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PALMERSTON, RICASOLI ED IL REGNO DI NAPOLI

1861

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Ottobre 2019

PALMERSTON, RICASOLI ED IL REGNO Iti NAPOLI

Fino a che una turba di spudorati, sedotti giornali, compri dall’oro della rivoluzione europea, fan mercato di menzogne che per troppo ripetersi son divenute ridicole; fino a che una perversa stampa periodica si piace a versare a piene mani sopra un’ecclissata grandezza la calunnia ed il mendacio; fino a che l’ira concitata di un partito, trionfante per illeciti mezzi, sovverte l’ordine materiale e morale di un popolo, il pubblicista che non parteggia per gli eccessi dell’una, o per i passati errori di un’altra parte, si tace, e la sua penna vergin di servo encomio o di codardo oltraggio sta immobile, e si prepara, cessata la procella, a vergare col fango i luttuosi periodi della storia nostra contemporanea.

Ma quando non da questa venduta stampa o sdegnosa ira di parte, ma dalla tribuna parlamentare o dal gabinetto diplomatico parte la menzognera parola che falsa la storia e reca danno, più che al presente, all’avvenire, tacere è una colpa, combattere e il più sacro dei doveri.

I

Palmerston e Ricasoli, il ministro inglese ed il ministro del Piemonte hanno lanciato nel campo della politica la loro parola, e questa mendace parola rimaner non deve senza risposta.

Il regno di Napoli, il giardino d’Italia, vittima sempre delle straniere contese, invaso da estranei dominatori che toglievano da’ suoi campi ubertosi le messi per i loro sterili ricolti, è in preda da quindici mesi alle più sanguinose commozioni politiche. Invaso tante volte da estranee coorti, dopo lotte accanite, il regno di Napoli conquistava a Velletri una dinastia e la sua indipendenza. Dopo lungo, volger di anni vicende sociali e politiche cangiavano il dritto pubblico dell’Europa, e Napoli riaveva la sua dinastia per brevi anni allontanata; novelle vicende ed inqualificabile invasione tolgono a Napoli un’altra volta dinastia ed indipendenza e lo travolgono negli orrori di spaventosa guerra civile.

L’Inghilterra ha veduto sempre imperturbata, in questo disgraziato paese, che la tempesta abbia infranto tutt’i poteri sullo scoglio delle rivoluzioni, ha veduto spezzarsi i legami sociali, i padri nostri e noi stessi ingojati con subita vicenda dagli abissi, e l’opera della sua interessata politica è stata di aizzare pria la rivoluzione, più ardita poscia la reazione, di aiutare il triste spettacolo del partito oppresso che alla sua volta opprime, il triste spettacolo della vendetta di un meritato castigo. Le accumulate cagioni di sventure, gl’infranti sostegni, le colpe de’ partiti, gli errori puniti da’ delitti, pervertono le intere nostre generazioni coll’arbitrio e le trascinano per timore e per vendetta, per furore o per rimorso oltre il campo sacrosanto della legge.

Una illustre casa di valorosi principi scende in questo secolo dall’altezza in cui l’opera di secoli avevala collocata e dando mano alla più immorale delle rivoluzioni fa cadere nel fango la fama che tante vantate geste le avean fatto meritare. Un governo civile si fa strumento delle demagogiche sette di Europa, e per raggiungere una sognata meta crede infrangere le barriere che vi si oppongono adoperando la corruzione, la perfidia, la menzogna ed il tradimento, quasicché un’opera che si fondasse su tale base d’immoralità potesse sostenersi e non crollare per il germe della corruzione che ha dovuto rimanerle nel seno.

Palmerston e Ricasoli, l’Inghilterra ed il Piemonte, l’istigatore ed il braccio della rivoluzione han falsata colle loro parole la nostra storia, e questa storia di sedici mesi di rivoluzione cruenta sarà la più valida difesa del diritto vilipeso e della giustizia conculcata.

II

Nella tornata del 3 Agosto della Camera de’ Comuni d’Inghilterra il deputato Giorgio Bowyer moveva interpellanza al Ministero sui casi infelici del regno di Napoli ed il Ministero rappresentato da lord Palmerston rispondeva mendaci parole.

«Il governo di Napoli, diceva il vecchio ministro, era, dopo quello di Roma, il peggiore de’ governi, e sarebbe stato il napoletano il popolo più straordinario sulla faccia della terra se non avesse voluto dipendere dal governo sardo piuttosto che dal governo passato».

Nelle discussioni politiche v’hanno necessariamente de’ limiti che preventivamente debbansi fissare affinché non vadasi vagando nel campo dell’infinito e delle menzogne. Se dicendo passato governo il vecchio ministro voglia intendere di far risalire la responsabilità del presente fino alle deplorabili vicende clic, appoggiate all’Inghilterra, hanno afflitto il regno sul cominciare di questo secocerto ei troverebbe ad enumerare molti errori e molte colpe, come ne troverebbe nel governo dell’Inghilterra se risalisse a Fox, Pitt e Castlereagh. Se d’altronde ei voglia, come pare con ogni probabilità, intendere per governo passato l’ultimo brevissimo governo di re Francesco II, il nobile lord si troverà su tutt’i punti del suo discorso in opposizione co’ fatti, in opposizione colla politica seguita, in opposizione colla morale e colla umanità.

Sbalordito dalla morte inattesa del padre, re Francesco II saliva sul trono de’ suoi maggiori circondato dall’affetto di tutto il suo popolo che aspettava con lui un’era di novella prosperità, un veloce sviluppo alle forze vitali del paese.

Pochi giorni appena dopo asceso al trono giovane monarca chiamava a reggere il timone dello stato l’unico uomo che la pubblica opinione del suo paese e di Europa gli additava, il general Filangieri. Ma già la rivoluzione guadagnava in Toscana e nei Ducati le sue vittorie ed il trattato di Villafranca che prometteva all’Italia futuri trionfi veniva spezzato dalla cupidigia del governo subalpino, che nessun potentato frenava. Scossi dalle loro fondamenta i troni di Europa, qual maraviglia destar doveva che il governo delle due Sicilie fosse stato anche esso sbalordito dalla rapidità degli avvenimenti rivoluzionari e sostato avesse nel difficile cammino delle riforme? Travolto dalle esigenze dei tempi e dalla impazienza di solleciti miglioramenti il ministero Filangeri cadeva inonorato, e dava luogo al ministero del Venerando Principe di Cassaro, anche in Inghilterra stimato.

Avrebbe il nobile lord Palmerston colla sua politica sagacia, spogliandosi un momento da privati antichi rancori contro la corte di Napoli, o dalla egoista politica del suo paese, avrebbe potuto mai consigliare a Francesco Borbone di troncare le fila che legavano l’ordine al suo governo ed offerire una costituzione democratica quale il progresso degli avvenimenti gliela avrebber richiesta? Avrebbero i suoi antecessori consigliato a Ferdinando I ed a Maria Carolina di Austria quando ritornavano sul loro trono d’impartire liberissime forme di governo? Perché invece fecero insozzar la fama del vincitore di Aboukir, e più tardi accedettero al colloquio dei sovrani in Lubiana?

III

Il Piemonte, focolare di quanti clementi la rivoluzione europea avea potuto Versar nel suo seno consumava la Violazione del dritto interazionale, autorizzava e spediva nel regno di un sovrano, cui si protestava amicizia, un nucleo di armati capitanati dal generale Garibaldi per riaccendere nella Sicilia una insurrezione che le sole forze del governo avevano spenta, ma che dallo stesso Piemonte era stata preparata ed organizzata.

Riforme, intende perfettamente l’astuto politico inglese, riforme non eran più possibili per un governo che diveniva vittima di un’aggressione che spaventava l’addormentata Europa. Il ministero Cassaro non ebbe che ad organizzar la difesa quando la difesa era vana. Le milizie del re, guidate da inesperti o venduti generali, indietreggiavano innanzi a’ vortici della ribellione, che un ardito colpo di mano rendeva padrona della capitale della Sicilia, la quale dalle milizie reali si abbandonava, solo per risparmiare novelle stragi, ad onta che si fosse potuto spegnere e seppellir sotto le rovine l’invasione e la rivolta. Lo spavento che tali fatti recavano nei consigli della corona, la fidanza nello istigazioni del governo di Francia, in quel momento intempestivo per riforme, decisero il re ad acconsentire alla emanazione del più libero dei programmi governativi. Gli emigrati ritornavano in patria, la costituzione che esisteva nel dritto pubblico dello stato, e che lunghi tristi avvenimenti o indecisa politica avean tenuta sospesa, a proposta del ministero responsabile, ripigliava vigore, un’alleanza s’iniziava col governo del Piemonte.

Ma era vano il concedere quando i tesori della rivoluzione avean compri i primi agenti del potere, quando fra’ più fedeli generali e consiglieri capitanavano perfidi uomini che l’Europa ha coverto di meritato obbrobrio, ed i quali, illecitamente arricchiti, si vendevano alla rivoluzione per legittimare le loro rapine.

Un ministero costituzionale, nel quale entravan puranche malvagi elementi, altro non aveva a fare, che aspettare i risultamenti della fazione guerresca. Il Piemonte rifiutava la lega, con mentite parole protestando sulla sua innocenza. Gli emigrati ritornati in patria avidi di vendetta organizzavano la rivoluzione su vasta tela. Un ultimo tentativo a Milazzo, glorioso per chi vi combatteva e per chi vi comandava le armi napoletane, ma fallito per queste, per i soccorsi che non si spedivano da Napoli e da Messina, dava la Sicilia al Dittatore. Ricusavasi l’Inghilterra d’impedirgli lo sbarco sul continente perché i suoi calcoli le facevan prevedere ricolto di maggior bottino; la Francia dal 25 Giugno al 28 Luglio impediva alle forze napoletane di avanzarsi da Messina facendo sperare che s’impedirebbe a Garibaldi l'andar più oltre, e per tal modo facile adito si apriva alla inqualificabile invasione negli stati di terra ferma, dove generali napoletani nascondevano vilmente lo loro spade sotto l'oro dell’invasore.

Non un grido commosse le provincie che assistevano imperturbate al passaggio delle truppe che si sbandavano ed a quelle del Garibaldi che, se non lo facevano, ne avevano il lurido aspetto.

Non v’era da esitare: combattere e vincere era la speranza di salvare il trono, ed a combattere si apprestava il giovane re nei piani di Salerno, se novelle defezioni de’ più fidi uffiziali che osavano perfino dichiararglielo con audaci parole e con proteste in iscritto, non gliene avesser tolto il volere.

Non rimaneva al re che ritrarsi nelle fortezze di Terra di Lavoro per tentarvi un ultimo sforzo, o per cadere da re. Egli dunque il 6 Settembre partiva da Napoli, «per garentire questa illustre città, dalle rovine della guerra, salvare i suoi abitanti e le loro proprietà, i sacri templi, i monumenti, gli stabilimenti pubblici, le collezioni di arte, e tutto quello che forma il patrimonio della sua' civiltà e della sua grandezza, e che appartenendo alle generazioni future è superiore alle passioni di un tempo».

Il re di Napoli partiva dalla sua capitale, e la flotta anglo-francese vedeva compiere impassibile questo inaudito misfatto contro un dritto pubblico che Francia ed Inghilterra avean sanzionato.

Gli orrori di una guerra civile eran risparmiati alla metropoli del regno, ed il re, il capo di questo governo che lord Palmerston asserisce odiato da’ popoli, partiva lasciando gli arsenali, le castella, i suoi palagi, le sue sostanze, in mano dei rapaci ministri che circondarono il Dittatore.

É troppo vero che un pugno di milizie del re che partiva rimase in Napoli quando Garibaldi vi entrava. Lord Palmerston prende ad argomento dell’amore del popolo per l'ordine novello di cose che queste milizie non avessero catturato Garibaldi ed i suoi pochi compagni e fucilatolo sul luogo istesso del suo arrivo. Quelle milizie avevano ordini di operare ciò che il loro onor militare imponeva, e da chi le comandava, fu creduto onor militare vedere e tacere, abbandonare e fuggire.

IV

L’entusiasmo del popolo, i gridi della plebe che il vecchio ministro toglie ad altra convincente pruova dell’odio antico e del novello amore, sono gli stessi gridi e le medesime baldorie che accompagnarono Luigi XVI al supplizio, che applaudirono a Danton che organizzava i massacri del 3 Settembre e che echeggiarono quando Robespierre lo inviava al patibolo e quando i montanari facevan giustizia di Robespierre; gli stessi gridi di entusiasmo che accolsero l’impero che si elevava sulla battaglia di Marengo, e la restaurazione che lo rovesciava sotto la battaglia di Waterloo; lo stesso entusiasmo che ci additerebbe la storia d’Inghilterra per Maria Stuarda, per Carlo I, per Carlo II e per Cromvello, il quale ad un suo seguace che gli additava il festevole accoglimento e la folla entusiasta «Altrettanto, rispose, e più forse farebbero se fossi condotto ad essere impiccato». É la storia di tutte le rivoluzioni. La plebe applaude al governo od all’uomo che le toglie il freno che la legava alla legge; le defezioni sono il vile appannaggio dell’apostata che grida anatema al governo che cade per carezzare quello che sorge.

Ed il nobile lord ignorar non dovrebbe, ed i suoi agenti di Napoli non gli han certamente decimata la narrazione de’ fatti, che un ministro del re, che passava l’istesso giorno del 7 Settembre nel ministero del Dittatore, aveva avuto innanzi a sé più che sufficiente il tempo di organizzar festevole accoglimento. E dica poi qualunque sia che non abbia interesse a mentire, dica quali furon quelle brevi baldorie. Veri baccanali di una falange di compri sicari, o di quanto la più detestevole depravazione poteva far docile strumento de’ comitati della rivoluzione. Si guardava con commiserazione e raccapriccio a quell’orda di gridatori che davan misura di quel che in un momento di simigliante sconvolgimento potesse una grande città offerire di lurido ed immorale.

Una fazione guerriera si combatteva sul Volturno che recato avrebbe forse a prosperi risultamenti, e nella quale, per solo diletto, i cannonieri della nave inglese Renoivd prestavano il valoroso loro braccio a prò della rivoluzione, quando un esercito piemontese invadeva il regno ed obbligava, stretto fra due nemici, l’esercito non per anco distrutto del re Francesco a ritrarsi dietro le sponde del Garigliano, dove gli uffiziali della marineria napoletana, divenuti piemontesi, da navi napoletane scagliavano la mitraglia su napoletani che fino a giorni prima erano stati loro fratelli d’arme.

Ma non è la fortuna che governa il mondo, proclamava il Montesquieu, ed il delitto è punito dal delitto. Lo stesso immorale governo del Piemonte ha sdegno di quella violazione della giustizia e della umanità, e tiene quei satelliti traditori nel conto che si hanno sulla terra i traditori. Il giorno che ad un navilio sardo s’imponesse di combattere contro le corazzate batterie di Venezia, quegli uffiziali traditori protesterebbero come protestarono al re di Napoli, e si venderebbero a chi più li pagasse.

V

Palmerston si tace; il ministro è troppo astuto per narrare più oltre di questa storia infelice e criminosa; l’invasione piemontese, il plebiscito, il governo luogotenenziale erano ardue cose da trattarsi dalla tribuna inglese, ed una imprudente parola avrebbe potuto porre a rischio gl’interessi presenti o gl’interessi futuri della Gran Brettagna. Della invasione piemontese ha giudicate l’Europa, ha pronunziate severo giudizio quello stesso governo francese che dava licenza di compiere quest’altra violazione del diritto: il plebiscito proclamato quando la bufera rivoluzionaria ruggiva nella Capitale con Garibaldi, e quando migliaja d’invadenti armati lo appoggiavano è la derisione di questo nuovo ritrovato del dritto pubblico novello. La validità di questo voto, diceva in un suo dispaccio al Ministro inglese a Torino lo stesso lord Russell, la validità di questo suffragio è di poco o di niun valore pel governo britannico. Ha pur troppo ragiono il nobile lord Palmerston di tacersi, giacché la sua antica onestà non gli avrebbe permesso di tacere i voti affermativi versati a piene mani da’ presiedenti, nelle urne fatali del suffragio, o il libero voto emesso da ignoranti ed analfabeti popolani, cui veniva, da una folla di sovrastanti, nominati dal governo ed appoggiati da’ carabinieri, riposto fra le mani quel viglietto col quale si chiamava per sovrano un re di cui da nove decimi de’ votanti non si conosceva fin allora peranco il nome.

Un suffragio universale similmente interrogato pe’ popoli dipendenti dal giogo britannico nelle Indie, nell’America, nelle isole Jonie e nella Irlanda, per quei popoli che con aperte ribellioni han dimostrato al mondo la volontà di spezzare quel giogo che abborrono, avrebbe datò simiglianti risultamenti; eppure ciò malgrado la libera Inghilterra non giunse a questo punto di derisione. Lord Palmerston non poteva parlare di quel voto sul quale si fonda l’attuale disordine nel regno di Napoli, giacché Russell avevalo giudicato di poco o niun valore, giacché aveva giudicato irrito e nullo quello che lega Nizza e Savoia alla Francia, giacché così si toglieva la via a dichiarar nullo, quando ne sia giunta l’ora, un altro più famoso suffragio. Il governo luogotenenziale, sinonimo di rovina di ogni ordine morale e materiale, sinonimo di corruzione e di furto, non era argomento valido per la conseguenza che il ministro ritrar voleva dal suo discorso, dopo che la pubblica opinione di Europa ha scagliato su quello sgoverno l’obbrobrio che ha meritato.

VI

Un altro periodo importantissimo della storia’ di questa rivoluzione ed invasione ha coverto di un velo l’accorto statista. Ma Palmerston ha trovato colui che incautamente quel velo avesse sollevato, e questo imprudente politico è il primo ministro di Vittorio Emmanuele, il barone Ricasoli. ( Nota Circolare del 31 Luglio. L'altra Circolare del 24 Agosto si avrà la confutazione che merita.  ) Quel periodo non men degli altri vergognoso della nostra storia contemporanea è la sessione parlamentare di Torino. Reduci dal parlamento, vittoriosi di aver vendute le sorti del loro paese, di aver sagriAcati gl’interessi più vitali della loro patria all’interesse del Piemonte i deputati che han creduto rappresentare in faccia all’Europa la volontà di otto milioni di uomini, venivano accolti dal popolo vilipeso coll’entusiasmo di riprovazione che i principii di giustizia, quasi istinto morale, dettano alle masse quando si compie a danno loro una grande violazione delle leggi morali.

I tesori raccolti da lunghe economie, i depositi de’ privati, le rendite di un re spodestato, tutto fu profuso dal governo sardo per procacciarsi nel regno una docile maggioranza, ed il ministro sardo con una ingenuità che cela invano il rimorso dell’intrigo crede ingannare i potentati cui dirige la sua circolare, asserendo che «non ostante poderoso nerbo di milizie resistesse ancora in Gaeta per il re decaduto le province nuove liberamente e regolarmente elessero deputati fra’ quali neppur uno se ne conta che rappresenti le opinioni e gl’interessi de’ reggimenti caduti». Pel barone Ricasoli era poderoso nerbo di milizie un pugno di valorosi che resisteva dietro le crollanti mura di una fortezza, ed era dubbia la sorte delle armi, quando il re Francesco II abbandonato dai suoi alleati, abbandonato dal navilio francese che avevagli fino allora tenuto libero il mare faceva stupire l’Europa per una eroica ma disperata resistenza. Il 19 Gennajo la flotta francese partiva di Gaeta lasciando esposta la fortezza al blocco ed al bombardamento, e solo il 28 di quel mese si compivano in Napoli le vantate politiche elezioni. La rivelazione delle somme profuse per questa’ seconda libera

emanazione della volontà popolare, quelle somme la imprudenza di un pubblico funzionario della finanza rivelava ad uno de’ democratici giornali della capitale, rivelazione sulla quale si affrettò di cospargere cenere lo smascherato governo.

Una metà circa degl’iscritti nelle liste elettorali, ch'erano di un terzo minori di quanti avevan dritto ad eleggere, si presentarono ai collegi; ed è poco maraviglioso che non uno de’ rappresentanti dell’antica dominazione fosse stato eletto a deputato, quando non uno di quei rappresentanti si presentò per eleggere, quando la maggioranza del paese si asteneva dal prendere parte a questa seconda scenica rappresentazione. L’elezione adunque uscì dallo scrutinio quale il ministero sardo avevala comandata, quale le liste governative avevano additato; quinci una compra unanimità, quindi la proclamazione di accademico titolo di re, di astratto non posseduto regno. .

I rappresentanti del popolo, i Regoli ed i Curzi, quali li vorrebbe far credere Ricasoli, non potevano che vendere la loro dignità nelle anticamere, la loro voce alla tribuna, il loro voto nello scrutinio; e dignità, voce e voto vendettero e stupirono le incivilite nazioni per una servilità senza esempio. Gl’interessi materiali e morali, che vanta il ministro del Piemonte, furon rovinati da quei rappresentanti di un popolo che non li conosceva. Eran questi uomini gli emigrati di dodici anni, gl’istigatori del governo piemontese, i martiri di quella causa politica che li consigliava a portare sulla piazza la rivoluzione nel 1848, e li ha consigliati ora a vendicare il loro martirio col vendere la loro patria, cui da un giovane monarca si offriva era novella di prosperità.

Si proclamò un titolo, si decretò un armamento nazionale, si unificò il debito pubblico, si chiese un imprestito, si approvò una rete di strade ferrate; ecco in quanti capi il barone Ricasoli riassume l’opera di quel parlamento.

Proclamando quel titolo si avvili una delle più antiche e gloriose case di Europa esponendola al rischio, per lei non nuovo per altro, di deporlo l’indomani; si creò un regno;e si stabilì per sua metropoli Roma, quando che a questo regno mancano le più belle provincie e sovrastano dugentomila stranieri e l’antico dritto delle genti, e che a Roma siede rigoglioso e temuto il più gran potere del mondo, appoggiato dalle armi della cattolica Francia; si credette compiuta la vantata utopia dell’unità d’Italia, quando le sparse membra rimanevan senza testa, quando si cedeva Nizza e Savoia, quando si tentava di ceder la Sardegna, quando il re di questo astratto regno cominciava per cedere la sua culla ed il suo titolo, quando mancavano, e non era da farne parola, la Corsica, Malta, il Tirolo, ed i Grigioni, quando la libertà si conculcava, quando la indipendenza era una lontana e vana speranza. Si credettero col semplice dichiarare l’unità politica compiuti i destini della nazione, mentre che a compier quei destini mancavano le precedenti conquiste di libertà e d’indipendenza.

Coll’unifìcazione del debito pubblico si aggravò il debito della maggioranza per giovare alla minorità, coll’imprestito si aggravarono gli uni e gli altri debiti, nulla dimostrando il vantato ottenuto risultamento, poiché ad onta di qualsiasi cangiamento i capitali ritrar ne debbono necessariamente incontrastabile vantaggio. La rete di strade ferrate impose agli stati rovinose condizioni, e quasi il giorno dopo che si è votata la legge il concessionario rifiutala concessione. L’armamento nazionale inferocì la fervente guerra civile.

Triste condizione di questi popoli d’Italia, trista novella vicenda d’irreparabili errori e di novelle sventure, che condurranno sempre la più nobile fra le nazioni a dipendere da’ cenni e dalle leggi dettate da’ congressi o dalle armi straniere! Il ministro Ricasoli spera per Roma, spera per Venezia, dichiarando per tal modo a’ suoi rappresentanti all’estero che il novello regno è fondato soltanto sulla speranza, mentre dimentica di sperare per Savoia, per Nizza, per la Corsica, per Malta, pel Tirolo e po’ Grigioni che pur sono province italiane. .

L’Europa intanto è troppo commossa delle condizioni napolitane, il novello plebiscito che si proclama da’ popoli colle armi in pugno, suggellandolo col sangue, stupisce i potentati, l’opinione pubblica di Europa si commove alla generosa resistenza, ed il ministro non può tacerne. Egli ne parla, e si esprime nel modo istesso come si esprimeva il Conte di Cavour quando la resistenza del popolo cominciava negli Abbruzzi, neppur un mese dopo il proclamato plebiscito, che anzi il 7 Settembre scoppiava in Basilicata la prima sommossa contro il novello governo. Era allora Gaeta il focolare della discordia, e caduta Gaeta, egli diceva, tutto sarebbe rientrato nello stato normale di cose. Cadde Gaeta e la resistenza levossi fino al punto dov’è giunta oggidì, fino alle gigantesche proporzioni indarno dissimulate dal governo. Il disordine governativo scompagina i legami sociali; la rapina, l’immoralità, l’incapacità accendono la guerra civile, e Ricasoli dichiara lo stato presente una «restaurazione «dell’ordine regolare e normale»; accenna a Roma, fomite di discordia, e spera, spera sempre in una prossima pacificazione.

Ma qui si compie la narrazione del Ricasoli e le sue parole si confondono con quelle del ministro britannico, dell’altro assai più destro nelle difficili evoluzioni della politica europea. Ricasoli spera per Roma e Venezia, e Palmerston non si lascia mai sfuggire dal labbro una parola sola che potesse arrecare ristoro alle speranze. L’Inghilterra, grande e libera nazione, dà braccio forte a tutte le rivoluzioni del mondo, presta loro i suoi capitali, rassegnata a perderli, perché se ne rifarebbe ampiamente co’ vantaggi procurati al suo commercio; ma giammai non spende né uno scellino né un uomo per qualunque fosse cagione.

VII

I briganti è la parte del discorso che occupa più spazio, il ministro si dilunga in minuziose dissertazioni sull’indole e sulla definizione della parola tanto in voga di briganti e conchiude «che i combattenti nel regno son peggiori de’ briganti perché commettono ogni sorta di atrocità non per danaro ma per politica vendetta, strumenti di persone che vivono sicure nella città di Roma».

Ecco che il ministro inglese è costretto a dichiarar la guerra che si combatte nel regno, non guerra di briganti, ma guerra fra partiti politici. Quelli che per Ricasoli sono briganti, per l’Inghilterra non lo sono, ma son però peggiori perché «commettono ogni sorta di atrocità per politico fine». Il governo inglese ha prestato l’influenza morale, se pur si voglia credere non gliel’abbia a Marsala materialmente prestata, al Piemonte ed alla rivoluzione italiana; ha veduto, e lo ha confessato dalla tribuna l’istesso Cavour, ha veduto per dodici anni il gabinetto piemontese adoperare ogni sorta d’inganno, di corruzione, quanto insomma la più classica scuola d'immoralità può consigliare alla natura umana, per giungere ad uno scopo; gli ha veduto invadere provincie che non eran sottoposte al suo dominio, ha veduto le stragi di Castelfidardo, una flotta napoletana mitragliare un esercito napoletano, un re bombardato in una fortezza, ed egli, lord Palmerston, non si è scandalezzato, aspettando per provare questo tardivo scandalo quando un popolo che si leva in armi, per liberarsi da una dominazione che non vuol soffrire, per riacquistare pace ed indipendenza, dovendo combattere con forze irregolari contro milizie agguerrite, adopera ogni mezzo per aggredire, o aggredito difendersi. Presti fede il ministro a’ suoi corrispondenti e vegga chi delle due parti che contendono ha fucilati più cittadini, ha bruciato villaggi, ha imprigionati arbitrariamente più nemici. Quali delle due parti ha raso dalle fondamenta Montefalcione, ha distrutto Auletta, Pontelandolfo e Casalduni.

Dovunque v’ha una siepe, dovunque v’ha un bosco ed un monte v’hanno in queste contrade napoletane armate bande che combattono e muoiono per la nobile causa della indipendenza del loro paese. Son dodici mesi trascorsi e non sono sono stati valevoli sessanta battaglioni, fucilazioni in massa, incendi di villaggi e città per scemare questa resistenza che si moltiplica e giganteggia per più che ventimila combattenti. I giornali inglesi han dovuto ancor essi riferire le crudeltà delle milizie del governo e lord Palmerston ciò malgrado non ha dato ancora una definizione de’ piemontesi, come l'ha minutamente data dei briganti. Il general Pinelli che un grido di sdegno levato in Europa avea sul principio della lotta fatto richiamare a Torino ritorna e scorre insanguinando le più prospere delle provincie; un uffiziale negli Abbruzzi invia a’ suoi soldati un proclama esortandoli non pure di fucilare i briganti ma di trucidarne le mogli e i figliuoli, di bruciare le loro case. Un capitano prende dalle loro dimore a Somma sei cittadini ed istantaneamente li fucila sulla pubblica piazza. Ma di ciò non si scandalizza lord Palmerston, poiché non è tempo ancora di provar scandalo delle opere della rivoluzione.

L’oro che si manda da Roma tiene in piè la resistenza, si grida dal partito che sta per soccombere.

La rivoluzione ha spogliato un re, non del trono soltanto ma delle avite dovizie, degli argenti e delle suppellettili della sua casa, e lord Palmerston facendo eco a quelle vili menzogne, lamenta egli pure le istigazioni di Roma, come se a mantenere in campagna trentamila armati fosse bastevole qualunque privata ricchezza, per quanto lauta si fosse.

Un forte nerbo di milizie napoletane che si ritirava dal Garigliano, fuorviando da’ ricevuti comandi, per la jattanza o per ignoranza di generali, invece di operare militari operazioni negli Abbruzzi depositava in potere di generosi francesi cannoni e moschetti. La stampa menzognera inventa un bel giorno che quei moschetti sien venuti fuori dal Castel Sant’Angelo per armare i briganti, e lord Palmerston ingenuamente ripete la menzogna, geloso che le armi non fossero uscite dagli opifici della Gran Brettagna.

Il ministro liberale finisce la sua orazione, modello di libero ed umanitario stile, colla speranza che il vigore di Cialdini e Pinelli metta pace ne’ distretti, che i miserabili che commettono gli eccessi si abbiano la giusta pena, che reclama il generale desiderio de’ napoletani, i quali «sono pienamente grati de’ benefizi ricevuti, per aver cangiato il loro governo per quello della Sardegna, invece di continuare a star soggetti al rovinoso despotismo sotto il quale han per si lungo tempo sofferto».

Cialdini e Pinchi non han bisogno degl’incoraggiamenti del ministro. Il sangue versato non è ancora bastevole a dissetar la. loro brama di sangue; gl'incendii non hanno abbastanza vendicato la loro ira. Cialdini si appresta a scagliar sopra Napoli la mitraglia, ad appiccare il fuoco a quei tempi, a quelle case a quei monumenti che in settembre 1860 venivano risparmiati dalla rovina per generoso volere. Nei banchetti, orgie della rivoluzione, Cialdini dà le sue sentenze, e questa è l’ultima sentenza dettata da quel crudele proconsolo, il quale si appresta, noi potendolo diversamente, a ridurre a capoluogo di provincia colla mitraglia e col fuoco la terza capitale di Europa.

Chi scorresse le campagne, un dì tanto ubertose di messi e di felici mandriani in questo giardino di Europa, vi vedrebbe dappertutto le vestigia della desolazione, vi calpesterebbe ad ogni passo un cadavere, vedrebbe i mandriani spaventati non più rivangare la terra per il futuro ricolto, invece di pungolo e di marra vi troverebbe un fucile. Italiani contro italiani, napoletani contro napoletani, fratelli contro fratelli sono i benefizi del governo della Sardegna.1 palagi sontuosi della capitale, le ville ed i giardini che l'avvicinano son deserti. l’aristocrazia, nobile casta che neppure i Marat furon capaci di abbattere, quell’aristocrazia va emigrando volontaria o forzata su terra straniera. Questo governo riparatore incarcera e non giudica, non giudica ed esilia.

Una finanza tenuta per una delle più prospere è ridotta a dover chiedere l’obolo alla povera Torino; una marina, la prima di second’ordine, è tolta per inaugurare le sue imprese contro i napoletani; un esercito di centomila soldati che toglieva le sue prime tradizioni dalla battaglia di Velletri combattuta contro lo straniero è distrutto e vilipeso; la libera emanazione del pensiero è repressa quando non secondi le ingorde voglie del potere; il culto della religione desta i più gravi timori; si esiliano e s’imprigionano i nobili, s’incarcerano i preti, s’ invia in bando il Cardinale di Napoli esempio di virtù cristiana, si fucilano in massa ì contadini, si bruciano le città, si armano le castella per far della metropoli un mucchio di rovine, si organizzano bande di napoletani per inviarle contro i napoletani, e lord Palmerston mentisce, e lord Palmerston dopo che ci ha condotti a questa rovina, dopo che ci ha veduti ingoiati in questi abissi, dopo che ha visti calpestati e sanguinosi i nostri campi ubertosi, rubati i nostri tesori, uccisi i fratelli ed i figli nostri, corrotto quanto ci rimaneva di virtù, quanto avevamo salvato di forze, lord Palmerston ci deride, ci accusa, ci disprezza quasi colpevoli noi de’ loro delitti. Ci deride quando ci dice grati de’ benefizi, ci accusa quando ci rinfaccia di aver cangiato il nostro governo con quello della Sardegna, ci disprezza come un popolo senza forza e senza volere.

Ci arrestiamo. Usciti dal campo della storia, entreremmo in quello della discussione, ed in questi tempi di sconvolgimenti, per quanto pacato si avesse l’animo, facilmente si è trasportati a scrivere colle passioni del momento.

Brevemente ci siamo adoperati di narrare la storia infelice di questi due anni di rivoluzione, e l’abbiam narrata giacché ne fummo spettatori, ed ufficiali documenti son la pruova de’ fatti che asserimmo. Lo stato presente della patria nostra se raccapriccia lo straniero, fa cader la penna di mano a chi le vedeva dischiuso prospero e glorioso avvenire ed or la vede travolta nel fondo di ogni miseria. Infelice l’Italia che perdette un’altra volta l’occasione propizia che le si offeriva di prepararsi, concorde nelle sue membra, a combattere le battaglie della indipendenza dopo aver vinte quelle della libertà; infelice Napoli che subisce da undici mesi gli orrori dell’anarchia e delle stragi.

Passato e presente. Ecco la più valevole delle risposte a Palmerston ed a Ricasoli. La cronaca ed i fatti, cui non basta la menzognera parola a travolgere, son qui per oppugnare le fallaci assertive.

Il futuro? Se è vero che v’ha nel mondo un’arcana potenza che punisce presto o tardi le grandi violazioni della giustizia e della umanità, s’è vero che la Provvidenza mai non ha lasciato sulla terra impunito il colpevole o invendicata la vittima, il futuro si discerne già nel turbine che lo circonda. Il punto d’onde si parte accenna al punto dove si giunge, la violenza fa nascere la resistenza che la rovescia, l’inganno fa nascere l’incredulità che lo rende impotente, il tradimento sorge dal tradimento.

L’Europa si commuove a’ casi sanguinosi del regno di Napoli, la stampa imparziale raccapriccia alla narrazione degli atroci fatti che vi si compiono, ed «il governo presente è peggiore di quello di un anno fa» asserisce il Times. Una resistenza che non ha paragone nelle moderne storie si oppone allo asservimento della patria, ad un reggimento che non si riconosce; una generosa aristocrazia protesta in faccia al mondo a prò del bene della sua terra natale; lo sgomento, il timore de’ commessi delitti, la proclamata incapacità scompagina le file del governo usurpatore, le potenze di Europa guatano minacciose a tanta violazione, o a novelle ridestate ambizioni.

Qual sarà l’avvenire?

31 Agosto 1864.


















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