L'unità d'Italia è una beffa, che comincia con una bugia.
Due Sicilie
Eleaml


Articoli del 6 Agosto 2005

di Antonia Capria

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Siderno, 6 Agosto 2005

Siderno, futura Cernobil

di Antonia Capria

Come tutte le poche fabbriche istituite dal Nord d’Italia nel Mezzogiorno (pericolose e nocive), alcune chiudono con pochi incidenti, altre invece scoppiano e bruciano. E’ scoppiata la fabbrica della B. P. famigerata fabbrica denominata della puzza. Eppure il 15 giugno scorso era venuto a Siderno l’onorevole Diego Tommasi dei Verdi, al capezzale di un paese che sta morendo in tutti i sensi, moralmente, politicamente, culturalmente, socialmente e che adesso muore nei suoi valori ambientali, che erano sani e forti sino a venti anni fa. L’on. Tommasi, dopo aver visitato la fabbrica, ha detto che la situazione “è tragica”. Tutto lo staff dei Verdi è rimasto pietrificato di fronte a un manufatto altamente inquinante e pericoloso, pronto a esplodere. E pensare che la B.P. è tenuta sotto sequestro dalla magistratura e sorvegliata dalle forze dell’ordine. La fabbrica è chiusa da dieci anni circa. Dopo Seveso, i signori del Nord ci hanno mandato il peggio

Puzza inquina ma non dà lavoro

Fa male alla salute

Aggiungo produce continuamente danni. Si sono fatte lotte quando il clima politico non era pesante come adesso e quando la sinistra contava (e non cantava) e quando i Verdi con il capogruppo Sasà Albanese sfilavano coraggiosamente davanti al pretore, ai tribunali, davanti al Comune di Siderno, e si facevano le veglie e si gridava la giusta indignazione. La paura non porta da nessuna parte. Gli uomini di destra e di sinistra, della mafia e della delinquenza, dell’onestà e della disonestà, ora è giunto il momento

Il nostro paese era un giardino, adesso – è triste dirlo – è una riserva di scorie di ogni natura, che troviamo nell’acqua del mare, sui terreni agricoli abbandonati, sui letti dei fiumi e per l’aria.

  

L’onesto Servizio Sanitario Nazionale

di Antonia Capria

La famiglia è raccolta intorno al tavolo da pranzo. Mentre mio marito, una forchettata dietro l’altra,  divora la sua quotidiana razione di vermicelli al pomodoro, un giornalista della televisione annuncia la truffa delle fustelle perpetrata ….dalla mafia.  Debbo essere sincera  la mafia mi fa una enorme paura. “Hai sentito – dico– stavolta fanno sul serio”. Mio marito raccatta l’ultimo filo di pasta che si era attaccato  in fondo al piatto e sentenzia: “I giornalisti sono solo fumo, è lo stato che comanda. In questa storia la mafia non c’entra nulla”.

“Ma come – ribatto- l’ha detto un esimio giornalista! Saprà quello che dice!”.

“Cattiva informazione o forse cattiva coscienza. La truffa delle fustelle è vecchia di almeno trent’anni e dietro c’è la mafia dei medici e delle case farmaceutiche,  l’unica vera mafia che conti. La mafia ufficiale  uccide trecento persone l’anno, la mafia politica ha distrutto il Meridione e distruggerà anche  l’ingordo Settentrione, il quale  ci comanda attraverso la mafia politica.                 Non pronuncerò una filippica, ma ricordati di  Peppino.”

Questo richiamo ai fatti  mi induce a dar ragione a mio marito e torto al giornalista.

 Peppino ora è defunto . Fu il nostro medico di famiglia quando abitavamo in un’altra zona della Calabria. Lo interpellavamo per telefono quando c’erano problemi di salute. Lo  stimavamo come professionista  e come amico.  Ma Peppino era un autentico ladro e truffatore. Chi legge penserà chissà che cosa  della mia adattabilità in materia di onestà, ma se ha pazienza di arrivare  fino in fondo, si accorgerà che anche lui era un ladro e truffatore;  che noi tutti siamo ladri e truffatori.

Peppino era di una tale adamantina onestà che, se avesse trovato un portafogli zeppo di soldi in aperta campagna,  avrebbe fatto affiggere  dei manifesti in tutta la città. Per tutti era il Signor Dottore e basta. Nessuno  sarebbe andato da un altro medico o mediconzolo,come dicevamo noi. Peppino però, quando aveva finito di lavorare, verso le sette di sera,  si chiudeva nel retrobottega  della farmacia e firmava centinaia di ricette. Il farmacista sfustellava confezioni di prodotti medicinali, attaccava le fustelle alle ricette e buttava il prodotto in uno scatolone, che la sera stessa, il commesso  portava all’ospizio, dove la suora addetta metteva in bell’ordine le varie specialità.

Peppino riceveva onorari dalla Mutua e premi dalle case farmaceutiche di Milano, Vicenza, Verona,  Bologna. Peppino sapeva che tutto gli veniva assegnato attraverso un intrigo strano che si chiama “comparaggio”  che sperpera ogni giorno milioni di medicinali, che -a detta sua- nessuno  può usare senza suicidarsi. Si  tratta di medicine mafiose  che il farmacista sfustella e sistema in apposito scatolone che viene, come  ho detto prima, portato nella macchina del medico e che  Dio  solo sa dove andavano a finire.

Per dire la verità poche persone avevano l’odio che il farmacista e Peppino avevano per la mafia. Loro erano per la legge e per la polizia. Anzi per  lo Stato forte. Logicamente, però, anche per il Servizio  Sanitario Nazionale.

Il mio amico mastr’Arturo

di Antonia Capria

Mastro Arturo non era un semplice “mastro”, un qualunque impastatore di calce e sabbia, o un semplice posatore di mattoni a piombo; era un filosofo, un saggio, un aristotelico, anzi un lucido tomista. Ma anche una persona  semplice, che credeva nella giustizia e nella verità. Forse era soltanto un uomo antico, il sopravvissuto di una dimensione cancellata dal tempo. Venivo in paese da fuori, ma mi sembrava di averlo sempre conosciuto. Gli piacevano le pause e gli piaceva chiacchierare dei valori supremi. Accendeva una  sigaretta e la teneva tra le dita come si tiene una penna, per tracciare un pensiero sulla carta. Alzava un dito al cielo, come fanno i ballerini del Bolchoi alla fine di una piroetta, per confermare il suo kantiano imperativo categorico.

 Portavo una tazzina di caffè. Anzi la pretendeva. “Signora, è pronto…? E’ uscito…?”  Sorseggiava con gusto, estatico. Gliela offrivo su un  vassoio dipinto a mano e in antiche tazzine, che lui diceva del Settecento. Era un aristocratico amante della caffeina. La cerimonia del caffè gli scioglieva la lingua. E debbo dire che da quando mastr’Arturo ha lasciato questa valle di lacrime, o come lui diceva “il mondo infame”, le tazzine stanno lì, nella credenza verde, senza che alcuno ardisca usarle. Solo a volte, prima che faccia sera, all’ora in cui il sole d’autunno indora le foglie nel giardino e tutte le cose intorno, mi prende la nostalgia di una chiacchierata con mastr’Arturo e di un caffè in una tazzina del “settecento”.

La sua conversazione era fatta di storie vere; non solo aneddoti, ricordi, ma riflessioni pessimistiche  e amare sulla natura umana. Però dentro sempre la speranza di “un mondo migliore”. Sempre il pensiero “laico” dell’altrui libertà. Una mattina che i gatti inseguivano i loro amori con lunghi struggenti miagolii, mastr’Arturo esclamò: “Non li sgridate! E’ la natura. I gatti non sanno leggere, non sanno scrivere, non conoscono le nostre leggi, conoscono la loro legge. Noi conosciamo la legge della sopraffazione e della vendetta. La nostra legge è quella del profitto, di chi è forte, di chi vuole essere ancora più forte; la legge di chi ha maniglie, del bugiardo e di chi vende la moglie e le figlie per vincere una causa.”

La voce di mastr’Arturo si faceva rotta quando disquisiva di questi argomenti e gli si inumidivano gli occhi. Ma non per questo era un uomo infelice. “La fede, diceva lui, ci salverà dalle tragedie quotidiane e ci unirà tutti, e chiunque otterrà giustizia. Quel povero Figlio di Maria Vergine chi lo ha inchiodato e sacrificato? Chi, signora mia, se non quei bastardi di giudici romani, i potenti, i ricchi. Ma poi si lavarono le mani e dissero: no, non siamo stati noi.

“Io sto dalla parte di Cristo, perché era una persona perbene ed era un vero socialista. Lui ci ha avviato al sol dell’avvenire.”

Mentre scrivo questo ricordo, nel giardino riecheggia la voce del maestro. Pare dica:  “Io ho rappresentavo una classe di lavoratori nobili e non mi sono mai corrotto. Non sono ricco, ma  neppure povero. Sono un signore, che a tavola usa la forchetta e il coltello e mangia con la bocca stretta. Molti ricchi, non signori, ma ricchi, a tavola gridano, sputano e si ubriacano. E sono signori che conoscono le leggi e i sermoni, ma che non hanno l’educazione per osservarli.”

Questo dice mastr’Arturo, e non altre parole.


Kabitho Bakila

di Antonia Capria

Kabitho Bakila, se non fosse stato per la sua pelle scura, sarebbe passata per una francese in tutto e per tutto: la scuola, la lingua, i gusti, lo charme ed anche il look. Ma lei odiava la Francia di un odio atavico. Glielo aveva infuso il padre Omar. Ma non solo lui, anche il nonno, gli zii, i maestri,  il modo di pensare della gente alla periferia di Bona, dove abitava.

Kabitho, pur essendo quasi una discendente di Cartagine, amava Roma e la Romània, della quale –aveva studiato- la sua città era stata uno dei centri più ricchi, più vitali, più attivi, la terra di Sant’Agostino, il primo grande cristiano dell’Occidente.

Lei era musulmana solo per rispetto verso la sua famiglia e la gente, ma nella sostanza era agnostica ed indifferente.

A causa di tale sua scelta culturale, Kabitho, quando fu praticamente costretta a lasciare la Tunisia per lavorare, scelse l’Italia anziché la Francia.  Approdata clandestinamente nel porto di Messina a bordo di un cargo che trasportava bitume, riuscì a filtrare in città senza che la polizia la vedesse. Non era stanca del viaggio ma aveva lo stomaco vuoto perché il mal di mare glielo aveva liberato da ogni contenuto digeribile, riempendoglielo di succhi gastrici bramosi di cibarie da metabolizzare. Camminando spedita e guardandosi dietro per paura dei poliziotti, Kabitho cercava con gli occhi una pizzeria dove potesse sfamarsi a buon mercato e si meravigliava che in quella terra italiana, nella quale era fiorito il genio della pizza, non ci fosse una pizzeria ad ogni angolo di strada.

La fame le rodeva le budella, ma di pizzerie neppure l’ombra. Quasi si era rassegnata quando incontrò una salumeria che stava per chiudere. Vi entrò senza una qualsiasi decisione su cosa chiedere, ma una volta dentro, la parola le venne meccanicamente sulla lingua: pane.

Vide anche un’alta costruzione di barattoli, evidentemente contenenti carne conservata, e ne comprò uno, poi camminò ancora un po’ e intravisto un sedile in una grande piazza ove c’era ancora un po’ di gente, si sedette, estrasse il coltello buono per tutti gli usi, si confezionò uno sfilatino con ripieno di carne e fece colazione, pranzo e cena.

Alle nove di sera, secondo le indicazioni ricevute, tornò al porto. Fece il biglietto per Roma, seguì la gente senza chiedere informazioni e la mattina successiva si trovò nella città che mentalmente prediligeva.

Telefonò alla signora dalla quale era stata prenotata come cameriera e come insegnante di francese dei bambini. Questa l’andò a prelevare in macchina, la condusse a casa, le assegnò una camera con bagno, le regalò abiti e biancheria nuovi, le offrì un caffè. A tutto pensò meno che a darle da mangiare.

Kabitho aveva di nuovo un grande appetito, ma non osava chiedere qualcosa con cui appuntellarsi lo stomaco. Sapeva d’altra parte che i romani fanno una piccola colazione al mattino e pranzano tardi. Chiese quindi alla padrona di casa se poteva uscire a vedere la città. Questa acconsentì e le affidò anche i suoi due bambini, ingiungendole di telefonare casomai smarrisse la via del ritorno. In compagnia dei suoi primi alunni bianchi, ai quali incominciò a insegnare le prime parole francesi, Kabitho, più che la suggestione di Roma eterna avvertiva un appetito lacerante. Era tanta la fame che gli occhi le si velavano. La saliva le riempiva la bocca ed era costretta ad inghiottirla per non dovere sputare sul selciato.

Per sfuggire alla morsa tentò un approccio con i bambini e chiese loro se volessero un gelatino. Ma essi dissero di no. A questo punto, non facendocela più, la mano contratta sui quattro euro che possedeva, Kabitho guidò i ragazzi dentro una bottega di salumiere, per comprarvi del pane. Vide anche qui una pila di barattoli di carne, identici a quelli della sera prima. Ne comprò uno e chiese che glielo aprissero.

“Tu hai un gatto?”, chiese la bambina.

“Gatto…? Gatto…? Oui, chat. Mais, je n’ai pas un chat”.

“Allora andremo in piazza Argentina a nutrire i gatti abbandonati ?”

“Les chats, oh non! Io magiare carne. Carne buona per donna. Chat mangiare ottimo topolino. In Bona gatto mangiare topo. Noi dare Italia ottimi topi, voi dare ottime scatolette.”       


Quando il telefono  lo paghiamo noi

di Antonia Capria

Francesco e  Marianna  erano stati fatti uscieri dalle raccomandazioni: lui usciere all’ospedale, lei bidella alla scuola media. Avevano parecchi figli, chi in America, chi in Germania, chi a Torino. Godendo di due stipendi, prima avevano investito i tre quarti delle loro entrate familiari in una bella casetta, poi, pagate tutte le banche e le rate, destinavano alla Telecom quasi tutti e due gli stipendi per telefonare in America, in Germania e a Torino.

Quando arrivavano le bollette, Francesco dava in escandescenza: “La devi smettere con questo telefono, mi stai rovinando! Invece di telefonare, risparmiamo questi soldi per i nostri figli, gli compriamo i BOT. Compare Salvatore ha messo in BOT tutta la  liquidazione e guadagna quasi  tremila euro all’anno”.

Così diceva  Francesco, ma se passavano tre giorni senza che la moglie telefonasse in America, cominciava a girare intorno all’apparecchio come un serpente incantato:  “Ha telefonato Carmelina?”, chiedeva.

Così la moglie decideva di assumere l’ iniziativa, pur capendo che dopo lui avrebbe protestato.

Un bel giorno Marianna tornò da scuola con questa  notizia: “Sai  Francesco cosa  ho capito?” “Cosa?”, rispose Francesco.

“Tutti gli amici del Preside vengono a scuola quando  debbono fare lunghe telefonate. Li vedevo che si chiudevano dentro mentre il preside restava fuori…”

“ Pùa…”, disse  Francesco, “ all’ospedale la stanza del primario del mio reparto sembra il gabinetto della stazione. Chi entra e chi esce; la mattina arriva l’ingegnere e mi dice: “ Apri Francesco chè debbo fare una telefonata.” Anche  quando c’è il primario che visita pazienti, arriva sempre qualcuno e si mette a fare telefonate in tutto in tutto il mondo, senza riguardo.”

 Dice Marianna:“ Ma almeno in America potresti telefonare dalla stanza del primario. Le chiavi  ce le hai tu, si o no?”

“ Non mi basta il coraggio, Marianna. Mi vergogno. E se poi arriva  qualcuno e mi  sorprende?”.

E così Marianna un pomeriggio prelevò di soppiatto dal cassetto la bolletta del telefono, uscì con la scusa di andare a fare la spesa e bussò alla porta del primario.

“ Che c’è, Marianna, cos’è successo? ”

“ Signor primario, ci stiamo rovinando con il telefono per sentire i nostri figli. Ecco, guardate l’ultima bolletta. Volevo dirvi …voi lo sapete che votiamo sempre per vostro fratello… volevo dirvi  se Francesco una volta ogni tanto può telefonare dal reparto”.

“ Marianna, ma che sei impazzita ?”

E se ne tornò nel suo studio,scuotendo le mani e dicendo : “Adesso anche le pulci hanno la tosse”.




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