L'unità d'Italia è una beffa, che comincia con una bugia.
Due Sicilie
  Eleaml



l Prefetto di ghisa

di Antonio Orlando

Siderno, 2 Maggio 2007

(se vuoi, puoi scaricare l'articolo in formato RTF o PDF)


Le relazioni che periodicamente gli alti funzionari dello Stato trasmettono al Governo o ai ministri preposti non sono, in genere, destinate ad essere rese pubbliche. Di esse resterà sicuramente traccia nei ponderosi archivi statali, ma soltanto qualche storico attento le divulgherà ad anni di distanza, quando oramai avranno perso qualunque tipo d’interesse, tranne che per gli storici stessi.

Qualche volta accade che questi documenti vengano, invece, pubblicati, come si dice, in tempo reale e così il comune cittadino ha modo di accedere non certo ad informazioni riservate, quanto piuttosto ha modo di rendersi conto come pensa e agisce la pubblica amministrazione. La Relazione del Prefetto di Reggio Calabria De Sena, intitolata “Lo spazio sicurezza, libertà e giustizia nella regione Calabria” (non so se il titolo lo abbia apposto l’Autore o se è redazionale) è stata pubblicata da Il Sole -24 Ore, ma è comunque facilmente rintracciabile su Internet. Vale la pena di leggerla.

Si tratta di un ampio documento, scritto in perfetto “burocratese”, tuttavia elegante, raffinato, a volte volutamente ricercato con il dichiarato intento di non essere convenzionale. Il documento, dopo aver sviluppato un’analisi politico-economico-sociologica della nostra realtà regionale, formula, nella seconda parte, un ventaglio di proposte raggruppate sotto la denominazione di “Programma-Calabria”. L’ampiezza dello scritto e la vastità degli argomenti toccati costituiscono un ostacolo alla possibilità di esprimere un giudizio d’insieme in quanto richiedono, per essere se non esaustivi quanto meno completi, dapprima la disamina e successivamente l’articolazione di una critica capace di seguire, per scansione, l’intero andamento dell’esposizione.

Perciò in questa prima fase (sperando che ci sia l’occasione di poter tornare sull’argomento) si può soltanto tentare di formulare una valutazione riguardante la parte propedeutica dell’analisi, in pratica le questioni di metodo, rinviando ad un altro momento l’esame delle questioni di merito e degli aspetti economici legati alle particolari realtà territoriali (la Piana, la Locride, le città, il vibonese, il lamentino, etc.). Le parti concernenti le proposte relative alle misure repressive e al dispiegarsi dell’azione di contrasto alla criminalità da parte delle forze dell’ordine, ovviamente, vanno lasciate agli specialisti.

In via preliminare c’è da chiedersi a chi realmente sia indirizzata questa Relazione, non per dubitare delle parole del Prefetto De Sena che, testualmente, afferma di voler mirare “…ad aggiungere valore, a fornire un contributo prospettico di pensiero ed azione ai più qualificati tra gli Organismi centrali …ad integrazione delle condivisibili analisi che alcuni di Essi …periodicamente elaborano”. Se così fosse, se il destinatario unico ed esclusivo fosse il livello immediatamente superiore del prefetto, viene subito da pensare che in tal modo vengono scavalcati tutti i diversi gradi periferici e locali dell’amministrazione, regione compresa; oppure che essi siano dei destinatari, diciamo così, “passivi” quali meri fruitori di informazioni e di analisi.

Siamo di fronte, quanto meno, ad una sovrapposizione di poteri e ad una concezione centralistica dell’amministrazione pubblica, che credo non esista oramai neppure in Francia. La visione che permea l’intero documento è quella di un funzionario statale intelligente, preparato, attento quanto si vuole, però concentrato unicamente su un aspetto del complesso ed articolato rapporto tra Stato ed enti territoriali intermedi da un lato e tra Politica, Burocrazia e Società civile dall’altro.

Si dirà che questi atteggiamenti, non nuovi e non unici nell’ambito delle sfere dell’alta burocrazia, sono il risultato e il residuo dell’irrisolto decentramento italiano che non è federalismo, né all’americana e neppure alla tedesca, ma che non è neanche regionalismo puro, incapace com’è stato e com’è il potere centrale di affidare ad un ente territoriale la gestione delle attività e delle risorse, l’amministrazione del territorio e l’organizzazione dei servizi. D’altro canto le regioni, fin dalla nascita, si sono sentite sotto tutela ed a sovranità limitata, ma si sono dimostrate ben contente di affidare e continuare a lasciare al potere centrale le questioni più rognose e fastidiose come l’ordine pubblico, i controlli e le verifiche, l’imposizione fiscale e la riscossione dei tributi.

E così i prefetti, che uno dei padri costituenti, il compianto professor Costantino Mortati, voleva abolire già nel 1947, continuano ad essere la proiezione dello Stato dentro un territorio - la provincia - che, da semplice espressione geografica, è diventata struttura amministrativa e punto di riferimento dell’organizzazione e della manifestazione immediata del potere a livello periferico. Tutti quelli che chiedono l’abolizione delle province non si rendono conto che devono, per essere coerenti fino in fondo, contestualmente pretendere l’abolizione delle prefetture, altrimenti è come se eliminassimo l’involucro e lasciassimo intatta la struttura.

All’interno di un simile contesto il prefetto De Sena non poteva che sviluppare un’analisi da osservatore, impietosa, obiettiva, dura, sovente spietata, ma incapace di penetrare nell’essenza dei problemi, inadeguata alla formulazione di una proposta che non sia la repressione dei reati, giusto, corretto ed essenziale presupposto di qualunque intervento che però non sia fine a se stesso. In ogni caso inadatta alla costruzione di un Programma (perché non chiamarlo “Progetto”?) di sviluppo della regione.

Eh sì, perché il prefetto pur operando in un ambito limitato come la provincia di Reggio Calabria, a giusta ragione sviluppa le sue considerazioni avendo come riferimento l’intero territorio regionale, smentendo così l’assunto di partenza e dimostrando, nei fatti, l’inadeguatezza di una ripartizione di funzioni legata ancora ad un modello napoleonico.

La seconda categoria che aleggia all’interno del documento è quella dell’“antiStato”, anzi qui viene evocata in una diversa e più accattivante configurazione e cioè come “mimesi” intesa sia come imitazione e sia come trasposizione, non certo, si spera, come rappresentazione o riproduzione. Questa categoria, peraltro elaborata dalla dottrina tedesca (Ernst Fraenkel, Franz Neumann, Hugo Sinzheimer) in rapporto alla pervasività del Nazionalsocialismo nello Stato prussiano, andrebbe maneggiata con cautela perché da un lato è come se legittimasse, sul piano politico, la criminalità organizzata, mentre dall’altro evidenzia tutta la debolezza dello Stato.

Se poi si aggiunge che la mafia (le mafie) ha la capacità di creare collegamenti con le istituzioni, i partiti, le amministrazioni, gli enti e quant’altro, quella che De Sena chiama “caratteristica di multipolarità” della mafia, allora si giunge facilmente alla conclusione che non di “antiStato” si tratti bensì di “Stato duale”.

Se questo è lo sbocco bisogna ammettere che tutte le successive analisi e considerazioni derivano da una prospettiva falsata e di conseguenza sono del tutto inattendibili e quindi inutili ai fini della rappresentazione della realtà. Attardarsi, dunque, su una ricostruzione della società calabrese come parte della più vasta “questione meridionale” significa perdere di vista gli elementi di novità che serpeggiano dentro la società stessa nonché tralasciare quei fattori propulsivi che altrove determinano o possono determinare cambiamento, mentre in Calabria creano solo squilibrio.

I fenomeni di illegalità sono diffusi sull’intero territorio nazionale e non più caratteristici di un Meridione-Vandea o semplicemente “all’opposizione”, come ottimisticamente voleva, nei lontani anni ’50, Giorgio Amendola. Il senso dell’impunità è un habitus comune a qualsiasi cittadino che avverte la discrasia macroscopica esistente tra la norma e la sua applicazione concreta, tra l’irrogazione della pena e l’esecuzione della stessa. Il senso comune ha oramai metabolizzato l’idea che la legalità, in questo ha pienamente ragione De Sena, è “un virtuosismo idealistico privo di conseguenze”, per la semplice ragione che la legalità si pratica, non s’insegna. Non si può insegnare, come fosse la fisica teorica o la fenomenologia dello Spirito.

Non c’è bisogno di emulare i comportamenti di stampo mafioso per aggirare la legge o per ottenere, prima e meglio, quello che si dovrebbe raggiungere attraverso un percorso perfettamente legale. Il grande equivoco che sta alla base della lotta alla mafia dagli anni ’60 in avanti, dall’istituzione, tanto per intenderci, della prima commissione parlamentare antimafia in poi, è da individuare nel fatto che non sappiamo più chi è il nemico. Forse, come dice qualcuno, lo abbiamo accanto.

Ogni volta, in ogni manifestazione, in ogni convegno, in ogni ricorrenza, in ogni occasione antimafia prima provvediamo a spostare sempre più in alto “il nemico” in modo da allontanarlo il più possibile dalla Calabria (ultimamente lo abbiamo collocato a Bruxelles, tra qualche mese lo porteremo al circolo polare artico) poi ci si pone il problema del lavoro, degli investimenti, della industrializzazione, in una parola dello sviluppo. Si afferma solennemente che il lavoro è l’antidoto migliore alla mafia. Ne siamo proprio sicuri? E il conflitto? La contrapposizione capitalista/operaio (uso volutamente termini reputati arcaici) che fine fanno? Il lavoro nero, il lavoro precario, l’evasione contributiva, la violazione dei diritti del dipendente, l’insalubrità dei luoghi di lavoro, gli incidenti e le morti-bianche (sempre più frequenti), l’inquinamento, l’evasione fiscale, non sono illegalità? Non sono sfruttamento? (altra parola obsoleta !) Che c’entra la mafia? si dirà.

C’entra perché le contaminazioni, le contiguità, le commistioni si creano su questo terreno comune, prosperano sull’equivoco e generano confusione e sbandamento. Il nemico comune per la mafia e per il mondo degli affari, denominiamolo così, diventa lo Stato che perseguendo un interesse pubblico contrasta o cerca di contrastare l’azione egoistica di entrambi. Non è difficile che questi due mondi, apparentemente così lontani e così opposti, si ritrovino ad essere alleati o, quanto meno, vengano ad avere più occasioni d’incontro su terreni comuni, per esempio le banche, i finanziamenti pubblici, gli aiuti comunitari, gli appalti.

Se poi la gestione del potere, a cominciare da quello centrale per finire all’ultimo livello periferico, è basata su forme dilaganti di corruzione ed avviene con metodi illegittimi, allora si verifica una saldatura tra mafia, affarismo e politica assolutamente inattaccabile ed impenetrabile. La stessa legislazione nazionale, per non parlare di quella regionale, non fa altro che legittimare lo status quo mediante interventi di natura discrezionale e particolare che, attraverso la tecnica della delegificazione, giustificata dall’esigenza di snellire e semplificare, trasferiscono competenze, funzioni e poteri direttamente in capo all’Amministrazione.

Senza questo chiarimento preliminare ogni analisi della società calabrese non fa altro che rimarcare i soliti luoghi comuni ed invece di spiegare aggiunge ulteriori elementi di confusione. Ammesso, e non concesso, che esista una “questione calabrese” essa non è inserita dentro una presunta “questione meridionale”, bensì dentro una amplissima “questione-mondo” che i più si ostinano a voler chiamare globalizzazione e che altro non è che il solito rapporto Nord-Sud. La Calabria ha molte più affinità con la Colombia di quante riusciamo ad immaginarci, clima e mare compresi.







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