L'unita d'Italia e una beffa, che comincia con una bugia.
Due Sicilie
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Le alluvioni in Calabria

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Scrivo per coloro che delle vicende della nostra vita sociale non fanno una speculazione, ma incassano le ragioni nella loro memoria profonda, come conoscenza, sapere. Sono calabrese di nascita e d'amore. Amo questa terra e sto dalla parte di coloro che la abitano. Nel corso della mia lunga vita, mi sono reso conto di alcuni nostri difetti, che essendo antichi - propriamente greci - sono inguaribili.

Vedo anche le nostre qualità e in qualche modo conosco la nostra storia. Basandomi su tal ultima conoscenza, credo di poter affermare che lo "sfasciume pendulo fra due mari" è la sentenza di una mezza cultura - quella appunto del padre della patria Giustino Fortunato - poi eternamente ripetuta dagli storici di regime, come l'ancora vivente Rosario Villari, con il fine inverecondo di fornire un alibi all'inimicizia fin troppo evidente dello Stato italiano per la Calabria e il resto del Sud italiano.

Tutta l'Italia - che nella sua storia predominante è stata in assoluto la terra più manomessa dagli uomini e la più popolata - va soggetta a inondazioni. Però l'Italia è anche una terra fisicamente non omogenea, per cui le alluvioni del Polesine, sono diverse da quelle della Laguna Veneta propriamente detta; Firenze si allaga in modo diverso e per cause diverse da Milano. Se l'alluvione tocca a Genova, sarà sicuramente altra che a Sarno. Comunque è ben difficile che nei fatti alluvionali italiani non ci abbiano messo le mani gli uomini, nel corso dei millenni. Tanto per fare un esempio, circa venti anni fa, l'alluvione del Toce (alto Piemonte) e del Ticino assunse la forma di una massa d'acqua che pareva volesse allargare il Lago Maggiore fino a portarlo a congiungersi con il Lago di Como. Era un ghiacciaio che si scioglieva.

In Calabria non ci sono ghiacciai, ma questo non è un motivo d'inferiorità rispetto al Piemonte. Ci sono invece strati di argilla che si sovrappongono a rocce di altro materiale. Quando l'argilla s'imbibisce, smotta a valle. E neanche questo sarebbe un motivo d'inferiorità verso il Piemonte, se l'illustre Giustino Fortunato avesse studiato qualche libro di geografia, invece che i conti della sua doviziosa famiglia. Le colpe degli uomini? In Piemonte, dove gli uomini - dopo che Cavour e i bersaglieri hanno fatto l'Italia (ricordate Carducci! Salve, Piemonte, a te …e a mammeta…) - non sono più uomini ma superuomini (leggendo ripassatevi in mente il profilo di Gianni Agnelli e di sua sorella Susanna senza panna), le colpe consistono nell'aver fatto delle centrali elettriche sulla testa dei valligiani.

Le colpe degli uomini in Calabria consistono nel piacere che gli altri italiani ci mettono a tagliare gli alberi. Un esempio. Tra Catanzaro e l'attuale Villaggio Mancuso, per più di cinquanta chilometri, si stendeva al tempo dei Borbone (negazione di Dio) la più antica foresta d'Europa, dove si racconta c'erano alberi così antichi che avevano visto i Greci e i Romani. Bene, fatta felicemente l'Italia, la Foresta del Forcone fu assegnata ai Savoia. Gli assegnanti, o donanti, immaginavano che gli intrepidi Savoia avessero bisogno di sterminati spazi per cacciare cinghiali, orsi e cervi. Invece i Savoia andavano a caccia di valuta estera, così affittarono la Foresta a un'impresa credo tedesca che fabbricava fiammiferi. Superfluo raccontare il resto.

Della Sila, dell'Aspromonte, delle Serre, i Romani erano innamorati. Tanto innamorati che si portavano gli alberi a Capo Miseno, ad Anzio, a Ravenna. Anche Spagnoli e Francesi amavano moltissimo i nostri alberi. Non parliamo di Carlo V, imperatore, dei Veneziani e dei Genovesi. Andrea Doria, Giovanni d'Austria e tutti gli illustri che bastonarono i Turchi affrontarono prima i pini calabresi a colpi d'ascia. Non parliamo di Mussolini! Il Duce teneva in un cassetto del suo studio, a Palazzo Venezia, le foto di ciascun albero della Sila. Tra una botta e l'altra, si distendeva ammirandole. "Verrà giorno che taglierò questi alberi preimperiali…", spesso lo si sentiva esclamare.

Il giorno infatti venne. A guerra finita, chi viaggiasse fra i "due mari", se voleva un po'd'ombra, doveva portarsi dietro un ombrello. Gli alberi erano tutti finiti nei vari arsenali militari di cui era punteggiata la penisola, e credo subito dopo affondati con le navi di cui costituivano i ponti e le altre parti leggere, nonché con vecchi e giovani marinai, e vecchi e giovani soldati degli intrepido Re Imperatore e Re d'Albania, l'augusto Savoia, il cui il nipotino sensale (di professione) e omicida (per caso) vuole tornare in patria, magari facendosi assegnare qualche palagio avito e nuovamente la Foresta del Forcone. Con la Cassa, riavemmo gli alberi a milioni.

Il Corpo Forestale dello Stato, nella sola Calabria, riportò a bosco circa 500 mila ettari. Per fortuna della mia sfortunata terra, il Corpo non era formato da calabresi, ma da trentini e aquilani, che misero in quell'opera tanta anima quanto - bisogna riconoscerlo - i calabresi non avrebbero saputo avere. Prima, c'erano state le alluvioni disastrose del 1931, del 1951 e del 1953. Dopo solo quella del 1971 (o 1973, non ricordo bene). In montagna la terra si è rinsaldata e certamente tiene meglio che prima.

Le due alluvioni del settembre 2000 non hanno avuto le solite cause, quelle storiche che animarono l'antimerdionalismo di Giustino Fortunato e animano i suoi epigoni. Non sono state alluvioni provocate da smottamenti in montagna, ma dallo scioglimento della cimosa costiera urbanizzata, e ovviamente dell'immensa quantità di porcherie che noi abitatori dei luoghi scarichiamo negli alvei - o meglio nelle foci - dei torrenti quando sono asciutti e che i fratelli italiani delle altre regioni ci mandano a pagamento, perché siano scaricate lontano dalle loro belle terre. I paesi colpiti sono le Marine Joniche, da Soverato a Bianco, tutte - tranne Rocella - cittadine sorte sul finire del regno delle Due Sicilie, dove nel corso dei millenni si è formata un sorta di pianura alluvionale larga meno di un chilometro e lunga (accosto alla sponda marina) quanta è la distanza tra Reggio Calabria e Taranto, cioè 500 chilometri. Interrotta solo cinque o sei volte (quindi a notevole distanza) da un promontorio rupestre e quindi accidentato. Trattandosi di un'area alluvionale, doveva essere trattata come tale.

Invece il facitore delle Ferrovie Meridionali, il ladro Pietro Bastogi, ben sapendo che il risparmio è il primo guadagno, per non pagare espropri - per giunta in un tempo in cui tutti gli espropri non gli sarebbero costati neanche centomila lire - costruì la ferrovia sul demanio pubblico, e precisamente tra la spiaggia e i paesini. Ora, questa insigne opera (che a quel tempo serviva solo ai deputati che dovevano recarsi a Roma per applaudire i ministri piemontesi) innalza un argine tra la spiaggia, dove per pendenza dovrebbe fluire l'acqua piovuta, e i terreni retrostanti. Un argine che a volte sta tra il metro e settanta centimetri, a volte sale di parecchio. Un ricordo di giovinezza fornirà una descrizione dell'infausto terrapieno creato dalla scarpata ferroviaria. Gli abitanti non se ne accorgono, ma la zona urbanizzata del mio paese è leggermente più alta delle due aree agricole a Nord-est e a Sud- ovest, fra cui sorge.

Come detto, la ferrovia scorre tra il paese e il mare, quindi nella direzione dei punti cardinali indicati. Lo stesso percorso segue la strada, che è lontana dalla ferrovia dai dieci a cinquanta metri e che è stata costruita con lo stesso criterio. Al tempo in cui facevo il ginnasio e poi il liceo, andando a scuola in bicicletta da Siderno alla vicina Locri, percorrevo circa quattro chilometri di area agricola non abitata, cosicché strada e ferrovia erano contemporaneamente sotto i miei occhi. Tra le due scarpate c'era una piccola valle artificiale, assolutamente invalicabile nel corso dell'inverno, perché piena dell'acqua che scendeva dai campi coltivati. Non era una pozzanghera ma, come diciamo noi, na gurna profonda anche cinque metri in cui centinaia di migliaia di rane allietavano le nostre serate durante l'oscuramento bellico.

Ovviamente l'urbanizzazione ha largamente eliminato il fosso. Non ha però eliminato il terrapieno ferroviario e quello stradale. Ho sentito in televisione che il giovane sindaco di Marina di Giojosa Jonica sorprendersi perché poche ore di pioggia hanno piegato il suo paese. Identica cosa ha con altre parole detto il sindaco di Roccella, Sisinio Zito, che non è un giovanotto ma un uomo con lunga esperienza di governo. Transeat per la statale jonica, di cui, dopo trent'anni dall'inizio dei lavori, forse dopo i morti l'ANAS riuscirà a finire, e che comunque serve immediatamente il paese che attraversa, ma la ferrovia è una vera e propria cortina di ferro che impedisce ai marinoti il godimento delle rispettive spiagge.

Per riaverle, in età di centrosinistra essi alzarono l'ingegno e in ogni paesino costruirono una strada oltre la ferrovia, alla quale si accede superando i passaggi (non proprio) a livello ferroviari. Evidentemente hanno rafforzato la cortina di ferro. Non solo, ma hanno anche provocato un movimento della spiaggia che (io) non so a cosa porterà. Se la ferrovia, che poi non serve ancora una volta a nessuno, neppure ai deputati che adesso prendono l'aereo, e meno che mai al movimento delle merci, tranne tre o quattro treni di container che adesso vanno dal porto di Gioja verso Bari e Rimini, venisse eliminata o spostata a monte, come il Liguria, invece dei lungomari, i marinoti potrebbero costruire delle strade a pettine che scendono a mare in prosecuzione delle vie cittadine, meno dannose per la stabilità della costa.

 

Nicola Zitara

 

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