Eleaml - Nuovi Eleatici


USI E COSTUMI 

DI NAPOLI E CONTORNI DESCRITTI E DIPINTI 

OPERA DIRETTA DA FRANCESCO DE BOURCARD

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VOLUME SECONDO - 02A

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NAPOLI

STABILIMENTO TIPOGRAFICO DI GAETANO NOMLE

Vicoletto Salita a'  Ventaglieri num. 14.

1858

Un affresco di Napoli prima che diventasse italiana (1858), tratteggiato dalle migliori penne dell'epoca, come Giuseppe Regaldi, Carlo Tito Dalbono, Francesco Mastriani, Emmanuele Rocco, Emmanuele Bidera, Enrico Cossovich. L'opera fu diretta e pubblicata da Francesco De Bourcard, discendente di una famiglia proveniente da Basilea e trapiantata nel Regno di Napoli.

Scrisse Benedetto Croce: "Gli Usi e costumi di Napoli e contorni descritti e dipinti, opera diretta da Francesco de Bourcard, sona un magnifico libro, che mi meraviglio di non veder lodato e celebrato e ricercato come si dovrebbe, e che forse adesso comincerà a svegliare intorno a se questi meritati sentimenti, adesso che, come tanti altri libri, - dopo la rarefazione bibliopolica prodotta dalla guerra, - è diventato prezioso e quasi introvabile."

Questo secondo volume, nella versione che abbiamo utilizzato noi, quella pubblicata nel 1866, risente del nuovo clima politico di impronta sabauda.

Zenone di Elea - 27 febbraio 2016

01A - Usi e costumi di Napoli e contorni - opera diretta da Francesco de Bourcard - HTML

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02A - Usi e costumi di Napoli e contorni - opera diretta da Francesco de Bourcard - HTML

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I LAZZARONI ED I FACCHINI

ESAMINATO l'uomo del popolo nella sua età fanciullesca, seguitolo guaglione nelle svariate vicissitudini di una vita gaia, spensierata, vivacissima, ritorneremo a studiarlo adulto, occupandoci del lazzarone, ancor più del primo argomento vasto ed importante, e sul quale tanto si versarono patri scrittori non meno che stranieri. Se non che questi ultimi, sia per capriccio, sia per troppa leggerezza nello studio delle nostre costumanze, sia anche in buona fede in gravi errori inciamparono alterando la cose o sognandone altre non mai state, senza farsi alcuno scrupolo di presentarle al pubblico nelle loro opere. Onde a ragione scrive Galanti nella sua Guida di Napoli «Gli aneddoti, gli epigrammi, i sali potranno rendere piacevoli e piccanti siffatti libri, ma si abbia la buona fede di chiamarli romanzi, e non viaggi, cioè storia.

Fa mestieri inoltre di lunga permanenza in un luogo a fine di giudicai ne con criterio e piena cognizione di causa. «Un court vovage cu Italie (son parole ili Chauvet citate dallo stesso Galanti ) fait naître chez l’étranger les préventions les plus défavorables. Un long séjour par mi les Italiens inspire pour eux uno estime et un intérêt profond. » Dopo queste poche parole di prefazione, per avventura non affatto inutili, veniamo più da vicino al nostro proposito.

Le crociate, secondo un valente scrittore patrio, portarono a noi il morbo della lebbra dall’Egitto e dalla Palestina.

Coloro i quali ne vennero afflitti invocarono a protettore il Lazzaro del Vangelo  e fu creato un Ospedale col titolo di S. Lazzaro, nonché l'ordine cavalleresco ed ospedaliero sotto il medesimo titolo conosciuto. Or come quelli che componevano l’infimo ordine de’ nostri popolani, specie di proletari, vestivano una semplice camicia e calzoni di tela grossolana, rendendo cosi una tal quale simigliami de’ lebbrosi dell’Ospedale di S. Lazzaro i quali indossavano una veste di tela bianca, , con buon fondamento può rintracciarsi in ciò l’etimologia della voce lazzaro onde poi nacque lazzarone. Gli storici si accordano nell’opinare essere il nome di lazzaro sorto al tempo de’ Viceré spagnuoli e dato per derisione a quelli del basso popolo perché andavano quasi nudi come Lazzaro. Difatti tra un gran numero di abbiette genti (seguo le espressioni di uno di essi storici) molti vivevano a modo di belve, mal coperti, senza tetto, dormendo il verno in certe cave e la state al ciel sereno.

Comunque sia, oggi il lazzaro non somiglia più a quello de'  primitivi tempi, sensibilmente nel numero diminuito, e mutato nelle forme. imperocché dapprima se ne contavano presso di noi circa quarantamila, gente pigra, oziosa, noncurante di sò, dedita al ventre ed al sonno, cenciosa, scalza.

Oggi una tale cifra è divenuta favolosa, i lazzari odierni, partecipi anche eglino al benefico ascendente dell’incivilimento, non più si cuoprono con cenci; di scalzi (salvo qualche rarissima eccezione) non più si veggono per la capitale, anzi taluno veste in modo abbastanza proprio «decente, di tal che oggi lo straniero inutilmente ricercherebbe il tipo del lazzaro quale viene descritto nelle antiche opere di costumi napolitani o delineato in vecchie figure. E di vero cosiffatta mutazione è dovuta in modo essenziale al progresso de’ tempi che estese i suoi benefici anche all’uomo del popolo.

Il commercio indicibilmente facilitato e promosso, grazie alle stupende invenzioni delle ferrovie e de’ bastimenti a vapore ha renduto indispensabile il soccorso di braccia, epperò il lazzaro, anziché starsene meschinamente a poltrire, trova sempre in che spendere con profitto la giornata, ed in conseguenza a provvedere, meglio che per lo innanzi, ai suoi bisogni.

Oltre a ciò il destro che di continuo gli si offre di avvicinare persone illustri per nascita e per dignità, ingentilendo i suoi costumi, migliorando ed ampliando le sue idee, ha giovato non poco a solleticarne la piccola ambizione (che anche egli come tutti ne ha un tantino a questo mondo) a persuaderlo come sconcia e sconvenevol cosa sia la sudicezza eia improprietà ancora all'infimo e più vile degli uomini, anzi la nettezza non sapere iscompagnarsi da qualunque, avvegnaché abbiettissimo uffizio, ed infine come ogni gentile e bennata persona tanto più volentieri si senta inclinata ad avvalersi dell’opera altrui per quanto più mondo e castigato sopra sé stesso lo veggia.

Quanto all’indole talun autore ha voluto dare una tinta di ferocia al nostro lazzaro; qualche bel rumore straniero, tramutandolo in una specie di brigante, sul fare di Titta Grieco o Peppe Mastrillo, lo ha descritto armato di stile e di coltello, accattabrighe, insolente, corrivo alle risse ed all’offendere.

Senza dividere alcuna di queste opinioni, o piuttosto sogni, diremo come il nostro lazzaro india ha di feroce; in quella vece e gaio e faccione si spinge ad eccessi se non provocato, nel quale caso soltanto è a temersene molto, imperocché la parte fisica è in lui possentemente sviluppata.

Nè manca, per la intellettuale, di quell’acume e prontezza di spirito per avventura sì propri del nostro popolo; singolar privilegio dalla natura largitogli. In effetti a chi non è noto quanto sia esso concettoso ed epigrammatico che se tal fiata eccede gli è ad attribuire a quella sua soverchia franchezza abituale, da veruna buona disciplina ovvero educazione raddolcita e moderata.

L'idea del lazzarone si accorda naturalmente a quella del facchino. imperocché ne sia una delle tante diramazioni, come diramazioni del lazzarone sono anche il vastaso ed il mascalzone.

Potremo in conseguenza distinguere così queste specie:

Lazzarone—nome generico dell'infimo ordine del nostro popolo.

Mascalzone—peggiorativo di lazzarone; nome che gli si da per ischerno o vituperio, e tolto per avventura da quello onde nell'età del feudalismo addimandavansi i pedoni o soldati di masnada male in arnese.

Facchino — lazzarone che ha deposto in gran parte la rozzezza originaria, utilissimo anzi necessario alla società, industrioso, intelligente, onesto, sempre occupato attivo solerte, e d’ordinario, come vedremo, assai onorato e stimato.

Vastaso — suona quasi facchino ma e voce più volgare, nascente dal greco che significa portare, e che ha fornito bastali agli Illiri, vastaso ai Napolitani e bastagio ai Toscani.

Vengono infine i lazzaroni talune volte chiamati anche banchieri e ciò dalla vecchia costumanza di riposare sotto le panche ovvero banchi.

Ma il più importante del fin qui detto intorno a lazzarone, ingenerale, è ciò che concerne nella specie il facchino, epperò occupiamoci ora di questo.

I facchini, addetti esclusivamente ai trasporti,ciò fanno in diversi modi. Altri levano i pesi interamente sul capo,altri ponendosi una specie di berretto lungo di lana bigia che ricade attortiglialo sul collo, e detto perciò sacco,caricano del peso il collo medesimo, e questo chiamano con propria frase auzare ncuollo (alzare in collo). Altri infine trasportano i pesi affidandoli ad una spranga che appoggiano sopra una sola spalla,e questi ultimi sono quasi tutti di San Giovanni a Teduccio,grazioso ed industre villaggio ne' dintorni di Napoli, detti perciò comunemente i Sangiovannari .

E come al nominare dei San Giovannari molti dei nostri lettori saran corsi per avventura col pensiero alla bella festa popolare così della degigli che da costoro recatisi in ispalla nel giorno 22 giugno, in cui la città di Nola celebra la festa del suo vescovo e protettore S. Paolino, così confidiamo non sia per giugner discaro il breve episodio che facciam seguitare, dopo del quale ritorneremo più minutamente alla fisiologia de’ nostri protagonisti.

Ma innanzi tutto come dispensarci dall’offerire un piccini tributo di ossequio a città così memorabile e per tanti titoli dalla storia commendata?

Toccheremo perciò di volo come varie sieno state le opinioni sulla origine di questa città regia vescovile, e suffraganea di Napoli,la quale sorgeva nove miglia dall'antica Suessola e nel silo stesso ove oggidì si vede.

Taluni scrittori la vogliono fondata da’ Calcidesi stando a quel verso di Silio

Hinc ad Calcidicam transfer citus agmina Nolam.

Velleio Patercolo pretende sia stata edificata dagli Etruschi verso l’anno 801 avanti C. C. e questa è l'opinione più generalmente accolta.

Appartenne alla Campania, come avvisa Strabono e come scrive Livio, e lunga pezza i suoi abitanti furono confederati co’ Sanniti.

Annibale assediò Nola nell'anno 837 di Roma, ma fu per ben due volte sconfitto da Marcello, in quel tempo pretore nella medesima Nola, onde ebbe a scrivere Girolamo Borgia

Nola Deum sedes, ahi vinci posse potentem

Marcellus docuit dira per arma ducem.

Ebbe dodici porte, mura di molta fortezza e magnificenza, molti celebri templi, rinomati anfiteatri e magnifici sepolcri.

Nella guerra italica fu presa dai Sanniti.

Fu municipio de’ Romani, indi Colonia Felice.

In essa (come è noto) da San Paolino vescovo furono inventate le campane che però si dissero nolae.

Vi mori Augusto.

Nel 1255 fu presa da Manfredi.

Nel 1424 e susseguentemente nel 1503 e 1594 soffrì la peste cagionata da ristagno di acque sovrabbondanti nel suo territorio.

Per queste ed altre molte dolorose vicende, avvegnaché ancora oggi sia onorevole città, non potrebbe riconoscersi l'antico suo splendore e magnificenza.

Fu patria di Giordano Bruno, Ambrogio Leone, Albertino Gentile, Luigi Tansillo e del celebre scultore Giovanni Merliano. volgarmente Giovanni da Nola.

Vuolsi che San Felice I sia stato il suo primo vescovo ma secondo il Giustiniani  la sede vescovile fu prima in Cimitile. Dipoi Francesco Scaccino, crealo vescovo nel 1470, la trasferì in Nola.

E basti, che sovrabbondando le storie di notizie, l una più dell'altra importante, circa questa illustre città non vorrem già recar civette in Atene col ripetere quanto in esse diffusamente è narrato. Però diremo quel che più da vicino ne concerne, cioè della festa popolare de’ gigli, sulla origine della quale ecco quanto mi è riuscito ricavare per ragguagli favoritimi da benemerito e cortese professore nolano.

San Paolino, terzo dei vescovi di Nola morto nell’anno 431, vi esercitò santamente il suo episcopato, sul principiare il sesto secolo dell’era cristiana.

In quell’epoca i Vandali scorrevano la Campagna, e fra i tanti danni che alle nostre contrade arrecavano, fuvvi quello di spesso rapire e menare schiavi gli abitatori di esse.

Nel novero di cotesti infelici essendo per sua mala ventura capitato l'unico figliuolo d’una vedova, costei, comeché priva di mezzi onde riscattarlo,impetrò l’aiuto del santo vescovo,il quale nella impossibilità anch’egli alla sua volta di soccorrerla mercé danaro o altramente, con filantropia e carità cristiana veramente eroiche, sé stesso offerse prigioniero a liberare il captivo.

Ma come lo splendore della virtù si là strada fino tra le più litte tenebre, così non andò guari e quella onde il Santo a dovizia era adorno, gli valse, nonché l’ammirazione de simi stessi nemici, la libertà.

Nel ritorno che fece dappoi alla sua diocesi di Nola i fedeli, i quali altamente lo veneravano, fuori di sé per la gioia, gli corsero esultanti incontro con mazzi di fiori, tra i quali primeggiava il giglio, a simboleggiare probabilmente il candore e la cristiana virtù del santo prelato.

Man mano ed in progresso di tempo da’ fiori si passò ad una specie di piramidi che ritennero il nome di gigli .

Queste piramidi o giglio avanzando di tempo in tempo, sono arrivali oggidì ad una tanto considerevole mole e smisurata altezza che soprastano i tetti de più alti edilizi della città.

Ciascun lato di essi gigli è adorno di fiori, nastri, bende, festoni, statuette di carta pesta e simigliami cose. La macchina è divisa in più ordini, nel primo dei quali e collocata l’orchestra, ed accompagnati dal suono di questa, i facchini (che sono appunto i san Giovannari) ballano a tempo di musica con quello smisurato peso sulle spalle. Gli altri ordini sono occupati da popolani, ne’ loro abiti da festa e le donne si rivestono de migliori ornamenti che posseggono.

Questi gigli sono costruiti a cura delle diverse corporazioni di arti e mestieri che ricordano le antiche fratrie. I principali sono quelli de’ sartori, de calzolai, de’ fabbricatori e degli ortolani. Ciascun giglio è sostenuto da sedici facchini, ma il più grandioso è quello degli ortolani trasportato da trentasei di essi.

Spari di mortaretti campane a disteso, fuochi d artifizio, luminarie e quant'altro possa esservi di più clamoroso in una festa popolare rendono pomposa e magnifica la processione de’ gigli, i quali, accompagnati da numeroso clero, vengono portati innanzi al Vescovado dove ricevono la benedizione del Santissimo.

Per tornare ora al nostro proposito i facchini, come dianzi dicemmo, sono industriosi ed intelligenti ma formano le principali loro doti l’onestà e l'onoratezza. Deggiono queste anzi dirsi condizioni assolutamente inerenti all’esercizio (l’un mestiere che riducesi in sostanza ad un contratto di buona fede.

Hannovi diverse specie di facchini.

Alcuni sono destinati a Regie Amministrazioni come al Banco, al monte de pegni, alla Zecca ec. e la fiducia che in costoro ripone lo stesso Governo,come di leggieri e a credere, è piena ed illimitata, sì che eglino hanno ingresso libero in qualsivoglia di coteste officine e senza riserba di sorta. Eguale, anzi maggiore, è la fiducia che ispirano quelli addetti alla Gran Dogana, e di cui or ora e’intratterremo più distesamente.

Altri stanno al servizio delle strade ferrale per comodo de’ viaggiatori affin di trasportare i loro effetti. come bauli, casse, sacche da viaggio ec.

Altri trasportano in ispalla le bari. distribuiti alle quattro aste dello strato mortuario, e sono propriamente i becchini. Costoro appartengono per lo più al quartiere Mercato.

Hannovi quelli impiegati pel trasporto del carbone fossile su i bastimenti a vapore, regi, o mercantili, e questi sono d’ordinario al servigio di partitali o appaltatori.

Hannovi quelli esclusivamente addetti al trasporto di strumenti musicali, come pianoforti, arpe e simili e cotestoro formano una specialità, per la cura, l'attenzione e l’espertezza che si richieggono nel maneggio degli strumenti medesimi. Essi risiedono principalmente alla salita Magnocavallo.

I seggettieri vanno anche nel numero dei facchini e sono quelli destinati al trasporlo delle seggette o bussole,le quali son poggiate a due aste di legno che eglino reggono con ambe le mani, e raccomandate inoltre ad una grossa coreggia che pende loro dal collo. Le donne di teatro principalmente fanno uso di tal mezzo quando si trasferiscono al loro officio, sia pe’ concerti sia perle rappresentazioni. Queste seggette accolgono il mondo femminile di cantanti e di corifee di primo secondo e terz’ordine, assolute e non assolute, di allo o basso cartello, senza distinzione di sorta, dall’ugola preziosa della Malibran all’ultima corista, da’ piedi alali della Essici alla più oscura tra le corifee.

Eravi una volta un’altra specie, non saprei dire se di facchini o di lazzaroni,cosi detti passa-lave, che, a piedi scalzi e co’ calzoni rimboccati fino al ginocchio, toglievano sulle spalle i passeggieri ne’ giorni molto piovosi e li traghettavano da un lato all’altro delle grosse lave. Vero è che talfiata o non essendo abbastanza forti da reggere il soprastante fardello, o perdi squilibrio della persona o per altra causa procacciavano un bagno freddo alle loro innocenti vittime, altra parte troppo inaspettato ed intempestivo, ciò che ha dato origine a molte grottesche caricature che veggonsi anche oggidì ne disegni de’ costumi napolitani. Nondimeno è giustizia avvertire come ciò avvenisse molto di rado. Di presente non veggonsi più di cotesti passa-lave essendone quasi che affatto cessato il bisogno .

Hanno vi finalmente facchini i quali non esercitano propriamente alcuna Specialità di mestiere, ma stanno li a disposizione di qualunque voglia avvalersi della loro opera. E questo è il facchino come ordinariamente vien delineato ne’ quadri de’ nostri costumi. Sdraiato nella sua sporta (grossa cesta) nella quale mangia beve e dorme, tra i nembi di turno che partono dalla pipa, indivisibile sua compagna, egli si dà pochissimo pensiero del domani, bastandogli quanto provveder possa ai bisogni della giornata. Nulla ingordo, quando ha di che accender la pipa, di che comprare i suoi deliziosi maccheroni e di che provvedersi d un sorso di vino si reputa il più felice di questa terra. Chiamato dall'avventore lo segue e lucra cosi la sua giornata .

I facchini napolitani sono dotati, in generale, d una forza non comune, ciò che possiamo ili leggieri argomentare dagli smodati pesi che talvolta un solo di essi sostiene sul capo e trasporta con ammirabile disinvoltura.

L’aver poi eglino una grandissima attività e perizia è cosa che può osservarsi di continuo, in ispecie nella tumultuosa e tradizionale giornata del quattro maggio.

Ivi campeggia, ivi regna, ivi domina il lacchino. Ed eccoli affaccendarsi, correre giù e su,scendere e salire per le altrui scale, pieni di polvere, trafelati, affannosi,grondanti sudore a goccioloni. E taluni trasportano le masserizie sul capo, tali altri sulla schiena, tali altri le caricano su carretti, in ° guisa tale architettandole che non pure vi sia pericolo di perdita e caduta di oggetti, ma anche vi si ammiri l’arte e la ragionata disposizione, e tali ancora si sobbarcano eglino stessi a'  loro carretti a modo di giumenti.

Vero è come in quella fatale giornata (e tutti il sanno) non di rado intervenga che masserizie e stoviglie vengano disperse o malconce o rotte, ma ciò vuole attribuirsi innanzi alla cattiva scelta che si la de’ facchini; che anche tra questi, come in tutti gli altri ordini sociali, hannovi i guastamestieri. Epperò non si avverano giammai questi sconci quando si prendono facchini di conosciuta espertezza. Questi facchini si compongono in paranze, ciascuna delle quali ha il suo capo paranza da cui dipendono, e che è responsabile direttamente verso i suoi clienti della roba la quale gli viene affidata.

Ned altro aggiugneremo sul quattro Maggio avendone già tenuto proposito nel primo volume di quest’opera, e passeremo a qualche maggiore specialità sul facchino di San Giovanni a Teduccio, ovvero San Giovatili aro, onde sopra toccammo.

Il San Giovannaro può dirsi veramente il facchinotipo perocché primeggia sugli altri, secondo la frase del Mantovano, quantum lenta solent inter viburna cupressi.

Se l’onestà e l’onoratezza (ripetiamo) è la condizione indispensabile del facchino in generale, lo è poi in un modo eminente del San Giovannaro. Non solo i privati ma ancora il governo affida a costoro tesori preziosissimi, e quelli e questo sono troppo sicuri della illibatezza de’ depositari, come alla lor volta i facchini valutano compiutamente l'importanza di conservarla. In altri mestieri è forse possibile riparare ad una frode, ad una infedeltà, ma qual risorsa rimarrebbe al San Giovannaro che avesse una sola volta e per poco maculato il suo onore? Ninno più al certo se ne avvarrebbe, né resterebbegli che campar la vita accattando. Quei versi del Boileau

L’honneur est comme une ile escarpée et sans bords

On n'y peut plus rentrer des qu'on est dehors

sono per avventura più che mai applicabili a questa specie di facchini.

San Giovannari sono i facchini della dogana,e di quest’ordine troppo importante sarà utile intrattenerci un poco più diffusamente. A far ciò con la maggiore esattezza possibile trasceglieremo, riportandole per summa capita, dalla Esposizione della legge del 10 giugno 1820 sulle dogane, pubblicata per le stampe a cura di Raffaele Mastriani. quelle notizie che alla bisogna ci paiono meglio confacenti, inviando alla citata opera i bramosi di più minuti e diffusi ragguagli.

Il numero de’ facchini addetti al servizio della Gran Dogana è stabilito a 360. Di costoro debbono i commercianti esclusivamente avvalersi, per l'interno della Gran Dogana, negli scaricamenti e caricamenti in porto, nel trasporto delle macchine di peso alla dogana, e nelle estrazioni dalla medesima (Art. 1). L’operazione dell’alzare una balla o merce dal lido di mare e portarla al magazzino chiamasi collata.

Questi facchini sono distribuiti in paranze o compagnie, e ciascuna paranza o compagnia dipende da un capo e due sottocapi (Art. 2 e 3).

La paranza si compone di 8 a 12 facchini ed i capi, che con voce propria diconsi caporali o capiparanza. vengono nominati dai negozianti. Non è però a dire quanta e quale fiducia questi ultimi debbano riporre ne’ loro capiparanza come depositari di fortissimi capitali e spesso dell'intera loro sostanza.

L'è questa una ragione per la quale li prediligono, gli amano, sono larghi verso loro di premi e retribuzioni, allorquando se ne rendono degni; si che non pochi capiparanza sonosi arricchiti, grazie alla benevolenza de negozianti cui servirono, e taluni, divenuti proprietari, godono nella terra nativa pacificamente gli onorati frutti de loro sudori ed il guiderdone a giusto titolo dovuto alla loro onesta.

Laonde none a maravigliare se il nome del San Giovannaro sia molto stimato, e se la donna del popolo (secondo scrive il nostro vecchio ed erudito Bidera nella sua Passeggiata per Napoli) vada giustamente altiera di associare i suoi giorni a quelli di lui e di esclamare con nobile orgoglio —Mari temo è facchino de Duana—(Mio marito è facchino della Dogana).

I negozianti non possono dirigersi che ai capi delle compagnie, ed, in assenza,a’ sottocapi,i quali rimangono responsabili della esattezza de'  loro dipendenti (Art. 4) a quale oggetto debbono prestare una cauzione non minore di ducati mille (Art. 8).

I facchini addetti al servizio della Dogana vengono contraddistinti da una medaglia che portano sospesa al petto, la quale pe’ capi e sottocapi è di ottone e pe’ facchini di rame, secondo apposito modello (Art. 6).

Alla legge doganale va annessa una tariffa che determina i prezzi da pagarsi ai facchini, i quali (come dicemmo) esclusivamente, e non altri, esser debbono impiegati al servizio delle dogane, e laddove si denegassero a prestarlo al prezzo nelle tariffe (issato vengono congedati e cancellali dai ruoli (Ari. 10. 11 e 12).

Della morte o dimissione d’un facchino il capo o sottocapo è obbligato dar parte a’ suoi superiori fra lo spazio di otto giorni, restituendone la patente e la medaglia, sotto pena, in caso d’inadempienza, di essere cancellato da’ ruoli (Art. 13).

Prova della smisurata e direi quasi favolosa forza onde sono dotati i San Giovannari é la processione de’ gigli, per noi sopra descritta, ma ancor meglio e co’ propri occhi può assicurarsene chiunque voglia trasferirsi un momento alla Gran Dogana ed osservare gli enormi pesi che trasportano quotidianamente, e sempre sovra una sola spalla; ed io sono stato assiemato da persone del luogo molto degne di fede siccome un solo di cotesti facchini giunga talvolta a sollevare (avvegnaché a poca distanza) non meno di quattro cantaia.

Il numero de’ facchini napolitani, secondo il risultamento statistico compreso nella Guida non molti anni addietro compilata per gli scienziati col titolo—Napoli e luoghi celebri delle sue vicinanze — si fa montare alla cifra di 4198.

Ciò dimostra come questa industre ed utilissima classe sia abbastanza considerevole, e come l’uomo del nostro popolo,non più pigro ed indolente ma solerte e laborioso,procacci di guadagnare con onesto ed onorato sudore il pane per sé e per la sua famiglia.

Il tipo perciò del lazzarone sdraiato o addormentato nella sua sporta é oramai quasi affatto smarrito, se pur non vogliam dire interamente.

Abbiam veduto com’egli si nobiliti e sino a quale fortuna possa arrivare dedicandosi al mestiere di facchino, ma questo non è tutto. I piccoli mestieri ed i mestieri sono anche da esso esercitati e non di rado avviene che il celebre artista altro non sia stato nella sua origine che l’oscuro ed abbietto lazzarone.

Riepiloghiamo. — Il lazzarone è di un’indole soverchiamente franca ed aperta, ciò che in lui deriva da mancanza di coltura e da quella rustichezza primitiva non moderata in lui da circospezione e prudenza e da que’ modi gentili, i quali formano l’appannaggio dell’alta società.

Provocato, è terribile nell’ira, capace di tutto intraprendere, pronto e risoluto nella presa determinazione, ma trattato con garbo è umile, sottomesso, rispettoso e sempre leale.

Il suo umore è sempre allegro e gioviale, il suo cuore, a dispetto d un’apparenza di spavalderia, e ben formalo e la sua anima (come ne han dato prova in varie congiunture) abborrente da tulio ciò che non sia giusto ed onesto.

È dotato per natura di molto acume e di molta penetrazione, di una mente pronta e svegliataci che con grande faciltà intraprende qualsivoglia arte o mestiere e, quando pur lo voglia, non è a dubitare della sua riuscita.

Ciò sia detto del lazzarone in generale. 11 facchino è men rozzo, più modesto, più rispettoso e prudente, e questo nasce per avventura dacché avendo più da perdere per essersi dedicato al servizio del pubblico è necessario adoperi con maggior cura ogni mezzo a cattivarsene la stima e la benevolenza.

ENRICO COSSOVICH.

1 Anche oggi quando il nostro popolo vede taluno impiagalo o malconcio ha per suo detto — Me pare nu Santo lazzaro. —

2 Primieramente acciocché fossero distinti ed ognuno quindi potesse causarli, ed in secondo luogo acciocché la camicia potesse facilmente lavarsi (Vocab. Napolit.toscano).

1 Vedi la figura.

1 Dizion. storico geog.

1 Questa specie di festa a Nola par che abbia una tal quale analogia con quella della bara o vara la quale ha luogo in Messina il 15 Agosto, festività dell’Assunzione.

È solo a notare esser la vara trascinata dal popolo, mediante grosse funi, laddove gli enormi gigli di Nola poggiano interamente sulle spalle degli uomini.In talune festività dell'anno anche qualche paesello del regno fa le sue piramidi. ma non vale la pena di parlarne.

1 Le grondaie che in gran numero da tutti gli astrici davano sulle pubbliche strade vi rovesciavano l'acqua a torrenti,sì che queste ultime divenivano assolutamente impraticabili, ma ora che,per saggia disposizione del Consiglio edilizio, le grondaie esser debbono incastonale e fabbricale ne' muri degli edilizi il numero delle lave è sensibilmente diminuito, anzi nelle strade principali non se ne veggono quasi più del tutto. Tra le lave di Napoli merita particolar menzione quella famosa de Vergini presso la chiesa parrocchiale dello stesso titolo (nel quartiere di S. Carlo all'Arena). Essa può dirsi, senza esagerare, un piccolo fiume, c, non ostante leprovide cure della Città nel far costruire un gran ponte in ferro fuso sopravi collocato per agevolare il transito di quella strada, purtuttavia non lascia di essere a quando a quando cagione di qualche disgrazia, e difatti non ha gran tempo in una giornata molto burrascosa vi perirono affogati due cavalli di un carro carico di  carbone. La tradizionale frase del nostro popolo: Se l'ha portato la lava de li Virgini (L’ha trascinatola lava de’ Vergini) non ha origine altrimenti «he dallaampiezza e ferocia di questa lava.

1 Vedi la figura.



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LA RIMPAGLIATRICE

L'Industria della fabbricazione delle sedie tiene in Napoli occupata una legione di artigiani di ambo i sessi. Il loro quartier generale è presso all’Annunziata, il grande ospizio dei trovatelli eretto dalla pietà dei Napoletani, e che calunniato in mille guise da stranieri e fin da qualche patrio scrittore, può non pertanto servir di modello agli altri stabilimenti che hanno lo stesso scopo. In quelle vicinanze dimorano i seggiolai (seggerellari), che con ammirabile divisione di lavoro fabbricano migliaja di seggiole di paglia in un giorno. Di la si partono quei venditori girovaghi, che con un trofeo di sedie d’ogni maniera in dosso, artificiosamente disposte, van gridando per Napoli: No bello siggione p’a tavola, seggiolelle. E talvolta per variare dicono: Na bella seggio vascia, seggiolelle. Costoro sono chiamati dalle femminucce che abitano ne’ pianterreni, dalle madri del ceto mezzano che vivono nei modestissimi appartamenti, e vendono la loro merce con somma gioja dei bambini a cui è destinata. Epperò costoro sono amantissimi dei bimbi, non solo perché per essi si compra la loro mercanzia, ma principalmente perché essi la distruggono spesso in tempo minore di quello che è stato necessario a costruirla.

Le sedie più eleganti si formano e si vendono poi in tutti i siti di Napoli, dove hannovi pur molti magazzini delle leggerissime sedie di Genova e di Chiavari, delle fragilissime di Palermo, soventi volte le une e le altre costruite fra noi. Ma di queste non è nostro proposito occuparci, come neppure di quelle donne che ne formano il sedere con finissima paglia di sala, e con eleganti lavori di cordelline di sempreviva e dell’esterna buccia del finocchietto. Ciò che è caratteristico del nostro paese è la rimpagliatrice , la mpagliasegge, di cui diamo qui la figura, e che merita tutta la nostra attenzione.

Vedete quella donna, più o meno giovane o vecchia, che con un fascio di sala sotto il braccio legato in mezzo a una mezza dozzina di traverse (spruoccoli), si ferma ad ogni cantone o crocevia e grida 'mpagliasegge? Tutto il suo capitale consiste in quello che ha sotto il braccio, tutti i suoi utensili in un coltelluccio e una stecca. E la sua bottega? La poverina non ne ha. Voi la chiamale per restaurare le sedie sdrucite di casa vostra, ed ella gitta per terra il suo fardello, si sdraja accanto ad esso o in sull’uscio della vostra dimora, o nel cortile, o in mezzo alla strada, e tosto procede alla sua operazione senza bisogno di assistenti. Con due o tre tagli del suo coltellino l'antica paglia e amputata in un attimo, e poi s’incomincia il lavoro del restauro. La povera ossatura della sedia e da lei rivoltata in tutti i versi, la sala intrecciata artificiosamente a guisa di corda a più trefoli, e in poco d’ora l’opera ferve ed avanza, ora raggiustando colla stecca, ora con essa mettendo il ripieno nelle viscere dell’impagliatura . Se la sedia ha bisogno di qualche traversa, alla spalliera o alle gambe, l'impagliatrice ve la mette, e spesso lo zoccolo le serve di martello. Finito il lavoro, Io presenta a chi glielo ha commesso, ne accetta il compenso senza contrasto, raccoglie gli avanzi della sua roba, e tosto intuona la sua cantilena: ’mpa-glia-segge!

Alcune volle vanno di conserva in tre o quattro, la mamma colle figliuole, la zia colle nipoti: in tal caso, quando giungono a un bivio, a un trivio, a un crocicchio, dopo aver dato il solito grido, si dividono per diverse vie in cerca di fortuna, e la fortuna per loro son le sedie rotte o spagliate. Se una sola trova da lavorare ed ella è bastante al lavoro, le altre l'abbandonano indicandole il luogo dove dee raggiungerle, che per lo più e una taverna dove fanno la loro collezione che tien luogo di pranzo se il lavoro richiede l’opera di tutte, si rannodano immediatamente colla perizia stessa con cui più parti di un esercito fanno testa a un luogo convenutose la fortuna non si mostra, di nuovo il convoglio si congiunge per mezzo dei gridi consueti e riprendono la marcia in truppa.

Oltre a queste rimpagliatrici nomadi e vaganti, vi son pure le fisse e stabili che lavorano pei fabbricanti di sedie. Esse fan parte dell'aristocrazia della classe, e se non ne formano la parte più eletta, van però distinte dalla plebe che gira per le strade, ed hanno la speranza di lavorar con le più nobili al sedere delle sedie elegantissime. Vero è che il numero di queste va ogni di più scemando, poiché nelle sale e avvenuta un'irruzione di seggioloni, sedie e bracciuoli, poltrone, odi crino o di capecchio o con molte, perché moltemente possano sdraiarsi i poveri tigli d’Adamo dell’uno e dell’altro genere. Per l’addietro queste dilicature eran serbate al sesso che dicevasi debole o imbelle, ora il progresso de’ tempi ha infemminito anche il sesso forte, che cerca nelle poltrone un sussidio alla sua poltroneria. Forse i nostri posteri chiameranno il nostro secolo: il secolo delle poltrone... e dei poltroni.

Di questo passo progredendo torneremo per avventura indietro a mangiar coricali nel triclinio, e per non esser da meno de’ nostri antenati, tratteremo gli affari e ci riuniremo a conversare nella stessa guisa. Ne la distanza da varcare e molta, poiché dalle dormeuses, dai pàlès e dai soffici canape e sola ai tettucci e ai letti la differenza non è gran cosa. Per ora si può dire che la generazione presente stia fra il letto e il lettuccio.

Ma torniamo al nostro proposito e lasciamo un po’ da banda coteste uggiose considerazioni, per farne delle altre non meno importanti.

Sembra un destino che delle cose più usuali e che ad ogni momento ci cadono sotto gli occhi la maggior parte degli uomini hanno una compiuta ignoranza. Quante gentili donzelle che maneggiano il fil di lino o di canapi o di cotone, o adoprano la seta a cucire, han visto mai le piante del lino, del canapo, della bambagia, o il filugello che produce la sola?

Sanno esse le varie trasformazioni ed operazioni che hanno avuto luogo per giungere a formare un pannolino o un pannolano, la batista delle loro camice, il casimiro del loro sciallo, la stoffa serica del loro abito? Io ne conosco una che mangia il miglior pan buffetto che ci sia, ed intanto non ha mai veduto una pianticella di fermento; che scrive sui più eleganti foglietti inglesi, e non sa come essi siano stati fabbricati dei più luridi cenci, che beve nei più tersi cristalli, e ignora di che il vetro e il cristallo sian formati, infine che usa pomate e saponetti, e non ha mai cercalo di sapere donde si traggano quelle sostanze indispensabili alla sua toletta. Ebbene, io scommetto che né ella né molte sue compagne sanno che razza di roba sia quella su cui si pongono a sedere quando seggono sulla paglia intrecciata di una seggiola. Quindi non sarà loro discaro di conoscerne qualche cosa, di averne una qualche idea.

La pianta che volgarmente chiamasi Sala ed anche Paglia, ha dai botanici il nome di Tifa, e distinguesi in latifolla (dalle foglie larghe) ed in angustifolia (dalle foglie strette), o in maggiore e minore, bassi pure questo nome alla Carice vescicolaria, alla Carice pendicula e allo Spargalo eretto.

Le foglie della tifa, che han forma di lame da spada lunghe e sottili, si raccolgono, si fanno seccare per serbarle, e poi per farne uso si inumidiscono alquanto. La parte interna della pianta, che ne come il garzuolo, chiamasi salino, e serve pei lavori gentili, la parte esterna, detta schianza, stianza, stiancia, s’adopera per l’impagliatura delle sedie più ordinarie. La sala chiamasi pure mazza sorda, perché avendo la figura di una mazza, per la sua flessibilità e leggerezza non produrrebbe remore percotendo.

Eccovi una compiuta monografìa o fisiologia della rimpagliatrice. Se nel leggerla imparerà il lettore qualche cosa, come qualche cosa ho imparato io per iscriverla, non guardino alla poca importanza dell'argomento. In quanto a me io ho appreso a guardare con occhio più benigno le rimpagliatrici, che mentre stentano la vita per trovarsi un marito o spesso per dare a mangiare al vecchio padre,all’ozioso consorte e Si piccoli tigli, seggono sulla nuda terra o sulla dura pietra per far sì che noi sediamo comodamente sulle nostre seggiole. Nell’assidermi alla mensa o al tavolino avrò sempre un pensiero per le belle rimpagliatrici... quando siano belle.

EMMANUELE ROCCO

1 Il Carena chiama seggiolaio l'artefice che impaglia le seggiole; ma per non confonderlo con quello che le fabbricaci me piace meglio chiamarlo impagliatore come mi  assicura un toscano che si dica a Firenze, e rimpagliatore colui che rinnova il lavoro dell'impagliatore quando esso è guasto.



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SANTA LUCIA

Correte all'Agile barchetta mia.

Santa Lucia! Santa Lucia!

È buono anzitutto che il lettore sappia come trecento e tanti anni fa la strada di Santa Lucia non era cosi bella, cosi linda e imbellettata come oggi, ma si riduceva ad una modestissima spiaggia, fregiata da casipole di pescatori e di marinari che erano i soli abitatori, e diciamola anzi, i soli sovrani di quel rione — Io confesso la verità, per quanto faccia a ricordarmi di quest’epoca in cui l'Hotel de Russie, l'Hotel de Rome, e tanti altri vaghi e ricchi palazzi non si specchiavano sul nuovo lastricato di quella via, per quanto aguzzassi la memoria a rimembrare il bel tempo in cui eleganti phaeton e coupé e brische e landau non scorrazzavano a diporto ogni giorno per questa contrada, per quanti sforzi io faccia, non me ne ricordo addirittura un frullo, e giuocherei la testa contro un fico, che nessuno de’ miei tanti lettori potrà dire con asseveranza:— oh! quest’epoca me la ricordo io —E se uno ci fosse ardito tanto da sostenerlo, sarebbe un prezioso acquisto pel Museo, che troverebbe in esso dopo lauti secoli la prima mummia elio parla!Diamine! si traila di trecento anni fa — ed oggi per disgrazia mia e vostra la razza dei Matusalem è scomparsa addirittura dalla faccia del globo — forse per il sensibile aumento de'  medici, e per i grandi progressi della medicina — Parentesi—allorquando Galeno ed Ippocrate erano i soli che ammazzassero il prossimo—l’uomo poteva schermirsi e mantenersi fresco e vegeto per un buon pajo di centinaja d’anni: oggi che fra cinque abitanti di una casa, quattro esercitano medicina: chi sorpassa i cinquanta è un eroe— La parentesi è chiusa. —Amico lettore, giacche il fato mi condanna ad accompagnarti lungo Santa Lucia, a farti da guida per lo sdrucciolevole sentiero, e per servirmi di un vocabolo abusivo, a farla da Cicerone — povera eloquenza latina! — vieni meco, mettiamoci a braccetto, e poiché la luna c'invita, andiamo senz’aspettare che ci tolga l’onore della sua presenza. —Santa Lucia al chiaro di luna è una passeggiata invidiabile per gl’innamorati ardenti che han bisogno di rinfrescarsi il sangue, con l’acqua solfurea, ed è un sito incantevolissimo per gli amanti... dei vermicelli al pomidoro!

In quale delle due classi vuoi che io li ponga, o lettore? Scommetto nella seconda e siamo d’accordo — per via e’intenderemo un pò meglio —

Io non vorrei altro per fare una bella descrizione di Santa Lucia, che una penna del romanziere Inglese che si chiamò Gualtiero. Ma pare che il mio voto non possa essere esaudito! Walter Scott ha tracciato i suoi romanzi con una penna di oca io scrivo le mie impressioni con un pezzo d’acciajo a tre punte, che il dizionario chiamerebbe arnese per scrivere. e che sulle scatolette Inglesi piglia il nome di English Pens.

Per chi volesse sapere l’epoca precisa in cui la ridente strada di Santa Lucia,spogliandosi del ruvido sajo di pescatrice, cominciò a vestir mussola e lino a parte le metafore,da spiaggia che era divenne una via selciata,bisogna ricordarsi che nel 1599 il Conte di Olivares Errico Cuzman fu il primo a renderla dirò così praticabile, onde prese il nome di Via Cusmana; e che poi dalla munificenza de’ re, ed in ultimo dell’Augusto Sovrano Ferdinando II, venne ridotta così bella e così spaziosa come oggi si vede—Ma prima di giungere a Santa Lucia propriamente detta è mestieri traversare l’altra bellissima strada che pigliando capo dalla Reggia va a finire alla fontana del Sebeto, e questa strada è detta del Gigante per una statua colossale di Giove che prima vi si vedeva, e che poi venne trasportata al Museo — statua rinvenuta negli scavi di Pozzuoli. Oggi invece il Sebeto è venuto ad assidersi al posto di Giove, e la fontana del Sebeto di squisito lavoro, un tempo era chiamala fontana Fonseca dal nome del viceré Zunica y Fonseca che nel 1635 la ristaurava—Ecco un piccolo squarcio di erudizione che può adattarsi benissimo allo stomaco di tutti, perché ridotto in pillola abbastanza omeopatica—Ora lasciando a sinistra la fontana, e facendo di cappello al Sebeto, non fosse altro che per cortesia, il primo edificio che s’incontra è il collegio di Marina, e quartiere de’ Cannonieri, riedificato da non lunga pezza, di cui non faccio parola per evitare lunghe ed inutili digressioni, che non han niente che fare col mio assunto—ma invece ci fermeremo qualche minuto dinnanzi alla chiesa di Santa Lucia, da cui la strada prende nome—Non immaginate lettori, trovarvi dirimpetto alla basilica di San Pietro o alla Rotonda, che modestissima invece e priva di ogni bellezza vi si presenta la chiesetta della Santa miracolosa, che i Napolitani adorano con moltissima devozione, come protettrice e patrona del più squisito e del più nobile Ira i sensi: la vista — E tu vedi nell’entrare al modesto tempio, le pareti tutte sopraccariche di statuette di cera ed occhi di argento, ed altri doni consimili che si chiaman voti, messi ivi dai devoti che o privi del tutto della vista, o sopraffatti da qualche malattia oftalmica ricorsero fidenti alla Santa miracolosa e restaron guariti!

La chiesetta al di fuori nulla presenta di fastoso, meno un piccolo pronao di stile greco, abbastanza meschino, che venne fatto quando il tempio fu ricostruito.

Ed or son giunti al loco ove io t'ho detto,

sciamerebbe qui il Padre Alighieri, ma io invece mormoro in bassissima prosa: ed eccoci in piena Santa Lucia — strada che ha per confini all'est l'Hotel de Rome, all’ovest la Panatica, di cui ragioneremo in prosieguo, al nord una fila di palazzi più o meno aristocratici, ed al sud il mare con le sue mille barchette, e coi suoi bagni nei tempi in cui il sole veste alla moda, e si addimanda lionel —A proposito di sole, non vi fate meraviglia, gente cortese che mi leggete, se questo articolo ha qualche cosa di debilitante e di soporifero, ma compatite piuttosto me che lo scrivo sodo la sferza della canicola più impertinente che ci narri la storia! Dico questo a disgravio di coscienza e tiro innanzi.

Siamo in piena torre di Babelle!

Santa Lucia è un mercato, un tafferuglio, una Babilonia da atterrire quell’infelice forestiero che per la prima volta si arrischi malcauto in quell’oceano di venditori ambulanti d’ambo i sessi che gridano, urlano, e vi assediano da tutti i lati onde spacciare le loro mercanzie: mercanzie da bocca, intendiamoci, giacche a Santa Lucia non si va che a mangiare ed a bere—o a far l'uno e l’altro ad un tempo—operazione molto più logica e bene intesa—Prima però di farvi stringer conoscenza con Pìpolo, Mucchetiello, Palloccella, Esposito ed altri onorevoli ostricari della contrada, prima di schierarvi sottocchio la venditrice di pollanchelle (pannocchie di gran turco) quella di purpetielle (polipi) le tavole di fichi d’india, la panca del mellonaio ambulante, e le mille arpie che da una mano i tarallucci, dall’altra il bicchiere, vogliono ad ogni costo abbeverarvi di quell'acqua niente affatto odorosa che si chiama solfurea, prima in fine di farvi sedere ad una cena al chiaro di luna sulla ridente sottoposta banchina, diamo una rapida occhiata alla fontana che sorge nel bel mezzo della strada, ed alla chiesa che si vede di rincontro, detta di Santa Maria della Catena.

Le descrizioni, capisco bene, non sono molto dilettevoli per chi legge, vi lascio poi considerare per chi scrive! ma bisogna sorbire l’amaro ed il dolce ed aver pazienza.

La fontana che sorge quasi a mezza strada ed alle spalle delle panche degli ostricari e opera di Domenico d’Auria, celebralo scultore di quell’epoca, e gli ornamenti di essa van dovuti allo scalpello del Mediano, del D’Auria maestro. Essa e tutta di marmi bianchi, e ripartita in tre archi uguali, e circondata da statue che versano acqua da urne lavorate da Michelangelo Vaccarini e da Pietro Bernini, statue che rivelano molta squisitezza e maestria di scalpello. — Due statue nude agli angoli sono appoggiate a due delfini che fan l’officio di colonne a sostegno dell’architrave, e due Sirene poste nel mezzo sostengono una tazza da cui si versa l’acqua nel fonte. Tutto ciò da alla fontana una tinta di coquetterie che la rende, benché barocca, graziosa e venusta nell’insieme—Due bassorilievi nei lati ne completano l’ornato—In uno di essi è raffiguralo Nettuno con Antitrite: nell’altro una contesa di Numi marini per una ninfa rapita; lavoro che ci semina pili pregevole del primo per la difficoltà del soggetto, e pel numero delle figure.

La fontana vieti detta di Giovanni da Nola, non perché questo illustre scultore ne fosse fautore, ma perché a lui fu data commissione di eseguirla, e per malattia sopraggiuntagli non potette compiere un tale incarico, ed egli stesso lo cedette al D’Àuria e al Mediano—Nei due lati della fontana si leggono due bellissime iscrizioni—Luna che celebra il regno di Filippo III, per ordine del quale fu innalzata; l’altra che invita il passaggiero ad ammirarla — Davvero che questa seconda iscrizione se non pecca di modestia, pecca al certo d'inutilità —mentre non credo vi fosse bisogno di avviso per ammirare un’opera che a primo sguardo concilia da per sé stessa fammi razione di chi passa.

Diamo ora un addio a Nettuno ed Anfitrite, alle iscrizioni ed all’opera di Mediano e con un demitour à droite volgiamoci all’altro lato della strada. La chiesa che li si presenta allo sguardo è Santa Maria della Galena. Vergine tenuta in gran devozione presso quei pescatori e marinai, che vengon chiamati Luciani, dal nome della strada che abitano—Uno spettacolo nuovo, grazioso, e diremo quasi eccentrico succede ogni anno a Santa Lucia nel giorno della festa di Santa Maria della Catena, ovvero nell’ultima domenica di agosto. —I Luciani tutti, vestiti come si trovano, senza nemmeno gittar via il berretto, corrono alla riva e senza pensarci sopra saltano a mare! E dopo pochi istanti escono da questo bagno di divozione con gli abiti inzuppati di acqua, e briosi ed allegri come se venissero da una partita di piacere.

L’antica umile chiesa di Santa Maria della Catena è stata pochi mesi or sono sul punto di crollare,forse per la vecchiezza delle mura o delle fondamenta, ma in Napoli, ove la religione ferve negli animi e non si guarda con indifferenza una chiesa che crolla, fu data pronta mano al ristauro, e per dare all’antico edilìzio forza maggiore e valido sostegno, venne costruita una seconda Cappella, come corpo avanzato che puntellasse l'antica Chiesa, talché oggi la chiesa ha due entrate — una al livello della strada, l'altra superiore alla quale si ascende per una scala laterale— L'insieme forse non si presenta bellamente architettonico, ma si è dovuto necessariamente ricorrere a questo mezzo per garentire la solidità dell'intero fabbricato.

La fondazione primitiva di questa chiesa si deve alle Religioni de'  Ricattanti, della Mercede, e della Redenzione de’ cattivi, che a quanto dice la cronaca, ebbero in una visione l’ordine di riedificarla da S. Raimondo Pennaforte, e data mano all’opera,la chiesa ebbe fine un’ultima domenica di Agosto, giorno in cui i Luciani han costume, come vi ho detto di gittarsi a mare. Per chi fosse bramoso di sapere la origine di questa costumanza,fa d’uopo ricordarsi che tanti anni fa la povera spiaggia di Santa Lucia era infestata dalle orde barbaresche, dai pirati che sbarcavano sul lido e menavan schiavi quelli che aveano fra le mani.

Un bel giorno Giovanni d’Austria combattette i pirati, ne riportò vittoria, e fece liberi i prigionieri, i quali tornando alle loro casipole di marinaro, pria che toccassero il lido, furon lieti di abbracciare i parenti, e gli amici che ansiosi e felici del loro ritorno, eran corsi all’incontro a’ riscattati gettandosi a nuoto!

Questo fatto memorabile dette origine alla festa dell'ultima domenica di agosto, che i nostri buoni marinari e Luciani rinnovano ogni anno con moltissima devozione A questo proposito cade in acconcio osservare come i Luciani sieno espertissimi nell’arte di calare a fondo del mare, — ciò che in dialetto dicesi sommozzare. La loro rinomanza per questo è favolosa, e spesso avviene che vengan chiamati da regioni lontanissime per pescare gli oggetti ingojati dalle onde, specialmente in quei siti dove qualche naviglio è calato a fondo—I sommozzatori di Santa Lucia sfidano tutti per la loro valentia, e generalmente hanno il primato su tutti.

La strada di Santa Lucia è a due facce, ed è visibile sotto doppio aspetto: per me la dividerei in superiore ed inferiore, o parlando più artisticamente in Santa Lucia vista dal balcone, e Santa Lucia vista da mare— nel primo caso è la strada che ti si presenta allo sguardo, nel secondo la banchina sottoposta!

Cominciamo da sopra. Lo spettacolo è bellissimo, la messa in scena superba—Un delizioso odore di alga marina ti colpisce l’organo olfattorio, o più prosaicamente le nari— una lunga fila di rozze panche sormontate da mille sportelle di frutti di mare ti colpisce la vista, e quel ch'è peggio ti fa venire l’acquolina in bocca—Giù il cappello—siamo innanzi alla corporazione degli Ostricari, corporazione che fa datare la sua nobiltà all’epoca della scoverta dei cannolicchi e delle vongole, e che per albero genealogico presenta al pubblico una ta della nei a su ' u jj a lettere bianche il casato di famiglia. Tutta la scienza arridaa blasone riunito non vale un Pipolo un Mucchiettello e un a cento volte più eroici di Achille e di Perseo, al cospetto

Oh! i frutti di mare!

Di lor la vista — come seduce,

Che non produce — nell'uman cor!

o per dir meglio nella umana gola! Permetto a chi vuole di amare i fiori, le stelle, la poesia — ma per me la poesia vera è una gocciolante sporte di ostriche e di angine mangiata saporitamente a Santa Lucia,con di luna che ti bea — o anche al fioco lume della rozza lucerna inebbria più che mille doppieri, più che una falange i can e e o di carcel a doppia pressione — Per me, se fossi poeta, volici s le ostriche, onorare di un poema le angine, scrivere un'Odissea sui cannolicchi, un canzoniere o un inno alle vongole! Ma il cielo non mi concesse l’estro di Omero e di Petrarca, la fantasia dell'Ariosto e del Manzoni, sicché l'unico e solo omaggio che io possa tributare a prelibati figli dell’Oceano, a questi animaletti graziosi e benigni, che servono di frutta alla mensa di Nettuno e delle Sirene, altro omaggio, diceva, non posso tributare che seppellirne fino a sei dozzine nello stomaco, a rischio di una indigestione. E v’ha degli esseri umani e già e disprezzo i frutti di mare!

Oh! Profani!

Gli ostricari di Santa Lucia sono i caporioni del quartiere, e spesso fanno da giudici di pace nei frequenti litigi che nascono tra i loro vicini pescatori e marinari, tra le venditrici di acqua solfurea , che si disputano un cliente all’ultimo sangue, che se lo tirano pei e dell’abito, a costo di ridurlo in camicia e diciamola francarne essi la più buona pasta di uomini che vi sia al mondo — Seduti patriarcalmente, ciascuno a fianco della sua piccola bottega ambulante, con un coltelluccio nelle mani pronto a spaccare quante dozzine di ostriche o di angine vi piace, essi invitano il passaggero ad assidersi e gustare le primizie del Fusaro!

Come resistere alla vista lusinghiera di quelle cento sportelle messe li in bell’ordiae, allo spettacolo attraente di quei frutti golosi ? Non e’è via di mezzo—Se avete forza di guardare indifferente il primo, ecco il secondo che v’invita—resistete al secondo, v’incalza il terzo—l’odore inebbriante dell’alga marina vi attrae; non e’è forza che valga — bisogna sedersi e mangiare.

Allora il volto dell’ostricaro brilla d’insolita gioia; gli si legge in l’accia la gioia del trionfo — egli vorrebbe farvi ingojare una dopo l’altra tutta la svariata famiglia de’ frutti marini, che vi presenta dinnanzi, lodando con rara modestia la squisitezza delle ostriche, la freschezza delle angine, il calibro imponente de’ suoi cannolicchi. E quando siete ben bene satollo, e vi disponete a lasciare il desco voluttuoso — l’ostricaro vi mormora all’orecchio — Signurì v'aggio sentito a ddovere, allicurdateve de Mucchietiello!

Ciò significa, ritornate domani sera, dopodimani, sempre, e non mi cambiate con un altro!

Le raccomandazioni sono superflue—le sere di estate al chiaro di luna trovare un posto presso la panca di un ostricaro è forse più difficile che avere una sedia al nostro San Carlino la prima sera di una parodia scritta da quel fertile ed instancabile ingegno di Altavilla — I napoletani in generale son ghiotti molto de’ frutti di mare e v’ha di taluni che arrivano ad ingojare fino a trecento ostriche in una sera!... Misericordia!

L'ostricaio non vive solo del meschino guadagno avventizio della sera, ma né più né meno che un avvocato od un medico, tiene la sua clientela, e non passa giorno che non mandi ora una sporta di frutti di mare al Conte! — era alla signora C — e v’ha di quei ricchi che non sanno sedere a mensa senza dar principio al pasto ed aguzzar l’appetito c#n una scorpacciata di ostriche a cui l’agro del limone serve da passaporto per la digestione!

Dalle panche allineate degli ostricari che formano direm così, un corpo di armata a sè, a cui, come vi ho detto è difficile il resistere, si passa al desco del venditore di fichi d’india, alla caldaia della venditrice di spighe, alla pignatta tiri polipi, ed agli altri svariati negozi ambulanti di ogni genere di commestibili che ingombrano il marciapiede di Santa Lucia,e stan lì come tanti piccoli fuochi di un esercito al bivacco!

È una completa batteria di cucina che si stende su tutta la linea; e che basta alle esigenze gastronomiche di lutto quel rione.

Vedi, lettore, quella tarchiata e grossa popolana che ogni due minuti, senza depositare il ventaglio col quale soffia l’inestinguibile fuoco della sua caldaia, da un grido che potrebbe passare per il re sopracuto della Medori?…

Quel grido si traduce cosi: pollanchelle tennere; ed in queste due parole si chiude lutto un panegirico, tutta l’estetica delle pannocchie di gran turco! Assomigliare le spighe alle pollanche significa addirittura poetizzare la cosa con un orientalismo sfrenato—In Napoli generalmente i venditori usano, anzi abusano, di queste bellezze poetiche, e chiamano oro l’uva bianca, pasticcetti le mela cotte al forno, pollanche le spighe, e via discorrendo.

Sicché se un poveruomo inesperto volesse col dizionario alla mano tradurre il linguaggio de’ nostri venditori ci perderebbe come suol dirsi il latino,...e la testa! Essi possiedono la lingua figurata in modo da fare impallidire Demostene — lingua che solo ai Napoletani è dato comprendere, e qualche volta anche a grandissimi stenti.

Le panocchie di gran turco formano un cibo grato ai nostri popolani, e si mangiano o arrostite sulla bragia, quando son più tenere, o bollite nell’acqua—In quei quartieri ove la plebe è più abbondante, ad ogni cantonata, ad ogni venti passi s’incontra una venditrice di spighe con la sua caldaia, o il suo fornello di creta , intenta a spacciare la sua mercanzia, e mantener sempre acceso il fuoco come la Vestale — E di vestali simili Santa Lucia ne alberga una buona dozzina che a stento soddisfano alle esigenze di tutto il quartiere! — Chi non si sfamerebbe ove per un grano è permesso mangiare fino a quattro pollanche?

Allato alla venditrice di spighe, a quella caldaia sempre fumigante dinanzi a cui la mostruosa caldaia di Macbeth è un balocco da fanciulli, sorge la colossale pignatta dei purpetielle (polipi), cibo tenuto pure in grandissima stima dalla minuta plebe, e di non più facile digestione — Ciò però non toglie che anche alla mensa de’ ricchi il polipo non occupi un posto distinto ed onorevole — La sola differenza sta nel modo di mangiarlo — I popolani si contentano di cavarlo dalla pignatta, ridurlo a fette , spargervi sopra un pò di sale e seppellirlo nello stomaco senza darsene più un pensiero al mondo—l’aristocratica cucina invece lo condisce con olio e sugo di limone, acciò la durezza naturale di quel moltusco non offenda la dilicata digestione di chi lo mangia, e spesso anche anziché prepararlo così alla buona, lo riduce a squisito manicaretto, formandone un ragout! Ma la vera morte del polipo è nell’acqua bollente, la sua tomba la pignatta, ed in questo io sono dell’opinione de’ popolani!... Per far poi che il polipo acquisti anche maggior sapore, si usa cuocerlo con la stessa acqua che da esso emana, e da tal costumanza nacque l’antico adagio napoletano — fare cocere a uno co l'acqua soja stessa  che vuol dire — far correggere chicchessia de’ suoi difetti a proprie spese! — Se questa traduzione fosse trovata da qualcuno un pò troppo libera, la acconci pure a suo modo perché non me ne offendo.

Non meno interessante della venditrice di spighe e di quella dei polipi, è il venditore di fichi d’india, e quello di aranci  — tutti e due provvenienze della nostra sorella al di la del Faro: Palermo.

È giusto che anche il popolano abbia il suo dessert o i suoi frutti al finir della mensa, e senza andar molto per le lunghe, o aranci o fichi d’india son lì a portata di mano —La panca del venditore di fichi d’india è un pò se vogliamo più aristocratica delle altre e la sera brilla maggiormente su tutte per parecchie lucernine che la rendono abbarbagliante, e finiscono di ammaliare i monelli ed i lazzaroni generalmente ghiotti di questo dolcissimo frutto, che la vicina Sicilia ci somministra a larga mano—Il venditore di fichi d’india è sempre in faccende — il suo negozio è onorato sempre di numeroso concorso, (stile teatrale) e tu lo vedi con un piccolo coltello nelle mani, denudare della sua scorza spinosa quel frutto, con quella stessa prontezza ed abilità che uno scalco valente vincerebbe un pollo. Esso apre bottega appiccando alla sommità di uno stecco di legno il fico più grosso, più giallo, e più interessante; e quel fico impalato serve d’insegna alla bottega e nel tempo stesso è l'attrape, il visco per i merli! Aggiungete a dritta un castelletto di fichi color rosso disposti bellamente a mò di piramide, a sinistra un secondo castelletto quadrato di fichi color giallo, nel mezzo un cono in cui la base è di un colore, la cima di un altro, e dite poi se un povero diavolo di monello può e deve resistere a simile tentazione—Ei passa dinnanzi allo spettacolo attraente, a quella mise en scène che farebbe invidia al nostro maggior teatro; gitta un cupido sguardo su quella batteria di fichi, che sembra li accomodata dalla mano di un architetto, sente venirsi l’acquolina in bocca, si fruga con mano convulsiva nelle tasche — oh! gioia—e’è ancora un grano da spendere, e si gitta sulla panca ammaliatrice, come la farfalla sul lume! E quando si è ben satollo di quel frutto saporoso cava di tasca un quindicesimo di sigaro, un mozzone raccolto due passi innanzi sulle lastre della strada, lo accende alla stessa lucerna della bottega, e parte tronfio e contento come un capitano dopo vinta una battaglia—Ci vuol tanto poco a rendere felice un povero monello!

Andiam che la via lunga ne sospinge,

sento susurrarmi all’orecchio non so da chi — non altri che lo stanco lettore potrebbe darmi un sì amorevole consiglio, ed io avvicinandomi sempreppiù alla meta, sarò più veloce nel dire,non fosse altro che per non oppormi alla legge fisica sulla caduta dei gravi!...

Qual cosa infatti più grave di quest’articolo?—Mi si perdoni in grazia di questo bellissimo calembourg.

Lasciamo adunque il marciapiede e la strada, e scendiamo sulla sottoposta banchina—Le due bellissime e comode scale ricurve, e gli ampi magazzini e la fonte dell’acqua solfurea, e tutto ciò che si vede di nuovo fabbricato al disotto della via e sul lido del mare, è dovuto alla munificenza di Re Ferdinando li, che rese così bello ed incantevole quel sito.

La parte più interessante e più poetica di Santa Lucia è la banchina— essa forma la caratteristica del luogo—Laggiù è la vita della strada,in quel lembo di selciato sul mare, ove è movimento perenne, grida continue, un andare e venire, una calca di gente in tutte le ore della sera, consiste il bello e la poesia del sito — E le mille barchette di marinari che invitano a salire, e i tavernai che vi offrono il loro piatto li vermicelli al chiaro di luna, e poi una lunga fila di Ebe che col bicchiere alla mano colmo della spumante acqua solfurea, attinta in quel momento istesso dalla fonte vicina, vi forzano a bere—ed accanto alla venditrice di acqua che vi porge il bicchiere, o per dir meglio che ve lo da sul muso se non siete pronto a pigliarlo, la venditrice di tarallucci, indispensabili accompagnatori dell’acqua rinfrescante,e quell'armata di sedie schierate lungo le mura in ordine di battaglia, e i mille capannelli sparsi qua e là, le risa degli uni, il gridare degli altri,le strette di mano furtive degli amanti che corrono li a sicuro convegno, la baldoria, il tramestio, il tumulto, le scene burlesche che si succedono,tutto insomma oltre tale insieme bizzarro ed originale, che io rinunzio a descrivervi,perché qualunque dipintura riuscirebbe pallida a confronto del vero!

La terza bolgia dell'Inferno del padre Alighieri è una misera fotografia della banchina di Santa Lucia—Volendo farla scinda a Dante potrei anch’io esclamare:

Diverse lingue, orribili favelle,

Parole spiritose, accenti d ira.

Suon di taralli e di bicchier con elle;

Fanno una Babilonia che s’aggira

Sempre in quell’aria di fracasso tinta

Come la rena quando il turbo spira;

e dopo tutto questo non avrei detto nulla! Bisogna passar lì tutta una serata per formarsi una idea viva di quella tregenda infernale!...

Tutto ciò intendiamoci, nelle sere di estate, quando la placida brezza del mare tempera il soffocante calore dell’aere. ed in quel tempo che l’acqua solfurea viene generalmente prescritta a tutti quelli che vivono sotto l’incantevole cielo di Napoli—La cura dell’acqua solfurea è resa oramai universale, è la panacea in moda come l’olio di fegato di merluzzo — con la differenza che una misera carabina di quel mirabile disire costa uno scudo, e con un grano voi siete il padrone di bere fino a due mostruosi bicchieri di acqua solfurea!

La cura dell’acqua minerale chiama a Napoli in estate i più lontani abitatori delle province,

Tutti convengon qua d'ogni paese,

e la sera, felice chi può trovare una sedia disponibile sulla banchina di Santa Lucia, per abbeverarsi dell’acqua salutare. Bisogna abbonarsi, passatemi il vocabolo, fin dal principio della stagione con una di quelle Megere abbeveratici, la quale, quando voi arrivate,a furia di strida, spinte, ceffate giunge a conquistarvi una sedia e corre ad attingere l’acqua al cannuolo per darsela fresca, spumarne, e non ancora sfiatata— Ma guai a voi se capitate per la prima volta sconosciuto in mezzo a quella ridda di arpie— io non vi garantisco più né il cappello, nò il paletot,nò perfino i calzoni, voi correte rischio di essere squartato vivo per soverchia affezione— Quante ve ne sono li giù vi piombano addosso come gli avvoltoi sulla preda, e mentre una vi tira a dritta per un braccio e l’altra a sinistra, una terza vi si pianta dinnanzi, ed una quarta vi spinge di dietro,o vi tira per i lembi dell’abito — Gridate quanto volete—vani sforzi—nessuna si arrende di loro e la battaglia pende indecisa fino a tanto che voi,volendo porre in salvo il soprabito ed il cappello,non vi decidete a bere d’un fiato quattro bicchieri d’acqua ad un tempo!... E dite poi che la tortura dell’acqua fresca non è in pieno vigore.

E mentre un’orda di quelle donne arrabbiate invade la banchina sul mare,un’altra legione resta sul marciapiede della strada con l’arme spianata,ossia col bicchiere in mano, per dare l’assalto alle carrozze che tornano dalla passeggiata di Ghiaia,ed offrire alle aristocratiche passeggiatrici il nappo spumante di quel liquido,poco odoroso se volete, ma molto rinfrescante.

Non di rado avviene che chi si trova a passeggiare per Santa Lucia assista ad un grazioso spettacolo che solo il pennello può ritrarre al vivo: una rissa di donne... La vena comica di Scribe dette al Teatro Francese: battaglia di donne; Santa Lucia offre ai Napoletani quasi ogni giorno una commedia di questo genere applicata alle mani!—Basta una parola, un gesto equivoco, un risolino di scherno per desiare l’incendio, e in un batter d’occhio vedi volare per aria gli zoccoli, i fiaschi di acqua (mummere) e lutto ciò che l’ira donnesca trova a portata di mano—Si comincia la zuffa dalla moschetteria degli zoccoli, indi si passa alla baionetta delle unghie — E tu vedi due o tre di quelle Megere afferrarsi per i capelli, e strapparseli a vicenda senza misericordia, darsi unghiate sul viso, morsi, pugna, fino a che una delle combattenti non precipiti a terra fra le risa generali degli spettatori, mostrando spesse volte al pubblico in quella caduta repentina, ciò che non è bello mostrare—Tutto il dizionario delle belle parole si esaurisce dall’una e dall’altra delle parti combattenti, e senti una gridare: ntapechera, ruffiana, sciù!

E l’altra— Vuè, co mico non ce so fosa d'appennere, io non me chiamino Raziella!

Accusì te chiammasse, brutta scirpia, Raziella tene tant'annore sotto a li scarpe, che tu non ne tiene n faccia!

Sciù, chi parla d'annore... chesta a sbriugnata!

E qui succede la barruffa, l’accapigliamento, le graffiature, quella battaglia insomma, di cui solo le Luciane posson chiamarsi eroine!  —Qualche volta i mariti, i fratelli, prendon parte alla pugna ed allora la commedia diventa tragedia,e e’è bisogno della forza pubblica  per impedire qualche dispiacevole conseguenza — Ma fino a tanto che la pugna si limita alle gonnelle, lo spettatore assiste ad una delle più belle commedie da strada! Da questi frequenti spettacoli Cammarano ha attinto una delle sue più graziose parodie.

Invito adesso il benigno lettore — e con più gusto le benigne leggitrici—ad una cena a Santa Lucia—Per mandar giù tutto questo articolo è indispensabile un buon piatto di vermicelli al pomidoro —Scendiamo da capo sulla banchina — Un gruppo di tavole rivestite di bianco tovagliuolo che non è certo di tela di Fiandra, invita a sedere—e le caldaie fumiganti che fanno da lungi scorgere la presenza de’ vermicelli e il soave profilino della salsa dorata, stuzzicherebbero l'appetito di un anacoreta.

Una cena a Santa Lucia con la luna piena di agosto è il sogno dorato di quattro quinti de’ Napoletani — lo che non toglie che l'altro quinto non sognasse lo stesso—Le modeste tavole di Santa Lucia rivaleggiano con quelle pompose dello scoglio di Frisi, del Pacchianiello, e di tutte le osterie che costeggiano la riva di Posillipo; e la sola differenza che passi fra queste e quelle si e che a Posillipo si spende il triplo e si mangia lo stesso. Ma la illusione è tutto in questo mondo,e per poco che un uomo si rispetti bisogna che corra a Posillipo a satollarsi, e guardi con occhio di compassione l'umile desco di Santa Lucia — Qui dunque tu trovi la bassa borghesia e gli artigiani, e la tutti quanti hanno uno stemma da incollare sulla carta di visita!... Poveri uomini, martiri sempre de’ pregiudizi, perfino quando vanno a cena! A Santa Lucia come a Posillipo, non si va per gustare i manicaretti ed i pasticci della cucina francese, ma una sempre ed inalterabile è la minuta del pranzo, che umilmente si addimanda cena—I rituali vermicelli al pomidoro—la rituale frittura di pesce, allora allora sottratto alle onde e che guizzi ancora nella padella—lo spezzato di polli nel sugo dei pomidoro—l’insalata—l’arrosto—i frutti di mare—e un buon bicchiere di asprino con la neve, crittogama permettente!...

Dal superbo patrizio al modesto artigiano non vi 6 la differenza di una sola vivanda, sicché potrebbe dirsi: tutti gli uomini sono uguali innanzi al plenilunio!...

E dopo aver tolto una buona satolla di maccheroni ed averli inaffiati con un bicchier di asprino di Aversa (bevanda di rito)—la voce del barcaiuolo v'invita ad una passeggiata sul mare, in cui placidamente si specchia l’astro d'argento, e vuoi o non vuoi bisogna passar la sera cullati dall’onda, spesso al suono di una chitarra strimpellata e di qualche voce sconosciuta nella scala musicale!...

E festive cene, e canti di gioia, e danze, e tripudio, e scorrazzate sul mare — ecco la vita che offre l’incantevole Santa Lucia, quando la dea degli innamorati e de’ debitori—la luna—si spande in tutta la pienezza de’ raggi sulla lussureggiante Partenope! Ed ora che tutti uno per uno son venuto descrivendovi gli usi e le abitudini di questa fra le più belle contrade di Napoli, ove migliaia di passeggiami corrono nelle sere di estate a godere—non fosse altro che a placida brezza marina—contrada che forma il sogno dorato de’ forestieri i quali si accalcano nei fastosi Hótels che la fiancheggiano; ora che siam giunti al termine della nostra passeggiata, mi permetterai o lettore che io chiuda questa mia povera descrizione, pallida molto a confronto del vero, con una bella canzone del mio amico Cossovich, che certamente è più felice assai di questa poverissima prosa:

Sul mare luccica

Lustro d’argento,

Placida è ronda,

Prospero è il vento

Venite all'agile

Barchetta mia

Santa Lucia!

Santa Lucia!

Con questo zefiro

Così soave

Oh! com’è bello

Star su la nave!

Su passaggieri

Venite via!

Santa Lucia!

Santa Lucia!

In fra le tende

Bandir la cena

In una sera

Così serena,

Chi non domanda

Chi non desia?

Santa Lucia!

Santa Lucia!

Mare sì placido

Vallo sì caro

Scordar fa i triboli

Al marinaro,

E va gridando

Con allegria

Santa Lucia!

Santa Lucia!

O dolce Napoli,

O suol beato,

Ove sorridere

Volle il creato;

Tu sei l'impero

Dell’armonia!

Santa Lucia!

Santa Lucia!

Or che tardate?

Bella è la sera,

Spira un’auretta

Cresca e leggera;

Venite all’agile

Barchetta mia!

Santa Lucia!

Santa Lucia!

LUIGI COPPOLA

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1 Leggi l'articolo della venditrice di acqua solfurea, nel 1° volume di quest'opera.

2 Vedi la figura.

3 — Signorino, vi ho servito a dovere, ricordatevi di Mucchiettiello.

1 Vedi la figura.

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2 Far cuocere uno con l'acqua sua medesima.

3 Leggi l'articolo del fruttaiuolo nel 1.° volume di quest’opera.

Ciò che presso a poco nell’italiana favella verrebbe a significare — imbrogliona, ruffiana, va via!

— E l’altra: — ché, sul mio conto non vi è nulla a ridire, io non mi chiamo Graziella!

— Così ti chiamassi pure, brutta strega; Graziella tiene tanto onore sotto i piedi che tu non ne hai sul viso!

— Va là, chi parla di onore co testa svergognata!

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2 L'autorità di polizia à stabilito un posto di guardia nel centro di delta strada, affinché la forza pubblica sia pronta ad accorrere all’uopo; ma ciò per la sola stagione estiva, in cui le risse sogliono più facilmente accadere.


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LA CAPERA

PORTIAMO opinione che pressoché tutti nostri leggitori non nati in Napoli non intenderanno il significato di questa parola, che cercheranno invano nella Crusca. Pel converso, non vi ha napolitano di qualsivoglia ceto che non sappia che cosa, o, per dir meglio, che donna è una capèra.

Dovendo lare la fisiologia o la storia naturale di questa importante specialità delle nostre popolane, è mestieri che tocchiamo un poco dell’origine sua, la cui data none gran fallo da noi distante.

Una ventinella d’anni fa, quando le signore portavano le torri in testa, come gli elefanti le portano in groppa, arcano ciascheduna un parrucchiere stipendiato che ogni di, dalle 10 antimeridiane all’una pomeridiana, era occupato a rialzare il peloso edificio sul capo della dama, la quale, senza questa importante operazione, non polca decentemente mostrarsi. Però siffatta costumanza addimandava una certa agiatezza, giacché ei bisognava tenere a stipendio un professor capillare e compensarlo in ragion del tempo che ogni dì spendeva nello aggiustamento del capo di madama.

Questa pratica avea eziandio non pochi inconvenienti, tra cui quello precipuissimo che fò nascere nel capo di Beaumarchais il grazioso concetto della commedia, la quale ebbe di poi tanta celebrità, intitolata Il Barbiere di Siviglia, infatti, i Figari hanno fatto sempre paura a’ padri, a’ tutori, agli zii ed a’ mariti, imperocché i galanti non sapeano trovare un canale più comodo per fare scorrere nelle mani delle loro belle quei vigliettuzzi profumati, a cui le damine avean sempre le risposte belle ed apparecchiale, in modo da far esclamare all’ailonito Mercurio:

Veh che bestia! Veh che bestia!

Il maestro io faccio a lei!

Donne, donne, eterni dei!

Chi vi giunge a indovinar!

Il Barbiere di Siviglia, renduto popolarissimo ed immortale dalle noie del sommo Pesarese, fece aprir gli occhi agli arghi delle Rosine d’ogni sorta; onde, pigliarono subitamente il partito di allontanare gli arditi contrabbandieri di amorosi messaggi, che, sotto il pretesto di alzare il parrucchino sulle teste delle pupille, spesso balzavano a’ tutori. La generazione dunque de’ Figari fu messa al bando d’ogni casa dov’era qualche fanciulla da marito.

Intanto, le teste delle donne venivano, a gran discapito del buon senso, neglette e abbandonate al loro naturale disordine.

Appo il ceto più ricco, le cameriere supplivano, come anche oggidì, all'officio de’ Figari; ma tra le classi meno agiate, dove l’impiego di cameriera è cumulato dalla così detta vajassa o serva, non conveniva affidare la importante operazione del capo alle mani lerce e succide di queste ancelle in sandali.

Surse la capèra a sciogliere l'arduo problema. Le cautele richieste dagli arghi si combinavano questa volta coll’economia domestica. La capèra divenne la padrona assoluta dello femminee teste de’ ceti medio e popolare.

La capèra è dunque una creazione recente nella storia de’ costumi napolitani; ma se non vanta antica origine, essa può andar superba della nobil conquista fatta sul territorio de'  mestieri maschili. Per ordinare il capo d'una donna, a noi pare che una donna è meglio alta; giacché i misteri delle teste donnesche non li posson comprendere che le donne. D’altra parte, la testa non ha forse il suo pudore?

La Capera è una giovinetta popolana, per lo più nubile e aggraziata, giacché la giovinezza e la beltà sono pregiudizi a favore del gusto. E una capera senza gusto è come un dipintore senza genio, un poeta senza estro, un romanziero senza immaginazione.

La Capera si chiama ordinariamente Luisella, Giovannina, Carmela, ella veste sempre con molta nettezza ed anche con alquanta ricercatezza pel suo stato; ma in particolar modo il suo capo debhe essere una specie di mostra, di campione, di modello non pur per le donne popolane, bensì per quelle di civil condizione.

Comeché in sulle prime ella non acconciasse il capo che alle donne del volgo, pure a poco a poco ella si alzò, e da'  bassi o case a terreno salì fino a calpestare i mattoni incerati; fino alle teste aristocratiche.

La mercede che riceve la Capèra varia a seconda della qualità e condizione delle sue clienti, per modo che, da tre carlini mensuali, cioè un grano al giorno (vedi a che meschino prezzo si accomoda una testa ogni giorno! ) ella riceve lino a trenta carlini o tre piastre al mese.

Già qualche Capèra si vede correr per le vie della capitale in cappelletto, guanti e ombrellino. Non andrà guari, e la vedremo in caprio o in tilbury. Tutto dipende da un genio nell’arte che, se sorgerà, innalzerà la classe a’ più eminenti fastigi.

Egli è ben facile riconoscere la Capèra tra un crocchio di giovani donne. Eccola, è la più alta, la più svelta, la più elegante, il suo capo è il meglio acconciato, la sua veste la meglio formata, i suoi piedi i meglio calzati, perocché ella non porta in tutte le stagioni che gentili stivaletti al pari di bennata damina. Colle mani a’ fianchi, col piede sinistro sporto innanzi, colla testolina lievemente inchinata di lato, ella sembra una bajadera in atto di danzar la Cachuca. Ella parla sempre, sa i fatti di tutti, ed in ispezialità in materie amorose, è l'oracolo delle sue vicine.

La Capèra è l’amica più confidente delle donne che hanno varcato trent'anni, ed il motivo è chiarissimo. A questa età cominciano ad insinuarsi nelle chiome i candidi annunzi dell'autunno della vita.

Ogni anno che la signora o la signorina fa sparire dal suo atto di nascita si vendica con una bianca vendetta nelle trecce dell'ingrata. E diciamo ingrata, dappoiché è una vera ingratitudine il vergognarsi di quegli anni cui tanto si desidera arrivare. Ma l'uomo e più la donna è un ammasso di stranezze e di contraddizioni.

Si teme di morire, e in pari tempo si teme di esser vecchio; si vuol viver lungo tempo e non si vorrebbe giugnere alla vecchiezza.

La Capera è dunque indispensabilmente a parte degli alti segreti delle sue clienti da trentanni in su. Il suo genio consiste appunto nel saper nascondere i difetti che l’età adduce sulle loro teste. Qui è un gruppetto di fili d’argento che si ha da far sparire o da rendere fili di ebano; là è un trucioletto ribelle; qui è un'isoletta di quelle che si osservano nell’Arcipelago di Calvizie; più oltre,è una sfoltezza che ricorda le campagne nel mese di Gennaio. La Capèra provvede a tutto, accomoda tutto; qua impinza, là toglie, su imbruna, giù allustra, là gonfia, quà sgonfia; e le sue mani fan prodigio; e dieci o quindici anni spariscono sotto le sue dita con una invidiabile felicità.

FRANCESCO MASTRIANI

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IL BANDITOR DI VINO

SONO molti anni che il banditor di vino non va girando per le vie di Napoli: quel lunghetto microscopico indiavolato ci ha tolto anche questo spasso, oltre a quello più importante di bere vino a buon mercato,perché coloro che l'han voluto e potuto bere a caro prezzo non ne hanno patito mai privazione, se poi fosse vino originale o una sua imitazione, se lo sa chi l’ha manipolato. Ma tornando al nostro proposito, se la crittogama maledettissima ci ha impedito di veder per le strade il banditor di vino, non e’impedirà certo di vederlo egregiamente disegnalo e dipinto e di farvi su quattro chiacchiere alla meglio. Vero è che il tempo sembra scelto in mal punto, poiché quell'importantissimo personaggio comincia di già a comparir di nuovo al cospetto del rispettabile pubblico; ma io non sono di questa opinione, e stimo anzi fortuna che si possa confrontare il ritratto coll'originale per affermare o negare la rassomiglianza.

In due occasioni vanno in giro i banditori di vino: o all'apertura di una nuova cantina; o quando ad una già aperta cantina capita qualche botte di vino nuovo. Ma oltre a queste due ve n’è una terza ragione, ed è quella di risvegliare nella moltitudine la notizia di una cantina derelitta o poco frequentata, di fare una retata di bottegai e avventori sotto il pretesto della novità e adescandoli con un saggiuolo di vino abboccato per poi dar loro a bere cerboneca. Quando dunque occorre uno di questi motivi, un facchino di voce stentorea e di maniere facete vien prescelto al grande uffizio. Con un cappello a tre acque lutto adorno di cartoccetti, con un farsetto ed un robone alla foggia di quei di Don Nicola nel carnevale, tutto unto e sudicio e sdrucito e il più delle volte scalzo, il nostro eroe s’impara a mente la cantilena che dee spandere ai quattro venti, imbrandisce un fiasco esternamente impagliato, e via alla pugna seguito da un piffero e da un tamburino che ne debbono col suono guerresco eccitar l’ardimento.

Uommene e femmene, gruosse e piccirille, nobele e snobele, ricche e puverielle, a o vico tale s'è aperta na nobele cantina, attaccata a o postiere, derempetto a o pizzajuolo; se venne lo vino asciutto a nu rano e a ddi rà a carrafa. Currite!  Ecco un modello delle allocuzioni che han luogo in casi simili, a cui non mancano mai delle variazioni, o per varietà di circostanze o per ingegno inventivo del faceto banditore. Qualche volta per esempio si magnifica un qualche ribasso di prezzo, a cui provvede l’acqua del pozzo, e si grida che il vino di sei si darà per quattro, quello di quattro per tre, e simili. E per intendere queste locuzioni dovete sapere che il prezzo della carafa si calcola a tornesi, e che vino di sei vuol dire vino di tre grana la carafa.

È notabile che cotesti banditori non dicono mai il numero della bottega di cui parlano: sarebbe tempo perduto per gente che non sa di abbaco e fa i conti colle dia sulla punta del naso. Invece si servono d’indicazioni che sono ad universale conoscenza, come a dire vicino alla parrocchia, accanto al farinajo, dirimpetto allo zèppolajuolo, e simili altri indizi che meglio dei numeri conducono allo scopo, poiché chi è nella contrada che non sappia deve sta il postiere, la bettola, il venditore di farina o di zeppole?

Cotesti araldi di Bacco non si contentano di bandire il mirabile umore che cola dalla vite misto al calor del sole, non si contentano di esaltarne il merito e di farne risaltare il basso prezzo, non si contentano d’indicare a certi segni il luogo dello spaccio, che aggiungono a tutto ciò una più potente tentazione, una seduzione più immediata. È questa l’assaggio che fanno fare a chiunque il voglia della merce vinosa. S’accosta una donnicciuola o un fanciullo, ed egli mettendo loro nella bocca il collo del fiasco, con una leggerissima e celere alzata di mano ne fa discendere una sorsata. Gli si appressa un bastagio, ed egli senza tante cerimonie gli fa piovere nella bocca sottoposta e nelle sue circostanze il rubicondo liquore, e spesso gliene spruzza l’adusto volto e l’ispido petto . Qui si vede messo in opera il bere per convento e il bere a garganella, e parecchi si fanno ad assaggiare sol per dar prova di bravura in non far perdere neppure una gocciola del vino che con molta parsimonia e poca attenzione lor si gitta nelle bramose canne. E il banditore grida e versa e mette in bocca e gode dell’opera sua, mentre il tamburo e il piffero richiamano la gente ed eccitano alle bacchiche libazioni anche i più freddi bevitori. Gli strumenti di Marte prestano in questa occorrenza i loro servigi a Bacco, come quei di Bacco molti ne prestano ai seguaci di Marte.

Io non so che direbbero i promotori delle società di temperanza al vedere di queste funzioni, so bensì che questa specie di propaganda è di un perniciosissimo potere. Come l’odore della polvere infiamma il guerriero alla battaglia, come la vista del sangue spinge il malvagio a più feroci delitti, come il sapore di un intingolello aguzza e stuzzica il più languido appetito, come l'udire una tenera parola di amore fa sdilinquire il cuore di una donzella, come il toccare di una o più monete d’oro fa tacere la voce della coscienza, così nel caso nostro l’odore del vino, la vista del liquido, il suo seducente sapore, il suono di quella voce e di quegli strumenti guerreschi, il contatto delle labbra col vetro del fiasco, assalendo a un tempo la volontà per la via di tutti e cinque i sensi, l’allettano, la lusingano, l’eccitano, l’incitano, l’istigano, la vincono, la soggiogano, rinfiammano, e gli infiammati corrono a spegnere l'incendio dello stomaco suscitato da poche gocce, da un zinzino, da un ciantellino. Dalla strada corrono alla cantina indicata, dal saggiuolo s’innalzano alla carafa; né si ritirano che quando il borsellino è divenuto più leggiero, la testa più grave, e spesso le gambe mal atte al consueto ufficio di trasportare un corpo semovente. Ma tiriamo un velo su queste scene che quando anche fossero descritte dalla penna più eloquente del mondo, non riuscirebbero a correggere un solo ubbriaco, per la fortissima ragione, che gli ubbriachi non leggono le scene altrui e non veggono le proprie.

Non solo pel vino, ma anche per le farine e per le paste vanno attorno i banditori. In questo caso procedono accompagnali da una cesta divisa in varii scompartimenti, dove sono gradatamente disposti i campioni con cartellini che ne indicano i prezzi. Se trattasi di un venditor di paste, ci sarà tutta la rotonda famiglia maccaronica, cominciando dai maccheroni di zita, e venendo giù giù pei maccheroni propriamente detti, maccaroncelli, vermicelli, vermicellini, spaghetti e fidelini; e poi le lasagne, colle laganelle, tagliarelle, lingue di passero e altri membri della medesima famiglia schiacciata, e poi le varie specie di paste della Torre o della costiera di Amalfi, per le quali ci vorrebbe tutto un vocabolario. Se poi trattasi di un farinajo, la cosa è più semplice, poiché basta portare in mostra quattro o cinque qualità di fior di farina, dal più tino e bianco al più bruno e ordinario.

Ma corrisponde sempre la mercanzia che si vende a quella che si bandisce e si porta in mostra? Oimè no. Forse nei primi giorni,e non sempre, per attirare la folla dei compratori, ma indi a poco e a grado a grado la roba si va facendo più scadente, il peso meno esatto, e il prezzo un po’ più alto, finché il novello venditore si pone a livello di tutti gli altri e al modo stesso degli altri spaccia la sua merce. Allora col prestigio della novità sparito anche quello del risparmio o del vantaggio, molti dei nuovi bottegai ritornano agli antichi luoghi dove solevano comprare.

Ma non son torse così tutte le cose del mondo? Ci allettano e ci seducono promettendoci piaceri non ancora provali; ma ben tosto ci accorgiamo che sono come tutti gli altri,quando non sono peggiori, e ci pentiamo di aver lasciali gli uni per andare in cerca degli altri.

Allerta dunque: evitate un disinganno sempre dispiacevole, e non vi fate infinocchiare da chi usa artifizii simili a quelli del banditore di vino.

EMMANUELE ROCCO.

1Uomini e donne, grandi e piccoli, nobili e plebei, ricchi e poveri, al vico tale si è aperta una decente cantina, accanto al prenditore del lotto, dirimpetto al pizzajuolo; si vende il vino asciutto a un grano e a due grana la carafa. Correte!

1Vedi la figura.


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SORRENTO

O fortunato peregrin cui liceGiungere in questa terra alma, felice.

LETTORI, se in qualche giorno della vostra vita vi sentiste vincere dalla malinconia, o da quella sfiducia di tutto e di tutti, che è un misto di noia, d’insofferenza e di dispetto, e che comunemente chiamasi spleen, fate subito il vostro sacco da viaggio e dirigetevi alla volta di Sorrento.

Durante l’ora che impiegherete nella ferrovia da Napoli a Castellammare, l’anima vostra sala distratta da mille impressioni sublimi e terribili, soavi e gaie.

Da un lato il Vesuvio, il maestoso vulcano, che Byron assomigliava ad un cappello da generale col suo pennacchio di fumo moltemente agitantesi nell’aria, dall’altro l’azzurro e spazioso mare, le cui onde vanno a baciare l’isoletta di Capri, messa la in sull’entrata, come vigile sentinella, o piuttosto come leggiadra portinaia del golfo di Napoli.

Volgendo uno sguardo a S. Giovanni a Teduccio vi assalirli la memoria di quel grande, il cui scettro dominava fin dove tramonta il solo.

Colà soffermossi Carlo V per aspettar che Napoli si preparasse a riceverlo. Passerete accanto ad Ercolano pietosamente seppellita dalle lave del Vesuvio,che quivi fecero salve le vestigia della civiltà romana dall’ira sterminatrice de’ barbari. A Torre del Greco le aure stesse vi ripeteranno una dolce storia d’amore, e la rimembranza della bella Lucrezia Alagno idolatrata da Alfonso d’Aragona vi si presenterà alla mente. E poi di tratto in tratto incontrerete gli strali di lava mandati giù dal vulcano, e quel sublime spettacolo vi trarrà a pensare sulle primitive trasformazioni del globo. Più tardi attraverserete Torre Annunziata, dicco’ suoi operosi molini macina il grano destinato alla sussistenza di Napoli.

Ma eccoci finalmente a Castellammare, porto franco di commestibili, e convegno nella state di tutti gli ammalati immaginarli del regno. Qui bisogna aprir gli occhi, ché se per poco perdurate nella distrazione. correte il rischio d’essere menati in un luogo, che non era la meta del vostro viaggio. Per lo più all’arrivo del convoglio alla stazione s’impegna una rissa accanita tra cocchieri, barcaiuoli e ciucciari. A’ vincitori spelta per preda il viaggiatore. Se vincono i ciucciari sarete messi per forza sopra un asino e trasportati a Monte Coppola. Se i barcaiuoli, sarete costretti di andar vostro malgrado a Capri. Però fortunatamente la maggioranza, e quindi la vittoria, sta sempre dal lato de’ cocchieri, ed allora monterete in una comoda vettura tirata da due o tre vigorosi cavalli ornati di penne e sonagli, e a gran trotto muoverete per Sorrento.

Lungo l’amenissima strada saluterete Vico, ove l’illustre Filangieri compose le sue opere sulla legislazione e terminò i suoi giorni, e dove potrete visitare la sua modesta tomba. Trascorsi i villaggi di Siano e di Equa, cantati da Silio Italico, arriverete sopra Scutolo,e di là come una scena incantata vi si presenterà allo sguardo la pianura di Sorrento e la sottoposta Meta, nel cui picciolo seno i commercianti della penisola hanno improvvisato una specie di cantiere, donde escono legni, che fanno il giro del globo.

Certo la natura non potea comporre una culla più poetica di Sorrento all’immortale cantore della Gerusalemme liberala. Ivi sotto la volta di un cielo purissimo, a vista d’un mare del più lucido azzurro, i boschetti di olivi si avvicendano co’ profumati giardini d’aranci. La molte sinuosità delle colline e del lido, l’aria imbalsamata da’ più grati odori, la limpidezza dell’acque. la vista del golfo di Napoli, che di là sembra un lago, ben palesano che quell’incantevole paese fu stanza delle Sirene, e che quelle piagge, ove siede eterna primavera,luron prese a modello dal Tasso nella descrizione de giardini di Armida.

Ma dov'è dunque la casa del gran poeta cristiano? È questa la prima domanda di chi giunge a Sorrento. Invano i ciceroni ci mostrano il sontuoso albergo del Tasso,e ce lo additano come la prima dimora del sommo cantore: l’ala infaticabile del tempo ci ha vietato di ammirare quelle pareti, tra cui vide la luce del giorno un uomo sì grande per ingegno e per sventure. La casa del Tasso più non esiste. Sola rimane alla nostra devota ammirazione la stanza di Cornelia Tasso, ora dei Sersale, ove rifugiò il poeta, quando mendico, vittima della sorte e degli uomini, tè ritorno alla sua patria. Altieri, Lamartine, Bvron Walter Scott hanno riverenti visitata quella casa, ove Torquato per breve tratto trovò un refrigerio alle sue sventure.

Eppure Sorrento che in tempi a noi non lontani fu liberata dall’esser messa a sacco ed a fuoco unicamente per aver visto nascere il cantor di Goffredo, non un monumento, non una pietra ha innalzata al gran poeta a memoria di gratitudine! Tranne qualche insegna di locanda e di caffè, cola non rattrovasi altro che ricordi il Tasso. Appena di nome è conosciuto da'  ciceroni, i quali dopo avervi fatta visitare una casa, che non fu quella del poeta, finiscono col dimandarvi chi sia questo Tasso. Vincenzo, il vecchio cicerone crede che Tasso sia stato il capitano, che liberò Gerusalemme,

I monumenti antichi sì greci che romani de’ quali il tempo ha alcuni del tutto distrutti e di altri ha rimasto appena i ruderi, ben addimostrano quale importanza avesse avuta Sorrento sin da’ tempi più remoti. E infatti Giunone. Cerere, Ercole, le Sirene e Venere, alla quale Virgilio in presenza di Augusto consacrò un amorino votivo, Minerva che diede il nome al promontorio che da Massa si estende alla punta della Campanella, ed altre pagane deità ebbero il loro delubro. Ed oltre ciò Sorrento ebbe un circo al sito detto la Rota,in cui si celebravano i giuochi olimpici, e fu il convenio di molti illustri romani che ivi ebbero stanza e vi stabilirono sontuose ville, come attestano i ruderi della casa di Pollionc al Capo di Sorrento adorna di bagni, di peschiere, di grotte, decantate dal poeta Stazio che dimorò lungo tempo in tali delizie con quell’opulento cavaliere romano.

La sola opera romana rimasta intatta sono i cisternoni o conserve di acqua che si ammirano nella strada Borgo nel cortile della casa Spasiano, nella quale abitò anche la sorella di Tasso quando in seconde nozze sposò un cavaliere di questa famiglia.

Vincenzo il cicerone quando fa osservare i cisternoni vi racconta che essi furono fatti come una frittata, appoggiandosi con ciò dire sulla opinione del dotto Bacone che osservò essere il cemento di quelle cisterne lo stesso di quello della Piscina mirabile, ossia bianco d’uova, polvere calcarea calcinata, e polvere di silice. 1 romani, dice Vincenzo, erano dei cattivi pasticcieri perché se avessero saputo far mirenghe non avrebbero sprecato i bianchi d’uova per fabbricare pozzi e piscine.

Tutto lo spirito di Vincenzo si sviluppa sotto l’arco del Duomo dove si è improvvisato un piccolo Museo di marmi scavati in Sorrento. Ivi si veggono delle colonne di marmo affricano, delle insegne di soldati pretoriani, ma le cose che meritano di essere osservate sono il bassorilievo che rappresenta i sette savi della Grecia, e l’altro in cui è effigiata Cibele sedente su due leoni.

Al pari di tutte le altre città, Sorrento ha aneli’ essa la sua storia di glorie e di sventure.

Nel medio evo la (lotta sorrentina si portò ad Ostia di conserva con le navi di Salerno di Amalfi e di Napoli, e vinsero dopo aspra battaglia i barbari ma prodi Saraceni. E raccontasi pure dagli storici di un’altra vittoria riportata sulla flotta Amalfitana dalle navi di Sorrento .

Ne’ secoli posteriori ebbe a patire diverse invasioni de’ Turchi, contro a’ quali non bastò a difenderla la cerchia delle forti sue mura. Dimandate un pò a Vincenzo il cicerone questo tratto di storia patria, ed egli vi dirà che i Turchi furono brava gente, perché rapirono le donne di Sorrento e lasciarono in pace gli uomini. Gran peccato, soggiunge egli, che i Turchi non tornino più: se tornassero io potrei correre la fortuna di esser liberato di mia moglie! Vedi goffa e irriverente ignoranza! quante volte sul Deserto, romantico silo presso S. Agata, alla vista di due mari, cioè del golfo di Napoli e di quello di Salerno, Vincenzo mi ha mostrato il punto, ove sbarcarono i Turchi per assaltare Sorrento! Avevo un bell’arrabbattarmi per indurlo ad accompagnarmi alla chiesa di S. Agata, ov’é un altare unico nel suo genere per il gusto, onde i diversi pezzi di marmo sono contesti a fiori, arabeschi ed uccelli: Vincenzo si rimaneva estatico al pensiero de’ Turchi,che tanto pietosamente si davano la pena di rapire le donne sorrentine.

Vincenzo è il vero tipo del perfetto cicerone. Dopo avere squarciato il velo dell’antichità, dopo avervi parlato della storia, de’ monumenti e delle nobili famiglie quasi tutte estinte, egli muta stile e vi parla dell’industria, delle manifatture, e del commercio ed un tantino anche dell’agricoltura di Sorrento.

Volete sapere quanto burro si mandi a Napoli, quante ceste di aranci si esportino per l’America, quanti nastri di seta si vendano in un anno, quanti cassettini di legno costruisca l’ebanista Gargiulo, quante navi si trovino nelle marine di Cassano e di Meta, quante calze si lavorino al piano di Sorrento, a che ne stia l’industria della seta? Dirigetevi a Vincenzo: egli è una statistica, un prontuario ambulante.

Ma tra le principali industrie e manifatture di Sorrento vanno annoverate quella della seta e quella de’ lavori di legno. È inutile il dire che l’arte della seta e tanto antica in Sorrento, che di là fu portata in Napoli, come il nostro chiaro scrittore Filippo Volpicelli ha mostrato in uno de’ suoi dotti articoli sulla seta. Quando girerete per quei mille romiti e solitari viottoli delle contrade Sorrentine col pretesto di accendervi il sigarro entrate in una di quelle case coloniche. Ivi sorprenderete al telaio una di quelle figure attraenti che metterebbero fuoco nell’anima più fredda e più antipoetica del mondo . Ciò che forma la distinzione di tutte le contadine Sorrentine si è la cura che esse pongono nel loro modo di vestire e la nettezza degli abiti e della calzatura, sicché ad esse si può applicare il simplex munditiis di Orazio. Non c'è esempio che possiate incontrare per istrada una contadina mal pettinata o mal calzata, e ciò ne’ giorni di lavoro. 1 di di festa poi esse indossano il costume del paese, che è un collettino di damasco gallonato, si pettinano alla cinese come le nostre più eleganti lvonnes, e inforcano ne’ capelli la spadella, che è una specie di amuleto per esse, sotto la quale scende sul collo una fettuccia. I loro orecchini di piccole perle sono un poco spettacolosi perché vengono composti di tre rosette ognuna, in mezzo alle quali ve una granata .

Chi va a Sorrento non trasanda di lasciare il tributo alle venditrici di nastri e agli ebanisti, comprando sciarpe e nastri di seta, lavorati al telaio da quelle Sirene in carne ed ossa, ed uno degli svariati lavori di legno che i fabbricanti Gargiulo e Grandevillc hanno portato a una soddisfacente perfezione. Belli infatti sono quei cassettini intarsiati ora di fiori contesti di pezzetti di legno di diversi colori, ora di costumi napolitani, o di figure pompeiane, i quali lavori se per poco fossero più corretti per disegno meriterebbero un posto distinto nelle esposizioni d’industrie e manifatture. Però gli stranieri che visitano Sorrento non tralasciano di acquistare questi oggetti di legno, i quali poi ricordano ad essi ritornati in patria i giorni fortunati passati in queste piagge sorrise dal cielo, in questo Eden in cui ogni punto è degno di essere riprodotto in tela o in fotografia, ogni roccia uno studio pel paesista, ogni donna un modello pel pittore che va in cerca di puri e soavi lineamenti.

Se consultate Vincenzo egli vi farà uno specchietto di tutti gli alberghi e delle case mobiliate di Sorrento. Vi dirà che i gran signori che vogliono dimorare alla Sirena, o al Tasso o da Rispoli pagheranno circa tre piastre il giorno, che Villa Nardi è l’albergo di quei che amano l’economia e che desiderano spendere una ventina di carlini al giorno, e che nelle locande non situate sopra il mare come le precedenti si può spendere tra l’alloggio e il pranzo circa un ducato. Vi parlerà ancora della romantica locanda delle quattro stagioni sita sotto il Monte, e dei rinomati sorbetti del caffè Cozzolino. Vincenzo vi dirà inoltre che una carrozza a tre cavalli da Castellammare a Sorrento si paga 14 carlini, una cittadina 10, un posto di carrozza tre carlini, una gita sull’asino tre carlini, e che chi vuol essere ben servito deve per asini e per carrozze dirigersi alle statle della Sirena.

Ma tra le storiette e gli aneddoti narratimi dall'instancabile cicerone, non dimenticherò mai le lagrime che ho versate al racconto de’ casi di una tal Lida, vittima infelice d’un amore prepotente.

Nel nostro secolo calcolatore le forti ed eroiche passioni sono appena concesse alla fantasia del poeta e non s’incontrano che ne’ personaggi di un romanzo. Ma nelle ultime classi del popolo, tra quella gente, che guadagna la vita col lavoro delle proprie braccia, la civiltà non ancora ha ridotto l'amore ad un vocabolo senza significazione e che spesso spesso trova il suo commento in una cifra numerica.

Lida era la più bella fanciulla della penisola Sorrentina. Attraente come il suo cielo essa era l’ammirazione di quanti stranieri si recavano in quelle amene piagge, e tanto che non v’ha pittore d’oltralpe che passando sotto la sua finestra non avesse cercato di guardarla attentamente per poi riprodurne i soavi lineamenti in que’ quadretti di costumi Sorrentini che ora fan belli diversi saloni dell’Europa.

Lida quantunque di mestiere tessitrice di seta avea una coltura superiore al suo povero stato, ed è fama ch’essa sapesse a mente quasi tutte le poesie del Tasso.

Se andate a Sorrento fermatevi alla strada Borgo ed entrate nella bottega del mai molaio così detto Barbariccia e domandategli la storia di Lida, ed egli facendo come colui che piange e dice vi reciterà la seguente ballata sorrentina da lui composta,e che i marinari cantano tutte le sere della domenica:

O voi che avete intelletto d’amore,

Qualche lagrima date di pietà

A una storia di affetto e di terrore,

Di cui l’ugual non v’ha.

Lida creatura angelica e divina

Fu la più bella di Sorrento un dì;

Nò v era un’altra in tutta la marina

Amabile così.

Tutta luceva di quel ciel sereno

Negli occhi suoi l'arcana voluttà;

L’ingenuo detto, il suo sorriso appieno

Diccan la sua bontà.

Quando ella nacque, oh fortunata notte!

Danzando le Sirene in folla uscir

Della Marina grande dalle grotte

Al primo suo vagir.

E le trasfusero sul vago viso

Del loro incanto il magico poter,

Ogni garzone si sentì conquiso

Di tai vezzi al mister.

Ma chi di Lida imporporar la gola

Facea primiero e le ispirava amor?

Antonino di Meta il bel pilota

Di Lida ottenne il cor.

Venne la festa di Sant’Antonino;

Di fidanzata il pegno ei le comprò,

La spadella le che d’argento fino

Onde le trecce ornò.

E le promise come santa cosa,

Che tornando dal viaggio nell’aprii,

Recato avria l’anello a lei di sposa

Dell’oro del Brasil.

Antonino partì. Lida contava

I giorni mesti e rimirando il mar

Le pareva ogni vela che spuntava

La nota vela entrar.

Povera Lida! Sette lune e sette

Invan lo chiese all’aura, al mare, al ciel;

Indi seppe che preda il ricevette

L’Oceano infedeli Che fece?

Vestì l’abito nuziale

Da lei trapunto in più felici dì;

La spadella d’argento, ahi don fatale!

Il crine le abbellì.

materni orecchini di corallo

Pose, e sul seno una crocetta d’or:

E si cinse sul fronte di cristallo

La corona di fior

Poi dello sposo convitò i parenti

Bruno vestiti, e dolorosi in cor;

E convitò tutte le amiche genti

Del parentado ancor

Presso di Lida alla magion romita

Nella Marina grande, accanto al mar,

S’alza di calce una fornace ignita,

Diruto casolar.

Sento rizzarsi per l’orror le chiome,

Mi si dilania l’alma come un vel

Ricordando un martir che non ha nome

Ilo nelle vene il gel! —

Pomposa, dal veron sul mar gemente

Lida tre volte il suo fedel chiamò!...

Rapida quindi nella calce ardente

D’un balzo si lanciò! —

voi che avete intelletto d’amore,

Qualche lagrima date di pietà

A una storia di alletto e di terrore,

Di cui l’ugual non v’ha.

 GIUSEPPE ORGITANO


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LA BELLA SORRENTINA

CANZONE POPOLARE

1

Io la vidi a Piedigrotta

Tutta gioia, e tutta festa;

Dalla madre ricondotta,

Oro e perle aveva in testa.

Un corpetto ricamato,

La pettiglia di broccato,

Una veste cremisina,

Un sorriso ad incantar;

E la bella Sorrentina

Io l'intesi nominar.

1

A la festa la vedette,

Che se face a Piedigrotta;

Co la mamma se ne fette

Pe bedé la truppa ’n frotta.

Lu corpetto ricamato,

La pettiglia de broccato,

Na vonnella cremmisina,

Na resella a ffa’ncantà;

E la bella Sorrentina

La sentette annomenà.

2

Da quel giorno non ho pace,

Notte e dì sospiro e gemo,

Fin la pesca non mi piace,

In disuso ho posto il remo.

Con la povera barchetta

A Sorrento a fretta a fretta

Ogni sera, ogni mattina

Vengo qua per lagrimar;

E tu, ingrata Sorrentina,

Del mio duol non hai pietà.

2

Io da tanno ’nn aggio pace,

Notte e ghiuorno sto a ppenare.

Nfi la pesca non mine piace,

Manco saccio cchiù vocare.

Co l'afflitto vuzzariello

A Sorridilo io poveriello

Ogne ssera, ogne mattina

Vengo cca pe piccijà;

E tu, tigrata Sorrentina,

Mine vuò sempe fa pena.

3

Mi spaventa la procella,

Mi rattrista la bonaccia:

Sola è mia diletta stella

Quando veggo la sua faccia.

L'altro giorno in gran periglio

Vidi il logoro naviglio...

Sulla sponda di Resina

Là mi stava a naufragar;

E tu ingrata Sorrentina

Del mio duol non hai pietà.

3

Mme fa stare 'mpocondria

La tempesta e la bonaccia;

Schitto stongo ’n allegria

Quanno ceco chella faccia.

Ll'ato juorno la varchetta,

Che fujeva qua saetta

Ntra li scuoglie de Resina

Già se steva pe scassà;

E tu 'ngrata Sorrentina,

Mme vuò sempe fa penà.

4

Se non curi il mio dolore,

Bella sì, ma ingrata donna,

Del mio cor, del mio amore

Farò dono ad altra donna.

Ma che veggio? Il ciel s’annera,

Più non miro la costiera,

Cresce il vento, il Sol declina

Son respinto in alto mar;

Per te, ingrata Sorrentina,

Io mi vado a naufragar.

4

Si non cure sto dolore,

Bella si, ma ’ngrata nenna.

Io mme metto a ffa l'ammore,

Co quacch'auta bella nenna.

Ma ched’è?... Lu viento cresce

Già lu Sole scomparesce,

Cchiù non beco la banchina,

Mme sta l'onna a straportà;

Pe tte 'ngrata Sorrentina

Io mme vaco ad affocà.



1 V. Sismondi — Histoire des républiques italiennes.

1 Vedi la figura.

Vedi la figura.

1Seguendo il sistema tenuto fin dal principio di quest’opera, ò creduto aggiungere come appendice all'articolo di Sorrento questa canzone popolare, in italiano e nel dialetto napolitano tale quale fu stampata dall’autore, che gentilmente me ne ha permessa la riproduzione.


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PULCINELLA

E LA MASCHERA NAPOLITANA  



PULCINELLA!

Questo argomento per uno scrittore sembra il più volgare che possa immaginarsi. Il rappresentante comico della goffaggine e della ridicola semplicità non può divenire per opera della critica e della storia un personaggio neppur di lieve importanza.

Così dicono i pensatori improvvisi.

Ma io ho molte ragioni da provare che questo volgar Pulcinella è un essere pel quale la razza umana strappò qualche spina al sentiero della vita, e pel quale la verità fu detta sotto la forma del ridicolo. Qualcuno che mi sta alle coste, mentre io scrivo, e sa com’io la pensi, si proverebbe a rendermi anche più temerario — Non solo, egli mi susurra. io rappresenterei Pulcinella sotto la forma di un mito, non solo sotto 1 aspetto di una caricatura fatta a taluni uomini per emendarli, ma oserei dire di Pulcinella, ch’egli fu uno de’ benefattori della società.

Io non vado tant’oltre e mi fermo. L'amico o il consiglierò continuerà l’articolo, se a lui piace.

Parecchi scrittori tanto italiani quanto stranieri non ebbero a sdegno di toccar dell’indole e dell’origine di questo personaggio, al quale è dovuta la maschera napolitana. Di lui scrissero il Malici, il Ferrano, il Signorelli, senza dire degli enciclopedisti e degli storiografi della commedia. Scrissero di lui, sebben brevemente Inglesi ed Alemanni, e da ultimo Alessandro Dumas ne’ suoi viaggi, ed il bibliofilo Jacob che gli consacrò intero un articolo della sua penna.

Non sarò io dunque reputalo uomo dappoco o balzano di mente, se intingo la penna in questo inchiostro. Pulcinella, detto da molti commediografi Pulcinella Cetrulo ha due origini, e come Ercole al bivio lo scrittore trovasi esitante e confuso nello scegliere la sua via. Una origine è antica, l’altra è moderna, e pecca davvero di esser troppo moderna. Tutti sanno che dall’accozzaglia di un nome e di un cognome venne formato l’insieme di Pulcinella. Tutti sanno che un cotal Paolo. Ciucili per vaghezza di baloccare, dicesi, andasse ballando e facendo cavriuolo innanzi allo esercito francese che entrava in Napoli, e che i Francesi chiamandolo in lor favella Paul Chinelli e quindi Polichinelle dessero origine alla creazione del nome di Pulcinella.

Ma io pianto di botto la mia opposizione a questa origine, la quale potrà piacere come emanazione di spirito francese, ma non potrà venir tollerata né accettata dallo spirito italiano. Eccone le ragioni. 1. Il nome di Paolo non è punto napolitano, così non ha cadenza napolitana il cognome Cinelli, a meno che non voglia cangiarsi questo Cinelli in Ciniello o Ciciniello. 2. Il personaggio di Pulcinella ha data più antica del citato ingresso in Napoli dell’esercito francese. 3. L’indole del Pulcinella è di uomo e cittadino ligio fino alla superstizione alle assuetudini del suo paese nativo, e di uomo tenace a’ propri costumi, amante de’ suoi, dileggiatore di ogni uso straniero, e schernitore caustico oltremodo e pungente. Nulla di più schernevole pel nostro Pulcinella che il lindo ed attillalo seguace di mode e il Monzù (Monsieur).

Pulcinella napolitano, volgare e timido ch’ei fosse, non ha mai ballato innanzi agli eserciti francesi. L’è una storiella ingegnosa, ma non plausibile.

Sappiamo d’altra parte che la maschera è di antica data.

Senza ricordar Venezia che se ne avvaleva nelle vie e ne’ teatri, in politica ed in pace, tra cittadini e tra esecutori del Consiglio, basta portarsi con la studiosa mente sino a’ Greci ed a' Romani per trovarne l’uso assai sparso.

La creazione della maschera è la più naturale delle invenzioni. L’uomo tende molte fiate a nascondersi, poiché la sincerità non tu sempre in lui. Dove è simulazione o colpa, è rossore. Non furono le foglie, la maschera del nostro primo padre? Gli uomini surrogarono un tempo alle larve il lembo delle vesti e le mani addossate sul volto, e questa fu una maschera spontanea ed improvvisa poi veduto il bisogno, surse quasi una moda di fingere e di saper fingere, nacque lo spettacolo pel quale la finzione diventa diletto e la maschera prese a covrire i volti, non più chiari ed ingenui, della viziosa umanità. Ebbero teatri Roma e Grecia, ma quel eh e più, ne ebbero il Perù, la Cina, le Indie, e tutti i teatri cercarono nelle loro rappresentazioni un eroe o protagonista. I Greci incensarono personaggi mitologici, i Romani seguirono i Greci, gl’indiani tolsero ad eroe delle loro rappresentazioni un nume o un semideo. I Cinesi prescelsero un mandarino, un ricco mercante etc. Gli Ebrei non ebbero né spettacoli né maschere, perché trovarono delitto queste allusioni innanzi al principio della loro fede.

L’eroe della commedia napolitana è il Pulcinella, e che questo eroe sia antico lo dimostrerò prima con appoggiarmi al sapiente e dotto ricercatore archeologo Filippo De Jorio, l’altro col rivedere le pitture Ercolanensi e Pompeiane.

Filippo canonico De Jorio scrisse un’opera intitolata La Mimica degli antichi paragonata al moderno gestire napolitano.

Per raggiungere il suo scopo il paziente archeologo si partì dalla osservazione delle antiche figuline, vasi, bassorilievi, lavori in plastica, purché offrissero ligure in movenza ed atteggiale secondo lo spirito dell’azione, furon bastevole documento per mostrare che il gesticolare e il muoversi soperchio de’ Napolitani sono abito espresso anche ab antico, e sì facendo il De Jorio assegnò il suo gesto al dolore, all’ira, alla gioia. 11 dotto ricercatore si piacque fino di trovar relazioni col gestire antico nel muover delle dita, sicché gli stessi atteggiamenti del Pulcinella, considerati sotto questa forma speculativa, divennero per esso abitudini di antichi personaggi. Al che accenna pure il Ferrano quando nel passare a rassegna le maschere italiane dice.

«Non istaremo a ricercare se alcuni di questi personaggi sia il medesimo, quanto all’abito ed al carattere che già era ne’ mimi degli antichi Greci e Romani».

Certo è che antiche sono la maggior parte delle maschere italiane, e ciascuna di esse nacque dal voler porre in canzona e gittate lo scherno in qualche ridicola costumanza. Però veggiamo nelle commedie comparire i Dottori caricatura di medici o di cattedratici, i capitani Spaventa caricatura dei Rodomonti Spagnuoli, gli Arlecchini caricatura de’ ghiotti e de’ balordi, nobilitati poi dalla satira, gli Scopini emporio di furberie, ed altre maschere delle quali parla il Riccoboni nella storia del teatro italiano.

Da questi poi originali caratteri e maschere, ne vennero altri, come derivazione e suddivisione di una stessa materia. Meneghino introdotto dal Maggi, Scaramuccia dal napolitano Fiorilii, Coviello dal famigerato Salvator Rosa, e Pedrolino e Tabarrino e Fitone elio, e il Tartaglia che appartenne a più teatri, essendo universa caricatura di un difetto naturale e non ispecialità di paese. Lo stesso Dottore introdotto dall’immortale Molière nelle sue commedie, fu invenzione di Lucio comico italiano che fioriva nella meta del cinquecento.

Ma più antico fra tutti è il nostro Pulcinella. Continuando l'analisi delle antiche scolture noi troviamo negli antichi scavi Ercolanesi e Pompeiani avanzi di colonne portanti in cima a guisa di capitello una testa a grandi orecchie a bocca aperta, e coronata talvolta di foglie, la quale dalla fronte al di sotto del naso è nera, bianca fino al mento. E questa specie di maschera hanno i presenti fabbricatori di creta adottata come vaso di fiori. Ecco dunque un volto a due tinte, una maschera infine, ma una maschera permanente. E questa è la maschera del Pulcinella. A giustificar la medesima è volgar tradizione che il cittadino dell’Acerra al quale si da nome di Pulcinella, fosse un uomo che aveva in volto una macchia o voglia di donna incinta che ne mascherasse la superior parte delle sembianze.

Nei volume sullo stato della poesia in Italia è ricordato che nel museo del Marchese Alessandro Capponi era la statua di un istrione antico così mascherato, val quanto dire con un camiciotto mal assestato e assai goffo, con una sauna a ciascuno degli angoli della bocca, con gli occhi stralunati, col naso lungo prominente ed adunco, e più (come troviamo nel Pulcinella francese) colla gobba e nel petto e nel dorso e coi socchi ai piedi.

Nè il carattere stesso del personaggio è dissomigliante da quello che a coloro davano gli antichi, cioè uomini stolidi, accomodati coll'abito, colle parole e col gesto a mover le risa. Col decader delle antiche usanze, questa maschera (a forma Pulcinellesca) andò a perdersi, ma il Fiorillo la restituì al teatro, dandogli il dialetto de’ Calabresi. Un sartore di nome Andrea Calcese detto il Ciuccio ritenne le spoglie Pulcinellesche, ma gli diè il linguaggio de’ villanzoni bernoccoluti della antica città di Acerra, ove tenevasi originato. Le quali indagini ci riportano sempre all’idea madre che il Pulcinella è l’antico buffone nella sua mellonaggine, piccante nelle sue gofferie, accozzamento strano ed originale di una natura semplice e beffarda.

Scherzando su tal subietto dice Carlo Nodier «Scompaiono le nazioni dalla faccia della terra, le sette spariscono nell’abisso del passato, e Pulcinella resta. Non vi è altri che Pulcinella il quale sia vero ed artista. Pulcinella è invulnerabile, e l'invulnerabilità degli eroi dell’Ariosto è meno comprovata della sua. Non so dirvi se il suo tallone sia restato nella mano di sua madre, e se ella lo tuffò come Achille. Quel che havvi di certo si è... (se questi lodevoli studi allettano qualche gentiluomo) che Pulcinella, bastonato dai birri, aggredito dai bravi, impiccato dal boia, e portato via dagli spiriti ricomparisce infallibile mente un quarto d’ora dopo al più tardi, così vispo, così vivace e più garbato che mai. No, Pulcinella non è morto. Viva Pulcinella!»

Leggendo queste parole di un accreditato autore francese, egli è forza credere che anche in Francia abbia il Pulcinella potenti influenze.

Senza ricordare Tiberio Fiorilli che fu la gioia del Gran Luigi, basterà ricordare Michelangelo Fracanzano fratello de’ famosi e sventurati pittori napolitani Cesare e Francesco. Michelangiolo Fracanzano, viste che le arti belle dan sovente a chi le coltiva un duro compenso, stimò porgere altrui diletto per altra guisa, cioè rappresentando il Pulcinella. Piacque il buffone ai Francesi, e Luigi XIV lo invitò a far ridere la Francia. Ed egli, non certo dando pan per focaccia, portò il riso nella famiglia di un Re, quando un altro aveva portato il pianto nella sua famiglia. Morì lo stipendiato Pulcinella presso il 1685, e la famiglia dei celebrati pittori Fracanzano si spense in un pittore povero ed in un ricco istrione. Questi assicurò le forme del Pulcinella, ed ancora oggidì si veggono le sue tele ove è dipinto Pulcinella a mezza figura col suo cappello a pan di zucchero e la spiegatala camicia.

Ma da quel tempo in poi molti furon quelli che vestirono le spoglie del semplice cittadino dell’Acerra, per richiamare il riso, anche tra le sciagure, sul volto dei poveri Napolitani.

Là dove oggi in via S. Bartolomeo vedesi un arcualo corridoio celebre per la bisca ove vende la camicia S. Camillo de Lellis, era un teatro che il tempo e le rivolture distrussero, e la cui celebrità è cimasa ancor viva, come di cosa recente.

Celebrità giusta, in quanto che su queste scene, dette di S. Bartolomeo, spiegarono i loro fasti que’ musicisti che insegnarono l'armonia all'Italia ed oltre i monti. I quali usciti in buona parte dal piccolo conservatorio di S. Onofrio alla Vicaria, fondato intorno al 1500, ebbero la gloria di aver creato in uno stesso secolo Niccolò Jommelli, Niccolò Piccinni, Giovanni Paesiello. I drammi del Metastasio vestiti d’armonia da Porpora e Leo fecero risuonar pateticamente questa contrada, poi vi risuonò l'opera bulla, ed allora i nostri teatri crebbero di numero e vi si aggiunse quello de" Fiorentini, dove or si recita in prosa ed allora si cantava.

Apparve in questi teatri il Pulcinella, e il riso con lui. Accrebbero la dote de’ suoi sali e delle sue arguzie molti scrittori napolitani di non vulgare erudizione, ma colui che meglio lo scolpì fu di questi scrittori il meno erudito cioè Francesco Celione,in sua origine lavoratore di seta. Poi fra gli altri venne un Filippo Cammarano di famiglia teatrale, ed allora il tempio di Pulcinella fu S. Carlino, il piccolo teatro ove si desta l’ilarità, e che una mano invisibile preserva ancora dalla rovina, mentre svisa e deforma l’ampia piazza del Castello. Si direbbe che le case onde è circondato per riconoscenza del riso che sua merce udiron sempre echeggiare colà dentro, se lo tengano stretto, affinché non isfugga. Ma chi assicura queste case che lo splendore della città nostra non chiegga il loro sacrificio? Il che se non potrà tardare, io oserei desiderare che nel luogo ove sorse il nostro teatro nazionale fosse posta una lapide, la quale ricordasse che a temperare i dispiaceri della vita, veniva colà eretto il tempio della ilarità. E forse in questa lapide avrebbe dritto a menzione il cittadino di Acerra. A riassumere dunque il nostro articolo nel quale toccammo il meglio che da noi si poteva in piccolo spazio del Pulcinella, della maschera, e del teatro napolitano, diremo che anche in questi giorni in che la maschera si va dileguando dalle scene, è il Pulcinella il nostro migliore amico, e S. Carlino il teatro che fuga e tronca le nostre malinconie. Sicché meriterebbe questo teatro lo stesso nome di Posilipo che vuol dire Pausa alle tristezze.

Senza parlare di Gian Cola, di Luzio, del piccolo Casaccia che non profanarono la intemerata camicia di Pulcinella, sono gloria oggi di questo personaggio i due Petito, de’ quali il primo, sendo innanzi negli anni cesse il posto al secondo, sicché il padre assiste alle serali glorie del figliuolo e si compiace dell’opera sua.

Oh Pulcinella! Creatura degli antichi venuto sino a noi discendenti della Magna Grecia, no, tu non ballasti mai innanzi agli eserciti stranieri, tu nascesti nel riso e nella gioia, prediletto figliuolo della commedia, e se Plauto e Terenzio, se Aristofane e Menandro non ti diedero polpe ed ossa, essi udirono la tua voce, la quale è quella della semplice ambiguità di parole posta a lottare con le ambagi e con la tortuosità di maligni sapienti.

CAV CARLO T. DALBONO.

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LA  MESSA  VOTIVA

Appo quasi tutti i popoli della terra, qualsivoglia sia la loro religione, sonosi levale al cielo preci e voti per ottener grazie. Quando ogni umano conforto vien manco, l’uomo nella sventura si volge per istinto al suo Creatore e ne implora l’assistenza, e, come se non osasse direttamente alzar le sue preghiere fino alla maestà di un Dio,cerca il più delle volte l’intercessione di quelle creature che Gli sono più accette. La Religione Cristiana, la più consona a’ bisogni dell’uomo, offre nella Santissima Madre di Dio la più possente interceditrice di grazie, ed Ella innumerevoli ne ottiene ogni giorno dal trono dell’Altissimo a prò de’ suoi divoti. Venerata dall’orbe cattolica sotto diverse denominazioni a seconda de’ tanti privilegi di che Dio volle colmare questa Prediletta fra tutte le creature, ed a seconda di alcune particolari circostanze di tempi e di luoghi, Ella spande i tesori delle sue grazie a tutt''i suoi figliuoli indistintamente elio con vera fede a Lei si volgono.

Se presso tutte le cristiane genti la divozione alla SS. Vergine e quasi un bisogno del cuore e dello spirito, massima lo è presso i Napolitani.

Basta gittar Io sguardo ne' nostri templi per vedere quasi in essi tutte le Immagini della Madre di Dio circondate da'  così detti voti, che sono tante dipinture colle quali vien rappresentato a’ riguardanti quel caso particolare di malattia o di altra sciagura, a risanar dal quale si fa il voto alla Madonna. A questi quadretti si congiunge pel consueto una effigie in cera di quella parte del corpo che è stata soggetta a infermità, a ferita, a percosse e simili. È costume de’ nostri popolani andar raccogliendo dai pietosi vicini le limosino per far dire la Messa votiva che in dialetto domandasi Messa pezzata.

Le chiese dove maggiore e l'affluenza de’ voti sono Santa Maria del Carmine presso le porte della città, S. Brigida, la Chiesa alla Sanità e S. Vincenzo alla Sanità, Montevergine e la Madonna dell’Arco.

La chiesa di S. Maria del Carmine,poco discosta dalla piazza del Mercato, fu edificata da’ d’Angiò, e racchiude un convento che è de’ più famosi di Napoli. Per lo addietro, questa chiesa non era che una semplice cappella col nome di Santa Croce che venne distrutta, e poscia rifabbricata e magnificamente arricchita dalla madre dell’infelice Corradino Svevo, decapitato in quella piazza del Mercato ed il cui umil sepolcro si vede dietro l’altare maggiore. Nel 1707, la chiesa venne restaurala nel modo come ora si vede. Oltre di una bellissima Immagine di Nostra Donna, antica dipintura greca, vi si venera un Crocifisso, il quale, narrasi che nell’assedio di Napoli del 1430 avesse piegalo il capo per iscansare una palla di cannone. Non è a dire di quanta divozione è compreso il popolo Napolitano per questo Crocifisso, che tiensi ricoperto in tutto l’anno, eccetto che nella prima festa di Natale, giorno in cui un grandissimo numero di abitanti e il Corpo della Città si reca a venerarlo.

Riguardo alla Chiesa di Montevergine, già se n’è parlato con apposito articolo nel primo volume di quest’opera. In quanto alla Madonna dell’Arco, se ne scriverà un articolo per la descrizione della festa che vi si fa. La chiesa di S. Brigida fu edificala nel 1610 da una spagnuola per nome Giovanna Quevcda.

Or ci piace raccontare un fatto che meglio l'ara conoscere questo particolar costume della Messa votiva.

Non e gran tempo da noi discosto che in quella certezza addimandata la Salita di Tarsia, che pon capo sul colle amenissimo dell’Infrascata, e propriamente un poco prima di giugnere a quella piazzetta che dalla chiesa di S. Antonio toglie suo nome, due donne abitavano in un fondacuzzo piuttosto oscuro che vedesi a sinistra nel salire — Erano una madre e una figliuola.

Tutt'i villeggianti che nella bella stagione traevano in sul Vomero o nelle adiacenti campagne, nel salire o nello scendere per quella scoscesa di Tarsia, vedean sempre in sulla soglia di quel fondaco starsi a sedere una donna di non grave età, comechè non polca dirsi più giovine, la quale con un rosario tra le mani recitava avemmarie in tutte le ore del giorno. La poveretta non polca meglio spendere il suo tempo quando non si occupava a filare giacche da molti anni mancavale il senso più necessario al lavoro, la vista — La S. Giuditta, madre di Concetta la insaldatrice , era cieca.

Eppur, con quanta cristiana rassegnazione ella avea portato sì crudele sciagura! Quando la misera donna ebbe certezza di non poter più ricuperare i suoi occhi, che una violenta e ostinata oftalmia avea per sempre acciecati, non versò una lagrima, non mise un lamento, ed altro non disse che: — Non vedrò più la benedetta mia figlia! —

Quelli che si ostinano a non veder nell'uomo che una malvagia creatura, han negalo incontrarsi nel cammino della loro vita gli atti della più eroica virtù o i più inauditi sacrifici di annegazione, senza por mente che gli eroi ed i martiri della virtù non son rari specialmente allorché si cercano tra i poveri, tra i sofferenti, tra i rassegnati.

Per quale sciagura o infermità la madre di Concetta perdesse il godimento degli occhi, mal sapremmo noi dirlo,nò giova alla commovente istoria che abbiamo a narrare. Ben possiamo dire che dal dì ch’ella orba rimase della luce del cielo, Punico scopo di sua vita parve aver concentralo nell’affetto tenerissimo che aveva alla sua cara figliuola, Punica sopravvanzatale di cinque nati. Era vedova da parecchi anni.

Nel tempo di questa istoria, Concetta non avea più di diciotto anni. Se dicessimo che ella era d’una sorprendente bellezza, si crederebbe che ciò diciamo per quella specie di consuetudine de’ novellatori di dipinger belle tutte le donne che entrano ne’ loro racconti. Ma noi ce ne appelliamo a tutti quelli che ricordano la Concetta di Tarsia, dieci o undici anni or sono. Il più accigliato Senocrate non polea salir per quella via senza gittare uno sguardo nel fondacuzzo dov’era la Concetta. Non sapremmo far meglio il ritratto di questa fanciulla che col rassomigliarla alla più gentil donnina di queste d’alto lignaggio. Avea carnagione assai fina e dilicata, due occhi neri di quelli che pigliano i cuori d’assalto, e un bocchino aggraziato, sul quale un sorriso tra il mesto e l’ingenuo vagava quasi sempre come un vezzo incantatore.

Or questa Concetta, che per quanto bella era buona, esercitava il mestiero d’insaldatrice per essere di alcun prò alla povera mamma, che ella amava con una tenerezza impareggiabile. Non ci era famiglia mezzanamente agiata su per quella via di Tarsia o per l’altra parallela di Pontecorvo, che non desse i suoi panni lini a stirare alla Concetta, la quale era valentissima, soprattutto a dar la salda alle camice per uomini, alle maniche delle quali dava tante graziose pieghette. il sabato era giorno d’inferno per la povera insaldatrice: era un compito di sette o otto ore di buona fatica che avrebbe spossato Ercole stesso o Achille quando filava accanto alla sua bella.

Il sabato, bisognava vederla, quella gioia di figlia curvata in su un gran tavolo, ricoperto da un lenzuolo ripiegato in quattro! Con che garbo e lestezza ella spiegava in su quel tavolo l’uno dopo l’altro i panni che aveva a stirare!

Con quanta grazia intingeva dapprima le sue dita ben affilate in un piattello colmo d’acqua e ne spruzzava i siti lisci de’ panni; indi, tuffato le rosee punte delle sue dita in altro piattello dov’era l’amido, dava a’ colli, a’ petti, a’ polsini delle camice la giusta misura di salda!

Come quella miniatura divisino si colorava di leggiadrissimo incarnato pel calore de’ ferri caldi e pe’ vapori che da’ panni bagnati esalavano sotto l’azione de’ ferri. Come quegli occhi inverniciati luceano vie più su quelle guance d’alabastro e di minio!

Non poche volte nel ritirarmi alla mia dimora, la possanza di quella bellezza m’incatenava dappresso a quella bottega, nò sapea disagiarmene che quando gli occhi di quella fata si levavano pieni di maraviglia su me, e le sopracciglia leggiermente aggrottavanlesi! Fin d'allora io promisi a me stesso che di questa vaga fanciulla avrei fatto l’eroina di qualche mio racconto ma, lasso! ch’io non sapea quale sciagura avessi a narrare della meschina! Un bel di, salendo alla mia dimora, trovai chiuso il fondaco dov’era la Concetta, e in sull'alto dell’uscio, incollato l’appigionasi.

Quel dì non era il quattro maggio, in cui da’ Napolitani costumasi mutar le abitazioni, perché forte ne maravigliai e della cagione di quella novità richiesi una donna che ogni mattina solea, poco discosto dall’uscio della Concetta, porsi a vendere ballotte, noci, pinocchi ed altre frutta.

Costei mi disse} quella notte scorsa la sì Giuditta (che era la madre cieca) aver fatto rintronar quella via di strida acutissime, però che le avean rapita la figlia sua, esser venuta nel corso della notte una donna a lei ben nota, la quale avea chiesta che le si aprisse ITiscio per carità, per amor di Dio, giacche ella fuggiva dall’ira dell’ebbro marito che volca quella notte stessa spacciarla per l’altro mondo per mali sospetti e gelosie — Soggiunse la cieca che non sì tosto avea aperto l’uscio che si sentì afferrar di dietro e serrar la bocca come da un panno ben stretto, indi, non aver udito altro che un gran trambusto, un gemer sordo; e poi niente altro, esser corsa al letto dove la cara figlia era a riposare e non avervela ritrovata! La donna che mi dava queste notizie aggiunsemi che da alquanti giorni ella vedea transitare continuamente per quella salita un barbuto, che soffermavasi a riguardar la Concetta, e che precisamente il dì avanti, quel brutto ceffo era quivi ristato a confabulare con certi altri tristanzuoli all’aspetto, siccome in quel volger di tempo se ne vedeano di molti. Queste novelle nel suo ingenuo linguaggio mi sfoderava la buona donna, aggiugnendomi che, quando la mattina si era alzata, avea trovato chiuso l’uscio della sì Giuditta, e appiccatovi l’appigionasi. Di che non sapea dar contezza veruna, ma credea che l’autorità si fosse messa in sulle peste del mal fatto.

Varie voci e congetture si erano sparse intanto su questo straordinario avvenimento, che mi facea ricordar de’ Promessi Sposi del Manzoni; e ognuno dicea la sua e spiattellava sentenze, allorché un dopopranzo, erano scorsi un cinque o sei mesi,si suonò all’uscio della mia abitazione, e mi vidi innanzi la Concetta e la madre. La giovinetta era pallida, vestita a nero con cordellina bianca alle costure della veste, con le sole calze, ma senza scarpe, co’ capelli scarmigliali e con un vassoio nelle mani dov’erano vari pacchi di torchietti da chiesa,un quadro rappresentante una donna ferita da un colpo di stile alla spalla destra, e che sembrava invocasse l’aiuto della Madonna del Carmine, la cui Immagine, poggiata su gruppi di nubi e di angioli,era sull’alto di quella dipintura. Era sul vassoio puranche una spalla di cera con in mezzo un solco dipinto a rosso simulante la ferita . Qui cade in acconcio osservare che l’abito di voto non si abbandona da chi lo porta se non quando è ridotto nello stato di non potersi più usare.

Concetta facea, come più su abbiamo detto, la questua per la Messa votiva, per un voto che avea fatto a Nostra Donna del Carmine, qualora risanata ella fosse dalla grave ferita avuta all’omero.

Ella mi narrò il fatto. Un bricconaccio ch’era di paese straniero avea da qualche tempo gittalo gli occhi su lei, parecchie infami proposizioni le avea fatto fare, alle quali ella avea risposto con isdegno. Lo scellerato pensò di ottenere a viva forza ciò che non avea potuto con tutte le arti infernali. Avea subornata una donna assai familiare della Concetta e della madre, crasi quella notte introdotto in casa di lei, per mezzo di quella donna, con altri malviventi; aveale impugnato al collo uno stile e costretta a vestirsi in fretta e seguirla. Una carrozza ben chiusa aspettavali su alla piazzetta di Tarsia.

Quasi morta di spavento e di cordoglio ella fu strascinata ben lungi.

Si arrivò ad un sito ch’ella non conosceva. Si smontò di carrozza. Un fanale dava luce alla strada. La Provvidenza vegliava sulla innocenza della povera giovine. Nello smontar di carrozza, ella ebbe da lungi veduto appressarsi un gruppo di persone, attinse coraggio nella propria disperazione, gittò un grido acutissimo e chiamò al soccorso. Nel mettere il grido, ella si senti ferita alla spalla, e, invocando la Vergine del Carmine, cadde priva di sensi. La mattina si trovò appo una famiglia onesta e caritevole che l’avea soccorsa, e dove era rimasta, in compagnia della buona madre, per lutto il tempo necessario alla sua guarigione, di che ella era debitrice ad un miracolo della Santissima Vergine; che le avea pur si prodigiosamente salvata l'innocenza.

Le lagrime solcavano le guance della giovinetta nel raccontarmi questo accaduto.

Non mancai di porre una moneta bianca nel vassoio. Un sorriso incantevole di quella cara fanciulla mi ringraziò nel suo ingenuo linguaggio.

FRANCESCO MASTRIANI

1 Detta volgarmente la Messa pezzata.

1Detta volgarmente in Napoli stiratrice.

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LA  TAVERNA

Compà, si vuò ngrassare asciutta vutte

Ca l'ommo tant'è ommo quanto sciacqua

Capasso.

ECCO il nome invariabile che i napolitani danno a quella che gli altri popoli italiani chiamano bettola, osteria. Come nelle parole di vecchio conio, anche del nostro volgar dialetto noi latinizziamo e mostriamo la nostra origine  così in alcune parole di moderna origine noi francesizziamo.

Tabernae dicevano i Latini le botteghe ove si vendesse alcuna cosa, ed aggiungevano a questo nome l'attributo esplicativo del genere. Taberna diversoria osteria e così taberna sutrina, lintearia, libraria, lignaria, tonstrina da fondere, cioè di barbiere.

Andèmo a ber, dice il Veneto o il Lombardo, il Napolitano dice jammo (camus) a vevere. La qual parola raffrontandosi al bibere latino gli si avvicina grandemente.

Il nostro tavernaio adunque che l’italiano linguaggio accetta come taverniere, è il bettoliere ovvero oste, e meglio piacemi ostiere per non confonderlo con l'oste spiegata in campo.

Se non che va tra noi distinta la parola taverna da bettola, ove è più abbondanza di bere che di mangiare, e questa bettola tra noi si dice cantina.

È la taverna un elemento indispensabile della vita plebea. Fin da rimoti tempi gli uomini della plebe, per riposo di fatiche cercavano le panche di una taverna. Si direbbe che al pari degli antichi gladiatori, fosse la taverna per gli uomini dediti alle fatiche del corpo una quasi meta sudante.

Senza ricordare l’amenità di certuni siti ove si trovavano riposi e taverne da mangiare e da bere, come Poggio Reale, Antignano (Ante Agnanum) le frutte della Conigliera, il Vomero, così detto dal gioco di drizzare il vomero che vi si faceva ne’ giorni festivi, ricorderemo sì che nel finir del milleseicento avea nominanza di confortevole taverna ovvero osteria quella del Cerriglio così detta dal soprannome del suo ricciuto padrone , la quale posta nella parte bassa della città vicino alla Torre Mastria era richiamo di marinai, di popolani, degli abitatori di Rua Catalana e degli Spagnoleschi, e Sivigliani dalle larghe brache. Nè mancava a questa osteria il concorso degli uomini di lettere tra quali Cesare Cortese che scrisse lo Cerriglio ncantato.

E veramente attorno a quelle panche si raggranellano quelle esistenze precarie di uomini che spesso non hanno tetto, sempre non hanno sistema e regola di vita, e talvolta non sanno la propria origine ed ignorano i propri genitori, onde dal Tessere esposti all’Annunciata prendevano un dì nome di Espositi .

Attorno a quelle panche vengono non pure gli scapestrati figli del popolo, i lazzari, gli artigiani di bassa specie, i lavoratori di cose attinenti al mare o all’industria, i facchini, ma vengono altresì quelle famiglie della plebe ove la donna non ha sì tenace influenza e virtù da tenere a desco raccolti i suoi cari, ovvero quelle famigliuole delle quali il capo ha d’uopo dell’obolo cotidiano. per ispenderlo a prò de’ suoi. Certo la ingordigia (in napolitano cannarutizia) è uno de’ principali moventi del nostro popolo.

Bere e mangiare più assai che sentire sono forma di vita, e nel difetto di sentire e d’intendere consiste appunto il danno della nostra plebe.

La scioperatezza e il vagabondaggio ne son conseguenza, tanto più lamentevole in quanto che nel fondo de'  cuori napolitani è una dose di pietà, un istinto di beneficenza, una confidenza socievole, una umiltà naturale. Quanti che la taverna educa alla crapula, il tetto domestico educherebbe alla temperanza, alla parsimonia,alla economia familiare.

Ma la taverna è là, fomite di risse, di ubriachezze,di lassitudini e dei giuochi come in ogni altro paese, ma il tipo e l’aspetto della taverna napolitana è ben varia che in altri siti. La frasca sporgente ne è l’indizio, quella rappresenta la bandiera dell’ingordigia.

Hanno di consueto le nostre taverne ampia la porta, quasi ed agevolarne il passaggio: si profondono per vani al disotto degli edifici e spesso hanno l’addizione di un lungo sotterraneo, ove splende eterno un lume fittizio.

Questo sotterraneo chiamasi volgarmente fuosso (fosso). Se colà dentro la luce è scarsa, lo spazio è molto. Liberamente vi si ride e si gavazza, e la voce colla quale dimàndasi l’uno o l’altro cibo, trova un’eco vivace sotto quelle volte.

Il garzone che ha cura di servire i popolani vanta il gran pregio di saper fare delle sue braccia uno scaffale da piatti. Stringe in ciascuna mano due scodelle, due ne appoggia sul braccio ed alle costole e son sei, e spesso, ove ne sia d’uopo, reca in sul capo un fiasco di vino. Sporte le prime imbandigioni in quella guisa, con una voce stentorea comanda, per così dire le imbandigioni seguenti, e dalle viscere di quella casa odi venir su le parole doje meze (due mezzine di vino) nu fritto (una frittura ) nu tre (un piatto di maccheroni di tre grana) na palla d’amarena (un fiasco di due caraffe di vin d’amarena ) ec.

In sul limitare della taverna, e talvolta schierata in bella ordinanza sul davanti di essa vedesi una falange di piccoli focolari o fornelli di terra e mattoni, ove s’innalzano caldaie, si muovon padelle, si scoperchiano pignatte.

I maccaroni, e chi nol sa, sono la forma onde lo straniero contrassegna la plebe napolitana. La fabbricazione de’ celebri maccaroni napolitani, è falla le più volte in siti di buon aria.

Offrono le migliori fabbriche Portici, lungo la linea di Napoli, le due Torri, famose per istorica ricordanza erette per difesa ai nostri lidi, e la incantevole costiera di Amalfi; ma celebratissima, come il suo vino, è la pasta di Gragnano e fra tutti per la loro proporzione cilindrici sono reputati i maccaroni della Zita!

Alla comun maniera di fabbricare tal pasta si è unita oggi la macchina idraulica e tra i seguaci dell’uno e dell’altro sistema si eccita già una maccaronica emulazione. Pregio di questo lavorìo è non pur la bianchezza che non è sempre visibile e con taluni procedimenti si manifesta nell’acqua da cuocere, ma pregio singolare e la finezza della pasta, la larghezza dell’orificio, il sapore che non senta troppo la semola, l’accrescersi nell’acqua senza produrre soverchio rilassamento o fenditure, le quali fan torto al fabbricante perocché il maccarone non mangiasi intero.

Le proporzioni della semola, della farina, la qualità delle acque, il clima rendono i nostri maccaroni di squisito sapore, e quante volte in altri paesi d’Italia si è tentato di raggiungere la perfezione, ragioni indipendenti dalla volontà del lavorante ne hanno impedito il miglioramento.

Prova ne sia che a Roma, ove la pasta napolitana, è soggetta a grave dazio, si mangiano maccaroni e paste ove sono introdotte le uova, e Firenze o per dir meglio la Toscana, usa come i nostri maccaroni i suoi cannelloni, i quali somigliano ai nostri.

Cibo sano, facile a satollare, non costoso, semplice, il napolitano ne trae miglior effetto che non la polenta.

Le consuetudini delle ricche mense han dato a questo cibo svariati condimenti, ma il napolitano li mangia più spesso col semplice formaggio bianco.

Però di lato alla ampia e fumante caldaia maccaronense è un ampio piatto, bacino o scafarea di bianco formaggio, nuova piramide di Egitto, ornata dalla punta alla base da strisce nere fatte col pepe, e sul culmine della quale spesso è posato un pomodoro, o in mancanza di questo, un fiore rosso.

Sopravveglia e provvede alla somministrazione di questi svariati cibi il tavernaio, uomo le più volte non giovane, e però savio dispensatole, le più volte rubicondo e paffuto, sferico dall’ombelico in giù, il quale come nel piatto distribuisce i caldi maccaroni e di una mano si vale a reggerlo, l’altra pone sulla piramide del formaggio, e di quella, non dannosa polvere, sparge i maccaroni . Intorno a lui son monelli, uomini che han da fare tanto da non aver tempo di sedere, donne che fan presente di una scudellina cosi composta ai loro piccini, poveri pei quali l’obolo della carità si trasmuta in maccaroni.

Talvolta poi dopo il formaggio i maccaroni si tingono di color purpureo o paonazzo, quando cioè il tavernaio del sugo de’ pomidoro o di ragù (specie di stufato) copre, quasi rugiada sui fiori, la polvere del formaggio e l'avvolgimento de’ serpeggianti vermicelli o maccaroncelli.

L’equità del tavernaio merita di andare in proverbio: egli è attento innanzi a se: di rado il popolo si appella a lui per ingiustizia, egli è uomo imparziale e il grano o il tornese sono rappresentati dalle sue mani.

A dir corto egli ha nelle mani la squadra, le seste negli occhi, e se taluna volta si lascia corrompere sino ad accordare uno o due maccaroni di più, è soltanto per amor d’una piccina.

La donna co’ suoi vezzi e le sue ciance, il bravo minaccioso col suo bastone, il rissaiuolo pronto ad accattar brighe, non lo seducono, nè lo spaventano. Egli è impassibile innanzi al suo dovere,e senza essere un geometra, un algebrista ovvero un cosi detto contabile. egli ha la cifra dei maccaroni con sè, e conosce senza eccezioni la difficile operazione del dividere.

Ma se il tavernaio è giusto dispensiero, il mangiator di maccaroni non è già colui lo applauda di tanta equità.

Il vero mangia-maccaroni è sempre un essere eccezionale, il quale non gusta eminentemente che quel cibo solo, e di ogni altro si fastidisce. Egli grida morte ai Vatel, fa guerra agli intingoli, bestemmia i brodi. Come taluni uomini crederebbero trovarsi in punto di morte, se vedessero comparirsi innanzi la persona del medico, il mangia-maccaroni crederebbe essere in bivio di perder la vita, se si vedesse presentare una scodella di brodo.

Egli rispetta i maccaroni o i vermicelli al parmigiano, ma onora quelli avvoltolati di cacio calabro o bianco, si diletta del sugo della carne, ma l’acre pomodoro lo alletta forse in pari modo e dove mancassero l'una e l’altra si attiene alla più netta semplicità, il puro cacio.

Il mangiatore del volgo si fa forchetta di due dita, solleva i maccaroni o i vermicelli mezzo palmo sopra la bocca, e poi facendo un lieve movimento di girazione spirale ve li caccia dentro con una destrezza che rivela la pratica e mastica senza mai sporcarsi .

Se il mangiatore è gentiluomo, esegue con la forchetta un movimento di girazione nel piatto evi raccoglie i vermicelli o i piccoli maccaroni e li tracanna rapidamente.

Il mangiator di maccaroni è sempre disposto a cibarsene, e v’ha taluni i quali ne mangiano per coazione, per pranzo, e per cena, ma invano si cercherebbe un uomo del volgo che mangiasse maccaroni sul cadavere dell'estinto, come Orazio Vernet osava segnare nelle sue illustrazioni artistiche alla vita di Napoleone. Questa passione indomita per un cibo cotanto semplice, potrà essere pei Napolitani occasione di piacevole scherzo, ma non mai di vituperio e di orrore.

Ora tornando al tavernaio soggiungeremo di’ egli è più pregevole quando, nel secondar le inchieste diverse degli avventori, dalla caldaia passa alla pignatta e dalla pignatta alla padella che scuole e ravviva. Con prestezza meccanica egli affoga le sue pastette o il suo pesce nell’unto e fa scoppiettarlo con grazia e leggerezza, sospende un istante quel movimento, e corre a cavar fumante una porzione di maccaroni,lascia questi e somministra una porzione di voluta brodaglia. E lungo quella schiera di fornelli passando sembra un alchimista che dal lambicco passi alle ebollizioni, un botanico che vada visitando e vivificando le sue tuberose e i suoi geranium.

A tutte le inchieste risponde col fatto: trae netta l’erba avviluppata in pasta e gitta il pesce infarinato,quello che ha minor costo in piazza è spesso la fragaglia (specie di pesce piccolo e misto).

Ecco come quel faceto ingegno nazionale di Domenico Piccinni lo descrive nelle sue poesie.

Nnant’a lo ffuoco stà lo Tavemàro,

Frienno na tiella de fragaglie:

Li smove, e vota; e chi stea sotta, soglie:

Chi ncoppa, scenne de lo fanno mpàro.

Nchè fritte songo; cierte a ppar-apparo

Spanne dint'a le llustere cretaglie

’Aotre, a na prattellaccia, pe’ gentaglia:

Le scorie, sotta de lo focolare,

A questi versi aggiunge un paragone ed è il seguente:

Ora lo Tavemàro e la Fortuna

La tiella? — È la rota che n'ha abbiento

Li fragaglie?— La gente che s'aruna.

Il Tavernaio, ei dice, è la Fortuna

La padella? è la ruota instabil sempre;

Il pesce?... è quella gente che s’aduna:

Però, secondo il Piccinni, il pesce che friggendo,or va sopra, or va sotto, è imagine degli uomini bistrattali dalla fortuna.

E tal sia.

Ma immezzo alle lautezze popolari che circondano il la verniero, non è da obliare un cibo non meno accetto ai napolitani del zuffritto e del purpetiello. —È il zuffritto o soffritto un’accozzaglia degli interiori di maiale, sminuzzata (cuore, polmone, milza, fegato etc. ) con polvere di peperone che si cuoce insieme; il purpo è il polipo di mare. —Questa è la zuppa di maruzze, la quale si contiene in una gran pignatta, cui fa, per così dire appendice, una pignattina con entro un cotal senso di forte composto di piccoli peperoni rossi, soffritti nell’olio.

Compiansi le maruzze nel mercato di Napoli, né tutte quelle delle campagne circostanti son reputate degne di solleticare il palato.

Sora, S. Germano, Venafro e Trapani son le terre donde si muovono sino a noi, e sebbene nella buona stagione si abbiano al prezzo di sei (locati per ciascun peso di cantaio, ne’ mesi vernali salgono fino al prezzo di docati 15. Così questa umile lumaca che vive nascosta tra le piante e va strisciando sui muri con l’erba rampante, lascia la nativa campagna e si fa cittadina, presentandosi in ogni più clamorosa festa popolare, cornee a dire a quella di pie’ di Grotta ed a quella del pie di S. Anna e di S. Vincenzio alla Sanità che seguono nello stesso mese, nonché alle altre de’ 7 agosto in Miano (S. Gaetano) al Cavone pel santo medesimo, e nel dì 15 sulla collina del Vomero.

Ma più singolare e il credito che il venditor di lumache accorda al suo avventore per una settimana, con questa novella consuetudine o legge non segnata in nessuna prammatica Viceregnale e in nessuna parte del codice. Il maruzzaro assicura al suo cliente due carlini di maruzze per settimana, e due di vino e dei 90 numeri del lotto,ritiene in suo vantaggio i numeri da 41 a 90 e il cliente i numeri da 1 a 40. Il primo estratto che vien fuori dal lotto di quella settimana decide a profitto di chi si dichiari la sorte: se il numero è dal 41 in poi il maruzzaro vi guadagna o almeno vi riprende il suo, se è nella serie de’ 40 numeri il cliente vi guadagna il dimeno o solve il suo debito.

Intasca il venditor di lumache da 4 sino a 10 carlini per dì, e guadagnerebbe assai più se quando prende posto di canto alla taverna, l’inesorabile tavernaro o cantiniero non lo chiamasse a dargli un beneficio per la felice posizione che gli moltiplica gli avventori, sicché quel dritto che il municipio pretende dal venditore, il taverniero pretende dall’umile maruzzaro, e questo dritto é talvolta di tre docati per 20 docati di guadagno.

Il maruzzaro  o la maruzzara son esseri appartenenti alla taverna, soci ordinari di cantina più che di taverna, per esservi nella prima poco o nulla da mangiare. Sono le napolitane maruzze non altra cosa che le lumache spurgate, nettate, bollite e fatte ben cuocere in pignatta. Del loro brodo s’inzuppa il pane, o le freselle che per forma differiscono dalle ciambelle e così mangiate, sono assai spesso il bel principio della mensa popolare.

Presso a quella pignatta come l’ara di Vesta, mantenuta sempre calda dal fuoco sottoposto, la maruzzara, Vestale di quel fuoco, dalle bende rosse e non bianche, la quale ha mano pronta, ocelli spesso vivaci è più spesso abitatrice di campagna diedi città.

Come la venditrice di nova o di cicorie, le maruzzare lasciano la città quando abbiati vuotata la pignatta, paghe di aver vissuto abbastanza in quel giorno. Spesso in giorno di festa uno strano desiderio si desta nel maruzzaro o nella maruzzara. E perché tutto risplende intorno ed egli non vuol rimanersene oscuro che cosa fa? — Vuota con pazienza le scorie delle sue più grandi lumache e ponendovi uno stoppino ed un po’ d’olio ne circonda la sua pignatta quasi lucente corona di stelle.

Un altro essere vivente che non va dimenticalo tra la folla, quale assedia tuttodì la taverna, è la venditrice di semenze secche e di piccole noci e di ceci, la nocellara .

Costei, diciamolo scherzosamente,è più aristocratica, veste più di nuovo e di netto, bada a non infangarsi, tiene talvolta al nitidore delle sue calze, allo stringimento della sua vita, del suo corse ed alla pompa de’ suoi fianchi.

Passa dalla taverna, soffermasi colà, smercia il suo, facendosi pagar caro se può, conta le nocciuole e va via. E perché le più volte è bizzarra, si dondola e si barcamena,si ferma volentieri a fronte di un bel giovinotto che le paga con generosità il suo genere,e di taverna in taverna passa la sua prima età,per finire poi moglie non sempre esemplare. Per modo che ci convien dire che tra la nocellara e la maruzzara, quest'ultima è più onesta, perché ricorda quel verso:

Signò! setiglie e zuoccole — non panno mai quaglia,

Ne’ calori della state quando il bere è un bisogno la nocellara segue spesso l’acquavendolo ambulante, sono per così dire delle professioni che si agevolano l’un l’altra. Dopo aver bevuto si vuole un po’ masticare, e la nocellara è presta ognora ad offerirvi il suo genere per promuovere un dolce movimento di ganasce, per vuotar presto il suo canestro.

Così solluccherato in tante diverse guise da cibi che non pesano sullo stomaco e non turbano la mente, il Napolitano della plebe, il nostro popolo  gavazza nella sua povertà. Oh quanto minore sarebbe la corruzione di esso, se a questi cibi, non si mescesse quello che il Piccinni chiama

Zzuco dell'uva

che li core sana se Bacco non presiedesse a cosiffatte gioie e a queste gozzoviglie come lo stesso autore descrive:

Bacco ncopp' a na votta sia allertato

E dde pelle de tigre sta restato:

Stà d’uva moscarella ncoronato,

E dd’uva no bastone bave guarnuto.

Vola attuorno chill'uocchie affatturato

Ca sentì no lamiento l'è pparuto:

………………………………………………...

Mente contrasto fanno int'a li core

Sdigno, speranza, ngottamiento, e ammore .

In mezzo a tante gare che il vino eccita, il gioco della morra eletta altrove la mora, il tuocco, cioè il giuoco del cui spetta pagare  e fra le carte la gente napolitana s’accapiglia, viene a parole e spesso dalla bettola si passa alla disfida di morte.

Se non che talvolta il suono degli arpisti del Natale, la canzona di un cieco accompagnato da una chitarra o da un violino, l’umore allegro d’un camerata molce gli sdegni, tronca le ire, i Napolitani si riabbracciano, ed ascolti allora ripetere intorno quelle conciliatrici parole aggio pazziato (ho detto per celia, ho celiato). E a molcere gli sdegni contribuisce alquanto l’amor delle donne, il pianto de'  fanciulli, e spesso ad uscir di taverna, la vista di un cielo stellato, di una placida marina, un’auretta tepente e soave, ed anche un raggio di quel sole che sfolgora per tutto e che dice dall’alto de’ cieli ridi...

Ma fra i ridenti gruppi, la lieta ciurmaglia, l’abbeverarsi di vino, come d’acqua, il peggior danno della taverna e la seduzione. 1 fiumi del bere e la insperata lentezza del cibo sono tra noi potentissimo mezzo a guastare gli animi feminei e sottrarre l’infima classe alla paterna o materna severità. Tutto il vino confonde, né la scarsezza del vino rese minore le ubbriachezze fatali.

I nostri vini, de’ quali dice la storia che le armate straniere fossero sovente impazzate, non tendono solitamente al color chiaro. Come i capelli delle nostre donne, tendono allo scuro. Eppure a’ tempi Aragonesi ed Angioini non era tale, e si lodava il vili chiarello. E Poggioreale e Mercogliano e Somma ed Alzano davan vini celebrati per limpidezza, e il Falerno anche chiarissimo si dava bere nelle grandi case, e il Puntano alle sue mense dava bere i vini dell'Arenella e più lardi si beveva quel vino che il Redi disprezza dicendo:

Quel d’Aversa acido Asprino.

Qualche volta, come ad Annibale Caiacci pittore, fu data per aggiustamento di prezzo una castellata d’uva, così a’ nostri pittori che lavoravano per conventi, fu data per giunta di contratto una botte di vino, come intervenne al fiammingo Paolo Schephen, che dipinse la cupola della chiesa di S. Severino. L’invito a bere era Tratto di cortesia a que’ tempi, e Napoli rigurgitava di taverne. Ma non però ne venivano tanti disturbi allo interno delle città e nelle famiglie come oggi, che se efferate contese ed omicidi ne fossero conseguiti, i diurnali e le cronache ne avrebbero fiuto menzione. Ma forse il vivere, se era più libero in quanto a forme cittadinesche, era più legato in quanto a forme familiari perché forse allora, come dice un nostro scrittore napolitano, era vivo l’adagio,

Cenare a cinque — Corcarsi a nove

Fa viver anni — novantanove.

Beati dunque gli scorsi tempi,se la taverna non generava sì tremendi casi di discordie e d’ire e quelle gare accanite che si decidono col coltello alla mano, o almeno felici noi se le gare, gli sdegni e le gelosie di taverna potessero produrre que’ nobili sdegni, onde sotto Gonzalvo, tredici Italiani a Quarata trionfarono di altrettanti Francesi.

Oh come questa taverna sarebbe meno dannosa alle famiglie, se i discorsi che ne formano il trattenimento non fossero la prostituzione od il male speso coraggio! Di fatto molte volte io vidi a prò degli scialacquatori qualche vecchio cantore di storie di Rinaldo inframmettersi alla ciurma de’ bevitori e cavarne il miglior effetto possibile. Val quanto dire, per sò, l’esenzione dello scotto, pagando ciascuno un obolo pel cantastorie, e pe’ bevitori l'utile disvago di una avventura detta col bicchiere alla mano fra il brio, ma senza vano clamore e senza perniciosa scommessa.

Veramente tale è il cuore del Napolitano, che quando egli sciala, tutto il mondo ambirebbe che scialasse con lui. Sovviene al povero, divide il suo pane,e per ogni dove mandar vorrebbe un bricciolo almeno della sua grandezza nel giorno destinato a scialacquare. E poco gli cale che il giorno appresso gli manchi l’obolo per radersi, la cinquina per pagar il suo albergo.

Dopo molti giorni ancora egli gode, indovinate di che?

Di aver goduto, e ricordando i dì passati scorda il presente e ciò d anno in anno, di Piedigrotta in Piedigrotta  e di Natale in Natale. E così pure questo buon popolo dimentica le offese e gli strazi sofferti, e se lo straniero lo chiama dappoco, infingardo,è d’uopo rispondergli che non è mai dappoco nò infingardo chi non è lento a fare il bene e soccorrere il suo simile.

Ora ritornando alla taverna diremo che Napoli ne abbonda, anzi ne rigurgita. Pe’ suoi vicoli, pechiassuoli, dai monti al mare ve n’ha innumerevoli, ma le vie di Porto, del Pendino, di Forcella,di S. Lucia, del Mercato vantano le più celebrate.

Oggi ha nome una taverna a Marechiaro, dimani a’ Cacciuottoli, oggi il taverniere famoso è Monzù Arena, dimani e per così dire Asso di coppa (soprannomi popolari) né l’uso di questi soprannomi è moderno, poiché nella Vajasseide, poema del Cortese,ò ricordato un colai oste detto Zoccola, al quale si dava pregio di vini squisiti e buoni ad ogni palato.

Dovunque e dappertutto, anche nelle maggiori calamità del paese, quali sono le malattie epidemiche o contagiose che ne distruggono gli abitanti, l’uomo del popolo napolitano è disposto a sedere alla panca dell’ilarità. La malinconia è per la nostra gente una colpa. Fino d’incontro ai Campisanli,la dove cessano le grandezze umane e l'uomo depone la sua veste sia di porpora o di bisso, anche cola il Napolitano che ha pianto sulle fredde ossa del parente, siede e beve, e nel vino affoga il dolore.

E se questa mobilità e dolcezza d indole non avesse codesto popolo, il Colèra, flagello de’ nostri tempi, avrebbe desertato la città della Sirena, arrestato del tutto il commercio, impedita ogni circolazione di danaro, ma no: il Colèra in tre esiziali e micidiali invasioni non ha fatto che richiamare l’attenzione sulla caducità delle cose umane ed insegnare a nostri concittadini la scambievole carità, ed in siffatti tempi ancora sì tristi e sì lamentevoli,la taverna non mancava de’ suoi avventori, ed il grosso e rubicondo taverniero non cessava di gridare so vierde, so vierde. e la perenne caldaia fumava.

CAV CARLO l'DALBONO


1 Senza dir di tante parole che s’incontrano nell'idioma del Lazio ricorderemo soltanto che il Napolitano dice isso ed essa (lui e lei) e il latino is, ea i nomi divie e contrade come Chiaia, Cibatamene, ricordano la plaga latina e la Platamonia.

1Quello che in italiano chiamasi riccio di capelli, i Napolitani chiamano cierro, e cosi pure chiamano il cerro dell'albero

Affé ca l0ombrecella de sto cierro

N' è nniente sgrata, e st'erva frescolella

Te dice viene viene....

2 Lo stabilimento detto dell’Annunciata in Napoli (Vedi la nota all'articolo la Nutrice nel 1.° volume di quest'opera ) è destinato a raccogliere i proietti per anticaistituzione e venne fondato nel 1438 dalla Regina Giovanna seconda d’Angiò, la quale col dotarla, provvederla, e devolverla al ben pubblico fece in parte dimenticare i suoi errori. Vi è annessa una bella chiesa, ove la regina è sepolta, con soccorpo architettata dal Vanvitelli,ove restano a vedere alcune scolture del Donatello, gli affreschi di Belisario Corenzio, una Pietà dello Spagnoletto, una Presentazione del Curia ed altre pitture di minor pregio. Sul foro nel quale è introdotto il nato esposto vedevasi scolpito il seguente distico popolare, che ricordava più antichi tempi

O patre o matre che qui ne gettate Alle vostre lemosine siamo raccomandate.

La stessa Giovanna seconda fondò nel 1825 un ospedale pei marinai poveri, presso il quale ergevasi la chiesa di S. Niccolò alla Dogana protettore e patrono de’ così detti cavalieri della nave, ordine instituito da Carlo III di Durazzo nel 1384. La stessa lasciò l’obbligo della celebrazione di molte messe in chiesa S. Pietro in  Vinculis e volle stipulato lo istromento innanzi a lei da notar Dionigi di Sarno.

1Vedi la figura.

1Ve di la figura.

1Vedi la figura.

1 Vedi l'articolo nel1.° vol.

1Lo puopolo nuosto (dice Luigi Serio nel suo Vemacchio) non so lì mercante, li cortesciane, li surdate, cartesciano, pocca chiste fanno na mmesca pesca de napolitanoche è no straverio. Lo puopolo nuosto verace, so li farenare, li scuvettare, li pisciavinole, li merciaiuole, li chianchiere e li lazzarune.

2Poesie italiane e in dialetto Napolitano di Domenico Piccinni. Napoli—Dai tipi di Cataneo 1827.

Vedi l'articolo nel1.° vol.

1 Piedigrotta, parlo ai forestieri che potessero leggere questo articolo, è una festività nella quale il Sovrano recasi in gran pompa a visitar nostra Donna in una chiesa non ha guari rifatta, posta a piè della grotta Lucullana o Pozzuolana. Il popolo coglie questa devota occasione per obliare i suoi doveri ch'egli chiama suoiguai. — Vedi l’articolo Piedigrotta nel vol. 1.°


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SALITA AL VESUVIO

PRELIMINARI — ETIMOLOGIA — MONTE SOMMA — CAMPI FLEGREI — CENNI GEOLOGICI E TOPOGRAFICI — SULLE ERUZIONI — SUI RICCHI PRODOTTI DEL MONTE — LA GITA AL VESUVIO, IL ROMITAGGIO E L'OSSERVATORIO — STATO ATTUALE E VICENDE.

Ignis accipit arenas, ex quibus alibi vitrum, alibi argentum. alibi minium, alibi plumhi genera, alibi pigmenta, alibi medicamento fundit. Igne lapides in aes solvuntur, igne ferrum gignitur ac domatur; igne cremato lapide caementa in tectis ligantur..... Aliud gignit primis ignibus, aliud secundis, aliud tertiis.... Immensa et improba rerum naturae portio. et in qua dubium sit plora absumat an pariat.

PLIN. IST. Nat. L. XXVI.

QUESTO che, per tante e continue metamorfosi, può dirsi il Proteo dei vulcani, sebbene, giusta l’espressione di un celebrato scrittore  non sia che un nano a fronte di quelli giganteschi dell’Etna, del Picco di Teneriffa e di altri in Asia ed in America, tuttavolta possiam dire che fra tutti primeggi pe’ maravigliosi fenomeni onde, da tempo immemorabile, fu sempre maestoso spettacolo.

Invano si tenterebbe esaurire quanto converrebbesi su tale argomento. Un grande geografo e storico, quale si fu il Giustiniani. riferisce esservi stati, solo infino all'epoca del 1793, 100 scrittori delle cose del Vesuvio, ned egli conoscerli tutti. Il Canonico Jorio  ne cita una raccolta, in soli fogli volanti, opuscoli ed opere, oltre i 300, degnati più di 100 del 1627 1631 e 1632.

Laonde ciascheduno potrà argomentare essere impossibil cosa tener di tutti proposito,anzi di tutti soltanto avere scienza. Clic però quello soltanto, fra tanta farragine di scrittori e di scritti, trasceglieremo che a sparger lume sul subbietto necessario ne pare.

Se non che, prevenendo la critica, gioa avvertire come questi cenni, quantunque rapidi e sobri, terranno per avventura una parte più vasta nel nostro lavoro di quella del costume propriamente detto, ossia della gita, che ne forma Io scopo principale, ma ciò va attribuito, men che a noi, alla inesauribile miniera di notizie, che, per quanto abbreviate, sono sempre abbondanti. e le quali, d’altra parie, non ci sarebbe stato lecito pretermettere, senza meritar nota di troppo sterili e negligenti.

E per cominciare dalla etimologia, come si ha da Galeno, fu primitivamente questo monte addimandato Besbsius, Vesvius o Vesbius, a cagione del fuoco, e Vesbius lo chiama anche Stazio....

...ubi Vesbius egerit iras

Aemula Trinacriis volvens

Incendia flammis.

ed un’altra volta Vesevus

.... insani solatur damna Vesevi.

Altri pretendono originasse il nome Vesbius da Vesbio capitano de’ Pelasgi, il quale un giorno signoreggiava quel monte, come si ha pure da Marziale nel 4.° degli epigrammi.

Un nostro erudito scrittore fa corrispondere il nome di Vesuvias al sanscrito Vasti, che era il nume del fuoco presso gl’indiani, ed infatti un vulcano ne’ monti di Al-Burz da essi appellavasi Vasuv-avatana o dimora di Vasu .

Il Mancinelli ed il Landino convengono ancora nella sentenza che Vesevo derivi da Vescia, in latino favilla, cioè moine di fuoco e di faville. Vosero lo appella Silio Italico

Monstrantur Veseva juga atque in vertice summo

al pari che Virgilio nel lib. 2. delle Georgiche

Talem dives arat Capua vicina Vesevo.

Derivasi questa denominazione di Vesuvio ancora dacché essendo questo monte come l’Olimpo della Campania i nostri antichi vi adorarono Giove con gli epiteti di Vesuvio, come leggesi in una iscrizione trovata a Capua

JOVI

VESUVIO

SAC.

D.D.

È curioso leggere le infinite variazioni di Vesuvius, Besvius, Vesubius, Vesebius, Bebius, Besubius, Besbius, Hesbius, Vesulus, Vesurus, alle quali tutte non mancò una schiera immensa di comentatori.

Vi fu pure qualche antico scrittore che chiamò il Vesuvio Maevius o Maculus ed altri Lesbius .

Ciascuno però che ne abbia vaghezza potrà a suo bell’agio divertirsi in tanto oceano di nomenclature, mentre noi procediamo innanzi.

L'antico monte, onde fa cenno Strabono ed altri scrittori, fu propriamente il Somma. Nel 1) sorse poi l’altro cono, che oggi conosciamo sotto il nome di Vesuvio. Laonde è a ritenere che nella origine ambedue questi monti non ne avessero formato che un solo detto Somma.

Non altrimenti la pensa il Romanelli  quando dice del Vesuvio come esso presentasse l'aspetto di una grande piramide molto elevata dal livello del mare ed abbracciasse anche l’altro monte vicino, conosciuto oggi col nome di Somma. Al presente, soggiunge lo stesso scrittore, ne è diviso da un gran vallone che descrive la meta del suo cerchio, da settentrione ad oriente; e l’altra metà, da mezzogiorno ad occidente. è chiusa da un falso piano, che si appella l’atrio del cavallo, cosi detto.

Perché, prima del 1630, quivi era la sosta de’ passeggierà ed il cui fondo s’innalza sul pelo delle acque metri 711  restando per le due montagne comune la base ed il perimetro inferiore di quasi 30 miglia.

Scrive il Celano che il monte Somma, o Summus mons, fosse così denominato dal perché essendo venuti a contesa Napolitani e Nolani per cagione di confini, fu sulle vette del monte medesimo diffinita la differenza, cioè il sommo della lite; ovvero, altrimenti, per la sommità del suo vertice rispetto al Vesuvio nato in seguito. Delle quali due opinioni la prima è a tenere piuttosto come una congettura priva di appoggio, ma ben fondata la seconda, nella quale concorrono ancora l’Alberti, il Biondo e il Landino, generalmente ricevuta, e conforme a quel che dianzi venne per noi esposto.

Anche secondo il Martorelli il nome di Somma è antichissimo e dato ad esso per la sua altezza ne’ tempi in cui sorse dal mare; ciò che desume da altra antica descrizione, con la quale dannosi a Giove gli aggiunti di Summano e di Esuberantissimo, indicandosi col primo l’erto monte e col secondo la fiamma vulcanica

jovi  O. M.

SUMMANO

EXUPERANTISSIMO

Fra le moltissime e, per la più parte, eccellenti descrizioni di questo monte, una antica e delle più leggiadre è quella di Strabono, riferita dal Romanelli  a cui, per non impinguare senza preciso bisogno il nostro lavoro, rimandiamo i cortesi leggitori.

La narrazione   del Vesuvio non può andare scompagnata da un cenno su i Campi Flegrei, altrimenti Regione bruciata, denominazione che davano gli antichi a tutti quei luoghi ove trovatisi avanzi di antichi vulcani o indizi di vulcani estinti, tra quali è ad annoverare anche il monte di Somma, non più in attività, come vedesi.

Vanno gli scrittori in diversa sentenza su i limiti di cotesti Campi Flegrei. Dan questo nome Strabono e Plinio soltanto ai campi tra Pozzuoli e Coma, Pellegrini alla sola campagna di Quarto,Diodoro Siculo vi comprende non solo la campagna di Cuma ma ancora lutto il rimanente tratto sino al Vesuvio, e Polibio vi aggiugne per dippiù quelle di Capua e di Nola. Le campagne di Pallena nella Macedonia, preteso teatro della guerra de’ giganti, per egual ragione ebbero il nome di Fiegra, epperò la favola de’ giganti Flegrei o Titani, i quali furono fulminati da Giove e fatti perire sotto le montagne da loro stessi accumulate, a fin di muovergli guerra, può spiegarsi in senso fisico per le eruzioni de’ vulcani onde questa contrada fu il teatro. Ma la parte storica,clic sotto il velo della favola si nasconde,potremo anche meglio rintracciare nelle seguenti parole di un egregio scrittore:

«La bella di queste campagne, la prodigiosa fertilità di esse furono una potente attrattiva pe’ diversi popoli che ne fecero a vicenda la conquista, tra i quali si noverano gli Opici e gli Osci e i popoli convicini, che precedettero l’arrivo delle colonie greche nel nostro golfo. La tradizione confusa e antica de’ loro combattimenti diede luogo alla guerra favolosa de’ giganti Flegrei, che Strabene e Diodoro» Siculo spiegano in un senso storico . »

È agevole altresì spiegare la favola nel senso fisico, imperciocché, come dimostrano i naturalisti, nelle più profonde viscere della terra trovansi le voragini del fuoco ossia del calore che anima tutto il creato, il che viene simboleggiato dai Titani, e gli sfogatoi di questa immensa fornace centripeda sono per l’appunto i vulcani.

Il nostro Vesuvio, a differenza di altri vulcani, può dirsi in una continua attività, sia quando erutta fuoco, sia quando fumiga soltanto o, secondo la frase popolare, fuma la pipa.

Per tali ragioni divenne di cotanta importanza da dare argomento vastissimo alla favola ed alla storia. Fu così che i poeti posero ne! suoi antri la sede delle fucine di Vulcano, nelle sue viscere il supplizio di Encelado, nelle sue caverne la dimora de’ Ciclopi, alle sue falde la scena del rapimento di Proserpina; c, come Tifeo s’immaginò sepolto sotto il monte Pitecusa,così Claudiano allogò Alcioneo sotto il Vesuvio  e fu così che i più famosi scrittori come Strabono, Plinio, Pomponio Mela, Svetonio, Vitruvio, Tacito, Marziale, Virgilio ed altri molti questo nostro monte ampiamente celebrarono.

Procopio  narra come alle radici di esso sgorgasse, già tempo, un fiume denominato Dragone, il quale, stendendo il suo letto verso settentrione, dilungavasi pe’ confini di Nola, ove, piegava il suo corso per la spiaggia di Samo, confuso con altre acque, e nel rincontro ci lascia un’elegante e minuta descrizione della gagliarda resistenza e morte di Teja, ultimo re de’ Goti, il quale alle falde del Somma fu sconfitto da Narsete, tenendo Giustiniano l’impero d’Occidente. Questo fiume Dragone pretendono alcuni esser lo stesso che il Samo, ma è più comune credenza che sia andato smarrito in conseguenza di eruzioni del vulcano.

Al secolo di Augusto, 25 anni prima dell’era volgare, la cima del monte, in allora, come vuoisi da taluno scrittore, coperta di viti e di alberi, e molto più bassa che ora non è, acquistò rinomanza pel celebrato avvenimento di Spartaco, il quale, co’ suoi gladiatori, eravi tenuto stretto di assedio dal Pretore Claudio Pulcro. In qualche descrizione de’ tempi leggesi che all’epoca stessa il monte non fosse accessibile che da un sol lato, e dalle altre parti dirupato e con erto pendio che scendeva sopra una pianura.

Livio, nell’ottavo libro delle sue storie, descrive la terribile battaglia che appiè del Vesuvio ebbe luogo tra i Romani ed i Latini, Consoli Tito Manilio Torquato e P. Decio Mure, nella quale lo stesso Decio si scagliò arditamente tra le armi nemiche, immolandosi vittima volontaria per la salute e per la vittoria del suo esercito.

I vulcani, secondo le distinzioni dei geologi,altri diconsi allineati, cioè quando sono in una medesima direzione 0 disposti qualche volta per serie, altri spenti come l'Epomeo (in Ischia), che ebbe l’ultima eruzione noi 1302; altri improvvisali come il Jorullo. il picco di Methana nella penisola di Trezene e l’isola Ferdinaudea, che apparve nel 1831 sulle coste della Sicilia, tra Sciacca e la Pantelleria, ed altri centrali quando cioè sono aggruppali intorno ad uno stesso centro. A quest’ultimo ordine si appartengono l’Etna in Sicilia ed il Vesuvio in Napoli.

In quanto alle commensurazioni di questo nostro monte, che sorge all’est della Baia ed al sud sud est della città di Napoli, la sua altezza al di sopra del mare è variabile secondo la condizione in cui le eruzioni lasciano il cratere, e per le stesse cagioni la figura del monte, sebbene in senso generale sia sempre conica, viene mutandosi di quando in quando. Secondo un atlante illustrato da diversi distinti autori francesi, questo vulcano si eleva al disopra del livello del mare per 1108 metri. Lo calcolano altri per metri i 181. Secondo la misura di Nollet presa nel 1710, l’altezza del Vesuvio fu trovata di 593 tese sul livello del mare. Poli nel 1794 la trovò di 600 tese. 11 colonnello Visconti nel 1846 la fissò a 622 tese. Monticelli e Covelli, prima della eruzione del 1822, la trovarono di tese 648 ed Humboltd,dopo la stessa eruzione,la rinvenne di 607 tese.  

In quanto poi concerne le condizioni topografiche e geologiche nulla risembra di più esatto ed accurato delle notizie che deduciamo dalla stimabile opera intitolata Napoli e luoghi celebri delle sue vicinanze pubblicata nell’anno 1845.

—«Il monte Vesuvio s’innalza isolato sopra una pianura la quale è circoscritta nel lato occidentale del fiume Sebeto, che la divide dalle contrade vulcaniche ilei campi Flegrei; a settentrione si allarga sino alle montagne calcaree di Caserta, ad oriente ed a scirocco è terminalo da montagne di simil natura, che stanno a sopraccapo di Nola e di Castellamare, ed infine si apre a mezzodì ed a libeccio nel golfo di Napoli, dalle cui onde è bagnato. La base del monte gira intorno poco meno di trenta miglia, ed a principio s’ innalza con dolce inclinazione, che si tiene al di sotto di due gradi, e va man mano diventando più erta, sino alla mela in circa della totale altezza del vulcano, ove il suo pendio perviene a 12 o 13 gradi. Quivi la sua configurazione prende novello aspetto, che già si appalesano i primi indizi della divisione in % due vette, e mentre dalla parte settentrionale, pel giro di oltre un semicerchio, continua il pendio sempre più ripido, dalla parte opposta si abbassa in modo da formare un altopiano, volgarmente le chiane o le piane, nel mezzo del quale sorge la velia meridionale, che oggi propriamente si addimanda Vesuvio, in forma di cono, col vertice troncato cd incavato a guisa di cratere. L’altra cima si distingue col nome di monte di Somma e forma una cresta semicircolare, che ri cinge il Vesuvio nella parte settentrionale. Essa è più elevala nel mezzo, ove dicesi punta del nasone, alta sul fondo della valle 403 metri, e va gradatamente abbassandosi nelle sue estremità, delle quali una si distende a scirocco, ove termina con semplice vetta prolungata, detta i cognoli di fuori e l’altra finisce ad occidente divisa in tre colline, la prima che domina il fosso della Vetrana, la seconda che è nel mezzo, chiamata cognolo lungo, e la terza dove vedesi l’eremo del Salvatore, (onde più tardi avremo occasione di far cenno)».

Frequenti burroni si aprono alle falde del monte Somma e nella parte dell’intero vulcano inferiore alle piane, conosciuti co’ nomi volgari ili fossi e di burroni, taluni de’ quali han forma di prominenze o di piccoli crateri».

—Per noi sarà bastevole accennarli.

La maggiore di tali prominenze è sulle falde meridionali del monte, ove sta edificato il convento de’ Camaldoli della Torre, circa due miglia e mezzo in linea orizzontale distante dal centro del Vesuvio ed alla 172 metri sulla superficie del mare, il fosso del cancherone e il vallone grande, avanzi tutti di antiche bocche ignivome del monte Somma.

La fossa della monaca ed il monte Viulo.

Le Voccole o Vucculi cosi detti volgarmente, cioè sci piccoli coni efimeri che si aprirono nel 1700.

Il fosso grande, uno de’ più istruttivi e di più facile accesso, a sinistra della strada che mena all’eremo del Salvatore, ora interamente colmato, in seguilo della eruzione, che continua tuttavia dal 1858.

Il  rio di Quaglia.

Il fosso della Vetrana e di Faraone.

I valloni conosciuti co’ nomi di Molara di Massa e fosso di Pollena.

Il Vallone del monaco Aiello.

Ma la storia non poco importante del nostro vulcano lo è ancor di più per le sue eruzioni, si che gli scrittori pare abbiano gareggiato nel consacrare una qualche pagina alle più memorabili.

Nell'anno 63 questo monte ignivomo, dopo un lunghissimo silenzio, diede i primi sintomi di rinnovata agitazione con un tremuoto che arrecò grandissimo danno a molte città vicine, fra le quali a Pompei, che, sedici anni dopo, cioè nel 79, dovea rimanerne vittima allatto, unitamente alle altre vicine città di Stabia e di Ercolano.

È troppo noto, per dirne dippiù, con quali vivaci colori e con quanta sublimità Plinio il giovine, il quale in quell’epoca trovavasi a Mi seno, abbia trattato di questa famosa eruzione nella quale morì Sotero Basso con Plinio il vecchio, zio del già nominato, vittime di uno smodato coraggio e di un soverchio zelo per la scienza, ond'ebbe a cantarne Petrarca ne’ Trionfi

Mentre io narrava subito ebbi scorto.

Quel Plinio Veronese suo vicino,

A scriver molto e a morir poco accorto

Va degnamente rammemorata ancora la beneficenza onde in quella occasione largheggiò l'imperatore Tito, il quale, mosso a pietà dei danni e della condizione desolante della Campania, vi spedì de’ consolari per soccorrerla, come narra Svetonio «Quaedam sub eo (Tito) fortuita et tristia acciderunt ut conflagratio Vesuvii montis in Campania. Curatores restituendae Campaniae et consularium numero sorte duxit».

Settimio Severo, Annoiano Marcellino, Procopio, il Baronio, Leandro Alberti ed altri rinominati scrittori accennano delle eruzioni avvenute nel periodo dall’anno 203 o 204 al 1500.

Il Braccini è uno dei più pregiati narratori degli avvenimenti vulcanici del 1631, nonché il Celano, che ne fu testimone oculare . In questa spaventevole eruzione, la quale durò 70 giorni, fra gli altri fenomeni, si disseccarono i pozzi ne’ dintorni del Vesuvio, fuvvi un numero considerevole di vittime, che taluno scrittore fa ascendere sino a diecimila, e rimasero sepolte le città di Portici, di Resina e parte della Torre del Greco ovvero Torre Ottava , poscia rialzate sulle fumanti e sulle antiche rovine. Ma una ancor più celebre descrizione ne abbiamo dei grande storico Brusoni, riportata nel libro XXI della Storia d’Italia di Carlo Bolla.

Francesco Serrao, primo medico della corte napolitana, tratta della eruzione del 1737 che durò 22 giorni.

Di quelle del 1738 e 1794 ci lasciò una sublime dipintura un notissimo storico italiano. Sono a ricordare quelle ancora del 4751, in cui i fianchi della montagna si aprirono dalla parte di Boscotrecase, del 1754, che durò sei anni, nel decorso de’ quali il Vesuvio eruttò lave quasi di continuo, del 4760 in cui, fra l’altro, si aprirono dodici bocche di fuoco appiè della montagna e si sparse nell’atmosfera un vapore malefico a segno che di quanti lo respiravano i più perivano in pochi giorni e i cadaveri si ricoprivano di macchie porporine.

Il Cavaliere Hamilton ci ha lasciato una ragguardevole narrazione dell’eruzione del 4707 in cui la montagna si fendette dalla cima al mezzo, e cadde pioggia così fitta di cenere che in Napoli fu mestieri far uso degli ombrelli.

Quella del 1779 vien descritta leggiadramente dal Denon il quale ne fu testimone oculare. Fu questa per avventura una delle più splendide e pittoresche che se ne conoscano a mente d’uomo. Il getti» del fuoco, nota fra l’altro il dello scrittore, oltrepassò i diciottomila piedi, e nella sera del dì 8 agosto la luce tramandata dal fuoco del cratere bastava perché sul molo si potesse leggere. Ne risentirono gravi danni i villaggi convicini ed in modo speciale Ottaiano.

Pittoresca ancora, sebbene non quanto la precedente, ma men di quella dannosa, fu l’altra eruzione del 1804 onde abbiamo una descrizione del Visconte di Chateaubriand.

Quella del 1820, in cui si aprirono ad un tratto otto bocche e divennero altrettanti crateri, due nell’interno del cono principale e sei esternamente, ed una nona si aprì nella eruzione del 1822, in cui caddero anche grandi piogge di cenere che atterrirono gli abitanti di Bosco tre Case e di Ottaiano.

De' sei coni formati nell'eruzione del 1820 uno fu detto cono di Gaulrev (o Coutrell) in memoria di uno sventurato francese che vi si precipitò volontariamente il 10 di gennaio 1821 e di cui il Vesuvio rigettò il cadavere quarantotto ore dopo .

Nel 1827 formaronsi altri coni e il 2I dicembre di quell’anno stesso s’intese a Pozzuoli una lieve scossa di tremuoto, la quale, iteratasi a Napoli il dì 8 di marzo, si prolungò quindi sino alle Calabrie ove distrusse la città di Catanzaro. In cotesta eruzione gli abitanti della Torre raccolsero gran quantità di sale derivante dal Vesuvio.

Notevole é l’eruzione del 1839, che durò quattro giorni, per la straordinaria quantità dì lapilli scoriacci, i quali caddero in maggiore abbondanza che altrove sulle due Torri del Greco e dell’Annunziata e per due torrenti di lava che traboccarono dal cratere prendendo diverse direzioni. A questo proposito ecco taluni ragguagli speciali, che comprendono il periodo dalla citata epoca del 1839 al 1858.

Dopo la grande eruzione del 1839 il Vesuvio stette tre anni in perfetta calma, indi cominciò un lungo periodo di lente e continue eruzioni fino al mese di febbraio del 1850 in cui avvenne una spaventevole conflagrazione del monte.

Seguì a questo incendio un riposo di cinque anni, imperciocché nel mese di maggio del 1855, da molte bocche laterali, uscì per 27 giorni gran copia di lava. In dicembre del 1855 la cima del monte, che dal 1850 non avea dato più fuoco, incominciò per nuova bocca una nuova serie di piccole e continue eruzioni, per cui, durante quasi l’intero anno 1857, si vedeano scorrere le lave sul pendio del cono, ma nel maggio del 1858 si aprirono molte bocche verso la base del cono ed anche sul pendio del medesimo, dalle quali uscì gran copia di lava. Una di queste bocche rimase in una lenta attività, dopo che tutte le altre si chiusero durante il mese di giugno.

Avremo più tardi il destro di accennare lo stato di conflagrazione del monte nel 1859. Intanto, senza più dilungarci, per soddisfare la curiosità de’ lettori, facciam seguire una cronologia delle più famose eruzioni del Vesuvio dedotta dalle opere maggiormente accreditate in tal genere:

79166017541810
203168217551813
204168517601817
472168917611820
512169417661822
685169617671831
993109817701834
1036170117761839
10491704 al 170817791855
1139171217901857
1300 (?)173417941858
1500 (?)173718041859
103117511800

Aggiugniamo che il giornale uffiziale delle due Sicilie nella sua pubblicazione giornaliera tien minuto ragguaglio delle eruzioni che accadono con tutti i fenomeni svariati che presentano, cosi che dalla collezione de’ suoi numeri può trai sene una storia abbastanza compiuta e soddisfacente.

A dovizia ragionarono i geologi e i naturalisti sulle ragioni produttive delle eruzioni e su gli svariali fenomeni che le accompagnano; di che toccheremo sommariamente.

E prima essersi osservato precedere sovente alle eruzioni taluni segni, come il cratere che qualche tempo prima non da né fuoco né fiamme; disseccamento di sorgenti, come nella già citata del 1831; abbassamento delle acque, rombi cupi e sotterranei, scosse di tremuoti e simili.

Esservi state eruzioni talvolta di solo fumo, talvolta di cenere e lapillo, talvolta di sola lava.

Le lave serbarsi spesso calde lungo tempo dopo l’eruzione, in fatti Breistak trovò ancor fumante la lava del Vesuvio sboccata nel 1785, e, per citarne esempio più recente, le lave del 1855 serbavansi ancor calde nel 1858, quando furono ricoperte da altre soprarrivate.


Prorompere spesso le lave da fenditure laterali che si formano dove la montagna è più facile a sfondarsi. Lungo queste fenditure sorgono coni di eruzione, spesso di tale grandezza che potrebbero assomigliarsi a novelli vulcani, come i coni citati del 1760, il Viulo ec.

Andar le lave a rilento, ovvero avanzarsi con incredibile prepotente velocità secondo il proprio grado di fluidità e secondo il terreno che altra versano. Cosi ne fu veduta una del Vesuvio la quale percorse 2000 metri in quattordici minuti ed un'altra 7000 metri, cioè dal monte al mare, in tre ore.

I terremoti che accompagnano le eruzioni vulcaniche essere soventi volle preceduti da strepiti sordi e sotterranei rassomiglianti alle scariche di molte artiglierie ovvero al fragor del tuono. Queste detonazioni si odono a grandi distanze. Nel tempo della eruzione del Cotopaxi, che fu nel 1744, il muggito di questo vulcano udissi da Honda e da Monpox. città situate alla distanza di dugentoventi leghe.

Essersi osservate di enormi e vastissime lave. cosi, ad esempio, quella che sboccò dal Vesuvio nel 1781 potè calcolarsi a cinque milioni circa di metri cubici: quella del 1791) a undici milioni.

Le ceneri, quando per la loro grande abbondanza arrivano a sceverarsi da’ vapori, essere trasportate dal vento a lontanissime distanze. Cosi nel 472, come attesta Procopio, le ceneri del Vesuvio si spinsero infino a Costantinopoli nel 1329 quelle dell’Etna si videro a Malta: nel 1794 tutta la Calabria fu coperta da gravi e dense nubi del Vesuvio medesimo e nella famosa eruzione del 1822 l’atmosfera s’ingombrò talmente di ceneri che la Campania rimase avviluppala in tenebre profonde, di qualità che perfino nelle ore pomeridiane si andava per le vie con le lanterne. Il primo maggio del 1812 una nube di ceneri e di sabbie vulcaniche, provvedente dal vulcano deciso la San Vincenzo, coprì tutta la Barbada (distante più di venti leghe) e vi sparse tenebre profondissime.

Ancora i sassi che vomitano i vulcani slanciarsi sovente nell’aere ad altezza prodigiosa. Così nella eruzione del Vesuvio del 20 gennaio 1755 i sassi lanciali impiegavano a cadere lo spazio di otto secondi, le pietre che il monte medesimo vomitò nel 1779 rimasero in aria per 25 secondi; l’Etna nel 1069 e nel 1819 spinse ingenti massi di pietra fino ad una lega di distanza, ed il Cotopaxi nel 1533 gettò pietre di dieci metri cubici ben tre leghe lontano.

Infine i periodi delle eruzioni, come abbiamo avuto il destro di dedurre da quelle per noi sopra accennate, esser vario, ed in talune di anni, in altre di mesi, in altre di giorni, in altre di minuti.

Ora ci rimane ad aggiugnere come il cratere del nostro vulcano, in conseguenza di tante e continuale eruzioni vedesi sensibilmente sfranato, ciò che ha dato origine spesso a temere di un totale sprofondarsi della montagna.

Le vicende di questi monti ignivomi bau sempre destato e sollecitalo le cure degli uomini più celebri e dotti, non pure a notarne e tramandarne ai posteri le maraviglie ma a visitarli personalmente. Nè solo quel Plinio onde sopra facemmo menzione, ma ancora Empedocle è fama si precipitasse in un vulcano, disperato di non potere indovinarne i misteri, come Aristotile un dì si annegò nell'Euripo, sciamando con quelle memorabili parole «quoniam Aristoteles non capit Euripum, Euripus copiat Aristotelem».

E per venire a fatti men remoli l’architetto Soufllot nel 1750 si fece calare dentro il cratere dell’Etna per mezzo di lunghe corde attaccate al margine della cavita. Lo Spallanzani, asceso sul monte stesso nel 1788, potè, stante la calma perfetta, entrar nel cratere di quel vulcano e vide (son sue parole ) nel cupissimo fondo un’apertura di una trentina di piedi, d’onde s'innalzava perpendicolarmente una colonna di fumo bianchissimo, che stimò di venti piedi di diametro nella sua parte inferiore; scendendo maggiormente ebbe scorto una materia liquida accesa, animata da certo moto di bollore, e videla di tratto in tratto ascendere quasi a mezzo cratere e discenderne in fondo: questa era lava. Le pietre gettatevi entro producevano lo strepi lo di un oggetto che cada sovra una pasta .

Vuolsi che un vescovo inglese, più di sessant’anni indietro, si facesse calare nell’interno del cratere vesuviano ove scorse, in fondo dell’abisso, conte un lago di fuoco su cui sorvolavano fiamme azzurre. Il professore Pilla osservò le eruzioni del 1833 e 1831 e fu spettatore di ben dodici a quattordici esplosioni, le quali rinnovaronsi di Ire in tre minuti con lo stesso corredo per lo più di fenomeni, ed una, fra le altre, minacciò la sua vita, nulladimeno con mirabile intrepidezza si fece di bel nuovo a considerare il bollente e mugghiarne cratere. Tanto può l’amore della scienza! Circa la materia ignivoma, della propriamente lava, che eruttano i vulcani non è altro se non un gonfio torrente di materie sciolte dal fuoco, il quale, a modo di pasta fluida, scende dalla sommità del monte ed abbatte e distrugge quanto incontra sul cammino. Allorché la lava scorre infocata e si spande nelle sottoposte campagne ha la consistenza di un vetro liquefatto; si avanza con molta lentezza ed esala uua gran quantità di fumo. Se incontra qualche muro il torrente si arresta alla distanza di sette o otto passi, si gonfia e scola per diramazioni laterali senza toccar l’edilìzio; ma là dove trova porte le divora, entra pei fori, brucia le travi e soli rimangono i muri, misero avanzo di tanta rovina. Le terre ed i campi coltivati ne sono miseramente devastati.

Ma se dall’una parte il Vesuvio è fonte spaventevole di tanti danni, dall’altra, per la giustizia ammirabile della Onnipotenza, è miniera inesauribile d’immensi tesori che chiude nel suo seno, nel modo stesso che favoleggiasi della lancia del Pelìde, la quale dall’un capo feriva e dall’altro risanava. Ed e per vero assai dubbio se maggiori i suoi danni dir si possano ovvero i suoi benefizi.

Primieramente questa stessa materia ignivoma, questa stessa lava così funesta, diventa una pietra docilissima a qualsivoglia forma; onde se ne fabbricano statue, medaglie e pietre e bottoni e ornamenti di mille ragioni; il che costituisce un ramo importante d’industria dal quale non poco utile si traggo. E vantaggio ancor più grande potrebbe derivarne alla industria, impiegandosi più spesso in cose di maggior momento, come in gruppi, statue, fontane, monumenti, obelischi ec. non che in suppellettili e masserizie domestiche (ed infatti ne abbiam vedute bellissime costruite con lava vesuviana) ed in altri modi confacenti a’ bisogni, agli usi, al diletto ed all’eleganza del vivere. La mano di valoroso artista sa dare a questa pietra sì peregrina bellezza e sì rara magnificenza che essa può stare al paro, se non pur vincere, ogni qualsiasi altra più preziosa cd eletta; e forse non ci è dato precisare ancora compiutamente tulio quanto il partito che potrebbe trarsene.

Raffreddata di poi la lava divieti pietra, la quale (avvegnaché a via di grandi fatiche) tagliata con mine o con iscalpello, è ottima per moltissimi usi, come per iscaglioni, per colonne e per altrettali lavori; in ispecie s’impiega con gran successo a lastricare le strade e, levigata, acquista il lustro.

Pompei ed Ercolano avevano le strade selciale con tali pietre, con queste si lastricò la celebre via Appia, che da Roma mena a Brindisi, e con queste ancora lo sono tutte le strade della nostra Napoli, lieta di possedere un tanto significante vantaggio.

La rendita del taglio della lava, se è in luogo accessibile al trasporto, è tripla del terreno coltivato, e può superare anche questo valore, essendosi venduto un moggio di terra sino a ducati settemila: se poi è in luogo inaccessibile è minore, ma per lo più l'agguaglia. Quando la lava non è di buona qualità ma scoriacea, dopo un certo tempo comincia lentamente a scomporsi; vi nascono prima i licheni. poi le ginestre, ed in ultimo comincia ad apparire un po’ di terriccio vegetale. Allora i proprietari procacciano con diversi mezzi di accrescere la terra sulle scorie, e cavandovi delle fosse, vi piantano diverse maniere di alberi fruttiferi i quali crescono a maraviglia, avendo le radici la potenza di penetrare nel masso vivoìno alla più antica terra, e danno frutto squisito, come sono i tanto celebrali fichi di Somma, e così pure uve bellissime.

In generale le terre vesuviane sono le più deliziose, le più feconde, le più belle fra quante la mano provvida di Dio ne avesse creato, onde ebbe a dirne Marziale

Hic est pampineis viridis Vesuvius umbris

Praesserat hic madidos mobilis una lacus

Haec juga quam Nisae colles plus Baccus amavit

Ciò deriva in ispecie dalla possente azione del fuoco vulcanico, e, quel che e più mirabile, ivi è più fecondo il terreno ove fu più arso da eruzioni.

«Il Vesuvio (scrive Galanti)  è un monte d’oro pei suoi ricchi prodotti; distrugge e crea, toglie e ridona. La cenere che distrusse i frutti nel 1704, li animò nell’anno seguente, e nel 1796 le uve rimasero in parte invendemmiate per mancanza di recipienti per la immensa quantità di vino che avrebbero dato. Lo stesso è accaduto nella eruzione del 1822, e molti corsi di lave affatto sterili sono divenuti coltivabili coll’essere stati da questa eruzione coperti di sabbia. I fichi e le uve crescono di bontà secondo si sale sulla sua vastissima pendice. Dalla parte di Somma la posizione settentrionale e più fresca da miglior qualità alle frutta ed ai vini. Quivi le uve e i fichi sono nel loro vigore nel mese di novembre dove che nelle altre esposizioni più calde terminano un mese prima. Le vili si piantano in profondi fossi: a Somma basta la profondità di dieci palmi, ma alla Torre si discende molto più, e spesso si traversano gli strati delle lave che s’incontrano. L’immensa popolazione la quale abita intorno al Vesuvio indica abbastanza la ricchezza de’ prodotti che la fanno sussistere. Gli stranieri spesso ne compiangono po' pericoli che ivi si corrono, ma il Vesuvio non produce guasti senza compenso, come le valanghe, le acque, il mare, le meteore, nell’Elvezia, nell'Olanda, a Pietroburgo ed altrove.» La cenere e il lapillo, comunemente della puzzolana, e come di lava triturata e bruciata. Talvolta e nera come di carbone fossile polverizzalo; tal’altra rossa come di creta o terra arroventala. È utilissima per le fabbriche entro terra e diventa ferro riunita alla calce.

Un’altra specie di ricchi prodotti dà il Vesuvio con le sue cristallizzazioni, delle quali pare la natura abbia voluto stabilire nel suo seno una specie di lavoratone. Ella è cosa maravigliosa, scrive il citato autore, sulle relazioni degli accademici Monticelli e Covelli, che circa un terzo delle specie cristalline conosciute e le rocce di ogni formazione trovinsi riunite nel breve spazio occupalo da questo vulcano. Siffatti prodotti si appartengono alle famiglie dell’ossigeno, del cloro, del fluoro, dello zolfo, del fosforo, del carbonio, del silicio, dell’alluminio, del ferro, del titanio.

Molle pietre preziose sono ancor esse produzioni vesuviane, come principalmente la sarcolite, il granalo, Vidocrasia; ed altre più comuni che i nostri artisti san tagliare mirabilmente formandone tabacchiere, collane, braccialetti, spille, orecchini,cammei ed altrettali ornamenti i quali circolano per tutta Europa ed altrove, lavori che sono grandemente apprezzati, e più allo straniero che nel regno.

Cotanta fama del nostro monte non desta unicamente la curiosità del sapiente, ma di tutti in generale, e però tutti, napolitani e stranieri, dotti e indotti, artisti e non artisti, traggono di continuo ed in gran numero, in ispecie nel maggio e nell'ottobre, a contemplare quelle ignivome cime e quelle magiche spaventevoli scene, le quali sole basterebbero a dare un’idea dell’Onnipossente, che disvela la sua tremenda maestà tra quelle fiamme, come un giorno a Mose nel roveto di Orebbo.

Egli è però che la gita al Vesuvio, divenuta, come dice il canonico de Jorio, un obbligo di precetto pe’ viaggiatori, forma uno de’ costumi più notevoli sotto qualunque aspetto voglia considerarsi.

Innanzi tutto chiunque si accinge ad ascendere la vetta del monte, sia pure il più azzimato bellimbusto tra quanti allietano la passeggiata di Toledo e della riviera e gli splendidi saloni, è giocoforza deponga ai piedi di esso ogni pompa. L'eleganza e l’aristocrazia, la vile umana grandezza, in somma, s’inchina reverente a quella che è grandezza vera, trofeo sublime della magnificenza divina. Un paio di calzoni vecchi, un abito venerando pel numero degli anni, un logoro cappello ovvero una coppola, e soprattutto un paio di grosse scarpe con suole a prova di bombe, ed un valido e nocchiuto bastone compongono nel generale la toletta vesuviana (mi spiego così per brevità ) senza distinzione tra il magnato e il semplice galantuomo, tra il patrizio e il borghese.

Le feste clamorose e gli avvenimenti memorabili che richiamano sempre gran concorso, procacciano eziandio un profitto considerevole ai cocchieri da nolo, per natura ingordi ed insaziabili, e 'quindi la gita al Vesuvio nelle eruzioni più degne di ricordanza può dirsi veramente la California per essi. In fatti qualunque strada si voglia prendere fa mestieri provvedersi di una carrozza a due o tre cavalli, corredati o no di campanelle, ovvero di una di quelle piccole carrozze, conosciute tra noi col nome volgare di cittadine, pattuendosi ad un prezzo favoloso sì che non esiliamo a dire come col nolo della più deplorabile di coteste carrozze potrebbero noleggiarsene dieci in ogni altra ordinaria occorrenza,

Dato poi che la carrozza (e più facilmente la cittadina ) non lo ponga nella poco invidiabile condizione d’imitare Fetonte di favolosa memoria, ed assicuratosi anche bene delle condizioni sanitarie del cavallo, non sempre prospere, il viaggiatore potrò sciamare

Per me si va sulla montagna ardente

Per me si va nell’immenso calore

Per me si va tra l'affollata gente

in altri termini potrà cominciare a vagheggiar nel pensiero quel sublime spettacolo che sta per offrirsi a suoi sguardi.

Tre strade principali menano al Vesuvio; l'una detta di S. Sebastiano, a tramontana; l’altra di Boscotrecase, a mezzogiorno, e la terza di Resina, ad occidente.

Si può anche andarvi facendosi trasportare dalla carrozza a Santo Jorio e propriamente alla strada così detta dell’Arena, che infatti è mestieri affondare le gambe in due buoni palmi d’arena con poco diletto de’ polpacci che ne rimangono buona pezza indolenziti. Dopo un mezzo miglio di così divertita ginnastica eccovi innanzi un altro sentiero, non meno aspro e duro del duro calle di Dante, pieno di scoscese e di fossi e di burroni e di falsi piani e di strani viottoli, per lo quale, camminato quasi altrettanto tempo, si arriva a Massa di Somma, dove un affollamento incredibile di veicoli di ogni specie, di asini e di cavalli v’indicherà come siate all’ingresso di quel magnifico teatro in cui la natura produce scene così maravigliose; e, dopo altro non lungo tratto di cammino, erto ugualmente ed alpestre, si presenteranno già allo sguardo, quinci e quindi, spaventevoli masse ignee che possono assimigliarsi ad altrettante carbonaie e grosse lave di fuoco che vengono giù a modo di mercurio o di piombo liquefatto.

Ma la via che più generalmente si tiene per giungere al Vesuvio è di andare in carrozza sino a Resina. Di la un tempo si montava a cavallo sino alla base del cono al punto propriamente detto la Pedementina e quindi si ascendeva a piedi sino alla sommità del cono. Fu poi, non senza aver dovuto superarsi gravissime difficoltà, costruita una nuova strada rotabile da Resina fino all’Osservatorio, che oltre alla magnificenza; riusciva (l’immensa utilità, perciocché rendendo 1 Osservatorio accessibile alle carrozze faceva al tempo stesso il comodo e la sicurezza di tanti viaggiatori e scienziati che di continuo traggono a visitare quello stabilimento scientifico ed il monte.

Ora sventuratamente le novelle lave l’han renduta impraticabile pel tratto che costeggiava il fosso grande, onde non rimane per andarvi che l’antica strada vecchia, in parte rifatta sulle stesse nuove lave.

Non appena disceso il viaggiatore a Resina si vedrà assediato, spinto, travolto da una turba innumerevole di guide, dette comunemente Ciceroni, taluni recanti in mano lanterne accese, altri con torce, altri guidanti asini e cavalli, che, afferrandolo, pestandolo, traendolo per le falde degli abili o con simigliami gentilezze lo invitano ad ascendere il monte.

Queste guide o Ciceroni non sono altro che contadini de’ dintorni, e più specialmente di Resina e di Torre del Greco, i quali storpiano nel modo più curioso l'italiano ed il francese, battezzando per istraniero qualunque in lor si avvenga, e gridandogli intorno, fino a stordirlo: à moi Monsicur, me voilà, Monsieur; il che forma un bizzarro contrasto con quella grossolana franchezza, caratteristica all’uomo del nostro popolo.

Potrebbe forse questo scimiottare che fanno i Ciceroni di un linguaggio non proprio avere origine dacché sono usi a contrattare più sovente con istranieri che con napolitani, quando trattasi di esaminare le bellezze le curiosità e le maraviglie senza numero che nella nostra incantevole terra ne circondano, e fra le quali spesso ignoranti viviamo, sia negligcntando di volgere lo sguardo a cose a noi vicine, sia lenendoci paghi al sol vagheggiarle, senza chieder più oltre.

In fatti non di rado lo straniero, il quale invece avidamente le ricerca e le studia, ne sa rendere assai miglior ragione del napolitano, che labiata ne ignora perfin resistenza. E questo è imperdonabile torto!

Le guide o Ciceroni fa d'uopo sieno debitamente autorizzali nel loro uffizio, imperocché è loro interamente fidata la vita altrui per le disastrose ed intrigate vie del monte, che eglino d’altra parte conoscono perfettamente e per antica esperienza. Ed è perciò che i passeggieri, alla lor volta, dalle guide debbono lasciarsi affiato dirigere, né da’ loro consigli ed ammonimenti per modo veruno appartarsi: che il non averlo fatto, per temerario ardire o per cieca ostinazione o per troppo imprudente curiosità, gli ha sovente esposti a gravi ed imminenti pericoli e a parecchi è costata la vita.

Narra il Romanelli come, non di rado avvenendo, fra i tanti fenomeni del monte, clic, da tranquillo e chéto, divenga tutto ad un tratto sdegnato. a cagione di qualche improvvisa fermentazione che vi si torma, cagionata dalla decomposizione dell’acqua per mezzo delle sostanze metalliche e sulfuree nel fondo del suo abisso, egli, in unione di un inglese e del paesista Pequignon, stava per esser vittima di questo fenomeno, il che fu nell'agosto susseguente alla eruzione del 1794. Tutto ad un tratto, die’ egli, si videro avvolti da un nembo di fumo pregno di zolfo, sotto a’ lor piedi sentirono lo spaventoso gorgoglio della bollente caldaia che già minacciava ingoiarli e dovettero la loro salvezza interamente alle guide,che, gittando a tempo un grido, li avvertirono dell’imminente pericolo e li obbligarono a fuggire.

Ed ora, nella supposizione che il viaggiatore sia poco esperto o al lutto ignaro delle nostre costumanze, affinché possa valergli di norma presso il suo Mentore, sotto le cui specie non si nasconde sempre una divinità nemica dell’oro, ai pari di quella che guidava i passi del figliuolo di Ulisse, giova ammonirlo come nell’Articolo 6.° dell’ordinanza di Polizia per le guide del Vesuvio, messa fuori il 3 settembre del 1840, contengonsi le seguenti disposizioni:

«Le Guide, ove non sieno contente del compenso loro offerto pel servizio, non potranno altro pretendere che carlini dieci per lo tempo occupato nella giornata, e carlini dodici in tempo di notte, e ciò all’infuori dell'affitto delle sedie ed animali adoperati come mezzo di trasporto de’ curiosi, che non potrà oltrepassare i ducati quattro per ogni sedia con otto individui bisognevoli a guidarla, e  carlini otto per ogni mulo, cavallo ed asino, dovendo tali animali esser forniti di selle, e la sella ben sicura e decente.»

Inerpicandosi adunque in compagnia dell’officioso Cicerone, al chiarore delle fiaccole, su per l’erta del monte, ed oltrepassata la chiesa di Pugliano, dopo un’ora all’incirca di disastroso cammino, si presenta allo sguardo il celebrato romitaggio del SS. Salvatore, il quale, circondato da grossi tigli, sorge sopra una piccola spianata alla estremità occidentale della punta de’ Canteroni, e si crede fondato nel 1631 o prima ancora. L’edilizio contiene una cappella ed alcune camerette ad uso del romito che vi fa dimora. E poi che la guida avrà picchiato all’uscio e il viaggiatore sarà stato introdotto, potrà a suo bell’agio riposare il corpo lasso e rifocillare lo stomaco con la salciccia e con la frittata del romito, di antica e nota celebrità, non tanto perché la sia di un’esclusiva eccellenza, ma perché si paga il doppio delle altre, in grazia dell’allegria della uscita e del gusto di trangugiarla poeticamente sul celebre monte.

Sovrammodo romantico infatti è questo ospizio, (in cui sarebbe soltanto desiderabile una maggior proprietà), l'unico che colassù ricetti quanti d’ogni paese convengono a visitare il vulcano, vogliasi per la selvaggia bellezza che lo circonda. o per la ineffabile soavità che desta quella solitudine o per la bizzarra situazione del luogo.

Ond’è che liete brigate ne fanno scopo a diporto, ed ivi recano vivande e vini, con la maggiore allegria sollazzandosi e banchettando, spesso adagiatela terra, al chiarore della luna che più limpidi e soavi spicca i suoi raggi d’argento su quelle sublimi ed incantevoli vette.

Ristorate così alquanto le forze ed inalbato il frugal cibo offerto dall’ospitalità con qualche bicchiere del famigerato lacryma Christi, il quale riconosce la sua origine dalle terre vesuviane , prima di abbandonare il rustico albergo, resta a compiere una specie di obbligo di consuetudine; quello cioè di lasciare, come si esprime graziosamente uno scrittore, ai posteri la importante notizia che N. N. (nobile o ignobile, illustre od oscuro) nel dì tale dell’anno tale saliva all’eremo del Salvatore.

Nulladimeno se l'album che l’officioso solitario vi presenta, e che ha comune la sorte con ogni altro album, moltissimi nomi contiene di uomini vissuti senza infamia e senza lode, ad onorar quelle pagine, sudicette anziché no, molti ancor vi fan pompa per dottrina, virtù sociali od eccellenza nelle arti venuti in rinomanza. Così, per lasciare ili altri, la celebre attrice tragica Internali, non ha guari rapita all’arte, visitava il Vesuvio nel 1812. La Malibran nel 1833.

Vittorio Altieri nel 1782. Vincenzo Monti nel 1812. Goethe nel 1792; nel 1800 Kotzebue e Byron e Lamartine eil altri chiarissimi. Nò soltanto nomi leggonsi in quel libro ma ancora tratti di spirito, impressioni e ricordi in diverse favelle; e prose e versi, buoni mediocri ottimi o pessimi secondo l’ingegno di chi li dettava.

Chiuso il libro fatale, che veramente il romito irremovibile come il fato lo presenta puntualmente a chiunque vada a visitarlo, ci rimane ad aggiugnere intorno al romitaggio, come nella Pasqua di fiori i fedeli traggano alla festa che quivi si solennizza del SS. Salvatore e numerosissima è la gente che si sparpaglia giubilante per quelle balze e per quei declivi. E, nel modo stesso che nella notte precedente alla famigerata festa di Piedigrotta, veggonsi le strade gremite di popolani e di villici che accorrono da per ogni dove; così del pari nella vigilia della festa del SS. Salvatore conviene a torme la gente non pur dal casale, ma ancora da’ convicini paesi e da Napoli.

Cotal festa, nella quale dalla prossima chiesa di Pugliano recasi processionalmente in abito pontificale il busto in legno di S. Gennaro, nostro patrono, nulla diversifica da una fiera; imperciocché e baracche vedonsi rizzate e panche e pali con in cima frasche ed ombrelli, ed aperte osterie e botteghe di pizzicagnoli e di merciai, ed altre ancora da caffè e da riposto, cui fan concorrenza gridi e schiamazzi. mortaletti, balli, suoni, deschi imbanditi sull’erba o al rezzo degli alberi e, per non dilungarci in minuti particolari, tutto quanto si osserva nelle feste popolari che, religiose o profane, finiscono quasi sempre in un modo, a sollazzo ed a baccanale .

Vorremmo ora proseguire il cammino pel monte, se non che richiama vivamente la nostra attenzione l'Osservatorio meteorologico vesuviano, il quale dista poco meno di un trai di schioppo dall’eremo, e sì troppo grave torto ne parrebbe il lacere di uno stabilimento che, per la sua importanza e magnificenza, va allogato tra i primi che onorano la nostra patria. Però, mentre il Cicerone asciuga le vesti molti di sudore e rianima la sua fiaccola, eccoci a tenerne alcun cenno .

Il Reale Osservatorio meteorologico vesuviano ebbe cominciameli lo nel 18il e fine nel 1847} commettendosene la costruzione all’architetto Gaetano Fazzini e la direzione al cav. Melloni. Nel 1852 l’esimio professore di fisica D. Luigi Palmieri cominciò a metterlo in attività, e nel 1856 ebbe la torre meteorologica onde mancava.

Ne per avventura senza ragioni sorse l'idea di collocare sul Vesuvio un tale edilizio. L’interno delle città, e segnatamente delle vaste metropoli come la nostra, non essendo acconcio a questa sorte di studi conveniva prima di ogni altra cosa scegliere ne’ dintorni di Napoli un luogo che fosse in condizioni più favorevoli, per lo che le alture sono sempre da preferirsi, e pel maggiore avvicinamento alla regione delle nuvole e per essere libere dalle influenze elettriche del terreno circostante, e per dominare una più vasta estensione dell’orizzonte.

Di più questa scelta veniva appoggiata da altra potentissima considerazione, quella, cioè, che da gran tempo i geologi, i fisici, i chimici e tutti coloro in somma che intendono allo studio delle cose naturali facean voti per avere sopra un monte di sì facile accesso, qual è il Vesuvio, e così vicino ad una metropoli fornita di mezzi scientifici di ogni maniera, un apposito luogo dove si potessero esaminare i fenomeni vulcanici con la precisione che richiede lo stato presente delle scienze fisiche. Opportuno è anche il sito per la disposizione degli strumenti necessari alle indagini, le quali possono solamente eseguirsi in un sito stabile, comodo, posto in prossimità del cratere, ma non troppo vicino, per poter disporre gli strumenti stessi in luogo sicuro ed isolato; condizioni che si richiedono del pari per lo studio della meteorologia propriamente detto.

Sorge l'edilizio sulla cima di quella sirena eresia di monte clic, partendo dalle falde dell'odierno cono di eruzione e dell’antico cratere di Somma, mette capo al poggio del Salvatore. Esso è vicino all’eremo ma alquanto più sopra: per cui l’altezza del pianterreno è già superiore alla sommità della chiesa e delle annose piante che le stanno rimpetto. E perche dall’una e dall’altra parte il terreno scende rapidamente, il fabbricato trovasi signoreggiare da tre lati lo spazio circostante. L'Osservatorio è poi guarentito in tutto dalle lave che quand’anche invadessero la porzione della costa più prossima al cratere non potrebbero altrimenti sostenenti, ma si precipiterebbero immancabilmente verso le piane, nel fosso grande o per l'atrio del cavallo nel canale vetrano.

Quest’Osservatorio contiene la torre meteorologica, una biblioteca e diverse sale ad uso della scienza e per abitazioni. Vi son poi due terrazzi per le osservazioni all'aria libera, ed un padiglione sulla vetta dell'edilizio per le sperienze di elettricità atmosferica.

Tutta l’area è cinta di muri per decenza e sicurezza dell’edifizio, ed inferiormente, sulla fronte principale, vi ha la dimora del custode a livello della strada, comunicante col piano della cucina che le sta superiore di pochi piedi.

Le facciate dell’Osservatorio ergonsi su ampio basamento, con finestrini per dar luce al sotterraneo; e quella principale è decorala con un portico a colonne doriche nel pianterreno, al quale si ascende mediante due ornati sentieri ed una maestosa gradinata.

I vani sono arcuati e le mura ornate con bozze di pietra vesuviana legate tra esse con anelli di rame, e di tratto in tratto assodate da catene metalliche che passano per tutta la grossezza dei muri, genere di costruzione tanto comune negli antichi e poco usata dai moderni, con danno della solidità delle fabbriche: L’ultimo piano ha nel mezzo, ed in corrispondenza del portico, un grande attico con orologio solare ed ordinario.

Merita attenzione la facciata verso settentrione, che nella parte media è foggiata a guisa di torre ottagona con diversi meccanismi per gli usi della meteorologia.

Il genere di architettura che vi trionfa è il greco romano di grande semplicità, quale richiedeva l’indole dell’edilizio, laonde la sua magnificenza deriva in gran parte da’ materiali prescelti, che sono pietredure, mattoni, lave antiche, tufi di Nocera e della falda di Somma. Scopo della istituzione di questo Osservatorio, oltre di essere, come accennammo, la meteorologia considerata in rispetto a’ mutamenti prodotti dalla presenza di un vulcano ardente, è benanche lo studio di tutto ciò che possa concorrere alla formazione di una storia compiuta de’ fenomeni del Vesuvio da servire alla scienza dei vulcani. E di vero ne’ pochi anni dalla sua istallazione sonosi fatte parecchie scoperte concernenti la elettricità atmosferica e la fisica del globo, e si sono rinvenuti novelli prodotti di questo nostro monte, sì che i dotti stranieri trovano nell’Osservatorio Vesuviano l’ospizio scientifico tanto desiderato, ove possono comodamente soddisfare alle loro ricerche avendo materiali, notizie ed istrumenti opportuni, dei quali ultimi quello stabilimento anno per anno si va arricchendo. Fra gli altri meritano particolare attenzione due strumenti inventali ed eseguiti in Napoli, cioè il sismografo elettromagnetico, che nota, in assenza dell'osservatore, le più piccole scosse di tremuoto, indicando la natura, la intensità, la durala ed il tempo preciso del cominciamento di esse, e l'elettrometro atmosferico a conduttore mobile; ambedue invenzioni del dotto professore Palmieri, a sì giusto titolo chiamato alla direzione di quello stabilimento scientifico, meritando per la seconda ima medaglia doro dalla Leale Accademia delle scienze di Lisbona .

Per quante sieno le difficoltà di ascendere al Vesuvio, accresciute anche dalle continuate eruzioni, la brama di visitarlo non cede innanzi a vermi ostacolo, né l’asprezza e la disastrosità delle strade, che in mancanza di altre più praticabili, è giocoforza tenere, vale a raffrenarla, che in quella vece è sempre crescente la folla de’ curiosi, i quali traggono di continuo su quelle vette, sobbarcandosi ad enormi fatiche per giungere lino al culmine, ove spesso nulla può scorgersi a causa del densissimo fumo.

Venendo ora alla parte men grave della nostra narrazione, ci piaccia volgere uno sguardo alla scena che ne circonda. E qui un gruppo di viaggiatori che vi pesta, vi urla, vi spigne; e li, di tratto in tratto, fiaccole o fanali (accenniamo ad una gita notturna) che or compariscono or dispariscono, come quelli delle nostre barche pescherecce nelle belle notti di state, altrove donne appoggiale a bastoni sul gusto de’ Lapponesi, e qualcheduna anche in guanti e scarpini qual se si accingesse ad una danza, altrove uomini armali di schioppo ad armacollo, ed in altro punto montagnari che vi pressano e vi annoiano per improntare qualche moneta o medaglia nella lava ancor bollente, sospendendo, (finché non si raffreddino), quelle pietre, che rendono perfetta somiglianza di altrettante spunghe carbonizzate, ad una specie di giunco, come si fa de’ cocomeri, e così recandole Ira le mani. Nè soltanto monete e medaglie, ma anche ritratti e gruppi e diverse altre maniere di lavori s’improntano a questo modo, che poi gli stessi montagnari, fattene grosse ceste, vendono per la capitale.

Ciascun viaggiatore è vago provvedersi di qualcuna di coteste pietre per conservarla come memoria della sua gita. Tuttavolta non sarà per avventura superfluo avvertire ad esser cauti nel dar fuori la moneta, imperciocché questa, in ispecie se di qualche valore, prende 1111l'altra direzione di quella che potrebbesi credere, sebbene il montagnaro, che in fatto di fantasmagoria non la cede al più esperto giocoliere, assicuri con la più grande ingenuità che sia andata smarrita nella lava.

Nelle eruzioni più clamorose accorrono anche in gran numero venditori di arance, di biscotti,di ciambelle, di acquavite,di sigari e di altrettali cose, sì che l’interno del monte, vedesi tramutato in isplendida fiera.

Diamo ora qualche ragguaglio più speciale sulla salila al Vesuvio e sulla discesa da esso, che forma una parte essenziale del costume che imprendemmo a narrare.

La strada che mena al cratere, erta sommamente ed alpestre, è tutta coperta e seminata di aridi sassi, ciò che rende arduo e penosissimo l inerpicarvisi. Quindi la necessita di farsi puntello di grossi bastoni, e in taluni punti più difficili lasciarsi condurre a mano dalla guida o raccomandarsi ad una coreggia onde la medesima ha cinti i lombi .

Ma per quanto faticosa è la strada onde si sale, altrettanto facile, ripida e lubrica è quella onde si discende, coperta di sabbia sottilissima, di tal che se per salire s’impiega un tempo non breve, bastano pochi minuti per trovarsi a’ piedi del monte. Per la qual cosa conviene usare la maggiore attenzione affine di non rompersi il collo, sdrucciolando sconciamente, e talvolta raccomandarsi a funi che le guide sostengono dall’alto.

Tutto questo, come di leggieri può argomentarsi, da luogo a molte ridicole scene, che formano una sensibile antitesi con altre oh quanto diverse, e con la formidabile maestà di un monti cui la natura e la scienza par che concordi tributino omaggio. Di che l'arguto genio e la facile vena dei napolitani, eccellenti, fra l’altro, nel ritrarre la parodia, e che ancora da’ subbietti più gravi san con bel garbo trar partito di giovialità e di riso, dovea naturalmente far tesoro, ed è così che la fantasia bizzarra dell’artista ritraeva tutte quelle grottesche figure e quei gruppi in caricatura che veggonsi in tanti disegni litografali ed incisi, onde abbondano i magazzini e le opere che trattano de’ nostri costumi: e che quantunque esagerati son pure copie di originali veri e viventi.

Guardate p. e. una rispettabile matrona che, ostinata a trascinare la sua mostruosa pinguedine lìti sul culmine del Vulcano, col cappello che le vien giù per le spalle, col petto ansante, con le nari dilatate e tutta grondante sudore, stende ambo le braccia alla guida che, per quanto robusta, ha bisogno di puntar bene i piedi a terra aflìn di trarla su, non diversamente da quel che veggiamo adoperarsi dai marinari allorquando mettono in secco le loro navi.

In altro punto è un giovanotto scarno e mingherlino che, per parer filosofo e saputo, ha barba e capelli lunghi ed incolti. E’ reca sotto il braccio un album per notarvi le sue impressioni, ma ad un tratto dà un falso passo e cade fra le risa de’ circostanti.

In altro e una fanciulla cui il vento poco cortese fa balzar lunge il cappellino, ovvero che, colpita da asfissia, si lascia involontariamente cadere tra le braccia d’un bel giovanotto il quale potrebbe un giorno o l’altro guidarla all’ara sospirata d’imeneo.

In altro è uno straniero, dal cappello mostro ed a tese favolose, che, freddo ed imperturbabile, tira innanzi nell'aspro sentiero tutto immerso nelle sue contemplazioni e nulla curante di quanto intorno gli accade.

In altro è ancora una donna sul tipo della descritta innanzi. La sua| obesità tradizionale le vieta ad ogni palio il discendere dal monte. È però clic, adagiatala sovra una seggiola e ligaie strettamente a’ lati di questa delle travi, quattro ben robusti facchini, agevolati nella grande opera da montagnari e da famigliari, ne sollevano il peso.

In altro è una svenevole e delicata damina che, abbandonati gli splendidi saloni e i profumati recessi, fidi custodi di tanti misteri, per la smania di visitare il Vesuvio, e, dimenticato lo splendore degli avi, appoggia la candida mano, sospiro e speranza di tanti cuori al braccio plebeo del suo rozzo Cicerone, che la sorregge per quei dirupi e per quelle balze in modo assai diverso dall’avvenente e spiritoso vagheggino col quale su’ più ricchi e morbidi tappeti della Germania suole intrecciare festevoli polke e seducenti mazurke.

In altro è un poveraccio che per aver posto in non cale il salutar consiglio di munirsi di una valida calzatura, non ancor compiuta la discesa dal monte, si trova nella crudele condizione di non possedere più che le semplici calze logore e malconce.

E più giù un altro che scuote dalle scarpe bruciate un mucchio non indifferente di pietruzze e di arena che vi si è formato.

E poi un altro ancora che per andar più sicuro nella discesa ha pensato distendersi supino sul declivio e così sdrucciolare insino al piano ma i calzoni, in istato poco locativo, ne han compromesso seriamente la modestia.  

Quante avventure e di quante diverse specie han luogo spesso sul Vesuvio! Narrasi come due inglesi (lutti gli aneddoti più speciosi si attribuiscono agli inglesi) un signore ed una giovanetta, si accordarono insieme per eternizzare il loro amore sulle vette del nostro monte. Innanzi al fumante cratere rinnovaronsi i giuramenti di costanza e di fedeltà, e chiamando in testimoni gli elementi, promisero che qualunque di essi fosse stato tradito sarebbesi precipitato nel mugghiatile cratere. Ma non passò un anno che la gentile miss diede la mano ad un ricco gentiluomo napolitano e il tradito amante per disperazione si precipitò.... nelle voragini commerciali e si spinse sino a sposare la figliuola di un banchiere, la quale giurava meno ma possedeva di più. Il Vesuvio cedette volentieri la sua vittima, da che possiamo argomentare che l’uomo, (preso nel suo più ampio senso) in Inghilterra o altrove è sempre lo stesso.

E bastino questi pochi quadri abbozzati per dimostrare come la gita al Vesuvio, oltre all’essere delle più importanti, sia ancora delle più divertite. Nulladimeno, dopo la malagevolezza e la disastrosità del cammino, il viaggiatore agogna di toccare al più presto alla meta. Ma non appena ha raggiunto la sommità del monte e’ vedesi pagato con usura di ogni disagio, e il promontorio vaghissimo di Sorrento, le isole di Capri, d’Ischia e di Procida, Posillipo con le sue sporgenti colline, l'avvenente aristocratica Portici, le due Torri, i Camaldoli e l’onda azzurrina del nostro incantevole golfo, lutto in un punto raccolto, rallegra soavemente il suo sguardo e gli ristora e gli rifa la vita.

Non v’è scena che possa somigliarsi a quella che presenta la natura sulle vette del Vesuvio. Il pittore che contempla da quelle cime il sorgere del sole o il tramonto sulle ridenti sponde di Mergellina, ovvero, in tempo di notte, la luna che si specchia nelle limpide onde del golfo, rapito in estasi soavissima, si affretta a ritraile con vivaci tinte, ed il poeta ne attinge le più fervide ispirazioni per arricchirne i suoi canti. Di tal che se nelle viscere del monte la favola pose la dimora de’ ministri di Vulcano e di Plutone, con egual senno potrebbero quelle cime addimandarsi la sede degli spiriti eletti alla celestiale letizia, tanto soave ed ineffabil cosa è l’aere purissimo che colassù si respira e che, unitamente allo spirito, rinvigorisce il corpo e stuzzica lo stomaco con eccellente appetito.

Fra le altre cose è pur da ammirare sul nostro monte, come da esso si abbia indizio delle nevi quando son per cadere nella città, ed è veramente singolare spettacolo il vederne ricoperte le velie nel tempo stesso che dal cratere sboccano lave di fuoco .

È poi impossibile che, nel darsi un addio al Vesuvio l'animo non rimanga al vivo commosso e la mente preoccupata da mille fervide idee che vi lasciano una traccia indelebile, in ispezial modo per la parte più colta, la quale non un semplice sollazzo e divagamento in questa gita ritrova; ché per vero in tanta inesauribile miniera chiunque professa una qualsivoglia special disciplina può a suo talento trovar ricchezze per l'intelletto e sempre novelli lumi raccòrre per l'incremento e per la prosperità delle umane cognizioni; ciò che elegantemente esprime il Galanti.

«Questi grandi fenomeni della natura richiamano le riflessioni di tutti: il religioso vi vede un segno dell'ira celeste, lo storico la cagione di tante rivoluzioni del globo, l’antiquario da essi ripete le meravigliose scoperte di Pompei e di Ercolano, il pittore ed il poeta vi attingono una scintilla di quel genio che si sviluppa in grandi spettacoli della natura ed il filo solo esamina l'ordine delle cose e lenta di alzare il denso velo che le ricopre».

E questi fenomeni stessi che si succedono in mille forme diverse, or simultanei, or separati, ora rapidi, ora ad intervalli, dan luogo sempre a novelle investigazioni $ in fatti per le cure del Direttore dell’Osservatorio meteorologico vesuviano vengono di continuo inoltrate alla Istruzione Pubblica ragguagliate relazioni sulle fasi e sulle vicende che il monte man mano va presentando.

La scienza infine e l’arte esauriscono tuttodì intorno ad esso i loro sforzi, ed instancabile l'ingegno umano perdura a studiare in questo colossale monumento di sterminate cognizioni, che, in cambio, orgoglioso di poter dirsi, come lo è veramente, un prodigio della natura ed un’opera tra le più rare ed ammirande della Creazione, par che voglia incessantemente avvolgere in una specie di mistero i suoi preziosi ed inesausti tesori.

ENRICO COSSOVICH.

1Galanti. — Guida di Nap. e Cont.

2Indicaz. del più notevole in Napoli e contorni. —Napoli. Stamperia del Fibreno, 1835, pag. 37. Corna. — Storia delle due Sicilie. V. I.

1 G. del Re. — Viaggio Artistico da Napoli a Salerno.

2Napoli antica e moderna — Parte I. p. 163.

1Napoli e vicinanze.

2Napoli Antica e mod. — Parte l. p. 64.

1 D’Ancora. — Guide du voyageur pour les antiquitès et curiosités naturelles de Pouzol et des environs.

2V. Sannazz. — Arcadia, Prosa 12.

De Bello Gothico. — Lib. IV.

1 Galanti. — Guida di Nap. p. 273. nota.

Del Bello e del Curioso di Nap. —Giorn. X. pag. 38 e seg.

1Avea questo nome, dice il Celano, perocché il fine di ogni miglio segnalo veniva con una pietra o piccola colonna, dicendosi primo,secondo ec. ab Urbe lapide, che significar voleva un miglio. Così questo luogo essendo distante otto miglia da Napoli addimandavasi Torre Ottava. — (Del bello e del curioso di Napoli. — Gior. X. pag.34 ).

1 Italia descr. e clip. il. c3.

1 c. eogr. Stor. moderna universale, p. 130.

1 Guida di Napoli e contorni.

1 II più famigerato fabbricante del lacryma Christi, fu un tal Ruggiero, morto non ha guari, cotanto geloso del suo processo che volle trascinarne seco il segreto nelsepolcro; nò ciò bastandogli dichiarò altresì,con testamento, decaduti da ogni dritto gli eredi che avessero continuato a confezionarlo sotto lo stesso nome di lui;temendo che, per contraffazioni od alterazioni, non avesse a rimanerne discreditala la memoria.

1Ingiustamente da’ più vuoisi ciò sia esclusivo del nostro popolo. La storia invece ne fa fede come, più o meno, avvenga dappertutto lo stesso. A questo propositovogliam citare le parole ili un aureo scrittore. «Potremmo anche, o maligni, rivelare alcune fortunette che la boscaglia o la folla mal coprì... e i molti chegozzovigliano un dì per digiunare una settimana con l’amata famigliuola e che non abbandonano il tumultuoso stravizzo se non dopo» che la ragione è sfumata a rinforzi di bicchieri... solite appendici delle sagre, solite conseguenze delle divozioni clamorose, qui ed altrove, a’ nostri tempi ed a quelli de’ buoni vecchi. — C. Cantu’.La Madonna d'Imbevera.

2 I ragguagli che seguono sono tratti quasi interamente dalla pregiata opera Napoli e sue vicinanze già innanzi citata.

1 l risultati delle ricerche che si fanno nello Stabilimento medesimo verranno da ora innanzi pubblicali negli Annali del reale Osservatorio meteorologico Vesuviano,

1 Vedi la figura.

1Vedi la figura.

1Da questo specioso fenomeno prende origine una poesia allegorica del eh. Giuseppe Campagna che ci è grato di qui riprodurre:

AD UNA AMICA

 cui additavo il Vesuvio coverto di neve.

 Meco restati, e per poco

Al Vesevo il guardo gira,

Su quel monte pien di foco

Biancheggiar la neve mira;

E saprai com’io talora

Dentro avvampo e agghiaccio fuora.

 La vulgar maligna gente

Crede il cor leggermi in faccia,

Onde vien che ingiustamente

Di freddezza a me dà tacciai,

Pur col gelo in su la fronte

Ha le fiamme in sen quel monte.

 Quante volle il mio pensiero

Su pel mar, su per la terra

Su pel gemino emispero

Senza fren trasvola ed erra,

Mentre legami le membra

Un torpor che morte sembra!

 Quante volte il labbro tace

Mentre l’anima favella,

Ch’io mostrando al viso pace

ilo nel petto la procella,

E l'interno mio tormento

Men lo sfogo e più lo sento!

 Se l’insano esulta e spesso

Fa del saggio orrido scempio,

Se del giusto il capo oppresso.

Èsgabello al piè dell’empio,

Credi tu che a tant’orrore

Non mi frema in petto il core?

 Credi ch’io, dal duci trafitto,

Non lamenti il tristo fato.

Del bisogno derelitto

Del pudore insidiato,

Del voler senza possanza,

Del disio senza speranza?

 lo, con provvido consiglio,

Celo in me, quando non parlo,

Ardor tale che periglio

Mi sarebbe il rivelarlo:

Anzi spesso opro e ragiono

Per mostrarmi qual non sono.

 Nondimen tu pure in faccia

Scritto il cor leggermi credi,

E mi dai non giusta taccia

Di freddezza... Ali! vedi, vedi

Che col gelo in su la fronte

Ha le fiamme in sen quel monte.

 


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L'OLIANDOLO


ADAMO, la Dio mercé, nel secolo de’ lumi ed è somma ingratitudine il dimenticare l'oliandolo, la cui opera ha il nobilissimo scopo d’illuminarci. Alcune teste calde, che maledicono a tutto ciò che ha muffii di vecchio, han rilegato il povero oliandolo tra i giannizzeri del retroviodismo, volendo che questa portentosa nostra società non si abbia altrimenti a rischiarare che coll’abbaglianutto al più col fulgido gasse!

Questi adoratori di novità a quattro grana il pezzo (di carta stampata) fanno le bocche ogni volta che senton parlare del fetido, succido, stomachevole olio, e vorrebbono che come dalle vie delle colte città, da’ pubblici edifici e da’ teatri ebbesi il bando, pur lo avesse dalle case particolari, dove, a grande scandalo della civiltà, regna tuttavia nelle lucerne di ogni maniera, e fìnanco nelle aristocratiche lampadi che si addimandano carccls, in cui boriosetto e altero sfida la luce stessa del gasse!

Noi non siam del parere di codesti arrabbiali progressisti, e crediamo in buona fede che l’olio valga ad illuminarci più del gas e della luce elettrica, con buona sopportazione degli elettristi che oggi domani ci faran sedere a mensa e ci metteranno innanzi una imbandigione elettrica. Alle cose composte e artificiali antepognamo le semplici e naturali, e opiniamo che il succo d’un frutto come l’oliva sia meno succido, meno fetido, meno stomachevole della putrida emanazione gassosa di marcite sostanze.

Ma non è questo il luogo di discutere un simil tema, onde, ci restringiamo a dire che se più viva e più estesa è la luce del gasse, più salutare è quella dell’olio e meno offensiva agli occhi, al naso ed a’ polmoni.

Qui non vogliam tener parola della vendita in grosso di questo benemerito figlio dell’olivo, che rende così importanti servigi all’uomo col nudrirlo e illuminarlo. I vasti fondachi dove si smercia l’olio, le grandiose botteghe Ravanas dove questo biondo liquore, racchiuso in lunghi bottiglioni, rassembra ad oro colato; il commercio in grandi proporzioni di questo genere, sul quale tanti si sono arricchiti e si arricchiscono per felici speculazioni; tutto ciò non formerà il subbietto di questo articolo, che imprende a parlare d’una modesta specialità, la quale fa parte degli usi e costumi di questa capitale. Ciò non pertanto, crediam necessario il dire per le generali che tra le provincie del nostro Regno, le Calabrie e le Puglie son quelle che danno maggiori e i migliori prodotti in olio. Gli oliveti sono la principal sorgente di ricchezze per que’ proprietari; benché la così delta malattia del verme abbia in qualche anno mandato a rovina la raccolta, siccome avvenne il 1858 a Rossano, a S. Vito ed in altri agri della calabra campagna.

Sogliono i nostri negozianti distinguere le diverse qualità di oli colle particolari denominazioni de’ paesi donde provvengono come olio di Gallipoli, di Monopoli, di Bari, di Taranto, di Rossano, di Gioja ec.

Sono immensi i servigi che questo importante genere rende al commercio, alla industria, alla igiene, e fìnanco alla medicina. Sotto il rapporto della economia, è preferibile a qualunque altro mezzo d’illuminar le nostre case. Esso è l’occhio del povero operaio costretto a protrarre le sue fatiche fino a notte avanzata; e veglia nelle notturne lampadi avanti a’ nostri letti nelle ore in che rinfranchiamo nel sonno la spossatezza delle nostre membra.

Egli è l’oliandolo ambulante quello di cui intendiamo tener discorso. Chi non lo vede ogni dì passar per le nostre vie più frequentale ed anco pe’ più rimoti chiassuoli e ronchi e viottoli? Anzi, se dir dobbiamo il vero, rollandolo preferisce que’ quartieri e quelle strade dove il lusso non fa vana pompa delle sue merci stravaganti.

L’olio è modesto, e l'oliandolo è vie più modesto. Una sola volta Colio è superbo, ed e quando anima la religiosa lampada del poverello dinanzi alla Santa Immagine della Madonna. Ei sa che al suo posto invidiabile non potrebbe sedere lo sbrigliato e profano gasse.

L’oliandolo si aggira dunque il mattino e nelle ore vespertine per quasi tutt’i quartieri della nostra capitale. Robusto e di buona salute, come tutti quelli che fanno gran moto, egli cammina, cammina, cammina, come l’ebreo della trista leggenda, e non si riposa che quando le tenebre cadono sulla terra. Allora la sua missione è compiuta; ha rifornito d’olio l’utcllo del povero e lo stagnuolo del modesto borghese; ha vuotato il suo otre e le sue misure, ed ha invece ripieno di monete di rame il suo borsello, che si gonfia a seconda che l’otre si sgonfia.

L’oliandolo esce il mattino verso le undici: la sua merce di duplice uso non è di quelle che occorrono nelle prime ore del mattino; essa dee servire pel pranzo e per la lucerna; ond’ei non ha d’uopo di uscir per tempo. Noi non sappiamo il dove e il come l’oliandolo si provvegga della merce che dee spacciare: noi sappiamo, né il vogliam sapere, giacché sarebbe questa la maggiore indiscrezione, che potremmo commettere.

Questo industrioso non isdegna di frequentar le vie campestri e gli aprici colli dove a villeggiar si recano gli eletti del secolo e gli spensierati figli di Adamo. Spesso dal medesimo otre del nostro oliandolo esce l’olio che alimenta la divozione del pio contadino, le faticose veglie dell’operaio, e l’ozio delle dame eleganti. Spesso l’oliandolo medesimo rischiara il misero nicchio al cui fioco lume esala l’estremo fiato l’indigente, che vola a raccogliere il premio promesso da Dio alla povertà rassegnata, e la superba carcel, al cui splendido chiarore s’intrecciano le liete danze de’ ricchi.

L’ oliandolo nel suo commercio si contenta d’un parco guadagno, ed è fedelissimo a’ suoi avventori, verso i quali usa un linguaggio grazioso e gentile. Egli porta seco tutta la sua mercanzia in un otre che gli si piega in su gli omeri a foggia di soma e i cui capi sono ripieni della preziosa merce di’ ei spaccia al prezzo giustissimo che corre in piazza, e non rare volte con leggiero ribasso. Cingegli il fianco una fascia in cui sono appiccati i recipienti più o meno grossi a tenore delle diverse misure, e un piccolo imbuto che serve a versar l’olio dall’otre negli stagnuoli de'  compratori .

L’oliandolo è pieno di unzione ne’ suoi modi, nella sua favella: vende volontieri a credito finché non si accumuli una somma che passi lo sperabile del suo avventore 5 è galante (ino ad un certo limite, ed in tutto il governo della sua vita egli adotta per principi, per istinto, per gusto, per affinità di mestiere, il sistema delle mezze misure. Ma ciò che distingue in supremo grado questo probo industrioso da ogni altro che esercita il suo commercio peripateticamente si è la dolcezza del suo carattere pacifico e dabbene, a similitudine dell’olivo che rappresenta la pace, e della particolar virtù che ha l’olio di mitigar l’acerbezza delle piaghe e di raddolcire gli stessi effetti del fuoco ch’egli alimenta.

Un’altra particolarità dell’oliandolo si è il suo vestimento che per lo più si compone d’un sol colore, per l’ordinario cenericcio, bigio, o cilestre scuro. Non sappiam divinare la ragione di tal costumanza, tranne che non sia per uno special distintivo della classe.

La parola ond’ei si annunzia per le strade è semplice, senza tropi esagerati (come soglion adoperarli i venditori d’altri generi), senza aggiunti. Questa parola è il vocabolo nudo nudo che esprime la sua merce uoglie (olio) il quale ei distende alcun poco, dandovi una malinconica eufonia, propria di quasi tutte le voci de’ venditori ambulanti appo i popoli del mezzodì.

FRANCESCO MASTRIANI.

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IL  PIZZAIUOLO

— Ettore, sei stato mai frequentato dei pizzajuoli?

— No.

— Ebbene, questo scritto non è per te.

Il frequentatore dei pizzajuoli è un giovane scapato, che non ha occupazione alcuna o è semplicemente occupalo a star seduto dalle undici alle tre, fornito di stomaco forte e di poca moneta.

Nelle ore vespertine va a trovare la sua bella, e o la conduca al passeggio, o l’accompagni a qualche teatro dove si è avuto in dono un biglietto di palco, o le tenga compagnia in casa dove si fa il diavolo a quattro, o in qualunque altro modo si passi la serata (che finisce a mezzanotte o più tardi), sempre si conchiude col mangiare la pizza, per lo più nel luogo dove si fanno, talvolta tacendosela venire in casa.

Ma perché tutto proceda ordinatamente, cominciamo dalla definizione.

La pizza non si trova nel vocabolario della Crusca, perché si fa col fiore, e perché è una specialità dei napoletani, anzi della città di Napoli.

Prendete un pezzo di pasta, allargatelo o distendendolo col matterello o percotendolo colle palme delle mani, metteteci sopra quel che vi viene in testa, conditelo di olio o di strutto, cocetelo al forno, mangiatelo, e saprete che cosa è una pizza. Le focacce e lo schiacciate sono alcunché di simile, ma sono l'embrione dell’arte.

Le pizze più ordinarie, dette coll'aglio e l'oglio, han per condimento l’olio, e sopra vi si sparge, oltre il sale, l’origano e spicchi d’aglio trinciati minutamente. Altre sono coperte di formaggio grattugiato e condite collo strutto, e allora vi si pone disopra qualche foglia di basilico.

Alle prime spesso si aggiunge del pesce minuto; alle seconde delle sottili fette di muzzarella. Talora si fa uso di prosciutto affettato, di pomidoro, di arselle cc. Talora ripiegando la pasta su di se stessa se ne forma quelche chiamasi calzone.

La bottega del pizzajuolo si componedi un banco su cui si manipolano le pizze, sormontato da una specie di scaffale ove sono in mostra i comestibili, e ingombro di vasi contenenti sale, formaggio grattugiato, origano, pezzetti di aglio cc.; di una serie più o meno estesa di camerini dove si mangia, che spesso hanno l'accompagnamento di una camera superiore dove si sta con più libertà; e di un forno sempre acceso chemai non sazia la bramosa bocca. Oltre alle pizze, vi si può mangiare tutto ciò che può essere messo in una tegghia o in un tegame e cotto nel forno.

Ogni bottega ha i suoi posti avanzati, cioè dei venditori di piccole pizze di un grano o di grosse pizze tagliate in più pezzi sopra tavolini leggerissimi con cui cangiano agevolmente di luogo, Il grido ordinario di costoro è nu ra una e mezza (un grano una e mezza); ed è celebre l’infaticabile monotona cantilena del pizzajuolo a S. Cosmo e Damiano: Na prubbeca, na prubbeca .

I monelli o i fanciulli che vanno a bottega fan colazione colla pizza, e per lo più hanno la pasta inacetita rimasta dal dì innanzi. Più tardi, a misura che le pizze si fanno più fredde, i pezzi si fanno più grandi per allettare il compratore.

Poi il forno rimane quasi interamente in ozio fino alla sera, e si passa il tempo a intridere e dimenar la pasta, a grattugiar formaggio, ad affettar muzzarelle, a tagliuzzare agli, a soffregar ira le mani l’origano per torne via gli steli, e a mille altre operazioni preparatorie.

Quindi s’incomincia a provvedere alle merende e alle cene dei fattorini e degli operai. Nelle ore più tarde compariscono dei plenipotenziari che hanno l’alta missione di ordinar pizze da portarsi in casa, e contemporaneamente qualche allegra truppa viene ad occupare i luridi camerini del pizzajuolo.

Chi sono quei giovanastri che v’entrano sghignazzando e bociando? È una turba di scioperati, che han passata la notte al bigliardo giocando e scommettendo, e mentre son forse attesi alle case loro da una troppo amorevole madre, da un vecchio padre, o da una trascurata infelice consorte, trovandosi forti di appetito e deboli di borsa, pensano di farsi una pizza (s’intende che essi la mangiano e il pizzajuolo la fa) coll’ultimo avanzo d’un’infelice fortuna.

Stipati in un camerino, il primo che ad essi si presenta non è giù il pizzajuolo, ma il garzone della prossima cantina, che dice loro: Che vino comandale?

Provveduto all’imperioso bisogno d'innaffiare le aride fauci, si procede ad ordinare la pizza, e cotta che sia, a mangiarla. A questo succedono le dolenti note, cioè il pagamento: spesso a questo punto sparisce qualcheduno dell’allegra brigata, sotto il pretesto di qualche urgente necessita, spesso si stenta a raggranellare fra tanti il prezzo di quel che si è mangialo e trincato, spesso un solo che ha un resto di pudore, per non fare una trista figura, paga per tutti senza speranza di potersene rifare.

Ma la scena si cambia: ecco un altro stormo che si cala alla macca, e con che fame divoratrice lascio a voi immaginarlo. Si compone di una mamma compiacente e di facile composizione, di due figlie da marito emulataci delle qualità della mamma e di una ancor ragazza che aspira ad emular le sorelle, di tre figli oziosi che credono aver dritto a partecipare de’ complimenti che si fanno alle sorelle, di due orrevoli messeri che han promesso a mamma di sposare le due fanciulle appena che essi avranno i mezzi di mantenere una moglie.

I primi ad entrare, con aria di padroni e baldanzosi del proprio dritto, sono i signori fratelli. Seguono le sorelle, ridendo fra loro e fingendo di voler nascondere quel riso, simulando di vergognarsi come Rosina nel Barbiere o Norma nel D. Pasquale, colla pretensione di far credere ch'è la prima volta che si abbassano ad entrare in un luogo simile. Fan le viste d'imbrogliarsi, di confondersi, di non volere esser viste, e non ommettono mai di far sentire ad alta voce che sono uscite così come stavano vestite per casa. La mamma non dice una parola, e va a prender posto o in fondo a un camerino o su nella camera dove si è più fuor di vista e con maggior libertà. I due futuri sposi dispongono la cenetta colla maggiore economia possibile, raccomandando che il vino non sia forte da andare al cervello, che la pizza sia sottile. Vane precauzioni! tutto è ingollato e tracannato in un momento, e o un qualche ardito fratello o una qualche vergognosetta sorella o la silenziosa e concentrata mamma manifesta il desiderio di qualche altra cosetta. Si domanda al pizzajuolo che cosa abbia di buono, e costui naturalmente propone le cose di maggior costo. Non c’è che fare: i due proci di quelle Penelopi fanno di necessità virtù, e debbono finanche pagare i sigari pei tre fratelli, i quali per unico compenso sono i primi a battere la ritirata e nel ritornare a casa formano la vanguardia lasciandosi dietro a rispettosa distanza le due fortunate coppie.

Durante il baccano che questa comitiva fa nella stanza superiore, nell’angolo più oscuro della bottega prendono posto un uomo e una donna: il primo ha una fanciullina per mano, l’altra tiene alla mammella un bambino magro e pallido. Senza por mente ai loro vestiti, basta guardarli in viso per leggervi l’indigenza e lo squallore. Domandano una pizza di tre grana, condita solo di olio e di aglio, non prendono vino, e il pizzajuolo si fa pregare più volte prima di dar loro un orciuolo d’acqua, aspettano un buon tratto che la loro meschina pizza sia cotta; la mangiano con un’ansietà che ben rivela come il loro pranzo abbia dovuto esser frugale e sottile. La bimba ben dimostra cogli atti del volto intento a ciò di che è piena la bottega, che la sua fame è tutt’altro che appagata: il padre e la madre al contrario sembrano, se non contenti, rassegnati. Il bambino in quel punto comincia a piangere, forse perché trova arida la fonte del suo nutrimento.

Il pizzajuolo volge uno sguardo truculento a quel gruppo, e mormora non so che parole. A questo la famiglinola si mette in via procurando di non urtar nessuno sul suo passaggio, e va a cercare in un sonno tranquillo nel suo bugigattolo nuove forze alle fatiche e ai travagli della dimane.

Lettore, vorrai forse accusar costoro di andare a spargere tristezza e malinconia in un luogo che spira gioia e tripudio? Se così pensi, hai torto: chi vuoi tu che s’incarichi di coteste miserie!

Non che rendersene mesto, non c’è un’anima che vi ponga mente. Si paga spesso per l’amante e pei suoi fratelli, si paga per l’amico o per gli amici, si paga finanche per gente che si conosce solo di vista: ma per cotesti miserabili chi vuoi che spenda un soldo?

Passano inavvertiti; e se il pizzajuolo se ne accorge, è perché vorrebbe che mangiassero fuor della porta e non venissero a profanare col loro miserabile aspetto il tempio della spensierata allegria.

EMMANUELE ROCCO.

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MASSA E CAPRI

MASSA

LA vigilia del 15 agosto del 1859 un enorme cartello in mezzo Toledo annunziava al pubblico che il piroscafo Partenope faceva una gita di diporto a Massa e a Capri, sicché fu per me un’operazione di pochi minuti l’andare a casa per prendere il mio sacco di viaggio, correre all'Immacolatella e imbarcarmi in uno di quei palischermi detti vuzzarielli che fanno l'uffizio di omnibus, accogliendo i passeggiai per tre grana a persona pel transito sino a’ battelli a vapore.

Colli beati e placidi del promontorio di Minerva,

Dal bel rapir mi sento

Che natura vi diè:

Ed esule contento

A voi rivolgo il piè.

Io era stato altre volte a Massa per certi sentieri che da Sorrento ivi conducono e che i naturali di que’ luoghi si ostinano a chiamare strade, le quali non sono né carrozzabili e in alcuni punti neanche asinabili; ed avea sovente per quei dirupi, noti solo alle capre ed a’ paesisti, fatte delle escursioni da artista. Avea ammirate le frappe, le sinuosità del mare, le rocce sublimi del S. Costanzo, dagli antichi detto monte Canuto, le apriche colline rivestite di mirti avea ammiralo in alcuni punti il fenomeno di vedere il cielo quasi sotto i piedi, perché il sottoposto mare ceruleo visto in sul cadere del sole a traverso di scoscese selve di olivi che arrivano al lido del mare, produce all’occhio la illusione di scambiare il mare pel cielo: e avea cosi dimenticati i disagi della via. M'è rimasto anche impresso nella memoria il bizzarro Nerano, villaggio ove fa notte innanzi sera, perché l’alto monte di S. Costanzo lo ricopre interamente dalla parte di occidente.

La prima volta che io mi trovai a Nerano fu in sulle 23 ore, e quantunque il cielo fosse sereno era tale l’oscurità che credetti fosse mezza ora di notte. Risalito a Massa con somma sorpresa vidi il sole che si accingeva a tramontare dietro le montagne di Procida.

Così nella mia immaginazione credetti che avessi fatto in pochi minuti un viaggio agli antipodi. Riandava ancora nella mente il curioso paragone che il mio ciucciaro fece delle isolette dell’Ischia e de’ Galli che costeggiano il promontorio di Massa nella parte del golfo di Salerno, le quali, secondo lui, sono la guarnizione di patate che circondano l'enorme rosbiffe del promontorio di Minerva.

Così la speranza nel rivedere queste piagge sorrise dal cielo e nelle quali la natura s’è mostrata in tutti i suoi diversi stili, ora sublime, ora gaia, ora umoristica, or severa, rallegrava interamente l’animo mio.

Durante il transito del battello a vapore mi venne dato di scambiare qualche parola con un cittadino di Massa, e non tardai a legarmi con lui in amicizia perché era l’uomo di cui andava in cerca, lo scienziato per antonomasia, il prontuario ambulante di Massa: in una parola, era il farmacista.

Ogni farmacista è l’archivio, la tradizione ambulante, la storia fatta uomo, l’arca della scienza di un villaggio. Accanto alle droghe, su quelle vecchie ampolline si annidano i secoli e le Muse, Apollo ed Esculapio, l’erudizione antica e la maldicenza moderna, e in quelle botteghe sulle quali è dipinto il caduceo conversano le sommità pensanti del paese, cioè il medico condottalo, il canonico, l’avvocato del giudicato regio e il sindaco, sole persone che no’ paesi han l’obbligo di saper leggere e scrivere!

La livrea di scrittore, la quale e per me peggiore della camicia di Nesso, mi mise nelle buone grazie del mio cicerone, sicché fui fortunato di essere suo ospite, favore che accolsi con piacere, perche in Massa non sono alberghi e quei che andarono cola per vedere la festa pernottarono sul battello a vapore.

I discorsi della cena volsero sulle antichità e sulle condizioni geologiche di Massa. Con le autorità del Breislak e del Milano si convenne tra una portata e l’altra che in S. Maria della Neve si trovano delle vestigie di un vulcano estinto, opinione confermata dal fatto dei rimbombi sotterranei intesi non ha guari in Termini.

Si trattò a’ frutti della questione dell’origine di Massa, e si convenne che i soliti Greci, a’ quali si attribuiscono tutte le fondazioni, si stabilirono ab antico in Massa e che costruirono il tempio di Apollo a Crapolla e l’altro alla punta della Campanella, al quale i naviganti nel passare facevano le libazioni col vino.

Dopo i frutti furono raccontate le glorie e le sventure di Massa. La guerra navale sostenuta da’ Massosi di conserva con la Rotta Sorrentina contro gli Amalfitani in quel tempo del Medio Evo quando le repubbliche italiane si divoravano a vicenda, fu soggetto per noi di molte chiacchiere. 11 vino fa scaturire molta scienza nascosta nel cervello! E poi Massa divise le sue sventure con Sorrento nelle continue invasioni de’ Saraceni che infestavano il Mediterraneo.

Quando accendemmo i sigarri incominciò la discussione sull’etimologia di Massa.

Il farmacista sostenne che essa prese nome da un liberto di Nerone e che il qualificativo di lubrense derivava dal delubro per antonomasia, ossia dal tempio di Minerva. V’ha chi crede che runione di diversi beni, ossia della fertilità del suolo, della purezza dell’aria e della moltiplicilà de’ pesci delle sue acque fosse espressa nel nome Massa: Massa bonorum, come dice un distico di non so quale antiquario.

Dal campo delle antichità io volli scendere nel campo positivo de’ prodotti del paese. Il vin di Massa avea presso a poco tra gli antichi la stessa riputazione del vin di Sorrento, chiamato da Tiberio aceto generoso o meglio un plebeo ingentilito. Ma la sua ricchezza principale è l'olio, onde fa grande smercio nella capitale per mezzo delle barche che giornalmente lo trasportano.

Chi va all'Immacolatella verso le dieci del mattino troverà una flotta di legni a vele latine, da’ quali irrompe sulla banchina e si sparge per la capitale un esercito di marinari di Massa e di Sorrento carichi di olio messo in recipienti di latta.

Mi venne durante la digestione il ticchio di dimandare il mio anfitrione delle famose ricottelle di Massa che si smerciano in Napoli, e seppi che quelle vendute tra noi sotto questo nome sono una contrafazione, sono per così dire apocrife: sono esse una calunnia a’ ridenti pascoli delle montagne di Massa!

Le famose ricottelle si consumano colà nel paese e appena appena per eccezione vengono smerciale ogni mattina in Sorrento da quattro o cinque vispe fanciulle, che campano la vita girando pe’ limitrofi villaggi e ne’ giorni festivi arrivano sino a Siano e a Vico.

Dopo poche ore di sonno venimmo svegliati dalla banda de’ Veterani invalidi, che nella ricorrenza della festa della Libra avea l’incarico di far levare i Massosi tre ore prima del giorno. Mi sveglio c, come un’apparizione in un ballo fantastico,mi si presenta la fantesca del farmacista, la quale era l’Ebe che mi offriva il caffè.

Bestemmiato il Brasile, che manda pel consumo de’ paesi del regno il calle col sapore di ceci abbrustolati nel tegame, e benedetto il farmacista che avea il gusto di avere una bellissima fantesca, mi levai di letto. Se la fantesca avesse saputo Petrarca le avrei rivoltato un sonetto per lodarla. Essa già avea fatto toletta a modo delle forosette del paese, come le donne Sorrentine avea la spadella, vera faretra di amore!

Quel terso argento spiccava immensamente nella nera chioma. La rosetta di perle, lo spensero gallonato, la gonna di seta co’ finimenti di galloni di argento sono il costume delle Massosi, presso a poco simile a quello delle loro vicine, le Sorrentine.

La notturna festa di Massa rassomiglia molto a quella di Piedigrotta Cento gruppi di cantanti e di suonatori sparsi per le montagne, co’ quali fanno eco giù dal mare i suoni e i canti di cento barche di quei che accorrono da Sorrento e dal Piano, rendono veramente deliziosa la notte del 14 agosto. La luna dal suo alto seggio del cielo parca che facesse in tale occasione da maestro direttore di tutto questo concerto.

Il mio ospite al suono della banda si era già levato, ed eccolo sulle mie peste. Ripigliammo i discorsi interrotti dopo cena, e gli fui debitore della conoscenza di alcune particolarità su gli usi e costumi di questo paese.

Il mulo e il padre de’ matrimoni, è il Dio Imene di Massa. Appena amore mette in istato di assedio un cuore maschile Massese, il mulo Imene è incaricato di far la domanda a’ genitori della bella e di spiegarsi con lei. Si prende un rispettabile mulo e si para tutto a festa con nastri di seta e campanelli, e con in testa una pettinatura di rose, sicché sembri una donna appaltata a S. Carlo durante l'esercizio delle sue funzioni di spettatrice spettacolosa.

Inoltre si veste questo animale di una ricca gualdrappa di panno rosa contornato di fasce di argento, e su di essa si colloca un armadio. Cosi parala a festa la bestia vien condotta nel portone della bella. Il mulattiere scarica l’armadio nella casa della donna amata dal suo committente ed è il plenipotenziario dell’amore e del matrimonio. Dopo un mese, mercé la cooperazione del mulo, succede il matrimonio.

Anacreonte incaricava l’amabile colomba delle missioni erotiche: a Massa vengono incaricati i muli: oli differenza di poesia di amore!  

Un’altra particolarità sulle donne di Massa é la favola del Revece.

E questo uno scoglio distante pochi passi dalla marina, al quale esse van debitrici dello sviluppo troppo pronunziato delle loro groppe, sicché non han bisogno del crinolino che Unga di aumentarne il volume. È favola che un bel di deliberarono di tirare a terra quello scoglio, e tirando e tirando, per volere di Nettuno oltraggiato, si ruppe la fune, sicché esse caddero sedute sull’arena. E come Anteo toccando la terra acquistava forza, cosi le Massosi acquistarono un volume maggiore ne’ lombi.

Se fosse vera questa favola, quante signore napolitane per acquistare maggiore e positivo ingrandimento correrebbero a tirare con le funi il Revece: non fosse per altro che per risparmiare la spesa del crinolino! Tra gli usi caduti in quel paese ve n’era uno strano che fu in vigore sino al principio del secolo presente. Esso consisteva nel trionfo di un gatto che si poneva sopra uno stendardo e si conduceva a suon di festive bande per le vie. Gli Scandinavi aveano consacrato il gatto a Fraja, Deità che corrispondeva alla Venere greca. I Massosi ne’ secoli scorsi onoravano questa bestia forse per la sua prerogativa ili esercitare l'ufficio di policeman contro i topi.

Dato un addio a Massa e alle sue vispe foroselle calai giù alla sua marina, perche già il fischio del Vapore ci annunziava esser prossima la partenza per Capri.

CAPRI

Eccoci finalmente in Capri; il mio fido Acato, il mio Mentore farmacista è alla mia destra. Al fischio del vapore già tutta la popolazione è in movimento. Quell'isolani, che mancano di ortaggi, veggono assicurala la loro insalata ogni qualvolta arriva da Napoli un vapore, che suole importare colà una trentina d’inglesi e una provvista settimanale di lattuga e d’indivia. I battellieri si affollano intorno al vapore per contendersi tra loro gli arrivati che debbono pagare il tributo della visita alla grotta azzurra.

Io trovai la mia tranquillità arrivando. Il farmacista durante il transito da Massa a Capri mi avea fatto bersaglio di tutta la sua scienza geologica intorno a quell’isola. Mi mostrò che falsa era l’opinione degli antichi che Capri in un tremuoto fosse stata distaccata dalla punta della Campanella e trasportata nel luogo ove ora sembra una capra dormiente, dalla quale bestia prese il nome. La sua opinione geologica sull’isola era che questa fosse stata uno scoglio sottomarino uscito come una Venere dalle acque quando, rotto lo stretto di Gibilterra, il mare ingrossò a discapito del Mediterraneo che era un lago, secondo lui, e che impiccolì molto dopo tale cataclisma. Vi farò vedere, diceva egli, la pruova che il mare arrivava molto alto in quest’isola quando osserveremo sulla sommità orientale di essa, nella strada che mena alla Madonna del Soccorso, uno strano masso calcareo che co’ suoi mitoli litofagi fa fede che le onde dei mare arrivavano, in un’era forse lontana, sino in quel punto.

Sbarcati dal piroscafo ci mettemmo in vari palischermi per visitare la grotta azzurra, la quale giace lunghesso la costa settentrionale dell’isola verso il golfo di Napoli, in un silo non molto distante dal capo delle gradelle nel territorio di Anacapri.

Prima che due giovani Svizzeri Copis e Frisi entrassero a nuoto in questa grotta e scovrissero lo strano fenomeno dell’azzurro, essa era tenuta da quell'isolani come il ricetto delle streghe che ivi avevano conciliabolo, a loro dire, e che poi in prosieguo, non so per quale incantesimo cacciale da quel sito,rifugiarono all’ombra del famoso albero di noce di Benevento.

L’erudizione, la scienza e la poesia alla vista della grotta fecero scaturire torrenti di eloquenza dalla bocca del mio compagno di viaggio, cioè del mio cicerone, il farmacista. Egli mi spiegò come l’azzurro si genera dal fondo dell’acque non illuminate abbastanza dalla luce che penetra pel breve ingresso, ma sibbene rischiarate da una seconda apertura sul destro lato. Questa apertura scendendo nell’acqua ventidue piedi dà un vasto adito ai raggi di luce, i quali penetrano nella grotta e ne illuminano il fondo col fenomeno della refrazione. Bello è il vedere gli oggetti illuminati in quelle azzurrine onde e contornati tutti di fili di lucido argento! Il corrispondere la grotta sotto opere di fabbriche antiche e le vestigie d’un aperto cammino che in esso si osservano, mostrano che a’ tempi de’ romani doveva essere praticata come sito opportuno per bagni. E se Svetonio e Tacito non ne fanno menzione, è avvenuto perché il fenomeno dell’azzurro allora punto non esisteva, avendo il mare posteriormente cambiato livello, come fa fede il tempio di Serapide a Pozzuoli.

Toccava però a’ moderni poeti cantare questo fenomeno di luce innestandolo alla mitologia. Infatti un poeta russo ha cantato come Glauco, dopo condannato dal cieco destino a tramutarsi in pesce, rifugiò in questa grotta dove, gli Dei mossi a pietà del suo infortunio permisero che si spogliasse della sua forma di pesce, non lasciando di lui in quelle acque che l’azzurro e l’argenteo delle sue squame, per eternare la memoria delle sue sventure e del suo nome. Glauco infatti in greco significa azzurro.

Dopo il pellegrinaggio alla grotta azzurra ritornammo al punto donde eravamo mossi, cioè alla marina di Capri. Allo scendere dal palischermo uno squadrone di asini ci attendeva. Una cinquantina di amazzoni a cavallo a quelli animali vennero a noi incontro per rapirci di viva forza, contendendosi il pomo di Paride che noi dovevamo dare a’ loro asini in premio della bellezza delle conduttrici.

Dato il pomo a’ due più brutti asini che appartenevano alle due più belle foroselle, ci avviammo a cavallo sopra Tiberio, ossia nella villa di Giove, contenti di aver per conduttrici due fanciulle degne di figurare per modelli in uno studio di un pittore greco.

Salito un piccolo tratto con l'animo inteso ad ammirare la pittoresca vegetazione dell’isola, una voce chioccia mi svegliò da’ sogni poetici del bello, fatto aria e vegetazione in quei siti, sicché mi volsi indietro, ed ahi vista orribile! due brutte Azucene, due vecchie streghe erano succedute alle due belle conduttrici. Capii allora solo che la bellezza a Capri è un mezzo per affittare gli asini e che appena conseguito lo scopo si svapora e sparisce.

Questo è il vero portento a Capri, il vero giuoco di bussolotto, il vero prestigio, maggiore di quello che gli amici di Augusto operarono quando all'apparire colà del vecchio imperatore fecero rinverdire una insecchita elce per dargli ad intendere esser quello un prodigio operato dagli Dei per mostrare che la sua salute dovesse rifiorire. Vano prestigio! Dopo pochi mesi, a dispetto dell’elce, Augusto mori a Nola!

Eccoci finalmente che scorgiamo la Torre del Faro, che addomandasi colà sopra Tiberio.

Questo monumento era un fanale che serviva di guida a’ naviganti che passavano per le bocche di Capri, ed era tanta la luce che tramandava quel faro, che Stazio lo chiamò emulo della luna  .

Capri è un’isola dramma per cosi dire: l’incanto delle bellezze che la natura a piene mani le ha largite trova un contrasto nella memoria delle scelleratezze che ivi si compivano. È una cupa scena di sangue e di turpitudini rappresentata in un quadro il cui fondo è tutto gaiézza, tutto riso. È un’isola antitesi tra la natura e l’uomo. Mentre ammirate la prospettiva di vallette e promontorii, e le rocce che disegnano linee bizzarre e sublimi, e le cui aride cime spiccano sul verde de’ pampini delle vigne e sull’abbronzito color de’ gruppi di olivi, dall’altra parte lo spettro del più gran mostro d’iniquità vi si pone dinanzi con migliaia di vittime che gridano ancora vendetta.

Vi affacciate alla rupe del Salto, dalla quale il mare a smisurata altezza si mira a picco, e l’immaginazione vi farà vedere elevarsi dal fondo delle onde avvolti in un lenzuolo di sangue gl’infelici lanciati dall’alto della rupe e lacerati nelle membra dalle punte delle taglienti pietre .

La mano del tempo va distruggendo di giorno in giorno i ruderi, sparsi in diversi siti, di marmi orientali, di elette colonne e di magnilici ornamenti che fan fede della esistenza della Villa sacra a Giove.

Le grandi conserve di acqua, i musaici e una specie d’informe teatro che ivi si rinviene, mostrano chiaro che questa era la principale delle dodici Ville di Capri .

Ora in questo sito eminente alberga un cosi detto eremita, il quale presenta a’ viaggiatori una copia di Svetonio affinché ivi leggessero tutte le scelleratézze di quella bestia feroce alla quale Roma avrebbe dovuto fare da M. Charles, il domatore delle tigri, se Tiberio non fosse stato il riflesso degli uomini che componevano il digenerato impero romano.

Tiberio non era altro che la illazione di quel sillogismo detto Roma, di quella Roma guasta dal lusso e dal desiderio smodato delle ricchezze.

Se per poco non volete leggere Svetonio, l’eremita vi mostrerà che in quella Villa di Giove Tiberio nutriva con le sue mani uno smisurato serpente , che di lassù fece gettare in mare quel malaugurato pescatore che il regalava di una smisurata triglia. Vi spiegherà che da quelle logge egli vedeva morire piombati nelle onde tutti i suoi indovini, tra’ quali soltanto salvò Trasillo e l’ebbe caro perché gli predisse lunga vita. Di qui guardava spesso per scorgere i segnali che gli doveano annunziare l'eseguita morte di Sejano.

Qui disse a Caligola che in sua presenza beffeggiava Silla: tu avrai tutti i suoi vizii ma non una delle sue virtù.

In queste stanze alla sua presenza si arrestava per ordine del Senato Asinio Gallo, e qui vennero senatori, cavalieri e tribuni del popolo e capitani vittoriosi per strisciare dinanzi al padrone di Roma, sicché questa malaugurata isola fu la capitale del mondo.

Sommati i flagelli che posteriormente afflissero il mondo, comparate le vittime di essi a quelle che da questa villa di Giove furono decretate, Tiberio nella storia dell’umanità rappresenta un flagello maggiore della peste, della guerra e del tremuoto.

Dopo aver lasciato l’obolo all'eremita e iscritto il mio nome e quello del farmacista nell’album de’ viaggiatori che colà si conserva, passammo altrove.

Visitati gli avanzi della Villa di Giove e di Torre del faro il mio farmacista cicerone mi condusse ad osservare il tempio di Matromania, che i naturali di Capri chiamano corrottamente il tempio del matrimonio. Sui primi scalini della rampa che mena al tempio ci fermammo un tantino per vedere lo svariato panorama che si presentava ai nostri occhi. Le rocce di Capri si elevano come per incanto dagli abissi del mare. Se un paesista ritraesse a puntino la tinta calda di quei massi nudi e perforati e tagliali a cono avrebbe la taccia di manierato e di esagerato. Da questi scalini si ammira la costa romantica di Amalfi, tanto famosa nei tempi di mezzo, ed ogni vela che scorgete in quel golfo vi sembra un monumento parlante di uria delle più grandi glorie italiane, cioè di Flavio Gioja.

Da quel punto scorgete le spiagge dell’antica Pesto, che termina come punta nel capo di Licosa, ed al di là quasi spianate vi appariscono le lontane montagne della Basilicata.

Nella valle che mena al tempio di Mitra furono scoverti de’ rozzi sepolcri greci e degli eleganti sepolcri romani. Qui il mio cicerone si piantò come un attore e mi recitò i versi del conte Rezzonico, che sono la traduzione d’una greca iscrizione rinvenuta sulla tomba del giovanetto Ipato:

Demoni invitti, abitator di Stige

Me pur d’ogni altro più tapin vi piaccia

Nel pallid'Orco ricettar. Non io

Son dalle Parche, ma da forza tratto

D'ingiusta morte ed improvvisa. Assai

M’avea de’ doni suoi Cesare ornalo;

Or de’ miei padri la speranza e mia

Tronca riman. Non quindici anni avea,

Non venti, ahi lasso! e più non veggo il giorno.

Ipato è il nome. I genitor ne priego,

E il misero fratel cessin dal pianto.

Iddio ci liberi di essere erudito, disse Vincenzo Monti nelle note alle satire di Persio. Io mi ricordai di questa massima del poeta quando nel visitare il tempio di Matromania fui sotto il peso dell’erudizione del farmacista mio mentore.

Omero che parla nell’Odissea del quadrante solare che Faracide costrusse a Scilo, dentro una caverna presso a poco simile a questa di Capri; Stazio che annoverò Mitra tra le divinità di Napoli, furon citali dal mio cicerone, in ultimo facendomi osservare nella grotta mitriaca le vestigio delle nicchie ove eran le statue, la buca dove era il sangue delle vittime e le due stanzette ove i sacerdoti alla barba de’ devoti raccoglievano le oblazioni e banchettavano, conchiuse che Mitra era il nume degli equinozii e de’ solstizi. Fortunatamente mi salvai dalla spiega del bassorilievo ivi rinvenuto, perché dissi di averlo ammirato nel Real Museo.

Stanco di sentir più parlare di Mitra e di Tiberio, delle dodici ville, dissi chiaramente al mio conduttore che la lame incominciava a far ribellare i miei succhi gastrici. Quindi montati sull’asino ci riducemmo nell'albergo del signor Pagani, poco distante dal villaggio di Capri.

Sedemmo a tavola e fui commensale degli altri napolitani e degli stranieri convenuti con la Partenope nell’isola. Io proposi nel sederci a mensa di bandire i discorsi di antichità, volendo evitare delle polemiche archeologiche che, rallegrate dal vino di quell’isola, avrebbero potuto Unire al modo come Lesage racconta che avevano fine in casa del cameriere di Gil Blas le dispute letterarie.

La conversazione cominciò stranamente con una dimanda curiosa fatta da un inglese al nostro locandiere. Egli dopo aver letto nelle bottiglie: Capri rosso e Capri bianco volea sapere se Anacapri fosse stato Capri rosso e Capri si dimandasse Capri bianco.

Il locandiere a tale interpellazione non si perdette d’animo, e scorgendo che tutti noi sorridevamo di soppiatto, mostrò che la dimanda poi non era tanto strana, perché effettivamente il territorio di Capri produce il vino rosso e quello di Anacapri il bianco.

Al discorso del vino il mio farmacista credette che era venuto il suo turno di parlare e perciò lungamente mostrò che il vino generoso dell’isola sì caro ai Romani era calunniato in Napoli per la falsificazione che se ne fa, vendendosi il vino di Puglia per Capri.

La quale falsificazione è stata messa in evidenza negli ultimi dieci anni in cui l’isola non ha prodotto nemmeno un grappolo d’uva mentre i magazzini nella capitale riboccavano d’infinito numero di botti di Capri rosso e di Capri bianco.

11 farmacista dopo di avere fatta la statistica della quantità di botti che produceva l’isola prima della malattia, le quali ascendevano circa a duemila, ci tenne parola dell’olio, altro prodotto principale di quelle terre, il quale per la sua squisitezza ha molta riputazione in Napoli e all’estero.

Dopo del vino cadde il discorso sull’acqua. Il nostro albergatore ci raccontò che siccome Anacapri è sprovvista di acqua le contadine di quel villaggio scendono ogni giorno per i famosi 536 gradini per provvedersene nel piano del sottoposto villaggio di Capri, sicché bello è il vedere all’alba e in sul tramonto una numerosa schiera di fanciulle Anacapritane con i tini in testa recarsi alle fontane come in pellegrinaggio .

La sera fu passata in crocchio con alcune notabilità del paese, le quali ci misero al corrente di diversi fatti, tra quali e da raccontare quello della invasione de’ medici e de’ farmacisti nell’isola.

Sapemmo che quelli abitanti arrivavano sino alla longevità, e quando per disavventura infermavano, ricorrendo al succo di certe erbe guarivano. Un bel dì si fissarono colà un medico e un farmacista e le sorti dell’isola mutarono. Pandora aprì il suo vaso e le diverse infermità, ignote ivi da secoli, afflissero il paese.

Ci venne anche raccontato l’uso degli sponsali in Anacapri, e tra le altre particolarità quella che le spose, al dipartirsi che fanno dalla casa paterna vengono ricoverte di grano che i genitori in augurio di abbondanza spargono sul crine di esse.

Ci venne in ultimo spiegato il costume delle isolane. Le donne vestono graziose gonne colorate con grembiale rosso o verde di seta e con corpetti adorni di liste doro, legando con nastri rossi le maniche delle camice. I loro capelli sono adorni anche di nastri e vengono divisi in due trecce che cadono sugli omeri rattenute da spadelle di argento dorato.

Finito il conversare ci riducemmo stanchi a letto e dormimmo saporitissimamente.

All’alba venni desto dal fischio del vapore Partenope che annunziava essere pronto alla partenza. Dichiarai al mio mentore essere mia intenzione di restare per qualche giorno a Capri per osservare il resto dell’isola. Egli si accomiatò da me, dicendomi:

— Vuoi fare come Dante, che cambiò cicerone. Ora tu lasci me che sono stato sinora

il tuo Virgilio, e ti auguro che troverai una buona Beatrice che mi succederà nell’incarico di guidarti.

In verità il modico prezzo di dieci carlini al giorno pagato all’albergatore Pagani per letto, colazione, pranzo e cena, il vino schietto del paese, le quaglie arrosto, i pesci squisiti, il sorriso delle donne, e le birbonerie di Tiberio furon le vere cause che mi decisero a restare per qualche giorno .

La prima cosa osservata da me nel secondo giorno della mia dimora nell'isola furono le Camerelle.

Queste eran le famose Sellarie, vera università di laidezze, nelle quali era la biblioteca de’ libri osceni e la pinacoteca di tutti gli oggetti di arte esprimenti turpitudini. Sbianche le lucerne ivi rinvenute han fatto fede, con le oscenità in esse effigiale, a qual punto di raffinala deboscia fosse giunto l’uomo più bestiale della storia.

Dopo le Sellarie mi venne in mente di vedere lo scoglio del Monacone, nel quale si osservano ancora degli avanzi di opere antiche. Qui Masgaba il favorito di Augusto fondò la colonia de’ perditempo, donde d’isoletta tenne il nome di Apragopoli, cioè città degli oziosi.

Narra Svetonio che questo scoglio eccitò la vecchia musa di Augusto, il quale vedendo dal triclinio della sua villa alla punta di Tragara una quantità di genti che confuse onoravano la tomba di Masgaba sulFApragopoli disse in greco a Trasillo che seco lui cenava:

Veggo del conditor arder la tomba:

Vedi Masgaba con faci onoralo.

Ma la escursione più piacevole per me fu quella delle grotte. Oltre la grotta azzurra che gli stranieri han fatto diventare tanto in moda, sicché Capri non significa altro che grotta azzurra, io visitai tra le altre quella detta del ricovero sotto il monte Castello, capace di contenere 1500 persone. In essa rifugiavano i Capritani allorché i corsari infestavano l’isola, e la ebbero un momentaneo rifugio le belle isolane nei tempi in cui le nostre costiere fornivano un’ampia raccolta di odalische a’ serragli dei barbari pascià dell’Affrica.

Le altre grotte degne di essere memorate sono quelle dell'Arsenale e l’altra dell’Arco.

Celebre l’una per le costruzioni navali in essa da’ romani eseguile, come fan fede e la sua ampiezza e gli strumenti nautici ivi rinvenuti, e l’altra per la materia animale che cola dalla volta .

Ma più famose di queste sono le quattro grotte presso Truglio ripiene di argilla con le quali gli antichi, al dire degli archeologi, fabbricavano i così detti vasi murrini.

Dopo aver visitala la pittorica marina di Mulo, gli avanzi del tempio delle sirene, Anacapri che rimbomba sotto i piedi come la Solfatala, il castello del corsaro Barbarossa, le antichità di Dàmecuta  , mi ritirai a sera all’albergo per passare a rassegna e sbaragliare i prodotti comestibili e potabili dell’isola che valgono più di Tiberio e delle sue dodici Ville.

Finito il desinare il mio albergatore, per farmi passare la serata, mi preparò una festa di ballo giù al cortile. Al primo accordo delle chitarre de’ tamburi, e de’ flauti calai giù al portone. I componenti dell’orchestra seduti sulle botti intonarono il ritornello della tarantella e dopo qualche minuto eccoti venire dalla marina i marinari e tutte le belle contadine del villaggio di Capri.

In Capri io capii per la prima volta tutta la poesia della tarantella. Quelle isolane han conservato la figura, la grazia e l’espressione delle bellezze greche di cui sono le discendenti. Queste giovinette dagli occhi del colore della grotta azzurra hanno ereditalo il più antico ballo, la tarantella, il quale non può esser che di origine greco.

Questo hallo fu eseguito e ballato in prima dalle leggiadre greche che serviron di modello a’ quadri di Zeusi e di Apelle, e venne ideato dalle Grazie stesse per mettere in evidenza le più belle forme e fare d’ogni atteggiamento un argomento per un quadro.

La tarantella, come l'ho vista a Capri, e un piccolo dramma, è un iddio, anzi è l'intero canzoniere del Petrarca, in essa si svolgono l'amore, la gelosia e tutte le altre passioni:

Dolci ire, dolci sdegni e dolci paci.

La danza principia tra due giovani che si amano. Al loro primo saluto, a’ loro primi passi animali dalla gioia e dall’amore non tardano a seguire la volubilità il malumore e lo sdegno. Ma il danzante è quello che ha più ragione, e la sua compagna, rientrata in se stessa gli confessa il suo torto e cerca trattenerne la partenza tino a piegare un ginocchio al suolo.

L’uomo allora le gira intorno vittorioso, e la perdona rialzandola amorosamente. Ma ben presto succede la scena contraria.

Questa volta è l'uomo che ha mostrato infedeltà e leggerezza: la donna gli mostra il suo disprezzo allorché egli piega alla sua volta il ginocchio dinanzi alla bella, la quale non tarda a perdonarlo. Allora felici. e giulivi entrambi mostrano con la loro danza animata e piena di vivacità e di trasporto che il loro amore è coronato.

Le castagnette percosse tra le dita de’ danzanti e alternale col suono della chitarra e de’ tamburrini adorni di sonagli, dànno un carattere tutto particolare a questo ballo nazionale, che si può dire nato in Capri. Le più festive danze moresche, andaluse o castigliane sono certo inferiori alla tarantella.

È tradizione nell’isola, che le sirene, che ivi avevano stanza, dopo che videro Ulisse sfuggito alle seduzioni del loro canto con lo stratagemma della cera negli orecchi, pregarono le Grazie di dare ad esse qualche attrattiva più potente del canto. Allora fu che le Grazie inventarono la tarantella, la quale non potuta ballare dalle sirene perche senza piedi, fu dalle tre dee insegnata alle belle abitatrici di Capri donde poi passò alle popolane di Napoli.

La tarantella tu per le sirene come il canto pel cigno. Essa fu l’ultimo atto della loro seduzione, dopo del quale si gettarono in mare e perirono. Così le predizioni erano adempite! Il cadavere di Partenope, gittato dalle onde sulla nostra costa diede il nome a Napoli:

Opoca vostra nobiltà di sangue!

La nostra città trasse dunque il nome da un cadavere di un mostro marino!

Dopo la tarantella fu eseguito il trescone, ballo conosciuto soltanto in quell’isola. Esso è eseguilo da otto coppie e anche da quattro, le quali girano a due a due intorno intorno e formano un gran cerchio, con mosse cd intrecci bellissimi: la musica, che sembra suonata da baccanti, batte in cadenza. La grazia e la sveltezza del trescone mi fanno chiaro vedere essere anch’esso di origine greca.

Ecco il rendiconto fedele della mia dimora nell’isola. Il giorno dopo noleggiai una barca per due piastre e ritornai a Napoli per la via di Sorrento, carico di rimembranze storiche e vagheggiando nella mente tutte le bellezze pittoresche dell’isola accompagnate dall'incuho di Tiberio.

GIUSEPPE ORGITANO.

1 Vedi la figura.

1 Per questo voluto prognostico dell'elce Augusto cambiò Capri co’ Napolitani dando loro l’isola Enaria. Quest’imperatore, al dire di Svetonio, dopo aver costeggiata la  Campania si recò a Capri per darsi buon tempo. Ivi assisté a’ giuochi di que’ giovani che coltivavano gli antichi usi greci; distribuì loro toghe e pallii e li ammise alla sua mensa incitandoli agli scherzi.

2Teleboumque domus trepidi ubi dulcia nautis.

Lumina noctivagae tollit Pharus aemula lunae.

Questo faro rovinò pochi giorni avanti la morte di Tiberio.

Carneficinae eius ostenditur locus Capreis, nude damnatos, post longa et exquisita tormenta praecipitari coram se in mare iubebat, excipiente classiariorum manu, et  contis alque remis elidente cadavera, ne cui residui spiritus quidquam inesset.

(Svetonio nella Vita di Tiberio).

1 I palazzi o le ville di Tiberio erano dodici, cioè del numero delle grandi divinità. Ecco come si esprime Tacito nel libro IV degli Annali: Sed tum Tiberius duodecim villarum nominibus et molibus insidcrat.

La prima e la più considerevole era quella di Giove presso S. Maria del Soccorso.

La seconda era sulla cresta del Tuoro grande.

La terza villa si trova a Unghia Marina.

La quarta sulla Collina di S. Michele.

La quinta a Castiglione.

La sesta nel Truglio sulla Marina.

La settima ad Aiano.

L'ottava era annessa a’ bagni e si trova al luogo detto Palazzo a mare.

La nona a Capodimonte.

La decima a Timberino.

L’undecima a Monacello.

La duodecima a Damecuta.

1 Erat ei in oblectamentis serpens draco quem ex consuetudine manu sua cibaturus quam comsumptum formicis invenisset, monitus est ut vini multitudinis caveret.

Svet. in Tib.

1 Vedi la tigura.

1 Madama Starke nel suo libro stampato a Livorno nel 1825 e intitolato Information and directions for travellers on the continent dice di Capri presso a poco quello che Alessandro Dumas disse delle Calabrie, consigliando i viaggiatori a portar seco nell'andare in quell’isola non solo il pranzo ma anche ogni altro arnese bisognevole alla mensa. Ne eccettua però il solo vino. Ora però la cosa è diversa, perché si son nell’isola istallali tre alberghi, che non mancano di tutti i comodi e de’ bisogni della vita.

1La grotta dell’Arco richiama l’attenzione de'naturalisti perché tramanda una materia bituminosa provvedente da decomposizioni animali. Varie sono le opinioni degli archeologi su ciò ma tutte inammessibili e sfornite di buon senso.

1 Da Damecuta si scorge tutta la parte occidentale dell’isola sino al capo Careno, dove i Francesi sbarcarono il 6 ottobre 1808 e tolsero la signoria di Capri agl'lnglesi.


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NAPOLI DOPO MEZZANOTTE

UN vasto subbietto imprendo a trattare: descrivere lo interno della città di Napoli nelle ore in cui la maggior parte de’ suoi abitanti paga il notturno tributo alla natura, rinfrancando nel sonno le forze esauste dalle fatiche o da’ divertimenti del giorno.

Quando la solenne campana di S. Martino distende su tutta la capitale i suoi lunghi rintocchi che annunziano esser giunta la notte a mezzo il suo corso, non crediate che tutti gli uomini e tutte le cose riposino in questa Napoli vispa e fosforescente, che, a somiglianza delle donne nervose, mai non si abbandona a lunghi sonni. In està sovrammodo Napoli non dorme adatto: le notti per questa infingarda regina del Tirreno sono ore di tripudio, di ebbrezza, d’incanto e di poesia.

Se voi leggete i vecchi romanzi, le cronache de’ mezzi tempi, vi formate presso a poco un’idea di quel che era la notte pe’ nostri buoni antenati; la si può compendiare in due parole tenebre e delitti. Infatti, se si considera che in quei tempi per le strade non vi erano fanali, si comprenderà di leggieri che gli animali immondi e gli uomini di anima nera far doveano delle pubbliche vie il teatro delle loro turpitudini e nequizie. I ladri, gli assassini, gl’impudichi e le streghe uscivano al tocco di mezzanotte per le infernali loro opere. Strisciando come rettili lungo le mura, essi benedicevano il favor delle tenebre ed avrebbero voluto anco sottrarsi al fulgido occhio delle stelle, che per essi era minaccioso e terribile al pari dell’occhio di Dio. Mezzanotte era l’ora de’ nefandi ritrovi, de’ diabolici convegni delle maliarde, della posta scellerata dell’assassino, dell’agguato insidioso del ladro, era insomma l'ora maledetta, l'ora de’ misteri, l’ora più segnata nel libro della Giustizia di Dio.

Ma mutano i tempi e con essi i costumi. Uscite in Napoli a mezzanotte nel mese di luglio o di agosto, ed anche in tempo di carnevale, mettetevi nella via di Toledo, e farete le più grandi meraviglie nel veder tanta gente andare e venire come se fosse appunto la prima ora di notte.

Altro che streghe e assassini!

Tutto al più, sono streghe e assassini di altro genere, streghe in crinolina e in reticella che vi lanciano certe occhiate da farvi impazzare almeno per quella notte, assassini in guanti color paglino che tutto al più si rubano tra loro il.... sonno. Forse in altra nostra più lunga monografia parleremo della vita della sera, della vita interna, della vita del gran mondo che gl’inglesi domandano high life (alta vita): per ora ci limiteremo a toccare il quadro di Napoli in mezzo alla strada. Cominceremo dalla state.

Dilettosissime sono le notti estive in questa nostra deliziosa Partenope. Vogliono i viaggiatori che sulle rive del Bosforo e nel greco Arcipelago bellissime del pari sien le notti di està. Noi non siamo stati né in Turchia né in Grecia, e non possiamo però stabilir paragoni ma egli è indubitabile che sotto questo cielo incantato, quando una bianchissima luna spande su i colli e sulla marina i suoi veli di odalisca, quando milioni di stelle sembrano affacciarsi nel firmamento a bella posta per guardar le bellezze di questa Napoli addormentata su i fiori, quando le aure del cielo hanno le carezze più lusinghiere, le colline i profumi più eletti e le onde del mare i mormorii più armoniosi; quando tutto ciò si riunisce per formare il più bel vezzo della creazione, noi crediamo che il vedi Napoli e poi muori non sia già una figura rettorica.

Andate a Posilipo, a Frisio, e ditemi se ci è qualche cosa al mondo che possa superare in bellezze una notte di està in Napoli. Ci è paese nel mondo che abbia i nostri vermicelli col sugo di pomidoro o colle arselle, e massime quando sovra un piatto fumigante di queste auree fila cade uno sguardo invidioso della pallida regina delle notti?

Non ci è che Napoli che abbia potuto inventare la sua luna, la sua marina e i suoi vermicelli al sughillo.

Nelle ore dopo mezzanotte di està escono i suonatori di violino e le suonatrici di chitarra che traggono a S. Lucia, a Posilipo e a Frisio per allietare co’ canti e co’ suoni le già allegre brigate ivi riunite a darsi bel tempo e a gavazzare in giocondissime cene. Talvolta si vede qualcuna di queste cantatrici accompagnate dal suo suonatore gir vagando pe’ caffè, dove dà nelle ore avanzate della notte accademie più o men lucrose; ma egli è a Frisio, a Posilipo, ed anco a Foria presso Antonio delle tavolette, che vedesi qualcuna di queste piccole compagnie ambulanti, composte per lo più da un vecchio che suona il violino, da uno più giovine che pizzica la chitarra (istrumcnto delle cene e degli amori) e d’ima giovinetta che canta le canzoni popolari ed eziandio qualche pezzo teatrale. Alcune volte vi si mischia il flauto; altre volte è il mandolino che la da primo e che sposa le sue strimpellate alla voce stonata d’un baritono da cànova.

La chitarra è lo strumento notturno per eccellenza, lo strumento delle serenate, de’ concerti all’aria aperta, delle dichiarazioni in tuono minore. Quando mezzanotte fa tacer nelle case la voce dell’importuno pianoforte, la chitarra assume nelle strade il suo impero usurpato da quell’anfibio istrumento. Celebre è la canzone del felice notte si Sarvatò , che pel consueto pon termine alle feste cantinesche de’ nostri popolani.

Non vogliamo qui parlar delle serenate: in parecchi articoli di questa opera se n’è fatta menzione. Ciò nondimeno vogliamo dire che questo nostro secolo di piombo ha ucciso le serenate, come ha ucciso ogni onesto e grazioso divertimento. Il secolo scorso era il secolo delle serenate. Gli Spagnuoli aveano introdotto appo noi questa gentil costumanza.

Un animal notturno che esce pure allo scoccar di mezzanotte è il raccoglitore de’ mozziconi di sigari . Vedetelo sbucare a Toledo da’ vicoli circostanti: ha in mano la sua piccola lanterna; la sua faccia è cupa e tenebrosa, e la guardatura di gatto selvaggio.

Dopo mezzanotte, di està e d’inverno, voi non incontrate per le strade di Napoli che le specie seguenti:

A mezzanotte — Passeggieri d’ambo i sessi che si ritirano dalle feste, da’ teatri, da’ tavolini di mediatore; il mozzonaro col suo lanternino; l'accenditore colla sua scaletta; gli ubbriaconi per sistema; i cocchieri colle loro cittadine.

All’una dopo mezzanotte — Passeggieri d’ambo i sessi (in più picciol numero) che si ritirano dalle leste di ballo, da’ tavolini di primiera, qualche innamorato extra moenia; cocchieri e carrozzelle; qualche vagabondo di sinistro aspetto; le ballerine di S. Carlo; il caffettiere ambulante, il quale per lo più esce a’ rintocchi di mezzanotte, e recasi dapprima a visitare tutt’i posti di guardia, offrendo la sua merce a quelli che han da passare in veglia la notte.

Alle due dopo mezzanotte — Passeggieri come sopra sempre in numero decrescente; qualche carro di fieno o di paglia che attraversa maestosamente la diserta via di Toledo, per la quale vedesi a quando a quando qualche carrozzella che si ritira, e il cui cavallo stanco si mostra ribelle alle frustate del suo implacabile padrone; qualche giuocatore disperalo; qualche garzone di caffè; gli zampognari (novembre e dicembre).

Alle tre — (d’inverno): assenza completa di esseri umani, tranne qualche accattone dormiente sotto le stelle: a quest’ora non incontrerete che qualche maiale, qualche gatto o cane: a quest’ora rincontro di un uomo non è sempre una ventura; (d'està): qualche brigata di ritorno da una festa; qualche figlio d'Adamo che non ha un letto su cui riposarsi; l'acquavitaro  che incomincia a dar la voce.

Alle quattro (d’inverno, poiché di està è giorno chiaro): qualche caffè che si apre.

Alle cinque (sempre (l’inverno) comincia la giornata de’ lavoratori, de’ caffettieri e di alcune specie di venditori ambulanti. Assenza completa del l’aristocrazia e del ceto medio.

Durante il carnevale e nelle notti di festino a S. Carlo, veggonsi in quasi tutte le ore notturne Arlecchini e bautte a crocchi od anche soli che vanno o vengono da S. Carlo o da altre feste private.

Alle sei—Comincia la vita, il movimento, il rumore; le botteghe si aprono, i lanternini girano, la luce de’ fanali impallidisce, si sentono svariale voci in istrada, tra le quali predominano quelle dell'acquavitaro, del caffettiere ambulante già menzionato, della venditrice di baloge.

Di questi il caffettiere ambulante è il miglior levatore, il più assiduo, il più universalmente sparso in tutt’i dodici quartieri della capitale. Egli si reca appresso la sua piccola bottega con tutt’i focolari che debbono tener calda la sua merce.

Eccolo, ve ne presentiamo la immagine.

Il caffettiere ambulante non vende pel consueto che a tocchetto (un grano di caffè), e non rare volte ha dato l’esempio di vendere a minima (un tornese di caffè somministrato in un bicchiere da rosolio). La solita è un lusso di smercio al quale non è avvezzo. Nè crediate che la merce del nostro caffettiere ambulante sia dispregevole. Egli non adopera né l’orzo né le fave né la liquorizia; tutto al più, allunga il caffè coll’acqua, e ciò per rispetto ch’egli ha per la suscettibilità nervosa del secolo. La classe lavoratrice è tutta in piedi e in istrada. A quest’ora s’incontrano pure parecchie persone civili, e sono gli studenti di legge o di medicina che traggono da’ loro maestri; i mercadanti di seconda sfera, che si recano alle loro botteghe o vanno a pigliarsi la loro solita al caffè; gli uscieri, gli agenti di polizia, e da ultimo qualche creatura di genere femminile.

L’alba fa la spia attraverso le imposte delle finestre.

Sorgon dal letto gli uomini di buona volontà; vi giacciono ancora per molte ore i neghittosi, i ricchi, i dissoluti e tutti quelli che non meriterebbero di mangiare, perché non sudano a lavorare.

FRANCESCO MASTRIANI.


  Felice notte Salvatore.

1Vedi la figura nel vol. 1.

1Vedi nel 1°. volume. 


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L’OVAIUOLA

LA città di Napoli soleva essere provveduta di uova da tutti i villaggi e casali che si trovano in un circuito del raggio di sei miglia. Da tutti quegli ameni luoghi si partivano prima dell’alba garzoni e giovanetto, uomini e donne, con una cesta sul capo e spesso anche con un paniere al braccio, e si recavano alle piazze, ad altri posti determinali,© in giro per le strade, a spacciare i prodotti delle loro galline e di quelle del vicinato. Accoccolate sui calcagni o in altro modo accovacciate vedevi le ovaiuole sempre allo stesso sito, sovente presso alla porla di un venditor di dolci, che o ne comprava le primizie o dava ripiego all’avanzo. Di la alle ore meridiane e pomeridiane ritornavano al patrio focolare, colla cesta vuota e colla borsa piena, chiacchierando per via o fra loro o col caro oggetto del loro amore, che suole essere un altro venditor di uova, o un raccoglitor di letame, o un muratore, venuto pure alla capitalo per affari del proprio commercio o mestiere.

Ma, ohimè! lutto pere quaggiù, e le più belle professioni anch’esse, come la bellezza, passano e non durano. L’ovaiuola c’è ancora, ma sta per divenire un mito, un argomento di cui tratteranno i venturi scrittori di antichità napoletane. Non andrà molto, e questo mio povero scritto farà parie di un qualche Thesaurus, e sarà ricercato e studialo dagli archeologi per capire la canzone di Ernesto del Preitc messa in bella musica dal maestro Labriola .

Fra poco nei musei illustrati si pubblicherai qualche figura come quella del nostro Palizzi con una dissertazione di un Quaranta futuro; e negli alti delle accademie se ne terra ragionamento come ora si fanno memorie sugli scabilli e sugli scheletri dimani.

Ma perché questa sparizione che si va lentamente osservando? Per la semplicissima ragione che collo sparir della merce ne viene a mancare il mercatante.

È già molto tempo che la sig. Starke, nella sua Guida per gl’Inglesi in Italia, pose per prezzo di un uovo la moneta di un grano senza tener conto della differenza di prezzo che ci è dalla fredda alla calda stagione.

Da quel tempo le uova son venute a mano a mano rincarando, ed oggi val meglio quasi quasi mangiarsi addirittura le galline. La ragione di questo incarimento si deve ai battelli a vapore ed alle strade ferrale.

Oh! sento esclamare, che ci ha a fare la luna coi granchi e il vapore colle uova? Ci ha a fare pur troppo, rispondo. Già le cose del mondo son così concatenate fra loro, che il negarne le relazioni anche le più disparate a prima vista, è un affare in cui si corre pericolo di fare una tristissima figura.

Chi avrebbe mai detto che dei fichi avessero cagionato la distruzione di Cartagine e delle arance l’occupazione del regno di Napoli per i Normanni?

Non fu un uovo la causa della guerra e dell’incendio di Troja? Ma parlerò più chiaro per coloro che non sanno vedere qual relazione s’abbiano le piante de’ piedi colla gola. Finché non furono inventati e messi in opera i celeri mezzi di comunicazione che alimenta il vapore, nessuno aveva pure immaginalo di esportare le uova, materia non solo fragilissima, ma che in breve tempo perde quella freschezza ch’è il suo principal pregio. Ma da che una macchina diede rapido moto alla nave anche a ritroso de’ venti, da che una locomotiva divorò le distanze senza bisogno di cavalli, eccoti convenire in Napoli tutte le uova di Terra di Lavoro e di Principato Citeriore, eccoti sorgere il pensiero di far parte altrui dell’esuberante dovizia, e poiché v’era profitto in ciò fare, eccoti stabilire una regolare esportazione di questa mercanzia.

Non dico favole: ogni anno si estrae da Napoli per lo straniero un milione e mezzo di uova e forse più, destinate alle colazioni, ai pranzi, alle cene e ai riposti di coloro che più civili— pendono!

Ecco perché noi le paghiamo più caro, ecco perché si può dire delle ovaiuole, come un dì si disse degli dei dell’Olimpo, che se ne vanno.

Mentre ancora ne rimane alcuna fra noi, seguiamola un poco nella sua giornata.

Se girovaga per le strade gridando ova fresche — oca, non ci è molto che osservare. Chiamala da varie parli, sale e scende per le altrui scale, spesso inutilmente. Quando dopo lungo piatire ha stabilito quante uova debba dare per un carlino,'la buona massaia gliele fa rompere ad uno ad uno, per buttar via quelle che son guaste o sentono di stantio.

Talvolta i zoccoli la fanno sdrucciolare per le scale nella via, e allora vedi fiero spettacolo improvviso: le uova divengono materia prima di una frittata, e l’ovaiuola piange e si straccia capelli sul suo peculio distrutto, e appena salva poche uova leggermente schiacciale, misero avanzo di tanto naufragio, che deve vendere a ribasso come merci avariate.

L’ovaiuola che ha un posto fisso è un poco più altiera, perché ha la protezione dei padroni delle botteghe vicine ed ha i suoi soliti bottegai che le vuotano la sporta.

Quando non vende, è tutta intenta a sperar le uova, per sceverare le migliori e più fresche dalle vane, dalle gallale, dalle stantie. Un’altra distinzione fa delle grosse e delle piccine, che ripone nei diversi scompartimenti della cesta, affin di contentare, se occorre, sin quell’avaro del Goldoni che aveva un anello per misurare le uova.

Secondo poi la fisionomia del compratore che se le avvicina, gli presenta le grandi o le piccole, le buone o le magagnale. Per sua fortuna, le uova non si possono tornare indietro, poiché la loro bontà non si riconosce che alla rottura o al mangiarle.

Buone foresi che colla vostra industria vi procurate un po’ di dote da zittelle, e divenute spose e madri aiutate al mantenimento della famiglinola; voi che portate in giro e lungi dal paterno casolare le vostre bellezze, e sapete coi zoccoli e colle callose mani preservarle da ogni pericolo; io auguro ad ognuna di voi, non una gallina nella pignatta la domenica, come voleva quel buon re di Francia per tutti i contadini, ma una gallina che vi faccia l’uovo d’oro ogni giorno.

EMMANUELE ROCCO.

Seguendo il sistema tenuto fin dal principio di questa opera, credo utile ristampare la detta canzone popolare, per cui è ricevuto il permesso dall’autore.

(L editore ).

 

L‘ OVAIOLA

Ora, frese'ova vui la sentite,

Ogne matina vui la vedite:

No corpetiello de tela scuro,

Tra li capille no moccaturo,

Na gonnelluccia brutta ma corta,

Sotto a lo vraccio na bella sporta,

Schitto si guarda chella te nchiova....

Ova fresc’ova, oca fresc’ova.

Se chiamma Grazia, vene da Miano,

De na signora tene la mano,

Tene la faccia de latt’e rose,

Tene co essa cient’aute cose.

La gente guarda, po se storzella,

Corre e le dice na parolella;

Essa risponne: N è cosa nova....

Signò veng'ova, signò veng'ova.

Sape ch'è bella, se n' è addonata,

Perciò cammina tutt’aggraziata;

Suspire e tiempo nce perde ognuno,

Non dà Graziella retta a nisciuno,

Allo paese forse lo tene

Lo ninno suio che la vò bene;

De chillo meglio n’auto non trova....

Ova fresc’ova, ova fresc’ova.

E. del Preite.



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POZZUOLI E IL CICERONE

TRA le antiche cose che gli stranieri non ometton mai di vedere, visitando la nostra Partenope, sono le antichità Puteolane, le quali, a dir vero, meritano viva contemplazione e più viva ne meriterebbero, se di quando in quando alcun. risto lamento si portasse a quelle rovine, a que’ ruderi, a que’ tempi, a quei sepolcri.

È biasimevole oltremodo per non dir vergognoso l’abbandono di tante illustri magioni, le quali ricordano essere stata la Campania terra felice, deliziosi i siti che fan curva al nostro golfo, e assai sapientemente averli scelti i Romani a ristoro delle annuali fatiche.

Il palazzo di Scauro, le ville di Cicerone e di Lucullo, il palazzo di Cesare, la Piscina, le cento Camerelle, e le ville ora ignote, ma che dovevano un giorno esser colà come dimore predilette di Livia Augusta, di Sabina Poppea e di altre donne famigerate per nefandigie o per virtù, tutti questi avanzi desiano tale una curiosità di rivivere per poco nel mondo antico, che forse a paro di alcune città dissepolte starebbero queste rovine Puteolane. se si desse opera a rinsaldine e ristorarle.

E la loro importanza vien mostra chiaramente dalla gran faccenda degli scrittori a volerle spiegare e commentare sin da remoti giorni, e noi dobbiam dire che prima del disseppellimento di Pompei, era Pozzuoli che richiamava le cure degli antiquari, dirigeva i loro studi, aguzzava il loro ingegno speculativo.

Scrissero di Pozzuoli un Mazzocchi, un Cartelli, un Sarnelli, un Peccheneda, un I)c Iorio ed altri molti che si studiarono non purè di rivangarne le più oscure notizie, sfogliando autori latini, ma in tempi ne’ quali era più vivo l’entusiasmo per queste rovine si adoperarono ad intercedere per la loro conservazione. Sicché noi crediamo che mai come oggi fossero tanto neglette e devastate.

Prendon capo queste antichità quasi dal sepolcro di Virgilio che precede la Grotta di Posillipo o di Pozzuoli. La dottrina che molte fiate rischiara, molte fiate si fa maestra di dubbi, rifiutò sovente volte il tradizionale sepolcro del Mantovano poeta, ma sino a che non sarà mostro che l’avello di Virgilio venisse distrutto, noi ci atterremo alla tradizione.

Da questa grotta al lago d’Averno non incontrasi altra considerevole rovina fuori della Villa di Cicerone, e degli Orli di Clavio, di Pitto, di Lentulo. La prima ergevasi fra il lago di Averno e il vico Tripergole che soprasta al lago Lucrino. Ad essa l’oratore che nome di Accademia, Adriano Imperatore vi fu sepolto, ed oh quanto ora è dall’antico mutala!

Quanto sconforto ne prende nel riguardarsi le antichità Puteolane, per le quali se Virgilio e Seneca ci hanno grandemente aiutalo, molto più avremmo potuto apprendere dalle iscrizioni apposte, secondo lo antico costume, ad ogni edificio. Ma la barbarie che soprastò alle arti, che sconficcò prima il bronzo o il ferro che reggeva i marmi e fu cagione dello slegamento di essi ne’ monumenti, fece cadere le iscrizioni, rompere gli emblemi e i simboli, e più tardi come ne abbiamo ancor oggi testimonianza de’ marmi antichi staccali, o caduti dai monumenti, se ne fecero stipiti, arcotravi, cornici,coglie e scalini di porte o mensole per usi privati.

Altro notevole danno alle antichità Puteolane fu la loro posizione e l’essere disperse per la campagna; sicché le erbe parassite vi erescono e quasi le nascondono al guardo, la marra e il bidente le percuote ogni dì, e l'età le minaccia di dover presto sparire dalla l'accia di quel suolo, ora non per altro ricercato fra noi, se non per le stufe e bagni minerali de’ quali ritrae d’altra parte sì gran vantaggio la umana salute .

Anche oggidì quelle regioni sono frequentale per una felice innovazione che vuol portarsi nel così detto lago d’Averno, il quale cagione di miasmi e di febbri comunicando col mare, potrebbe dar posto e riparo alle navi bersagliate dalla tempesta.

Ha questo intorno ad un miglio di circonferenza e tiene non lunge da se quelle fumarole e que’ sudatori i quali manifestano le qualità proprie del terreno. Nè discosta molto è quella grolla ilei cane, alla quale sovente per curiosità si corre a preferenza di altra più notevole cosa, come alla famigerata solfatara, centro di fumose esalazioni solforiche, le quali da Plinio le fecero dare il nome di campagna Flegrea. Così pure i monti che la circondano, vennero da’ Greci per la loro bianchezza chiamati monli Leucogei. Nè men ricordevole è questo sito per esservi a tempi degli imperatori Diocleziano e Massimiano seguito un martirio cristiano sotto gli occhi di Timoteo, preside della campagna Felice.

Dico della sorte toccata nel cominciar del quarto secolo a Gennaro, Vescovo di Benevento, Procolo, diacono della chiesa di Pozzuoli, Sossio, diacono di quella di Miseno e Pesto, e Desiderio, lettore della chiesa di Benevento ed Aucrio ed Euticheto cittadini Romani che ebbero mozzo il capo. Il qual supplizio non pure da’ Napolitani è ricordato con devozione profonda, ma da’ più valenti pennelli della scuola napolitana è ritratto con evidenza e bellezza, massime da quello del nostro celebre pittore di battaglie Aniello Falcone. E nella cattedrale di Pozzuoli, che fu già tempio di Minerva, questi fatti deplorabili sono ricordati non pure dal pennello di Massimo, ma da quello di Artemisia Gentileschi rinomata pittrice Bolognese.

Costei ritrasse il Santo nell’arena dell’anfiteatro ove le fiere gli lambirono i piedi, e una replica dello stesso dipinto lu posto nell’anfiteatro detto il Colosseo Puteolano e segnatamente in una cappella formala tra gli archi del maggior corridoio circolare.

Qui è una memoria del Santo, perché qui la divina possanza lo fece quasi dominator delle fiere che dovevano finirne i giorni e lacerarne le membra, ma più lungi sull'erta di un colle è una chiesetta povera ed angusta a lui dicata, la quale contiene in una cappella posta a dritta, entrando, un prezioso ricordo del martirio del santo.

È un abbeveratoio di cavalli in pietra, ove fu per disprezzo dai contaminatori della fede gittato il capo del santo, e questa concava pietra i fedeli fecero porre incastrata nel muro. E il capo santo venne portato a Napoli, ove ha per isplendido ricovero quella gran cappella detta di S. Gennaro che fa parte della cattedrale, aprendosi dal lato o nave destra del tempio con lavorato cancello di rame, prospetto architettonico di marmo ed a’ Iati di esso le due statue de’ santi Pietro e Paolo che sono a riguardare, pel tempo che le produsse, opere di bella movenza e di non comune lavorio. Ma più belle opere offre l'interno della cappella. In essa e per essa spiegossi una gara di artisti, divenuta incancellabile nelle pagine della storia.

II Caracciolo, il Corenzio e lo Spagnoletto valentissimi pittori nostri vi si strinsero in forte triumvirato, avversando d’ogni maniera quelli che si chiamaron di fuori a dipingervi. Ed Annibale Caracci ne fu malmenato e Guido fu costretto ad andar via, e i suoi discepoli fatti partire per forza, e lo stesso Domenichino ne ebbe tante pene e dissapori che ne mori. Il nostro bel paese divenuto inospitale a si eletti ingegni, quando ospitalissimo è riputato, mostrò solo che esso sdegno, di esser tenuto a vile, e le arti vi fioriscono, sempre che sieno non dico incoraggiate, ma non disprezzate.

Di fatto nelle pitture di questa cappella Giuseppe Ribera detto lo Spagnoletta, e Massimo Stanziani dipinsero a paro di Domenico Zampieri detto Domenichino, né questo illustre pittore lasciovvi la più alta prova del suo merito.

In questa cappella fra tante opere pregiate e scelti marmi si fa presente al popolo nelle gemine ampolle il notissimo miracolo di S. Gennaro.

Ora tornando all’anfiteatro di Pozzuoli, diremo che di questo edificio sono visibili le vestigia che pur meriterebbero ristoro, e lo si vedrebbe intero, se i tremuoti non lo avessero in parte demolito e guasto. Ila l’orma ovale e censettantadue piedi di lungo ed ottantotto di largo  e fatto di pietre quadre, ma di vero la sua magnificenza marmorea non doveva esser molta, e narrasi che Augusto lo trovasse mal disposto in quanto ai sedili ed agli ordini, e perche la via Campana gli è presso, ricorda il più famoso Anfiteatro Campano. E ci e forza dire che questo di Pozzuoli non è gran fatto singolare.

Lunghesso questa via incontri rottami e reliquie di antichi sepolcri, de’ quali ogni anno hi più e più sparire la traccia, e gran mercé se alcuno ne rimane incontro S. Vito. Più splendida testimonianza del culto antico e de’ sacrifici ad onor degli Dei è quel tempio di Giove Serapide, il quale va annoveralo fra le prime cose che si fanno vedere, delle cui magnifiche colonne di marmo cipollino non rimangono che tre , ma del quale rimane la cella de’ Numi, quelle de’ sacerdoti, l’intero basamento ove gira il cortile, e fin l’anello al quale si legavano le vittime, sicché di leggieri dal presente stato se ne argomenta il passato  massime in pensando che un tremuoto lo ebbe distrutto una volta.

Altri non men ragguardevoli monumentali ricordi si potrebbero vedere a Pozzuoli, se quasi di contro al Monte Gauro, rinomato pei suoi vini ab aulico, nella notte tra il 19 e il 20 settembre 1538 non si fossero aperte le viscere della terra per mandarne fuori esalazioni e macerie e bitumi in tanta copia, che cessalo il fuoco se ne formava impensatamente una montagna alla quale si che nome di Monte Nuovo.

Questo fenomeno improvviso aguzzò le penne di Simone Porzio e Girolamo Borgio scrittori del tempo, ma più ampio argomento di discussione diede agli scienziati ed agli eruditi che venner dappoi. Come il suo sollevarsi, cosi il suo distendersi per le circostanti terre fu prodigioso e precipitevole. Che in solo una notte pigliando intorno a tre miglia di giro, coverse antichi monumenti, case di delizia, feconde terre e seppellì armenti ed uomini, ricordando la trista catastrofe Pompeiana. E tale fu il movimento della terra, che il mare n’andò indietro. Le quali vicende sarebbe curioso il ripetere, se a noi non fosse mestieri divider lo spazio che ne rimane tra le curiosità di Pozzuoli e il popolar Cicerone, che volgarmente vi conduce a vederle.

Curiosità del tutto diversa è quella della Grotta della Sibilla, la quale apresi nella orientai parte del lago d’Averno, ed essa avea diversi comprensori, e come si può anche oggidì conghietturarc, aveva stanze, messe con pavimenti di mosaico, pareli lavorate a conchiglie e vive fonti zampillanti, ne era priva di vie sotterranee che la menassero alla grotta di Coccejo ed all’Averno, in riva al quale sorgevan tempi, come nella sommità di Cuma quello riputato di Nettuno, perché i naviganti lo discoprivano, navigando, dal mare. Ma di questi tempi i quali eran parecchi e si attribuivano a Numi come ad Apollo, a Nettuno, a Mercurio, lo studio degli archeologi presenti volle mutata la destinazione in terme. E questo giudizio può solo valere quando una iscrizione o un passo di autore antico possa provarlo, sendo altresì cosa assai facile confondere un tempio ove si facevano oblazioni e lavande con una torma che presenti meati e condotti non disconvenevoli ad un tempio.

Così man mano ragionando, noi abbiamo lasciato Pozzuoli e ci siamo messi per la via di Cuma e di Baja, città venuste e celebri nell’antichità, la prima per la rimotissima origine e la dimora della sua Sibilla, l’altra per lo diletto grande che arrecava a chiunque facevasi a dimorare colà . Per dipartirci dalle origini uopo è dire che Baja oltre al nome che forse naturalmente le sta, lo ebbe imposto a quanto vuoisi da Bajo uno de’ compagni di Ulisse.

Forse quell’errante navigatore, come Miseno e Palinuro, che rinomanza a quel sito, ma quanti anni corsero pria che quel suolo si arricchisse di ville e di case. Un lunghissimo periodo, che vide certo grandeggiare la voluttuosa città, rimase oscuro alla storia, e noi dalla sua origine la ritroviamo poi bella e frequentata in sul finire della Repubblica, come una ornata donna che ne’ nostri viaggi lasciammo fanciulla e rivediamo sposa e madre. Che il lido di Raja, a dir di Cicerone e di Varrone e di Strabone medesimo, nonché di Silio Ralico, di Stazio, di Marziale e del Venosino era incantevole e giardini e fontane e diporti e aere temperato non vi mancavano, quando oggi e per lo contrario malsano.

Quello che dice Orazio, lo ripete Ovidio e Cassiodoro, altro notissimo scrittore dell’antichità, attesta che solo a Raja potea viversi la vita degli immortali. Seneca e Properzio diedero colpa di moltezza alla città di Raja, Clodio rimproverò Cicerone di avervi dimorato e sarebbe forse più a lungo vissuta nella memoria de’ suoi piaceri, se Longobardi e Saraceni non le avessero dato orrendo guasto, come ricorda Flavio Biondo. Poi quel mare che altrove allo scommuoversi della terra crasi ritirato, cola prese spazio e seppellì nell’acqua di molte ville e casamenti. Sicché ancora oggidì gli avanzi delle magioni invase dal flutto, dimostrano ove s’ allargasse dapprima la voluttuosa città. E questa invasione delle acque la diresti una reazione, in quanto che altra fiata furon disseccate le sponde per ergervi case e ne abbiam certa prova nelle parole di Orazio:

Contrada piscis acquora sentium. Jactis in altum molibus.

Nel seno di Baja per insino a Miseno veggonsi gli avanzi di molti bagni, uno come pel consueto attribuito a Cicerone, al quale si vuol dar tanto che non un pretore, ma un Imperatore lo direste; ed è curioso l’udir dare all’oratore Romano tante e tante cose che mezza Baja e mezzo Pozzuoli si vorrebbero a lui appartenute senza dire del Tuscolo e di altri siti.

Certo è che di assai antichità Puteolane non trovasi origine e destinazione, e nel seno di Baja per la via del Fusco internate e coverte, veggonsi gli avanzi di edificio circolare del quale non è menzione. E su quelle macerie si piantano alberi e viti e si ammonticchia il terreno de’ campi.

Ci converrebbe pur dire alcuna cosa del porto di Baja che aveva suo grido, come quello di Pozzuoli, ma esso vedesi del pari abbandonato, sebbene serva di utile ricovero a'  legni a vapore od a vela quando, nell’uscir da Napoli contrariati dalla burrasca, si trovano costretti a dar fondo in sicuro ancoraggio. Incontro al porto di Baja due antichi edifici si levano, ed in vederli si potrebbe ripetere a ragione quel verso italiano:

Copre i fasti d’oblio l’arena e l’erba

o quello latino del nostro Sannazzaro

Fata trahunt homines, fata urgentibus, urbes.

Poiché quelli edifici mostrano di non esser cosa volgare, e gli archeologi passati, li chiamarono col nome di Tempi di Venere e di Diana. Hanno proporzioni circolari, nicchie, archi, volta e grosse mura, e questi pure si vorrebbero Terme. Ed un frigidario dicesi quello di Venere, il cui principale accesso era dal mare, schiarato da otto aperture, decoralo da quattro nicchie, da pilastri d’opera reticolata all’intorno, da un portico e da una volta or caduta, che nell’insieme dovea renderlo uno de’ principali ornamenti della meridional parte della città. Si volle altresì da uno straniero, non so con quanta ragione che le rovine del colle ove s’erge il castello, dir si dovessero Camere di Venere, ma probabilmente in una città di piaceri, tutto si credeva potesse ben attribuirsi a quella Dea.

Nè qui cessano gli avanzi dell’antica città Bajana.

Vedi più innanzi altro edificio circolare con apertura in cima e quattro fenestre intorno, dello da sapienti di un giorno tempio di Mercurio, dal volgo Truglio, voce che par derivare dal greco trullo che vuol dir cappella, e in esso si esperimenta un’eco distintissima e precisa, che sembra traversar le mura. E incontri pure più in là una stanza adorna di cadenti stucchi ed altre rovine disseminate, dalle quali chiaro si mostra esser maggiore l’incuranza degli uomini, che l’abbandono degli anni, e di queste sparse rovine sarebbe sempre il tempo di rintracciar l’uso e lo scopo per isvolgere un’altra pagina dell’antichità, e dare un’altra pagina di storia a noi.

Lasciata Baja dal lato orientale vedesi il luogo ove era il tempio d’Ercole Baulo o Ercole Bovalio, divinizzalo da quelle genti d’allora, e fu detto Bovalio, perché in quel punto ove gli fu eretto il tempio, la tradizione vuole ei riponesse i buoi che recato avea dalla Spagna o rubati a Gerione.

Ne possiamo dimenticare il villaggio di Bacoli e di Bauli, ove andavano a cercar la tomba i capi della Rotta Misenate e dove, dicesi, anche i compagni di Enea trovassero l’asilo della morte. E questa Rotta di Miseno che nominiamo di volo, perché breve spazio ci consente il nostro scritto, dee rammentarci che facea parte di essa quel Plinio il vecchio, morto per indagare i fenomeni del Vesuvio, narrati poi dal giovane Plinio.

A Bauli è da vedere il sepolcro di Agrippina madre di Nerone e il tempio di Diana Lucifera e alle spalle di Bauli sepolcreti molti e quella contrada che trapassò a noi col nome di Campi Elisi.

Sicché il forestiero condotto a peregrinare fra tante illustri macerie e tanti preziosi ricordi, per poco ch’egli abbia letto Virgilio e il Petrarca che pur di queste cose discorre, e più vicino a noi la schiera de’ raccoglitori d’impressioni, non potrà rimanersi indifferente alle rimembranze de’ campi Flegrei della giù voluttuosa Baja, della vaticinante Cuma.

Questa città vanta sì vetusta origine che affermasi con fondamento avere i Calcidesi di Eubea fondata Cuma innanzi di fondar Napoli. E nel tempo trascorso fra l’una e l’altra fondazione, cominciarono ad innalzar Pozzuoli o Dicearchia, Ischia o Pitccusa. E che la fatidica Cuma fosse città importante e trafficante e navigatrice, ben lo accenna l'antica sua moneta, la quale da una faccia mostra una testa femminile il cui berretto formasi di una galea Plutonia, mentre al rovescio si accenna nella iìgura, l’importanza del lago Lucrino!

Or dove son più suoi vanti?

Solo la musa di Sincero in brevi accenti li ricorda

Artificumque manus, tot nota sepulcra,

Totque pios cineres una ruina premit .

E ritornando col pensiero a Baja ed a Miseno ed alle loro pittoresche circostanze, chi saprà resistere a quel fremito del passato, ricordando gl’illustri uomini e le donne che vi dimorarono? Gli antichi storici attestano che nessun silo era più ricercato da’ Romani di queste contrade Puteolane, nelle quali oggi è si manifesta l’incuria e l’acre è talvolta malsana.

Oltre gli edifici che seguivano l’incurvarsi del lido, i colli da’ quali vedovasi attorniato, erano popolati di amenissime ville, la qual cosa appar chiara nelle lettere di Plinio il giovane , ove facendo menzione di due ville formate sul lago di Como, dice ergersi l’una sopra balze, fabbricala a guisa di quelle che si veggono sulla costa di Baja.

Quando Sabina Poppea, un dì cara a Nerone, si dipartiva di Roma per recarsi a dimorare nella sua dilettissima villa di Baja, ove erano per così dire, rinverditi i suoi giorni, è fama si recasse dietro 400 asine destinate a provvederla di quel latte nel quale ella tuffavasi tre volte il dì per ristorar le sue carni e la sua salute. Le quali medele e moltezze sono il ricordo di quella vita che cola menavano le favorite degli Imperatori, le quali sovente dispregiate ed oppresse scontavano nel pianto il lungo loro favore.

Perocché se gli uomini come Tiberio e Nerone ed altri il cui nome fa ribrezzo erano fino alle loro madri non pure ingratissimi, ma barbari e tiranni, se l’augusta Livia fu pur costretta a sorbire un lento calice di amarezza che lodava bere quel figlio ch’ella aveva innalzato all’Impero?

quale altra donna avrebbe potuto meritare il rispetto e le cure di questi esseri degenerati che il fasto solo facea stimare Imperatori?

Si noveravano con orgoglio nel marittimo seno di Baja le ville di Mario, Pompeo, Cesare, Pisone, Domizia Mammea e le Piscine di Domiziano e di Cuculio. Di ciascuna di queste ville parlali classici autori, talché il meno che se ne sappia è quel che appare, e gran mercé che sopravanzi alcuna parte della Piscina Mirabile, o riserva di acqua fatta eseguire da Tiberio Claudio Nerone e secondo altri da Tiberio o da Cuculio. Ma un avanzo di antiche costruzioni, delle quali non é ancora chiaramente definito l’uso e lo scopo, è quella rovina di abitacoli chiamata le cento Canterelle. Alcuni le dissero prigioni, altri terme e perché formasi di più recinti il volgo diedegli tal nome. Certo tutti i dintorni del già voluttuoso seno Bajano, comeché diserti ed abbandonali all’incuria ed alle offese del tempo, mostrano che un di, purgalo l’aere, esser dovevano sollievo alle gravi cure. Oggi le povere fanciulle che incontrate sulla spiaggia portano in viso l’impronta di un miasma circostante; e, non potendo altro offerirvi, presentano al forestiero fiori di campo, pietre, vetri, chiocciole, parificazioni e calcinazioni diverse, e que’ così detti cavallucci marini che la diserta spiaggia produce .

La tradizione ci fa credere che il sepolcro di Agrippina fosse posto in sulla via di Bauli e noi ci fermiamo a considerarne le non piccole proporzioni, l'edera che vi si abbarbica, la terra che lo copre: ma lo studio della storia ne induce a credere che il sepolcro di lei fosse in sul sentiero di Miseno  e presso la villa di Cesare  . E Tacito attesta che i familiari di lei, morto Nerone, secretamente le fabbricassero un picciol tumulo—levem tumulum.

Come il tempio di Nettuno a Pompei si vuole dai più levato innanzi Omero, così questo tempio per le colonne che lo reggevano senza base e senza listello, fa credere ad una remota civiltà pari a quella di Pesto.

Non meno importante di Baja sarebbe Cuma, alla quale poteva entrarsi per l'Arco Felice che ben si vede oggidì con alquanti suoi ricordi, quali sono il tempio detto del Gigante per una statua colossale che dentro v’era, per un tempio d’Apollo al quale fu poi addossata una cappella, per la famosa grotta della Sibilla e finalmente per esser divenuta l’ultimo asilo di Silla quando ebbe deposta la Dittatura .

Tutte queste illustri reliquie, memoria di grandi uomini e grandi tempi, mi é paruto debito di venir tratteggiando nel dir di Pozzuoli e del suo Cicerone, perche il forestiero indagatore e il napolitano spesso di sue ricchezze dimenlichevole, potessero, visitando que’ siti, non lasciare inosservate tali cose, le quali, comeché sparse e starei per dire sbandate, contribuiscono mirabilmente a dare una chiara idea dell’importanza che quelle nostre spiaggie e colline s’ avessero; le quali ancor più sarebbero state derelitte, se le acque salutifere e le sulfuree esalazioni non avessero cola richiamalo gente molta tra egri e curiosi. E meno quei siti sarebbero stati rovinati, se la mania del trovar tesori non avesse indotto i ciurmadori del tempo antico a far da indovini, i villici e i mandriani a smuovere i marmi, abbatter le mura, scavare sotterra, con demolire le fondamenta per trarre a luce qualche vecchio tesoro di monete romane e non trovandone le più volte che poche di rame e qualche così detto cavalluccio marino.

Cotal guasto fu dato più che in altri tempi nell’epoca Viceregnale, perocché que’ signori proteggevano ogni maniera di studi, quando fosse produttiva di danaro, e si piacevano di coltivare o far coltivare l'archeologia o la numismatica quando dava loro, per bel frutto d'indagini e di conoscenze speculative, vasi, monete d’oro, coppe d’argento ed altre cose sculte o cesellate di quel metallo, ma i popolani ne profittavano per eseguir furtive ricerche nelle ore notturne.

La instituzione ovvero costume del Cicerone, risale appunto a quei tempi, poiché un paese invaso dallo straniero sente allora più il bisogno di far conoscere la sua grandezza passata per meritar considerazione e rispetto.

Il nome di Cicerone applicalo alle guide di Pozzuoli e di ogni altra antichità, dipende dalla popolare opinione del famoso oratore e questore, al quale concessero i fati di procacciarsi una stima assai più diffusa di altri scrittori ed onorevoli uomini dell’antichità. Pei popolani Partenopei di una volta tutta l’antica sapienza raccoglievasi e per così dire si concretizzava in Cicerone, e a voler dare ad un uomo testimonianza che fosse dotto bastava il dire. «Ne sai quanto un Cicerone!»

I versi di Catullo che trovammo graffiti talvolta in sulle mura tolte di netto a Pompei, eran colà più celebri dei Virgiliani, e degli Oraziani forse, perche que’ versi, peccanti di oscenità, blandivano meglio le passioni e le tendenze di quelli uomini e di quel tempo. Ed egli teneva Cicerone in altissimo concetto e lo chiamava il più eloquente de nipoti di Romolo di quanti sono furono e saranno .

Dunque Cicerone rappresentava la sapienza, e que’ zotici villanzoni che aspiravano alla gloria di manodurre lo straniero su per le rovine, assunsero il nome di Cicerone. Non altrimente la favola Esopiana accenna della mosca che stando a dosso del bue diceva ariamo la terra.

Questi usurpatori del nume dell’oratore di Àrpino, si fanno trovar accolti insieme presso la porta di Pozzuoli, quando i cavalli, stanchi alquanto dalla corsa, prendon pian piano la salila. Altri se ne incontrano sulla piazza e per cosi dire all’ombra della statua di Mavorzio detto volgarmente Mamozio. Sì gli uni che gli altri non si fanno richiedere o pregare. Essi son la alle vostre coste o formano ala alla vostra carrozza quando il vogliate e, tostoché s’avvedono che non siete proprietario della cerchia Puteolana, eccoli pronti a sciorinarvi tutto il loro sapere.

Talvolta vi si presentano, mostrandovi vecchie monete rugginose più che antiche, piccoli oggetti di bronzo, che io chiamerei di moderna antichità, e v’invitano a seguirli, suocciolandovi l’un dopo l’altro i nomi, del Tempio di Serapide, della Solfatara, della Piscina Mirabile, delle cento Camerelle ec.

Fra i tanti che vi offrono i loro servigi e la loro dottrina non v’ha molto da dubbiare nella scelta.

Hanno tutti la stessa dose di erudizione, nessuno di essi ha letto un libro: tutti debbono alla Dea Mnemosine l’apparato di quanto sanno e ripetono, nulladimeno un profano malamente si farebbe strada nelle loro file, sebbene a Pozzuoli ogni villano che non abbia da fare possa tramutarsi in archeologo popolare. Essi portano quasi scolpita una medesima impronta, e il governo che loro un cappello sul quale è scritto di carattere giallo Guida pe forestieri . Essi sono presieduti da un Capo guida che ha la scritta in bianco, e ad impedire qualsiasi disordine o inconvenienza è da consultare il regolamento di polizia e la tariffa apposta ad ogni escursione .

Certo questa gita di Pozzuoli non potrebbe ben farsi senza l'aiuto delle Guide che d’anno in anno perpetuano nelle loro famiglie l’inventario di tanti avanzi e di tanti dispersi monumenti. Certo fra le molte gite istoriche  e pittoresche che nel dilettoso nostro paese possono compiersi, è assai variala quella di Pozzuoli, Baja, Bauli, Cuma, Miseno sino a Linterno, già colonia Romana distrutta da’ Vandali, ove Scipione Affricano volle il sepolcro lungi dall'ingrata patria.  La qual cosa spiegava chiaramente l'antica e nota iscrizione che vi si leggeva:

Ingrata Patria ne quidem ossa mea habes,

Ed a chiunque tenga presente l’Eneide dell’antico Virgilio e i canti del nostro Virgilio Napolitano, qual è Iacopo Sannazzaro, nessuna cosa potrà tornar più gradita, quanto il ravvivar la memoria dell'antico coi loro versi, pria che l’accozzaglia d’ogni specie di erudizione che offre il labbro d’un moderno Cicerone valga nelle curiose indagini a disviarlo dal sentiero della verità.

CAV. CARLO TITO DALBONO.


1 II sulfureo suolo del nostro Pozzuoli allargherà ogni giorno più i suoi stabilimenti di acque naturali, poiché i suoi Bagni Termo-Minerali acquistano rinomanza per utili salutari profitti, e sono quasi richiesti a precedere i Bagni d’Ischia di celebrità Europea, de’ quali scrisse Giulio Cesare Capaccio negli scorsi tempi e ne’ presenti moltissimi.

1Vedi Guida de Forestieri per Pozzuoli, Baja, Clima e Mi seno. —'Napoli 1770.

1Le altre decorano fra dorali palchi il Teatro della Reggia di Caserta, opera dell'illustre Vanvitelli.

2Nella mostra artistica del 1855 il sig. Carlo Sorgente offrì un restauro del Serapeo Puteolano, nel quale benissimo mostravasi la forma del cullo pagano, la cella di Giove, Iside, Osiride, il vestibolo, il portico d’entrata, il giro del cortile ove avean posto le statue de’ consoli e delle divinità e la base ove sorgeva la statua deir Imperatore riparatore del tempio.

Pozzuoli, la grotta e Baja molto debbono al Viceré D. Pietro di Toledo che diè riparo alle artistiche reliquie di que’ siti, corseggiate talvolta dagli Ottomani.

Debbono anche a Carlo III una parte del loro splendore, che in bella opera in foglio figurata e dedicata allo stesso Sovrano vedesi oggi nelle più copiose biblioteche.

1 Facendo menzione della incuria che fa cadere in rovina le antiche reliquie, debbo ricordare che in questi ultimi tempi promossero utili scavi in punti diversi, il  Cardinal De Pietro e il Conte di Siracusa. I risultamenti di questi scavi furono descritti dai signori Fiorelli e Lancellotti.

1 Lettera VII. Plinio a Romano. Libro Nono.

2 Ad Ruinas Cumarum. Urbis vetuslissimae.

1Vedi la figura.

2Il promontorio di Miseno sta tra l'isola di Nisita e di Procida, 5 miglia presso Cuma, e si ebbe tal nome da Miseno compagno di Euea:

Monte qui nunc Misena ab illo dicitur aeternumque... Virgilio. En. Uh. 7.

Stimiamo ricordare che questa villa fu poi di Augusto, il quale si piacque di fermarvi sua dimora ben altrimente di Tiberio a Capri. E colà Virgilio lamentando in versi il fato di Marcello, vide spuntar le lacrime dagli occhi di Ottavia madre di lui e sorella di Augusto.

Cuma potrebbe fra le altre città molto giovare all’archeologia e sebben lentamente le ricerche assidue producono qualche effetto. Così trovaronsi non ha guari armature, cadaveri cristiani, teste di cera ed una bella grotta ne accrebbe l'importanza. Le Accademie Napolitane, la Borbonica, la Pontaniana etc. se ne occupano e si pubblica altresì un bullettino archeologico di non lieve importanza.

1 Disertissime Romuli nepotum

Quot sunt, quotque fuere, Marce Tulli,

Quotque post aliis erunt in annis.

C. Valerii Catulli,

Veronensis Carminimi liber.

1Vedi la figura.

2Regolamento di Polizia per le Guide de’ forestieri

Volendo evitare e prevenire ogni qualunque inconveniente potesse nascere dalla ingordigia della classe de’ Ciceroni col vessare i forestieri che qui recansi a curiosare le antichità, si stabilisce quanto segue:

1° Ogni Cicerone dev'essere munito di una patentiglia di autorizzazione coi rispettivi connotati per esercitare tal mestiere.

2° Ciascuno di essi deve costantemente far uso del cappello d’incerata con la leggenda a caratteri gialli Guida pe' forestieri.

3° Saranno dalla Polizia prescelti fra essi due individui i più anziani, i quali faranno da Capoguide, si avranno la leggenda a caratteri bianchi senza numero, per distinguersi dalle altre.

4° Sarà inoltre dalla Polizia istessa stabilito un turno, al quale ciascuna Guida dovrà strettamente attenersi, ed il Capoguida è obbligato a riferire ogni alterazione portata al medesimo, in difetto sarà egli punito per il manchevole.

5° È espressamente vietato ad ogni Guida asportare bastone di qualunque dimensione, come altresì d'affollarsi intorno alle vetture de'forestieri, dovendo il solo cui spetta per turno avvicinarsi con decenza alla carrozza, dimandare al domestico di piazza o al cocchiere se vi è bisogno della Guida, ed in caso di negativa è assolutamente vietato d'insistere o seguire la detta vettura.

6° Qualora la Guida cui spetta il turno non possa per legali ragioni seguire i forestieri che l'avran richiesta; il Capoguida la farà sostituire senza eccezione o particolarità da quella che segue. Che se poi la Guida chiamata per turno o quella ad essa sostituita dal Capoguida non avessero voluto per particolare vedute e senza alcuna ragione seguire la carrozza, gli sarà vietato in quello e nel seguente giorno d’accompagnare qualunque altra vettura di forestieri potesse mai venire.

7° Le dette Guide non potranno allontanarsi dal posto loro assegnato ed è espressamente loro vietato di recarsi nella capitale a rilevare dalle locande i forestieri, come del pari andare loro all'incontro verso la strada de'Bagnoli.

8° I contravventori alle presenti disposizioni saranno la prima volta ristretti per tre giorni nel cancello di Polizia, la seconda volta spediti in carcere e la terza privati all'intutto dell’esercizio.

9° Qualunque oggetto sarà da essi rinvenuto dovrà subito essere esibito alla Polizia.

 

Tariffa

1.° Per curiosare le sole antichità di Pozzuoli…………………………………grana40

2.° Per Pozzuoli e Baja……………………………………………….………………...……»80

3.° Per ogni asino con sella per il giro di Pozzuoli solamente……..………..» 20

4.° Per Baja e Pozzuoli……………………………………………………………...………»40

5.° Per ogni torcia…………………………………………………………..…………………»20

6.° Al custode del tempio di Serapide……………………………………….…………»10

7.° A quello dell’Anfiteatro…………………………………………………………..……»10

8.° A quello della Solfatara………………………………………………………..………»20

9.° A quello della grotta della Sibilla…………………………………………..………»20

10.° Compenso al facchino che trasporta sulle spalle il forestiere

nella della grotta………………………………..……………………………………....……»20

11.° Al custode delle stufe di Nerone…………………………………………..………»30

12.° Al tempio di Mercurio in Baja………………………………………..……………»05

13.° Stanza di Venere…………………………………………………………..…….………»05

14.° Cento camerelle in Bacoli………………………………….…………...……………»10

15.° Piscina mirabile……………………………………………………...………..…….…»10

1 Al luogo di questo sepolcro fu eretta una torre, e perché della iscrizione latina non rimase altro che la parola Patria, fu quella detta torre di Patria. Questomostra quanto son taluna volta arbitrari i nomi dati a contrade e città antiche.


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IL VENDITORE DI POLLI

NON mi ricordo se Platone o qualche altro filosofo greco, con pochissima cortesia anzi con poca giustizia verso il suo simile, disse esser l’uomo un bipede spennato, onde non ricordo se Diogene o altri, volendo beffarsi della grave sentenza di quel. 5barbassoro, spennò garbatamente un gallo e gittatolo nel mezzo d’una radunanza di dottoroni, all’Ateneo, se non isbaglio, esclamò: Ecco l’uomo di Platone! Lo scherzo ha valicato i secoli, e, se l’uomo ci ha perduto qualche cosa nel paragone, bisogna pur convenire che la famiglia dei polli ci ha guadagnato non poco; imperocché in sostanza, qualche cosa di mobile è nella natura di questi animali,che si rizzano su due piedi come la specie umana e che vanno col capo alto, dacché Platone li rialzò colla sua famosa sentenza. E forse queste bestiuole han più ragione di levar la testa che non certi uomini pettoruti, rigonfi d’aria e che io domanderei con più verità gallinacci in soprabito.

Noi non vogliam qui toccare della storia naturale de’ polli, giacche questa ne menerebbe troppo lungi e di molto ci allontaneremmo dal nostro subbietto, ma crediam pertanto necessario l’accennare ad alcune particolarità che distinguono le diverse famiglie di queste care bestie.

È indubitato che il gallo e il più nobile della specie, egli è il re del pollaio, dove governa da despotaccio. massime quando non ha socii al potere. Ciò nondimeno, egli e generoso, e spesso spaziando in un’aia, dove incontra granelli da beccare, si astiene e croccia e chiama le galline perché fruiscano del bene che ha trovato; all'occasione le difende e si azzuffa per esse: la sua debolezza è la gelosia; non vuole che nel suo serraglio penetri altro gallo, transeat pe’ capponi, questi fedeli eunuchi dei pollai. Il gallo e vivace, superbo, maestoso e colerico.

Tra le galline, la chioccia e la pollastra hanno la preferenza per la loro speciale utilità, ma in generale la gallina e golosa, insaziabile, tenerissima madre, pusillanime pel consueto, ma baldanzosa quando ha da difendere i suoi gnascherini.

Non diremo de’ capponi, de’ tacchini e di altri cotali parenti e affini abitatori del pollaio, dappoiché la storia naturale di ciascheduno di questi saporosi animali è più o men conosciuta e non entra nel nostro intento; essendoci proposti di parlare del venditore ambulante di polli, che è pure una specie graziosa tra quanti pigliano posto in queste pagine.

Io non so che differenza è tra un mercadante di schiavi e un venditore di polli. Per quanto strano e paradossale possa parervi un tal paragone, nondimeno esso non lascia di essere vero se riguardato filosoficamente. Se la merce è diversa, l’intenzione è la stessa: entrambi vendono carne viva, bipedi rassegnali alla loro tirannica sorte.

Vedeteli questi poveri animali (parlo de'  polli) chiusi in que’ grandi cestoni e messi a crudelissima dieta! Vedeteli come hanno smarrita ogni virtù della vita: cogli occhi socchiusi, co’ capi abbassati, snervati per fame, desidererebbero la morte se sapessero che questa pone fine ad ogni dolore.

Il gallo, il gallo stesso, così baldanzoso e ritto nel mezzo del pollaio, or tu lo vedi accovacciato e sonnacchioso come il più pusillanime coniglio.

Il venditore di polli non si mostra intuite le stagioni dell’anno, ma l’està è il suo tempo favorito e segnatamente allorché si avvicina il quattro Agosto, che è pe’ poveri pollastrelli una specie della famosa notte di S. Bartolomeo in Francia o de’ Vespri siciliani.

Il quattro Agosto e il ventiquattro Dicembre suonano giorni ili strage per questi poveri protetti di Platone; ed il costume vuole sieno cotti nel sugo di pomidoro, tagliati a pezzi. Ma la carneficina orribile, inaudita, il Solferino de’ polli è il Natale; imperciocché non ci è desinare del 25 Dicembre che non abbia due o tre serviti di polli cotti in varie guise. Dappertutto, un giorno prima, tu senti le grida e i lamenti di queste vittime innocenti della partenopea ghiottonerìa.

Da ogni casa, umile od alla, esalano i vapori del sangue di questi futuri popolatori de’ forni. Io non so qual razza di dritto abbia l’uomo a sgozzare gli animali per solleticare il suo palato; ma dico che la civiltà non sarò tale insino a tanto che questo barbaro abuso della forza sarà indifferente consuetudine delle genti.

Non abbiamo grandi cose a dire sul venditore di polli, ma non vogliam chiudere questo articolo senza far menzione della curiosa usanza che hanno parecchi de’ nostri popolani di riffare i tacchini, le pollanche o i capponi. Spesso la vita di un povero gallinaccio dipende dal primo eletto della estrazione, imperciocché può capitare nelle mani d’un qualche vandalo che lo sgozza immediatamente il sabato sera per farsene suo cibo alla prossima domenica.

Avete mai veduto un uomo con una bacchetta in mano,che mena avanti a sé una decina di questi infelici gallinacci rachitici e tignosi, i quali non fanno altro che azzuffarsi per la via e strapparsi scambievolmente i bargigli come altrettanti Drusi e Maroniti? Ebbene, sappiate che quel conduttore è un riffatore e quelle pacifiche bestioline sono la merce riffabile, condannata a salire e a scendere per istrado montuose e per aspri calli, digiune da più giorni e senza veruna speranza di cibo, se togli quel poco che ad esse vien fatto di rubare per la via a’ venditori di viveri in cui si abbattono.

FRANCESCO MASTRIANI























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