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LA PRIMA LEGISLATURA DEL REGNO D'ITALIA

STUDI E RICORDI DI LEOPOLDO GALEOTTI

GIÀ DEPUTATO AL PARLAMENTO.

SECONDA EDIZIONE, RIVEDUTA ED AMPLIATA

FIRENZE
SUCCESSORI LE MONNIER TIPOGRAFI EDITORI
1866

(02)

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CAPITOLO XXI.

Le Tasse sugli affari.

Vengono sotto il nome di tasse sugli affari, cinque tasse diverse, cioè:

Del registro,

Del bollo,

Dei corpi morali,

Delle società industriali,

Delle concessioni governative.

I. Le tasse del registro esistevano in tutti gli Stati italiani, dovunque modellate sull’esempio della legge francese, ma con diversa misura, come che nel Piemonte fosse stato conservato il rigore primitivo di quella legge, laddove in Napoli fino dal 1819 era stata limitata la imposta ad un più ristretto numero di atti, e nelle altre province la imposta fosse respettivamente più mite.

Per agevolare in tutto il Regno l’applicazione di una medesima imposta, il ministro Bastogi nel suo progetto, che con lievi modificazioni venne poi accettato dai due rami del Parlamento, non solamente modificò sostanzialmente le tariffe della legge sarda, ma modificò gli stessi criteri della legge francese, in quelle parli che parvero o troppo fiscali o troppo difformi dalle abitudini italiane.

Quindi maggiori riguardi usò alle contrattazioni relative alla proprietà immobile; esentò dalle formalità del registro gli atti delle procedure giudiziarie: autorizzò la sottrazione dei debiti nel determinare i valori delle successioni: proporzione le tasse nei casi di successione non al solo valore imponibile, ma ai vincoli più o meno stretti di parentela: largheggiò di tolleranza rispetto agli atti privati: accrebbe in vista del pubblico interesse i casi delle esenzioni.

La difficoltà più grave si trovava nella difformità delle leggi civili vigenti nelle diverse province. Fu creduto di vincer questa difficoltà, prescindendo dalle leggi speciali, e basando la legge del registro sui principii generali che governano qualunque sistema legislativo.

Se in pratica la legge non è riuscita in tutto come si sperava, senza disconoscere i difetti che pure vi sono, ciò è dipeso precipuamente dalla resistenza di contrarie abitudini, dagli inconvenienti cui dava luogo appunto la diversità delle leggi, non meno che dai regolamenti che vennero fatti per eseguirla.

II. Mentre la imposta del registro si applica agli atti ed ai contralti secondo la loro natura ed importanza, la tassa del bollo si applica in modo uniforme a quasi tutti gli atti senza riguardo all’indole ed alla importanza di essi. Ma siccome un medesimo atto può esser soggetto alla doppia formalità del registro e del bollo, cosi la esperienza ha mostrato quanto sia conveniente che molti atti sieno esentati dalla formalità del registro per sottoporgli sia ad un diritto di bollo più elevato, quali sono gli atti giudiziarii, sia ad un bollo di valore straordinario, quali sono le cambiali e i biglietti al portatore. Questo criterio, dal quale muoveva il Ministro proponente, lo consigliava a prescegliere, fra le molte leggi sul bollo vigenti in Italia, quella già approvata dal Parlamento subalpino e promulgata il 9 settembre 1854, con questa modificazione importante però, che alla lassa del bollo venivano sottratte le private scritture di obbligazione e di locazione, già sottoposte alla registrazione obbligatoria nei casi in cui se ne faccia uso in giudizio.

La modificazione aggiuntavi di poi per voto della Commissione, di sostituire nelle cambiali e biglietti all’ordine il francobollo mobile alla carta filogranata e graduale, ha dato luogo a non pochi danni per la finanza. La pratica applicazione ha pure scoperto, che i più gravi inconvenienti che sonosi incontrati nella applicazione della legge, procedevano pur sempre nella maggior parte dalla diversità delle procedure giudiziarie vigenti nelle diverse province italiane.

III. Anche la tassa sui beni dei corpi morali e di manomorta era reclamata dal principio della eguaglianza voluto dallo Statuto costituzionale in fatto l'imposte. Questa eguaglianza la subivano i corpi morali rispetto alle tasse dirette: non la subivano egualmente per le tasse indirette, non essendo i loro beni né subietto di contrattazioni, né subietto di successioni. Quindi, fino dal 1851, fu dal Parlamento subalpino introdotta, sull’esempio di Francia, la tassa speciale sui beni di manomorta, che corrisponde annualmente all’importare delle tasse di registro che in un ventennio pagano per trasferimento di dominio le sostanze dei privati cittadini.

La legge del 1851 fu in sostanza il modello della legge nuova, che venne accettata dal Parlamento, salvo alcuni miglioramenti, dei quali non occorre il fare parola.

IV. Altra legge affine alle precedenti, fu quella che sottoponeva ad una lassa particolare le società industriali e commerciali e le società di assicurazione. Il principio fondamentale di questa tassa è riposto nel conciliare il rapido movimento di cui abbisognano queste società nel giro delle loro operazioni, colle leggi della eguaglianza in materia d’imposta. Se nel primo aspetto i moltiplici atti loro vanno esenti dalle formalità prescritte dalle leggi finanziarie comuni, nel secondo aspetto, giustizia esige che per le loro operazioni vengano appunto assoggettale ad un’imposta equivalente a quelle di registro e bollo, di cui sarebbe improvvidità il colpirle.

Era naturale che fossero privilegiate le società di mera beneficenza e quelle di mutuo soccorso; e lo furono.

V. Ultima, fra le leggi d’imposta di questa categoria che venne approvata dalla Camera, fu quella sulle concessioni governative. Respinta in modo assoluto l’idea d’imporre una tassa qualunque sugli atti di mera grazia sovrana, fu ritenuto conveniente d’imporla, in proporzione agli utili e vantaggi che se ne ricavano, su tutte le facoltà concedute dall'autorità governativa, quali sono il conferimento de' beneficii ecclesiastici, le concessioni di fiere e mercati ed altre somiglianti.

Con questo non si faceva che unificare le diverse leggi già esistenti nelle province italiane, ove per simili concessioni una qualche tassa, con nomi diversi dovevasi pur sempre pagare dai concessionarii. Né poteva farsi obiezione nemmeno rispetto alla tassa sui benefìcii, come che fosse già introdotta anche dall’Austria nelle province lombarde, ove i benefìcii erano soggetti tanto alla tassa ordinaria di manomorta, quanto alla tassa diversa amministrativa per il primo atto di pura liberalità, che conferisce il godimento dei beni nel beneficato.

Le cinque leggi sopra rammentate furono le prime che vennero discusse in Parlamento per unificare la materia delle imposte.

Però conviene aggiungere che il Senato, mentre approvò le prime quattro leggi, respinse la quinta, quella cioè sulle concessioni governative, le quali in conseguenza dovrebbero continuare a regolarsi secondo le varie legislazioni vigenti in addietro nelle diverse province d’Italia.

CAPITOLO XXII.

Il Dazio di consumo.

Nella maggior parte dei Comuni del Regno, era già in vigore una specie d’imposta sulle bevande e sulle derrate che servono alla umana alimentazione. Vi erano soggetti tutti i Comuni della Lombardia, dell'Emilia, e delle province meridionali. Nelle Marche, sopra 285 Comuni, la pagavano 227. Nell’Umbria la pagavano 152 sopra 176. Le maggiori esenzioni si verificavano nell’antico Piemonte, ove sopra 2349 Comuni solamente 236 erano colpiti da quella imposta, e nella Toscana, ove il dazio di consumo si percipeva nelle sole città dette gabellabili, di Firenze, Livorno, Lucca, Pisa, Pistoia e Siena. Cosi nel Regno d’Italia 5824 Comuni pagavano sotto varie forme un dazio di consumo, mentre 2435 ne erano esenti.

Il provento di queste tasse, che saliva ad oltre 43 milioni di lire e che era cosi inegualmente repartito sopra la massa dei contribuenti, 1 aveva poi anche un modo più ingiusto di godimento. Imperocché nelle province meridionali, nella Toscana, nelle province subalpine, nelle Marche e nell’Umbria andava per intero tra le entrate comunitative, ad eccezione di due tenui partite, l’una di L. 343 000 che lo Stato incassava in Napoli mediante una tassa sopra la neve, e l’altra di L. 623 452, che andava pure a suo benefizio nelle province subalpine in ordine alla legge del 4 gennaio 1853 per una tassa speciale sulle bevande e su certi commestibili. Ma in Lombardia lo godeva lo Stato rilasciando soltanto L. 1 686 312 ai Comuni di Bergamo, Brescia, Como, Crema, Cremona, Lodi, Milano, e Pavia; e lo aveva pure per un terzo nelle province dell’Emilia, rilasciandone i due terzi a benefizio dei Comuni. Cosicché sulla somma preindicata, lo Stato ne ritraeva poco più di 11 milioni, e questi quasi esclusivamente dalle sole province dell’Emilia e di Lombardia.

La necessità di provvedere era evidente, non consentendo la giustizia cotanta diseguaglianza. Se le nostre condizioni finanziarie lo avessero permesso, potevasi imitare l’esempio del Belgio, ove il dazio di consumo venne recentemente abolito, indennizzando i Comuni che ne perdevano il profitto, col maggiore prodotto che ritraevasi dall’erario per le nuove tasse sui liquidi spiritosi. 1 Se d’altra parte le condizioni della produzione lo avessero consentito, il problema avrebbe potuto sciogliersi, sostituendo al dazio di consumo una tassa di fabbricazione,

1 Il reparto era come appresso:

Province

antiche

L. 9 295 626

»

Lombarde

L. 8832534

»

Napoletane

L. 8 221 022

»

Emiliane

L. 5100 672

»

Siciliane

L. 5 146 402

»

Toscane

L. 4 442 885

»

delle Marche e Umbria

L. 2389 753

1 Fatta tale riforma, il Belgio ottenne nel bilancio 1861 un sopravanzo attivo di circa 7 milioni.

per cui ne sarebbe avvenuto che lo Stato sarebbesi svincolato da ogni cointeresse coi Comuni, più libera sarebbesi resa la circolazione delle merci, la finanza avrebbe potuto affrancarsi dall’obbligo di un personale soverchio nella riscossione.

Non sembrando possibile allora né l’una né l’altra cosa, il problema riducevasi a trovar modo di conciliare fra loro gl’interessi finanziari dello Stato e dei Comuni, mantenendo, senza renunziare del tutto alla tassa di fabbricazione, un dazio di consumo al quale lo Stato e i Comuni equabilmente partecipassero.

Il problema fu creduto di risolverlo, attribuendo allo Stato una tassa di consumo sul vino, sull’aceto, sulle acquaviti, i liquori e le carni, non che una tassa sulla fabbricazione della birra, delle acque gazose, delle pelli e cuoj conci, ed autorizzando i Comuni non tanto ad imporre tasse di consumo sui generi commestibili e combustibili, sui materiali da costruzione, sui foraggi e altre materie di consumo, quanto ancora ad imporre, dentro certi limiti, nna sopratassa sulle materie riservate allo Stato.

Quanto alle tariffe, fu sentita la necessità di contemperarle alle condizioni delle diverse località. Quindi fu distinto tra i Comuni chiusi ed aperti, e gli uni e gli altri furono pure distinti per classi corrispondenti a diverse graduazioni della tariffa, la quale, per ogni categoria, ha un maximum ed un minimum di tassa.

Quanto ai modi di percezione fu pure distinto tra i Comuni chiusi, ove il dazio potevasi percipere all’introduzione della materia tassabile, ed i comuni aperti, ove la tassa non potevasi percipere che sulla vendita a minuto.

Rimaneva una maggiore difficoltà quanto agli agenti incaricati della riscossione, atteso il cointeresse dello Stato e dei Comuni, e quanto alle forti spese di esazione. Questa difficoltà fu vinta mediante il sistema di abbuonamenti coi Comuni, i quali, garantendo allo Stato una somma determinata, si accollassero tutto il carico della riscossione col mezzo di agenti loro proprii, e mediante l’altro partito di appaltare ad una privata società la riscossione della tassa in quei comuni ove l’abbuonamento non avesse potuto effettuarsi.

La tassa è tanto mite che non corrisponde neppure a L. 1, 70 per abitante, come era stato presagito in principio, quando se ne voleva ricavare 35 milioni all’anno. Quando fosse portata a 50 milioni corrisponderebbe appena a L. 2, 30 per abitante; e cosi in una proporzione inferiore a tutti gli Stati d’Europa, come apparisce dalla seguente tavola di confronto che faceva parte della Relazione ministeriale.

Tavola comparativa dell'entità del Dazio di consumo nel vari Stati d’Europa.


Vini.

Spiriti.

Birra.

Carni.

Totali.

Popolazione.

Proporzione 1 per Abitanti.

Inghilterra L.

2600000

355000000

19200000

»

573000000

20307000

20 05

Belgio

2000000

5700000

8680000

»

16380000

4671000

3 50

Austria

15000000

40000000

40000000

17000000

95000000

35000000

2 70

Francia

»

180677000

15260000

»

195937000

36907000

5 30

Russia

»

491 600000

»

»

491600000

67000000

7 32

In pratica è avvenuto che l’introito di 30 milioni presagito per questa tassa, per due terzi è corrisposto dai Comuni che sonosi abbuonati per somme determinate, e per un terzo è corrisposto da una compagnia di appaltatori, che poi è proceduta a non pochi subappalti coi Comuni stessi cui non fu dato d’intendersi col Governo, ed è avvenuto del pari che la tassa di consumo mentre si percipe dallo Stato quasi senza spesa di esazione, fornisce ai Comuni una sorgente cospicua di entrata per provvedere ai loro bisogni.

1 Le carni sono notate nel dazio consumo, ma nel calcolo proporzionale non tiensi conto del provento.

CAPITOLO XXIII.

La Tassa sulle Entrate.

Le ineguaglianze che notammo esistere fra le diverse province italiane rispetto al dazio di consumo, erano anche maggiori rispetto alle tasse che i nostri antichi chiamavano del Mobile e del Guadagno.

Nelle antiche province la ricchezza mobiliare proveniente dall’industria, dal commercio e dalle professioni veniva assoggettata, per legge del 7 luglio 1853, alla tassa delle patenti, modellata su quella francese, e quella non rappresentata dai profitti dell’industria, del commercio e delle professioni, veniva colpita, in ordine alla legge del 28 aprile 1853, da una tassa personale, divisa in tre gradi corrispondenti a diversa entità di ricchezza, ciascuno dei quali però mutava valore secondoché si trattasse di Comuni aventi una popolazione minore di 2000 abitanti o una popolazione non eccedente i 6000 abitanti, o una popolazione al di là di questa cifra.

Le province lombarde erano assoggettate ad una tassa detta Contributo di arti e commercio, istituita dal governo italico, per la quale la generalità degli esercenti industrie e commerci veniva distribuita in selle classi speciali, essendosi stabilito per ogni classe un diritto fisso diviso in tre gradi, la cui entità variava secondo la popolazione dei Comuni, distinti per tale rispetto in tre categorie. Vi era poi l'imposta diretta sulla rendita stabilita colla legge degli Il aprile 1851, la quale divideva le rendile in tre classi, le accertava mediante le dichiarazioni dei contribuenti, le tassava diversamente secondo la diversa indole loro.

Nelle province parmensi vi era un’imposta sulla industria e sul commercio, consistente in una tassa fissa determinata a priori in ragione della importanza degli esercizi, divisi in sette classi, ciascuna delle quali veniva suddivisa in tre gradi. E vi era del pari una tassa personale, il di cui contingente era stabilito per ogni Comune moltiplicando il sesto della respetti va popolazione per il prezzo di tre giornate di lavoro. Queste due tasse erano regolate dalla legge del 16 marzo 1832.

Nelle province modenesi i commercianti, banchieri e fabbricatori di ogni specie, in ordine alla legge del 27 novembre 1849, pagavano una tassa annua di un ½ per cento sui capitali fissi e circolanti costituenti la entità del loro traffico. Ogni specie poi di ricchezza mobile veniva colpita, sia colla tassa personale che pagavasi da ogni individuo tra i 18 e i 60 anni di età non dimorante in Comuni soggetti a dazio di consumo, sia colla tassa del ½ per cento sui capitali fruttiferi, stabilita dalla legge del 27 novembre 1849.

Le province ex pontificie furono assoggettate ad una tassa d’industria, commercio e professioni in ordine alle leggi del 14 ottobre e 29 novembre 1850. Le quali dividevano i diversi esercizi in dieci categorie, ciascuna delle quali era distinta in due serie, applicando a ciascuna serie un diritto fisso diverso, secondo cinque diverse classi delle località in cui l'esercizio avesse sede. Ma questa legge non fu mai applicata. Ogni altra ricchezza mobile non veniva tassata a benefizio dello Stato, ma sibbene dei Comuni, autorizzati ad imporsi una tassa personale chiamata del Focatico.

In Toscana, la tassa di commercio propriamente detta non pagavasi che in Livorno. Pagavasi però da per tutto la tassa di famiglia stabilitavi colla legge degli Il febbraio 1815 in luogo dell’antica tassa personale, e che veramente altro non era che una tassa sopra ogni specie di ricchezza mobile, avente la sua origine nell’antica tassa sulla rendita della Repubblica fiorentina. Questa tassa, che era assegnata per contingente ai Comuni, veniva poi dalle autorità comunali repartita in cinque classi, finché colla legge successiva del 6 luglio 1829, e poi meglio colla legge del 12 gennaio 1850, venne rilasciata ai Comuni la facoltà di aumentare come volessero il numero delle classi, e fu pure stabilito che in ogni Comune il reparto della tassa si effettuasse da una commissione di probi cittadini incaricala di accertare la condizione e la fortuna dei singoli contribuenti.

Nelle province meridionali o non eravi nessuna tassa sul commercio e sulla ricchezza mobile in pro dello Stato, o se vi fu qualche tassa analoga a pro dello Stato e dei Comuni, essa era stata abolita.

Talché sul bilancio dello Stato le tasse sulla industria, commercio, professioni e sulla ricchezza mobile figuravano per sole lire 14053054, 65 repartite come appresso:

Province

antiche

L.

8674701

»

Lombarde

»

3077 809

»

Parmensi

»

348 799

»

Modenesi


607 740

»

Toscane


1344000

Questo rapido sguardo alla legislazione preesistente convince che la necessità di stabilire per tutto il Regno una tassa uniforme era reclamata dai bisogni dell’erario, non meno che dai principii della giustizia. Bisognava studiare il modo e la forma. R questo esame fu intrapreso prima da un’apposita Commissione instituita nei Consiglio di Stato, e che fece noti i resultamene dei suoi studii mediante la Relazione del Pasini, del 20 marzo 1861: poi dal ministro Bastogi, che compilò un apposito progetto di legge, preceduto da altra Relazione; quindi da una Commissione di Deputati e di Senatori che egli istituiva, e la quale fece pure altro progetto di legge preceduto da una terza Relazione del deputato Broglio in data del 1 marzo 1862.

Dagli esami, dagli studii e dalle notizie raccolte di queste moltiplici commissioni, venivano a resultare evidentemente tre conseguenze generali:

1. Che doveva abbandonarsi il sistema delle lasse multiple, le quali presentano i non lievi inconvenienti di colpire più volte la stessa rendita, di esser mantenute in limiti assai scarsi ed infecondi, di lasciare sfuggire non poche specie di rendita, di aver criterii fallaci di applicazione, di mostrarsi per natura loro bisognevoli di non lievi rigidezze fiscali, di essere più repugnanti al costume del nostro paese.

2. Che bisognava preferire il sistema di una tassa unica sulla rendita, accertata mediante un catasto della ricchezza non fondiaria, col quale sistema eviterebbonsi le duplicazioni d’imposta, colpirebbonsi più sicuramente le rendite, seguirebbonsi senza limiti le ricchezze maggiori nei loro progressivi aumenti, aprirebbesi radilo ad un grande avvenire dell’imposta, diminuirebbonsi le spese di percezione.

3. Che avendo già noi un catasto per le rendite fondiarie ed una tassa prediale di facile e sicura percezione, conveniva abbandonare tanto il sistema dell’unica tassa vigente in America e nella Svezia sulle rendite della ricchezza fondiaria e non fondiaria, quanto il sistema vigente in Inghilterra e in molti stati di Germania, ove l’imposta sulle rendite forma duplicazione colle tasse preesistenti, e bisognava invece attenersi al sistema vigente in Ungheria e nell'Annover, secondo il quale, la imposta sulle rendite non fondiarie troverebbesi distinta dalla imposta sulle rendite fondiarie, che avrebbero continuato ad essere tassale sulla base e colle forme dei calasti esistenti.

In ordine a queste tre conclusioni, venne formulato il progetto di legge relativo alla tassa sulla rendita, che fu presentalo dal ministro Sella alla Camera dei deputati nella tornata del 18 novembre 1862, e quindi fu discusso ed approvato dai due rami del Parlamento nel corso dell’anno 1863.

Le basi generali, che in seguito anche di ulteriori studii della Commissione parlamentare, informarono il progetto di legge, si riassumono, nelle seguenti:

1. La imposta doveva cadere sulla periodica riproduzione, anziché sulle ricchezze consolidate, e doveva colpire ogni specie di rendila non fondiaria.

2. La imposta che si proponeva per 55 milioni, ma che fu poi ridotta per il primo anno a 30, nei primi due anni avrebbe dovuto esigersi col sistema di repartizione, finché la compilazione dei catasti desse modo di devenire al sistema più razionale della quotità.

Per quei due anni la spartizione sarebbesi fatta col mezzo di contingenti provinciali, consorziali e comunali. I primi assegnati dal Governo col mezzo di certi crilerii generali stabiliti dalla legge, i secondi dalle autorità finanziarie e provinciali.

4 Le ulteriori repartizioni fra i singoli contribuenti, dovevano farsi dalle commissioni consorziali e comunali sulla base delle rendite denunziate, accertate e ridotte imponibili.

5. Le rendile avrebbero dovuto tassarsi diversa mente secondo che diverse fossero la origine e la indole loro (discrimination); quindi secondo questa diversità dovevansi denunziare, denunziate dovevansi ridurre effettive mediante il sindacato, le effettive dovevansi ridurre imponibili.

6. Rigettate le esenzioni di mero favore, meno che riguardo ai militari in servizio attivo inferiori al grado di uffiziale per le loro competenze militari, riguardo alle rendite delle Società di mutuo soccorso e riguardo alla dotazione della Corona ed agli appannaggi dei membri della famiglia reale, fu rilasciato all’autorità comunale il fissare un limite sotto al quale, cominciando la indigenza, manca la materia tassabile, e fu stabilito che al di sopra di questo limite fino alle lire 250 imponibili non altra tassa si applicasse che la fissa di L. 2, e non si applicasse la tassa normale se non che alle rendite imponibili superiori a lire 500.

7. Per remuovere le difficoltà provenienti dalla piccolezza dei Comuni, furono immaginati i consorzi tra più comuni di uno stesso mandamento: ed il sindacato delle denunzie, come pure la riduzione della rendita da effettiva ad imponibile venne affidata a commissioni consorziali e comunali, coll’appello dalle loro decisioni ad una commissione provinciale.

8. Fu pure stabilito che i Comuni e le province potessero stabilire sulla ricchezza mobile (escluse le tasse fisse) una sopratassa di centesimi addizionali, dentro i limiti stabiliti dalle leggi comunali e provinciali.

Su queste basi fu concepita la legge sulla tassa della ricchezza mobile, quale usci dalla prova delle gravissime discussioni dei due rami del Parlamento.

CAPITOLO XXIV.

La Imposta fondiaria.

La legge che ebbe per oggetto la perequazione della imposta fondiaria, fu quella naturalmente che doveva incontrare, come incontrò, maggiori difficoltà, e la cui finale approvazione riusci più laboriosa.

Il Parlamento era entrato a piene vele nella via della perequazione delle imposte, poiché tutte le leggi unificatrici fino allora deliberate, non altro scopo avevano che di riuscire a questo finale effetto. Ma siccome era comune persuasione e fatto innegabile, che la proprietà fondiaria fosse diversamente gravata nelle diverse province italiane, cosi era stato stabilito per legge, che le nuove imposte perequate del dazio sul consumo e della tassa sulla rendila non dovessero né promulgarsi né eseguirsi fino a che non fosse pure votata la legge preordinata a perequare la imposta fondiaria.

Le difficoltà per giungere ad un resultamento soddisfacente erano gravissime, stante la diversità che esisteva fra i Catasti delle diverse province italiane, alcune delle quali gli avevano perfettissimi, altre ne mancavano affatto; in alcune i Catasti erano recenti, in altre erano di data molto antica, e quasi da pertutto istituiti con regole e con metodi differentissimi. Era questa la prima volta che venivano in esame la storia e le condizioni economiche della proprietà fondiaria nelle diverse provincie d’Italia, ed aprivasi, per così dire, una solenne inchiesta sulle basi che in ciascheduna di esse avevano servito e servivano al reparto delle imposte. A questa inchiesta facevano capo naturalmente tutti gli studii accumulati dagli antichi e dai moderni economisti, tutte le più gravi e le più sottili questioni della scienza e dell’arte, lutti gli interessi, tutti gli amor proprii, tutte le ingiustizie commesse dei passati governi.

Il Governo, con R. Decreto degli 11 agosto 1861, aveva istituita una speciale Commissione, coll’incarico di ricercare i mezzi pratici e più spediti per ottenere in via approssimativa, la perequazione delle basi dell’imposta fondiaria nelle varie provincie del Regno, a fine di conseguirne un equo reparto.

Non fu resa bastante giustizia a questa Commissione che, animata dallo spirito della più severa imparzialità, e guidata dal desiderio vivissimo della giustizia, senza scoraggiarsi in mezzo agli ostacoli che le ingombravano la via, e non perdendo mai il sentimento di quella rigida imparzialità che era la condizione precipua dell’opera sua, lavorò per tanti mesi indefessamente intorno alla soluzione dei più ardui problemi della scienza economica e del calcolo.

Non essendo in grado di porre in luce tutti i titoli che essa acquistò alla pubblica benemerenza, devo limitarmi a rendere sommario conto dei risultamene cui giunse coi suoi lavori.

La Commissione composta di uomini reputatissimi, appartenenti alle diverse province d’Italia, e che conoscevano per lunga pratica i diversi Catasti che servivano di base all’attuale reparto della imposta fondiaria, si mise alacremente all’opera, e suo primo studio fu quello anzitutto di costatare lo stato presente delle cose.

Costatò che la superficie totale del Regno d’Italia di ettari 24,650,719, corrispondeva ad una superficie produttiva o censita di ettari 21 675501, e stabili il rapporto fra l’una e l’altra.

Costatò che su questa superficie stava una popolazione di 21,728,452 abitanti, e trovò che questa popolazione corrispondeva a 88 individui per ogni 100 ettari di superficie geografica.

Costatò che questa superficie censita rappresentava una rendita censuaria imponibile di L. 534,679,581, Il che per L. 397,890,123,68 spettava ai terreni, per L. 135,074,557,17 spettava ai fabbricati e per Lire 1,714,900,26, spettava a Beni di natura diversa.

Costatò in quali proporzioni ed in quali misure quella superficie e quella rendita si distribuisse fra le diverse regioni catastali d’Italia.

E costatò del pari in quali proporzioni e misure si sopportasse dai fabbricati e dai terreni di dette regioni la imposta erariale effettiva, che ragguagliò a Lire 117 845946, 90, delle quali spettavano ai Terreni Lire 91 276 762, 67, spettavano ai fabbricati Lire 26 348 539, 71, spettavano ai beni diversi Lire 220 624, 52.

Per acquistare un’idea approssimativa della immensa fatica che dovevano costare alla Commissione i lavori preparatorii, giovi avere sott’occhio tutti questi elementi primordiali, che essa riunì per le sue ulteriori operazioni.

pagina 140

Non è inutile il notare che la imposta fondiaria è divisa in lutto il Regno in 4 790000 quote, che si pagano da 2 811439 possessori di 23 000 000 appezzamenti nei quali la proprietà fondiaria è distribuita. 1

Numero dei possidenti.

REGION

Superficie Censita.

Appezzem.

Poste dei Possessori

POSSIDENTI

Numero Totale

Per 100 Abitanti.

Antiche Province.

Ettari.

5 476 565

Migliaia 9000

Migliaia.

1141

769 607

18. 90

Lombardia

1 689 076

3031

562

413 723

13. 86

Parma e Piacenza.

525 320

750

94

48 000

10. 25

Modena. Reggio e Massa

598 535

600

90

61 687

9. 61

Romagna, Marche e Umbria

2 855 208

2966

222

161 558

6. 71

Toscana

2 084 927

2188

209

173 000

9. 47

Napoli

6 046 481

4003

1660

993 864

13. 91

Sicilia

2 399 360

»

812

250 000

10. 79

Regno

21 675 422

23 000

4 790

2 871 439

13. 13

Imperocché questo ci porta ad osservare una diversità grande che esiste su tale proposito tra l’Italia e la Francia, dove sopra una superficie censita di ettari 51 657 129, si contano 126 milioni di appezzamenti, 12 822 728 poste di possessi, e 7 139214 proprietari, dei quali soltanto 16 340 figurano per quote di contribuzioni maggiori di Lire 1000. Laddove in Italia i possessori per quote maggiori di Lire 1000 ascendono invece a 21 478.

1 Questi dati gli traggo dell'Annuario Statistico del 1864. Annuario citato.

Quote della contribuzione fondiaria, urbana e rurale.



Meno di L. 10

Da L. 10 a 20

Da L. 20 a 30

Da L. 30 a 50

Da L. 50 a 100

Da L. 100 a 300

Da L. 300 a 500

Da L. 500 a 1000

Maggiori di L. 1000

Totale

Antiche province

725425

163592

75606

67275

54616

36838

7871

5336

3976

1140535

Lombardia

347410

69754

31420

32365

29692

26833

7987

6673

6597

561731

Parma e Piacenza

50399

12470

6771

6857

6877

0456

2013

1448


94248

Modena, Reggio e Massa

58976

9636

4776

4769

4599

4695

1285

798

424

89958

Romagne, Marche e Umbria

109414

35143

17505

18233

18821

15716

3424

2397

1460

222113

Toscana

99762

30096

16237

17026

17864

17211

4124

3515

2828

208963'

Province napoletane

1150127

213306

97110

74027

61409

43641

10212

6032

4631

1660495

Siciliane

716914

44935

16402

13416

9898

6800

1622

1060

608

811715

Regno

3258457

578932

268830

233998

203776

158190

38838

27259

21478

4789758

Lo che basta a dimostrare, quanto la proprietà fondiaria sia più divisa in Francia che fra noi.

Cosi la Commissione era giunta al nodo vero del problema da risolversi. Proporre un nuovo e generale catasto erale impossibile, perché tale operazione avrebbe richiesto un lunghissimo corso di anni, ed urgeva il far presto; sarebbe pure occorsa una gravissima spesa, e di danari da gettar via non vi era dovizia. Non poteva nemmeno pensare ad una catastazione provvisoria per mezzo di denuncie o portate, perché anche questa richiedeva troppo tempo e troppo danaro, e d’altra parte non sarebbe stato savio consiglio il sostituire un nuovo catasto per denunzie ai catasti che abbiamo servendo essi, comunque sieno, a ben altri importantissimi ufficii che non al mero reparto della tassa prediale.

Bisognava adunque che ricorresse ad alcuno di quei sistemi complessivi e sintetici, dei quali si erano valsi altri paesi, collocati in condizioni analoghe alle nostre, e che conducessero a determinare zona per zona il rapporto tra la rendita censuaria e la rendita reale, onde dappertutto la stessa rendita fosse gravata della stessa aliquota d’imposta.

Per la risoluzione di tale intricato problema, furono proposti e discussi tre sistemi diversi. Il primo prendeva per base i catasti esistenti. Il secondo assumeva per criterio la popolazione, criterio che deducevasi dall’assioma economico essere la popolazione proporzionata sempre ai mezzi di sussistenza. Il terzo adoperava come criterio il valore venale dei fondi deir ultimo decennio, dedotto dai contratti di compra e vendita.

Quest'ultimo sistema, che più degli altri influì nel determinare i contingenti attribuibili alle diverse zone catastali, applica vasi con quattro successive operazioni.

La prima consisteva nello spoglio materiale dei contratti provincia per provincia, trascrivendo in appositi quadri i nomi dei venditori, la località, la misura del fondo, la valuta dell'estimo corrispondente, i canoni, gli aggravi, il prezzo totale. E così fu eseguito lo spoglio di ben 747 385 contratti, che rappresentavano L. 1034000 000 di valore, cioè una massa grande di rendita censuaria, relativa ad ogni specie di cultura.

La seconda aveva per subietto il trovare il rapporto fra la rendita dell'unità catastale ed il valore venale, e questa era un operazione essenzialmente tecnica ed aritmetica.

Colta terza doveva stabilirsi provincia per provincia il saggio o l’interesse d’investimento. Questa fu affidata specialmente ai periti locali. Parlando solo delle province toscane, dirò che il saggio fu dedotto dal parere quasi unanime e concorde di oltre 50 fra i migliori periti, e chiunque abbia esaminate le loro relazioni, può aver notato come essi fossero stati coscienziosi ed esatti nelle respettive dichiarazioni.

L’ultima operazione, che era il corollario di tutte le altre, consisteva nel determinare il rapporto fra la rendita reale e l’unità censuaria corrispondente, rapporto che scaturiva dai resultamenti delle operazioni precedenti.

Dissi che questo sistema ebbe un influsso preponderante: soggiungo che non Io ebbe esclusivo, poiché gli altri pure servirono a quelle transazioni che, quando si tratta di calcoli e di operazioni così complesse, sono inevitabili. E tanto più dovevano servire a questo scopo, quando tutti e tre i sistemi giungevano per vie diverse quasi alle stesse conclusioni, sia rispetto alle province che dovevano godere dello sgravio, sia rispetto a quelle che dovevano essere aggravate.

Dissi che la Commissione aveva preso per base di reparto la cifra di L. 117 845 946, 90. Ma siccome in questa cifra comprendevasi anche quella quota che avrebbe dovuto pagarsi dai beni ora esenti o privilegiati, quindi essa venne tolta, e il contingente fu ridotto a L. 116 665 349. Poi fu visto che in questa cifra erano pure comprese quelle spese provinciali che in alcune province, diversamente che in altre, amministravansi dallo Stato, e queste pure (L. 12264 507) furono tolte, riducendo il contingente a L. 104 400 842. Finalmente, osservando la Commissione che questa ci fra poteva variare per aumenti d'imposta che il Ministro chiedesse, prese il partito di fare le sue proposte sulla base non dei 104 milioni che si pagavano attualmente, ma sulla base astratta di 100 milioni, talchè il contingente assegnato a ciascuna provincia non rappresentasse che una cifra di rapporto.

Giovi l’avere sott’occhio i resultati fipali dei tre sistemi, messi a confronto colle cifre definitivamenie adottate dalla Commissione.

Quadro delle varie: proposte sulla base di un contingente di L. 100,000,000

COMPARTIMENTI

CIFRE IN ORDINE

Cifre adottate dalla Commissione.

Al

CATASTI

ALLA

POPOLAZIONE

AI

CONTRATTI

Piemonte

Lombardia

Parma e Piacenza Modena

Toscana

Ex-Pontificio

Napoli

Sicilia

Sardegna

17 465 000

15 753 000

2 996 000

5 102 000

7 554 000

11 0994 000

29986 000

9 417 000

2 655 000

18 915 000

15 445 000

2 281 000

3 174 000

8005 000

10 053 000

50 482 000

9259 000

2 406 000

19 253 000

15 459 000

2301 000

3201 000

7 845 000

10 332 000

50 014 000

9 225 000

2 570 000

18254000

16 107 000

2 280 000

3 174 000

7 805 000

10233 000

30 482 000

9 259 000

2 406 000

Totale

100 000 000

100 000 000

100 000 000

100 000 000

Sulle basi infatti di queste cifre venne presentato alla Camera il 19 marzo 1862 il progetto dì Legge, che chiedeva per l’anno prossimo la imposta fondiaria nel contingente di 110 milioni non compreso il decimo di guerra, non comprese le spese di percezione, né le spese provinciali, repartito come appresso:

1. Piemonte

L. 20079 400

2. Lombardia

L. 17 717 700

3. Parma e Piacenza

L. 2 508000

4. Ex Ducato di Modena

L. 3 491 400

5. Toscana

L. 8 585 500

6. Ex Pontificio

L. 11 256 300

7. Province napoletane

L. 33 530 200

8. Isola di Sicilia

L. 10184900

9. Isola di Sardegna

L. 2 646 600


L. 110000000

Lunghe, complicate e gravi furono le discussioni cui dètte. luogo questo reparto dentro e fuori del Parlamento, giacché i bisogni dell’erario portavano l’effello che per alcune province, quali erano specialmente il Piemonte, la Toscana: e la Sicilia, la imposta fondiaria ricevesse ad un tempo l’aggravio proveniente dalla perequazione e l’aggravio proveniente dall’aumento d’imposta. La perequazione fu attaccata nel fatto da cui muoveva, impugnandosi da molti che differenza di aggravio tra provincia e provincia ci fosse; fa attaccata nel principio su cui riposava, sostenendosi da alcuni, che pagandosi la imposta dalla terra e non daj proprietario, come già prelevata sul prezzo, non possa alterarsene il reparto senza togliere ingiustamente una parte del capitale agli uni, per donarlo ' agli altri: fu attaccata da altri che, concordandola in massima, pure sostenevano non doversi estendere a quella parte d’imposta che può dirsi già compenetrata nel fondo: fu attaccata in ordine al sistema seguitato dalla Commissione, che fu detto essere irrazionale, empirico ed arbitrario: fu attaccata finalmente nel modo pratico col quale il sistema erasi applicato, dicendosi errati i computi, errate le cifre, sbagliato tutto.

A queste obiezioni si rispondeva: che il fatto della diseguaglianza era innegabile; che riconosciuta la diseguaglianza, ogni riguardo di giustizia e di buon senso esigeva vi fosse riparato; che l’aumento dell’imposta entra sempre nella determinazione del prezzo; che la invariabilità della imposta o nega il diritto dello Stato, o conduce alla necessità di colpire il prodotto della terra anche colla tassa della rendita, come avviene in Inghilterra; che la dottrina della compenetrazione dell’imposta si risolve in quella della tassa fissa, la quale suppone la invariabilità dei valori; che ammessa la giustizia astratta della perequazione, il sistema della Commissione era il meno arbitrario e il più razionale che potesse seguirsi; che la Commissione nell’applicarlo aveva usato tutta la diligenza possibile, talché le sue operazioni reggevano alla prova di qualunque censura.

Queste animatissime discussioni portarono alla conseguenza di alcune e non lievi transazioni, di cui non posso occuparmi. La principale fu che, concordate e messe fuori di disputa le cifre della perequazione, queste dovessero applicarsi in due tempi; cioè per una parte negli anni 1864, 1865, 1866, e per il totale negli anni avvenire, come dal seguente confronto;

Reparto di 110 milioni stabilito dalla Legge del 14 luglio 1864.


Per gli anni

1864-65-66.

Per gli anni

avvenire.

1. Piemonte

L. 18 679 876

L. 20 079106

2. Lombardia

L. 19110295

L. 17 717 478

3. Parma e Piacenza

L. 2 776 087

L. 2 508 719

4. Ex Ducato di Modena

L. 3437 114

L. 3 491 696

5. Toscana

L. 7 820 040

L. (1) 8 270 598

6. Ex Pontificio

L. 12 027 271

L. (1) 11 570675

7. Province napoletane

L. 33 895 334

L. 33 530 353

8. Isola di Sardegna..

L. 9 625 833

L. 10 184 586

9. Isola di Sicilia

L. 2 628150

L. 2 646 789

Totali

L. 110 000 000

L. 110 000 000

Fu stabilito che si dovesse procedere all’immediata perequazione di quella parte d’imposta fondiaria che colpisce i fabbricati: fu stabilito del pari che dentro il mese di febbraio del 1867, il ministro delle Finanze dovesse presentare al Parlamento un nuovo progetto di perequazione stabile del tributo fondiario tra le province del Regno.

E cosi fu decisa in nome della giustizia ed a benefìzio della unità dell’Italia, questa grave e delicata questione, che implicava tanti interessi e tanti amor proprii, e che difficilmente avrebbe potuto decidersi in altro modo,

1 Le variazioni pei contingenti della Toscana e dell’ex-Pontificio, per cui la Toscana guadagnò un nuovo sgravio, furono proposte dalla Commissione parlamentare, e consentite dagli stessi deputati delle province ex-pontificie.

senza compromettere tutta quanta la unificazione finanziaria, della quale il Parlamento èrasi occupato per tre anni consecutivi.

Le differenze grandissime che erano state avvertile quanto al reparto della imposta fondiaria nelle province del Piemonte, sia tra loro, sia tra Comune e Comune, sia tra i possessi di uno stesso Comune, fecero adottare dei provvedimenti speciali, onde in quelle province la perequazione interna precedesse gli effetti della perequazione generale cui mirava la legge. Questi provvedimenti, che erano reclamati dalla giustizia, e che non potevano cercarsi nei catasti di cui alcune di quelle province difettavano affatto, furono precipuamente affidati alle denunzie dei possessori. Ignoro però a qual punto siano oggi le cose, e se l’effetto desiderato siasi potuto praticamente ottenere.

CAPITOLO XXV.

Maggiori entrate e migliore reparto.

Avendo preso una qualche parte in queste leggi d’imposta, sia lavorando intorno ad esse nelle commissioni, sia difendendole come meglio sapevo in. Parlamento, mi è duopo manifestare due nuove ragioni che, oltre le generali di cui tenni discorso anteriormente, influirono non poco sull’animo di molti nell’approvarle..

lo non ho mai dubitato che le nostre popolazioni fossero pronte à qualunque aggravio si richiedesse loro a pro dell'Italia, come non ho dubitato nemmeno che ingenti esser dovessero i sacrifizi da sostenersi, sé vuolsi condurre a compimento il maestoso edificio detta unità nazionale. Il conte di Cavour, che non voleva ingannare i suoi concittadini, era solito dire, che per fare l'Italia bisogna pagare, pagare e poi pagare. Ed aveva ragione, perché l’Italia politica, militare, finanziaria, scientifica, commerciale non può farsi colle sole parole, ma esige ingentissime anticipazioni di capitali, che se non renderanno a noi tutto quel frutto che ne speriamo, lo renderanno; abbondantissimo alla generazione che viene dopo di noi. Ma intanto era osservabile un fenomeno finanziario presentatosi immediatamente (come era inevitabile) nei primordii del risorgimento italiano. L’attivo delle pubbliche entrate, che, sommati i bilanci dei singoli Stati al principio del 1859, ascendeva a lire 501 107 000, nel bilancio complessivo del 1860 era disceso a L. 460 115000. E le spese che nel 1859 ascendevano complessivamente a lire 514 221 000, nel 1860 erano già salite a lire 571 277 000. Come ciò fosse accaduto, era facile a vedersi. I governi provvisorii e dittatoriali avevano da un lato diminuite le entrate, o sopprimendo certe imposte impopolari e antieconomiche, o diminuendone alcune che parevano troppo gravose, o invertendo di altre la destinazione, ed all’inversa avevano accresciute le spese, perché ciò fosse richiesto non tanto dalle stesse esigenza della rivoluzione, quanto dalle nuove necessità di armamenti, di. opere pubbliche e di cultura nazionale. In questo, conto, la Toscana non era al dì sotto degli altri Stati, poiché il suo bilancio attivo che nel 1859 era di lire 38 400000, discese nel 1860 a lire 32 400 000, per effetto d’imposte o abolite o diminuite o distratte, ' mentre il suo bilancio passivo che nel 1859 sommava a lire 38 400000, mercé le nuove spese occorrenti per gli armamenti, per l’istruzione pubblica e per le opere pubbliche, era salito nel 1860 a lire 46 600 000. Talché la differenza fra le entrate diminuite e le spese accresciute era di lire 44200000.

Con questo non può farsi nessuna censura né al governo della Toscana, né agli altri governi provvisorii o dittatoriali che fecero altrettanto 1 ove si consideri che tali provvedimenti, se furono dannosi finanziariamente, contribuirono però al gran fine che eransi proposto, al fine cioè di farsi iniziatori della unità italiana e di salvarci dalla oppressione straniera.


1 Le Tasse alle quali alludesi sono le seguenti:


1. Tassa di macellazione abolita

L. 781790

2. Dazio di consumo trasferito ai Comuni

L. 4455330

3. Diminuzione nel prodotto doganale, tenuto conto del 10 per cento agli Spedali


L. 191 610

4. Diminuzione nei sali per riduzione di tariffa


L. 931830

5. Posta

L. 91000

6. Bollo

L. 550000

7. RR. Possessi

L. 357 500


L. 7 359 060


Secondo i calcoli del Pasini, avrebbero diminuito le loro rendite i governi provvisorii.

Di Napoli per

L. 18 258 410

Di Sicilia per

L. 22 310 475

Delle Marche e Umbria per circa

L. 7 000 000


Taluno disse che dovevano avere maggior fede nel senno delle popolazioni; io rispondo che dovevano aver fede anche nella stella d’Italia e nell’avvenire.

La unificazione delle leggi d’imposta e la perequazione delle tasse erano pertanto suggerite e volute dalla necessità che tornassero all'erario quelle entrate che nel primo periodo della rivoluzione aveva perdute, e che gli si accrescessero in pari tempo i mezzi per sopperire alle nuove e maggiori spese, che il mutato ordinamento politico ed i nuovi bisogni avevano richieste.

A tutto questo s’aggiungeva la non meno grave considerazione di conseguire al più presto, insieme colla perequazione delle imposte fra gli antichi ex Stati, anche la perequazione amministrativa tra le province e i Comuni, e la eguaglianza dei tributi tra le varie classi dei cittadini. Per ottenere la prima, bisognava che le province e i Comuni fossero parificali fra loro quanto alle spese obbligatorie, e bisognava creare per le une e per gli altri nuove risorse finanziarie. Per ottenere la seconda, bisognava che tali imposizioni fossero ripartite in modo che tutte le classi dei cittadini contribuissero egualmente ai pubblici aggravi e cessasse lo sconcio che sulla sola ricchezza fondiaria ricadessero le spese delle province e dei Comuni.

Il problema non poteva già risolversi, come taluno sostenne in Parlamento, coll’attribuire al Governo tutta la imposta fondiaria ed ai Comuni ed alle province l’esclusivo godimento di ogni altra tassa, poiché in tal guisa sarebbonsi invertiti i termini della disuguaglianza, senza che però questa cessasse. La eguaglianza vera non poteva conseguirsi se non creando un sistema nuovo di tasse e di gravezze, alle quali lo Stato, le province e i Comuni potessero partecipare egualmente sebbene con proporzioni diverse, talché l’effetto fosse, che ogni specie di ricchezza come contribuisce alle spese dello Stato, contribuisse del pari alle spese della provincia e del Comune.

:Serva un esempio a meglio spiegare il mio concetto. La città di Parigi, amministrata (come tutti sanno) eccezionalmente dal prefetto delta Senna, ha oggimai un bilancio passivo tra spese ordinarie é spese straordinarie di 197 milioni. Le sue spese ordinarie, che nel 1816 erano di 28 milioni e nel 1828 erano già salite a 50 milioni, 1 oggi toccano la ingente Cifra di circa 112 milioni, cui fanno fronte altrettanti introiti ordinarli del suo bilancio attivo. Ma in questa cifra vi concorrono le imposte dirette per due milioni e mezzo, dei quali poco più di lire 500 mila sopportate dalla fondiaria, vi concorre il dazio consumo (meno quello sulle bevande, che appartiene allo Stato) per lire 84911350, vi concorrono altri proventi e contributi per ogni rimanente. Intendo ché erronea sarebbe ogni analogia fra le risorse che sono disponibili per quella immensa metropoli del mondo civile e le nostre città. s Ma ho voluto allegare questo esempio, per far comprendere, come uno degli effetti pratici cui ha dovuto mirare certamente il Parlamento colle nuove leggi d’imposta, fu quello appunto di preparare una trasformazione nella finanza delle province e dei Comuni.

1 Ecco la progressione di tale bilancio secondo Brusson, Histoire financière de la France, tom. II, pag. 408:

1816

L. 28745874

1818

L. 32819 878

1822

L. 42 077972

1826

L. 46 588 696

1828

L. 50000000

2 Secondo il bilancio della città di Parigi per il 1863, le L. 2 688 500 di centesimi addizionali sulle imposte dirette? sono ripartite come appresso:


a) 5 centesimi stilla fondiaria

L. 485000

b) 5. centesimi sulla personale e mobiliare

L. 253 000

e) 8 centesimi sulle patenti

L. 1 015 000

d) 3 centesimi su tutto per la istruzione primaria

L. 934000

e) Rimborsi per le spese di perizia sui ricorsi

L. 1500


L. 2 688 500


Queste leggi offrono infatti alle une ed agli altri una nuova base di contributo, che permette loro di aumentare le proprie entrate mediante un migliore reparto delle imposte fra le classi dei contribuenti, le quali è pretta giustizia concorrano tutte a sopportare proporzionalmente quelle Spese che sono fatte per comune utilità, e ohe oggi sono rese maggiori dai bisogni e dalle esigenze della civiltà progrediente. Conosco le obiezioni che possono muoversi contro questa teoria, e conosco del pari le ragioni che si adducono a sostegno di una dottrina diversa, malgrado ciò, io persisto nella mia opinione, parendomi che ogni altro sistema debba riuscire in pratica?soverchiamente incomode e dispendioso per le amministrazioni comunali.

CAPITOLO XXVI.

Gli uffizii Finanziarii.

Conosciuto il sistema delle tasse, mi pare possa tornare utile ai lettori l’avere una sommaria notizia del nostro organismo finanziario, del modo cioè col quale si provvede alla percezione ed alla erogazione delle pubbliche entrate, non che all’amministrazione di tutto quello che costituisce il patrimonio dello Stato.

Fra noi non esistono fino a qui le amministrazioni generali, come in Francia, separate e distinte dall’amministrazione centrale della finanza, cui tutto fa capo. Esistono invece le direzioni generali che fanno parte del ministero delle finanze, salvo quelle delle poste e telegrafi che fanno parte del Ministero dei lavori pubblici. Da queste diverse direzioni generali si staccano e si diramano le amministrazioni provinciali nelle loro diverse diramazioni che sono collocate sotto la immediata dipendenza dei due ministeri sopra mentovati.

§ 1. Direzione generale delle contribuzioni dirette. — A questa direzione generale appartengono la conservazione dei catasti della ricchezza fondiaria e non fondiaria:

Il reparto delle imposte: la esazione delle medesime.

Come incaricata della conservazione dei catasti, questa direzione ha sotto la sua dipendenza:

La direzione generale del catasto delle antiche province.

La Giunta del censimento nelle province lombarde.

Le direzioni e conservazioni centrali del catasto esistenti nelle altre zone catastali del Regno.

Come incaricata del reparto e della esazione delle tasse dirette, aveva sotto la sua dipendenza tutti gli ufficii attinenti alla percezione delle tasse dirette, distribuiti per province e circondarli ed aggruppati in nove compartimenti catastali, ciascheduno funzionante con leggi sue proprie, non essendo ancora unificata questa materia della percezione. Quindi facevano capo a questa direzione:

Gli ispettori, verificatori, ed esattori delle antiche province;

I verificatori e conservatori della Lombardia;

I controllori ed esattori delle province parmensi;

I campionieri delle province modenesi;

I cancellieri del censo delle province romagnole, umbre, e marchigiane;

I ministri del censo delle province toscane;

Le direzioni provinciali delle province napoletane e siciliane coi loro percettori e controllori.

L’organamento di quest’amministrazione doveva necessariamente modificarsi in vista di due grandissime innovazioni.

L’una relativa alla attuazione della nuova tassa sulle entrate, che a fianco dei catasti della proprietà fondiaria istituiva i catasti della ricchezza non fondiaria.

L’altra relativa al sistema di percezione, che è di imperiosa necessità l’unificare per tutte le province italiane.

Anzi la parte grandissima che è riservala ai Comuni nella esecuzione della legge concernente la tassa non fondiaria, pare a me che rendesse sempre più evidente che per semplicizzare l’organismo finanziario e renderlo meno costoso, bisognasse tenere uniti fra loro e vicini i due catasti, le due tasse dirette, le due percezioni, sotto una sola direzione come in Francia, e convenisse invece di assumere il Comune come la base angolare di un solo sistema di percezione.

Ma sugli ultimi tempi dell’amministrazione Minghetti quest'ordine d’idee venne pregiudicato soslanzialmente in forza di due R. decreti del 14 agosto 1864, della cui provvidità mi faccio lecito dubitare assai.

Col primo decreto. la conservazione del catasto della proprietà fondiaria cessò di far parte dell’amministrazione delle contribuzioni dirette, e venne unita a quella della formazione, del catasto, sotto una direzione generale, dalla quale dovevano dipendere le direzioni compartimentali di Torino, di Milano, di Parma, di Modena, di Bologna, di Firenze, di Napoli, di Palermo.; Col secondo decreto furono riunite in una sola direzione generale delle tasse e del demanio, le due direzioni prima separale delle contribuzioni dirette e del demanio e tasse.

E siccome la logica è inesorabile, con un recente decreto del 26 luglio 1865, l’attuale ministro delle finanze ha soppressa la direzione generale e le direzioni compartimentali del catasto, e ne ha riunite le attribuzioni nell’unica direzione generale del demanio e tasse.

Io, quantunque amico e fautore del concentramento dei servizi, non posso lodare questa riforma. Poiché, senza entrare nella questione dei catasti, e senza punto, associarmi alle. esagerale censure che vennero mosse sia per la riduzione degli uffici del censo, sia per la traslocazione inevitabile dei catasti negli uffici delle tasse, non mi è parsa buona cosa né la soppressione delle direzioni catastali, esistenti, né la distribuzione dei registri ed atti dei, catasti vigenti, fra le direzioni compartimentali del demanio, c lasse, e molto meno il riunire il servizio dei catasti e quello delle tasse dirette nelle medesime direzioni del demanio e delle tasse indirette. Anzi è questa la innovazione che meno mi è andata a genio, sia perché troppo differenti sono le attitudini e le cognizioni che. ci vogliono in queste ingerenze fra loro separatissime, sia perché una medesima direzione non può sorvegliare con eguale attenzione uffici cotanto diversi e dai quali dipende in gran parte l’avvenire delle nostre finanze, sia perché in tal modo sono state pregiudicate non poche questioni la di cui importanza vedrebbesi, se si studiasse all'infuori di ogni preconcetto il problema della percezione delle tasse.

§ 2. Direzione generale del demanio e tasse. — Questa direzione cui prima erano affidate l’amministrazione e la vendita dei beni demaniali e di. quelli della cassa ecclesiastica, le tasse degli affari e il gioco del Lotto, m forza dei mentovati decreti del 14 agosto 1864 e 26 luglio 1865, amministra e governa:

1. Tutta la materia dei catasti;

2. Le tasse fondiarie rurali ed urbane;

3. Le tasso sui redditi della ricchezza mobile;

4. Le tasse di registro e bollo, manomorta, Società ed ipoteche;

5. La riscossione delle pene pecuniarie, l’anticipazione e la ricuperazione delle spese di giustizia punitiva;

6. Le tasse per concessioni governative;

7. Le; tasse e i proventi non assegnali special mente ad altre amministrazioni;

8. I beni, rendite, e diritti di ogni natura appartenenti al demanio;

9. Il gioco del Lotto.

Questa direzione generale cui sono affidate ingerenze cosi vaste, cosi disparate, e che esigono cognizioni tecniche, e pratiche cotanto diverse non tarderà guari ad apparire insufficiente e manchevole, e non mi farebbe maraviglia, se la necessità delle cose obbligasse ritornare ad una più razionale divisione, rimanendo a carico sempre i gravissimi danni procurati per l’antecedente mutamento.

La direzione generale del demanio e tasse esercita le sue moltiplici attribuzioni (eccetto il Lotto) col mezzo di 50 direzioni provinciali.

Ogni direzione provinciale è divisa in circoli o distretti d’ispezione e sottoispezione, ed ha sotto la sua dipendenza:

I ricevitori del registro;

I conservatori delle ipoteche;

I contabili demaniali;

La fabbricazione di carte filogranate;

Le fabbriche civili.

Le amministrazioni speciali di beni e fondi demaniali, tranne quei pochi che dipendono direttamente dai ministeri delle finanze e di agricoltura e commercio.

Col decreto del 14 agosto 1864 furono creati 39 uffici di agenzie per le tasse sulle entrale. Col successivo decreto del 26 luglio 1865, queste agenzie, cui venne affidata ogni ingerenza rispetto ai catasti e rispetto alle tasse dirette, furono distribuite sotto ciascuna delle 50 direzioni provinciali, per circoscrizioni territoriali in numero di 466, mentre il servizio delle tasse indirette è affidato a 201 ricevitori.

Tutta questa innovazione viene meglio chiarita dal seguente riassunto ufficiale pubblicato in seguito del mentovato decreto.

Quadro delle Direzioni e degli uffici distrettuali, concernenti il servizio del Demanio e Tasse.

DIREZIONI

Agenti

delle Tasse

Ricevitori

del Registro

Totale

1. Alessandria

18


18

2. Ancona

14


14

3. Aquila

6

6

12

4. Avellino

7

7

14

5. Bari

8

11

19

6. Benevento

3

7

10

7. Bergamo

12

12

8. Bologna

9

9

9. Brescia

15


15

10. Cagliari

'10


10

11. Caltanisetta

6

3

9

12. Campobasso

5

12

17

13. Caserta

10

15

25

14. Catania

10

6

16

15. Catanzaro

5

12

17

16. Chiedi

5

6

11

17. Como

10

10

18. Cosenza

4

15

19

19. Cremona

8

8

20. Cuneo

14

1

15

21. Firenze

20


20

22. Foggia

5

9

14

23. Forlì

9

9

24. Genova

18

1

19

25. Girgenti

8

2

10

26. Lecce

9

7

16

27. Macerata

12


12

28. Massa

6


6

29. Messina

4

14

18

30. Milano

20

«

20

31. Modena

7

1

8

32. Marbegno

5


5

33. Napoli

10

7

17

34. Noto

6

3

9

35. Novara

13


13

36. Palermo

10

3

13

37. Parma

6

1

7

Da riportarsi

347

140

496


DIREZIONI

Agenti

delle Tasse

Ricevitori

del Registro

Totale

Riporto

347

149

496

38. Paria

10

10

39. Perugia

19

19

40. Piacenza

6

1

7

44. Pisa

13

13

42. Potenza

10

16

26

43. Reggio (Calabria)

4

13

17

44. Reggio {Emilia)

7

7

45. Salerno

9

11

20

46. Sassari

5

5

47. Siena

11

11

48. Teramo

2

7

9

49. Torino

19

19

50. Trapani

4

4

8

Totale

466

201

667

Cosi il personale del servizio provinciale e distrettuale del demanio e tasse è di n° 1004 individui, e costa all’Erario lire 2, 265, 730, come dal seguente riassunto ufficiale.

Personale degli uffizii direttorii ed ispezioni.

N° 346

L. 708, 200

Personale degli uffizii esterni ed ispezioni

N° 658

L. 1,182,100

Assegnazioni fisse

N° —

L. 375,430

Totali

N° 1004

L. 2,265,730

La stessa Direzione Generale amministra poi separatamente il Gioco del Lotto, mediante le sei direzioni compartimentali di B, Firenze, Milano, Napoli, Palermo, da ciascuna delle quali dipendono i singoli Banchi esistenti nei respettivi compartimenti. Questa nuova circoscrizione fu creata dopo che la Legge del 27 settembre 1863 autorizzava il Governo a provvedere con Reali Decreti al riordinamento del Lotto provvisoriamente conservato come privativa dello Stato. Allora mentre s’istituivano le sei direzioni compartimentali, si abolivano altresì i precedenti sistemi pel ricevimento del Lotto, sostituendovi dappertutto quello dei bullettarii a due matrici, aumeniavasi il minimo prezzo delle giocale, e regolavansi uniformemente le contravvenzioni e le pene. 1

§ 3° Direzione generale delle dogane e delle garelle. — Questa Direzione amministra le dogane, il dazio consumo, i generi di privativa, cioè i sali, i tabacchi, le polveri e le relative manifatture.

L’amministrazione provinciale si esercita col mezzo di XXVII Direzioni che sono quelle di Ancona — Bari — Bologna — Brescia — Cagliari — Catania — Chieti — Como — Cosenza — Firenze — Foggia — Genova — Girgenti — Lecce — Livorno — Lucca — Messina — Milano — Modena — Napoli — Novara — Oneglia — Palermo — Parma — Reggio Calabria — Salerno — Torino.

Ogni Direzione provinciale è divisa in Circoli d’ispezione, ed amministra e sorveglia ciascuna nel proprio territorio

Le dogane di Frontiera.

La porzione relativa del dazio di consumo.

I magazzini del sale e dei tabacchi.

Le rivendite dei generi stessi.

Dalla medesima Direzione generale dipendono:

1. Le coltivazioni delle piante di tabacco.

2. Le manifatture del tabacco, che sono 16, cioè: di Chiaravalle — Bologna — Cagliari — Firenze e Parco — Sestri Ponente — Lecce — Capraja — Lucca — Massa — Milano — Modena — Napoli — Cava — Certosa presso Parma — Torino e Parco.

3. Le Saline, che sono 6, cioè: di Barletta — Cervia — Comacchio — Lungo — Volterra — Maliscola.

1 Regio Decreto del 5 novembre 1863.

Spetta al Ministro delle finanze lo studiare il problema se nell’interesse dello Stato e dei consumatori sia buona cosa questa faccenda delle manifatture governative, ed in qual modo potrebbe combinarsi un sistema generale di appalto, che fornisse migliore prodotto, ed assicurasse all’erario un introito maggiore.

§ 4° Direzione generale del tesoro. — Questa Direzione che fa parte del Ministero delle finanze, compie al tempo stesso le veci di quello che in Francia chiamasi uffizio centrale della contabilità generale.

Le attribuzioni di questa direzione sono: I. 1 bilanci delle entrate e delle spese e conti relativi — la compilazione dei quadri annuali di cassazione delle pubbliche entrate — 1 amministrazione di queste.

II. Gli imprestiti nazionali, tanto all’estero che all’interno — le monete e Vaglia — i Buoni del Tesoro — il giro de' fondi.

III. L’ammissione a pagamento delle spese iscritte nel Bilancio Generale, e la contabilità relativa.

IV.. La contabilità e sindacato della Tesoreria centrale e delle Tesorerie provinciali.

L’amministrazione provinciale del Tesoro si esercita col mezzo di IX Direzioni compartimentali che sono di Bologna — Cagliari — Firenze — Genova — Milano — Napoli — Palermo — Parma — Torino.

Per ogni Direzione compartimentale vi ha un uffìzio di controllo, delegato dalla Corte dei conti.

Ogni Direzione compartimentale esercita le sue attribuzioni nel respettivo territorio col mezzo delle agenzie provinciali.

Presso ogni agenzia vi è una tesoreria che riceve tutte le pubbliche entrate e paga tutte le spese dietro regolari mandati, ma sempre sotto la dipendenza e sorveglianza della direzione compartimentale incaricata del sindacato e del giro dei fondi, sia fra tesoreria e tesoreria, sia fra queste e la tesoreria centrale, che è sotto la dipendenza immediata della Direzione generale.

§ 5° Direzione generale del debito pubblico. — Questa è incaricata: I. Di custodire il gran libro del debito consolidato. Sono affidati alla sua custodia anche i registri dei debiti non unificati, i depositi di obbligazioni, e i registri di pagamento.

II. Di eseguire tutte le volture d’iscrizioni, o le iscrizioni nuove sulla richiesta regolare delle parti, e di notare tutti i mutamenti che servono a costatare e garantire la proprietà e il possesso delle obbligazioni.

III. Di fare i pagamenti della rendita consolidata o non consolidata.

La Direzione generale esercita le moltiplici sue incombenze mediante le quattro direzioni compartimentali di Firenze, Milano, Napoli e Palermo, presso le quali possono farsi ed eseguirsi le stesso operazioni concernenti il debito pubblico, che si fanno e si eseguiscono presso la Direzione generale.

L’amministrazione del debito pubblico è sotto la vigilanza di una commissione di 12 membri senatori, e deputati eletti dalle due Camere, e consiglieri della Corte dei conti, che ne rende conto ogni anno con apposita relazione al Parlamento.

§ 6° La Direzione generale delle poste. — In Francia l’amministrazione delle Poste dipende dal Ministero delle finanze, e parrebbe che ciò fosse razionale, non tanto perché le Poste costituiscono una privativa a vantaggio del regio erario, quanto ancora perché l’uso ormai generalizzato dei Vaglia postali che ascendono ad un valore significantissimo (come abbiamo veduto) hanno convertito gli uffizi postali in vere e proprie banche destinate alla trasmissione e cambio di valori. In Italia invece l’amministrazione delle Poste costituisce una direzione generale del Ministero dei lavori pubblici. Ma è proprio luogo in questo caso alla applicazione del proverbio, che ogni male non viene per nuocere. Appunto per questo l’amministrazione delle Poste, mostra incamminarsi verso quel piano più razionale d’ordinamento, che in altri rami finanziarii è tuttavia da desiderarsi.

In ordine al primitivo impianto, il servizio provinciale delle Poste era ordinalo per direzioni compartimentali — direzioni locali — uffici primarii e secondarii — distribuzioni — uffici ambulanti — uffici natanti — uffici succursali.

Le direzioni compartimentali, secondo tale impianto, erano 14. Le direzioni locali 81, distribuite come appresso.

Quadro delle Direzioni compartimentali delle Poste.

DIREZIONI COMPARTIMENTALI.

DIREZIONI LOCALI.

1. Alessandria

15

2. Ancona

8

3. Bari

3

4. Bologna.

12

5. Brescia

3

6. Cagliari.

4

7. Chieti

4

8. Cosenza

4

9. Firenze

13

10. Genova

9

11. Milano

5

12. Napoli

7

13. Palermo

8

14. Torino

6

Totale

81

Col nuovo ordinamento approvato col R. Decreto del 25 giugno di quest’anno, furono abolite le direzioni locali, e tutta la parte direttiva venne concentrata nelle direzioni compartimentali. Furono pure abolite le distribuzioni, ed invece tutto il servizio venne repartito per uffizi distinti in tre classi. Gli uffizi di 1a e 2a classe sono amministrati da impiegati a stipendio fisso; quelli della 3» classe sono amministrati da impiegati retribuiti con premio proporzionato sul doppio criterio della rendita dell’uffizio e del lavoro.

Oltre le tre classi mentovate, furono istituiti uffici ambulanti sulle strade ferrate e sui piroscafi, affidali essi pure ad impiegati a stipendio fisso, e vigilati da impiegati col titolo di Capilinea.

Dirò a suo luogo di ben più importanti riforme di massima Che vennero sanzionate col mentovato decreto. Mi basti il notare adesso che il servizio postale, il quale si faceva con 1969 impiegali, e portava la spesa di L. 3, 540, 300, ipediante il nuovo ordinamento si effettua con 1874 impiegati, e con L. 2, 773, 800 di spesa, e quindi con un risparmio di 95 individui nel ruolo, e di L. 766, 500 nel bilancio. La quale economia il Ministro si augura debba riescire anche più sensibile rispetto al primitivo ordinamento, quando i bisogni dell’amministrazione, per il cresciuto servizio, dovranno dar luogo ad aumento del personale.

§ 7° La direzione generale dei telegrafi. — Questa direzione, che in Francia fa parte del Ministero dell’interno, appartiene fra noi essa pure a quello dei lavori pubblici.

Secondo l’impianto primitivo, il servizio provinciale era distribuito nelle nove direzioni compartimentali di Torino — Milano — Bologna — Firenze —Cagliari — Napoli — Bari — Reggio di Calabria —Palermo.

11 personale distinguevasi in quello superiore di manutenzione, ed in quello di servizio. E gli uffizi in numero di 420 erano distribuiti in tre classi.

Ma in progresso estendendosi l’uso ed il bisogno delle comunicazioni telegrafiche, due nuovi principii egualmente favorevoli all’erario ed alla libertà prevalsero in quest'amministrazione, e furono: 1. Di aprire accordi colle Compagnie ferroviarie per l’assunzione del servizio telegrafico privato nelle minori loro stazioni senza spesa per l’Erario, ma solo abbandonando alle Compagnie la metà del prodotto.

Di render poco dispendiosa ai Comuni ed ai privati l'apertura di nuove stazioni, purché ciò avvenga senza aggravio per lo Stato.

In seguilo di queste nuove massime, col R. Decreto del 18 settembre 1865 fu riformato l’ordinamento del servizio telegrafico in tutto il regno nel seguente modo: Presso la Direzione generale fu stabilito un Consiglio tecnico amministrativo, composto del Direttore generale, del Consultore scientifico, degli Ispettori capi, e del Direttore capo della contabilità dei prodotti.

L’amministrazione provinciale fu distinta in Compartimenti, Sezioni ed Uffici. Ad ogni Compartimento viene preposto un Direttore compartimentale.

Ogni Compartimento comprende più Sezioni, ad ognuna delle quali è preposto un Sottoispettore. Ogni Sezione comprende un dato numero di Uffizi insieme ai tratti di linea che gli collegano.

Gli Uffizi sono classati in tre categorie, sulla base dell’importanza del servizio e del prodotto.

Nessun Uffizio potrà aprirsi, e aperto non potrà essere mantenuto, se la spesa eccede il prodotto, tranne che per le esigenze tecniche del servizio, o per ragioni politiche e militari.

Ma il Direttore generale potrà stipulare accordi colle Società ferroviarie perché il servizio governativo e privato con certe norme determinate venga fatto negli uffici telegrafici delle ferrovie, e potrà fare speciali convenzioni coi Municipii e coi privati pel concorso di spesa di esercizio degli uffizi governativi, il cui prodotto fosse insufficiente a provvedervi.

Mediante questo nuovo ordinamento, e mediante le nuove massime di ordine generale che ha introdotto nell’amministrazione, bene a ragione si augura il ministro Jacini, di aver riparato all’inconveniente che ben 210 uffici esercitati dal Governo fruttassero meno del costo, e di aver provveduto al profitto della finanza, senza danno degli interessi esistenti. 1

CAPITOLO XXVII.

Le Casse del depositi e prestiti.

Sotto la vigilanza di una Commissione mista di senatori, di deputati, di consiglieri di Stato, e di consiglieri della Corte de' conti e sotto la dipendenza della Direzione generale del debito pubblico sono pure collocate le Casse di depositi e prestiti istituite per tutto il regno colla legge del 17 maggio 1863, che fu molto dibattuta nei due rami del Parlamento.

La ragione d’essere di questa utilissima istituzione sta riposta nella convenienza economica di porre in circolazione le somme giacenti nelle pubbliche casse per effetto dei depositi giudiciarii, di utilizzarle a pro dei depositanti, ed a pro dei corpi morali che offrono maggiore garanzia, di facilitare i depositi volontarii, ove manca altro modo di effettuarli, di assicurare al tempo stesso la fede dei depositi, e la convenienza dei rinvestimenti.

Intorno all’opportunità della istituzione non cadeva né poteva nascere discussione, perocché da molto tempo e con ottimi frutti esistesse già nelle antiche province subalpine.

Le difficoltà nascevano invece intorno al modo di organarle nelle diverse province del Regno, imperocché mentre era fuori di questione la necessità di sottoporle alla sorveglianza della direzione del debito pubblico, e del Ministro delle finanze, e senti vasi da tutti la convenienza che le loro operazioni venissero regolate secondo i termini generali della offerta e della domanda, temevasi però che non si potesse raggiungere quella giustizia distribuitiva nei reparti, per cui tutte le province e circondari del regno risentissero egualmente i benefizi della istituzione.

1 Vedasi la relazione del Ministro dei lavori pubblici, che precede il Regio Decreto del 18 settembre 1863.

Tutte queste difficoltà vennero risolute dalla legge sopra indicata, che istituiva tante casse di depositi e prestiti, quante sono le città in cui esistono le direzioni del debito pubblico, dandosi la preminenza di Cassa Centrale a quella che esiste nella città ove è la sede del Governo, e creandosi presso ogni cassa, oltre l’amministratore, un consiglio permanente a nomina regia, che sorveglia le operazioni, e garantisce la pubblica fede.

Le casse ricevono i depositi prescritti dalla legge, dai regolamenti, dall'autorità giudiziaria e amministrativa, quelli che la legge ammette per conseguire un dato effetto giuridico, quelli che vogliansi eseguire volontariamente dai corpi morali, dalle casse di risparmio o dai privati per impiego di capitali. Gli riceve in danaro, in titoli di debito pubblico, in obbligazioni di Comuni, di province, e pubblici stabilimenti, in Buoni del Tesoro, in azioni ed obbligazioni di Società anonime ed in accomandita. E corrisponde sulle somme, depositate quel frutto che anno per anno viene determinato dal Ministro delle finanze sul parere della Commissione di vigilanza, mentre sul deposito dei titoli è dovuta invece alle casse la tassa annua dell’uno per 1000 sul valore nominale, computato al ventuplo della rendita o interesse.

Le casse impiegano le somme depositate in imprestiti alle province, ai Comuni, ai consorzj, istituti di beneficenza riconosciuti dalla legge, per l’eseguimento di opere di pubblica utilità debitamente autorizzate, per l’acquisto di stabili destinati al pubblico servizio, o per l’estinzione di debiti contralti ad onerose condizioni. Le impiegano altresì in rendite iscritte, in Buoni del Tesoro, ed in conto corrente col Tesoro dello Stato, previo l'assenso del Ministro di finanza, e quando si tratti di fondi eccedenti il bisogno complessivo delle casse.

Per la concessione degli imprestiti occorrono le seguenti formalità.

Il corpo morale che vuole l'imprestito, dirige alla cassa la sua domanda provveduta delle opportune giustificazioni.

Il Consiglio di amministrazione, previo esame, delibera sull’ammissione o rejezione delle domande, tenendo conto della utilità dello scopo, dei mezzi di restituzione, delle ragioni di preferenza.

Gli amministratori delle casse trasmettono ogni bimestre all’amministratore della Cassa Centrale il triplice prospetto dei depositi ricevuti, delle restituzioni da farsi, delle domande di prestito, debitamente giustificate ed ammesse.

Il Ministro delle finanze delibera sulle domande di prestito, ne promuove l’assicurazione per decreto reale, ed assegna a ciascheduna Cassa i fondi necessari, avendo cura di applicare preferibilmente agli imprestiti preposti dalle amministrazioni locali, i loro fondi speciali.

L’interesse degli imprestiti è fissalo anno per anno dallo stesso ministro sul parere dei Consigli di amministrazione e della Commissione di vigilanza.

La legge accorda pure al Ministro delle finanze facoltà di eseguire, per le assegnazioni alle casse, anticipazioni a carico del Tesoro, fino all’annua somma complessiva di dodici milioni.

I profitti netti delle casse devono prima di tutto destinarsi a costituire un fondo di riserva, di quattro milioni di lire. Costituito questo fondo di riserva, ogni dì più per una metà cede a benefizio del Tesoro, per l’altra metà vien repartito nell’esercizio successivo a quello corrente, in aggiunta all’interesse che deve essere corrisposto sui depositi per surrogazioni militari. Ogni quadrimestre viene fatta di pubblica ragione la situazione delle casse. Ed ogni anno il Presidente della Commissione di vigilanza presenta al Parlamento una relazione sull’andamento morale, e sulla situazione materiale delle casse.

Questa istituzione è già in pieno esercizio delle sue funzioni in tutte le città ove dovevano fondarsi le respettive casse, e già se ne vedono i benefici effetti.

La situazione delle operazioni eseguite dal 1° ottobre 1863 al 30 giugno 1864, dava i resultati seguenti.

PROSPETTO

delle operazioni delle Casse di Depositi e Prestiti dal 1° ottobre 1863 al 30 giugno 1801.

CASSA.

DEPOSITI IN NUMERARIO

DEPOSITI IN TITOLI.

PRESTITI.

EFFETTUATI.

RESTITUITI.

EFFETTUATI.

RESTITUITI.

Bologna

2224545 31

258247 24

1256 290 40

32700

579 000

Cagliari

396182 13

85305 23

148685


388 000

Firenze

3106408 18

557945 03

1036358 20

74740

320 000

Milano

2510588 83

571 314 73

3150637 59

163351 47

131 000

Napoli

12872379 69

1343693 27

3286225

251 500


Palermo

7632287 80

255878

57500


85 000

Torino

34726503 76

2369830 12

65255594 37

14681 199 60

1 276 800

Totale.

63408891 70

5 442 213 62

74 191290 56

15203491 07

2 729 800

Le operazioni posteriori resultano dal seguente

PROSPETTO

delle operazioni delle Casse di Depositi e Prestiti dal luglio 1864 a tutto giugno 1865.


DEPOSITI IN NUMERARIO.

DEPOSITI IN TITOLI.

PRESTITI.



RICEVUTI.

RESTITUITI.

RICEVUTI.

RESTITUITI.


Bologna

1 400006 18

1 303790 46

1 598199 92

851 930 40

2418600 —

Cagliari

128 771 73

276141 57

101 279

126300

1022000

Firenze

1 657189 66

1 197 826 53

2462 265

1 253 497

391 000 —

Milano

534 333 94

749 572 95

5 455778 70

1417 214 65

2369680

Napoli

2 497 790 80

2208297 87

1 746 577 17

1566660

2049 000 —

Palermo

1 123 423 26

895510 42

1213110

210 800

3 669000

Torino

8331305 85

4144 784 74

6662 787 40

9 514 334 57

2603 150 40

Totale.

15672 911 42

10775 924 54

19 239997 19

14 940736 62

14522 430 40

Dall’esame di questi prospetti, può arguire il lettore i progressi notevoli che già si avvertono in questa istituzione, e quali servigi essa è destinata a rendere alle amministrazioni provinciali e comunali, a misura che andrà consolidandosi, ed a misura che più facili e spedite vengano a rendersi le sue operazioni.


CAPITOLO XXVIII.

Il Bilancio unico.

Siccome le tasse sono materia odiosa, non è meraviglia che tutti quelli i quali sono avidi di popolarità, dentro e fuori del Parlamento, siansi affaccendati intorno al problema finanziario, immaginando o dando ad intendere che questo potesse risolversi senza accrescimento d’imposte, o per sola riduzione delle spese, o mediante l’applicazione di alcuno di quei sistemi empirici e paradossali che non reggono alla prova né dei principii scientifici, né della esperienza. 1 È d’uopo adunque che intorno a questa grave faccenda diasi da me qualche schiarimento ulteriore, parlando dell’opera più ardua e più difficile che ebbe a compire il Parlamento per giungere alla unificazione del bilancio.

Il bilancio è il fondamento di ogni buona contabilità. Esso, come tutti sanno, è il quadro officiale delle spese, e delle entrate presagite dentro un tempo determinato; o per meglio dire, esso è l’atto legislativo che per un lato autorizza le riscossioni delle imposte, tasse, prodotti e rendile da percipersi in nome dello Stato in un determinato esercizio, e dall’altro lato autorizza pure le spese effettuabili rispetto a ciascuno dei servizii pubblici appartenenti a quello esercizio stesso, n bilancio può chiamarsi adunque la sintesi ridotta a cifre del modo di essere di uno Stato e di una Nazione, come che in esso vengano a convergere le sue leggi, i suoi istituti, i suoi ordinamenti, la sua storia, i suoi affetti, i suoi interessi, i suoi bisogni, la sua civiltà, in maggiore o minore armonia colle forze morali, materiali ed economiche di cui può disporre.

1 Giorni sono, vidi affisso nelle strade un grandioso cartellone che portava questo titolo: La quistione finanziaria risoluta senza imposte.

Quando fu proclamato il Regno d’Italia, noi avevamo sette bilanci distinti, tutti più o meno compilati con forme e sopra basi diverse, cioè quelli delle antiche province, della Lombardia, delle Marche e Umbria, della Toscana, di Napoli e di Sicilia. Questi bilanci erano in parte la riproduzione di quelli degli antichi Stati, in parte avevano l’impronta delle innovazioni introdottevi dai governi provvisorii e dittatoriali, sorti durante e dopo la guerra del 1859.

Perché da questi sette bilanci uscisse quello del Regno d’Italia, era indispensabile il concorso di più e diverse condizioni. Bisognava conoscere prima di tutto gli elementi e i materiali onde componevansi i singoli bilanci, non che i servizi e gl’interessi cui essi provvedevano: bisognava conoscere del pari le leggi, i regolamenti, i decreti, le consuetudini dalle quali dipendevano le entrate e le spese inscritte in quelli: bisognava fare l’inventario di tutti i beni mobili ed immobili, di tutti i valori, di tutte le azioni e diritti, di tutte le fonti delle pubbliche entrale, di tutte le obbligazioni a carico dello Stato: bisognava compilare del pari Io stato esatto di tutto il personale addetto alle pubbliche amministrazioni ed ai pubblici servigi: bisognava unificare i regolamenti della contabilità, le norme direttive delle pubbliche amministrazioni, le leggi infine che regolano i servizi diversi cui il bilancio provvede, non che le leggi da cui dipendono le entrate colle quali a quei servizi devesi sopperire. Formare il bilancio unico del Regno d’Italia, voleva dire, in una parola, conoscer l’Italia ed averla compiutamente costituita.

Queste avvertenze servano di criterio a fare ragione una volta per sempre delle tante ingiuste ed inopportune censure, che furono mosse intorno al bilancio dello Stato, quasiché un bilancio normale potesse aversi ad un tratto, quando si scarse erano le notizie che il Governo e il Parlamento potevano avere intorno alle cose nostre, quando l’opera unificatrice era cosi poco progredita, quando eravamo incalzati dalla duplice necessità di provvedere alle antiche spese che non potevano abolirsi con un frego di penna, ed alle nuove che giorno per giorno da tutti i lati si richiedevano.

Pure, in questi quattro anni, il Governo e la Camera hanno fatto moltissimo. E colui che faccia il confronto tra il bilancio del 1861, che era un indice e non altro dei diversi e separali bilanci, e quelli del 1863 e 1864, che furono i primi ad essere discussi ed approvati, avrà luogo a persuadersi che il già fatto supera di gran lunga quello che, or sono quattro anni, poteva ragionevolmente sperarsi.

Non abbiamo ancora un bilancio normale e perfetto, poiché non lo si può avere finché non sia compiuta la liquidazione delle antiche amministrazioni, finché meglio non si conosca ogni più riposta parte della pubblica azienda, finché non abbiasi un criterio sicuro per distinguere le spese necessarie, utili o superflue, finché non si conoscano meglio tutte le risorse economiche del paese, finché non abbiano esatta e severa applicazione le nuove leggi d’imposta, finché non sia compiuta la unificazione legislativa, amministrativa e finanziaria del paese. Ma quanto alle, abbiamo già un bilancio ordinato e perfetto, dove i 99 capitoli degli antichi bilanci vedonsi ridotti a 39 classificati in 9, titoli: e quanto alle spese, un bilancio unico, comunque tuttora imperfetto, pure lo possediamo, che offre a tutti larghissimo subietto di studi e di esami, e costituisce il passo più importante che sia stato fatto nell’ordinamento dello Stato.

Né ad indebolire il mio assunto giovano punto le censure e le declamazioni, che spesso furono ripetute intorno al soverchio dei residui passivi e intorno alle nuove e maggiori spese non contemplate nei bilanci.

Queste censure e queste declamazioni, provano invece che l’amministrazione ha potuto offrire maggiori elementi di esame e di sindacato che non lo potesse per lo innanzi: provano che è cresciuta del pari la vigilanza del Parlamento. Imperocché i residui passivi erano di ben’altra mole gli anni precedenti, né è maraviglia che abbondassero, quando per la coesistenza di tante diverse leggi di contabilità erano cosi lente e cosi difficili le liquidazioni, e molto meno deve fare specie che abbondassero rispetto ai maggiori ostacoli che intralciavano la sistemazione degli esercizii nel periodo transitorio.

Basti il notare che intanto la cifra dei residui passivi va scemando a misura che meglio si ordina e si perfeziona la pubblica amministrazione, talché, fatta ragione tra le censure mosse dal desiderio del bene e quelle animate da spirito di parte, può presagirsi che in breve i residui passivi gli vedremo ridotti in quelle discrete proporzioni le quali sono proprie di ogni ben regolata gestione, avuto riguardo specialmente alla forma dei nostri bilanci, ed alla circostanza che le nostre regole di contabilità non consentono che le liquidazioni tutte restino ultimai# nel periodo legale, assegnato dalla chiusura definitiva di ciascun esercizio finanziario.

Anche rispetto alle maggiori e nuove spese, bisogna fare una tara ragguardevole alle censure che vennero mosse. Non vi è contabilità meglio disciplinala che escluda affatto il bisogno di maggiori spese, ove non si prenda il compenso (che avrebbe pure i suoi inconvenienti) d’iscrivere una partita, come pare s’iscriva nel bilancio inglese, destinata alle spese maggiori ed impreviste che possono verificarsi nel corso dell’anno. 1 E neppur questo basterebbe, imperocché, oltre le spese veramente impreviste e imprevidibili, vi restano pur sempre le spese obbligatorie e d’ordine che non possono mai sicuramente prevedersi nella misura certa in cui sieno per effettuarsi. Quindi vediamo che in Francia, dove intorno alla contabilità si lavora da oltre sessanta anni dai più abili amministratori per migliorarla, al bilancio stanziato un anno per l’altro dal corpo legislativo, tengono dietro due e tre bilanci suppletivi fino alla chiusura legale dell'esercizio, e che nella sostanza altro non sono che appendici di nuove e maggiori spese non contemplate

1 Pare che nel bilancio inglese vi sia una partita di 120 mila lire sterline, cioè di lire italiane 3 000 000, per le spese impreviste (civil contingenties), delle quali rende poi conto il Governo al Parlamento. Vedi l'opuscolo Tasse e Spese, discorso di Thomson Hankev, Esq. m. p., tradotto da Ruggiero Bonghi. Torino, 1865.

nel bilancio primitivo, e meglio regolarizzale che fra noi non avvenga. Se questo accade in Francia, non è da stupirsi di ciò che avviene in Italia, dove la corta esperienza fatta, dove la difficoltà di accertare ai loro giusto valore i titoli e la quantità delle spese, e dove la imperiosa necessità di provvedere, non consentono alla amministrazione e non consentono alla Camera di presagire esattamente nel bilancio tutte le spese che nell'anno possono effettuarsi.

Ho udito affermare che i regolamenti della contabilità esistenti nell’ex-reame di Napoli provvedano meglio dei nostri all'accerta mento delle previsioni, e dei conti di ciascheduno esercizio. Se ciò fia vero, e sia praticabile, non posso giudicarlo. Intanto giovi osservare come la Corte dei conti recentemente abbia avuto occasione solenne di testimoniare che i progressi da essa notati nell’amministrazione delle nostre finanze dal 1862 al 1863, sonosi pure verificati crescendo dal 1863 al 1864. 1 E sono persuaso che tale miglioramento progressivo lo potrà notare la Corte dei conti anche rispetto agli anni seguenti.

1 Questa testimonianza si legge in calce alla Relazione parlamentare intorno alle nuove e maggiori spese concernenti la gestione del 1864.

CAPITOLO XXIX.

Le Finanze italiane.

Non presumo di rifare un’esposizione del nostro andamento finanziario, e molto meno una storia del nostro bilancio. Devo limitarmi piuttosto a compendiare per sommi capi quella che già ne fece il compianto collega nostro Valentino Pasini 1 onde il lettore possa formarsi delle finanze e del bilancio del Regno d’Italia un’idea approssimativa e meno lontana dal vero. Dico meno lontana dal vero, perché la esattezza, in queste materie difficile sempre, è più che mai difficile quando trattasi di un periodo, nel quale sarebbe follia il pretendere quell’accertamento di cifre che è proprio di un’amministrazione già da molto tempo bene ordinata e regolare, e quando la esperienza ci ha già dimostrato quante inevitabili incertezze si trovino negli stessi documenti ufficiali presentati al Parlamento.

Il Regno d’Italia ereditò dagli antichi e dai nuovi governi un disavanzo ordinario di 111 milioni: un debito pubblico di 2,241,870,000: 2 una quantità cospicua di leggi

1 Annuario statistico del 1864.

2 Queste 2 241 870 000 si compongono, secondo Pasini:

1. Di tutti i debiti sotto forma di rendita compresi nella Legge di unificazione senza i 90000000 di Nizza e Savoia



L. 2141 310000

2. Di debiti in corso di pagamento, ma non sotto forma di rendita (28,000,000 Sicilia, e 28,860,000 province ex-pontificie)



L. 56 860 000

3. Di debiti pagati poi, e quindi compresi nei prestiti successivi


L. 21 700 000

4. Di debiti sotto riserva (Sicilia)

L. 22 000 000


L. 2 241870000

e di decreti organici, che dovevano esser posti in esecuzione: un personale esuberante nei pubblici ufficii, oltre quello che la mitezza della nostra rivoluzione aveva collocato fra i pensionati: una mole enorme di bisogni e d’interessi, che volevano essere patrocinati e sodisfatti: i pubblici introiti da per tutto diminuiti. Questo punto di partenza, questo capo saldo non deve mai essere dimenticalo da coloro che imprendono a ragionare delle nostre finanze, se non vogliono smarrirsi in deduzioni e raziocinii che mancherebbero di base.

Di mano in mano che applicavansi i decreti e i provvedimenti dei Governi provvisorii, di mano in mano che per necessità ineluttabile delle cose si eseguivano o si estendevano le leggi organiche, di mano in mano che decretavansi nuove strade ferrate o nazionali e nuovi lavori, cresceva inesorabilmente il bilancio delle spese e cresceva il disavanzo: crescevano l’uno e l’altro vieppiù, di mano in mano che formavasi l’esercito, che si creava il naviglio militare, che si erigevano le fortezze, che provvedevansi gli armamenti indispensabili alla sicurezza dello Stato, e si costituiva e si armava per tutto il Regno la guardia nazionale.

Sventuratamente, mentre cresceva di anno in anno, e non poteva impedirsi che crescesse, il bilancio della spesa, non cresceva del pari il bilancio delle entrate. E non cresceva, perché una gran parte d’Italia pagava meno nel 1861 di ciò che pagasse nel 1859: non cresceva, perché inevitabili ritardi si frapponevano alla discussione delle nuove leggi d’imposta; non cresceva, perché le riforme d’imposta davano presso di noi lo stesso resullamento, che ebbero sempre dovunque, nei primordi della loro applicazione, cioè una diminuzione nel prodotto: non cresceva finalmente perché la rivoluzione avendo turbati e sconvolti tutti i servizi, pochi erano i rami delle pubbliche entrate nei quali non si fosse vista una notabile diminuzione. Ciò non può recare meraviglia, poiché la storia non ci mostra niuna rivoluzione che sulle prime sia riuscita una buona speculazione finanziaria. E coloro che di fatti inevitabili vogliono farne argomento di accusa contro la rivoluzione e contro gl individui che vi ebbero parte, o non sanno quello che si dicono, o non sono in buona fede. Gli effetti combinati di queste diverse cause coefficienti si vedono nel seguente prospetto comparativo tra le entrate ordinarie e le spese ordinarie, che segna il movimento del nostro bilancio dal 1859 a tutto il 1864.

1859

Entrate. 1. L. 501000 000

Spese 514000 000


deficit


L. 13000000

1860

Entrate 460 000 000

Spese 571000000


deficit


L. 111000000

1861

Entrate 468000000

Spese 647 000000


deficit


L. 179 000000

1862

Entrate 473000000

Spese 735 000000


deficit


L. 262 000000

1863

Entrate 511000 000

Spese 780000000


deficit


L. 269000000

1864

Entrate 522000000

Spese 787 000 000


deficit


L. 265 000 000

I disavanzi di questi sei anni sommati insieme, costituiscono pertanto un disavanzo generale tra le spese ordinarie e le entrate ordinarie di L. 1 099 000 000.

Ma questo non è tutto il disavanzo, perché senza potere accertare le spese straordinarie, occasionate dalla rivoluzione e dalla guerra del 1859, dal trattato di Zurigo e dalla campagna del 1860, se non approssimativamente all’importare del debito pubblico corrispondente, creato in quel periodo di tempo, vale a dire nella cifra di L. 759 000000, dobbiamo aggiungere a questa il disavanzo verificatosi per le spese straordinarie occorse negli ultimi quattro anni per la somma accertata

1 Per comodo di conteggio non si tiene conto se non che dei milioni, omettendo i rotti delle migliaia e centinaia.

di Lire 913000 000, e così un disavanzo straordinario di Lire 1 672 000 000 repartito come appresso:

1859-60

L. 759000000

1861

L. 318000000

1862

L. 292000 000

1863

L. 163000000

1864

L. 140 000 000 1


L. 1672000 000

A questo generale disavanzo, che giunge alla cifra complessiva di L. 2 771 000000, nella quale sono comprese in gran parte le maggiori spese verificatesi negli anni 18606162, presentate successivamente all’approvazione del Parlamento, fu sopperito cogli imprestiti creati durante i Governi dittatoriali e i pieni poteri nel 185960 che si valutano 759 milioni:

1 Parecchie di queste cifre le ho desunte dall’aureo scritto del Pasini intorno alle finanze italiane, inserito nell’Annuario statistico del 1864, il quale aveva riportate ai singoli anni anche le maggiori spese che non figurano nei bilanci. Stando alla materialità di questi, le spese straordinarie sarebbero come appresso:

1861

L. 170 000 000

1862

L. 149 000 000

1863

L. 163 000 000

1864

L. 140 000000

2 Queste maggiori spese, per la somma di oltre 180 milioni, furono portate al Parlamento coi progetti ministeriali dei 27 marzo e Il dicembre 1863; 17 marzo, 18 aprile, 29 maggio e 4 novembre 1864.

cogli imprestiti autorizzati per legge del Parlamento che senza l’ultimo ascendono a 1350 milioni: 1 colla vendita dei beni demaniali: 2 con successive alienazioni o iscrizioni di rendita consolidata: coi buoni del tesoro e con altre risorse straordinarie, che figurano nei successivi bilanci.

Quindi ne avvenne che il debito pubblico, che nel 1859 era di L. 1482 760 000, che nel 1860 era salito già a L. 2 241 870 000, al 1 luglio del 1864 trovavasi accresciuto fino a L. 4154416 355, 62, i cui interessi in L. 204 329 503. 19 si pagano per semestri al 1 gennaio e 1 luglio di ciascun anno ai creditori dello Stato.

Questo debito, che ragguaglia a capitale L. 188 83,

1 Gl’imprestiti autorizzati dal Parlamento, non compreso l'ultimo, sono i seguenti:

Imprestito di 450 milioni, colla Legge del 42 luglio 1860.

Imprestito di 500 milioni, colla Legge del 47 luglio 1862.

Imprestito di 700 milioni, colla Legge dell’11 marzo 1763.

2 La Legge concernente l’alienazione dei beni demaniali, è del 22 agosto 1862. Con altra Legge del medesimo giorno fu consentito il passaggio al demanio dei beni della Cassa ecclesiastica. Secondo la relazione del 48 aprile 1864, il valore dei beni damaliiali e della Cassa ecclesiastica vendibili e al netto delle passività, viene accertato in 257 milioni, non compresi i canali, le cave, le miniere e i capitali rappresentati da canoni, e censi e dalle terre del Tavoliere di Puglia per 88 milioni. I beni demaniali si trovano impegnati nei diversi bilanci, come appresso:

1864

L. 40 000 000

1862

L. 48 000 000

1863

L. 50 000 000

1864

L. 423000000


L. 204 000 000

ed a rendita L. 9, 28 per abitante, ma che non spetta al Regno d’Italia se non che per due miliardi e mezzo, non è certamente sproporzionato alle forze del nostro bilancio, né ci pone in condizione troppo diversa da quella in cui sono tutti gli altri Stati d’Europa, per i quali il ragguaglio corrisponde a cifre assai maggiori. 1 A coloro che domandano dove siano andati i tre miliardi e mezzo del debito creato dal 1859 in poi, noi rispondiamo, che sono andati nel fare l’Italia senza aumentare per quattro anni le pubbliche gravezze, mentre si streme erano divenute le entrate, e cotanto crescevano le spese: noi rispondiamo, che senza tener conto di quello che ci costò il riordinamento di tutti i pubblici servigli, senza tener conto delle spese di guerra negli anni 1859 e 1860,

1 Il Block ci dà il seguente prospetto del debito pubblico degli Stati d’Europa nel 1861:



Capitale per Abit.

Bandita

per Abit.

Francia

9334012006

252

13

48

Inghilterra

20126 930 000

691

23

13

Austria

5 670 175 000

161

7

1

Prussia

896 820 000

50

3

18

Italia

2320000000

106

5

9

Belgio

662000000

132

7

80

Paesi Bassi

2 271 204 000

567

19

40

Portogallo

723 657 000

181

5

45

Spagna

3 658 791 000

244

6

00

Conviene però fare intorno a questo prospetto tre avvertenze: 1° che il debito di quasi tutti gli Stati sopra citati ha avuto parecchie modificazioni quanto alla rendita, o perché ridotta o perché non più pagata come in Spagna, laddove in Italia capitale e rendita sono sempre allo stato della primitiva emissione; 2° che dal 1861 in poi se è cresciuto il debito pubblico d’Italia, è pure cresciuto quello degli altri Stati: e per tacere di ogni altro, basti il notare che il debito pubblico francese oggi tocca i dieci miliardi, e quello dell’Austria, oltre l'impaccio che riceve dalla carta monetata, è salito a tutto l’anno 1863 a. 7 369 589 912, 50.

noi abbiamo speso in quattro anni più di un miliardo per l’esercito, più di 300 milioni per la marina, un 400 milioni per opere pubbliche: 1 noi rispondiamo, che al debito creato si può contrapporre un capitale nazionale non certamente inferiore costituito dal nostro esercito, dalla nostra marina, dai nostri arsenali, dai nostri armamenti, dalle nostre fortezze, dai nostri porti commerciali e militari, dalle strade ferrate già in esercizio, dalle grandiose opere pubbliche già iniziate o condotte a fine, dallo impulso dato in ogni ramo di pubblico servizio a tutti gli interessi morali, economici e materiali della Nazione, dalle stesse speranze di una prossima maggiore prosperità.

Se da un lato abbiamo contratto un debito di due miliardi e mezzo, abbiamo dall’altro il Regno d’Italia già costituito, che afferma ogni giorno più in faccia all’Europa la sua propria esistenza, e che tutti ormai pongono in computo per ogni combinazione che tocchi l’equilibrio degli Stati. Le due partite non solamente si bilanciano fra loro, ma vi è un sopravanzo esuberante, poiché vorrei mi si dicesse quale fu mai la nazione che siasi potuta costituire in minor tempo, con più lievi sacrifizi ed a migliore mercato.

1 Facendo lo spoglio dei soli bilanci, e senza tener conto delle maggiori spese, resulta che negli anni 1861-62-63-64 abbiamo speso:

Per la guerra

L. 932565430 50

Per la marina

L. 272 924 434 13

Per lavori pubblici

L. 384 535 047 39

2 La sola marina, secondo le cifre comunicatemi gentilmente dal Ministero, rappresenta un capitale di oltre 173 000 000, cioè:

Costo approssimativo delle navi

L. 149224 780

Materiale di arsenali

L. 4000 000

Materiale di magazzini

L. 20000000

Totale.

L. 173 224980

CAPITOLO XX.

Accuse e difese.

Questo ho voluto dire precipuamente a quegli avversarii del Regno d’Italia, che obliando i debiti precedentemente fatti dai governi caduti, noh per il bene dei popoli ma per ribadirne le catene, o per pagare i nostri oppressori, esagerano in peggio le nostre condizioni finanziarie, quasiché il debito da noi fatto sia andato disperso, o peggio anche, sia andato ad impinguare la borsa di quei cittadini che dal 1859 in poi hanno governato la cosa pubblica. Non vi è partito che per più lungo o breve tempo non abbia governata r Italia o parte di essa in questi sei anni, ed io che mi vanto di avere amici personali in tutti questi partiti, se posso concedere che da tutti siansi commessi non pochi errori, ho eguale convincimento che tali errori furono commessi in buona fede, come sono del pari convinto che a niuno di questi uomini può darsi la minima taccia di malaversazione del danaro pubblico. Le fortune che sotto i governi assoluti si videro accumulare dai ministri o dai loro favoriti, non si videro nel regno d'Italia. Quelli che entrarono poveri al Governo, ne uscirono poveri; quelli che avevano beni di fortuna, ne uscirono meno ricchi che non vi entrassero, ma tutti colle mani pure. E sfido chiunque a sorgere con fatti precisi per formulare una contraria accusa. In fatto di moralità pubblica e di onestà individuale, non credo che lf Italia sia inferiore alle altre nazioni; e su questo capitolo non ammetto né privilegi, né monopolii a favore di tale o tale altro partito, e molto meno di una o di un’altra provincia italiana. Al Farini, morto alla vita del pensiero, dovette lo Stato pagare i debiti ed assegnargli una pensione di gratitudine nazionale, perché fosse provveduto alle sue necessità. Cavour lasciò il suo patrimonio non poco diminuito da quello che aveva innanzi. Miglietti e Della Rovere non lasciarono nulla. Fanti, che aveva amministralo il ministero della Guerra nel tempo delle più grandiose spese, ed aveva capitanata la guerra del 1860, lasciò ai figli una rendita di 1000 lire. Ai figli del generale Pinelli si sta facendo una colletta: il Manna ha lasciato ai suoi figli una eredità che giunse appena alle mille lire di rendita. Parlo dei morti e non dei vivi, poiché ogni riguardo di delicata onestà mi vieta di parlare di questi. Ma gli esempii che addussi sono eloquenti abbastanza, perché io ripeta ciò che un giorno affermò in Parlamento il deputato Giorgini: In Italia il potere non ha arricchito nessuno; e perché io dica a tutti i patriotti, qualunque sia la parte per cui stanno, che su questo argomento avvi una solidarietà, la quale deve impegnargli tutti egualmente a porre un argine alle calunnie e diffamazioni, di cui dobbiamo lasciare il tristo privilegio, la fabbrica e il monopolio ai nostri nemici, essendo la probità, in materia di danaro, una causa comune a quanti amano la libertà e l’onore del nostro paese. E dico ai nostri nemici, perché l’accusa di furto e di latrocinio contro quanti hanno in Italia amministrata la cosa pubblica muove dai fautori del passato, lorenesi in Toscana, borbonici a Napoli, papalini in Romagna, austriaci per tutto. I quali in mancanza di ogni altro mezzo per vendicarsi, questa ignobile accusa propagano e diffondono contro tutti quelli che hanno fatto la rivoluzione del 1859, nel modo stesso che cercarono di affibbiarla a coloro che governarono gli Stati italiani nel 1848 e 1849. 1 È questa la tessera colla quale essi conosconsi fra loro, e colla quale dobbiamo conoscerli noi. Qui non è questione di liberali o di radicali, di moderati o di esaltati. La causa è comune a tutti coloro che cooperarono in qualche guisa alla rivoluzione italiana. Se un impulso di risentimento, o lo spirito di parte ha potuto in certuni fare momentaneo velo alla ragione, non tarderanno a ricredersi. Imperocché tutti dobbiamo sapere cosa significhi, con quali sottili argomenti la giustifichino nelle loro elastiche coscienze, 2 e fin dove vada quest’accusa, che i fautori del passalo ci hanno cosi bene spiegata nei loro diarii, per non chiamarsi responsabili del modo onde è intesa dal volgo. Ma i radicali e gli esaltati devono pure persuadersi, che non sarebbe loro possibile il lusingarsi di andare immuni da tale accusa, quando essa fosse riuscita già a diffamare nella opinione popolare i liberali e i moderati.

Ciò non vuol dire che non vi siano stati abusi, che siano mancate dilapidazioni, che non siansi fatte delle cattive spese, che talvolta non siasi gettato malamente il danaro pubblico, che non siensi verificati anche fra noi taluni di quei fatti che accaddero sempre in ogni Stato meglio ordinato. Mi affretto anzi a dire, maravigliarmi grandemente che tali fatti non siensi verificati in maggior numero presso di noi, quando l'amministrazione era cosi poco ordinata, quando troppa, ma inevitabile, era la urgenza del provvedere, quando in quattro anni abbiamo voluto fare ciò che altri popoli fecero in venti e più anni.

Non dobbiamo certamente maravigliarci della facilità grande colla quale si spargono e si divulgano le calunnie contro tutti quelli che maneggiano la cosa pubblica. Pur troppo ha ragione Guicciardini quando dice che in ogni popolo libero fa e sarà sempre abbondanza di calunnie.

Ma non è men vero che tale disordine ha sempre fatto danno alla libertà, né sempre basta il dire che le calunnie false, col tempo e con la verità si spengano spesso per se stesse.

1 La stessa accusa fu mossa contro coloro che in Toscana governarono dall’ottobre 1848 all'aprile 1849. Lo scrivente ebbe con altri due cittadini l’incarico di rivedere i conti di quel periodo. Le difficoltà per farlo furono molte, ma vennero superate, e potemmo porre in essere che vi era stato scialacquo del denaro pubblico, ma niuna illecita appropriazione: si voleva impedire che la relazione in cui questo fatto veniva costatato venisse stampata, ma io insistei, e venne stampata colla mia firma e con quella del defunto Ferdinando Tortini, col seguente titolo: Rapporto della Commissione incaricata col decreto del dì 20 aprile 1849, di formare il Rendimento di conti dell'amministrazione della Finanza toscana dal 26 ottobre 1848 al di ii aprile 1849. Firenze, dalla stamperia della Casa di correzione, 1850.

2 Ho letto in alcuni giornali cosi detti cattolici, ed ho udito anche dalla viva voce di alcuni, giustificare l’accusa di ladri che ci danno, dicendo che è un furto l’aver tolto gli Stati al Papa, ed ai Principi spodestati.

1 Guicciardini, Opere inedite, tom. I, pag. 90.

«Chi legge le istorie di questa città (dice il Machiavelli parlando di Firenze), vedrà quante calunnie sono state in ogni» tempo date a’ suoi cittadini che si sono adoperati» nelle cose importanti di quella. Dell'uno dicevano, ch'egli aveva rubati danari al comune; dell'altro, che non aveva vinto una impresa per essere stato corrotto; e che quell'altro per sua ambizione aveva fatto il tale e tale inconveniente. Del che ne nasceva che da ogni parte ne surgeva odio: donde si veniva alla divisione; dalla divisione alle sètte; dalle sètte» alla rovina.» 1

Ma senza decidere quale dei due grandi statisti sia più nel vero, par mi che più dannosa delle calunnie sia una certa tendenza della quale essi non parlano, e di cui vedonsi modernamente non pochi segni.

Voglio dire della tendenza ad invertire i termini della naturale presunzione dell’altrui onestà fino a prova in contrario. Questa tendenza, sia che derivi dalla esagerazione dello spirito democratico, sia che provenga dallo spirito di parte, che cerchi di spargere sfiducia e sospetti per rendere impossibili al Governo gli uomini più cospicui e i cittadini più benemeriti, sia che scaturisca dalla invidia suscitata per i guadagni della grande industria, mentre di essa non possiamo fare ameno: tale tendenza, qualunque sia la causa che la produce, è sempre una cosa grave in se stessa e per gli effetti che ne possono conseguire.

Fino a tanto che essa si traduce in contumelie, ingiurie ed offese avventate contro la reputazione altrui, nelle colonne di un libello anonimo, il male è grave, ma non senza rimedio, perché se per avventura non bastassero alla tutela dei cittadini le leggi esistenti, ci vorrebbe poco a supplirvi con leggi più severe.

1 Machiavelli, Discorsi, lib. I, cap. VIII.

Ma quando tale tendenza si voglia tradurre in sistema, quando la illibatezza, che prima si misurava ingiustamente dal censo, trovi in questo un argomento contrario, quando il sospetto si spinga a volere esclusi dalla rappresentanza nazionale tutti coloro che hanno ufficii ed interessi nelle società industriali, par mi che il pericolo farebbesi ben altrimenti maggiore.

Imperocché con questo provvedimento, che imprimerebbe quasi una sanzione legislativa all’invertimento dei termini della morale presunzione, darebbesi anche causa vjnta alle accuse di cui è fatta segno la parte liberale dai nemici d’Italia e dai fautori delle cadute dinastie. Questo è già grave, ma vi è un danno anche maggiore. Accrescendosi cosi all’infinito le cause d’incompatibilità, finirebbesi per allontanare dal Parlamento gli uomini più cospicui, nelle cui mani sta l’avvenire economico del paese; l’esercizio dell’industria colpirebbesi di un ostracismo peggiore di quello che la percuoteva sotto i pregiudizi nobiliari dello spagnolismo: e col pretesto di allontanare dall’aula parlamentare gli interessi palesi contro i quali è facile garantirsi, ove non bastassero la dignità e l’onore di ciascuno, aprirebbesi l’adito al soverchiare degli interessi occulti contro i quali non è escogitabile nessuna valida garanzia. Cosi avverrebbe, o che la grande industria doventerebbe esclusivo monopolio di uomini senza capacità, senza capitali e non meritevoli della pubblica fiducia, o che i grandi interessi del paese non sarebbero rappresentati in Parlamento se non che indirettamente dai soli professionisti, lo che se sia utile e buona cosa, lascio ad altri il giudicare. Credo che la nostra legge elettorale non sia l’apice della perfezione, ma non credo che influirebbe troppo a migliorarla lo accrescere le esclusioni, poiché per togliere qualche raro inconveniente, noi avremmo il danno certo di creare una rappresentanza incompleta e manchevole, e quindi anche meno considerata.

La vera onestà consiste nel non farne mai monopolio né per sé, né per il proprio partito: nel presumerla negli altri, se vuolsi che sia presunta in noi, fino a prova contraria: nel combattere la lebbra fatale delle calunnie, quando in specie ammantandosi del pubblico bene, si volgono ad argomento di scandalo, ed anche al fine più immondo di private speculazioni. Ma questa lebbra non potrà essere efficacemente combattuta, se la presunzione della onestà individuale, cosi nelle pubbliche come nelle privata faccende, non mantiensi come la base di tutte le relazioni che gli uomini hanno fra loro nella civile convivenza.

CAPITOLO XXI.

Il Pareggio.

Con tutto quello che ho detto finora, non volli però affermare che la nostra situazione finanziaria sia buona, che non debbasi fare di tutto per migliorarla, che non sia urgente il porre in equilibrio le nostre spese colle nostre entrate. La situazione finanziaria è quella che è e che può essere nelle presenti condizioni del Regno, e se errano quelli che di essa non si preoccupano abbastanza, errano del pari coloro che ne fanno perpetuo argomento di sconforto e di querimonie. Pericolosi entrambi, ma in proporzioni diverse, perché i primi peccano di soverchia fiducia che per lo meno è sprone all’operare, mentre i secondi peccano di paura che sterilisce e consuma. L’esame imparziale dei fatti, come dimostra e convince che sarebbe ingiustizia l’attribuire al Regno d’Italia la piaga del disavanzo che preesisteva ed era inevitabile in sé stesso, e più nelle sue cagioni, dimostra e convince del pari che sarebbe eguale ingiustizia il dissimulare tutto quello che le diverse succedutesi amministrazioni ed il Parlamento 1 hanno fatto in questi cinque anni per avvicinare fra loro i due termini del bilancio, che pure appaiono sempre tanto distanti.

Il pareggio fra le entrate e le spese è lo scopo cui devono mirare il Governo, il Parlamento, il paese. Ma se non dobbiamo lusingarci di raggiungerlo a tempo determinato, egli è peggio, che goffaggine, sia lo spacciare che non si possa mai conseguirlo, sia il dare ad intendere che lo si possa raggiungere mercé qualche specifico portentoso di cui un individuo o un partito abbiano il privilegio. Ciò sarebbe lo stesso che abbassare l'uomo di stato al livello del giocoliere. L’arte e la scienza respingono egualmente gli espedienti degli empirici ed i prestigi dei ciarlatani.

Il pareggio non può ottenersi che mediante il simultaneo concorso di quei mezzi che, da Aristotele in poi, la esperienza e le dottrine economiche ci additano essere i soli possibili e i soli che producono effetti durevoli, cioè accrescimento di ricchezza, maggiore prodotto di tasse, aumento d’imposte, diminuzione di spese. Questi mezzi, come ognun vede, sono semplici assai e quasi volgari. Ma il sapergli adoperare, l’indirizzargli al medesimo scopo, il valersene senza offesa degli interessi generali, senza disturbo della produzione, senza scompiglio nei pubblici servigi, costituisce appunto l'arte e il segreto del buon finanziere.

Ogni rimanente è opera lenta del tempo e dell’operoso perseverare. Colla scorta di questo criterio giovi l’esaminare partitamente i miglioramenti avvenuti, o possibili, nella condizione finanziaria del Regno d’Italia.

1 A scanso di ogni equivoco, giovi il dichiarare che, parlando del Parlamento, intendesi sempre dei due rami che lo compongono, cioè il Senato e la Camera dei Deputati.

CAPITOLO XXII.

Accrescimento di ricchezza.

Lo svolgimento della ricchezza pubblica è la prima condizione in materia di finanza. Quando il paese è ricco, è impossibile che lo Stato sia povero. Sicché vediamo quasi sempre la prosperità delle nazioni e le pubbliche entrate andare l'una e le altre parallele fra loro in costante incremento, e vediamo altresì come le imposte, comunque ingenti, riescano meno gravose a popolazioni arricchite, che non siano le tenui imposte a popolazioni povere.

A procurare infatti l'incremento della pubblica ricchezza, mirarono costantemente il Governo e il Parlamento coi moltiplici provvedimenti già da me accennati nei capitoli precedenti, e che adesso rammento per ribattere l'accusa tante volte ripetuta dai contrarii, delle spese troppo facilmente decretate o con poca prudenza effettuale. Quanto venne fatto in questi cinque anni, tutto fu preordinato ad ottenere l'effetto, che il paese acquistasse la coscienza della sua forza e della propria sicurezza, prima ed essenziale condizione alla operosità industriale ed alle molteplici funzioni del capitale, che sparissero gli ostacoli frapposti dal dispotismo alla libertà dell’industria e del lavoro, che più rapidamente tutte le province italiane, e quelle in specie peggio trattate dalla disgrazia di pessimi governi, salissero allo stesso grado di prosperità cui erano giunte le altre più favorite dalla fortuna, onde le une e le altre potessero concorrere senza divario a sopportare identico peso di sacrifizii.

Le spese ingenti che si sopportarono e si sopportano dall’Erario per la formazione dell’esercito e della marina, per collegare tutte le province con strade ferrate e nazionali, per diffondere la pubblica istruzione, per promuovere il credito e le utili imprese, per imprimere dovunque lo stesso impulso di operosità e di vita, cominciano ad essere in parte compensate dai frutti che già se ne ottengono. I quali cresceranno sempre più e si renderanno viemeglio sensibili alla finanza, a misura che perfezionandosi la nostra rete ferroviaria, si ravvicinano fra loroi mercati e i centri di consumo e di produzione, si moltiplicano e si facilitano le transazioni, si eccitano la voglia del lavoro e l’attività industriale in quelle province, dove le inoperose ricchezze prodigate dalla natura di null’altro avevano bisogno che di essere fecondate dal benefico alito della libertà.

Sebbene la nostra industria e il nostro commercio interno ed esterno sieno ben lungi dall’aver preso quello slancio che abbiamo diritto di attendere, pure gli effetti voluti non hanno tardato, e non potevano tardare a manifestarsi. Quando infatti vediamo crescer dovunque i prezzi delle cose, degli affitti, dei generi alimentari e duplicarsi i salari della mano d’opera: quando vediamo i prodotti delle Puglie e degli Abruzzi, quadruplicati di prezzo, aprirsi un nuovo sbocco sui mercati di Genova e di Milano: quando vediamo sorgere nuove industrie, perfezionarsi le manifatture e gli istrumenti del lavoro, estendersi la cultura delle terre, migliorarsi le condizioni della agiatezza: quando vediamo a poco a poco diffondersi l’amore del lavoro e rinvigorirsi la operosità generale del paese, noi possiamo facilmente dedurne, che il mutato ordine di cose si manifesta ormai col segno più evidente della sua legittimità, cioè l’accrescimento del ben’essere e della pubblica ricchezza. Giovi intorno a tale argomento l’entrare in alcuni particolari.

1° Il movimento generale del commercio italiano anteriore al 1859, nel quale comprendevansi Venezia, Roma, Trieste, Istria, Gorizia e il Trentino, ascendeva a lire 1480 971 153, di cui lire 800251 261 rappresentavano la importazione e lire 680 719 892 rappresentavano la esportazione, tenuto conto anche dell’incasso delle dogane interne, che entra in quelle cifre per un quinto almeno. 1

1 Vedasi l'Annuario statistico del 1864, pag. 478.

Pure tale movimento attribuiva all’Italia divisa una importanza commerciale immediatamente dopo Inghilterra, Francia e Germania dello Zollwerein.

La statistica commerciale del solo Regno d’Italia del 1862, sebbene compilata sulla base delle vecchie tariffe, dava il seguente resultamento:

Movimento commerciale pel 1862.



VALORE COMMERCIALE

VALORE OFFICIALE

Importazioni

L.

911 145 161

813 180 647

Esportazioni

L.

657 488 835

476 815 147

Totali..

L.

1 568 633 994

1 289 995 794

Talché il Regno d’Italia, malgrado l’abolizione delle linee interne, Malgrado l’incompiuto ordinamento doganale, e malgrado il contrabbando, non solamente in questi tre anni aveva recuperata la quota spettante alle province che ne sono fuori, ma aveva superato di non poco il totale.

Questo progresso è anche meglio osservabile per l’anno 1863. Imperocché, sebbene non sia peranche pubblicata la relativa statistica, pure il movimento commerciale di quell’anno, che mi é stato comunicato dal Ministero delle finanze, mette in chiaro il fatto del costante aumento si nel commercio, che comprendé anche quello di transito, sì nel commercio speciale.

Movimento commerciale pel 1863.



COMMERCIO GENERALE

COMMERCIO SPECIALE



VALORE

VALORE

DIRITTI


COMMERCIALE 1863

OFFICIALE

1863

COMMERCIALE

1863

OFFICIALE

1863

RISCOSSI

1863

Importazione L.

982293652

860844353

902185066

777438484

45166385

Esportazione L.

700265636

503538677

633859052

434195851

3660914

Totale L.

1682559288

1364383030

1536044118

121135433$

48827329

2° Un altro indizio della cresciuta ricchezza può desumersi dal movimento generale della navigazione nei porti del Regno, non meno che della navigazione nazionale diretta e indiretta nei porti esteri.

Rispetto alla prima, i compilatori dello statistico avevano costatato, che nel 1860 la navigazione generale e di cabotaggio a vela ed a vapore con bandiera nazionale ed estera nei porli del Regno fu di n° 85 908 legni entrati della portata di tonnellate 5857 605, e di n° 85 057 usciti della portata di tonn. 5 654 822.

Dai documenti ufficiali resulta 1 che nel 1863, La navigazione generale, per operazioni di commercio tra entrati e usciti, fu di legni 42 536, della portata complessiva di tonnellate 6 786 381, e 274 450 uomini di equipaggio; La navigazione per approdo forzato fra entrali e usciti fu di legni 26 396 della portata complessiva di tonnellate 1675 826, e 188 419 uomini di equipaggio;

La navigazione di cabotaggio di ogni genere fu di legni 197 772, della portata complessiva di tonnellate 9 834 515 con 621 789 uomini di equipaggio solamente in arrivo.

Quadro comparativo della navigazione generale di cabotaggio a vapore e a vela nel porti del Regno.

ENTRATI-USCITI


NUMERO

TONNELLATE

EQUIPAGGIO

1860

170 965

11 512 427

------

1860

229 006

15 220 093

1 877 556

1860

246 851

16 491 401

2 111271

1860

266 694

18 396 722

2 291 801

Rispetto alla navigazione nazionale all’Estero, diretta e indiretta, cosi a vapore come a vela, abbiamo pure lo stesso incremento.

Infatti il movimento di essa nel 1860 fu verificato essere, tra approdi e partenze, di n° 19 785 legni, della portata di tonnellate 2 789 399.

1 Movimento della Navigazione nei Porti del Regno, anno 1863.

Questo movimento:

nel 1862 fu di n° 27 714 legni, di tonn. 4572 878.

nel 1863 fu di n° 28449 legni, di tonn. 4 711089.

Talché rispetto alla importanza della navigazione il Regno d’Italia vien subito dopo la Francia, ed è superiore all’Austria ed alla Spagna come si rileva dal seguente:

Quadro di confronto dei bastimenti entrati e usciti nel 1863. 1


NUMERO.

TONNELLATE.

Francia

206 251

13 901 982

Spagna

112184

6 020 804

Austria

93 380

3123 664

Regno d’Italia

185 791

13 837 892

Lo stesso progresso potrebbe notarsi nella pesca del pesce e del corallo, come pure nelle costruzioni navali, onde se ne può dedurre, che la navigazione costituisce per il Regno d’Italia una delle più cospicue sorgenti della sua futura ricchezza.

3° Al principio del nuovo Regno, esistevano in Italia, comprese quelle in stralcio, 377 Società industriali, con un capitale di L. 1351 621000, come dal seguente quadro statistico. Numero delle Società industriali e loro capitale nel 1900.


Totale.

Nazionali.

Estero.

CAPITALE.

Anonime

281

268

13

L. 1 148 849 000

Accomandita.

96

91

5

L. 202 772 000

Regno.

377

359

18

L. 1 351 621 000

1 Movimento della navigazione italiana all'estero, an. 1863.

2 Statistica concernente il movimento della navigazione nei porti del Regno del 1863.

3 Annuario statistico del 1864.

Adesso esistono in Italia 307 Società industriali, con un capitale di L. 2 576 643225, come resulta dalle recenti pubblicazioni fatte dal Ministero di Agricoltura e Commercio.

Numero delle Società Industriali, e loro capitale al 1864.

CLASSIFICAZIONE DELLE SOCIET�.

Cassate

In stralcio

Esistenti

CAPITALE.

Cassate

IN Stralcio

Esistenti

TOTALE





Lire

Lire

Lire.

Lire

Di Assicurazione Nazionali Estere

35

5

5

-

70 12

32216175

5497500

85013866

122727541

Di Strade

Nazionali, ferrate. Estere

14

2

-

-

29 3j

123192000

-

1269216000

1392408000

Di Credito Nazionali

Estere

12

-

3

-

26 1

90873768

545800

348513880

439 933448

Di industrie diverse Nazionali Estere

68

-

3

-

166 4

105750335

1719200

514104 701

621 574 236

Regno

136

11

307

352032278

7762500

2216848 447

2576 643 225

Potrei noverare altri fatti ancora, come, per modo di esempio, la coltivazione del cotone che, mercé lo zelo di privati cittadini e gli aiuti del Governo, ha preso in alcune province considerabilissime proporzioni, e già trae a sé l’attenzione dei primarii mercati d’Europa. Però quello che ho detto, parmi che basti a provare quanto sia l’incremento della ricchezza pubblica in questi quattro anni del nuovo Regno, quantunque fra noi l’industria e il commercio sieno ben lungi ancora dallo aver ricevuto quell’impulso e quel progresso che ammiriamo in altri paesi, e cui devono mirare con ogni impegno le sollecitudini del Governo e del Parlamento. Spetta alle Camere di Commercio di cooperare esse pare allo stesso scopo, studiando specialmente le cause dalle quali deriva che il cambio dei prodotti fra provincia e provincia sia tuttora si lento, e non raggiunga quella importanza e quell’attività che tanto devono conferire all’aumento del commercio ed al livellarsi dei prezzi. Spelta al Governo ed alle autorità provinciali e comunali l’agevolare lo svolgimento della pubblica ricchezza colla diffusione della istruzione elementare. Ha la parte maggiore spetta al paese stesso, vincendo le antiche abitudini d’inerzia, ed aiutandosi colla operosità e col lavoro. Se vogliamo raggiungere la ricchezza degli altri popoli, bisogna sapergli prima imitare nella voglia di lavorare, e nella copia del produrre. Ma tutto non può farsi in un giorno, e bisogna dar tempo al tempo. Solo mi giova il soggiungere, che mentre ho deploralo e deploro il ritardo che fu messo nel deliberare le nuove leggi d’imposta, dall’altro lato sarei quasi disposto a consolarmene coll’antico proverbio, che ogni male non viene per nuocere. Inquantoché, per si fatta guisa, niuna specie d’impedimento fu posta all’accumularsi dei risparmi e del lavoro, che infine dei conti è il solo più efficace mezzo col quale si prepara e si forma il capitale nazionale.

CAPITOLO XXIII.

Maggiore prodotto di tasse.

L’aumento della pubblica ricchezza agisce sopra tutti i rami delle pubbliche entrate, ma più specialmente sopra le tasse indirette, imperocché il loro prodotto, che è l’indizio meno fallace della pubblica ricchezza, aumenta a misura che le contrattazioni si moltiplicano, e l’operosità industriale e commerciale si accrescono. Ma le tasse indirette esigono qualche cosa di più. Esse non fruttano all'Erario ove non sieno informate ai sani principii della pubblica economia, e non sieno al tempo stesso diligentemente amministrate.

Recandosi una maggiore vigilanza nell’amministrazione delle tasse indirette, portandosi una maggiore accuratezza e severità nella toro percezione, ed introducendosi nelle leggi che le riguardano quelle riforme e correzioni che sieno indicate dalla esperienza, potremo certamente ottenere un notevole incremento nelle nostre entrate.

Infatti, le tasse sugli affari che nel bilancio del 1863, sulla base delle nuove leggi, erano state presagite prima dal Ministero in lire 96 700000 e poi dalla Commissione del bilancio nella minor somma di lire 78170 000, non fruttarono che L. 61 674 892 87, sicché nel bilancio successivo del 1864 non figurarono che per lire 66126 750, somma inferiore non solo a quella presagita in principio, ma a quella altresì che naturalmente dovrebbero produrre, quando le leggi relative fossero meglio intese, o riformate dove manchevoli, o più severamente applicate, pur togliendo loro tutto quello che hanno d’inutilmente vessatorio e di regolamentare pedanteria.

Intanto noi sappiamo dalle pubblicazioni ufficiali che le tasse suddette, sebbene dal 1862 al 1865 presentino un aumento annuo di 17 milioni, pure ragguagliano

in media nelle diverse province italiane a lire 2, 70 per individuo. 1 E se questo resultamento apparisce più che scarso considerato in se stesso, si rivela miserissimo ove si confronti col Belgio e colla Francia dove il prodotto di quelle tasse ragguaglia per individuo a lire 6, 36 e lire 8, 77.

1 Andamento delle Tasse di Registro e Bollo, per individuo e per anno.


1862.

1863.

1864.

Antiche Province

4

11

3

97

4

07

Lombardia

2

93

3

34

3

20

Emilia e ex-Pontificio

1

90

2

32

2

41

Toscana

2

15

2

91

2

81

Napoli

0

75

1

60

1

81

Sicilia

1

32

2

15

2

50

Tutto il Regno.

2

07

2

59

2

705

2 Confronto delle Tasse di Registro e Bollo, in Francia nel Belgio, in Italia, in ragione di popolazione.


FRANGIA

1860.

BELGIO

1859.

ITALIA

1864.

Atti civili, stragiudìciali, contratti

5 243

2 491

1 134

Atti giudiziari

0 180

0 226

0 105

Successioni

1 761

2 357

0 537

Totale.

7 184

5 074

1 776

Tasse di Bollo

1 499

0 778

0 801

Tasse d’Ipoteche

0 094

0 509

0 132

Totale generale.

8 777

6 361

2 709

Né ciò deve fare maraviglia, ove si pensi che tale fenomeno si vede sempre rispetto alle tasse nuove, finché non sieno penetrate nel pubblico costume: ove si pensi che in alcune province bisognava vincere maggiori repugnanze: ed ove si pensi altresì che la diversità delle leggi e delle procedure era causa non lieve d’imperfezione nel congegno delle tasse e di maggior difficoltà nella loro esecuzione. Io credo che le tasse sugli affari sieno destinate ad essere una delle maggiori entrate del Tesoro. Ci conforta in tale speranza l’esempio della Francia, ove queste tasse che nel 1762 rendevano 14 milioni, e ne rendevano 50 nel 1789, che toccavano già la cifra di 215 milioni nel 1830, figuravano nel bilancio del 1864 per L. 406 714 006. 1 Per rimediare appunto a non pochi difetti, che la esperienza ha già discoperti nelle leggi sopra nominate, pendono davanti alla Camera due proposte preordinate alla riforma delle Leggi sul bollo e sul registro che, migliorandole assai nella parte regolamentare, fanno ripromettere dalla prima un accrescimento d’introito per lire 4 723000, e dalla seconda un accrescimento di lire 14 211 183 53, indipendentemente da quei maggiori aumenti che tali tasse devono produrre, a misura che la loro percezione venga facilitata dal costume pubblico e dalla solerzia degli ufficiali che ne sono incaricati. Però io credo non esser lungi dal vero affermando, che sarebbe presso che vana ogni riforma che non abbia la sua base nella unificazione delle leggi civili e giudiziarie, e che, in ogni ipotesi, i maggiori prodotti di tali tasse saranno dovuti all'influsso più salutare del tempo ed a quelle progressive trasformazioni, che recano nel pubblico costume lo spirito di libertà ed il sentimento più nobile dei civili doveri.

Le gabelle (escluso il lotto) che nel bilancio del 1861 figuravano per lire 187 000000 ed in quello del 1862

1 La Ferrière, Cours de droit administratif. Part. I, Lib. il, Tit. 3.

2 Furono presentate dal ministro Min ghetti nelle tornate dell’8 e 18 aprile 1864.

per lire 190978879, fruttarono la prima volta sole lire 178 487 853 e la seconda volta non più che lire 182 035 283. 1 Questo ramo d’introiti giunse nel 1863 a circa lire 190 000 000, onde avvenne che fu presagito per il 1864 in lire 197 325 096, 67, somma che le pubblicazioni ufficiali ci annunziarono fosse di non poco sorpassata. Sicché dal 1862 a oggi avremmo per questo lato un aumento non minore di 25 milioni. Ma quando si noti che tali aumenti avvengono lutti sui generi di privativa, e che le dogane non raggiunsero in quest’anno neppure la somma di lire 61 000 000, sarà facile il concluderne che un ramo di entrata così importante, che frutta al Belgio lire 1440500, alla Francia lire 164 000000 ed alla Inghilterra lire 625 000000, è ben lungi dal rappresentare la somma che ne dovremmo ragionevolmente sperare. Ed io sono persuaso che, ordinati meglio i servizi che riguardano le dogane, spiegata una maggiore vigilanza per la repressione del contrabbando, che specialmente dalla parte della Svizzera ha assunte proporzioni scandalose, aboliti gradualmente e colle dchile cautele i privilegi delle città franche: i trattati stessi di commercio, cui l’amministrazione si ostina a volere incolpare della diminuzione del prodotto, ne agevoleranno invece quel progressivo e naturale incremento che è nella natura delle facilitate transazioni commerciali, e nell’applicazione del principio della libertà..

Lo stesso deve dirsi delle Poste, che mentre per tutti gli altri Stati sono una sorgente d’entrata, presso di noi costano assai più di quel che rendono. 0 ciò provenga da troppa complicanza e da soverchio lusso nel servizio, ovvero dalla ingente spesa che sopportiamo per sussidiare il servizio marittimo affidato a private Società, fatto sta che il servizio postale ci costa lire 48 701270, di fronte ad un introito di lire 43 000000, laddove in Francia la spesa di lire 58 982417 ha di fronte un compenso di lire 69 233 000.

1 Sotto nome di gabelle, comprendonsi in questo confronto: a) i dazi di confine, 6) i diritti marittimi, c) il dazio di consumo, d) i tabacchi, e) i sali, f) le polveri.

Non è certamente una illusione il riprometterci che, mediante utili riforme nell’amministrazione, mediante i progressi della istruzione popolare ed il naturale incremento dei bisogni cui esso provvede, questo ramo di servizio debba fra non molto tempo, non solo bastare a se stesso, ma darci un prodotto netto, come avviene appunto del servizio telegrafico che, mentre ci costa lire 4127 782, 90, ha veduto ogni anno crescere i suoi introiti, talché il prodotto presagito per il 1865 in sei milioni potrebbe anche sperarsi che venisse oltrepassato.

1 Le lettere spedite nel 1864 ammontarono a 67 309 335 r laddove nel 1863 furono 72 544134. Ma nel 1864 le lettere affrancate sommarono a 60 322 947, laddove nel 1863 erano state 58959290. Cosii francobolli e segnatasse venduti nel 1864 ascesero a Lire 9 420 381, 03, mentre nel 1862 fruttarono la minor somma di Lire 8 878 426 16.

Crebbero nel 1864 le stampe periodiche a 52 522 653, mentre nel 1863 erano state 45 327 810.

Scemarono nel 1864 le stampe non periodiche a 6 311279, mentre nel 1864 erano state 8114 624.

CAPITOLO XXIV.

Aumento d'imposte.

La ragione precipua del nostro dissesto finanziario (giova il ripeterlo anche una volta) da questo dipende: che la rivoluzione italiana, all’inverso di ogni altra, cominciò col diminuire le imposte, e troppi furono i riguardi, troppe le lentezze, sia per parte del Governo, sia per parte del Parlamento, nel provvedere alla finanza col deliberare un ragionevole aumento di tasse, di mano in mano che era inevitabile il deliberare nuove spese. Glia è una verità spiacevole a dirsi, più che mai spiacevole il doverla dire quando le popolazioni assuefatte a pagare poco, cominciano a sentire il peso delle nuove imposte, ma che pure è mio debito il pronunziarla apertamente e senza ambagi; l’Italia non paga quello che, rispetto ai suoi bisogni e rispetto ai suoi mezzi, pur dovrebbe pagare;poiché dai confronti statistici resulta che essa paga assai meno di quanto pagano l’Austria e la Spagna. Ed io farei ingiuria al mio paese, se credessi che le condizioni economiche dell’Austria e della Spagna fossero migliori delle nostre.

Ed infatti, dai confronti che s’instituiscano tra le imposte dei diversi paesi d'Europa, viene a resultare che mentre in Austria le pubbliche entrate ragguagliano a L. 37 per abitante, ed in Spagna a L. 33, 70, 1 nel Regno d’Italia,

1 Ecco le entrate dei diversi Stati d'Europa in riscontro delle rispettive popolazioni.


Popolazione.


Entrata.


Par abitante.

Francia

37382225

L.

1780 487 985 00

L.

47 6281000

Austria

35019088

»

1 304 192 740 00

»

39 08

Belgio

4 782 256

»

156 946 790 00

»

32 81

Prussia

18500 446

»

511 962 791 25

»

27 68

Spagna

15 673 481

»

528 207 940 00

»

33 70

Italia

22 000000

»

522105029 00

»

22 73

prendendo come base il bilancio del 1864 (L. 522 105029) cioè senza contarvi i prodotti delle nuove leggi d’imposta volate l’anno scorso dal Parlamento, e molto meno gli aumenti deliberali posteriormente, o verificatisi per incremento di prodotto, le pubbliche entrate ragguagliano tutte sommate insieme a L. 23, 73 per abitante. Ragguaglierebbero a 28, 40 per ogni individuo nel tema di un bilancio di L. 625000000, ragguaglieranno a L. 31, 80, quando il bilancio attivo giungesse ai 700 milioni. E nell’un caso e nell’altro, l’aggravio sarebbe minore dell’Austria ove è di L. 39, e minore della Spagna ove è di L. 33, 70. 1 Ed insisto principalmente nel citare le imposte austriache, perché nel bilancio dell’Austria non figurano affatto le tasse provinciali e comunali come figurano nel bilancio francese, il quale per conseguenza non offrirebbe col nostro i termini ili esatto confronto.

1 Secondo le notizie finanziarie dell'Austria, pubblicate dall’egregio nostro deputato Meneghini, le imposte dirette dell'Austria sommano a Fior. v. a. 124 207 890, cioè: Fondiaria 72 404 154. Fabbricati 20 095 970. Industria 12 055 050. Ritenuta sui fondi pubblici 8 947 540. Ciò equivale a L. 306 688 600 cioè poco meno delle imposte dirette della Francia (309 177 500) che pure ha 37 382 225 abitanti.

Ecco, secondo il Meneghini, la progressione delle imposte dirette austriache dal 1849 al 1863.


1849.

1862.


POPOLAZ.

Imposte.

Per Abitar.

POPOLAZ.

Imposte.

Per Abitar.

Paesi Slavi e Tedeschi Ungarici

Venezia


17 613715

12950000

2257200


29 007 972 6114267

5 754 205


370 95

47 22

254 92


18 224 500

12 703 591

2 446 056


67 604 327

37 655164

10 000 859


370 95

2 96 41

4 08 8

Ritenuta sui fondi pubbl.


8 947 540

Fior. v. a.

32 820 913

40 876444

124 54

33 374 147

124 207 890

3 72 10

Ciò prova e dimostra evidentemente la congruità e la necessità di aumentare le imposte, e mancherebbe a sé stesso qualunque deputalo che lusingasse diversamente i suoi elettori, perché appunto nell’aumento delle pubbliche entrate sta il segreto dell’avvenire politico ed economico del Regno d’Italia.

Vedremo in seguito se sia possibile l’introdurre imposte nuove. Limitandomi adesso a parlare di un aumento di tasse dentro il giro delle imposte già deliberale dal Parlamento, e sempre rispetto al bilancio del 1864, è evidente che senza punto disturbare la economia di quelle imposte, si può ricavare un notabile aumento di entrate sia dal successivo svolgimento della perequazione della fondiaria, sia dalle due tasse della ricchezza mobile e dazio di consumo.

Infatti la imposta fondiaria, che per effetto della perequazione da 115540257, 40 è salita nel bilancio del 1865 a Lire 139 827 487, 74, deve ascendere ad una somma maggiore quando sieno estesi gli effetti della perequazione ai fondi esenti ed ai non censiti, dei quali è grande copia in alcune province, non meno che ai fabbricati urbani che restano tuttora gravati in proporzioni diverse. Per questo, il Parlamento ha già statuiti i principii in ordine ai quali deve effettuarsi la perequazione dell’imposta sui fabbricati, 1 e da questa sola legge il ministro Minghetti, che la propose, si riprometteva un aumento di oltre i 10 milioni.

Anche la imposta sulle rendite della ricchezza mobile è suscettibile di non lieve aumento. Proposta in origine dal ministro Bastogi in Lire 50,000,000, fu ridotta dal Parlamento per la prima volta a 30 milioni, ma andando in esecuzione a mezza annata venne applicata per contingenti nella sola metà di quella somma.

1 Legge del 26 gennaio 1865.

Ora se riflettasi che, tanto in Francia quanto nel Belgio, le imposte affini a questa tassa mantengonsi in una proporzione molto vicina alla imposta fondiaria, 1 può indursene facilmente che i 30 milioni siano molto al disotto di quel prodotto che dobbiamo ricavarne.

Infatti, mercé lo zelo e la operosità dei magistrali e commissioni municipali, cui precipuamente era affidata la esecuzione di questa legge tanto importante, le denuncie che ne costituiscono la base fondamentale, prima che fossero rivedute dalle commissioni locali, ci rivelarono una rendita non fondiaria effettiva di oltre un miliardo e 132 milioni, non calcolando le rendite colpite dalla tassa minima, ma che pure fanno ascendere le rendite denunciate ad una somma maggiore.

E questo prova che se vi furono alcune eccezioni non lodevoli, nel maggior numero dei casi le denunzie furono assai sincere, e molto più prossime al vero che non sarebbesi sperato, mentre sulla poca sincerità di esse fondavasi il più grave obietto che facessero gli oppositori.

Riesce importante l’avere sott’occhio il prospetto delle denunzie provincia per provincia, quale mi venne comunicato dalla pubblica amministrazione.

1 In Francia la imposta fondiaria è di L. 167 600 000 e la imposta sulla ricchezza non fondiaria di L. 142 653 000.

Nel Belgio la imposta fondiaria è di L. 1888629; la imposta sulla ricchezza non fondiaria è di L. 14 520000.

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Ritenendo che il sindacato delle commissioni locali abbia portate le rendite denunziate ad un effettivo di un miliardo e mezzo, malgrado la riduzione voluta dalla legge in media del 31 % per 100, avremo pur sempre una rendita imponibile di un miliardo e 200 milioni. Ora, siccome su questa somma il contingente dei 15 milioni per il 1864 dava per tutto il Regno un’aliquota media di L. 1, 33 per ogni 100 lire di rendita, ne viene la conseguenza che, portando la tassa anche ai 60 milioni, l’aliquota media non sorpasserebbe le L. 5, 32 sopra ogni cento lire di rendita imponibile, e quindi tale accrescimento sarebbe tutt’altro che esagerato, tanto più che la rendita denunziata e la rendita effettiva possono sicuramente ritenersi assai al di sotto della rendita reale.

Anche il dazio consumo è presso a poco nelle identiche condizioni. Tanto nei luoghi chiusi, quanto nei luoghi aperti, questo dazio, come altrove notai, percuote nell’interesse governativo le bevande, le sostanze spiritose e le carni, rilasciandosi ogni rimanente a benefizio de' Comuni. Questo dazio, per la più parte dato in abbuonamento ai Comuni e per una terza parte in appalto ad una privata società, non rende al Governo che 28 milioni, liberi invero quasi da ogni specie di spesa di percezione, ma infinitamente al di sotto di quella somma che per gli identici titoli frutta negli altri Stati. 1 Ciò prova che la tassa fu bene intesa e bene applicata, ma prova del pari che essa è troppo mite, e che scaduti i termini dei primi contralti, può essere di non poco aumentata, sia rialzando le tariffe, sia estendendola a diverse specie di fabbricazione che ne sono esenti

1 In Francia sul bilancio del 1864 il dazio sulle bevande figura per L. 203 709000.

Nel Belgio frutta L. 14 520 000.

Basti per ora enunciare questi aumenti d’imposta che sono inevitabili per condurre più presto che si può il nostro bilancio attivo alla entrata di 700 milioni, nel quale caso, come dissi pur dianzi, la imposta non graverebbe se non che per la quota di L. 31, 80 per abitante. Il margine che resta pur sempre tra questa cifra e le quote che gravano i contribuenti austriaci (37 ¼) ed i contribuenti spagnoli (33, 70), le cui condizioni economiche possono esser guari troppo diverse dalle nostre, deve rappresentare in un tempo non molto distante da noi (almeno lo speriamo) quegli ulteriori incrementi delle nostre entrate, che saranno un effetto necessario dei progressi ottenuti nella industria e nella ricchezza italiana. Allora l'Italia non potrà pentirsi dei sacrifìzii che oggi gli vengono chiesti.

Ora che le leggi principali d’imposta e di finanza sono fatte ed applicate, deve chiudersi il periodo dei ministri ordinatori, e quello deve cominciare dei ministri veramente amministratori. D’ora in poi ciò che davvero distinguerà un ministro dall’altro saranno l’attitudine e la diligenza, la cui mercé possano riuscire a far fruttare le imposte indirette, nelle quali è riposto l’avvenire delle finanze italiane, n giorno che il bilancio attivo del Regno d’Italia cominci a sorpassare i 700 milioni, quel giorno il nostro credito in faccia all’Europa sarà al coperto da ogni colpo di avversa fortuna.

CAPITOLO XXV.

Diminuzione di spese.

Coloro che parlano delle nostre finanze, senza conoscerle bastevolmente, avrebbero voluto che il disavanzo dei nostri bilanci sparisse senza nessun aggravio d’imposte, col solo ridurre le spese della pubblica amministrazione, e quindi parlano sempre di risparmi, senza rendersi conto se a questi vi sia un limite segnato dalle pubbliche necessità, senza rendersi conto se certi risparmi non fossero pagati a troppo caro prezzo, e senza pensare nemmeno se certi risparmi fossero consentiti dalle leggi organiche tuttora vigenti.

Io questo so, che avendo fatto parte per quattro anni consecutivi della Commissione del bilancio, ho veduto spesso naufragare le proposte de' più ragionevoli risparmi, di fronte alla opposizione di quegli stessi che più spesso e più alto ne parlano quando non siamo nel caso pratico di attuarli. Ho assistito al succedersi di ministeri a ministeri, che essendosi proposti nel loro programma la lodevole intenzione di diminuire le spese, stretti dalle medesime difficoltà, trovaronsi più o meno impotenti a realizzare le loro promesse. Ho udito del pari uomini espertissimi nelle pubbliche faccende, che dopo aver parlato essi pure di economie e di risparmi, hanno dovuto confessare che il male del nostro bilancio stava più nel difetto di entrate che nell’eccesso di spese, e questo dipendere meno dalla volontà dei ministri, che dal congegno troppo complicato della nostra amministrazione.

Queste cose ho voluto dire, non per muovere indoverosa censura ad uomini o partiti, ma per dedurne che il campo più pericoloso per qualunque opposizione è quello della finanza, essendo più facile i| discorrere di risparmi, che non sia lo effettuarli; e che anzi le difficoltà di conseguirli senza scompiglio dei pubblici servigi, crescono in ragione diretta della soverchia facilità nell’averli promessi.

Per questo appunto, ho comincialo a parlare di nuove imposte, prima che assumessi il tema dei risparmi, che pure sono e devono essere uno dei coefficienti per mettere in pari i nostri bilanci, ma dei quali non si può ragionare se prima non siasi avuta un’esatta ragione delle cose.

CAPITOLO XXVI.

Dei risparmi se ne sono fatti.

E prima di ogni altra cosa, mi giovi notare alcuni e non lievi miglioramenti già ottenuti rispetto alle spese ordinarie e straordinarie nei due bilanci del 1863 e 1864, già discussi e stanziati dal Parlamento, il bilancio delle spese ordinarie per il 1863 presentavasi dal ministro Sella nella cifra di L. 772 000 000, che, aggiungendovi L. 35000000 d’interessi per la prima emissione del nuovo prestito già inevitabile, saliva alla cifra di L. 807 000 000, la maggiore che abbia mai figurato nel nostro bilancio.

Era quella la prima volta che il Parlamento avesse potuto recare un accurato esame sul bilancio: e quindi, d’accordo col ministro Minghetti, lo ridusse alla minore somma di L. 780000000, non operando le riduzioni che sul secondo semestre, il cui esercizio era tuttora intatto.

Sopra queste basi il ministro Minghetti presentò il suo bilancio per il 1864 in L. 756 000 000 che fu poi stanziato dalla Camera in L. 787 483 401. Ma conviene notare che in questa cifra furono inclusi dalla Commissione circa 31 milioni, per titoli di spese affatto nuove, non comprese nel bilancio precedente, 1 ma che effettivamente residuaronsi in L. 21 000000, poiché L. 9 230 000 trovavano un correspettivo in altrettante entrate iscritte nel bilancio attivo; 2 talché non tenendo conto di questi 21 milioni, egli é un fatto positivo che tra il bilancio del 1863 (807 milioni) e il bilancio del 1864 (756 milioni) eravi una differenza in meno di circa 50 milioni, 40 dei quali almeno costituivano un vero risparmio ottenuto nelle spese di amministrazione per unanime accordo tra il Governo e il Parlamento.

Quindi ne avvenne che poteronsi iscrivere su questo bilancio 31 milioni di spese nuove, senza che fosse sorpassata la cifra di L. 787 480 539, 19, che fu quella effettivamente approvata. 1

1 I titoli di spese nuove erano i seguenti:

Interessi per la emissione residuale dell’Imprestito

L. 15 000000

Acquisto della ferrovia Vittorio Emanuele

L. 2 226 000

Spese d'esercizio per detta strada

L. 3 426 640

Spese per i telegrammi in servizio dello Stato

L. 2 810 000

Interessi per il capitale di 28 milioni occorrenti alla ferrovia Ligure


L. 1 800 000

Garanzie d’interessi per strade ferrate

L. 2 500 000

Fondo maggiore per le pensioni

L. 2 658 864


L. 30 421504

Interessi della ferrovia Vittorio Emanuele.

L. 5400000

Introito dei telegrammi governativi

L. 2 830 000

Rimborsi per anticipazioni sulla predetta ferrovia

L. 1 000 000


L. 9230000

1 I cinquanta milioni si decompongono come appresso:

I. — Spese d’ordine.

Ministero dell’Interno

L. 6 031026

id. dei Lavori pubblici

L. 1 476 000


L. 7 507 026


II. — Passaggio di partite nello straordinario.

Ministero delle Finanze

L. 392 992


id. dell’Interno

L. 1326306


id. dei Lavori Pubblici

L. 2992000


id. Agricoltura e Comm

L. 30000



L. 4 741 298

L. 4 741 298

Totale


L. 12 248 324


Un altro notevole miglioramento lo abbiamo pure ottenuto rispetto alle spese straordinarie, le quali da 318 milioni che furono nel 1861, scesero a 292 milioni nel 1862, a 162 milioni nel 1863 e a 140 milioni nel 1864, per decrescere sempre più nei successivi bilanci, finché non vengano ridotte a quella modica cifra proporzionale colle spese ordinarie, che possa venire d’anno in anno coperta con apposita dotazione, cioè mediante stanziamenti di risorse ordinarie o straordinarie, ma sempre previste, ma sempre accertate insieme alle spese.

III. — Titoli speciali di risparmi:



Amministrazione centrale L. 1136650


Casuali 290 000 Spese diverse 1006164


Permutamenti e indennità 3474401


Spesa d’ufficio, mobiliare 3 529347


Personale e aggi 5 211 935


L. 14648497


IV. — Economie nei singoli Ministeri:

Finanze

Grazia e Giustizia

Esteri

L. 148 889

L. 265152

L. 27 000

Istruzione Pubblica

Interno

L. 412000

L. 1838094

Lavori Pubblici

Guerra

Marina

Agricoltura

L. 4 801966

L. 6 949 577

L. 9919 912

L. 676315


L. 25038905

N. B. Cosi eliminati i due primi titoli, che non costituiscono vere economie, abbiamo negli altri due titoli una economia effettiva di lire 27 439 078.

Gli aumenti ottenuti nelle entrate del 1864 e i risparmi ottenuti nelle spese, hanno prodotto l’effetto che il disavanzo generale, che nell’esercizio del 1862 oltrepassava i 500 milioni, ed in quello del 1863 ascendeva sempre a L. 348 657 203, 92, si vide ridotto nell’esercizio del 1864 a L. 255 218 422, 62. Vedremo a suo luogo se questo disavanzo, come può restringersi ulteriormente mediante le nuove imposte che aiutano l’esercizio del 1865, possa assottigliarsi altresì mediante nuovi e più radicali risparmi.

CAPITOLO XXVII.

I Confronti.

Udii più volte istituirsi un confronto tra il bilancio dell’antico Regno subalpino ed il bilancio del Regno d’Italia, ed udii affermarsi esser questo eccessivo, inquantoché superasse di gran lunga il quadruplo di quello, fatta appunto ragione del quadruplo della popolazione. Quindi era ovvio il dedurne tra l’amministrazione del Regno subalpino e l’amministrazione del Regno d’Italia un altro confronto, tutt’altro che favorevole alla seconda. Tali confronti e tali deduzioni avevano fatto sull’animo mio una ben trista impressione. Ma avendoci poi recata una maggiore attenzione, dovei persuadermi essere erronee quelle deduzioni, perché inesatte le basi del confronto da cui prendono cominciamento.

Non è esatto tale confronto, poiché se è vero che il bilancio delle spese per il 1860 fu stanziato dalla Camera subalpina nel febbraio del 1859 in lire 149 775 927, 95, e se è vero del pari che il quadruplo di tale spesa non oltrepasserebbe la somma di lire 599 004 499 73, egli è vero altresì che a questa cifra dovrebbesi aggiungere pur sempre la eccedenza del debito pubblico per lire 40 000 000, come dovrebbe aggiungersi un' altra eccedenza di circa lire 10000000, occasionata dal maggior numero di pensioni che per i mutamenti avvenuti fanno carico al nostro bilancio, talché queste due partite lo porterebbero alla cifra maggiore di lire 649 004 499, 73. Non è esatto tale confronto anche per la ragione che tra la popolazione del Regno subalpino (5 000 000) e quella del Regno d’Italia (22 000000), vi è, oltre al quadruplo, un'eccedenza di due milioni di abitanti, che importa per lo meno (sulle basi del confronto) un aumento di spesa di 50 milioni. E cosi unita questa partita alle precedenti, il calcolo del confronto sulle basi del quadruplo ammesso, porterebbe il bilancio del Regno d’Italia a lire 699 004 499, 73, e la eccedenza al di là del quadruplo non sarebbe che di circa 87 milioni. Questa eccedenza di spesa sarebbe facilmente spiegabile e giustificabile, senza poterne per nulla dedurre che l'amministrazione del Regno d’Italia sia stata meno prudente, meno guardinga, meno ordinata, che non fosse quella del Regno Subalpino.

Ma il confronto è inesatto per una causa ben altrimenti grave e che può offrire argomento a nuove riflessioni; imperocché le spese per le antiche province, rispetto all’esercizio del 1860, non vennero affatto regolate dal bilancio stanzialo dal Parlamento subalpino, ma sibbene sulle norme diversissime del successivo bilancio pubblicato col reale decreto del 20 novembre 1859, il quale statuiva l’esercizio del 1860 nella somma maggiore di lire 214108 442, 06. 1

1 Il Decreto reale del 20 novembre 1859 dispone, ivi: Il bilancio passivo dello Stato dell’esercizio del 1860 per le antiche province del Regno è approvato nella complessiva somma di L. 250480169, 44.

Spese ordinarie

Lire 21410844206

Spese straordinarie

Lire 56 371 727 38

Quindi se noi prendessimo il solo quadruplo di questa cifra, anche senza tener conto delle altre addizioni delle quali facemmo parola precedentemente, cioè l’aumento del debito, la eccedenza delle pensioni, il maggior numero della popolazione oltre il quadruplo, noi avremmo una spesa complessiva di lire 856 433 768, 24, vale a dire un’eccedenza di 69 milioni sulla cifra dell’ultimo bilancio. 2

Anche ciò volli notare, perché si veda pure in questo caso come i confronti sieno sempre odiosi, e per dedurne altresì che se le spese pubbliche sono accresciute oltre quella misura che sarebbe stata desiderabile, non ne furono cagione vuoi la imperizia, vuoi quella smania dissipatrice che altri volle imputare alla nuora amministrazione del Regno d’Italia; ma ciò provenne invece, per la massima parte, da quelle stesse cause che portarono il bilancio passivo delle antiche province dai 450 ai 214 milioni.

Voglio dire che tale eccesso di spesa dipende dagli accresciuti stipendi, dal soverchio complicarsi delle pubbliche aziende, dal più costoso organismo della pubblica amministrazione, dal nuovo impianto insomma creato dalle leggi e dai regolamenti del novembre 1859. Giacché pur troppo il nostro bilancio attuale null'altro è che la estensione a tutto il Regno del bilancio stanziato coi pieni poterle delle leggi e dei ruoli organici sui quali tale bilancio era compilato. E con questo io non intendo di muovere censura ad alcuno: che anzi riconosco che non poche cose che erano necessarie, furono fatte bene, ed altre in si breve spazio di tempo non potevano farsi altrimenti. Ma voglio invece che ciascuno abbia quella parte di responsabilità che gli spetta, come intendo di designare le cause vere dello sbilancio, onde la pubblica opinione non sia traviata da quelle vane declamazioni che, suggerite dallo spirito di parte, fanno cosi spesso smarrire la verità e rendono eterni gli abusi, se pure vi sono.

2 Quanto abbiamo affermato viene meglio chiarito dal confronto fra i due bilanci delle antiche province, l’uno stanziato dalla Camera nel febbraio 1859, l'altro approvato col R. Decreto del 20 novembre 1850.


BILANCIO

delle antiche province provato dalla Camera nel febbraio 1859

BILANCIO

della antiche provincie in ordine al Regio Decreto 20 novembre 1859

Finanze

L. 83 011 312 57

L. 108 266 964 33

Grazia e Giustizia.

5 286 128 42

6 095 489 74

Esteri

1474817

76 1750517 76

Istruzione Pubbl.

2 306 072 57

2 943 610 87

Interno

6966028 26

10178814 36

Lavori Pubblici

12 060 099 38

21 377 075 06

Guerra

33271468

99 5573688176

Marina

5 400000 00

7 759 088 18

Commercio

— —

— —

Totale

L. 149 775 927 95

L. 214108 442 06

CAPITOLO XXVIII.

Censure esagerate.

Ma siccome bisogna guardarsi da ogni esagerazione tanto nel muovere censure, quanto nel proporre risparmi, non è fuori di luogo anche il notare che il bilancio delle spese ordinarie, come usci dalle ultime deliberazioni del 1864, non è poi cosi mostruoso come per taluni si afferma. Se dalla somma totale accertata in lire 787 480 539, 19 voi togliete infatti ciò che rappresenta il soddisfacimento di obbligazioni inviolabili, quali sono il pagamento della rendita, le pensioni, gli interessi dei buoni del tesoro, le garanzie per le strade ferrate e le dotazioni, e cosi una somma di circa 300 milioni, che non ammette riduzione: se detraete le spese occorrenti per i due ministeri di Guerra e Marina nella somma di 233 milioni, e che non potrebbero ridursi al di là di certe misure; se voi detraete le spese occorrenti ai servizi della percezione delle entrate ed ai mezzi per ottenerle, per oltre 140 milioni, spese ingentissime certamente di fronte al percetto, 1 restano appena 114 milioni disponibili per tutti gli altri ministeri e per tutti i servizi pubblici, ai quali deve provvedere il bilancio.

Ed allora domando e dico se questa somma possa dirsi eccessiva per un Regno di 22 milioni, quando la più parte dei servigi pubblici fanno capo al bilancio dello Stato, e quando per gl’identici servigi il bilancio francese ha disponibili oltre 552 milioni, senza computarvi quelli dell’Algeria.

Ma vi è di più. Fu un male, ma forse piuttosto una necessità, quella stessa che oggi si presenta in tutti gli Stati d’Europa, che si aumentassero gli stipendi nel 1859.

Male o necessità che fosse, oggi non è possibile tirarsi indietro, e fu assai se la finanza ha potuto in parte rivalersi assottigliando le pensioni,

e gli assegni di aspettativa, ed aggravando forse al di là del giusto le sottrazioni per titolo di ritenuta. Un qualche vantaggio la finanza potrà ritrarlo per virtù del tempo, che ridurrà colle sue forbici poco a poco in più discrete proporzioni la cifra di oltre 7 milioni ora affetta ai soldi di aspettativa, e la più ingente di 32 milioni destinata al fondo delle pensioni.

1 Fino a che le imposte non sieno sufficientemente sviluppate, o non si muti sistema di amministrazione, gli introiti non stanno in proporzione colle spese di amministrazione come resulta dal seguente:

PROSPETTO.

Introiti

Spese di percezione

I — Demanio e Tane


I — Demanio e Tane

L.26 401 664 —

Tosse dirette

L. 203 293 373 40



Registro e Bollo

L. 73 009 003 —



Beni patrimoniali

L. 17 654 438 —



II — Gabelle


II — Gabelle (Spese gen)

L. 14 199 850 -

Dogane

L. 60 200 000 —

Dogane

L. 4 414 350 -

Consumo

L. 28 100 000 -

Dazio Consumo

L. 600 000 -

Sali

L. 48000009 -

Sali

L. 9500955 -

Tabacchi

L. 8(1 000 0011 -

Tabacchi

L. 28 558 189 -

Polveri

L. 2500 000 —

Polveri

L. 129 077 -

Lotto

L. 40 000 000 —

Lotto

L. 23018 100 -

III — Ferrovie

L. 27 160 000 —

III — Ferrovie

L. 17 123379 -

IV — Telegrafi

L. 6 000 000 -

IV — Telegrafi

L. 4 301 820 -

V — Poste

L. 14043120 —

V — Poste

L. 17 943 130 -


L.605 950 934 40


L.146 190514 -

In Francia le spese di egual natura stanno alle entrate nella proporzione di 235 milioni ad mi miliardo e 562 milioni.

Ma come l’eccesso che può ravvisarsi in queste due partite attiene strettamente alle cause ed al carattere morale della nostra rivoluzione, cosi i risparmi cui potranno tali partite dar luogo, non possono calcolarsi adesso.

Quindi il nostro bilancio passivo (se prescindasi dalla riforma nelle leggi organiche) non può dar luogo a troppe resecazioni, quando non vogliansi disturbare i servigi pubblici, o arrestare gli effetti di quel progresso, che comincia a svolgersi in larga misura rispetto agli interessi materiali del paese, e per i quali il Ministero dei lavori pubblici ha erogato (ino a qui, tra spese ordinarie e straordinarie, oltre HO milioni all’anno.

Anzi, non spingendo più oltre la riforma dell’organismo governativo, e finché il bilancio passivo resta come esso è anche nei modi della compilazione, la sua tendenza naturale è verso l’aumento, piuttostoché verso la diminuzione delle spese ordinarie. Ove si ponga mente che per una o per altra cagione cresce naturalmente l’ammontare degli interessi affetti alla rendita consolidata, ove si rifletta che i disavanzi antecedenti e quelli verificabili tuttavia per alcuni anni successivi esigeranno la creazione di nuovi debiti, ed ove si pensi che di anno in anno cresce la dotazione dovuta per garanzie d’interessi alle Società costruttrici di strade ferrate a misura che nuovi tronchi sieno aperti alla circolazione, è facile l’intendere come per l'effetto di tutte queste cagioni avverrà certamente, che gli aumenti sulle spese ordinarie sorpasseranno notevolmente quei pochi risparmi che anno per anno potrebbero per avventura ottenersi.

Dissi che neppure la spesa occorrente per l’esercito e per la marina poteva ridursi al di là di una certa misura, comunque i due bilanci costino essi soli quanto tutti gli altri insieme riuniti, eccetto quello della finanza. Devo spiegare su questo punto il mio concetto, sebbene io senta il dovere di essere cautissimo circa una materia che tocca così da vicino la nostra esistenza e la nostra sicurezza.

Del disarmo non potrebbe parlarsi fino a che non mutino le condizioni generali d’Europa, o non sia compiuta la indipendenza del territorio italiano, come che l’esercito sia ad un tempo il simbolo ed il palladio della unità nazionale, la garanzia del nostro avvenire e l’istrumento più sicuro perché giunga e si diffonda in tutte le classi del popolo quello spirito di moralità, di onore e di disciplina che fa la forza vera delle nazioni. Non potendosi effettuare il disarmo, restano più o meno intangibili i cosi detti quadri dell’esercito, onde poterlo portare da un momento all’altro al piede di guerra, e restano per conseguenza poco riducibili le spese, sia rispetto agli uffiziali di ogni grado e di ogni arme, sia rispetto ai cavalli dei reggimenti di cavalleria e di artiglieria.

Gli unici risparmi possibili potrebbero adunque effettuarsi sulla parte cosi detta amministrativa dell’esercito e sul numero delle classi che, secondo le leggi, o possono stare sotto le bandiere o possono essere rinviate in congedo illimitato, coll’obbligo di ripresentarsi a qualunque chiamata. Anche ai profani nelle cose militari è facile l’intendere, che ogni classe di prima categoria dovendo stare sotto le armi per cinque anni, e le nostre leve datando dal 1861, non vi è ancora nessuna classe che possa congedarsi, seppure occorre il tempo di cinque anni per formare un buono e sicuro soldato. I congedi adunque non potrebbero effettuarsi se non che rispetto alle classi spettanti alle antiche province, o alle classi toscane, lombarde e napoletane venute all’esercito in forza delle antiche leggi di leva. Ma perché niuno s’illuda intorno al significato finanziario del rinvio delle classi, basti il notare, che le condizioni politiche d’Europa non avendo consentito al compianto ministro Della Rovere di rinviare in congedo, come aveva voluto, 36 mila soldati delle classi più antiche, la maggiore spesa occorrente per questo titolo non sorpassa i 10 milioni: talché raddoppiando anche i congedi, il rinvio di 72 mila uomini non porterebbe che un risparmio di 20 milioni, risparmio esso pure sempre importante, ma non desiderabile certamente, se per conseguirlo si dovesse compromettere la forza e la disciplina dell’esercito.

Rispetto alla parte amministrativa, alla questione dei depositi ed alla proporzione della parte non combattente colla combattente dell’esercito, come rispetto alla marina, nulla dirò, perché le sono cose sulle quali non ho autorità nessuna per recarne giudizio. Questo dico bensì, che se risparmi possono farsi senza inconvenienti, cioè senza disordinare l’esercito, e senza compromettere la sicurezza dello Stato, gli uomini egregi ed espertissimi, che hanno amministrate ed amministrano fra noi le cose di guerra e marina, non avrebbero mancato e non mancheranno di proporli e di effettuarli, non essendo le strettezze della finanza un mistero per veruno, ed essendo stati essi desiderosi quanto altri mai di alleviarla. Ciò tanto è vero, che il rammemorato generale Della Rovere era nascilo ad ottenere sul bilancio della Guerra per il 1865 un risparmio di 12 milioni, risparmio certamente non piccolo, ove si ponga mente alle condizioni politiche del tempo in cui lo compilava, le quali erano tutt’altro che liete e rassicuranti, esposti come eravamo sempre dal 1861 in poi alle possibili conseguenze del trattato di Zurigo e del nuovo ringalluzzarsi della reazione europea, davanti alla incomprensibile apatia delle potenze occidentali.

Talché mi pare di aver detto abbastanza per convincere ognuno, che s'intenda di pubblica amministrazione, che il bilancio delle spese ordinarie non è eccessivo, che la sua tendenza naturale è piuttosto verso il crescere che verso lo scemare, e che i risparmi stessi, i quali potranno ottenersi colla riforma delle leggi organiche, saranno appena bastevoli per compensare gli aumenti inevitabili del debito pubblico e delle garanzie delle strade ferrate, ove non sia possibile d’introdurre riforme radicali in tutto l’organismo della pubblica amministrazione.

CAPITOLO XXIX.

Il Bilancio provvisorio.

Ed infatti una luminosa conferma delle precedenti osservazioni, la traggo appunto dal bilancio provvisorio delle spese per il 1865, che il Parlamento approvò nella seduta del 21 dicembre, sulle proposte del ministero Lamarmora e che poi fu reso esecutorio col reale decreto del 24 dello stesso mese.

Giovi avere sott’occhio il seguente

RIEPILOGO GENERALE

del Bilancio provvisorio del 1865 in confronto con quello del 1864.

pagina 247 

In ordine alle proposte ministeriali, approvate colla legge del 21 dicembre, il bilancio passivo del 1865 doveva presentare una riduzione complessiva di spese per 60 milioni.

E questa riduzione in gran parte venne effettuata, ma rispetto alle spese straordinarie, poiché rispetto alle spese ordinarie l’esercizio del 1865 manifesta invece un notevole accrescimento.

Infatti il bilancio passivo del 1864 presentava una cifra complessiva di lire 927 607 874, 23, delle quali, lire 787 480 539, 19 per le spese ordinarie, e lire 140127 335, 04 per le spese straordinarie. Laddove il bilancio passivo per il 1865 ci offre una cifra complessiva di lire 876 639 309, 29, delle quali, lire 806 656 147, 93 per le spese ordinarie, e lire 69983161, 36 per le spese straordinarie. Lo che vuol dire esservi una differenza in più sulle spese ordinarie di lire 19 175 608, 74 ed una differenza in meno sulle spese straordinarie di lire 70144 173, 68, e quindi una riduzione effettiva di L. 50 968 564, 94, riduzione che percuote interamente le spese straordinarie, e che ricade per la massima parte sopra i due bilanci della Guerra e della Marina.

Ed infatti esaminando il prospetto superiormente riferito, che fu approvato dal mentovato reale decreto, si scorge che crescono in più il bilancio delle Finanze per L. 5179316, 51, quello degli Estere per lire 159 852, 49, quello dei Lavori Pubblici per lire 6362237, 81, e cosi per un totale di L. Il 701 406, 81; e che scemano rispettivamente, quelli di Giustizia e Grazia per lire 523 705, 97, della Istruzione Pubblica per lire 698 816, 60, dell'interno per L. 7 550783, 47, della Guerra per L. 39 837 198, 50, della Marina per L. 13 418194, 49, dell’Agricoltura e Commercio per lire 641272, 72, e così per un totale di lire 62 669971, 75.

Ma se poi il prospetto si decompone nelle sue partizioni naturali, cioè delle spese ordinarie e delle straordinarie, si vede e si scorge che rispetto alla parte ordinaria crescono in più i bilanci delle Finanze per lire 7 171 759, 88, degli Esteri per lire 217100, dell’Interno per lire 810 735, 36, dei Lavori Pubblici per lire 32 941 074, 22, e così per la somma complessiva di lire 41140 669, 46: mentre scemano egualmente nella parte ordinaria il bilancio di Giustizia e Grazia per lire 281 705, 97, quello della Istruzione Pubblica per lire 326 083, 86, quello della Guerra per lire 16 559 743, quello della Marina per lire 4 565 887, e quello di Agricoltura e Commercio per lire 231 640, 89, e cosi per la somma complessiva inferiore di L. 21 965 060, 72; talché l'aumento effettivo sulla parte ordinaria è di L. 19175 608, 74.

E non poteva essere a meno che ciò avvenisse quando, per effetto di nuove iscrizioni sul Gran Libro, la partita degli interessi cresce per circa 9 milioni, quando crescono per 4 milioni gli interessi dei buoni del Tesoro e quando si presagisce che le garanzie convenute colle Società concessionarie delle strade ferrate debbano salire cosi presto dalle cifre fin’ora iscritte alla ingente somma di oltre 30 milioni. Anzi, l’aumento in questa ipotesi sarebbe stato maggiore, senza la graziosa renunzia che fece S. M. il Re a 3 milioni della sua dotazione, e se un margine di quasi 6 milioni non si fosse trovato nell’accollo che il precedente Ministro delle finanze fece del dazio di consumo ai comuni ed ai privati appaltatori. Imperocché sulle spese ordinarie anche i risparmi del bilancio della guerra non sorpassano che di 4 milioni quelli che si proponevano dal precedente Ministro.

Invece scemano effettivamente, quanto alle spese straordinarie, il bilancio delle Finanze per lire 1 992 443, 37, quello di Giustizia e Grazia per lire 242000, quello degli Esteri per lire 57 247, 54, quello della Pubblica Istruzione per lire 372 732, 74, quello dell’Interno per lire 8 364 548, 83, quello dei Lavori Pubblici per lire 26 578 836, 44, 1 quello della Guerra per lire 23277 455, 50, quello della Marina per lire 8 852 307, 49,

quello dell'Agricoltura e Commercio per lire 409 634, 83, e cosi col risparmio ben considerevole in complesso di lire 70 444473, 68, che per 54 milioni circa viene ad effettuarsi sopra i due bilanci della Guerra e della Marina.

Di ciò merita grandissima lode il ministero Lamarmora; ed anzi io sono convinto che se ulteriori e più notevoli risparmi potranno effettuarsi anche sulla parte ordinaria

1 Si noti che la maggior fonte di risparmio sul bilancio dell’Interno, si trae dal non essere altrimenti necessaria la spesa di oltre 6 milioni e mezzo per 1 armamento della guardia nazionale: e che il maggiore risparmio sopra il bilancio dei Lavori Pubblici si trae dal depennare la partita di 25 milioni non altrimenti occorrente per la ferrovia ligure, stante il progettato accollo ad una società privata. Questi due risparmi figuravano anche nei bilanci presentati dal precedente Ministero.

1 Anche i bilanci precedenti, considerati complessivamente offrivano un decremento costante nelle spese straordinarie, essendo naturale che le più forti cause di spese occorse per l’esercito o per la marina, come per altre necessità, non si possano facilmente rinnovare. Eccone la prova:

1861 —

Ordinarie L. 647000 000 —



Straordin. L. 318500000 —

L. 965500000 —

1862 —

Ordinarie. L. 721000 000 —



Straordin. L. 292000000 —

L. 1013000000 —

1863 —

Ordinarie. L. 780874485 13



Straordin. L. 162672799 55

L. 943547284 68

1864 —

Ordinarie. L. 787480539 19



Straordin. L. 140127335 04

L. 927607 874 23

Talché dal bilancio del 1862 a quello del 1864 vi è una differenza in meno di 86 milioni, dovuto pure al decremento delle spese straordinarie.

di quei due bilanci, noi lo dovremo ai talenti amministrativi dell’attuale Ministro della guerra, 1 non meno che all'appoggio che egli troverà nel Presidente del Consiglio, la cui esperienza è di ottimo aiuto per scrutare ogni più riposta parte dell’azienda militare, come l’autorità di cui trovasi provveduto è valevolissima per rimuovere gli ostacoli che naturalmente dovrebbonsi incontrare per via. Né mi farebbe maraviglia se i due bilanci ci presentassero per il 1866 un margine sufficiente per potere dar mano, senza troppi sacrifìcii della finanza, a riordinare il sistema della nostra difesa su quelle basi nuove, che secondo il giudizio degli esperti, sono divenute indispensabili stante la convenzione del 15 settembre ed il trasferimento della sede del governo.

Ma sono convinto del pari che nuovi risparmi sulle spese ordinarie degli altri ministeri non sono effettuabili, se non riformandole leggi e iregolamenti organici, come è dimostrato anche dall’esercizio provvisorio per il 1865, nel quale, come doveva accadere, le spese ordinarie, anziché scemate, vedonsi accresciute.

Ma siccome i milioni, o vadano iu spese ordinarie, o vadano in spese straordinarie, escono pur sempre dalla borsa dei contribuenti, merita lode l’attuai ministero se ha trovato il mezzo di risparmiare sulle spese straordinarie circa 70 milioni.

1 In quel tempo era ministro della guerra il generale Petitti.

CAPITOLO XL.

La Convenzione del 15 settembre. 1

Della convenzione del 15 settembre fra il Governo francese ed il nostro, tanto ne fa detto e tanto ne fa scritto nei Parlamenti, nelle note diplomatiche, nei libri e nei giornali, che sarebbe proprio opera vana se io ne volessi dire troppe parole.

Questa convenzione, che da un lato segna un giorno Asso alla partenza delle truppe francesi dal territorio italiano, e dall’altro ci ha obbligati a trasferire la capitale del Regno da Torino a Firenze, inaugura per il Papato e per il Regno d’Italia una vita nuova. Nuova per il Papato che, posto come governo temporale in faccia ai suoi sudditi, deve dar prova di potersi reggere come ogni altro governo colle forze sue proprie. Nuova per il Regno d’Italia, giacché il cambiamento della capitale è il fatto più grave ed ardito che possa compiersi da un popolo libero, qualunque sieno le condizioni nelle quali si trovi. Nuova per il Papato e per il Regno d’Italia che, posti in faccia l’uno dell’altro, devono scambievolmente aiutarsi nel trovare il modo di coesistere e di vivere insieme.

L’annunzio di questa convenzione, che molte ed evidenti ragioni rendevano grata ed accetta alla grande maggioranza degl'Italiani, non poteva a meno di commuovere come commosse la città di Torino, che stata sempre l'esempio alle altre città per l’ordine e per la reverenza alla legge, stante un complesso di circostanze fatali, fu dolorosamente funestata dai disordini del tumulto e della repressione. Fu quella una crisi ben grave che dovemmo traversare.

1 Le Leggi che approvano la convenzione del 45 settembre e il trasferimento della Capitale sono degli Il dicembre 1864.

La storia dirà, come il Parlamento italiano si adunò a discutere della convenzione e del trasferimento della capitale in quella stessa città, che pure per questo fatto era minacciata da così grave perturbazione nei suoi interessi e nei suoi affetti più cari: dirà come la discussione vi procedesse per lungo volgere di giorni ordinata e tranquilla, malgrado il dolore e la commozione dei fatti recenti: la storia dirà come la sera del 19 novembre, in cui 317 deputati contro 70 deposero silenziosi e turbati il voto nell'urna che decideva così grave questione, la città di Torino fosse nella calma consueta dei suoi giorni più sereni, quasi si fosse trattato di cose le più indifferenti. Se grave e penoso era stato quel voto a quanti per lungo volgere di anni avevamo amata quella città, stata capitale morale deir Italia nuova prima che ne fosse capitale politica, la calma solenne di quella sera ce lo rese anche più doloroso, perché mai come allora le sue nobili qualità spiccarono agli occhi di ciascuno di noi. Ma nel tempo stesso ci fu conforto all'animo mesto il pensiero, che Torino, appunto per la dignità colla quale compiva il più grande dei sacrificii che gli fossero stati chiesti, sapeva pur sempre conservarsi fra tutte le città italiane il primato, che niuno gli aveva mai conteso, nella devozione al re ed alla patria, e nel culto della unità nazionale.

Da quel giorno in poi il Parlamento ha continuate le sedute nella sua antica sede per ben cinque mesi, onde trattarvi i più gravi e più vitali interessi del paese. E le ha continuate quando i partiti estremi riunivano i loro sforzi impotenti per offendere Torino e l'Italia in ciò che hanno di più sacro e di più caro. Questo fatto rimarrà presso le future generazioni come la più splendida testimonianza che potesse mai darsi al patriottismo ed al senno di quella virtuosa città.

Ora la convenzione del 15 settembre è uscita dalla sfera della discussione, per entrare in quella della esecuzione e dei fatti compiuti.

Nel seguito di questo discorso, dirò delle conseguenze amministrative che ha già avuto e può avere quella parte di essa, che si riferisce al trasferimento della capitale.

Ora dirò pochissime parole intorno alle conseguenze politiche dello sgombro delle truppe francesi dal territorio che fin ora hanno occupato.

La convenzione del 15 settembre impone all'Italia dei grandi doveri, e sono certo che gli compirà, perché la sua parola, il suo onore, e dirò anche il suo avvenire, sono impegnati in faccia alla Francia, e più che mai in faccia all’opinione del mondo civile, nell'eseguire i patti volontariamente assunti, nell'eseguirgli secondo la lettera e secondo lo spirito, pienamente, sinceramente, lealmente.

Ogni interpretazione di quel patto internazionale meno cauta e discreta, ogni conseguenza prematura che volesse trarsene, ogni applicazione troppo arrischiata che volesse farsene, creerebbero un pericolo grave per ambedue i Governi che lo stipulavano: nessuno dei due ha interesse che questo avvenga, e noi mollo meno.

Io ho troppo scritto del potere temporale dei Papi, in altri tempi, e quando pochi ne parlavano, per aver voglia di scriverne adesso, che è divenuto argomento di discussione nel mondo intero, adesso che le condizioni di fatto sono tanto diverse, adesso che mutamenti cosi gravi sono avvenuti.

Questo solo dirò, che se il potere temporale è destinato a cadere, ciò si compirà senza danno alcuno del Papato, il quale non ha bisogno né di regno né di spada, che vive di altre forze morali cui la politica non giunge, e cui il corso de' fatti terreni non tocca. Ma una condizione è necessaria, è vitale, è evidente per l’Italia, ed è, che il poter temporale compia l’ultimo esperimento della sua esistenza, lo compia dibattendosi fra le esigenze della civiltà, lo compia nel contrasto esclusivo di quelli interessi terreni che fino a qui ha voluto disconoscere, assorbire e dominare, lo compia, dirò anche, più aiutato che impedito da quelli stessi che meno lo vorrebbero, lo compia pieno ed intero, dinanzi alla coscienza della intera cattolicità.

Se un accordo è possibile tra il poter temporale e i popoli che lo subiscono, se è possibile una sua trasformazione che lo renda accetto ai Romani, e faccia di Roma una città italiana, tale accordo e tale trasformazione devono favorirsi da tutti quelli cui senza distinzione di credenze e di fede importa il bene d’Italia.

Quando poi per solenne e non equivoco esperimento fosse chiarita la incompatibilità assoluta del poter temporale coi bisogni e cogl’interessi del popolo romano, quando sia scesa nella coscienza di tutti la persuasione della impotenza di quest’ultimo avanzo della teocrazia a sostenersi con forze proprie, quando cada come cadono le cose vecchie e caduche per difetto di ogni susta interiore che le sostenga, quando cada, senza che la sua caduta possa mai imputarsi a manovre palesi od occulte del Governo italiano, allora, ma allora soltanto, il poter temporale potrà dirsi veramente finito e finito per sempre. Perché la caduta di questa grande istituzione del medio evo, che per tanti secoli ha cosi gagliardamente influito sopra i destini del mondo, compiendosi senza scandalo delle genti e senza turbamento delle coscienze, prenderà l’aspetto che deve avere e che solo può convenirgli, cioè il compimento di un decreto della Provvidenza.

lo poi credo per molte ragioni, e più specialmente per rafforzare la concordia degli animi al di dentro e la nostra reputazione al di fuori, che la conciliazione col Papato (astraendo da ogni affetto religioso, come da ogni altra qualsivoglia passione) debba costituire d’ora innanzi uno dei fini più importanti della politica italiana. Tentata oggi senza effetto, deve ritentarsi domani: non riuscita sotto una forma, può ripigliarsi sotto un’altra: non potendosi, come è naturale, conseguir ad un tratto e piena, deve accettarsi per gradi ed a poco a poco, ma senza perderla mai di vista, perché senza discutere né sui mezzi, né sul tempo di effettuarla, per chiunque non scambi la realtà colle illusioni della fantasia, essa è nella necessità delle cose.

1 Della sovranità e del governo temporale dei Papi, libri tre. Parigi, 1846. — 2» ediz., Capolago, 1847.

Pieghevoli in tutto, inesorabili in questo, cioè nel sottrarre ad ogni discussione i fatti compiuti non meno che i diritti dello Stato: sempre innanzi cautamente e mai indietro, ecco i limiti estremi che non devono e non possono trasgredirsi. Il giorno che l’ultimo soldato austriaco avesse abbandonato il suolo italiano, quell’obiettivo della politica nostra rimarrebbe lo stesso. Valicando le alpi, per qualunque parte muovasi il passo, a destra o a sinistra, sul Reno, sul Danubio, sulla Mosa, sul Tamigi, sulla Senna, sul Rodano, ogni Italiano è in grado di capire cosa sia la questione del Papato, se per avventura non giunse a comprenderla stando in casa propria.

Taluno censurò la convenzione del 15 settembre perché apri le trattative colla Corte di Roma. Quanto a me non me ne dolgo, come non mi affliggo se per ora non riuscirono. Le trattative furono effetto di quella convenzione, non meno che la circolare prussiana ai governi tedeschi, il riconoscimento del Regno f Italia per parte della Spagna e degli Stati di Alemagna ed i trattati di commercio che ne seguitarono. Ciò prova che per quell’atto diplomatico che sanziona in faccia a tutti il principio del non intervento, amici ed avversari hanno acquistato sempre meglio la persuasione, che il Regno d’Italia è cosa seria e bisogna contarci. Questo. è guadagno netto. Fatte tali dichiarazioni, ripiglio il corso della narrazione ed il filo del mio lavoro.

CAPITOLO XLI.

Anticipazione della Fondiaria.

La convenzione del 15 settembre può recare dei vantaggiosissimi effetti sul complesso delle nostre finanze e della pubblica amministrazione, solo che il Governo e il Parlamento vogliano (come io non ne dubito) risolutamente, e sappiano approfittarne.

Imperocché, se al repentino mutarsi del Ministero, restammo quasi atterriti dal grave turbamento che presentavasi nella situazione del Tesoro, non è men vero per questo, che a tali circostanze dobbiamo l’aver conseguito un risparmio di quasi 50 milioni sopra i due bilanci di Guerra e Marina; e dobbiamo altresì alle medesime il maggiore effetto dì avere ottenuto un nuovo slancio di patriottismo per parte delle popolazioni, che ha potuto mettere in luce la forza finanziaria del Regno d’Italia, Ci voleva infatti un coraggio ben grande, perché un Ministro di finanza venisse a chiedere ad un tratto un aumento d’imposte per 40 milioni, e domandasse nel tempo stesso a tutti i proprietari che nel termine di un mese gli anticipassero 120 milioni d’imposta fondiaria, gliela anticipassero quando era sempre al colmo la crisi monetaria su tutti i mercati d’Europa, e quando il paese era tutto assorbito nelle denunzie per la nuova imposta sulla ricchezza mobile.

Era questo un fatto insolito nella storia economica di una nazione, e non sarebbe bastato il coraggio del Ministro della finanza, se pari non fosse stata nel Parlamento la fiducia nelle forze vive del paese e nel suo patriottismo, come che la richiesta anticipazione venisse a colpire non le rendite future, ma i risparmi delle annate precedenti. Tentala poco dopo in altro Stato da secoli costituito, bisognò abbandonarne il pensiero. Eppure il nostro paese rispose unanime al coraggio ed alla fiducia del Ministro e del Parlamento, sicché nel termine fissato furono disponibili nelle casse del Tesoro quelle somme ingentissime che erano state richieste, e che i proprietari, i comuni, le province, le banche e le casse di risparmio hanno potuto in si breve spazio di tempo raccogliere e anticipare. 1

Le maggiori imposte per 40 milioni che il ministro Sella chiese ed ottenne dalla Camera insieme colla anticipazione della fondiaria, dovevano ottenersi mediante un lieve aumento alle tariffe dei sali e dei tabacchi, mediante un diritto di bilancia di centesimi 50 per quintale sulla importazione dei grani forestieri, di centesimi 75 sulla importazione delle farine egualmente forestiere, e mediante un aumento di centesimi 5 sopra la tassa delle lettere.

Gravi non erano per verità questi aumenti, e il Parlamento gli accordò. 2 Nondimeno rimase il dubbio, se economicamente giovasse l’aumentare le tasse indirette per lo scopo di ottenere un prodotto maggiore, e se specialmente fosse stato prudente l’accrescere il prezzo dei tabacchi, vista e calcolata la concorrenza enorme che alle manifatture nazionali ci viene fatta dalle fabbriche e dal contrabbando dal lato della Svizzera. 3 Però se qualche dubbio può rimanere tuttavia sui tabacchi, gli incassi degli ultimi mesi lo hanno sciolto favorevolmente sugli altri generi, poiché tanto rispetto ai sali, quanto rispetto alle tasse postali, si é verificato un aumento non lieve di prodotto. 4

Colla medesima legge del 24 novembre, la Camera autorizzò la emissione di tanta rendita quanta ne occorresse per procacciare al Tesoro la somma di 60 milioni, ed approvò pure la convenzione per la vendita in blocco dei beni demaniali rimasti invenduti.

1 Debbo rammentare, per causa di lode, la Banca nazionale delle province toscane che, a discretissimo interesse e con tutte le possibili condiscendenze, ha facilitato l’anticipazione dell'imposta.

2 Legge del 24 novembre 1864.

3 Recentemente fu votata dalla Camera una Legge di repressione sul contrabbando, aggiungendo alla perdita della merce alcune penalità afflittive e pecuniarie estese anche ai manutengoli.

4 Le Poste, per esempio, offrono un aumento di L. 50000060

Questa convenzione era stipulata con una società di capitalisti nazionali ed esteri che, anticipando immediatamente al Tesoro la somma di 50 milioni e poi la somma ulteriore di altri 100 milioni, si accollava l’incarico della vendita, con partecipazione dello Stato sui maggiori prezzi realizzati e con facoltà di emettere obbligazioni rimborsabili annualmente per estrazione a sorte, obbligazioni cui lo Stato concedeva una speciale garanzia. Anche questa operazione incontrò non poche difficoltà, parendo ad alcuni che fosse troppo dannosa allo Stato e troppo vantaggiosa alla Società, che pure ad un’alea fortissima si sobbarcava.

sul primo trimestre del 1865 in confronto con quello del 1864.

Le pubblicazioni ufficiali fino ad oggi ci danno i seguenti resultamenti.

I. I prodotti complessivi delle gabelle nei primi cinque mesi sono come appresso:

1865.

L. 87 642111 85

1864

l. 7982251868

Aumento nel 1865

L. 7 819593 17

Sono aumentati:

Dazio consumo

L. 4056391 53

Sali

L. 2 725385 97

Dogane

L. 245805999

Sono diminuiti.

Tabacchi

L. 1299 745 42

Polveri

L. 5273441

Diritti Marittimi

L. 6776449

Però la perdita sui tabacchi è sempre decrescente.

II. Il rendiconto pubblicato dalla direzione del demanio e tasse, ci dimostra che gli introiti amministrati dalla medesima, e che vanno sotto quel nome, sono ascesi nei primi quattro mesi di quest’anno a L. 45 770 50837, e quindi in confronto dei primi quattro mesi dell’anno precedente, offrono un maggiore prodotto di L. 749076682. In questo maggiore prodotto figura al solito la lotteria, ma anche le tasse sugli affari si vedono naturalmente accresciute.

Ma da un lato stringendo l’urgenza di provvedere al servizio del Tesoro, ed essendo grave dall’altro la crisi monetaria, postergata ogni altra considerazione, anche la convenzione venne approvata.

Ma in questa circostanza si vide maggiormente palese un difetto che esisteva nel servizio del Tesoro, in quanto che gli incassi delle contribuzioni dirette non corrispondono affatto colla scadenza degli interessi della rendita, essendo diversissime nelle province italiane le leggi della percezione, e non essendo affatto garantito al Tesoro in alcuna di esse l'incasso a periodi determinati.

Riserbandomi a parlare di questa gravissima materia in alcuno dei successivi capitoli, sono intanto condotto naturalmente a far parola della situazione del Tesoro presentata dal ministro Sella, del bilancio attivo e passivo per il 1865 e degli ulteriori provvedimenti finanziari preordinati ad assicurarne l’esercizio.

CAPITOLO XLII.

La situazione del Tesoro.

Quando il ministro Sella venne a chiedere alla Camera che per urgenza decretasse l'anticipazione della imposta fondiaria, dopo tanti clamori che eransi elevati contro la passata amministrazione, fu creduto davvero che lo stato della nostra finanza fosse in condizioni poco meno che disperate.

Ed io vero non precisamente le condizioni della finanza, ma quelle del Tesoro erano gravi assai, per ché sebbene fossero in cassa al 1 ottobre in valori diversi 75 milioni, pare eravamo vicini al pagamento semestrale dei fratti del debito pubblico, e i mezzi per sopperirvi mancavano. Mancavano, perché non essendo ancora votata la legge sulla percezione delle imposte, le scadenze della rendita non corrispondono, come dissi, all’incasso dei prodotti. Mancavano, perché la convenzione del 15 settembre, i fatti dolorosi che gli successero e la crisi ministeriale, avevano fatto cadere le diverse combinazioni finanziarie sulle quali fonda vasi il precedente Ministro per far fronte alle esigenze del Tesoro, cioè la vendita delle strade ferrate e la vendita dei beni demaniali. Mancavano, perché la sopraggiunta crisi monetaria che affliggeva il mercato europeo, rendeva impossibile non solamente un prestito, ma qualsivoglia altra operazione finanziaria. Fu pertanto una necessità l’aver ricorso all’espediente della anticipazione della fondiaria, come fu allora una fortuna l’aver trovato una società che anticipasse 50 milioni sul valore dei beni demaniali.

Che poi il dissesto provenisse piuttosto dalle condizioni eccezionali del Tesoro, anziché da quelle della finanza, fu visto dalla Camera e dal paese, quando nella seduta del 14 marzo il ministro Sella espose collo stato finanziario anche lo stato del Tesoro, che, salve lievi differenze, non diversificava nella sostanza da quello presagito dal suo antecessore.

Ed infatti, la situazione del Tesoro a tutto il 1863 presentata dal Minghetti, comprendendo tutti i residui attivi e passivi, non che tutte le entrate e tutte le spese ordinarie e straordinarie degli anni 1861, 1862, 1863, presentava un disavanzo generale di L. 235 275 759 57. Contro il quale stavano ancora 200 milioni, avanzo del prestito dei 700 milioni. Sicché l’anno 1863 chiudevasi con un disavanzo al 31 dicembre di circa 35 milioni.

Il bilancio del 1864, come fu stanziato dalla Camera, presentavasi nei seguenti resultamenti:

Entrate

Ordinarie.

L. 522103029 09


Straordinarie.

150286422 52


Totale.

L. 672389451 61

Spese

Ordinarie.

787480 539 19


Straordinarie.

140127 335 04


Totale.

L. 927607 874 23

Quindi sull'esercizio del 1864 veniva presagito un disavanzo di Lire 255 218 422 52, al quale aggiungendo il disavanzo del 1863 di Lire 35000000, si aveva un disavanzo generale al 31 decembre 1864 di 290 milioni.

La situazione del Tesoro presentata alla Camera dal ministro Sella a tutto il 31 settembre, ma comprensiva del totale esercizio dell’anno 1864, offriva i seguenti presso a poco identici resultamenti, comunque compilata sopra basi diverse, e forse più razionali che non fossero tutte le precedenti.

Riscossioni degli Esercizi 1863 e 1864

L. 2 269132 846 85

Pagamenti, idem

L. 2020010432 33

Fondo di cassa al 1° ottob. 1864.

L. 249122 414 52

Residui attivi

L. 478 999 575 81

Totale attivo.

L. 728121990 33

Residui passivi

L. 1 044 969 653 77

Disavanzo

L. 316 847 663 44

La differenza adunque fra i due stati era di circa 26 milioni, differenza ben lieve quando si rifletta che detto stato comprende tre esercizi, che comprende del pari tutte le maggiori spese (40 milioni circa) e tutte la maggiori entrate (37 milioni) relative all’esercizio del 1864, non che la estinzione dei buoni del Tesoro, ossia del debito galleggiante Uno a quel giorno autorizzato. Né a mettere in dubbio questi finali resultamenti gioverebbe il dire, che intanto il disavanzo generale degli esercizi precedenti fosse attenuato, in quanto che in ordine alla legge del 4 decembre 1864 potè la finanza disporre di 60 milioni di rendite, la cui alienazione fu consentita. Poiché a tale partita se ne contrappongono ben altre, che servono a mantenere la situazione del Tesoro nei limiti che notai, cioè, gl’interessi di quella rendita cui fu dato il godimento dal 1° luglio e che sono 2 milioni e mezzo: un residuo del prestito dei 700 milioni, che per 9 milioni è portato fra le entrate straordinarie del 1865: i residui passivi del 1861, che non fanno parte delle entrate e delle spese, ma del bilancio attivo e passivo dello Stato, e sono 17 milioni: e finalmente una parte dei beni demaniali posti nel bilancio del 1863 (16 milioni) e che non essendo stati venduti furono tolti ai residui attivi. Quindi ebbe ragione il deputato Minghetti di affermare, come affermò senza contradizione alcuna, che tra le sue previsioni e i resultamenti esposti dal suo successore, non vi era alcuna sostanziale differenza. 1

Certamente il disavanzo di 316 milioni era pur nondimeno imponente. Ma siccome non usciva dai limiti già noti e presagiti, e le ire di parte lo avevano grandemente esagerato, ne avvenne che la opinione pubblica che si aspettava mollo peggio, lungi dal commuoversene ne fu rassicurata, in quanto che ne tolse argomento a persuadersi, che il precedente e l’attuate Ministro delle finanze avevano esposta lealmente e sinceramente la vera condizione delle cose, base precipua al credito dello Stato ed alla fiducia del paese.

1 Per la somma di 200 milioni di lire.

2 Discorso del deputato Minghetti nella Seduta del 13 aprile 1865.


CAPITOLO XLIII.

Il Bilancio del 1865.

Congiuntamente allo stato del Tesoro, il Ministero aveva presentato il bilancio attivo e passivo del 1865, che se non fu discusso dalla Camera che lo approvò, fu però esaminato e discusso nel seno della Commissione generale del bilancio, le cui conclusioni vennero acconsentite dal Ministero ed approvate per legge dal Parlamento.

I resultamenti generali del bilancio passivo per l'esercizio del 1865 si riassumono nelle cifre distribuite come appresso fra i diversi ministeri:


Spese ordinarie

Spese

straordinarie

TOTALE.

I. Finanze

397 612 641 90

10130 510 69

407 743152 59

II. Grazia e Giustizia

29193 798 67

872 000 —

30065 798 67

III. Esteri

3 610114 44

115 972 49

3 726 086 93,

IV. Istruzione pubblica

14 404 083 49

433 454 53

14 837 538 02

V. Interno

49 440263 69

7 023 906 96

56 464 170 65

VI. Lavori pubblici.

97 987127 —

18 393 650 —

116 380 777 —

VII. Guerra

175 066 832 —

18423270 4

193 490102 —

VIII. Marina

36160 840 03

12 851 774 69

49 012 614 72

IX. Agricoltura e Commercio.

3180446 71

1738 622 —

4919 068 71|

Totali L.

806656 147 93

69 983161 36

876 639 309 29|

Nella sostanza il bilancio delle spese, presentato come definitivo per il 1865, era lo stesso che venne pubblicato col decreto reale del 24 decembre 1864 in ordine all'articolo 1° della legge 21 decembre sull'esercizio provvisorio.

Congiuntamente al bilancio passivo, era stato presentato anche il bilancio delle entrate per il 1865, nei seguenti titoli e cifre.

I. Imposta fondiaria

L. 139 827 487 74

II. Imposta sulla ricchezza mobile


L. 63465 885 66

III. Imposta sugli affari

L. 73000000 —

IV. Dazi di confine

L. 60 200 000 —

V. Dazi interni di consumo

L. 28100 000 —

VI. Privative

L. 136 500000 —

VII. Lotto

L. 40000000 —

VIII. Rendite patrimoniali

L. 48422122 51

IX. Proventi con servizi pubblici.


L. 28562 800 —

X. Entrate eventuali

L. 1 475 983 41

XI. Concorso a spese e rimborsi.


L. 16 051 328 05

Totale

L. 635605 607 37 254

In questo bilancio tenevasi conto naturalmente degli incrementi nelle tasse e gabelle verificatisi sul precedente esercizio, tenevasi conto delle maggiori entrate provenienti dalle nuove leggi d’imposta sulla fondiaria, sulla ricchezza mobile e sul dazio consumo già in piena esecuzione, tenevasi conto degli aumenti di tassa sui tabacchi, sui sali, sui grani, sui francobolli votati colla Legge del 20 novembre del decorso anno, e si portava finalmente un aumento di 30 milioni sulla tassa della ricchezza mobile. Quindi il bilancio attivo del 1865 nelle entrate ordinarie presentava sul bilancio attivo dell'anno precedente un aumento di 113 milioni, che per 73 milioni era dovuto alle tasse nuove, e per 40 milioni circa ai naturali incrementi delle tasse preesistenti.

Il bilancio attivo fu approvato dalla Camera insieme col bilancio passivo, salvo che sulle conclusioni della Commissione del bilancio fu votato l’ulteriore risparmio sulle spese ordinarie di 3 milioni, che il Ministero non ebbe nessuna difficoltà ad accettare.

Quindi avevasi per l’anno 1865 il seguente

Riassunto generale del Bilancio.


Ordinarie.

Straordinarie.

TOTALE.

Speme

806 656147 93

69 983161 36

876 639 309 29

Entrate

635 605 607 37

33 832 955 77

669 438 563 14

Disavanzo. L.

171 050 540 56

36150 205 59

207 200 746 15

Deducendo da questa cifra i 3 milioni di risparmio votati dalla Camera, il disavanzo del 1865 si riduce a L. 204204746 15, che unito al disavanzo dell’esercizio antecedente, lire 316 847 663 44, ed a quello del 1866, che il ministro presagiva in L. 100 000 000, ci offriva un disavanzo totale alla fine del 1866 di lire 621 052 409 59.

Trattavasi adunque di sopperire a questo disavanzo dei tre esercizi 1864, 1865, 1866, ed in pari tempo volevansi preparare gli elementi onde il disavanzo generale del 1866 si contenesse nei limiti dei 100 milioni nei quali era stato presagito.

























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