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IL GUELFO GIORNALE DE L’INDIPENDENZA MERIDIONALE

Sulla iscrizione di Giovanni Pascoli a Milazzo


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Giovanni Pascoli!

Ingegno universale, poeta latino, italiano, etrusco, man mano divenne poeta tedesco; e poi studiò Dante e s’innamorò di quei versi del divino poeta:

Pape Satan, pape Satan Aleppe

Cominciò Pluto con la voce chioccia, ecc.

E qui fermò suoi studi, e divenne plutonico.

Giovanni Pascoli in questa sua evoluzione non incontrò difficoltà veruna, ma anche incontrandola la superò ben presto, saltandola, come i ginnasti le sbarre. Di che gli facciamo nostre congratulazioni caldissime.

Egli fu scrittore di poesie latine eleganti; e poi anche di poesie italiane e meritò la considerazione de’  dotti, sebbene troppa E pure del nostro Taccone Galiucci, il quale, anche dopo i due famosi inni di lui, quello sopra il monumento ai caduti di Adua e quello sul centenario dell’Università di Messina, non meritava plauso, ma la sferza di Appiano Buonafede, che pubblicava, come sapete, la «Frusta Letteraria» a Venezia. Io su questo soverchio benevolo contegno verso il Pascoli, collocato in primo posto tra i poeti d’Italia, richiamai il compianto barone Taccone Galiucci, il quale dovè convenire meco che la indulgenza nella critica letteraria, specie se il critico è un valentuomo, nuoce alla verità ed alla civiltà, come la sentenza di un giudice indulgente o corrotto nuoce alla società, in cui s’emana. Nell'uno e nell’altro caso si turbano i criteri, si falsarlo le idee, si perde il gusto del vero, del bene, del bello.

Il Pascoli, buono insegnante a Reggio, ove fu maestro al Liceo apri il volo a Messina, e da qui, da passero divenuto airone, si credè autorizzato a scrivere di tutto, perché tutti gli chinavano la testa con servilismo fenomenale o lo mettevano in globo areostatico per salire. Bello è che uno scrittore acquisti coscienza di sé, come l’avvocato o il medico; perché la coscienza di sé è la vera radice dell’opera esterna; ma est modus in rebus e la coscienza di sé non deve finire ad una ubbriacatura come è del caso.

Pascoli si crede abilitato a far tutto, anche iscrizioni.

Non entro in merito delle sue poesie latine, che il prof Luigi Furnari a Reggio, suo ammiratore ultima, mi diceva eccellenti e superlative in fatti in questo arringo egli colse il premio in un pubblico concorso. Ma mi permetto giudicare il Pascoli come epigrafista, e non l’avrei fatto se non fosse un'epigrafe politica la sua.

Nessuno meglio dell’ab. Fornari sa dare le regole di una buona epigrafe, la quale, specie se storica, deve essere breve nel narrare il fatto, che si vuol ricordare, si deve apporre la data, deve avere stile solenne, incisivo e improntato ad un arcaismo, che, come certe spezie nelle vivande, piace. Il Morcelli, valentissimo nel genere, e lo ripete anche il Fornari, voleva che l'iscrizione fosse cosi breve che la potesse leggere un cavaliere che le passasse innanzi galoppando. Si vuole poi chiarezza.

L’epigrafe, e qua sta il difficile, nel mentre narra il fatto e deve essere di una brevità esemplare, deve contenere la sostanza del fatto non una vera narrazione storica, perché allora si confonde con la storia, quando essa deve essere un accenno fugace, come il guizzo di un lampo che illumina e fugge. Essa deve essere come la narrazione lirica, che nel suo estro, mentre accenna ai fatto, non l’espone tutto, ma i punti più luminosi, perché allora non sarebbe lirica, ma epica, o lirica non buona Deve essere chiara. Una iscrizione che abbisogni di un commento, non è buona iscrizione: è un logogrifo o, alla men trista, incompiuta. Deve poi l'iscrizione non contenere più periodi, ma vari membri, che si raggruppino su di un verbo dominante, ed intorno ad esso si aggirino E qui sta la grande difficoltà dell’epigrafia: il dire varii concetti e dare ad essi l'unità.

Riassumendo, le principali doti di una buona epigrafe sono: forma grave e solenne, e non comune, brevità, unita di concetto, chiarella. Dopo l’esposizione di questi canoni, veniamo alla epigrafe pascoliana, la quale a’  patrioti di Milazzo ha dovuto piacere assai, perché blandiva una loro passione tardiva e celebrava la loro festa commemorativa. E per fare meglio una epigrafe leggendaria del fatto d’armi di Mi lazzo, si scelse un episodio leggendario: il che vuol dire che i popoli sono sempre gli stessi, amano la leggenda, il misterioso, le favole, il mitico;  né questo istinto può essere mai distrutto. E ben si vede in questo caso, quando al Pascoli si dette questo soggetto leggendario o Ariostesco, o Tassiano, o Donchisciòttiano, che ci trasporta nel secolo del positivismo — neppure al secolo XV, quando i poemi cavallereschi apparvero vere satire e gonfiature, non realtà storica; ma assai più più in dietro, a’  tempi di Guerin Meschino, dei Reali di Francia, della Tavola Rotonda e via via. E' in queste reminiscenze classiche eroiche che i milazzesi trovano il loro pabolo gradito e glielo ammanì per loro e per i nipoti il prof. Pascoli, che li servì con amore ed entusiasmo e gusto.

Il fatto storico è questo, come è narrato dal De Sivo, vol. III. «Allora con a il numero presero uno de’   regi obici,  per lo che 50 cacciatori a cavallo animosamente caricarono il nemico al trivio del mulino e vi mori il capitano Giuliano, che li guidava e per sette ferito caddevi il tenente Faraone. il Garibaldi ferito fu salvo dal Missori, suo ufficiale, ambo perdendo  i cavalli. Ma quei pochi cavalieri regi, scemati del terzo, percossi su quei  terreni frastagliati, non potendo guadagnare l’obice, ebbero a cedere.»

In questo fatto così semplice i romanzieri posero le loro fantasie e prima l’ebbro Dumas — che, a ragione, De Sivo chiama cicalone — che fu l’Omero di quell'Achille. Ma Garibaldi smorza il fuoco dell’entusiasmo nelle sue Memorie e confessa che per salvarsi dové gettarsi in un fosso, il che fa crollare la leggenda e riduce il nume ad un soldato qualunque, che sente paura e si rovescia in un fosso. Il Pascoli invece mantiene la leggenda, il che gli fa poco onore, ed eleva la favola a fatto storico quando dice: Qui tornando da una carica vittoriosa — lo squadrone dei regi usseri (sic) — si avventò al galoppo  contro una camicia rossa — a piedi quasi soia — E il loro capitano Giuliani — calò fulminea la spada —su quel capo dalle lunghe ciocche bionde. L'uomo rosso parò (1) ed uccise.

L’iscrizione storica deve essere accuratissima narratrice, non bugiarda.

Questo per la parte storica. Che poi per la letteraria! Quale unità di concetto e di forma. Non vedete che all'unità nuocciòno i vari periodi, di che è composta la cosi detta epigrafe! Quale l’anno? Quando fu apposta l’epigrafe! Questa del Pascoli non è che una semplice prosa a sbozzetto, cui manca ogni sapore e colore epigrafico. E poi: chi è quel capo dalle lunghe ciocche bionde? Chi l’uomo rosso E ce ne eran tanti e dai biondi capelli e dalla camicia rossa! E ci erano anche donne! Chi non vede l’oscurità di questa dicitura, la quale per essere intesa, anche dai festeggiatori di Milazzo, dispostissimi per il loro entusiasmo a creder tutto, dovrebbe avere una nota, un comento?

Le epigrafi non sono tanto dettate e scolpite per i coevi: esse servono più ai posteri ed a’  più lontani. Il consento per chiarire questa flaccida e svenevole prosa scolaresca, questo indovinello che affetta l’aria e il mistero della leggenda, è indispensabile; e noi preghiamo il sig. Sindaco di Milazzo che ci pensasse a tempo e facesse sollevare, a fianco all'opera monumentale del Pascoli, altra lapide illustrativa; così l'una completa l’altra. Ma che non se ne desse incarico al Pascoli, perché questi potrebbe mettere la giunta alla derrata e fare un altro logogrifo alla maniera sua, ricordandosi de' celebri inni, di cui è stato favellato.

E che bisogno avevano i siciliani di ricorrere al Pascoli? Ma quando la servitù ai nordici prevale, essa deve incombere su tutto, come la notte; ed ecco i milazzesi che vanno da Pascoli per fare eternare con strani versi un atto, che è avvolto nel mendacio della leggenda fabbricata da’  feticisti del nume.

I siciliani per non essere mal serviti dal Pascoli e per non mostrarsi servi ai fratelli nordici dovevano ricorrere a letterati ed epigrafisti siciliani — e non ne mancano valentissimi —; dovevano nel tempo istesso non tanto rammentare il Garibaldi, che contro i frementi e turbinosi usseri (erano, invece, caccia tori a cavallo, prodissimi) oppone il pugnale che tiene nella bocca e la sciabola, lui pedone e solo!!; ma più il Bosco che fu il vero eroe di quella giornata, memoranda non tanto per l’azione di guerra, quanto per le conseguenze politiche che ne vennero. Ferdinando Beneventano del Bosco era siciliano. Di lui dice parole di elogio un milazzese, il sig. Stefano Zirilli. E lodatelo, siciliani, non solo perché fu prode e intelligente uffiziale, ma perché fu onesto. La fortuna della guerra non aggiunge nulla all’uomo, al suo genio, al suo coraggio; lo può solo innalzare, e Ferdinando del Bosco, come Catone, preferì la causa de’  vinti a quella de’  vincitori e fu fido al suo Re ed al popolo siciliano. A Stefano Zirilli, che cercò tentarlo, Bosco rispose negativamente e resisté da eroe Bosco era già abbandonato da Clary ed era stato votato alla morte. Fu allora, dice Zirilli, che io ho preso commiato da lui e non l'ho più riveduto. Da quel momento ebbi per Ferdinando del Bosco cento volle più di stima e di affetto, che non nei 34 anni precedenti di nostra fraterna amicizia, e fra me dicevo: Ecco almeno un carattere fermo ed intero tra tanta ruina di uomini e di fede!

Ed era vero e ben detto!

Siciliani! Tra i veri eroi della carica dello squadrone de’  cacciatori se non vi cale del capitano Giuliani, che muore, ricordate Luciano Faraone che cade per sette ferite; egli era vostro e mori a Catania un 28 anni sono, fido alla sua bandiera, povero, ma senza rimorso. Eroi sono quelli che adorano il sol che tramonta, non i fortunati: l’eroismo di questi è di non buona lega. Ecco gli eroi veri, non gli eroi manufatti, vostri non redentori, ma conquistatori superbi e rapaci, vostri tiranni, insomma.

Queste feste sono feste patriottiche e veramente nazionali? Quella grottesca epigrafe serve alla patria o non è un ricordo di umiliazioni che i cieli vollero inflitte a noi ed alla stessa sicula terra? Tregua, disse il Duce istesso alle nostre discordie. Il ricordare queste gesta, non è bene. Quando nel duello tra Argante e Tancredi, annottando, gli araldi vollero metter termine all’affannosa lotta, Pindoro incominciò a dire:

Siete, o guerrieri…

Con pari onor. di pari ambo ponenti,

Dunque ceni la pugna e non sien rotte

Le ragioni e il riposo della notte

E finiscano pure i nordici a soffiare in queste ire nostre fraterne. Prodi furono tutti, perché figli di quell’Ausonia terra che dette gli eroi e dove pose il nido l'aquila di Roma, padrona che fu del mondo (I)

Tommaso Polistina

(1) La voce parare non mi pare di buona lega. E' voce tecnica alla schermistica, ma non degna dello stile epigrafico. Ho voluto rileggere il combattimento di Argante e Tancredi in Tasso, di Rinaldo e Sacripante in Ariosto e non ne trovai braccia. Come é risaputo, queste due descrizioni sono modello non solo di stile, ma anche di tecnica schermistica.

(Nota per il sig. prof. Pascoli).

(I) I napoletani —dice De Sivo, (Storia delle Due Sicilie Vol. III) — in sette ore di zuffa, uno contro cinque, mostrarono che valessero ove non eran compri duci. I prigionieri sardi dicevano eglino essere stati 10 mila. La proporzione quindi si deve elevare uno, contro sette. In quello esercito garibaldino v’eran d'ogni nazione, più piemontesi in veste rossa. Il valore napoletano quindi rifulse, misurandosi con il valore di mezza Europa.























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