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LA CIVILTÀ CATTOLICA

ANNO CINQUANTESIMOTERZO

VOL. VII.

DELLA SERIE DECIMAOTTAVA

ROMA

COI TIPI DELLA CIVILTÀ CATTOLICA

1902

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Luglio 2016


AUTOBIOGRAFIA DI UN SUPERUOMO

Trame materne.

1861-1863.

Giunsi a Torino il 17 marzo 1861 e trovai la città imbandierata e tutta in feste, musiche e baldorie. Il popolo torinese, di solito cosi compassato e sereno, smaniava in un vero delirio di gioia. I patrioti piemontesi erano finalmente giunti al conseguimento dei loro desiderii: quel giorno, Vittorio Emanuele II, Re del piccolo Piemonte, era stato proclamato Re d'Italia.

Veramente, l'unità d'Italia non era ancora perfetta, mancandovi una lingua di terra al nord e una fetta al centro, ma il Cavour sperava che la diplomazia, senza colpo ferire, gli avrebbe dato nelle mani, di lì a non molto, quanto ancor mancava all'integrità della patria, Roma cioè e Venezia.

A sentire quegli evviva, quei frenetici battimani e a mirare quella festa rumorosa del buon popolo torinese, mi venne alla mente un episodio della storia della Russia che avevo studiato anni prima sotto il tetto ospitale del mio caro Dr. Field.

Alla morte dello Zar Paolo nel 1822, i liberali russi, corrotta parte dell'esercito, e sommosse le plchi, gridarono Viva Costantino e la Costituzione, che dicevano nella loro lingua Constitutzia. Popolo e soldati combatterono e morirono valorosamente per la costituzione, e i conservatori assolutisti ebbero assai da fare ad attutire quel moto rivoluzionario.

Però quando il popolo, spenta l'ira di parte, ritornò alle sue pacifiche occupazioni, venne a sapere, con sua grande mera viglia, che la Constitutzia non era già la moglie del granduca Costantino, come tutti, popolo e soldati, credevano, ma qualche altra cosa di cui tutti parlavano senza in verità saperne troppo. Si, alcuni l'avevano veduta: era vestita di sole, incoronata di stelle, avvolta nel manto della felicità, e procedeva maestosa sulla via regale del progresso fra le arti, le lettere e le scienze. La comparavano ad un'aurora dorata, ad una montagna d'oro, ad un favo di miele, ad una perpetua cuccagna. Altri però che l'avevano osservata più da vicino, erano tuttavia incerti sulle fattezze e sulla natura di lei. Non sapevano dire con sicurezza se ella avesse cuore di madre o di matrigna pel vero popolo. Ad ogni modo però di una sola cosa essi erano certi che la costituzione cioè era una gran bella cosa. Evviva la moglie di Costantino! A casa trovai la mia dolce mammina entusiasta per la unità. Quando mi ebbe, secondo il solito, stretto al seno e baciato in fronte, — o figlio mio, mi mormorò dolcemente all'orecchio, finalmente l'Italia è una! una! una! I napoletani, i siciliani, i modenesi, i piacentini, i milanesi sono nostri fratelli; sia ringraziato Iddio! E continuò a baciarmi teneramente in premio de’ dolori e delle fatiche da me sofferte per condurre la povera Italia all'unità.

Mio padre era diventato perfettamente scettico in re politica, cosa naturale ad accadere a chi ha conseguita la felicità del bianco pelo o della calvizie, ed è nonno, o almeno, avrebbe il diritto ad esser tale. Chiunque, valicati i sessantanni, serba ancora un briciolo di fede politica, non è più un uomo maturo colui, è un bambino in pel bianco, e meglio ancora un mostro della specie umana, un leviatan dell'umanità. Mio padre invece era un uomo, e per conseguenza non credeva più a niente. In conformità a questi suoi principii, egli soleva dar commiato ad ogni discorso politico con un solenne: — Bah! non me ne parlate! e descriveva coll'unico braccio che gli restava un'ampia curva nell'aria circostante. Egli osservava che l'unità d'Italia gli era costata un braccio, il quale, quantunque non sia assolutamente necessario alla vita, entra tuttavia nella categoria di quelle cose che sono utili, servendo esso a tenere il bicchiere, il pettine, la penna, la spada o anche le carte del tresette secondo le circostanze. Si confortava però della perdita di quel suo membro irrequieto colla filosofica riflessione che pochissimi sono quegli uomini che vadano al mondo di là con tutti gli organi, ricevuti alla nascita, da madre natura; perdendo tutti qualche cosa, se non altro, i denti e i capelli. Ma vi era un altro guaio ch'egli attribuiva all'unità d'Italia e che gli scottava assai più del braccio perduto. — Prima del quarant'otto, diceva il vecchio guerriero, pagavo al Governo sette mila lire di tasse all'anno: ora invece ne pago quindici. Vent'anni fa il Piemonte non aveva quasi debiti, l'anno passato invece si chiuse con un disavanzo di oltre quattrocento milioni. Perdiana! L'unità d'Italia costa troppo! costa troppo! Mia zia si trovava su per giù nelle condizioni psicologi che del fratello, con una differenza però che laddove quest'ultimo non voleva più sapere di politica, la prima invece ne parlava volentieri per dare dell'imbecille a tutto spiano a quanti uomini politici essa aveva in altro tempo adorati. Il Mazzini, il Volpini, il Depretis, il Farini, il Pallavicino, il Crispi, il Bertani, persino il principe di Carignano erano per l'augusta Signora un branco di cretini, buoni a nulla, e solo avidi di riempirsi le tasche co’ danari altrui. Anche il Cavour, il divo Cavour, non valeva più degli altri. Aveva tante volte promesso di fare della nuova Italia il paese della cuccagna, ed ecco, il pane era cresciuto di prezzo, il sale co stava due soldi di più al chilo, il vino bisognava pagarlo un occhio, e non si poteva tenere un canino senza pagare una tassa. Se cotesto voleva dire fare l'Italia, tanto valeva non farla. Mia zia faceva una sola eccezione in favore del Garibaldi, perché, capitato egli a Torino due anni prima, l'aveva ricevuta cordialmente, fino a chiamarla figlia, sorella e madre della patria. Non l'aveva baciata, no; fin là il generale non era arrivato; ma se essa lo avesse voluto! ma sicuro; il Garibaldi aveva testa e cuore. Vestiva una stupenda camicia rossa, portava un cappello con un magnifico pennacchio di penne di cappone, e non faceva difficoltà di sorta a baciare i patrioti e le patriote che si sacrificavano per la patria.

Mentre il dragone mi faceva queste tenere confidenze, io correva con la mente a quella pagina sublime di Biagio Pascal colà dove prova che la donna rimane sempre donna, anche quando mette i baffi, perde i denti, le s'imbiancano i capelli e in ogni altra cosa diventa un dragone.

Durante la mia dimora a Torino accaddero alcuni fatti politici della massima importanza, alcuni dei quali accelerarono, altri ritardarono la corsa trionfale della civiltà. Mori il Re di Prussia Federico Guglielmo; negli Stati Uniti cominciarono le prime scaramucce per la guerra di secessione; Gaeta si arrese ai generali Piemontesi; Alessandro II, Zar della Russia, fece liberi con un tratto di penna e in una sola volta ventitré milioni di servi; la Polonia russa alzò lo stendardo della rivolta, aspettando il suo Messia in Giuseppe Garibaldi; la regina Vittoria d'Inghilterra perdette il marito, e finalmente la morte crudele rapi anche a noi l'immortale Cavour.

Il Cavour fu un grand’uomo. Chi lo nega si convince da se stesso per nemico della patria, perché l'Italia presente si deve principalmente e forse anche unicamente al Cavour. È vero, alcuni storici dissentono da questo giudizio attribuendo essi l'unità d'Italia al Garibaldi, altri al Mazzini, non pochi finalmente all'azione personale di Vittorio Emmanuele II, il quale perciò venne chiamato padre della patria. Ma io man tengo e propugno la mia sentenza, come più conforme ai documenti che intorno alla formazione della nuova Italia vengono ora da ogni parte alla luce. Se dunque non fosse stato pel Cavour, ci sarebbero ancora in Italia le frontiere di Napoli, del Piemonte, del Veneto, di Modena e della Toscana, e i poeti canterebbero ancora i soavi epitalamii dei varii Principi e Duchi d'Italia. Questi ultimi, quando egli nel 1850 prese in mano le redini del Potere, erano abbastanza fermi sui loro troni; ma in meno di dieci anni glieli tolse di sotto con si bell'arte che i disgraziati si trovarono a terra prima di accorgersi di cadere. Il Cavour allora, con riverente affetto, fe' dono dei troni, delle regge e delle terre vacanti a Re Vittorio Emanuele II suo padrone, il quale grato al Signore di tanti benefici si volle intitolare Re d'Italia per grazia di Dio.

Gli ammiratori dell'eminente uomo di Stato dicono che egli, contento di aver fatta l'Italia, rifiutasse ogni altra ricompensa: parecchi storici invece affermano che di tutto quel ben di Dio di cui fece dono al padrone, egli prendesse per sé il venti per cento. Io che ho avuto la sorte di conoscere molto da vicino il Cavour, inclino a stare con questi ultimi, per la gran ragione che il grand’uomo di Stato era per eccellenza un uomo savio; e il savio dinanzi a una tavola bene imbandita imita quel toscano, che in simile circostanza alzava gli occhi al cielo, spaccava un gran segno di croce, e pronunziava alto: adesso, ventre mio, fatti capanna!... Ma non ti voglio celare caro figliuolo, che con questa opinione, (tu la giudicherai più tardi), ne ho anche un'altra assai onorevole per lui, communicatami da persona intima del Cavour, la quale vorrei che fosse vera, benché fin d'ora sia da molti contrastata. Ed è che egli non solo visse sempre da buon patriotto, ma in morte si mostrò per giunta buon cristiano... Ripeto, tu potrai saperlo meglio di me: io appunto nel mio diario ciò che udii raccontare al tempo mio.

Ed ecco come la morte del grand’uomo viene raccontata.

Recatosi Re Vittorio a visitarlo, il Cavour, quantunque già aggravatissimo, il riconobbe e gli disse: «Oh, Sire, ho molte cose da comunicarvi, molte carte da mostrarvi, ma sono troppo ammalato, e mi è impossibile venire da voi.

Manderò però domani Farini, che vi parlerà d'ogni cosa partitamente.

V. M. non ha ricevuto da Parigi la lettera che aspettava? L'imperatore è molto buono verso di noi, ora, si, molto buono. E i nostri poveri Napoletani, cosi intelligenti; ve ne ha di quelli che hanno molto talento, ma ve ne ha anche di quelli che sono molto corrotti. Questi ultimi bisogna lavarli, Sire, si, si, si lavino! si lavino!»

Il Re strinse la mano al suo ministro morente ed usci colle lagrime agli occhi.

Partito il Re, il Cavour continuò ad esclamare nel semidelirio: «L'Italia del Nord è fatta, non vi ha più né Lombardi, né Piemontesi, né Toscani, né Romagnoli; noi siamo tutti Italiani; ma havvi ancora dei Napoletani. Oh! hawi molta corruzione nel loro paese; ma non è colpa loro. Poveretti! Furono cosi male governati!.... Non voglio stati di assedio! Tutti sanno governare collo stato d'assedio! Io li governerò con la libertà, e mostrerò quel che possono fare di quelle belle contrade dieci anni di libertà. Fra vent'anni saranno le province più ricche d'Italia... Garibaldi è un galantuomo: io non gli voglio male alcuno. Egli vuole andare a Roma e a Venezia e anch'io ci voglio andare; nessuno ha più fretta di noi.»

Avvicinandosi egli alla fine chiamò al suo letto il Farini e gli disse: «Mia nipote m'ha fatto venire il Padre Giacomo; debbo prepararmi al gran passo dell'eternità. Mi sono confessato ed ho ricevuto l'assoluzione; più tardi mi comunicherà. Voglio che si sappia, voglio che il buon popolo di Torino sappia ch’io muoio da buon cristiano. Sono tranquillo, non ho mai fatto male a nessuno.»

Quando il Padre Giacomo gli amministrava l'estrema unzione, egli gli strinse la mano e disse: Frate, frate, libera Chiesa in libero Stato! Queste furono le sue ultime parole. Egli spirò la mattina del 6 giugno 1861, non avendo ancora compiuti gli anni cinquantuno: e senza disdire certe cose, che io, niente scrupoloso, avrei disdetto in morte, se dette le avessi in vita.

Torino, e poco dopo l'Italia, anzi l'Europa tutta, rimase costernata all'annunzio della morte di un tant'uomo, e la patria parve in un subito vedovata di colui che l'aveva evocata dal sepolcro a vita di nazione. Magnifiche esequie gli furono fatte in Torino, e molti occhi inumidironsi di lagrime al passaggio del feretro. Vittorio Emanuele II offri alla salma compianta un letto eterno nei reali avelli di Superga, ma la famiglia la volle deposta nel proprio castello di Sàntena, che è divenuto uno dei molti luoghi di pellegrinaggio della nuova Italia.

A Parigi, a Londra, a Berlino fu assai sentita la morte del Cavour, temendosi colà, e non senza ragione, che la navicella italiana, privata subitamente del suo esperto nocchiero, retrocedesse nel proprio cammino, o anche, sopraffatta dagli avversi marosi, colasse a fondo.

E i timori degli uomini politici di quelle capitali erano sfortunatamente assai fondati.

Il Cavour, negli ultimi anni del suo governo, esercitava una specie di suprema dittatura, che il Re, il parlamento, anzi tutto il popolo italiano, gli avevano confidato, tacitamente bensì ma non perciò meno volonterosamente. Morto il ministro onnipossente, la rivoluzione per un istante rimase incerta, ti tubò nella sua corsa, ebbe le file sgominate, le menti dei capi inferiori restarono dubbiose, e la paura e il sospetto subentrò per poco alla fiducia ed all'ardire. I partiti estremi presero coraggio; i Mazziniani architettarono nuove sommosse e pazzi disegni; e tutti quegli elementi più ritrosi al regolare andamento di un governo monarchico cui l'accortezza e la forza del Cavour aveva allettati, e quasi direi costretti a rientrare nell'orbita costituzionale, ricalcitrarono subitamente, non vollero più mordere il freno e tutto osarono. Da ciò nacque disordine e principio di anarchia. I codini cominciarono a sperare non lontana una reazione, e i liberali crederono impossibile per allora proseguire la marcia trionfale alla conquista della perfetta unità, e temerono anzi che loro non sfuggissero di mano le palme già guadagnate.

A tanto pericolo esponeva la nuova Italia la morte di un solo. Ma quel solo era il Cavour! Il conte Camillo prima di morire fece tre profezie. Predisse la perfetta fusione degli Italiani delle varie Province fra di loro; il rapido arricchire delle Province meridionali, e il fortunato effetto del suo sistema della Chiesa libera nello Stato libero. «Frate, frate, libera Chiesa in libero Stato.»

Io non so se le anime dei trapassati veggano che cosa si fa di qua; ma non credo di fare ingiuria alla memoria del famoso conte se asserisco che, qualora quell'anima benedetta si affacciasse al finestrino del mondo, si accorgerebbe di aver preso, con queste sue profezie, un enorme granciporro. Come! Gl'Italiani delle varie province uniti e fusi fra di loro? Il mezzogiorno d’Italia arricchito? La Chiesa libera nello Stato libero? Sia ringraziato Iddio! Gli uomini di Stato non sono necessariamente infallibili. Anch'essi la sbagliano qualche volta. Possiamo tirare liberamente il fiato. Domani il mondo sarà ancora al mondo!

Bisogna che aggiunga tuttavia che un mio amico, per tutelare l'onore di profeta a quel grand'uomo, mi assicurava che di tutte le ciance politiche messegli in bocca dalla leggenda popolare, non vi era assolutamente nulla di vero. Gua, tutto può essere!

Al Cavour successe nell'ufficio, sebbene non nel credito personale, il barone Bettino Ricasoli di Firenze, stato già Dittatore della Toscana, accetto a tutti i partiti e non amato da nessuno, e del quale si ricorda la celebre frase: «dopo Villafranca ho sputato sulla mia vita.» A lui dunque, morto il Cavour, mi rivolsi, e gli offersi i miei poveri servigi a prò della patria per tutto il tempo ch’io mi sarei fermato a Londra. Questi servigi erano di vario genere: tener saldo Lord Russell nell'amore per l'Italia: preparare i finanzieri della City ad appoggiare un prestito che Re Vittorio aveva in animo di fare; combattere nel parlamento inglese la campagna che certi codini irlandesi avevano in animo di fare contro la politica piemontese; impedire che i mazziniani, rifugiati a Londra, macchinassero di colà contro la quiete pubblica della nuova Italia, e sopra tutto far si che andasse a monte il viaggio che Giuseppe Garibaldi designava di fare alla capitale inglese.

Il Ricasoli accettò di gran cuore le mie profferte, ed io in qualità d’incaricato segreto del Governo mi preparai al viaggio.

Ma non erano queste le soli ragioni che mi movevano ad affrettare la mia andata in Inghilterra.

Carlo Barrow mi tempestava di lettere perché facessi presto, tardandogli di poter riabbracciare il vecchio padre; la signora Barrow poi cominciava ad accusarmi di mancata parola, colpa questa che formava per quella signora il primo e il più grave fra tutti i peccati, capitali. Finalmente avevo un altro motivo della mia partenza affrettata da Torino, che per amore di verità debbo esporre candidamente.

Erano tempi di congiure quelli! Tutti cospiravano, persino i vecchi, le donne e i bambini. Nessuna meraviglia dunque che anche in casa mia fosse entrato il mal demonio della cospirazione. Orribile a dirsi! La dolce mammina mia, d'accordo col mio signor babbo e cogli altri parenti di casa Chevalier, aveva ordita una trama contro la mia quiete ed in dipendenza personale. Quei signori volevano a tutti i costi darmi moglie.

Naturalmente, la candidata era una lontana mia parente, belloccia anzi che no, ricca perché unica figlia di famiglia, ed amantissima di mia madre, la quale, sapendo del mio arrivo, se l'era raccolta in casa, perché io, vedendola, me n'invaghissi. E quante arti usò la mia mammina! Faceva di tutto perché ci vedessimo, ci trovassimo insieme, possibilmente soli, nelle camere più solinghe, negli angoli più remoti della casa. Ma queste arti appunto le ruppero le uova nel paniere.

Trovandomi spesso a tu per tu e da solo colla Teresina (cosi si chiamava la ragazza che mi era destinata a consorte), mi convinsi che ella non era fatta per me. Lavorava assai bene di ricamo, ma non suonava il piano; era buona, paziente, sottomessa, ma non parlava l'inglese; avrebbe saputo mettere al mondo e fasciare stupendamente un bel marmocchio senza lasciargli fuori dalle fascie neppure un centimetro di ciccia; ma non aveva brio, faceva sbadigliare, e forse in conversazione con signore e signorine di qualche ambasciata straniera avrebbe parlato del modo migliore onde cuocere le lasagne e fare il bucato. No! No! La bella Teresina non faceva per me. E poi nel mio cuore c'era un segreto. I segreti diplomatici li portavo chiusi in un ampio portafoglio di pelle verde scura che tenevo nel panciotto: i segreti di amore li tenevo riposti gelosamente nel cuore.

Due anni prima, nella casa dell'ambasciatore inglese a Vienna, avevo avuto una visione di paradiso. Il mio terribile persecutore Sir Federico Rodley mi aveva presentato ad una certa Miss Carrey, sua lontana parente, la quale, in pochi giorni, mi ferì di tanti strali amorosi da ridurmi in fin di vita. Quando mi riebbi, ella era sparita, come sogliono, in generale, sparire subitamente le apparizioni od incarnazioni spiritiche, ogniqualvolta salta il ticchio agli spettatori di provare da loro stessi, se gli spiriti abbiano, come noi, carne, ossa e pelle. Comunque fosse, la nuova mia dea spari subitamente, e Sir Rodley m'informò placidamente che ella era partita per le acque di Wiesbaden in Prussia. Giusto cielo! Forse che anche le dee soffrono di reumatismi o di gotta da aver bisogno di bagni termali? Allora mi ritornò alla mente la mia prima dea, la dea dei cioccolatini; e per non rinnovare colla seconda dea, la dea della gotta, la triste esperienza di Torino, risolvetti a tenermi quieto, e a strozzare nel sonno il dio dell'amore.

Era un rimedio eroico cotesto, un atto brutale, feroce, ma a mali estremi occorrono rimedii parimente estremi.

Ma a Napoli seppi una cosa che mi rimescolò tutto, e rinnovò in me gli antichi ardori. La dea dei reumatismi, non era salita al cielo come credevo io, né si era evaporata come pensavano i miei amici, né anche soffriva di gotta come volevano i maligni. La signora Barrow conosceva la signorina Carrey, e cedendo alle mie istanze si degnò di mettermi in corrispondenza di lettere con quell'angelo di paradiso.

Dalle lettere di Miss Carrey venni a sapere che essa viveva col suo papà e colla sua mamma a Londra in una casa situata all'angolo nord di Hyde Park, che teneva in casa quattro cagnolini, un pappagallo e un passero solitario. Durante l'estate essa stessa conduceva i suoi cagnolini a fare il bagno in un laghetto del parco, il pappagallo le dava ogni giorno in mirabile favella il buon di, e sulla finestra teneva un vaso di erba sensitiva, uno di garofani, e una superba azalea che quando era fiorita attirava gli occhi di quanti per caso passavano sotto quella finestra fortunata. Quanto al resto, amava negli abiti il color rosa, nei profumi l'essenza di arancio, nella musica preferiva a tutti il Bach; oh il di vino Bach! nella poesia il Byron, il Goethe e Dante; fra le lingue, la propria, quantunque parlasse ancora il francese e il tedesco, nella danza il valzer, e nei viaggi quelli della bella Italia.

Mentre dunque mia madre e la Teresina cospiravano contro alla quiete dell'anima mia, io stavo in corrispondenza epistolare clandestina con una inglese, bella, ricca, piena di brio e che per giunta adorava quattro cagnolini, un pappa gallo e un passero solitario.

Ma io ero un galantuomo, e, non fo per dire, lo sono sempre stato, anche quando a trent'anni mi bolliva il sangue nelle vene e mi adoperavo con tanti altri galantuomini a fare la nuova Italia. Essendo dunque un galantuomo e non volendo tenere a bada più oltre quella povera Teresina, che cominciava davvero a scaldarsi per me, mostrai alla mamma, al babbo, ed alla zia il mio portafoglio di pelle verde-oscura pieno di carte e di biglietti di banca. Dissi solennemente che in quel portafoglio si contenevano i futuri destini d’Italia; l'amor della patria chiamarmi a Londra; il dovere strapparmi ai soavi affetti di famiglia; Lord Russell, Lord Palmerston, il Parlamento britannico, la Regina Vittoria aver bisogno de’ miei consigli; mi lasciassero dunque partire se non volevano altrimenti peccare contro la carità di patria.

I miei parenti, a questo sublime discorso, ammutulirono; mi guardarono dal basso in alto e ringraziarono Iddio di aver fatto loro la grazia di mettere al mondo un tant'uomo.

Io partii alla volta dell'Inghilterra e la Teresina, come seppi di poi, rimase a bocca aperta esattamente due mesi, quattro giorni e due ore.

XXVII.

Un idillio sotto la cupola di S. Paolo.

Arrivai a Londra sui primi di luglio e subito fui a casa Barrow. Quei signori mi ricevettero come se fossi un angelo disceso dal paradiso, e non vi fu gentilezza che credessero troppa per la mia persona.

Trovai il banchiere vecchio, acciaccato, taciturno e cogli occhi e colle mani eternamente nelle sterline. Oh la potenza delle sterline! Oh! il fascino di quegli occhi di civetta! A me tardava introdurre ragionamento di Carlo, mostrargli che egli era pentito de’ suoi errori e desideroso del perdono paterno: ma il vecchio con una terribile ostinazione mutava discorso, tagliava corto o si chiudeva in un desolante silenzio.

La signora Barrow invece e la buona Lily erano avide di notizie del povero Carlo. La signora era superba di Carlo.

Non aveva egli combattuto per la libertà della sventurata Italia? non aveva egli indossato la gloriosa camicia rossa del generale Garibaldi? Oh! ella adorava adesso quella fiera americana, quella strana di Miss Edith Merton che aveva saputo fare di suo figlio un eroe, una camicia rossa, uno dei mille! — E dici poco, domandava alla figliuola, aver la bella sorte di appartenere al battaglione dei mille? Quanti, credi tu, potranno entrare nella schiera immortale dei mille? — Mille, mamma, rispondeva placidamente la buona Lily, e sorrideva al caldo entusiasmo della madre.

La buona Lily! No non era solamente buona la figliuola dei Barrow; era bella, era gentile, era di cuor nobile, di mente elevata e di una fantasia leggermente malinconica.

Oh! come ascoltava volontieri il racconto delle mie avventure! Qual interesse ella prendeva nella mia vita! Quando le raccontai la fazione nella quale Carlo venne ferito, non potè trattenere una lagrima. Ella non aveva mai amato la guerra.

No, su questo punto non aveva mai avuto che un'opinione sola. La terra dovrebbe essere l'albergo della pace, il nido dell'amore, non un campo di battaglia. Povera Lily! Povera Lily! Quale testolina era allora la tua! Adesso, lo so, hai cambiato opinione, perché hai un figlio ufficiale, e sai bene che senza guerra, senza spargimento di sangue, senza macelli umani, gli ufficiali tardano troppo ad essere promossi.

Il tifo, la peste, il colera, la febbre, e tutti i microbii patogeni del mondo vanno troppo lenti a diradare le folte falangi della famiglia umana. Ci vogliono i cannoni, le mitragliatrici, i fucili Enfield, Vetterli o i Lee Metford. Povera Lily! La terra un nido d'amore? No! No! la terra è un campo di battaglia, e gli ufficiali e i soldati dei nostri eserciti sono gli stipendiati accoppatori dei figli di Dio.

Andai a trovare Miss Carrey e la trovai ancor più bella, più appariscente, più deliziosa di quando la conobbi a Vienna.

Mi mostrò i quattro cagnolini, due dell'isola di Cuba e due delle isole Ebridi e per suo amore mi rassegnai a condurli a prendere il bagno nel laghetto di Hyde Park. Oh Santo Iddio! Erano proprio necessari i cani alla perfezione dell'uni verso? Quei mostri non volevano entrare nell'acqua, onde fui costretto di pigliarli a calci, per il che continuarono ad abbaiarmi dietro per tutto il resto della mia dimora in Inghilterra. Mi toccò anche d'inaffiare i tre vasi di fiori del davanzale della finestra della mia dea, e mi piegai persino a dare a mangiare al papagallo. Oh l'amore è una gran cosa! l'amore è una gran cosa! Dopo una settimana di visite presso che quotidiane, i signori Carrey m'invitarono a pranzo. Io toccai il cielo col dito e volai coll'accesa fantasia a quell'ora beata quando avrei potuto condurre all'altare la diletta del mio cuore.

Ma il fato è nemico dell'umana felicità. Non eravamo noi soli a tavola: vi era anche un giovane sulla trentina, alto, ruvido, di forme tozze e tarchiate, coi baffi e capelli rossi, incolti e ribelli ad ogni regola d'arte. Io non seppi se non tardi il nome del suo casato. Questo solamente allora sapevo che i riveriti membri di casa Carrey lo chiamavano John colla più sorprendente famigliarità. John qui, John là, John da per tutto. I cagnetti che abbaiavano a me leccavano invece le mani a lui, e la mia dea stava alla presenza di lui con una dignità di regina. Chi era colui? Forse un diavolo uscito dall'inferno per turbare la mia felicità? In verità, io, fortunato in ogni altra cosa, era assolutamente in odio al dio dell'amore.

Poi, a poco a poco mi rabbonii. La giovane mi disse che John era un suo lontano cugino, ed io ne fui pago. Dio mio, non permettete che si moltiplichino troppo sulla terra cotesti cugini! Quindi, non so perché, il mio rivale non si fece più vedere ed io rimasi padrone del campo. Quantunque, per ossequio alla verità, debbo dire che non ero solo al fianco della mia dea. Vi erano quei maledettissimi cagnolini, e bene spesso per giunta il papagallo e il passero solitario; e quando seduto vicino a Miss Carrey le parlavo di amore, il villano pennuto del Brasile m'interrompeva la dolce parola con un suo sguaiato guah! guah! guah! Giusto cielo! Sono proprio necessari i papagalli alla bellezza e perfezione dell'universo? La mia follia per quella ragazza giunse a tale che, quantunque un segreto suggerimento della coscienza mi andasse dicendo che sposandola commettevo un solenne sproposito, mi offersi a condurla all'altare.

Per fortuna Miss Carrey non accettò la mia offerta. Dico per fortuna, adesso, ma allora provai alla gran ripulsa tutti i dolori che il tedesco Mayer descrive nel suo libro Dei patemi psicologici, stampato a Lipsia nel 1857, in un volume in ottavo, di mille e duecento pagine.

Naturalmente, al rifiuto da parte della signorina inglese di sposarmi, tenne dietro un furiosissimo temporale coi suoi bravi fulmini, lampi, tuoni e gran copia di pioggia in forma di lagrime, che i poeti dicono amare, e che i fisiologisti in vece provano assai bene essere piuttosto salate. Dopo ciò fra me e l'inglesina non ci poteva essere più nulla di comune, ond'io lasciai la casa dell'ingrata col fermo proposito di dimenticarla.

Erano passate un paio di settimane appena dal mio ultimo colloquio con Miss Carrey, quando ricevetti da lei un profumato biglietto col quale mi pregava di recarmi il giorno dopo a mezzogiorno preciso a trovarla, ma non a casa, bensì nella Chiesa di S. Paolo.

Ed io, parte per curiosità, parte per un resticciuolo di amore, fui cosi stupido da tenere l'invito.

Alle dodici in punto entrai nella grande cattedrale di Londra. Dio mio, quale spettacolo! Dinanzi all'altare, in mezzo ad eletta schiera di parenti ed amici, la diva Miss Carrey, vestita come vestono nell'Olimpo le dee, riceveva l'anello di sposa dalle mani del grande, grosso, rosso e ruvido John. Io restai allibito. Altro che cugino! Il mio rivale John, quella ruvida quercia, far da palo ad una pianta esotica cosi gentile qual'era Miss Carrey! Il mondo, certissimamente, camminava a rovescio! Mi avvicinai ad uno della folla e gli domandai il nome e la professione dello sposo.

L'interrogato restò un momento sopra pensiero, mi squadrò da capo a piedi, poi giudicando dal mio aspetto che io non nutriva pensieri criminali contro il novello sposo, mi sussurrò all'orecchio esser lui un certo John Phillips, proprietario di una grande fabbrica di birra nel Surrey.

Io scossi la testa, lanciai un'occhiata sdegnosa a lui e a lei, e uscii dalla Chiesa, pensando che una birraia non era degna di un diplomatico par mio.

Quindici anni dopo, trovandomi io di nuovo a Londra con mia moglie, m'incontrai per caso coll'antica Miss Carrey, più tardi signora Phillips, e di poi, vedova del grande, grosso, rosso e ruvido John.

La signora mi riconobbe subito, e mi venne incontro tutta festosa. Nel corso della conversazione io mi avventurai a do mandarle perché mai quindici anni prima avesse rifiutato la mia mano, sposando poi quel tanghero grande, grosso e ruvido di John Phillips.

— Oh, dear mi, caro mio, rispose la signora. Quanto siete stupido! Non capite che John Phillips aveva una rendita annua e netta di sette mila lire sterline? E dite poco? Voi invece mi diceste che la vostra non arrivava a mille.

Vi par piccola la differenza? Da uno a sette non c'è pro porzione. E qui la signora scosse la testa parecchie volte per dar forza a' suoi calcoli. Indi soggiunse: — Nel resto consolatevi; se mi aveste sposata, io ora sarei vedova, e voi, mi capite....

— Sarei al camposanto, risposi in fretta, stringendo la mano alla signora Phillips.

Incarico tutti gli angeli del paradiso o del purgatorio a portare i miei più vivi ringraziamenti al grande, grosso, rosso e ruvido John Phillips per avermi liberato dalle catene di Miss Mabel Carrey, e per esser morto nel 1872 in luogo mio.

A lenire l'acerbo dolore che mi pungeva il cuore mi buttai dentro il vortice della politica e mi diedi a visitare a Londra e nei sobborghi gli antichi amici della mia giovinezza.

Il mio caro Dr. Field era morto. Il collegio di Richmond esisteva ancora, ma era passato in altre mani, ed io vi era pressoché ignoto. I soli che si ricordassero di me erano due servi, gli unici che non avessero seguito il padrone nel sepolcro o non fossero andati a servire altrove. Quanta ricca messe di gioie e di affetti miete la falce inesorabile della morte! Nash, il mio amico Nash, il tragico Nash, viveva ancora, ma era uno scheletro, un'ombra dell'antico. Non usciva più di casa, perché martire di una serqua di reumatismi che non gli davano requie. Da due anni in poi si svegliava ogni mattina colla ferma convinzione che quel giorno sarebbe l'ultimo della sua vita, e arrivando la sera, si tastava il polso e ai palpava il cuore, meravigliando d'essere ancora vivo.

Povero Nash! Povero Nash! Oh come mi abbracciò strettamente! Quante cose mi disse de’ suoi ammalati e della sua dolce Irlanda! La buona Molly era morta, ma un'altra eroina di carità si era subito presentata a prendere il posto del l'estinta. Il vecchio Nash si trascinava ancora al letto de’ suoi ammalati, contava ancora le solite storielle, e non si ricordava che erano sempre le stesse. E quando, giunto il mo mento psicologicamente opportuno, il malato non rideva, il povero Nash si sentiva trafiggere il cuore, e domandava internamente a Dio perché tardasse ancora a toglierlo di vita.

I suoi medesimi figli, i beneficati da lui non lo capivano più! E pure quella storiella era cosi buffa! E il caro vecchio non si accorgeva che l'aveva raccontata allo stesso ammalato pochi minuti prima, e quattro volte nel giorno innanzi. Oh povero Nash, avevi ben ragione di aspettare e di desiderare la morte! Quando la fabbrica umana cade a pezzi, non resta altro che raccoglierne riverentemente i rottami e deporli nel sacro deposito del sepolcro!


























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