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Due Sicilie
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In risposta a un lettore: la natura della mafia

di Nicola Zitara

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Siderno, 9 Giugno 2010

Domenica scorsa su 'la Riviera', a pag. 17, abbiamo pubblicato una lettera al direttore che merita un'impegnata risposta. Volendo sintetizzare al massimo il suo contenuto, la lettera pone la domanda se la mafia - nella sua versione calabrese - sia un'espressione del capitalismo, e sia essa stessa capitalismo sia pure 'a mano armata', ovvero il prodotto di una società degradata, quale quella calabrese. Nel particolare è accaduto che i Pelle di San Luca, famiglia fra le più potenti e ricche della mafia calabrese, si è piegata al piccolo imbroglio di distribuire nafta agricola da una sua colonnina aperta al pubblico. Bisogna precisare che la nafta agricola è assoggetta a un'accisa più moderata o nulla rispetto a quella che colpisce la nafta corrente, ma proprio per questo viene assegnata con nome e cognome a singoli agricoltori dalle autorità competenti. I produttori spesso preferiscono rivenderla di contrabbando, anziché alimentare il motore dei loro trattori.

La mafia è oggi un fenomeno globale inerente ai grandi traffici illeciti, quello delle droghe, quello delle armi, quello dei capitali imboscati, e sicuramente altri meno clamorosi. In precedenza, qua e là c'erano delle mafie locali che si confondevano con il brigantaggio, il borseggio e tutti gli altri fenomeni delinquenziali di tipo associativo. I due fenomeni, quello nuovo e quello antico,  si sono sovrapposti un po' dovunque. La parte illecita del fare capitalismo è stata riversata sulle preesistenti associazioni a delinquere, rianimandole, dando loro nuova vitalità attraverso una funzione sociale di pressante attualità.

 Tutto questo, però, non spiega l'estensione del fenomeno mafioso nelle regioni meridionali e, in particolare in Calabria, dove, oggi, tutto sembra coperto dall'ombra della 'ndragheta e sottomesso alle sue logiche, persino una volgarissima truffa ai danni del fisco, che qualunque benzinaio potrebbe commettere e che sicuramente qua e là viene commessa da non mafiosi. Perché è così?

Centocinquanta anni fa, la parte della Penisola italiana a nord del Garigliano e del Tronto era divisa in sei piccoli Stati. Il processo unitario ha portato alla loro aggregazione per sommarne le risorse e consentirne il decollo economico nel quadro del capitalismo europeo, già alquanto avanzato. L'inclusione delle regioni meridionali nello Stato unitario è corrisposta al loro accodamento a un progetto esotico. Nel 1860il Sud borbonico era uno Stato in cui l'accumulazione era un processo in corso già da trent'anni, mentre aveva ben altri problemi da affrontare e risolvere, in particolare il problema della privatizzazione delle terre demaniali e del latifondo ecclesiastico. Contadini e galantuomini si scontravano politicamente intorno all'aspettativa proprietaria. I governi unitari risolsero lo scontro a favore dei galantuomini, che ottennero la terra pagando una mazzetta al capitalismo padano in formazione. Questi nuovi padroni non avevano, però, altre risorse da investire. I settori moderni dell'economia, allora in formazione, vennero mortificati. Fuori dalla terra non si ebbe nuova occupazione. La pressione demografica in agricoltura generò una reazione sociale di tipo arcaico, quella stessa che descrive Manzoni parlando del Griso e dei bravi.

Sulla soglia del miracolo economico italiano e con il tramonto del mondo contadino, cioè negli anni Cinquanta del XX sec., la mafia si sarebbe spenta per l'esaurimento della rendita agraria, se il trionfo nelle campagne del voto di scambio non avesse assegnato ai capimafia il ruolo di grandi elettori. A questo già importante ruolo il capitalismo ha sommato i traffici illeciti, sicché vecchio e nuovo convivono in regioni in cui l'unica vera modernità realizzatasi in 150 anni è costituita dagli enormi profitti derivanti dal delitto.



















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