L'unità d'Italia è una beffa, che comincia con una bugia.
Due Sicilie
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L’albero di Natale e il peperoncino rosso

di Nicola Zitara

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Siderno, 22 dicembre 2006

Quando ero ragazzo - un tempo lontano, perduto ormai in ogni suo aspetto sociale, di cui sopravvive qualche residuo soltanto nella memoria di pochi e solo per poco tempo ancora – l’albero di Natale non c’era. 

Lo si vedeva, a volte, in un film americano, dentro un paesaggio di neve. Da noi c’era invece il presepe, anzi i presepi, e si faceva a gara a chi lo faceva più grande, più bello, più animato di pastori in viaggio, di casupole sparse fra valli di cartapesta, di specchi da borsetta a fingere acque fluenti e placidi laghetti, di pecorelle intente a brucare il muschio raschiato dai vecchi muri e steso sulla tavola, a fingere l’erba. A vincere era sempre Ciccio Frascà, che aveva più inventiva e garbo degli altri. 

Egli otteneva l’aiuto di scultori in erba, i quali, con l’argilla appena estratta dal greto di un torrente, ogni anno, fabbricavano nuovi pastori, ricalcandoli da fantasie bibliche e dalla lettura domenicale dei Vangeli in chiesa. Il presepio di Ciccio era a Santa Caterina. 

A Portosalvo, i pastori erano gelosamente custoditi in cassette di legno piene di paglia da un anno per l’altro, ciò da decenni se non da secoli. Erano grandi, invadenti, la loro statuarietà riempiva la scena. In compenso l’autore – ai miei tempi Vincenzino Firmano - aveva a disposizione un grande spazio, l’abside di una delle tre navate della Chiesa, e la possibilità di occuparlo con un’infinità di particolari, che ogni anno rinnovava.

Fare il presepio era un gioco favoloso per noi ragazzi. Un gioco delle mani e della fantasia; quasi un’arte; una che è mancata e manca purtroppo a chi è venuto dopo. I ragazzi ricchi la esplicavano in spazi più grandi e con molti particolari, i ragazzi poveri la concentravano in poco spazio e in uno spettacolo sintetico a lungo maturato.

Il presepio è stato soppiantato dall’albero di Natale. La merce ha battuto il lavoro, la cosa comprata ha sconfitto la cosa faticata. L’America ha convinto l’Italia, il Nord, con sue idee copiaticce, ha infettato il Sud. Sono vecchio, il passato per me è un ricordo, non una nostalgia. 

Non lo rimpiango, anche se qualche volta lo evoco. I presepi non mi attraggono ormai. Quel passato non deve tornare: mai più la fame, che dannava gli esseri umani e li portava a maledire il padre, la madre, la vita, il mondo, Dio. 

E state attenti. il capitalismo l’ha portata in tre quarti del mondo, in luoghi dove prima non c’era, insieme al disarmo morale, all’AIDS e alla negazione dell’umana solidarietà. Cosicché questo attuale andare avanti senza bussola, senza una meta, senza un progetto, senza amore, senza orgoglio, senza consapevolezza di sé, solo per i soldi, alla mercé di un padronato politico paurosamente immorale e sostanzialmente nemico, potrebbe riportarla in scena e rinnovare antiche sofferenze. Ma anche a prescindere da tale infausto pensiero, da uomo maturato in tempi di idee forti, mi amareggia l’alienazione che la gente subisce senza rendersi conto della violenza - la perdita di sé, della sua storia, dei suoi costumi, della sua identità collettiva, della stessa ragione; quasi una prostituta che vende sé stessa non per bisogno ma per masochismo.

Il dilagare di mafia, camorra, ‘ndranghita è qui a mostrarci a qual punto di dissoluzione, a quale immane disastro, lo stato italiano ha portato il nostro paese. Non sappiamo più difenderci, difendere i nostri figli, preparare un avvenire per loro. 

Tutto è in mano a una consorteria di malfattori che ci commercia e ingrassa sulla nostra beota idiozia. Eppure non siamo il popolo che ha come suoi unici trofei e penati il peperoncino rosso, le soppressate e il ragù di capra, secondo quel che si compiace di sostenere la sociologia accademica.

Siamo stati un grande popolo, abbiamo una grande storia. 

Non c’era alcun bisogno che arrivasse Garibaldi per insegnarci la libertà, sapevamo difenderla per antiche virtù, l’avevamo difesa in cento passaggi della storia. Siamo stati grandi quanto gli altri, qualche volta più degli altri. Siamo stati civili quanto gli altri, qualche volta più degli altri. Il nostro passato non è lontano millenni, come si racconta, ma solo centocinquant’anni. 

E’ necessario che la coltre di bugie che circonda la nostra identità collettiva sia fugata. La consapevolezza del passato ci aprirà gli occhi e ci permetterà di guardare al futuro.

Credo fermamente nella redenzione terrena degli uomini, nella loro vocazione alla libertà. So, però, che nessun uomo è libero se il popolo a cui appartiene non lo è. A Natale, il semestrale corso calante del giorno si esaurisce e comincia la stagione del giorno crescente. 

Cristo che nasce è la fede nella redenzione. Anche un ateo può aver fede in tale travolgente vocazione umana. Di suo, un socialista aggiunge l’azione concreta. O se vogliamo usare una vecchia parola, la lotta.





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