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Chi salverà Rosarno?

di Antonio Orlando
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24 Dicembre 2016

Rosarno. Conflitti sociali e lotte politiche in un crocevia di popoli, sofferenze e speranze

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Giuseppe Lavorato

Rosarno. Conflitti sociali e lotte politiche in un crocevia di popoli, sofferenze e speranze

Città del sole Ed., Reggio Calabria,2016, pp. 295,  € 15,00

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Non riuscirei a parlar male di questo libro neppure se lo volessi, neppure se mi ci mettessi di proposito con tutta l’anima e con tutto l’impegno di cui sono capace.

E non perché sia stato scritto da Peppino, che per me non è solo un compagno, un amico, quanto soprattutto una specie di fratello maggiore;non tanto perché ripropone quella tragica vicenda  - l’assassinio di Peppe Valarioti – che è stata lo spartiacque della mia militanza  e della mia esperienza politica, ma per ragioni molto più profonde, molto più concrete, molto poco sentimentali ed emozionali e tantissimo invece razionali ed oggettive. Cerco di andare per ordine.

Intanto - e non è cosa di poco conto - è un libro scritto da uno che è stato (continua ad essere?) comunista, militante, dirigente, amministratore, sindaco e parlamentare. Qualcuno obietterà immediatamente che di volumi del genere ce ne sono in giro un’infinità e che, oggettivamente, se si procede ad un rigorosa cernita ne verrebbero salvati si e no una decina. Qualcun altro osserverà che è meglio che i comunisti, specialmente ex, continuino a stare zitti. Quel silenzio assordante, rilevato alcuni anni addietro da Vittorio Foa, da Miriam Mafai, da Alfredo Reichlin e da qualche altro, si è rivelato opportuno, sacrosanto e doveroso almeno fino ad un certo momento. Poi quando giunse finalmente l’ora di parlare, i comunisti risultarono “fuori tempo” e non trovarono nessuno disposti ad ascoltarli. Ad un certo punto apparvero superati, sorpassati, inutili, inadeguati ai nuovi tempi, incapaci di comprendere la realtà perché privi degli strumenti adatti. Per dirla tutta ed in maniera chiara della loro Storia, del loro passato, dei loro successi e dei loro drammi non interessava più niente ad alcuno. Anzi la riproposizione, anche in chiave fortemente critica, delle vicende che riguardavano il più forte partito comunista dell’Occidente capitalistico, veniva accolta con un certo fastidio e sbrigativamente liquidata come archeologia. Il pentimento postumo di alcuni (compreso Napolitano sulla rivolta d’Ungheria del ’56, tanto per fare un esempio) è stato, a ragion veduta, catalogato come opportunistico e strumentale, finalizzato a darsi una legittimazione per l’oggi, utile (se non indispensabile)  per l’accreditamento nelle alte sfere politiche, magari in quelle europee e nord-americane. Insignificanti sul piano storico, ininfluenti sul piano della ricostruzione ideologica, quelle rivisitazioni, quel revisionismo sono apparsi una “excusatio non petita” e per questo ancor più “manifesta”. Molti comunisti o ex hanno detto che si è trattato di “errori”, “deviazioni”, “incomprensioni”, “contraddizioni”, “scorciatoie”, sono arrivati perfino fino all’ammissione di “crimini”, tutto in ogni caso finiva, in un modo o in un altro, attraverso ragionamenti arzigogolati e contorti, per confermare la correttezza e la giustezza della “linea” che andava da Gramsci in giù in Italia e da Lenin in giù a livello internazionale. I comunisti, malgrado il “mea culpa”, continuavano a pensare che si era trattato di mezzi impiegati in maniera sbagliata. A me è sempre sembrato che la tanto decantata originalità teorica del comunismo italiano si risolvesse in un adattamento tattico alla realtà politica del momento e che, così facendo, si finiva ogni volta per perdere un pezzo o per rinunciare ad un qualche obiettivo dichiarato a gran voce, fino a poco tempo prima, strategico o fondamentale.

Un’indubbia abilità di manovra, però di corto respiro e a rimorchio, di volta in volta, di una qualche idea forte ed imperante. Caduto quel fatale “muro”, l’impressione era ed è che nessuno avesse la forza, il coraggio, la capacità e neppure la voglia di accettare quella scomoda e pesante “eredità” del comunismo, specialmente nella variante togliattiana, neanche con beneficio d’inventario.

Altri ancora, nel prendere in mano questo libro, una volta letto il titolo, diranno che si tratta della solita solfa nostalgica: quanto eravamo bravi, quanto eravamo onesti, quanto eravamo corretti, quanto eravamo sognatori, duri e puri, il tutto condito da quel “determinismo” teleologico tipico dei comunisti secondo cui tutto marciava in linea retta e progressiva verso il sol dell’avvenire sotto la guida del Grande e Glorioso Partito. E non si prenderanno neppure la briga di leggere una pagina.

Altri diranno che si tratta delle solite recriminazioni dei perdenti sul tipo “ci ha fregato il destino cinico e baro!” Insomma, alla fine dei conti la solita minestra per di più riscaldata.

E se, una volta tanto, non fosse così? Se tutto questo fosse solo l’apparenza di questo libro che sembra riproporre le identiche  cose di tutti gli altri?

Il comunismo (ma uso questo termine per semplificare perché ha assunto nel tempo significati cangianti) italiano è (stato) un segmento importante della nostra storia; ha coinvolto milioni di persone tra iscritti, militanti, simpatizzanti ed elettori “…sarebbe importante – e prendo a prestito le parole di Foa – sapere qualcosa sulle loro scelte, come le vedevano allora e come le vedono adesso, se sono ancora comunisti e in quale modo, se non lo sono più da cosa sono stati mossi”.

In più ci aggiungerei il desiderio di sapere come la pensano oggi, come si schierano, come scelgono, come affrontano questioni nuove che prima non c’erano o si presentavano sotto tutt’altre spoglie o non erano così urgenti.

Di questo avremmo avuto sempre bisogno: di discutere e questo Peppino ci consegna, una carrellata lunga più di settant’anni che parte dalla lotta antifascista ed arriva fino alla rivolta degli immigrati e che ha come teatro Rosarno, la “sua” Rosarno, la “nostra” Rosarno. Un comune di frontiera all’interno di una terra di frontiera qual è ed è sempre stata la Calabria. Una metafora politica.

Il libro procede “per quadri”, “per bozzetti”, “per episodi” e “per ritratti”, leggerlo è come guardare un dipinto degli impressionisti o dei macchiaioli. Il che significa che spetta al lettore riuscire a ricostruire l’insieme per poter godere di una visione completa. Il racconto si snoda lungo la Storia della Calabria del dopoguerra tra ricordi, memoria, impressioni e ricostruzioni di vicende grandi e minute, spesso sconosciute, a volte dimenticate e inevitabilmente s’intreccia con un’attualità complessa, ingarbugliata, opaca.

Rosarno, antico e grosso centro agricolo nel cuore della Piana, luogo di scontro tra una aristocrazia terriera retriva e conservatrice ed una massa di braccianti e contadini poveri, si trasforma nel corso del tempo in centro della mafia fino ad assurgere a simbolo delle moderne schiavitù, cittadina dell’ immigrazione, della miseria, dello sfruttamento.

Peppino non colloca se stesso al centro della scena, e potrebbe farlo, avrebbe tutto il diritto di farlo, preferisce, invece, puntare l’attenzione sulla scena corale in modo da permettere al lettore di cogliere gli intrecci della grande Storia con la storia locale.

A Rosarno più che in ogni altro comune della Piana e della provincia reggina, la lotta contro la mafia è stata condotta dal Partito Comunista a viso aperto in una contrapposizione frontale e netta senza margini di mediazioni e senza cuscinetti separatori. Mentre in altri centri spesso alcuni ndranghitisti “vecchio stampo” (poi spazzati via dalle nuove leve già alla fine degli anni ’60) amavano posare ad oppositori e individuavano nei partiti di sinistra lo strumento per una lotta politica contro lo Stato, a Rosarno i comunisti erano i nemici acerrimi della mafia. Le lotte dei braccianti, le occupazioni delle terre, i conflitti sindacali hanno avuto come controparte una mafia imprenditrice che si opponeva per salvaguardare i propri interessi più che per difendere le vecchie classi agrarie, alle quali strapperà, nel volgere di pochi anni, la proprietà della terra con metodi abbastanza spicci. L’agricoltura della Piana è stata – in parte ancora lo è, almeno in alcune aree – un’agricoltura ricca, fatta di colture pregiate e redditizie, che  fino a quando il mercato comunitario non ha aperto ad altri paesi e fino a quando i meccanismi comunitari non hanno favorito incentivi che si prestavano facilmente alle truffe ed alla speculazione, ha consentito alle famiglie dei contadini di ottenere un reddito più che dignitoso

Nei primi anni '70 iniziò il cambiamento ed il decadimento economico per una serie di fattori.

La caduta del prezzo del prodotto per l'ingresso nel mercato europeo di agrumi provenienti da altre nazioni del bacino del Mediterraneo; le politiche governative ed europeeche, invece di aiutare i contadini a trasformare e migliorare il prodotto, produssero meccanismi perversi che incentivaronole truffee, soprattutto, l'allontanamento violento diqueicommercianti che ad ogni inizio di annata agrumaria arrivavano nelle campagne e compravano gli agrumi a prezzo di mercato, conveniente e remunerativo per i coltivatori. Con intimidazioni e minacce, la 'ndrangheta elimina così i concorrenti  per rimanere unica acquirente ed imporre un prezzo sempre più basso al produttore.

Questi introiti, unitamente alle estorsioni, costituiscono la base per poter creare quei capitali che consentono di  partecipare ad affari  molto più lucrosi quali il  traffico delle droghe e delle armi, per poter avviare o ampliare attività industriali e commerciali e poter prendere parte agli appalti dei lavori pubblici.

Gli aiuti di Stato e le sovvenzioni comunitarie riescono, però, ancora  a garantire un certo livello di reddito ed invogliano alla speculazione, coperta da un tacito patto tra le diverse componenti.

A guadagnare di più sono i grandi proprietari assenteisti e le nuove aziende mafiose, ma il piccolo contadino, il coltivatore diretto e gli imprenditori agricoli si trovano coinvolti in questa spirale dalla quale non possono uscire se non a rischio di una totale emarginazione. Neppure la cooperazione e l’associazionismo riescono a rompere il perverso meccanismo che s’instaura tra sovvenzioni comunitarie e conferimenti di agrumi. Le cooperative dei piccoli proprietari raccoglievano le arance per poi smerciarle verso i grandi mercati ortofrutticoli e le industrie alimentari del Nord. Queste stesse associazioni, dirette da un personale proveniente equamente dal ceto politico di centrosinistra e di centrodestra, gestivano i contributi europei. Poiché questi ultimi erano proporzionali alle quantità di agrumi conferiti dai contadini alle cooperative, Rosarno produceva una sterminata quantità di arance, molte sugli alberi, ma molte di più sulla carta. Se il contadino portava un certo ammontare di agrumi, l'associazione, nella documentazione, ne dichiarava tre, cinque, perfino dieci volte tanto. I proprietari degli agrumeti incassavano così dei contributi finanziari gonfiati, che, in misura assai modesta, stornavano ai contadini per assicurarsi, a buon mercato, la complicità collettiva. Per completare poi il quadro e per compensare in qualche modo i braccianti, interveniva il sussidio di disoccupazione nei cui elenchi infiniti risultavano nominativi per i quali nessuno aveva mai provveduto a versare alcun contributo.

E’ evidente che in questa situazione di illegalità diffusa (“tutti colpevoli, nessun colpevole”) i proprietari, conniventi o succubi della delinquenza organizzata, alla quale sta a cuore il controllo del territorio e che quindi detta sempre le dinamiche del gioco, che avevano voglia di arricchirsi in fretta, non sono andati tanto per il sottile. Essi hanno esercitato la loro egemonia sui braccianti agricoli attraverso la pratica del tutto discrezionale delle assunzioni, tanto di quelle vere, quanto, e soprattutto, di quelle false. In effetti, molti braccianti e lavoratori giornalieri o precari  preferivano,  (e non è detto che una tale pratica sia stata abbandonata) percepire l'indennità di disoccupazione e svolgere altri lavori, magari altrettanto precari nell’edilizia o nei trasporti.

Questo fittizio assetto economico ha retto bene per quasi un trentennio, nonostante le denunce di uno come Peppe Valarioti che quel castello di carte voleva buttare giù ad ogni costo. Dopo la sua uccisione, lentamente, vengono avviate delle indagini giudiziarie ed amministrative che permettono di portare allo scoperto quanto meno le truffe più clamorose. Perfino l'Inps si sveglia ed impone la revisione degli elenchi dei braccianti registrati provvedendo a sfoltirli fino a ridurli di quasi la metà. Anche l’Unione Europea modifica la tipologia degli aiuti e le modalità di erogazione. Allarmati dalla scoperta delle truffe, i burocrati della U. E. decidono di mutare il criterio d'erogazione dei contributi, legandolo all’estensione del terreno e non più alla produzione. Questo ha comportato che se prima il proprietario di un giardino riceveva ottomila euro ad ettaro, ora riesce ad ottenerne poco più di millequattrocento. E così nella Piana e a Rosarno gran parte delle arance cominciano a rimanere  sugli alberi, il loro prezzo di vendita non copre neppure il costo di produzione. Mentre qualche anno prima occorrevano, per il lavoro di raccolta, migliaia di braccianti ora ne bastano ancora di meno di quelli risultanti dagli elenchi dell’INPS aggiornati.

Con una brusca virata, Peppino cambia le carte in tavola e ci fa vedere come l’arrivo in massa dei migranti spezzi questa trama intessuta di silenzi, di paure, di complicità, di convenienze.

In una prima fase, e siamo già negli anni ’90, i migranti  - “i neri” – vengono percepiti come la soluzione di ogni problema.  Questi migranti, in maggioranza africani, venuti da lontano, da terre sconosciute, erano nuda forza-lavoro, priva di mutua, di tutele, di assistenza, di contratto e di qualsiasi protezione sindacale. Non solo lavorano in nero, come del resto accade frequentemente e più in generale nell'economia calabrese anche per i cittadini italiani, ma percepiscono un salario in nero che è meno della metà di quello, pur sempre in nero, corrisposto al bracciante calabrese.

E così il clima, ad un tratto cambia. La ‘ndrangheta pensa di poter continuare a condurre, in tutta comodità, i propri affari mentre  ciascuno dei soggetti che prima sono stati menzionati, ritiene che la propria posizione possa essere consolidata dal momento che, negli agrumeti, a raccogliere le arance, basta ed avanza la fatica penosa dei migranti stranieri, manodopera totalmente flessibile e disponibile a costi irrisori. La contraddizione è, però, evidente. Non basta aggiungere un anello per spezzare la catena dello sfruttamento perché affidare agli africani un lavoro marginale come quello della raccolta delle arance, non significa liberarsi dal controllo e dall’imperio della mafia. Ne significa toglierselo di dosso per trasferirlo sulle loro spalle dato che la ndrangheta non rinuncia – ne, secondo la sua logica, può rinunciare – ad esercitare l’egemonia totale sul territorio e sulla società. In sostanza gli sbocchi, i mercati, la trasformazione, la gestione degli aiuti restano nelle mani dei padroni di sempre.

Lavorato annota che i nodi dell’economia calabrese si stanno aggrovigliando sempre di più.

La situazione di sfruttamento e illegalità diffusi nel settore agricolo, ma anche in altri settori lavorativi e che non riguarda solo i lavoratori immigrati, anche se loro sono diventati l’anello più debole ed esposto a situazioni incompatibili con la permanenza dentro i confini dello democratico, rimane intatta. La presenza radicata (e rafforzata) della criminalità organizzata e in contemporanea l’assenza dello Stato sia come presidio di ordine pubblico e sia soprattutto come presidio sociale, segnala la lontananza preoccupante di Istituzioni in grado di riaffermare diritti di base e di cittadinanza. Lo sfilacciamento del tessuto sociale  e ladebolezza dell’associazionismo sia laico che cattolico non riescono a fare da argine al dilagare dell’illegalità.  Solo nuovi soggetti  e cioè tutti coloro che appartengono al mondo delle libere associazioni, al volontariato cattolico, ai centri sociali, come documenta Peppino ricostruendo la sua esperienza di Sindaco, sono gli unici presenti “sul campo” a Rosarno a fianco degli immigrati sia in tutti questi anni sia nei giorni della rivolta.

È stato un impegno eccezionale, coraggioso, controcorrente.

Se proprio un limite si deve individuare, questo sta nel non essere riusciti a fare diventare la “carità”  assistenza, sostegno, intervento politico. In una parola: riaffermazione dei diritti umani fondamentali, quelli garantiti dalla nostra Costituzione a tutti gli uomini.  In ultimo, la perdita della “memoria collettiva” nelle popolazioni di Rosarno e della Piana e la paura dell’impegno hanno fatto sì che venisse disperso un patrimonio di esperienze che avrebbe potuto costituire un quadro di riferimento di valori basilari, che si pensava (evidentemente a torto) acquisiti per sempre. Nell’immaginazione nazionale, la Piana di Gioia Tauro è solo terra di mafia. In realtà questo territorio può raccontare una storia sconosciuta, nobile e sotto certi aspetti anche eroica. Questa terra è stata terra di lotta contro lo sfruttamento e per la conquista dei diritti, per l’affermazione di una dignità civile e per un salario adeguato. La lotta dei “vedani” contri gli “agrari”, la lotta degli sfruttati contro gli sfruttatori, le lotte delle raccoglitrici d’olive e di gelsomino, la lotta contro la prepotenza mafiosa rappresentano altrettanti momenti di una storia che va coniugata sempre al plurale. Questa terra è anche terra di antimafia con i suoi morti:  Peppe Valarioti, per tutti.

Ad un certo punto i rosarnesi, condizionati dalle scelte dei proprietari degli agrumeti, hanno cominciato ad avvertire la presenza dei migranti come eccedente ed inutile. Se prima erano braccia a buon mercato che lavoravano per loro, ora sono divenuti “vagabondi” stranieri da rinviare a casa loro e in fretta, talmente in fretta da lasciarli creditori, da non aver neanche il tempo per pagare loro quel lavoro al nero che alcuni avevano comunque compiuto.

Nella totale incapacità di mediazione politica da parte delle Istituzioni, è venuto così montando un disagio che sembra avere un unico sbocco: la decisione di liberarsi di questa ingombrante ed invadente presenza. Per gli immigrati di colore non c’era più posto a Rosarno. Adesso una Rosarno silenziosa, smemorata, smarrita, incapace di ribellarsi, ha paura degli immigrati ma non dei mafiosi. La degradazione del lavoro agricolo a livello di “fatica schiavistica” ed il ritorno del lavoro nero nelle campagne, oltre a far parte di una precisa strategia volta ad ottenere un profitto facile speculando sul “costo del lavoro”, hanno completamente stravolto i rapporti sociali, eliminato ogni forma di rispetto, cancellato ogni tipo di convenzione, annullato il sistema giuridico  e ridotto a merce ogni tipo di relazione. Si delinea la formazione di una comunità barbara, primordiale, retrograda al cui interno non esistono regole, ma una specie di società stratificata neo-feudale fondata sulla violenza.

Contro questo futuro si batte ancora una volta Lavorato, per “riaccendere la speranza”.























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