L'unità d'Italia è una beffa, che comincia con una bugia.
Due Sicilie
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Il giardino dei ciliegi

di Nicola Zitara

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Siderno, 7 Maggio 2005

‘Il giardino dei ciliegi’ viene dalla Russia prerivoluzionaria. E’ un dramma triste, o forse soltanto amaro. In termini marxisti, si potrebbe dire che tratta di coloro che  pagano i costi della  transizione, del passaggio da un assetto sociale a quello successivo.

Il ‘giardino’ è un luogo incantato e,  per chi lo frequenti, come chiuso al mondo reale. La proprietaria è piena di debiti, ma non se ne rende conto. E’ come se non li avesse. Continua a condurre un’esistenza fatata, a vivere distaccata da ciò  che  sta fuori, profondamente immersa nell’atmosfera surreale che i colori e i profumi del giardino spandono intorno.

Ma i debiti sono indifferenti a ogni delicata emozione e  fanno la loro sorda e inesorabile marcia verso quella conclusione che la legge prevede per il caso d’insolvenza. Un amico della signora, una persona pratica delle cose del mondo e molto meno sensibile alla malia dei fiori e delle fronde, le suggerisce di lottizzare il terreno, di venderlo e di impiegare il ricavato per soddisfare i creditori e riequilibrare il bilancio familiare.

Ma la signora non gli dà ascolto. E ovviamente finisce come doveva finire.

I pensieri di un vecchio sono  parecchio diversi da quelli correnti fra le persone non vecchie. Credo inoltre che non tutti i vecchi abbiano gli stessi pensieri. Personalmente non penso al mio passato. Ciò che sono stato non mi appartiene più. Si tratta di fatti e vicende legate all’esistenza di una persona che non sono più io. Sono, nella migliore delle ipotesi, favole da raccontare a chi ha la bontà d’ascoltare, a proposito di un tempo che fu, e non può tornare.

Mi siedo su una panchina di fronte al mare e, come se dovessi vivere in eterno, cerco d’afferrare con la fantasia i segni premonitori del mondo che sta nascendo.

 Diciamo che le novità veramente ‘nuove’ sono due: il mercato globale e la concorrenza fra le classi lavoratrici nazionali. Il mondo del capitale segue la legge della concorrenza monopolistica (oligopolio): qualche azienda  s’ingrossa, altre periscono, alcune sopravvivono stentatamente, agguattate in nicchie di stani privilegi regionali. Per esempio Parmalat, che se fosse stata napoletana o siciliana, lo Stato l’avrebbe tranquillamente chiusa. Anche i salariati seguono e hanno seguito le leggi della concorrenza monopolistica. Le aristocrazie operaie in Paradiso, il proletariato esterno all’Inferno. Ma i salariati non sono una somma di lavoratori, non sono realtà singole, come le aziende, le quali nascono, vivono e muoiono. Sono invece la nazione (le masse nazionalizzate). E le nazioni non muoiono a causa della concorrenza o per una qualunque altra causa contingente, sia pure la guerra. Vivono invece tempi secolari o millenari. Può capitare che, nel tempo, la loro condizione migliori. Ma anche che peggiori. Ciò nonostante le nazioni, di regola, sopravvivono. Il vecchio Meridione è la palmare testimonianza di una resistenza tenace alla morte. E’ infatti ancora qui, nonostante gli stermini perpetrati dai romani, nonostante le sopraffazioni  dei barbari venuti dall’Europa centrosettentrionale o dal Mediterraneo occidentale, nonostante le baionette dei bersaglieri sabaudi, nonostante le incoffessate angherie dello Stato italiano, nonostante i suoi 30 milioni di emigrati.

Le vicende politiche unitarie lo hanno trasformato, da grande potenza europea,  qual era al tempo di Ferdinando I e di suo nipote, Ferdinando II,  nel Bronx d’Italia e d’Europa. Tuttavia la nazione napoletana e quella siciliana sopravviveranno anche a queste (certamente non ultime) patrie disavventure e sopraffazioni.

    Dopo l’ultima guerra mondiale sono cambiate sia la fisiologia delle aziende  capitalistiche sia quella  della nazioni. A un medio o basso livello del capitale, il padrone, la famiglia padronale, che possiede la maggioranza delle azioni e delle quote, c’è ancora. A un livello più alto, il padrone o i padroni sono eterei. A volte l’azienda porta ancora il nome e il cognome di una persona, ma nessuno può dire ormai chi sia effettivamente il padrone dell’azienda. Infatti i danari che ne costituiscono il capitale sociale vengono da milioni e decine di milioni di persone sparse in tutto il mondo. Inoltre, l’avvicendamento degli azionisti è talmente vorticoso che chi ieri aveva delle azioni in  un’azienda, oggi potrebbe non averle più, avendo trasferito il suo peculio a favore di  un’azienda che opera in un continente diverso e lontano. Direi di più: il privato che ha acquistato la quota di un fondo d’investimento, di regola, non sa cosa ha comprato o venduto. Può capitargli persino di perdere i suoi soldi e di saperlo soltanto dopo parecchi mesi.

Infatti le aziende dei tempi nostri, quasi tutte, stanno in mano ai manager, che sono delle persone specializzate nella professione di dirigenti d’azienda, allo stesso mondo dei medici, che sono professionalmente preparati a curare la malattia, e degli avvocati, che intervengono nelle liti per spiegare al giudice i diritti del loro cliente.

E tuttavia i manager hanno un ruolo sociale molto diverso, in quanto, se il libero professionista vende servizi, i manager ottengono un comando. E’ come se fossero nominati generali o marescialli d’Italia, come Cadorna, Diaz o Badoglio. Ma non è l’esercito che ci offre la migliore similitudine. Credo che una somiglianza migliore, più aderente alla funzione, sia quella dei sacerdoti dell’antico Egitto. Organi amministrativi, oltre che liturgici, dei Faraoni, essi costituivano la vera classe di comando dell’Impero.

   Il ruolo professionale del manager oggi consiste essenzialmente nel remunerare l’immenso esercito dei risparmiatori – spesso gente non ricca - con un dividendo annuo. Insomma, non più l’economia politica, ma l’economia della rendita.  Da ciò conseguono due cose. Prima: spesso l’azienda, per  offrire un dividendo, imbroglia sui bilanci e/o rallenta il suo dinamismo, cosicché l’innovazione trova un maggior sostegno fuori da quella azienda, in una nuova azienda. Seconda: il singolo azionista può trovarsi nella ambigua condizione di essere solidale con l’azienda, in quanto comproprietario, e in opposizione all’azienda, in quanto suo dipendente. Per fare un esempio limite: potrebbe avere interesse che l’azienda si trasferisca nel Sudest asiatico, onde lucrare profitti più lauti, ma in quanto dipendente non avrebbe convenienza a perdere il posto di lavoro.  

L’esempio è quasi paradossale, tuttavia chiarisce egregiamente la condizione globale delle aziende maggiori e l’opposta condizione dei lavoratori nazionali. Il rentierismo (rentier, redditiere) dei grandi manager, il fatto che il giudizio su di loro sia affidato esclusivamente al dividendo (e ai giornali che trattano di cabale economiche) sta portando le aziende maggiori – quantomeno quelle che non hanno bisogno dell’aiuto del proprio Stato nazionale -  alla snazionalizzazione. Nel contempo la classe dei lavoratori dipendenti rimane nazionale, e nazionale anche la curva dei salari. Ciò ha generato una crisi nuova, non prevista né prevedibile, e grandemente pericolosa.  La crisi dello Stato nazionale e delle economie affluenti.

Al tempo d’oggi, l’occupazione cresce meno dell’esercito potenziale del lavoro. Per reagire alla nuova difficoltà, gli Stati Uniti d’America hanno inondato il mondo di carta monetaria, finanziando la popolazione con debiti sull’estero, che vengono camuffati con la circolazione internazionale del dollaro. Per questo motivo, la valuta americana è caduta a due terzi del suo cambio con l’euro in soli due anni. E potrebbe arrivare al patatrac da un momento all’altro. Da parte sua l’Europa, che vuole difendere il cambio dell’euro,  ha dovuto revocare la politica della sicurezza nel posto di lavoro, umiliare i pensionati e fare di tutto perché i salari perdessero potere d’acquisto. Ma detta politica incide obliquamente sull’area dei consumi, con grave danno per le aziende e l’occupazione. Lo Stato nazionale implode.  Germania, Francia, Italia, Spagna non sanno più che pesci prendere. Tentano di spostare la crisi verso altre nazioni, e/o anche all’interno, verso le aree politicamente marginali. Ma neanche la Cina sciala. L’emersione dell’industria sta schiacciando il mondo delle campagne fino alla carestia alimentare. Fra le potenze europee, l’Italia è la più incasinata. Il Piemonte è quasi crollato, in Veneto e in Emilia non si sciala più, nelle Marche e in Puglia il tessile, il calzaturiero, il mobilificio, gli imballaggi sono stremati. Più a Sud avanza il vuoto totale. Regge soltanto la droga.

Il crollo del socialismo russo ha evirato il pensiero alternativo e l’alternativa umanista al capitalismo. Nonostante gli immani disastri di ottanta anni di comunismo, però, sempre della giustizia sociale si tratta. Senza la paura del verbo comunista, negli ultimi quindici anni il capitalismo ha prodotto danni incalcolabili al sistema Terra e centinaia di milioni di morti per fame e malattie in Africa e America Latina.  E più cresce, più avverte l’esigenza di combattere l’uomo, la vita, la salute, l’avvenire.

No, il giardino dei ciliegi non si salva lottizzandolo. Il giardino deve restare, perché è la vita. Senza il giardino, l’essere umano si trasforma in formica; peggio, in scarafaggio.

La nuova strada per la giustizia sociale è il sapere coniugato con il verbo essere. Il suo partito  deve erigersi contro il formidabile sapere dell’ ’avere’ che viaggia incontrastato nelle centrali universitarie, dalla California a Boston, da Londra a Colonia, da Parigi a Milano, da Mosca a Barcellona.  Al sapere tecnocratico dei laureati dalle facoltà di economia e commercio  va contrapposta la lezione dell’antropologia economica, la legge dell’essere, il sapere integrale che s’insegnava sotto i portici di Atene e Siracusa. La scienza della vita, la fede nell’umano, la sciabola della libertà. Il sapere di ognuno - fanciullo, uomo, donna, vecchio – è l’arma nuova per combattere i sacerdoti dell’insaziabile faraone, per scacciare i mercanti dal tempio della vita.


      Nicola Zitara



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