L'unità d'Italia è una beffa, che comincia con una bugia.
Due Sicilie
  Eleaml


Tra famiglia e mafia

Temo Milano e i suoi doni

di Nicola Zitara
Siderno, 23 Aprile 2007

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Mi metto sulla scia di Antonia Capria, che due settimane fa, in un rapido quadretto, ha ironizzato sul familismo amorale, e di Antonio Orlando che ha pubblicato la scorsa settimana uno stimolante articolo sul tema. Il familismo amorale è una categoria falsa sul piano logico, storico e politico. La morale è attinente alla vita in società. La persona capace d’intendere e di volere può rispettare o no le sue regole, mai essere inconsapevole della loro esistenza. In Occidente, la famiglia monogamica è il nucleo che sta alla base dell’aggregazione umana. Una società naturale, ha detto un qualche filosofo, ma forse si può aggiungere: un organismo che assicura la sopravvivenza della specie con l’allevamento dei figli. Storicamente, lo Stato è venuto dopo, centinaia di millenni dopo, allorché erano già in atto l’agricoltura, l’allevamento e i manufatti. Non sta scritto da nessuna parte che le singole famiglie, o i loro componenti, si coordinano naturalmente con la morale della collettività di appartenenza, né l’esatto inverso. Questo coordinamento degli uni agli altri, nell’ambito di una collettività statuale, o l’eventuale conflitto fra gli uni e gli altri all’interno della stessa, si chiama Politica.

Nella famiglia può emergere l’immoralità. Freud l’ha persino considerata la fonte primaria dei disturbi della personalità. Dostoevskij, Zola, Maupasant hanno descritto il degrado a cui può giungere a causa del conflitto con il sistema economico o il sistema culturale della società di appartenenza. In efeftti la moralità familiare si misura con il metro della famiglia e non con il metro dello Stato. Quando nostro figlio sta male, misuriamo la febbre a lui e non alla sua maestra d’inglese o alla suora che gli insegna il Catechismo. Questa storia del familismo amorale è una gran corbelleria, lo si da decenni. Chi la rinvanga vuole lucrare qualche milioncino alla faccia di Pantalone. E anche questo si sa da decenni. Peraltro la vecchia famiglia contadina e patronomica si è modernizzata ed è forse l’esempio o l’immagine più suggestiva e appetibile che il Sud offre al mondo occidentale (cfr. il film Stregati dalla Luna).

 Tuttavia la ‘ndragheta si organizza su circuiti familiari e di parentela per la gestione dei suoi affari, come ci ha ben spiegato Nicola Gratteri. Anche mio padre mandava me a riscuotere i suoi crediti commerciali, ma né lui né io abbiamo mai giurato su Osso Mastrosso e Carcagnosso. Né mi pare che Gratteri sia ricorso a immagini da Min-Cul-Cop padano, tipo il familismo amorale, per spiegare il particolare fenomeno. Noi possiamo soltanto constatare che nell’attuale fase storica il modello sociale non è più il clan o il villaggio o la contea, ma lo Stato nazionale, il quale, da due o tre secoli, assume l’attributo di ordinamento giuridico. Il diritto è la codificazione di una morale socialmente e politicamente vittoriosa. A sua volta l’interna armonia delle leggi, che ne fanno un sistema, danno vita a una morale corrente. Però una morale non cristallizzata, ma elastica, in movimento. Se io rubo, commetto un reato e anche un fatto immorale, ma se io rubo una banana per divertirmi, come Jonny Stecchino, posso finire dinanzi a un giudice, ma non sono messo pubblicamente all’indice per immoralità. Probabilmente lo stesso giudice troverà un cavillo procedurale per mandarmi assolto e mettere d’accordo morale corrente e morale codificata.

I più forti sbandamenti della morale corrente affondano negli interessi di classe. La famiglia senzatetto che occupa una casa altrui ha compiuto un gesto moralmente condannabile o moralmente apprezzabile? I padri di famiglia che spacciamo droga per le vie del paese, non avendo altro modo di campare la giornata, vengono moralmente condannati o moralmente assolti? Insomma non è la corruzione della famiglia, e neppure il fatto dell’associarsi ai parenti, o a chiunque, che condanna la mafia, ma il delitto di associazione per delinquere. Che oggi è un reato a sé stante, non un’aggravante di un diverso delitto, come in passato.

Ma delitto commesso ai danni di chi? L’associazione a delinquere è una lesione allo Stato, all’ordinamento giuridico. Ciò trascina con sé un giudizio che coinvolge sicuramente la morale corrente. Il mafioso è un’immorale. Però non può essere immorale anche suo figlio, che frequenta la quinta elementare, o suo fratello, che ha una bottega di parrucchiere in piazza. Se non fosse così, saremmo all’ “ammazza il turco”. Eppure, proclamando il familismo morale, si arriva a questo. L’operazione si prefigura tetra, come il rogo delle streghe. E anche cinica, di quel cinismo classicamente padano, che ha come obiettivo politico quello di ribaltare sugli stessi meridionali - famiglie, uomini, donne, bambini, vecchi - la colpa del fallimento, nel Sud, di uno Stato che è stato costruito nell’interesse delle regioni padane e che è sempre stato amministrato secondo il loto interesse.

Sul terreno dei tendenziosi confronti (nel caso il civismo) si è avventurato una decina d’anni fa il politologo americano Robert Putmann, il cui libro ha fatto chiasso e ha fatto fare soldi all’editore, senza per questo cambiare di una virgola la triste condizione di Napoli e di Palermo. Su quello dei fatti nudi e crudi, cioè a proposito del totale fallimento del sistema italiano, c’è il libro di Roberto Saviano, Gomorra, un vasto, accorato, palpitante documentario sull’unico spazio lasciato a Napoli, la più antica città d’Italia: il capitalismo a mano a armata della mafia euroasiatica. Ma per i nostri politici il documento non esiste.

La domanda a cui dobbiamo rispondere è la seguente: la logica mafiosa è il prodotto di collettività etnologicamente incapaci di adeguarsi all’ordinamento giuridico e alla morale privata e pubblica di una nazione industriale, come sostengono gli assertori del familismo, oppure l’uso delle armi, per gente altrimenti impotente, costituisce un modo d’entrare nei circuiti del mercato nazionale e mondiale, reggendo e vincendo la concorrenza con la violenza fisica, come ha sostenuto Mariano Meligrana (Le ragioni della mafia) e non solo lui, trenta anni fa?

Nel caso fosse vera la prima ipotesi, non dovrebbe esserci altro rimedio che il Far West, lo sterminio dei bisonti e anche dei pellirosse. Sappiamo tuttavia che l’operazione Mussolini/Prefetto Mori mostrò che la violenza della legge non sempre è inefficace. Se non riuscì a spegnere il fuoco, ne soffocò sicuramente la fiamma. C’è però da chiarire che la società politica, la società economica, la borsa, le banche, la burocrazia, l’industria, negli anni Trenta, non facevano il doppio gioco. Il doppio gioco è stato inaugurato nel 1943, al più alto livello, ed è stato portato avanti fin qui con callida disinvoltura. L’antimafia come facciata, e dietro le quinte un putrido gioco d’equilibrio tra la valorizzazione della mafia e il contenimento giudiziario del vasto potere dei singoli boss.

Ho altri e più gravi motivi per auspicare che la gente della terra in cui sono nato torni ad avere un suo Stato indipendente e sovrano, ma in linea di pura razionalità basterebbe a farmelo auspicare il crollo d’identità e il malessere sociale, che sono il prezzo che la gente paga al torbido intreccio di interessi tra capitalismo padano e capitalismo mafioso, e all’ipocrita e insolente copertura che si dà a tale intreccio da parte dell’intero apparato nazionale e locale di potere.

Ma se allo Stato nazionale (e credo anche al sistema europeo) può risultare comodo e utile tenere in vita un capitalismo eslege – Il capitalismo a mano armata - affinché fiancheggi nelle operazioni più sporche (droga, armi, finanza apolide, etc.) il capitalismo santificato in Piazza della Borsa, ciò non è accettabile per i meridionali.

 In Calabria, le eredità prestatuali sono ancora forti e diffuse. Immaginare un’inversione di tendenza della cultura corrente è possibile, ma comporta che ciò diventi un’istanza, un bisogno della base sociale. E’ ciò che Corrado Alvaro, cantore del mondo contadino e profeta della sua fine, auspicava novant’anni fa.

Il rinnovamento culturale nasce da nuove convenienze, le quali possono scaturire da un’evoluzione dall’interno o da un contatto con l’esterno. Sappiamo, per esempio, che in alcune isole del Pacifico il contatto tra soldati americani e aborigeni durante la Seconda Guerra Mondiale ha determinato il salto di tre millenni nelle convenienze di vita e di lavoro, per esempio il passaggio dalla pagaia al fuoribordo. Qualcosa del genere è avvenuta, in quegli anni, anche qui. Per esempio il passaggio dall’asino al motofurgoncino Ape. Ma in entrambi i casi si tratta di rivoluzioni attinenti alla piccola produzione mercantile, che non cambiano i rapporti giuridici di produzione, i quali a loro volta costituiscono il sottofondo materiale per l’eventuale rinnovamento della morale sociale. La Toscopadana sta compiendo (anche con i soldi nostri) un deciso movimento in avanti, verso la produzione postindustriale. Qui da noi, invece, l’anticipatrice, per l’Italia, rivoluzione industriale ferdinadea fu annientata dall’unità covourrista. La contemporanea rivoluzione degli assetti culturali fu bloccata trenta anni dopo, per drenare verso gli investimenti industriali padani tutte le risorse della nazione, in primo luogo le rimesse degli emigrati. Oggi il Sud è assolutamente impotente. Né è più concepibile un intervento statale nel settore industria. E tuttavia la mafia è qui.

 Quando leggo un articolo di Antonio Orlando su questo giornale o altrove, penso che, se la nave ormai imbarca acqua da entrambe fiancate, c’è ancora qualcuno capace di armare la scialuppa di salvataggio. L’ultima difesa dell’umanità calabrese non sta tanto nel codice penale, o negli interventi prefettizi, quanto nel codice civile. Forse meglio in una lotta di popolo, come al tempo della lotta per la terra. Il rispetto dei contratti di lavoro non solo è cosa sacrosanta giuridicamente e moralmente, ma è anche un fucile caricato a pallettoni, che può fermare il dilagare, verso altri settori sociali, del capitalismo mafioso, compare e pupillo del capitalismo padano. Un impegno del genere non porta in televisione, ma la televisione è meglio lasciarla a Loiero e all’antimafia tanto a rigo.






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