed abbracciato a preservare quel paese dagli orrori di una guerra civile, e dalla anarchia, per sostenervi almeno la sembianza del potere monarchico, e per salvare l’Europa dallo straripamento rivoluzionario che minacciava di sconvolgere l’ordine sociale. Ond’è che se per fatale accidente, o tutti o parte di questi fini venisse a mancare, irrita e vana cadrebbe ancora la prestata riconoscenza. Presto o tardi adunque una crisi vi sarà del più gran momento, di cui per altro non è facile di antivedere le conseguenze. Certo è che molti segni apariscono di non lontana conflagrazione. Non sono senza oggetto veruno le novelle alleanze, di cui gli alti Potentati Europei cercano con grande studio di corredarsi, e gli armamenti enormissimi, contrari affatto agli interessi dell’erario; i quali armamenti lungi dallo sminuire, rendonsi ogni ora più forti ed imponenti.

Lo che se dà serie inquietudini al Nostro Animo non è dire a cagione de' legami si stretti, che Ci uniscono alla Casa d’Orléans è il desiderio ardentissimo, che nudriamo della pace, di cui hanno assoluto bisogno i Nostri Sudditi. Però tutta l’attenzione la più seguita caldamente vi raccomandiamo, ed una indefessa vigilanza, per tenerci perfettamente chiariti sulle pieghe, che vedrete andar prendendo gli affari, ed informarci il più sovente che potrete, di tutti i particolari più minuti, che han riguardo ad una faccenda di tanta importanza.

Ove intanto la spaventosa crisi si avverasse, vi sforzerete di serbare una condotta conforme alla Nostra decisa volontà, ch’è quella di rimanerci neutrali affatto; al che intenderete con ogni studio; ciò solo a Noi convenendo per tener salvi, e dignitosamente intatti i legami di sangue, che Ci uniscono a tutta la Real famiglia di Borboni di Franoia, e conservare intanto puri i principi di politica, che Ci siamo determinati a costantemente seguire.

Dalché comprendete quanto attivo, riservato e circospetto esser dovrà il vostro procedere nel caso di uno scopio di guerra contro Francia, o sola, o coalizzata con altri Governi di simil reggimento, né baderete a veruna spesa per renderne consapevoli di ogni particolare, il più sollecitamente che potrassi per avere da Noi novelle istruzioni e più convenienti al bisogno, ed agli eventi, che fin d’ora mente umana non è in grado di prevedere.

Vi ripetiamo però, che in ogni evento, laddove la dignità della nostra Corona, e gl’interessi dei nostri diletti sudditi il permettessero, nostro ardentissimo voto è di osservare una neutralità perfetta, ninna parte prendendo nella sanguinosa lotta; poiché in tal guisa crediamo asseguire i due fini summentovati; confidando Noi nella Divina Provvidenza di bastar soli a conservare dei Nostri Stati la desiderata calma. Confermerete Voi perciò tutti i vostri sforzi nelle contingenze avvenire, e tenendoci con minutezza informati di qualunque direzione saranno per prendere gli eventi, attenderete novelle istruzioni, di che a tempo vi provvederemo.

Mentre intanto sarà tale la vostra condotta, farete il pregio dell’opera, sé in guisa vi comporterete che la Real Corte di Prussia consenta volentieri, anzi cooperi al compimento de Nostri desiderii anche in veduta del vantaggio, che potrà risultarne all’intera armata coalizzata, e che per la lealtà, per riserbo delle vostre maniere in nulla abbiasi colà a dolere di Noi, e Ci si usi ancora ogni riguardo.

4° — Debbonvi poi essere abbastanza noti come già sono a tutta Europa, i principi da Noi adottati verso Spagna. A quel Trono abbiamo eventuali diritti incontrastabili per effetto della fondamentale legge di Filipo V. Questa legge Noi riconosciamo come sacra e inviolabile; ogni innovamento ad essa è illegale; tanto più, che la nuova prammatica sanzione del defunto Be Ferdinando si è fatta vessillo della rivoluzione in quelle miserande contrade. Nostro desiderio è, che il principio della legittimità sia rispettato; perciocché la inviolabilità di tale principio è la più sicura guarentia del riposo dei Troni, ed in conseguenza della tranquillità dei popoli. Non riconoscendo perciò Noi guanto presentemente accade nella Penisola Ibera per gli sforzi della liberalesca fazione, che disgraziatamente vi domina; intendiamo di somministrare ogni morale apoggio alla Causa della legittimità, e di non omettere quanto a Noi si può, e contribuir possa al completo trionfo della medesima. Ond’è che a questo fine dobbiate ancor voi tirar le linee di vostra condotta riguardo a quel Governo, procurando con destrezza di fare, che S. M. Prussiana persista nel sentiero con tanta sapienza intrapreso di non prestare sua riconoscenza al Governo d’Isabella, e giovi a quello di D. Carlo; al quale presterete ogni ajuto, che vi sarà permesso, sia negli abboccamenti con quel Gabinetto, e Corpo diplomatico, sia nelle agevolazioni e favori agli Agenti di esso Principe, tenendoci esattamente informati di ogni minimo ragguaglio, che lo riguardi.

5° — Non pertanto, essendoci sommamente a cuore la salvezza della Regina Vedova, Nostra Carissima Germana, in ogni caso sinistro per Lei desideriamo che la vita, le sostanze sue, e delle Reali Principesse sue Figlie abbiano la debita protezione considerando quelle Auguste Persone come parte più cara di Nastra Reale Famiglia. In ogni evento però provvedente gelosissimamente alla dignità Nostra, ed a vantaggio de' Nostri Sudditi ed adoperandovi efficacemente, che né quella scapiti né questi siano in conto alcuno manomessi.

6° — Inoltre il trionfo della nuova causa grandemente da Noi bramandosi, e della pura Monarchia, che crediamo convenir meglio alla vera e solida felicità de' popoli; e desiderando eziandio la repressione di ogni disordine, sotto qualunque forma si manifesti, non occorre somministrarvi alcuna regola da seguire nelle pendenze del Portogallo, cagioni dello spargimento malaugurato di tante lagrime, e di propinquo sangue, ed impolitico scandalo nelle presenti effervescenze di animi.

7° — Vi sono ancora ben noti i torbidi che hanno recentemente tribolata l’Elvezia, volendosi la libera aristocrazia ridurre a torme più larghe, a democrazia perfetta. L’opera ancor essi sono dello spirito di vertigine, che ha invasato i popoli, o per meglio dire i maneggi sono della imbaldanzita fazione, impaziente affatto di ogni freno, che suda incessantemente nelle tenebre, ed anela il sovvertimento sociale. Ond’è che quel suolo infecondo è tuttavia il nido sicuro ove riparano gli esuli, rifiuto di lor patrie, e travagliano in ogni maniera di danni contro i vicini Stati, ritrovando negli Svizzeri incoraggiamento, protezione ed aiuto. Né la vergogna del fallito colpo Savojardo sapiamo che gli abbia menomamente scorati. Per lo che la Penisola seguita ad essere in perplessità per tema di novelli attentati, ed è forza, che i principi siano continuamente in arme a repulsare ogni subita irruzione e ad estinguere il fomite delle male arti, e delle vili corruttele, le quali potrebbero qualche sciagurato suddito inabissare nel vortice delle volute nefandezze. Raccomandiamo perciò caldamente di fare con indefesso zelo ed efficacia che il Gabinetto Prussiano sostenga le dimando e gli uffici delle Potenze, cui cale la tranquillità dell’Italia, perchè sieno snidati di là i fomentatori de' disordini cotanto scandalosi, né si presti loro alcuno apoggio o fisico o morale, che è da ogni diritto vietato sì naturale che internazionale. La libera Svezia può dar ricetto ed ospizio a chi meglio le talenterà; ma quando è certo, e notissimo che gli accolti ospiti violatori delle più sante Leggi fabbrichino nelle terre neutre danni e rovine ai Regni amici, non v’è Stato al mondo che ciò soffra, non strana teoria, che lo apoggi, poiché ogni Nazione ha diritto a conservare la sua politica esistenza; ogni atto perciò contrario è ostile; lo che non si affà con la Svizzera, la quale mentre vive sotto l’egida di una pacifica neutralità, è con legami di amicizia e di buona intelligenza a tutt’i Governi Italiani strettamente legata anzi vi tiene ai servigi buon numero di soldatesche. La tranquillità dell’Italia sia scopo precipuo delle vostre cure, siccome l’è de' pensieri e de' voti nostri. Per lo che terrete l’occhio vigile su quanto potesse mai intraprendersi contro di essa, sia per mare, sia per terra.

8° — Ed alla quiete di essa penisola non può non esser perniciosa la presenza delle tripe francesi, che occupano Ancona, imperocché tiene in aprensione molesta tutti i Principi Italiani che contenti ai loro Stati ne intenderebbero al perfetto riposo; e vivissimo alimento alle speranze dei rivoluzionarli, ed é stimolo pungente e forte alle balde intraprese de' vaganti fuorusciti. Quindi é a desiderarsi soprattutto che sgomberi ornai dal cuore d’Italia quel drapello occupatore, né più veggasi sventolare sulle pacifiche rocche della Chiesa uno stendardo, che richiama all’animo le più dolorose memorie, e divenir può segno fatale, sotto a cui scioperati felloni riducansi ne’ di del pericolo. Annoverate perciò tra gli oggetti di grande importanza ancor questo, perchè offerendosene l’oportunità, possiate contribuire a far si, che cessi alfine questo scandalo impolitico.

9° — L’ultimo Trattato conchiuso tra la Russia e la Porta aumenta d’assai la preponderanza della prima sul Divano, e padrone la rende del Mar Nero ne' oasi di guerra; oltre a che tutto l’agio e la sicurezza le dà di accrescere le sue formidabili forze navali, «mali alle terrestri. La lealtà somma, e la moderazione senza pari, che in tutti gli atti spirano del Sovrano Russo, non Ci lasciano alcun dubbio nell’anima o di progetti d’ingrandimento, e di secondaria mira d’ambizione, null’altro da lui volendosi che conservare la integrità dell’ottomano impero, ed in giusto e debito freno mantenere il ribelle Vassallo del Sultano, onde aversi il tanto necessario politico equilibrio tra i Potentati. E con queste Nostre idee pur quelle grandemente cospirano dell’Austria e della Russia; che lungi dal menomamente adombrarsene, con maggiori legami, di amicizia e di buona intelligenza si stringono col Moscovita, tanta è la fidanza loro nella costui generosità e moderazione, fatte già note al mondo per molte prove e luminose. Nulladimeno se qualche gelosia pel riferito trattato si destasse nell’Inghilterra e nella Francia, potendo ciò divenire seme funestissimo di discordie tra le grandi Potenze, arbitro della pace Europea; fa mestieri, che non perdiate di mira anche questo importantissimo oggetto, procurando di conoscere quali negoziati, o pratiche si facciano, che abbian relazione agli affari di Oriente, quali discorsi si tengano, quale idee si nudriscano dalle persone più valenti ne’ pubblici negozii, e nelle determinazioni di quel Gabinetto; di ogni particolare a ciò spettante Ci farete minuto e riservato raporto.

10° — Le ristrettezze delle Nostre Finanze non permettono, che tener possiamo Nostri Agenti presso molti Governi; non pertanto vivamente desideriamo che non restino indifese le ragioni, e pessundati (tic) gl’interessi dei Nostri Sudditi ne’ varii oasi che occorrer potranno nelle contrade sprovvedute di mentovati Regii Agenti. E perciò siccome il Gabinetto di Berlino ha estese relazioni, e quindi molta ingerenza ne’ rilevanti affari di molti Governi; cosi conviene, che mettiate la vostra aplicazione ad acquistare accortamente quei lumi e cognizioni, che vi pongano al fatto di diversi negoziati, che di tempo in tempo colà si maneggiano, e sarà vostra cura di coltivare tutt’i diplomatici delle varie Nazioni dimoranti a Berlino, perché vi sia poi più facile di valervene nelle svariate occorrenze a patrocinare gli interessi de' Nostri sudditi, che ci sono si cari.

11° — Già non vi sfugge, esservi di alcuni Governi recentemente sorti o dalla più manifesta usurpazione degli altrui sacri diritti, o per nera ribellione contro ai proprii possessori; ai quali Governi o gli eventuali diritti Nostri, o i principii di legittimità, che intendiamo professare, o la ragione di Stato non han permesso di prestar Nostra riconoscenza. Laonde senza mancare inverso i rapresentanti od Agenti di essi, ove per avventura ne capitassero nel luogo di vostra residenza, de' modi di cortesia e di urbanità sociale, farete di tener con loro tale condotta, quale con individui terreste che in nulla avessero a fare con voi; ed, ove fosse mestieri, anche cauta e circospetta. Nel che gioverà regolarvi con que’ rapresentanti di amiche Corti, che nella posizione medesima rispetto agli anzidetti Governi ritrovansi, tra i quali forza è di noverare quei di Spagna, del Messico, ed altri simiglienti.

12° — La Confederazione Germanica essendo stata saggiamente eretta dal Congresso di Vienna, come un antemurale ed argine allo straripamento francese, ed alle mire ambiziose di altra potenza; è colà, ove si combineranno nelle future contingenze di guerra, piani, e negoziati, e saravvi il centro di moto per tutti gli Stati coalizzati. Esercitando perciò il Gabinetto di Berlino grande ingerenza e preponderanza nelle determinazioni della Dieta, sarebbe ottimo avvedimento d’investigare con destrezza quali negozii si maneggino, quali vedute si abbiano, e quali misure si prendano che abbian raporto agli affari generali di Europa. Ci attendiamo da Voi, di cui conosciamo l’avvedutezza, e l’attività, di esser fatti avvertiti delle cose più rilevanti che si trattassero in que’ Consigli, per essere in grado di ben regolare le Nostre determinazioni nelle occorrenze avvenire.

13° — Non ignoriamo poi la giusta ansietà del re di Prussia di render prosperosi i suoi Stati con ogni maniera di vantaggi commerciali, che cerca di render sempre più estesi; un esito fortunato già corona i suoi sforzi; poiché la Prussia elevata al rango di Potenza di prim’ordine quanto si fa ammirare per la valentia e militare disciplina delle sue trupe negli esercizii guerreschi, altrettanto brilla in oggi tra le Nazioni più doviziose per saggezza d’istituzioni finanziere, per attività di commercianti, per ismercio di proprie derrate e di lodati prodotti di sue industrie. Quindi v’inculchiamo di profittare della mentovata inclinazione della Corte di Berlino, ed ove vedeste convenire agli interessi della Nostra Marina Mercantile un Trattato con quel Governo, per dare sbocco alle rigurgitanti derrate del Nostro Regno, Ce ne rendiate consapevoli, indicandoci gli articoli, che potessero tornar utili al Nostro Commercio, per asseguirne le oportune istruzioni.

14° — Tali infine confidiamo, che saranno per essere i vostri procedimenti, quanto pieni di circospezione e di probità, altrettanto urbani e conciliativi, che ben tosto vi guadagnerete la confidenza di quel Gabinetto, di quel Corpo diplomatico, e delle persone più prevalenti presso la Real Corte Prussiana, affinché siate in grado di meglio servirci, e di sostenere la difesa de' Nostri principii.

15°— Son questi gli oggetti principali, sui quali chiamiamo maggiormente l’attenzione vostra, e su di che, come su di ogni altra cosa, vi corrisponderete unicamente col principe di Cassero, Nostro Ministro Segretario di Stato degli Affari Esteri, tanto in chiaro, chein numeri, trattandosi di coso riservatissime; per lo che sarete munito di una corrispondente cifra, oltre a quella, che vi sarà pur data per corrispondere con gli altri Nostri agenti nell'estero, qualora l’andamento migliore degl'interessi Regii lo richiedesse.

Riposiamo nel vostro zelo, che nulla oi lascierete a desiderare; con che oi darete novelli argomenti, e più forti motivi di soddisfazione.

Intanto i nostri recenti decreti han determinato si gli averi, che vi si corrisponderanno, perché con dignità esercitate l’alto impiego, a cui vi abbiamo nominato, e si le spese del viaggio che intraprenderete, e per aiuto a stabilirvi nella città di Berlino.

Abbiamo altresì risoluto quello, che vi si dovrà somministrare per far fronte alle spese di posta, ed a quelle cosi dette di cancelleria, le quali cose vi saranno pienamente, e minutamente partecipate dal Suddetto Nostro Ministro Segretario di Stato degli Affari Esteri.

Napoli, aprile 1839.

firmato: Ferdinando


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Documenti IV, Volume I, Cap. VI

Istruzioni ufficiali di Ferdinando II al Barone Antonini incaricato d’affari presso la repubblica francese
IL RE

Istruzioni, che voi barone D. Emidio Antonini dovete aver presenti ned disimpegno della Missione che vi affidiamo presso la Repubblica Francese.

È nostra mente avvalerci de' vostri lumi, e della vostra esperienza, inviandovi in qualità d’inviato Straordinario e Ministro Plenipotenziario presso la Repubblica Francese; nella certezza che saprete contribuire a raffermare le amichevoli relazioni felicemente esistenti fra due Stati, a reciproco vantaggio delle due Nazioni. E siccome i vostri lunghi servigi nella diplomazia rendono superflue lunghe istruzioni circa le consuetudini e gli usi, che per la lunga esperienza con la vostra discrezione saprete praticare, mi limiterò per ora a darvi le seguenti brevi istruzioni.

E primieramente la recentissima elezione del Presidente della Repubblica Francese, nella persona di Carlo Luigi Napoleone Bonaparte, è l’avvenimento che Ci ha determinati a distaccarvi da Francoforte, per inviarvi in Parigi ad esprimere le Nostre congratulazioni col Capo della Repubblica Francese, venuto a tal sommità per voto quasi unanime della Nazione. Vi saranno perciò rimesse le nostre Credenziali pel Presidente della Repubblica, che vi accreditano per Nostro Inviato straordinario e Ministro Plenipotenziario, e cosi pure la Nostra Missione in Parigi riavrà il suo Capo, di cui finora ha mancato, comunque la Repubblica abbia mantenuto costantemente presso di Noi un Ministro di tal grado.

Dopo le congratulazioni che per Nostra parte, e nel modo il più cordiale ed espressivo farete al Presidente della Repubblica per la sua elezione, Nostro principal desiderio si è, che Voi adoperiate tutti i vostri mezzi per mantenere le buone relazioni di pace, di amicizia, e di buona corrispondenza fra la Francia ed il Regno delle Due Sicilie, che in ogni tempo hanno esistito fra le due Nazioni, e ch’è Nostro costante desiderio di vedere continuate e non mai interrotte.

Riguardo alla vertenza Siciliana, voi conoscete quanto è occorso sinora, e sapete qual sia ora lo Stato della questione. Sicché mi limito a dirvi, che molto speriamo dalla vostra efficacia, attese le buone disposizioni esternate dal Presidente della Repubblica, e dal suo Ministero nel Programma della sua istallazione, mettendo per base il rispetto all’ordine, alla giustizia ed alla proprietà. Abbiamo perciò ragion da credere, che perseverando il Governo Francese nello svilupo di tali nobili sentimenti, presto possiamo sperare una pronta risoluzione relativa alla questione Siciliana, conforme non meno agli inalienabili diritti della Nostra Corona, che agli interessi benintesi della Francia, considerata come una Potenza principale del Mediterraneo, e come posseditrice d’importanti stabilimenti sulle Coste d’Africa.

Noi dunque abbiamo ferma fiducia che il Governo Francese voglia cooperare potentemente a ristabilire la Nostra autorità in quella Isola, come quella che sola può mantenere una perfetta uguaglianza di relazioni, ed un perfetto equilibrio fra le Potenze commercianti nel Mediterraneo, senza provocare ed assicurare una influenza di eccezione ad una Potenza qualunque; cosi pure abbiamo luogo a sperare che il Governo Francese, consolidato da principi di rettitudine e di fermezza esternati dal suo Presidente, non permetterà d’oggi innanzi l’imbarco e l’invio a Palermo di armi, di munizioni e di uomini ingaggiati a servizio militare, le quali tutte cose, fomentando le passioni de' pochi traviati nell’isola, non servono che a prolungare lo stato di sofferenza della maggior parte che desidera l’ordine e la pace.

Nonostante che dalle aparenze sembra difficile la riunione del Congresso di Bruxelles, pure si vocifera che si voglia in quello concedere al Governo del Piemonte il Ducato di Parma e di Piacenza, in compenso delle spese della guerra sinora sostenuta. Ove ciò seguisse, Voi non mancherete, per quanto la vostra posizione in Parigi lo permetterà, di far valere i diritti, a Voi bene noti, della Nostra Real Corona a que’ Ducati, e quando ciò non bastasse, e si volesse assolutamente disporne, userete quei mezzi, che nella vostra saviezza e nelle presenti circostanze d’Europa giudicherete più convenienti a serbare integri i Nostri diritti.

Sono queste le direzioni, che per ora abbiamo stimato a proposito di comunicarvi, per norma della Vostra condotta. In seguito de vostri progressivi raporti, Vi faremo trasmettere, per l’organo del Ministro Segretario di Stato degli Affari Esteri, le ulteriori analoghe istruzioni.

Napoli, 17 gennajo 1849.

firmato: Ferdinando.


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Documenti V, Volume I, Cap. VI

Diario Inedito del Marchese Antonini, ministro di Napoli a Parigi, dal 10 al 28 settembre 1S52

(10 settembre 1852 Napoli).

Ritorno da Caserta. Il Re mi ha condotto nel suo gabinetto ch'è contiguo alla camera da letto di S. M. la Regina nel rez de chaussé del palazzo. Mi ha fatto sedere contro di sé.

Mi ha detto che io lo avevo ben capito; che lui non solo è Presidenziale ma Imperialista; che mi avrebbe date istruzioni chiare e precise perché, se il P. L. Napoleone si dichiara Imperatore, io non tardi a salutarlo e felicitarlo come tale; anzi se io lo potessi, dovrei farlo anche due giorni prima dell’avvenimento. Gli ho rispettosamente rammentato che tali istruzioni modificano quelle da me ricevute, cioè, che io dovessi salutarlo e riconoscerlo apena il rapresentante di Austria o di Russia lo faccia. S. M. mi ha mostrato la convinzione che le Potenze del Nord non tarderanno un momento a far la riconoscenza; io mi sono permesso di non aver la stessa convinzione, perché credo che comincieranno per chiedere il mantenimento de' trattati del 1815.

Relativamente alle mene de' rivoluzionari che si servono del nome di Murat, S. M. è convinta che non bisogna più accordarci peso, dopo le dichiarazioni del P(pe). Presid(e). che condanna quelle mene. Mi ha S. M. raccontato quel che ho detto al marchese di Turgot, e quel che questo gli ha manifestato sulla amicizia del P(pe). L. Napoleone. Mi ha detto che avendo voluto dare una marca di deferenza al conte di Nesselrode, ((1)) lo avea tenuto a pranzare a Caserta col Conte Kreptowich; e poi fece la stessa politezza (sic) al march. Turgot invitandolo con M(r). Barrot ((2)) S. M. cui non avevo potuto far sapere perchè là squadra francese era tornata in Napoli, è stata gradevolmente sorpresa, che io avessi fatto nascere questa nuova prova di cortesia per parte del P(pe). L. Napoleone. Ha letto con soddisfazione il biglietto, che M(r). Drouyn de Lhuys mi scrisse il 28 agosto per dirmi che la squadra andava per rendere omaggio al Re nella festa di Piedigrotta.

S. M. dopo una conversazione di più di un’ora, mi fece l’onore di dirmi che sperava di non contrariarmi ritenendomi a pranzare in famiglia. Né fui vivamente commosso di riconoscenza, e gli baciai la mano che mi porse serrando la mia.

M’introdusse nella camera da letto di S. M. la Regina, che trovasi prossima allo sgravo; ebbe la degnazione di presentarmi alle LL. AA. RR. il Duca di Calabria e di Trani, e fece venire tutti i piccoli Principi e Principesse portate in braccio dalle bonnes. Il Re li prendea uno a uno nelle sue braccia e tenne più tempo delle altre la P(ua). Pia, che rassomiglia molto ed in bello alla Regina. Avendo io domandato se le LL. MM. avessero già designato il nome del nascituro, disse il Re che, venendo al mondo nell’ottava della Madonna, sarebbe P(pe). o P(ssa). Maria e P(pe). Pasquale Baylon. Il Re scherzando disse alla Regina: tu non partorirai prima di posdomani Domenica. .

S. M. disse al Principe Ereditario: “Conduci Antonini alla camera da pranzo e tienigli compagnia”. — Ciò che S. A. R. fece con infinita grazia e bontà; e mentre si attendevano le LL. MM. venne a raggiungerci anche il Conte di Trani. Apena vennero le LL. MM. il Re disse al duca d’Ascoli: “lascia il tuo posto vicino a me ad Antonini”, e mi situò alla sua sinistra avendo a destra la Regina. Alla mia sinistra era il duca d’Ascoli, quindi il conte di Ludolf e poi la Marchesa del Vasto (ora Palmieri) e in seguito tutti gli aiutanti e ordinanze.

Durante il pranzo S. M. mi diresse sovente la parola; e poscia domandommi il biglietto di M(r). Drouyn de Lhuys, nel quale oltre della squadra si parla della tomba del duca d’Enghien, che sarà a Vincennes ristabilita integralmente, in seguito delle mie osservazioni. Fece leggere alla Regina quel biglietto, che io proposi a S. M. di prendere, al che consenti dopo che io ne avessi fatto una copia per me. Dopo finito il pranzo restai colle LL. MM. col solo duca d’Ascoli, ed il Re mi parlò nuovamente degli affari di Francia e delle sue relazioni colle Potenze del Nord; e mi disse: “Fortunatamente la posizione geografica de' miei Stati mi permette di essere fuori di ogni disputa e combattimento. Voglio essere amico di tutti, ma indipendente da tutti e dalle loro querele”. S. M. mi confidò che avea avuto una conversazione col conte di Nesselrode, e desiderava che io lo vedessi per veder se con me si esprime nello stesso senso.

Il Re ha detto che parlando con Turgot si era servito della qualifica di Prince Murat, ed io ho detto che io non lo avevo mai così chiamato, ma che posto che S. M. lo fece, io potevo arbitrarmici.

16Settembre 1852.

Ieri sono stato alla cerimonia in gran gala per la nascita e battesimo del Real Principe D. Pasquale Maria, che ebbe luogo nel magnifico palazzo di Caserta. Due ore dopo lo sparo de' cannoni de' forti, si trovarono i convogli nella strada ferrata. Partii col corpo diplomatico, ed entrai nel primo salone con esso. Prima che cominciasse la presentazione del regio Infante portato dalla Principessa di Bisignano, cameriera maggiore (sic), venne il Gol. D’Agostino a dirmi che S. M. volea che dopo la cerimonia andassi nel suo apartamento. Dopo rogato l’atto dello Stato Civile, si andette alla Capella ove ebbe luogo il battesimo ed il Te Deum. S. A. R. il conte di Trapani fu il Patrino del neonato. Nella cerimonia stetti sempre tra la Famiglia Reale, il duca di Modena, oltre il conte di Montemulino e l’infante Don Sebastiano e rispettive mogli.

Essendo sceso nell’apartamento del Re, S. M. apena le persone reali partite, mi feoe chiamare e mi condusse nel suo grande gabinetto prossimo alla camera da letto della Regina, mi ringraziò molto dei sigari che aveva trovati eccellenti, e specialmente del bicchiere a piede che avevo offerto alla Regina, e l’altro a gobelet per lui. Ebbe la degnazione di dirmi che aveva il lavoro ed incisione d’argento, posto tra due cristalli (sic), fatta l’ammirazione di conoscitori che li avevano veduti. Fecemi S. M. sedere al posto della prima udienza e cominciò dal dirmi che aveva riflettuto a quella qualifica di prince, che ebbe data a Murat, parlando a Monsieur de Turgot e riconosceva che era meglio che io non gliela dassi, perchè non avendolo fatto finora, potria sembrare una concessione dopo il mio ritorno da Napoli; e che l’avergliela accordata S. M. poteva essere un atto di cortesia parlando con Turgot che gli dava la qualifica di prince.

Parlommi poscia S. M. e mi fece leggere la traduzione d'una lettera della moglie di Murat diretta il 22 agosto alla cognata contessa Popoli, nella quale le dice che una parola del presidente è ve nata a mettere ostacolo alla di loro gita in Italia; e le parla delle reclamazioni da farsi in Napoli per una iscrizione sul gran libro, della quale era stato incompensato (sic) M(r) Aimó, asserendo che Drouyn de Lhuys è meglio disposto ad apoggiarlo che M(r). de Turgot.

S. M. mi parlò di M(r). Thomas d’Ajou, e mi spiegò la sua posizione pseudoliberale e fornitore (sic). Mi disse che tolta la libertà della stampa non aveva voluto continuare il suo giornale, e ne era andato a fondare uno in Genova (Il Mediterraneo) che ha preteso essere giornale del Re di Napoli. S. M. mi ha dichiarato nel modo il più positivo che non ci prende alcun interesse, ed ha negato che possa entrare in Napoli sotto l’indirizzo del ministro della guerra come d’Ajou avea chiesto. Che avea saputo che nel detto giornale vi erano articoli che erano ostili al Principe L. Napoleone e che li disaprovava altamente. A questo proposito mi disse S. M.: “voglio cogliere questa occasione per aprire a te la mia piena fiducia, e dirti che qualcuno crede che io mostri amicizia pel P(pe). Presid, ma che in fondo non desidero che continui nel potere. Ebbene ti assicuro che non ho niente più a cuore che si faccia Imperadore, e continui l'opera di salvare l'ordine sociale. Non è certo un Orléans, o il mio caro cugino e nipote Conte di Chambord, che potrà farlo. Del resto io gli sono riconoscente di tutte le prove di amicizia e di simpatia che mi ha date, e devo riconoscere che le mie relazioni colla Francia sono di mano in mano divenute migliori, da Cavaignac al 2 dicembre 1851, e poi perfette, da che L. Napoleone ha tutto il potere”.

S. M. mi disse che dovevo vedere il conte di Nesselrode, per sapere se si sarebbe espresso con me ne’ termini tenuti con S. M. Ed io promisi di andare oggi a Castellamare, pregando la M. S. di non dirmi quel che il conte di Nesselrode gli ebbe espresso.

18 settembre 1852.

Ieri l’altro fui a Castellamare per pranzare dai miei amici Wittgenstein, e prima andetti dal conte Kreptowich per vedere il conte di Nesselrode. Questi mi ricevé con grandi dimostrazioni di amicizia, presente la figlia e il Conte di Lebzettern. Mi disse: Et bien que vous nous aportez de nouveau de Paris 1 L'Empire est fait ou se fera, et Von dit que vous v poussez et que vous exersez une grande influence sur le président.

Al conte di Nesselrode dissi che io non spingevo all’impero, perché in fondo non trattavasi che di un titolo, perché L. Napoleone ne avea tutta l’autorità ed il potere, e che per l’influenza io noncercavo ad avere che il mezzo di essere ascoltato quando trattavasi degl’interessi del mio Sovrano. Si parlò del Coup d’état del 2 X(br)(e)e dissi, che a quello avevo spinto per quanto avevo potuto, e credevo di aver ben servito il mio Re e l’Europa, perché quell’atto ci avea tutti salvati. Il conte di Nesselrode ne convenne pienamente, e disse che solamente L. Napoleone potea farlo e salvare l’ordine sociale. Ed io soggiunsi che non bisognava dimenticare il servizio che ci aveva reso; ch’esso era molto suscettibile per paura che si manchi all’onor della Francia e che temendo che i sovrani del Nord non sieno ben disposti per lui, non rompa interamente colla rivoluzione. Si parlò poi dello stato de' partiti in Francia, e si convenne che le masse sono Napoleoniche come lo è l’armata. Domandai quali notizie avesse il conte di Nesselrode sul matrimonio colla Principessa di Vasa, e mi rispose che mancava di dettagli, ma che lo credeva mancato.

17 settembre 1852.

Ieri sono andato a Caserta, ove S. M. teneva udienza. Entrato nella camera, il duca d’Ascoli ed il principe di Jaci mi han fatto avanzare per far si che il Re mi vedesse. Di fatti S. M. mi salutò colla mano parlando con un Vescovo e dopo aver parlato all’intendente di 8alerno, mi fece entrare nel suo gabinetto, e facendomi sedere gli raccontai la mia conversazione col Nesselrode. S. M. mi disse: “apena il Principe L. Napoleone si dichiarerà Imperatore, voi lo riconoscerete senza attendere altro; e in questo senso saranno le istruzioni che vi darò per iscritto”.Parlando del viaggio del Principe Presidente e del di lui arrivo pel 25 e 26 a Marsiglia, emisi l’idea di mandare una fregata con un generale per complimentarlo.

S. M. prese a volo l’idea che sarebbe render la politezza (sic) fatta di mandar qui la squadra francese per Piedigrotta, e mi disse: “ci penserò e forse partirà pel 22 sotto pretesto di andare a Gaeta”. S. M. mi riparlò di Thomas d’Ajou che era all’udienza. Egli fa ora il disgustato della politica. Mi parlò pure degl’intrighi Austro-Russi, de' quali Sabatelli è la chevillauvriere, come pure della maldicenza contro il governo, di cui è centro la casa Torcila.

19 settembre 1852.

S. R. M.
Signore,

Credo oportuno non lasciare ignorare a V. M. che jeri sera M(r). Barrot mi disse: je viens de recevoir la certitude que le Piemont et la Toscana envojent complienter le Prince President à Toulon, et il me parait convenable... Lo interrupi, e gli dissi: mon cher M(r) Barrot, s’il s’agit de convenancesì soyez sur que le Roi y aura pensé avantvous, et avant qui que ce soit. Non volli che potesse vantar di aver dato un suggerimento.

26 settembre 1852.

Ieri mattina con un avviso del colonnello D’Agostino sono giunto da Capodimonte a Caserta prima dell'una p. m. S. M. mi ha subito ricevuto nel suo gabinetto, e dopo avermi detto che volea fissare le mie istruzioni, mi ha dato a leggere una memoria di un Polacco, che offre di farsi relatore(spia) a Londra, mentre S. M. è andato a sentire la messa nella camera della Regina.

Apena tornato nel suo gabinetto, il suo fedele aiuto di Camera ha preparato due tavolini, e sono venuti il Presidente del Consiglio oav. Troja, il ministro d’Urso, Cassisi e Carafa. Ci ha fatti tutti sedere prendendo S. M. vicino a sé il duca di Calabria, e quindi ha fatta lucidamente l’esposizione dello stato delle cose in Francia, della certezza che vi sia proclamato l’impero, della sicurezza desunta da' raporti di Vienna e Pietroburgo, e da quel che ha detto il conte di Nesselrode, che le Potenze del Nord riconosceranno l’impero forse dopo la dichiarazione del mantenimento de' Trattati del 1813, e finalmente S. M. ha conchiuso che le sembrava prudente e utile il procedere immediatamente alla riconoscenza (fio) dell’impero per parte sua, onde conservare la bella posizione che abbiamo stabilita in Parigi, posizione, egli ha detto, che si deve all’abilità del Barone Antonini, ma più specialmente alla franchezza e lealtà messa nelle relazioni con il principe Luigi Napoleone. Ed ha 8» M. soggiunto che era meglio farsi un merito della riconoscenza dell’impero, facendone un atto spontaneo, e non una conseguenza forzata degli avvenimenti; e che in questo senso credea che si dovessero redigere le istruzioni pel barone Antonini, credendo oportuno che egli feliciti subito in Suo Nome il nuovo Imperadore. Ha poscia domandato il parere de' ministri, ed il cav. Troja è stato pienamente di avviso, che dovesse farsi come S. M. proponea.

Il comm. d’Urso, premettendo ch’era la riconoscenza un fatto grave, meglio saria non affrettarsi, e concertarsi colle altre Potenze, al che S. M. ha replicato che volea essere indipendente, e nella sua posizione geografica tenersi lontano dalle influenze e compromissioni specialmente colla Francia, preferendo una neutralità, come suol dirsi armata.

Rammentando che nel 1806, come Murat nel 1814, fu perduto il Regno di Napoli per aver tergiversato nella politica; che la sua era franca e amichevole per tutte le Potenze, ma di simpatia per la Francia che può farci molto male, e non può aspirare ad oprimerci; e che piuttosto che ritornare sotto l’influenza inglese, preferiva legarsi e marciar colla Francia. Il Principe Ereditario à mostratoassentire ed il cav. Cassisi, e il comm. Carata egualmente. Io mi sono permesso di esprimere la convinzione che le Potenze del Nord fraporranno qualche tempo prima di riconoscere l’impero, specialmente spinte dall'Inghilterra, che teme la Francia risorta forte ed intraprendente. “Non importa, ha detto il Re, questo ritardo farà meglio valere la mia deferenza pel Principe L. Napoleone”. S’è allora convenuto che io sarei munito di una lettera di credenza di S. M. per la Maestà dell’Imperadore Luigi Napoleone con la data in bianco e a sigillo volante, perch’io nel momento di proclamarsi l’impero, la presenti, aponendoci una data che si ravvicini all’avvenimento della proclamazione dell'Impero. Il cav. Carafa ha avuto l’ordine di redigere le istruzioni e la lettera di credenza. Il Re mi ha congedato e mentre fece avvertire gli altri ministri di venire al Consiglio, io ho dato e spiegato a S. A. R. il Duca di Calabria il nuovo istromento d’ottica, lo Stereoscope.

28 settembre 1852.

Ieri, Domenica, il colonnello D’Agostino con un’ordinanza speditami a Capodimonte, mi scrisse che S. M. volea vedermi in Napoli, ove saria venuto per poche ore, o jeri o questa mattina.

Essendomi subito recato a Palazzo, malgrado una terribile tempesta, mi assicurai di essere avvertito apena S. M. sarebbe (sic) giuntaAvanti le tre p. m. ho ricevuto oggi tale avviso, ed ho trovato al piccolo apartamento del pianterreno il colonnello D’Agostino, e poco dopo è arrivato il commendatore Carafa, poco prima avvertito che S. M. desiderava vedere anch’esso.

Essendo giunto il Re col Duca di Calabria, ambedue in tenuta di viaggio, S. M. nel vedermi da lontano mi ha detto ad alta voce “Signor barone Antonini, spero che stiate bene ed ho bisogno di parlarvi”; e quindi, chiamato Carafa, siamo entrati nel corridojo che conduce all’apartamento sulla Darsena, ove, preso commiato dal Real Conte e Contessa di Trapani, siamo arrivati al gabinetto di S. M. col Duca di Calabria, e S. M., levandosi la sciabola, si è posto al suo scrittoio e ci ha fatti sedere. Ha tirato dal portafoglio, che gli ha sporto il Real Piglio, alcune carte, e poi mi ha domandato se io conoscevo le istruzioni e la lettera di cui fu parlato il 26 a Caserta. Io ho risposto che non le conoscevo, ciò che il comm. Carafa ha confermato. Allora S. M., leggendomi un progetto che avea corretto col lapis, e si pose a correggerlo colla penna, mi permisi alcune osservazioni, che S. M. con una grazia infinita degnò accettare nella correzione. Poi le feci osservare che il foglio era un dispaccio, e non istruzioni, perché in questo caso dovea parlare il Re e firmarsi da S. M., ciò che Essa ammise.

Venendo poscia al progetto di lettera, che mi si vuol confidare in previsione, S. M. non lo trovò di suo gusto, e mi mostrò uri» minuta da esso fatta in fretta, e quindi m’invitò a scrivere, sotto la dettatura Sua la lettera che incomincia “Le grave et serieux évenement qui vieni de s’accomplir en France” ecc., aggiugnendo che poi con Carafa si sarebbe meglio tra noi disteso, purché si fosse conservato il suo pensiero. Quindi con infinita bontà e lieto viso mi congedò, dovendosi andare ad imbarcare col Duca di Calabria per raggiungere le trupe della colonna mobile in Lagonegro.

Oggi al ministero mi sono state di nuovo lette da De Marsilio e Versace le minute corrette dal Re, ed io ho fatto mettere nella credenziale che, oltre il complimentare il novello Imperadore, era accreditato definitivamente presso S. M. Imperiale come lo sono preso il Principe Presidente. ((1))


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Documenti VI, Volume I, Cap. II

Sulla morte di Domingo Ruix de Arana
1855 — dicembre 5 — Alfonso Casanova a suo cognato Giusepe: Antonacci in Trani.

... Io non so come e da che cominciare la presente mia lettera. Quanto tu la desideri e l’aspetti, tanto il mio spirito soffre una violenza nello scriverla. Arana! il nostro incomparabile amico, quella anima cosi cara ed affettuosa, non è più. Avvezzi da cosi lungo tempo ad averlo in pratica e ad amarlo, poche privazioni d’amici potrebbero per te e per me agguagliare quest’una. Ed io, e tutti noi di casa non pensiamo da più giorni che a te, prediletto forse tra noi amici di quello sfortunatissimo giovine! Io lo vidi l'ultima volta al teatro dei Fiorentini, la sera di martedì 27 di novembre. Uscendo dal teatro abbiamo scherzato insieme. Eravamo soliti a quell’ora di percorrere su e giù Toledo, quasi ogni sera: quella sera no. L’indomani e il giorno apresso le mie ore passarono fra Beatrice, Nonnòe i Miracoli. ((1)) La sera di giovedì era un tempo orribile, ed io non uscii. Cesare uscì e verso le 10 e mezza tornò a casa con un volto sbigottito e addoloratissimo. Gli riuso! malgrado le insistenze mie, che avevo presagito una disgrazia, di eludere ogni mia sollecitudine: e apena la mattina del venerdì mi disse che il povero Arana era preso dal cholèra. Quando io mi fui ostinato di volere accorrere ad assisterlo, fu necessario di confessarmi che Arana già da venti ore era morto!!La mattina del mercoledì 28 Arana s’era desto con un po’ di diarrea. Già dai principii del mese d'ottobre l’era venuta soffrendo a quando a quando; ma cosi mite, che poche pozioni d’acqua di riso erano sufficienti a liberamelo. Credette che anche allora non si trattasse che di tanto, e mandò a dire a Rubino ((2)) che a suo comodo fosse venuto da lui. Vedi se questa malattia toglie il senno! La diarrea era già diventata di natura cholerosa e Arana era ancora alzato. Né si corcò se non quando sopraggiunse Rubino, e Marcello, che s'accorse per una combinazione, e fu il solo napolitano che potè esser presente all'ultima infermità di chi amava ed era amato da tanti napoletani come fratello 1 Sotto l’uso della canfora, abusata molto da Rubino, egli peggiorò: ma la stessa canfora potè poco agire altro che sopra i suoi nervi, i quali si eccitavano al vomito, apena una sola gocciola di quello spirito gli toccasse le labbra. A poco a poco i polsi risalirono al principio delle braccia; benché algidismo non ce ne sia stato mai, anzi sudore (Dio sa di che natura) ma sudore. Verso le ore sei essendo stati chiamati altri medici, Biondi e Rosati, egli che s’era così visto peggiorare sotto l’omeopatia, volle affidarsi a questi. E dopo aver preso i sacramenti (e per proprio desiderio, e per consiglio dei medici) incominciò a prendere il chinino.

Non ne prese in tutto che vent’acini. Ma la vera sede della malattia, in tutti già, ma in lui specialmente, era ai nervi, i quali negli ultimi mesi gli si erano indotti in uno stato di prostrazione e d’irritabilità quasi incredibile. E pare che i rimedii prescelti cosi dall’uno come dall’altro sistema, fossero apunto i meno adatti a quel suo stato. Ond'è che quella dose di chinino non altissima bastò a farlo peggiorare, come era già bastata quella quasi indiretta azione della canfora. Non ostante i medici furono contenti d’un sopore, in cui entrò, e nel quale rimase tutta la notte, che fu creduta da essi tranquillissima e di ristoro. Alle dieci e mezza del giovedì mattina parlò l’ultima volta, ma con voce fioca e con viso tramutato irriconoscibile. Parlò di sua madre, alla quale sarebbe rivolato dopo la convalescenza, e disse che si sentiva star meglio. Poi ricadde in un sopore più grave dal quale insensibilmente passò ad altra vita!Forse questi particolari ti attristeranno: ma conosco la tua anima, e credo che devi averne bisogno: non foss’altro, per credere poi veramente quello che pare incredibile: cioè che lo spazio di pochissime ore è bastato per privarci per sempre di un cosi amatissimo ed affettuosissimo amico tFrattanto egli aspettava il freddo come una cagione che il morbo si volgesse alla sua fine: e il freddo ci è venuto lo stesso giorno di giovedì, e dura e il colera decresce realmente. Il bollettino di avant’ieri fu di soli otto.

Di tanti suoi amici il solo Marcello (Marcello Gallo, amicissimo anch’egli dell’Arana) ha avuto la fortuna di poter fare qualche cosa per lui. Noi quindi siamo nell'idea di unirci tutti per fargli un solenne funerale, cui concorreranno pure i diplomatici. Se questo pietoso pensiero verrà ad effetto, vuoi tu esserci?


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Documenti VII, Volume I, Cap. X

Le varie calate di genti albanesi nel Reame

Dal Dizionario geografico ragionato del Regno di Napoli, di Lorenzo Giustiniani — R. Bibl. a S. M. Ferdinando IV — Tomo X — Napoli 1805. Lettera a S. E. D. Francesco Migliorini, Segretario di Stato di S. M (D. G. ) di Grazia e Giustizia e dell’Ecclesiastico(pag. 191).

1(a) trasmigrazione di Albanesi nel Pegno sotto Alfonso di Aragona (per aiuto dato a Scanderberg, nacque una cordialità di raporti; e, quando vi era bisogno, Albanesi venivano al servizio di Alfonso).

2(a) trasmigrazione sotto Ferdinando, figlio di Alfonso (nel 1461 Scanderberg calato in Puglia con la sua gente, difese Ferdinando dalla congiura de' Baroni. Così gli Albanesi residenti ebbero privilegi).

3(a) trasmigrazione (dopo la morte di Scanderberg nel 1467, Giovanni suo figlio, per scampare ai Turchi, dovette rifugiarsi negli stati di Puglia accordati da Ferdinando al padre. Gran parte andò in Calabria).

4(a) trasmigrazione (sotto l’imperatore Carlo V, fatta da quelli di Corone, città di Morea. Nel 1532 don Pietro di Toledo viceré di Napoli mandò in aiuto a Corone un’armata navale sotto il comando di Andrea Doria, per scacciare i Turchi. Colle navi che tornavano in patria vennero anche i Greci in Napoli).

5(a) Trasmigrazione (sotto Filipo IV, venne “gran numero di gente da Maina nel 1647, ch’è una altra contrada della Morsa” e si fissò nella terra di Barile in Basilicata).

6(a) trasmigrazione avvenne sotto l'augusto Carlo Borbone nel 1744. I trasmigranti si fissarono in Abruzzo, nella terra di Abbadessa (badie di S. Rocco, S. Stefano, S. Biagio ecc.).

7(a) trasmigrazione (“sotto l'augusto nostro regnante Ferdinando IV”) Gli Albanesi si trasferirono nella città di Brindisi, avendo per capo Phantasia, “caffettiere, valente nel greco e nell’erudizione”.

De’ centri annotati in questo elenco nel numero di 44, fra Calabria, Puglia, Basilicata, Abruzzo, Benevento e Molise, il più popoloso è Mormanno, con cinquemila abitanti, e il più piccolo è Vena Inferiore, casale di Monteleone, con dugento. Della esattezza di quest’elenco è lecito però dubitare, non essendovi compreso qualche centro importante, e invece compresi altri che non furono mai abitati da Epiroti, ma è ritenuto il più esatto. Il Giustiniani non tralascia di notare che diversi Albanesi si fissarono in Sicilia e fondarono alcuni comuni, ma non dà indicazioni di sorta.

Devo ricordare, per dovere di gratitudine, che nelle indagini circa la venuta degli Albanesi in Calabria e nel Regno, attraverso la copiosa, ma non sempre esatta e concorde bibliografia, ebbi la preziosa collaborazione del mio amico Mario Mandatari, divenuto oggi la miglior fonte di storia e di cultura calabrese.


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Documenti VIII, Volume I, Cap. X

Atto di nascita di Agesilao Milano

Atto di nascita di Agesilao Milano

OFFICIO DELLO STATO CIVILE

Estratto dal Registro — ATTI DI NASCITA
dell'Anno Milleottocentotrenta (1830)
Numero d’ordine trentotto (38)


L’anno milleottocentotrenta il dì quattordici del mese di Luglio alle ore venti avanti di noi, Benedetto Mosoiaro, Sindaco ed Uffiziale dello Stato Civile del Comune di San Benedetto distretto di Cosenza Provincia di Calabria Citra, è comparso il Signor Benedetto Milano di anni trentatré, di professione sartore, domiciliato in detto Comune, il quale ci ha presentato un bambino secondoché abbiamo ocularmente riconosciuto, ed ha dichiarato che lo stesso è nato in casa di sua abitazione il giorno dodici mese corrente di Luglio sopradetto anno milleottocentotrenta da Maddalena Russo, sua legittima moglie, di anni 29, di professione possidente, domiciliata con esso dichiarante.

Lo stesso ha inoltre dichiarato di dare al bambino il nome di Agesilao.

La presentazione, e dichiarazione anzidetta si è fatta alla presenza di Pasquale Chimenti, di anni trentotto, di professione bracciante, domiciliato in detto Comune, contrada sopradetta.

E di Gaetano Sarro, di anni trentotto, di professione massaro, domiciliato in detto Comune, contrada medesima, testimoni intervenuti al presente atto, e dal dichiarante prodotti.

Il presente atto, che abbiamo formato all’uopo, è stato iscritto sopra i due registri, letto al dichiarante, ed ai testimoni ed indi nel giorno, mese, ed anno come sopra segnato da noi e dal dichiarante — firmati Benedetto Milano — B. Mosciaro.

La presente copia è conforme al suo originale col quale collazionata concorda in ogni singola parte, che si rilascia per uso privato e per semplice notizia.

San Benedetto Uliano, li 15 Novembre 1889.

L’Ufficio dello Stato Civile

G. MIGLIANI


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Documenti IX, Volume I, Cap. X

Ode inedita di Agesilao Milano

L'Ultima sorpresa che Bossari fa ai Turchi,e sua morte.

[1847].

Era notte e la pallida Luna

Su pei liquidi campi non sorse,

Nè alla volta dei cieli ne scorse

Con l’usato e divino splendor.

Sgorga il sangue: rosseggia la terra

E a Bozzàri ne imbratta il suo volto

Pure il brando nel sangue è sepolto

E dal sangue nel petto sen va.

Ma una densa tenèbre regnava,

Un silenzio scorgessi per tutto,

Par nunziare l’orribile lutto

Ai Turchi, e Postremo dolor.

Qual d’autunno a quel soffio di vento

Cadon sempre già gl’ispidi cardi,

Si la testa dei Turchi beffardi

A lor sangue ruotando ai sta.

Sorse in mezzo tal notte Bozzàri

Sotto l’armi lampante di guerra,

Al suo grido rimbomba la terra

L’eco in tutto per tutto s’udì.

Scorre il sangue fumante qual rivo,

Monti interi di corpi svenati

E quel nembo di corpi gelati

Par mordesser coi denti il terren.

E dì botta trecento Sulioti

Gli fan cerchio già prodi guerrieri

Ongon tutti a quell’eco i cimieri

E ciascuno la spada brandi.

Vittorioso Bozzàri s’avanza

E veloce si spicca qual lampo

Già penetra nel campo e dal campo

Baldanzoso uccidendo ne vien.

Marcia in campo da duce Bozzàri

Animando i seguaci suoi prodi

Alla voce di fervide lodi

Gli s’accendon di bellico ardor.

Un subuglio fra i Turchi ne sorse

L’uno al’altro domanda, chi è questo?

Tutti gridan: è un turbin funesto

Che dal cielo or ora piombò.

E nel mentre Bozzàri animando

E ai Turchi sua voce funesta

Romorosa qual grande tempesta

Che al nocniero ne reca timor.

Non son turbin, d’ardire Bozzàri

Gli risponde: ma il duce dei Greci,

“Io son Marco che ì Turchi disfeci”

E gli avanzi atterrando ne andrò

Tutto a un punto si sbuca il drapello

Ai Turchi far scempio, furente,

Quale sbuca dal monte torrente

Schianta tutto ohe innanzi li vien.

Il Pascià finalmente ne acciuffa

Pien di gaudio repente L’uccide,

Poi col brando il suo capo recide

E quel teschio nel sangue sen và.

È Bozzàri sul ballo di zuffa

Quale folgor tremendo che cada

Sovra monti superbi e dirada

L’alber tutto con tutto il terren.

Ahi tremenda, funesta sventura!

Mentre in gioia Bozzàri è sepolto

La vittoria stà sisso al suo volto

Ma in tal punto, ahi!... ferito si stà.

Al suo scudo età sisso la morte,

Qui ne sparge funesto spavento,

Là furioso ne reca tormento,

E adietro la fama gli vien.

I suoi prodi guerrier vincitori

Il conflitto laBciaro veloci

All’istante che udirò le voci

De’ lor duce sepolto in dolor,

Dal suo brando la morte ne piove

Cadon gente, recide stendardi

Spesso ancora già un nembo di dardi

Piomba sempre al nemico nel sen.

E s’aggrupan repente quei nubi

Sovra il corpo languente del duce

Su cui splende una vivida luce,

Luce è questa di fama e d'onor.

Muore Marco ed il capo strozando

Dell'averso Pascià loro duce:

La sua fama torrente di luce

Sarà sempre por sempre sarà.

E nocade quel forte drapollo

Sovra il duce già morto: furente

Egli cadde: o sa lui già lucente

Gli risplende la fama d'onor.

Misse Marco l'estremo sospiro

Pien di fama, di lode, e di gloria

Fra noi tutti serbossi memoria

Da noi tutti una lode ne avrà.

Quale il sol che la fronte ne ascose

Risplendente, dorata e vermiglia

All'Ocauso nell'altra famiglia

Lo splendore dei raggi mando

Egli è morto; e un nembo di froccie

Giàne piombasu i prodi guerrieri

Questo viene dai Turchi forieri

Che avvelti restaro fin or.

Tale cadde quel nerbo di guerra

Pare adietro già i raggi di gloria

E la bellica ebella memoria

A noi gente d'Epiro lasciò. ((1))



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Documenti X, Volume I, Cap. X

Agesilao Milano

(Consone di Laura Beatrice Mancini Oliva)

Vola, alma mia, sulla natal tua riva,

E di quel sol ti bea

Di cui ti stringe invan lungo desio!

Caro lido natio,

Ecco io ti veggio e l'aure tue risento!

Ma qual capo lamento

L'aero percorre? Fosche nubi intorno

Volano il ciel sereno,

E in tetro ammanto il giorno

Sorge di duol presago e di spavento.

Un suon represso di lamenti pieno

Al cor mi giunge, e di pietade il pianto

Tronca su' labbri il canto!....

O terra di beltà suprema e sola,

Il tuo divo sorriso or chi t'invola?

Molle di pianto o d'alto duol commossa,

Movi, o mesta Canzon, romita e sola,

Ove sepolte l'ossa

Stan d'iniqui e ladroni: in poca fossa

Ivi cerca l'eroe; digli che ancora

In Italia o una gente

Fra cui sonar si sente

Libero all'aure di Melano il nome,

Ove tra poche elette alme non dome

Il fatto audace ed immortal si onora.

Torino, 1857.


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Documenti XI, Volume I, Cap. X

Dal “Carme” su Agesilao Milano di Giusepe del Re

Una denga caligine profonda

Sulla cittade si riversa, e tutto

Ravvolge nel suo vel: tenebra è il cielo,

Son tenebre degli uomini le menti.

Mal dura il guardo in quell'orrendo e cupo

Mistero a penetrar: accovacciate

Abi la Morte vi stanno e la Vendetta,

E una turba famelica di sangue

Il delitto asseconda incoronato!

La Muga, anch'essa inorridita abborre

Da tanta vista, o nel suo duol raccolta

Al silenzio i suoi fremiti abbandona,

Il di aspettando, o Agesilao, che intera

Sarà l'opra di Dio. Tu la vedesti

Nella tua mente e l'affrettasti. Ancora

Ella ritarda e tarderà, ma certa

E la promossa, e il tuo sangue n'è pegno.

No son regno le candide colombe

Che sul tuo palco si posar. ((1)) Non falla

Oh non falla il tuo sogno! È Libertate

Che i suoi campi aparecchia, e, dileguate

Alfin di Tirannia l'ombre mortali,

Sulla terra de' Martiri raggiorna!

(Torino 1857, Tip. Naz. di G. Biancardi).


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Documenti XII, Volume I, Cap. X

La difesa di Agesilao Milano

scritta da lui medesimo la notte che fu l'ultima di sua vita, pubblicata per cura di I. S. D. L., e diligentemente corretta dal barone V, C., il quale è Vincenzo Caprara, romano, che viveva a Napoli. Fu stampata nella tipografia di Gaetano Nobile, e benché non porti data può ritenersi una di quelle numerose pubblicazioni che,fatta l’Italia, dilagarono per la penisola, celebrando vivi e morti in prosa e in versi, di diverso contenuto e spesso vacue, e tutte d’incerta forma grammaticale. É quasi superfluo osservare che questa difesa non può assolutamente essere attribuita ad Agesilao Milano. A una breve prefazione apologetica, che attribuisce al Milano qualità non solo di virtù e valore, ma doti di “profondo filosofo non meno che di valente teologo e letterato”, segue l’autodifesa, scritta da lui — come il titolo dice — la notte che fu l’ultima di sua vita: sedici pagine di una tronfia prosa, in cui la più evidente declamazione si unisce a disquisizioni filosofiche e a ricordi biblici, quali certo non potevano ricorrere alla mente di un condannato, nelle sue ultime ore. Dopo un breve esordio rettorico, l’A. di questa difesa, premesso che “esiste la mondo l’antichissima setta dei re, sostenuta per delitti e tradimenti di ogni sorta con la complicità del Prete-re, che devia e corrompe il verbo di Dio” narra com'egli sia stato spinto alla determinazione del regicidio dallo spettacolo quotidiano dei regi soprusi e delle tiranniche soperchierie e dalla carità di patria; e, con frequenti citazioni latine dell’Apocalisse, rivendica il diritto di uccidere un tiranno, “conciosiacosaché ninno abbia ardimento di accusarlo né la legge forza alcuna per condannarlo Ecco il contenuto della difesa, la quale evidentemente è l’opera di un maestro di scuola.



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Documenti XIII, Volume I, Cap. X

Poema sa Agesilao Milano di Giovanni Jatta

Nello stesso anno 1863 vide la luce in Napoli, nello stabilimento dei classici italiani, un poema di G. F. Jatta dal titolo: Agesilao Milani, con note di Giovanni Demofilo, ch’è l’autore stesso. Il poema in terza rima è diviso in dodici canti, ed è l'apologia del soldato albanese, e tutto un grido di esecrazióne per i Borboni e per Ferdinando II. Del canto primo si leggono queste terzine, le quali possono dare un’idea del poema:

Quell'infelice giovinetto io canto

D'alto e nobil sentir, d'alma sdegnosa,

Cui tanto increbbe della patria il pianto,

Che in mezzo a conto squadre assalir osa

Il tiranno di loi, l'empio Fernando

Della schiatto alla terra e al cielo esosa.

Nella prefazione è detto che l’autore cominciò a scrivere il poema nel 1858 e dové interromperlo a causa di una grave malattia; e che sopraggiunta la rivoluzione, lo riprese, innestandovi le novità accadute, Milano (l’autore si ostina a chiamarlo Milani) s’incontra nel mondo di là con Gioberti e con Dante, con Carlo Alberto e Rosmini, e tutti gli fanno festa. Rosmini, su preghiera di Carlo Alberto, profetizza quel che avverrà, cioè la cacciata degli austriaci dalla Lombardia, l’incoronamento di Vittorio Emanuele a Roma, e la liberazione del regno di Napoli compiuta da:

Un uom che le passate età non hanno,

Ch'oggi in virtù o in valor su tutti eccelle,

E che l'età future invidieranno,

Scaccerà poi da Napoli l'imbelle

Erede di Fernando; e fia compita

L'opra che il mondo a lungo ne favelle.

Il poema rivela nel poeta un apassionato studioso della Divina Commedia, onde son frequenti le reminiscenze dantesche. Si chiude con la incoronazione di Agesilao, fatta da Mario Pagano, circondato dai suoi compagni di martirio. Le note di Demofilo contengono qualche particolare interessante, benché non documentato. Vi ò detto che Agesilao, uscendo dalle righe e assalendo il re con la baionetta, gli dicesse: difenditi tiranno; che in prigione fosse straziato crudelmente dalla tortura; e che infine il carnefice avesse sei ducati di premio dal re perché non unse di sapone il laccio, che strozzò l’infelice, prolungandogli l’agonia e i dolori della morte! Cose verosimili, e qualcuna riferita dal Gropello nei suoi raporti.

Giovanni Jatta, padre di Antonio, e suocero di Giovanni Beltrani, miei amici carissimi, fu uomo di notevole cultura storica e archeologica, e di grande mitezza d’animo, onde non sembra quasi possibile ch’egli sia l’autore di un poema, che spira cosi profondo e sviscerato odio contro la dinastia dei Borboni e così profondo disprezzo per Pio IX, che chiama babbeo e rimbambito; per Antonelli, che battezza semplicemente brigante, e per la Curia Romana. Vero è che queste cose son dette nelle note, scritte non dal poeta Giovanni Jatta, ma da Giovanni... Demofilo.


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Documenti XIV, Volume I, Cap. X

La tragedia di Nicola Romano

Delle varie pubblicazioni, la più recente e la più bizzarra è una tragedia di Nicola Romano d’Acri, dal titolo Agesilao Milano, e col motto exoriare aliquis nostri ex ossibus ultor. Sono personaggi della tragedia, oltre al Milano, Attanasio Dramis, Giusepe Fanelli, Giambattista Falcone, il ministro Bianchini, ((1)) gli studenti Trioli e Isidoro Gentile, e alcuni agenti di polizia. Fu stampata a Nola (tipografia Rubino e Scala) nel 1897, ed è dedicata ai tremila studenti, che furono tanta parte di mia vita operosa, dice il Romano, che era un profossore. È preceduta da molte notizie fantastiche. 8i afferma che Agesilao fu tra le squadre degl’insorti nel 1848; che combattè valorosamente a Castrovillari e a Spezzano; che fu arrestato e chiuso nelle carceri di Cosenza, ove maturò il disegno del regicidio, e per recarlo ad effetto, risolse di arrotarsi nell(9)esercito.

Il Romano afferma che Agesilao rivelò il proposito di ammazzare il re al Dramis, al Fanelli e al Falcone, ammettendo che il determinare a compiere l’attentato influissero il richiamo dei ministri di Frano!a e d’Inghilterra, e le riprese trattative con l’Argentina per la deportazione dei prigionieri politici. È una pubblicazione stravagante, in cui il tragico degenera nel comico, rasenta il grottesco, e la rettorica impera. Agesilao si fa parlare peggio di un eroe di Metastasio; i suoi amici da retori; i birri da birri. e Bianchini insulsamente? ((2))

*

**

E la rifioritura continua. Nel fascicolo V dell’Italia Moderna, del 15 marzo 1893, è pubblicato un articolo di Gemma Caso, dal titolo: Giambattista Falcone e la setta dei fratelli pugnalatori. In esso si congettura che il Falcone apartenesse a questa setta; ed essendo amico del Milano e del Nociti, questi potessero anche farne parte. Nepure queste congetture resistono alla logica più elementare. E Paolo Emilio Bilotti, autore del recente libro: La spedizione di Sapri, par che creda alla sua volta che il Milano possa aver apartenuto a società segrete, forse a quella dei Figli della vendetta.

Ed è anche da ricordare un’ode di Vincenzo Stratigò di Lungro, alunno anch’egli del collegio italo-greco. Passando a rassegna i giovani albanesi, alunni di detto Collegio, morti per causa di libertà, e fra essi Pasquale Baffi, apiccato nel 1799; Donato Tocci, zio materno di Guglielmo, trascinato a coda di cavallo dalle turbe sanfediste per le vie di Napoli,; e Raffaele Camodeca, fucilato nei moti di Cosenza del 1844, ricorda enfaticamente i tre giovani eroici, morti straziati dalle soldatesche regie nel 1848, a Rotonda, per non aver voluto gridare: viva il re, e infine Agesilao Milano con questi versi:

O Chiodi, o Tocci, o Mauro altero

Vi han pesto il capo, non già il pensiero,

O puro sangue del mio paese

Son Albanese!

O fior di Grecia, o sommo onore,

Da voi si aprende come si muore,

O nomi eterni del mio paese

Son Albanese!

Tu ancor Milano, tu ruoti il brando

Sol contro l’empio, forte gridando:

Muori, o tiranno del mio paese

Son Albanese




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Documenti XV, Volume I, Cap. X

Altre pubblicazioni

Anonimo. — Agesilao Milano, nelle memorie storiche della Rivoluzione nell'Italia meridionale. In “Il Progresso”, di Napoli, 1862.

Imbriani Matteo Binato. — Agesilao Milano, parole. — Napoli, 187S.

Mosciaro Saverio. — L'ombra di Agesilao Milano a Garibaldi in Caprera. — Da San Benedetto Ullano, 1 giugno 1862, tip. Brusia, Cosenza.

Sesto-Giannini Giusepe. — Canti inediti con cenni sulla vita di Agesilao Milano per Mariano D’Ayala. — Napoli, Vico Freddo alla Pignasecca, 1860.

Venosta Felice. — Carlo Pisacane ed Agesilao Milano, seconda edizione. — Milano, Barbini, 1864.

Villani Pasquali. — Agesilao Milano s i Martiri di Cosenza. — Napoli, Chiurazzi, 1885.

Avrei voluto consultare il processo, ch’è nell’archivio di Stato di Napoli ma occorrendo il solito permesso stimai inutile domandarlo. Il direttore del l’archivio assicurava un uffiziale dell’esercito, incaricato a mia preghiera dal generale Cadorna, che “I documenti in parola non accennano a fatti d’indole politica, e presentano il Milano più come un esaltato, che come un cospiratore”.


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Documenti XVI, Volume I, Cap. X

Lettera di Guglielmo Tocci relativamente all'attentato

Cosenza, li 24 agosto 1907.

Caro amico De Cesare,

In continuazione della mia precedente, ti mando per pacco postale due fascicoli contenenti le ritrattazioni dei due militari, arrestati con noi altri per l’attentato di Milano. Da quella massa di spropositi e sgrammaticature di due soldatacci senza coltura potrai cavar qualche cosa di vero; ma perché tu possa farti la precisa idea dei fatti e delle persone, che figurano autori di questi scritti, aggiungo un breve commento, cui fo seguire una breve notizia di noi altri, ai quali si riferivano le accuse di quei due, accuse che ritrattarono dopo due anni cogli scritti che ti mando. Le due memorie sono conservate nel loro originale dagli eredi e figli del fu Domenico Francalanza, medico di Rossano, nostro compagno di carcere; l’anno scorso mi feci fare questa copia per conservarla fra le tante memorie che ho della mia prigionia. Dei due militari, Giusepe Mendicini era Albanese di S. Giorgio, che stette anche in educazione qualche anno nel Collegio ove si educò Milano, e conosceva il Milano fin da quel tempo. Non completò la sua istruzione e andò a servire nella milizia, perché gli toccò nella leva del suo paese il numero che lo chiamava. Non era imbevuto di sentimenti liberali, perché se nei piccoli paesi si potesse dire che esistono partiti politici, il padre di lui era notoriamente contato fra i borbonici. Il Tangor, l’altro autore della memoria, era di Basilicata. Compagno di caserma del Mendicini, fu in intimi raporti con lui, come si legge negli scritti di entrambi. Ma dopo, per opera del commissario di polizia De Spagnolis, che nel nostro processo era inquisitore, furono messi in oposizioni l’uno dell’altro per poter più facilmente strapar da essi delle confessioni.

Il Mendicini era stato a qualche riunione, dove intervenivano Agesilao, Nociti, Battista Falcone e giovani di altre provincie, che coltivavano le idee di libertà, e si riscaldò per poco anche lui. Un mese prima dell’attentato, tornando io dalla villa dei baroni Compagna in S. Iorio, dove avevo dovuto trovare asilo a Vincenzo Sprovieri, che veniva di Calabria travestito da frate per imbarcarsi per l’Estero, mi incontrai a Toledo con Mendicini, il quale al vedermi, mi festeggiò e mi disse: abbiamo parlato tanto di te in una riunione che tenemmo in casa di Nociti, dove intervennero Agesilao e tanti altri ed abbiamo trattato di cose politiche. Io domandai: e lo spirito della trupa com’è? Mi rispose: ottimo; e non mi spinsi oltre, non avendo molta fiducia nella sua serietà. Avvenuto l’attentato, furono arrestati Mendicini e il Tangor. Il commissario De Spagnolis credette trovare in essi degli strumenti dei quali avrebbe potuto servirsi, intimidendoli, per strapare loro confessioni di segreti e di congiure. E perciò furono tenuti sempre segregati da noi altri calabresi ed albanesi. Potemmo per mezzo dei custodi comunicare con Mendicini nostro paesano e rimproverarlo delle deposizioni fatte che sapevamo essere contrarie a noi ed anche alla verità. Fu per questo, che pentiti, scrissero le dichiarazioni che ti mando. Il Mendicini la diresse al generale Lecca, albanese, cui egli si era presentato in questa qualità, e ne aveva avute benevole accoglienze, come l’aveva avuta il Milano e quanti soldati albanesi si presentarono a lui. Si disse che dopo l’attentato il Lecca si fece presentare il Milano, e tra l’altro, gli disse: Ma perché volesti assumere la figura di un assassino così empio di attentare alla persona sacra del Bei; e ne ebbe, si disse, risposta fiera e dignitosa.

Gli altri arrestati, immediatamente dopo l’attentato, furono:

I fratelli Alfonso ed Isidoro Gentile di Paola, morti entrambi, Alfonso col grado di prefetto in ritiro. Furono arrestati a Cosenza, dove erano studenti e dove avevano fatto amicizia con Agesilao Milano. Da Cosenza furono tradotti nelle carceri di S. Maria Aparente in Napoli, dove eravamo noi altri, ed arrestato anche mio cugino Vincenzo Marchese, giovinetto di quindici anni, e già alunno del collegio italo-greco. Mio fratello Donato trovò scampo con la fuga.

Francesco Mosci, Albanese, dimorante in Napoli, ove era domiciliato.

Raffaele Trioli, morto giudice di tribunale, arrestato in Calabria e tradotto come i Gentile a Napoli.

Temistocle Conforti e suo cugino Eugenio Conforti di S. Benedetto Ullano, arrestati nel paese nativo, e tradotti a Napoli.

Raffaele Aiello, un ex-impiegato carcerario di Cosenza, anche esso tradotto con gli altri a Napoli.

Lelio Gatti medico a Cosenza, di una notissima famiglia di liberali tenuta d’occhio dalla polizia. Aveva conosciuto Agesilao Milano nel tempo che egli faceva lo scritturale al fornitore delle carceri Carlo de Angelis.

Carlo de Angelis, testò citato, che aveva fatto di Agesilao una specie di segretario.

Pietro Antonio Basile di S. Giorgio Albanese, arrestato in Calabria e tradotto nelle carceri di S. Maria Aparente con noi altri.

Giusepe Marchianò, Orazio Rinaldi, Domenico Francalanza, Domenico de Stefano, Igino Mirarchi ed io arrestati tutti a Napoli dove studiavamo.

Attanasio Dramis, il più stretto amico di Milano che era nelle maggiori sue confidenze, e che si trovava anch’egli addetto al servizio militare nella gendarmeria a Salerno.

Nella prima furia delle persecuzioni furono arrestati alla cieca tutti gli albanesi che si trovavano a Napoli salvo eccezioni, nonché don Antonio Graditone, don Lorenzo Zaccaro e don Stanislao Marchianò, albanesi il Graditone e il Marchianò, il vecchio padre del Rinaldi ed il fratello di lui Francesco; ma dopo pochi giorni, alcuni furono rimandati liberi e ritenuti solamente noi altri, sui quali cadevano sospetti di complicità o scienza almeno dell’attentato; ed in ogni caso per i nostri principi eravamo creduti meritevoli di esser tenuti al sicuro da una polizia, che per mezzo del commissario De Spagnolis, mandato in provincia di Cosenza, d’ordine del re, aveva scrutinato la vita e gli antecedenti di tutti noi altri. Onde il De Spagnolis potè persino ricordare a me in un interrogatorio, avanti la commissione che ci giudicava, non solo la morte incontrata dal mio fratello maggiore Francesco Saverio a Campotenese nel 1848, perché si rifiutò di gridare viva il Re, come gli fu imposto, ma mi rimproverava per sino alcune frasi di mie lettere giovanili dirette a compagni miei, che egli aveva avuto l’abilità di rintracciare e mettere in processo, e l’uccisione di mio nonno per mano dei sanfedisti nel 1809. E rimanemmo senza giudizio per quattro anni, ad arbitrio del re, che ogni sera si faceva trasmettere gli interrogatori nostri; rimanemmo fino al luglio del 1860. Fummo liberati non come gli altri prigionieri politici, ma in seguito a una grande dimostrazione popolare, la quale chiese la liberazione dei carcerati calabresi, come eravamo distinti noi altri detenuti in S. Maria Aparente: liberazione che Francesco II non voleva concedere, perché a don Liborio Romano, che gliene faceva premura, rispose che noi non eravamo imputati politici, ma di regicidio. E dopo la scarcerazione, ci aspettava una carica di fucilate e di baionette al largo Carolino, da un picchetto di soldati comandati da un tal Potenza, il quale quando vide un torrente di persone scendere dal Grottone, e che eravamo noi carcerati di S. Maria Aparente, i quali con gli amici di Napoli e parenti che ci accompagnavano, formavamo una vera fiumana di gente, credendo che si volesse assalire il palazzo reale, ordinò il fuoco e la carica alla baionetta. Io, che ero in prima fila, mi salvai, buttandomi a terra facendo il morto; fu ferito mortalmente il mio compagno a fianco Popino Marchianò, che poi divenne segretario generale del R. Economato dei Benefici vacanti. Si salvò per vero miracolo, avendo riportato due ferite di baionetta che lo tennero per più mesi all’ospedale dei Pellegrini tra la vita e la morte. Cadde estinto un povero fruttivendolo.

Per debito di lealtà, come ho dichiarato innanzi al magistrato nel processo fatto a carico del comandante Potenza, devo dire che non giudicai premeditato l’attacco, ma invece effetto di equivoco e di paura. In quel giorno stesso fu dato fuoco dai popolani agli uffici di polizia nei bassi quartieri, e gli animi erano esaltati...

Ti stringo la mano

Tuo aff. mo

G. Tocci.


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Documenti XVII, Volume I, Cap. X

Carteggio dell’incaricato di affari interinale di Sardegna a Napoli conte Giulio Figarolo di Gropello
dal 9 dicembre 1856 al 7 gennaio 1857 sull'attentato di Agesilao Milano

Bisogna ricordare che ministro degli esteri di Sardegna era Cavour, ma il suo nome non figura mai nell’interessante corrispondenza: figura invece quello del conte di Salmour, segretario generale.

Il giorno dopo l’attentato, 9 dicembre 1856, il conte di Gropello mandò al suo governo questo primo raporto. Alcuni particolari non sono esatti, ma la relazione è nel complesso precisa, accurata ed eloquentissima, come son tutti i racconti posteriori.

Napoli, 9 che ambre 1856.

Ricorrendo ieri la festa della Immacolata Concezione, S. M., siccome è suo costume, aveva ordinato che vi fosse al campo di Capodichino una grande parata militare. Assisteva alla medesima S. M. unitamente alla Regina ed a tutta la famiglia Reale. Già crasi celebrata la Messa ed il Re, circondato dal suo Stato maggiore, postosi in un canto della piazza d’armi vedeva il defilé delle trupe. Già gran parte di esse era passato in fila innanzi al Re, quando dalla settima compagnia del 3° battaglione cacciatori che veniva diritto verso S. M. per indi convergere a diritta, usci più ratto del fulmine un soldato, e furiosamente slanciandosi sul Re, in due salti gli fu sopra e gli diede un colpo di baionetta al fianco diritto, che riuscì apena a toccarlo. Il soldato si aprestava a rinnovare l’assalto quando il tenente colonnello La Tour, che veniva ad annunziare a S. M. che aveva fatto eseguire certi ordini da lui ricevuti, visto l’atto minaccioso del soldato, gli si avventò sopra con il cavallo ed atterratolo al suolo impedì che sorgendo di bel nuovo, compiesse l’esecrando attentato. In un batter d’occhio gli furon sopra molti fra soldati e gendarmi che lo afferrarono e legatolo lo condussero prigione.

Il Re con grande intrepidezza e fermezza d’animo non diede segno di commozione, assistette alla parata come se nulla fosse occorso, ed a cavallo, percorrendo la popolosa Toledo, si ridusse al Beale Palazzo.

Testimonio oculare del fatto, io subito mi occupai di quanto era a farsi nella attuale circostanza nella mia qualità di rapresentante interino del Governo di S. M., e saputo che il Ministro di Spagna, indossato l’uniforme, era corso alla Reggia onde presentarsi a S. M., ho creduto dover mio far la medesima cosa. Ai piedi dello scalone del Palazzo trovai il Ministro di Russia che, in uniforme al par di me, recavasi a complimentare S. M.

Come era naturale, S. M. si compiacque ricevermi dopo il sig. Kokoskine, ed io interprete dei sentimenti del Re N. A. S. e del Governo di S. M. ebbi l’onore di rassegnare a S. M. Ferdinando secondo l’espressione della profonda indignazione che nell’animo di tutti avrebbe potentemente destato l’annunzio di si orribile attentato, felicitandolo in pari tempo di esser così provvidenzialmente scampato da tanto pericolo.

S. M. mi accolse con molta benevolenza e mi disse che era più che persuaso della sincerità dei sentimenti che il Re di Sardegna ed il Governo Piemontese nutrivano per la sua persona, e che era assai sensibile alla premura colla quale io era corso a complimentarlo.

S. M. mi assicurò di sua propria bocca che era stato cosi leggermente ferito che era cosa da non farne più parola, ed io dal contegno tranquillo ed indifferente di S. M. confermo, quanto più sopra dissi, sulla imperturbabilità del suo animo. Il Re da tal fatto ritrae un evidente segno della protezione della Vergine per la sua persona, e per la sua famiglia: tale convinzione in lui già forte s’invigorì maggiormente e forse nelle future deliberazioni che dovrà prendere la medesima potrà aver gran parte.

Ebbi ieri parimenti l'onore di ossequiare S. M. la Regina, alla quale espressi i medesimi sentimenti che aveva esposto a S. M.

Le LL. MM. il Re e la Regina mi diedero l’incarico di assicurare S. M. il Re del vivo interesse che prendono ad ogni qualunque cosa che particolarmente Lo concerna, e della soddisfazione che provano nel ricevere favorevole notizia di sua preziosa salute.

A compimento dei ragguagli, che hanno relazione al fatto in sé stesso, debbo confessare a Vostra Eccellenza che grandissimo fu il mio stupore nel vedere la generale indifferenza sia della trupa che della popolazione in presenza dell’attentato, fatto sulla persona del Sovrano. Non un grido, non una voce si intese; l’ordine non venne menomamente sconvolto, ma eziandio non furono in nessun modo esternati quei sentimenti di devozione e di entusiasmo per un Re, che sfugge per miracolo a certa morte.

Quanto diversa è stata, a quanto mi fu assicurato, l’attitudine del popolo Napoletano quando nel 1838, se non erro, Rossarol e Lancillotti attentarono alla vita del Re!

La popolazione allora gli diede colle sue entusiastiche acclamazioni non dubbie prove della sua devozione, ora invece il silenzio della tomba lo accoglie ovunque passa. Questa cosi diversa situazione mostra a chiare note che l’animo del popolo è interamente cambiato, e per colpa di chi non oso indicarlo.

Il Re nella stessa sera uso! di bel nuovo in vettura per la città e certamente a quella ora Napoli tutta sapeva l’orribile caso, ma come prima allora pur anco la popolazione fu muta.

Generale fu lo stupore che destò questo stato degli animi del popolo napoletano: tutti riconobbero nel silenzio assoluto della popolazione un terribile indizio di poco e nessuno attacoamento alla persona di S. M. e come Vostra Eccellenza potrà di leggeri darsene ragione chi ne trasse sgomento e chi motivo di speranza.

Vengo ora ai ragguagli che mi venne fatto di procurarmi sulla persona dello sciagurato soldato.

Chiamasi costui Melana, Calabrese di provincia, nativo o di S. Demetrio o di S. Benedetto Ullano, villaggi che apartengono a quelle colonie greche che sono sparse nelle Calabrie.

Mi venne raccontato che egli nel ’48 fece parte della banda Sicula, che il sig. Ribotti sbarcò su quelle coste e che uno dei parenti suoi fu vittima della tremenda reazione, che venne iniziata dal Colonnello Nunziante in quell’epoca.

Da quel punto venne meditando il regicidio, ma non so per qual motivo entrò poco dopo l’anno 50 in un Seminario.

Infastiditosi dello stato sacerdotale usci di Seminario e prese in qualità di cambio di recluta servizio militare, e da sette mesi trovavasi iscritto al 3° battaglione dei Cacciatori.

Benché nel giorno di ieri non gli toccasse di andare alla parata, pure chiestane facoltà al suo capitano l’ottenne, e sulla piazza d’armi tentò di porre in opera l’infame disegno.

Scrisse egli stesso con uno stoicismo grandissimo la sua deposizione: disse che aveva cercato di trovar complici fra i suoi compagni, ma non aver rinvenuto nessuno; aver egli compito il suo mandato; dolergli di aver fallito il colpo.

Fin ora non mi è dato di saper più oltre su tale argomento, se il fatto sia isolato o se abbia ramificazioni. È voce generale esser egli un settario Mazziniano; e se le sue deposizioni sono esatte, non se ne può gran fatto dubitare.

Mi limiterò per ora a far rimarcare a Vostra Eccellenza che questo fatto prova quanto ebbi più volte l’onore di esporle, che la trupa è corrotta ed è malcontenta. Costituzionali, Murattiani e Mazziniani e massime questi due ultimi partiti cercano di subornarla e da molto tempo trovano l’adito più facile e le adesioni più frequenti. Il sistema di corruzione e di spionaggio stabilito nei reggimenti ha rotto la disciplina e le continue misure di rigore e di pressione non possono a meno di produrre i loro tristi effetti.

Quindi ben a ragione le potenze alleate rendevano avvertito il Re di Napoli dei pericoli e dei danni che lo minacciavano. — I fatti di Sicilia e l’attentato di Melana sono chiaro argomento dell’oportunità e senno delle rapresentanze di Francia e di Inghilterra.

Dimani o quanto prima potrò, mi farò un dovere di rassegnare a V. E. quei maggiori ragguagli che mi verrà fatto conoscere su questo sgraziato accidente. Con tutta premura oggi, stringendomi il tempo per l’anticipata partenza del Capri, mi affretto d’inviarle il presente raporto qualunque egli sia.

Napoli, 10 dicembre 1856.

Il Giornale offiziale del Regno, sotto la data di ieri, contiene tre articoli, che hanno tratto alla solennità militare del giorno 8, all’attentato del soldato Milano ed ai fatti di Sicilia. Mi affretto di inviarli a Vostra Eccellenza onde Ella veda in qual modo il Governo interpreti gli avvenimenti che occuparono l’attenzione pubblica in questi ultimi giorni.

All’infuori del nome del soldato predetto, e della circostanza da me narrata dell’esser egli entrato in Seminario, ebbi ieri campo di convincermi che l’esposizione da me fatta era esatta. Il foglio Officiale fa apena menzione del modo con cui venne commesso il fatto, e di quello con cui il Tenente Colonnello La Tour salvò la la vita a S. M. L’omessione di questo ultimo importantissimo ragguaglio fece una assai cattiva impressione su tutto il pubblico e conosciuto il carattere sospettoso e diffidente di S. M., se ne dedusse che si era espressamente celato il fatto del Sig. La Tour, onde in nessun modo potesse egli credere aver acquistato merito alla benevolenza Reale. In tal guisa il Gen. Filangieri, dopo aver riacquistato la Sicilia, cadde in disgrazia, e venne così contrariato nella sua amministrazione che fu costretto a dimettersi.

Il Re tenne questo sistema verso tutti coloro che gli resero importanti servizii e che pare questa volta pur anco non l’abbia negletto.

Lascio a Vostra eccellenza il far giudizio sulla narrazione del fatto. — Essa ad altro non mira che ad escludere ogni idea di partecipazione a suoi disegni per parte dei suoi compagni sino al punto di non volerlo quasi considerare come soldato. Questa eccessiva prudenza, se cosi si può chiamare, dimostra a parer mio che il Governo si accorge pur anco che il veleno si ò parimenti insinuato nell’armata, che essa è malcontenta e che non si può più interamente far conto sulla medesima.

Non si sa ancora se il Milano sarà giudicato dalla Corte Marziale, o se da una G. Corte Criminale Speciale, continuando il processo che già venne incominciato anni sono contro di lui.

Venni assicurato che il sindaco e due individui del Comune di S. Benedetto Ullano siano stati posti sotto arresto per ordine del Governo.

Ieri sera la polizia si adoprò a tutta possa onde venissero illuminate le strade della Città ed in parte vi riusci.

L’illuminazione dovrà continuare tre giorni, e tutti si lamentano per questa pressione che esercita la polizia e per le spese che ne sono la conseguenza.

Da ogni parte mi pervengono ragguagli che provano sempre più il malcontento delle trupe ed il fermento delle popolazioni.

Due soli fatti citerò a Vostra Eccellenza in prova della mia asserzione.

Pochi giorni prima che la Corte, lasciata Gaeta si recasse in Napoli, il Comandante del battaglione tiragliatori della Guardia ordinò, previo consenso di S. M., che venissero date le bastonate ad un soldato reo di non so qual colpa. Mentre costui si aparecchiava nella sua camera a subire l’inflittogli castigo, si accostò al balcone e si precipitò dal medesimo restando morto sul colpo. Per questo fatto grande fu il fermento e il mal umore nelle trupe acquartierate in Gaeta.

L’altro fatto successe nella provincia di Salerno, dove di bel nuovo i gendarmi che conducevano prigioni per motivi politici da dieci a dodici persone, furono attaccati dai contadini del Comune di Rotino a colpi di fucile. Né rimase ferito un gendarme giungendo però a Salerno la scorta coi prigionieri.

L’intendente Ajossa si recò egli stesso nel Vallo, dove più fremente è la popolazione, e di colà scrisse al Comm. Bianchini, dicendo che tutta la provincia era in uno stato tale di agitazione, che stimava necessario porla in istato di assedio: chiedendogliene perciò la facoltà.

Il Comm. Bianchini rispose che si prendessero tutte le misure necessarie a mantener l’ordine pubblico, ma che per ora non si dovevano allarmare le popolazioni colla misura dello stato d’assedio.

Benché io non creda ad un prossimo scopio di generale rivoluzione massime in Napoli, pure non vi è dubbio gli animi esser generalmente così irritati ed ardenti che parziali moti sediziosi possono da un momento all’altro verificarsi.

Napoli, 12 dicembre 1856.

L’attentato sulla persona di S. M. ed i fatti di Sicilia non possono a meno di aver tristi conseguenze per la questione Napoletana; le medesime saranno all’intuito contrarie all’assennato scopo, che le Potenze alleate si erano prefisso in seguito del Congresso di Parigi.

Il Governo di S. M. Siciliana usufruttuerà questi due luttuosi eventi, servendosi dei medesimi come di potente argomento da oporre alle esigenze di Francia e di Inghilterra.

Né già quel che io ho l’onore di dire ora a Vostra Eccellenza è basato su semplici mie suposizioni. — Il Comm. Carafa lo espose chiaramente a varii Ministri Esteri e dai medesimi io lo sepi.

Il Governo Napoletano rapresenterà alle Corti di Europa, che egli aveva ben ragione di pretendere conoscere meglio di ogni altro le condizioni politiche in cui versa il paese e sapere che un sistema di più larga liberale amministrazione non avrebbe prodotto che tristi effetti.

La Corte di Napoli dirà ai Governi Esteri che in Sicilia fu tentata una rivoluzione da un condonato politico, e che in Napoli dalle file del suo stesso esercito ò uscito un soldato ad attentare ai giorni di S. M. e che l’assassino era pur anco già stato compreso in una amnistia concessa poco dopo il 50.

Questo Governo conta molto sulla impressione che l’attentato di Milano produrrà sull’animo dell’imperatore Napoleone, e già varie persone attinenti al Governo vanno dicendo che fra poco si vedran di bel nuovo in Napoli i Ministri di Francia e di Inghilterra, le quali Potenze saranno inoltre spinte a ciò dai pressanti consigli delle altre Corti Europee.

Io non so se le precitate ragioni del Governo Napoletano saran tenute per buone da Francia ed Inghilterra e se come qui si vuol far credere esse coglieranno con premura questa occasione onde mostrarsi soddisfatte del modo di agire del Re di Napoli ed accettata la soluzione della vertenza quale gli ultimi eventi l’hanno preparata, rannodare le relazioni diplomatiche con questa Corte.

Vostra eccellenza meglio di me è in grado di esser informato delle disposizioni delle due Potenze del modo con cui hanno accolto l’annunzio dei due tristi eventi precitati, e del risultato che sarà per tener loro dietro.

Permettendomi io però di esaminare le ragioni della Corte di Napoli e le basi su cui poggiano, mi parrebbe che i moti di Sicilia e l’attentato sulla persona del Re invece di infermare i consigli amichevoli dei due Governi Alleati, valgono invece a chiarirne il senno e l’oportunità e dar loro quel maggior peso che le previdenze ritraggono sempre dai fatti.

Ed in realtà le Potenze Occidentali avevano saggiamente avvisato il Re di Napoli che il sistema di governo da lui adottato doveva aver per necessaria conseguenza di scalzare dalle basi il principio monarchico e di fomentare le rivoluzioni, ed in poco spazio di tempo più breve di quanto credevano, due tristi ma importanti fatti dimostrarono che, posti in non cale gli assennati consigli, gravissimi pericoli ed imminenti più di quanto prevedevasi, sovrastavano negli stati di S. M. Siciliana alla causa dell’ordine e del Principato.

Né quelle poche grazie concesse dal Re, che per nulla rivestono il carattere di una ben intesa amnistia, possono servir di armi per oporsi ai consigli dati a questo Sovrano.

Imperocché gli atti parziali di grazia e nemmeno una intiera amnistia sono da tanto da far svanire i pericoli previsti dalle due Potenze.

Se il Re non abbandona il sistema politico di governo tenuto fin ora; se non lascia la via nella quale erra traviato da nove anni, egli ò fuor di dubbio che le grazie e l’amnistia, indebolendo le forze dello stato, saranno sorgente di sommosse e di rivoluzioni. Senza giustizia non essendovi pace, come ben disse il conte Clarendon, gli animi non soddisfatti nei loro giusti desiderii saranno sempre in effervescenza, la quale si tradurrà da un istante all’altro in sedizione aperta, e poca scintilla potrà di leggieri suscitare un grandissimo incendio.

Queste sono le considerazioni, che si presentano al mio pensiero che io oso sottomettere all’illuminato intendimento di Vostra Eccellenza.

Il Re di Napoli frattanto è deciso più che mai, come mi vien assicurato da buona fonte, a non accordar più grazia di sorta ed a rincarire sul sistema di pressione adottato.

I realisti, e con tal nome V. E. ben conosce quali sian le persone a cui faccio allusione, vanno dicendo che se Mazza fosse stato al potere, né l’attentato di Milano né l’insurrezione di Sicilia avrebbero avuto luogo, mentre pare a me che l’amministrazione di Mazza fu precisamente quella che ha più potentemente contribuito a gettar le popolazioni in braccio della disperazione. Mentre il Re di Napoli crede di aver ottenuto compiuto trionfo in seguito di questi due tristi eventi, io credo che il trionfo sia delle Potenze Occidentali, che videro avverarsi cosi presto i loro lugubri presagi.

Non posso a meno che sottoporre agli occhi di Vostra Eccellenza due numeri del Giornale Officiale, in ambedue Ella vedrà in qual modo l’organo del Governo renda conto delle dimostrazioni di devozione e di entusiasmo che la popolazione Napoletana dà a S. M. Ferdinando II in occasione dell’attentato di cui poco mancò non restasse vittima; nel foglio però sotto la data del 10 corrente debbo segnalare a Vostra Eccellenza il regolamento ivi pubblicato per la sorveglianza ad esercitarsi sugli studenti della Capitale.

Ogni commento sul medesimo sarebbe cosa all’intutto inutile: basta il leggerlo per convincersi sempre più delle miserande condizioni di questo paese e delle misure che il Governo prende onde sempre più volgerle al peggio: la polizia forma il solo ed unico parere dello Stato: se qualche ramo della pubblica amministrazione era sfuggito al dominio della medesima, con aposite leggi il Governo lo sottopone onde il suo principio vitale si senta egualmente in ogni dove.

Napoli, 12 dicembre 1856.

S. M. il Re che doveva recarsi a Caserta subito dopo il giorno otto di questo mese, si trattiene in Napoli per ricevere le congratulazioni di tutte le autorità, di tutti i corpi constituiti, e di tutte quelle persone che vogliono a Lui presentarsi. La Reggia è aperta da mane a sera ad ogni ceto di persone e grandissima è la folla che entro vi accorre.

Indipendentemente di quei Rapresentanti Esteri, che quasi tutti furono, i quali si recarono primi da S. M. poche ore dopo l’attentato, ieri tutto il corpo diplomatico venne ricevuto da S. M. e di bel nuovo io colsi questa occasione per complimentarla in nome di S. M. il Re N. A. S. e del Governo Sardo, felicitandola di aver scampato a tanto pericolo.

Oggi poi i Ministri di Spagna e di Prussia si presentarono nuovamente a Corte, stanteché dai loro Governi per dispaccio telegrafico avevano ricevuto l’incarico di dimandare udienza particolare da S. M. onde esprimerle a nome delle loro Corti i sentimenti che loro aveva ispirato l’attentato avvenuto sulla sua persona.

Simile incarico ricevettero oggi pur anco i Ministri di Russia e del Belgio e dimani lo compiranno.

Il Governo Francese scrisse al Console Sig. Soulanges che benché fossero rotte le relazioni fra le due Corti, dovesse egli recarsi dal Sig. Commendatore Carafa onde pregarlo di complimentare S. M. da parte dell’imperatore dei Francesi.

Nella Capitale già incominciarono i tridui e gli indirizzi. L’armata di terra e di mare prima ne diede l’esempio ed ora tutte le corporazioni vi terran dietro.

Da quattro notti perdura l’illuminazione nelle strade della Capitale; ma se le altre testimonianze di devozione e di affetto al trono, officialmente rese, possono considerarsi come spontanee e sincere, lo stesso non può dirsi di questa, imposta come è dalla polizia; ed a prova di ciò dallo stesso Cancelliere del Consolato Francese mi venne raccontato che un agente di polizia si recò da lui per intimargli di illuminare i balconi del suo alloggio: riconosciutolo per forestiero, gliene fece allora preghiera alla quale egli ben volentieri si arrese.

Restai grandemente sorpreso nel vedere che in questa circostanza tutta l’iniziativa per le dimostrazioni di affetto a darsi a S. M. procedesse dalla polizia.

La voce del Sindaco di Napoli, unico e vero rapresentante della popolazione, non si fece sentire: la polizia sola si agitò e con quei mezzi che le sono qui proprii eccitò l’entusiasmo dei cittadini Napoletani che, credo, non ne avevano mestieri, ma qualcuno potrebbe forse dubitare della spontaneità del medesimo nell’osservare chi ne sono i promotori.

Il silenzio tenuto in questa occorrenza dal Sindaco della Capitale, è fatto tale che ha grandissima significazione: il medesimo chiarisce sempre più esser la polizia il potere che sola informa tutta l’Amministrazione dello Stato ed a parer mio tutti i mali che gravitano, su questo paese, scaturiscono da questa condizione di cose.

Napoli, 18 dicembre 1856.

Io credo dover mio darle esatti ragguagli sul Consiglio di guerra tenuto ieri mattina per giudicare il soldato Agesilao Milano, colpevole dell’attentato contro la persona del Re, avvenuto al Campo di Marte l'8 del corrente mese. Dal medesimo Consiglio e dalla procedura, che in questa occasione ebbe luogo, molte circostanze relative al reo ed all’orribile misfatto vennero rese di pubblica ragione o meritano di esser accennate.

Consiglio di guerra subitaneo del terzo battaglione di Cacciatori incominciò ieri l’altro a sera ad esaminare il soldato della 7 Compagnia Agesilao Milano e ieri verso le ore quattro pronunziò la fatale sentenza.

L’avvocato Giocondo Barbatelli difensore d’Officio ha presentato la difesa del reo.

Mi venne riferito che essendosi invitati tre dei primi avvocati penali della Capitale Signori Marini Serra, Castriota e Tarantini, nessuno ha voluto sotto varii pretesti accettare l’incarico: sicché un usciere della G. Corte criminale avrebbe avuto l’ordine di impadronirsi del primo che capitassegli sotto le mani.

Il reo Milano ha fatto prova durante la seduta del Consiglio della stessa imperturbabilità che ha sempre mostrato dal primo momento dell’attentato. Egli non ha né modificato, né alterato la sua deposizione scritta di proprio pugno un’ora e mezzo dopo il delitto. I principali capi di essa sono che nessuno fosse suo complice, non avendo egli fatto parte a nessuno del suo disegno; che nel 1848 egli si era posto nelle bande rivoluzionarie Calabresi, comandate dal Colonnello Ribotti, e che si era due volte battuto a Spezzano Albanese contro le Regie Trupe; che sin da otto anni cioè dal momento in cui il Re aveva definitivamente spergiurato distruggendo a colpi di mitraglia la Costituzione da Lui solennemente giurata, aveva concepito il progetto di uccidere il Re; che a questo fine uscito alla coscrizione, non aveva voluto riscattarsi col cambio, siccome la sua agiata famiglia voleva fare — che venne in Napoli vestito da contadino — e fingendosi quasi idiota per evitare la possibilità di essere ammesso nella Gendarmeria Reale, e quindi allontanato dalla Capitale, dove sperava poter consumare l’infando delitto; che ammesso in fine nel 3° battaglione Cacciatori, aveva sempre cercato l’occasione propizia, e che presentatasi quella del giorno otto, si era già fin dal giorno innanzi munito di una capsula, che stava già nel fucile e di una stagnarola(cartuccia di latta usata nell’armata Napoletana per caricare subito in casi estremi il fucile non essendovi mestieri di adoperare la bacchetta) — che non aveva potuto stante l’ispezione fatta all’uscir del quartiere caricarlo con detta stagnarola, e che però l’aveva nascosta nella sua giberna per servirsene sul campo — che difatti aveva cercato di farlo, ma ne era stato impedito e che quindi aveva dovuto rinunciarvi e ricorrere al sabre baionette posta sul suo fucile; che si riconosceva autore dell’attentato e ripeteva non aver contro S. M. nessuna ragione di odio o di vendetta particolare, ma averlo fatto per essere ai suoi occhi il Re un tiranno da cui doveva liberarsi la nazione.

Tutte queste accuse di premeditazione vengono solamente dalla stessa sua deposizione da lui scritta e sottoscritta, non essendovi nessun'altra prova sia di documenti che di testimoni.

Nell’atto di accusa si sono solennemente rettificati due errori in cui era incorso il Giornale Officiale del 9 dicembre. Il Milano non era già stato espulso dal Collegio Italo-Greco per cattiva condotta. Questo Collegio, situato a San Benedetto, era stato sciolto ai principi del 48 perchè in presenza delle politiche complicazioni i parenti avevano ritirato i loro figli. Lo mede arti e gli inganni, con cui si pretendeva che il Milano si fosse introdotto nell’esercito non esistono.

Il Milano fu regolarmente ascritto perché uscito dalla coscrizione. Tutti i superiori e compagni del battaglione han testimoniato solennemente in pubblico, che il Milano aveva serbata la più esemplare condotta durante gli otto mesi di servizio, e che era citato come modello.

Alcune lettere trovate addosso a lui o nella sua cassa potevano in qualche modo e lontanamente compromettere altri. Egli si è affaticato di allontanare da loro qualunque accusa di complicità. E siccome la sua famiglia apariva conscia del suo progetto di servire e di non entrare nella Gendarmeria, ha egli loro esposto che prendeva servizio militare per porsi al coperto delle vessazioni della Polizia, e di non voler esser gendarme, perchè il gendarme è obbligato di giurare di arrestare richiesto anche il suo proprio padre e la sua propria madre, sicché egli bì sarebbe esposto a divenir spergiuro. Molte poesie si sono ritrovate presso il reo. Egli era assai colto e si divertiva unicamente di letteratura. Tutte queste poesie vennero lette in pubblico, meno alcune che il relatore chiamò oscene, e che egli si affrettò a far dichiarare amorose, perchè versi d’innocente amore ad una donna, di cui sembra che avesse avuto un ritratto. Una poesia, Esortazione di un Capo di corpo ai suoi soldati parlava di onore e di amor d’Italia.

In una lettera di donna si rinvenne una ciocca di capelli; la lettera era firmata.

Il Milano ha dichiarato che i capelli non apartenevano alla lettera; esservi stati posti per inavvertenza.

L’avv. Barbatelli ha cercato farlo dichiarare monomaniaco; la sua difesa è stata abilmente presentata. Dopo di essa, il presidente ha richiesto al reo se avesse ad aggiungere altro. No(ha egli risposto) Il mio difensore ha fatto quanto poteva. Il sepolcro mi aspetta ed io vi scenderò fra poche ore. E continuando: Lo sapeva. Io non sarò più che un reietto per voi pure; ma vi prego di far giungere ai piedi del Sovrano l’umile preghiera di visitare le sue Provincie, per vedere a che son ridotti i suoi sudditi.

Il Consiglio di guerra ha condannato il Milano alla morte col quarto grado di pubblico esempio, cioè al laccio sul patibolo. Il condannato deve esservi condotto a piedi nudi, vestito di nero, con un velo nero sul volto, su di una tavola con piccole ruote ed un cartello sul petto, ove a lettere cubitali sta scritto: L’uomo Empio.

Mi venne detto che durante otto ore il reo Milano sia stato torturato; ma io non lo so di fonte certa.

Mi. dilungai forse tropo su questi ragguagli, ma stimai conveniente il farlo, onde Vostra Eccellenza fosse esattamente informato di ogni minima particolarità attinente a questo terribile attentato. I giornali per fermo non mancheranno di fornir sul medesimo erronee e mendaci informazioni.

Il Consiglio di guerra fece dignitosamente il suo dovere; io mi astenni dall'intervenire all’adunanza, ma da persona degna di fiducia che di tal favore richiesi, fui d’ogni cosa ragguagliato.

Non vi è dubbio che ogni anima onesta sente il più profondo ribrezzo per l’atto iniquo del soldato Milano, ma con grande mia sorpresa cerco invano lo scopio di quell’entusiasmo spontaneo e sincero, che io credeva poter attendermi dalla popolazione Napoletana. Le dimostrazioni officiali e richieste dal dovere non mancarono certamente; ma quelle del onore, vorrei andare errato, fecero assolutamente difetto.

Questo stato di cose mi indusse maggiormente a credere che in Napoli e nel Regno se non vi è la rivoluzione materiale degli atti, ferve grandemente la rivoluzione morale degli animi.

Oggi si fece nel Consiglio stesso di guerra l’arresto di un gendarme, e si ordinò quello di un altro soldato, perché coi medesimi aveva avuto corrispondenza con lettere il soldato Milano.

Questo fatto fa temere che vi siano forse altri complici: è opinione generale però che il fatto è isolato, e che nessuno dei suoi compagni ebbe conoscenza del disegno del Milano.

Per la popolazione di Napoli è gran ventura che l’autore del tentato delitto sia un militare, imperocché se altrimenti fosse stato, la polizia avrebbe operato un numero sterminato di arresti e nessuno avrebbe potuto più viver tranquillo.

Questa osservazione corre per le bocche di tutti ed a parer mio ha grande significato.

L’animo resta compreso di orrore e di raccapriccio pensando al caso di una orrenda disgrazia. Le trupe senza ordine e disciplina si sarebbero forse battute fra di loro; i lazzaroni sfrenati sarebbero corsi alle stragi ed al saccheggio, e nessuno si sarebbe trovato in quel momento atto a prendere il governo della città e dello Stato. Mancando il Re, nel quale solo si concentrano tutti i poteri, e dal quale solo partono gli ordini che reggono l’edifizio sociale di questo paese, un cataclisma universale sarebbe stato la immediata conseguenza di quel terribile avvenimento dal quale Iddio volle salvo S. M. e la nazione.

In questo momento mi vien recato l’annunzio che l’infelice Milano fu giustiziato alle ore undici. Si sperava che S. M. avesse fatto la grazia, ma trattandosi di un soldato, il Re non avrà creduto di poter far uso della più bella prerogativa di un Sovrano, cioè della clemenza.

Possa il modo miracoloso con cui venne salvato S. M. inspirargli saggi consigli, e fargli conoscere che i più acerrimi nemici sono quelli che gli si professano più devoti.

Or che la giustizia degli uomini ha avuto il suo corso, io faccio voti che la punizione di questo orrendo misfatto non ricada più su di altre vittime, ma disgraziatamente temo che l’armata sarà la prima a risentire gli effetti di una più terribile recrudescenza nelle misure di pressione e di rigore. Ho già dei dati per credere fondato il mio timore, ma per ora amo meglio sperare nella bontà dell’animo di S. M. Siciliana.

Napoli, 16 novembre 1856.

L’impressione prodotta sull’animo della popolazione Napoletana dall’esecuzione del soldato Milano è stata e perdura ad esser grandissima, ed è di ben diverso carattere di quella che erasi risentita apena si ebbe l’annunzio dell’attentato sulla persona del Re.

Come già dissi, il popolo di Napoli fu compreso in quel momento da orrore e da sgomento, e la coscienza pubblica inorridiva al pensiero del tentato regicidio.

Ora però ascrivendomi innanzi tutto a dovere di ragguagliare Vostra Eccellenza nel modo più vero ed esatto dello stato dell’opinione pubblica, sono costretto dalla realtà del fatto a confessare mio malgrado ed all’incontro di quanto avrei mai suposto, che una notevole mutazione avvenne nel pubblico sentimento relativamente al deplorabile evento, ed a quel disgraziato soldato che commise il misfatto.

Non è a dire per fermo che la coscienza pubblica del popolo Napoletano sia giunta a tal punto di degradazione da non più distinguere l’onesto dal turpe: tutti gli animi sinceramente liberali professano qui la più grande avversione a questo attentato e lo condannano pubblicamente ed in questo retto convincimento l’opinione del popolo di Napoli potentemente è concorde: tuttavia però la condotta del Governo Napoletano, il contegno del colpevole; le sue dichiarazioni riguardo agli incentivi che lo strascinarono al delitto; i sentimenti di religione da lui dimostrati; le sevizie che gli furono usate; la irregolarità del processo e della pena; la grazia che si attendeva e tenevasi per certa, ed infine il principio di una più tremenda e crudele persecuzione, tutto contribuì a contenere quel primo sentimento di indegnazione e di ribrezzo che si era destato contro l’infelice Milano, e direi quasi se non temessi di andar tropo oltre, ad eccitare nelle masse una simpatica commiserazione, e forse anche più, per la persona del reo di si esecrando delitto.

Alcuni brevi cenni sulla miseranda fine del Milano getteranno un poco di luce su quel che io mi feci ardito di esprimere.

Alle ore undici del giorno 18 egli fu trasportato in carrozza, con fortissimo aparato di forze militari e di Polizia, alla Vicaria, e subito posto nella Capella del rifugio, dove ricevette con esemplare devozione i conforti della religione, i quali furono da lui stesso richiesti, apena conobbe la fatale sentenza. Alle ore 10 il funebre corteggio si avviò verso il Largo Cavalcatoio fuori Porta Capuana dove era inalzato il patibolo, e dove era un quadrato di trupe composto di tutto il terzo battaglione, e di un distaccamento di tutti i corpi della guarnigione.

Colà avvenne la funzione della degradazione militare, ed ebbero luogo tutti quei lugubri e feroci atti, che costituiscono, secondo il codice Napoletano, il quarto grado di pubblico esempio e che accompagnano e seviziano gli ultimi momenti del condannato, triste reliquie dell’inumane forme dell’inquisizione spagnuola.

Durante tutto questo tempo, il soldato Milano pregava ad alta voce, baciava il crocefisso e ripeteva le parole Viva Dio, la religione, la libertà e la Patria. Sali quindi animoso il patibolo, e si compié la giustizia umana, ma in un modo cosi barbaro e crudele, che il popolo mandò un grido di indegnazione, e quasi minacciava di sollevarsi, al punto che i gendarmi impugnarono le pistole, e gli Svizzeri già si aparecchiavano, caricare il fucile.

Durò un quarto d’ora l’agonia del condannato, e dopo morte il suo corpo venne indecentemente maltrattato dal carnefice.

Il terribile spettacolo commosse tutta la città la quale in un batter d’occhio conobbe il luttuoso avvenimento, ed il coraggio e la compunzione di quell’infelice. Nessuna parola di dispregio; nessun insulto è stato pronunziato contro il condannato nell’atto che passava dalla Vicaria al luogo del suplizio, fu accolto con preghiere e con lacrime. Sinistra impressione ha fatto nel popolo della Capitale il non essersi fatta grazia della vita, che tutti tenevano come certissima. A neutralizzare questa sinistra impressione, le persone di Polizia sono andate insinuando che il Re era disposto a farla, ma che il Ministro d’Austria ne lo avesse dissuaso onde il Re di Napoli non ottenesse fama di più clemente che l’Imperatore. E fuor di dubbio che il colpevole subi la tortura nella notte del lunedi al martedì per otto ore. Si volevano rivelazioni, che non si ebbero. Il reo nel Consiglio soffriva visibilmente della subita tortura, ma non ne parlò che ai suoi Padri assistenti, nel momento in cui gli venivano con gran forza bendati gli occhi. Mi vogliono torturare di nuovo? disse egli. Queste circostanze da me accennate e molte altre che ommetto, hanno commosso la popolazione napoletana: la fervida e focosa imaginazione di questo popolo meridionale fu scossa da questo fatto ed io temo assai che tristi conseguenze non ne sorgano da questo stato degli animi.

In generale i napoletani sono di natura mite, morale e sensitiva ma quanto mai ardente ed entusiastica e non si può disgraziatamente metter in dubbio che la morte del Milano non abbia per fermo prodotta sul pubblico una senzazione ben diversa da quanto dovevasi attendere.

Il Governo si è reso cosi odioso al paese, che egli è ansioso di uscir da un momento all’altro da una cosi misera condizione, qualunque sia il mezzo che gli eventi preparino e rimanendo indifferenti ad un attentato come quello ora commesso sulla persona del suo Sovrano addimostrò che ben conosceva a chi andava addebitata la responsabilità dei mali che lo oprimono.

Nella triste occorrenza, di cui ragiono, tutti fecero il loro dovere — il popolo, il clero e l’armata — il solo Governo non ha saputo afferrare l’occasione, che gli si presentava, di eccitar in suo favore qualche simpatia nel paese, e prepararsi potente arma a difesa verso le Potenze Occidentali.

Ora tutti i realisti vanno dicendo che il Re è stato tradito da chi gli dissuase di accordar la grazia, e se ne stanno di cattivissimo umore, perché si accorgono che quel fatto, che a parer loro doveva riuscir favorevole alla loro causa, produsse invece risultati all intutto contrari.

L’abborrimento al sistema attuale di governo si accrebbe di molto, ed è a temersi che ne avvengano nuovi tristissimi oasi a provarlo.

Il Governo frattanto ricominciò come io presentiva una più dura reazione.

Non contento della punizione del colpevole, mandò ora nelle Calabrie il Commissario di polizia, Despagnolis, conosciuto per la sua ferocia con ordine di porre in arresto tutti i membri della sventurata famiglia Milano, tutti i compagni di lui nel Collegio Italo-Greco, e tutte le persone sospette di liberalismo.

In Napoli si vanno pur anco facendo arresti: tutti coloro che conobbero il soldato Milano vivono nella più grande aprensione: molti già sono in carcere; molti fuggirono nelle provincie e con tutta segretezza sepi che otto di costoro ottennero rifugio sulla corvetta Inglese Malacca, ancorata in questo porto. ((1))

La polizia senza ordine e consiglio addiviene all’imprigionamento di ogni classe di persone, e non si sa dove finirà questa novella recrudescenza.

I Calabresi vengono respinti dalla Capitale; e giunti nella loro provincia, sono sottoposti alle più tristi vessazioni.

Le Calabrie soffriranno di bel nuovo di quel sistema di persecuzioni, che dopo il quarantotto, vi spiegò il Colonnello Nunziante, siccome nelle persecuzioni il più gran male non è già il suplizio, ma bensì il segreto calunniatore, cosi in quei disgraziati paesi non vi sarà più pace e tranquillità, potendo ogni onesto cittadino venir occultamente accusato e posto in carcere.

Si fecero pur anco vari arresti nelle trupe acquartierate nella Capitale, e si incomincia a credere che il fatto del Milano non siapoi intieramente isolato. Vari indizii, a quanto dicesi, ha già il Governo a tal riguardo ma fin ora ogni cosa è tenuta segretissima.

Due soldati nello stesso giorno dell’attentato si gettarono da alto in basso dopo esser ritornati dal campo: assicurasi che i medesimi erano amici del Milano.

Dalle disposizioni, che prende il Governo, chiaramente aparisce che in alto si ha paura, e la paura sul trono fu sempre madre feconda di persecuzione.

Questo Governo si aggira sempre nel circolo vizioso della reazione ora sfrenata ed ora più calma, ma sempre a pressione e danno delle popolazioni: quindi io temo assai che il tristissimo esempio del Milano non produca amari frutti, tanto più se questo governo continua ad infiammare le passioni ed a dare impulso al male.

A me pare che l'impressione, che per colpa del Governo Napoletano, ritrasse questo paese dal tentato regicidio, sia di cosi triste natura da far nascere nei consigli delle Potenze Occidentali serie aprensioni e timori ed indurle quindi a cercar mezzi atti a far cessare un sistema, che, sconvolgendo le nozioni del bene e del male, non può a meno che far nascere gravi pericoli alla causa della Monarchia e dell’ordine pubblico non solo in questi Stati, ma anche in altri paesi d’Europa.

Queste sono le tristi considerazioni che mi fece nascere l’attento esame dello stato della pubblica opinione: mio malgrado fui strascinato a parlar di cosi doloroso soggetto, ma potendo l’attentato sulla persona del re esser cagione di funeste conseguenze per la causa d’Italia e temendo che il medesimo non sia attribuito alle ispirazioni del partito liberale, ho creduto dover mio il dimostrare colla narrazione esatta dei fatti a chi debbasi attribuire la responsabilità dell’avvenuto.

Napoli, 19 dicembre 1856.

Il sig. Barone Hellner. aiutante di campo di S. M. l’Imperatore d'Austria, inviato da Vienna a questa Corte onde rimettesse a S. M. Siciliana una lettera del suo Sovrano ed in pari tempo lo complimentasse di essere scampato al pericolo corso l'8 di questo mese, venne ricevuto ieri l’altro dal Re con tutti gli onori dovuti all’alto suo grado. È questi il primo inviato delle Corti estere che in questa circostanza sia giunto in Napoli. Attendesi da un momento all’altro l’arrivo del sig. Priore Covoni che aporterà a questo Sovrano le felicitazioni del Gran Duca di Toscana. All'infuori di questi due non si sa se altri ne arriveranno. Speravasi dalle persone di Corte che l’imperatore dei Francesi avrebbe mandato un qualche suo aiutante di campo a felicitare S. M., ma alle speranze parmi giàsia succeduto la certezza che nessun personaggio sarà di Parigi in viato a questa Corte per lo scopo di cui si tratta.

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Continuano i tridui e gli indirizzi e nei medesimi rimarcansi le stesse dimostrazioni di officiale devozione ed affetto, ma però la popolazione è sempre fredda ed indifferente ogni qual volta il Re traversa le vie anche più popolose della città.

La condotta del Governo, sia negli anni andati, che nella deplorabile circostanza dell’attentato sulla persona di S. M., fu tale, che quell’evento che poteva esser quanto mai favorevole alla sua causa, gli riuscì di danno. L’arma, che la sorte gli presentava dalla parte dell’elsa, egli l’afferrò dalla punta, ed è a temersi che non gli verrà fatto di accorgersene cosi presto da prevenire i mali che lo minacciano.

Napoli, 28 dicembre 1856.

.... Allontanate tutte le persone oneste dal prender parte al maneggio della cosa pubblica, tenute in conto di sospette, sorvegliate e sottoposte ad una cieca e continua pressione, il Governo è ridotto nelle mani di una setta che invade tutti gli ordini dell’amministrazione e che trionfante nella forza e per il silenzio delle popolazioni va facendo strazio di questo misero paese.

In presenza di si dolorosa situazione, i tranquilli ed assennati cittadini si limitano a disaprovare, gemendo, la falsa via nella quale si è gettato il Governo, sperando che futuri avvenimenti siano per aportare migliori destini; ma di tale attitudine aspettante non si contentano gli spiriti turbolenti e pervertiti. Costoro non badano ai mezzi per soddisfare ai loro desiderii di vendetta, e riuniti in setta al par di quella che costituisce il Governo, ordiscono trame e congiure onde abbattere la loro rivale, e non tenendo forza spiegata ed aperta, nel mistero e nel silenzio tentano le opere più insensate e nefande.

Il Governo, che ben è conscio della situazione a cui ha ridotto per opera sua il paese, ne ha timore e sgomento, e quindi accresce rigore e pressione, che invece di acquietare raddopiano l’effervescenza degli animi.

Il pensiero che più atterrisce la mente di chi esamina le condizioni politiche di questi Stati, bì ò che dalla lotta di queste due sette, qualunque sia quella che abbia il sopravvento, nulla può riuscire di bene, impercochè o perdurerà il sistema di persecuzione, di diffidenza e di terrorismo, ovvero nascerà un’anarchia completa, uno scatenamento di tutte le passioni, uno sfacelo generale: in ambi i casi la rovina della nazione.

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In seguito dell’attentato sulla persona di S. M. il Governo ha prescritto che diligenti e severi scrutinii si facciano nell’armata onde conoscere gli antecedenti, le relazioni ed il modo di pensare dei componenti la medesima. Otto soldati del 8° battaglione Cacciatori, due d’Artiglieria, uno della Guardia Reale, uno dei Carabinieri ed uno dei Lancieri, quasi tutti delle Calabrie e dei Comuni greci colà situati, furono sciolti dal vincolo militare ed inviati nei loro distretti sotto l’immediata vigilanza della Polizia, per imputazione di cattiva condotta e di conoscenza ed amicizia col soldato Milano.

Il gendarme Atanasio Dramis, che si trovò compromesso a motivo di una lettera da lui scritta al Milano, fu espulso dall’armata e rimesso nelle mani della Polizia generale onde gli si istruisca processo.

Per sovrano rescritto, comunicato per via della Polizia, vennero sottoposti a giudizio penale, per l’ammissione, del soldato Milano nell’esercito, l’intendente della Provincia di Calabria Citra, il Sindaco del Comune di S. Benedetto ed il Cancelliere della Gran Corte comunale. Si assicura che il Cancelliere avrebbe per denaro rilasciato una fede di perquisizione netta, mentre era notata d’imputazioni politiche.

Dietro una lista, che dicesi preparata dallo stesso Mazza, 800 e più provinciali, per la più gran parte Calabresi, vennero rimandati nei loro distretti. Questa misura ha gettato l’allarme in tutti i provinciali che trovansi in Napoli e che sono qui trattenuti per motivo dei loro affari.

Napoli, 27 dicembre 1856.

.... I tridui uffiziali ed i solenni Te Deum continuano senza interruzione dal giorno dell’attentato in poi e le colonne del Giornale del Regno sono ogni giorno ripiene d’indirizzi che le corporazioni anche le meno importanti e le più oscure di questi Stati rassegnano a S. M. in seguito del tristissimo avvenimento.

V. E. avrà per fermo gettato gli occhi su qualcheduno di questi indirizzi, e l’animo suo sarà stato compreso da dolorosa impressione dallo scorgere quanto disti, il linguaggio dei medesimi, da quei sentimenti di rispettosa e nobile devozione che animava il cuore di suddito fedele verso il suo Sovrano, scampato da gravissimo pericolo. Non mi soffermerò adunque sui medesimi, tropo increscioso ne ò l’argomento: mi limiterò solo a rimarcare che le supreme Corti di Giustizia pur anco hanno nei loro indirizzi usate espressioni tali di adulazione e di impudente e raffinata ipocrisia, che le fibre di ogni onest’uomo ne son rimaste commosse. Senza dubbio la toga pervertita è la più industre adulatrice dell'assolutismo ed in questi Stati essa si è in cosiffatta guisa confusa colla Polizia, che è assai difficile il discernere dove abbian principio e termine le attribuzioni dell’una e dell’altra.

Napoli, 29 dicembre 1856.

Lo stato attuale delle cose in questo paese non rapresenta novità alcune degne d’esser rammentate a V. E. Il Governo continua a batter sempre la stessa strada, né vi è indizio che accenni a mutazione di sorta.

Si è costituita una commissione di scrutinio pei soldati e bassi uffiziali dell’esercito. La medesima è composta del Prefetto di Polizia, del Commissario de Spagnolis, già ritornato di Calabria, del capitano Umbelly, (?) del Maggiore Dupuis e dal Segretario generale della Prefettura sig. Silvestri. Il nome solo di queste persone che tutte sono note per il loro ardente sanfedismo, basta ampiamente ad indicare quale sarà il carattere e lo spirito di questo scrutinio. L’armata è dolente per questa misura di sfiducia, con cui il Re la colpisce nel suo onore e ne’ suoi sentimenti di lealtà. Questa circostanza raddopierà il malcontento che serpeggia nella medesima e parmi di poter credere che il Re, al momento del bisogno, non troverà quell’armata che nel terribile 15 maggio si batté contro il popolo per rovesciare la giurata Costituzione.

Confidenziale riservata

Napoli, 29 dicembre 1856.

Coi miei precedenti raporti io ebbi l’onore di parteciparle che tutti i Ministri esteri residenti in questa capitale, all’infuori di quei di America, Svezia e Sardegna, eransi recati dietro ordine ricevuto per telegrafo elettrico dai loro Governi presso S. M. Siciliana, onde esprimergli, in nome delle loro Corti, i sentimenti di indignazione, da cni eran state comprese all’annunzio dell’orrendo attentato e le loro felicitazioni per lo scampato pericolo.

A complemento di questi ragguagli, oggi debbo parimente informare V. E. che i Ministri di Prussia, Spagna e Belgio presentarono a S. M. le lettere, con che i Sovrani delle Nazioni predette di loro proprio pugno esternavano al Re di Napoli i sentimenti sorti nel loro animo all’annunzio dell’attentato; e so di buona fonte che il Ministro Russo attende di giorno in giorno un simile autografo dall’imperatore Alessandro con l'incarico di rimetterlo a S. M.

L’Austria e la Toscana inviarono già decorazioni al colonnello La Tour e da Spagna e Russia già vennero annunziate.

In presenza di un tale stato di cosa, mi corre l’obbligo di rassegnare confidenzialmente a V. E. che in Napoli, sia sui membri del Corpo diplomatico, sia sulle persone attinenti alla Corte e componenti il Governo, ha fatto assai cattiva impressione il conoscere che non avendo ricevuto dal mio Governo ordine alcuno, non aveva fatto a S. M. le congratulazioni a nome di S. M. il Re nostro augusto Sovrano e del Governo Sardo.

Moltissime persone mi fecero ripetute questioni su tal riguardo, ed io, come meglio potei, dava alle medesime quelle risposte che mi parevano più del caso, ma ebbi luogo ad accorgermi che non soddisfacevan gran fatto.

Mi venne raccontato che un alto personaggio di Corte fece osservare a S. M. che il rapresentante sardo non era ancora venuto a fargli le debite congratulazioni in nome di S. M. e del Governo Sardo, e che il Re gli avesse risposto: — non potersi attribuire tal circostanza che ad un oblio involontario od a smarrimento del dispaccio relativo alla medesima, e non provarne perciò nessun risentimento contro la Corte di Sardegna. —

Venne notato che nell’ultimo circolo, che ebbe luogo a Corte, il giorno di Natale, S. M. si degnò trattenersi meco più a lungo che con gli altri rapresentanti esteri.

In seguito a questo dispaccio, il Ministro degli Affari Esteri indirizzava al Gropello questa nota:

L’orribile attentato commesso contro la persona di S. M. il Re delle Due Sicilie ha prodotto il più profondo senso di orrore nell’animo di S. M. il Re nostro augusto Signore e del suo Governo. La S. V. Ill. ma si è resa interpetre di tali sentimenti facendo testimonianza a S. M. Siciliana della profonda indignazione con cui sarebbe udito da tutti l’iniquo tentativo, ed esprimendole in nome di S. M. e del suo Governo le più sincere congratulazioni nel vedere la sacra sua persona per mano della Provvidenza scampato da tanto pericolo. Aprovo e lodo perciò tutto quanto la S. V. fece in questa occasione....

Per il Ministro

Di Salmour. ((1))

Napoli, 5 gennaio 1857.

Il Governo Napoletano continua a fare le più pressanti istanze presso i detenuti politici e sopra tutto presso le disgraziate loro famiglie onde esse con la dolce violenza delle loro preghiere e delle loro lacrime costringano i miseri prigionieri ad implorare grazia...

Si assicura che tutti gli sforzi tentati fin ora presso l'infelice Carlo Poerio sian riusciti vani ed è opinione che egli mai si piegherà a fare la voluta dimanda. A proposito di questo illustre liberale, che ora è qui la più nobile espressione dell’idea costituzionale e la vittima più cospicua delle camerille sanfediste, narrasi che apena ebbe conoscenza dell’attentato sulla persona di S. M. pregò il Comandante del forte di far pervenire all’orecchio di S. M. la testimonianza delle sue felicitazioni per lo scampato pericolo, e di assicurarlo in pari tempo che nelle file del partito liberale costituzionale non vi è per fermo nessuno che avrebbe mai concepito di attentare alla sua vita.

Napoli, 7 gennaio 1857.

Ieri alle ore 3 p. m. ebbi l’onore di esser ricevuto in udienza particolare da S. M. Siciliana e nella medesima mi recai a dovere di esprimerle, in conformità degli ordini ricevuti, il messaggio di felicitazioni di cui era stato incaricato da S. M. il nostro augusto sovrano. Fui accolto da S. M. colla massima benevolenza e ricevei dalla medesima l’onorevole incarico di ringraziare S. M. il Be per questo tratto di sua cortese attenzione.

Prego adunque l’E. V. di voler portare alla conoscenza di S. M. l’espressione dei più vivi ringraziamenti del Be di Napoli e l’assicurazione della ben sentita parte che prende al dolore che ha acerbamente colpito la nostra B. Corte per la morte dell’arciduchessa Elisabetta, sorella dell’augusto Be Carlo Alberto e madre della non mai abbastanza lacrimata Regina Maria Adelaide di venerata memoria.

Documento XVIII, volume I, cap. X

Rivelazioni postume di Attanasio Dramis

Questa narrazione del Dramis, che lascia suporre più di quanto non vi sia stato, ha due piccoli torti: uno di esser venuta fuori quarant'anni dopo, e l'altro di esser diretta, meno a scoprire la verità, quanto ad ingiuriare gratuitamente un brav'omo, amioo e compagno anch'egli del Milano, Guglielmo Tocci, solo perchè questi disse al Misasi quanto fu da costri riferito in una intervista avuta col Tocci, e pubblicata nel Corriere di Napoli, 13 dicembre, 1897, col titolo: Ciò che la storia non sa. Il Dramis, benchè vecchio, si rivela uomo d'impeti e di passione, e ingiuria volgarmente il Tocci, perchè parve che questi escludesse dalle cause dell'attentato ogni fine o movente potitico, e gli desse un movente quasi esclusivamente amoroso. B Tocci dal canta suo riconosce che il giornalista gli fece dire più di quanto egli non dicesse, non avendo mai asserito, che Agesilao abbia sedotta Penelope Conforti, ma che ciò si era creduto dai parenti di lei, e questa credenza amareggiava Agesilao, non mai stanco di proclamare la propria innocenza. Ecco le parole del Dramis, pubblicate in una lettera ad Eugenio Conforti, che vide la luce nello stesso Corriere di Napoli del 31 dicembre 1898, e venne poi pubblicata a parte:

...“Quale era il vero disegno concordato in seno al Comitato di Cosenza? Era forse il regicidio? Neanche per sogno: era semplicemente quello di penetrare nell’esercito Borbonico, possibilmente nei corpi stanziati in Napoli, al solo fine di trovarsi a contatto col Comitato centrale, per discutere seriamente se un’iniziativa per bande nelle Calabrie potesse condurre ad un movimento generale delle province che si dicevano pronte di seguire il moto. Era su per giù lo stesso piano insurrezionale carcerario del 1851, infelicemente abortito nella sanguinosa catastrofe di quell’anno, nel castello di Cosenza. Di regicidio non si fece mai cenno, neanche fra me stesso ed Agesilao che in quell’occasione mi ospitava in casa sua, dividendo meco il suo tettuccio.

“Se non che negli ultimi giorni o meglio negli ultimi istanti della nostra separazione, in una magnifica notte di maggio, in cui fissavano fra noi gli ultimi accordi, Agesilao in un impeto di esaltazione, propose a bruciapelo il regicidio, qualora la nostra missione rivoluzionaria fallisse, sembrandogli poco probabile la riuscita: era bello e affascinante in quel momento sotto l’entusiasmo delle memorie dell’antichità de' Scevola e de' Bruto. Io mi oposi energicamente a si funeste tendenze, dimostrando la inutilità delle esecuzioni personali, anzi il pericolo che simili attentati potessero riuscire a fare il gioco del Murattismo, allora prevalente nelle provincie nostre La conclusione fu che in ogni modo si dovesse soprassedere, fino a quando ci fossimo riuniti in Napoli per deliberare definitivamente sul da farsi.

“Ma la fatalità volle dividerci, aggregando me alla gendarmeria Beale di Salerno, ed Agesilao al 3 battaglione cacciatori in Napoli. Ecco come si spiega la mia corrispondenza con lui, sorpresa in parte dopo l’attentato nel sacco militare di Agesilao, l’ultima lettera mia più specialmente, che per fatali combinazioni, anziché al suo recapito, cadde in mano della gendarmeria sullo stesso campo di Capodichino in seguito alla catastrofe avvenuta. ((1)) Eran pochi righi di riscontro ad una recentissima lettera con la quale Agesilao mi confidava i suoi disgusti sulla morta gora politica di Napoli, le sue stanchezze nell’attendere più oltre l’energica decisione di riprendere inintiera la sua libertà di azione”....

E in seguito il Dramis narra com’egli avesse divisato di recarsi in Napoli, temendo le conseguenze disastrose di un colpo di testa per far rimuovere il Milano da un possibile proposito regicida, ma non potè ottenerne il permesso; e poiché fidava di stornarlo dalle sue estreme risoluzioni, gli scrisse scongiurandolo di attenderlo. “Ma, dice il Dramis, era scritto sui fati d’Italia, che lo spettacolo storico di Muzio Soevola si riproducesse attraverso venticinque secoli, sopra un quadro anche più importante di attualità”! ((1))

Documento XIX, volume I, Cap X

Petizione del comune di S. Demetrio Corone perché non fosse trasportato altrove il collegio di S. Adriano

Questa petizione fu provocata dalle voci insistenti che, per effetto di quanto era avvenuto nel 1848) il governo volesse soprimere il collegio sotto forma di trasferirlo altrove, È un documento curioso, perché rivela pittorescamente qual fosse la condizione economica del collegio e perché assicura il re che “stava dimesso da più. tempo il collegio all’epoca deplorabile dei torbidi di Calabria del 1848, e che la universalità di S. Demetrio, non pur aliena, ma nemica fu ad ogni tentativo rivoluzionario”. La petizione non avrebbe conseguito il suo scopo, se non fosse stata raccomandata al dottor Jeno, medico di Corte, albanese e attaccatissimo ai Borboni, che aveva seguito in Sicilia, Il dottor Jeno ne parlò al Re poi fece andare il sindaco a Napoli, lo presentò al sovrano a Capua, e ottenne che la disposizione fosse revocata, ma non fu revocata quella che aveva destituito da rettore il Marchianò, sottoposto anche a processo, e nominato in sua vece don Vincenzo Rodotà, degnissimo sacerdote della famiglia dei fondatori del collegio e nativo di san Benedetto diano. R Rodotà apena dopo l’attentato, fu destituito e obbligato a lasciare il collegio, unicamente perché concittadino di Agesilao.

Ecco la petizione, il cui originale fu trovato tra le carte del dottor Jeno, e da lui annotata così: Borro di Sup. del Sindaco e Decurione di S. Demetrio per non fare ammuovere il Seminario da S. Demetrio del 2 agosto 1862 passato per ragg. al direttore Scorza.

Presentata a S. M. li 14 settembre 1852, feci chiamare il Sindaco per ordine di S. M. li 21 a Capua. S. M. si benignò ordinarci di andare dal Direttore perché gli aveva dato tutti gli ordini.

PROVINCIA DI CALABRIA CITERIORE

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DISTRETTO DI ROSSANO

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COMUNE DI S. DEMETRIO

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Oggi che sono li 2 del mese di agosto anno 1852 nel Comune di S. Demetrio, e propriamente nel luogo destinato alle sessioni Decurionali.

Essendosi riunito il corpo municipale del sudetto Comune, dietro regolare invito del Sindaco, questi che ha preseduto la sessione, ha esposto che si in questo Comune che negli altri Comuni Albanesi, ed in Rossano, Capo luogo del Distretto, asseverantemente circolava notizia che il Real Governo, nell'idea di migliorare la condizione del Seminario Italo-greco di S. Adriano, avesse risoluto il traslocamento di esso in altro comune della Provincia, e che siccome tale tramutamento poteva interessare il benessere sì del Seminario che de' naturali di S. Demetrio, ov’esso è sito, cosi invitava il Decurionato a deliberare sul proposito e principalmente se convenisse di umiliare a piedi del trono le supliche che esso farebbe in nome degli abitanti.

Il Decurionato ad unanimità.

1° Considerando che il Seminario di S. Adriano è ricinto da una gran vigna di dodici moggiate d’estensione, ed ha nelle sue adiacenze sei giardini irrigabili coperti di agrumi, di fichi e di altri alberi preziosi, i quali provvedono senza dispendio molto, e di vino e di legumi e di frutta il convitto per tutto l’anno; Che nel territorio di S. Demetrio, ov’è sito, possiede boschi adatti alle greggi minute di cui fa industria e ne ha in copia l’occorrente pel vitto degli alunni: Che questi fondi tenuti or in amministrazione, qualora il Collegio fosse altrove tramutato renderebbero una parte del prodotto all’affittuario, ed alquanto se ne perderebbe nel trasporto, la più gran parte de' quali resterebbe inutile affatto per mancanza di smaltimento in una contrada che ne sovrabbonda ed è disabitata.

2° Che i comuni vicini, di S. Demetrio, Macchia e S. Cosmo contribuiscono ogni anno al Seminario succeduto all’ex Feudatario di S. Adriano una gran quantità di frumento in genere, che bastaal consumo degli alunni; la quale, allontanandosi questi, diminuirebbe della metà per le spese di esazione e di trasporto o di serbo e vendita:

3° Che il luogo ove risiede ò sommamente comodo per la vicinanza del combustibile, d’aria pura e salutare: ottimo poi per l’istruzione giacendo in solitudine remota e perfetta, messa sotto la protezione di un S. Martire:

4° Che questa quasi consacrazione del locale lo fa augusto «Ile comuni circonvicine, che concorrono alle feste celebrate ivi splendidamente, e vi recano infermi a pregare a fare de voti ad essere esorcizzati; sicché la chiusura dello stesso sarebbe uno scandalo religioso e morale per tutti i paesi.

5° Che con queste doti il Seminario ha dato in copia singolare uomini religiosi, morali dotti e ubbidienti alle leggi per un mezzo secolo, che è stato diretto e sorvegliato da propri vescovi, residenti nel luogo, e degni della fiducia in loro messa dalla Chiesa e dal Trono:

6° Che i disordini posteriori non possono attribuirsi alla posizione locale che doveva invece mettere al coperto la Scuola dell'influenza de' paesi, poiché è situato in un deserto. È poi costante che stava dimesso da più tempo il Collegio all’epoca deplorabile de' torbidi di Calabria del 1848, e che d’altronde l’università di S. Demetrio apresso alla parte intelligente ed agiata del Comune, non pur aliena, ma nemica fu ad ogni tentativo rivoluzionario.

7° Che le rendite diminuite farebbero aumentare le pensioni degli alunni, i quali sarebbero costretti anche a spese maggiori di vestiario ed altro, quando fossero trasferiti in mezzo a qualche città: due circostanze che renderebbero fra pochi anni deserta la scuola statuita per serbare la cognizione di Dio, degli umani doveri, e de' sacri riti, fra università poverissime, come sono quelle degli Albanesi. Ha deliberato di suplicare rispettosamente Sua Maestà il Re nostro Signore che non permetta mai che si devii dalle sagge e benefiche disposizioni de' suoi augusti maggiori, che fecero a questo Collegio Pontificio le presenti felici condizioni, alle quali non si potrebbe recar mutamento senza contrariare le intenzioni della regal sua Maestà, che con sapiente ordine muove il suo regno verso il regolare svilupo d’ogni cristiana civiltà.

8° Che il Sindaco del sudetto Comune deponga personalmente a' piedi del Trono queste supliche, che il Decurionato di S. Demetrio ha l’onore d’indirizzarle.

Patto nel giorno mese ed anno come sopra.

Il Sindaco

del Comunefirmato:

Giusepe Bellusci

Documento XX, volume I, cap. III

Rapporti di Gropello circa la nota burla

4 marzo [1867].

“Al momento di mandare al vapore il mio pacco di dispacci vengo ad esser informato che questa mattina leggevansi affissi decreti collo stemma Reale ed interamente simili a quelli che si vedono sui muri delle principali contrade, i quali annunziavano il ristabilimento della Costituzione Questi decreti erano apocrifi. Al primomomento ognuno vi prestò fede, persino la Polizia: ma apena si telegrafò a Gaserta e si conobbe l’inganno, incominciarono per Toledo gli arresti”.

7 marzo 1867.

“…...Questo decreto munito di tutti i soliti sigilli e delle necessarie firme dei Ministri e stampato sulla stessa carta e sui medesimi caratteri usati dalla Stamperia Reale, veniva affisso pubblicamente, senza misteri e senza fretta, da varii individui nella via di Toledo verso le 8 e %. La Polizia che con ampio aparato di trupa aveva vigilato tutta la notte perché avvertita, che si voleva dar fuoco a certi archi eretti per l’illuminazione in occasione delle feste per il parto della Regina, erasi ritirata verso le 6 del mattino, e quando conobbe il fatto restò attonita e perplessa, e per lo spazio di quasi un’ora non sapeva che mai essa doveva fare. La gente intanto traeva in folla a leggere il decreto e lettolo correva a darne altrove il lieto annunzio. Vi fu un momento in cui ognuno credendo alla autenticità del decreto, dava le più calde manifestazioni di gioia; e si osservò che molti famigerati agenti di Polizia pallidi e tremanti si riducevano alle case loro onde celarsi. Breve assai fu però il momento dell’inganno, imperocché essendosi telegrafato a Caserta si conobbe il vero, e tosto vennero stracciati gli apocrifi decreti e rimpiazzati da quelli annunzianti l’indulto per certe categorie di reati comuni.

“Per questo fatto S. M. è di cattivissimo umore e ne fece amarissimi rimproveri al Direttore ed al Prefetto di Polizia. S. M. è pur anco irritato di ciò che nelle strade pubbliche da più notti ai spandono a migliaia nocche e carte tricolori, delle quali molte pervennero pur anco ad esse in Caserta in pieghi suggellati”.


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Documenti XXI, volume I, cap. XII (1)

Capitolato della concessione della ferrovia delle Puglie fatta nel 1855 all’lng. Emanuele Melisurgo 
Reale Decreto e Modello dei registri a matrice

REGNO DELLE DUE SICILIE
Il giorno 7 Aprilo 1865 in Napoli

FERDINANDO II

PER LA GRAZIA DI DIO
RE DEL REGNO DELLE DUE SICILIE
DI GERUSALEMME EC.

DUCA DI PARMA, PIACENZA, CASTRO EC. EC.

GRAN PRINCIPE EREDITARIO DELLA TOSCANA EC. EC. EC.

A tutti i presunti e futuri saluto.

Innanzi a noi Gaetano Martinez del fu Giusepe Notajo Certificatole Regio di Napoli, con lo studio nella casa di nostra abitazione sita strada Bisignano a Chiaia n. 48; e dei sottonotandi testimoni avendo i requisiti dalla legge richiesti, si son costituiti

Da una parte

Il sig. D. Giovanni Rocco, del fu D. Marco, Avvocato Generale della G. C. de' Conti, Agente nel Contenzioso della Tesoreria Generale, domiciliato per ragione del suo ufficio nel Palazzo de' Reali Ministeri di Stato in S. Giacomo, il quale interviene in nome e parte del Real Governo, e per effetto delle Sovrane Delegazioni e Disposizioni, di cui in seguito si farà parola.

E d'altra parte

Il sig. D. Emmanuele Melisurgo, del fu Spiridione, Ingegnere civile, domiciliato Riviera di Chiaia n. 95.

Le costituite signore parti sono cognite a noi notajo e testimoni.

Si è dalle costituite parti dichiarato, che dal signor Direttore del Ministero, e Real Segreteria di Stato de' Lavori Pubblici, è stato partecipato sotto la data de' 3 aprile 1855, (2° Ripartimento, 2° Carico, n. 1682), al costituito sig. Avvocato Generale della Gran Corte de Conti, Agente del Contenzioso della Real Tesoreria Generale, il seguente Rescritto.

“Sua Maestà, il Re, (N. S. ), alla cui Sovrana intelligenza ho rassegnato il progetto di contratto formolato dalla Commessione Sovranamente istituita per le Ferrovie (e della quale Ella fa parte) per una novella Concessione della Strada di Ferro da Napoli a Brindisi da farsi al signor Emmanuele Melisurgo, sulle basi della Sovrana Concessione del 4 febbraio 1858, ed a cui ho rassegnato pure il processo verbale della Commessione medesima, contenente una discordanza di opinioni intorno all’art. 13 del Progetto medesimo, con Sovrana Risoluzione presa nell’ordinario Consiglio di Stato del di 2 corrente, si è degnata aprovare il contratto formolato dalla Commessione, colle seguenti modifiche.

“1° Che i lavori dovranno cominciare da Napoli a raggiungere la Strada Ferrata già fatta dal Real Governo verso Sarno, e cosi progredire la costruzione in continuazione.

“2° Che all’articolo 18 del contratto, sia aggiunto il comma formolato dal Procuratore Generale Cavalier Troysi, e dal Duca di Mignano Colonnello Nunziante colla modifica che invece di dirsi: Sarà accordato al Concessionario un secondo termine, ecc., si dica: Potrà accordarsi al Concessionario un secondo termine, ecc.

“3° Che all’articolo 17 si aggiunga, che gli ordini pel trasporto delle Trupe potranno esser dati anche dal Ministro della Guerra e Marina e si tolgano le parole interlineato Sospenda il traffico ordinario non.

“4° Che sia sopresso il comma n. 4 dell’art. 25.

“Ha ordinato infine S. M. che si proceda subito da Lei alla stipola del Contratto colle suddette modifiche.

“Nel Real Nome le partecipo questa Sovrana Risoluzione pel pronto adempimento, inviandole il Progetto del Contratto, ed il Processo verbale della Commessione, che si compiacerà poi restituirmi. —Napoli 3 aprile 1855”.

In esecuzione quindi di tali Sovrane Determinazioni di S. M. il Re (N. S. ), e conformemente al progetto formolato dalla Commessione, e colle modifiche ordinate col predetto Real Rescritto, si è proceduto alla stipola del presente Contratto di concessione colle clausole, e le condizioni che seguono:

Art. 1. — Il signor Emmanuele Melisurgo si obbliga di costruire e recare a termine a sue spese, rischio e pericolo, nel corso di cinque anni decorrendi da oggi, una ferrovia da Napoli a Brindisi, la quale allo spirare del termine suddetto dovrà trovarsi in perfetto stato di servizio atta al trasporto cosi degli uomini, come delle merci; e quindi è medesimamente a peso esclusivo del detto Concessionario la costruzione delle Stazioni, degli Edifici, Piattaforme, Ponti, Viadotti, Trafori, e di qualunque opera necessaria, non escluse le Macchine, i Vagoni, i Carri, insomma tutti i mezzi di locomozione e di trasporto, in numero proporzionato, e sufficienti al servizio dell’intera strada, come anche tutti gli aprovisionamenti di combustibile ed altro che costituisce la dotazione di una strada ferrata.

Rimane pertanto in facoltà del Real Governo di proseguire e compiere la sua strada di Ferro da Nola a Sarno.

E si dichiara e conviene per patto e condizione espressa, che i lavori della nuova Ferrovia da Napoli a Brindisi dovranno cominciare da Napoli a raggiungere la Strada Ferrata già fatta dal Real Governo verso Sarno, e cosi progredire la costruzione in continuazione.

Nel caso che si trovassero dei lavori già fatti dal Governo oltre Sarno verso Avellino, e secondo gli studi del signor Melisurgo, in questo caso il Governo cederà al medesimo le dette opere materiali, ricevendone il corrispondente ammontare della spesa.

Art. 2. — Il concessionario signor Melisurgo si obbliga di presentare nel corso di un anno all’aprovazione del Real Governo il piano generale dell’opera, ed i progetti di arte della Ferrovia suddetta, con la indicazione delle Stazioni, e di ogni altra dipendenza della strada.

Per piano generale s'intende una pianta topografica di una scala non minore del cinquantamila, indicante le regioni che saranno attraversate dalla intera linea.

Aprovato il qual piano generale dell’opera dal Real Governo, saranno presentati nel corso dello stesso termine i progetti d’arte per le sezioni, consistenti in una pianta topografica di una scala non minore del 25000, con le quote corrispondenti, indicanti le località che saranno toccate dalla linea, le diverse stazioni, le porzioni in rettifilo, le curve con i rispettivi raggi ed il modo di congiungimento delle curve coi rettifili.

Dipiù e contemporaneamente un profilo corrispondente alla sua sezione, che indicherà le diverse inclinazioni della linea nel senso longitudinale, con le sezioni trasversali del terreno, e queste ultime in pianura si praticheranno almeno per ogni 2000 palmi, nelle vallate almeno per ogni 800 palmi, e a mezza costa o sulle alture per i rettifili ogni 200 palmi, e per le curve ogni 100 palmi almeno.

È intanto espressamente convenuto, che la strada partendo da Napoli passar deve per Avellino, Foggia Barletta e Bari.

Art. 3. — La ferrovia sarà per tutto il suo cammino a dopio corso di rotaje.

Art. 4. — La strada sarà chiusa con muri, o fossi, o argini di terra. Le barriere le quali chiuderanno le comunicazioni particolari dovranno aprirsi sulle terre, e non sulla ferrovia.

Art. 5. — Se la ferrovia dovrà attraversare strade pubbliche, la stessa per mezzo di ponti, gallerie sotterranee, o altre opere dovrà trovarsi ad un livello superiore, o inferiore, in modo che sia perfettamente libero (tanto pel passaggio quanto, pei trasporti di ogni natura) di valersi o della strada pubblica o della ferrovia.

E quando per necessità riconosciuta dalla pubblica amministrazione, la intersezione dovesse venire ad uno stesso livello, in tal caso saranno stabilite delle barriere da non potere essere superate né dagli uomini, né dagli animali, le quali saranno custodite ed oportunamente chiuse o aperte dagli apositi cantonieri.

Pei lavori da farsi non si potranno occupare, o ingombrare le strade pubbliche; e dove qualche tratto debba indispensabilmente occuparsene, il Concessionario dovrà subito rimetterlo a sue spese a comodo passaggio, secondo i regolamenti della Direzione Generale de' Ponti e Strade. In questo caso, durante la occupazione, il Concessionario dovrà aprire a sue spese de' cammini provvisori atti al servizio del pubblico.

Incontrandosi de' monumenti di antichità non potranno occuparsi né danneggiarsi in qualunque modo.

Art. 6. — Nei passaggi dei fiumi non si permettono altrimenti che ponti stabili, e siffattamente costrutti, che le acque sieno lasciate libere all’uso delle popolazioni ed alla navigazione, che potrà fervisi anche nel tempo futuro.

Art. 7. — L’intrapresa della strada ferrata riguardando un’opera di pubblica utilità, il Concessionario godrà di tutti i diritti, che le leggi i Beali Decreti, ed i Regolamenti dell’Amministrazione pubblica accordano pei pubblici lavori. Egli potrà in conseguenza ottenere con la facoltà, e colle condizioni dell'art. 470 delle leggi civili, tanto i terreni dei privati, che quelli dello Stato, della Real Casa, dei Comuni e degli 8tabilimenti pubblici dei quali, giusta i progetti aprovati, avrà bisogno per la strada e per le dipendenze della stessa, del pari che i materiali all’uopo necessari per la estrazione, e per lo trasporto dei quali, godrà dei privilegi accordati agl'intraprenditori de' lavori pubblici.

Art. S. — Sarà egualmente a peso del Concessionario, e quindi dovrà egli pagare lo indennizzamento di ogni maniera di danni, che in conseguenza dei lavori della strada potranno inferirsi ai proprieprietari degl’immobili danneggiati.

Art. 9. — Essendo la strada una proprietà del Governo, della quale il Concessionario ha solo il godimento per tempo determinato, il terreno e gli edifizj occupati per costruirla, come gli edilizi che si costruiranno per il servizio della stessa, saranno esenti dal tributo fondiario, ai termini dell’art. 2° del Real Decreto de' 10 giugno 1817, e da qualunque altro peso imposto o imponendo.

Art. 10. — Saranno esenti da' dazi d’immissione il ferro, i materiali, gli strumenti, le macchine, le ruotaje, e le vetture che il Concessionario importerà dai paesi stranieri, solamente per la costruzione della strada, e non per l’uso e mantenimento della stessa, uniformandosi bensì al Real Rescritto de' 7 maggio 1836, comunicato dal Ministro Segretario di Stato delle Finanze.

Art. 11. — Compiuto che sarà perfettamente un tratto della strada, in modo da poter essere aperto al traffico, uno o più Commissari delegati dal Ministro Segretario di Stato de' Lavori Pubblici ne eseguiranno la visita, facendo tutte le pruove oportune per assicurarsi della perfezione di quel tratto, e della piena attitudine di esso al traffico a cui è destinato. Compileranno di tale visita aposito processo verbale, con cui dichiareranno ricettibile il tratto compiuto, e dopo l’aprovazione del Ministro suddetto, il Concessionario metterà in servizio quel tratto di strada, e potrà percepire i diritti legali che gli sono accordati.

Lo stesso sarà praticato per ciascuno altro tratto che sarà successivamente compiuto, e cosi in seguito sino all’intero compimento della Strada.

Art. 12. — Se nel corso de' cinque anni fissati nell’articolo 1 la strada non si trovi compiuta ed aperta al pubblico traffico almeno per la maggior parte; in tal caso pel solo fatto di tale inadempimento, e senza bisogno di notificazione alcuna, cederà in benefizio del Real Governo per le vie amministrative a titolo di penale per la mora la cauzione della quale si parlerà nell’art. 23.

Art. 13. — Come prima saranno costruite e pienamente perfezionate dieci miglia di strada da Napoli, la cauzione sarà restituita al Concessionario, o a chi per esso. Le dette dieci miglia di strada rimarranno sostituite alla cauzione per lo adempimento di tutti gli obblighi del contratto, ed ove la costruzione della strada non prosegua; tali dieci miglia rimarranno proprietà assoluta del Governo.

Quando avvenga il caso preveduto nell’articolo 12, potrà accordarsi al Concessionario un secondo termine della durata, che S. M. (D. G.) crederà conveniente. Un tal secondo termine decorso, il Real Governo potrà provvedere al compimento della strada, proseguendola a suo arbitrio o per suo conto, o per mezzo di altro Concessionario, salvo sempre al Real Governo il diritto di passaggio su la parte già compiuta dal Concessionario con le tariffe già convenute.

Art. 14. — Pel trasporto dei viaggiatori, derrate, mercanzie, animali ed ogni altro oggetto qualunque il Concessionario dovrà valersi delle macchine a vapore.

Potrà parimenti valersi di tutte le altre forze motrici già ritrovate, o che potranno ritrovarsi in avvenire dalla scienza, a condizione bensì, che ogni nuovo sistema di forza motrice non possa introdursi, se non dopo l’aprovazione del Real Governo.

Art. 15. — La durata della concessione sarà di anni ottanta, che incominceranno a decorrere dall’apertura al pubblico traffico della intera linea.

Al termine di detta concessione di anni ottanta, e pel solo fatto del decorrimento di detto termine cesserò l’usufrutto del Concessionario, ed il Governo entrerà nel godimento della strada di ferro, e di tutte le sue dipendenze, e il Concessionario o chi per esso si obbliga di farne la consegna in buono stato.

Relativamente alle macchine locomotrici, carri, carrette, vetture, materiali, combustibili, aprovigionamenti di ogni sorta, ed a tutto quanto si comprende sotto l’espressione di beni mobili o di effetti mobili (senza aver riguardo alla destinazione, che potesse farli considerare immobili) il Concessionario lo venderà al Real Governo, pel prezzo che sarà determinato da due periti da sciogliersi di consenso dalle parti.

In caso di discrepanza sarà trascelto a sorte un terzo perito fra sei, tre dei quali verranno indicati dal Real Governo e tre dal Concessionario o suoi aventi causa.

Art. 16. — Il Concessionario in compensamento delle spese, che soffrirà per la costruzione e per le rifazioni di qualunque natura, non che per la manutenzione e pel servizio della strada, è autorizzato a percepire i prodotti della stessa, secondo le tariffe sovranamente fermate ed attualmente in vigore per le strade di Nocera e Castellammare, per lo corso degli anni ottanta della concessione.

Le dette tariffe non potranno giammai aumentarsi dal Concessionario, ma potrà solo proporsene dallo stesso al Real Governo la minorazione.

Art. 17. — Il Concessionario si obbliga di eseguire gratuitamente il trasporto delle Regie Trupe coi loro bagagli. Ove ciò debba aver luogo, il Direttore della strada ferrata riceverà i corrispondenti ordini particolari di S. M. (D. G. ); o di Sua Eccellenza il Ministro Segretario di Stato di Guerra e Marina, o del comando Generale almeno il giorno precedente. In caso però di somma urgenza, in cui l’ordine debba essere seguito da pronta partenza, il Direttore della Strada disporrà le mosse dei convogli, in modo che non si vada incontro a disastri, ed i soldati partano secondo gli ordini di S. M., o del Ministro della Guerra e Marina, o del Comando Generale.

In qualunque caso il servizio ordinario della strada ferrata non dev’essere sospeso nel darsi luogo ai trasporti militari.

Art. 1S. — L’Amministrazione pubblica determinerà di accordo coi Concessionario le disposizioni oportune per assicurare la polizia e la sicurezza della strada.

Art. 19. — Il Concessionario è autorizzato sotto l’aprovazione del Real Governo a fare i regolamenti, che giudicherà utili pel servizio intorno della ferrovia.

Art. 20. — Gli agenti e guardie, che il Concessionario stabilirà si per la vigilanza e polizia della strada, che delle opere che ne dipendono, saranno assimilati ai Guardiani Urbani e Rurali dei Comuni, in quanto alla facoltà di redigere i processi verbali delle Contravvenzioni ai regolamenti ed alla fede che meritano in giudizio. A tale uopo saranno presentati dal Concessionario e patentati dal Real Governo a norma dell’articolo 286 della legge de' 12 dicembre 1816.

Art. 21. — Il concessionario non avrà dal Real Governo alcuna assicurazione d’interessi su’ capitali che spenderà. Bensì a titolo d’incoraggiamento, e per soli anni 50 degli 80 anni della durata della concessione, il Governo accorda al detto Concessionario un premio di annui ducati 180000. Tale premio sarà ripartito per quote allogate ciascuna ad ogni miglio di strada, ed in proporzione che ciascun tratto di essa non minore di 10 miglia sarà aperto al pubblico traffico, dal Real Governo gli si corrisponderà la tangente corrispondente per rate semestrali.

Tutte le somme che durante la costruzione della strada saranno pagate al Concessionario, proporzionatamente al numero di miglia costruite, siccome innanzi è detto, il Governo le riterrà negli ultimi anni dei 50 pe’ quali deve pagarsi l’incoraggiamento dei ducati 180000, e nelle stesse qualità pagate al detto Concessionario. Cosi che sulla sovvenzione del cinquantesimo anno sarà ritenuta la somma che si sarà pagata al Concessionario nell’ultimo anno in cui sarà recata a termine la strada; nel 49° si riterrà la somma pagata nel penultimo della costruzione, e cosi di mano in mano retrogradamente sino a giungere all’anno nel quale si saranno fatti i primi pagamenti ad esso Concessionario.

Art. 22. — Il Concessionario Melisurgo è facoltato a formare per la costruzione e per l’uso della strada di ferro una, o più società commerciali, cui potrà cedere la intiera concessione, o una parte di essa, uniformandosi per la formazione di tale società alle disposizioni delle leggi di eccezione per gli affari di commercio vigenti nel Regno, a condizione benvero che la società, o le società da formarsi abbiano sede in Napoli, e che i rapresentanti di esse aventi piena facoltà di obbligare la società rimpetto al Governo siano sudditi di S. M. il Be del Bagno delle due Sicilie, e sieno domiciliati in Regno.

Art. 2S. — li Concessionario sig. Melisurgo si obbliga di dare una cauzione di ducati 300000, dei quali ducati 50000 saranno da lui versati dopo otto mesi decorrenti dalla data della presente concessione, e i restanti Ducati 25 0000 dopo quattro mesi dalla scadenza dei primi ducati 50000.

Art. 24. — La intiera somma di ducati 300000 sarà impiegata in compra di rendita 5 per cento inscritta sul Gran Libro del Debito Pubblico di Napoli, in testa del Concessionario, o di chi per lui, ed immobilizzata per cauzione a favore del Real Governo in adempimento di tutti i patti della presente concessione.

Le rendita prodotta dallo impiego sul Gran Libro dei detti ducati 300000 di cauzione, sarà goduto liberamente da coloro a' quali essa rendita si trova intestata; e ciò bene inteso infino al giorno in cui il Real Governo non fosse entrato nel dritto per lo quale farà suo il danaro della cauzione, qualora il Concessionario non avesse adempito alle condizioni per le quali la cauzione da loro vien data.

Art. 25. — Il Concessionario s’intenderà di pieno dritto decaduto dalla concessione verificandosi ciascuno de' casi qui apresso indicati:Primo'. Se nel tempo di sopra designato, ossia nel corso di otto mesi dal giorno della presente concessione, non avrà depositato i primi ducati 50000 di cauzione.

Secondo: Se nel termine successivamente stabilito, ossia dopo quattro mesi dalla scadenza dei primi ducati 50 000 non avrà depositato gli altri ducati 250 000 nel qual caso il Real Governo farà suoi per le vie amministrative i primi ducati 50000.

Terzo: Se fra un anno dalla presente concessione non avrà intrapreso i lavori, nel qual caso cederanno a favore del Real Governo tutte le somme che avrà depositate per cauzione.

Art. 26. — Le questioni che potranno nascere dal presente contratto di concessione saranno decise senza forma giudiziaria da due arbitri, de' quali uno sarà nominato dal Real Governo, e l’altro dal Concessionario. In caso di disparità sarà terzo arbitro necessario il Presidente della Gran Corte Civile di Napoli, dispensando espressamente S. M. nella pienezza del suo Sovrano potere alla disposizione dell’articolo 212 della legge de' 29 maggio 1817,Li detti arbitri giudicheranno inapellabilmente, e la loro sentenza avrà forza di cosa giudicata, contro di cui non si ammetterà verun rimedio straordinario, e specialmente ricorso per ritrattazione.

Art. 27. — Per la esecuzione e gli effetti tutti della presente concessione, e per la intimazione di qualsiasi atto o pronunziazione, il costituito sig. Melisurgo elegge il suo domicilio qui in Napoli nella strada riviera di Chiaja num. 95.

Dovranno similmente eleggere il loro domicilio in Napoli tutti i rapresentanti della compagnia, o compagnie che potranno essere cessionario di esso sig. Melisurgo a norma di quanto è stato di sopra stabilito.

Art. 2S. — Le spese della stipula del presente istromento e della copia di prima edizione da rilasciarsi al costituito sig. Avvocato Generale della Gran Corte dei Conti, Agente del Contenzioso, per neo del Real Governo, sono a carico del signor Melisurgo.

Fatto e pubblicato in questa Comune e Provincia di Napoli, e propriamente nella stanza di udienza del sullodato costituto signor avvocato Generale della Gran Corte dei Conti, Agente del Contenzioso della Tesoreria Generale, sita nel suo uffizio nel locale dei Beali Ministeri di Stato in San Giacomo; previa lettura del presente contratto fattone da Noi Notaio a voce chiara e intelligibile ai costituiti signori Avvocato Generale della Gran Corte dei Conti Agente del Contenzioso, e Melisurgo alla presenza dei Signori D. Ferdinando Rulli fu Filipo, domiciliato vico Tagliaferri num. 68, e D. Francesco Macchia fu Agostino, domiciliato vico Conte di Mola num. 52 testimoni ambi di Napoli ed impiegati civili, i quali con essi costituiti e Noi Notajo si sottoscrivono.

firmati: Giovanni Rocco

Agente del Contenzioso

Emmanuele Melisurgo

Ferdinando Bulli, testimone

Francesco Macchia, testimone

Notar Gaetano Martinez di Napoli

Real decreto de' 16 aprile 1855
pubblicato dal giornale officiale del regno in data 1. 9 maggio 1855

(N. 108).

“Art. 1. — Accordiamo concessione al sig. Emmanuele Melisurgo di costruire a sue spese, rischi e pericoli una ferrovia da Napoli a Brindisi, a(1) patti e condizioni che si contengono ne’ 26 articoli da Noi aprovati, e accettati dal sig. Melisurgo, i quali sono stati annessi al presente Decreto.

“Art. 2. — Il concessionario si avrà a titolo d’incoraggiamento e per soli anni cinquanta un premio di annui ducati centottantamila.

“Tale premio sarà ripartito per quote allegate ciascuna ad ogni miglio della ferrovia, ed in proporzione che ciascun tratto di essa non minore di 10 miglia sarà aperto al pubblico traffico, dal Real Governo gli si pagherà la tangente corrispondente per rate semestrali.

“Art. 3. — Il Direttore del Ministero e Real Segreteria di Stato de' Lavori Pubblici è incaricato della esecuzione del presente Decreto.

SOCIETÀ IN COMMANDITA E. MELISURGO e C.i

per la Ferrovia delle Puglie da Rapali a Brindisi

Registro di sottoscrizione affidato al Sig. (nome e cognome dell’incaricato) N.° (d’ordine sul Registro medesimo) Il Sig. (nome e cognome del sottoscrittore) di (patria) domiciliato (residenza abituale) ed elettivamente in Napoli presso (scelta a piacere del sottoscrittore, in mancanza di cui s’intende determinata per la Sede Sociale) Sottoscrive sulla presente modula, conforme all’originale alligatone agli Statuti Sociali, e giusta l’articolo 19 de' medesimi, per (numero) azioni di ducati 100 ognuna.

Si obbliga pagarne l’ammontare per cinquantesimi del loro valore alla pari, cioè i primi tre cinquantesimi tra un mese da che ne sarà fatta richiesta dal Socio Gerente per mezzo di avviso inserito nel Giornale officiale del Regno; e ciascuno degli altri cinquantesimi coll'intervallo di un mese l’uno dall’altro, a contare dal primo versamento.

Si obbliga di eseguire i detti pagamenti presso («celta della Sede sociale o di una delle Succursali, intendendosi in mancanza eletta la prima) con la seguente formola, giusta l’articolo 32 degli Statuti Sociali, cioè: — Vincolati per versarsi sopra aposita Madrefede sul Banco delle Due Sicilie, intestata al signor E. Melisurgo e condizionata a spendersi ad uso della Ferrovia delle Puglie da Napoli a Brindisi nel modo stabilito coll’articolo 40 degli Statuti Sociali portanti la data 26 maggio 1855, depositati con atto dello stesso giorno presso il Notaio Certificatore Reale di Napoli Gaetano Martinez.

Dichiara di aver piena conoscenza de' detti Statuti, e promette esatta osservanza a' medesimi.

Elegge (scelta come sopra) per ivi ricevere i pagamenti cui ha dritto per le azioni da lui sottoscritte.

Oggi li (data della sottoscrizione)

Firma dell’Azionista

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Napoli 28 maggio 1855

Il Socio responsabile nel solido

E. Melisurgo


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Documenti XXII, volume I, cap. III

Inaugurazione del lavori della Ferrovia

Nel Poliorama Pittoresco, opera periodica, diretta a diffondere in tutte le classi della società utili conoscenze di ogni genere — anno XVI — Napoli — 1856.

A pag. 331 leggesi:

Solenne Inaugurazione della strada Ferrata delle Puglie da Napoli a Brindisi, intrapresa dalla Società in Commandita E. Melisurgo et C.

Questa solenne iniziazione di un’opera, che tanti vantaggi promette e tanta prosperità agli abitanti di questo Reame, ebbe luogo nel seguente modo il giorno 11 corrente marzo.

Sulla strada dell’Arenaccia, a destra guardando la Chiesa della Madonna delle Grazie, e propriamente nel sito destinato per la gran stagione di Napoli, si trovò disposto un aposito recinto, solidamente costruito in legno, e sormontato da Reali Bandiere. ((1))

La parte interna convenientemente tapezzata, vedevasi adorna di fregi ricordanti, tra l’altro, i nomi de' vari luoghi che saranno attraversati dalla Ferrovia.

Di fronte scorgevasi eretto l’Altare destinato alle sacre funzioni; e da' lati del medesimo per mezzo di due scalinate si accedeva ad una piattaforma rialzante, nel cui centro e precisamente dove poscia verrà innalzata una statua colossale dell’Augusto nostro Monarca, si trovava circondato da balaustrata un profondo traforo.

Innanzi alla balaustrata, sopra una mensa tapezzata di velluto, era la pietra fondamentale de' lavori della Ferrovia, cioè un cubo di marmo, sulle cui fase leggevansi incise le seguenti iscrizioni destinate a ricordare il solenne avvenimento.

I.

SEGNANDO
L’AUGUSTO. FERDINANDO II
BORBONE

II.

DIRIGENDO. I. PUBBLICI. LAVORI

SUA ECCELLENZA

SALVATORE. COMM. MURENA

III.

IL GIORNO

11 MARZO

1856

IV.

FU GETTATA

LA PIETRA FONDAMENTALE

DELLA. FERROVIA. DELLE. PUGLIE

V.

L’ARCIVESCOVO. DI. NAPOLI

SI8TO. CARD. RIARIO. SFORZA

LA. BENEDISSE

VI.

L’INGEGNERE. E. MELI8URGO

DOPO. QUESTO. ATTO. SOLENNE

PRINCIPIAVA. I. LAVORI.

E sulla stessa mensa era pure la cassa di metallo, dentro la quale detta pietra doveva essere rinchiusa; non che lo scrigno con varie monete di oro, argento e rame, coniate con la Augusta Effigie di S. M. il Re felicemente Regnante.

Di rincontro all’Altare, la Tribuna col seggio di S. E. il Ministro Segretario di Stato delle Finanze, Comm. S. Murena, incaricato del portafoglio de' Lavori Pubblici, nella sua qualità di R. Delegato occupava il centro. Delle quattro altre Tribune, due più prossime alla medesima furon destinate a ricevere: □ Corpo Diplomatico; — Il Consiglio di Stato ed il R. Ministero di Stato; — la R. Camera; — la Consulta di Stato; — L’Intendente di Napoli; — l’EccellentÌ8SÌmo Corpo di Città; —il Prefetto di Polizia; — I Generali de' R. Eserciti di terra e di mare; — i Presidenti, i Vice-Presidenti, gli Agenti del P. M. e loro Sostituti nelle varie Magistrature; — i Direttori Generali, Amministratori Generali, Ispettori Generali, Segretari Generali, ed altri Capi de' vari corpi amministrativi; i Colonnelli, Capi di Corpi ed altri componenti lo Stato Maggiore de' R. Eserciti di terra e di mare; — il R. Corpo degli Ingegneri di acque e strade; — il Consiglio Generale ed i Professori della R. Università degli studi; — la Società Reale Borbonica; —L’Accademia Pontaniana; — il R. Istituto d’incoraggiamento e gli altri corpi scientifici.

Le Rimanenti due Tribune accolsero i particolari invitati e loro famiglie, a norma de' biglietti analogamente distribuiti.

Dato principio al Sacro Rito, Mons. Carbonelli, Delegato da S. E. il Cardinale Arcivescovo, portassi sulla piattaforma a benedire la pietra fondamentale; e quivi recatosi pure S. E. il R. Delegato, la pietra e lo scrigno delle monete furono dal Concessionario Gerente collocati nella Cassa di metallo, la quale fu chiusa con aposita chiave da S. E. il Delegato Regio, che la conservò per rimetterla a S. M. il Re N. S. — Affidata allora dal Concessionario a due cigne di velluto per mezzo di aposito meccanismo, discese la cassa nel traforo anzidetto, dove fu riposta nella terra vergine, e ricoperta dal capo maestro muratore, in presenza di S. E. il R. Delegato, del degnissimo prelato suddetto, de' Componenti la Commissione di Sorveglianza e del Concessionario Gerente che assisterono dall’alto intorno alla balaustrata.

Dopo di ciò il sullodato prelato benedisse la linea della Ferrovia, che si vedeva indicata dalle bandiere all’uopo collocate in cima ad aste corrispondenti: e così ebbe termine quest’importante funzione.

Rammenteranno con gioia solenne i presenti e i futuri.

Facciam voti di vedere nel più breve termine possibile arricchito il Paese di quest’arteria, che darà facile circolazione ai prodotti e alle ricchezze delle più fertili e più importanti provincie del Regno, accrescendo il benessere e la prosperità universale.


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Documenti XXIII, volume I, cap. V

Primo articolo di Carlo Troya nel “Tempo” del 1° marzo 1848

L’anno quattordicesimo dell’età mia era pervenuto alla metà del suo corso, quando i sanguinosi rivolgimenti di Napoli mi sospingevano in Sicilia. Il vascello dell’ammiraglio Caracciolo accolti avea grandi stuoli di persone d’ogni sorta; ivi era la mia famiglia, e nel di 26 dicembre 1798 aprodammo ai lidi ospitali di Palermo. Fui tosto confidato alle cure del Padre Piazzi, acciocché imparassi le discipline dell’astronomia; ed egli amommi con amore paterno, il quale, per una eccezione felice, di tanto più crebbe di quanto i miei spiriti si chiarivano alieni dall’aprenderle; rivolti a vagheggiare un’altraspecie di bello, tuttoché Cerere fosse comparsa, me presente, agli occhi del Grande Astronomo, alla quale Michelangelo Monti delle Scuole Pie aplicò i detti di Tibullo: Et sua de cado prospicit sacra Ceres, Il signor Piazzi pigliava diletto di non eo quali miei fanciulleschi sofismi contro il sistema di Copernico e collocommi là in un cantuccio del suo ampio scrittoio, dove rideva in sé de' risentiti modi a' quali dava io di piglio a certe enormi tavole de' logaritmi del Callet. In quel cantuccio vidi e conobbi quanti v’erano più insigni uomini e donne in Sicilia: Giovanni Meli, Domenico Scinà, Rosario di Gregorio, nomi che non periranno; il principe di Belmonte Ventimiglia, splendida natura d’uomo ed il principe di Villarmosa (chiamossi anche duca di Castelnuovo), più severo intelletto; l'amicizia dei quali nobilitò i primi giorni dell’ultima Costituzione siciliana, ma le susseguenti lor gare l’offesero. Né infrequenti riuscivano le visite di Nelson e d’Emma Liona al P. Piazzi; ed una volta io fui testimone del nobile coraggio con cui egli usò far rimproveri ad Emma pe’ miseri oasi di Napoli. Varcato il mio terzo lustro, entrai più addentro nella cognizione degli uomini e delle cose di Sicilia; ed un di fummi additato Ruggiero Settimo, prode e leale, con cui non mi venne mai fatto di favellare né mai più lo rividi: ma il suo volto mi sta vivo nell’animo, ed or che godo ascoltando il suono della sua fama, parmi guardarlo e potergli stringere la mano. Ascoltai nell’Università di Palermo gl’insegnamenti economici dell’austero ingegno di Paolo Balsamo, il quale s’erudì nell’Inghilterra; presso lui conobbi Niccolò Palmieri, che mi precedeva sol di sette anni ed ebbe cari gli affetti miei verso lui, ricambiandomene con puro e schietto animo; carissima gara tra un giovinetto ed uno, che usciva oramai da' fanciulli. Spuntava intanto l’anno 1802 e Palermo vedea congregarsi quel generale Parlamento, che il re apriva della persona e che non s’era mai più visto da lunga stagione. I vescovi e gli abati dell’Ecclesiastico Braccio convenivano alla augusta solennità: i Baroni del Regno faceano pompa d’inaudito splendore nell'insolita festa e nuova mostra di feudali ricchezze: ma cheti e dimessi stavano quei pochi, da cui si rapresentava il Braccio Demaniale delle Città e delle Castella. Il Re chiedeva i danari e per tre giorni deliberava il Parlamento innanzi di concedere; nei quali oh! quanta gioia inondava i petti, scorgendosi nei Comizii dell’isola sedere il Monarca di Napoli! Ben v’era tra' Napolitani allora chi con generale invidia faceasi a contemplare quegli eccelsi riti del Parlamento Siciliano rimpiangendo le sorti del proprio paese, cioè della parte maggiore d’un regno unico, spogliata da più secoli do’ Parlamenti suoi, e fatta nel 1800 scema financo d’una bugiarda larva di libertà Municipale, ristretta in quelli che si chiamavano i seggi o i sedili di Napoli! Orchi può dire quanto nel 1802 la bella Palermo a me paresse da più che non la mia bellissima Napoli. Con quanta letizia del mio cuore io salutassi la Sicilia ne’ miei più fervidi anni! Ma poco apresso io al lasciavo sperando di rivedere, come seguì dopo molte sventure, il caro e venerato Maestro, che mi strinse al suo petto; rividi anche lo Scinà ed il Gregorio in Napoli, ma il mio Niccolò Palmieri non dovea più venirmi dinanzi agli occhi sulla terra.

Tale io, caldo di siciliani affetti, mi dipartiva da Palermo nel 1802, tenendola come mai sempre la terrò, per mia seconda patria. Vennero poscia i novelli rivolgimenti di Napoli, da capo il Re si riparò in Sicilia nel 1806 e fra noi piantossi la straniera signoria coi suoi modi particolari, de' quali non parlo. Ma non tacerò al tutto delle leggi che ci divisero dalla Sicilia ponendo la pena del capo a chi ricevesse una qualche lettera dalla moglie o dal marito se colà dimorassero: e però ci dettero in balìa dei Tribunali di Maestà, detti straordinarii, ove, frammisti a giudici senza pietà, sedeano feroci soldati, dall’uno dei quali vidi ed udii recarsi grave oltraggio in uno di que’ pretesi giudizi, alla canizie di Domenico Cotugno. Cosi noi fummo per lungo tempo segregati dalla Sicilia, ed apena un’eco incerta e lontana oi narrò che nel 1812 orasi ascritta una Costituzione pressoché inglese nell’isola; udimmo poscia nel 1816 decretarsi nuove foggio di governo per essa, e finalmente nel 1820 vedemmo giungere in Napoli deputati della Sicilia i quali giurarono la costituzione di Spagna ed affermarono che il maggior numero de' Siciliani aveano commesso loro di giurarla, mentre Palermo si levava per rimettere in onore la Costituzione del 1812. Di tali cose or ora toccherò: qui basti far cenno alla gioia che m’ebbi, e non ha guari, leggendo il saggio storico del mio amico Palmieri, pubblicato dopo la sua morte dell’egregio scrittore de' Vespri, dall’Amari, cioè, che vi premise un aureo discorso, frutto di lungo studio e di vero amor patrio. Già l’Italia nell’atto di stamparsi un tal libro risorgeva, e già Pio IX l’avea benedetta. Ora la costituzione conceduta dal Re nel 29 gennaio 1848, gli avvenimenti di Sicilia e le dispute intorno al suo Parlamento m’ha fatto rileggere il Saggio del Palmieri e la speranza m’era surta che se una voce amica, si come la mia, di Sicilia prendesse a parlar di si fatte controversie, svanirebbero elle forse del tutto e si ricondurrebbe la pace negli animi. Con questa che certo è bella e cittadina speranza io tenterò mostrare a' più schivi che la Sicilia stata sempre in possesso d’una peculiare Costituzione, ha diritto d’avere un Parlamento separato da quel di Napoli per quanto riguarda le faccende interiori dell’isola. Passerò indi a proporre le mie opinioni su’ modi più acconci a deliberare sulle faccende comuni, senza offendere la dignità dell’uno e dell’altro popolo; e non tralascerò di volgere uno sguardo alla storia del passato per trarne utili avvertimenti sull’avvenire non solo d’entrambe le Sicilie ma d’Italia.


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DOCUMENTI VOL. II

Documenti I, volume II, cap. I

Nota di Carata ad Antonini relativamente alle pratiche avviate per fare a Besançon 
un centro di reclutamento di soldati svizzeri per il regno di Napoli e per il Papa

Napoli, 27 di aprile 1856

Signor Marchese,

Mi sono pervenuti i suoi raporti de' 15 e 19 dello andante, co n. 2460, e 2470, non che il confidenziale foglio di lei de' 16, relativi al reclutamento dei reggimenti svizzeri pel R. Servizio, e al deposito delle reclute a Besançon.

Essendomi fatta una doverosa premura di rassegnarli a S. M. (D. G.) & ordinato il Re, ch’Ella, pria di tutto, ringrazi vivamente e di persona lo Imperatore per quanto & praticato in questa occorrenza, e per gli attestati di amicizia e di fiducia, che non cessa in ogni rincontro di dargli, assicurandolo della sua ben sentita e sincera gratitudine.

Vuole inoltre S. M. ch’Ella ringrazi del pari il Governo francese, per la disposizione data di tenersi qualche deposito in Francia, e trova degno di encomio oiò che si è risposto da Lei in ordine al reclutamento, Svizzero pel servigio della Santa Sede, del quale è parola nel foglio confidenziale di sopra indicato. Osserva S. M., che il reclutamento è un interesse tutto reggimentale, né si potrebbero obbligare i colonnelli a contribuire a quello di Roma. Ella dovrà assicurare a voce tanto l’imperatore che il Ministro degli affari esteri, che se ànno interesse a che Sua Santità organizzi una trupa Svizzera, eguale o maggiore di quella al R. Servizio, S. M. à un interesse più che sommo per la causa medesima. Intanto ciò che potrebbe farsi di meglio, è di procurare che vadano di accordo gli uffiziali Svizzeri delegati dal R. Governo col generale Kalbenmartter in Roma, organizzatore di questa trupa per la Santità Sua, contribuendo in tal guisa il R. Governo co’ suoi buoni uffizi e buon volere al felice esito del detto reclutamento.

Le pratiche da Lei con tanto zelo ed alacrità fatte presso cotesto Imperial Governo, coronate da un esito così soddisfacente, ànno indotto il governo del Re a spedire a Besançon il sig. Alberto Steiger, capitano reclutante nel 4° Reggimento Svizzero al servizio di S. M, ad oggetto di preparare e disporre tutto ciò che è necessario per lo stabilimento di un deposito di reclute, che dalla Svizzera saranno avviate su quella località, a tenore del permesso accordato da codesto Governo Imperiale. Egli quindi si recherà costà ond’essere da lei personalmente conosciuto (a quale oggetto l’ò munito di una una mia commendatizia con la data di ieri), e concertare tutto ciò che contribir dovrà allo esatto adempimento del ricevuto incarico, ed al transito delle reclute pel territorio francese fino al punto del loro imbarco.

Nel comunicarle tutto ciò, debbo soggiungerle, che laddove difficoltà imprevedute sorgessero per parte delle autorità cantonali o del Governo Federale, contrarie alle recenti promesse fatte alla Francia circa al reclutamento svizzero, il capitano Steiger è stato autorizzato dal Re a scriverne direttamente a Lei, onde possa Ella rivolgersi a cotesto Ministro degli affitti esteri, della di cui obbligante deferenza il R. Governo à ricevute le più luminose prove, per ottenere che sia incaricato il Diplomatico francese a Berna, di procurare che sieno adempiute tali promesse, state personalmente ad esso Ministro fatte dal Governo Federale.

Il governo del Re à tropa fìducia e nello zelo di Lei, e nel buon volere di cotesto illuminato Ministro di affari esteri, per esser convinto del favore con cui verrà accolta questa novella inchiesta; eperò mi attendo, col più vivo interessamento, l’onore di una sua replica, per rassegnarla al Re (S. N. ).

L’Incaricato del Portafoglio del Ministero dogli affari esteri

Carafa


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Documenti II, volume II,cap. II

Progetto di Statuto fatto comporre dal generale Carlo Filangieri e redatto da Giovanni Manna

Ricordevoli delle generose intenzioni del Nostro Augusto Genitore, che primo in Italia diede l'esempio degli ordini rapresentativi, quantunque la forza degli avvenimenti lo costringesse a sospenderne l'attuazione, considerando che le gravi ragioni d'impedimento possono stimarsi cessate, ci siamo col Divino aiuto e nella pienezza de' Nostri poteri, determinati a richiamare i Nostri amatissimi sudditi al godimento di quelle istituzioni, con cui si governano oggi la più parte delle nazioni civili in Europa.

Nel prendere questa importante risoluzione, Noi ci siamo confidati principalmente nel senno e devozione dei Nostri popoli, i quali concorrendo con Noi nel desiderio d'iniziare una nuova era di prosperità nazionale, riceveranno certamente con gratitudine la nuova forma che ci siamo risoluti di dare al nostro Statuto; e che senza allontanarci dalle basi delle leggi organiche del Regno, ci assicura le principali condizioni dell'ordine rapresentativo.

La continua e franca discussione di un largo Consiglio di Stato manterrà in tutto il suo splendore l'iniziativa Sovrana, e conserverà il movimento e la vita governativa dove più conviene che sieno, cioè intorno a Noi e a' Nostri Ministri.

Un Senato composto dei più gravi e distinti personaggi del Paese, è destinato a dare alla Legislatura una base solida, ed un sicuro punto di apoggio, potendosi trovare all'occorrenza ne' suoi eccezionali poteri una riserba salutare da somministrare aiuti efficaci al Governo e alla Camera elettiva.

Finalmente il Corpo Legislativo non mancherà dei suoi veri ed essenziali poteri, essendo da Noi chiamato a discutere e votare le leggi, a discutere e votare le imposte, e ad esaminare ed acclarare i conti dello Stato. L'importanza di queste attribuzioni nonè menomata punto da certi temperamenti indispensabili a rendere tranquille e mature le discussioni, ed a crescere decoro e sicurezza al primo Corpo deliberante dello Stato.

La Nostra fiducia, lo ripetiamo, è nel senno e devozione dei Nostri Popoli, di cui ricordiamo con amore le lunghe prove di fedeltà. Ma più ancora Noi fidiamo nella coscienza delle Nostre intenzioni e nel Supremo aiuto della Divina Provvidenza, nel cui Nome ci siamo risoluti a sanzionare e promulgare il presente Statuto:

Cap. I

Disposizioni generali.

Art. 1. — La persona del Re è sacra ed inviolabile. Egli governa per mezzo dei suoi Ministri, del Consiglio di Stato, del Senato e del Corpo legislativo.

Art. 2. — Il Re comanda le forze di terra e di mare; dichiara la guerra; fa i trattati di pace e di alleanza; fa i trattati di commercio, i quali han forza di legge per le modifiche di tariffe in essi stipulate. Nomina a tutti gl’impieghi dell’Amministrazione pubblica: fa i decreti e regolamenti necessari per la esecuzione delle leggi.

Egli solo ha la iniziativa delle leggi. La giustizia si amministra in suo nome. Egli esercita il diritto di grazia e di amnistia. Egli sanziona e promulga le leggi ed i Senatoconsulti.

Il Re ordina ed autorizza tutti i lavori di pubblica utilità, e tutte le imprese d’interesse generale. Laddove importino obblighi e sussidi del Tesoro, una legge sarà necessaria per aprovare il credito prima di mettersi in esecuzione.

Soltanto pei lavori di conto dello Stato, non suscettivi di concessione, i crediti possono essere aperti per urgenza come straordinari, per essere sottoposti al Corpo legislativo nella prima sessione.

Il Re ha il diritto di dichiarare lo stato d’assedio in una o più provincia del Regno, salvo a riferirne al più presto possibile al Senato, il quale può proporne la cessazione, qualora gliene parrà cessato il bisogno. Le conseguenze dello stato d’assedio debbono essere dichiarate con una legge.

Il Re presiede, quando lo crede conveniente, il Senato ed il Consiglio di Stato.

Art. 3. — La difesa del Regno e della Corona è affidata allo esercito nazionale. Non potrà servire sotto le bandiere alcuna milizia estera, se non nella proporzione dei sussidi, che il Corpo legislativo credesse utile votare particolarmente a questo oggetto.

Art. 4. — Il potere legislativo è esercitato congiuntamente dal Re, dal Senato e dal Corpo legislativo.

Art. 5. — I Ministri, i membri del Consiglio di Stato, del Senato, del Corpo legislativo, gli uffiziali di terra e di mare, i magistrati ed i funzionari pubblici, prestano giuramento nei seguenti termini: Giuro fedeltà al Re ed obbedienza allo Statuto.

Art. 6. Il Senato stabilisce l’ammontare della lista civile per la durata di ciascun Regno.

Art. 7. — Rimanendo come sono state finora comuni per la Sicilia di qua e di là dal Faro le spese della lista oivile, della guerra e marina e del Corpo diplomatico, la rata a carico della Sicilia di là dal Faro rimane limitata a soli 4 milioni di ducati annuali, che saranno portati in introito dello Stato discusso della Sicilia di qua dal Faro.

Art S. — Il Re nel convocare il Senato ed il Corpo legislativo per le loro ordinarie sessioni in ciascun anno, determinerà col medesimo decreto di convocazione, se le sessioni debbono aver luogo in Napoli o in Palermo.

Cap. II.

Del Senato del Regno.

Art 9. — Il Senato è composto di membri scelti e nominati dal Re, fra gli alti funzionari dello Stato, fra grandi proprietari del Regno, e fra le maggiori notabilità del Clero, della Nobiltà, delle scienze, delle lettere e del commercio. Il numero non potrà eccedere 60 per la Sicilia di qua dal Faro, e 20 per la Sicilia di là dal Faro. Pel primo anno il numero non sarà minore di 48 per la prima e di 16 per la seconda.

Art. 10. — La carica di Senatore è a vita ed inamovibile. Una dotazione annua di duo. 8000 è annessa alla dignità di Senatore. I soldi, pensioni ed averi di ogni specie saranno imputati nella suddetta dotazione.

Art. 11. — Il Presidente e Vicepresidenti saranno nominati dal Re fra i senatori. L’assegnamento del Presidente durante l’anno sarà di duo. 6000, imputandosi, come sopra, soldi, pensioni ed averi di ogni specie.

Art. 12. — Il Re convoca e proroga il Senato. La durata delle due sessioni ordinarie sarà la stessa di quelle annuali del Corpo legislativo.

Le sedute del Senato non sono pubbliche, ed i verbali delle sue sessioni non potranno essere pubblicati per le stampe, salvo che il Senato medesimo a maggioranza di due terzi non giudichi doversi fare eccezione a questa regola.

Art. 13. — Il Senato è il custode delle leggi organiche e fondamentali del Regno. Nessuna legge può essere promulgata prima di essere sottoposta alla sua aprovazione. Esso può rifiutarla a tutte quelle leggi che portassero offesa alla religione, alla morale, allo Statuto, alla sicurezza individuale, alla inviolabilità della proprietà, all’uguaglianza dei cittadini innanzi alla legge, alla difesa ed integrità del territorio nazionale.

Art. 14. — Il Senato regola per via di Senatoconsulti tutto ciò che non è stato preveduto dal presente Statuto, e che può essere stimato necessario alla sua attuazione, e specialmente la elezione de' Deputati al Corpo legislativo, l’esercizio della stampa, la responsabilità ministeriale, le guarentigie personali dei membri del Corpo legislativo e del Senato medesimo. Spiega e dichiara allo stesso modo il senso degli articoli del presente Statuto, che potessero dar luogo ad interpretazione.

Art. 15. — I Senatoconsulti saranno sottoposti all’aprovazione sovrana. Il Re aprovandoli li promulga in Suo nome.

Art. 16. — Il Senato può annullare tutti gli atti, che o dal Governo, o dal Corpo legislativo o dai particolari gli saranno denunziati come lesivi alle leggi organiche e fondamentali del Regno. Il diritto di petizione si esercita solamente presso il Senato. Ninna petizione può essere presentata al Corpo legislativo. Un Consigliere di Stato, nominato dal Re, riferirà al Senato sulle posizioni che il Senato avrà rimesso allo esame dei Ministri.

Art. 17. — I Ministri non possono essere messi in stato di accusa se non che dal Senato, il quale con Senatoconsulto aprovato dal Re stabilirà le norme e la competenza per giudizi di tal fatta.

Art. 18. Il Senato può con raporto indirizzato al Re presentare le basi dei progetti di legge, che giudicherà di un grande interesse nazionale.

Art. 19. — Il Senato può proporre delle modifiche al presente Statuto, che con l’aprovazione del Re potranno essere presentate alla discussione e deliberazione del Corpo legislativo.

Art. 20. — In caso di scioglimento del Corpo legislativo, e fino alla nuova convocazione, il Senato provvede sulle proposte del Governo, a tutto ciò che può occorrere all’andamento del Governo medesimo.

Cap. III.

Del Corpo legislativo.

Art. 21. — Il Corpo legislativo è composto di Deputati eletti dai collegi elettorali di ciascun distretto del Regno, nelle forme e modi che saranno determinati con un decreto del Senato aprovato dal Re. Per la convocazione del primo Corpo legislativo un decreto del Re stabilirà provvisoriamente le norme delle elezioni.

Art. 22. — Il numero dei Deputati sarà calcolato alla ragione di due per ogni distretto amministrativo del Regno, salvo le eccezioniche saranno Indicate per Napoli, Palermo ed altri distretti di Sicilia di qua e di là dal Faro.

Art. 23. — I Deputati sono nominati per 6 anni. La prima nomina cesserà di dritto apena aprovato il Senatoconsulto definitivo per le elezioni. I Deputati al Corpo legislativo riceveranno durante le sessioni ordinarie e straordinarie una indennità di due. 5 per ciascun giorno, oltre una indennità di due. 150 per spese di viaggio. Il dopio delle indennità per spese di viaggio sarà attribuito a quelli Deputati del Corpo legislativo, che dovranno trasferirsi dal continente nell’isola o dall'isola nel continente.

Art 24. — Il Decurionato di ciascun Comune forma e discute le liste degli elettori e degli elegibili. Gli elettori riuniti in collegio elettorale, sul capoluogo del Distretto, procederanno a maggioranza ed a scrutinio segreto alla elezione dei Deputati del Distretto medesimo. Agli elettori sarà attribuita una conveniente indennità di viaggio.

Art. 25. — Sono elettori tutti i nazionali che abbiano il pieno esercizio dei diritti civili, che sieno domiciliati da 5 anni almeno in uno dei comuni del distretto, che abbiano compiuto i 25 anni di età, che non sieno in istato di fallimento, né sottoposti a nessun giudizio criminale, e che posseggano una rendita imponibile non minore di due. 40 annuali.

Art. 26. — Sono elettori senza bisogno della suddetta rendita tutti i Decurioni, Sindaci ed Eletti in esercizio, gli impiegati al ritiro con pensione non minore di annui due. 100, gli uffiziali militari che godono una pensione di ritiro, gli ecclesiastici meramente secolari, i membri ordinari delle Reali Accademie e Società Economiche del Regno, i titolari cattedratici delle Regie Università, Licei e Collegi del Regno, e laureati dalle Regie Università, che esercitino, da 5 anni almeno, una professione liberale, ed i commercianti aventi per conto proprio uno stabilimento di manifatture e di commercio per cui si paghi almeno un fitto di due. 50 annui nelle Comuni, di duo. 100 nei capoluoghi di Provincia, e di due. 200 in Napoli e in Palermo.

Art. 27. — Sono elegibili tutti quelli che avendo i requisiti espressi nell'art. 25 abbiano compiuta l’età di anni 30, e posseggano una rendita imponibile non minore di annui due. 240.

Art 2S. — Sono elegibili senza bisogno della suddetta rendita i membri ordinari delle tre R. Accademie, i titolari delle Regie università, i laureati delle Università suddette, che da 10 anni almeno esercitano una professione liberale, i militari dal grado di maggiore in sopra, i componenti dell’Ordine giudiziario dal grado di Giudici di Tribunale Civile in sopra.

Art. 29. — Gl’Intendenti, i Segretari Generali, i Sottointendenti in funzione non possono essere elegibili. I Deputati che accettinoun pubblico impiego, o una promozione nella carica che posseggono, durante le loro funzioni non possono continuare senza sottoporsi allo sperimento della rielezione.

Art. 80. — Il Corpo legislativo discute e vota i progetti di legge e le imposte.

Art. 31. — Gli Stati discussi d’introito e di esito da presentarsi in ciascun anno alle deliberazioni del Corpo legislativo, saranno stampati a cura del Ministero delle Finanze, prima dell’apertura delle sessioni. Gli Stati discussi delle spese porteranno le loro divisioni e suddivisioni amministrative per capitoli e per articoli. Il voto de) Corpo legislativo avrà luogo per ministeri. La ripartizione del credito attribuito a ciascun Ministero per capitoli, è regolata per via di Decreto del Re, inteso il Consiglio di Stato. Sono similmente autorizzate per via di decreti del Re, inteso il Consiglio di Stato, le inversioni da un capitolo all’altro.

Queste ripartizioni sono aplicabili agli Stati discussi dell’anno.

Art. 32. — A cura anche del Ministero delle Finanze saranno stampati alla chiusura di ciascun esercizio i rendiconti generali da essere presentati ed acclarati dal Corpo legislativo. Saranno stampati non più tardi del 1 ottobre di ciascun anno per l’ultimo esercizio chiuso.

Art. 33. — Ogni emendamento di progetti di legge che venisse adottato dalla commissione incaricata dell’esame di tali progetti, dovrà senza altra discussione essere rimesso per mezzo del Presidente del Corpo legislativo al Consiglio di Stato. Se il Consiglio di Stato lo rigetta, l’emendamento non potrà essere sottomesso alla deliberazione del Corpo legislativo.

Art. 34. — Le sessioni ordinarie del Corpo legislativo durano tre mesi. Le sue sedute sono pubbliche, ma la domanda di cinque membri basta per costituirsi in comitato segreto.

Art. 85. — Le sedute del Corpo legislativo potranno essere pubblicate per la stampa, ma con la semplice riproduzione del verbale compilato a cura del presidente, ed inserito nel giornale officiale del Regno. Una commissione composta dal Presidente suddetto e dai presidenti delle sezioni, esaminerà il verbale suddetto prima d’essere pubblicato. Il voto del presidente del Corpo legislativo è preponderante in caso di parità. Le operazioni e votazioni del Corpo legislativo non possono in altra guisa essere attestate, che per mezzo del verbale suddetto.

Art. 36. — Il presidente e vicepresidenti del Corpo legislativo sono nominati annualmente dal Re fra i Deputati medesimi. Il presidente del Corpo legislativo riceverà l’annuo assegnamento di due. 6000.

Art. 87. — I Ministri non possono essere membri del Corpo legislativo.

107Art. 3S. — Il Re convoca, proroga e discioglie il Corpo legislativo.

In caso di scioglimento il nuovo Corpo legislativo sarà convocato ra sei mesi.

Cap. IV.

Del Consiglio di Stato.

Art. 39. Il Consiglio di Stato si compone di Consiglieri di Stato ordinarli al numero di 12 per la Sicilia di qua dal Faro, e di 6 per la Sicilia di là dal Faro, di Consiglieri di Stato straordinarii che non saranno più di 8 per la prima e di 4 per la seconda, e di Consiglieri di Stato onorari, che non saranno più di 10 per la prima, di 6 per la seconda. Ci saranno inoltre 12 relatori con soldo e 12 uditori, dei quali 4 con soldo ed 8 senza soldo, da nominarsi per concorso si gli uni che gli altri.

Art. 40. — La qualità di Consigliere di Stato ordinario e straordinario e di relatore del Consiglio di Stato, è incompatibile con quella di Senatore o di Deputato al Corpo legislativo. I Consiglieri di Stato ordinarli non possono nepure occupare altra carica pubblica con soldo. Non di meno gli uffiziali generali di terra e di mare possono essere Consiglieri di Stato ordinarli, considerandosi in missione per tutta la durata delle loro funzioni in Consiglio di Stato, conservando la loro anzianità.

Art. 41. — I Consiglieri di Stato ordinarli sono nominati dal Re e da lui rivocabili. I Consiglieri di Stato straordinarii sono”scelti dal Re fra gli alti funzionari dello Stato per dovere senza altro soldo e indennità intervenire con voto deliberativo nelle assemblee generali del Consiglio di Stato. Finalmente il titolo di Consigliere di Stato onorario è conferito dal Re ad altri funzionari pubblici fuori, attività, e che con speciale ordine del Re potranno essere chiamati a intervenire con voto deliberativo nelle suddette assemblee generali.

Art. 42. — I Consiglieri di Stato ordinarli godranno un soldo di annui due. 2600. I relatori di annui due. 600, e gli Uditori un soldo di annui duo. 300.

Art 43. — I Ministri di Stato interverranno con voto deliberativo, e prendono grado e posto nel Consiglio di Stato.

Art. 44. — Il Re può presedere il Consiglio di Stato. Egli nomina il Presidente ordinario del Consiglio medesimo, il quale può presedere anche quando lo crede conveniente ciascuna sezione del Consiglio.

108 —Art. 45. — Il Consiglio di Stato è incaricato di redigere, dietro gli ordini del governo, i progetti di legge ed i regolamenti di amministrazione pubblica, e di risolvere le questioni che si elevano in materia di amministrazione ordinaria e contenziosa.

Art. 46. — Il Consiglio di Stato sostiene a nome del Governo la discussione dei progetti di legge dinanzi al Senato ed al Corpo legislativo. I Consiglieri, che dovranno prendere la parola a nome del Governo, sono designati dal Re.

Art. 47. — Uno speciale decreto del Re stabilirà la ripartizione e attribuzione delle Sezioni, ed il Servizio interno del Consiglio di Stato.

Disposizioni generali.

Art. 4S. — Le disposizioni dei Codici delle Due Sicilie e tutte le leggi e decreti pubblicati finora, che non sieno in contraddizione col presente Statuto, si conserveranno in vigore, fino a che non sieno legalmente abolì li o modificati.


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Documenti III, Volume II, cap. V

Il testamento di Paolo Tonti

“Io Paolo Tonti del fu Francesco di questo Comune di Cerignola in Capitanata, avendo preinteso che il mio testamento pubblico da me fatto per mezzo dei notari D. Ottavio Farina e D. Pasquale Santamaria nel di primo del corrente mese ed anno, si voglia impugnare per voluta mancanza di formalità legali, o per dubbio sulla chiara e precisa volontà mia; ad ovviare ogni triste conseguenza, intendo fare, come fò il seguente mio testamento in forma mistica, col quale, ritenendo nella sostanza le principali disposizioni scritte nel predetto mio testamento pubblico, ho creduto aggiungerne altre, e portare maggior chiarimento alle prime. E poiché, sebbene sano di mente, pure inabilitato a scrivere ed a firmare per l’attuale infermità del mio corpo, mi sono servito dell’opera del Padre D. Luigi De Feo del Santissimo Redentore, aggiungendosi un testimonio di più all’atto di soprascrizione.

“La mia ultima, libera e spontanea volontà è dunque la seguente:

“1° Nomino mio erede universale il comune di Cerignola, coll’obbligo di adempiere alle seguenti mie disposizioni.

“2° Voglio che ducati 100000 dalle rendite dei miei beni siano impiegati per la costruzione di una chiesa cattedrale in questa città di Cerignola, spendendosi il danaro annualmente a misura che verrà esatto senza mai permettersi il cumulo.Il disegno di detta chiesa sarà procurato tra un anno dalla mia morte dal Sindaco e Decurionato della città, e nel mese successivo alla presentazione del disegno si darà mano all’opera. L’intendente della Provincia ed il Vescovo di questa Diocesi sono pregati d’invigilare per la esatta esecuzione di questa mia disposizione.

“3° Esaurita la somma di ducati 100000 per la costruzione della detta chiesa cattedrale, le rendite annue dei miei beni voglio che siano mutuate coll'interesse del cinque per cento ai coloni bisognosi di Cerignola, ed agli altri miei concittadini, che abbiano bisogno di denaro, dietro esibizione dei pegni o di idonea garentia. A stabilire poi quali siano i coloni ed i cittadini bisognosi, ai quali si possono mutuare delle somme, nomino un’aposita Commissione composta dal Giudice locale, dal Sindaco e da tutti i parroci di questa città, i quali decideranno a maggioranza assoluta di voti. Gli interessi delle somme mutuate si eleveranno a capitale, e quando si sarà giunti a ducati 100 000 sarà formato un Monte Pecuniario, che porterà il mio cognome, la di cui amministrazione sarà regolata nelle sue particolarità ed indipendenza da un regolamento, che si farà apositamente dal Real governo, escludendosi sempre ogni ingerenza della beneficenza.

“4° Allorché dunque il Monte sarà giunto a possedere i ducati 100000, i frutti di queste somme e le altre rendite dei miei beni saranno impiegate per opere pubbliche comunali, e per annue elemosine ai poveri di questa città in proporzione quest’ultime al quarto delle rendite totali. Per lo impiego delle somme, giusta l’articolo precedente e per l’amministrazione del Monte Pecuniario, sarà nominata una Commissione di tre individui da proporsi dal Decurionato di questa città e da aprovarsi dal Re nostro Signore in ogni biennio. Il Decurionato, dopo il mio decesso, procederà alla proposta dei suddetti tre individui, i quali immediatamente dopo l’aprovazione prenderanno le redini del l’amministr azione della mia eredità e di quanto altro ho disposto.

I conti dovranno darsi da questi amministratori al potere sovrano, che curerà il regolare ed esatto andamento delle cose.

“5° Voglio, inoltre, che in ciascun anno, in cui si farà la leva dei soldati, una parte delle mie rendite sia impiegata, a preferenza di tutte le altre precedenti disposizioni, a fare i cambi a quelle reclute di questo comune, che non possono farseli con i mezzi delle loro famiglie, e ciò, a giudizio di una Commissione composta dalGiudice locale, dai parroci e da tre probi cittadini, scelti da questo Decurionato, i quali tutti giudicheranno a maggioranza assoluta dei voti.

“6° Voglio e comando che dal danaro contante, dalla vendita dei generi cereali, cavalli della scuderia, carrozze, vacche, capre e bufale siano soddisfatti i legati che sieguono.

“E quante volte il danaro non fosse sufficiente a tutto soddisfare, il dipiù sarà prelevato in preferenza di quanto si è disposto di sopra dagli altri cespiti componenti la mia eredità:

“1° Dono e lego a favore di Donna Maria Busson ducati 24000, il letto e biancheria ad uso del medesimo e gli oggetti mobili esistenti nella sua camera da letto, dalla quale non potrà essere allontanata che dopo due mesi dal giorno del mio decesso.

“2° Dono e lego a favore di Antonio La Piocirella fu Salvatore ducati 2000.

“3° Dono e lego a favore di Don Domenico Solimine ducati 2000.

“4° Dono e lego a favore di Diana Pierri fu Pasquale ducati 2000.

“5° Dono e lego a favore di Luciella Olivieri, figlia dei coniugi Antonio e Posa Scrolla, ducati 1000 da pagarsi quando sarà giunta alla maggiore età, o passerà a marito, e nel frattempo le si corrisponderà l’annuo interesse alla ragione del cinque per cento. Premorendo ai genitori, i ducati 1000 saranno immediatamente dopo la morte di lei pagati a questi.

“6° Dono e lego a favore del signor Don Domenico Notar Perreca di Stornara annui ducati centoventi vita sua durante.

“7° Dono e lego ai signori Don Domenico e Don Raffaele Solimine, oltre di quello sopradetto a favore del primo, ducati centoventi per ciascuno loro vita durante.

“8° Dono e lego a favore del Collegio, dico, di Don Alessandro Tozzi ducati mille e seicento a titolo di rimunerazione per le assistenze e servizi resimi da lungo tempo.

“9° Dono e lego a favore del Collegio del Santissimo Redentore, sotto il titolo di Santa Maria della Consolazione in Deliceto di Capitanata, ducati mille, di cui il Rettore del detto Collegio ne farà quell’uso che stimerà conveniente.

“10° Dono e lego ducati duemila per la celebrazione di messe duemila, che verranno celebrate a cura del Padre Don Luigi De Feo, al quale sarà consegnato il denaro in una sol volta. Lego poi allo stesso Padre Don Luigi De Feo del Santissimo Redentore a titolo di pura rimunerazione, per gli immensi ed incessanti servizi resimi in tutti i tempi, specialmente negli affari della divisione trame ed il Collegio dei Pagani, e per la installazione del Monte di Pietà in questa città.

“11° Dono e lego a favore delle persone, che a tempo della mia morte si troveranno al servizio del mio palazzo, compresi tra esse il fattore Luigi Pece e la curatola Angela di Paola e Rosa Scrolla la somma di ducati cento per ciascuno per una sola volta, e voglio che si abbiano abitazione gratuita fino a tanto che non troveranno a prendere altro servizio. A favore poi del mio cocchiere Michele De Finis, oltre a quanto di sopra disposto, avrà particolarmente un mensile di ducati sei per sinacché non troverà altro padrone che gli dia un mensile eguale all’attuale.

“12° Dono e lego a favore di Don Giusepe Rinaldi juniore del fu don Antonio annui ducati cento vita sua durante con pagamento anticipato.

“13° Voglio e comando che nel giorno del mio decesso si abbiano a distribuire ducati trecento ai poveri di questa città a cura degli esecutori testamentarii.

“14° Voglio e comando che i miei agenti Don Raffaele e Don Domenico Solimine continuino nell’amministrazione dei miei beni fino a tanto che non verranno nominati i tre amministratori nei modi come sopra stabiliti, e che il detto Don Giusepe Rinaldi ’uniore sia l’avvocato della mia eredità con analogo compenso oltre i ducati cento come sopra stabiliti.

“15° Nomino miei esecutori testamentarii i signori Don Giusepe Manfredi fu Don Pasquale, Don Giovanni Gala fu Don Francesco Paolo e Don Celestino Bruni fu Felice. Casso ed annullo qualunque altra mia antecedente disposizione e testamento. Fatto oggi tre marzo 1855 in Corignola».

firmato: Paolo Tonti del fu Francesco.


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Documenti IV, Volume II, cap. VI

A proposito del domicilio coatto di Carlo de Cesare a Barletta nel 1853

Una lettera di Francesco Saverio Vista.

…………………………………………………………………………………..

Suo zio, Carlo de Cesare, non so se ella ne ha mai inteso, fu per parecchi mesi del 1858, e con alcuni amici di Spinazzola, a domicilio coatto qui in Barletta, ordinatogli dal terribile sottointendente Santoro, che lo volle il più vicino possibile sotto la sua feroce sorveglianza. Si trovava qui allora un giovine piuttosto maturo, impiegato di dogana, Popino Macridima, greco di origine, nato però a Barletta, tanto amico di mia famiglia; e suo zio, che fu raccomandato qui a Zaccaria Briccos, negoziante rispettabile, e capo della colonia greca, andò a stare in casa del Bepino, abitante allora in un quarterino al 2° p. di proprietà tuttavia del cav. Ruggiero de Leone. Io nel 1853 avevo 19 anni; ed insieme ad altri amici, tra i quali i giovani greci Attanasio e Nicola Briccos, figlio e nipote dello Zaccaria, di fresco venuti da Trieste, dove aveano dimorato qualche anno per perfezionarsi negli studi commerciali, il sacerdote Ruggiero Casardi, educatore allora di Carmine de Martino, il giovane avvocato Gaetano Passero ed altri, ogni giorno si andava a passare qualche ora a casa; e Gaetano che parlava declamando, istruito e versatile ingegno, manteneva viva la conversazione. Ricordo fra le tante belle cose, che vi si leggeva nella piccola società, alla barba del sottointendente, una poesia del 1848, intitolata se, mal non ricordo, Il tripode di Marte, del professore Ceiosia, genovese. Allora la sapevo tutta: ora non ricordo che gli ultimi due versi:

Fuoco egli é che inspira i carmi

di Petrarca e di Alighier!

Ricordo, come se fosse oggi: in quelle ore geniali e paurose, si facevano le più matte risate sugli amori del Gaetano, con una signorina, una Giunone, mentre Gaetano era piuttosto mingherlino. La chiamava Gnesina: amori che ebbero il loro epilogo in un buon matrimonio, male assortito, onde Gaetano, dopo cinque o sei anni, se ne mori e fu una perdita pel paese!

La Barletta di allora era quella che io ho descritta nel mio opuscolo pubblicato del 1899, dal titolo: Barletta prima e dopo il 1860. Qui aggiungerò, che in quell’anno 1853 era sindaco don Vincenzo Cafiero, zio del padre del sindaco presente comm. Arcangelo; ed era capo urbano don Ruggiero Straniero, persona dabbene, ma che per contentare il famigerato sottointendente, vero terrore di tutti, lasciava briglia sciolta a un sottocapo, che studiava ogni mezzo per rendersi esoso e temuto più del suo protettore. I militi urbani erano quasi tutti contadini, i quali, per esimersi dal servizio notturno, pagavano un cambio. Per dimostrare l’animo prepotente del sottocapo, ora morto e... parce sepulto, ecco un aneddoto che fece chiasso. Un giovanotto di buona famiglia, Filomeno Caraociolo, un giorno incontrò un urbano, che andava al posto di guardia con la giberna a tracollo; e siccome era suo conoscente, scherzando gli disse: cumpà, hai messa sta svudascine!

La Scudascine è chiamata nel nostro dialetto il sottopancia dell’asino. Lo sepe il sottocapo, e subito ordinò l’arresto del Caracciolo; e poiché questi aveva i baffi, lo condusse da un barbiere, e glieli fece radere. Il sindaco era persona perbene, un po’ altezzosa secondo l’andazzo dei tempi; e fu sostituito, forse perché non abbastanza pieghevole ai capricci del Santoro, dal negoziante Galante, uomo leggiero, venduto al sottointendente. La città né per polizia, né per importanza commerciale ed economioa, potevasi paragonare alla presente. Era sporchissima, e contava apena la metà della popolazione di oggi, e chiusa nella sua vecchia cerchia. Ella deve ricordarla. Può dunque bene immaginarsi quanto fosse noiosa la vita per suo zio, e per i suoi compagni di domicilio coatto, guardati a vista, e che la sera dovevano tornare a casa prima dell’avemmaria, e subire non pcche prepotenze e piccoli ricatti dagli agenti di polizia.

Finalmente giunse il momento della liberazione dei poveri coatti; e suo zio, pria di andarsene, ci lasciò un Addio, 1853, ai miei amici Barlettani. Erano 44 ottave che io conservai e conservo, e nelle quali fa cenno delle nostre glorie avite, e fa anche il nome di parecchi amici, fra i quali oi è quello della mia famiglia Vista.

Questo “Addio” l’ha trovato fra le carte di suo zio? Se non, sarei ben contento mandargliene copia, e cosi aggiungere un documento sulla vita dell’illustre uomo nei tempi terribili del Santoro. ((1))

III

Dev. mo Suo:

Francesco Saverio Vista.


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Documenti V, Volume II, cap. VIII

Testamento del principe di Butera

L’anno 1855 il giorno 24 aprile in Genova, io sottoscritto Pietro Lanza e Branciforti ho scritto di proprio pugno a' termini delle leggi vigenti in Sicilia e firmato il presente mio testamento olografo, che ho consegnato al mio caro fratello Padre Lanza dell’Oratorio di San Filipo Neri di Palermo, perché lo dasse in deposito presso il Padre Proposito dell’Olivella affine di pubblicarsi ed avere il suo pieno vigore seguita che sarà la mia morte.

Riflettendo maturamente sulla brevità ed inanità della vita umana e sui pericoli, cui va essa esposta, e potendo da un istante all’altro essere chiamato da questa all’altra vita, credo convenevole e doveroso esprimere in questo foglio l’ultima mia volontà, e disporre del mio patrimonio, raccomandandone a' miei eredi e successori ed esecutori testamentarii lo esatto adempimento in tutte le singole parti; quindi raccolti i pensieri e sentimenti miei tutti, ed invocato l’aiuto del divino spirito, cosi la riepilogo e manifesto.

1° Chieggo perdono a Dio onnipotente di tutte le mie colpe e de' peccati commessi da quando ebbi l’uso della ragione e per tutto il periodo della mia vita, imploro la infinita misericordia per i meriti del Redentore Signor nostro Gesù Cristo e per intercessione della Beata Vergine, e nel punto di morte raccomando specialmente a Dio l’anima mia, perché, spoglia e monda da' vincoli materiali e dagli effetti terreni, possa essere accolta nell'eterna beatitudine e godere la gioia e la pace de' giusti e degli eletti.

2° Io non rammento avere giammai fatto di proposito male a chicchesia, ho anzi avuto ognora il sentimento ed il desiderio del bene e l'ho praticato per quanto era in me, allorché l’occasione mi si è offerta. Ho sempre procurato di aiutare e di soccorrere il prossimo. Però se qualcuno avessi offeso senza volerlo, ne chiedo solenne ammenda.

3° Perdono a' miei nemici, se ne ho, ed a chi mi abbia offeso; particolarmente poi nel punto di morte non serbo odio, né rancore contro chi mi ha fatto passare nell’esilio i più begli anni della mia vita, allontanandomi dal seno della famiglia, e dandomi cosi la maggior pena che il mio cuore abbia provata, quale fu quella di essere separato e lontano dal mio venerato genitore, allorché Dio lo chiamava agli eterni riposi.

4° Raccomando caldamente a tutti i miei figli di tener sempre cara la fede e la patria. Per fede intendo la credenza in Dio trino ed uno, la incarnazione e redenzione di Gesù Cristo figlio suo e Signor nostro e di tutte le verità rivelate e insegnate con tradizionale e non interrotta continuazione nel simbolo degli Apostoli della Chiesa Cattolica, che siede in Roma, e le di cui dottrine e precetti mantenuti coll’unità racchiudono la verità; e compresi rettamente e puramente praticati, essi soltanto son capaci a render paga e soddisfatta la coscienza umana nel pelago tempestoso della vita.

Per patria intendo la Sicilia e l’Italia. Si adoprino dunque i miei figli ad essere buoni cristiani cattolici e buoni cittadini, e saranno cosi uomini onesti e generosi.

Sfuggano ed evitino le opinioni estreme, si guardino sempre ed in ogni cosa dagli eccessi, opugnino e detestino la tirannide, come la licenza, e confidino non nel plauso della corrotta società che porta gli errori in trionfo, ma nella misericordia Divina o nella pace e serenità della propria coscienza. ((1))


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Documenti VI, Volume II, cap. VIII

Raporto segreto di Castelcicala sul tentativi rivoluzionarli dell’ottobre 1859

MINISTERO

E REAL SEGRETERIA DI STATO

presso

Il Luogotenente Generale

nei Reali Domimi al di là del Faro

Dipartimento di Polizia

N. 1743

OGGETTO

Spirito pubblico



























































D. Salvatore Bucchori di Palermo.

D. Onofrio di Benedetto id.

D. Giusepe Mastricchi id

D. Giorgio Boeggi id.

Salvatore Lalicata de' Coll

Gioachino Surugo di Mezzomorreale.

Giusepe De Cristina id.

Bartolo De Cristina id.

Francesco Gandolfo diBagheria

Vincenzo Tesauro Vibald

D. Costantino Accardi di Palermo.

D. Chirolamo Spallina id.

D. Giusepe Tranchetta id.

D. Vincenzo Campo id.

Fratelli Brassetti negozianti id.

Francesco Feo di Villabate

Palermo, 18 Ottobre 1859

Eccellenza,

Dopo l’arrivo del Piroscafo venuto da Napoli, venerdì 7 dello stante, una grande animazione suscitossi fra tutta la gente turbolenta e trista, e buccinossi che il tempo della riscossa era venuto, e che bisognava affrettarsi a secondare il grande impulso, che veniva da fuori, per far entrare la Sicilia con un insorgimento nel movimento italiano.

Risvegliavansi le passioni sovversive; e per rendere animosi e determinati gli esitanti e gl’incerti, si ripetè quant’erasi precedentemente detto dopo il licenziamento del 1° Reggimento Svizzero sul numero e sulle condizioni dell'Esercito stanziato in Sicilia, e come sarebbe agevole impresa sopraffarlo in moto rivoluzionario.

La notte segnante furono spediti, ne’ paesi de' dintorni, degli emissari per invitare i facinorosi a tenersi in procinto per un movimento ch’era fissato per la notte dagli 8 al 9 alle 4t del mattino.

La polizia informata di tutti questi preparativi e della volontà determinata ne’ faziosi di venire alle mani, provvide da sua parte per impedire che lo scellerato disegno si attuasse, ed io disposi quanto occorreva per antivenire qualche colpo di mano sul presidio della città, provvedendo oportunamente senza aparato di forze, e senza allarmare la città.

Durante il giorno 8 le notizie divenivano più incalzanti, sulla volontà determinata de' faziosi di venire ad un fatto; ed i raporti privati e segreti che giungevano da ogni parte al Direttore di Polizia, non mettevano più in forse che nell’ora designata della notte una irruzione avrebbero fatta i facinorosi de' paesi vicini sulla città, per dar la mano a quei di dentro, che alla lor volta si sarebbero levati in armi.

La città può ben dirsi che fu inconsapevole de' gravi pericoli che le sovrastavano fin quasi all'imbrunire di quel giorno, e conservò una fisonomia calma e serena; ma sulla sera, avuto vento («tc) della trama, entrò in serie aprensioni, e furon visti votarsi d’un subito tutte le botteghe di pane e pasta, correndo tutti a far provvigioni pe’ giorni ne’ quali durerebbe la lotta. A rifornire il pane e la pasta, di cui sperimentossi tantosto penuria, fu mestiere che la Polizia durante la notte degli 8 avesse fatto lavorare in continuazione negli opifici dell’annona.

Nell’ora tarda della notte si fecero occupare gli sbocchi principali, che da' comuni vicini conducono a Palermo, da quattro Conpagnie di fanteria. Delle pattuglie di polizia e di Compagni d'armi perlustravano la città ed i luoghi suburbani; e le R. Trupe senza farsi uscire da' Quartieri si tenevan pronti per accorrere al primo avviso d’un movimento sedizioso.

La notte si passò tranquilla, e la previdenza governativa feoe abortire lo scellerato disegno de' faziosi.

Le Polizia sepe il mattino seguente che degli assembramenti di persone armate si erano viste nelle contrade de' Colli, dell'Uditore, di Boccadifalco, de' Frassini, di Chiarandà, e della Favara, i quali si erano dissipati in vista dell’attitudine risoluta pigliata dal R. Governo. — Sepe del pari che i primi suscitatori di questo movimento si erano gl'individui a manca scritti, e che la febbre dell'insurrezione non si estendeva al di là del cerchio de' paesi che fan corona a Palermo.

I dottrinari e tutti i liberali intelligenti del paese meravigliarono di questa recrudescenza istantanea nello spirito sedizioso della gente di azione, e si avvisarono di profittarne qualora riuscisse l’insano tentativo.

I giorni 9 e 10 si passarono tranquillamente, e la polizia fu intenta a dar la caccia ai compromessi, ed a soffocare lo spirito di vertigine che divampava.

In Bagheria, paese abitato da gente ribalda che in tutti i tempi ha aprestato a Palermo il miglior nerbo degli uomini di azione, un tal D. Giusepe Mastricchi, veduto mancare il colpo preparato pel mattino del 9, pensò di concitare gli animi di circa un cinquanta abitanti di quella terra, dicendo loro che se fossero animosi a lanciarsi sopra Palermo, la rivoluzione si sarebbe d’un subito compita, avvegnaché nelle condizioni presenti nelle quali trovasi la Sicilia, egli diceva, bastava una scintilla per far divampare un grande incendio.

Quella gente avida di sangue e di rapina accolse l’insano consiglio ed assembrassi nelle ore vespertine del giorno 10 in una casina, che sta sul versante del monte Zafferano lungi dall’abitato.

La più gran parte de' faziozi eran senz’armi, e si pensò fornirsene disarmando un antro doganale, che stava nella sottostante baja dell’Aspra, e la Guardia Urbana di S. Flavia e Porticello.

Quella gente si divideva, ed una parte scendendo all’Aspra, sorprendeva l’antro, e toglievano cinque fucili, un trombone, due pistole, cinque sciabole, la munizione, e rubavano diciotto ducati, e le vestimenta, che si apartenevano allo equipaggio, 6he impotente a resistere, si lasciò disarmare e spogliare.

L’altra parte si recava in 8anta Flavia e Porticello, ove disarmava la Guardia Urbana, ed uccideva due disfortunati coloni, de' quali uno si negò a dar loro le armi, e l’altro ricusossi a seguire la banda.

Molte fucilate tirarono in Santa Flavia per far baldoria, gridandosi da' faziosi “Viva Napoleone, Viva la libertà”.

Il Comune di S. Flavia atterrito non osò tramestarsi (sic) a quelle sediziose manifestazioni; e le due parti della banda rannodatesi sul versante del monte Zafferano, senz’osare di entrare in Bagheria, ove stanno a presidio due compagnie di fanteria, discesero per la marina sottostante, s’incamminarono verso Palermo, sulle prime ore della sera.

Il direttore di Polizia, che fin dal mattino avea spedito in Bagheria due agenti secreti, alle prime voci che si ventilarono d’un movimento, informato di questi fatti me ne dava avviso, e mi assicurava che isolato si era quell’atto sedizioso.

Egli spediva tantosto il Capitan d’armi Cav. Chinnici con 18 compagni d’armi in Bagheria per incontrare la banda, o per riaprire le comunicazioni con quel Comune, che oredeansi intercettate.

Istessamente spediva il direttore di Polizia 12 Gendarmi e 32 Guardie di Polizia, sotto gli ordini dell’ispettore D. Gaetano Scarlata, nella prossima contrada dell’Acqua de' Corsari, posizione centrale alle due vie che dà Bagheria e Misilmeri menano in Palermo, per tagliare la strada agl’insorti.

Il capitan d’arme Chinnici, giunto a Ficarazzi, si avvenne nella banda, la quale accortasi della forza, si gittò ne’ giardini che stan di costa alla strada senza trar colpo, temente d’esser attaccata pria di giungere a Palermo.

La compagnia d’armi si lanciò per seguirla, ma la disperse in mezzo a' giardini inselvati di agrumi e di folti canneti, e fu forza rimettersi sulla consolare e proseguire innanzi per volgere a diritta presso Bagheria, e condursi in Villabate ove sembrolle essersi diretti gl’insorti.

Nel frattanto la forza di polizia che stava nella posizione succennata dell’Acqua de' Corsari, intese una viva fucilata dal lato di Villabate, e conseguente alle istruzioni ricevute corse a tutta lena a quella parte. In arrivando trovò gl'insorti padroni del paese, che tiravano a dritta e sinistra, gridando “Viva Napoleone, Viva la libertà La polizia attaccò vigorosamente quei ribaldi, col grido di (u) Viva il Re” e respingendoli di luogo in luogo, dopo un conflitto di circa venti minuti, sloggiò la banda, che si disperse per la vicina montagna.

Uno de' malfattori, di nome Antonino Billitteri, cadeva mortalmente ferito, e moriva il giorno seguente, dopo di aver dichiarato i nomi di una parte de' componenti la banda.

Si sepe che all’arrivo della stessa, la Guardia Urbana di Villabate l’accolse col fuoco, ma soverchiata dal numero cedè e ripiegò.

Uno degli Urbani disgraziatamente fu ucciso.

Il Capo Urbano D. Vincenzo Salmieri si condusse con grande valentia, e stava per cadere nelle mani degl’insorti all’arrivo della forza di polizia.

Questa adempì onorevolmente il debito suo, mostrando energia, coraggio, e devozione al Re (N. S. ) Una colonna di quattro Compagnie di fanteria mosse la stessa notte per Bagheria, Villabate e Misilmeri; ed unita alla forza della Compagnia d’armi e di Polizia, ieri si dava alle ricerche della banda che si è interamente sperperata e dispersa.

Questa colonna, animata da eccellente spirito, infatioabilmente diede ieri una battuta generale nelle montagne che sovrastano Villabate.

Essa va a rientrare in Palermo, e due colonne mobili, di due Compagnie ciascuna, muoveranno dentr’oggi pe’ paesi de' Distretti di Palermo e di Termini per ispirare temenza a' tristi, rinfrancare gli onesti, e per disarmare le persone sospette.

Un funzionario di Polizia, un cancelliere, ed una mano di compagni d’armi ausiliano questa colonna mobile.

Un disarmamento generale si sta effettuando in Palermo, e suo Distretto.

Un Giudice di questa G. Corte Criminale muove stamane per Villabate e Bagheria, onde constatare con atti giuridici tutti i misfatti commessi dalla banda, e si stanno ammanendo degli elementi necessarii, per mettere in lista preparatoria di fuorbando i componenti già noti nell’orda sediziosa.

La banda si è interamente sciolta, e taluni sono rientrati nelle loro case.

Quattro di essi di Villabate jer sera si associarono alla forza degli Urbani per perlustrare il paese, e non si sono arrestati per attrarre i loro complici a tornare fiduciosi nel paese, e quindi arrestarli in una volta.

Tutta l’orda non era al di là di 85 uomini, composta di gente di Bagheria e Villabate, e qualcuno de vicini paesi.

Il capitan d’armi Chinnici e l’ispettore Scarlatta sono intenti alla cattura de' compromessi di Bagheria.

L’attitudine piena di calma del R. Governo, congiunta alla vigoria, ha impresso un salutare terrore a tutti i novatori ed i tristi, i quali sanno che son disposto ad aplicare in tutta la provvida sua severità la legge del 27 Dicembre 1858, contro coloro che attaccano la sicurezza interna dello Stato.

Ogni giorno si minaccian sedizioni e rivolture, le quali avrebbero luogo quando in un’ora, ora quando in un’altra, e cercasi con queste sinistre voci di tenere in inquietudine il Governo ed allarmare la gente onesta e pacifica. Siamo in giorni di agitazione, e fa mestieri che l’Autorità si tenga in guardia contro le macchinazioni di un partito, che vuole a tutto costo mettere a soqquadro la Sicilia.

Si vanno arrestando i promotori di questi disordini, e si veglia indefessamente per farsi schermo a qualunque sorpresa che i rivoluzionari potessero tentare.

Meditando su le circostanze, che hanno accompagnato il moto sedizioso cominciato da gente sanguinaria e ladra in Bagheria e finito dopo breve ora in Villabate, sorge la considerazione, che i rivoluzionarii non posseggono quei mezzi di azione, di cui si vantano sempre per rendersi formidabili a' Governi, avvegnaché quella banda mancava di armi, e fu costretta ricorrerò alla violenza ed al sangue per procurarsene.

Sorge pure la considerazione che mancano di unità e di coesione non avendo avuto eco altrove il forsennato conato.

Dallo stesso grido di guerra che levarono colle parole di “Viva Napoleone, Viva la libertà” si rileva che nessun bene esplicito conoetto politico muoveva quell’orda senza bandiera, e che gridava un nome tropo ripetuto da sei mesi in qua, e che nella mente di quella gente stolta e ribalda compendia l’idea delle sue aspirazioni ad un reggimento politico disordinato, e l’avversione al legittimo potere.

In tutto il resto dell'Isola v’è calma aspettante; ed al di là del raggio di 15 miglia da Palermo, non v'è quella effervescenza politica che travaglia queste contrade.

Ho fatto palese a tutte le autorità dell'Isola l’insano tentativo della banda di Bagheria e la pronta repressione usata dal B. Governo.

Mi è grato far fede che in questa congiuntura tutti han fatto il loro dovere.

Tolgo a premura d’informare V. E. di questi interessanti particolari per la debita sua intelligenza.

Il Luogotenente Generale

firmato: Castelcicala

Risposta del ministre di Sicilie a Napoli

MINISTERO

E REAL SEGRETERIA DI STATO

per gli affari di Sicilia

presso S. R. M.

Polizia N. 1872

per gli ultimi torbidi di

Villabate

Riservata

A S. E.

Il Luogotenente Generale

Palermo

Napoli, 19 Ottobre 1859

Eccellenza,

Mi onoro assicurar V. E. che avendo posto sotto gli cochi di S. M. (D. G.) il pregevolissimo e riservatissimo Suo raporto de' 12 ottobre volgente, N. 1743, relativo agli ultimi avvenimenti di Villabate: la M. S. si è degnata al margine del detto foglio aporre la seguente Sovrana decretazione:

“Inteso degli ordini dati. Inteso con soddisfazione per la pronta repressione. Si preferisca però sempre il prevenire molto, per reprimere poco”

Il Ministro

firmato: Cumbo


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Documenti VII, Volume II, cap. VIII

Raporto sull'andata a Palermo di Enrico Benza

Oggetto

Sul Piemontese 

ENRICO BENZA

S. M. resta inteso ed ordina che si sorveglino rigorosamonte:

Barone Riso……… giocatore

Epaminonda Rudinì……. id.

Duca Cesarò…………...…. id.

Cav. Sciara……………..…. id.

Figli del Cav. Palizzolo….

novatori

Francesco Brascaccio… id.

Principe Pignatelli……. id.

Cav. Carcame………..…. id.

Marchesino Rudinì…… id.

Riservata

21 febbraio 1860.

Eccellenza,

il Cav. Enrico Benza, che formò argomento del mio foglio del 14 dello stante, n. 271, u giorno 18 s’imbarcava sul Vesuvio ver cotesto Capitale.

Il funzionario di Polizia di questa delegazione marittima ne avvertiva il Commissario di Polizia di quella di Napoli, e gli accennava che forse qualche carta criminosa poteva trovarsi sulla persona o nel bagaglio di questo sospetto viaggiatore.

Egli fu accompagnato a bordo da undici persone, parte giocatori, parte novatori, t cui nomi stanno a manco scritti.

Corse voce due giorni innanzi la sua dipartita che il Benza do vea essere latore di una lettera al Re Vittorio Emanuele, per dimandare l'Annessione e che questa petizione sarebbe stata firmata dalle persone più cospicue del paese.

Molto si è parlato di questa suplica, ma nessuno l’ha veduta e firmata.

Negli ultimi di sua dimora in questa città, il Benza si ha dato un’importanza politica ed ha fatto intendere con linguaggio che sconfinava al ciarlatanismo (sic) che una commissione si aveva dal Conte Cavour, che dice essere suo Cugino.

Questo straniero debba essere severamente sorvegliato.

Tolgo a premura far ciò palese a V. E. per la debita sua intelligenza.

Il Luogotenente Generale

Firmato: CASTELCICALA


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Documenti VIII, Volume II, cap. IX

Raporti riservatissimi fra il governo di Napoli e la luogotenenza di Sicilia dopo i fatti del 4 aprile

Riservatissima

a lui

Aprovata da S. M.

il dì 8 Aprile 1860

CASSARO

A S. E. signor

Principe di Castelcicala

Tenente Generale

dei R.li Eserciti

Luogot.e Gon.le

di S. M. (D, G.)

in Sicilia

PALERMO.

Eccellenza,

Al primo annunzio che ebbe S. M. il Re, Nostro Augusto Signore, per telegramma del Generale Salzano del 4 corrente, del conflitto sostenuto e vinto dalle Beali Trupe nel convento della Gangia, la M. S., comunque il Suo Real Animo fosse stato profondamente amareggiato, pure seguendo gli impulsi della Sua Sovrana clemenza, rispondeva per telegramma dello stesso giorno al detto Generale, che si fossero sospese le sentenze capitali, e che se ne fosse reso conto a S. M.

Affinché non sorgano dubbi o esitazioni di qualunque natura sulla interpretazione del detto segnale telegrafico, è necessità che l’E. V. sapia, che quanto fu segnalato al generale Salzano nel di 4 corrente mese sulla sospensione della esecuzione delle sentenze ospitali, non può che unicamente aplicarsi a tutti coloro che presero parte agli avvenimenti di quel giorno, e non mai a coloro che si sono resi colpevoli de fatti posteriori, poiché non poteva accordarsi una grazia preventiva per reati non ancora commessi. (!)

Rimane dunque nella piena facoltà di V. E. di regolarsi nel modo che meglio crederà, conferendosi all’E. V. la facoltà di sospendere le sentenze capitali, sempre che lo reputi oportuno.

V. E. tenga ciò riservatissimo solo per suo uso; e badi che le leggi e i Reali Decreti sieno osservati; non che si dia il tempo necessario ai condannati, acciò Si ABBIANO TUTTI I CONFORTI DELLA NOSTRA SACROSANTA RELIGIONE. (!)

La prego di accusarmi ricevo di questo mio foglio e con i sensi della più alta considerazione e distintissima stima, ho l’onore di essere, etc.

Napoli, 8 aprile 1880

Confidenziale riservatissima

CASSARO


Eccellenza,

S. M. il Re, N. A. S., mi ha oggi stesso comandato di scrivere a V. E, che ove i consigli di guerra pronunziassero delle altre sentenze capitali, oltre di quelle già eseguite, se ne sospenda la esecrazione, e se ne renda conto alla M. S.

Mi affretto a partecipare a V. E. questo ordine Sovrano per lo debito adempimento, e colgo questa oportunità etc. etc. etc.

Napoli, 24 aprile 1860

POLIZIA

795

Riservatissima

Si esegua

A S. E.

Il Luogotenente Generale

Palermo

Eccellenza,

S. M. (D. G.) per impulso di Sua Sovrana clemenza, degnavasi ordinare in data de 24 aprile scorso, che si fossero sospese le sentenze capitali che sarebbero state pronunziate da Consigli di guerra subitanei, e che se ne fosse dato conto alla M, S.

Or tolto lo stato di assedio in Palermo, eperò le cause pe' reati politici ivi commessi dovendo devolversi alla Gran Corte Speciale, S. M. a torre ogni dubbiezza sulla precisa esecuzione dell'anzidetto ordine Sovrano, si è degnata dichiarare, siccome mi vien partecipato oggi stesso dal sig. colonnello Severino, segretario particolare della M. S., intendersi bene che le decisioni capitali, che potranno forse pronunciarsi dalla G. C. Speciale, debbono anche rimaner sospese.

Nel Real Nome partecipo a V. E. questa Sovrana determinazione per servirsi e farne l'uso che convenga.

Napoli, 7 maggio 1860.

Volume II, cap. XII

Lettera del principe di Castelcicala al principe della Scaletta

Parigi, 28 maggio 1862

Eccellenza,

Mi onoro accusarle ricezione del suo distinto foglio, dichiarandomi gratissimo all'E. V. della occasione che mi porge di offrire delle dilucidazioni su di un argomento, che più di ogni altro m’interessa. Il non essere stato al mio posto nei giorni di pericoli a Gaeta è per me infatti un soggetto tristissimo di dispiaoenza non interrotta!Io nulla omisi perché al posto del dovere e dell’onore mi si chiamasse. Nel momento in che S. M. il Re (D. G. ) si disponeva a lasciar Napoli, io gli chiesi di seguirlo: ebbi dalla M. S. negativa risposta. Non contento di quella sovrana risoluzione, mandai il Cavalier Callotti da Falcon a pregarlo di voler nuovamente chiedere i sovrani ordini, che mi augurava migliori, ma la risposta fu la stessa. Non nascosi e non nascondo che il vedermi lasciato indietro in momenti, come quelli, mi recò grandissima pena. L’indomani della partenza del Re mi recai a Palazzo, per ritirare i miei effetti da viaggio, che da più giorni tenea pronti pel caso di partenza col Re, ed il giorno seguente, ossia l'8 di Settembre mossi alla volta di Civitavecchia. Non apena sbarcato sepi, che il generale Ferrari, (di onorata memoria) trovavasi allora in casa del Console, e si disponeva a partir per Gaeta, ove S. M. l’attendea; corsi immediatamente a vederlo, e per la prima volta mandai al Re la mia preghiera di ricordarsi di me, e non dubito che il degno generale Ferra» non mi abbia dimenticato al Suo arrivo in Gaeta. Non dirò quanto penosa mi fosse la residenza in Roma nei mesi di settembre e ottobre: trovarmi a cosi poca distanza da Gaeta e non potermici recare, erami veramente doloroso. Ciò feci sapere al Re per mezzo di quanti uffiziali vennero in quei mesi a Roma, per commissioni; lo dissi a Latour, a Winspeare, ed a un uffiziale dello Stato Maggiore, da' capelli biondissimi, che da guardia del Corpo ha servito sotto gli ordini dell'E. V. e del quale più non ricordo il nome. Niun risultato mi ebbi da quelle pratiche: sepi solo, e da tutt’i lati, che quei che non avean seguito il Re nel momento della sua partenza da Napoli eran sicuri di esser malissimo ricevuti e peggio trattati se si recassero a Gaeta senza ordine espresso. Due volte feci scrivere al capitano Carrelli, mio antico aiutante di campo, per chieder q dell’ordine e non venne risposta. Stanco finalmente di più insistere, ed umiliato di trovarmi in si fatta posizione, decisi di traslocarmi a Parigi. La prima volta in che sepi, che il Re non mi avea del tutto dimenticato fu verso la metà del mese di dicembre. In quell’epoca Carrelli scrisse al suo amico Gallotti le seguenti parole: “Sua Maestà” mi ha detto ieri: “Castelcicala sarà desolato di non trovarsi qui, ma la colpaè tutta mia”. In questa la sola indiretta risposta che mi ebbi alle ripetute mie insistenze; essa fu clementissima, ma non quale io la desiderava. Nondimeno ne profittai per dirmi nuovamente pronto a muovere ad ogni piccolo cenno del Re, e S. A. R. il Conte di Trapani per Sovrano incarico mi rispose dopo qualche tempo, per ringraziarmi ed assicurarmi della sovrana benevolenza. Con la data di Gaeta ebber termine le mie pratiche, or dirette, ora indirette, costanti sempre.

Ecco tutto quello che posso dire all’E. V. su questo dolorosissimo soggetto, in adempimento di Sovrani voleri, che si è piaciuto comunicarmi.

All’E. V. poi dirò in particolare, che, nei tristissimi tempi che precedettero la partenza della M. S. da Napoli, il Re (N. S. ) cedendo a non so quali insinuazioni, mostravasi non dirò poco clemente a mio riguardo, ché Sua Clemenza non mi venne mai meno, ma indifferente alquanto, e di questa sovrana indifferenza l’E. V. troverà al pari di me le ragioni nel seguente fatto, che forse le sarà ignoto, ma ch’è la chiave di tutto l’enigma.


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Documenti X, Volume II, cap. XV

Lettera intima di Antonio Winspeare al marchese Antonini.

Parigi, 17 luglio 1854

Pregiatissimo Signor

Marchese,Spero che vorrete essere indulgente per il mio silenzio di ieri e di ieri l’altro, perché sapete che qui non si sta con le mani alla cintola, ed il nostro piego per Napoli non lo abbiamo spedito prima di ieri all’una. Esso era pieno di molte cose, e fra le altre de' dettagli di una mia seconda conversazione con Hùbner. Questi tanto la prima, quanto la seconda volta, mi ha ripetuto sopra tutti i tuoni, che noi avevamo il più grande interesse a star bene con questi Signori e co’ loro vicini, e mi ha raccomandato di non metter tropo calore nell'insistere per i piccoli affari che voi sapete. Ciò non pertanto mi è piaciuto moltissimo il biglietto che voi avete scritto a D. de L. ((1)) e trovo che non poteva cader meglio in acconcio; se egli non farà niente dopo quel biglietto, molto meno lo farebbe per le mie insistenze, le quali non possono avere lo stesso peso. Hubner mi ha pure promesso che alla prima occasione avrebbe parlato pel nostro affare e ci avrebbe aggiunta Ja raccomandazione che oi avessero lasciati tranquilli. Io gli esposi francamente i miei dubbii che nella convenzione anglo-francese non si fosse fatta qualche segreta concessione all’animosità de' primi. Egli mi assicurò di no e nel modo il più formale, soggiungendomi che la sua Corte non lo avrebbe mai sofferto, perché non permetterà che si tocchi l’Italia. Ho riferito tutto fedelmente e questa seconda parte sarà servita a medicare la comunicazione particolare che feci giorni fa della conversazione tenuta con Walewski. Preferii la forma particolare perché questo amico mi fece vedere le cose perdute, e mi disse che non ci vedeva altro rimedio se non quello di un cangiamento di uomini! Mi suggerì pure quello che dovrebbe esser messo alla testa dell’amministrazione, e che voi certamente indovinerete senza che io ve lo nomini! Io capii bene che non faceva un piacere al nostro Capo riferendo tali cose, ma credo dovere di onore e di coscienza di dir le cose quali sono, e non già quali si vorrebbe che fossero! Ho lasciato alla nota lealtà de(1) suoi sentimenti ed alla prudenza del suo carattere di far l’uso che crederà migliore della mia particolare. Nel riferire poi la mia ultima conversazione con Hùbner, ho detto che cedendo a' consigli dello stesso, ed attendendo le ulteriori istruzioni che avea già chieste intorno al foglio del 7 luglio, aveva stimato dovermi astenere da qualunque altra insistenza sino a nuovo ordine. Ho soggiunto poi che il mio carattere personale non mi faceva ambire le ròle defaiseur (e ciò affinché non s’immagini che nella vostra assenza io faccia qualche frittata!) facendo anche notare che questo non converrebbe alla mia attuale posizione, ed ho conchiuso dicendo che credo mio. dovere (a meno che S. E. non pensi diversamente) limitarmi soltanto alla fedele narrazione de' fatti e delle cose che mi si dicono. Io desidero vivamente di vedervi ritornare, perché mi secca assai questa mia posizione attuale e mi convinco sempre più che Parigi per noi altriè una vera galera! Ciò non ostante siccome non sono egoista, vi dico che vi credo autorizzato a rimanercene tranquillamente a Vichy quanto lo giudicherete a proposito. In primo luogo ieri mi è arrivato un piego per la posta in cui non oi era che un solo dispaccio, il quale rimane inteso della vostra andata a Vichy, e se volevano farvi ritornare avrebbero dovuto dirvelo. In secondo luogo Hubner mi ha detto e ripetuto cento volte di non insister tropo e voi potete valervi di questo argomento in caso di bisogno. In terzo l’Imperatore è stato in viaggio; si dice che dopo domani se ne va a Biarritz e quindi difficilmente avreste potuto vederlo. In quarto finalmente, trovo io che non si poteva e non si doveva fare né più né meno di quello che avete fatto col vostro biglietto e che se non si ottiene nulla è segno che nulla si deve ottenere. State tranquillo dunque e non pensate a guai!... Io vi prego di contare su i miei sentimenti di amicizia e di rispetto.

Winspeare.


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Documenti XI, Volume II, cap. XV

Lettera di Francesco II a Napoleone III con la quale gli annunzia
il ritiro del marchese E. Antonini da ministro di Napoli a Parigi.

Monsieur Mon Frère. L’àve avance, et la santé affaiblie du Marquis Antonini, Mon Envoyé Extraordinaire, et Ministre Plénipotentiaire près de Votre Majestà Imperiale, m'ont déterminé à lui accorder la retraite du service, qu’il a instamment demandée. Je ne doute pas qu’un diplomate aussi distingue, et d’une si grande expérience n’ait su mériter la précieuse bienveillance de Votre Majestà Imperiale, pendant le temps qu’ il a résidé à Sa Cour, et je suis sur qu’Elle voudra bien accueillir avec bonté les respectueux hommages, que le Marquis Antonini vient Lui rendre, en présentant à Votre Majestà Impériale sa lettre de rapel. Je l’ai chargé d’exprimer de vive voix è Votre Majestà Impériale les assurances sincères de la plus haute considération, et de l’inaltérable amitié avec laquelle je suis

Monsieur Mon Frère De Votre Majestà Impériale

Le bon Frère

(firmato) FRANÇOIS.

Naples, le 20 Juillet 1860.


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Documenti XII, Volume II, cap. XVII

Dichiarazione collettiva dei membri del Comitato generale di Terra di Bari per le spese della rivoluzione

Noi sottoscritti ci dichiariamo veri e liquidi debitori ciascuno per la sua rata del Sig. D. Antonio Melodia di tutto ciò che da esso potrà essere erogato, sotto qualunque aspetto, per spese necessarie a far serbare l’ordine in questa Provincia. E tutte dette spese saranno prontamente e senza veruna eccezione soddisfatte da noi in vista di semplice richiesta che ne sarà fatta dal Sig. Melodia, il quale non debb’essere tenuto né a giustificare, né a render ragione di ciò che sarà per erogare; ma pienamente ed onninamente si starà alla fede dello stesso, per modo da non dover essere tenuto a render verun conto e ragione del di lui operato e del mandato che gli abbiamo conferito, avendo piena ed assoluta fede nella,probità, esattezza, ed onoratezza del signor Melodia qual nostro mandatario. Onde per sicurezza firmiamo la presente.

Altamura, 21 agosto 1860.

Firmati:Luigi de Laurentiis del fu Carlo

Antonio Melodia per la sua quota

Vincenzo Melodia di Tommaso

Candido Turco

Pietro Tisci

Domenico Vischi

Riccardo Ottavio

SpagnolettiRaffaele

RossiVincenzo

RogadeoGirolamo

NisioDomenico

LipolisDomenico

FanizziVito

Leonardo Taranto

Pasquale Pellicciari

Ottavio Serena

Giovanni Sylos




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Documenti XIII, Volume II, cap. XVIII

Cronistoria dei fatti politici e militari avvenuti nell'anno 1860 nella Città di Pescara
 piazza forte dell'ex Reame di Napoli narrata da un testimone oculare.
PARTE I

La Piazza forte di Pescara racchiudeva nella cinta delle sue mura la Città, ed era costituita da un pentagono di cinque Bastioni sulla132 destra sponda del fiume omonimo, con cortine, casamatte e passaggi, difesi e coperti, e relativo fossato. Sulla sinistra sponda si ergeva una testa di ponte con altri 5 Bastioni ed accessori, in difesa al nordovest del Pentagono principale. Tutti armati da artiglierie da piazza.

Fra questa testa di ponte e la Piazza convergevano le strade principali esterne, e vi era il passaggio del fiume, costituito da un ponte a battelli.

Nel 1860 la sua guarnigione militare era composta da un battaglione di Cacciatori (1200 uomini) da 6 compagnie di Zapatori del Genio, e da un centinaio di artiglieri. In tutto circa 2000 uomini, oltre una batteria completa di pezzi da campagna, trainata da 80 muli e rimasta precariamente nella Piazza.

Sul finire dell’anno 1859 il governo di Napoli preoccupato dall’ammassamento dei volontari italiani, comandati dal Generale Garibaldi, alla Cattolica e Rimini, e dopo aver fatto inutili pratiche col Governo di Roma per unire le sue forze con quelle del Generale Lamoriciére, stabili ed attuò per inutile sua tarda difesa un Corpo di trupe di osservazione sotto il comando del Generale Pianeti dietro la linea del fiume Tronto, la cui base veniva fissata alla Piazza forte di Pescara.

Per questo fine la Piazza forte fu febbrilmente rimessa in assetto di guerra con munimento di artiglierie ed aprofondamento dei fossati, senza dire che in essa fu immagazzinata ogni necessaria provvista di generi vari, grano, salami, vino, vestiari eco.

Nell’aspettativa dei fatti che si svolgevano, si ebbe notizia che Francesco II aveva elargito con atto del 25 giugno 1860 il ripristino della Costituzione dell’anno 184S. Come a Napoli, anche nella nostra regione di Abruzzo, la notizia fu accolta freddamente, e fu incentivo al movimento e alle aspirazioni più palesi verso l’agognato desiderio della Unità Italiana. Fra i giovani Uffiziali della nostra guarnigione si apalesò più vivo ed aperto il patriottico sentimento, e si fecero più intime le relazioni di costoro con tutti i liberali cittadini che formavano la popolazione di Pescara. Scorsero cosi i due mesi di luglio ed agosto.

Finalmente giunse quel giorno memorando del 7 settembre 1860, giorno della entrata di Garibaldi a Napoli. La nostra piazza era comandata dal vecchio Colonnello Piccoli col suo Stato Maggiore; l’artiglieria dal Tenente Colonnello Gaudi ani persona cortese e patriota; il Genio dal Tenente Colonnello Antonelli; il 12° Cacciatori dal Maggiore Pirelli; i Zapatori dal Capitano D’Escamard, e la batteria da campagna dal Capitano Baker, se mal non ricordo.

Verso le ore 22 di quel giorno giunse dispaccio da Napoli al Comandante la Piazza, col quale, annunziandosi l’entrata di Garibaldi e la costituzione del governo provvisorio, si faceva invito agli Uffiziali della Guarnigione di fare adesione al nuovo ordine di cose. Nella incertezza e perplessità che dominò subito il Corpo Militare, fra coloro animati dal patrio sentimento che volevano affrettare l’adesione, e coloro più pochi che conservavano affetto alla Dinastia, sorse alquanta confusione che scosse la disciplina della bassa forza. Questa cominciò a tenere in diffidenza i propri superiori ed a girare a grupi armati di fucili e daghe, per le vie della Città, non senza minacciare in modo ben comprensibile la popolazione, che vigile osservava e s’impensieriva dello incomposto movimento dei militari.

Onde provvedere alla incolumità generale delle principali famiglie della Città, si pensò di emigrare nei luoghi vicini, e la popolazione tutta patriottica, ne seguì l’esempio, di modocché fra il giorno 8 al 12 settembre forse qualche paio di centinaia di pescaresi soltanto rimasero nelle loro abitazioni.

Questo provvedimento necessario per la propria vita, se non per l’incolumità delle private sostanze, irritò i militari rimasti fedeli, poiché gli Uffiziali patriotti abbandonarono subito la Piazza, correndo a Napoli per affrettare la richiesta adesione. L’irritazione crebbe fino al punto che le sentinelle di servizio tiravano delle fucilate a quei cittadini che dissimulavano alla meglio la loro partenza.

Verso le ore 10 dell’11 o 12 settembre fu di passaggio il Sig. Clemente De Cesaris, liberato quale condannato politico dal bagno penale, e conosciuto anche dai militari per i suoi sentimenti liberali. I soldati tumultuariamente lo rincorsero sullo stradale allorché ripartiva, dopo essersi alquanto fermato in città, e lo condussero prigioniero al Codiando di Piazza, poi in carcere fino al sabato 15 settembre. La presenza di costui, e la emigrazione di quasi tutti i pescaresi, che nel 12 aumentò di molto, accrebbero ancora l’irritazione e fecero sospettare che i cittadini fossero andati a riunirsi con altre guardie nazionali per assaltare la Piazza. Seguirono tre o quattro giorni di pericoli, minacce, perplessità di ogni genere. I Zapatori che alloggiavano fuori il maschio della Piazza si sollevarono al grido di: “Viva il Re”; provarono di gittare al fiume l’uffiziale del Genio Forti di servizio, e istigati da alcuni contadini abitanti in campagna, che si univano a loro, con armi, utensili e sacchi, irrupero verso la principale Porta di entrata della destra sponda. Ma il 12° Cacciatori, che vi era a guardia, chiuse e difese la porta, impedendo cosi l’entrata alla città ed il minacciato saccheggio. Questo fatto risultò a grande onore di quel Corpo, i cui elementi non erano viziati come in altri, perché composto di reclute.

La notte del 12 e quella successiva del 18 la Guarnigione, sempre in tumulto e compresa dal ridicolo sospetto che i pescaresi ed altre guardie nazionali stessero apiattati nei pressi della piazza, onde sorprenderla ed assaltarla, tirarono incessanti cannonate in tutte le direzioni del raggio. Ma avvenne poi che per una fortunata eventualità il giorno 14 dalla nostra piazza fu vista molto accostarsi nella rada la flotta italiana del Persano, il quale correva ad Ancona per espugnarla. Questa circostanza determinò nella Guarnigione un panico fra i soldati principalmente, i quali decisero di mandare a Chieti, dove noi pescaresi ci trovavamo nella miglior parte, un uffiziale come parlamentario, un certo Utrecht, a domandare dalla Tesoreria provinciale ducati 3000, promettendo che, avendoli, si sarebbero sciolti. Non dico le ripugnanze che avvennero colà a facilitare la richiesta, e scongiurare mali maggiori. Il tesoriere volle un verbale firmato indicandovisi l’indeclinabile necessità che si affacciava, ma mi pare che noi soli pescaresi lo firmammo a garanzia del Tesoriere.

Quando tornò l'uffiziale a Pescara coi denari, trovò che il panico dei soldati era tanto cresciuto che senza aspettare il suo ritorno si erano già quasi tutti sbandati dalla piazza, onde raggiungere in diverse direzioni i loro paesi. Pochi aspettarono il denaro che venne, come poi mi dissero, distribuito ai rimasti, e che fu anche restituita una piccola somma al Sig. De Cesaris di suo uso pel viaggio, e che aveva volontariamente anticipata.

Dopo questi avvenimenti, il De Cesaris, liberato dal Carcere militare, venne la sera del 15 a Chieti con veste di Governatore della Provincia alla quale forse fu elevato per dispaccio del governo dittatoriale di Napoli. Immediatamente egli convocò quanti pescaresi di di guardia nazionale eravamo colà, e ci ordinò di partire in armi subito per occupare la piazza di Pescara, sgombra già dai soldati della guarnigione. Obbedimmo allegramente e ci mettemmo nella stessa notte in marcia nel numero esiguo di una ottantina, sebbene potessimo attenderci pericolosi agguati dalla trupe sbandate che fuggivano. Non vi furono incidenti, e verso l’alba del 16 settembre ci trovammo in riga in una piazza della Città. Si procedé subito a raccogliere tutto ciò che era stato dissipato dai soldati, armi, vestiario ecc., che furono riposti nei magazzeni militari. Non apena giungemmo ci si presentarono ufficiali superiori, che, temendo di rapresaglie nel loro cammino per raggiungere la trupa raccolta a Gaega e dintorni da Francesco II, domandavamo da qualche autorità un salvacondotto, che fu loro dato. Uno di essi il Maggiore Pirelli, esclamò:

Ecco qua, con la vostra condotta avete fatto dissolvere una bella trupa, gli rispondemmo essere effetto della indisciplina e del disordine dei soldati che ci obbligarono a porre in salvo le nostre vite”.

Ci dissero che quegli uffiziali andarono subito a Gaeta per giustificare al re la perdita della piazza di Pescara, ed è evidente che quel re in vista di tal fatto, credette ordinare alla sinistra delle sue trupe, come più vicine, comandata dal Generale Scotti, di marciare negli Abruzzi riprendere Aquila e Pescara, e fare di noi pescaresi principalmente un macello. Questa colonna Scotti però si mosse lentamente, arrestata od impaurita del concentramento a Castel di Sangro di molte compagnie di volontari garibaldini, i quali difendevano i valichi per gli Abruzzi, e fu tanto inoperosa per una ventina di giorni e più, che diede tempo poscia al Generale Cialdini d’incontrarla al Macerone e sconfiggerla facendo prigioniero anche lo Scotti.

Parte II.

Cessato pertanto allora ogni pericolo col possesso della Piazza forte, Pescara, con una sola mente ed un sol cuore, attese partecipandovi largamente, allo svolgimento delle cose, alle aspirazioni del prossimo conseguimento della libertà ed Unità d’Italia. Ed all’adempimento dei precari doveri di conservare tutto ciò che si trovava ammassato nella Piazza, materiale, munizioni e provvigioni da bocca. Il Municipio ebbe cura degli 80 muli e cavalli della batteria Baker, alimentandoli per più di un mese. La spesa di essi non è stata mai rimborsata, né il Municipio la domandò per senso di alto patriottismo. Dopo 2 giorni la nostra Guardia Nazionale venne rinforzata da altre compagnie nazionali dei luoghi vicini.

Dopo il 16, si sepe il passaggio della frontiera dello Stato Romano ad opera delle trupe di Vittorio Emanuele, capitanate da Fanti e Cialdini, come la brillante azione di Castelfidardo e l’espugnazione di Ancona. Ma nel frattempo il giubilo generale era funestato dalle notizie che giungevano da Napoli, dove vi era lotta di preponderanza fra il partito Mazziniano e quello liberale monarchico italiano, per l’indirizzo da darsi al movimento unitario. In Abruzzo con generale malcontento giungevano ordini, disprezzati e ineseguiti, di oporsi ad ogni intervento eventuale del Piemonte, e non mancarono gravi minacce. Le popolazioni dell’Abruzzo, più esposte, non vi badarono, finché sul finire dello stesso settembre una sol voce confortante si diffuse: “Andiamo, quanti più possiamo, come rapresentanti, al re Vittorio Emanuele, magari, a Torino, onde invitarlo a salvare l’ex Reame di Napoli”. Il giorno dopo di questa voce vi fu una partenza generale per Ancona di moltissimi in tale veste, specialmente del Teramano. Noi di Pescara ne fummo cinque, e tutti ci trovammo giunti in Ancona nel giorno 30 di quel mese, cioè uno o due giorni dopo della espugnazione di quella Piazza.

Giunti in Ancona, questi rapresentanti, condotti da Francesco De Blasiis e Giusepe Devincenzi, furono informati che il Re Vittorio, arrivato a Bologna, avrebbe fatto il suo ingresso ad Ancona per la via del mare, prendendo imbarco a Rimini o alla Cattolica. Vedemmo difatti i necessari preparativi; e nella mattina del 2 o 8 ottobre, se non sbaglio nella memoria, piovigginosa alquanto, il Re fece il suo entusiastico ingresso nel porto e nella Città, montando a cavallo. È mio debito accennare la grande commozione che provammo in quei pochi giorni che colà rimanemmo. Le accoglienze patriottiche fatte dalla intera popolazione di Ancona a ben 46000 uomini dello esercito piemontese, segnano una pagina luminosa di quella cara Città, ed esse sono indescrivibili.

Il Re, che andò ad alloggiare in un villino esterno, sepe dell’arrivo in Ancona di numerosa Deputazione degli Abruzzi, che domandava essere ricevuta per esporre i bisogni e le generali aspirazioni dell’ex Reame.

Attendemmo per un paio di giorni le Reali disposizioni, quando improvvisamente, il Re, entrato nella Città, ordinò che le Deputazioni gli fossero presentate subito. Partirono corrieri per la Città per chiamarci in tutti i luoghi, poiché non avvertiti prima, andavamo a diporto. Si corse a palazzo non ordinatamente, e ci fu ressa nello ingresso della sala di ricevimento. L’abate Settimio De Marinis, uomo di profonda dottrina, ed ardente liberale, uno dei cinque rapresentanti pescaresi, dové animatamente lottare per non rimanere fuori della sala. Il Re se ne avvide, e vedendo con piacere che un sacerdote faceva parte della Deputazione, gli si fece incontro e gli disse: “Donde viene? — Maestà, da Pescara”. Replica il Re: “Che fanno i soldati di quella Piazza? — Maestà, rispose, la Piazzaè libera ed affidata alla Guardia Nazionale, i soldati si sono sbandati. Bene” finì il Re.

Accolti il giorno dopo dal ministro Farini, il quale accompagnava il Ro, sapemmo che questi, dopo scambio di telegrammi, aveva già dato ordine alle sue trupe di iniziare la marcia verso gli Abruzzi. Ci preparammo tutti a tornare per dare la lieta novella, Bonza curarci delle ricevute minacce emanate dal Governo politico di Napoli.

Sulla metà dell’ottobre le trupe italiane giunsero e si accamparono a Pescara. Il Re Vittorio giunse pure con l'esercito, dopo essere stato caldeggiato dalle popolazioni nelle sue fermate a Giulianova e a Castellamare. Qui prese stanza nel villino Copa sul territorio di Castellamare. Nel giorno dopo l’arrivo entrò a cavallo a Pescara per osservare la Piazza, circondato dalla popolazione festante ed entusiastica. Vide gli armamenti, sali e si fermò sul Bastione più esposto, denominato della Bandiera. Contemplò i dintorni e rivoltosi all’abate De Marinis, che gli stava a fianco disse queste precise parole: “Ho che bel sito per una grande Città!…”

L’esercito italiano prese possesso della Piazza forte e degli aprovigionamenti in essa contenuti, e nel giorno successivo il Re parti alla testa delle sue trupe, passando per Chieti, mentre l’avanguardia comandata da Cialdini era già partita a marce forzate verso Castel di Sangro, dove forse aveva avuto sentore che si trovava, incerta e perplessa, la Colonna del generale borbonico Scotti, che voleva avanzare verso gli Abruzzi. Difatti la detta Colonna di Scotti, come si è detto, fu incontrata e distrutta al Macerone dal generale Cialdini.

Dopo il Plebiscito e la resa di Capua nel novembre, l'ingresso e la permanenza a Napoli del Re Vittorio, questi volle tornare in Piemonte, prendendo la stessa via della sua marcia, cioè quella degli Abruzzi. Il 28 decembre 1860 doveva passare per Pescara oltre la mezzanotte. I cittadini aprontarono un padiglione e dei rinfreschi al passaggio. Giunse col seguito in vettura chiusa. Senza scendere, permise che noi tutti ci accostassimo agli sportelli, parlando con noi familiarmente. Alla preghiera di pensare ed interessarsi al riscatto di Roma e Venezia, ci rispose: “A poco a poco”. Accettò un rinfresco e partì.

Pescara, 26 dicembre 1907.

Marchese Francesco Farina.


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Documenti XIX, volume II, cap. XX

Quanto avvenne in Aquila dopo 1 ingresso di Garibaldi a Napoli ((1))

Il giorno 8 settembre 1860 dal Direttore dell'Interno di Napoli veniva telegrafato a Federico Papa, Intendente dell’Aquila, così:

“Il Dittatore Garibaldi è qui giunto in Napoli alla mezza tra l’entusiasmo generale di tutta la popolazione: tutto è festa, tutto è tranquillità”.

Immediatamente l’Intendente ne diede notizia al sindaco Fabio Cannella, il quale in meno di un’ora accompagnato dal primo e secondo Eletto e dai Decurioni, ei recò al palazzo dell’intendente Papa, il quale rassegnò con verbale redatto da Donato de Carie i suoi poteri, invitando la rapresentanza Comunale a provvedere alla cosa pubblica.

Ritiratosi il Papa, il Corpo Municipale immediatamente e ad unanimità deliberò:

1° E proclamata la Unità e la indipendenza d’Italia sotto lo scettro Costituzionale di Vittorio Emanuele, Re d’Italia e la Dittatura di Giusepe Garibaldi.

2° E costituito un Governo provvisorio prodittatoriale nelle persone dei signori Federico Papa, Fabio Cannella ed Angelo Pellegrini.

Il verbale è firmato da Fabio Cannella, sindaco, Francesco Calore primo eletto, Francesco Capa secondo eletto, Angelo MasoiocchiCurti, Alessandro VastariniCreui, Antonio Chiarizia, Aurelio Cialente, Michele Bonanni, Bartolomeo De Torres, Antonio Colabianchi, Vincenzo Centi, Tommaso Madonna, Francesco Ciambella, Gaetano Ferrari, Filipo Gentileschi, Camillo Leosini, Camillo Catalano, Antonio Barone, Raffaele Ludovici, Giusepe Bonjour, Beniamino Del Grande, Giustiniano Orazi, Carlo Bernasconi, Angelo Leonporri, Luigi Chiola, Francesco Alessandri, Luigi Benedetti, F. GiultCaponi, Napoleone Casti, Nicola Carvasiglia.

Per nove giorni consecutivi vi furono pubblici festeggiamenti con illuminazioni e discorsi di occasione.

Per il 21 ottobre poi, dello stesso anno, furono convocati i comizi pubblici per il plebiscito.


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Documenti XX, volume II, cap. XX

Vita sociale di Aquila dal 1850 al 1860((2))

Uno dei più cospicui ed antichi atenei del Regno, dopo l’università di Napoli era certamente il liceo di Aquila. Con diploma del 25 ottobre 1458 Ferdinando I d’Aragona concesse di potere erigere in essa città uno 8tudio Pubblico a norma di quelli di Bologna, Siena e Perugia.

Lo Studio aquilano ebbe varie fasi e anche gloriose nella storia della cultura abruzzese. Dal 1839 al 1860, salvo la breve interruzione del 1848, fu affidato ai gesuiti, che ebbero anche la direzione delle scuole universitarie, che il liceo di Aquila ottenne come quelli di Salerno, di Bari e di Catanzaro, anzi con maggiori cattedre che quelli non avessero.

Parecchie notabilità abruzzesi, in fatto di giurisprudenza e di medicina, furono alunni di quello studio. Basterà solo ricordare Salvatore Tommasi il grande medico e scienziato della medicina.

Gli Inquisitori dell’Ordine Costantiniano furono in quegli anni: per l’Abruzzo Citeriore, il Barone don Panfilo de Riseis; per l’Abruzzo ulteriore 2°, l’Arcidiacono don Luigi Manieri, con don Ignazio Muzi economo; e per l’Abruzzo ulteriore 1°, il Cav. don Tommaso Castiglione.

Istituti di Beneficenza.

Gli Istituti di pubblica beneficenza, riconosciuti dal Governo ed esistenti in Aquila, erano i seguenti:

1. Ospedale di S. Salvatore eretto in un locale edificato nel secolo XV da S. Giovanni da Capestrano.

2. Orfanotrofio maschile. Questi due erano amministrati dalla Commissione di beneficenza.

3. Conservatorio ed Orfanotrofio femminile della Misericordia.

4. Conservatorio della SS. Annunziata per le donne pericolanti e penitenti. Questi due erano amministrati dal Corpo dei Nobili Patrizi.

5. Piccolo lanificio, mantenuto con parte del cospicuo capitale di ducati cento mila, legato alla Provincia di Aquila nel 1823 con disposizione testamentaria da Antonio Benedetti. Questo piccolo istituto era annesso al cennato ospedale S. Salvatore, ma dipendeva dall’amministrazione provinciale.

6. Cassa di Risparmio, fondata a privata iniziativa con regolamento aprovato da R. Decreto del 26 settembre 1859. Questo istituto dovette forse essere il primo nelle provincie del Napoletano.

Per la intera provincia era l’Ospizio degli inabili e fanciulli poveri, maschi e femmine, eretto nell’antica Badia dei Celestini in Sulmona: nella quale città di Sulmona era anche il ricco ospedale della Nunziata.

Pianoforti.

I pianoforti furono introdotti ben presto in Aquila. Fra le prime famiglie, che li ebbero, vanno ricordate Spaventa e Rivera. Quest'ultima ne possiede tuttavia uno di pregiato autore non più usato da gran tempo, perché sostituito da altri moderni.

Negli ultimi anni del governo borbonico, i pianoforti erano comuni non solo alle famiglie della città, ma anche a quelle dei magistrati. E perché bene si aprendesse la musica, il barone Francesco Antonini, nipote del ministro di Napoli a Parigi, Emidio Antonini, fece venire in Aquila il napoletano maestro Pasquale de Sanctis. La baronessa, che nasceva marchesa Spaventa, era abile suonatrice di piano e di arpa. Altro maestro di piano e compositore, marchegiano, di nome Domenico Michelangeli, fu chiamato dal vescovo Filipi, per ammaestrare alla musica i seminaristi.

Erano quindi frequenti i concerti musicali nelle private famiglie; e le signorine si educavano nell’aprendere la chitarra francese e l’arpa, benché la vita di società fosse molto ristretta.

E a rammentare le soirée danzanti, che annualmente dava il presidente della Gran Corte Civile, detta oggi Corte d’apello, Michele Zampagliene, il 12 gennaio, pel genetliaco di re Ferdinando II. In tali trattenimenti s’intrecciavano le danze co concerti, ai quali prendevano parte signore e signorine aquilane. V’intervenivano le principali autorità, la numerosa magistratura, l’ufficialità e le migliori classi cittadine in uniformi e in decorazioni, perché solennità di Corte.

Carrozze.

Le carrozze di privati signori, esistenti in Aquila, erano in buon numero, e non minore certamente di quello di Chieti. Tutte si vedevano in gala principalmente il 28 agosto di ogni anno nella gran piazza di Collemaggio, alla mostra delle reliquie di uno de' Patroni della città, S. Pietro Celestino. In tale funzione era solito accorrere numeroso pubblico non solo dalla città, ma anche da fuori.

I migliori attacchi della città in ogni circostanza eran quelli delle famiglie Rivera, Picalfieri, Spaventa e Mignanelli. Per lo innanzi forse superava tutti coi suoi equipaggi il duca di Paganica, ma essendosi la famiglia di costui trasferita a Napoli, e tornando solo nei mesi estivi nella sua villa in Paganioa, negli ultimi dieci anni del governo borbonico non si vedeva più prendere parte coi suoi equipaggi nelle passeggiate aquilane.

Pinacoteche private.

L’Abruzzo era la sola regione ove esistevano private pinacoteche. Quasi tutte le antiche famiglie aquilane aveano grandiosi palazzi, con ampie sale decorate di pregevoli dipinti, generalmente ammirati dai visitatori. Di codeste raccolte di quadri meritavano principalmente da notarsi quelle delle case Alferi-Ossorio-Branconio, Rivera,. Quinzi e Ciambella. Più interessante e copiosa la galleria De Totres Dragonetti.

Alle raccolte di oggetti d’arte aggiungevansi nelle antiche famiglia aquilane, raccolte di pergamene e altri documenti riguardanti la storia della città. Il comm. Rivera ne ha molti in sua casa e li va continuamente pubblicando, dal 1889 nel Bollettino della Società Abruzzese di Storia Patria, della quale è benemerito presidente.


Gentilezza aquilana.

“Aquila gentilissima città, più sabina che napoletana, avea frequenti contatti con Roma”. Giustissima riflessione di Raffaele de Cesare. Sarebbe da aggiungere che per tali contatti una gran parte degli abitanti della provincia svolgevano la propria attività e con ottimo successo in provincia di Roma, i cui sudditi per l’indole pigra, e il falso indirizzo del governo pontificio, erano addormentati nell’ozio. Molti di codesti intraprenditori dell’Abruzzo aquilano si stabilivano in Roma a continuare i loro negozi, altri tornavano co’ fatti guadagni. Gli osti e i “bottari” erano generalmente aquilani, e cosi il personale delle cucine e scuderie patrizie.

A questi si aggiungevano quelli che dai paesi più freddi della provincia andavano come braccianti a lavorare nella campagna romana nella stagione invernale; e alcuni di essi vi tentavano la fortuna con secondarie imprese, e miglioravano la loro condizione di semplici lavoratori.

Di questi continui contatti con Roma rimane prova evidentissima nel linguaggio molto somigliante al romano, che si avverte non solo nella città di Aquila ma in molti paesi, quali, per citarne alcuni, Pizzoli, Barate Montereale nel circondario di Aquila; Tagliacozzo, Carsoli, Mugliano nel circondario di Avezzano; Posta, Borbona, Leonessa, Amatrice, Accumoli nel circondario di Cittaducale.

Altro pregio della provincia aquilana e principalmente del capoluogo era quello della cultura elementare, la quale si è mantenuta tuttavia superiore a quella delle altre provincie del Napoletano. Dall’ultima statistica degli analfabeti d’Italia risulta che la provincia di Aquila ne ha meno, non solo delle provincie meridionali, all’infuori di Napoli, ma meno anche delle provincie di Perugia, Arezzo, Forlì, e di alcune delle Marche.


Intendenti.

In Aquila iniziò la carriera amministrativa nel 1844 come segretario generale (oggi detto Consiglier delegato) il poi rimasto famoso Luigi dei Baroni Aj issa, (come si firmava); e in marzo 1845 fu elevato al grado di Intendente. Egli non potea accontentare la parte eletta della città, memore della splendida vita di alcuni Intendenti predecessori di nobile nascita, quali furono il principe Capace Zurlo, il principe di Giardinelli, il conte Gaetani dei duchi di Laurenzana. L’Aiossa parti da Aquila, bandita apena la Costituzione del 1848, e nel passaggio per Sulmona fu fatto segno ai più bassi insulti popolari, poiché si giunse persino a gettargli il fango sul viso. Fu sostituito nel periodo costituzionale da Mariano d’Ayala, il quale, dopo i fatti del lo maggio, fu rimosso di ufficio e parti il 24 giugno di quell’anno 1848.

Gli fu dato per successore in linea di transizione Michele Bevilacqua, il quale in una circolare del 22 luglio per la rinnovazione dei conciliatori diceva dover cadere la scelta “su i migliori cittadini devoti alla patria ed al governo costituzionale”.

Intanto le repressioni incominciavano; e al Bevilacqua fu dato per successore nel 1849 Nicolò Dommarco, il quale, secondo si raccontava dalle male lingue del tempo, aveva cosi scarsa cultura, che ignorava affatto il francese e lo imparò in Aquila dal maestro Antonio Sabatucci.

Il Dommarco era un buon reazionario, ma non eccessivo. Lasciava credere a Ferdinando II che egli con la sua inconcussa autorità, manteneva in freno gli Abruzzi; e non risparmiò il buon vescovo Filipi, venuto in Aquila in aprile 1853, e al quale impedì soccorrere con semplici raccomandazioni i sacerdoti ingiustamente perseguitati dalla polizia governativa. Egli aveva un segretario, che si chiamava Cornacchia; e un birro soprannominato Giombini, che ancora si ricorda con paura in Aquila, come si ricorda a Chieti il caporal Piccioni. Il Dommarco restò fino all’agosto 1859, in cui fu sostituito da Nicola de Giorgio di Lanciano.

Feste religiose.

In Aquila si faceano annuali feste clamorose, ma meno di Chieti. Pur nel 1855 se ne videro tre notevolissime. Una in maggio nel gran tempio di S. Bernardino, per la risoluzione del domma della immacolata Concezione, avvenuta sul finire del precedente anno. Una nella chiesa dei Gesuiti il 21 giugno in onore di Saa Luigi Gonzaga, col concorso pecuniario della numerosa studentesca. Una in San Giusepe nella domenica dopo l’ottava del Corpus Domini, con processione, in cui intervennero l’intendente, il sindaco allora Giusepe Pietropaoli e altre autorità. In tali feste furono grandiosi concerti musicali diretti dal maestro Francesco Masciangeli di Lanciano, morto nel 1906.

Istituti e Seminari.

Il seminario di Aquila fu meglio ordinato dal vescovo Filipi nel 1853. Fu prescritto che nella istruzione letteraria, la prima classe dovesse essere esclusivamente di italiano, e s’introdusse la grammatica del Mucci, allora in voce di buona novità. Il desiderio del vescovo Filipi di ampliare il seminario diè causa a una notevole questione. Fra l’episcopio e il seminario esistevano alcune antiche case e due piccole chiese apartenenti a una confraternita di Nobili, sotto il titolo delle Pietà. Priore di questa confraternita era il cavalier Cesare Rivera, persona stimabilissima, che essendo da molti anni consigliere d’Intendenza, quando l’impiego solea darsi alle migliori capacità della provincia (non essendovi traslocazioni), seguiti i fatti del 15 maggio a Napoli e sperimentatesi in Aquila alcune aggressioni della trupa sull’inerme popolo e la esonerazione del d'Ayala, in luglio di quell’anno 1848 avea chiesto il ritiro, per non assistere alle repressioni politiche che inevitabilmente sarebbero avvenute. Il Rivera era inoltre persona colta, e lasciò nome di buon poeta latino. Per sostenere i diritti della confraternita e per conservare alcuni pregevoli dipinti a fresco del secolo XV, esistenti nell’antica chiesa abbandonata, che secondo il disegno del vescovo dovea demolirsi, egli si opose energicamente alle avanzate richieste. La questione, durata varii anni, s’inasprì tanto, anche pe’ raporti del Rivera, che fu indotto a incaricarsene direttamente il re Ferdinando II. Questo volle salvare capra e cavoli; e con rescritto del 16 settembre 1858 ordinò che si assegnasse alla confraternita altra chiesa, e fossero ceduti al vescovo tutti i chiesti fabbricati sacri e profani, mercé un offerto annuo canone per questi ultimi. Alcuni dei pregiati freschi dell’antica chiesa da demolirsi, per la insistenza già addimostrata dal Rivera, furono felicemente staccati, ma ora non si conosce che ne sia avvenuto. S’incominciò la ideata fabbrica, ma non fu portata a compimento dal Filipi pei seguiti cambiamenti politici; e solo al finir del secolo XIX poterono vedersi ultimati quei lavori, già ideati poco dopo la metà del secolo stesso.

Teatri.

In Aquila fin dal 1616 fu destinato adatto locale per un teatro stabile, che poi nel 1643 fu meglio ridotto per impegno del principe di Gallicano Colonna, il quale in essa città piacevasi di passare annualmente qualche stagione. Questo teatro poi anche riformato esiste tuttavia col nome di teatro S. Salvatore. La città di Aquila fu quindi la prima delle provincie napoletane che ebbe teatro stabile e regolare.

Di poi nei locali della Intendenza, a sollecitazione dell’intendente Guarini dei duchi di Poggiardo, si edificò altro teatro col nome di Sala Olimpica, che fu aperto al pubblico il 80 maggio 1830. Questo teatro, ricco di colonne ed ornamenti in cristallo, formava l’ammirazione dei visitatori. Nel 1858 fu fatto demolire dall'intendente Dommarco, per non aportarvi alcuni urgenti restauri della spesa di circa duemila ducati.

Nel 1854 fu dall’amministrazione municipale deliberato di edificare l’attuale teatro comunale, che, completato dopo vari! anni, fu aperto al pubblico nel 1873. Di questo teatro avrebbe avuto la prima idea il Dommarco, che aveva una figliuola molto apassionata della musica.

Venuta del Conte di Siracusa in Abruzzo.

Un fatto va rammentato nella storia aquilana in riguardo a don Leopoldo, conte di Siracusa, che al duca di Paganica fece una visita alla sua villa presso Aquila, ove il duca recavasi annualmente nei mesi estivi. Questa visita fu definitivamente disposta nel 1857. Il duca fin dal giugno di quell’anno incominciò tutto a ordinare per ricevere l’augusto ospite.

Nella città di Aquila, prossima alla borgata di Paganica, saputasi la risoluzione del principe, si decise d’invitarlo, quando fosse giunto, a passare qualche giorno in detta città. Quindi si disposero feste con luminarie, macchina pirotecnica, e soprattutto un grandioso ballo.

E perché questo avesse un carattere tutto cittadino, non si accettò ‘ il profferte salone della Intendenza, ma si scelse un palazzo privato, corredandolo dei migliori mobili, che oltre alla contribuzione pecuniaria, i cittadini si offrirono d’improntare; e in ciò si distinsero le famiglie De Torres e Rivera.

Giunse il conte di Siraousa a Paganica, accompagnato dal noto archeologo Giusepe Fiorelli, suo segretario particolare. Ebbe visita dall’intendente Dommarco, che gli fece invito di passare qualche giorno in Aquila al palazzo della Intendenza. Una deputazione di cittadini aquilani andò ad invitarlo alla già disposta soirée. Accettò con riconoscenza e da quel giorno non si pensò che a preparare la festa.

Ma ad un tratto si aprese che il ballo non avrebbe avuto più luogo, per rifiuto del conte, il quale solo a mostrarsi cortese verso i cittadini, che tanto gentilmente lo aveano invitato, consenti di assistere all’incendio della girandola. Questa fu ordinata per una serata di settembre nella piazza maggiore; e il conte e il Fiorelli la videro dal palazzo vescovile. Compito lo spettacolo, se ne tornarono in carrozza a Paganica.

Molto si parlò di questo fatto, senza potere aprendere la ragione del cambiato divisamento. Si buccinò e si commentò che fosse stato sollecitato dall’intendente, per vedute politiche. Certo che nulla potette sapersi con certezza e lo spiacevole avvenimento rimase sempre un mistero.

Fatti avvenuti in Aquila nel cambiamento di governo.

Bandita la Costituzione del 1860, al menzionato intendente De Giorgio fu sostituito in Aquila, dopo qualche mese di vacanza nell’impiego, Federico Papa, che giunse in residenza quando i moti insurrezionali trionfavano in Sicilia, e incominciavano nel continente. Può dirsi quindi che fosse stato inviato a liquidare il governo borbonico. Egli la sera stessa del 7 settembre ebbe per telegrafo l’annunzio dell’ingresso di Garibaldi a Napoli.

Nel mattino seguente, giorno di festa della Natività di Maria, e anniversario della rivolta aquilana del 1841, l’intendente Papa convocò varii cittadini, particolarmente quelli tornati dalle prigioni dall’esilio per causa politica. Nel convegno si risolse di dichiarar decaduto il governo dei Borboni e di proclamare il governo provvisorio. In conseguenza fu eletto un Triumvirato, composto dallo stesso intendente Federico Papa, Fabio Cannella e Angelo Pellegrini. ((1))

Verso le ore 11 a. in. sulla grande loggia di pietra del palazzo della Intendenza si affacciano i Triumviri, innanzi alla Guardia Nazionale, già schierata nella piazza e al popolo accorso. Si legge l’atto, col quale era stato eletto il triumvirato e si conchiude col grido di Viva l'Italia una, Viva Vittorio Emanuele, Viva Giusepe Garibaldi.

Di poi i Triumviri con sciarpa tricolore ad armacollo, preceduti da due valletti con bandiere costituzionali, fanno un giro pel corso della città, situati secondo l’ordine della elezione, cioè il Papa nel mezzo, il Cannella a destra, il Pellegrini a sinistra. Continuamente ricevono saluti dal popolo, sino al loro ritorno nel palazzo della Intendenza.

Nella sera fu generale illuminazione nella città e concerto musicale.


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Proemio della seconda edizione

Lettera alla duchessa

Teresa Ravaschieri Fieschi nata Filangieri

Mia nobile e cara amica,

Dedico a Lei questi due volumi della Fine di un Regno, per attestarle la mia profonda gratitudine. Senza il Suo concorso, io non avrei potuto condurre a termine un’opera, ch’è il resultato di pazienti ricerche fatte in molti archivi privati, ma soprattutto in quello del palazzo Como, che fu della Sua famiglia, e che Suo fratello Gaetano, con regale munificenza, donò alla città di Napoli. È in questo archivio, che io ho consultati i documenti dell’impresa di Sicilia del 1848 e 1849, e della successiva luogotenenza, e i pochi ricordi del principe di Satriano sui oasi di Napoli, nei primi mesi de regno di Francesco II. Se non è questa tutta la vita di Suo padre, che Ella, cosi benevola, desidera che io scriva, n’è l’ultimo periodo, il più vivo e interessante per la nostra storia politica. Il primo periodo, compreso nell’epoca napoleonica e murattista, sarà da me narrato sulla scorta delle Memorie di lui, le quali, come ella sa, terminano al 1848.

Il generale Filangieri, come tutti gli uomini che lasciano un’orma incancellabile del loro passaggio nel mondo, fu vittima di apassionati e severi giudizi per l’impresa di Sicilia, e per il suo breve governo, come primo ministro di Francesco II. Ma non si fu giusti con lui. L’impresa di Sicilia non era simpatica, anzi fu odiosa per la parte liberale; ma risulta dai documenti, pubblicati per la prima volta in questi volumi, che egli la compì come un dovere militare e civile: dovere che intese altamente e gli costò non poche amarezze, obbligandolo a dimettersi e dandogli la coscienza chiarissima che, col sistema dei Borboni, la Sicilia presto o tardi sarebbe perduta per quella Monarchia. La sua opera nei quattro mesi che fu al Governo, dopo la morte di Ferdinando II, mirò all’alleanza col Piemonte, al concorso delle armi napoletane nella guerra dell’indipendenza e alla formazione di due grandi Stati al nord e al sud d’Italia, confederati a comune difesa e senza stranieri. Ideò una Costituzione assai diversa da quella del 1848, e l’interessante disegno del nuovo Statuto, redatto da Giovanni Manna e da me trovato nelle carte intime di lui, io pubblico qui per la prima volta, ad onore di entrambi.

Io le devo inoltre, mia nobile amica, non poche notizie sulla vita di Napoli negli ultimi anni dell’antico regime. Veda che a nessuno, meglio che a lei, può apartenere questo libro, nel quale con la più sincera obbiettività è narrata la vita del Regno nell’ultimo decennio, e di tutto il Regno, mentre invece, come ella ricorda, il volume, che detti alle stampe nel 1895, era limitato alle provincie del Continente. Oggi l’opera, ricca di documenti, rivelazioni e confessioni nuove, abbraccia l’una e l’altra Sicilia. Non oso affermare che sia tutta la storia di quel periodo, ma son convinto che, qualunque ne sia lo storico, non potrà trascurare queste pagine, per la cognizione più precisa dei fatti e delle persone, e l’importanza dei documenti. Se considerando questi, il passato sembra meno detestabile, non è men vero che il motto di Cicerone, essere la storia maestra della vita, rivela piuttosto la necessità di scoprire e narrare fedelmente le cagioni intime dei fatti, che non l’efficacia sua sul miglioramento morale dei popoli. Per il nostro Mezzogiorno invero, l’esaltazione momentanea e l’incorreggibile credulità furono in ogni tempo la cagione storica delle facili mutazioni di dominio e delle molte incoerenze e debolezze morali, che oggi col sistema rapresentativo hanno mutato forma soltanto.

Questo libro non ha pretese; e se leggendolo, si riuscirà a spiegare come potò avvenire che un pugno di uomini, votati alla morte più che al successo, riuscisse a liberare la Sicilia in poche settimane, e in quattro mesi tutto un Regno, che contava centoventisei anni di esistenza, il fine sarà conseguito. Ad ogni modo io voglio che questo libro porti in fronte il nome di lei, come augurio di fortuna, e come doveroso omaggio a una santa creatura, che scrive pagine immortali nella storia della carità umana.

Natale del 1899.

R. de Cesare.

FERDINANDO II tra le rovine del terremoto del 1851 a Melfi.


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UNA PAGINA POSTUMA

Il terremoto del 1851 a Melfi.

Negli anni, che sono particolare argomento di questo libro, il Segno delle Due Sicilie fu rattristato da due terribili terremoti, quello del 1851 che distrusse Melfi, e danneggiò più o meno fortemente la regione del Vulture; e quello del 1857, che colpi quasi tutta la Basilicata, e una parte della provincia di Salerno. Di quest’ultimo si discorre copiosamente nel capitolo XII del primo volume; di quello del 1851 si fa un cenno, e si ricorda che il re Ferdinando II si reco sui luoghi del disastro, conducendo seco il principe ereditario, che contava quindici anni; il conte di Trapani, e parecchi alti funzionari della amministrazione civile e militare. Fu l’unico pubblico infortunio quello di Melfi, che indusse il re a recarsi sui luoghi devastati, sia per la relativa vicinanza di Melfi a Napoli, attraverso i due Principati, sia per la stagione non inclemente. Il terremoto del 1851 avvenne nel cuore dell’estate, in pieno sollione, il 14 agosto, vigilia de 1l'Assunta, patrona della città di Melfi; e che i Melfesi volevano celebrare in quell’anno con maggior pompa, onde avevano fatto venire un aposito concerto, e parecchia gente era convenuta dai paesi vicini. Contrariamente alle tradizioni dei grandi terremoti, quello di Melfi fu sentito alle ore 19 e mezzo italiane, nell’ora più forte della canicola, quando la maggior parte della gente dormiva, come si costuma nei paesi meridionali in quella stagione. Il caldo e la siccità imperversavano da più mesi; anzi, ricorda uno degli scrittorisincroni, nella regione devastata non pioveva dal marzo. Ad un tratto si udì un forte rombo; tremò la terra; le case e gli edificii crollarono con spaventoso fragore; e meno di un’ora dopo, una replica più forte compì l’opera di esterminio. I morti furono un migliaio: cifra enorme per una città che contava apena dieci mila anime. Forse superarono il migliaio, perché, come notò il primicerio Araneo, raccoglitore accurato di notizie storiche della città di Melfi, non si potè accertare il numero preciso delle vittime, perché molte non furono potute estrarre dalle rovine; e dei forestieri non fuvvi, come egli afferma, chi brigosi di ricercare i nomi.

L’impressione fu straordinaria in tutto il Regno. Da circa sessant’anni, dopo il terremoto del 1783, non vi erano più stati così immani disastri; onde si viveva nella maggiore illusione, che l'era dei grandi terremoti fosse chiusa con la fine del secolo XVIII. Melfi rupe le illusioni; e ancora più tragicamente le rupe, sei anni dopo, il terremoto del 16 dicembre, il quale fece diecimila vittime; ebbe un teatro assai più vasto; avvenne di notte e sollevò un’eco di pietà in tutta Europa. Ma qual confronto fra questi due terremoti, pur così desolanti, e il cataclisma del 28 dicembre, la più grande tragedia che ricordi la storia, perché superò quella del 1783, giudicata un’esagerazione rettorica del Colletta, e si compì sopra le due stesse riviere dello Stretto fatale! Nessuno dei vecchi e più terribili terremoti può dunque paragonarsi all’ultimo, nell'insieme e nei particolari; per la stagione e per l’ora; e solamente ebbe comune col terremoto di Melfi il fenomeno di una preventiva siccità. Il terremoto del 1851 e quello del 1857, descritti e studiati da uomini di soienza e di coltura, le cui narrazioni si congiungono a quella più tragica del Colletta, si riducono dunque a piccoli episodii innanzi all’ultimo, che ben può dirsi il maggior disastro che l’umanità ricordi! Per noi contemporanei esso rapresenta la visione più raccapricciante della nostra esistenza, anche perché abbiamo veduto ripetersi gli stessi spettacoli di pietà e di terrore; di egoismi e di eroismi; di virtù e di ribalderie; e più di ogni altra cosa, abbiam potuto constatare la bancarotta della scienza e la disorganizzazione dei servizii pubblici: quella nel non prevenire; questa nel non provvedere a salvare migliaia di vite,nonostante le maggiori infinite risorse della viabilità e della civiltà. Dal 1783 al 1908, per 125 anni, la scienza non ha insegnato nulla, e i governi hanno imparato meno: né so di queste due ignoranze quale sia la più funesta!...

Il terremoto di Melfi ebbe illustratori insigni ed anche re tori, o scrittorelli di nessun conto. Basterà fra i primi ricordare due scienziati di gran nome, il fisico Luigi Palmieri e il geologo Arcangelo Scacchi, i quali, per incarico dell’Accademia delle scienze, andarono sul posto a indagare circa le cause del fenomeno, e scrissero una copiosa relazione, ch’è modello di sapere e di sincerità, confutando e dissipando i pregiudizii e le favole, che l’ignoranza e la paura avevano creato, e principalmente che il terremoto del 14 agosto fosse un segno del ridestarsi del vecchio vulcano. Dopo dotte comparazioni sulla geologia del Vulture, e fisici esperimenti sulle elettricità atmosferiche, e sul magnetismo terrestre, i due scienziati conclusero che il Vulture, considerato come vulcano, fu del tutto straniero al terremoto desolatore delle città circostanti. ((1)) E per la parte di cronaca e di storia andrebbero ricordati parecchi, e in primo luogo Francesco Saverio Arabia, il quale scrisse una relazione letta all’Accademia Pontaniana, piena d’interesse e potrei anche dire esauriente, come potrebbe farla oggi un giornalista colto e accurato. ((2)) Leggendo difetti quella relazione, si ha un’idea abbastanza esatta del disastro che colpi la regione del Vulture; e di cui, se fu centro Melfi, che andò distrutta, risentirono danni gravissimi Barile, Rapolla e Rionero; e Venosa, Ripacandida, Lavello, Monteverde, Carbonara e Atella; e le città di Puglia, Candela, Ascoli e Canosa furono più o meno urtate, scosse e danneggiate. Anche l’Arabia combatte l’opinione, che del terremoto di Melfi fossero stati cagione i fuochi sotterranei del Vulture non ancora spenti, e ricorre all’autorità di Humboldt, il quale scrisse: comunemente il popolo è solito di ascrivere i grandi fenomeni a cause particolari, piuttosto che sollevarsi a idee generali, in guisa che dovunque si sentono lungo tempo i terrestri commovimenti, si teme la formazione di un nuovo vulcano. E la storia ha confermato le asserzioni della scienza per questa parte: in Europa, e più particolarmente in Italia, a nessuno dei grandi terremoti è mai succeduta la formazione di un nuovo vulcano, o il ridestarsi di un vulcano spento.

Parecchi scrittori sincroni si occuparono, dunque, del terremoto di Melfi, e vanno ricordati i cittadini melfesi: Gennaro Araneo, che registra curiosi particolari circa la visita del re; e Basilide del Zio, più di recente. ((3)) Ferdinando II arrivò a Melfi il 15 settembre, un mese dopo il disastro, a cavallo, e sotto una pioggia torrenziale. Fu accolto come un salvatore, poiché alla rovina del terremoto eran seguite l’anarchia e le perfidie delle autorità. Il sottointendente si diè infermo; e l’intendente riferì a Napoli, e riferirono gl’ingegneri di ponti e strade, che oramai tutta Melfi era una rovina, e che bisognava abbandonare ogni idea di riedificarla, e portare invece a Rionero la sottointendenza e la diocesi. Erano intrighi, i quali — scrive l’Araneo — avrebbero avuto la loro esecuzione, se il re Ferdinando secondo, osservato oculatamente il vero stato delle cose, ed accortosi degl'imbrogli, non si fosse virilmente oposto, dichiarando in pubblico, che allora avrebbe permesso di far abbandonare Melfi, quando non vi fosse restata pietra sopra pietra. Il Del Zio completa la narrazione dell’Araneo con altri particolari, circa il viaggio di Ferdinando II, il suo ingresso a Melfi, e la baracca dove stette, non due mesi, come si è di recente asserito, ma soli cinque giorni. Il re riparò in gran parte al disordine, perché alla volontà sua non si osava resistere. Commosso da quello spettacolo di desolazione, disse all’intendente: assicurate i Melfitani che se la disgrazia è grande, la carità è immensa, e Melfi deve risorgere; e ad una deputazione di Rionero, andata a petulare poco generosamente, per avere la sottointendenza e la diocesi, rispose ad alta voce, e non senza sdegno: andate; non permetterò mai che la culla della Monarchia delle Due Sicilie venga distrutta e abbandonata. Melfi sarà presto riedificata e farò qualunque sacrificio per farla risorgere più bella e più grande. Visitò Rapolla, Barile e Rionero; largì soccorsi agl’indigenti; ordinò la costruzione di ottanta baracche, divisa ognuna in quattro scompartimenti eguali per quattro famiglie povere; dispose di dividersi fra i cittadini del basso ceto le terre demaniali del Vulture; ma la costruzione delle baracche lasciò molto a desiderare. Mandò via l’intendente e il sottointendente incapaci, e li sostituì con altri più zelanti, e il 19 settembre lasciò Melfi, e per la via di Ascola tornò a Napoli. La breve dimora aportò del bene a quegl’infelici, e Melfi gli deve se restò Bede del circondario e della diocesi; se ebbe una Cassa di prestanze agrarie e commerciali a favore anche dei Comuni del suo distretto, e fondata col danaro raccolto dalla pubblica sottoscrizione, e con quarantamila ducati largiti dal governo. Però, sia detto per la verità, non mancarono esempii di sperpero, di ruberie, d’insipienza, di superficialità e di profitti criminosi allora, e più tardi nei nuovi tempi. Il Del Zio scrive a questo proposito parole di fuoco. Ma trionfò su tutto la maschia energia delle genti lucane; e più la passione potente e misteriosa dell’uomo per il luogo dove nasce. Non erano ancora sgombero le maoerie; né ancora cessato il pauroso tremar della terra; né distrutta la paura, che il Vulture coi suoi pretesi fuochi sotterranei minacciasse nuove rovine, che i cittadini di Melfi ripresero a fabbricare il focolare domestico, vicino al quale dormono da più di mezzo secolo tranquilli e relativamente sicuri. La città fu rinnovata, e del disastro del 14 agosto rimane la memoria nei libri e nella tradizione dell’arte. Nicola Palizzi dipinse un po’ accademicamente parecchie scene di quel terremoto; e vi è pure una tela assai caratteristica nel museo di San Martino, che rapresenta Ferdinando II fra la popolazione di Melfi. Devo una fotografia di questo ultimo quadro al mio carissimo Ireneo del Zio, fratello di Floriano e di Basilide: i tre Del Zio, che rapresentano a Melfi tutto un tesoro di cultura, di bonarietà e di semplicità. Essi perdettero in quel terremoto parenti e amici; il loro padre fu salvo, benché gravemente ferito alla testa; Floriano era studente a Napoli; e Ireneo, piccino e alunno del Seminario, fu vivo per miracolo, secondo afferma egli stesso. La famiglia Aquilecchia, fra le più doviziose della città, morì quasi tutta.

Anche le muse sciolsero carmi per il terremoto di Melfi, ma nessuno di questi può paragonarsi, per altezza d’ispirazione e sincerità di sentimento, al salmo di Niccola Sole, scritto per il terremoto del 1857. In un volume di poesie stampato a Firenze nel 1876, dal signor Gualberto de Marzo si leggono versi rettorioi dal titolo: il profeta tu le rovine di Melfi. L’ultima strafotta di una canzone dice:

Gerusalem novella, alti t cipressi,

Vedrai tallir l'ortica

Su i ruderi muscosi, e l’impudica

Cagna raspar sovr’essi,

Se pietosa una man non ti conforti

E vigor umano alle tue membra aporti.

Non conosco il poeta, ma se la poesia fu scritta nel 1851, venne pubblicata, ripeto, nel 1876: cioè venticinque anni dopo il disastro, quando Melfi si era rifatta sulle sue rovine, da non più riconoscersi. Nel 1847 Cesare Malpica, ramingando per l’Italia meridionale, aveva improvvisato un inno al Vulture e a Melfi; e nel 1856 Emilia de Cesare cantò Melfi, le sue origini, le sue glorie storiche e il terremoto del 1851, con più felice ispirazione. Sarà bene riprodurre una sola di quelle ottave:

L’egra cittade ancor dalle mine

Risorgerà, per opra del suoi figli,

A nuova vita su le sue colline,

Dietro gVinfausti giorni ed i perigl

Tutto Rinnova e s’avvicenda alfine

Con lento moto nei terrestri esigli:

Il viver nostro sol qual fragil vetro

Muore in eterno, e più non torna indietro! ((1))

Né mancarono altri poeti ed epigrafai in italiano e in latine e prosatori, come si è detto.



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Documenti

MARIO MANDALARI

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Crederei venir meno ad un obbligo di onore e ad un sentimento di profonda e affettuosa amicizia, se non ricordassi la vittima forse più illustre del terremoto di Messina, Mario Mandatari, il cui nome ricorre tante volte nelle pagine di questo libro. Mente colta e perspicua, e anima d’artista, il Mandatari lascia un segno durevole di sé nella storia della coltura moderna. Scrisse di tante cose; fu tra i più valorosi discepoli del De Sanctis; professore di scuole secondarie e di Università; ispettore delle scuole italiane all’estero, e per dieci anni direttore della segreteria dell’Università di Catania, dov’era riuscito ad acquistarsi la benevolenza dei professori e dei giovani, e dove si strinse con vincoli di salda amicizia ad Angelo Majorana. Da Catania fu chiamato a Roma, dove ebbe parecchi incarichi; e a Roma sperava rimanere, essendo professore pareggiato di lettere italiane all’Università; ma, nonostante il suo desiderio e i mezzi adoperati per rimanere in Roma, si fu con lui inesorabili, e lo si mandò a Messina. Qui abitava in casa di suo fratello Lorenzo, fondatore e direttore di quel manicomio, ingegno brillante e cuor generoso anche lui. Furono sepolti amendue sotto le macerie del palazzo Grill, in via Alighieri, e sepolta con essi tutta la famiglia di Lorenzo, cioè la moglie e tre signorine nel fiore degli anni, belle e intelligenti, e una signora russa loro governante. Non si salvò nessuno; e non fu nepur tentato alcun— 156 —salvataggio, perché il palazzo Grill, rovinando, divenne, si disse, una montagna di polvere. Quanto talento, quanto onore e quanta gioventù spenti miseramente, forse fra un’agonia raccapricciante!Mario Mandatari, professore, pubblicista, conferenziere, era uno degl'ingegni più versatili e più graziosi del nostro tempo. Calabrese, nessuno conosceva meglio di lui la storia della sua terra; nessuno l’aveva meglio di lui penetrata in ogni sua parte, e nel periodo più mosso del Seicento, e nel pensiero dei suoi maggiori personaggi e scrittori. Egli attendeva da più tempo a un’opera, che ne ricorderà il nome nella storia della letteratura, la bibliografia degli scrittori della Calabria. E anche per questo desiderava non lasciar Roma, ma la volgare persecuzione non fu contenta che quando l’ebbe confinato a Messina, come direttore della segreteria di quella Università. Partì il 24 novembre: era triste, e solo si rallegrava al pensiero che sarebbe tornato a Roma nel gennaio, per cominciare le lezioni all’università e congiungersi alla sua famiglia. Fatale, stranissima coincidenza davvero! In occasione del terremoto calabrese del 1907,il Mandatari scrisse nel Giornale d'Italia un articolo, che non si legge senza profonda commozione. Ha per titolo: La Calabria non muore: bellissima pagina di sentimentalità e di cultura storica, e che si chiude così:

……………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………...

“Vittime e cadute irreparabili di monumenti e di glorie, in Calabria, sempre, quasi in ogni secolo, quasi in ogni periodo di storia. Lotta eterna de' Bruzii con gli elementi naturali ed esterni, co’ Romani, co’ Greci, con gli Arabi, sino co’ Francesi, e, prima, con gli Spagnuoli, odiati da un filosofo, Tommaso Campanella. Di tanto in tanto ritrovamenti di oggetti antichi, di antiche iscrizioni, di pavimenti, di sculture greche, di mosaici. I vivi sono uccisi ed opressi dai morti come nel verso di Eschilo. La terra inghiotte e conserva, ed ha in odio i viventi. E chi scrive, anche quando scrive, dopo aver meditato su quelle antiche glorie sepolte, non può rimanere indifferente alle presenti sventure. Persecuzioni eterne della natura e della storia! Più la civiltà incalza e sorge da tutte le parti, e più l’antico Bruzio rinasce, indomito e selvaggio. Nessuna regione italiana presenta una serie più lunga di uomini di alto ingegno perseguitati e derisi e non veduti e non tenuti di conto. Basti citare Pomponio Leto, Parrasio, Campanella, Gravina, oggetto di sublime satira settaniana. Forse per tutte coteste ragioni Agostino Nifo volle essere Secano, come nello stesso secolo XV, il Porceli io, nato in Napoli, disse d’esser nato in Roma!

“Ma con tutte coteste sventure la Calabria non muore!”

…………………………………………………………………………………………….

Ed è morto lui, a soli cinquantasette anni, vittima del destino, nonché di rancori e miserie morali, come i grandi calabresi ricordati nel suo ultimo articolo!...

INDICE DEI NOMI

I nomi più ripetuti nei sommarti, nel corso dell'opera e nei documenti sono stati omessi.

[N. d. R. – Gli indici si riferiscono alla edizione originale e NON alla nostra pubblicazione

– quindi per ricerche o tesi vi invitiamo a consultare sempre le edizioni cartacee]


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NOTE


(1) Cancelliere dell impero russo e ministro degli affari esteri.

(2) Ministro di Francia a Napoli in quel tempo.

(1) Se questo diario rivela che la lunga assenso dell’Antonini dall’Italia gli aveva fatto perdere l’uso della nostra lingua, conferma però quanto si è detto circa la grande intimità, della quale Ferdinando II l’onorava: intimità rimontante non al 1838, quando, essendo ministro a Berlino, il re lo incaricava di cercar marito alle sue sorelle nelle Corti cattoliche di Germania, ma agli anni 1821-32-33, quando era incaricato di affari a Madrid. Molto curioso è il carteggio fra lui e il principe di Cassero, ministro dogli esteri in quegli anni. Nel 1852 Ferdinando II volle dare all'Antonini un’altra prova di benevolenza e lo nominò marchese.

(1) Il celebre educandato di Napoli, nel quale erano chiuse le tre figliuole dell’Antonacci, nipoti del Casanova. Nonnò era la nonna, la quale aveva sposato in secondo nome il principe di Ottajano; e Beatrice era la sorella di Alfonso, maritata al duca Gurgo di Castelmenardo.

(2)Il medico curante.

(1)È detto sulla scheda così: Poesia autografa di Agesilao Milano, scritta nell'anno 1847 in San Demetrio, nell’età di 17 anni. È scritta su carta ordinaria rigata, in quattro colonne sulle due facciate estera» del foglio chiuso, con calligrafia molto chiara, quasi stampatello, che ri rei a la intensione di renderne la lettura fenile e comoda. Non 6 firmata, ma Francesco Lattari, che la vendi nel 1884 alla Vittorio Emanuele per lire trecento, come risulta dal registri della biblioteca, assicurò che fosse autografo del Milano ed egli, calabrese o gli direttore generalo dell’archivio di Stato di Napoli, poteva saperlo. L'ode t spropositata parecchio, come si vede, ed abbonda d’idiotismi e di termini incomprensibili, od ha una punteggiatura arbitraria. Dimostra anche tropo, che nel collegio di San Demetrio si studiava bone il latino, meglio il greco, e assai imperfettamente l'italiano. L’ho collazionata con ogni scrupolo e col concorso del mio carissimo e coltissimo Vincenzo Vago, bibliotecario della Vittorio Emanuele, e di un giovane di assai promettente avvenire, Enrico Moli di Catanzaro. Ma che sia fattura del Milano non vi è dubbio, essendo la mano di scritto identica a quella di altri autografi di lui, posseduti da Guglielmo Tocci.

(1) Cinque bianche colombe furono viste dal popolo sul patibolo di Agesilao Melano, e cosi puro piace di vedere al poeta, ma veramente questo colombe non furono vedute. Il poeta si ostina a chiamarlo Melano e cosi puro la Mancini.

(1) Era direttore.

(2) Di Nicola Romano n, in Acri 22 maggio 1835, ed ivi morto 12 ottobre 1898, scrisse l'avv. Antonio Julia nell'Avanguardia di Cosenza del 24 ottobre 1898.

(1) Furono invece due soli: Falcone e Nociti, e la corvetta fu la Swrprise,

(1) Ripeto che il conte Roggero Gabaleone di Salmour era segretario generalo del Ministero degli affari astori a Torino. Cavour fece a lui firmare quella nota.

(1) Tutto questo non è ben chiaro.

(1) Questa lettera suscitò altre polemiche, poiché F. S. Marchese volle a buon diritto rivendicare l'onore del giovane Domenico Antonio Marchese, suo congiunto, uno degli arrestati di Cosenia, e che leggermente il Dramis chiama autore di defunsi e cchmaoss, per effetto delle quali, e non per altro, secondo egli afferma, Guglielmo Tcoci, parente del Marchese, sarebbe stato arrestato in Napoli.

(1) In questa capitolo fu asserito, per errore di stampa, che Emanuele Melisurgo fosse stato deputato di Terra di Bari nel 1848: fu invece candidato; scrisse una lettera agli elettori, e riportò alcune centinaia di voti.

(1) Tutto l’aparato della solenne fonatone fu con isquisito gusto eseguito sotto la dlreùone dell'architetto Fausto Nicoolini.

(1) Delle quarantaquattro ottave pubblico la prima e l'ultima:

ADDIO!

Ai miei amici di Barletta

(1853 ).

Addio! fra l'ire dell'età nemica

D'una briga civil già fatto segno,

Su questa sponda doloemente amioa

Trassi per odio di malvagio sdegno:

Ma in questa Terra, che per fama antica

Suole pregiar lo sventurato ingegno,

Al fulminato osiglio e alla vendetta

Seguia d'amici una corona eletta!

…………………………………………..

Siccome ignoto viator piumato

Che nuove terre ool passar saluta;

Come fiocco di neve in mar calato,

Che orma non lasoia della sua caduta:

Non so'g'io lagcio aloun ricordo grato

In questa terra, che non è poi muta...

Ben so che porto dentro il petto mio

La ricordanza l'un dolento addio!...

(1) Archivio Scalea.

(1) Dronyn de Lhuys.

(1) Questo documento, inviatomi dall’egregio bibliotecario della “Salvatore Tommasi” di Aquila, signor Orario d’Angelo, avrebbe dovuto far parte del testo, con le notirie sulla vita sociale di quella città negli ultimi anni del vecchio regime, ma lo una e le altre mi pervennero tropo tardi.

(2) Queste notizie e ricordi furono a me forniti dalla marchesa Antonietta Antonini, vedova del senatore marchese Antonio Capelli, nonché dall’avvocato Vincenzo Camerini, dallo stesso signor Orazio d’Angelo, e più copiosamente dal comm. Giusepe dei duchi Rivera, presidente della Società Abruzzese di storia patria. Manifesto a queste gentili e colte persone tutta la mia riconoeoenza. Le notizie sono curiose, alcune Caratteristiche e qualcuna interessante.

(1) Secondo le informazioni del dottor D’Angelo, il Triumvirato sarebbe stato elette dal Consiglio comunale.

(1) Della regione vulcanica del monte Vulture e del terremoto del 14 agosto 1851, Napoli, Gaetano Nobile, 1852.

(2) Poesie e Prose di Francesco Saverio Arabia, Salerno per Raffaello Migliaccio, 1855.

(3) Melfi e le agitazioni del Melfese — Melfi, tipografia Liocione, 1905.

(1) La Lira Peuceta, Napoli, 1856.




















Nicola Zitara mi chiese diverse volte di cercare un testo di Samir Amin in cui is parlava di lui - l'ho sempre cercato ma non non sono mai riuscito a trovarlo in rete. Poi un giorno, per caso, mi imbattei in questo documento della https://www.persee.fr/ e mi resi conto che era sicuramente quello che mi era stato chiesto. Peccato, Nicola ne sarebbe stato molto felice. Lo passai ad alcuni amici, ora metto il link permanente sulle pagine del sito eleaml.org - Buona lettura!

Le développement inégal et la question nationale (Samir Amin)










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