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La televisione racconta la Calabria oscurando la verità

La ‘ndrangheta dimezzata

di  Nicola Zitara

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Siderno 28 Ottobre - 2 novembre 2004

Quando s’interviene su un argomento cruciale per la gente, come ha fatto il Terzo canale Rai domenica 24 ottobre 2004, dottoreggiando in materia di ‘ndragheta, si avrebbe il dovere di non offrire una mezza verità. Male ha fatto il presentatore televisivo a tessere la sua tela sul canovaccio steso da un anziano magistrato che – ho motivo di credere - ha sempre considerato la legge come una rigida statua piazzata in mezzo ai flutti procellosi. Era così il Colosso di Rodi, che si reggeva con le due gambe divaricate, all’entrata del porto. Perciò crollò  al primo movimento tellurico, senza lasciare altra testimonianza di sé che fumosi ricordi.

L’evoluzione della ‘ndrangheta locale da sodalizio contadinesco a gruppo sociale di rilievo urbano, nella Locride,  si ebbe al tempo del Ministro della malavita, Giovanni Giolitti, che governò prima e dopo la Grande Guerra. Un notabile giolittiano del luogo, candidato  al parlamento nel collegio di Gerace Marina (oggi Locri), la fece scendere in armi per le strade onde contrastare il suo avversario.

In età fascista, gli ‘ndranghitisti stettero con due piedi in una scarpa. Ebbero soltanto il monopolio delle guardianie nei “quadri” di agrumi e nella distribuzione dell’acqua per l’irrigazione degli stessi. In tale fase, siccome la gran parte dei magistrati erano proprietari di agrumeti, la ‘ndrangheta riuscì pure a ‘scivolarsi’ qualche condanna, ma niente di più.

Gli ‘ndranghitisti entrarono nel perimetro urbano durante l’ultima fase della Seconda guerra mondiale e nel dopoguerra, in quanto primi attori  o autorità di controllo del mercato nero, specialmente in materia di esportazione dell’olio verso Napoli e Roma.

L’esercito ‘ndranghetista che conosciamo nacque con la fine della chiusura fascista dei contadini nelle campagne. L’occasione per evadere fu data dall’intrallazzo; un’attività che liberava il contadino  dalla servitù della gleba, ribadita dall’unità cavourrista. Finito il contrabbando, chi l’aveva praticato non tornò a zappare. Si ebbe, invece,  un diffuso inurbamento alla ricerca  di un lavoro, che il Sud esautorato dalla Ricostruzione nordista, imposta al paese dal duo  Einaudi (ministro del tesoro e presidente della Repubblica) – Valletta (Fiat),  non fu in condizione di offrire. In mancanza vennero ambite, e contese, le licenze per la vendita di frutta e verdura e di alimentari; insomma  lavori a basso tirocinio professionale.

Nell’area reggina (non ancora nel catanzarese e nel cosentino), la ‘ndrangheta  esplose con le competizioni elettorali, a tutti i livelli, da quello comunale a quello parlamentare. Avere dalla propria parte un capo ‘ndrina significava ottenere il voto e la preferenza dei campagnoli e delle campagnole, elevati a cittadini ed elettori. Siccome il meccanismo funzionava, il personale politico si adoperò a diffondere la ‘ndrangheta anche là dove non c’era.

Intorno al 1950, nel circondario di Locri, un’apprezzabile  presenza della ‘ndrangheta non andava oltre i seguenti centri: Africo, Bova, San Luca, Platì, Ciminà, Natile, Bianco limitatamente alla contrada periferica della Pardisca, San Nicola di Caulonia; tutte collettività di pastori immiseriti dalle leggi a difesa del bosco. Esotica rispetto a tale dimensione fu Siderno, con prolungamento nella Valle del Torbido, verso Gioiosa Jonica e Grotteria. Alle origini, le simpatie ‘ndranghetiste andavano prevalentemente alla sinistra rivoluzionaria. Il clientelismo politico le corresse.    

Per le personalità democristiane, e poi anche socialiste, liberali, repubblicane e socialdemocratiche, fu alquanto facile far fiorire la ‘ndrangheta. Se un contadino aveva un seguito nella sua pacifica borgata, gli si concedevano larghi favori e lo si elevava a intermediario tra il potere politico e i borghigiani; a un ruolo di distributore di benefici. Il caso della ‘babba’ Locri, imbastardita per troppo amore, è esemplare.

Il neo capobastone, per difendere il ruolo conseguito,  o si atteggiava  lui stesso a ‘ndranghetista o veniva detronizzato dal ruolo (di benefattore) da qualcuno più dritto di lui.

Inoltre, siccome la maggior parte del danaro politico era destinato alla produzione di opere pubbliche, i ‘ndraghetisti furono spinti a imparare il mestiere di appaltatore. E lo fecero come sapevano. Nel caso di una grossa opera pubblica, sia per  difetto di capitali adeguati, sia – e soprattutto -   per difetto di formazione professionale, dovettero contentarsi del solo subappaltatori. Nient’affatto intimorite, le grandi aziende del Centronord – Cooperative emiliane incluse - trovarono conveniente accaparrarsi siffatti subalterni.       

Più in generale, uomini di Stato e consorteria ‘ndranghetistica si accordarono. I vecchi ricordano la riunione di Montalto, l’emarginazione dei carabinieri, i giornalisti più coraggiosi imbavagliati, i giudici di corte d’assise entusiasticamente accodati ai vecchi procuratori della Repubblica e ai giudici istruttori nella foja delle assoluzioni a qualunque costo.

In buona sostanza una mafia di Stato.

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Negli anni settanta venne il tempo dei sequestri di persona, della droga e dei miliardi. Come il servizio televisivo ha messo in luce, la ‘ndragheta si spartì in pro e contro il nuovo affarismo: una fazione diventò capitalismo armato di mitra e l’altra restò ancorata al contrabbando delle bionde, al pizzo in dollari in arrivo dall’America, all’idea del pacioso inurbamento e del riconoscimento da parte della borghesia ricca.  Fu, quello, anche il tempo di magistratura democratica, un corpo allevato all’idea che lo Stato di diritto doveva trionfare sul tribalismo mafioso. Insomma una Torino di Calabria, benché senza la Fiat. Il frutto amaro di siffatta  filosofia politica fu la legge Rognoni-Latorre, che decretò il sequestro di case e fondi acquistati  da soggetti mafiosi: un meccanismo cervellotico che spezzò  il corso virtuoso dell’imborghesimento mafioso. Il figlio medico, il vigneto, il grosso allevamento, l’albergo, che avrebbero fatto dell’uomo d’onore un borghese qualunque, repelleva alla vecchia borghesia e ai virtuosi ragazzotti che avevano studiato diritto tra Firenze e Bologna. Tutte le organizzazioni mafiose, quindi anche la ‘ndragheta, furono di fatto invitate a imboscare il frutto dei loro delitti e a incrociarlo con le banche e con il capitalismo milanese, come fu messo  ben in luce da Bassetti,  presidente della Regione Lombardia.

L’errore successivo è l’adozione del pentitismo. In un Meridione evirato e corrotto fino all’inverosimile dallo Stato nazionale, la ‘ndragheta si presentava al proletariato rurale con un’immagine positiva, in quanto assertrice (almeno a parole) degli antichi valori contadini, fra cui l’onore. Forse oggi i magistrati sanno, circa le organizzazioni mafiose,  molto di più di quanto non sapessero prima del pentitismo, però la società di matrice contadina, impoverita in tutto, dalle sue autonome radici al  lavoro, dalla dignità civica alla speranza, ha perso anche un valore morale di grande rilevanza.

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Oggi è rimasto il capitalismo mafioso. Bisognava che il servizio televisivo dicesse come e quanto il capitalismo nazionale conta sulle enormi entrate in valuta (decine, forse centinaia di miliardi di euro) che vengono dalla droga. Bisognava anche che fosse detto che il Meridione e la sua pace sociale sono tenuti per i capelli dai narco-euro. Ci ha invece spiegato che un tale progetto delittuoso è nato nella testa du  Peppi, u Tiradruttu, e portato aventi dagli arcaici nipoti dei pastori di Africo. Una cosa che ti pisci addosso dalle risate. Lo Stato nazionale ha operato e tuttora opera nel Sud – e lo domina e governa – allo stesso modo che, a suo tempo, Mussolini, Badoglio e Graziani, la Libia e l’Abissinia, mettendo una contro l’altra le tribù avverse. “Faccetta nera, bella abissina, tu sarai romana… e avrai il nostro Duce e il nostro Re…” Quando le verità sono false verità, sui marciapiedi di Siderno si dice ancora: “Chi cazzi!” Questo Stato è  equivoco con il Sud sin dal giorno in cui è nato. E’ così abile nella sua infernale perfidia, che non dà mai una risposta chiara ai e sui problemi meridionali. Il Sud – compresa la gente di mafia – è cornuto e mazziato. E  non venga, il solerte servitore dello Stato, a dire che viviamo in uno Stato di diritto. In una regione in cui la Regione si è fottuti i soldi elargiti dallo Stato agli alluvionati; in uno Stato in cui  le banche, con la benedizione ecumenica della Banca d’Italia, alleggeriscono i risparmiatori; in cui i contratti di vendita rateale e i contratti d’assicurazione sono considerati testi  legislativi; in cui una causa dura vent’anni, salvo che non si tratti di un credito bancario, nel qual caso dura sei mesi; in cui fare il manovale nell’edilizia significa spesso votarsi al suicidio; in cui strade e autostrade, data la loro vetustà,  sono sottoposte a particolari limiti di velocità, ma poi le macchine sono costruite per raggiungere i 250 chilometri e la Ferrari è paragonata dalle massime autorità ai più mirabolanti prodotti del sapere umano; in cui le tasse le pagano soltanto gli operai e gli impiegati (l’85 per cento dell’Irpef); allora si può dire con sicurezza che l’espressione ‘Stato di diritto’ è pura risciacquature  della bocca. Propriamente, lo Stato ha tutte le virtù negative che servono ad allevare il mafioso.  


Ma per la Rai una ‘ndrangheta dimezzata, come il famoso Visconte. Dopo Bruno Vespa anche Lucarelli. In ogni luogo del mondo, i potenti fanno pagare alla gente una Tv che inganna la gente. 

Post scriptum su mafia e droga

La mafia (indico con questa parola tutte le organizzazioni criminali)  è una realtà consistente, ed è  anche l’unica componente del paese meridionale che sia temuta e rispettata dentro e fuori d’Italia. Il timore e il rispetto se li merita per due motivi: perché è capitalismo e perché uccide, non per onore o per vendetta, ma  per danaro. In questo senso è un capitalismo diverso dal capitalismo vero e proprio. Tra il capitalismo e l’assassinio c’è di mezzo la legge. La legge del capitalismo stabilisce che è reato uccidere con le armi nel territorio in cui si applica la legge dello Stato. Se è proprio necessario uccidere con le armi, la bisogna è delegata dei proletari preventivamente ingaggiati.

A volte il capitalismo ricorre all’assassinio proditorio per poter svolgere la sua organica ricerca del profitto e per la conservazione del suo comando,  ma non lo fa con armi in senso proprio, almeno all’interno della  sua sovranità istituzionale. Gli assassinii, di regola,  prendono la dizione (e la filosofia) di incidenti: incidenti causati da auto troppo veloci, in fabbriche mal fatte o mal tenute, su impalcature senza salvaguardie, da inquinamento, da esplosioni, da fughe di gas, dal surriscaldamento di centrali atomiche, da fattori eterogenetici, da sofisticazioni degli alimenti, etc., etc. 

Nella mafia, invece, il capitalismo e le armi stanno nelle stesse mani. Ma basta il fatto che i mafiosi (verosimilmente soltanto una parte di essi) siano addestrati all’uso delle armi per fare di essi un esercito indipendentista o separatista? (Sto dicendo indipendentista o separatista, e non sto dicendo rivoluzionario nel senso sociale e ugualitario).

Intanto, la mafia è l’unico settore globalizzato della società meridionale. Direi di più: senza i saldi legami che ha con (dico ‘con’, e non dico ‘nelle’)  le città padane, oggi la mafia morirebbe d’asfissia.  I miliardi vengono di là, e tornano là. I mafiosi tifano per la squadra degli Agnelli o per quella di Berlusconi o per quella di Moratti. Sono meridionali solo in quanto arretrati, disperati, sradicati, violenti, crudeli, amanti del peperoncino rosso e dell’olio saporito, balbettanti la lingua tosca, ma per il resto sono italiani di cuore e di abitudini.

Ciò nonostante, poniamo egualmente l’ipotesi che siano disposti a battersi per l’indipendenza dell’Italia meridionale. E poniamo in ipotesi anche che il Sud riesca a liberasi dal cappio toscopadano con il loro aiuto di uomini d’arme. Essendo loro uomini d’arme e noi uomini senza armi, sarebbero loro a suonare il violino e noi a fare l’accompagnamento con la zampogna. Dopo di che, costretti dai padroni a percorrere le rotte del mondo allo scopo di comprare e vendere droga, avremmo un’indipendenza peggiore della dominazione. E non mi pare sia quel che vogliamo.

Ancor prima dell’indipendenza, noi vogliamo che cessi quest’infame valorizzazione del mondo ex contadino rivolto a  far fare soldi al capitalismo italiano e alle sue banche; che cessi questa vergognosa sovrapposizione elettoralistica del voto mafioso sul voto libero; quest’ inganno di una società meridionale inetta, omertosa, infingarda.

Il medium dell’infamia è il guadagno sulla droga. Eliminato il guadagno, la mafia imploderà. Perciò il governo italiano DEVE introdurre la droga di Stato, deve fornirla gratuitamente nelle strutture sanitarie. Questo non servirà a riconciliarci con lo Stato nazionale, ma servirà tuttavia a disprezzarlo di meno.

 Nicola Zitara

 





























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