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Due Sicilie
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Pasqualino - Il diritto alla vita

di Nicola Zitara

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Siderno, 10 novembre 2004

L’assassinio, qui nella Locride, di un ragazzo che non era sicuramente parte in causa nello scontro tra suo padre e i killer di suo padre – una vicenda di cui è ancora oscura l’occasione - ha commosso molta gente.

 Comunque noi uomini siamo venuti a esistenza - Dio creatore o la natura creatrice - la particolare cultura del Mediterraneo orientale afferma, dai tempi dei tempi, che a ogni uomo spetta  di vivere un naturale o normale numero di  anni (oggi si dice attesa di vita). Di fronte ai diritti della Morte, la coscienza sociale si rassegna soltanto quando si tratta di un vecchio.  Altrimenti la morte è vista come iniqua, cieca, punitiva dell’innocente.

 Per i cristiani, dare la morte è un potere che soltanto Dio ha. Il non potere umano o divieto divino vale anche per i non credenti che vivono nei paesi a cultura cristiana. Il principio è affermato  in forma esplicita in norme religiose, morali e giuridiche. Alcuni Stati vietano a sé stessi la condanna a morte  del colpevole, persino nel caso di un delitto efferato. In Italia la pena di morte non è più prevista nel codice penale sin dal 1934.  Nei paesi non barbari, il cappio, la mannaia, il rogo, la ghigliottina sono banditi dalle leggi sovrane. Questi stessi paesi, però, riconoscono  implicitamente che è legittimo uccidere in guerra. Anzi uccidere in guerra costituisce un dovere verso la società di appartenenza. La guerra è una scelta deliberata dalla nazione sovrana o a essa imposta dal nemico esterno.

Lo Stato che vieta a sé il potere di uccidere, lo vieta anche agli uomini sottoposti alla sua giurisdizione. Il divieto si estende fino a comprendere l’aiuto che altri ha dato al suicida.

Chi non sottostà, per un suo principio, alle leggi che regolano lo stesso Stato e fissano dei precisi limiti alle azioni del privato, è o un delinquente o un rivoluzionario o  un ribelle.  Delinquente se aberrato, rivoluzionario se si prefigura una diversa organizzazione della società o del potere sovrano, ribelle se riconosce valida per sé una diversa legge da quella dello Stato, che può essere la legge della sua banda, quella della sua etnia, quella del suo clan, quella del suo gruppo mistico o politico.

Il potere di decidere la morte, che i clan mafiosi si arrogano, appartiene a una concezione non statuale della sovranità, che si configura come ribellione e come adesione morale  a una condizione storica in cui il potere politico era diviso tra il re dell’intero territorio statale e il signore di una contea o baronia. Chi ha familiarità con ‘I promessi sposi’ del Manzoni, sicuramente, ha in proposito idee alquanto chiare.

Fin qui siamo stati dentro la tavola pitagorica: due per due fa quattro. Il problema arriva con i numeri complessi e con la soluzione da dare alle incognite. Le incognite da risolvere per prime sono l’omertà e la droga.

    L’omertà è un principio di  sopravvivenza per noi che viviamo in luoghi che stanno al confine tra lo Stato e la mafia. Anzi che stanno su un doppio confine: quello tra mafia e Stato, e quello tra il Nord, che detta leggi valide per l’intero paese, e il Sud, in cui mancano le basi sociali per osservare dette leggi.            

     L’equazione non si risolve facendo finta di non vedere l’omertà, e neppure decretandone il superamento, come hanno fatto il questi giorni il Sindaco di Napoli e il Ministro agli affari interni, in quanto il Sud è stato estraneato a se stesso e ha perduto, di conseguenza, qualsiasi virtù civica. Al punto in cui siamo, dall’omertà si esce o sopprimendo lo Stato italiano o sopprimendo la mafia.

        Uno Stato, come quello italiano, che vuole essere Stato soltanto per far perseguire precisi  vantaggi a settori determinati della società (finanzieri, monopolisti, classe politica) e al Paese padano; uno Stato a cui,  sotto sotto,  gli va bene la mafia, per i motivi spesso ripetuti su queste colonne; uno Stato che non ha  radicamento nell’interesse di qualunque cittadino; uno Stato così  non risolve l’equazione.  

       La mafia (indico con questa parola tutte le organizzazioni criminali)  è una realtà consistente, ed è  anche l’unica componente del paese meridionale che sia temuta e rispettata dentro e fuori d’Italia. Il timore e il rispetto se li merita per due motivi: perché è capitalismo e perché uccide. L’assassinio di mafia non è più motivato dall’onore o dalla vendetta, ma  dal danaro. In questo senso, la mafia è un capitalismo brutale, un anticristo, ma ma sempre capitalismo è. E con capitalismo (diciamo così per capirci) cristiano  se la intende, e come!    

 A volte il capitalismo ricorre all’assassinio proditorio per poter svolgere la sua organica ricerca del profitto e per la conservazione del suo comando,  ma non lo fa con armi in senso proprio. I suoi assassinii, di regola,  prendono la dizione (e la filosofia) di incidenti: incidenti causati da auto troppo veloci, in fabbriche mal fatte o mal tenute, su impalcature senza protezioni, da inquinamento, da esplosioni, da fughe di gas, dal surriscaldamento di centrali atomiche, da sofisticazioni degli alimenti, etc., etc. 

Nella mafia, invece, il capitalismo e le armi stanno nelle stesse mani. Intanto, la mafia è l’unico settore globalizzato della società meridionale. Direi di più: senza i saldi legami che ha con (dico ‘con’, e non dico ‘nelle’)  le città padane, oggi la mafia morirebbe d’asfissia.  I miliardi vengono di là, e tornano là. I mafiosi tifano per la squadra degli Agnelli o per quella di Berlusconi o per quella di Moratti. Sono meridionali solo in quanto arretrati, disperati, sradicati, violenti, crudeli, amanti del peperoncino rosso e dell’olio saporito; in quanto balbettanti quando incocciano nella lingua tosca; per il resto sono italiani di cuore e di abitudini.

l medium dell’infamia è il guadagno sulla droga. Eliminato il guadagno, la mafia imploderà. Perciò se il governo italiano introducesse la droga di Stato, eliminerebbe tutta una ragione della mafia; quella ragione che fomenta la connivenza.  Le altre (per così dire) attività sarebbero facilmente controllabili persino da parte di forze dell’ordine che hanno le mani legate, come le nostre. Ma la droga gratuita  non piace ai cattolici, e non piace a chi lucra sui soldi che la mafia mette insieme. E’ questa della droga la prima incognita da risolvere, se si vuole procedere oltre nella risoluzione delle altre. Peraltro, a noi meridionali deve essere ben chiaro che i soldi della mafia inquinano la nostra società senza vantaggi economici di sorta. Infatti la parte degli incassi mafiosi che rimane qui, si tramuta in acquisti presso le regioni industriali d’Europa o mette al servizio di queste i suoi capitali creando strutture di distribuzione; cosa che non alimenta nuova occupazione al Sud e soprattutto non crea occupazione moderna.  

“Funere morsit acerbo”, la morte che colpisce una giovane vita, è il titolo di un sonetto di Giosuè Carducci - a cui morì una figlia ancora in tenera età - che ha commosso intere generazioni di studenti. Ma a noi non abbiamo il diritto di invocare la pietà e di commuoverci. Noi siamo colpevoli delle nostre incertezze, della tolleranza che abbiamo verso l’obliquo sistema italiano.  Nel linguaggio manzoniano siamo dei don Abbondio. Invece di svegliarci dalla nostra pigrizia mentale, piangiamo lacrime ipocrite a ogni morte ingiusta. L’ultima dell’interminabile serie è, poi,  illegittima non solo per le leggi dello Stato, ma anche per le antiche leggi del clan. Le nostre colpe sono infinite e il sangue ingiustamente versato dovrebbe ammonirci. Da decenni la nostra società si arrotola  nella vergogna e nell’infamia, accettando di stare con uno Stato che impedisce che la verità emerga nel dibattito politico.

Nicola Zitara


 

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