Eleaml - Nuovi Eleatici


USI E COSTUMI 

DI NAPOLI E CONTORNI DESCRITTI E DIPINTI 

OPERA DIRETTA DA FRANCESCO DE BOURCARD

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VOLUME PRIMO - 01B

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NAPOLI

STABILIMENTO TIPOGRAFICO DI GAETANO NOMLE

Vicoletto Salata a'  Ventaglieri num. 14.

1853

01A - Usi e costumi di Napoli e contorni - opera diretta da Francesco de Bourcard - HTML

01B - Usi e costumi di Napoli e contorni - opera diretta da Francesco de Bourcard - HTML

02A - Usi e costumi di Napoli e contorni - opera diretta da Francesco de Bourcard - HTML

02B - Usi e costumi di Napoli e contorni - opera diretta da Francesco de Bourcard - HTML


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LO SCRIVANO PUBBLICO

 La beautè ili; l'èdifice moral ne consiste pas

seulement dans la grandeur des

dimensions, mais aussi et surtout dans

la sagesse des proportions.

DEGERANDO

ALL'ombra del portico che decora l'ingresso del massimo nostro teatro, là dove la spessezza del pilastro offre riparo al vento ed alla pioggia, veggonsi tuttodì, fino a che luce risplende, pochi uomini di sparuto aspetto e di abiti gretti e cenciosi seggono presso un tavolo di povera apparenza, tenendo innanzi qualche foglio di carta, uno sporco calamaio di terra ed una selce che frena le volubili carte, se il vento avvien che le sollevi. Di tali uomini tardi, meschini e pazientissimi, altro breve drappello sta in ordinanza schieralo di fronte allo edificio della Posta, volgendo le spalle all’angusto teatro, cui si volle dare un gran nome rappresentante piccola cosa, e però si disse teatro del Sebeto.

Una terza onorata legione ha quartiere e ricovero presso la porta minore del teatro del Fondo, e nelle intemperie si fa ombrello di una attigua volta di fabbrica, ove a sera nel durar dello spettacolo riparano al coperto le carrozze de’ Reali Principi.

A voler guardare nella sua posizione questa misera ed onorata legione di scribenti che si raccoglie all'ombra de’ portici armoniosi e si rende letterariamente l’interpetre degli affetti, delle ire e delle passioni degli analfabeti, direbbesi che, quelli uomini, sono i rappresentanti di una specie di filosofia e dir potrebbesi quindi

Povera e nuda vai filosofia.

Lo scrivano pubblico è il sensale delle parole.

Il suo stile è immutabile, semplice, abbonente da metafore e da qualsiasi figura.

Ama la brevità per convincimento che ha di persuader meglio altrui e giovare più sollecitamente a se stesso.

Egli non cerca mai modi eleganti nel manifestare ciò che pensa il suo vicino. Sa bene che l’eleganza e il lusso ingenerano la corruzione della specie umana. Indarno i suoi clienti gli raccomandano di usare de’ mezzi termini, delle frasi velate, delle allusioni.

Egli è chiaro ed originale. — Ama come Orazio il vin di Bromio «la solitndine, ma non possiede una villa. Gli basta una pietra Vesuviana che lo sostenga nel giorno, e le lettere o per dir meglio le epistole! Egli ama le lettere e gli cal poco che siano amene o belle lettere. Pur che siano lettere altro non chere.

L’apice delle sue cognizioni leggesi sur una tabella che talora pende sul davanti del tavolino. — Colà è scritto si traduce il francese! L’apice della sua agiatezza è quando ha tal credito mensile, da trovar ricovero in qualche canto di bottega, o quando riparasi presso un fabbricante di occhiali della strada Quercia, ed accoppia la sua insegna a quella dell’ottico. Così al trasparir degli occhiali, quegli stima esser meglio veduto.

Lo scrivano ha pure la sua tariffa col prezzo de’ suoi lavori, cominciando dalla supplica in carta semplice fino al volume delle cento pagine in folio scritto alla spagnuola, vero apogèo dell’arte sua.

Tra noi i popolani han bisogno di ricorrere altrui, quando son lontani da’ lor compagni e da’ congiunti, epperò stretti si veggono a domandar l’opera del segretario pubblico, a svelargli i più intimi misteri del cuore, ad affidare a prezzolata penna quella prudente indagine paterna che custodisce la pace del focolare domestico.

Però di costa a questi uomini che seggono professando lettere ne’ siti già innanzi descritti, vedete posarsi una o più donne e vecchi e giovani con bamboli. Quella al marito assente, ricorda se stessa, i figliuoli, le miserie in che lasciavate, la seduzione che la circonda, ed i fatti gelosi dell’onor suo confida all’ironico segretario che sol di parole fa merce: questa ammonisce giovane figliuolo perché desista da scioperata vita che in sorgente di precipizi lo mena. Altri rimprovera la frode, altri sparge la discordia, altri promette di solvere il debito.

E lo scrivano pubblico vede innanzi agli occhi passarsi le immagini di tanti uomini traditori o traditi, spergiuri o fraudolenti, ovvero miseramente virtuosi. Lo scrivano è non pur l’interpetre di tante svariate e strane passioni, ma è il depositario degli altrui palpiti, delle amarezze, delle gioie di fanciulle povere ed onorate che per difetto d’istruzione debbon talvolta con se medesime e di se stesse arrossare. Il segretario pubblico meglio che alcun altro scrittore del giorno potrebbe riassumere e redarguire i moti dell’animo plebeo, tenendo innanzi le tendenze, tipo del popolare intendimento e del costume.

Fra le più assidue creature del popolo che chiamate fossero dal bisogno a richiedere e pagare l’opera dello scribente pubblico era una fanciulla dal volto ingenuo, i cui grandi occhi color dell’acqua marina rivelavan credula indole. Vago di conoscere il popolo nelle sue abitudini e forse di contare i dolori d’ogni specie che straziano questa per taluni sempre allettevole vita, chiesi della assidua visitatrice dello scribente il nome, la condizione, la onesta povertà.

Ella chiamavasi Gelsomina! La sua bella personcina, il suo correre ogni dì con lettere fra mani, vederla sempre sollecita attraversar la via come un colombo che vada di nido in nido, il seder sempre affannosa accanto al suo secretano a rincontro della Posta, me la fecero sempre guardare più di un’altra, e (spero non mi si faccia una colpa della espressione) me la fecero mirare con predilezione di sguardi. Quanto era vivace la sua parola, quanto animalo il suo volto se spiegava all’uomo di lettere del popolo quel sentimento di caldo affetto ch'ella vergognava di dire amore al cospetto del suo impassibile e tacito scrittore.

Gelsomina era la figlia di un venditor di pece, stoppa e catrame: ella così bianca era uscita fuori da un tetto nero ed oscuro; da un padre bruno, da una brunissima madre. I genitori, come avvien sempre nelle classi nostre più volgari per non darle molestia e per volerle troppo di bene, non l’avean fatta punto istruir di lavori d’ago e molto meno di scrivere e leggere. Ella era un’analfabeta, né la fanciulla sapeva quanto nella vita abbisogni l’intendersi per voce o per lettera. Ella rideva dello scerpellarsi che faceva sull’abbaco e sull’abiccì una sua compagna di nome Annella dimorante a pochi passi di distanza da Gelsomina: ma le loro due case, sebben vicine, non avevano vano o fenestra dalla quale potessero traguardarsi. Il padre di lei, uomo accorto era negoziante di legnami da costruir barche, e per non aver sempre a pagare questi o quegli che gli portasse i suoi conti, avea fallo istruire Annella che del suo saper leggere e scrivere menando gran vanto con parole tonde e sonore era riuscita tra popolani ad acquistarsi nome di dotta. Veniva quindi chiamata la pagliettessa, motto che in italiano suona, e dove e quando capitasse di dover dar ragioni, cercar cavilli, imbrogliare il mondo, mettere a rumore la marinella non mancava mai la pagliettessa. Gelsomina rideva di tanta boria, e motteggiava talvolta ma senza fiele la saccente e quando le parlavano della virtù di saper leggere scrivere ed abbacare che avea la compagna ella rispondeva «ed io so fare la pasta all’Avellinese, la copeta, gli struffoli e la ch’ella non sa fare! Ma tutte queste cose ancorché tali da fare ai popolani leccar le dita, non potevano aver la stessa importanza del leggere e dello scrivere. Gli analfabeti e gl’idioti si danno la mano, eppur non s’intendono! L'idiotismo costa caro a tutti gl’idioti in paesi che intendono a forme di civiltà, poiché l’idiotismo non solo ci fa bruti, ma poveri.

Tra i giovani marinai che più frequentassero la contrada era Tomaso, svelto, ardito, destro e lo si chiamava pesce di mare. La state si lanciava già in mare dal bompresso dei grandi vascelli e minacciava con temerità di farlo dal picco di trinchetto. Era alquanto parolaio ma buono, né smentiva sempre quel che diceva. Era di un fare aperto, ma sopra ogni cosa bellissimo di forme. Quando Gelsomina lo vedeva passare innanzi alla bottega spalancava i suoi grandi occhi ed erane ricambiata di un guardo, ma ella non sapeva che Maso fosse innamorato di Annella. Lo seppe un giorno che in lui s’avvenne nella casa di Annella ed era giorno di baruffa, come dicono i popolani, cioè giorno di alterchi. Annella con la sua boria diceva che Maso ne voleva troppo, e Maso le rispondeva. — Tu ti credi una singolarità e mi vendi caro l’amor tuo, mentre di figlie di buona madre è ricca la contrada ed io ne troverò quante ne voglio. Va cercane dunque e vanne in buon’ora pe’ fatti tuoi. — Si si — la troverò e non sarà molto da te lontana.

Il giovane irritato andò via. Egli avea veduto Gelsomina. Gli parve umile e perché umile, bella: era già tanto sdegnato dell'alterezza insultante di Annella che la pacatezza e la calma di Gelsomina sembrarono a lui pegno di pace e di amore. Egli non stette in forse un istante e la dimandò al padre. Lorenzo uomo di speculazione gli rispose. — Mia figlia è tua, ma io negoziante di pece e stoppa non la posso dare ad un marinaro della Capitanìa. Fa di viaggiare, diventa padrone e ti darò mia figlia. Il giovane pieno di lodevole ambizione s’impegnò in un viaggio di lungo corso e partì, con obbligo che dopo quel viaggio sarebbe stato fatto pilota. Si partiva per le Antille ed era un brigantino Sorrentino ben armato ed attrezzato che spiegava le vele accompagnato dalle lacrime, dai sospiri di Gelsomina, e dalle benedizioni dei genitori di lei.

Annella seppe e vide tutto, sentì profondo un corruccio che simulò con apparenze oneste e liete, anzi quando Gelsomina le disse — Maso mi ha dimandato a Papà, ma io non accetterò la sua mano, se tu da buona e cordiale amica non me ne dai l’assenso; ella rispose — A me parli di Maso? Io penso e ho pensato tanto a lui quanto alla punta del berrettino di mio nonno. Sposalo cento volte e godilo in pace.

Gelsomina partì persuasa che Annella non le avrebbe fatta, e le parve che la sua unione potesse e dovesse esser benedetta da tutti.

Ma il brigantino al quale per impegni del padre del giovane era stato posto il nome di Gelsomino, ebbe a soffrire le più dure traversìe. Fallì la via, fu da una tempesta, come i marini dicono scarrozzato, disalberalo, sulle spiagge d’Affrica ed avariato in più parti. In tutto questo tempo Gelsomina non ebbe mai nuova di Maso, mai. Ella veniva ogni giorno ad impegnar Io scrìvano per nuove lettere che dirigeva sciòccamente in opposti punti con espressioni passionate, né a lei giungevane risposta. E pur quelle lettere le costavano danaro, perché Io scrivano crescevane il prezzo ogni giorno, spesso riteneva il danaro per inviarle, e punto non le facea passar la frontiera. E Gelsomina non sapendo scrivere non sapendo leggere, ignorando ove fosse questo o quel paese e tutto fidando in quell'uomo avea dato in pegno gli anelli, la catenina d’oro, le rosette e quanto altro formavano dote alla bianchissima creatura. Ed al padre alla madre che non le vedevano più indosso quelle oreficerie, rispondeva. — A che me ne adornerei se Maso non è con me?

Parole schiette e genuine che l’amore rendeva immensamente loquaci.

Spesse volte ella avrebbe desiderato di svelar solo a se stessa i suoi pensieri e si struggeva di non saper scrivere e perché, diceva nel suo! linguaggio, perché sono analfabeta. Oh mio Dio potevi farmi tu men bella di quel che la contrada mi accenna, e darmi invece la capacità di leggere e scrivere, poi pentivasi di aver accusato il sommo Iddio, e se ne confessava amaramente pentita, ed ella pregava, pregava sempre.

Un giorno (e forse non ispuntò mai più bello per lei) ecco una lettera anzi due sgorbi di Maso che sapea scrivere. Al primo scendere da una nave Genovese un marinaro l’ha portato a lei con l’ali ai piedi, quella lettera è manna, è celeste rugiada che scende improvvisa a riconfortarla di speme. Ella riconosce la mano di Maso, ma non sa leggere. E Domenica: io scrivano non siede al suo pósto, suo padre non sa leggere, il marinaio neppure. Cerca di un signore in una casa vicina, ed è uscito, ferma un gentiluomo per via, pregandolo di legger quella lettera e il gentiluomo dai guanti gialli legge speranza mia, si accorge che è una lunga lettera d’amore e le risponde—Che cosa vuoi? ch’io perda il tempo a leggere queste ciance e respinge la lettera—Ciance Signore... no Maso non è ciancioso, e vuol persuaderlo a continuare, ma quegli monta in carrozza e via. Gelsomina resta di sasso: ella piange. Misera ella non sa leggere. Recasi presso un maestro di scuola agli Armieri. È occupato, né può darle retta. Allora si rammenta di Annella, Annella che dopo quel discorso non le fa più buon viso, Annella che sputa fiele e sentenze. Ella sente un colai ritegno, e si farebbe tagliare a pezzi pria che implorar l’aiuto e l’opera di chi, vedendola, volge altrove la faccia, ma ella smania, arde di conoscer quanto si contiene in quel foglio scritto. Adiratamente lascia la casa del maestro di scuola, ritorna alla sua, indi bussa alla casa di Annella, e il volto amaro dell’amica le viene innanzi come un sinistro augurio. Io non dirò quali parole si scambiano Annetta e Gelsomina. Annella nelle pungenti parole non fa che umiliar la compagna dicendo. —Finalmente ti ho veduto, hai avuto tu pur bisogno della pagliettessa: tu sai fare la pasta all’Avellinese, ma il tuo innamorato non ti mandò struffoli ma carta. E Gelsomina sebbene umiliata la scongiura che legga quel foglio, che la renda felice, e sparga di un colai po’ di gioja l’amarezza della sua vita. Alla perfine Annella legge la lettera. Tutte le speranze, i palpiti, i dolori descritti nella lettera passano fuggitivamente sul bruno volto di Annella e sul bianco volto di Gelsomina, ma con espressioni diverse. Ella piange nel sentir descrivere le traversie di Maso. Ella si umilia ancora di più, ella bacia le mani della sua rivale perché non sa leggere e scrivere, e così le dice—Annella, mia vera amica, non mi dir no, per quanto ami il Papà: la nave Genovese riparte stasera, mi farai tu la risposta? Annella pensa un istante s’infosca nei bruni lineamenti poi le dice. — Ti servirò. Ella siede, scrive e suggella.

La risposta è portata rapidamente al marinajo Genovese. Gelsomina non sa leggere né può accertarsi se Annella ha bene espresso i suoi sentimenti, ella guarda e discorre con gli occhi la soprascritta. (Immobili cifre per lei come quelle del destino. Povera analfabeta!) Partita la lettera, Gelsomina non sogna che Maso, il suo ritorno, l’amor suo, la sua mano. Maso ha salvato la nave dalla burrasca. Egli sarà pilota e suo! Una febbre di delirio la prende. Gelsomina non è più bianca, poiché il suo volto è di fuoco. Ella delira sempre e delirando dice. La carta, la penna, il calamaio voglio scrivere. Povera analfabeta! Passan così ventuno giorni, il delirio cede, manca la febbre, ma ella è sfinita di forze, vivente cadavere. Ove è la pristina bellezza? chiedono i genitori e piangono sull’emaciato aspetto della loro figliuola. Che non farebbero essi perché sapesse scrivere. Ogni giorno vien lo scrivano, e perché lascia il suo posto, vuol essere ben rimunerato. Gelsomina dice il suo sentimento, quegli scrive e intasca danaro. Nessuna lettera va, meno quella di Annella. Dopo tre lunghi mesi di pianto e di esacerbazione mentale arriva la risposta alla lettera di Annella: ahimè. La nave che la portava ha sofferto essa pure nella traversata, e però la lettera indugiò nel venire in sue mani. Maso risponde di suo pugno.

» Gelsomina (scrive) io non credeva mai che la mia fata mi dovesse abbandonare così. Ingrata! tu dici ch'io non ti ho scritto e non ti ho detto quante burrasche ho superato, quante volte sono stato per perdermi: tu alla fine del mese sposi un altro. Gelsomina: infame Gelsomina. Tu hai giurato innanzi alla Madonna, la Madonna del Carmine non ti perdonerà. Tu mi lasci, così solo senza speranza. Se il dolore non mi uccide, se non mi getto a mare io verrò a Napoli per scannare tuo marito, no io scannerò te... (dopo qualche giorno e quindi con altra data). No Gelsomina, la Madonna mi ha fatto la grazia, ti renderò la pariglia, sposerò un altra. Maso.

Un vecchio frate visitatore della umile casa legge la lettera: a quella lettura Gelsomina sì squallida, invetrisce gli occhi. —Infami, infami, !

(grida) che avete scritto a Maso? Annella bugiarda, Aonella tradilora! Oh Vergine santissima aiutami.... Oh perché non ho imparato a leggere... Papà, madre mia partiamo, andiamo incontro a Maso. Forse a quest'ora non ha per anco contratto nozze... Andiamo...

Ella è frenetica, il suo passo è vacillante..

Infelice! l’ardente febbre ricomincia. Elia delira e delirando ripete perché non so scrivere! perché... II padre spende tutto il suo per rivederla in senno, per ridonarle la vita che un incendio di febbre consuma— Invano. Gelsomina delira sempre. Annella si è ritirata in altra casa per isfuggire alla vendetta della povera ma onorata contrada, ella stessa presa da crudel rimorso scongiura gli altari e scrive a Maso che venga, che ritorni. In un momento di lucido intervallo parla a Gelsomina, le fa sentire la nuova lettera, Gelsomina risponde freddamente a Che ne so io? posso io credere, se non so leggere? Viene Io scrivano, risponde nella stessa guisa: è chiamato il maestro di scuola» se tu mi volevi bene, ella risponde, mi avresti imparato a scrivere. Sopraggiunge il frate per rassicurarla sulla verità di quanto esposto le avea la sventata Annella. Ma ella è in momento solenne. Ella non intende, e il frate invece di rassicurarla viene per benedirla. Intorno al suo letto piange tutta una contrada, e qualche fanciulla come lei piange l’amica che prestava gli anelli, la veste, i (accetti e fin la camicia. Povere idiote che piangono un’idiota, povere analfabete che piangono un’analfabeta e non imparano! Otto giorni dopo la lettura di quella lettera Gelsomina non era più.

Il tempo con le sue ali non ne spazza la memoria. Gelsomina è sempre il ricordo mesto della contrada, ricordo pari solo a quello di un naufragio.

Un mese dopo torna Maso pilota della sua nave. Egli non si è ucciso e non ha tolto moglie. Egli à veleggiato con vento fresco e non' interrotto ed è giunto con isperanza di riprendere il suo bene. Ma il misero non trova di Gelsomina che lacrime e cenci. E quando chiede ai genitori. — Mio Dio, ma perché perché ella è morta si presto, quelli rispondono. — Gelsomina è morta per non saper leggere e scrivere. Povera analfabeta! Tu sei morta, ma nessuno ba contalo sì acerbe pene nel mondo, nessuno ha pensalo quanti muoiono per non intendere, per non potersi spiegare con lo scritto.

CARLO TITO DALBONO.

FRUTTAIUOLO

IN una città come Napoli, circondata di fertili terreni ove allignano ogni sorta di alberi fruttiferi, il mestiere del venditor di frutti dev’essere al certo esercitato da immenso numero di persone. Ed è appunto così. Non v’ha uomo del popolo che in qualche stagione dell’anno, in qualche circostanza della sua vita, non abbia fatto, non faccia o non sia per fare il fruttaiolo.

I fruttaiuoli dividonsi in due classi. La prima è la più numerosa, ed è facile capirne il perché. Basta avere una cesta e una bilancia, un capitale di dieci carlini in contante o in credito, buone spalle e grossa voce, ed eccoti divenuto fruttaiuolo ambulante.

Ma non vi ha arte che non abbi le sue gradazioni di perfezione; epperò anche il fruttaiuolo ambulante e girovago può aspirare all’eccellenza nell'arte sua. Non parlerò della collocazione de’ frutti, poiché in questo la sua abilità trova emuli formidabili nell’altra classe di venditori. Ma gli è indispensabil cosa la conoscenza degli uomini, e specialmente quella conoscenza per cui salirono in rinomanza Giambattista Porta e Lavater.

Se il compratore è un fanciullo che viene a spendere il tornese o il grano della sua merenduola, ei ne profìtta per dargli quei frutti che nessuno comprerebbe, o perché troppo acerbi, o perché troppo maturi, o perché bacati o altrimenti magagnati; né in tal caso gli è duopo adoperar la bilancia; i fanciulli non badano a sì fatte minuzie. Se poi il compratore è un cuoco che fa la spesa pel padrone, o una fantesca che viene a spendere il denaro della signora, allora la cosa è ben diversa: bisogna adoperar la bilancia, e adoperarla con somma abilità, poiché non vi è esempio che un fruttaiuolo abbia mai derogato alla regola di dare tre quarti e anche meno per un rotolo; bisogna contendere un buon tratto sul prezzo e sul peso, dirsi scambievolmente un mondo di villanie, e spesso finire col rimettere nella cesta i frutti già pesati. Oltre a queste conoscenze, il fruttaiuolo ambulante dee aver l'arte di conoscere i siti più opportuni allo spaccio. Se gli riesce di situarsi presso un fruttaiuolo a posto fisso che abbia la pazienza di sopportare la concorrenza di un sì fatto vicino, la vendita è in gran parte assicurata. Girando per le strade men frequentate, dove abitano donnicciole e gente del popolo, la sua mercanzia ha spaccio maggiore che non nelle vie dove sono grandi palagi e trafficano in gran numero le persone e le carrozze. Di buon mattino lo troverai nelle piazze ove si riuniscono gli operai, come in quelle della Carità e di S. Ferdinando ove convengono i muratori e i materassai. Più tardi gira per le strade, e quivi va provando

……….. come è duro calle

Lo scendere e il salir per le altrui scale,

imperocché bene spesso dopo essere salito ad un sesto piano chiamato da una voce femminea, è costretto a scendersene senza aver nulla venduto. E però a simili chiamate non si presta sì facilmente il fruttaiuolo, ma prima risponde gentilmente scendete o calate un paniere, e solo quando ha esaurito sì fatti mezzi si risolve a salire, pur dicendo: Scendete in mezzo alla scala. Finalmente dopo le ore meridiane, se ebbe la mala ventura di non aver venduto ogni cosa, troverai il fruttaiuolo ambulante sul Molo, ove a prezzi diminuiti, come negli appalti sospesi di S. Carlo, l’uomo della plebe si diverte a mangiare ogni sorta di frutti mentre assiste alla commedia dei burattini tutto intento alle amorose avventure di Pulcinella e Colombina attraversate da quel birbante di Coviello.

Che fa poi l’ambulante venditore? Esaurita la sua merce, vassene alla cantina, ove con facile processo converte in poco cibo e in mollo vino il denaro guadagnato, e talvolta parte del capitale. Quivi imbriacatosi ben bene, torna a casa, batte la moglie se ne ha, e vassene a dormire in santa pace, per ricominciare il dì seguente la vita medesima.

Una classe intermedia di fruttaiuoli vi ha pure che fa una dannosa concorrenza agli ambulanti ed ai fissi. Son quelli che portan frutti dalle campagne circostanti e che hanno un asino per coadiutore. Essi sono di una pazienza e di una cortesia ammirabile coi compratori, vendono a buon mercato perché di prima mano, e spesso portano frutti eccellenti, che gli spenditori comprano a vii prezzo e si fan pagar caro dai padroni. Con questi fruttaiuoli le donne prendonsi le maggiori libertà: altre metton le mani nelle ceste, e tutto rovistano e mandan sossopra per iscegliere il meglio; mentre il venditore impassibile altro non fa che presentare il piatto della bilancia attendendo che vi sien depositati i frutti scelti; altre provano e assaggiano replicatamente ogni sorta di frutte, e poi sen partono senza nulla comprare, né il venditore se ne incarica. Il persecutore di questi fruttaiuoli, e anche degli ambulanti quando mettono in terra la loro cesta, era il grascino, volgarmente detto prubbechella, che spietatamente imponeva ad essi multe, e per esigerle toglieva loro le bilance. Ma grazie all'anno 1848 questa persecuzione è finita, e possono i fruttaiuoli d’ogni genere ingombrar le strade come meglio loro attalenta.

Veniamo ora alla classe più nobile de’ fruttaiuoli, a quelli che vendono nelle botteghe, innanzi alle quali dispongono in bella mostra le ceste ripiene delle più belle e squisite frutte. Essi sono l’aristocrazia del mestiere, sono per rispetto ai venditori girovaghi quello che un negoziante di ragione è a un mercantuccio a ritaglio.

Il loro apparato rassomiglia da lungi ad un esercito schierato in ordinanza, ove da un lato sta la cavalleria, da un altro l’infanteria, altrove l’artiglieria: così vedi in varie ceste le arance di Palermo o di Sorrento, in altre le mele di molte varietà, in altre pere d’ogni maniera, e poi secondo le stagioni ciriege, albicocche, peschecotogne, peschenoci, persiche, prugne rotonde o ellittiche, lazzaruole, giuggiole, uva, fichi, ec. ec. Tutta la loro abilità consiste nel disporre la mercanzia nel modo più appariscente e aggradevole alla vista.

Situati l’un sopra l’altro i frutti in bell’ordinanza, sicché formino come tante piramidi, essi son collocali in modo che le parti più belle, che mostrano i più bei colori, sien le sole che appariscano agli occhi de’ riguardanti. Se v’ ha parte bacata o vizza o altramente magagnata, essa vien sottratta allo sguardo da quella magistrale collocazione. La polvere vien nettata accuratamente con un fascetto di felci o di altre erbe secche. A questo modo è adescato il compratore, che a quell’ordine e a quell’apparente bellezza si sente venire l'acquolina in bocca. Così vediamo alle volte sotto certi tali governi celale le interne piaghe e i cancri che rodono la società, mentre l’esterno aspetto rende testimonianza di stato prospero e felice! E per non uscir dai frutti, così vediamo la castagna di bella corteccia esser dentro magagnata e guasta. Ma fate che venga in quella cesta così bene ordinata la mano sovvertitrice di una fantesca che voglia da tutti i lati esaminar le frutte che dee comprare, ed appariranno ben tosto i guasti, le magagne, i buchi. Penetrate più addentro, esaminate l’interno di un di quei frutti, e troverete mezzo quel che pareva maturo, inverminato quel che sembrava intatto, fradicio quel che si mostrava sano, pien di putridume quel che appariva incontaminato.

Non è già che questi venditori non abbiano veramente frutti squisiti: essi li tengono fuor della vista, dentro le botteghe, per non destar le voglie delle gravide. Quivi li comprano gli spenditori in livrea dei gran signori, o il galantuomo amante della buona cera che si fa da sé le spese della buccolica. E vi so dir io che trovate frulli d’ogni maniera, e delle più grandi dimensioni, e quasi quasi in ogni mese dell’anno. Imperocché quando i fruttaiuoli delle altre classi han finito. ogni merce, quando cominciando dalle nocciuole e terminando alle nespole hanno esaurito ogni sorta di frutte vendibili alla bassa gente, quando si sente cantar per le vie:

Quanno vedile nespole, chiagnite;

Chist'è l'urdemo frutto della state

non perciò le frutte sono finite in Napoli, dove in tutti i giorni dell’anno le mense de’ ricchi sono imbandite di frutti. Il fruttamelo che vende in bottega se ne provvede da tutti i dintorni della capitale, e se occorre da tutti i più lontani punti dei regno dove può giungere una barca. Egli conosce i modi di conservarli per lungo tempo, conoscendo meglio che i filosofi moralisti quanto l’uomo sia portato per quello che è più difficile ottenere, e sapendo quanto i frutti fuor di stagione, primaticcio serotini, siano più apprezzati dei tempestivi e venuti a suo tempo.

A questo proposito ricorderemo, come cosa unica nel suo genere, il regalo che la Città di Napoli presenta al sovrano la vigilia del Natale, il 24 dicembre di ogni anno. Esso consiste principalmente in frutti di ogni specie, che con camangiari anche fuor di tempo e con uccelli di varie specie vengon recati nella reggia attraversando la strada di Toledo. Noi consigliamo tutti i mariti che hanno le mogli gravide a non portarle fuor di casa quella mattina, poiché si esporrebbero al rischio di spendere molto per impedire un aborto, o per far si che il figlio non nascesse con un fico troiano sul naso o con un par di pesche in qualche altra parte del corpo.

Ma prima di chiudere la rassegna de’ venditori di frutte, non bisogna dimenticare quei che vendono le fragole e le arance, che dagli altri per peculiari condizioni si distinguono: i primi non sono già fruttaiuoli di mestiere; son contadini o villani che sospendono il lavoro della terra per fornir di fragole la capitale.

Dai giardini dei dintorni, dalle apriche colline raccolgono le fragolette in ceste di forma speciale, e nelle ore mattutine vengono a venderle in Napoli. La loro prima fermala è al vico Tedeschi e al vico Conte di Mola, e quindi di là si spargono per tutte le strade gridando: Fravole, fravole! Fraole de giardino!  

Hanno poi una mirabile abilità nel frodare il peso; e rovesciando le fragole dalla cesta nella bilancia; vi fanno sempre cader le più piccole e le men fresche.

V'ha colazione più squisita di un piatto di fragole condite con zucchero e con suco di arance? Se dunque avete pronte le fragole, siate solleciti a chiamare il venditor di arance. Eccolo che passa trascinando un carretto, ove i suoi dolci frutti son distribuiti in varie ceste secondo le più o men buone qualità.

Udite: ei grida a tre, a quatto, a sei, secondoché tre quattro o sei ne vanno per un grano. Scegliete le ben mature, che abbiano liscia la corteccia, che siano di sufficiente peso; e non vi importi punto che siano in qualche sito magagnate, come le così dette toccatelle di Palermo.

Vendono anche arance i venditori fissi e gli ambulanti; le vendono sul Molo e al Largo del Castello altri fruttaiuoli improvvisati, che le dispongono in piramidi a un grano la, e giungono a darne otto per grano! Ma quando girano sul carretto per la città , allora è la macca, allora è il buon mercato, allora sguazza e sciala la plebe e il minuto popolo, allora c’invidiano Inglesi e Russi ed altri popoli nordici, cui la provvida natura negò i bei colli e i bei vigneti della lacerata Italia.

EMMANUELE ROCCO

PROCIDA

ERA il maggio del 1849, ed io solitario e pensoso in un picciolo navicello veleggiava alla volta di Procida. Il mare limpido e appena mosso da un vento tepido e soave, che mi aleggiava perla fronte, l’alterno battere de’ remi, il canto de’ pescatori, le case che di lontano biancheggiano frastagliate da alti e verdeggianti alberi, le colline che ora sporgono ora si ascondono e dileguano, e ad ogni muoversi della barca nuove scene mostrano allo sguardo attonito, quel susurro lieve e confuso che si leva da’ lochi abitati, la ricordanza di recenti dolori, la speranza di poterli addolcire, tutto nell’anima mia destava un molle e indefinito sentimento, che mi gettava in un giocondo e voluttuoso obblio. Appena toccata la punta di Miseno, ecco dispiegarsi in tutta la sua bellezza Procida dinnanzi a’ miei occhi; il cuore mi batteva forte, ed io colla fantasia mi creava mille dolcissime speranze, che tutte poi doveano svanire. Di sopra un lieve e dolce pendio, che si dilunga verso la sinistra in un piano smilzo e bipartito alla punta, s’innalza un colle, alla cui cima torreggia la Chiesa di S. Michele, che siede a cavaliero di tutta l'isola. Io rivolgea nel pensiero i costumi miti e giocondi di quella gente, che si slancia ardita sul mare per molcere la fame de’ figliuoli, per sostentare i vecchi e poveri genitori, per confortare colle nozze della cara giovinetta le lunghe e fortunose vicende durale; e quella gente, che per sollecitudini cotanto innocenti concepe il vasto divisamento di valicar l’ampio oceano, apportando su fragile legno merci alla lontana America, mi riempiva la mente di stupore.

Questo picciolo popolo, che vive gran parte della sua vita fra le tempeste del mare, che baratta merci con popoli diversi per lingua, per costumi, per religione, per reggimento, nondimanco serba intatte e pure le sue native costumanze, le affezioni del tetto paterno. Non mai un di essi sposò donna francese, inglese o d’altra gente, non mai per vaghezza delle cose vedute abbandonò il suo paese, non mai vi arrecò nuove opinioni e nuovi costumi. In Procida i vecchi non lamentano il buon tempo antico messo in obblio. Pare che nel procidano la volontà sia più forte delle vicende e delle varietà della fortuna, che gli affetti poco abbiano efficacia nell’anima sua, la quale usata a scorrere l’infinito del mare è sola atta a vasti e profondi amori, l’amore della famiglia, l’amore d'Iddio, l’amore tenacissimo delle tradizioni e delle costumanze patrie. Quindi non recherà maraviglia, se la grande anima di Giovanni da Procida, di quel Giovanni che non fu domato dall’avversità della fortuna ede’ tempi, in quest’isola si educò a vasti e gagliardi pensieri, all’amore delle tradizioni, a quella volontà invitta, che è maggiore dell’infortunio. Più temperala, è vero, è l’indole dell’abitante di Procida, ma al certo di sotto a quelle vesti rozze e neglette, a quelle maniere semplici e ruvide, a quel parlare molle e nativo, tu sapresti rinvenire l’uomo, che indura ed esercita la vita fra’ pericoli del mare? — Dolci sono i loro costumi, ma forti i loro propositi; e l’anima loro. serena e intollerante di ozio, come l’onda del mare limpida ed agitata sempre, non posa mai.

Un giorno verso l’imbrunire della sera io montava per la china del colle, e mi avviava alla Chiesa, — ed ecco venirmi all’orecchio un lieve ed incessante fruscio di piedi, — io porsi l’occhio e l’orecchio, né andò guari che allo svoltar della via m’incontrai in tutte le donne dell'isola, che dalla Chiesa di S. Michele si riducevano alle loro case. Una sollecitudine pensosa e malinconica si dipingea su que’ volti, ma quella sollecitudine era al presente confortala da un pensiero più sublime, dalla fede di rivedere i loro lontani parenti, i figliuoli dispersi per quanti ha porti e mari il mondo. Colla preghiera sembra, che l’anima loro abbia acquistala una tranquilla e sicura fiducia; questa sera la madre apporterà a’ figliuoli una pia speranza, le vergini consoleranno l’animo perplesso delle madri, la sposa porterà in casa la fede salda che il giovine sposo tornerà. Il dolore confortato dalla fe. de si muta in una sublime rassegnazione.

L’abitudine di trovarsi lontana da’ suoi cari, l’inquieto pensiero de’ loro casi, la cura solinga e tenera de’ suoi portati rende la donna procidana così timida, così affettuosa, così abborrente da ogni altro pensiero che potesse per poco turbar la pace della sua famiglia. Ammannar le robe di casa, racchetare il pianto de’ bimbi, raffrenare l’ingegno indocile de’ grandicelli, allestir la dote e il corredo alle figliole, risecar sul poco, che ha rimasto il marito pria di partire, quel pochissimo che basta per l’elemosina, e per mille altre minute faccende domestiche, che gli uomini non sanno, ma che non sfuggono all’occhio vigile della donna, questa è la loro vita. La Chiesa e la famiglia — la donna Procidana non ha altri affetti, non ha altre sollecitudini. Essa si asconde ad ogni guardo, non sta sulle vie, non ama feste, non tumulti, è ritrosa colla gente che non conosce, poco conversa con gli uomini, è poi ciarliera con le compagne. Ma sapete su che versano quelle ciarle? sulle faccende di casa, sull’indole e l’ingegno de’ figliuoli, su’ lontani parenti e del tempo del loro ritorno, sulle prediche udite in Chiesa, sulla prossima festa di un santo. E in questi colloqui ella svela quel1’ anima tenera e buona, per cui tutto è amore e sagrifizio, che non ha altra cura che la salute del marito e de’ figliuoli, non altra speranza che guadagni meno scarsi.

Tutti lodano la loro bellezza, ed è in vero maravigliosa, ma niuno, per quanto io me ne sovvenga, ne ha notato il pregio più singolare, la mestizia, la quale scende soavissima all’anima, ed è un fascino, a cui ben di rado si resiste. Ha bruni e foltissimi e lunghi capelli, le guance delicate e tonde soffuse di un leggiero incarnato, la bocca picciola e con labbra gentili e rubiconde, ma l’occhio ceruleo e languido esprime quel pensiero affannoso e continuo, che non mai lascia di turbarle l’animo colla ricordanza de’ cari lontani e forse pericolanti. Ma quell’affanno non è doloroso, non sconsolante, ma di una mestizia dolce e malinconica, perché temperato dalla fede, dalla speranza di rivedere fra breve il padre, il figliuolo, il marito, confortato dall’affezione di madre di figlia, reso mansueto dalla religione. Una pezzuola di seta screziata di vari colori le stringe la fronte e le cade rovescia dietro il capo, le contiene il seno un giubbetto con fregi di oro, da cui scende la gonnella di seta cremisino con una larga fascia di velluto nero al lembo, il grembiule con arte quasi sprezzata le rileva il fianco colmo e grazioso, e infilzata alle braccia cade giù dietro le spalle impicciolendosi ne’ fianchi fino al lembo della veste la camiciuola di seta con gheroni di oro. Questa foggia ha un non so che di bizzarro e leggiadro a un tempo che piace, e la persona non costretta da quelle vesti vi spicca libera e modesta scoprendo mille vezzi, che adescano la facile fantasia .

Volete voi darmi uno di cotesti fiori? — dissi io ad una leggiadra giovinetta, la quale andava raccogliendo fiori per un giardino, e con gentile industria ne componeva un mazzetto; — ella arrossì e fuggì via, ma fosse caso od arte lasciò cadere un gherofano, che io mi posi sul petto, un po’ confuso di quella soverchia ritrosia. Dopo breve spazio di tempo io rincontrai per via con una compagna; ella mi vide, e subito inchinando gli occhi e lievemente arrossendo mormorò non so che parole alla sua compagna, che mi guardò pure e sorrise, indi affrettando insieme il passo per un viottolo si dileguarono. Avrei dovuto credere che io fossi poco grato a quella giovinetta, non è vero? — eppure no; quell’arrossire, quelle poche parole dette all’orecchio della compagna, quel dileguarsi in fretta, non mi dicevano abbastanza che ella tuttavia portava nell’animo la ricordanza di quelle mie parole, e che ella sentiva per me un affetto che volea celarmi?Questo è il costume di quel paese, la donna asconde all'uomo che ama, e che ora l’è marito, tutto quel tesoro di affetto e di tenerezza che porta nel seno, ella ama in segreto e cela con ostinata e soave ritrosia il suo pensiero. Questo pudore è poi così ombroso nelle vergini che si mostrano pochissimo e sfuggono lo sguardo de’ giovani.

Mentre viaggia per l’oceano di notte solitario sulla prua del suo legno un giovane rianda nella mente la memoria de’ suoi cari lontani, e le sovviene di una gentile fanciulla, che egli conobbe giovinetto, e ad una ad una va risvegliando certe ricordanze, le quali stavano nascoste nella sua mente e gli rivelano un nuovo pensiero, una nuova cura. Egli nella sua fantasia vede quella giovinetta pensosa della sua lontananza, la vede che novera i giorni del suo ritorno, e protende lungi lo sguardo sul mare per scoprire una vela; che tutta amorosa e lieta cerca con mille cure alleviarlo delle lunghe fatiche, e gli rassetta le robe, e lo sgrida soavemente che egli si accinga a novelli viaggi. Il cuore gli batte spesso, e in quel momento egli scorda il mare, i suoi compagni, i parenti, tutto assorto e rapito in quel dolce fantasticare della mente. Ritorna dopo molto intervallo di tempo al suo paese, e per via e nella Chiesa il suo sguardo cerca quella giovinetta; — i loro occhi s’incontrano e il giovine arrossisce.

Quello sguardo, quel rossore portano nel cuore della donzella un nuovo e caro turbamento, e nell’animo dell’ignara si desta una commozione tepida e soave, che la rende pensosa, e le tiene a suo dispetto quasi sempre dianzi alla mente quel giovane. S’incontrano di nuovo e la giovinetta tremante si stringe alla madre, e risponde distratta e quasi di mala voglia, ma i loro cuori si sono intesi. Il giovane la chiede al padre, e i due amanti sono ornai fidanzati; eppure se egli le parla con istanza di quello sguardo, di quel rossore, ella non risponde e se ne sdegna, e non di rado schiva di ritrovarsi in compagnia del suo fidanzato.

Questo popolo non ha poesia, non ha quelle tradizioni fantastiche e paventose de’ popoli della Calabria, non danze che ricordano antichi culti,. non si versa nelle pubbliche piazze, poco parla di politica, poco delle vicende che agitano Italia ed Europa; ma è tutto casalingo, è tutto inteso a'  traffici a’ commerci; la moglie, i figliuoli, il mare, son questi i suoi amori. Pare che le commozioni de’ popoli si dileguino e spirino nello strepito de’ flutti, che flaggellano i lidi di quest’isola gioconda. Seduto in riva al mare io rivolgea la mente trista e malinconica alle condizioni delle più fiorenti città; — amori infinti e compri, amistà ingannevoli e bugiarde, perpetuo sospetto delle persone care e de’ parenti stessi, vana e affannosa cupidità di ricchezza e di agi, spregio dell’uomo onesto e industre, lodi all’infingardo ed opulento; continuo agitarsi fra ragunanze e crocchi, in cui indarno si cerca far tacere l’ozio profondo e pungente con giuochi, danze e suoni; donne che dispensano sorrisi e detti senza badar punto al dolore ed al sospetto che destano nell’animo di coloro, che un fato inesorabile conduce ad amarle; — ecco un breve e pallido quadro della vita, che in esse si mena. Non è forse meglio vivere in cotesta isola senza perplessità dell'avvenire, non turbato dagli odi, conversando con gente che non inganna né mentisce, spendendo parte del giorno negli studi diletti, trovando sulla mensa cibi, se non conditi con delicatezza, resi almeno dolci e sani dalla vita tranquilla e riposata? Mia zia mi chiese l’accompagnassi in casa di una sua amica, a cui di recente era morto il marito. Appena toccata la soglia della casa grida lamentevoli e lunghe ci percossero l’orecchio; io ascesi commosso le scale. Spinsi l’uscio; — tutto era mestizia e tutto in quella casa; e le donne alla nostra vista levarono più alto il lamento.

—Giacea sur un catafalco vestito de’ suoi abiti di gala il morto; la sua donna pallidissima e con gli occhi infossati dalle lagrime sollevò colla mano quel capo amato e lo guatò un poco, poi lo baciò in fronte, e accennando alle figliuole porse loro la mano del padre, che esse singhiozzando baciarono. Indi snodò le loro lunghe trecce, e stata un poco sospesa colle cesoie le tagliò e ne sparse il corpo del consorte; sciolse dopo le sue e mozzatele pure ne fè un groppo, e legatele con una fettuccia gliele pose sul petto. Lo baciò di nuovo, e, addio, disse, Carlo, ci rivedremo in paradiso — Si gittò sopra una sedia, e stringendosi sul petto il capo delle due figliole più piccine pianse dolorosamente. E che altro restava a quella. povera madre, se non abbracciar le sue figliuole e pianger con esse? — Ella ha recise le sue chiome bellissime quasi per esprimere che ornai per lei la vita non ha più dolcezza alcuna, che ella è ornai straniera al mondo, e che porterà nel cuore fino alla morte la ricordanza del suo compagno, del suo amico, del padre delle sue figliuole, onde gli lascia in segno del suo amore il pregio più leggiadro della donna, i suoi lunghi e folti capelli. Affettuose usanze, che legano con soave cura gli spenti a’ cari, che loro sopravvivono.

La donna seduta fra’ suoi figliuoli si riconforta del suo marito lontano; e questi mentre agita la vita in remote contrade torna con la mente alla pace del suo focolare, e lo punge il desio de’ suoi figliuoli, della sua moglie. Ne’ suoi figliuoli la madre versa tutte le dovizie di quel suo animo affettuoso e tenero; pe’ suoi figliuoli il padre erra per lontani paesi e commette la sua vita alle fortune del mare: e abbenché divisi per tanto spazio si ricongiungono in un solo affetto, l’affetto di padre e di madre, l'affetto di famiglia.

In Procida rarissimi sono i ladri, rari gli omicidi, raro il mal costume; perché l’uomo usato a’ grandi e forti affetti della natura e del mare, il quale si dilaga immenso a’ suoi occhi, non alligna nel seno basse e vili passioni, ma un solo e profondo affetto vi germoglia, — la famiglia; — la donna tutta intesa alla cura de’ suoi figliuoli accoglie nel seno un solo affetto, la famiglia. E niuna gente al mondo ama più del Procidano la dolcezza del focolare paterno. Vivono nell’innocenza dei loro costumi antichi, e l’alterne vicende delle cose umane non bastano a mutarne la vita tranquilla e serena.

Fecondi ed odorali frutteti, vigne pampinose e intrecciate ad alti tronchi di albero di castagno, quà e li sparsi piccioli gruppi di case, le quali biancheggiano tra il verde degli alberi, l’aure tepide e salubri, il cielo azzurro e limpidissimo, il mare ora agitalo or cheto, che mormorando circonda quest’isola, quasi per esprimerle il suo amore, di lontano Capri, famosa per l’orgie di Tiberio, da un altro lato la vicina e misteriosa Ischia, di fronte il promontorio Miseno e il golfo mirabile di Napoli alle spalle; il quale colle sue braccia immense par che si distenda ad abbracciar l’infinito; tutto in quest’isola invita l’animo al diletto ed. all’ozio giocondo. In questo grato soggiorno spesso si recava il romano patrizio , stanco degli ardui pensieri di conquista, e molcea di tranquille e liete dolcezze le pungenti cure di patria e di dominio; e Giovenale ritiro amenissimo chiamò quest’isola. Abitala in prima dagli Euboici , seguì poscia le sorti del continente; — e i suoi ameni recessi, le sue dolci e feconde colline ricettarono in tutti i tempi quelle grandi nature, che stanche dell'avversità della fortuna ricercano più quieta e più gioconda vita; — quivi soggiornò Giovanni da Procida . Fu retaggio di Re e di Baroni, e più volte messa all’incanto ; nel 1792 divenne città.

Questa isola non ha storia, non maravigliose memorie; i suoi porti sono popolati di navigli, e sul lido tu vedi un agitarsi, un brulicar continuo di gente tutta intesa a’ traffici, ed a rassettar le merci che debbono recarsi in altre regioni. Ma se dal lido tu ti avvìi verso la parte interna dell’isola trovi una pace, una quiete solenue, interrotta di rado dal canto de’ villici. Al frastuono, allo strepito, allo schiamazzo di cento voci discordanti succede il silenzio; stupendo ritratto di un popolo, che ha solamente due pensieri, due cure, la famiglia e il commercio; questo educa l’uomo alla vita irrequieta e faticante, quella alla dolcezza della vita domestica e ad una malinconica quiete.

FEDERICO QUERCIA.

I VENDITORI AMBULANTI IN TOLEDO

……….un'assordante folla di curiali

e di sollecitatori, di negoziami, di

venditori si aggruppa, s'incrocia,

per Toledo.

BlDERA.

La città di Napoli vien divisa io due dall’ampia e lunga strada delta Toledo, alla quale metton foce tante vie, siccome un gran fiume in cui sboccano le acque de’ suoi confluenti. Essa si estende dallo Spirito Santo fino al largo S. Ferdinanda presso il palazzo reale, e fu aperta per ordine del primo viceré D. Pietro di Toledo, da cui ritenne il nome, col disegno di Ferdinando Manlio, architetto napolitano.  

Questa è la strada più popolata di Napoli, a causa del continuo traffico che vi si osserva. Di qualunque festa, sacra o profana, di gaudio o di tristezza, Toledo deve aver la parte sua. Quivi è il luogo dei ritrovi, la sede di tutti quei venditori e negozianti girovaghi che ora in un punto ora in un altro aprono bottega su delle mobili panche. Nelle ore del mattino e nelle prime della sera Toledo è talmente affollala di gente che va, che viene, che brulica, si ferma in crocchi, compra, guarda, ozia, che chiunque non è uso di stare in Napoli cammina siffattamente stordito iu tale strada che corre rischio di trovarsi sotto i piedi de’ cavalli, o schiacciato da qualche carrozza.

Venditori che gridano, carrozze che corrono, cittadine  che guizzano da per tutto; è un andare, un venire, un urtarsi, un pigiarsi, un frastuono, una confusione che al certo non si osserva in nessun’altra città d’Italia. E siccome questa è la strada più trafficata da ogni genere di persone, in essa si trova una quantità di venditori che traggono i mezzi alla vita col tenue lucro che ricavano dalle loro piccole industrie e da’ piccoli mestieri, cui sogliono addarsi quei della plebe, mettendo in commercio un capitale di pochi carlini. Ivi troverai dei cartolai ambulanti che con una risma di mediocre carta che comprano alla fabbrica del Fibreno e qualche pacco di penne fra le mani ti assordano, gridando a piena gola: A sei fogli a grana. Ve ne sono di quelli un poco più agiati che si stabiliscono accanto ad una bottega e che sono forniti di più oggetti di scrittoio; e da questa loro industria essi tengono un guadagno certo e durevole, perché ognuno che ama comprar carta, penne, inchiostro, ostie, o altra cosa di simil genere, senza spender molto e contentandosi di una qualità che certamente non è la migliore, preferisce comprare da uno di questi venditori, anzi che da’ cartolai i quali fanno bottega nella stessa strada.

Eccoli intanto da un lato un venditor di fiammiferi, di cerini fosforici e di altre materie accensibili, che il progresso à sostituito all’esca, alla pietra focaia e al solfanello, il quale portando questa piccola mercanzia in un fondo di scatola, non di rado avviene che per qualche favilla di sigarro o per altro disgraziato incidente questa in un momento va in fiamme, e allora sparisce il capitale che dà a quei meschini il mezzo di buscarsi onestamente qualche carlino; e non di rado avviene che a tali scene segua una briga con colui che à cagionato il danno. Quindi bisogna cominciare da capo col mettere in commercio un' altra piccola somma, la quale non sempre essi posseggono; perché quei della nostra plebe usano di sovente spendere oggi tutto il guadagno del giorno, fidando che al domani Dio provvede. Ma ritornando a coloro che vendono tutte queste piccole materie fosforiche, il compratore con essi non fa alcun vantaggio, dappoiché meno costa la scatoletta de’ cerini e meno genere vi è dentro, ché essi sogliono farvi di tali sottrazioni che vai meglio pagare di più ed aver la scatoletta intera.

Quando cerchi liberarli da costui che ti grida nell’orecchio: Nu ran a scatola i cerini, nu ran a scatola: ti trovi fra i piedi una cesta con una quantità di libri vecchi, avanzo di qualche editore fallito o di un sequestro fatto a povero studente, innanzi la quale vi à un popolano che invita alla compra cd alla scelta de'  libri che vende tutti ad egual prezzo: Sceglite, sceglite cinco ran o libro, sceglile: essendo quei volumi tutti eguali in faccia a questa legge, che non distingue né autori, né opere, né edizioni. Vi sono pure de’ girovaghi librai che portano con sé una piccola raccolta di libri di ogni genere, ma la maggior parte di essi contengono ristampe di romanzi o di opere edite in altre città italiane o estere — furto letterario a cui non si potrà metter fine nel nostro paese se non si provvede alla legge, che guarentisca agli autori il fruito del loro ingegno, e li metta al caso di venderne la proprietà a chi meglio sa apprezzarlo. —

E molti altri ancora potrei notare di questi o simili piccoli mestieri che esercitano quei della nostra plebe, come sarebbe a dire gli spacciatori di carte o giornali volanti; coloro che vendono tinta per pulire le scarpe, sapone per toglier le macchie, mastici per acconciar porcellane o terraglie rotte ed altre simili bagattelle che vendono, richiamando molta gente intorno a sè, la quale rimane a sentire le lunghe cicalate che fanno mentre puliscono una scarpa vecchia o tolgono le macchie al berretto sudicio e bisunto di qualche monello: i venditori di calze, di guanti, di canne, di cristalli, di fazzoletti, di nastri di seta e di altri simili generi che si vendono sempre nelle ceste a gran ribasso o perché il genere è passato di moda o perché messo in vendita da qualche negoziante fallito. In questo caso i venditori sogliono anche negoziare di sera in sulla strada Toledo, al chiaro di una torcia a vento e chiamando la gente al suono di una campana.

Sopra ogni altra di queste industrie bisogna però dare il primato ai cosi detti galantariari o chincaglieri ambulanti, i quali, forniti di un capitale un poco più forte possono estendere la loro speculazione ad alcuni generi che più costano e che più bisognano; come sarebbero, tiracalzoni, forbici, temperini, stuzzicadenti, tabacchiere, rasoi, generi di profumeria, spazzole per gli abiti, spazzolini pel capo o pe’ denti, coltelli da tavola, posale di plaquefond, pettini, lumi da notte ec. ec. A tutti questi generi i negozianti danno il nome collettivo di grossa, ed i venditori ambulanti comprano tutto sempre a contanti ed a minor prezzo; e se! avviene che essi sentono che i negozianti da cui comprano abbiano avuto dallo straniero qualche genere nuovo di cui vogliono un po’ caro, allora passano fra di loro il motto d'ordine di non òomprare, (ino a tanto che il prezzo non venga ridotto al punto che possono vender con facilità. Costoro, come tutti gli altri che esercitano simili piccole industrie, danno i generi a miglior mercato perché non sono costretti a pagare la pigione del magazzino e perché si contentano di guadagnar poche grana sopra l’oggetto che vendono. Domandano sempre più di quello ch'esso vale, ma poi si restringono al terzo del prezzo che àn chiesto.

I galantariari appartengono quasi tutti a’ quartieri S. Ferdinando, S. Giuseppe e Montecalvario, come quelli che si trovano più prossimi alla strada ove esercitano il loro negozio. Essi vanno girando Toledo di giorno e di sera; entrano in tutti i caffè, si fermano innanzi ad ogni tavolino e ripetono sempre: comandate no bravo pare de tiranti, forbici, temperini? Avrai un bel dire che non te ne fa bisogno, che non vuoi spender danaro: essi allora cominciano a lodare l’oggetto che vogliono vendere, promettendo darlo a buon mercato ; ma se alla (ine non possono fare faccenda, conchiudono col chiederti il mozzicone del sigarro, che con rincrescimento devi staccare dalla bocca e darglielo.

Questi venditori poi profittano di tutti i tempi e di ogni occasione per buscar danari, vendendo qualunque cosa offra un piccol guadagno, che nella quantità della vendita dà loro poi alla fin de'  conti quei cinque o sei carlini al giorno di utile. Essi sono rispettosi coi compratori, né si lamentano se perdono molto tempo senza concluder nulla; e per lo più sono de’ giovani svelti e di spirito, che sovente ti muovono le risa con le loro risposte argute ma che non eccedono ad impertinenze. Li troverai il mattino nelle varie officine che vanno girando per vendere temperini ed altri oggetti da scrittoio; negli studi de’ pittori e degli architetti per negoziare delle matite o de’ lapis; su’ legni stranieri quando ve ne sono nel porto, e vanno girando con le loro mercanzie nelle varie province del regno quando si celebrano le fiere.

Altri di tali galantariari tengon fissa una panca ed una vetrina a qualche angolo di vico che mette a Toledo, e vi rimangono fino a sera: questi non gridano, ma, ove per caso ti fermi ad osservare la loro mercanzia, presto ti offrono mille oggetti; e se nulla compri, sentirai nell’andartene qualche parolina di dispiacenza, quasi tu abbia loro fatto un danno col guardare gli oggetti.

Infine tutti questi venditori non lasciano intentata niuna via quando deggiono buscarsi il pane; e guadagnalo tanto da servir loro ai bisogni della vita, essi, come la maggior parte del ceto basso di questo popolo, si riposano ed occupano il resto del giorno o della sera a mangiare, bere, scialacquare e sentire al teatro Sebeto la, aggressione e morte di Titta Grieco e Bruno Taverna, le avventure del Guerrier Meschino, Stellante e Costantino Bellafronte, l’assedio di Troia con Pulcinella o altro simile spettacolo tragicobernesco eroicomico.

FRANCESCO DE BOURCARD.

IL CIABATTINO

A cominciare dal ciabattino che criticò il calzare in un dipinto di Apelle, venendo giù giù fino ad Isidoro Orlandi, detto il ciabattino dell’Adige, buon poeta vivente (se non è morto), l’onorevole professione di conciatordi scarpe ebbe sempre le sue notabilità: e basti qui ricordar per tutti, senza fare inutil pompa di facile erudizione, il ciabattino di S. Ginegio che voleva torre lo stato a Messer Ridolfo da Camerino, Asdente celebrato dall’Allighieri e da lui messo in Inferno presso a Guido Bonatti, ed un altro che ebbe l’alto onore di esser padre di papa Urbano IV, e di cui Machiavelli avrebbe potuto dire, come disse del padre di Clemente VII, che assai grandi e magnifiche furono le opere sue avendo generato la Santità Sua, la quale opera tutte quelle de’ suoi maggiori di gran lunga contrappeso. Vatti pesca quante altre nobili famiglie conteranno dei ciabattini nel loro albero genealogico, che certo non son da meno del beccaio donde derivarono i Capeti di Francia.

Non vi spaventate, lettori pazientissimi, se prendo le cose cosi dall'alto per venire a parlare del ciabattino: io non mi so reggere a lungo sulle ali nelle aeree regioni ove non potreste tenermi dietro, e subito poso i piedi in terra per venire al proposito.

E per cominciare dal cominciamento, dirovvi che i ciabattini fra noi si possono dividere in due classi: i fissi e gli ambulanti; appunto come le stelle che si distinguono in erranti ed in fisse.

I ciabattini fissi prendono per domicilio i portoni più o meno grandi delle case di Napoli. Ordinariamente fanno le veci dei guardaporte agli usci di quelle case che non hanno stalle; e quivi ingombrando col deschetto mezzo il portoncino, costringono a passar quasi per trafila chi entra e chi esce. Alle volte scelgonsi un cantuccio in mezzo alla pubblica via dove non siano d’impaccio al passaggio delle carrozze; e quando han posto bottega in una piazza, aggiungono all’ufficio di rattacconatori quello di negozianti di scarpe raffazzonate e accanto al deschetto schierate in battaglia coll’aspetto di nuove. A vederle, quelle scarpe sembrano destinate all’immortalità: ma alla prima pioggia si accorgerà il male accorto compratore come sieno caduche e transitorie le cose di questo basso mondo, non escluse le scarpe più appariscenti.

I ciabattini ambulanti hanno in vece di deschetto una cesta ove ripongono i loro ordigni. Accomandatala ad armacollo mercé una correggia, con quella cesta girano tutta la giornata per le contrade della capitale. Al grido usato chià è, accorre la fantesca e fassi mettere un taccone alla pantofola sdrucita; accorre il cocchiere o l’onesto artigiano e fassi dare quattro punti alla scarpa che ride a bocca sgangherata; accorre la trecca e si fa rabberciare la scarpetta sformata e a cacaiuola; accorre lo studente.... cioè non accorre, ma lo fa venire a se, e si fa mettere un sopralacco con tramezzelti ai tacchi logori degli stivali o dei borzacchini alla prussiana. Beati quelli che hanno per calzari la propria cute: se non altro, risparmiano la spesa del calzolaio e del ciabattino, e non sono soggetti al chirurgo pedicuro ed al callista.

Eccoti al lavoro il nostro ciabattino girovago: ei non ha bischetto né trespolo: questi blandimenti son riserbati ai suoi più nobili confratelli, a quei che van per la maggiore, non a lui povero nomade dell’arte.

La cesta che contiene i suoi ordigni è pure il suo deschetto e il suo scabello: riunite le ginocchia, e accoccolato in tal guisa, senza pedale e senza manale, apre bottega ove il bisogno altrui viene a provvedere ai suoi bisogni, e dei denti facendo tanaglia, impugnando la lesina colla destra e lo spago colla manca, rattoppa ogni genere di calzari che la provvidenza gli faccia piovere. Così da un sito passa ad un altro, finché a mezzogiorno si ferma alla prima taverna che gli si offre alla vista o che gli solletica l’organo dell’odorato.

Innanzi ad una di queste taverne fermavasi ogni giorno un ciabattino de’ più miseri che mai siensi veduti. La sua statura non aggiungeva a quattro palmi e l’età passava i cinquanta.

Appoggiavasi ad una mazza noderosa che di mollo gli oltrepassava il capo, della quale servivasi per menare a tondo ai monelli che gli davan la baia e che gli gittavan torsi di cavoli, bucce di cocomeri e di limoni ed altre simili galanterie. La sua figura e più il suo viso contraffatto gli avevan procurato il soprannome di porco col quale era e forse è ancora in Napoli conosciuto. Sicché egli potrà ben dire quando un nuovo Dante lo troverà in un nuovo Inferno:

Li cittadini mi chiamarmi ciacco.

Ma certo non per lo dannoso vizio della gola si aveva guadagnato questo nome, poiché anzi era l’esempio della frugalità. Il suo desinare meridiano componevasi di cipolla, di peperoni in aceto, di fave crude, di lupini salati, di zucca marinata, secondo le stagioni, con un pezzo di pane nero e stantio, e sol ne’ giorni festivi regalavasi di due grana di maccheroni verdi verdi con pepe e formaggio grattugiato e di un’insalata di pomidori acerbi o di scheruola amara. Vero é che annaffiava cotesta roba copiosamente con quel che in Napoli chiamasi vino di quattro (cioè di quattro tornesi la caraffa) e che in realtà non è che un miscuglio officinale di vino ed acqua intrugliato collo zolfo o col tenervi dentro. un sacchetto di monete di rame. Ma benché copiose fossero queste libazioni, o per natura o per contratta abitudine il suo cervello punto non ne soffriva, sicché non mai fu visto ubriaco né brillo, e cosi non può dirsi che il suo bere oltrepassasse la sobrietà.

La donna che sedeva al banco della taverna, e che era la padrona, giovine e paffutella, era una di quelle bellezze che non di raro s’incontrano nelle infime classi del nostro volgo. Cresciuta in mezzo la strada, senza gl’impacci signorili di busti, di attillati vestimenti, di stretti calzari, senza il forzato sedere e l’incurvamento del cucire e del ricamare che è di obbligo nelle scuole, la sua persona era venuta su ed aveva preso liberamente la naturai conformazione, in guisa che non aveva bisogno dell’aiuto dell’arte per supplire alla mancanza di carne in quelle membra che ne deggiono essere ben fornite. Occhi nerissimi le scintillavano in  volto, e la negrezza de’ capelli faceva cornice ad un viso che molte nobili dame di puro sangue avrebbero invidiato.

Il nostro ciabattino si sedeva ogni giorno a mezzodì in mezzo alla strada dinanzi ad una tavolacela apparecehiata appunto per gli avventori. Quivi si faceva portare in un boccale il solito vino, e cavato dalla cesta il pane e il companatico, si dava da fare coi denti.

Ma gli occhi non istavano in ozio, ed amorosi andavano a fissarsi sulla bella cantiniera donde non gli staccava un momento. Conscio della propria deformità, ei non sognava neppure che potesse essere riamato: ma in quegli istanti che pasceva lo sguardo in quella bellezza mentre pasceva il corpo di quei rozzi cibi, egli si stimava beato, ed avrebbe esclamato di cuore:

Nettare e ambrosia non invidio a Giove.

Amava quella donna come un padre ama una figlia, e per vivere vicino a lei, pel solo piacere di sempre sempre vederla, avrebbe consentito ad essere anche più miserabile di quel che era.

Da parecchi giorni alleggiava intorno alla cantiniera un giovane calzolaio, e sempre che entrava nella taverna la guardava con cupidi sguardi, mentre poi all’uscirne gittava un guardo di sprezzo sul cencioso ciabattino quando il trovava seduto alla panca. Passò gradatamente dalle occhiatine alle parole, e dalle parole sarebbe passato a qualche cosa di più ardito, se l’onesta cantiniera non l’avesse sempre respinto dicendogli: statti quieto colle mani.

Un giorno, nel più fitto della state, tre ore o più dopo il mezzodì, il ciabattino stava ancora alla sua pancaccia: assorto nella quotidiana contemplazione, erasi dimenticato del suo mestiere, ed era rimaso lì inchiodato, facendo chi sa quali castelli in aria. La cantiniera, appoggiata di lato la testa sul braccio dritto'e lasciando cader penzoloni l'altro, erasi addormita al suo banco. La taverna era deserta, poiché sdraiati per terra dormivano pure i garzoni. Pel vicolo non passava un’anima, né una testa compariva ai balconi e alle finestre, ché il cocente ardore meriggiano noi permetteva. In mezzo a questo silenzio, eccoti arrivare il calzolaio, quale, profittando della solitudine, dopo aver dato un’occhiata intorno a se, chinatosi bel bello e ebetin chetino, appicca un bacio sulle labbra socchiuse della bella tavernaia.

A questo il ciabattino non potè contenersi: tutto il sangue gli corse al cuore e al capo che in lui erano più vicini che negli altri uomini; e dar di mano alla cesta, prenderne il trincetto, avventarsi al calzolaio, e gridar con voce tonante tira mano, fu un punto solo. Scosso ed attonito il calzolaio, ma non intimorito, cavò fuori anch’egli e spiegò un suo coltello, mentre al grido erasi desta la cantiniera e sorti in piedi i cacciavino. Ma giunsero tardi: trafitto d’un colpo al ventre cadeva il calzolaio, ed il porco senza far nessuna resistenza, baciava il trincetto, lo deponeva sul banco e si faceva condurre al commissario del quartiere.

Interrogato, non volle mai dire perché avesse ferito il giovine calzolaio. Fu sottoposto a un giudizio, passò più di un anno nelle fetide e contagiose carceri della Vicaria, e dopo avere espialo la pena a cui fu condannato, ritornò gioioso a mangiare il nero pane e le cipolle alla bettola consueta alla vista della sua Esmeralda. Mai non si seppe perché si fosse fatto reo di sangue.

L’abnegazione di questo novello Quasimodo ebbe il compenso che sogliono aver quaggiù le azioni virtuose: la bella caminiera, abborrente dal sangue, guardava con orrore il ciabattino. Pochi giorni dopo la sua ricomparsa, gli fece dire dai suoi garzoni che non si fosse mai più fatto vedere dinanzi a quella taverna.

Da quel di non si è più visto per Napoli il porco.

EMMANUELE ROCCO.

IL 4 MAGGIO

NON è già del 5 e del 15 maggio dolorose memorie di questo mese, ma di un giorno lieto e bizzarro ch’io to’ intrattenervi o lettori, io sì studioso delle vecchie e secolari costumanze napolitane, onde i forestieri ancor ma| ravigliano curiosando fra noi e prendendo a riso una plebe che oggi lentissimamente comincia ad intendere esservi al mondo qualche cosa da careggiare oltre il vino, la donna, e che so io....

Il quarto giorno di maggio è destinato in Napoli, per antica consuetudine, al cangiamento di domicilio. Ab antico e fin dal tempo de’ nostri trisavi, i napolitani quando non erano inquilini della casina di Montesanto, godevano sotto i passati governi della sola libertà di mutar tetto; libertà che, la Dio mercé hanno conservata fino ad oggi. Mutar tetto è dunque pe' napolitani, non un bisogno ma un uso, quando non sieno gli ospiti della Concordia.  Se le case potessero trasportarsi d’ uno in altro loco sui carretti, i napolitani forse non acconsentirebbero a portar via le suppellettili e far viaggiare gli arnesi più sconci; ma posto che le case non possono secondare la volontà del muoversi de’ lor padroni, i napolitani compiono non in silenzio né in secreto, ma pubblicamente e clamorosamente la voluta emigrazione.

I possessori di case in Napoli ne danno in fitto altrui le parti diverse dal di 4 maggio e segnatamente a cominciare dalle 18 ore del giorno. _ È questa l’ora tremenda in che un inquilino deve all’altro cedere il posto: in quell’ora gli abitatori sono a fronte l’uno dell’altro, o almanco l’uno minaccia di salire, mentre l’altro s’affretta a discendere. Ora tremenda pari a quella di Foscari che pria di uscir dal Palazzo de’ Dogi udiva proclamare il suo successore! Al suonar di quell’ora tutto è scompiglio tutto è disordine. D. Ranunzio è giù nella corte co' suoi undici figli, la moglie, la balia, la nutrice, il cuoco mascherato da servitore con livrea gallonata ed il garzone della scuderia. Di sopra sta D. Rosario vedovo di due mogli, una figliuola monaca di casa, un figlio cappellano e gli altri demagoghi per esercizio di libere professioni. Ciascuno di questi membri porta seco un fardello, un involto ed un commentario alla maniera di Cesare per salvarlo dalle onde de’ facchini che vanno e vengono...

L’interno della casa presenta uno spettacolo degno più del pennello che della penna. Il sacro e il profano, il nuovo e l’antico, si accozzano, si mescolano, si confondono. I confini delle proprietà sono violati. Tutto è comunismo!

I più bei cristalli e le più vaghe porcellane si veggono a lato de’ vasi più immondi: accanto alle casseruole ed alla padella i quadri di decorazione, il berretto di notte sul candeliere, il candeliere sul letto, i materassi sotto il letto e non sopra, la chitarra vicino alla scopa, gli scaffali di carte pieni di salami e di caci diversi, gli usci ingombri tutti da dover saltare per passarvi, in cucina le sedie a bracciuoli, ed in galleria le pentole e le pignatte.  Nè questo è il solo spettacolo! — Altro e più commovente presentasi all’esterno del palagio—D. Margherita (nubile donzella che sta fra i ventinove e i trenta) non sa staccarsi senza lacrime dall’amato balcone, ove ba passato un anno, alimentando la ventottesima fiamma che dovea condurla a piè dell’altare — Domani! e l’amato giovane (studente in medicina) più non le starli di contro, domani! e tanta lava di amore sarà perduta in un oceano di dimenticanza, domani! e invece del giovane amoroso, si vedrà forse rimpetto la calva testa di un vecchio dentista, forse un maestro di scuola; forse un erniario, oh Dio! forse un suonatore di corno da caccia o di violino.

Un corno invece dell’amore, un violino invece di un amante, un arido scolaretto ove era già il fiore degli azzimati damerini. Giusto cielo, quale atroce disinganno! Nè qui finisce la dolorosa istoria. Domani D. Rosina non troverà più al suo fianco la Capitanessa per cicalare un paio d’ore, mormorando con bella maniera. D. Lena non avrà più l’agio di sindacare l’entrata e l’uscita di un giovane che frequenta la casa della sua rivale, non potrà metter pecche sui vestire di D. Vincenzella e finalmente non avrà più il destro di quella seconda porta di casa così utile nel disbrigo degli affari domestici et de quibusdam aliis.

I misteri di una famiglia sono sì svariati e tanti che il volerli solo adombrare porterebbe fatica. Cotali misteri crescono come più rigoroso è il sistema de'  genitori, come è più stretto il cerchio delle affezioni e delle conoscenze sociali, come è più impacciato lo svolgimento delle idee ne’ giovani e più superstiziose le assuetudini, e come più si chiudon le vie de’ piacevoli ed onesti diletti che distolgon la mente dalle occulte pratiche delle tortuose amicizie. Nella nostra Napoli, città sì ridente, sì gaia, sì sollazzevole all’esterno, abbiamo a noverare gran parte di famiglie e forse la maggiore che stimano preservarsi da qualsiasi maligna influenza di seduzione o di biasimo menando vita da orbi, facendo il tempio l’asilo dei dì festivi, sdegnando ogni consorzio, proscrivendo la lettura, il teatro ed ammettendo in casa ed a tutte le ore persone la cui frequenza sarebbe per altri gravissima colpa e che le più volte vestono l’abito incolto e dimesso e portano il capo inclinato come la Garisenda di Bologna o come il campanile di Pisa.

Ma per non dilungarmi molto dal tema soggiungerò che mentre l’interno delle case presenta nel dì 4 maggio questo strano accozzamento di passioni e di balorderie, le vie della capitale presentano assai più nuovo e vivace spettacolo. — Basta gittare un’occhiata dall'uno all’altro capo delle maggiori strade per persuadersi che quello è il giorno dello sfratto!! Enormi carrette s'avanzano, enormi per roba accumulata d’ogni! maniera e tratte da buoi, da ciuchi e da uomini, che il mio paese suol destinare per civiltà ad ufficio di bestie. Queste grandi cataste s’avanzano stridendo come macchine pirotecniche, vàn traballando minacciando i pedoni di lor caduta, e soffermandosi quando avvien che s’incontrino con altre più maestose piramidi ambulanti. Ecco il caso delle montagne che s’incontrano!

Allora è uno sbarrar d’occhi, un pigiarsi, un urtarsi, un fremere, un bestemmiare. — Chi cederà — Abila o Calpe? La via è stretta e mentre i due carri s’arrestano, altri ne sopraggiungono e si arrestano dietro ad essi. La gente strepita per voler passare: i monelli sghignazzano e fan sibili da portar via la orecchie — i facchini s’arrovellano e ciascheduno pone in opera una diversa strategìa — Ai rumori della via i balconi e le circostanti finestre si popolano di osservatori — Sopraggiunge una elegante carrozza guidata da un ricco burattino che vorrebbe imporre a’ suoi fumanti destrieri tale un movimento, da farli saltare — Oh quanto gli tarda l’attendere!...

Alla fine, esauriti tutti i mezzi di aprire il transito di due carrette, uopo è che l’un d’essi retroceda e seco il ricco burattino co’ suoi fumanti cavalli. — Egli sferzali allora, e la carretta tra i fischi ritorna indietro.

Altrove lo spettacolo è più strano. Un carretto che retrocede ne investe un altro, e come chi troppo in alto sai cade repente, così un armadio troppo alto locato precipita giù con gran fracasso, e mena seco a precipizio uno scrittoio, un cassettone, una culla ed un non so quale arnese di notte che contamina il crinito lucidissimo capo della più mansueta fra le umane creature che la moda, non so se per dileggio o per contradizione, chiama lion. Altrove le scale della nuova casa son così strette da potervi passare a stento la signora alquanto pingue in conseguenza di afflizioni represse — Allora vedi una specie di. scala di Giacobbe, ma non son mica angeli quelli che van su e giù per aria, ma son mobiglie che col mezzo di grosse funi vengon tratte su da un balcone e calale giù da un altro. E que’ che dall’alto grida al compagno di stare in guardia, e que’ che dal basso grida al compagno di non far lo scioperato. E taluna volta avviene che la fune onorata per lunghi servigi, si spezza, il cassettone cade sulla via, rovesciasi quanto v’ era dentro e si dissemina a dir dello Scott come le avemarie d'una disciolta corona, e allora i monelli, pronti sempre ad accorrere ove è argomento di gridare e di far baldoria, mctton le mani sugli obietti e compion la scena.

Altrove più curiose avventure si manifestano. Il padron di casa fatto certo che il suo inquilino si è ben collocato e che nulla mancagli, gl'intima di volergli crescere il pigione, questi se ne sdegna e non dandogli dritto il suo contratto di restare più a lungo, promette a se medesimo di vendicarsene.

Queste intimazioni o congedi si danno a di 4 gennaio all’uno ed all’altro contrattante. Il di seguente se il padron di casa sponte non ha concesso altri giorni di dilazione al suo inquilino, questi leggerii sulla porta del suo palazzo il succinto appigionasi che nel mio paese dalle due parole si loca appellasi si loca. E per quattro mesi il poveri uomo dovrà aprir la sua porta a chiunque si presenti con la parola è, e dovrà come uno scolare al maestro rispondere a mille dimande — E ad un dipresso il dialogo sarà e il seguente:

— È buona l’acqua?

— Cosi, piuttosto.

— È acqua di Carmignano?

—  Non Io so.

— A casa mia ho l'acqua di Carmignano.

— Me ne congratulo.

— Perdonate — il pozzo è profondo?

— Lo domanderò al mio domestico.

— Perdonate — Vorrei sapere quante canne di fune vi abbisognano.

— Scusate — Compiacetevi di osservar prima la casa.

— Grazie — Avete sole... — com’è esposta la camera a dormire?

— Mi pare a ponente.

— Eh! la mia camera da letto è a mezzogiorno...

— Me ne congratulo.

— A proposito la galleria è grande. Vi si possono formare due quadriglie in sedici?

— Non credo.

— A casa mia, si balla ogni domenica.

— Tanto piacere....

— È astrico a cielo?

— La sola camera da pranzo.

— E la camera di letto ha una retrostanza? Piccola si.

— Il mio piccolo gabinetto a strada Scassacocchi è magnifico.

Quando seggo (con rispetto parlando) veggo il mare, le bocche di Capri....

— Dal mio, Signore, non vedrete che la cima di albero di celte piccole....

— Quanto mi dispiace! — La cucina già è luminosa?

— Alquanto.

Le fomacelle sono alla romana?

— Non saprei, perché non me ne son mai servito. Io son solo e mangio fuori di casa alla trattoria.

— Io poi non potrei tranguggiare un sol boccone di trattore.

— Tutto è abito..

— Oh in quanto a ciò son rigoroso — Mia moglie tra le altre sue virtù, che non son poche, sa fare il sugo di ragù tirato alla perfezione...

— Me ne congratulo.

— Non vi parlo poi de’ vermicelli al pomidoro. Potrebbero essere imbanditi a tavola regia....

— Compiacetevi di veder la casa, perché son sulle mosse di andar via e chiudere.

— Subito — Voi preferite o signore i vermicelli al pomidoro a...

— Io mangio tutto.

— Oh in quanto al mangiare io sono rigido anziché no. Vero è che noi in questa valle di lacrime dobbiamo mangiare per vivere, non vivere per mangiare, ma la proprietà de’ cibi mi piace e con un poco di sapore ed anche con una certa abbondanza.

— Signore osservate bene dunque la cucina, perché, ve ne pregai già, ho fretta…

— La cucina. è piccola.... è mal disposta. Il focolare dovrebbe star più prossimo alla finestra. Signore scusale, questo architetto esser doveva una bestia.

— Sia pure, io non vi ho colpa..

— Ed ora quante altre camere vi sono?

— Nessun’altra.

— Come! — Sei stanze e cucina!...

— Certo.

 A vicolo Scassacocchi ne ho dodici, loggia, mezzano, giardino, portone carrozzabile dispensa e cantina, ollima pe’ meloni — Signore vi piacciono i meloni?

— Amico ho fretta — D’altra parte io vi ho bene spiegato da bel principio che la casa aveva sei stanze. E poi per cencinquanta ducati all’anno non credo si possa pretender di più...

— Perdonate signore, non conosco il vostro riverito nome.

— Giacomo a servirvi.

— Favorirmi sempre — Uscite forse?

— Ebbi già l’onore di ripetervelo.

— Mi maraviglio — l’onore è mio — E da qual parte siete diretto?

— Alla via de’ tribunali, e per affari di premura.

— Andate a piedi...

— No signore; non arriverei in tempo, prendo una carrozzella.

— Quanto sono comode queste carrozzelle. A tempo antico v'erano...

— I corricoli lo so, ma.,.

— Erano incomodi Io so — Se volete compiacervi...

— Vengo mi farò un pregio di accompagnarvi se lo permettete, io son sulla strada.

— Come vi aggrada, ma presto...

E poi sull'uscio le consuete noiosissime cerimonie, e le altre pria di montare in vettura, e le altre dopo esser disceso.

Ed ecco quanto avvien le più volte a chi amabilmente si presta a far vedere la casa nella quale dimora. I vostri visitatori vi guardan sempre d’alto in basso, attestano che la casa è mal costruita, mal disposta, che vi mancano i comodi indispensabili al vivere agiato, che non vi ha luce e finiscono col dirla un sepolcro, con maravigliarsi che v’ abbiate fatto dimora, col dimandarvenc conto e rimproverarvene, se occorre.

E poi non passa intero un dì e son lì sull’uscio ad assediare il proprietario, pregando e supplicando col danaro alla mano o con valida guarentigia per ottener la casa che hanno tanto disprezzata, e nell’ora tremenda, in quell’ora di orgasmo e di emigrazione che già innanzi ci sforzammo di descrivere, vi torna innanzi la figura pallida e lunga del vostro visitatore che dimorava nella forte casa del vicolo Scassacocchi.

Un caso ancor più curioso è il seguente. La famiglia di un così detto! strascina faccende abita un quartino mallo — Padre, madre, figli ed un cencio ambularne che diccsi serva son tutti di un calibro— gridatori, accaitabrighe, scialacquatori, mortali nemici d’ogni restituzione — Da che son entrati nella casa non han mai pagato un quattrino, protestando al padron di casa di esser galantuomini e mostrando l' albero genealogico della loro famiglia. E così il primo mese per essere stato scarso il ricollo, il secondo per non aver ancora introitalo non so qual cespite, il terzo per una malattia sopraggiunta alla figliuola primogenita, e così via via, promettendo sempre e non pagando mai. E gli anni passano, ed i proprietario si macera, e guarda, e scandaglia, e torna a guardare se potesse sequestrar loro qualche buon arnese o qualche abito, ma che? Un sequestro nelle piene forme non lo conpenserebbe delle spese. Finalmente minaccia, indi prega, e disperatamente poi manifesta al suo inquilino di esser disposto a stendere un velo impenetrabile sul passalo, ma il fiero inquilino non s’appaga neppure del velo impenelrabile. Egli dimanda riparazione dell’atroce ingiuria che il proprietario gli ha scagliato.

— Ed è a me o signore che voi volete dar, quasi elemosina, il pigione che per ragioni sì gravi non ho soddisfatto? Credete dunque ch’io non intenda pagarvi che mi volgete un tal discorso? A me una elemosina! — La mia famiglia lode a Dio, ne ha fatte in altri tempi a chi non ne voleva, e voi o signore parlate di alzar la mano. Mi meraviglio! io voglio pagarvi e strapagarvi, io esigo che accettiate il pigione che vi devo, io vi ammonisco ad esser più cauto in avvenire parlando co’ miei pari.

Allora il proprietario va in collera. Adisce il Giudice, invoca tutte le Podestà, spende danaro a ritta ed a manca e munito de’ debiti poteri e della forza recasi nel suo stesso palazzo arma il portinaio e si presenta imperioso in atto come il Console Romano alla dimora di Giulio Sabino.

Ma l’inquilino tocco da tanta cortesia non esita pure un istante, raccoglie intorno a se la sua famiglia, slanciasi al balcone e con mille geste e orribili favelle mette sossopra i vicini gridando: —Buoni vicini miei! quale assassinio! ci vengono a strappare dalla casa nostra, dalla casa che abbiamo tanti anni abitata. o mores! si trattano gli uomini d’ onore come ladri. Si caccia una famiglia dal suo umile ed onesto ricovero per pochi ducati. Vicini miei che orrore! Ho tre figlie zitelle, tre maschi senza impiego, andranno tutti a stender la mano nel mezzo d'una via. Oh figli! —

E qui altre voci Papà, Mammà, Tolò, Popò, Nanè, ninni e pianti sterminati e gridi acutissimi, e muover di braccia in tutti i sensi, sicché tutta quella famiglia stretta ed aggruppata insieme porge simiglianza di un gran mostro con cento braccia ed altrettante gambe, anzi io diresti meglio un Laocoonte attorniato da’ serpenti.

Sopraggiungono a questo i mediatori, tra i quali il fornaio, il macellaio e la signora dell’ultimo piano, che non li vogliono lontani e non han deposto il pensiero di essere soddisfatti. Essi interpongonsi, parlano accenti di pietà al desolato proprietario, lo stringono, Io esortano ad aspettare ancora un mese, una settimana, un giorno. Alla fine gli mostrano che quella buona famiglia non troverebbe altrove un tetto, senza mezzi, senza danaro, che nessun altro padron di casa le darebbe ricetto. A queste persuasioni si aggiunge il grido di tutta quella gente che lanciasi sul proprietario, ne afferra i lembi dell’abito, lo spinge, Io scuote, ma il proprietario è immobile e duro come una colonna di orientale granito. A questo l’inquilino si tace, richiama a sé la sua famiglia e con atto tragico impone alla prole di ritrarsi e barricar la porta, indi si volge ai suoi carnefici e dice—Signori, io mi vergoguo di più abbassarmi innanzi a costui. Io potrei pagarlo ora, ma no, in coscienza noi posso, e poiché mi veggo astretto a svelare un segreto che tenevo racchiuso nell’intimo petto per delicatezza, io protesto o signori di non voler pagare costui perché non è il vero proprietario della mia casa.

— Come? — Insolente! — Imbroglione!

— Imbroglione tu...

E corrono certe espressioni di polso poco decorose.

— Arresta.

— Portatemi al cospetto del Giudice, dice l’autorevole inquilino, colà è il mio posto, colà parlerò.

Innanzi al giudice l’inquilino dimanda i titoli che danno al proprietario il dritto di esigere il pigione.

A dirla breve il padron di casa è costretto dalla necessità, dalla disperazione e dallo strano sviluppo di tanta sfrontatezza e miseria a convenire col suo inquilino perché si contenti di lasciar la casa con sussidio di qualche somma.

E cosi le più volte avviene a que’ proprietari che si lasciano illudere da belle proteste. L’inquilino che non ha terreno che il sorregga vi entra, vi forma il suo nido, e a snidarlo, in difetto di mitraglia, è d’uopo soccorrerlo di danaro.

Questo avvenir suole in una città, ove la miseria è talvolta un pretesto per non adempiere a’ propri doveri, ove il lavoro non piace, e si preferisce al vivere onesto il viver d’astuzie e di umiliazioni. Però avvien che si trovino inquilini che hanno abito di non pagare e padroni di casa che caverebbero gli occhi a’ Ioro inquilini, per costringerli a pagar la casa come essi intendono, e volgarmente le buone famiglie napolitane sogliono fra commensali noverare, oltre le persone che la famiglia compongono, il padron di casa — ed attestano che costui vuol mangiare ogni dì e mangia più di loro!

LE CASE DI NAPOLI

Quando ci avviene di entrare in questa nostra ridentissima città da per l’ampio bacino marittimo, il fabbricato delle napolitane case ci appare con le svariate sue tinte, assiso intorno ad nna parte del pittoresco golfo, ma quando vi si entra per via di terra, lo ammasso delle case sembra arrampicarsi intorno ad un monte, ed affollarvisi ai piedi, mentre in cima di esso un antico castello, ricordo di non antichi terrori, minaccia la città che s’addormenta a’ suoi piedi e la guarda come il cavaliere armato della favola, e non le parla che per la bocca de’ suoi cannoni.

A notte profonda, quando lo spensierato e molle vivere del volgo si tuffa nel sonno, quando i bianchi origlieri sopportano il peso d’illustri e nobili coppie senza un bricciolo d’intelligenza, e quando il brio ed il suono delle parole de’ verbosi napolitani non è più, rompono il silenzio della notte le voci delle scolte di quel castello, che in sua favella dice alla dormente città — tu riposi ed io veglio!

Il mutarsi e lo avvicendarsi di tante dinastie ha impresso nelle forme della città il tipo della conquista, e l’arbitrio del più forte l’ha ristretta da un lato, slargata dall’altro, l’ha più fiate posta sossopra. Scorgi un apparente disordine ne’ fabbricati, pel quale ti sembra che le case sieno state vomitate dal Vesuvio, anziché distribuite dalla mano misuratrice dell’uomo.

Nell’antico Napoli che ha pur tanta copia di palagi e di bei fabbricati, come più innanzi diremo, le vie sono luride e tortuose, sebbene quella detta Spacca Napoli sia la sola per lungo tratto diretta che Napoli possiede; ma le vie che l’attraversano sono sì anguste e per elevazione di laterali case sì triste, ch’ei pare volessero que’ costruttori impedir la vista del cielo agli abitatori, di quel cielo ch’è principal delizia nostra.

Tra gli altri i vicoli che per la loro tortuosità ed angustia posson dirsi le vene di questo corpo di edifici, sono per tal modo stretti, che rendono facilmente concepibile come potessero avvenire i duelli alla maniera di Edipo e Lajo, ovvero di padre Cristofaro, personaggio sì bello del libro Manzoniano. Normanni, Svevi, Angioini, Aragonesi, Spagnuoli, Austriaci, tutti portarono voglie e disegni di viver diversi. Quindi usanze, forme dissimiglianti dalle precedenti; quinci favella, passioni, morale, nazionalità tra lor differenti, ond’è che passioni, morale, favella non sono pregi scolpitamente laudabili tra noi.

Secondo l’imperar delle varie dinastie, le regie dimore cangiarono, e là dove elevossi il tetto reale accorsero i sudditi ed eressero templi e magioni. Castel Capuano, or carcere e tribunale, fu temuto e rispettato edificio. Castel nuovo raccolse altri Re, ed Alfonso vi rinvenne l’arco del trionfo; quello di Poggioreale accolse la famosa Giovanna. Gli Austriaci e gli Spagnuoli ebbero un palazzo sull’ingresso del quale l’aquila spiegava le ali, ed ora aquila e palagio più non esistono, poiché la nuova Reggia Borbonica abbatte l’antica rivale; e come castel S. Elmo dice a Napoli — Io veglio — la Reggia borbonica disse all’altra — Io regno.

Or le vie che da questo punto menano fino ad aggiungere il pittoresco Posilipo sono se non rette, spaziose, e verso la riviera nette, fresche di alberi e di frondi, amiche ai diporti e fiancheggiate da case acconce nell’esterno vedere, pulite, eleganti nello interno, ma quando ti avvien di correre all’opposto capo di Napoli, cioè da Posilipo al Pendino, al Mercato, alla famosa chiesa dell’Annunciata, troverai usi, passioni e case che li faranno dimenticare il Napoli aristocratico presente, per menarti nello scurissimo Napoli magnatizio antico. Troverai famiglinole meschine per fortuna o per vizi, abitatrici di palagi storicamente ricordevoli; appartamenti illustri, ove passeggia la miseria e l’ignoranza più crassa; corti interne, ove l’occhio vagava già di fasto in fasto, divenuto asilo di cenciosi, e ti avverrà di sentir dire, per esempio, da qualche archeologo. Qui dove questa donnicciuola pone i suoi panni ad asciugare al sole, un Re Aragonese si fermò sul suo cavallo di battaglia, per aspettar che scendesse l’illustre principe di questo palagio possessore.  

E li avverrà, a mo’ d’esempio, di trovare mura luride ed annerite dal fumo, ed uomini semi nudi con bisunte carni, ove fu già la dimora del Consigliere di Ferdinando I. Aragonese, Giovanni Miroballo; e troverai nella già splendidissima corte del palazzo di Fabrizio Colonna, in via di Mezzocannone, uomini poveri intenti a piallare e sgrossare il legno, e i bei giardini famosi ridotti in isterpi e tronchi e secchi arbusti. Infine tutti i già sontuosi edifici solidamente costruiti che dccoravan la vecchia Napoli, tra quali molti che serbano ancor le tracce dell’arco acuto e della gotica sveltezza, come quel diruto palazzo che si traguarda non molto lungi da quel de’ Colonna nomato innanzi, e quello che non lungi dalla piazza del Pendino mostra ancora oggidì le sue leggiadre marmoree colonnette, in massima parte ridotto ad uso di famiglie private, offrono una distribuzione interna di camere che rende il vivere disagiato, che divide e suddivide una vasta sala con soffitto a grandi rosoni in 10 o 12 camerette o bugigattoli senza luce e senz’aria, che pone la cucina accanto alla stanza a dormire e trasforma il più nobile appartamento nel più ignobile ammasso di catapecchie, alle quali si va per una ampia scala marmorea con balaustre dello' stesso marmo e scaglioni smozzicati e smossi e mura laterali tappezzate di cadenti tele di ragno. E di questi grandi e be’ palagi elevali con pietre di piperno e di travertino ti sarà tal volta difficile di conoscer l’autore, perocché alquanti artefici toscani nelle politiche vicende delle fiorentine repubbliche, campati in Napoli, eressero per saggio del valor loro parecchi di cosiffatti casamenti e lasciarono ignorato il nome dell’autore. Ed in questi edilìzi tu scorgi talora le finestre e le aperture in generale non poste ad eguale distanza fra loro, perché forse ai comodi interni ovvero alle necessità della luce, quelli architetti sacrificavano le proporzioni più o meno uniformi del prospetto. E qui dee considerarsi che stando i palagi a fronte l’uno dell’altro in vie strettissime, era d’uopo ottenere il beneficio della luce con quell’espediente che paresse migliore.

Tali condizioni risguardano unicamente la riduzione di antiche case magnatizie in piccole abitazioni, ma quelle che risguardano le case di moderna costruzione che s’incontrano nelle vie del Basso Porto , o de’ tribunali o del Mercato, offrono altresì partizioni e sconci più curiosi, e più madornali. Ingressi angusti (detti portelle) ove chi entra è costretto a transigere, o ben intendersi con chi esce, scalette ove il cadere col volto innanzi o precipitare all'indietro è facilissimo, il cadere lateralmente impossibile; camere ove si sale ove si scende e dove le pareti assumono sempre forme trapezoidali, ma purché v’abbia la così detta soletta ove far attendere il servo, poco monta che il suolo non sia mattonato, che grosse ed informi travi sieno la decorazione del soffitto, che da una stanza scorgasi agevolmente quanto si fa in tutte le altre.

Il più ristucchevole degli errori si presenta nella cucina, là dove si manipolano i cibi, alimento del corpo umano, ove regnano le tenebre e manca lo scarso volume d’aria bisognevole alla respirazione.

La cappa del cammino che è destinata in arte a raccogliere il fumo e metterlo per la sua via, serve invece a dilatarlo, i fornelli o non ritengono il carbone o non han capienza a contenerlo, la luce vien soventi volte dal lato che men se ne giova e (questo è poi il compimento dell’opera) la doccia sottoposta a scolo delle acque o materiali fetidi e sporchi è strettamente legato al focolare, e i cibi si cuocono, e si compongono i più ghiotti manicaretti sull’assidua esalazione delle pestifere materie e degli escrementi.

E gli uomini che raddobbano, elevano e distribuiscono queste case sono architetti e talvolta vecchi ingegneri che vi citano 500 opere di tal natura per lo manco, e vi alzano a cielo per esempio la casa del barone B... ove ciascun pianerottolo di scale è munito del corrispon dente foro per accogliere le umane miserie; e vi citano la casa del barone G.... che ha il gran vantaggio di un loggiato superiore, dal quale si scorge Napoli tutto e dal quale assiduamente cola nelle sottoposte stanze l’acqua che l’inverno sprigiona dalle sue cateratte. E vi citano la casa del negoziante R ove si comincia a sa lire con tanta dolcezza ch’ei ti par di andare su' cieli, e poi si finisce col raccomandarsi l'anima e pregare il padrone di casa che ti tragga su con le carrucole e ti dia roano nell’entrare, ove sull'uscio sta l’ultimo scalino di due palmi e mezz’oncia.

Eppure nelle esterne sue forme la casa appresentasi una scuola d’architettura. Tutti i cinque ordini. — Vignola, Barozzi, Scamozzi, Lionardo da Vinci, Bramante, il Sammicheli, qualche cosa del Demarchi qualche ghiribizzo del Borromino, qualche linea alla Michelangiolesca, tutto tutto il bello, l’utile e il dolce si accoglie in quella facciata da’ bianchi stucchi e dal cornicione centinaio.

Ma ciò non basta: vedi in una via cento case, e son tutte diverse per livello, per istile, e per ogni altra parte di prospettiva, talché accanto alle sobrie e scelte linee di un valente architetto, trovi le storture di un muratore arricchito che vuol farla da piccolo genio, e quell’ordine, quella uniformità che tanto s’ammira nel fabbricato di Torino ed in molti fabbricati di Londra vien respinto a Napoli, perché monotono a vedersi, e ciascun proprietario si diverte a pitturar la sua casa, qual di bianco, quale di rosso, quale di cilestro, quale di un color di feccia!

E qui non sia vano il ricordare che alle stesse chiese piene di antiche decorazioni e dipinture suol darsi di bianco, per modo che l’oscuro soffitto sembra piombarti sul capo: prova ne sia l’antica chiesa di S. Pietro a Maiella. V’ha è vero instituito da gran tempo un consiglio edilizio che sopraintende a siffatte cose, e che dovrebbe almeno sotto la forma esterna impedire che si scorgessero in via Toledo certe case a fette o a mosaico, ma egli è ben da sperare che siffatti sconci spariranno, come molti già ne disparirono.

Di cotali errori madornali derivanti da poco studio, e da molta pretensione riboccano eziandio altre cospicue città, ma Napoli nostro ha il solo privilegio di porre la doccia detta sotto i fornelli e dar pabolo ad altre preziose abitudini che mostrano non tanto l’imperizia dell’ingegnere quanto la sozzura di lui e de’ proprietari. In tutte le case edificate in tal guisa cercheresti indarno un camminetto per riscaldare le stanze, perché nell’inverno ponsi un caldano pieno di fetido carbone acceso, nel mezzo della stanza, e i nostri pacifici cittadini si abbracciano a quello ed assonnano fino a che suona la nota campanella e passano da quella pira all’ampio letto carrozzabile a due, mobile indispensabile ad un buon matrimonio. Però case di tal fatta sono abitate da uomini di tal natura, ed è vero pur troppo che la belva conosce il suo covile; e fino a che la civiltà, cui si fa tanta guerra, non avrò snidato le superstizioni e le vecchie assuetudini; non di trent’anni vi sarò d’uopo a riformare abitato ed abitatori, ma di trenta secoli. Un solo mutamento senza agitazioni e senza disordini è avvenuto in quelle contrade, ed è il seguente.

I discendenti di antiche memorabili famiglie che la storia ha nelle sue pagine celebrato, abbandonarono l’antico tetto de’ padri e le contrade illustri, per vivere soventi in piccolo e stretto domicilio del nuovo Napoli. Essi sconoscono cosi il loro principio, perché la moda Io vuole; e molti, noti oggidì soltanto per vizi, ricordano passando innanzi alle superbe mura delle loro case che quelle più loro non appartengono.

Essi visitano i marmorei sepolcri de’ loro antenati nelle chiese dell’antico Napoli, mentre vivono immemori d’ogni virtù nelle anguste case del Napoli nuovo. Essi non furono più nobili, dacché obliarono e smarrirono le tradizioni di famiglia. Una caduta nobiltà non può alimentar nobili passioni ed eccitamenti. Ella giù specchio al volgo, ne divien riso e disprezzo, e il volgo si fa col loro esempio peggiore.

La inedia classe la quale oggi in tutta l’Europa dà prova di coltura, di onesto viver sociale, di potente volontà, è divisa. Una parte (e sono appunto gli abitatori delle case del vecchio Napoli) pensa a metter su un bel letto di rispetto  e trovarsi di buon’ora in famiglia; l’altra vuole il progresso senza voltar gli occhi addietro, e lo vuole in un’ora e quindici minuti. La parte dalla intelligenza forte ed onesta è sola. Queste considerazioni offre a chi ben vi guarda quel formicolaio di case che compongono la clamorosa città di Napoli!

CAV. CARLO T. DALBONO.

IL 4 MAGGIO È

Spuntò! con preci ed ansia

L’attesero l facchini,

L’attesero le nobili.

L’attesero i zerbini,

Tutta fra dolci palpiti

L’attese la città!

L'involontaria vergine

Alfin trovò il consorte,

Appena che raccolsero

Del nuov'ostel le porte,

Un bel vicino, un giovine,

Che al babbo parlerà.

Giorno di tanto giubilo

Perché non fu finora

Tra tanti nostri

A pollini Encomiato ancora?

Perché nessun Romantico

Cantato ancor non l’ha?

E in questo mese amabile

Concitalor del canto.

Se dessi ancor si tacciono,

Se in questi di d'incanto

Di tante voci al sonito

Mista la lor non va;

Vergin di lodi, e biasimi

Ecco con bel coraggio

lo primo innalzo un cantico

Al quarto di di maggio

E almeno avremm’il merito

Di bella novità.

Dalla Marina al Vomero

Dal Mercatello al Molo

Dai Vergini a Posilipo

Dall'uno all'altro polo,

Tutto in subuglio e strepito

In questo giorno appar!

La procellosa, e stridula

Letizia de' facchini.

L'ansia, la tema, i palpiti

De'  miseri inquilini

Mentre la for mobilia

Ad altri han da fidar!

Tutto io tal giorno osservasi

Truffe, magagne, e pianto,

Risse, cadute, e sibili,

E de’ somari il canto.

Le frante suppellettili

E il barbaro pagar!

Oh quante volle un mobile

Contro d’un altro urtato.

Rovesci entrambi caddero,

Subir l’estremo filo.

Ed il facchino esanime

S'assise io meno a lor!

E giacque immerso io lagrime

Tremulo al par di fronda

Segno di sguardi Innumeri,

E di pietà profonda,

E d’ogni uman sussidio

Della moneta in fuor!

giusto l’oso? equissima

Mi sembra e bella usanza:

Ch'egli è un solenne tedio

Mai non cangiar di stanza,

E per ristesse camere

L’orme ogni di stampar 1

Lo so ben io, che a scorrere

Sempre l'istessa soglia

Mi danna un fato despota

O voglia, o che non voglia;

Lo so ben io che spasimo

Sia non poter cangiar!

Oh quante volte al tacito

Passar d’un giorno inerte

Volgendo il guardo languido

Alle finestre aperte

Sempre le note immagini

Lasso! degg’io mirar!

Lo sa colui che capila

Tra pessimi vicini

Tra il suono dell’incudiui

Di flauti, e violini,

E tra il contuso strepito

Di cocchi, e di villan:

Che tuttogiorno il (impano

Si sente martellato,

Ne scorge un sol rimedio

A cosi tristo fato,

E cerca in tanti triboli

Prode remote invan!

A solo in tanto strazio

Ei prende un po' coraggio

Pensando al di lietissimo

Al quarto di di maggio,

Che in più spirabil aere

Pietoso il porterà.

E dal fracasso assiduo

Per cui Toledo è bella

S'avvierà sui floridi

Sentier dell’Arenella,

Ove silenzio placido

Al chiasso supplirà!

Bello gentil benefico

Giorno a far dono avvezzo,

Scrivi ancor questo, allegrati,

Che un don di maggior prezzo

Del dono da te fattomi

Farsi giammai non può!

Per te un atroce giovine,

Che colla sua viola

Ognor ti tira l'umido

T’affanna, e ti desola

Dal tetto a me limitrofo

Alfin s'allontanò.

Carlo Antonelli

FIORAIE

Deh! mira, egli cantò, spuntar la rosa

Dal verde suo modesta e verginella,

Che mezzo aperta ancora e mezzo ascosa.

Quanto si mostra men tanto è più bella.

Non leggevamo un giorno questi immortali versi del nostro Torquato, e se non fummo indiscreti come quel galantuomo di Paolo quando leggeva gli amori di Lancilotto, volgemmo almeno un pensiero alle nostre Driadi, alle nostre venditrici ambulanti di fiori.

I fiori! Argomento immenso, oceano d’idee, di meditazioni e di considerazioni. Direi quasi non esservi libro in cui una volta almeno non entri il fiore: un poeta esordiente incomincia a cantare il fiore, rosa o malva che sia; una donna bella è un fiore vezzoso, una donna giovane è un fiore fresco, una donna ricca è una camelia, una donna povera è un fior di passione, tutte le innamorale sono gigli o mammole (?) le vecchie sono fior di camamilla; un fanciullo che nasce è un fiore che sbuccia; un giovine elegante è un narciso; un uomo ricco è un tulipano; un vecchio è un papavero, eccetto se volesse far all’amore, ché allora si converte in ipecacuana.

Ed uno de’ belli dori è la fioraia, perché la fioraia sta al fiore come il guanto alla mano; ella che avvicina tanto il fiore; che lo ha continuamente tra le mani; che lo vagheggia, lo stringe, lo cura, direi quasi con amore materno, potrebb'ella non dividerne le glorie, le pene, il destino? — Osservatela. Questa giovinetta, che non aggiugne forse peranco il diciottesimo anno, ha il suo grembiule cilestro, una ciocca scinta della chioma negligentemente messa, ovvero coperto il capo da un fazzoletto, per lo più scalza, con un canestrino sotto il braccio; uno o più mazzi di fiori Ira le mani, ben disposti ed acconciati tra calici di verdi foglie; ed un sorriso eterno sulle labbra.... eterno come il sorriso del fiore! La fioraia corre un sentiero pericoloso e tribolalo della vita, e, come interviene quaggiù, circondata di rose, semina la sua strada di spine, sulle quali passa spensierata e quasi senza avvedersene.

Questo delle fioraie può annoverarsi tra i piccoli mestieri abbondanti nel nostro popolo, anche troppo abbondanti; perocché disgraziatamente in grandissima parte del basso popolo napolitano l’amor dell’ozio e però la cupidigia d’un guadagno ottenuto a poco stento assai predomina sull’amor della fatica e l'onesta, e sia pure scarsa mercede, bagnata da onorato sudore, ma non di rimorsi o pentimenti coperta. In altro articolo che fa seguilo in quest’opera avremo a dilungarci dippiù su tali considerazioni, bastandoci solo qui far notare come la fioraia potrebbe vivere assai più onoratamente dell’arcolaio, della rocca o del telaio... ma il fiore è bello, elle dicono, e sanno che la loro mercede si acquista con poco; e spesso nasce pel fiore e non dal fiore!

Lunghesso la strada Toledo e precisamente agli angoli delle strade principali, o sotto qualche portone son collocate alcune panche di legno a scalini, sopravi disposti i fiori in diverse guise, che in Napoli chiamano posti. Quivi comprano all’ingrosso le fioraie e poscia vendono in piccoli mazzolini i fiori. Ma questo non è il loro più importante capitale.

La fioraia generalmente è bella o almeno avvenente, come leggiadra e piena di moine è la modista, accigliato il commerciante ec. perocché è pur mestieri che l’uomo secondi la popolare opinione ed a talune esigenze del suo stato si conformi. Infatti raro è che si affidi una causa importante ad un avvocato bellimbusto o una difficile cura ad un medico vagheggino; e siano pur certi come le nostre belle leggitrici assai più volentieri affidino i fasti del loro corpo e del loro capo ad una snella e flessibile madamina che ad una vecchia modista somigliante piuttosto ad una levatrice. La fioraia dunque conosce troppo questa verità e sa bene che il fiore brutto passa inosservato e spregiato.

Agile come una navicella costeggia gl’ingressi delle principali botteghe e negozi tra il largo S. Ferdinando e l’angolo della strada di Chiaia . Svelta come una ninfa, leggiera come una corifea di S. Carlo, saltella per tutti gli angoli della grandiosa e sempre rumoreggiante Toledo, quando il bel raggio del sole ravviva il nostro orizzonte; perché il fiore non germoglia che al sole; svolazza come un uccelletto per tutta la magnifica strada di Chiaia o del Platamone, offrendo i suoi fiori ovvero gufandone per i magnifici cocchi che numerosi traggono al passeggio;  ed in ispecie al largo della Villa Reale. Della quale comeché sia avvenuto nominarla, vogliam dire alcuna cosa brevemente.

Tra le belle passeggiate pubbliche merita fuori dubbio principal luogo la Villa Reale  posta lungo la riviera di Chiaia. A. renderla amena e deliziosissima concorrono la natura e l’arte, e direi quasi di soave ambrosia la profumi, e quelle fronde e quelle erbette allegrando sorrida, il genio divino del Mantovano e del Sorrentino poeta, i cui busti veggonsi quivi in be’ tempietti di marmo collocati, i quali se non van noverati per arte tra i sublimi monumenti, lo son certo pe’ nomi che rimembrano. Molti e magnifici sono i monumenti d’arte che adornano questo delizioso giardino, di che abbondevolmente ragionarono gli scrittori, e moltissimi sono gli opuscoli, le passeggiate, i versi, le guide ec. sulla Villa Reale, di qualità che soddisfacendo abbastanza la curiosità dello straniero, se pure ve ne abbia che un sì ammirato e dilettevole sito non ancora conosca, ci dispensano da ragguagli eterni e vecchi e più ancora fuori luogo. Noi non abbiam che a gittar due parole sulle passeggiate.

Quand’anche il nostro bel cielo, che per verità in taluni giorni non sappiamo che cielo sia, perché in un punto stesso è torbido e sereno, piove e splende il sole, come fa freddo spesso nel luglio, e caldo nel dicembre, quand’anche, dicevamo, il nostro bel cielo è piuttosto brutto e nuvoloso, la passeggiata alla Villa dilettevole si rende. Però non è a dire quanto grata e soave riesca allorché risplende una di quelle limpide giornate d’inverno, le quali davvero, perché fanno interamente dimenticare il rigore della stagione, al nostro clima il nome meritarono di eterna primavera. In queste, dall’un’ora dopo mezzogiorno infino alle quattro incirca, e precisamente ne’ mesi di gennaio, febbraio e marzo, animatissimo è il passeggio, ove il fior fiore delle nobili famiglie e gioventù napolitane conviene, e come a maggior pompa del bel giorno, quanto vi ha di più splendido ricco e magnifico pompeggia, di tal che quel lusso farebbe tenere quasi impossibile esservi ne’ quartieri più remoti della capitale, in quel giorno, in quell’ora medesima una meschina famiglia, che, in fondo di un covile, è priva financo di quello che Dio dà a tutti — la luce! —E così interviene nel, le grandi città.

A più magnifico e grato spettacolo, nel bel mezzo della Villa una ben ordinata banda militare, collocata in apposito steccato messo a cerchio, fa udire, a brevi intervalli, le melodie de’ nostri sublimi maestri, ed è bello il vedere la calca che le fa corona, e quella che dall'un capo e dall’altro del giardino ad un punto stesso, accogliendosi, di due fiumi rende somiglianza che per opposte vie in un mare medesimo mettan foce. Lieto o mesto, e sempre soave, quel suono discende ne’ cuori, e le sensazioni che di leggieri scorger potrebbersi nel volto di ciascuno darebber luogo ad innumerevoli osservazioni poetiche o fisiologiche. Nuova per altro non è questa usanza della musica alla Villa, anzi all’epoca della sua fondazione risale, secondo questo che leggiamo nell’opera di Giuseppe Galanti, intitolata Napoli e Contorni.

«Ne’ primi anni in cui fu fondato, questo passeggio veniva illuminato a giorno un’ora dopo tramontato il sole, per due mesi dell’està. È impossibile descrivere il piacere che recava un tal colpo d’occhio, la musica che vi si ascoltava, e la moltitudine della gente che vi accorreva. I venditori di piccole mode, aprivano i loro botteghini  ed una specie di esultazione generale animava la popolazione.»

E così si vede come tutte le costumanze ritornano — Omnia renascentur — e così volesse Dio che ritornassero le buone soltanto!

Ma assai più poetico e d’ineffabile soavità è lo spettacolo che offre la Villa nelle belle sere di state, e precisamente ne’ mesi da maggio ad agosto, quando nel suo pieno splendore il bel lume rifulge della casta Diva dell’affettuoso Bellini. L’istessa moltitudine, le stessi illustri, eleganti e scelte persone e la musica stessa, ma che in quell’ore silenziose assai più dolce all’animo favella e fra tenere imagini o dilettevoli in un’estasi voluttuosa l’avvolge e il trascina.

Ed oh in quelle ore tranquille quante dichiarazioni di amore, che vanno via come il soffio di vento che agita le fronde; quante rimembranze di fiamme moribonde, quante ombre vaganti di tradite che come lo spettro di Banco appariscono tra quelle fronde a turbar la passeggiata decoro ex Ganimedi; quante incipienti fiammelle divampano allo stridere del conosciuto abito; quante fiaccole che riverberano più del gas de lampioni; quanti rimproveri!

Dolci ire, dolci sdegni e dolci paci

quanti spasimanti che sospirano sullo chàle adorato della loro bella, o sposa futura, che aspetta altri ducali quattro al mese di amore, quante vezzose modiste svolazzate da’ loro magazzini, quanti lions odorosi, quanti dandy spiritosi, quanti napolitani — inglesi vestiti di o bigiacchi bianchi, che stan loro tanto bene quanto l’elmo di Mambrino sul capo di D. Chisciotte; i quali anziché seguitare l’elegante e stimato costume della propria patria, amano farsi segno alla beffe; quante Susanne fuggitive dai loro vecchioni, quante Ninfe smarrite, quanti Satiri cogitabondi, quante Amarrilidi notturne quegli antri onorano, in cui Cupido stesso non di rado per ispegnere la sua face a penetrare consente; quanto diletto, quanta poesia, quanta filosofia e quant’altre cose che con poca coscienza ci farebbero dimenticare affatto le povere fioraie che ci aspettano! E vogliate perdonarci l’episodio un po’ lunghetto.

Ci troviamo dunque al largo della Villa Reale e precisamente verso le due dopo il mezzogiorno di una di quelle splendide giornate d’inverno che dicemmo, ed ecco fin sotto l’ingresso, una schiera di costoro vi assedia, vi stringe, v’incalza, vi obbliga a prendere il suo mazzolino o il suo fiore; e quando siete assolutamente determinati a rifiutarli, vi colpisce di pugnale.... sì, di pugnale, ma non come Claudio Frollo ovvero un sicario delle Notti Romane, ma con gli steli del suo fiore, ma come lo sguardo d’ una povera orfanella, come un dolce ricordo dell’amico che parte; sì che quando credete lei essersi allontanata, sul vostro petto, tra la caroiciuola ed il soprabito, trovate piantato il suo stile di fiori. Che fare allora? Sarete generosi pagando alla poveretta la tenue moneta onde vive, ed ella ve ne ringrazierà col sorriso del fiore; sarete così crudeli a discacciarla e calpestare la sua fragile offerta, ed ella non muoverà doglianza, ma sì ancora vi saluterà, rinunziando dippiù al meschino compenso. Talvolta i fiori le vengon pagati il doppio ed il triplo ed è agevole l’intendere come accada ciò, quando una brigata di giovinastri non vede nella meschina che un trastullo d’invereconde facezie. Oh! ma chi mai non paga il suo fiore alla povera fioraia, finché ha un prezzo?

Eppure ecco un barbaro e svenevole che esce dalla Villa istessa, la povera fanciulla, com’è suo costume, correndo gli pone il suo mazzolino sul cuore, e colui non altro compenso le dà che spargendole beffardamente sul viso una boccata di fumo della sua foglia fragile e passeggierà nulla meno del povero fiore ; egli, vuoto di pensieri ed annoiato probabilmente come la sua mente tapina: e la poveretta sorride, sorride sempre, ed a quel sorriso aggiusta piena fede chi nella sua vita non ha mai meditato un momento, chi non ha saputo mai presentarsi al pensiero lo stato del comico che lasciando il padre moribondo in casa, corre a divertire il pubblico con le sue facezie. Credete voi ch’ella nulla saprebbe leggere in quella stessa boccata di fumo che le è stato gettato sul viso; la fragilità del fiore, la brevità del sorriso, l’annientamento morale? Ella ride e diverte il pubblico nella meschinissima scena della vita, e l’onestà e il pudore vati soffrendo un dì più che l’altro, fra non mollo avrà anch’ella un cadavere in casa, quello della virtù.

Infatti noi ci arrestammo alla metà dell’ottava, che segue così;

Ecco poi, nudo il sen, già baldanzosa

Dispiega: ecco poi langue, e non par quella,

Quella non par che desiàta avanti

Fu da mille donzelle e mille amanti.

ciò che equivale alla flebile esclamazione di Giobbe — «quasi flos egreditur et conteritur» — e vuol dire che il fiore onde parliamo non è quello che pompeggia e muore sul seno pudico della giovane sposa, ma quello che si sfronda e calpesta fra i vortici della danza, o tra il baccano dell’orgia, e quando lo sguardo della misera giovanetta, raccoglitrice oggimai non più di fiori ma spesso di frutti, non si rianima più che alla vista d’una vile mercede, quando l’avvilimento ha improntato delle sue dita di ferro le fresche gote di lei, allora che rimane a dire della fioraia?

La guancia un di si bella

Più non somiglia il fior!

e questo è un gran benefizio di un piccolo mestiere!

ENRICO COSSOVICH.

I  COCCHIERI

L’arte di beo Maneggiare e addentrare i cavalli, da i tempi più antichi, e fino al presente par che solo ne' napolitani si trofi perfetta; e particolarmente ne' nobili: che però non senza ragione innalzatane per impresa il cavallo.

Celano.

Gli antichi furono i primi a far raro uso de’ cavalli a’ carri di trionfo o di funerali, il fasto poi indusse ad usarli parimenti per le carrozze, che oggi sono portate a tanta magnificenza ed a sì gran numero.

La carrozza fu inventata per viaggiar comodamente e vuoisi che essa, tale quale ora si costuma, salvo le modifiche apportatevi dal progresso e dal lusso, sia dovuta alla Francia, usandosi da principio solamente per l’interno delle città. E però alcuni autori osservano che allora non eranvi in Parigi che due sole carrozze, una della Regina e l’altra di Diana figliuola naturale di Errico II; e ricordano come cosa memorabile che il primo ad ottenere il permesso di averne una fu Giovanni di Lavai de Rois Delfino, che per la sua smisurata grassezza non poteva più viaggiare a cavallo.

Or se i primi a godere del piacere di andare in carrozza furono Imperadori, Re e Principi di altissimo lignaggio, è mestieri convenire che nobilissima fin dal suo nascere sia stata l’arte del cocchiere; tanto maggiormente che anche a’ nostri giorni Sovrani, Regine, Dame e nobilissimi signori anzi che tenerla in ispregio, amano di guidare a loro posta i cavalli delle carrozze e prendere non poco piacere da questo esercizio cavalleresco.

Dal che si può argomentare che i primi cocchieri dovettero essere persone distinte e di qualche rango, poiché ad essi era affidata la vita di un Monarca, di un Cavaliere o di una illustre Principessa; e che poi, a mano a mano aumentate le carrozze, i loro conduttori dovettero, se non altro, essere almeno scelti fra persone di nota probità. Ma la sterminata quantità di carrozze che ora sono uscite ànno siffatta mente avvilita quest’arte, che, dovendo ciascuna di esse avere un conduttore, ne ànno fatto un mestiere, ed ogni mozzo di stalla, ogni mulattiere, ogni vagabondo si pone a fare il cocchiere: ed in siffatto modo essa è caduta in disprezzo quando che prima era nobilissima.

Però l’infinita moltitudine che vi à di cocchieri li fa tenere in quel sinistro concetto che di loro oggi si forma; e basta dire esser cocchiere, che viene tosto tenuto per una canaglia, persona piena di vizi, ceto di mala fede e peggio.

Pur nulladimeno i cocchieri napolitani, fin da tempi antichi, sono celebrati come valentissimi in quest’arte ed il Gelano, da cui ò tolta l’epigrafe di questo soggetto, fa rimontare questo nostro privilegio fin da’ tempi più remoti, dicendo

«che fosse stato antichissimo genio dei napolitani il domar cavalli; e che perciò a Nettuno avessero dedicato un tempio, come primo domator di quelli.»   Ed in altro luogo aggiugne vedersi ancora «per antica arma della nostra città un cavallo senza freno; e credo che l’alzassero o per Nettuno o per Castore e Polluce, che adoravano, essendo che questi erano stati domatori di cavalli.»

Ma lasciando stare agli archeologi ed agli antiquari il merito di definire gli astrusi misteri di tempi remotissimi; è indubitato che i nostri cocchieri, sia perché da fanciulli si mettono a guidare i cavalli delle carrozze, sia per la pratica che tuttodì ànno di condurre le carrozze per la popolosa Napoli e per strette ed affollate strade, o sia per la perspicacia dell’ingegno che naturalmente essi tengono da questo nostro salubre e delizioso clima, portano su tutti quelli di qualunque nazione il vanto di sapere con arte finissima, con la più perfetta perizia e con una destrezza inarrivabile domare i cavalli e guidarli sotto le carrozze. — Infatti la perizia del cocchiere napolitano va tant’oltre che egli vi saprà dire francamente che il cavallo nato nelle Puglie è più spiritoso di quello nato negli Abruzzi, questo più forte del Calabrese ed il Calabrese più resistente di qualunque altro alla corsa, e vi, sa egli a mano a mano e con un ben fondato raziocinio svelare le proprietà, i pregi e i difetti di ogni razza e di ogni cavallo.

Gli basta una volta sola porre sotto il carrettone il cavallo per dirvi se sia restio o no nel dare indietro, se si debba prendere con l’aspro o col dolce, con le battiture o con le carezze, col freno tirato o molle, se il morse debba essere più o meno aspro; ed a questo modo in pochi giorni riducono gradevole e fastoso il più indomito cavallo. Un cocchiere, con una mano sola al timone della carrozza, è capace di rigirarla tanto fino a che la situa dentro un’angusta rimessa. Egli, come un’anguilla, esce con tanta facilità, con tanta maestria e con tale una destrezza da mezzo ad un laberinto di carrozze, che pare come se avesse già prese tutte le misure de’ tortuosi giri che deve fare, e sa districarsi di là senza che la sua carrozza o quella d’altri ne senta il più lieve urlo.

Quindi il nostro cocchiere è sovente lo scopo di maraviglia degli stranieri che vengono in Napoli; ed in effetti è cosa da stupire come in una città si affollata di gente, di carrozze ed in mezzo a tante grida, a tanti incontri ed a tanto chiasso, la mente del cocchiere non vacilli, non si fracassino centinaia di carrozze al giorno e non succeda disgrazia di sorta o assai di rado e più forse per colpa di chi cammina a piedi per le strade che per distrazione del cocchiere.

Ond’è che però molto difficile si rende in Napoli l’arte di ben guidare le carrozze, e che sia solo vanto de’ cocchieri napolitani il possederla a perfezione. Da ciò deriva al certo che quando tuttodì vediamo venire stranieri di ogni sorta per qui stabilirsi ed aprir bottega di qualunque genere, non si è mai visto che sia giunto un cocchiere straniero e che abbia saputo vincere in merito, in perizia ed in destrezza il napolitano.

Dal cocchiere aristocratico fino a quello del calesso, vi è tale una gradazione discendente che non può certamente passare inosservata. E però dopo aver parlato delle carrozze e de’ cocchieri in generale, ora vengo a’ particolari.

In Napoli oltre delle carrozze che appartengono a’ padroni, vi sono quelle dette di rimessa che sono senza numero o con lettere invece di questo, vi sono poi le carrozze da nolo col numero, le cittadine aperte, quelle chiuse e le diligenze, delle quali alcune fanno il traffico dal largo della Vittoria al Reclusorio, altre dal largo del Castello ai Tribunali ed altre ancora che pure dal largo del Castello vanno alle stazioni delle strade ferrate a Porta Nolana e viceversa.

Molti anni or sono vedevansi correre per la città, oltre delle carrozze a due cavalli, de’ calessi a due ruote e ad un cavallo, capaci a mala pena di due persone, che chiamavansi corricoli e del cui nome si valse quel versatile ingegno del Dumas per iscrivere una specie di viaggio nel quale prende a narrare di varie cose di Napoli con tanta falsità, che quel libro può invece dirsi un romanzo. Ai corricoli poi succedettero delle piccole carrozze a quattro ruote tirate da un solo cavallo e capaci di quattro persone strettissimamente sedute, chiamate carrozzelle, la cui vita fu molto breve, perché essendo incomode e facilissime a capovolgersi, cedettero il posto ai càbriolets o baroccetti ad un cavallo. Però, avendo il progresso portalo un miglioramento a questi ultimi, perché ancora troppo alti e difettosi per un moto sussullorio che li rompeva le ossa, dal cabriolet si ebbe la cittadina, formandosene una graziosa vettura a quattro ruote, tirata da un cavallo e capace di due persone, che si distingue dal cabriolet per l'elasticità delle balestre, perché più bassa, più larga, con cuscini più soffici e perché à un miglior cavallo ed un cocchiere più decentemente vestito.

I calessi dunque e i càbriolets essendo passati di moda, si sono modestamente ritirati dalla città nelle campagne ed ora fanno il traffico nei contorni di Napoli. Quindi ad essi viene inibito di correre per le strade della capitale, ove fa pompa di se l’elegante cittadina; si fermano per raccogliere passaggieri al Carmine, a Porta Capuana o a Porta Nolana, insieme con le così dette capuanelle, carrozze chiuse a quattro ruote le quali servono a viaggiare per le province, e tutto ànno meno che balestre elastiche e cuscini soffici e che per sopra mercato son destinate a portare sul loro cielo tutto l’equipaggio e le masserizie de’ viaggiatori. Però se venisse in mente ad alcuno di vedere un corricolo nel suo vero aspetto originale potrà incontrarne lungo la strada consolare di Portici, Resina, Torre del Greco, Cancello, Arienzo ec. ove ne vedrà passare molti, che correndo velocemente portano non meno di 14 o 45 persone per ognuno, le quali occupano spesse volte fino la rete che trovasi sotto le stanghe, fra le ruote, lasciando al calessiere uno degli ultimi posti indietro ed in piedi, il quale con grida e con frustate tirate in aria, (che in dialetto napolitano dicesi scastiàre), incita il cavallo a correre ancora più, ond’èche facilissimamente si prende poi la mano . Ma guai!... guai a quei miseri che vi stan sopra se il cavallo inciampica, o se nel correre esce qualche ruota dal suo asse!...

Essi precipitano tutti l’uno sull’altro come una valanga che cade dal S. Bernardo, ed è fortunato colui che si ritira senza un braccio rotto o una gamba fracassata.

L’esposizione delle vetture da nolo segnate col numero non è permessa che nelle piazze più larghe della capitale, ove debbono stare disposte in fila, non potendo oltrepassare il limite stabilito; ed essendo vietato a’ cocchieri di fermarsi sulle strade con le vettore vuole o di camminare a piccolo passo per cercare avventori, essi, dopo che avranno lasciato i passaggieri, debbono recarsi al loro posto, evitando, sempre che il possono, la strada di Toledo; ma queste disposizioni non giungono mai alla loro esatta esecuzione, per quanto Fautori ih di polizia possa vegliarvi, attesa la ostinazione de’ cocchieri e nonostante delle multe che pagano quando sono trovali in contravvenzione.

Vengo ora a parlare del cocchiere e prenderò a descrivere in preferenza quello della cittadina, sì perché di costoro si conta maggior numero, come per essere essi di una indole più caratteristica degli altri.

Eccolo ih.... l’intemperie più rigida, i freddi più eccessivi, le pioggie più abbondanti non gl’impediscono di star sempre seduto sulla predella della sua cittadina, col mezzo sigarro in bocca e la frusta in mano che t’invita a salire in carrozza.....

— Signori ce ne iammo?.... Oscellenz, i’ voto? Canò simmo leste?.... Mossiù.... vulé vu.…

Non puoi passare per vicino ad un cocchiere senza che ti offra il servizio della sua vettura o li chiegga il sigarro che stai fumando. Nelle piazze, ove essi si fermano, ti assordano con le loro voci confuse, o li vedrai circondato da’ loro mezzani, a’ quali spelta di dritto un grano per ogni viaggio che procurano ad un cocchiere.

Se poi ti viene il ticchio di chiamarne uno di lontano.... li vedrai correre da diversi punti tirando colpi di frusta in aria ed a’ cavalli, in modo che se non sei pronto a scappar via, rischi di restar chiuso in un laberinto di carrozze, dove per uscirne illeso bisogna durare gran fatica.

Intanto in mezzo a tutto questo chiasso avviene di sovente che quel povero mal capitato signore che gitta fra loro il grido d’allarme, indispettito, maledice il momento in cui gli è venuto il desiderio di andare in carrozza e conchiude col non prenderne alcuna.

Quindi i cocchieri ritornano ai loro posti tutti scornati, e non senza lanciarsi reciprocamente qualche gentile apostrofe!

La sera, quando finisce lo spettacolo a’ teatri, avviene lo stesso; e più tardi ancora innanzi a qualche bottega di caffè, li vedrai disputarsi il dritto di menarli a casa; e non sì tosto sarai salilo in carrozza, colui che è stato il preferito li porta via in aria di trionfo, facendo la baia ai compagni e scassiando con la frusta. Allora il rumore finisce, gli animi si quietano, e com’è proprio della indole de’ napolitani, dimenticano l’accaduto e ritornano migliori amici di prima, per ricominciare la stessa scena alla più prossima occasione.

Il cocchiere generalmente è un giovane svelto, allegro, intelligentissimo, bestemmiatore per eccellenza e che non lascia occasione di litigare sul prezzo, quando non è quello della tariffa , o quando gli capita uno straniero.

Prima il cocchiere soleva vestire in un modo tutto singolare. Egli portava un calzone di velluto verde olio, stretto assai alla cintola e larghissimo dal femore in giù; una giubba, che non giugneva alla cintola di panno bleu con due file di bottoni di ottone dagli omeri sino all’orlo inferiore; un fazzoletto di seta giallo o rosso al collo ed un cappello nero o bianco, la cui forma avea tutto l’aspetto di un cono mancante del vertice, con piccola falda e senza nessun garbo.

Ma ora questo costume 'a ricevuto delle modifiche e quantunque avesse lasciato quel non so che di caricatura, non è però meno originale. Quindi siccome nella loro casta vi sono molli giovanotti di quelli che fanno i tagliacantoni e i ganimedi presso le nostre popolane, così costoro vengono chiamati bardascielli cianciusi e sogliono vestire presso a poco come il guappo, di cui già si è fatto cenno in quest’opera.

Quando però il cocchiere sta nelle funzioni della sua carica, egli tiene in capo un berretto di lana rossa e sopra di questo un cappello di cuoio nero vernicialo, che dicono paglietta, e suo compagno indivisibile è un vecchio mantello, che porla in dosso o sotto il cuscino a seconda delle stagioni, per guarentirsi dalla pioggia o dal freddo.

Il cocchiere di cittadina tiene con sé il guaglione ch’è il suo mozzo di stalla ed un cagnolino di quelli della razza detta lupina, con un collaretto di pelle tuttoguernito di ciondoli, sonagli e di nastrini rossi. Egli passa la sua vita sulla predella della carozza: là mangia, beve, dorme e quello è il suo domicilio ambulante.

Quando aspetta gli avventori egli sta sempre occupato intorno al suo treno o spolverando la carrozza, o nettando i fornimenti del cavallo, o dando a mangiare al suo Bucefalo che certamente non è bello quanto quello di Alessandro il Grande, ma non è poi quella carogna che, secondo vuol far credere il Dumas nel citalo suo Corricolo, i nostri cocchieri comprano pel prezzo del solo cuoio, quando i cavalli son portati al Ponte della Maddalena per ucciderli come inutili. —Tristo esempio della ingratitudine dell'uomo, che dopo essersi servito del più nobile, del più generoso degli animali, danna a morte, quando più non può essergli utile perché vecchio o storpio! —

I cocchieri comprano i loro cavalli al mercato, alle fiere, ovvero quando i reggimenti di cavalleria sogliono farne lo scarto.

Il cocchiere è l’uomo che sa vivere con tutti e riceve nella sua carrozza ogni ceto di persone. Egli è allegro e compagnone quando porta quelli del suo ceto; non perde il tempo quando gli capita al fianco qualche vispa e tarchiata fantesca, è rispettoso quando porla i signori; fa da Cicerone  quando conduce gli stranieri; e oltre a ciò li saprò dire tutte le feste popolari che si fanno in Napoli e ne’ paesi circostanti; ti dirò se è finito lo spettacolo al teatro de’ Fiorentini o se è cominciato il ballo al massimo teatro.

Le carrozze che ànno girato tutto giorno si ritirano la notte, ed invece escono delle carrozze più usate col guaglione per conduttore e con delle rozze che contano molti anni di servizio e che per camminare ànno bisogno di essere avviati con grida, pugni, bastonate; e di sovente Toledo offre di notte lo spettacolo di una scuola di equitazione perché qualche cavallo prima di avviarsi suole girare una specie di walzer, trascinandosi dietro la cittadina.

Il cocchiere se vede che ad un altro cocchiere, qualunque siasi, è caduto un cavallo, si slancia d’un salto per correre in aiuto del collega, quando anche questi fosse il suo più fiero nemico, poiché in quel mo mento l'onore del mestiere compromesso fa lacere qualunque odio particolare: quindi in un momento vedi raccolti intorno al cavallo caduto da otto o dieci cocchieri, ché tutti corrono a dargli aiuto ed a rialzarlo.

Il cocchiere, quantunque per indole sia solito di litigare sul prezzo, pure non di rado vi è spinto da taluni che dopo aver corsa in carrozza per lungo e per largo la città non vogliono dargli neppure ciò che per dritto gli spetta. E su tal proposito non dispiacerà leggere qui appresso un piccolo aneddoto, come tuttodì ne sogliono accadere.

Uno di quei damerini che vivono della speranza d’innamorare le più belle fanciulle, e che fanno consistere tutto il loro merito nell’assettar bene i colli della camicia e ne’ globi dell’immancabile sigarro, si gettò sdraione in una carrozza e, stendendo le gambe sui cuscini d’avanti, disse al cocchiere di andare a Chiaia.

Il cocchiere ubbidì: il damerino, attaccatasi la lente all’occhio, ad ogni momento faceva fermare la carrozza, ora per parlare con un amico, ora per farne salire un altro, poi per lasciar questo ed invitarne un secondo, ovvero dando ordine di tener sempre dietro alla carrozza della sua bella: infine quando ebbe ridotto quel povero cocchiere da esserne pieno fino al gozzo per modo che in cuor suo gli mandava tanti cancheri per quanti crini contavansi sulle code de’ suoi cavalli, gli comanda di fermare. Poi d’un salto scende di carrozza, dà delle monete al guaglione e via canterellando.

Questi allora, con una mano tuttavia allo sportello della carrozza e dando al cocchiere quelle poche monete, gli dice:

Patrò e chiss’è n’auto affare ch’avite fatto!...

A queste parole il cocchiere, guardando il danaro, si slancia dal suo posto, insegue il passaggiero e fermandolo, col viso ove si scorgea un rispetto forzato misto alla repressa rabbia e col cappello in mano, sciama:

—Signurì.... Oscellenza.... nun va buono...

—Che vuoi?.... risponde l’altro girando fra le dita il bastoncello.

—Vuie mo lu conoscite I... Site signore che ghiaie sempe e me mettite mmano chessa moneta?

—Va là, che li ò dato più di quel che ti spetta....

Intanto la gente curiosa, che non è poca in Napoli, si affolla intorno.

Signurì, non va buono... Embè che bette a ddicere, mo facimmo chiacchiere? Se vuoi il danaro prendilo, altrimenti non avrai niente....

No, vuie m’avite da pavà.... interrompe il cocchiere, alzando la voce quando i curiosi più aumentano.

Olà bassa la voce, canaglia, o altrimenti.... e la minaccia venne accompagnata da un atto del bastone.

—Signurì.... avasciate li mmano o si no mo ccà faccio fa lu viglietto.

—Io ti ò pagato bene e non ti darò più niente.... e se non stai al tao posto mi farò rispettare io. ...

Qui il guaglione, accostando una mano rovescia alla bocca gonfia d’ aria, che poscia espressa rende un suono somigliante a certa cosa non pulita, risponde.....

— Brrrrrrrrrrrr

Questo sonoro vernacchio  risolvette la questione in commedia, con urli e fischi degli astanti; quando il damerino, cogliendo quel momento di baccano se la svignò, fingendo d’inseguire l’insolente guaglione, che sganasciando dalle risa se l’era subito data a gambe. Intanto il cocchiere restò a rodersi le dita dal dispetto, sciamando:

— Vi che razza de sfelenze!... e tonno i ncarrozza... meglio che se n’accattassero zeppole... Sciù pigliatevenne scuorno!.... — non senza che queste parole sieno state accompagnale da altre villanie....

Era assai sconvenevole ciò e vero; ma pure questa volta il carrozziere non avea torto!

FRANCESCO DE BOURCARD

LO COCCHIERE D'AFFITTO 

Mannaggia sto mestiere

Chi me l'à fatto fa,

Trovanno passaggiere

Vaco da ccà e dà llà!

I' voto, ah!.. ahi... venite,

I' voto, u capriolè...

Signò, signò saglite,

Va iammo Sciacquarle.

A nanze a nanze, u ciuccio,

Oje Carrettiè... ahi... ah!...

Da sotto a sto cappuccio

Zi mò te vuò guarda?

Titò, te lieve a nante?

Quarti, marà, nennì...

Ma vi comme te nchiante

Te lieve Don Ciccì?....

Ahi... ahi... li gamme... a nante...

Oie guarda, guarda, ahi... ahi...

Mannaggia sto mestiere

Chi me l'à fatto fa,

Trovanno passaggiere

Vaco da ccà e da llà.

A nanze.... e mo se scosta,

A nanze Reverè.  

Non l'aggio fatto a posta,

Scusate Donna Mè.

Compà, ccà non ce passe,

Tu non ce può trasì...

Va chià, ca tu me scasse,

Vatte a fa benedi.

Ahi... Ahi... li gamme... a nante... ec.

Ah!... Ah!... signò scusate...

Questra è sagliuta, alò!

Magnate cheste strale,

Cammina Capeprò,

Che trotto, che galoppo

Che tene chisto ccà;

Fucato viecchio e zuoppo,

Comme a lo viento va,

Ah!... ahi... li gamme... a nnante... ec.

Isc... simmo arrivate...

I' traso o aggio accosta?

Eccome ccà, calate

M'avite a commannà?

Ccellenza, che me date?

Lustrissemo gnernò;

Signò vaie ch’accocchiate?

Tu che mmalora vuò!...

Eh! oh! oh! oh!

Mannaggia sto mestiere

Chi me l'à fatto fa,

Trovanno passaggiere

Semp'aggio ad abbuscà.

I' voto u capriolè,

Cammina Sciacquariè.

LA MODISTA

Che cosa sapete voi, belle ed eleganti patrizie, che segui te scrupolosamente i capricci della «Dea incostante» e talora le imponete i vostri, i vostri capricci che divengo‘ no leggi per le altre, che cosa sapete voi, che cosa conoscete di quel piccolo popolo d’industriose fanciulle che s’occupa dal mattino alla sera e talora anche, poverine! dalla sera al mattino a lavorare per voi, ad accrescervi grazie, a cooperare ai vostri più splendidi successi?

Che ne sapete! se vi si potesse svolgere sotto lo sguardo tutta la lenta e dolorosa Iliade di quella vita di lavoro e di privazioni, che è la sua condanna su questa terra, la condanna data a quello stuolo innumerevole che sacrifica i più giovani anni della sua esistenza, chinato sul lavoro, a traforar di mille punti una stoffa, un velo, un nastro: se nel cristallo dello specchio nel quale voi v’assicurate dell’effetto che farà tale o tal altra acconciatura, e le date la vostra sentenza irrevocabile d’un sorriso di compiacenza o d’un movimento di dispetto, potesse riflettersi un quadretto d’interno, una specie di piccolo fiammingo, rappresentante la meschina cameretta della lavoratrice, o anche il suo volto pallido ed estenuato dalle lente e lunghe veglie, forse, giova dirlo, da un non troppo lauto sostentamento: certo che sareste più indulgenti per quella piega che non così ben s’accorda all’armonia delle belle linee della vostra persona, per quel nodo che non ha, nella sua civetteria di nodo, minor grazia di voi, per quel corsaletto che si ostina a non permettervi di stringere la cintola nelle vostre mani.

Ma non vogliamo da ora darvi un rimorso che forse non avrete, tanto più che la modista ha una duplice esistenza, della quale l’una compensa l’altra, e che se ha le sue lunghe e dolorose ore di stento e di lavoro, ha pure i suoi brevi e gaissimi momenti di feste, di vacanza, di passatempo, la sua domenica della quale è rigorosa e scrupolosa osservatrice. È vero che la domenica è si breve, e che le settimane sono sì lunghe, anche più breve in quanto che le ore secondo tutti i poeti della Grecia fino all’Arcadia, e secondo tutte le modiste da quelle che trapuntavano le tuniche di Aspasia e di Cleopatra e di Messalina, sino a quelle che lavoravano iersera nei nostri magazzini di mode, le ore, dicevamo, scorrono lente nel lavoro, brevi nel piacere; ma che possiamo farci! la rosa dura un giorno, il cipresso un secolo.

La modista dunque ha due fasi ben distinte della sua vita, una è quella del lavoro, l’altra è quella della festa. La festa ella spende ciò che ha lavorato in tutto il resto della settimana, e buon per lei che le feste sono in proporzione del quinto coi dì di lavoro! La modista in Napoli ha una vita assai più oscura e privata di quella della griselle di Parigi. Oh non confondete l’una coll’altra! La differenza è ben grande, lo sa il cielo!.. e lo saprete voi (se pur non v’è già noto) sol che vorrete aver la pazienza e la cortesia di continuare a leggere queste poche pagine.

La grisette è un genere estero, un fiore esotico che non alligna nella nostra latitudine calda, ma moderatamente economica, e più moderatamente ancora, proclive a dissipazioni.

L’una non ba più che fare coll’altra di quel ch’ha che fare il cielo di Parigi con quello di Napoli, il gamin col lazzarone. Noi non faremo giù paragoni, né intendiamo dare il primato all'una od all’altra solo insistiamo perché l’un genere non vada confuso con l’altro, essendo essi così distinti fra loro.

Quello è affatto parigino, non crediate che sia francese generalmente, oibò! Janin lo ha detto così bene, égli che ha studiato la specie grisette, come Linneo ha studiato le piante, e Buffon gli animali; egli definendo, dipingendo per così dire, quest’«animal grazioso e benigno» che chiamasi grisette dice: — Di tutti i prodotti parigini, il prodotto più parigino è senza dubbio la grisette! — Viaggiate quanto vorrete in paesi lontani, incontrerete archi di trionfo e giardini, troverete musei, cattedrali, e chiese più o meno gotiche, come pure, cammin facendo, dappertutto ove vi menerà il vostro umor vagabondo, v’ imbatterete in borghesi ed in principi, in prelati ed in capitani, in facchini ed in patrizi, ma in alcun luogo né a Londra, né a Pietroburgo, né a Napoli, né a Filadelfia incontrerete quel non so che di così gaio, vispo, fresco, giovine, leggiero, lesto e così contento del poco, che chiamasi la grisette. Ma non pur nel mondo, non pur in Europa, ma percorrete la Francia, intera, non troverete in tutta la sua verità la «grisette de Paris» — (Continuate, di grazia, a sentir ché cosa sia la grisette, per poter meglio veder la differenza tra essa e la modista di Napoli) — I dotti che spiegano tutto, e trovano necessaria un’etimologia a qualsiasi cosa, si sono lambiccati il cervello per immaginar l’etimologia di questa parola. E ci hanno detto — povera gente! — che così chiamavasi una leggera e misera stoffa di lana bigia (grise), di cui servivansi le fanciulle del volgo. Poi ne hanno tirata questa conchiusione: — Dimmi l’abito che indossi, ti dirò chi sei, come se tutta quella galante aristocrazia dei magazzini avesse rinunziato, ai nastri di seta, ai ricami, alla bella calzatura a tutt’in (ine gl’ingegnosi trovati di quella toilette facile a tutte le belle che sono povere, ben fatte, e che hanno vent’anni! La modista in Napoli ha di comune con la grisette di Parigi una parte dell’esistenza dei giorni di lavoro, ed è tanto vero clic. senz’altro fare che cambiare la voce di grisette, in quella di modista, e con qualche altra comeché leggerissima variante, quel che fu detto della prima può dirsi della seconda — Ed eccolo a dimostrarlo col fatto.

La sola maniera di ben conoscere questo mondo a parte nel mondo, è di vederlo da presso. Uscite il mattino, (parlo agli uomini, non oserei dire alle nostre eleganti leggitrici, di uscire di buon mattino, salvo che il caso non le menasse a ritirarsi da una veglia al momento che spunta il sole) — uscite dunque per una bella giornata che allora incomincia, guardatevi d’intorno, e vedete qual’è la prima donna desta nell’accidiosa città che dorme ancora. È la nostra eroina; ella si alza un momento dopo o prima del giorno, ed ecco che subito si fa bella per tutta la giornata, pettina i bei capelli, li aggiusta, indossa la veste, ben fatta e netta, e come no, se è essa stessa che l’ha fatta e lavata; dopo di che assetta la sua cameretta, mette in ordine quel povero niente che possiede, e decora la sua miseria, come molte dame non saprebbero decorare la loro opulenza; finalmente volge un ultimo sguardo allo specchio e quando si è ben accertata d’esser bella oggi quanto era bella ieri, se. ne va a lavorare.

Mentre che ella lavora, vediamo qual è il suo lavoro. Ma non sarebbe più facile e più spedito di dirvi quale non è il suo lavoro; questi esseri sono buoni a tutto, sanno, possono, e debbono far tutto. Una legione di formiche lavoratrici basta, dice il naturalista, a formar una montagna, cosi del pari, le modiste, come le formiche, delicate, operose, povere fanno prodigi di lavoro e d’attività. Le loro mani industriose danno perennemente ed infaticabilmente ogni forma al velo, alla seta, al mussolino, al velluto; a tutte queste materie informi, danno, la grazia, e lo sfoggio. Sparpagliate che sono nei magazzini, codeste operaie bionde o brune, cantando e gorgheggiando (quando non s’intima loro il silenzio) vestono la più gran parte del genere umano. Tutto che il capriccio di donna può escogitare nel suo più ingegnoso momento di bizzarria le nostre care artiste lo eseguono. In questa posizione elevata ad un tempo e subalterna, messe come sono tra il lusso più esagerato delle patrizie e delle ricche, e la propria miseria, convien dire che le povere modiste debbano avere molta forza e molto coraggio morale per resistere insieme al lusso ed alla miseria. Perocché non appena discesa dalla cameretta in cui abita, la modista è introdotta nei più ricchi magazzini, nelle più splendide case; là essa regna, là detta le sue leggi, sentenzia senz’appello; presiede durante l’intera giornata all'abbellimento delle signore, le veste, le adorna. Circonda talora dei più preziosi tessuti certi scheletri orribili, conosce a fondo tutti i difetti di certe bellezze problematiche ed illusorie.

Quante magrezze, quante storpiature, quante gobbe ella fa sparire! E quando l’idolo è ben adorno da quelle povere mani così pazienti, e spesso così belline, quando arriva l’amore, chi si trae seco nelle feste brillanti P non la donna che è brutta, ma l’acconciatura che la fa bella, senza por mente che l’operaia che l’ha fatta, è forse cento volte più bella della dama che se ne adorna.

Immaginate per un momento che la povera modista si faccia a seguire con uno sguardo malinconico la dama ch’ella ha vestita; non la sentirete sciamar in un lungo sospiro: «eppure son più bella io!» — Sì certo, ed è questa una delle terribili tentazioni cui pochissimi coraggi resisterebbero. Ma no, l’umile artigiana sa resistere alla tentazione, la nobile eroina vede tutte quelle belle aggiustature adornar non colei che le merita più, ma colei che più le paga, ebbene essa se ne consolerà con le sue canzoni, con la sua gaiezza, e coi suoi vent'anni! Ed ora che avete veduto ciò che la griselle e la modista hanno di comune attendete a vedere ciò che quest’ultima ha di caratteristico e di particolare.

Tutte le caste hanno una specie di gerarchia, e quella delle modiste ha la sua come le altre. Non si può esser modista di salto. La modista incomincia assai spesso per far da fattorina alle altre di classe più elevata; essa per lo più è figlia d’un tappezziere o d’un servo. Quando la fanciulla comincia ad essere di otto a dieci anni il padre la conduce dalla proprietaria d’un magazzino di mode, e l’avvia per la sua carriera. La povera fanciulla imprende così il suo tirocinio, porta i cartoni e le scatole de’ cappelli e degli abiti, ed affianca colei che va a consegnar il lavoro... cioè, intendiamoci, l’affianca quando quest’ultima non ha le sue piccole pretensioni, le sue convenienze, nel qual caso la ragazzina la segue a rispettosa distanza invece d’affiancarla.

Ma la poverina se ne consola con la speranza di aver fra non molli anni anch’essa una fatlorina che le porterà i cartoni appresso; e chi sa! chi sa che nei suoi sogni rosei non pensi che un giorno avrà anch’essa delle modiste da mandar a consegnare i lavori che usciranno dal suo magazzino, e che non mandi a portar le scatole dopo aver incominciato per portarle.

Dopo la fattorina che porta i cartoni, vien la discepola che va a consegnar il lavoro, a provar l’abito, a raggiustarne qualche menda nella casa stessa della signora, cui la veste è destinata. Questa è chiamata Mademoiselle, o almeno così intendono chiamarla quelli che la dicono

I  RINFRESCHI  DEL  POPOLO

BYRON nel suo Don Juan chiama il sole del mezzo giorno indecent sun (sole indecente), e la. stagione estiva a very dangerous season (stagion pericolosissima): noi perdoniamo alliga l’atrabile del poeta inglese l’aver così indegnamente calunniato il sole e l’està, queste due grandi provvidenze del basso popolo. Gli è vero che Lord Byron in quel suo poema parlava del sole delle Spagne, ma alla fin fine è un po’ troppo, mi sembra, il chiamare indecente quella magnifica lumiera sospesa al palco a volta dell’universo crealo, come direbbe un cinquecentista. Che i poeti abbiano dato all’astro del giorno gli epiteli e gli aggiunti più strani e bizzarri, non è a farne maraviglia, perciocché i poeti sono una razza di animali che non parlano siccome parlano tutti gli uomini di questa terra; ma che sia venuto il ticchio ad un nebbioso britannico di porre all’indice delle cose proibite come indecenti nientemeno che il sole, è tal cosa che ne farebbe impazzare, se non sapessimo che uomo scapato era l’autore del D. Giovanni, il quale par che avea dichiarato la guerra agli astri, imperocché in parlando della luna, e pigliandosela con quelli che la chiamano casta, dice The devil’s in thè moon for mischief (il diavolo si è ficcato nella luna per fare il male), e soggiunge che non vi è giorno dell’anno, anche il più lungo, come il 21 giugno, che vegga compiersi tante male opere quante ne vede in tre ore quella bircia della luna, facendo la modestina. Ma lasciamo da parte le strambezze di Lord Byron, e venghiamo al nostro argomento.

Abbiamo detto più su che il sole e l’està sono le due grandi provvidenze del basso popolo, e nissuno certamente verrà a darci una mentita. L’inverno è aristocratico come un conte; le veglie, le feste, i balli nelle splendide gallerie, le conversazioni accanto a’ fiammeggianti alari del camminetto, i pranzi protratti lino a notte, le seggiole imbottite di caldi crini, le soffici poltrone in cui il corpo si affonda come in un corbello, i banchetti ravvivati dal vino di Sillery, le stufe, i caldani, le pellicce; ecco vasto campo al lusso ed agli splendori della vita. Il ricco dorme in està e si sveglia l’inverno, il povero pel converso non vive che nella stagione delle frutte.

L’està è dunque il tempo della cuccagna pel nostro popolano: ei ritrova in questi mesi dell’anno la consueta sua ilarità e spiensieratezza; tutto basta alla sua vita; egli è felice, pienamente felice; la dimani gli dà poco pensiero, però che sa non potergli mancare il suo banchetto da principe, vale a dire, il suo piatto di vermicelli col sugo di pomidoro, la sua caraffa di asprino, e le frutte a piene mani; e tutto questo per una meschina moneta, che egli saprà lucrarsi con uno de’ mille mestieri che l’està gli porge l’occasione di esercitare.

Nè crediate che il nostro popolano si dia grandissima pena per iscegliere quale delle tante industrie gli convenga di preferenza; tutte le son buone per lui, tutte le abbraccia quando fa d’uopo provvedere alla sussistenza del giorno. Un carlino, ed egli è ricco, ricchissimo; questo danaro gli basta pel pranzo e pe’ divertimenti del giorno; (re grana di maccheroni, un grano di asprino, un grano di pane, un grano di frutte, un grano di sorbetto, e tre grana per un biglietto alla piccionara del teatro Sebeto.

Dimandate a coloro che spendono dieci piastre al giorno, se la sera vanno a letto più conienti e soddisfatti del nostro popolano, il quale, diciamo in parentesi, ha un letto che ha per materassi la (erra, e per copertura il cielo co’ suoi arabeschi di stelle.

Credete forse che i gelati, i sorbetti, le limonate, sieno dolcezze ignote al monello ed al lazzarone?

V’ingannate a partito. Guardate quell’uomo dal volto ridente e gioviale, rubicondo di salute; una larga paglia covregli il capo, una specie di grembiule alla scozzese, o per meglio dire, all’arlecchino, sorretto alla serra de’ calzoni da una cintura ordinariamente rossa, indica in qualche modo il mestiero al quale egli è addetto; perocché que’ tanti colori vivaci sono altrettante immagini de’ suoi sorbetti. Egli ha presso al destro piede un secchione da pozzo pieno d’acqua per isciacquarvi le diverse maniere di bicchieri contenuti in un arnese poggiato sul medesimo secchione, e diviso in parecchi scompartimenti; al lato manco riposa a terra un recipiente di legno, ove conliensi la neve per raffreddare e congelare la massa de’ sorbetti racchiusi in altro vaso cilindrico di stagno, al quale egli imprime sovente un moto di rotazione per viemmaggiormente compire l’opera della congelazione. Nella destra mano sta baldanzoso un conico picchiere con entro un bianco sorbetto piramidale alla cui cima vedesi una striscia rossa di altro sorbetto: questo bicchiere di una perfetta immagine del nostro Vesuvio, ricoperto di neve, e solcato in uno de’ fianchi da tiammeggiante lava. L’altra mano del sorbeltiere ambulante stringe uno strumento di stagno, di rame, o di altro metallo, col quale attinge dall’imo del vaso i sorbetti, e con grazia particolare gli adagia su i bicchieri porgendoli maestosi e con la punta ritta a qualche tarchiata nutrice o a qualcuno della turba de’ laceri monelli che gli fan corona. Nu rana a giarra! ecco la parola magica che attira, che seduce, che inebbria, e rinfresca.

Quali sono gl’ingredienti di questi sorbetti? Quale la materia principale?Quale il sapore? Ecco il mistero. Sfido il più esperto chimico a scomporne gli elementi o il ghiottone più raffinato a definirne il gusto. Tutta la scienza di Donzelli  è infusa, diffusa, profusa, e confusa in quel magico cilindro che mai non si esaurisce, avvegnacché grande sia il concorso di quelli che vogliono essere rinfrescati.

Vedi maraviglia! Questi sorbetti sono congelati a tal perfezione, che diventano duri come pietre, eppure nell’assaggiarli non si prova nessuna sensazione di freddo; ed in questo si ammira la filantropica prudenza del sorbettiere ambulante che sa risparmiare a’ suoi avventori gl’infreddamenti, le congestioni, i catarri, e sa badare alla conservazione de’ loro denti.

Le ore in cui vedesi per le strade questo rinfrescatorc dell’umanità lazzaresca sono appunto le contrarie de’ rinfrescatori dell’umanità puro sangue. Egli sceglie però le ore caniculari, la (come diconsi in Napoli le prime ore pomeridiane) e talvolta il mattino. I suoi campi di spaccio sono il Largo della Carità, il Largo del Castello, il Largo del Mercatello, ed altri Larghi e Piazze, abbenché non raramente s'incontra sopra i così detti quartieri ov’egli gode fama e credito esteso.

Ma volgiamo lo sguardo ad un suo più modesto confratello, parimenti ambulante, il quale più veridico e sincero, non chiama gelala la sua merce, ma con la più grande ingenuità del mondo, e con voce chioccia esclama: acquaca n’ha vista maie a neve, nè oggidì è tanto facile imbattersi in gente così franca e dabbene!

Tutta quell’agglomerazione di arnesi onde compongonsi le panche di acquaiuoli immobili,  è ristretta, quasi in miniatura, sulle spalle, sull’ombelico, e nelle mani de’ mobili acquaiuoli. Vedetene la figura che offriamo congiunta al presente articolo. Qualche cosa di più sciatto e sciamannato si osserva nel costume di quest’uomo destinato a percorrere meno nobili quartieri.

Soltanto in occasioni di feste popolari vedesi per le strade più nobili della capitale raggirarsi questa specie di panca, che ha due cose di più delle panche di acquaiuoli, vale a dire, i piedi, e un’anima. Una paglia covre del pari la testa africana di quest’uomo, ma la è messa a sghembo, e talvolta sospeso al cocuzzolo; una casscltina gli sta dinanzi, a guisa di giberna, dove, invece di palle e cartucce, scorgonsi danaro cd armi (specie di confetti omeopatici).

La presenza di quest’uomo si rivela dal perpetuo sbatacchiare del coperchio della sua cassetta, che si sposa al monotono grido ch’ei va mettendo per le strade.

Andate in quella bolgia di Dante che si chiama Teatro Sebclo; ficcatevi nell’orrendo speco del teatro di Donna Peppa; e scorgerete l'acquaiuolo ambulante in tutta la maestà della sua carica.

Discreto amico delle belle arti, egli non frastorna, durante la rappresentazione, la somma attenzione ed il sempre crescente interesse onde sono animati gli spettatori; ma, circospetto e educato, egli non si caccia nelle file del rispettabile pubblico che negl'intervalli degli atti.

Egli s’insinua allora fra i corridoi, gridando: acqua, ne commannate? E vedi gli assetati spiriti di Dante assaltare il tridente dell’acquaiuolo, e disputarsene i bicchieri su di esso poggiati; il batter della cassetta diventa allora un frastuono frequente e monotono per la necessità di porvi i torneselli che vi piovono da ogni parte, e di trarne gli, ch’ei dà per soprammercato, quasi per fare ammenda della poca o della nissuna freddezza dell’acqua. 11 fischio che accompagna il levarsi della tela dà il segno dell'allontanamento all’acquaiuolo ambulante. Dove si reca egli in questo frattempo? Mistero! Forse ei si porta in qualche solitario luogo a meditare sulle vanità della vita umana, e sulla vera sostanza de’ piaceri mondani, i quali han quasi tutti i sapori dell’acqua fresca!

FRANCESCO MASTRIANI.

LA NOCELLARA

La venditrice di nocciuole, che chiamasi in Napoli, è l’animal grazioso e benigno e poco ragionevole che nelle sue trasformazioni più si rassomigli al baco da seta. Il l trattar di lei si appartiene perciò più ad un corso di storia naturale che ad un libro di usi e costumi; con tutto ciò non vogliamo tralasciare senza la debita illustrazione un soggetto cosi importante, che forma l’anello intermediario fra l’animale che si chiama uomo e gl’insetti.

In estate la Nocellara vende le nocciuole fresche, che tra noi chiamansi nocelle di S. Giovanni. Avvolte nel suo verde calice, le nocelle hanno un’apparenza seducente; ma delle dieci le sette son prive dell’interna mandorla. Sicché possono paragonarsi a bei corpi senz’anima, o a corpo a cui fu data l’anima solo per non farli pulire. In questo quei fruiti si assomigliano alle loro venditrice, le quali inoltre non hanno nemmeno quell’appariscenza lusinghevole che nei fruiti si scorge: anziché essere sepolcri imbiancati, sono per lo più sepolcri sporchissimi. Non ve ne fo la descrizione, perché vi moverei a stomaco. Vero é che a quando a quando ne comparisce alcuna che all’avvenenza del volto congiunge la mondizia e la nettezza delle vesti e della persona; ma son come le mosche bianche, come eccezioni rarissime di una regola generale: le giovinette del volgo belle e pulite non vendono nocelle fra noi.

Epperò quando qualcheduna di queste viventi eccezioni trovasi a passare dinanzi a una cantina o ad una taverna, o dinanzi a qualunque crocchio o convegno di oziosi, potete immaginarvi quanti sorrisi, quante parolette, quanti zufolìi sottili (sordigli le son diretti e lanciati di punto in bianco: sembran le schioppettate che Ih nel nostro vengono dirette a una povera quaglia sfuggita ai colpi di quei che giuocano, a chi ne ammazza di più. Ma tutta cotesta moschetteria amorosa sen va perduta, e la bella nocellara, non chiamata da nessuno per ciò che riguarda lo spaccio della sua mercanzia, dopo aver gittato uno sguardo nell’interno della bettola e aver dato il suo grido annunziatore di ciò che vende, rivolge un occhio di compassione ai bersaglieri di amore, e non curandosi di loro, guarda e va via.

Ma come passa la stagione estiva, così passando i fruiti suoi, e ad ogni novello passaggio sembrano ricordarle che passa la sua giovinezza. La Nocellara non perciò si perde d’animo, e passa immediatamente dalle nocelle alle gelse  1, Le gelse more son per lei sorbetti, son cioccolatte. La bella cesta di bianchi vimini è serbata per Tanno venturo, ed un succido paniere è preso in sua vece, destinato ad esser tinto ogni anno da un nuovo strato di succo di more. Le mani, che non eran bianche, diventano di un colore che non è violaceo, ma mezzo fra il rosso e l'azzurro; le vesti prendon la stessa tinta, specialmente in quei luoghi dove il paniere e la bilancia spenzolanti toccano il gonnellino. Con bocca sgangherata va gridando la venditrice: Ceuse annerale, a nu ranìllo o quarto, oh che cioccolatai Vi che ceuze! E donne e ragazzi accorrono volonterosi a quel ghiotto cibo, che depositalo sopra un pampino, vien mangiato con uno spillo o con un ruscelletto, o colla semplicità della bella natura, cioè con le dita.

Ma come passan le gelse, passan pure le avellane. Tutto passa quaggiù! solo non passa la venditrice, che dee pur vivere di qualche mercanzia. Eccola dunque armata d’un altro paniere, di forma più aperta, bislunga ed ovale, dove mercé alcuni fogli di carta sono praticati alquanti scompartimenti. Indovinate mo qual merce venda in esso? Chiamasi passatempo (spassatiempo), ed è formato di nocelle infornale, di ceci e di semi di zucca, ed alle volte di fave parimente cotte al forno.

Con questo paniere sotto il braccio, che le serve di scudo e usbergo all'onestà, la Nocellara corre tutte le contrade di Napoli, si ferma innanzi a tutte le cantine, bettole e taverne, rumoreggiando coi zoccoli, dando a ogni tanto il grido o cantilena di quel che vende: spassatene o tiempo! nocelle nfomate! cicere e semmente! spassatiempo fave nove a chi roseca! tengh’i nnovelle a chi roseca! ed altre cento variazioni sul medesimo tema, dette con voce più o meno di soprano o contralto, con bocca più o meno sgangherata, ma sempre con viso ridente e con grazia allettatrice. Con lei non vi son quistioni di prezzo o di qualità: vende a tariffa fissa secondo il prezzo corrente a tutti noto, e la sua merce è sempre della stessa perfezione.

La Nocellara non ha nome: chi la vuole, la chiama colla parola nocelle, ella risponde col ripetere la stessa voce, e come il caporale di guardia e il comandante di una ronda che si avvicinano per iscambiarsi il santo e il contrassegno, così il compratore e la venditrice si appressano l’uno all’altra e conchiudono il loro negozio nel modo più pacifico del mondo. Sicché è cosa rarissima che una Nocellara abbia parte attiva in una rissa per cagione di ciò che vende, ma non è raro che risse nascano per causa sua, e che novella Elena, faccia sorgere una novella guerra per una novella Troja. Può pure entrar la gelosia di mezzo, e allora le Nocellare, posati in terra i panieri, dan di piglio ai zoccoli, e guai a chi n’è collo.

Intanto nel subbuglio il paniere è andato sottosopra con la mercanzia che contiene: ceci, fave, semi, nocelle, tutto è confuso. E quando la calma è tornata negli animi, quando, tranne qualche sgraffio o qualche ciocca di capelli stracciata, non vi ha più vestigio della zuffa, la povera Nocellara si fa a sceverare ciascuna specie riponendola nel suo scompartimento. Sembra allora Psiche, a cui Venere presentò un mescuglio di grano, orzo, miglio, semi di papaveri, ceci, lenti, fave, imponendole che scogliesse i semi di quelle biade ponendo ognuno da per sé, e assegnandoli in tanti monti quanti semi v’eran differenziali.

EMMANUELE ROCCO.

IL NATALE A NAPOLI

LA NOVENA

Pochi giorni dopo la festa di S. Martino (11 novembre), e quando le elette brigate de’ villeggianti abbandonano i campi ormai impoveriti di frutti e di fronde, e i colli circostanti ove tuttora si senton le esalazioni di ubertose vendemmie, e quando Portici, regina di ottobre, riceve gli ultimi onori dovuti alla sua bellezza e maestà, tra lo spirar di autunno e l’innoltrarsi del gelido vecchierello, cominciano a farsi udire per le vie di Napoli i zampognari, i quali sogliono trovarsi in questa capitale alquanti giorni innanzi la novena della Beatissima Vergine Immacolata, che si festeggia il dì 8 dicembre. Dalle più remote province del reame muovou questi rustici, e più specialmente dalla Basilicata, celebre pe’ suonatori Viggianesi. Eglino son provveduti talvolta delle sole preci che per essi rivolgono al cielo le loro povere famiglie: lunghi giorni e lunghe notti di pedestre cammino imprendon costoro per monti, macerie, e convalli. Bozza lana e antica covre gli omeri di questi figli della campagna, e li difende dalle intemperie d’una incostante stagione; pellegrini e mendici ei si parton dal seno delle loro famiglie, quando terminati sono i lavori de’ campi; deponendo in un angolo delle loro antiche capanne i rurali istrumenti che schiusero il seno della terra, e ne raccolsero i tesori.

Viaggiando con tutt’i disagi della povertà, e sotto il rigore della stagione, eglino arrivano in questa Capitale, e dànnosi alacremente a procacciarsi norme, vale a dire, a cercare divoti che li chiamino a suonare davanti alle Immagini di Maria o del Bambino Gesù.  La prima novena è per la festività del dì otto dicembre, giorno in cui dalla Chiesa si celebra l'Immacolato Concepimento di Nostra Donna.

Universale è la divozione de'  napolitani per la Immacolata, sotto la cui protezione è posto il Reale esercito: non vi ha ricco abituro, o misera dimora, o romita capanna dove non iscorgi un quadretto, un’effigie qualunque di questa Beatissima Vergine Madre. Laonde per la novena del dì otto dicembre non meno che per quella del Santo Natale i zampognari trovan clienti in copia grandissima, sì che in tutt'i dodici quartieri di Napoli, e ne’ vicini villaggi e casolari, non senti da mane a sera che il suono della zampogna e della cennamella.

Alle cantonate o sboccature delle strade, su i lastricati di Toledo e di Chiaia, ne’ chiassuoli e ronchi de’ più fangosi quartieri della capitale, su per le salite di Montecalvario o per l’erta del colle S. Martino, ne’ crocicchi di Porto e del Pendino, per le piazzette del Mercato, su pe’ palagi doviziosi, come nelle botteghe, e financo nelle cànove vedi salire e scendere continuamente l’un dopo l’altro il zampognaro e il ccnnamellaro. La mercede che lor si dà per una novena varia a seconda della maggiore o minore agiatezza delle persone, appo le quali ei si conducono a suonare, per modo che dalla piastra, (12 carlini) scende il prezzo fino ad un carlino.

La novena dell'Immacolata incomincia il dì 29 novembre e cessa il. 7 dicembre, quella di Gesù Bambino ha principio il IO dicembre e termina al 24, vigilia del Santo Natale. Gran festa si mena nelle famiglie quando incominciano le dette novene: spesso gli stessi zampognari che han fatto la novena in una famiglia negli anni scorsi si presentano per l’anno che corre, e trovano sempre quell’affettuosa accoglienza che ad antichi amici suol farsi.

Proverbiale è la bontà del cuore de’ napolitani, e gli amorevoli sentimenti che nutrono verso i poveri e la minuta onesta gente. I ragazzi, al vederli comparire, saltan di piacere, che rimembrano le feste, il presepe, il regalo, i dolci del Natale, le castella di nocciuole, e tante altre care gioie di quella età così bella, così innocente, così spensierata, e che poscia diventano, nel corso di tutta la vita, le più soavi ricordanze.

Vedi i più grandetti aggrupparsi intorno a’ due uomini del presepe, chieder loro d’imboccar il becco maggiore della cornamusa per trarne un suono, ovvero divertirsi a batter colle dita l’otre che si va enfiando pel fiato che le caccia dentro il rubicondo suonatore; altri starsene dietro alcennamellaro, imitando grottescamente il suonare che quegli fa del rustico istrumento: i bimbi da latte si appaurano al sentir le prime note acutissime del campestre clarino, e si rifugiano nel seno della madre o della balia.

Intanto quegli accordi che risuonarono alle nostre orecchie fin da’ primi anni della nostra vita ne giungon sempre graditi in qualunque età, e sovente spremon sulle nostre ciglia una lagrima, ripensando a’ genitori o a’ parenti co’ quali dividevamo le gioie del Natale, e che tanto ne abbellivano il ritorno con le testimonianze del loro affetto.

All’ultimo giorno della novena, sia dell'Immacolata che del Natale, non sì tosto i zampognari han finito di suonare in una bottega, o al canto d’una strada, senti da’ monelli circostanti gridare a piena gola: pava (paga, paga).

Questa parola è diretta al padrone dell’Immagine, innanzi alla quale i zampognari han suonato durante la novena, e gli comanda di dare a costoro la dovuta mercede, la quale viene ordinariamente accompagnala dal classico mosticciolo, e dal consueto susamiello (specie di dolciume natalizio fatto con pasta di miele, e che ordinariamente ha la foggia d’una 5).

I zampognari si accomiatano, augurando buone feste, ed accaparrandosi per l’anno venturo.

IL PRESEPE

Non vi ha famiglia napolitana, patrizia o plebea, che non abbia l’avita consuetudine di fare il presepe, vale a dire con fantocci di stucco o di creta rappresentare la scena del Betlemme, e il Nascimento del Divo Bambino. Il tugurio, in cui nacque il Salvatore del mondo, le montagne adiacenti, le capanne de’ pastori, tutto è rappresentato con pezzi di sughero acconciamente disposti e ordinali.

I personaggi, che debbono figurare sul presepe, e che in Napoli vengono addimandati pastori, sono talvolta di finissimo lavoro, e di abili artisti. Gli è curioso il vedere le odierne fogge di villeresco vestimento napolitano addossate a’ personaggi di quel tempo tanto da noi remoto; e gli usi e costumi del nostro paese rappresentati sul presepe; sì che vedi poco lungi dal tugurio ove nacque il Bambinello Gesù una taverna, di quelle che si osservano nelle nostre circostanti campagne, ove seduti a rustica mensa bevono e gavazzano parecchi contadini vestiti alla sorrentina, o alla procidana.

Sull’erta di un monte vedi un altro che se ne viene a recare in dono al Bambino una cesta ripiena di caciocavalli napolitani. I personaggi che figurano nella grotta del Santo Natale sono la Vergine Madre, il Patriarca Giuseppe, sposo di Maria, il Divino Neonato, lo zampognaro ed il ccnnamellaro, il bue e l’asinelio che co’ loro fiali riscaldano le tenere membra del Fanciullo Gesù: al di sopra di questo quadro vedesi il coro degli angioli che cantano osanna al verbo Eterno, gloria a Dio nell’eccelso Cielo, e pace nel mondo agli uomini di buona volontà.

Pochi giorni prima della vigilia di Natale, il Bambino Gesù vien tolto dal presepe, per esservi riposto, con solenne processione di tutta la famiglia, alla mezzanotte del 24, ora in cui nacque il Divin Redentore. Commovente spettacolo offre allora la famiglia: uomini, donne, e ragazzi provvisti di ceri, fanno in processione il giro della casa, scendon talvolta nel cortile, visitano gli altri quartieri del palazzo, e si riducono al presepe, dove genuflessi e cantando l’inno Ambrogiano, da qualcuno della famiglia (spesso un ragazzo) vien collocato sul fieno e sulla paglia il celeste Pargoletto.

L’usanza del presepe rivela tutta l’indole del buon popolo napolitano; entusiasta e immaginoso nella sua fede, la sua anima trova tesori di tenerezza e di gioia in quella Religione, che ne’ sublimi suoi misteri parla potentemente al cuore degli uomini onesti e dabbene.

LA VIGILIA DI NATALE

Spunta il giorno che se per tutta l’orbe cristiana è. il più solenne di tutto l’anno per la ricordanza di un avvenimento onde l'Umanità fu riscattata dalla macchia originale, per Napoli è tal giorno di allegria, di subuglio, tal giorno di movimento, di vita, di piacere; tal giorno di affacendamento, di capogiro, di cuccagna, che mai le parole non potranno presentarne l’immagine a chiunque non sia stato in questa città il dì 24 dicembre di qualunque anno.

Fin da’ primi giorni di questo mese, talvolta anche prima, tutte le faccende si rimettono a dopo Natale; le obbligazioni non si adempiono, il denaro si stagna per qualche tempo per riporsi in questo giorno in un’attivissima circolazione. Tutti sperano qualche cosa a Natale; tutti sono in aspettativa; gl’impiegati e i commessi attendono le gratificazioni, i medici e gli avvocati fidano su i capponi e su i caciocavalli de’ loro clienti; i maestri di scuola chiudon le loro porte agli alunni e le aprono agli allievi pennuti; gl’innamorati aspettano i dolci delle loro amanti e viceversa; gli uscieri, i domestici, le fantesche, e tutta l’infinita generazione de’ portinai, ciabattini, artieri, e facchini danno l’assalto de’ cento di questi giorni a dritta e a manca.

Bel giorno è questo pel basso ceto!

I carlinelli piovon loro da tutte le parli, sì che francamente li vedi abbandonarsi a quella gioia che è tutta naturale in essi, e li vedi correr le vie e le piazze, e salire e scendere le scalinate delle case, recando in sul capo grossi panieri carichi di regali, ovvero vassoi coverti da fazzoletti di seta, e contenenti dolci o torte.

Spettacolo indescrivibile offrono le piazze ed i mercati di comestibili fin da due o tre giorni innanzi la vigilia. I due regni animale e vegetale sono interamente rappresentati a Napoli in questa solenne festività. Tutto ciò che la terra produce; tutto ciò che si muove nel cielo, nel mare, ne’ fiumi, è schierato nella via Toledo, a S. Brigida, a Porta S. Gennaro, al Mercato, al Pendino, e nelle principali piazze della capitale. È tanta in questo giorno l’abbondanza de’ viveri a Napoli, che tutti i milioni di abitanti Europei vi si potrebbero sfamare, tutte le nazioni del mondo vi troverebbero il loro cibo prediletto e indigeno.

È costume di farsi dalla bassa gente privati contratti co’ pizzicagnoli, da’ quali, pagando un cinque o sei grani per ogni settimana, ottengono a Natale una cesta ripiena di cibi che soglionsi mangiare in questi giorni. Questa cesta si suole addimandare sfrattatavola.

Fin da’ principi della novena di Natale i venditori di frutte fanno la così detta parata, vale a dire che davanti alle loro botteghe innalzano un edificio di seccumi e di frutte fresche; le colonne di questo tempio sono circondate di frondi, e spesso alberi giganteschi ne sostengono la mole; nell’interno di questo recinto tu scorgi trofei di uve e di mele, archi di uve passe, stelle di fichi secchi, piramidi di agrumi, baldacchini di noci e di vecchioni, ed una formidabile artiglieria di pine —

Accanto a questi magnifici parati si spiegano le ceste de’ pescivendoli, nelle quali vedi guizzare il sire de’ pesci del Natale, il capitone con sua moglie l’anguilla, e poi cernie, calamaretti, cefali, lagoste, merluzzi, e tutta quanta la generazione degli abitami del mare  — Più lungi i volatili di ogni specie vengono a pagare con la loro vita il tributo alla più grande e solenne delle feste napolitane: migliaia e migliaia di capponi, ligati pe’ piedi a gruppi, ingombrano quasi tutte le vie della Capitale, desti—, nati a funzionare sulle mense la mattina del Santo Natale. Queste povere bestie, condannate all’estremo supplizio, o a scambi di regali, vanno per parecchi giorni in giro per la capitale, e nissuno in questo frattempo si cura di dar loro da mangiare, per modo che un digiuno di vari giorni precede per essi la pena capitale.

Non vi ha strada per la quale si possa agevolmente camminare, tanta è l'affluenza degli uomini e delle bestie, tra le quali primeggiano gli asini. Per Toledo non vedi che enormi muraglie di canestri e piatti; le cose più fragili ti capitano ad ogni momento sotto a’ piedi, come bicchieri, cristalli, pignatte, e tutta la batteria di cucina. La mattina della vigilia di Natale Napoli non è che una immensa cucina, siccome la sera non è che un immenso banchetto. Quasi ad ogni canton di strada vedesi un arsenale di tronaro  vale a dire, un venditore di fuochi di artificio. Tutt’i trovati de’ moderni artiglieri non reggono al paragone delle bolle inventate per festeggiare il Natale: ce n’è di ogni dimensione, di ogni nome, di ogni forza, di ogni rumore e di ogni colore. Fulmini innocenti, nunzi di pace e non di guerra, il folgore e il tuono primeggiano tra i colpi.

Tutto questo spettacolo di vita vien peraltro ecclissato da quello che presentano i confettieri, i quali ritraggono in lavori di zucchero tutto ciò che è esposto in vendila nelle piazze. Per due o tre giorni le botteghe de’ confettieri sono talmente ingombre da’ compratori, che spesso non è possibile farsi udire per comprar qualche cosa. E qui è da notarsi, a gloria del nostro popolo, che rimanendo esposti quasi sulla pubblica via e senza custodi i cestoni ripieni di dolci e mostaccioli, non vi ha chi si attenti pur uno derubarne, la religiosa solennità del giorno ispira a tutti sentimenti di onestà, di amore.

Barbati, e Lambisse sono gli eroi della giornata in fatto di dolci, siccome il Si Francisco a S. Brigida è il Nestore de’ venditori di salami. Castella di zucchero e fortezze di cioccolatte sorgono alle porte di que’ due Michelangeli della ghiottoneria napolitana, i bastioni di questi castelli sono tenerissimi e i denti vi si affondano con faciltà e piacere, fontane, obelischi, mausolei, ponti levatoi, torri del medio évo, tutto è rappresentato a maraviglia da que’ due abilissimi artisti zuccherieri.

Accresce la giocondità e la maraviglia di questa giornata il donativo Natalizio che la Città di Napoli riverente invia, per antica consuetudine e quale attestato di omaggio e di affetto, all’Augusto Monarca, nostro Signore. Questo donativo racchiude in sé tutta la parte più eletta e squisita de’ cibi di ogni stagione e di ogni contrada.

Tutta la popolazione di Napoli e contorni, e tutti i cinquanta o sessantamila forestieri che trovansi in questa città, si mettono in mezzo alla strada dallo spuntar del giorno, e vanno, e vengono, e si urtano, e s’incrociano, e chi compra, chi vende, chi corre pel regalo, chi per la mancia, chi per la visita, chi per curiosità; e tutti pel capitone. Il trambusto, le grida, il pigiarsi, ('infangarsi, il baccano, la confusione crescono col crescer del giorno, e non cessano che al domani. Il dì del Natale tutto sparisce, quasi per incanto; tutte le botteghe son chiuse; tutto è nettezza e quiete.

Intanto, non sì tosto le tenebre cadono su i capitoni e sulle anguille, incomincia un fuoco vivissimo da tutte le parti. Ben diceva un bello spirito napolitano che non si consumò tanta polvere a Waterloo, quanta se ne consuma in Napoli per questa occasione. Le barracche de’ nari sono affollale di compratori, ansiosi di cominciar la bolla e la risposta.

Allo scoccar delle 24 ore, e quando Napoli si siede alle centomila sue mense, incomincia lo sparo degli artifizi. I tuoni, le fiaschette, le folgori, le folgori pazze, i tric trac, i fit fit accompagnano i brindisi e le allegrie della tavola, gli amori galoppano, le dichiarazioni sono coverte dagli spari, le strette di mano son nascoste dallo stomatico; tutte le fisonomie sono gioconde e vermiglie; tutt’i cuori si espandono tutti ciarlano, ridono; ogni sofferenza sparisce, ogni malanno è posto in obblio; tutti sono ricchi, tutti contenti; i vecchi tornan fanciulli e si mischiano all’ilarità de'  giovani.

Bell’ora della vita è questa! Be’ momenti!

La religione, la famiglia, la carità, l’amore si abbracciano in stretti amplessi. L’uomo malvagio si asside allato all’uomo giusto; poiché questa è l’ora in cui tutte le umane colpe son riscattate.

I cibi di rito della cena della vigilia sono i vermicelli, il cavolfiore, i pesci di ogni specie, e massime il capitone e l’anguilla, gli struffoli (pasta dolce con miele e tagliuzzata) i mostaccioli, ogni sorta di seccumi, le ostriche, ed altri camangiari di magro, che s’imbandiscono a seconda del gusto e dell’agiatezza delle famiglie.

In un momento cessa per poco tutta l’allegria; e la prece corre spontanea alle labbra, come un ringraziamento. È mezzanotte! Compita la processione, di cui abbiamo parlato, il zampognaro s’inginocchia e fa l’ultima novena al Nato Bambino.

L’offerta de’ cuori vola al ciclo pura ed accetta: gli occhi di tutti si riempion di lagrime; il silenzio del raccoglimento succede agli slanci della gioia; le campane suonano a festa.

La pace si spande sulla terra. Gli Angioli ripeton nel ciclo le preci che da tutt’i tempii s’innalzano da’ fedeli ivi raccolti.

FRANCESCO MASTRIANI.

I  TEATRI

GLI SPETTACOLI POPOLARI LE BAGATTELLE

IL nome collettivo di popolo un’idea inchiude vasta,  grandiosa, estesissima. Un popolo si compone di riefellissimi, di agiati, di, ossia gente di i buoni natali che vive delle proprie fatiche, di poveri di poverissimi; e tutti han bisogno, preciso bisogno di spettacoli, perché il Napolitano non può far senza degli spettacoli: è natura, non diletto: passione, non costume.

Tra gli spettacoli principalmente vanno i teatri. Godono di questi fino le classi povere; le poverissime non già, perché hanno appena, e non sempre, il quattrino per cavarsi la fame. Fa mestieri adunque che costoro si abbiano altri spettacoli gratuiti, spettacoli popolari. Seguitando una tal divisione, moviamo da qualche notizia su i teatri napolitani.

Come i Napolitani abbiano sempre amalo gli spettacoli scenici, oltre quel che ci dimostrano i fatti, testimonia la storia degli antichi teatri. Ginnasi e Palestre.

Da un frammento in marmo, mezzo greco e mezzo 1. 32 latino, che è nella chiesa dell’Annunziata, —scrive il nostro dottissimo Signorelli  —appare esservi stato in Napoli un Ginnasio in fabbrica, costruito nella Regione Termense, la quale si distendeva tra le porte Capuana e Nolana lino alla contrada di Forcella, caduto pel tremuoto, che abbatté ancora Pompei ed Ercolano, fu poi ristaurato da Tito Vespasiano come dal marmo stesso si ritrae; anzi, secondo il citato scrittore, fin dal tempo in cui si mostrava nella nostra città il sepolcro di Partcnopc, vi si coltivarono gli esercizi ginnici e musici, che avean luogo ne’ giuochi Quinquennali, e tra le contese musiche entrava principalmente l’eloquenza e la poesia.

Secondo il Galanti, nella sua Guida di Napoli e Contorni, l’antico Ginnasio era propriamente dietro il Monte dei poveri, dove oggi è la chiesa di S. Niccola ai Caserti, ed in tal sentenza si accorda benanche il Romanelli, il quale argomenta che questo Ginnasio avesse dovuto vedersi nel sito oggi appellato Supporlico de’ Caserti, nel vico del medesimo nome presso la Vicaria, dalle antiche costruzioni circostanti a quei luoghi ove tuttora si veggono frammenti di colonne, reliquie di architravi, capitelli, di basi e cornicioni .

Leggcsi ancora nella indicata opera del Signorelli: «In Seneca abbiati mo un altro testimonio della passione de’ Napolitani per le rappresenti tazioni teatrali e della celebrità che loro ne ridondava. Egli nella cpistola 76 si querela della desolazione che regnava nella scuola di Metronatte il filosofo, mentre il teatro napolitano, pel quale doveasi passati re nell’andare alla di lui casa, si frequentava con indicibile concorso, e con somma cura (ingenti studio) vi si giudicava dell’eccellenza dei Pitauli ed altri personaggi scenici. Continuò a’ tempi di Domiziano ad esser celebre il nostro teatro. Stazio ne fa splendida ricordanza, invitando in Napoli la consorte, che dimorava in Roma, e allettandola con la magnificenza degli spettacoli e degli edifici ec.»

Fu in un teatro costruito in Napoli che Claudio recitò una greca commedia, da lui composta ad onorare la memoria del fratello, sottoponendola al giudizio de’ Napolitani.

Si ha parimenti dalla storia come Nerone si trovasse nel ginnasio napolitano il giorno anniversario della morte di sua madre da lui ordinata  Quest’Imperatore avido innanzi di segnalarsi fra gl’istrioni che fra i grandi Capitani (al dire del Signorelli più volte citato) sul teatro napolitano volle far pompa della sua voce ed abilità comica  e raccolti gli elogi de’ Napolitani Greci, volle poscia esporsi al giudizio de’ Greci Orientali, e per ultimo, memore de'  primi applausi, rientrò in Napoli trionfante alla maniera dei vincitori.

Veniamo ora a ragguagli più speciali.

Il primo teatro stabile edificato in Napoli nel XVI secolo era nel silo dove oggi è la chiesa di S. Giorgio de’ Genovesi, la quale perciò fu detta S. Giorgio alla Commedia vecchia e fu comprato da questa nazione per dilatare la chiesa e per fondare un Ospedale.

Sotto il viceré Ognatie fu eretto un teatro grandioso nel vico S. Bartolomeo, ond’ebbe il nome. «Quivi furono rappresentati i drammi di Metastasio e di altri, messi in musica da Scarlatti, da Porpora, da Vinci,  da Leo, quivi si videro le macchie e le decorazioni del Bibbieni e di Giacomo del Po; e quivi furono ascoltate le voci incantatrici della Romanina e della Tosi.  Venne poi abbattuto sotto re Carlo Borbone, che accosto alla reggia l’altro magnifico e grandioso eresse di S. Carlo, il quale, nell’ordine cronologico, tiene il secondo luogo, essendo preceduto dal teatro de’ Fiorentini.

Fiorentini. —(Vico teatro de’ Fiorentini). Questo teatro che ha preso il nome della vicina chiesa, delta di S. Giovanni de’ Fiorentini, è il più antico di tutti i nostri teatri perché eretto contemporaneamente al nominato di S. Bartolomeo. Fu istituito ad oggetto di rappresentarvisi commedie spagnuole, e, secondo il Celano, venivano dalle Spagne ramose compagnie a rappresentarvi eruditissime commedie nel loro idioma, e fu rifallo nel secolo passato con disegno di Francesco Scarola. Per certo tempo vi si recitò in musica, ma poi, come tuttora, vi si dà la prosa, sempre con iscelte compagnie, ed è il primo in tali specie di rappresentazioni. L’archivio di questo teatro è spesso arricchito da eccellenti lavori di patrii autori, tra i quali assai grato ci riesce ricordare il Barone Gio: Carlo Cosenza, il decano tra essi, e che per tanti e tanti anni ha scritto per le scene, Michele Cuciniello, Federico Riccio ed altri, avvegnaché niun pensiero al mondo si dieno gl’impresari né d’incoraggiarli né di compensarli.

S. Carlo — (Strada S. Carlo). Questo teatro, il quale non v’ha chi non conosca, almeno per nome, e che a buon dritto può dirsi il primo del mondo per la sua ampiezza e magnificenza, fu edificato dall’architetto Angelo Carasale, con disegno dell’Ametrano.  Cominciò l’opera nel marzo, e terminò nell’ottobre del 1737, e la prima rappresentazione vi si diede il quattro di quel novembre, giorno del nome di Carlo, e quella sera, scrive un nostro storico «l’interno del teatro era coperto di cristalli a specchio, e gl’infiniti lumi ripercossi rendevano tanta luce quanta la favola ne finge dell’Olimpo.»

Nel 1816 incendiossi mentre facevasi un concerto, ma poi con miglior gusto e maggior comodo fu rifatto in sei mesi. Nel 1843 e 1844 vi sono state aperte altre scale ed uscite, ed è stato messo nel lustro attuale. È il teatro massimo per la musica eroica e pel ballo. È uno de’ due teatri reali, ed allorquando, nelle sere di gala, il Re o la reale famiglia vi si trasferisce, offre imponente spettacolo di splendore e di lusso.

S. Carlino. — (Largo del Castello). Quantunque non si conosca precisamente l’epoca della fondazione di questo teatrino, è pur certo che ad origine monti antichissima  sicché, volendo seguire l’ordine cronologico, crediamo far succederlo immediatamente a S. Carlo.

Né si stimi per avventura che ravvicinare di questi due teatri sia come l’avvicinare un colosso ad un fantoccino, ovvero un gigante ad un pigmeo, che se il teatro S. Carlo per ampiezza e magnificenza incede sul S. Carlino come gli alti cipressi del cantore di Enea sugli umili virgulti, son pure entrambi celebrità, né avvi straniero visitante Napoli, cui dopo S. Carlo, non volga il desio di vedere il nostro picciolo teatro popolare.

Niente infatti è desso gradevole né merita, per la meschinissima costruzione, ma si per essere l’unico nel suo genere. Vi si rappresenta la commedia popolare, o nazionale che vogliasi dire, cioè le scene ed i fatti del basso popolo, con tutta verità, per lo più nel dialetto, e con attori eccellenti nelle rispettive parti.

Facciam seguitare alcune notizie speciali di attori e commediografi di questo teatro, le quali avremmo volentieri sacrificato a quella parsimonia che tanto ne piace; ma perché trattasi appunto del nostro teatro popolare le inserimmo.

Vincenzo Cammarano, conosciuto col nome di Giancola, principiò a rappresentare il Pulcinella in S. Carlino nell’anno 1770, ed il suo nome è tuttora ripetuto, siccome inarrivabile nell’espressione di questa maschera napolitani Gli successe Luigi Figarra, poscia Gaspare de Cenzo, infine Salvatore Petito che è il Pulcinella presente.

Aldegonda Colli principiò a rappresentare da nell'anno 1801: si distinse in questo personaggio d’una vecchia rimbambita che ostenta la giovanetta, e come eccellente artista, ritratti si ebbe e biografie, né altra l’ha mai più convenientemente sostituita finora.

Giuseppe Tavassi principiò a rappresentare il buffo biteegliese nel 1801 al teatro S. Carlino e per lunghissimi anni vi continuò.

Michele Manzi incominciò a rappresentare il buffo tartaglia nel 1820 evi continuò molti anni.

La parte del carattere sciocco fu sostenuta lungo tempo da Eustachio Tremori: Pasquale Altavilla l’ha sostituito, ma rappresenta benanche in altre parti, specialmente nelle caricature e nelle parodie de’ bellimbusti o vagheggiai, o col nome oggi così in voga a Napoli del D. Ciccillo.

Ad Apollo Talia con volto lieto

Le maschere presenta del Sebeto.

Così era scritto sopra un antico e bellissimo sipario del teatro, dipinto da Giovanni Catamarano , anche della distinta famiglia artistica onde ci accadde far menzione in queste pagine, ed io nel modo stesso le presento al rispettabile pubblico, tralasciando gli altri graziosi caratteri della compagnia, tra i quali pertanto merita esser nominato il guappo che è la parodia del simile personaggio napolitano di cui facemmo apposita descrizione.

Fra i commediografi rammentiamo principalmente Filippo Cammarano, morto nel decorso anno 1850, che ha dato molte opere al nostro teatro popolare, le più capolavori come la Mmalora de Chiaia, la Cuccuvaia de Puorto, Annella tavernara de Porta, l'appassiva te de Monzù le Roa ed altre. Gli successero come scrittori dello stesso genere Orazio Schiano e Pasquale Altavilla, sebbene non paragonabili al primo.

Nuovo — (Vico lungo Teatro Nuovo). Questo teatro che a dispetto del tempo, non invecchia mai, costruito con disegno di Domenico Antonio Vaccaro, è il quarto per antichità. Fu istituito a rappresentarvisi melodrammi ed opere buffe in musica; se ne son dati a quando a quando, e se ne danno tuttavia, con buone musiche e di valenti maestri. Questo è propriamente il suo istituto: nacque al socco, non al coturno, ond’è che quando da cotesta natural destinazione divia per lo più non raggiungne lo scopo.

È a notare benanche eleggersi per lo più questo teatro dai giovani maestri esordienti come agone a misurarvi il loro valore, e giù parecchi, in età verde ancora, bella ed onorevole fama accompagna.

Fondo — (Strada Molo). Questo teatro cui venne il nome dal danaro regio alla costruzione di esso allogato, detto cassa dei fondi de’ beni di  separazione  è il secondo in Napoli per grandezza. Fu edificato nel 1778 da Francesco Seguro, ed è destinato a rappresentarvisi melodrammi, azioni eroiche o anche buffe, e balletti, proporzionati all’ampiezza del proscenio. È teatro regio al pari di S. Carlo, e le stesse compagnie di canto e di ballo sogliono servire all’uno ed all’altro. Da non molti anni a questa parte di compagnie francesi vengono a darvi rappresentazioni nel loro idioma.

Nel 1847, si diè principio a rinnovarlo ed abbellirlo, e pertanto stette chiuso fino al 1849, in cui riapparve al pubblico elegantissimo e magnifico come ora si vede. Ha la platea di ferro: è illuminato tutto a gas, laddove lo stesso S. Carlo lo è nel solo vestibolo e fra l’altro una specie di portico costruito per l’uscita delle carrozze che traggono al teatro, affinché non ne ingombrino l’ingresso, meritevole è d’encomio e d’imitazione.

S. Ferdinando. — (Strada Pontenuovo). Questo teatro di bella forma, che per ampiezza va collocato immediatamente dopo il Fondo, fu disegnato da Camillo Liondi e costruito nel 1791. Oltre di non esser sempre in azione, ha soggiaciuto e soggiace a continue mutazioni di compagnie; talora vi si dà musica, talora prosa: talora sono artisti che vi rappresentano, talora (ma più spesso) dilettanti, e sovente ottime compagnie tanto de’ primi quanto dei secondi. Se vi si facessero convenevoli riatti ed abbellimenti, e maggiore studio in conservarlo si riponesse, certo sarebbe teatro anche più bello.

Partenope — (Largo delle Pigne). Questo piccolo ma grazioso teatro fu costruito nel 1828 dall’Architetto Giovanni Mezzanotte, e presenta precisamente la forma di un ferro di cavallo. Anch’esso ha avuto un avvicendamento di rappresentazioni, ora in prosa ora in musica, ora di dilettanti, ora di artisti, ma quelli per lo più vi hanno ottenuto qualche successo, e non di rado ottimo successo — imperciocché abbiamo in Napoli sceltissime compagnie di dilettanti — laddove gli artisti, o per dir meglio i guastamestieri, onde questo povero teatro sembra il ricettacolo, lo bau di continuo vituperato. Anch’esso avrebbe bisogno di rifazioni ed abbellimenti e di esser mantenuto con miglior cura perché i suoi pregi apparissero.

Fenice — (Largo del Castello). Questo teatro, ricavalo da una stalla, lunga pezza alternò i suoi destini tra la musica e la prosa. Ne' primi suoi tempi servi alle rappresentazioni in musica, e fu allora che ottime compagnie vi recitarono ed eccellenti artisti. Si vuole che v’abbia cantalo Lablache; e che il Barbiere di Rossini abbia cominciato quivi le sue barbe, per istender poscia la saponata fino al magnifico S. Carlo.

L’anno 1846 ne tolse l’impresa Tommaso Zampa, il quale con amore paterno, anzi che da impresario, lo fece riattare nel 1848, riducendolo alla decenza ed eleganza in che oggi si vede, né più riconoscibile da quello di un tempo, e fino con la sua platea di ferro, al pari del Fondo e di S. Carlo. La sua compagnia è più che buona per questo teatro, ed egli non risparmia attività e zelo a ben servire il pubblico napolitano che giusto ed imparziale, con la sua frequenza e numero, e piè con la eletta delle persone che vi convengono, gli testimonia il suo compiacimento. Il vestiario e lo scenario è sempre conveniente, in talune opere anzi su|era le aspettative per la proprietà e per l’eleganza: spesso anche pel lusso.

Aggiugniamo con vera soddisfazione che questo teatro, oltre il mutar continuo di lavori drammatici, viene spesso arricchito da quelli di patri autori, tra i quali primeggia il sig. Luigi de Lise, appositamente. stipendialo dall'Impresario, ed i lavori di questo giovane di pronto e ferace ingegno ottimamente ordinati e condotti, come che tratti per lo più da accreditati romanzi francesi, chiamano sempre numerosissimo concorso.

Teatro alle Fosse del Grano. Nell’edilìzio detto Fosse del Grano fuori porta Alba,  — fondato dal viceré conte di Benevento nel 1608, e così detto perché quivi precisamente le carceri s’istituirono pei trasgressori de’ regolamenti annonari—evvi una specie di anfiteatro con ampio terrapieno, ove per lo più manovrano compagnie equestri e ginnastiche, che è però chiamato anche Circo Olimpico ed ha un proscenio abbastanza grande per rappresentazioni drammatiche o mimiche. Vi han rappresentato compagnie comiche in musica ed in prosa. Nè altro compongonsi d’un suonatore di puti-puti specie di strumento di latta a forma di pentola, di un suonatore di fischietto (siscariello)di un altro con certo strumento di canne detto scetavaiasse, di un quarto che suona uno strumento di acciaio detto tromba ovvero scacciapensieri, e finalmente di un suonatore di nacchere (castagnette) o di uno o più guagliune che accompagnano la musica battendo le pietre l'una contro l’altra.

In altra parte di quest’opera avremo occasione più acconcia a parlare più minutamente di codesti strumenti, e pertanto ci limitiamo qui a farne cenno.

La scimìa ed i cani intelligenti. — Una scimia sovra un organetto, vestila da soldato, fa gli esercizi di schioppo, salta il cerchio, spazza, sfodera e brandisce la spada. Così pure con altro organetto vanno per la città due cani ammaestrati a saltare i cerchi, a camminar ritti su due piedi per alquanto tempo con una mazzetta tra le zampe.

Il ballo de’ turchi. — Tanto questo spettacolo quanto i tre che seguono sono propri del Carnevale.

Lo spettacolo de; turchi consiste in una riunione di cinque o sei lazzaroni scalzi e in abito alquanto sudicio da turchi che vanno intorno, seguili da una turba immensa di popolo, recando con esso loro una sedia cd. un tamburo, e rappresentando per le strade una specie di atellana ovvero di azione grottesca. È questo un ballo che fanno a suon di tamburo attorno alla sultana (un lazzarone vestito da donna) la quale è uccisa a tradimento, poi risorge ec.

Il cacciamole (cavadenti). —Quest’uomo, che rappresenta un dottore spropositato ovvero la parodia della professione, ha una giamberga di color verde carico lunga insino ai piedi, larga smisuratamente e piena di ritagli d’argento appiccati alle falde, alle maniche ed al bavero, con calzoni corti; con parrucca di carta bianca e rossa, ovvero di stoppia onde partono due codini che vengon giù sino ai piedi; ed un occhiale grossissimo. Egli porta sèco una tavola, due sedie ed una cassa che vuole indicare la cassetta per gli strumenti di professione. Salito sopra la tavola egli comincia a cavar fuori dalla sua cassa una tenaglia, un martello, un succhio o somigliante argomento.

Ed ecco dalla immensa corona di popolo che guarda con ciglia inarcate le mirabilia del dottor fisico, il quale veramente è un mostro di scienza, traendo guai e sospiri comparisce innanzi a lui un maialo che finge soffrire al fegato, e il dottore, esaminatolo dapprima con un eterno cannocchiale di cartone, e scoperto incontanente ove il male annidasse, senza né più né manco, fra gli atroci spasimi del sofferente gli cava fuori un fegato smisurato netto netto con la curatela e tutte le altre circostanze.

Poi una donna (anche un lazzarone vestito da donna) spasimante per dolori di parto è liberata dal sapiente dottore, che per mezzo di due enormi e lunghissime coltella gli apre il ventre posticcio e ne trae un cagnolino o un gatto; e così ad un altro che duolsi di mal di denti strappa un enorme mascellare, e tutte queste scene con gran tripudio e sollazzo della festevole brigata che lo circonda, e di cui egli, terminate le sue operazioni chirurgiche, si sbriga da vero sapiente, mainandola con una grossissima canna da lavativo. Anche dei signori, quali si fermano in istrada, quali si fanno ai balconi, per godere di questa buffoneria che è veramente carnevalesca, e d’altra parte appalesa sempre più lo spirito e la vivacità del napolitano, imperocché il cacciamole accompagna ciascuna sua operazione con mollissime ciarle, nelle quali non manca argutezza unita alla facezia.

Zeza. — Ci piace riportar qui appresso questa antichissima e famosa cantata popolare modellata sul gusto delle antiche stellane, e che già tempo, nel carnevale, soleva rappresentarsi da’ nostri lazzaroni per le pubbliche strade con gran sollazzo e risa delle allegre brigate. Ne formano l’argomento gli amori di un D. Nicola, studente calabrese, con Tolta figliuola di Zeza e di Pulcinella e le discordie e le risse che avvengono per tale cagione.

Noi assicuriamo i lettori che quando nulla trovassero di pregevole nella poesia di questo canto carnevalesco dovrebbero sì conservarne memoria per la sua monumentale antichità e popolarità; che nulla è così conosciuto presso il nostro popolo quanto il canto di Zeza.

Ora non si ode più nelle pubbliche strade e solo talvolta il teatro Sebeto lo aggiugne, nel carnevale, a’ suoi sanguinosi cartelloni per molcere probabilmente e medicare le ferite ancor fumanti di sangue di Buovo d'Antona e Bruno da Forlì i quali si addormentano al dolce canto di Zeza come un antico cavaliere al canto d’un bardo o d’un giullare.

RIDICULUSO CONTRATTO

DE MATREMMONIO MPERSONA

DI D. Nicola Pacchesecche, e Tolla Cetrulo, figlia de Zeza, e Polecenella.

Poi. Zeza vi ca mo esco,

Stalle attienta a sta figliola,

Tu che si mamma dàlle bona scola

Tienetella nzerrata

Nu la fa prattecare

Ca chello che non sà se pò mparare.

Zez. Non nce pensare a chesto

Marito bello mio,

Ca sta figlia me l'aggio mparat'io,

Io sempe le sto a dire

Na femmena nnorata

Vene chiù de tesoro assai stimata.

Poi. A me m'è stato ditto,

Ca sempe da ccà ntuorno

Stace n Abbate i de notte e de juorno:

Si nce lo ncatacoglio

Na bona mazziata

Da no piezzo le tengo preparata.

Zez. St'Abate, che tu dice,

Io mai nun aggio visto,

Ogge simm'a no munno troppo tristo:

Le gente de sta Chiazza

Te vonno arroinare.

Perzò ste cose te stanno a portare.

Poi. Sarrà comme tu dice,

Io mo mme n'aggio ajire,

Tolla sta alla fenesta,

Mogliera stance attiento,

Pensa ca so nnorato

No fa che torno ncasa mmalorato.

Zez. Si pazzo si lu ccride,

Ch'aggi'a tenì nzerrata

Chella povera figlia sfortunata,

La voglio fa scialare

Cu ciento nnammurate ,

Co Milorde, Signure, e co l'Abate.

Toll. Nè Mà che fai cca fora?

Sol' aggio da lavare?

A lo manco va frase a cocenare,

Si Tata quanno vene,

Non trova cocenato;

Te face revotà sto vecenato.

Zez. Sì figlia, dice buono,

Trasetenne tu pure,

Se Tata vene te rompe li ture,

Non te fa ascia cca fora,

Ca chillo te carosa,

O allo manco te fa bona ntosa.

Toll. Zitto mamma che beco,

N'è chillo D. Nicola?

Mo proprio sarà asciuto da la scola.

Si chisso me volesse,

lo me lo sposarria,

E chiù nnante de Tata no starria.

D. Nicol. Mannaje tutto lu Munno,

Stu spanto di biddizza,

Comm' a Sumarro mi tira a capizza,

E bedda, e graziosa,

Pi chidda facci bedda

Mi sentu veni già la cacaredda.

Toll. Viale chi ve vede

Si D. Nicò eh' è stato,

De mine veni a trova non ve degnate?

Fuorse quarch' auta bella

Im core v' ha feruta

E a me a lo pizzo m'avite mettuto.

D. Nic. A mia dice sta cuosa

Pi tti lu curazzali

A lu pettu mi sentu stritulari,

Eu sugno intr' a lu focu,

Curuzzo ; cajaredda,

Mi spiticchiu pi cchista faccia bedda.

Zez. Crediteme si Abbate,

Sta povera figliola

Sbarea sempe quanno stace sola,

Pensanno all'ussuria

No ppo trova arricietto :

E sempe a na vrejala int'a lo pietto.

D. Nic. E eu pe sta quadrana

Mi vio nzallanuto,

Pe issa lo ciriviello aju perduto.

Non penso a studiare,

No vaco Mmecaria,

Curuzzo meu, sempe pensanno a ttia.

Toll. Pe ite aggio lassato

Sì abbate no Marchese,

Che me volea sposa int'a sto mese,

Non penso cchiù a nisciuno,

Tu m'aje da nguadiare

Se no io stessa me vaco a scannare.

Poi. Senza che tu te scanne

Te faccio io sto servizio.

Zez. Mari ferma c/te vaje mprecipizio

Toll. Via Tata mio perdoname,

Chiù non lo boglio fare.

Poi. A tutte duje voglio addecreare

Ma a chesso tu nce curpe

Vicaria scassata,

Pe mo tienete chessa mazziata,

Si tuorne nauta vota,

A bbenì a sto contuorno

Non te faccio campare n'autu juorno.

D. Nic. Mannaja li vischi tuoi,

mia sta vastonata

Ti vogghiu minori na cacafocata,

Mo vajo a lo Catojo

Pigghiu lu cacafoco ,

E mi ti vogghio accidere a chistu loco .

Poi. Tu te ne si fùjuto

Pacchesicche frustato

Meglio pe te si non fusse nato :

Si nauta vota tuorne,

Te voglio addecreare

Manco treghiuorne te faccio campare.

Zez. Aje fatto na gran cosa

Tiratele lo vraccio.

Poi. Zezavattenne, ca sa che te faccio.

Zez. Che m'hai da fa vavuso?

Lo pietto che t'afferra!

Poi. Proprio cca mmiezo volimmo fa

Toll. Tu proprio si ncocciato. (guerra.

De non mme mmaretare,

Te voglio fa vede che saccio fare.

Poi. Che aje da fa muccosa,

Tu me faie esse mpiso.

T.(2 Tu che cancaro ncapo t'aie

z.(                                          (miso

I). Nic. Arretu vastasuni,

Eu t'ajo a la tagliola;

Ti vogghiu fa vidi chi è D. Nicola,

Ti vogghiu fa passa tanti virrizzi

Di tia ne vogghio fa tanta sauzizzi.

Poi. Pietà, misericordia;

Io aggio paz siato.

Zez.Vi comme tremma mo lo sciaurato,

. D. Nic. Bennaju li vischi tuoi,

Cu tanti vastunati,

Li carni tutti m'hai tritulati.

Toll. Si tu me vuoie bene

Non m'accidere a Tata,

Non me fa lenì a mente stajornata.

Nennillo de stu core,

Fattillo bello mio,

Fattillo mo passare sto golia.

D. Nic. Lo perdono pi ttia,

Pi ttia lu lascia stare,

Mo iddu a mia t'au da danari,

La vogghiu pi mogghieri.

Che dici sei cuntenti ?

Truculuni nu parli, nu mmi senti?

Pol. Gnorsì songo contento,

Maje chiù na parola

Non diciarraggio a lo si D. Nicola

Non parlo pe ccient'anne

Songo cecato, e muto,

Starraggio a casa comma no paputo.

Zez. Via dateve la mano

Puzzate godè ncocchia,

Pol. Una ne cade, en auto ne sconocchia

Toll. Marito bello mio

D. Nic. Mugghiera de stu core.

Tutte faccia godè Copint'amore.

Poi. Nzomma dint'a li guaje

Mo songo li contiente,

Zeza jammo a mmitare li Pariente

E tutti sti signuri,

Che so state a sentire

A lu banchetto facimmo venire.


Formano altro spettacolo carnevalesco le cosi dette cantate che fanno i lazzaroni, in un certo numero, coprendosi d’un berretto onde pendono lunghissimi nastri, e con altrettanti appiccati alle maniche della giubba, d’una veste bianca, ovvero a quelle d’un’elegante e ben pieghettata camicia; e di questi tale rappresenta il fruttaiuolo, tale il giardiniera, tal altro il pescivendolo, e così van per le strade cantando strambotti o alternando cantilene. Per lo più queste riunioni formano le serenate che gl’innamorati del nostro popolo fanno alle loro belle. Anche di queste si veggono ora rarissime e non più come quelle d’un tempo facete e spiritose.

Le bagattelle—Fra tutti gli spettacoli popolari primeggiano le bagattelle (i burattini) le quali per tal preferenza meritano un trattatello alquanto più esteso.

Il secolo che ovunque passa lascia l’impronta di sè, il progresso, questo mago, che in modo prodigioso trasforma e strade e città e tutto, ha tramutato sì il molo de’ nostri padri, il molo storico, il molo delle tradizioni in una bella, pulita ed ampia strada, in una amena passeggiata, ma che monta ciò? Il più elegante bulino odierno varrà egli a ritoccare degnamente un’onice di veneranda antichità: la mano del più egregio artista del secolo che corre sarà tanta da aggiugner pregio ad una tela del Buonarroti o dell’Urbinate avvegnaché oscurissima, e quasi da non più ravvisarsi? Io piango sulle illustri e monumentali celebrità del molo, come Mario sulle rovine di Cartagine, io piango sulle illustri esuli del molo— sulle raminghe bagattelle.

Eppure chi sa? Il secolo che comincia a render giustizia al franfellicco, che va tornando in onore, vorrà renderla del pari alle bagattelle— Speriamo!

Respondei factis nomina saepe suis diceva il poeta, ma questa sentenza, così vera in mille casi, è affatto falsa a proposito delle bagattelle che volgono sempre sovra argomenti importanti siccome or ora vedremo. Consistono le bagattelle, ovvero teatrino ambulante di burattini in una torricciuola quadrilatera ed alla, di legno, vestita all’intorno di tela, e che alla parte superiore, dall’un de’ lati, ha una buca, con fondo di scena, o senza (secondo le condizioni e dignità del bagattelliere) la quale forma il proscenio nelle rappresentazioni. In questa torricciuola entra un uomo, che vi si tien nascosto, e per la buca fa agire de’ burattini, che porta seco in un sacchetto, rappresentanti commediole che egli improvvisa al momento, ma per lo più azioni tragiche nelle quali non manca mai Pulcinella, personaggio principale, anzi protagonista delle bagattelle.

L’impresario, artista drammatico ed autore trasporta egli stesso sulle spalle il suo teatrino ambulante, la cui comica compagnia si compone costantemente di Pulcinella, di Colombina, di e di Capotai Fasulo immancabili come Pantalone de’ Bisognosi, Lelio e Brighella nelle commedie di Goldoni.

Sia eroica, sia tragica, sia ridicola, sia favolosa la rappresentazione che dà il nostro autore, egli è ad ammirar veramente, non meno l’abil modo onde fa muovere ed agire i suoi fantocci, che la prontezza dell’ingegno nel piantare è condurre un argomento. Ecco per esempio: Pulcinella è innamorato cotto di Colombina sorella di Coviello; il quale si è già accorto degli amori clandestini, ma niente ama chi si effettuisca un tal matrimonio — Pulcinella coglie il destro dell’assenza di Coviello e va ad un segreto abboccamento con la sua innamorata, quando ecco l’implacabil nemico, che il tien d’occhio continuamente, io colpisce mentre esce dalla sua casa (di Coviello). Qui aspre parole si avvicendano tra loro, le quali pertanto son tutt’altro che tragiche — Si viene ad un duello — Le armi sono ordinariamente due bastoncelli, onde i due avversari si pestano così bene e si dàn sì bei colpi da far tremar l’Asia e l'Epiro. Un solo basterebbe ad atterrare, imperciocché si colpiscono sempre in testa e sull’osso del collo, ma le sono una eccezione alle miserie umane, giacché non pure niuno de’ duc soccombe nel terribile conflitto, ma spesso lasciano i bastoncelli ed afferrano due spadoni,  più terribili di quello di D. Diego Garcia quando ammazzò quel formidabile loro che sapete: e tic tac—botte dritte, finte cavate e cartocci, Pulcinella ti spaccia magnificamente il signor Coviello, piantandogli una spada nel petto fino all’elsa, non altrimenti de’ nostri cuochi quando infilzano i fegatini — Vedete un po’ se queste cose meritano il nome di bagattelle! Intanto il pubblico ride e non vuole spasimare come i lettori della Margherita Pusterla.

Lo sventurato Coviello rovescia bocconi sulla scena, ossia sull’orlo della sua buca teatrale. Corre allora la povera Colombina e ti schicchera una lamentazione sul cadavere fraterno che farebbe scorno al discorso di Achille sull’estinto amico, ma l'ira di lei non è simile a quella del grande eroe contro di Ettore. Ella va dolorando sì il perduto fratello ma quell’etcrnissimo amore che non lascia neanche le bagattelle la fanno compassionevole verso il suo Pulcinella — Invano — Fatto palese l’omicidio Caporal Fasulo, personaggio tragico più del Filippo d’Alficri, viene con modi imperiosi a chieder conto dell’accaduto al reo. Credete voi che questi si avvilisca o discenda alla bassezza d’una discolpa? — Oibò: questo cose accadono nella società umana, non sulle bagattelle. In quella vece Pulcinella risponde all’aspro soldato impugnando di bel uuovo la spada ed invitandolo a misurarsi seco. Ed ecco un secondo duello nel quale Pulcinella manda all’altro mondo questo secondo avversario nello stesso modo del primo. Quest’altro omicidio' rende implacabile la giustizia contro Pulcinella. Vengono i birri, te lo acchiappano, lo gittano in una prigione; di lì è menato alla forca—con grande soddisfazione degli uditori, ciascun de’ quali vorrebbe appiccarvi ben altri rei che Pulcinella. E statevi bene.

Gli argomenti variano poi sempre secondo l’estro e la volontà del commediografo, e questa è una delle centomila catastrofi.

Tante volte l’infelice vittima del duello è Pulcinella, che risorge spesso dopo morto—Tante volle, quando l’opera è mitologica, Pulcinella è trascinato all’averno: ivi stringe amicizia con Berlich e Berloc, satelliti di Plutone, per la cui opera è salvato e ridonato al mondo.

Numeroso cerchio di persone, napolitani e forestieri, signori e plebei, assiste a queste rappresentazioni che pe’ lazzi e facezie onde abbondano muovono le più alle risa.

Così l’originalità di Shakespear, le stragi di Hugo, il terrore di Alfieri, sono bizzarramente innestate sulle bagattelle col comico di de Petris e di Cerlone e con le buffonerie di Pulcinella, e di qui anche di leggieri può argomentarsi che uomo sapiente e che specie di autore drammatico sia il bagattelliere.

A tale proposito non taceremo il nome di Michele Barone ora, per disgrazia dell’arte, defunto, celebre bagattelliere del molo il quale— e bene il ricordo—illuminava il suo castello, vi appiccava un annunzio di quello che voleva rappresentarvi; avea numerosissima udienza, e no bili signori traevano in copia ed in magnifici cocchi ad udirlo.

I bagattellieri guadagnano lino ad otto, e dieci carlini in un giorno di loro rappresentazioni, segnatamente quando si avvengono in generosi forestieri, come suole accadere al largo della Villa Reale ovvero alla bella riviera di Chiaia, Ih dove per esservi grandiose locande, forestieri di alto conto facendosi ai balconi soccorrono questi poveri commediografi ambulanti. I quali oltre delle rappresentazioni che dònno per le pubbliche strade, vanno anche nelle case private a divertire le famiglie che li vogliano. Si trasferiscono ai paesi circonvicini e specialmente a Castellammare, allorché la bella stagione invita quivi napolitani e stranieri alle aure vivificanti degli ameni colli, alle feste ed al sollazzo; e così pure nei giorni in cui le sante istituzioni della nostra Chiesa vietano gli spettacoli. pubblici in Napoli. Allorquando le fiere chiamano il concorso nelle altre città del regno traggono quivi col loro teatrino portatile. Taluni sono a stipendio de’ proprietari deìeatri d’infimo ordine, o pure di cantambanchi o giocolieri, e servono ad intrattenere il pubblico negli intervalli tra uno spettacolo ed un altro.

Questi e simigliami sono gli onesti divertimenti che l’invidiosa potenza dell’oro non può vietare all’indigente ed al mendico; ché ciascuno su questa terra, grandissimo o piccolissimo che sia, aver debbe i suoi conforti ed i suoi dolori, il suo bene ed il suo male, le sue pene ed i suoi divertimenti; in una parola, il suo piccolo mondo.

ENRICO COSSOVICH.

LA FESTA DI PIEDIGROTTA

La storia di un popolo come il napolitano è la storia dei suoi piaceri, delle sue feste, de’ suoi rumori, non vi ha giorno dell’anno, in cui esso non abbia occasione di abbandonarsi a quella naturale gaiezza, a quella spensierata giovialità, che forma il fondo del suo carattere; egli riveste co’ colori della sua vivace immaginazione i suoi passatempi più consueti, e tanto li abbellisce, li anima, che que' sti divengono straordinari e sempre nuovi.

Vi sono giorni di feste, pe’ quali il Napolitano dura con piacere un anno intero di fatiche, l'immagine dei sollazzi, a’ quali si abbandonerà in que’ giorni gli fa spesso dimenticare le asprezze di una vita povera e stentata. Che diremo, quando alla tendenza pel divertimento innata nel cuor de’ Napolitani si aggiunge l’occasione di esternare a’ loro Principi quell’affetto di cui questo popolo ha dato sì luminose prove, e che è tanta parte della sua vita?

Che diremo di quelle feste in cui questo popolo rivede in mezzo ad esso la Real Famiglia, che gli si congiunge negli atti di pietà e nell’espressione del sentimento religioso?

La festività del dì otto settembre, sacro ad onorare la ricorrenza del Nascimento di Nostra Donna, è per noi una delle più liete e delle più solenni giornate. La divozione per la Beatissima Vergine è così universale, così sentita in tutte le classi del nostro popolo, che tutti non hanno che un sol pensiero, un sol accento nella manifestazione esterna di questo culto che trabocca e si spande e veste le sembianze del diletto.

Giace a piè del lungo scavo del monte, che da Pozzuoli prende il nome, un modesto santuario, consacrato a raccogliere i fedeli a solitarie preci rivolte alla Madre di Dio. Questo tempio, così semplice e nelle cui mura non vedi ordinariamente che pescatori, marinari ed altra gente di questa povertà, addiviene nel giorno solenne di settembre ricchissimo di pompa, di onori, di gente infinita che tragge a visitarlo. Il Monarca delle Due Sicilie e la Regal sua famiglia si prostrano anch’cssi riverenti ed umili a’ piè di quella Donna che con occhio sì benigno guarda a questa bella parte d'Italia e vi spande le grazie della sua efficace protezione.

Da tutt’i più remoti quartieri della Capitale e da tutti i punti del Regno si conducono i fedeli a visitare il santuario di Piedigrotta, non vi ha provincia remota che sia che non mandi il suo contingente, sicché, molti giorni innanzi della festività, vedi arrivare in questa Capitale immenso stuolo di ospiti novelli di ogni celo, e massime degli uomini di campagna, i quali abbandonano per poco i loro campestri lavori e con le loro famigliuole si recano in Napoli a godere di quella festa civile, militare e religiosa unica al mondo. E diciamo unica al mondo, perocché in verità non sappiamo di altra che riunisca tutti gli elementi sociali in una sì bella manifestazione di ossequio alla Religione.

Lunghesso la strada di Toledo, S. Lucia, il Chiatamone, la Riviera di Chiaia, è uno spettacolo imponente fin dalla vigilia della solenne festività. Gruppi innumerevoli di contadini dalle fogge più curiose e svariale si veggono trarre a piedi verso il Santuario di Piedigrotta.

Questa generazione che si reca a compiere l’omaggio di una visita alla Vergine compendia una storia secolare di rimembranze affettuose, di care gioie derivanti dal cielo. I padri han narrato a’ loro pargoletti figliuoli la bellezza, lo splendore, la solennità del dì otto settembre, e i figliuoli sospiravano il momento di trovarsi spettatori della più memorabile delle feste Napolitane. Per tal guisa nelle famiglie è caro il ricordo, son vive le immagini che per tradizioni si tramandano di questa giornata.

Già le fresche aure di autunno incominciano a dissipare gli ardenti calori della stagione estiva, sì che bello è vedere quelle moltitudini di visitatori del Santuario, dopo aver adempito al divoto ufficio, sperperarsi nelle adiacenti campagne e ivi trattenersi in onesti svagamenti, in merende di fichi e d’altre frutte, in passeggiate sollazzevoli.

Altro non men grato spettacolo offrono le principali strade per le quali il Real corteggio e l’Esercito debbon passare; presso che tutt’i balconi, terrazzini e terrazzi son coverti da ampie tende destinate a schermir da’ raggi del sole le più gentili damine, che han tanto sospiralo il ritorno del dì otto settembre, per vedersi fatte segno agli sguardi di una sempre crescente calca di giovani. Sulle terrazze e su i balconi de’ primi piani vedi sorgere quasi per incanto, padiglioni, chioschi con file di sedie, di cui ciascuna acquista un prezzo elevato a seconda d’una maggiore o minore prossimità del luogo. Anche il mare fa di sé bella vista; dappoiché nel nostro golfo, fin dallo spuntar del mattino, vedi ornarsi di graziose bandiere, quali abiti di gala, gran numero di legni nostri e stranieri, i quali con bello avvicendarsi di salve dovranno nelle ore pomeridiane allietare la festa.

Al veder quella folla così compatta nelle strade, in su i balconi e da per lutto, non potrebbesi creder giammai che tutte quelle centinaia di migliaia di spettatori potessero trovar posti per godersi della vista del Real corteggio, tanto più che gran parte delle pubbliche vie è occupata dalle milizie schierate in doppia fila. Le sommità de’ palagi, i balconi, le finestre e dovunque apresi un varco tra le mura apresi un varco ad un folto gruppo di teste umane: eppure nessun disordine, nessuna rissa, nessuna baruffa succede tra tanto movimento, tra tanto affollarsi, tra tanto desiderio di veder l’amato Sovrano e i Regali Principi.

Non parliamo della bella mostra che fanno di sé le Regali nostre soldatesche nelle loro svariate e brillanti divise di gran tenuta; non diremo dell’irreprensibile aggiustatezza delle loro marci e fermate, del bel con! legno marziale congiunto in esse ad un aspetto di compunzione e di umiltà religiosa. E siffatto aspetto, e siffatto contegno attirano le simpatie, il rispetto e l’ammirazione non pure de’ concittadini, ma degli stranieri tutti che in gran copia vengono a godere della festa dei dì otto settembre. Questo sentimento di ammirazione che sentiamo per le nostre milizie non si scompagna in noi da viva riconoscenza pel nostro Augusto Sovrano che tanti pensieri e tante cure e tanto affetto prodigalizzava per render sempre più bello ed onorando il nome di soldato napolitano.

Istituita dall’immortal Carlo III pel ricupero del Regno, volge ormai più di un secolo che questa festa di Piedigrotta rallegra lo spirar dell’estiva stagione ed il cominciamento dell’autunno. Essa può con ragione addi mandarsi la più grande delle feste napolitano, e per la parte che vi prendono tutte le classi della popolazione e per la solennità religiosa, che, in vero, il ricorrimento del nascimento della Madre di Dio è tale che infonde in tutt’i cuori sensi di entusiasmo, di amore, di giocondità.

Per toccar qualche cosa della cerimonia militare, diremo che all’una p. m. suol cominciare il difìlarsi' delle milizie, passando dinanzi alla Reggia sotto gli sguardi di S. M. il Re, che con S. M. la Regina e con tutta la Famiglia Reale intralliensi ad osservarle dalle ringhiere. Le Reali milizie si dispongono quindi in ala lungo la strada che dovrà percorrersi dal Real corteggio. Una salva di tutte le fortezze della capitale e di tutt’i legni nazionali ed esteri schierati nel golfo dà il segno dell’uscire del Re e della Real famiglia dalla Reggia. È questo il momento più bello e più solenne; un rispettoso entusiasmo muove da ogni petto alla vista dell’amato Sovrano che adempie in tutta la pompa delle umane grandezze al volo solenne de’ suoi Augusti Genitori.

É noto che in Napoli è tale il desiderio di vedere questa festa, che appo il minuto popolo le mogli fanno porre nelle scritte nuziali la condizione di dover il marito portarle almeno una volta alla festa di Piedigrotta. Il marito mio portamence è proverbiale nella nostra plebe; sicché può dirsi che se i forestieri dicono veder Napoli e poi, i Napolitani dal canto loro dicono veder la festa di Piedigrotta e poi morire.

Ma più che il giorno otto settembre, la vigilia è notevole per gli apparecchi, per lo affaccendarsi delle famiglie, pel trambusto delle case, per le notturne spedizioni, pe’ canti, suoni e balli che rallegrano le vie nel cuor della notte precedente al dì della festa. Stuoli di popolani, sciami di contadini, carrozze di gentiluomini e di dame, compagnie di forestieri, veggonsi ingombrare la Riviera di Ghiaia, la Villa Reale,, aperta in questa occasione ad ogni maniera di persona, e pigiarsi appo i dintorni del Santuario di Piedigrotta. Le circostanti campagne, le bettole, le botteghe da caffè sono assediate da’ visitatori; liete danze di foroselle s’intrecciano al suono delle nacchere e de’ tamburelli, la tarantella classica e tradizionale spiega in questa congiuntura la grazia de’ suoi passi, che sono tutta una storia di amori.

Tra i venditori che in questa festività spiegano nelle vie le loro tende, a mo’ degli arabi, primeggia il to, vale a dire il venditore di giocherelli di pasta di miele. Tutto quello che può sedurre i fanciulli è spiegalo sul banco di questo venditore che si stabilisce sempre dappresso alle chiese, dove i fedeli sono chiamati in gran numero per qualche solennità o qualche festa. Noto è il proverbio napolitano: Vai currenno comme la banca de lu torronaro. I giocherelli di pasta di miele o di mandorlati che questo ambulante industrioso mette in mostra ed in vendita rappresentano per lo più mazzuole, cerchi, cavalli, castelletti, figurine di uomini e di donne ed altro. Per darne un’idea più compiuta cd esatta preghiamo i nostri lettori di gettare uno sguardo sulla figura che il ritrae fedelmente.

FRANCESCO MASTRIANI.

LA  NUTRICE

QUANTE volte accolgonsi in crocchio donne maritate, poste di banda le vanità e le ciance femminili, niun altro peni.) siero par che le occupi se non del proprio stato, e ’l narrarsi a vicenda le dolci cure e le amare di quel giogo che, al dir del poeta, piace tanto a chi non l’ha «quanto dispiace a chi se l’addossò» e noi, se non ne avesse scapitato la brevità, ci saremmo un pò divertiti, presentando ai lettori per modo di scena, uno di quei dialoghi animatissimi che a proposito d’una gravidanza, d’un fanciullo infermo, d’un matrimonio o simili han luogo tra le signore mogli, cominciando dalle ventiquattr'ore e terminando a malincuore verso la mezzanotte.

In tutti questi discorsi può osservarsi quel che generalmente nella umana famiglia si osserva, come cioè diversifichino i giudizi a seconda delle speciali condizioni, sensazioni o capricci, ed in conseguenza l'una cosa piacere ad una che all’altra dispiace, l’una donna desiderar figliuoli che l’altra disvorrebbe; all'una piacere vispi e monelli che l’altra desidererebbe docili e pacifici; e via dicendo chi la pensa ad un modo e chi ad un altro. In un sol punto le donne si accordano |perfettamente ed è quando il discorso cade sulle nutrici o a dir meglio su molte di questa classe; escludendo certamente le buone ed anche ottime che vi sono.

Che anzi protestiamo come laddove la verità e fedeltà di narratori dall’ima parte ci obblighi a nulla tacere di ciò che presenta i difetti di una gran parte di esse, dall’altra non sapremmo abbastanza ammirare quelle che per lunghi e fedeli servigi, per una costarne e verace affezione di sé bella fama lasciarono ed onorata; di qualità che le famiglie non pure ne fan lodi ampissime, ma più ancora in pregio le tengono ed in amore.

Epperò, della più parte sempre intendendo allorquando le madri odono a parlare di nutrici si segnano tutte insieme come i bambini al nome della befana; allora un brivido corre ad un tempo per le vene di ciascuna; ed è un sol dolorare di tutte quelle cui toccò la bella ventura di avvicinare questa specie di donne, ed un narrare di tutte, quale l’una quale l’altra avventura occorsale a cagione di costoro. Credo infatti che le buone madri implorino ginocchioni da Dio non faccia incorrerle in simigliante disgrazia: le liberi dalle nutrici come dal folgore e dalla tempesta, non essendovi mica a dubitare tra i mille e svariati tormenti i quali pur troppo il cuor materno di continuo travagliano un de’ più grandi esser certo quello di vedersi una madre astretta per qualsiasi ragione, di scarso latte, di malore, di subita novella gravidanza o altro a comprare a prezzo di sangue la vita de’ propri figliuoli da una di coleste prezzolate.

Vengono le nutrici ordinariamente dall’isola di Procida, da Frattamaggiore e da Frattapiccola (distretto di Casoria) da Marano (di Pozzuoli) dar Miano (distretto di Napoli) da Sorrento (di Castellammare) tutti contorni di Napoli; come pure da Arienzo, Piedimonte d’Alife, Formicola in Terra di Lavoro, e da qualche altro luogo. Laonde non di rado la gita per cercare una nutrice diviene una gita campestre, ma testé vedremo quanto spesso un breve sollazzo si converta in lungo pianto.

Il lettore clic. da ciò che lesse in queste pagine, e forse più da quanto avrà avuto la disgrazia di sperimentare, avrà concepito troppo giusto orrore per le serve, dovrà inorridire anche più all’udire delle nutrici (in generale) le quali alla malvagità delle prime uniscono la baldanza e l’indipendenza, perché la nutrice, come vedremo, è servita non serva.

La nutrice, dunque, è una specie di serpe, ma che dovete custodire gelosamente nel vostro tetto; nutrire abbondantemente del vostro pane; colmare di benefìzi onde verrete con usura rimunerato a via d’ingratitudini e di disprezzi, che dovete impinguare del vostro danaro; riscaldare, dirò così, del vostro fiato; e più che altro, cui dovete soggettarvi come a vostra assoluta padrona, e di tutto ciò la ragione è chiarissima. Ella è l’arbitra della vita del vostro figliuolo, che dalla salute e dal ben essere di lei la salute e la prosperità del vostro figliuolo dipende; ella, nemica giurata della vostra pace, vi pone quotidianamente nel terribile bivio o di perdere la libertà o di danneggiare il vostro figliuolo; ella, implacabile ed irremovibile come il destino, nulla di ciò che altrui non piace le cale, ma quella via imperturbabilmente prosegue che si è tracciata e vagheggia. Su tali princìpi è inutile venir ragguagliando che cosa importi e che cosa esiga una nutrice.

Primamente non è a dire quanta diligenza ed avvedutezza ponga una disgraziata famiglia affin di trovare ciò che v’ha di meglio in questa classe. Un poveruomo percorre tutti i villaggi, tutti i paeselli, e se fa d’uopo le provincie; sollecita gli amici, supplica, scongiura, promette, profonde danaro a diluvio; alla fin fine trova una nutrice. Il medico, dal quale la fa osservare, esamina la conformazione delle mammelle, lo stato della salute, la vigoria, il colorito; fa pruova del latte; prende conto della età; e dopo tutti questi esami e saggi, conchiude che la donna. essendo bruna ha buon latte; che è questo leggiero, in conseguenza non può nuocere al poppante: e, lode al Cielo, entra finalmente in casa questa gioia! La nutrice non viene in vostra casa per prezzo minore di otto in nove ducati. Ne riscuotono poi dicci ed anche quindici al mese e dalle famiglie magnatizie ricevono finanche mesate a vita.

La nutrice ba bisogno assoluto di fare buon latte, e come esprimere quante cure soavi ed indefesse, quanti sacrifizi non debbono farsi affinché questo latte non acidisca, non si agiti, non si commova?—Però i bocconcini più delicati, i più squisiti manicaretti e leccornie sono per la nutrice, ed il Ciel vi guardi darle mangiare o ber cosa che non le aggradisca. Sia il caro de’ ’viveri pur quanto si voglia, le carni più elette, il miglior pesce debbono comprarsi assolutamente per la nutrice.

Così nna signora mal consigliandosi una sera di dar delle uova per cena alla nutrice, costei le rimproverava dover per le nutrici serbarsi il migliore tra il miglior che v’abbia; assai maravigliare come le presentassero uova, ma attendersi in cambio alla più squisita maniera di pesci! Le famose cene Sibaritiche sarebbero poca cosa a contentare una nutrice.

Nè basta che sieno i cibi migliori, ma bisogna anche sieno i più sani e delicati, affinché un’igiene regolare e convenevole produca alla nutrice con una perfetta digestione sano e buon latte.

La nutrice entra in vostra casa col fermo proponimento di mettere ad usura il proprio capitale; di far poco e guadagnar molto; di far male e guadagnar bene, infine di provvedere in modo alle sue cose che anche voi la congediate cada, come suol dirsi, sul morbido. Procedendo in conseguenza su tali princìpi filantropici non solo trova sempre scarsissimo quello che le date, ma vi domanda di continuo roba nuova, che voi siete obbligato a farle per non disgustarla, e questa roba non adopera ma conserva pe’ futuri eventi. v Se la nutrice vi serve male, o per meglio dire se vi favorisce male, perché le nutrici, come dicemmo, non servono; se, non ostante ponghiate ogni studio in ben nutrirla, in compensarla largamente, in donarla di continuo, in soddisfare perfino il menomo de’ suoi capricci, senza misura, ad occhi chiusi, e direi anche balordamente, ove una tanta liberalità non fosse abbastanza giustificata dall’amor di genitori; se, non ostante tutto ciò, duolsi di voi e borbotta e maledice alla sua condizione, a voi tocca zittire, e non solo zittire ma per sopravvanzo chiederle scusa, carezzarla, lodarla, raddoppiare di cure, procacciar se vi fosse possibile, alcun poco di nettare da presentarne la vostra Ninfa; perché se non fate così, se vi adirate, se fate valere le vostre ragioni, se per un mal consigliato orgoglio pretendete far rispettarvi dalla nutrice, buona notte: si acidisce il latte, non fa più buon sangue, e il vostro figliuoletto pagherà la pena della vostra imprudenza: ovvero la nutrice grida il triplo di voi, minaccia di piantarvi, o vi pianta in effetti nel momento in cui, più che mai, avete bisogno di lei; nel momento più urgente e pericoloso, alloraquando il vostro bambino non può assolutamente spopparsi, sia per età assai tenera, sia pel caldo della stagione, sia perché comincia a mettere i denti.

Che fare in tal caso; quale risorsa?—Mandar via la nutrice?—Oibò: sareste un cattivo, un disumano, un empio, un padre, una madre disaffezionati, parricidi! Oibò: tenete con voi la nutrice, chiedetele perdono, e ponete mente a non ricader più nella scapataggine di risentirvi.

'Quando la nutrice per poco si avvede che il fanciulletto le si è affezionato, come a quella tenera età assai facilmente sogliamo con le persone che veggiamo spesso, che ci ninnano, ci trastullano, ci recan fra le braccia, vi prende per gola, e chi sa dirvi quali e quante sieno le sue pretensioni! E poi che so io — Come entra in casa la nutrice si pattuisce il compenso a darle allo spoppamento, il quale compenso vien regolato a seconda delle condizioni delle famiglie cd in proporzione della mesata. Quando il fanciulletto ha messo i denti, la nutrice ha dritto ad altro competente compenso in danaro ed in gioie, e così pure quando il fanciulletto comincia a camminare; ne’ quali compensi, come ognuno di leggieri può argomentare, ciascuna famiglia si studia esser larga.

In carrozza il posto di distinzione è della nutrice, imperocché custodisce il bambino; in casa diviene per forza l'intima confidente, perché deve assisterlo: occupa infine la migliore stanza ed il miglior letto perché deve mantenere florida e buona la sua salute.

E che dirò se la nutrice allatti un primogenito o un unico figliuolo, unico erede, che dovrò eternare il suo nome ed il suo stemma; che dovrà riempire il mondo delle sue geste? Oh! allora la nutrice, non solo padrona ma despota, esige, domina, minaccia e al bisogno picchia anche la gente di casa; spende come la signora madre, mangia ad una tavola medesima co’ padroni, il padrone la serve in tavola non solo, ma sorveglia eziandio quotidianamente alla colezione ed alla cena che si prepara alla nutrice, perché i cibi siano i più eletti ed acconci allo stomaco.

Se la nutrice poco poco è ammalata, o finge di esserlo, tutta la famiglia la circonda, la padrona stessa siede al capezzale di lei, le prodiga ogni cura, le porge i medicinali ed i brodicini falli, come suol dirsi, con la mano del cuore; ed ella superba in tanta gloria guarda con occhio compassionevole tante cure ed omaggi che stima troppo dovuti al suo merito!

Nè solamente di voi ella è l’arbitra assoluta, ma dispone benanche a suo talento delle vostre persone di servizio; ché però se per caso rarissimo avete una buona serva, la nutrice ve la svia, le caccia in testa l’amoretto, e voi ad evitare disturbi è giocoforza congediate la serva. E quando pure la buona serva, per un caso anche più raro, salda ne’ suoi princìpi non lasciasse avvolgersi dalla nutrice, basta che non vada a sangue di costei; basta che costei si abbia fitto in mente di espellerla, la serva buona va via e rimane la nutrice cattiva perché ha buon latte!! E Dio volesse che dopo tante cure e sacrifizi e tormenti vi fosse dato di ottener lo scopo almeno del ben essere e della prosperità del vostro figliuolo, ma non è sempre così.

Quella nutrice che appariva così vigorosa e florida e di un sangue purissimo in poco tempo scuopresi malsana e guasta.

Avete preso una nutrice col patto di serbarsi continente pel tempo che dà latte al vostro figliuolo, affin di evitare ogni danno a quella salute che tanto vi cale, ma che? — Non passa giorno ch’ella non vi chiegga voler vedere suo marito, che dice di amare teneramente, ovvero perché n’è gelosa e teme che lontano da lei non lasciasse andarsi a qualche ghiribizzo; ed eccovi già nella violenta condizione o di accordar ciò che chiede ed allora vi esponete a quei danni che volete evitare, o di negarglielo, ed allora o vi pianta nel più bello e nel modo che di sopra accennammo, ovvero tace ma internamente freme e si gita, ed allora il latte acidisce, lo dà così guasto al vostro figliuolo, e non di rado l’uccide, come è avvenuto in diverse famiglie.

Un’altra per non incomodarsi la notte a poppare dà qualche sonnifero al bambino e così, voglia o non voglia, l’obbliga ad addormentarsi. Per tutte le quali cose semplicissimo è l’intendere come si mutino e tre e ‘quattro e sei nutrici taluna volta, per trovarne alcuna plausibile. Tra tanti demeriti una. sola qualità potrebbe esser degna di lode nella nutrice, ed è la grande affezione che costoro per tutta la vita conservano o almeno mostrano di conservare verso coloro che del proprio latte nutrirono, ma neanche in questo mi par di vederci chiaro, ed ecco come. La nutrice napolitana o d’altronde, non dimentica mai la casa ove ha esercitato il suo dominio.

Ella va a quando a quando a far visita alla famiglia, piange di commozione in vedere il fanciulletto da lei nutrito oramai uomo, gli manda mille benedizioni, prega (se è di fuori) la famiglia di voler accettare un canestro d’uova o di fruita, due piccioni, alquante ricotte, degli asparagi del paese: tutto questo è verissimo, ma vero è altresì che la famiglia debba in ricambio rimandarla col doppio almeno di quel che ella porla; di tal che questa affezione par da comprendersi tra le tante altre a titolo oneroso che sono nel mondo. E quando anche poi, facendola da gente dabbene, volessimo passarvi di sopra e lasciar correre questa affezione come affatto disinteressata, sarà ella diversa da quella del coccodrillo, affettuosissimo verso l'uomo poi che lo ha mangiato vivo?

E dopo tutto ciò non è egli a maravigliare altamente come v’abbiano madri, e non poche, le quali per solo timore di non guastarsi o alterare poco poco le forme del corpo, o parere alquanto men giovani e fresche o per altre simigliami scioccherie han per sistema di dare i propri figliuoli lattare a nutrici; anzi è stile di presso che tutte le nobili e doviziose madri. Deplorabile costume — mi si perdoni se l’impulso del cuore fa che io mi dilunghi alquanto in una digressione per altro non affatto estranea all’argomento — nel quale non saprei qual più condannare, se l’oltraggio all’Onnipotenza nel rifiutare e disprezzare un beneficio che tante sventurate madri comprerebbero a prezzo del loro sangue alfin di 'non vedere il frullo delle proprie viscere fatto servo e zimbello di donna prezzolata, o il niuno amore pe’ figliuoli medesimi, o la malvagità di sacrificare il più santo ed il più soave dei doveri ad un vil pensieruccio. E questo pensieruccio non trova neanche scusa in una tal quale ragione certa e costante; imperciocché noi veggiamo le mille madri tuttavia belle tuttavia floride tuttavia fresche che han nutrito unicamente del proprio latte tutta intera una lunga prole, essendo bastato a conservarle tali non altro che un buon reggimento igienico cd una regolare e giusta cura e conservazione del proprio corpo, che non disdicendo a donna veruna è lodevole anziché turpe in una madre, quando dall’altra parte il far retrocedere a forza il latte non ad una ma alle mille madri è cagione di gravi e seri malori. Miserevoli madri!

Il sorriso del pargoletto che sugge col vostro latte l’amore, quel primo ineffabile sorriso di un innocente che comincia a salutare gli autori de’ suoi giorni non versò mai nel vostro cuore quella piena di contentezza che pur non è ignota alla derelitta mendicante, povera sì ma che sente ed ama come voi non sentite né amate.

La nutrice, ligia alle patrie costumanze, non lascia mai il suo vestire paesano; se non che entrando a servizio depone l’abito vecchio e la famiglia in cui entra é in obbligo di fartene uno nuovo e più ricco. E questa regola é generale: le famiglie tutte vi consentono, anzi per le più nobili e distinte é una specie di fanatismo il tener le nutrici vestile a costume, e la figura che qui offeriamo, tolta dal vero, rappresenta un! costume di Fratta maggiore  ove vedete la nutrice nel suo ricco abito a galloni d'oro con le sue rosette (specie d'orecchini) orologio con catenella d’oro ed altri gioielli onde la provvide la ricca casa alla quale appartiene .

In questo loro abito di costume le nutrici seguono le padrone nelle strade e nelle pubbliche passeggiate, e la Villa Reale ne abbonda, in ispecie quando l’ora e la stagione opportuna traggon colà in numero forestieri e napolitani. Ed è la Villa stessa benanche il lor convegno pressoché quotidiano o Senato che vogliate dirlo: ivi elleno accolgonsi in crocchi, e sedute sotto gli alberi che fiancheggiano l’un de’ lati del ripetuto pubblico passeggio, chiacchierano per cento e tengon congresso, e predicano, non potrebbe dirsi con precisione su quali argomenti, ina logicamente può indursi che quel concistoro di nutrici sia un facsimile di quello delle serve e dei servitori che riducesi in compendio a trinciar senza misericordia il saio ai padroni.

A maggiore utile dell’opera vogliamo aggiugnere poche parole sulle nutrici della Casa dell’Annunziata, ma parendoci forse non ingrato agli stranieri, in tal rincontro, toccare leggermente di questo stabilimento, senza danno della chiarezza, né disturbo dell’ordine che ci siam proposti, il lettore troverà in nota, alla fine del nostro scritto, quel che riguarda un tal proposito.

Dopo questa storia fedelissima dell’indole e qualità delle nutrici in generale non possiam chiudere questo articolo senza ricordare, e fra le più rare eccezioni, quella Gaeta nutrice di Enea, lauto famosa che diede il nome al porto perciò detto di Gaeta; onde cantò il Mantovano:

Tu quoque littoribus nostris, Aeneia nutrix

Aeternam moriens famam, Cajeta, dedisti

Et nunc servat honos sedem tuus, ossaque nomen

Hesperia in magna (si qua est ea gloria) signant.

E dobbiam crederlo, altrimenti quel piissimo eroe non ne avrebbe fatta sì onorata menzione, né il famoso cantore di lui le avrebbe serbalo un posto distinto nella Eneida.

ENRICO COSSOVICH.

S

ullo stato attuale dello Stabilimento poi facciam tesoro delle più esatte e fedeli notizie favoriteci dalla gentilezza di Autorità locali.

Annualmente può contarsi che si accolgano nell’Annunciata circa 2200 bambini. Ne’ decorsi tempi i) numero di questi superava d’ordinario quello delle nutrici, non ostante la munificenza del governo in procurar sempre abbondanza di costoro; sicché ciascuna essendo obbligata in allora a popparne non men di tre non poche di tale sventurate creaturine per iscarso alimento miseramente periva. Unico mezzo affin di campare la vita a questa infelice classe di espositi è stata la lattazione esterna; le cui norme, come pure i documenti che da ciascuna nutrice debbono esibirsi; le cure, i doveri cui son elleno tenute inverso i loro allievi, e tutt’altro ciò concernente vengono specificati in apposito regolamento emanato con decreto del 21 giugno 1851. Infatti molti di questi bambini sono lattati in campagna a spese dello Stabilimento, ed il Governo per tale obbietto spende circa ducati quarantamila annui.

Mercé questa lattazione esterna può calcolarsi rimanere nell’Annunciata intorno ad un 460 bambini e 90 nutrici. In conseguenza di che, in generale, ogni nutrice latta due bambini, e poche uno; e solo per caso straordinario che arrivasse gran numero di trovatelli alcuna delle nutrici é costretta a lattarne per qualche giorno tre; tutte le altre sempre due.

Questi calcoli pertanto sono meramente approssimativi dipendendo da mille e svariale eventualità.

Il mensile delle nutrici è fissato a ducato uno e grana ottanta. Ricevono inoltre grana trenta per collezione, ventotto once di pane al giorno, una caraffa di vino, due vivande la mattina ed una la sera.

Tema di simil natura darebbe, come ha dato, luogo ad assai importanti e serie considerazioni ed osservazioni e sarebbe di assai lungo sviluppo; ma per avventura sconvenevoli in una nota.

Nè qui, giacché ne cade il destro, dobbiamo tacere come, fin dal decennio trovasi abolito il troppo generalizzalo cognome Esposito che un tempo esprimeva assai chiaro lo staio di questi miserelli, e già di tutto destituiti li obbligava ad arrossire anche innanzi alle inesorabili leggi sociali per colpa non propria, ed in cambio vien questo cognome fissato dal soprantendente dello Stabilimento: e ciò si fa a questo modo. Ha egli un libro di cognomi ideali per lettere alfabetiche, a cominciare da A fino a Z ed in ogni anno l’iniziale si cambia; sicché quanti giungono allo stabilimento han diversi cognomi, ma sempre con la iniziale dell’anno che corre. In quest’anno, a cagion di esempio, i cognomi cominciano tutti da P nel venturo cominceranno da Q e così via via.

Resta ad aggiugnere che molli di questi trovatelli sono adottati da particolari, ed in Napoli è frequente, in ispecie nelle persone del basso ceto, sia per voto fatto, sia in difetto di figliuoli propri, sia per altra simile cagione; e non pochi, la mercé di queste adozioni, dalla più profonda miseria alle più invidiabili condizioni pervengono.

IL VACCARO E IL CAPRAIO

SE queste parole non avessero un’intitolazione e non fossero accompagnate da una figura, io le avrei cominciato a guisa di enimma o di sciarada nel seguente modo.

Vedete colà quell’uomo diesi mena innanzi un grosso animale dalle lunghe corna a cui è legata la fune che tiene in mano! Vedete quell'altro animaletto, grazioso e benigno, snello e lascivetto, che saltella e sgambetta preso per un’altra fune, accanto al più grosso procedendo di conserva, come un’agile corvetta accanto ad un grave vascello a tre ponti! Vedete che quell’uomo si ferma coi suoi animali dinanzi ad un portone, agita a distesa il campanaccio che pende dal calloso collo del più grande animale,  indi a poco scende una fantesca con un bicchiere nelle mani, e l’uomo presolo colla manca, e coll’altra, messosi coccoloni a seder sulle calcagna, premendo i lunghi capezzoli delle mamme turgide, ne munge il latte a lunghi o sottilissimi zampilli!

Eccolo che presenta il vaso alla sozza e scapigliala fante, la quale in quel frattempo è stata a fregarsi e stropicciarsi gli occhi col dosso delle mani, a sbadigliare, e poi rassettarsi gli abiti cascanti e male affibbiati, e poi a ravviarsi i capelli rabbuffali col pettine delle dita. Ma per alzare il bicchiere l’uomo non però abbandona la sua incomoda posizione, perché già sa che la fantesca senza pure guardare il latte dirà ch’è poco, ed egli sarà costretto per ben due volte a versare in esso altri tre o quattro esilissimi fili del suo liquor preziosissimo.

Da ultimo levatosi ritto in piedi, incomincia la vera ispezione della serva, che levando in alto il bicchiere e guardando a traverso il vetro, vedrà fin dove giunge il latte e dove ha principio la spuma, e qui una guerra di sdegnose parole, che ogni dì ricomincia da capo, e ogni dì finisce con una capitolazione che non dura se non che fino al giorno appresso. Se si paga a contanti, l’uomo cede e ritorna a spremere il bianco nettare in quantità imponderabile; se si paga di parole e si fa credenza, bisogna che la serva batta la ritirata e abbandoni la piazza con tutti gli onori militari, suon di campana e grembiale spiegato.

Quell’uomo è un vaccaro; il grosso animale è una vacca; il piccolo è il suo vitello.

Grazie della notizia.

Adesso che sapete la parola della sciarada, soffrite che ve ne faccia un poco la spiegazione.

Il vaccaro è in Napoli il provveditore di latte per tutti coloro che ne comprano, o che lo bevano per ordine del medico, o che lo mescolino col caffè, o che ne facciano uso al modo patriarcale, come faccio io, che l’antepongo a tutte le bevande esotiche. Alle sette del mattino il vaccaro si trova alle porte di tutti i suoi consumatori, e li fornisce nella maniera che vi ho raccontalo. Alle otto rientra nelle sue stalle, con una precisione degna di un orologio, sicché dopo quell’ora chi non ha bevuto il latte può farsene passare la voglia. I cuochi e i caffettieri e i grandi stabilimenti se ne provvedono a caraffe, ma di quel latte non consiglierei di bere neanche ad un mio nemico.

La sera ritorna il vaccaro a fare il suo giro per coloro che bevono il latte anche di sera, e con la stessa esattezza si ritira alla stalla prima delle ventiquattro ore.

I nostri vaccari, che abitano in città, non conoscono per nulla i segni scoperti da Guénon per discernere le vacche lattifere; non le mandano mai ai pascoli in campagna, né le nutriscono con tutte le raffinatezze che sanno suggerire i dotti; tutte le frondi che si buttano, le bucce di popone e di cocomero, le zucche e la crusca, servono di cibo ai loro animali. E pure le vacche dànno così un’abbondante quantità di  latte ai particolari, e ne rimane ancora per farne ricotte e cavarne siero e burro e manteca per gli usi di cucina e medicinali.

Diversa d’assai è la vita del capraio. Egli abita fuor di Napoli, o tutto al più nei luoghi dell’abitato che confinano colla campagna, per poter portare le sue capre al pascolo, armato di un lungo bastone nocchieruto alla cui estremità sta una grossa capocchia. Queste mazze chiaman peroccole, e sono i caprai formidabili nel maneggiarle e nel lanciarle. Vero è che a questa arme non ricorrono che nelle campagne, dove guai a chi li molesta; ma dentro la città, dove vengono pure sul principio del, mattino e a sera, li vedi umili e dimessi al modo stesso dei vaccari, servirsi del bastone a raggruppare le caprette che si sbandano, fermandole col grido chià chiù, e salvandole dalle ruote dei cocchi.

Del resto il capraio ha buone viscere per i suoi animali, a cui fa da padre. Non è raro che rinnovandosi la scena descritta da Virgilio nella prima egloga, (andatela a vedere), egli faccia l’ufficio di raccoglitore del parto, e recatosi in braccio il capretto che non ancor ben si regge sulle gambe, con un fascio d’erbe alletti la puerpera a seguitare il cammino .

Cosi come il vaccaro, il capraio è una delle ore antimeridiane e pomeridiane dell’orologio napolitano. Il suono del campanaccio della vacca o della squilla delle capre si fa sentire con un’esattezza cronometrica da disgradarne un oriuolo a cilindro e a scappamento con quanti buchi vogliate in rubino o in pietra dura, lo mi divertii una volta a formare un orologio di questa fatta, un abbozzo, sperando che altri l’avesse perfezionalo. In mancanza di questo perfezionatore, ve lo do qui qual esso è: fatene quel conto che vi aggrada.

UN NUOVO OROLOGIO

Come orologio che ne chiami. — Dante.

Mirabili progressi del secolo! Appena l’antichità conobbe gli orinoli a sole e ad acqua (solarii, scioterii, clessidre), e poi quelli a polvere (clessamidii), che a mano amano i moderni vennero inventando di simili. istrumenti a luna, a ruote, a campana. a ripetizione, a suono e a mostra, con isveglia, portatili, da tasca, e finanche di tale piccolezza da potersi chiudere nel castone di un anello.

E poi gli abbiamo veduto a’ dì nostri, dismessi di orologi e castagna 1

del Soret, cangiar di Torma, e divenir sempre più pialli e schiacciali, e nuove maniere con paracadute e compensatori; a cilindro, a scappamento, con buchi in pietre dure, in rubino, con musiche deliziose, e tant’altre diavolerie che gli artefici sanno inventare per trar danaro dalle tasche più ritrose.

Intanto, malgrado tante scoperte, per lo più quelli che hanno un. orologio son quelli che san meno l’ora, che è e son quelli che più degli altri mancano agli appuntamenti. Perciò si è sempre costretti a ricorrere agli oriuolai, ai quali, appunto come de’ medici accade, una volta che capili loro in mano, sei soggetto per tutta la vita. Laonde di necessitò coll’oriuolo in tasca devi andar consultando le meridiane e i gnomoni, e voltar la saetta colle dita, e menare il registro innanzi e indietro, e che so io.

Però l’orologio di Flora che mostra le ore coll’aprir de’ fiori, recente scoperta dei progressi botanici, ha in me destato il pensiero di formarne un altro colle grida de’ venditori, che chiamerò orologio a cantilene. Se l’orologio di Flora è buono soltanto per chi sta nella campagna, il mio (sì signore, il mio) sarò ottimo per chi vuol sapere che ora è nella nostra città. E son certo che di questo vorranno servirsi tutte le belle donne, che restale in casa senza quello del marito, debbono ad ogni istante importunare i vicini per sapere che ora è, e stanno colle orecchie tese ad ascoltare i tocchi delle vicine campane.

Frattanto debbo confessare che la mia invenzione ha mestieri ancora di molti miglioramenti. Ma che? Dovrò aspettare che altri men rubi il primo onore? Coraggio! Affrontiamo la critica, e ai posteri l’arduo pensiero di compir l’opera.

All’alba la cantilena del venditore di acquavite vi mostrerò il crepuscolo mattutino.

Le caldallesse e le succiuole, e il venditore dei pani di granone coll'uva passa, vi faranno certi che son le 6, e dall’esclamazione di quest’ultimo sentirete ricordarvi quella gran verità, che tutto passa.

Il latte quaglialo, le piccole ricottine, le vacche, le capre, vi faranno accorti che le 7 son sonate.

La carne, gli erbaggi da minestra, le ricolme ceste di frulla, vi accerteranno delle 8.

Le belle venditrici di uova non girano prima delle 9.

Alle 10 sentirete la rauca voce del marinaio che da Ponici vi porta il borro di Sorrento.

Alle 11 quella del venditore delle ricotte di Castellammare fabbricate nella stessa nostra città.

Alle 12 come nell’orologio botanico tutti i Dori si aprono cosi del pari nel nostro tutti i venditori gridano a piena gola e a tutta possa per vendere i rimasugli delle loro mercanzie. Da quest’ora in poi i veri padri di famiglia e le donne buone massaie fanno le loro spese, e i rivenduglioli aggiungono la voce scampolo alla cantilena con cui bandiscono i comestibili.

All’una potete comprare i ravanelli e le radici.

Alle 2 le castagne cotte al forno e le caldarroste o bruciate.

Alle 3 di state comincia a girar l’acqua sulfurea, ed alcuni frutti di mare che pel loro vii prezzo debbono farsi vedere per esser venduti, o per esser cari compariscono solo alle mense di coloro che mangiano in quest’ora.

Ti accorgerete che sono le 4, le 5 o le 6, dall’uscir di bel nuovo delle vacche, dal rientrar che fanno nelle stalle, dall’apparire improvviso de’ vispi ragazzetti che vendono dalla voce monotona del venditore di zeppoie che vuol vender le fredde per friggere le altre, dalla femminina intonazione delle venditrici di nocciuole, ceci e semi di zucca infornati. Questa parte dell’orologio, cangiabile a seconda della stagione, merita maggiore studio e ponderazione.

Nelle ore della sera sentirete dapprima i pescivendoli ambulanti, e dopo i venditori di olive, di lupini, e di uova cotte, e più tardi il castagnaio di bel nuovo, e quando è mal tempo i gamberelli. Infino a che al tocco della mezzanotte, come in quell’ora nell’orologio botanico tutti i fiori si chiudono e sembra che la natura intera si riposi, così nell’orologio delle cantilene udirete, cioè non udirete nulla, perché, tutti i venditori tacciono e vanno a dormire, e solo in lontananza sulle ali del vento udirete giungervi alle orecchie il suono eguale e prolungalo delle campane per un buon quarto d’ora, perocché tutte suonano la mezzanotte in un tempo diverso, specialmente San Martino ed il Carmine. Felice notte.

EMMANUELE ROCCO

I GUAGLIUNE

PRELIMINARI — IDEE GENERALI — INDOLE — ARTI CAVALLERESCHE — GIUOCHI — CACCIATORI O SACCUI.ARI — BELLE ARTI — VESTIRE — GUARDIE DEL CORPO — PICCOLI ME8TIERI — CONCHIUSIONE.

Guaglione (che suona il gamin de’ francesi, sebbene quest’ultimo paia il guaglione alquanto più incivilito) è una di quelle voci tecniche del nostro dialetto, espressive e rotonde, le quali non trovando equivalente nel sermone toscano rimaner debbono nella nativa sonorità. — In fatti un fanciullo, un ragazzo, un garzoncello o quale altra si voglia somigliante voce varrà per avventura il ' nostro guaglione? Parleremo dunque proprio del guaglione com’è conosciuto tra noi, in tutta la pienezza ed energia dell’espressione.

Preliminari. La storia del guaglione è assai importante, non men che curiosa e minuta nei suoi particolari, sicché, noi, comunque a prima giunta possa sembrar lungo il nostro lavoro, non altro reputiamo aver fatto se non abbozzar la materia; perocché le mille forme di questo Proteo, le svariale condizioni e situazioni, i lati diversi onde può riguardarsi darebbero esca a sempre novelle considerazioni.

Eppure il guaglione nella mente de' più non è che una puerilità, un’idea da nulla, una quisquilia;un guaglione non è che un ragazzaccio, cui si pub impunemente tirare un calcio o una guanciata, al quale, contro ogni dritto, grida il gentiluomo—Togliti di là, sgombrami la strada, che io debbo passare. — Se altri commetta azione che abbia del puerile, tosto gli si grida « E che stammo mmiezo a li guagliune?  

Povero guaglione! Ma diciamo piuttosto: poveri sciocchi i quali non sanno che sia un guaglione!

Idee generali. Del guaglione può dirsi veramente che ogni luogo è patria. Trovate il guaglione ad ogni strada, ad ogni vicolo, ad ogni chiasso, ad ogni angolo; sdraiato sulle spiagge, su pe’ gradini delle chiese; per le bettole, per le canove; all’ingresso delle botteghe da caffè, degli spacci di tabacchi ec. cc. Ad ogni piè sospinto, infine, ad ogni momento v’imbatterete nel guaglione.

Se avete alcuna cosa a trasportare troverete pronto il guaglione in vostro servigio; se discendete di vettura all’ingresso d’una locanda, udrete subito la voce—Signò u guaglione — e se non l’ascoltate, il guaglione vi corre appresso tanto che o dobbiate dell’opera di lui avvalervi o bastonarlo. Se dopo il cammino etereo d’un vagone vi trovale ad una stazione, imbrogliatissimi fra un’incredibile tempesta di gridi e di pestate e la vostra sacca da viaggio, non manca d’accompagnarvi una voce stridula e perseculrice — SignòSignò, Si gnò— finché non abbia l’ofiìcioso Mentore caccialo voi e la sacca in una di quelle bolge ambulanti da nolo che qui chiamano cittadine.

Se v’incontra d’andare a zonzo per rintracciare una casa, una bottega, un magazzino, un sito qualunque, eccovi nel guaglione duce e sensale. Per qualunque servigio momentaneo, in qualunque tempo o stagione, iu qualunque ora del giorno, quando tutto manchi, egli è impossibile che manchi il guaglione.

Ne vedrete in crocchi o alla spicciolata, in mare e in terra; ne’ campi ed in città — una voce stridula inevitabile di guaglione vi griderà dal— l’alto della predella d’una cittadina; altre sorgeranno fra una numerosa coorte di asini che vi barrano il passo, invitandovi a forza a montare quelle nobili bestie; una terza fa un baccano per cento proclamando a tutta gola dal fondo di una bottega da lotto tre numeri che dovranno venir estratti indubitatamente il sabato prossimo.

Ogni professione, ogni arte, ogni mestiere, ha bisogno del guaglione: in somma se è vero che l’attività sia parte fondamentale del commercio, il guaglione merita certo una gloria principale in ciò.

Che cosa varrebbe avere un fondaco, un magazzino, un negozio, una farmacia, una industria qualunque senza guaglione? Sarebbe come volontà senza mezzi, corpo senza sangue, danaro senza circolazione.

E così pure ha bisogno del guaglione ogni età, ogni sesso, ogni condizione. Avvalgonsene il farmacista, l’avvocato, il notaio, l’architetto, il tipografo, l’aromatario. Chiedono i suoi offici il musicante, il colono, il negoziante, il rigattiere, la crestaia, l’avo, il padre, il figliuolo di famiglia, la giovane, la vecchia, la nubile, la maritata.

Tutti lo vogliono, tutti lo cercano, e questo Figaro, svelto e leggiero come uno scoiattolo va su e giù, sempre nello stesso abito uniforme, impassibile a’ nembi ed alle procelle. Non fa verun mestiere e li fa tutti, e qui ricava un grano, altrove tre, altrove cinque, in una parte un pezzo di pane, altrove di frutta, quinci un bicchier di vino, quindi una collezione, quando il negozio è a suo prò, ed in cambio, quando non fa suo conto, qui una guanciata, lì quattro picchiate, in un luogo è salutato con un calcio, in altro con una stiratina di orecchie, ma il guaglione non è però scoraggialo; e’ sa bene che le son fasi inevitabili del commercio, e d’altra parte non ignora

Che fortuna quaggiù varia a vicenda

Mandandoci venture or triste, or buone.

In questi sensi generali suona il guaglione, come dicemmo, il Figaro del popolo, il Mercurio (perdonate la voce) degli affari. In questi sensi generali suona lo scalino che immediatamente precede il lazzaronismo, e qual posto tenga il lazzaronismo nelle nostre cose e ve ’l narrano le storie e da ben miglior penna vi sarà in queste medesime pagine esposto.

Indole. Il guaglione è vivace, spensierato, allegro, com’è proprio l’uomo del popolo napolitano; vispo, risoluto e mordace, sì che non è prudente l’offendere o pungere il guaglione, ch’e’sa ben render pan per focaccia, non mai difettando di tali motti pronti, ed argute risposte da disgradarne un Giovenale.

Tuttavia in far ciò è assai cauto

Saggio guerriero antico

Hai non ferisce in fretta,

Esamina il nemico,

Il suo vantaggio aspetta.

e come il saggio guerriero antico egli esamina prima il sito avversario. Laddove gli paia che costui possa picchiarlo, talvolta porta in pace l'ingiuria

E gl’impeti dell'ira

Cauto frettando va

tal altra condensi momentaneamente innanzi a lui, ma se giugne a discostarsi per modo da non aver più a temerne, prorompe in invettive e sarcasmi. Laddove poi gli paia di poter sostenere l’agone a piè fermo, l’assalisce risolutamente con l’arme della più ridicola ironia da cui traluce benanche il più profondo disprezzo. Ed eccone qualche esempio.

Mentre uno straniero, ben formato ed aitante della persona dalla lunga barba e folti mustacchi, passeggia, un gruppo di due o tre monelli che si trastullano, avviticchiandosi tra loro, gli vico tra i piedi e gli barra il cammino. L’uomo dalla lunga barba, con un leggiero colpo della sua canna disperde e mette in fuga la sollazzevole società, ma i guagliune non così a tutte gambe han fatto una diecina di passi, e vedonsi allo schermo della canna fatale, volgendosi all’uomo gridano — Vi quant'è brutto! Me pare nu zimmaro .

E se l’altro, udendo ciò, volesse loro correr dietro, sarebbe inutile, ché l’inseguire un guaglione fuggente è il medesimo che voler correr dietro ad una lepre.

Una donnicciuola vestita a festa è urlata nel passare da un guaglione. Ella si volta e lo minaccia, sia con parole, sia con atti. Il si discosta immediatamente, descrivendo quasi una parabola, e d’un salto poi facendole di berretto, con una serietà affatto caratteristica e nel tuono della più curiosa ironia le dice:—Scusate, v'avessemo spurcata a piscigrazia .

 

E guai poi se uno pseudo bellimbusto, una gretta parodia di parigino, spingendo lungi il guaglione volesse imporgli di scostarsi; ché costui subitamente gli risponde con un grosso vernacchio , arme difensiva ed offensiva del nostro popolo.

E questo che dicemmo del guaglione va detto in generale dell’uomo del popolo e più propriamente del lazzarone; sicché oggimai è proverbiale l’argutezza e prontezza delle costui risposte e forma uno decitoli principali alla celebrità del lazzarone napolitano.

E chi potrebbe noverare tutte le diavolerie e monellerie del guaglione? Vi sono le quarantore od altra solennità che si festeggi in qualche chiesa; ecco il guaglione a fare schiamazzo é baldoria, a sparare i maschi (mortaletti) , ad accompagnare con urli fischi e schiamazzi lo strepito solito a farsi de’ fuochi artifiziati, le bande musicali, le luminarie e tutt altro che ha luogo in somiglianti ricorrenze. A goder di pubblico spettacolo, di splendide esequie o cortèo o processioni o altro che passi per le piazze, vedrete i guagliune come destri marini, a cento, a mille, pestandosi, pigiandosi, gridando e facendo uno schiamazzo d’inferno rampicarsi su pe’ cornicioni, su pe’ tetti con una rapidità ed agilità da stupire, e quivi collocarsi, ovvero a cavalcioni su travi, o su ponti; e fino sulle barre di ferro che reggono i fanali. Vedrete il guaglione montare rapidamente addietro alle carrozze e rimanervi finché avvedutosene l’austero cocchiere di quivi non lo discacci con lo scudiscio, del quale per altro sa così bene schernirsi che assai di rado ne vien colto.

Passa in carrozza una sposa (intendiamo quelle del volgo) per le amene strade del Mercato, del Pendino o della Vicaria, chi l'accompagna col solito fragoroso epitalamio

D'allucche de vernacchie e de sescate

se non il guaglione?

E chi saprà esprimere fin dove giunga quest’inno se p. c. gli sposi sieno un vecchio cadente ed una fanciulla, o viceversa?

Nel carnevale i guagliune si pestano, si pingono, si picchiano, si arruffano, si dan pugna e sergozzoni sonori ad. oggetto di raccogliere i confetti che in quell’epoca soglionsi (o solevansi) lanciare dalle finestre o da qualche cocchio di maschere (non di rado di farina o di gesso) talfiata fino a restar vittime della loro ingordigia, schiacciati miseramente sotto qualche ruota; e ciò mostra di quanta piccola esca abbisogni la cupidigia del popolaccio!

Il giorno di Pasqua vanno attorno per procacciarsi il, specie di torta con uova, immancabile al rito della solennità.

Nel dì d’Ognissanti con la più assidua e fitta insistenza vanno attorno per le strade, ed anche vengon su picchiando alle case, con una cassetta  raccogliendo, come dicono i muorte (i morti) cioè qualche monetuccia che suol darsi qui come regalia in commemorazione del giorno dei morti, che segue immediatamente Ognissanti; e van correndo dietro le persone nelle quali si avvengono— Signurì i muorte —I muorte, signò...

È il guaglione il martirio più accanito di tutte le belle, e più delle brutte avventuriere o fasservizi, de’ pacchiani (villici) degli stranieri che metton piede nella capitale, egli è che,

contraffacendosi in mille guise, imita il bellimbusto, il leguleio, il professore, ad oggetto di destar le risa ; che all’occorrenza sa figurarti lo storpio, il cieco, lo sciatico per destramente cavarti il quattrino; che compie col consueto accompagnamento di vernacchi tutte le più grandiose scene che si rappresentano sulle bagattelle .

E per terminarla, ovunque sia schiamazzo e allegria confasse nel centro della sua ruota vedrete il guaglione; in tutti i fescennini napolitani, in tutte le allegre brigate popolari fa il baccano principale, ed è il tenitore del campo.

L’espressione del guaglione è sempre aggiustata e pronunziata, non men che enfatica. La tavola XIII della Mimica del canonico de Jorio — I Forestieri in Baia — ci dà un esempio di ciò. Egli parla de’ forestieri trasferitisi a vedere quelle antichità.

«La donna col libro alla mano cavalca un ciuco; forse perché il solo che vi si è potuto avere. Un ragazzo le si avvicina e le domanda qualche cosa (come fanno tutti in quei contorni) ed ella generosamente gli dà una moneta d’argento. Il poveretto vedendosi arricchito in un istante, tripudia per la gioia, ritorna sovente a guardare la bianca moneta; cosa un poco rara per lui; si abbandona all’allegria, e saltando alza la destra verso le tempie, oscillandola con gran vivacità, né cessa di gridare nell’alto che va via tutto contento. — Uh! bene mio! — (Oh me felice!!) La generosa estera lo guarda, e non senza qualche sorpresa ne gode. » Curioso è il vedere il guaglione sdegnato: la sua ira gli sovverte talvolta per siffatto modo la ragione ch'e' profferisce le strambezze più ridicole del mondo. Io mi trovai spettatore d’un oltraggio fatto da un guaglione ad un altro, cui questi rispose, facendo un orribile miscuglio di sesso e di generazioni — Pe ll’anca de mammata. Mo te chiavo nu punio nfaccia a ssoreta! . — Vi cerchi la logica chi può..

E per avere una idea anche più chiara della vivacità e gaiezza del guaglione che è in altro nome il piccolo uomo del popolo fa d’uopo vederli nelle belle giornate, allorché fa caldo, e così pure nelle belle sere della state, a guisa di pesci che guizzino, lanciarsi a tre e a cinque, a sei, a capo in giù nelle onde, tenendosi l’un sull’altro come nelle midi di cui or ora diremo, e poi tornare al lido, e poi rituffarsi facendo schiamazzo e baccano. Sul lido han lasciato sparpagliati quinci e quindi in tanti piccoli mucchi i loro cenci, a ragione del valore della proprietà abbastanza guarentiti da furtivi attentati, e se volete conoscere quali sie— no le lenzuola onde si astergono, sono il caldo della stagione, e l’arena del lido per la quale si voltolano fintanto che non sieno ben bene asciugati.

Ancor più graziosa scena è quella che succede alla banchina della nostra villa reale, bella romantica e pittoresca in qualsivoglia stagione. Dal lido si tuffano in mare i guagliune, e di là ai passeggiaci in molto numero accolli a godere del sito e dello spettacolo delizioso dell’ameno e vasto orizzonte, la sera allegrato vieppiù da mille fiaccole di barche pescherecce, che brillano quinci e quindi disperse su per la placida e cerulea superficie del golfo, come stelle pel firmamento, lieta brigata di garzoncelli richiedono che sia loro gittata nelle onde una moneta per raccoglierla con la bocca e ricondurla sopra, — e gridano Signò menate u rà... Signò, menate u piezzo ca lo pigliammo cu la vocca — E questa scena che ognora si rinnovella è sempre sorgente di nuova allegria, i Napolitani stessi ne godono, e mollo più gli stranieri, onde quei monelli giungono spesso a carpire anche monete d'argento.

E quantunque, sieno più volte scacciali dalla sentinella colà destinala (non essendo lecito presso un real sito cotal fatta di sollazzo, anche perché offende il pubblico costume) i guagliune colgono il momento in cui non veggonsi osservati e ritornano, e ricacciati ritornano ancora, ma con tal piglio d'innocente furberia da far dire, ove mi si volesse perdonare l’espressione, che la grazia e la festività del napolitano fa spuntare il sorriso fin sulle labbra venerande ed austere della legge.

Arti cavalleresche. Gli esercizi ginnici onde son celebri i popoli dell’antichità meritano benanche un posto nella storia de’ guagliune non men che in quella de’ lazzaroni napolitani e ne fa testimonio una specie di arti cavalleresche (sui generis) in cui molto sono versati.

Infatti tanto quelli quanto questi conoscono l’arte di trar pietre con una destrezza si ammirabile da far che anche noi vantar possiamo i nostri petrazzianti come altra volta i Romani i loro frombolieri e narrasi alcuno di loro esser giunto talfiata (ino a conficcare i chiodi nel muro mercé una pietra scagliata a certa distanza.

Le sfide o petriate che anni indietro vedevansi in molte piazze della capitale formano anche un argomento di tale celebrità, che noi per altro non ci sentiam nulla disposti a commendare; imperocché non sia difficile ad intendere quanto beneficio umanitario arrecar potesse cotal razza di esercizi; ed in ispecie queste petriate che non di rado furono produttrici di funestissime conseguenze.

Le petriate pertanto venivano esercitate propriamente da’ lazzaroni: alquanti piccoli guagliune vi avean parte bensì, ma nella qualità di semplici araldi; laonde non essendo questo il luogo di tenerne più oltre proposito basti il cenno fattone.

Giuochi. Agli esercizi del corpo debbo tener dietro la relazione dei giuochi de’ guagliune, imperciocché come in quelli ammirammo la vigoria e la destrezza del corpo, in questi (almeno ne’ più) ammireremo la perspicacia e la intelligenza. Ma come essi son mille, oltre all’essere impossibile che alcun non ne sfugga, annoieremmo invano il lettore con un elenco interminabile; che però ne citeremo alquanti con quella chiarezza che potremo maggiore; tali esscndovene che vano sarebbe voler descrivere e solo possono comprendersi vedendosi.

Capo o croce — Questo giuoco è lo stesso di quello che i Romani dicevano caput aut navis e che giuocavano quei fanciulli buttando in aria ima moneta improntata da una parte con la testa di Giano e dall’altra con una nave . Prima di gettare la moneta, l’un dei giuocatori diceva o pur nave? Era vincitore quando usciva quel che avea detto.

«In uno de’ romanzi di Gualtiero Scott  trovasi fatta menzione di questo giuoco col nome di King or crowne (re o corona).

I Fiorentini il chiamano palle e santi, nome derivato dalle cinque palle, impresa della casa Medici, che veggonsi nel rovescio de’ quattrini, mentre nel ritto sta l’effigie del Santo protettore, S. Giovanni Battista. Così in Roma chiamasi Santi e Cappelletto perché nel rovescio dei baiocchi vedonsi le sacre chiavi sormontate da un cappello, e a Venezia dicesi testa o madona dalla effigie della Vergine che vedesi in talune monete.

» Ma generalmente è prevalsa la denominazione della croce data al rovescio delle monete, sia che realmente vi fosse la croce (come nei nostri trecalli, onde il modo di dire non aver manco la croce del tre calli sia che per croce s’intendesse le armi del sovrano). Quindi gli Spagnuoli dissero questo giuoco a crux o cara ed i Francesi à croix:» ou pile.

» Dopo Walter Scott fece menzione di giuoco sì fallo Victor Hugo nella Lucrezia Borgia — Voi fi un ducas. Jouons à croix ou pile à qui de nous deux aura l'homme — E poi mentre l’uno de’ due personaggi che sono in iscena grida pile l’altro esclama c'est face il che pare lo stesso.

» Anche in Ispagna il giuoco è di antica data, imperciocché oltre al nome sopra indicato avea l’altro a Castilla o Leon che dee aver avuto origine quando riunitisi i regni di Leone e di Castiglia i castelli ed i leoni furono posti per sostegni alle armi de’ re di Spagna».

Luparo—(Giuoco del pari). Si giuoca da due, ed in questo modo. Fanno una grande fossa a terra. Stabiliscono poi un punto dal quale si deve giocare ed il danaro che si vuol giocare. Poscia l’un de’ due, chiuse nella destra otto palline di legno, che ordina in senso orizzontale, domanda all’altro se vuole pare o spare (pari o dispari) il quale risponde secondo gli piaccia. P. e. risponde: voglio, e l’altro: ed io dispari. Allora colui che ha le palline le gitta dal luogo designato verso la fossa. Se nella fossa va a cadere un numero pari di palline vince colui che ha dello pari, se dispari colui che ha detto dispari.

Pare o spare — (Pari o caffo). La differenza tra questo giuoco e il precedente, cui del resto è affatto consimile, consiste in ciò: che invece di gittare le palline, i giuocatori distendono uno o più diti della destra, poi numerando, precisamente come nel fare al tocco. Sommano poi il numero di tutte le dita distese: se ne risulta un numero vince colui che à detto pari, e viceversa.

Questo giuoco era conosciuto anche da’ Greci e da’ Romani, che dicevano Ludere par impar.

La ripa— (quasi riva o solco). Questo giuoco si fa da molte persone, ciascuna contribuendo un dato numero di noci, le quali vengono conficcate ritte nel suolo, l’una dopo l’altra, circondate e quasi murate di terreno, che però viene a formare una specie di letto o strato. Poi ciascun de’ giuocatori, per ordine, dal luogo gih dapprincipio designato tira contro esse una noce, e quella o quelle guadagna che colpisce e fa cadere al di Ih della ripa o solco di terreno sul quale erano disposte.

La noce e lu rano — (La noce e il grano). L’un de’ giuocatori mette una noce a terra, con sopravi un grano, e ciascun degli altri, per ordine, gitta la sua noce contro quella: colui che colpisce guadagna la noce col grano, ed ha il dritto di mettere egli alla sua volta la noce a terra col grano, e farvi tirar contro dagli altri. Ed il primato di questo dritto è ambito specialmente, perché fino a quando non si colpisca, tutte le noci gittate (che debbono rimanere a terra) vanno a beneficio di colui che pose la noce col grano; sicché il paladino che primo piantò la sua bandiera, col rischio d’un grano, avventura di guadagnar moltissime noci.

Le ccastella — (Le castella). Si giuoca da più ed è simile al precedente, se non che, invece delle noci, contribuisce ciascun giuocatore quattro nocciuole, le quali si dispongono, tre a terra ed una sopra queste tre, di guisa che formano tanti gruppetti, che nel tecnicismo dell'arte chiamatisi castella, e che dispongonsi in linea orizzontale, l’uno accosto all’altro. Ciascuno de’ giuocatori poscia, per ordine, tira contro queste castella una nocciuola, scelta sempre tra le più grosse e detta pallone. Quante castella colpisce e disfa tante ne guadagna. Molti altri giuochi si fanno con le nocciuole, come a senghetiello che si fa gittandone una manata sopra una tavola, od altro, che dicesi il campo, e poi cercando con un buffetto di avvicinare l’una nocciuola all’altra: alla fossa, gittando in una fossetta una manata di nocciuole, nel qual giuoco vince quegli che tutte le fa entrare nella fossetta ec. ec. ma questo delle castella è il più usuale. Alle nocciuole sogliono i guagliune giocare più spesso ne’ mesi d’inverno, in ispecie ne’ giorni natalizi. Il giuoco dell’oca è poi affatto proprio di questi giorni.

L'oca—Ecco la definizione del giuoco dell’oca tal quale è registrata nel gran vocabolario italiano —«Sorta di giuoco che si fa con due dadi!  sopra una tavola dipinta in 63 case in giro a spirale; in alcuna delle quali vi sono dipinte alcune figure come Ponte, Oca, Osteria, Pozzo, Laberinto, Prigione, Morte. Fassi con diverse leggi e pagamenti, come essendo trucciato di andar nel luogo di chi truccia; andando al 58 dov’è la Morte pagare e ricominciar da capo, e simili».

Pare che questo giuoco abbia qualche similitudine con quello che i Romani chiamavano de’ tali e tessere.

Riò—Giuocasi in questo modo. Pongonsi due noci disposte l’una orizzontalmente a terra, e l’altra si tien ritta su questa. Poscia il giuocatore percuote con una pietra sulla noce collocata verticalmente, gridando ri ò. Se rompe la noce superiore che è la sua, allora è perditore, e guadagna se rompe la inferiore che è dell’avversario. Però colui che a preferenza fa il giuoco, sia a ragion di sorte o di vincita, procaccia di por sempre sotto la noce dell’altro giuocatore, perché questa più facilmente può rompersi.

Giuoco della palla — Il giuoco della palla in generale o delle pallottole che voglia dirsi, è conosciutissimo, sicché ne verrem citando solo taluno speciale nell’arte guaglionesca.

Lu cavo — (Il cavo). Si giuoca da due. La partila ordinariamente va 6, o ad 8 punti. Vien conficcato a terra, mercé una punta di ferro, un cerchietto anche di ferro, munito di vari piccoli raggi detto cavo ed anche arraie perché raie nel dialetto equivale a raggio. Ciascuno de’ giuocatori è provveduto d’una strisciuola di legno piatto, che chiamasi paletta, e di una pallottola di legno. Dal punto stabilito il primo de’ giuocatori spinge la sua pallottola verso il cavo, e se ve la fa passare per entro guadagna un punto. L’altro allora, ponendo la sua palla sulla paletta, la spinge, cercando o di avvicinarsi al cavo più del compagno, ovvero urtare con la sua la costui palla e far uscirla di sesto: nel primo caso quegli che resta più vicino al cavo guadagna un punto sull’altro; nel secondo caso, cioè se l’un giuocatore arriva a spigner via la palla dell’altro fa due punti, il che dicesi cavorì, se poi non fa il canori che si è proposto, perde egli un punto. Il vincitore ricomincia il giuoco, e cosi procedendo, colui che il primo raggiugne i punti stabiliti guadagna la partita ed il danaro messo al giuoco.

La fossa—Giuocasi da più. Si formano a terra due fossette, l’una più grande, l’altra più piccola. Convenutosi poi del danaro da giuocarsi si dà in deposito all’un de’ giuocatori, persona proba e che go de la piena fiducia di tutti i compagni; spezie di giudice conciliatore, imparziale ed incorruttibile! Quello de’ giuocatori poscia che dal luogo stabilito tirando una palla di legno la fa fermare dentro la fossa più grande guadagna la sua rata, e dice lu minio (il mio). Facendo poi fermarla nella fossa piccola guadagna tutto il danaro messo al giuoco, eccetto la rata del giuocatore che ha fatto andare la sua palla nella fossa grande, e dice mmieze (mezzo).

Lu nove — (Il nove). Giuocasi da più. Si formano a terra nove fossette, disposte in ordine, cioè a tre a tre. Il giuoco è simile al precedente, differisce solo in ciò; che qui se l’un de’ giuocatori giugne a far cadere la sua palla nella fossetta che è nel mezzo, guadagna a lutti, anche a coloro la cui palla fosse caduta in una delle altre otto fossette.

Le ppastore—(piastrelle). Le ppastore non sono altro che pezzi di mattone 0 ciottoli onde i guagliune fan diversi giuochi, e sovente gli adoprano in cambio della palla. E si avvalgono anche di quelle pietruzze marine che sono sulle spiagge, che chiamano vreccelle.

Maste, catenella e ppastore—(mattone, o forse maestro significando lu maste in dialetto il maestro, quasi per dire mattone maestro, cioè principale nel giuoco

E se le fantasie nostre son basse

A tanta altezza non è maraviglia.

catenella e piastrella). Si giuoca da più. Ciascuno de’ giuocatori contribuisce una data moneta. Ponsi un mattone ritto a terra, e questo è il maste, e dietro ad esso tutte le monete messe dai giuocatori, i quali da un punto stabilito tirano, l’un dopo l’altro, contro il maste una Colui che colpisce il maste e lo manda lontano dalle monete guadagna quelle che sono più vicine alla piastrella che ha gittata, qualora avvenga che tali monete restino più da vicino alla piastrella che al maste; ché se in quella vece rimangono più vicine al maste il giuocatore nulla guadagna. Ed il giuoco segue finché non siasi guadagnato tutto il danaro che è dietro al maste.

Mazza e pivuzo — (Mazza e piuolo). Si giuoca da più ed a compagni. Ci adopreremo a descriverlo alla meglio con un esempio — Sieno quattro giuocatori. I due primi, cui vien la sorte, prendono il piuolo (pivuzo) che! ha sempre il vantaggio.

Gli altri due hanno in mano le mazze. L’un dei giuocatori che ha il pivuzo cerca di piantarlo in una delle due fosse che si formano a terra: allora l’altro che ha la mazza percuote rapidamente il pivuzo e lo sbalza quanto più lontano gli è possibile.

Quello che ha perduto il pivuzo deve andare a raccoglierlo. In questa i due giuocatori che han le mazze corrono con immensa rapidità dall’uno all’altro fosso, numerando le volte che vanno e ritornano, fino a 10 ordinariamente (e ciò s’intende complessivamente fra l’uno che va e l’altro che viene.)

Deve allora riuscire al giuocatore che è andato a raccogliere il pivuzo di colpire un attimo tra l’andare e venire degli avversari e piantare di nuovo nella fossa il raccolto pivuzo. In questo caso rimangono vincitori i due che avevano il pivuzo; nel caso poi lor non riesca, gli altri due vincono e prendono il pivuzo, rimanendo le mazze ai perditori.

Azzecca muro— (Avvicinare al muro). Giuocasi da due o più — Ciascuno de’ giuocatori dal luogo stabilito gitta verso il muro una moneta da tre o da cinque grana: quegli che più fa avvicinarla al muro guadagna.

Le piramidi — Togliamo alla Passeggiata per Napoli del signor Bidera la definizione di questo giuoco che anche verso i tempi estivi soglion fare i guagliune — «Otto de’ più robusti cenciosi pongono un ginocchio a terra, e otto altri ascesi ad un’abbandonata baracca d’acquaiuolo, vi si adattano di sopra, tenendosi mano a mano.

Ecco si alza la vacillante piramide: giù si rassoda: giù si mette in movimento regolare con grande applauso e con invidia di altri spettatori ragazzi.

Il giulivo gruppo degli otto prodi garzoncelli di sotto cantano, ad ani mare i pericolanti compagni di sopra, e viceversa.

CORO DI SOTTO

» O guagliune che state da coppa

» Stateve attiente a nun cadè.

CORO DI SOPRA

» O guagliune che state da sotto,

» Stateve forte a mantenè.

TUTTI

» Pizzica ccà pizzica là

» Pe ttutta Caserta avimm'a passò

» Le donne escono dai loro vasti (cioè stanze terrene) i ragazzi dai balconi gettano fiori, i passeggiatisi fermano ad ammirare: ma la canzone cessa ad un tratto, una voce grida invano: ferma ferma! la macchina tutta vacilla: si esquilibra, già precipita, già cade, ed ecco» la volante famiglia tutta in un fascio a terra. I canti si volgono in lamenti, ed uno dà la colpa all’altro come alla perdita d’una battaglia».

Lo strummoloI Guagliune distinguono lo strummolo assolutamente detto dallo strummolo che chiamano a la romana nel modo stesso che il toscano idioma distingue il palèo dalla trottola. Il palèo, come ognun sa, è un giocolino di forma conica che si fa girare sulla punta mediante una sferza e corrisponde al (urèo dei latini: questo i guagliune chiamano strummolo a la romana. La trottola è anche di forma conica, ma con un ferruzzo piramidale in cima, e si fa girare avvolgendolo prima intorno con una cordicella e poscia gittandolo. Questo i guagliune chiamano strummolo.

Vari giuochi fanno con lo strummolo (trottola) ne’ quali tutti è ammirevole l’agilità e destrezza onde lo gittano e raccolgono poscia senza turbare il suo moto di rotazione, tra l’anulare ed il medio, passandolo così nella palma della mano . Questo giuoco è comunissimo e quasi per tutte le strade e spianate della capitale troverete guagliune che lo giuocano.

A scarreca varrile— (A scarica barili) il che fanno ponendosi l’uno a schiena curvala, ed un altro saltandogli addosso, dicendo questa cantilena —pitipiri botta e scarreca pallottapiri piri piri e scarreca varrile — e passando con rapidità immensa all’altro lato; e poi un altro sopra un altro, e così via via. Onde il volgare adagio Fare a scarreca varrile che vuol dire addossare ad un altro un negozio per disbrigarne sé stesso.

Vanno anche tra i giuochetti guaglioneschi quelli che fanno gittando in aria uno dopo l’altro i fichi, e poi raccogliendoli in bocca, e giungono a mangiarne molti e molti senza far cadente pur uno, e così degli acini d’uva, ovvero gittando all’aria a due a tre, a quattro e financo a sei arance Tutta dopo l’altra, raccogliendole in mano, senza far cadérne alcuna, e simili.

Cacciatori sacculari. L’ordine de’ guagliune, come ogni altro, ha la sua parte buona, e la cattiva; desso, come ogni altro, rende somiglianza di pianta che molli rami produca, de'  quali l’uno verde e rigoglioso rivela le magnificenze della natura, l’altro secco, stecchito, ed infecondo sulla pianta medesima intristisce. Per simil modo una delle triste ramificazioni del guaglione è quella de’ cacciatori o sacculari e se facciam qui ragione di cosiffatta specialità, gli è principalmente affinché, per quanto è in noi, la nostra narrazione non presenti lacune o il meno che si può, e più di tutto affinché lo straniero che fu già tra noi, ed oggi vi ritorna, possa osservar di leggieri quanto e come questa specie di guagliune sia scemata, la mercé della indefessa vigilanza e delle solerti e provvide cure delle autorità del Governo.

La caccia adunque è il costoro esercizio prediletto, onde li addimandiamo cacciatori. Vanno pertanto a tale esercizio senza veruno apparato da cacciatori ma in abito proprio consueto, ed a mani libere e gli uccelli cui tirano maestrevolmente sono i fazzoletti nelle saccocce dei passeggieri, onde il nome di sacculari. Ritrovo de’ sacculari sono tutti i luoghi o moltissimo affollali, o moltissimo solitari, laonde in tutte le festività, in tutte le popolari adunanze o popolari spettacoli ove la gente affluisce; dovunque insomma possa avere il destro di manovrare ivi troverete il sacculano.

E la lor manovra è così spedita e con destrezza tale che meglio che altro potreste addimandarla un giuoco di bossoletti o di magia egiziana. In effetti verun abilissimo prestigiatore sa farvi sì ben disparire la palla che testé avevate sottocchio, come il guaglione il fazzoletto che avevate in saccoccia. Mentre, quasi senza avvedetene, siete trascinati da uria specie di fascino irresistibile a contemplare estatici e trasecolali il fragoroso cartellone del teatro Sebeto pieno zeppo di assassini, di pugnali, di fiamme e camice inzuppate di sangue, il cacciatore vi ha già alleggerito del vostro fazzoletto, e mi servo della voce alleggerito che nasce dalla frase napolitana arte leggio (arte leggiera) con la quale sogliono denominare il furto, ad indicare che quello illecito guadagno non è mica frutto di propri stenti e sudori. Ché anzi alle vostre spalle è forse il guaglione che vi ha rubato, voi lo guardate, né di nulla vi accorgete, ché il suo volto è impassibile ed indifferente; ciò che smentisce la sentenza

Io gran parte dal volto il cor si scopre

ed il vostro fazzoletto con la rapidità del fulmine è già passato nella quindicesima o sedicesima mano.

A simili furti tiene mano o piuttosto teneva (ché in oggi è ciò terminato, ) una specie di società filantropico umanitaria composta di benemeriti e decani professori dell’arte, detti perciò agguantatovi, con lo scopo di riunire in una sola mano tanto i fazzoletti quanto qualsivoglia altro obbietto rubato  e narrasi che, già tempo, vi sieno stati in Napoli anche scuole di siffatte utilissime dottrine!! I fazzoletti rubati, ordinariameule si vendevano sul molo o al largo del Castello a negozianti che non han miglior bottega di quella a ciel sereno, né magazzino migliore di quello della nuda terra, sulla quale pongono in mostra, distesa o divisa in tanti piccoli mucchi roba adoperata, camice, calze, fazzoletti, flanelle, calzoni, camiciuole, berretti, grembiali, cenci d’ogni specie di nota o ignota, lecita o lecita provvenienza.

Le autorità pertanto — giova il ripeterlo — non lasciarono, come non lascian mai d’invigilare su ciò ed ultimamente l’isola di Tremiti divenne la colonia di questi ladroncelli, come anche di ladri e vagabondi della capitale onde il nostro gentame, per quel sistema di travolgere sempre il vocabolario quando vedeva un di costoro, diceva lo a Tremmola a mmare (mandiamolo a Tremiti) e si pubblicarono anche di strofacce su Tremmola a ornare.

Bene arti. E chi saprà dire quanto le belle arti sieno in onore presso il guaglione? Ognuno conosce la melodia nascer, direm quasi, col napolitano. Educato a questo clima voluttuoso, alla soavità di questa continua primavera, egli Ita un gusto squisito delle cose musicali, si che raro falla il suo giudizio sovr’essc, come pure è felicissimo, sia nel ritenere, sia nel foggiare anche di belli motivi. Questa cuna della musica, ove vagirono a dovizia illustri e sublimi maestri, non ha mai smentito la sua fama, ed il guaglione fa testimonio incontrastabile di ciò. Sol che abbia inteso suonar poche volte un pezzo su qualche organetto de’ tanti che vanno intorno per la città; suonarlo o cantarlo su per qualche casa, o in teatro o in chiesa, o per qualunque altro modo, gli basta a ricordarlo perfettamente, e ripeterlo sino all’ultima solfa, accompagnato da uno strumento naturalissimo — il fischio. Ed ecco come il fischio non essendo altro che un istrumento di accompagnamento non han poi il gran torlo tanti artisti, i quali non ne fan quel grande spauracchio che si vorrebbe: anzi, per una curiosa contraddizione, una musica generalmente fischiata nel volgo significa una musica applaudita.

L’orecchio di questo basso pubblico, che è pure il pubblico più pubblico ed imparziale, è un giudice infallibile, e noi vediamo come i più celebri maestri sieno allora pienamente soddisfatti quando sentono i loro pezzi musicali ripetersi per le pubbliche vie; ché questo diffondersi per siffatta guisa prova loro come sia la musica veramente e generalmente piaciuta.

Narrasi (ed è verosimile, se non vero) del celebre Rossini, che ponendo una volta a crogiuolo inutilmente il cervello per trovare certo motivo per una sua musica, sì gliene desse il tema una cantilena improvvisata ed accompagnata col fischio da un guaglione. Imperciocché il guaglione non solo, come dicemmo, gusta ed intende perfettamente la melodia, ma alla sua volta la fa da maestro e da poeta, come possiamo osservare nelle ariette e canzoni napolitane che cantano, le cui parole son da costoro spesso alterate in modo da non ravvisarne più confronto con l’originale; talvolta interamente mutale e contraffatte, e spesso con certe aggiunte poco decenti, parlo d’una vena troppo facile e melliflua.

Siamo in una limpida notte di state, in una di quelle notti con la luna e la laguna di cui abbondano i versi di tanti poetastri che non sanno cantar nulla di meglio. Le aperte finestre d’un ricco appartamento, onde vanno e vengono eleganti giovanette e garzoni e nobili signore, lasciano vedere una ben addobbata e luminosa sala, dal cui fondo si levano soavi o dolorosi concenti; ed ecco il guaglione a cavalcioni d’un pilastro, ovvero col dosso appoggiato al muro e come il grand’uomo, con le braccia al sen conserte, solo o in compagnia di altri suoi confratelli, udire attentamente quelle arie, quelle cabalette e quei cori, spesso meglio fischiati da lui che urlali da dilettanti idrofobi! La musica in somma, più che un diletto, è una potentissima passione, un bisogno pel nostro popolo, al panche gli spettacoli, come a suo luogo accennammo, epperò quasiché ogni sera il guaglione una qualche monetuccia da’ suoi tenui guadagni diffalcando e non di rado dal proprio sostentamento, trae ancor egli con un affetto cd avidità grandissimi ai piccioli teatri; in ispecie a quelli del Sebeto, di D. Peppa o de’ burattini, de’ quali anche facemmo parola .

Le orchestre poi meritano particolare considerazione. È curioso vedere un’orchestra di guagliune.

L’uno suona uno strumento a forma di grossa pentola, di stagno, coverto e chiuso perfettamente da una pelle, per la quale passa una canna, che mossa in senso verticale, per la pressione dell’aria racchiusavi, trae dallo strumento un suono aspramente cupo e profondo. Chiamasi pignolo (pentola) ma con voce più propria, bel termine figura ad esprimere per l’appunto il suono che rende.

Ha un altro una specie di flauto semplicissimo, formato da una canna bucata che chiamano con voce poco propria siscariello (fischietto).

È questi che può dirsi il direttore dell’orchestra; imperocché da lui principalmente emanano i concerti: egli fa sempre sentire il motivo principale e gli altri strumenti sono di accompagnamento.

La fabbrica di questi siscarielli è precisamente presso l’ingresso del teatro del Fondo. Il Dio Pane avrebbe dato volentieri la sua siringa per uno di questi flauti magici. In fatti il guaglione non si limita già solo a trarre da quella cannuccia le popolari melodie della, del D. Ciccillo, della Marinarella, del Te voglio bene assaie, del Guarracino  ma vi fa anche sentire bravamente

Ah! perché non posso odiarti—della Sonnambula — Dunque andiam — del Bellisario, — e poi — Qui ribelle ognun ti chiama.

ascoltare si fanno alle finestre, e sovvengono per lo più questi poveri filarmonici ambulanti. I quali se accade che travaglino talvolta le orecchie o sconcertino le parole ed il senso della poesia, egli è privilegio comune con gli artisti.

Scimus, et hanc veniam petimusque, damusque vicissim.

E quantunque queste orchestre minorum gentium riscuotano, non ostante i disaccordi, il plauso universale, e formino l’ammirazione degli stranieri, l’elemento comico non può mancare a compir l’opera. Il comico è troppo ingenito al popolo napolitano per poter affatto spogliarsene. Anche ne’ momenti più tristi, anche nelle più difficili e dure condizioni e’ sa onde trarre da ridere; immaginate poi quando l’argomento non sia di per sé stesso grave? L’orchestra finisce ordinariamente con un ballo del suonatore di puti puti, una specie di danza equestre che esegue questo musico cencioso e sbalzo, accompagnandosi col suo strumento .

L’intero trattenimento, e tanto più se vi si unisca un cantante che armonizzi col resto, finisce col solito rumoroso coro di vernacchi che sappiamo.

Sarebbe un torto, or che ci troviamo su tal proposito, non far menzione di Pascariello, quel nostro gobbetto, che va ben distinto da Pasqualotto, celebrità lazzaronesca nella ginnica, che formò tanto tempo l'ammirazione de’ napolitani e degli stranieri per la rara agilità e destrezza con cui lanciava il suo lungo bastone dal pomo di cenci fino al 5.° ed al 6.° piano, raccogliendolo poscia con la mano dietro le reni, e che attualmente si è fatto seguace di compagnie equestri.

Pascariello fu il primo che animosamente trasportò il canto eroico all’aria aperta ed il coturno in istrada: ba avuto molti seguaci, ma nessuno aggiunse alla celebrità di lui.

Degli accordi di questo tenore, vero tenore, perché non possedeva assolutamente altro che la voce, ancor risuonano le nostre strade, le nostre piazze. A pochissimi fra i leggitori sarà ignota questa celebrità che fu riputata non immeritevole di biografie e di ritratti a bulino e litografati. Egli che a’ difetti naturali suppliva potentemente col valor dell’arte, ha lasciato memoria gradita e in un dolorosa di sè, e quantunque neanche i suoi accordi andassero immuni dalla terribile persecuzione di qualche vernacchio, egli ha fatto gustare i pezzi migliori del Pirata, del Roberto, del Bellisario ed altri molti e dico gustare, perché se strillava qualche volta era bene a por mente come e' dovesse richiamare a suo prò l’attenzione non pure de’ circostanti, ma benanche degli abitatori degli ultimi piani. Difatti i suoi canti erano coronali per lo più da buon successo, e dalle finestre delle locande in ispecie, che schiudevansi alla sua voce, gli stranieri, spesso con isplendidezza, gli eran larghi di soccorso.

Ma di Pascariello essendo abbastanza chiara la fama ci basti il cenno dato, e qui chiudiamo aggiungendo sol due parole per due altri strumenti: la tofa ed il siscariéllo di primavera.

Chiamasi siscariéllo di primavera un fragile strumentuccio formato da un ramoscello di sambuco, onde all’avvicinarsi di questa stagione sogliono i nostri guagliune musicisti trarre una specie di melodia ultra monotona. Ciò nullameno perché annunzia la dolce stagion de’ fiori, e perché si ode per lo più nelle ore d’un delizioso tramonto quel suono riesce gratissimo.

La tofa (nicchio) poi è quella conca marina con cui dipingevansi i Tritoni attorno al carro di Nettuno. Novelli Tritoni i nostri guagliune la fan risuonare ad onore d’un Nume più possente, di Carnevale, ed anche questo strumento pochissimo piacevole e variato rallegra come nunzio e proclamatore di baccano e di baldoria, e di quella specie di fescennini che presso tutte le nazioni furono e sono sempre solennizzali; ma dei quali, a confronto di quelli di un tempo, possiam dire non essere rimasta presso di noi che una meschinissima larva, perché oggi Carnevale par che abbia sposato Quaresima.

Vestire. L’abito del guaglione è compiutamente alla leggiera. I suoi calzoni sono naturalmente corti, o artificialmente accorciati sul malleolo, e talvolta oltrepassano di poco l’inforcata; costume imitato ai pescatori, atteso il bisogno che han questi di scender sovente co’ piedi nell’acqua. Indossano, secondo stagione, sia una giacca mezzo lacera, sia una flanella a righe turchine, sia la semplice camicia a maniche rimboccate, che per lo più interamente aperta sul petto lascia vedere uno scapolare: su questa pende talvolta un cencio di camiciuola. Talvolta sì, talvolta no i calzoni sono sostenuti da straccali, talvolta non ve ne resta sospeso che uno, il quale anzi spesso vien rappresentato da una cordella o spago. Hanno qualche volta in lesta una coppola (specie di berretto) od un cappelluccio di cattiva paglia, ma più sovente un berretto color cannella. La mercé del moderno incivilimento, onde benanche al popolo non piccioli benefizi ridondarono, è oramai difficile rinvenire il guaglione, il lazzarone, l’uomo in generale de’ bassi ordini del popolo napolitano che vada a piedi nudi, ma fino a non guari il costume di andare a piedi nudi è stato così proprio del nostro popolo che e’ non avrebbero saputo rinunziarvi neanche ad occasione delle loro feste e pompe. Gli è perché lo straniero ha dovuto non di rado maravigliare vedendo qualche suggeco con la sua coppola a galloni  la sfolgorante cravatta, la camicia gentilmente pieghettata sul petto, lavoro d’ordinario della sua bella, una giacca nuova dai forbiti bottoni, calzoni nuovi, e tutto ciò in eccellente accordo co’ piedi nudi, da far ripetere a tal proposito quel di Orazio:

Desinit in piscem mulier formosa superne

e quel che è peggio con piedi quasi sempre non puliti, perché, ad onor del vero, la pulizia e nettezza non è mica il pregio principale onde menar possa vanto il nostro popolo. Nè ci sarà per avventura accaduto tener proposito dell’abito del guaglione senza trarne alcun che da osservare. Quello scapolare onde cinge il collo, congiunto strettamente alla più profonda venerazione verso le chiese e le sante imagini, sì animato da principi di religione lo attestano, ché questo popolo può dirsi davvero uno de’ più religiosi che v’abbia, e se talun errore, effetto d’ignoranza o di credulità, inevitabili nel basso ordine, va commisto forse a tali sentimenti, non è però a contrastare che i germi puri ed immacolati ne conservi.

L’ira dell’uomo del nostro popolo, che ha origine la sera, il domani è spenta non solo, ma sostituita dall’amore: quei due che l’un giorno si abbaruffarono, si picchiarono, forse anco si minacciarono della vita, 1

il giorno appresso si scambiano l’amplesso dell’amicizia, il bacio della fraternità, le risse delle nostre feminucce, impetuose e brevissime, che ci siamo da pezza abituati a riguardare dal solo lato ridicolo, non sono elle per avventura una prova che la divina legge del perdono non abbia più ligi e corrivi seguaci? — Nè qui stieno a cantarci i detrattori della nostra patria, coloro i quali più lontano non veggono di una spanna, nascer ciò da poca fermezza o altrimenti, con quella frase volgare che i Napolitani non hanno carattere ché è questa la più bassa menzogna. Vorrebbero egli, di grazia, costoro che invidiassimo l’odio feroce al selvaggio, ovvero la vendetta annosa e meditata al Corso? No, vivaddio, l’amore è nel nostro cielo, l’amore ne’ nostri canti; nella nostra religione l’amore. Lo sdegno è nube passeggiera, l’amore è il sole onde la nostra vita perennemente s’informa e feconda.

Il Napolitano ama e perdona.

Egida di salvezza, suo conforto e fidanza, pende dal collo del fanciulletto napolitano, ancor nelle fasce, lo scapolare, ordinariamente di nostra Signora del Carmine, onde è devotissimo questo popolo. Ed oh quante volle il ricco quadro della madre del Signore, quasi per vergogna allogato dietro le ricche cortine d’un letto damascato cede il luogo a volgari rimembranze e forse anche disoneste dell’umana miseria, quando all’incontro la storia di Dio è un libro aperto sempre nella casuccia del popolano, e la santa imaghie è il fregio onorato, che ben lontano dal nascondere, vuole anzi che risplendente di tutta la sua magnificenza ed agli occhi di tutti apparisca!

Ne più aggiugniamo, avendo già in altro luogo di quest’opera fatto cenno della religione del nostro popolo, della potenza e dei mirabili effetti di essa .

I Guardie del Corpo. in verità assai ci duole dover designare col nome di un corpo sì distinto una schiera di cenciosi, ma dovendo trattar di costumi ci è giocoforza adoperare nelle cose quei nomi onde il popolo, bene o stoltamente, si avvale.

Sarà incontrato le molte volte allo straniero di vedere una gran turba di guagliune precedere, ordinati in fila, le bande militari, imitando grottescamente le marce del reggimento o facendo capriole .

Questi che presentano una somiglianza con le vivandiere o figlie di reggimento sono i così detti guardie del corpo, probabilmente per una curiosa, quanto inopportuna e sconcia parodia dell’ufficio del nobile corpo destinato a precedere gli alti personaggi, come eglino precedono i corpi dell’esercito nelle loro marciate, e noi li chiameremmo volentieri anche ausiliari perché infatti son di assistenza ai soldati, ed i loro veri amici, perché non son quelli del poeta, che vengono con la fortuna e van con lei, ma partecipano tanto alla buona quanto alla trista ventura delle armi che seguono.

In tempi di pace e di tranquillità accompagnano nel modo indicato i corpi militari. Quando poi dolorose vicende di guerra o disordini obbligano le soldatesche ad allontanarsi dalla capitale, ad acquartierarsi altrove, ovvero a portarvi le armi, questi, vero simbolo della fedeltà e dell’attaccamento, intrepidi le. seguono, in moltiplici occasioni non piccioli servigi ad esse rendendo.

Trovasi per esempio il soldato (nel senso più ampio della voce) in un villaggio per lui affatto nuovo, stanco, trafelato per una goccia d’acqua, desideroso di un po’ di tabacco, di vino, di liquore od altro affin di ristorarsi: spicca allora il suo araldo, e l’esperto guaglione esplora, indaga, tutto arrischiando, sino alla vita ove occorra, e ritorna infine provveduto di quel che gli fu chiesto dal suo compagno di pericoli e di fatica.

Nelle lunghe passeggiate militari, marce forzate e simili, indossano eglino il cuoiame, le armi, gli strumenti musicali ec. per agevolare il passo di quelli tra i militi che potessero trovarsi stanchi.

Su i campi di battaglia rendono servigi anche più grandi; raccogliendo, salvando armi, sollevando i feriti dal peso degli arnesi militari, ovvero nelle tende trasportandoli; nel che sono assistili da coraggio ed intrepidezza senza pari, assai ammirevoli, perocché sieno virtù meramente filantropiche, e che van bene distinte da quella specie di storditaggine e spensieratezza onde il basso popolo per un guadagno anche leggerissimo affronta sovente i pericoli e la morte.

Numerose schiere di costoro seguono ciascun reggimento, sicché ve ne ha due o tre per ciascuna compagnia. In cambio ricevono eglino una mercede mensile dalla rispettiva compagnia; in qualche corpo fino ad una piastra e zuppa, ed oltre a ciò han sempre qualche piccolo guadagno per ogni servigio che. rendono; una giubba, un calzone, qualche vivanda e simigliami. E i pochi che han buona condotta e serbano economia vestono, non lo potendo sempre, pulito ne’ giorni feriali, non altrimenti che suggechi e maestri di bottega; tali altri non hanno eternamente indosso altro che cenci; quel po’ che lucrano, in vino, in giuoco, od in altra mala pratica dissipando.

Indurati ai disagi ed agli incomodi cui la loro vita nomada li costringe, eglino dormono tranquillissimamente in qualche cassone delle milizie, come Diogene nella sua botte, ovvero a ciel sereno; imperversi quanto vuol la stagione, sì che gli stessi soldati ne maravigliano.

Potrò intendersi di leggieri come l’ozio che naturalmente segue la loro vita, li renda col decorrer degli anni inatti a qualunque arte o mestiere, e quello solo conoscono che praticano; di qualità che quando l’età più loro non permette di rendersi utili in quei servigi che pur richieggono la vigoria e la sveltezza della gioventù muoiono miseramente negli ospedali. Ed è però che quelli soli i quali mostrano più sano giudizio, pervenuti ad età provetta si arruolano nelle soldatesche e quella vita volentieri proseguono che l’esercizio e la propria inclinazione giù rendette loro omogenea.

Nelle vicende di guerra degli ultimi anni decorsi molli di costoro si segnalarono; ed in particolare uno che salvò con incredibile coraggio un granatiere da imminente pericolo, così che la munificenza di re Ferdinando II, volle largamente rimunerarlo, accordandogli benanche un soldo mensile.

Piccoli mestieri. Il bisogno imperioso ed inesorabile a fronte di troppo misere condizioni e non di rado oh quanto pur lagrimevoli, spingono una non piccola parte fra le persone del basso popolo a procacciar mezzi e risorse, sovente d’una meschinità quasi inconcepibile affìn di trarre la vita; al che non sarò per avventura inopportuno l’aggiugnere il vizio, o almeno qualche vizietto, o scendendo anche dippiù talune di quelle cattive abitudini non necessarie, o affatto inutili che l’uomo da sé stesso si forma, e cui volgarmente addimandar sogliamo col nome di vizio, picciole imperfezioni, onde l’uomo, in generale, povero o ricco che sia, paga il tributo all’umana picciolezza, e poi qualche gozzoviglia, ed i riti in ispecie cui la plebe in generale, ma segnatamente la nostra, per miserrima che sia, non sa in modo alcuno rinunziare, come da più luoghi di quest’opera di leggieri avrà potuto scorgersi.

Non è la prima volta che ci avvenga tener proposito de’ piccoli mestieri, d’altra parte utilissimi, taluni anzi necessari, né però sembrami che faccia uopo di aggiungere altro, volendo considerarli dal solo Iato del vantaggio, diciam così, sociale e di quello, qual che esso sia, che all’ordine più indigente del popolo ne deriva.

Pertanto una mia opinione mi si permetta di esporre e come una mia opinione s’intende bene che andar non debba immune né da biasimo né da confutazione ove ragion ve ne abbia—ed è che il procacciar mezzi cosi tapini e gretti alla vita avvenga per lo più quando il popolo o per propria volontà o per negligenza delle famiglie, o per altrettali cagioni non abbia cercato lucro più proficuo, più certo e tante volte più onesto, come osservammo altrove  sicché piccoli mestieri meglio che da altro parmi ripeter la loro vera sorgente da infingardaggine o poco amor di fatica.

Ed in fatti (imperocché ci proponemmo, per quanto sia l’amore che abbiamo inverso la nostra patria, a tutto anteporre la verità e la schiettezza) molti sono i poveri tra noi ne’ quali è vera miseria, ma quanti altri ve ne ha cui pule il pane della fatica? —

In effetti in tanta povertà è difficilissimo il trovare un servitore o una serva  e quando pur si trovi un poco più di fatica, una vita un tantino più disagiata, una parola alquanto amara che possa offendere menomamente la dignità servitoriale alla mendicità li ricaccia, e non di rado l’umiliazione dell’accattare al servire antepongono. E basti su ciò.

Ché se poi taluno mi domandasse che cosa badie fare tutto questo col guaglione, io risponderei che vi ha che fare benissimo perché molti di questi piccioli mestieri sono esercitati da’ guagliune ed il guaglione essendo la pianta dell’uomo del popolo, quanto di sopra dicemmo è pienamente applicabile anche a costoro; quante volte (come sarebbe a desiderare) più sano consiglio adottando si addimostrassero men negligenti ad istruirsi in altra cosa che meglio e più decorosamente ai loro bisogni provvedesse.

Tra i piccoli mestieri che esercitano i guagliune molli potremmo annoverarne, come per esempio:

Il franfelliccaro  o venditore di pastiglie di zucchero e melazzo.

Il mellonaro. Quel guaglione che nella state corre le vie recando sulla testa una tavola, sopravi il popone disposto in fette.

Il galantariaro  (chincagliere ambulante).

I venditori, spacciatori di gazzette, opuscoli, canzoncine od altri fogli volanti che si spacciano per le strade o per le piazze.

I venditori di cerini e legni fosforici , quelli che vanno intorno per le strade o pe’ Caffi vendendo suppellettili, come specchiere, tondi, scrignetti, cassette d’oriuoli, armadi ec. disponendoli in bell’ordine la sera per la strada Toledo: rifiuto de’ magazzini, ovvero lavori formati da’ garzoni  con gli avanzi di legno rimasti nelle botteghe; delizia di chi è abituato a guardar le cose all’oscuro.

Non trascuriamo di far menzione di un’altra piccola industria e di data recentissima che si esercita da’ guagliune ed è questa.

Nelle giornate piovose, poiché l’acqua è cessala, vanno eglino frugando fra le commettiture e le fenditure de’ basoli, in busca di qualche ferruccio o chiodo od altra simile cosa che poi riuniscono e vendono.

Questa cotanto profittevole industria può bene considerarsi come un’appendice a quella non meno splendida del trova sigari!

Potremmo aggiungere anche i garzoni de’ salassatori e parrucchieri, i venditori ambulanti di cade e simili, ma essendo questi a considerare piuttosto come scalini al rispettivo mestiere, così è che all’apposito paragrafo appartengono: contentandoci di chiuder questo col far cenno di un ultimo ufficio de’ guagliune, che non sappiam bene se chiamar si debba piccolo mestiere o mestiere, ma che pe’ barbieri se non altro, è un mestiere, come ha sanzionato Figaro, oramai rispettabile per la sua fama e vecchiezza

Un bel mestiere per verità

Per un barbiere di qualità.

Mestieri. Così come l’ozio e l’infingardaggine rendono cattivo il cittadino o almanco poco utile, cosa non àvvi più adatta a distruggere il cattivo germe, disgraziatamente tanto ingenito alla umana natura, della incessante fatica e solerzia, le quali, laddove sian pure al buon volere accoppiate, non v’ha mèta cui dubitar possano di non aggiugnere.

Ed a questo proposito, affinché via meglio apparisca quanto valgano siffatte pregevoli qualità nell’esercizio de’ mestieri, mi gode l’animo di qui riferire un dialogo a un dipresso tal quale l’udii ne’ miei primi anni, che mentre ci divertirà un tantino dalla monotonia della narrazione, varrà pure a dare allo straniero una qualche idea anche più chiara de’ modi familiari delle nostre famiglie popolane:

Lu si Tore 1 — capo inasto d'ascia.

La siè Vicenza — verdummara.

Pascariello— guaglione, figlio de la

siè Vicenza.

Salvatore -capo maestro d'ascia. a

Vincenza— venditrice di verdura.

Pasqualino—guaglione, figlio di lei.

Tore. Bonnì, siè Vicè.

Vie. (da lu vascio) Bongiorno ussignoria, mosto To'.

Tore. Che d'è?

Te veco ngullata stammatina... Aie avuto mala cera?

Vic. Viato tene, mosto To'… Sapisse,

addò stanno mo le ccelevrelle meie.

Tengo stu diavolo niro, ca nun me fa

arrecettà né ghiuorno né notte (mmostanno Pascariello).

Pasc. Oimà... accattame allesse.

Vic. La mala pasca che te vatta

Pasc. Oimà... accattarne u casatiello.

Tore. Embè; pecché nun nce l'accatte, siè Vicè... È piccerillo e nce vo pacienzia.

Vic. Siè To'... si nun fusse tu, mo te diciarrìa nu chiaccone... Chisto è nu lazzariello, nu banchiere... Chisto me vo uccidere a mme... Chisto me fa magna i mmorze amare.

Pasc. Oimà...nu turnese e franfellicche...

Vic. (le mena nu zuoccolo e Pascariello se ne fuie) Mo te ne fuie, nè, lazzariè... Te ne fuie mo, chiappo de mpiso… Puozze sculà, puozze schiattà nsarvamiento nuosto e de chi nce sente 2. Ma statte zitto, ca quanno

me viene dinto a le granfe te voglio cunzulà io... Nnevina, sì Tò, stu mpiso che bba facenno lu iuorno?

Nnevina.

Tore. E cche?

Vic. Va facenno lu banchiere ncoppa a lu muolo, e cu ll'aute lazzarielle pare suie e pevo d' isso iocano a capo o croce... se fanno lu tuccariello… Gnossì... lu tuccariello, stu muccuso ch'ancora a dda nascere. E cchesto n'è nniente... Uh faccia mia! A na famiglia nnorata comme a la nosta... stu lazzariello... stu faccia d'acciso peccerillo peccerillo... se mpara a rrobbà moccatore mmiezo a lu lario du Castiello.

Tore. Siè Vicè... nun aggio che te dicere... Aie raggione, e chiù che raggiane. Te vurria propria cunzulà si putesse.

Vic. E che cunzulà... Co chisso arrassosia nun me fa vedi chiù ffaccia de confessore 3 e no juorno o n' auto, a li cane sia ditto, chisto me venerrà acciso a la casa... Cridemi siè Tò ca me ne songo proprio sculata da dinto a li panne... Na povera vedola ca Dio lu ssape comme campa... che s'a llevato le frutte dell'uocchie pe mmantenè a stu chiappo de mpiso (chiagne).

Tore. Siè Vicè... tu me sparte lu core... Ma, aspè... Pecche nun lu miette all'arte?

Vic. Vulesso lu Cielo. Tenarria celevriello chillo banchiere, ma nun bo' appricà...

Tore. Mannammillo ccà dimane.

Vie. E che nne caccie, nè?

Tore, ilo vedimmo. Accummenzammo nuie ca lu Cielo farrà lu riesto. Aiutate ca DDio t' aiuta dice lu ditto.

Vic. E che ne vuò sperà, sì Ture mio. È tiempo perzo. Chi lava la capa all'aseno nce perde la lisciva e lu ssapone.

Tore. Siè Vicè, siè Vicè... e mo me nzallanisce. T'aggio ditto: manname a figlieto dimane cu na scusa, e io ncapo a nu mese te lu torno n'auto... Tu mmedesema nun lu canusciarrai chiù; tu mmedesema diciarrai: chisto è figliemo o nun è figliemo?

Vic. Passasse l' angelo e dicesse ammenne.

Tore. T'aggio ditto: manname a figlieto dimane.

Vic. Te lu mannarraggio sì To, e si veramente me lu faie arrennere ca lu Cielo te pozza benedicere e aonnà comme aonna la messa 4. Ma… teccutillo che se ne vene fiscanno cu n'auta chiorma de lazzarielle. Ah mpiso, mpiso (a lu figlio che bbene vuttannolo

dinto a lu vascio). Trase dinto, galantò, ca po facimmo li cunte. Bonnì sì Tó.

Tore. Bonnì, sii Vice... (zitto zitto a Vicenza) Aie ntiso mo, mannammillo… a la fine è ccriatura, e lu llignamme verde se pò sempre chijà.

Vic. Lu Signore te pozza benedicere. Bongiorno ussignoria...

Salv. Buongiorno, siè Vincenza.

Vinc, (dal basso) Buongiorno a vossignoria, mastro Salvatore.

Salv. Che cosa è? Ti veggo assai di cattivo umore questa mattina. 'Ài forse

avuto cattiva cera b?

Vinc. Oh te beato, mastro Salvatore...

Se sapessi dove io mi abbia la testa...

Ci ho questo demonio nero che non fa

trovarmi pace né di né notte (mostrando Pasqualino).

Pasq. Mamma, comprami le baloge.

Vinc. Il malanno che ti colga....

Pasq. Mamma. comprami il casatiello c.

Salv. Or via; perché non gliel compri,

siè Vincenza? È fanciullo e ci vuol pazienza.

Vinc. Si Salvatore, se non fossi tu or

ti direi uno sproposito... Costui è

un piccolo lazzaro, un monello...

Costui mi vuote ammazzare... Costui mi fa trangugiare di continuo bocconi amari.

Pasq. Mamma, comprami un tornese di franfellicchi d.

Vinc. (gli tira uno zoccolo e Pasq. fugge) Or te'n fuggi, piccolo lazzaro… Ora te 'n fuggi, capestro... Che tu possa scolare... Che tu possa crepare... in salvamento nostro e di chi ci ascolta e. Ma sta pure, che quando mi verrai fra le unghie voglio acconciarli ben io come va... Indovina un po' sì Salvatore questo tristo impiccato che va facendo nella giornata? Indovina?

Salv. E che?

Vinc. Va facendo il monello sul molo, e con altri piccoli lazzari suoi pari o peggiori di lui giuocano a capo o croce... fanno al tocco... Signorsi… al tocco... cotesto moccioso f che quasi pur dianzi è nato... Oh mia vergogna!... Ad una famiglia onorata come la nostra.. Questo piccolo lazzaro... questa faccia da

forca... piccolo ancora... apprende a rubar fazzoletti in mezzo al largo del Castello g.

Salv. Siè Vincenza.. non so che dirti... Ai ragione e più che ragione. Vorrei proprio consolarti se potessi.

Vinc E come consolarmi; ché costui, oimà, non fa eh' io vegga più la faccia di un confessore h e un giorno

o l' altro, sia detto per li cani  i costui mi verrà ucciso a casa. Credimi sì Salvatore, che mi son cosi dimagrita da non reggermi più indosso gli abiti... Una povera vedova che Dio sa come vive... che si ha tolto li

bulbo dell'occhio k per dar da vivere a cotesto capestro (piange).

Salv. Siè Vincenza, tu mi spezzi il cuore... Ma, stà. Perché non lo addici all'arte?

Vinc. Il Ciel volesse. Quel furfantello avrebbe bene l'ingegno (da poter attendere a lavorare cioè) ma non vuole applicarsi.

Salv. Mandalo qui a me domani.

Vinc. E a qual prò, di grazia?

Salv. Vedremo. Cominciamo noi, ché poi il Cielo farà il resto. Aiutati ché Iddio ti aiuterà, dice l'adagio.

Vinc. E che vuoi sperarne, sì Salvatore mio. E tempo perduto. Chi lava il capo all'asino vi perde il ranno ed il sapone.

Salv. Siè Vincenza, sii Vincenza... ora mi stordisci. Ti ho dello: mandami tuo figlio domani sotto un qualche

pretesto, ed io a capo di un mese te lo renderò tutt'altro... tu stessa non lo riconoscerai, tu stessa dirai: E questo il mio figliuolo, o non lo è?

Vince. Passasse l'angelo e dicesse amen.

Salv. Ti ho detto: mandami tuo figlio domani.

Vinc. Te lo manderò si Salvatore, e se veramente potrai far che si pieghi che il Cielo ti possa benedire e farti abbondare come abbonda la messa l. Ma… eccolo che se ne viene fischiando con una mano di piccoli lazzari... Ah disgraziato, disgraziato (al figlio che è sopraggiunto, spingendolo nel basso). Entra, bel galantuomo, ché salderemo poi le partite. Buongiorno si Salvatore.

Salv. Buon giorno, siè Vincenza (in disparte) Ci siamo intesi; mandamelo. Alla fin fine è fanciullo ed il legname verde si può sempre piegare.

Vinc. Il Signore ti possa benedire Buongiorno a vossignoria.


Decorsi diciassette anni incirca da che udii un tal dialogo, nel mentre un bel dì di domenica andava a diporto con un vecchio capitano di nave napolitana per la bellissima strada della marina, vidi passarmi daccanto uno non dirò magnifico ma certo assai decente carrozzino con entro un uomo d’intorno ai trent’anni, vestilo con molta pulizia, una donna di avanzata età; una giovane in sul ventottesimo anno e due puttini, un maschio ed una femina, belli belli come due amorini.

Il mio compagno di passeggiata mi disse come colui fosse un capomaestro al servizio del Governo, che, la mercé dell’indefesso lavoro, della sua ottima volontà, di una esemplare condotta, era giunto infino a metter su un più che sufficiente capitale pe’ propri bisogni e per quelli della sua famiglia; ed io ebbi a stupire sommamente allorché dalle relazioni venni a riconoscere in cotesti personaggi quel monello di Pascariello, oggi D. Pasquale, la siè Vincenza, oggi D. Vincenza, e l’altra giovane assai avvenente, moglie di Pascariello che probabilmente era anch’ella conosciuta un giorno come la siè Concetta ma oggi chiamasi donna Concetta, e forse anche eccellenza perché l’eccellenza dal nostro popolo si vende a buon patto: in ispecie quando vede che Sua eccellenza ha denari e spende bene.

Donna Vincenza dunque attualmente benedice la memoria del buon mastro Tore (perché non è più) per la cui opera, in cambio d’un figliuolo che parea accennare indubitatamente ad un discolo, ad un capestro ha acquistato un modello di figliuolo virtuoso tenero ed operoso.

Nè certo men di lei gode il figliuolo pensando di poter lasciare alla sua prole un sufficiente e forse pingue peculio senza rimorsi e senza pentimento., ché se Iddio da una parte ci diede il pane nella fatica e nel sudor della fronte, dall’altra il condì di tale un sapore che fa talvolta scordare e le sofferenze e le angosce e le fatiche durate.

E così il fabbro, il ferraio, il calzolaio, il sarto, il sellaio, il muratore, il parrucchiere ec. e così anche il mercante, e il rigattiere e il sensale e talvolta ancora il negoziante primario non riconoscono la loro primitiva origine dal povero e non curato Viva dunque il lavoro cd i mestieri..

Conchiusione.

E come quei che con lena affannata

Uscito fuor del pelago alla riva

Si volge all'acqua perigliosa e guata

Così affannoso anch’io di guadagnarla riva dopo corso l’oceano delle vicende guaglionesche in quel modo che meglio si poteva da troppo inesperto pilota non ho che solo due altre parole ad aggiugnere, come breve riepilogo del già esposto, cioè che in tutta quanta la storia del guaglione napolitano l’acume dell’ingegno ammirar possiamo, una vivacità e sveltezza senza pari, e molti altri favori onde natura gli fu larga, ma congiunti nondimeno a molli difetti che sol l’educazione, novella vita dell’uomo, giugnerebbe ad estirpare, ché anche il buon frumento è al loglio commisto, la buona pianta agli sterpi, ma la mercé del vaglio e della falce la dorata cerere biondeggia, e la pianta, olezzante e rigogliosa forma il sorriso dei prati e la felicità del solerte agricoltore, che lietamente e benedicendo il Cielo, ad esso intorno i suoi sudori profonde.

ENRICO COSSOVICH.

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1) Sì presso il popolo pare che valga a un dipresso come l'antico aere. È un modo tra il signorile e il triviale; e la siè è il femminino del sì.
a) «Questa versione non ha altro scopo che di far intendere, alla meglio, alla straniero affatto ignaro del nostro dialetto, ciò che contiene questo dialogo e non altro. Invano intanto ci adopreremo a conservar la venustà, la semplicità, l'indole, in una parola tutta propria, tutta originale, tutta caratteristica del dialetto; anzi talune cose è affatto impossibile rendere in italiano, o almeno fredde e snervate per modo che nulla più vi si ravvisi della originale bellezza. —Una tale protesta era indispensabile.
2) Allo straniero avverrà sovente che queste e somiglianti frasi ed imprecazioni oda profferire nell'ira dalle madri popolane di Napoli, a prima giunta cosi straordinarie e scandalose in bocca d'una madre; ma si rimanga dal giudicare dalle primo sensazioni. Tali modi nella nostra plebe non son mica differenti dal Mammone e dalla befana che si dà ad intendere al bambino affinché zittisca; ed invece questo madri, come tutt'i Napoletani, hanno ottimo cuore ed amano teneramente la loro prole.
3) Cioè » pe' peccati che commetto a cagion sua non ardisco più di presentarmi innanzi di un confessore».
4) Aonnare cioè abbondare… Perciò dovrebbe tradursi: » Il Cielo ti possa abbondare come  abbonda la messa.» —Ma che significa ciò? Nulla. Intanto nel dialetto è una frase che suol ripetersi le mille volte por felicitare alcuno o fargli lieti auguri e pare che valga come il dire:— » Il Cielo possa abbondare di tanti beni e grazie inverso te per quanto la messa è produttrice di grazio o di boni celesti per l'anima ». — Ed ecco una dello tanto specialità del dialetto che a potersi bene intendere e gustare fa mestieri aver lunga pozza fatto soggiorno in un paese.
b) Cioè: ti ha forse fatto cattivo sembiante il tuo innamorato? — È modo scherzevole del popolo.
c) Spezie di torta con uova, di cui parlammo, e di rito ne' giorni pasquali.
d) De franfellicchi si è già fatto parola. — Vedi il franfelliccaro.
e) Vedi la nota n. 2. che corrisponde egualmente a questo punto.
f) Vale a dire cotesto ragazzaccio cui pule ancor la bocca di latte. — modo del popolo muccuso.
g) Già tempo ritrovo conosciutissimo di sacculari.
h) Vedi la nota n. 3.
i) Non so perché tutti malanni le morti le pesti, nel linguaggio del nostro popolo, debbono essere indirizzati a queste povere e fedelissime bestie, quando ve ne ha tante altre così brutte e malvage, ma tanto è così.
k) Modo enfatico del dialetto per indicare i sacrifizi che costa un figliuolo alla madre. — Il nostro dialetto, come ognuno vede, è pieno di metafore ardite, d'immagini vivacissime sì che difficile è il trovarne altro al pari energico, vibrato, concettoso, veemente; ed il quale più al vivo ne faccia sentire nell'animo tutto quello che esprime. —L’orientalismo che è non solo nella poesia ma anche nel linguaggio familiare del nostro popolo chiaramente lo mostrano non pure di anima ardente e passionata, ma bene ancora figliuolo prediletto delle muse.
l) Ecco una frase del dialetto che è impossibile rendere in italiano. —Lu cielo te pozza aonnà comme aonna la messa. Vedi la nota corrispondente al num 4.






















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