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Da sempre circola nel nostro ambiente - economicamente colonizzato e culturalmente
subalterno - l'idea falsa che la Banca non intervenga alla formazione del
capitale fisso delle imprese. Si dice: "Chi mette su un'industria deve
avere almeno i soldi necessari per partire. L'aiuto bancario deve limitarsi
al capitale d'esercizio".
Si tratta di grossolane strumentalizzazioni dell'opinione pubblica meridionale
fondate su una norma di facciata, scritta per gli ingenui. Una norma del
genere venne, ma solo per i pesci piccoli, dopo molte esperienze negative.
Tutto il primo trentennio del Regno d'Italia fu vissuto dagli italiani del
tempo in un clima di inauditi intrallazzi speculativi monetari, che i contemporanei
appropriatamente definirono "il carnevale bancario" Tra il 1880
e il 1890 le due maggiori banche del tempo, la Banca Nazionale nel Regno
d'Italia e il Credito Mobiliare, entrarono in crisi. La prima, pur essendo
una banca privata, fungeva da banca centrale.
Dopo l'unificazione, i governi guidati dai successori di Cavour - Ricasoli,
Rattazzi, Minghetti, Sella, Cambrai- Digny - le cedettero il potere di rastrellare
l'oro e l'argento in circolazione negli ex Stati e di cambiarlo con le sue
banconote.
A quel tempo, le banche toscopadane (tutte tecentissime) si definivano banche
miste, cioè esercenti sia il credito commerciale, a tre mesi, sia
il credito industriale, senza scadenza (per esempio, l'acquisto di obbligazioni
industriali, tenendo presente che la parola industria era usata per definire
qualunque attività - anche quella agraria - nel senso attuale di
iniziativa rischiosa promossa dal capitale).
Nella realtà svolsero soltanto l'attività propria della banca
d'affari, privilegiando la speculazione sull'indebitamento statale, e non
certo imitando la banca tedesca che a quel tempo s'impegnava direttamente
nella promozione industriale.
Gli affari delle banche furono le costruzioni ferroviarie, la vendita del
demanio comunale ed ecclesiastico, il collocamento dei titoli del debito
pubblico, l'espansione edilizia di Torino, Firenze, Roma, Milano, il risanamento
del vecchio patrimonio edilizio di Napoli, l'appalto delle esattorie, l'illuminazione
a gas delle città, il monopolio degli zuccheri e dei tabacchi. In
appresso si dettero a speculare con le grandi compagnie di navigazione sovvenzionate
dallo Stato - Florio, Orlando, Rubattino - e con le Breda (le fonderie di
Terni) che faceva grandi intrallazzi con la costruzione della flotta militare.
D'altra parte era un tempo, quello, in cui i ministri e i deputati piemontesi
e toscani intrallazzavano persino sulla carta da scrivere dei ministeri
e il re Savoia affittava i boschi millenari, che l'unità gli aveva
portato in dote, alle fabbriche di fiammiferi svedesi. In quel clima corrotto
le banche finirono male, e il pubblico risparmio andò a carte quarantotto.
Si salvarono soltanto il Banco di Napoli e il Banco di Sicilia. I due istituti
non erano organizzati su basi private, ma come istituti di diritto pubblico.
Erano formalmente autonomi, ma in effetti stavano sotto il chiodo della
Banca Nazionale. Furono sempre malvisti e mal sopportati dai governi nazionali.
Non poterono (o forse non vollero mai) tuffarsi nei grossi affari. Si limitarono
alla raccolta di risparmio e allo sconto commerciale.
L'estraneità all'affarismo imperversante nell'Italia padana fu una
jattura per il Sud. Finanziando i rifornimenti meridionali dalle aziende
padane e gli esportatori genovesi e toscani che si spingevano alla conquista
del mercato meridionale, la correttezza finì col fare più
danno che utile.
In seguito al generale fallimento delle banche padane, la Banca Nazionale
venne liquidata e nel 1893 trasformata nella Banca d'Italia: azionisti i
vecchi soci, più lo Stato. Tra il 1890 e il 1910, si pose fine al
clima intrallazzistico che aveva accompagnato la nascita dello Stato.
Le ferrovie vennero nazionalizzate, le compagnie di navigazione riordinate.
Con l'aiuto delle banche tedesche, la Lombardia e il Piemonte poterono avviarsi
alla loro prima industrializzazione.
Per sostenere l'industria nascente furono abbandonati il liberismo commerciale
e la benevola amicizia della Francia, i cui banchieri avevano fatto affari
favolosi in Italia. Si passò alla più discreta amicizia tedesca
e al protezionismo doganale, che volle dire prezzi più alti per prodotti
dell'industria capitalistica. Ma questo non bastò.
I detentori di danaro non si fidavano degli industriali e non compravano
i loro titoli. Fu la fortuna ad avviare il capitalismo settentrionale. Essendo
la lira molto richiesta dagli emigrati che mandavano soldi a casa, il suo
corso prese valore e salì al di sopra della parità aurea.
Per acquistare 100 lire, gli importatori francesi dovevano sborsare 107
franchi e quelli inglesi più delle tradizionali quattro sterline.
La quotazione della lira rafforzò la Banca d'Italia, che poté
indebitarsi con le banche inglesi e tedesche, impiegando il ricavato per
ri/scontare le cambiali che la Banca Commerciale e il Credito Italiano scontavano
agli industriali.
Purtroppo i capitalisti milanesi somigliano più ai principi siciliani
che ai capitalisti americani: si godono le rendite. Così tanto tuonò
che piovve. Nel 1926 la Banca d'Italia che, da quando era finita l'emigrazione
(intorno al 1920), navigava fra gli scogli, dovette essere salvata dal naufragio.
La riforma bancaria si svolse tra 1926 e 1936.
Le maggiori banche vennero nazionalizzate e fu loro vietata l'attività
di speculazione. Il compito di portare danaro all'industria fu affidato
alla milanese Mediobanca, la quale poté impiegare modeste frazioni
del capitale delle banche commerciali, che funzionavano da azioniste di
sostegno.
Con molta semplificazione il meccanismo era questo. Mediobanca acquistava
100 milioni in azioni dell'industria Tale. Ma aveva i soldi solo 10 o 15
milioni. Gli altri venivano incettati dalle banche presso i grossi risparmiatori,
le società di assicurazione e all'occorrenza il Tesoro o la Cassa
Depositi e Prestiti (il risparmio postale, ma in modo dissimulato).
Nello stesso lasso di tempo, tranne la Fiat, tutta la grande industria milanese,
torinese e genovese venne nazionalizzata. Stessa sorte tocco alle compagnie
di navigazione.
L'IRI fu una delle più eleganti costruzioni a capitale pubblico mai
realizzate al mondo. La cosa non viene detta, è considerata un peccato
di lesa Confindustria. Ma è chiaro che si deve all'accortezza e alla
cultura dei suoi dirigenti se l'Italia poté arrivare al miracolo
economico, e se poté disporre di un sistema industriale e bancario
moderno e dinamico. Comunque non possono esserci dubbi che, pur sottoposte
al divieto di partecipare alla proprietà delle imprese, le banche
nazionalizzate fecero le ossa, i muscoli e dettero il sangue all'Industria
del Triangolo industriale (Genova, Torino, Milano).
Con il miracolo economico italiano (padano), e con i proventi dell'emigrazione
e del turismo si passò a una fase imprevista. Le banche regionali
e locali si riempirono di depositi e di liquidità. Purtroppo la nuova
ricchezza fu impiegata saggiamente solo dove prevaleva una cultura avversa
alla cultura risorgimentale e piemontista, cioè nel Veneto cattolico
e nell'Emilia rossa.
L'industria italiana vincente sul mercato mondiale degli anni Settanta e
Ottanta nacque da quel grembo politico. Poi è venuta l'Europa comunitaria.
Il grande capitalismo torinese e milanese, sentendosi incapace di reggere
il confronto con le industrie dei partner europei, ha imposto il ritorno
alla banca d'affari (legge Ciampi del 1993). Ciò ha permesso alle
grandi banche di divorare le banche regionali.
Anche la vecchia forma di raccolta, caratterizzata dal deposito rimborsabile
a vista, è stata superata. Adesso le banche raccolgono danaro a scadenza
media e lunga, emettendo titoli che altro non sono se non cambiali non protestabili.
La loro capacità di effettuare il finanziamento alla speculazione
è tornata ad essere quella delle banche d'affari dell'età
del risorgimento. Ormai a correre il rischio industriale sono chiamati tutti
i risparmiatori, quelli di Torino emergente e quelli della Calabria declinante.
E lo si è visto con le fregature che i risparmiatori hanno patito
in questi ultimi anni.
Concludendo, senza la Banca, l'Industria non esisterebbe in nessun posto
del mondo. Non sarebbe esistita neppure nella Russia sovietica, che è
quanto dire.
Un grande storico dell'economia ha detto una cosa che vale per chiunque
e dovunque: "La Banca è il polmone dell'Industria". Meno
che nel Meridione d'Italia. Qui, secondo la Confindustria italiana (in effetti
padana) e i governi nazionali, le industrie si dovrebbero fare con l'aiuto
dello Spirito Santo. Purtroppo per noi, lo Spirito Santo non ha amore, ma
disamore, per il danaro, per la ricchezza, per le faccende del capitale.
Ma senza capitale, lavoro non c'è. E senza la Banca il capitale non
c'è.
Nicola Zitara
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