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La famosa "RELAZIONE OFFICIALE DEGLI AVVENIMENTI DI NAPOLI" pubblicata in Messina il 29 Maggio 1848 conteneva un cumulo di falsità sugli avvenimenti di Napoli.

Si dovette aspettare il 1873 per leggere in un'opera di uno dei protagonisti, Giuseppe Ricciardi, alcune smentite di parte liberale - per una ricostruzione di parte borbonica potete leggere: Avvenimenti di Napoli del 15 Maggio 1848 (Gennaro Marulli, Napoli 1849).

Intanto il Regno di Napoli era crollato, e le sue provincie devastate sia economicamente che socialmente.

Da allora non si sarebbero più riprese.

Zenone di Elea – Aprile 2015

UNA PAGINA DEL 1848 OVVERO STORIA DOCUMENTATA

DELLA SOLLEVAZIONE DELLE CALABRIE

DI G. RICCIARDI

già deputato al Parlamento italiano

N A P O L I

Tipografia s. Pietro a Maiella 31

1873


(se vuoi, scarica il testo in formato ODT o PDF)

PROEMIO

L’episodio della rivoluzione del 1848, che sono per ricordare, non è molto noto in Italia, quantunque di sì gran mole, che, al veder mio, se le altre provincie del già reame di Napoli imitato avessero le Calabrie, o i deputati napoletani del 1848 tenuto avesser l'invito, che tre miei colleghi ed io facemmo loro dalla città di Cosenza, dopo la fatale giornata dei 15 maggio, ed in seguito della solenne protesta firmata in quel giorno da sessantaquattro fra loro, tutt'altra piega avrebbero preso le cose d'Italia, ché anzi il costei risorgimento sarebbe stato iniziato fin da quell'ora. Eppure i più fra gl’istoriografi dei memorabili casi del 1848 poco o nulla notarono intorno a quelli delle Calabrie, quasicché pel trionfo della causa italiana combattuto colà non si fosse, e la sollevazione operata allora in quel lembo estremo d'Italia, non fosse stata eccellente apparecchio all'impresa maravigliosa consumata da Garibaldi nel 1860, a quel modo che il sacrifizio sublime dei fratelli Bandiera e consorti, nel 1844, era stato glorioso preludio, comeché infelicissimo, agli avvenimenti del 1848.

Napoli, il dì 1° settembre del 1866.

Il tentativo calabro del 1848 fu originato dai fatti luttuosissimi del 15 maggio, i quali essendo stati minutamente descritti in più libri, ma segnatamente nei miei Cenni storici, non mi farò a ricordare, se non mercé il documento qui appresso, da me rinvenuto in un volume, dato fuori in Napoli nel 1848, pei tipi del giornale L'Araldo, con questo titolo: Documenti storici riguardanti l'insurrezione calabra, preceduti dalla storia degli avvenimenti di Napoli del 15 maggio. Pubblicato da mano nemica (chi dice del conte Marulli, autore del racconto relativo ai casi del 15 maggio, chi d'un maggiore Cortada), collo scopo evidente di porre in mala luce la parte liberale, il volume in discorso le riesce invece di onore, il perché molto io sarò per ricavarne, ogni cosa in ordine cronologico disponendo. Giovi notare altresì, le carte, di cui son per giovarmi, esser cadute in due modi alle mani del governo borbonico, cioè mercé la cattura nell'acque delle isole jonie dei Siciliani capitanati dal Ribotti, e mediante la smemorataggine dei segretarii del comitato di Calabria Citra, da me preseduto, i quali, smarritisi affatto in Tiriolo, nella notte dei 6 ai 7 luglio del 1848, (allorché i Siciliani avendoci colà abbandonati, noi pure coi Calabresi subitamente ci dipartimmo alla volta dei monti silani e del mare) obliarono tutto l'archivio nel chiostro dei Cappuccini, dov'eravamo alloggiati, ed il quale alcun giorno dopo era occupato dai regii.

RELAZIONE OFFICIALE

DEGLI AVVENIMENTI DI NAPOLI

«Nel pubblicare il racconto degli ultimi avvenimenti di Napoli, lasciatoci da taluni onorevoli Deputati al Parlamento napoletano, i quali transitavano il giorno 24 da qui per Malta, sul piroscafo francese il Plutone, annunziammo non essere in nostro potere il dar fuori la solenne protesta fatta da quel nobile consesso prima di sciogliersi, poiché nella fretta dimenticato erasi compiegarla. Promettemmo quindi recarla a conoscenza del pubblico, appena ci fosse giunta alle mani.

«Fedeli alla nostra parola, essendo ieri alle 2, p. m. tornati da Malta i prelodati rappresentanti, ed avendoci fatto tenere copia della cennata protesta, con molti altri particolari ed aggiunte relative ai fatti medesimi, ci affrettiamo a farne una seconda edizione.»

«Messina, ai 30 maggio del 1848.»

Urge l'opporre una relazione genuina degli ultimi fatti di Napoli a quella, piena di sfrontate menzogne, pubblicata dal Ministero di Ferdinando nel foglio uffiziale dei 19 maggio, ed alle calunnie, onde la Camera dei Deputati e la guardia nazionale sono state bersaglio.

I rappresentanti della Nazione, in numero di 99, riuniti in assemblea preparatoria nel palazzo della Città, la mattina dei 14 maggio, credettero loro debito il discutere il programma dato fuori dal Governo il giorno 13, programma, in cui, nel fermarsi l’ordine della cerimonia del giorno 15, imponevasi ai Deputati un giuramento, di cui non degnavasi porgere loro la formola. Cosa di alta importanza riputandosi il giuramento, su questo principalmente aggirossi la discussione. Parecchi Deputati insistettero energicamente, affinché la quistione del giuramento fosse aggiornata, essendo assurdo il costringere la rappresentanza nazionale a giurare una Costituzione, per dir così, provvisoria, siccome quella che, giusta il consentimento dello stesso potere esecutivo, doveva essere svolta dal Parlamento.

Questa opinione non essendo prevalsa, parecchie formole di giuramento furono proposte, ed una specialmente dal Deputato Pica, la quale, accettata alla quasi unanimità (diciamo quasi, perché i pochissimi dissenzienti furono pel non giurare), venne inviata al Re, per mezzo di una Deputazione. Due ore dopo si ebbe in risposta: la formola del giuramento dover essere quella medesima usata il dì 24 febbraio. La Camera essendo rimasta ferma nella sua prima risoluzione, ed avendo mandato al Re una nuova Deputazione, poco dopo il Ministro Conforti recossi personalmente in seno dell'assemblea, onde significarle, il Re acconsentire ad aggiungere alla formola primitiva le seguenti parole: «salve le leggi di svolgimento, da venire adottate dai tre poteri riuniti».

Indi a poco uno dei Deputati, Camillo Cacace, reduce da Palazzo, e, da ultimo, il Principe di Strongoli, venuto in nome dei Pari, si fecero, l'uno a riproporre la prima formola porta in nome del Re, l'altro una terza formola atta a conciliare le opposte opinioni. Si apriva la discussione intorno al partito da prendersi, quando l'uffiziale della guardia nazionale preposto alla custodia del palazzo di Città irruppe nella sala, annunziando la marcia delle truppe verso Montoliveto, e l'intenzione della guardia nazionale di opporre loro le barricate. Un moto di maraglia e d'indegnazione, da non potersi descrivere, scoppiò nella sala ad annunzio siffatto, ed indi l’unanime grido: «Vengano pure le baionette, «noi continueremo a discutere».

Sulla proposta del Deputato Ricciardi, il generale Gabriele Pepe fu incaricato di mettersi alla testa della guardia nazionale, e di vegliare alla pubblica salute durante le deliberazioni dell'assemblea, da cui non partì impulso nessuno all'insurrezione, nata soltanto dal vedersi dalla guardia nazionale e dal popolo l'ostinazione del Re, prima nel voler la Paria, impopolarissima in tutto il reame, poi nell'ostare alle giuste domande dei Deputati. Ove il Re non avesse imposto verum giuramento alla Camera, o avesse accettato la formola, che gli era stata proposta, la tranquillità pubblica non sarebbe stata in nulla alterata,  né la misera Napoli sarebbe stata costretta a deplorare l'effusione di tanto sangue, le rapine, gl'incendii, l'enormità inaudite, commesse da una brutal soldatesca e dal più sozzo fecciume.

Il Deputato Stefano Romeo fu tra i più ardenti nel porre innanzi l'idea del veder mutato il Parlamento in Assemblea Costituente: ma la maggior parte fu sempre pei partiti moderati, il che non la salvava, per altro, dall'esser tacciata di sediziosa dal governo di Ferdinando. Messesi ai voti le due formole, cioè quella proposta dal Re, e quella proposta dal Deputato Pica, l'assemblea, tranne pochissimi, prescelse la seconda, la quale risoluzione venne comunicata al Ministero per mezzo di una Deputazione. Intanto l'agitazione al di fuori cresceva, indi quella nel seno dell'assemblea.

Alcuni Deputati proposero di differir la seduta al dimani, per poter prendere una risoluzione diffinitiva, secondo gli avvenimenti che avrebbero avuto luogo la notte, e l'attitudine del Governo. La quale mozione non potette aver seguito a cagione degl'incidenti qui appresso. Erano le due dopo la mezza notte. Il signor Vacca, direttore del Ministero di Grazia e Giustizia, e il signor Dupont, vennero, da parte del Re, a riferire alla Camera: consentire egli che si aggiungessero alla formola del giuramento prestato in S. Francesco  di Paola tutte le riserve contenute nel programma dei 5 aprile, facendo così un passo innanzi dalla comunicazione fatta dal sig. Conforti. Infatti quest'ultimo proponeva, da parte del Re, una riserva, la quale toccava la sola applicazione dello Statuto, che si voleva serbare intatto: questo pensiero era espresso nelle parole: salve le leggi di svolgimento, con cui il Re intendeva parlare delle ordinanze e dei decreti, che avessero sol relazione coll'applicazione dello Statuto.

I signori Dupont e Vacca venivano a proporre ora le stesse parole del programma, le quali significavano lo svolgimento dello Statuto in sé stesso.

La Camera fece dalla sua parte osservare non potere accettare neppure la nuova proposta, perché, ponendo da canto la quistione della modifica dello Statuto, la quale tenevasi quasi appianata, egli era certissimo, che, col ritenere la antica formola del giuramento, la quistione siciliana era compromessa, perché in questa formola si diceva che la Costituzione della Monarchia era scissa. Una tal formola una volta giurata, la Camera si sarebbe impegnata in una guerra nazionale contro la Sicilia. Perciò la Camera persisteva nella formola da essa adottata, la quale la lasciava libera nella quistione siciliana. Proponeva quindi di nuovo, o che non si giurasse in nessuna maniera, o, dovendosi giurare, la formola fosse quella adottata già dalla Camera.

In questo frattempo un uffiziale della flotta francese venne introdotto nella sala, e, rivoltosi al Vice-Presidente, disse aver egli parlato coll’uffiziale di guardia del vascello ammiraglio, e col figlio dell'ammiraglio medesimo, e aver da costoro sentito il desiderio in cui era il suo ammiraglio di essere accertato, che la libertà del paese si trovasse sotto la tutela della guardia nazionale: sperare che nessun conflitto avverrebbe fra le truppe del Re e la guardia nazionale; ma che ove mai siffatta calamità avesse luogo, sbarcherebbe delle truppe per aiutare la guardia nazionale nella difesa della libertà, e dei diritti del popolo napoletano. Erano le quattro dopo la mezzanotte.

ll colonnello Piccolellis, Deputato, essendo stato chiamato dal Re, fu incaricato dalla Camera di comunicargli quest'ultima deliberazione. Alle cinque il colonnello Piccolellis ritornò, e fece sapere che il Re consentiva non si giurasse, ma che intanto fossero tolte le barricate, acciò la mattina si facesse la funzione in S. Lorenzo, e si aprisse il Parlamento.

Il colonnello stesso dichiarò alla Camera, la quale fu di ciò paga, che avrebbe fatto togliere le barricate, e si sarebbe recato dal Re per dargli risposta, siccome aveva promesso. Ma il Piccolellis rintanavasi invece nella sua casa, e la Camera, non vadendolo ritornare, decise, dietro l'avviso del Deputato de Lieto, dar fuori un breve proclama, affine di poter persuadere efficacemente la guardia nazionale a disfare le barricate.

Si attese il Ministro Manna, il quale si fece a ripetere ciò che avea detto il Piccolellis circa le barricate da venire disfatte, la qual cosa fu consigliata dall'assemblea per via di un affisso, e di una Deputazione di dieci membri, i quali oralmente, in compagnia del Ministro, confortarono le guardie nazionali a ritirarsi alle loro case. Dopo di che l'assemblea si disciolse, per riunirsi la stessa mattina, alle ore 9, onde procedere in corpo alla chiesa di S. Lorenzo.

Alle due dopo la mezzanotte, il Re, saputa l'attitudine ferma dei Deputati e le disposizioni della guardia nazionale, avea comandato che le truppe si ritirassero nei rispettivi quartieri, lasciandone solo alcuna parte intorno al proprio palazzo, Così passava la notte dei 14 ai 15 maggio. La mattina dei 15 parte non poca della guardia nazionale e molta del popolo, vedendo uscire di nuovo le truppe dai loro quartieri, attendeva a fornire le barricate con grandissimo zelo, non profferendo però verun grido, e mostrando soltanto di voler tutelare i diritti della nazione, e provvedere alla sicurezza dell'Assemblea nazionale.

In questo frattempo i Deputati recavansi da ogni parte a Montoliveto, e veniva lor detto dalle guardie nazionali: noi abbiamo fatto il nostro dovere, tocca a voi compiere l'opera nostra. La Camera si riuniva verso le 10, e, dopo alcuna discussione, spediva a Palazzo una Deputazione composta dai signori Capitelli, Pica, Poerio ed Imbriani, a richiedere il Re dell'apertura del Parlamento, fosse pure per mezzo di un commissario regio, acciocché le deliberazioni della Camera potessero avere efficacia maggiore, e giovare così a ricondurre la calma nella città. Intanto il Deputato Ricciardi faceva la seguente mozione:

«La situazione, ei diceva, è mutata di molto da ieri in poi, il perché diverso esser debbe il nostro linguaggio colla Corona. La diffidenza della nazione, ed in ispecie delle milizie civili, è cresciuta a mille doppii: unico mezzo a farla cessare sarà l'ottener dal Governo garanzie positive. Io propongo gli sieno indirizzate al più presto le due seguenti domande moderatissime; moderatissime, io dico, in ragione dei miei principii e desiderii ben noti: 1.° la consegna delle castella in mano della guardia nazionale, 2.° lo scioglimento, ovvero l'invio della guardia reale in Lombardia. ché se il Governo sarà per opporci il pessimo stato delle nostre finanze, e noi diamo al paese l'esempio del sacrifizio, soscrivendo ciascuno secondo le proprie facoltà. Ed io, primo nell'opposizione, mi segno fra i primi per la somma di ducati 100».

Il Deputato Bellelli si oppose alla discussione del partito proposto dal Ricciardi, adducendo proposta nessuna doversi discutere pria che la Camera fosse costituita regolarmente. E la Camera seguiva l'avviso del Bellelli, e poi, divisa a crocchi, intrattenevasi delle pubbliche cose, allorché parecchi uffiziali della guardia nazionale furono introdotti nella sala. Rivoltisi al Presidente, lo pregarono di manifestar loro le intenzioni del Parlamento intorno al disfarsi o no delle barricate, voci ed ordini contraddittori essendo corsi nelle milizie civili.

Il Presidente rispose: la Camera non poter prendere risoluzione alcuna, prima che giungesse la risposa della Deputazione inviata al Re. Poco dopo questo colloquio, l'uffiziale di guardia entrò a furia dicendo: il fuoco è aperto, e le truppe marciano contro di noi da ogni parte. Un grido unanime d'indegnazione e di sdegno si levò nella sala, ed appena riuscì possibile il fare udire all’assemblea la voce di un oratore, il Deputato Ricciardi prese la parola per fare vivissima istanza, affinché il Parlamento si mutasse immediate in Assemblea Costituente, e scegliesse nel proprio seno i membri di un governo provvisorio. Ma solo pochi appoggiarono caldamente il Ricciardi, e più d'uno fra i Deputati della maggioranza sostenne la contraria sentenza.

Frattanto il cannone incominciava a farsi sentire. L'agitazione immensa, in cui era la Camera, venne accresciuta da un irrompere successivo nella sala di molte guardie nazionali, le quali dal luogo del combattimento recavano palle ancor calde. La Camera, prima di adottare una risoluzione qualunque, fermò di spedire varie Deputazioni, sia a prendere informazioni esatte dell'accaduto, sia a far cessare le ostilità.

Nuovi avvisi, allarmanti sempre, essendo recati alla Camera, il partito proposto dal Ricciardi fu messo ai voti, ed eletto un Comitato di pubblica salute, composto dai signori Topputi, Bellelli, Lanza, Giardini, Petruccelli, e Spaventa segretario. Prima risoluzione del Comitato fu di partecipare la propria esistenza al Ministero; seconda l'inviare al Comando di Piazza una lettera, in cui si chiedeva ragione del conflitto, e si confortava l'autorità militare a farlo cessare; terza il delegare presso l'incaricato della Repubblica francese e l'ammiraglio Baudin i Deputati Ricciardi e Giuliani, onde ottenere, per mezzo loro, e che l'effusione del sangue cessasse.

Intanto le guardie nazionali sollevate battevansi eroicamente contro le truppe dieci volte più numerose, e le quali, adoperando il cannone e la mitraglia, disfacevano a mano a mano le barricate. Qui incominciano scene d'inaudita ferocia per parte dei regii.

Oltre la resistenza grandissima opposta dai sollevati, i quali difesero a palmo a palmo il terreno dal largo S. Ferdinando a S. Teresa, per più di sette ore, un fuoco assai vivo facevasi dalle finestre, per modo che numerosi molto erano i feriti ed i morti dal lato della truppa. Irritatissima questa per le perdite gravi da lei sostenute, prese ad invadere, non solo le case tutte, dalle quali piovevano fucilate, ponendole a sacco ed a fuoco, ma quelle bensì di cittadini inoffensivi affatto.

Crudeltà immense furono commesse per ogni dove: donne, vecchi, fanciulli, uccisi, vergini violate, guardie nazionali strascinate ai castelli e passate per le armi senza giudizio! Alla Carità cinque persone inermi furono fucilate, fra cui un Tornabene, Siciliano. A S. Brigida circa trenta persone furono assassinate in pari modo! L’esempio dato dai soldati in materia di sacco, fu tosto seguitato dai popolani, ai quali i primi dicevano: rubate! Pur ciò non sarebbe bastato ad ispingerli alle rapine, se parole memorabili veramente non fossero state profferite dal Re, il quale alla moltitudine accorsa ad acclamarlo nella corte medesima del Palazzo, aveva detto: Napoli è vostra! ()

Ed allora quella plebe medesima, ch'era stata veduta aiutare la guardia nazionale, prima nel fare le barricate, poi nel combattere contro la truppa, se non coi fucili, di cui mancava, almen colle pietre, diedesi ad ogni eccesso più grave nel rapinare. Mentre la misera Napoli era così bersagliata, mentre i palazzi Cirella e Benucci erano offesi dalla mitraglia, poi devastati da capo a fondo, mentre l'albergo del Globo era scena di orribile strage, il Castel Nuovo traeva a scaglia da tutte parti, con grave danno della città. Le truppe avanzavano intanto verso Montoliveto, sede del Parlamento, il quale, anziché sciogliersi, deliberava, e, prevedendo che la forza brutale lo avrebbe ben presto investito, firmava la seguente nobil protesta, dettata dal Deputato Mancini.

«La Camera dei Deputati, riunita in Montoliveto nelle sue sedute preparatorie, mentre era intenta ai suoi lavori, ed all'adempimento del suo sacro mandato, vedendosi aggredita con inaudita infamia dalla violenza delle armi regie nelle persone inviolabili dei suoi componenti, nelle quali è la sovrana rappresentanza della Nazione, protesta in faccia alla Nazione medesima, in faccia all'Italia, l'opera del cui provvidenziale risorgimento si vuol turbare con «nefando eccesso, in faccia a tutta l'Europa civile, oggi ridesta allo spirito di libertà, contro quest'atto di cieco ed incorregibile dispotismo, e dichiara ch'essa non sospende le sue sedute, se non perché costretta dalla forza brutale; ma, lungi dall'abbandonare l'adempimento dei suoi solenni doveri, non fa che sciogliersi momentaneamente, per riunirsi di nuovo dove ed appena potrà, affin di prendere quelle deliberazioni, che sono reclamate dai diritti del popolo, dalla gravità della situazione, e dai principii della conculcata umanità e dignità nazionale».

«Napoli, 15 maggio 1848, in Montoliveto, alle ore sette pomeridiane.»

(Seguono le firme di 64 Deputati)

Il Deputato Stefano Romeo, essendo sceso in piazza, ed avendo veduto il pericolo sempre crescente pel Parlamento, ed udito il grido de soldati: abbasso la Costituzione, tornato tosto fra i suoi colleghi, prese la parola, a proporre la decadenza dal trono di Ferdinando e la nomina di una reggenza in nome del figliuolo primogenito del Re.

Alla quale proposta la maggioranza rispose col grido: aspettiamo gli avvenimenti.

Le truppe non osando assalire il palazzo di Città, eppure volendo spaventare i rappresentanti della Nazione, sotto pretesto che dal palazzo del conte di Camaldoli (detto comunemente di Gravina) fossero state tratte alcune fucilate, dietro il comando del generale Nunziante, avventarono razzi alle finestre, e piantarono il cannone contro la porta. La quale sfondata, lo invasero.

Lungo sarebbe il descrivere le atrocità quivi commesse. Diremo solo, che nel quartiere della signora Elisabetta Ricciardi, sorella del Deputato, furono scannate otto persone affatto inermi, e che il sacco ed il fuoco discorsero da un capo all'altro quel vastissimo casamento. Cominciavano appena queste opere infami, quando due battaglioni di guardia reale e di Svizzeri, accerchiato il palazzo di Città, fu chiesto alle poche guardie nazionali, che lo custodivano (il resto era ito a combattere), di aprire le porte.

Avvertito di ciò il Presidente, ordinava si aprissero, e tosto un capitano, salito al cospetto del Parlamento, dichiaravalo sciolto in nome del Re. Essendosi domandato dal Presidente quale sarebbe stato il contegno della truppa, ove l'Assemblea nazionale avesse ricusato di sciogliersi, ed avendo il capitano replicato: si adopererebbe la forza, il Presidente disse: ritiratevi: il Parlamento delibererà. Infatti, ritiratosi il capitano, deliberossi intorno al da farsi, e ben presto fu risoluto alla unanimità di sciogliersi la seduta.

Al disperdersi dei rappresentanti della Nazione, crebbero il fuoco e le stragi, in cui, ad onore del vero, gli Svizzeri superarono di gran lunga gli stessi soldati delle guardie reali e della real marina. E da notarsi che gli antichi gendarmi, ribattezzati col nome di guardie d'interna sicurezza, si condussero umanamente.

Delle varie deputazioni spedite dal Parlamento, due sole potettero tornare a Montoliveto, quella, cioè, del generale G. Pepe e di Giovanni d'Avossa, mandati senz'alcun frutto dal Comitato di pubblica salute alla Piazza, e l'altra di Giuliani e Ricciardi, inviata dallo stesso Comitato a bordo della flotta francese, se non che l'ultima non giunse a Montoliveto, che mezz'ora dopo la dispersione del Parlamento. Recatisi Ricciardi e Giuliani, prima dall’incaricato di Francia, poscia, ad una con questi, sulla capitana francese dell’ammiraglio Baudin, richiesero entrambi con parole caldissime, d'intervento non già, ma della loro mediazione a far cessare l'effusione del sangue. Ma dopo un'ora di conferenza fra l'ammiraglio e l'incaricato, il primo, fatto chiamare i due commissarii, annunziò loro non altro potere a pro della buona causa, se non inviare al Re una lettera consigliatrice di pace. La quale fu tosto spedita per mezzo del comandante del vascello. I due messi, desiderosi di dar contezza dell'operato ai loro colleghi, recaronsi, ad onta di ogni pericolo, a Montoliveto, ma troppo tardi, siccome abbiam detto. Non descriveremo l'orribile notte dei 15 ai 16 maggio.

Diremo solo, che re Ferdinando, gittata la maschera, quantunque dicasi ancora Re Costituzionale, ha sciolto il Parlamento, ha sciolto e fatto disarmare la guardia nazionale, ha soppresso la libertà della stampa, e dichiarato Napoli in istato di assedio. Dopo i quali atti non farà meraviglia l'istituzione di una commissione inquisitrice, alla quale è affidato l'incarico di procedere contro i pretesi fautori dell'insurrezione, e le cui facoltà si estendono a ricercare i fatti riputati colpevoli fino al dì primo maggio!

Il Regno di Ferdinando non ha altre basi oramai, se non quelle della più vile plebaglia, e di una più vil soldatesca, intrisa del sangue dei cittadini; e però non potrà durar lungamente nell'Europa civile, e tutta bramosa di libertà, del 1848.

Messina, ai 29 Maggio del 1848.

I Deputati

Costabile Carducci

Ferdinando Petruccelli

Stefano Romeo

Domenico Mauro

Casimiro De Lieto

__________________________

Seguono undici note del compilatore anonimo della raccolta, in cui, da una parte smentisconsi non poche fra le cose asserite dai cinque deputati, e dall’altra asserisconsi parecchie menzogne, fra le quali non ultima quella della mia fuga dalla parte del quartiere della Cavalleria, dove tutti conoscono, che, dopo avere adempito l'uffizio commessomi dal Comitato di salute pubblica, cioè quello di gravare l'incaricato della Repubblica francese e l'ammiraglio Baudin di interporsi fra i sollevati ed il Re, tornai col mio collega Giuliani, ad onta di mille pericoli, a Montoliveto,  né mi ritrassi a casa, indi a bordo del Friedland, se non allora che l'opera mia si fu resa inutile affatto alla causa della libertà e della patria.

L'anonimo annotatore avrebbe potuto con assai più ragione tacciare la narrazione sopra trascritta d'alcuna esagerazione, quanto al numero degli uccisi in casa di mio fratello, dove, non otto furono le persone trucidate nella stanza di mia sorella, ma due, vale a dire il Ferrara, capitano della guardia nazionale, e la costui madre, settuagenaria, cui i satelliti del Borbone, non contenti ad averla scannata, abbruciarono, e ciò mentre la moglie del Ferrara, presa da estremo spavento, precipitavasi da una finestra, e si fiaccava le gambe.

L'anonimo avrebbe potuto impugnare altresì l'autenticità delle firme apposte al documento sopranotato, il quale, tranne ciò che ho accennato, è molto fedele, quanto all'esposizione dei fatti, ma non potette esser firmato da tre fra i cinque deputati, di cui vi si leggono i nomi, per la ragion semplicissima che Costabile Carducci, Ferdinando Petrucelli e Domenico Mauro non erano,  né poteano trovarsi ai 29 maggio in Messina, dove ero in quel giorno io medesimo, giuntovi poco prima da Malta, con animo di gittarmi in Calabria.

Io non so il perché gli editori del documento per me trascritto di sopra v'apponessero in calce i nomi del Carducci, del Petruccelli e del Mauro, i due primi fra i quali non giunsero in Sicilia che in giugno, mentre il terzo, subito dopo il 15 maggio, da Napoli se ne andava difilato in Cosenza, dov'io lo rinvenni il giorno 2 giugno; ma questo so bene, che l'esposizione pubblicata in Messina, colla data dei 29 maggio, venne dettata a bordo del vapore francese Il Plutone, fra i 23 ei 24 maggio, durante il tragitto fatto sovresso da Napoli a Malta da Stefano Romeo, da Antonino Plutino, da Casimiro de Lieto e da me, e lasciata in Messina, al nostro passare colà, il dì 24.

Ognuno di noi suggerì la sua parte di fatti, e mentre l'uno dettava, l'altro scriveva, e mentre il terzo faceva le sue osservazioni, il quarto rettificava le cose già scritte; il perché, ripeto, all'infuori di ciò che accenna delle vittime del palazzo Ricciardi, il racconto è esattissimo, siccome quello che venne da testimoni oculari, non usi certo a falsare la verità.






















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