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La Civiltà Cattolica

Anno Ventesimoprimo - Vol. XI - Della Serie Settima

SGUARDO RETROSPETTIVO 

SOPRA L'AMMINISTRAZIONE FINANZIARIA

 DAL 1860 AL 1870 IN ITALIA.

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18 Luglio 2013

Mentre nel Parlamento italiano si van discutendo le proposte del Sella per provvedere al disavanzo dell'Erario, non sarà fuor di luogo il dare rapidamente uno sguardo retrospettivo all'amministrazione che dal 1860 al 1870 ba regolato le spese e le entrate delle finanze italiane. Il tempo è abbastanza largo, e bene vi si può scorgere il merito d'un sistema dagli effetti che ha prodotto: ed è abbastanza vicino, e bene vi si può nella indagine omettere la pruova minuta e noiosa delle cifre, che sono presenti nella generalità a coloro che attendono a questi studii.

Dall'altra parte egli è molto utile il far questo esame, se vuolsi portare un giudizio adequato della rivoluzione intervenuta in Italia.

L'indipendenza, la forma di Governo, l'unità nazionale, in tanto sono beni per un popolo, in quanto ne promuovono il vantaggio pubblico e particolare sotto il triplice aspetto del dritto, della morale, del ben essere sì pubblico si privato. Sembri pur questa una bestemmia a certi propagatori di sistemi; essa al semplice buon senso del volgo, non che alla scienza dei grandi uomini di Stato fu

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e sarà sempre la più semplice e la più giusta delle verità. Per giudicare adunque dell'utilità della indipendenza, dell'opportunità del parlamentarismo, o dei vantaggi della unità, bisogna accertarsi se quei tre beni sieno veramente ottenuti o almeno con probabilità grande sperati. Dove uno solo ne manchi, tutte le altre ragioni di Stato o di politica non basteranno mai a giustificare un cangiamento siccome utile. Or quello dei tre beni, che è il più palpabile di tutti, se non ò il più nobile, è appunto il ben essere pubblico e privato: e questo ben essere e talmente collegato colla amministrazione delle finanze, che ne è L'effetto più diretto e più immediato. Esaminare dunque le finanze d'uno Stato, per un dito periodo e in date circostanze, vai quanto l'esaminare una forma imposta o un mutamento fatto. Un tal esame vai certo la pena di occuparvi un po' di tempo e un po' di attenzione.

Nell'istituire intanto questa disamina, noi partiremo da un fatto della più irrefragabile notorietà. Nei nove anni che intramezzano il 1860 e il 1870 sono stati spesi dal Governo dell'Italia quasi dieci migliardi 1: cioè dire cinque migliardi e 800 milioni di lire colle entrale annuali unite insieme, e quattro migliardi 142 milioni coi debiti contratti. Questa enorme somma, spesa disugualmente d'anno in anno, se si spartisce sopra i nove anni a rate uguali, costituisce un esito medio annuale di 1110 milioni di lire. L'Italia, divisa nei selle suoi Stati, spendeva, prima della rivoluzione, poco più di 508 milioni l'anno. L'unità dunque ha fatto più che raddoppiare la spesa annuale all'Italia, ed ha per conseguenza più che raddoppiati i pesi che gl'Italiani debbono sostenere per essere governali.

Questo fatto mena naturalmente a tre quesiti importantissimi: donde l'Italia abbia preso questo soprappiù di danaro che ha incassato: dove lo abbia erogato, e come se ne sia trovato tanto il Governo quanto il popolo. Questo donde, questo dove, questo come ci daranno sufficiente argomento ad altrettante discussioni, che cercheremo di fare senza spiriti o parziali o pregiudicati.

1 In cifra più giusta 9 migliardi, e 992 milioni di lire.

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II.

La prima sorgente, dalla quale il Governo d'Italia ha attinto il denaro, sono state le lasse. A prima vista pare che ciò non possa divenire un rimprovero: perché le tasse sono naturalmente, anzi debbono essere le vere fonti della ricchezza erariale. Se questa vuolsi aumentata, natural cosa è che quell'aumento domandisi alle tasse stesse, che fra tutti i modi di dar denaro allo Stato e il men disastroso, il più onesto e il più conforme alla ragione.

Se non che puossi aumentare il prodotto delle tasse, senza aumentar le lasse stesse; almeno nella stessa proporzione. Ciò fassi o colla migliore distribuzione di esse, o colla più facile riscossione, o col crescimento della pubblica prosperità. A nuove imposte non si ricorse mai dalla sapienza amministratrice, se non nei casi più urgenti. Or tulio al rovescio è avvenuto nel nuovo regno formatosi in Italia. Avendo bisogno di più larghe entrate, s'è messo alla dirotta nella facile via di decretar nuove e poi nuove imposte. Con quanta prudenza il mostra quel complesso implicato e doloroso di circostanze che accompagnano questa creazione di tributi.

In primo luogo furono aumentate di un colpo solo tutti i balzelli, imponendo un tanto di più a tutte le tasse esistenti, sotto il titolo di decimi di guerra, che promettevano dover essere temporanei, e furono perpetui. Solo questa idea della generale uniformità di un aumento basta a mostrare la poca sapienza del provvedimento. In un grande Stato non tutto può andare con uniforme procedimento; anzi il prosperare d'una industria spesso genera il decadimento di un'altra, e dove un'entrata cresce l'altra scema. Fu dunque sempre giudicata buona arte di governo l'acconciare i balzelli alle vicende diverse delle industrie e dei commerci, e l'andarle là scemando, qua aumentando, conforme al prosperar di queste o al decader di quelle. Aumentare uniformemente i pesi senza considerazione veruna delle forze capaci di sostenerli, è un aggravar troppo certuni senza aggravare abbastanza certi altri: riduce» a creare dei veri privilegi. Così avvenne di fatto nell'Italia.

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L'aumento sulla tassa fondiaria fu intollerabile e rovinoso, soprattutto pei piccoli proprietarii: l'aumento sopra le dogane fu pei commercianti di non grave iattura; mentre che pei fabbricanti nazionali cagionò danni e perdite ragguardevoli. Il commercio fu dunque privilegiato più della manifattura, la manifattura più dell'agricoltura. Ecco l'effetto di questi aumenti uniformi: disuguagliare il peso nelle varie classi dei cittadini.

Oltre all'aver aumentate tutte le tasse anticamente esistenti, il Governo ha nel corso di questi nove anni addossate ai suoi sudditi tasse nuove. E quante credete voi ne abbia esso creale infin ad oggi? Nientemeno che più di quaranta, le quali potremmo qui annoverare ad una ad una, se non avessimo la certezza che gl'Italiani contribuenti le conoscono meglio di noi. Ci basti il qui aggrupparne, colle parole del eh. Savarese, soltanto alcune. «Ila tassato con la legge del registro tutti gli alti della vita, la compra, la vendita, la permuta, la donazione, l'enfiteusi, il mutuo, la locazione delle cose e dell'opera; l'uso, l'usufrutto, la quietanza, il mandato; le successioni, l'esperimento dei proprii diritti dinanzi al magistrato. Ha tassato sotto il nome di ricchezza mobile tutte le rendite ed i frulli civili, tutti i profitti e tutti i salarli. Ha tassato, sotto il nome di tassa sul consumo, sulle vetture, sui domestici, su gli animali, sui dispacci telegrafici, sulle tariffe postali tutta la rendila nella della terra, il profitto dell'industria, il salario dell'operaio 1.» Questa inondazione di tasse ha veramente sepolta sotto le sue acque la pubblica prosperità. Una buona parte delle rendite private passano dalla scarsella del proprietario nella voragine dell'erario: cosicché i cittadini d'Italia somigliano a certo capre che i pastori smungono soverchiamente, e fan divenire stecchile e macilenti. Non v' e tassa che trovisi in uso presso qualche paese d'Europa e d'America che i legislatori d'Italia non abbiano voluto applicare al povero nostro popolo, senza discernimento e senza temperanza. Senza discernimento: perché le tasse sono come le piante; le quali non tutte fanno per tutti i suoli e per tutti i climi. Senza temperanza: perché il solo vedersi l'unghia del fischio ad ogni allo e in ogni affare,

1 Lettere di un contribuente ad un uomo di Stato, pag. 34.

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senza rispetto né eccezione, è cosa estremamente fastidiosa. Un bello umore forestiero, reduce da un suo viaggio in Italia, fu richiesto qual opinione si fosse formata della ricchezza d'Italia: ed ei subito di ripicco: L'Italia è cangiata in un gran museo di tasse.

E diceva vero, perché alla raccolta non ne manca nessuna.

La perequazione o il conguaglio delle imposte, brutta parola per esprimere più brutto fatto, è stata un'altra circostanza che ha viepiù inasprito il sistema tributario degl'italiani. In uno stato di antica formazione una tassa può essere giusta divenendo eguale per tutte le sue province: giacché queste pel lungo loro contatto reciproco si sono messe a poco a poco nelle medesime condizioni di fortuna, quanto basta almeno a sopportare i medesimi pesi. E pure in tale stato la prudenza governativa consiste a scegliere quel genere di materia tassabile che sia più universale per tutti, e a determinare quel minimo d'imposta che possa agevolmente tollerarsi dalla parte men fortunata dello Stato. Quest'avvedutezza fu del tutto trascurata in Italia. Essa era un corpo non venutosi formando per assimilazione lenta di parti, ma per subito e violento accozzamento: e queste parti erano così dissimili anzi contrarie tra loro, che più non potrebbero se a nazioni diverse appartenessero. Ognuno dei sette Slati avea tradizioni e coslumi diversi: ognuno i suoi vantaggi e i suoi incomodi speciali; ognuno i suoi bisogni e i suoi prodotti singolari. Bisognava, dopo avere abbattute le barriere che li separavano, dar loro il tempo, per così dire, di livellarsi nella prosperità, se si voleva senza grave offesa dei loro interessi livellarli nei balzelli. Il Governo italiano procedette a rovescio: uguagliò con legge improvvida sopra tutti di botto le imposizioni, e così ne seguitò un inegualissimo peso. A citarne solo qualche esempio, ricorderemo che per la differente valutazione dei cadastri furonvi province ove il conguaglio raddoppiò ai proprietarii la tassa prediaria che pagavan prima, e province ove quasi quasi la dimezzò; senza che la proporzione della tassa col valore del fondo diventasse la stessa.

Così fece colui che per avere i libri uguali, li fé' scortar tutti alla misura del più piccolo tra loro. Esso si vantava di aver tutti i suoi libri d'una stessa altezza: ma la gente gli dava le beffe di avere non più libri, ma inutili e ridicole sconciature.

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III.

Un altro vizio che è forse il peggior di tutti, hanno le moderne tasse italiane, ed esso si è di avere col loro eccesso stremata la produzione e scemata quindi l'entrata corrispondente allo Stato: ossia, in altri termini, d'essere riuscita dannosa del pari ai contribuenti ed all'erario. Ciò si è avverato di moltissime fra le tasse imposte: basterà notarlo qui in ispecic, a cagione di esempio, di una soltanto.

Il dritto di registro degli alti contrattuali e giudiziarii nelle province continentali del Regno di Napoli era in media di una lira per ciascun atto; il Governo d'Italia ha posto un dritto graduale che riduce in media quelle tasse a 4 lire. Or che ne è avvenuto? Nelle province continentali del Regno di Napoli, prima dell'unificazione dell'Italia, registravansi 2,308,175 atti: nell'Italia intera, dopo l'attuazione di quella tassa progressiva ed esorbitante, si registrarono appena 1,317,605 atti: cioè dire poco p«ù della metà per l'Italia intera di quanti si registrassero prima nelle sole province meridionali.

Or che vuol dire ciò? Vuol dire che in parte gli affari diminuirono, e in parte si compirono in frode della legge.

Ma a che ricorrere a questi minuti fatti, quando noi abbiamo una pruova convincentissima e generale per tutte le tasse, nelle confessioni medesime dogli amministratori del Governo? Ogni volta che si è proposto o un aumento di tassa, o una tassa nuora, i Ministri proponenti hanno assicurato che da quella imposta si caverebbero tanti milioni e non meno di lire. Essi credevano di dar nel segno: perché o partivano dal prodotto delle tasse preesistenti, o dai dati statistici con molta accuratezza forniti loro. Nel fallo però, salvo qualche rara eccezione, quelle previsioni non furono convalidate dagl'incassi effettivi del tesoro, che si avverarono minori della previsione.

E perché? Perché i Ministri nei loro calcoli aveano dimenticato quel gran principio: una tassa troppo forte non s'incassa tutta, perché o diminuisce la produzione o aumenta il contrabbanda; Da tutte queste considerazioni si deduce che le tasse dell'Italia unita non sono unicamente raddoppiate, col solo peso di pagar tanto di più, ma sonosi conturbate, imbrogliale, inasprite per un sopraccarico di noie,

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di fastidii, di fiscalità, senza un corrispondente guadagno dell'erario pubblico. Bene adunque avea ragione il Savarese, di sopra da noi mentovato, di esclamare, sin dal 1868, dopo di aver dimostrato questo raddoppiamento di balzelli, «che cosa è avvenuto in Italia dal 1860 in poi che può autorizzarci a credere che il capitale o la rendita di ciascun contribuente sia cresciuta del doppio? Quali novelli continenti abbiamo scoverti? Quali maremme abbiamo prosciugate, quali terreni saldi abbiamo dissodato? Quali novelle industrie sono state introdotte, e quali opificii che prima non erano sono sorti tra noi? Quali novelli mari solcano le nostre navi, o a quali giungono ignote terre, alle quali prima non approdavano 1».

Qualche cosa però è avvenuto, ma qualche cosa tutta a rovescio di ciò che indicherebbero le aumentate imposte. Il brigantaggio, e peggio forse di lui i rigori soldateschi e civili han lasciato per anni ed anni incolta molta parte delle nostre campagne: le aumentate milizie hanno sottratto alle opere campestri ed agli opificii cittadini migliaia e migliaia di braccia: la malattia dei filugelli ha tolto alla foglia di gelso ogni valore, ed agli opificii della seta ogni operosità: la lassa sul consumo ha distrutto buona parte della rendita delle vigne: il libero scambio ha fatto chiudere le fabbriche italiane di panno, ha distrutto la coltura del cotone, ed ha impoverite cento altre industrie paesane. Invece dunque di aumentata prosperità, capace di sopportare le angarie dei nuovi e dei cresciuti balzelli, l'Italia ha avuto disastri e rovine, che ad un più provvido, o almeno più potente Governo avrebbero consigliato diminuzione di peso, e alleggerimento di gravami.

All'amministrazione italiana queste grandi sventure non toccarono il cuore, e invece le suggerirono di aggiugnere lo scherno all'ingiustizia, la derisione all'aggravio. Poiché di tempo in tempo fu tolto per proposta dei Ministri qualche balzello esistente: ma sapete perché? Per rovesciarne l'odiosità sui comuni, e aver l'aria di alleviare i sudditi da una banda, se si aggravavano dall'altra. Intanto

1 Op. citato, pag. 47.

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però i poveri sudditi al nuovo onere governativo doveano sottostare, senza perciò sottrarre il collo al giogo municipale.

Tutti sanno che in quanto all'imporre le tasse i comuni italiani dopo il cosi detto risorgimento d'Italia non hanno solo emulato, ma di gran lunga sorpassato lo zelo del Governo. La troppo ardente e spesso troppo agli amministrali funesta voglia di abbellire le città e le terre, e alcune volle la giusta ma troppo impaziente brama di aprire nuove strade, o demolire vecchie e malsane casipole, ha invaso in Italia così i grandi siccome i piccoli municipii: e a procacciarsi il denaro occorrente tutti hanno creduto di potersi impunemente mettere sulle orme del famoso Prefetto di Parigi, indebitandosi fino agli occhi, e spremendo dalle borse dei contribuenti l'ulti» mo soldo. Di che è proceduto che se le tasse governative dal 1860 in qua sonosi duplicate, le tasse comunali non solo non sono rimase quali anticamente erano, ma sonosi più ancora del doppio aggravale; e v'ha molti comuni dove esse son giunte a triplicarsi, e non pochi dove sorpassano ancora questa spaventosa progressione.

Non è a dire quanto per questo capo trovinsi angariati i popoli: conciossiaché per la più gran parte essendo ai comuni lasciato il solo dazio che chiamano di consumo, non vi è derrata pur indispensabile alla vita, che non siasi accresciuta di prezzo, non vi è comodità vantaggiosa al benessere che non sia stata pel rincarimento sopravvenutole dai balzelli comunali divietata al povero popoletto. Si consoli esso però: se ha dovuto privarsi non che solo del companatico, ma tino del pane, per isfamarsi appena di granturco o di patate, sappia che esso non è più membro di piccolo Stato, ma cittadino di gran Regno; e se non può nutrire bene e vestir gaia la sua figliuolanza, ha per compenso il nobile teatro, la lieta passeggiata, le belle fontane, che col denaro di lui ha costrutta la sua magistratura comunale. Se non si appaga di tanto è un vero tanghero, e merita davvero che a colpi di bastone lo inciviliscano, e a colpi di calci lo spingano nel progresso.

Dopo ciò farà egli meraviglia che i contribuenti italiani, per quanto docili sieno stati a sopportare ogni pondo posto lor sulle spalle, sieno stati nel fallo impotenti a più portarlo innanzi?

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I rendiconti governativi attestano difatti che il tesoro in nessun anno ha potuto incassare tutto intero il contributo daziario dei suoi debitori, cosicché esso annovera tra i residui attivi delle annate preceda nti il credilo enorme di 332 milioni di lire, accumulatesi d'anno in anno con sempre ascendente progressione 1. Questa cifra è la più manifesta condanna del fisco. Essa dimostra che le tasse furono spinte al di là del limite, in cui potevano essere esatte, e sono pel popolo non più la giusta retribuzione dei servigi che han diritto di domandare al Governo, ma una insopportabile oppressione che li smunge e li impoverisce.

Conchiudiamo adunque col raccorre in uno i fatti che l'esame di questa prima sorgente del pubblico denaro ci ha messo sotto gli occhi.

La scienza economica invano ha indicate le leggi dell'equa imposizione di pesi sui sudditi: il Governo italiano o non le conosce, o le vilipende. Essa vuole che non si ricorra senza estremo bisogno a tasse nuove, a tasse inaccette, a tasse fastidiose; ed il Governo italiano ha invece creato nuove, inaccette, fastidiosissime tasse. L'economia pubblica vuole che le tasse sieno proporzionate alla prosperità del paese, tocchino parte dei risparmii, salvino gli oggetti di prima necessità al nutrimento e all'industria; e il Governo italiano non ha guardato a condizione e stato della fortuna pubblica, ha ingoiato tutti i risparmii, e spesso anche parte del necessario, ha tassato le materie p ime e le derrate alimentari di maggior uso. L'economia vuole che le tasse sian di facile esazione,

1 «Causa di questo doloroso cambio di un residuo attivo in passivo sono gli arretrati nelle imposte, che non si esigono (dice il Ministro ) e che forse non sono neppure esigibili. — E primamente vi sono quarantanove milioni di disperata esazione: il Ministro ha creato ima Commissione per depennarli. Poi vi è un altro arretrato di cento e trentotto milioni, il quale consta in gran parte di somme di difficile e d'impossibile incasso, perché dovute da perso e irreperibili... Ed io prevedo (continua a dire il Ministro) che al fine dell'anno 1970 avremo un arretrato pari all'attuale cioè di cento e trentotto milioni. Insomma mettendo Insieme queste ed altre cifre enumerate nella relazione ministeriale si viene a formare una somma di circa trecento e cinquantadue milioni, la quale (dice testualmente la relazione del Ministro) figura nei residui attivi, ma non sarà riscossa!» Cosi il deputato M. Pescatore nel suo libretto Politica finanziaria, a pag. 10-11.

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spoglie d'ogni vessazione fiscale e d'ogni inceppamento amministrativo; e il Governo italiano ha imposte tasse che non ha potuto esigere, ed ha colle seccantissime noie dei gabellieri ed esattori resa sempre più pungente la spina che ogni pagamento infigge a chi paga.

Fu questa insipienza, o fu necessità? Se si polca far diversamente e non si seppe, son condannati tutti gli uomini che han guidato in questo decennio le sorti d'Italia. Se si sapea far diversamente, ma non si poté, è condannato il mutamento stesso cui quegli uomini costrinsero l'Italia ad accettare. Nessuno dei due casi torna a lode della rivoluzione avvenuta.

IV.

Se non che tutte coteste tasse, per quanto abbiano impoverito i cittadini, non sono bastate ad empiere l'ingordo ventre di quell'arpia, che il fisco italiano è divenuto. Avendo essa sempre più fame dopo il pasto, ha cercalo nuovo alimento a divorare: e non trovandone più sul desco dei suoi, ahi troppo miseri contribuenti, che si sono lasciati spolpare infino all'osso, ha dovuto far ricorso ad altro spediente: quello di porre all'asta pubblica il fior fiore della ricchezza nazionale. Tutti i beni demaniali sono già venduti: venduti con improvvido baratto i possedimenti dello Stato, venduti con enorme sacrilegio i beni ecclesiastici, venduto con rovinoso sbaraglio le vie ferrate. E tutte coleste vendite fatte si può dire quasi a un tempo, se hanno arricchito pochi coni piatoli, non han dato al tesoro neppure la terza parte del valor loro effettivo, ed hanno aggravato l'avvenire di lutti gli obblighi inerenti a quelle felici proprietà. Esse dunque se hanno dato un piccolo vantaggio momentaneo, han cagionato al fisco stesso un danno perpetuo e di gran lunga maggiore.

Ma il peggior danno V han cagionalo ai cittadini. Le rendite in primo luogo che quei beni producevano dovranno nell'avvenire essere supplite dalle tasse: e le tasse tocca loro a pagarle. In secondo luogo i beni demaniali, tra'  quali erano luoghi boscosi in gran numero, offrivano ai conterranei alcune comodità, come quella di legneggiare, odi pascolare: questi vantaggi sono tolti ai cittadini. In terzo luogo il clero proprietario sì regolare sì secolare soccorreva le famiglie proprie, soccorreva i poveri:

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il clero spogliato dev'essere soccorso dalla carità dei fedeli, acuì incombe inoltre di pensare alle spese del culto, della beneficenza, della istruzione. Quanto danno ai cittadini sol da questo lato? Ecco dunque bel pio' di tal divisamento: gran danno presente, lo spossessar l'Italia di tanta ricchezza; gran danno avvenire, l'aggravare l'Erario di tante spese future, e i cittadini di altrettanti e più oneri, per solo avere una sprizzatina di quattrini, sfumatisi anche prima d'incassarsi.

Ma né le tasse né le vendite sopperivano tanto denaro, quanto lor domandavano le spese fatte dal Governo. Bisognò ricorrere a una terza e più larga vena, che bastasse a dissetare quella sì insaziabile sete; la vena dei prestiti. Quattro volte l'Italia ha fatto ricorso a tal rimedio: tre volte con prestiti volontarii, una volta con prestito forzoso: cosicché le riuscì per questa via di aggravarsi di un debito di parecchi migliardi, e di obbligarsi a sborsare ogni anno in interesse molto più di cento milioni di lire. Vediamo quali effetti produsse questa operazione.

All'erario in proporzione del sollievo avutone l'aggravio fu eccessivo: perché i prestiti si contrassero dal 60 al 65 per ogni o lire di rendita, e dovranno restituirsi al 100, colla perdita enorme del 35 al 40 per %: oltre i parecchi milioni che andarono dispersi nell'atto della contrattazione, sotto il titolo di commissioni e di spese per L'incasso del denaro. Pochissima e quasi nessuna parte di questa ingente somma andò in opere pubbliche produttive: quindi per l'avvenire del tesoro nessun alleviamento. Anzi un enormissimo aggravio, per gl'interessi che deve ogni anno sborsarne ai possessori della sua rendita consolidala.

Alla popolazione italiana poi il danno di questi prestiti non è stato punto leggiero. Lasciamo di attirare l'attenzione dei lettori sopra la necessità che ogni prestito porta seco di aumentare le spese degli anni avvenire per pagarne gl'interessi; questo è danno che salta troppo agli occhi, anzi può dirsi la cagione potissima di tutti i danni che in fatto di tasse abbiam dimostrali. Il prestito d'oggi tocca a pagarlo alle tasse di domani: lo sanno tutti. Parliamo invece dello svilimento delle cartelle consolidale, che è naturalmente intervenuto,

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ed è lutto danno dei possessori loro. Niuno ignora che settate da principio i capitali forestieri siano stati quelli che concorsero principilissimamente a coprire quei prestiti, dal 1866 in qua il dil zo fece rifluire in Italia quei titoli abbassati di prezzo, cosicchè a mala pena può tenersi che di tutta la rendita italiana un Ho milioni soltanto trovinsi in mano di creditori stranieri. Tutto il reato trovasi nelle mani degli Italiani.

Ora essendo la rendita stata imposta dell'8 e ½ per %, e il capitale d'ogni 5 lire di rendita essendo costretto ad oscillare tra il 56 e il 58: di tanto si trova oggi impoverito il capitale della ricchezza privata, di quanto il saggio della emissione sorpassò il saggio del corso presente; e di tanto scemò l'entrata annuale di quanto d al fisco per L'imposta sulla rendita. La prima differenza importa una perdita presente al capitale dei risparmia ossia alla ricchezza pubblica, di più centinaia di milioni; e la seconda importa una perdfita annuale per questo capitale di risparmi di sopra 20 milioni che pagansi al fisco. Non è certo molto onorevole all'amministrazione dell'Italia un tal risultalo!

Colle tasse, colle vendile, coi prestiti sogliono per gli Stati, regolarmente amministrati, esaurirsi tutti i partili da far denari: l'Italia è stata più feconda, ed ha fatto ricorso a un partito dei più straordinarii, alla carta fiduciaria. Si può quasi essa ha creato col mezzo dei torchi da stampatore il denaro da spendere.

Due sorti di carta fiduciaria ha introdotto in Italia: i Boni del tesoro, e i Viglietti dello banche private col corso forzoso. Nel 1869 i rendiconti governativi accusano nientemeno che 300 milioni di Boni del tesoro, e gli stati delle banche, autorizzale o non autorizzate, accusano 967 milioni di viglietti circolanti! Correvano adunque in Italia in carta fiduciaria dei due generi nientemeno che 1261 milioni di lire: una buona metà dei quali era servita a tornir le finanze di nuovi mezzi da prendere.

Per farci capaci del disastro che alla fortuna pubblica cagionò un tal provvedimento, bisogna prima rapidamente accennare qual sia il denaro occorrente alla circolazione in Italia.

1 Di questi 97 milioni di viglietti, appartengono alle Banche autorizzate 949 milioni, ed agl'istituti non autorizzati 18 milioni di lire.

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Non è difficile il calcolarlo, sopra elementi abbastanza sicuri. Basta l'indagare qual fosse la massa di moneta metallica, e di carta fiduciaria che serviva a tutte le transazioni del paese prima del corso forzoso.

Secondo il ch. Dr. Maestri, Direttore dell'Ufficio di Statistica generale del Regno, tutta la moneta metallica che è stata coniata da tutti insieme gli Stati d'Italia dal 1803 al 1866, ascende in cifra 1500 milioni di lire. Defalcando da tal somma i 300 milioni di lire che vennero nello stesso spazio di tempo demonetizzate, la moneta italiana circolante in Italia non potea sorpassare i 1200 milioni di lire. Il movimento monetario internazionale fino al 1864 non alterò mai sensibilmente questa cifra: perché secondo la deposizione e il parere degli esperti, interpellati dalla Commissione di inchiesta pel corso forzoso 1, l'importazione e l'esportazione dei metalli coniati si erano costantemente bilanciate, mutando cosi non il valore, ma l'impronta del numerario accumulato in Italia.

Ma dal 1864 all'Aprite del 1866, epoca del corso forzoso, le faccende non andarono del pari. Si formò allora una corrente di esportazione metallica dall'Italia nell'estero, la quale fece uscir fuori dello Stato vistosissime somme di denaro. A determinare con molta verosimiglianza questa cifra, accettiamo i calcoli e i ragionamenti del deputato Busacca, recando in mezzo le sue medesime parole 2, che suonano appunto così: «Noi crediamo, che pei grandi prestiti fatti all'estero, per le società industriali formatesi con capitali esteri in Italia, e per essere il commercio italiano in un periodo ascendente, l'importazione del numerario in Italia nei primi anni del suo risorgimento sia stata considerevolmente superiore all'esportazione. Però dal 1861 in poi a questo moto ascendente successe il discendente, e per il ritorno dei titoli di debito pubblico, e d'altri valori commerciali che l'estero respingeva in Italia, per il ritiro dei captali esteri impiegati nel commercio italiano, e in generale per la decadenza dei credito e del commercio,

1 V. Inchiesta, vol. 3, pag. 423 e segg.

2 V. Studii sul corso forzoso. Firenze. 1870, pag. 176.

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per cui le partite dovettero saldarsi in buona parte in metallo, il capitale metallico al 1° Maggio 1866 era già grandemente diminuito, e crediamo essere più vicini al vero riducendone la valutazione a un miliardo.» Son dunque due cento i milioni di moneta che il Busacca pensa sieno stati perduti dalla piazza italiana sopra l'antico suo numerario circolante, perché migrati dal paese nei due sopraddetti anni. E tanto più volentieri noi accettiamo questa cifra, quanto che essa ha un riscontro nella valuta dei biglietti di Banca adoperati dal traffico in Italia nel 1866, i quali sopperirono in gran parte alla deficienza di questo numerario.

La cifra positiva di questi viglietti può con quasi piena certezza asseverarsi, perché essa è data dai libri di conti delle varie banche, che ne aveano facoltà. Eccone le partite.

Banca nazionale (28 Apr. 1866) 116,908, 779: 20
Banco di Napoli (Apr. 1866). 96, 580, 710: 93
Banco di Sicilia (31 Dec. 1865) 28,708,772: 01
Banca nazionale toscana (30 Apr. 1866)23, 924, 360: 00
Banca toscana di Cred. industr. (1 Magg. 1866). 244, 000: 00
L. 266,360,622: 14
Giravan dunque, l'Aprile del 1866, per le mani degl'Italiani poco più di 266 milioni di lire in viglietti di Banca. Ai quali volendo unire i boni del tesoro per la somma di cento milioni, massimo valore che ne fosse allora in corso; la carta di credito funzionante da moneta calcolatasi al massimo a 366 milioni.

Riunendo le due cifre e calcolando il deposito metallico, guarentia dei viglietti, esistente inoperoso presso le Banche, ne dedurremo che lutto il traffico italiano compieva» entro i confini dell'Italia con una somma di valori, tra metallici e cartacei, non superiore a 1300 milioni di lire.

Or paragonando questa cifra dei valori fiduciarii correnti nel 1869 in Italia, troviamo che quasi da sé soli essi basterebbero al bisogno del commercio interno. È naturale adunque che il numerario siasi

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o mandato via dalla specolazione, o serbato dalle banche, o nascosto dalla diffidenza. Presso le banche alla fine del 1868 trovavansi quasi 234 milioni come riserva: presso i trafficanti in metalli coniati si valuta dai periti trovarsi in quel tempo un presso ad 80 milioni: nelle casse del tesoro pubblico non dovea esservene gran fatto, perché a pagare i 40 milioni di rendita all'estero il Governo dovette ricorrere alla Banca. Alla diffidenza che nasconde ed alla minuta circolazione metallica che pur rimase in vigore il massimo che possa debitamente attribuirsi è di 100 milioni. Rimangono dunque, poco più poco meno, 600 milioni di moneta effettiva italiana trasportati all'estero. Novecento milioni di carta di più e 600 milioni di moneta di meno: tale è la condizione fatta all'Italia dal corso forzoso.

V.

Difficilmente può dirsi a parole il danno che una cotal depravazione del principalissimo strumento dei cambii ha cagionato alla fortuna pubblica e privata dell'Italia. 11 corso forzoso, invadendo necessariamente nei loro più piccoli anfratti le libere vie della circolazione del cambio, ha reso duro, difficile, spesso impossibile il pur procedere, non che il correre all'attuosità commerciale della nazione.

Alcuni soli degli effetti di questo ansioso e arduo cammino bastano a fare intendere la gravezza dei danni eh' esso recò alla ricchezza italiana.

La difficoltà dei cambii coli' estero ne ha scemate sempre, distrutte spesso le contrattazioni; cosicché molti commercianti, e molti fabbricanti, i più esigui e perciò stesso i più bisognosi, si sono veduti astretti a rompere la loro industria, o alla men peggio ad esercitarla non più per averne profitti e risparmii, ma solo per non perire di fame. Tutta poi intera la popolazione ne è rimasta gravata dall'aumento intervenuto nelle mercanzie di origine forestiera. Questo aumento era pei compratori raddoppiato; giacché dai trafficanti si chiedeva loro sui prezzi correnti prima, tanto di più por l'agio cittadino della moneta, e tanto di più per l'invio più costoso del denaro ai fabbricatori esteri.

166 SGUARDO SOPRA L'AMMINISTRAZIONE FINANZIARIA

Questo aumento si è avverato altresì nei prezzi di tutte le derrate e le manifatture paesane, perché ciascun mercantiere s'è creduto in dritto di stimare la propria masserizia alla ragione di valuta metallica, e di aggiungere la differenza del cambio tra la moneta e la carta al prezzo richiesto. Nel che fare si è ecceduto quasi sempre in favore dei venditori, e l'aumento una volta introdotto alla stregua dei primi cambii che furono altissimi, non s' è ilo poscia calando al calare dei cambii divenuti più tollerabili. Intanto né i salarii degli operai, nò i soldi degl'impiegati, né i censi, né le rendite pubbliche eransi punto nulla aumentati: e quindi ogni persona, senza vedersi crescere l'entrata, fu costretta a sopportare un gravissimo crescimento di spesa. Indi dissipamento de'  risparmii accumulali innanzi, privazione stentata di molte comodità, e per la massima parte della più sottile popolazione disagi e patimenti senza numero.

All'elevazione dei prezzi in Italia fece contrapposto l'abbassamento del credito per tutti i valori nazionali. Il corso forzoso genera sempre questo effetto per doppia influenza: per quello che esso è, per quello che esso significa. Esso è una confessione evidente di mal essere finanziario: esso significa un esaurimento assoluto di tutti gli altri rimedii, valevoli a sollevare la fortuna pubblica. Intacca dunque direttamente il credito di tutta una nazione innanzi agli stranieri, e lo affievolisce grandemente innanzi ai paesani. Or che altro sono i valori nazionali se non titoli di credito? e per conseguenza di che altro essi si sostengono se non della estimazione che questo credilo gode effettualmente presso tutti? Scemata questa, scema il valore. Cosi dovea essere, e così fu: né abbiasi bisogno a provarlo di far altro se non che invitare i nostri lettori a consultare i listini delle borse italiane e forestiere di prima e di dopo il corso forzoso. Esso dunque ebbe per effetto di diminuire d'un tratto la ricchezza pubblica, il capitale cioè accumulato per la serie di parecchi anni dal lavoro e dalla temperanza degl'Italiani.

Oltre alla perdita effettiva di una più o meno grande porzioncella di proprietà, il corso forzoso produsse un ingiusto e continuo spostamento di proprietà nei possidenti, una timorosa incertezza di affari nei mercatanti. Il continuo oscillare degli (ujtji sui cambii

DAL 1860 AL 1870 IN ITALIA 167

esterni ed interni: il continuo variare della tassa sui valori governativi o commerciali, nulla più rendeva sicuro pei calcoli dell'avvenire, anche non remote: e spesso una commissione creduta vantaggiosa nel momento del darla, diveniva perniciosa nel momento del riceverla; ed una somma in valori preparata per un pagamento non era più sufficiente nel momento dello sborsarla; e certi contralti antichi che obbligavano a soddisfarli col numerario riuscivano rovinosi nell'atto di eseguirli, e certi impegni nuovi si evitava di assumere, perché non potevasi correre il rischio del pagamento in moneta che si pretendeva dall'una delle due parti. Il perché effetto naturale di questa doppia incertezza fu il rallentamento delle grandi e anche mediocri intraprese: giacché non si avventurano le grosse somme sopra il dubbio: e né l'industria laboriosa né il commercio onesto possono fondarsi sopra il giuoco incostante della incertezza.

Da tutti i lati adunque pernicie e disastri: tutte le fonti della ricchezza illanguidite o disseccate; capitali accumulati, baratti "vecchi, intraprese nuove, faccende, lucri, industrie, guadagni. Ecco i frutti proprii della mala pianta del corso forzoso.

Ma qui non s'arresta tutto il danno del corso forzalo dei viglietli di Banca. I pericoli dell'avvenire sono ancor peggiori dei danni del passato. Odasi come li descrive una penna non sospetta, quale certamente è il eh. deputato Servadio 1. «Io mi limiterò a richiamare la vostra attenzione sui pericoli ai quali sarebbero esposti il paese e lo Stato, qualora fossimo colti da una crise politica, commerciale, o annonaria sotto il regime del corso forzato. Appunto perché per rara felicità del nostro paese noi abbiamo attraversato un periodo fortunato scevro di crisi politiche e con abbondanti ricolti, è non solo lecito ma è dovere di savio legislatore il prevedere una condizione di cose assolutamente contraria. È fatto troppo notorio che In Italia un abbondante ricolto di cereali eccede di poco i bisogni del consumo, che un ricolto medio non basta ai bisogni, e che un

1 Relazione, Progetto di legge e Discorso del deputato Giacomo Servano. Firenze, 1870. Pag. 8.

168 SGUARDO SOPRA L AMMINISTRAZIONE FINANZIARIA

ricolto cattivo basta appena ai 9/10 delle urgenze del paese 1. Or bene: basta dunque fare l'ipotesi di una carestia anche parziale per tosto figurarsi le perturbazioni, le sofferenze, i pericoli che da questo fatto potrebbero sorgere, qualora il paese soggiacesse tuttavia al corso forzalo dei biglietti di banca. Se per sventura nostra in siffatte condizioni di cose fosse mestieri inviare all'estero le somme occorrenti all'acquisto anche di 110 soltanto dei cereali necessari! al nostro consumo, chi ci può dire da quale crisc sarebbe minacciato il paese? quali sacrifìzii dovrebbe sopportare per raccogliere i 200 e più milioni di lire che imperlerebbero gli 8 milioni di ettolitri di grano indispensabili a soddisfare i bisogni più specialmente delle classi meno agiate d'Italia? Chi saprebbe indicare quali sarebbero i patimenti e i danni che ne potrebbero derivare? Chi oserebbe prevedere il limite al quale si arresterebbe l'aggio, e le perdite che graviterebbero sull'erario nazionale pei pagamenti in oro che egli si è obbligalo di fare all'estero? Chi ne assicura che in tanto dissesto economico anche le basi stesse dello Slato non venissero poste a cimento e l'Italia non avesse a soggiacere fra le agitazioni di una crisi politica e sociale ad un tempo?» VI.

Il nostro rapidissimo studio intorno alle sorgenti, donde il Governo italiano ha tratto il si gran denaro sciupato in questi nove anni, è terminato. Da esso deducousi due conseguenze: la prima risguarda il concetto generale che ha governalo la scelta di tai mezzi: la seconda risguarda l'effetto pratico che una tale scelta ha conseguito.

Noi potremmo asserire che la cagione potissima di tanti dissesti sia stata l'ingordigia di arricchire, a spese del povero popolo d'Italia, in coloro che han maneggialo la mestola sia nel fare l'Italia una, sia nel governarla. Ne avremmo tutto il diritto: giacché molti fatti ci sono che darebbero ragione a questo severissimo giudizio, e molle autorità non sospette lo convaliderebbero.

1 Vedi l'opera: Saggio sul Commercio esterno del regno d'Italie negli anni 1862-63. Pubblicazione governativa, anno 1865, p.)!

DAL 1860 AL 1870 IN ITALIA 169

Basti per tutte questa sola del dep. Pescatore, caldissimo campione dell'Italia una, nella prima delle sue lettere agli elettori. Esso dice così. «Dell'orribile dissesto quali sono le maledette, le infernali cagioni? L'Italia, amici miei, come altra volta dai barbari, ò invasa da un orda di selvaggi interessi: sono interessi di ambizioni immoderate, immense; interessi di cupidigie insaziabili, sfacciate; interessi di militarismo; interessi di partili, di province, di regioni — di chi poco o nulla vorrebbe conferire alla cassa sociale, e prendervi la parte più opima; in una parola, sono gli interessi di un egoismo insensato, che conduce alla rovina universale o al disonore: e pur tutti combattono, gli uni contro gli altri, sotto la maschera del pubblico bene, colla veste e col baslon del guardiano, gagliardo difensore del gregge: ma sono lupi: la greggia, premio e preda dei vincitori.» Si può dir nulla di più chiaro, o di più crudele? Pur tuttavia non negando a questa cagione la sua parte non picciola di concorso, asseriamo per amor del vero che la principale, la potissima causa fu l'insipienza dei governanti.

Il concetto generale del sistema finanziario d'Italia fin qui seguito si fu di non avere nessun concetto ragionevole nell'ordinamento delle finanze. Non il concentramento, non il discentramento, non la riforma del sistema daziario, non la protezione all'industria cittadina, non il ristoramento dell'agricoltura, non la semplicità dell'amministrazione, non il governo a buon mercato, non la regolarità nei pesi.

Tutto è ito a casaccio, e quindi alle peggiori. Unica regola, che ha diretto tutto il sistema, fu questa: trovare il denaro che si era speso, o si voleva spendere, e trovarlo per la via più speditiva che l'ora del bisogno presentasse. Sistema dunque di spedienti, che è il sistema più rovinoso di tutti in fallo di finanze. Giacché esso costringe a passare da rovina a rovina, ma sempre crescendo, parche la rovina seconda è peggiore della prima, la terza della seconda.

Avviene dello Stato che cammina per questa strada, quello che del padre di famiglia che si gitta alla vita degli spedienti. Egli combina il primo suo prestito al 5 per % ipotecando per la prima volta

SGUARDO SOPRA L'AMMINISTRAZIONE FINANZIARIA 1870.

la i beni. Per pagare questo primo mutuo contrae un altro debito al 7 per % con una seconda ipoteca: e poi al 10 colla terza. Esaurite così le garantie che poteva offrire coi suoi beni, ricorre all'usuraio, e ipoteca la sua persona col firmare la prima cambiale al 18 per %. Dopo tre mesi bisogna far onore alla firma, e la prima cambiale si paga colla seconda, la seconda colla terza: ma L'usura è salita al 24, al 48 per %: e il debito da 1000 e montato a 10 mila. 11 povero padre di famiglia è gittato sul lastrico, è oramai impotente a pagar più nulla: l'ospedale o la carcere lo attendono. Chi lo trascinò a questa brutta fine? Furono gli spedienti, i quali lo trassero di disastro in disastro, fino all'ultimo che gli troncò per fino la possibilità di spedienti nuovi. Quell'improvvido padre di famiglia fu il fisco d'Italia: esso procedette finora nella via degli spedienti; altri ne tenta pur ora mentre scriviamo; altri glie ne rimangono tuttavia da tentare. Ma la rovina si va facendo sempre più spaventosa, e la fine tremenda della bancarotta, se a tempo non si ritrae dal precipizio, non potrà mancare. Vero è che il Governo non si darà per vinto, se prima non vedrà fallito, col pigliarsene tuttala roba, l'ultimo dei suoi sudditi, e sotto questo rispetto quel precipizio sarebbe stoltezza a dirlo imminente. Ma questo è appunto il più crudele di tutti i disastri che minacciano gl'Italiani: e che mostrano il bel guadagno che essi hanno fatto coi mutamenti e colla rivoluzione.

(Sarà continuato)

SGUARDO RETROSPETTIVO

SOPRA

L'AMMINISTRAZIONE FINANZIARIA

DAL 1860 AL 1870

IN ITALIA.

Nel precedente quaderno esaminammo donde traesse il Governo italiano quella ingente somma, che fu da lui spesa dal 1860 al 1870.

Passiamo ora a fare qualche utile considerazione intorno al dove la spendesse.

Vi sono casi, nei quali la necessità estrema obbliga un buon"amministratore a far grandi spese, e ad indebitare per esse il patrimonio confidatogli. Si dà anche caso che un amministratore ardito, per la speranza di grandi guadagni avvenire, non esita di arrischiare tutto il suo capitale presente, impoverendosi oggi per arricchirsi domani. La prima è sventura, la seconda è audacia: ma possono essere scusate quella dalla forza maggiore, questa dalla maggiore avidità. Ma quando né l'uno nò l'altro impulso vi è, lo spendere al di là della propria sostanza chiamasi scialacquare: e chi così spende il suo dicesi dissipatore, chi spende l'altrui dicesi barattiere. Da simili tacce vergognose non può liberare che la balordaggine, la quale indica che la magagna non è nel cuore ma nel

1 V. questo volume, pag. 151 e segg.

SGUARDO SOPRA L'AMMINISTRAZIONE FINANZIARIA 313

cervello, e se non infama chi la merita, non vale certamente ad onorarlo. Or quale di queste influenze cagionò cotanto sciupio di denaro in questi nove anni all'Italia? La risposta conveniente non può darsi, se non quando avremo trascorso ad uno ad uno i capi principalissimi delle spese fatte.

Suol dirsi che l'una delle cagioni per l'aumento delle spese in Italia sia stata la trasformazione. Per cacciar via i Principi regnanti nei varii Stali d'Italia, ci è voluto denaro. Per unificare gli antichi Stati in un sol regno, ci è voluto denaro. Per impiantare la libertà nell'Italia unificata, ci è voluto denaro. Per conservare infine l'unificazione e la libertà nell'Italia, ci è voluto denaro. Nulla di tutto ciò occorreva nell'antica Italia; qual meraviglia fa dunque che siavi ora stato tanto maggior dispendio di prima? La meraviglia vi è, e vi è tanto se si consideri il fatto della trasformazione, quanto se si considerino i suoi effetti naturali sotto il risguardo finanziario. Se si consideri il fatto della trasformazione non s'intende il perché abbia dovuto costar tanto denaro. Giacché non si dissero maturi i tempi all'unità, esosi i Principi ai popoli, spontanee le annessioni, volonterosi i plebisciti, desiderata la dinastia di Savoia? Stando alla storia, come ce l'hanno fatta i trasformatori dell'Italia, tutta la mercanzia necessaria a questa impresa fu gratuitamente offerta, e non dovette costare un soldo solo. Vero è che essi pure ammettono delle eccezioni: qualche resistenza qua e colà: qualche spedizione di volontarii, e qualche invio di soldatesche: ma ciò potea generare un lieve dissesto momentaneo, per la piccola cosa che fu, e non già uno sconquasso si grave, da rovinare le finanze d'un gran paese.

Che se le Finanze furono rovinate di fatto, allora quelle storie di spontaneità, di maturità, di generosità van tutte a monte, e il dispendio si spiega colla compera delle opinioni, delle fedeltà, delle coscienze. L'unità d'Italia diventa opera di ambizione o di fazione, non di utilità o desiderio pubblico: e molto più ancora che il fatto del dispendio è da condannarsene la cagione. Si è sprecato sì gran denaro per corrompere le coscienze. Guai grideremo qui a chi si lasciò corrompere, ma molto più guai a chi riuscì a corrompere!

314 SGUARDO SOPRA L AMMINISTRAZIONE FINANZIARIA

La corruzione congiunse le divise parli d'Italia: la corruzione sfascerà questo corpo sì malamente accozzato.

Ma pur si mandi buona questa necessità di versar denaro per far l'Italia una. Il fatto riuscito dovea compensare l'opera e la spesa.

Vi erano prima sette liste civili: vi erano sette amministrazioni centrali: vi erano sette barriere politiche e doganali: vi erano sette rappresentanze presso ogni Stato forestiero. Tutto ciò è caduto coll'unità: ed ora vi è una sola lista civile, una sola barriera, una sola capitale, una sola rappresentanza. Quanta economia, e quanti risparmii! Non dovrebbero essi nei nove anni di mezzo tra il 60 ed il 70 aver dato già un compenso larghissimo a quelle spese, per dir così, d'impianto di questa Italia unificata? Indubitatamente dovrebbero: e tanto ciò è manifesto, che ad accalappiare i popoli questo argomento appunto si recava loro per eccitarli a volersi congiugnere in uno Stato unico; siccome quello che più d'ogni altro era ragionevole, se si sguarda soltanto all'interesse.

Ma quelle erano lustre; le realtà sono state contrarie alle promesse, e gli sparagni che dovevano farsi si convertirono in fidali dissipamenti.

Né vogliamo credere che altri ci arrechi come cagione plausibile di maggiore spesa la libertà conceduta agi' Italiani nella trasformazione fattasi dell'Italia. Questa cagione sta bene in bocca nostra, ma non istà bene in bocca dei libertini. Poiché tutti i difensori degli ordini liberi fanno a gara per esaltarli, siccome i più capaci di dare il Governo a buon mercato: e citano di continuo L'Inghilterra e l'America, quali pruove splendidissime della loro affascinante teorica.

Perché ciò non dovea accadere in Italia? E se doveva accadere, chi lo impedì? l'Italia libera adunque dà una mentita alla teorica: o la teorica dà una mentita all'Italia libera.

Vili La seconda cagione delle spese straordinarie di questi nove anni è stata l'armamento. Distraili gli antichi ordini militari dei singoli Stati si è voluto costituire un esercito nuovo, modellato in gran parte sulle tradizioni piemontesi: e si è voluta creare una marina consentanea ai tempi, e proporzionata a grande Stato.

DAL 1860 AL 1870 IN ITALIA 315

 Or come siasi a ciò riuscito amministrativamente e politicamente parlando, tutti il sanno e tutti Io ripetono in Italia. Per la marina niuno ignora la relazione fattasene dalla Commissione della Camera, delegata a fare minuta ed universale inchiesta dello stato in che si trovava or sono quattro anni: dalla quale si deduce essersi più che largamente speso il denaro, ma non essersene indi avvantaggiato l'armamente marittimo. Per l'esercito di terra ci basta il giudizio d'un uomo competente, d'un Luogotenente generale, il Duca di Miguano, il quale dopo aver dimostrato che il soldate italiano costa allo Stato più che non costi alla Francia il soldato francese, molto più che non costava al Regno delle due Sicilie il soldato napolitano, tuttoché il soldato italiano non sia nutrito meglio che quei due eserciti, e sia tanto peggio calzato, vestito, alloggiato, armato; ne arreca tutta la colpa al sistema attuale di amministrazione. L'amministrazione adunque è riuscita a far pochissimo con molto, volendo armar la nazione: tutto al rovescio d'ogni buona idea di governo.

Per rispondere poi al vantaggio politico cavatosi da cotale armamento, non vogliamo dir nulla del nostro. Ci contenteremo di citare le parole da un illustre deputato, caldo promovitore e sostenitore dell'unità italiana, dette 111 Giugno di quest'anno nell'aula parlamentare in Firenze. «Quanto alla rapida guerra, vogliate notare che anche la Prussia armò, ma senza sbilanciarsi e fece Sadowa: e che noi sperperando, per nostra sciagura, abbiamo avuto Custoza. Quanto alla marina,, ricordate che l'Austria la curò senza dissestarsi, e sopprimendone perfino il Ministero, e per nostra sciagura, fece Lissa.» Fin qui egli: e bastava, poiché le due sole parole Custoza e Lissa dicono tutto.

Seguono in terzo luogo le spese profusamente fatte per le opere pubbliche. Per questo capo sarebbe degnissimo di lode il Governo d'Italia, quand'anche avesse un po' ecceduto, se la sapienza nel condurre quelle opere, e la prudenza nel proporzionarvi le spese avessero preparato agl'Italiani nuovi agi e nuove prosperità.

1 Vedi i due Opuscoli: Economia senza riduzione. Opuscolo I, e Opusc. II. Napoli 1870.

316 SGUARDO SOPRA L'AMMINISTRAZIONE FINANZIARIA

Ma così non avvenne di fatto. In primo luogo quelle opere pubbliche, fatte a spese di tutti i contribuenti, non si sono egualmente distribuite sopra tutta l'Italia: anzi quasi nulla ne è toccato alla Sardegna, agli Abruzzi, alle Calabrie, e pochissimo alla Sicilia e alle altre province meridionali. Quindi i lamenti giusti che siansi impoverite colle tasse alcune province, per arricchirne colle opere pubbliche alcune altre. In secondo luogo si è speso in queste opere pubbliche non solo versandovi a larga mano per lo passalo le somme, ma vincolandovene delle maggiori forse nello avvenire. Presentemente l'Italia paga ogni anno un sessanta milioni per garanzie concesse ai capitalisti, per lo più forestieri, che cooperarono alla loro costruzione: e questi sessanta milioni facilmente col tempo monteranno presso a cento. Pel servigio adunque che queste opere pubbliche porgeranno all'Italia, essa dovrà pagare un giorno cento milioni l'anno: l'interesse cioè di quasi due migliardi. Valgono tutte insieme queste opere pubbliche un migliardo solo? Noi non dubitiamo di asserire che no, fondati sull'autorità d'ingegneri e di architetti peritissimi dell'arte loro: ben inteso che non parliamo delle somme pagate, ma del valore effettivo di questi pubblici ediTicii. In terzo luogo si sono esse intraprese o senza unità di disegno, o senza costanza di esecuzione: cosicché gran parte dell'utile che avrebbero potuto produrre è diminuito o dalla interruzione loro per necessaria economia, o dallo slegamento dell'una coll'altra per inescusabile impreveggenza. Si spese adunque, è vero, in opere pubbliche moltissimo: ma si spese al di sopra delle forze, si spese senza giudizio, si spese male.

IX.

Una quarta cagione di tanto eccesso di spese furono senza dubbio gl'impiegati. Essi costituiscono una vera piaga dell'Italia: poiché quelli che si trovano nell'attività del servigio sono al di là d'ogni ragionevole proporzione col bisogno vero; e quelli che sono o in disponibilità, o in giubilazione, formano una seconda schiera di non molto inferiore alla prima.

DAL 1860 AL 1870 IN ITALIA 317

Secondo i calcoli del deputato De Cesare dal solo ramo giudiziario, facendovi una riduzione d'impiegati, che per nulla scemi la celerità dei giudizii, potrebbero derivare dieci milioni l'anno di sparagno. Molto maggior risparmio fornirebbe l'esercito d'impiegali che dipende dal Ministero delle Finanze, e che si consuma in alcune delle entrate più del quarto per ispese di riscossione e spesso, come ciarlano certe male lingue, è più complice che vindice dei contrabbandi e delle frodi gabellarle.

Un tal disordine fu necessario effetto della rivoluzione. Bisognò dare un premio a quanti aveano cooperato a farla: o almeno ai più intriganti: e il premio non poteva essere altro che dar loro un posticino alla mangiatoia dello Stato, più o men largo secondo l'appetito e l'epa di ciascheduno. Dunque s'allarghi la mangiatoia per far posto a tutti, e Pantalone paga, direbbe il Goldoni.

Prima dunque si mandino a casa col soldo della giubilazione tutti i più onesti e fedeli ufficiali, sotto la coverta che a cose nuove non eran buoni uomini vecchi. Poscia si creino ufficii nuovi, si moltiplichino nelle vecchie cariche il numero delle persone, sotto il pretesto dell'ordinar meglio il servigio, e sbrigar più presto gli affari.

Poi da capo colle giubilazioni, per far nuovi vuoti nelle file, e la lustra ne fu V epurazione, che dovea mandar via i cattivi impiegati, e invece ne mandò i più capaci e i più modesti. In breve ad ogni nuova fase della rivoluzione, ad ogni nuovo cangiamento di Ministeri, ad ogni nuovo merito di rivoluzionarti s'ebbe sempre lo stesso ritornello: nuovi impiegati. Evviva la mangiatoia! Evviva l'arte d'aggrapparvisi! Evviva il coraggio di allargarla sempre più alle spese del popolo! Finalmente indicheremo per ultima cagione di così enormi spendii le dilapidazioni, non coverte da altro mantello che quello più o meno trasparente del segreto. Molte volte si è fatta menzione lungo il novennio scorso su pei giornali d'Italia di certe sottrazioni di somme ancora vistose, di certe appropriazioni non giustificale, di certi pagamenti non approvali dalla Gran Corte dei Conti.

1 Vedi il suo opuscolo, intitolato. Presente, passato e futuro d'Italia.

318 SGUARDO SOPRA L AMMINISTRAZIONE FINANZIARIA

Molte volle s'è chiesto, fin nella Camera dei Deputati, che si facesse la luce sopra queste accuse: si è chiesto il perché sui bilanci non apparisse orma di una certa ventina di milioni, di moneta erosa sottratta dalla circolazione: s' è chiesto perché nessun conto si rendesse degli ori, degli argenti, dei gioielli, degli arredi sacri rapili alle chiese: che si nominassero commissioni per prenderne indagini: che s' istituissero almeno inquisizioni governative. Ma tutte queste istanze son cadute in vano: e per evitare ogni scandalo s è atteso dal tempo che il buio coprisse con ombre sempre più fìtte cotesti imbrogli scandalosi. Ma il buio non poteva empire le casse del tesoro del denaro sottrattone, e queste sottrazioni hanno aggiunto non poche dozzine ai milioni sperperati.

Ma peggior effetto di questa indennità conceduta a certi più fortunati giuntatoli del pubblico denaro fu il malo esempio dato a tanti altri che aveano in custodia le casse dello Stato. Per non breve tempo L'Italia ha dato un veramente strano spettacolo d'immoralità.

Non v era mese che non s' udisse essere il tal cassiere della tale amministrazione sparito, lasciando il vuoto di tante centinaia di migliaia di lire: e sebbene ognuno di questi furti da per sé non fosse da tanto, che dovesse gravemente soffrirne l'erario: pur tuttavia uniti insieme costituiscono una somma, che non può spregiarsi in questa nostra discussione.

Ma più gravi dilapidazioni ancora sonosi avverate nelle vendile dei beni demaniali ed ecclesiastici. À fatti compiuti lo ha confessato lo stesso Governo 1, ed oramai è noto che in mezzo allo sprofondarsi della pubblica fortuna sonosi improvvisamente innalzate in Italia d'ogni intorno colossali fortune private.

1 Sarà bene udire questa verità dalla bocca d'uno dei deputati, il chi. sig. Bertolucci, nell'ottimo e coraggioso discorso che fece nel Parlamento nazionale il 4 Luglio 1870. Ecco le sue proprie parole, a Ditemi: che avvenne del famoso miliardo di beni ecclesiastici che voi con tanto furore vi appropriaste come di cosa dello Stato? Divenimmo noi più ricchi? E non si avverò invece il volgare proverbio che, farina del diavolo va tutta in crusca? Ve lo dica lo stesso ministro delle finanze, a cui del resto io professo alta stima e come scienziato e come statista. Egli nella sua esposizione finanziaria, mentre

DAL 1860 AL 1870 IN ITALIA 319

Esse debbonsi a contratti di compere, fatti legalmente quanto alle forme, ma quanto alla sostanza così sproporzionati, che d'alcuni una porzione soltanto della rendita di pochi anni bastò a pagare tutta la proprietà comprata, e in altri moltissimi o la rendita sola o poco più della rendita di alquanti anni coprì il costo intero. Così gl'immensi tesori che quei beni comprendevano, si ridussero per l'Erario a un piccolo guadagno; e questo prestamente sciupato ha lasciato allo Stato la infamia di una sacrilega rapina, ed il peso perpetuo di annue pensioni che dovrà pagare.

Arrestiamoci a questo punto. Ei ci pare che basti una benché così rapida enumerazione per dare la risposta che cercavamo intorno al giudizio che deve formarsi degli amministratori dell'Italia unificata.

Qualche volta sbaragliarono nelle spese il denaro spremuto alle borse dei contribuenti per dura necessità: ma questa necessità fu fatta dalla rivoluzione, la quale per conseguenza deve rispondere di tanto sciupìo. Più spesso ancora il dissipamento dell'erario procedette da incapacità: ossia di mente a concepire gli opportuni provvedimenti, ossia di volontà a resistere alle inopportune passioni: e di questa doppia incapacità deve chiedersi ragione alla rivoluzione, che pose le redini del Governo in mano ad uomini più ambiziosi che capaci, più parteggiani che amatori del bene pubblico, più ampollosi di promesse false, che sperimentali promotori degli interessi nazionali.

intendeva a togliere alla Chiesa altri beni, non poteva dissimulare che i già appresi furono consumati, e non restò di loro che un punto nero; confessione gravissima che rimarrà monumento eterno di ciò che valgono le ingiustizie degli uomini! Ve lo dica la stessa Commissione con parole onde chiude la sua relazione, emettendo un tardo rimpianto sullo sperpero di quei beni. — Sarebbe rana opera, essa scrive, il vedere oggi se con altre operazioni non era possibile ottenere per le finanze un risultato molto più vantaggioso, e insieme non offendere tante aspettative, non venire a tante asprezze, non perturbare tanti interessi e tanti sentimenti. Questo solo si può dedurre, che le speranze di coloro che mossero e sostennero le leggi predette (cioè quelle di soppressione degli enti morali religiosi e della cosi detta liquidazione dell'asse ecclesiastico), finanziariamente furono in parte frustrate, e che i risultati sono stati assai più scarsi di quelli sui quali nelle discussioni della Camera si faceva assegnamento.

320 SGUARDO SOPRA L AMMINISTRAZIONE FINANZIARIA

 

Generalmente ne è in colpa il sistema nuovo coi nuovi principii, presi a norme di pubblico reggimento. Base del governare non il giusto ma l'utile; e l'utile non della nazione intera ma del partito prevalente. Mezzi di governare l'astuzia, l'inganno, la frode, la corruzione; e se non bastano il gendarme e la soldatesca. Fine del Governo non già l'agevolare ai singoli associati la sodisfazione dei proprii bisogni, e l'adempimento dei proprii doveri, rimovendone ogni ingiusto ostacolo: ma il far servire le fatiche, le sostanze, la vita persino d'ogni privato ai vantaggi della comunità, immolandoli tutti sull'ara pagana del Dio Stato, che il più delle volle si concreta nei guadagni d'una piccola casta, che riesce a porsi alla testa della nazione. Allettativa al popolo governato non già l'onore, la probità, il ben essere individuale; ma la vana prospettiva d'una grandezza nazionale, che suole del cittadino fare uno schiavo, e la lubrica promessa d'una libertà licenziosa, che fa del cristiano una belva selvaggia. Un Governo che pone in atto questi principii diviene necessariamente uno spenditore senza freno, un disperditore senza riparo.

XI.

Ma esso diviene eziandio la rovina del suo paese. Il vedremo chiaramente, entrando nella terza indagine che ci eravamo proposta, del come siasi trovata l'Italia di così larghe spesene fatte Dell'ultimo novennio scorso.

Dei tristi effetti generali da così triste cagioni scegliamo soltanto i più gravi, alcuni riguardanti il popolo, altri riguardanti il Governo stesso.

Il corso forzoso in permanenza ci si presenta primo fra tutti innanzi, col suo scarno volto, colle sue livide occhiaie, colle sue adunche unghie, col suo incesso minaccioso, col suo contegno un po' da sgherro, un po' da gabelliere. Esso è là dinanzi al povero popolo smungendolo, intimorendolo, sbarrandogli ogni via alla prosperità, all'agiatezza.

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Figlio della rivoluzione, esso ne è addivenuto il più crudele carnefice, percotendo a un tempo stesso e chi gli diè vita, e chi l'accolse in casa sua un po' per necessità, un po' per iscapataggine. Quali sieno le sue opere, il vedemmo già nella prima parte di questo discorso, abbastanza largamente, sicché ora ci basta il solo enumerarle di passata. Esso ha resi difficili e perniciosi i cambii all'estero, ha discreditati tutti i valori nazionali, ha aumentato con accrescimenti fittizii i prezzi, ha svilita la proprietà, ha scemalo il lavoro, ha fugala la moneta, ha diminuita l'operosità dei capitali, ha gittato lo sconforto e la diffidenza, e prepara nei momenti di crisi pericoli immensi alla pubblica fortuna. Il grido di guerra, levatosi pur ieri nell'Europa, dove non ha oggi condotta di già la fortuna d'Italia? L'aggio sulla moneta è salito di nuovo al dodici per %, e minaccia di montare ancor più allo: già varii istituti di credito delle più fiorenti città d'Italia minacciano di sospendere i loro pagamenti: già il prezzo di tutte le derrate s'è istantaneamente accresciuto: già le industrie nazionali si arrestano, alcune per paura, per impotenza alcune altre. E se questa guerra si prolunga, se l'Italia vi è trascinata essa stessa, chi può prevedere le rovine che si ammucchieranno, l'una più irreparabile dell'altra, sulla misera popolazione d'Italia? Il secondo effetto micidiale di questo disastroso sistema di amministrazione è stato l'affievolimento della industria nazionale. Nel campo delle gare industriali non è l'uomo solo, l'uomo, per dir cosi, ignudo, che entra a combattere: è L'uomo armalo del suo capitale.

Toglietegli il capitale di mano, esso per quanto ingegno, per quanto coraggio si abbia, deve o retrocedere o soccombere. Ora i quattro migliardi di più spesi dal Governo, in opere per la massima parte improduttive, costituiscono in realtà quattro migliardi tolti ai risparmii, al capitale della nazione e dei singoli individui. Qual meraviglia che l'industria se ne sia trovata rallentata, anzi quasi distrutta? Aggiugnesi che mentre, cogl'improvvidi dispendii, si veniva disarmando l'industria nazionale della sua più necessaria difesa, colle leggi ancor più improvvide si è attirala in casa L'industria forestiera, armata fino ai capelli, e piena di vigoria e di ardore.

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Le tariffe nuove doganali, dettate dal libero scambio, furono il fruito degli aiuti ricevuti pel trasferir: a mento e pel riscatta dell'Italia: lo sappiamo. Ma appunto per questo abbiam dritto di dire che un tal riscatto ha impoverito l'Italia, mentre che le si promettevano tesori di prosperità e dì grandezze. E vuol egli vedersi fino a qual punto questo illanguidimento sia pervenuto? 11 paragone tra le esportazioni e le importazioni dell'Italia ce no dà la misura adeguata.

Ora la esportazione è appena un quinto della importazione, ovechè dieci anni fa era a mala pena una metà. Le manifatture adunque, lo fabbriche, i prodotti nazionali sono scemati di altuosilà e di forza: e dopo il riscatto dalla loro dominazione siamo diventati tribùtarii dei forestieri peggio assai di prima.

Ma più ancora che V industria manifatturiera in Italia, ha sofferto e soffre l'agricoltura. Un molto giudizioso opuscolo, uscito due anni or sono pei tipi del Giachetti di Prato 1, si distende tutto a dimostrare coi fatti e colle cifre, a stretto rigor di verità e di logica, appunto questa pessima condizione del suolo italiano. Esso pruova ad evidenza che «l'aggravio del sistema contributivo sulla proprietà: ria è tale e tanto, che manca l'equilibrio necessario tra la potenza della rendita e la resistenza dei tributi; poiché i redditi, sottoposti ad un quoziente di deduzioni continuo, eccedente, progressivo, vengono assorbiti per intero, e non lasciano ai reddenti che zero e debito.

Le cifre regolano il mondo, diceva Platone, e le cifre ci daranno ragione».

E di queste cifre vien formando un tal quadro spaventoso ed insieme evidente, che ci duole grandemente che, per amore di brevità, non possiamo riportarlo per intero. Non possiamo per altro passarci di citarne la conchiusione, siccome quella che compendia in breve tutta la dimostrazione, e fa insieme scorgerò la estensione del male.

Egli dunque dice cosi: «I fa'  ti esposti par che bastino a persuadere che sotto il bel culo d'Italia la proprietà della terra, infarcita e macinata da tante gravezze,

1 La terra e le sovrapposte municipali del Regno d'Italia. Prato, tip. Giuchetti, figlio e C. 1868.

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non sia  più una ricchezza ma una rovina, e che a quest'opera nefasta non abbiano piccola parte le reimposte municipali che vi concorrono in proporzione del 50 per cento sul tributo dello Stalo. Ma per portare la dimostrazioie Imo all'evidenza, ne piace di darne qui un esempio pratico e sinottico, in un fondo affittato e semenzaio a grano. Esso va sottoposto: — 1° al tributo erariale — 2° al decimo di guerra — 3° all'altro decimo aggiunto — 4° al dritto di esazione — 5° alla sopraimposta provinciale — 6° alla comunale — l'al prestito forzoso — 8° alla tassa del registro sul contralto di fitto — 9° a quella del linaiuolo — 10° al dritto di misura o bilancio — 11° al dazio governativo sulla farina— 12° al macino comunale; oltre ai danni del corso forzoso, e alle tasse eventuali di dogana, sublocazione, sequestri, guidizii, multe, successioni, donazioni, vendite ed altro che suole intervenire.

«Dunque sul fondo del grano, sul grano istesso, sul pane quotidiano, sul villo di necessità primaria, sull'unico alimento dd povero, pesano insieme dodici tasse, una più grave e più molesta dell'altra, mentre nella Cina ed in altri luoghi che si dicono barbari, non $e i esige che una sola e consiste nella decima della rendila; dunque al proprietario della terra, esaurita nei reddito con la moltiplicità delle imposizioni e reimposizioni, e scarnificata nel capitale con le tasse di successione, alienazione e code, non resta nemmeno il necessario fisico e il cespite di riproduzione, ma rimane soltanto un senso d'ira e di cordoglio, il dolore e la disperazione delle fatiche sprecale e del debito che lo incalza; debito che sopra un capitale di venti miliardi, quando è calcolato il suolo italiano, rappresenta una passività ipotecaria di dieci miliardi, settecento sessantatré milioni, senza i chirografi, cosicché l'intero dei pesi pubblici piomba sulle forze di una sola metà, perché l'altra vien assorbita dai creditori particolari. Altro che fucili alla Chassepot e cannoni all'Armstrong!» Farà dunque meraviglia che molli poveri proprietarii, sbalorditi e sopraffatti, abbiano, per bocca del deputalo Amari, nella tornata dei 3 Maggio 1867, offerta alla Camera elettiva la cessione dei loro beni, perché non si sentivano più il coraggio di farla, nel coltivare la terra, da procuratori del fisco senza mercede, giacche il prodotto totale andavasene tutto tra le casse dell'Erario, della Provincia e del Comune?

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A. tale misero stato venne ridotta dalla rivoluzione la potissima ricchezza degl'italiani, la proprietà prediale! Ma la proprietà mobiliare, quella soprattutto che è costituita dalle cartelle del debito pubblico d'Italia, sebbene non trovisi ancora condotta a sì pessimi estremi, certamente non è prosperosa.

Essa, quando pur riésca a schivar la bancarotta, ha due immense piaghe: lo svilimento già sofferto, la riduzione quasi minacciala.

Lo svilimento già sofferto ha colpito disugualmente due sorte di possessori: quelli che hanno immobilizzate con vincoli impostile cartelle stesse, quelli che le possedono alla libera senza nessun legame.

Sui primi s è accumulalo tutto il danno, giacché lo scemamenlo del valore è stato sopportato unicamente da loro, e sempre da loro: e questo danno grave per tutti, gravissimo ò slato pei più antichi possessori di titoli statuali, i quali aveano comprato ogni 5 lire di rendita per 110, e fin 118 lire, e se li son veduti discendere, come se li vedranno tra brevi giorni, sotto il 40. Per questi sventurati il danno è stato di quasi due terzi del loro capitale. Gli altri possessori hanno sofferto meno: giacche colla mobilità delle cartelle han potuto dividere con molli le perdile del ribasso: ma il danno per la massa intera della popolazione è stato uguale. Giacche queir infinito numero di persone che han comprato e successivamente venduto con qualche perdila quelle carte circolanti e sempre perdenti, costituiscono una vera massa di creditori perdenti. Né sufficiente compenso è per gli ultimi compratori la cifra elevata del l'interesse: giacche, oltre che questo è in parte roso dalle perdile dei titoli venduti con ribasso, è continuamente svilito dalla paura della riduzione.

Questa parola, così spaventosa per tutti i possessori di cartelle governative, fu già messa innanzi da parecchi deputati e finanzieri d'Italia: da alcuni più spietati come rimedio agli sbilanci annuali dell'Erario, da altri più accorti come conseguenza non desiderabile ma necessaria del sistema presente di amministrare. Prescegliamo fra tante l'autorità del eh. M. Pescatore, che ne parla un po' nell'uno e un po' nell'altro senso. Egli crede che se non siamo ancora giunti alla vera necessità di ridurre la rendita, vi ci andiamo nondimeno avvicinando, un po' per elezione, un po' per necessità di chi governa l'Italia.

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«Per arrivare alla riduzione, dic'egli, bisogna mascherare, confondere, continuare a spendere, a spingere, accrescere il debito, alienando ogni anno sotto diverse forme un quindici o venti milioni di rendita pubblica. Quando questa sia ridotta al valore commerciale di quaranta su cento, la batteria si smaschera: — Vedete (allora si dirà) lo stato reale del Tesoro! esso è sconfitto: oggimai questa massa enorme di debito, che sommerge il paese, è venuta in mano di capitalisti, i quali se l'ebbero a bassissimi prezzi, e già da troppi anni si godono un interesse del dodici per cento sul prezzo effettivo dei loro acquisti.

«Le vecchie doti, i vecchi impieghi privilegiati oggimai li dobbiamo credere liquidati; gli impieghi privilegiati più recenti ebbero pure il favore dei recenti prezzi della rendita già svilita: i corpi morali, possessori di rendita, comprata ab antico a prezzi elevati, stanno nel dominio assoluto della legge: e quei pochi privati, rimasti anch'essi possessori di titoli comprati a prezzi maggiori, perché si ostinarono a non voler considerare l'eventualità inerente alla carta pubblica, debbono imputare il danno, che soffrono, alla loro imprudenza: lo Stato non può riaversi altrimenti; i prezzi sono oggimai fissati al quaranta: impossibile che si rialzino: è tempo dunque di cessare un disastroso e indebito pagamento di una indennità ai recenti compratori di una carta perdente, imponendo tributi alla nazione, la vera danneggiata, frammezzo alla quale il danno delle cartelle, che già da lunghi anni scapitarono a poco a poco, si divise e si sparse: è tempo, in una parola, di rimborsare la carta, straordinariamente svilita, al tasso del suo valore effettivo, al tassò del quaranta, a cui stabilmente discese; e per un valore effettivo di quaranta lire la rendita del due e mezzo, sostituta al cinque primitivo, ben può considerarsi ancora come un largo e generoso rimborso.

— Ed eccovi, amici miei, in qual modo la cosa pubblica si conduca man mano alla riduzione del debito..» Fin qui l'accorto deputalo 1, e con tutta ragione: poiché chi ha oramai esaurito lutti i provvedimenti gabellarli per far quattrini, e vuol seguitare a spendere più di quello che gli avanza dopo il pagamento dei suoi debiti,

 1 V. Politica finanziaria, e riduzione del Debito pubblico nel Regno d'Italia. Torino 1870, pag. 56 e seg.

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deve necessariamente ricorrere all'uno dei due spedienti: o dichiarare la bancarotta, o chiamare i suoi creditori al concorso, per ripartir fra loro come può il poco attivo che gli rimane. Or de'  due mali certo minore è questo secondi), il quale ha di più per se le apparenze meno svergognale. Né si creda celesta una paura esagerata, o un progetto impossibile. Peggio della riduzione sarebbe al cerio la bancarotta: eppure questa non fa spavento a certi uomini di Stato. Più d'una volta Cavour, incalzato nel Parlamento sul crescere del debito pubblico, gridò sogghignando: «Getteremo al fuoco il Gran Libro.» Lo slesso, sebbene con frase meno beffarda, disse Cambray-Digny ministro, alle Camere nel 1868: «Noi non potremo impedire l'ultimo disastro delle nostre finanze.» Conseguenza di tutti questi aggravii, e pel minuto popolo più fatale di essi, è filialmente l'incarimento sopravvenuto dei viveri. Fatto il ragguaglio tra il 1860 e il 1869, può dirsi che la vita in Italia è divenuta in questo periodo di tempo il doppio più cara che non fosse innanzi. Molti scrittori ne han composte tavole di paragone per le città dov'essi vivevano, e ne potremmo citare parecchie d'una evidenza troppo funesta. Ma porteremmo lucciole in Alene: giacche ognuno dei nostri lettori il sa per pruova. Ammesso adunque un cotal fatto, noi dimandiamo come potrà fare il popolo per vivere? Guadagnai ora l'operaio, l'impiegato, il piccolo proprietario duo volte tanto che prima? No, certamente, giacche l'aumento sui salarli e sui soldi., se aumento vi fu e dove fu, è appena appena sensibile; e i proprietarii prediali, specialmente i più tenui, scemarono non crebbero di entrala. L'interesse o lo sconto dei capitali ò ora in Italia diminuito in proporzione dell'aumento dei viveri? Tutto al contrario; perché ora non trovasi generalmente denaro in prestito ad usura minore del 10 per %. Da questi due fatti deduciamo due altre conseguenze. La prima si è che questo rincaro di generi, non essendo accompagnato da proporzionale aumento di Balani, e decremento d'interessi, è il segno più manifesto di miseria pubblica.

La seconda si è, che non solo l'agiatezza, ma eziandio il ben essere,

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eziandio il sufficiente è eliminato dalle famiglie del popolo, con danno notabile delle complessioni e della salute. Quante sventure accumulate insieme sul capo degl'italiani!

XI.

Ma non minori ne accumulò coi pessimi suoi metodi il Governo stesso a proprio danno. Essi possono restringersi in poche parole, dicendo che la cagione del discredito, della disistima, del malcontento, dell'impotenza a che esso è manifestamente ridotto presso i suoi sudditi e presso gli stranieri, dimora principalmente nello stato delle sue finanze. Gl'Italiani per tante guise aggravati e senza compenso, natural cosa è che né pregino, né amino, né secondino un Governo, nella cui incapacità e dissennatezza riconoscono la cagione precipua di tante loro sciagure. I forestieri, che quando trattasi d'interessi, poco si curano delle teoriche, ma guardano ai fatti; non hanno più fiducia nò sulla parola dei Ministri, né sulle promesse degli uomini di Stato, nò sul credito degli uomini d'affari: e quindi in ogni faccenda domandano guarentigie reali, e in ogni contratto esigono mille cautele, e vogliono per soprappiù il pegno in mano. Oh quanto l'Italia unificata e scaduta di credito nel mondo! Intanto il Governo si dibatte nell'annuo disavanzo, che cerca indarno di pareggiare ogni anno, ed ogni anno mira sempre più dilungarsi.

Ai debiti non può ricorrere più, perché non trova più chi presti. Alle imposte non può ricorrere più, perché colla legge testé votata nelle Camere ha toccato, se non valicato il massimo limite a cui l'Italia può ora essere ridotta. Alle economie non osa ricorrere più, perché colle abitudini create dall'una parte, e col fremito d'indegnazione che dall'altra covasi in petto a tutti, non vuol alienarsi i pochi rimasigli ancor fedeli, che sono appunto coloro che vivono a spese dello Staio. La quistione dunque finanziaria è divenuta per lei non solo la più difficile di tutte le altre, ma sopra tutte le altre pericolosa.

Essa è una minaccia perenne alla stessa unità dell'Italia, è un precipizio che paurosamente spalancasi sotto i piedi dei governanti.

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XII.

Ma tempo e di conchiudere questo nostro discorso. Non fu certo nostra colpa se esso riuscì un continuo processo della rivoluzione.

Se in tutti gli altri risguardi la rivoluzione accumulò in Italia disastri e rovine, nei drilli, nella giustizia, nella moralità, nella religione; in questo delle finanze non riuscì punto men disastrosa, punto men rovinosa. La sola differenza è questa: che negli altri rispetti quelle che chiamansi iatture dai più, vengono da alcuni chiamali guadagni: ma nel rispetto economico tutti gl'Italiani trovansi d'accordo, tutti gridano ugualmente, lutti sono al paro spaventali. Noi adunque, lasciati da banda i primi, che non han bisogno di nostri stimoli, dimanderemo ai secondi: valeva egli la pena di sconvolgere da capo a fondo L'Italia, di distruggerne tutte le tradizioni più care, di offenderne tutti gl'interessi più sacri, per ridurli poi a tanta miseria, cui siete ora tanto inetti a riparare, quanto foste incapaci ad impedire? Sarà dunque compenso proporzionato a tante indigenze da voi create questa unificazione, in nome della quale le avete prodotte? Asciugherà essa le lacrime di tanti che piangono, satollerà essa la fame di tanti che svengono, ristorerà essa le perdite di tanti cui riduceste alla mendicità? Se voi ascoltaste non la voce menzognera dei vostri piaggiatori, non la lode addormentatrice dei vostri complici, non l'approvazione interessata dei vostri clienti; ma bensì la voce vera di tutto il popolo italiano, dall'Etna alle Alpi, udreste un grido solo levarsi, un volo solo manifestarsi. Quel grido quel voto lo avete provocato voi, è tutta opera vostra: poiché a voi devesi questo senso universale generato da universale sciagura, che tutti ugualmente ha colpito n ciò che è più accessibile a tutti, gl'inti materiali. Quel grido condanna il vostro passalo: quel Noto chiama un altro avvenire. Iddio faccia che questo avvenire sia un avvenire riparatore: e che l'Italia, fatta accorta degli errori fin qua commessi, non gittisi a nuove venture, che invece di riparare ai danni antichi, ne abbiano ad accumulare dei nuovi!















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