L'unità d'Italia è una beffa, che comincia con una bugia.
Due Sicilie
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Notizie e appunti a margine a una mia intervista

di Nicola Zitara

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Siderno, 21 Aprile 2009

Notizie e appunti a margine a una mia intervista apparsa sul secondo canale della RaiTV
nelle prime ore della notte di domenica 19 aprile 2009.


L'intervista è stata registrata in casa mia il Venerdì Santo precedente dal giornalista della RaiTV Enzo Romeo e da due tecnici Rai. Il colloquio ha avuto la durata di circa un'ora.

Essendo l'intervista centrata su temi attinenti il passato, il presente e il futuro della popolazioni meridionali tenterò di riesumare alcuni argomenti sacrificati dai tagli effettuati nella breve presentazione televisiva.

L'argomento di partenza e anche quello che più a lungo ha occupato il colloquio concernente l'attuale condizione del lavoro meridionale. Sulla base di una lunga esperienza di vita ho messo a confronto la situazione emersa nel dopoguerra e quella attuale. Tra l'8 settembre 1943 e il 1951/52 il Sud precipitò in una condizione di disoccupazione paurosa. La fame attanagliava la città e la campagna. I salari erano bassissimi. Una raccoglitrice di olive non otteneva per una giornata di lavoro che nei mesi invernali andava dall'alba al tramonto l'equivalente di una bottiglia d'olio. Reduci dalla guerra e dalla prigionia, ragazzi ancora quindicenni, anziani capifamiglia si avventuravano nei cosiddetti scioperi a rovescio, i quali consistevano nel realizzare una primitiva opera pubblica comunale, come una stradina di campagna, un ponticello, uno scarico, una fogna, senza che l'opera fosse stata prevista, appaltata e finanziata, nella speranza che la prefettura avrebbe riconosciuto il valore dell'opera e avrebbe stanziato l'importo delle giornate lavorate.

Unico lenimento a questo disastro sociale fu il prezzo del pane ribassato dopo la guerra in virtù degli aiuti alimentari americani.

Da questa situazione si uscì con la fuga dal Paese. Per prima cosa cominciò l'emigrazione verso gli Stati Uniti, il Canada, l'Australia e l'Argentina, la quale fu più importante di quel che risulta dalle statistiche, in quanto aprì un varco verso la speranza. In pratica coinvolse quelle persone che avevano già una doppia cittadinanza e congiunti richiamati da residenti all'estero. Poterono emigrare anche persone non parenti di un richiamante che aveva necessità di assumere uno specifico lavoratore.

L'emigrazione di massa verso il Belgio, la Francia, la Germania, la Svizzera, ebbe inizio tra il 1949 e 1950. Ma l'esodo biblico verso Torino, Milano e Genova si avviò tra il 1953/54. Il moto migratorio chiuse e in certo qual senso seppellì il dramma della disoccupazione. Chi ebbe il coraggio di farlo, partì. I salari scattarono in alto quanto mai si era visto in tutta la storia precedente del Sud incorporato nello Stato italiano. La spesa pubblica, sia quella coordinata dalla Cassa per il Mezzogiorno, sia quella degli altri ministeri sia quella delle amministrazioni locali creò altra applicazione e fece maturare significative professionalità nel lavoro agricolo, delle riparazioni e della piccolissima industria.

Insomma il Sud uscì dalla trappola della sovrappopolazione relativa, non tanto attraverso l'intervento dello Stato nazionale quanto ad opera delle forze spontanee del mercato del lavoro, offrendo un forte e preparato esercito industriale di riserva a favore dell'industria nascente nel Triangolo industriale padano.

Si può aggiungere che fu il padronato padano, sostenuto dai proprietari di terreni edificabili anche meridionali, a dissuadere i governi nazionali dall'impegno di dar vita, attraverso l'IRI, a un'effettiva industrializzazione dell'area meridionale. In conseguenza di tale omissione, per controllare il voto meridionale, le forze politiche prolungarono la spesa pubblica senza chiedere un riscontro, cosicché si ebbero tre decenni di sottosviluppo assistito dalla spesa clientelare.

Cinquant'anni dopo, il problema della sovrappopolazione relativa si ripresenta con la stessa gravità anche se il minimo esistenziale è fortemente mutato. Avendo bisogno di forti incrementi di manodopera, le industrie toscopadane hanno preferito aprire le porte ai lavoratori in nero e a salari alquanto bassi provenienti da paesi tragicamente affamati dall'espansione delle merci industriali, invece che richiamare in forma esplicita o implicita (passa parola) l'esercito industriale di riserva riformatosi nel Meridione. Governi miopi e una classe politica con tratti buffoneschi non capirono un problema che pure la Svimez si prendeva la cura di denunciare annualmente. E peggio ancora se capirono e non provvidero volutamente con il recondito scopo di non rafforzare il sindacato.

In teoria, l'esercito industriale di riserva meridionale oggi è inchiodato alla croce. Non ha altra scelta che la rivoluzione nazionale e la restaurazione dell'antico Stato indipendente. Che poi l'ipotesi rivoluzionaria resti una mera ipotesi, è tutt'altro che improbabile. Il Sud è un paese in cui tutte le classi sociali sono ripiegate nell'impotenza. Manca qualsivoglia fiducia in se stessi e negli altri. Fanno eccezione i settori genericamente detti mafiosi, che invece sono molto attivi e oggi hanno la valenza economica di una grande potenza mondiale.

La camorra e la mafia sono retaggi del passato. Fenomeni simili si ebbero sia in Italia che il Francia, in Inghilterra, in Russia e credo in altri paesi. Sull'argomento esiste un importante volume del più noto fra gli storici inglesi nostri contemporanei. Il banditismo contadino era presente nelle Romagne ancora al tempo della bonifica ferrarese e delle prime lotte bracciantili. Secondo un'orazione del grande penalista Genunzio Bentini, intorno al 1935, in piena età fascista, la malavita organizzata dominava la periferia di Milano, in particolare la Bovisa.

Sia la camorra napoletana che la mafia siciliana erano fenomeni interni e ristretti, il primo riguardante i bassifondi di una città sacrificata e repressa dall'unità politica toscopadana, la seconda presente nelle campagne di Palermo e Trapani. Sia l'una che l'altra ebbero qualche valorizzazione durante l'invasione garibaldina e nella lotta elettorale a Palermo e a Napoli fino alla Prima Guerra Mondiale. Al tempo della spedizione punitiva del prefetto Mori in Sicilia (1926/29) il numero degli associati incarcerati fu di 14.000. Oggi ricade sotto il controllo mafioso una cifra vicina al 50 per cento delle aziende siciliane e calabresi e una percentuale consistente delle imprese campane, pugliesi e di altre ragioni meridionali e non.

L'uscita della mafia dalla campagna si ebbe a partire dal 1942/43 con il mercato nero, ma una vera e vincente espansione va collegata con il voto universale, e lo scambio elettorale tra voti e preferenze delle borgate rurali e favori del personale politico. I capibastone più che richiesti furono (e sono) coccolati dal sistema politico, e non solo da quello meridionale. Fino agli anni '70 i procuratori della Repubblica e le corti giudicanti salvaguardarono la mafia da ogni attività repressiva e condanna penale. Sarebbe funesto per chiunque voglia operare politicamente nel Sud ignorare che oggi sono a confronto due società, una corrotta e impotente, ironicamente detta società civile, e una sovversiva della statualità, che è violenta e rozza, ma dinamica e molto più aperta dell'altra ai processi di espansione del profitto e alla globalizzazione, che connotano la vigente cultura sociale.

E' impossibile dire quale sarà, ma il futuro del Sud sarà sicuramente legato all'evoluzione positiva o negativa del fenomeno mafioso.










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