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LA POVERELLA DI CASAMARI

RACCONTO STORICO DEL 1860 E 1861

Civiltà Cattolica 1863-1864

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01 - LA POVERELLA DI CASAMARI RACCONTO STORICO DEL 1860 E 1861

02 - LA POVERELLA DI CASAMARI RACCONTO STORICO DEL 1860 E 1861

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LA POVERELLA DI CASAMARI

RACCONTO STORICO DEL 1860 E 1861
XXXVIII.

Tutte le voci che dall’un campo all'altro dei dintorni di Casamari si erano messe in giro sul conto di una scorreria dei Piemontesi, non s’ha già da credere che fossero castelli in aria, o meri spaventaceli di cervelli contadineschi. Imperocché sino dalla prim’alba di quel giorno di Martedì, un circa duemila tra Granatieri e Lancieri della brigata del generale di Sonnaz, si erano adunati con alquante bocche da fuoco nelle vicinanze di Castelluccio: e d’indi mostravano di voler ogni pqco spingersi oltre e piombare sopra la Badia, la qual era il punto che essi tenevano di mira per isnidarvi le soldatesche napoletane, e verso cui li aizzava tutta la bordaglia e la schiuma delle guardie nazionali di Sora e dell’Isola, che, avide di partecipare al sacco di queir insigne monastero, faceano massa dietro alle loro spalle e apprestavano carri da trasportarne il bottino. Pel quali ragioni poi temporeggiassero tanto, che non passarono innanzi se non all’ora del vespro, non s è potuto sapere; eccettoché si congettura che avanti procacciassero di sicurarsi ben bene, per mezzo di segrete spie, dell’essere e delle contenenze dei nemici che stavano ad alloggio in quelle mura indifese. Ma è certo che né la banda dei Chiavoniani, mandati ad esplorar la frontiera, né le ronde del colonnello di Christen ebbero sentore della loro venuta, altro che quando essi, precipitatisi d’improvviso sul dosso dei poggetto ov’è la chiesolina della Madonna chiamata del Reggimento, e postativi alquanti pezzi d’artiglieria, cominciarono trarre granate e palle contro a’ Napoletani, i quali vivandavano allo scoperto lungo la strada. Cotesti furono gli scoppii che Traiano intese mentre 'imboccava la porta della città di Veroli, i quali incussero sgomento terribile nei monaci e in tutti gli abitatori delle circostanti campagne.

Il Christen, a quei primi colpi sì fulminanti, raccolse in un batter d’occhio tutti gli uomini suoi, e li distese nella pianta del suddetto poggerello, con animo di occuparlo, tostoché avesse potuto osservare gli andamenti del nemico. Ma non tardo ad accorgersi che questo già lo avea precorso su quell’altura, con forze che soverchiavano dieci cotanti le sue. Adunque, per non impegnar quivi un combattimento che, a cagione della disuguaglianza del numero e del disfavore del sito, sarebbe tornato nocevole a sé e disastrosissimo all’Abbazia, delibero di prendere subito la strada che mena alla grossa terra di Bauco, e salitovi di mettervisi in fortezza contro il prepotente Subalpino. Perciò fatto ordine all’Alonzi che imboscasse i suoi imberciatori in un rialto alla destra sponda dell’Amaseno, e di là tenesse in rispetto i Sardi, egli dispose la ritirata: e così, dopo piccolo intervallo, tutta la squadra dei Regii, avente per retroguardia i montanari di Cbiavone, i quali bravissimamente respinsero l’avanguardia nemica e la sbaragliarono, si indirizzo alla volta della terra summentovata.

Mentre che i Napoletani si allontanavano sotto il tiro dei cannoni, che non isfioraron la pelle a uno solo di essi, la cavalleria e la fanteria piemontese avanzavasi nel piano a gran passi; e da ogni lato veniva circuendo il procinto esteriore della. Badia, per forma che né l’entrarvi né l’uscirne era più possibile a chi che si fosse salvoché con pericolo della vita. Tulle queste soldatesche erano guidate dai generale di Sonnaz in persona, il quale spiccava tra le turme perla bellezza del palafreno stornello che avea sotto di sé, e per la bizzarria del suo travestimento che non era né da borgese né da militare.

Or a fatti che poscia seguirono sono tanto vituperevoli, che non vogliamo narrarli noi: lasceremo invece che li espongano testimobii meritevolissimi d'ogni fede, i quali ce ne hanno cortesemente trasmesse le particolarità che qui porgiamo ai lettori.

«I monaci stavano ancora tranquilli nel loro cenobio, ma quando si avvidero che i Piemontesi, non più curandosi dei Borbonici, procedevano a mano armata contro di essi, un gran timore li prese; e fuggendo chi qua e chi là, cercavano qualche scampo per salvare la vita. Ad alcuni venne fatto di sottrarsi: ma questi, uscendo dai monastero, furon bersaglio alle granate e alle palle che lor fioccavano dietro: e, senza un miracolo, non s’intende come i fuggiaschi potessero giungere a salvamento.

«Alle oro quattro e mezzo la Badia era investita da ogni parte, e fattisi innanzi alcuni dei capi, con le spade sfoderate, dimandarono del Superiore. Questi, cioè il P. Abate, era fuori per assistere ad un moribondo: come altresì il Vescovo di Sora, il quale dalla sua diocesi si era ricoverato in Casamari, in quel tempo era fuori con tutti i suoi, per la solita passeggiata che usava fare in legno, stante la grave età e la inferma sua salute. Si presento dunque loro il P. D. Bernardo Pietralissa, piemontese di patria e Priore, il quale mansuetamente li richiese di che abbisognassero. Risposero che essi volevano i briganti nascosti nel monastero. Il Priore li certifico che non ve n’era por l'ombra. Ma in questo arrivano altri più fieri, che, afferrato il Priore pel petto, gli minacciano la morte. Indi gli ordinano di radunare tutti i religiosi di partire con essi senz’altro indugio» intimandogli che, dopo un quarto d'ora, quanti monaci si trovassero nei chiostri, tanti sarebbero fucilati. Il Priore fece e disse per non muoversi: ma tutto indarno. Gli convenne riunire alla meglio i monaci, e con loro andarsene, svillaneggiato da quella soldatesca con mille contumelie ed imprecazioni. Alcuni però nello smarrimento si erano dispersi ed appiattati in una soffitta, dove restarono segretissimi per non essere uccisi.

«Rimasti in tal guisa padroni del monastero, cotesti Vandali si diedero a scorrerlo, rompendo e sfasciando tutte le porte. Penetrarono nelle celle e nelle officine, e le derubarono d'ogni più piccolo arredo, fracassando, spezzando e stritolando a rigor di termine tutto ciò che non potevano intascare o insaccare, e caricare nei carri che aveano condotti con sé. Nella stanza dell’Abate involarono mitre, croci pettorali, anelli abaziali e quanto altro vi rinvennero. Le casse delle biancherie, le posate, le stoviglie della cucina, i libri, i materassi dei letti, e persino le seggiole e le tavole e gli sgabelli, tutto fa o rapito o guastato. Poscia calarono nella chiesa, dove parecchi soldati di cavalleria, montati sull’altare maggiore, non trovando la chiave del tabernacolo ov’era custodito il Sacramento, infransero i gangheri per forzarlo ed aprirlo, staccarono la piastra di metallo dorato che ne guarniva lo sportelletto, gittarono a terra le sante particole e rubaron la pisside: poi, fattisi sopra gli altri altari, li spogliarono delle tovaglie e della cera, tagliaron le braccia ai Crocifissi, mozzaron testa alle. immagini di Gesù Bambino, e manomisero e profanarono ogni cosa. D’indi, scassinata la porta della sacrestia, si scagliarono agli armadii e ai credenzoni, li sfracellarono e vi levarono otto calici, cinque d'argento e tre di rame dorato, un ostensorio grande di argento massicciò, due pissidi ed una scatola pure d’argento, due turibolii un secchietto per l'acquasanta, e piviali e camici e pianete e stole e lini sacri e, in una parola, tutto sino ai corporali, ai purificato! ed ai fazzolettini. Nè contenti di questo saccheggio sacrilego, ammonticchiarono sotto la gradinata della tribuna candelieri, cartaglorie è che altro, e vi appiccaron fuoco, per distruggere quello che non potevano portar seco.

«Fatta questa orribile depredazione della chiesa, della sagristia e del monastero, scesero a basso e Incendiarono la spezieria, il laboratorio chimico e la libreria annessavi; abbruciarono le camere della celleria e del forno, dando alle fiamme tutte leccarle appartenenti al monastero, cioè apoche, istrumenti, scritture, obbligazioni, mappe, codici, cabrei e simili, con perdita non solo inestimabile, ma irremediabile, trattandosi di un’Abbadia fondata da sette secoli e abitata dal medesimo S. Bernardo.

«L’unico religioso converso, che non erasì sottratto alla furia di quella truppa, legato e chiuso nella spezieria fu abbandonato alle fiamme: ma, con l’aiuto di Dio, potè camparne, sollevando coi piedi una porticela che corrispondeva col claustro, e introducisi. Un altro, che tardo a nascondersi, ebbe maltrattamenti spietati: giacché presolo e appuntategli alla gola le baionette, gridavano ogni poco, che lo avrebbero scannato. Ma volle la provvidenza che uno di quei soldati, giovane lombardo, si movesse a compassione del monaco e, impugnata una pistola, lo difendesse dagli strazii degli altri che, urlando e caricandolo d’improperii, si mostravano sitibondi del suo sangue. Dio renda a quel buon giovane, centuplicata in questa e nell’altra vita, la sua carità!

«Messo cosi alla ruba o in fascio ciò che diede loro nell’occhio, bramando di consumare, se fosse possibile, la stessa Badia; la incendiarono in diversi altri punti, ed entrati nella rimessa e impadronitisi degli animali che v’erano dentro, per ultimo gittarono il fuoco nel fienile; ed accesa la cera tolta dalla chiesa, per illuminar le finestre in segno di giubilo e rischiarare la strada, partirono carichi della preda. Erano le ore nove. Tornati poi in Sora, fecero mercato di tutta questa roba rubata, ed era una pietà vedere posti all’incanto gli arredi e i vasi sacri e gli abiti monacali. Sebbene prima di venderli pensarono di profanarli, perché nel ritornare di là dal confine, portavano indosso chi un camice, chi una pianeta, chi una cocolla o chi una tonaca.

«Appena i Piemontesi si furono slontanali, quei religiosi che si erano occultati nella soffitta, uscirono dal nascondiglio, e veduto come il monastero andasse tutto in fiamme, si raccolsero in chiesa, levaron da terra le sante particole sparse e calpestale: e dopo questo, aiutati da alcuni contadini, si fecero a scorrere per gli ambulacri, togliendo tutto ciò che potea servire di alimento al fuoco. Ma siccome l’incendio della spezieria e della celleria era tanto ingrandito che non c’era modo di estinguerlo, perciò misero mano a troncare le comunicazioni di queste due fornaci col corpo del monastero: e venne lor fatto, ma con gravissimi pericoli e con fatiche indicibili.

«Non è facile determinare il danno che patì la Badia per questa depredazione vandalica. Ma la minor somma che si possa stabilire, eccede sicuramente i ventiduemila scudi. Il danno per altro che n’è venuto ai poveri, i quali nelle loro infermità aveano un rifugio nella spezieria, nominatissima per la bontà e copia de’ farmachi, e per la carità con cui li forniva gratuitamente ai più miserabili, questo danno Iddio solo può computarlo.

«A questa relazione la quale, se niente pecca, è più per quello che tace delle ribalderìe commesse in tal sera, che non per quello che ne accenna, noi non aggiugneremo commenti. Ma ci basterà notare che le memorie dell’Abbazia' di Casamari, nei settecento e più anni da che ella sussiste, non ricordano devastazioni che a questa in empietà e barbarie si paragonino, altro che due. La prima fu ai tempi di Papa Onorio III, e la fecero i Saraceni, da quelle mezzo bestie e mezzo uomini che erano. La seconda fu ai tempi di Papa Pio VI, e la fecero i Giacobini del generale Macdonald, da quei mezzo uomini e mezzo diavoli che si gloriavano di essere. Questa terza, fatta ai tempi di Papa Pio IX, da una porzione di quell’esercito che s’intitolava pomposamente «ristauratore dell’ordine morale in Italia, e le cui «armi parricide» (come le denomino il Pontefice) grondavano tuttavia del sangue dei martiri di Castelfidardo, giudicheranno i posteri se fosse opera da tutte bestie o da tutti diavoli.

XXXIX.

A Bauco è una grossa terra posta ai confini del Regno di Napoli, distante sette miglia dalla città di Frosinone, che giace sulla vetta di una montagnuola a pan di zucchero, la quale da mezzogiorno e da ponente ha fianchi sì rìpidi e stagliati che paiono lame di coltello, e soltanto di verso settentrione apre un comodo accesso, per una via che cala nella sottostante vallata. Il paese, corso tutto intorno da una agevole strada, tiene somiglianza di un ampio e gagliardo castello, con cerchia di mura qui e colà ben rafforzate da terrapieni al di dentro, e al di fuori munite con avanzi di torrioni e cortine, ed anche recinte da antemurale. Lo stile di queste fortificazioni è del mille, perciò non è a meravigliare che in gran parte sieno ora sgretolate e rovinose.

Costassù venne pertanto, la sera dei ventidue Gennaio, a mettervisi in riparo il conte di Christen con le due sue compagnie di robusti uomini da. guerra, che sommavano a dugenquaranta, insieme coi quarantasette paesani di Chiavone; i quali vi giunsero un po più lardi, pel duro conflitto che ebbero a sostenere coll’antiguardia de’ Piemontesi, fermata dal loro valore alla ripa sinistra dell'Amaseno. Le accoglienze che queste milizie regie si ebbero dalla gente della terra, furono piene di cordialità e dj un cotale affetto ammirativo, che si muto poscia in fratellevole amicizia, come videro il fare cortese e i tratti signorili del Christen e dei due suoi ufficiali, e l’ottima disciplina e la religiosità de’ loro soldati, che non furon potuti appuntare di cosa men che onesta e garbata. Il qual tenore di procedimenti, messo a riscontro con le bestialità. e le diavolerie perpetrate in Casamari dai loro nemici e propalatesi già in un lampo per tutta la provincia, non è a dire quanto conciliasse loro la stima e la benevolenza del popolo e d’ogni ordine di persone.

Vero è che la presenza di questi militi del re Francesco II, destava il sospetto non forse i saccheggiatori di Casamari, che proculcavano qualunque si fosse diritto umano e divino, ne cogliesser pretesto di avventarsi sopra Bauco, e quindi se ne avesse da originare lo sterminio di quella nobile terra. Ed era assai ragionevol sospetto: e il conte Carpegna, che capitanava il presidio di Veroli, per rimuovere appunto cotesto pericolo, avea mandato intimare ai Regii che, con la maggior prestezza possibile, avesser dovuto sgomberare il paese e ridursi oltre la frontiera romana: e in evento che rifiutassero, dichiarava ch’egli avrebbe adoperata la forza. Ma il signor di Christen, che da un lato non aveva modo di trafugarsi issoffallo all'occhio dei Sardi, i quali vigilavano ogni passo, e dall'altro non intendeva di cedere pacificamente le armi nelle mani di chi che si fosse; diede buone parole e in tanto si apparecchio ad una difesa che avesse da costar carissimo a chiunque si fosse voluto arrischiare di assaltarlo. Il qual partito se si vuol dire scusabile, perché consigliato da condizioni di militar onore quasiché disperate, certo da niun uomo savio non si dirà mai lodevole; consideralo il repentaglio terribilissimo al quale avventurava una intera popolazione, suddita di un altro Principe, e netta delle sanguino brighe che i Napoletani e i Piemontesi distrigavano tra sé nella micidiale lor guerra.

L’ordine della difesa che egli stabilì, appena occupato quel sito naturalmente scabrosissimo ad espugnare, fu questo. Da prima asserraglio le tre porle d’ingresso voltate a borea e ad oriente, abbarrandole con travate e pietroni formanti un tramezzo alto quattro metri e largo dieci: e per tutto intorno le cortine, che erano slabbrate e a un livello col terrapieno, scnza merli, né spalti, né piombatoi, egli scavo un fosso di tanta cupezza quanta richiedevasi a tenere coperto un uomo. Appresso, nelle case che fiancheggiano le dette porte, apposto sceltissimi imberciatori, che, con tiri incrociati e a bruciapelo, bersagliassero il nemico, dato che giugnesse mai a superare i serragli, e ad aprirsi un varco nell’accasato. Finalmente, dopo avere incorporali i Chiavoniani alle regie milizie, e da ciascuno avuto il giuramento che si sarebbe lascialo tagliare a pezzi avanti che cedere un palmo solo della terra, ripartì questi dugentottantasette bravi in tre schiere. Al capitano conte di Coótaudon commise l’una, designata a guardare la sinistra della piazza, che, comprendendo il vasto orto de’ Filonardi, si ripiegava dalla porta di san Niccola fin all’altra chiamata di santa Francesca. All’alfiere Caracciolo diede la seconda che dovea custodire la destra, la quale volgeva a levante sino alla porta di santa Maria. Il terzo drappello, minimo per lo numero, fu riserbato dentro. Ma siccome le munizioni erano misuratissime, a tale che in tutto non si aveano cariche se non per ventun mila colpi di fucile; cosi l’animoso Colonnello di Christen esortava istantemente che non se ne facesse scialacquo: e ripeteva celiando che non si spendesse più di una cartuccia per testa di nemico.

Falli questi apparecchiamenti con una lestezza mirabile, i Napoletani aspettarono a quoto e con la pipa in bocca, che il Sonnaz si fosse accostato a provar di cacciarli da cotesto lor nido di girifalchi. Già gli esploratori, che rondavano avvisando ogni mossa dei Piemontesi, aveano riferito che tra Sora e Castelluccio era un grande viavai di milizie che faceano capo grosso all’estremo lembo del Regno: di che il Christen stava all’erta, e ogni poco dall'alto del palazzo Filonardi, ov’era d’alloggio,spiava col suo cannocchiale per non esser colto alla sprovveduta. Ma la notte dei ventisette, e più la mattina seguente innanzi l’albeggiare, ebbe da parecchi suoi fidi corrieri l'annunzio sicurissimo che il Generale, violato il confine, marciava con tutta la sua brigata sopra Bauco, e che a punta di giorno egli sarebbe comparso in vista della terra. Avute queste informazioni, 0 Christen, sollecito di non isbigottire le famiglie che erano a riposo, raccolse tacitamente i suoi, assegno a ciascheduno le poste, rinnovo le intelligenze col Coòtaudon e col Caracciolo; e piantatosi alla porta di san Niccola, ivi con l'Alonzi resto a bada degli assalitori.

Di rincontro a Bauco, e propriamente verso tramontana, levasi un verdissimo collicello detto Cologni, il quale prospetta le sue porte e le sue mura sì fattamente, che col piede appoggiasi alle radici della montagnola che porta in cima il paese: di fronte poi ha il pendio dolcissimo, ma dai lati esso declina con ripidezza e cala giù in due valloncelli, che alle falde gli si allargano. Con lo spuntare del sole, che puro e senza ingombro di nuvole sorgeva di dietro i clivi arpinati, si videro a un tratto sul crine di questo colle sfavillare le armi, e nel basso, in grembo alle due vallette, scorrazzare i cavalli e ammassarsi le fanterie dei Piemontesi che, #sopraggiuntivi nottetempo, si mettevano in ordinanza, per isforzare la terra ed espugnarla al primo impeto. La loro brigata era composta del quarto e del quinto reggimento dei Granatieri della Guardia, di alquanti drappelli di Lancieri, e d’una batteria di sei pezzi, de’ quali due lisci e quattro rigati: sottosopra un quattromila e cinquecento uomini. ché si ha da avere per nulla quel branco di masnadieri, razzolati tra la più verminosa canaglia di Sora e dell’Isola, i quali alla coda di queste truppe, sdraioni sul suolo e coi sacchi in ispalla, sospiravano il beato momento di potersi gittar dentro le conquistate mura, e rifare di Bauco il malgoverno che, gareggiando cori le milizie, avèano fatto di Casamari.

II conte di Christen riguardava con placido animo e con occhio tranquillo il di filare, lo stendersi e l’assettarsi di quelle poderose legioni, e noverandole come meglio poteva così a un di grosso, non pure tocco con mano la disformata inegualità delle forze, giacché i suoi bravi, sguarniti d’ogni artiglieria, sarebbero dovuti stare l’uno contro centocinquanta, e questi sorretti da sei buone bocche di fuoco; ma facendo sottilissima attenzione ai provvedimenti che il generale di Sonnaz prendeva da mezzo l’erta di Cotogni, indovino per aria il suo pensiero. Conciòssiaché gl’indizii eran tali che mostravano com'egli, fingendo di mirare al grande orto situato fra le porte di san Niccola e di santa Francesca, per attrarre colà il maggior nerbo dei difensori; in effetto preparasse un formidabile assalto alla man destra, nei punti che egli s’immaginava dover essere i meno guardati. E per questo fine avendo apprestate tre serratissime colonne, indirizzolle ciascheduna al suo termine: quindi poco stante, cioè alle sette ore del mattino, si udì una sparata di cannone che era il segno della battaglia. A quel fragoroso rimbombo si alzo un grido di: — Viva Francesco! Viva Napoli! — e le trombe squillarono, e un diluvio di [falle a tiro ficcante comincio piovere dai propugnacoli di Bauco.

XL.

Non è proposito nostro di descrivere per minuto i casi di questa azione notabilissima, nella guaio un manipolo di men di trecento uomini, travolti in un nembo di ferro e di fuoco che sfolgoravali per ogni verso, e oppugnati da oltre quattro mila furibondi assalitore, validi, coraggiosi, bene in armi, benissimo governati, per molte ore continue tenne lor testa; e li ributto sempre e li sgomino e li sconfisse e ne meno tale scempio, che, ridotti all'estremo, pregaron eglino di stringere i patti di una capitolazione: onde meritamente Bauco s'ebbe il nome di Termopili dell'onore napoletano. Il tradimento che nelle guerre del 1860 e del 1861, da Marsala a Gaeta, fu il solo e vero Dio Marte dei conquistatori delle Due Sicilie, colassù non trovò albergo in nessun cuor di fellone: ma dovunque, tra quelle bastile in ruina, era un braccio armato per la causa del Re e per la tutela dei minacciati Baucani; fede, costanza e bravura insuperabilmente eroica trionfarono sino all'ultimo. Di che tutti i paesani della sottoposta valle eroica, i quali furono trepidi spettatori dell’aspro, diuturno e così disuguale combattimento, meravigliati di tanta prodezza dei Borbonici, ebbero ad esclamare che se i Generali del regio esercito fossero tutti stati della tempera del conte di Christen, non già re Vittorio in Napoli, ma re Francesco sarebbe entrato vincitore in Torino.

Per farla corta, accenneremo che, secóndochè il. Colonnello avea pronosticato,! impeto e lo sforzo supremo dei Piemontesi dapprima si scarico tutto contro il sinistro lato del semicerchio, vicino alla porta di san Niccola. Ma venuto meno l’urto per la ferocia onde i Napoletani, non paghi della difesa, si scagliavano all’offesa; e iteratamente le due colonne assalitrici essendo state spezzate e rovesciate indietro dal turbine della moschetteria che, mista a macigni, a sassi e a catolli di selce rotolati dalla cresta dei terrapieni, le impossibilitava di procedere e crudelissimamente le mutilava; la zuffa si rinfresco al lato destro da porta santa Maria, con tale violenza che l’alfiere Caracciolo, oppresso da un intero battaglione, non bastava più con soli sessanta uomini a tenersi; e già il soverchiante nemico s’inerpicava su per gli sporti del serraglio e allestiva a dar la scalata. Il conte di Christen, fatto inteso del rischio, levo il più che potè di gente dalla trincea dell’orto de’ Filonardi, e strappato il fucile di pugne a un gregario, si precipito allora sul ciglio di un parapetto, e maneggiando a furore là baionetta infuse tale audacia ne’ suoi, che, dismesso di trarre, rivoltarono i fucili, abhrancaronli per la canna e col. calcio menando colpi disperatissimi in testa a chiunque osava arrampicarsi, in breve ebbero costretta anche questa colonna a retrocedere tutta scompigliata e sconnessa.

Ma più gli assalti moltiplicavano di numero e più scemavano di gagliardia, si pei danni che ne riportavano i Piemontesi, tempestati da un fuoco incessante che usciva appuntissimo di dietro le mura, i ripari, i bastioni che coprivano i Regii, e sfracellali dalle pietre che piombavano loro addosso da ogni banda, e si per la stanchezza di un tanto correre e battagliare e trafelare sempre a vuoto. I Granatieri di due compagnie del terzo reggimento furono ricacciati di fianco in uno sfondo di terra si prossimo a un trinceramento dei Napoletani, e insieme cosi esposto al fiotto della medaglia fulminata dalle artiglierie di Cologni, che per ognun d essi muoversi e perire era tutt’uno. Di che intimato loro dal Christen di deporre le armi, le deposero e si diedero per morti. Oltre questo tutta la circonvallazione appiè del recinto, per lo spazio d’un buon miglio, era seminata di feriti, di agonizzanti e di cadaveri cosi pesti e malconci, che era una scena angosciosissima a vederla. Di che i Regii, Te cui perdite non passavano i dieci uomini, da dentro la piazza si resero certi che il nemico era a pessimo termine: e perciò raddoppiavano le scariche e animosissimi si davano a scorgere dal chiuso dei loro ridotti. Nè s'ingannarono punto. Conciòssiaché il generale di Sonnaz, vedute tornar vane tante prove pagate a sì prezioso costo di sangue; su le ore due dopo il mezzogiorno, spiegata bandiera bianca, chiese di parlamentare.

Il signor conte di Coòtaudon, che ebbe tanta parte in quest'ammirabile difesa, ed alla cui squisita gentilezza andiamo debitori di molti dei ragguagli qui a volo indicati, ci ha graziosamente estratto di proprio pugno dal suo privato diario militare il racconto di ciò che avvenne dopo alzatosi dal. campo sardo questo signale di tregua: e noi, per amore di fedeltà, lo trascriveremo, voltandolo semplicemente dal francese in italiano.

«Incontanente che potemmo discernere la bandiera, il colonnello di Christen fece quietare il fuoco della nostra moschetteria, dacché era finito quella dei Piemontesi, e mi commise d’accogliere il parlamentario che si appressava. Affacciatomi alla finestra di una casa accanto la porta di san Niccola, vidi un uffiziale inoltrarsi preceduto da un trombetto; e dimandatogli chi fosse e’ che cosa volesse, dissemi: ch’egli era il Capo dello Stato maggiore del generale di Sonnaz; e veniva in suo nome ad informare la guarnigione della piazza, che se ella lì su due piedi non si rendeva a discrezione sua, egli obbligava la sua fede e l’onor suo che, espugnalo il paese, l’avrebbe tutta messa a filo di spada. A questa millanteria feci bocca da ridere, e stava per rispondere, quando gli uomini che mi erano intorno, e aveano udite quelle parola, proruppero nei gridi di — Viva il Re! morte ai Piemontesi! vogliamo combattere! — La risposta era chiara. Adunque notificai a quel signore che dovesse tornare immediatamente al suo posto; ché in meno di cinque minuti noi avremmo ricominciato a far fuoco.

«Esso allora, mutalo registro e assunti modi fioriti di civiltà, mi prego che si fosse mandato al Generale un parlamentario nostro, perché si ponesse un termine a questa tanto spaventosa carnificina. Il conte di Christen, che era sopravvenuto, se ne contento e volle che andassi io medesimo. Scendendo in compagnia di questo Piemontese, seppi da lui che nessun altro uffiziale s’era ardilo di accostarsi a parlamentare con noi, perché era voce che fossimo «tutti briganti» i quali moschettavamo senza pietà: ma la vista delle nostre assise militari avea tolto dall'animo suo questo timore. Tosto che il Generale m’ebbe veduto venne ad incontrarmi,’ e salutatici scambievolmente, e dettogli dei miei titoli e della mia qualità e fatteci alcune cortesie:

«— Come può essere; sclamò egli; che voi» Francese, buon gentiluomo e conoscente di molti miei conoscenti, siate oggi mio nemico? 0 Diavolo! La Francia è pure nostra alleata!

«— So che il Governo francese vi è benevolo, ma che la Francia vi sia proprio alleata, ne dubito forte. Ad ogni modo, quanto a me, posso accertarvi che appunto perché Francese e buon gentiluomo, sono e saro sempre avversario vostro. Or ciò poco monta. Veniamo a noi. Io mi sono condotto qui per compiacere il vostro parlamentario.

«— Ah vero! ebbene, accettate voi?

«— Che cosa? la proposta forse che egli ci ha portata? Se mi parlate di questa, a rivederci! io ritorno.

«—Sentite me; soggiuns'egli intrecciando il suo al mio bracciò; dirovvi apertamente che io sono stato corbellato. Aveva udito dire che in Bauco non era altro che una masnada di vili ladronacci, e io, sulla fede di questi rapportamenti, mi sono messo all’opera di batter la terra. Ma troppo mi accorgo che io invece ho contro di me bravi soldati, condotti da valentissimi uffiziali. Io voglio farla finita con questo macello: ecco un' altra proposta. La guarnigione uscirà con tutti i soliti onori di guerra; porrà giù le armi a mezzo miglio dal nostro campo, e ognuno di voi sarà libero di prendere quella strada che più gli piace. Io vi do parola che non molestero nessuno dei vostri. Vi va?

a —Nè punto né poco. Gli onori si fanno rendere e le armi si fanno por giù a una guarnigione, allora solo ch'ella sia perdente e venga a patti. Tale non è il caso nostro. Fino ad ora voi, Generale, siete perdente; e non già noi.

«— Dunque si ricombatta! diss’egli con qualche alterazione.

«— Volentieri, noi non desideriamo altro. Badate però che il giuoco non sarà pari. La gente vostra è affranta e non ne può piò: la parte migliore degli uffiziali vostri giace, o morta o boccheggiante, sotto le nostre mura: di munizioni siete al verde. Noi per contrario siamo quasi intatti, abbiamo munizioni da vendere, e coraggio da farvi pentire della riprova.

«— Quanti siete? mi chiese in aria brusca.

«— Ottocento; replicai con molta disinvoltura; e tutti fiore di prodi.

«— Avete ragione; riprese egli mordendosi i mustacchi e guardandomi con occhio attristato; voi dite il vero: questa mia brigata è in conquasso. Maio non la muovero se prima non ci accordiamo alla buona, lo dovrei marciare verso gli Abruzzi. Or come lasciare gli alloggiamenti di Sora, fin a tantoché voi tenete fermo in Bauco? Non è possibile. Mandero chiedere batterie in Gaeta, vi assedierò, vi seppelliro tra le bombe: ma, o in un modo o in un altro, è di necessità che io vi spunti da cotesta pericolosa bicocca. E fece nuove proposizioni che io novamente ricusai.

«— O diacine! proponetemi dunque voi i patti: se non sono troppo duri, io mi vi accomoderò.

«Rispostogli che ciò spettava al Colonnello, mi fece istanze perché questi venisse a lui per trattar seco. E così io mi licenziai, e il conte di Christen discese ad abboccarsi col Generale.

«Mentre si conducevano queste, pratiche, il nemico era affaccendatissimo in portar via i suoi morti e i feriti, che tutti insieme montavano a circa un migliaio, di cui quattordici uffiziali: e noi, non che io disturbassimo, ma gli somministrammo badili e zappe, affinché desse più agevolmente sepoltura agli uccisi. Per ultimo, sonatosi a raccolta, vedemmo i Piemontesi riprendere il cammino della frontiera, in quella che il Colonnello risaliva nella piazza con gli accordi già belli e stipulali. Questi erano che il Generale immantinente sarebbe uscito dal territorio pontificio, nel quale s’impegnava a non riporre più il piede per combattervi i Napoletani; e che il conte di Christen, passati due giorni, sarebbe partito da Bauco, con promessa che, durante l'assedio di Gaeta, egli personalmente non avrebbe. adoperate le armi contro de' Sardi.

«I due reggimenti de’ Granatieri, co’ quali i nostri dugentottantaselle combatterono ben sette ore, aveano fatte le campagne di Crimea e di Lombardia; e noi il domani trovammo in grandissimo numero, sparse appiè delle fortificazioni, medaglie commemorative di queste due campagne: e sopraccio trentatré altri cadaveri, centocinquanta fucili; e sciabole, sacchi, centuroni e quaschi a carra. Il coraggio dei Piemontesi, in tutti gli assalti che diedero, fu superiore ad ogni eccezione; ma la resistenza dei nostri fu cosa eroica.» Sino qui il nobile Capitano.

Opinione costante non pure dei Baucani, i quali ascrissero a miracolo di provvidenza la preservazione della lor patria dal sovrastante eccidio, ma persino di molli fra gli assalitori medesimi, i quali confessavanlo a piena bocca, fu che questo lor disastro così orribile fosse pena esemplarissima delle sacrileghe sciagurataggini commesse da quella loro brigata nella Badia di Casamari. Ed è anzi memoria di uno tra i primarii uffiziali che, al ritorno di essa brigata dopo la sconfitta, essendo deposto quasiché moribondo nel monastero, e sentendo che ivi non erano più medicamenti con cui ristorarlo, perché tutto era arso e incenerito; l’infelice levo gli occhi in alto ed esclamò: — Giustizia di Dio! — e chiesti i conforti del cielo, spiro l'anima.

La spada di lassù vedi che taglia,

Ma sempre a luogo e tempo e con misura;

Ogni cosa di sopra si ragguaglia.

XLI.

A mezzo il Febbraio, la mattina di un giorno splendido e arioso che parea la primavera fosse nel suo più bel fiore, per la viottola che dalla strada maestra di Monte, san Giovanni metteva nella casipoletta di Vito, s introdusse uno sconosciuto, il quale, cavalcando di passo e ragguardando ora in qua ora in là, mostra vasi ambiguo nel suo cammino e voglioso di qualche addirizzamento. Costui s inoltro fino al pagliaio: e, conciòssiaché niuno gli si facea vivo, smontato lego la cavalcatura a un palo, si appresso all'uscio per onde si entrava nella cucina, e sospingendone un battente, ché era socchiuso: — O di casa! comincio a chiamare; è permesso?

— Chi è? grido la massaia facendosi al capo della scaletta.

— Amici! dite, buona donna, abita niente qui un certo uffiziale napoletano ammalato, con una sua figliuola che...

— Be’, cosa vorreste da lui?

— Ma c’è egli, o non c’è?

— Voi chi siete? lo interrogo la donna sospettosamente e senza ardirsi di scendere.

— Io? sono un galantuomo, non temiate di me.

'— Questo non basta; ripiglio caldamente l’altra; ora tutti i bricconi si dicono galantuomini. Donde venite voi? che volete?

— Vengo da Roma, e vengo per parte di quel signore che si trovo qui con voi il giorno che i Piemontesi saccheggiarono Casamari.

— Ah! si mi ricordo.

— Egli, avendo sentito le cannonate, la sera medesima noleggio una vettura, e, lasciali i suoi negozii tutti sospesi, partì di galoppo e torno in casa sua. Ora che le faccende si sono quietate, ha mandato in Verdi me, che sono un uomo suo, per fare certe riscossioni, e m’ha dato una lettera per questo vostro uffiziale.

— Ho capito; rispose la donna rassicurandosi e avviandosi giù per la scala; eh, il povero Capitano (Dio l’abbia in gloria!) è andato in paradiso due settimane fa, subito dopo la rotta che que’ nemici di Dio ebbero dai Napoletani in Bauco; e ve lo dich’io, fu un visibilio che non è mai stato il simile al mondo. Le monache benedettine videro gli Angeli che con saette di fuoco fulminavano tutti quei demonii vestiti da soldati; e cose! cose! insomma un prodigio! E si può ben dire che il Capitano l’hanno ammalalo essi, que’ diavoli, pel grande spavento e pel crepacuore che gli fecero prendere. Oh poveretto! ma beato lui che è morto proprio da santo!

— Pazienza! la interruppe l’uomo con atto di rincrescimento; s’egli è morto non accade più altro. Pure questa lettera, penso io che si potrebbe dare alla figliuola. Me n’ha parlalo tanto la giovane del signor Traiano!

— Ahimè! la figliuola sua è sparita, e non se ne hanno nuove per cercare che se ne faccia. Appena morto e seppellito suo padre, a poverina fece un fagotto di tutta la roba di lui e mi disse: «Filomena, tiella per te». Ci pago sino all'ultimo mezzo baiocco, dono alle mie ragazze uno scudo per una, le bacio e, con un in voltino sotto il bracciò, uscì di bonissim’ora, piangendo e lasciando detto che andava per le sue divozioni nella Badia. Appresso non è più rivenuta, e Don se n'è più saputo nulla. Anche questa è un’ambascia che... oh Vergine santissima! E si asciugògli occhi che lo, si empivano di lagrime.

— Possibile! sclamò l’altro; or che vorrà dire la signora Flaminia che le porta tanta affezione, e l’aspetta in casa sua, e le ha preparata la stanza?

— La nostra gran paura sapete qual è? che l’abbiano rubata i nemici di Dio, i quali, mi si dice che nei paesi loro vendono le ragazze come le pecore. E poi quel vostro signore volea darmi a bere che sono cristiani! uh, cristiani? sì, va a che manco i Turchi non farebbero d’ogni erba fascio come fan loro! Neppure a Cristo l’hanno perdonata nel saccheggio della Badia! Que’ Luciferi in anima e in corpo gli hanno troncala la testa e le braccia nei Crocifissi, e poi, (terra apriti! ) hanno calpestale le particole del Sacramento! Or figuratevi che sarà di quella povera creatura, se fosse cascata ne’ loro artigli! Noi, mattina e sera sempre si recita l'Angelo Dei, perché il Signore le abbia misericordia e la liberi.

— Dunque la lettera non serve a nessuno?

— Che v’ho a dir io? Io non so leggere:! uomo mio nemmeno. Vorreste portarla ai monaci che vi spieghino che cosa ella dice?

— Doh! i fatti del padron mio non li fò vedere ad altri; rispose quegli rifacendosi fuori dell'uscio. Ben bene; io gliela riportero indietro e gli ridiro che il Napoletano è morto, e che la figliuola non si sa più dove sia ita, eh?

— Pur troppo!

— Scusate. l’incomodo, buona donna; soggiunse il messo, e voltassi per isciògliere la cavalcatura.

— Niente, vi pare? riveriteci quel signore, e Dio vi accompagni.

— Non dubitate. E rimontato in sella partì.


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LA POVERELLA DI CASAMARI

RACCONTO STORICO DEL 1860 E 1861
XLII.

Varie e notabili, per bellezza d’arte e per disposinoli di natura, sono le cose che attraggono gli sguardi del viaggiatore, com'egli, faticosamente cavalcando su e giù per aspri dossi e per trarupeoi chine, sia pervenuto in cima alla boschereccia montagna, nel rispianato della quale siede la Certosa di Trisulti. Praterie allegre e fertilissime vallicelle, sparse di erbe odorifere e di fiori silvestri d’ogni ragione: folte macchie d'elci, di abeti, di cerri, che tutto inverdiscono il fianco men ripido della costa e Vadombrano: balze ignude e scogli ertissimi, che si ammassano gli uni sopra degli altri, e con punte isolate rizzansi sopraccapo di quella sublime pianura: voragini profonde, burroni e franamenti di rocce, che l’occhio trema a fissarli: e di sotto paesaggi alpestri, vaghe e distese prospettive, e scene di arborate pendici e di orridi sassi, che la vista sommamente giocondano. Queste e altrettali sono le varietà del sito. Ma le bellezze che vi ha indotte la mano dell’uomo, con la vastità degli edificii e con la eleganza degli ornamenti, vincono di gran lunga le meraviglie della naturale postura. Imperocché là chiostri aerati, luminosi, spaziosissimi; là chiare e nobili fontane là giardinetti ricchi di mille generazioni di piante nostrali ed esotiche; là quartierini pulitissimi pe’ forestieri che visitano quel sacro eremo; là una farmacia tanto bene arredata e copiosa, che se ne pregerebbe una cittaduzza; lì masserie, là forni, là officine: ma soprattutto là una chiesa che è uno splendore. Fabbricolla Papa Innocenzo III, al nascere del tredicesimo secolo, in una svelta navata d'un solo corpo a sesto acuto: e col proceder del tempo rimiglioraronla i Priori, con una sontuosità che ha del reale. Essa è divisa in due scompartimenti corsi da sfarzosi stalli di noce a intagli, con le pareti ove incrostate di marmi finissimi, ove coperte di grandi tele a olio che rappresentano casi storici, tolti o dall’Ordine di S. Bainone, com’è il macello dei Certosini di Londra fatto per comandamento di Enrico Vili; oppure dalla Bibbia, com'è la uccisione de’ sette fratelli Maccabei. Ai quadri si aggiungono le cornici e le orature che dànno a questi un assai vivo risalto, e i dipinti a fresco in tuttala volta che raffigurano la gloria beata del celeste empireo. Dovizioso poi oltre ogni credere è l’altare maggiore, costrutto di levigatissimi alabastri, di gialli e di verdi antichi, di diaspri e di pietre dure in castoni di metalli dorati soprapposti, con artifizio e disegno pieno di grazia: nel cui mezzo spicca, tutto lucente d’oro in rilievi e di gemme, il santo tabernacolo, il quale, fra duo rosette in diamanti che sovrastano ai sommoscapi dei pilastrelli, mostra un’agata egiziana la quale per la grossezza, per l’acqua e per la gentile venatura, formante lo scherzo d’una leggiadrissima farfallina, dicono gli esperti ch’ella non abbia paragone.

Senonché l’anno 1861 in quella magnifica solitudine, albergo d’uomini morti alla terra e non dediti ad altro che al silenzio, al digiuno ed alla contemplazione del cielo, ammiravasi una singolarità a pezza diversa dalle summentovate; della quale, non picciòl diletto soleano prendere i viandanti, che colassù scavalcavano per loro edificazione o diporto. S’immagini il lettore un ampio e alto stanzone terreno, discosto un trenta passi dalla entrala del monistero, appoggiato al procinto della muraglia con cui fa angolo, e senza finestre davanti: ma in quella vece con un atrio o ballatoio a padiglioncino di ipomee, di acacie e di cento maniere di fiori a campanelle e di piante erratiche, rampicantisi per su un ingegnosissimo graticolalo di canne; il quale appiè del muro si sprolungava sopra un erboso e frattoso valloncello a somiglianza di pergoleto. Un cancelletto di legno apriva l’adito dello scaleo per onde salivasi a questo gaissimo cupolino: nel quale intromessovi appena, voi scorgevate traspose li e sedili foggiati di capricciosa invenzione, con intrecciamenti di rami schietti e rozzi, e intorno a voi un come dire mondo nuovo, composto delle più strane curiosità che si trovino nei tre regni della natura, tutte assettate a' lor luoghi e acconce con tanta bizzarria, quanta ne può capire in un cervello glorioso. Di primo tratto vi si affacciava, dentro una casipoletta di acero appesa a uno sporto dell'ingresso, un goffissimo barbagianni, che avea sotto, in un cartello a lettere tonde, segnato l’ufficio suo in questo avviso: Parlez au portier. A man manca vedevate un uscio e, sopra l’architrave, dipinta una magra figura di donna vecchia, grinzosa, scarruffata con iscrittovi il nome di «Esperienza»: e nel muro, di qua e di là dagli stipiti, pendenti quattro ordini di tavolette colorite a marmi e portanti ognuna un motto, un verso, una sentenza quale di Senofonte, quale di Virgilio, quale di Seneca, quale di Dante, quale del, quale di Monsignor della Casa, quale del Shakespeare, del Tasso, de Bvron, del Metastasio e via via: tra tutte le quali vi feriva l'occhio questa in istampatello, su di un bel fondo che simulava il lapislazzuli: «La mia vita presente è viver di studii, d’affanni e di preghiere. 1861». A man ritta lungo il graticolato vi si parava innanzi un museo di cassettine, di barattoletti, di fantocci, di lave, di sampogne, di conchiglie, di vasi, di fialette, di ciòttole, e d’infiniti ghiribizzi grotteschi, sopra mensole ed assicelle disposte a scaffali. Abbasso, nella parete che fiancheggiava il viale ombrato, ove scendevasi per un'altra scaletta angustissima, vi si schieravano chiusi in una fila di gabbiuole cinesi, indiane é gotiche i canarii, i fringuelli marini, i verdoni, i cardelli, i merli, i fanelli; e perché nulla mancasse a questo saggio del creato animalesco, giù tra l'erba miravate strascicar» la tartaruga, saltellare la rana, scorrazzare il coniglio, grufolare il porcellino d’India, razzolare il galletto; e il resto pensatelo voi. Perocché non ci regge la memoria a farvi pure il catalogo delle cianciòline, delle bagattelle e delle inezie adunate in quello emporio di arzigogoli, che non aveva altro riscontro se non nella fiera della piazza di sant’Eustachio in Roma, la notte della Befana.

Questa era la così della «Villa fantastica» di un cotal capo amenissimo di pittore, il quale, nel camerone a cui ella facea da portico e da chiostra, aveva il suo studio, e vi attendeva all'opera di stoma quadri in servigio della Certosa. Già lo schizzo che qui abbiamo tratteggiato del solo vestibolo di quel suo tempio dell’arte, potrebb’essere sufficiente per chi legge a crearsi un’idea dell’uomo e dei suoi umori. Contuttocio se mai, lettore «ortese, foste vago di conoscerne alcuna particolarità alquanto più individuata, eccoci a farvi pago.

Egli chiamavasi allora, e seguita a chiamarsi, don Pippo; ché grazie a Dio egli è anche vivo e verde, e si conserva tutto fiori e baccelli alla gioia de’ suoi amici, i quali sono molti, e gli vogliono un gran bene, e nella ricordanza di lui hanno sempre bello e pronto il rimedio da uccidere la malinconia. Di patria è napoletano, e di anni più prossimo ai cinquanta che ai quarantacinque: cerona franca e gioviale che voi gli scoprile tutta l’anima nella faccia; aspetto decoroso, statura sopra la mediocre, fronte cospicua, un po colmale liscia con un sentore di calvedine; occhio nero e scintillante, fattezze calde e risentite, voce gratamente sonora. Ha baffi grigi e ritorti, e sotto il mento barba prolissa e sprimacciata, con in mezzo un fiocchetto candido che pare una leccatura di biacca. I fisonomi pretendono che esso nel volto arieggi a un certo che misto di Leonardo da Vinci, di Guido Reni e del Tiziano. In Trisulti vestiva per ordinario calzoni di panno scuro, e un camiciotto di saia bianca serrato alla vita col cappuccio di dietro; e in testa portava un cappellaccio alla sgherra di lana floscia, ovvero di paglia a tesa larghissima, secondo le stagioni.

Qualità di mente ha molte e non dozzinali: una memoria sfondolata che è una dovizia di cose pellegrine, di cantiche, di poemi, di stornelli, di avventure, di be’ motti, di novellette, di apologhi dal tempo della edificazione della torre di Babele, sino a questi nostri della fondazione del Regno d’Italia: una fantasia ovidiana che troverebbe il mappamondo in una bacca di ginepro, e caverebbe una epopea da un granello di sabbia: una facondia poco meno che da Marco Tullio, un estro quasi da Ariosto, un sale che saprebbe di mordente a un Luciano; una vispezza di concetti, un brio d’immagini, un fuoco di temperamento che egli, a dispetto del pelo che imbigia, è sempre come un giovanotto di primo sbocciò. Dell’abilità sua nel maneggiare il pennello, non tocca a noi di parlare. Le sue pitture son lì, e dicono esse quanto sia innanzi don Pippo nella maestria delle invenzioni, del disegno, delle attitudini, de’ panneggiamenti, del colorito. Lì sono le due tele, ricordate più sopra, del macello dei Certosini di Londra e del martirio de’ Maccabei: lì è il Mosé che dalla selce fa scaturire le acque, e ne ricrea una smaniosissima calca di uomini, di donne, di vecchi, di fanciulletti; tante figure di numero che sono un esercito: lì e il san Brunone che nelle Alpi di Grenoble rinnova un simigliante prodigio, a ristoramento degli assetati suoi cenobiti: lì è, nella lunetta che sovrasta il portone del gran cortile, il suo fresco della Provvidenza: e lì sono altri parecchi suoi dipinti e gravi e scherzévoli, i quali attestano come sia vero il proverbio che «l’opera loda il maestro».

Ma i pregi che in lui sopra ogni altro riportano il fiore, e che Io rendono amabile a quanti incontra di usar seco domesticamente, sono quelli dell’animo. Perciòcché egli ha il cuor doro in oro, e sente di averlo proprio di ventiquattro carati, per questo nulla tanto desidera come di mostrarlo a tutti, e in tutte le congiunture, e senza mettere troppi divarii tra benevoli o malevoli, tra encomiatori o censori, una volta ch'egli v'abbia stretta la mano e titolato col dolce nome di amico, il cuore, non che mostracelo, ma ve lo dà pretto pretto in quanto vi offre: ve lo dà in un zigaro dell’Avana, ve lo dà in una fantasia di confetti, ve lo dà in una penna d’aquila, ve lo dà in una miniatura, in un bozzetto, in una fotografia, ve lo dà in quel che volete: giacché esso di punto in bianco vi costituisce padrone di tutto il suo, e vi apre i forzieri e vi slaccia le cartelle e vi spalanca le credenze e vi dice risolutamente: — Amico, pigliate qualche cosa, se no mi offendo; — salva a voi la discrezione di non isvaligiarlo per rispetto dell’amicizia. In somma ci sembra che niuno, il quale ne abbia conoscenza o per pratica o per l’uditone in que’ luoghi, possa mai fare bugiardo un tal semplice montanino, che di lui parlando sciamava: — Il pittore di Trisulti? ah, ah! egli ha un cuore di Cesare. Dio lo benedica!

XLIII.

Se avessimo agio e convenevole perizia da ritrarre anche noi, con parole di vivo e natural colorito, lo spettacolo compassionevolissimo che nella invernata del 1861, lassù in Trisulti, davano di sé le innumerabili famiglie dei profughi dalle terre dell’Aquilano, del Tronto, dell’Ascolano, le quali in que’ crudi mesi erano corse e desolale da bande di ferocissimi assassini; tanta materia di lacrimabili scene ci si ammucchierebbe sotto la penna, che un libro sarebbe scarso a comprenderle tutte distesamente. Perocché certe belve in sembianze umane che il Governo torinese avea poste a capo, non più di onorate milizie, quali furono già le sarde, ma di truculenti masnadieri, scolatura de’ ribaldi e feccia di tutte le ladronaie d’Italia, sotto pretesto di domare i così detti briganti (cioè i paesani armati che a buona guerra sostenevano le ragioni del legittimo re Francesco II, allora assediato in Gaeta, o del Papa Pio IX ) mettevano a sacco e a fuoco le intere villate, i borghi e i castelli; spargendo a rivoli il sangue dove che giugnessero a penetrare. E conciòssiaché all’uopo di sbramare la lor libidine di carnaggio era poco l’uccidere a furia d’archibugiate, que’ manigoldi si avventavano alle case con le. baionette in asta, e vi scannavano senza riguardo i giovani come i vecchi, i lattanti come gli adulti, le donne imbelli come gli uomini rubesti. Che se impadronitisi dei paesi li trovavano spopolati, perché gli abitanti s’erano ricoverati a salute negli antri delle montagne, i marrani sfondavano porte, spezzavano mobili, scassinavano, soqquadravano, disertavano granai e cantine, buttando per ira codarda le biade al vento, spandendo i vini sul suolo, diroccando e incendiando le capanne, i casolari, le stalle e tutto cièche poteva essere preda alle fiamme. Nè sazii di avere con orsina crudeltà bruleggiato contro le infelici popolazioni, quando inaspettatamente le sorprendevano, di avere sgozzate le innocenti figliuole in seno alle madri che lor faceano schermo del petto, di aver trucidate le spose nelle braccia dei mariti che le difendevano, di avere strozzali i moribondi nel letto, di avere smembrati i bamboli in fasce; que’ maledetti si voltavano a disfogare la lor diabolica rabbia contro Dio: e devastavano, abbruciavano, derubavano d'ogni arredo le cappelle e le chiese; ed a spregio de’ sacri vasi, delle sante immagini e della stessa Eucaristia, traboccavano in sì abbominosissimi atti, che il pudore vieta persino di adombrarli; ma che non erano da pareggiare se non alle nefandezze infernali dei Saraceni nel medio evo, e dei Luterani quando fu il saccheggio di Roma. Sia abbastanza il dire che quel sanguinolente Ferdinando Pinelli il quale, in un suo bando da energumeno, avea chiamato il Papa «Vicario non di Cristo ma di Satana», e invitati i suoi scherani «a schiacciare il sacerdotal vampiro, e a purificare col ferro e col fuoco le regioni infestate dalla immonda sua bava»; e comandato loro «d’essere inesorabile come il destino», e sentenziato che «la pietà» verso gli Abruzzesi «era delitto»; quel Pinelli, nel solo mese di Gennaio, aveva posti alla ruba, inceneriti e distrutti ben quattordici villaggi dell’unica e non grande provincia di Ascoli! G queste sono le care gioie di galantuomini, questi i campioni della indipendenza, questi i paladini della nuova cavalleria d’Italia, a cui si dee far di berretta sotto pena di lesa maestà patria 1!

Adunque, stante l’universale sbigottimento, originatosi per questi atroci misfatti, tostoché in una terricciuola di quegli Abruzzi andava il grido che le truppe eran vicine, che si accostavano, che arrivavano; ecco i poveri terrazzani (fogni età, d’ogni sesso, lasciar case e lavori, scappare tutti sgomentati a caterve in su le più erte cime dei monti, e di rupe in rupe vagabondando, ire alla cerca di una caverna in cui riparare la vita, e dare riposo alle membra rotte dagli strapazzi e intormentite dal gelo. Ora le turbe di questi miseri fuggiaschi, attraversati i borri e le creste degli Apennini e superate nevi altissime, giungevano da trenta, da quaranta e fin da cento miglia lontano, estenuate, fameliche, intirizzite al portone della Certosa di Insulti; ed ivi, con un compianto che avrebbe spezzato le roveri, chiedevano supplichevolmente pane e fuoco, per non morire d’inedia e di assiderazione.

1 I cenni rapidissimi dati qui delle immani fierezze a cui si abbandonavano i satelliti dei condottieri al soldo di Torino, sono una particella minima delle narrazioni che a quei dì leggevansi riferite dai diari! italiani e forestieri d’ogni colore. Veggansi, per grazia d’esempio, dei 14 Febbraio, la Gaiette du Midi del 1 Febbraio, la Nazione di Firenze dei 6 Febbraio, il Contemporaneo di Firenze dei 7 Febbraio, il Giornale di Roma dei 9 Febbraio, l'Armonia di Torino dei 21 Febbraio di quell’anno 1861. La spietatezza poi degli atti e la impudenza del bando del Maggiore Pinelli destarono tanto fremito in tutta l'Europa civile, che il Governo torinese dové fingere di arrossire di questo suo eroico servitore, e richiamarlo a se per sostituirgli altri che fosse, non già men bestiale, ma meno ciarliero. Nè si creda che i successori del Pinelli abbiano mutato vezzo, dopo tre anni di strazii, di arsioni e di sevizie da tigri. Anche nel corrente 1864 i pretoriani dei dominatori d’Italia seguitano a manomettere le Due Sicilie con tale ferocità di modi, che a quelle miserrime popolazioni fanno desiderare i Cosacchi e i Baskiri.

Ell’erano per lo più madri spaventatissime che si menavan dietro le giovanetto figliuole, per camparle dalle contaminazioni di quegli animali; e molle si tenevan per mano un piccolo garzoncello che a stento moveva i passi saltarellando, e insieme se ne recavano in collo un altro che allattavano: così che i gemiti di quelle tapine donne si alzavano intrecciati ai singhiozzi delle loro fanciulle ed ai vagiti lamentosi dei teneri pargoletti, con un concerto che schiantava il cuore a udirlo. E que’ lor volli erano lividi, maceri, sparuti; que’ lor occhi infossati, attoniti, semispenti; e i pedignoni e i manignoni, per le trafitture del freddo, sanguinavano a quelle lor meschine creaturelle, le quali imporporavano ogni orma che stampasserò nella neve; e altre di loro battevano cocentissime febbri, e altre rifinite cadevano in deliquio sotto gli alberi dello spianato. Seguivanle non di rado torme d’uomini, vecchi e ragazzuoli, sani e infermicci alla mescolata, con camminare più lento e laborioso, perché carichi in ispalla quali di masseriziuole sottratte alla rapacità dei ladroni, quali di caci, di legumi, di farine, di carni salate e di simiglianli civaie: pur beati di trafelare sotto quel peso, che in così aspre contingenze era la vita loro e delle mogli e de’ figliuoletti.

Narrare la carità con cui i buoni religiosi accoglievano tanti sventurati ad albergo, gli uomini dentro il recinto, e le donne nelle tettoie e ne’ pagliai, e li sfamavano, e li riscaldavano, e li ristoravano con medicamenti, non è di queste pagine. Sanno i poverelli del vicinato, che in Trisulti un pane e una scodella di minestra loro non manca mai, a nessun’ora del dì e in nessun tempo dell'anno. Ma, nel corso di quell’inverno sì memorabile, la fama della misericordiosa ospitalità e della insolita larghezza dei monaci inverso i fuggitivi regnicoli, si divulgo a tal segno, che i popoli degli Abruzzi anche più rimoti non cessano pur ora di magnificarli, e di chiamarli Angeli, e d’invocare sopra di essi le benedizioni di Dio.

E il nostro don Pippo, che faceva egli in questo continuo andare e venire e affollarsi di genti miserabilissime, che piangevano, che tremavano, che si attapinavano, che col solo mostrarsi avrebbero intenerile le selci di compassione? — Amico mio; diceva egli ad un tale, con cui al rezzor della sua villetta fantastica, si tratteneva in affettuosi ragionamenti, sulle ore più dolci di una gaia giornata di autunno; crediatemi che io alle volte non sapeva più dove diacine dar del capo! Appena io metteva il naso fuori dello studio, ed ecco un parapiglia, un bolli bolli, un assalto di Sebastopoli. «Sor pittore qua, sor pittore là. » Chi mi tirava di dietro pel cappucciò, chi mi afferrava per la falda del camiciòtto, chi mi prendeva pei gomiti: i putti mi si ficcavano tra le gambe; le donne mi stendevano le mani o mi porgevano i loro bambini; lutti mi si serravano intorno, e io era chiuso in un cerchio che, per romperlo e liberarmene, ci voleva proprio quel brando di Rinaldo,

fatto dalle streghe in fretta

Che ferri e marmi come rape affetta.

Allora non c’era mestiere che io non facessi, per dare un aiuto di costa agli speziali, ai dispensieri, ai fornai, a tutti i laici delle officine. In que’ giorni addio pennelli, addio tavolozze, addio quadri storici!

I quadri storici li aveva dinanzi agli occhi belli e vivi! E sì vi dich’io, che erano modelli esprimenti passioni cosi angosciose, che io avrei temi da rappresentare dieci assedii di Gerusalemme! Mi ricordero sempre di una mattina, che là sotto (e indicava un portico dirimpetto al suo pergolato) io trovai una povera madre seduta in un covoncello di paglia, con un paio di donzellone fatticce come due Diane, ma che sembravano due cadaveri: le giacevano svenute una a destra e una a sinistra; ed ella con le mani stretta la testa di ambedue sulle proprie ginocchia, e chinatasi con la faccia sopra i loro volli, li riscaldava con l’alito e con le lagrime. Che gruppo da Passitele! Tutte e tre erano scalze, tutte e tre filavano sangue dai piedi, tutte e tre erano digiune da sessant’ore! Furono rifocillate, furono pasciute; e io, rimuginando per miei cassettoni, donai loro gli ultimi avanzi dei pannilani che mi restavano, e a spese mie le feci calzare di scarpe. Corto, basti che in tre mesi io diedi fondo a tutti i bauli e a tutte le mie carabattole; e che, se non sollecitava di rifornirmi in Roma di abiti e di biancherie, don Pippo era ridotto a mettersi in tonaca e cocolla da Certosino.

 In sullo scorcio del Febbraio tra queste brigate di mondici, di affamati, di pezzenti che si succedevano in Trisulti, comincio a farsi vedere anche un giovane, civilissimo di presenza e così riserbato in ogni atto suo, eh egli non indirizzava mai una parola a chi che fosse: ma ricevuto il pane e quelle due ramaiolate di zuppa che dispensavansi dal monaco portinaio, si ritirava in un canto, or dietro una maceria, or a fianco di una catasta di legna; e desinata quella poca limosina, riportava la scodella e il cucchiaio al monaco, ripigliava la strada della montagna, e niuno il rivedeva più scenderne altro che il domani, alla stessa ora, per la stessa via, con lo stesso contegno. Egli era assai rozzamente vestito di pannacci logori, con un pastrano indosso rattacconato a toppe di più colori, e in testa un cappelluccio gualcito, che distonava coll’aria nobile di quel suo volto e con quella sua portatura, che avea un non sapevi che di marziale. Sebbene, a considerarlo con attenzione, gli si discoprivano nelle gote due fossette, e certi rossettini sopra una pelle vizza e biancastra, che lo dinotavano mal in essere di salute. Alle prime don Pippo non gli pose mente gran fatto: però quel sembiante, que’ lineamenti, que’ modi che nen aveano nulla del rusticano gli dieder nell’occhio; e non andò guari ch’egli si sentì stuzzicalo dalla curiosità di parlargli, e di conoscere chi egli fosse e donde venisse. Un giorno pertanto, provatosi di salutarlo così all’amorevolona come suol egli, ne fu risalutato, ma con ritenutezza guardinga. Un altro dì, picchiandogli pianamente in una spalla, gli offerse una monetuzza d’argento; il giovane, strettasela in pugno, gliene rendette grazie, ma non senza quel po’ d’impaccio che proviene da una mal dissimulata vergogna. — O capperi! voi dunque avete soggezione di me? gli disse il pittore tenendolo per la mano; ben si vede che voi ignorate che uomo sia don Pippo.

—Che volete? rispose il giovane sorridendogli mestamente; per chi ha bisogno e non è avvezzo a riceverne, tanto dà rossore una limosina quanto uno schiaffo.

—Eh via! su questi monti non dovreste aver troppo timore di farvi scorgere. Chi vi guarda? chi vi conosce? Qui non c’è altro che neve e sassi, sassi e neve.

—Dite bene voi, signor mio; ma il sangue che ho nelle vene non è già neve, e questo che batte qua dentro (e si poso la mano sul lato del cuore) non è sasso.

— Perbacco! sclamò don Pippo, fissandolo con due occhi che serabravano due pan tondi; voi avete ad essere pur giovane di gran sentire! Sapete che? noi siam fatti per intenderci, per essere amici. A rivederci un’altra volta. E datagli una forte stretta di mano entro nel cortile.

XLIV.

Quando i cibi invariabilmente magri della Certosa gli venivano a sazietà, oppure quando lo assaliva all’ugola il pizzicore di alcun ghiotto bocconcello, il nostro maestro usava rizzar su cucina a un cantuccio del suo studio, il quale, per essere fuori della clausura, non soggiaceva punto alla regola che vieta severamente pure l'introduzione del grasso dentro al chiostro: e ivi o si lessava un polio, o si arrostiva quattro arnioncini d’agnello, o un paio di braciuolette o di salsicciuoli, o che altro; tanto che i suoi denti non si disassuefacessero del tutto dal macinar carne. Or accadde che, non molto dopo passate quelle parole col giovane, don Pippo essendo tornato da visitare Monsignor di Alatri, il quale è suo grande amorevole, e in quella città avendo fatte le opportune provvisioni da bocca, diviso di ammannire lì su due piedi un cencino di desinare a gusto suo, e d’invitare lo sconosciuto giovane che tenessegli compagnia. Di fatto all’ora dei mezzogiorno ne uscì in traccia, lo rinvenne che stava assiso languidamente presso il portone, ed avutolo a sé, con cordiali finezze intromiselo nel suo studio. Il poveretto era così pallido ed estenuato di forze, che non poteva più reggere la persona sulle gambe; di che appena fu in quella stanza si lascio cadere sopra una sedia, e giro un’occhiata di meraviglia per le quattro pareti, che erano un tesoro di ghiribizzi l’uno più nuovo dell’altro.

Agli angoli, sotto il finestrone a mezzo cerchio che prendea la luce da un orto, sorgevano due gugliette formale d'intaglio sopra schegge di quel pino bellissimo che Michelangelo Buonarroti pianto nella Certosa di Roma, e che pochi anni addietro era stato buttato in terra da un fulmine: epperò quella a man destra era intitolata al medesimo Michelangelo, mentre l’altra, che a man sinistra faceva accompagnatura, mostrava una dedica a Torquato Tasso, perché custodiva la penna, con la quale i testimonii del diseppellimento delle sue ceneri rogarono l’atto autentico della traslazione, che del 1857 se ne fece nel nuovo suo sepolcro di sant’Onofrio. Più in là pompeggiava un trofeo di lucentissime armi antiche, sormontate dal cimiero d’acciaio, sulla cui cresta ondeggiavano piume sfarzose d’airone: nel fondo era un orologio mosso dall’acqua; poi da ogni banda teschi umani coronati da conchiglie e da cento arzigogoli di vasi etruschi, di stelle, di croci, di ghirlande lavorate a musaico con ceci, fagiuoli, lenticchie e altri legumi secchi; e finalmente una tapezzeria di bozzelte e cartoni; e una farraggine di tavolozze, di amalite, di disegnaloi, di colori in panellini, di telai, col rimanente degli arnesi richiesti all'arte del dipingere.

—Ebbene, che ne dite, buon giovane, di questo mio romitaggio? interrogo don Pippo l’ignoto suo commensale che era tutto inteso in un cartoncino, e parea se lo divorasse con gli occhi.

—Dico che è uno stupore. Non mi sarei figurato mai che in questa camera ci fossero tante e sì rare cose!

—Neh? soggiunse il pittore ponendo in tavola tre piattelli; or sedetevi e sbocconcelliamo un po’, nel nome di Dio. Intanto, se è lecito, badate ve’ se è lecito, potrei sapere chi siate voi, di che paese, e come e perché stiate già da due settimane vagando su queste orribili montagne?

—Signore, e io sarei curiosissimo di sapere prima da voi che sia questo cartonetto; replico quegli additandoglielo mentre si assideva.

—Ah, ahi accomodatevi, e subito ve lo spiego. Esso è il figurino della politica all’ultima moda, cioè la volpe di Libia.

—Non parlo di cotest’acquerello con animali, no; intendo quest’altro, questo profilo.

—Una cosa per volta. Il Fortiguerri, che è quel poeta che è, nel sesto canto del suo Ricciardetto narra,

che del mare in proda

Si pon la volpe libica a sedere,

Ed immerge nell’acqua la sua coda;

Onde i gamberi su vi vanno a schiere,

Che non temono alcuna insidia o froda:

Quand’ecco esce dal mare e a più potere

Batte la coda in questo sasso e in quello,

E de’ gamberi fa crude! macello.

 

Quest’ottava ho espressa io nel cartoncino che vedete; e credo che se io la mandassi in dono al conte di Cavour o a lord Palmerston o a qualche altro, credo, vi dico, che per premio di averti ritrattati così a punto in allegoria, mi appiccherebbero al petto una bella croce di Cavaliere. Così è, così è!

Quello oggi spende saggiamente gli anni

Che col suo travagliar travaglia il mondo,

Cercando il suo profitto in gli altrui danni.

Oggi onor porta a null'altro secondo,

Non chi giova e mantien, ma quel che solo

0 l'amico o ’l vicin più mette in fondo.

Versi aurei, che erano una satira ai tempi dell’Alamanni quando ti dettò, ma che ora sono una verità santa, una perla sputala dalla sapienza. Or, giovine caro, servitevi, ve ne prego; non facciamo cerimonie, perché la cuccagna qui comincia e qui finisce, sapete?

—Obbligatissimo alla bontà vostra; soggiunse l’altro con un’ansietà che lo rendeva smanioso; ma quel profilo di chi è egli dunque?

—Mio, oh bella! e di chi ha da essere?

—Capisco, ma chi raffigura?

—Non potrei dirvi se una persona in carne ed ossa, o un fantasma soprammondano. Io da tempo almanaccava un’aria di volto che avesse più del cielo che della terra, per la composizione di una Santa in gloria che ho nel concetto di fare: e per quanto dessi spesa al cervello, non me n’usciva cosa che valesse un lupino. Le villanotte che vengono quassù, le sono tutte pezzi di gigantesse buone per modellarne Giunoni e Ci beli, ma non altro. Eppure lo zurro di quel viso mi girava e mi frullava, che io non ne avea requie; giacché anche di noi pittori è verissimo ciò che dei sacerdoti di Apollo cantava quel capo scarico di Ovidio:

Est Deus in nobis, agitante calescimus

In questo mezzo che è che non è? Una Domenica capita a sentir messa una creatura, la quale parve calata dalle nuvole apposta perché io ne cogliessi i lineamenti: ché essa era tutta quella, proprio quella testa che si confaceva al mio bisogno. Mano all’opera. Vi acquattai dietro un muro, e mentr’ella udiva con molta divozione la sua messa nella cappelletta qui fuori del monastero, io la copiai alla meglio. Torno la seguente Domenica, e io da capo a ritoccarne i contorni; tanto che ho potuto poi terminare il bozzettino, che ecco qua.

A queste parole il giovane ravvivandosi tutto, si era affisato in riconsiderare il profilo con un tal guardo, che egli avea aspetto d'uno a cui un animo dicesse qualche gran cosa delle fattezze, accennate lì con sì dolce accarezzamento di sfumature: perciò non curava più né il mangiare né il bere, ma stava come assorto e rapito sopra di sé, nella contemplazione di quel delicatissimo disegnuccio. Don Pippo per alcuni istanti si azzittò, e col sorriso alla bocca si compiaceva dentro sé del piacere che il suo convitato sembrava pigliarsi di quel cartoncino. Ma avvistosi che il giuoco tirava in lungo: — Ehi, amico! riprese a dire frugandogli un gomito; vi prego che non m’andiate in estasi. Questi fegatelli si raffredano; su, torniamo a noi.

—O pittor mio, porrei cento contr'uno ch’ella sì, è dessa! sclamò l'altro scagliando a don Pippo una occhiata che era un lampo; io la ravviso: ah certo è dessa! Deh, signore, ditemi dov’è ella? dove?

—Ma chi? ma che?

—Voi dovete saperlo, e se non me lo dite, voi siete un crudelissimo uomo; grido allora il giovane rizzandosi come in delirio. Dov'e? dov’è ella, ch'io la riveda anch’io prima ch'io muoia abbandonato peggio che un cane? Oh sangue mio! oh core mio!

— Ancor questa è nuova! soggiunse il nostro pittore; che v’ho a dir io, giovane caro? io non v’intendo; io smemoro! Badate che non aveste a prendere qualche equinozio.

—È dessa, oh è dessa! persuadetevi, don Pippo, che io non la scambio. Questa è la sua pettinatura, questa è la sua fronte, questo è il suo profilo netto spiccato. Figuratevi! io l’ho presente in idea, né più né meno che se io la vedessi qui viva e spirante.

—Il nominativo, amico mio bello, il nominativo! strillo l’altro con quel suo vocione quadrato, e insieme levandosi e con un braccio pigliandolo attraverso le spalle; questo vi dimando io: ditemi in grazia, di chi parlate? chi è costei, della quale volete notizie da me?

Ossia che il giovane, entrato in sé, avesse risentimento dell'impeto smoderato di quel suo affetto, o che temesse di aver data mala contentezza all’ospite suo, il caso è che placatosi e ricompostosi lotto: — Scusatemi, signore; soggiunse intricatamente; se voi conosceste le sventure mie e le mie pene, voi siete uomo di tanto senso, che non solo mi compatireste, ma piangereste meco.

— Basti cosi; gli replico il maestro risospingendolo pian pian verso la tavola. Or via, concludiamo con questi fegatelli e poi disfogherete i guai vostri che io ascolterò volentierissimo. Quindi risedutosi mentre che il giovane rimetteva mano al piatto, egli per isvagarlo, sull’ariettina di una giochevole tarantella napoletana, tolse a canterellare questo rispetto del Lamberti.

È il viver nostro un sogno travagliato,

E questa è cosa chiara e non menzogna.

Quei che già furon vivi hanno sognato,

Questi che vivon oggi ciascun sogna:

Così con breve gioia e lungo affanno

Son per sognar ancor quei che verranno.

Ma ell’erano baie. E che questo poverino punto non sognasse, don Pippo non tardo a rendersene capace.

XLV.

Poco sopra la metà del fianco meridionale di quel gran masso di rupe, sulla cui vetta si lieva il corpo della Certosa, è un rustico santuario della Madre di Dio, tenuto in somma venerazione dalle genti de’ prossimi paeselli, e da tutti quei montagnesi d’intorno che lo frequentano con divoti pellegrinaggi. La chiesolina, parte eretta sopra fondamenta in mattoni, e parte scavata nel vivo della rocca, sorge accosto una grotticella, sotto la quale corre una vena di acqua limpidissima. Dentro vi è un altarino di pietra semplice, che ha nell’ancona la Immagine chiusa in cristalli, con sopravi questa iscrizione: PRIMA VIRGO TRIAS EST. SECONDA VIRGO MARIA EST; di qua e di là rozze tavolette e poveri voti, e dinanzi una lampada che sempre vi suole ardere. Solitario è il luogo, sterile, deserto e così discosceso ed alpestre, che dovunque giriate 1 occhio non iscernete se non balze, catrafossi e burroni che vi si spalancano sotto dei piedi sino a una voragine, in fondo della quale sentite, piuttosto che vediate, romoreggiare uno strepitoso torrente. Viuzze anguste e disagevoli mettono a questa sacra edicola, chiamata volgarmente «le Cese»: ma quella che vi scende giù da Trisulti è a dirsi anzi una scala a chiocciola che un sentiero, tanto è aspra di bugne e di ritorcimenti.

Sul dar volta la mezzanotte dei tre di Marzo, due donne, strettamente ravviluppate ne’ loro fazzolettoni, tacite e con lento passo avanzavansi per una delle sdrucciòlose viottole che a questa chiesicciuola fan capo. Era un bellissimo stellato; un acre e sottil venticello che movea dalle gelate gole dell’Apennino purgava Varia, e la luna spuntava allora di dietro uno sperone di scoglio, e feriva dirittamente le creste e le schiene di quegli aggruppati macigni, che intorno calano a sprofondar le radici nel sottoposto abisso. Le due pellegrinanti che, tutte sollecite di non porre il piè in fatto per su quella stradetta rovinosa, non si erano ardile di levare un' occhiata al cielo cupamente sereno, e alle stelle che tremolavan lor sopra a mo di pupille vive, alla subita apparizione di quella luce ristettero come spaventate dalla orribilità in cui a quell'ora, in quel silenzio, a quel trarre di brezza si miravano quasi smarrite. — Oh Dio! dove siamo? disse l’una di loro appoggiandosi con le spalle a un l'occhio e afferrandosi con le due mani al braccio della compagna.

— Non temere, figliuola mia, siamo a buon punto; rispose questa per darle spirito; non vedi luccicare li nello sfondo quella fiammella? È la lampana della Madonna. Coraggio! anche un po' di strada e siamo al termine.

Quella prima non fece altra parola, ma guardandosi dinanzi, d’attorno, da lato era attesa in contemplare lo spettacolo delle orridezze che la circondavano, e parea non ardisse più muoversi. In effetto era cosa da raccapricciarne, il trovarsi nottetempo sull'orlo di tali burrati paurosissimi, al chiarore di una luna che investendo con isprazzi di raggi vividi e crudi tutti gli sporti, e smaltando di un pallido argento le ignudo lame di quelle aeree altezze, veniva a spegnere il suo lume nella opacità fosca degli antri, de’ covi e degli anfratti di que’ rientramenti di bricche, e discopriva così travedi e non vedi cupezze immensurabili all’occhio atterrito. — Animo, figliuola mia! le ridisse quell’altra dopo stata alquanto; oltre, andiamo che non ti avessi a raffreddare. — E pigliatala per le mani tanto la rincorò, che giunsero alla bocca della cavernella, nel fianco della quale nasce internandosi la chiesuola di Nostra Signora delle Ceso. Qui le due donne mandarono un gemebondo sospiro, e buttatesi ginocchioni invocarono con pianti l’aiuto della potente consolatrice degli afflitti, e con sommessa voce presero a recitare il rosario.

Lettore, nell’una di queste due viatrici, e per sorte in quella appunto che ha dato segni di maggior timidezza, voi già raffigurate la povera orfanella di Pellegrino, che forse da troppo in qua vi avevamo fatta perdere di vista. E noi, a cui tardava di finalmente rimettervi sulle sue orme, siamo lieti che l’abbiate ravvisata nel ciglio di queste sgomente voli frane, e a un’ora cotanto insolita, e tra così dense tenebre, mal diradate dai riflessi di una luna, che non può aver adito entro gli avvolgimenti di questa cieca spelonca.

Adunque sì, era proprio dessa. E colei che l’accompagnava e le facea da guida, volete sapere chi fosse? Era la sua madre di latte, quella buona Caterina, che in Veroli, con amore più di sorella che di fantesca, per circa tre mesi, avea prestata ogni desiderabile assistenza alla inferma Giovanna, e asciugatile i sudori dell’agonia, e chiusile gli occhi, e perfino assettatala nel sepolcro. E volete anche sapere d’ond’elleno venissero? Da Collepardo, che è un miserrimo paesuccolo situato a libeccio della Certosa, in poppa a una verdissima costerella; ed è noto al mondo solo per la sua meravigliosa grotta di stalattiti. E volete sapere altresì per dove ambedue fossero inviate? Pel monte detto il Castello che, con la cima a basto rovesciò, si rizza là verso oriente: ed è al comignolo di tutto quel filare di dossi poco meno che impraticabili, i quali si accavallano fra Sora e Trisulti. Il resto poi lo saprete più a bell'agio.

Compita pertanto che ebbero la recita del rosario e delle altre lor divozioni, si prostrarono amendue con la faccia in terra, e baciarono e ribaciaron il sogliare di quel venerabile speco. Quindi rittesi in piedi, sostettero anco un tratto a pregare ognuna nel secreto del suo cuore. Eccetto il sordo stridere dei pipistrelli che svolazzavano, e i mesti lai di ud gufo, intorno ad esse non si udiva se non il lontanissimo strosciare del torrente laggiù nel fondo del baratro, e il dolce mormorio del rivolo che zampillava in seno alla cavernetta vicina: onde tale e tanta era la quiete, che l'una sentiva alitar l’altra.

In questa il campanile della Certosa batté i primi tocchi del mattutino, che l’eco di quelle scarpate rocce fiocamente ripeteva due, tre, quattro volte. — Su, figliuola; disse Caterina scostandosi dalla bocca della grotterella; andiamcene, che risichiamo di non arrivare a tempo.

— Eccomi con voi, sì, sì partiamo; rispose trepidante la giovinetta, a cui quel tetro suono piombava come voce di morte nell’anima, e tutta gliela rimescolava, rinfrescandole la memoria dei cari estinti, ch’ella pur sempre piangea con lacrime inconsolabili.

Per un pezzo stentatamente rimontarono quasi branconi, aggrappandosi a sterpi, a borni, a bozze di selce, e camminando sopra risalti di pietra scheggiati che a pena vi si tenevano in piedi. Ma uscito da quelle asperità di balze e pervenute sull’altura di una greppa che facea valle, respirarono: e colloquiando un po sottovoce s’inoltrarono per una straducola serpeggiante tra due file di marruche o di carpini, che la rinfiammavano a guisa più di parete che di siepe.

Or mentre studiavano il passo per isboccare in una prateria, che a capo di quella stradicciuola si apriva tutta dalla luna irraggiata, videro a breve distanza da loro un non sepperò che agitarsi e venir loro incontro. Le poverette allibirono, si fermarono, si ristrinsero l’una alle coste dell’altra: e col riprezzo addosso si misero a invocar Dio e ad aguzzar l’occhio, per discernere quel confuso oggetto che più si appressava a loro e più sembrava addoppiarsi. Le due tapine tremavano a verga a verga quando si accorsero ch'egli erano due passeggeri. Volevano dare una voce, ma elle non avean più fiato. Se non che l’uno di costoro avvistosi di esse, indietreggiò, sostette, bisbiglio una parola al compagno e smosso il cappello a una lanterna cieca, spicco un salto e volto loro in faccia il riverbero. Con quel bagliore improvvisissimo le donne videro lampeggiare una spada, e appuntarsi contro una pistola: — Oh Dio! strillarono acutissimamente; pietà! la vita!


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LA POVERELLA DI CASAMARI

RACCONTO STORICO DEL 1860 E 1861
XLVI.

Che Pellegrino fosse morto, che la figliuola, con uno sparimento che avea del misterioso, si fosse dileguala subito dalla casipola di Vito e di Filomena, e che un quattro settimane dappoi, di notte, per gli aspri dirupi circostanti a Trisulti, in compagnia della nutrice, incamminata al monte Castello, si avvenisse in uno incontro che b raggricciare le carni a pensarvi; i lettori nostri ne sono stati informali, diremo così, di sbiescio e solo per accenni, i quali in niun modo non possono aver contentala la ragionevole loro curiosità. Adunque, prima di tirar oltre il filo della narrazione, sarà pregio dell’opera che, rifacendoci un po’ indietro, di tutte queste cose non ancor chiare diamo alcune più spiegale notizie.

Undici giorni il povero Pellegrino era sopravvissuto a quella visita di Traiano, nella quale si fe tanto scambio di promesse, di profferte, di patti e di sicurtà per conto della giovane Maria Flora che, perduto il padre, sarebbe rimasta, senza un appoggio al mondo, orfana e derelitta nel mezzo di una campagna. Nè in questo scorcio di vita appenatissima, ch’egli pur bramava si prolungasse, non per altro che per provvedere alla salvezza della sua abbandonata fanciulla, ristette di aprirle l'animo suo e di supplicarla con le lacrime agli occhi, che, trapassato lui, ella tosto si fosse condotta in Roma, e acconciatasi in casa di quel signore così buono, cosi cristiano che le sarebbe come un altro padre; mentre nella moglie sua avrebbe trovata una seconda madre, e nelle sue figliuole altrettante sorelle. Ma a questi consigli e a queste affettuose preghiere, che esso le veniva ripetendo ogniqualvolta il male concedeagli un intervallo di tregua, ella rispondea freddamente, e per le generali, e frastornando il discorso, quasi incredula che il padre in quegli istanti godesse del pieno suo senno. Maggiormente che egli,dopo la distretta di quei primi terrori che antecedettero la invasione di Casamari, non si era più ricuperato: ma del continuo scadeva, a tale che lo stesso articolamento delle parole gli era difficultato per l’ingrossarglisi della lingua.

E inoltre tante erano le sollecitudini e le angosce di quelle giornate che seguirono il saccheggio e l’arsione della Badia, e tanta l’apprensione che non rientrassero i Piemontesi, a disertare il contado con una delle lor solite scorrerie, che la poverella non avea capo da curari di sé medesima.

Una sera però (e fu quella che precedé il combattimento di Rauco) a ora tarda, quand’ella, innanzi di coricarsi, si accosto al padre per dargli bere e assettargli i guanciali sotto del capo, questi, spalancati gli occhi, e al lume di una lucernetta che avea da lato, messosi a Usarla attentamente: — Iddio adunque ti benedica egli! comincio a balbuzzare con un sembiante che indicava grandissima commozion d’animo,si, ti benedica egli per l’amore che mi hai mostrato sino all’estremo, e per tanta assistenza che tu mi hai fatta. Lo vedi, figliuola mia? io sono al termine di questo mio patire, e vicinissimo a rendere anch’io l’anima mia al Signore; e vorrei rallegrarmene, perché, dopo quarantott’anni passati nelle spine, io anelo proprio alle rose dell’eternità. Ma..... — E le avrete; oh, io ne son certa! lo interruppe ella tergendogli la fronte con un becco del lenzuolo, e insieme, quasi per filiale carezza, avviandogli i capelli e lisciandoglieli con la mano. Voi e la povera mamma e Guido, lassù sarete poi i nostri tare angeli: non è vero?

— Non si ripenserà che a te, a Felice e a Otello, e non si farà altro che scongiurare Iddio che degni placarsi e risparmiar voi. Ma tu intanto adempirai tu la mia volontà? ti ricovererai in Roma dove ti ho detto, e vi aspetterai là le disposizioni della cugina mia e tua santola? — In Roma? datevi pur pace che io v’andrò; e benché abbia una ripugnanza indicibile a far da serva in casa di gente civile; nondimeno, per rispetto di voi, andrò anche a servire.

— T'inganni. Il signor Traiano mi ha giurato che ti prenderà in conto di figliuola, che sua moglie ti farà da vera e buona madre, fino a che mia cugina non li venga a pigliare.

— Son cose belle a dirsi; soggiunse qui la fanciulla agitando la testa; delle madri non se ne possono aver due. Ma, vi ripeto, ubbidirò, andrò e servirò.

— E quando? — Questo si vedrà. Io spero che Dio vi conservi ancor tanto, che possiate riabbracciare Otello e riavere da lui notizie di Felice; se pure son vivi. Allora si prenderà il partito che vi piacerà meglio.

— Bene, or tu mi parli in maniera che mi consoli. Di me sarà quel che sarà: a tutto io sono pronto, a vivere anche un mese, come a morire domani. Ciò che mi turba e rannuvola la serenità dei momenti che la malattia mi lascia di requie, è la sorte tua, di Felice e di Otello. Non mai ripenso a te e a lor due, che il cuore non mi si serri: perocché io temo che voi siate solo al principio del patir vostro, e che vi sopravvengano guai e pericoli, che abbiano ad essere la ruina vostra in questo mondo e nell’altro.

Il ragionamento rimase troncato qua, perché all’infermo, già languidissimo e affinito, manco la lena di proseguirlo. Onde la figliuola, persuasolo con le belle che si chetasse, gli auguro la buona notte, ed ella si ridusse nel suo sgabuzzino a riposo. Ma niuno dei due sospettò, che coteste parole dovessero appunto essere le ultime che l'uno proferiva e che l’altra dalle sue labbro ascoltava.

In effetto al mattino sull’albeggiare il rimbombo del cannone, che a breve distanza tuonava contro Bauco, scosse il povero Capitano e lo riempi di uno spavento cosi gagliardo che perdè lingua, voce, sensi e poscia trabocco in una convulsione, e appresso in una torpedine che egli stette la intera giornata, che appena da un filo di respiro si riconoscea ch’egli fosse vivo. Nè si ebbe modo di somministrargli nessun rimedio, né di ricorrere a medico, né di chiamar prete per l’olio santo o raccomandazione dell’anima. Conciòssiaché lo strepito della prossima battaglia tale sgominamento e confusione genero in quel casolare di rozzi campagnuoli e negli altri del vicinato, che ognuno parea fuori di sé; e in tutto il contorno non s’udivano se non pianti ed urli, e non si vedevano che stormi di fuggiaschi, i quali pallidi, tremanti, esterrefatti si affrettavano su verso Veroli, o scappavano sparpagliatamente a nascondersi nelle boscaglie di Scifelli. Per guisa che, a pagarlo tant’oro; non si sarebbe trovato uno che si fosse ardito uscire all'aperto, fuorché per islontanarsi dalla moschetteria dei Piemontesi. E cosi in quella che Vito con le due figliuole riparava a Monte san Giovanni, la massaia, presa quasi da una vertigine di paura, si mescolava a una frotta di fuggitivi che s’inviavano a Colliberardi, abbandonando la casa, il malato e la giovane alla mercé di Dio.

Le ambasce, le trepidezze, le agonie di questa misera creatura, rimasta sola in tanta terribilità a vegghiare il padre moribondo, se le figuri chi può. A formarsene un concetto sia sufficiente il dire, che, quando a sera fatta il capo di casa tornato al suo focolare salì nella stanzuccia di Pellegrino, ebbe ad inorridire scorgendo lui disteso sul letto con le sembianze di cadavere, e la figliuola svenuta a’ suoi piedi senza sfuriti, senza colore e gelata che parea di marmo. Scaldata e ristorata, per opera delle due villanelle, essa rinvenne. Ma fu un riaprir d’occhi e un ricuperare di sentimenti, più tormentoso dello stesso deliquio. Giacché nel riaversi essendosi precipitata al capezzale del padre, lo vide trarre stentatamente gli ultimi aneliti, con un rantolo che le affogava il cuore a udirlo: e indi a poco baciare il Crocifisso che ella gli presentò, piantarle in faccia le pupille spente, vitree, immobili, contrarre le labbra, torcere un po’ da una banda la testa, e spirare. — Ah Dio, è morto! sclamò ella tutta appassionata, volgendosi a Vito e alle fanciulle che ad un angolo della camera pregavano per l'agonizzante; tre! sono tre in due mesi! E ciò detto, con la faccia nelle mani, cadde a ginocchi.

XLVII.

Pochi di prima che seguisse questo sì luttuoso avvenimento, era passata di colà e fermatavisi quella Caterina, che a tutta la famiglia dello sfortunatissimo Capitano era stata guida e rifugio, nelle strettezze che descrivemmo a suo luogo. Essa incamminavasi a Collepardo, per cercarvi uno scampo dalle persecuzioni di certi ribaldissimi suoi paesani, i quali, per isfogo di odio e per cupidigia di vendetta, l’avevano posta in voce di manotengola de’ briganti e di fautrice di sedizioni contro il dominio de’ Piemontesi. Di che tanto a lei come a tutti i suoi si diedero noie cosi moleste, e si fecero intendere tali minacce, che per la migliore ella si appiglio allo spediente di uscir dalla terra e mettersi al sicuro nel summentovato paesello, ov’erano anche certe altre persone sue conoscenti. Ma nell’andarvi, sebbene con ogni cautela, non potè a meno di torcere per la via di Casamari e fere un saluto al malato e alla giovane, ch’ella riguardava con occhio di madre amantissima. In questa visita, che fii trista per le comuni contingenze e di durata brevissima, ambedue si accordarono di riunirsi insieme per qualche tempo, caso mai Pellegrino fosse venuto a mancare, innanzi che tornasse Otello e s’avesser nuove di Felice. E di ciò ne buttarono altresì un molto all’infermo. Se non che in quell’ora esso era cosi insipidito di mente, che egli non annodava. Ma tuttavolta con questa, intelligenza si separarono, e l’ultimo addio di Caterina alla giovinetta fu: — Badate che io vi voglio meco, e che se dovete ire in Roma, v’ho da condurci io, sapete? Vi ricordi che la signora Giovanna, buon’anima, vi raccomando prima a Dio e poi a me.

Pertanto fu cosa molto naturale, che, dopo le esequie del padre, la sconsolatissima orfana rivoltasse l’animo alla sua nutrice, siccome a colei che, per l’antico uffizio di averla allattata e allevata, e pel presentissimo affetto che le portava, ella sapeva essere l’unica donna nelle cui braccia ella potesse abbandonarsi a chius'occhi. Ed a coni' mettersi a lei la spronava eziandio l’ansia di valersi dell’opera sua, per procacciarsi qualche notizia di Felice ed Otello, de’ quali medesimamente Caterina era madre di latte, ed i quali fuor d’ogni dubbio in lei avrebber fatto ricapito, ove sani e salvi fossero campati dai pericoli dell’assedio e delle avventure della guerra che allora infieriva. Il perché, saldato in cuor suo questo proponimento, si studio di effettuarlo con pari prestezza che secretezza, si per togliersi da que’ riti che non le dipingeano nella fantasia altre immagini che di morte, e si per cucire la bocca alla sua massaia, che in punto di ciarle era un molino a vento. E così nel modo che cotesta femmina racconto poscia al mandato di Traiano (conforme si è da noi riferito) ella si partì, non recando seco altro che un involtino di panni e centodue luigi d’oro, che erano l’avanzo dei cencinquanta donati in Roma dalla sua santola a Pellegrino. Certo non era prudenza questo cimentarsi da sola, una donzella, con indosso tanta moneta, in tali tempi, a un viaggio di oltre diciotto miglia, per istrado montuose, enne e in gran parte foreste. Ma timore ed amore forse che sempre si consigliano con prudenza? Nondimeno Iddio e l’angelo suo presero guardia di questa innocentissima imprudente; la quale, innanzi di arrischiarsi per l’intrigato laberinto delle selvose viottole che menano appiè delle Scalelle, fe sosta nella basilica. di Casamari: vi pregò, vi pianse, vi si fortificò l'anima col pane del cielo; e non prima ne usci, che dentro si sentisse franca e sicura della divina protezione, a cui aveva appoggiata la sua difesa.

E in vero non appena si fu internata per la macchia di Scifelli, che si abbatté in una compagnia di Abruzzesi, tre donne, due fanciulletti e quattro nerboruti nomini, i quali si indirizzavano a Vico, paesotto non mollo discosto da Collepardo. Dio vi accompagni, buona figliuola! le disse per prima la più anziana di quelle montanine, come l'ebbe veduta.

— Altrettanto a voi; rispose timidamente la giovane. Nè ci volle di più. Questo fui un. bello appicco per intrecciare nuove parole.: e d'una in un’altra si venne a tale, che, manifestatosi per vicenda il termine del cammino, deliberarono di fare in buona brigata quel batto ben lungo di via che, sino a tre miglia sotto la costa di Collepardo,era il medesimo per tutti.. Pel che la poverina fu assai contenta, e nell’intimo suo rendette grazie alla Provvidenza. Come giunsero al villaggio di Scifelli, gli uomini che si traevano dietro due giumenti carichi, significarono alle loro donne che si fòsser posate per isdigiunarsi: e la fermata si fece ad una casipoletta, sulla cui soglia una vispissima vecchiarclla stava tranquillamente a filare. Questa casuccia murata alla rustica di sassi grezzi e senza intonicatura di sorta alcuna, era bassa e quadra di forma, e sopra l’architrave dell’uscio avea un tettuccio sporgente e più in alto due; finestrelle. Arrestatisi, uno degli uomini lego le bestie a un canto presso il cancelletto di una maceria: un altro dato di piglio a m sacca ne tolse pane e cacio; e poi tutti di conserva entrati, si sedettero a una tavola. — Il buon giorno a voi, Innocenza; disse uno dei quattro che fu l'ultimo a mettersi dentro; che si fa di bello? — Si vive; linguetto la vecchietta ponendo giù la rocca, e afferrando un canovaccio per nettare la tavola.

— E che fa il nostro Luigi? dimando colui con una strizzatina d’occhio che avea del malignuzzo.

— Non si rivede ancora; ma e’ non dovrebbe tardar molto a ricomparire.

Qui la vecchia venne chiamata all’uscio da una comare, e la brigatella cominciò a ficcar il dente in quel pane e in quel cacio, e a maciullare che era una deliria. La giovane, con graziosità semplice ma cordiale, fu invitata dalle compagne a participare di quella magra colezione; e di buon grado, più per non parere scortese che per appetito che si avesse, accetto una fetterella di cacio, e spilloricò e sbocconcellò alla meglio. Dopo di che, essendo finito l'asciòlvere, si risalutò la ostessa, si slegarono gli animali e si prese l’erta, montando sempre a ridosso dei greppi che si alzano tra le Scalcile e Trisulti.

Se la figliuola di Pellegrino fosse stata men riguardosa e meno astratta ne’ suoi tormentali pensieri, avria potuto spillare certe notizie sui fatti di quella vecchierella e imparar cose, che le avrebbe messo pro il saperle. Conciossiaché Innocenza era una «brigante»sa» di baldacchino, provveditrice e massaia oculatissima di Chiavone e di tutta la sua banda. Ella, sebbene avesse quattro quinti di un secolo sopra degli omeri, ogni giorno andava col suo asinello in Veroli per pane e civaie da rifornirne i Realisti campeggiati sulla montagna. Ella mandava suoi bracchi per ispiare tutte le mosse dei Piemontesi di là dal confine, e come tosto n’avea fumo, subito ne dava ragguaglio all’Alonzi. Ella finalmente si disfaceva in brodo di succiòle, quando la sera i Chiavoniani, calali giù a frotta in Scifelli, s’impancavano nella sua botteguccia, e tra i vapori del rum e dei àgari, le narravano le giornaliere loro prodezze; ovvero, poste intorno le sentinelle avanzate, mertevan mano alle chitarre e alle sampogne, e trimpellavano, e menavano il riddone, e celebravano le vittorie, e cantavano strafotte popolaresche in lode del Re e della Regina. Le quali particolarità storiche ora tanto più liberamente si possono far pubbliche, quanto che la bellicosissima Innocenza già è passata di questo mondo; e quindi non è a temere che il Regno d’Italia la catturi, e la mandi cosaccamente «a domicilio coatto» nella sua Siberia.

Ma né della vecchia, né delle imprese dei Realisti essendo caduto il destro di ragionare per via tra quelle donne, la giovinetta si disgiunse da loro senz’altro cercarne; e, Dio scorgendola, pervenne in Collepardo che il sole slava per tramontare.

XLVIII.

Il primo incontro di lei con quella poveretta di Caterina fu un tenerissimo abbracciarsi, un mescolar lacrime di intenso cordoglio per la morte cosi acerbamente precoce del Capitano, e un assegnarsi alle ordinazioni del cielo, con sospiri e con atti di occhi e di mani, che ben dimostravano quanto ad ambedue sapesse agro l’accomodarvisi. —E tu, cara mia, che farai ora tu, senza padre, senza madre, senza nessun altro che qui ti conosca o ti voglia bene, fuori di me, che vi sono forestiera ancor io, e vivo a pigione e campo con le mie braccia? le disse Caterina in quel subito impeto degli sfogamenti, co’ quali versava tutta l’anima nell’anima della sua figliuola di latte.

— Farò la volontà del povero mio padre, e andrò in Roma; ma non subito. Io mi rimetto a voi perché innanzi mi procuriate, se fosse possibile, qualche nuova di Felice e di Otello.

— D’onde vuoi tu, figliuola mia, che io le cavi? Nuove! come averle, se tutti e due sono in Gaeta? — Chi lo sa? Felice, quando non l’abbiano ucciso, bada esservi: ma l’altro? — L’altro c’è anch’egli; oh, che dubitarne? — E se non ci fosse potuto entrare? e se i Piemontesi l’avessero edito in mare e fucilatolo? Q, com’è più verosimile, se fosse uscito dalla città, e stesse in traccia di noi per queste montagne, disperalo di non trovarci? — Ah, bella mia, tu ti conforti proprio con gli aglietti! Chi penetra in una fortezza qual è Gaeta, sii certa che e’ vi riman chiuso come il sorcio nella trappola.

Nulladimeno questa disparità di opinioni, intorno a quello elio l’una giudicava probabile e l’altra improbabile, non altero punto gli animi; che anzi Caterina di bonissima voglia comincio a far pratiche per. tentare di prender lingua da chi era al caso di somministrarle informazioni di buona lega. E questi chi altri poteva essere che o Chiavone, o alcuno della sua squadriglia? Imperocché Otello non avea ricovero in que’ paesi, eccetto che nel campo dei Realisti: e s'egli veramente fosse tornato dalla sua corsa in Gaeta, là e non altrove era da ricercarsi. Ma l’Alonzi, dopo la solenne disfatta dei Piemontesi in Bauco, non si rimostrava più per su quelle giogaie della frontiera, che erano già suo nido inespugnabile; e niuno sapea dare un benché minimo indizio de’ siti, ne’ quali il terribile condottiero si doveva essere intanato; né indovinare il perché di quella subitissima sparizione, appresso Una vittoria che avea riempila del suo nome tutta la provincia di Campania.

— Abbi dunque pazienza, figliuola mia; ripeteva' Caterina a Maria Flora; aspettiamo che Chiavone sia rivenuto. E una sera: Sai? lo annunziava per darle cuore; stamane al mercato di Guerrino, certi mulattieri dicevano ch’egli era stato veduto tra Campodimele e Roccaguglielma; e me l’hanno ridetto le pollaiuole di Alatri che ho incontrate per istrada. E un altro giorno: Sai? la moglie dello stagnaro di Pofi ha contato alla merciaia di Ripi, che Chiavone è rientralo per Vallecorsa, e che certi legnaiuoli di Pico s’imbatterono nella sua banda che era di trentasei uomini, e avean combattuto con le Guardie nazionali, e n’avean prese dieci che si paravano innanzi come si fa le capre. E un’altra mattina: Sai? Chiavone, ier l’altro ceno a Strangola galli. Poco dovrebbe stare ad avvicinarsi: anche un po' di pazienza, e lo riavremo qua da noi.

Frattanto, l’un dì succedeva all’altro, e le congetture, o piuttosto gli augurii, onde la tribolata fanciulla sforza vasi di sostener il cuor suo, battevano sempre in aria, e non si scorgea via da investigare il sodo di nulla: ma tutto era desiderii, tutto presagi, tutto fantasticaggini e dicerie. Due Domeniche alla fila salì con Caterina in Trisulti, non tanto per ascoltarvi la messa, ché ve n’era l’agio anche in Collepardo, quanto per indagare se colassù andassero altre voci, e si avesse alcun sentore dei movimenti de’ Realisti. Ma le due gite nulla non le profittarono. Eppure non che si togliesse giù d’animo e vacillasse nella conceputa speranza, ma di giorno in giorno meglio vi si rifortifìcava; per guisa che, al nascere d’ogni nuovo sole, ella ancora si sentiva rinascer dentro un nuovo spirito di confidenza, che quello sarebbe il desso che col suo dolce lume le apporterebbe le consolazioni dietro cui sospirava. E delusa oggi si rassicurava pel domani, e ingannata il domani si rifidava nel doman l’altro: tanto è vero

Che la speranza è un sogno nella veglia!

Gaeta in questo mezzo tempo, vinta, non dalla bravura degli assediasti, ma dalla malignità di un morbo contagioso e dalla perfidia di compri felloni, era venuta a patti e resasi con la perdita di ogni cosa, fuorché l’onore. Il re Francesco, la regina Sofia, i giovani Principi, esuli e riparati in Roma. La prode e fedele guarnigione prigioniera di guerra. Il così bello e dovizioso reame di Napoli tutto in preda al conquistatore che superbamente lo calpestava, che lo smogneva d’oro e di sangue, che ne spezzava le armi, che ne oltraggiava i vessilli, che ne trionfava incatenandolo schiavo di straniera metropoli; schiava d’altro straniero. L’annunzio di questa suprema calamità dei Napoletani si diffuse rapida come scintilla elettrica per tutti i paesetti alpestri che fronteggiano il Liri; e fra le turbe degli sventurati che vi erano in asilo, profughi dalla patria corseggiata dal vincitore, desto un fremito, un compianto, un grido di vendetta così universale, che a fatica può divisarselo chi non sa la gran gelosia della nativa terra che cova in petto ai regnicoli, e la lealissima devozione che professano al loro Monarca; ma che è facile argomentarlo dall'indomabile pertinacia con cui seguitano a guerreggiare le soldatesche di Torino, le quali oggimai hanno seminate le ossa in ogni palmo di quel Regno mal occupato. Al primo stupore che li colpi tutti, si che attoniti e sbalorditi penavano ad aggiustar fede a tanto disastro, tenne dietro, massimamente nei padri, nelle madri, nei fratelli, nelle sorelle, un’ansietà pungentissima dei loro cari, che, militando pel Re, stavano alla difesa della ceduta piazza. E siccome tra i più idioti si comincio a bucinare, che per fermo i Piemontesi avrebbon passati per le armi tutti i valorosi presidiarti di Gaeta, e questo sciòcchissimo rumore, per sé incredibile, trovo credito in molti inchinevoli a persuadersi pur sempre il peggio, quando trattavasi di un nemico che in opera di macellar carne umana non gli crocchiava il ferro; per ciò non sono da potersi esprimere a penna i crucci, le ambasce e le lamentazioni che ne menavano que’ miseri fuorusciti.

Come durarla salda a sperare, o piuttosto ad ammoinare i tetri sospetti che nella mente sorgeante, una fanciulla che vedeva intorno a sé tutti disanimarsi, tutti impallidire, tutti gemere e trangosciare sopra questo chimerico eccidio dell’esercito di Gaeta? Anche Maria però pian piano senti fuggirsi gli spiriti e mancarsi dentro quel raggiuolo confortativo, che sino allora avea mitigato alquanto gli affanni della sua inconsolabile orfanezza. La meschinella già con l’addolorata fantasia in luogo di tre noverava a cinque i suoi morti, e con gli occhi appassiti dal lagrimare continuo che notte e giorno faceva: — Su, presto, conducetemi in Roma; diceva a Caterina; che ancor io muoia in pace, dove mio padre m’ha lasciato per testamento che vada a morire. — O Vergine santissima, aiutatemi voi, se no verro in tale disperazione, che mi manderà a casa del Diavolo calda calda! Borbottava seco medesima la donna che s’era impensierita di questo atterrimento della sua giovane. Ma con quale arte risollevarla? La sera dei tre di Marzo in quella che ambedue meste, taciturne, agitate dalle loro nere perplessità rientravano in casa, un ometto bruno e barbuto si spicco da un crocchio, nel quale s'interteneva a cicaleccio dinanzi una bettola; e guizzato incontro a Caterina: — Buone nuove! le bisbiglio a un orecchio fermandola; stanotte «gli amici t si accampano là in cima al Castello. Già si sono mandate le mule col pane. Zitta! non lo sappia l'aria! — Davvero? sclamò la donna tutta allegramente meravigliosa.

— Tant’è: ve lo dico io, e basti.

Costui era un cugino suo, che ella avea pregalo di ormare bel bello la squadra de’ Realisti, e di farla subito avvertita come risapesse che approssimavasi a Trisulti. Ed egli era adatto a servirla puntoalissimamente, per essere uno di quegli avvenitizii di detta squadra, che bazzicavano tutto il dì co’ partigiani più fervidi dell’Alonzi.

Quel che seguisse tra Caterina e l’altra di presente che ebbero questo avviso, è soverchio narrarlo. Il fatto fu, che a notte ben cupa si mossero da Collepardo, presero alacremente la via delle Cese, e, visitalo il Santuario, camminavano passo innanzi passo verso il monte Castello, quand’ebbero quell’assalto spaventevolissimo che le agghiaccio di terrore.


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LA POVERELLA DI CASAMARI

RACCONTO STORICO DEL 1860 E 1861
XLIX.

Se vi ricorda, noi lasciammo don Pippo seduto nel suo studio a una frugai mensa, ammannita da lui medesimo, in compagnia di quel tal giovane, il quale, alla vista di un certo graziosissimo profiletto a chiaroscuro, l’avea data per mezzo ad amorose smanie da vaneggiale: di che l’arguto uomo s’era messo a celiare, canterellando versi intorno al perpetuo sogno che è il viver nostro. La celia però non fu tirata a lungo. Stanteché il commensale a quella baiosa cantilena essendo arrossito, inchiodo gli occhi nel piatto, ai azzitto e con questa taciturna erubescenza fece Intendere al pittore, che le sue angosce non erano leggerezze che s’avessero da prendere a gabbo. E don Pippo se ne addiede e, discreto com’è, nel meglio spezzo tosto la sua gaia tarantella.

In quanto stettero a tavola, poc’altro parlarono, e questo poco a spizzico e a salti: giacché l’uno era pudibondo di sé, melanconico, pensieroso,e l'altro curiosissimo d’investigare, nel sembiante e nel contegno di esso lui, il mistero della passione che gli si leggea nel viso, e che per fermo dovea morderlo dentro, e insensibilmente radergli fino dalle radici il fiore sì fresco e bello della giovinezza. Ma egli non era altrimenti mistero facile a spiarsi dal di fuori. E poi chi era costai? di che paese? di qaal condizione? e come capitato il? e perché si riserbato, anzi sospettoso in ogni suo andamento? Don Pippo qui s’impigliava in uno spinalo di congetture, e per trarre che fecesse ad apporsi, ben accorgessi di non ferir in cosa che avesse più fondo di un fico secco. Per lo che l’umano maestro, il quale più considerava quel misero e più se ne sentiva pietà, entro nella deliberatone di spillargli con arte il secreto dalia bocca, rimandandolo poscia consolato, pure a costo di fargli dono del cartoncino da lui vagheggiato con tanto spasimo di tenerezza.

Adunque terminato assai sbrigatamente quel boccone di desinare, ambedue si alzarono: e don Pippo, preso il suo convitato a braccetto, nel punto che questi si rivoltava per accarezzare con un’altra occhiatola quel profiluzzo, che parea proprio averlo tolto di senno; lo condusse avanti la stufa, si cavo da una tasca la sigariera, e porgendogliela piena di odorosissimi sigarelli di Spagna: — Amico, servitevi; gli disse con un modo quasi artificiòsamente cordiale.

— Vi ringrazio; sono offeso nel petto, e il fumo del tabacco per me è un veleno: mi ecciterebbe una tosse che abbaierei fino a sera.

— O guarda stranezze! e io come sono infreddato, non ho rimedio più valido a rintuzzare la tosse che il sigaro e la pipa.

— Ah! ma voi, signore, non avete ricevuto mai palle di carabina nell’arcale dello stomaco, né sboccato sangue a catinelle.

— No, per grazia del cielo.

— E lo è, per mia disgrazia.

— Dove dunque? — Sotto le mura di Gaeta.

Don Pippo gli sbarrò addosso tanto d’occhi, e stato un piccolo momento in silenzio squadrandolo e risquadrandolo: — Voi ferito in Gaeta? grido illuminandosi in faccia di una viva fiamma; in Gaeta voi? Ma siete voi soldato della mia dolce patria? di Napoli?

— Appunto; io ho militato fino allo scorso mese sotto le bandiere di Francesco II: e per lui e per l’indipendenza del Regno ho sparso il mio sangue, e forse fra poco avrò ancor perduta la vita.

— O caro! o fratello! strillo il pittore avventandoglisi al collo, serrandoselo fra le braccia e stampandogli un bacio in fronte: siediti qua, raccontami, dimmi di che parte del Regno sei? come ti chiami? quali sono le tue disavventure? parla, aprili con don Pippo, che non avrai a pentirtene.

Allora il giovane presolo per le mani, e guardandolo con una veemenza di affetto, che tutta l’anima pareva esserglisi raccolta negli occhi: — Don Pippo! soggiunse con voce e con attitudine di supplicante; voi scemereste almeno per metà il fascio dei dolori che mi opprimono, se poteste indicarmi ove sia colei che avete ritrattata là in quel cartone. Oh! voi mi dareste in mano il filo da uscire di un labirinto, che vuol essere la mia rovina. .

— Figliuolo, già te l'ho detto: non so chi ella sia, né in che luogo abiti, né d’onde, né per qual cagione sia comparsa quassù due domeniche. Se ti dicessi altro, io mentirei. Or chi li fingi tu ch’ella possa essere? — Fingo? oibò! io giurerei ch’ella è dessa, l’unica mia sorella: e per certo quella che l’accompagnava era mia madre; e io da venti giorni erro qua intorno a loro, e le cerco da per tutto, e mai non le incontro. Ah, 'don Pippo, egli è pur un giuoco di fortuna crudele, cotesto di essere forse a pochi passi dalla mia famiglia fuggiasca e bisognosa di me, di struggermi per raggiungerla, e mai non trovarla! Appresso le quali parole il giovane, buttatosi cavalcioni d’un trespolo, chino la lesta nelle mani e scoppio in un pianto si compassionevole, che don Pippo si sentiva schiantare il cuore dalla commiserazione.

— Ascoltale me; ripiglio questi dopo affaticatosi di placarlo; quel che non si è fatto può farsi. Io, amico mio, promettovi che non ci sarà pietra ch’io non muova, per arrivare a scoprire qualche notizia di queste due persone. Calmatevi, bravo giovane, e non dubitate, che sin da ora questo carico me lo assumo io. Di grazia, come vi chiamate? — Il mio nome è uno scherno, è uno strazio! Nel battesimo mio padre mi fece impor quello di Felice, e così mi hanno sempre chiamato; quantunque della felicità io non abbia mai gustato nemmanco l'odore.

— Felice mio, credi a don Pippo che non t’inganna, ma ti favella il pretto linguaggio della verità santa. Alza gli occhi: vedi là quell’abbozzo di una scena pastorale, appena acquerellato? Leggivi sotto, che cosa dice il cartello? — Vedo si, e’ c’è scritto: «Il monte della vita».

— A meraviglia! prima che tu mi reciti l'Iliade de’ tuoi mali, voglio spiegarli la filosofia simboleggiata in quella montagna, in quella greggia, in quel rivolo, in quella pianura. Sarà per le una lezione molto opportuna. E conciòssiaché io non ho in usanza di abbellirmi de’ meriti altrui, il dichiarare ch’egli è un concetto levato di peso dalla Bucchereide del Bellini, poeta saporoso quanto un finocchio. Odi qua, se la memoria non mi corbella, questi sono i suoi versi alla lettera:

no’ altre persone

Che ci addimandiam uomini, non siamo

Tutte egualmente ricche, dotte e buone;

Ma a pascolar come le capre andiamo

Su pel monte del vivere, e chi ’n cima,

Chi a mezza costa, e chi ’n valle ci stiamo.

Ma tanto è capra quella che s’adima,

Quanto è capra quell’altra a mezzo monte,

E quella che di lor più si sublima.

E in capo al dì, allo scender del monte,

Tutte vanno egualmente a ventre pieno

A ber del pari ad un istesso fonte.

Nè in tutto il giorno altro divario avieno,

Se non quest’uno infra di lor, che l’una

Posto ebbe un po’ più alto, e l’altra menò.

Afferri, amico mio caro, la moralità di quest’apologo? Ella è una miniera di savi ammaestramenti: e quand’io m’interno a considerarla sul serio, mi rendo sempre più persuaso, che, in questo nostro mondo» la così detta felicità non vale quello che costa. Volta e gira, latte le. umane vite, sì le felici, sì le infelici, al fin de’ conti debbono venire a dar il tuffo in questo medesimo ruscello, e a lasciare le spoglie in questa medesima valle: e l'unica differenza sai tu qual è? Che dii rotola giù da un grado più allo di felicità, fa il tonfo anche più somaro, e chi casca più da basso, si affonda che non se ne accorge nessuno. Anima bella, ora che li ho, per tuo bene, acconcio così un pochetto il latino in bocca, e che ti sei alquanto posalo, parla tu e raccontami i tuoi guai, ché io sarò tutto orecchi per ascoltarti, come son tutto cuore per compatirli.

L.

Cotesto giovane era d’indole gagliardissima, altiera, arrischiata; e di fantasia tanto alle prime impressioni accendevole, che a gran pena si conteneva da una certa subitezza nelle parole e negli atti, per la quale spesso gl'interveniva d’essere malcontento di sé medesimo. Senonché come in contrappeso a questa impetuosità, che era il proprio carattere del suo naturale temperamento, aveva sortito uno spirito così docile e gentile che egli, fatto scorto d'alcun suo errore, non indugiava un attimo a riconoscersi, a disdirsi e a rendersi eziandio in colpa, con una ingenuità di modi e una tal onesta verecondia, che presso tutti gli conciliava stima e benevolenza. Ond’è che ricevuto in ottima parte l’ammonimento faceto, datogli dal pittore in emendazione di quel suo linguaggio che troppo sentiva del disperato; si ritiro un poco in sé stesso, basso la fronte, e scusatosi con le intollerabili ambasce che gli strappavano querele indegne di un’anima cristianamente generosa, venne alla narrazione de’ tristi suoi casi: i quali, per amore di esser brevi, compendieremo qui alla buona, secondo il solito nostro. Chi propriamente fosse questo Felice non è bisogno che s’indichi ai lettori: i quali, dalle risposte sue e da tutti gli aggiunti che accompagnarono il pranzo e i oolloquii suoi con don Pippo, hanno avuto agio di argomentare ch’egli non era. altri che il figliuolo maggiore di Pellegrino, e l’unico fratello superstite dell’orfana Maria Flora. Quindi non ripeteremo di lui quello che in altro luogo ti è occorso dirne, esponendo partitamente le vicissitudini e gl’infortunii a cui era soggiaciuta la tribolata sua famiglia.

Accennammo che, dopo la tumultuosa ritirata del real esercito di Napoli dalle foci del Garigliano, esso era rimasto sotto la fortezza di Gaeta, tra quell'ottavo battaglione di Cacciatori a piedi, il quale si era tanto segnalato fino dai principi! di questa guerra che, io grazia di sozzissimi tradimenti, dovea condurre il Regno all’ultimo suo sterminio. Or incontanente che il suo battaglione giunse intorno alla piazza, subito fu posto a campo nell'istmo di Montesecco, insieme con altri quattro di fanteria e col reggimento de’ Cacciatori a cavallo, perché impedissero il nemico di appressarsi alla città o d’investirla da terra, innanzi che fossero compiuti i necessarii apparecchiamenti della difesa. Ivi suo primo pensiero fu cercare notizia del padre e poi di Otello, il quale egli stimava essere ancora nel bellissimo reggimento di cavalleria che seco campeggiava nell'istmo. Ma del padre non tardo a risapere, che egli sano e salvo era entrato negli Stati della Chiesa per la via di Terracina; e in fondo del cuore se ne rallegrò, perocché amavalo tenerissimamente, e assai bene conosceva ch’egli non era più in condizion di salute da reggere ai patimenti di un assedio. Di Otello ninno potè dargli altre nuove, eccettoché esso era sparito in un’avvisaglia di antiguardo: ma se ucciso o prigioniero o disperso, tutti lo ignoravano. Questa separazione del caro compagno della sua vita, e a sé diletto quanto fratello, gli peso oltremodo; singolarmente per la dolorosa dubbiezza che in quella scaramuccia fosse stato trafitto a morte.

D’indi a pochissimi giorni, ciò fu ai dodici del Novembre, si appicco grossa mischia tra i Piemontesi e i Regii, i quali pure stavano saldi in mantenere le poste del colle Lombone e del monte sant’Agata, che, a guisa di due forti staccali, guardano la imboccatura dell’istmo. Si combatté per circa dieci ore: e i Napoletani, avvegnaché più deboli di numero e disaiutati da perfidi o codardi uffiziali che cedevano le intere compagnie a discrezion del nemico tanto superiore di forze, ressero cosi validamente all’urto, e presero e ripresero i punti perduti al primo impelo con tale vigoria, che quella giornata sarebbe riuscita a una vittoria assai splendida, se il decimoquinto battaglione dei Cacciatori non fosse stato fellonescamente venduto ai Sardi, i quali, circuitolo, s’impadronirono, quasi senza colpo ferire, del predetto colle Lombone; e di lassù tolsero a fulminare con le artiglierie rigate i corpi che occupavano le circostanze di Montesecco. In questo azzuffamento Felice, a corto intervallo l’una dall'altra, ebbe due palle stanche alla forcella del petto, le quali glielo intronarono, e ammaccarongli varie costole. Ma esso impavido non ne fece caso, e anzi celiandone co’ camerata si ostino a pugnare valorosamente fin presso alle tre ore di sera. Contuttociò il petto gli dolca, e la seguente notte fu còlto da ardentissima febbre con vomiti di sangue: perché gli fu bisogno mettersi in mano dei medici, che lo fecero trasportare in un degli spedali della città.

Lunga, penosa e di qualità affatto insanabile fu la malattia che gli si generò, per la infiammazione derivatagliene in tutti i visceri nobili. A capo di sei settimane egli potè bene alzarsi e darsi vista di guarito: a segno tale che prego d’essere adoperato qualche ora del giorno in alcun serviziuccio, presso le batterie che rispondevano ai cannoni dell’assediatore. Ma non gli fu consentito. Di che egli rammaricato, sprezzando una sottile febbretta che del continuo ardevagli; nelle vene, per fuggir ozio e cessare il tedio d’una creduta convalescenza che mai non finiva, chiese ed ottenne d’essere impiegalo tra gl’infermieri. Le fatiche però e lo sconsigliato strapazzo che faceva di sé, lo ridussero a tale svigorimento che gli fii mestieri ricoricarsi: e i medici, sentenziatolo etico incurabile, lo annoverarono fra i malati che, per isgravamento della piazza, s’era statuito di trasferire in Terracina, avanti che la partenza del naviglio francese lasciasse libero campo ai Sardi di stringerla anche dal lato di mare.

Di fatto, entrante il Gennaro, gli fu notificato questo suo prossimo passaggio in uno spedale di Terracina. Il povero Felice se ne contristò, pianse e in quel primo molo di crucciò, serrando le pugna, si auguro inconsideratamente che una bomba piemontese fosse piombata a fracassargli la testa nel suo letto di dolore. Se non che disfogata quella vampa di collera, tostamente si pacifico e, confortato dalle pie parole di una suora, che soavemente gli rimprovero quella sfuriata, rimisesi tranquillamente nella disposizione di Dio.

Il di precedente al suo imbarco la regina Sofia, che cotidianamente aggravasi per le infermerie della guarnigione, e ricreava i malati con la presenza, coi detti, coi donativi, ed ancora prestava loro degnevolissimì servigi di magnanima carità; fallasi presso al letto del giovane e salutatolo graziosamente, gli regalo alquante confettare e una scatola di pasticche. A tanta cortesia Felice non si tenne che, balzato a sedere sul letticello, non afferrasse la mano della real sua benefattrice, e imprimendovi sopra un bacio e irrigandola di due lacrime, non esclamasse: — Ah Maestà, voi siete un angelo! e io, sinché io viva, mi dorrò sempre di non avere sparso tutto il mio sangue per la vostra corona, pel Re e per la salvezza della nostra patria. La Regina lo ringrazio con un amabil sorriso, e si discostó mentr’egli con voce interrotta da singulti di commozione la risalutava gridandole dietro: — Viva Francesco li, viva Maria Sofia! Nello spedale di Terracina egli si soffermo il tempo che gli bisognava a racquistare tanto di lena, che gli bastasse per compiere il viaggio di Sora, dove si consiglio di far capo, immaginandosi che là si dovesse essere ricoverata la sua famiglia in casa di Caterina; conforme gli avea significalo il padre, quando erano ambedue negli accampamenti del Volturno. E. perciòcché egli ragionevolmente sospettava che i suoi,. così profughi com’erano, penuriassero di moneta e difettassero forse ancora del necessario alla vita; per questo andava rattenutissimo nello spendere anche un soldo di una sua somma di quindici ducali, ch’egli desiderava di portare proprio intatta agl’indigenti suoi genitori. Il qual riguardo lodevolissimo di pietà filiale istigollo a imprendere il viaggio in groppa a un giumenterello, che a stento, e non senza gravi disagi, lo condusse in Sora ai primi del mese di Febbraio.  Colà, per mollo che indagasse, non solamente non arrivo a procacciarsi pure un rimoto cenno che lo mettesse sulle vestige della sua famigliuola; ma della stessa Caterina e dell’abitazione di lei non trovo chi volesse o sapesse dargliene un sentore. Talmenteché dopo vagabondalo cinque o sei giorni per quelle terre, sconfidato di venire a buon partito di nulla, ripasso il confine e gironzando di borgo in borgo, di paese in paese, né mai pervenendo a un chiarimento di sorta alcuna; da ultimo si determino di lasciar correre lo scorcio della invernata che allora imperversava, e di aspettare in qualche secreto asilo, che addolcitasi la stagione gli si facilitasse un’andata in Roma: quivi un cert’animo gli dicea che avrebbe incontrato quei pegni dell’amor suo, de’ quali era vana fatica lare altre inquisizioni per le alpestri contrade della Campania. Intanto, per sua maggior quiete e soddisfazione, scrisse alcune lettere al padre e alla madre, e le indirizzo quali in Roma, e quali nelle città primarie dqlla provincia. Il tapino era ben lungi dall’avvisarsi ch’egli era già orfano, e che il padre, la madre e anche il giovinetto Guido riposavano in Ire diverse tombe, non guarì discoste dal suolo ch’egli calpestava! Sul dosso piano di una di quelle groppe che da oriente sovrastane alla sommità di Trisulti, era un boscaiuolo nominato Giocondo, uomo schietto e all'antica, il quale aveva stanza in un’asciutta caverna, che si occupa alle falde di un cinghione di sasso orridamente spaccato: e nella solitudine di quella spelonca e delle vicine selve, strettissimamente campava col lavoro delle sue mani. Accadde che un dì Felice, smarritosi per gl'inestricabili sentieri di quelle macchie, si abbatté in costui, e n’ebbe così buone grazie, ehi così preso della sua cordiale semplicità, che per allora, non sapendo in qual miglior luogo ricoverarsi, fé sosta in quella caverna: e gli piacquer tanto l’albergo e l’albergatóre, che si propose di piantare ivi il suo nido, insino a che non fiorissero le violette di primavera. E Giocondo, fatto sicuro dell’essere di quest’ospite, che al sembiante, al tratto, al garbo manifestavasi ornalo di rara bontà, molto ne fu contento, e volentieri gli cesse un angolo della grotta. Ed egli acconciatovisi, penso di assottigliare la parsimonia del vitto, fino a sustentarsi con la giornaliera limosina, che i monaci della Certosa dispensavano ai poverelli; lieto di scendere ogni mattina ad accattarsela egli al portone del monastero, per cagione di serbare, in sollievo della famiglia, il più che potesse di quella poca moneta che tuttora gli avanzava.

Tale in succinto fu la storia che don Pippo s intese narrare con candida eloquenza dallo sventuratissimo giovane: la quale, in udendola, gli fece sobbollire nell’animo una così tempestosa concitazione di affetti, che il volto suo piglio a grado a grado tutti i colorì delle sue tavolozze, e gli occhi gli gocciòlarono a simiglianza di due stillicidii.

Ma egli è tempo che vi facciamo raggiugnere le due viatrici, fermate in così mal punto da que’ due minacciòsissimi passeggeri.

LI.

Agli strilli di sbigottimento che misero le donne, tostochè furono sopraffatte dall’abbaglio di quel riverbero e dal luccicore di quelle armi: — Olà, chi siete voi? le interrogo un vocione d’orco, dietro colui che teneva la lanterna e la pistola rivolta contro di loro.

— Donne innocenti; madre e figliuola che andiamo pe’ fatti nostri. Ah Maria santissima delle Cese! replico interrottamente Caterina, sforzandosi di raccogliere il fiato che le sveniva.

Ma siccome quel tale si avanzo agitando la lunga e brunita lama d’acciaio che avea nel pugno, ed era tutto imbacuccalo che parea ano spettro; cosi tanto Caterina quanto la sua giovinetta compagna, n'ebbero per lo sgomento un si gagliardo sbalzo di cuore, che annebbio loro la vista: onde, insieme abbracciatesi, si accoccolarono fra la siepaglia delle marruche, e basivano e palpitavano come due lepri sotto il coltello dei Cacciatore.

— Alto! non temiate di noi; soggiunse, ammollendo il ferreo suo vocione, quegli che brandiva lo stocco, arrestato che si fu dirimpetto a loro; noi non vogliamo far del male a nessuno. Diteci, chi mete? — Noi? già ve l’ho detto: usa povera madre e una povera figliuola; riprese affannosamente Caterina volgendosi al suo terribile interrogatore, e provandosi di guardarlo in viso; dèh! per l’amor di Dio, toglieteci dagli occhi queste armi che ci fanno spiritar di paura, e lasciateci. andare libere per le anime benedette de’ vostri morti! — State su, coraggio! non vi spaurite, perché noi non siamo assassini, ma due galantuomini; ripiglio colui. E ringuaiuando la lama dentro una mazza di canna d’India che stringeva nella man sinistra, e dello all’altro che rintascasse la pistola: Buona donna; seguito con una inflessione di voce sempre più affabile: come siete voi qui per questa montagna? a quest’ora? con una ragazza? — Signor mio, boi poverette, si sa, ci bisogna bene andare pei fatti nostri.

—E dove? — A incontrare i figliuoli miei. — Rizzatevi adunque, e tirate avanti in pace, ché noi non vi daremo fastidio.

Le donne si raddrizzarono, con tutto che battessero i denti e risentissero appena di sé; massime la fanciulla, la quale non si reggeva se non abbrancata al dorso di Caterina, e nascondea per metà il volto fra le pieghe del suo fazzolettone. Allora colui che aveva la lanterna fece alcuni passi innanzi e appressossi all’altro dalla canna d’India: per modo che i due uomini si trovarono a occhio a occhio con le due meschine, le quali, pel costringimento del respiro e pei tremiti delle membra, non avean più vigore di muoversi.

— Gua’ che sgominio! si fece a dire quasi per beffa, mirandole così abbiosciale, quello che sosteneva la lanterna, e che ai panni ed al portamento mostrava di essere un rustico alpigiano; le son divenute proprio due cenci! pare che il fulmine le abbia tocche! — Sì, eh? ridisse Caterina, con questa sorta di batticuore — — Poverelle! sclamò quell’altro picchiando con la sua mazza per terra; ella è una brutta burla: e davvero ci rincresce d’avervela fatta. Ma in questi tempi, chi vuol camminare di notte è necessario | che stia in guardia di sé, ed apparecchialo ad incontri d’ogni maniera. Or via chetatevi, e per compenso della paura togliete qua.; Con che egli si sviluppo il collo e il mento da una gran cravatta di! lana che vi avea d’attorno, si frugo in petto e offerse alcuni baiocchi alla donna, che s’inoltro e stese la mano per prenderli. A quest’atto la giovane torse un po’ la faccia ancor ella verso quello sconosciuto, gli levo in fronte una timidissima occhiata, e insieme con Caterina inchinatolo, mormoro una parola di cerimonia. Costui rimirarla, fare una mossa di maraviglia, romper in un: — Oh! sonoro, e restar li fissandola a bocca aperta, fu tutta una cosa.

— Che! la conoscete forse? gli dimandò Caterina, per levare di impaccio la sua Maria che penava di una trepida confusione sotto il guardo attonito di quell’uomo.

— Se la conosco? torno ad esclamar egli; oh si la conosco e la riconosco! Brava donna, siate sincera e scopritemi tutta la verità. Voi siete una certa signora Giovanna, o una contadina di Sora, eh? — Uh sant’Antonio mio! e chi ve l’ha detto a voi? soggiunse Caterina che ricominciava a perdere della sicurtà che ora venuta pigliando; io la signora Giovanna? ella è ita in paradiso.

— La madre di questa giovane che avete con voi? — Vergine delle Ceso! voi, signore, che ne sapete? — Rispondete a tono: in somma siete o non siete? — Bene, sì; io sono del contado di Sora. ' — E avete nome Caterina, non è vero? — Fede santa! come sapete voi chi io sia? ih, foste mai uno spirito? l’ombra di qualche nostro morto? — No, no; replico l’altro con una risatina che non potè raffrenare; io sono un uomo in carne ed ossa; e perché non crediate che voglia scherzare, dirovvi che io sono il pittore di Trisulti, il quale tomo ora da visitare indovinate voi chi? — Chi dunque? usci a chiedergli involontariamente la donzella, che tutta in una angustiosa sospension d’animo l’ascoltava.

— Ah povera ragazza! forse che il cuore ve lo pronostica? Io tomo da visitare vostro fratello Felice.

Il trasecolamento delle due viaggiatrici a udire questa novella inopinatissima, sì che alla prima ne rimasero di pietra; poi le voci di stupore grandissimo, nelle quali turbatamente proruppero, e per ultimo l’ansia con cui oppressero l’ignoto personaggio di una calca di quistioni sul come, sul dove, sul perché, sul da quanto tempo; non sono punto possibili a descriversi. Onde noi, senza altro più soprattenere il lettore, lo ragguaglieremo subito delle cose che eran seguite, appresso l’intimo abboccamento che avea avuto il giovane con don Pippo.

La familiarità intra loro due, per la scambievole comunicazione degli animi, nel brevissimo spazio di alcuni giorni era diventata così intrinseca, che Felice passava le intere ore dentro lo studio del suo pietoso amico; e questi cominciava a non aver più bene di sé, quando al tempo consueto non lo sentisse aprire il cancellino del ballatoio, e picchiare all’uscio coi tre colpetti di contrassegno. La qual sollecitudine del pittore, nasceva soprattutto dalla brama ch’egli avea di refiziarlo con qualche alimento men grossolano; e più confacevole alla sua complessione si rifinita.

Or accadde che ÌD tutte le giornate dei due e dei tre di Marzo don Pippo non lo rivide, né intorno allo studio, né per le vicinanze della Certosa, per le quali passeggio un buon tratto appunto in cerca di lui. Ond’egli slava di mal umore: e tanto più cocevagli questa novità, quanto che avea da informar il giovane dell’esito di certe sue pratiche, le quali pareano doverlo mettere sulla via d’incontrarsi con la donzella chiaroscurata nel cartoncino, che era stato orìgine della reciproca loro domestichezza.

Alla sera dei tre don Pippo si ode chiamare al cancello della sua villetta fantastica. Esce: vede un montanino che gli si fa innanzi riverentemente, e gli annunzia che il signor Felice è malato di febbre, e desiderosissimo di parlare con esso lui. — Lo diceva io? sdamo il pittore incrociando le mani; tu sei il boscaiuolo neh? — Per servirvi; egli abita meco.

— Bene, va allo speziale; provvediti dei medicamenti ch’egli t’indicherà, e a tre ore di notte fa di trovarti alla imboccatura della macchia. Tu aspettami, che io senza manco vi arriverò: alle tre ore di notte, capisci? — Ho capito.

Come il pittore promise, cosi attenne. Avute a sé un villano suo fidatissimo, lo forni di una lanterna cieca, e armollo di una pistola girante a sei scatti: egli si chiuse in un gabbano di cambellotto, si attorciglio al collo un Cravattone, prese la mazza di rispetto, con entrovi un largo stocco di Campobasso; e insieme s’incamminarono alla spelonca di Giocondo. Costui, giusta l’intesa, fu puntualissimo a rammezzar loro la strada; e don Pippo, introdottosi odia grotta si trattenne più di due ore con Felice. Ma non gli passo mai pel cervello l’idea benché lontanissima che, nel tornare, avrebbe scontrato due donne, e che al lume della lanterna avrebbe ravvisata, nell’una di loro, proprio quella fanciulla ch’esso di furto avea ritratta, e che l'amico giurava essere la sorella sua.


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LA POVERELLA DI CASAMARI

RACCONTO STORICO DEL 1860 E 1861
LII.

Quando Caterina e la sua povera orfana, dalle risposte cosi franche e schiette di quello sconosciuto, furon fatte sicure ch’egli non le ingannava altrimenti, e che in verità e’ dovea essere quel bravo pittore della Certosa, del quale aveano udito in Collepardo dir tanto bene; viepiù rincoraronsi e a una bocca io supplicarono che, s’egli ora quel misericordioso uomo che tutti celebravano, si fosse adunque mosso a pietà di loro, e le avesse indirizzate verso la grotta, nella quale Felice erasi rifuggito. Don Pippo non si reggeva quasi già in piedi per la stanchezza, cascava di sonno e sentivasi gelar le ossa: con tutto questo non gli basto l’animo di negarsi alle vive e pressantissime istanze di quelle due tapine. Onde trattosi l’orologio e, al lume della lanterna, veduto che segnava le due ore e tre quarti dopo la mezzanotte: — Gabriello; disse al montanaro che lo accompagnava ed era un omicciuolo tutto di pepe; ti graverebbe di rifar meco la strada, per consolare queste poverette? — E perché m’avrebb’egli a gravare? dove andate voi, signor don Pippo mio, viene Gabriello.

— Uh benedetti voi e la mamma che vi ha fatti! sclamò allora Caterina, cancellando al petto le mani; questa è una carità si fiorita, che Dio solo può rendervene il merito. — Coraggio dunque, e avanti! disse il pittore rinvoltandosi il cravattone intorno al collo: e senz’altro più star in parole si rimisero in cammino.

Alle prime, tirando oltre per la straducola scura e frattosa nella quale già si trovavano, tutti fecero silenzio. Gabriello precedeva di alcuni passi con in mano la sua lanterna, a coi area rigirata l’anima per accecarne il riverbero: diètrogli veniva don Pippo tutto infagottato sino agli occhi, vigorosamente puntando in terra la canna d’India armata di stocco; e seguivalo Caterina con sotto il braccio la giovane, che ella trascinava più che non sostenesse, tanto era ancor abbattuta per lo passalo sbigottimento, e sconvolta da una tal qual turbatone che cagionavate questa insperata novità del fratello. Eppur ella non sapeva per anco quale veramente fosse lo stato di Felice: ché appunto, per non isgomentarla viepeggio, don Pippo glielo aveva occultato. E per questo, sull’entrare in via, egli si era fatto cosi taciturno: per istudiare cioè il modo più soave di preparar lei e l'altra donna alla acerba notizia, che in quell’abbandonala spelonca, entro cui esso le guiderebbe, Felice era infermo di malattia tanto pericolosa, che egli, a giudizio suo, mettevalo in dubbio.

Fra questi agripensieri dell’uno e la gagliarda commozione che agitava secretamente il cuore delle due. altre, uscirono dalla cupa fonda di quel piano dosso, tra le cui ripe si avvolgevano; e sboccarono all’aperto in una larghissima prateria rischiarata da una gran piena di luce, che vi gittava sopra la luna. Gabriello, tutto rallegrandosi a quella vista, subito trincio due capriolette, si volto a don Pippo per esilararlo con due celie, e prosegui zufolando e saltarellando sino a un dirupamento, di là del quale nasceva la macchia dov'erano incamminali. 0 fosse per consentimento alla vispezza di quel suo montanino, ovvero perché gli sembrasse d’avere scorto l’acconcio partilo sopra cui egli arzigogolava, tatto è che a quel bel lume di luna anche il pittore si ringioviali alquanto, emessosi di compagnia con le due donne: — State di buon animo; comincio a dir loro. per Interrompere il silenzio; con l’aiuto di questa lucerna che ci splende sul capo, noi prima delle quattro saremo al termine.

— Dio lodato! rispose Caterina con un lungo sospiro; ci tarda proprio di rivedere quel caro figliuolo! ogni momento ci sa mill’anni! Oh santa Vergine dette Cese, chi ce lo avesse detto ier sera quando ci allontanavamo da Collepardo! Cotesto è un miracolo fatto sicuramente per intercessione delle buone anime della signora Giovanna e del Capitano.

— Eh certo sì, po’ poi la provvidenza cioè per tutti; replico l’altro, cui premeva di giagnere al suoi proposito. Io non so se troverete quell’amabile giovinetto come lo lasciaste quand’egli si arroto soldato.

— Che dite, signor pittore, quando si arroto soldato? va pei tredici anni che io non ho più veduto Felice; e di fermo io penero a ravvisarlo: ma questa poverina, oh ella si che lo riconoscerà subito! — Da quanto in qua non l’avete voi rincontrato? dimandò egli a Maria.

— Per l’appunto da che si fece cacciatore del Re: ma oh Dio, s’è egli alterato di molto?— Dirovvi: in Gaeta e’ volle far più del dover suo; e per ciò ammalatosi fu trasportato nello spedale di Terracina, Tonde poi è venuto qua sopra convalescente anzi che guarito: Fors’egli pensava che l’aria di queste montagne gli sarebbe giovata a cacciarsi di dòsso una certa febbrella che gli si è appiccata, e ogni tanto gli dà noia. Ma porta un proverbio che «finché c’è fiato c’è speranza; e poi la gioventù è un gran fondamento! «De’ giovani ne muor qualcuno, de’ vecchi non ne campa niuno» diceva il medico di mio nonno, il quale (Dio l’abbia in gloria) visse ottant’anni.

Udite? si vols’ella a Caterina stringendole con ambo le mani il braccio e mandando un gemito doloroso; anche Felice, anch’egli è combattuto da una malattia! Già, s’ha da avverare il dette di mio padre, che noi avevamo la maledizione in casa, e che egli; mia madre, noi tre saremmo tutti finiti Vittime di peccati non nostri! poveri uomo, troppo egli ha avuto ragione! Or intendo perché questo Signore ha tentennato, quando lo scongiuravamo che menasse in quell’antro; Gli ripugnava di condurci a seppellire un cadavere! —No, anima mia, non dire dosi, che tu mi affoghi il cuore; le rispose l’altra lamentosamente. Tu hai la fantasia offesa; oggimai non vedi più altro che morti e sepolture; e sali cielo se li compatisce Mila egli è troppo.

Che malinconia è cotesta? soggiunse allora il maestro, fingendosi un pocolino impermalito; io tentennare? io mostrarvi lucciole per lanterne? io darvi per vivo uno che sapessi morto? ah bella giovane, voi non conoscete don Pippo. Egli è d’ambra, e tutto d’un pezzo. Quel che ba qui dentro, lo ha nella lingua: capite? — Signore, pregovi che mi scusiate; ripiglio essa timida e piangente; io non ho avuto animo di farvi niun dispiacere, Dio me ne guardi! e nemmeno mi lagnerei se ci aveste coperta la verità, perché sarebbe stato effetto del vostro buon cuore.

— Niente affatto; il buon cuore io non l’ho mai posto nel corbellare la gente. Alle corte, mi credete e non mi credete?

— Vi pare, signor pittore? se vi crediamo! dissero ambedue; vi crediamo come se foste 'un' angelo calato giù dal cielo apposta per noi; soggiunse Caterina.

— Così mi piace; replico l’altro. Il vero dunque è che Felice ha una forte febbre, e che, se non è curato in tempo, il male potrebbe voltarsi in peggio.

— Noi, noi lo cureremo; sdamo la sorella con impeto; noi ce lo recheremo a Collepardo in ispalla, noi ce gli consumeremo intorno; lasciale fare,a noi, purché sia vivo! — Di ciò, non. dubitate punto,: chè, ve lo ripeto, mi fareste torlo.

Per vivo è, ma lo troverete smagrito assai. — Oh Felicetto mio, chi sa quanto avrai patito! tolse a dire affettuosamente la donna che gli volea un bonacciòne proprio da balia; a vederlo bambin da latte, quando io me lo allevava tra queste braccia, egli era tondo e grasso che parea un pàn di bulico, e carino tanto che tutti me lo invidiavano; e adesso?

— Questo sarebbe il minor male; rispose l'uomo; quei che importa è salvargli, la pelle; a chi poi salva la pelle, sempre la carne rimetto.

Cosi ragionando scesero pian piano per un borro, e rimontata la sponda opposta s introdussero nella selva. La luna penetrava a stento fra i densi rami che si consertavano, e facea qui e colà certe chiazze di una luce smorta e bigiccia che accresceva orrore a quella irta e gelida boscaglia, alla solitudine, allo tenebre e allo stormire degli alberi, che scossi alle cime dal trar d’un venticello tramontano, levavano un roviglieto simile all’ondeggiamento del mare. Fuori di questo dimenio sordo, lento, sempre il medesimo, se non quanto alle volte si ridestava più gagliardetto, e fuor del leggiero fruscio di qualche foglia che staccavasi dai querciuoli seccaginosi, tutto Intorno a loro taceva. Ad ogni muover di passo, per quelle viuzze intricatissime, o urtavano il piede in ellere o in cespugli di pruni, o se lo sentivano avviticchiato da sterpi che si aggrappavano alla gonnella delle donne o al gabbano del maestro, con un intralciamento che rendea molto disagioso l’andare. Niente di manco don Pippo, con l’occhio a Gabriello, il quale, per essere meglio pratico di quel sito foresto, li dinanzava tutti e facea loro strada, più i sentieri divenivano arruffali, e più dietro lui inoltravasi alacre e spedito e disgomberavali con la mazza, per facilitarne l’accesso alle due viatrici che, in quella oscurità e fra tanto avviluppamento, erano ben bene impacciate del fatto loro.

Ma, come Dio volle, presto si furono disbrigati da que’ fastidio» roveti, e riuscirono in una stradella che con dolce erta saliva a una costa, sormontata da scoscendimenti di macigni ripidi e stagliati; se non che ell'era così selvatica e chiusa dalla foltezza degli alberi nereggianti, che là sotto era buio pesto e la luna non vi poteva nulla: — Fate pur cuore e non vi spaurite; prese a dire il maestro per inanimare le donne; venite presso a me e non temiate d’incespare: qui camminiamo sopra un terreno liscio come una palma di mano. E poi sapete? anche un tratto, e siamo al nostro termine.

— Speriamo che sia così; e il Signore ci assista! soggiunse in tono dubitativo e con tremante voce la giovane.

— O bene; ripiglio l’altro che cercava un pretesto di svagarle amendue dalla orridezza di quel recesso, nel quale venivano internandosi; dacché mi avvedo che voi, buona fanciulla, non finite di accettar per vero quello che io dico, voglio che vi ricrediate e impariate a conoscere don Pippo, e com’egli la pensi in opera di leniti e di schiettezza. State attenta a questi pochi versi che valgono un zécchino l'uno. Non sono ferina del mio sacco, no; ma godo di appropriarmeli spesso, perché esprimono puro e pretto il mio senti mento. Ascoltate. E sopra un’arietta mollo popolaresca in Napoli, comincio a cantarellare queste ottave del Fortiguerri:

Non si può ritrovar, al mio parere,

Cosa nel mondo che più bella sia,

E che ci apporti più dolce piacere,

E sia cagion di pace e d’allegria,

Quanto è l’udire e il dir parole vere.

Senza sospetto d’inganno e bugia;

E la data parola e stabilita

Mantenere anche a prezzo della vita.

Come al contrario la pace rovina,

E del vivere ogni ordine confonde

La lingua che col core non confina.

Ed una cosa mostra, una ne asconde.

La veritade ella è cosa divina,

E in noi dal primo vero si diffonde:

La menzogna del diavolo è figliuola,

E con esso va sempre ovunque vola.

A quest’ultima clausola, Caterina non si tenne che, con una certa compunzione ammirativa, non soggiungesse: — Fortunato voi, signor pittore, che possedete ogni abilità e ogni scienza! eh, io ho inteso dire ancor io in Collepardo, che voi sapete a mente tutti i libri, il leggendario, la storia di Barlaam, la dottrina grande, e poi tutte le canzonette che cantano i pifferari. Bealo voi! Don Pippo scoppiando in una risala, era per dare una sollazzevo! risposta a quella sempliciòna, quando Gabriello alzo improvvisamente varie grida sgangheratissime, intramischiate dalle voci di altri che pareano minacciare. In quell’ora e in quel luogo, questa era inaspettazione da far passare la voglia di ridere anche a un Democrito. Non meraviglia dunque che in bocca del pittore si spegnesse il fiato, non che il riso.

LIII.

La stretta dello spavento che ne segui alla nostra pacifica brigatella fu tale, che in verità ci voleva una saldezza di petto erculee a non tremarne. Imperocché, dopo le grida, s’intese uno scalpiccio come di gente che accorresse a far calca, e un crocchiare quasi d’armi che s’inciòccassero; poi la lanterna di Gabriello si ralluminò, ed egli fu veduto tornare addietro nel mezzo di quattro uomini, dal coi fianco pendevano daghe a brama sangue; e costoro s avanzavano coi fucili spianati e le baionette in canna, che. sinistramente luccicavano al riverbero della lanterna. Don Pippo, che al. primo urlo aveva sguainato lo stocco per metà, appena fu che a quest’apparizione terrìbilissima ritenesse tanto di spirito, ch’egli avvertisse non essere il caso di fare lama fuora. Di che ricacciatala prestissimamente nella mazza, e, come si suol dire, fatto del cuore rocca:

— Che e è, Gabriello? chi è? si mise a interrogare con un vocione che mal suo grado si affiochiva; siete amici? Nemici?

— Quel che vi piace; strillo con soldatesca baldanza uno dei quattro armati; fermi là, rispondete a noi: chi viva? — Dio e il nostro Re.

— Qual Re?

— Quello che comanda in questo paese: or siamo nelle terre del Papa; dunque viva Pio IX; disse animosamente don Pippo.

— Viva lui e Francesco II! riprese quegli; quanti siete?

— Io, cotest’uomo che avete con voi, e questa povera vecchia con la sua ragazza, e le conduciamo a visitare un loro malato. Via, bravi giovanotti, assicuratevi che non siamo persone....

— Non ve l’ho dell’io? soggiunse Gabriello; egli è il signor pittore che sta coi frati della Certosa, e non farebbe male a una mosca.

In questa colui che parlava e faceva da caporale, intimato bruscamente a Gabriello che si azzittasse, gli tolse la lanterna di mano, la sollevo e accostatosi un poco, la volto in faccia al pittore e squadernandolo da capo a piedi: — Che barbacela da frammassone! mormoro fra i denti.

— La sbagliale, amico; questa è mosca e questi son baffi alla Guido Reni.

Colui non fe altro mollo, ma girando il lume verso le due meschine, che trepide e allibite si raecomandavan l’anima e si tenevano abbrancale ai gomiti di don Pippo, le guardò, le riguardo e retro cedendo d'un passo: — Caterina! voi qui? esclamo tulio in grande stupore; che è questo?

— Santa Madre del buon consiglio! e chi siete voi? gli chiese, ella senza osare di rimirarlo.

— Angioino, il Rosso, quel fido di Otello che venni tante volte in Veroli a portarvi ambasciate per lui: che! non vi ricordate? A questo punto fu scena nuova. Le donne,che dianzi si erano fiatta morte, e già si sentivan mancare, ai proferirsi quei due nomi, scossosi il timore d’attorno, come per incanto si ravvivarono: don Pippo inarco le ciglia tutto ammirato, Gabriello respirò; e in breve ora d’una in altra parola si venne a tale assicuranza lira le due parli, che, ripigliando la strada, si accomunarono con molla domestichezza. Gli uomini in armi, con a capo il Rosso, ne' quali Gabriello era intoppato, stavano là in posta per sentinelle avanzate della intera banda di Chiavone, la quale, scesa: allora allora dal vicino monte, si era accampata in un radore di quella macchia, e accesi i fuochi allegramente vi apparecchiava il rancio. Don Pippo, che al prim’occhio s'era già appensato che costoro fossero Realisti, come ne fu re so certo da loro medesimi, non se ne commosse punto, perocché sapeva che eglino non offendevano gl’innocui passeggeri ma solo i soldati nemici, o coloro che notoriamente facevan da spie contro di essi o favorivano i Piemontesi. Or egli non avea nessuno di questi peccati sulla coscienza, siccome quegli che vivea tutto inteso a’ suoi quadri storici, e di faccende politiche non si curava altro che per aver notizie della sua misera patria, lacerata dalia crudel guerra civile che la disertavate compiangerla.

Adunque egli messosi il cuore in pace, si prendeva piuttosto grandissima meraviglia della confidenza che Caterina e la sua giovane mostravano d’arverecon quel chiaventano, e ponendo mente ai loro discorsi, che erano tutti sopra di Otello, tra sé cento fantasticherie chimerizzava: tanto più che di quest’Otello ragionavano con un calore di affetto e un corruccio che non avea più fine. Per tal modo essendosi, inoltrati quanto è un terzo. di miglio, corpo, giunsero dirimpetto a usa callaia donde si scorgeano i fuochi del campo, Angiolino fè sosta e dimandò se volessero salutare l'Alonzi. — Vi sono obbligato; disse con maliziosa prontezza il pittore; io bo il bene di non conoscerlo, e noi abbiamo fretta di arrivare al termine nostro.

Il medesimo risposero le donne: dalle quali Angiolino separassi con buone maniere, e promettendo che senz’altro a ora e tempo sarebbe tornato in Collepardo per visitarle, e portar loro nuove d’Otello, se nuove ci fossero state. — Mi raccomando ve', Rosso, non mancare! instette la fanciulla.

— Fidatevi di me.

— Subito che abbi forno di qualche cosa, e tu mettiti a cavallo e corri a informarcene: noi pagheremo la cavalcatura.

— Non dubitate.

— Non ti diciamo addio, ma a rivederci; neh?

— Vivete sicure: a rivederci.

Incontanente che si furono discostati: — Ah Don Pippo mio, che nottolata m’avete fatta passare! disse Gabriello; un altro po’ m'infilzavano nelle baionette come un piccione. — Va, va, matterùgiolo; soggiunse il pittore; mettiti innanzi, che non c’è più tempo da perdere in chiacchiere. Quel che è stato è stato.

— Sì mi piace; infilzarlo come un piccione! brontolò Caterina la quale, come tutto il volgo del Regno io que giorni massimamente, aveva un troppo alto concetto delle bande e dei loro condottieri; cred’egli forse che que’ figliuoli sieno assassini di strada? E’ sono i migliori uomini de’ nostri paesi. — Ma che significa, buona donna, questa vostra intimità coi briganti? le dimandò Pippo.

— Che briganti? che briganti? briganti i birboni che cosi chiamano questi poveri giovanotti! replico essa alterizzandosi forte; o che anche voi siete di balla coi Carbonari? Questi figliuoli nostri sono soldati del Re: che briganti? uhm, non mi fate scandalo!dicono che siete tanto buono, ma se parlate cosi, io non vi porlo rispetto.

— Ma brava voi! capperi, che eloquenza! Io di balla coi Carbonari eh? io onoralo con la croce di Commendatore da Ferdinando II; io cristiano che recito ogni mattina e ogni sera il Credo chetai' rad sulle ginocchia della mamma mia, io....

— E perché dunque date questo brutto nomaccio ai figliuoli nostri, che difendono il Re contro de’ Piemontesi? — Per intenderci. Briganti li chiamano tutti e briganti li chiamo io: oh bella! E poi il nome che io…

— Fa, oh fa molto! scaltri scambio d’intitolarvi signor pittore, si buttasse in viso dell’imbianchino, sareste contento della villania? che non direste?

— Direi ch’egli è una lingua tabana; e se costui non fosse femmina come voi, ma uomo, lo rimanderei segnalo e benedetto con un paio di rovescioni, che ne porterebbe in faccia le rose fino a primavera. Capite voi?

— Bene bene, scusate la mia rusticità: io sono una contadina, e non so di lettere. Ma in chiesa ho sempre udito predicare che quello non vogliamo sia fatto a noi, non lo dobbiamo fare ad altri. Ad ogni modo i nostri giovanotti che tengono la montagna contro i nemici di Dio, non ce li toccate, perché sono nostro sangue, e ne facciamo più conto che del core e degli occhi nostri.

A questo diverbio, che duro ancora un pezzetto, Maria Flora non piglio parte alcuna, stantechè con t'anima era tutta assorta nel pensiero di Felice che, non ostante le belle sicurtà datele in verso e In prosa da Pippo, ella pur sospettava di trovare più morto che vivo; e nelle àngustiose dubbiezze,, di che Angiolino le aveva empito il capo sul conto di Otello, di cui da quattro mesi non si aveva sentore nella banda dei Realisti. Ond'ella camminava tacita, smemorata, e senza più fare attenzione a quello che direvasi intorno di lei. E il pittore che noto questa sua mutezza, indizio di un nuovo turbamento, volendo usarle riguardo, si contenne dallo stuzzicarla a parlare; comechè fosse vaghissimo di conoscer il netto di quell’Otello, del quale tanto s’era favellato coi chiavoniano. E però tra queste allercazioni, che erano burle più che altro, si giunse in vista della rupicella, a un angolo della quale si apriva la bocca della caverna.

LIV.

— Che fa egli l’amico? dorme? dimandò ansiosamente il maestro a Giocondo che, udito il fischio di Gabriello, erasi atticciato allo sbocco della caverna.

— Voi? oh che, siete tornati?

— Lo vedi, e abbiamo con noi compagnia. Dimmi sa, che &ìl nostro Napoletano?

— Sì e no sarà un quarticello d’ora che si è appisolato.

Il pittore prego le donne che sostenessero un momentino li, tra l’imboccatura e uno sfondo che rassomigliava a una nicchia; fece ordine a Gabriello che si ponesse di guardia fuori al sereno; ed egli, anteceduto dal boscaiuolo che gli scorgeva il passo con la lampanetta, entro nello speco.

Ma come alla smaniarne sorella, che per l’oppressione del cuore e pel tormento dell’affanno non avea più bene di sé, comincio ad esser penoso quel! Indugio! Caterina sedutasi in uno sporto del macigno; si provava di confortarla or con una lisciatola in fronte, or con qualche sua divota giaculatoria: se non che presa poi anch’ella dall’impazienza, sospirava, si dimenava e: — Chi sa quanto questo benedetto pittore ci farà allungare il collo! borbottava sommessamente; gli è un uomo tanto bizzarro I sempre vuol menar la lingua egli e aver ragione! già i signori e i letterati sono tutti così. Uh, pensarlo, pòvero Felicetto mio, quand’io ti faceva la ninna nanna! San Domenico di Cocullo, io vi voto tre digiuni in pane e acqua e un pellegrinaggio a piedi scalzi, se ce lo risanate questo figliuolo!

Alle quali sclamazioni l'altra, seduta ancor essa accanto di lei, corrispondea solo con lievi gomiti e con alzare i lagrimosi occhi al ciglio di quella grotta, per un cui pertugio discoprivasi una laida di cielo stellato, chiusa da un frastagliamento di rocce, lunghesso le quali la luna mandava un fascio di raggi che' percossi e ripercosso venivano a infrangersi nelle bozze della opposta parete rincontro all'incavo. Quello spiraglio sembrava essere come lo sfogatoio, pel quale la tapinella esalava la intensissima ambascia che tutta le occupava l’anima disfrancata Perché incrociate le mani sulle ginocchia e languidamente appoggiata la testa a una spalla di Caterina, si affisso a contemplare quel palmo di azzurro, quel gruppo di stelle, quel gitto di luna, e ivi in tal altitudine si rimase immota e pressoché senz’alito!— Si, figliuola mia, riposati fin a tanto che quel cicalone ai sia saziato di rompere il capo a Felicetto,; e di tener noi qui a batter le nacchere coi denti; le disse colei, avvisandosi ch’ella casse per sonno, e cintole il dorso con un bracciò, amantemente se la serro al petto.

La giovane però tanto non era vinta dal sonno, che ami avea destissimo lo spirito, e gli occhi le scintillavano a par delle delle che. vagheggiava attraverso di quel forame. Queste eran tra, e brillavano a un lembo della via lattea, limpide e fulgenti come piropi. Or cotesto numero di tre le rivocò naturalmente in memoria quelle caro anime, anch'esse tre di numero, che l’aveano lasciata quaggiù, orfana e derelitta: poscia dalla uguaglianza del numero trascórsa a considerare la similitudine della condizione, penso che questo suo dolce ternario per fermo aveva sede lassù nella serena regione degli astri: quindi infiammatasi di un subito affollo che a so medesima la rapi, con un’istantanea operazione tutto insieme dell’amore e della fantasia, trasformo le tre stelle che discerneva cogli occhi nelle tre anime che desiderava col cuore; e questo innocente ludibrio della immaginativa la sedusse a tale, che ella vi si abbandono in maniera di estatica.

Figuratevi, lettor nostro gentile, che. essa era tanto persuasa della realtà di quest’amorosa finzione, che vi avrebbe giurato di scorgere distintamente e per individuo nella prima di quelle stelle la forma e l’essere di Pellegrino, nella seconda di Giovanna e sella terza, che era più picciòletta, di Guido. Che altro? Le stelle da lei cori fantasticamente personificate in que’ soavissimi pegni delle sue tenerezze, tutte e tre in un atto stesso parlavante; ed ella tutte e tre in un atto stesso intendevate: ma né quelle parlavan per voce, né essa intendeva per udita. Similmente ella rispondeva loro, e servasi intesa; ma anche le sue parole non aveano suono, non le uscivano dalle labbra: erano pensate non erano articolate. Che più? In questo mentale colloquio interveniva un’arcana forza a impedirle di manifestare ciò che maggiormente le premeva. Ella struggevasi di voglia di conferir con loro di sé, di Felice, di Otello e di comunicar loro le sue angosce travagliosissime: ma che? mentre le sembrava di pur farlo, si avvedeva ch'ella in effetto non conferiva con esso loro di altro che di loro medesimi, e lor non comunicava se non gaudio del loro proprio godimento. Singolare stranezza! E tuttavolta, lo ripetiamo, dia non dormiva, ma stava con gli occhi aperti e con metà della persona intirizzita dal freddo. Prova manifesta che talora, benché vegghiando, si sogna.

E questo, se così vi piace chiamarlo, sogno nella veglia, fa a lei di notabile refrigerio; conciòssiaché la distolse dall’immergersi di vantaggio nelle ambasce che dentro la inondavano di amarezza, e le infuse un certo non sapea che di mitigativo, cotalché ella respirava a suo più bell’agio. Ma ecco, indi a non molto, il vocione acquacchiato di Pippo rintronare per gli anfratti della caverna, e da lontano riapparire la lampada del boscaiuolo. — Signor pittore mio, come siete stato lungo; oh lungo quanto la fame! disse Caterina scolandosi, e rimettendo in sé la giovane, che diede un guizzo come se una corrente elettrica la investisse.

— E costei ancor brontola! replico il maestro che era tutto rosso e rintenerito; di grazia non mi fate storie. Non doveva io bel bello apparecchiare Felice alla notizia di questa vostra visita?o credete che sieno fiaschi che s’abbottano? Egli è quasi fuor di sentimento per lo stupore.

La donna comincio invocare i suoi Santi e mandar certi versolini pietosi, che non erano né lai né singhiozzi, e imboccato l’andròne della spelonca dietro Giocondo, il quale portava il lume, andava stentatamente passo passo trattenuta da Maria che s’era afferrata alla sua gonnella e a mala briga potea camminare, si violento era il tremito cagionatole dalla commozione. Don Pippo, che seguiva appresso di lei, cercava di tranquillarla con cortesi e affabili detti. Ma indarno: ella procedeva balorda balorda, e poneva un piè innanzi l’altro, più tirata da Caterina che di suo proprio motivo, lo ultimo, dopo svoltato per alcuni rigiri tetri, umidi, tortuosi con sopra stalattiti e crepacci e massi pendenti, ed ai lati bugne e gemiti che facevano rigagnoli, pervennero a una gola, in capo della quale vedeàsi un po’ di albore. — Eccolo! grido con voce compressa la donna — Ah Dio, e vive? si rivolse allora la sorella ad interrogare paurosamente don Pippo.

— Anche un momento, e me lo saprete dir voi.

In questa giunsero alla foce del cunicolo, che riusciva in uno spazio sfogato e tondeggiante in figura di ellissi, rivestito di macigni e coperto sopra da un gran lastrone di pietra. Colà in fondo, alla man manca di chi entrava, era Felice disteso in un giaciglietlo di paglia e rinvolto fra una coltrice di pelli di capra. Sovra una punta che sporgeva al suo fianco destro, ardeva una lucernetta: più in alto stava sospesa una moscaiola con la impannata a brandelli e alcune rozze stoviglie ne’ palchetti: e da basso in un cantuccio v’era una brocca di terra cotta e una ciòtola senz'anse per bere. Arrivato all’ingresso di questo sepolcro, Giocondo vi s’intromise, e alzo il lume perché Felice subito potesse mirare in volto le donne che venivano dietro: — Ah Fiorella, sei tu? sei tu? grido in questo punto l’infermo, balzando fuori del suo canile e scagliando le braccia verso l’apertura del sasso.

Qui Caterina, presa da un po’ di vertigine che le dava il sangue affollatosele al cuore, fece capolino, mando uno strillo, si rattrappì e ristette immobile. Maria a quella chiamata di Felice non capendo più in so medesima, urlo violentemente l’altra, solficco la testa fra lo stipite e un gomito di lei, gitto un’occhiata di furibondo amore in quel sotterraneo, e, in meno che non si dice, spintavi giù Caterina, si trovo innanzi al fratello; il quale, per lo rimescolamento, per la febbre e per la eccessiva debolezza, le cadde tra le braccia a guisa d’un tronco: talmente che si dovette ricolcarlo nel suo giaciglio, e con ispruzzoli d’acqua fredda fargli tornare il senso.

Lettore, voi per certo non siete così indiscreto che pretendiate da noi una descrizione quale che siasi degli atti, delle amorevolezze, dei pianti, dello esclamazioni, delle tenere pazzie che, con rapidità somma, si succederono in quei primi disfogamenti d’affetti inenarrabili. Coteste son cose che si possono ben divisare, ma ritrarre non già. Voi in quella circa mezz’ora che duro il frastuono delle parole mozze, dei rammarichi, dei singulti, dell’affannamento reciproco, avreste veduto il boscaiuolo fitto come un palo all’estremità dell’antro, riguardare con gli occhi tondi e con sembianza di intimo compatimento quel gruppo che gli rendeva aria di tre deliranti: mentre don Pippo, addossato al risalto di una parete e recatosi in cortese, l’osservava ancor egli e faceva sue le passioni, le gioie, gli struggimenti di que’ poveri cuori, ch’egli contemplava lì nella loro genuina amorosità e bellezza. Nè egli ha potuto mai dire, se allora si sentisse più lieto di aver cagionata egli quella lor mutua consolatone; o più attonito d’essere testimonio di scene che, espresse in carta o in tela, parrebbero scherzi di poeti o di pittori, e in fatto sono verità di natura.

Verso il mezzogiorno seguente, Felice in groppa a un muletto che reggevagli il boscaiuolo, e accompagnato dalla sorella salì in Collepardo e smonto all’uscio di Caterina, la qual era ita innanzi per acconciargli un tettuccio il meno disagiato che fosse possibile. Ma egli era tristissimo e lagrimava perché, cammin facendo, aveva strappato di bocca a Maria il vero sopra la morte del padre, della madre e di Guido, che alle prime gli fu tenuto occulto per un ragionevol riguardo. E la giovane alla volta sua era mesta altrettanto, e per soprappiù in preda a nuovi e crudeli sospetti che le avea ingeriti Felice, annunziandole che Otello, per saputa sua, fino alla metà del Gennaio, non era mai comparso in Gaeta. E non di meno egli s’era mosso da Veroli poc’oltre il principio di Decembre. Di che troppo era naturale inferirne, che adunque o fosse perito in mare, o incappalo nelle mani dei nemici.

Or quest’angustia e il cordoglio di vedere il fratello così inconsolabile e mal ridotto, furono due acutissime spine che le cominciarono a togliere ogni requie. Non le carezze di Caterina, non le contadinesche ma ingenue graziosità delle poche paesane amiche sue che entravante in casa, potevano più niente a riconfortarla. Il pittore medesimo, con tutto che nell’opera di ricrear gli animi valga quello che vale, a nulla anch’egli non riusciva, quando nelle frequenti sue visite al giovane infermo s’industriava, con garbale piacevolezze, di sollevarla da quel si compassionevole abbattimento. Per lo che trovando inutile a quest'effetto ogni altro argomento consolatorio, si mise a ripeterle

Che convien pur voler quel che il ciel vuole.


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LA POVERELLA DI CASAMARI

RACCONTO STORICO DEL 1860 E 1861
LV.

Tra i proverbii, tutti sugo di sapienza elegantemente cristiana, che vanno per la bocca del popolo, uno ce n’è il quale si vorrebbe scrivere a lettere di diamante nel cuor d’ogni uomo, ed è quello dm dice così: «Chi fa bene al prossimo, al suo ben si approssimai. Questo proverbio, non pur bello ma soprabbello, ci è più volte venuto da sé in mente, ripensando al nostro Traiano, che qualche lettore sospetterà forse avere noi posto nel libro degli scordati, perocché da alcun tempo non ne facciamo espressa menzione; ma che toltola ci è sempre stato presentissimo alla memoria, avvegnaché l’ordine delle cose che dovevamo narrare ce lo abbia fatto mettere alquanto in disparte. E sapete per qual cagione il pensiero di lui ci fa ricordare quest’aureo proverbio? Perché nella sua persona lo troviamo così puntualmente avveralo, che egli può starne in esempio.

Non è mestieri che ricapitoliamo qui tutto il bene che in Casamari, e poi in Veroli e da ultimo nella campestre casuccia presso il Monte san Giovanni, per impulso di animo generoso, egli avea fatto alla povera fanciulla napoletana, alla madre di lei quasi agonizzante e poscia al misero Pellegrino, che in termine di morte provo consolazione indicibile dalla sua visita inaspettata, dai suoi cordiali conforti» dalle suo calde promesse. Or questo bene, che fu un flore di squisita carità verso una famigliuola meritevole d’ogni compassione, frutto a lui, come per contraccambio, un altro bene incomparabilmente migliore, che sulle prime egli non riconobbe con grande chiarezza, ma che si sentiva però effettuare dentro di sé, con un avvicendarsi perpetuo nell’animo suo di certi movimenti, che esso non avea sperimentati mai né si vivi, né sì pertinaci, né si profondi. Gli sarebbe stato malagevole definire se questi sensi intimissimi avessero più dell’agro che del dolce, e pendessero più a rimorderlo che ad appagarlo. Ma in somma lo solleticavano con un cotale alternarsi di pungente e di refrigerante, ch’egli era ammiralo di sé medesimo; e ora si vergognava, ora si rallegrava, ora si pentiva, e alla fine concludeva seco stesso, che bisognava prendere un partito e cavarsi la maschera e mostrarsi di fuori scopertamente quell'onest’uomo che in fondo egli era, e voleva essere al tribunale della coscienza. Di che in merito di aver fatto quel po’ di material bene al prossimo, egli, pressoché inavvertitamente, si approssimava davvero al suo nobile bene, che è quello dell’anima e della virtù. E, per non uscire dal nostro stile, ecco alla semplice in che modo andarono i fatti.

I lettori furono già informati com’egli, fuggendo dalla incursione de’ Piemontesi, che invadevano il territorio pontificio per dar ii guasto alla Badia di Casamari, tostoché giunto alla entrata di Veroli udì gli scoppii de' loro cannoni, s’era chiuso con la figliuola in una carrozza e precipitatosi verso Roma. La mattina seguente, in grazia del tanto galoppare che fece tutta la notte con cavalli di posta, egli arrivo salvo al portone di casa sua: ma tal era l’ardenza originataglisi nel sangue dall’eccessivo rimescolamento, che subito si corico e volle scemarsene con un buon salasso che il ristoro tulio. E cosi dove, innanzi che si aprisse la vena, parlava spezzatamente, e con l’affanno e tragittandosi per lo letto, di guisa che la moglie sua Maddalena erane in apprensione; dopo quell’alleggerimento, e dopo alquante ore dì placido sonno, l'acquisto il suo ben essere e la consueta facondia a tale, che fino a sera trattenne pendenti dal suo labbro e la moglie e la figliuoletta piccola e il padre Euschio suo fratello, fatto chiamare dalla Maddalena; sempre favellando di Pellegrino, e sempre commentando i casi di quella sua storia domestica, che gli si era impressa nello spirito molto più fortemente ch’egli non si fosse immaginato.

— Giudizii di Dio! ripeteva ogni tanto il padre Euschio, sollevando gli occhi e la destra mano al cielo; giudizii di Dio imperscrutabili, ma adorabili! — Eh, il Signore bisogna temerlo! soggiungeva Maddalena con gli occhi un po’ tremanti volli a Flaminia, che sedeva ancor essai in quella camera, ma stava moscia moscia e quieta come una colomba; guai a chi non teme Iddio! fa male a sé, e tira dall’alto i flagelli anche sopra de’ suoi; non è vero, padre Euschio mio? — Qual dubbio c’è? rispondeva il frale, rimaneggiando i nodi del suo cordone. Lo vedete in quella miserabilissima famiglia.

— Pur troppo! soggiungeva la donna, e mandava certi sospiri lunghi lunghi, e scagliava al marito certe occhiate che lo facevano impallidire.

Traiano a questi interrompimenti, o in singolar modo alle esclamazioni e guardale della moglie che esso intendeva benissimo don andassero a ferire, si contorceva, si pizzicava la lingua, si lisciava in fronte, quasi per cacciarne un molesto pensiero che si levasse! turbarlo, e quindi ravviando il discorso intorno a un argomento che gli fosse di piacevole soddisfazione, ritornava agl’impegni tolti cd Capitano sul conto della figliuola, e con affetto fervorosissimo si riprotestava che sino allo scrupolo esso avrebbe attenuta la fede giuratagli, e voltandosi a Maddalena le diceva: — Adunque tu preparati a farle buone accoglienze e a trattarla da madre, capisci? Io non posso mutar propositi.

— Sì, sì, mamma mia, facciamola venir presto e trattatemela bene; io vi do parola che quando la poverella sarà in casa nostra, voi sarete contenta di me. Vedrete com’ella mi farà esser buona! instava Flaminia con un’aria tutta d’impietosita e raumiliala.

— E sia la benvenuta! rispondea la madre, stupendosi dell’amorosità e tenerezza insolita di costei; io la metterò a pari con te, e, io sino a tanto che quella gran dama sua sàntola non venga a pigiarsela, invece di due faro ragione di aver tre figliuole. Cosi Dio d aiuti, come io le vorrò bene alla poverina! Ma!... e risospirava. — Ma che? le dimandava Traiano.

— Nulla, nulla! replicava la donna, e rimirando in attitudine di compunta il cognato; che ricordo avremo continuamente dinanzi agli occhi! Quella innocente creatura, cosi infelice e cosi tribolata per colpe non sue, vorrà essere una grande lezione per noi. Oh Madonna mia, io tremo da capo a piedi! Uh che malanno sono mai le scomuniche! Dio ce ne liberi! Dio ce le tenga lontane centomila miglia! — Doh, va un po’ là! sempre a battere questo chiodo! Le scomuniche! e chi non sa che le scomuniche sono una maledizione, per chi abbia la sfortuna di provocarsele in capo? Ma poi non è da credere che si trasmettano di padre in figliuolo e di bisnonno in bisnipote, come il peccalo originale: dico bene Euschio? Voi, frati, di queste cose vi conoscete meglio di noi, poveri ignorantacci.

— Eh, Traiano mio carissimo, che v'ho a dir io? soggiunse il fratello, recandosi un tantino sul grave; con le censure della Chiesa non è da scherzare. Certo io non dirò che le scomuniche abbiano per. effetto infallibile la rovina temporale di chi n’è colpito, o quella del suoi discendenti. Questo non si può affermare, perché Iddio non fa sempre giustizia nel mondo di qua, e perché con un buon pentimento si fa gran bucato e si saldano di molle partite. Pure, lenendomi così per le generali, vi dichiarerò francamente che v’ha certe specie di scomuniche, che per lo più bruciano anche in questa vita, e sono proprio quell’uva, che, mangiata dal padre, allega i denti ai figliuoli, e talora sino alla terza e alla quarta generazione. Quelle, verbigrazia, che s’incorrono per ingiurie scandalose fatte ai sacerdoti, ai Vescovi e molto più alla persona sacra del Papa; o per la rapina o per! indebito acquisto dei beni della Chiesa, sono di questa sorta; e gli esempii sovrabbondano e, badate bene, esempii recentissimi.

— Vero, oh troppo vero! quelli che ci raccontava la buon’anima di nostro padre, accaduti ai suoi tempi, io li ho ancor freschi nella memoria. Capperi! e come vorreste che Dio l’avesse menata buona quaggiù a un persecutore della Chiesa qual fu il primo Napoleone, che riempì le cittadelle di preti, di Vescovi e di Cardinali, e mise le mani fin sopra quel santissimo Pio VII che era un agnello di mansuetudine? Lo stesso è a dirsi dei compratori di beni ecclesiastici. Ne bo veduto ancor io da giovane andare in malora un buon numero: e stette lor bene! Ma io non parlava di questa razza di scomunicati, ché io, grazie al cielo, non bo mai torto un capello a nessuno né prete né laico, e non so di possedere un filo di paglia che sia roba di Chiesa; e anzi, sì, non fò per dire, ma in casa nostra alla Chiesa si dà piuttosto che si tolga. Tutti noi siamo aggregati alla società della Propagazione della fede: le mie due ragazze sono anche ascritte alla santa Infanzia pel battesimo dei fanciulli infedeli; mia moglie fa parte di una Congregazione di carità perle zitelle pericolanti: io, indegnamente, appartengo a tre Confraternite: poi siamo benefattori di diverse fraterie. Insomma, non per vanagloria, ma per confessare quello che è, i suoi venticinque o trenta paoletti al mese in opere pie tanto e tanto si spendono; e forse più che meno. Onde vedete che noi alla fin fine non tratto da figliastri la santa madre Chiesa.

— E chi ne ha mai dubitato? ripiglio l’altro; io sempre v’ho detto, che, appunto per questo, credo che godiate prosperità ne’ vostri negozii, perché non siete avaro con Dio. Or che hanno a fare queste vostre giustificazioni col discorso delle scomuniche?

— C’è il suo nodo, padre Euschio nostro, oh c’è, c’è! soggiunse la donna con qualche ansietà, e non senza un’ombra di affettazione che pareva malizietta.

— Taci là, lingua cattiva, uhm! rispose il marito facendole occhio brusco, e seguitò: io vi teneva questo ragionamento, Euschio mio, perché a me piace di veder le cose chiare. Figuratevi che questa pinzochera di mia moglie, da che sono principiate le novità politiche della nostra Italia, mi vien rompendo le orecchie tutto il santo dì, con cento fantasticherie sulle scomuniche che è una disperazione: e io non so chi sfa che gliene invasa il capo. A sento lei, chiunque ama la patria, come s’intende oggidì, è un rinnegato, è un Turco, e male per lui! ha sopra il tetto una bomba che gli sfonderà la casa fino al pian terreno. Dite, queste non sono corbellerie belle e buone? — Nossignore, io non dico propriamente cosi; replico Maddalena, rizzandosi con impeto e agitando in faccia al marito l’indice della man destra; ma invece sostengo che tutti i bricconi, i quali hanno strappale al Papa le sue province, e tutti i loro manutengoli sono nemici di Dio, scomunicali e maledetti da lui: e più specialmente sostengo, che quelle buone lane dei liberali del Comitato piemontese di Roma, sono sciaguralacci che rovinano sé e le loro famiglie, perché settarii, perché framassoni, perché birbanti che, sotto pretesto di amor d’Italia, fanno guerra a Gesù Cristo nella persona del Santo Padre. E però tutti i gonzi, che pagano una tassa mensile di bègli scudi a questi ribaldi, stanno in gran pericolo d’incorrere nelle censure della Chiesa, giacché tanto è ladro chi ruba, quanto chi tiene il sacco.

— Oh! basta, basta; grido l’uomo; chè se tu cominci a sonare questa campana, non la finirai più. Mutiamo registro, parliam d'altro, e sia come vuol essere. ’ Per quella sera il registro fu mutalo, e si parlo d’altro. Ma le interrogazioni mosse da Traiano con tanta spontaneità al fratello religioso, ma le scuse fuori di proposito fatte a lui con tanta semplicità, ma quelle involture di parole, ma quelle sue dubbiezze troppo mostravano ch’egli era in forse di sé, e che la storia delle disgrazie di Pellegrino questa volta gli si era confitta nel cuore come un acuto strale.

LVI.

Il domani si ebbero in Roma le prime notizie del saccheggio, dell’incendio, dei latrocinii e delle empie profanazioni, commesse dalle soldatesche del conte di Sonnaz nella basilica e nell’Abbazia di Casamari; e da per tutto si faceva un gran dirne. Chi rifiutava di prestar loro fede; chi, stringendosi nelle spalle, rimaneva mutolo; altri (ed erano i liberali più fervidi ) schizzavano fuoco o fiamme, gridando all’iperbole, alla calunnia! e tessevano elogi fioritissimi della umanità, della civiltà, della religione, della gentilezza cavalleresca delle milizie sarde; e ne inferivano, queste voci dover essere tutto maligne invenzioni degli odiatori d’Italia: altri (ed erano i liberali un po’ tepidi ) facevano il bocchino, ritondavano gli occhi e: — I soldati regolari? gli eroi di Castelfidardo? non è possibile! sentenziavano con sicumera da diplomatici; gl’irregolari? I rompicolli del Garibaldi? ehm, non sarebbe improbabile! — Per farla corta, ognuno passava queste notizie nel suo crivello, e le chiosava a seconda del proprio giudizio e delle affezioni a cui era più o meno inclinato.

Traiano era di quelli che stavano in bilance, e non sapevano quale opinione fosse meglio di esprimere. Le cannonate, ripeteva a tutti gli amici di un certo colore, di averle intese, e rimbombanti! e anzi fingevasi dolentissimo di non esser potuto trovarsi presente all’arrivo di que’ prodi campioni della patria indipendenza. Ma poi anch’egli riputava inverosimile, incredibile, impossibile che soldati di quella bravura fossero trascorsi in enormità cosi vituperevoli, e da barbari Ostrogoti. AI che si opponeva la moglie con esclamare: — Si eh? incredibili? impossibili? Traiano mio, chi è stato capace di assassinare l’esercito del Papa, come han fatto coloro, combattendo dieci contro uno, sotto Loreto; e di bombardare la città di Ancona; e di maltrattare così bestialmente i nostri soldati prigionieri di guerra, solo perché erano fedeli al Santo Padre, e di càiadere in carcere il Cardinale di Fermo, e di fucilare in Perugia un prete innocentissimo; chi è stato capace di queste nefandità, oh è capace di saccheggiare anche un convento di monaci, di abbruciarlo e di contaminare la sacra Eucaristia! Ci vuol altro che bravura! Chi non porta rispetto al Papa, non lo porta nemmeno a Cristo: e tutta la bravura del mondo, scompagnata dal timore di Dio, che cos’è ella mai? è bravura da Ostrogoti.

E Traiano a mordersi le labbra, a masticare, a scrollar la testa e a soggiungere 'con una strizzatina d’occhio agli amici: — Compatitela, poveretta! sfoghi di donne senza cervello! Chi più n'ha, più n’usi.

Senonché alle prime succedettero le seconde notizie, con ragguagli minuti e particolarissimi di tutto l’operalo dai Sardi In quella loro spietata invasione della Badia; e il Giornale di Roma le stampo a lettere d’agoglia, e il Padre Abate di Casamari le autentico con un suo pubblico rapporto, e altri testimonii di veduta irrepugnabilmente le confermarono. Di maniera che da nessuno tali scelleraggini e ladronerie non potendosi più rivocare in dubbio, tutta Roma parlavane; ed era uno scandolezzarsi, un querelarsi, un mormorare, un satirizzare, uno spiattellare improperii terribilissimi sul dosso de’ liberali, che, non avendo modo di reggere alla tempesta, correvano a nascondersi e si facevan prendere da catarri e da infreddature; e intanto strologavano bugie di nuovo conio, da spacciare su tutti i diarii delle sinagoghe d’Italia, per discolpa de’ «valorosi» che in Casamari aveano «vendicato l’onore della nazione».

Ma questo sozzo giuoco liberalesco di stravolgere le parli, assolvendo i rei e versando l'infamia sopra gl’innocenti, non fece buona prova in Roma, neppure presso que’ liberalotti più sempliciani, che soglion ber grosso e inghiottire i camelli per moscherini. Ond’è che tra loro, in gran confidenza, ne sfiondavan di quelle che, secondo i canoni della liberalità ortodossa, non istarebbero né in cielo né in terra — Poffar il mondo! si dicevano l’un l’altro a un orecchio; mettere a sacco? incendiare? devastare un monumento così riputato com’è quella Badia? e rapire persino i vasi sacri? Queste sono imprese da Vandali, enormezze da Saraceni, non. atti da milizie che gloriansi di portare in trionfo le insegne della civiltà, il simbolo della croce! Ah che scorno! che sfregio per la bandiera dell’Italia «rigenerala»! E, lode al vero, il nostro Traiano era di costoro che, resi certi del fatto, lo detestavano altamente: cd egli, nel secreto suo, indegnavasane ancora di vantaggio, per tema che, in quel trambusto di Casamari, qualche nuova disgrazia non fosse incolta o al Capitano o alla orfana sua, della quale esso cominciava a riguardarsi quasi tutore, almeno per modo di provvisione. Il perché subito che si sparse l’annunzio del combattimento di Bauco e della capitolazione dei Sardi, i quali aveano effettivamente sbrattato il paese; Traiano fece pratiche diligentissime per aver nuove di Pellegrino e della sua giovane. Ma non essendo potuto venire a capo di nulla, gli bisogno in viarc apposta un suo messo: e fu quegli che, condottosi fino al casolare di Vito, si abbocco con la massaia e riporto poscia al padrone le due sole notizie, che il Capitano era morto, e la figliuola sparita.

— E come sparita? lo interrogo Traiano sbalordendo di dolorosa meraviglia.

— Quella villana m’ha detto di non saperlo; ma crede che qualche soldalaccio l'abbia rubata, perché, diceva ella, tra colonne proprio de’ Satanassi incarnati.

— O va a farli benedire tu, e lei, e i gaglioffi tuoi pari! strillo l'altro uscendo stranamente de’ gangheri. I Piemontesi rubarla! Ma non sai tu, pezzo d’asino, che que’ bravi sono l’onor dell’Italia, cime di cristiani? e che è peccato mortale contro la carità, il sospettare anche solo che essi vituperino la loro divisa con tali infamie? — Scusi tanto, signor Traiano; io diceva così per ridirle quel che mi ha dello la donna. Nel resto che importa a me di coloro che, se capitassero in Roma, ci farebbero saltare in aria anche la copula di san Pietro? Vadano pure al diavolo, che io mene impipo. Se (Da vedesse a che hanno ridotto il convento di Casamari, uff! metto pegno la testa che lei, signor padrone mio, parlerebbe diversamente. I cristiani non bruciano i monasteri e non saccheggian le chiese.

— Coteste bricconerie le avrà fatte una manica di mascalzoni, che si saranno mescolati alle truppe. O guarda! pensi tu che non sappiamo anche noi distinguere la marmaglia dai galantuomini? Tutte queste furon parole bellissime. Ma in sostanza egli le profferì più per una certa boria che altro. Di fatto nel partecipare poi alla moglie e a Flaminia l’esito di quest’andata dell’uomo, e nel sentirne i lamenti che ne menarono, non potè a meno di mostrarsi persuaso della possibilità di quel ratto. Anzi riconsiderando la cosa ad animo più riposalo se ne capacito a tal segno, e insieme gliene venne al cuore una sì forte passione, che imprecando a coloro che prima alzava alle stelle, piangeva a cald’occhi, non altrimenti che se deplorasse una figliuola amatissima, rapitagli barbaramente da o» soldataglia sfrenala. E con lui piangea Flaminia non dandogli pii requie, acciòcché per ogni via si fosse industrialo di ricuperare l« miserella; e con lui e con Flaminia piangeva ancora la moglie, che alevasi di questa opportunità come di un argano, per distaccare finalmente il marito dall’amicizia dei liberali, e dal setteggiare con una razza di gente che, diceva ella, non ha pace per sé, e non ne lascia avere agli altri.

Nè era fatica vana. Conciossiaché nell’animo di lui, per tutte le ragioni summentovale, già s’era venuto facendo un tale rivolgimento di pensieri e d’affetti che, anche senza le batterie di Maddalena, egli era in ottime disposizioni di romperla con quella mala combriccola, ch’egli esecrava nell’intimo suo, perché conoscevane la tristizia; ma della quale sempre si era simulato ligio, per pochezza di spirito e per una ridicola vanità, che era forse il più nolevol difetto del suo naturale. Adunque tra per questo, e per l’ira che concepì del rapimento della fanciulla da lui stimalo indubitabile, prese a porgersi tanto docile alle suppliche della donna ed ai savii consigli di suo fratello, che un giorno, la destra sul cuore, promise di farla finita di buon davvero coi liberalastri di qualunque pelo si fossero: e nella foga del promettere trascorse così avanti, che afferro il cordone pendente alla cintola del padre Euschio, e con esso in pugno: — Volete di più? sclamò imprimendovi un baciò; questa fune diventi un capestro che mi strozzi, se io d’ora innanzi non verserò nella cassetta dell’obolo di san Pietro i tre scudi, che ogni mese gittava in gola a quegli scannapaguotte del Comitato t — Ah Dio lo faccia, e san Francesco benedetto! grido la donna congiungendo le mani e levando al cielo gli occhi bagnati di lagrime.

— Bravo Traiano mio! ripiglio il fratello abbracciandolo amorosamente; il Signore vi conceda la santa perseveranza! — Oh vedrete, vedrete se saprò essere nomo di proposito! Il  gaudio di Maddalena per la insperata sua vittoria, in quel primo istante, fu inenarrabile. Tuttavia non parendole che fosse da fare assegnamento troppo grande sulla eroicità di Traiano: — Che ne dite, padre Euschio mio buono? chiese con bassa voce al cognato, mentre questi si accomiatava ed ella gli apriva l'uscio; persevererà egli? — Speriamolo. — Ma è tanto solito a cantarne una e a farne un’altra, che io non so finire di credergli.

— Questa volta speriamo che terrà sodo.

— E gli basterà poi l’animo di far il muso duro a’ ghiottoni del Comitato?, — Sentile, Maddalena: il Comitato è oggimai divenuto la tavola di Roma, perché tutta Roma vede ch’esso dà della testa ne’ muricciuoli, per la disperazione di non fare mai altro che fiaschi. Non vi accorgete anche voi, che ora ci vuol più coraggio a far viso dolce a quella cricca di birbanti, che non a farglielo amaro?

LVII.

Tempo addietro, allora che ci occorse di fare una tal quale descrizioncella dei liberali di Roma, accennammo che, cadendone il destro, avremmo offerto ai lettori anche un quadrettino storico del suo celebre «Comitato Nazionale», le cui prodezze hanno avuta la sorte invidiabile di muovere a sollazzevol riso tutta l’Europa. Ora dunque che la palla, come suol dirsi, ci viene proprio al balzo, di buon grado la coglieremo e abbozzeremo qui alla meglio, con tocchi rapidi ma fedeli, questo quadruccio, per cui dipingere abbiamo eziandio già belli e pronti i colori della tavolozza d’un liberale matricolato.

Costui è, o almen s’intitola, romano e per soprappiù esule. Il vero suo nome cela, forse per modestia, sotto quello di Filodemo. Di che partilo egli sia, non lo dice spiegatamente, ma si fa conoscere quanto basta per di mezzo tra moderato e immoderato; schietto però, franco e ignaro di quelle ambagi di frase, di que’ lenocinti di linguaggio e di quelle ipocrisie di stile, che son le delizie de' pulimanti della moderazione liberalesca. In un opuscolo, ch’egli ha dato a luce in Tonno l’anno 1863 (1), questo signor Filodemo compendia a meraviglia il racconto delle inclite gesto del Comitato romano; ma storiando taglia gentilmente le calze a’ suoi caporioni e ne rivede le bucce e leva loro le carni, con accumulare in brevi pagine un tal tesoretto di cose, che noi ci recheremmo a coscienza di non giovar cerne in pro nostro.

Venendo a noi, è da sapere che, dopo il rovescio della Repubblica mazziniana del 1849, le sétte occulte erano ridotte in Roma poco meno che alla tisichezza, per l’odio in che le aveva il popolo da loro tradito, dissanguato e spolpalo, per la severità con cui le flagellava il Governo, e per le interne loro divisioni, a cagion delle quali s’inimicavano l’una l’altra con astio rabbiosissimo. Ma nel 1853 la Framassoneria italiana, dominante già da quattro anni in Torino, avendo costituita la nuova «Società Nazionale», che si proponeva di unire l’Italia allo scettro della Casa di Savoia, ed avendo distese le sue fila nella maggior parte della penisola; giunse a fare abboccar l’amo ancora ad un branco dei settarii di Roma: e presili nella sua rete, li ammansò, li disciplinò, e diedeli da reggere a una eletta di graduali nell’Ordine, i quali dovessero poi ricevere gl’indirizzamenti dai Ministri plenipotenziarii sardi, accreditati presso la Santa Sede. Queste furono le origini del Comitato romano, il quale nato, a mo’ di lombrico, tra il pattume della Repubblica del Mazzini, bamboleggio e crebbe nascosamente sotto la tutela monarchica della diplomazia piemontese, fino allo scoppiare della guerra nel 1859, quando ebbe principio la sua vita pubblica, che noi, per amor di chiarezza, distingueremo in tre età principali.

La prima di queste età fu quella che chiameremo di oro, non tanto pei frutti, quanto per le speranze lietissime che ne rallegrarono la florida giovinezza.

La quale si manifesto in Roma improvvisissimamente, nei dintorni della piazza del Vaticano, il solenne giorno di Pasqua

1 Il Comitato Romano e Roma, per Filodemo esule romano. Torino, tipografia Paltrinieri.

del predetto anno, con ragli briosi al Generale conte di Govon e all’Ambasciatore duca di Grammont, in segno di alta gioia per la calata delle armi francesi in Italia contro gli eserciti dell’Austria. «Io era fra i plaudenti, scrive l’ingenuo Filodemo, e posso perciò giudicare a dovere di quel primo fatto del nostro Comitato. Dirò adunque, a lode della verità, ch’esso mi parve insufficiente a dimostrare lo spirito dei Romani. Quantunque da noi si gridasse a squarciagola, il popolo rimase freddo a contemplare B. Ma non così avvenne pel festeggiamento della presa di Milano. La sera che se ne divulgo la notizia nella città, il Comitato per poco s’immagino d’esser signore del Campidoglio: giacché, con benigna venia della polizia francese, avendo ordinata una clamorosissima processione lungo la via del Corso, che voleva s’illuminasse «spontaneamente», vide una turba di curiosi accorrere da ogni angolo; vide le finestre di molte case ornarsi di fiaccole all’intimazione dei suoi gridatori, e vide (lo dice Filodemo) la docile calca «sciògliersi ad un semplice ossei! dei gendarmi francesi, ai quali egli, per meno de’ suoi capisezione, avea comandato obbedienza».

Senonché queste e somiglianti baldorie furono di durala cortissima.! Romani, ammaestrali dalla esperienza, che la forza dei podi tristi proviene tutta dalla inerzia dei dieci cotanti più buoni, fremettero a cotest'audacia di una mano di congiuratori, i quali, lasciali padroni del campo, avrebbono indotta nel mondo l’opinione obbrobriosissima che Roma ingratamente osteggiasse il trono de’ Papi, che era la sua gloria, e in quella vece ambisse mattamente di soggettarsi a una dinastia per lei ignota e straniera; trasformandosi, di Lillà reina dell’universo, in metropoli di non si sapeva qual Regno fabbricalo da straniere armi, e unicamente fondalo sopra la grana di una straniera potenza. Nè l’esempio delle Legazioni, ribellate al Papa e vendute al Piemonte da una frolla di cotesti rivoltosi, fu di lieve incitamento ai Romani, per istimolarli a scuotersi e a non consentire giammai, che un pugno di scellerati mettesse loro i piedi sul collo.

Adunque alle prezzolale spavalderie del conventicolo piemontese, i Romani cominciarono a contrapporre dimostrazioni splendide e generosissime di leal sudditanza e d’amore inviolabile al Santo Padre. Più di mille scelti cittadini, quasi tutti giovani di primo fiore, a proffersero al Pontefice per formare una Guardia che ebbe il nome di Palatina: poscia ogni ordine di persone, da quello dei patrizii sino agl’infimi della plebe, presero a sottoscrivere indirizzi affettuosissimi a Sua Santità, ne’ quali, con suffragio di voti unanimi, le si professavan fedeli e apparecchiati a sostenere qualunque danno, piuttosto che macchiarsi dell’onta di fellonia: quindi si fecero stri ordinarie supplicazioni per le strade, alle quali interveniva quanto ha Roma di più cospicuo e venerabile nel laicato e nel Clero: appresso ebber luogo, fuor d’ogoi consuetudine, nei Venerdì di Marzo adunanze affollatissime nella Basilica Vaticana, ove scendea il Santo Padre per l’adorazione delle Reliquie; e a tal segno si accrebbe questo pio concorso, che l’ultimo dei detti Venerdì si computarono a più di quarantamila i convenuti a pregare col Papa, e le carrozze, per lo più signorili, ingombravano la immensa piazza, come no’ pomposi giorni della Pasqua o del pontificale di san Pietro: finalmente si cerco ogni contingenza di anniversarii memorabili nei fasti della Santa Sede o del Regno di Pio IX, per celebrarli con luminarie e feste sfolgorantissime; e sopracciò lo mostre di ossequio e di devozione al Pontefice Re diventarono così strepitose ed universali, che il Papa, al suo passaggio per le pubbliche vie, risedeva popolari acclamazioni, incessanti applausi e significazioni di si viva e cordiale adesione alla sua sacra e civile Sovranità, che i forestieri n’erano attoniti per Io stupore. Qual fosse lo sgominamento del Comitato per questo moto così generale, così prepotente, così irrefrenabile degli animi de’ Romani verso il Pontefice, si può argomentare dal silenzio che egli subito fece, dall’oscurità in cui torno ad avvolgersi, e dalle lettere furibonde che mandava stampare ne’ fogli de’ giudei di Firenze e anche di Torino. Filodemo poi ci fa sapere candidamente, che questa, com’egli la dice, «rivincila» dei Romani, avvilì a tal punto «i liberali medesimi» che aneli’ essi, perla migliore, «illuminavan le case in occasione delle loro feste. » E a qual altro più accorto partilo dovevano essi appigliarsi, in quello svanimento così inopinato di tutte le lor magnifiche speranze? Ma lo stordimento non poteva esser perpetuo.! rimproveri, le minacce, i frizzi, le beffe che da tutte le logge massoniche dell’Italia grandinaron sovra il capo del nostro Comitato, ebbero tanta possa, che egli si ridesto e riapparve sull’arena; non già più a dare spettacolo di sé con baccanali burleschi, ma a sfidare baldanzosamente i suoi avversarii. Con la quale bellicosa determinazione egli fece trapasso alla sua seconda età, che chiameremo di ferro. Questa si aperse con un fatto, che i liberali di Roma si ricorderanno per un pezzo, e che Filodemo, il quale vi ebbe la sua parte (non dice se solo di agente è anche di paziente) piange tuttora a lagrime inconsolabili. Ciò fu la solenne batosta che i giannizzeri del Comitato ebbero dai gendarmi pontificii nella piazza Colonna, ai diciannove Marzo del 1860, giorno di san Giuseppe. La intrepida falange ebbe ardire di presentarsi a un drappello di que’ soldati, che tranquillamente vegghiavano al buon ordine della passeggiata dei Corso; e con fischi e con urli e con laide contumelie se li ebbe aizaii contro per guisa, che i valentuomini, perduta la pazienza, sfoderar» le sciabole e scagliatisi fieramente addosso a quella bordaglia, hai battimani del popolo, sbarattaronla come una torma di lepri; n senza ferirne molti, che pagarono, chi con una piattonata in testi, chi con un fendente al bracciò, il fio della sconsigliala loro temerità. E Filodemo, che si segnalo in questa impresa, confessa che la «fuga» veramente fu «universale». In pari tempo, seguita a Durar egli, «la polizia pontificia aveva intimato lo sfratto, nel termine di ore ventiquattro, ai signori Mastricola, Silvestrelli, Tittoni, Fori, Santangeli, Righetti, i quali, non v’ha più ragione di tacere la verità, erano stati fino a quel giorno membri principali del Comitato». E costoro, in ricompensa degli immortali meriti acquistatisi con la patria, ottennero «la maggior parte assai onorevoli incarichi od regno italiano».

Nè qui terminarono le disdette. Il Governo raddoppio di vigilanza, assottiglio le indagini, imprigiono molti degli avvilupati in queste ignobili congiure, li processo e condannolli, secondo la reità, quali al remo, quali all’esiglio: e l’assassino Lucatelli, che avea traditorescamente pugnalato un gendarme, fece decapitare ad esempio, il popolo poi alla ferrea mano della giustizia pubblica, aggiungeva i suoi dileggi e talora le sassaiuole e il randello: massimamente quando chiappava in flagranti i petardieri del Comitato, che con gli spari tentavano disturbar le feste delle luminarie in onore del Santo Padre. «Conosco una Signora, scrive il buon Filodemo, che lanciò con tutta forza un lanternone, sul disgraziato che avea messo fuse ad un petardo sotto le sue finestre». E noi potremmo far conoscergli qualche giovinotto di garbo, che, con un noderoso bastone, spiani le costole a parecchi altri di simili «disgraziati».

Le cose liberalesche essendo in Roma declinate a si lamentevole condizione, i sopracciò di Torino si consigliarono di rifar tutto da capo, e di riordinare in nuova e miglior forma questo loro pollaio, che oramai si disciòglieva come il sale nell’acqua. Per tal effetto si conformarono al dettato che insegna, nei casi estremi doversi far uso di mezzi estremi. Adunque il Comitato «si ricompose», dice Filodemo, e «fu retto a monarchia». E niuno pensi che si avesse da dar la scalata al cielo, per trovare il dittatore o monarca. «Un uomo notissimo pe’ suoi lavori letterarii, tenacissimo della sua opinione e sinceramente liberale, restrinse in sé i pieni poteri, ed i suoi colleghi non poterono contrastargli un tal primato, per la grande differenza di erudizione che fra lui ed essi correva. » Cosi Filodemo. Ma questo fu rimedio peggiore del male. Imperocché i democratici mazziniani, che abboniscono dalla monarchia, quando non è esercitata da loro, più che il diavolo dalla croce, negarono rotondamente di prestare omaggio al dittatore, benché «notissimo pe’ suoi lavori letterarii», e di riconoscere «la grande differenza di erudizione che fra lui ed essi correva»: onde, voltategli le spalle, ruppero l’ubbidienza, violarono la carità fraterna, fecer casa da sé, rizzarono altare contro altare e dichiararon guerra giurata al dittatore, alla monarchia e a tutti gli aderenti dell’uno e i patroni dell’altra. Quindi non è a meravigliare, se la navicella del Comitato monarchico, non ostante la i erudizione» del piloto cosi «sinceramente liberale» che la guidava, non potè reggere alla sformala burrasca; e naufraga e capovolta si sfascio tutta in quel fango, da cui prende nome la terza ed ultima sua età.

E in vero ella è piena di fatti cosi bassamente vergognosi e di fanciullerie tanto scimunite, che Filodemo si sente i rossori nel viso a pure pensarvi: il perché contentasi di dire, che «se dovesse comporsi una commedia di tali fatti, crede che questa dovrebbe intitolarsi: La congiura dei bimbi»: e la penna gli si ricusa di «farne la narrazione cosi ridicola, quantunque essa potesse offrirgli il destro di colpire i suoi avversarii coll’arma potentissima dello scherno».

D’onde si scorge ch’egli ha dell’amaro in bocca, e che alla fin delle fini non dà poi tutto il torto agli scismatici mazziniani. Or quali sono adunque i «falli» così «ridicoli», che han renduta pressoché favolosa la dittatura «dell’uomo notissimo pe’ suoi lavori letterari!» nel Comitato Nazionale Romano? Ne indicheremo alquanti. Accendere nella Dotte sparpagliatamente, per le vie più frequentate della città, candelette a fuochi di Bengala, le cui luci, se si fosser potute vedere unite, avrebbon rappresentati i tre colori italiani. Medesimamente accompagnare queste pacifiche accensioni con botti guerreschi di petardi, che erano il geniale trastullo onde quell'uomo» ricreavasi da’ «suoi lavori letterarii». Medesimamente appiccicare, s’intende sempre di notte, nei canti delle vie o ne portoni di certe case, certi cartellini dipinti coi tre colori soliti, sopravi in istampatello certi evviva, che non si sarebbon potiti gridare in piazza, senza pericolo di assaggiar quanto pesi la mai di un gendarme. Medesimamente, nelle medesime ore notturne, gittar in alto per le facciate delle chiese o sui balconi de’ palasi certe pallottolette di creta, portanti una cannuccia a cui era legate una banderuola a divisa dei tre sacri colori: oppure, se fosse state la notte tra un Sabato e una Domenica di Agosto, quando la piana Navona è tutta inondata dalle fontane, buttare nel mezzo del lago manciate di bellissime tavolette in legno, invernicale de’ tre colori: le quali, galleggiando lievissimamente su quelle mobili onde, raffigurassero forse chi sa? la a tenacità delle opinioni» dell'uomo notissimo» che «reggeva a monarchia» il Comitato romano. Medesimamente (e finiamo qui ) tra le medesime tenebre, mandare attorno due monelli, uno con tre secchielli e l’altro con un arnese, che Filodemo descrive con molta proprietà, assomigliandolo a un canna da «serviziale a tre becchi»: e i secchielli e l’arnese, capilavoro d’invenzione liberalesca, servivano «a spingere in alto su muri di Roma i colori nazionali. » Il che detto, Filodemo, che sai latino, si copre la faccia ed esclama ben sapientemente: Tantae nolis erat romanam condere gentem! Oh certo! anche noi siamo del parer suo, che niun altro Comitato «abbia mai fatto i veri interessi della polizia pontificia meglio» di questo. Ed esso ha ragione da vendere, ove scredita il valore e mostra i danni di coteste fangose gofferie d’impiastri, di banderuole, di cartellini, di assicelle natanti, eccetera eccetera. Or noi, per gratitudine delle tante e pellegrine cose che o ci manifesta o ci confessa nel suo librelluccio, gli scopriremo noi pure una notizietta, che egli sembra ignorare, ma che noi gli diamo per sicurissima, con la facoltà di stamparla in una seconda edizione di questo suo libriccino. Ed è che il «notissimo» dittatore del Comitato non faceva «gl’interessi della polizia» soltanto con prescrivere tali scimunitaggini, ma li faceva assai «meglio» con soffiare agli orecchi di essa polizia tutte le marachelle degli scismatici mazziniani: di maniera che, quando il Governo ebbe sentore dell’essere e del grado suo nella fazione dei sediziosi, la maggior difficoltà che incontrasse, per procedere contro di lui, fu nella polizia stessa, la quale con autentici documenti provava qualmente il sullodato signore si fosse accontato con lei, come spia secreta dei latti e detti del partilo dei democratici di Roma.

Se quest’arte di cucire cosi bel bello il prossimo a refe doppio, sia in tutto e per tutto da «uomo sinceramente liberale», dicanto i maestri in liberalità. Il caso è, che mentre il furbacchiollo gongolava in cuor suo, pe’ due colombi che credea di aver pigliati a una fava, resto preso egli: e fu mandato a cinger l’aureola di martire nel Regno d’Italia, il quale giova sperare che l’abbia rimunerato, se non altro, con una croce di suo cavaliere. L’esiglio però di costui fu sperpero e sterminio del Comitato Nazionale Romano, che, con la perdita di una testa cotanto magna e solenne, rimase irreparabilmente decapitalo. Vero è che nel dare gli ultimi tratti, si è sforzalo di farsi vivo, e anco di' armeggiare contro gli emuli mazziniani che ne deridevano l’agonia: Ma il poverin, che non se n' era accorto, Andava combattendo, ed era morto.


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LA POVERELLA DI CASAMARI

RACCONTO STORICO DEL 1860 E 1861
LVIII.

—Sia quel che è; ma persuadetevi, che niuno degli amici si aspettava, che anche voi avreste battuta la ritirata in questo modo. Se andiamo innanzi così, il nostro partito si sbanderà come la polvere al vento, e ci ridurremo a zero. Ah, signor Traiano, pensateci un poco meglio I

— Ci ho pensato, vi dico; e voi non mi state più a rompere gli stivali. Che serve? Oggi non è giornata da discorrermi di queste faccende.

— Dunque risponderò agli amici, che voi.... cos’ho da rispondere, in somma?

— Che i tre soliti scudi non posso pagarli, perché gli affini miei si sono sconciati, e non me ne avanza da buttar via.

— Oh, oh, buttar via? Quel che si spende per la patria, non è mai danaro buttato.

— Si, per la patria eh? Corpo di mia nonna, uhm, anche un po’ e io sbotto. Fatemi tanto piacere: non mi stuzzicale a dire quello che non vorrei dire.

— Ben bene; m’accorgo che questa mattina avete la luna a rovesciò: pazienza! E poi che altro debbo io riferire?

— E poi riferite il resto che avete inteso da me: voi non siete sordo, e io non v’ho parlato in tedesco.

— Ai caffè nostro, dirò che non tornate più, perché ne avete trovalo uno migliore: esempligrazia, quello del Veneziano a piazza di Sciarra, che è la bolgia di tutti i codini di Roma, no?

— Che Veneziano o non Veneziano? Cospetto di Bacco! Io vo dove mi pare e piace; e non ho bisogno di render ragione dei utili miei al vostro bel mostaccio, capite? Or sapete che? prendete subito la via dell’uscio e baciatene la campanella, se no sarete piglialo a bravi calci di dietro e ruzzolato giù per le scale.

— Bum! tanta collera? Per carità, signor Traiano, placatevi. Alla fin fine io non sono venuto qua di mio. Considerate, che chi mi ha mandato, è persona di gran merito. Cappiterina! il nostro sor Peppe non è uomo che se n’abbia a far calze e scarpe, siccome fate voi ora di me. Egli è un ingegno superlativo, un letteralone a cui tutta Roma fa di berretta, una testona politica, che il conte di Cavour, il gran Ministro d’Italia, si pregierebbe d’averlo a fianco in Torino per suo collega.

— Ed egli vada in Torino sulle corna di Satanasso, che ve lo porti I e vi lecchi le zampe al gran Ministro d’Italia; e lasci vivere in pace chi ci vuol vivere. Io m’infischio di lui, di voi e di tutti li birboni vostri pari; ih finiamola!

— Ah Traiano, Traiano! basta. Se voi foste quel galantuomo che tutti noi vi stimavamo, direste senza tanti complimenti che sì, avete voltata casacca, vi siete picchialo il petto d’essere stato mezzo liberale, e ora mettete su il nastro biancogiallo e vi siete fatto papalino anche voi. Che monta infingersi? Quel fratacchione, che bazzica sempre in casa vostra, vi ha arreticato nelle sue maglie, e inscrìttovi tra i sagrestani del terz’ordine, e adesso vi mena pel naso come un buacciuolo. Va benone! Evviva le maschere e le banderuole! Addio.

— Va, va, scimmia, e provati a rimettere in casa mia questo tuo grugnaccio da gatto mammone! Te ne sonerò tante io delle busse, che davvero non ne uscirai co' tuoi piedi.

Cosi, la mattina della Domenica quattordici Aprile, nello scrittoio di Traiano, terminava un’altercazione assai burrascosa, lira lui ed un ridicolo personcino sbarbatello, con le gambe a balestruzzi, col nasetto camoscio e con gli occhi birci, il quale, a vederi» tutto lindo, attillato e cascante di leziosaggine, pareva una bertuccia in zoccoli. Egli era un certo colale scapolo, verde ancora di età, ma sciòperato, senza sale in zucca e buono a null'altro che a divorarsi, in compagnia di goditori lecconi, la rendita di un sufficientissimo vitalizio: e intanto, per darsi aria d’uomo da qualche cosa e accattarsi gloria dai liberalastri suoi parassiti che gli succhiavano le midolla delle ossa, erasi dato anima e corpo ai servigi del Comitato: e il «sor Peppe», cioè il famoso dittatore che cosi nominavasi, facealo adoperare per ispia, per cursore, per procaccino e per simili uffizii, de' quali il barbalacchio teneasi onoratissimo. Costui era noto come l’ortica a parecchi di quelli che egli disdegnosamente scherniva di sanfedisti arrabbiati»: e uno di loro, che l’avea bell’e pesato fin da quando andavano a scuola insieme, da quel capo ameno ch’egli è, resegli pan per focaccia, appiccando a un suo ritrattino in fotografia un vecchio sonetto di autore toscano, che sollazzò molto alcuni crocchi e alle prime non si volle credere che fosse antico, sì calava bene al gradasso. Sareste curioso di conoscerlo anche voi, lettor nostro? Eccolo: ed abbiate per fermo ch’egli è una sua miniatura, iàUa proprio con l’alito.

Io son Geppin, figliuolo di me’ ma’,

E son nel mondo, perch’ella mi fe:

A che fare io ci sia, non so il perché,

E mangio perché c’è chi me lo dà.

Del cervello ce n’è gran quantità;

Ma del giudizio punto non ce n’è:

E mi ricordo sol che di anni tre

A chiamar cominciai me’ ma’ e me’ pa'.

Ho studiato di molto notte e dì;

Imparato però nulla non ho,

Non avendo passato il b, u, bu.

Nè vo’ stare a cercar più di cosi:

Fino alla morte io so ch’io camperò:

Ora, che occorre stare a impazzar più?

Questo fu il pezzo da sessanta che il «sor Peppe», dopo rovistate ben bene da un capo all’altro il suo arsenale liberalesco, giudico di dover mettere in batteria, per espugnar l’animo di Traiano. Imperocché egli da due mesi non si faceva più rivedere nei circoli dei fratelli, ne schifava anzi con mal coperta disinvoltura gl’incontri, e non rispondeva più al consueto pagamento. Ma, quel ch’era peggio, con iscandalo intollerabile alle delicate coscienze de’ più pusilli, nei Venerdì del Marzo s’era mostrato assiduo con la moglie e con le figliuole alla Basilica di san Pietro, nell’ora che il Papa vi scendeva tra un’immensa folla di nobili, di cittadini e di forestieri, che in bello studio vi convenivano, per unire le orazioni loro a quelle del Santo Padre; supplicando Iddio che campasse la sua diletta Roma dal flagello terribilissimo di diventare, ancorché per breve tempo, sede visibile di Lucifero e città capitale del suo regno in terra. Quanto questa voltata di faccia scottasse ai caporali della congrega, glielo avean fatto intendere prima con crucciòse ambasciate di confidenza, poi con ammonizioni severe, appresso con letterine cieche frizzanti di pepe; nel condire le quali non c’è chi vinca in finezza il liberalotto romano: e da ultimo con ghigni, con beffe, con motteggiamenti che gli erano scoccati alle spalle, e che lo cocevan sul vivo, ma che egli dissimulava con fare a meraviglia orecchie di mercante.

— Ah! ci sentiamo interrompere da un giovanetto lettore; dunque Traiano aveva detto propriamente sul serio, ed era stato uomo di proposito?

LIX.

Sì, caro giovanetto: ma non vi deste a pensare che questa costanza fosse tutta merito dell’ottima sua volontà. Ci ebbe la sua parte anche un po di amor proprio, e un altro poco di quella natural timidezza, che nei deboli di cuore facilmente suol convertirsi in ira, in dispetto, in ostinazione. Per lui il punto forte non era già di dare i primi due o tre passi addietro, e di mendicare scuse per rifiutarsi l’un mese o l’altro a sborsare la pattovita imposizione: ma era nel reggere alle noie, alle lusinghe, agli assalti d’ogni maniera che gli avrebbon fatto gli amici, per impaniarlo di nuovo nel loro vischio e riguadagnarlo a’ loro vantaggi. E non v'ha dubbio che, se dalla voglia di far troppo presto non fossero stati gabbati, questi scaltrissimi uccellatori avrebbon ripreso il merlotto ne’ loro lacci. Che egli non era di tal tempera d’animo, che avesse potuto a lungo durarla contro il solletico delle adulazioncelle, dei blandimenti e di quelle carezzuole, con coi i liberali pratici del mestiere sanno baronescamente allettare i parvoli di spirito e serbarseli docili, amorosi e trattabili come cucciòlelti da vezzo. Ma nel caso di Traiano si avvero a capello il proverbio della gatta frettolosa, che fa i micini ciechi. Eglino poco o nulla si curarono di usare con lui le buone, di lisciarle, di palparlo, d’indolcirselo con graziosità: e in quel cambio misero subito mano alle sgridate, alle rampogne e quindi agli sbeffeggiamenti e alle villanie; di modo che esso, adontatosene al più alto segno, tenne per puntiglio d’onore il proponimento, che forse avrebbe smesso per un riguardo di falsa condiscendenza.

E la moglie sua Maddalena, avvedutasi di questo esacerbamento, dm ella chiamava un tiro della misericordia di Dio, non fu no pigra a battere il ferro mentr’era caldo: ma con quella sua eloquenza, che utff opera di sfolgorare i framassoni non avea la simile, veniva ingerendo al marito un cosi fatto abborrimento delle loro ipocrisie, delle loro massime, dei loro disegni e di tutte le scelleratezze da loro compite nella rivoluzione d’Italia contro il Papa e la Chiesa, che egli fumavano; ed avea gran pena a schiacciare tra i denti e ingoiare certe parolacce che gli nascevano in bocca, ma che non istava bene dirle, perché putivano d’imprecazioni. — Uff! guai al primo di quei birbanti, che mi si accosterà per toccarmi un pelo! S’io non gli fiacco il collo, non sia!

— Non tanto, no! rispondeva la donna; ma pestargli il muso con due pugni appoggiati a dovere, oh fatelo, che ne avrete indulgenza plenaria! Quella è gentaglia, che non bisogna lasciare che ci calchi sotto de’ piedi.

In questo sopraggiunse la Pasqua, e Traiano, secondo il costume, fece cristianamente l’obbligo suo: ma, con l’aiuto delle nuove Esposizioni d’anima in cui era, il fece assai meglio che per lo passato. Conferì più volte con un probo e dotto sacerdote, il quale, in sostanza, gli ripetè le medesime lezioni che egli avea ascoltate da suo fratello Euschio; e ancora molte di quelle verità prette prette, che si era sentite intonare da Maddalena nelle sue solite predicozze. Ed esso le riconobbe con evidenza maggiore, ne fu persuaso, dimando e ricevette bellissimi consigli, rinnovello le sue promesse e tanto si rifortifico ne’ suoi generosi propositi, che dove, prima di far la Pasqua, teneva il broncio a’ liberali per risentimento vendicative, appresso la ruppe del tutto con loro per debito di coscienza.

— Benedetto Iddio e san Francesco, che v’ispirarono le due gite a Veroli e a Casamari! sono proprio state la salute vostra! gli diceva un giorno la donna in presenza del padre Euschio. Se delle vostre carità a quella famigliola napoletana non aveste ottenuto altro compenso che questo, io me ne direi contentissima. Oh che grazia vi ha fatto il Signore! che consolazione per tutti noi!

— Eh sì! indegnamente, mi si sono aperti gli occhi; replicava Traiano con voce alquanto pia e commossa; e io sarei una gran bestia, se non confessassi che è stato premio del po’ di bene che feci a quella sfortunata famiglia. Ma mi duol tanto della ragazzina, la quale non ho potuto salvare, che io non so quello che sarei pronto a spendere, per ricuperarla e coronar l’opera, giusta i desiderii del povero Capitano.

— Lasciam fare alla Provvidenza! soggiungeva il frate; essa che ha cura delle formiche, certo non abbandonerà quella lapioella. Chi dice a voi che l’abbiano veramente rapita? Cotesta fu una congettura della paesana che l’albergava, e potrebb'essere benissimo una fantasia.

— Dio lo faccia! rispondeva l’adiro; ma io più penso alla gran canaglia che porta abito di soldato, là oltre la frontiera, e più inclino a credere che sia pur troppo così.

—Avete ragione, Traiano mio! riprendeva Maddalena; quando si tratta di settarii, a credere sempre il peggio non si sbaglia mai. Sono capaci di tutto: e se oggi vivesse in terra Nostro Signore, costoro lo ricrocifiggerebbero, non altrimenti che s'abbian fatto i giudei. Uh Vergine mia dolcissima! basta intendere quel che dicono A quel che scrivono del suo Vicario, che è il Santo Padre! Bestemmio da anime dannale, orrori.... che serve? sono ossessi dal demonio, veri precursori dell'Anticristo!

— Dillo a me! soggiungeva il marito; tu non ti puoi figurare l’un mille delle infamità che ho udite io trescando con loro. Iddio me io perdoni! Eppure io non mi, sono voluto arrotar mai nella setta, e non aveva giuramenti e nessun impegno, altro che quello di buttar loro nel gozzo tre scadi al mese. E tuttavia si fidavano di bisbigliarsi a un orecchio cose, che me ne venivano i riprezzi.

— Infelici! esclamava il frate; sono da compatire, perché, come i crocifissori di Cristo, ignorano quel che fanno.

—Da compatire? strillava la donna con viso di scandolezzata; da compatire? Oh questa è bella! da impiccare, dite, e purgarne il sondo, che ne sono la peste.

— Ah, ah, adagio un poco! la correggeva quegli. Non vorrei che l’abbominio del male vi trascinasse ad abbominare anche i malvagi. Questo sarebbe contrario alla carità cristiana, che c’insegna di odiar il peccato, ma non il peccatore. E poi ricordatevi che non c’è furfante, il quale, con la grazia di Dio, non possa diventar santo, e gran santo t

— Furfante si, ma settario? Padre Euschio nostro, io ci ho i idei dubbii; rispondeva ella; dicono che i framassoni non si convertono mai, perché rinnegano il battesimo, vendono l’anima al diavolo, e giurano di non ripigliarsela più nemmeno al letto di morte: «questo si vede chiaro nei condannali dalia giustizia: i masnadieri, gli assassini, i parricidi sempre tornano a Dio e muoiono penitenti; e i settariì invece?

— Quel che non è accaduto può accadere; insisteva il religioso; ad ogni modo anche i settarii sono prossimi nastri, e come tali d è obbligo di amarli e di pregare per loro.

— O questo poi si! conchiudeva la donna; amarli solo perché prossimi, e perché Domeniddio ce ne fa precetto: non per altro e non di più ve’, Traiano. Tu, anche tu li hai da amare per questa cagione; alla larga però, alla larga! Tu devi diportarti coi liberali come con le tue bufale; amarli per prossimi, ma starne lontano il più che sia possibile.

Abbiam recato a disteso questo boccone di dialogo, perché il nostro giovanetto lettore si formi un’idea del cambiamento singolare fattosi nella mente e nelle affezioni di Traiano; ed altresì per dare un accenno dello zelo attentissimo, con cui la solerte Maddalena studiatosi di ritenerlo in sul buon sentiero, pel quale egli erasi incamminalo con un’alacrità cosi portentosa. Che se qualche altro lettore, non giovanetto, ma grave e adulto, trovasse a ridire sopra le parole di lei e le appuntasse di troppo ruvide ed acerbe sul conto dei liberali; noi pregheremmo il censore umanissimo, di non farne più capitale di quel che si avvenga a parole di una donna, che non aveva mai studiato nel vocabolario dei «moderali» di oggidì; ma che semplicissimamente chiamava le cose coi loro nomi proprii, dicendo pane al pane e sasso al sasso, conforme aveva imparalo anch’ella dalla sua mamma, dal suo babbo e dalla sua maestra quand’era piccina. Il resto si deve apporre non a malignità di cuore, che lo aveva anzi eccellente, ma alla sua maniera di pensare; in virtù della quale giudicava che i ladroni della Chiesa, i vituperatori del Papa, gli assassinatori dei Re e dei popoli, fossero gente pessima e da forca; né più né meno di quello che certe monne liberalesse li giudichino una fiorità di galantuomini da far tutti cavalieri. In un tempo, qual è questo nostro, in cui tanto si gracchia di «libertà» e di «tolleranza», non ci pare gran fatto se noi presumiamo tal grado di «tolleranza» nel mondo, che niuno, sia pur liberale o liberalessa, abbia da impermalirsi della «libertà» con cui una donna, in casa sua, favellando tutto alla domestica col marito e col cognato, dice quello che pensa, e lo dice con naturalezza molto spontanea di linguaggio. 0 che! signore garbatissimo, non siete pago di vedere stravolto già l’antico vocabolario nei pubblici Parlamenti, nelle note diplomatiche, nei diarii politici, che pretendiate di vederlo stravolgersi anche nell’uso comune delle famiglie?

Ora, tornando al nostro carissimo giovanetto, seguiteremo a coniargli che le sollecitudini della moglie, per fermare Traiano e stabilirlo solidamente in questa sua conversione, le aguzzaron l’ingegno ad investigare altresì tutti i mezzi che sembravano più efficaci di perseveranza. Procuro quindi che entrasse in casa l'Armonia di Torino, martello implacabile della Rivoluzione d’Italia; e avutala di seconda mano, la scorreva da cima a fondo: poi a Flaminia indicava i tratti più salali e piccanti che essa dovea leggere ad alta voce, quando la sera si faceano due chiacchiere o avanti o dopo la cena. E perocché Maddalena sapeva l’umore della bestiolina, e come volentieri Traiano sentisse tutto quello che proveniva da lei; perciò con destro accorgimento, spesso fra l'un periodo e l’altro inzuccherava la figliuola di parolazze lodative, e scagliava là certe ammirazioni della sua valentia nel leggere, che l’albagiosetta se ne impelloriva, rizzava la cresta e infiammavasi a declamare con tal veemenza que’ poderosi articoli del giornale, che il padre ne andava in estasi, tra di meraviglia per la gagliardia degli scrittori, e di contentezza per la spiritosità della lettrice.

Ma questo era anche poco alla donna, per sicurare l'uomo suo dai pericoli d’una ricaduta. Si avviso dunque che il preservativo migliore fosse quello di fargli spiegar bandiera contro de’ liberali, sospingendolo che passasse, dalla prudente difesa in cui tenevasi, ad una offesa ardita e scoperta. Con questo intendimento lo condusse a partecipare, nei Venerdì del Marzo, alla bellissima dimostrazione di pietà e d’ossequio, che la eletta de’ Romani e degli stranieri porgevano al Santo Padre nella Basilica Vaticana. Appresso andò ancora più innanzi, e gli fé portare in sul petto la spilla con la croce detta di san Pietro, intorniata dal cerchiellino avente il motto medesimo della celebre medaglia Pro Petri Sede, che il Papa, dopo la invasione dell’Umbria e delle Marche, avea fatta coniare per l’esercito pontificio: ed a quei dì era spilla usitatissima in Roma, da tutti coloro che, con un simbolo manifesto, si pregiavano di professarsi fedeli e devoti alla triplice corona del Vicario di Gesù Cristo. Se non che, nel meglio di questo suo aguzzamento d’ingegno, si offerse a Maddalena una congiuntura sopra modo propizia, all’uopo d’impegnare Traiano contro la fazione liberalesca: e fu quella che cagiono poi l’aspro suo diverbio col cagnotto mandatogli dal «sor Peppe». Della qual congiuntura e del quale diverbio, a quest’ora avremmo già narrato quello che bisognava, se il nostro giovanetto lettore non ce n’avesse distolto con la sua curiosa domanda.

LX.

Fra i giorni memorabili per insigni avvenimenti occorsi nel Pontificato del Papa Pio IX, quello dei dodici Aprile, che ricorda il trionfale suo ritorno dal breve esiglio di Gaeta sul trono del Valicano, e insieme la salvazione sua mirabile nel crollamento dell'edilizio di sant’Agnese fuor delle mura, sino dall’antecedente anno 1860 era stato prescelto dal popolo romano, qual giorno da festeggiarsi con segni di straordinaria allegrezza, per protestare solennemente contro tutta quella torma di mentitori grandi e piccoli, i quali volean far credere al mondo che esso popolo, abborrendo il mite giogo del Santo Padre, smaniasse per la brama di farsi dominare da un Re; e supplicasse a mani giunte l’Europa, che questo Re non fosse altri che il desideratissimo Vittorio Emmanuele di Carignano. Questa protestazione, in onta di si ridicola e stolta calunnia, i Romani si apparecchiavano di rinnovare anche nel seguente anno 1861: e l’ardore del popolo, acciòcché riuscisse sfolgorantissima, era stato incitato dal Governo medesimo di Torino, il quale poc’anzi aveva decretato, che tutte le province e gli Stati da lui rapiti al Papa ed ai Principi italiani, dovessero formare un unico «Regno d’Italia», sotto lo scettro ereditario del suo prenominato Re a Galantuomo»; e che Roma avesse da diventarne città capitale: non già subito, ma quando lo straniero, che avea dato l’essere a cotesto mostro di Regno, si fosse degnato di far le cose a compimento, aggiungendogli il capo. Ond’è che all’approssimarsi del summemorato giorno, anniversario tanto glorioso per la sovranità e fausto per la incolumità del supremo Gerarca, tutta Roma era in un moto insolito per apprestare archi, tele, iscrizioni, apparati, trofei, e quanto può immaginarsi di artificiosamente vago nella composizione di una luminaria universale, splendida e sontuosissima: e tutto questo senz’altro impulso ed intelligenza, che l'affetto dei cittadini e la concordia degli animi loro, nel voler espresso a lettere di fuoco, sopra ogni angolo della eterna loro città, il popolare suffragio acclamante Pio IX Pontefice della Chiesa e Re de’ suoi Stati.

Questa pertanto fu la occasione che Maddalena colse a volo, per mettere il suo Traiano in contrarietà sempre più piccosa coi satelliti del Comitato. I quali, a dir vero, digrignavano i denti e scoppiavano a veder preparazioni cosi magnifiche, per una festa che dovea volgersi tutta in iscorno loro e della causa spallata che promovevano. Ma era inutile ogni loro industria per frastornarla. Alle minacce che spacciarono sotto mano in foglietti a stampa, il popolo rispose con le risate e con fare ad essi capire, che mal per loro, se si avventurassero a disturbare come che fosse la pubblica illuminazione!

Nè mancarono begli umori che a questo o a quell’altro, ben noto per la sua liberalità, fecero la giarda di spedire in casa le cinque e lo otto volte alla fila copiosi assortimenti di lanternoni con le armi e i colori pontificii; dono che né sempre né da tutti si ricusò, giacché alla fine dei conti, anche i liberali (e ce ló attesto Filodemo) in queste contingenze non avean caro di farsi troppo scorgere: e perciò annessi. lasciati da banda gli scrupoli, adornavano poi le loro finestre con fiaccole e lanternoni. E il «sor Peppe», che era tutto viscere di compassione, chiudeva un occhio sopra queste umane debolezze, ed anzi, a un bel bisogno, scusavale col pretesto che non erano peccali politici, ma rispetti di civiltà.

la grazia di tale indulgenza del dittatore e della generale consuetudine che, come tutti sanno, prende vigore di legge, Traiano, l’anno decorso in parecchie simili congiunture, s’era fatto lecito di consentire alia moglie, che avesse pur esposti due lanternoni sui davanzali delle finestre di casa sua; ma due per ogni finestra e non più. Questa volta, pel ricorrimento di un anniversario, la cui celebrazione aveva tanta importanza, egli diede carta bianca alla donna. — Fa tu, le disse, che le ne intendi meglio di me. Quel che farai tn sarà ben fatto.

Maddalena non se lo feee ridire. Avuto a sé un certo signor Tommasino, che era il gran faccendiere della contrada nell’impresa! questa illuminazione, gli commise un disegno per le sue finestre, e soprattutto pel balconcino di mezzo, che sporge con una ringhiera davanti. — Mi raccomando, signor Tommasino; gli ripeté con istanze assai vive,sia cosa da far figura, ma grande figura! Costi ciò che vuol costare: quello che preme a noi, è che la illuminazione nostra spicchi mollo per questa strada.

— Lasci fare a me, signora Maddalena.

— I lanternoni sieno tutti di quelli che portano stampato: Viva il Papa Re. A me piacciono più questi, che gli altri con le armi è col ritratto del Santo Padre.

— Sarà servita.

— I palloncini poi hanno da essere bianchi e gialli: e guardi che alano d’un giallo carico, perché di notte, a lume di candela, il paglierino diviene sbiadato e par bianco.

— Sì signora, adopreremo un color zafferano, che sembrerà un oro fuso. Si lasci servire.

E in verità il signor Tommasino la servì sì a modo e a verso, che ella non potea desiderar meglio. La sera della festa olio erano i lanternoni, che sul davanzale d’ognuna delle finestre faceano bella mostra. Eleganti ricascate a doppio filare di palloncini bianchi e gialli pendevano sotto i medesimi davanzali; i cui sporti rilucevano d’un listello di brillantissime fiaccolelle. Il balcone poi era corso da un fregio a bicchierini fiammanti dei due colori, il quale girava intorno allo stemma del Pontefice, collocato nel mezzo della ringhiera e trasparente come cristallo. Sopra di questo si leggeva il motto: Papa e Re, in lettere arrubinate; e sott’esso, in una cartella tenuta da due angioletti, era questa iscrizione: Ponam inimicos tuos scabellum pedum tuorum; suggerita dal padre Euschio.

— Ma bravo il nostro signor Traiano! gli disse un Canonico suo benevolo che si accozzo in lui, mentre usciva di casa con Maddalena e con le figliuole a dare una giravolta per la città, e godersi i più bei punti della illuminazione; questo è farsi onore! poffare, che scialo!

— Debolmente, Monsignore mio, si fa quel poco che si può per venerazione del nostro Santo Padre, e per darla sulle corna a tutta la canaglia che gli vuol male.

In quell’istante alcuni gruppi di passeggeri s’eran fermati a contemplare la leggiadra decorazione: e Maddalena, udendo le belle cose che ne dicevano, si sentiva nuotar il cuore nel miele, e indugiava a dilungarsi dal portone, tanto le sapean dolci quelle meraviglie del pubblico. Ma Traiano, sorbitisi con modestia i complimenti del Monsignore e i mirallegro di un altro suo vicino, ruppe la calca, si tiro dietro la moglie e con essa e con le figliuole salì in una carrozza, noleggiata apposta per visitare con comodo lo spettacolo della luminaria.

Roma, in quella gioconda sera, da qualunque parte si fosse riguardata, sfavillava tutta di variatissima luce. Le sue vie, le sue piazze, i suoi ponti straboccavano di un'onda sempre crescente di popolo o a piedi o in file interminabili di vetture; e questa immensa folla andava e veniva e s’intraversava e s’incrociava con una quiete, con un ordine, con un decoro che si rendea sembianza di una sola famiglia, intesa a deliziarsi nella festa del comun padre. Ad ogni angolo vedevate le immagini della Beata Vergine, che sono cosi frequenti per le strade di questa città di Maria, ornale con profusissimi lumi di mille forme, disposti con una grazia inestimabile in tempietti, in corone, in emblemi; e sottovi leggende che tutte esprimevano un concetto unico, un unico voto, cioè la pace d’Italia, il rifiorimento della giustizia, il trionfo e la conservazione diuturna alla Chiesa, al mondo, a Roma di Pio IX Pontefice e Re.

Da per tutto poi simboli ed allegorie, stendardi e trofei, croci e tiare, scherzi di fontane pioventi gemme, prospettive bizzarre, capricci di verdure, accendimene gioiosi di fuochi del Bengala, sinfonie lietissime di bande militari. All’imboccatura della via Frattina, à ergeva un quadro figurante il sonno misterioso del Salvatore, nel colmo della procella che travolgea la barchetta ov’erano gli Apostoli sgomentati. Nella piazza del Pantheon, facea vista bellissima un’altra tela di assai vasta composizione, che rappresentava le cinque parti del mondo, in atto 'di offerire al Pontefice l’Obolo di san Pietro. Nella piazza Pia di là dal Castello sant'Angelo, splendeva la copia della celebre liberazione di Pietro dal carcere, che Raffaele d’Urbino dipinse in una delle aule del Vaticano. Nella strada del Corso la luce pareva gareggiare con quella del sole, tanto era il brillamento delle fiammelle del gasse, che si sprigionavano in triplicale ghirlande dai candelabri. La quale irradiazione continuandosi fino alla grande piazza del Popolo e, con ismisurato prolungamento di faci, per tutto il girare dei viali del Monte Pincio, avea quasi il centro nell’Obelisco di Sesostri, che scintillava come un miracoloso diamante sfaccettato. Sopra il piedistallo di questa mole si ammirava uno sfarzosissimo stemma del Santo Padre, retto da due Fame e circondato da bandiere, da serti d’alloro, da fasci d’armi e da volumi, con l’epigrafe: IX i sudditi devoti: e più basso, fra un riquadro di tarsie e «rabeschi, l’altra: Scrivi o Roma negli eterni tuoi fasti —I nomi di quei magnanimi — Che il senno e la mano consecrarono — A serbarti il Pontefice Re — Tua somma gloria. Nobile e gentile tributo di gratitudine, che i Romani porgevano a quella schiera di valorosi Cattolici, i quali col sangue, con là penna, con l’oro avevano propugnati gl’immortali diritti della pontificia regalità, e con essi la salute di Roma.

Dire con quanta compiacenza Traiano e la moglie sua, e specialmente le due figliuole, trapassassero da una via ad un’altra e vagheggiassero le avvenevoli scene che ad ogni voltar di canto si aprivano loro agli occhi, non lo potremmo. Flaminia non dava un momento di requie al padre: ma senza posa lo invitava ad osservare qua una iscrizione a traforo, là un ritratto del Papa in abiti pontificali, dove una piramide a lumicini bianchi e gialli, dove unsi raggiera intorniale una divota pittura della Immacolata: e spesso, mentr’egli volgevasi per badare a costei, Lucilla urtavalo col gomito, perché avvertisse a qualche altra cosa, e Maddalena lo chiamava che facesse mente a certi suoi utili commentarii sopra la magnificenza e religiosità di questa illuminazione. — Oh che belle parole si leggono sotto le Madonne! sciamava essa con gran sentimento; non si vede altro che preghiere, benedizioni ed auguri! pel nostro Santo Padre. Pensa che consolazione ne avrà egli quando lo saprà! Ah, Dio ce lo conservi anche cent’anni! È tanto buono! Guarda, guarda! Viva il Papa Re; Viva Pio IX Pontefice e Re di Roma, dell, delle Marche e delle Romagne! Bene, bene! queste sono iscrizioni che parlan chiaro! Uh come ne vorranno schiattare di rabbia quegli scomunicataccì là in Torino che hanno rubate queste province, è credevan di strappare anche noi al Papa e farci diventar piemontesi! si eh? toglierà il Santo Padre, e darci in suo scambio quel bel zitello di.:.

Qui un botto, e poi un altro botto, e poi un terzo botto sparali la un vicoluccio poco distante dalla chiesa di san Luigi de’ Francesi, presso cui trascorrevano con la carrozza, le sospesero il fiato. — O Dio, mamma, che è? grido Lucilla aggrappandolesi paurosamente a un bracciò.

— Sta a vedere; brontolo Traiano rizzandosi; che quei birbacciòni del Comitato....

— Son loro, son loro, ecco i gendarmi! strillò il cocchiere voltandosi a lui e allentando il passo ai cavalli.

E fu vero. I gendarmi spuntavano dal vicolo, e si tenevano in mezzo due giovinastri presi in sul fatto, e scaricavano loro una tal tona pesta di pugna e di scapezzoni, che i poveracci urlavano e guai vano peggio che due cani frustali. E il popolo a strillare: — Dalli ai birboni! dalli! — e a batter le mani ai gendarmi, e a far la baiata ai due eroi, che d’indi, sempre al suono di quella musica, furono condotti nel serbatoio de’ mariuoli in Montecitorio.

Ma che? a quel parapiglia d’urli, di fischi, di gendarmi, di busse, Lucilla s’era tanto spaurita che piangeva, e ad ogni patto voleva tornare a casa. La madre, sdegnata di tanta vigliaccheria de’ liberali, e vanta anch’ella in un po’ d’apprensione, per quietare la figlioletta: — A casa, a casa! comandava al cocchiere. Flaminia però diceva Stizzosamente: — No, è troppo presto; avanti, avanti! non è nulla; andiamo a vedere l’illuminazione della Sapienza. Cocchiere, tira (finito per sant'Eustachio.

Ondeché fra madre e figliuola nacque subito una delle solite contenzioni. Il padre sarebbesi ritirato assai volentieri e sottrattosi al pericolo d’intoppare in altri tafferugli. Ma come tener testa a Flaminia che s’era imbizzita, e smaniosamente lo scongiurava che no, non la facesse rientrare in casa tanto di buon’ora?

— Oh sai che? disse finalmente Traiano alla moglie, per non disgustare in tutto quel caro vezzo di figliuola; arriviamo sino alla Sapienza, e poi giù da Torre Argentina e a casa.

Maddalena gittò un sospiro, si morse le labbra, si mise ad accarezzare Lucilla e dissimulatamente, per amore di Dio e per non far scene, inghiottì la pillola; avvegnaché si sentisse gran prurito alla lingua di sbottoneggiare contro la caparbia.

D’ivi a poco giunsero dunque rimpetto all’ampio edificio della Sapienza, che i giovani studenti in quella Università avevano abbellito con una pompa sfoggiatissima di fiaccole, di festoni, di cornucopie, di meandri, di vessilli, adattati con arte piena di eleganza intorno a un maestoso busto del Santo Padre, sotto la cui base leggevasi: Incolumi Pio IX Pontifice et Incolumis Roma.

Or la carrozza si era appena fermata, che ecco un bolli bolli, un correr di zerbinotti con le canne in aria, un fuggire precipitoso dì mascalzoni, un armeggio e un trapestio terribile dietro la porta dell’atrio, Che è? che non è? Lucilla ricomincia a stridere col capo in grembo a Maddalena, la quale si leva per balzare a terra con la sua povera piccolina in braccio; Traiano impallidisce, la rattiene e con la voce tremula ordina imperiosamente al cocchiere di toccar via e galoppare verso casa; Flaminia si scompone, pesta coi piedi e piglia a insolentire protervamente contro la madre. Questa prega Dio che la pazienza non le scappi, e si sfoga in pie giaculatorie a tutti i Santi del Paradiso. Ma quando la viperetta, nell’impeto della sua furia, volle scagliar due calci alla sorellina, la madre non si freno più: e sopr’ira le aggiusto un paio di schiaffi così pesanti, che alla cattivella fecero uscir sangue dal naso. Fu finita. Addio allegrezze I addio gioie della illuminazione! Rientrato il padre tutto adiraticelo, per non dar torto alla moglie e ragione alla figliuola, si serro a chiave nello scrittoio: Maddalena si chiuse con Lucilla in un’altra camera; e Flaminia, ruggendo e arrovellandosi come una tigre scatenata, andossene a letto senza cena.

LXI.

Quantunque i nostri signori liberali, a tutti gl’indizi!, già si fossero accorti che il dodici Aprile 18611'aria di Roma non era per niente favorevole a certi loro macchinamenti; e lo avesse provato loro il generale di Govon, passando quel giorno a rassegna solenne la guarnigione francese in onore del Papa, e lo avesse riprovato loro la intera città, acclamando con indicibile festa il Pontefice nell’andata e nella tornata sua dalla basilica di sant’Agnese; nondimeno, appresso lunghe e squisite ponderazioni, si deliberarono di compiere per l'«Italia» qualche gran cosa, nel tempo della pubblica luminaria. Filodemo, che à il loro Tito Livio, storieggia così: «Nella sera si aspettava in Roma un qualche fatto del Comitato che, spaventando i clericali (leggi i Romani), rialzasse lo spirito dei liberali... Roma splendeva di faci, ed uno straniero avrebbe riso di cuore, se alcun liberale gli avesse detto in quella sera: Questo popolo, che illumina oggi le sue case, è nemico giurato de’ suoi governanti. Non v’ha dunque alcun dubbio che, a riavere il disopra, i capi del partito liberale avrebbero dovuto intimidire i reazionarii (leggi sempre i Romani) e risvegliare nel popolo (leggi nei settarii) gli spiriti patrii miseramente sopiti. Ora ecco che si fece dai nostri uomini. Il Comitato, dopo mature riflessioni, ordino che in varii luoghi della città, e specialmente nelle adiacenze della via del Corso, si esplodessero innocenti pedardi. Avvenne da ciò quel che sarebbe dovuto prevedersi.! sanfedisti (cioè i Romani) parte non si avvidero dell’opera nostra, e credettero che gli sparì fossero altrettanti segni di gioia fotti da loro, parte se ne avvidero e risero della nostra puerilità, mostrando un sangue freddo che loro costava ben poco e noi umiliava grandemente».

Nè questo fu tutto. Il Comitato aveva sull'anima, e non si potea dar pace, che la scolaresca della Sapienza si fosse dichiarata ossequiosissima al Santo Padre, fedele al suo doppio Principato ed avversa all’abbietta politica, onde i veri barbari d’Italia dominatori in Torino, maneggiavansi di strappargli, con la temporale corona di Re, lo scettro spirituale di Pontefice della Chiesa cattolica. Perciò in quella sera il nerbo delle sue forze «nazionali» fu principalmente vólto ai toni dell’Università, e in ruina degli addobbi e della leggiadra illuminazione, di che tutta la nobil fabbrica sfolgorava. Ma il successo loro fu appunto quello dei pifferi di montagna che, come dice la fàvola, andarono per sonare e furon sonati. I lanzichenecchi del Comitato, gentame razzolato nel fango e compro a un tanto per testa, fecero impeto contro il portone del palazzo e, capitanali da pochi scavezzacolli studenti, si sparsero per gli ambulacri con animo di dare il guasto alle ornature, di spegner le fiaccole e di atterrare il busto del Papa: al qual effetto erano armati di sassi, di mazze e di stili. Se non che tre famigli dell’Università e un pugno di intrepidi giovanotti scolari, che qua e là sopravvegliavano le finestre, bastarono a mettere in isbaraglio que’ tristi marrani: e con attrezzi di muratore, che per avventura trovavansi nel cortile, picchiarono addosso dei più tardivi colpi si ben calcati, che parecchi n’andarono con le ossa rotte: e due dei pochi studenti capisquadra che vollero braveggiare, incapparono ne’ gendarmi, che preserli e menaronli in un’altra Università più confacentesi a loro.

Questo fu il trambusto, nel quale la famiglia di Traiano ebbe la mala sorte d'imbattersi, mentre arrivava nella piazza: e questo è il genuino racconto del caso, esponendo il quale, il buon Filodemo ai è lasciato invasar troppo dallo spirito liberalesco, ossia di menzogna. Di folto egli verbigrazia asserisce, che «più di 100» erano gli assalitori «studenti»: col che aggiunge sottosopra uno zero alla cifra, e viene a regalare la pagella di «studenti» al branco degli altri cialtroni, i quali non aveano forse ottenuta mai altra pagella in vita loro, che la piastra de’ galeotti. Similmente li fa «ritirare gridando: viva l’Italia, viva Vittorio Emmanuele!» mentre la verità A che se la svignarono a gambe, e manco loro persino il fiato di gridare: — Misericordia l Ma per uno storico liberale della sua risma, coteste bugiuzzo sono minimi nei e fiorellini rettorici più che altro. Conciòssiaché in somma egli riesce a conchiudere che il Comitato, in quella funesta sera, dopo tanto sbracciarsi, rimase con bel pugno di mosche in mano; che anzi nell’impresa della Università, il solo e durabile frutto che raccogliesse, fu di farne smorbar le scuole dei putridi membri, i quali occultamente ancor vi restavano; che con le salve de’ suoi «innocenti petardi», non che turbasse la festa della luminaria, mane duplico l’allegria, a scapito de’ petardieri, che quasi tutti consumaron la notte o a piangere in gattabuia, o a medicarsi le costole ammaccate lor dai bastoni; e che in sostanza il dodici Aprile di quell’anno, fu pel Comitato Nazionale Romano giorno di passaggio dall’età del ferro a quella del loto, come il diciannove Marzo dell’anno avanti, era stato giorno di passaggio dall'età dell'orpello a quella del ferro.

A questo rovescio di disastri che affogarono il cuore del sor Poppe» in un mare di assenzio, si sovraccrebbe il dolore dello scandalo di Traiano, il quale adornando, siccome avea fatto, la casa sua con si ricercata prodigalità di lumi e di motti papeschi, avea colma la misura e gittato il guanto di sfida agli antichi suoi confratelli del terz’ordine dei liberali. Il perché, qual amoroso pastore che ninna diligenza trasanda pel racquistamento della fuggitiva pecorella, diviso di fare anche un’ultima prova, mandandogli un sincero amico, che in nome suo gli avesse parlato parole di soavità, e destatogli rimorso di tanta prevaricazione. E l’angelo, o per dir meglio, il diavolo tentatore, da lui scelto nel mazzo, fu quel buon mobile, col quale noi lo vedemmo a colloquio, ed il quale, se non che fece presto a battersela dal suo scrittoio, sarebbe tornalo al «sor Peppe» con le grucce sotto le ascelle.

Pensate voi! Traiano la mattina di quella Domenica si sarebbe dato a’ cani, tant’era inasprito per cagione di Flaminia; la quale, con le sue impertinenze, avea fatto disperar lui e Maddalena tutto il Sabato: e par allora se n’era ila ad ascoltar messa in compagnia della serra, per non doverei andare con lui o con la madre.

— Or guarda un po’ che pezzacei sono tutti costoro! mormorava egli seco stesso quando quel cattivo arnése inviatogli dal «sor Poppe» si fu dileguato; io una maschera? io una banderuola? E dirmelo in faccia! e io lasciarmi insultare da quel torso di cavolo! da quella brutta figura, che pare una mummia d’Egitto! Ah sciocco me, che non gli ho spenzola una sedia in testa, o rotolatolo giù per le scale cerne una cocuzza! Ma quel che non si è tolto, si farà. Oh rivenga, rivenga! Mi si schianti l’anima, s’io non lo fò portar via col cataletto! Sì, rivogliono i tre scudi al mese! Veniteveli a ripigliare, ghiottoni de’ miei stivali! Traiano non s’infinocchia più. Ne ho fatto il voto a san Pietro, e qua’ tre scudi hanno da andare al Papa, hanno da andare. Uhm! un «dirò poco che mi rompano la divozione, io faro spiattellare con tanto di lettere anche il mio nome e cognome nella Usta che stampa il giornale, e vedranno essi i buffoni, s’io ho paura delle loro spacconate. Ma l’infamità di venirmi a dir corna dentro casa mia, ah questa io non la tollererò due volte! Rivenga quello scimmione, torni, torni! E in do dire aperse violentemente la porta e passo nella satolla, ove stava la moglie a struggersi dì rammarico per le capestrerie della figliuola maggiore.

Noteremo per incidenza, che quel mammalucco dell’ingiuriatere non duro molto ad essere un pruno negli occhi di Traiano: ché la polizia, nel giorno stesso, diedegli lo sfratto da Roma. D’onde essendo subito volato a beccarsi la corona civica nel Regno d’Italia, in breve tempo tante vi liberaleggiò da figliuol prodigo e vi s’indebito che, cedute ai creditori le rendile di dieci anni del suo vitalizio, per non morir «martire» affatto, gli tu forza aggreggiarsi con una troppa di commedianti, che lo impiegano nella parie dello Scimunito: e chi lo ha inteso in un teatro di Napoli, dice ch’egli è una statua nella sua nicchia. A quante simili nicchie potrebbero i liberali nostri fornire simili statue!

— Oh sì tornerà,. non dubitate, tornerà per nostra disperazione! ovai le rifarete smorfie, ed ella vi allungherà tanto di muso. Eh, ci vuoi altro che moine con quella birba I sclamò la donna credendosi che il marito brontolasse per la figliuola

— Non parlo di lei; risposagli, mettendosi a camminare gagliardamente su e giù pel salotto e sbuffando; quella ingrata imparerà a conoscere chi sia suo padre; se sia.... ma non parlo di lei. Io non me ne voglio curare più più di quella insolente. Vada pure a nascondersi tra le sepolte vive; suo padre non verserà una lagrima. Ci resta la nostra piccola, e noi l’ameremo per due: di quella strega non mi ricorderò più. Dobbiamo scordarcene, come se non l’avessimo avuta mai, e dare tutto l’amore a Lucilla. Ma io, ripeto, non parlo di lei: si faccia pur monaca, entri nelle cappuccine, e oggi piuttosto che domani: presto, presto! ci si levi dai piedi, e ringrazi! suo padre, se non le ha cavali i denti di bocca a furia di rovescioni.

— Io mi sarei contentata di molto meno; replico la moglie tergendosi gli occhi; mi sarei contentata che non l’aveste fatta insuperbire con tante carezze, e aveste lasciato che la domass’io.

— Già! per finire di rovinarmela e farmela intisichire. Ma non ne parliamo, che è meglio. Ora ho altro pel capo: quei bricconi del Comitato... ben bene, basta! se ella oggi non è voluta venire a messa con voi, sono persuasissimo che Domenica ci verrà con suo padre; perché alla fine dei conti ha un gran buon cuore, e quando i figli sono di una natura com’è Flaminia, con essi vai più una stilla di miele che un bigoncio di fiele.

— E per questo la vi ha tanto rispetto, che ieri vi ha serralo l’uscio in faccia, e v’ha tirata giù quella litania di rispostacce che, a sentirle, mi venivan le convulsioni per voglia di smascellarla; e voi lì, a farle l’occhietto e a piagnucolare come un bambocciòne.

— Che vuoi, Maddalena mia? Parliamo di quello che importa. Io sono qua per dirti che quegli scrocconi si sa, le son padre, e l’aguzzino io non lo faro mai e poi mai con una figliuola, la quale, è vero pur troppo! ha i suoi difetti: ma ba tante altre belle qualità, un ingegno sì bello, un tratto cosi geniale, uno spinto si colto...

— Uh fede santa I non lo diceva io che subito ch’ella torni, e voi da capo le rifarete lo sdolcinato, ed ella s’incapriccerà sempre peggio, e quella che ci andrà di mezzo sarò io?

Ma in questo punto ecco aprirsi la porta e comparire proprio essa Flaminia: la quale, fattasi di mille colori e con gli occhi umidicci: — Sapete? disse tutta allenante; è venuta la poverella di Casamari.


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LA POVERELLA DI CASAMARI

RACCONTO STORICO DEL 1860 E 1861
LXII.

Quell’annunzio, dato così di subito e con tanta ansietà e con tale sommessione di modi, fu, per Traiano e per Maddalena, come uno sprazzo di sole, attraverso un aggruppamento di nuvoli turbinosi. — Chè? sclamò il padre, mutandosi in volto e guardando la figliuola tra sdegnosetto e meravigliato.

— SI, vi dico, è venuta; rispose costei molto mansuetamente; l’ho raggiunta io, ch’ella saliva le scale insieme con un’altra donna; e tutte due stanno di là.

— Andiamo e vediamo; disse allora con una certa impazienza la madre, levandosi da sedere.

Traiano, non sapendosi che pensare, s’inoltro frettolosamente appresso Flaminia, e tosto si ebbe incontro la buona Caterina che, avanzatasi verso lui: — Scusale, signore; comincio a dire con bassa voce inchinandolo.

— Voi? ah, mi pare di riconoscervi! ripiglio l’altro; e dov’è ella dunque?

— Sissignore, ancor io riconosco voi, perché vi vidi, se vi ricorda, quella sera che, bontà vostra, in Veroli...

— Me ne ricordo, sì oh me ne ricordo! ebbene dov’è ella?

— Nella stanza qui a canto; replico la donna tutta umile e impacciala di sé; povera figliuola! ha grandissima soggezione: e se non era questa bella signorina che ci ha introdotte, noi forse non ci saremmo ardite di entrare ad incommodarvi.

Mentre questa cosi parlava, già Traiano era passato nell’attigua camera, e dietrogli Maddalena e Flaminia e anch’essa la piccola figliuoletta, che era corsa al romore. Noi non istaremo a narrare la pietosa cordialità di quelle prime accoglienze, né i rossori della miserella Maria. La quale, a vedersi tanto ben ricevuta e compatita cosi teneramente, languiva di confusione; e, per la natura sua rispettosissima, a pena osava alzar gli occhi da terra e muoverli in faccia or a Maddalena, che la prendeva per le mani facendole animo, e or a Traiano che a piena bocca si protestava di volere ch’ella frattanto rimanesse in casa sua, e vi si considerasse né più né meno che come sorella delle sue medesime figliuole. Ella era vestita di lanetta da duolo, e aveva in capo un zendado nero: ogni cosa con semplicità, ma con acconcezza non inelegante.

Questo così inaspettato avvenimento della poverella di Casamari, fu proprio un’iride nel colmo della tempesta: giacché, con l’apparizione sua nel seno di quell’agitata famiglia, ella rimise a un tratto in bonaccia gli spiriti di ciascuno. Traiano, deposto ogni crucciamento, aperse il cuore ad una mesta ilarità, che procedeva dalla consolazione di vedere finalmente quella tapina giovane fuori dei pericoli immaginali, e di potere dar opera al compimento dei desiderii espressigli dal Capitano moribondo. Maddalena si sentiva disfare di commiserazione all’aspetto di una creatura così gracile, così gentile, cosi oppressa dagl’infortunii e ridotta ad una tal macilenza, ch’ella pareva un bello scheletro animato: e oltraccio una secreta voce (liceale dentro, che questa fanciulla doveva essere un angiolo di benedizione per la sua casa, e che Dio non senza qualche disegno della sua misericordia, con modi cotanto singolari, ve l’aveva guidata; e in somma sperava non sapea che, ma certo alcun gran vantaggio dalla sua presenza, e la rimirava come cosa da farne altissimo conto. Flaminia poi, indolcitasi tutta, sembro dimenticar sé, le sue stizze, i suoi puntigli, e non curarsi più d’altro che di addimostrare affezione caldissima e di fare amorevolezze veramente sorellevoli a quell’infelice; la quale pure le corrispondeva con ritrosia minore che non là nel casolare di Vito, la prima volta che si abboccarono da sola a sola. Del che Traiano era in un solluccheramento meraviglioso, e fattosi a un orecchio della moglie: — Vedi, che cuore ha Flaminia? le susurrava; non le lo dich’io sempre, che sarebbe una pasta di zucchero, chi la sapesse pigliare pel verso suo?

— Voglia Dio, che questa poverina ce la faccia diventar buona davvero! soggiungeva essa rintenerita; chi sa? basta: speriamo!

Ma la curiosità aveva gran luogo in quella concitazione degli animi: e però chi interrogava la giovane di una cosa, chi gliene dimandava un' altra. Tutti erano bramosissimi di udire da lei i suoi fatti, e per l’appunto, e con ogni più minuta particolarità; il dove sinora fesse stata; il come, il quando, il perché si fosse dilungata da Casamari, dopo la incursione de’ Piemontesi, e via discorrendo. Nè si accorgevano che, in quel momento, le più di tali quistioni erano fuor di proposito e indiscrete; né badavano che gliene movean di quelle a cui ella non potea soddisfare, senza che o per onesta vergogna le s’imporporassero le guance, o per acerbità di dolore le spuntassero lagrime, ch’ella non avea virtù di frenare, ma che penava sommamente a farsi cadere dagli occhi. Se non che, per liberarla da quel martirio, Caterina s’intromise con molta opportunità, chiamando in disparte Traiano e la moglie sua, ed esponendo loro tutto il successo, dal giorno della morte del Capitano lino all’ora presente. — Povera figliuola! usciva ella a ripetere ogni tanto, interrompendo la esposizione; Don la fate parlare delle sue passate angustie, perché troppo soffre. Bisogna anzi distrarnela più che sia possibile, e non ricordarle mai né padre, né madre, né fratelli, né nessun altro de’ suoi: altrimenti....

— Oibò, vi par egli? soggiungeva Maddalena; non se gliene fiaterà punto, e le si procureranno tutte le distrazioni che si potrà da pari nostri. Questa per ora è figliuola mia: e non dubitate che fio ch’ella starà meco, non le lascerò desiderar sua madre.

— Dio ve ne pagherà il merito, buona signora.,

E ciò detto, Caterina ripigliava il filo della narrazione, e seguitava il suo racconto con brevità di parole, ma con gagliardia di sentimento.

I lettori nostri sanno già tanto di questi successi, intervenuti dal Gennaio in qua all’orfana di Pellegrino, che lor no avanza. Quindi riman solamente che noi li informiamo di ciò che occorse dopo il trasporto di Felice, dalia grotta del boscaiuolo, nello squallido abituro di Collepardo. E il faremo contentandoci di notificar loro, che Felice spiro circa due settimane appresso, munito di tutti i conforti della santa Chiesa, e con piena remissione di sé nelle mani di Dio; che fino all’estremo, ebbe al suo capezzale l’amico don Pippo, il quale gli chiuse gli occhi e ne disegno poscia le fattezze in un pròfiletto, che offerse in dono alla desolata sorella; e chè l’amoroso garzone, poco avanti che rendesse l’anima al Creator suo, si accomiato da Maria Flora che, quasi stupida per l’ambascia, gli tergeva i sudori dell’agonia, stringendolo la destra, additandole il cielo e dicendole con placida asseveranza: —A rivederci lassù, e presto! Saluto che a lei scolpissi cosi vivamente nella fantasia, che di continuo poi l’ebbe in memoria.

Questo ultimo colpo dell’invisibil bracciò, che rapivate ad uno ad uno i pegni più dolci dell’amor suo, non le abbatté l’animo, no; ché ella accettava coteste percosse terribili, quali disposizioni di una superna giustizia, che inseveriva in questo mondo per premiare nell’altro: ma compiè di staccarglielo da tutto ciò che la circondava, e glielo sciòlse così fattamente da qualunque si fosse legame attenentesi alla vita, che ella si riguardava qui giù, come cosa che non avesse più ragione di essere: e non si sapea figurare, che Dio la facesse ancor sopravvivere lungamente allo sterminio di tutti quanti i suoi cari. Per lo che ne’ suoi intimi colloquii con Caterina, ella non s’interteneva più di altro negozio, ma in ogni suo detto mostrava d’essere compresa dell’unico pensiero di avere da volar presto, e assai presto, dietro a Felice. — E chi li assicura che sarà cosi presto, come tu dici? le dimandava quella.

— L’ultimo addio di Felicetto; quel «presto» egli me lo ha proferito con una veemenza, e me lo ha accompagnalo con un occhio, che io ho inteso ch’egli non parlava di suo motivo.

— Oh! smetti una volta, figliuola mia, questi pensieracci neri, che sono superstizioni e sciocchezze da lasciare a noi contadine ignoranti; e li faranno tanto male, che potresti morirne davvero; sai?

— E allora beata me! non sospiro altro. 0 che! vi avvisate forse che io abbia paura d’andare dove sta mia madre, mio padre, Guido, Felice, Otello?

— Ma in somma con te, figlia mia benedetta, non si può proprio né vincerla né pattarla. Che serve? Non li basta che il Signore abbia chiamato a sé questi che, pur troppo, ha chiamali; no, non li basta. Tu hai da pretendere che egli abbia fatto morire anche quel buon figliuolo di Otello; e guai a chi te ne faccia dubbio! e per giunta adesso ti sei fitto nel capo che ancora tu li debba seguire, e presto. Ah santa Vergine delle Cese! E prorompeva in pianti e in singhiozzi.

Di questa sorta erano per lo più i ragionamenti che avevan seco, mentre, secondo la volontà ultima di Pellegrino, deliberavano di apparecchiarsi al viaggio di Roma. La fanciulla che prima dava mostra di tanta ripugnanza a questo passaggio nella casa di gente a lei poco men che ignota; morto Felice, porgeasi facilissima all’andata, e quasi la sollecitava, perocché diceva ella: — È una bella grazia cotesta di morire in Roma, vicino a san Pietro che tiene le chiavi del Paradiso. Non per altro.

Di maniera che Caterina, la quale amavala con tenerezza di madre, stava molto impensierita di lei: e per questo si affretto di condurla, per tentare se, svariandola, con farle cambiar paese e consuetudini, le si potessero sgomberare dalla mente, quelle che essa credeva malinconie. Ma non però tanto si affrettarono, che non soprassedessero parecchi giorni per procurarsi notizie del giovane Otello. Le quali tuttavolta non vennero mai: giacché chi n’era in cerca, torno e ritornò, ridicendo sempre che di lui non si aveva odore, né tra i Realisti dell’Alonzi, né in verun punto del prossimo confine. Ondeché la donzella arrivo in Roma più che mai ferma nella sua opinione tristissima, che egli eziandio fosse miserabilmente perito.

LXIII.

— Lo vedi? questa volta io sono stato profeta; diceva Traiano alla moglie, un venti giorni dopo che la giovanetta napoletana s’era stabilita in sua casa. Quello che io pronosticava, si è avverato. Io mi sentiva sicurissimo, che Flaminia migliorerebbe di molto, conversando con questa buona fanciulla, per la quale mi diceva di avere nna simpatia, che mai la simile. Tu, da incredula, mi facevi bocca da ridere. Eppure l’ho o non l’ho io azzeccata giusta?

— Eh, si non potrei negare, senza dir bugia, che Flaminia sia meno diavolessa, da che tratta con questa cara figliuola.

— O, o, meno diavolessa! questo è troppo: devi dire meno schizzinosa, meno permalosa, meno.... che so io? Non bisogna essere poi incontentabile.

— Bene, bene; come vi piace: io non intendo di contraddirvi. Ringraziamo il Signore di questo pochette che si è ottenuto, e faccia egli che la cosa non resti .

— Aspetta, dà tempo al tempo; e vedrai tu che scuola sarà per Flaminia la compagnia e l'esempio di quest’angelo: ché io non saprei nominarla altrimenti.

— Avete ragione. Oh, qui sì che io sono con voi! Questa Fioretta à un vero flore di cielo; un angelo in ispecie umana. Che pazienza! che garbo! che civiltà! che modestia! che divozione! che compitezza in ogni alto suo! Mai che le esca di bocca una paroluzza meno che misurata! Mai che vi faccia un occhiolino torto, una smussatura, nna mala creanza! Tutto riceve in buona parte, vi ringrazia di tutto, e non dimanda mai nulla, fuorché lavoro, lavoro e lavoro. Non finisce mai di lavorare; e come lavora bene! cuce e ricama che Flaminia non l’arriva a gran pezza. Oh, il pane ch’ella mangia, se lo guadagna per bene! E poi quello che proprio m’incanta, in una giovane cosi nobilmente nata ed allevata con tanta finezza com’è lei, quello che m’incanta, dico, è vedere che non ha una pretensione al mondo. Ella si mette sempre all'ultimo posto, e si considera a dirittura come l’infima della casa e serva di tutti noi: e se non fosse che io gliel’ho proibito, ella vorrebbe scopare le stanze, aiutare in cucina, rifare i letti, spolverare i mobili e perfino lustrare le scarpe mie e delle nostre ragazze.

— Guarda, per carità, Maddalena mia, che non lo faccia mai! Questo poi non s’ha da permetterglielo a nessun conto. Pensa tu che mortificazione sarebbe per me e per te, quando quella gran dama sua parente, venendo a riprendersela, risapesse che l’abbiamo adoperala in casa per servicella. Dio ce ne liberi! Ricordali sempre che le si hanno da avere moltissimi riguardi, perché di qui a un anno, ella può essere qualche gran cosa. Quella dama sua zia, ricchissima e senza eredi, può farle un dotone di migliaia e migliaia.

— Siate pur tranquillo, che io le sto sopra con cent’occhi, e non le lascio fare servizii bassi di qualsiasi forma. Già, da quella sua cameretta, ove gode di star sempre sola e applicatissima a’ suoi lavori, non può mettere fuori un piede che io non la vegga.

— Questo suo genio di solitudine mi ha dello strano.

— Poverella! forse vorrà esser libera di piangere e di sfogare il cuor suo senza tostimonii: e sì che piange in secreto! ha sempre gli occhi umidi e rossicci. E come potrebh’essere altrimenti, dopo tante disgrazie? tante perdite così crudeli? Uh, io la riguardo come una martire! Non so esprimere la venerazione che io provo dentro di me, tutte le volle che, tenendo ella l'uscio socchiuso, mi metto a contemplarla, seduta in quella seggiola, tutta intesa a cucire vicino a quel suo tavolinetto, sopra del quale ha sempre in un vasello quello cinque rose, che m’ha pregala in grazia di rinnovarle ogni tre giorni. Mi fa tanta commozione, che le lagrime mi corrono per la faccia. E le cinque rose, ve l’ho detto perché ella desideri di averle continuamente dinanzi a sé?

— Non me ne sovviene. Io poi non fò gran capitale di tutte le inezie di voi altre donne.

— Inezie? va benissimo! Piacesse a Dio che la Flaminia vostra fosse capace del succo di queste inezie! Quelle cinque rose, mi disse che amava di averle, per ricordo dei cinque suoi morti; la memoria de’ quali, die’ ella, mi ricrea l’occhio e l’odoralo dell’anima, come la bellezza e la fragranza di queste rose dilettano quelli del corpo. Che pensiero delicato eh?

— Per Bacco! ve’ com’è ingegnoso l’amore!

— E io, dopo che la mi ha manifestato questo suo desiderio bellissimo, non ogni tre, ma ogni due giorni le procuro queste cinque rose, e le cappo io tra le più fresche, e gliele fò portare da Lucilla, che essa abbraccia per gratitudine, e le dà cinque baci in fronte. Ah, queste sono squisitezze di sentimenti, che la nostra Flaminia non si sogna nemmeno di avere!

— E tu fa che ella pratichi con lei il più che si possa. Imparerà. Ma voleva dir io: come mai seguila a contare tra i suoi morti il quinto, cioè il suo giovane, mentre io mi sono sfiatato a persuader la, che egli era più probabile che vivesse, di quello che fosse stato ucciso?

— Eh, Traiano mio, il cuore non ragiona, e poco bada a certe probabilità, che rassomigliano a quelle speranze che dànno i medici, quando il malato è con la stola ai piedi del letto. Se veramente quel bravo giovinotto è intoppato nelle unghie de’ Piemontesi, addio! non c’è probabilità che valga: senza dubbio gli hanno fatta la festa, ed egli è bello e spacciato. Ma poniamo ancora che non fosse cosi, io non veggo modo di capacitamela. Questa creatura è tanto abbevera la di amarezze, e le sopporta con si quieta rassegnatone, che io invidio le sue lagrime, e alle volte m'auguro d’essere io ne’ suoi panni.

— Ognuno ha i suoi gusti. Comunque sia, tu devi invigilarla che non si abbandoni ad una tristezza eccessiva, e studiarti ch’ella stia disinvolta e di buon umore, quanto è possibile. Mandale spesso Flaminia nella stanza e falla uscire teco, che prendasi un po’ di svario: in fine tocca a te pensare di tenerla sollevata e di procacciarle quelle consolazioni, che voi donne vi sapete dare l’una all’altra.

Questa era la condizione di Maria Flora in casa de’ suoi ospiti, non ancor tre settimane dappoiché ella ci era venula: e noi abbiamo stimalo che non ne potessimo ritrar meglio le principali circostanze, che riportando in compendio questo discorso tutto intimissimo S Maddalena con l’uomo suo. Per istringere il mollo in poco, ella vi era trattata con compassione benevolissima e con quelle tali osservanze, che in una costumala famiglia si sogliono usare a persona forestiera, ma riguardabile pel doppio titolo d’una straordinaria infelicità sostenuta virtuosamente, e di una gentile nascita dissimulala con nobile demissione. Or questa maniera di trattamento vinse a gran lunga l’aspettazione della giovinetta, la quale si era divisata die, entrando in questa casa, vi sarebbe stata raccolta per carità, e tollerata per servicciuola, al prezzo di non sapeva quali e quante umiliazioni. Per lo che non è malagevole argomentare la grata soddisfazione che ne sperimentava, e insieme la vivezza della sua riconoscenza inverso benefattori, che la careggiavano come idolo della famiglia e pupilla de’ lor occhi. Di qui lo studio suo di contraccambiare tanta bontà con l'opera indefessa delle sue mani; ché non si trovava mai la via di strapparla a’ suoi lavoruzzi, i quali erano tutti pel servigio di Maddalena e delle sue figliuole.

Ciò quanto allo stato suo estrinseco. Imperocché l’interno di lei sarebbe cosa difficilissima a volerlo anche solamente adombrare. Il cuore che senza intermissione le sanguinava, per le ferite di tanto irremediabil natura, con cui la morte quattro volle glielo aveva piagato in quattro mesi: l’angoscia tormentosissima di non avere un indizio benché minimo di Otello, a cui nondimeno si collegavano tutte le risoluzioni che s’avevano a pigliare di lei, per provvedere al suo futuro: la necessità estrema di doversi gittare per abbandonata nelle braccia d’una cugina che le faceva riprezzo, e dalla quale, secondo l’umano senso, volentieri si sarebbe tenuta discosto le mille miglia, come da perditrice del suo casato: la vergogna di stare alla mercé di ospitato», i quali da un giorno all’altro le avrebbon potuto rinfacciare il pane che le donavano: lo sforzo incessante che le era mestieri fare a sé stessa, per comprimere i disfogamene spontanei delle angustie che le travagliavano l’anima: le perplessità, le dubbiezze, le strette affannevoli, dalle quali era soprassalita, ogniqualvolta la mente correvate tra le nebbie confuse dell’avvenire: per ultimo la privazione di un cuor confidente, nel quale potesse versare alla libera tutte queste agrezze, tutte queste sconsolazioni, tutti questi martori! del suo; la esulceravano e la opprimevano con sì perpetuo scempio, che ella non aveva requie, eccettoché n ella speranza che Dio la farebbe consumar presto nel fuoco di queste pene, e la tirerebbe a sé nel riposo eterno della sua beatitudine. E in questo «presto», annunziatole da Felice sull’atto di trarre il supremo anelito, che sempre le risonava agli orecchi, come ultima ragione d’ogni suo conforto, ella pacificava l’afflitto spirito, e prendea lena e vigore per durare in tanta tribolazione.

Ma intorno a quel giorno appunto, nel quale Traiano e la moglie parlavano di lei, come abbiamo scritto dianzi, accadde che una nuova spina si aggiunse al fascio già quasi incomportabile di quelle che la trafiggevano. E questa fu una mai celata avversione d’umore che Flaminia comincio a mostrarle; la quale s’inaspriva ogni di più, minacciando di convertirsi in aperta nimistà e rottura. Questo spiritello bizzarro da principio era tutto blandizie, tutto smorfie, tulio svenevolezze e teneritudini inverso di lei; e quantunque, conforme notammo in addietro, Maria, fino dal primo suo incontro con costei, sentisse un certo che di naturale abborrimento per la sua persona; nulla di manco aveva saputo coprire questo involontario contraggenio con tanta desterità e discrezione, che non ne era apparso cenno. E per ciò Flaminia, riputando d’essere la gioia sua e ogni sua delizia, per qualche tempo le stette appiccata alle costole come una sanguisuga, e la satollo di sé e delle sue leziosaggini al segno, che la poverella n’era proprio in croce e non ne poteva più. Ma poscia, trascorso questo intervallo, che fu come dire la luna di miele della nuova amicizia, la volubile farfalletta si rattepidì alquanto; sebbene non cessasse al tutto di farle viso dolce e alcun vezzo: e questa tepidità venne poi declinando pian piano a tale freddura, che a capo dei venti giorni, quasi più non trattava seco in particolare; e favellando di lei, or con Maddalena ora con altri, non profondeva più gli usali termini di affettuosi là smancerosa, de’ quali per innanzi aveva la bocca piena e stillante. La madre, il padre, la sorella minore non se ne addiedero, o non ne fecero caso. Maria per altro avvertì questa mutazione, e gliene dolse forte: non perché stimasse di perdere assai, perdendo la buona grazia di questa mosca cavallina; ma perché sospettava d’averle essa data forse cagione di dispiacere, contuttoché, esaminando sottilmente la coscienza, non si trovasse in colpa di niun mancamento. Ciò non ostante penso al modo di riguadagnarsene tosto la benevolenza, e per questo effetto prese occasione da un vestito, ch’ella stava imbastendo per lei, e che dovea provarle. Flaminia, invitata a far questa prova, ci si rendette con un po’ di muffa: e mentre l’altra, con bella graziosità, le assettava al dosso i pezzi dell’abito, e la lisciava e seco amorevoleggiava, la malcreata, tolta cagione dà cento difetti che scoperse nella vita, nella scollatura, nelle maniche e via là, s’indispettì fieramente e le scoccò motti così villani o ingiuriosi, che Maria resto attonita per lo sbalordimento. Se non che, riscossasi, cerco di placarla. Fu invano. Questa vipera, strappatosi d’attorno l’abito, ne disfece l’imbastitura, glielo butto in terra, lo pesto co’ piedi, e si protestò ch’ella non lo porterebbe mai, se non si dava da cucirlo a buono ad una modista. E così la pianto asinescamente, non senza frecciarle contro alcune altre insolenze, che punsero al vivo la innocente Maria: la quale se ne accoro sopra ogni credere, e ne lagrimò a cald’occhi.

— Ma qual torlo aveva ella fatto a Flaminia, che costei l’avesse da bistrattare con durezze sì sconce?

Nessuno,rispondiamo noi alla umana lettrice, che ce ne interroga, offesa da questa barbarie di procedimenti. Vi abbiamo già detto, che la povera Maria Flora, dopo uno scrupoloso esame della coscienza, non s’era conosciuta colpevole di verun fatto.

— Dunque che sorta di figliuola era ella, per vita vostra, questa Flaminia, che non finite mai di dipingercela quasi nata fra le roveri delle selve, e nutricata proprio in un covacciòlo di serpenti?

LXIV.

Avete ragione. È tempo che ci sdebitiamo dell’obbligo accollatoci un pezzetto addietro, di ragguagliarvi un po’più per agio, dell’indole e dello allevamento di questa donzella: nel dipingervi i meriti o de meriti della quale, voi errereste, se vi deste a credere che. noi ab biamo caricata la mano. Oibò! al contrario anzi, nello stenderei colori, siamo stati cauti di smorzarli un pocolino, per tenerci piuttosto di qua che di là dal vero dell’originale. Ma ciò non monta. Passiamoci delle scuse, ed entriamo a pie’ pari nell’argomento.

Qui però sull’ingresso, contentatevi, o madri di famiglia, che a voi facciamo la dedica di questo capitolo: e medesimamente vogliate permetterci, che non appaghiamo in tutto e per tutto la curiosità vostra, per quello che si attiene ad aggiunti di luoghi, di nomi e a specialità simiglianti, intorno alle quali vieta prudenza che noi siamo più chiari di quello che conviene. Posto ciò, dovete sapere che questa Flaminia, così come ve l’abbiamo rappresentata finora, non è già una pretta invenzione del nostro cervello, che male presumereste dotato della creativa potenza, di trarre in corpo e in anima dal mondo delle idee questa fatta di personaggi: ma è veramente figliuola di Traiano suo babbo e di Maddalena sua mamma, che l’ebbero dal Signore in primo frutto del lor santo e onestissimo matrimonio. Nè ella era frutto tralignato ab ingenito dall’albero onde nacque, o lasciato per trascuraggine inagrestire sul ramo. Non punto. Conciòssiaché, per temperamento di carattere, ella aveva il suo buono e il suo cattivo, come l’hanno di legge ordinaria tutti i figliuoli di Adamo e tutte le figliuole di Èva: e inoltre, subito venuta alla luce di questo sole, ricevette il sacro battesimo, e con esso la infusione della carità divina e i carismi della salutifera redenzione, siccome ricevonli tutti i cristiani, ammessi a partecipare la sovranaturale figliuolanza di Dio. La madre sua poi col latte le diede a suggere anche quella pietà candida, di cui era sì doviziosamente fornita, e coi primi baci le stampo nell’anima semplicetta le soavissime impressioni di quel non si sa che di celeste, le quali sono impossibili a definire, ma per altro si sentono da chiunque ricordi d’essere stato nelle braccia d’una madre pura, amorosa e fedele; e si sentono tanto, che, a sol rimembrarle, spesso inteneriscono il cuore e gli muovono compiacenza o rimorso, secondoché da quelle si vede conforme o disforme.

Flaminia dunque ebbe l’infanzia custodita gelosamente dall'occhio materno, e nudrita con l’alimento saluberrimo e sustanzioso di egregi dettami e di eccellentissimi esempii di cristiana virtù. Sino da piccoletta avea la mente svegliatissima; perspicacia d’intelligenza sopra l’età; brio, fuoco, vivezza tanta, ehenon istava mai ferma. Ma queste leggiadre qualità dell'ingegno erano accoppiate, in presso che ugual dose, con tutte le passioncelle che gli antichi morali riducevano all’irascibile: superbiola, albagia, caparbietà, stizza, invidiuccia, arroganza e che altra. Nelle quali viziose inclinazioni, il padre, che era cieco d’amore per questa sua primogenita, non iscorgeva se non germi d’inestimabili pregi: e invece Maddalena, più assentita e sagace, ravvisava segni di un naturale bisognoso in estremo di cultura, di vigilanza e di freno. E la savia madre, fino a tanto che ebbela essa nelle mani, non le risparmio no

l’agro dei castighi e delle riprensioni, né il dolce dei premii e delle carezze per tirarsela su pia, mite, docile, ammodata: e questo con profitto grandissimo, giacché la fanciulla, toccati i nove anni, pigliava un’ottima piega, si emendava, si ricomponeva e incominciava a portare con agevolezza il giogo amabile della materna disciplina.

Senonché Traiano, solleticato da un certo parente che gli offeriva un posto quasi di grazia per la figliuola, in un convitto femminile da poco innanzi apertosi nella Toscana, e del quale facevagli elogi non più uditi, invaghissi di afferrare pe’ capegli questa che giudicava buona fortuna: ed espugnate le ritrosaggini della moglie, che resisteva quanto era in poter suo, condusse la figliuoletta in quell'educatorio, e sottrassela per tal guisa alle cure così efficaci e solerti di Maddalena. Non diremo nulla delle querimonie e dei rammarichi di lei: come altresì non Ci allargheremo a chiarire la ragion vera di cotesto proposito di Traiano; che fu una sciocca ambizione di procurare a questa sua gemma un allevamento signorile, cioè superiore al grado suo, e con poca spesa. Errore madornale, ma errore comune a molli padri e a molte madri dei nostri tempi. Contuttociò questo errore fu tenue, a petto di quello ben più massiccio, di non aver considerato, in tutta questa faccenda, che le ragioni dell’interesse e di un frivolo amor proprio. Gli altri riguardi, circa la convenienza della istituzione, circa le qualità delle istitutrici, circa la bontà dei metodi e degl’insegnamenti, non considero né tanto né quanto; lieto lietissimo di avere, come diceva egli, una sì bella occasione di formare della sua Flaminia una fenice di giovanetta, la cui mano un giorno avrebbe avuti più pretendenti, che non ne ebbe quella di una tale altra, ch’ei nominava. Ahi padre milenso!

Il convitto, nel quale fu collocata questa ancora ingenua fanciullina, era tutto laicale, vale a dire guidato da maestre secolari di professione, ed aveva per iscopo di dare alle alunne una educazione tutta «nazionale» e acconcia «allo spirito moderno». Lo governava,con titolo e carica di Direttrice, una signora Erminia, donna attempatotta e di poca avvenenza, ma di severi costumi, erudita in varie discipline, poetessa lodata molto nella sua gioventù da certi giornali letterarii, sperta nel ialino e nel greco, parlatrice elegante di tre lingue vive, infarinata di un po’ di filosofia tedesca e intenditrice di belle arti. Ella aveva gran mondo, ed era fama che lo avesse acquistato nel settentrione d’Europa, dove fu aia di due Principessine, la minore delle quali fu poi imparentala con sangue regio; e le scriveva ogni tanto lettere, ch’ella non isdegnava comunicare alle più favorite fra le sue convittrici. Riputazione godeva ottima, e in materia di onoratezza mai non fu potuta appuntare d’un neo qual che si fosse. Andava però la voce che ancor essa, negli anni suoi più fiorenti, avesse avuto il suo romanzo; ma tale che sarebbe stato di edificazione a sapersi: e anzi si buccinava che ella avesse in animo di esporlo, a maniera di memorie, in un bel volume, il quale tuttavia non sappiamo che sia per anco uscito alla luce.

Con lei e sotto di lei erano quattro maestrine, le quali, ne' sei anni che stette colà Flaminia, si rinnovarono quattro volte: ed aveano quasi tutte certi nomi capricciòsissimi di Fanny, di Elvire, di Emme, di Clorinde, di Orette e persino di Nini: ma tutte coppe d’oro di damigelle attillale, spiritose, gaie, argute, familiari col francese quasi altrettanto che col materno linguaggio; sonatrici incomparabili di pianforte, cantatrici, disegnatrici, ricamatrici e politichesse matricolate; perite poi in geografia, in aritmetica, in istoria, in etnografia, in botanica, in ornitologia, in ittiologia, in conchiliologia; ed alcune anche geologhesse e fotografie; ed altre filologhesse e filosofesse di cartello. D’onde fossero sbucate, e come capitate ad aprire i peregrini tesori della loro scienza in questo convitto, mai non si diceva alle alunne. Era sufficiente il sapere ch’ell'erano «italianissime», e tutto spasimi per l’Italia «da rigenerarsi».

Capital fondamento della educazione che davasi costà dentro, si leggeva negli avvisi a stampa essere la religione e la morale. Ma nel fatto non si discerneva troppo qual fosse codesta religione; se la cattolica o la protestantica: né di che specie codesta morale; se la evangelica o la socratica. Vero è che cattolico era il culto che vi si professava le sole feste, e non più, con la celebrazione della santa messa, in una cappellina ornata di un semplicissimo altaruccio di legno, innanzi a un quadretto raffigurante la sacra Famiglia: ma di' era una messa corta corta, come quella che suol chiamarsi dei cacciatori. La celebrava un tal signor abate, di presenza grave e in pel bianco, il quale vestiva mezzo da cherico e mezzo da laico, e faceva da confessore, da catechista e da padre spirituale delle convittrici e delle maestre. Notisi tuttavolta, che questo signor abate non era in odore di santità per le sue massime, che pulivano di novità in politica e di poco di buono in teologia; e non vi era nemmeno per le brighe che teneva accese col Vescovo e co’ prelati ecclesiastici; e meno ancora per la sua domestichezza co’ liberali, che Io levavano a cielo e mostravanto a dito, qual modello di prete schiettamente «italiano».

Fuori di questa messa nei dì festivi, della osservanza pasquale, della prima comunione, a cui si facevano ammettere le più grandicelle, e di qualche rarissimo caso, nel quale o questa o quella educanda accostavasi tra l’anno alla Eucaristia; indarno avreste quivi cercato alcun altro esercizio di pietà cattolica. Il signor abate ragionava sì bene di religione nelle sue settimanali «conferenze»: ma i suoi erano ragionamenti falli sui trampoli, verbosi, freddi, affettati; generalità ed astruserie che stancavano l’attenzione e non isfioravano il cuore. Guarda, che scendesse giammai dallo nuvole delle sue astrattezze, per insegnare pianamente gli alti pratici delle virtù, del fervore, della vera e operosa vita cristiana! Guarda, che inculcasse giammai un ossequio alla Beala Vergine, un ricorso ai Santi, un’invocazione agli Angeli custodi! che esortasse all’orazione o alla frequenza dei sacramenti; che suggerisse pie industrie per conservare e crescere nell'anima la grazia di Dio; che porgesse un documento per combattere le tentazioni, per vincere i pravi moti del cuore, per superare gli ostacoli d’ogni sorta che s’intraversano a chi vuol compiere il bene! Costui era un padre spirituale, che avrebbe potuto declamare le sue «conferenze» nella Stoa o nel Peripaio di Alene, senza pericolo di indurre sospetto, ch’egli fosse ministro d’una religione rivelata e sacerdote di un Dio crocifisso. Ma era un prete «italiano», benvoluto dai liberali e nemico delle temporalità della Chiesa: e ciò bastava. La signora Erminia non vedeva lume per altri occhi, che per quelli di questo signor abate. Egli era 3 quinto Evangelista della sua cristianità.

Serratasi a chiave la cappellina, si ponevano in un cantuccio i pensieri di religione, fino alla seguente domenica; salvoché la mattina e la sera facevansi abbaiare dalle alunne certe filastroccole in versi, dettali dalla Direttrice, i quali erano una parafrasi dilavata del Paternostro, dell’Ave e del Credo. Povere fanciulle! Neppure si tollerava che recitassero più le preghiere, che da bambine aveano apprese nel grembo delle lor madri! Frattanto però le predicozzo contro le «superstizioni», contro la «bacchettoneria», contro i «pregiudizi!» delle monache, dei frati e delle pinzochere non rifinavano mai. Le giovani convittrici n’avean sorde le orecchie e rintronata la testa. Qualunque oggetto, qualunque libro, qualunque simbolo che sapesse di divozione, era sbandito come fomento d’ipocrisia. Ad un'alunna di Genova fu sequestrata la immagine di santa Teresa, perché l’abito monacale di Carmelitana distuonava dallo «spirito del secolo». A Flaminia non fu concesso di leggere, e serbare fra le sue filiere, la vita della Beala Marianna di Paredes, di fresco sublimata all’onor degli altari, perché le austerità di questo bel giglio d’illibatezza erano «un oltraggio ai sentimenti della natura». E siccome la giovinetta s’era affezionata a quel libro, che le avea mandato in dono sua madre, ed era garbatissimamente legato; per ciò una maestrina gliene diede un altro, in iscambio di questo, con vaga legatura all’inglese, e conteneva i racconti di Pietro Thuar.

E i precetti della morale? Non ardiamo asserire che fossero magagnali: diremo bensì che non si alzavano un palmo oltre quell’ordine umanissimo, che gli stessi pagani conobbero ed illustrarono ammirabilmente. Aggiungeremo poi, che tutta la morale di queste dottoresse muschiate mirava secretamente più a vani intenti politici che ad altro. La patria e l’Italia erano, in bocca loro, la ragione finale, per cui le alunne dovevano studiare a virtù e farsi buone. Il merito della vita eterna, il possesso del paradiso, il beneplacito di Dio e l’amore di Cristo, o non vi aveano luogo, o ve l'avevano soltanto di sghembo: queste erano ragioni accessorie. Epperò gli esemplari che pii comunemente si proponevano, da emulare a queste creature tradito, si toglievano dalle storie greche e romane e persino dai miti. Le invitte eroine del cristianesimo, le martiri fortissime della Chiesa, lasciavansi in sagrestia. Appena si faceva a qualcuna l’onore di nominarla, non già perché santa e perché martire; ma perché si era segnalata in servigio de’ miseri e degl’infermi. Questa la morale dottrina, che cotidianamente s’insidiava dalle institutrici a quelle tenere animucce.

Ma gli esempii che lor offerivano di sé medesime, erano un ben più splendido commento di cosi fatte dottrine. Tacciamo delle gare, dei ripicchi, delle gelosie, delle detrazioni, dei brontolamenti, delle bugie, delle finzioni, delle rabbie, delle leggerezze e di tutto il corteggio di simigliami venialità, che ingioiellavano l’aureola magistrale di queste Elvire e di queste Nini. Le convittrici avevano proprio di che specchiarsi a diletto, in tali perle di civiltà, di verecondia, di mansuetudine, di pazienza, di annegazione! Passiamo avanti, e tocchiamo un capo unicissimo: quello della mondanità. Coteste fraschette, come sapete, non erano mica suorine consecrate a Dio con voti, sigillale dalla clausura nel loro educatorio, sottoposte a regole comuni e tenute a portare un medesimo taglio d’abito positivo e negletto. Mainò! Dalla signora Erminia in fuori, ell’erano, qual più qual meno, giovanotte di primo sbocciò, che la pretendevano ancor esse nel far la loro figura; sciolte da qualsiasi pastoia e vogliose di divertirsi. Elleno adunque, giusta la loro possibilità, amavano di stare su tutte le mode e mutavano fogge, e mutavano cappelluzzi, o mutavano crinolini, e mutavano scialli, mantiglie, nastri, merletti a loro talento: e con le alunne di niuna cosa cicalavano più saporosamente, che delle mode e de’ figurini di Parigi. D’onde in queste si originava un mortai tedio delle vesticciuole di convittrici, sempre d’un colore, sempre d’una forma, sempre invariabili: e quindi una smania acutissi ma di ricuperare la libertà al più presto, per fare anch’elle comparsa come le lor maestrine galanti. Che più? Le vezzose istitutrici usavano ai balli, alle veglie, agli spettacoli, a tutti i pubblici sollazzi: né di ciò facevan mistero con le discepote, alle quali anzi gustavano di farsi vedere, tutte alleggevoli e rifronzile, uscir dal convitto, pavoneggiandosi in quelle loro acconciature da teatro e in que’ loro abbigliamenti da festino. Di che le educande morivano di secreta invidia e non avean bene, se non allora che o la maestra Emma, o la maestra Fanny, o la maestra Oretta avesse lor contato, dall’asino alla zela, la cronaca del proscenio, de’ palchi e della platea; ovvero delle quadriglie, delle coppie e della contraddanza di chiusa; con un tale venir loro l’acquolina in bocca, che da sé da sé imprecavano al collegio ed agli spietati genitori, che le aveano sepolte in quest’ergastolo esecrato. Nè la signora Erminia aveva polso tanto fermo, che potesse tener in briglia coteste sue puledrelle, o tanta autorità, che osasse interdir loro tali ricreazioni, che seminavano la scontentezza tra le alunne. Ella stavasi paga di vivere ritiratissima da tutte le dissipazioni. Ma del vietarle alle sue maestrine carissime, non si sentiva la forza. E perocché, a cagione che una di esse era scappata d’improvviso con un commediante, provo di impedire che le altre quindi innanzi frequentassero più il teatro; scoppio un tale subbuglio, che nna delle tre che restavano domandò furiosamente il commiato: non ottenutolo subito, si lasciò, come l’Elena della favola, rapire da un Teseo che la trafugo in Inghilterra. Dal che provenne uno scandalo sì clamoroso, che il convitto «nazionale» fu a un pelo di sciògliersi, e il numero delle alunne scemo incontanente, da quello non grande di trentasei, al piccolissimo di quattordici. Eppure Traiano non fu dei padri, che corsero a salvare le figliuole da questa fucina ignobile di liberalità femminesca!

Indovinate voi, o lettrici, che deliziosi fiori e che frutti prelibatissimi di bontà, questa maniera di istituzione dovesse far germinare negli animi dello educande. E voi, che conoscete ora un poco le scorrette disposizioni del naturale di Flaminia, congetturate voi, qual irto vepraio di ogni erba selvatica dovesse diventare il cuor suo abbandonato cosi a so medesimo, senza nutrimento di pietà solida, senza collivamento di religione, senza guida di buoni consigli, senza niuno stimolo, niuno indirizzamento a quelle virtù più pregiate che sono lume, grazia e. splendore d’ogni ben costumata donzella. Traiano, quando veniva da Roma per riabbracciarla, cotto com’era di lei, non vedeva altro che meraviglie, non iscorgeva altro che stupori. Quell’udirla ciaramellare di tante cosucce che egli ignorava; e di storia, e di cronologia, e di piante esotiche, e di uccelli d’America, e di conchiglie, e di pesci, e di sfera armillare, e di rettili, e di quadrupedi, e di altrettali cianciòline spilluzzicale ne’ dizionari!; lo faceva trasecolare e andar in brodo di succiòle, dal gaudio che questa luce degli occhi suoi si avvantaggiasse così rapidamente, per su tutti i rami del grand’albero della scienza. Poi quella bella parlata toscana in bocca romana; poi quelle amorevolezzine, que’ fonfalecchi, que’ baciucchi che la non si saziava mai di chiedergli e di rendergli ogni quarticello d’ora; poi quegli attucci, que’ lezii, que’ modi pieni di scede, ch’egli scambiava con la quintessenza della urbanità più leggiadra; poi que’ lavoretti ad ago e a maglia di che presentavalo; poi que’ premiuzzi datile dalla Direttrice, o dalla maestra di aritmetica, o da quella di lingua francese, che lo incaricava di portare alla mamma, alla sorellina o alle amiche di Roma; tutto in somma, tutto lo traeva di sé e lo sollevava a toccare col dito sino a terzo cielo. E le adulazioni che egli le spiattellava in faccia, e i regali di che le empiva le mani, non avean mai termine; e da ultimo si partiva com’uomo che avesse le selle allegrezze nel cuore.

Talvolta, ma raramente, lo accompagnava Maddalena: ed era singolare il contrasto degli affetti di questo padre e di questa madre, innanzi alla figliuola, che non aveano riveduta da dieci o da quindici mesi addietro. Conciòssiaché, dopo stuzzicatala a sfringuellar già tutto quello che aveva sulla punta della lingua, e spremuto il sugo di tutte le sue cianciafruscole, ambedue si commovevano sopra di lei. Ma mentre il padre attendava le ciglia e faceva i lucciconi, pel giubilo di sentirla così amena parlatora e saccente; la madre si copriva il volto e struggevasi in pianto, pel crepacuore di trovarla così vanarella e fumosa: e dove l’uno non ristava di ammirarla per arca di sapienza; l’altra non cessava di compatirla per zucca vuota. Senonché a nulla giovavano i piagnistei e i rammaricamenti della madre. Traiano era idolatra della fanciulla, estatico delle maestre, arciconlentissimo del convitto: quindi alla moglie non rimaneva se non che avere pazienza, guardare in alto, chinare la lesta e dire: — Amen!

Ma allorché, sullo scrosciare della rivoluzione in Toscana, il padre si ebbe ritiralo in casa questo suo vaso di grazie, non indugio a battersi in fronte e a riconoscere come le maestrine della signora Erminia lo avessero trappolato a modo, e allevatagli una serpetta in luogo della colomba che gli avevan promessa: e allora diede ogni ragione alla moglie. Allora però il rimediare al male era tardi: quantunque non così tardi per Maddalena, che, se il marito non la disarmava con le stolide sue debolezze verso la figliuola, non avesse potuto ella rommorbidirle l’animo e ristamparglielo in buona forma. Il perché quando Traiano faceva le disperazioni della cattiveria di Flaminia, la povera madre non era poi da riprendere, se, in cambio di ammansarlo, gliene gittava addosso tutta la colpa, con un perpetuo rimproverargli:

Chi è causa del suo mal, pianga sé stesso.

E tale, o madri di famiglia, sia la conclusione che v’inviliamo a dedurre da questo capitoletto. Il quale, è verissimo, non fa molto onore alla educazione liberalesca delle Erminie, delle Elvire e delle Nini, che in questi giorni si affaccendano di tirar nell’aiuolo di certi loro ginecei e di certi loro convitti, quante fanciulle italiane più possono. Ma speriamo che riesca di qualche utile a voi, mettendovi appunto in guardia da questa sorta di maestresse, nelle cui mani vi campi il Signore dal porre giammai Io vostre figliuoline innocenti! se però non aveste caro che vi tornassero altrettante Flaminie; il che non crediamo. E ciò sia abbastanza, so non è ancor troppo.

LXV.

Dopo la impertinenza villana di buttare sul pavimento e di calpestare, fra mille smanie e rimbrotti, i pezzi del vestito, che Maria con sì gentile affabilità le provava, Flaminia comincio assumere con lei un contegno di boria e di fastidiosaggine, che mai la più petulante. Guardavala d’ordinario con isprezzatura, alle volle bieco e in cagnesco, non di raro dall’alto in basso e con quell’aria di protezione, che parea dicesse: — Ah! se non era io, tu saresti ancora a chiedere la limosina in Casamari, o a pitoccare nei dintorni di Collepardo. E questo divario che passava tra sé, regina in casa sua, e lei, raccattatavi per l’amor di Dio, si prendeva il barbaro gusto di farglielo sentire, se non espressamente coi detti, almeno con tacile malizie di tratto. Non degnavasi poi di appiccare quasi più un domestico ragionamento con lei: e ove talora le rivolgesse quattro parole, s’ingegnava che una, se non altro, fosse mordace: e quando no, suppliva al difetto della puntura, con un risolino sardonico o con un’occhiatella più trafiggente di un dardo. Che se Maria, per riconciliarsela, si faceva cuore d usarle un qualche termine di sorellevole confidenza, la bisbetica montava subito in altura, s’impettiva e le saettava in faccia quella sua lingua di biscia, con tale fierezza che la poverina, tutta umiliala, si nascondea il viso nel seno, per celare le lagrime che queste feroci soperchierie le cavavan dagli occhi. — Ditemi in grazia, che v’ho io fatto di male, che abbiate sempre da mostrarvi inquieta con me? le dimandò un giorno che l’altra sembrava un po’ in buona.

— Niente di male; rispose costei secco secco; oh, mancherebbe anche questa, che voi mi faceste del male! sì! provateci!

— Ma dunque, perché non ridiventiamo amiche come prima? Se io ho dei torli con voi, sono pronta a farvene le mie scuse. Via Flaminia, facciam pace; eccovi un baciò.

— Uh, questo poi no! strillo respingendola dispettosamente da sé; voi mi siete divenuta così antipatica, che io non vi posso soffrire; i vostri baci serbateli per Lucilla; a lei piacciòn molto; io non so che farne.

Verso la metà del Maggio, la madre, il padre e segnatamente la sorella piccola, si avvidero di questo cambiamento d’umore in Flaminia: e a tutti ne rincresceva, e Traiano in ispecial guisa n’era attediato. — Che vuol dire questa sostenutezza di Flaminia con la nostra orfanella? ricercava egli da Maddalena.

— Lo dimandate a me? interrogatene un poco lei. Io non leggo ne' suoi lunarii. Ma questori so dir io, che se le fa uno sgarbo in presenza mia, non glielo mandero buono.

— Manco male! e io ti terrò spalla. Voglio che, in casa mia, questa povera creatura sia rispettata da tutti: e guai a chi le torce on capello! Flaminia, ehm! se Flaminia farà la pazza con lei, oh questa sarà la volta che io le metterò il cervello a partito.

Ma non occorse altro. La cattivella si addiede della turbazione del padre, il quale sapeva essa, che in questo punto di voler ben trattata Maria Flora diceva da sodo: perciò al di fuori le s’infinse rappattumata, vegghio sopra di sé, contenne il veleno che covava contro di lei, e stelle guardinga di non farne mostra scopertamente; avvegnaché, quando era seco a tu per tu e senza risico d’esser vista o intesa, se ne ricattasse ben bene, mortificandola con beffe amare e con motteggi taglienti. G l’altra a tacere, a sopportare le costei improntitudini e a logorarsene di un cordoglio, che tanto più le coceva quanto meno lo palesava. E tuttavia essa non aveva memoria di averle, con deliberazione, recalo il menomo dispiaceruzzo: ma invece le pareva di averla allagata di cortesie, non ostante la secreta sua contrarietà di genio e lo schifo che le facea. A che dunque tanta disaffezione? tanto livore?

In questo essere delle cose, cadde la festa di san Filippo Neri, nella quale il Papa quell'anno, per la prima volta dopo i rivolgimenti del 1849, si conduceva con treno di grandissima gala dal Valicano al tempio di santa Maria in Vallicella, dove riposano le ceneri di quest’Apostolo esimio di Roma. Può dirsi in vero che la città latta quanta fosse in molo, per venerare il Pontefice sul suo passaggio, e per ammirare la ripristinata magnificenza di quel suo corteo, che non ha l’uguale in maestà e in decoro. E il popolo e i cittadini d’ogni ordine coglievano con esultanza questa congiuntura di rinnovare al Santo Padre una di quelle pubbliche dimostrazioni di ossequio e d’amore, per le quali Roma, in questi ultimi tempi, è salita in così chiara nominanza di fedeltà impareggiabile alla doppia corona e spirituale e temporale del Vicario di Gesù Cristo.

A Maddalena non bisognarono stimolanti, per fare che il marito intervenisse con la famiglia al sontuoso e devoto spettacolo di quella pompa. ché egli la durava saldo ne’ suoi belli proponimenti: e co’ liberali del Comitato l’aveva rotta sì daddovero, che quelli già gli avean fatta la croce sopra, come a membro perduto. Ed egli non si curava più nulla di loro, se non fosse per iscornarli ostentando piena adesione al Papa ed alla sua causa. Merito insigne di perseveranza, dovuto, almen per tre quarti, alla solerzia della sua donna.

Non è di questo luogo descrivere a minuto il trionfo di quella ovazione, che tale fu propriamente l’andata e la tornala del Sovrano Pontefice, con l’accompagnatura nobilissima della sua corte. Per tutto il girare di quel tratto della via papale, che dalla piazza di santa Marta dietro al Vaticano fa capo a quella di santa Maria in Vallicclla, le finestre, i balconi, i fondachi erano ornati da arazzi, da setini, da festoni, e cosi gremiti di gente che, anche a caro prezzo, era malagevole procacciarvisi un posto. Una innumerabile folla stipavasi per ogni dove: né i raggi del sole che ferivano poderosi, valsero a rimuoverla od a scemarla. Nel passare che lentamente faceva il pontificio corteggio, lo sventolare di cento e cento fazzoletti, e bandiere biancogialle, vi davano similitudine d’un turbine di neve e oro che s’avvolgesse intorno al fulgentissimo cocchio, entro il quale procedeva il Santo Padre, affabile in volto e sereno d’aspetto, benedicendo amantissimamente il suo popolo. Ma le grida di — Viva il Santo Padre! Viva il Pontefice Re! Viva Roma sede del Vicario di Cristo! Viva il Papa salute d’Italia! Viva il Valicano! Santo Padre, la vostra benedizione salvi Roma! e mille altre; si alzavano ad assordar l’aria per tale, che il mormorio di queste acclamazioni, udito da lungi, vi rendeva il suono di un mare percosso da’ venti: e di mare in verità avea sembianza l’onda delle turbe, che in alcuni punti irrompevano fra il drappello delle Guardie Nobili e, quasi ebbre di pio entusiasmo, intorniavano osannando la carrozza papale.

— Ah, queste sono scene che consolano il cuore! altro che i baccanali del quarantasette e del quarantotto, provocali dai bricconi settarii, per dare noia al Santo Padre, e gabbare la buona fede dei semplici! Queste sono dimostrazioni popolari! Questi sono applausi da cristiani! Questa è Roma, la vera Roma che grida al mondo di volere star sotto il Papa e col Papa, e non volere altro Re che Pio IX e i suoi Successori. Lo intendano o non lo intendano i briganti di Torino, questo è il suffragio nostro: viva il Papa Re!

Colui che, dopo sfilato 1’accompagnamento pontificio entro il Borgo Nuovo, con un vociòne affiochito e col petto ansante dal grande urlare, e con le ciglia pioventi lagrimoni grossi come pan tondi, suocciòlava queste sonore verità allo sbocco della piazza Rusticucci, fra un gruppo di civili persone che gli assentivano, era Traiano, il quale non capiva più in sé per la commozione di tanta gioia. Quella mattina, oltre la sua spilla con la croce di san Pietro, aveva al collo una cravatta coi colori papeschi, e teneva in pugno un simil fazzuolo, scotendo il quale salutava tutti gli amici che incontrasse. La moglie e le figliuole eran con lui, e portavano elleno altresì fettucce candide e ranciate ai cappelli, e nelle mani fazzoletti di seta canarina listata in bianco, da agitare verso il cocchio del Santo Padre. Maddalena conduceva poi seco la sua orfana, tutta abbrunata; e l'avea diretta apposta all’ingresso di tale piazza, acciòcché potesse vedere a bell’agio i Reali di Napoli, affacciali alle finestre della casa de’ Mazzocchi, nella quale erano convenuti. E la donzella gradi assai questa scelta del sito, ritraendo singolare conforto dalla vista dei Principi e delle Principesse della esule Famiglia, che non ristette mai di affissare con occhio compassionevole; insino a tanto che la cavalleria e il battistrada e il crocifero sopra la mula bianca, non sopravvennero a distorta dalla sua mesta contemplazione.

Dette quelle calde parole, Traiano si licenzio dai circostanti, diede il braccio a Flaminia, e seguito dalla moglie e da Maria Flora, che teneva per mano Lucilla, saltellante di tripudio che il Papa avesse guardato proprio lei mentre benediceva dallo sportello della carrozza, si avvio alla chiesa della Vallicella, per attendervi Q ritorno del Santo Padre, e ossequiarlo di nuovo strepitosamente. D che Dito, 8’incamminarono verso casa. Ma esso avvisò, che la figliuola non era più gaia come quando erano usciti; anzi sembrava adiratala e ombrata. — Che ti è succeduto, che sei un po’ strana? le dimandò egli.

— Niente: rispose l'altra, e si mordette le labbra.

— Ma tu hai qualche cosa che ti dà fastidio; incalzo il padre.

—Niente vi dico; ripeté essa, allungando un palmo di muse.

Quegli scrollo la testa, fe spallucce e non la stuzzico pii avanti.

Entrali nell’atrio e salendo tutti insieme le scale, Traiano si congratulo con l’ospite giovanetta che la festa le fosse piaciuta, e il bonacciòso uomo godeva di cuore a mirarla più ilare e rinfrancata del solito, in quello che Maddalena, sorridendole, con atto dolcemente materno l’accarezzava. Flaminia, vedendo farsi queste amorosità a Fioretta, divento verde come un ramarro, e le scaglio un occhiataccia di iena. Quindi, dispersosi ognuno per le camere, essa corse in un subito dietro la poverella, le sprango due calci agli stinchi, e ringhiando con istizza di aspide: — O via le, o via me! si ritrasse a deporre gli abiti festerecci.

Questo fu il principio di una guerra, con la narrazione della quale non ci basta l’animo di conturbare i lettori. Gli strapazzi onde Flaminia prese da quel di innanzi a malmenare la sventurata fanciulla, non sono da figurarsi. Nè le minacce del padre, né le rampogne della madre valevano più a tenerla che, per ogni lieve pretesto, ella non desse in precipitose bestialità contro la poverina. La quale, per riscattarsi finalmente da questa non più soffribile persecuzione, supplico il padre Euschio, che la facesse ricoverare in un conservatorio di oneste zitelle, nel quale essa aveva sufficiente moneta per sustentarsi almeno due anni a sue proprie spese: col che si placherebbe Flaminia, e si ridonerebbe la pace a tutta la famiglia, sconvolta per sua cagione. — Oh questo non sarà mai! esclamo Traiano arrovellandosi in udire tale proposta.

— Ma che! pretendete forse che questa creatura abbia a morir martire dei ghiribizzi di colei?

— Io le ammaccherò il grugno, io le pesterò le ossa a quella strega I ma non sarà detto giammai, che ho fallito al giuramento dato al signor Pellegrino. Questa figliuola ha da stare qui in casa mia, capite? per ora io sono suo padre, e Maddalena è sua madre. Non voglio séntir altro.

E Maria Flora, tribolata così fra l’ancudine di questa irremovibile volontà di Traiano o il martello del rancore indomabile di Flaminia, si rimise in Dio, che non abbandona mai chi in lui si assegna, e aspetto da lui solo quel provvedimento a’ suoi mali, che non poteva più sperar dagli uomini.


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LA POVERELLA DI CASAMARI

RACCONTO STORICO DEL 1860 E 1861
LXVI.

Un giorno di estate, sotto la sferza cocentissima del sole di mezzodì, in capo alla lunga via nella quale Traiano abitava, si vide spuntare una signorile carrozza, che, avanzatasi di buon trotto, si venne a fermare dinanzi al portone della sua casa. Il servo, che andava a cassetta col cocchiere, balzò subito a terra, aperse lo sportello e ne scese rapidamente una dama tutta vestita di nero: la quale, abbassato l’ombrellino, guardò ansiosamente e riguardi il numero di essa casa, si passò in fronte il candido fazzuolo che aveva in una mano; e accompagnata dal famiglio che la seguiva, s intromise nell’atrio e fu su per le scale. Ma salendo, il respiro cominciò ad affannarsele, e procedeva con piè debole e vacillante ed afferrandosi agli appoggiatoi, quasi temesse di non cadere. Giunta al pianerottolo, ov’era l'uscio di Traiano, col suo nome e cognome in una lucida piastra di ottone, la dama si arrestò, impallidì, abbrancò il cordone del campanello, e, con quello in pugno, sostette come incerta di sé medesima: poi lasciò il cordone, si scostò un tratto, frugò nella borsa e voltasi al servitore: — Orsù; gli disse, porgendogli un bigliettino da visita, con una sottil voce che le tremolava; sonate voi, e, in cambio di annunziarmi, presentale questo biglietto. Io attenderò qui di fuori.

L’uomo, fatto un capochino, prese il biglietto e, mentre la dama si appartava, strappò il cordone con tale violenza, che il tintinno del campanello non finiva più. — Oh, che gente indiscreta! si udì un lontan vocione sciamare di dentro; e’ vorrà essere l’Imperador del Brasile! correte, via, aprite! Con questo borbottamento, s’intese uno scalpicciò vispissimo e poscia una vociòlina squillante, che dimandò: — Chi è? Amici.

Il chiavistello fu tirato e spalancatosi il battente, apparve Lucilla, che, scorto quell’uomo in livrea, si fe rossa di porpora e gli sbarrò in faccia tanto d’occhi, senza fiatare.

Ecco questo biglietto; soggiunse allora costui; portatelo e dite che la signora aspetta.

La puttina rientrò a corsa; e un istante dopo si affacciò Traiano, abbottonandosi alla meglio un soprabito che s’era gittalo indosso li in fretta, perché stava in maniche di camicia; e balbettando cerimoniosamente le solite formolo del: —Si accomodi; favorisca; non faccia complimenti, la prego; scusi tanto, se così all’improvviso. . . eccetera; introdusse la dama nel salottino di rispetto; la fece assidero in un sofà: e pure seguendo a rassettarsi, cercava d’uscire, con istudiate parole, dall’avviluppamento nel quale cotesta visita sì repentina lo aveva intrigato.

Signor Traiano, lasciam da banda le cerimonie; tolse a dire quella, tostoché, adagiatasi nel sofà, ebbe ricuperato un po’ della lena che s’era sentita mancare; io ho ricevute, l’una sull’altra, le tre vostre lettere con quella di mia figlioccia; e ve ne sono obbligata. Dov’è quella mia cara infelice? Ma no; si ridisse incontanente; non subito. Fate che io prima riabbia alquanto di fiato. Oh Dio, che casi! che scene! che tregende! Ah, signor Traiano, voi avete fotta una grande opera di carità! Non c’ è oro nel mondo, che ve là possa pagare. Iddio solo. . . . ah, poveretta me! perdonatemi questa agitazione. Io smanio di abbracciare quella misera creatura, e insieme non ho coraggio di rivederla; io sudo e ardo e gelo e tremo, nel medesimo tempo. Credo di aver la febbre. Dio mio santo, che catastrofe! che lutti! Pellegrino morto! Giovanna morta! Felice morto!

Il piccoletto morto! e in quattro mesi! Povera figlioccia mia! e là vive ancora? Signor Traiano, scusate se io vi paio delirare; in una tale tempesta nel cuore, che voi non ne avete idea. Ah! dunque sono finalmente nella casa, ov'è quella mia bella sventurata. Or ora me la farete venir tra le braccia, non è vero? Traiano che, attonito come di sasso, mirava la dama ed ascoltava questo suo parlare simile a vaniloquio, a tale interrogazione si sbiancò e affrettossi di rispondere, con una destrezza che àvea dell’artificiòso: — Ma ella, signora mia, si pigli prima un tantino di quiete.

SI, dite giusto; replicò ella puntando il gomito sinistro sai guanciale d'una spalliera del sofà, appoggiando la testa sulla palma della mano e traendo un sospiro; avrei veramente un bisogno estremo di quiete. Sono cinque dì e cinque notti che io non ho bone di me, e né per le strade ferrate, né sul battello a vapore bo avuto il refrigerio di chiuder un occhio. Dacché in Hombourg mi lu consegnato quel fasciò di vostre lettere, dalle quali appresi la incredibile storia che pare una favola, ah Dio! il cuor mio è piombato in un abisso di fiamme che io martoriano senza posa. L’unico alleviamento sarebbe di serrare fra queste braccia la mia vittima: e ora che l’ho qui accosto, e che mi trovo sotto il suo medesimo tetto, ora non mi basta l'animo di rivederla; mi sembra che non regger alla sua presenza, e che non avrò forza nemmeno di darle un bacia Eh, si sa! ripigliò l'altro con un tono di pietoso consentimento; il sangue non è acqua. Ancor io son padre, e ho provalo per esperienza Non è possibile, signor Traiano mio; io interrupp'ella con grandissima veemenza; non è possibile che abbiate provata mai la millesima parte delle angustie che tormentano me, per conto di questa mia cugina e figlioccia carissima. Ma dite: vi sembra che ella mi ami? che abbia fiducia nella mia tenerezza? che sia persuasa del bene che le voglio? dell’affetto materno con cui m’ingegnerò di farla felice? Cioè, che dich'io felice? la felicità non è frutto di questo mondo; e io lo so, oh io so pur troppo 1 ed ella, con tante ferite insanabili nel vivo dell’anima, ella non sarà mai felice. Ma di rendera meno infelice che io possa, questo sì. Or ditemi la verità: vi par egli che la mia Flora creda a queste buone disposizioni del cuore di sua santola? E come no? mi meraviglio! — Ah, dunque ella non mi odia, non mi esecra, non mi detesta? Che dice, signora? detestarla! odiarla! 0 sciocca, sciocchissima me! soggiunse la dama contorcendosi e picchiandosi in fronte con doloroso atto; io sono mezzo svaporala del capo. Signor Traiano, compatite alla mia fiacchezza: dunque dicevamo. . . che cosa dicevamo? ah, che questo bell’angelo si fida interamente di me, non è vero? Certo; e sempre che mi ha parlato di vostra eccellenza, lo ha fatto con mostre di un’affezione singolarissima. E poi la sua letterina, ella l’ha ricevuta.

In sentir ciò, la matrona fece uno strilletto, si chiuse il volto nelle mani e diruppe in un. irrefrenabile pianto. Traiano, lutto compreso da sbalordimento, a chetarla, a consolarla, a supplicarla che si desse pace. Ma niente valeva: la signora aveva sciolto il corso al profluvio delle sue lagrime, e le spandeva tra singulti e gemiti che non ammettevan misura. Lucilla la quale, dopo avvisata la madre dell’arrivo di questa dama, con puerile curiosità, s’era posta a far capolino e origliare e adocchiare tra lo stipite e la portiera della bussola, come vide quel pianto, ricorse a Maddalena, che intanto sera un poco raffazzonata per presentarsi alla forestiera con qualche maggior convenienza: e riportatole ogni cosa, la tirava che foss’entrata a toglier d’impacciò il padre, e a sedare i singhiozzi della piangente. La donna esitava: ma in ultimo scotendo la gruccia della serratura, e chiesto sottovoce: — È permesso? ottenne d’essere introdotta, e dietrole la fanciullina che si fermò a un canto, tra il dossale di una poltrona e lo spigolo di una tavola.

Alla vista di Maddalena, la signora subito si asciugò gli occhi e la faccia, si rizzò, le si mosse incontro, e con affettuose maniere la pregò di sedersi al suo fianco, mentre chiamata a sé la vezzosa bamboletta si fece ad accarezzarla, quasi per distrarsi e dissimulare l'altissima turbazióne che l'occupava. — Vi ringrazio; le disse poi tostamente che quella si fa assisa; «fi tanta provvidenza che vi siete presa della mia povera orfanella. Appena bo avute le lettere che m’informavano di tutte le disgrazie, mi sono precipitata in Roma per pigliarmela io; giacché ora ella è mia. Io era partita dal Cairo quando giunse la prima; e siccome nel ritorno volli, per mia divozione, lare il pellegrinaggio di Terra santa; così i padroni degli alberghi, ov’io fui di stanza nel Cairo e poi in Alessandria, me la inviarono a Gerusalemme. Arrivò tardi; e io era già in Costantinopoli ammalala. Quando poi il signor Traiano mi scrisse la seconda volta nel Maggio; questa rifece il medesimo giro, e rivenne in Francia con quella prima. Corto: io non ebbi queste due e la terza, che era diretta a Bordeaux, so non cinque giorni fa ai bagni d’Hombourg. Allora figuratevi i miei stupori, le mie ambasce! Ho troncata a mezzo la cura delle acque, ho lasciato là tutto, e sono volata qui con un crepacuore e un’ansietà, che io non potrei esprìmervi. Oh questa fanciulla quanto è cara! Ditemi, signora buona, e la mia Flora come sta ella? dov’è? si fosse accorta che io sono in casa? vogliam farla venire? io. . . .

Nossignore; saltò fuori a rispondere con franca ingenuità la puttina: il medico ha proibito. . . .

Zitta là! diè Traiano sulla voce a quest’arditella.

Il medico! sciamò la dama, perdendo ogni colore nel viso; che? ella è dunque malata! È stata; disse prontamente Maddalena; ma ora però, grazie a Dio, si è rimessa e s’è inoltrata benino nella convalescenza.

Non se ne rattristi, per carità! insistette anch’egli Traiano; ché non è stata proprio una malattia di carattere, ma, secondochi definirono i dottori nel consulto che feci fare, un mal di stagione. In pericolo, parlando a rigor di termini, non ci è stata mai. Ella, tanto buona com’è, pretese che ad ogni patto le si amministrassero i sacramenti: e il Curato, più per contentarla che per altro, le fece portare il sacro Viatico. Ma l'estrema unzione non credette mai di dovergliela dare, e non l’ha ricevuta. Adesso poi siamo a cavallo. Ella è quasi del tutto senza febbre.

Quasi? che odo! non siamo dunque al termine; replicò la dama in altitudine di sgomentata; ah povera me! su, conducetemi da lei; la voglio vedere.

— Andiam piano, signora mia; ripigliò Maddalena invitandola a risedere, perché già s’era levata con impelo; di qui a un momento, ella potrà entrarle in camera. Ma in prima faccia che avvertiamo Fioretta del suo arrivo, e la prepariamo alla visita; se no, questa sorpresa potrebbe commuoverla troppo, e farle del male assai.

Ella, dopo alcune altre parole, si acconciò al desiderio prudente della savia donna: ma in quella che Traiano parli vasi dal salotto, per recare la nuova a Maria Flora e apparecchiar l'animo di lei al ricevimento della cugina, questa si mostrò impazientissima di almeno vederla senza esser veduta. Si contese un poco dall’una parte e dall’altra: ed infine si deliberò che, rimanendo socchiusa la porta della camera, la dama vi si appressasse e vi gittasse dentro un’occhiata furtiva, ma nulla di più, per non intorbidare sprovvedutamente la tranquillità della giovinetta.

Come fu convenuto, cosi si fece. Nel punto che Traiano, posto il piede oltre la soglia della stanza, si approssimava all’inferma, la signora che, per là smoderata inquietezza, non aveva membro che tenesse fermo, sorretta da Maddalena, si avvicinò al fesso della porta, e guardò con una bramosia che non si potrebbe dire. Ma che vid’ella? Vide in una cameruccia monda e ben custodita, un letto bianchissimo e giacentevi, col dorso vólto a chi entrava, un’ombra con la testa affondata in due alti e soffici origlieri. La luce v’era temperatissima: tale per altro che lasciava discernere, alla destra sponda del letticello, un tavolinuccio; e suvvi un Crocifisso tra due candelieri di cristallo, alquante immagini sacre e, in un vaso di porcellana dorala, una ciocca di rose. A un angolo, presso la tenda della finestra, stava una giovane seduta e intenta a cucire. Questa era Flaminia, la quale, all’ingresso del padre, si alzò prestissimamente e gli fe cenno di non zittire; perché, mormorò ella: — Dorme! Se non che il passo gagliardo dell’uomo e la scricchiolata che diede la seggiola di Flaminia, destarono Maria; la quale era anzi assopita in un leggeri dormiveglia, ché sopraffatta dal sonno. In quell’atto del riscuotersi, ella si rivolse tostamente là d’onde avea inteso il romore, e scorto Traiano, sollevò il capo verso di lui. Allora la dama si sforzò di mirarla in faccia. Ma nell’aguzzar gli occhi, per fissare quel visino smunto e pallido come cera, se li sentì annebbiare, e una tale stretta l’assalse, che penò a reprimere uno strido di orrore; e senz'altro si abbandonò quasi svenuta sul bracciò di Maddalena, che, sostenutala faticosamente, la ricondusse nel salotto.

LXVII.

Se noi fossimo vaghi e avessimo agio di filosofare sopra le bizzarre vicissitudini, delle quali la scenica apparenza che chiamiam vita umana, è così spesso intrecciata, questa cugina della poverella di Casamari ci aprirebbe un campo assai largo, da fare considerazioni forse non inutili pe’ lettori. Questa donna già sì orgogliosa, sì vendicativa e, diciamolo pure, sì fieramente spietata di Pellegrino e del sangue suo, ch'ella avea trabalzato nel fondo della miseria: questa donna già cotanto invidiata nell’auge della fortuna, cotanto superba del suo nobile sposo, cotanto lieta di una prole bellissima che era ogni amor suo, tanto corteggiata, tanto avvenevole, tanto ricca che nuotava nelle delizie: questa medesima donna, ravvolta presentemente in gramaglie ch’ella non ismetterà più, perché vedova del marito e orba de’ due suoi figliuoli, raminga pel mondo in cerca d’un clima chele addolcisca gl’immedicabili dolori d’un male che non ha nome, in preda ad una tristezza che non cede a conforti, rósa dal dente di un rimorso che non le dà tregua, affamala di felicità non ostante la opulenza del suo patrimonio, e accorsa ora di lontanissimo in Roma, nella casa di un ignoto, a palpitarvi, a gemervi, a spandervi lagrime d’ineffabile tenerezza sopra l’orfana fanciulla di quel Pellegrino, che ella s’era dilettata di calpestare, d'impoverire, di annichilare; questa così fatta donna, esempio vivo e spirante dell’instabil essere delle cose che passano, sembra a noi che fornirebbe copiose anella per una catena di aurei documenti, la quale porterebbe il pregio di esser composta. Ma non avendo noi qui spazio di fare una tale composizione, pregheremo chi legge a farla egli da sé con ogni suo comodo; e noi, paghi di avergli indicata questa bell’opera, ci affretteremo di riprender in mano il filo del racconto.

Nel mezzo tempo andato, fra l’arrivo della giovinetta Maria Flora e quello di cotesta dama sua parente in casa del nostro Traiano, questi non era già stato ozioso: ma a convenevoli intervalli aveate spedite lettere, per farla avvertita dei casi dello sventurato cugino e dell’abbandonamelo dell'orfanella sua figlioccia, ridotta a non avere più alcun rifugio nel mondo, salvo che la carità di lei. E nell'indirizzarle queste prolisse lettere, che erano quasi per intero l’una copia dell’altra, egli si era attenuto ai ricapiti somministratigli da Pellegrino. Intanto però che si stava nell’aspettazione di una risposta che non veniva mai, le angustie si dell’ospite giovinetta, come di Traiano e di Maddalena, erano grandi; a cagione segnatamente di quello spirito turbolentissimo di Flaminia, la quale, con le sue perfidie, metteva in croce la buona fanciulla, e in soqquadro tutta la famiglia.

Noi toccammo del termine a cui erano giunte queste vessazioni, sopra le quali non ci piace di essere troppo particolari: ma basterà il ripetere che effettivamente riuscivano affatto affatto intollerabili alla innocente perseguitata, contuttoché ella fosse così mite per tempera di natura e così riguardosa per isquisitezza di civiltà. Quella poverina poi tanto più amaramente se n’affliggeva, quanto che ben capiva d’esser ella occasione involontaria di continue baruffe, di rimbrotti, di scandali e di scene disgustosissime ira la intrattabile figliuola da un lato, e il padre, la madre e la piccola sorella dall’altro. Ma senza prò. Conciòssiaché tutte le ire e lutti i risentimenti di quella proterva, sempre si scaricavano contro di lei. E non a parole soltanto, sì bene a falli: ché non di rado la schiaffeggiava, la batteva co’ pugni e, non potendo peggio, le si avventava sopra e, quasi rabbiosa tigre, con morsi e graffi le lacerava il collo e le braccia o svellevate i capegli. E la paziente, non che pensasso a difendersi da tali sevizie, ma con le lagrime agli occhi si contentava di supplicare la manigolda, che almeno non la percotesse e graffiasse nel volto; acciòcché le visibili graffiature non facessero andare sulle furie il padre, e incollerire la madre: la quale s’era posta davvero a rendere pan per focaccia alla bestiale figliuola, ogni qual volta si accorgeva che’ ella avesse malmenata Maria.

Per questo aggravamento di pene d’animo e di corpo, avvenne della tapina, affranta già da passioni sì agre e diuturne, quello che potessi prevedere: cioè ch'ella cadde in una debolezza notabile di tutte le forze, e in frequenti deliquii che si studiava di occultare con ogni sua maggior diligenza. Ogni dì più ella si sentiva mancare. A niuno però ardivasi di scoprire questo suo affievolimento, che le ingenerava un mal essere inesplicabile di tutta la persona, per tema di non parer fìsicosa. Tuttavia presto all’indebolimento e ai deliquii tenne dietro una sottil febbricella, la quale cominciò riarderle il sangue, addolorarle il capo e infralirle i nervi per modo, che non si reggeva in piedi, e seduta non trovava postura che le si confacesse. Di che ogni momento doveva intermettere il lavoro: e inoltre ell'era in una smanietta perpetua, che le bisognava uno sforzo eroico a dissimularla. E niente di meno fece questo sforzo, e si portò indosso la febbre e la seppe nascondere due giorni: e l’avrebbe nascosta qualche altro tempo, se Maddalena, ita per sorte nella sua camera, non l'avesse colta nell’atto di uno sfinimento che la fece rabbrividire. In vederla traboccata giù dalla sedia, con la testa appoggiata alla spalliera di un prossimo canapè, con le guance smorte, gli occhi semispenti, un bracciò spenzoloni e l’altro puntato nel pavimento, essa mandò un grido e tosto le si chinò sopra per sollevarla. A quell’urlo corse la fantesca, corse Traiano che stava nel suo scrittoio, e corse anch’ella Flaminia. — Ah, povera creatura! sciamò la donna posandole una mano in fronte, mentre la rialzava per collocarla nel canapè; scolta che ella sembra un fuoco rovente.

— Dio buono, che febbre! soggiunse Traiano lutto spaurito dopo toccatole il polso; qui ci vuol il medico; presto! mettetela in Ietto e si chiami subito il medico.

Flaminia era diventata bianca bianca come di carta, e avea l’affanno; e guardando il sembiante incadaverito ma placidissimo di Maria, le veniva il singhiozzo, e poi tremava tutta e con gli occhi umidi ed accesi e con un vocino fioco e appannato: — O Dio! mamma, che sarà? chiedeva alla madre che era affaccendala in preparare il letto.

—Ah, trista! che sarà? tu l’hai fatta ammalare, brutta... uhm! or sei contenta? Va, non restar qui con le mani in mano a farmi le smorfie; corri a prendere l’aceto de’ sette ladri e bagnagliene le tempie e le narici. Via, figlia, detti attorno anche tu. Uh, povera Fioretta! chi sa da quanti giorni si doveva sentir male, e non mi diceva nulla.

La figliuola andò e tornò con la boccellina dell’aceto. Poi assisasi allato della svenuta, le alzò delicatamente la testa, se la recò in seno, la mirò e rimirò in volto con guardo di atterrila compassione; e in quella che, sturata la boccetta, gliel’apponeva alle nari, presa da un impeto di cuore, s’inchinò a baciarla e a ribaciarla in fronte, e sospirò e pianse; e le sue lagrime gocciòlavan bollenti sulle gole languide della poverella, il cui capo alienato da’ sensi ella tenevasi stretto in grembo. — Sì eh? adesso piangi? la rimproverò Maddalena; queste son lagrime di coccodrillo. Ci vuol altro che piangere! ah Vergine mia santa! quasi che io non te lo avessi detto e ridetto centomila volte, brutta fastidiosa, che tu avresti finito con farla schiattare questa innocente! Dio te lo perdoni: ma se ella ci muore, tu ne sarai in colpa; tu, capisci? tu; e per te, se vuoi salvar l’anima, non resta che chiuderti in un convento a far penitenza tutta la tua vita. O si, va, seppellisciti davvero tra le cappuccine; e possa io perdere il lume degli occhi, se verserò una sola lagrima per dispiacere di te! Oh, l’ingrata! io non so proprio chi mi tenga, ch’io non li scagli contro tutte le maledizioni che può dare una madre a una figliuola assassina! Il che udendo, Flaminia scrosciò in un pianto sì sconsolato, ch’ella ne inondava tutto il viso di Maria Flora, e tra i singulti e i ruggiti: — No, mamma; rispondeva pestando de’ piedi in terra; tacete, per l’amore di Dio, e non mi fulminate maledizioni, che io non le farò più male, e vi giuro che le vorrò sempre bene, e l’amerò più di me stessa.

LXVIII.

Un’ora dopo sopraggiunse il medico, e Tu introdotto nella stanza della inferma già colca e appieno rinvenuta nei sentimenti. Ell'era serenissima di aspetto e aveva un riso angelico sulle labbra. Flaminia le sedeva al capezzale tutta infiammala in faccia, e con le vestigie ancor fresche del gran pianto che avea versato. Il dottore le fece il solito interrogatorio, e quando intese la fanciulla confessargli ingenuamente, che da un pezzetto in qua pativa deliquii: — Sciocchezza a non dirlo in tempo! esclamò volgendosi con gravità a Traiano. Relaxationes spontaneae proximum morbum praenunciant; insegnava la vecchia scuola salernitana; ed è apotemma infallibile.

Sarà cosa da poco; non è vero, signor dottore? gli dimandò Maddalena.

Eh, speriamolo! questo si vedrà. La febbre c’ è; or badiamo a vincerla.

Signor dottore, io non vorrei dare troppo incomodo; gli disse allora Maria; tanto e tanto io so quel che ha da essere di me. Avrei più caro che ella mi ordinasse i sacramenti, che non i rimedii degli speziali.

Che sacramenti? che sacramenti? soggiunse il dottore con nna scrollatina di spalle; non mi sembra che abbia da occorrere di ordinarceli.

Si figuri! incalzò la donna; non è per anco una settimana do io la condussi a fere le sue divozioni.

Niente, niente! replicò il medico sul partire; voi eseguite le prescrizioni e state di buon animo, che non sarà nulla.

Nonpertanto la febbre viepiù ingagliardiva, e il medico era impensierito e la masticava male. Flaminia più la gravità del morbo cresceva, e più si raumiliava, a tale che il terzo giorno ella non sembrava più quella dessa di prima. Non si voleva discostare mai dal letto o dalla stanzuccia della malata; e sempre le era dattorno ad assisterla, a servirla, a vezzeggiarla e soprattutto a chiederle mille scuse di averle usati, senza nessuna ragione, così rei trattamenti, i quali ora le davano un rimorso che non ne avea requie. E siccome la virtuosa Maria si protestava di non avere che condonarle, e la certificava, con candore bellissimo di atti e di detti, dell'amor suo, e (Tessersi scordata di ogni cosa; perciò l'altra addoppiava le dimostrazioni d’affetto; sino a chiedere istantissimamente al padre e alla madre e ad ottenere di far essa le nottate all’inferma; o almeno di dormire nella sua medesima camera, per esser pronta a qualunque cenno di lei.

Ma quando la malattia principiò voltarsi del lutto alla peggio, in guisa che i medici, convocati da Traiano a una consultazione intorno la giovinetta, stimaron prudente che, innanzi il giorno critico della vita di lei, le si amministrasse il sacro Viatico; le ansietà, i terrori, le disperale angosce di Flaminia non ebbero più confine. Ella errava di stanza in istanza dandosi in fronte, traendo lai e battendo palma a palma, con esclamazioni e compianti, che non era possibile di chetare. — Ahimè, che l'ho uccisa io! o povera Fioretta, vittima delle mie crudeltà! Ella tanto buona! ella un angelo! e io sua carnefice! 0 me misera, io sono perduta, io vivrò maledetta come Caino f Dio, misericordia! — E imo’ di forsennata si buttava nelle braccia ora della serva, ora della madre, ora del padre gridando pietà, distrecciandosi le chiome, e ricusando ogni maniera di consolazioni. Sopravvenuto il padre Euschio suo zio, gli corse incontro come una furibonda, gli si prostrò ginocchioni ai piedi, glieli serrò tra le mani, e più coi singulti che con le parole, lo scongiurava che egli, tanto buon servo di Dio, impetrasse dal Signore la guarigione di Fioretta; che ella si obbligava con voto di convertirsi, di chiudersi per otto giorni a fare gli esercizii spirituali nel monastero del Bambin Gesù, a Villa Lante, e di mutar portamenti si che egli non la riconoscerebbe più. — Ma per quanto amate il Signore e la Madonna, deh do mio, fate questo miracolo! beneditela col cordone di san Francesco, con la reliquia della Croce, con quella divozione che giudicate meglio; ma guaritemela, guaritemela! oh si, guaritemela, affinché io non abbia da vivere col rimorso di aver ammazzata queceleste creatura, che io sono indégna di pur nominare! Ricevuto che ebbe il Viatico, da lei chiesto e richiesto già con un desiderio intensissimo, la pia fanciulla, comeché oppressa dalla violenza del male, si fece più ilare e tranquilla che non fosse dianzi; quando, pe’ raccapricci dell’assalto febbrile, penosamente si dibatteva. Flaminia le s’era confitta a sinistra del capezzale e lassa di menar guai e di attapinarsi, le avea posto un bracciò sotto del collo, e slava così riguardandola con infinita commiserazione, e mormorandole parole amorose, conforme le dettava il cuore. Traiano entrò in punta di piedi per salutarla. Maria garbatamente lo risalutò, gli sorrise e aggiunse, che mentre Gesù Cristo era nel suo petto, essa lo aveva pregato mollo per lui e per tutta la famiglia sua: ma che in cielo si riserbava di contraccambiargli i benefizii smisurati, che egli le avea fatti con carità di vero e buon padre. Ai quali detti l’uomo, inteneritosi fino alle lagrime, sentendo che la commozione gli annodava la gola, si coperse gli occhi col fazzoletto e singhiottendo si ritirò. Dietro di lui venne Maddalena tenendo Lucilla per mano, e veniva con l’intenzione di accomiatarsi da lei per l'ultima volta; giacché temevasi ch’ella da un istante all’altro cadesse in delirio, e da questo non si riavesse più, nemmanco nell'agonia. Al parlar pietoso e carezzevole della donna, Maria corrispose con una tenerezza dolcissima: baciò lei, baciò e ribaciò Lucilla, ascoltò alcune grazie che Maddalena la supplicava di ottenerle da Nostro Signore, quando ella fosse nel suo beato amplesso; e promise che avanti si sarebbe dimenticata di sé, che di lei sua seconda madre e benefattrice carissima. Ond’è che Maddalena uscì dalla stanza che non poteva più allenare, tant’era il groppo che le s’era formato alle fauci, per la veemenza degli affetti che l’agitavano.

— E voi, Flaminia, quali commissioni mi date voi pel paradiso? la interrogò l’inferma, tosto che gli altri si furono slontanati.

Una sola; che Dio mi perdoni il gran male che vi ho fatto, come voi me lo avete perdonato. Oh sì! impetratemi questo, e io mi porrò in pace. Voi, ridatemene la sicurtà, mi perdonate di cuore, eh? Ma io non ho che perdonarvi. Voi non mi avete fatto del male; anzi del bene: e se il Signore ha permesso che ci fosse qualche screzio tre me e voi, ciò è stato in pena delle mie colpe. Io debbo chiedere perdonanza a voi.

Delle vostre colpe? ah, voi colpe? vorrei averle io le vostre colpe! Voi, Fiorella mia, siete un angelo, e vi si vede negli occhi l’innocenza battesimale.

Non dite questi spropositi. Ad ogni modo noi ci perdoniamo i nostri mancamenti a vicenda. Or toglietemi una curiosità. Qual ò stato il difetto mio che più vi ha offesa? Crediatemi, che in voi non ho scoperto nessun difetto, e che voi non mi avete recata mai l’ombra di un’offesa.

È impossibile. Voi fingete per timore di farmi noia, e invece h} gusterei assaissimo di sapere la verità.

—Or bene, la verità è come v’ ho dello.

No, Flaminia, questo non può essere. Se io, certo senza volerlo, ma pure se io non vi avessi data cagione di fortissimi dispiaceri; voi mai e poi mai non vi sareste adontata meco. Siate adunque sincera.

Parliam d'altro. Gradireste bagnarvi la lingua con un sorsettino di questo sciroppo di viole? Sì; ma dopo che mi abbiate fatta la grazia che vi domando.

Se. mi amate, non me la dovete negare.

Ma che v’ho a dire, bell’angioletta mia? bugie? 0, mai bugie! la verità, la verità. Perché vi siete sdegnata cosi spesso con me? Questo vi prego che mi diciate.

Perché io sono cattiva, mal educala e senza cuore. Ti basta, Fiorella? ecco la verità. Non mi costringere a dire di più, se no la feccia mi cascherebbe dalla vergogna, e tu n’avresti scandalo inutilmente.

Non mi basta. Voi accusale voi stessa, e io bramerei che accusaste me, e con ogni franchezza di amica mi svelaste i torli che io ho con voi, per potermene pentire: giacché mai non ho avuto tanto lume, che io li conoscessi o gl’indovinassi.

Adunque tu mi vuoi proprio mettere Ira l’uscio e il muro? Sì, per maggior quiete della mia coscienza. Parlate.

Io mi vergogno.

Ma di che? Mi dai parola che terrai secretissimo quello che io ti dirò? I morti non violano i secreti. Io sono più di là che di qua: che temere? Persuadili, sorella mia cara, che io pazzamente ti ho perseguitata, non perché tu me ne dessi appiglio, ma per questa sola cagione, che tu mi facevi invidia. La tua bellezza era il pruno che pungeva questi miei occhiacci maligni. Il sentire tutte le persone che venivano a trovarci lodar te per bellissima, e mia madre far loro i panegirici della tua bontà; sì che tu eri la bella e la buona di casa e io niente; mi empiva l’animo di un veleno, che io non sapeva come sfogarlo. Nella festa poi di san Filippo Neri, allorché udii con le mie orecchie dire dietro a noi che tu eri una stella, e che io scompariva al paragone di te; m’inviperii tanto, che giurai in cuor mio di farli partire, per non avere questo tormento di una rivale che tutti mi preferivano. E non avendo potuto conseguire che te ne andassi, per mera stizza di gelosia ti mal trattava. Vedi, Fioretta mia bella, quanto io sono perversa? Questa è la verità pura: quella medesima che piangendo ho delta al confessore, ier l’altro, quando in chiesa feci le mie divozioni all'altare della Madonna, per supplicarla della tua guarigione. Oh, m’è costato il dirtelo! ma tu accetta questo mio rossore, in soddisfazione di tanti oltraggi con cui ti ho straziata.

Il dialogo non procedé oltre. Ambedue restarono sì confuse, l’ima delle manifestazioni che il pentimento strappavate dalla bocca, e l’altra delle novissime confidenze che ascoltava; che, rotto 3 discorso, pensarono meglio di riabbracciarsi in segno di perfetta concordia, e di seppellire nel silenzio tutto il passato. E noi altresì fàrem punto su questa così schietta rivelazione; della cui contenenza coloro solamente prenderanno meraviglia, che ignorano quale abisso £ frivolezze sia un cuor muliebre vuoto di Dio. E fino allora, tale era stato il povero cuor di Flaminia. Ma or ch'ella fa senno, or che implora perdono dal cielo e dalla terra, or che lo impetra larghissimo dalla stessa vittima delle sue barbare gelosie; e voi che leggete e noi che scriviamo saremmo ben duri, se anche noi non glielo concedessimo; e per prova, non estendessimo un velo sopra queste sue deplorate stoltizie.

Quel giorno sentenziato dai medici come critico per la vita di Maria Flora, trascorse men torbido di quel che i pronostici aveano fatto credere: e quindi la infermità venne grado per grado mitigandosi a tale, che tutti nella casa concepirono ottime speranze del suo ricoveramento. Nè, a scemarle, valeva un reslicciuolo di febbre che le rimaneva pur sempre in dosso, e che non c’ era modo di staccarle, per mollo che l’arte vi si adoperasse. Del che il signor dottore in verità non era senz'apprensioni. Ma le sapeva colorire con sì belle frasi, ch’elle non trasparivano. E per ciò il contentamento di Traiano, di Maddalena e sopra tutti di Flaminia era grandissimo; non ostante che la malata facesse viso d’incredula, e rispondesse ai rallegramenti comuni: — Adagio, adagio coi mirallegri! Non cantiam il gloria, prima che sia finito il salmo.

Ehi ma voi siate benino, siete fuori d’ogni pericolo.

Queste s’ha da vedere, lo non sono ancora uscita di casa coi miei piedi. .

Ne uscirete: lasciale che passi qualche altro giorno, e poi andremo a fare una bella passeggiatina sul Pincio, metà in carrozza e metà a piedi.

Sul Pincio? ah, ah; eccolo il mio Pincio! e indicava gaiamente il cielo con gli occhi; lassù è chi mi aspetta; lassù è chi mi chiama: Io debbo volarci e presto, e presto!.

Tal era la condizione di lei, quando improvvisissimamente arrivò la cugina, per prenderla e condurla seco.


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LA POVERELLA DI CASAMARI

RACCONTO STORICO DEL 1860 E 1861
LXIX.

Un pover'uomo il quale, o per una ragione o per un’altra, sia condannato all’aspro mestiero di scrivere certi racconti, che divertano que’ tali che aman leggere cose che non aggravino la testa, si trova spesso nella condizione medesima di un viaggiatore, che prende sua via per sentieri agevoli, sotto begli alberi fiorili, attraverso campagne dilettosissime e colline ridenti di freschezza, di amenità, di verdura. Ma che è, che non è? Ecco che, passo innanzi passo, egli entra in viottole fuor di mano, che lo guidano a inerpicarsi per erte alpestri e scoscese, e poi lo mettono sull’orlo di precipizi!: per islontanarsi dai quali, gli è d’uopo che e’ s’ingolfi in luoghi silvestri e dentro boscaglie fitte e intralciate, ne’ cui aggiramenti egli si perde ed erra smarrito in qua ed in là; pur bealo, che l’orma di qualche piede umano gl’indichi un’uscita da quella ispida confusione di rovi e di sterpi, di fratte e di callaie. Coloro che hanno molta pratica in questa maniera di viaggi, si vantano di adoperare una bussola che dicono esser per loro come un filo di Arianna, che li toglie da qualsiasi labirinto: e questa bussola è, insegnano essi, l’ordine della cronologia, ovvero del tempo; il qual ordine pretendono che sia la cinosura felice e la infallibile scorta di ogni loro più laboriosa peregrinazione. Or noi, per deferenza ai precetti di maestri così sperimentati e solenni, ci siamo ancora noi, in questo nostro viaggio non tanto breve, studiati di far uso della magica bussola che ci additavano: e per verità non c’incresce de’ suoi servigi. Ma, forse perocché l’abbiam voluta seguire troppo fedelmente, ne è successo questo sconcio, che siamo arrivati dove siamo arrivati, senza più mai raggiungere quell'Otello di Bardo, del quale bisogna pure che andiamo in cerca, e che o vivo o morto lo scopriamo, non fosse altro per un riguardo di umanità. Premettiamo poi quest’avvertenza, sia per iscusarci, e sia perché appunto l’ordine del tempo adesso prescrive che lo raggiungiamo e che, prima di checchessiasi, vi teniamo ragionamento di lui. Il che noi faremo subito e volentieri: ma, al nostro solito, in compendio.

Siccome narrammo, egli, tosto che Guido fu ucciso, da Veroli si era incamminato alla volta di Porto d’Anzio, con animo di penetrare nella città di Gaeta, allora stretta d’assedio, di abboccarvi con Felice e di ritornare subito presso Giovanna, per mitigarle, con le fresche e liete novelle del figliuolo maggiore, il mortale affanno, cagionatole dall'assassinamento cosi barbaro del figliuoletto che era il cuore degli occhi suoi. Disegno ardito, ma non temerario. Stanteché da Anzio a Gaeta remigavano bene spesso, nottetempo e marina marina, burchielli apportatori di lettere e di messi; e per via di queste furtive corse, la regina Maria Teresa mandava da Roma frequenti notizie sue e della reale Famiglia, e ricevea quelle dei conti di Trani e di Caserta suoi figliuoli, e del re Francesco e della regina Sofia, che nei bastioni di quella piazza, difendevano gloriosamente contro gli usurpatori i diritti della corona e l’onore della tradita bandiera di Napoli.

Pervenuto in Anzio, Otello piglio lingua da marinari del Regno, che sempre si trovano in quel porticciuolo per opera della pesca; e non indugio ad accordarsi con un navicellaio, il quale diedegli sicurtà che lo condurrebbe e lo ricondurrebbe in meno di tre giornate. Detto fatto. Una sera fredda, ma bastantemente serena, con tre robusti rematori egli mosse dal golferello di Nettuno; e il leggerissimo schifo, sul quale solcavano terra terra le placide acque, tanto si avanzò, che all’aurora già, rimontato il capo Circello, vogavano per la rada di Terracina. Senonché col nascer del sole, il bel cielo che era e il buon mar che faceva, voltarono in contrario: onde s’ebbe a durare non piccola fatica ad imboccare il porlo della predetta città; nel quale fu necessità mettere in riparo la navicella, ché altrimenti rischiavano di correre a fortuna perduta. Ma poi o fosse che i flutti tardavano a rabbonacciarsi, o fosse timore di una corvetta sarda che mostravasi in ispia delle costiere; fatto sta, che e barcaiuolo e remigatori si rifiutarono di avventurarsi più oltre. Di che Otello, sdegnato che si rompessero in questo modo le sue intenzioni, entro in pratiche con una paranzella di pescatori da Procida, che erano per salpare: e tanto seppe dire a quella bonaria e fedel gente, che, per amore del Re, di cui si paleso loro soldato, gli promisero che lo avrebbero accostalo al lido di un qualche riposto seno, tra il monte Scauro e la foce del Garigliano.

La paranza sferro sotto una gran forza di vento, steso poco men che a filo per poppa: ondechè, colla vela solo a mezz’asta, trascorreva quanto un battello a vapore. Questa volata però menava troppo in alto e lungi dalla riviera: a tale che, sull’imbrunire, i navigatori aveano preso tanto di largo, che, spuntata Gaeta, già erano di rincontro all’isola Ponza. Per lo che ammainarono, e si diedero a bordeggiare. Ma a notte fermali vento cambio e surse un tempo rìgido e nebbioso, che tolse di veduta ogni faro; e poscia si alzo una così sformala burrasca, che il legno, percosso a traverso, non ebbe argomenti da cansarsi dai cavalloni che impetuosissimameote li stravolgeano: e per questo abbocco su l’un fianco, e, senza che à potesse scorgere dove fosse portato, s'andò a chiudere in un ridato di scogli intorno ad un isolotto: e quivi rimase incagliato fino all'alba del dì seguente, in cui venne soccorso. Otello, che non aveva sperimento del mare, contuttoché mai nei campi di battaglia non avesse tremato innanzi ai cannoni e alla moschetteria, pur non di manco in questa fiera nottata provo così sensibile l'orror della morte, che giuro in cuor suo di pigliar terra il più presto possibile, e di non più cimentare la vita nei pericoli di un’altra navigazione. Il perché, aspettato il cessamento della tempesta, spese l’ultimo suo soldo per indurre il padrone di una tartanella, che lo avesse tragittalo nelle vicinanze di Napoli. E così, sbarcato a Sorrento, il nono giorno da che s’era dipartito da Veroli, entrò nella città patria, secco di moneta, stanco, affamato, lacero de’ panni che era una compassione a vederlo.

Incontanente e’ fece capo all’uscio di don Pasquale, suo zio e tutore; e gli si presento in alti e in parole più da mendico supplichevole, che non da nipote e pupillo. Nè le prime accoglienze furono acerbe.

L’avaro uomo gli si mostro di buon viso e facile a ristorarlo si di denaro, come di qualunque altra cosa gli bisognasse: ma al patto che, abbandonala la bandiera del re Francesco, si arrotasse poi in un reggimento di cavalleria piemontese; nel quale egli s’impegnerebbe di farlo ricevere con promozione e vantaggio. Otello adirassi di questa, che egli chiamava proposta infame e da Giuda; e nell’ardore della sua collera soldatesca, non si contenne dal dire e ridire che innanzi si sarebbe lasciato fare in pezzi, che sporcarsi con le assise dei nemici del suo Re e dei predoni del Regno; e aggiunse una litania d'improperii a quelli che egli intitolava assassini dell’Italia. Don Pasquale non si altero punto per questi importuni sfoghi del giovane, e si contento di rispondergli pacatamente: — Va bene, ho capito!

Ma che avea egli capilo costui? Otello se ne accorse il domani, quando fu improvvisamente sorpreso da tre Carabinieri che gl’intimarono l’arresto: — A me? grido egli frugandosi nel petto.

— Sì, a voi: non siete voi Otello di Bardo?

— A me? l’arresto? e trasse fuori una pistola girante.

— Rispettale la forza pubblica! lo sgrido il brigadiere afferrandogli il pugno armato, mentre i due compagni lo abbrancavano pei gomiti.

— Dove mi conducete? interrogo l’altro cedendo la pistola.

— Nella prigione militare di Castel sant’Elmo.

— E perché?

— Per cautela.

— Va bene, ho capito! disse il giovane ancor egli alla sua volta; e prorotto in un pianto disperatissimo, sali dolentemente nel carcero della fortezza. Ma egli non pianse di dolore per sé, o per dispetto che lo zio disamoralo lo trattasse con si inumana perfidia; sebbene pianse e si dolse per Giovanna, per Pellegrino, per Maria Flora, e per le lagrime che la sua lontananza avrebbe lor fatte spandere, Dio solo sapeva con quale misura e per quanto tempo. Questa fu la spina del suo cuore, questo il martirio dell’anima sua, nei lunghi mesi che gli tocco marcire entro le casamatte del forte. O vegghiasse o dormisse, questo era il crucciò, lo struggimento, l’agonia del suo spirito. Col corpo egli gemeva nel fondo di un torrione di Napoli: con la fantasia, era sempre in Veroli, dove stimava che dimorassero quei tre pegni dilettissimi della sua vita; e notte e giorno sognava loro, e sospirava per loro, e si consumava di loro, e smaniava di una implacabile ansietà, che mille e mille foschi presagi gli suscitavano senza posa nella sgomentata immaginazione.

Da prima, per un eccesso di gelosia, egli fu posto allo stretto in un ergastolo, forse il più putido ed oscuro di quella rocca. Ma poi, verso le feste di Pasqua, lo allargarono alquanto: e nel Maggio, per l’intercessione di un uffiziale lombardo che lo piglio a benvolere, ottenne licenza di andare anche libero pel Castello, e di usare con le milizie che lo presidiavano. Tra queste, mescolati a un buon numero di Piemontesi, erano varii Napolitani dell’antico esercito, ed altresì parecchi Romagnuoli, strappati alle loro famiglie e che stavano sotto le insegne sarde, come i bracchi alla catena. Otello si addomestico molto intrinsecamente con alcuni di que’ suoi nazionali, che gli parevano più avversi di animo a’ Piemontesi e quindi meglio disposti a gabbarli; e insieme fece amistà con due Romagnuoli, l'uno di Cesena che avea nome Angelo, l’altro di Rimini che avea nome Saverio; ambedue giovanotti di grandissimo cuore, ma pieni di astio contro i novelli dominatori delle Romagne, e cani e gatti coi commilitoni piemontesi del reggimento: Unità d’Italia!

Con costoro l’amicizia del nostro prigioniero divenne cosi affettuosa, che eglino, per pietà di lui e della sua innocenza, deliberarono di dargli mano a fuggire. Adunque travestitolo con vecchi aiuti da granatiere, e colta un’ora in cui la guardia era fatta da Napolitani co’ quali si erano intesi, preserlo in mezzo, e, simulando di uscire per loro diporto, lo trassero fuori, accompagnaronlo fino ad un nascondiglio ove smise il travestimento, e con lieti augurii e con un regaluccio di cinque lire lo accomiatarono. — Che possiate essere benedetti! sclamò Otello stringendo loro le mani; di certo qualche sant’anima dee aver pregalo in cielo per me! E andossi con Dio.

Questo trafugamento avvenne l’olio Agosto, diciassettesimo giorno dopo l’arrivo della nobile e ricca dama appo il nostro Traiano, e nell’ora che ragguagliatamente era l’ultima innanzi il tramontare del sole.

LXX.

Guardate casi! In quel giorno e sottosopra in quella medesima ora, che Otello di Bardo riusciva in Napoli a deludere la vigilanza de’ suoi nemici, a trafugarsi, a salvarsi; in Roma la strada nella quale Traiano abitava era ingombra di genti, che presso il suo portone facevano crocchi e capannelli, e stavan lì ferme a bisbigliare e in aria di attendere che si appagasse una comune curiosità. Il portone aveva le imposte socchiuse: ma in guardia ci era un cotal pezzo d’uomo barbuto e arcigno di faccia, il quale vietava bruscamente l’ingresso a molli che il sollecitavano: e dove, per tener lungi i profani da quella soglia, non bastassero i rifiuti secchi, valevasi di gomitate, di urti e ancora di una mazza che aveva nel pugno. Costui con grande fatica dava l’adito a qualche rarissima brigatella di signori o di signore, che si accostavano a chiederglielo, perché queste privilegiate persone erano o amiche o parenti della famiglia: e per quell’apertura s’introducevano l’una appresso dell’altra, tacite e non certo coll’andar lieto di chi è ammesso al godimento di una festa. A mano a mano poi che il sole declinava, i pacifici gruppi dei sopraddetti curiosi crescevano, e la turba ingrossava già tanto, che la strada ne ridondava e gli sbocchi dei vicoli n’erano stipali.

— Che novità era questa?

Ah, lettore! volete sapere la novità? Ella era che si aspettava l’apparizione di un angelo, il quale stava per uscire da quel portone; e si aspettava con gran desiderio, conciòssiaché era voce che e’ fosse un bellissimo angelo, degno di essere contemplato da chiunque aveva occhi per gustare bellezza.

Se il burbero uomo, che ne impediva soldatescamente l'accesso, avessevi conceduto di por piede nell’atrio, voi ne avreste trovato il pavimento sparso di verdi foglie di mirto, sino ad una porlicciuola, che era là in fondo a mano manca di un andròncello; e metteva in un’ampia stanza terrena assai laminosa, bene scialbata e di grato aere. Quivi, se vi foste affacciato, avreste veduta l’accolta de’ parenti o degli amici di casa, quali ritti e quali in ginocchio, far mesta corona ad una sontuosa bara fulgente di oro, coperta di bianche stoffe, adorna di freschissimi e odorosissimi cori e circondata da sei torchi di cera, che ardevano sopra altrettanti candelabri di metallo argentato. Che se pian piano vi foste inoltrato anche voi, e fattovi un poco più vicino alla bai a, vi avreste ammirato disteso sopra il bell'angelo, che alla grazia del componimento, alla soavità dei sembianti, al candore dei veli, alla fragranza che tramandava, vi saria proprio parso cosa di paradiso.

— Ma e quest’angelo, chi era egli adunque?

Oziosa dimanda! Voi già, con uno di quei presagi che non fallano mai, avete indovinato chi fosse: e ancora ce ne interrogate? Piuttosto lasciate che seguitiamo a narrarvi tutto ciò che avreste veduto e udito, se allora vi fosse avvenuto di essere in quella stanza.

Approssimandovi a quella bara, che por l’adornezza rassomigliava ben più ad una nuzial pompa che ad un funereo cataletto, l’occhio naturalmente vi sarebbe subito corso al volto della gentilissima verginella, che vi giaceva sopra esanime e supina. E voi all’aspetto di quelle fattezze così pure, terse ed inalterate; di quel dolce sorriso non potuto spegnere dal ferale soffio di morte; di quelle grandi e alabastrine palpebre, chiuse come ad un placido sonno; di quella fronte gelida, ma serena e vagamente inghirlandala di fiori d'arancio; di quella nera e lucida capigliatura, che le calava giù ad anella per gli omeri; voi vi sareste sentilo preso da un riverenziale stupore, misto ad un senso di tal inesprimibile compunzione, che sarestevi inginocchiato, e anche voi avreste sciamalo in cuor vostro: — Ah, questo è un serafino di Dio!

La virginal salma di Maria Flora posava su di uno strato di seta cappa di cielo a trapunto, seminalo di stelluzze d’argento, di gelsomini e di rosette di Francia. Tutta la persona avea rivestita di un garbatissimo abito di merletto bianco, assettato con bell’acconcezza di pieghe, serralo alla vita da una cintura di velluto cilcstre con fermaglio di rubini; e dal capo scendevate per le spalle un manto di simil merletto, stendentesi fino ai piedi, i quali avea calzali da pia

Belline di raso niveo, coi nastretti vermigli. La lesta di lei si appoggiava ad un guanciale di ermesino biadetto a frange e nappe doro: dal collo pendeale, ravvolto a tre giri, un rosario di cristallo di rocca in filigrana di argento, e la medaglia dell'Immacolata Madre di Dio, tutta di oro, le brillava a mezzo del petto, sopra un nodo di lucentissimi zaffiri. Le mani teneva piamente composte sul seno. Con la diritta stringeva un piccolo Crocifisso di madreperla; con la sinistra un giglio: ed ai polsi aveva due gemme d’acqua marina legate da sottilissimi fili d’oro, che davano mirabil vista a quelle sue dita fine che pareano falle al tornio, e candide quasi avorio. Agli angoli della bara spiccavano grossi mazzi di fiori a piramidi, ciascuno dei quali terminava con magnolie che spargevano un olezzo dilicatissimo; alle sponde festoncini di ellera e di rose; appiedi una corona di camelie bianchissime.

— O quanto è bella! quanto è carina! esclamavano lì intorno gli astanti; la direste una vaga sposa nel dì delle nozze.

— E così è veramente! replicava il padre Euschio; quest’anima intemerata celebra ora nel santo paradiso le sue nozze con l’Agnello di Dio: ell'è sua sposa, e i cori degli angioli adesso la festeggiano. Fortunata creatura! Piacesse al Signore che toccasse anche a noi la sorte di morire come lei!

E mentre queste cose dicevansi a voce sommessa, avreste vedute schive donzelle e paurose bambine appressarsi animosamente a quel feretro, vagheggiarlo a parlo a parte, fissare con occhio tra divoto e compassionevole il viso della morta fanciulla, e chinatesi apporre le labbra alle sue mani, e imprimervi baci amorosissimi; e poscia gittare un sospiro, asciugarsi una lagrima e sussurrare fra loro: — Beala lei!

A un canto di quella stanza, dirimpetto alla bara, avreste veduta Flaminia, assisa in uno sgabellctto, gemebonda, pallida, con le mani incrociate sulle ginocchia, col guardo immobilmente rivolto nella faccia di Maria Flora, stare assorta, quasi fosse di marmo, in un’angosciòsa contemplazione, dalla quale non valevano a stornarla né i saluti delle amiche, né i carezzevoli conforti delle compagne. Ella era mula, era sorda e sembrava eziandio cieca. Non risalutava, non rispondeva, non ponea mente a chi che si fosse; non faceva allo, gesto, moto, che non significasse accoramento sconsolatissimo.

Di dietro, a un altro canto, era Maddalena intorniata da un circolo di conoscenti, con cui s’interleneva a parlare. Ancor essa era trista e rammaricata; ma l’afflizione sua era soavizzata da un sentimento di religiosa pietà, che le rendea piacevole il favellare della invidiabile morte di questa giovinetta, ch’ella molto semplicemente paragonava ai transiti più felici delle sante Vergini, le istorie delle quali aveva imparate nel leggendario.

LXXI.

— Di grazia, il signor Traiano, dov’è egli? si avvicinò, a interrompere i ragionamenti di Maddalena, un uomo in panni civili e di maniere condite d’urbanità.

— Signor Gaudenzio mio, egli è ito oggi in Civitavecchia con la mia Lucilla, per accompagnarvi quella buona signora santola e cugina della nostra angioletta.

— Ah! ecco perché io non lo incontrava.

— Sì, è partito pochissimo tempo fa. Che vuole? quella povera signora non ne poteva proprio più! Bisognava allontanarla di qui ad ogni patto. C’era a temere che non impazzisse.

— Eh, figuratevi che passione per lei! soggiunse una delle circostanti.

— O Dio! non vi potreste fare un’idea di ciò che quella donna ha sofferto! Si vede che ella amava Fioretta, con un amore che avea della frenesia. Uh, mai non mi sarei immaginato che fosse possibile giungere tanto in là con le tenerezze! Eppure, si, noi madri, d’amore pe’ figliuoli ce ne intendiamo! Sino dal primo giorno che venne, quando il male della ragazza non dava né innanzi né indietro, ella a tutti i costi s’era impuntata a volerla condurre con sé nell’albergo. Per distornela, fu necessario fare intervenire il medico, il quale dichiaro netto che, se si movea la malata dalla sua stanza, egli se ne lavava le mani, e non faceva sicurtà degli effetti che ne seguirebbero. Allora ella si rassegno a lasciarcela, ma a condizione che potesse abitare con noi, e vigilare il giorno e la notte la sua cara figlioccia. E noi, era da presumersi che le avessimo detto di no?

— Nè manco per burla! riprese un’ascoltatrice.

— Il signor Traiano e la signora Maddalena; aggiunse Gaudenzio; hanno un appartamento che può starvi d’alloggio anche una...

— Modestamente, da pari nostri, si sa, abbiamo ciò che occorre. Non credeste però che quella gran dama avesse troppe esigenze. Oibò! Noi le offerimmo tre camere, tutte ammobiliate con un certo lusso; insomma le migliori di tutta la casa. Ella ne accetto una sola: e poi in ultimo, quando Fioretta peggiorava, fummo costretti di acconciarle un letto nella stanza della giovane, perché non ci era più modo di strapparla dal capezzale di lei. Che diligenze! che tinozze! che spedienti di nuova invenzione strologava ella di contìnuo, per salvare quell’amabile creatura! Era un perpetuo va e vieni della sua carrozza, per mille commissioni di medici e di medicine, di barattoli, di delicatezze che noi neppure ci sognavamo. Ell’ha speso un tesoro! e diceva che, per guarire questa figliuola, era contenta di buttar via diecimila scudi. I tridui, le novene, le messe che faceva celebrare, non sono da contarsi. In due settimane ha radunati otto consulti; e quasi sempre di medici nuovi. Oggi era un tedesco, posdimani era un inglese. Or voleva tentare l'omeopatia: ora quell'altra cura, come la chiamano? basta, è un certo nomaccio! E poi non ha chiamato col telegrafo un dottore francese, il quale è venuto apposta, ed è arrivato in punto per dichiarare spedita affatto l’inferma?

— Ma, in sostanza, che malattia era la sua? dimandò un’amica.

— Hum! ne sapete voi nulla?

— Io? no.

— Tanto ne so io, e altrettanto ne hanno saputo i medici, con tutto che si sieno spremuto il cervello per indovinarla. Nessuno però dubitava, che non fosse una consunzione rapida rapida degli organi vitali; e pare che la sede del male fosse nel cuore. È inutile farci sopra lunarii. Senza un miracolo, quel bell’angelo non poteva più vivere in terra: che serve accusare i medici?

— Beata lei! sclamò una buona vecchierella tutta commossa; ell’era un frutto maturo pel paradiso; e Dio se lo è colto.

— Non c'è altro a ridire; incalzo il signor Gaudenzio;

Quel fior che è caro al ciel, giovin si mietei

— Giovane più cara al cielo di questa Fiorella, io non saprei divisarmela. Ell'ha fatta una di quelle morii, che non c’è santo al mondo, il quale non gliela invidiasse. Il padre Euschio mio cognato, che l'ha assistita con una carità rara fino agli estremi, si protesta di non aver mai veduto altri fare una morte simile, nemmeno tra i suoi fraticelli, che pure ne muoiono tanti che sembrano san Luigini. Egli dice, che quell'anima dev’essere volata ritta ritta nelle braccia di Gesù Cristo, come una innocente colomba; e che il purgatorio essa non l’ha toccalo davvero! Già, poverella! del purgatorio ne ha fatto tanto in questa vita, che sfido io a farne di più!

— Basta guardarla! soggiunse una di quelle che l’ascoltavano; la sola sua faccia mostra ch'ella è una predestinata. Chi ha mai veduto un cadavere più grazioso di questo? A me la mi par più bella morta che viva.

— Eh, il lume degli occhi, le manca! ripiglio Maddalena tergendosi i suoi che gocciavano; se quel paio d'occhi, che non aveano i compagni, fossero aperti e rilucessero, oh ancor io la direi quasi più bella moria che non era viva! Ma quegli occhi si sono spenti, e ora son chiusi; e glieli chiudemmo, il destro la sua santola e il sinistro io. Ah quegli occhi sono chiusi, e per sempre! E qui Maddalena sbotto in singhiozzi, che provocavano a lagrimare quei che la udivano.

— Per altro, quel sentor di vermiglio che le è rimasto nelle due guance, quello è cosa artificiale, è belletto; non è vero?

— Niente affatto! è color suo naturalissimo. 0 che credete?

— Pare impossibile!

— Noi non le abbiamo aggiunto altro abbellimento, che il vestiario voluto dalla sua cugina; ma che costa una moneta, sapete?

— E a chi andranno l’abito e il manto di merletto, e quelle gioie cosi preziose?

— A chi? resteranno a lei.

— Come! la seppellite con indosso quella bagattella di roba?

— Tal quale. È ordine espresso della signora, che, dopo trasportato in chiesa, il corpo sia rinchiuso in tre casse alla presenza di quattro testimonii, e sigillato: e vi s’ha da porre cosi vestita com’è ora, e non le s’ha da levare nemmeno un filo.

— Cotesti poi sono scialacquamenti inutili; proprio capricci di signori! Meglio era spendere per suffragio dell’anima sua.

— Ebbene, questa considerazione si fece fare alla dama: ed ella che rispose? rispose che i merletti e le gioie non potevano esser adoperate meglio, che a custodire le ceneri di una beala.

— Questo è un argomento che non ha replica; disse un abatino che era della brigata.

— Tanto più; seguito Maddalena; che pei suffragi ella ha fatte disposizioni larghissime. Oltre il funerale, che si celebrerà domattina e splendido, ha lasciate limosine perché si dicano mille messe nel termine di trenta giorni. Avrebbe ancora desideralo di erigerle un monumento nel cimitero. Ma Fioretta non acconsenti, e supplico d’essere collocata sotterra senza un’ombra di distinzione: e se lo fece promettere; dando per ragione, ch’ella amava un sepolcro uguale a quello di suo padre, di sua madre e de’ suoi fratelli, i quali giacciono in povere fosso e col semplice ornamento di una croce di legno.

— Che nobiltà di sentimenti, e che virtù sublimi, in una donzella didiciassett’anni! A quel che pare, essa dovea trattare della sua morte, come noi di fare una gita a Frascati o una cenetta alla vigna, no?

— Lo stesso per appunto. Dacché la si mise in letto con la febbre, non discorreva più d’altro che di andare in paradiso: e ne ragionava con una sicurezza e un’aria di giubilo, che i medici e noi n’eravamo trasecolati. Sembrava addirittura ch’ella n’avesse avuta rivelazione. E io, interrogatone il Parroco, m’intesi dire che certe anime straordinariamente buone, alle volte ricevono da Nostro Signore questo privilegio, di presentire il loro vicino passaggio all’eternità; e che egli non dubitava nulla che Fioretta fosse di questo numero, stantechè Dio l’aveva guidala per una via d’insolite tribolazioni, da lei sopportate con pazienza insigne; e concludeva, che questa figliuola era una di quelle secrete vittime che il Signore elegge e prepara a grandi sacrifizii, per gli altissimi fini della sua giustizia e della sua misericordia; e che queste creature ignote agli uomini, neglette e spregiale, son quelle che disarmano l’ira di Dio, il quale, in grazia di loro, sostiene questo mondaccio scellerato e non lo svella dai fondamenti, in pena di tante colpe che tutti vi commettiamo. Che ne giudicate voi, don Michelino?

— Giudico che il signor Curato parlava a meraviglia bene; riprese il giovine abate. Non bisognava meno di tanto, per fare di una tenera e debole ragazzetta una colonna di fortezza cosi divina. Ci bisognava una elezione non ordinaria.

— Uh Gesù mio buono! sclamò allora una mamma che avea seco due bamboletti, dei quali uno lattante; non c’è proprio altro che i grandi sacrifizii che ci possano aiutare a salvarci. E questa angiolina, chi sa quanti n’avrà dovuti fare!

— O, ditelo a me! ripiglio Maddalena. I sacrifizii che ha fatti, sono cose che meriterebbero d’essere stampate. Umanamente parlando, ella era nel colmo della sua fortuna. La santola se l’adottava per figliuola, e la costituiva erede di un grosso patrimonio. Quanti castelli in aria fabbricava sopra di lei quella povera dama! Fiorella era promessa ad un nobile giovane uffiziale dell’esercito napolitano, suo fratello di latte, del quale da forse otto mesi non si sono più avute notizie. Or bene quella signora godeva di lusingarla che, appena guarita lei, sarebbero andate a cercarlo insieme nel Regno; che lo avrebbero trovato; che subito si sarebbero impalmati sposi; e poi avrebbero viaggiato, e poi sarebbero tornati in Roma nel Maggio, per fare le nozze, e poi sarebbero passati in una bella villa in Francia, e poi in somma almanacchi senza fine! Ma quell’animuccia di Dio, che si era distaccata da ogni affetto terrestre, la riguardava sempre con un certo riso e con una tal mossa d’occhi, che avrebbero disingannato non so io chi. E ciò non bastando: «Zia mia cara; le rispondeva lisciandole le due mani; perché illudervi? Io mi sento invitata ad altre nozze, ad altri viaggi, ad altre ville. Lassù, lassù, capite? Non mi fate dissipare la mente. Io non posso guarire, ma debbo salire lassù, e per questo non voglio pensare ad altro. Ad Otello penserò in cielo, e colà penserò anche a voi; e quando l’ora vostra sia venuta, non dubitate che scenderò ad accogliervi in compagnia dei santi angioli.» E la dama, in udire queste parole, si distruggeva In lagrime, si affannava e se la serrava tra le braccia, con una veemenza d’amore e di dolore, che noi temevamo non la soffocasse. Obi che scene!

— Scene che ad assistervi, io mi sarei sentito schiantar il cuore; disse il signor Gaudenzio stropicciandosi le ciglia col dorso di una mano.

— E sì, che noi penavamo poco a starci presenti I Buono però che quella dama, grazia sua, mi ascoltava e si lasciava persuadere dalle mie ragioni! Di fatto come fummo all’ultimo punto, quando la moribonda era sullo spirare, se non fossi stata io, chi sa in quali furori sarebbe trascorsa! Maio tanto mi adoperai, che la potei quietare. Ancor ella s’inginocchio presso al letto, e rispondeva con noi alle orazioni degli agonizzanti, recitale dal padre Euschio.

— Dio! che angustia a vedersela morire sotto degli occhi! mormoro l’abatino.

— Eppure, don Michelino mio, sappiate che l’angustia fu minore che non credevamo. In quel momento che la nostra angioletta comincio ad agitarsi, a sorridere, a dimenare le mani come se tripudiasse, ci rizzammo tutti con meraviglia: e mentre il padre Euschio le dimandava: «Figlia mia, che hai»? e le accostava il Crocifisso alle labbra; ella inchino un tantino il capo sopra Gesù Cristo, mando un sospiro e rimase immobile e con la bocca composta a quel suo bel sorrisetto. «È passata!» disse il cognato mio, e si mise in ginocchio. A noi non parea vero. Me le feci sopra, la scossi, la chiamai: ah, pur troppo, era morta!

La donna, che era in vena di continuare queste patetiche descrizioni, sospese di colpo il suo dire, per l’ingresso di due chierici in cotta, i quali annunziarono che ecco il clero e le fraterie per levare il cadavere. Maddalena muto colore, si alzò, corse a Flaminia e strappandola di forza: —Vieni; le grido con alterazione vivissima; vieni a dare un’ultima occhiata a Fioretta, ché ce la portano via. Presto, e montiamo su subito.

La giovano balzo in piedi, e ruggendo smaniosamente si avvento In compagnia della madre sul feretro, e con lamentosissimo pianto saluto e abbraccio la mortale spoglia di Maria Flora. — Anima benedetta, va in pace e prega per noi! disse Maddalena, e la bacio in fronte. Dopo di che e madre e figliuola, gittando gagliardi singulti, si allontanarono da quella camera, in cui già entrava la Croce della parrocchia, seguita dal Curato e dai sacerdoti.

Indi a poco, l’atrio risono di una flebile salmodia, ripetuta a coro dalla fila delle confraternite, che si distendevano in processione lungo la strada. Il popolo faceva ressa alla porta e sordamente romoreggiava. Ma tosto che il funebre convoglio prese a muoversi, l’ansia, la calca e l'affollamento delle turbe sovraccrebbe fuor di misura. Finalmente la bara spunto di sotto l’arco. La folla, all’apparire di quella così leggiadra pompa, si premeva, si urlava, tumultuava, levava un frastuono cupo, lugubre, confuso. Tutti voleano avvicinarsi, ed ammirare il bell’angelo di Dio. Allora Maddalena con Flaminia e alquante amiche più intime, sporsero il capo dal balcone, per rivedere anche una volta le sembianze della lor compianta Maria. X veli e le inanellale chiome della speciòsissima vergine, portata nel cataletto quasi a trionfo, in mezzo dei fiori e dei cerei, ondeggiavano mollemente, pel trarre di un zeflìro che parea scherzasse con lei, come con una rosa di primavera.

— O benedetta, va in pace e prega per noi! replico Maddalena guardandola con uno sgorgo di lagrime, che dalle sue ciglia piovvero come gemme sul viso di Maria Flora; e voltatasi, allargo le braccia e sostenne la figliuola, che a quella vista sentivasi venir meno, e si ritiro dentro.

Se il trafugamento di Otello di Bardo, che allora allora compievan dalla prigione di Sant'Elmo in Napoli, si fosse compiuto due mesi prima, l'intreccio di questo nostro luttuoso racconto si sarebbe sciolto in modo forse più consentaneo ai secreti desiderii di qualche lettore. Ma la Provvidenza dispose altrimenti. — Di certo qualche sant’anima dee aver pregato in cielo per me! aveva sciamato egli, salutando i due che lo avevano liberato. Ah, chi fosse stato lì a dirgli, che questa sant’anima era la sua Flora, la quale in Roma e in quel momento medesimo, veniva trasportata in chiesa, con le pie ed onorevolissime esequie che abbiamo descritte, l'avrebbe egli creduto? Eppure, passate due settimane, non che il credesse, ma ne vide cogli occhi suoi la prova più funestamente incontrastabile che e' potesse vedere: e fu l’umile tomba di lei, sopra la cui croce trovo una corona di amaranti e di elicrisi, che formavano questa iscrizione: Maria Flora in pace + 7 Agosto 1864.


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LA POVERELLA DI CASAMARI

RACCONTO STORICO DEL 1860 E 1861
LXIX.

All’oriente di Roma, circa mezzo miglio fuori della porta tiburtina, la strada consolare, che anche oggidì mena a Tivoli, sbocca improvvisamente in una solitaria valle coronata di poggi, a un cui lembo sorge un’antica basilica, la quale è tutta intorniata da un largo muro di cinta e da un gruppo di novelli edifizii, che biancheggiano tra la verdezza del sito e il bruno aspetto della sua faccia, de’ suol fianchi, della sua torre. La valle è il Campo Verano, luogo di piissima nominanza per essere sovrapposto alle catacomba di Ciriaca e d’Ippolito, ove hanno pace le ossa d’innumerabili cristiani de’ primitivi secoli della Chiesa. La basilica è quella eretta da Costantino Magno ad onore del levita san Lorenzo, nella quale riposano, con le sue, le reliquie dei corpi del protomartire Stefano e di un esercito di beati. Il gruppo degli edifizii chiuso dalla muraglia è l’odierno cimitero del popolo romano: terra benedetta, perché ogni sua zolla è commista con le polveri di un Santo, ogni suo fil d’erba è nutrito dal sangue di un eroe di Gesù Cristo.

Lettor gentile, vi rammentate più di quei due amici, de’ quali vi riportammo un certo dialogo, per introduzione a questo racconto? Or bene, un sei o sette giorni dopo che aveano avuto insieme quel cotal dialogo, e fu la sera d’Ognissanti, i medesimi due amici, vaghi di fare ancor essi, come si costuma la vigilia de’ Morti, una visita

al cimitero, s’incamminarono verso la predetta basilica di san Lorenzo fuor delle mura, e lungo la via s’imbatterono in una turba di gente che, o a piedi o in carrozza, vi conveniva o ne ritornava. D cielo era fosco, torbido e fittamente coperto di un nuvolato, il quale, al soffio rabbioso dello scirocco, si abbassava con un piuttosto accennar d’acqua che piovere. Ma eglino, per essere tutti intesi in un loro ragionamento di arti belle, non avvertirono gran fatto a questa oscurità dell’aria, se non quando giunsero all’aperto della valle, in cui si alza la severa basilica circondata dal camposanto. — Obi, che tempo cupo e melanconico! non potè a meno di esclamare quegli dei due, che era Italiano, vedendo le nubi distendersi in forma di denso velo, sopra quella ampia tratta di pianicelli e di erte.

— Serata da morti! rispose l'altro che, come sapete, era forestiero. A me però non dispiace, anzi piace; ché ogni cosa va considerata nel suo proprio lume. E qual luce più adatta di questa, per contemplare le bellezze lugubri della morte? Animo, entriamo.

— Le bellezze? ah, voi trovate bella pure la morte?

— E perché no? Io mai non metto il piede in un cimitero, che io non iscopra e gusti di un’armonia singolarissima, tra il regno dei vivi che mi sta di fuori, il regno dei morti che mi sta di sotto, e il regno dei cieli che mi sta di sopra: e quest’armonia pare a me che tocchi l'apice della sua sublime unità, come io guardo alla croce che signoreggia là in mezzo al regno dei morti, mentre allarga le braccia al regno dei vivi e spiccasi con la punta verso il regno dei cieli. Amico, ella è questa un’armonia bellissima che, senza l’elemento della morte, non sarebbe perfetta. Mancherebbe di unità. E in ciò dire, trapassarono il limitare della cancellala, e furono dentro quella parte del camposanto che ne fa da vestibolo.

Ampio è questo spazzo, intercluso in quadro da un muricciuolo, nel quale vedi incassate di molle lastre marmoree, con iscrizioni che invano tenteresti di leggere, poiché rose o dilavate dalla umidità. Per lo lungo, sette a destra e sette a sinistra, corrono quattordici edicole in solida pietra tiburtina, che mostrano dipinte a fresco le stazioni della passione del Salvatore. Pietoso e dolce spettacolo il quale, con esprimere il costo del divin Sangue che ogni anima è valsa a Gesù Redentore, conforta a speranza chiunque, per questo adito, va pregar pace ad alcun’anima sua diletta, presso l’avello che quivi ne custodisce le ceneri! Di rincontro a questo divoto ingresso levansi due grandiosi portici che, con poca eleganza, volgono il tergo a chi arriva: sgarbo di architettura, che è compensato dalla foggia nobilissima di tutta la costruzione, e degli archi e delle volte e delle ben fusate colonne d’ordine dorico, terminanti con capitelli pieni di leggiadria.

Qua vi s’apre innanzi un ripiano assai vasto, sparso a misurati intervalli di coperchioni di travertino, sulle bocche dei pozzi o carnai, che ora, per un rispetto di pubblica sanità, non sono più in uso. E questi coperchi di un colore bigiognolo, sporgenti dal fondo della piazza selciata di negro basalte, danno a tutto quel claustro un tal aere di religiosa mestizia, che voi, a gittarvi l’occhio e a fermarvi il piede, vi sentile fremere di un sacro orrore, il quale vi moverebbe a ritrarne il passo; se un tempietto, che vi si erge di fronte, nitido e gaio come un bel tulipano tra lo squallore del verno, non vi allettasse a inoltrarvi ed a salire in cima della sua sveltissima gradinata. Il che fecero i due amici, dietro la folla che silenziosamente vi ascendeva..

Cotesta vaghissima chiesicciuola, tutta candida nel prospetto e nei lati, che si rispondono con una confacenza squisita, sovrasta ad uno scalère di ben quattordici gradi, il quale intromette in un atrio a portico, sostenuto da quattro colonnine di granito d’Egitto ad ordine ionico, i piumacci e le volute de’ cui capitelli aspettano tuttavia l’ultimo pulimento. La sua facciata risalta con una proporzione che appaga la vista, e finisce con una specie di attico, e poscia con una alzala; nel timpano della quale campeggia la persona del Redentore a pennello, con ai fianchi due angioli che danno fiato alle lunghissime tibie, come in atto di risvegliare dal sonno della morte le umane generazioni, e chiamarle al supremo tribunale di Cristo Giudice. Il fregio porta in lettere cubitali: PIVS. IX. PONTIFEX. MAXIMVS. AN. SACRI. PRINC. XIII.

La grandissima calca dei visitanti che, con segni di fede veramente romana, si prostravano in questo grazioso tempietto, nel quale cantavasi il vespro dei defunti, non consenti ai due amici di osservarne il di dentro per lo minato. Ma vi ammirarono sei pregevoli colonne di marmo, quattro di un verde acerbo detto cipolla, che spartiscono le tre piccole navette, e due di uno scelto coristio, che adornano l’unico altare intitolato a Maria Vergine: DEIPARAE. SOLATRICI. PIORVM. MANIUM. E questa benigna Consolatrice delle anime purganti è raffigurata in una tela, col divin Pargoletto fra le braccia, in attitudine d'esaudire il beato martire Lorenzo il quale, inginocchiato a’ suoi piedi, gliele mostra tutte supplichevoli e inviluppale da cocentissime fiamme, in quella che varii angeli, ad un soave cenno di Lei, ne liberano parecchie dal fuoco e gliele rappresentano in sembiante di pudicissime donzelle, giulive in viso ed estatiche d’amore riconoscente.

— Che vi sembra di quella pittura? dimandò l’Italiano ad Eugenio, mentre che, dopo orato nella chiesetta, scendevano per la scalinata.

— Mi sembra che potrebb’essere più bella.

— Cioè di stile più corretto, vorrete dire; ma non più amabile e divota.

— A far l’amabile e il divoto col pennello in mano, si ricerca molto minore perizia, che a fare l’artista. Il difficile è accoppiare l’arte con l’espressione del sentimento. Per arte, quella pittura non è di mio genio: pel resto, ne giudichino i divoti.

Così dicendo, ambedue torsero a destra e s’introdussero nella camera mortuaria, la qual è sotto il piano della chiesicciuola; e vi s’entra dalla banda opposta alla sua faccia. Anche questo ripositorìo, in cui serbansi i corpi degli estinti prima di seppellirli, è a tre nari. In capo a quella di mezzo si affonda una nicchia, dov’è collocala la statua del Salvatore atteggiato in modo, che pare dirigga le parole: Ego sum resurrectio et vita, ai cadaveri che si schierano lì avanti sopra lettiere di ferro: e tali parole gli si leggono chiaroscurate mi piedestallo. Ma quella serata la stanza era sgombra d’ogni cadavero; ed invece dinanzi al Salvatore sorgeva un gran tripode funerario, e sopravi un lebete con vampe di acquarzente che diffondevano una luce fioca e verdastra.

I due uscirono taciti da quest'anticamera del sepolcro, e conciòssiaché il tempo viemaggiormente si occupava: — Or che facciamo? chiese l’Italiano ad Eugenio.

— Andiamo avanti, e satolliamoci di quest’aria di morte, finché ce ne cape nei polmoni.

— E avanti pure! disse quegli; ma voltiamo da questa banda dietro la basilica, perché ivi è il giardinetto del camposanto; il piccolo Pére la Chaise di Roma.

— Ci vuol altro! per fare di questo cimitero un Pére la Chaise di Parigi, non basterebbero cent’anni. E poi a che prò? Quelle sono profanità che disdirebbero a Roma. Vale più un palmo di questo suolo soprastante alle catacombe, che non tutti i Campi Elisi di Francia, di Alemagna, d'Inghilterra e del Belgio.

— Sì certo; per cristiani, io non so qual terra più sacra di questa si potesse desiderare. Ma un po’ di abbellimento non nuoce.

— Purché sia abbellimento, non travisamento della morte, com’è quello dei cimiteri nostri.

La scala che rasenta la posteriore parte del monisterio, abitalo ora dai Cappuccini custodi della basilica e del camposanto, mette sopra un deliziosissimo collicello, nel crine del quale spianasi un prato ameno per albereti e per decoro di monumenti. La sua pendice è solcata da viali, con di qua e di là tombe svariatissime tra cespi di begliòmini, di mughetti, di acanto o siepi di mortella e di rose, ovvero tra balaustri in legno, in ferro, in pietra. Alcune sono fiancheggiale da cipressino; altre inverdite da salci davidici che vi spiovono sopra i lor delicatissimi ramoscelli; altre ombrate da un pino, da un pioppo, da un’acacia e riparate con una chiudenda ove di sànguine, ove di prunalbo, ove di tamarisco, aggirala da tralci di ipomee o da fascetti di melalenche. Ma in quella sera non poche di queste tombe miravansi ornate di freschi fiori, quali cosparsi in sullo urne e quali intrecciati a corone, con lampanette accese davanti le croci; ed erano omaggi della tenera pietà di amici e di parenti, che ve li deponevano ad onoranza dei cari che ivi entro dormono nella santa pace di Dio. Perciò tutte le stradelle che fendono il dorso della collina erano gremite di visitatori d’ogni età e d’ogni condizione: e dalle lagrime che si vedeano cadere da più di un ciglio, era agevole intendere i pensieri e gli affetti che si agitavano negli animi di que’ passeggianti.

— O, bella davvero questa veduta! disse Eugenio quando fu a sommo del colle; e guardava giù con attonita compiacenza il seno larghissimo della valle, con que’ suoi lunghi filari di alberi semprevivi, e con quell’ondeggiamento del suolo seminato di croci, corso da vie dirittissime che Io ripartiscono in quadrali, e allora splendente di fiaccole che rilucevano da per tutto, tra l’andare e il venire del popolo che vi si avvolgea.

— Noi siamo nel punto più pittoresco di tutto questo gran cimitero; rispose il compagno. Con un sol gitto d’occhio, voi potete discernerne due buoni terzi.

— E l’altro terzo?

— Ci è nascosto dagli scaglioni di questa montata. Sapete voi, che tutto il compreso nel circuito del ricinto, supera i ventisei ettari di terreno?

— Capperi, che ampiezza!

— Per ampiezza, non ha forse l’uguale in Italia. Quanto poi scoprite qui intorno, tutto è opera di un venticinque anni; giacché il Campo Verano fu destinato al servigio di pubblico cimitero nel 1837, dopo le stragi del morbo asiatico. Nel resto troppo sarebbe più sontuoso, se il maggior numero di quelli che muoiono in Roma, non avessero sepolture gentilizie e sotterranei comuni nelle chiese, o altrove per la città.

Ma anche là, sopra quella spianata verdeggiante, l’occhio era invitato a spaziarsi per le aiette e per le cerchiale che, vestile di erbicina finissima, nascono appiè de’ cipressi, de’ faggi, degli abeti, de' lauri e de’ piangenti salici di Babilonia, i quali, con artificiosa disposizione, ingiardinano il prato e fanno mesta ombra ai sepolcri. D bianco muro che va torno torno, è tutto incavato da nicchie ed incrostato di lapide d’un fondo o nericante o grigio, il quale cresce tristezza alla solitudine di quel boschereccio recesso. Or mentre i due amici costeggiavano questa muraglia e considera vano ad una ad una le nicchie co’ loro epitaffi, si abbatterono in una fanciulletta, la quale, tenendo per mano un garzoncello più piccolo di lei, appendeva nna ghirlanda di fiori zolfini all’arca di un tumulo signorile, sormontato da un levigatissimo busto di giovane donna. Il putto sciòltosi incontanente dalla mano della fanciulla, comincio arrampicarsi e incalzava la sorellina che lo aiutasse tanto, che e’ potesse dare un bacio a quel busto; ma per molto che questa si sforzasse di sollevarlo, il poverino non giungeva co’ suoi labbruzzi a quelle guance di marmo. Il compagno di Eugenio, sentitosi impietosire, prese egli in braccio il caro puttino, lo tenne alzato e il fece baciare e ribaciare affettuosissimamente le gole, la bocca e la fronte della gelida effigie; e ripostolo a terra: — Di chi è questo bel ritratto? gli dimandò rassettandogli in testa il cappellino piumato.

— Di mammà; diss’egli con puerile candore e ripianto gli occhi nel busto.

— Ahi, povero bambino, sei dunque rimasto senza la tua mamma! E l'hai tu conosciuta?

Il garzonetto, pur sempre affisando i freddi lineamenti di quella immagine, fece di no col capo e gli venne da singhiozzare. Eugenio, che intanto avea letta l’epigrafe del mausoleo: — Guardate! disse all’altro accennandogli la iscrizione; questa baronessa Vittoria è morta di ventiquattr’anni, ed ha lasciate queste due amabili crcaturelle, Silvia nell’età di diciotto e Pio di sette mesi. Che disgrazia!

— O Pio, il bel nome che avete! sclamò allora quel primo; non siete voi Pio?

Il bambolo fece di si con un capochino, ma non movea punto gli occhiuzzi molli di lagrime dal busto che sembrava rapirlo. — E voi; seguito quegli interrogando la donzelluccia; come vi trovate voi qua cosi soli soli?

— Mo viene il papà nostro, che è ito a portare una ghirlanda di perpetuine al sepolcro dei nonno; rispos’ella tutta rubiconda e con una vociòlina che tremolava. Egli ci ha detto «aspettatemi là presso vostra madre, e io vi alzerò perché la baciate e poi le reciteremo il Deprofundis».

I due erano per separarsi da quella vezzosa coppia di orfanelli, quando effettivamente soprarrivo il gentiluomo, il quale ringraziatili con cortesia del favore fatto ai suo piccino: — Pòveri figliuoletti! esclamo con grande alterazione di tenerezza; hanno perduta la madre che erano in fasce: eppure l’amano tanto, che mi si ammalerebbero di dolore, se io una volta per settimana non li menassi qui al suo sepolcro.

— Se ne consoli; disse il compagno d’Eugenio; ciò prova che Silvia e Pio hanno un cuore degno di lei, signor Barone, e della buona mamma che li ha fatti.

Queste parole furono di un ignoto a un ignoto, e proferite a caso e per cordiale, ma semplice urbanità. Tuttavia, non si sa come, ebbero la sorte d’imprimersi cosi vivamente nell’animo dell’umano signore, che da quel giorno innanzi, mai non si avviene nell’amico di Eugenio, che egli non si fermi a salutarlo, a ricordargli rincontro nel cimitero di san Lorenzo e a dargli notizie di Silvia e di Pio; ovvero a presentarglieli, se li ha seco, perché ripeta a que’ suoi due angiolini che sieno buoni, se vogliono esser degni della lor mamma.

— Presto, caliamo e giriamo una voltata rapida a traverso quella porzione laggiù, e torniameene; ché si fa tardi.

— Doh I abbiamo anche un’ora e mezzo di giorno; ripiglio Eugenio con formolo in mano. Io mi diletto incredibilmente a vedere la religiosità di questo popolo, che s’inginocchia a canto le sepolture e prega con un raccoglimento, che non di più in chiesa. E poi le iscrizioni di queste lapide, come son belle! Che sapore di lingua! che dolcezza di affetti! che sentimenti cristiani! Altro che le smancerie romantiche e le sdolcinature teatrali, di cui si fa tanta pompa nei cimiteri nostri! Qua vi si porgono in latino classico, e piene di formole e di salutazioni, che sono tolte di peso dalle antiche epigrafi delle catacombe. Oh, i cattolici di tutto il mondo, quante cose avrebbono da imparare in questo nobilissimo Campo Verano! I Romani ci fanno la lezione anco morti!

In questa, ecco un gruppo, che sembrava di una intera famiglia, venire a prosternarsi un passo lungi dai due amici, e ad Interrompere lo sfogamento così ragionevole dell’ammirazione di Eugenio. Quel gruppo era di una matrona con due damigelle, in grandi e ricchi abiti da duolo, e di tre giovinetti vestiti aneli’ eglino a bruno. Il cippo, attorno del quale si misero in ginocchio, e che tosto infiorarono di crisantemi ne di amelli, era splendido. L’ombreggiava un salice e lo assiepava una olezzante spalliera di serpillo, di maggiorana e di fieno egizio. Tutti e sei appena prostesi, e deposti que’ fiori argentini o d'un gialletto sbiadito, baciarono riverentemente la terra e risollevata la faccia, la dama e le figliuole abbassarono le nere balze de’ loro cappelli e trassero fuori il rosario. I giovanetti stavano a destra, le sorelle a sinistra, la madre nel mezzo: e immobili, come fossero di pietra, presero ad alternare sommessamente la corona della Beata Vergine, con un tal flebile e lento modular della voce e con un si grave componimento delle persone, che Eugenio arrestatosi non sapea riaversi dallo stupore. Non pertanto i due, scopertosi il capo, si avanzarono quasi in punta di piedi, e sogguardando l'epitaffio si furono accertali, che quella matrona era la vedova e quei cinque figliuoli erano gli orfani dell’uomo, sulla cui tomba offerivano allora tutti insieme un tributo amoroso di lagrime, di fiori e di preci.

— Ben trovato e il buon giorno a voi! disse l’amico di Eugenio dando una stretta di mano ad un tale, con cui si scontro in uno di quei partimenti che si distendono nella pianura. Qual vento propizio vi ha egli portato oggi in questo cimitero?

— Il vento? Eccolo il vento che mi ha portato! soggiunse quegli; e, tatto un gesto pietoso, indico a breve distanza una fossa, con la croce illuminata da quattro lampane e una donzelletta che le slava richinata sopra, cavando da un panierino rose e dalle, con le quali la inghirlandava.

— Ah, capisco! bravo signor Traiano mio! voi siete uomo di cuore. Quella è dunque la sua fossa eh?

— Appunto; là sotto riposa la nostra poverella di Casamari; l’angelo di benedizione per me e per la mia famiglia. Che serve? è già più di un anno che è successo quel che è successo; e nondimeno io, ogni volta che penso a lei, mi sento commovere.

— Questo s’intende, caro signor Traiano. E chi è quella ragazzina, che sta lavorando intorno alla sua fossa?

— È Lucilla, che io ho dovuto per forza condurre meco, benché faccia questo tempo cosi indiavolalo. Non ci è stato modo di tenerla.

— E la signora Maddalena, come sta?

— Bene, grazie a Dio. Ella è rimasta in casa, perché Flaminia si è presa un po’ di raffreddore, o questa per lei non era stagione da uscire a spasso. Ma dentro Lottava, ancor elleno non mancheranno di fare la loro visita al sepolcro di Fioretta; e Flaminia ha già preparato un diadema che è un gioiello, e un mondo di altre cosucce per adornarlo. Uh, che mutamento in quella figliuola! Non si riconosce più più. Ha ricominciata la educazione sua tutta da capo; e non fò per dire, ma sua madre n’è tanto contenta ora, quanto n’era scontentissima prima che accadesse quel ch’è accaduto.

— Me ne congratulo assai.

— Oh si, è una vera consolazione per tutti! Molto più che, dopo ch’ella si è mutata cosi in bene e poi in meglio, quell’angelo della nostra poverella mi ha ottenuta anche la provvidenza che si trovasse un partito per collocarla: e questo non era l'ultimo dei pensieri che mi tribolassero. Ma è un partito coi fiocchi! uno di quei giovinotti, che a’ di nostri sono rari come le mosche bianche. Maddalena ne à fuori di sé per l’allegrezza: e così, a Dio piacendo, nella prossima primavera la faremo sposa.

— In somma, signor Traiano mio, questa vostra poverella vi ha proprio fatta piovere la manna in casa!

— Davvero! e noi le siamo gratissimi, e ogni giorno ne benediciamo la memoria, come di un genio tutelare della famiglia. Io ne ho fatto dipingere un ritrattino ad olio, che è una grazia a vederlo, ma è tutto lei: e non vi potreste figurare le meraviglie che si odono da quelli che vengono nella nostra saletta, dov'è appeso! Inoltre, ve l'ho a dire? Abbiamo trasformata in cappella domestica la camera dond’ella volo in paradiso; e mia moglie ha disposto che l'altarino si dedicasse alla Immacolata. E io, che giova tacerlo? io, quando ho la ispirazione di recitare un’Avemaria un po’ da cristiano, bisogna che entri in quella stanzetta, perché mi sembra di respirarvi un’aria, la quale ha un non so che di odoroso che mi là bene al cuore. Sarà una mia fantasia. Ma io in quella cameretta mi sento un altr’uomo.

— Fortunato voi! In verità mi duole che sia tarduccio, e che io non possa tenere a disagio questo mio amico. Del rimanente, ne avrei delle cose da chiedervi! Ma ci rivedremo con commodo. Or avviciniamoci alla sepoltura della vostra poverella, che ancor io voglio visitare, e intanto ditemi: che ne è di Otello di Bardo?

— Alla fine dei tre mesi che l’ho mantenuto in Roma, e che egli ha passati qui a consumarsi in questo cimiterio, mio fratello Euschio mi consiglio che lo avessi raccomandato a quella dama cugina del

Capitano, acciòcché procurasse ella di trarlo dal pericolo in coi era sempre o d’impazzare per la disperazione, o di riunirsi con la banda che tiene la montagna di Sora. Le scrissi: e n’ebbi in risposta che subito lo avessi fatto andare in Francia presso di lei. Vi andò, e sino a tre settimane fa egli ci era, e stava bene.

— Manco male che gli si & trovato un ricovero!

— E il migliore che si potesse: perché quella signora lo tratta da figliuolo.

— Ed ella, si è poi quietata finalmente?

— Pare che si. Ma per un anno ha seguitato a tempestarmi di commissioni: l’ultima è stata di mandarle una casettina della terra di questa fossa.

I due amici e Traiano vi giunsero a costo, che Lucilla non se ne addiede. La fanciulletta, avendo terminato d’incoronarne la croce con le rose e le dalie, e di smaltarne la colmata con gli astri autunnali e i fiori della neve che avea nel suo panieruzzo, stava lì ritta, con le mani raccolte, col viso basso e in attitudine si mestamente contemplativa, che non battea palpebra. Ma alla voce del padre che la chiamò, si scosse e levo a lui gli occhi bagnati di lagrime, le quali si affretto di asciugare. — Lucilla, e voi piangete? le disse l’amico d’Eugenio ch’ella riconobbe e saluto con un graziosissimo impacciò; e perché? Perché affliggervi della felicità di Maria Flora?

A questa dimanda si fece rossa, le venne un singulto e si nascose la faccia col panierino. Traiano ancor egli cominciò a contrarre le labbra. Per lo che quello, taciutosi, in compagnia dell'amico si pose un momento in ginocchio; e amendue pregarono requie eterna alla bell’anima della vergine che era ivi sotterrata. Appresso rizzaronsi e si accomiatarono dall’uomo e della sua figliuolina, la quale tutta vergognosetta avria pur voluto celare i suoi singhiozzi e rispondere; ma non lo poteva punto. — Addio, Lucilla, voi piangete e Maria Flora ride.

Eugenio, stimolato da una pungente curiosità, piglio subito a premere l’amico suo che, se era lecito, strada facendo gli avesse manifestato il mistero di quella tomba. E l’amico fu sollecito di appagarlo, e gli aperse questo mistero, il quale non era altro che la istoria della poverella di Casamari. — O poffare! sclamò egli, dopo intesane la succinta narrazione; questa incomparabile giovinetta, non è ella forse uno di quei «fiori ignoti» de’ quali disputavamo l’altra sera in quel giardino?

— È, pur troppo! chi sa nulla di lei?

— Ma capperi! e perché non farla conoscere?

— Perché ella sarebbe un fiore pieno di realtà: e voi, non mi dicevate voi l’altro dì, che il mondo di oggigiorno non ama cotesta specie di fiori?

— Oibò! questo è un caso che fa eccezione alla regola generale.

— Lo credete voi?

— Senza dubbio.

— Ebbene, fidandomi del vostro giudizio, sarà mia cura che quest’umile fiorello veda un qualche poco della luce che desiderate.

I due già s’erano inoltrati nella piazza di santa Maria Maggiore, e furono sovrapresi da una forte pioggia che li dovea distogliere da ogni ragionamento, allorché stabilirono questa conclusione. La qua le, a parer nostro, è la più ingenua e storica di quante avremmo potute scegliere, per metter un termine alla storica tela di questo ingenuo racconto. E però non vi sappia male, o lettori benevoli, che facciamo qui fine, pregandovi che ci abbiate per iscusati, se in cambio di ricrearvi con sollazzevoli novelle o con ridenti scene e brioso, vi abbiamo anzi contristato il cuore ed empiutovelo di tetricità funeree e di rincrescimento. La colpa è di Eugenio, non è dell'amico suo: il quale, siatene persuasi, pensava a tutt'altro, che a regalarvi in queste pagine una epopea, che si dovesse compendiare nell’omnes composui cosi lacrimabile di Orazio. Checché ne sia, voi usate la indulgenza di concedere ad ambedue loro il vostro perdono, non fosse altro per un riguardo alle virtù ed agl’infortnnii della poverella Maria; la quale, se la studierete bene, vedrete che era un fiore meritevole d’essere còlto su da terra, anche a costo di alcuna spiacevole punturetta. Chi non lo sa?

Nel mondo non è rosa senza spina.






















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