L'unità d'Italia è una beffa, che comincia con una bugia.
Due Sicilie
Eleaml


La riconquista di Napoli

di Nicola Zitara

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Siderno, 3 febbraio 2001

Mi scrive un amico napoletano - una persona seria, un uomo sinceramente impegnato nel sociale -: "Abbiamo lanciato delle provocazioni […] per 'tastare' il grado di reattività della nostra gente.

Il risultato è stato molto deludente: per motivi che qui sarebbe troppo lungo elencare, ma che tu conosci meglio di me, l'encefalogramma politico della gente del Sud è quasi piatto".

Possiamo rassegnarci? Dobbiamo rassegnarci? Aspetteremo ancora una volta che un Ciampi di turno, preceduto da labari e gagliardetti, ci porti qualche spicciolo di lavori socialmente (in)utili?

Oppure: 'Tanto peggio, tanto meglio', come sostiene un altro amico, il quale sente, vede, capisce come nessun altro che io conosca, ma ha deciso di non alzare un dito, di sospendere il versante pubblico della sua vita e di ridurre al minimo quello privato in attesa che, consumata l'ultima manciata di assistenzialismo, la gente finalmente si sollevi e faccia scattare la molla del serramanico?

Nella sua filosofia politica ci sono due proposizioni sottintese. La prima dice che il popolo dei diseredati meridionali è tutt'altro che incline alla rassegnazione, la seconda che la classe dei servi del sistema, degli ascari, come li chiamava Salvemini, è vasta e potente.

In sostanza l'encefalogramma non sarebbe piatto. Sarebbe stata invece l'ambivalenza dello Stato italiano a provocare una reazione d'indifferenza, a precipitare nell'abulia la nazione meridionale. L'interpretazione è credibile, difatti negli ultimi secoli si sono avute due guerre di popolo, entrambe combattute contro eserciti in armi e generali in tracolla e medagliere appuntato sul petto, e con montagne di cadaveri. La guerra contadina del 1799 si sviluppò contro i francesi invasori e contro la nascente borghesia agraria, la quale voleva recingere i propri campi e anche quelli destinati all'uso pubblico, senza dar niente in cambio. In detta circostanza fu la Chiesa a fornire al popolo i quadri militari e la flotta inglese a dare una collaborazione forse decisiva.

In tale passaggio storico, il popolo vinse la battaglia e perse la guerra, perché la borghesia predona si rifece cinque anni dopo, con il ritorno dei francesi, questa volta imperiali, e perché i Borbone, rientrati a Napoli nel 1816 non ebbero il coraggio di spartire le terre fra chi aveva un diritto millenario.

Invece il popolo napoletano si trovò solo nella decennale guerra per bande contro i Piemontesi, in cui il motivo patriottico si confonde con la motivazione socio-politica. Difatti il papa era stato immobilizzato dalla "protezione" degli zuavi di Napoleone III e il gruppo di rivoluzionari napoletani gravitanti intorno a Michail Bakunin, accorso a Napoli al primo odor di rivoluzione, fece poco o niente, ma parlò tanto da farsi spedire, in un viaggio di andata senza ritorno, nelle patriottiche galere dell'Italia tricolore.

Nel mondo contadino, il punto di riferimento politico era la terra; economicamente lo Stato viveva dei surplus agricoli; l'idea di rivoluzione gravitava intorno alla proprietà della terra. Era stato così al tempo dei Gracchi, e tale era ancora al tempo di Ninco Nanco. Nel nuovo Stato industriale, la terra perde il suo carattere di primario fattore della ricchezza. Conseguentemente i contadini non sono più la principale classe antagonistica dello Stato, e nello Stato. Questo ruolo gracchiano passa alla classe operaia. Nel pensiero marxiano i contadini appartengono al passato feudale. Eppure, nonostante Marx, continuano a esistere e soffrire lo sfruttamento padronale, un pauperismo peggiore che gli operai. La loro posizione politica viene integrata in quella della classe operaia solo dopo decenni di sbandamento teorico. In Italia, a questa chiarezza si giunge con Bordiga (napoletano) e Gramsci (sardo), intorno al 1920, cosicché, in assenza di una guida politica, i sessant'anni che vanno dal patriottico bombardamento di Palermo al patriottico avvento del fascismo padano sono segnati da una miriade di insurrezioni locali, di incendi di municipi, di occupazione di fondi e latifondi, disorganizzati e senza costrutto.

Le ultime vampate della rivoluzione contadina si consumano nel secondo dopoguerra, con l'occupazione dei latifondi; una battaglia che, alla partenza, venne sostenuta dagli esponenti comunisti meridionali e finì, poi, strumentalizzata da Togliatti, a fini elettorali

Senza più contadini, senza una vera classe operaia - ormai un fenomeno politicamente residuale anche dove ci sono le fabbriche - con una borghesia svenduta agli interessi nordisti in cambio del diritto a rubare, è spiegabile che l'encefalogramma politico sia piatto, come è spiegabile che uno si chiuda in se stesso, aspettando che si consumi l'assistenzialismo pro bono pacis coloniale dei governi romani.

Il più recente sviluppo fa apparire superate le vecchie categorie sociali. Ma non siamo a quell'eguaglianza che il fondatore di la Repubblica strombazza nei suoi articoli domenicali, anzi la mia idea è che siamo tornati alla Firenze del tre/quattrocento, in cui le posizioni sociali si riducevano a due soltanto: il popolo minuto e il popolo grasso. Come cinquecento anni fa, lo Stato, che continua ad essere in mano al popolo grasso, campa spillando quattrini al popolo minuto, il quale diventa sempre più minuto. E chi vuole una prova che non si tratta di declamazioni populiste consideri due semplici fatti e, poi, si dia la risposta. Primo: chi ha pagato per l'ingresso dell'Italia nell'area dell'euro? Secondo: chi si è arricchito negli ultimi sei anni con la concertazione salariale, e continua ad arricchirsi con l'euro che si svaluta?

Nel Meridione, ridotto in schiavitù dal capitalismo padano, il popolo minuto, se vuole ancora mangiare, se non vuole tornare al 1948, non può sperare sulla rivoluzione comunista e sull'abbattimento della classe dei capitalisti, per giunta milanesi, torinesi e trevigiani. Ha una sola possibilità, ed è quella di separarsi dallo Stato italiano, in modo da non finanziare con la propria miseria i banchieri e gli industriali padani. Durante la dominazione francese e spagnola, i re e i viceré si indebitavano con i banchieri, di solito genovesi e fiorentini, e poi per sdebitarsi concedevano loro feudi, accise, arrendamenti. E il popolo pagava. Nel cinquecento, in cambio del suo credito verso il re, l'illustre famiglia dei Sanseverino ebbe in feudo l'intera Calabria, che a quel tempo era la centrale occidentale della produzione di seta e di damaschi. Venuti in Calabria, i principi - per rifarsi degli esborsi - tassarono la seta prodotta con un tributo così pesante che il prezzo all'esportazione aumentò di un terzo. Nel breve volgere di alcuni decenni, in Calabria, l'arte della seta defunse. Gli artigiani calabresi si sparsero per tutta l'Europa, da Como a Milano, Lione, Londra, Ginevra, persino a Stoccolma. Da poco è venuta fuori la novità secondo cui Renzo Tramaglino e Lucia Mondella, gli eroi de I promessi sposi sarebbero stati di origine calabrese. E forse neppure Manzoni, che la storia sociale del Milanese la conosceva prima dei fasti e degli orpelli attuali, si sentirebbe di escluderlo.

Quell'infelice andazzo cessò con l'arrivo di Carlo di Borbone-Farnese, il quale batté gli austriaci e liberò il regno dalla soggezione allo straniero, facendolo rifiorire (si veda uno storico sicuramente non filoborbonico come Ruggiero Romano, Le commerce du Royaume de Naples avec la France et les pays de l'Adriatique au XVIII siècle). Purtroppo i Borbone non fecero in tempo a liberarlo anche dalla soggezione interna ai paglietta e ai voltagabbana che, per molto meno di trenta danari, l'hanno consegnato liberalmente all'ingorda e truffaldina fratellanza italiana.

L'impresa, rimasta sospesa, spetta ora al popolo minuto. Irretito dalla destra e dalla sinistra nazionale, troppo ha aspettato. Le prossime elezioni comunali a Napoli sono un'occasione. Una volta liberata Napoli, a una a una, anche le altre città e i paesi si liberebbero, in un processo che non può che partire dal basso.


Nicola Zitara





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