L'unità d'Italia è una beffa, che comincia con una bugia.
Due Sicilie
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Banca e Industria

di Nicola Zitara

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Siderno, 24 Maggio 2003

Da sempre circola nel nostro ambiente - economicamente colonizzato e culturalmente subalterno - l'idea falsa che la Banca non intervenga alla formazione del capitale fisso delle imprese. Si dice: "Chi mette su un'industria deve avere almeno i soldi necessari per partire. L'aiuto bancario deve limitarsi al capitale d'esercizio".
Si tratta di grossolane strumentalizzazioni dell'opinione pubblica meridionale fondate su una norma di facciata, scritta per gli ingenui. Una norma del genere venne, ma solo per i pesci piccoli, dopo molte esperienze negative. Tutto il primo trentennio del Regno d'Italia fu vissuto dagli italiani del tempo in un clima di inauditi intrallazzi speculativi monetari, che i contemporanei appropriatamente definirono "il carnevale bancario" Tra il 1880 e il 1890 le due maggiori banche del tempo, la Banca Nazionale nel Regno d'Italia e il Credito Mobiliare, entrarono in crisi. La prima, pur essendo una banca privata, fungeva da banca centrale.
Dopo l'unificazione, i governi guidati dai successori di Cavour - Ricasoli, Rattazzi, Minghetti, Sella, Cambrai- Digny - le cedettero il potere di rastrellare l'oro e l'argento in circolazione negli ex Stati e di cambiarlo con le sue banconote.
A quel tempo, le banche toscopadane (tutte tecentissime) si definivano banche miste, cioè esercenti sia il credito commerciale, a tre mesi, sia il credito industriale, senza scadenza (per esempio, l'acquisto di obbligazioni industriali, tenendo presente che la parola industria era usata per definire qualunque attività - anche quella agraria - nel senso attuale di iniziativa rischiosa promossa dal capitale).
Nella realtà svolsero soltanto l'attività propria della banca d'affari, privilegiando la speculazione sull'indebitamento statale, e non certo imitando la banca tedesca che a quel tempo s'impegnava direttamente nella promozione industriale.
Gli affari delle banche furono le costruzioni ferroviarie, la vendita del demanio comunale ed ecclesiastico, il collocamento dei titoli del debito pubblico, l'espansione edilizia di Torino, Firenze, Roma, Milano, il risanamento del vecchio patrimonio edilizio di Napoli, l'appalto delle esattorie, l'illuminazione a gas delle città, il monopolio degli zuccheri e dei tabacchi. In appresso si dettero a speculare con le grandi compagnie di navigazione sovvenzionate dallo Stato - Florio, Orlando, Rubattino - e con le Breda (le fonderie di Terni) che faceva grandi intrallazzi con la costruzione della flotta militare.
D'altra parte era un tempo, quello, in cui i ministri e i deputati piemontesi e toscani intrallazzavano persino sulla carta da scrivere dei ministeri e il re Savoia affittava i boschi millenari, che l'unità gli aveva portato in dote, alle fabbriche di fiammiferi svedesi. In quel clima corrotto le banche finirono male, e il pubblico risparmio andò a carte quarantotto.
Si salvarono soltanto il Banco di Napoli e il Banco di Sicilia. I due istituti non erano organizzati su basi private, ma come istituti di diritto pubblico. Erano formalmente autonomi, ma in effetti stavano sotto il chiodo della Banca Nazionale. Furono sempre malvisti e mal sopportati dai governi nazionali. Non poterono (o forse non vollero mai) tuffarsi nei grossi affari. Si limitarono alla raccolta di risparmio e allo sconto commerciale.
L'estraneità all'affarismo imperversante nell'Italia padana fu una jattura per il Sud. Finanziando i rifornimenti meridionali dalle aziende padane e gli esportatori genovesi e toscani che si spingevano alla conquista del mercato meridionale, la correttezza finì col fare più danno che utile.
In seguito al generale fallimento delle banche padane, la Banca Nazionale venne liquidata e nel 1893 trasformata nella Banca d'Italia: azionisti i vecchi soci, più lo Stato. Tra il 1890 e il 1910, si pose fine al clima intrallazzistico che aveva accompagnato la nascita dello Stato.
Le ferrovie vennero nazionalizzate, le compagnie di navigazione riordinate. Con l'aiuto delle banche tedesche, la Lombardia e il Piemonte poterono avviarsi alla loro prima industrializzazione.
Per sostenere l'industria nascente furono abbandonati il liberismo commerciale e la benevola amicizia della Francia, i cui banchieri avevano fatto affari favolosi in Italia. Si passò alla più discreta amicizia tedesca e al protezionismo doganale, che volle dire prezzi più alti per prodotti dell'industria capitalistica. Ma questo non bastò.
I detentori di danaro non si fidavano degli industriali e non compravano i loro titoli. Fu la fortuna ad avviare il capitalismo settentrionale. Essendo la lira molto richiesta dagli emigrati che mandavano soldi a casa, il suo corso prese valore e salì al di sopra della parità aurea. Per acquistare 100 lire, gli importatori francesi dovevano sborsare 107 franchi e quelli inglesi più delle tradizionali quattro sterline. La quotazione della lira rafforzò la Banca d'Italia, che poté indebitarsi con le banche inglesi e tedesche, impiegando il ricavato per ri/scontare le cambiali che la Banca Commerciale e il Credito Italiano scontavano agli industriali.
Purtroppo i capitalisti milanesi somigliano più ai principi siciliani che ai capitalisti americani: si godono le rendite. Così tanto tuonò che piovve. Nel 1926 la Banca d'Italia che, da quando era finita l'emigrazione (intorno al 1920), navigava fra gli scogli, dovette essere salvata dal naufragio. La riforma bancaria si svolse tra 1926 e 1936.
Le maggiori banche vennero nazionalizzate e fu loro vietata l'attività di speculazione. Il compito di portare danaro all'industria fu affidato alla milanese Mediobanca, la quale poté impiegare modeste frazioni del capitale delle banche commerciali, che funzionavano da azioniste di sostegno.
Con molta semplificazione il meccanismo era questo. Mediobanca acquistava 100 milioni in azioni dell'industria Tale. Ma aveva i soldi solo 10 o 15 milioni. Gli altri venivano incettati dalle banche presso i grossi risparmiatori, le società di assicurazione e all'occorrenza il Tesoro o la Cassa Depositi e Prestiti (il risparmio postale, ma in modo dissimulato).
Nello stesso lasso di tempo, tranne la Fiat, tutta la grande industria milanese, torinese e genovese venne nazionalizzata. Stessa sorte tocco alle compagnie di navigazione.
L'IRI fu una delle più eleganti costruzioni a capitale pubblico mai realizzate al mondo. La cosa non viene detta, è considerata un peccato di lesa Confindustria. Ma è chiaro che si deve all'accortezza e alla cultura dei suoi dirigenti se l'Italia poté arrivare al miracolo economico, e se poté disporre di un sistema industriale e bancario moderno e dinamico. Comunque non possono esserci dubbi che, pur sottoposte al divieto di partecipare alla proprietà delle imprese, le banche nazionalizzate fecero le ossa, i muscoli e dettero il sangue all'Industria del Triangolo industriale (Genova, Torino, Milano).
Con il miracolo economico italiano (padano), e con i proventi dell'emigrazione e del turismo si passò a una fase imprevista. Le banche regionali e locali si riempirono di depositi e di liquidità. Purtroppo la nuova ricchezza fu impiegata saggiamente solo dove prevaleva una cultura avversa alla cultura risorgimentale e piemontista, cioè nel Veneto cattolico e nell'Emilia rossa.
L'industria italiana vincente sul mercato mondiale degli anni Settanta e Ottanta nacque da quel grembo politico. Poi è venuta l'Europa comunitaria.
Il grande capitalismo torinese e milanese, sentendosi incapace di reggere il confronto con le industrie dei partner europei, ha imposto il ritorno alla banca d'affari (legge Ciampi del 1993). Ciò ha permesso alle grandi banche di divorare le banche regionali.
Anche la vecchia forma di raccolta, caratterizzata dal deposito rimborsabile a vista, è stata superata. Adesso le banche raccolgono danaro a scadenza media e lunga, emettendo titoli che altro non sono se non cambiali non protestabili.
La loro capacità di effettuare il finanziamento alla speculazione è tornata ad essere quella delle banche d'affari dell'età del risorgimento. Ormai a correre il rischio industriale sono chiamati tutti i risparmiatori, quelli di Torino emergente e quelli della Calabria declinante. E lo si è visto con le fregature che i risparmiatori hanno patito in questi ultimi anni.
Concludendo, senza la Banca, l'Industria non esisterebbe in nessun posto del mondo. Non sarebbe esistita neppure nella Russia sovietica, che è quanto dire.
Un grande storico dell'economia ha detto una cosa che vale per chiunque e dovunque: "La Banca è il polmone dell'Industria". Meno che nel Meridione d'Italia. Qui, secondo la Confindustria italiana (in effetti padana) e i governi nazionali, le industrie si dovrebbero fare con l'aiuto dello Spirito Santo. Purtroppo per noi, lo Spirito Santo non ha amore, ma disamore, per il danaro, per la ricchezza, per le faccende del capitale. Ma senza capitale, lavoro non c'è. E senza la Banca il capitale non c'è.

Nicola Zitara

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